Monaldi & Sorti
Imprimatur * (2002)
EmmeBooks 180 *
Roma, settembre 1683. Mentre le feroci armate turche di Kara Mu...
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Monaldi & Sorti
Imprimatur * (2002)
EmmeBooks 180 *
Roma, settembre 1683. Mentre le feroci armate turche di Kara Mustafà premono alle porte dell'Occidente é tengono tutta la cristianità con il fiato soppeso, in una locanda nel cuore della Città Santa la morte improvvisa di un viaggiatore semina il panico: veleno o peste? Per paura del contagio, gli ospiti vengono rinchiusi in quarantena nelle loro stanze. Tra essi c'è l'abate Attb Melani, ex cantante castrato e ora agente segreto del Re Sole, deciso a scoprire cosa si celi dietro quella strana morte. Atto dovrà però scontrarsi con le reticenze e le paure degli altri ospiti, con lo spettro della peste che aleggia nella locanda e con gli echi minacciosi della battaglia decisiva che le armate dei principi cattolici stanno combattendo a Vienna contro i Turchi. Nonostante le difficoltà, l'inchiesta dell'abate Melani condurrà alla soluzione del mistero, ma soprattutto alla tremenda verità che segretamente condiziona il destino d'Europa: una congiura internazionale in cui s'intrecciano sanguinosamente religione, politica e spionaggio. Il diario dell'inchiesta, tenuto minuziosamente dal garzone della locanda, finirà sepolto in un vecchio e polveroso volume manoscritto. Ma centinaia di anni più tardi, improvvisamente riemergerà. A leggere con il fiato sospeso il drammatico racconto del garzone è ora un anziano prelato, che deve assolvere un delicatissimo incarico: far proclamare santo un Papa vissuto tre secoli prima. E, al momento decisivo, sarà proprio il diario a dettare l'ultima parola. Nell'ambiguo fascino della Roma barocca, tra tunnel segreti e laboratori alchemici, tra cacciatori di reliquie e tipografie clandestine, tra strampalate dottrine mediche e culinarie, viene alla luce un segreto della storia d'Europa fino a oggi mai rivelato: un grandioso complotto le cui prove erano state occultate da sempre. È dopo anni di ricerche che gli autori hanno scoperto i documenti (veri) per raccontarci questo filo impazzito della storia e, insieme, uno straordinario secolo ingiustamente trascurato
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Sommario
Giornata Prima. 11 Settembre 1683 ........................................................ 16 Nottata prima. Tra l'11 e il 12 settembre 1683 ................................... 39 Giornata seconda. 12 settembre 1683 .................................................... 50 Nottata seconda. Tra il 12 e il 13 settembre 1683 ......................... 114 Giornata terza. 13 settembre 1683 ....................................................... 129 Nottata terza. Tra il 13 e il 14 settembre 1683 ................................ 192 Giornata quarta. 14 settembre 1683 .................................................... 213 Nottata quarta. Tra il 14 e il 15 settembre 1683 ............................ 248 Giornata quinta. 15 settembre 1683..................................................... 288 Nottata quinta. Tra il 15 e il 16 settembre 1683 ............................ 329 Giornata sesta. 16 settembre 1683 ....................................................... 363 Nottata sesta. Tra il 16 e il 17 settembre 1683 ................................ 388 Giornata settima. 17 settembre 1683................................................... 413 Nottata settima Tra il 17 e il 18 settembre 1683 ............................ 432 Giornata ottava. 18 settembre 1683 ..................................................... 457 Nottata ottava. Tra il 18 e il 19 settembre 1683 ............................. 479 Giornata nona. 19 settembre 1683........................................................ 505 Nottata nona Tra il 19 e il 20 settembre 1683 ................................ 537 Accadimenti dal 20 al 25 settembre 1683 .......................................... 590 Accadimenti dell'Anno 1688 .................................................................... 616 Settembre 1699 ............................................................................................. 623 Addendum ....................................................................................................... 632 Note .................................................................................................................... 657 Innocenzo XI e Guglielmo d'Orange. Documenti ............................ 667
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IMPRIMATUR
Interpretazioni divinatorie dell'Arcano del Giudizio: Resurrezione del passato Riparazione dei torti subiti Equo giudizio dei posteri. Nulla va perduto; il passato rimane vivo in ciò che interessa l'avvenire. OSWALD WIRTH, I Tarocchi
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Como, 14 febbraio 2040 A Sua Ecc.za Mons. Alessio Tanari Segretario della Congregazione per le Cause dei Santi Roma - Città del Vaticano In nomine Domini Ego, Lorenzo Dell'Agio, Episcopus Comi, in processu canoniza- tionis beati Innocentii Papae XI, iuro me fideliter diligenterque impleturum munus mihi commissum, atque secretum servaturum in iis ex quorum revelatione preiudicium causae vel infamiam beato af ferre posset. Sic me Deus adiuvet. Carissimo Alessio, vogliate perdonarmi se mi rivolgo a Voi esordendo con la formula del giuramento di rito: mantenere il segreto su quanto d'infamante avessi appreso per la reputazione di un'anima beata. So che al Vostro antico docente in seminario scuserete l'adozione di uno stile epistolare meno ortodosso di quelli a cui siete aduso. Mi scriveste tre anni or sono su incarico del Santo Padre, invitandomi a far luce su una presunta guarigione miracolosa, avvenuta oltre quarant'anni fa nella mia diocesi ad opera del Beato papa Innocenzo XI: quel Benedetto Odescalchi da Como del quale da fanciullo, forse per la prima volta, avevate sentito raccontare proImprimatur - Monaldi & Sorti
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prio da me. Il caso di mira sanatio riguardava, come certamente rammenterete, un bimbo: un orfanello della campagna comasca a cui un cane aveva mozzato un ditino. Il povero lacerto sanguinolento, immediatamente raccolto dalla nonna del piccolo, devota del papa Innocenzo, venne da costei avvolto nell'immaginetta sacra del Pontefice e così consegnato ai medici del Pronto Soccorso. Il bimbo, dopo l'operazione di reinnesto del ditino, ne riacquistò istantaneamente il perfetto uso e sensibilità: fatto che suscitò lo stupore sia del chirurgo che dei suoi assistenti. Secondo le indicazioni Vostre e il desiderio di Sua Santità, ho istruito il processo super mira sanatione, che il mio predecessore dell'epoca non aveva invece ritenuto opportuno iniziare. Non mi dilungherò ulteriormente sul processo, che ho appena concluso malgrado siano ormai deceduti quasi tutti i testimoni della vicenda, le cartelle cliniche siano state distrutte dopo dieci anni e il bimbo di allora, ora cinquantenne, risieda stabilmente negli Stati Uniti. Gli atti Vi verranno inviati a parte. Come richiede la procedura, so che li sottoporrete al giudizio della Congregazione e redigerete poi una relazione per il Santo Padre. So infatti quanto il nostro amato Pontefice aneli a riaprire, dopo quasi un secolo dalla beatificazione, il processo di canonizzazione di papa Innocenzo XI per proclamarlo finalmente Santo. E proprio perché anche a me sta a cuore l'intendimento di Sua Santità, vengo al punto. Avrete certamente notato la consistente mole del plico allegato a questa mia: è il dattiloscritto di un libro mai pubblicato. Sarà arduo spiegarvene nei dettagli la genesi, poiché i due autori, dopo avermene spedito una copia, sono svaniti nel nulla. Sono certo che Nostro Signore ispirerà al Santo Padre e a Voi, dopo la lettura dell'opera, la soluzione più giusta per il dilemma: secretum servare aut non? Tacere o rendere pubblico lo scritto? Ciò che verrà deciso sarà per me cosa sacra. Mi scuso sin d'ora se la penna - essendo solo adesso il mio spirito liberato da tre anni di affannose ricerche - scorrerà a volte 6/703
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troppo libera. Conobbi i due autori del dattiloscritto, una giovane coppia di fidanzati, quarantatré anni or sono. Ero appena stato nominato parroco a Roma, dov'ero giunto dalla mia Como, alla quale Nostro Signore mi avrebbe poi fatto la grazia di tornare da vescovo. I due giovani, Rita e Francesco, erano entrambi giornalisti; abitavano a poca distanza dalla mia parrocchia, e si rivolsero dunque a me per il corso di preparazione al matrimonio. Il dialogo con la giovane coppia andò ben presto al di là di un semplice rapporto di discenza, e si fece col tempo più stretto e confidenziale. Il caso volle che, a soli quindici giorni dalla data delle nozze, il sacerdote destinato a officiare la cerimonia cadesse vittima di una grave indisposizione. Fu perciò naturale per Rita e Francesco chiedere a me di celebrare il rito. Li sposai in un pomeriggio assolato di metà giugno, nella luce pura e altera della chiesa di San Giorgio in Velabro, a poca distanza dalle rovine gloriose del Foro romano e dell'Arce capitolina. Fu una cerimonia intensa e colma di commozione. Pregai ardentemente l'Altissimo di concedere alla giovane coppia una vita lunga e serena. Dopo il matrimonio continuammo a frequentarci per alcuni anni. Appresi così che, malgrado il poco tempo lasciato libero dal lavoro, Rita e Francesco non avevano mai del tutto abbandonato gli studi. Indirizzatisi entrambi, dopo la laurea in Lettere, verso il più dinamico e cinico mondo della carta stampata, non avevano tuttavia dimenticato gli antichi interessi. Continuavano al contrario a coltivare nei ritagli di tempo buone letture, visite ai musei e qualche incursione in biblioteca. Una volta al mese m'invitavano a cena o per un caffè pomeridiano. Spesso, per permettermi di sedere, dovevano all'ultimo istante liberare una sedia sepolta da pile di fotocopie, microfilm, riproduzioni di stampe antiche e libri: cataste di carta che a ogni visita trovavo più alte. Incuriositomi, chiesi a cosa mai stessero attendendo con sì acceso entusiasmo. Mi raccontarono allora di aver rintracciato tempo prima, nella collezione privata di un aristocratico bibliofilo romano, una raccolImprimatur - Monaldi & Sorti
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ta di otto volumi manoscritti, risalenti ai primi anni del XVIII secolo. In virtù di alcune amicizie comuni il proprietario, marchese *** ***, aveva dato ai due il permesso di studiare gli antichi volumi. Si trattava di un vero e proprio gioiello per cultori di storia. Gli otto tomi erano l'epistolario dell'abate Atto Melani, membro di un'antica e nobile famiglia toscana di musicisti e diplomatici. Ma la vera scoperta doveva ancora arrivare: rilegata all'interno di uno degli otto tomi, era venuta alla luce una voluminosa memoria manoscritta. Era datata 1699 e vergata in una minuta calligrafia, di mano manifestamente diversa dal resto del volume. L'anonimo autore della memoria affermava di essere stato garzone di una locanda romana, e narrava in prima persona sorprendenti vicende accadute tra Parigi, Roma e Vienna nel 1683. La memoria era preceduta da una breve lettera di presentazione, senza data né mittente né destinatario, e dal contenuto alquanto oscuro. Non mi fu dato per quel momento di sapere altro. I due sposini mantenevano il più stretto riserbo sulla loro scoperta. Intuii solo che dal ritrovamento di quella memoria avevano preso il via tutte le loro più animate ricerche. Tuttavia, essendo usciti entrambi per sempre dall'ambiente universitario e non potendo quindi più dare dignità scientifica ai loro studi, i due giovani avevano cominciato a covare il progetto di un romanzo. Me ne iniziarono a parlare come per scherzo: avrebbero modellato la memoria del garzone in forma e prosa di romanzo. Ne rimasi dapprima un po' deluso, ritenendo l'idea - da appassionato studioso quale mi piccavo di essere - velleitaria e superficiale. Poi, tra una visita e l'altra, capii che la cosa si stava facendo seria. Non era passato un anno dal matrimonio, e ormai vi dedicavano tutto il tempo libero. Più tardi mi confessarono di aver trascorso quasi per intero il viaggio di nozze negli archivi e nelle biblioteche di Vienna. Non posi mai domande, limitandomi a fare da silenzioso e discreto depositario della loro fatica. All'epoca, ahimé, non seguivo attentamente il resoconto che i due giovani mi facevano sul progredire della loro opera. Essi in8/703
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tanto, spronati dalla nascita d'una bella figlioletta e stanchi di costruire sulle sabbie mobili del nostro povero Paese, all'inizio del nuovo secolo avevano improvvisamente risolto di trasferirsi a Vienna, città a cui si erano affezionati for s'anche per i dolci ricordi di sposini. Mi invitarono per un breve congedo, poco prima di lasciare definitivamente Roma. Promisero di scrivermi, e di venirmi a trovare quando fossero tornati in visita in Italia. Non fecero nulla di tutto ciò, e nulla seppi più di loro. Finché un giorno, mesi appresso, ricevetti un plico da Vienna. Conteneva il dattiloscritto che Vi invio: era il tanto atteso romanzo. Fui felice di sapere che erano almeno riusciti a portarlo a termine, e volevo rispondere per ringraziare. Ma rimasi sorpreso nel constatare che non mi avevano mandato il loro indirizzo, e neanche due righe di accompagnamento. A fare da frontespizio, una scarna dedica: «Ai vinti». E sul retro del plico solo una scritta a pennarello: «Rita & Francesco». Lessi dunque il romanzo. O dovrei piuttosto chiamarlo memoria? Si tratta davvero di una memoria barocca, rimaneggiata per il lettore di oggi? O non piuttosto di un romanzo moderno, ambientato nel Seicento? O tutte e due le cose? Sono domande che mi assillano tuttora. In talune parti pare infatti di leggere pagine giunte intatte dal XVII secolo: tutti i personaggi discettano invariabilmente col lessico della trattatistica secentesca. Ma poi, quando la discettazione cede il passo all'azione, il registro linguistico muta bruscamente, e i medesimi personaggi si esprimono in prosa moderna: proprio come se in quel passo gli autori avessero voluto lasciare il segno del loro intervento. Purtroppo non mi è stato possibile venire a capo della questione, che è probabilmente destinata a restare un mistero. Non ho infatti potuto rintracciare gli otto tomi di lettere dell'abate Melani, dai quali ha preso l'avvio tutta la storia. La biblioteca del marchese *** *** è stata smembrata una decina d'anni fa dagli eredi, che hanno poi proceduto ad alienarla. La casa d'aste che ha curato la vendita, avendo io scomodato qualche conoscenza, mi ha comuniImprimatur - Monaldi & Sorti
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cato in via informale i nominativi degli acquirenti. Credevo d'essere giunto alla soluzione, e mi ritenevo graziato dal Signore, finché non lessi i nomi dei nuovi possessori: i volumi erano stati acquistati da Rita e Francesco. Dei quali, ovviamente, non era dato conoscere alcun indirizzo. Negli ultimi tre anni ho allora condotto, con le poche risorse a mia disposizione, una lunga serie di verifiche sul contenuto del dattiloscritto. Troverete il risultato delle mie ricerche nelle pagine che Vi accludo in fondo, e che Vi prego di leggere con somma attenzione. Vi scoprirete per quanto tempo relegai nell'oblio l'opera dei miei due amici, e le sofferenze che me ne derivarono. Troverete poi un dettagliato esame degli eventi storici narrati nel dattiloscritto e un resoconto delle faticose ricerche che ho condotto, negli archivi e nelle biblioteche di mezza Europa, per capire se potessero corrispondere a verità. I fatti narrati infatti, come potrete verificare Voi stesso, furono di portata tale da mutare violentemente, e per sempre, il corso della Storia. Ebbene, giunto ora al termine di tali ricerche, posso affermare con certezza che le vicende e i personaggi contenuti nella storia che state per leggere sono autentici. E anche quando non era possibile trovare le prove di quanto ho letto, ho potuto almeno stabilire che si tratta di eventi del tutto verosimili. La vicenda narrata dai due miei antichi parrocchiani, pur non gravitando unicamente attorno a papa Innocenzo XI (che peraltro non figura neppure tra gli attori del romanzo), lascia comunque emergere circostanze che sulla limpidezza d'animo del Pontefice, e sull'onestà dei suoi propositi, gettano nuove e gravi ombre. Dico nuove, in quanto già il processo di beatificazione di papa Odescalchi, aperto il 3 settembre 1714 da Clemente XI, s'inceppò quasi subito per le obiezioni super virtutibus, sollevate in seno alla Congregazione antipreparatoria dal promotore della fede. Dovettero passare trent'anni perché Benedetto XIV Lambertini imponesse, per decreto, il silenzio ai dubbi di promotori e consultori circa l'e10/703
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roicità delle virtù di Innocenzo XI. Ma ecco poco dopo arrestarsi ancora il processo, stavolta per quasi duecento anni: solo nel 1943 infatti, sotto papa Pio XII, venne eletto un altro relatore. La beatificazione si sarebbe fatta attendere per altri tredici anni, e cioè fino al 7 ottobre 1956. Dopo quel giorno su papa Odescalchi cadde il silenzio. Mai più si parlò, fino a oggi, di proclamarlo Santo. Avrei potuto, grazie alla legislazione approvata da papa Giovanni Paolo II oltre cinquant'anni fa, aprire di mia iniziativa un supplemento d'istruttoria. Ma in tal caso non avrei potuto secretum servare in iis ex quorum revelatione preiudicium causae vel infamiam beato afferre posset. In tal caso, cioè, avrei dovuto rivelare il contenuto del dattiloscritto di Rita e Francesco a qualcuno, fosse pure unicamente al promotore di giustizia e al postulatore (gli «avvocati di accusa e difesa dei Santi», come oggi vengono rozzamente indicati sui giornali). In tal modo, però, avrei lasciato sorgere gravi e irreversibili dubbi sulle virtù del Beato: decisione che poteva spettare solo al Sommo Pontefice, e non certo a me. Se invece nel frattempo l'opera fosse stata pubblicata, sarei stato libero dall'obbligo del segreto. Sperai quindi che il libro dei due miei parrocchiani avesse già trovato un editore. Affidai pertanto la ricerca ad alcuni tra i più giovani e ignari dei miei collaboratori. Ma nei cataloghi dei libri in commercio non trovai alcuno scritto del genere, né il nome dei miei amici. Cercai di rintracciare i due giovani (ormai di certo non più tali): all'anagrafe risultarono effettivamente trasferiti a Vienna, Auerspergstrasse 7. Scrissi a quell'indirizzo, ma mi rispose il rettore di un pensionato universitario, che non sapeva fornirmi alcuna indicazione. Chiesi al Comune di Vienna, al quale però nulla di utile risultava. Mi rivolsi ad ambasciate, consolati, diocesi estere, senza sortire alcun risultato. Temetti il peggio. Scrissi anche al parroco della Minoritenkirche, la chiesa nazionale italiana a Vienna. Ma Rita e Francesco erano sconosciuti a tutti, compresa fortunatamente l'anagrafe cimiteriale. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Decisi infine di partire io stesso per Vienna, nella speranza di rintracciare almeno la loro figlia, pur se, dopo quarant'anni, non ne ricordavo più il nome di battesimo. Com'era prevedibile, anche quest'ultimo tentativo si risolse nel nulla. Dei miei due antichi amici, oltre agli scritti, mi resta solo la vecchia fotografia di cui mi fecero dono. Ve la lascio, come tutto il resto. Da tre anni li cerco dappertutto. Talvolta mi ritrovo a fissare le ragazze con i capelli rossi come quelli di Rita, dimenticando che ora i suoi sarebbero bianchi come i miei. Oggi avrebbe settantaquattro anni, e Francesco settantasei. Mi congedo, per ora, da Voi e da Sua Santità. Che Dio Vi ispiri nella lettura a cui Vi accingete. Mons. Lorenzo Dell'Agio Vescovo della Diocesi di Como
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Ai Vinti
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Signore, nell'inviarVi questa Memoria che ho infine rinvenuta, oso sperare che Vostra Eccellenza riconoscerà nei miei sforzi per esaudire i Vostri desideri l'eccesso di passione e d'amore che ha sempre fatto la mia felicità, quando ho potuto testimoniarlo a Vostra Eccellenza.
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Memoria contenente molti mirabili Avvenimenti, che s'ebbero nella Locanda del Donzello all'Orso dall'1 1 al 25 Settembre dell'Anno 1683; con Riferimenti ad altri Eventi, prima e dopo quei Giorni. A Roma, A.D. 1699
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Giornata Prima. 11 Settembre 1683
G
li uomini del Bargello arrivarono a pomeriggio inoltrato, proprio mentre stavo per accendere la torcia che illuminava la nostra insegna. Stringevano in pugno assi e martelli; e sigilli e catene e grossi chiodi. Man mano che avanzavano da via dell'Orso, gridavano e gesticolavano imperiosi per significare ai passanti e ai crocchi di gente di sgomberare la strada. Erano invero corrucciati. Giuntimi al fianco, cominciarono a sbracciarsi: «Tutti dentro, tutti dentro, si deve chiudere» gridò colui che tra loro dava gli ordini. Feci appena in tempo a scendere dallo sgabello su cui m'ero innalzato, e mani poderose mi spinsero in malo modo dentro l'ingresso, mentre alcuni si ponevano a minaccioso sbarramento della porta. Ero stordito. Mi riscosse bruscamente la calca che, alle grida degli ufficiali, s'era ammucchiata all'entrata come un lampo dal nulla. Erano i pigionanti della nostra locanda, conosciuta come locanda del Donzello. Erano solo nove ed erano tutti presenti: in attesa che venisse servita la cena, come ogni sera si aggiravano al pianterreno tra le ottomane dell'atrio e i tavoli delle due vicine sale da pranzo, a fingere chi di fare una cosa chi un'altra; ma in realtà ognuno a gravitare attorno al giovane pigionante francese, il musico Roberto Devizé, che con gran bravura si esercitava alla chitarra. «Fatemi uscire! Ah, come osate? Giù le mani! Non posso restare qui! Sono sanissimo, capito? Sanissimo! Fatemi passare, vi dico!» 16/703
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Chi urlava così (lo scorsi a pena dietro la selva di lance con cui gli armigeri lo tenevano a bada) era padre Robleda, il gesuita spagnolo nostro pigionante, che prese a roboare in preda al panico, con il respiro corto e il collo rosso e gonfio. Tanto che mi aveva ricordato gli urli che emettono i porci quando, appesi a testa in giù, vengono mattati. Il fracasso rimbombava nella via e, mi pareva, fin nella piazzetta, spontaneamente svuotatasi in un batter di ciglia. Sull'altro lato della strada scorsi il pesciarolo e due servi della vicina locanda dell'Orso che osservavano la scena. «Ci chiudono» gridai loro cercando di farmi vedere, ma i tre restarono impassibili. Un venditore d'aceto, un nevarolo e un gruppetto di ragazzini, le cui grida fino a qualche attimo prima animavano la strada, si nascosero impauriti dietro l'angolo. Intanto il mio padrone, il signor Pellegrino de Grandis, aveva posto un banchetto sulla soglia della locanda. Un ufficiale del Bargello vi appoggiò il registro dei pigionanti della locanda, che s'era appena fatto consegnare, e cominciò l'appello. «Padre Juan de Robleda, da Granada». Poiché non avevo mai assistito a una chiusura per quarantena, né alcuno me n'aveva mai parlato, credetti dapprima che volessero incarcerarci. «Brutta storia, brutta storia» udii sibilare Brenozzi, il veneziano. «Venga fuori padre Robleda!» si spazientì l'appellatore. Il gesuita, stramazzato al suolo nella vana lotta con gli armigeri, si rialzò e, dopo aver verificato che ogni via di fuga era sbarrata dalle lance, rispose all'appello con un cenno della pelosissima mano. Venne subito spinto dalla mia parte. Era padre Robleda venuto di Spagna alcuni giorni prima e da quella mattina, a causa degli accadimenti, non aveva fatto altro che mettere a dura prova i nostri orecchi con i suoi strepiti di paura. «Abate Melani, da Pistoia!» chiamò l'ufficiale appellatore dal registro dei pigionanti. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Guizzò dall'ombra la trina di foggia franciosa che guarniva il polso del nostro ospite più recente, giunto appena all'alba. Alzò diligentemente la mano al suo nome, e i suoi piccoli occhi triangolari brillarono come stiletti uscendo dall'ombra. Il gesuita non mosse un muscolo per farsi da parte quando Melani, con incedere tranquillo e in silenzio, s'unì a noi. Erano state proprio le grida dell'abate, quel mattino, a far scattare l'allarme. Le avevamo udite tutti, provenivano dal primo piano. Pellegrino, l'oste mio padrone, era stato il primo a scuotere le sue lunghe gambe, accorrendo prestamente. Ma s'era arrestato non appena raggiunta la stanza grande al primo piano che affaccia sulla via dell'Orso. Lì avevano preso alloggio due ospiti: il signor di Mourai, anziano gentiluomo francese, e il suo accompagnatore, il marchigiano Pompeo Dulcibeni. Mourai, in poltrona con i piedi a mollo nella tinozza per il suo solito pediluvio, giaceva di traverso con le braccia penzoloni, mentre l'abate Melani gli sorreggeva il busto e cercava di rianimarlo scuotendolo per il bavero. Mourai fissava lo sguardo alle spalle del suo soccorritore e sembrava scrutare Pellegrino con grandi occhi stupiti, emettendo un indistinto gorgoglio. Lì Pellegrino s'accorse che l'abate in realtà non stava gridando aiuto, ma stava interrogando il vecchio con gran frastuono e concitazione. Gli parlava in francese, e il mio padrone non capì, ma immaginò gli stesse chiedendo cosa gli era accaduto. A Pellegrino (com'egli stesso avrebbe poi riferito a noi tutti) era sembrato tuttavia che l'abate Melani con eccessivo vigore scrollasse Mourai nel suo tentativo di rianimarlo, e si precipitò a liberare il povero vecchio dalla troppo poderosa presa. Fu in quel momento che il povero signor di Mourai, con enorme sforzo, biascicò le sue ultime parole: «Ahi, dunqu'è pur vero» gemette in italiano. Poi smise di rantolare. Continuava a fissare l'oste, e bava verdastra gli era colata dalla bocca fin sul petto. Così era morto.
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«Il vecchio, es el viejo» ansimò padre Robleda con un sussurro colmo di terrore, a metà tra l'italiano e la sua lingua, non appena udimmo due armigeri ripetersi a mezza voce le parole «peste» e «serrare». «Cristofano, medico e cerusico da Siena!» chiamò l'appellatore. A gesti lenti e misurati, il nostro ospite toscano si fece avanti con la valigetta di cuoio, contenente tutt'i suoi istrumenti, da cui non si separava mai. «Sono io» rispose a voce bassa dopo aver aperto la sua borsa, rimestato un mucchio di carte e, con frigida compassatezza, essersi schiarito la voce. Era Cristofano un signore tondetto di non alta statura, d'aspetto assai curato e sguardo giocondo che ispirava buona luna. Quella sera, il volto pallido e grondante d'un sudore che non curava di tergersi, le pupille concentrate su qualcosa d'invisibile davanti a sé e una rapida lisciata alla nera barbetta a punta prima di muoversi smentivano la sua pretesa impassibilità, rivelando uno stato di altissima tensione. «Vorrei precisare che a un primo ma attento esame del corpo del signor di Mourai non sono affatto certo che si tratti di contagio» esordì Cristofano «mentre il perito medico del Magistrato di Sanità, che con tanta sicurezza lo asserisce, s'è in realtà assai poco trattenuto presso la salma. Io ho qui» e mostrò le carte «appuntato per iscritto le mie osservazioni. Credo che possano servire per riflettere ancora un poco, e rinviare codesta Vostra affrettata deliberazione». Gli uomini del Bargello, però, non avevano potere né voglia di sottilizzare. «Il Magistrato ha ordinato l'immediata chiusura di questa locanda» tagliò corto quello che sembrava essere il capo, aggiungendo che al momento non era stata ancora dichiarata una vera e propria quarantena: i giorni di clausura sarebbero stati solo venti e senza sgombero della via; purché, naturalmente, non si verificassero altre morti o infermità sospette. «Visto che sarò rinchiuso anch'io, e per aiutarmi nella diaImprimatur - Monaldi & Sorti
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gnosi» insistette il signor Cristofano un poco alterato «posso almeno sapere qualcosa di più sugli ultimi pasti del defunto signor di Mourai, visto che mangiava sempre e solo in camera sua? Potrebbe anche essere una semplice congestione». L'obiezione ebbe l'effetto di rendere esitanti gli armigeri, che cercarono con gli occhi il locandiere. Ma costui non aveva neanche udito la richiesta del medico: accasciato su una sedia, abbandonato allo sconforto, gemeva e imprecava, come suo solito, contro gl'infiniti tormenti che la vita gli infliggeva. L'ultimo di questi appena una settimana prima, quando s'era aperta una piccola crepa in uno dei muri della locanda, cosa che accade non di rado nelle vecchie case di Roma. La fessura non comportava alcun pericolo, ci era stato detto; ma tanto era bastato già allora a deprimere e far infuriare il mio padrone. L'appello, intanto, proseguiva. Le ombre della sera avanzavano e la squadra aveva deciso di non frapporre ulteriori indugi alla chiusura. «Domenico Stilone Priàso, da Napoli! Angiolo Brenozzi, da Venezia!» I due giovani, poeta l'uno e vetraio il secondo, si fecero avanti guardandosi l'un l'altro, come sollevati dall'essere chiamati insieme, quasi potessero così dimezzare il timore. Brenozzi il vetraio - con lo sguardo spaurito, i lucidi boccoletti bruni e il nasino all'insù che faceva capolino tra le gote accese ricordava un Cristarello di porcellana. Peccato che, come suo solito, scaricava la tensione pizzicandosi oscenamente con due dita il sedano tra le cosce, quasi per suonare un istrumento a una corda sola. Vizio che a me saltava all'occhio più che a chiunque altro. «Ci aiuti l'Altissimo» piagnucolò in quel mentre padre Robleda, non capii se per il gesto sconcio del vetraio o per la situazione, e si lasciò cadere paonazzo su uno sgabello. «E tutt'i Santi» aggiunse il poeta «che sono venuto da Napoli per prendermi il contagio». «E non avete fatto bene» ribatté il gesuita tergendosi il su20/703
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dore della fronte con un fazzoletto. «Bastava restare nella vostra città, che lì le occasioni non mancano». «Può darsi. È che qui, ora che c'è un Papa buono, si credeva d'avere il favore del Cielo. Ma prima si deve vedere che ne pensano quelli, come si dice, di dietro la Porta» sibilò Stilone Priàso. Labbra serrate e lingua tagliente, il poeta napoletano aveva colpito là dove nessuno voleva esser neppure sfiorato. Ormai da settimane l'esercito turco della Sublime Porta Ottomana premeva, assetato di sangue, alle porte di Vienna. Tutti gli schieramenti infedeli convergevano implacabilmente (almeno così riferivano gli scarni resoconti che giungevano sino a noi) sulla capitale del Sacro Romano Impero, e minacciavano di sfondarne presto i bastioni. I combattenti del campo cristiano, ormai sul punto di capitolare, resistevano solo grazie alla forza della Fede. A corto di armi e vettovaglie, stremati dalla fame e dalla dissenteria, erano per di più terrorizzati dalle prime avvisaglie d'un focolaio di peste. Tutti sapevano: se Vienna fosse caduta, le armate del comandante turco Kara Mustafà avrebbero avuto via libera verso Occidente. E sarebbero dilagate per ogni dove con gioia cieca e terribile. Per scongiurare la minaccia, s'erano mobilitati molti Principi illustri, Reali e Capitani d'armate: il Re di Polonia, il duca Carlo di Lorena, il principe Massimiliano di Baviera, Luigi Guglielmo di Baden e altri ancora. Tutti quanti però erano stati convinti a soccorrere gli assediati dall'unico, vero baluardo della Cristianità: papa Innocenzo XI. Da molto tempo, infatti, il Pontefice lottava strenuamente per coalizzare, radunare e rafforzare le milizie cristiane. E non solo con i mezzi della politica, ma anche con un prezioso sosteImprimatur - Monaldi & Sorti
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gno finanziario. Da Roma partivano di continuo generose somme di denaro: oltre due milioni di scudi all'Imperatore, cinquecentomila fiorini alla Polonia, più altri centomila scudi donati dal nipote del Pontefice, altri versamenti da singoli Cardinali e infine un generoso prelievo straordinario sulle decime ecclesiastiche di Spagna. La Santa Missione che il Pontefice stava disperatamente cercando di portare a compimento si aggiungeva poi alle innumerevoli pie opere compiute in sette anni di Pontificato. L'ormai settantaduenne successore di Pietro, nato col nome di Benedetto Odescalchi, aveva innanzitutto dato l'esempio. Alto, magrissimo, la fronte larga, il naso aquilino, lo sguardo severo, il mento sporgente ma nobile sovrastato da pizzo e baffi, si era guadagnato la fama d'asceta. Di carattere schivo e riservato, assai di rado lo si scorgeva in carrozza per la città, ed evitava con cura le acclamazioni popolari. Era noto che avesse scelto per sé le stanze più piccole, inospitali e spoglie che mai Pontefice avesse abitato, e che quasi mai scendesse nei giardini del Quirinale e del Vaticano. Era così frugale e parsimonioso da utilizzare solo abiti e paramenti dei suoi predecessori. Sin dall'elezione vestì sempre la stessa sottana bianca, benché oltremodo consunta, e la cambiò solo quando gli venne fatto osservare che al vicario di Cristo in Terra non conviene un abbigliamento troppo trascurato. Ma anche nell'amministrazione del patrimonio della Chiesa s'era acquistato meriti altissimi. Aveva risanato le casse della Camera Apostolica, che dai tempi ingiuriosi di Urbano VIII e Innocenzo X avevano subito ruberie d'ogni genere. Aveva abolito il nepotismo: appena eletto, aveva convocato suo nipote Livio, avvertendolo - così si diceva - che non lo avrebbe fatto Cardinale, e anzi lo avrebbe tenuto lontano dagli affari di Stato. Inoltre, aveva finalmente richiamato i suoi sudditi a costumi più austeri e morigerati. I teatri, luogo di disordinato sollazzo, erano stati chiusi. Il carnevale, che solo dieci anni prima ri22/703
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chiamava ammiratori da tutta Europa, era pressoché morto. Feste e trattenimenti musicali erano ridotti al minimo. Alle donne erano stati proibiti abiti troppo aperti e scolli alla francese. Il Pontefice aveva anzi spedito squadre di sbirri a ispezionare la biancheria stesa alle finestre, per sequestrare corsetti e camicette troppo audaci. Era grazie a tale austerità, sia finanziaria che morale, che Innocenzo XI aveva potuto faticosamente raccogliere denaro per combattere il Turco, e grande era stato l'aiuto fornito alla causa degli eserciti cristiani. Ma ora la guerra era giunta al momento decisivo. E da Vienna tutta la Cristianità sapeva cosa attendersi: la salvezza, o il disastro. In estrema lacerazione d'animo si trovava quindi il popolo, che a ogni albeggiare volgeva con angoscia lo sguardo a levante, chiedendosi se il nuovo giorno avrebbe portato con sé torme di sanguinari giannizzeri e di destrieri pronti ad abbeverarsi alle fontane di San Pietro. Già a luglio il Pontefice aveva annunziato l'intenzione di proclamare il Giubileo universale, per implorare l'aiuto divino, ma soprattutto per raccogliere altri denari da impiegare in guerra. Tutti, laici ed ecclesiastici, erano stati solennemente esortati alla pietà, e si era tenuta una grandiosa processione con l'intervento di tutt'i Cardinali e gli ufficiali di Curia. Alla metà di agosto il Papa aveva ordinato che le chiese di Roma ogni sera suonassero le campane per un ottavo d'ora, a implorazione dell'aiuto Divino. Ai primi di settembre, infine, in San Pietro era stato esposto con grande ricchezza di apparati il Santissimo Sacramento, con accompagnamento di musiche e orazioni, e di fronte all'immensa moltitudine di popolo era stata poi cantata dai canonici la Messa Solenne contra paganos, ordinata personalmente da Sua Santità. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Ecco quindi che il battibecco tra il gesuita e il poeta aveva evocato un terrore che percorreva tutta la città come un fiume sotterraneo. La battuta di Stilone Priàso, nell'animo già provato di padre Robleda, aveva aggiunto paura a paura. Torvo e tremante, il viso tondo del gesuita era incorniciato per la pressione irosa da un cuscino di grasso che gli ballava sotto il mento. «Qualcuno qui tiene per il Turco?» ansimò malignamente. I presenti si voltarono d'istinto verso il poeta, che in effetti un occhio sospettoso avrebbe potuto facilmente scambiare per un emissario della Porta: la pelle bruna e butterata, gli occhietti di carbone, aveva il cipiglio del gufo. La sua figura nerastra ricordava quei ladroni dall'ispida e corta capigliatura che s'incontrano, ahimé sovente, sulla strada per il Regno di Napoli. Stilone Priàso non ebbe il tempo di replicare. «Tacete una buona volta!» ci azzittì uno dei gendarmi, che proseguì l'appello. «Signor di Mourai, francese, col signor Pompeo Dulcibeni da Fermo, e Roberto Devizé, musico francese». Il primo era, come s'affrettò a chiarire il signor Pellegrino mio padrone, l'anziano francese arrivato alla locanda del Donzello alla fine del mese di luglio, e che ora pareva essere spirato per il contagio. Era di certo un gran nobiluomo, aggiunse Pellegrino, assai minato nella salute, ed era arrivato alla locanda in compagnia di Devizé e Dulcibeni. Il signor di Mourai era infatti quasi del tutto cieco e aveva bisogno d'un accompagnatore; per lo stesso motivo s'era aggiunto a loro Devizé, anche lui francese. Del vecchio Mourai non si sapeva quasi nulla: sin dal suo arrivo aveva sempre detto d'essere molto stanco, e s'era fatto portare ogni giorno i pasti in camera, uscendo solo di rado per qualche breve passeggiata nei dintorni della locanda. Gli armigeri presero rapidamente nota delle dichiarazioni del mio padrone. «Non è proprio possibile, signori, che sia morto di peste! Era 24/703
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di maniere ottime assai, e ben vestito; sarà stata la vecchiaia, ecco tutto». A Pellegrino s'era sciolta la lingua e s'era posto ad alloquire la milizia con quel suo morbido tono che, pur usandone assai di rado, certune volte gli sopravveniva tanto efficace. Nonostante le fattezze nobili e l'alta figura sottile, le mani gentili, il portamento morbido e lievemente incurvato dei suoi cinquantanni, il volto incorniciato da una fluente bianca chioma raccolta con un nastro, vaghi e languidi occhi castani, il mio padrone era ahimé preda d'un temperamento bilioso e iracondo assai, che ornava i suoi discorsi d'una gran messe di bestemmie. Solo il pericolo imminente, quella volta, gl'impediva di dare libertà al suo naturale. Ma già più nessuno lo ascoltava. Vennero chiamati nuovamente il giovane Devizé e Pompeo Dulcibeni, che subito si fecero avanti. Gli occhi dei nostri pigionanti luccicarono all'avanzarsi del musico francese, la cui chitarra li aveva incantati sino a poco prima. Gli uomini del Bargello avevano ormai fretta d'andarsene e, senza neanche dare il tempo a Dulcibeni e Devizé di raggiungere la parete, li spinsero da una parte, mentre l'ufficiale chiamava: «Signor Eduardus Bedfordi inglese e donna... e Cloridia». L'improvvisa correzione e il vago sorriso con cui venne proferito l'ultimo nome lasciava intendere al di là d'ogni dubbio quale antica professione svolgesse l'unica ospite femminile del Donzello. Di lei in realtà non sapevo molto, giacché il mio padrone non l'aveva alloggiata con gli altri pigionanti, bensì nel torrino, ove godeva di un passaggio indipendente. Nel mese scarso della sua permanenza avevo solo dovuto portarle vettovaglie e vino, oltre a consegnare (in verità con singolare frequenza) biglietti in busta chiusa, che quasi mai recavano il nome dello scrivente. Cloridia era assai giovane, doveva avere all'incirca la mia stessa età. L'avevo vista talvolta scendere nelle sale del pianterreno e intrattenersi a conversare, assai amabilmente debbo dire, con qualcuno dei nostri pigionanti. Dai Imprimatur - Monaldi & Sorti
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colloqui avuti col signor Pellegrino, sembrava intenzionata a prender la nostra locanda come fissa dimora. Il signor di Bedfordi non poteva passare inosservato: rosso fuoco di capelli, con un manto di macchioline dorate sul naso e sulle gote, e dagli occhi cerulei e strabici come mai avevo visto prima, veniva dalle lontane isole britanniche. Da quanto avevo udito, non era la prima volta che soggiornava al Donzello: come anche il vetraio Brenozzi e Stilone Priàso il poeta, v'era già stato ai tempi della precedente locandiera buonanima, cugina del mio padrone. Fu mio l'ultimo nome a essere chiamato. «Ha vent'anni e lavora con me da poco» spiegò Pellegrino. «Al momento è il mio unico garzone, visto che in questo periodo abbiamo pochi pigionanti. Non so niente di lui, l'ho preso a lavorare perché non aveva nessuno» disse frettolosamente il mio padrone, dando l'impressione di voler allontanare da sé qualsiasi responsabilità per il contagio. «Faccelo solo vedere, dobbiamo chiudere» troncarono gli armigeri con impazienza non riuscendo a scorgermi. Pellegrino m'afferrò per un braccio, quasi sollevandomi. «Ragazzo, sei proprio uno scricciolo!» mi schernì la guardia mentre i suoi compagni ridacchiavano. Dalle finestre circostanti, frattanto, alcune teste si sporgevano timidamente. La gente del rione aveva saputo cosa stava avvenendo, e solo i più curiosi cercavano di avvicinarsi. La gran parte invece si teneva a distanza, già temendo gli effetti del contagio. I gendarmi avevano portato a termine la missione. La locanda aveva quattro ingressi. Due su via dell'Orso: il portone principale e l'ampia entrata adiacente - tenuta aperta nelle sere d'estate - che dava sulla prima delle due sale da pranzo. V'erano poi l'ingresso laterale di servizio, che dal vicolo conduceva direttamente alla cucina, e, per finire, la porticina che dall'androne portava in cortile. Vennero tutti accuratamente 26/703
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sigillati con robuste assi di faggio, inchiodate con chiodi lunghi mezzo palmo. Lo stesso fu per l'uscita che dal torrino di Cloridia apriva sul tetto. Le finestre del pianterreno e del primo piano, nonché le feritoie che dal livello superiore della cantina aprivano sul selciato del vicolo, erano già provviste di grate, e una eventuale fuga dal secondo piano o dal sottotetto avrebbe comportato il rischio d'una caduta, o d'essere individuati e catturati. Il capo degli uomini del Bargello, un individuo grasso e con un'orecchia semimozza, impartì le direttive. Avremmo dovuto calare il corpo del povero signor di Mourai da una delle finestre della sua camera dopo l'alba, quando sarebbe passato a prenderlo il carretto della Compagnia dell'Orazione e Morte, che avrebbe provveduto alla sepoltura. Saremmo stati sorvegliati da una sentinella diurna, dalle sei del mattino alle dieci di sera, e da una guardia notturna per le ore restanti. Non saremmo potuti uscire finché non si fosse ristabilita e accertata la sanità del luogo, e comunque non prima di venti giorni. Durante tale periodo avremmo dovuto rispondere periodicamente all'appello da una delle finestre che davano sulla via dell'Orso. Ci vennero lasciati alcuni grossi otri d'acqua, neve pressata, vari pani da baiocco, cacio, lardo, olive, un po' d'erbette e un cesto di mele gialle. Avremmo poi ricevuto una sommetta onde pagare i rifornimenti di cibo, acqua e neve. I cavalli della locanda sarebbero restati dove già erano, cioè nella stalla del cocchiere che abitava proprio lì a fianco. Chi fosse uscito, o avesse anche solo tentato la fuga, avrebbe avuto quaranta tratti di corda e sarebbe stato portato di fronte al Magistrato per essere punito. Venne inchiodato sull'uscio l'infame cartello con la scritta SANITÀ. Venimmo poi ammoniti a rispettare tutti gli ordini che ci sarebbero stati dati in seguito, comprese le disposizioni che s'impartiscono in tempo di contagio, ovvero di peste, e si sarebbero puniti gravemente coloro che non ubbidivano. Dall'interno della locanda assistemmo ammutoliti all'annuncio che ci condannava alla segregazione. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Siamo morti, tutti morti» disse qualcuno dei pigionanti con voce incolore. Eravamo radunati al completo nell'atrio lungo e stretto della locanda, divenuto tetro e oscuro appena la porta era stata sbarrata. Ci guardavamo attorno spaesati. Nessuno si decideva a dirigersi verso le attigue sale, dove la cena giaceva ormai fredda. Il mio padrone, accasciato sul bancone dell'ingresso, inveiva tenendosi il capo tra le mani. Lanciava improperi e maledizioni che non possono essere riferiti, e minacciava di rendersi pericoloso per chiunque gli si ponesse troppo vicino. All'improvviso cominciò a menare, con le nude mani, colpi tremendi al povero bancone, facendo schizzare in aria il registro dei pigionanti. Dopodiché sollevò il tavolo, per scagliarlo contro il muro. Dovemmo intervenire per trattenerlo, ghermendolo alle braccia e al torace. Pellegrino cercò di divincolarsi ma perse l'equilibrio, trascinando con sé a terra anche un paio di pigionanti, che precipitarono con grande strepito l'uno sull'altro. Io stesso dovetti farmi da parte un attimo prima che il groviglio umano mi seppellisse. Il mio padrone fu più lesto dei suoi controllori, e quasi subito si rialzò urlando e avventandosi nuovamente coi pugni sul bancone. Decisi d'abbandonare quell'angusto e ormai periglioso spazio, e sgattaiolai su per la scala. Qui però, percorsa la prima rampa, mi trovai di fronte l'abate Melani. Scendeva senza fretta, con passo prudente. «Così ci hanno riserrati, ragazzo» disse calcando sulla sua strana erre alla maniera francese. «Cosa facciamo adesso?» chiesi. «Nulla». «Ma moriremo di peste». «Vedremo» disse con un'indefinibile sfumatura di tono che avrei presto imparato a riconoscere. Indi cambiò direzione e m'attirò al primo piano. Percorremmo fino in fondo il corridoio ed entrammo nella grande stanza che il vecchio deceduto condivideva col suo anziano ac28/703
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compagnatore, il marchigiano Pompeo Dulcibeni. Una tenda divideva in due la camera. La scostammo e trovammo, mentre armeggiava con la sua valigetta accovacciato sul pavimento, il medico Cristofano. Di fronte a lui, riverso sulla poltrona, era il signor di Mourai, ancora semisvestito come lo avevano lasciato quella mattina Cristofano e il perito medico. Il defunto era un poco maleodorante a causa del caldo settembrino e del pediluvio in cui marcivano ormai le carni, avendo il Bargello ingiunto di non spostar nulla sino al termine dell'appello. «Ragazzo, già stamattina te l'avevo chiesto: da' un'asciugata a quest'acqua puteolenta sul pavimento, per favore» m'ordinò Cristofano con una punta d'impazienza nella voce. Stavo per rispondere che l'avevo già fatto appena il medico me lo aveva comandato; ma, volgendo lo sguardo a terra, m'avvidi che attorno al catino del pediluvio c'erano ancora, in effetti, alcune pozzangherette. Eseguii senza protestare, con straccio e bastone, maledicendomi per non esser stato abbastanza accorto quella mattina. Di fatto, prima d'allora non avevo mai visto un cadavere in vita mia, e l'emozione doveva avermi confuso. Mourai pareva ancora più magro ed esangue di quand'era arrivato alla locanda del Donzello. Aveva le labbra appena schiuse, da cui ancora filtrava un po' della bava verdastra che Cristofano, volendo aprirgli ancor più la bocca, cominciò a rimuovere con una pezzuola. Il medico badò però ad afferrarla solo dopo aver avvolto la propria mano in un altro brandello di tessuto. Come aveva già fatto quella mattina, scrutò attentamente la gola del morto, e annusò la bava. Poi si fece aiutare dall'abate Melani ad adagiare il corpo sul letto. I piedi, estratti dalla tinozza, erano grigiastri ed emanavano un terribile odore di morte che ci tolse il respiro. Cristofano indossò un paio di guanti di stoffa marrone prelevati dalla cassetta. Tornò a ispezionare il cavo orale, poi osservò il torace e l'inguine già nudi. Tastò però prima con deliImprimatur - Monaldi & Sorti
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catezza dietro alle orecchie; poi passò alle ascelle, scostando la veste per poter osservare la carne molle e ricoperta di rada peluria. Infine sollecitò ripetutamente con i polpastrelli la parte morbida di carne che si trova a metà strada tra le pudenda e l'inizio della coscia. Si sfilò dunque con attenzione i guanti e li ripose in una sorta di gabbietta, divisa in due scomparti da una grata orizzontale. Nello spazio inferiore si trovava una piccola bacinella in cui versò un liquido brunastro, quindi richiuse lo sportellino del comparto in cui aveva riposto i guanti. «È aceto» spiegò. «Spurga gli umori pestiferi. Non si sa mai. Comunque resto della mia idea: non mi pare proprio che sia contagio. Per ora possiamo stare tranquilli». «Agli uomini del Bargello avete detto che si potrebbe trattare d'una congestione» gli ricordai. «Era solo un esempio, fatto anche per prender tempo. Sapevo già da Pellegrino che Mourai gradiva solo minestre». «È vero» confermai. «Anche stamane all'alba ne aveva chiesta una». «Ah sì? Va' avanti allora» chiese il medico interessato. «Non c'è molto da dire: aveva domandato un brodo al latte al mio padrone, che come tutte le mattine era andato a dare la sveglia al signor di Mourai e al gentiluomo marchigiano con cui divideva la stanza. Ma il signor Pellegrino aveva da fare, e così ha incaricato me di prepararlo. Sono sceso in cucina, l'ho fatto e gliel'ho portato». «Eri solo?» «Sì». «Non è venuto nessuno in cucina?» «No». «Hai mai lasciato il brodo incustodito?» «Neanche per un attimo». «Sicuro?» «Se state pensando che qualcosa in quel brodo potrebbe aver fatto male al signor di Mourai, sappiate che gliel'ho somministrato personalmente, visto che il signor Dulcibeni era già 30/703
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uscito, e ne ho bevuto io stesso un bicchiere». Il medico non fece altre domande. Guardò il cadavere e aggiunse: «Non posso eseguire qui e ora un'autopsia, e credo che nessuno la farà, visto il sospetto di peste. Comunque, ripeto, non mi pare contagio». «Ma dunque» interloquii «perché ci hanno chiusi in quarantena?» «Per troppo zelo. Tu sei ancora giovane, ma credo che da queste parti si ricordino bene dell'ultima epidemia. Se tutto va bene, presto si renderanno conto che non ci sono pericoli. Questo anziano signore, che peraltro già non sembrava godere di buona salute, non è appestato. E direi pertanto che neppure voi e io lo siamo. Comunque non abbiamo scelta: dovremo calare fuori Il corpo e gl'indumenti del povero signor di Mourai, come ci hanno ordinato quelli del Bargello. Inoltre dovremo dormire ognuno in una stanza diversa. Ve ne sono a sufficienza in questa locanda, se non erro» disse guardandomi interrogativamente. Annuii. In ogni piano, sui due bracci del corridoio, s'aprivano quattro camere: una, piuttosto spaziosa, subito a lato delle scale, seguita da un'altra piccolissima e da una a L, mentre in fondo al corridoio si trovava la stanza più ampia, l'unica che affacciasse non solo sul vicolo ma anche su via dell'Orso. Si sarebbero dunque occupate, pensai, tutte le stanze del primo e secondo piano, ma sapevo che il mio padrone non si sarebbe lagnato più di tanto, visto che per il momento non potevano certo giungere altri pigionanti. «Dulcibeni dormirà nella mia stanza» aggiunse Cristofano «non può certo restare qui col cadavere. Comunque» concluse «se non vi saranno altri casi, veri o falsi, tra qualche giorno ci faranno uscire». «Tra quanto esattamente?» chiese Atto Melani. «E chi può dirlo? Se qualcuno nei paraggi si sente male, magari solo perché ha bevuto un vinaccio o ha mangiato pesce marcio, si penserà subito a noi». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Allora rischiamo di restare qui per sempre» azzardai sentendomi già soffocato dalle spesse mura della locanda. «Per sempre, no. Ma calmati: non sei stato giorno e notte qui dentro, nelle ultime settimane? Ti ho visto uscire molto poco; sei già abituato». Era vero. Il padrone m'aveva preso al servizio per misericordia perché sapeva ch'ero solo al mondo. E io lavoravo dalla mattina alla sera. Era accaduto all'inizio della passata primavera, quando Pellegrino era giunto a Roma da Bologna, dove faceva il cuoco, a rilevare l'attività del Donzello dopo la disgrazia occorsa a sua cugina, la signora ostessa Luigia de Grandis Bonetti. Costei, poveretta, aveva reso l'anima al Signore Iddio per le conseguenze fisiche di un'aggressione subita per istrada da due gaglioffi gitani che le volevano rubare la borsa dei denari. La locanda, gestita per trent'anni prima da Luigia con il marito Lorenzo e il figliolo Francesco, e poi dalla sola Luigia rimasta vedova e orba madre, era un tempo assai rinomata e accoglieva ospiti da tutte le parti del mondo. La venerazione per il duca Orsini, padrone del palazzetto in cui sorgeva la locanda, aveva spinto Luigia a nominarlo proprio erede universale. Il Duca, tuttavia, non aveva avuto nulla da obiettare quando Pellegrino (che doveva sfamare moglie, figlia zitella e una piccina) era arrivato da Bologna a scongiurare il Duca di fargli proseguire la florida attività della cugina Luigia. Era questa un'occasione d'oro per il mio padrone, che ne aveva appena sprecata un'altra: al termine d'una faticosa carriera nelle cucine d'un ricco Cardinale, ove aveva raggiunto l'ambito posto di aiuto scalco, s'era fatto cacciar via a causa del carattere iracondo e delle sue troppe intemperanze. Non appena Pellegrino si fu stabilito nei pressi del Donzello, in attesa che il palazzetto si liberasse da alcuni inquilini di passaggio, venni a lui raccomandato dal parroco della vicina chiesa di Santa Maria in Posterula. All'arrivo della torrida estate 32/703
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romana la sua consorte, affatto entusiasta all'idea di fare la locandiera, era partita con le figlie alla volta delle montagne appenniniche dove ancora vivevano i suoi parenti. Il loro ritorno era atteso per la fine del mese, e nel frattempo io ero rimasto l'unico aiuto. Certo, non si poteva aspettare da me il migliore dei garzoni; ma per accontentarlo ce la mettevo tutta. Quando avevo sbrigato le faccende del giorno, volentieri cercavo ogni occasione per rendermi utile. E poiché non mi piaceva uscire da solo e affrontare i rischi della strada (e soprattutto gli scherzi crudeli dei miei coetanei) ero quasi sempre all'opera nella locanda del Donzello, come aveva osservato il medico Cristofano. Ciononostante, il pensiero d'essere recluso per tutta la quarantena in quelle stanze, pur così familiari e accoglienti, d'improvviso mi pareva un sacrificio insopportabile.
Nel frattempo nell'ingresso era terminata la confusione, e ci avevano raggiunti il mio padrone e tutti gli altri che con lui s'erano impegnati nel lungo e inutile dispendio di forze. Venne in breve spiegato loro quanto aveva sentenziato Cristofano, cosa che sollevò non poco gli animi, tranne quello del mio padrone. «Io li ammazzo, li ammazzo tutti» disse perdendo nuovamente le staffe. Aggiunse che quell'accadimento lo aveva rovinato, poiché nessuno si sarebbe più recato al Donzello, né ovviamente sarebbe stato possibile vendere l'attività della locanda, già svalutata da quella maledetta crepa, e avrebbe dovuto riscattare tutt'i suoi crediti per averne un'altra, e in breve sarebbe diventato povero e rovinato per sempre, ma avrebbe prima raccontato tutto al Collegio dei locandieri, ah sì, anche se tutti sapevano che non serviva a nulla, disse contraddicendosi poi molte altre volte, e capii che purtroppo aveva di nuovo attinto al vinello Greco. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Il medico proseguì: «Dovremo raccogliere le coperte e i vestiti del vecchio, e calarli in strada quando arriverà il carro di raccolta». Poi si rivolse a Pompeo Dulcibeni: «Avete incontrato o saputo di gente infetta arrivando da Napoli?». «Assolutamente no». Il gentiluomo marchigiano sembrava nascondere a fatica il grande turbamento per la morte del suo amico, avvenuta oltre tutto in sua assenza. Un velo di sudore gli copriva la fronte e gli zigomi. Il medico lo interrogò su una quantità di particolari: se il vecchio avesse mangiato con regolarità, se fosse andato bene di corpo, se fosse d'umore melanconico, se insomma avesse mostrato segni di sofferenza, oltre a quelli normalmente dati dall'età avanzata. Ma così non era parso a Dulcibeni. Era questi di figura piuttosto massiccia, sempre abbigliato d'un giuppone nero; ma soprattutto reso lento e goffo da una vecchissima gorgiera di foggia fiamminga (come credo dovesse esser di moda molti e molt'anni fa), oltre che dallo stomaco prominente. Questo, assieme al colorito rubizzo, faceva sospettare una propensione al cibo non inferiore a quella che il mio padrone aveva per il Greco. I folti capelli ormai del tutto imbiancati, il temperamento ombroso, la voce lievemente affaticata e un aspetto grave e pensoso gli conferivano un sembiante d'uomo probo e morigerato. Solo col passar del tempo, e con più attenta osservazione, avrei veduto nei suoi severi occhi glauchi, e nelle sue rade sopracciglia sempre corrugate, il riflesso d'un'asprezza recondita e inestirpabile. Dulcibeni disse d'aver conosciuto il defunto signor di Mourai per caso, durante un viaggio, e di non saper molto di lui. L'aveva accompagnato da Napoli insieme al signor Devizé poiché il vecchio, quasi privo della vista, era bisognoso d'assistenza. Il signor Devizé, musico e suonatore di chitarra, era venuto invece in Italia, affermava ancora Dulcibeni mentre lo stesso Devizé annuiva, per acquistare un nuovo strumento da un liutaio napoletano. Successivamente aveva espresso il desiderio 34/703
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di fermarsi a Roma per apprendervi i più recenti stili musicali, prima di tornare a Parigi. «Che cosa succede se usciamo prima che sia finita la quarantena?» interloquii. «Tentare la fuga è la soluzione più sconsigliabile» rispose Cristofano «visto che le vie d'uscita sono state tutte inchiodate, compreso il passaggio che dal torrino in cui alloggia monna Cloridia apre sul tetto. Le finestre poi sono troppo alte o munite di grate, e c'è una ronda qui sotto. Meglio così: venire sorpresi a fuggire da una quarantena comporterebbe una pena severissima, e una segregazione ben peggiore per anni e anni. La gente del rione aiuterebbe a rintracciare il fuggiasco». Erano calate intanto le ombre della sera, e distribuii i lumi a olio. «Cerchiamo di mantenere sereni gli animi» aggiunse il medico toscano, guardando significativamente il mio padrone. «Dobbiamo dare l'impressione che tutto tra noi vada a perfezione. Io non vi visiterò, se le cose non cambiano, a meno che voi non me lo chiediate; se si verificheranno altri episodi di malore, dovrò farlo per il bene di tutti. Avvertitemi non appena vi sentite poco in salute, anche se vi sembrasse un'inezia. Per il momento tuttavia non è bene angosciarsi, poiché quest'uomo» disse indicando il corpo inerte del signor di Mourai «non è morto di peste». «Di cosa è morto allora?» chiese l'abate Melani. «Non di peste, ripeto». «E come lo sai, medico?» incalzò l'abate con diffidenza. «Siamo ancora in estate e fa abbastanza caldo. Se è peste, non può che trattarsi del tipo estivo, che s'origina dalla corruzione del calore naturale e dà febbri, mal di testa, e cadaveri che diventano subito negri e caldissimi, nonché giandusse nere e marce. Ma costui di giandusse, o ghiandusse o bubboni o posteme che dir si voglia, non ha neanche l'ombra; né sotto le ascelle, né dietro le orecchie o all'attaccatura delle cosce. Non ha manifestato innalzamento della temperatura né arsura. E, a Imprimatur - Monaldi & Sorti
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quanto m'hanno detto i suoi compagni di viaggio, sembrava stare abbastanza bene fino a qualche ora prima della morte. Questo basta, per quanto mi riguarda, a escludere il contagio pestilenziale». «Allora è un altro male» replicò Melani. «Ripeto: per capirlo si dovrebbe ricorrere alla notomia. Aprire il corpo ed esaminarlo dall'interno, insomma, come fanno i dottori d'Olanda. Da un esame esterno potrei ipotizzare un attacco fulminante di febbri putride, che non si lascia riconoscere fintanto che non vi è più rimedio. Non scorgo però putrefazioni sul cadavere, né cattivi odori che non siano quelli della morte e dell'età. Potrei forse supporre che sia stato mal di Mazucco, o Modoro, come lo chiamano gli Spagnoli: causa un apostema, ossia un ascesso interno al cervello, quindi invisibile, e fatto quello bisogna morire. Se invece il male è ai primi sintomi, è facile rimediarvi. Insomma, se ne avessi avuto notizia solo qualche giorno fa, avrei forse potuto salvarlo. Sarebbe bastato cavar sangue da una delle due vene sotto la lingua, somministrare nel bere pochissimo olio di vetriolo e ungere stomaco e capo con olio benedetto. Ma, a quanto pare, il vecchio Mourai non ha dato segni di star male. Inoltre...». «Inoltre?» lo esortò Melani. «Il mal di Mazucco non gonfia certo la lingua» terminò il medico con una smorfia significativa. «Forse è... qualcosa di molto simile al veleno». Veleno. Mentre il medico risaliva in camera, ognuno di noi rimase in silenzio guardando il cadavere. Il gesuita, per la prima volta, si fece il segno della Croce. Il signor Pellegrino inveì nuovamente contro la sventura di trovarsi un morto nella locanda, e forse persino avvelenato, e chi la voleva sentire sua moglie quando sarebbe tornata. Corsero allora rapidissimi tra i pigionanti alcuni discorsi sui casi celebri di avvelenamenti o presunti tali, in cui primeggiavano antichi Sovrani come Carlo il Calvo, Lotario Re dei Fran36/703
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chi o suo figlio Lodovico o, per venire a tempi moderni, l'acqua tofana e la cantarella usate dai Borgia per i loro nefandi delitti e le trappole tese dai Valois o dai Guisa. Un inconfessato tremore aveva pervaso tutto il gruppo, giacché paura e veleno erano nati fratelli: qualcuno ricordò come Enrico di Navarra, prima di diventare Re di Francia col nome di Enrico IV, scendesse egli stesso sulle rive della Senna per attingere l'acqua che avrebbe consumato durante i pasti, temendo di cadere vittima di pozioni venefiche. Giovanni d'Austria non era forse morto per aver calzato stivali avvelenati? Stilone Priàso tornò a ricordare come Caterina de' Medici avesse avvelenato Giovanna d'Albret, madre di Enrico di Navarra, per mezzo di guanti e colletti profumati, e avesse tentato di ripetere l'impresa offrendo al figlio di lei un meraviglioso libro di caccia le cui pagine un po' incollate, ch'egli avrebbe cercato di sfogliare inumidendosi i polpastrelli con la lingua, erano imbevute d'un fatale tossico italiano. A preparare tali micidiali ritrovati, rilanciò qualcuno, erano sovente astrologi e profumieri. E qualcun altro rispolverò la storia di Saint-Barthélemy, il servo del famigerato priore di Cluny che avvelenò il Cardinale di Lorena dandogli in pagamento monete d'oro intossicate; mentre Enrico di Lutzelburgo moriva (oh, fine blasfema) per un veleno annidato nell'ostia consacrata con la quale aveva fatto la Comunione. Stilone Priàso prese a parlottare fittamente ora con questo ora con quello, ammettendo che sui poeti e su chi esercita il mestier del bello scrivere da sempre si dicono tante cose di fantasia, ma egli era solo un poeta, e nato per la poesia, Dio gli perdonasse l'immodestia. Si voltarono poi verso di me e ripresero a tempestarmi di domande sulla minestra che quella mattina avevo servito al signor di Mourai. Dovetti ripetere più volte che assolutamente nessuno, oltre me, s'era accostato al piatto. Solo a fatica alla fine si convinsero, e non badarono più alla mia presenza. Notai improvvisamente che l'unico ad aver lasciato la comImprimatur - Monaldi & Sorti
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pagnia era l'abate Melani. Era ormai tardi, e risolsi di scendere in cucina per il mio lavoro di rigovernatura. M'imbattei nel corridoio nel giovane inglese, il signor di Bedfordi, che mi pareva assai agitato, forse perché, avendo effettuato il trasloco delle proprie masserizie in una nuova camera, non aveva assistito alla diagnosi del medico. Il pigionante si stava trascinando lentamente e sembrava afflitto come non mai. Quando mi parai di fronte a lui, ebbe un sobbalzo. «Sono io, signor Bedfordi» lo rassicurai. Guardò muto e trasognato la fiamma del lume che portavo in mano. Aveva abbandonato per la prima volta l'abituale posa flemmatica, che denunciava la sua natura affettata e sprezzante, alla quale repelleva (e me ne dava spesso la prova) la mia semplicità di servo. Nato da madre italiana, Bedfordi non soffriva punto di doversi esprimere nella nostra lingua. E anzi la sua facondia, nella conversazione che accompagnava le cene, aveva allietato gli altri pigionanti. A maggior ragione quindi, quella sera, il suo silenzio mi colpì. Gli spiegai che a parere del medico non c'era da preoccuparsi, poiché quasi certamente non si trattava di peste. Si sospettava, tuttavia, che Mourai potesse aver ingerito un tossico. Mi fissò senza dire una parola, impaurito, con la bocca semiaperta. Indietreggiò di qualche passo, poi si voltò e raggiunse la sua camera, ove lo sentii chiudersi a chiave.
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Nottata prima. Tra l'11 e il 12 settembre 1683
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ascialo perdere, ragazzo». Questa volta fui io a sobbalzare. M'era di fronte l'abate Melarli, che proveniva dal secondo piano. «Ho fame, accompagnami in cucina». «Dovrei prima avvertire il signor Pellegrino. Mi ha vietato di attingere alla dispensa al di fuori degli orari regolari di pranzo e cena». «Non ti preoccupare, messer padrone ora è impegnato con madama bottiglia». «E gli ordini del dottor Cristofano?» «Non erano ordini, ma prudenti consigli. Che io ritengo superflui». Mi precedette al pianterreno, ove si trovavano le sale da pranzo e la cucina. Proprio in quest'ultima rintracciai, per soddisfare la sua richiesta, un po' di pane e cacio con un bicchiere di vino rosso. Ci accomodammo al tavolaccio da lavoro dove mangiavamo di solito il mio padrone e io. «Dimmi da dove vieni» mi chiese mentre cominciava a rifocillarsi. Lusingato dalla curiosità, gli raccontai in breve la storia della mia misera vita. A pochi mesi d'età ero stato abbandonato e deposto di fronte a un monastero presso Perugia. Le religiose mi avevano quindi affidato a una pia donna che viveva nei dintorni. Una volta cresciuto, ero stato condotto a Roma per essere affidato al fratello della donna, parroco di Santa Maria in PoImprimatur - Monaldi & Sorti
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sterula, la chiesetta a poca distanza dalla locanda. Il parroco, dopo avermi impiegato in alcuni piccoli servizi, poco prima di venir trasferito fuori Roma m'aveva raccomandato al signor Pellegrino. «Così ora fai il garzone» disse l'abate. «Sì, ma spero non per sempre». «Vorresti avere la tua locanda, immagino». «No, signor abate. Vorrei fare il gazzettante». «Questa è bella» disse con un sorrisetto sorpreso. Gli spiegai quindi che la donna pia e previdente a cui ero stato affidato aveva provveduto a farmi istruire da un'anziana fantesca. La vecchia in precedenza aveva vestito l'abito monastico, e m'aveva dirozzato nelle arti del Trivio e del Quadrivio, nelle Scienze de vegetalibus, de animalibus et de mineralibus, nelle humanae litterae, nella Filosofia e nella Teologia. Poi mi aveva fatto leggere molti Istorici, Grammatici, Poeti italiani, spagnoli e francesi. Ma più ancora di aritmetica, geometria, musica, astronomia, grammatica, logica e retorica, ad appassionarmi erano le cose del mondo e massimamente, m'infervorai, i racconti delle Vicende e dei Successi vicini e lontani dei Principi e delle Corone regnanti e delle Guerre e delle altre mirabili cose che... «Va bene, va bene» m'interruppe «vuoi fare il gazzettante, o il menante che dir si voglia. Gl'intelletti acuti finiscono spesso così. Come ti è venuta questa idea?» Spesso venivo mandato a fare commissioni a Perugia, gli risposi. In città, se era il giorno fortunato, s'udivano le letture pubbliche delle gazzette e poi per due soldi si compravano (ma questo si faceva anche a Roma) i Fogli volanti con molte Ragguardevoli Descrizioni dei più recenti Accadimenti occorsi in Europa... «Accidenti, ragazzo, non m'ero mai imbattuto in uno come te». «Grazie, signore». «Non sei un po' troppo istruito per un semplice sguattero? 40/703
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Quelli del pari tuo non sanno neanche come si tiene la penna in mano» disse con una smorfia. Ci restai male. «Sei molto intelligente» aggiunse addolcendo il tono. «E ti comprendo: anch'io alla tua età ero affascinato dal mestiere degli imbrattacarte. Ma avevo tante cose da fare. Scrivere con maestria le gazzette è una grande arte, ed è sempre meglio che lavorare. E poi» aggiunse tra un boccone e l'altro «essere gazzettante a Roma è cosa esaltante. Saprai riferire tutto sulla questione delle franchigie, sulla controversia gallicana, sul quietismo…». «Sì, credo... di sì» annuii cercando inutilmente di nascondere la mia ignoranza. «Certe cose, ragazzo, bisogna pur conoscerle. Altrimenti di che scriverai? Ma già, tu sei troppo giovane. E poi, di che si potrebbe mai scrivere adesso, in questa smorta città? Avresti dovuto vedere lo splendore della Roma di una volta, anzi di pochi anni fa. Musica, teatro, accademie, ingressi di ambasciatori, processioni, balli: tutto sfolgorava con una ricchezza e un'abbondanza che non puoi neppure immaginare». «E perché oggi non è più così?» «La grandezza e la felicità di Roma sono finite con l'ascesa di questo Papa, e torneranno solo alla sua morte. Gli spettacoli teatrali sono vietati, il carnevale è stato soppresso. Non lo vedi con i tuoi stessi occhi? Le chiese sono trascurate, i palazzi cadenti, le strade dissestate e gli acquedotti non tengono. I mastri, gli architetti e gli operai non hanno più lavoro e tornano ai loro Paesi. La scrittura e la lettura degli avvisi e le gazzette, a cui proprio tu t'appassioni, sono proibiti; le punizioni sono ancor più dure che in passato. Perfino per Cristina di Svezia, che è venuta a Roma abiurando la religione di Lutèro per la nostra, non si tengono più feste a palazzo Barberini né spettacoli al teatro Tor di Nona. Da quando è arrivato Innocenzo XI, anche la regina Cristina ha dovuto rintanarsi nel suo palazzo». «In passato avete vissuto qui a Roma?» Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Sì, per un periodo» rispose, e subito si corresse «anzi, per più d'uno. Arrivai a Roma nel 1644 a soli sedici anni e studiai con i migliori maestri. Ho avuto l'onore d'essere allievo dell'eccelso Luigi Rossi, il più grande compositore d'Europa di tutti i tempi. Allora, nel palazzo alle Quattro Fontane, i Barberini avevano un teatro da tremila posti e il teatro dei Colonna nel palazzo al Borgo suscitava le invidie di tutte le case regnanti. Gli scenografi portavano nomi eccellentissimi, come lo stesso Gian Lorenzo Bernini, e le scene dei teatri stupivano, commuovevano e dilettavano con apparizioni di pioggia, tramonti, folgori, animali reali e viventi, duelli con ferite vere e vero sangue, palazzi più veri del reale e giardini con fontane da cui sgorgava acqua fresca e chiara». Mi resi conto a quel punto che non avevo ancora chiesto al mio interlocutore se egli fosse stato piuttosto compositore, o organista, o maestro di cappella. Fortunatamente mi trattenni. Il viso pressoché glabro, le movenze insolitamente morbide e muliebri, e massime la voce chiarissima, quasi di fanciullo inaspettatamente giunto alla maturità, mi rivelarono che mi trovavo di fronte a un cantante evirato. L'abate dovette accorgersi del lampo trapelato dal mio sguardo nell'attimo in cui ero stato colto da tale illuminazione. Proseguì tuttavia come se nulla fosse. «Allora non c'erano tanti cantanti come oggi. Per molti era possibile trovare la strada spianata e arrivare a mete lontane e inaspettate. Quanto a me, oltre a possedere il talento che al Cielo era piaciuto concedermi, avevo studiato assai alacremente. Per questo, quasi trent'anni fa, il Granduca di Toscana mio padrone m'inviò a Parigi al seguito del mio maestro Luigi Rossi». Ecco da dove viene quella buffa erre, pensai, su cui sembra calcare con tanto compiacimento. «Vi recaste a Parigi per continuare a studiare?» «Credi che avesse ancora bisogno di studiare chi aveva una lettera di presentazione per il cardinal Mazzarino e per la Regina in persona?» 42/703
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«Ma allora, signor abate, avete avuto l'occasione di cantare per quelle Altezze Reali!» «La regina Anna gradiva il mio canto, potrei dire, non ordinariamente. Le piacevano le arie malinconiche in stile italiano, in cui io perfettissimamente potevo soddisfarla. Non passavano due sere ch'io non andassi a palazzo per servirla, e ogni volta per almeno quattro ore nelle sue stanze non si poteva prender pensiero d'altro che della musica». S'interruppe e alzò lo sguardo fuori dalla finestra, come assente. «Tu non hai mai visitato la Corte di Parigi. Come spiegarti? Tutti quei nobili e cavalieri mi rendevano mille onori, e quando cantavo per la Regina a me pareva d'essere in Paradiso, circondato da mille visi angelici. La Regina giunse a pregare il Granduca di non richiamarmi in Italia, onde poter ancora godere del mio servizio. Il mio padrone, ch'era suo cugino carnale per via di madre, soddisfece la richiesta. Fu la Regina in persona, alcune settimane dopo, a mostrarmi, facendomi grazia del suo soavissimo sorriso, la lettera del mio padrone che mi permetteva di restare a Parigi ancora per un poco. Quando l'ebbi letta, mi sentii quasi morire dal giubilo e dalla contentezza». L'abate era poi tornato sempre più spesso a Parigi, anche al seguito del suo maestro Luigi Rossi, al cui nome ogni volta gli occhi di Atto brillavano di composta commozione. «Oggi il suo nome non dice più nulla. Allora invece tutti lo trattavano per ciò che era: un grande, anzi un grandissimo. Mi volle protagonista nell'Orfeo, l'opera più splendida che si sia mai vista alla Corte francese. Fu un successo memorabile. Avevo solo ventun anni, allora. E, dopo due mesi di repliche, non feci in tempo a tornare a Firenze che Mazzarino dovette pregare di nuovo il Granduca di Toscana di rimandarmi in Francia, tanto la mia voce mancava alla Regina. Fu così che, tornato insieme al seigneur Luigi, ci trovammo in mezzo ai torbidi della Fronda e dovemmo fuggire da Parigi con la Regina, il Cardinale e il piccolo Re». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Avete conosciuto il Re Cristianissimo da bambino!» «E molto bene, anche. In quei terribili mesi di esilio al castello di Saint Germain non si staccava mai da sua madre e se ne stava sempre zittino zittino a sentirmi cantare. Spesso, nei momenti di pausa, cercavo di distrarlo inventando giochi per lui; così Sua Maestà recuperava il sorriso». Ero a un tempo galvanizzato e stordito dalla duplice scoperta. Non solo quel bizzarro pigionante nascondeva un glorioso passato di musico; egli era stato anche in intimità con le Altezze Reali di Francia! In più, era anche uno di quei singolari prodigi della Natura che alle fattezze maschili univano doti canore, e qualità dell'animo, del tutto femminili. Avevo quasi subito notato il timbro insolitamente argentino della sua voce. Ma non m'ero soffermato a sufficienza su altri dettagli, credendo che potesse trattarsi d'un semplice sodomita. Mi ero invece imbattuto in un castrato. Sapevo in verità che, per conquistare i loro straordinari mezzi vocali, i cantori evirati s'erano dovuti sottoporre a un'operazione dolorosa e irreversibile. Pur tralasciando la mesta vicenda del pio Origene, che per raggiungere la suprema virtù spirituale si era volontariamente privato delle parti maschili, avevo udito che la dottrina cristiana condannava sin dalle origini la castrazione. Ma il caso voleva che proprio a Roma i servigi dei castrati fossero altamente apprezzati e ricercati. Tutti sapevano che la Cappella Vaticana soleva utilizzare stabilmente i castrati, e talvolta avevo udito i più anziani del rione commentare scherzosamente il motivetto accennato da una lavandaia dicendole: «Canti come Rosini» oppure: «Sei meglio di Folignato». Alludevano ai castrati che decenni innanzi avevano allietato le orecchie di papa Clemente VIII. Ancora più spesso avevo sentito fare il nome di Loreto Vittori, la cui voce sapevo aveva la capacità d'incantare. Tanto che papa Urbano VIII, incurante della natura ambigua di Loreto, lo aveva nominato Cavaliere della Milizia di Cristo. Poco importava che in più occasioni il Sacro Soglio avesse minac44/703
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ciato la scomunica per chi praticava l'evirazione. E ancor meno importava che la femminea avvenenza dei castrati fosse di turbamento agli spettatori. Dalle chiacchiere e dagli scherzi dei miei coetanei avevo appreso che bastava percorrere poche decine di metri dalla locanda per trovare la bottega d'un barbiere compiacente, sempre disponibile a effettuare l'orrenda mutilazione, purché la ricompensa fosse adeguata e il segreto venisse mantenuto. «Perché meravigliarsi?» disse Melani richiamandomi da tali silenziose considerazioni. «Non deve stupire che una Regina preferisca la mia voce a quella, Iddio mi perdoni, d'una canterina qualsiasi. A Parigi spesso si esibiva al mio fianco una cantante italiana, una certa Leonora Baroni, che si dava tanto da fare. Oggi nessuno si rammenta più di lei. Ricorda ragazzo: se alle donne ai nostri giorni non è permesso cantare in pubblico, come giustamente voleva San Paolo, non è certo un caso». Alzò il bicchiere come per brindare, e recitò solennemente: Toi, qui sais mieux que aucun le succés que jadis les pièces de musique eurent dédans Paris, que dis-tu de l'ardeur dont la cour échauffée frondoit en ce temps-là les grand concerts d'Orphée, les passages d'Atto et de Leonora, et le déchainement qu'on a pour l'Opéra?
Tacqui, limitandomi a uno sguardo interrogativo. «Jean de La Fontaine» disse con enfasi. «Il più grande poeta di Francia». «E, se ho udito bene, ha scritto di voi!» «Sì. E un altro poeta, toscano questa volta, disse che il canto di Atto Melani poteva esser anche rimedio contro il morso delle vipere». «Un altro poeta?» «Francesco Redi, il più grande uomo di lettere e di scienza della Toscana. Queste erano le muse sulle cui labbra viaggiava Imprimatur - Monaldi & Sorti
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il mio nome, ragazzo». «Vi esibite ancora per i Reali di Francia?» «Una volta svanita la giovinezza, la voce è la prima delle virtù del corpo a farsi inaffidabile. Da giovane però ho cantato nelle Corti di tutta Europa, e ho quindi avuto occasione di conoscere molti Principi. Oggi essi si compiacciono di chiedermi consiglio, quando devono prendere decisioni importanti». «Siete un... abate consigliere, dunque?» «Sì, diciamo così». «Sarete spesso a Corte, a Parigi». «La Corte ora è a Versailles, ragazzo. Quanto a me, è una lunga storia». E aggrottando la fronte, aggiunse: «Hai mai sentito parlare del signor di Fouquet?». Il nome m'era del tutto sconosciuto, gli risposi. Si versò un altro mezzo bicchiere di vino e tacque. Il suo silenzio non mi trovò in imbarazzo. Restammo così alquanto tempo, senza proferire parola, cullati dalla scintilla di reciproca simpatia. Atto Melani era abbigliato ancora come quella mattina: col crine d'abate, il capperuccio e la sottanella gridellina. L'età (che non dimostrava affatto) lo aveva avvolto d'un sottile velo di pinguedine che gli addolciva il naso un poco adunco e i tratti severi. Il suo viso di biacca, che cedeva al carminio sugli zigomi importanti, diceva d'un perenne contrasto d'istinti: l'ampia fronte corrugata e le sopracciglia sollevate ad arco suggerivano un'indole algida e altera. Ma era solo una posa: la smentivano infatti la piega dispettosa del piccolo labbro contratto e il mento un poco sfuggente ma carnoso, in mezzo al quale campeggiava impertinente una fossetta. Melani si schiarì la voce. Bevve un ultimo sorso e trattenne in bocca il vino, facendolo schioccare tra la lingua e il palato. «Faremo un accordo» disse all'improvviso. «A te serve sapere tutto. Non hai viaggiato, non hai conosciuto, non hai visto. Sei perspicace, certe qualità si notano subito. Ma senza il giusto 46/703
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abbrivio non s'arriva in alcun posto. Ebbene, nei venti giorni di clausura che ci aspettano posso darti tutto ciò di cui hai bisogno. Dovrai semplicemente ascoltarmi, e sempre con attenzione. Tu, in cambio, m'aiuterai». Stupii: «In cosa?». «Che diamine, a scoprire chi ha avvelenato il signor di Mourai!» rispose l'abate come fosse la cosa più ovvia del mondo e fissandomi con un mezzo sorrisetto. «Siete certo che si tratti di veleno?» «Assolutamente» esclamò alzandosi in piedi e voltandosi in cerca di qualcos'altro da metter sotto i denti. «Il povero vecchio deve aver assunto qualcosa di letale. Hai sentito il medico, no?» «E a voi che importa?» «Se non fermeremo in tempo l'assassino, costui mieterà presto altre vittime qui dentro». Il timore mi seccò istantaneamente le fauci, e la poca fame che avevo abbandonò definitivamente il mio povero stomaco. «A proposito» mi chiese Atto Melani «sei proprio sicuro di quanto hai raccontato a Cristofano circa il brodo che hai preparato e servito a Mourai? Non c'è nient'altro che io debba sapere?» Gli ripetei che non avevo mai distolto lo sguardo dalla pentola e io stesso avevo somministrato il brodo, sorso per sorso, al defunto. Era pertanto da escludere ogni intervento esterno. «Sai se avesse preso qualcos'altro prima?» «Direi di no. Quando sono arrivato, si era alzato da poco e Dulcibeni era già uscito». «E dopo?» «Neanche, credo. Finito di dargli il brodo, gli ho preparato la tinozza per il pediluvio. Quando me ne sono andato, stava sonnecchiando». «Ciò significa solo una cosa» concluse. «Ossia?» «Che lo hai ucciso tu». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Mi sorrise. Aveva scherzato. «Vi servirò in tutto» promisi di getto, con le gote già a fuoco, combattuto tra l'emozione della sfida e la paura del pericolo. «Bravo. Per cominciare potresti dirmi tutto ciò che sai degli altri pigionanti e se nei giorni scorsi hai notato qualcosa d'insolito. Hai udito qualche discorso bizzarro? Qualcuno si è assentato per lunghi periodi? Sono state consegnate o spedite lettere?» Risposi che sapevo ben poco, a parte che Brenozzi, Bedfordi e Stilone Priàso avevano già alloggiato al Donzello ai tempi della signora Luigia buonanima. Gli riferii poi, non senza qualche esitazione, che m'era parso d'intendere che padre Robleda, il gesuita, s'era recato nottetempo nelle stanze di Cloridia. L'abate si limitò a una risatina. «Ragazzo, d'ora in poi terrai gli occhi aperti. Soprattutto sui due compagni di viaggio del vecchio Mourai: quel musico francese, Roberto Devizé, e Pompeo Dulcibeni, il marchigiano». Mi vide con gli occhi bassi e proseguì: «So cosa stai pensando: volevo fare il gazzettante, non la spia. Sappi dunque che i due mestieri non sono poi così diversi». «Ma bisogna conoscere tutto ciò che mi avete nominato poc'anzi? I quietisti, gli articoli gallicani...». «Questa è una domanda sbagliata. Alcuni gazzettanti sono arrivati lontano ma sanno poco: solo le cose veramente importanti». «E quali sono?» «Quelle che non scriveranno mai. Ma ne riparleremo domani. Ora andiamo a dormire». Mentre risalivamo le scale, sbirciai in silenzio il volto bianco dell'abate al chiarore della lampada: avevo in lui il mio nuovo maestro, e ne assaporavo tutta l'eccitazione. Era accaduto in gran fretta, sì, ma oscuramente avvertivo che un e simile segreto piacere aveva pervaso Melani nell'avere in me il suo discepolo. Almeno finché fosse durata la quarantena. L'abate si voltò verso di me prima che ci lasciassimo, e mi 48/703
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sorrise. Poi sparì nel corridoio del secondo piano, senza una parola.
Trascorsi buona parte della nottata a cucire insieme dei vecchi fogli puliti, racimolati dal tavolo dei conti del mio padrone, e poi a vergare su di essi i recenti avvenimenti di cui ero stato testimone. Avevo deciso: non mi sarei perso una sola parola di quanto l'abate Melani m'avrebbe appreso. Tutto avrei trascritto e conservato gelosamente. Senza l'aiuto di quegli antichi appunti oggi, a sedici anni di distanza da quei giorni, non potrei star qui a compilare questa memoria.
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Giornata seconda. 12 settembre 1683
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l mattino seguente fu segnato da un inatteso risveglio. Fui io stesso a trovare il signor Pellegrino addormentato nel suo letto, nella stanza che condividevamo nel sottotetto. Non aveva provveduto a preparare alcunché per i pigionanti: cosa che, nonostante l'eccezionalità della situazione, gli era comunque richiesta. Il mio padrone, con indosso i vestiti della sera prima e malamente accasciato sulle coltri, aveva tutta l'aria d'essere caduto nel sonno preda di qualche vinello rosso. Dopo averlo destato a fatica, mi recai nella cucina. Mentre scendevo le scale, sentii farsi sempre più vicina una nube lontana di suoni, dapprima confusa ancorché piacevole. Appressandomi all'ingresso della sala da pranzo attigua alla cucina, la musica si faceva sempre più chiara e intelligibile. Era il signor Devizé che, malamente issatosi su uno sgabello di legno, s'esercitava al suo istrumento. Uno strano incantesimo rapiva tutti alle note di Devizé. Mentre suonava, il piacere dell'ascolto si univa a quello della vista. Il suo giustacuore di fine buratto color isabella e le vesti scevre da nappe, gli occhi mutevoli tra il verde e il grigio, l'esile chioma cinerina: tutto in lui pareva voler cedere il passo ai vividi toni che, con soverchio cromatismo, sapeva trarre dalle sei corde. Svanita nell'aria l'ultima nota, l'incantesimo si rompeva e restava davanti ai nostri occhi un ometto rosso e ingrugnato, quasi scorbutico, dai tratti minuti, un piccolo naso all'ingiù sulla bocca carnosetta e permalosa, il fisico breve e taurino d'un antico Germano, l'andatura marziale, i modi bruschi. 50/703
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Non fece molto caso al mio arrivo, e dopo una breve pausa riprese a suonare. Subito dalle sue dita si sprigionò non semplicemente una musica, ma una mirabile architettura di suoni che tuttora potrei esattamente descrivere, se il Cielo me ne desse le parole, e non solo la memoria. Era dapprima un motivo semplicetto e innocente, che a mo' di danza passava arpeggiando dall'accordo della tonalità a quello della dominante (così avrebbe poi spiegato l'abile esecutore a me, all'epoca ancor ignaro dell'arte dei suoni), e poi riprendeva tale movimento, e dopo un sorprendente salto di cadenza evitata, ripeteva il tutto. Ma questo non era che la prima d'una ricca e sorprendente collezione di gemme che, come il signor Devizé m'avrebbe poi spiegato, si chiamava rondò e si componeva appunto di quella prima strofa ripetuta più volte, ma ogni volta seguita da una nuova preziosa gioia, questa del tutto inedita e risplendente di luce propria. Come ogni altro rondò, quello che avrei ascoltato molte altre volte veniva coronato dall'estrema e conclusiva ripetizione della prima strofa, quasi a dare significato e completezza e riposo al tutto. Ma l'innocenza e semplicità, benché deliziosa, di quella prima strofa, nulla sarebbe stata se privata del concerto sublime delle altre, che una dopo l'altra, ritornello dopo ritornello, s'ergevano su per la mirabile costruzione sempre più libere, imprevedibili, squisite e audaci. Talché l'ultima d'esse era per l'intelletto e per le orecchie una sfida dolcissima ed estrema, come quelle che per questioni d'onore si lanciano tra cavalieri. L'arpeggio finale, dopo essersi aggirato con circospezione e quasi timidamente verso le note basse, compiva un'improvvisa ascesa verso gli acuti, per poi balzare verso gli altissimi, trasformando il suo incedere tortuoso e timido in un chiarissimo fiume di bellezza, nel quale scioglieva la sua chioma d'armonia con una mirabile progressione verso il basso. Ove poi si tratteneva, assorto in assai misteriose e ineffabili armonie, che al mio orecchio suonarono proibite e impossibili (per queste soprattutto mi difettano le parole); e infine si placava di malavoImprimatur - Monaldi & Sorti
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glia, per fare spazio all'estrema ripetizione della strofa iniziale. Ascoltai rapito senza proferire verbo, finché il musico francese non ebbe spento l'ultima eco del suo istrumento. Mi guardò. «Suonate davvero bene il liuto» azzardai timidamente. «Anzitutto non è un liuto» rispose «è una chitarra. E poi non t'interessa come suono io. A te piace questa musica. Si vede da come ascolti. E hai ragione: vado piuttosto fiero di questo rondò». E qui mi spiegò com'era fatto un rondò, e in cosa si differenziasse dagli altri quello che aveva appena suonato. «Quello che hai ascoltato è un rondò in stile brisé, che in italiano si dice, credo, spezzato. Ossia, a imitazione del liuto: gli accordi non sono suonati tutt'insieme ma arpeggiati». «Ah, ecco» commentai smarrito. Dalla mia espressione Devizé dovette capire quanto poco soddisfacente fosse la sua spiegazione, e proseguì col dire che quel rondò piaceva tanto poiché, mentre il ritornello era scritto secondo le buone antiche norme della consonanza, le strofe alterne contenevano sempre nuovi cimenti armonici, che si concludevano tutti in modo inatteso, quasi fossero estranei alla buona dottrina musicale. E dopo essere arrivato al suo massimo, il rondò iniziava bruscamente la sua fine. Gli chiesi come mai parlasse la mia lingua così scioltamente (ancorché con forte accento francese, ma questo lo tacqui). «Ho viaggiato molto, e ho conosciuto molti italiani che, per inclinazione e per pratica, stimo essere i migliori musici del mondo. A Roma purtroppo il Papa ha fatto chiudere già da anni il teatro Tor di Nona, che stava proprio qui a due passi dalla locanda; ma a Bologna, nella cappella di San Petronio, e a Firenze si possono ascoltare tanti bravi musici e molte opere nuove e magnifiche. Persino il nostro grande maestro Giovan Battista Lulli, che fa la gloria del Re a Versailles, è fiorentino. Io conosco soprattutto Venezia, ch'è per la musica la più florida di tutte le città italiane. Adoro i teatri di Venezia: il San Cassiano, il San 52/703
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Salvatore, o il famoso teatro del Cocomero dove, prima di andare a Napoli, ho assistito a un concerto meraviglioso». «Contavate di rimanere a lungo qui a Roma?» «Ora purtroppo non importa più cosa avessi progettato. Non sappiamo neppure se usciremo vivi da qui dentro» disse riprendendo a suonare un brano che mi disse essere tratto proprio da una ciaccona del maestro Lulli. Appena uscito dalla cucina, ove dopo la conversazione con Devizé m'ero chiuso ad approntare il pranzo, m'imbattei in Brenozzi, il vetraio veneziano. Lo avvisai che, se voleva un pasto caldo, era tutto già pronto. Ma egli, senza proferire parola, m'afferrò e mi trascinò giù per la rampa che conduceva in cantina. Non appena cercai di protestare, mi tappò la bocca con una mano. Ci fermammo a metà delle scale, e subito m'incalzò: «Sta' calmo e ascolta, non ti spaventare, mi devi solo dire alcune cose». Sibilava con voce strozzata, senza darmi la possibilità d'aprir bocca. Voleva conoscere i commenti degli altri pigionanti sulla morte del signor di Mourai, e se si ritenesse che vi fosse pericolo di una nuova morte per veleno o per altra cagione, e se qualcuno in particolare paventasse tale eventualità, e se invece altri sembrassero non paventare alcunché, e quanto potesse a mia conoscenza durare la quarantena, se più dei venti giorni stabiliti dal Magistrato, e se sospettassi che uno o più ospiti possedessero veleni o addirittura ritenessi che di tali sostanze fosse stato fatto veramente uso; e infine, se qualcuno dei presenti tutti si dimostrasse inspiegabilmente tranquillo a dispetto della quarantena che era stata appena imposta alla locanda. «Signore, in verità io ...». «I Turchi? Hanno parlato dei Turchi? E della peste a Vienna?» «Ma io non so nulla, non...». «Ora smetti di parlare una buona volta e rispondimi» incalzò molestandosi con insofferenza il batocchio. «Margarite: ti Imprimatur - Monaldi & Sorti
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dice niente?» «Come, signore?» «Margarite». «Se volete, signore, ne ho di secche in cantina per fare infusi. Vi sentite male?» Sbuffò e alzò gli occhi al cielo. «Fa' finta che non ti abbia detto niente. Una cosa sola ti ordino: a chi ti chiedesse, tu di me non sai niente, intesi?» e mi strinse forte ambo le mani fino a farmi male. Ristetti a guardarlo, interdetto. «Intesi?» ripetè spazientito. «Che fa, non ti basta?» Non afferrai il senso della sua ultima domanda e cominciai a temere che fosse fuori di senno. Mi divincolai dalla sua stretta e sgattaiolai su per la scala, mentre il mio rapitore cercava con uno strattone di trattenermi. Riemersi dalla semioscurità mentre la chitarra di Devizé riprendeva a suonare lo splendido e inquietante motivo che avevo udito in precedenza. Anziché trattenermi, però, m'affrettai al primo piano. Avevo ancora i pugni stretti per la tensione provocatami dall'assalto del vetraio, e fu per questo che solo allora avvertii qualcosa in una mano. La schiusi e vidi tre perline di mirabile lucentezza. Le infilai in tasca e mi diressi alla stanza ov'era deceduto il signor di Mourai. Qui trovai alcuni dei nostri pigionanti intenti a una tristissima opera. Cristofano stava trasportando il corpo del defunto, avvolto in un panno bianco a mo' di sudario, sotto al quale s'intuiva la rigidità mortale delle membra. Al medico davano manforte il signor Pellegrino e, in assenza di volontari di più verde età, Dulcibeni e Atto Melani. L'abate era senza parrucca né biacca in viso. Mi stupii di trovarlo in abiti secolari - le culotte di papalina e la cravatta di mussola - esageratamente elegante per la triste occasione. Unico tratto rimasto a contraddistinguere il suo titolo, le calze di seta rosso fuoco. Il povero corpo venne adagiato su un grande cesto oblungo, rincalzato con stracci e coperte. Sopra venne posto il fardello con le sue poche cose, raccolte da Dulcibeni. 54/703
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«Non possedeva altro?» chiese l'abate Melani, avvedendosi che il gentiluomo fermano aveva consegnato solo qualche abito del defunto. Rispose Cristofano, dicendo ch'era obbligatorio consegnare solo il vestiario, mentre il resto poteva senz'altro restar in mano di Dulcibeni per farlo pervenire agli eventuali parenti. Poi i tre calarono il corpo con una grossa fune attraverso la finestra fin sulla strada, dove la Compagnia dell'Orazione e Morte attendeva il suo triste carico. «Cosa faranno del morto, signor Cristofano?» chiesi al medico. «Lo bruceranno, è vero?» «Non è più affar nostro. Seppellirlo non si poteva» disse tirando il fiato. Udimmo un lieve tintinnio. Cristofano si chinò a terra. «T'è caduto qualcosa... ma cos'hai in mano?» chiese. Dal mio pugno semiaperto era scivolata sul pavimento una perlina. Il medico la raccolse e la studiò. «Splendida davvero. Dove l'hai presa?» «Oh, sono il deposito di un cliente» mentii mostrandogli le altre due. Il mio padrone nel frattempo usciva dalla stanza. Sembrava affaticato. Anche Atto venne via e si diresse verso la propria camera. «Male. Non ci si dovrebbe mai separare dalle perle, massime nel nostro caso». «Perché?» «Tra le loro numerose e occulte virtù, preservano dal veleno». «Com'è possibile?» chiesi impallidendo. «Perché sono siccae et frigidae in secondo grado» rispose Cristofano «e, se ben conservate in un vaso e non perforate, habent detergentem facultatem, e possono astergere in presenza di febbri e di putredine. Purgano e chiarificano il sangue (infatti restringono il mestruo) e, secondo Avicenna, curano il cor crassatum, le palpitazioni e le sincopi cardiache». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Mentre Cristofano faceva sfoggio di sapienza medica, non riuscivo a capacitarmi: quale oscuro segnale nascondeva dunque il dono di Brenozzi? Ne dovevo assolutamente parlare con l'abate Melani, pensai, e cercai di congedarmi dal medico. «Interessante» aggiunse però Cristofano scrutandole e rigirandole attentamente tra i polpastrelli «le perle di questa forma indicano che sono state pescate prima del plenilunio, e in acqua vespertina». «E cosa significa?» «Che curano le false immaginazioni dell'animo e cogitazioni. Se sciolte nell'aceto fanno rinvenire da omni imbecillitate et animi deliquio, soprattutto dalla morte apparente». Riebbi infine le perline da Cristofano, dal quale così mi separai. Salii le scale di corsa diretto alla stanza dell'abate Melani. La camera di Atto era al secondo piano, proprio sopra a quella che il vecchio Mourai condivideva con Dulcibeni. Erano queste le più ampie e luminose stanze di tutta la locanda: godevano ognuna di ben tre finestre, di cui due affacciate su via dell'Orso e una sull'angolo col vicolo. Ai tempi della signora Luigia v'avevano soggiornato importanti personaggi col loro seguito. V'era una stanza identica anche nel sottotetto che costituiva il terzo e ultimo piano, dove aveva già alloggiato la signora Luigia. Qui, nonostante il divieto di Cristofano, continuavamo a coabitare, pur temporaneamente, il mio padrone e io: un privilegio che avrei perso al ritorno della moglie del signor Pellegrino, la quale, avendo preteso di riservare tutto il piano alla famiglia, m'avrebbe certamente relegato di nuovo a dormire in cucina. Fui colpito dalla varietà di libri e carte d'ogni sorta che l'abate aveva portato con sé. Atto Melani era un amante delle antichità e delle bellezze di Roma, almeno a giudicare dai titoli di alcuni dei volumi che potei intravedere ben ordinati su uno scaffale, e che più tardi in ben altro modo avrei imparato a conoscere: Lo splendore dell'antica e moderna Roma nel quale si rappresentano tutti i principali templi, teatri, anfiteatri, cerchi, 56/703
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naumachie, archi trionfali, obelischi, palagii, terme, curie e basiliche del Lauri, la Chemnicensis Roma del Fabricius, e le Antichità dell'alma città di Roma raccolte brevemente da molti autori antichi e moderni e aggiuntovi un discorso sopra i fuochi degli antichi di Andrea Palladio. Spiccavano poi nove grandi carte di geografia con bastoni color di canna d'India e pomi dorati, più un mazzo di carte manoscritte che Melani teneva sul tavolo e che ripose rapidamente. Mi fece sedere. «Ti volevo appunto parlare. Dimmi: hai conoscenze in questo rione? Amici, confidenti?» «Credo... eh, no. Quasi nessuno, signor abate Melani». «Puoi chiamarmi signor Atto. Peccato. Avrei voluto sapere, magari dalla finestra, cosa si dice a proposito della nostra situazione; e tu eri l'unica mia speranza» disse. S'accostò alla finestra, e con voce soavissima e appena trattenuta iniziò a cantare: Disperate speranze, addio, addio. Ahi, mentite speranze, andate a volo.
L'estemporaneo saggio di virtuosismo dell'abate mi lasciò stupefatto e ammirato: malgrado l'età, Melani conservava un timbro assai leggiadro di soprano. Mi complimentai e gli chiesi se fosse lui l'autore della splendida cantata che aveva appena accennato. «No, è del seigneur Luigi Rossi, mio maestro» rispose distrattamente. «Ma dimmi, dimmi piuttosto, com'è andata la mattinata? Hai notato qualcosa di bizzarro?» «Mi è accaduto un episodio assai curioso, signor Atto. Avevo appena avuto una piccola conversazione con Devizé, quando…» «Ah, Devizé, appunto di lui volevo parlarti. Stava suonando?» Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Sì, ma...» «È bravo. Piace molto al Re. Sua Maestà adora la chitarra almeno quanto un tempo, da giovane, adorava ascoltare l'opera e mettersi in mostra nei balletti di Corte. Bei tempi. E cosa ti ha detto Devizé?» Capii che, se non avessi prima esaurito l'argomento musicale, non mi avrebbe lasciato proseguire. Gli dissi così del rondò ascoltato dalle corde del musico francese, il quale m'aveva raccontato d'aver udito la musica italiana in molti teatri, soprattutto a Venezia, dov'era il famoso teatro del Cocomero. «Il teatro del Cocomero? Sei sicuro di ricordare bene?» «Be', sì, è un nome così... insomma, è un nome strano per un teatro. Devizé mi ha detto di esserci stato subito prima di andare a Napoli. Perché?» «Oh, nulla. È solo che il tuo chitarrista racconta un po' di panzane, ma senza prepararle bene». Rimasi di stucco: «Come fate a dirlo?». «Il Cocomero è un magnifico teatro, dove in effetti si esibiscono molti splendidi virtuosi. Per dirla tutta, ci ho cantato anch'io. Ricordo che una volta l'organizzatore mi voleva rifilare la parte di Apelle nell'Alessandro vincitor di se stesso. Io ovviamente mi sono impuntato e mi hanno dato il ruolo del protagonista, ah ah. Un gran bel teatro, il Cocomero. Peccato che si trovi a Firenze, e non a Venezia». «Ma... Devizé ha detto di esserci andato prima di recarsi a Napoli». «Appunto. Poco tempo fa, quindi, visto che poi da Napoli è venuto direttamente a Roma. Ma è una balla: un teatro con quel nome resta impresso nella memoria, come infatti è successo a te. Difficile collocarlo nella città sbagliata. Te lo dico io: Devizé al Cocomero non ci ha mai messo piede. E forse neanche a Venezia». Restai sgomento di fronte alla rivelazione di quella piccola, ma allarmante bugia del musicista francese. «Ma va' pure avanti» riprese l'abate. «Mi dicevi poc'anzi che 58/703
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t'è capitato qualcosa di strano, se non sbaglio». Potei finalmente riferire ad Atto delle domande fattemi con tanta insistenza dal veneziano Brenozzi nonché della sua bizzarra richiesta di margarite e del misterioso dono di tre perline, che Cristofano aveva riconosciuto esser del tipo usato per curare avvelenamenti e morte apparente. Per il qual motivo, temevo che quelle piccole gioie avessero a che vedere con la morte del signor di Mourai, e forse Brenozzi sapeva qualcosa, ma aveva avuto paura di parlare chiaramente. Mostrai le perle a Melani. L'abate diede loro un'occhiata e rise di gusto. «Ragazzo mio, non credo proprio che il povero signor di Mourai...» iniziò a dire scuotendo il capo; ma venne interrotto da un grido acutissimo. Sembrava provenire dal piano superiore. Ci precipitammo nel corridoio, e poi su per le scale. Ci arrestammo a metà della seconda rampa dove giaceva, riverso sui gradini, il corpo esanime del signor Pellegrino. Alle nostre spalle stavano accorrendo anche gli altri pigionanti. Dal capo del mio padrone partiva un rivolo di sangue che scendeva per un paio di gradini. Il grido al di là d'ogni dubbio era partito dalla bocca di Cloridia la cortigiana, che guardava tremante, con un fazzoletto a coprire quasi tutto il viso, il corpo apparentemente privo di vita. Dietro di noi, ancora immobili, si fece largo il medico Cristofano. Con una pezzuola scostò i lunghi capelli bianchi dal volto del mio padrone e fu allora che esso sembrò rianimarsi e, in un grave sussulto, vomitò dalla bocca una massa verdastra e puzzolentissima. Dopodiché il signor Pellegrino si giacque a terra senza segno di vita. «Prendiamolo e portiamolo su in camera sua» esortò Cristofano chinandosi sul mio padrone. Nessuno si mosse tranne me, che cercai, con scarsi risultati, di sollevargli il busto. Mi sostituì, spingendomi da una parte, l'abate Melani. «Tienigli la testa» ordinò. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Il medico prese Pellegrino per le gambe e, fattici largo tra il silenzio generale, lo trasportammo fino alla grande camera nel sottotetto, ove lo adagiammo sul letto. Il viso rigido del mio padrone era d'un pallore innaturale, e la pelle del volto coperta d'un sottile velo di sudore. Sembrava di cera. Gli occhi sbarrati fissavano il soffitto, sotto di essi due borse livide. Una ferita all'altezza della fronte era stata appena pulita dal medico, rivelando una lesione lunga e profonda, che ai lati lasciava intravedere l'osso del cranio, probabilmente leso da un forte colpo. Il mio padrone, tuttavia, non era morto: rantolava sommessamente. «È caduto lungo le scale e ha sbattuto lo testa. Ma temo che fosse già privo di conoscenza». «Come sarebbe a dire?» chiese Atto. Cristofano esitò prima di rispondere: «È rimasto vittima dell'attacco d'un male che non ho ancora identificato con certezza. Comunque, una crisi fulminante». «Come sarebbe a dire» ripetè Atto alzando un poco il tono della voce «anche costui avvelenato, forse?» A quelle parole fui scosso da un brivido e mi sovvennero le parole dell'abate la notte prima: se non lo avessimo fermato in tempo, l'assassino avrebbe presto mietuto altre vittime. E forse ora, ben prima di quanto ci aspettassimo, aveva già colpito il mio padrone. Il medico, tuttavia, scosse il capo alla domanda di Melani e liberò il collo di Pellegrino dal fazzoletto che usava portare annodato sopra la camicia: due macchie bluastre e rigonfie si rivelarono sotto l'orecchio sinistro. «Dalla rigidità generale sembrerebbe trattarsi dello stesso male del vecchio Mourai. Ma queste» proseguì indicando i due bubboni «queste qui... Eppure non mi sembrava…» Capimmo che Cristofano pensava alla peste. Ci ritraemmo tutti istintivamente, qualcuno invocò il Cielo. «Era sudato, probabilmente aveva la febbre. Quando abbiamo calato in strada il corpo del signor di Mourai s'è stancato 60/703
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con troppa facilità». «Se è peste, non ne avrà per molto». «Tuttavia...» proseguì chinandosi di nuovo sui due rigonfiamenti scuri sul collo del mio padrone «tuttavia esiste la possibilità che si tratti d'altra infermità simile, ma non altrettanto disperante. Per esempio, le petecchie». «Le cosa?» interloquirono padre Robleda e Stilone Priàso il poeta. «In Ispagna, padre, le chiamate tabardillo, mentre nel Regno di Napoli sono dette pastici, e a Milano segni» spiegò Cristofano rivolgendosi prima all'uno e poi all'altro. «È morbo causato da sangue corrotto per indisposizione di stomaco. Pellegrino, infatti, ha vomitato. La peste incomincia con grandissimo empito, mentre le petecchie con lievissimi accidenti, come la lassitudine e la stornità di testa (che ho rilevato in lui appunto stamane). Si va poi aggravando e causa i sintomi più diversi, finché manda per tutto il corpo chiazze rosse, pavonazze, o nere come queste due. Le quali, è vero, sono troppo gonfie per esser petecchie, ma anche troppo piccole per esser giandusse, ossia bubboni di peste». «Ma» intervenne Cloridia «che Pellegrino sia svenuto così repentinamente non è segno certo di peste?» «Non sappiamo bene se ha perso conoscenza per la botta in testa o per il morbo» sospirò il medico «comunque la verità ce la diranno domani queste due macchie qui, che purtroppo, dicevo, sono ben nere, e indicano che il morbo è maggiore e con più putredine». «Insomma» interruppe padre Robleda «è contagioso o no?» «Il morbo delle petecchie è causato da tanta calidità e siccità, e pertanto viene facillime ai temperamenti collerici, come appunto Pellegrino. Capirete di qui l'importanza, per scansare il contagio, di non agitarsi né smaniare» e qui guardò significativamente il gesuita. «Il male dissecca ed estingue in breve spazio l'umido radicale nei corpi, e infine può ammazzare. Ma se si dà sostanza al corpo indebolito del malato, esso ammazza in sé Imprimatur - Monaldi & Sorti
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la contagiosità e pochissimi periranno: per questo è meno grave della peste. Comunque, quasi tutti lo abbiamo avvicinato nelle ultime ore. E tutti pertanto corriamo dei rischi. È opportuno che rientriate nelle vostre stanze, io vi visiterò più tardi uno per uno. Cercate di mantenere la calma». Cristofano mi chiamò poi a sé per aiutarlo. «È stato un bene che Pellegrino abbia vomitato subito: il vomito evacua le materie dello stomaco atte a putrefarsi e a corrompersi a causa degli umori» mi disse appena gli fui accanto. «D'ora in avanti bisognerà nutrire il malato con cibi frigidi, che raffrescano l'indole collerica». «Gli farà un salasso?» domandai, avendo udito come tale rimedio fosse universalmente raccomandato per ogni male. «Da scansare assolutamente: il salasso potrebbe raffreddare troppo il calor naturale e l'infermo morrebbe con prestezza». Rabbrividii. «Per fortuna» continuò Cristofano «ho con me erbe, balsami, acque, polveri e quant'altro mi serve in caso di morbi. Aiutami a spogliare del tutto il tuo padrone, ché lo devo ungere con l'unzione da morbilli, come Galeno chiama le petecchie, che penetra e conserva il corpo dalla corruzione e putrefazione». Uscì e tornò poco dopo con una raccolta d'ampolline. Piegati diligentemente in un cantuccio il grembiulone grigio e gli abiti del signor Pellegrino, chiesi: «Forse allora la morte di Mourai è dovuta alla peste o alle petecchie?». «Non ho trovato l'ombra d'una macchiolina sul vecchio francese» fu la brusca risposta «comunque ora è tardi per saperlo. Abbiamo dato via il corpo». E si chiuse nella camera col mio padrone.
I momenti successivi furono a dir poco convulsi. Quasi tutti reagirono alla sventura del locandiere con accenti di disperazione. La morte dell'anziano pigionante francese, attribuita dal 62/703
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medico al veleno, non aveva certo gettato la compagnia in tale sgomento. Dopo aver ripulito le scale dai liquami del mio padrone, il pensiero mi corse al benessere dell'anima sua, la quale forse avrebbe presto incontrato l'Onnipotente. Mi sovvenni, a questo proposito, che un editto comandava di porre in ogni stanza delle locande qualche quadro o ritratto di Nostro Signore, ovvero della Beata Vergine, o dei Santi, e un vaso con l'acqua benedetta. Affranto e col cuore tutto rivolto al Cielo affinché non mi privasse dell'affetto del mio padrone, risalii nel sottotetto e mi recai nelle tre stanze rimaste vuote dopo la partenza della moglie del signor Pellegrino per cercare l'acqua santa e qualche sacro ritrattino da appendere sopra al letto dell'infermo. Erano queste le stanze abitate una volta dalla defunta signora Luigia. Erano rimaste pressoché immutate, vista la breve permanenza in esse della famiglia del nuovo locandiere. Dopo aver brevemente cercato, rinvenni nella camera da letto, sopra un tavolino assai polveroso accanto a due reliquiari e a un Agnus Dei di pan di zucchero, racchiuso in una campana di cristallo, una statua in terracotta del Battista che teneva tra le mani un'ampolla in vetro colma d'acqua benedetta. Alle pareti pendevano belle immagini sacre. Rimasi commosso nel mirarle e, ripensando ai tristi accadimenti della mia giovane vita, mi salì il groppo alla gola. Era un male, pensai, che nelle sale da pranzo fossero appesi unicamente soggetti profani ancorché leggiadri: un quadro di frutti, due quadrucci con boscareccia e figurine, altri due in carta pecora bislonghi con vari uccelli, due paesini, due Amorini che spezzano un arco con le ginocchia e infine, unica concessione biblica, una raffigurazione licenziosa di Susanna con i vecchi al bagno. Assorto in tali meditazioni, scelsi un quadretto della Madonna de' Sette Dolori appeso lì nei pressi e tornai verso la stanza dove Cristofano armeggiava ancora attorno al mio povero padrone. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Sistemati in tutto silenzio quadro e acqua santa accanto al letto del malato, sentii venir meno le forze e, accasciatomi in un angolo della camera, piansi. «Coraggio ragazzo, coraggio». Ritrovai nel tono di voce del medico il Cristofano paterno e giocondo che nei giorni passati m'aveva tanto ispirato buona luna. Mi strinse paternamente la testa tra le mani e potei finalmente sfogarmi. Stava morendo colui che m'aveva preso presso di sé, gli spiegai, sottraendomi alla probabile miseria. Era un uomo d'umor bilioso ma buono, il signor Pellegrino, e se anche ero al suo servizio da appena sei mesi, a me pareva d'essere stato con lui da sempre. Che ne sarebbe stato ora di me? Una volta terminata la quarantena, se anche fossi sopravvissuto, mi sarei ritrovato senza alcun mezzo e il nuovo parroco di Santa Maria in Posterula neanche lo conoscevo. «Ora tutti avranno bisogno di te» mi disse rialzandomi di peso da terra. «Sarei venuto io stesso a cercarti, perché dobbiamo calcolare le risorse. Il sussidio che ci verrà dato dalla Congregazione di Sanità sarà comunque assai esiguo, e sarà bene razionare le nostre scorte». Tirando ancora su col naso, lo rassicurai che la dispensa era tutt'altro che vuota, ma lui volle ugualmente esservi condotto. Si trovava nello scantinato e solo io, oltre a Pellegrino, ne possedevo una chiave. D'ora in poi, mi disse Cristofano, avrei custodito entrambe le copie in un luogo conosciuto solo a me e a lui, in modo che nessuno potesse fare man bassa delle provviste. Alla fioca luce che penetrava dalle feritoie, entrammo nella dispensa, che s'estendeva su due livelli. Fortunatamente il mio padrone, da quel gran maestro di cucina e scalcheria ch'era stato, non aveva tralasciato di rifornire la dispensa con gran varietà di profumate caciotte, carni salate e pesci affumicati, legumi e pomodori secchi, oltre a file di orci di vino e d'olio, che deliziarono per un attimo la vista del medico e ne distesero i tratti del viso. Non commentò che con un mezzo sorriso, e proseguì: «Per ogni problema farai capo a me, 64/703
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e mi riferirai se qualcuno ti sembrerà in cattiva salute. Chiaro?». «Ma accadrà anche ad altri quello ch'è successo al signor Pellegrino?» chiesi con le lacrime che tornavano a riempirmi gli occhi. «Speriamo di no. Però bisognerà fare di tutto perché non accada» disse senza guardarmi negli occhi. «Tu intanto, puoi restare a dormire in stanza con lui, come d'altronde hai già fatto la notte passata malgrado le mie disposizioni: è un bene che il tuo padrone abbia chi lo vegli di notte». Mi meravigliai molto che il medico non considerasse la possibilità che così potessi venire contagiato, ma non osai far domande.
Lo accompagnai fino alla sua stanza, al primo piano. Appena svoltammo a destra, ché lì era la camera di Cristofano, avemmo un sussulto: trovammo Atto appoggiato all'uscio. «Cosa fate qui? Credevo d'aver dato chiare disposizioni a tutti» protestò il medico. «So benissimo cosa avete detto. Ma se c'è qualcuno che non ha niente da perdere l'uno dalla compagnia dell'altro, siamo proprio noi tre. Abbiamo trasportato o no il povero Pellegrino? Il garzonetto qui presente ha vissuto gomito a gomito col suo padrone fino a stamattina. Se dovevamo essere contagiati, lo siamo già». Un sottile velo di sudore copriva l'ampia fronte corrugata dell'abate Melani mentre parlava, e la sua voce, malgrado il sarcasmo del tono, tradiva la secchezza delle fauci. «Non è un buon motivo per commettere imprudenze» ribatté Cristofano irrigidendosi. «Lo ammetto» disse Melani. «Ma prima che ci rinchiudiamo in questa sorta di clausura, vorrei capire quante possibilità abbiamo d'uscire vivi da qui. E scommetto...». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Non m'importa cosa scommettete. Gli altri sono già nelle loro stanze». «... scommetto che nessuno sa esattamente cosa organizzare nei prossimi giorni. Che succede se i morti cominciano ad ammucchiarsi? Ce ne sbarazzeremo? In che modo però, se saranno i più deboli a sopravvivere? Siamo certi che le provviste ci verranno fornite? E cosa succede al di fuori di queste mura? Il contagio s'è allargato o no?» «Questo non è...». «Tutto questo è importante, Cristofano. Nessuno va avanti da solo, come voi pensavate di fare. Dobbiamo parlarne, anche se questo dovesse servire solo a rendere meno ingrata la nostra triste condizione». Dalla blanda difesa del medico, avevo capito che le argomentazioni di Atto stavano facendo breccia. A completare l'opera dell'abate giunsero in quel mentre Stilone Priàso e Devizé con l'aria d'avere anch'essi una gran quantità d'ansiosi quesiti per il medico. «D'accordo» cedette Cristofano con un sospiro ancor prima che i due aprissero bocca. «Cosa volete sapere?» «Proprio nulla» rispose Atto facendo boccuccia. «Dobbiamo innanzitutto ragionare insieme: quando ci ammaleremo?» «Be', se e quando avverrà il contagio» rispose il medico. «Oh, suvvia!» ribatté Stilone. «Ammessa l'ipotesi peggiore, ovverossia che si tratti di peste, quando accadrà? Siete voi o no il medico?» «Eh sì, quando?» feci eco io quasi per darmi forza. Cristofano venne punto sul vivo. Sgranò con autorità i tondi occhi neri da barbagianni e, inarcato alquanto un sopracciglio a inequivocabile segno che si stava disponendo a discettare, portò gravemente due dita sul pizzetto del mento. Poi però ci ripensò, e rimandò le spiegazioni a quella sera stessa, essendo sua intenzione, disse, riunirci tutti dopo cena e in tale occasione fornirci qualsivoglia delucidazione. 66/703
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A quel punto l'abate Melani se ne tornò in camera. Cristofano trattenne però Stilone Priàso e Devizé. «M'è parso poco fa d'udire, mentre parlavo, che soffriate d'una certa ventosità d'intestini. Se lo desiderate, ho con me qualche buon rimedio per liberarvi del fastidio». I due assentirono, non senza qualche imbarazzo. Risolvemmo allora di scendere tutti e quattro al pianterreno, ove Cristofano mi comandò di scaldare un poco di buon brodo, col quale sarebbero stati somministrati per bocca quattro grani a testa di olio di solfo. Il medico avrebbe intanto provveduto a ungere la schiena e le reni di Stilone Priàso e Devizé col suo balsamo artificiato. In attesa che Cristofano andasse a prendere l'occorrente, che aveva dimenticato in camera, il francese si pose in un cantuccio all'altro capo della sala ad accordare la chitarra. Sperai che suonasse nuovamente l'intrigante brano che quella mattina m'aveva tanto incantato, ma lo vidi poco dopo alzarsi e tornare verso la cucina, intrattenendosi dietro al tavolo ove sedeva il poeta napoletano, senza più mettere mano all'istrumento. Stilone Priàso aveva tirato fuori un taccuino e vi stava scarabocchiando qualcosa. «Ragazzo, non temere. Non moriremo di peste» disse rivolto a me, che trafficavo in cucina. «Prevedete forse il futuro, signore?» chiese ironicamente Devizé. «Meglio di quanto non sappiano farlo i medici!» scherzò Stilone Priàso. «Il vostro spirito non si adatta a questa locanda» lo ammonì il medico, sopraggiungendo a maniche arrotolate e col balsamo in mano. Il napoletano si scoprì per primo il dorso, mentre Cristofano elencava come al solito le numerose virtù del suo preparato: «... e infine fa bene anche alla carnosità di verga. Basta sfregarlo energicamente sul petenecchio sino ad assorbimento. Il sollievo è certo». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Mentre m'affaccendavo alla rigovernatura e a scaldare il brodo richiestomi, udii che i tre prendevano a conversare sempre più fittamente tra loro. «... Eppure ti ripeto che è lui» sentii sibilare Devizé, facile da riconoscere grazie alla caratteristica pronuncia gallica, che soprattutto nelle parole come carro, guerra o correre ne rendevano inconfondibile l'eloquio. «Non c'è dubbio, non c'è dubbio» gli fece eco con eccitazione Stilone Priàso. «Siamo in tre a riconoscerlo, e ognuno per vie diverse» concluse Cristofano. Mi posi discretamente all'ascolto, senza varcare la soglia che divideva la cucina dalle sale da pranzo. Capii ben presto che parlavano dell'abate Melani, che i tre evidentemente già conoscevano di fama. «Questo è certo: si tratta d'un individuo pericolosissimo» affermò perentoriamente Stilone Priàso. Come sempre quando voleva dare autorità alle proprie parole, fissava severo un punto invisibile davanti a sé grattandosi la gobba del naso col dito mignolo e poi scrollandosi nervosamente le dita della mano come per mondarsi da non si sa qual pulviscolo. «Va tenuto costantemente sotto osservazione» concluse. I tre discutevano senza badare a me, come del resto accadeva con tutti i clienti per i quali un garzonetto era poco più che un'ombra. Appresi così una serie di fatti e circostanze che mi fecero pentire assai d'aver conferito tanto a lungo la notte precedente con l'abate Melani, e soprattutto d'avergli promesso i miei servigi. «E ora è al soldo del Re di Francia?» chiese a bassa voce Stilone Priàso. «Ritengo di sì. Anche se nessuno può dirlo con certezza» rispose Devizé. «Il mestiere preferito di certi personaggi è stare con tutti e con nessuno» aggiunse Cristofano, proseguendo il massaggio e 68/703
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calcando vieppiù con i polpastrelli sulla schiena di Stilone Priàso. «Ha servito più Principi di quanti lui stesso non riesca a ricordare» sibilò Stilone. «A Napoli credo che non lo farebbero neppure entrare in città. Più a destra, grazie» disse rivolto al medico. Appresi così, con indicibile sgomento, il passato oscuro e burrascoso dell'abate Melani. Un passato di cui la notte prima egli non m'aveva fatto parola alcuna. Già nella primissima gioventù Atto era stato ingaggiato dal Granduca di Toscana come cantante evirato (e questo in effetti l'abate me l'aveva detto). Ma non era l'unico lavoro che Melani faceva per il suo padrone: in realtà, lo serviva come spia e corriere segreto. Il canto di Atto, infatti, era ammirato e richiesto in tutte le Corti d'Europa, il che dava al castrato gran credito presso le Corone, oltre a una particolare libertà di movimento. «Con la scusa di intrattenere i Sovrani s'introduceva nelle Corti per spiare, mestare, corrompere» spiegò Devizé. «Per poi riferire tutto ai suoi mandanti» gli fece eco acidamente Stilone Priàso. Oltre ai Medici, ben presto anche il cardinal Mazzarino aveva richiesto i doppi servigi di Atto, grazie agli antichi rapporti d'amicizia tra Firenze e Parigi. Il Cardinale era anzi divenuto il suo principale protettore, e se lo portava dietro persino nelle trattative diplomatiche più delicate. Atto veniva quasi considerato uno di famiglia. Era diventato l'amico del cuore della nipote di Mazzarino, per la quale il Re aveva perso la testa, tanto da volerla sposare. E quando più tardi la ragazza dovette lasciare la Francia, Atto restò il suo confidente. «Poi però Mazzarino morì» riprese Devizé «e per Atto tutto diventò difficile. Sua Maestà era appena diventato maggiorenne, e diffidava di tutti i protetti del Cardinale» spiegò Devizé. «Per di più, Melani venne compromesso dallo scandalo di Fouquet, il Sovrintendente alle Finanze». Trasalii. Non era proprio Fouquet il nome che l'abate Melani Imprimatur - Monaldi & Sorti
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m'aveva fatto di sfuggita la notte prima? «Fu un passo falso» proseguì il musico francese «che il Re Cristianissimo gli ha perdonato solo dopo molto tempo». «Solo un passo falso lo chiami? Ma lui e quel ladrone di Fouquet non erano addirittura amici?» obiettò Cristofano. «Nessuno è riuscito mai a chiarire come stessero veramente le cose. Quando Fouquet venne arrestato, nella sua corrispondenza venne trovato un biglietto con l'ordine di ospitare segretamente Atto a casa sua. Il biglietto venne mostrato dai giudici a Fouquet». «E il Sovrintendente come lo spiegò?» incalzò Stilone Priàso. «Raccontò che, tempo addietro, Atto cercava con urgenza un rifugio sicuro. Quel ficcanaso si era inimicato il potente Duca de La Meilleraye, l'erede della fortuna di Mazzarino. Il Duca, che era un vero esagitato, aveva ottenuto dal Re di far allontanare Melani da Parigi, e aveva già sguinzagliato dei sicari per bastonarlo. Alcuni amici raccomandarono quindi Atto a Fouquet: a casa sua sarebbe stato al sicuro, visto che tra i due non era nota alcuna frequentazione». «Ma allora Atto e Fouquet non si conoscevano!» disse Stilone Priàso. «Non è così semplice» ammonì Devizé con uno scaltro sorrisetto. «Ora sono passati più di vent'anni, e io all'epoca ero un bambino. In seguito però ho letto gli atti del processo a Fouquet, che a Parigi erano più diffusi della Bibbia. Ebbene, ai giudici Fouquet disse: "Di Atto non era nota alcuna frequentazione con me"». «Che furbacchione!» esclamò Stilone. «Una risposta perfetta: nessuno poteva testimoniare d'averli mai visti insieme prima; il che però non esclude che potessero essere segretamente in contatto... Secondo me i due si conoscevano, eccome. Quel biglietto parla chiaro: Atto era uno degli spioni privati di Fouquet». «È possibile» annuì Devizé. «Comunque, con quella risposta ambigua Fouquet ha salvato Melani dal carcere. Atto dormì a 70/703
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casa di Fouquet, e subito dopo partì alla volta di Roma, sfuggendo alle bastonate. A Roma però gli arrivarono altre cattive notizie: l'arresto di Fouquet, lo scandalo, il suo nome infangato, la collera del Re...». «E come se la cavò?» sollecitò Stilone Priàso. «Se la cavò benissimo» s'inserì Cristofano. «A Roma si mise al servizio del cardinal Rospigliosi, che era pistoiese come lui, e che poi è diventato Papa. Tanto che Melani si vanta ancora adesso d'averlo fatto eleggere Pontefice. I pistoiesi le sparano sempre grosse, credetemi». «Può darsi» rispose cauto Devizé. «Ma per fare un Papa bisogna ben manovrare nel Conclave. E durante quel Conclave, ad aiutare Rospigliosi fu proprio Atto Melani. Inoltre papa Rospigliosi fu un ottimo amico della Francia. E si sa che Melani è da sempre amicissimo non solo dei Cardinali più in vista, ma anche dei più potenti ministri francesi». «È un individuo intrigante, infido e temibile» tagliò corto infine Stilone Priàso. Ero al culmine dello stupore. L'individuo di cui parlavano i tre ospiti della locanda era davvero lo stesso con cui m'ero intrattenuto, a qualche metro da quelle stesse sedie, appena la notte prima? Mi s'era presentato come musico, e ora invece mi veniva rivelato come agente segreto, coinvolto in torbide manovre di palazzo, e infine travolto da scandali. Sembrava quasi d'aver conosciuto due persone diverse. Certo, se era vero quanto l'abate stesso m'aveva riferito (e cioè l'essere ancora nelle grazie di numerosi Principi), doveva aver risalito la china. Ma dopo aver udito la conversazione tra Stilone Priàso e Cristofano e Devizé, chi non avrebbe accolto le sue parole con sospetto? «In ogni questione politica di qualche importanza spunta sempre l'abate Melani» ricominciò il musico francese, calcando sulla parola «abate». «Magari si scopre solo tempo dopo che nell'affare è immischiato anche lui. Riesce sempre a infilarsi Imprimatur - Monaldi & Sorti
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ovunque. Atto si trovava tra gli aiutanti di Mazzarino durante le trattative con gli Spagnoli all'isola dei Fagiani, quando venne conclusa la pace dei Pirenei. Lo mandarono anche in Germania, per convincere l'Elettore di Baviera a candidarsi al Trono Imperiale. Ora che l'età non gli consente di viaggiare come prima, cerca di rendersi utile soprattutto inviando al Re relazioni e memorie sulla Corte di Roma, che conosce bene e in cui ha tuttora molti amici. In più d'un affare di Stato pare si siano udite voci a Parigi reclamare con ansia i suggerimenti dell'abate Melani». «Il Re Cristianissimo gli concede udienza?» s'incuriosì Stilone Priàso. «Questo è un altro mistero. Un personaggio dalla così dubbia reputazione non dovrebbe neppure essere ammesso a Corte, e invece Atto intrattiene rapporti diretti con i ministri della Corona. E c'è chi giura di averlo visto sgattaiolare alle ore più impensate dalle stanze del Re. Come se Sua Maestà avesse voluto chiamarlo a colloquio con grande urgenza, e in gran segreto». Era dunque vero che l'abate Melani poteva ottenere udienza presso Sua Maestà il Re di Francia. Almeno su questo punto egli non m'aveva mentito, pensai. «E i suoi fratelli?» domandò Cristofano, mentre m'avvicinavo con una scodella di brodo caldo. «Agiscono sempre in gruppo, come i lupi» commentò Devizé con una smorfia di disapprovazione. «Non appena Atto si sistemò a Roma, dopo l'elezione di Rospigliosi, due dei suoi fratelli lo raggiunsero, e uno di essi diventò subito maestro di cappella a Santa Maria Maggiore. A Pistoia, la loro città, hanno fatto man bassa di benefici e gabelle, e molti pistoiesi giustamente li odiano».
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Non c'erano più dubbi. Non m'ero imbattuto in un abate, ma in un infido sodomita, abile nel carpire la fiducia d'ignari Sovrani, e questo anche grazie all'appoggio furfantesco dei suoi fratelli. Avere promesso di aiutarlo era stato un errore imperdonabile. «È ora ch'io controlli il signor Pellegrino» annunciò Cristofano, dopo aver somministrato ai due compagni di chiacchiera l'olio di solfo col brodo. Solo allora ci accorgemmo che, chissà da quanto tempo, era ridisceso Pompeo Dulcibeni: era rimasto in tutto silenzio seduto in un cantuccio dell'altra sala ad attingere al fiaschetto d'acquavite, che il mio padrone usava tenere su uno dei tavoli attorniato di bicchierini. Di certo, pensai, doveva aver udito la conversazione su Atto Melani. M'accodai dunque al terzetto. Dulcibeni, invece, non si mosse. Giunti al primo piano incontrammo padre Robleda. Il gesuita s'era fatto forza, tenendo a freno la folle paura del contagio, ed era rimasto per un attimo sulla soglia della sua camera, asciugandosi il sudore che schiacciava sulla fronte breve i riccioletti brizzolati, attento a darsi un contegno. Ora s'era spinto appena fuori la stanza, e sostava rigido lungo la parete del corridoio ma senza sfiorarla, restando in tal guisa eretto e buffo. Rimase così a guardarci, nell'ansiosa e tenue speranza d'udire buone nuove dal medico, col peso del suo grande corpo tutto sulle dita dei piedi e il busto esageratamente inarcato all'indietro, onde il profilo della sua nera figura formava una grande linea curva. Non che fosse realmente pingue, se non nella struttura assai tonda del viso bruno e del collo. Era alto, e la moderata prominenza del ventre non lo guastava, bensì gli donava un'aura di saviezza matura. Ma tale bizzarra posa costringeva il gesuita a proiettare gli occhi verso il basso, con le palpebre lievemente calate, se voleva fissare in volto l'interlocutore; il che, unitamente a lunghe e distanziate sopracciglia e alle occhiaie che gli circondavano l'occhio, gli conferiva un'aria di altera noncuranImprimatur - Monaldi & Sorti
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za. Mal gliene incolse, giacché Cristofano appena lo vide lo invitò perentoriamente a seguirci, ché forse Pellegrino avrebbe avuto urgenza d'un sacerdote. Robleda avrebbe voluto obiettare qualcosa, ma non sovvenendogli nulla, si rassegnò a seguirci. Saliti al sottotetto, per gettare un'occhiata al letto di quello che ormai temevamo fosse il cadavere del mio padrone, ci accorgemmo invece che lui era ancora vivo. E ancora rantolava, regolarmente e sommessamente. Le due chiazze, tuttavia, non erano calate né cresciute: la diagnosi restava in bilico tra peste e petecchie. Cristofano provvide a ripulirlo tutto e a rinfrescarlo con pezzuole bagnate, dopo averlo asciugato dai sudori. Al gesuita, rimasto prudentemente fuori dall'uscio, ricordai allora che, stando così le cose, si sarebbe dovuto amministrare il sacramento dell'Estrema Unzione a Pellegrino. L'editto che prevedeva la presenza delle Immagini Sacre nelle locande aggiungeva - precisai - che, se qualcuno si fosse ammalato nelle locande o osterie, lo si confessasse sacramentalmente almeno nel terzo giorno di infermità, se non prima, e che gli si amministrassero gli altri sacramenti. «Eppeppè, sssì, in effetti è così» disse Robleda, tergendosi nervosamente con una pezzuola i riccioli sudati. S'affrettò però ad aggiungere che a norma del precetto ecclesiastico non v'era che il parroco o il sacerdote da lui commesso, che potesse amministrare lecitamente tale sacramento; e se qualche altro prete secolare o regolare volesse amministrarlo, incorrerebbe in peccato mortale e nella scomunica maggiore e non potrebbe essere assolto che dal Papa. Infatti, continuò, l'editto da cui avevo appreso tale buona e giusta prescrizione comandava che a imporre il Santo Olio sulla fronte dei degenti e a bisbigliare le Sacre Litanie al loro povero orecchio fosse il parroco della locale parrocchia, e che a quanto ne sapeva lui, competenti in prima persona per i viaggiatori erano i caritatevoli fratelli della Compagnia della Perseveranza di San Salvatore in Lauro detta delle Coppelle, il cui officio è la cura 74/703
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dei forestieri infermi etcetera etcetera. Infine occorreva olio appositamente benedetto da un vescovo, e lui con sé non ne aveva. Il gesuita conosceva a fondo la questione - disse con un calore che gli faceva ballare il grasso mento - poiché nel Giubileo del 1675 un suo confratello s'era trovato in circostanze analoghe alle nostre, e infatti non era stato lui ad amministrare l'estremo rito. Mentre Robleda ripeteva le sue perplessità al resto del gruppo, in un lampo avevo ritrovato l'editto che Pellegrino teneva in un cassetto insieme a tutte le disposizioni pubbliche a cui sono sottoposti locandieri, osti e bettolieri. Lo scorsi rapidamente: il gesuita aveva ragione. Prese la parola il medico Cristofano, e osservò sommessamente che le dotte e sagge osservazioni di padre Robleda andavano senz'altro accolte alla lettera, poiché si trattava d'un precetto ecclesiastico e d'un editto, rischiandosi finanche la scomunica, e pertanto si sarebbe immediatamente dovuto avvertire il parroco della vicina chiesa di Santa Maria in Posterula che si era verificato un nuovo caso di sospetta contagione. Si sarebbe poi dovuto allertare i caritatevoli fratelli della Compagnia della Perseveranza di San Salvatore in Lauro detta delle Coppelle: nessuna pretermissione era in questo caso ammissibile. Anzi, stando così le cose, aggiunse Cristofano con un guizzo dei suoi tondi e grandi occhi neri, sarebbe stato saggio che ognuno dei pigionanti preparasse tempestivamente le proprie masserizie e bagagli giacché, espletate tali procedure, saremmo stati trasferiti in un luogo sicuro e poi in un lazzeretto. Padre Robleda, rimastosene fin'allora ben quieto dietro noncuranti palpebre a mezz'asta, ebbe un sussulto. Volgemmo tutti lo sguardo verso di lui. Puntati sul pavimento e come appesi al naso spiovente e affilato, gli occhietti neri del gesuita non s'alzarono; quasi padre Robleda temesse di sprecare - appuntando lo sguardo sui visi altrui - le preziose residue forze interne, rabbiosamente volte Imprimatur - Monaldi & Sorti
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al momento a trarlo in segreto fuori d'impaccio. Mi strappò l'editto di mano. «Ma... ecco, ecco. Eh, lo sapevo» disse stringendosi la bocca tra il pollice e l'indice e gonfiando il nero ventre. «In questo editto non si parla dei casi di necessità, come l'assenza, l'impedimento o il ritardo del parroco, nel qual caso qualunque prete potrà amministrare la Sacra Unzione!» Cristofano gli fece notare che niente di tutto ciò era ancora accaduto. «Ma potrebbe accadere» ribatté allargando le braccia in gesto teatrale. «Se chiamassimo i frati della Compagnia della Perseveranza, credete non sarebbero forse capaci di spedirci al lazzeretto senza neanche accostarsi al malato per tema del contagio? Eppoi l'esclusiva competenza del parroco è necessaria per precetto ecclesiastico, ma non lo è giammai stata per precetto divino! È quindi mio im-pro-cra-sti-na-bile dovere impartire al più presto a questo povero fratello agonizzante il Sacro Crisma che toglie le reliquie del peccato e rende più forte l'anima nel sopportare le estreme sofferenze e...» «Ma non avete l'olio benedetto dal vescovo» lo interruppi. «La Chiesa greca, per esempio, ne fa a meno» rispose con sufficienza. E, senza ulteriori spiegazioni, mi comandò di portargli olio d'oliva, come indicava espressamente San Giacomo, ché doveva benedirlo per l'officio; e anche una bacchetta. In capo ad alcuni minuti, padre Robleda era al capezzale di padron Pellegrino a imporgli l'Estrema Unzione. La cosa fu invero rapidissima: intinse la bacchetta nell'olio e badando a restare il più possibile distante dal malato gli unse un orecchio e brontolando rapidamente solo la breve formula Indulgeat tibi Deus quidquìd peccasti per sensus, ben diversa da quella più lunga che tutti conoscevano. «L'Università di Lovanio» si giustificò poi, volgendosi al perplesso uditorio «ha approvato nel 1588 che in caso di contagio sia lecito al sacerdote impartire il Sacro Crisma con una 76/703
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bacchetta, anziché col pollice. E anziché ungere bocca, nari, occhi, orecchie, mani e piedi pronunciando ogni volta la formula canonica Per istas sanctus unctiones, et suam piissimam misericordiam indulgeat tibi Deus quidquìd per visum, auditum, odoratum, gustum, tactum deliquisti, molti teologi di colà hanno ritenuto valido il sacramento con una sola unzione effettuata con prestezza sopra uno degli organi di senso, pronunziando la breve formula universale che avete prima udito». Dopodiché il gesuita s'allontanò di gran fretta. Per non dare nell'occhio attesi che il gruppetto si fosse sciolto, e subito seguii padre Robleda. Lo raggiunsi proprio mentre varcava la porta della propria camera. Ancora mezzo trafelato gli dissi che ero in grande apprensione per l'anima del mio padrone: l'olio aveva mondato la coscienza di Pellegrino dai peccati, affinché egli non corresse il rischio di perire all'Inferno? Oppure occorreva che si confessasse prima di morire? E cosa sarebbe accaduto se non avesse ripreso conoscenza prima del trapasso? «Oh, se è per questo» rispose Robleda sbrigativamente «non ti devi preoccupare: non sarà colpa del tuo padrone, se prima di morire non tornerà in sé quel tanto che basta per poter rendere piena confessione dei suoi peccatucci al Signore». «Lo so» ribattei pronto «ma ci sono anche i peccati mortali, oltre ai peccati veniali...». «Sai forse di qualche peccato grave commesso dal tuo padrone?» chiese il gesuita allarmato. «Che io sappia non è mai andato oltre qualche intemperanza e qualche bicchiere di troppo». «Comunque, perfino se avesse ucciso» disse Robleda facendosi il segno della Croce «questo non vorrebbe dire molto». E mi spiegò che i padri gesuiti, avendo particolare vocazione per il sacramento della confessione, avevano da tempo studiato con gran cura la dottrina del peccato e del perdono: «Vi sono delitti che provocano la morte dell'anima, ed essi sono la magImprimatur - Monaldi & Sorti
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gioranza. Ma ve ne sono anche di parzialmente permessi» disse abbassando verecondamente la voce «o perfino alcuni, beninteso in casi eccezionali, che sono permessi. È una questione di circostanze, e per il confessore ti assicuro che la decisione è sempre cosa difficile». La casistica era sterminata, e andava considerata con grande cautela. Si deve dare l'assoluzione a un figlio che per legittima difesa ammazza il padre? Commette peccato colui che, per evitare di essere giustiziato ingiustamente, uccide un testimonio? E una moglie che uccide il marito, sapendo che lui sta per renderle identico servizio? Può un nobile, per difendere di fronte ai suoi pari l'onore (che è per lui quanto v'è di più importante), assassinare chi lo ha offeso? Commette peccato un soldato se per ordine di un superiore uccide un innocente? Ancora: una donna può prostituirsi per salvare dalla fame i propri figli? «E a rubare, padre, si fa sempre peccato?» insistetti sovvenendomi che le troppo abbondanti prelibatezze della cantina del mio padrone non erano forse tutte di provenienza lecita. «Tutt'altro. Anche qui devi considerare le circostanze interne ed esterne in cui l'atto è compiuto. È cosa certamente diversa se il ricco ruba al povero, o il povero al ricco, o il ricco al ricco o infine il povero al povero e così via». «Ma non ci si può far perdonare in tutti i casi, restituendo ciò che si è rubato?» «Sei troppo frettoloso! L'obbligo di restituzione è cosa importante, certo, e il confessore è tenuto a ricordarlo al fedele che a lui s'affida. Ma l'obbligo può anche essere limitato, o venir meno. Non occorre restituire quanto è stato rubato, se ciò significa impoverirsi: un nobile non può privarsi della servitù, e un cittadino distinto non può certo abbassarsi a lavorare». «Ma se non sono costretto a restituire il maltolto, come dite voi, allora cosa devo fare per ottenere il perdono?» «Dipende. In alcuni casi è bene fare una visita al domicilio dell'offeso, e porgere le proprie scuse». «E le tasse? Cosa accade se non si paga il dovuto?» 78/703
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«Eppeppè, questa è una faccenda delicata. Le tasse rientrano tra le res odiosae, nel senso che nessuno le paga volentieri. Diciamo che è sicuramente peccato non pagare quelle giuste, mentre per le tasse ingiuste bisogna vedere caso per caso». Robleda mi lumeggiò poi su molti altri casi che, senza conoscere la dottrina dei gesuiti, avrei senz'altro giudicato in modo assai diverso: chi è condannato ingiustamente può evadere dal carcere, e può ubriacare i guardiani e aiutare a fuggire i suoi compagni di cella; si può gioire della morte di un genitore che ci lascia una grossa eredità, purché lo si faccia senza odio personale; si possono leggere i libri proibiti dalla Chiesa, ma al massimo per tre giorni e per non più di sei pagine; si può rubare ai genitori senza fare peccato, ma non più di cinquanta monete d'oro; chi infine giura, ma lo fa solo per finta e senza l'intenzione di giurare davvero, non è obbligato a mantenere la parola. «Insomma si può spergiurare!» riassunsi stupito. «Non essere così rozzo. Tutto dipende dall'intenzione. Il peccato è il distacco volontario dalla legge di Dio» recitò solenne Robleda. «Se invece lo si commette solo in apparenza, ma senza volerlo davvero, allora si è salvi». Uscii dalla stanza di Robleda in preda a un misto di spossatezza e inquietudine. Grazie alla sapienza dei gesuiti, pensai, Pellegrino aveva buone probabilità di salvarsi l'anima. Ma da quei discorsi pareva quasi che il bianco si chiamasse nero, che la verità fosse uguale alla menzogna, che bene e male fossero tutt'uno. Forse l'abate Melani non era l'uomo specchiato che voleva far credere. Ma di Robleda, pensai, si doveva ancor più diffidare. L'ora del desinare era ormai passata e i nostri pigionanti, digiuni dalla sera precedente, scesero rapidamente verso la cucina. Dopo che si furono frettolosamente rifocillati con una mia Imprimatur - Monaldi & Sorti
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minestrina di gnocchetti e lupoli che non entusiasmò nessuno, fu Cristofano a riportare la nostra attenzione sul da farsi. Presto saremmo stati chiamati dagli armigeri a comparire in appello alle finestre. Un altro infermo avrebbe di certo convinto la Congregazione di Sanità a decretare il pericolo di contagio pestifero, e in tal caso la quarantena sarebbe stata mantenuta e rafforzata. Forse sarebbe stato improvvisato un lazzeretto, in cui saremmo stati presto o tardi trasferiti. L'ipotesi era tale da far tremare anche i più coraggiosi. «Allora non ci resta che tentare di fuggire» ansimò il vetraio Brenozzi. «Non sarebbe possibile» osservò Cristofano. «Avranno già posto cancelli a chiusura della via, e anche se riuscissimo a passarli ci verrebbe data la caccia in tutto il territorio pontificio. Potremmo cercare di traversarlo in direzione di Loreto fuggendo per i boschi, per poi imbarcarci sull'Adriatico e fuggire via mare. Ma su quella via non dispongo di amici sicuri, e credo che nessuno di noi si trovi in condizioni migliori. Saremmo costretti a chiedere ospitalità a estranei, correndo così ogni volta il rischio di essere traditi da chi ci offre ospizio. Altrimenti potremmo cercare di rifugiarci nel Regno di Napoli, sempre procedendo di notte e dormendo di giorno. Io non ho certo l'età per sopportare una tale fatica; e anche altri tra voi forse non sono stati favoriti dalla Natura. Avremmo poi bisogno d'una guida, un pastore o un villico, non sempre facile da convincere, che ci guidi per le colline e i valichi, e che soprattutto non intuisca che siamo braccati: ci consegnerebbe al suo padrone senza pensarci due volte. Saremmo infine in troppi a scappare, e tutti privi di passaporto sanitario: verremmo bloccati al primo controllo di confine. Le possibilità di riuscire, insomma, sarebbero scarsissime. E tutto ciò senza contare che, anche qualora avessimo successo, saremmo votati a non tornare mai più a Roma». «E allora?» incalzò Bedfordi sbuffando con sprezzo e lasciando le mani penzolare ridicolmente dai polsi in un gesto 80/703
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d'impazienza. «E allora Pellegrino risponderà agli appelli» rispose Cristofano senza scomporsi. «Ma se non riesce neppure a stare in piedi» obiettai. «Ci riuscirà» ribatté il medico. «Ci deve riuscire».
Quand'ebbe finito, ci trattenne ancora e ci propose, per rinforzarci contro l'eventuale contagio, dei rimedi mondificativi degli umori. Alcuni, disse, erano già pronti, altri li avrebbe egli stesso preparati con erbe ed essenze che aveva con sé in viaggio, attingendo alla fornita cantina di Pellegrino. «Non vi piaceranno né al gusto né all'odore. Ma sono preparati di grande autorità» e qui guardò polemicamente in direzione di Bedfordi «come Yelixir vitae, la quinta essenzia, la seconda acqua e la madre di balsamo artificiato, l'olio filosoforum, il magnolicore, il caustico, il diaromatico, l'elettuario angelico, l'olio di vitriolo, quello di solfo, i moscardini imperiali e tante varietà di suffumigi e pillole e palle odorifere da portar nel petto. Purificano l'aria e non lasceranno entrare un eventuale contagio. Ma non abusatene: dentro, insieme ad aceto stillato, ci sono arsenico cristallino e pegola greca. Inoltre ogni mattina vi somministrerò per bocca la mia quinta essenzia originale, ricavata da un ottimo vino bianco maturo nato in luoghi montuosi, che ho distillato per bagno maria, poi chiuso in una boccia con un tappo di erb'amara e sotterrato capovolto in letame di cavallo ben caldo per venti giorni continui. Cavata la boccia dal letame (operazione che raccomando sempre di fare con gran destrezza, per non contaminare il preparato), ho separato il distillato color del cielo dalle fecce: quella è la quinta essenzia. La serbo in vasetti di vetro chiusissimi. Vi preserverà dalla corruzione e putrefazione e da ogn'altra infermità ed è di tanta virtù che risuscita i morti». «Ci basta che non ammazzi i vivi» ridacchiò Bedfordi. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Il medico si piccò: «Il suo principio è approvato da Raimondo Lullo, Filippo Ulstadio e molti altri filosofi antichi e moderni. Ma voglio concludere: ho qui per ognuno di voi pillole eccellentissime, di mezza dramma l'una, da portare in tasca e ingoiare appena vi doveste sentire un po' tocchi dal contagio. Son fatte di tutti semplici assai appropriati, senza stravaganze: quattro dramme di bolo armeno, terra sigillata, zedoaria, canfora, tormentilla, dittamo bianco e aloe patico, con uno scropolo di zafferano e uno di diagridio, succo di verza e miele cotto. Sono studiate appositamente per scansare la peste causata dalla corruzione del calor naturale, come dovrebb'essere il caso di Bedfordi. Il bolo armeno e la terra sigillata estinguono infatti il gran fuoco nel corpo e mortificano le alterazioni. La zedoaria ha virtù d'essiccare e di risolvere. La canfora rinfresca e anch'essa dissecca. Il dittamo bianco è contro il veleno. L'aloe patico conserva dalla putredine e scioglie il corpo. Lo zafferano e i garofali conservano e allegrano il cuore. E il diagridio solve la superflua umidità del corpo». L'uditorio taceva. «Potete fidarvi» insistette Cristofano. «Io stesso ne ho perfezionato le formule ispirandomi a celebri ricette sperimentate da eccellentissimi maestri nelle pesti più alpestri. Come gli sciroppi stomacali di maestro Giovanni da Volterra, che...». Vi fu in quel momento un piccolo trambusto nel gruppo degli astanti: era giunta, del tutto inaspettata, Cloridia. Fino a quel momento era rimasta nella propria camera, incurante come sempre degli orari dei pasti. Il suo arrivo venne salutato in vari modi. Brenozzi si tormentò l'arboscello, Stilone Priàso e Devizé si ravviarono i capelli, Cristofano tirò discretamente in dentro la pancia, padre Robleda arrossì, mentre Atto Melani starnutiva. Restarono impassibili solo Bedfordi e Dulcibeni. Proprio tra gli ultimi due si fece spazio, senza essere invitata, la cortigiana. Era invero di singolare aspetto, Cloridia: sotto il belletto 82/703
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bianchissimo affiorava, suo malgrado, una carnagione assai bruna, e formava uno strano contrasto con la folta chioma riccia e artificiosamente imbiondita, che incorniciava la fronte assai spaziosa e l'ovale regolare. Il naso camuso, ma piccolo e grazioso, gli occhi grandi, vellutati e neri, i denti perfetti e senza finestre nella bocca carnosa, facevano solo da contorno a ciò che più saltava all'occhio: un'amplissima scollatura, sottolineata da un balconcino policromo di nappe intrecciate che le correva tutt'attorno alle spalle e terminava con un grosso nodo tra i seni. Bedfordi le fece largo sulla panca, mentre Dulcibeni restava immobile. «Sono sicura che qualcuno di voi ha voglia di sapere tra quanti giorni ci faranno uscire» disse Cloridia con tono amabilmente tentatore, posando sul tavolo un mazzo di carte per il gioco dei tarocchi. «Libera nos a malo» sibilò Robleda facendosi il segno della Croce e alzandosi in tutta fretta senza neppure congedarsi. Nessuno accolse l'invito di Cloridia, che tutti pensavano propedeutico ad altri, più approfonditi sondaggi, ma finanziariamente oneroso. «Forse non è il momento migliore, gentile dama» disse cortese Atto Melani per toglierla d'imbarazzo «la tristezza delle cose presenti prevale perfino sulla vostra amabile compagnia». Sorprendendo tutti, Cloridia afferrò allora la mano di Bedfor di e la portò leggiadramente davanti a sé, proprio davanti al petto rigoglioso e scollato alla moda francese. «Forse è meglio una bella lettura della mano» propose Cloridia «ma gratis, beninteso, e solo per il vostro piacere». A Bedfordi questa volta la lingua fece difetto e, prima che potesse rifiutare, Cloridia gli schiuse amorosamente il pugno. «Eccoci qua» disse carezzando con la punta di un dito il palmo dell'inglese «vedrai, ti piacerà moltissimo». Tutti i presenti (io compreso) avevano impercettibilmente allungato il collo per meglio vedere e ascoltare. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Ti hanno mai letto la mano?» chiese Cloridia a Bedfordi sfiorandogli assai soavemente i polpastrelli e poi il polso. «Sì. Cioè no. Voglio dire, non così». «Non t'agitare, ora Cloridia ti spiega tutti i segreti della mano e della buona ventura. Il dito grosso si chiama Pollice quia pollet, ossia perché ha forza maggiore degli altri. Il secondo, Indice perché serve a indicare, il terzo si chiama Infame perché è segno di beffa e di contumelia. Il quarto è detto Medico o Anulare perché porta l'anello, il quinto Auricolare perché serve a nettare, e a pulire gli orecchi. Le dita della mano sono ineguali per maggior decenza, e per maggiore facilità nell'uso». Mentre passava in rassegna l'apparato digitale, Cloridia sottolineava ogni frase solleticando lubricamente le falangi di Bedfordi, che cercava di mascherare l'agitazione con un timido sorriso, e con una sorta d'involontaria ritrosia di fronte al sesso femmineo quale avevo conosciuto solo nei viaggiatori provenienti dalle terre nordiche. Poi Cloridia passò a illustrare le altre parti della mano: «Ecco vedi, la linea che parte in mezzo al polso e sale verso l'indice, proprio qui, è la linea della vita, o linea del cuore. Questa che taglia la mano più o meno da destra a sinistra è la linea naturale, o linea del capo. La sua linea sorella, vicina vicina, è la linea detta mensale. Questo piccolo rigonfiamento si chiama cingolo di Venere. Ti piace questo nome?» chiese insinuante Cloridia. «A me sì, tantissimo» proruppe Brenozzi. «E sta' indietro, idiota» gli rispose Stilone, respingendo il tentativo di Brenozzi di conquistare una posizione più vicina a Cloridia. «Lo so, lo so, è un bel nome» disse Cloridia rivolgendo prima a Brenozzi e poi a Bedfordi un sorrisetto complice «ma sono belli anche questi: dito di Venere, monte di Venere, dito del Sole, monte del Sole, dito di Marte, monte di Marte, monte di Giove, dito di Saturno, monte di Saturno e sedia di Mercurio». Mentre così illustrava dita, nocche, rughe, linee, articolazioni, rigonfiamenti e avvallamenti, con un abile e sensuale con84/703
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trappunto di gesti Cloridia passava l'indice alternativamente sulla mano di Bedfordi e sulle proprie guance, sul palmo dell'inglese e poi sulle proprie labbra, nuovamente sul polso di Bedfordi e poi sulla primissima e ancora innocente attaccatura del suo generoso seno. Bedfordi deglutì. «Poi ci sarebbero la linea del fegato, la linea o via del Sole, la linea di Marte, la linea di Saturno, il monte della Luna, e poi tutto finisce con la Via Lattea...». «Oh sì, la Via Lattea» si lasciò sfuggire Brenozzi in deliquio. Quasi tutto il gruppetto si era frattanto accalcato attorno a Cloridia, come neanche il bue e l'asinelio fecero con Nostro Signore nella notte in cui venne al mondo. «Comunque avete una bella mano, e ancor più bella dev'essere la vostra anima» disse Cloridia compiacente, attirando a sé il palmo di Bedfordi, per un breve attimo, sulla bruna pelle tra il petto e il collo. «Del corpo invece non so dire» rise poi allontanando scherzosamente da sé, come per difesa, la mano di Bedfordi, e agguantando quella di Dulcibeni. Tutti gli occhi si puntarono sul maturo gentiluomo, che però si sottrasse con un brusco gestaccio alla presa della cortigiana, e s'alzò dal tavolo dirigendosi verso le scale. «Ma quante storie» commentò ironicamente Cloridia cercando di nascondere la delusione e sistemandosi con muliebre stizza una ciocca di capelli. «E che brutto temperamento!» Proprio in quel mentre ebbi modo di riflettere che nei giorni precedenti Cloridia s'era accostata sempre più spesso a Dulcibeni, il quale tuttavia l'aveva respinta con crescente insofferenza. Al contrario di Robleda, infatti, che faceva esageratamente mostra di scandalizzarsi della cortigiana ma forse qualche notte le aveva volentieri reso visita, Dulcibeni pareva provare un autentico e profondo disgusto alla presenza della giovane. Nessun altro pigionante della locanda osava trattare Cloridia con tanto sprezzo. Ma, forse proprio a causa di ciò, o forse per il denaro che (come pareva chiaro) a Dulcibeni non doveva Imprimatur - Monaldi & Sorti
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certo far difetto, la cortigiana sembrava essersi intestardita nell'alloquire il gentiluomo fermano. Non riuscendo a cavargli di bocca una sillaba, Cloridia mi aveva più volte posto domande sul conto di Dulcibeni, curiosa di apprendere qualunque particolare lo riguardasse. Così bruscamente interrotta la lettura della mano, il medico ne approfittò per riprendere le sue delucidazioni circa i rimedi contro il rischio di contagio. Ci distribuì varie pillole, palle odorifere e quant'altro. Poi ci accodammo tutti a Cristofano a controllare lo stato di salute di Pellegrino.
Entrammo nella stanza del mio padrone, ove questi giaceva sul letto e appariva ora un poco meno esangue. Il chiarore proveniente dalle finestre consolava lo spirito, mentre il medico ispezionava il malato. «Mmmh» brontolò Pellegrino. «Non è morto» sentenziò Cristofano. «Ha gli occhi semiaperti, ha ancora la febbre, ma il colorito è migliorato. E s'è pisciato addosso». Commentammo con sollievo la notizia. Ben presto però il medico toscano dovette constatare che il paziente si trovava in uno stato di catatonia che lo rendeva incapace di rispondere alle sollecitazioni esterne se non assai debolmente. «Pellegrino, di' cosa intendi delle mie parole» gli sussurrò Cristofano. «Mmmh» ripetè il mio padrone. «Non può» statuì il medico con convinzione. «È in grado di discernere le voci, ma non di rispondere. Mi sono già imbattuto in un caso simile: un villico rimasto sepolto da un tronco d'albero abbattuto dal vento. Per mesi non potè proferire verbo, sebbene fosse perfettamente in grado di capire quanto gli venisse detto dalla moglie e dai figli». 86/703
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«E poi cosa successe?» chiesi. «Niente: morì». Mi venne chiesto di rivolgere dolcemente alcune frasi al malato per cercare di rianimarlo. Ma non ebbi successo; neppure sussurrandogli che la locanda era in fiamme, e tutte le sue riserve di vino erano in pericolo, potei farlo uscire dal torpore che lo vinceva. Ciò malgrado, Cristofano si mostrò sollevato. Le due protuberanze sul collo del mio padrone si stavano già schiarendo e sgonfiando; non erano pertanto giandusse. Petecchie o semplici ecchimosi che fossero, ora stavano regredendo. Non sembravamo minacciati da un'epidemia di peste. Potevamo perciò allentare la tensione. Non abbandonammo tuttavia il degente al suo destino. Verificammo immediatamente che Pellegrino fosse in grado di deglutire, sebbene con lentezza, sia cibi triturati che liquidi. M'offrii di ristorarlo regolarmente. Cristofano lo avrebbe visitato a intervalli regolari. La locanda restava però orba, per il momento, di colui che meglio la conosceva ed era in grado d'assisterci. Stavo intrattenendomi in tali considerazioni quando gli altri, soddisfatti della visita al capezzale del locandiere, man mano si congedarono. Rimasi solo con il medico, mentre questi s'attardava scrutando pensosamente il corpo di Pellegrino, disteso e inerte. «Le cose vanno meglio, direi. Ma coi morbi non bisogna mai sentirsi troppo sicuri» commentò. Fummo interrotti da un forte scampanellio nella via dell'Orso, sotto alle nostre finestre. M'affacciai: erano tre uomini inviati per chiamarci in appello e controllare che qualcuno di noi non fosse sfuggito alla sentinella. Prima però, annunciarono, era necessario che Cristofano fornisse ragguagli sul nostro stato di salute. Corsi alle altre stanze e radunai tutti i pigionanti. Qualcuno guardò con apprensione il mio povero padrone, totalmente incapace di reggersi in piedi. Fortunatamente, la sagacia di Cristofano e dell'abate Melani Imprimatur - Monaldi & Sorti
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risolse rapidamente il problema. Ci radunammo al primo piano, nella stanza di Pompeo Dulcibeni. Per primo si mostrò alla grata della finestra Cristofano, assicurando che nulla di notevole era accaduto, che nessuno aveva mostrato segno alcuno d'infermità, e che tutti sembravano stare perfettamente in salute. Quindi iniziammo a sfilare uno dopo l'altro davanti alla finestra, per farci ispezionare. Ma il medico e Atto avevano fatto in modo da confondere per bene le idee ai tre ispettori. Cristofano infatti condusse alla finestra Stilone Priàso, poi Robleda e infine Bedfordi, mentre però i tre chiamavano i nomi di altri ospiti. Cristofano si scusò più volte per l'involontario scambio di persona, ma intanto si era creata una notevole confusione. Quando fu il turno di Pellegrino, Bedfordi riuscì a creare altro caos: cominciò a sbraitare in inglese, chiedendo (come spiegò Atto) di essere finalmente liberato. I tre ispettori reagirono insultandolo e deridendolo, ma nel frattempo sfilava rapidamente Pellegrino, che sembrò in perfetta forma: i capelli erano ben ravviati, le gote pallide erano state truccate e rese rubiconde con il belletto di Cloridia. Contemporaneamente, anche Devizé iniziò a sbracciarsi e a protestare per la nostra reclusione, distraendo definitivamente da Pellegrino l'attenzione degli ispettori. I quali conclusero così la visita senza accorgersi del pessimo stato del mio padrone.
Mentre ragionavo su tali espedienti, m'attirò fuori dalla soglia l'abate Melani. Voleva sapere dove Pellegrino fosse solito riporre i valori che i viaggiatori gli affidavano all'arrivo. Mi ritrassi manifestando stupore per la domanda: il luogo era ovviamente segreto. Anche qualora non vi fossero custoditi tesori, era pur sempre lì che il mio padrone metteva al sicuro le somme di denaro lasciate in custodia dai clienti. Mi tornò in mente la pessima opinione che di Atto avevano Cristofano, Stilone Priàso e Devizé. 88/703
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«Immagino che il tuo padrone tenga la chiave sempre con sé» soggiunse l'abate. Stavo per rispondergli, quando gettai uno sguardo a Pellegrino attraverso l'uscio mentre veniva ricondotto in camera sua. Il mazzo di chiavi, raccolte da un collare di ferro, che il padrone teneva notte e giorno assicurato alle braghe, non era al suo posto. Mi precipitai in cantina, ove tenevo le chiavi di riserva, nascoste in un pertugio del muro di cui io solo conoscevo l'esistenza. C'erano. Cercando di non attirare la curiosità dei pigionanti (che, ancora eccitati dalla riuscita della messinscena, stavano scendendo al pianterreno per il pasto serale) risalii al terzo piano. Ora, occorre che spieghi che per giungere a ogni piano c'erano due rampe di scale. Alla fine d'ogni rampa c'era un pianerottolo. Ebbene, sul pianerottolo tra il secondo e il terzo piano si trovava la porticina che dava accesso all'andito ove si custodivano i valori. M'assicurai che nessuno si trovasse nei paraggi ed entrai. Estrassi la pietra, incastonata nel muro, dietro a cui giaceva il piccolo forziere. Lo aprii. Nulla mancava: né i denari, né le note di deposito controfirmate dai clienti. Mi tranquillizzai. «Ora la domanda è: chi ha preso le chiavi di padron Pellegrino?» Era la voce dell'abate Melani. M'aveva seguito. Entrò e accostò la porta dietro di sé. «A quanto pare potremmo avere un ladro tra noi» commentò quasi divertito. Poi s'arrestò allarmato: «Silenzio, sta arrivando qualcuno» e accennò col capo in direzione del pianerottolo. M'indicò di affacciarmi, cosa che feci seppur di malavoglia. Sentii arrivare fioche dal pianterreno le note del liuto di Devizé. Nient'altro. Invitai l'abate a uscire senza esitazione dallo stanzino, desideroso com'ero di ridurre al minimo i nostri contatti. Mentre si Imprimatur - Monaldi & Sorti
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sfilava dallo stretto uscio, notai che puntava lo sguardo in direzione del piccolo forziere con aria assai preoccupata. «Cosa c'è ancora, signor abate?» chiesi cercando di celare l'ansia crescente e di contenere il tono scortese che mi saliva alle labbra. «Stavo riflettendo: non ha alcun senso che chi ha trafugato il mazzo di chiavi non abbia rubato niente dal forziere della locanda. Sei proprio sicuro d'aver controllato bene?» Tornai a guardare: i denari c'erano, le note di deposito pure; che altro doveva esserci? Poi ricordai: le perline datemi da Brenozzi. Era sparito il bizzarro e affascinante dono del veneziano che avevo gelosamente nascosto tra gli altri valori. Ma perché il ladro non aveva preso nient'altro? Eppure erano là custodite cospicue somme di denaro, ben più visibili e commerciabili delle mie perline. «Rasserenati. Ora andremo nella mia stanza, qui sotto, e faremo il punto della situazione» disse. Ma vedendo che stavo per rifiutare, aggiunse: «Se vuoi rivedere le tue perline». Seppure di gran malavoglia, acconsentii. Giunti nella sua stanza, l'abate m'invitò a occupare una delle sedie. Intuiva la mia agitazione. «Abbiamo due possibilità» esordì. «O il ladro ha già fatto tutto ciò che voleva, ossia rubarti le perline, oppure non ha potuto portare a compimento le sue intenzioni. E io propendo per la seconda». «Perché? Vi ho pur detto quanto m'ha spiegato Cristofano: quelle perle hanno a che vedere col veleno e con la morte apparente. E forse Brenozzi sa qualcosa». «Almeno per ora lasciamo perdere quella storia, ragazzo» disse con una risatina. «Non certo perché le tue piccole gioie valgano poco, anzi, o non abbiano i poteri che attribuisce loro il nostro medico. Ma ritengo che nello stanzino il ladro avesse da fare anche altro. Là dentro ci si trova a metà tra il secondo e il 90/703
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terzo piano. E in quei pressi, sin da quando è stato trovato il corpo esanime di padron Pellegrino, c'è stato un certo viavai che non gli ha dato modo d'agire». «E allora?» «Allora credo che il ladro si darà ancora da fare in quel bugigattolo, e col favore della notte. Nessuno, per il momento, sa che hai scoperto il furto delle chiavi. Se non avvertirai i pigionanti, il ladro crederà di poter agire in pace». «D'accordo» dissi infine, seppur pieno di diffidenza «lascerò passare la notte prima di metterli in guardia. Pregando il Cielo che non accada loro nulla di male». Guardai l'abate di sbieco e mi decisi a porgli la domanda che avevo in serbo da tempo: «Credete che il ladro abbia ucciso il signor di Mourai, e magari abbia cercato di far lo stesso con il mio padrone?». «Tutto è possibile» rispose Melani gonfiando curiosamente le guance e facendo la bocca a ciliegia. «Il cardinal Mazzarino mi diceva: a pensar male si commette peccato, ma s'indovina sempre». Doveva essere chiaro all'abate il sorgere della mia diffidenza nei suoi confronti, ma non fece domande e proseguì come se nulla fosse: «A proposito di Mourai, già stamane stavo per proporti una piccola esplorazione, quando però il tuo padrone s'è sentito male». «Che intendete dire?» «Credo sia giunta l'ora di perquisire le stanze dei due compagni di viaggio del povero vecchio. Tanto tu hai copia di tutte le chiavi». «Volete entrare di nascosto in camera di Dulcibeni e di Devizé? E volete che io vi aiuti?» chiesi allibito. «Suvvia, non mi guardare così. Rifletti: se qualcuno qui è sospettabile d'aver a che fare con la morte del vecchio francese, questi sono proprio Dulcibeni e Devizé. Sono giunti al Donzello insieme a Mourai, provenienti da Napoli, e alloggiano qui da oltre un mese. Devizé, con la storia del teatro del Cocomero, ha Imprimatur - Monaldi & Sorti
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dimostrato d'avere probabilmente qualcosa da nascondere. Pompeo Dulcibeni ha persino condiviso la camera col morto. Forse sono innocenti; ma sul signor di Mourai ne sanno più di chiunque altro». «E cosa sperate di trovare nelle loro stanze?» «Non lo saprò finché non vi sarò entrato» rispose seccamente. Mi risuonarono ancora una volta nelle orecchie le orribili cose udite su Melani dalla bocca di Devizé. «Non posso darvi copia delle loro chiavi» dissi dopo aver riflettuto. Melani capì che sarebbe stato inutile insistere e rimase in silenzio. «Per il resto, tuttavia, sono a vostra disposizione» aggiunsi con tono raddolcito, pensando alle mie perline sparite. «Per esempio, potrei fare qualche domanda a Devizé e Dulcibeni, cercare di farli parlare...». «Per carità, non ne caveresti nulla e li metteresti sull'avviso. Andiamo per gradi: cerchiamo intanto di capire chi è il ladro delle chiavi e delle tue perline». Atto mi espose dunque la sua idea: dopo cena avremmo sorvegliato le scale dalle nostre stanze, io al terzo piano e lui al secondo. Avremmo passato una cordicella tra la mia e la sua finestra (le nostre stanze erano esattamente l'una sotto l'altra), che ambedue avremmo legato per un capo a un piede. Quando uno di noi avesse notato qualcosa, l'avrebbe tirata più volte e con forza, per far accorrere l'altro e bloccare in tal guisa il ladro. Mentre egli così parlava, soppesavo i fatti. Sapere che le perline di Brenozzi potevano valere una fortuna aveva finito d'abbattermi: nessuno m'aveva mai regalato qualcosa di tanto prezioso. Conveniva forse assecondare per un po' l'abate Melani. Certo, avrei dovuto tenere gli occhi ben aperti: non dovevo dimenticare i pessimi giudizi uditi su di lui. Gli assicurai che avrei seguito le sue indicazioni, come peral92/703
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tro (ricordai per rassicurarlo) avevo già promesso la notte avanti durante il nostro lungo e singolare colloquio. Accennai vagamente che avevo sentito tre ospiti della locanda discutere del Sovrintendente Fouquet, del quale l'abate m'aveva fatto il nome la sera prima. «E cosa ne dissero in particolare?» «Nulla che io ricordi con esattezza, poiché stavo rigovernando la cucina. Mi fecero solo rammentare che avevate promesso di raccontarmi qualcosa in proposito». Un lampo traversò le pupille acuminate dell'abate Melani: aveva finalmente colto la fonte della mia repentina diffidenza nei suoi confronti. «Hai ragione, ti sono in debito» disse. Il suo sguardo si fece poi improvvisamente lontano, perso nella memoria del passato. Canticchiò sottovoce con malinconia: Ai sospiri, al dolore, ai tormenti, al penare, torna o mio core.
«Ecco: così ti avrebbe parlato di Fouquet il seigneur Luigi Rossi mio maestro» aggiunse notando la mia espressione interrogativa. «Ma visto che tocca a me raccontarti, e che dobbiamo attendere l'ora della cena, mettiti comodo. Mi chiedi chi fosse Nicolas Fouquet. Ebbene, egli fu anzitutto un vinto». Tacque, come a cercar le parole, mentre gli tremava la fossetta del mento. «Un vinto dall'invidia, dalla ragione di Stato, dalla politica, ma soprattutto un vinto dalla Storia. Perché, ricorda, la Storia la fanno sempre i vincitori, buoni o cattivi che siano. E Fouquet ha perso. Perciò a chiunque tu chiederai mai in Francia e nel mondo chi fosse Nicolas Fouquet, ti verrà risposto ora e sempre ch'egli fu il ministro più ladro, corrotto e fazioso, più leggero e prodigo dei nostri tempi». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«E voi, prima che un vinto, chi dite ch'egli fosse?» «Il Sole» rispose con un sorriso. «Così era chiamato Fouquet, da quando Le Brun lo dipinse in tal guisa nell'Apoteosi di Ercole, sulle pareti del castello di Vaux-le-Vicomte. E veramente nessun altro astro s'addiceva a un uomo di tanta magnificenza e generosità». «E quindi il Re Sole s'è dato tale appellativo perché ha voluto copiare Fouquet?» Melani mi guardò assorto e non rispose. Riprese spiegandomi che le Arti, come delicate infiorescenze di rose, necessitano di qualcuno che accomodi loro il giusto vaso, o renda pingue e dissodi il terreno, e poi giorno per giorno lasci pietosamente cadere l'acqua che le disseterà; a sua volta, aggiunse l'abate Melani, il giardiniere deve possedere gli utensili migliori per curare le sue creature; un tocco delicato per non offendere le tenere foglie, occhio esperto per riconoscere i loro malanni e, infine, saper trasmettere la sua arte. «Nicolas Fouquet aveva tutto ciò che serviva allo scopo» sospirò l'abate Melani. «Era il mecenate più splendido, più grandioso, più tollerante e più generoso, il più dotato nell'arte di vivere e di far politica. Ma si trovò impigliato nella tela di nemici avidi, gelosi, orgogliosi, intriganti e dissimulatori». Fouquet era d'una ricca famiglia di Nantes, che già il secolo addietro aveva fatto meritata fortuna nel commercio con le Antille. Venne affidato ai padri gesuiti, che in lui rinvennero un'intelligenza superiore e un carisma eccezionale: i seguaci del grande Ignazio ne fecero uno spirito nobilmente politico, capace di saggiare ogni opportunità, di volgere a proprio favore ogni situazione e persuadere ogni interlocutore. A sedici anni era già consigliere del Parlamento di Metz, a venti era nel prestigioso corpo dei maîtres des requêtes, i pubblici funzionari che amministravano la Giustizia, le Finanze nonché i corpi militari. Nel frattempo era morto il cardinale di Richelieu, ed era asceso il cardinal Mazzarino: Fouquet, allievo del primo, passò 94/703
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senza difficoltà al servizio del secondo. Anche perché quando era scoppiata la Fronda, la famosa rivolta dei nobili contro la Corona, Fouquet aveva ben difeso il giovane re Luigi e aveva organizzato il suo rientro a Parigi, dopo che il Sovrano e la sua famiglia erano stati costretti dai disordini a lasciare la città. S'era dimostrato ottimo servitore di Sua Eccellenza il Cardinale, fedelissimo del Re e uomo audace. Finiti dunque i tumulti, quando aveva ormai trentacinque anni, acquistò la carica di Procuratore Generale del Parlamento di Parigi, e nel 1653 fu finalmente Sovrintendente alle Finanze. «Ma tutto ciò è solo la cornice di ciò ch'egli veramente fece di nobile e di giusto e d'eterno» si spinse a dire l'abate Melani. Ancor più che correre da una parte all'altra di Francia (come quando era maître des requêtes), e ancor più che sacrificare il sonno e la salute per amministrare saggiamente fino all'ultima lira le finanze della Corona (come quando era Sovrintendente alle Finanze, a Parigi), sopra ogni cosa gli premeva che la Francia potesse mostrare all'Europa intera il trionfo glorioso delle Arti e delle Virtù. La sua casa era aperta ai letterati e agli artisti quanto agli uomini d'affari; sia a Parigi che in campagna tutti aspettavano i preziosi momenti ch'egli rubava agli affari di Stato per gratificare coloro che avevano talento nella Poesia, nella Musica e nelle altre Arti. Non era un caso se Fouquet per primo aveva capito e amato il grande La Fontaine. Il talento scintillante del poeta ben valeva la ricca pensione che il Sovrintendente gli aveva concesso sin dagli albori della loro conoscenza. E per essere sicuro di non pesare sull'animo delicato del suo amico, gli offrì di sdebitarsi restituendogliene periodicamente una parte, ma in versi. Lo stesso Molière era in debito con il Sovrintendente, sebbene mai ciò gli sarebbe stato rimproverato, perché il debito maggiore era quello morale. Anche il buon Corneille, ormai vecchio e non più baciato dalle labbra ardenti e capricciose della gloria, proprio nel momento più difficile della sua vita fu concretaImprimatur - Monaldi & Sorti
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mente gratificato, e salvato dalle spire della melanconia. Ma il nobile connubio del Sovrintendente con le Lettere e la Poesia non s'esauriva in una pur lunga sequela di regalie. Il Sovrintendente non si limitava a fornire aiuto materiale. Leggeva le opere ancora in gestazione, dava consigli, incoraggiava, correggeva, ammoniva, criticava se necessario, lodava se opportuno. E dava ispirazione: non solo con le parole, ma anche con la sua stessa nobile presenza. Rinfrancava e infondeva fiducia il buon cuore che spirava dal viso del Sovrintendente: i grandi occhi cerulei da bambino, il naso lungo che finiva a ciliegia, la larga bocca carnosa e le fossette delle guance piegate ad aperto sorriso. Alla porta dell'animo di Nicolas Fouquet avevano bussato ben presto anche l'Architettura, la Pittura e la Scultura. Qui s'apriva però, m'avvertì l'abate, un capitolo doloroso. Nella campagna presso Melun, a Vaux-le-Vicomte, sorge un castello, gioiello d'architettura, meraviglia delle meraviglie, fatto erigere con incomparabile gusto da Fouquet, e realizzato da artisti da lui scoperti: l'architetto Le Vau, il giardiniere Le Nôtre, il pittore Le Brun chiamato da Roma, lo scultore Puget e tanti altri che il Re avrebbe ben presto preso al proprio servizio facendone i nomi più eccelsi dell'arte francese. «Vaux, castello delle illusioni» gemette Atto «enorme smacco di pietra: decoro d'una gloria che durò una notte d'estate, quella del 17 agosto 1661. Alle sei del pomeriggio Fouquet era il vero Re della Francia, alle due del mattino dopo non era più niente». Quel 17 agosto il Sovrintendente, inaugurato da poco il castello, offrì una festa in onore del Re. Voleva piacergli e compiacerlo. Lo fece col gaudio e la munificenza che gli erano soliti ma, ahi lui, senz'aver compreso la contorta indole del Sovrano. I preparativi furono impressionanti. Si fece spedire a Vaux, nei saloni ancora incompleti, letti di broccato con passamanerie d'oro, tappezzerie, mobili rari, argenterie, candelieri di cristallo. Le strade di Melun vennero percorse dai tesori di cento 96/703
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musei e di mille antiquari: tappeti di Persia e di Turchia, cuoi di Cordova, porcellane che i gesuiti gl'inviavano dal Giappone, lacche importate dalla Cina attraverso l'Olanda grazie alla via privilegiata che il Sovrintendente aveva costituito per l'importazione di rarità dall'Oriente. E poi i quadri scoperti a Roma da Poussin e speditigli tramite suo fratello, l'abate Fouquet. Tutti gli amici artisti e poeti, tra cui Molière e La Fontaine, furono mobilitati. «In ogni salotto, da quello di madame de Sévigné a quello di madame de la Fayette, non si parlava che del castello di Vaux» continuò Melani ormai sprofondato nel ricordo di quei giorni. «L'ingresso del castello accoglieva il visitatore col merletto austero della grata e le otto statue di divinità che si libravano da ciascun lato. Veniva poi l'immensa corte d'onore, unita alle dipendenze da pilastri di bronzo. E negli archi a tutto sesto dei tre imponenti portali d'ingresso, lo scoiattolo rampicante, stemma di Fouquet». «Uno scoiattolo?» «In bretone, il dialetto natale del Sovrintendente, la parola fouquet vuol dire appunto scoiattolo. E il mio amico Nicolas era simile per complessione e temperamento alla bestiola: industrioso, scattante, fine, il corpo nervoso, lo sguardo giocoso e seducente. Sotto allo stemma, il motto Quo non ascendam?, ossia «fino a dove non salirò?», riferito alla passione dello scoiattolo di raggiungere vette sempre più alte. Ma beninteso nella generosità: Fouquet amava il potere come un fanciullo. Aveva la semplicità di chi non si prende mai troppo sul serio». Attorno al castello, proseguì l'abate, gli splendidi giardini di Le Nôtre: «Velluti d'erba e di fiori di Genova, ove le bordature di begonie avevano la regolarità degli esametri. Alberi di tasso potati a cono, cespugli di bosso foggiati a braciere, e poi la grande cascata d'acqua e il laghetto di Nettuno che conducevano alle grotte, e dietro di esse il parco con le celebri fontane che avevano stupito Mazzarino. Tutto pronto per ricevere il giovane Luigi XIV». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Il giovane Re e la Regina madre erano partiti dalla residenza di Fontainebleau nel pomeriggio. Alle sei erano arrivati a Vaux col loro codazzo. Solo la regina consorte Maria Teresa, che portava in grembo il primo frutto dell'amore di suo marito, non era tra i presenti. Il corteo passò ostentando indifferenza tra le ali impettite di guardie e di moschettieri, e poi tra torme indaffarate di paggi e valletti che maneggiavano vassoi d'oro ricolmi d'ornatissime vivande, aggiustavano trionfi di fiori esotici, trascinavano casse di vino, accomodavano sedie attorno alle enormi tavole damascate, su cui i candelieri, i servizi e le posate d'oro e d'argento, le cornucopie di frutta e di verdura, i bicchieri di cristallo finissimo e rifiniti anch'essi in oro facevano splendida, stupefacente, inimitabile, irritante mostra di sé. «Fu allora che il pendolo della sorte iniziò a volgere indietro il suo cammino» commentò l'abate Melani. «E l'inversione di marcia fu tanto imprevista quanto violenta». Non piacque, al giovane re Luigi, lo sfarzo quasi sfacciato di quella festa. Il caldo e le mosche, vogliose di festeggiare quanto i convitati, avevano spazientito sia il Sovrano che il suo seguito, costretto dalle convenzioni a una torturante visita dei giardini di Vaux. Rosolati dal sole, intabarrati nei duri collari di pizzo stretti alla gola e nelle cravatte di lino batista infilate nel sesto bottone del giustacuore, si moriva dalla voglia di togliersi braghe e parrucche. Fu con infinito sollievo che si salutò il fresco della sera, e finalmente ci si sedette a tavola. «E come fu la cena?» chiesi ingolosito, intuendo che le cibarie fossero al livello della dimora e della cerimonia. «Al Re non piacque» disse l'abate rabbuiato. Soprattutto non piacquero, al giovane re Luigi, le trentasei dozzine di piatti d'oro massiccio e le cinquecento dozzine di piatti d'argento schierate sui tavoli. Non gli piacque che così tanti fossero gli invitati, centinaia e centinaia, che la fila delle carrozze e dei paggi e dei vetturini in attesa fuori dalla villa fosse così lunga e allegra, quasi una seconda festa. Non gli piacque dover apprendere dal sussurro d'un suo cortigiano, 98/703
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quasi si trattasse d'un pettegolezzo ch'era stato ammesso a condividere, che la festa era costata oltre ventimila livres. Non piacque al Re la musica che accompagnava il pasto cimbali e trombe con le entrées, seguiti dai violini - e neppure l'enorme zuccheriera d'oro massiccio che gli venne piazzata di fronte, costringendogli i movimenti. Non gli piacque essere ricevuto da chi, senza corona, stava dimostrando d'essere più munifico, più fantasioso, più abile nello stupire i suoi ospiti e nello stesso tempo nell'avvicinarli a sé, unendo alla magnificenza l'accoglienza; e quindi più splendido. In una parola: più Re. Alle sofferenze della cena, s'aggiunsero per Luigi quelle dello spettacolo all'aperto. Mentre il banchetto si prolungava, passeggiando nervosamente avanti e indietro al riparo dei tendaggi, Molière malediceva a sua volta il Sovrintendente: Les Facheux, la commedia che aveva preparato per l'occasione, sarebbe dovuta iniziare già da due ore. Ora invece la luce del giorno scemava. Alla fine entrò in scena sotto lo scudo blu e verde dell'ultimo tramonto, mentre a levante le prime stelle già punteggiavano la volta del cielo. Anche qui fu meraviglia: sul proscenio apparve una conchiglia, le valve s'apersero, e una danzatrice, dolcissima Naiade, si levò e fu allora come se tutta la Natura parlasse e gli alberi e le statue circostanti, mossi da forze sottilissime e divine, s'appressassero alla ninfa per intonare con lei il più dolce dei carmi: l'elogio del Re, con cui iniziava la commedia: Pour voir sur ces beaux lieux le plus grand roi du monde Mortels, je viens à vous de ma grotte profonde...
Alla fine del sublime spettacolo vennero i fuochi artificiali preparati da quell'italiano, Torelli, che a Parigi già chiamavano il Grande Stregone, in grazia delle meraviglie di lampi e di colori che lui solo sapeva con cotale sapienza agitare nella pentola Imprimatur - Monaldi & Sorti
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nera e vuota del cielo. Alle due del mattino, forse ancora più tardi, il Re fece capire con un cenno ch'era giunta l'ora del congedo. Fouquet lo scorse fosco in volto: restò attonito, forse capì, sbiancò. Lo avvicinò, s'inginocchiò e con un ampio gesto della mano gli offerse pubblicamente Vaux in dono. Il giovane Luigi non rispose. Salì in carrozza e gettò un ultimo sguardo al castello che si stagliava nell'oscurità: fu allora che gli passò forse davanti agli occhi (c'è chi lo giura) un'immagine della Fronda, un confuso pomeriggio della propria infanzia, un'immagine la cui origine non sapeva più se attribuire a racconti altrui o ai propri ricordi; una malcerta reminiscenza della notte in cui dovette strisciare fuori dalle mura di Parigi con la regina madre Anna, e il cardinal Mazzarino, le orecchie assordate dagli scoppi e dalle grida della folla, l'odore acre del sangue e il tanfo della plebe nel naso, vergognandosi d'essere Re, e disperando di poter un giorno tornare in città, nella sua città. O forse il Re (c'è anche chi giura ciò), guardando i getti delle fontane di Vaux che s'alzavano ancora belli e arroganti, e di cui sentiva lo scroscio mentre la carrozza s'allontanava, si ricordò improvvisamente che a Versailles non c'era neppure un goccio d'acqua. «E poi cosa successe?» chiesi con un filo di voce, emozionato e confuso dalla narrazione dell'abate. Passarono poche settimane, e il cappio si strinse rapidamente attorno al collo del Sovrintendente. Il Re finse di doversi recare a Nantes per far sentire in Bretagna il peso della propria autorità e per imporre qualche tributo che i bretoni non avevano mostrato fretta di versare alle casse del Regno. Il Sovrintendente lo seguì senza nutrire preoccupazioni eccessive, giacché Nantes era la sua città d'origine e molti suoi amici vi abitavano. Prima di partire però qualcuno comincia a suggerirgli di guardarsi le spalle: c'è in atto una trama contro di lui, gli sussurrano gli amici più fedeli. Il Sovrintendente chiede udienza al 100/703
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Re, gli apre il suo cuore: gli chiede perdono se le casse della Corona soffrono, ma lui era stato fino a pochi mesi prima agli ordini di Mazzarino, e questo Luigi lo sa bene. Il Re fa mostra di comprendere perfettamente e lo tratta con la più assoluta considerazione, chiedendogli consiglio per ogni minima cosa e seguendo senza batter ciglio le sue indicazioni. Fouquet avverte però che qualcosa non va e s'ammala: torna a soffrire delle febbri intermittenti che l'avevano colpito nelle lunghe esposizioni al freddo umido, quando sorvegliava i cantieri di Vaux. Perde sempre più spesso il ristoro del sonno. Qualcuno lo vede piangere in silenzio, dietro una porta. Infine parte al seguito di Luigi, e alla fine di agosto raggiunge Nantes. Subito però è nuovamente costretto a letto dalla febbre. Il Re, che si è installato in un castello all'altro capo della città, sembra perfino premuroso, lo fa visitare per avere notizie sulla sua salute. Seppure a fatica, Fouquet si rimette. Infine, il 5 settembre, giorno del compleanno del Sovrano, viene fatto convocare alle sette del mattino. Lavora col Re fino alle undici, e alla fine inaspettatamente il Sovrano lo trattiene ancora per discutere alcuni affari. Mentre finalmente Fouquet sta lasciando il castello, la sua carrozza viene fermata da un drappello di moschettieri. Un sottotenente moschettiere, tale D'Artagnan, gli legge l'ordine d'arresto. Fouquet è incredulo: «Signore, siete certo che sia io che dovete arrestare?». Senza dargli altro tempo, D'Artagnan gli sequestra tutte le carte che ha con sé, perfino quelle che porta addosso. Sigillano tutto, e lo caricano su un convoglio di carrozze reali che lo porta nel castello di Angers. Qui rimarrà tre mesi. «E poi?» «Non era che il primo passo sulla via del supplizio. Venne istruito il processo, che durò tre anni». «Perché così a lungo?» «Il Sovrintendente si seppe difendere come nessun altro. Ma alla fine dovette soccombere. Il Re lo fece chiudere in perpetuo Imprimatur - Monaldi & Sorti
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nella fortezza di Pinerolo, oltre le Alpi». «E lì è morto?» «Da lì non si esce, se non per volontà del Re». «Ma allora fu l'invidia del Re a perdere Fouquet, perché non tollerava la sua magnificenza, e la festa...». «Non posso consentirti di parlare così» m'interruppe «il giovane Re cominciava allora a posare gli occhi su tutte le varie parti dello Stato, e non con occhi indifferenti, ma con occhi da padrone. Soltanto allora capì che lui era il Re, ed era nato per esserlo. Ma ormai era tardi per aver soddisfazione di Mazzarino, il defunto patrigno-padrone dei suoi verdi anni, che gli aveva rifiutato tutto. Era invece rimasto Fouquet, l'altro Sole, la cui sorte fu così segnata». «Così il Re si è vendicato. E in più non gli erano piaciute le stoviglie d'oro...». «Nessuno può dire che il Re voglia vendicarsi, perché egli è il più potente di tutti gli altri Principi d'Europa, e a maggior ragione nessuno può dire che Sua Maestà Cristianissima sia invidiosa del Sovrintendente alle Finanze Reali, le quali appartengono infatti al Sovrano stesso, e a nessun altro». Tacque di nuovo, ma capì egli stesso che la sua risposta non poteva bastare alla mia curiosità. «In effetti» disse alla fine fissando l'ultima luce diurna penetrare dalla finestra «non conosceresti la verità se ti tacessi del Serpente ch'avvolse lo Scoiattolo nelle sue spire». Infatti, se il Sovrintendente era lo Scoiattolo, a seguirne insidioso i passi c'era un Serpente. Perché latinamente il viscido animale è detto colubra, e bizzarramente si compiaceva di questo appellativo il signor di Colbert, convinto che la similitudine con un rettile potesse (idea tanto erronea quanto rivelatrice) meglio fare lustro e magnifico il suo nome. «E davvero come una serpe dalle mille spire seppe condursi» disse l'abate. «Perché il Serpente di cui tanto s'era fidato lo Scoiattolo fu lo stesso che lo precipitò nell'abisso». 102/703
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All'inizio Jean Baptiste Colbert, figlio d'un ricco negoziante di stoffe, era signore di un bel nulla. «Anche se» ridacchiò Atto «si piccò poi d'augusti natali facendosi fabbricare una falsa pietra tombale che spacciò per quella d'un suo avo del 1200, e davanti alla quale faceva persino mostra d'inginocchiarsi». Di scadente istruzione, la fortuna gli era arrivata comunque presto sotto le spoglie d'un cugino del padre, il cui aiuto gli aveva consentito di comprare una carica di funzionario al ministero della Guerra. Lì le sue doti adulatorie gli avevano permesso di conoscere e legarsi a Richelieu e poi, dopo la morte del Cardinale, di divenire segretario di Michel Le Tellier, il potente segretario di Stato alla Guerra. Nel frattempo a Richelieu s'era sostituita la figura, assai meno gradita a Colbert, d'un Cardinale italiano molto vicino alla Regina madre, Giulio Mazzarino. E con lui Colbert non pareva intendersi molto. «Intanto però, grazie ai soldi della mercatura, s'era comprato un titoletto nobiliare. E se avesse avuto bisogno d'altri denari, a risolvere il problema arrivò intanto il matrimonio con Marie Charron e soprattutto con le sue centomila livres di dote» aggiunse l'abate Melani con un'ulteriore punta di astio. «Ma a far la sua vera fortuna» riprese «fu la disgrazia del Re». Nel 1650 infatti la Fronda, iniziata due anni prima, era arrivata al suo apice e il Sovrano, la Regina e il cardinal Mazzarino dovettero fuggire da Parigi. «Il problema maggiore per lo Stato non era certo l'assenza del Re, ch'era ancora un fanciullo dodicenne, né quella della Regina madre, che era soprattutto l'amante del Cardinale, ma quella di Mazzarino». A chi affidare, infatti, gli affari e i segreti di Stato che il Cardinale manovrava tanto abilmente quanto oscuramente? Egli e Colbert non s'erano amati affatto a prima vista: il primo appariva al secondo, se comparato a Richelieu, troppo ondivago e introverso, talvolta troppo accomodante e sovente irresoluto. Viceversa Colbert, glaciale e distante ancorché di buone manieImprimatur - Monaldi & Sorti
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re, non poteva certo conquistare le simpatie di Mazzarino senza fare qualche sforzo. Mise così in campo tutte le proprie qualità di zelante esecutore: si faceva trovare in ufficio alle cinque del mattino, manteneva l'ordine più assoluto e non intraprendeva mai nulla d'importante di propria iniziativa. Tutto questo, là dove Fouquet lavorava invece a casa propria ed era una fucina d'idee, nel caos più assoluto di carte e documenti. Così nel 1651 il Cardinale, che cominciava a sentirsi minacciato dall'intraprendenza di Fouquet, scelse proprio Colbert per curare i suoi affari. Tanto più che quest'ultimo si era dimostrato assai aduso alla corrispondenza in cifra. Colbert servì Mazzarino non solo finché questi rientrò trionfalmente a Parigi con Luigi e Anna d'Austria, alla fine della Fronda, ma fino alla morte del Cardinale. «Gli affidò perfino l'amministrazione dei suoi beni» disse l'abate con un sospiro che esprimeva tutto il rammarico per aver visto tanta fiducia riposta nella persona sbagliata. «Gli insegnò tutta l'arte che il Serpente, da solo, non avrebbe mai potuto coltivare con le sue forze. Il Serpente, invece di essergli grato, si fece pagar bene. E ottenne favori per sé e la sua famiglia» disse sfregando il pollice e l'indice per indicare volgarmente il denaro. «Riusciva ad avere udienza dalla Regina quasi ogni giorno. A vederlo, era l'esatto contrario di Nicolas: tozzo, il viso largo e marcato, l'incarnato giallognolo, i capelli corvini lunghi e radi sotto la calotta, lo sguardo avido, la palpebra semicalata, i baffetti affilati come fruste sul labbro sottile e assai poco incline al sorriso. Il carattere glaciale, spinoso e recondito lo avrebbe reso temibile se non fosse stato per la sua ridicola ignoranza, malamente camuffata sotto citazioni latine fuori luogo che ripeteva a pappagallo, dopo averle apprese da giovani collaboratori appositamente arruolati. Divenne uno zimbello e fu ancor meno amato, tanto che madame de Sévigné lo chiamò «il Nord», come il punto cardinale più gelido e sgradevole». Evitai di chiedere a Melani perché dal suo racconto traspa104/703
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risse tanta avversione per Colbert e non invece per Mazzarino, che a Colbert sembrava essersi così strettamente legato. Conoscevo già la risposta: non avevo forse sentito dire da Devizé, Cristofano e Stilone Priàso, che il castrato Atto Melani era stato sin da giovanissimo aiutato e protetto dal Cardinale? «Colbert e il Sovrintendente Fouquet erano amici?» azzardai invece. Esitò un istante prima di rispondere. «Si conobbero ai tempi della Fronda, e all'inizio s'amarono a sufficienza. Durante i tumulti Fouquet si comportò come il migliore dei sudditi, e Colbert lo adulò, rendendogli i propri servigi quando Fouquet divenne Procuratore Generale di Parigi, carica che accumulò con quella di Sovrintendente alle Finanze. Ma non durò molto: Colbert non poteva sopportare che la stella di Fouquet risplendesse così alta e chiara. Come perdonare allo Scoiattolo la celebrità, la fortuna, il fascino, il lavoro agile e lo spirito pronto (mentre Colbert sudava duro per farsi venire buone idee), e infine la fastosa biblioteca di cui egli, incolto, non avrebbe neanche saputo servirsi? Il Serpente si finse dunque ragno e mise mano alla tela». I risultati dei maneggi di Colbert arrivarono presto. Dapprima instillò il veleno della diffidenza in Mazzarino, poi nel Re. Il Regno usciva allora da decenni di guerra e di povertà, e non fu difficile falsificare le carte per accusare il Sovrintendente d'aver accumulato ricchezze alle spalle del Sovrano. «Fouquet era molto ricco?» «Non lo era affatto, ma lo doveva sembrare per ragioni di Stato: solo in tal modo poteva ottenere sempre nuovi crediti e soddisfare così le pressanti richieste di denaro da parte di Mazzarino. Il Cardinale, lui sì, era ricchissimo. Eppure il Re lesse il suo testamento, poco prima della morte di questi, e non ebbe niente da ridire». Non era però questa, spiegò Atto, la vera questione per Colbert. Una volta morto il Cardinale, si doveva decidere chi avrebbe preso il suo posto. Fouquet aveva abbellito il Regno, gli Imprimatur - Monaldi & Sorti
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aveva dato la gloria, s'era profuso giorno e notte per esaudire le pretese di nuove entrate: si pensava a ragione che toccasse a lui. «Ma quando venne chiesto al giovane Re chi fosse il successore di Mazzarino, egli rispose: «C'est moi». Non c'era più posto per un prim'attore oltre al Sovrano, e Fouquet era di stoffa troppo raffinata per fare il secondo. Colbert invece era perfetto nel ruolo di leccapiedi: era assetato di potere, fin troppo simile al Re nel prendersi sul serio, e proprio per questo non sbagliò una mossa. Luigi XIV ci cadde in pieno». «Allora è per l'invidia di Colbert che Fouquet venne perseguitato». «Ma è chiaro. Durante il processo, il Serpente si coprì di vergogna: subornò giudici, falsificò documenti, minacciò e ricattò. A Fouquet non restarono che l'eroica difesa di La Fontaine, la perorazione di Corneille, le coraggiose lettere che i suoi amici inviarono al Re, la solidarietà e l'amicizia delle nobildonne e, tra il popolo, la fama d'eroe. Solo Molière, vile, tacque». «E voi?» «Be', io non ero a Parigi e potei fare ben poco. Ora però è bene che tu mi lasci. Sento che gli altri pigionanti stanno scendendo per la cena, e non voglio attirare l'attenzione del nostro ladro: deve credere che nessuno sia all'erta».
In cucina, vista l'ora tarda e gli altri pigionanti già da molto in attesa, non potei fare di meglio che distribuire gli avanzi del pranzo con l'aggiunta di qualche uovo e un poco di scaroletta bianca. Certo, ero solo un piccolo garzone d'alcuna esperienza ai fornelli: non potevo competere con la maestria del mio padrone, e i pigionanti cominciavano ad accorgersene. Durante il pasto non notai alcunché d'insolito. Brenozzi, col suo roseo visino da Bambinello, continuava a pizzicarsi il raperonzolo tra gl'inguini, osservato gravemente dal medico che si 106/703
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stringeva con una mano la nera barbetta a pizzo sul mento. Stilone Priàso, nell'ispido e nigro cipiglio gufesco, era sempre preda dei suoi molteplici automatismi: sfregarsi la gobba del naso, pulirsi i polpastrelli, scrollare un braccio come per far scendere una manica, allontanare la camicia dal collo, passarsi le palme delle mani sulle tempie. Devizé frattanto, com'era sua abitudine a tavola, si nutriva rumorosamente, e quasi soverchiava l'inarrestabile loquela vanamente dispersa da Bedfordi all'indirizzo di Dulcibeni, sempre più impenetrabile, e di padre Robleda, che annuiva all'inglese con occhio vacuo. L'abate Melani consumò il pasto in completo silenzio, sollevando solo a tratti lo sguardo. Si alzò un paio di volte, preda d'una scarica di starnuti, per portarsi al naso un fazzoletto di pizzo. Quando il pasto era ormai al termine e già tutti s'apprestavano a rientrare nelle loro stanze, Stilone Priàso ricordò al medico la sua promessa di chiarirci le idee su quante speranze avevamo d'uscire vivi dalla quarantena. Cristofano non si fece pregare e, di fronte al piccolo uditorio, cominciò una dottissima dissertazione in cui spiegò, con abbondanza d'esempi tratti dalle opere degli Autori antichi e moderni, in quale modo si produca il contagio pestifero: «Posto che la prima cagione per la quale giunge al mondo il contagio di peste sia la volontà divina e che non esiste rimedio migliore della preghiera, dovete sapere ch'essa procede dalla corruzione dei quattro elementi, aria acqua terra e fuoco, che entrano attraverso l'aere nel naso e nella bocca: per altro luogo infatti la peste non può entrare nel corpo. D'estate, com'è il nostro caso, si ha la corruzione del fuoco o calor naturale: il morbo che da essa procede dà febbri, dolori di testa e tutto quanto v'ho già spiegato prima al capezzale di Pellegrino. Il morto, poi, diventa subito negro e caldissimo. Per evitare un tale eccesso occorre tagliar le giandusse appena mature, e porre impiastri sulle ferite. In inverno, invece, si rischia la peste che viene dalla corruzione della terra, che quindi causa giandusse simili a quei tuberi che durante la stagione fredda riposano nelle viscere del Imprimatur - Monaldi & Sorti
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terreno. E son bubboni, questi, da far maturare con unguenti caldi. In primavera e in autunno, invece, quando le acque sono più abbondanti, la peste procede dalla corruzione appunto dell'acqua, causata a volte anche dai Pianeti celesti, e fa giandusse acquose che, rotte, si sanano con gran prestezza. La cura consiste allora nel far uscire l'acqua velenosa con purghe, balsami e sciroppi. Comunque, è sempre l'aere cattivo a far la parte maggiore nel diffondersi del contagio. L'aria entra in tutto, perché non datur vacuum in natura. Per questo è bene porre delle fiaccole agli angoli delle strade. La fiamma purifica: con essa s'affina l'oro, si purifica l'argento, si purga il ferro, si liquefanno i metalli, calcinansi le pietre vive, cocinansi le vivande, scaldansi le cose fredde e disseccansi le cose umide. La fiamma, dunque, purificherà anche l'aere dalla corruzione e malignità sua. È un rimedio da seguire specie nelle città, che sono più atte a ricever corruzione rispetto alle campagne che sono aperte». «Siamo nel posto peggiore, allora, qui al centro dei borghi romani» intervenni con orrore. «Purtroppo. A mio modesto parere» enunciò Cristofano con in verità assai scarsa modestia «la causa dell'aria cattiva di alcune città, come Roma, procede anzitutto dall'esser dispopolate. Infatti Roma, città santa e antichissima e dominatrice di tutto l'universo, nel tempo che trionfava e accoglieva gente d'ogni nazione, godeva dell'aere migliore e più salutifero. Oggi invece respiriamo in essa, ormai dispopolata dalle guerre, un'aria corrottissima. Lo stesso si dica di Terracina, di Romana Cervetro, della città in spiaggia di Nettuno, come anche di Baia nel Regno di Napoli, Avernia, Dignano, e la gran città di Como, che già furono tanto famose e vi abitavano tante genti ch'era cosa di stupore: oggi sono così rovinate in tutto e di aria così trista che le genti non vi possono abitare. Al contrario, a Napoli e Trapani, che per il cattivo aere non vi si poteva stare, ora che son floride e ben coltivate l'aria è perfetta. Questo anche perché nelle terre selvatiche crescono erbe velenose e animali tossicosi, e l'uno e 108/703
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l'altro attossicano le genti. Insomma, anche qui a Roma era ragionevole nutrire timori. Pur se l'ultima epidemia di peste risale al 1656, ben ventisette anni fa. Se è veramente peste, a noi è toccata la mala sorte d'aprirle le porte questa volta». Restammo in silenzio per qualche istante, meditando le parole che il medico aveva con tanta gravità dispensato al suo magro uditorio. Atto riprese la parola: «Come si trasmette?». «Attraverso gli odori, facillime. Ma anche tramite oggetti pelosi come coperte o pellicce, che per questo andranno bruciati. Gli atomi impuri, secondo alcuni Autori, vi s'abbarbicano con forza, per poi lasciarsi cadere più tardi» rispose Cristofano con ovvietà. «Quindi i vestiti del signor Pellegrino ci avrebbero potuto infettare» dissi reprimendo un accesso di panico. «Se posso essere più chiaro» rispose smorzando lievemente il tono di supponenza «non sono del tutto certo che le cose stiano davvero così. In realtà, nessuno sa con certezza come si propaghi il morbo. Conobbi a Palermo uno speziale vecchissimo, d'ottantasette anni, Giannuccio Spatafora, di grandissima dottrina ed esperienza. Mi disse che le epidemie di peste che attaccavano la città erano senza spiegazione: l'aria di Palermo era buonissima, al riparo dai venti di Ostro e di Scirocco, che molto nuocciono alla salute e alla fertilità dei Paesi, e gonfiano gli uomini generando una certa specie di febbri continue che ammazzano in gran quantità. Eppure, la peste a Palermo era di così rea qualità che, stordita appena la testa, faceva cader a terra e morire subito dopo. E dopo morti si diventava negri e caldissimi». «Insomma, nessuno sa veramente come si diffonda il contagio» lo incalzò Atto. «Posso dire che molte epidemie sono sicuramente iniziate a causa di qualche malato che portava l'infezione da una zona infetta» rispose Cristofano. «Qui a Roma per esempio, nell'ultima epidemia, neanche trent'anni fa, si disse che il morbo era arrivato da Napoli, portato da un ignaro pescivendolo. Ma mio paImprimatur - Monaldi & Sorti
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dre, che fu Provveditore alla Sanità nella grande peste di Prato del 1630 e si prese cura di molti appestati, molti anni dopo mi confidò che la natura del male è misteriosa, e che nessuno degli antichi Autori l'aveva saputa penetrare». «E aveva ragione». Ci colse di sorpresa la voce aspra e severa di Pompeo Dulcibeni, l'anziano viaggiatore che accompagnava Mourai. Esordì con tono sommesso: «Un dottissimo uomo di Chiesa e di Scienza ha mostrato la strada su cui procedere. Ma purtroppo non è stato ascoltato». «Un uomo di Chiesa e di Scienza. Lasciatemi indovinare: padre Athanasius Kircher, magari» azzardò il medico. Dulcibeni non rispose, lasciando intuire che il medico aveva indovinato, e scandì: «Aerem, acquam, terram innumerabilibus insectis scatere, adeo certum est». «Sta dicendo che la terra, l'aria e le acque pullulano di minuscoli esseri invisibili a occhio nudo» tradusse Cristofano. «Ebbene» riprese Dulcibeni «questi esseri minuscoli provengono dagli organismi in putrefazione, ma lo si è potuto osservare solo dopo l'invenzione del microscopio, e quindi...». «Lo conoscono così in tanti, quel gesuita tedesco» lo interruppe Cristofano con una punta di scherno «che il signor Dulcibeni a quanto pare lo cita perfino a memoria». A me, per la verità, il nome di Kircher non diceva proprio nulla. Ma che fosse conosciuto doveva esser vero: a sentire il nome di padre Athanasius Kircher, l'intero uditorio aveva fatto cenni di assenso. «Le idee di Kircher però» continuava intanto Cristofano «non hanno ancora soppiantato quelle dei grandi Autori, i quali invece...». «Forse le dottrine di Kircher possono avere qualche fondamento, ma solo la sensazione può essere base solida e affidabile per la nostra conoscenza». S'era interposto stavolta il signor Bedfordi. Il giovane inglese, che sembrava essersi liberato dal terrore della sera prima, 110/703
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aveva ripreso l'abituale spocchia. «La stessa causa infatti» proseguì «può in diversi casi produrre effetti opposti. Non è forse la stessa acqua bollente a indurire l'uovo e ad ammollare la carne?» «So benissimo» sibilò aspramente Cristofano «chi mette in giro questi sofismi: il signor Locke e il suo compare Sidenamio, che sapranno anche tutto dei sensi e dell'intelletto, ma a Londra pretendono di curare i malati senza essere medici!» «E allora? A loro interessa curare» ribatté Bedfordi «e non raccattare pazienti con le chiacchiere, come fanno certi medici. Vent'anni fa, mentre la peste a Napoli faceva ventimila morti al giorno, medici e speziali napoletani venivano a Londra a vendere i loro metodi segreti contro il contagio. Bella roba: fogli da appendere al petto col segno dei gesuiti I.H.S. tracciato dentro una croce; o il famoso cartello, da appendere al collo con la scritta:
A questo punto il giovane inglese, ravviatosi con vanità la rossa chioma e appuntando sull'uditorio (tranne me cui non badava affatto) i glauchi occhietti strabici, s'alzò e s'appoggiò al muro concedendosi un più tranquillo discorrere. Gli angoli delle strade e i pali delle case, narrava, erano ricoperti d'avvisi di medicastri in cui s'invitava la gente a comprare «infallibili pillole», «impareggiabili pozioni», «antidoti regali» e «acque universali» contro la peste. «E quando non truffavano con queste idiozie» proseguì BeImprimatur - Monaldi & Sorti
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dfordi «spacciavano pozioni a base di mercurio, che avvelenavano il sangue e ammazzavano peggio della peste». Proprio quest'ultimo intervento dell'inglese ebbe su Cristofano l'effetto d'una miccia, e riaccese violentemente la disputa tra i due. In quel momento anche padre Robleda s'unì alla discussione. Dopo aver emesso a mezza bocca inintelligibili borbottìi di commento, il gesuita avanzò per prendere le difese di padre Kircher, suo confratello. Ma le reazioni non si fecero attendere e ne scaturì un'indecorosa lite, in cui ognuno cercava d'imporre i propri argomenti assai più con la forza della voce che con quella del ragionamento. Era la prima volta, nella mia povera vita di garzone, che assistevo a una così dotta tenzone, pur essendo assai sorpreso e deluso dalla litigiosità dei partecipanti. Ne ricavai comunque le prime informazioni sulle teorie di quel misterioso Kircher, che non poteva non suscitare curiosità. Nel giro di mezzo secolo di studio indefesso, il dottissimo gesuita aveva riversato la sua multiforme dottrina in oltre trenta magnifiche opere sui più svariati argomenti, tra cui anche un trattato sulla peste, lo Scrutinium phisico-medicum contagiosae luis quae pestis dicitur, pubblicato ormai venticinque anni prima. Lo scienziato gesuita sosteneva d'aver fatto con il suo microscopio grandi scoperte, di fronte alle quali il lettore sarebbe forse rimasto incredulo (come infatti poi era avvenuto), ma che comprovavano l'esistenza di esserini invisibili, che a suo dire erano causa del contagio pestifero. Secondo Robleda, a sostenere la scienza del padre Kircher c'erano facoltà degne di un veggente, o comunque ispirate dall'Alto. E se questo strano padre Kircher, pensai, avesse saputo davvero come guarire dalla peste? Ma visto il clima rovente, non osai far domande. Attento come e più di me alle notizie sul padre Kircher era stato per tutto il tempo l'abate Melani. Costretto a sfregarsi ri112/703
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petutamente il naso nel vano tentativo di reprimere alcuni sonori starnuti, non aveva più interloquito, ma i suoi occhietti aguzzi s'appuntavano lesti alle bocche che rimpallavano l'una all'altra il nome del gesuita tedesco. Io, da parte mia, ero al contempo terrorizzato dall'incombente pericolo della peste e affascinato da quelle dotte teorie sul contagio, di cui allora per la prima volta apprendevo l'esistenza. Per questo non venni insospettito (mentre invece avrei dovuto) dal fatto che Dulcibeni conoscesse così bene la vecchia e dimenticata teoria di Kircher sulla peste. E non notai come Atto avesse drizzato le orecchie quando era stato fatto il nome di Kircher. Dopo ore di discussione, buona parte dei pigionanti - ormai sopraffatta dalla noia - era lentamente sciamata verso il proprio letto, lasciando soli i litiganti. E di lì a poco, senza il sollievo d'una pacificazione, ce ne andammo tutti a dormire.
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Nottata seconda. Tra il 12 e il 13 settembre 1683
A
ppena rientrato nella mia stanza, mi sporsi dalla finestra e, tramite una canna, allungai fin davanti alla finestra di Atto un capo della cordicella che avremmo dovuto tirare per dare l'allarme. Mi sdraiai sul letto, tenendo la porta semiaperta e le orecchie ben diritte, pur timoroso di non poter resistere per molto al sonno. Mi disposi tuttavia all'attesa, anche perché nel letto di fronte a me giaceva semincosciente il mio povero padrone, e Cristofano s'era raccomandato di tenerlo d'occhio. Gli sistemai alcuni panni vecchi nelle brache, per assorbire eventuali minzioni, spensi il lume e iniziai la veglia. Il racconto dell'abate Melani, pensai, m'aveva in parte tranquillizzato. Aveva ammesso senza difficoltà l'amicizia con Fouquet. E aveva chiarito perché mai il Sovrintendente fosse caduto in disgrazia: più che il disappunto del Re Cristianissimo, era stata l'invidia di Colbert. Chiunque conosce la forza maligna dell'invidia: non potevano esser dovute a essa anche le chiacchiere di Devizé, Stilone Priàso e Cristofano sul conto dell'abate? Forse l'ascesa del figliuolo d'un campanaio, che da povero castrato qual era in gioventù, era giunto ora a dispensare consigli al Re Sole, aveva suscitato troppe gelosie. Certo, i tre avevano mostrato di conoscerlo e i loro discorsi non potevano essere frutto di fantasia. Tuttavia l'ostilità di Cristofano poteva ben essere dovuta all'invidia di un conterraneo: nemo propheta in patria dice il Vangelo. Che pensare poi della strana men114/703
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zogna di Devizé? Aveva raccontato di aver visitato a Venezia il teatro del Cocomero, che invece si trovava a Firenze. Dovevo dunque guardarmi anche da lui? Il racconto di Atto comunque era non solo credibile, ma anche grandioso e straziante. Sentii prorompere nel mio petto l'amaro pentimento per averlo creduto un furfante, un dissimulatore pronto a tradire e a mentire. Ero stato io a tradire, in realtà, il sentimento d'amicizia che s'era sprigionato durante la nostra prima conversazione nella cucina, e che avevo avvertito genuino e veridico. Gettai un'occhiata al mio padrone, che sembrava dormire da molte ore un sonno pesante e innaturale. Troppi erano i misteri da sciogliere: cos'aveva ridotto il mio padrone in quello stato? E prima di lui, di cos'era stato vittima il signor di Mourai? E infine, cos'aveva indotto Brenozzi a regalarmi le preziose perline, e perché poi m'erano state trafugate? La mia mente era ancora pervasa da tali assilli, quando mi svegliai: senza neppure rendermene conto, m'ero assopito. Era stato uno scricchiolio a destarmi: mi levai di soprassalto, ma immediatamente una forza oscura e sleale mi fece precipitare a terra, dove a malapena riuscii a evitare d'essere sbattuto con violenza. Imprecai: avevo dimenticato la cordicella che collegava la mia caviglia destra a quella dell'abate Melani. Alzandomi v'ero inciampato, e cadendo avevo provocato uno strepito che aveva quasi avuto l'effetto di destare il mio padrone, il quale infatti mugolò sommessamente. Eravamo al buio: forse a causa della mancanza d'olio, il mio lume si era spento. Tesi le orecchie: nel corridoio non v'era più rumore di sorta. Non appena mi rialzai, cercando a tastoni il bordo del letto, udii però nuovamente uno scricchiolio, seguito da un mezzo tonfo, un tramestio metallico e poi da un altro scricchiolio. Il cuore mi batteva forte: era certamente il ladro. Mi liberai del lacciuolo che m'aveva fatto cadere, cercai alla cieca il lume che si trovava sul tavolo nel mezzo della stanza, ma senza successo. Vincendo a fatica la paura, decisi allora di uscire dalla camera per Imprimatur - Monaldi & Sorti
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intercettare il ladro, o almeno per indovinarne l'identità. M'immersi nel buio del corridoio, senza aver idea di come comportarmi. A fatica percorsi in discesa la rampa che mi separava dallo stanzino. Se mi fossi trovato a tu per tu con il misterioso individuo l'avrei aggredito, ovvero avrei chiamato aiuto? Senza sapere perché, m'abbassai e cercai di avvicinarmi alla porta dello stanzino, tendendo le mani di fronte a me a difesa del volto e a esplorazione dell'ignoto. Il colpo arrivò crudele e improvviso. Qualcuno, o qualcosa, mi aveva offeso la guancia, lasciandomi dolorante e confuso. Preda del terrore, cercai di sottrarmi a un secondo fendente arretrando verso il muro e urlando. La mia angoscia divenne insopportabile non appena scoprii che dalla mia bocca non proveniva alcun suono: a tal punto il panico mi stritolava l'ugola e i polmoni. Stavo per rotolarmi disperatamente a terra pur di sfuggire all'ignoto nemico, gemendo come un vitello prima del sacrificio, quando una mano mi strinse il braccio con decisione, e al contempo udii: «Cosa fai, sciocco?». Era al di là di ogni dubbio la voce di Atto, accorso dopo aver avvertito la corda tendersi quando io, allarmato dallo scricchiolio sospetto, m'ero alzato all'improvviso. Gli spiegai l'accaduto, lagnandomi per il colpo ricevuto al viso. «Quello non era un colpo, ero io che correvo ad aiutarti, mentre tu ti sei precipitato giù dalle scale come un babbeo e ti sei scontrato con me» mi bisbigliò soffocando l'ira. «Dov'è il ladro?» «Io veramente tranne voi non ho visto nessuno» sussurrai ancora tremante. «Io invece sì. Mentre salivo ho sentito sferragliare le sue chiavi. Dev'essere entrato nello stanzino» disse accendendo un lume che aveva avuto l'accortezza di portare con sé. Scorgemmo dall'alto una lama di fioca luce sotto la porta di Stilone Priàso, sul lato destro del corridoio del secondo piano. L'abate m'invitò ad abbassare la voce e m'indicò l'uscio del piccolo andito in cui supponeva che il ladro si fosse infilato. La 116/703
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porticina era socchiusa. All'interno, il buio. Ci guardammo e trattenemmo il fiato. Il nostro uomo doveva trovarsi lì dentro, consapevole di essere ormai in trappola. L'abate esitò un momento, e poi aperse con decisione la porticina. All'interno, nessuno. «Non è possibile» disse Melani visibilmente deluso. «Se fosse scappato giù per le scale si sarebbe imbattuto in me. In su, anche se fosse riuscito a superarti, non vi sono altre possibilità di fuga: la porta che dal torrino di Cloridia dà sui tetti è stata sigillata dall'esterno. Se poi avesse aperto l'uscio di una delle altre stanze l'avremmo senz'altro udito». Eravamo al colmo dello sconcerto. Stavamo quasi per battere in ritirata, quando Atto mi fece cenno di restare sul posto e si avviò rapido giù per la rampa di scale. Seguii il suo lume a olio con lo sguardo e lo vidi sostare alla finestra che dal corridoio del secondo piano dava sul cortile interno. Appoggiò il lume per terra e lo intravidi sporsi alquanto dal davanzale. Rimase così per un po'. Incuriositomi, m'avvicinai anch'io alla piccola grata della finestrella che di giorno illuminava lo stanzino. Ma era troppo in alto per me, e non vidi altro se non una notte illuminata da una fioca luna. Tornato nello stanzino, l'abate si chinò sul pavimento e ne misurò a palmi la lunghezza, arrivando a infilarsi fin sotto lo scaffale degli attrezzi a ridosso della parete in fondo. Ristette a pensare un attimo, indi ripetè l'operazione considerando stavolta anche lo spessore delle mura. Indi prese la distanza tra la finestrella e il muro di fondo. Quando finalmente si scrollò le mani dalla polvere, m'afferrò senza proferir verbo e, issatomi di peso su uno sgabello e messami sulla testa la lanterna, che dovevo così reggere con le mani, mi pose davanti alla grata: «Non ti muovere!» m'ingiunse puntandomi il dito sul naso. Lo sentii ridiscendere a tastoni fino alla finestra del secondo piano. Quando infine fu tornato su e mi guardò, ero impaziente di partecipare alle sue riflessioni. «Seguimi bene. Il ripostiglio è lungo poco oltre otto palmi, Imprimatur - Monaldi & Sorti
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vale a dire che è alquanto angusto. Si arriverà forse a dieci palmi, se si aggiungono le mura. Come si può ben vedere dal cortile, la piccola ala cui appartiene questo stanzino è stata costruita in un secondo tempo rispetto alla locanda. Essa, infatti, appare dall'esterno come un gran pilastro che da terra corre fin quassù, attaccato allo spigolo posteriore del muro occidentale dell'edificio. Solo, c'è qualcosa che non torna: il pilastro è ampio almeno il doppio dello stanzino. Questa finestrella, come vedi, è vicinissima allo scaffale, a non più di un paio di palmi dalla fine dello stanzino. Quindi, anche vista da fuori, avrebbe dovuto risultare in prossimità dello spigolo esterno dell'ala. Ma, quando là sotto dal corridoio del secondo piano mi sono affacciato, ho visto che la finestrella, illuminata dal lume da te sorretto, non era neanche alla metà della parete in cui è stata ricavata». L'abate s'arrestò, attendendosi forse che arrivassi io alle conclusioni. Ma non ci avevo capito un'acca, soffocato com'ero nella testa da figure geometriche ammucchiate le une sulle altre e richiamate a frotte dallo stringente ragionamento di Atto. Così proseguì: «Perché tutto questo spazio sprecato? Perché nessuno ha rubato un po' di spazio a vantaggio dello stanzino, tanto angusto che non ce la facciamo a starci in due senza sfiorarci?». Andai anch'io ad affacciarmi alla finestra del secondo piano, felice anzitutto di prendere una boccata dell'aria fresca notturna. Sgranai gli occhi. Era vero. Il chiarore del lume a olio che intravedevo dalla grata dello stanzino era curiosamente lontano dallo spigolo esterno, evidenziato dal riverbero lunare. Non vi avevo mai fatto caso, troppo indaffarato il giorno e troppo stanco la notte, per poltrire al davanzale. «E sai qual è la spiegazione, ragazzo?» mi prevenne l'abate Melani appena risalii da lui. Senza attendere la mia risposta, infilò le braccia nello scaffale degli attrezzi appoggiato alla parete in fondo, e cominciò a 118/703
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tastare avidamente il muro retrostante. Sbuffando, mi chiese di aiutarlo a spostare il mobile. L'operazione non fu troppo difficile. L'abate sembrò non essere affatto sorpreso dalla rivelazione che si parò di fronte ai nostri occhi: semicelato dalla sporcizia che il tempo aveva irriguardosamente asperso sulla parete, emergeva il profilo d'una porta. «Eccoti qui» esclamò soddisfatto. E senza paura diede una spinta alle vecchie assi, che cigolarono.
La prima cosa che avvertii fu una corrente umida e fredda che mi alitava sul viso. Davanti ai nostri occhi s'era aperta una cavità nerastra. «È andato lì dentro» conclusi con ovvietà. «Pare proprio di sì» rispose l'abate spingendo in avanti il naso con diffidenza. «Questo maledetto stanzino aveva un doppio fondo. Vuoi entrare per primo?» Il mio silenzio parlò da solo. «E va bene» concesse Atto, infilando il lume per poter farsi strada. «Tocca sempre a me risolvere tutto». Non aveva ancora finito di parlare che lo vidi aggrapparsi disperatamente alla vecchia porta che avevamo appena varcato, trascinato in giù da una forza irresistibile. «Aiutami, presto» invocò. Un pozzo: Melani stava per precipitarvi, con conseguenze sicuramente fatali. Era riuscito a malapena ad aggrapparsi allo stipite e a lasciar penzolare le gambe nell'oscurità vorace che si apriva sotto di noi. Quando si fu rialzato, grazie al mio pur debole sostegno, eravamo al buio: il lume, sfuggendo di mano all'abate, era stato ingoiato dal buco nero. Ne andai quindi a prendere un altro nella mia stanza, che ebbi cura di chiudere a chiave. Pellegrino dormiva tranquillo e fortunatamente ignaro, Imprimatur - Monaldi & Sorti
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pensai, di quanto si agitava nella sua locanda. Quando tornai, Atto si stava già calando nella cavità. Si mostrava particolarmente agile per la sua età. Come avrei avuto modo di notare anche in seguito, possedeva una sorta di controllato ma fluido vigore dei nervi, che lo sorreggeva costantemente nel corpo. Non si trattava propriamente d'un pozzo, mi mostrò brandendo il lume, giacché nella pietra era infissa una serie di sostegni in ferro, a mo' di gradini, che rendeva possibile una cauta discesa. Ci calammo lentamente nel pertugio verticale, non senza timore. Durò poco: ben presto ci trovammo in piedi su un rozzo basamento di mattoni. Ci guardammo attorno, puntando la lanterna, e scoprimmo che il percorso non s'era interrotto, ma proseguiva su uno dei lati corti del pianerottolo con una scala in pietra a pianta quadrata. Ci sporgemmo, per cercare d'individuarne, invano, la fine. «Siamo sotto lo stanzino, ragazzo». Accennai un flebile mugugno di commento, visto che la cosa non m'era punto di consolazione. Proseguimmo in silenzio. Stavolta la discesa sembrava non aver mai fine, anche a causa di una sottile pellicola melmosa che avvolgeva ogni cosa e rendeva il cammino assai periglioso. A un certo punto la scala mutò completamente aspetto: ricavata nel tufo, divenne strettissima e alquanto sconnessa. L'aria s'era fatta pesante, segno inequivocabile che eravamo nel sottosuolo. Continuammo a scendere, finché ci trovammo in una galleria buia e ostile scavata nell'umida terra. Unici nostri compagni, l'aria pesante e il silenzio. Avevo paura. «Ecco dov'è andato il nostro ladro» sussurrò l'abate Melani. «Perché parlate così piano?» «Potrebbe essere qui vicino. Voglio essere io a sorprenderlo, e non il contrario». Invece il ladro non era a pochi passi di distanza, né più oltre. Ci incamminammo per la galleria, in cui l'abate Melani era co120/703
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stretto a procedere a testa china a causa del soffitto, se così lo si poteva chiamare, assai basso e irregolare. M'osservò andar spedito innanzi a lui: «Per una volta t'invidio, ragazzo». Procedevamo con grande lentezza su un sentiero reso occasionalmente compatto solo da pietre e mattoni disposti capricciosamente. Proseguimmo per alcune decine di metri, durante i quali fu lo stesso abate a rispondere alla mia muta ma prevedibile curiosità. «Questo passaggio dev'essere stato costruito per permettere di emergere, non visti, in qualche punto remoto della città». «In tempo di peste, forse?» «Credo molto, molto prima. La sua utilità non sarà venuta mai a mancare in una città come questa. Forse è servito a qualche Principe romano per scatenare i suoi bravi contro qualche rivale. Le famiglie romane si sono sempre odiate e combattute con tutte le forze. Quando i Lanzichenecchi saccheggiarono Roma, alcune casate li aiutarono a depredare la città, purché colpissero i loro rivali. È possibile che il nostro albergo sia servito in origine come quartiere per gruppi di sicari e tagliagole. Magari al soldo degli Orsini, che possiedono molte case nelle vicinanze». «Ma chi ha costruito il sotterraneo?» «Osserva le pareti» l'abate accostò il lume al muro. «Sono in pietra di aspetto alquanto antico». «Antico come le catacombe?» «Forse. So che nei decenni passati un dotto sacerdote ha esplorato le cavità che si trovano in alcuni luoghi di Roma, e ha scoperto e disegnato innumerevoli pitture, tombe e resti di Santi e Martiri. In ogni caso è certo che sotto le case e le piazze di alcuni quartieri vi sono passaggi e gallerie, a volte costruiti dagli antichi Romani, a volte invece scavati in tempi a noi più vicini». Incamminandoci per gli angusti passaggi, nonostante la nostra perigliosa condizione, l'abate non pareva voler rinunciare alla sua passione per i racconti. E, in un flautato bisbiglio, agImprimatur - Monaldi & Sorti
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giunse che l'Italia abbonda da tempi remotissimi di passaggi segreti scavati nella roccia o nella terra, che erano stati dapprima concepiti per sfuggire ad assedi e assalti armati, come i condotti che permettono di evadere non visti da rocche e castelli, ma anche per organizzare convegni segreti, o addirittura per incontri amorosi, come si è detto facessero madonna Lucrezia Borgia e suo fratello Cesare con i loro numerosi amanti. Ma dei cunicoli segreti si doveva anche massime diffidare, poiché a garanzia della loro inviolabilità non c'era solo il segreto (che a volte era costato la vita a chi li aveva costruiti), ma anche molte insidie: per ingannare e distogliere gl'intrusi spesso venivano costruiti passaggi senza uscita, o porte invisibili governate da contrappesi e nascoste nei muri, che si aprono solo azionando congegni occulti. «Mi hanno raccontato di un labirinto sotterraneo costruito in Sicilia dal grande imperatore Federico, i cui corridoi celano aste le quali, se calpestate, liberano grate metalliche che piombano dall'alto e imprigionano senza scampo i visitatori, o lame affilate che, vomitate da invisibili feritoie, sono capaci di trafiggere e uccidere i passanti. Altri meccanismi aprono improvvisamente pozzi profondissimi in cui chi non ha contezza di tali minacce inevitabilmente precipita. Di alcune catacombe sono state prodotte piante piuttosto precise. Si dice che anche sotto il suolo di Napoli vi sia un numero sorprendente di cunicoli e percorsi sotterranei, ma non ne ho esperienza come invece per quelli di Parigi, che sono senz'altro assai estesi e in cui ho potuto fare qualche visita. So anche che in Piemonte, nel secolo scorso, presso un luogo chiamato Rovasenda centinaia di contadini furono braccati da soldati francesi, che li sospinsero dentro alcune caverne che si trovavano presso un fiume. Si narra che nessuno sia più uscito da quelle grotte: né gli assalitori, né tantomeno gl'inseguiti». «Il signor Pellegrino non mi ha mai parlato dell'esistenza di questo passaggio» sussurrai. «Lo credo bene. Non è cosa da rivelare, se non è indispensa122/703
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bile. E probabilmente neppure lui ne conosce tutti i segreti, visto che cura questa locanda da poco tempo». «E allora il ladro delle chiavi come ha individuato il passaggio?» «Forse il tuo buon padrone ha ceduto a un'offerta di soldi. O di vino Moscato» ridacchiò l'abate. Mentre procedevamo, mi sentii lentamente sopraffare da una sensazione di oppressione al petto e al capo. L'oscuro camminatoio in cui ci eravamo avventurati portava in una direzione sconosciuta e, verosimilmente, foriera di pericoli. Il buio, rotto solo dal lume a olio che portava di fronte a sé l'abate Melani, era spaventoso e nefasto. Le pareti della galleria, a causa del loro disegno tortuoso, impedivano di guardare di fronte a noi e facevano presagire a ogni passo qualche sgradevole sorpresa. E se il ladro, avvistando da lungi la luce della nostra lanterna, ci stesse aspettando dietro qualche sporgenza per tenderci un agguato? Pensai rabbrividendo alle minacce che popolavano le gallerie di cui sapeva l'abate Melani. Nessuno avrebbe mai recuperato i nostri corpi. I pigionanti della locanda avrebbero avuto buon gioco a convincere se stessi e gli armigeri che io e l'abate Melani eravamo fuggiti dalla locanda, forse saltando nottetempo da una finestra. Non saprei tuttora dire quanto a lungo durò l'esplorazione. Alla fine notammo che il sentiero sotterraneo, che inizialmente ci aveva portato sempre più in profondità, cominciava gradualmente a risalire. «Ci siamo» disse l'abate Melani. «Forse stiamo per sbucare da qualche parte». Mi dolevano i piedi e l'umidità cominciava ad attanagliarmi. Da parecchio non discorrevamo più, vogliosi solo di vedere la fine di quella spaventosa spelonca. Ebbi un moto di terrore quando vidi l'abate incespicare con un gemito e rischiar di cadere in avanti, lasciandosi quasi sfuggire la presa sul lume: perdere la nostra unica fonte di luce avrebbe reso un incubo la nostra presenza là sotto. Mi precipitai a sorreggerlo. Con eImprimatur - Monaldi & Sorti
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spressione a un tempo furente e sollevata per il rischio appena corso, l'abate illuminò l'ostacolo: una rampa di gradini in pietra, tanto alti quanto angusti, ci riportava verso l'alto. Li scalammo quasi strisciando, per non correre il rischio di cadere all'indietro. Durante l'ascesa una serie di curve costrinse Atto a rattrappirsi penosamente. Io, una volta tanto, me la cavavo meglio. Atto mi guardò: «T'invidio proprio, ragazzo» mi ripetè divertito, incurante che mostrassi di gradire poco la sua battuta. Eravamo lordati di fanghiglia, la fronte e il corpo aspersi di sudori immondi. Improvvisamente l'abate gridò. Un essere informe, rapidissimo e furtivo, mi piombò sulla schiena, strisciando malamente sulla gamba destra prima di rituffarsi nell'oscurità. Mi contorsi, proteggendomi la testa con le braccia per il terrore, ugualmente pronto a impetrare pietà e a difendermi alla cieca. Atto capì che il pericolo, se vi era stato, era durato il tempo d'un fulmine. «Strano che non ne avessimo ancora incontrati» commentò appena ripreso il controllo. «Si vede che siamo davvero fuori dalle rotte abituali». Un enorme topo di fiume, disturbato dal nostro arrivo, aveva scelto di scavalcarci anziché farsi ricacciare indietro. Nel suo folle scatto s'era abbarbicato sul braccio dell'abate Melani, mentre questi si appoggiava alla parete, ed era poi piombato con tutto il peso sulla mia schiena, paralizzandomi dal terrore. Ci fermammo, muti e spauriti, sino a quando il fiato riprese il ritmo normale. Ricominciammo l'ascesa, finché gli scalini cominciarono a essere intervallati da tratti orizzontali in mattoni, che si facevano ogni volta più lunghi. Fortunatamente avevamo una buona scorta d'olio: contravvenendo ai ricorrenti bandi dei Camerlenghi, avevo deciso di utilizzare anche olio buono commestibile. Sentivamo d'essere arrivati al tratto finale. Camminavamo ormai su un leggero pendio ascendente, che ci faceva dimenticare le fatiche e le paure da poco patite. Sbucammo improvvi124/703
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samente in uno spazio quadrangolare non più scavato ma in muratura. Aveva tutta l'aria d'essere un fondaco, o il sotterraneo d'un palazzo. «Siamo tornati tra gli uomini» disse l'abate salutando il nuovo ambiente. Di qui un'ultima scalinata, ripidissima, ma munita di un corrimano di corda assicurato alla parete di destra tramite una serie di anelli di ferro, conduceva verso l'alto. Ci inerpicammo fino alla sommità. «Maledizione» sibilò l'abate. E capii immediatamente cosa intendesse. Alla fine della scalinata c'era, come prevedibile, una porta. Era assai robusta ed era chiusa. Era l'occasione buona per riposare, sebbene in un sito così ostile, e riflettere sul nostro stato. La porticina in legno era sprangata con una sbarra di ferro arrugginita, da far scorrere fuori dal muro. Da essa, com'era facile indovinare dal fruscio di vento che arrivava fino a noi, si usciva all'aperto. «Ora non parlerò. Spiegami tutto tu» invitò l'abate. «La porta è chiusa dall'interno. Pertanto» mi sforzai di dedurre «il ladro non è uscito dalla galleria. Ma poiché non lo abbiamo incontrato, né abbiamo rinvenuto alcun bivio, se ne conclude che non ha preso la nostra strada». «Bene. E allora dov'è andato?» «Forse non si è neanche calato per il pozzo dietro lo stanzino» azzardai senza crederci un attimo. «Mmmh!» brontolò Atto. «Dove si sarebbe cacciato, quindi?» Ridiscese la scala e fece rapidamente il giro del fondaco. In un angolo, una vecchia barca di legno semimarcito confermava il sospetto che avevo nutrito appena arrivati fin lì: eravamo in prossimità delle sponde del Tevere. Aprii l'uscio, facendo scorrere non senza fatica il chiavistello. Illuminato dai flebili raggi della luna si mostrava l'inizio di un sentiero. Più in basso scorreva il fiume, e mi ritrassi naturalmente di fronte al baratro. Il Imprimatur - Monaldi & Sorti
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vento fresco e umido penetrò nel fondaco, facendoci respirare. Appena fuori dalla porta, un altro malcerto sentiero sembrava diramarsi verso destra, perdendosi tra le terre fangose della riva. L'abate prevenne i miei pensieri: «Se fuggiamo ora, ci prenderanno senza meno». «Insomma» gemetti sconsolato «siamo arrivati fin qui invano». «Tutt'altro» ribatté Atto impassibile. «Conosciamo comunque questa via di fuga, per ogni necessità. Non abbiamo trovato traccia del ladro, il quale pertanto non ha preso questa strada. Abbiamo tralasciato qualche altra possibilità, a causa d'una svista o di nostra incapacità. Ora torniamo indietro, prima che qualcuno s'accorga della nostra assenza».
Il ritorno verso l'albergo fu quanto mai penoso, e due volte più faticoso del primo viaggio. Privi dell'istinto di caccia che ci aveva sospinti all'andata (o almeno così era stato per l'abate Melani), ci trascinammo soffrendo ancor più la difficoltà del cammino, anche se il mio compagno di strada non desiderava ammetterlo. Una volta risalito il pozzo iniziale, e lasciatoci alle spalle con grande sollievo l'infernale cunicolo sotterraneo, riguadagnammo lo stanzino. L'abate, visibilmente frustrato per la spedizione andata a ufo, mi congedò dandomi alcune frettolose istruzioni per il giorno successivo. «Domani, se vuoi, potrai avvertire gli altri pigionanti che qualcuno ha trafugato la seconda copia delle chiavi, o che essa comunque è andata smarrita. Naturalmente non racconterai della nostra scoperta, né del tentativo che abbiamo fatto d'individuare il ladro. Non appena ne avremo l'occasione, ci consulteremo separatamente dagli altri, in cucina o in altro luogo sicuro, e ci terremo informati sulle novità». 126/703
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Annuii pigramente, a cagione della stanchezza, ma soprattutto dei dubbi che segretamente ancora nutrivo sull'abate Melani. Durante il ritorno in galleria avevo di nuovo mutato sentimento nei suoi confronti: mi ero detto che, fossero anche eccessive e malevole le dicerie sul suo conto, rimanevano pur sempre zone d'ombra nel suo passato e perciò, ora che era fallita la caccia al ladro delle chiavi, non intendevo oltre fargli da servo e da informatore e rischiare così di essere coinvolto in affari poco limpidi e forse pericolosi. E se era pur vero che il Sovrintendente Fouquet, del quale Melani era stato sodale, non era stato altro che un mecenate troppo splendido, vittima della regale gelosia di Luigi XIV e dell'invidia di Colbert, non si poteva però negare, mi ero ripetuto mentre ci affannavamo procedendo nell'oscurità, che mi trovavo pur sempre in compagnia di un personaggio aduso alle furbizie, alle sottigliezze, alle mille astuzie della Corte di Parigi. Sapevo quanto aspramente il nostro buon Papa, Innocenzo XI, fosse in contrasto con la Corte francese. Allora non ero in grado di spiegare perché tanta fosse l'acredine tra Roma e Parigi. Ma dai discorsi del popolo e di coloro che erano più addentro alle cose della politica, avevo chiaramente compreso che chi intendesse essere devoto al nostro Pontefice non poteva, e non doveva, essere amico della Corte gallica. E poi, tutta quella foga nell'inseguire il supposto ladro di chiavi, non era essa stessa degna di sospetto? Perché darsi a quell'inseguimento gravido di incognite e di pericoli, anziché attendere più semplicemente gli eventi e avvertire subito gli altri pigionanti della sparizione delle chiavi? E se l'abate avesse saputo molto più di quanto mi aveva confidato? Forse aveva già un'idea precisa di dove esse fossero nascoste. E se il ladro fosse stato proprio lui, e avesse cercato semplicemente di distogliere la mia attenzione per poi agire con più calma, magari quella stessa notte? Perfino il mio affezionato padrone m'aveva nascosto l'esistenza della galleria. Ebbene, per quale motivo un estraneo come l'abate Melani avrebbe dovuto confidarmi i suoi Imprimatur - Monaldi & Sorti
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reali intendimenti? Promisi pertanto genericamente all'abate di seguire le sue indicazioni, ma badai bene a disimpegnarmi con celerità, riprendendo il mio lume e sbarrandomi immediatamente in camera, ove avevo intenzione di pormi a riempire il mio diarietto con i numerosi accadimenti di quel giorno. Il signor Pellegrino dormiva placidamente, il respiro quasi del tutto sopito. Erano passate oltre due ore dal nostro ingresso nell'orrida galleria sotterranea, ne mancavano forse solo altrettante al risveglio ed ero allo stremo delle forze. Fu un puro caso se, un attimo prima di spegnere il lume, posai lo sguardo sulle brache del mio padrone scorgendo le chiavi sparite appese in bella mostra alla cintola.
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Giornata terza. 13 settembre 1683
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alla finestra trapelavano i raggi benefici del sole, che inondavano tutta la stanza di biancore, spargendo una luce pura e benedetta perfino sul volto sudaticcio e sofferente del povero signor Pellegrino, abbandonato sul suo letto. La porta si aprì e fece capolino il viso sorridente dell'abate Melani. «È ora d'andare, ragazzo». «Dove sono gli altri pigionanti?» «Sono tutti in cucina, ad ascoltare Devizé che suona la tromba». Strano: non sapevo che il chitarrista fosse anche virtuoso di quel fragoroso strumento, e massime non mi spiegavo che il suono argentino e potente dell'ottone non s'udisse ai piani superiori. «Dove andiamo?» «Dobbiamo tornare là sotto, l'ultima volta non abbiamo cercato a dovere». Entrammo nuovamente nello stanzino, ove apersi la porticina dietro lo scaffale. Sentii lambire il mio viso dall'aria umida. M'affacciai di malavoglia, illuminando l'inizio del pozzo con il lume. «Perché non aspettare la notte? Gli altri potrebbero scoprirci» protestai debolmente. L'abate non rispose. Estrasse dalla tasca un anello, e me lo pose sul palmo della mano chiudendomi le dita attorno al gioiello, come per sottolineare l'importanza della consegna. AnImprimatur - Monaldi & Sorti
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nuii, e iniziai la discesa. Appena arrivammo sul basamento di mattoni, ebbi un sussulto. Una mano nell'oscurità si era posata sulla mia spalla destra. Il terrore m'impedì sia di urlare che di girarmi. Oscuramente, percepii che l'abate m'invitava a restare tranquillo. Vincendo a fatica la paralisi che mi attanagliava, mi voltai per scoprire il volto del terzo esploratore. «Ricordati di onorare i morti». Era il signor Pellegrino, che con espressione sofferta così gravemente mi ammoniva. Non trovai parole per esprimere il mio sconcerto: chi era dunque il dormiente che avevo lasciato nel suo letto? Come aveva potuto Pellegrino traslarsi istantaneamente dalla nostra stanza assolata al buio e umido cunicolo? Mentre tali interrogativi cominciavano a prendere forma nella mia mente, Pellegrino parlò nuovamente. «Voglio più luce». Mi sentii improvvisamente scivolare all'indietro: la superficie dei mattoni era viscida e irresistibilmente sdrucciolevole; avevo forse perso l'equilibrio, pensai, nel voltarmi verso Pellegrino. Precipitai lentamente, ma con tutto il peso, verso l'apertura della scala, volgendo il dorso al suolo e il ventre al cielo (che da là sotto sembrava non essere mai esistito). Infilai miracolosamente di schiena i gradini che conducevano in basso senza incontrare alcuna resistenza, sebbene mi paresse di pesare più d'una statua di marmo peperino. L'ultima visione fu quella di Atto Melani e Pellegrino che assistevano con flemmatica indifferenza alla mia scomparsa, quasi fosse loro ignota la differenza tra vita e morte. Caddi, parimenti sopraffatto dallo stupore e dalla disperazione, come anima perduta che precipitando nell'Abisso infine conosce la propria dannazione. A salvarmi fu l'urlo che sembrava provenire da qualche piega inconoscibile del Creato e che mi destò, strappandomi all'incubo. Avevo sognato, e sognando avevo gridato. Ero nel mio letto, 130/703
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e mi voltai verso quello del mio padrone, che ovviamente era sempre rimasto dove lo avevo lasciato. Dalla finestra non entravano i bei raggi del sole, come nella visione onirica, ma il chiarore a un tempo rosato e bluastro che annuncia l'alba. L'aria pungente del primo mattino m'aveva infreddolito, e mi coprii meglio pur sapendo che non avrei ripreso sonno tanto facilmente. Dalle scale proveniva un lontano rumore di passi, e tesi l'orecchio per capire se qualcuno stesse avvicinandosi alla porta dello stanzino. Si trattava, come intuii chiaramente, di alcuni dei pigionanti che scendevano in cucina o al primo piano. Distinsi in lontananza la voce di Stilone Priàso e di padre Robleda, che chiedevano a Cristofano se avesse nuove sulla salute del signor Pellegrino. Mi alzai, prevedendo che in breve il medico sarebbe giunto a visitare il mio padrone. Il primo a bussare alla mia porta fu invece Bedfordi. Quando aprii, mi trovai di fronte un viso pallido, con grandi mezzelune scure sotto agli occhi, e sulle spalle un caldo mantello. Bedfordi era perfettamente abbigliato, e ciononostante era preda di brividi che lo scuotevano dalla schiena al capo, e faceva inutili quanto penosi sforzi per reprimerli. Mi pregò subito di farlo entrare, quasi certamente per non essere visto dagli altri pigionanti. Gli offersi un po' d'acqua e le pillole dateci da Cristofano. L'inglese declinò l'offerta giacché, disse preoccupato, esistevano pillole capaci di condurre il paziente alla morte. Venni colto alla sprovvista da tale risposta, ma fui costretto a insistere. «Ti dirò pure» disse con voce improvvisamente affievolita «che l'oppio e i purganti dei vari umori possono persino dare la morte, e ricordati sempre che i negri tengono nascosto sotto le unghie un veleno che uccide con una semplice graffiatura, e poi ci sono i serpenti a sonagli, sì, e ho letto di un ragno che schizzò nell'occhio del suo persecutore un veleno così potente che lo lasciò per molto tempo privo della vista...». Pareva febbricitante. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Ma Cristofano non farà nulla del genere» protestai. «... e queste sostanze» proseguì come se neppure mi avesse udito «agiscono per virtù occulta, ma le virtù occulte non sono altro che lo specchio della nostra ignoranza». Notai che le gambe gli tremavano, e per reggersi in piedi doveva appoggiarsi allo stipite della porta. Anche le sue parole somigliavano assai a un chiaro delirio. Bedfordi si sedette sul letto e mi sorrise con tristezza. «Lo sterco dissecca la cornea» recitò alzando severamente l'indice come un maestro che ammonisce gli studenti «l'erba senecio, portata appesa al collo, è buona per guarire le febbri terzane. Ma per l'isterismo ci vogliono gl'impacchi di sale ai piedi ripetuti più volte. E per apprendere l'arte medica, dillo al signor Cristofano quando lo chiamerai, invece di Galeno o Paracelso legga il Don Quixote». Poi si stese, chiuse gli occhi, incrociò le braccia sul petto per coprirsi e cominciò a tremare leggermente. Mi precipitai per le scale a chiamare aiuto.
Il grosso bubbone sotto l'inguine, più uno di dimensioni appena inferiori nell'incavo dell'ascella destra, avevano lasciato pochi dubbi a Cristofano. Questa volta purtroppo si trattava chiaramente di contagio pestilenziale, cosa che ovviamente tornava a gettare nere ombre anche sulla morte del signor di Mourai e sul singolare torpore che aveva ghermito il mio padrone. Non ci capivo più niente: per la locanda si stava aggirando un abile e oscuro assassino o piuttosto il ben noto morbo della peste? La notizia della malattia di Bedfordi gettò nello sconforto più profondo tutta la compagnia. Disponevamo solo di un giorno, prima che gli uomini del Bargello tornassero per l'appello successivo. Notai che molti mi schivavano, dal momento che ero stato forse il primo a venire a contatto con Bedfordi quan132/703
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do il morbo lo aveva aggredito. Tornava a regnare il sospetto. Cristofano fece però osservare che tutti avevamo parlato, mangiato e alcuni persino giocato a carte con l'inglese sino al giorno precedente. Pertanto nessuno poteva sentirsi al sicuro. Io, forse per una buona dose di giovanile temerarietà, fui l'unico a non cedere subito alla paura. Vidi invece i più pavidi di tutti, ossia padre Robleda e Stilone Priàso, correre a prelevare alcuni viveri che avevo lasciato a disposizione in cucina e dirigersi poi verso le proprie stanze. Li fermai, essendomi sovvenuto allora della necessità di officiare anche a Bedfordi il sacramento dell'Estrema Unzione. Stavolta però padre Robleda non volle udir ragioni: «È inglese, e so che aderisce alla religione riformata; è uno scomunicato, uno sbattezzato» rispose concitato, aggiungendo che l'olio degl'infermi era riservato agli adulti battezzati e precluso agli infanti, ai pazzi, agli scomunicati denunciati, ai pubblici peccatori impenitenti, agli ergastolani e alle partorienti; come pure ai soldati schierati in battaglia contro il nemico e a quanti fossero in pericolo di naufragare. M'investì pure Stilone Priàso: «Non sai che l'olio santo accelera la morte, fa cadere i capelli, fa partorire con maggior dolore e porta itterizia al nascituro, fa morire le api che volano attorno alla casa dell'ammalato, e che quelli che l'hanno ricevuto moriranno se danzeranno nel rimanente dell'anno, e che è peccato filare in camera dell'infermo perché morrà se si cessa di filare o se il filo si rompe, e che non si possono lavare i piedi se non molto tempo dopo che si è ricevuta l'Estrema Unzione, e che bisogna aver sempre una lampada o un cero acceso nella stanza del malato finché dura la malattia sennò il poveretto muore?». E, piantatomi in asso, corsero a sprangarsi ognuno in camera sua. Rientrai così dopo circa mezz'ora dentro la stanzetta del primo piano in cui giaceva Bedfordi, per vedere in quale stato egli versasse. Credetti che anche Cristofano fosse colà tornato, giacImprimatur - Monaldi & Sorti
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ché lo sventurato inglese stava discorrendo ed era apparentemente in compagnia. Mi avvidi subito però che io e il degente eravamo soli, e che egli in realtà era in preda al delirio. Lo trovai terribilmente pallido, un ciuffo di capelli appiccicato sulla fronte a cagione dell'abbondante sudore e le labbra insolitamente screpolate che lasciavano indovinare fauci arse e sofferenti. «Nella torre... è in torre» biascicò malamente rivolgendomi uno sguardo stanco. Parlava a vanvera. Elencò senza apparente motivo una serie di nomi a me ignoti, e che potei imprimermi in mente solo perché li ripetè più e più volte, intercalati da inintelligibili espressioni nel suo idioma patrio. Sospirava continuamente il nome di tale Guglielmo, nativo della città di Orange, che immaginai essere suo amico o conoscente. Stavo quasi per chiamare Cristofano, temendo che il male potesse inaspettatamente acutizzarsi e pervenire a esito fatale, quando arrivò il medico, attirato dai mugolii del malato. Con lui si accompagnavano Brenozzi e Devizé, che si tennero a prudente distanza. Il povero Bedfordi proseguiva il suo folle monologo citando il nome di tale Carlo, che Brenozzi ci chiarì essere Carlo II Re d'Inghilterra; il veneziano, che rivelò così di godere di una non disprezzabile conoscenza della lingua inglese, ci spiegò d'aver intuito che Bedfordi era da poco transitato per gli Stati d'Olanda. «E perché si era recato in Olanda?» domandai. «Questo non lo so» rispose Brenozzi zittendomi mentre tendeva nuovamente l'orecchio ai vaneggiamenti del malato. «Conoscete bene davvero la lingua inglese» osservò il medico. «Un mio lontano cugino, nato a Londra, mi scrive spesso per affari di famiglia. Io stesso sono lesto nell'apprendere come nel ritenere a memoria, e ho fatto molti viaggi per commerci vari. Guardate, sembra che si senta meglio». 134/703
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Il delirio del degente sembrava essersi placato e Cristofano ci invitò con un cenno a uscire nel corridoio. Qui trovammo ad attenderci, ansiosi di notizie, buona parte degli altri pigionanti. Cristofano parlò senza mezzi termini. Il procedere del morbo, disse, era tale da fargli dubitare della propria arte. Prima la poco chiara morte del signor di Mourai, poi l'incidente occorso al signor Pellegrino, tuttora ridotto in così pietoso stato, infine l'evidente caso di contagio che aveva colpito Bedfordi: tutto ciò aveva gettato nello sconforto il medico toscano, che di fronte a tanto concorso di mala sorte e di accidenti, ammetteva di non poter più fare fronte alla situazione. Ci guardammo l'un l'altro, pallidi e spauriti, per alcuni interminabili istanti.
Alcuni diedero in lamenti di disperazione, altri si rifugiarono in camera. C'era chi stringeva d'assedio il medico per ottenere sollievo ai propri timori, chi muto s'accasciava a terra col volto tra le mani. Lo stesso Cristofano s'affrettò verso la propria stanza, dove si serrò a chiave, chiedendo di poter restare un poco in pace per consultare qualche libro e meditare sulla situazione. Ma la sua ritirata appariva assai più come il tentativo di mettersi al riparo, che d'organizzare una riscossa. La nostra forzata prigionia aveva smesso il volto della commedia per vestire quello della tragedia. Alla scena di disperazione collettiva aveva assistito anche l'abate Melani, d'un pallore mortale. Ma più di chiunque ero io a essere preda di autentica disperazione. Il signor Pellegrino, pensavo tra le lacrime, aveva fatto della locanda la tomba sua e mia, nonché quella dei nostri pigionanti. E già immaginavo le scene di dolore che sarebbero seguite all'arrivo di sua moglie, quando avrebbe scoperto con i propri occhi la crudele opera della morte nelle stanze del Donzello. L'abate mi raccolse, seduto per terra nel corridoio di fronte alla stanza di Cristofano, mentre avevo ormai ceduto ai singhiozzi e mi coprivo il volto Imprimatur - Monaldi & Sorti
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inondato di lacrime. Carezzandomi il capo, mi sussurrò in un flebile canto: Piango, prego e sospiro, e nulla alfin mi giova.
Attese che mi calmassi, cercando blandamente di consolarmi; ma poi, vista l'inutilità di quei primi tentativi, mi sollevò di peso in piedi e m'appoggiò energicamente con le spalle al muro. «Non ho voglia d'ascoltarvi» protestai. Gli ripetei le parole del medico, alle quali aggiunsi che certamente saremmo tutti piombati in atroci sofferenze entro pochi giorni, o persino dopo qualche ora, come Bedfordi. L'abate Melani m'afferrò con forza e mi trascinò su per le scale fin dentro la sua stanza. Nulla però poteva riportarmi alla calma, cosicché l'abate dovette alfine darmi un deciso manrovescio, che ebbe l'effetto d'arrestare il singulto. Per qualche attimo mi misi in pace. Atto mi cinse fraternamente le spalle con un braccio e cercò con parole pazienti di convincermi a non cedere alla disperazione. L'importante era anzitutto ripetere l'abile messa in scena con cui avevamo celato agli uomini del Bargello la malattia di Pellegrino. Rivelare la presenza d'un appestato (questa volta, uno vero) all'interno della locanda avrebbe reso ancora più stretti e frequenti i controlli; saremmo forse stati deportati in un lazzeretto improvvisato in una zona meno popolosa, magari nell'isola di San Bartolomeo ov'era stato approntato l'ospedale degl'infermi nella grande pestilenza di trent'anni prima. A noi due restava sempre la via di fuga sotterranea, che avevamo scoperto insieme la notte appena trascorsa. Sfuggire alle ricerche in tal caso era - non lo negava - tutt'altro che facile, ma era pur sempre una soluzione praticabile ove gli eventi precipitassero. Mentre ero quasi ritornato alla calma, l'abate fece il punto: se Mourai era stato avvelenato e se i presunti bubboni di Pellegrino non erano che petecchie o, ancor meglio, due sem136/703
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plici ecchimosi, l'unico sicuramente appestato era per ora solo Bedfordi. Udimmo bussare alla porta di Atto: Cristofano chiamava tutti a raccolta nelle sale del pianterreno. Aveva, disse, urgenti comunicazioni da farci. Giunti nell'androne trovammo tutti i pigionanti riuniti ai piedi della scala anche se, dopo gli ultimi accadimenti, prudentemente distanziati tra loro. Devizé, in un cantuccio, addolciva il grave momento con le note del suo splendido e inquietante rondò. «È forse spirato il giovane inglese?» azzardò Brenozzi senza smettere di pizzicarsi il sedano. Il medico scosse il capo e invitò tutti a prendere posto. Il cipiglio di Cristofano strozzò l'ultima nota sulle dita del musico francese. Io mi recai in cucina, dove cominciai a dar intorno a pentole e fornelli per la preparazione del pranzo. Quando si furono tutti accomodati, il medico aprì la borsa, ne trasse una pezzuola, s'asciugò puntigliosamente il sudore (come sempre lo si vedeva fare prima d'una concione) e, in ultimo, si schiarì la voce. «Onoratissimi signori, mi scuso per aver poc'anzi disertato la vostra compagnia; era necessario, tuttavia, ragionare sul nostro stato presente, e ho concluso» disse mentre s'era fatto silenzio «e ho concluso...» ripetè Cristofano appallottolando la pezzuola con una mano «che se non vogliamo morire, dobbiamo seppellirci vivi». Era giunto il momento, spiegò, di rinunciare una volta per tutte a gironzolare per il Donzello come se nulla fosse. Non ci si sarebbe più potuti intrattenere l'un l'altro in amabili conversari in dispregio alle raccomandazioni ch'egli da giorni andava impartendoci. Finora il destino ci era stato fin troppo amico, e le sventure occorse al vecchio signor di Mourai e a Pellegrino s'erano rivelate aliene a qualsiasi contagio; ma ora le cose s'erano volte in peggio, e la peste prima evocata a sproposito era Imprimatur - Monaldi & Sorti
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arrivata veramente al Donzello. Vano computo era la conta dei minuti passati da questo o da quello a contatto col povero Bedfordi: serviva solo ad alimentare il sospetto. Unica speranza di salvezza era segregarsi volontariamente nella propria stanza, sì da evitare d'inalare gli umori altrui, o di venire a contatto con gl'indumenti degli altri pigionanti etcetera etcetera. Avremmo dovuto farci ungere e massaggiare regolarmente il corpo con olii e balsami purificativi che il medico avrebbe preparato, e ci saremmo riuniti solo in occasione degli appelli degli armigeri, come quello dell'indomani mattina. «Signore Iddio Santissimo» s'impennò padre Robleda «aspetteremo la Morte in un angolo del pavimento accanto alla nostra stessa immondezza? Se posso permettermi» aggiunse il gesuita addolcendo il tono «ho sentito dire che il mio confratello Diego Guzman di Zamorra fece mirabile opera di preservazione verso se stesso e altri gesuiti missionari nella peste di Perpignan, nel Regno di Catalogna, con un remedium assai gradito alla lingua: buonissimo vino bianco da bere a volontà, in cui fossero state sciolte una dramma di coperosa e mezza di dittamo bianco. Faceva ungere tutti con olio di scorpioni e poi li faceva mangiare benissimo. E nessuno mai s'ammalò. Non sarebbe forse il caso di tentare prima di murarci vivi?» Alle parole di Robleda annuiva vigorosamente l'abate Melani, alle cui indagini un'eventuale seclusione avrebbe posto gravissimi ostacoli: «So anch'io che il vino bianco della miglior qualità è ritenuto un ottimo ingrediente contro la peste e le febbri putride» concordò Atto con forza «e ancor meglio sono l'acquavite e la Malvasia. È rinomata a Pistoia l'acqua che maestro Anselmo Rigucci adottò con gran successo per preservare i pistoiesi dal contagio. Mio padre narrava a me e ai miei fratelli che i vescovi che s'erano succeduti nell'amministrazione pastorale della città da secoli ne facevano volentieri gran consumo, e non solo per cura. Si trattava infatti di cinque libbre d'acquavite aromatizzata con erbe mediche da lasciar poi riposare, ermeticamente chiusa in una boccia, per ventiquattr'ore all'in138/703
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terno del Duomo. Infine, s'aggiungevano sei libbre di buonissima Malvasia. Ne usciva un ottimo liquore, di cui monsignor il vescovo di Pistoia beveva due once ogni mattina a digiuno dietro l'altare maggiore, con un'oncia di miele». Il gesuita fece schioccare significativamente la lingua, mentre Cristofano scuoteva scettico la testa e tentava invano di riprendere la parola. «Mi sembra innegabile che tali rimedi allietino gli animi» lo prevenne Dulcibeni «ma dubito che riescano a sortire altri e più importanti effetti da questi. So anch'io, per esempio, d'un gustoso elettuario formulato da Ludovico Giglio da Cremona durante la peste in Lombardia. Consisteva in un ottimo condimento da spalmarne quattro dramme sul pane caldo, tutte le mattine a digiuno: miele rosato e poco sciroppo acetoso impastati con agarico, scamonea, turbiti e zafferano. Ma morirono tutti, e il Giglio evitò il linciaggio solo per l'esiguità del numero e delle forze dei sopravvissuti» concluse lugubre l'anziano gentiluomo marchigiano, lasciando intendere che a suo parere avevamo ben poche possibilità di cavarcela. «E già» riprese Cristofano «come il tanto declamato cordiale e stomacale di Tiberio Gariotto da Faenza. Una follia da mastro dolciario: zuccaro rosato, diamarinato, cinnamomo, zafferano, sandalo e coralli rossi, da incorporare con quattr'once di succo di cedro e poi così lasciare per quattordici ore. Poi mescolava il tutto con miel cotto, bollente e dispumato. E v'aggiungeva tanto di muschio quanto bastava a dargli profumo. Lui però lo linciarono. Datemi retta, non ci resta che fare come vi ho detto poc'anzi...». Ma Devizé non lo lasciò finire: «Hanno ragione monsieur Pompeo e il nostro cerusico: anche Giovan Gutiero, medico di Carlo II di Francia, sosteneva che ciò ch'è buono al palato non può purificare gli umori. Tuttavia Gutiero aveva messo a punto un elettuario che varrebbe forse la pena di provare. Pensate che il Re gli diede, per le virtù del suo preparato, una grandissima entrata nel ducato di Lorena. Nel suo elettuario, infatti, Imprimatur - Monaldi & Sorti
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quel medico incorporava a dolcezze come il miele cotto e dispumato, venti noci e quindici fichi, anche grande quantità di ruta, absinchion, terra sigillata e salgemma. Ne faceva pigliare sera e mattina, mezz'oncia alla volta, e appresso bere un'oncia di fortissimo aceto bianco per aumentare il disgusto». Ne seguì un'accesa discussione tra i sostenitori dei rimedi graditi al palato, capeggiati da Robleda, e quelli invece del disgusto come miglior terapia. Seguii la discussione quasi divertito (nonostante il grave momento) dalla prontezza con cui ogni pigionante pareva avere da sempre in tasca la ricetta risolutiva contro il contagio. Solo Cristofano continuava a scuotere la testa: «Se volete, provate pure tutti questi rimedi, ma non venitemi a cercare al prossimo caso di contagio!». «Non potremmo optare per una clausura parziale?» propose timidamente Brenozzi. «È celebre un caso analogo a Venezia, durante la peste del 1556: si poteva circolare indenni per le calli della città solo se si tenevano in mano delle palle odorifere, ideate dal filosofo e poeta Girolamo Ruscelli. Al contrario dello stomaco, infatti, il naso trae giovamento dai profumi, mentre è contaminato dalla puzza: muschio di Levante, florace calamita, garofali, noce moscata, spiconardo, e olio di storace liquido per impastare. Quel filosofo ne faceva palle grosse come una noce con la scorza, da tenere sempre in ambo le mani, giorno e notte, per tutti i mesi che durava il contagio. Furono infallibili, ma solo per chi riuscì a non mollarle neanche per un attimo, che non so quanti furono». Qui Cristofano si spazientì e alzatosi in piedi proclamò, con accenti vieppiù gravi e vibranti, che poco gl'interessava che gradissimo o meno la seclusione nelle nostre camere: tale rimedio era l'ultimo possibile e, se non ne avessimo convenuto, allora si sarebbe egli rinchiuso in camera propria, e pregava me che gli portassi da mangiare, e non sarebbe più uscito finché non avesse saputo che gli altri erano tutti morti, cosa che sarebbe ben presto accaduta. 140/703
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Seguì un silenzio di tomba. Cristofano allora proseguì annunciando che - se si fosse infine deciso di seguire le sue indicazioni - solo lui, medico, avrebbe potuto condursi liberamente per la locanda per assistere i malati e visitare regolarmente gli altri pigionanti; al contempo avrebbe avuto certo necessità d'un assistente, che attendesse al nutrimento e all'igiene dei pigionanti, nonché a spalmare e far correttamente penetrare gli olii e i balsami preservativi. D'altronde non ardiva chiedere a nessuno di rischiare tanto. Potevamo tuttavia chiamarci fortunati anche nella sventura, visto che c'era tra noi qualcuno, e mi gettò un'occhiata mentre tornavo dalla cucina, che la sua lunga esperienza di medico sapeva essere di fibra assai resistente ai malanni. Gli sguardi si volsero verso di me: il medico m'aveva preso per il braccio. «La particolare condizione di questo garzonetto» proseguì con forza il cerusico senese «rende lui, e tutti i suoi consimili, pressoché immuni da contagio». E mentre l'uditorio mostrava sul viso i segni dello stupore, Cristofano passò a enumerare i casi d'assoluta immunità avutisi in tempi di peste e riferiti dai massimi Autori. I mirabilia si succedevano l'un l'altro in crescendo, e dimostravano che uno come me avrebbe persino potuto bere pus di giandusse (come pare fosse realmente accaduto nella peste nera di tre secoli prima) senza patirne danno che non fosse un bruciorino di stomaco. «Fortunio Liceto accomuna le loro stupefacenti proprietà a quelle dei monopodi, dei cinocefali, dei satiri, dei ciclopi, dei tritoni e delle sirene. Stando alle classificazioni di padre Gaspare Schotto, più tali soggetti hanno membra ben proporzionate tra loro, maggiore è la loro immunità dal contagio pestilenziale» concluse Cristofano. «Orbene, vediamo tutti che questo ragazzo, nel suo genere, è abbastanza ben fatto: spalle solide, gambe diritte, viso regolare, denti sani. Rientra, per fortuna sua, tra i mediocres della sua razza, e non già tra i più sgraziati minores o, Dio ne scansi, tra gli sciagurati minimi. Possiamo Imprimatur - Monaldi & Sorti
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quindi esser tranquilli. Stando al Nierembergius, quelli come lui nascono già con i denti, i capelli e le pudenda da adulto. A sette anni sono barbuti, a dieci sono forti come giganti e possono generare figli. Giovanni Eusebio dice d'averne visto uno che a quattro anni d'età possedeva già elegantissima chioma e barba. Per non parlare del leggendario Popobawa, che assale e, con i suoi enormi attributi, sodomizza nel sonno i robusti maschi di un'isoletta africana, i quali dalla vana lotta riportano anche contusioni e fratture». Primo a schierarsi col medico, che si sedette fremente e nuovamente sudato, fu padre Robleda. La mancanza d'altre soluzioni altrettanto valide e la paura d'essere abbandonati da Cristofano condusse gli altri uno a uno a rassegnarsi mestamente alla clausura. L'abate Melani non proferì verbo. Mentre tutti si stavano alzando per sciamare verso i piani superiori, il medico disse che avrebbero potuto fermarsi in cucina, ove io avrei distribuito loro il pasto caldo e il pane abbruscato. M'avvertì di servire il vino solo dopo averlo abbondantemente annacquato, ché così era più facile a passare per lo stomaco. Sapevo quanto agli sventurati pigionanti avrebbe giovato l'assistenza culinaria del signor Pellegrino. Invece, ero rimasto il solo a mandare avanti la locanda e, malgrado ce la mettessi tutta, m'ero ridotto ad arrangiare i pasti con semi ammollati e quant'altro racimolavo nella vecchia dispensa di legno della cucina, senza prelevare quasi nulla dalla ricca cantina. Completavo di solito con qualche frutto o verdurina e col pane da baiocco recapitatoci insieme agli otri d'acqua. Così almeno, mi consolavo, si risparmiavano le scorte del mio padrone, già esposte al continuo saccheggio operato da Cristofano per i suoi elettuari, balsami, olii, trocisci, elisir e palle curative. Quella sera tuttavia, a consolazione della brutta ora, m'ero ingegnato un po' e avevo preparato una minestrina d'ova in bagno maria con cicerchie; appresso polpettine di pan mollo e 142/703
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qualche sarda sotto sale battuta con erbette e passarina; e per finire radiche di cicoria bollite con mosto cotto e aceto. Su tutto avevo cosparso un pizzico di cannella: la pregiata spezia dei ricchi avrebbe sorpreso i palati e rinfrancato gli spiriti. «Son caldissime!» annunciai con forzato buon umore a Dulcibeni e padre Robleda che s'erano accostati funerei a sbirciare le radiche. Ma non ottenni commenti, né scorsi un rasserenamento nella smorfia dei visi.
La prospettiva che la mia speciale condizione potesse, a giudizio del medico, diventare un'arma contro gli assalti dell'epidemia mi fece provare per la prima volta l'ebbrezza dell'orgoglio. Malgrado qualche particolare m'avesse lasciato perplesso (a sette anni ero ovviamente imberbe, né ero nato con i denti o con giganteschi attributi), mi sentii all'improvviso un gradino più in alto degli altri. E sì, mi dissi ripensando alla decisione di Cristofano, io potevo. Essi, i pigionanti, dipendevano da me. Ecco spiegato inoltre perché il medico m'avesse con tanta leggerezza lasciato dormire nella stessa camera col mio padrone, quando questi era in stato d'incoscienza! Riacquistai così un po' di buon umore, che contenni rispettosamente. A chi vive ogn'or contento ogni mese è primavera...
Udii canterellare al mio fianco. Era l'abate Melani. «Che visino allegro» motteggiò. «Mantienilo così fino a domani: ne avremo bisogno». Il richiamo all'appello della mattina seguente mi riportò con i piedi per terra. «Vorresti accompagnarmi verso la mia triste clausura?» chiese con un sorrisetto, dopo aver consumato il pasto. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«In camera tornerete da solo» l'apostrofò Cristofano «il ragazzo mi serve, e subito». Congedato così bruscamente Atto Melani, il medico mi comandò di lavare piatti e stoviglie dei pigionanti. Da quel momento in avanti, disse, avrei dovuto farlo almeno una volta al giorno. Mi mandò a cercare due grossi catini, pezze pulite, scorze di noci, acqua pura e vino bianco, e mi condusse con sé da Bedfordi. Si recò poi nella propria stanza, lì accanto, a prelevare la cassettina degli arnesi da cerusico e alcune bisacce. Quando tornò, lo aiutai a spogliare il giovane inglese, che scottava come un paiolo nel camino e di tanto in tanto riprendeva a sproloquiare. «Le giandusse sono troppo calde» osservò Cristofano preoccupato «avrebbero bisogno d'un interramento». «Cioè?» «È un miracoloso e gran segreto lasciato in punto di morte dal cavalier Marco Leonardo Fioravanti, illustre medico bolognese, per sanarsi dalla peste con brevità: chi ha già le giandusse si faccia seppellire tutto in una fossa, eccetto collo e testa, e stia così dodici o quattordici ore, e poi si faccia cavar fuori. È un segreto che si può usare in tutti i luoghi del mondo, senza interesse e senza spesa». «E come ha effetto?» «La terra è madre e purifica tutte le cose: disfa tutte le macchie dei panni, frolla le carni dure seppellendole per quattro o sei ore, senza dimenticare che a Padova vi sono bagni di fango che sanano molte infermità. Altro rimedio di grande autorità sarebbe giacere da tre a dodici ore nell'acqua salsa del mare. Ma purtroppo siamo segregati e non possiamo nulla di tutto ciò. Non ci resta pertanto che praticare al povero Bedfordi un salasso che refrigeri le giandusse. Prima però dobbiamo quetare gli umori alterati». Tirò fuori un vaso di legno. «Sono i miei moscardini imperiali, molto attrattivi per lo stomaco». 144/703
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«Che vuol dire?» «Attraggono tutto quanto c'è nello stomaco e lo trascinano fuori, sfiancando nel malato la mala resistenza ch'egli potrebbe opporre alle operazioni del medico». E prese tra due dita un trocisco, ossia uno di quei preparati secchi di varia foggia che approntano gli speziali. Questo sembrava per l'appunto un moscardino di mare. Non senza fatica riuscimmo a farlo inghiottire a Bedfordi, il quale di lì a poco ammutolì e sembrò quasi che stesse per strozzarsi: venne scosso da tremiti e tosse, cominciò a buttar bava dalla bocca, finché rigurgitò una quantità di roba maleodorante nel catino che gli avevo prontamente posto sotto al naso. Cristofano scrutò e annusò soddisfatto il liquame. «Prodigiosi i miei moscardini, non trovi? Eppure sono un compendio di semplicità: un'oncia di zuccaro candido violato, cinque d'iris e altrettante di scorza d'uovo in polvere, una dramma di muschio, una d'ambracane, e con draganti e acqua rosa messi a seccare al sole» recitava Cristofano assai soddisfatto mentre s'affaccendava a contenere gli spruzzi del malato. «Nei sani, invece, combattono l'inappetenza, anche se sono meno forti del diaromatico» aggiunse. «Anzi, ricordami di dartene alcuni da portare con te nella distribuzione dei pasti, nel caso qualcuno si rifiutasse di mangiare». Pulito e risistemato il povero inglese, che ora a occhi socchiusi taceva, il medico cominciò a bucarlo coi suoi arnesi. «Come ben insegna maestro Eusebio Scaglione da Castello a Mare nel Regno di Napoli, il sangue va cavato dalle vene che hanno origine dai luoghi in cui sono apparse le giandusse. La vena della testa corrisponde alle giandusse del collo e la vena comune a quelle della schiena, ma non è questo il caso. A lui salassiamo la vena del polso, che origina dalla giandussa che ha sotto l'ascella. E poi la vena del piede, che corrisponde al grosso bubbone dell'inguine. Passami il catino pulito». Mi comandò di cercare nelle sue sacche i vasetti ove fosse Imprimatur - Monaldi & Sorti
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scritto dittamo bianco e tormentilla; mi fece prenderne due pizzichi ciascheduno e, mescolatili con tre dita del vino bianco, mi ordinò di somministrarli a Bedfordi. Mi fece poi pestare nel mortaio un'erba detta piede corvino, con cui dovetti riempire due mezze scorze di noce che il medico usò, a salasso compiuto, per tappare subitamente i buchi sul polso e sulla caviglia del povero appestato. «Fasciagli le noci ben strette. Le cambieremo due volte al giorno, finché non compariranno delle vesciche, che allora romperemo per spremerne l'acqua velenosa». Bedfordi cominciò a tremare. «Non gli avremo tolto troppo sangue?» «Macché. È la peste, che fa congelare il sangue nelle vene. L'avevo previsto: ho preparato una miscela d'ortica, malva, agrimonia, cardofanto, origano, puleggio, genziana, lauro, storace liquido, bengioi e calamo aromatico per un bagno di vapore molto salutifero». E da un viluppo di feltro nero tirò fuori una boccia di vetro. Riscendemmo in cucina, dove mi fece mettere a bollire il contenuto della boccia con molta acqua nel calderone più grande della locanda. Lui attendeva intanto alla bollitura di farina di fieno greco, semi di lino e radici di altea, a cui poi lo vidi mescolare del grasso di porco prelevato dalla dispensa del signor Pellegrino. Tornati in camera del malato, avvolgemmo Bedfordi con cinque coperte da letto e lo facemmo accomodare sul calderone fumante che avevamo trasportato fin lì con grande disagio e rischio d'ustioni. «Deve sudare quanto può: il sudore assottiglia gli umori, apre i pori e scalda il sangue congelato, acciocché la corruzione della pelle non ammazzi repentinamente». Il disgraziato inglese non sembrava però d'accordo. Iniziò a gemere sempre più forte, ansimando e tossendo, tendendo le mani e allargando le dita dei piedi in spasimi di sofferenza. Improvvisamente si calmò. Sembrava svenuto. Ancora sul calde146/703
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rone, Cristofano iniziò a punzecchiargli le giandusse con una punta di lancetta in tre o quattro punti e poi vi spalmò sopra l'impiastro di grasso di porco. Compiuta l'operazione, lo rimettemmo a letto. Non fece una mossa, ma respirava. Quale capriccio del destino, pensai, che alle pratiche mediche di Cristofano fosse sottoposto proprio il suo più acerrimo detrattore. «Ora lasciamolo riposare e speriamo in Dio» disse il medico gravemente. Mi condusse in camera sua, ove mi consegnò una sacca con alcuni unguenti, sciroppi e suffumigi già pronti da applicare agli altri pigionanti. Me ne illustrò l'uso e lo scopo terapeutico, fornendomi anche alcuni appunti. Alcuni remedia erano più efficaci su talune complessioni piuttosto che su altre. Padre Robleda, per esempio, sempre ansioso, rischiava la peste più mortale, al cuore o al cervello. Meno grave, invece, se fosse stato colpito il fegato, che si poteva sgravare con le giandusse. Dovevo cominciare prima possibile, raccomandò Cristofano.
Non ne potevo più. Risalii le scale carico di quelle boccette che già detestavo, diretto al mio lettuccio nel sottotetto. Giunto al secondo piano, venni però richiamato dal bisbiglio dell'abate Melani. Mi aspettava, occhieggiando circospetto dall'uscio semichiuso della sua camera, in fondo al corridoio. M'avvicinai. Senza lasciarmi il tempo d'aprire bocca, mi sibilò in un orecchio che il comportamento bizzarro di alcuni pigionanti nelle ultime ore gli aveva dato occasione di riflettere non poco sulla nostra situazione. «Temete forse per la vita di qualcun altro di noi?» sussurrai subito allarmato. «Può darsi, ragazzo, può darsi» replicò frettolosamente Melani, mentre mi tirava per un braccio dentro la camera. Una volta serrato l'uscio, mi spiegò che il delirio di Bedfordi, che l'abate stesso aveva potuto origliare da dietro la porta delImprimatur - Monaldi & Sorti
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la stanza in cui giaceva l'appestato, rivelava senz'ombra di dubbio che l'inglese altro non era che un fuggiasco. «Un fuggiasco? In fuga da cosa?» «Un esule, che attende tempi migliori per rientrare in patria» sentenziò l'abate con aura d'impertinenza, tamburellandosi con l'indice la fossetta del mento. Fu così che Atto mi riferì una serie di vicende e di circostanze che nei giorni a venire avrebbero avuto grande importanza. Il misterioso Guglielmo di cui Bedfordi aveva fatto il nome era il Principe d'Orange, candidato al trono d'Inghilterra. La nostra conversazione si profilava lunga: sentii allentarsi la tensione di poco prima. Il problema, spiegava intanto Atto, era che l'attuale Re non aveva avuto figli legittimi. Aveva pertanto designato a succedergli suo fratello, il quale però era cattolico e avrebbe riportato così la Vera Religione sul trono d'Inghilterra. «E allora dov'è il problema?» intervenni in preda a uno sbadiglio. «È che i nobili inglesi, che aderiscono alla religione riformata, non vogliono un Re cattolico e tramano invece a favore di Guglielmo, che è un ardentissimo protestante. Allungati pure sul mio letto, ragazzo» rispose l'abate con vocina fattasi dolce, indicandomi il suo giaciglio. «Ma allora l'Inghilterra potrebbe tornare per sempre eretica!» esclamai posando la bisaccia di Cristofano e distendendomi senza farmi pregare, mentre Atto si dirigeva allo specchio. «Già. Ecco quindi che in Inghilterra ci sono attualmente due fazioni: una protestante orangista, e l'altra cattolica. Il nostro Bedfordi, anche se a noi non lo confesserà mai, deve appartenere alla prima» spiegò mentre l'arco acuto delle sue sopracciglia, che scorgevo riflesso nello specchio, indicava la scarsa soddisfazione che l'abate stava traendo dall'esame della propria immagine. «E voi come lo deducete?» chiesi guardandolo incuriosito. «A quanto ho potuto capire, Bedfordi s'è trattenuto per un 148/703
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po' di tempo in Olanda, terra di calvinisti». «Ma in Olanda si trovano anche cattolici, so di nostri pigionanti che vi sono stati per lungo tempo, e sono sicuramente fedeli alla Chiesa di Roma...». «Certo. Ma le Province Unite d'Olanda sono anche la terra di Guglielmo. Una decina di anni fa il Principe d'Orange ha sconfitto l'esercito invasore di Luigi XIV. E ora l'Olanda è la roccaforte dei cospiratori orangisti» ribatté Atto mentre, tirati fuori con uno sbuffo d'impazienza un pennellino e una scatolina, si dipingeva di rosso gli zigomi un poco sporgenti. «Insomma, voi pensate che Bedfordi sia andato in Olanda per cospirare a favore del Principe d'Orange» commentai cercando di non fissarlo troppo. «Ma no, non esagerare» rispose voltandosi verso di me dopo aver dato un'ultima soddisfatta occhiata allo specchio. «Credo che Bedfordi faccia semplicemente parte di coloro che vorrebbero Guglielmo sul trono, anche perché - non lo dimenticare in Inghilterra gli eretici sono in gran numero. Sarà uno dei tanti messaggeri tra l'una e l'altra sponda della Manica, a rischio di essere prima o poi arrestato e condotto nella prigione della Torre di Londra». «Infatti Bedfordi ha nominato una torre, mentre delirava». «Vedi allora che non siamo lontani dal vero» continuò afferrando una seggiola e ponendosi a sedere accanto al letto. «È incredibile» commentai mentre il sonno s'allontanava. Ero intimidito e agitato da quei mirabolanti e suggestivi racconti. Remoti e possenti conflitti tra i Regnanti d'Europa si stavano materializzando davanti ai miei occhi, dentro la locanda in cui ero solo un povero garzone. «Ma chi è questo principe Guglielmo d'Orange, signor Atto?» chiesi. «Oh, un grande soldato, pieno di debiti. Punto e basta» rispose secco l'abate. «Per il resto, la sua vita è assolutamente piatta e scialba, come anche la sua persona e il suo spirito». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Un Principe senza un soldo?» domandai incredulo. «Già. E se non fosse sempre a corto di denari, forse il Principe d'Orange avrebbe già preso il trono inglese con la forza». Tacqui, pensoso. «Certo, mai e poi mai avrei sospettato che Bedfordi fosse un fuggiasco» ripresi dopo poco. «Anche qualcun altro lo è. Qualcuno che viene da lontano, e sempre da una città di mare» aggiunse Melani con un sorrisetto, mentre il suo viso, fattosi man mano più vicino, ormai mi sovrastava. «Brenozzi il veneziano?!» esclamai sollevando di scatto il capo dal letto e dando involontariamente una zuccata al naso adunco dell'abate, che emise un gemito. «Proprio lui, certo» confermò poi alzandosi in piedi e massaggiandosi il naso. «Ma come potete esserne certo?» «Se avessi ascoltato con maggior perspicacia le parole di Brenozzi, e soprattutto se fosse più ampia la tua conoscenza delle cose del mondo, avresti senz'altro notato un'inverosimiglianza» rispose in tono vagamente stizzito. «Be', ha detto che un cugino...». «Un lontano cugino nato a Londra gli avrebbe insegnato l'inglese così bene semplicemente per lettera: un po' curiosa come spiegazione, non credi?» E rievocò come il vetraio m'avesse trascinato a forza per le scale, e quasi privo di senno mi avesse sottoposto a una sfilza di domande a proposito dell'assedio turco e del contagio che forse stava piegando Vienna, e poi m'avesse nominato le margarite. Ma non d'un fiore si trattava, proseguì Atto, bensì di uno dei più preziosi tesori della Serenissima Repubblica Veneta, che essa è disposta a difendere con ogni mezzo, e a cagione del quale il nostro Brenozzi versava ora in tanta difficoltà. Nelle isole che si trovano nel cuore della laguna veneta è custodita infatti una segreta ricchezza a cui i Dogi, che da molti secoli sono 150/703
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i capi di quella Serenissima Repubblica, massimamente tengono. In quelle isole sorgono le manifatture del vetro e delle perle, dette dal latino anche margarite, la cui lavorazione riposa su segreti dell'arte tramandati da molte generazioni, e di cui i Veneziani sono orgogliosi e soprattutto gelosi al massimo grado. «Ma allora le margarite cui m'aveva accennato e le perline che poi m'ha messo in mano sono la stessa cosa!» esclamai confuso. «Ma quanto potevano valere?» «Non lo immagini neppure. Se tu avessi viaggiato un decimo di quanto ho potuto io, sapresti che su quei bei monili di Murano è colato, e colerà ancora per chissà quanto, il sangue copioso dei Veneziani» disse Melani sedendosi allo scrittoio. I maestri vetrai e i loro garzoni per tradizione godevano nei mesi autunnali d'un periodo di licenza. In questo tempo potevano sospendere il lavoro nelle loro manifatture, rimettere a nuovo i forni con cui veniva lavorato il vetro e recarsi all'estero per commercio. Ma non pochi mastri vetrai rimanevano spesso impegolati nei debiti, o si trovavano in difficoltà a causa del periodico ristagno delle committenze. I loro viaggi all'estero si trasformavano allora in preziose occasioni per fuggire alla ricerca di miglior sorte. A Parigi, Londra, Vienna e Amsterdam, ma anche a Roma o a Genova, i vetrai fuggiaschi trovavano padroni più generosi e un commercio con meno concorrenti. La fuga non era però gradita ai Magistrati del Consiglio dei Dieci di Venezia, che non avevano nessuna intenzione di perdere il controllo di quell'arte, che tanto denaro aveva portato nelle casse dei Dogi, e avevano affidato il caso agli Inquisitori di Stato, lo speciale consiglio incaricato di vigilare affinché nessun segreto capace di recare pregiudizio alla Serenissima Repubblica venisse propalato. Per gli Inquisitori era sin troppo facile capire se qualche vetraio stesse per prendere il largo. Bastava osservare se tra gli artigiani della laguna si diffondessero malumori, e se si facessero vedere in giro i reclutatori di vetrai, inviati dalle potenze straniere per aiutare la fuga. I reclutatori venivano seguiti pasImprimatur - Monaldi & Sorti
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so dopo passo, calle dopo calle, portando così gli Inquisitori direttamente alla porta di coloro che stavano per fuggire. Ma il gioco era rischioso anche per gli imprudenti emissari degli stranieri, che non di rado venivano rinvenuti in qualche canale con la gola squarciata. Molti Veneziani riuscivano infine a imbarcarsi, ma anche all'estero venivano presto scovati grazie alla rete di ambasciatori e consoli della Repubblica Veneta. A quel punto alcuni discreti intermediari inviati da Venezia cercavano, dapprima con promesse e blandizie, di convincerli al ritorno. A chi aveva infranto la legge (persino agli omicidi) veniva offerta un'amnistia. A chi era fuggito per i troppi debiti si offriva una dilazione dei pagamenti. «E i vetrai tornavano?» «Dovresti dire "tornano", giacché questa tragedia si ripete tutt'oggi, e io credo proprio in questa locanda». Coloro che non accettavano le insistenti offerte inviate dalla Serenissima Repubblica, proseguì l'abate, venivano improvvisamente lasciati soli. Niente più visite d'intermediari, niente più proposte: ciò per turbarli e inquietarli sottilmente. Dopo qualche tempo iniziavano le minacce, i pedinamenti, i danneggiamenti alle nuove botteghe appena fondate, a prezzo di gravi sacrifici, in terra straniera. Qualcuno cede, qualcun altro fugge nuovamente in altri Paesi portando con sé i segreti del mestiere. Altri ancora resistono sul posto, rifiutando di rimpatriare. È contro di loro che si accaniscono gli Inquisitori. Le loro lettere vengono sistematicamente intercettate. Vengono minacciati i parenti rimasti a Venezia, e si vieta loro l'espatrio. Le mogli di margaritari e specchieri vengono spiate e punite severamente se si avvicinano a un molo. Gli irriducibili vengono banditi senza alcun preavviso; e quando sono al colmo della disperazione viene loro offerto il rimpatrio e il confino a vita nell'isoletta di Murano. Per chi non accetta c'è l'opera destra e segreta dei sicari. 152/703
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Colpito un ribelle, ragionano gli Inquisitori, se ne educheranno cento. Al ferro, che rivela la fine violenta, è sovente preferito il veleno. «Ecco perché il nostro Brenozzi è tanto preoccupato» concluse l'abate Melani. «Il margaritaro, vetraio o specchiere che fugge da Venezia trova l'inferno. Vede assassini e tradimenti dappertutto, dorme con un occhio solo, cammina guardandosi sempre dietro le spalle. E anche Brenozzi ha di certo conosciuto le violenze e le minacce degli Inquisitori». «E io, che ingenuamente mi ero fatto spaventare da quanto m'aveva detto Cristofano sui poteri delle mie perline!» esclamai con un po' di vergogna. «Solo adesso capisco perché Brenozzi mi ha chiesto, e a brutto muso, se era abbastanza: con quelle tre perline voleva comprare il mio silenzio sulla nostra conversazione». «Bravo, ci sei arrivato». «Tuttavia, non trovate strano che ci siano ben due fuggitivi in questa locanda?» chiesi alludendo alla presenza contemporanea di Bedfordi e Brenozzi. «Non molto. In questi anni non pochi sono fuggiti da Londra, e altrettanti da Venezia. Probabilmente il tuo padrone non è il tipo che fa la spia facilmente, e forse neppure la signora Luigia Bonetti che teneva la locanda prima di lui. Forse il Donzello è considerato un albergo "tranquillo", dove può trovare riparo chi fugge da guai grossi. E posti di questo genere, tra gli esuli, vengono spesso tramandati di bocca in bocca. Ricorda: il mondo è pieno di gente che vuole sfuggire al proprio passato». M'ero intanto sollevato dal giaciglio e, presa la bisaccia, versai in una scodellina uno sciroppo per l'abate indicatomi dal medico. Gli spiegai brevemente di cosa si trattava e Atto lo bevve senza fare storie. Poi s'alzò in piedi e canterellando cominciò a risistemare alcune carte sul tavolo: In questo duro esilio...
Era curioso come Atto Melani sapesse pescare nel proprio Imprimatur - Monaldi & Sorti
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repertorio canoro l'arietta giusta per ogni situazione. Doveva conservare un ben vivido e tenero affetto, pensai, per la memoria del suo maestro romano: il seigneur Luigi, come lo chiamava lui. «Il povero Brenozzi è dunque in grande ansia» riprese l'abate Melani. «E forse prima o poi ti chiederà nuovamente aiuto. A proposito, ragazzo, hai una goccia d'olio sulla testa». Pulì la piccola stilla sulla mia fronte con la punta del dito e con noncuranza se la mise tra le labbra, suggendola. «Credete che il veleno che avrebbe ucciso Mourai avesse a che vedere con Brenozzi?» gli chiesi. «Lo escluderei» rispose con un sorriso. «Credo sia solo il nostro povero vetraio ad avere tale timore». «Perché m'ha chiesto anche dell'assedio di Vienna?» «E tu dimmi: dove si trova la Serenissima Repubblica?» «Vicino all'Impero, anzi a meridione, e...». «Basta questo: se Vienna capitola, in pochi giorni di cammino i Turchi dilagheranno innanzitutto verso sud, entrando a Venezia. Il nostro Brenozzi deve aver passato un bel po' di tempo in Inghilterra, dove ha potuto apprendere discretamente l'inglese di persona, e non per lettera. Ora probabilmente vorrebbe tornare a Venezia, ma si è reso conto che il momento non è propizio». «Rischia cioè di finire in bocca ai Turchi». «Proprio così. Si dev'essere spinto fino a Roma sperando magari d'aprirvi bottega e mettersi così al sicuro. Ma s'è accorto che anche qui la paura è grande: se i Turchi vincono a Vienna, dopo Venezia arriveranno al ducato di Ferrara. Attraverseranno le terre di Romagna e i Ducati di Urbino e Spoleto, oltre le dolci colline umbre si lasceranno sulla destra Viterbo per puntare...». «Su di noi» rabbrividii, scorgendo forse per la prima volta con chiarezza il pericolo che ci sovrastava. «Non è necessario ch'io ti spieghi cosa accadrebbe in tale eventualità» disse Atto. «Il Sacco di Roma di un secolo e mezzo 154/703
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fa diventerà ben poca cosa al confronto. I Turchi devasteranno lo Stato Pontificio, portando la loro naturale ferocia alle estreme conseguenze. Basiliche e chiese, a cominciare da San Pietro, verranno rase al suolo. Preti, Vescovi e Cardinali saranno prelevati nelle loro case e sgozzati, i crocefissi e gli altri simboli della fede verranno divelti e incendiati; il popolo verrà depredato, le donne orribilmente violate, città e campagne andranno in rovina per sempre. E se si avvererà questo primo crollo, tutta la Cristianità rischierà di finire preda della fiumana turca». L'esercito degl'infedeli, risalendo dai boschi del Lazio, avrebbe in seguito travolto il granducato di Toscana, poi il ducato di Parma e, passando per la Serenissima Repubblica di Genova e il ducato di Savoia, avrebbe dilagato (solo qui forse vidi sul volto dell'abate Melani una punta di autentico orrore) nei territori francesi in direzione di Marsiglia e di Lione. E a questo punto, almeno teoricamente, avrebbe potuto puntare su Versailles. Fu allora che cedetti nuovamente allo sconforto e, congedandomi da Atto con un pretesto, raccolsi la bisaccia e m'allontanai infilando di corsa le scale, fermandomi solo quando ebbi raggiunto la breve rampa che portava al torrino.
Qui diedi sfogo a tutto il mio turbamento, abbandonandomi a uno sconsolato soliloquio. Ero prigioniero in un'angusta locanda ove si sospettava, ormai ragionevolmente, albergasse il morbo della peste. Ero appena riuscito a rinfrancarmi grazie alle parole del medico, che prefigurava una mia resistenza ai morbi, e ora secondo Melani correvo il rischio di uscire dalla locanda del Donzello e di trovare Roma invasa dai sanguinari fedeli di Maometto. Da sempre sapevo di non poter contare che sulla bontà d'animo di poche persone, tra cui Pellegrino, che m'aveva benignamente tratto in salvo dai pericoli e dalle durezze della vita; questa volta, invece, potevo contare solo sulla Imprimatur - Monaldi & Sorti
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compagnia, certamente non disinteressata, d'un abate castrato e spione, i cui ammaestramenti erano per me quasi solo fonte d'angoscia. E gli altri pigionanti della locanda? Un gesuita dal temperamento bilioso, un gentiluomo marchigiano ombroso e scostante, un chitarrista francese dai modi bruschi, un medico toscano con le idee confuse e forse anche pericolose, un vetraio veneziano in fuga dalla sua patria, un sedicente poeta napoletano, più il mio padrone e Bedfordi, che giacevano impotenti nei loro letti. Mai prima d'allora avevo avvertito così profondamente il sentimento della solitudine, quando il mio parlottio venne improvvisamente interrotto da una forza invisibile che mi proiettò indietro lasciandomi disteso a terra, e scorsi sopra di me l'ospite che avevo tralasciato nel mio muto inventario. «M'hai spaventato, sciocco». Cloridia, avvertita una presenza estranea dietro il suo uscio (al quale infatti ero appoggiato) aveva spalancato la porta di scatto, facendomi rotolare dentro la sua stanza. Mi alzai in piedi senza neppure tentare di giustificarmi e mi asciugai frettolosamente il viso. «E poi» proseguì «ci sono disgrazie peggiori che la peste o i Turchi». «Avete udito i miei pensieri?» replicai stupito. «Innanzitutto non pensavi, perché chi pensa davvero non ha tempo per i piagnistei. E poi siamo in quarantena per sospetto di contagio, e a Roma in queste settimane nessuno dorme una sola notte senza sognare i Turchi che entrano da porta del Popolo. Perché mai potevi frignare tu?» E mi porse un piatto con un bicchiere mezzo pieno di acquavite e una ciambellina all'anice. Accennai a sedermi timidamente sul bordo del suo alto letto. «No, non lì». M'alzai d'istinto, rovesciando metà del liquore sul tappeto, agguantando per miracolo la ciambella ma inondando il letto di briciole. Cloridia non disse nulla. Farfugliai una scusa e cercai di porre rimedio al piccolo disastro, chiedendomi perché mai 156/703
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non m'avesse aspramente rimproverato, com'era solito fare il signor Pellegrino come anche qualsiasi pigionante della locanda (eccetto, in verità, l'abate Melani che aveva avuto nei miei confronti una condotta più liberale). La giovane donna che mi s'ergeva di fronte era l'unica persona di cui sapessi al contempo tanto poche cose quanto certe. I miei contatti con lei si limitavano ai pasti che il mio padrone m'ordinava di prepararle e di portarle, ai biglietti sigillati che talvolta mi chiedeva di consegnare a questo o a quello, alle servette che cambiava spesso e che di volta in volta ammaestravo sull'uso dell'acqua e della dispensa nella locanda. Ecco tutto. Per il resto nulla sapevo di come vivesse nel torrino ove riceveva gli ospiti tramite il passaggio che dava sui tetti, e nulla era necessario sapere. Non era una semplice meretrice, era una cortigiana: troppo ricca per essere una puttana, troppo avida per non esserlo. E tuttavia ciò non è sufficiente per intendere a dovere chi fosse una cortigiana, e di quali raffinate arti fosse maestra. Perché tutti sapevano cosa si facesse nelle stufe, quei bagni di vapor caldo importati a Roma da un tedesco e consigliati per eliminare col sudore gli umori putridi, bagni tenuti per lo più da femmine di malaffare (ce n'era una proprio a due passi dal Donzello ch'era a detta di tutti la più famosa e antica di Roma, e si chiamava proprio Stufa delle Donne); e tutti conoscevano, persino io, che commerci si potevano avere con alcune femmine presso Sant'Andrea delle Fratte, o nei dintorni di via Giulia, o a Santa Maria in Via. E si sapeva benissimo che a Santa Maria in Monterone identico mercimonio avveniva financo nelle stanze della parrocchia, e che già nei secoli antichi i Pontefici avevano dovuto vietare al clero la convivenza promiscua con questa specie di donne, e che però tali divieti erano stati spesso ignorati o aggirati. Era infine chiarissimo chi si celasse dietro nobili nomi latini come Lucrezia, Cornelia, Medea, Pentesilea, Flora, Diana, Vittoria, Polissena, Prudenzia o Adriana; o chi Imprimatur - Monaldi & Sorti
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fossero Duchessa e Reverendissima, che avevano osato rubare il titolo ai loro illustri protettori; o, di nuovo, quali bramosie amassero scatenare Selvaggia e Smeralda, e quale fosse la vera natura di Fior di Crema, o perché Gravida si chiamasse così, o infine che mestiere facesse Lucrezia La Sgarratona. A che indagare? C'era chi aveva fatto già da un secolo e più il censimento delle categorie: meretrici, puttane, curiali, da lume, da candela, da gelosia, da impannate, donne di partito o della minor sorte, mentre alcune filastrocche burlesche conoscevano anche le domenicali, le bizzocche, le osiniane, le guelfe, le ghibelline e mille mille altre. Quante erano? Abbastanza da far pensare a papa Leone X, allorquando si doveva riparare la via che andava verso piazza del Popolo, di imporre una tassa alle puttane, le quali abitavano numerose in quel rione. Sotto papa Clemente VII c'era chi giurava che ogni dieci romani vi fosse una mercenaria (a cui aggiungere ruffiani e lenoni), e aveva forse ragione Sant'Agostino quando diceva che se scomparissero le prostitute, ogni cosa sarebbe sconvolta da sfrenate licenze. Ma le cortigiane, loro erano altra cosa. Perché con esse il trastullo amoroso diveniva esercizio sublime: vi si poteva misurare non più l'appetito del mercante o del soldato, ma l'ingegno di Ambasciatori, Principi e Cardinali. L'ingegno: perché la cortigiana con gli uomini gareggia vittoriosamente in versi, come Gaspara Stampa che dedica un intero ardente canzoniere a Collatino di Collalto, o come Veronica Franco che sfida, a letto e con i versi, i potenti della famiglia Venier; o come Imperia, la regina delle cortigiane romane, che sapeva forgiare con grazia madrigali e sonetti, e che fu amata da talenti illustri e opulenti quali Tommaso Inghirami, Camillo Porzio, Bernardino Capella, Angelo Colocci e lo straricchissimo Agostino Chigi, oltre a posare per Raffaello e forse a rivaleggiare con la stessa Fornarina (finì suicida, Imperia, ma prima della morte papa Giulio II le accordò l'assoluzione integrale dei peccati, e il Chigi le fece erigere un monumento). La celebre Madremianonvuole, così so158/703
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prannominata per un improvvido rifiuto giovanile, conosceva a memoria tutto Petrarca e Boccaccio, e Virgilio e Orazio e cento altri Autori. Ecco: la donna che avevo innanzi apparteneva, come dice Pietro l'Aretino, a quella schiatta di sfacciate la cui pompa sfianca Roma, mentre le mogli vanno coperte per le strade borbottando paternostri. «Sei venuto anche tu a chiedere cosa ti riserva il futuro?» chiese Cloridia. «Vuoi la buona novella? Guarda che le cose venture, e lo dico a tutti quelli che vengono qui, non sempre sono come le si desidera». Tacqui perplesso. Tutto credevo di aver saputo di quella donna, e invece ignoravo che sapesse predire il futuro. «Di magia non so nulla. E anche se vuoi conoscere gli arcani delle stelle devi andare da qualcun altro. Ma se non ti è mai stata letta la mano allora è Cloridia che cercavi. O magari hai fatto un sogno, e vuoi sapere il suo senso nascosto. Non dirmi che sei venuto senza alcun desiderio, perché non ti crederò. Nessuno viene da Cloridia senza volere qualcosa». Ero incuriosito, emozionato e titubante al tempo stesso. Mi sovvenne che anche a lei dovevo somministrare i rimedi di Cristofano, ma rimandai. Invece colsi al volo l'occasione e le raccontai dell'incubo in cui mi ero visto cadere nell'oscura cavità sotterranea del Donzello. «No, no, non è chiaro» commentò alla fine Cloridia scuotendo la testa «l'anello era d'oro o di materia vile?» «Non saprei». «Allora l'interpretazione è dubbia. Perché un anello di ferro significa: un bene con una pena. Anello d'oro significa: gran profitto. Io trovo interessante la tromba, che è indice di segreti, nascosti o rivelati. Forse Devizé è legato a qualche segreto, che egli può conoscere o meno. Ti risulta?» «No, veramente so solo che è valentissimo suonatore di chitarra» dissi memore della musica meravigliosa che avevo senImprimatur - Monaldi & Sorti
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tito procedere dalle corde del suo strumento. «Certo che non puoi sapere altro, sennò che segreto sarebbe il segreto di Devizé?» rise Cloridia. «Poi però nel tuo sogno c'è Pellegrino. Tu l'hai visto come morto e poi risorto, e i morti che risorgono significano: travagli e danni. Dunque vediamo: anello, segreto, morto che risorge. Il significato, ripeto, non è chiaro a causa dell'anello. L'unica cosa chiara sono il segreto e il morto». «Allora il sogno è presagio di sventura». «Non è detto. Perché il tuo padrone in realtà è solo malato, è in cattive condizioni, ma non morto. E malattia significa semplicemente: oziosità e poco impiego. Forse, da quando Pellegrino non è in forze, temi di aver trascurato i tuoi doveri. Ma non avere paura di me» disse Cloridia estraendo pigramente da un cesto una nuova ciambellina «non sarò certo io a dire a Pellegrino se sei un po' svogliato. Dimmi invece, cosa si dice dabbasso? A parte lo sventurato Bedfordi, gli altri mi pare godano tutti di ottima salute, no?» e con fare vago aggiunse: «Pompeo Dulcibeni, per esempio? Te lo chiedo, visto che è tra i più anziani…». Ecco che Cloridia tornava a chiedermi di Dulcibeni. Mi scostai rabbuiato. Capì subito: «E non aver paura di starmi vicino» disse traendomi a sé e arruffandomi i capelli «io la peste per il momento non ce l'ho». Mi rammentai allora del mio dovere sanitario e le riferii che Cristofano m'aveva già consegnato i rimedi preventivi da somministrare a tutti i sani. Arrossendo, aggiunsi che dovevo cominciare dall'unguento alla violetta di mastro Giacomo Bortolotto da Parma, che avrei dovuto spalmarle su schiena e fianchi. Tacque. Sorrisi debolmente: «Se preferite, ho qui anche le balotte di Orsolin Pignuolo da Pontremoli. Possiamo cominciare da quelle, visto che avete il camino in stanza». «Va bene» rispose. «Purché non sia cosa lunga». Si sedette al tavolino della toletta. La vidi scoprirsi le spalle 160/703
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e raccogliersi le chiome in una cuffia di mussolina bianca sorretta da nastri incrociati. Intanto io attendevo a rinfocolare e raccogliere in un vaso le braci ardenti del caminetto, pensando con un fremito alle nudità ch'esse dovevano aver vegliato in quelle pur teporose notti di metà settembre. Mi voltai di nuovo verso di lei. S'era accappata in testa una pezza doppia di lino: sembrava un'apparizione sacra. «Carrube, mirra, incenso, storace calamita, bengioi, armoniaco, antimonio, impastati con acqua rosa finissima» recitai, ben istruitomi sugli appunti di Cristofano, mentre le poggiavo lesto il vaso con le braci sul tavolino e vi rompevo dentro una balotta «mi raccomando: respirate a bocca ben aperta». E le tirai giù il telo di lino fino a coprirle il viso. La stanza si riempì in breve d'un pungente odore. «I Turchi fanno fumi salutiferi ben migliori di questi» borbottò dopo un po' da sotto il telo. «Ma noi non siamo Turchi, ancora» risposi goffamente. «E ci crederesti, se ti dicessi che io lo sono?» udii di rimando. «No di certo, donna Cloridia». «E perché mai?» «Perché siete nata in Olanda, a...». «Ad Amsterdam, bravo. E questo come lo sai?» Non seppi rispondere, perché avevo appreso di tale circostanza proprio pochi giorni prima, origliando alla porta di Cloridia la conversazione tra lei e un ignoto visitatore prima di bussare per consegnare una cesta di frutta. «Te l'avrà detto una delle mie ragazze, probabilmente. Sì, sono nata in terra di eretici quasi diciannove anni fa, ma Calvino e Lutèro non mi hanno mai avuta tra i loro. Mia madre non l'ho mai conosciuta, mentre mio padre era un mercante italiano molto ricco e un po' capriccioso, che viaggiava molto». «Oh, beata voi!» azzardai dal basso della mia condizione di semplice trovatello. Tacque, e dal moto del busto intuii che stava inalando proImprimatur - Monaldi & Sorti
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fondamente i fumi. Tossì. «Se un giorno mai avrai a che fare con i mercanti italiani, ebbene ricorda: essi sono destinati solo a lasciare i debiti agli altri, e a tenere per sé i profitti». Non potevo ancora comprendere quanto parlasse a ragion veduta. C'era stato in effetti un tempo in cui la mercatura era cosa in cui Lombardi, Toscani e Veneti eccellevano al punto da aver conquistato, per usare un gergo militare, le piazze più ricche d'Olanda, Fiandra, Germania, Russia e Polonia. E non v'era niuno che li battesse in spregiudicatezza. Costoro, m'accennò Cloridia (e di ciò avrei ancor meglio appreso negli anni a venire), erano in gran parte i discendenti di famiglie dalla chiarissima fama come Buonvisi, Arnolfini, Calandrine Cenami, Balbani, Balbi, Burlamacchi, Parenzi e Samminiati, da tempo immemorabile esperti nella mercatura dei tessuti e dei grani sulla piazza di Anversa, che era allora il più grande mercato d'Europa, e poi anche come banchieri e sensali di cambio ad Amsterdam, Besanzone e Lione. E ad Amsterdam la stessa Cloridia aveva tastato da vicino la fama dei Tensini, dei Verrazzano, dei Balbi, dei Quingetti, e poi dei Burlamacchi e Calandrini già presenti ad Anversa: Genovesi, Fiorentini, Veneziani, tutti commercianti, banchieri e sensali di cambio, alcuni agenti di Principati e Repubbliche italiane. «E vendevano tutti granaglie?» domandai appoggiandomi con i gomiti sul tavolino per udire e farmi udire meglio. Cominciavo a essere irretito dal racconto di quelle terre lontane che, per chi come me non aveva in mente un'immagine precisa delle coste del Nord, ancora non avevano un posto sull'orbe terracqueo. «No, te l'ho detto. Prestavano, prestano tuttora soldi, hanno molti traffici. I Tensini per esempio sono assicuratori e noleggiatori di navi, comprano caviale, sego e pellicce dalla Russia, e poi procurano i farmaci allo Zar. Ora sono quasi tutti assai ricchi, ma alcuni sono arrivati colà tra i tanti miserabili, qualcuno ha cominciato come birraio, altri erano semplici tintori...». 162/703
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«Birraio?» rimpallai scettico all'istante, incredulo che si potesse in tal modo accumulare una fortuna. Tenevo ormai il mio viso vicinissimo al suo: tanto non poteva vedermi. E questo mi dava grande sicurezza. «Ma certo: i Bartolotti, che hanno la casa più bella di tutta la città sull'Heerengracht, e che ora sono tra i banchieri più potenti di Amsterdam, azionisti e finanziatori della Compagnia delle Indie». Mi spiegò che dall'Olanda, o meglio, dalle Sette Province Unite, come suonava il nome ufficiale della Repubblica, partivano tre volte l'anno navi cariche di cibo e merci e oro da scambiare sulla via delle Indie, e tornavano dopo molti mesi cariche di spezie, zucchero, salnitro, seta, perle, conchiglie, spesso dopo aver barattato seta cinese con rame giapponese, stoffe con pepe, elefanti con cannella. E per radunare la ciurma e armare i fluit (così si chiamavano le navi veloci impiegate dalla Compagnia) i denari venivano equamente forniti dai signori e dai potenti della città, che al ritorno dei vascelli spesso (ma non sempre) traevano enorme guadagno dalle merci arrivate, e altri ancora maggiori profitti riuscivano a trarne in seguito, giacché secondo la religione eretica di quel popolo è premiato col paradiso chi più duramente lavora e guadagna, anche se poi non è considerata cosa buona far sperpero di quel guadagno, ed è stimata cosa importante l'esser frugali, modesti e probi. «E i Bartolotti, i birrai, sono eretici anche loro?» «Sulla facciata della loro casa ci sono le parole "Religione et Probitate", e questo basta a indicare che sono seguaci di Calvino, anche perché...». Cominciai ad ascoltarla con difficoltà: le esalazioni del suffumigio mi davano forse alla testa. «Che vuol dire sensale di cambio?» chiesi a un tratto dopo essermi ripreso, visto che alcuni di cotesti mercanti, a dire di Cloridia, erano passati a tale ancor più lucrosa attività. «È chi fa da intermediario tra chi presta denaro e chi lo prende a prestito». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Ed è un buon mestiere?» «Se vuoi sapere se sia buona gente coloro che lo fanno, ebbene dipende. Se sia un lavoro che rende ricchi, questo invece è certo. Anzi da ricchi rende ricchissimi». «Gli assicuratori e i noleggiatori sono più ricchi?» Cloridia sbuffò: «Posso alzarmi?». «No, monna Cloridia, non finché non sia esaurito il fumo!» la fermai. Non volevo porre fine così presto ai nostri conversari. Avevo cominciato anche, quasi senza avvedermene, a lisciare con un dito il lembo del telo di lino che le copriva il capo: non poteva accorgersene. Sospirò. E qui il mio eccesso di ingenuità, unito alla poca conoscenza delle cose del mondo (e a circostanze che in tale frangente ignoravo senza colpa), ebbe l'effetto di sciogliere la favella a Cloridia. Inveì improvvisamente contro i mercanti e il loro denaro, ma soprattutto contro i banchieri, la cui ricchezza era alla fonte di ogni nefandezza (ma più aspre parole e ben altri accenti usò in verità Cloridia) ed era all'origine di ogni male, specie se dato in prestito da usurai e sensali, e massime quando ne erano destinatari i Re e i Papi. Ora che il mio spirito non è più quello incolto del garzonetto, so quanto avesse ragione. So che Carlo V comprò l'elezione a Imperatore con i soldi dei banchieri Fugger; e che i malaccorti Sovrani spagnoli, per aver fatto troppo ricorso ai capitali dei prestasoldi genovesi, dovettero dichiarare una vergognosa bancarotta che mandò in rovina molti dei loro stessi finanziatori. E ciò senza neppure dire del discusso Orazio Pallavicino che pagava le spese di Elisabetta d'Inghilterra, o dei toscani Frescobaldi e Ricciardi che già al tempo di Enrico III prestavano alla Corona d'Inghilterra e riscuotevano famelici le decime per conto dei Papi. Cloridia intanto s'era sollevata dalle braci e s'era tolta il lenzuolo dalla testa, facendomi fare un balzo all'indietro, rosso di 164/703
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vergogna. Si strappò financo la cuffia e la lunga e riccia chioma le cadde a raggiera sulle spalle. M'apparve allora per la prima volta in una luce nuova e ineffabile, capace di cancellare ciò che di lei avevo visto - e soprattutto ciò che non avevo visto, ma che mi pareva ancor più incancellabile - e vidi con le pupille e credo con l'anima tutta il bell'incarnato di lucente velluto bruno che contrastava con i folti riccioli biondo veneziano, e poco importava in quel momento che li sapessi figli di feccia di vino bianco e olio d'oliva, se facevano da cornice ai lunghi occhi neri e alle serrate perle della bocca, al naso tondetto per saper esser orgoglioso, alle labbra ridenti con quel poco di rosso che bastava a toglierne il vago pallore, e alla figura piccola ma sottile e armoniosa e alla bella neve del petto, intatta e da due soli baciata, sopra le spalle degne di un busto del Bernini o almeno così mi pareva et satis erat, e la voce sua che sebbene alterata e quasi resa tonitruante dall'ira, o forse proprio per quello, mi empiva di lascivetti desiri e languidetti sospiri, di rustiche frenesie, sogni fioriti, di odorosi vegetabili deliri, e quasi mi pareva di poter diventare invisibile a occhio altrui, per la nebbia di desio che m'avvolgeva e che mi fece apparire Cloridia più sublime d'una Madonna di Raffaello, più ispirata d'un motto di Teresa d'Àvila, più maravigliosa di un verso del cavalier Marino, più melodiosa di un madrigale di Monteverdi, più lasciva di un distico di Ovidio e più salvifica di un intero tomo di Fracastoro. E dicevo a me stesso che no, non avrà mai ugual potere il poetare d'una Imperia, d'una Veronica, d'una Madremianonvuole (sebbene tanto mi aggravasse l'animo sapere che basse femmine a pochi metri dalla locanda, nella Stufa delle Donne, erano lì pronte a tutto, anche per me, solo ad aver due scudi), e mentre ancora l'ascoltavo, in un lampo rapido come i cavalli del cardinal Chigi, venni trafitto dal pensiero di tutte le volte che avevo portato sin al suo uscio la tinozza con l'acqua caldissima per il bagno, e mai avrei compreso come lei dietro quelle poche assi di legno, con la serva a strofinarle dolcemente la nuca con acqua di talco Imprimatur - Monaldi & Sorti
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e lavanda, mi potesse essere stata indifferente quanto ora m'accendeva la mente e i sensi e lo spirto tutto. E così assorto perdevo di vista (ma solo più tardi ne avrei avuto piena contezza) quanto bizzarro fosse quell'inveire contro i mercanti da parte della figlia di un mercante, e soprattutto quanto inattesi quegli accenti di orrore per il denaro sulla bocca d'una cortigiana. E oltre a essere cieco a tali stranezze, per poco non fui anche sordo alle ritmiche percussioni delle nocche di Cristofano sull'uscio di Cloridia, la quale invece rispose prontamente alla cortese richiesta d'ingresso e fece entrare il medico. M'aveva cercato dappertutto. Aveva bisogno del mio aiuto per la preparazione d'un decotto: Brenozzi lamentava un forte dolore alla mascella e gli aveva chiesto un rimedio. A malincuore venni quindi distolto dal mio primo colloquio con l'unica ospite femminile del Donzello. Subito ci congedammo. Con gli occhi della speranza volli scorgere nel suo volto una traccia di tristezza per la separazione, e ciò purtuttavia - mentre richiudeva l'uscio - non m'impedì di scorgere sul suo polso un'orribile cicatrice che la sfigurava quasi fin sul dorso della mano.
Cristofano mi riportò in cucina, dove fui incaricato di reperire alcuni semi, erbe e una candela nuova. Poi mi fece scaldare una pignatta con poca acqua mentre egli stesso riduceva in polvere e setacciava gl'ingredienti, e quando l'acqua fu calda a dovere vi ponemmo il trito finissimo, che subito sprigionò un gratissimo profumo. Mentre preparavo il fuoco per il decotto gli chiesi se era vero, come avevo sentito dire, che potevo usare il vino bianco anche per pulire e imbiancare i denti. «Certo, e avresti opera buona e perfetta, ma solo se lo usi per lavare la bocca. Se lo mescoli al caolino, vedrai un bellissimo effetto che piacerà massime alle giovani donne. Lo devi 166/703
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strofinare su denti e gengive, meglio se con una pezza di scarlatto come quella che stava sopra al letto di Cloridia, e su cui eri seduto tu». Finsi di non cogliere la duplice allusione e m'affrettai a deviare il discorso chiedendo a Cristofano se mai avesse sentito parlare di suoi conterranei toscani, quali i Calandrini, i Burlamacchi, i Parenzi, e altri (anche se in realtà furono forse un paio i nomi che potei ricordare senza storpiarli). E, mentre mi comandava di porre ormai nella pignatta il trito d'erbe e cera, Cristofano mi rispose che sì, qualcuno di quei nomi era assai conosciuto in Toscana (anche se alcune di tali casate erano in realtà da tempo decadute), ed egli stesso in alcuni casi ne conosceva le famiglie per aver curato i loro segretari, servitori e famigli. E in particolare era noto, generazioni or sono, che i lucchesi Burlamacchi e Calandrini avevano abbracciato la religione di Calvino e i loro figli e nipoti avevano scelto prima Ginevra e poi Amsterdam come loro patria, e anche senza arrivare a tanto i Benzi e i Tensini erano comunque così legati ai traffici con l'Olanda, dove avevano comprato terreni, ville e palazzi, che in Toscana li chiamavano infiamengati. Era vero quanto riferito da Cloridia: sovente erano arrivati ad Anversa e Amsterdam privi di mezzi, e avevano imparato sul posto l'arte difficile e rischiosa della mercatura. Alcuni avevano fatto fortuna, si erano sposati e imparentati con nobili famiglie del luogo; altri erano crollati sotto il peso dei debiti, e di loro non s'era avuta più notizia. Altri ancora erano morti su qualche nave affondata tra i ghiacci artici di Arcangelo o nelle acque di Malabar. Altri ancora infine s'erano arricchiti, ma in età avanzata avevano preferito tornare in patria, dove s'erano guadagnati giusti onori: come Francesco Feroni, un misero tintore di Empoli, che aveva cominciato trafficando con la Guinea lenzuola vecchie, saie pavonazze di Delft, tele di cotone, margaritine di Venezia, quantità d'acquavite, vino di Spagna e birra gagliarda. Coi suoi negozi s'era tanto arricchito che nel granducato di Toscana s'era guadagnato gran fama già prima del rientro, anche per aver Imprimatur - Monaldi & Sorti
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servito da ottimo ambasciatore del Granduca, Cosimo III de' Medici, nelle Province Unite. Infine, quando aveva deciso di tornare in Toscana, il Granduca stesso lo aveva nominato suo Depositario Generale, suscitando le invidie di tutta Firenze. Feroni aveva riportato in Toscana cospicue ricchezze, s'era comprato una splendida villa nella campagna di Bellavista, e nonostante le malevolenze dei fiorentini poteva ben dirsi fortunato per essere tornato in patria ed esser sfuggito al pericolo. «Quello di finire affogato con la nave?» «Non solo quello, ragazzo! Certi traffici portano con sé infiniti rischi». Avrei voluto chiedergli cosa intendesse, ma a questo punto il decotto era pronto e Cristofano mi disse di portarlo a Brenozzi nella sua stanzetta al secondo piano. Seguendo le indicazioni del medico, raccomandai al veneziano d'aspirare con la bocca ben aperta i suffumigi ancora caldi: dopo tale trattamento, di certo la mascella gli avrebbe doluto assai meno o punto. Infine Brenozzi avrebbe lasciato fuori dall'uscio la pignatta acciocché la si potesse riprendere in consegna. Grazie al mal di denti, mi venne risparmiata la sua loquela. Potei così tornare immediatamente in cucina per riprendere la conversazione con il medico prima che tornasse in camera sua. Vi trovai invece, purtroppo, l'abate Melani. Feci fatica a nascondere la mia costernazione. I momenti passati con Cloridia, conclusi dall'inquietante visione del suo polso martoriato, nonché la sua singolare orazione contro i mercanti mi facevano avvertire il disperato bisogno d'interrogare ancora Cristofano. Il medico invece, in ossequio alle sue stesse prescrizioni, era prudentemente tornato in camera senza attendere il mio ritorno. E ora a gravare sui miei pensieri s'era aggiunto Atto Melani, che sorpresi a frugare spensieratamente nella dispensa. Gli feci osservare che la violazione delle disposizioni del medico ci metteva tutti in pericolo, e che sarebbe stato mio dovere avvertire Cristofano, e che inoltre l'ora della cena non era ancora arrivata e comunque mi sarei certa168/703
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mente incaricato tra poco di soddisfare l'appetito dei signori pigionanti, se solo (e lanciai un'occhiata significativa alla fetta di pane che Melani teneva in mano) avessi potuto disporre liberamente della dispensa. L'abate Melani cercò di dissimulare il proprio imbarazzo, e rispose che m'aveva cercato per potermi parlare di certe cose che lo avevano impensierito, ma subito gli fermai le parole in gola e gli dissi che ero stanco di dovergli dar retta mentre tutti ci trovavamo in evidente e grave periglio, mentre ancora non sapevo cosa lui veramente volesse e cercasse, e che non intendevo prestarmi a maneggi di cui non comprendevo lo scopo, e che era per lui giunto il momento di spiegarsi e di fugare ogni dubbio, giacché avevo sentito sul suo conto alcune chiacchiere non onorevoli, e prima di mettermi al suo servigio pretendevo sufficienti spiegazioni. L'incontro con Cloridia doveva avermi donato nuovi e più freschi talenti, poiché il mio audace discorso parve cogliere alla sprovvista l'abate Melani. Si disse sorpreso che qualcuno nella locanda credesse di poterlo disonorare senza pagarne il fio, e mi invitò senza troppa convinzione a fargli il nome di chi osasse tanto. Giurò poi che non intendeva in alcun modo abusare dei miei servigi, e affettò enorme stupore: non rammentavo forse più che lui e io insieme stavamo cercando di scoprire chi fosse mai l'ignoto ladro delle chiavi di Pellegrino e delle mie perline? E che, anzi, prima ancora di questo, urgeva capire se tutto ciò avesse a che fare con l'assassinio del signor di Mourai, e in qual guisa infine tutto ciò s'intrecciasse - se realmente s'intrecciava - con gli accidenti occorsi al mio padrone e al giovane Bedfordi? Non temevo forse più, mi rimproverò, per la vita di noi tutti? Malgrado la sua inarrestabile favella, scorgevo chiaramente che l'abate annaspava. Incoraggiato dal successo della mia improvvisata sortita, lo interruppi spazientito e, con un angolo del cuore ancora rivolto Imprimatur - Monaldi & Sorti
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a Cloridia, pretesi da Melani immediate spiegazioni sul suo arrivo a Roma e sulle sue vere intenzioni. Mentre sentivo il cuore battermi forte nelle tempie e m'asciugavo idealmente il sudore dalla fronte per l'audacia di tali rivendicazioni, trattenni a stento lo stupore per la reazione dell'abate Melani. Il quale anziché respingere le arroganti pretese d'un semplice garzone, mutò repentinamente in viso e con tutta semplicità e cortesia m'invitò a sedermi con lui in un angolo della cucina al fine di dare soddisfazione alle mie giuste rimostranze. Accomodatici, l'abate cominciò a descrivermi una serie di circostanze che, seppure vicine alla favola, devo alla luce dei fatti successivi ritenere vere o largamente verosimili, e che quindi riporterò con la maggior fedeltà possibile.
Iniziò l'abate Melani col dire che, negli ultimi giorni dell'agosto appena trascorso, Colbert era caduto gravemente malato, arrivando in breve ad agonizzare, e si temeva che il decesso sopravvenisse già nel volgere di pochi giorni. Come accade in tali occasioni, vale a dire quando un uomo di Stato depositario di molti segreti s'approssima alla fine della vita terrena, l'abitazione di Colbert nel quartiere Richelieu divenne improvvisamente meta delle visite più disparate, alcune disinteressate, altre meno. Tra le ultime c'era quella dello stesso Atto che, grazie alle ottime referenze di cui disponeva presso Sua Maestà Cristianissima in Persona, era stato in grado d'introdursi senza troppe difficoltà tra le mura domestiche del suo ministro. Ivi il grande andirivieni di persone della Corte che si recava a rendere omaggio al moribondo (o semplicemente faceva atto di presenza) aveva permesso all'abate di disimpegnarsi abilmente da un salottino e, aggirata la già pigra sorveglianza, d'infilarsi nelle stanze private del padrone di casa. Qui in verità aveva rischiato per ben due volte d'esser sorpreso dalla servitù mentre si nascondeva dietro un tendaggio e poi sotto a un tavolo. 170/703
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Salvatosi per miracolo, era alfine giunto nello studio di Colbert dove, sentendosi finalmente al sicuro, aveva cominciato a frugare frettolosamente tra le lettere e gl'incartamenti che erano di più facile e rapido accesso. Per un paio di volte aveva dovuto interrompere l'ispezione, allarmato dal passaggio di estranei nel corridoio adiacente. Tutti i documenti cui aveva potuto dare un rapido sguardo sembravano pressoché privi d'interesse. Corrispondenza con il ministero della Guerra, affari della Marina, lettere relative alle manifatture di Francia, appunti, conteggi, minute. Nulla di fuori dall'ordinario. E ancora una volta aveva percepito dalla porta l'avvicinarsi di altri visitatori. Non poteva rischiare che si diffondesse la voce che l'abate Melani era stato sorpreso, facendo profitto della malattia di Colbert, a frugare clandestinamente tra le carte del ministro. Aveva quindi afferrato alla rinfusa e infilato a forza nelle braghe alcuni mazzi di corrispondenza e appunti ammucchiati nei cassetti della scrivania e negli armadi, le cui chiavi non aveva faticato molto a trovare. «Ma avevate il permesso di farlo?» «Per vegliare sulla sicurezza del Re ogni gesto è permesso» ribatté secco l'abate. Stava già scrutando il corridoio semioscuro prima di lasciare lo studio (per la visita l'abate aveva scelto le ore del tardo pomeriggio, onde poter contare su una minore luminosità), quando l'intuito gli fece scorgere con la coda dell'occhio, soffocato in un angolino tra le coltri di una pesante tenda da finestra e il fianco poderoso d'un armadio d'ebano, un comodinetto. Era gravato da una considerevole pila di fogli bianchi, in cima alla quale mal si teneva un imponente leggio dal ricco piede. E sul leggio, un fascicolo legato con una cordicella nuova di zecca. «Sembrava non essere ancora stato toccato» spiegò Atto. La malattia di Colbert infatti, una violenta colica di reni, era arrivata al culmine solo da poche settimane. Da alcuni giorni si diceva ch'egli non attendesse più ad alcuna attività; ciò signifiImprimatur - Monaldi & Sorti
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cava che il fascicolo poteva ancora essere in attesa d'un lettore. La decisione fu questione di un lampo: depositò quanto aveva già prelevato, e prese con sé il fascicolo. Appena ebbe sollevato il plico, però, gli andò nuovamente l'occhio sulla pila di fogli bianchi, deformata sotto il peso del leggio. «"Bel posto per riporre della carta da scrivere", borbottai tra me, attribuendo una tale bètise al solito servitore stolto». Preso il leggio sotto al braccio sinistro, l'abate volle dare ai fogli ancora vergini una rapida sfogliata, nel caso si nascondesse tra essi qualche documento interessante. Niente. Era carta di ottima fattura, assai liscia e pesante. Trovò però che alcuni fogli erano stati tagliati in modo tanto accurato quanto singolare: avevano tutti la medesima forma, come di una stella dalle punte irregolari. «Pensai dapprima a qualche mania senile del Colubra. Poi m'avvidi che qualcuno di quei fogli recava segni di stropicciamento e, sul bordo di una delle punte, lievissime striature come di grasso nero. Ero ancora interdetto» proseguì Atto «quando avvertii che il gran peso del leggio mi stava anchilosando il braccio. Mi risolsi a posarlo sullo scrittoio e m'avvidi allora con orrore che un lembo del delicatissimo merletto della manica mi s'era incastrato in una grossolana giuntura del leggio». Quando l'abate riuscì a liberare il pizzo, questo recava tracce di grasso nero. «Ah, piccola biscia presuntuosa, credevi di farmela?» aveva pensato Melani in un lampo d'intuizione. E lesto aveva afferrato una delle stelle di carta ancor nuove. Scrutandola attentamente, la sovrappose a una delle vecchie e la fece ruotare rapido fino a riconoscere qual era la punta giusta. Poi la inserì nella giuntura. Ma non accadde nulla. Ci riprovò nervosamente, ma niente. A quel punto la stella si era ormai spiegazzata e dovette prenderne una nuova. La inserì stavolta con estrema delicatezza nella giuntura, accostando l'orecchio come fanno i mastri orologiai quando stanno per godere del 172/703
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primo ticchettio della pendola che loro stessi hanno risuscitato a nuova vita. E fu appunto un lieve scatto che l'abate udì appena la punta del foglio ebbe sfiorato il fondo della fessura: una delle estremità del piede del leggio era scattata in fuori al modo d'un cassetto, rivelando una piccola cavità. Vi giaceva una busta con l'effigie di un serpente. "Presuntuosissima biscia" aveva ripetuto tra sé l'abate Melani di fronte all'emblema del Colubra, che così a sorpresa gli s'era presentato innanzi. In quel mentre Atto aveva udito nel corridoio un tramestio di passi che sembravano avvicinarsi rapidamente. Prese la busta, aggiustò la giacca in modo da mascherare per quanto possibile la protuberanza creata dal malloppo e trattenne il fiato, nascosto dietro un tendaggio, mentre sentiva l'uomo arrivare di fronte alla porta dello studio. Qualcuno varcò l'uscio e disse, rivolto ad altri: "Sarà già entrato". I servi di Colbert, non avendo sentito l'abate Melani entrare nella stanza del degente, avevano iniziato a cercarlo. La porta si richiuse, il servo tornò sui propri passi. L'abate Melani uscì in gran silenzio e si diresse senza fretta verso l'uscita. Qui salutò un valletto con un sorriso disinvolto: «Guarirà presto» disse guardandolo dritto negli occhi mentre guadagnava l'uscita. Nei giorni seguenti non s'era sparsa voce alcuna della sparizione del fascicolo, e l'abate aveva potuto leggerlo con tutta calma. «Perdonate signor Atto» lo interruppi «ma come avevate capito qual era la punta di carta giusta da inserire nella giuntura?» «Semplice, tutte le stelle di carta già usate recavano tracce di grasso esattamente sulla medesima punta. Un grossolano errore del Serpente lasciarle lì. Evidentemente negli ultimi tempi i suoi sensi avevano già cominciato ad appannarsi». «E perché il cassettino segreto non si è aperto subito?» «Stupidamente avevo pensato a un rozzo meccanismo» sospirò Atto «che sarebbe scattato appena si fosse toccato il fonImprimatur - Monaldi & Sorti
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do della fessura con la chiave giusta, vale a dire con la punta di carta dal giusto grado di angolazione. Ma avevo sottovalutato i maestri ebanisti di Francia, capaci d'ideare congegni sempre più mirabili. In realtà (e qui risiedeva l'importanza d'usare un materiale nobile come quei fogli di squisita fattura) si trattava di molteplici e sensibilissimi congegni metallici posti non direttamente sul fondo, bensì lungo l'ultimo tratto della fessura, i quali solo un lento sfioramento di entrambi i lati avrebbe potuto azionare in perfetta successione». Tacqui ammirato. «Avrei dovuto capirlo subito» concluse Atto con una smorfia. «Le stelle usate, infatti, erano annerite non sull'esatta cima delle punte, bensì lungo i bordi di esse». II suo intuito non lo aveva deluso: gli era capitato tra le mani, a suo dire, un caso tra i più straordinari. Dentro la busta con la faccia del Colubra (e calcò l'espressione) era contenuta corrispondenza in lingua latina, inviata da Roma da un ignoto che Melani, a giudicare dallo stile e da altri particolari, capì essere certamente un ecclesiastico. La carta era ingiallita, e sembrava risalire a molti anni prima. Nelle missive si faceva riferimento a notizie riservate che lo stesso informatore aveva in precedenza comunicato al destinatario. Quest'ultimo, come si desumeva dalla busta, era il signor Sovrintendente Generale alle Finanze Nicolas Fouquet. «E perché le aveva Colbert?» «Ti ho già detto, come ricorderai, che al momento dell'arresto, e nei giorni seguenti, a Fouquet erano state sequestrate tutte le carte e la corrispondenza di cui era in possesso, sia a fini privati che di Stato». Il linguaggio del misterioso prelato era tanto criptico, che a Melani non fu possibile capire neanche di qual natura fosse il segreto cui si accennava. Notò, tra l'altro, che una delle epistole esordiva curiosamente con mumiarum domino, ma non riuscì a darsene alcuna spiegazione. Ma la parte più interessante del racconto dell'abate Melani 174/703
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doveva ancora venire, e qui la materia assumeva i contorni dell'incredibile. Il plico che Atto aveva trovato in bella vista sulla scrivania conteneva corrispondenza recentissima che, a causa della malattia, Colbert non aveva ancora potuto sbrigare. Oltre ad alcune scritture di veruna importanza, si trovavano due lettere da Roma del luglio passato, destinate quasi certamente (come pareva di capire dalle formule di ossequio) a Colbert in persona. Il mittente doveva essere un uomo di fiducia del ministro, e segnalava la presenza in città dello scoiattolo sull'arbor caritatis. «E cioè...». «Facile. Lo scoiattolo è l'animale dello stemma di Fouquet, l'arbor caritatis non può essere che la città della misericordia, e cioè Roma. E infatti secondo l'informatore l'ex Sovrintendente Fouquet era stato visto e seguito ben tre volte: presso un luogo chiamato piazza Fiammetta, nelle vicinanze della chiesa di Sant'Apollinare e in piazza Navona. Tre siti, se non vado errato, della Città Santa». «Ma non è possibile» obiettai. «Fouquet non è forse morto in carcere, a...». «A Pinerolo, certo, ben tre anni fa e tra le braccia del figlio, a cui nell'ora estrema fu lasciato pietoso accesso. Eppure le lettere dell'informatore di Colbert, quantunque in cifra, a me parlavano chiaro: era qui a Roma poco più di un mese fa». L'abate a questo punto aveva deciso di partire immediatamente alla volta di Roma per sciogliere il mistero. Due erano le possibilità: o la notizia della presenza a Roma di Fouquet era vera (e ciò avrebbe superato ogni immaginazione, giacché era noto a tutti che il vecchio Sovrintendente era morto per una lunga malattia dopo essere stato segregato in una fortezza per quasi vent'anni); oppure era falsa, e allora bisognava capire se qualcuno, magari un agente infedele, stesse diffondendo false voci allo scopo di turbare il Re e la Corte, e di aiutare i nemici della Francia. Ancora una volta notai come, nel raccontare tali segrete e Imprimatur - Monaldi & Sorti
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sorprendenti vicende, negli occhi dell'abate Melani s'accendesse una scintilla di gioia maliziosa, un solitario compiacimento, una muta lussuria nel riferirle a chi come me, povero garzone, fosse del tutto ignaro d'intrighi, complotti e occulti affari di Stato. «Colbert è morto?» «Senz'altro, viste le sue condizioni. Anche se non prima ch'io partissi». Colbert in effetti, come avrei appreso più tardi, morì il 6 settembre, esattamente una settimana prima che l'abate Melani mi narrasse della sua intrusione. «Agli occhi del mondo è morto da vincitore» aggiunse Atto dopo una pausa «ricchissimo e potentissimo. Ha comprato fior di titoli nobiliari e di cariche per la sua famiglia: il fratello Charles è diventato Marchese di Croissy e segretario di Stato per gli Affari esteri; un altro fratello, Edouard-François, fu fatto Marchese di Maulévrier e luogotenente generale delle armate del Re; il figlio Jean-Baptiste è divenuto Marchese di Seignelay, nonché segretario di Stato per la Marina. Senza contare altri fratelli e figli maschi che ha avviato a brillanti carriere militari ed ecclesiastiche, e i ricchi matrimoni procurati alle tre figlie, divenute tutte duchesse». «Ma Colbert non aveva gridato allo scandalo, accusando Fouquet d'essere troppo ricco e d'aver piazzato suoi uomini dappertutto?» «Già, e poi s'è macchiato del nepotismo più sfacciato. Ha intriso le maglie del Regno di proprie spie come nessuno mai, cacciando e rovinando tutti gli amici più sinceri del Sovrintendente». Sapevo che Melani si riferiva qui anche al proprio esilio da Parigi. «Non solo: Colbert ha accumulato un patrimonio netto di oltre dieci milioni di livres, sulla cui provenienza però nessuno mai ha sollevato sospetti. Il mio povero amico Nicolas, invece, 176/703
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s'era indebitato personalmente per reperire fondi per Mazzarino e la guerra contro la Spagna». «Un uomo astuto, il signor di Colbert». «E privo di scrupoli» incalzò Melani. «È stato osannato tutta la vita per le sue vaste riforme dello Stato che lo consegneranno, ahimé, alla Storia. Ma noi tutti a Corte sappiamo bene ch'egli le ha rubate una per una a Fouquet: le operazioni sulle rendite e sui poderi, l'alleggerimento delle taglie, gli sgravi, le grandi manifatture, la politica navale e coloniale. Non a caso provvide ben presto a far bruciare tutti gli scritti del Sovrintendente». Era già stato Fouquet, mi spiegò l'abate, il primo armatore e colonizzatore di Francia, il primo a riprendere il vecchio sogno di Richelieu di fare della costa atlantica e del golfo di Morbihan il centro del rinnovo economico e marittimo del Regno. Era stato lui, già regista della guerra vittoriosa contro la Spagna, a scoprire e organizzare i tessitori del villaggio di Maincy, di cui Colbert ha poi fatto le Manifatture Gobelins. «D'altronde, che tali riforme non fossero farina del suo sacco fu presto chiaro agli occhi del mondo. Per ben ventidue anni Colbert è stato Controllore Generale, nome più modesto con cui egli, per compiacere il Re, aveva ribattezzato la carica di Sovrintendente ufficialmente abolita. Fouquet, invece, era rimasto al governo solo otto anni. E qui stava il problema: finché ha potuto, il Serpente ha ricalcato le orme del suo predecessore e il successo gli ha arriso. Poi però ha dovuto proseguire da solo quel piano di riforme che Fouquet s'era visto strappare dall'arresto. E da lì in poi per Colbert è stato un susseguirsi di mosse false: nella politica industriale e mercantile, dove né i nobili né la borghesia gli hanno dato credito, come nella politica marittima, dove nessuna delle sue sbandierate compagnie navali ha avuto vita lunga, e nessuna è mai riuscita a strappare la supremazia agli Inglesi o agli Olandesi». «E il Re Cristianissimo non s'è accorto di nulla?» «Il Re custodisce gelosamente i propri mutamenti di giudiImprimatur - Monaldi & Sorti
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zio; ma pare che, appena i medici hanno dato Colbert per spacciato, egli abbia iniziato un giro di consultazioni per sceglierne il successore e abbia fatto una rosa di nomi di ministri d'indole e formazione assai distanti da quelle di Colbert. A chi glielo ha fatto rimarcare, pare che Sua Maestà abbia risposto: "Li ho scelti appunto per questo"». «Colbert è morto dunque in disgrazia?» «Non esageriamo. Direi piuttosto che tutto il suo ministero è stato travagliato dalle continue ire del Re. Colbert e Louvois, ministro della Guerra, i due intendenti più temuti in Francia, erano scossi da tremori e sudori ogni volta che il Re li convocava in consiglio. Essi godevano della fiducia del Sovrano, ma ne erano i primi due schiavi. Colbert si dovette accorgere ben presto di quanto fosse difficile prendere il posto di Fouquet, e sottostare come lui ogni giorno alle richieste di denaro da parte del Re per guerre e balletti». «Come se la cavò?» «Nel modo più comodo. Il Colubra cominciò a convogliare nelle mani di uno solo, il Sovrano, tutte le ricchezze che fino ad allora erano state di pochi. Soppresse innumerevoli cariche e pensioni, spogliò insomma d'ogni lusso privato Parigi e il Regno, e tutto finì nei forzieri della Corona. Tra il popolo, chi prima faceva la fame, ora ne moriva». «Colbert diventò mai potente quanto lo era stato Fouquet?» «Ragazzo, lo fu molto di più. Giammai il mio amico Nicolas ha disposto delle libertà di cui ha beneficiato il suo successore. Colbert ha messo le mani dappertutto, intervenendo in ambiti rimasti completamente fuori dalla portata di Fouquet, che aveva avuto anche la difficoltà di operare quasi sempre in tempo di guerra. Eppure il passivo che il Serpente ha lasciato è superiore a quello per il quale Fouquet venne additato a rovina dello Stato, lui che per lo Stato s'era rovinato». «Nessuno incolpò mai Colbert?» «Scandali ve ne sono stati diversi. Come l'unico caso di falsificazione di moneta mai avuto in Francia, in cui erano coinvolti 178/703
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tutti uomini del Colubra, persino suo nipote. O anche il saccheggio e i traffici illeciti dei legni di Borgogna, o lo sfruttamento colpevole delle foreste in Normandia, in cui si ritrova persino lo stesso uomo di Colbert, Berryer, che aveva materialmente falsificato le carte nel processo Fouquet. Tutti raggiri per far ammassare soldi alla sua famiglia». «Una vita fortunata, allora». «Non direi. Ha passato l'esistenza a far finta d'essere integerrimo, accumulando una fortuna che non ha mai potuto godersi. Ha sofferto d'un'invidia smodata e mai sopita. Ha sempre dovuto sudare sette camicie per farsi venire un'ideuzza che non fosse da buttar via. Vittima della sua smania di potere, s'è sobbarcato il controllo di ogni settore del Paese, passando la vita al tavolo del suo studio. Non s'è mai divertito un'ora, e ciononostante è stato odiato dal popolo. Ha ogni giorno subito le più funeste ire del Sovrano. È stato irriso e disprezzato per la sua ignoranza. E proprio queste due ultime hanno finito con l'ucciderlo». «Che volete dire?» L'abate fece una risatina di tutto gusto: «Sai cosa ha condotto Colbert sul letto di morte?». «Una colica di reni, avevate detto». «Esatto. E sai perché? Il Re, inferocito dalla sua ultima balordaggine, lo aveva convocato e riempito d'insulti e contumelie». «Qualche errore nell'amministrazione?» «Molto di più. Per imitare la competenza di Fouquet, Colbert aveva messo il becco nella costruzione di una nuova ala della reggia di Versailles, imponendo le proprie opinioni ai costruttori. E questi non riuscirono a fargli intendere i rischi del suo scellerato intervento». «Ma come: Fouquet era scomparso in carcere già da tre anni e Colbert ne era ancora ossessionato?» «Finché il Sovrintendente fu in vita, benché sepolto vivo a Pinerolo, Colbert visse nel terrore costante che il Re lo avrebbe Imprimatur - Monaldi & Sorti
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un giorno fatto tornare al suo posto. Scomparso Fouquet, l'animo del Colubra restò gravato dalla memoria del suo predecessore, troppo più brillante, geniale, colto, amato e ammirato. Colbert ebbe molti figli, sani e robusti; li arricchì tutti, ebbe un immenso potere, mentre la famiglia del suo avversario era stata dispersa lontano dalla capitale e condannata a lottare in perpetuo contro i creditori. Ma i pensieri del Colubra non riuscirono mai a staccarsi da quell'unica originaria sconfitta infertagli da Madre Natura, che con sprezzo gli aveva rifiutato i propri doni per concederli invece tanto generosamente al suo rivale Fouquet». «Come andò la costruzione a Versailles?» «La nuova ala crollò, e tutta la Corte ne rise. Il Re fece una sfuriata a Colbert che, sopraffatto dallo scorno, ebbe un violentissimo attacco di colica. Dopo giorni di urla di dolore, il male lo condusse all'agonia». Ero senza parole, tutto compreso della potenza della vendetta divina. «Voi eravate davvero un buon amico del Sovrintendente Fouquet» fu l'unica cosa che riuscii a dire. «Avrei voluto essere un amico migliore». Udimmo una porta al primo piano aprirsi e poi richiudersi, e qualcuno dirigersi verso le scale. «Meglio lasciare il campo libero, arriva la Scienza» disse Atto alludendo all'avvicinarsi di Cristofano «ma ricordati che più tardi abbiamo qualcosa da fare». E corse ad acquattarsi lungo la rampa che conduce in cantina, in attesa del passaggio del medico, per poi sgattaiolare lesto su per le scale.
Cristofano era venuto a sollecitare la preparazione della cena, a causa delle proteste degli altri pigionanti. 180/703
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«M'è parso d'udire dei passi mentre scendevo. Qualcuno è forse stato qui?» «Assolutamente no, avrete udito me: stavo già apprestandomi ai fuochi» risposi fingendomi affaccendato con le pignatte. Avrei voluto trattenere il medico ma egli, pago della mia risposta, tornò subito alla propria stanza, pregandomi di servire la cena quanto prima. Per fortuna, pensai, si era deciso di servire solo due pasti al giorno. Misi mano a una minestra di semmolella con fave, aglio, cannella e zucchero sopra, a cui avrei unito formaggio e un po' d'erbette odorose, con alcune gallette e una mezza foglietta del vino annacquato. Mentre attendevo a tale preparazione, nella mia povera mente di garzone s'agitavano mille torbidi pensieri. Al primo posto veniva quanto raccontatomi dall'abate Melani. Ero commosso: ecco, pensavo, tutta la difficoltà presente e passata dell'abate: uomo capace di menzogna e dissimulazione (e chi in qualche misura non lo è?), ma non incline a rinnegare il passato. La sua antica familiarità con il Sovrintendente Fouquet era la macchia che neppure la fuga giovanile a Roma e le umiliazioni successive avevano potuto cancellare, e che forse ancor oggi gli rendeva incerto il favore del Re. Ma lui continuava a difendere la memoria del suo benefattore. Forse parlava così liberamente solo con me, che certo non avrei mai avuto modo di riferirlo alla Corte francese. Riandai poi con la memoria a quanto egli aveva scoperto tra le carte di Colbert. Con tutta tranquillità mi aveva confidato d'aver trafugato dallo studio del Colubra alcuni documenti riservati, forzando i congegni che li dovevano proteggere. Ma non era questa una sorpresa, dato il carattere dell'uomo, come ormai l'avevo appreso sia dai racconti altrui che di persona. Ciò che mi aveva colpito era la missione di cui egli stesso s'era, a suo dire, incaricato: trovare a Roma il suo antico amico e protettore, il Sovrintendente Fouquet. Non doveva essere cosa Imprimatur - Monaldi & Sorti
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leggera per l'abate Melani, e non solo perché il Sovrintendente fino ad allora era stato creduto morto, ma anche perché si trattava proprio di colui che aveva, sebbene involontariamente, coinvolto Atto Melani nello scandalo: e io sembravo, a detta dell'abate, l'unico depositario di tale segreta missione, che solo l'improvvisa chiusura della locanda per quarantena, pensai, aveva momentaneamente interrotto. Quando m'ero addentrato nella galleria sottostante alla locanda, ero dunque in compagnia di un agente speciale del Re di Francia! Mi sentii onorato ch'egli s'appassionasse tanto a risolvere gli strani casi occorsi nel Donzello, tra cui anche il furto delle mie perline. E anzi era stato egli stesso a chiedere con insistenza il mio aiuto. Ora non avrei esitato un attimo a consegnare fiduciosamente all'abate la copia delle chiavi delle stanze di Dulcibeni e di Devizé, che solo il giorno prima gli avevo invece rifiutato. Ma ormai era tardi: a causa delle disposizioni di Cristofano i due, come gli altri pigionanti, sarebbero rimasti chiusi in camera tutto il tempo, rendendo impossibile qualunque perquisizione. E l'abate m'aveva già chiarito l'inopportunità di porre loro domande, che li avrebbero insospettiti. Ero orgoglioso di condividere tanti segreti, ma tutto questo era infine nulla in confronto al groviglio di sentimenti provocatomi dal colloquio con Cloridia.
Dopo aver portato la cena in camera a ogni commensale, mi recai prima da Bedfordi e poi da Pellegrino, ove Cristofano e io avemmo cura d'imboccare i degenti. L'inglese farfugliava cose incomprensibili. Il medico pareva preoccupato. Tanto che s'era recato nella stanza di Devizé lì accanto, facendogli presenti le condizioni di Bedfordi e pregandolo perciò di deporre almeno per il momento la sua chitarra: il musico, infatti, si stava sonoramente esercitando, ripetendo sul suo strumento una bella ciaccona tra le sue preferite. 182/703
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«Farò di meglio» rispose laconico Devizé. E anziché smettere di suonare, intraprese le note del suo rondò. Cristofano stava per protestare, ma l'incanto misterioso di quella musica lo avvolse, gli rischiarò i tratti del volto, e Il medico annuendo bonariamente infilò l'uscio senza far rumore. Poco dopo, mentre scendevo dalla stanza di Pellegrino, su al sottotetto, venni richiamato da un bisbiglio al secondo piano. Era padre Robleda, la cui camera era attigua alle scale. Affacciandosi all'uscio, mi chiese notizie dei due malati. «E l'inglese non sta meglio». «Direi di no» risposi. «E il medico non ha nulla di nuovo da dirci». «Direi di no». Ci giungeva intanto l'ultima eco del rondò di Devizé. Robleda, a quelle note, si lasciò andare a un languido sospiro. «La musica è la voce di Dio» si giustificò. Visto che portavo gli unguenti con me, ne approfittai per domandargli se aveva un po' di tempo per la somministrazione dei rimedi contro il contagio. Con un gesto m'invitò allora a entrare nella sua stanzetta. Stavo per posare le mie cose su una seggiola che si trovava appena passata la porta. «Nonnonnò, aspetta, questa mi serve». Appoggiò frettolosamente sulla seggiola una cassettina di vetro in una cornice nera di pero, con dentro un Cristarello e frutti e fiori, eretta su piccoli piedini d'argento a cipolla. «L'ho acquistata qui a Roma. È preziosa, e sulla sedia è più al sicuro». Il debole pretesto di Robleda m'indicò che il suo desiderio di conversazione, dopo lunghe ore passate in solitudine, andava di pari passo con la sua paura di stare a contatto con chi doveva ogni giorno toccare Bedfordi. Gli ricordai allora che avrei dovuto applicare i rimedi con le mie proprie mani, ma che non Imprimatur - Monaldi & Sorti
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c'era motivo di sospetto, visto che lo stesso Cristofano aveva rassicurato tutti sulla mia resistenza al contagio. «Giaggiaggià» si limitò a proferire, in segno di cauta fiducia. Gli chiesi di scoprirsi il torace, ché avrei dovuto ungerlo e poi fargli un impiastro sopra la regione del cuore e massime intorno alla tetta sinistra. «E perché mai?» chiese turbato il gesuita. Gli spiegai che tale era la raccomandazione di Cristofano, visto il suo carattere ansioso che rischiava d'indebolirgli appunto il cuore. Si tranquillizzò e, mentre aprivo la borsa e cercavo i vasetti giusti, si distese supino sul letto. Sopra di esso era appeso un ritratto di Nostro Signore Innocenzo XI. Robleda cominciò quasi subito a lagnarsi delle indecisioni di Cristofano, e del fatto che dopo così tanto tempo non si fosse ancora arrivati a una spiegazione certa della morte di Mourai né del malore che aveva colto Pellegrino, e vi erano persino incertezze sulla peste di cui era vittima Bedfordi, e ciò era sufficiente ad affermare senz'ombra di dubbio che il medico toscano era incapace d'assolvere il suo compito. Poi passò a lagnarsi degli altri pigionanti e del signor Pellegrino, incolpandoli della situazione presente. Incominciò dal mio padrone, che a suo dire non aveva sufficientemente vigilato sull'igiene nella locanda. Poi passò a Brenozzi e Bedfordi, che avendo viaggiato a lungo, potevano di certo aver portato nella locanda qualche morbo oscuro. Per lo stesso motivo se la prese con Stilone Priàso (che veniva da Napoli, città ove l'aria era notoriamente malsana), con Devizé (il quale veniva pure da Napoli), con Atto Melani (la cui presenza all'interno della locanda e la cui pessima fama imponevano senz'altro il ricorso alla preghiera), con la femmina del torrino (della cui abituale presenza all'interno della locanda egli giurava non aver mai saputo nulla, altrimenti giammai avrebbe scelto di soggiornare al Donzello), e infine imprecò all'indirizzo di Dulcibeni, la cui espressione torva da giansenista, disse Robleda, non gli era mai piaciuta. 184/703
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«Giansenista?» chiesi incuriosito da quella parola che udivo per la prima volta. Appresi allora sommariamente da Robleda che i giansenisti erano una setta pericolosissima e perniciosa. Traevano il nome da Giansenio, fondatore di tale dottrina (se davvero la si voleva così chiamare), e tra i suoi seguaci era persino un folle, tale Pasqual o Pascale, che portava calze intrise nel cognac per scaldarsi i piedi, e aveva scritto alcune lettere contenenti gravi offese per la Chiesa, per Nostro Signore Gesù Cristo e per tutte le persone oneste, di buon senso e con fede in Dio. Ma qui il gesuita s'interruppe e storse il naso: «Che inverecondo puzzo in questo tuo olio. Siamo sicuri che non sia velenoso?». Lo rassicurai sull'autorità di quel rimedio, messo a punto da mastro Antonio Fiorentino per preservare dalla peste al tempo della Repubblica di Firenze. Gl'ingredienti, come m'aveva appreso Cristofano, altro non erano se non teriaca di Levante bollita con succo di limoni, carlina, imperatoria, genziana, zafferano, dittamo bianco e sandaraca. Dolcemente accompagnato dal massaggio che avevo intanto iniziato a fargli sul torace, Robleda sembrò cullarsi nel suono dei nomi di quei semplici, quasi ne venisse così cancellato l'odore sgradevole. Come già avevo osservato in Cloridia, i vapori pungenti o le varie digitazioni con cui applicavo i remedia di Cristofano pacificavano i pigionanti sin nel profondo dell'animo e sbrigliavano loro la lingua. «Insomma sono quasi eretici, questi giansenisti?» ripresi. «Più che quasi» rispose compiaciuto Robleda. Tant'è vero che Giansenio aveva scritto un libro, le cui proposizioni papa Innocenzo X aveva già molt'anni prima aspramente condannato. «Ma perché, secondo voi, il signor Dulcibeni appartiene alle fila dei giansenisti?» Robleda mi spiegò che il pomeriggio precedente all'inizio della quarantena aveva visto Dulcibeni rientrare al Donzello con alcuni libri sottobraccio, che aveva probabilmente acquiImprimatur - Monaldi & Sorti
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stato in qualche libreria, magari nella vicina piazza Navona ove siffatte rivendite sono numerose. Tra i testi, Robleda aveva potuto scorgere il titolo d'un libro proibito che appunto inclinava verso tali dottrine eretiche. E ciò, a parere del gesuita, era segno inequivocabile dell'appartenenza di Dulcibeni alle fila dei giansenisti. «È strano però che un libro del genere possa essere acquistato qui a Roma» obiettai «visto che sicuramente papa Innocenzo XI avrà condannato a sua volta i giansenisti». Padre Robleda cambiò volto. Sottolineò che, al contrario di quanto pensavo, numerosi atti di graziosa attenzione nei confronti dei giansenisti erano venuti da papa Odescalchi, tanto che in Francia, ove i giansenisti erano dal Re Cristianissimo tenuti in massimo sospetto, da tempo si accusava il Papa di colpevole simpatia nei confronti dei seguaci di quella dottrina. «Ma com'è possibile che Nostro Signore papa Innocenzo XI nutra simpatie per degli eretici?» chiesi stupito. Padre Robleda, disteso con le braccia sotto al capo, mi guardò di tre quarti facendo scintillare gli occhietti. «Forse saprai che tra Luigi XIV e Nostro Signore papa Innocenzo XI c'è da tempo grande attrito». «Intendete dire che il Pontefice appoggia i giansenisti solo per danneggiare il Re di Francia?» «Non dimenticare» rispose sornione «che un Pontefice è anche un Principe con un dominio temporale, che è suo dovere difendere e promuovere servendosi d'ogni mezzo». «Ma tutti dicono un gran bene di papa Odescalchi» protestai. «Ha abolito il nepotismo, ha risanato i conti della Camera Apostolica, ha fatto di tutto per aiutare la guerra contro i Turchi...». «Quanto dici non è falso. In effetti ha evitato di attribuire alcune cariche al nipote, Livio Odescalchi, e non l'ha neppure fatto Cardinale. Quelle cariche, infatti, le ha tenute per sé». Mi sembrò una risposta maliziosa, anche se nella lettera non negava le mie asserzioni. «Come tutte le persone avvezze alla mercatura, ben conosce 186/703
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il valore del denaro. Va riconosciuto infatti che ha saputo fare buon investimento dell'azienda ricevuta in eredità dal suo zio di Genova. Circa... cinquecentomila scudi, dicono. Senza contare i brandelli di varie altre eredità che ha avuto cura di contendere ai parenti» disse frettolosamente abbassando il tono della voce. E prima che potessi vincere la sorpresa e chiedergli se veramente il Pontefice avesse ereditato una tale spaventosa somma di denaro, Robleda proseguì. «Non è un cuor di leone, il nostro buon Pontefice. Si dice, ma bada bene» calcò la voce «è solo una diceria, che da giovane per codardia si sia allontanato da Como, pur di non fare da arbitro in una lite tra amici». Tacque un istante, e riattaccò: «Però ha il santo dono della costanza, e della perseveranza! Scrive quasi ogni giorno al fratello e agli altri parenti per avere notizie dei beni di famiglia. Pare non sappia stare due giorni di fila senza controllare, consigliare, raccomandare... Del resto i cespiti di famiglia sono notevoli. Aumentarono improvvisamente dopo la peste del 1630, tanto che dalle loro parti, a Como, c'è chi dice che gli Odescalchi abbiano approfittato della moria di appestati, e si siano rivolti a notai compiacenti per farsi intestare i beni dei morti che non avevano eredi. Ma sono tutte calunnie, per carità di Nostro Signore» disse Robleda facendosi il segno della Croce, e completò: «Comunque la loro roba è tanta che secondo me ne hanno perso il conto: terreni, immobili affittati a Ordini religiosi, uffici venali, appalti per la riscossione di gabelle. E poi tanti crediti, sì, direi soprattutto prestiti, a molte persone, anche a qualche Cardinale» accennò il gesuita con noncuranza, fingendo interesse per una crepa nel soffitto. «La famiglia del Pontefice s'arricchisce coi crediti?» mi sorpresi. «Ma se proprio papa Innocenzo ha proibito ai giudei di fare i prestasoldi!» «Appunto» rispose enigmatico il gesuita. Poi mi congedò improvvisamente, con il pretesto della preImprimatur - Monaldi & Sorti
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ghiera serale. Fece per alzarsi dal letto. «Veramente non avrei ancora terminato: devo applicarvi un impiastro, ora» m'opposi. Si ridistese senza protestare. Sembrava cogitabondo. Sbirciando gli appunti di Cristofano, presi un pezzo di arsenico cristallino e lo involsi dentro un poco di zendale. Mi riaccostai al gesuita e gli spalmai l'impiastro sopra la mammella. Dovevo attendere che s'asciugasse, per tornarlo a liquefare due volte con l'aceto. «Comunque, per carità, non dare ascolto a tutte le chiacchiere malevole che s'odono su papa Innocenzo sin dai tempi di Donna Olimpia» riprese mentre attendevo all'operazione. «Quali chiacchiere?» «Oh, nulla, nulla: sono solo veleni. E più potenti di quello che avrebbe ucciso il nostro povero Mourai». Poi tacque con aria misteriosa e, mi parve, sospetta. Mi misi in allarme. Perché il gesuita aveva ricordato il veleno che aveva forse assassinato l'anziano francese? Era solo un casuale paragone come sembrava? O la misteriosa allusione celava qualcosa di più, e magari aveva a che vedere con i sotterranei, altrettanto misteriosi, del Donzello? Mi diedi dello sciocco, ma subito quella parola - veleno - tornò a ronzarmi nella testa. «Perdonate, padre, cosa intendevate dire?» «Meglio per te che resti nella tua ignoranza» tagliò corto distrattamente. «Chi è Donna Olimpia?» insistetti. «Non mi dire che non hai mai sentito nominare la Papessa» sussurrò voltandosi a guardarmi stupito. «La Papessa?» Fu così che Robleda, messosi di fianco su un gomito e con l'aria di farmi un'enorme concessione, iniziò a raccontarmi a voce pressoché inudibile che papa Odescalchi era stato fatto Cardinale da papa Innocenzo X Pamphili, quasi quarant'anni prima. Quest'ultimo aveva regnato con grande fasto e magnifi188/703
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cenza, facendo dimenticare alcuni fatti spiacevoli che si erano verificati durante il Pontificato precedente, quello di Urbano VIII Barberini. Qualcuno tuttavia, e qui il tono del gesuita s'abbassò di un'altra ottava, aveva osservato che tra papa Innocenzo X, della famiglia Pamphili, e la moglie di suo fratello, Olimpia Maidalchini, correva grande simpatia. Si diceva (tutte calunnie, per carità) che la vicinanza tra i due fosse smodata e sospetta anche trattandosi di due parenti stretti, tra i quali l'affetto e il calore e tante altre cose, disse puntando per un fulmineo istante il suo sguardo nel mio, sono del tutto naturali. L'agio che papa Pamphili concedeva a sua cognata era comunque tale che ella frequentava quasi a ogni ora del giorno e della notte le sue stanze, metteva bocca nei suoi affari e s'ingeriva financo nelle cose di Stato: fissava le udienze, concedeva privilegi, s'assumeva l'onere di decisioni a nome del Papa. Non certo con l'avvenenza dominava, Donna Olimpia, dotata anzi d'una particolare ripugnanza, bensì con l'incredibile forza d'un temperamento quasi virile. Gli ambasciatori delle potenze straniere le inviavano di continuo regali, consapevoli del potere ch'ella esercitava nella Santa Sede. Il Pontefice era invece debole, remissivo, d'umor melanconico. Le chiacchiere a Roma erano inarrestabili, e c'era chi s'era preso gioco del Papa inviandogli anonimamente una medaglia con la cognata nei panni di Pontefice, con la tiara e tutto, e sull'altro lato Innocenzo X in acconciatura femminile con in mano l'ago e il filo. I Cardinali s'erano ribellati a tale indecorosa situazione, riuscendo per un periodo a far allontanare la donna, ma alla fine questa era riuscita a tornare in sella e ad accompagnare il Papa fino alla tomba, e a suo modo: aveva nascosto al popolo per ben due giorni l'avvenuto trapasso del Pontefice, per avere il tempo di trafugare dalle stanze papali ogni oggetto di valore. Il povero corpo esanime intanto era stato abbandonato in una stanza alla mercé dei topi, mentre nessuno si faceva avanti per provvedere alla sepoltura. Alla fine le esequie si erano svolte tra l'indifferenza dei Cardinali e le contumelie e le burle del Imprimatur - Monaldi & Sorti
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popolo minuto. Orbene, Donna Olimpia amava giocare a carte, e si dice che una sera, in un gaio consesso di dame e cavalieri al suo tavolo, si fosse trovata in compagnia di un giovane chierico che, essendosi ritirati dal gioco tutti gli altri concorrenti, avrebbe con grazia accettato la sfida al gioco di Donna Olimpia. E si dice ancora che attorno ai due si fosse radunato gran concorso di gente, per assistere all'insolita tenzone. E per più di un'ora i due si sarebbero affrontati, senza badare al tempo né al denaro, dando ai presenti occasione di grande allegrezza; e alla fine della serata Donna Olimpia sarebbe tornata a casa con una somma di cui mai si è saputo l'esatto ammontare, ma che tutti assicurano enorme. Corre parimenti voce che il giovane sconosciuto, il quale in verità avrebbe avuto quasi sempre gioco migliore della sua avversaria, graziosamente avrebbe fatto in modo di mostrare distrattamente le carte a un servitore di Donna Olimpia, così da perdere tutte le mani decisive, senza peraltro (come cavalleria obbliga) darlo a vedere a nessuno, tantomeno alla vincitrice, e anzi affrontando con magnifica indifferenza la grave sconfitta. Ebbene, poco tempo dopo, papa Pamphili fece Cardinale quel chierico, che rispondeva appunto al nome di Benedetto Odescalchi, arrivato alla porpora alla verdissima età di trentaquattro anni. Avevo intanto terminato il massaggio con l'unguento. «Ma ricorda» m'ammonì frettolosamente Robleda con voce tornata normale, mentre si ripuliva il petto dall'impiastro «sono tutte chiacchiere. Non esiste infatti alcuna prova materiale di quell'episodio». Appena lasciata la stanza di padre Robleda, provai un senso di fastidio, che neppure io sapevo spiegare a me stesso, nel ripensare al colloquio con quel sacerdote flaccido e paonazzo. Non era necessario un ingegno soprannaturale per capire quanto il gesuita pensava: che Nostro Signore papa Innocenzo XI, anziché un Pontefice probo, onesto e Santo, altro non era che un amico e sostenitore dei giansenisti, anche al fine di tur190/703
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bare i disegni del Re di Francia col quale egli era in urto. Per di più sarebbe stato pervaso da insani appetiti materiali, da avidità e avarizia, e avrebbe perfino corrotto Donna Olimpia per ottenere il Cardinalato. Ma se veridico fosse stato un tale ritratto, così ragionavo, come avrebbe potuto mai Nostro Signore papa Innocenzo XI essere la stessa persona che aveva riportato austerità, e decoro, e frugalità nel cuore di Santa Madre Chiesa? Come poteva essere la stessa persona che da decenni elargiva elemosine ai poveri d'ogni dove? Come poteva essere lo stesso che aveva chiamato i Principi di tutt'Europa a unire le loro forze contro il Turco? Era un fatto che i Pontefici precedenti avevano coperto di regali i loro nipoti e familiari, mentr'egli aveva interrotto tale inopportuna tradizione; era un fatto che avesse riportato il bilancio della Camera Apostolica alla salute; ed era infine un fatto che Vienna stesse resistendo all'avanzare della marea ottomana grazie agli sforzi di papa Innocenzo. No, non era possibile quanto m'aveva detto quel pavido, pettegolo gesuita. Del resto, non avevo sospettato da subito del suo dire e non dire, e della cervellotica dottrina dei gesuiti che rendeva lecito il peccato? Ed ero colpevole anch'io, per essermi trascinato ad ascoltarlo e anzi per averlo da un certo punto in poi esortato a continuare, catturato dal casuale e fuorviante accenno di Robleda all'avvelenamento del signor di Mourai. Era tutta colpa, pensai con rimorso, dell'attitudine di Atto Melani all'indagine e alla spioneria, e del mio desiderio di emularlo. Stolta passione, che m'aveva ora fatto cadere nella rete del Maligno e aveva disposto le mie orecchie ad ascoltare i suoi calunniosi sussurri. Tornai in cucina dove trovai sulla dispensa un biglietto anonimo, ma chiaramente indirizzato a me: TRE TOCCHI SULLA PORTA - TIENITI PRONTO.
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Nottata terza. Tra il 13 e il 14 settembre 1683
I
n poco più di un'ora, dopo che Cristofano aveva dato l'ultimo sguardo al mio padrone, l'abate Melani bussò tre volte alla mia porta. Ero intento al mio diarietto: lo nascosi ben benino sotto il materasso e apersi. «Una goccia d'olio» disse enigmaticamente l'abate appena entrato. Ricordai così all'improvviso che, nel nostro ultimo incontro, egli aveva notato una stilla d'olio sulla mia fronte, e col dito l'aveva portata alla lingua. «Dimmi: che olio usi qui per le lampade?» «Il bando dei Camerlenghi comanda d'usarsi sempre e solo olio mischiato con feccia, che...». «Non ti ho chiesto cosa si deve usare, ma cosa usi qui tu, mentre il tuo padrone» e lo indicò «se ne sta lì a riposo nel suo letto». Gli confessai con imbarazzo che in effetti usavo anche olio buono, perché ne avevamo in abbondanza, mentre di quello impuro mischiato a feccia ce n'era poco. L'abate Melani non riuscì a nascondere un furbo sorrisetto. «Ora non mentire: quante lampade hai a disposizione?» «All'inizio erano tre, ma una l'abbiamo rotta quando ci stavamo calando nella galleria. Ne sono rimaste due, ma a una devo fare qualche accomodatura...». «Va bene, prendi quella buona e seguimi. E porta anche quella». 192/703
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M'indicò, appoggiata in verticale nell'angolo della stanza, una canna con cui il signor Pellegrino era solito, nei pochi momenti liberi, recarsi a pescare sulle rive del Tevere, proprio dietro alla chiesetta di Santa Maria in Posterula. Pochi istanti dopo eravamo già nello stanzino, e avevamo imboccato il pertugio di accesso alla scala, che conduceva nei sotterranei. Ci calammo assicurandoci ai sostegni in ferro piantati nel muro finché sentimmo sotto i piedi il pavimento di mattoni, e ci infilammo nella scala di pietra a pianta quadrata. Nel punto in cui la scala cominciava a essere scavata nel tufo incontrammo puntualmente lo strato di melma sui gradini, mentre l'aria s'era fatta densa. Raggiungemmo infine la galleria, profonda e oscura come la notte in cui l'avevo conosciuta. Mentre lo seguivo, l'abate Melani dovette percepire la mia curiosità come fiato sul collo. «Ora saprai finalmente cosa ha mai in testa questo strano abate Melani». Si fermò. «Dammi la canna». Pose a metà sul ginocchio l'asticella e con uno schiocco la spezzò in due. Stavo per protestare, ma Atto mi prevenne. «Non ti preoccupare. Se mai potrai raccontarlo al tuo padrone, egli capirà che si trattava di un caso d'emergenza. Ora fa' come ti dico». Mi fece procedere davanti a sé, tenendo la canna mozza in verticale dietro di me e facendone strisciare l'estremità contro la volta della galleria, come una penna che scivola sulla carta. In tal modo avanzammo per alcune decine di metri. Nel frattempo l'abate mi rivolgeva alcuni bizzarri interrogativi. «L'olio misto a feccia ha un gusto particolare?» «Non saprei come descriverlo» risposi, mentre in realtà ne conoscevo benissimo il sapore avendone più volte irrorato furtivamente una fetta di pane trafugata nella dispensa, quando il signor Pellegrino dormiva e la cena era stata troppo modesta. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Si può dire rancido, amaro e acido?» «Forse... direi di sì» ammisi. «Bene» rispose l'abate. Percorremmo ancora pochi passi, e improvvisamente l'abate m'ordinò di fermarmi. «Ci siamo!» Lo guardai perplesso. «Non hai ancora capito?» mi disse mentre il suo ghigno veniva capricciosamente deformato dal chiarore del lume. «Allora vediamo se questo ti aiuta». Mi prese la canna dalle mani e la spinse con forza contro la volta della galleria. Sentii come il gemito di un cardine, indi un tremendo boato e infine il sussurro d'una piccola pioggia di detriti e pietruzze. Poi il terrore: una grossa e nera serpe si era lanciata verso di me quasi a ghermirmi, restando poi grottescamente appesa al soffitto come un impiccato. Mi ritrassi istintivamente con un brivido, mentre l'abate prorompeva in una risata. «Vieni qui e accosta il lume» mi disse trionfante. Nella volta c'era un foro largo quasi come l'intera cavità, da cui pendeva una robusta corda. Era stata questa che, pencolando disordinatamente a causa dell'apertura della botola, m'aveva lambito terrorizzandomi. «Ti sei fatto spaventare dal nulla, e ci vuole una piccola punizione. Salirai per primo, poi ti toccherà aiutarmi a seguirti là sopra». Fortunatamente riuscii a innalzarmi senza troppa difficoltà. Dopo essermi abbarbicato alla corda, vi montai finché raggiunsi la cavità superiore. Aiutai l'abate Melani a raggiungermi, ed egli impiegò tutte le sue forze rischiando per un paio di volte di far precipitare a terra la nostra unica lanterna. Ci trovammo nel mezzo di un'altra galleria, che sembrava posta obliquamente rispetto alla precedente. «Ora tocca a te decidere: destra o sinistra?» 194/703
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Protestai (debolmente, spaurito com'ero): non era forse il momento per l'abate Melani di spiegarmi com'era giunto a tutto ciò? «Hai ragione, ma allora sceglierò io: andiamo a sinistra». Come avevo io stesso confermato all'abate, l'olio tagliato con feccia è abitualmente di sapore assai più ingrato di quello che si usa per le fritture e per la buona mensa. La goccia ch'egli aveva trovato sulla mia fronte il giorno dopo la prima esplorazione nella galleria (e che miracolosamente non era venuta a contatto con le coltri quando m'ero coricato), all'esame del gusto non poteva dunque provenire dalle lanterne della locanda, da me stesso caricate con l'olio buono. Non proveniva neanche dagli unguenti medicinali di Cristofano, tutti di colore diverso. Dunque veniva da un'ignota lanterna, che - chissà come - dovevo aver avuto incombente sul mio capo. Da qui l'abate aveva concluso con la consueta rapidità che si doveva pensare a un'apertura nella volta della galleria. Apertura che sarebbe servita anche come unica possibile via di fuga al ladro, così inspiegabilmente svanito nel nulla. «L'olio caduto sulla tua fronte dev'essere gocciolato dalla lanterna del ladro attraverso una fessura delle assi che compongono il coperchio della botola». «E la canna?» chiesi. «Ero certo che la botola, se esisteva, doveva essere molto ben nascosta. Ma una canna come quella del tuo padrone è molto sensibile alle vibrazioni, e l'avremmo senz'altro sentita schioccare nel passaggio dalla pietra della galleria al legno della botola. Così come abbiamo fatto». Fui segretamente grato all'abate per aver attribuito in qualche modo a entrambi il merito d'aver individuato la botola. «Il marchingegno è assai rudimentale» continuò «ma efficace. La corda, che ti ha tanto spaventato quando è penzolata giù dal soffitto, viene semplicemente appoggiata sullo sportello della botola e chiusa insieme a esso. Quando dalla galleria sotImprimatur - Monaldi & Sorti
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tostante lo sportello viene aperto, spingendolo verso l'alto, la corda cade verso il basso. L'importante, se si vuole averla a disposizione, è riporla allo stesso modo quando si ritorna sui propri passi». «Allora pensate che il ladro faccia sempre avanti e indietro in questa galleria». «Non lo so, lo suppongo. E suppongo anche, se lo vuoi sapere, che questa galleria porti da qualche altra parte». «Supponevate anche che con il solo aiuto della canna avremmo individuato la botola?» «La natura fa il merito, la fortuna lo mette in opera» sentenziò l'abate. E alla luce fioca della lanterna cominciò l'esplorazione.
Anche in tale galleria, come quella che avevamo lasciato sotto di noi, una persona di normale statura era costretta a procedere leggermente piegata a causa della volta angusta. E, come osservammo subito, anche il materiale di cui era costituita, cioè il reticolato di mattoncini a losanga, sembrava identico al percorso precedente. Il primo tratto era costituito da un lungo rettilineo che sembrava lentamente guadagnare in profondità. «Se il nostro ladro ha seguito questa strada, deve avere buon fiato» osservò l'abate Melani «inerpicarsi su quella corda non è cosa da tutti, e il terreno è assai scivoloso». All'improvviso fummo ambedue preda dello spavento più atroce. I passi di uno sconosciuto, leggeri ma chiarissimi, s'avvicinavano da un punto imprecisato. Atto mi fermò stringendomi forte la spalla, in segno d'estrema cautela. Fu allora che ci fece tremare un boato, simile a quello con cui s'era aperta la botola dalla quale eravamo passati poc'anzi. Appena ripreso fiato, ci guardammo con occhi ancora carichi di tensione. 196/703
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«Secondo te veniva dall'alto o dal basso?» bisbigliò l'abate Melani. «Più da sopra che da sotto». «Direi anch'io. Dunque non poteva essere la botola precedente, ma un'altra». «E quante ce ne saranno?» «E chi lo sa? Abbiamo fatto male a non sondare ancora il soffitto con la canna: chissà, avremmo potuto individuare qualche altro pertugio. Qualcuno ci avrà sentiti arrivare e si sarà affrettato a sbarrare il passaggio tra lui e noi. Il rimbombo è stato troppo grande, non saprei dire se veniva dalle nostre spalle o piuttosto dal tratto che dobbiamo ancora percorrere». «Potrebbe essere il ladro delle chiavi?» «Mi fai domande a cui è impossibile rispondere. Forse ha avuto l'idea d'andarsene a passeggio anche stasera, forse no. Hai per caso tenuto d'occhio in serata l'accesso allo stanzino?» Ammisi che non me ne ero molto occupato. «E bravo» commentò sferzante l'abate «così siamo venuti qui sotto senza sapere se siamo noi sulle tracce di qualcuno oppure viceversa, tanto più che... Guarda!» Ci trovavamo in cima a una scalinata. Abbassando la lanterna fino ai nostri piedi, notammo che i gradini erano in pietra e scolpiti con arte. Dopo un istante di riflessione, l'abate sospirò: «Non ho idea di cosa ci possa aspettare là sotto. La gradinata è diritta: se c'è qualcuno, sa già che stiamo arrivando. Non è vero?» concluse gridando verso il fondo della scalinata e scatenando un'orribile eco che mi fece sobbalzare. Indi, armati solo del debole lume, iniziammo la discesa. Esauriti i gradini, ci trovammo infine a camminare su d'un lastrico. Grazie all'eco provocata dai nostri passi capimmo di trovarci in una grande cavità, forse una grotta. L'abate Melani brandì la lampada verso l'alto. Apparve il profilo di due grandi archi di mattoni ritagliati in un alto muro di cui non si scorgeva la cima, e tra gli archi un passaggio verso il quale, senza saperlo, ci eravamo diretti fino a quell'istante. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Non appena ci fermammo, e s'era fatto di nuovo silenzio, Atto starnutì fragorosamente una, due e poi tre volte. Per un attimo la fiamma della lanterna s'affievolì, fin quasi a spegnersi. Fu allora che avvertii un furtivo fruscio alla nostra sinistra. «Hai sentito?» bisbigliò l'abate allarmato. Udimmo un nuovo fruscio, questa volta poco più lontano. Atto mi fece cenno di restare immobile; e anziché imboccare il passaggio che avevamo di fronte, scattò in punta di piedi sotto l'arco sulla destra, superato il quale la luce della lanterna non lo raggiungeva più. Restai in attesa con la lanterna in mano, impietrito. Si fece nuovamente silenzio. Un nuovo fruscio, questa volta più vicino, era alle mie spalle. Mi voltai di scatto. Un'ombra schizzò verso sinistra. Mi precipitai verso l'abate Melani, più per proteggere me che per mettere in guardia lui. «Nooo» sibilò appena lo individuai con la lampada, e mi resi conto di averlo tradito: si era silenziosamente spostato di alcuni metri a sinistra, e s'era acquattato a terra. Spuntò nuovamente da non so dove una sagoma grigia, che lestissima s'interpose tra noi cercando d'allontanarsi dagli archi. «Prendilo!» urlò l'abate Melani avvicinandosi a sua volta, e aveva ragione poiché il qualcuno o qualcosa sembrò incespicare e quasi cadere. Scattai alla cieca, pregando Iddio che Atto sopraggiungesse prima di me. Ma proprio in quel mentre mi fu sopra, e ovunque attorno a me, una pioggia fragorosa e orribile di cadaveri teschi e ossa umane, e mandibole mascelle costole omeri misti a immondo sudiciume, travolto dal quale caddi e restai a terra, e solo allora in realtà conobbi da vicino la schifosa materia, restandone semisepolto e a mia volta quasi morto. Cercai di divincolarmi dalla mostruosa e scricchiolante poltiglia mortifera, il cui infame gorgoglio si mescolava a un duplice muggito infernale di cui non indovinavo la provenienza né la natura. Quella che oggi riconoscerei per una vertebra m'ostruiva la visuale, e ciò che era stato un tempo il cranio d'un vivente mi osservava minaccioso, 198/703
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quasi sospeso nel vuoto. Cercai d'urlare, ma la mia bocca non emise alcun suono. Sentii le forze venirmi meno, e mentre gli ultimi pensieri si radunavano faticosamente in un'estrema preghiera per la salvezza dell'anima mia, come in un sogno udii la voce ferma dell'abate risuonare nel vuoto. «Ora basta, ti vedo. Fermo o sparo».
Mi parve trascorso alquanto tempo (ma ora so che si trattò solo di pochi minuti) prima che dall'incubo informe in cui ero precipitato mi richiamasse il suono echeggiante d'una voce estranea. Notai con allarme che una mano mi teneva il capo sollevato, mentre qualcuno (un terzo essere?) liberava le mie povere membra dalla massa spaventevole che poc'anzi mi aveva sopraffatto. Istintivamente mi ritrassi da quelle attenzioni aliene ma, slittando malamente, mi ritrovai a faccia in giù con il naso pigiato su un arto (impossibile dire quale) dal tanfo nauseabondo. Subitaneamente vinto dagli sforzi di stomaco, vomitai in pochi secondi tutta la cena. Udii l'alieno imprecare in una lingua che pareva simile alla mia. Mentre ancora non ero riuscito a riprendere fiato, sentii la mano pietosa dell'abate Melani afferrarmi da sotto l'ascella. «Animo, ragazzo». Mi rimisi faticosamente in piedi, e al fioco chiarore della lampada intravidi un individuo, avvolto in una sorta di saio, brontolare piegato a terra nel febbrile tentativo d'isolare dalle mie secrezioni gastriche la non meno vomitevole catasta di resti umani. «Ognuno ha i suoi tesori» schernì Atto. Scorsi che l'abate Melani teneva in mano un piccolo marchingegno: da quanto potevo vedere, terminava con una canna di legno lucido e una guarnitura di metallo rilucente. Lo puntava minaccioso contro un secondo individuo, abbigliato come il Imprimatur - Monaldi & Sorti
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suo compare e seduto su una pietra scolpita. Nell'attimo in cui la lanterna illuminò costui a dovere, venni fulminato dall'immagine del suo viso. Se viso lo si poteva chiamare, giacché altro non era che una sinfonia di rughe, un concerto di grinze, un madrigale di brandelli di pelle che parevano resistere insieme sol perché troppo vecchi e stanchi per ribellarsi alla forzata convivenza. Le pupille grigie e diffidenti erano coronate dal rosso intenso dell'occhio, che faceva dell'insieme una delle visioni più spaventevoli ch'io avessi mai avuto innanzi. Completavano il quadro i denti marroni e aguzzi, degni d'una visione infernale di Melozzo da Forlì. «Corpisantari» mormorò l'abate tra sé e sé con disgusto, scuotendo la testa. «Avreste almeno potuto fare un po' d'attenzione» aggiunse sardonico «avete spaventato due gentiluomini». E abbassò il piccolo congegno, con il quale aveva tenuto fino ad allora sotto tiro il primo misterioso individuo, riponendolo in tasca in segno di pace. Mentre mi ripulivo alla meno peggio, cercando di vincere la nausea che ancora mi pervadeva, ebbi modo di scorgere il volto del secondo soggetto, che si era per un istante levato in piedi. O meglio di intravederlo, giacché egli indossava un lurido pastrano con maniche troppo lunghe e un cappuccio che gli copriva quasi interamente il volto, lasciando una fessura da cui solo di rado, se la direzione della luce era favorevole, era possibile scorgere le sue fattezze. E ciò era un bene, giacché dopo numerosi, pazienti tentativi di osservazione avrei ricavato l'esistenza d'un occhio semichiuso e biancastro, e di un altro bulbo oculare rigonfio, enorme e sporgente, quasi stesse per cadere in terra; un naso simile a un cetriolo deforme e carcinoso, e una pelle giallastra e unticcia, mentre della bocca non sarei mai stato in grado di testimoniare l'esistenza, se non per i suoni informi che occasionalmente emetteva. Dalle maniche facevano capolino, di tanto in tanto, due mani adunche e unghiute, tanto decrepite quanto rapinose. 200/703
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L'abate si voltò e incontrò il mio sguardo, spaurito e pieno di urgenti interrogativi. Con un cenno indicò al primo dei due, impaziente di tornare in libertà, che poteva unirsi al suo compare, affaccendato nella disgustosa cernita tra ossa e materia di stomaco. «È buffo» disse Atto mentre si spolverava accuratamente le maniche e le spalle «nella locanda ho continuamente accessi di starnuto mentre qui, con tutta la polvere che si portano addosso questi due sventurati, neanche uno». E mi spiegò che i due strani esseri in cui ci eravamo imbattuti facevano parte della schiera miserabile, e purtroppo nutrita, di coloro che nottetempo calavano nelle infinite cavità del sottosuolo di Roma a caccia di tesori. Non di gioie o di statue romane, però, sibbene delle Reliquie Santissime dei Santi e dei Martiri di cui abbondavano le catacombe e le tombe di Martiri di Santa Romana Chiesa, disseminate per tutta la città. «Non capisco» lo interruppi «è davvero permesso prelevare dalle tombe queste Sante Reliquie?» «Non solo è permesso: direi che è necessario» rispose l'abate Melani con una punta d'ironia. «I luoghi dei primi cristiani sono infatti da considerarsi fecondo terreno di ricerca spirituale, e talvolta perfino di caccia, ut ita dicam, per le anime elevate». Già San Filippo Neri e San Carlo Borromeo erano soliti infatti raccogliersi in preghiera nelle catacombe, aveva ricordato l'abate. E alla fine del secolo scorso un coraggioso gesuita, tale Antonio Bosio, si era calato negli anfratti più reconditi e oscuri, e aveva esplorato le cavità di tutta Roma, facendo molte e meravigliose scoperte e pubblicando un libro, che chiamasi appunto Roma subterranea, con cui aveva meritato grande e generale applauso. Il buon papa Gregorio XV all'incirca nel 1620 aveva pertanto stabilito che si estraessero dalle catacombe le spoglie dei Santi, in modo da poterne accogliere i preziosi resti nelle chiese di tutta la Cristianità, e aveva incaricato il cardinal Crescenzi di provvedere alla realizzazione di tale Santo ProImprimatur - Monaldi & Sorti
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gramma. Mi voltai verso i due bizzarri omuncoli, che s'affannavano attorno a quei resti umani emettendo una sorta di osceno grufolio. «Lo so, ti pare curioso che una missione di alta spiritualità coinvolga due esseri del genere» riprese Atto. «Il fatto è che la discesa nelle catacombe e nelle grotte artificiali di cui è piena Roma non è cosa da tutti. Bisogna affrontare passaggi pericolosi, corsi d'acqua, frane e crolli. Poi bisogna aver lo stomaco di metter le mani tra i corpi...». «Ma si tratta di vecchie ossa». «Si fa presto a dire così: ma come hai reagito tu poco fa? I nostri due amici avevano terminato il loro giro, come mi hanno spiegato mentre tu te ne stavi lì per terra mezzo morto. In questa cavità hanno collocato il loro deposito: le catacombe sono lontane, e non c'è pericolo che nella zona si aggiri qualcuno dei loro concorrenti. Non si aspettavano quindi d'incontrare anima viva; quando li abbiamo sorpresi sono stati colti dal panico, e si sono messi a correre da tutte le parti. Nella confusione tu ti sei avvicinato troppo alla catasta di ossa, l'hai urtata e ti è crollata addosso. E sei svenuto». Guardai a terra, e vidi che i due strani ometti avevano ormai separato le ossa dal resto, e le avevano sommariamente ripulite. La piccola montagna che mi aveva sepolto, ora tutta sparsa in terra, doveva essere stata ben più alta della mia persona. In realtà gli scarsi resti umani (un teschio, qualche osso lungo, tre vertebre) erano ben poco se confrontati con la materia restante: terriccio, cocci, sassi, schegge, muschio e radici, stracci, sporcizia varia. Quello che, complice la paura, mi era parso un diluvio di morte, era solo il contenuto del sacco d'un contadino che ha grattato troppo la terra del suo campicello. «Per fare un lavoraccio sporco come questo» proseguì l'abate «ci vuole un paio di soggetti come quelli che hai davanti. Si chiamano corpisantari, dal nome delle sacre spoglie di cui sono sempre alla cerca. Se gli va male, vendono qualche porcheria al 202/703
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gonzo di turno. Hai mai visto vendere in strada, davanti alla tua locanda, la clavicola di San Giovanni o la mascella di Santa Caterina, piume di ali di angelo, schegge di legno della vera e unica Croce portata da Nostro Signore? Ecco: i fornitori sono i due nostri amici, o i loro compagni d'arte. Quando gli va bene trovano la presunta tomba di qualche presunto Martire. A fare la bella figura di annunciare la traslazione delle spoglie di San Tizio in qualche chiesa spagnola ci vanno però i Cardinali, o quel vecchio trombone del padre Fabretti, che Innocenzo X ha nominato, se non erro, custos reliquiarum ac coemeteriorum». «Dove siamo, signor abate?» chiesi spaesato da quell'ambiente ostile e tenebroso. «Ho ripercorso mentalmente la strada che abbiamo fatto, e ho posto un paio di domande a questi due. Loro lo chiamano l'Archivio, perché ci stipano le loro schifezze. Direi che ci troviamo più o meno dentro le rovine del vecchio stadio di Domiziano, dove durante l'Impero Romano si tenevano i certami guerreschi tra navi. Per tua comodità, posso dirti che ci troviamo sotto a piazza Navona, sull'estremità più prossima al Tevere. Se avessimo coperto in superficie la stessa distanza dalla locanda fino a qui, con passo comodo non avremmo impiegato più di tre minuti». «Allora queste rovine sono dei Romani». «Ma certo che sono rovine romane. Vedi questi archi? Devono essere le vecchie strutture dello stadio in cui si facevano giochi e gare navali, sul quale poi sono stati edificati i palazzi che formano il profilo di piazza Navona, e che seguono il vecchio disegno a cerchio allungato». «Come quello del Circo Massimo?» «Esattamente. Solo che in quel caso tutto è rimasto alla luce. Qui purtroppo è stato sepolto dal peso dei secoli. Ma vedrai, prima o poi scaveranno anche qui. Ci sono cose che non possono restare sepolte». Mentre narrava di cose per me del tutto nuove, fui stupito nel veder per la prima volta brillare negli occhi dell'abate MeImprimatur - Monaldi & Sorti
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lani la scintilla dell'attrazione per le Arti e l'Antico, nonostante in quelle ore gli stesse apparentemente a cuore tutt'altro. Una passione di cui avevo avuto sentore per la prima volta quando avevo scorto nella sua stanza tutti quei libri sulle antichità e i tesori artistici di Roma. Ancora non potevo saperlo, ma tale inclinazione avrebbe avuto in quelle vicende, e nelle successive, non poca importanza. «Ebbene, saremmo curiosi di poter riferire, un giorno, il nome delle nostre notturne conoscenze» disse infine Melani ai due corpisantari. «Io son Ugonio» disse il meno basso dei due. Atto Melani guardò interrogativamente l'altro. «Gfrrrlûlbh» sentimmo provenire da dentro il suo cappuccio. «E lui è Ciacconio» s'affrettò a tradurre Ugonio, coprendo in parte il gorgoglio del suo compagno. «Non sa parlare?» insistette l'abate Melani. «Gfrrrlûlbh» rispose Ciacconio. «Capisco» disse Atto reprimendo l'impazienza. «Ci rincresce d'aver disturbato la vostra passeggiata. Ma già che ci siamo, per caso avete visto passare qualcuno da queste parti, poco prima di noi?» «Gfrrrlûlbh!» proruppe Ciacconio. «Qualcuno lui l'ha straveduto» annunciò Ugonio. «Digli che vogliamo sapere tutto» mi interposi. «Gfrrrlûlbh» ripetè Ciacconio. Guardammo interrogativamente Ugonio. «Ciacconio s'è infilzato nella gallerizia da cui sarebbero pervenute le signorizie vostre, e qualcuno che manreggeva un lampadume lo ha perspicato, e Ciacconio è indietrato sui suoi retropassi mentre il lampadifero deve aver infilzato una botola perché è scomparsato come sfumato, e Ciacconio si è protezionato qui, molto spaurizzato». «Non lo poteva raccontare lui?» chiese l'abate Melani lievemente interdetto. 204/703
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«Ma lo ha appena egli medesimo descrittato e confessato» rispose Ugonio. «Gfrrrlûlbh» annuì Ciacconio, vagamente piccato. Atto Melani e io ci guardammo perplessi. «Gfrrrlûlbh!» proseguì animandosi Ciacconio, il cui rutto sembrò l'orgogliosa rivendicazione che anche un povero essere delle tenebre poteva rendersi prezioso. Come opportunamente tradusse il suo compagno, Ciacconio, dopo l'incontro con lo sconosciuto, aveva eseguito un secondo sopralluogo nella galleria, perché più della paura aveva potuto la curiosità. «È un gran nasoficcante» spiegò Ugonio col tono d'un vecchio e reiterato rimprovero «e gli porta solo guaimenti e sfortunizie». «Gfrrrlûlbh» lo interruppe però Ciacconio frugandosi nel pastrano alla ricerca di qualcosa. Ugonio sembrò esitare. «Cos'ha detto?» gli chiesi. «Un nientismo, ovvero solo che...». Ciacconio tirò fuori trionfante un pezzo di carta sgualcita. Ugonio gli afferrò l'avambraccio e glielo strappò di mano con la velocità del fulmine. «Dammelo o ti faccio esplodere la testa» disse con calma l'abate Melani avvicinando la mano destra alla tasca, ove aveva riposto l'arnese con cui aveva prima minacciato i due corpisantari. Ugonio tese lentamente una mano consegnando al mio compagno la carta appallottolata. Poi d'improvviso cominciò a prendere furiosamente a calci e pugni Ciacconio, chiamandolo Pellandrone, Pellicciaccio, Bambalio, Bastione, Panfardo, Parabolano, Pizzafrondo, Scrignocco, Serrazzonio, Scarabotto, Gabbaino, Scolopendrio, Asiniano, Antronio, Farinaccio, Arcifanfano, Cavolaccio, Borboglio, Tartagliazzo, Mangiardonio, Barbacano, Bragonardo, Stramboinone, Licantropio, Valdrappaccio, Brutaniano, Ferramazzo, Mazzarango, Gonnellastro, ForchinImprimatur - Monaldi & Sorti
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palo, Vesciconio, Podiciaio, Pederastrio, Arroganzio, Castagnaccio, Ciabattonio, Taccagnazio, Zampadellio, Bagianione, Baldonaccio, Bagonello, Neronato, Garagnonio, Sicomorone e altri epiteti che non avevo prima d'allora mai udito, e che purtuttavia suonavano assai gravi e offensivi.
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L'abate Melani non degnò d'uno sguardo quel penoso teatro, e distese per terra il foglietto, tentando di restituirgli la foggia originaria. Io allungai il collo e lessi con lui. Il lato sinistro e quello destro erano purtroppo gravemente laceri, e anche quasi tutto il titolo era andato perso. Per fortuna era perfettamente leggibile la parte rimanente della pagina: «È una pagina della Bibbia» dissi a colpo sicuro. «Credo anch'io» si associò l'abate Melani girandosi tra le mani il foglio. «Direi che si tratta di...». «Malachia» indovinai senza incertezze grazie al brandello del nome risparmiato quasi per intero dagli eventi nel margine superiore del foglio. Sul retro non era stampato alcunché, e campeggiava (benché l'avessi già intravista in trasparenza) ciò che inequivocabilmente era una macchia di sangue. Altro sangue copriva parte di quello che doveva essere un titolo o un'intestazione. «Credo di capire» disse l'abate Melani voltandosi a guardare Ugonio che stava menando gli ultimi, svogliati calcioni a Ciacconio. «Capire cosa?» «I nostri due mostriciattoli credevano d'aver fatto un buon colpo». E mi spiegò che per i corpisantari il bottino più prezioso proveniva non dai semplici sepolcri dei primi cristiani, bensì dalle tombe gloriose dei Santi e dei Martiri. Ma riconoscerle non era cosa facile. Sul criterio d'individuazione di tali tombe era quindi nata un'annosa diatriba, che aveva trascinato nell'agone non pochi dotti uomini di Chiesa. Secondo Bosio, l'ardito gesuita esploratore della Roma sotterranea, segno di riconoscimento dei Martiri potevano essere simboli come palme, corone, vasi contenenti grano o fiamme di fuoco, incisi sulle tombe. Ma dovevano essere considerate prova certa massime le ampolle di vetro o terracotta - rinvenute nei loculi, o murate Imprimatur - Monaldi & Sorti
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con la calce nei loro margini esterni - contenenti un liquido rossastro che i più ritenevano essere il Sacro Sangue dei Martiri. La scottante questione venne a lungo dibattuta, e una speciale commissione aveva infine liberato il campo da ogni incertezza, stabilendo che palmam et vas illorum sanguine tinctum pro signis certissimis habendas esse. «Vale a dire» concluse Atto Melani «che i disegni delle palme, ma soprattutto la presenza dell'ampollina piena di liquido rosso erano prova certa del fatto che ci si trovava in presenza delle spoglie di un Eroe della Fede». «Le ampolle allora devono valere molto» arguii. «Certo, e non tutte vengono consegnate alle autorità ecclesiastiche. Qualunque romano può infatti dedicarsi alla ricerca di reliquie: gli basta ottenere l'autorizzazione del Papa (lo ha fatto per esempio il principe Scipione Borghese, fors'anche perché il Papa era suo zio), scavare, e poi far autenticare da qualche dotto compiacente i resti venuti alla luce. Dopodiché, se non è roso dalla devozione, li vende. Ma non esiste un criterio certo per discernere il vero dal falso. Chiunque trova qualche brandello di cadavere, dirà sempre che si tratta dei resti d'un Martire. Se fosse solo un problema di soldi, ci si potrebbe passare sopra. Il fatto è che poi quei brandelli vengono benedetti, diventano oggetto di adorazione, meta di pellegrinaggi e così via». «E nessuno ha mai cercato di chiarire le cose?» chiesi incredulo. «La Compagnia di Gesù ha sempre goduto di particolari facilitazioni per scavare nelle catacombe, e ha provveduto a portare corpi e reliquie varie in Spagna, ove i sacri resti sono stati ricevuti con grande solennità, finendo poi un po' in tutto il mondo, comprese le Indie. Alla fine però gli stessi seguaci di Sant'Ignazio si sono resi conto, e lo hanno confessato al Pontefice, che non sussisteva alcuna garanzia che quelle Sacre Spoglie appartenessero davvero a Santi e Martiri. V'erano casi, come gli scheletri di bambini, in cui assai difficilmente lo si po208/703
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teva sostenere. Così i gesuiti hanno dovuto chiedere che fosse introdotto il principio adoramus quod scimus: fare oggetto di venerazione solo le reliquie che sono matematicamente, o almeno ragionevolmente, appartenute a un Santo o a un Martire». Ecco perché, chiarì Atto Melani, s'era infine deciso che solo le ampolle con il sangue potevano costituire la prova decisiva. «E così» concluse l'abate «anche le ampolle sono destinate ad arricchire i corpisantari e a finire in qualche camera delle meraviglie, o nelle stanze di qualche mercante molto ricco e molto ingenuo». «Perché ingenuo?» «Perché nessuno può giurare che a essere custodito dentro le ampolle sia il sangue dei Martiri, e neppure che sia sangue. Io personalmente ho molti dubbi. Ne ho esaminata una, comprata a caro prezzo da un disgustoso essere simile a come si chiama... Ciacconio». «E cosa ne avete concluso?» «Che il fango rossastro all'interno dell'ampolla, se stemperato in acqua, constava più che altro di terriccio brunastro e mosche». Il problema era, spiegò l'abate Melani tornando al presente, che Ciacconio, dopo essersi imbattuto nel nostro famoso ladro, aveva trovato il foglietto della Bibbia sporco di quello che aveva tutta l'aria d'essere sangue. «E trovare, o meglio spacciare l'incipit di un capitolo della Bibbia lordo del sangue di San Callisto, tanto per fare un nome, può rendere un bel po' di soldi. Ecco perché il suo amico ora lo sta amichevolmente rimproverando per averci rivelato l'esistenza del foglietto». «Ma com'è possibile» protestai «che il sangue millenario d'un Martire si trovi su un moderno libro a stampa?» «E io ti rispondo con questa storia, che ho sentito raccontare l'anno scorso a Versailles. Un tizio cercava di vendere al mercato un teschio, che garantiva essere del famoso Cromwell. Uno Imprimatur - Monaldi & Sorti
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degli astanti gli fece osservare che il cranio era troppo piccolo per essere quello del grande condottiero, il quale notoriamente aveva un capo di notevoli dimensioni». «E il venditore?» «Rispose: certo, infatti questo è il cranio di Cromwell da bambino! Quel teschio, m'assicurano, venne tuttavia venduto, e a caro prezzo. Figurati se Ugonio e Ciacconio non sarebbero riusciti a vendere il loro brandello di Bibbia con il sangue di San Callisto». «Non ridaremo loro il foglietto, signor Atto?» «Non per ora: lo terremo noi» disse alzando la voce, rivolto ai corpisantari «e lo restituiremo solo se ci faranno un paio di favori». E spiegò loro di cosa avevamo bisogno. «Gfrrrlûlbh» annuì alla fine Ciacconio.
Una volta impartite le istruzioni ai corpisantari, che si dileguarono nell'oscurità, Atto Melani decise ch'era il momento di rientrare al Donzello. Gli chiesi a tal punto se non ritenesse assai insolito il ritrovamento in quei sotterranei d'una pagina della Bibbia lorda di sangue. «Quel foglio, secondo me, è stato smarrito dal ladro delle tue perline» mi disse per tutta risposta. «E come fate a esserne così sicuro?» «Non ho detto d'essere sicuro. Ma ragiona: il foglio ha tutta l'aria d'essere nuovo. La macchia di sangue (se di sangue si tratta, e a mio parere lo è) non sembra datata: troppo vivida. Ciacconio l'ha trovata, se ha detto, pardon, se ha ruttato il vero, subito dopo l'incontro con uno sconosciuto nella galleria in cui è scomparso il ladro. Mi pare che basti, no? E se parliamo di Bibbie, che ti viene in mente?» «Padre Robleda». 210/703
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«Esatto, Bibbia uguale prete». «Mi sfugge però il senso di alcuni particolari» obiettai. «Sarebbe a dire?» «"ut primum" è quanto resta di "Caput primum". Mentre "Malachi" è chiaramente la spoglia di "Malachiae". Questo mi fa pensare che sotto la macchia ci sia stata una volta la parola "prophetia". Ci troviamo quindi davanti al capitolo biblico relativo al profeta Malachia» osservai memore degl'insegnamenti ricevuti nella mia quasi monastica infanzia. «Non mi spiego, invece, "nda" della prima riga in alto. Avete un'idea voi, signor Atto? Io per nulla». L'abate Melani fece spallucce: «Non mi posso certo dire un esperto». Trovai singolare tale professione d'ignoranza in materia di Bibbia uscire dalle labbra d'un abate. E, pensandoci bene, anche la sua affermazione «Bibbia uguale prete» suonava stranamente rozza. Che abate era dunque egli? Rientravamo intanto nel tunnel e Melani aveva ripreso le sue considerazioni: «Chiunque può possedere una Bibbia, tant'è vero che la locanda stessa ne possiede almeno una, non è così?». «Certo, per l'esattezza due, ma le conosco bene e so che non da esse può provenire il foglietto che avete in mano». «D'accordo. Ma converrai con me che può provenire dalla Bibbia di uno qualunque dei pigionanti del Donzello, che facilmente potrebbero aver portato con sé in viaggio una copia delle Scritture. È un peccato che la lacerazione abbia asportato proprio la grande lettera capitale ornata, che di sicuro si trovava all'inizio del capitolo di Malachia, e che avrebbe aiutato a individuare la provenienza del nostro reperto». Non mi trovavo d'accordo con lui: c'erano ben altre stranezze in quel foglio, e glielo feci notare: «Avete mai visto una pagina della Bibbia stampata da una sola parte, come questa?». «Sarà finito il capitolo». «Ma se è appena iniziato!» Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Forse la profezia di Malachia è oltremodo breve. Non lo possiamo sapere: sono state strappate anche le ultime righe. O magari è una consuetudine di stampa. O un errore, chissà. Comunque, una mano ce la daranno anche Ugonio e Ciacconio: hanno troppa paura di non riavere più il loro lurido foglietto». «A proposito di paura: non sapevo che aveste una pistola» dissi ricordandomi dell'arma con cui aveva minacciato i due corpisantari. «Neanch'io sapevo di averla» rispose guardandomi di tre quarti con una smorfia divertita, e tirò fuori dalla tasca la canna di legno lucido con l'estremità di metallo, il cui manico mi era sembrato sparire inspiegabilmente nella mano di Melani allorché egli aveva brandito l'ordigno. «Una pipa!» esclamai. «Ma come hanno fatto a non accorgersene Ugonio e Ciacconio?» «La luce era scarsa, e la mia faccia abbastanza minacciosa. E forse i due corpisantari non avevano voglia di verificare quanto male potessi fare loro». Ero insieme stupefatto dalla banalità dello stratagemma, dalla naturalezza con cui l'abate lo aveva messo in atto e infine dal successo inatteso che aveva ottenuto. «Un giorno forse capiterà anche a te, ragazzo, di doverti arrangiare come ho fatto io». «E se i miei avversari sospettano che non sia una pistola?» «Fa' come me, quando dovetti fronteggiare di notte due banditi parigini. Grida forte: "Ceci n'est pas une pipe!"» mi rispose ridendo l'abate Melani.
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Giornata quarta. 14 settembre 1683
L
a mattina seguente mi ritrovai tra le coltri con le ossa rotte e la testa a dir poco confusa, e ciò evidentemente a causa del sonno scarso e agitato che le avventure della giornata precedente avevano cagionato. La lunga discesa nella galleria, gli sforzi necessari per superare botole e scalinate, nonché la raccapricciante colluttazione con i corpisantari mi avevano lasciato stracco nel corpo e nello spirito. Di una cosa però ero tanto sorpreso quanto lieto: le poche ore di sonno concessemi non erano state turbate da incubi di sorta, nonostante le spaventevoli visioni mortifere che l'incontro con Ugonio e Ciacconio mi aveva riservato. E neppure la spiacevole (benché necessaria) ricerca di colui che mi aveva trafugato l'unico oggetto di valore mai da me posseduto era valsa a inquietare il riposo notturno. Una volta aperti gli occhi fui, al contrario, piacevolmente assalito da dolcissime reminiscenze oniriche: tutte sembravano volermi sussurrare di Cloridia e delle soavissime sue fattezze. Non ero in grado di ricomporre in un quadro quel beato concerto di illusorie, eppure quasi vere impressioni dei sensi: il bel volto della mia Cloridia (così già la chiamavo!), la sua voce struggente e celestiale, le sue mani morbide e sensuali, il suo ragionare vago e lieve... Fui fortunatamente distolto da quei melanconici vaneggiamenti prima che il languore mi pervadesse irrimediabilmente, mettendo in atto solitari accadimenti che avrebbero potuto privarmi delle poche forze superstiti. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Fu infatti un mugolio alla mia destra a richiamare la mia attenzione. Mi voltai e vidi il signor Pellegrino seduto sul letto, il busto appoggiato al muro, mentre con le mani si stringeva il capo. Oltremodo sorpreso e felice di vederlo in migliori condizioni (dall'inizio della malattia infatti non aveva mai alzato la testa dal guanciale) mi precipitai accanto a lui tempestandolo di domande. Per tutta risposta si mise faticosamente seduto sul bordo del giaciglio e mi rivolse un'occhiata assente, senza emettere suono alcuno. Deluso e anche preoccupato dal suo inspiegabile mutismo, mi precipitai a chiamare Cristofano. Il medico accorse immediatamente e, febbrile per la sorpresa, iniziò a visitare Pellegrino. Ma proprio mentre il toscano gli stava osservando da vicino gli occhi, Pellegrino emise uno scoppiettante flatus ventris. Fu poi il turno d'un lieve ruttino, e ancora di una flatulenza. A Cristofano furono sufficienti pochi minuti per chiarirsi le idee. «È assonnato, direi abulico, forse deve ancora svegliarsi del tutto. Il colorito è ancora smorto. Non parla, è vero, ma non dispero che tra poco si riprenda completamente. L'ematoma sul capo sembra essersi sgonfiato, e non mi preoccupa più tanto». Pellegrino mostrava per ora solo un forte intontimento e la febbre era scomparsa; tuttavia, non si poteva ancora stare del tutto tranquilli. «E perché non si può stare tranquilli?» chiesi comprendendo che il medico era restio a confidarmi le cattive notizie. «Il tuo padrone è vittima di un evidente eccesso d'aria nel ventre. È di temperamento bilioso, e oggi fa piuttosto caldo: ciò deve indurre a prudenza. Sarà bene intervenire con un serviziale, come del resto già temevo di dover fare». Aggiunse che da quel momento in poi, visto il tipo di cure e trattamenti depurativi a cui avrebbe dovuto sottoporre Pellegrino, questi avrebbe abbisognato d'esser solo in camera. Risolvemmo perciò che avrei trasportato il mio giaciglio nella 214/703
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stanzetta attigua, una delle tre rimaste pressoché intatte dalla morte della vecchia locandiera, la signora Luigia. Mentre m'accingevo al breve trasloco, Cristofano tirò fuori da una borsa di cuoio una pompa a soffietto grande quanto il mio avambraccio. All'estremità della pompa innestò un tubo a cui a sua volta si collegava perpendicolarmente un altro lungo tubicino affusolato, il quale ultimo terminava con un forellino. Provò un paio di volte il meccanismo per accertarsi che il soffietto, debitamente azionato, insufflasse l'aria nel condotto e la espellesse infine dal forellino terminale. Pellegrino assisteva con occhi vacui alla preparazione. Lo osservai con un misto di contentezza, vedendolo finalmente aprire gli occhi, e di apprensione per il suo stato bizzarro di salute. «Ecco qua» disse soddisfatto Cristofano alla fine del collaudo, ordinandomi poi di reperire acqua, olio e un po' di miele. Non appena ritornai con gli ingredienti, fui sorpreso nel trovare il medico affaccendato con il corpo semisvestito di Pellegrino. «Non collabora, aiutami a tenerlo fermo». Dovetti così aiutare il medico a mettere a nudo le posteriori rotondità del mio padrone, che malvolentieri accolse tale iniziativa. Nella quasi colluttazione che ne seguì (e in verità dovuta più alla mancanza di cooperazione da parte di Pellegrino, che a vera e propria resistenza), ebbi così modo di chiedere a Cristofano lo scopo dei nostri sforzi. «È semplice» mi rispose «gli voglio far espellere un bel po' di aria inutile». E mi spiegò che il modello che aveva con sé consentiva, grazie ai tubi disposti ad angolo retto, di praticare da soli l'insufflazione, salvando quindi il proprio pudore. Pellegrino però non sembrava in grado di provvedere a se stesso, e pertanto avremmo dovuto fargliela noi. «Ma lo aiuterà a sentirsi meglio?» Mi disse Cristofano, quasi sorpreso dalla domanda, che il cliImprimatur - Monaldi & Sorti
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stere (giacché così solevano alcuni indicare tale trattamento) è sempre di profitto, e mai di nocumento: come dice il Redi, evacua gli umori del corpo con somma placidità senza debilitare le viscere, e senza farle invecchiare come fanno i medicamenti pigliati per bocca. Mentre versava il preparato nel soffietto, Cristofano lodò i serviziali purganti, ma anche quelli alteranti, anodini, litontropici, carminativi, sarcotici, epulotici, astergenti e financo astringenti. Gl'ingredienti benigni erano infiniti: si potevano operare infusioni di fiori, foglie, frutti o semi di erbe, ma anche con piedi o testa di castrone, intestini di animali nonché con brodo di galli vecchi affaticati collo sferzarli. «Molto interessante» cercai di compiacere Cristofano dissimulando il disgusto. «A proposito» aggiunse il medico al termine di tali utili disquisizioni «nei prossimi giorni il convalescente dovrà seguire una dieta di brodi, sorsichi e acque cotte, onde rimettersi da tanta estenuazione. Oggi perciò gli darai mezza chicchera di cioccolata, uno scigotto di gallina e mostaccioli bagnati in vino. Domani una chicchera di caffè, una minestra di borragine e sei paia di coglioni di pollastri». Dopo aver assestato a Pellegrino alcune vigorose stantuffate, Cristofano lo lasciò seminudo e m'incaricò di vegliarlo fino a che non avesse coronato corporalmente il benefico effetto del serviziale. Cosa che in effetti accadde quasi subito, e con una tale violenza, che compresi a pieno perché il medico m'avesse fatto traslare le mie cose nella cameretta accanto.
Scesi a preparare il pranzo, che il medico m'aveva raccomandato di fare leggero ma nutriente. Feci così del farro bollito in latte d'amandole ambrosine con zuccaro e cannella, e poi una minestra d'uva spina in brodo di pesce secco con botiro, erbette e ova sbattute, che servii con fette di pane a dadi e can216/703
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nella. Lo distribuii ai pigionanti e chiesi a Dulcibeni, Brenozzi, Devizé e Stilone Priàso quando fossero stati comodi per farsi applicare i rimedi prescritti da Cristofano contro il contagio. Ma tutti e quattro, afferrando il pasto con stizza dopo averlo annusato, mi risposero sbuffando che per il momento volevano essere lasciati in pace. Ebbi il sospetto che tanta svogliatezza e irritabilità avessero a che vedere con la mia inesperta cucina: forse il dolce effluvio della cannella non la nobilitava abbastanza. Mi ripromisi pertanto d'aumentarne le dosi per l'avvenire. Dopo pranzo mi fece cenno Cristofano che padre Robleda aveva chiesto di me, poiché necessitava di un po' d'acqua da bere. Mi munii d'una caraffa piena e bussai alla porta del gesuita. «Entra, figliuolo» mi disse accogliendomi con inattesa urbanità. E dopo essersi abbondantemente rinfrescato l'ugola, m'invitò a sedermi. Incuriosito da tale comportamento, gli chiesi se avesse passato bene la notte precedente. «Oh, tanta fatica, figliuolo, tanta fatica» rispose laconico, mettendomi ulteriormente sull'avviso. «Capisco» dissi con diffidenza. Robleda aveva un incarnato insolitamente pallido, le palpebre pesanti e due borse scure sotto agli occhi. C'era quasi da sospettare che avesse passato la notte in bianco. «Ieri io e te abbiamo avuto qualche conversare» si decise a dire il gesuita «ma ti prego di non dare eccessivo peso a certi ragionamenti che possiamo aver troppo liberamente condotto. Sovente la missione pastorale spinge, per eccitare le giovani menti a nuovi e più fecondi raggiungimenti, a figure retoriche improprie, all'eccessiva distillazione concettuale, al disordine della sintassi. I giovani, d'altra parte, non sempre sono pronti ad accogliere tali fruttifiche stimolagioni dell'intelletto e del cuore. Anche la difficile situazione che tutti stiamo subendo in questa locanda può spingere tanto a interpretare erroneamente il pensiero altrui, quanto a formulare infelicemente il proImprimatur - Monaldi & Sorti
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prio. Ecco, ti prego semplicemente di dimenticare quanto ci siamo detti, soprattutto a proposito di Sua Beatitudine il nostro carissimo papa Innocenzo XI. E massime avrei a cuore che tu non riferissi tali passeggere e inessenziali disquisizioni ai pigionanti della locanda. La reciproca separazione fisica potrebbe indurre a malintendersi, credo che tu capisca...». «Non vi preoccupate» mentii «avrei comunque ricordato poco di quella conversazione». «Ah sì?» esclamò Robleda per un attimo indispettito. «Be', ancor meglio. Avendo ripensato a quanto s'era detto tra noi, mi sono sentito quasi oppresso dal peso di tanti gravi discorsi. Come quando ci si addentra nelle catacombe e poi, improvvisamente, sottoterra ci si sente mancare il fiato». Mentre si avviava alla porta per congedarmi, fui come fulminato da quella frase, che giudicai senz'altro rivelatrice. Robleda s'era tradito. Cercai di escogitare alla svelta un argomento per farlo scoprire ancora. «Pur restando valida la promessa di non parlarne più, avevo in serbo in verità una domanda su Sua Beatitudine Innocenzo XI, anzi sui Papi in generale» dissi un attimo prima che spalancasse la porta. «Dimmi pure». «Be', ecco...» balbettai cercando d'improvvisare «mi chiedevo se esista un modo per discernere quali tra i Pontefici passati siano stati buoni, quali buonissimi e quali Santi». «È curioso che tu mi chieda questo. È proprio ciò che andavo meditando la notte passata» rispose quasi fra sé e sé. «Allora sono certo che avrete una risposta anche per me» aggiunsi speranzoso di poter prolungare la conversazione. Così il gesuita mi fece nuovamente accomodare, spiegandomi che innumerevoli ragionamenti e profezie s'erano succeduti nei secoli, tutti aventi a oggetto i Pontefici presenti, passati e futuri. «Ciò perché» spiegò «particolarmente in questa città tutti conoscono, o credono di conoscere, le qualità del Papa vivente. 218/703
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Allo stesso tempo rimpiangono quelli passati e sperano che il prossimo sia migliore, o addirittura che sia il Papa angelico». «Il Papa angelico?» «Cioè colui che riporterà la Chiesa di Roma alla santità delle origini». «Non capisco» interloquii con finta ingenuità «se si rimpiangono sempre i Pontefici passati, e d'altronde anche quelli da vivi facevano rimpiangere i loro predecessori, vuol dire che i Papi sono sempre peggiori. Dunque, come si può sperare nel futuro avvento di un Papa migliore?» «È il controsenso delle profezie. Da sempre Roma viene presa di mira dalla propaganda degli eretici nemici del Papato: sin da quando, molto tempo fa, il Super Hieremiam e l'Oraculum Cyrilli previdero la caduta della città, e Tommaso da Pavia annunciò le visioni che preparavano lo sprofondamento del palazzo Laterano, e sia Roberto d'Uzès che Giovanni Rupescissa ammonivano che la stessa città in cui Pietro aveva posto la prima pietra era ormai la città delle due colonne, sede dell'Anticristo». D'improvviso mi sentii sottilmente in colpa, per aver scomodato tali temi solo al fine d'ottenere maggiori informazioni su un furto di chiavi e di pochi preziosi. Ma Robleda era solo all'inizio giacché, sosteneva egli, non poteva non essere citata la seconda misteriosa, insondabile profezia di Carlo Magno, il quale nel Giorno del Giudizio compirà un glorioso viaggio in Terra Santa e colà verrà incoronato appunto dal Papa angelico, mentre le sante visioni di Santa Brigida davano per certa la giusta devastazione di Roma ad opera della stirpe germanica. Ma tali fantasie di distruzione e purificazione della sede del Papato, corrotta da avidità e lussuria, erano pallidi artifici dell'immaginazione se paragonati alla Apocalipsis nova del Beato Amedeo, in cui era finalmente dato sapere che il Signore avrebbe eletto un Pastore per il suo gregge che avrebbe mondato la Chiesa da tutti i suoi peccati e avrebbe spiegato tutti i Misteri, e avrebbe guidato i desideri di tutti, e i Re sarebbero Imprimatur - Monaldi & Sorti
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giunti da tutto il mondo per adorarlo, e la Chiesa d'Oriente e quella d'Occidente sarebbero divenute una sola, e gl'infedeli sarebbero stati riguadagnati all'unica vera Fede e si sarebbe finalmente avuto unum ovile et unus Pastor. «E questo Pastore sarebbe il Papa angelico» dissi cercando di chiarirmi le idee, con l'impressione che il gesuita volesse arrivare ad altro. «Esatto» rispose. «E voi ci credete?» «Per carità, figliuolo mio, non son domande da fare. Non pochi di questi presunti veggenti sono sconfinati nell'eresia». «Dunque voi non credete al Papa angelico». «Certo che no. Voglio dire: quelli che volevano creare l'attesa di un Papa angelico erano eretici, o peggio. Volevano instillare l'idea che la Chiesa è tutta da demolire, e che il Papa non è degno di stare al suo posto». «Quale Papa?» «Be', purtroppo attacchi blasfemi di questo genere sono stati diretti contro tutti i Pontefici». «Anche Sua Beatitudine, il nostro papa Innocenzo XI?» Robleda si fece serio, e notai nei suoi occhi un'ombra di sospetto. «Diciamo che tra le tante predizioni ve ne sono alcune che, come ti ho già detto, vorrebbero insegnare il passato dall'inizio dei tempi, e il futuro fino alla fine del mondo. Perciò esse comprendono tutti i Papi e, in effetti, anche Sua Beatitudine Innocenzo XI». «E cosa prevedono?» M'avvidi che Robleda tornava sull'argomento con un bizzarro miscuglio di riluttanza e voluttà. Riprese con tono lievemente più grave, e mi spiegò che esisteva tra le tante una profezia, la quale pretendeva di conoscere la serie di tutti i Papi a partire dall'anno 1100 circa fino alla fine dei tempi. E come se da anni non s'occupasse d'altro, recitò a memoria un'enigmatica teoria di motti latini: «Ex castro Tiberis, Inimicus expulsus, Ex 220/703
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magnitudine montis, Abbas suburranus, De rure albo, Ex tetro carcere, Via transtiberina, De Pannonia Tusciae, Ex ansere custode, Lux in ostio, Sus in cribro, Ensis Laurentii, Ex schola exiet, De rure bovensi, Comes signatus, Canonicus ex latere, Avis ostiensis, Leo sabinus, Comes laurentius, Jerusalem Campaniae, Draco depressus, Anguineus vir, Concionator gallus, Bonus comes...». «Ma questi non sono i nomi dei Papi» lo interruppi. «E invece sì. Un profeta li aveva letti nel futuro prima che venissero al mondo, ma li aveva indicati con i motti cifrati che ti ho appena detto. Il primo è Ex castro Tiberis, che significa: «da un castello sul Tevere». Orbene, il Papa designato da tale motto era Celestino II, che infatti era nato a Città di Castello, sulle sponde del Tevere». «Quindi la previsione era esatta». «Proprio così. Ma anche il seguente, Inimicus expulsus, è sicuramente Lucio II, della famiglia Caccianemici: proprio la traduzione del motto latino. Il Papa numero 3 è Ex magnitudine montis: si tratta di Eugenio III, nato nel castello di Grammont, che in francese è proprio la traduzione esatta del motto. Il numero 4...». «Devono essere Papi molto antichi» lo interruppi. «Non li ho mai sentiti nominare». «Sono molto antichi, è vero. Ma anche quelli moderni sono stati previsti con la massima esattezza. Jucunditas crucis, il numero 82 della profezia, è Innocenzo X. Che infatti venne fatto Papa il 14 settembre, festa della Santa Croce. Montium custos, il guardiano dei monti, numero 83, è Alessandro VII, che infatti fondò i Monti di pietà. Sydus olorum, vale a dire l'astro dei cigni, numero 84, è Clemente IX. Che infatti in Vaticano abitava nella stanza dei Cigni. Il motto di Clemente X, numero 85, è De flumine magno, cioè «dal grande fiume». E infatti nacque in una casa sulle rive del Tevere proprio là dove il fiume straripava dagli argini». «Quindi la profezia si è sempre avverata». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Diciamo che alcuni, anzi parecchi, lo sostengono» ammiccò Robleda. A questo punto tacque, come in attesa di una domanda. Nella lista dei Papi previsti dalla profezia si era infatti fermato a papa Clemente X, numero 85. Aveva capito che non avrei resistito alla tentazione di chiedergli del successivo: si trattava di Sua Beatitudine Innocenzo XI, il nostro Papa. «E qual è il motto del numero 86?» domandai con concitazione. «Ebbene, visto che sei tu a chiedermelo...» disse il gesuita sospirando «il suo motto è, diciamo, piuttosto curioso». «E quale sarebbe?» «Belua insatiabilis» disse Robleda con voce incolore «”belva insaziabile”». Faticai a nascondere la sorpresa e lo sgomento. Mentre tutti i motti degli altri Papi erano innocui enigmi, quello del nostro amato Pontefice era atroce e minaccioso. «Ma forse il motto di Nostro Signore non si riferisce alle sue qualità morali!» obiettai indignato, come per darmi coraggio. «Questo è senz'altro possibile» convenne pacatamente Robleda. «Ora che ci penso, infatti, nel blasone di famiglia del Papa figurano un leone leopardato e un'aquila. Cioè appunto due belve insaziabili. Potrebbe essere, anzi, di certo è questa la spiegazione» concluse il gesuita, con impassibilità più ammiccante di qualsiasi sorriso. «Ad ogni modo non devi perderci il sonno» concluse «perché secondo la profezia si avranno in tutto 111 Papi, e oggi siamo solo al numero 86». «Ma chi sarà l'ultimo Papa?» insistetti. Robleda si fece nuovamente accigliato e pensoso. «A partire da Celestino II, la serie conta 111 Pontefici. Verso la fine arriverà Pastor angelicus, cioè il Papa angelico di cui ti dicevo prima, ma non sarà l'ultimo. Seguiranno infatti altri cinque Papi e infine, dice la profezia, in extrema persecutione Sacrae Romanae Ecclesiae sedebit Petrus romanus, qui pascet oves 222/703
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in multis tribulationibus; quibus transactis, civitas septicollis diruetur, et judex tremendus judicabit populum». «Cioè tornerà San Pietro, Roma verrà distrutta e ci sarà il giudizio universale». «Bravo, proprio così». «E quando accadrà?» «Te l'ho detto: secondo la profezia, manca ancora molto tempo. Ma ora è il caso che tu mi lasci: non vorrei che trascurassi gli altri pigionanti per ascoltare queste favole senza importanza». Deluso dalla fine improvvisa del colloquio, e senza aver potuto cavare dalla bocca di Robleda qualche altro indizio utile, ero già sull'uscio quando m'accorsi di dover soddisfare un'ultima, e questa volta sincera, curiosità. «A proposito, chi è l'autore della profezia dei Papi?» «Oh, un Santo monaco vissuto in Irlanda» disse frettolosamente Robleda, mentre l'uscio si chiudeva. «Si chiamava, mi pare, Malachia».
Eccitato dalle inattese e dirompenti novità, corsi senza indugio verso la stanza di Atto Melani, all'altro capo del piano, per metterlo al corrente. Non appena m'aperse la porta trovai la sua stanza sommersa da un mare di carte, libri, vecchie stampe e pacchi di lettere, tutti posti in disordine sul letto e per terra. «Stavo studiando» disse accogliendomi. «È lui» dissi col fiato rotto. E gli raccontai del colloquio con Robleda nel quale questi aveva dapprima nominato senza apparente ragione le catacombe. Il gesuita poi, ma solo perché da me opportunamente stimolato, s'era dilungato in un lungo ragionamento sui vaticini che annunciano l'avvento del Papa angelico, e poi su una profezia circa la fine del mondo dopo 111 Pontefici, nella quale si Imprimatur - Monaldi & Sorti
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parla di una «belva insaziabile», che sarebbe poi Nostro Signore papa Innocenzo XI, e aveva alla fine ammesso che la profezia era stata fatta dal monaco irlandese Malachia... «Calma, calma» m'interruppe Atto. «Temo che tu stia facendo un po' di confusione. So che San Malachia era un monaco irlandese vissuto mille anni dopo Cristo, ben diverso quindi dal profeta Malachia della Bibbia». Gli assicurai che lo sapevo benissimo, ma che non stavo facendo alcuna confusione e gli ripetei più distesamente i fatti. «Interessante» commentò alla fine Atto «due diversi Malachia, entrambi profeti, piombano sul nostro cammino a distanza di poche ore. Troppo per essere una pura coincidenza. Padre Robleda ti ha riferito che stava meditando sulla profezia di San Malachia proprio la notte passata, mentre noi rinvenivamo il capitolo biblico del profeta Malachia nei sotterranei. Finge di non ricordare con certezza il nome del Santo, che invece è di fama universale. E poi tira fuori le catacombe. Che sia stato un gesuita a rubare le chiavi non mi sorprende più di tanto: hanno fatto di molto peggio. Vorrei però sapere perché si sarebbe andato a cacciare in quei sotterranei: questo sì che è interessante». «Per essere certi che sia Robleda, dovremmo controllare la sua Bibbia» osservai «e vedere se la pagina strappata proviene da lì». «Giusto, e per farlo abbiamo solo una possibilità. Cristofano ha avvertito che tra poco ci sarà l'appello per la quarantena: dovrai approfittare dell'uscita di Robleda dalla sua stanza per intrufolarti e cercare la sua Bibbia. Credo che tu sappia già dove trovare, nell'Antico Testamento, il libro di Malachia». «Dopo i libri dei Re, tra i dodici profeti minori» risposi sollecito. «Bravo. Io non potrò fare nulla, poiché avrò addosso gli occhi di Cristofano. Deve aver fiutato qualcosa: prima mi ha chiesto se per caso durante la notte sono uscito dalla mia stanza». 224/703
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Fu proprio in quel mentre che sentii la voce del medico chiamare il mio nome. Lo raggiunsi celermente in cucina, ov'egli mi comunicò che dalla strada era giunto il richiamo degli uomini del Bargello, che attendevano di effettuare il secondo appello. La speranza che tutti segretamente nutrivamo, e cioè che l'attesa per l'esito della battaglia di Vienna avesse distratto i nostri controllori, era svanita. Cristofano era in ansia. Se Bedfordi non avesse superato l'esame, saremmo stati quasi certamente tradotti in altro luogo e sottoposti a ben più severe misure. Chi di noi portava con sé beni di qualsiasi sorta avrebbe dovuto separarsene, per farli depurare dai miasmi malefici tramite esposizione ai vapori d'aceto. E come Cristofano ci aveva già spiegato, in regime di peste chi si separa dai propri beni, per una ragione o per l'altra, difficilmente alla fine ne rivede più di un quarto. Seguendo le istruzioni di Cristofano, tutto il gruppo si assiepò trepidante al primo piano, di fronte alla camera di Pompeo Dulcibeni. Ebbi un tenero sussulto nello scorgere la dolce Cloridia che mi sorrideva, anch'essa tristemente (o almeno così vagheggiavo) consapevole che in quel frangente nessuna intimità verbale né d'altra sorta sarebbe stata possibile. Vidi arrivare per ultimi il medico con Devizé e Atto Melani. Contrariamente a quanto avevo sperato, non portavano con sé il corpo quasi inerte di Bedfordi: l'inglese (e lo si capiva dal viso costernato di Cristofano) non era ancora in grado di reggersi in piedi, né tantomeno di rispondere a un appello. Mentre si avvicinavano, vidi che Atto e il chitarrista terminavano con cenni d'intesa una fitta confabulazione. Cristofano ci fece strada nella stanza e s'accostò per primo alla finestra, di fronte alla quale gli sgherri del Bargello già allungavano il collo nel tentativo di osservarci. Il medico si annunciò e mostrò al proprio fianco la figura, giovane ed evidentemente sana, di Devizé. Vennero quindi convocati e brevemente osservati l'abate Melani, Pompeo Dulcibeni e padre Robleda. Vi fu una breve pausa, in cui gli esaminatori discussero Imprimatur - Monaldi & Sorti
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brevemente tra loro. Vidi Cristofano e padre Robleda quasi soggiogati dalla paura. Dulcibeni assisteva invece impassibile. Notai che, unico nel gruppo, Devizé s'era allontanato dalla stanza. Gli esaminatori (che peraltro anche a me, profano, non sembravano peritissimi dell'arte medica) rivolsero ancora alcune generiche domande a Cristofano, il quale s'era intanto affrettato a condurre anche me presso la finestra, affinché venissi debitamente osservato. Fu poi il turno di Cloridia, che subito suscitò negli esaminatori qualche ruvido motteggio e allusioni a imprecisati morbi di cui la cortigiana avrebbe potuto farsi veicolo. I nostri timori raggiunsero il culmine quando toccò finalmente al signor Pellegrino. Cristofano lo condusse con fermezza, ma senza umilianti strattoni, di fronte alla finestra. Sapevamo tutti che Cristofano tremava: il fatto stesso di condurre il mio padrone al cospetto delle autorità, e senza anteporre alcuna riserva, significava ch'egli per primo ne attestava la buona salute. Pellegrino sorrise debolmente di fronte ai tre sconosciuti. Due di loro si scambiarono uno sguardo interrogativo. Pochi metri separavano Cristofano e il mio padrone dai loro inquisitori. Pellegrino barcollò. «Ti avevo avvertito!» esclamò rabbioso Cristofano mentre gli estraeva una fiaschetta vuota dalle braghe. Pellegrino ruttò. «Ha parlato troppo col Greco» scherzò uno dei tre del Bargello alludendo alla propensione, ormai palese, del mio padrone per il vino. Cristofano era riuscito a far passare Pellegrino per ubriaco, anziché per malato. Fu allora (e non lo dimenticherò mai) che vidi Bedfordi apparire miracolosamente tra noi. S'avvicinò a larghi passi alla finestra, accolto premurosamente da Cristofano, e si offerse alla vista del temibile triumvirato. Ero, come tutti, terrificato e obnubilato, quasi avessi assistito a una resurrezione. Avrei creduto si trattasse del suo spi226/703
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rito, tanto sembrava essersi liberato dalle sofferenze della carne. I tre del Bargello non erano altrettanto sorpresi, ignorando i tristi successi del male che lo aveva colpito nelle ore precedenti. Bedfordi proferì qualcosa nella sua lingua, che i tre sgherri mostrarono con disappunto di non possedere. «Ha detto di nuovo che vuole andarsene» spiegò Cristofano. I tre, che ricordavano la protesta di Bedfordi in occasione del precedente appello, ed erano tronfiamente certi di non essere compresi, lo derisero con grande e volgare sollazzo. Bedfordi, o meglio il suo miracoloso simulacro, rispose alle celie dei tre sbirri con simmetrico lancio di insulti, e venne immediatamente condotto via da Cristofano. Anche tutto il nostro gruppo rientrò, mentre alcuni si lanciavano sguardi increduli di fronte all'inspiegabile guarigione dell'inglese. Non appena fui nel corridoio, cercai Atto Melani nella speranza di ricevere una spiegazione. Lo raggiunsi proprio mentr'egli stava per imboccare la scala e portarsi al secondo piano. Mi guardò divertito, intuendo subito quanto bramavo sapere e mi schernì canterellando: Fan battaglia i miei pensieri, e al cor dan fiero assalto. Così al core, empi guerrieri, fan battaglia, dan guerra i miei pensieri.
«Hai visto come s'è rimesso il nostro Bedfordi?» chiese poi ironico. «Ma non è possibile» dissi protestandomi incredulo. Atto s'arrestò a metà della rampa. «Credevi forse che un agente speciale del Re di Francia si sarebbe lasciato giocare come un ragazzino?» sussurrò beffardo. «Bedfordi è giovane, di poca statura e di pelo chiaro; e tu infatti hai visto presentarsi un giovane basso e biondo. Il britannico ha gli occhi azzurri, e anche il nostro Bedfordi di stasera era glaucopide. Nell'appello precedente Bedfordi aveva protestato perché voleva andarsene, e così ha fatto anche questa volta. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Bedfordi parla una lingua che i tre del Bargello non capiscono, e infatti non hanno capito neppure questa volta. Dov'è il mistero?» «Ma non poteva essere lui a...». «Certo che non era Bedfordi. Lui se ne sta ancora mezzo morto nel suo letto, e preghiamo che un giorno s'alzi di nuovo. Ma se tu avessi buona memoria (e se vuoi essere gazzettante devi averla), rammenteresti che durante lo scorso appello c'è stata un po' di confusione: quando sono stato chiamato io, Cristofano ha portato alla finestra Stilone Priàso; quando toccava a Dulcibeni, Cristofano ha preso Robleda, e così via, fingendo di sbagliarsi. Secondo te, dopo quel balletto i tre del Bargello potevano essere sicuri di riconoscere tutti gli ospiti della locanda? Considera che il Bargello non ha una nostra effigie, giacché nessuno di noi è il Papa, né il Re di Francia». Il mio silenzio rispose per me. «Certo che non potevano riconoscere nessuno» riaffermò l'abate «tranne il giovane gentiluomo dalla chioma bionda che protesta in una lingua straniera». «E quindi Bedfordi...». M'interruppi ed ebbi un'illuminazione mentre vedevo Devizé scomparire dietro l'uscio della sua stanza. «... Suona la chitarra, parla francese, e qualche volta finge di sapere l'inglese» disse Atto lanciando un sorriso d'intesa a Devizé «e stasera si è limitato a indossare indumenti simili a quelli del povero Bedfordi. Poteva anche prenderglieli semplicemente in prestito, ma l'amico Cristofano ci avrebbe spediti direttamente al lazzeretto: mai usare coperte e vestiti di appestati». «Ma allora il signor Devizé è andato una seconda volta alla finestra, al posto di Bedfordi, e non me ne sono accorto!» «Non te ne sei accorto perché era assurdo, e le cose assurde, sebbene vere, sono le più difficili da vedere». «Ma gli uomini del Bargello ci avevano già convocati uno per uno» contestai «quando la locanda è stata chiusa per il sospet228/703
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to di contagio». «Sì, ma quel primo appello è stato troppo confuso e convulso, perché gli sbirri dovevano badare anche a bloccare la strada e a chiudere la locanda. E poi da allora è passato qualche giorno. L'ostacolo visivo, cioè la grata alle finestre del primo piano, ha fatto il resto. Io stesso, da dietro quella grata, tra un giorno o due non saprei più identificare con assoluta certezza nessuno dei nostri carcerieri. A proposito di occhi: come sono quelli di Bedfordi?» Riflettei per un attimo, e mi scappò un sorriso: «Sono... storti». «Esatto. Se ci pensi bene, lo strabismo è purtroppo il suo tratto più appariscente. Quando i tre sbirri si sono visti due pupille azzurre convergenti puntate addosso (e qui il nostro Devizé ci ha saputo fare), non hanno avuto dubbi: è l'inglese». Tacqui, rimuginando stupito. «E ora va' da Cristofano» mi congedò Atto «che certamente ti vorrà con sé. Non discorrere con lui dei piccoli trucchi che egli m'ha aiutato a mettere in opera: ne ha vergogna, perché teme di tradire i principi della sua arte. Sbaglia, ma è meglio lasciarlo pensare come vuole». Appena lo raggiunsi, Cristofano mi diede notizie confortanti: aveva conferito con gli uomini del Bargello, ai quali aveva assicurato che le condizioni dell'intero gruppo erano buone. Aveva poi offerto la personale garanzia che qualsiasi novità di rilievo sarebbe stata immediatamente segnalata a un emissario, che ogni mattina si sarebbe recato davanti alla locanda per fare il punto della situazione con lo stesso Cristofano. Ciò ci liberava dall'obbligo di comparire in appello, come avevamo invece fatto (e miracolosamente) in precedenza. «In altri momenti non sarebbe stata possibile tanta leggerezza» disse il medico. «Cosa intendete?» «So come ci si comportò a Roma durante la peste del 1656. Non appena si seppe che a Napoli vi erano stati casi di sospetto Imprimatur - Monaldi & Sorti
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contagio, venne chiusa ogni via tra le due città, e vietato ogni traffico di persone e di merci con le altre terre confinanti. Vennero inviati nelle quattro parti dello Stato Pontificio altrettanti commissari per vigilare sull'applicazione delle misure di sanità, si rafforzò la guardia sul litorale per limitare o impedire l'approdo delle navi mentre a Roma alcune porte cittadine vennero tempestivamente sbarrate, e in quelle rimaste aperte vennero posti invalicabili rastrelli per limitare il passaggio delle persone allo stretto indispensabile». «E tutto questo non era sufficiente a fermare il contagio?» Era già troppo tardi, spiegò mestamente il medico. Un pescivendolo napoletano, tale Antonio Ciothi, era arrivato da Napoli a Roma già nel precedente mese di marzo, per sfuggire a un'accusa di omicidio. Aveva trovato alloggio in una locanda di Trastevere, nella zona di Montefiore, dove improvvisamente s'era ammalato. La moglie dell'oste (Cristofano aveva appreso questi dettagli conversando con alcuni anziani testimoni di tali eventi) aveva subito fatto trasportare il pescivendolo all'ospedale di San Giovanni, dove il giovane era morto poche ore dopo il ricovero. Nell'autopsia non s'era trovato alcun motivo di allarme. Alcuni giorni dopo però morì la moglie dell'oste, e poi la madre e la sorella della donna. Anche in questo caso i medici non avevano trovato segni di contagio pestifero ma s'era deciso ugualmente, vista la troppo chiara coincidenza, di inviare al lazzeretto l'oste e tutti i suoi garzoni. Trastevere venne divisa con i rastrelli dal resto della città, e si riunì la speciale Congregazione di Sanità per affrontare l'emergenza. Furono create commissioni per ogni rione, formate da prelati, gentiluomini, medici chirurghi e notai, che censirono tutti gli abitanti della città annotando il mestiere, le necessità, lo stato di salute, proprio per dare alla Congregazione di Sanità la possibilità d'avere ben chiara la situazione e visitare o soccorrere le case che ne avessero bisogno, a giorni alterni. «Ma ora tutta la città pare pensare solo alla battaglia di Vienna» osservò Cristofano «e i nostri tre esaminatori mi han230/703
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no detto che recentemente il Papa è stato visto prostrato a terra davanti al Crocefisso, piangere di sgomento e d'apprensione per la sorte della Cristianità tutta; e se piange il Papa, ragionano i Romani, dobbiamo tremare tutti». Il medico aggiunse anche che la responsabilità ch'egli s'era assunto era di straordinaria gravità, e ricadeva anche sulle mie spalle. D'ora in poi avremmo dovuto scrutare con attenzione vieppiù intensa ogni variazione della salute dei pigionanti. E d'altra parte qualsiasi mancanza da parte di entrambi (giacché egli avrebbe di certo riferito delle mie eventuali manchevolezze) ci avrebbe attirato gravi sanzioni. In particolare avremmo dovuto sorvegliare che nessuno potesse, e a nessun costo, lasciare la locanda fino alla fine della quarantena. Comunque, a garantire il necessario controllo c'erano sempre le due ronde che alternativamente vegliavano affinché nessuno cercasse di schiodare le assi e calarsi dalle finestre. «Vi servirò in tutto» dissi a Cristofano per blandirlo, mentre già attendevo impaziente il ritorno della notte. La pur grata soppressione dell'appello aveva compromesso il progetto, concertato con Atto Melani, di curiosare nella Bibbia di padre Robleda. Ne informai discretamente l'abate passandogli un biglietto sotto la porta e poi facendo ritorno in cucina, giacché temevo che Cristofano (che stava recandosi di stanza in stanza per visitare i pazienti) potesse sorprendermi a colloquio con l'abate. Fu proprio Cristofano, invece, a chiamarmi dalla stanza di Pompeo Dulcibeni, al primo piano. Il gentiluomo fermano aveva avuto un attacco di mal di sciatica. Lo trovai a letto, disteso su un fianco, dolorante e rattrappito, mentre scongiurava il medico di rimetterlo in piedi al più presto. Cristofano armeggiava pensoso con le gambe di Dulcibeni. Ne alzava una e al contempo ordinava a me di ripiegargli l'altra: a ogni movimento così indotto, il medico si fermava ad attender la reazione del malato. Ogni qualvolta urlava, Cristofano Imprimatur - Monaldi & Sorti
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annuiva solennemente. «Ho capito. Qui ci vuole un cerotto maestrale con cantaridi. Ragazzo, mentre io lo preparo ungigli tutto il fianco sinistro con questo balsamo» disse porgendomi un vasetto. Informò quindi Dulcibeni che avrebbe dovuto portare otto giorni il cerotto maestrale. «Otto giorni! Vorreste dire che resterò immobilizzato per un tempo così lungo?» «Certo che no: il dolore s'attenuerà molto prima» ribatté il medico. «È chiaro che non potrete correre. Ma che v'importa? Finché durerà la quarantena non potrete far altro che girarvi i pollici». Dulcibeni borbottò assai di malumore. «Consolatevi» aggiunse Cristofano «c'è chi, più giovane di voi, è già pieno d'acciacchi: padre Robleda non lo dà a vedere, ma da qualche giorno soffre di reumatismi. Dev'essere di complessione delicata, visto che la locanda non mi pare umida e il tempo in questi giorni è bello e asciutto». A tali parole sobbalzai. I miei sospetti su Robleda s'acuirono. M'accorsi intanto, con raccapriccio, che il medico aveva tratto dalla sua borsa una boccia colma di coleotteri morti. Ne tirò fuori due di colore verde dorato. «Cantaridi» disse sventolandomi gl'insetti sotto al naso «morte ed essiccate. Miracolose come vescicolanti. E anche afrodisiache». Detto questo, si pose a triturarle diligentemente sopra una garza imbevuta. «Ah, il gesuita ha i reumatismi» esclamò Dulcibeni dopo un po'. «Meno male: così la smetterà di ficcare il naso dappertutto». «Cosa intendete?» chiese Cristofano affaccendandosi con un coltellino sui coleotteri. «Non sapete che la Compagnia di Gesù è un ricettacolo di spie?» Mi saltò il cuore in gola. Dovevo saperne di più. Ma Cristofa232/703
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no non sembrava attratto dall'argomento e l'affermazione di Dulcibeni stava per morire così. «Non direte sul serio?» intervenni allora con forza. «Altroché!» riprese Dulcibeni convinto. A detta sua, non solo i gesuiti erano maestri nell'arte della spia, ma pretendevano perfino di farne un privilegio del loro Ordine, e che chiunque vi si applicasse senza la loro espressa licenza dovesse esser rigorosamente castigato. Prima che s'introducessero nel mondo i gesuiti, anche gli altri religiosi avevano avuto qualche parte negl'intrighi della Sede Apostolica. Ma da quando i seguaci di Sant'Ignazio s'erano applicati all'esercizio della spia, avevano scavallato tutti. Questo perché i Pontefici hanno sempre avuto assoluta necessità di penetrare gli affari più reconditi dei Principi. Ben sapendo che mai nessuno era così ben riuscito nell'officio di spione come i gesuiti, ne fecero degli eroi: li inviarono nelle città più importanti, li favorirono con privilegi e bolle e li preferirono a tutti gli altri Ordini. «Scusate» obiettò Cristofano «ma come farebbero i gesuiti a spiare così bene? Non possono frequentare le donne, che chiacchierano sempre troppo; non possono esser visti in giro con criminali o persone di bassa condizione, e inoltre...». La spiegazione era semplice, rispose Dulcibeni: i Pontefici avevano assegnato ai gesuiti il sacramento della confessione, e non solo a Roma, ma in tutte le città d'Europa. Per mezzo delle confessioni i gesuiti potevano insinuarsi nello spirito di tutti, ricchi e poveri, Re e contadini. Ma soprattutto scrutavano così l'inclinazione e l'umore di ogni consigliere o ministro di Stato: con retorica ben studiata, cavavano dal fondo del cuore tutte le risoluzioni e le cogitazioni che le loro vittime andavano segretamente maturando. Per potersi dedicare interamente alle Confessioni, e ricavare profitti sempre maggiori, avevano ottenuto dalla Santa Sede l'esenzione dagli altri uffici. Intanto le vittime abboccavano. I Re di Spagna, per esempio, s'erano sempre serviti di confessori Imprimatur - Monaldi & Sorti
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gesuiti, e avevano voluto che i loro ministri facessero lo stesso in tutte le terre sottomesse alla Spagna. Gli altri Principi, che fino a quel momento erano vissuti in buona fede e non conoscevano la malizia dei gesuiti, cominciarono così a credere che i padri godessero di qualche virtù particolare per la confessione. Poco alla volta seguirono l'esempio dei Re di Spagna, e scelsero anche loro i gesuiti come confessori. «Ma qualcuno li avrà pur scoperti» contestò il medico, mentre continuava a far crepitare le carcasse delle cantaridi sotto il suo bisturino. «Certo. Ma una volta che il loro gioco era stato smascherato, si sono messi al servizio degli uni o degli altri Principi, a seconda delle occasioni, sempre pronti al tradimento». Ecco perché tutti li amano e tutti li odiano, disse Dulcibeni: li odiano perché servono a tutti come spie; li amano perché non sanno dove trovare spioni migliori per i loro fini; li amano perché si offrono volontariamente come spie; li odiano perché così ottengono il maggiore beneficio per il loro Ordine, e il maggior danno per tutto il mondo. «E in fondo è vero» concluse il gentiluomo marchigiano «che i gesuiti meritano l'esclusiva dello spionaggio: gli altri in genere falliscono ancor prima d'iniziare. I gesuiti, invece, quando decidono di spiare uno sventurato gli si attaccano come la pece, e non si staccano più. Al tempo della rivoluzione di Napoli era un piacere vederli fare la spia al viceré di Spagna contro Masaniello e a Masaniello contro il viceré, e con tale destrezza che nessuno dei due si accorgeva di nulla; e loro intanto mangiavano sia la carne che il pesce...». Cristofano applicò a Dulcibeni il cerotto maestrale cosparso dei pezzettini di coleottero, ed entrambi ci congedammo da lui. Ero assorto in una congerie di pensieri: l'accenno del medico ai curiosi reumatismi di padre Robleda prima, e poi la rivelazione che al gesuita spagnolo era stato insegnato in seminario più a spiare che a pregare, mi confermavano sempre più nei sospetti 234/703
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su Robleda. Stavo finalmente per ritirarmi (avevo invero bisogno di ristoro, dopo le fatiche della notte passata insonne) quando m'avvidi che il gesuita era uscito dalla sua stanza, accompagnato da Cristofano, per raggiungere la fossa presso la cucina ov'era possibile depositare le deiezioni organiche. Di fronte a così propizia occasione, pensare e fare fu tutt'uno: mi portai silenziosamente fino al secondo piano e spinsi con delicatezza la porta della stanza del gesuita, scivolando all'interno. Troppo tardi: mi parve d'udire i passi di padre Robleda che risaliva le scale. Sgusciai fuori e tornai frettolosamente verso la mia camera, deluso dall'insuccesso.
Mi soffermai dapprima a fare una visita al mio padrone, che trovai semisdraiato sul letto. Dovetti aiutarlo a sgravarsi gl'intestini. Mi rivolse alcune domande confuse e svogliate sul proprio stato di salute poiché, farfugliò, il medico senese lo aveva trattato come un marmocchio, nascondendogli la verità. Io cercai a mia volta di tranquillizzarlo, dopodiché gli diedi da bere, lo sistemai alla meglio tra le coltri, gli carezzai a lungo il capo finché s'assopì. Mi potei chiudere così nella mia stanzetta. Tirai fuori il mio quadernuccio e, stanchissimo, vi appuntai - un po' alla rinfusa per la verità - gli ultimi avvenimenti. Una volta abbandonatomi anch'io sul letto, il bisogno di riposo lottò con l'affollarsi dei pensieri, che cercavano invano di ricomporsi in un insieme ragionevole e ordinato. La pagina della Bibbia ritrovata da Ugonio e Ciacconio era forse appartenuta a Robleda, che l'aveva smarrita nei cunicoli sotterranei presso piazza Navona: verosimilmente era quindi lui il ladro delle chiavi, e comunque aveva accesso a quei sotterranei. L'aiuto che avevo prestato all'abate Melani m'era costato uno Imprimatur - Monaldi & Sorti
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spavento indicibile, nonché la colluttazione con i due nauseabondi corpisantari. Tuttavia era stato proprio l'abate a risolvere la situazione, e con una semplice pipa contrabbandata per pistola. Un successo che aveva egli poi ripetuto, progettando e realizzando la beffa ai tre emissari del Bargello, con la quale s'era evitato il pericolo che fosse dichiarato lo stato di pestilenza, e anzi i controlli si sarebbero notevolmente affievoliti. Sentii che la diffidenza che avevo nutrito per l'abate Melani veniva sottilmente stemperata dalla gratitudine e dall'ammirazione, tanto che attendevo quasi con una punta di trepidazione il momento in cui la ricerca del ladro, quasi certamente quella notte stessa, sarebbe ripresa. Il fatto che l'abate fosse sospettabile di spionaggio e d'intrighi politici era forse per noi tutti di qualche disvantaggio? Semmai il contrario, mi dissi: grazie alle sue furbizie s'era messo al riparo tutto il gruppo dei pigionanti dalla terribile prospettiva dell'internamento in un lazzeretto. Egli m'aveva poi messo a parte della sua missione, e ciò testimoniava della sua fiducia nei miei confronti. Aveva ladrescamente sottratto le lettere nella casa di Colbert; ma tali incombenze, affermava egli, erano conseguenza diretta e ineliminabile della sua devozione al Sovrano di Francia, e non c'erano prove per affermare il contrario. Respinsi con un brivido l'affiorare improvviso, nelle mie elucubrazioni, della massa disgustosa di resti umani che m'era stata vomitata addosso dalla catasta di Ciacconio, e sentii improvvisamente un traboccante fiume di gratitudine per l'abate Melani. Prima o poi, riflettevo ormai lasciando quasi via libera al sopore, non mi sarei potuto trattenere dal rivelare agli altri pigionanti la sua scaltrezza nell'avere ragione dei due corpisantari, e nel tenerli a bada con ugual misura di promesse e minacce. Così m'immaginavo dovesse agire un agente speciale del Re di Francia, e mi rincresceva solo di non aver ancora il sapere e l'esperienza necessari per illustrare adeguatamente quelle imprese mirabili. Una rete di segreti cunicoli sotto il suolo della città; un agente del Re di Francia a caccia generosa e spericolata di furfanti; un intero gruppo 236/703
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di gentiluomini riserrati a causa d'una morte misteriosa, e con sospetto di contagio pestifero. Infine, il Sovrintendente Fouquet creduto morto ma più volte avvistato a Roma dagli informatori di Colbert. Ormai quasi sopraffatto dalla stanchezza, pregai il Cielo di poter scrivere un giorno, da gazzettante, d'altrettanto meravigliosi eventi. La porta (che in verità avrei dovuto chiudere con maggior cura) s'aperse con un cigolio. Mi voltai verso l'uscio appena in tempo per scorgere un'ombra nascondersi lesta dietro al muro. M'alzai di scatto per sorprendere l'intruso e mi sporsi sul corridoio. Intravidi una figura a pochi passi dalla porta. Era Devizé, che in mano teneva la sua chitarra. «Stavo dormendo» protestai «e poi Cristofano ha vietato d'uscire dalle camere». «Guarda» disse indicando sul pavimento il motivo della sua visita. Improvvisamente m'accorsi di camminare sopra un tappeto di pietruzze scricchiolanti, il cui sommesso crepitare aveva accompagnato i miei passi non appena lasciato il letto. Passai il palmo della mano al suolo. «Sembra sale» disse Devizé. Mi portai uno dei sassolini alla lingua. «È proprio sale» confermai allarmato «ma chi lo ha sparso per terra?» «Secondo me è stato...» disse Devizé, ma mentre diceva un nome mi porse la chitarra e le sue ultime parole si persero nel silenzio della notte. «Come avete detto?» «Questa è per te» disse con un risolino ironico consegnandomi lo strumento «visto che ti piace come suono». Mi sentii vagamente toccato. Non ero certo di non saper produrre con quelle spire di budello qualche suono gradevole, o magari un'intera carezzevole melodia. Anzi: perché non tentare quella indicibile melodia che avevo sentito eseguire dal musico francese? Decisi di provare subito, davanti a lui, pur Imprimatur - Monaldi & Sorti
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sapendo d'espormi di certo al suo scherno. Già stavo esplorando la tastiera con la sinistra, mentre con l'altra mano saggiavo la blanda resistenza delle corde presso la sonora buca dello strumento amato dal Re Cristianissimo, quando fui interrotto da una tanto familiare quanto inattesa palpazione. «È venuto da te» commentò Devizé. Un bel gatto tigrato dagli occhi verdi, implorante un po' di cibo, m'assediava strofinandomi con garbata insistenza la coda sul polpaccio. Fui vieppiù allarmato da questa visita inattesa. Se il gatto era penetrato nella locanda, pensai, esisteva forse un'altra via di comunicazione con l'esterno che l'abate Melani e io non avevamo ancora scoperto. Alzai lo sguardo per dividere i miei pensieri con Devizé. Era scomparso. Una mano mi scosse delicatamente la spalla. «Non dovevi chiuderti dentro?»
Apersi gli occhi. Ero nel mio letto, e dal sogno m'aveva richiamato Cristofano, che mi sollecitava a preparare e a distribuire la cena. Abbandonai, riluttante e assonnato, le mie oniriche visioni. Dopo aver brevemente rigovernato la cucina, preparai una zuppa di torsoli di carciofi in brodo di pesce secco con olio buono, cipolla, piselli e involtini di fette di tarantello ripieni di lattughe. La accompagnai con un generoso pezzo di cacio e una mezza foglietta di vino rosso annacquato. Su tutto, come m'ero ripromesso, largheggiai in cannella. Lo stesso Cristofano m'aiutò a distribuire il desinare, occupandosi personalmente d'imboccare Bedfordi mentre io avrei così portato la cena a tutti gli altri e soprattutto avrei nutrito il mio padrone. Terminato d'imboccare Pellegrino, avvertii il bisogno impellente di un po' d'aria pura nei polmoni. I lunghi giorni di reclusione, trascorsi per lo più in cucina con l'uscio sprangato e l'inferriata alla finestra, tra i fumi di cottura che di continuo esala238/703
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vano dal camino, m'avevano aggravato il petto. Risolsi perciò di soffermarmi brevemente nella mia cameretta. Schiusi la finestra, che dava sul vicolo, e sbirciai di sotto: non un'anima popolava quell'assolato meriggio di fine estate. Sola, la sentinella sonnecchiava placida, accoccolata all'angolo del palazzo con la via dell'Orso. Appoggiai i gomiti sul davanzale e inspirai profondamente. «Ma prima o poi i Turchi si scontreranno con i Principi più potenti d'Europa». «Ah sì? E con chi?» «Be', per esempio con il Re Cristianissimo». «E allora sarà la volta buona che si stringeranno la mano senza più doversi nascondere». Le voci, concitate e prudentemente soffocate, erano inequivocabilmente quelle di Brenozzi e Stilone Priàso. Provenivano dal secondo piano, dove le loro stanze confinanti disponevano di finestre assai vicine. Mi sporsi prudentemente a sbirciare: novelli Piramo e Tisbe, i due avevano escogitato un modo assai semplice di comunicare al riparo dalla stretta sorveglianza di Cristofano. Ambedue di temperamento inquieto e curioso, nonché amanti della chiacchiera purchessia, davano così vicendevole sfogo alla loro ansia irrefrenata. Mi chiesi se non fosse il caso d'approfittare di quell'insperata occasione: non visto, avrei potuto forse carpire qualche informazione in più su quei due singolari personaggi, di cui uno s'era già rivelato un fuggiasco. E, chissà, avrei appreso anche qualche particolare utile alle complicate indagini in cui stavo coadiuvando l'abate Melani. «È Luigi XIV il nemico della Cristianità. Altro che i Turchi!» proclamò intanto Brenozzi con tono aspro e impaziente. «Sapete bene che a Vienna si combatte per salvare tutto il mondo cristiano, e ogni Sovrano avrebbe dovuto soccorrere la città. Purtroppo il Re di Francia non ha voluto portare il proprio soccorso. Ma non è un caso, eh no!, non è un caso». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Come ho già detto, e come avevo sommariamente appreso in quei mesi dalle chiacchiere del popolo e dalle nuove dei visitatori della locanda, Nostro Signore Innocenzo XI aveva profuso immani sforzi per formare una Santa Lega contro il Turco. A tale chiamata aveva risposto il Re di Polonia inviando quarantamila uomini, che s'aggiungevano ai sessantamila raccolti a Vienna dall'Imperatore, prima di fuggire vergognosamente dalla sua città. Alla giusta crociata s'era poi accodato il valoroso Duca di Lorena, e si diceva che alla volta di Vienna si fossero mossi frattanto undicimila soldati bavaresi. I Turchi però avevano l'aiuto dei Curuzzi, i temibili eretici ungheresi che, dopo aver rotto la tregua con l'Imperatore, straziavano ora gl'inermi villaggi della piana tra Budapest e Vienna. Senza contare l'appoggio fatale che gli Ottomani avrebbero forse trovato nel contagio: un focolaio di peste, infatti, sembrava serpeggiare tra gli assediati già sfiniti dalla dissenteria rossa. L'aiuto risolutivo per i cristiani sarebbe potuto arrivare da Parigi. Ma il Re di Francia, ricordava Brenozzi, non s'era fatto avanti. «È una vergogna» assentì Stilone Priàso. «Eppure è il più potente Sovrano d'Europa, e fa sempre il suo comodo. Ogni giorno s'inventa qualche nuova invasione in Lorena, in Alsazia...». «E quando la forza non basta, allora usa la corruzione. Tanto si sa: col denaro il Re di Francia si compra pure gli altri Re, come quella pappamolla di Carlo d'Inghilterra». «È uno schifo, uno schifo. Forse avete ragione voi: ai Sovrani cristiani la Francia fa più paura dei Turchi» commentò Stilone Priàso. «Ma certo! Meglio Maometto dei Francesi. Hanno sparato mille cannonate su Genova solo perché non aveva inviato da terra un saluto ai loro vascelli, che passavano lì davanti». Brenozzi s'arrestò, forse godendo dell'espressione sconsolata che immaginai dipinta sul volto del napoletano. Stilone, dal canto suo, non tardò a riprendere con altre pressanti osserva240/703
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zioni, infittendo così la conversazione. M'allungai circospetto dalla mia insospettabile posizione, sbirciandoli al di sopra delle loro teste: tuffati nel calore del ragionamento, i due riacquistavano la vitalità persa nel buio della solitudine, e la passione politica quasi scacciava la paura della peste. Non accadeva forse la medesima cosa agli altri pigionanti della locanda, quando la mia visita o quella del medico - accompagnate talvolta da vapori pungenti, olii speziati e lievi pressioni - scioglievano loro la favella e lasciavano scaturire le più intime cogitazioni? «In tutta Europa» riattaccò Stilone Priàso «solo il principe Guglielmo d'Orange, che pure è sempre a caccia di prestiti, è riuscito a fermare i Francesi, che di soldi ne hanno a mucchi, e a imporre la pace di Nimega». Ancora una volta nei discorsi dei nostri pigionanti faceva la sua comparsa l'olandese Guglielmo d'Orange, il cui nome era prima affiorato nei deliri di Bedfordi e mi era poi stato illustrato dall'abate Melani. M'incuriosiva quel Davide nobile e povero, la cui gloria militare s'accompagnava alla fama dei suoi debiti. «Finché la smania di conquista del Re Cristianissimo non sarà soddisfatta» insistette Brenozzi «in Europa non ci sarà pace. E sapete quando sarà? Quando sulla testa del Re di Francia brillerà la corona d'Imperatore». «Intendete il Sacro Romano Impero, immagino». «Ma è chiaro! Diventare Imperatore: è questo che vuole. Vuole la Corona che Carlo d'Asburgo aveva fregato a Francesco I, il suo avo, solo grazie alle manovre di soldi». «Sì, sì, corrompendo i Principi Elettori, mi pare...». «Bravo, buona memoria. Se Carlo d'Asburgo non li avesse comprati, oggi l'Imperatore sarebbe francese. Ma ora lui la rivuole, quella corona. E vuole vendicarsi degli Asburgo. Ecco perché alla Francia fa così comodo l'invasione dei Turchi: se loro premono su Vienna, l'Impero si sfianca a Oriente, mentre la Francia s'espande a Occidente». «È vero! È una manovra a tenaglia». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Proprio così». Ecco perché, continuava Brenozzi, quando Innocenzo XI aveva chiamato a raccolta contro i Turchi le potenze europee, il Re Cristianissimo Figlio Primogenito della Chiesa aveva rifiutato d'inviare truppe, nonostante fosse stato scongiurato da tutti i capi cristiani. Il Re di Francia aveva anzi imposto all'Imperatore un accordo odioso: si sarebbe mantenuto neutrale, purché gli venissero riconosciute tutte le sue conquiste banditesche. «Ha avuto persino il coraggio di definire “moderate” le sue pretese. Ma l'Imperatore, che pure ha l'acqua alla gola, non s'è piegato. Adesso il Re Cristianissimo si sta astenendo dalle ostilità: e pensate che lo faccia per scrupolo? No! Lo fa per tattica. Attende che Vienna sia esausta. Così lui avrà gioco facile. Già alla fine di agosto si diceva che le truppe francesi fossero di nuovo pronte a partire contro i Paesi Bassi». Se solo Brenozzi avesse letto sul mio volto i gravi pensieri che tale ragionamento suscitava! Appollaiato a origliare i discorsi dei due, masticavo amaro: a quale tremendo Sovrano aveva mai giurato i propri servigi Atto Melani? All'abate, inutile negarlo, m'ero inesorabilmente affezionato; e pur tra gli alti e i bassi, ancora non avevo rinunciato a considerarlo mio maestro e duca. E così ancora una volta, vittima della mia stessa smania d'indagine e conoscenza, mi trovavo ad apprendere mio malgrado cose di cui avrei preferito non udire mai neppure una parola. «Ah, ma questo è niente» aggiunse Brenozzi con un sibilo viperino. «La sapete l'ultima? Adesso i Turchi proteggono i mercantili francesi dai pirati. Così ora i commerci con l'Oriente sono nelle mani della Francia». «E i Turchi che ne avranno in cambio?» chiese Stilone. «Oh, nulla» ghignò ironicamente Brenozzi «forse solo... la vittoria a Vienna». 242/703
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Non appena gli abitanti s'erano asserragliati all'interno della città, spiegò infatti Brenozzi, i Turchi avevano scavato una rete di trincee e gallerie che arrivava sin sotto le mura e avevano piazzato potentissime mine, sfondando più volte la cinta fortificata. Ebbene, quella tecnica era la stessa in cui erano maestri gli ingegneri e gli artificieri francesi. «Intendete dire insomma che i Francesi sono in intelligenza col Turco» concluse Priàso. «Non sono io ad affermarlo; lo hanno detto tutti gli esperti militari nel campo cristiano a Vienna. Gli eserciti del Re Cristianissimo avevano appreso l'arte di usare trincee e gallerie da due soldati al servizio di Venezia, durante la difesa di Candia. Il segreto è poi arrivato a Vauban, un ingegnere militare del Re Cristianissimo. Vauban l'ha fatto perfezionare: trincee verticali, con cui portare in avanti le mine, e trincee orizzontali per spostare le truppe da un punto all'altro del campo. È un'arma micidiale: appena creata la breccia giusta, si entra nella città assediata. Ora, improvvisamente, di questa stessa tecnica sono maestri i Turchi, a Vienna. Credete sia un caso?» «Parlate più piano» lo ammonì Stilone Priàso. «Non dimenticate che qui a fianco c'è l'abate Melani». «Ah, già. Quello spione di Francia, che è abate come lo è il conte Dönhoff. Avete ragione: fermiamoci qui» disse Brenozzi, e dopo essersi salutati i due si ritirarono. Ecco che altre ombre si allungavano su Atto. Cosa significava quell'osservazione, che tirava in ballo un personaggio sconosciuto? Mentre richiudevo la finestra, mi tornò in mente l'ignoranza di Melani in materia di Bibbia. Assai curioso, pensai, per un abate.
«Chitarra, gatto e sale» rise divertita Cloridia. «Ora abbiamo qualcosa di meglio». Avevo rigovernato la cucina con un solo pensiero: tornare Imprimatur - Monaldi & Sorti
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da lei. Le dure proposizioni di Brenozzi esigevano certo un ulteriore confronto con l'abate Melani: ma per questo c'era la notte, quando egli stesso sarebbe venuto alla mia porta per riportarmi nei condotti sotterranei. Avevo frettolosamente portato le vettovaglie agli altri prigionieri, sottraendomi a chi (come Robleda e Devizé) aveva cercato di trattenermi con vari pretesti. Urgeva assai più, invece, potermi di nuovo intrattenere a colloquio con la bella Cloridia, cosa che feci con la scusa di voler interpretare il secondo curioso sogno che avevo fatto da quando le porte della locanda erano state rinchiuse per opera degli uomini del Bargello. «Cominciamo dal sale sparso» disse Cloridia «e ti avviso che non è buon segno. Significa: assassinio, ovvero opposizione ai nostri disegni». Lesse il disappunto sul mio volto. «Però bisogna ben valutare ogni caso» aggiunse «perché non è detto che tale significato s'attagli al sognatore. Nel tuo sogno, per esempio, potrebbe riferirsi a Devizé». «E la chitarra?» «Significa: grande malinconia, ovvero lavoro senza reputazione. Come un contadino che lavora duro tutto l'anno, ma senza mai ricevere soddisfazioni. O un eccellente pintore, o architetto, o musico le cui opere nessuno conosce e resta per sempre negletto. Vedi che è quasi sinonimo di malinconia». Ero costernato. Nello stesso sogno due simboli assai cattivi ai quali, annunciò Cloridia, se n'aggiungeva un terzo. «Il gatto è segno chiarissimo: adulterio e lussuria» sentenziò. «Ma io non ho moglie». «Per l'esercizio della lussuria non è necessario il matrimonio» ribatté Cloridia, attorcinandosi maliziosamente una ciocca di capelli sulla gota «e per quanto riguarda l'adulterio, ricorda: ogni segno dev'essere attentamente valutato e soppesato». «E come? Se io non sono sposato, sono scapolo e basta». «Ma allora non sai proprio nulla» mi rimproverò amabil244/703
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mente Cloridia. «I sogni possono essere interpretati anche in modo interamente opposto alle loro apparenze. Quindi sono infallibili, perché si può ugualmente congetturarne il pro e il contro». «Ma così di un sogno si può dire tutto, e il contrario di tutto...» obiettai. «Tu dici?» rispose accomodandosi la chioma dietro la nuca ed ergendo, con l'ampio gesto circolare delle braccia, le cupole tonde e sode dei seni. Si sedette su uno sgabello, lasciandomi in piedi. «Per cortesia» disse slacciandosi un nastrino di velluto, ornato da un cammeo, che teneva legato attorno al collo «aggiustalo per bene, ché allo specchio non riesco a regolarmi. Sistemalo un po' più in basso, ma non troppo. Fa' piano, la mia pelle è assai delicata». Come se ci fosse bisogno di facilitarmi il compito, tenne le braccia esageratamente aperte dietro il capo, esponendo così a dismisura il petto ben scollato, cento volte più fiorente dei prati del Quirinale e mille volte più perfetto della volta di San Pietro. Vedendomi trascolorare per l'improvviso spettacolo, Cloridia ne approfittò per non rispondere alla mia obiezione. Proseguì come nulla fosse, mentre mi affaccendavo attorno al suo collo. «Secondo alcuni, i sogni che precedono il levar del sole si riferiscono all'avvenire; quelli che arrivano mentre il sole sorge si riferiscono al presente; quelli infine che seguono il sorgere del sole, si riferiscono al passato. I sogni sono più sicuri in estate e inverno, che in autunno e primavera; e al sorgere del sole, piuttosto che in qualunque altra ora della giornata. Altri dicono che i sogni fatti durante il periodo dell'Avvento natalizio e dell'Annunciazione predicono cose solide e durevoli; mentre quelli fatti durante le feste mobili (come la Pasqua) designano cose variabili, sulle quali dobbiamo contare poco. Altri ancora... Ahi, no, così non va bene, stringe troppo. Come mai ti tremano Imprimatur - Monaldi & Sorti
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le mani?» chiese con un sorrisetto furbo. «Veramente ce l'ho quasi fatta, non volevo...». «Calma, calma, abbiamo tutto il tempo che vogliamo» ammiccò, vedendo che avevo fallito per la quinta volta il nodo. «Altri ancora» riprese Cloridia scoprendo esageratamente il collo e innalzando ancor più i seni verso le mie mani «dicono che in Battriana si trova una pietra detta Eumetris che, se messa sotto la testa durante il sonno, converte i sogni in predizioni solide e certe. Alcuni adoperano solo preparazioni chimeriche: profumo di mandragora e mirto, acqua di verbena o foglie di lauro ridotte in polvere e applicate dietro il capo. Ma c'è chi raccomanda anche cervello di gatto con fango di pipistrello stagionato in cuoio rosso, o chi farcisce un fico con sterco di piccione e polvere di corallo. Credimi, per le visioni notturne tutti questi rimedi sono molto, molto eccitanti...». All'improvviso mi prese le mani tra le sue, e mi fissò divertita: non ero ancora riuscito a fare il nodo. Le mie dita, goffamente intrecciate al nastrino, erano gelide; le sue bollenti. Il nastrino le cadde nella scollatura e scomparve. Qualcuno avrebbe dovuto recuperarlo. «Insomma» riprese stringendomi le mani e figgendo il suo sguardo nel mio «è importante fare sogni chiari, certi, durevoli, veritieri, e per ogni scopo c'è il mezzo. Se sogni di non essere sposato può darsi che ciò significhi l'esatto contrario, vale a dire che presto lo sarai. O magari significa che non lo sei, e basta. Hai capito?» «Ma nel mio caso non è possibile capire se è vera la lettera del sogno, o il suo contrario?» chiesi con un filo di voce e le gote a fuoco. «Certo che è possibile». «E perché non me lo dite?» implorai, abbassando involontariamente lo sguardo verso la profumata voragine che aveva inghiottito il nastrino. «Semplice, mio caro: perché non hai pagato». Smise il sorriso, allontanò bruscamente dal suo petto le mie 246/703
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mani, recuperò il nastrino e se lo riannodò fulmineamente attorno al collo, come se non avesse mai avuto bisogno d'aiuto. Feci le scale con l'animo più rattristato di cui anima umana è capace, maledicendo il mondo tutto, così incapace di piegarsi ai miei desiri, e augurando l'inferno a me stesso, che di quel mondo medesimo ero stato tanto inetto ermeneuta. I sogni che avevo confidato a Cloridia, me misero, eran piovuti nudi e indifesi sul grembo d'una cortigiana: come avevo fatto a dimenticarlo? Come avevo potuto illudermi, stolto che ero, di conquistare le sue grazie senza seguire la strada maestra del compenso? E come potevo sperare, sciocchissimo che ero, che proprio a me ella avrebbe liberaliter aperto il suo spirito e molto oltre, invece che ad altri, mille volte più valenti e più meritevoli e ammirabili? E poi: non avrebbe dovuto insospettirmi la sua richiesta, in ambo i consulti onirici, di stendermi lungo sul letto, mentre lei s'accomodava su una sedia al capo del talamo, alle mie spalle? Tale incomprensibile e sospetta richiesta avrebbe dovuto ricordarmi la natura ahimé mercenaria dei nostri brevi incontri. A causa di tali tristi pensieri, appena discese le scale in direzione della mia camera, divenne un piacevole accidente ritrovare dinanzi alla mia porta, già spazientito dalla breve attesa, l'abate Atto Melani. Il quale, rischiando di far scoprire a Cristofano il nostro appuntamento, al mio arrivo non potè trattenere un sonoro starnuto.
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Nottata quarta. Tra il 14 e il 15 settembre 1683
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ipercorremmo questa volta con maggior sicurezza e celerità la serie di gallerie sotto il Donzello. Avevo portato con me la canna da pesca spezzata di Pellegrino, ma l'abate Melani fu contrario a ispezionare la volta dei cunicoli, come quando avevamo scoperto la botola che portava nella cavità superiore. Eravamo attesi a un importante appuntamento, mi ricordò Melani, e viste le circostanze dell'incontro non era il caso di tardare. Notò poi il mio viso scuro e si ricordò d'avermi visto scendere dal torrino di Cloridia. Sorrise divertito e in un sussurro intonò: Speranza, al tuo pallore so che non speri più. E pur non lasci tu di lusingarmi il core.
Non avevo alcuna voglia d'essere dileggiato, e decisi d'azzittire Atto rivolgendogli la domanda che avevo in gola da quando avevo udito Brenozzi. L'abate si fermò di scatto. «Se sono un abate? Ma che domande fai?» Mi scusai, e dissi che mai avrei voluto porgli quesiti fuor di luogo, ma il signor Angiolo Brenozzi s'era lungamente intrattenuto a parlare dalla finestra insieme a Stilone Priàso con racconti e considerazioni varie che avevano toccato molti affari, tra cui la condotta del Re Cristianissimo nei confronti della Sublime Porta e della Santa Sede, e tra i molteplici ragionamenti 248/703
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h'erano intercorsi il veneziano aveva tra l'altro espresso l'opinione che Melani fosse abate come lo è il conte Dönhoff. «Il conte Dönhoff... ma che bravo!» sibilò sardonico Atto Melani, affrettandosi poi a spiegare. «Tu non hai la minima idea di chi è Dönhoff, ovviamente. Ti basti sapere che si tratta del residente diplomatico di Polonia a Roma, che in questi mesi di guerra col Turco è molto, molto impegnato. Tanto per intenderci, i soldi che Innocenzo XI invia alla Polonia per la guerra contro i Turchi passano anche per le sue mani». «E cosa avrebbe a che vedere con voi?» «È solo una bassa e offensiva insinuazione. Il conte Jan Kazimierz Dönhoff non è affatto abate: è Commendatore dell'Ordine dello Spirito Santo, Vescovo di Cesena e Cardinale del titolo di San Giovanni a Porta Latina. Io, invece, sono abate di Beaubec per brevetto di Sua Maestà Luigi XIV, confermato dal Consiglio Reale. Brenozzi intende, insomma, che io sono abate solo grazie alla volontà del Re di Francia, e non del Papa. E come sono giunti alla questione degli abati?» chiese riprendendo il cammino. Gli feci un breve resoconto della conversazione tra i due, di come Brenozzi avesse rappresentato la crescente potenza del Re di Francia, di come il Sovrano si volesse legare alla Sublime Porta per mettere in difficoltà l'Imperatore e avere mano libera nelle sue pretese di conquista, e come tale disegno gli avesse reso nemico il Pontefice. «Interessante» commentò egli «il nostro vetraio detesta la Corona di Francia e, a giudicare dall'ostile apprezzamento, non deve nutrire gran simpatia neppure per il sottoscritto. Sarà bene non dimenticarlo». Poi mi guardò stringendo gli occhi a fessura, chiaramente indispettito. Sapeva di dovermi una spiegazione sul suo titolo di abate. «Sai cos'è il diritto di regalia?» «No, signor Atto». «È il diritto di nominare vescovi e abati, e di disporre dei loImprimatur - Monaldi & Sorti
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ro beni». «Quindi è un diritto del Papa». «Nonnonnò, un attimo!» mi fermò Atto. «Apri bene le orecchie, perché questa è una delle cose che ti serviranno in futuro, quando sarai un gazzettante. La questione è delicata: chi dispone dei beni della Chiesa, se essi si trovano sul suolo di Francia? Il Papa o il Re? Bada bene: non si tratta solo del diritto di nominare vescovi, di concedere benefici e prebende ecclesiastiche, ma anche del possesso materiale di conventi, abbazie, di terreni». «In effetti... è difficile dire». «Lo so. Infatti i Pontefici e i Re di Francia si accapigliavano sulla questione già quattrocento anni fa perché, ovviamente, nessun Re concede volentieri un pezzo del suo Regno al Papa». «E il problema è stato risolto?» «Sì; ma la pace è finita quando è arrivato questo Papa, Innocenzo XI. Nel secolo scorso, infatti, i giuristi erano finalmente arrivati alla conclusione che il diritto di regalia spettava al Re di Francia. E per un sacco di tempo nessuno aveva più messo la cosa in discussione. Ora però sono saltati fuori due vescovi francesi (guarda caso, due giansenisti) che hanno riaperto la questione, e Innocenzo XI li ha immediatamente appoggiati. Cosi la disputa è ricominciata». «Insomma, se non fosse per Nostro Signore il Papa, sulla regalia non sarebbe più sorta alcuna discussione». «Ma certo! Solo a lui poteva venire in mente di turbare in modo così maldestro i rapporti tra la Santa Sede e il Figlio Primogenito della Chiesa». «Mi pare di capire che voi, signor Atto, siete stato nominato abate dal Re di Francia e non dal Papa» conclusi malcelando la sorpresa. Mi rispose con un borbottio di assenso, accelerando il passo. Ebbi la chiara impressione che Atto Melani non volesse approfondire oltre l'argomento. Io però m'ero finalmente liberato 250/703
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d'un dubbio, che aveva preso forma quando avevo ascoltato in cucina Cristofano, Stilone Priàso e Devizé che si raccontavano l'un l'altro l'oscuro passato di Atto. Dubbio che s'era rafforzato quando avevamo esaminato il brandello di Bibbia ritrovato dai corpisantari. La sua scarsa familiarità con le Sacre Scritture faceva ora il paio con le rivelazioni sul diritto di regalia, che permetteva al Re di Francia di nominare abate chiunque gli aggradasse. Non mi trovavo dunque di fronte a un vero ecclesiastico, ma a un semplice cantante castrato che aveva ricevuto un titolo e una pensione da Luigi XIV. «Non ti fidare troppo dei Veneziani» riprese proprio in quel mentre Atto. «Per capire la loro natura basta vedere come si comportano con i Turchi». «Che intendete dire?» «La verità è che i Veneziani, con le loro galee cariche di spezie, tessuti e merci d'ogni sorta, hanno sempre intrattenuto gran commercio col Turco. Ora i loro negozi sono in decadenza per l'arrivo di concorrenti migliori di loro, tra cui i Francesi. E posso ben immaginare cos'altro ti avrà detto Brenozzi: che il Re Cristianissimo spera di far cadere Vienna per poi invadere gli elettorati tedeschi e l'Impero, e infine spartire tutto con la Sublime Porta. Ecco perché Brenozzi ha nominato Dönhoff: intendeva insinuare che, forse, io stesso sono qui a Roma per dare manforte a qualche complotto francese. È infatti da questa città che, per volontà di Innocenzo XI, arrivano a Vienna i soldi per mantenere gli assediati». «Mentre invece non è così» aggiunsi quasi chiedendo una conferma. «Non sono qui per tendere tranelli ai cristiani, ragazzo. E il Re Cristianissimo non complotta col Divano» rispose gravemente. «Il Divano?» «È come dire la Sublime Porta, i Turchi insomma». Poi aggiunse con gravità: «Ricorda: i corvi vanno a schiere; Imprimatur - Monaldi & Sorti
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l'aquila vola sola». «Che vuol dire?» «Vuol dire: ragiona con la tua testa. Se tutti ti dicono di andare a destra, tu va' a sinistra». «Ma secondo voi è lecito o no allearsi con i Turchi?» Trascorse un lungo attimo, dopodiché Melani, senza mai levare lo sguardo verso di me, sentenziò: «Alcuno scrupolo dovrebbe impedire oggi a Sua Maestà di rinnovare le alleanze che tanti Re cristiani prima di lui hanno fatto con la Porta». Erano ormai decine, spiegò poi, i Re e Principati cristiani che avevano stretto fior di patti con la Porta Ottomana. Firenze, tanto per fare un esempio, aveva chiamato Maometto II in aiuto contro Ferdinando I Re di Napoli. Venezia, per cacciare dal Levante i Portoghesi che scomodavano i suoi traffici, si era servita delle forze del Soldano d'Egitto. L'imperatore Ferdinando d'Asburgo era stato non solo alleato, ma anche feudatario e tributario di Solimano, al quale aveva chiesto, con indegne sottomissioni, l'investitura al trono d'Ungheria. Quando Filippo II era andato alla conquista del Portogallo, per rabbonire il vicino Re del Marocco gli aveva regalato un possedimento, mettendo così terre cristiane nelle mani degl'infedeli: e questo solo per poter spogliare un Re cattolico. Persino i papi Paolo III, Alessandro VI e Giulio II, quando ciò era stato necessario, avevano reclamato l'aiuto del Turco. Certo, tra i padri casuisti e nelle scuole cattoliche s'era più volte posto il problema se quei Principi cristiani avessero commesso peccato. Ma quasi tutti gli Autori italiani, tedeschi e spagnoli pensavano di no, ed erano giunti ad ammettere che un Principe cristiano possa soccorrere in guerra un infedele contro un altro Principe cristiano. «La loro opinione» scandì l'abate «s'appoggia sull'autorità e sulla ragione. L'autorità è tratta dalla Bibbia: Abramo ha combattuto per il Re di Sodoma, e David contro i figli d'Israele. Per non parlare delle alleanze di Salomone col re Hiram, e dei Maccabei coi Lacedemoni e i Romani, che erano popoli pagani». 252/703
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Come conosceva bene la Bibbia Atto, pensai, quando questa aveva a che vedere con la politica... «La ragione, invece» continuava intanto l'abate con piglio convinto «si fonda sul fatto che Dio è l'autore della Natura e della Religione: pertanto non si può dire che quanto è giusto per Natura non sia giusto per Religione, a meno che qualche precetto divino non ci obblighi a crederlo. Ora, nel nostro caso, non vi sono precetti divini che condannino tali alleanze, specie quando esse sono necessarie, e il diritto di Natura rende onesti tutti gli strumenti ragionevoli da cui dipende la nostra conservazione». Così terminata la sua concione dottrinale, l'abate Melani ristette a guardarmi con sopracciglio didascalico. «Intendete dire che il Re di Francia può allearsi col Divano per legittima difesa?» chiesi un tantino dubbioso. «Certo: per conservare i suoi Stati e la Religione Cattolica dall'imperatore Leopoldo I, i cui meschini disegni sovvertono tutte le leggi divine e umane. Leopoldo, infatti, si è alleato con l'eretica Olanda, tradendo così per primo la vera Fede. Ma allora nessuno ha aperto bocca. Tutti invece sono sempre pronti a inveire contro la Francia, rea soltanto d'essersi ribellata alla minaccia costante degli Asburgo e degli altri Principi d'Europa. Luigi XIV, sin dall'inizio del suo Regno, lotta come un leone per non finire schiacciato». «Schiacciato da chi?» «Dagli Asburgo anzitutto, che lo circondano da Oriente a Occidente: da un lato l'Impero di Vienna, e dall'altro Madrid, le Fiandre e i domini spagnoli in Italia. Mentre a Nord incombono le eretiche Inghilterra e Olanda, padrone dei mari. E come se non bastasse, anche il Papa gli è nemico». «Ma se tanti Stati dicono che il Re Cristianissimo è un pericolo per la libertà dell'Europa, ci sarà pure un fondo di verità. Anche voi mi diceste che lui...». «Quel che io t'avevo detto del Re adesso non c'entra affatto. Non giudicare mai una volta per tutte, e guarda ogni caso come Imprimatur - Monaldi & Sorti
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fosse il primo della tua vita. Ricorda che nei rapporti tra gli Stati non esiste il Male assoluto. Soprattutto, non ricavare mai la probità di una parte dalla condanna dell'altra: il più delle volte sono colpevoli entrambe. E le vittime, una volta che passino al posto dei carnefici, commetteranno le medesime atrocità. Ricordalo, altrimenti farai il gioco di Mammona». L'abate si fermò, come per riflettere, e trasse un malinconico sospiro. «Non rincorrere il sole ingannatore della Giustizia degli uomini» riprese con un sorriso amaro «ché quando lo raggiungerai vi troverai solo ciò che credevi d'aver fuggito. Solo Dio è giusto. Guardati più che puoi da chi fa ad alta voce professione di giustezza e carità, mentre nei suoi avversari ti indica il Demonio. Quello non è un Re, ma un tiranno; non un Sovrano ma un despota; non è fedele al Vangelo di Dio, ma a quello dell'odio». «È così difficile distinguere!» esclamai sconsolato. «Meno di quanto pensi. Te l'ho detto: i corvi vanno a schiere, l'aquila vola sola». «Sapere tutte queste cose mi servirà a fare il gazzettante?» «No. Ti sarà d'ostacolo». Procedemmo per un tratto senza più aprir bocca. Le massime dell'abate m'avevano lasciato interdetto, e silenziosamente le rimeditavo. Mi aveva sorpreso in particolare la foga con cui Melani aveva difeso il Re Cristianissimo del quale, nel narrarmi l'affare Fouquet, mi aveva presentato un volto tanto fosco e arrogante. Ammiravo Atto, anche se la mia giovane età non mi permetteva ancora di comprendere appieno i preziosi insegnamenti appena impartitimi. «Sappi infine» aggiunse l'abate Melani «che il Re di Francia non ha neppure bisogno di complottare contro Vienna: se l'Impero cadrà, sarà stato per la viltà dello stesso imperatore Leopoldo: quando i Turchi si sono fatti troppo vicini a Vienna è fuggito al crepuscolo come un ladro, mentre il popolo dispera254/703
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to e rabbioso prendeva a pugni la sua carrozza. Dovrebbe ben saperlo il nostro Brenozzi, visto che ad assistere a quella scena penosa c'era anche l'ambasciatore veneziano a Vienna. Da' pure retta a Brenozzi, se vuoi; ma non scordare che quando papa Odescalchi ha chiamato a raccolta l'Europa contro gli Ottomani, oltre alla Francia una sola potenza si è tirata indietro: Venezia». Fu così che venni doppiamente costretto al silenzio. Non solo Atto Melani aveva in guisa convincente ribaltato le accuse di Brenozzi nei confronti della Francia, indirizzandole contro Leopoldo I e Venezia; aveva anche chiaramente inteso quale sospetto il vetraio avesse cercato d'instillare nei suoi confronti. Non ebbi però tempo per riflettere su tale ulteriore prova di sagacia da parte del mio accompagnatore: eravamo ormai arrivati nel buio antro in cui ci avevano teso un agguato, circa un giorno addietro, Ugonio e Ciacconio. Dopo pochi minuti, secondo gli accordi, comparvero i due corpisantari. Come avrei avuto modo d'osservare anche in seguito, non era mai possibile capire con esattezza da dove spuntassero i due oscuri esseri. La loro venuta era in genere preannunciata da un penetrante odore di capra, o di cibo muffito, o di fieno umido, o più semplicemente dal fetore tipico dei mendicanti che si trascinavano per le strade di Roma. Dopodiché, nel buio, si delineava faticosamente il loro curvo profilo il quale, a chi li avesse visti per la prima volta, sarebbe parso l'epifania di qualche creatura d'Averno.
«E questa la chiami una pianta?» sbottò in preda alla collera l'abate Melani. «Siete due bestie, ecco cosa siete. Ragazzo, tieni questo e usalo per pulire il culo a Pellegrino». Ci eravamo appena seduti tutti e quattro attorno alla lanterna, per concludere il negozio concordato la notte prima, e già Imprimatur - Monaldi & Sorti
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l'abate Melani era andato su tutte le furie. Mi passò il pezzo di carta che gli aveva dato Ciacconio, esaminando il quale non potei io stesso trattenere un moto di disappunto.
Avevamo stretto un patto con i corpisantari: avremmo loro restituito il brandello di Bibbia, che stava loro tanto a cuore, solo se ci avessero preparato una pianta accurata dei cunicoli che essi sapevano snodarsi nelle viscere della città, a partire dal sottosuolo della locanda. Eravamo pronti a onorare il nostro impegno (anche perché Atto riteneva che i corpisantari avrebbero potuto esserci utili in altre occasioni), e avevamo portato con noi il foglietto insanguinato. Ma in cambio avevamo ricevuto solo un sudicio straccetto, che solo molto tempo prima doveva essere stato carta. Su esso era visibile solo un folle groviglio di centinaia di linee tremolanti e inestricabili, di cui spesso si riusciva a rintracciare l'inizio ma non la fine, e che a stento era possibile distinguere dalle naturali corrugazioni dello straccetto. Quest'ultimo, a ben vedere, non avrebbe resistito a lungo prima di sbriciolarsi in mille pezzi. Atto era fuori di sé, e mi parlava come se i due che avevamo di fronte, travolti dal suo disprezzo, neppure esistessero. «Avremmo dovuto immaginarlo. Chi grufola tutto il tempo sottoterra come una bestia non può esser capace d'altro. Ora, 256/703
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per muoverci qui sotto, avremo bisogno del loro aiuto». «Gfrrrlûlbh!» protestò Ciacconio, evidentemente offeso. «Taci, animale. Ora statemi a sentire: riavrete il vostro foglio di Bibbia solo quando lo dirò io. So i vostri nomi, sono amico del cardinal Cybo, il segretario di Stato del Papa. Posso fare in modo che non venga concessa l'autentica alle reliquie che trovate, e che nessuno compri più l'immondizia che raccattate qui sotto. Quindi avremo i vostri servigi comunque, Malachia o non Malachia. E ora fateci vedere come si esce all'aperto». Un sussulto di sgomento scosse i corpisantari. Poi Ciacconio si mise mestamente all'avanguardia del nostro quartetto, e ci indicò un punto imprecisato nell'oscurità. «Non so come facciano» sussurrò Atto Melani comprendendo la mia preoccupazione «ma trovano sempre la strada al buio, come topi, senza lanterna. Seguiamoli, non avere paura». L'uscita dall'antro sotto piazza Navona, che imboccammo grazie alla guida dei corpisantari, si trovava più o meno al capo opposto rispetto alla scalinata che si doveva discendere arrivando dal Donzello. Per imboccare tale uscita ci si doveva però infilare in un pertugio così soffocante che gli stessi Ugonio e Ciacconio, pur facilitati dalla gobba che li rendeva orribilmente curvi e deformi, dovevano malamente accoccolarsi in terra per riuscire a passare. Atto imprecò per lo sforzo, e perché s'era appena lordato le maniche e le belle calze rosse con il terriccio umido su cui avevamo dovuto pigiarci. Faceva un curioso effetto rimirare l'abate, che passava le giornate recluso in camera e le notti nel sottosuolo, abbigliarsi sempre delle stoffe più pregiate: raso di Genova, sargia, rattina di Spagna, buratto, papalina rigata, cambellotto di Fiandra, droghetto, panno d'Irlanda. E il tutto trapunto di fini ricami, lamiglie, girelle, canetiglie, e guarnito di frange, trine, nappe, fiocchi e galloni. In verità non aveva abiti ordinari nei suoi bauli, e così destinava quelle splendide manifatture a una fine misera e precoce. Transitati al di là del pertugio, ci ritrovammo in un cunicolo Imprimatur - Monaldi & Sorti
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simile a quelli che si dipartivano dal Donzello. Proprio mentre sbucavo (più facilmente degli altri) al di là dell'angusto passaggio, iniziò a rodermi un interrogativo. L'abate Melani aveva fino ad allora fatto gran mostra di voler sorprendere il ladro delle chiavi e delle margarite, che forse aveva anche qualcosa a che fare con la morte del signor di Mourai. A me però aveva successivamente confidato d'essere giunto a Roma per risolvere il mistero dell'asserita presenza di Fouquet nella città. Mi chiesi improvvisamente se la prima giustificazione fosse sufficiente a motivare il suo zelo nelle nostre peregrinazioni notturne. E poco mancò che non dubitassi della seconda. Troppo compiaciuto dalla possibilità d'essere vicino a quell'individuo, straordinario quanto le circostanze in cui lo ero venuto a conoscere, decisi che non era ancora venuto il momento di rispondere a tali interrogativi. In quel mentre ci mettemmo in marcia nell'oscurità, appena aiutati dal fioco chiarore delle nostre due lanterne. Percorse poche decine di metri della nuova galleria, ci imbattemmo in una biforcazione: alla nostra sinistra un secondo cunicolo, di pari grandezza, si dipartiva da quello principale. Dopo pochi passi, un altro bivio: una sorta di caverna s'apriva sulla nostra destra, senza rivelare cosa si celasse in fondo. «Gfrrrlûlbh» disse Ciacconio rompendo il silenzio ch'era calato nel gruppo da quando era iniziata la marcia. «Spiega» ordinò seccamente Atto rivolto a Ugonio. «Ciacconio dice che si può uscitare anche da questa scappanza». «Bene. E allora perché non lo facciamo?» «Ciacconio ha ignoranza se volete uscitare allo sfuoramento di tal scappanza o, minorando li scropoli per non maggiorare li scrupoli, se aggradite lo sprofittamento d'un uscimento di men cimento». «Vuoi sapere se preferiamo uscire di qui o da un'altra parte. E come faccio a saperlo? Facciamo così: diamo un'occhiata qui 258/703
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sotto e cerchiamo di capire cosa conviene fare. Non ci vorrà poi così tanto a farsi un'idea di queste maledette gallerie». «Gfrrrlûlbh?» chiese incuriosito Ciacconio rivolto al compagno. «Ciacconio ha dubitizzato d'aver rectamente comprensato» tradusse Ugonio ad Atto. «Ho detto: diamo rapidamente un'occhiata alle gallerie di qua sotto, visto che non dev'essere cosa troppo complicata. Tutti d'accordo?» Fu allora che Ugonio e Ciacconio esplosero in una grassa e bestiale e quasi demoniaca risata, rinforzata da osceni e gioiosi rotolamenti e contorcimenti nella fanga lurida su cui camminavamo, e da gutturali grugniti e aerei sfiatamenti del ventre. Una grottesca e quasi sofferta lacrimazione completava il quadro dei corpisantari, incapaci di alcun freno su se stessi. «Molto divertente» commentò acido l'abate Melani, sicuramente consapevole, come lo ero io, che tale animalesca ilarità era la vendetta per la cattiva accoglienza che avevamo riservato alla pianta della Roma sotterranea consegnataci dai due. Quando il bestiale rotolamento ebbe fine, e i cacciatori di reliquie si furono calmati, ottenemmo qualche chiarimento. Con il colorito idioma che gli era proprio, Ugonio spiegò che a lui e al suo compagno era parsa sorprendente l'idea d'esplorare breviter et commoditer i sotterranei della zona, e magari quelli di tutta la città, visto ch'erano molti e molti anni che i due corpisantari, e innumerevoli altri, cercavano di capire se le vie della città sepolta avessero un principio, un centro e una fine, e se mente umana potesse comprenderla secondo un ordine razionale o, più modestamente, se vi fosse modo certo, smarrendosi per sventura nelle sue profondità, di guadagnare la salvezza. Ecco perché, proseguì Ugonio, la pianta della Roma sotterranea che i due corpisantari avevano per noi predisposto ci sarebbe dovuta riuscire utile e gradita. Nessuno prima d'allora aveva tentato l'audace impresa di rappresentare l'intera Roma sotterranea, e pochi al di fuori di Ugonio e Ciacconio poImprimatur - Monaldi & Sorti
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tevano vantare una conoscenza così approfondita della rete di cunicoli e caverne. Ma tale preziosa messe di sotterranee conoscenze (di cui verosimilmente nessun altro disponeva, sottolineò ancora Ugonio) non era purtroppo stata di nostro gradimento, e dunque... Atto e io ci lanciammo un'occhiata. «Dov'è la pianta?» chiedemmo all'unisono. «Gfrrrlûlbh» disse Ciacconio allargando sconsolato le braccia con voce semisoffocata. «Ciacconio rispettizza la collerica rifiutanza della vostrissima alterica e cosmica decisionità» disse impassibile Ugonio mentre il suo compare abbassava il capo, e con orribile rigurgito si vomitava sul palmo della mano destra una poltiglia in cui erano ahimé riconoscibili alcuni brandelli dello straccetto su cui era disegnata la mappa. Nessuno osò correre in soccorso della pianta. «Quando Ciacconio o altri non approvizza, per esser più padre che paricida, qualche volta sempre lui manducatizza» spiegò Ugonio. Eravamo costernati. La pianta (di cui solo ora avevamo appreso l'importanza) era stata divorata da Ciacconio il quale, a detta del suo collega, era solito trangugiare tutto quanto fosse sgradito a lui o ai suoi conoscenti. Il prezioso disegno, quasi digerito, era perso per sempre. «Ma cos'altro mangia?» chiesi esterrefatto. «Gfrrrlûlbh» disse Ciacconio scuotendo le spalle, e significando che non badava troppo a cosa varcasse la soglia delle sue fauci. Ci informò Ciacconio che la seconda biforcazione, quella che iniziava con una sorta di piccola grotta e deviava a destra, conduceva sì in superficie, ma dopo un tratto piuttosto lungo. Atto decise che valeva la pena d'esplorare la prima deviazione, che conduceva a sinistra. Tornammo indietro e imboccammo la galleria. Avevamo appena percorso qualche decina di metri, 260/703
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quando Ugonio richiamò l'attenzione di Atto con uno strattone. «Ciacconio ha snariciato un presenziante nella gallericola». «I due mostri pensano che ci sia qualcuno nei paraggi» disse sottovoce Atto. «Gfrrrlûlbh» confermò Ciacconio indicando il cunicolo da cui provenivamo. «Forse siamo seguiti. Io e Ciacconio ci fermiamo qui, al buio» decise l'abate Melani. «Voi due, invece, procederete lentamente con entrambe le lanterne accese. Potremo così intercettarlo mentre segue la vostra luce». Non accolsi volentieri la prospettiva di restare isolato con Ugonio, ma tutti ubbidimmo senza fiatare. Melani e Ciacconio restarono nascosti nel buio. Improvvisamente sentii il cuore battermi forte e il respiro farsi corto. Ugonio e io avanzammo per venti o trenta metri, poi ci fermammo tendendo l'orecchio. Nulla. «Ciacconio ha snariciato un presenziante e una fogliagione» mi bisbigliò Ugonio. «Vuoi dire una foglia?» Ugonio fece di sì col capo. Una figura si stagliò debolmente nella galleria. Mi preparai con tutti i muscoli a non sapevo bene cosa: attaccare, fronteggiare un assalto o, più probabilmente, fuggire. Era Atto. Ci fece cenno con la mano di raggiungerlo. «Lo sconosciuto non ci seguiva» annunciò non appena fummo con lui «procede per proprio conto, e ha imboccato il canale principale, quello che va diritto dopo il pertugio stretto. Saremo noi a seguirlo. Ma dobbiamo fare in fretta, altrimenti lo perderemo». Raggiungemmo Ciacconio, che ci attendeva immobile come una statua, con la punta del nasone tesa a mezz'aria nell'oscurità. «Gfrrrlûlbh». «Mascolifero, giovinazzo, salutifero, spaurazzo» sentenziò Ugonio. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Maschio, in giovane età, di buona salute e impaurito» tradusse Atto mormorando tra sé e sé. «Non li sopporto, questi due». Svoltammo a sinistra, infilando nuovamente il condotto principale e tenendo accesa al minimo una sola lanterna. Dopo alcuni minuti di cammino intravedemmo finalmente davanti a noi un lontano e debole chiarore. Era il lume della nostra preda. Atto mi fece cenno di spegnere la lanterna. Camminavamo in punta di piedi, facendo il massimo sforzo per non produrre alcun rumore. Seguimmo per un buon tratto il misterioso viaggiatore, senza però poterlo avvistare, poiché il tracciato della galleria curvava lievemente verso destra. Se ci fossimo fatti troppo innanzi egli avrebbe potuto vederci a sua volta, e in tal caso avremmo rischiato di farcelo sfuggire. All'improvviso da sotto il mio piede echeggiò un leggero crepitio. Avevo calpestato una foglia secca. Ci fermammo col fiato sospeso. Anche l'individuo s'era fermato. Nella galleria calò il silenzio più assoluto. Sentimmo un ritmico fruscio farsi lentamente più vicino. Un'ombra si dipartiva dalla luce dell'inseguito per avvicinarsi a noi. Ci preparammo allo scontro. I due corpisantari restarono immobili, impenetrabili grazie ai loro cappucci. Nella penombra scorsi un labile baluginio nella mano di Atto. Nonostante la paura, riuscii a sorridere: si trattava di certo della sua pipa. Poi, a una curva della galleria, avvenne la scoperta. Avevamo seguito un mostro. Sul lato sinistro della cavità la luce dell'inseguito rivelò l'ombra d'un orribile braccio adunco. Seguiva un cranio aguzzo e oblungo, da cui spuntava una peluria disgustosamente fitta e robusta. Il corpo era informe e spropositato. Un essere infernale, che ci eravamo illusi di sorprendere, strisciava minaccioso avvicinandosi al nostro quartetto. Restammo impietriti. La sagoma del mostro fece uno, due, tre passi. Stava quasi per spuntare dalla curva della galleria. Si arrestò. 262/703
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«Va' via!» Tutti sobbalzammo, e io mi sentii quasi venir meno le forze. Qualcuno aveva gridato. L'ombra sul muro si fece enorme, deformandosi oltre ogni logica aspettativa. Poi si sgonfiò, prendendo le normali proporzioni proprio mentre l'essere compariva in carne e ossa di fronte ai nostri occhi. Era un ratto delle dimensioni d'un cagnolino, dall'incedere goffo e incerto. Anziché scattare veloce alla nostra vista (come la pantegana in cui io e Atto ci eravamo imbattuti nella prima incursione sotterranea), il grosso sorcio procedeva a stento, indifferente alla nostra presenza. Pareva assai mal messo. La lanterna aveva proiettato il suo profilo, ingigantendolo, sulla parete della galleria. «Zoccola schifosa, mi hai impaurito» disse ancora la voce. Il lume riprese ad allontanarsi da noi. Prima che il buio ci avvolgesse nuovamente, scambiai uno sguardo con Atto. Anche lui, come me, non aveva avuto difficoltà a riconoscere nell'inseguito la voce di Stilone Priàso.
Dopo esserci lasciati alle spalle il ratto agonizzante, proseguimmo pazientemente il pedinamento. La sorprendente agnizione m'aveva scatenato un turbinio d'ipotesi e sospetti. Pochissimo sapevo di Stilone Priàso, tranne quel tanto ch'egli aveva lasciato trapelare. Si diceva poeta, quantunque fosse evidente che non di soli carmi egli doveva vivere. Le sue vesti, sebbene non sfarzose, rivelavano agio e sicurezza di mezzi ben superiori a quelli d'un qualunque poetastro d'occasione. Da subito avevo sospettato che ben altra fosse la sua vera fonte di denaro. E ora la sua inspiegabile presenza nei cunicoli sotterranei rinfocolava ogni mio dubbio. Lo seguimmo per un altro tratto, finché non iniziò una scalinata che riportava verso l'alto e che si faceva improvvisamente angusta e soffocante. Eravamo ormai al buio. Nel disporci in fiImprimatur - Monaldi & Sorti
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la indiana, alla nostra testa si mise Ciacconio, che seguiva senza alcuna difficoltà le tracce di Stilone Priàso. Al contempo indovinava le variazioni del suolo comunicandole a me, secondo del gruppo, con rapidi colpetti sulla spalla. Improvvisamente Ciacconio s'arrestò, poi riprese la marcia. I gradini erano finiti. Sentii un'aria nuova alitarmi sul viso. Dall'eco pur leggera che producevano i nostri passi, capii che ci trovavamo in un ambiente assai vasto. Ciacconio esitava. Atto mi chiese di accendere la lanterna. Grande fu il mio stupore quando, semiaccecati dalla luce, gettammo uno sguardo attorno a noi. Ci trovavamo in un'enorme cavità artificiale dalle pareti interamente coperte di affreschi. Al centro troneggiava un grande oggetto marmoreo, che non riuscivo ancora a distinguere chiaramente. Ugonio e Ciacconio sembravano anch'essi spaesati da quel luogo sconosciuto. «Gfrrrlûlbh» si lagnò Ciacconio. «L'odorizio nascondizza il presenziante» spiegò Ugonio. Si riferiva al forte odore di orina rancida che regnava nell'ambiente. Atto fissava affascinato le pitture che ci sovrastavano. Si distinguevano uccelli, visi femminili, atleti, ricche decorazioni floreali e giocondissimi fregi per ogni dove. «Non abbiamo tempo» si scosse però subito «non può sparire così». Trovammo rapidamente due uscite. Ciacconio aveva ripreso il controllo e ci indicò qual era, a giudizio di naso, quella buona. Ci guidò con passo frenetico attraverso un dedalo di altre sale, che non potemmo osservare sia per la fretta che per la poca luce della nostra lanterna. La mancanza di finestre, di aria fresca e di qualunque presenza umana testimoniava però che ci trovavamo ancora sottoterra. «Sono rovine romane» disse Atto con un filo di eccitazione «potremmo essere sotto al palazzo della Cancelleria». «Da cosa lo deducete?» «Ci troviamo in un grande labirinto, il che mi fa pensare a un 264/703
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fabbricato di proporzioni notevoli. Considera che hanno demolito una parte del Colosseo e tutto l'arco di Giordano per avere materiale sufficiente a costruire la Cancelleria». «Vi siete mai entrato?» «Ma certo. Conoscevo bene il vicecancelliere cardinal Barberini, che mi ha anche chiesto alcuni favori. Il palazzo è magnificente e le sale grandiose, anche le facciate in travertino non sono male, sebbene...». Si dovette interrompere, perché Ciacconio ci stava facendo inerpicare per una scalinata che montava, insidiosamente priva di corrimano, nel vuoto tetro e buio di un altro grande antro. Ci tenevamo tutti e quattro per mano. La scalinata pareva non finire mai. «Gfrrrlûlbh!» proruppe vittoriosamente Ciacconio alla fine, spingendo un uscio che dava sulla strada. Fu così, mezzi morti di paura e di fatica, che ci ritrovammo nuovamente all'aperto. Mi riempii istintivamente d'aria i polmoni, rinfrancato, dopo cinque giorni di quarantena all'interno del Donzello, dall'aria rinnovata e sottile della notte. Una volta tanto, potei essere d'aiuto. Riconobbi infatti subito ove ci trovavamo, essendomici recato più volte con Pellegrino che vi acquistava le derrate alimentari per il Donzello. Era l'arco degli Acetari, a poca distanza da campo di Fiore e piazza Farnese. Ciacconio aveva nuovamente puntato il naso all'insù, e subito ci trascinò verso il largo spiazzo di campo di Fiore. Ci copriva silenziosamente una lieve pioggerellina. Nella piazza scorgemmo solo due mendicanti accoccolati per terra tra le loro povere cose, e un ragazzo che spingeva un carretto in direzione di un vicolo. Raggiungemmo il capo opposto della piazza, e all'improvviso Ciacconio ci indicò un palazzetto. Eravamo in una via che mi era familiare ma di cui non ricordavo il nome. Alle finestre del palazzetto non appariva alcuna luce. Proprio sulla strada però un uscio sembrava socchiuso. La strada era sgombra, ma per maggior cautela Ugonio e Ciacconio si Imprimatur - Monaldi & Sorti
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tennero di sentinella ai lati del gruppo. Ci avvicinammo: si sentiva provenire, soffocata, una voce lontana. Con estrema cautela spinsi la porta. Una piccola rampa conduceva in basso ove, dietro un altro uscio semiaperto, s'indovinava una stanza illuminata. Da lì proveniva la voce, che ora concertava con un interlocutore. Atto mi precedette lungo la scala, finché giungemmo in fondo. Qui ci accorgemmo di camminare su un vero e proprio tappeto di fogli sparsi. Atto ne stava raccattando qualcuno, quando improvvisamente le voci si fecero più vicine, appena dietro alla porta semichiusa. «... e sono quaranta scudi» sentimmo dire a uno dei due. Ci precipitammo su per la scala e guadagnammo l'uscita, badando però a riaccostare l'uscio che dava sulla strada per non destare sospetti. Con Ugonio e Ciacconio ci nascondemmo dietro l'angolo del palazzo. Avevamo visto giusto: dal portoncino uscì Stilone Priàso. Gettò un'occhiata attorno, e s'incamminò rapidamente verso l'arco degli Acetari. «E ora?» «Ora apriamo la gabbia» mi rispose Atto. Bisbigliò qualcosa a Ugonio e Ciacconio, che risposero con un sorriso sordido e crudele. Con incedere trottante si affrettarono sulle tracce di Stilone. «E noi?» chiesi smarrito. «Noi rientriamo, ma con calma. Ugonio e Ciacconio ci attenderanno nei sotterranei, dopo aver sbrigato un certo lavoretto». Allungammo il tragitto evitando di passare nel mezzo di campo di Fiore, per non essere avvistati da qualcuno. Ci trovavamo nelle vicinanze dell'ambasciata francese, notò giustamente Atto, e rischiavamo di essere sorpresi da qualche guardia notturna. Grazie alle sue conoscenze egli avrebbe potuto persino chiedere asilo. Ma a quell'ora, anziché arrestarci, le 266/703
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guardie corse dell'ambasciata avrebbero forse preferito rapinarci e sgozzarci. «Come forse sai, a Roma esiste la libertà di quartiere: gli sbirri pontifici e il Bargello non possono arrestare nessuno nei quartieri delle ambasciate. Questo sistema però sta diventando troppo comodo per ladri e assassini in fuga. Ecco perché le guardie corse non vanno troppo per il sottile. Purtroppo mio fratello Alessandro, che è maestro di cappella del cardinal Pamphili, in questi giorni si è assentato da Roma. Altrimenti ci avrebbe potuto fornire una scorta». Tornammo sottoterra. Grazie al Cielo le lanterne non si erano danneggiate. Ci incamminammo nel labirinto sotterraneo in cerca della sala affrescata, e stavamo quasi per dirci smarriti quando, da qualche ignoto anfratto, riapparvero al nostro fianco i corpisantari. «È stata una conversazione piacevole?» chiese Atto. «Gfrrrlûlbh!» rispose Ciacconio con un ghigno soddisfatto. «Cosa gli avete fatto?» chiesi con apprensione. «Gfrrrlûlbh». Il suo rutto mi tranquillizzò. Avevo la bizzarra impressione di cominciare a comprendere, per qualche oscura via, il monocorde eloquio del corpisantaro. «Ciacconio ha solo spaurizzato» assicurò Ugonio. «Immagina di non aver mai visto i nostri due amici» mi spiegò Atto «e di vederteli saltare addosso urlando, al buio, in un sotterraneo. Se ti chiedono un favore, e in cambio loro ti lasciano in pace, tu cosa fai?» «Glielo faccio di certo!» «Ecco, loro hanno solo chiesto a Stilone cosa è andato a fare stanotte, e perché». Il riassunto di Ugonio, in breve, suonava così. Il povero Stilone Priàso si era recato nella bottega di un certo Komarek, che lavorava saltuariamente nella stamperia della Congregazione Imprimatur - Monaldi & Sorti
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de Propaganda Fide, e che di notte faceva alcuni lavori clandestini in proprio per arrotondare lo stipendio. Komarek stampava gazzette, lettere anonime, forse anche libri messi all'Indice: tutta roba proibita, che egli si faceva pagare molto bene. Stilone Priàso gli aveva commissionato la stampa di alcune lettere con pronostici politici, su incarico d'un amico di Napoli. In cambio i due avrebbero spartito il guadagno. Per questo egli si trovava a Roma. «E la Bibbia, allora?» chiese Atto. No, disse Ugonio, Stilone di Bibbie non sapeva proprio nulla. E non aveva preso nulla dalla bottega di Komarek, neppure un foglio. «Quindi non è stato lui a smarrire la pagina insanguinata nel sotterraneo. Siete certi che abbia detto la verità?» «Gfrrrlûlbh» ridacchiò Ciacconio. «Il presenziante spaurizzato si è spiscizzato» spiegò lietamente Ugonio. Per completare l'opera, i due avevano perquisito Stilone Priàso, trovandogli addosso un fascicoletto minuscolo e consunto che probabilmente teneva sempre sotto le vesti. Atto lo avvicinò alla luce della lanterna, mentre ci mettevamo in marcia sulla via del ritorno:
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«To', una gazzetta astrologica» esclamò Atto divertito. Son faci le Stelle che spirano ardore.
Gorgheggiò melodiosamente, suscitando in Ciacconio grufolii d'ammirazione. «Uuuhh, canterizio castrizzato!» plaudì servile Ugonio. «Gazzettante, l'avevo capito» proseguì Atto senza badare ai corpisantari. «Ma che Stilone Priàso fosse un astrologo giudiziario no, a questo non ero arrivato». «Perché sospettavate che Stilone fosse un gazzettante?» «Intuito. Comunque, poeta certo non poteva essere. I poeti sono d'umor melanconico e, se non hanno un Principe o un Cardinale che li protegga, li riconosci subito. Cercano ogni pretesto per leggerti la loro robaccia, sono malvestiti, tentano infallibilmente di farsi invitare al tuo tavolo. Stilone invece ha gl'indumenti, la parola e gli occhi di chi “tiene la panza piena”, come dicono dalle sue parti. Allo stesso tempo però è di carattere riservato, come per esempio Pompeo Dulcibeni, e non parla a sproposito, come ama invece fare Robleda». «Cosa significa astrologia giudiziaria?» «Sai ovviamente cosa fanno più o meno gli astrologi, vero?» «Più o meno, sì: cercano di prevedere il futuro per mezzo delle stelle». «In generale è così. Ma non è tutto. È bene che tu tenga a mente quanto ti sto per dire, se vuoi veramente fare il gazzettante. Gli astrologi si dividono in due categorie: astrologi puri e semplici, e astrologi giudiziari. Entrambi sono d'accordo nell'ammettere che stelle e pianeti, oltre a produrre luce e calore, abbiano occulte virtù, con le quali cagionano alcuni effetti sui corpi inferiori». Stavamo ora ripercorrendo la lunga galleria curva in cui eravamo stati terrorizzati dall'ombra della pantegana. «Ma gli astrologi giudiziari si spingono oltre, in un gioco molto pericoloso» disse l'abate Melani. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Essi, infatti, non s'accontentavano di ammettere l'influenza di stelle e pianeti sulle cose naturali, ma la credevano estesa anche sull'uomo. Così, conoscendo solamente luogo e data di nascita d'un individuo, cercavano di prevedere quali fossero gli effetti celesti sulla sua vita, come per esempio carattere, salute, fortune e disgrazie, giorno della morte, e così via. «Cosa c'entra questo con i gazzettanti?» «C'entra eccome. Perché alcuni astrologi sono anche gazzettanti, e sulla base delle influenze degli astri forgiano previsioni politiche. Proprio come Stilone Priàso, che gira improvvidamente con un giornaletto d'oroscopi in tasca e nottetempo fa stampare pronostici». «Ed è proibito?» «Proibitissimo. I casi di punizioni inferte ad astrologi giudiziari, o a loro amici, anche ecclesiastici, sono assai numerosi. Alcuni anni fa il problema m'aveva incuriosito e avevo letto qualcosa in proposito. Papa Alessandro III, per esempio, sospese per un anno un prete che aveva fatto ricorso all'astrologia, nonostante costui avesse il fine sacrosanto di ritrovare il bottino d'un furto perpetrato nella sua chiesa». Mi rigirai preoccupato tra le mani, accostandolo alla luce della lanterna, il volumetto sequestrato a Stilone. «Di almanacchi come quello» mi disse Atto «ne ho già visti a decine. Alcuni portano titoli come Scherzi astrologici o Fantasie astrologiche, per allontanare il sospetto che si tratti di cose più serie, come l'astrologia giudiziaria che è capace invece d'influenzare le decisioni politiche. Si tratta in sé, è vero, d'innocui manuali con consigli e congetture per l'anno in corso, ma certo il nostro Stilone non dev'essere un'aquila di accortezza» ridacchiò l'abate «se, col pericoloso mestiere che fa, bazzica tipografie clandestine con roba simile addosso!» Spaventato, porsi immediatamente ad Atto l'esile libriccino. «Ma no, tu puoi tenerlo senz'altro» mi rassicurò. Per prudenza, lo infilai comunque nei calzoni, celato sotto la veste. 270/703
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«Pensate voi che l'astrologia possa davvero aiutare?» chiesi. «Io no. Però so che molti medici la tengono in gran conto. So che Galeno ha scritto un intero libro De diebus chriticis, sulle cure da applicare ai malati a seconda della posizione dei pianeti. Non sono un astrologo, ma so che alcuni argomentano, tanto per dire, che per curare la bile è bene che la Luna si trovi...». «In Granchio». Fummo colti entrambi di sorpresa dall'intromissione di Ugonio. «Essendo la Luna in Granchio, con segno celeste, di trino, o Mercurio» proseguì il corpisantaro in un fitto borbottio «si purga con felicità la bile; con sestile, o trino nel Sole, la flemma; con aspetto di Giove, la melancolia; in segno di Drago, Capricorno, Ariete, segni ruminanti, provocarà sovversione, tanto più s'approssimerà alla costituzione Settentrionale, Australe, poiché fluiscono in copia gli umori vitiati, e l'Aquilonari maggiormente per impressione e compressione eccitano flussione e destillatione, non dovendosi tentare l'evacuatione in quelli che da flussi vengono assediati; sarà dunque d'uopo necessario osservar gli aspetti significati, per non essere medico da villa, e riuscire più benefice che malefice, ed esser più padre che paricida, appagando la coscientia, perché soddisfacendo all'obbligo s'accresce al battezzato il giubilo, minorando li scropoli per non maggiorare li scrupoli, applicando l'evacuationi peridonei, e indigenti, verbigratia, se si usarà il magistero di Scialappa». Tacemmo entrambi, interdetti. «Ma bene, abbiamo un vero esperto di astrologia medica» commentò dopo un istante l'abate Melani «e dove hai appreso tutte queste preziose nozioni?» «Gfrrrlûlbh» intervenne Ciacconio. «Abbiamo multizzato le consaputezze con leggizie di sfogliabili». «Sfogliabili?» chiese Atto. Ciacconio indicò il libretto che avevo in mano. «Ah, vuoi dire libri. Forza, ragazzo, non ci fermiamo: temo Imprimatur - Monaldi & Sorti
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che Cristofano possa dare un'occhiata in giro nella locanda. Sarebbe difficile spiegare la nostra assenza». «Anche Stilone Priàso era assente». «Ora non più, credo. Dopo l'incontro con i nostri due mostriciattoli è sicuramente rientrato a gambe levate nella locanda». Stilone Priàso, ragionò ancora Atto, era giunto a Roma per il suo mestiere di astrologo giudiziario, dunque un traffico poco pulito. Aveva quindi bisogno di un'uscita discreta dal Donzello durante le ore notturne. La strada sotterranea doveva averla appresa in precedenza, visto che aveva detto d'essere già stato ospite del Donzello. «Pensate che Stilone abbia qualcosa a che vedere con l'assassinio del signor di Mourai e il furto delle mie perline?» «È presto per dirlo. Dovremo ragionare un po' su di lui. Certo, avrà visitato i sotterranei chissà quante volte. Non altrettanto è stato per noi. Maledizione, se avessimo la pianta che avevano preparato Ugonio e Ciacconio, per quanto lercia e confusa, disporremmo d'un vantaggio enorme». Per fortuna avevamo almeno un altro vantaggio: sapevamo che Stilone era stato nei sotterranei, mentre lui non sapeva di noi. «Intanto» aggiunse l'abate «prima di coricarti va' a gettargli un'occhiata: non mi fido molto di questi due esseri» disse voltandosi a indicare i volti ghignanti dei corpisantari al nostro seguito. Risalimmo tutto il passaggio sotterraneo fino all'imbocco dello stretto pertugio che portava alle rovine dello stadio di Domiziano, sotto piazza Navona. Atto congedò i due corpisantari, dando loro appuntamento alla notte successiva, un'ora dopo il calare del sole, e promettendo un compenso. «Gfrrrlûlbh» protestò Ciacconio. I due corpisantari rivendicavano la restituzione del foglietto di Bibbia. Atto decise invece di tenerlo, poiché non avevamo ancora capito quale fosse la sua origine, e anzi me lo porse per272/703
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ché lo conservassi con cura. Offerse però ai corpisantari una ricompensa in denaro. «Quel ch'è giusto è giusto, in fondo la piantina l'avevate fatta» disse cordialmente mentre tirava fuori il denaro. Improvvisamente l'abate Melani sbarrò gli occhi. Prese ai propri piedi una manciata di terriccio e la gettò sulla spalla di Ciacconio, che rimase impietrito per la sorpresa. Poi prese il foglio della Bibbia, lo aperse e lo premette sul rustico pastrano di Ciacconio, nel punto ch'egli aveva appena impolverato. «Bestie animali bastardi» disse guardandoli con sdegno. I due restarono umilmente impietriti, in attesa d'una punizione. Sul foglio era rimasta impressa una sorta di fitto labirinto dalle forme familiari.
«Ricordate di non farmi mai più una cosa del genere. Mai». Poi tacque, rimettendo in tasca i denari che aveva preparato per Ugonio e Ciacconio. «Capisci?» mi disse più tardi dopo aver sciolto il quartetto. «Ci volevano infinocchiare come due idioti. Hanno premuto il foglio sopra quella specie di pelle di capra con cui si coprono. Poi hanno aggiunto due scarabocchi ed ecco fatto, questa è la preziosa pianta dei sotterranei di Roma. Ma io no, eh!, io non mi lascio giocare così. La figura al centro della pianta era uguaImprimatur - Monaldi & Sorti
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le e speculare a un rammendo sulla spalla di Ciacconio: ecco come li ho scoperti!» Non aprimmo più bocca e rientrammo al Donzello, ormai esausti, a notte fonda.
Stavo risalendo le scale, dopo essermi separato da Atto, quando al secondo piano intravidi un debole chiarore provenire dalla stanza di Stilone Priàso. Rammentai la raccomandazione ricevuta dall'abate Melani di gettare uno sguardo al giovane partenopeo. Accostai il viso all'uscio un poco schiuso, cercando di sbirciare all'interno. «Chi è?» lo sentii chiedere con voce tremante. Mi feci riconoscere ed entrai. Era rannicchiato sul letto, pallido e lordo di terriccio. Nella penombra, finsi di non avvedermene. «Cosa ci fai sveglio a quest'ora, ragazzo?» «Il mio padrone doveva andare di corpo» mentii «e voi?» «Io ho... avuto un terribile incubo. Due mostri mi aggredivano nell'oscurità, e poi mi derubavano dei miei libri, e di tutti i soldi che avevo con me». «Anche soldi?» chiesi rammentando che Ugonio e Ciacconio non ne avevano fatto menzione. «Sì, e poi mi chiedevano... insomma, mi torturavano e non mi davano requie». «È terribile. Dovreste riposare». «Impossibile, me li vedo ancora davanti» disse mentre rabbrividiva, fissando un punto indefinito nell'oscurità. «Anch'io recentemente ho fatto alcuni sogni bizzarri» dissi per risollevarlo «di cui era impossibile capire il significato». «Significato...» ripetè trasognato Stilone Priàso «non puoi capire il significato dei sogni. Ci vuole un esperto di oniromanzia. Uno vero però, non un ciarlatano o una puttana che cerca di spillarti soldi». 274/703
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Arrossii a quelle parole, e cercai di cambiare discorso. «Se non avete sonno, posso tenervi compagnia per un po'. Neanch'io ho voglia di tornare a dormire stanotte» proposi nella speranza di poter attaccare discorso col napoletano e riuscire magari a cavargli di bocca qualche informazione utile alle indagini dell'abate Melani. «Non mi dispiacerebbe. Tanto più che mi farebbe un gran comodo se mi spazzolassi gli abiti mentre mi lavo». S'alzò e, spogliatosi, si diresse al catino, dove iniziò a sciacquarsi le mani e il capo infangato. Sul suo letto, ove m'aveva lasciato le vesti e una spazzola, scorsi un taccuino su cui erano tracciati strani segni. Accanto, alcuni vecchi libri di cui sbirciai i frontespizi: Myrotecium, Protolume chimico echeggiante, e infine Antilucerna fisica oroscopante. «V'interessate di alchimia e di oroscopi?» chiesi colpito da quei titoli dal significato oscuro. «Ma no» esclamò Stilone voltandosi di scatto. «Solo che sono scritti in rima e li stavo consultando per trarne ispirazione. Sai che sono un poeta, no?» «Ah, già» finsi di credergli mentre m'accingevo alla spazzolatura. «E poi l'astrologia, se non erro, è vietata». «Non è esatto» ribatté seccato. «Lo è solo quella giudiziaria». Per non allarmarlo, finsi la più totale ignoranza della materia e così Stilone Priàso, mentre si strofinava energicamente il capo, mi ripetè con fare dottorale quanto avevo già udito da Atto. «Infine, circa mezzo secolo fa» concluse «papa Urbano VIII, nel bel mezzo del suo Pontificato, scatenò tutta la sua furia contro gli astrologi giudiziari, dopo che per una trentina d'anni essi avevano goduto di sempre maggiore tolleranza e financo rinomanza, anche presso Cardinali, Principi e Prelati desiderosi di pronostici di buone fortune. Fu un terremoto, tanto che ancor oggi chi legge il destino nelle stelle corre serissimi rischi». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Peccato, ci sarebbe molto utile ora sapere che fine faremo qui al Donzello: se periremo in un lazzeretto o usciremo salvi e liberi» lo provocai. Stilone Priàso non rispose. «Con l'aiuto d'un astrologo potremmo forse capire anche se il signor di Mourai è morto di peste o se è stato avvelenato come sostiene Cristofano» tentai ancora. «Così ci potremmo mettere al riparo da eventuali minacce ulteriori dell'assassino». «Scordalo. Il veleno, più d'ogni altra arma mortale, si cela all'occhio vigile degli astri. Esso è più forte di qualunque tentativo di divinazione e previsione: se dovessi uccidere qualcuno, sceglierei proprio il veleno per farla franca». Sbiancai a quelle parole, e mi parve di scorgervi una traccia per i miei sospetti. Astrologi e veleno: mi sovvenni improvvisamente della conversazione sui veleni che aveva animato i nostri pigionanti attorno al cadavere del povero signor di Mourai la sera stessa della chiusura. Non era stato forse accennato al fatto che esperti nella preparazione di pozioni venefiche fossero proprio astrologi e profumieri? E Stilone Priàso, pensai con un brivido, era un gazzettante astrologo, come l'abate Melani aveva appena scoperto. «Dite davvero?» reagii simulando un candido interesse. «Sapete forse già di morti in sospetto di veleno, per i quali non sia stato possibile antivedere nelle stelle?...». «Uno fra tutti: l'abate Morandi» m'anticipò Stilone. «Fu il caso più clamoroso». «Chi era l'abate Morandi?» chiesi mal celando l'ansia. «Un frate, nonché il più grande astrologo di Roma» rispose lapidario. «Com'è possibile, un frate astrologo?» ribattei affettando incredulità. «Ti dirò di più: alla fine del secolo scorso il vescovo Luca Gaurico fu astrologo ufficiale alla Corte di ben quattro Papi. Tempi d'oro! Ora, ahimé, passati per sempre...» sospirò. 276/703
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Lo intravidi sciogliersi. «Dopo la vicenda di padre Morandi?» incalzai. «Esatto. Devi sapere che padre Orazio Morandi, abate del monastero di Santa Prassede, aveva - una sessantina d'anni or sono - la migliore libreria astrologica di Roma: un vero punto di riferimento per tutt'i più conosciuti astrologi del tempo. Intratteneva carteggi con i più noti letterati di Roma, Milano, Firenze, Napoli e altre città, anche fuori d'Italia. Molti erano gli uomini di lettere e di scienza che gli chiedevano pareri sugli astri e perfino lo sventurato Galileo Galilei, quando aveva soggiornato a Roma, era stato suo ospite». All'epoca dei fatti l'abate Morandi, continuò Stilone, aveva da poco passato i cinquant'anni: era facondo, sempre allegro, piuttosto alto che basso, con una fiera barba color castagnaccio, e la chioma che appena iniziava a incanutire. Allora l'astrologia godeva di non poca tolleranza. Le leggi contro di essa esistevano, ma erano praticamente ignorate. Sul conto dell'abate Morandi però correvano voci poco onorevoli: era sospettato, e non a torto, di fare il gazzettante, sfruttando le sue numerose conoscenze fuori città. Nel Papato circolavano infatti numerosi opuscoli anonimi, stampati in altre località, pieni di notizie riservate sulla Corte di Roma. Si riteneva che tali pettegolezzi venissero raccolti e diffusi da Morandi, di cui era noto l'interesse per le trame politiche e i giochi di palazzo in Vaticano. Ma nessuno mai aveva potuto provare che ne fosse lui l'artefice. E ciò non solo perché fosse invero difficile rintracciare l'autore delle gazzette, ma anche perché l'attività di gazzettanti e menanti, sebbene proibita, era in realtà ampiamente tollerata, e solo di rado si dava davvero la caccia agli autori degli avvisi e delle gazzette. Era poi chiaro, per il tenore delle notizie che tali scritti maledichi contenevano, che fonti delle notizie divulgate da padre Morandi non potevano esser che menti raffinatissime come quelle degli stessi segretari di Principi e Cardinali. Se non addirittura, e più verosimilmente, i loro padroni. La fama di Orazio Morandi era arrivata al culmine quando Imprimatur - Monaldi & Sorti
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(si era nel 1630) l'abate s'era messo in testa di sostenere, sulla base dei suoi calcoli astrologici, che papa Urbano VIII Barberini sarebbe morto entro la fine dell'anno. L'abate, prima di propalare tale determinazione, si era consultato con altri rinomati studiosi delle stelle. Costoro avevano rifatto i calcoli, ed erano pervenuti allo stesso risultato. Aveva dissentito solo il padre Raffaello Visconti, che insegnava matematica a Roma, e stimava che il Papa, purché non si esponesse a pericoli, sarebbe morto non prima di tredici anni, cioè nel 1643 o nel 1644. Il professore però non era stato tenuto in sufficiente considerazione dai colleghi, che concordavano tutti sulla imminente scomparsa di papa Barberini. La previsione dell'abate di Santa Prassede fece il giro di Roma e delle altre capitali alla velocità del fulmine. Come astrologo aveva un credito così grande che alcuni Cardinali spagnoli si affrettarono a recarsi a Roma per prendere parte al Conclave, che si dava ormai per certo. La voce si diffuse anche in Francia, tanto che il cardinal Richelieu dovette pregare la Corte di Roma di correre ai ripari per mettere fine a una situazione talmente incresciosa. Fu così che la diceria arrivò alle stesse orecchie del Pontefice. Il quale non fu punto contento d'apprendere, e in tal guisa, che stava per lui appressandosi l'ora estrema. Il 13 luglio papa Urbano VIII ordinò che s'aprisse un processo contro l'abate Morandi e i suoi complici. Due giorni dopo Morandi venne rinchiuso nel carcere di Tor di Nona, la sua biblioteca e la sua stanza sigillate e perquisite. «E qui arriva la sorpresa: si trovano sì vari trattati astrologici, ma alcuna traccia di gazzette né di predizioni astrologiche, le quali sole avrebbero potuto provare la volontà di mettere in atto reati, o persino qualche maleficio. L'abate Morandi e i suoi frati erano stati previdenti. Lo scorno fu tremendo. Si profilava per il Papa una figuraccia in tutta Europa» ridacchiò Stilone Priàso. «E poi?» esortai impaziente d'ascoltare il seguito, nella speranza d'individuarvi finalmente qualcosa d'interessante per le 278/703
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mie ricerche sotterranee. «E poi entrò in gioco il suo avvocato. Chi mai può riuscire a tradire e rovinare anche il più accorto, pronto e acuto degli uomini? Il suo avvocato. Ricordalo, ragazzo: è stato sempre così e sempre lo sarà». L'illustrissimo avvocato Teodoro Amayden - proseguì Stilone Priàso non senza sarcasmo - da lungo tempo legale del monastero di Santa Prassede, giunse in soccorso del Papa. Amayden, pochi giorni dopo l'arresto di Morandi, si recò alla libreria della Luna in piazza Pasquino e, con l'aria più ingenua del mondo, si lasciò candidamente sfuggire di fronte a più persone che nella perquisizione non era stato trovato nulla, ma solo perché i frati erano tempestivamente penetrati nello studio, attraverso un passaggio segreto a cui si aveva accesso schiodando un certo assito (che l'avvocato descrisse ben benino); avevano asportato tutti gli scritti che potevano accusare l'abate e li avevano poi bruciati e, in parte, nascosti. Tale circostanza, aggiunse l'avvocato, gli era stata rivelata da un fante al servizio del Morandi. Dopo aver lasciato di stucco i suoi interlocutori con tali rivelazioni, e soprattutto con il modo temerario di trattarle, Amayden se ne andò tranquillamente a casa. La notizia, ovviamente, arrivò subito sul tavolo del giudice, che fece arrestare tutti i dodici monaci di Santa Prassede e convocò Amayden. «Quel serpente d'un avvocato» sibilò Stilone con disgusto «ebbe il luciferino coraggio di confermare a verbale d'aver proferito in pubblico il segreto dell'assito schiodato: "Due giorni dopo la carcerazione dell'abbate Morandi, venendo a casa mia Alessandro, servitore di detto abbate, mi disse che i padri havevano levato una parte dello studio, et presone delle scritture l'abbruciorno. Mi disse con faccia allegra che la corte non haverebbe trovato cosa alcuna contro l'abbate perché non ci era più niente, ché si erano abbrugiate tutte le scritture"» disse Stilone storpiando la voce col naso, per fare il verso all'avvocato traditore. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Fu la fine. Di lì a poco tutti i frati confessarono e infine lo stesso Morandi ammise di aver lavorato all'oroscopo del Papa e d'aver fatto il gazzettante. Pressato dalle domande del giudice, fece anche i nomi di colleghi e amici, i quali a loro volta trassero altri nella pania. «E così si risolse il processo» dissi io. «Al contrario» rispose Stilone Priàso «proprio qui le cose cominciarono a complicarsi». Nel gioco delle chiamate di correo rischiavano di venire a galla nomi imbarazzanti: soprattutto Cardinali, con i loro segretari e congiunti, che, appresa la predizione della prossima morte di Urbano VIII, avevano chiesto conferme alle stelle sulle probabilità d'arrivare alla Tiara. Sin dal primo interrogatorio Morandi aveva gettato tra le gambe dei suoi accusatori qualche nome altolocato: un libretto di satire, che aveva avuto dal segretario del Concistoro, sarebbe passato anche per le mani del maestro del Sacro Palazzo Vaticano; e un discorso in forma di lettera, con la genitura del Papa, l'aveva dato al bibliotecario dell'eccellentissimo cardinal de' Medici. Quel discorso lo aveva copiato dal padre Raffaello Visconti, ed era stato letto anche dal segretario del cardinal nipote Antonio Barberini... Il Papa aveva capito subito cosa si profilasse all'orizzonte: uno scandalo che avrebbe gettato l'onta su tutto il Concistoro, e in primo luogo sulla sua stessa famiglia. Urbano VIII corse quindi ai ripari, imponendo che nomi di Pontefici, Cardinali, Prelati e perfino laici venissero omessi dai verbali, e segnati in cifra a margine, oppure semplicemente lasciati in bianco nel testo. A lui in persona sarebbe spettata la decisione se scriverli o meno. Appena gl'interrogatori si spingevano troppo in là, intervenivano gli omissis voluti dal Papa: «Io conosco molti che si intendono della 'strologia. Il Vincenzo Bottelli fu mio maestro. Egli mi disse che molti al Palazzo s'intendevano di astrologia come i Cardinali ***, *** e ***, e poi ***, ***, *** e anco *** e 280/703
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***». «Insomma, Cardinali per ogni dove» esclamò Stilone. «Il giudice, nell'udire sobbalzando cotanti chiarissimi nomi, sapeva bene che quei commerci astrologici avvenivano per conto dei porporati medesimi. I quali rischiavano, se i loro servi si fossero fatti sfuggire una parola di troppo, di essere coperti dal disonore. E addio alle speranze, per chi le avesse nutrite, di poter un giorno essere eletto Papa». «E come finì?» chiesi impaziente d'udire cos'avesse a che vedere tutta quella storia col veleno. «Oh, ci ha pensato la... Provvidenza» rispose Stilone con una smorfia allusiva. «Il 7 novembre 1630 l'abate Morandi viene trovato morto nella sua cella, riverso sul lettino, con il modesto saio e i sandali che aveva portato tutta la vita». «Ucciso!» «Be', a constatare la morte è uno dei suoi monaci, che non ha dubbi: non vede "alcun segno di male", e il defunto "si conosce essere morto di morte naturale, cioè di febbre et questo io lo so per essere stato sempre suo assistente mentre era carcerato". E l'abate, dice il monaco, nei giorni precedenti era stato malato». Sei giorni dopo, il medico delle carceri di Tor di Nona, stende il suo referto: Morandi è morto dopo dodici giorni di malattia. Aveva avuto dapprima una febbre sestana, che si era fatta maligna e infine mortale. «Non ho, né vidi, sospetto di veleno» certifica il medico, confermato anche da due altri colleghi. Tutti tacciono però che due giorni prima era morto, dopo identici patimenti, un altro carcerato detenuto insieme a Morandi, il quale aveva con lui consumato una torta di provenienza ignota. Le voci e i sospetti d'un avvelenamento circolarono, insistenti e inestirpabili, per mesi. Ma che importava ormai? Padre Morandi era morto, portando con sé, sulle sue sole spalle, il carico tremendo dei vizi dell'intera Corte pontificia. Con gran sollievo di tutti, il velo, incautamente sollevato, venne riabbassato in tutta fretta. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Urbano VIII, con un breve chirografo, ordinò al giudice di sospendere la risoluzione del processo, concedendo l'impunità ai copisti, agli astrologi e ai monaci, e ordinando che si desistesse da ulteriori azioni giudiziarie nei loro confronti. Stilone Priàso tacque e mi guardò. S'era asciugato e s'infilò nel letto, aspettando in silenzio la mia reazione alla storia. Dunque anche nel caso dell'abate Morandi come in quello del signor di Mourai - considerai tra me e me mentre riponevo gli abiti spazzolati sulla seggiola - il veleno s'era celato sotto le mentite spoglie d'un morbo. «Ma non erano colpevoli anche tutti costoro?» obiettai intanto, catturato dal triste racconto. «A ben vedere i copisti avevano copiato, i monaci avevano occultato le prove, gli astrologi avevano speculato sulla morte del Papa. E, soprattutto, i Cardinali avevano fiancheggiato. Non era pertanto ingiusto punirli; ma a tal fine si sarebbe dovuti pervenire a una sentenza» osservò Stilone Priàso «che avrebbe fatto rumore. Proprio ciò che meno serviva al Papa». «Urbano VIII dunque non morì quell'anno». «No, infatti. Morandi aveva totalmente sbagliato le sue previsioni». «E quando morì?» «Nel 1644». «Ma non era proprio la data calcolata da padre Visconti, il matematico?» «Certo» rispose Stilone Priàso. «Se solo l'abate di Santa Prassede avesse dato maggiore ascolto al suo amico professore, avrebbe previsto davvero la morte di Urbano VIII. Invece previde la propria». «E cosa successe agli astrologi dopo la morte di Morandi?» chiesi rabbuiato dalla lugubre osservazione. «L'elenco è presto fatto: l'abiura di Galileo, l'esilio di Argoli, la fuga di Campanella, il rogo di Centini. Il tutto nel giro di pochissimi anni». 282/703
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Qui Stilone tacque, come rispettando un momento di lutto. «E l'astrologia finì schiacciata sotto il peso dei brevi papali» concluse. «Ma Morandi, se avesse saputo che per lui si avvicinava la fine, avrebbe potuto mettersi al sicuro?» domandai ormai distratto dalle intenzioni indagatrici con cui avevo sollecitato la narrazione di Stilone Priàso. «Mi chiedi se si può opporre alcun ostacolo all'influenza delle stelle. Arduo quesito! Un frate domenicano, Tommaso Campanella, uomo di molto sapere e d'ancor maggiore animo, scrisse il De Fato Siderali vitando, in cui insegna appunto l'arte di sfuggire al cammino che ci apparecchiano gli astri. D'altra parte però, proprio in quelle pagine, Campanella sembra suggerire che, in casi estremi, non c'è via di scampo neppure per gli astrologi stessi». «Come, neppure per chi legge le stelle prima e meglio degli altri? Allora, al volere degli astri non ci si può opporre!» esclamai con un brivido. «Forse sì. O forse no» sorrise ambiguamente Stilone Priàso. «Perché mai, allora, Nostro Signore è venuto in Terra? Se il potere delle sfere celesti sovrasta ogni cosa» e tremai mentre udivo me stesso parlare così «non esiste la Redenzione». «Cosa diresti se ti raccontassi che persino al Santissimo Salvatore» rise Stilone Priàso per nulla turbato «è stata fatta la genitura?» E mi spiegò che a cimentarsi con l'oroscopo di Nostro Signore si dedicarono dapprima schiere di dotti dal nome glorioso come Alberto Magno, Pierre d'Ailly o Albumasar. Poi al blasfemo trastullo si diedero ingegni via via più bassi: tra essi il pur ottimo Girolamo Cardano, ma anche qualche insignificante prelato di campagna. «E cosa mai si legge nell'oroscopo di Cristo?» «Non poco, credimi. La sua genitura è tra le più mirabili. Secondo Girolamo Cardano, la cometa che appare alla sua nascita significa infatti lo splendore eterno della fama; Giove significa Imprimatur - Monaldi & Sorti
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il suo accostumarsi in guisa dolcissima, l'esser giusto e mansueto; la Spiga della Vergine dona poi grazia, eloquenza e preveggenza; l'ascendente infine, che congiunge i capi della Bilancia dell'ottava e nona sfera, e il punto d'Equinozio autunnale conferiscono all'intero quadro divina eccezionalità. Secondo Campanella, invece, il quadro astrale del Messia non sarebbe poi così unico come altri lo presentano. Anche perché a essere ancor più eccezionale era, secondo Campanella, il suo proprio oroscopo». «Il suo? Campanella si poneva al di sopra di Cristo?» «Più o meno. L'Inquisizione lo accusò d'atteggiarsi a Messia, poiché sosteneva di aver la stessa singolare posizione dei pianeti di Gesù al momento della nascita». «E l'accusa era giusta?» «Sì e no. Era falsa perché giammai Campanella, per quel che ne so, si spacciò per profeta. Era in parte vera, perché egli aveva commesso l'errore di lasciarsi sfuggire, anche in prigione, che la presenza di sette pianeti sull'ascendente (molti Re e Imperatori non ne avevano più di tre) era cosa talmente eccezionale che, come gli avevano assicurato astrologi ebrei e tedeschi, egli sarebbe presto asceso alla Monarchia del Mondo. Una previsione un po' audace, non credi?» «Come finì?» «In modo molto diverso dalle aspettative di Campanella. Passò lunghi anni in carcere a causa delle sue affermazioni. Fu Urbano VIII ad alleviargli la prigionia, per servirsi delle sue arti astrologiche. Si stavano diffondendo infatti le previsioni dell'abate Morandi sulla sua imminente morte, e il Papa aveva paura». «Quindi anche Urbano VIII credeva all'astrologia, che tanto combatteva!» «Ma certo! T'avevo pur detto che tutti, ma davvero tutti, e in ogni tempo hanno reso omaggio a Madama Astrologia» ridacchiò ancora Stilone Priàso. «Perfino Galileo, quando aveva bisogno di soldi, s'abbassava a calcolare qualche ascendente». 284/703
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Papa Barberini, riprese allora il racconto, quando la predizione della sua morte cominciò a scivolare di bocca in bocca, cadde preda del terrore più nero. Mentre ostentava pubblicamente disprezzo per le previsioni dell'abate Morandi, convocò segretamente Campanella chiedendogli tremante di scongiurare la minaccia. Il domenicano s'industriò come potè: mediante l'aspersione di aromi e profumi contro gli effluvi malefici, facendo indossare al Pontefice vesti candide che scongiurassero gli effetti delle eclissi, accendendo fiaccole che simboleggiavano i sette pianeti e così via. «La fortuna sembrava dapprima dalla parte di Campanella. Il pericolo venne scongiurato e, morto l'abate Morandi, il domenicano avrebbe potuto finalmente godere della riconoscenza papale. Invece la sua cattiva stella colpì ancora: qualcuno lo tradì e così, almeno in questo, Campanella eguagliò Gesù Cristo. A sua insaputa venne spedito in Francia, al suo stampatore abituale, un suo manoscritto riservato: il De Fato Siderali vitando. I traditori erano due domenicani, assai invidiosi delle voci secondo cui il loro confratello sarebbe asceso fino alla carica di consultore del Santo Uffizio. Lo stampatore francese cadde nel tranello: credette che Campanella (il quale negli ultimi anni aveva passato più tempo in prigione che in libertà) non avesse potuto allegare al trattatello una lettera d'accompagnamento. Il De Fato Siderali vitando venne pubblicato». «Ma questo De Fato Siderali vitando non è il libro che insegna a scansare gl'influssi maligni delle stelle?» «Appunto, e per Campanella fu l'ennesima rovina. Nel libro erano descritte minuziosamente le pratiche apotropaiche a cui Campanella aveva sottoposto il Papa. Cerimonie di cui da lungo tempo si vociferava a Roma, e di cui nessuno aveva le prove, ma che secondo molti celavano riti demoniaci. Il De Fato sembrava fatto apposta per sabotare la Santa Sede. Per placare lo scandalo e l'ira del Papa, Campanella dovette in fretta e furia far uscire un altro libello, in cui cercava di dimostrare che tali Imprimatur - Monaldi & Sorti
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rituali non erano superstiziosi né compromessi col Demonio, ed erano spiegabili secondo i criteri della filosofia naturale e dell'esperienza dei sensi. Alla fine però il domenicano dovette fuggire in Francia, dove trovò riparo dalle persecuzioni e potè insegnare alla Sorbona. La Regina, anzi, gli chiese di calcolare l'oroscopo del Delfino appena nato». «Cioè Luigi XIV?» «Appunto. Per fortuna Campanella non sbagliò l'ultima predizione importante della sua vita. Disse che il futuro Re avrebbe regnato a lungo, con durezza e tuttavia con successo. Proprio ciò che è accaduto. Ma ora è meglio che m'interrompa. Mi sta tornando, grazie al Cielo, un po' di sonno». Era l'alba. Salutai con silenzioso sollievo la fine di quel colloquio. Mi rimproverai ancora una volta d'averlo io stesso inizialmente esortato. Non solo, infatti, non avevo scoperto un bel nulla né sull'avvelenamento di Mourai, né sul furto delle mie perline; ma al termine di tale lungo trattenimento le mie idee erano ancor più vacillanti di prima. Mi chiedevo se il mio desiderio d'entrare nel novero dei gazzettanti non fosse foriero di troppi pericoli: l'eccessiva vicinanza con personaggi simili all'abate Morandi, che affidava le sue previsioni a gazzette e avvisi, esponeva al rischio d'essere confuso con un astrologo, o magari con un negromante o un eretico. Allo stesso tempo il petto mi s'empì di giustificata collera: era giusto essere puniti, com'era accaduto all'abate di Santa Prassede, per un peccato a cui i porporati e gli stessi Pontefici sembravano indulgere? Se l'astrologia era solo un trastullo innocente, un delirio figlio dell'ozio, perché mai un tale accanimento contro Morandi e Campanella? Se, al contrario, era un peccato degno di grave castigo, com'era possibile che tanta parte della Corte di Roma v'avesse avuto a che fare? Ma assai difficilmente avrei potuto mettere alla prova di persona la scienza dei pianeti e delle costellazioni. Per redigere 286/703
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la mia genitura sarebbe stato necessario disporre proprio di ciò che a me, trovatello, non si sarebbe mai potuto dare: una data e un'ora di nascita.
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Giornata quinta. 15 settembre 1683
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opo aver lasciato Stilone Priàso ero tornato, stremato, nella mia camera. Ignoro donde m'era allora giunta la forza per aggiornare il mio diario, ma v'ero riuscito. Scorsi quindi indietro le pagine già riempite. Ricapitolai sconsolatamente gli esiti delle timide indagini che avevo condotto presso i pigionanti del Donzello: cos'avevo scoperto? Praticamente nulla. Ogni occasione s'era rivelata un falso allarme. Avevo appreso fatti e circostanze che con la triste fine del signor di Mourai avevano assai poco a che vedere, e che anzi spesso m'avevano gettato vieppiù nella confusione d'idee. Ma cosa sapevo infine di Mourai?, mi chiesi mentre, ancora allo scrittoio, m'accasciavo lentamente su un braccio. Avviluppati nella coltre del sonno, i pensieri rotolavano lontano, ma non si davano per vinti. Mourai era francese, vecchio e malato, e la sua vista era ormai debolissima. Aveva tra i sessanta e i settant'anni. Veniva accompagnato dal giovane musico francese Devizé e da Pompeo Dulcibeni. Sembrava d'estrazione assai elevata e di condizione più che agiata. Il che contrastava non poco con le sue pessime condizioni di salute: era come se avesse dovuto sopportare in passato lunghi patimenti. E poi, perché mai un gentiluomo da par suo era sceso al Donzello? Sapevo da Pellegrino che il rione Ponte, dove si trovava la nostra locanda, non era ormai da tempo il quartiere dei grandi alberghi, che ora invece si trovava presso piazza di Spagna. 288/703
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Soggiornare al Donzello era cosa forse più adatta a chi dispone di scarsi denari. Oppure a chi vuole evitare d'avere vicini di lignaggio elevato: ma perché? Mourai, inoltre, non era mai uscito dalla locanda se non all'imbrunire, e solo per brevissime passeggiate nei dintorni: di certo non oltre piazza Navona, o piazza Fiammetta... Piazza Navona, piazza Fiammetta: a quel punto le tempie presero a battermi dolorosamente e, sollevatomi con grande sforzo dalla seggiola, mi lasciai cadere come un fantoccio sul mio giaciglio. Nella stessa posizione mi risvegliai il mattino seguente, a giorno fatto. Qualcuno aveva bussato alla porta. Era Cristofano, adirato perché a quell'ora non avevo ancora messo mano ad alcuna delle mie incombenze. Mi levai a sedere sul letto con estrema indolenza, dopo pochissime ore di sonno. Nei calzoni avvertii la gazzetta d'oroscopi che i corpisantari avevano trafugato a Stilone Priàso. Ero ancora sotto l'effetto degli eventi straordinari della notte appena trascorsa: il tragitto pieno d'incertezze e di sorprese nei sotterranei, il pedinamento di Stilone e da ultime le terribili vicende dell'abate Morandi e di Campanella, che il napoletano m'aveva narrato nelle ultime ore prima dell'alba. Tale rigogliosa messe d'impressioni dei sensi e dello spirito era ancora in me ben viva, nonostante la stanchezza che mi pervadeva, quando aprii pigramente il volumetto. Fors'anche a causa di un potente mal di capo, non resistetti alla tentazione di distendermi di nuovo; almeno per qualche minuto, pensai. E mi posi a scorrere il libretto. Vi si leggeva dapprima una lunga e dotta dedica a un tal ambasciatore Buonvisi, e poi un'altra non meno forbita prolusione rivolta al lettore. V'era poi una tavola intitolata Calcolo dell'ingresso del Sole, la quale pure omisi. Finalmente trovai un Discorso generale sopra l'anno 1683: Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Principierà conforme l'vso della Santa Chiesa C. Romana in Venerdì, il dì primo di Gennaio, e secondo l'antico stile Astronomico, quando il Sole averà scorso tutto il giro de' dodici segni del Zodiaco, e che ritornerà di nuovo al primo limite del segno d'Ariete, perchè, Fundamentum principale in revolutionibus annorum mundi et introitus Solis in primum punctum Arietis. Quindi è che per mezzo del sistema Ticonico...
Abbandonai spazientito tanto sfoggio di astronomica sapienza. Lessi più oltre che nel corso dell'anno vi sarebbero state quattro eclissi (delle quali però nessuna osservabile dall'Italia); e poi una tabella con un mucchio di numeri a me del tutto oscuri, intitolata «Ascensione retta della figura celeste dell'Inverno». Ero scoraggiato. Tutto mi sembrava oltremodo complicato. Ero solo alla ricerca di qualche previsione sull'anno in corso, e in più non avevo molto tempo. Finalmente trovai un titolo promettente: Lunazioni e Combinazioni e altri Aspetti dei Pianeti per tutto l'anno 1683. Ero approdato finalmente a congetture dettagliate, divise per stagioni e per mesi, che toccavano tutto l'anno. Scorsi le pagine fino a trovare, finalmente, le quattro settimane di settembre: Dispone dell'Ottava casa Saturno, che minaccia anco i vecchi a pericoli di vita.
Rimasi turbato. Quella predizione si riferiva alla prima settimana del mese, ma certo era che, appena qualche mattina appresso, il vecchio Mourai era misteriosamente defunto. Scorsi rapidamente in cerca della seconda settimana, visto che Mourai era morto l'11, e ben presto arrestai lo sguardo: Circa a' mali, dispone della Sesta casa Giove che cercherà di dare la salute a molti infermi; ma però Marte in segno igneo opposto alla Luna dimostra volere travagliare molti per febbri maligne, e morbi velenosi, poiché sopra tal positura fu scritto Lunam opposito Martis morbos venenatos inducit, sicut in signis igneis, terminaturque cito, & raro ad vitam. Dispone dell'Ottava casa Saturno, che molto l'età senile minaccia.
Non solo aveva chiaroveduto che gli anziani erano minaccia290/703
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ti nuovamente da Saturno, azzeccando in pieno la morte del signor di Mourai, ma aveva anche previsto il travaglio che il mio padrone e Bedfordi avrebbero patito per «febbri maligne e morbi velenosi». Senza contare che l'accenno al veleno interessava forse più di tutti l'anziano francese. Tornai indietro di qualche riga e ripresi la lettura della prima settimana, ben intenzionato a non staccarmene quand'anche Cristofano fosse venuto nuovamente a bussare. L'emergenze che si vanno scrutinando dallo stato degli astri in questa settimana, ci saranno mandate da Giove come signore della casa regia, che per ritrovarsi nella Quarta casa col Sole e Mercurio cerca con bell'astuzia di mettere allo scoperto un occulto tesoro; il medesimo Mercurio fortunato da Giove in segno terreo, significa scaturamento di fuochi sotterranei, e tremuori con terrori, e spaventi del genere humano; onde per ciò fu scritto: Eo item in terrae cardine, & in signo terreo fortunatis ab eodem cadentibus dum Mercurius investigat eumdem, terraemotus nunciat, ignes de terra producit, terrores, & turbationes exauget, minerias & terrae sulphura corrumpit. Saturno nella Terza casa, signore della Settima, promette gran mortalità per mezzo di battaglie, e assalti dati alle Città, e per essere in quadrato a Marte dimostra resa di piazza considerabile, e ciò vuole Ali, e Leopoldo Austriaco.
Pur con qualche difficoltà (tra cui i dotti richiami ai maestri della dottrina astrologica), riuscii a capire. E di nuovo rabbrividii. Infatti, nella predizione della «scoperta di un occulto tesoro e dello scaturamento di fuochi sotterranei e terremoti con terrore e spavento del genere humano» riconobbi inequivocabilmente i più recenti accadimenti nel Donzello. Cos'era l'«occulto tesoro» che sarebbe venuto alla luce ai primi del mese, se non le enigmatiche lettere nascoste nello studio di Colbert e trafugate da Atto appena prima della morte del ministro, avvenuta appunto il 6 settembre? Tutto sembrava chiarissimo, e tremendo nella sua ineluttabilità. Oltretutto, la data del decesso di Colbert, che certo non era morto giovane, coincideva con le «minacce di vita per i vecchi» di cui parlava la gazzetta. Anche i «terremoti e fuochi sotterranei» m'erano familiari. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Non potei non pensare infatti al rombo che all'inizio del mese avevamo sentito provenire dalla cantina. Il tremendo rimbombo ci aveva fatto temere l'arrivo di un terremoto, mentre per fortuna aveva lasciato dietro di sé solo una crepa nel muro delle scale al primo piano. Ma era mancato poco che al signor Pellegrino venisse un colpo. E che dire della «gran mortalità per mezzo di battaglie, e assalti dati alle Città», come hanno preveduto «Ali e Leopoldo Austriaco«? Chi non avrebbe riconosciuto qui la battaglia contro il Turco e l'assedio di Vienna? I nomi stessi dei due grandi Astrologi richiamavano inquietantemente l'imperatore Leopoldo d'Austria e i seguaci di Maometto. M'assalì il timore di leggere più oltre e corsi immediatamente alle pagine precedenti. Mi fermai al mese di luglio, ove, come m'aspettavo, veniva prevista l'avanzata ottomana e l'inizio dell'assedio: Il Sole nella Decima casa significa... sommissioni di popoli, Repubbliche e di vicini a un suo confinante superiore, e ciò vuole Ali...
Fu proprio allora che bussò alla mia porta Cristofano. Nascosi la gazzetta astrologica sotto il materasso e uscii di gran volata. La chiamata del medico era arrivata quasi come una liberazione: la precisione con cui gli eventi sembravano essere stati indovinati dall'autore della gazzetta (e massime quelli tristi e violenti) m'aveva sconvolto. In cucina, mentre preparavo il pranzo e al contempo aiutavo Cristofano nella elaborazione di alcuni rimedi per Bedfordi, continuavo a rimuginare. Mi urgeva l'ansia di capire: mi pareva in qualche modo d'essere prigioniero dei pianeti, e che la vita di tutti noi, al Donzello come a Vienna, s'agitasse vanamente in una fatale strettoia, in un invisibile imbuto che ci avrebbe condotti dove forse non volevamo andare, mentre le nostre accorate e fiduciose preghiere vagavano nell'oblio d'un Cielo nero e disabitato. «Che occhiaie, ragazzo. Sei per caso insonne in queste notti?» domandò Cristofano. «È assai grave dormire poco: se la 292/703
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mente e il cuore non cessano di vigilare, i pori non s'aprono e non lasciano evaporare gli umori corrotti dalle fatiche del giorno». Ammisi che sì, in effetti, non dormivo a sufficienza. Cristofano mi ammonì allora ch'egli non poteva fare a meno dei miei servigi, e particolarmente ora che, col mio aiuto, egli riusciva finalmente a mantenere i pigionanti in perfetta sanità. E invero, aggiunse per incoraggiarmi, tutti quanti avevano elogiato la mia opera d'assistenza. Il medico evidentemente ignorava che non avevo ancora fatto alcun trattamento né a Pompeo Dulcibeni, né al giovane Devizé e nemmeno a Stilone Priàso, col quale avevo pur trascorso quasi un'intera nottata. E che quindi, almeno la salute di questi tre pigionanti era dovuta a madre Natura, e non alle sue terapie. Cristofano però intendeva fare di più: s'accingeva ad approntarmi un preparato per dormire. «Tutta l'Europa lo ha sperimentato migliaia di volte. Giova al sonno e alla maggior parte delle infermità intrinseche del corpo, oltre che sana qualsivoglia sorte di piaghe. Se ti volessi raccontare qui i miracoli che ho fatti con esso, non mi crederesti» m'assicurò il toscano. «Si chiama magnolicore ed è fatto anche a Venezia, nella Spezieria dell'Orso, sul campo di Santa Maria Formosa. La preparazione è assai lunga, ma non può venir completata che nel mese di settembre». E con un sorriso tirò fuori dalle sue sacche, il cui contenuto aveva già invaso il tavolaccio della cucina, una buffa boccia d'argilla. «È d'uopo iniziar a preparare il magnolicore in primavera, bollendo venti libbre d'olio comune, con due di vino bianco maturo...». Mentre Cristofano elencava, come al solito con ossessiva minuzia, composizione e miracolose virtù del suo preparato, la mia mente continuava a vagare. «... e ora che è settembre v'aggiungeremo erba balsamina e Imprimatur - Monaldi & Sorti
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una bella quantità della finissima acquavite di padron Pellegrino». Mi ridestai bruscamente dai miei pensieri alla notizia dell'ulteriore saccheggio a fini speziari della cantina del mio padrone. Cristofano s'accorse della mia distrazione. «Ragazzo, cosa t'occupa tanto la mente e il cuore?» Gli raccontai che quella mattina m'ero risvegliato con un triste pensiero: se come affermano alcuni la nostra vita è governata dai pianeti e dalle stelle, allora tutto è vano, comprese le medicine che lo stesso Cristofano tanto s'affannava a preparare. Ma subito mi scusai, giustificando il mio vaneggiamento con la stanchezza. Mi guardò perplesso e con un'ombra d'apprensione: «Non capisco di dove ti siano saltate in mente queste domande, ma non hai vaneggiato. Tutt'altro: io stesso tengo in gran conto l'astrologia. So che molti medici si ridono di questa Scienza, e a essi replico quello che scrisse loro Galeno, e cioè medici Astrologiam ignorantes sunt peiores spiculatoribus et homicidis: i medici ignoranti d'Astrologia sono peggiori di speculatori e omicidi. Senza contare quanto disse Ippocrate, Scoto, e infiniti altri peritissimi scrittori, ai quali m'associo nell'irridere a mia volta i colleghi scettici». Fu così che Cristofano, mentre s'affaccendava a completare secondo ricetta la preparazione del magnolicore, mi riferì che si riteneva persino che la peste nera fosse dipesa da una congiunzione di Saturno, Giove e Marte avvenuta il 24 marzo del 1345, e anche la prima epidemia di mal francioso sarebbe stata causata dalla congiunzione di Marte e Saturno. «Membrum ferro ne percutito, cum Luna signum tenuerit, quod membro illi dominatur» declamò. «Possa cioè ogni cerusico sfuggire di tagliare quel membro, che corrisponde al segno zodiacale nel quale si trova la Luna in tal giorno, specie se offesa da Saturno e Marte che sono i pianeti malefici per la sanità. Esempio: se la genitura del malato prevede esito negativo per una sua certa malattia, il medico può tentare con ragione di 294/703
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salvarlo, curandolo nei giorni che gli astri indicano come i più opportuni». «Dunque, a ogni costellazione dello Zodiaco corrisponde una parte del corpo?» «Certamente. Quando la Luna si trova in Ariete, e ha Marte e Saturno contrari, si devono tralasciare le operazioni da farsi nel capo, faccia, e occhi; in Toro nel collo, collottola, e gola; in Gemelli alle spalle, braccia, e mani; in Cancro al petto, polmone, e stomaco; in Leone al cuore, alla schiena, al fegato; in Vergine il ventre; in Libra gli stinchi, i lombi, l'ombelico e gl'intestini; in Scorpione la vescica, il pettignone, l'osso della schiena, i genitali e il culo; in Sagittario le cosce; in Capricorno le ginocchia; in Aquario le gambe; in Pesci, se non erro, i piedi e i calcagni». Aggiunse poi che il tempo più opportuno per una buona purgazione è quando la Luna si trova in Scorpione o Pesci. Si dovrebbe invece evitare di somministrare una medicina quando la Luna si trova nei segni ruminanti, congiunta a qualche pianeta retrogrado, perché allora il paziente corre il rischio di vomitarla e di patire altre alterazioni nuocevoli. «"Luna ne' segni ruminanti, negl'infermi accidenti stravaganti", come insegnò il dottissimo Ermete. E ciò è valso specie quest'anno, che in primavera e in inverno ha avuto quattro pianeti retrogradi, tre dei quali nei segni ruminanti» concluse. «Ma allora la nostra vita si riduce a una lotta tra pianeti». «No, anzi, questo dimostra che con gli astri, come anche con tutto il resto del Creato, l'uomo può costruire la propria fortuna o la propria rovina. Sta a lui adoprare bene intuizione, intelligenza e saggezza che Iddio gli ha donato». Mi spiegò che, per sua esperienza di medico, gl'influssi planetari indicavano una tendenza, una disposizione, un'inclinazione, giammai una strada obbligata. L'interpretazione di Cristofano non negava l'influenza delle stelle, ma riaffermava il giudizio degli uomini e soprattutto la supremazia della volontà divina. Mi sentii a poco a poco sollevato. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Avevo intanto terminato le mie incombenze. Per il pranzo avevo cucinato un pancotto con farina di riso, pezzetti di storione affumicato, agro di limone e, infine, un'abbondante spolverata di cannella. Ma mancava qualche ora al desinare e così Cristofano mi lasciò libero. Non prima tuttavia d'avermi consegnato una bottiglia del suo magnolicore con l'indicazione di berne appena un goccio e di cospargerne il petto prima di coricarmi, sì da inalarne i vapori salutiferi e godere un buon sonno. «Non dimenticare che è ottimo anche per curar le ferite e ogni dolore. Eccettuate però le piaghe del mal francese che, se unte col magnolicore, provocano acutissimi spasimi».
Stavo risalendo le scale, quando all'altezza del primo piano udii l'eco delle note pizzicate da Devizé: stava nuovamente eseguendo il rondò che tanto mi conquistava e che così mirabilmente sembrava pacificare l'animo di tutti. Giunto al secondo piano udii bisbigliare il mio nome. M'affacciai sul corridoio e intravidi in fondo le calze rosse dell'abate Melani far capolino dall'uscio socchiuso. «Ho bisogno del tuo sciroppo. L'altra volta m'ha fatto un gran bene» scandì a voce sostenuta, temendo che Cristofano fosse nei pressi, mentre a gesti m'indicava freneticamente d'entrare nella sua stanza dove in realtà, anziché la somministrazione d'uno sciroppo, m'attendevano importanti novità. Prima di chiudere l'uscio alle mie spalle, l'abate porse un'ultima volta l'orecchio deliziato all'eco del rondò. «Ah, il potere della musica» sospirò rapito. Si diresse quindi con aria vispa verso lo scrittoio: «Ora a noi, ragazzo. Vedi qui? In queste poche carte c'è più lavoro di quanto tu possa mai immaginare». Era in bella mostra sul tavolo il mazzo di fogli manoscritti che gli avevo visto richiudere con una certa apprensione du296/703
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rante la mia precedente visita. Mi spiegò che stava da tempo scrivendo una guida di Roma per i visitatori francesi, poiché riteneva che quelle al momento in commercio non fossero adeguate alle esigenze dei viaggiatori, né rendessero giustizia all'importanza delle antichità e delle opere d'arte che nella sede del Papato si potevano ammirare. Mi mostrò le ultime pagine che aveva scritto a Parigi, con un calligrafia fitta e minuta. Si trattava di un capitolo dedicato alla chiesa di Sant'Attanasio dei Greci. «E allora?» chiesi interdetto mettendomi a sedere. «Speravo di utilizzare le mie ore di libertà in questo soggiorno a Roma per terminare la mia guida. Stamattina vi stavo appunto mettendo mano, quando ho avuto un'illuminazione». E mi narrò che quattro anni prima, nel 1679, proprio nella chiesa di Sant'Attanasio, aveva avuto un incontro bizzarro e inatteso. Dopo essersi soffermato sulla nobile facciata dovuta a Martino Longhi, si era avviato nell'interno e stava ammirando una bella tela del Trabaldesi in una cappella laterale. All'improvviso, con un moto di spavento, s'avvide della presenza, accanto a sé, di un estraneo. Nella semioscurità scorse un anziano sacerdote, che dal copricapo si poteva riconoscere per un gesuita. Era curvo assai, e preda d'un lieve ma incessante tremito al busto e alle braccia. Si appoggiava a un bastone, ma aveva al fianco anche due giovani servette che lo tenevano sottobraccio e gli alleviavano la pena nel camminare. La barba bianca era ben curata, e le rughe gli avevano scavato con misericordia la fronte e le gote. Gli occhi azzurri e aguzzi come due pugnali lasciavano credere che, anni prima, non gli avessero fatto difetto acutezza d'ingegno e prontezza di parola. Il gesuita aveva fissato Atto negli occhi e con un debole sorriso aveva sentenziato: «Il vostro occhio... sì, è magnetico». L'abate Melani, vagamente inquietato, aveva gettato uno sguardo interrogativo alle due accompagnatrici del vecchio saImprimatur - Monaldi & Sorti
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cerdote. Le giovanette però avevano taciuto, come se non osassero parlare senza il permesso del vegliardo. «L'Arte Magnetica importa molto, in questo vasto mondo» aveva proseguito il gesuita «e se sarai anche maestro nella Gnomonica Catottrica, ovvero nell'Orologiografia Nuova Speculare, potrai risparmiarti ogni Prodromo Copto». Le due servette tacevano costernate, come se l'imbarazzante situazione si fosse già verificata altre volte. «Se poi avrai già intrapreso l'Iter Estatico Celeste» riprese il vecchio con voce chioccia «non abbisognerai di Specule Melitensi o di Scrutini fisicomedici, perché l'Arte Magna della Luce e dell'Ombra, sciolta dalla Diatriba delle Prodigiose Croci e dalla Poligrafia Nuova ti donerà tutta l'Aritmologia, la Musurgia e la Fonurgia di cui avrai bisogno». L'abate Melani era restato in silenzio, immobile. «Ma l'Arte Magnetica non può essere appresa, poiché essa fa parte del naturale umano» aveva poi argomentato il vecchio prelato. «Il Magnete è magnetico. Sì, questo sì. Ma la Vis Magnetica sprigiona anche dai volti. E dalle musiche, e questo tu lo sai». «Mi conoscete, dunque?» aveva chiesto Atto Melani, pensando che il vecchio sapesse ch'egli era stato cantante. «Il Magnetico Potere della musica, tu lo vedi nelle Tarantole» proseguì invece lo sconosciuto come se Atto non avesse parlato. «Esso può guarire il tarantolato, e può guarire molto altro. Hai capito?» E senza che Atto avesse il tempo di rispondere, il vecchio cedette a una sorda risata, che lo scuoteva dal di dentro in un crescendo di spasimi. Il tremito lo percosse poderosamente da capo a piedi, e le giovani accompagnatrici dovettero reggerlo forte per impedirgli di perdere l'equilibrio. Il folle scoppio d'ilarità pareva a tratti confinare con la sofferenza, e deformò mostruosamente i tratti del suo viso mentre le lacrime gli scorrevano copiose. «Ma attento» proseguì stentatamente il gesuita nel suo vani298/703
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loquio «il Magnete s'annida anche nell'Eros, e da lì può sgorgare il peccato, e tu hai l'occhio magnetico, ma il Signore non vuole il peccato, il Signore non vuole!» e alzò il bastone cercando goffamente di colpire l'abate Melani. A questo punto le due servette lo avevano fermato, e una delle due lo aveva calmato conducendolo verso l'uscita della chiesa. Alcuni fedeli, distratti dalla preghiera, guardavano incuriositi la scena. L'abate aveva fermato una delle due giovani: «Perché è venuto da me?». La ragazza, vincendo la timidezza dei semplici, aveva spiegato che il vecchio s'accostava spesso a sconosciuti e li importunava con le sue elucubrazioni. «È tedesco. Ha scritto molti libri, e ora che non è più in sé ne ripete continuamente i titoli. I suoi confratelli se ne vergognano, confonde spesso i vivi con i morti, e loro lo fanno uscire di rado. Ma non è sempre in questo stato: io e mia sorella, che solitamente lo accompagniamo nelle passeggiate, lo troviamo alle volte del tutto rinsavito. Scrive persino lettere, che consegna a noi da spedire». L'abate Melani, inizialmente irritato dall'aggressione del vecchio, era stato infine intenerito da quella storia pietosa. «Come si chiama?» «Lo conoscono in tanti a Roma. È padre Athanasius Kircher». La sorpresa ebbe il potere di scuotermi da capo a piedi. «Kircher? Ma non era lo scienziato gesuita che diceva di aver trovato il segreto della peste?» esclamai infervorato, ricordando che di Kircher avevano discusso animatamente i pigionanti della locanda all'inizio della nostra prigionia. «Esatto» confermò Atto. «Ma forse è il momento che tu sappia chi era veramente Kircher. Altrimenti non comprenderesti il resto della faccenda». E fu così che finalmente Atto Melani mi aiutò a capire quanto splendente fosse stato un tempo l'astro di Kircher e della Imprimatur - Monaldi & Sorti
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sua infinita dottrina, e perché per lunghi anni di ogni sua parola si fosse fatto tesoro come del più saggio degli oracoli. Era il padre Athanasius Kircher giunto a Roma per invito di papa Urbano VIII Barberini, che dalle Università di Vurzberga, Vienna e Avignone aveva sentito riferire cose mirabili della sua erudizione. Parlava ventiquattro lingue, di cui molte apprese dopo aver trascorso lunghi periodi in Oriente, e a Roma aveva condotto con sé grande copia di manoscritti arabici e caldei, con una vastissima esposizione di geroglifici. Conosceva poi approfonditamente Teologia, Metafisica, Fisica, Logica, Medicina, Matematica, Etica, Ascetica, Giurisprudenza, Politica, Interpretazione delle Scritture, Controversia, Teologia morale, Retorica e Arte combinatoria. Nulla è più bello della conoscenza del Tutto, soleva dire egli, e infatti con tutta umiltà e ad maiorem Dei gloriam aveva rivelato i misteri della Gnomonica, della Poligrafia, del Magnetismo, dell'Aritmologia, della Musurgia e della Fonurgia, e grazie ai segreti del Simbolo e dell'Analogia aveva rischiarato i caliginosi enigmi della Cabala e dell'Ermetismo, riducendoli alla Misura Universale della Sapienza Prima. Compiva poi straordinarie esperienze su congegni e meravigliose macchine di sua invenzione, riunite nel museo da lui fondato nel Collegio Romano, tra cui: un orologio azionato da una radice vegetale che segue il cammino del Sole; una macchina che trasforma la luce di una candela in forme meravigliose di uomini e animali; e infine innumerevoli macchine catottriche, cistule parastatiche, veli mesoptici e tavole sciateriche. Il dottissimo gesuita si gloriava poi giustamente d'aver inventato una lingua universale con cui si può comunicare con chiunque in tutto il mondo, così chiara e perfetta che il vescovo di Vigevano gli aveva scritto entusiasta assicurando di averla appresa in appena un'ora. Il venerabile professore del Collegio Romano aveva anche rivelato la vera forma dell'Arca di Noè, giungendo a stabilire quanti e quali animali contenesse, in qual guisa al suo interno fossero disposte gabbie, trespoli, mangiatoie e trogoli, e persi300/703
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no ove fossero ubicate porte e finestre. Aveva inoltre dimostrato geometrice et mathematice che se la Torre di Babele fosse stata costruita, essa sarebbe stata così pesante da fare inclinare su un lato il globo terrestre. Ma soprattutto Kircher era scienziato peritissimo di lingue antiche e sconosciute, sulle quali aveva pubblicato molte opere in cui chiariva misteri secolari, tra cui l'origine delle religioni degli antichi, e rendeva per la prima volta intelligibili il cinese, il giapponese, il copto e l'egiziano. Aveva decifrato i geroglifici dell'obelisco Alessandrino che ora stava sulla fontana eretta in piazza Navona dal cavalier Bernini, che l'aveva restaurato proprio seguendo le istruzioni di Kircher. La storia dell'obelisco era forse la più straordinaria che si narrasse sul suo conto. Quando l'enorme reperto lapideo era stato trovato sepolto nelle rovine del Circo Massimo, il gesuita era stato immediatamente chiamato sul luogo del ritrovamento. Pur essendo visibili solo tre delle quattro facce dell'obelisco, aveva previsto quali simboli sarebbero comparsi sul lato ancora interrato. E la previsione si era rivelata esatta fin nei più astrusi dettagli. «Ma quando voi lo incontraste era... come dire...» obiettai a quel punto della narrazione. «Dillo pure: era rimbambito» annuì Atto. Ebbene sì, nei suoi ultimi tempi il grande genio era insenilito. Il suo spirito, spiegò Atto, era svaporato e ben presto il corpo lo avrebbe seguito nella stessa sorte: padre Kircher morì infatti di lì a un anno. «La follia è uguale per tutti, per il Re e per il contadino» sentenziò l'abate Melani, che aggiunse d'aver fatto nei giorni successivi un paio di visite a conoscenti ben introdotti e d'aver avuto conferma della penosa situazione, malgrado i gesuiti cercassero di farla trapelare il meno possibile. «Ma vengo al dunque» tagliò corto l'abate. «Se hai buona memoria, ricorderai che nello studio di Colbert trovai innanzitutto una corrispondenza proveniente da Roma e originariamente indirizzata al Sovrintendente Fouquet, scritta in una Imprimatur - Monaldi & Sorti
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prosa che sembrava d'un ecclesiastico, e in cui si parlava d'una notizia riservata, purtroppo non specificata». «Ricordo, certo». «Ebbene, quelle lettere erano di Kircher». «E come fate a esserne così sicuro?» «Hai ragione a dubitare: ti devo ancora spiegare l'illuminazione che ho avuto oggi, sono ancora emozionato. E l'emozione è ancella del caos, mentre noi abbiamo bisogno di mettere ordine nei fatti. Come forse ricorderai, esaminando le missive avevo notato che una di esse esordiva curiosamente con mumiarum domino, cosa che però lì per lì non capii». «È vero». «Mumiarum domino significa "al padrone delle mummie", e si riferisce di certo a Fouquet». «Cosa sono le mummie?» «Sono le salme degli antichi Egizi contenute nei sarcofagi e preservate dalla corruzione tramite bendaggi e misteriosi trattamenti». «Non capisco ugualmente: perché Fouquet sarebbe "il padrone delle mummie"?» L'abate prese un libro e me lo porse. Era una raccolta di poesie del signor La Fontaine, colui che nei suoi versi aveva esaltato il canto di Atto Melani. Aperse a una pagina ove aveva posto un segnale ed evidenziato alcune righe. Je prendrai votre heure et la mienne. Si je vois qu'on vous entretienne, J'attendrai fort paisiblement En ce superbe appartement Où l'on a fait d'étrange terre Depuis peu venir à grand-erre (Non sans travail et quelques frais) Des rois Céphrim et Kiopès Le cercueil, la tombe où la bière: Pour les rois, ils sont en poussière. …
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Je quittai donc la galerie, Fort content parmi mon chagrin, De Kiopès et de Céphrim, D'Orus et de tout son lignage Et de maint autre personnage.
«È una poesia dedicata a Fouquet. Hai capito?» «Non molto» risposi irritato da quel prolisso e incomprensibile poema. «Eppure è semplice. Céphrim e Kiopès sono due mummie egizie che il Sovrintendente Fouquet aveva acquistato. La Fontaine, ch'era un suo grande ammiratore, ne parla in questa spiritosa poesiola. Ora ti chiedo: chi s'interessava, qui a Roma, dell'antico Egitto?» «Questo lo so: Kircher». «Giusto. Infatti, Kircher aveva studiato personalmente le mummie di Fouquet, recandosi a Marsiglia dove esse erano state appena sbarcate. E poi aveva riportato i risultati dei suoi studi nel trattato intitolato Œdipus Ægiptiacus». «Allora Kircher e Fouquet si conoscevano». «Certo. Ricordo d'aver ammirato nel trattato perfino un bel disegno dei due sarcofagi che Kircher s'era fatto fare da un suo confratello gesuita. L'autore delle lettere e Kircher sono quindi la stessa persona. Ma solo oggi ho ricollegato tutto e ho capito». «Anch'io comincio a capire. In una delle lettere Fouquet viene chiamato dominus mumiarum, cioè "padrone delle mummie", perché ha acquistato i due sarcofagi citati da Kircher». «Bravo, sei arrivato al punto». La situazione, in effetti, era bell'e complicata. In breve, l'abate Melani aveva compreso che Kircher era stato in contatto con il Sovrintendente Fouquet per via delle mummie che quest'ultimo aveva acquistato a Marsiglia e poi portato con sé a Parigi. Forse incontrandolo di persona, o forse per altre vie, Kircher aveva confidato a Fouquet un segreto. Di esso però nella corriImprimatur - Monaldi & Sorti
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spondenza tra i due che Atto Melani aveva trafugato a casa di Colbert non c'era spiegazione, ma solo accenni. «Allora siete venuto a Roma non solo per indagare sulla presenza di Fouquet, ma anche per capire quale fosse il segreto di quelle lettere». Vidi l'abate Melani farsi pensieroso, come al balenare d'un pensiero sgradito. «Inizialmente no. Ma ora non posso negare che la faccenda si fa assai intrigante». «E non siete venuto alla locanda del Donzello del tutto casualmente, vero?» «Bravo. Come lo hai capito?» «Ci ho riflettuto un po'. E poi mi è venuto in mente che, secondo le lettere che avete trovato, il Sovrintendente era stato visto dalle spie di Colbert a piazza Fiammetta, presso la chiesa di Sant'Apollinare e a piazza Navona. Sempre a due passi da noi». «Bravo ancora. Avevo intuito subito le tue doti». Fu allora, incoraggiato da quell'apprezzamento, che osai. Quando feci la domanda la voce mi tremò un poco. «Il signor di Mourai era Fouquet, vero?» Atto Melani tacque, poiché il suo volto era già una risposta. A tale muta ammissione seguirono, ovviamente, le mie spiegazioni. Come avevo capito? Non sapevo dirlo neppure io. Forse era stato solo il concorso di più fatti, di per sé insignificanti, a mettermi sulla strada. Fouquet era francese, e Mourai anche. Mourai era vecchio e malato, e la sua vista era ormai debolissima. Dopo quasi vent'anni di prigione, anche il Sovrintendente era certo in identiche condizioni. L'età di entrambi era la stessa: circa sessant'anni, forse quasi settanta. Mourai aveva un giovane accompagnatore, il signor Devizé, che però non conosceva l'Italia quanto il proprio Paese e inoltre non s'intendeva che di musica. Un fuggitivo aveva bisogno d'una guida più esperta dei casi della vita: e questi poteva ben essere Pompeo 304/703
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Dulcibeni. L'anziano gentiluomo, infatti, sembrava mostrare in talune sue osservazioni (il prezzo dei tessuti a Roma, la tassa sul macinato, i rifornimenti di cibo dall'Agro romano) ottima familiarità con i commerci e la mercatura. E non era tutto. Se davvero Fouquet era nascosto o di passaggio a Roma, verosimilmente non si sarebbe allontanato molto dal suo alloggio. E se fosse stato ospite della nostra locanda, dove mai avrebbe fatto due passi all'imbrunire, se non a piazza Navona o a piazza Fiammetta, passando davanti a Sant'Apollinare? Inoltre, come avevo pur confusamente intuito già quella mattina sul mio giaciglio, soggiornare al Donzello era una mossa forse più adatta a chi non dispone di molta pecunia; infatti il nostro rione, che una volta ospitava le migliori locande, era ormai in inesorabile decadenza. Ma l'anziano francese non dava affatto l'impressione d'esser a corto di pecunia, anzi. Probabilmente, quindi, voleva evitare d'incontrare gentiluomini suoi pari. Francesi, forse, che anche dopo molto tempo potevano riconoscere un volto noto come quello del Sovrintendente. «Ma perché non mi avete detto la verità?» chiesi con voce alterata al termine del mio ragionamento, mentre cercavo di reprimere l'emozione. «Perché non ci era ancora indispensabile. Se ti dicessi sempre tutto quello che so ti verrebbe il mal di testa» rispose sfrontatamente. Poi però lo vidi mutar d'animo e commuoversi. «Ho ancora molto da insegnarti, tranne che a fare deduzioni» disse turbato. Per la prima volta fui certo che l'abate Melani non simulava, ma anzi rivelava tutta la propria pena per il triste destino dell'amico. Così, trattenendo talvolta con fatica le lacrime, egli mi disse che non era venuto a Roma solo per indagare se la segnalazione della presenza di Fouquet fosse vera, e quindi per stabilire se fossero state diffuse ad arte voci false per turbare il Re Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Cristianissimo e la Francia tutta. L'abate Melani aveva infatti affrontato il lungo viaggio dalla Francia all'Italia covando la speranza di poter rivedere l'amico d'un tempo, del quale serbava ormai solo dolorosi e lontani ricordi. Se veramente Fouquet si trovava a Roma, aveva pensato, era certamente in pericolo: lo stesso informatore che aveva segnalato a Colbert la presenza del Sovrintendente nell'Urbe avrebbe presto o tardi ricevuto ordini da Parigi. Gli sarebbe forse stato impartito il comando di catturare Fouquet o, in caso d'insuccesso, di sopprimerlo. Ecco perché Melani, come spiegò egli stesso, era giunto a Roma in preda a un groviglio lacerante di opposti sentimenti: la speranza di rivedere ben vivo l'amico che credeva morto dopo anni di carcere straziante, il desiderio di servire fedelmente il Re e infine il timore, se davvero avesse trovato Fouquet, d'essere coinvolto in ciò che ne sarebbe seguito. «Cosa intendete?» «A Parigi tutti sanno che il Re non ha mai odiato nessuno più del Sovrintendente. E se avesse scoperto che Fouquet anziché essere morto a Pinerolo era vivo e libero, la sua ira si sarebbe certamente scatenata di nuovo». Atto mi spiegò poi che un suo uomo di fiducia, come già altre volte, lo aiutava a tenere nascosta la sua partenza. «È un copista di straordinario talento, e sa imitare a perfezione la mia calligrafia. È un brav'uomo, si chiama Buvat. Ogni volta che mi allontano da Parigi di nascosto, sbriga lui la mia corrispondenza. Mi scrivono da tutte le Corti d'Europa per avere gli ultimi ragguagli, e ai Principi bisogna rispondere subito» disse con vanteria. «E il vostro Buvat come fa a sapere ciò che deve scrivere?» «Alcune notizie di politica, del tutto prevedibili, gliele ho lasciate io prima di partire; le novelle di Corte invece se le procurerà pagando un po' di servitori, che sono il miglior sistema d'informazione di tutta la Francia». Stavo per chiedergli come fosse riuscito a celare la propria 306/703
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partenza anche al Re, ma Atto non si lasciò interrompere. Giunto a Roma, disse, aveva infine rintracciato Fouquet e la nostra locanda. Ma la mattina stessa in cui aveva messo piede al Donzello, colui che ancora chiamavamo il signor di Mourai era tragicamente deceduto. Così l'abate Melani aveva fatto appena in tempo a vedersi morire tra le braccia l'antico benefattore, che in modo così singolare era riuscito a ritrovare. «Ed egli vi ha riconosciuto?» «Purtroppo no. Quando entrai nella sua stanza stava già boccheggiando, gorgogliava cose senza senso. Cercai di rianimarlo con tutte le mie forze, lo scossi per le spalle, gli parlai, ma era già tardi. Nella tua locanda è morto un grande uomo». L'abate Melani distolse lo sguardo, forse cercando di nascondere una furtiva lacrima. Lo udii intonare con voce tremante una struggente melodia: Ma, quale pena infinita, sciolta hai ora la vita.
Non ebbi più parole. Venni sopraffatto dalla commozione, mentre Atto si rintanò in un cantuccio della camera, improvvisamente rinchiuso in se stesso. Richiamai alla memoria le fattezze e i gesti del vecchio Mourai, come l'avevo conosciuto in quei giorni al Donzello. Cercai di sovvenirmi di parole, espressioni, accenti che potessero collegarlo alla grande e sventurata figura del Sovrintendente, così come me l'ero immaginata nei racconti dell'abate Melani. Mi ricordai dell'occhio glauco e ormai spento alla luce, del vecchio corpo pallido e tremante, delle ansimanti labbra screpolate; ma niente, niente che mi potesse riportare alla proverbiale vivacità dello Scoiattolo. O forse sì: ecco che ora mi rammentavo della figura minuta e delicata di Mourai, delle guance scavate ma affatto legnose malgrado l'età. E poi il suo curvo profilo e le mani sottili e nervose... un vecchio scoiattolo, sì, ecco a cosa assomigliava il signor di Mourai. Non più un gesto, non una frase, non un lampo d'occhi: lo Scoiattolo si stava accomodando alla requie eterna. L'ultimo sforzo, l'eImprimatur - Monaldi & Sorti
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strema repentina scalata l'aveva data all'albero della libertà: poteva bastare. Infine, conclusi dentro di me tra le lacrime che silenziose mi sgorgavano a fiotti, cosa importava come fosse morto Fouquet? Era morto libero. L'abate si voltò verso di me, il viso stravolto dalla commozione. «Ora il mio amico siede alla destra dell'Altissimo, tra i Giusti e i Martiri» esclamò con enfasi. «Devi sapere, la madre di Fouquet guardava con apprensione all'ascesa del figliolo, che lo rendeva potente nelle cose del mondo, ma indeboliva la sua anima. E ogni giorno pregava Iddio che mutasse il destino del Sovrintendente e lo avviasse sulla strada del riscatto e della santità. Quando il fedele servitore La Forêt giunse a portarle la funesta notizia dell'arresto, la madre di Fouquet s'inginocchiò colma di gioia e ringraziò il Signore esclamando: "Ora sì che diverrà Santo!"». Atto s'interruppe un attimo per reprimere il nodo alla gola che gli strozzava le parole. «La predizione di quella buona donna» riprese «s'avverò. Secondo un suo confessore, Fouquet, negli ultimi tempi della prigionia, aveva mirabilmente purgato l'anima sua. Pare che avesse scritto anche alcune meditazioni spirituali. Di certo ripeteva spesso nelle lettere alla moglie quanta gratitudine nutrisse per quella preghiera della madre, che era ben contento si fosse esaudita.» L'abate singhiozzò: «Oh, Nicolas! Il Cielo ti ha chiesto il prezzo più elevato, ma ti ha accordato una grande grazia: t'ha sottratto a quel miserrimo destino di gloria terrena che conduce immancabilmente a un vano cenotafio». Dopo aver concesso all'abate e a me stesso ancora qualche minuto per pacarci gli animi, cercai di deviare il discorso: «So che non sarete d'accordo, ma forse è giunto il momento d'interrogare Pompeo Dulcibeni o Devizé». «Nient'affatto» ribatté vivacemente, abbandonando con prestezza ogni traccia della precedente disperazione. «Se quei 308/703
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due hanno qualcosa da nascondere, qualsiasi domanda li metterà sull'avviso». S'alzò a tergersi il viso. Poi frugò tra le sue carte e mi porse infine un foglio. «C'è altro a cui pensare, per il momento: dobbiamo venire a capo degli indizi finora raccolti. Ricorderai che quando mettemmo piede nella stamperia clandestina di Komarek il pavimento era coperto di fogli. Ebbene, ho fatto in tempo a raccattarne un paio. Dimmi se ti ricorda qualcosa».
«Sembra l'inizio d'un altro brano della Bibbia». «E poi?» Me lo rigirai tra le mani: «Anche questo è stampato su un solo lato!». «Giusto. La domanda quindi è: forse che a Roma è iniziata la moda di stampare Bibbie su una sola facciata? Io credo di no: occorrerebbe doppia quantità di carta. E i libri avrebbero doppio peso, e forse anche doppio prezzo». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«E allora?» «E allora queste pagine non sono parte d'un libro». «Cosa sono, allora?» «Un saggio di bravura, per così dire». «Volete dire una prova tipografica?» «Non solo: è l'esempio di ciò che lo stampatore è in grado d'offrire al cliente. Cosa ha raccontato infatti Stilone Priàso ai corpisantari? Komarek ha bisogno di soldi e, oltre al suo umile posto di lavorante nella stamperia della Congregazione de Propaganda Fide, fa qualche lavoretto clandestino. Ma allo stesso tempo cercherà di trovare clienti, per così dire, regolari. Magari ha già chiesto l'autorizzazione per fare il tipografo in proprio. Avrà preparato un campionario per mostrare ai futuri committenti la qualità del suo lavoro. E per mostrare un campionario di caratteri basta una pagina». «Credo che abbiate ragione». «Lo credo anch'io. E te ne do la prova: cosa dice la prima riga della nostra nuova pagina? "Carattere Testo Paragone Corsivo". Non sono un esperto, ma ritengo che "Paragone" sia il nome del carattere tipografico utilizzato in questo testo. Nell'altra pagina, nell'identico punto, leggo "nda"». Probabilmente vi era indicato il nome di qualche scrittura rotonda». «Tutto questo significa che dobbiamo tornare a sospettare di Stilone Priàso?» chiesi in agitazione. «Forse sì, forse no. Ma di certo, per trovare il nostro ladro dobbiamo cercare un committente di Komarek. E Stilone Priàso lo è. Inoltre, il ladro delle tue perline non deve navigare nell'oro, proprio come il nostro gazzettante. Che, infine, è di Napoli, la stessa città dalla quale il vecchio Fouquet era partito alla volta del Donzello. Strano, no? Ma...». «Ma?» «È tutto sin troppo evidente. Chi ha avvelenato il mio povero amico invece è scaltro ed esperto, e avrà provveduto di certo a rendersi insospettabile, a passare inosservato. Puoi immaginare in quei panni un essere perennemente inquieto come 310/703
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Stilone Priàso? Non ti pare assurdo, se fosse lui l'assassino, che vada girando con una gazzetta astrologica sottobraccio? Spacciarsi per astrologo non è certo una buona copertura per un sicario. E tantomeno fare il rubagalline, sottraendo le tue margarite». Già. E, astrologo, Stilone lo sembrava davvero. Riferii ad Atto con quale cupezza e dolore il napoletano m'aveva raccontato la storia dell'abate Morandi. Mentre lasciavo la sua stanza, decisi di fare a Melani la domanda che serbavo da tempo. «Signor Atto, credete o no che vi sia qualche rapporto tra il misterioso ladro e la morte del Sovrintendente Fouquet?» «Non lo so».
Mentiva. Ne ero certo. Mentre, già a letto dopo aver distribuito il pranzo, raccoglievo le idee, sentivo una cortina fredda e pesante calare tra me e l'abate Melani. Egli mi taceva di certo ancora qualcosa, come m'aveva nascosto la presenza di Fouquet nella locanda sotto mentite spoglie, e prima ancora le lettere scoperte nello studio di Colbert. E con quale impudenza m'aveva raccontato la storia del Sovrintendente! Ne aveva parlato come se non lo vedesse da anni, mentre lui e il signor Pellegrino lo avevano visto morire (e soppesai mentalmente la tremenda circostanza) da appena poche ore. Aveva avuto anche la sfrontatezza, poi, di insinuare che Dulcibeni e Devizé nascondessero qualcosa su Mourai, alias Fouquet. Ed era proprio lui a parlare! Quale sacerdote della menzogna, quale virtuoso della simulazione era mai l'abate Melani? Mi maledissi per non aver fatto tesoro delle cose che di lui avevo saputo origliando i discorsi di Cristofano, Devizé e Stilone Priàso. E mi maledissi per la lusinga che avevo provato, allorché egli aveva lodato la mia perspicacia. Ero sommamente irritato, e quindi ancor più voglioso di miImprimatur - Monaldi & Sorti
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surarmi con l'abate per mettere alla prova la mia capacità di antivedere le sue mosse, smascherare le sue omissioni, decifrare i suoi silenzi e rendere inutile la sua facondia. Quasi cullandomi nel sottile e invidioso rancore che provavo per Melani, stracco per la notte insonne dolcissimamente m'addormentai. Allontanai malvolentieri, mentr'ero sul punto di arrendermi al torpore, il pensiero di Cloridia. Per la seconda volta nella stessa giornata mi toccò d'essere svegliato da Cristofano. Avevo dormito quattro ore di fila. Mi sentivo bene, non so se per il lungo pisolino o per merito del magnolicore che avevo provveduto a bere e a spalmarmi sul petto prima di assopirmi. Accertatosi che m'ero ripreso, il medico se ne tornò via tranquillo. Mi ricordai allora di dover completare il giro per la somministrazione dei rimedi contro il contagio. Mi rivestii e presi con me la sacca con i vasetti. Era mia intenzione somministrare dapprima una teriaca stomacale e una decottione siroppata d'iva artetiva a Brenozzi, nonché un suffumigio a Stilone Priàso, e poi scendere al primo piano da Devizé e Dulcibeni. Passai in cucina a scaldare un po' d'acqua nel paiolo. Dal veneziano feci in modo di sbrigarmi assai presto: non tolleravo più che m'interrogasse con la solita sgradevole insistenza, ponendo domande a cui lui stesso forniva immediata e rapidissima risposta e impedendomi d'aprir bocca. E neppure riuscivo più a staccar gli occhi ormai da quel suo disgustoso pizzicarsi le parti basse con irrequieto contrappunto, quale si osserva nei giovinetti che, da poco persa l'innocenza, ma ancor imperiti del vivere, urgono con vane e digitali interrogazioni il loro sedanello. Vidi che non aveva toccato cibo, ma evitai di far domande nel terrore di dare la stura a un altro fiume di parole. Bussai quindi dal napoletano. Mi fece entrare ma, mentre disponevo le mie cose, vidi che anch'egli aveva lasciato intatto il pranzo. Gli chiesi se per caso si sentisse poco bene. «Sai da dove vengo io?» mi chiese per tutta risposta. 312/703
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«Sì signore» risposi perplesso «dal Regno di Napoli». «Ci sei mai stato?» «Ahimé no, non ho mai visitato alcuna città da che sono al mondo». «Ebbene, sappi che con nessuna terra fu giammai sì prodigo il Cielo de' suoi benefici influssi in ogni stagione» cominciò a dire enfaticamente mentre gli preparavo il suffumigio. «Napoli, capitale gentile e popolata delle dodici Province del Regno, siede in riva al mare in guisa di maestoso teatro, circondata a tergo da morbide colline e vaghe pianure. Edificata da una sirena di nome Partenope, gode dalla piana vicina, detta Poggio Reale, d'innumerevoli frutti e purissime fonti e finocchi famosi e di tante sorte d'erbaggi, che quivi può ragionevolmente il ciglio formar archi di stupore. E nella sua fertil spiaggia di Chiaia, come anche sulle colline di Posillipo, si raccolgono cavoli fiori, piselli, cardoni e carciofoli, ravanelli e radici e le più squisite insalate e frutti. E non credo si possa trovar luogo più fertile e dilettoso d'ogni sorta d'amenità delle baldanzose riviere di Mergellina, sol turbate da soavi zefiri, che meritarono di raccogliere le ceneri immortali del gran Marone e dell'incomparabil Sannazzaro». Dunque non del tutto a vanvera, pensai, Stilone Priàso si spacciava per poeta. Egli intanto continuava da sotto il lenzuolo con cui gli avevo coperto il capo, immerso nei vapori balsamici: «Più oltre si trova l'antica città di Pozzuoli, prodiga d'asparagi, carciofoli, piselli e cocuzzoli fuori stagione; e a marzo agresta novellina, con stupore delle genti. E frutti a Procida; e a Ischia lazzarole bianche e rosse e ottimi grechi e fagiani in quantità. A Capri vitelle bellissime e quaglie ottime. Carni porcine a Sorrento, cacciagione a Vico, cipolle dolcissime a Castell'a Mare, cefali a Torre del Greco, triglie a Granatiello, lagrime sul Monte di Somma, detto una volta Vesuvio. E meloni d'acqua e soppressate a Orta, vernotico a Nola, torrone ad Aversa, meloni a Cardito, briccocole ad Arienzo, provole ad Acerra, cardoni a Giugliano, lamprede a Capua, olive a Gaeta, leImprimatur - Monaldi & Sorti
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gumi a Venafro. E trote, vino, olio e cacciagioni a Sora…». Finalmente capii. «Signore, volete forse dirmi che il vostro stomaco gradisce poco il mio vitto?» S'alzò e mi guardò con una punta d'imbarazzo. «È che, a dire il vero, qui non si mangia altro che minestre. Ma non è questo il punto...» disse, trovando a fatica le parole. «Insomma, la tua mania di metter cannella su tutte le sbobbe, brodaglie, fumetti e zuppe finirà per compiere quell'opera di sterminio che ci s'attendeva dalla peste!» e inaspettatamente rise a voce alta. Ero confuso e umiliato. Lo pregai di non farsi udire dagli altri pigionanti. Ma era tardi. Dalla stanza a fianco, Brenozzi aveva già raccolto la protesta di Stilone, e lo sentii ridere sfrenatamente. L'eco s'allargò alla stanza di padre Robleda, e infine tutti e due s'affacciarono. Anche Stilone Priàso aprì la porta, coinvolto nella corale ilarità: ebbi un bel supplicarli di riserrarsi dentro, ma invano. Fui sommerso da un fitto rimpallarsi di battute di scherno e risate, sino alle lagrime, sulla pretesa disgustosità delle mie cucine che, a quanto pareva, solo l'accompagnamento caritatevole delle note di Devizé riusciva a rendere appena digeribile. Persino padre Robleda represse a fatica lo sghignazzo. Nessuno di loro m'aveva ancora confessato la verità, chiarì il napoletano, poiché avevano appreso da Cristofano del risveglio di Pellegrino; contavano quindi sul ritorno del mio padrone e comunque erano ben altre le preoccupazioni di quei giorni. Il recente aumento della dose di cannella aveva però reso la situazione insostenibile. Qui Priàso s'interruppe, scorgendo la mia faccia umiliata e offesa. Gli altri due si richiusero alfine in camera. Il napoletano mi pose una mano sulla spalla. «Suvvia, ragazzo, non avertene a male: la quarantena non giova alla buona creanza». Chiesi perdono per averlo fino ad allora seviziato con la mia cannella, ripresi i vasetti e mi congedai. Ero furioso e infelice, 314/703
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ma decisi per il momento di non darlo a vedere. Scesi al primo piano per bussare da Devizé. Giunto però al suo uscio mi trattenni. Da dietro la porta venivano le note, ancora incerte, del suo strumento. Stava accordando. Poi attaccò una danza, forse una villanella, e poi venne quella che oggi riconoscerei senza difficoltà come una gavotta. Risolsi così di bussare alla porta di Pompeo Dulcibeni, proprio lì accanto: se il gentiluomo fermano si fosse reso disponibile al massaggio avrei potuto al contempo godere degli echi della chitarra di Devizé. Dulcibeni accettò l'offerta. M'accolse come sempre con posa austera e stanca, la voce flebile ma ferma, e l'acuminato occhio glauco. Entra, caro. Appoggia qui la tua sacca». Mi chiamava spesso così, come si dice a un servo. Era l'ospite del Donzello che più mi dava soggezione. Il suo tono, pacato nel rivolgersi agli inferiori, quanto profondamente scevro da calorosità, sembrava sempre sul punto di tradire un'impazienza o un gesto di sprezzo che però mai si manifestavano, ma spingevano il prossimo a contenersi esageratamente in sua presenza e, infine, a tacere. Per questo, credevo, era egli il più solitario di tutti. Mai una volta, ai pasti, m'aveva intrattenuto presso di sé. Non sembrava soffrire la solitudine: tutt'altro. Eppure scorgevo sulla sua breve fronte e le guance arrossate una piega amara profonda, e un tormento, come solo affiora in chi deve portare un peso in solitudine. Unica nota lieta, il suo debole per la buona cucina del mio padrone, che sola gli strappava qualche raro ma genuino sorriso e qualche motto di spirito. Chissà quanto avrà patito anche lui per la mia cannella, pensai, scacciando però subito il pensiero. Ora, per la prima volta, mi trovavo a dover trascorrere in sua unica compagnia un'ora, o forse più, e mi sentivo in grande Imprimatur - Monaldi & Sorti
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imbarazzo. Avevo aperto la sacca e prelevato le boccette che mi servivano. Dulcibeni mi chiese cosa contenessero e come andassero applicate, e finse un cortese interesse per le mie delucidazioni. Gli chiesi poi di scoprirsi schiena e fianchi, e di porsi a cavalcioni della seggiola. Apertosi sul dorso l'abito di color nero e toltasi la sua buffa e vecchia gorgiera, notai che aveva una lunga cicatrice di traverso sul collo: ecco perché, pensai, Dulcibeni non si toglieva mai quell'antiquato collare. Si pose quindi come gli avevo suggerito e iniziai a cospargerlo con gli olii indicatimi da Cristofano. I primi minuti passarono in chiacchiere leggere. Godevamo entrambi dell'eco delle note di Devizé: un'allemanda, poi forse una giga, una ciaccona e un minuetto en rondeau. Riandai con la mente a quanto m'aveva detto Robleda sulle dottrine gianseniste alle quali Dulcibeni sembrava aderire. All'improvviso mi chiese d'alzarsi. Sembrava sofferente. «Vi sentite male? Vi dà forse noia l'odore dell'olio?» «No, no, caro. Voglio solo prendere un po' di tabacco». Girò la chiave del cassettone e tirò fuori tre libriccini d'assai bella rilegatura, in pelle vermiglia e rabeschi d'oro, tutti uguali. Estrasse quindi la tabacchiera, ben fatta, in ciliegio intarsiato. La aperse, prelevò un pizzico di polvere e se lo accostò al naso, inalando con forza due, tre volte. Restò un attimo sospeso, quindi diede in un gran respiro. Mi guardò e abbozzò un'espressione più cordiale. Sembrava pacificato. S'informò con sincero interesse sulle condizioni degli altri pigionanti della locanda. Poi la conversazione tornò a languire. Ogni tanto traeva un sospiro, chiudeva gli occhi e si carezzava brevemente la chioma candida, che una volta doveva essere stata bionda. Guardandolo, mi chiedevo quanto egli conoscesse della vera storia del suo defunto compagno di camera. Non potevo distogliere la mente dalle rivelazioni su Mourai-Fouquet poc'anzi apprese da Atto. Fui tentato di porgli qualche vaga domanda su quell'anziano francese ch'egli (magari senza conoscerne l'iden316/703
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tità) aveva accompagnato da Napoli. E chissà, forse i due s'erano conosciuti qualche tempo prima e magari si erano lungamente frequentati, al contrario di quanto Dulcibeni aveva sostenuto davanti al medico e agli ufficiali del Bargello. Se così era, avevo ben poche speranze di trarne conferma dalle labbra del marchigiano; pertanto, conclusi dentro di me, la cosa migliore restava cercare d'attaccar un discorso qualunque e indurlo a parlare il più a lungo possibile, nella speranza di cavarne qualche utile indizio. Esattamente com'avevo già fatto seppur con scarsi risultati - con gli altri pigionanti. Mi sforzai quindi di sollecitare l'opinione di Dulcibeni su qualche importante accadimento, come si fa per conversare coi vegliardi di cui si ha soggezione. Gli chiesi dunque, profondendomi io stesso in considerazioni, cosa pensasse dell'assedio di Vienna, ov'era in gioco il destino della Cristianità tutta e se credesse che l'Imperatore avrebbe alla fine sconfitto i Turchi. «L'imperatore Leopoldo d'Austria non può sconfiggere nessuno: è scappato» rispose seccamente e poi tacque, lasciando intendere che la conversazione era finita lì. Sperai ugualmente che aggiungesse altri giudizi, mentre cercavo disperatamente dentro di me qualcosa da ribattere per salvare il dialogo. Ma non mi venne nulla, e così calò di nuovo tra noi un pesante silenzio. Allora terminai lesto il mio compito presso di lui e mi congedai. Dulcibeni rimase in silenzio. Stavo per uscire, quando mi venne in mente di porgli un'ultima domanda: non resistevo all'ansia di sapere se anche da lui i miei piatti ricevessero un impietoso pollice verso. «No, caro, affatto» rispose col suo tono tornato stanco. «Anzi, direi che c'è della stoffa in te». Lo ringraziai rincuorato e stavo per richiudermi l'uscio dietro le spalle, quando l'udii aggiungere tra sé e sé con uno strano sibilo, come di ventre: «Se non fosse per le tue brodaglie di sterco e quella dannata cannella. Pomilione d'un servo che non Imprimatur - Monaldi & Sorti
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sei altro!». Mi fu sufficiente. Mai m'ero sentito tanto umiliato. Era pur vero, riflettevo, quanto di me pensava Dulcibeni: avrei potuto farmi in quattro, ma ciò non sarebbe servito a elevarmi d'una sola spanna agli occhi degli altri, neanche di Cloridia, ahimé. Provai un sussulto di rabbia e d'orgoglio. Aspiravo dunque a tanto (fare un giorno il gazzettante) e nel frattempo non ero neanche capace d'innalzarmi da sguattero a cuoco? Mentre così gemevo nell'animo mio dietro all'uscio di Dulcibeni, mi parve d'udire un borbottio. Accostai l'orecchio per meglio intendere, e quale non fu la mia sorpresa nel sentire che Dulcibeni stava conversando con qualcun altro. «Vi sentite male? Vi dà forse noia l'odore dell'olio?» chiedeva premurosa l'altra voce. Rimasi turbato: non era la stessa domanda che avevo posto a Dulcibeni poco prima? Chi mai s'era potuto nascondere nella stanza a origliare? E perché ora le ripeteva? Ma in quelle parole mi fece sobbalzare soprattutto un dettaglio: era una voce femminile. E non era quella di Cloridia. Seguì qualche istante di silenzio. «L'imperatore Leopoldo d'Austria non può sconfiggere nessuno: è scappato!» esclamò d'improvviso Dulcibeni. Anche questa frase l'aveva già detta a me! Continuai ad ascoltare, sospeso tra lo stupore e la paura d'essere scoperto. «Siete ingiusto, non dovreste...» rispose timidamente la voce femminile, dalla timbratura curiosamente flebile e chioccia. «Silenzio!» l'interruppe Dulcibeni. «Se l'Europa salta per aria non avremo che da rallegrarci». «Spero non parliate sul serio». «Ascolta, allora» riprese Dulcibeni in tono più conciliante. «Queste nostre terre sono ormai, per così dire, un'unica grande casa. Una casa che ospita un'unica grande famiglia. Ma che succederà se i fratelli diventano troppi? E che succederà se anche le loro mogli sono tutte sorelle, e i loro figli quindi sono tutti 318/703
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cugini? Litigheranno continuamente, si odieranno, sparleranno gli uni degli altri. Stringeranno alleanze, qualche volta, ma tutte troppo fragili. I loro figli si congiungeranno carnalmente in un osceno festino, e genereranno a loro volta una prole folle, debole e corrotta. In cosa può sperare una famiglia così sciagurata?» «Non so, forse che... giunga qualcuno a pacificarla. E soprattutto che i figli non si sposino più tra loro» rispose incerta la voce femminile. «Ebbene, se il Turco conquista Vienna» ribatté allora Dulcibeni ridendo a denti stretti «forse avremo finalmente sui troni d'Europa un po' di sangue nuovo. Ovviamente, dopo aver visto scorrere a fiumi il vecchio». «Scusate, ma non capisco» s'azzardò timidamente la sua interlocutrice. «È semplice: ormai i Re cristiani sono tutti parenti tra loro». «Come sarebbe, tutti parenti?» chiese la vocina. «Ho capito, ti serve qualche esempio. Luigi XIV, Re Cristianissimo di Francia, è doppiamente cugino di sua moglie Maria Teresa, Infanta di Spagna. Entrambi i loro genitori, infatti, erano fratelli. Questo perché la madre del Re Sole, Anna d'Austria, era sorella del padre di Maria Teresa, Filippo IV Re di Spagna; mentre il padre del Re Sole, Luigi XIII, era fratello della madre di Maria Teresa, Elisabetta di Francia, prima moglie di Filippo IV». Dulcibeni si fermò per qualche istante; prese da un vicino cassettone la sua tabacchiera, e ne mescolò con cura il contenuto mentre continuava il discorso. «I rispettivi suoceri del Re e della Regina di Francia, quindi, sono anche i loro zii carnali. Ora ti chiedo: che effetto farà essere nipoti dei propri suoceri, o, se ti piace di più, generi dei propri zii?» Non resistetti: dovevo assolutamente sapere chi era la donna a cui si rivolgeva Dulcibeni. Come diamine era entrata nel Donzello, nonostante la quarantena? E perché Dulcibeni si riImprimatur - Monaldi & Sorti
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volgeva a lei con tanta foga? Cercai di scostare pian pianino la porta, che uscendo non avevo ben incassato. S'era formato uno spiraglio, e trattenendo il fiato vi accostai l'occhio. Dulcibeni era in piedi, i gomiti appoggiati sul cassettone, e trafficava con la tabacchiera. Mentre parlava si volgeva alla propria destra, verso il muro, dove si doveva trovare l'ospite misteriosa. Purtroppo non potei allungare lo sguardo fino a scorgere la presenza femminile. E se avessi spinto ancora la porta, avrei rischiato di farmi scoprire. Dopo aver inspirato con forza alquante prese dalla sua tabacchiera, Dulcibeni cominciò ad agitarsi e poi a gonfiarsi, come a voler prendere fiato per un'apnea. «Il Re d'Inghilterra è Carlo II Stuart» proseguì. «Suo padre aveva sposato Enrichetta di Francia, una sorella del padre di Luigi XIV. Quindi il Re d'Inghilterra è anch'egli doppiamente cugino sia del Re di Francia che della sua moglie spagnola. I quali, come hai visto, sono doppiamente cugini l'uno dell'altro. E che dire dell'Olanda? Enrichetta di Francia, madre di re Carlo II, oltre a essere la zia paterna del Re Sole era anche la nonna materna del giovane principe olandese Guglielmo d'Orange. Infatti una sorella di re Carlo e del duca Giacomo, Maria, andò sposa in Olanda a Guglielmo II d'Orange, e da quelle nozze è nato appunto il principe Guglielmo III, il quale ha sposato a sorpresa sei anni fa la primogenita di Giacomo, sua cugina carnale. Quattro Sovrani, dunque, hanno mescolato per otto volte uno stesso sangue». Diede una rimescolata alla tabacchiera e la portò al naso. Inspirò con frenesia, come se per lungo tempo fosse stato costretto a privarsi del tabacco. Poi riprese l'arringa, mentre il volto gli era diventato livido e la voce s'era arrochita: «Un'altra sorella di Carlo II andò in sposa a suo cugino, fratello di Luigi XIV. Anche loro mescolarono lo stesso sangue». S'interruppe per un accesso di tosse, portandosi alla bocca un fazzoletto come per dar di stomaco, e s'appoggiò al cassettone. 320/703
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«Ma andiamo a Vienna» ricominciò Dulcibeni con una traccia d'affanno nella voce. «I Borboni di Francia e gli Asburgo di Spagna sono quattro e sei volte cugini degli Asburgo d'Austria. La madre dell'imperatore Leopoldo I d'Austria è sorella di Luigi XIV. Ma è sorella anche del padre di sua moglie Maria Teresa, il re Filippo IV di Spagna, ed è figlia della sorella del padre di suo marito, il defunto imperatore Ferdinando III. La sorella di Leopoldo I ha sposato suo zio materno, cioè sempre Filippo IV di Spagna. E Leopoldo I ha sposato sua nipote Margherita Teresa, figlia dello stesso Filippo IV e sorella della moglie di Luigi XIV. Quindi il Re di Spagna è zio, cognato e suocero dell'Imperatore d'Austria. Quindi tre famiglie di Sovrani hanno mescolato mille volte lo stesso sangue!» La voce di Dulcibeni s'era fatta più alta, e il suo sguardo sempre più stralunato. «Che ne dici?» gridò improvvisamente. «Ti piacerebbe essere zia e cognata di tuo genero?» Con furia rabbiosa spazzò via i pochi oggetti poggiati sul cassettone (un libro e una candela), scagliandoli sul muro e a terra. Nella stanza scese il silenzio. «Ma è sempre stato così?» balbettò finalmente la voce femminile. Dulcibeni riprese la sua severa posa abituale e fece una smorfia sarcastica: «No, mia cara» riprese con fare didascalico. «Nelle lontane origini i regnanti si assicuravano la discendenza facendo sposare i loro rampolli con la migliore nobiltà di feudo. Ogni nuovo Re era la sintesi più pura del sangue più nobile della propria terra: in Francia il Sovrano era il più francese dei Francesi. In Inghilterra era il più inglese di tutti gli Inglesi». Fu a quel punto che, per la troppa curiosità, inavvertitamente persi l'equilibrio, e spinsi la porta. Solo per un miracolo riuscii ad appoggiarmi allo stipite, evitando di rovinare in avanti. Lo spiraglio si era così allargato solo un poco. Dulcibeni non aveva sentito nulla. Sudato e tremante per la paura, gettai uno Imprimatur - Monaldi & Sorti
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sguardo alla destra del gentiluomo marchigiano, là dove si doveva trovare la donna. Dovetti attendere molti minuti per riprendermi dalla sorpresa: invece di una figura umana, al muro c'era solo uno specchio. Dulcibeni parlava da solo. Negli istanti successivi faticai ancor più a tener dietro a quello sfogo parossistico su Re, Principi e Imperatori. Stavo ascoltando un pazzo? Con chi fingeva di parlare Dulcibeni? Forse, pensai allora, era ossessionato dal ricordo di una persona cara (una sorella, una moglie) ora morta. E doveva essere un ricordo ben lacerante, se gli ispirava quella messa in scena triste e inquietante. Mi sentii imbarazzato e intenerito da quello squarcio d'intima e solitaria sofferenza che io, come un ladro, avevo rubato. Notai che, quando ero stato io a sollecitare la sua conversazione su quei temi, Dulcibeni s'era tirato indietro. Aveva preferito, forse, la compagnia d'un morto a quella dei vivi. «E poi?» riprese il marchigiano, mimando la vocina da giovanetta con tono innocente e turbato. «E poi, e poi...» cantilenò Dulcibeni. «Poi ha vinto la brama di dominio, che li ha spinti tutti a imparentarsi con gli altri Sovrani della Terra. Prendi la casa d'Austria. Oggi il suo sì fetido sangue insozza i sepolcri di prodi antenati: Alberto il Saggio, Rodolfo il Magnanimo, e poi Leopoldo il Prode e suo figlio Ernesto I il Ferreo, fino ad Alberto il Paziente e Alberto l'Illustre. Un sangue che già tre secoli fa ha cominciato a marcire, quando ha generato lo sventurato Federico dalle Tasche Vuote, e poi Federico dal Grosso Labbro col figlio Massimiliano I, morti per una miserabile scorpacciata di melone. E proprio da questi due nasce il desiderio insano di riunire tutti gli sconfinati possedimenti asburgici, che invece Leopoldo il Prode aveva saggiamente spartito col fratello. Erano terre che non potevano stare insieme: come se un folle chirurgo volesse costringere nello stesso corpo tre teste, quattro gambe e otto braccia. Per estin322/703
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guere la sua sete di terre, Massimiliano I si sposa ben tre volte: le sue mogli gli portano in dote Paesi Bassi e Franca Contea, ma anche la bazza mostruosa che sfigura il volto dei suoi discendenti. Suo figlio Filippo il Bello, nei brevi ventotto anni di vita, s'annette la Spagna sposando Giovanna la Pazza, figlia ed erede di Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia, nonché madre di Carlo V e Ferdinando I. Carlo V corona e fallisce al tempo stesso il disegno del nonno Massimiliano I: abdica e divide il suo Regno, su cui non tramontava mai il sole, tra il figlio Filippo II e il fratello Ferdinando I. Divide il suo Regno, ma non riesce a dividere il sangue: nei suoi discendenti la follia è ormai inarrestabile, il fratello desidera la sorella, e tutti e due vogliono congiungersi coi loro stessi figli. Il figlio di Ferdinando I, Massimiliano II Imperatore d'Austria, sposò la sorella di suo padre, e dalla sua moglie-zia generò così una figlia, Anna Maria d'Austria, che sposò Filippo II Re di Spagna, suo zio e cugino, in quanto figlio di Carlo V; da tali infauste nozze nacque Filippo III Re di Spagna, che sposò Margherita d'Austria, figlia del fratello di suo nonno Massimiliano II, e da lei ebbe il re Filippo IV e Maria Anna di Spagna, che sposò Ferdinando III Imperatore d'Austria, suo cugino carnale perché figlio del fratello di sua madre, dando alla luce l'attuale Imperatore, Leopoldo I d'Austria, e sua sorella Maria Anna…». Improvvisamente fui preso dal disgusto. Quell'orgia di incesti m'aveva dato le vertigini. L'intreccio stomachevole di matrimoni tra zii, nipoti, suoceri, cognati e cugini aveva del mostruoso. Dopo aver scoperto che Dulcibeni parlava allo specchio, avevo ascoltato distrattamente. Ma alla fine la recondita e lugubre orazione m'aveva a un tempo intrigato e disgustato. Dulcibeni, sovragitato e paonazzo, era rimasto intanto con lo sguardo perso nel vuoto, come se la troppa collera gli strozzasse la voce. «Ricorda» riuscì infine a gemere, rivolto nuovamente alla sua compagna immaginaria «Francia, Spagna, Austria, InghilImprimatur - Monaldi & Sorti
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terra e Olanda: da secoli terre gelose di genti d'opposte stirpi, ora sono aggiogate al dominio d'un'unica stirpe senza terra e senza giuramento. Un sangue autàdelphos, due volte fratello di se stesso, come i figli d'Edipo e Giocasta. Un sangue estraneo alla storia di qualunque popolo, ma che di tutti i popoli detta la storia. Un sangue senza terra e senza giuramento. Un sangue traditore».
Brodaglie di sterco: una volta in cucina, rammentai che con tali parole Pompeo Dulcibeni aveva bollato i miei sforzi culinari conditi di pregiata cannella. Ripresomi dal disgusto che le alte e solitarie considerazioni del gentiluomo marchigiano m'avevano acceso, m'era tornata alla mente la nausea che, senz'avvedermene, avevo io stesso fino ad allora generato negli stomaci dei pigionanti della locanda. Decisi di rimediare. Scesi in cantina. Mi spinsi fino al livello inferiore, assai interrato, e vi trascorsi credo oltre un'ora, buscandomi quasi un malanno a motivo del pungente frescolino che vi regnava sempre. Passai interamente sotto esame quello spazio dal soffitto basso, esplorandone col lume gli angoli più reconditi, là dove non m'ero ancora mai avventurato o soffermato, gli scaffali sino ai ripiani più alti e le casse di neve fin quasi a toccarne il fondo. In un ampio anfratto, celato dietro teorie di orci con vini, olio, e ogni sorta di legumi e semi secchi, frutta candita, verdure in barattolo e sacchi di maccaroni, gnocchetti, lasagne e zeppole, scopersi a riposare sotto ampi teli di iuta, o al fresco tra la neve, gran varietà di carni salate, affumicate, secche e in vaso. Lì il signor Pellegrino aveva messo a conservare, come amante geloso, lingue in pottaggio e porchette di latte, e poi pezzi di varie bestie: animelle di cervo e capretto; trippa di mongana; piedi, rognone e cervella di porco spinoso; zinne di vacche e di capre; linguattole di castrato e cinghiale; pezzi di 324/703
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coscia, di anneccia e camozza; fegato, zampe, collo e scannatura d'orso; fianchetto, costarelle e filetto di capriolo. E scoprii lacerti di lepre, gallo di montagna, pollancotte d'India, pollastro selvatico, pulcini, piccioni, palombelle selvatiche, fagiani e fagianotti, starne e starnotte, beccacce, pavone e pavoncino e pavoncelle, anatra e folaghe, papere, oche, pizzacchere, quaglie, tortore, malvezzi, francolini, ficedole, ortolani, rondanini, cocciarde, passarotti, beccafichi di Cipro e di Candia. Immaginai col batticuore come li avrebbe apparecchiati il mio povero padrone: allessi, arrosti, in zuppe, in sorsichi, allo spiedo, fritti, in pasticcio con o senza sfogli, in arme, in brodi, in morselletti, in crostate, con salse, con aceti, con frutti e trionfi. Attirato dal forte odore di affumicato e alga secca, portai oltre la mia ispezione; e sotto altra neve pressata e altri teli di iuta, come m'aspettavo, serrati in botticelle sotto sale o appesi in piccoli mazzi e in retine a uncini, trovai: agucchie, cappe di San Giacomo, cappe lunghe, cefali, cernie, chiocciole, corbi, dentali, fonghi, gambarelli, gongole, granci, lacce, lamprede, latterini, palaie, lumache, lucci, luvani, merluzzi, lorene, ombrine, patelle, filetti di pesci spada e pesci capone, pesci gallo, pesci rombo, reine, pesci ignudi, ranocchi, sarde, scorfani, sgombri, storioni, testuggini, telline e tenche. In mezzo a tutto quel ben di Dio, avevo finora piena contezza solo di quanto di fresco veniva consegnato dai fornitori ogni qual volta spalancavo loro l'entrata di servizio. La gran parte delle scorte, invece, l'avevo sinora solo fugacemente intravista allorché (ahimé di rado) il mio padrone m'incaricava di prelevare le vivande in cantina, e poi quando vi avevo dovuto accompagnare Cristofano. Mi colse un dubbio: quando e a chi pensava Pellegrino di servire cotante e cotali vivande? Sperava forse di ospitare uno di quei sontuosi cortei di vescovi dall'Armenia che, come ancora si raccontava nel vicinato, erano il vanto del Donzello ai tempi della signora Luigia buonanima? Sospettai che il mio padrone, prima di farsi cacciare dal posto di aiuto scalco, avesse Imprimatur - Monaldi & Sorti
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abilmente lucrato sui rifornimenti alla dispensa del Cardinale. Prelevai una botticella di zinne di vacca e tornai in cucina. Le scrollai dal sale, legai loro i caporelli e le lessai tutte. Dopodiché ne tagliai alquante in fette sottili, infarinate, indorate e fritte con salsa sopra a mio beneplacito. Un altro po' ne stufai a spezzatino con erbette odorose e spezierie, poco brodo grasso, e maritate con ova. Qualcun'altra la feci sottestata in forno con vin bianco, acini d'agresta e sugo di limone, qualche frutto fresco, passarina, pignoli e fette di presciutto. Altre ancora ne ridussi a pezzi, impasticciate con vino cotto e chiuse in pasta frolla con spezie, presciutto e altri salati, e midolla, con brodetto e zucchero. Le restanti le feci un po' lardate con fettarelle di grasso di presciutto e chiodi di garofali, involte in rete e infilzate nello spiedo. Alla fine ero stremato. Cristofano, giunto in cucina al termine del mio lungo lavoro, mi trovò semisvenuto, accoccolato in un bagno di sudore all'angolo del camino. Esaminò e annusò i piatti in fila sul tavolaccio. Mi rivolse uno sguardo paterno e soddisfatto. «Penso io, ragazzo, alla distribuzione. Tu va' a riposare». Sazio dei ripetuti e generosi assaggi che m'ero concesso durante la preparazione, salii le scale fino al sottotetto, ma non mi recai in camera. Seduto sui gradini, godetti non visto del mio meritato successo: durante il consumo del pasto serale, per una buona mezz'ora i corridoi del Donzello echeggiarono di tintinnii, mugolìi e schiocchi di soddisfazione. Un coro di stomaci che tossivano rumorosamente l'aria accumulata decretò infine che si poteva passare a ritirare le stoviglie. Per la rivincita che m'ero preso, sfiorai le lacrime.
Mi apprestai quindi a fare il giro delle camere: non volevo rinunciare a ricevere i complimenti dei pigionanti del Donzello. Appena davanti all'uscio dell'abate Melani però, riconobbi il 326/703
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suo mestissimo canto. Venni colpito dal tono straziante della sua voce, tanto che mi posi all'ascolto: Ahi, dunqu'è pur vero; dunque, dunqu'è pur vero...
Ripeteva la strofa in guisa dolcissima e con sempre nuove e sorprendenti variazioni melodiche. Rimasi turbato da quelle parole, che mi parve d'aver già udito in un tempo e un luogo a me stesso ignoti. Improvvisamente ebbi un lampo: il mio padrone Pellegrino non m'aveva forse riferito che il vecchio signor di Mourai, alias Fouquet, prima di spirare aveva con un ultimo supremo sforzo biascicato una frase in lingua italiana? E ora ricordavo: il morente aveva proferito proprio le parole dell'aria che Atto stava ora intonando: «Ahi, dunqu'è pur vero». Perché mai, mi chiesi, l'anziano Fouquet aveva pronunciato in italiano le sue ultime parole? Rammentai anche che Pellegrino aveva visto Atto, chino sul viso del vecchio, parlargli in francese. Perché allora Fouquet aveva mormorato quella frase in italiano? Intanto Melani proseguiva il suo canto: Dunque, dunqu'è pur vero, anima del mio cor, che per novello Amor tu cangiasti, cangiasti pensiero.
Al termine lo sentii reprimere con fatica i singhiozzi. Combattuto tra imbarazzo e compassione, non osai muovermi né parlare. Provai una fitta di pena per quell'eunuco ormai non più giovane: lo scempio operato sul suo corpo di fanciullo dall'avidità paterna gli aveva donato la Fama, ma lo aveva al contempo condannato a una vergognosa solitudine. Forse Fouquet non c'entrava niente, riflettei. Quella frase, pronunciata dal Sovrintendente in punto di morte, poteva essere semplicemente una stupita esclamazione di fronte al Trapasso; cosa che avevo udito essere affatto rara tra i moribondi. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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L'abate aveva intanto iniziato un'altra aria, e con accenti vieppiù lugubri e angosciati. Lascia speranza, ohimè, ch'io mi lamenti, lascia ch'io mi quereli. Non ti chiedo mercé, no, no, non ti chiedo mercé.
Calcava sull'ultima frase, e la ripeteva all'infinito. Cosa mai lo tormentava, mi chiesi, mentre nel suo sommesso e discreto canto esclamava accorato di non voler chiedere pietà? In quel mentre alle mie spalle sopraggiunse Cristofano. Stava compiendo il giro di visite. «Poveretto» mi sussurrò riferendosi ad Atto. «È preda d'un momento di sconforto. Come tutti noi, del resto, in questa infame reclusione». «Già» risposi pensando al solitario discorrere di Dulcibeni. «Lasciamolo sfogare in pace; passerò a visitarlo più tardi e gli farò bere un infuso calmante». Ci allontanammo, mentre Atto non s'arrestava. Lascia ch'io mi disperi...
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Nottata quinta. Tra il 15 e il 16 settembre 1683
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ro d'umor melanconico assai quando l'abate mi venne a chiamare per scendere nuovamente nei sotterranei. La cena di zinne di vacca aveva sì rinfrancato gli animi dei pigionanti. Ma, ahimé, non il mio, gravato com'ero dal susseguirsi di rivelazioni e scoperte su Mourai e Fouquet, oltre che dai cupi discernimenti di Dulcibeni. E l'applicarmi al mio diarietto non aveva certo migliorato la situazione. L'abate dovette accorgersi del mio cattivo stato d'animo, perché mentre procedevamo non cercò in alcun modo d'animare la conversazione. Anch'egli d'altronde non era della luna migliore, pur se visibilmente più tranquillo rispetto ai disperati lamenti che gli avevo udito gorgheggiare dopo cena. Sembrava soffrire il peso di qualche inconfessata preoccupazione, che lo rendeva a sua volta insolitamente taciturno. Ad agitare la situazione provvidero, com'era intuibile, Ugonio e Ciacconio. I due corpisantari ci attendevano già da alquanto tempo quando li raggiungemmo nel sottosuolo di piazza Navona. «Questa notte dovremo chiarirci un po' le idee sull'urbe sotterranea» annunziò Melani. Tirò fuori un foglio di carta, ove aveva schematicamente tracciato una serie di linee. «Ecco quello che avrei voluto da questi due sciagurati, e che invece dovremo fare per conto nostro».
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Era una pianta sommaria dei sotterranei che avevamo fino ad allora percorso. La prima notte eravamo discesi dalla locanda del Donzello fino allo sbocco sul Tevere, tramite una galleria che Atto aveva indicato con la lettera A. Nella volta della stessa galleria avevamo successivamente scoperto la botola attraverso la quale avevamo imboccato il passaggio che conduceva alle rovine dello stadio di Domiziano, nel sottosuolo di piazza Navona, e che rispondeva alla lettera B. Da piazza Navona, attraverso lo stretto pertugio in cui occorreva chinarsi, s'imboccava il tratto C. Da qui si diramava la lunga curva (individuata dalla lettera E) in cui avevamo seguito Stilone Priàso e che ci aveva portato fino ai sotterranei affrescati, sopra ai quali probabilmente sorgeva il palazzo della Cancelleria. Da qui eravamo sbucati all'arco degli Acetari. Infine da C, sulla sinistra, s'imboccava il tratto D. «Sono tre le gallerie di cui conosciamo l'inizio, ma non la fine: B, C e D. Sarebbe saggio esplorarle prima d'affrontare qualche altro inseguimento. La prima è il braccio di sinistra della galleria che s'imbocca dopo essere saliti dalla botola. Si dirige all'incirca verso il Tevere, ma non sappiamo altro. La seconda galleria è quella che si dirama da piazza Navona, e procede 330/703
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dritto. La terza è la deviazione a sinistra che s'incontra in questa galleria. Cominceremo dalla terza, la galleria D». Avanzammo con passo prudente, finché non raggiungemmo all'incirca il punto ove Ugonio e io avevamo stazionato la notte precedente durante il pedinamento di Stilone Priàso. Atto ci fece fermare per valutare, tramite la pianta, la nostra posizione. «Gfrrrlûlbh» disse Ciacconio attirando la nostra attenzione. A pochi passi da noi giaceva in terra un oggetto. L'abate Melani impose a tutti di stare fermi, e s'avvicinò per primo a esaminare il reperto. Poi ci fece avvicinare. Era un'ampollina di coccio, adagiata per terra, da cui s'erano riversati (ed erano ormai asciutti) prima fiotti, e poi nette stille di rosso sangue.
«Ma quale miracolo» ansimò sfinito l'abate Melani. C'era voluto non poco per calmare i corpisantari, certi che l'ampollina fosse una delle reliquie di cui essi erano perennemente alla ricerca. Ciacconio aveva cominciato a correre a piccoli passi tutt'attorno, gorgogliando freneticamente. Ugonio aveva tentato d'agguantare l'ampollina, e Atto aveva dovuto tenerlo a bada senza lesinare qualche spintone. Alla fine i corpisantari s'erano calmati, e avevamo tutti potuto raccogliere le idee. Non si trattava evidentemente di un vaso col sangue d'un Martire: la galleria D, in cui avevamo rinvenuto l'ampollina, non era né una catacomba né un colombario o altro antico luogo sacro, ricordò l'abate Melani invitando alla calma i due cercatori di tesori. Ma soprattutto, il sangue ch'essa conteneva si era solo da poco seccato, ed era persino colato per terra: apparteneva dunque a un vivente, o a persona morta da poche ore, e non a un Martire vissuto secoli addietro. Atto involse dunque l'ampollina in una fine pezzuola e la infilò nel giustacuore, spazzando con un piede le tracce di liquido nerastro rimaste al suolo. Decidemmo di continuare l'esplorazione: forse più avanti avremmo trovato la spiegazione del mistero. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Melani taceva, ma era sin troppo facile indovinare i suoi pensieri. Ancora un inatteso ritrovamento, ancora un oggetto di cui era difficile decifrare la provenienza. E ancora sangue. Come già la notte precedente, il tragitto sotterraneo mi pareva inclinare progressivamente verso sinistra. «Strano anche questo» commentò l'abate Melani. «Era ciò che meno mi attendevo». Finalmente la galleria pareva riportarsi in superficie. Anziché una scalinata, trovammo questa volta una salita assai dolce. Improvvisamente però si parò dinanzi ai nostri occhi una scala a chiocciola, in gradini di pietra abilmente infissi nel terreno. I corpisantari sembravano aver poca voglia di salire. Ugonio e Ciacconio erano di malumore: dopo aver rinunciato al foglio di Bibbia, s'erano visti soffiare anche l'ampollina. «D'accordo, voi resterete qui finché non torniamo» concesse di malavoglia Melani. Mentre iniziavamo l'ascesa, chiesi all'abate perché si fosse meravigliato che la galleria D, che avevamo appena percorso, curvasse verso sinistra. «È semplice: se hai osservato con attenzione la pianta che ti ho mostrato, avrai notato che siamo quasi tornati al punto di partenza, cioè nei pressi della nostra locanda». Risalimmo lentamente la scala, finché non sentii un rumore secco e l'abate Melani che si lamentava. Aveva picchiato il capo contro una botola. Dovetti aiutarlo a spingere finché le tavole di legno, che erano solo appoggiate, s'alzarono. Mettemmo così piede in un luogo chiuso, dall'aria acre di urina e umida di vapori animali. Ci trovavamo in una rimessa di cavalli. V'era parcheggiata una carrozzella a due ruote, che esaminammo brevemente. Aveva una copertura di pelle protetta da tela incerata, tesa da una montatura di metallo imbellita da pomi di ferro lisci. All'interno, sul tettuccio era dipinto un bel cielo roseo, e i due sedili erano resi confortevoli da una coppia 332/703
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di cuscini. V'era poi una carrozza più ordinaria ma più grande, a quattro ruote, anch'essa con una copertura in vacchetta, presso la quale stavano, silenziosi ma lievemente innervositi dalla nostra presenza, due cavalli un po' vecchi e mal messi. Giovandomi del pur flebile chiarore della lampada, mi affacciai all'interno dell'abitacolo; quivi scorsi, appeso dietro al sedile posteriore, un grosso crocefisso. Dalla lignea croce pendeva una sorta di gabbietta di ferro, che conteneva una sferetta di vetro, all'interno della quale si scorgeva una piccola massa indistinta e brunastra. Anche Atto si era avvicinato per rischiarare l'interno della carrozza. «Dev'essere una reliquia» disse accostando la lampada. «Ma non perdiamo tempo». Tutt'attorno stavano (e per poco non v'incespicai rumorosamente) i secchi per lavare le carrozze, pettini, striglie e brusche. Senz'attardarci oltre il dovuto, individuammo un uscio che conduceva, con ogni probabilità, all'interno di un'abitazione. Saggiai con cautela la porta. Era chiusa. Mi voltai deluso verso l'abate Melani. Anch'egli sembrava esitare. Non potevamo certo pensare di forzare la serratura, rischiando d'essere sorpresi dagl'inquilini e di essere magari doppiamente condannati: per essere sfuggiti alla quarantena e per tentato furto. Era già stata una fortuna non incontrare casualmente qualcuno nella rimessa, pensai, quando all'improvviso scorsi una mano mostruosa e unghiuta posarsi sulla spalla dell'abate Melani. Trattenni miracolosamente un urlo, mentre Melani s'irrigidiva, preparandosi a reagire contro lo sconosciuto che lo attaccava alle spalle. Ordinai a me stesso di afferrare qualcosa un bastone, un secchio, qualsiasi oggetto - per colpire l'aggressore. Troppo tardi: l'individuo fu tra noi. Era Ugonio. Vidi Atto trascolorato per il terrore, tanto che gli venne un forte capogiro e si dovette sedere per qualche miImprimatur - Monaldi & Sorti
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nuto. «Idiota, m'hai quasi ucciso per lo spavento. Ti avevo detto di restare là sotto». «Ciacconio ha snariciato un presenziante. Pretenzia d'essere istruzionato». «Va bene, ora torniamo giù e... ma cos'hai in mano?» Ugonio tese gli avambracci e si guardò interrogativamente entrambe le mani, come se non sapesse a cosa si riferisse Atto. Nella destra però stringeva il crocefisso con reliquia che avevamo visto appeso nell'abitacolo della carrozza. «Rimettilo subito a posto» gli ordinò l'abate Melani. «Nessuno deve capire che siamo entrati qui dentro». «Poi torna giù da Ciacconio e digli che tra poco verremo anche noi, visto che qui sopra pare ci sia poco da fare» aggiunsi indicando la porta. Dopo aver malvolentieri riposto il crocefisso, Ugonio s'avvicinò all'uscio chiuso e accostò il viso alla serratura, curiosando nel piccolo foro. «Che perdi tempo a fare, animale? Non vedi che è chiusa e che dall'altra parte non c'è luce?» lo rabbuffò Atto. «Eventualizzando, la portata si può schiavizzare. Per riuscire più benefice che malefice, benintendo» rispose Ugonio senza scomporsi, tirando fuori come per incanto dal suo lurido pastrano un enorme anello di ferro al quale erano legate decine, anzi centinaia di chiavi delle fogge e delle dimensioni più varie. Atto e io eravamo sbalorditi. Subito Ugonio prese a tastare con felina rapidità quel tintinnante collare. In pochi attimi le sue grinfie s'arrestarono su una vecchia chiave mezzo arrugginita. «Ora Ugonio schiavizza e, per non esser medico da villa, soddisfacendo all'obbligo s'accresce al battezzato il giubilo» disse ridacchiando mentre girava la chiave nella serratura. Il meccanismo s'aprì con uno scatto.
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Più tardi i due corpisantari ci avrebbero spiegato anche quell'ennesima sorpresa. Per avere accesso ai sotterranei della città, essi avevano sovente la necessità di penetrare nel sottosuolo attraverso cantine, fondaci o porte sbarrate da lucchetti e serrature. Per risolvere il problema («e minorando li scropoli per non maggiorar li scrupoli» aveva sottolineato Ugonio) i due s'erano dedicati alla metodica corruzione di decine tra servi, fantesche e camerieri. Ben sapendo che i padroni delle ville o delle case ch'erano in possesso delle chiavi non avrebbero mai e poi mai concesso loro una copia, i due corpisantari avevano barattato con la servitù le copie delle chiavi. In cambio, rifilavano ai servi alcune delle loro preziose reliquie. Certo, con tale traffico Ugonio e Ciacconio avevano badato a non cedere i loro pezzi migliori. Ma a volte avevano dovuto sostenere qualche doloroso sacrificio; per la chiave d'un giardino dal quale si accedeva a una catacomba nei pressi della via Appia, per esempio, avevano dovuto cedere un pregiato frammento della clavicola di San Pietro. Era arduo capire come si sarebbero potuti svolgere tali complicati commerci tra i gorgoglìi di Ciacconio e le circonvoluzioni verbali di Ugonio. Era però certo che i due possedevano le chiavi delle cantine e delle fondamenta dei palazzi di buona parte della città. E le serrature di cui non avevano la chiave venivano spesso aperte con una delle tante altre chiavi più o meno simili. Aperta dunque con la chiave di Ugonio la porta della rimessa, fummo certi di trovarci all'interno d'una casa abitata. Si udivano, resi soffici dalla distanza, voci e rumori provenienti dai piani superiori. Prima di spegnere l'unica lampada ancora accesa, avemmo pochi secondi per gettare attorno un'occhiata. Eravamo entrati in una grande cucina colma di piatti, un caldaro grande, tre altri caldarelli, padelle di ferro, conche, foconi di rame, tielle con manici di ferro, una concolina, varie stufarole e cuccume, scaldaletti e brocche. Tutto l'apparato cuciniero era appeso al muro o custodito dentro una credenza aperta di leImprimatur - Monaldi & Sorti
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gno albuccio e un credenzino, e tutto di assai ottima qualità, come avrei voluto fossero i pochi strumenti di cui disponevo nella cucina del Donzello. Attraversammo il locale badando a non inciampare rumorosamente, magari in qualche tegame appoggiato per terra. Al capo opposto della cucina era un'altra porta, e di qui penetrammo nella stanza successiva. Fummo costretti a riaccendere per qualche attimo la lampada, che coprii prudentemente con la mano. Ci trovammo di fronte un letto con un baldacchino, rivestito d'una coperta di rasetto rigato giallo e rosso. Ai lati, un paio di tavolini di legno e, in un angolo, una sedia senza braccioli di corame consunto. A giudicare da quei vecchi arredi, e da un certo qual sentore di stantio, doveva trattarsi d'una stanza in disuso. Facemmo cenno a Ugonio di tornare indietro per attenderci nella rimessa: in caso di rapida ritirata, due intrusi si sarebbero forse potuti dileguare, mentre in tre ci saremmo sicuramente trovati in maggior impaccio. Anche la stanza appena visitata disponeva di una seconda uscita. Spenta nuovamente la lanterna, tendemmo l'orecchio a quella porta. Pareva che le voci degli inquilini fossero abbastanza lontane da suggerirci di rischiare: aprimmo con delicatezza l'uscio ed entrammo nel locale successivo, il quarto. Ci trovavamo adesso nel vestibolo della casa. Il portone d'ingresso, come potemmo intuire pur immersi quasi completamente nell'oscurità, si trovava alla nostra sinistra. Di fronte a noi, alla fine d'un corridoietto, iniziava una scala a chiocciola, incassata nel muro, che portava al piano superiore. Dall'alto della chiocciola proveniva un incerto chiarore, che ci permetteva appena d'orientarci. Con estrema circospezione ci avvicinammo alla scala. I rumori e i discorsi, che prima intendevamo lontani, sembravano adesso pressoché cessati. Per quanto oggi l'idea mi paia folle e oltremodo audace, Atto cominciò a salire i gradini, e io dietro 336/703
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di lui. A metà della scala, tra piano terra e primo piano, incontrammo uno stanziolino illuminato da un candelabro, con vari e begli oggetti che ci soffermammo brevemente a scrutare. Stupii per la ricchezza dell'arredo, come mai avevo visto prima: dovevamo trovarci in casa d'un agiato signore. L'abate s'accostò a un tavolino intagliato in noce, ricoperto da un panno verde. Levò lo sguardo e scorse alcuni quadri di buona fattura: un'Annunciazione, una Pietà, un San Francesco con Angeli in una cornice di noce bandata d'oro, un altro quadro rappresentante San Giovanni Battista, un quadruccio di carta con cornice di tartaruca e d'oro, e infine un ottangolo di gesso in bassorilievo raffigurante la Maddalena. Vidi un lavamano, mi parve in legno di pero, fatto al tornio con molta arte e abilità. Al di sopra pendeva un piccolo crocefisso di rame e d'oro con croce d'ebano. Completavano il piccolo salottino un tavolinuccio di legno chiaro con i suoi bei cassettini, e due sedie. Saliti pochi altri gradini, raggiungemmo il primo piano, che a prima vista pareva deserto e immerso nel buio. Atto Melani m'indicò i gradini successivi, che portavano ancora in alto, e sui quali la luce cadeva più forte e sicura. Sporgemmo il capo, e vedemmo che nel muro lungo la scala era infatti appeso un candeliere con quattro grandi ceri, al di là del quale si raggiungeva un secondo piano, ove verosimilmente si trovavano in quel momento gl'inquilini. Restammo un poco immobili sulla scala, con le orecchie vigili. Nessun rumore: continuammo a salire. All'improvviso però un rimbombo ci fece sobbalzare. Una porta al primo piano era stata aperta e poi rudemente richiusa, lasciando trapelare, troppo confuse per essere intelligibili, due voci maschili. Udimmo dei passi avvicinarsi gradualmente dalle camere alle scale. Atto e io ci guardammo in preda all'agitazione: con uno scatto salimmo altri quattro o cinque gradini. Qui, oltrepassato il candeliere, trovammo a metà della rampa un secondo stanImprimatur - Monaldi & Sorti
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ziolino, ove ci fermammo sperando che i passi non proseguissero su per le scale, in direzione del nostro momentaneo nascondiglio. Fummo fortunati. Sentimmo chiudere una porta, e poi un'altra, finché non udimmo più i passi, né tantomeno le due voci maschili. Goffamente acquattati nello stanziolino a mezze scale, Atto e io ci scambiammo uno sguardo di sofferto sollievo. Anche qui un candelabro ci regalava una luce sufficiente. Messo da parte il panico e tirato il fiato, ci demmo un'occhiata intorno. Ai muri del secondo stanziolino si mostrava questa volta un'alta e ricca libreria, colma di volumi disposti in buon ordine. L'abate Melani ne prese in mano uno, lo aperse ed esaminò il frontespizio. Era una Vita della Beata Margarita di Cortona, d'ignoto autore. Atto la richiuse subito, riponendola al suo posto. Passarono quindi tra le sue mani il primo volume di un Theatrum Vitae Humanae in otto tomi, una Vita di San Filippo Neri, un Fundamentum Doctrinae motus gravium Vitali Iordani, un Tractatus de Ordine Iudiciorum, quindi una bella edizione di Institutiones ac meditationes in Graecam linguam e infine una grammatica francese e un libro in cui si spiegava L'arte di imparare a ben morire. Dopo aver rapidamente sfogliato anche quest'ultimo curioso volume a sfondo morale, l'abate scosse la testa innervosito. «Cosa cercate?» chiesi con la voce più bassa di cui ero capace. «Ma è chiaro: il padrone. Tutti oggigiorno siglano i loro libri, almeno quelli di valore, con il proprio nome». Diedi quindi manforte ad Atto, e mi passarono rapidamente tra le mani il De arte Gymnastica di Gerolamo Mercuriale, un Vocabularium Ecclesiasticum e una Pharetra divini Amoris, mentre Atto scartò con uno sbuffo le Opere di Platone e un Teatro dell'huomo di Gaspare da Villa Lobos, mentre salutò con sorpresa una copia del Bacco in Toscana di quel Francesco Redi a lui tanto caro. 338/703
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«Non capisco» mi bisbigliò spazientito alla fine della ricognizione «qui c'è di tutto: storia, filosofia, dottrina cristiana, lingue antiche e moderne, libri di devozione, curiosità varie e perfino un po' d'astrologia. Ecco, guarda qui: Gli Arcani delle stelle di un certo Antonio Carnevale, e le Ephemerides Andreae Argoli. Ma su nessun libro il nome del proprietario». Visto che la fortuna era stata fino ad allora dalla nostra parte, e per un soffio non eravamo stati sorpresi dal padrone di casa, stavo per proporre ad Atto di andarcene, quando m'imbattei in un libro, il primo, di medicina. Avevo infatti curiosato in un altro ripiano, e m'era venuto sotto mano un volume del Vallesius, e poi la Medicina Septentrionalis e l'Anatomia pratica del Bonetus, un Antidotario Romano, un Liber observationum medicarum Ioannes Chenchi, un De Mali Ipocondriaci di Paolo Tacchia, un Commentarium Ioannis Casimiri in Hippocratis Aphorismos, una Enciclopedia Chirurgica Rationalis di Giovanni Doleo e molti altri pregevoli testi di medicina, chirurgia e anatomia. Fui colpito, tra l'altro, da quattro volumi di un'edizione in sette tomi delle opere di Galeno, tutti d'assai bella rilegatura, in pelle vermiglia e rabeschi d'oro; gli altri tre non erano al loro posto. Ne afferrai uno, gustando al tatto la pregiata copertina, e lo apersi. Una piccola scritta, posta sulla destra in calce al frontespizio, avvertiva: Ioannis Tiracordae. La stessa cosa, verificai rapidamente, era sugli altri libri d'argomento medico. «Lo so!» sussurrai eccitato. «So dove siamo». Stavo per partecipargli la mia scoperta, quando venimmo nuovamente sorpresi dal rumore di una porta che s'apriva al primo piano, e da una voce anziana. «Paradisa! Scendi, ché il nostro amico sta per andarsene». Un'altra voce femminile rispondeva dal secondo piano che sarebbe arrivata subito. Stavamo dunque per essere presi tra due fuochi: la donna che scendeva dal secondo piano, e il padrone di casa che l'attendeva al primo. Lo stanziolino era senza porta ed era inoltre Imprimatur - Monaldi & Sorti
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troppo piccolo per acquattarci lì senza essere scorti. Saremmo stati scoperti. Udire, capire e fare fu tutt'uno. Come lucertole inseguite da un rapace, strisciammo con furtiva disperazione giù per la scala, sperando di guadagnare il pianterreno prima dei due uomini. In caso contrario, non avremmo avuto scampo. In meno d'un secondo venne il momento della verità: avevamo sceso pochi gradini, che udimmo la voce del padrone di casa. «E domani non dimenticate di portarmi il vostro liquorino!» disse sottovoce ma in tono assai gioviale, evidentemente rivolto al suo ospite, mentre s'approssimavano ai piedi della scala. Non c'era più tempo: eravamo perduti. Ogni volta che ripenso a quei momenti di terrore, mi ripeto che solo la Divina Clemenza ci evitò i molti castighi, di cui eravamo senz'altro meritevoli. Mi dico anche però che, se l'abate Melani non avesse provveduto a una delle sue macchinerie, le cose sarebbero andate in modo assai diverso. Atto aveva infatti avuto la fulminea trovata di soffiare energicamente sui quattro ceri che illuminavano quel tratto di scala, dopodiché ci eravamo di nuovo rifugiati nello stanziolino dove, stavolta all'unisono, avevamo gonfiato i polmoni e spento anche il candelabro. Quando il padrone di casa s'era affacciato sulle scale, vi aveva trovato il buio più fitto e la voce della donna che lo pregava di riaccendere i ceri. Ciò aveva sortito il duplice effetto di non farci scorgere e di far tornare indietro i due uomini, muniti d'un unico lume a olio, per prendere una candela. In quel breve lasso di tempo, noi eravamo sgattaiolati a tentoni per le scale. Appena raggiunto il piano terra, ci precipitammo nella stanza da letto abbandonata, da cui passammo nella cucina e infine nella rimessa delle carrozze. Qui nella foga incespicai, e caddi a faccia in giù sul sottile tappeto di fieno, provocando il nervosi340/703
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smo di uno dei due ronzini. Alle nostre spalle Atto aveva accostato rapidamente la porta, che Ugonio non ebbe difficoltà a chiudere tempestivamente a chiave. Restammo immobili nell'oscurità, ansimanti, con l'orecchio attaccato all'uscio. Ci parve d'udire due o più persone scendere in cortile. I passi procedettero sull'acciottolato in direzione del portone che dava sulla via. Sentimmo la pesante anta aprirsi e poi chiudersi con un tonfo. Altri passi tornarono indietro fino a perdersi nelle scale. Restammo due o tre minuti in sepolcrale silenzio. Il pericolo sembrava cessato. Riaccendemmo dunque una lanterna e ci infilammo nella botola. Non appena il pesante assito di legno si richiuse con uno schianto soffocato, potei finalmente comunicare all'abate Melani la mia scoperta. Eravamo entrati in casa di Giovanni Tiracorda, vecchio archiatra pontificio. «Ne sei certo?» mi chiese l'abate Melani mentre ci immergevamo nuovamente nelle cavità sotterranee. «Certo che lo sono» risposi. «Tiracorda, che coincidenza» commentò Atto con un risolino. «Lo conoscete?» «È una straordinaria combinazione. Tiracorda era medico del Conclave in cui venne fatto papa Clemente IX Rospigliosi, mio concittadino. E c'ero anch'io». Io, invece, all'anziano archiatra non avevo mai rivolto la parola. Tiracorda, essendo stato protomedico di due Papi, era assai onorato nel rione, tanto che veniva ancora chiamato archiatra, mentre in realtà ne ricopriva ora l'ufficio di sostituto. Abitava un palazzetto di proprietà del duca Salviati, che si trovava in via dell'Orso a due soli portoni di distanza dal Donzello, all'angolo con via della Stufa delle Donne. La pianta dei sotterranei che Atto Melani aveva predisposto s'era rivelata veridica: di galleria in galleria, approdando alla rimessa dei cavalli di Tiracorda eravamo quasi ritornati al punto di partenza. Poco, anzi pochissimo sapevo di Tiracorda: che aveva una moglie (forse Imprimatur - Monaldi & Sorti
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quella Paradisa di cui avevamo poco prima sentito chiamare il nome), che nella sua grande e bella casa erano anche due o tre donzelle che aiutavano a sbrigare le faccende, e che esercitava la sua arte presso l'Arcispedale di Santo Spirito in Sassia. Era più rotondo che alto, le spalle gibbose e quasi prive di collo, con un grande stomaco prominente su cui appoggiava spesso le mani congiunte, quasi incarnando le virtù di pazienza e tolleranza e lasciando indovinare un temperamento flemmatico e imbelle. Talvolta l'avevo notato dalla finestra incamminarsi su via dell'Orso, trotterellante nella sua veste lunga sino ai piedi; l'avevo osservato intrattenersi volentieri con qualche bottegante, lisciandosi i baffetti e la mosca sul mento. Poco amico delle parrucche malgrado la calvizie, col cappello costantemente in mano, il suo cranio un tanto bernoccoluto riluceva sotto il sole, sulla fronte bassa e rugosa e sulle orecchie a punta. Incontrandolo, m'avevano una volta colpito i pomelli giocondi delle sue gote e il suo sguardo bonario: le sopracciglia spioventi sugli occhi infossati, la palpebra stanca del medico aduso, ma mai rassegnato, a mirare le sofferenze altrui. Superata la parte più difficile del ritorno, l'abate Melani chiese a Ugonio se potesse procurargli una copia della chiave che aveva utilizzato per aprire la porta della rimessa. «Assicurizzo alla vostrissima decisionità che non omissionerò quanto pretenzia, e prima di sempre. Anche se, per esser più padre che paricida, era più perfeziosa miglioria fattizzarlo nella passata notturnizia». «Dici che sarebbe stato meglio fare la copia della chiave ieri notte? E dove?» Ugonio parve sorpreso dalla domanda. «Naturissimamente nella stradarla dei Chiavari, dove stamperizza Komarek». Atto corrugò la fronte. Si cacciò poi una mano in tasca e ne trasse il foglio della Bibbia. Vi passò sopra più volte il palmo della mano, dopodiché lo accostò di taglio alla lanterna che te342/703
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nevo in mano. Lo vidi esaminare attentamente le ombre che le stropicciature producevano al chiarore del lume. «Maledizione, come ha fatto a sfuggirmi?» imprecò l'abate Melani. E m'indicò col dito una forma che solo allora mi parve d'intravedere al centro del foglio: «Se osservi attentamente, nonostante le precarie condizioni di questo pezzo di carta» m'incominciò a spiegare «potrai individuarne più o meno al centro la sagoma d'una grossa chiave dalla testa oblunga, esattamente come quella dello stanzino. Ecco, proprio qui, dove il foglio è rimasto più liscio, mentre ai due lati esso è stato accartocciato». «Quindi questo pezzo di carta non sarebbe altro che l'involucro d'una chiave?» conclusi sorpreso. «Appunto. È infatti in via dei Chiavari, ove si trovano tutte le botteghe di chiavi e chiavistelli, che abbiamo scoperto il negozio clandestino di Komarek, lo stampatore di cui si serviva Stilone Priàso». «Allora ho capito» dedussi. «Stilone Priàso ha rubato le chiavi e poi è andato a farsi fare la copia a via dei Chiavari, vicino a Komarek». «No, mio caro. Qualcuno dei pigionanti, me lo hai riferito tu stesso, ricordi?, diceva d'aver già soggiornato in passato alla locanda del Donzello». «È vero: Stilone Priàso, Bedfordi e Angiolo Brenozzi» rammentai «ai tempi della signora Luigia buonanima». «Bene. Questo significa che Stilone molto probabilmente aveva già la chiave dello stanzino che dalla locanda porta ai sotterranei. Inoltre aveva già una ragione più che sufficiente per andare da Komarek, e cioè la stampa di qualche gazzetta clandestina. No, non dobbiamo più cercare un committente di Komarek, ma solo qualcun altro dei nostri pigionanti. Qualcuno che aveva bisogno di farsi fare una copia della chiave dello stanzino dal mazzo momentaneamente sottratto a Pellegrino». «E allora il ladro è padre Robleda! Ha accennato a Malachia Imprimatur - Monaldi & Sorti
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per vedere la mia reazione: forse sapeva d'aver perso il foglio della profezia di Malachia nei sotterranei, e ha escogitato un trucco per smascherarmi che è degno delle migliori spie, proprio come dice Dulcibeni» esclamai riassumendo poi ad Atto la concione di Dulcibeni contro la vocazione spionistica dei gesuiti. «E già. Allora, forse il ladro è proprio padre Robleda, anche perché...». «Gfrrrlûlbh» intervenne garbatamente Ciacconio. «Argomenzie erroranti e sbaglifiche» tradusse Ugonio. «Come, prego?» s'interruppe con aria incredula l'abate Melani. «Ciacconio assicurizza, il fogliaccetto non è la proveggenza di Malachia, nel corrispetto della vostrissima decisionità, e minorando li scropoli per non maggiorare li scrupoli, ben intendo». Contemporaneamente Ciacconio sfoderò da sotto le vesti una piccola Bibbia, lercia e consunta, ma leggibile. «La tieni sempre con te?» chiesi. «Gfrrrlûlbh». «È molto religiofono, quasi trigotto» spiegò Ugonio. Cercammo nell'indice il profeta Malachia. Era l'ultimo libro dei dodici profeti minori, e quindi si trovava proprio nelle pagine conclusive dell'Antico Testamento. Sfogliai rapidamente finché trovai il titolo e, con fatica a causa dei caratteri microscopici, cominciai a leggere:
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M'interruppi: l'abate Melani aveva tirato fuori dalla tasca il foglietto ritrovato da Ugonio e Ciacconio. Lo confrontammo. Si leggevano in quello, benché mutilo, i nomi di Ochozias, Accaron e Beelzebub, che qui non c'erano. Non una parola corrispondeva. «È... insomma, è un altro testo di Malachia» osservai esitante. «Gfrrrlûlbh» ribatté scuotendo il capo Ciacconio. «Il fogliaccetto, di modo che suggestiona Ciacconio con appello allo scappello della decisionità vostrissima, per farsi più auspice che aruspice, e per esser più medico che mendico, è il capo secondesimo del Libro dei Re». E spiegò che "Malachi"», la parola monca che si poteva leggere sul brandello di Bibbia, non era quanto restava di "Malachia" ma di "Malachim", che in ebraico voleva dire "dei Re". Ciò perché, chiarì pazientemente Ugonio, in molte Bibbie il titolo Imprimatur - Monaldi & Sorti
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viene scritto anche secondo la versione dei Giudei, che non sempre corrisponde a quella cristiana: essi, per esempio, non ammettono tra le Sacre Scritture i due libri dei Maccabei. Di conseguenza lo schema completo del titolo, mutilo a causa delle lacerazioni e della macchia di sangue, secondo i corpisantari era originariamente:
"Liber Regum" significava "Libro dei Re", mentre "Secundus Malachim" stava per "Secondo Libro dei Re": e non "di Malachia". Andammo a confrontare il Secondo Libro dei Re nella Bibbia dei corpisantari. In effetti, titolo e testo corrispondevano perfettamente sia al foglietto strappato che allo schema di Ugonio e Ciacconio. L'abate Melani era scuro in volto. «Solo una domanda: perché non ce lo avete detto prima?» chiese egli, mentre già immaginavo la risposta all'unisono dei corpisantari. «Non abbiamo avuto l'onorazione di essere domandificati» rispose Ugonio. «Gfrrrlûlbh» s'associò Ciacconio. Dunque Robleda non aveva rubato le chiavi e le perline, non era stato nei sotterranei, non aveva perso il foglio volante della Bibbia, non sapeva nulla di via dei Chiavari né di Komarek. E tantomeno del signor di Mourai, cioè di Nicolas Fouquet. O per meglio dire non c'era ragione di sospettarlo più di chiunque altro, giacché il suo lungo discorso sulla profezia di San Malachia era stato del tutto casuale. Insomma, ci trovavamo al punto di partenza. In compenso avevamo scoperto che la galleria D sboccava in una grande e spaziosa abitazione, il cui proprietario era archia346/703
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tra pontificio. Ma anche un altro mistero s'era presentato quella notte. Al ritrovamento del foglio di Bibbia s'era aggiunta infatti la scoperta dell'ampollina di sangue, che qualcuno aveva inavvertitamente (o magari volutamente) perduto nella galleria che conduceva da Tiracorda. «Pensate che l'ampollina sia stata smarrita dal ladro?» chiesi all'abate Melani. In quel momento l'abate incespicò in un sasso che sporgeva dal suolo, e cadde malamente. Lo aiutammo a rialzarsi, sebbene egli rifiutasse ogni aiuto; si spolverò in tutta fretta, innervosito dall'accaduto, imprecò a lungo contro i costruttori della galleria, la peste, i medici, la quarantena e per finire contro i due incolpevoli corpisantari che, investiti da tali immeritati insulti, si scambiarono un'occhiata carica di umiliazione. Potei così, grazie a quell'incidente a prima vista insignificante, percepire con chiarezza il cambiamento inatteso che, da qualche tempo, s'era verificato nell'abate Melani. Se nei primi giorni i suoi occhi dardeggiavano, ora invece erano sovente cogitabondi. Il suo passo da fiero s'era fatto prudente, il gesto prima sicuro era diventato esitante. I suoi ragionamenti acuti e insinuanti cedevano talvolta il passo a dubbi e ritrosie. Certo, eravamo penetrati con successo nella casa di Tiracorda, esponendoci a rischi gravissimi. Certo, osavamo esplorare nuovi cunicoli quasi alla cieca, aiutati più dal naso di Ciacconio che dalle nostre lampade. Ma in tutto ciò era come se scorgessi di tanto in tanto la mano dell'abate Melani tremare leggermente, e i suoi occhi socchiudersi in una muta preghiera di salvezza. Tale nuova disposizione d'animo, che per il momento affiorava solo a tratti come un relitto semisommerso, si era in lui manifestata da poco, anzi pochissimo tempo. Difficile indicarne con esattezza la genesi; non era infatti sorta da alcun evento particolare, ma da accadimenti vecchi e nuovi che andavano ora faticosamente conciliandosi in un'unica forma. Una forma ancora sfuggente, però. La sostanza era invece nera e sanguiImprimatur - Monaldi & Sorti
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gna, come la paura che, ne ero certo, agitava i pensieri dell'abate Melani. Dalla galleria D eravamo rientrati nel cunicolo C, che senza dubbio meritava in seguito di essere esplorato a fondo. Ora però, lasciandoci sulla destra la derivazione E, che conduceva verso il palazzo della Cancelleria, avremmo proseguito diritto. Notai l'espressione assorta, e soprattutto il silenzio dell'abate Melani. Indovinai ch'egli rimuginasse sulle nostre scoperte, e decisi pertanto di sollecitarlo con la curiosità ch'egli stesso poche ore prima mi aveva instillato. «Avete detto che Luigi XIV non ha mai odiato nessuno più del Sovrintendente Fouquet.» «Già». «E che, se avesse scoperto che Fouquet anziché essere morto a Pinerolo era a Roma, vivo e libero, la sua ira si sarebbe certamente scatenata di nuovo». «Proprio così». «Ma perché tanto accanimento?» «Questo è niente in confronto alla furia covata dal Sovrano nei giorni dell'arresto e durante il processo». «Non bastava al Re averlo scacciato?» «Non sei l'unico a porsi tali domande. E non te ne devi meravigliare, giacché nessuno ha ancora trovato una risposta. Neppure io. Almeno per ora». Il mistero dell'odio di Luigi XIV per Fouquet, spiegò l'abate Melani, a Parigi era materia d'incessante discussione. «Ci sono delle cose che per mancanza di tempo non ti ho ancora potuto raccontare». Feci finta di credere a tale giustificazione. Ma sapevo che solo ora, a causa del suo nuovo stato d'animo, Atto era disposto a mettermi a parte di molte cose che prima m'aveva taciuto. Fu così che rievocò i giorni terribili in cui il cappio della congiura si strinse attorno al collo del Sovrintendente. Colbert incomincia a tessere la sua trama sin dal giorno del348/703
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la morte del cardinal Mazzarino. Sa che dovrà sempre agire dietro il paravento del bene dello Stato e della gloria della Monarchia. Sa anche di non avere molto tempo: bisogna far presto finché il Re è ancora inesperto in materia di finanze. Luigi ignora quanto è realmente accaduto sotto il governo di Mazzarino, i cui meccanismi occulti gli sfuggono. Unico a manovrare le carte del Cardinale è Colbert, padrone di mille segreti. E mentre già manomette i documenti e falsifica le prove, il Serpente non perde occasione d'instillare nel Sovrano, come sottile veleno, la diffidenza per il Sovrintendente. Nel frattempo blandisce quest'ultimo con finte attestazioni di fedeltà. La macchinazione riesce in pieno: tre mesi prima della festa al castello di Vaux, il Re già medita di colpire il suo Sovrintendente alle Finanze. C'è però un ultimo ostacolo: Fouquet, che riveste anche la carica di Procuratore Generale, gode dell'immunità parlamentare. Il Colubra, adducendo l'urgente bisogno di soldi da parte del Re, convince lo Scoiattolo a vendere la sua carica. Il povero Nicolas cade in pieno nel tranello: ne ricaverà un milione e quattrocentomila livres, e appena ricevuto un milione di anticipo lo donerà al Re. «E ricevuti i soldi, il Re disse: "S'è messo i ferri con le proprie mani"» ricordò amaramente Atto, scrollandosi dalle maniche un po' terriccio, e poi esaminando con disappunto la nappa del polsino ormai bruttata. «È orribile!» non mi trattenni dall'esclamare. «Non quanto tu credi, ragazzo. Il giovane Re stava saggiando per la prima volta la propria potenza. Ciò si può fare solo imponendo l'arbitrio reale, e talora l'ingiustizia. Quale sfoggio di potere sarebbe favorire i migliori, già destinati alle vette grazie alle proprie qualità? Potente è invece colui che riesce a elevare il mediocre e il malvagio a capo dei saggi e dei buoni, sovvertendo col solo capriccio il corso naturale degli eventi». «Ma Fouquet non sospettò nulla?» «È un mistero. Venne anzi avvisato da più parti che qualcosa si stava tramando alle sue spalle. Ma lui si sentiva con la coImprimatur - Monaldi & Sorti
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scienza a posto. Mi ricordo che rispondeva sorridente con le parole d'un suo predecessore: "I Sovrintendenti sono fatti per essere odiati". Odiati dai Re, che reclamano sempre più soldi per guerre e balletti; e odiati dal popolo, che deve pagare le tasse». Fouquet, proseguì Atto, seppe persino che qualcosa d'importante doveva succedere a Nantes, dove di lì a poco sarebbe finito in manette, ma non volle vedere in faccia la realtà: si convinse che il Re stava per far arrestare Colbert, e non lui. Una volta giunto a Nantes, i suoi amici lo persuasero a prendere alloggio in una casa dotata d'un passaggio sotterraneo. Era un antico acquedotto che sboccava sulla spiaggia, dove un battello allestito di tutto punto sarebbe stato sempre pronto a salpare per condurlo in salvo. Nei giorni successivi Fouquet s'accorge in effetti che le vie attorno alla casa si riempivano di moschettieri. Comincia ad aprire gli occhi, ma ribadisce ai suoi che non si servirà mai della via di fuga: "Devo correre il rischio: non posso credere che il Re voglia rovinarmi". «Errore fatale!» esclamò Atto. «Il Sovrintendente conosceva solo la politica della fiducia. E non s'era accorto che i suoi tempi erano stati spazzati via dalla rude politica del sospetto. Mazzarino era morto, tutto era diverso». «E prima che Mazzarino morisse, invece, com'era la Francia?» L'abate Melani sospirò: «Com'era, com'era... Era la vecchia buona Francia di Luigi XIII. Un mondo, come dirti?, più aperto e in movimento, in cui libertà di parola, di giudizio, allegra originalità, arditezza d'atteggiamenti ed equilibrio morale sembravano dover regnare per sempre. Nei circoli preziosi di madame de Sévigné e della sua amica madame de la Fayette, così come nei motti del signor de la Rochefoucauld e nei versi di Jean de La Fontaine. Nessuno poteva prevedere il dominio gelido e assoluto del nuovo Re». Sei mesi bastarono al Serpente per rovinare lo Scoiattolo. Dopo l'arresto, Fouquet marcì tre mesi in carcere prima di po350/703
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ter ottenere un processo. Finalmente, nel dicembre 1661 venne istituita la Camera di Giustizia che lo avrebbe giudicato. Ne facevano parte il cancelliere Pierre Séguier, il presidente Lamoignon e ventisei membri scelti nei Parlamenti regionali e tra i referendari. Il presidente Lamoignon aperse la prima seduta descrivendo con tragica enfasi la miseria che tormentava il popolo di Francia, gravato ogni anno da nuove imposte e stremato dalla fame, dalle malattie, dalla disperazione. A tutto ciò s'aggiungevano i cattivi raccolti agricoli degli ultimi anni, che avevano ulteriormente aggravato la situazione. In molte province si moriva letteralmente di fame, mentre la mano rapace degli esattori delle tasse non conosceva pietà, e s'allungava sui poveri villaggi con avidità sempre maggiore. «Che c'entrava la miseria del popolo con Fouquet?» domandai. «C'entrava, c'entrava. Serviva a introdurre e ad avvalorare un teorema: nelle campagne si moriva di fame perché egli s'era scandalosamente arricchito con il denaro dello Stato». «E non era vero?» «Certo che no. Primo: Fouquet non era veramente ricco. Secondo: da quando è finito a Pinerolo, la miseria nei villaggi francesi è ancor più aspra. Ma ascolta il seguito». Mentre iniziava il processo, con un avviso che venne letto in tutte le chiese del Regno i cittadini vennero invitati a denunciare gabellieri, esattori delle imposte e finanzieri che avessero commesso illeciti finanziari. Un secondo avviso proibiva a tali faccendieri di lasciare le loro città. In caso contrario sarebbero stati immediatamente accusati di peculato, un reato punibile con la morte. L'effetto così ottenuto era stato enorme. Tutti i finanzieri, appaltatori ed esattori delle tasse erano immediatamente stati additati al popolo come criminali; il ricchissimo Sovrintendente alle Finanze Nicolas Fouquet diveniva automaticamente capo d'una banda di briganti, nonché affamatore di contadini. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Non c'era niente di più falso: Fouquet aveva sempre segnalato alla Corona, ma invano, il pericolo d'imporre tasse troppo alte. Quando era stato inviato come Intendente alle Finanze nel Delfinato, con lo scopo di spremere più soldi a quella gente riottosa, s'era fatto persino cacciare da Mazzarino. Dopo accurate indagini, infatti, Fouquet aveva concluso che le imposte in quella regione erano insopportabili, e aveva osato inoltrare a Parigi ufficiale richiesta di sgravi fiscali. I parlamentari del Delfinato si mobilitarono in massa per difenderlo». Ma di quei tempi sembrava non ricordarsi più nessuno. Al processo contro il Sovrintendente vennero letti i capi d'accusa, all'inizio ben novantasei, che il giudice relatore ridusse saggiamente a una decina: innanzitutto aver concesso al Re prestiti fasulli, sui quali aveva ingiustamente percepito interessi. Secondo, aver confuso illecitamente il denaro del Re con il proprio, utilizzandolo per fini privati. Terzo, aver ricevuto dagli appaltatori oltre trecentomila livres per concedere loro condizioni di favore, e aver incassato personalmente, sotto nomi di copertura, l'importo di alcuni tributi. Quarto, aver rifilato allo Stato vecchie cambiali scadute in cambio di denaro contante. Quando il dibattimento è agli inizi, l'odio popolare contro Fouquet arde violentissimo. Già all'indomani dell'arresto, le guardie che lo scortavano avevano dovuto badare a evitare alcuni villaggi, dove la folla inferocita era pronta a scorticarlo vivo. Il Sovrintendente, chiuso nella sua minuscola cella, isolato da tutto e da tutti, neppure si rende conto appieno di quanto profondo sia l'abisso in cui è precipitato. La sua salute peggiora e chiede che gli si mandi un confessore; invia memoriali di discolpa al Re; gli chiede invano per quattro volte d'essere ricevuto; fa circolare lettere in cui perora la propria causa con orgoglio; si culla nell'illusione che l'incidente possa essere chiuso onorevolmente. Tutte le sue richieste vengono respinte, ed egli comincia a rendersi conto che nel muro di ostilità innalzato dal Re e da Colbert non s'apre alcun varco. 352/703
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Colbert, intanto, manovra dietro le quinte: convoca i membri della Camera di Giustizia al cospetto del Re ove li sottopone a suggerimenti, pressioni e minacce. Di peggio fa con i testimoni, molti dei quali vengono a loro volta inquisiti. Fummo interrotti da Ugonio. Ci indicò una botola, da cui lui stesso e Ciacconio s'erano calati alcune settimane prima, scoprendo così la galleria che stavamo percorrendo. «Dove si apre la botola?» «Nel dietrame del sottopantheonio». «Tienilo a mente, ragazzo» mi disse Atto. «Questa botola porta, se ho ben capito, in qualche sotterraneo dietro al Pantheon. Poi ci si ritrova in qualche cortile privato, e infine si usa qualcuna delle vostre chiavi per aprire il cancello e uscire in strada, vero?» Con un sorriso rozzo e compiaciuto Ugonio annuì, precisando però che non c'era bisogno di alcuna chiave poiché il cancello era sempre aperto. Registrate tali novità, proseguimmo noi tutti la marcia, e l'abate Melani il suo racconto. Al processo Fouquet si difese da solo, senza avvocato. Il suo eloquio fu torrenziale, i riflessi prontissimi, le argomentazioni sottili e insinuanti, la memoria infallibile. Le sue carte erano state sequestrate e probabilmente purgate di ciò che poteva fare gioco alla sua difesa. Ma il Sovrintendente si difese come nessun altro avrebbe saputo fare. Per ogni contestazione ebbe una risposta pronta. Impossibile farlo cadere in contraddizione. «Come già t'ho accennato, venne anche scoperta la contraffazione di alcune prove documentali ad opera di Berryer, un uomo di Colbert. E alla fine l'insieme degli atti (una montagna di carte) non permise di provare nessuno dei capi d'accusa contro Fouquet! Piuttosto, emersero responsabilità e coinvolgimenti di Mazzarino, la cui memoria però doveva restare senza macchia». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Colbert e il Re, che speravano in una giustizia totalmente asservita, rapida e feroce, non avevano previsto che molti giudici della Camera di Giustizia, vecchi estimatori di Fouquet, si sarebbero rifiutati di fare del processo una semplice formalità. Il tempo passò rapido: tra un'udienza e l'altra erano ormai trascorsi tre lunghi anni. Le appassionate arringhe di Fouquet erano diventate un'attrazione per tutti i parigini. Il popolo, che al momento dell'arresto voleva linciarlo, l'aveva man mano rimpianto. Colbert non s'era fermato davanti a nulla pur di riscuotere tasse, che dovevano servire a nuove guerre e al completamento della reggia di Versailles. I contadini erano stati ancor più vessati, perseguitati, impiccati. Il Serpente aveva aumentato la pressione fiscale ben più di quanto avesse mai osato fare Fouquet. Inoltre, l'inventario dei beni posseduti da Fouquet al momento dell'arresto dimostrava che i conti del Sovrintendente erano in passivo. Tutto lo splendore di cui egli si circondava era servito solo a gettar polvere negli occhi dei creditori, con i quali s'era esposto personalmente non sapendo più come far fronte alle spese di guerra della Francia. Aveva così contratto di persona debiti per sedici milioni di livres, contro un patrimonio in terre, case e cariche stimato in non più di quindici milioni di livres. «Nulla a confronto con i trentatré milioni netti che Mazzarino aveva lasciato in eredità alle nipoti!» commentò Atto infervorato. «Allora Fouquet avrebbe potuto salvarsi» osservai. «Sì e no» rispose l'abate mentre ci eravamo fermati per rifornire d'olio una delle due lanterne. «Innanzitutto Colbert riuscì a impedire che i giudici visionassero l'inventario dei beni di Fouquet. Invano il Sovrintendente ne invocò la messa agli atti. E poi, subito dopo l'arresto, era sopravvenuta la scoperta che lo perdette». Era questo l'ultimo capo d'accusa, che nulla aveva a che fare con malversazioni finanziarie o altre questioni di soldi. Si trattava di un documento trovato durante la perquisizione nella 354/703
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casa di Fouquet a Saint-Mandé, nascosto dietro uno specchio. Era una lettera del 1657, quattro anni prima dell'arresto, indirizzata ad amici e parenti. Nella missiva il Sovrintendente esprimeva la propria angoscia per la diffidenza che avvertiva crescere in Mazzarino e per le manovre con cui i nemici cercavano di rovinarlo. Fouquet dava poi istruzioni sul da farsi nel caso che Mazzarino lo avesse fatto incarcerare. Non era un piano di sollevazione, ma di sottile agitazione politica, destinata ad allarmare il Cardinale per condurlo a negoziare, ben sapendo quanto Mazzarino fosse incline a tornare sui suoi passi per trarsi d'impaccio. Nonostante nel documento non si parlasse mai d'un qualunque sollevamento contro la Corona, l'accusa lo presentò come il progetto d'un colpo di Stato. Qualcosa di simile alla Fronda, insomma, che tutti i Francesi ricordavano sin troppo bene. Sempre secondo l'accusa, i rivoltosi sarebbero stati ospitati nell'isola fortificata di Belle-Île, di proprietà di Fouquet. Sulla costa bretone, ove sorgeva Belle-Île, vennero inviati gli emissari degli inquirenti, che si sforzarono di presentare come prove di colpevolezza i lavori di fortificazione, i cannoni e i depositi di polvere e munizioni. «Ma perché Fouquet aveva fortificato l'isola?» «Era un genio del mare e della strategia marinara, e progettava di usare Belle-Île come base d'appoggio contro l'Inghilterra. Aveva persino pensato di edificarvi una città, il cui porto naturale, in posizione particolarmente favorevole, doveva distogliere da Amsterdam tutto il traffico commerciale del Nord, rendendo così un grande servigio al Re e alla Francia». Fouquet, quindi, arrestato per peculato, si ritrovò invece a essere giudicato come sovversivo. E non era tutto. A SaintMandé era stata ritrovata anche una cassetta di legno chiusa da un lucchetto, che celava la corrispondenza segreta del Sovrintendente. I commissari del Re vi trovarono i nomi di tutti i fedelissimi dell'accusato, e furono in molti a tremare. La maggior parte delle lettere venne consegnata al Re, e infine furono tutte Imprimatur - Monaldi & Sorti
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affidate a Colbert. Quest'ultimo ne conservò parecchie, ben sapendo a quanti ricatti potessero essere utili. Solo alcune carte, che Colbert potè selezionare con tutta calma, finirono bruciate per non compromettere qualche nome illustre. «Pensate dunque» interruppi la narrazione «che le lettere di Kircher che avete scoperto nello studio di Colbert si trovassero in quella cassetta?» «Forse». «E come finì il processo?» Fouquet aveva chiesto la ricusazione di diversi giudici. Per esempio di Pussort, zio di Colbert, che s'ostinava a definire il Serpente suo nipote "la mia parte". Pussort attaccava Fouquet con tale rozzezza che gli impediva di rispondere, innervosendo così gli altri giudici. Nella corte sedeva anche il cancelliere Séguier, che durante la rivolta della Fronda aveva preso le parti degli insorti contro la Corona. Fouquet osservò: come poteva Séguier giudicare un crimine di Stato? L'indomani tutta Parigi applaudì il brillante attacco dell'imputato, ma la ricusazione non venne concessa. Il pubblico cominciava a rumoreggiare: non c'era giorno in cui non venisse rivolta a Fouquet una nuova accusa. I suoi accusatori avevano tanto ingrossato la corda, che ora essa rischiava d'essere troppo spessa per strangolarlo. Ci si avvicinò così alle ore decisive. Qualche giudice venne invitato dal Re in persona a non interessarsi più del processo. Lo stesso Talon, che nelle sue requisitorie aveva mostrato molto zelo ma poco successo, dovette fare posto a un altro Procuratore Generale, Chamillart. Fu quest'ultimo, il 14 novembre 1664, a esporre alla Camera di Giustizia le proprie conclusioni. Chamillart chiese di condannare Fouquet alla forca, oltre alla restituzione di tutte le somme illecitamente sottratte allo Stato. Toccò poi ai relatori del processo tenere l'arringa. Il giudice Olivier d'Ormesson, inutilmente intimidito da Colbert, parlò appassionatamente per cinque giorni, si scagliò contro il falsario Berryer e i suoi mandanti e concluse chiedendo la condanna 356/703
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all'esilio: la migliore soluzione possibile per Fouquet. Il secondo relatore, Sainte-Hélène, tenne un discorso dai toni più languidi e sommessi, ma chiese la pena di morte. Poi dovette dare il proprio verdetto ogni giudice. La cerimonia fu lunga, straziante, per alcuni rovinosa. Il giudice Massenau si fece condurre in aula nonostante un grave malore, mormorando: «Meglio morire qui». Votò per l'esilio. Il giudice Pontchartrain aveva resistito alle seduzioni e alle minacce di Colbert: votò anch'egli per l'esilio, rovinando così la propria carriera e quella di suo figlio. Il giudice Roquesante terminò la carriera (lui sì!) in esilio, per non aver votato la condanna capitale. Alla fine solo nove dei ventisei commissari scelsero la condanna a morte. La testa di Fouquet era salva. Non appena venne reso noto il verdetto che salvava la vita a Fouquet e gli rendeva la libertà, seppure fuori di Francia, a Parigi il sollievo e la gioia furono grandi. Ma qui entrò in gioco Luigi XIV. Sopraffatto dall'ira, s'oppose risolutamente all'esilio. Annullò la sentenza della Camera di Giustizia, vanificando così i tre lunghi anni del processo. Con una decisione senza precedenti nella storia del Regno di Francia, il Re Cristianissimo applicò a rovescio il diritto regale di commutare le sentenze, sino ad allora impiegato per concedere la grazia: condannò Fouquet al carcere a vita, da scontare in totale isolamento nella lontana fortezza di Pinerolo. «Parigi ne restò atterrita. Nessuno ha mai capito il perché di quel gesto. Era come s'egli covasse contro Fouquet un odio segreto e invincibile» disse l'abate Melani. Non bastò a Luigi XIV destituirlo, umiliarlo, spogliarlo di tutti i beni e ridurlo in prigionia ai confini del suolo francese. Il Re stesso saccheggiò il castello di Vaux e la residenza di SaintMandé, arredando la propria reggia con i mobili, le collezioni, le tappezzerie, gli ori e gli arazzi di Fouquet, e accorpando alla Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Biblioteca Reale i tredicimila preziosi volumi amorevolmente scelti dal Sovrintendente in anni di studi e ricerche. Il tutto valeva non meno di quarantamila livres. Ai creditori di Fouquet, che improvvisamente s'erano fatti vivi da tutte le parti, erano rimaste le briciole. Uno di loro, un ferraiolo di nome Jolly, penetrò a Vaux e nelle altre residenze, staccando furiosamente con le proprie mani tutte le imbottiture di cuoio pregiato; poi dissotterrò e portò via con sé le modernissime condutture idrauliche di piombo, senza le quali il valore dei parchi e giardini di Vaux quasi s'azzerava. Stucchi, ornamenti e lampade vennero frettolosamente divelti da cento altre mani rabbiose. Alla fine della razzia le gloriose residenze di Nicolas Fouquet assomigliavano a due conchiglie vuote: la prova delle meraviglie che contenevano non dorme più che negl'inventari dei perquisitori. I possedimenti di Fouquet nelle Antille vennero invece sbranati dai dipendenti d'Oltremare del Sovrintendente. «Il castello di Vaux era bello come la reggia di Versailles?» chiesi. «Vaux anticipa Versailles di ben cinque anni» disse Atto con calcolata enfasi. «E per molti versi ne è l'ispirazione. Se solo tu sapessi che stretta al cuore provano coloro che frequentarono Fouquet, e che oggi, girando per la reggia di Versailles, riconoscono i quadri, le statue e le altre meraviglie che appartennero al Sovrintendente, e ancora vi assaporano il suo gusto raffinato e sicuro...». Tacque, e quasi ebbi il dubbio che stesse per cedere alle lacrime. «Qualche anno fa madame de Sévigné andò in pellegrinaggio al castello di Vaux» riprese Atto. «E lì è stata vista piangere a lungo sulla rovina di tutti quei tesori, e del loro grande padrone». Il supplizio venne perfezionato con il regime carcerario. Il Re diede ordine che a Pinerolo si proibisse a Nicolas Fouquet finanche di scrivere o di parlare con chicchessia, se non con i 358/703
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suoi carcerieri. Ciò che il prigioniero aveva nella testa e sulla lingua sarebbe rimasto suo, e solo suo. Unico a poter ascoltare la sua voce, annidato nelle orecchie dei guardiani, il Re. E se Fouquet non voleva parlare con il suo carnefice, tanto valeva che tacesse. Molti, a Parigi, cominciavano a indovinare una spiegazione. Se Luigi XIV avesse voluto mettere a tacere per l'eternità il prigioniero, non sarebbero mancate le occasioni per fargli servire una zuppa opportunamente condita... Ma il tempo passava, e Fouquet viveva. Forse la questione era più complicata. Forse il Sovrano bramava qualcosa che il carcerato, nel freddo silenzio della cella, continuava a serbare per sé. Un giorno, s'immaginava, gli stenti della prigionia lo avrebbero convinto a parlare. Ugonio richiamò la nostra attenzione. Distratti dai nostri conversari avevamo dimenticato che, mentre ci trovavamo in casa di Tiracorda, Ciacconio aveva fiutato una presenza estranea. Ora il naso del corpisantaro aveva nuovamente percepito qualcosa. «Gfrrrlûlbh». «Presenziante sudazzato, vecchiazzo, spaurizzato» spiegò Ugonio. «Sa per caso dirci cosa ha mangiato a colazione?» chiese beffardamente Atto Melani. Temetti che il corpisantaro se ne avesse a male, poiché il suo olfatto sopraffino ci era stato utile, e probabilmente lo sarebbe stato ancora. «Gfrrrlûlbh» rispose invece Ciacconio dopo aver puntato a mezz'aria il naso deforme e carcinoso. «Ciacconio ha snariciato zinna di vacca» tradusse il suo compagno «con probabilizia d'ova, presciutto e vin bianco, forse con brodetto e zuccaro». Atto e io ci lanciammo uno sguardo stupefatto. Era appunto il piatto che con tanta cura avevo approntato per i pigionanti Imprimatur - Monaldi & Sorti
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del Donzello. Ciacconio non poteva saperne nulla: eppure era stato capace di discernere, nella traccia odorosa dello sconosciuto, non solo l'odore della zinna di vacca, ma perfino l'aroma di alcuni ingredienti che v'avevo aggiunto. Se le narici del corpisantaro non s'ingannavano, concludemmo increduli, stavamo seguendo un pigionante del Donzello. Il racconto del processo di Fouquet s'era alquanto prolungato, e nel frattempo avevamo esplorato la galleria C per un tratto piuttosto esteso. Difficile dire di quanto ci fossimo allontanati dal sottosuolo di piazza Navona, e dove al momento ci trovassimo. Ma a parte alcune lievi sinuosità, il percorso non aveva rivelato deviazioni di sorta: avevamo pertanto seguito l'unica direzione possibile. Appena fatte tali osservazioni, tutto cambiò. Il terreno si fece umido e scivoloso, l'aria ancora più densa e pesante, mentre nel tetro silenzio della galleria s'udiva un lontano fruscio. Avanzammo cautamente, mentre Ciacconio dondolava il capo, come per manifestare insofferenza. Si avvertiva un odore nauseabondo, che sapevo familiare ma ancora non riconoscevo. «Fogne» disse Atto Melani. «Gfrrrlûlbh» assentì di malumore Ciacconio. Ugonio spiegò che i liquami fognari disturbavano non poco il suo collega, e gl'impedivano di distinguere con chiarezza altri odori. Poco più oltre ci trovammo a posare i piedi su un vero e proprio acquitrino. Il tanfo, da sottile che era all'inizio, s'era fatto alquanto intenso. Finalmente trovammo la cagione di tutto ciò. Nella parete di sinistra si apriva un'ampia e profonda fenditura, da cui scaturiva un flusso di acquaccia fetida e nera. Il rivolo seguiva poi il dislivello della galleria, in parte colando ai lati e in parte finendo inghiottito dall'oscurità, apparentemente senza fine, del nostro cunicolo. Toccai la parete opposta: era umida, e lasciava sui polpastrelli una sottile fanghiglia. La nostra attenzione venne attirata da un particolare. Riverso 360/703
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nell'acqua e indifferente alla nostra presenza, giaceva di fronte a noi un grosso topo. «Mortiferato» sentenziò Ugonio dandogli un colpetto col piede. Ciacconio prese il ratto per la coda con due delle sue dita unghiute, e lo lasciò penzolare. Dalla bocca del topo gocciolò nell'acqua grigiastra un sottile filo di sangue. Ciacconio curvò il capo, osservando con aria interdetta l'inatteso fenomeno. «Gfrrrlûlbh» commentò pensosamente. «Mortiferato, sanguificato, insanizzato» spiegò Ugonio. «Come fa a sapere che era ammalato?» domandai. «Ciacconio ama molto questi animalacci, non è vero?» intervenne l'abate Melani. Ciacconio fece di sì con la testa, scoprendo con un sorriso ingenuo e bestiale i suoi orribili denti giallastri. Continuammo la marcia, superando il tratto di galleria reso fradicio dal condotto fognario. Tutto portava a credere che l'infiltrazione fosse un fatto recente, e che in condizioni normali non avremmo trovato traccia d'acqua. Quanto al topo, la scoperta non s'era esaurita. Trovammo infatti altri tre sorci morti, più o meno delle dimensioni del primo. Ciacconio controllò: tutti quanti presentavano lo stesso abbondante sbocco di sangue, attribuibile secondo i corpisantari a qualche imprecisata malattia. Era il nostro ennesimo incontro con il sangue: prima la macchia sul foglio della Bibbia, poi l'ampollina, infine i topi. L'esplorazione venne bruscamente interrotta da un nuovo imprevisto. Questa volta non si trattava di un'infiltrazione, per quanto copiosa. Ci trovammo infatti di fronte a un vero e proprio corso d'acqua, che scorreva impetuoso e discretamente profondo, in una galleria perpendicolare alla nostra. Si trattava verosimilmente d'un fiume sotterraneo, al quale erano forse mescolate alcune deiezioni normalmente veicolate dalle fogne. Non v'era però il cattivo odore che in precedenza aveva tanto disturbato Ciacconio. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Seppure con disappunto, dovemmo dichiararci sconfitti. Non era possibile proseguire oltre, ed era trascorso molto tempo dalla nostra sortita dal Donzello. Non era saggio trattenersi troppo a lungo fuori dalla locanda, e rischiare che la nostra assenza venisse notata. Fu così che, già stanchi e provati, decidemmo di tornare indietro. Mentre invertivamo il senso di marcia, Ciacconio diede un'ultima, sospettosa annusata a mezz'aria. Atto Melani starnutì.
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Giornata sesta. 16 settembre 1683
I
l ritorno al Donzello era stato lungo, triste e faticoso. Eravamo rientrati nelle nostre stanze con le mani, i volti e i vestiti sporchi di terra e intrisi d'umidità. M'ero gettato sul letto esausto, piombando quasi subito in un sonno grave e lapideo. Quando mi destai, il mattino seguente, scoprii di giacere nella stessa postura in cui mi ero malamente coricato. Avrei detto che le gambe mi fossero state martoriate dai colpi di mille spade. Allungai un braccio per levarmi a sedere, e il mio palmo trovò un oggetto dalla superficie frusciante e ruvida, con cui evidentemente avevo condiviso il letto. Era la gazzetta astrologica di Stilone Priàso, la cui lettura avevo precipitosamente abbandonato quasi ventiquattr'ore prima, quando ero stato richiamato al lavoro da Cristofano. La notte appena trascorsa mi aveva fortunatamente aiutato a dimenticare i tremendi accadimenti che la gazzetta aveva, per vie occulte, esattissimamente previsto: la morte di Colbert, quella di Mourai (anzi di Fouquet) e la presenza d'un veleno; le «febbri maligne» e «morbi velenosi» che il mio padrone e Bedfordi avrebbero patito; l'«occulto tesoro» venuto alla luce ai primi del mese, cioè le lettere nascoste nello studio di Colbert e trafugate da Atto; i «terremoti e fuochi sotterranei» che avevano risuonato nella cantina. E per finire, la previsione dell'assedio di Vienna: cioè, secondo le parole della gazzetta, le «battaglie e assalti dati alle Città» voluti da «Ali e Leopoldo Austriaco». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Volevo apprendere cosa sarebbe successo nei giorni successivi? No, pensai con una stretta allo stomaco, almeno per il momento non lo desideravo. Scorsi invece le pagine precedenti, e lo sguardo mi capitò sull'ultima settimana di luglio, dal 22 fino all'ultimo giorno del mese. I dispacci del mondo di questa settimana si riceveranno da Giove come disponitore della casa regia, che per ritrovarsi nella Terza casa molti corrieri spedisce, forse per malattia d'un dominante, che in fine vaca lacrimevolmente un Regno.
Dunque alla fine di luglio sarebbe dovuto morire un Sovrano. Non avevo notizia di alcun fatto del genere, e salutai quindi con soddisfazione l'arrivo di Cristofano: avrei chiesto a lui. Ma Cristofano non ne sapeva nulla. Ancora una volta si chiese, e mi chiese, donde mi venissero preoccupazioni così lontane dai nostri casi presenti: prima l'astrologia, poi le fortune dei Sovrani. Grazie al Cielo avevo provveduto a nascondere tempestivamente nel mio giaciglio la gazzetta astrologica. Mi sentivo soddisfatto d'aver colto un'imprecisione, e quanto rilevante, nelle sin troppo esatte previsioni della gazzetta. Un vaticinio non s'era avverato: ciò indicava che le stelle non erano infallibili. Tirai segretamente un sospiro di sollievo. Cristofano, intanto, scrutava pensosamente le mie occhiaie. Mi disse che la gioventù era una stagione felicissima della vita umana, che portava a sbocciare tutte le forze dell'anima e del corpo. Tuttavia, aggiunse con enfasi, di tale improvviso e talvolta disordinato fiorire non si doveva abusare, dissipando le nuove e quasi incontrollabili energie. E mentre mi tastava preoccupato le borse sotto gli occhi, mi ricordava che la dissipazione era oltretutto atto peccaminoso, come il commercio con le donne di malaffare (e con il capo indicò verso l'alto, ove si trovava il torrino di Cloridia) che poteva tra l'altro portare il mal francioso. Lo sapeva bene lui, che tanti ne aveva dovuti curare con i suoi autorevoli rimedi, come l'unguento magno e il 364/703
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legno santo. E pur tutta via per la salute era forse meno infausto quel commercio, piuttosto che la solitaria dissipazione. «Scusate» dissi per deviare dallo spinoso argomento «avrei un'altra curiosità: sapete per caso di quali malattie possono soffrire i topi?» Cristofano fece una risatina: «Basta così, immagino già tutto. Qualcuno dei nostri pigionanti ti ha chiesto se nella locanda ci sono topi, non è vero?». Mi limitai a un sorrisetto incerto, che non affermava né negava. «Ebbene io ti chiedo: ci sono topi nella locanda?» «Santo Cielo no, ho sempre pulito dappertutto con grande cura...». «Ma lo so, lo so. In caso contrario, se cioè avessi trovato qualche topo morto, sarei stato io stesso a mettervi tutti in guardia». «E perché?» «Ma mio povero ragazzo, i topi sono i primi appestati: Ippocrate raccomandava di non toccarli, e fu seguito da Aristotele, Plinio e Avicenna. Il geografo Strabone riferisce che in epoca romana era ben conosciuto il funesto significato della comparsa di topi malati per le strade, preludente un'epidemia, e ricorda che in Italia e Spagna erano assegnati premi a chi ne uccidesse il maggior numero. Nell'Antico Testamento i Filistei, tormentati da una fierissima pestilenza che affliggeva le parti deretane, facendo uscire dall'ano gl'intestini putrefatti, notarono che campi e villaggi venivano invasi dai topi. Interrogarono allora gl'indovini e i sacerdoti, i quali risposero che i ratti avevano devastato la Terra e occorreva donare al Dio d'Israele, per placarne lo sdegno, un ex voto col disegno degli ani e dei topi. Lo stesso Apollo, deità che causava la peste quando era adirata e la toglieva quando s'era placata, in Grecia veniva chiamato Sminteo, ossia uccisore di topi: e infatti nell'Iliade è Apollo Sminteo che trucida con la peste gli Achei che assediano Troia. E anche Esculapio, durante le epidemie di peste, veniva Imprimatur - Monaldi & Sorti
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raffigurato con un topo morto ai piedi». «Ma allora i topi causano la peste!» esclamai ripensando orripilato ai sorci morti che avevo visto la notte prima nei sotterranei. «Calma, ragazzo. Non ho detto questo. Ciò che ora ti ho esposto sono solo le credenze degli antichi. Oggi ci troviamo per fortuna nel 1683, e la moderna scienza medica ha fatto enormi progressi. Il vile sorcio non causa la peste, portata - come già ho avuto occasione di dire - dalla corruzione degli umori naturali e primieramente dall'ira del Signore Iddio. È vero, invece, che topi e ratti s'ammalano di peste e ne muoiono, proprio come gli uomini. Ma basta non toccarli, come diceva Ippocrate.» «Come si riconosce un topo appestato?» chiesi temendo la risposta. «Personalmente non ne ho mai visto uno, ma mio padre sì: hanno convulsioni, gli occhi rossi e gonfi, tremano e lanciano gridolini d'agonia». «E come si fa a capire che non si tratta d'un altro morbo?» «È semplice: di lì a poco muoiono stecchiti, in uno sbocco di sangue e facendo una piroetta. Poi da morti si gonfiano, e i baffi restano ben rigidi». Trascolorai. Tutti i topi incontrati nelle gallerie presentavano un rivoletto rosso che colava dal muso puntuto. E Ciacconio ne aveva persino afferrato uno per la coda! Non temevo per me, immune al morbo; ma il ritrovamento di quelle piccole carogne significava forse che la peste si stava diffondendo in città. Forse erano state serrate altre case e altre locande, dove poveri sventurati stavano patendo la nostra stessa angoscia. Nulla potevamo sapere, rinchiusi in quarantena. Chiesi quindi a Cristofano se a suo parere il contagio si fosse allargato. «Non temere. In questi giorni ho chiesto informazioni a più riprese a una delle sentinelle che montano la guardia davanti alla locanda; mi hanno riferito che non vi sono altri casi sospetti in città. E non c'è motivo di credere che non sia così». 366/703
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Mentre scendevamo, il medico m'ordinò di riposarmi qualche ora quel pomeriggio, ovviamente dopo essermi unto il petto col suo magnolicore. Cristofano era venuto a cercarmi in camera per avvertirmi che avrebbe provveduto egli stesso ad approntare qualcosa di assai semplice e mondificativo per il pranzo. Ora però aveva bisogno del mio aiuto: era preoccupato per alcuni pigionanti che, la sera prima, dopo la cena a base di zinne di vacca avevano eruttato pesantemente aria di stomaco. Non appena giungemmo in cucina, vidi accomodata su un fornelletto una grande campana di vetro con un becco, in forma di lambicco, che cominciava a distillare olio; al di sotto, qualcosa bruciava in un pignatino con gran fetore di solfo. Poco più in là invece, una boccia in forma di liuto, che il medico afferrò e cominciò a percuotere delicatamente con la punta delle dita traendone un suono sottile. «Senti? Perfettamente liutata: serve per calcinare in fornace l'olio di vitriolo, che applicherò sulle giandusse del povero Bedfordi. E speriamo che stavolta maturino e finalmente si rompano. Il vitriolo è assai corrosivo, asperrimo, d'umor nero e untuoso, e refrigera grandemente tutte le calidità intrinseche. Quello romano - che per fortuna avevo già acquistato prima della quarantena - è il migliore, perché è congelato col ferro, non come quello tedesco che è congelato col rame». Non avevo compreso granché, tranne che Bedfordi non era punto migliorato. Il medico proseguì: «Per far digerire i nostri pigionanti m'aiuterai ora a preparare il mio elettuario angelico, che con la sua virtù attrattiva e non modificativa risolve tutte le indisposizioni di stomaco e lo evacua, monda le piaghe ulcerate, solve il corpo e quieta tutti gli umori alterati. È buono anche per il catarro e il mal di denti». Mi porse quindi due viluppi di feltro castagno. Ne estrassi una coppia di fiaschi di vetro lavorato. «Sono molto belli» commentai. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Per tenere elettuari in buona forma secondo l'arte degli aromatari, codesti vanno serbati in vetro finissimo, ché per tal scopo gli altri vasi non valgon nulla» spiegò inorgoglito. In uno stava la sua quinta essenzia mescolata con elettuario di fuoco di rose, spiegò Cristofano; nell'altro coralli rossi, croco, cinnamomo, oriola e il lapis filosoforum Leonardi ridotto in polvere. «Misce» m'ordinò «e somministrane a tutti due dramme. Va' subito, ché non dovranno pranzare prima di quattro ore almeno».
Approntato l'elettuario angelico e versatolo in una bottiglia, feci il giro delle camere. Lasciai per ultimo Devizé, ch'era rimasto l'unico al quale dovessi ancora applicare i rimedi preservativi dalla peste. Appressandomi al suo uscio, con in spalla la sacca delle boccette di Cristofano, udii un leggiadro intreccio di consonanze, in cui non ebbi difficoltà a riconoscere il brano che più volte gli avevo udito suonare, e la cui ineffabile dolcezza puntualmente m'aveva rapito. Bussai timidamente e assai di buon grado egli m'invitò a entrare. Gli spiegai il motivo della mia visita ed egli assentì col capo mentre suonava. Senza proferire verbo, m'accoccolai per terra. Devizé aveva ora posato la chitarra, e tentava le corde d'una sorta di chitarrone assai più grande e lungo, dalla larga tastiera e molte corde gravi da suonarsi a vuoto. S'interruppe e mi spiegò ch'era una tiorba, e che per quello strumento egli stesso aveva composto molte suites di danze con gagliardissimo succedersi di preludi, allemande, gavotte, correnti, sarabande, minuetti, gighe, passacaglie e ciaccone. «Avete composto voi anche quel brano che suonate così spesso? Sapeste come incanta tutti qui nella locanda!» «Non l'ho composto io» rispose con aria distratta. «Me lo ha donato la Regina affinché lo suonassi per lei». 368/703
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«Quindi conoscete personalmente la Regina di Francia?» «La conoscevo: Sua Maestà Maria Teresa d'Austria è morta». «Mi dispiace, io..». «Suonavo spesso per lei» disse senza interrompersi «e anche per il Re, al quale ho avuto occasione d'insegnare qualche rudimento di chitarra. Il Re l'ha sempre amata molto». «Chi, la Regina?» «No, la chitarra» rispose Devizé con una smorfia. «Già, il Re voleva sposare la nipote di Mazzarino» recitai, pentendomene subito dopo, ché così avevo tradito d'essermi messo a origliare i suoi discorsi con Stilone Priàso e Cristofano. «Vedo che qualcosa sai» mi disse lievemente sorpreso. «Immagino sia stato l'abate Melani». Pur preso alla sprovvista, riuscii a neutralizzare i sospetti di Devizé: «Per carità, signore. Da quello strano individuo, perdonatemi se parlo così, cerco di tenermi alla larga da quando» qui finsi vergogna «da quando, ecco...». «Ho capito, ho capito, non devi dirmi altro» m'interruppe con un mezzo sorrisetto Devizé «neanche a me piacciono i pederasti». «Avete dovuto indignarvi anche voi con Melani?» chiesi, implorando mentalmente perdono per l'ignominiosa calunnia che stavo scagliando sull'onore dell'abate. Devizé rise. «Per fortuna, no! A me non ha mai dato... ehm, fastidio. A Parigi anzi non ci siamo mai rivolti la parola. Si dice che Melani fosse un soprano eccezionale, ai tempi di Luigi Rossi, di Cavalli... Cantava per la Regina madre, a cui piacevano molto le voci melanconiche. Ora non canta più: usa la lingua per la menzogna, purtroppo, e per la delazione» disse con tono acido. Era fin troppo chiaro: Devizé non amava Atto, e sapeva della sua fama d'intrigante. Ma con l'aiuto di qualche necessaria calunnia sull'abate Melani, e fingendomi più rustico del vero, stavo creando col chitarrista un poco di complicità. Con l'aiuto d'un buon massaggio gli avrei ancor più sciolto la lingua, come Imprimatur - Monaldi & Sorti
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era accaduto con gli altri pigionanti, e gli avrei forse cavato qualche informazione sul vecchio Fouquet. L'importante, pensai, era ch'egli mi trattasse da ingenuo garzone, senza cervello e senza memoria. Scelsi dalla mia sacca le essenze più profumate: sandalo bianco, garofali, aloe, bengioi. Le mescolai, secondo la ricetta di maestro Nicolò dalla Grotaria Calabrese, con tignami, storace calamita, laudano, galia moscata, mastici, spiconardo, storace liquido e tenue aceto stillato. Ne feci una palla odorosa da passare sulle spalle e sui fianchi del giovane musico finché si fosse disfatta, esercitando lievi pressioni sui muscoli. Denudatosi il dorso, Devizé si pose a cavalcioni della seggiola, col viso rivolto alla grata della finestra: rimirare la luce diurna, disse, era l'unico sollievo in quei giorni penosi. All'inizio del massaggio tacqui. Accennai poi a mugolare maldestramente il motivetto che tanto m'incantava: «Avete detto che ve lo ha donato la regina Maria Teresa; lo ha forse composto lei?». «Ma no, cosa ti salta in mente? Sua Maestà non componeva. E poi quel rondò non è un giochino da principianti; è del mio maestro, Francesco Corbetta, che l'aveva appreso in uno dei suoi viaggi e ne fece dono, prima di morire, a Maria Teresa». «Ah, il vostro maestro era italiano» commentai vago. «Di quale città? So che il signor di Mourai veniva da Napoli, come un altro dei nostri pigionanti, il signor Stilone...». «Persino un garzoncello qualsiasi come te» m'interruppe Devizé come sovrappensiero «conosce l'amore tra il Re Cristianissimo e la nipote di Mazzarino. È una vergogna. Della Regina invece nessuno sa nulla, tranne che Luigi la tradiva. E il più grande torto che si possa fare a una donna, soprattutto a Maria Teresa, è fermarsi alle apparenze». Mi colpirono profondamente quelle parole, che il giovane musico sembrava aver pronunciato con sincera amarezza: nel giudicare del sesso muliebre, mai accontentarsi di ciò che si mostra a prima vista. Malgrado sentissi bruciare ancora troppo crudelmente la ferita del nostro ultimo incontro, d'istinto an370/703
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dai col pensiero a Cloridia, allorché m'aveva senza pudore rinfacciato di non averle versato l'obolo ch'ella s'aspettava. Tuttavia, non poteva forse attagliarsi anche a lei la considerazione di Devizé? Provai allora una punta di vergogna per il paragone temerario tra le due donne, la Regina e la cortigiana. Ma più d'ogni altra cosa, sentii improvvisamente mordermi nostalgia, solitudine e crudele distanza dalla mia Cloridia. Non potendo al momento colmare alcuna delle tre, divenni sommamente ansioso d'apprendere di più sulla sposa del Re Cristianissimo, la cui sorte Devizé lasciava già indovinare triste e tormentosa. In qualche modo, speravo oscuramente, il racconto m'avrebbe riconciliato con l'oggetto dei miei languori. «In effetti» gli tesi l'amo con una veniale menzogna «ho sentito parlare di Sua Maestà Maria Teresa. Ma solo da pigionanti di passaggio nella locanda. Forse...». «Non forse: sicuramente hai bisogno di essere meglio ammaestrato» m'interruppe allora bruscamente «ed è meglio che dimentichi quelle chiacchiere da cortigiani, se davvero vuoi capire chi fosse Maria Teresa e cosa ella abbia significato per la Francia, e anzi per tutta l'Europa». Aveva abboccato al mio richiamo, e iniziò a raccontare. L'ingresso nuziale a Parigi della giovanissima Maria Teresa Infanta di Spagna, appresi da Devizé mentre gli spandevo la palla odorosa sulle scapole, era stato uno degli eventi più gioiosi di tutta la storia di Francia. In una tiepida giornata di settembre del 1660 Luigi e Maria Teresa arrivarono da Vincennes. La giovane Regina era assisa in un carro trionfale più bello ancora che se vi fosse stato seduto Apollo stesso; i suoi capelli folti e ricci erano luminosi quanto gli stessi raggi del sole, e trionfavano sul bell'abito nero ricamato d'oro e d'argento e tempestato d'innumerevoli pietre dal valore inestimabile; l'argento degli ornamenti della chioma e il bianco dell'incarnato, che così perfettamente si sposavano col blu dei grandi occhi, le donavano uno splendore mai più ammirato, prima e dopo d'allora. I Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Francesi furono entusiasti a tale vista e, trasportati dalla gioia e dall'amore devoto che solo i sudditi fedeli sanno provare, le indirizzarono mille benedizioni. Luigi XIV, Re di Francia e di Navarra, era a sua volta tal quale i poeti ci rappresentano i mortali ormai divinizzati; il suo abito era tutto intessuto d'oro e d'argento, superato solo dalla dignità di colui stesso che lo indossava. Montava una superba cavalcatura, seguito da un gran numero di Principi. La pace tra Francia e Spagna, che il Re aveva appena dato alla Francia con un così fausto imeneo, rinnovò nel cuore del popolo lo zelo e la fedeltà; e tutti coloro che quel giorno ebbero la grazia di vederlo si sentirono felici di averlo per loro Signore e Sovrano. La Regina madre, Anna d'Austria, vide passare il Re e la Regina da un balcone di rue SaintAntoine: bastava scorgere il suo viso per indovinare la gioia ch'ella provava. I due giovani reali si univano per esaltare la grandezza dell'uno e dell'altro Regno, finalmente pacificati. Ma anche il cardinal Mazzarino trionfava: la sua opera di sottile politico, che con la pace dei Pirenei aveva riportato alla Francia quiete e prosperità, trovava in tal modo il più sublime coronamento. Seguirono mesi di festeggiamenti, balletti, opere in musica, e la Corte non fu mai più così ricca di gaudio, galanteria e opulenza. «E poi?» chiesi avvinto dalla storia. «E poi, e poi...» cantilenò Devizé. E poi bastarono pochi mesi, riprese il racconto, per far capire a Maria Teresa quale sarebbe realmente stato il suo destino, e di quale fedeltà fosse capace il suo consorte. I primi appetiti del giovane Re erano stati soddisfatti dalle damigelle di compagnia di Maria Teresa. E quand'anche sua moglie non avesse ben compreso di che pasta era fatto Luigi, la aiutarono altri convegni erotici del Re, neanche troppo segreti, con madame de La Vallière, damigella d'onore della cognata Enrichetta Stuart. Poi venne il turno di madame de Montespan, che a Luigi diede ben cinque figli. Tale intensa attività adulterina si svolgeva così alla luce del sole che il popolo ormai chia372/703
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mava Maria Teresa, madame de La Vallière e la Montespan «le tre regine». Il Re non conosceva freni: aveva allontanato dalla Corte e più volte minacciato di prigione il povero marito della Montespan, Louis de Gondrin, che aveva osato protestare vestendosi a lutto e ornando con grosse corna gli angoli della propria carrozza. Per la sua amante invece aveva fatto costruire due splendidi palazzi, con tripudi di giardini e fontane. Nel 1674 la Montespan era rimasta pressoché senza rivali, visto che Louise de La Vallière s'era ritirata in convento. La nuova favorita viaggiava con due tiri a sei, sempre tallonati da un carro di provviste e da un seguito di decine di servitori. Racine, Boileau e La Fontaine la celebravano con i loro versi, e tutta la Corte riteneva un grande onore poter essere ricevuti nelle sue stanze, mentre nessuno rendeva omaggio alla Regina se non per il minimo imposto dall'etichetta. La fortuna della Montespan si era però guastata non appena gli occhi del Re si erano posati su Maria Angelica de Fontanges, bella come un angelo e stolta come una gallinella. Maria Angelica, non contenta d'aver soppiantato le rivali, faticava a capire i limiti che la sua posizione le imponeva: pretendeva di apparire in pubblico al fianco del Re e di non salutare nessuno, neppure la Regina, nonostante avesse fatto parte del suo seguito. Infine il Sovrano si fece irretire da madame de Maintenon, alla quale affidò alla rinfusa i suoi figli legittimi e i numerosi bastardi avuti dalle altre amanti. Ma gli affronti, per Maria Teresa, non finivano qui. Il Re Cristianissimo prediligeva infatti i figli illegittimi e disprezzava invece il Delfino, il figlio primogenito avuto dalla Regina. Gli aveva dato in sposa Maria Anna Vittoria, figlia dell'Elettore di Baviera, assai brutta e sgraziata. Le belle donne, per carità!, quelle erano solo per Sua Maestà. Qui Devizé si fermò. «E la Sovrana?» chiesi incredulo di fronte a quel vorticoso traffico di femmine, e ansioso di conoscere la reazione di Maria Teresa. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Subiva tutto in silenzio» rispose cupo il musico. «Cosa realmente s'agitasse nel suo animo, nessuno saprà mai». Gli adulteri, le umiliazioni, i risolini impietositi della Corte e del popolo: col tempo Maria Teresa aveva imparato a ingoiare tutto col sorriso sulle labbra. Il Re la tradiva? Lei si faceva ancora più caritatevole e frugale. Il Re esibiva a tutti le sue conquiste? Lei moltiplicava preghiere e devozioni. Il Re faceva la corte a mademoiselle de Théobon o a mademoiselle de La Mothe, dame di compagnia di sua moglie? Maria Teresa distribuiva a tutti sorrisi, consigli di saggezza, sguardi carezzevoli. Ai tempi in cui la regina madre Anna d'Austria era ancora viva, Maria Teresa aveva in verità osato tenere il broncio a Luigi per un paio di giorni. Ben poca cosa, in confronto agli oltraggi ricevuti. Ciononostante c'erano volute settimane e settimane perché Luigi si degnasse di rivolgerle nuovamente lo sguardo, e solo grazie alla Regina madre che s'era industriata giorno e notte per rabberciare la situazione. Già allora Maria Teresa aveva capito di dover accettare tutto ciò che il matrimonio le portava: tutto, specie il male. E senza aspettarsi nulla, se non quel poco che il suo consorte le concedeva. Anche in amore Luigi aveva vinto. E poiché conosceva e venerava l'arte di vincere, alla fine aveva escogitato quella che era - secondo lui - la condotta migliore e più conveniente. Trattava sua moglie, la Regina di Francia, con tutti gli onori propri della sua condizione: mangiava con lei, dormiva con lei, adempiva a tutti gli obblighi familiari, conversava con lei come se le sue amanti non fossero mai esistite. Maria Teresa, oltre alle pratiche devozionali, si concedeva solo pochi e timidi svaghi. Teneva presso di sé una mezza dozzina di buffoncelli che chiamava Ragazzetto, Cuoricino o Figlioletto, e uno stuolo di cagnolini che trattava con una tenerezza ossessiva e smodata. Per le passeggiate aveva fatto assegnare a quella assurda compagnia una carrozza a parte. Spesso nani e cagnolini mangiavano a tavola con la Regina, e per averli sempre vicino Maria Teresa spendeva cifre folli. 374/703
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«Ma non avete detto che era una donna frugale e caritatevole?» chiesi interdetto. «Certo; ma questo era il prezzo della solitudine». Dalle otto alle dieci di sera, continuò Devizé, Maria Teresa si dedicava al gioco, in attesa che il Re venisse a prenderla per la cena. Quando la Regina giocava a carte, Principesse e Duchesse si disponevano attorno in semicerchio, mentre alle sue spalle si accalcava in piedi la nobiltà inferiore, accaldata e sbuffante. Il gioco preferito della Regina era l'hombre, ma ella era troppo ingenua e perdeva sempre. Talvolta la principessa d'Elbeuf si sacrificava e giocava contro la sua Sovrana lasciandosi sconfiggere a bella posta: spettacolo triste e imbarazzante. Fino alla fine la Regina si era sentita ogni giorno più sola, com'ella stessa confidava ai suoi pochi intimi. E prima di morire aveva scolpito in una frase la sua pena: «Il Re s'intenerisce per me solo ora che sto per andarmene». Il racconto, che m'aveva tanto impietosito, mi rendeva ora impaziente: ben altre informazioni avevo sperato d'apprendere dalla viva voce del musico. Mentre continuavo a massaggiare la schiena di Devizé, posai lo sguardo sul tavolo ch'era a pochi passi da noi. Distrattamente avevo appoggiato qualcuno dei miei vasetti medicamentosi su alcuni fogli di intavolature musicali. Ne chiesi venia a Devizé, il quale ebbe un sussulto e s'alzò di scatto a controllare i fogli, temendo che si fossero unti. Trovò in effetti una piccola macchia d'olio su uno di essi, e s'adirò assai. «Non sei un garzone, sei una bestia! Hai rovinato il rondò del mio maestro». Inorridii: avevo malamente imbrattato proprio il meraviglioso rondò che tanto amavo. M'offersi di cospargere il foglio d'una polvere assai sottile e secca con cui assorbire l'unto; Devizé intanto imprecava e mi copriva d'insulti. M'adoperai con fervore e mano tremante per riportare a nuovo quel foglio di musica, sul quale erano tracciati i suoni che tanto mi avevano Imprimatur - Monaldi & Sorti
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deliziato. Fu allora che notai una scritta sul margine in alto: «à Mademoiselle». «È una dedica d'amore?» domandai balbettante, mostrandomi ancora in imbarazzo per l'accaduto. «Ma chi vuoi che ami Mademoiselle... l'unica donna al mondo più sola e più triste della Regina!» «Chi è Mademoiselle?» «Oh, una poveretta, una cugina di Sua Maestà. Aveva parteggiato per i ribelli della Fronda, e lui gliel'ha fatta pagare cara: figurati che Mademoiselle aveva fatto sparare i cannoni della Bastiglia contro le truppe del Re». «È stata condannata al patibolo?» «Peggio: allo zitellaggio» ridacchiò Devizé. «Il Re le impedì di maritarsi. Mazzarino diceva: "Quei cannoni le hanno fatto fuori il marito". «Il Re non ha pietà neppure dei parenti» commentai. «Già. Quando Maria Teresa morì, nel luglio scorso, sai cosa ha detto Sua Maestà? "È il primo dispiacere che mi dà". E basta. È rimasto indifferente perfino alla morte di Colbert, che lo aveva fedelmente servito per vent'anni». Devizé continuava a divagare, ma ormai non l'ascoltavo più. Una parola mi stava pulsando nella testa: luglio. «Dicevate che la Regina è morta a luglio?» lo interruppi bruscamente. «Come dici? Sì, il 30 luglio, in seguito a una malattia». Non gli chiesi altro. Avevo terminato di smacchiare il foglio; gli nettai rapidamente il dorso dall'unguento in eccesso, porgendogli infine la camicia. Mi congedai e uscii dalla sua stanza col fiato corto per l'agitazione, chiusi la porta e m'appoggiai al muro per riflettere. Una Sovrana, la Regina di Francia, era spirata per malattia nell'ultima settimana di luglio: esattamente come aveva previsto la gazzetta astrologica. Era come se per bocca di Devizé mi fosse stato inviato un ammonimento: una notizia vecchia di mesi (rimasta ignota so376/703
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lo a me, umile garzone) tornava a confermare l'infallibilità della gazzetta astrologica e l'ineluttabilità del Fato Siderale. Cristofano m'aveva assicurato che l'astrologia non necessariamente è contraria alla Fede, e anzi è di sommo aiuto alla medicina. Ma in quel frangente prevalse in me il ricordo degl'indecifrabili ragionamenti di Stilone Priàso, della fosca vicenda di Campanella e del tragico destino di padre Morandi. Pregai il Cielo di darmi un segno, che mi liberasse della paura e m'indicasse la strada. Fu allora che udii nuovamente levarsi sui toni gravi della tiorba le note del meraviglioso rondò: Devizé aveva ripreso a suonare. Congiunsi le mani a preghiera e restai immobile, con gli occhi chiusi, diviso tra speranza e paura, finché la musica ebbe termine. Trascinatomi in camera, mi lasciai cadere sul letto, l'animo svuotato d'ogni volontà e d'ogni vigore, tormentato da eventi di cui non intravedevo né il senso né l'ordine. Mentre cedevo al torpore, cantilenai la dolce melodia che avevo appena udito, quasi ch'essa potesse farmi grazia di una chiave segreta con cui decifrare il labirinto dei miei patimenti.
Mi risvegliarono alcuni rumori provenienti dalla via dell'Orso. Ero rimasto assopito solo per pochi minuti; il mio primo pensiero questa volta andò nuovamente alla gazzetta, ma mescolandosi a un dolceamaro concerto di desiderio e di privazione, la cui causa prima non ebbi difficoltà a discernere. Per trovare requie e sollievo, sapevo di dover bussare a una porta. Da qualche giorno ormai lasciavo i pasti davanti alla stanza di Cloridia, limitandomi a bussare per segnalarle l'avvenuta consegna. Da allora solo Cristofano aveva avuto accesso alla sua stanza. Ma adesso la conversazione con Devizé aveva risvegliato la ferita della lontananza da lei. Che importava, ormai, che m'avesse offeso con la sua venale Imprimatur - Monaldi & Sorti
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richiesta? Con il morbo pestifero che circolava tra noi, ella avrebbe potuto esser morta nel giro di un giorno o due, mi dicevo con una stretta al cuore. L'orgoglio, nei momenti estremi, è il peggiore dei consiglieri. Non sarebbe certo mancato il pretesto per ripresentarmi a lei: avevo molto da raccontarle, e altrettanto da chiederle. «Ma io non so nulla di astrologia, te l'avevo pur detto» si difese Cloridia quando le ebbi mostrato la gazzetta e le ebbi spiegato quanto quelle previsioni si rivelassero accurate ed esatte. «So leggere i sogni, i numeri e le linee delle mani. Per le stelle devi andare da qualcun altro». Tornai nella mia stanza con l'animo alquanto confuso. Ma non era cosa grave: contava solo che il cieco dio dalle piccole ali, ancora una volta, m'avesse trafitto il petto. Non m'importava che mai avrei potuto nutrire speranze presso Cloridia. Non m'importava ch'ella s'accorgesse della mia passione e potesse riderne. Ero comunque fortunato: potevo vederla e addirittura conversare con lei quando e quanto volevo, almeno finché fosse durata la quarantena. Un'occasione irripetibile per un povero garzone come me; impagabili momenti che di certo avrei ricordato e rimpianto per il resto dei miei grigi giorni. Mi ripromisi di tornare al più presto a visitarla. In camera trovai un piccolo rinfresco lasciatomi da Cristofano. Preda dell'ebbrezza amorosa, sorseggiai un bicchiere di vino quasi fosse nettare purissimo di Eros, e trangugiai un pezzo di pane e cacio come sopraffina manna, aspersa sul mio capo dalla tenera Afrodite. Una volta rifocillatomi, e svanita ahimé la dolce aura che l'incontro con Cloridia m'aveva depositato nell'animo, tornai a meditare sul colloquio che avevo avuto con Devizé: nulla ero riuscito a cavargli di bocca sulla morte del Sovrintendente Fouquet. L'abate Melani aveva ragione: Devizé e Dulcibeni non avrebbero facilmente parlato di quella strana faccenda. Ero tuttavia riuscito a non mettere in sospetto il giovane musico. Al 378/703
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contrario: con le mie ingenue domande, e col danno che avevo maldestramente arrecato al suo spartito, m'ero garantito l'immagine indelebile d'un servo rozzo e imbecille. Mi recai a visitare il mio padrone, che trovai in lieve miglioramento. Era presente Cristofano, che lo aveva appena imboccato. Pellegrino cominciava a parlare con discreta scioltezza, e sembrava intendere a sufficienza quanto gli veniva detto. Certo non era in perfetta salute, e dormiva ancora per larga parte del giorno, ma, concluse Cristofano, non era azzardato prevedere che tra qualche dì avrebbe potuto deambulare normalmente. Dopo essermi trattenuto alquanto tempo con Pellegrino e il medico, tornai alla mia camera, e finalmente mi concessi un sonno degno di questo nome. Dormii a lungo, e quando scesi in cucina era ora di cena. M'affrettai a cucinare per i pigionanti; preparai qualche spiga di merangoli con zuccaro sopra per acconciar lo stomaco. Proseguii con il ciambuglione alla milanese, fatto di rossi d'ova, moscatello in cui stemprare pignoli pesti, zuccaro, cannella a discrezione (che tralasciai) e un poco di botiro. Il tutto da pestare nel mortaio, passare per setaccio e poi da mettere in un polsonetto d'acqua bollente fino ad addensarlo. Per finire accompagnai con qualche pera bergamotta. Compiuto il giro, tornai in cucina e preparai mezza chicchera di bevanda calda di caffè tostato. Poi salii al torrino, in punta di piedi per non farmi sorprendere da Cristofano. «Grazie!» esclamò radiosa Cloridia appena spalancato l'uscio. «L'ho preparato solo per voi» ebbi il coraggio di dirle arrossendo violentemente. «Adoro il caffè!» disse chiudendo gli occhi e annusando inebriata l'effluvio che dalla chicchera si spandeva nella stanza. «Si beve molto caffè da dove venite voi, in Olanda?» «No. Ma come lo hai preparato tu, diluito e abbondante, mi piace moltissimo. Mi ricorda mia madre». «Sono contento. Mi pareva d'aver capito che non l'aveste mai conosciuta». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Praticamente è così» rispose frettolosa. «Voglio dire: di lei non ricordo neanche il viso, ma solo il profumo del caffè, che, come ho poi appreso, sapeva preparare magnificamente». «Era italiana anche lei, come vostro padre?» «No. Ma sei venuto per torturarmi con le domande?» Cloridia s'era rabbuiata: avevo rovinato tutto. Ma subito la vidi cercare i miei occhi con i suoi, e regalarmi un bel sorriso. M'invitò dolcemente a sedermi, indicandomi una seggiola. Tirò fuori da un canterano due coppette e una focaccina secca all'anice, e mi versò del caffè. Poi mi si sedette davanti, sulla sponda del letto, sorseggiando avidamente. Non mi sovveniva più nulla da dire per riempire il silenzio. E mi vergognavo di porre ulteriori domande. Cloridia, intanto, sembrava piacevolmente affaccendata a inzuppare un pezzo del dolce nella bevanda calda e a morderlo con grazia e ferinità al contempo. Mi strussi di tenerezza nel guardarla, e sentii gli occhi farmisi umidi mentre immaginavo di affondare il naso nei suoi capelli e di sfiorarle la fronte con le labbra. Cloridia sollevò lo sguardo: «Sono giorni ormai che parlo solo con te, e della tua vita non so ancora nulla». «C'è così poco che vi possa interessare, monna Cloridia». «Non è vero: per esempio da dove vieni, quanti anni hai, come e quando sei finito qui». Le esposi succintamente il mio passato di trovatello, gli studi compiuti grazie all'anziana religiosa e alla benevolenza del signor Pellegrino nei miei confronti. «E così hai ricevuto un'istruzione. Lo avevo immaginato dalle tue domande. Sei stato molto fortunato. Io invece, perduto mio padre a dodici anni, ho dovuto arrangiarmi col poco che lui aveva fatto in tempo a insegnarmi» disse pur senza perdere il sorriso. «Quindi avete appreso solo da vostro padre la lingua italiana. Tuttavia parlate benissimo». «No, non l'ho imparata solo da lui. Abitavamo a Roma quando rimasi sola. Allora altri mercanti italiani mi condussero di 380/703
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nuovo in Olanda con loro». «Dev'essere stato ben triste». «Per questo ora sono qui. Ho pianto per anni, ad Amsterdam, ricordando quanto ero stata felice a Roma. Intanto leggevo e studiavo da sola, nel poco tempo che mi restava tra...». Non occorreva finire la frase. Si riferiva di certo ai patimenti che la vita infligge agli orfani, e che avevano condotto Cloridia sulla strada dell'abominevole meretricio. «Ma così riuscii ad affrancarmi» riprese come se avesse indovinato il mio pensiero «e potei finalmente seguire il sentiero della vita che si trova celato nei miei numeri...». «I vostri numeri?» «Ma già, tu non conosci la numerologia» disse con ostentata cortesia, mettendomi sottilmente a disagio. «Ebbene» proseguì «devi sapere che i numeri della nostra data di nascita, ma anche quelli di altre date importanti della vita, contengono in sé tutta la nostra esistenza. Il filosofo greco Pitagora diceva che attraverso i numeri tutto può essere spiegato». «E i numeri della vostra data di nascita vi portavano qui a Roma?» chiesi vagamente incredulo. «Non solo: io e Roma siamo una cosa sola. I nostri destini dipendono l'uno dall'altro». «Ma com'è possibile?» domandai affascinato. «I numeri parlano chiaro. Io sono nata il 1° aprile 1664. Mentre il compleanno di Roma...». «Come: anche una città può festeggiare il compleanno?» «Ma certo. Non conosci la storia di Romolo e Remo, della lupa e del volo degli uccelli, e di come venne fondata la città?» «Certamente sì». «Ebbene, Roma venne fondata in un giorno preciso: il 21 aprile dell'anno 753 avanti Cristo. E le due date di nascita, quella di Roma e la mia, danno lo stesso risultato. Purché però le si scriva correttamente come si fa in numerologia, ossia contando i mesi a partire da marzo, mese della primavera e quindi dell'inizio della nuova vita, come infatti facevano gli antichi Romani Imprimatur - Monaldi & Sorti
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e come si usa ancora oggi nel calendario astrologico, che inizia appunto con l'Ariete». Capii che ci si addentrava in un terreno scivoloso, dove il confine che separa dall'eresia e dalla stregoneria si fa molto sottile. «Aprile è quindi il secondo mese dell'anno» proseguì Cloridia prendendo carta e inchiostro «e le due date vanno scritte così: 1/2/1664 e 21/2/753. Se sommi i due gruppi di numeri hai prima 1+2 + 1 + 6 + 6 + 4 = 20. E poi: 2 + 1+ 2 + 7 + 5 + 3 = 20. Capisci? Lo stesso numero». Fissai quelle cifre frettolosamente scarabocchiate sul foglio e tacqui. La coincidenza era in effetti sorprendente. «Non solo» incalzò Cloridia intingendo nel calamaio e riprendendo a far di calcolo. «Sommando giorno mese e anno, anziché cifra per cifra, ho 21 + 2 + 753 = 776. Se sommo le cifre del totale, 7 + 7 + 6, ottengo ancora 20. Ma anche sommando 1 + 2 + 1664 ricavo 1667, le cui cifre danno anch'esse 20. E sai cosa significa il numero 20? È il Giudizio, l'Arcano maggiore dei Tarocchi che porta il numero 20, e significa riparazione dei torti subiti ed equo giudizio dei posteri». Era proprio brava la mia Cloridia. Tanto che non avevo capito granché dei suoi calcoli divinatori, né perché vi si applicasse con tanto fervore. Ma a poco a poco la mia diffidenza era stata vinta dai suoi virtuosismi. Ero estasiato: le grazie di Venere gareggiavano con l'intelletto di Minerva. «Allora siete a Roma per ottenere la riparazione di un torto subito?» domandai. «Non m'interrompere» ribatté bruscamente. «La scienza dei numeri dice che la riparazione dei torti porterà un giorno i posteri a correggere il proprio giudizio. Ma non mi chiedere cosa significa esattamente, perché ancora non lo so neppure io». «Era scritto nelle cifre anche che sareste scesa alla locanda del Donzello?» chiesi attratto dall'idea che il mio incontro con Cloridia fosse predestinato. «No, non nelle cifre. Una volta arrivata a Roma, ho scelto 382/703
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questa locanda seguendo la virga ardentis, la verga ardente, o tremolante, o sporgente che dir si voglia. Sai di cosa parlo?» disse alzandosi in piedi e tendendo il braccio all'altezza del ventre come a mimare un lungo bastone. Aveva tutta l'aria di essere un'allusione oscena. Rimasi muto e avvilito. «Ma ne parleremo un'altra volta, sempre che tu voglia» concluse con un sorriso che mi sembrò ambiguo. Mi congedai, dirigendomi mestamente a fare il giro delle camere per ritirare le scodelle in cui avevo servito la cena. Cosa aveva mai voluto dire Cloridia con quello sconcio gesto? Era forse un invito lascivo e, quel che è peggio, mercenario? Non ero così stupido: sapevo bene che nella mia umile condizione era ridicolo sperare ch'ella pensasse a me come a qualcosa di più d'un povero servo. Ma lei, d'altronde, non aveva capito che non possedevo un soldo? Sperava forse che per lei avrei sottratto del denaro al mio padrone? Scacciai con orrore quel pensiero. Cloridia aveva accennato a un torto subito, legato al suo ritorno a Roma. No, non poteva aver parlato di meretricio in un momento per lei così grave. Dovevo aver frainteso. Mi compiacqui di vedere i pigionanti della locanda visibilmente soddisfatti del pasto. Quando bussai alla sua porta, Pompeo Dulcibeni stava ancora sorseggiando il ciambuglione, ormai freddo, facendolo schioccare con gusto tra la lingua e il palato. «Siediti pure, caro. Perdona, ma l'appetito oggi m'è giunto in ritardo». Obbedii restando in silenzio, in attesa che finisse di trangugiare la minestra. Vagando con lo sguardo tra gli oggetti sparsi sul canterano accanto alla seggiola, posai gli occhi su tre volumetti con la copertina vermiglia a rabeschi d'oro. Erano molto belli, pensai; ma dove li avevo già veduti? Dulcibeni intanto mi fissava incuriosito: aveva terminato il Imprimatur - Monaldi & Sorti
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ciambuglione e mi stava tendendo la scodella. Raccattai tutto col più ingenuo dei sorrisi, e uscii a occhi bassi. Appena fuori dalla stanza, anziché scendere in cucina, mi precipitai al secondo piano. Quando bussai trafelato alla porta di Atto Melani avevo le braccia ancora cariche di stoviglie. «Pompeo Dulcibeni?» esclamò incredulo l'abate, mentre gli terminavo il mio racconto. Il giorno precedente infatti m'ero recato in camera di Dulcibeni per massaggiarlo, e durante il trattamento egli aveva avuto desiderio d'aspirare un po' di tabacco. Aveva quindi aperto il cassettone alla ricerca della sua tabacchiera in ciliegio intarsiato, e per fare ordine aveva estratto dal mobile alcuni libriccini d'assai bella rilegatura, in pelle vermiglia e rabeschi d'oro. Ebbene, nella libreria di Tiracorda avevo potuto scorgere alcuni identici libriccini: si trattava di un'edizione delle opere di Galeno in sette tomi, di cui però tre mancavano. E appunto tre erano gli esemplari che avevo appena visto in camera di Dulcibeni. Sulla costa era inciso Galeni opera, ed era senza dubbio l'opera omnia di Galeno in sette tomi, di cui quattro erano a casa di Tiracorda. «Certo» cominciò a ragionare l'abate «è sempre possibile che Dulcibeni e Tiracorda si siano visti l'ultima volta prima dell'inizio della quarantena. È stato allora, forse, che Tiracorda ha prestato quei libri a Dulcibeni». Tuttavia, obiettò a se stesso, l'abate Melani e io eravamo entrambi testimoni del fatto che l'archiatra aveva ricevuto un ospite in piena notte: un curioso orario di visita! Non solo: la coppia si era data appuntamento per il giorno dopo alla stessa ora. Il misterioso ospite di Tiracorda, dunque, girava per la città all'incirca nelle stesse ore in cui anche noi due potevamo uscire dal Donzello non visti. L'ospite doveva quindi essere proprio Dulcibeni. «Come mai Tiracorda e Dulcibeni si conoscono?» «Fai questa domanda» rispose Atto «perché ti manca un e384/703
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lemento: Tiracorda è marchigiano». «Come Dulcibeni!» «Anzi, ti dirò di più: Dulcibeni è natio della Marca fermana, e mi pare di ricordare che Tiracorda venga egli pure da Fermo». «Dunque sono concittadini». «Proprio così. Roma ha sempre ospitato molti medici illustri provenienti da quell'antica e nobile città: Romolo Spezioli per esempio, il medico personale della regina Cristina di Svezia, il protomedico generale Giovan Battista Benci e anche Cesare Macchiati, se non ricordo male, che come Tiracorda fu medico di Conclave. I fermani abitano quasi tutti in questa zona, attorno alla chiesa di San Salvatore in Lauro, dove si riunisce la loro Arciconfraternita». «Tiracorda però abita anche a pochi metri di distanza dal Donzello» obiettai «e sicuramente sa che ci troviamo in quarantena. Non teme d'essere contagiato da Dulcibeni?» «Evidentemente no. Forse Dulcibeni gli ha detto che Cristofano non crede che si tratti di peste, e gli ha taciuto del male di Bedfordi e dello strano accidente occorso al tuo padrone». «Allora è Pompeo Dulcibeni il ladro delle chiavi del mio padrone. Proprio lui, così severo!» «Mai fermarsi alle apparenze. Probabilmente sarà stato istruito sull'uso dei sotterranei da Pellegrino». «Mentre io non mi sono mai accorto di niente. È incredibile…». Noi siam tre donzellette semplicette semplicette, oh, oh, senza fallo...
Mi schernì canticchiando in buffa posa con la sua vocina. «Svegliati, ragazzo. Ricorda: i segreti sono fatti per essere venduti. Dapprima Pellegrino gli deve aver aperto il passaggio segreto a pagamento. Poi però, all'inizio della quarantena, il tuo padrone è finito fuori combattimento. Dulcibeni ha quindi dovuto trafugare il mazzo per farsi fare una copia della chiave dello stanzino da un artigiano in via dei Chiavari: la strada, coImprimatur - Monaldi & Sorti
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me dice Ugonio, dove stamperizza Komarek». «E Komarek che c'entra?» «Un bel nulla, te l'ho già spiegato, ricordi? Una pura coincidenza che ci ha condotti fuori strada». «Ah, già» risposi, preoccupato di non riuscire più a tener dietro alla congerie di scoperte, smentite, intuizioni e false piste che si susseguivano negli ultimi giorni. «Ma perché Pellegrino non ha dato a Dulcibeni una copia della chiave?» «Perché forse il tuo padrone, come t'ho detto, si fa pagare ogni volta che un cliente vuole servirsi dei sotterranei. Niente chiavi a disposizione, quindi». «Perché invece Stilone Priàso possiede la sua copia?» «Non dimenticare che l'ultima volta ch'egli ha soggiornato alla locanda, era ancora ai tempi della signora Luigia: l'avrà chiesta, o rubata, alla buonanima». «Non si spiega però perché Dulcibeni avrebbe rubato le mie perline, visto che appare tutt'altro che povero» osservai. «E io ho una domanda ancora più difficile: se è lui il misterioso ladro che ci siamo tanto affannati a inseguire, come mai ogni volta è riuscito a esser cento volte più rapido di noi, e a far perdere le proprie tracce?» «Forse conosce le gallerie meglio di noi. Tuttavia, ora che ci penso, non può andare tanto spedito: solo due giorni fa è stato colto da un attacco di sciatica. E Cristofano gli ha detto che ne avrebbe risentito per alcuni giorni». «A maggior ragione. Aggiungiamo poi il fatto che Dulcibeni non è più un giovanotto, è di corporatura pesante e se parla un po' più a lungo inizia ad ansimare: come diavolo fa ad arrampicarsi tutte le notti su per la fune fino alla botola?» concluse Atto con una punta d'acredine, lui che sudava e sbuffava ogni volta che ci trovavamo alle prese con la fune nei sotterranei. Raccontai poi ad Atto quanto avevo appreso di recente su Pompeo Dulcibeni. Gli riferii che, a detta di padre Robleda, l'attempato marchigiano apparteneva alla setta dei giansenisti. Gli narrai anche del duro giudizio espresso da Dulcibeni contro 386/703
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l'attività spionistica dei gesuiti e del suo infuocato soliloquio contro i matrimoni tra consanguinei, che da secoli avvenivano tra le famiglie regnanti d'Europa. Il gentiluomo fermano, sottolineai, era tanto scandalizzato da quella pratica, e s'era tanto scaldato, da augurarsi ad alta voce - in un'immaginaria conversazione con una donna davanti allo specchio - la vittoria dei Turchi a Vienna: così, aveva augurato a se stesso, sarebbe salito sui troni un po' di sangue fresco e incorrotto. «Un discorso, pardon un soliloquio, da vero giansenista. Almeno in parte» commentò l'abate Melani corrugando la fronte pensieroso. «Già, perché desiderare l'invasione turca in Europa, e solo per ripicca contro Borboni e Asburgo, mi pare sia un po' troppo anche per il più fanatico seguace di Giansenio». Comunque fosse, concluse Atto, la mia scoperta ci spingeva a far ritorno in casa di Tiracorda. Come avevamo udito la notte prima, anche Dulcibeni vi sarebbe tornato.
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Nottata sesta. Tra il 16 e il 17 settembre 1683
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ttendemmo come di consueto il momento in cui tutti i pigionanti, compreso Cristofano, sembravano essersi definitivamente ritirati nelle loro stanze, e ci calammo nel pozzo che conduceva ai meandri sottostanti alla locanda. Coprimmo senza imprevisti il tragitto fino al punto d'incontro con Ugonio e Ciacconio, nei sotterranei di piazza Navona. Quando ci ritrovammo con i corpisantari, però, Atto Melani dovette far fronte a qualche rivendicazione e a un'animata discussione. I due strani esseri, a causa delle avventure in cui li avevamo coinvolti, lamentavano di non aver più potuto dedicarsi liberamente alla loro attività. A loro dire, inoltre, io stesso avevo danneggiato alcune delle preziose ossa che avevano accuratamente impilato, e che mi erano crollate addosso in occasione del nostro primo incontro. La circostanza era scarsamente credibile, ma Ciacconio aveva cominciato a sventolare con impudenza sotto il naso dell'abate Melani un enorme osso dall'odore nauseabondo, con ancora un po' di carne attaccata, che il corpisantaro pretendeva essersi incrinato a seguito dell'incidente. Pur di veder scomparire quel feticcio lurido e puzzolente, Atto preferì cedere. «Va bene, d'accordo. Ma dei vostri problemi non voglio sapere più nulla». Tirò fuori dalla tasca un mucchietto di monete e le porse a 388/703
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Ciacconio. Il corpisantaro ghermì fulmineamente il denaro con le sue dita adunche, quasi artigliando le mani dell'abate Melani. «Non li sopporto, questi due» mormorò Atto tra sé e sé, massaggiandosi il palmo con fare disgustato. «Gfrrrlûlbh, Gfrrrlûlbh, Gfrrrlûlbh...» cominciò a scandire sottovoce Ciacconio, passandosi di mano in mano le monete. «Totalizza la valorazione del soldame» mi disse all'orecchio Ugonio con un sorriso laido e allusivo. «È tirchionomo». «Gfrrrlûlbh» commentò infine soddisfatto Ciacconio, lasciando scivolare i soldi in una sacca lercia e unta, ove caddero tintinnando su una massa di monete che s'intuiva assai corposa. «Dopotutto i due mostri ci sono preziosi» mi disse più tardi l'abate Melani mentre Ugonio e Ciacconio si dileguavano nell'oscurità. «Quel coso vomitevole che Ciacconio mi ha messo sotto il naso era in realtà lo scarto di qualche macellaio, altro che reliquie. Ma a volte è meglio non tirare troppo la corda, e pagare; altrimenti ce li faremo nemici. Ricorda: a Roma sempre vincere, mai stravincere. Questa santa città riverisce i potenti, ma gode della loro rovina». Dopo aver ottenuto la ricompensa, i corpisantari avevano consegnato ad Atto quanto ci serviva: la copia della chiave con cui s'apriva la porta tra la rimessa dei cavalli di Tiracorda e la cucina. Una volta che fummo emersi dalla botola nella piccola scuderia del medico, entrare nell'abitazione non fu cosa difficile. L'ora tarda faceva ragionevolmente supporre che ormai solo il vecchio archiatra fosse ancora in piedi, in attesa del suo ospite. Attraversammo la cucina, penetrammo nella stanza con il vecchio letto a baldacchino e poi nel vestibolo d'ingresso. Procedevamo al buio, orientandoci solo grazie alla memoria e alla debole luce lunare. Ci inerpicammo poi per la scala a chiocciola; qui ci accolse il grato chiarore delle grandi candele poste più in alto, che la sera prima Atto aveva dovuto spegnere per gaImprimatur - Monaldi & Sorti
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rantirci la ritirata. Superammo il primo stanziolino a mezze scale, ove facevano mostra di sé i begli oggetti che avevamo ammirato nella precedente ispezione. Raggiungemmo quindi il primo piano che, come la notte precedente, sembrava avvolto nell'oscurità. Questa volta però la porta di accesso al piano era aperta. Il silenzio riempiva di sé ogni cosa. L'abate e io ci scambiammo uno sguardo d'intesa: stavamo per oltrepassare quella soglia quasi fatidica, e mi sentii forte di un insolito quanto stolto coraggio. La notte prima era andato tutto bene, pensai, e potevamo farcela anche questa volta. All'improvviso un triplice rimbombo, proveniente dal vestibolo del piano terra, ci cacciò il cuore in gola. Qualcuno aveva bussato al portone d'ingresso. Quasi istantaneamente ci rifugiammo sui gradini tra primo e secondo piano, presso l'altro stanziolino che ospitava la biblioteca. Udimmo un brusio provenire da sopra e poi, da sotto, uno strascichio di passi lontani. Eravamo ancora una volta tra due fuochi. Atto stava per soffiare nuovamente sul candelabro (cosa che questa volta avrebbe potuto insospettire i padroni di casa), quando giunse nitida alle nostre orecchie la voce di Tiracorda. «Vado io, Paradisa, vado io». Lo sentimmo scendere le scale, percorrere il vestibolo, aprire il portone ed emettere un'esclamazione di gradita sorpresa. Il visitatore entrò senza una parola. «Entrar qui muto» disse gioviale Tiracorda richiudendo il portone «quattro numeri». «Scusate Giovanni, questa sera non ho la vena. Qualcuno mi deve aver seguito, e stavolta ho preferito usare un altro passaggio». «Venite, venite mio caro, mio carissimo». Atto e io, incollati come due lumachine alla parete delle scale, trattenemmo il fiato. Il pur breve dialogo ci era stato sufficiente per riconoscere oltre ogni dubbio la voce di Pompeo Dulcibeni. 390/703
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Tiracorda condusse con sé l'ospite al primo piano. Sentimmo i due allontanarsi e accostare infine una porta. Non appena fummo di nuovo soli, scendemmo dal nostro riparo e ci affacciammo a nostra volta nella grande sala d'ingresso del primo piano. Avrei avuto mille cose da chiedere e da commentare con l'abate Melani, ma il silenzio era l'unica speranza di salvezza. Entrammo in un'ampia stanza dove, nella penombra, riuscii a scorgere due letti a credenza e qualche altro mobile. Attutita dalla distanza, ci giungeva la conversazione tra Tiracorda e Dulcibeni. Evitai per miracolo d'incespicare in una cassapanca. Ma quando le mie pupille si furono accostumate all'oscurità, d'improvviso m'accorsi con orrore che due volti gelidi e accigliati ci tendevano, immobili, un silenzioso agguato nel buio della sala. Gelato dalla paura, impiegai alcuni secondi per capire che si trattava di due busti, uno di rame e l'altro di pietra, poggiati alla mia altezza sopra due sgabellotti. Al loro fianco s'intravedevano un Ercole di gesso e un gladiatore. Svoltando a sinistra passammo in un'anticamera, alle cui pareti era accostata una lunga teoria di sedie, e di qui in una seconda anticamera più ampia, immersa nel buio. Da una sala adiacente venivano le voci di Tiracorda e del suo concittadino. Con grande circospezione ci avvicinammo alla fessura tra la porta, ch'era solo accostata, e l'infisso. Trafitti dalla sottile lama di luce che sortiva dall'uscio, assistemmo a una strana conversazione. «Entrar qui muto; quattro numeri» scandì Tiracorda, come quando aveva accolto il suo ospite al portone di casa. «Quattro numeri, quattro numeri...» ripetè Dulcibeni. «È così: riflettete con calma, non siete forse venuto per questo?» Il medico s'alzò e uscì trottando dalla nostra visuale, verso sinistra. Dulcibeni rimase seduto, dandoci le spalle. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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La sala era illuminata da due grossi candelotti di cera indorati, posti sul tavolo attorno al quale i due si erano seduti. La pompa degli arredi, come mai avevo visto prima, mi lasciò ancora una volta sorpreso e ammirato. Accanto ai candelotti faceva bella mostra una canestrina inargentata piena di frutti di cera; a rischiarare l'ambiente c'erano anche altri due grandi candelabri, uno su un tavolino di granatiglia e l'altro sopra uno studiolo d'ebano con cornici nere e scudetti di rame indorati. Le pareti erano coperte da un ricco parato di rasetto cremisi; ovunque si mostravano bei quadri con varie e leggiadre figure: ruotando lo sguardo, riconobbi pitture con paesi, animali, fiori e figurine: una Madonna col Bambino, una Pietà, un'Annunciazione, un San Sebastiano e forse un Ecce Homo. Ma a dominare la sala, a metà della parete più lunga e giusto di fronte ai nostri occhi, era appeso un imponente ritratto di Nostro Signore Innocenzo XI, con grande cornice dorata e rabescata, fogliami e festoncini di cristallo intagliati. Sotto di esso, su uno sgabellone, scorsi un reliquiario ottagonale di rame inargentato e indorato, che pensai colmo di molte sacre reliquie. Più a sinistra intravidi un letto e una seggetta da servizio, coperta di broccatello rosso. Quest'ultimo particolare mi parve rivelatore: ci trovavamo con ogni probabilità nello studio di Tiracorda, ove egli riceveva i pazienti. Udimmo il medico tornare al centro della sala, dopo aver aperto e richiuso una porta. «Che sciocco, l'ho messa dall'altra parte». Tornò verso destra lungo la parete ov'era appeso, enorme e incombente, il ritratto di Sua Santità. Con nostra sorpresa, nel muro di fronte a noi aperse un'altra porta: erano due ante invisibili, rivestite con la medesima stoffa cremisi delle pareti. La porta segreta celava uno stambugio, che custodiva gli strumenti del mestiere. Potei distinguere pinze, forcipi e ferri da taglio, vasi per erbe officinali e alcuni libri e mazzi di fogli; questi ultimi erano forse gli esiti dei consulti medici. «Ci sono sempre, lì dentro?» chiese Dulcibeni. 392/703
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«Sono qui, sono qui e stanno bene» disse Tiracorda affaccendato nello stambugio «ma io cerco solo un paio di cosette graziose che m'ero annotato per noi due. Ah, ecco». Uscì dallo stambugio agitando trionfante un brandello di carta mezzo gualcito, richiuse la porta segreta e si mise seduto apprestandosi a leggere. «Sentite qui: se un padre ha sette figlie...». Fu in quel momento che, riempiendomi di stupore, Atto Melani si portò fulmineamente le mani alla bocca. Chiuse gli occhi, alzandosi sui tacchi e facendosi tutto gonfio. Poi si ripiegò disperatamente sul ventre, con il viso tra il braccio e l'ascella, tappandosi la bocca con entrambe le mani. Fui preso dal panico: non capivo s'egli fosse preso da dolore, ilarità o collera. Gli occhi angosciati e impotenti con cui mi guardò mi fecero intendere che Atto stava per starnutire. Ho già avuto modo di ricordare come l'abate Melarti soffrisse in quei giorni di brevi ma incontenibili attacchi di starnuto. Quella fu a mia memoria, fortunatamente, una delle rare occasioni in cui egli riuscì a trattenere il fragoroso sfogo. Per un attimo temetti che perdesse l'equilibrio e rovinasse sulla porta semiaperta. Miracolosamente trovò appoggio al muro, e il pericolo fu scongiurato. In tal modo però, seppure per pochi istanti, eravamo stati distolti dall'ascolto di Tiracorda e Dulcibeni. Il primo brandello di conversazione che riuscii ad afferrare, non appena vidi Atto nuovamente padrone di sé, fu incomprensibile quanto i precedenti. «Quattordici?» stava chiedendo Dulcibeni con voce annoiata. «Otto! E sapete perché? Un fratello è fratello di tutte. Har har har har! Har har haaaaaar!» Tiracorda s'era abbandonato a una risatina asmatica e irrefrenabile, alla quale però il suo ospite non si era associato. Non appena il medico si calmò, Dulcibeni tentò di cambiare discorso. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Allora: oggi come l'avete trovato?» «Eh, così così. Se non smette di crucciarsi, non avremo nessun miglioramento, e lui lo sa. Forse si dovrà lasciar perdere le sanguisughe e intervenire in altro modo» disse Tiracorda tirando su col naso e asciugandosi con un fazzoletto le lacrime della risata di poc'anzi. «Davvero? Io credevo...». «Anch'io sarei andato avanti con i soliti mezzi» ribatté il medico indicando la porta segreta alle proprie spalle «ma ora non ne son più tanto certo...». «Permettetemi di dire, Giovanni» lo interruppe Dulcibeni «sebbene io non appartenga all'arte vostra: a ogni rimedio bisogna dare il giusto tempo». «Lo so, lo so, vedremo come procederà...» rispose l'altro con tono assente «purtroppo monsignor Santucci è assai malandato e non può seguire il paziente come ai bei tempi. Mi è stato proposto di sostituirlo, ma sono troppo vecchio. Per fortuna c'è chi un giorno potrà prendere il nostro posto. Come il giovane Lancisi, che ho fatto e farò di tutto per aiutare». «È marchigiano anche lui, mi sembra?» «No, è nato qui a Roma. Ma io l'ho per così dire adottato: prima è stato allievo del nostro collegio marchigiano, e poi l'ho fatto diventare mio assistente all'Archispedale di Santo Spirito in Sassia». «Insomma, cambierete cura?» «Vedremo, vedremo, forse per ottenere un miglioramento potrà bastare un po' d'aria di campagna. A proposito» disse riprendendo a leggere dal fogliazzo gualcito. «In una fattoria...». «Giovanni, ascoltatemi» lo interruppe Dulcibeni accalorandosi «sapete bene quanto io gradisca i nostri convegni, ma...». «Avete sognato ancora vostra figlia?» disse l'altro con preoccupazione. «Non è colpa vostra, ve l'ho detto mille volte». «Ma no, non è questo. È che...». «Ho capito: siete di nuovo preoccupato per la quarantena. Ve l'ho già detto: è una scioc-chez-za. Se le cose sono andate 394/703
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come mi avete descritto non v'è pericolo né di contagio né, tantomeno, d'essere rinchiusi in un lazzeretto. Ha proprio ragione il vostro come si chiama... Cristogeno». «Cristofano, si chiama Cristofano. Ma si tratta d'altro: credo di essere stato seguito mentre venivo da voi, nelle gallerie». «Ah be', questo è sicuro, amico mio! Siete stato pedinato da qualche bel topone di fiume, haaar har har! A proposito, l'altro giorno ne ho trovato uno proprio nella stalla. Era grosso così» disse Tiracorda allargando a dismisura le braccia brevi e tonde. Dulcibeni tacque, e sebbene non potessimo scorgere il suo volto, ebbi l'impressione che si stesse spazientendo. «Lo so, lo so» disse allora Tiracorda «vi state ancora facendo dei pensieri per quella storia. Non capisco però perché vi tormentiate tanto, dopo tutti questi anni. È forse colpa vostra? No; eppure voi lo credete, e pensate: ah, se solo avessi servito un altro padrone! Ah, se fossi stato pittore, scalco, poeta, fabbro o stalliere! Tutto, ma non mercante». «Ebbene sì, a volte lo penso» confermò Dulcibeni. «E io sapete cosa vi dico? Se così fosse stato, non avreste neppure conosciuto la madre di vostra figlia Maria». «È vero. Mi sarebbe bastato molto meno: che sulla mia strada non si mettesse Francesco Feroni». «Ci risiamo! Siete così sicuro che sia stato lui?» «Fu lui che appoggiò le sordide mire di quel maiale, Huygens». «Avreste potuto almeno denunciare i fatti, chiedere un'indagine...». «Un'indagine? Ma ve l'ho spiegato: chi si sarebbe mai messo a cercare la bambina bastarda d'una schiava turca? No, no, nei casi difficili l'aiuto non può venire dai birri del Bargello, ma dai galeotti, dai furfanti». «E i furfanti vi hanno detto che non c'era nulla da fare». «Esatto, nulla da fare: Feroni e Huygens se l'erano portata via, lassù dove stava quel disgraziato. Sono partito per andarla a cercare, ma niente. Vedete il vecchio giuppone nero che inImprimatur - Monaldi & Sorti
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dosso? Ce l'ho da allora, lo acquistai in una bottega del porto quando ero allo stremo delle forze e delle speranze; non lo toglierò mai più... Ho cercato ancora e ancora, ho pagato informatori e spioni per mezzo mondo; due tra i migliori alla fine mi hanno detto che di Maria non c'era più traccia: venduta o, come temo, morta». I due tacquero per qualche istante. Atto e io ci guardammo, e lessi nei suoi occhi pari sorpresa e identiche domande. «Ve l'ho detto, è una storia senza soluzione e senza consolazione» riprese mestamente Dulcibeni. «Un goccio del solito?» chiese poi tirando fuori una fiaschetta e mettendola sul tavolo. «Che domande!» fece Tiracorda illuminandosi. S'alzò, aperse nuovamente la porta segreta ed entrò nello stambugio. Drizzatosi con un mugolio sulla punta dei piedi, si protese verso un ripiano prossimo al soffitto, e con le dita grassocce prelevò due bicchierucci di bel vetro verdastro. «È un miracolo: Paradisa non ha ancora scoperto il mio nuovo ricovero segreto» spiegò mentre richiudeva lo stambugio. «Se trovasse i miei bicchierucci, farebbe una tragedia. Sapete, con tutte le sue fissazioni sul vino, i peccati di gola, Satana... Ma torniamo a voi: cosa ne è stato della madre di Maria?» chiese Tiracorda. «Già ve lo dissi: era stata venduta poco prima del rapimento di Maria. E anche di lei non si seppe più nulla». «Non vi poteste opporre alla sua vendita?» «Apparteneva agli Odescalchi, non a me, come anche mia figlia purtroppo». «Ah già, avreste dovuto sposarla..». «Certo. Ma nella mia posizione... con una schiava... insomma» balbettò Dulcibeni. «In tal modo però avreste potuto ottenere la patria potestà su vostra figlia». «È vero, ma voi capite...». Uno schianto di vetri ci fece sobbalzare. Dulcibeni imprecò 396/703
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sottovoce. «Mi dispiace, oh quanto mi dispiace» fece Tiracorda. «Speriamo che Paradisa non abbia sentito nulla, mamma mia che pasticcio...». Spostando uno dei due candelotti di cera che illuminavano il tavolo, il medico aveva urtato la fiaschetta di Dulcibeni, facendola cadere a terra in mille pezzi. «Non importa, dovrei averne ancora un po' alla locanda» disse Dulcibeni conciliante, e si mise a raccattare dal pavimento i frammenti di vetro più grandi. «Attento, vi ferirete. Vado a prendere uno straccio» fece Tiracorda «non datevi troppo da fare, come quando servivate gli Odescalchi, har har haaaar!» E ridacchiando si avviò verso la porta semiaperta dietro cui eravamo nascosti. Per agire avevamo pochi secondi, e nessuna scelta. Mentre Tiracorda apriva l'uscio ci appiattimmo con la schiena al muro, ai lati della porta. Il medico passò tra di noi, rigidi ed eretti per la paura, come in mezzo a due sentinelle. Attraversò tutta l'anticamera e uscì dalla porta sul lato opposto. Fu allora che ci soccorse il genio dell'abate Melani, o forse la sua insana inclinazione per appostamenti e imboscate. Mi fece un cenno e corremmo entrambi in avanti verso la parete opposta, silenziosi e celeri come due topolini; ci incollammo di nuovo al muro a destra e a sinistra dell'uscio, avendo stavolta il vantaggio di poterci celare dietro i battenti aperti della porta. «Eccolo qui» sentimmo annunciare Tiracorda, che evidentemente aveva trovato lo straccio. L'archiatra rientrò nell'anticamera passando nuovamente tra me e Atto. Se fossimo rimasti sul lato opposto, capii allora, lo avremmo visto apparire di fronte a noi e non avremmo avuto scampo. Tiracorda rientrò nella sala dove lo attendeva il suo ospite, accostando la porta alle proprie spalle. Mentre dall'uscio stava Imprimatur - Monaldi & Sorti
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per scomparire l'ultima stilla di luce, feci in tempo a scorgere Dulcibeni, ancora seduto, che si torceva all'indietro verso la porta. Con cipiglio dubbioso guardò nel buio dell'anticamera posando lo sguardo, senza saperlo, sul mio volto spaurito.
Restammo immobili per alcuni minuti, durante i quali non osai neppure asciugarmi il sudore dalla fronte. Dulcibeni annunciò di provare un'insolita stanchezza, e decise di congedarsi per rientrare al Donzello. Era come se il mancato brindisi avesse improvvisamente tolto senso alla sua visita. Udimmo i due alzarsi in piedi. Non trovammo di meglio che correre verso la prima stanza, quella che dava sulle scale, e nasconderci dietro le statue di gesso. Tiracorda e Dulcibeni ci passarono a poca distanza, ignari della nostra presenza. Dulcibeni sfilò con in mano una lanterna, che avrebbe utilizzato per il ritorno alla locanda, mentre il medico si stava ancora scusando per aver rotto la fiaschetta, compromettendo il buon esito della serata. Imboccarono le scale e scesero al vestibolo. Non sentimmo però aprirsi il portoncino d'ingresso della casa: di certo, mi sussurrò Atto, Dulcibeni stava rientrando al Donzello per la via sotterranea, l'unica possibile a causa delle guardie che sorvegliavano notte e giorno il Donzello. Dopo poco Tiracorda risalì le scale e si portò al secondo piano. Eravamo nel buio più completo, e con mille prudenze scendemmo in cucina e poi nella stalla. Ci apprestavamo a seguire Dulcibeni. «Non c'è pericolo: come Stilone Priàso, non ci sfuggirà» sussurrò Atto. Le cose purtroppo andarono in ben altro modo. Ben presto nel tratto D avvistammo la luce della lanterna di Dulcibeni. Il gentiluomo marchigiano, dal fisico pesante e corpulento, procedeva a passo moderato. La sorpresa arrivò al raccordo con il condotto C: invece di svoltare verso destra, in direzione del 398/703
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Donzello, Dulcibeni procedette verso sinistra. «Ma è impossibile» mi disse a gesti l'abate Melani. Procedemmo per un buon tratto, finché fummo a poca distanza dal corso d'acqua che interrompeva la galleria. Più avanti regnava il buio: era come se Dulcibeni avesse spento la lampada a olio. Non ci era così rimasto alcun punto di riferimento e procedevamo alla cieca. Rallentammo, temendo di scontrarci con la nostra preda, e tendemmo l'orecchio. Si udiva solo lo scrosciare del fiumiciattolo sotterraneo: decidemmo di procedere. L'abate Melani incespicò e cadde, per fortuna senza conseguenze. «Al diavolo, dammi la maledetta lanterna» imprecò. Accese egli stesso il nostro lume e rimanemmo entrambi sbigottiti. A pochi passi da noi terminava la galleria, tagliata trasversalmente dal corso d'acqua. Dulcibeni era scomparso. «Da dove vogliamo cominciare?» chiese stizzito l'abate Melani mentre eravamo sulla via del ritorno, tentando d'individuare un ordine logico negli ultimi accadimenti. Esposi compendiosamente quanto avevamo appreso. Pompeo Dulcibeni s'era recato più volte da Giovanni Tiracorda, medico del Papa e suo conterraneo di Fermo, per discutere di cose misteriose di cui non eravamo riusciti ad afferrare l'essenza. Tiracorda aveva accennato a confuse questioni di fratelli e sorelle, fattorie, quattro numeri e altre espressioni incomprensibili. Tiracorda aveva inoltre in cura un paziente che sembrava dargli qualche preoccupazione, e che però egli sperava di poter ricondurre presto in buona salute. Grandi novità erano giunte sul conto di Pompeo Dulcibeni: egli aveva (o, a suo dire, aveva avuto) una figlia di nome Maria. La madre era una schiava, di cui egli ben presto aveva perso le tracce: la donna era stata venduta. La bimba di Pompeo Dulcibeni era stata rapita, a suo dire, da un certo Huygens, braccio destro di tal Feroni (nome che in Imprimatur - Monaldi & Sorti
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verità non mi suonava nuovo), il quale sembrava che avesse collaborato. Dulcibeni non aveva potuto opporsi al ratto e riteneva che la giovane fosse ormai morta. «Con ogni probabilità era quindi la figlia perduta» osservai impietosito «la donna a cui Dulcibeni immaginava di rivolgersi durante il suo soliloquio, poveretto». Ma l'abate non m'ascoltava già più. «Francesco Feroni» mormorò. «Lo conosco di nome: s'è fatto ricco col traffico di schiavi verso le colonie spagnole del Nuovo Mondo, e poi è tornato a Firenze al servizio del granduca Cosimo». «Un negriero, quindi». «Già. Pare non sia uomo di molti scrupoli: a Firenze se ne dice un gran male. E, ora che mi ricordo, proprio su lui e quell'Huygens girava una storiella assai ridicola» disse Atto con un risolino. «Feroni smaniava d'imparentarsi con qualche nobile fiorentino, e invece la sua figlia ed erede aveva letteralmente perso la salute per amore di quell'Huygens. Il problema era che Huygens era l'uomo di fiducia di Feroni, e conduceva per suo conto tutti gli affari più importanti e delicati». «Cosa accadde? Feroni lo cacciò?» «Tutt'altro: il vecchio mercante non voleva e non poteva privarsene. Così Huygens continuò nell'azienda di famiglia, mentre Feroni s'adoprava quasi ossessivamente a esaudire, grazie al proprio potere, ogni capriccio del suo giovane aiutante: per allontanarlo dalla figlia gli faceva avere tutte le donne che voleva. Anche le più costose». «E come finì?» «Non lo so, non ci interessa. Ma credo che la figlioletta di Dulcibeni sia capitata, povera creatura, sotto gli occhi di Huygens e Feroni» sospirò Atto. Dulcibeni, ripresi poi, e questa era la scoperta più sorprendente, aveva un passato di mercante al servizio degli Odescalchi: la famiglia del Papa. 400/703
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«E ora passa alle domande» disse Melani, indovinando che avevo una lunga schiera di quesiti a fior di labbra. «Innanzitutto» dissi mentre con un piccolo ruzzolone approdavamo alla galleria D «che servizio avrà svolto Dulcibeni per la famiglia del Papa?» «Ci sono varie possibilità» rispose Atto. «Dulcibeni ha detto "mercante". Ma il termine è forse inesatto: un mercante lavora in proprio, mentre egli aveva un padrone. Per gli Odescalchi potrà quindi aver fatto da segretario, contabile, tesoriere o procuratore. Magari avrà compiuto dei viaggi per loro conto: per decenni quella famiglia ha comprato e venduto grani e tessuti in tutta Europa». «Padre Robleda mi ha detto che prestano soldi a interesse». «Hai parlato anche di questo con Robleda? Bravo, ragazzo; ebbene sì, successivamente si sono ritirati dalla mercatura e si sono dedicati soprattutto ai prestiti. Infine ho saputo che hanno investito quasi tutto comprando cariche pubbliche e titoli di risparmio». «Signor Atto, chi sarà il paziente di cui parlava Tiracorda?» «Questa è la domanda più facile. Rifletti: è un paziente la cui malattia deve restare segreta, e Tiracorda è medico papale». «Santo Cielo, dev'essere...» osai arguire mentre deglutivo «Nostro Signore Innocenzo XI». «Credo proprio di sì. Tuttavia sono rimasto sorpreso: quando il Pontefice si ammala, la notizia si sparge alla velocità del fulmine. Invece Tiracorda vuole tenerla segreta. Evidentemente in Vaticano temono che il momento sia troppo delicato: ancora non si sa chi vincerà a Vienna. Con un Papa indebolito, a Roma c'è pericolo di malcontenti e disordini; all'estero si rischia di alzare il morale dei Turchi e di deprimere quello degli alleati cristiani. Il guaio, come ha detto Tiracorda, è che il Pontefice non si risolleva, tanto che tra poco si dovrà cambiare cura. Ecco perché la cosa non deve trapelare». «Con il suo amico, però, Tiracorda si è confidato» osservai. «Evidentemente pensa che Dulcibeni sappia tenere la bocca Imprimatur - Monaldi & Sorti
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chiusa. E Dulcibeni, come noi, è tappato in una locanda in regime di quarantena: non ha certo molte occasioni per farsi sfuggire il segreto. Ma la cosa più interessante è un'altra». «E cioè?» «Dulcibeni viaggiava con Fouquet. Ora fa visita al medico del Papa per discutere di cose misteriose: fattorie, fratelli, quattro numeri... Darei un occhio per capire di cosa parlavano». Mentre rientravamo al Donzello ritrovammo i corpisantari, nel loro Archivio tra le rovine di piazza Navona. Notai che i due avevano ricostituito la loro lurida catasta di ossa, che ora anzi pareva assai più alta e massiccia. I corpisantari non salutarono in alcun modo il nostro arrivo: erano impegnati in un fitto parlottio, e parevano disputarsi il possesso di un oggetto. Ad avere la meglio fu Ciacconio, che con un brusco gestaccio strappò qualcosa dalle mani di Ugonio e lo porse, con un sorriso fin troppo servile, ad Atto Melani. Erano alcuni frammenti di foglie secche. «E questa cos'è?» disse Atto «non posso mica pagarti per tutte le stupidaggini che mi vuoi rifilare». «È fogliame stranizio» disse Ugonio. «Per esser più medico che mendico, Ciacconio l'ha grattacchiato nel dappresso dei rattopi mortiferati sanguificati». «Una strana pianta vicino ai topi morti... curioso» commentò Atto. «Ciacconio dice che olfattizza con manierazione stupidizia» proseguì Ugonio «è pianta eccitosa, curiosante, alienica... Insomma: per riuscire più benefice che malefice, ve la affibbia, intantoché soddisfacendo all'obbligo s'accresce al battezzato il giubilo». Atto Melani prese una delle foglie; mentre la accostava alla luce della lampada per esaminarla, io ebbi un'improvvisa reminiscenza. «Ora che ci penso, signor Atto, nei sotterranei credo di aver visto anch'io delle foglie secche». 402/703
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«Questa è bella» commentò egli divertito «siamo pieni di foglie, qui sotto. Com'è possibile? Sottoterra non crescono alberi». Gli spiegai che mentre seguivamo Stilone Priàso nel condotto avevo pestato del fogliame, tanto che temevo di essere stato udito da Stilone. «Sciocco che sei, avresti dovuto dirmelo. In situazioni come la nostra non bisogna trascurare nulla». Presi qualcuno dei friabili frammenti vegetali e mi ripromisi di rimediare alla disattenzione. Visto che non ero in grado di aiutare Atto a decifrare le fattorie, i fratelli e i quattro numeri di cui avevano discusso Tiracorda e Dulcibeni nella loro incomprensibile conversazione, avrei cercato almeno di sapere da che pianta provenivano quelle foglie secche: così si sarebbe forse potuto risalire a chi le aveva disseminate nei cunicoli sotterranei. Lasciammo i corpisantari assai indaffarati attorno alle loro ossa. Durante il tragitto di ritorno verso la locanda mi sovvenni che non avevo ancora riferito all'abate Melani della conversazione avuta con Devizé. Nel turbinio delle recenti scoperte me n'ero dimenticato, tanto più che non ero riuscito a sapere dal musico nulla d'importante. Narrai così ad Atto dell'incontro. Omettendo ovviamente che, per conquistare la fiducia del chitarrista, avevo dovuto calunniare l'onore dell'abate. «Nulla d'importante, dici?» esclamò questi senza lasciarmi finire. «Mi stai dicendo che la regina Maria Teresa ha intrattenuto contatti col famoso Francesco Corbetta, e con Devizé, e lo chiami nulla d'importante?» La reazione di Atto Melani mi colse alla sprovvista: l'abate era quasi preda d'una crisi di panico. Mentre raccontavo procedevamo a scatti: d'improvviso s'arrestava, sgranava gli occhi e mi chiedeva di ripetere, poi riprendeva in silenzio la marcia, poi ancora si fermava meditabondo e pensieroso. Infine, mi fece ricapitolare tutto sin dall'inizio. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Gli dissi dunque ancora una volta che, dirigendomi alla stanza di Devizé per un massaggio, avevo udito quel rondò ch'egli così spesso suonava e che tanto aveva rapito anche gli altri pigionanti del Donzello prima della quarantena. Gli avevo domandato se ne fosse lui l'autore, ed egli mi aveva risposto che il suo maestro, tale Corbetta, aveva appreso la melodia di quel rondò durante uno dei suoi frequenti viaggi. Corbetta l'aveva alquanto rimaneggiata e ne aveva fatto omaggio alla Regina; costei aveva poi consegnato l'intavolatura musicale a Devizé, che a sua volta l'aveva in parte ritoccata. Insomma, non si sapeva più bene di chi fosse la musica, e però era almeno chiaro per quali mani fosse passata. «Ma sai tu chi era Corbetta?» mi chiese l'abate con gli occhi che si erano fatti due fessurine, e scandendo ogni sillaba. L'italiano Francesco Corbetta, mi spiegò, era stato il più grande di tutti i chitarristi. Era stato Mazzarino a chiamarlo in Francia per insegnare musica al giovane Luigi XIV, che adorava il suono della chitarra. La sua fama era presto diventata grande, e il Re d'Inghilterra Carlo II (anche lui appassionato di chitarra) lo aveva portato con sé a Londra, gli aveva procurato un buon matrimonio e lo aveva elevato tra i Pari d'Inghilterra. Ma oltre a essere un musico sopraffino, Corbetta era anche qualcos'altro che quasi nessuno sapeva: un abilissimo cifratore. «Scriveva lettere in codice?» «Ancora meglio: componeva musiche cifrate, nelle quali erano nascosti messaggi segreti». Corbetta era un individuo fuori dal comune: fascinoso e intrigante, incallito giocatore, per molta parte della sua vita aveva viaggiato tra Mantova, Venezia, Bologna, Bruxelles, la Spagna e l'Olanda, restando anche implicato in qualche scandalo. Era morto appena due anni prima, all'età di sessant'anni. «Forse che egli pure non disdegnava il mestiere di... consigliere accanto a quello di musico?» «Ebbene, in effetti direi ch'era molto coinvolto negli affari politici dei Paesi che ti ho nominato» disse Atto Melani, con ciò 404/703
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ammettendo che Corbetta si doveva esser prestato a qualche affare di spionaggio. «E per questo si serviva delle intavolature di chitarra?» «Sì, ma non era certo una sua invenzione. In Inghilterra già il famoso Giovanni Dowland, liutista della regina Elisabetta, scriveva le sue musiche in modo che, tramite esse, i suoi padroni potessero inviare informazioni riservate». Impiegò non poco Atto Melani per convincermi che la notazione musicale possa racchiudere significati del tutto estrinseci all'arte dei suoni. Eppure era così da sempre: sia i Regnanti che lo stesso Stato della Chiesa da secoli facevano ricorso alla criptografia musicale. E l'argomento era ben noto a tutti gli uomini di dottrina: per fare un esempio alla portata di tutti, disse, nel De furtivis litterarum notis il Della Porta aveva illustrato gran copia di sistemi con cui celare nella grafia musicale messaggi segreti d'ogni tipo e lunghezza. Grazie a un'opportuna chiave, per esempio, si poteva associare ogni lettera dell'alfabeto a una nota musicale. La successione delle note, annotata sul pentagramma, avrebbe così fornito a chi possedeva la chiave parole e frasi compiute. «Così si crea però il problema dei saltus indecentes, cioè di dissonanze ed enarmonie sgradevoli, che già ictu oculi possono insospettire chi legga accidentalmente la musica. C'è chi allora ha escogitato sistemi più raffinati». «E chi?» «Proprio il nostro Kircher, per esempio, nella Musurgia universalis. Invece di assegnare a ogni nota una lettera, ha distribuito l'alfabeto tra le quattro voci di un madrigale o di un'orchestra, in modo da poter meglio governare la materia musicale e rendere la composizione meno rozza e sgradevole: cosa che, nel caso il messaggio venisse intercettato, renderebbe sospettoso chiunque. Sono poi possibili infinite manipolazioni del testo cantato e delle note da intonare. Esempio: se la nota musicale - «fa», «la», oppure «re» - coincide con il testo, allora si prendono in considerazione solo quelle sillabe. Oppure si può Imprimatur - Monaldi & Sorti
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fare il contrario, conservando solo il resto del testo cantato, che a quel punto mostrerà il suo significato nascosto. E di certo Corbetta sarà stato a conoscenza di tale innovazione di Kircher». «Pensate che Devizé oltre alla chitarra abbia appreso da Corbetta questa... arte di comunicare in segreto?» «Alla Corte di Parigi si sussurra che sia proprio così. Tanto più che Devizé era non solo l'allievo preferito di Corbetta, ma anche e soprattutto un suo buon amico». Quel tale Dowland, Melani, Corbetta e forse anche il suo allievo Devizé: cominciavo ormai a sospettare che la musica s'accompagnasse inevitabilmente alla spioneria. «Senza contare» continuò l'abate Melani «che Corbetta conosceva bene Fouquet, visto che fu chitarrista alla Corte di Mazzarino fino al 1660: solo da quell'anno, infatti, Corbetta emigrò a Londra, anche se in realtà faceva spessissimo la spola con Parigi, dove sarebbe tornato definitivamente una decina d'anni dopo». «Ma allora» conclusi senza voler quasi credere alle mie stesse parole «anche in quel rondò potrebbe celarsi un messaggio segreto». «Calma, calma, prima il resto: mi hai detto che il rondò è stato donato da Corbetta alla regina Maria Teresa, che a sua volta lo avrebbe dato a Devizé. Orbene, questo mi fornisce un'altra preziosa informazione: non avevo idea che la Regina fosse in rapporti con i due chitarristi. La cosa è così inedita che stento quasi a crederci». «Lo capisco» interruppi. «Maria Teresa conduceva una vita quasi monacale...». Gli riferii così il lungo monologo con cui Devizé mi aveva descritto le umiliazioni a cui il Re Cristianissimo sottoponeva la povera consorte. «Monacale?» disse Atto alla fine. «Non userei questo termine» ribatté sornione. E mi spiegò che Devizé m'aveva fornito un ritratto forse 406/703
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troppo immacolato della defunta Regina di Francia. A Versailles, mentre egli mi parlava, era ancora possibile incontrare una giovane fanciulla mulatta, che assomigliava curiosamente al Delfino. La spiegazione di quel prodigio risaliva a vent'anni prima, quando avevano soggiornato a Corte gli ambasciatori d'uno Stato africano. Per manifestare la loro devozione alla consorte di Luigi XIV, gli ambasciatori avevano donato alla Regina un paggetto negro di nome Nabo. Qualche mese dopo, nel 1664, Maria Teresa aveva partorito una florida e vivace bimbetta dalla pelle nera. Appena avvenuto il prodigio, il chirurgo reale Félix giurò al Re che il colore della neonata era un inconveniente transitorio, dovuto alla congestione del parto. Col trascorrere dei giorni, però, la pelle della bimba non accennava a schiarirsi. Il chirurgo reale disse allora che forse gli sguardi troppo insistenti di qualche negretto di Corte avevano danneggiato la gravidanza della Regina. «Uno sguardo?» aveva replicato il Re. «Doveva essere ben penetrante!» Pochi giorni dopo, con gran discrezione, Luigi XIV fece mettere a morte il paggetto Nabo. «E Maria Teresa?» «Non disse nulla. Non la si vide né piangere, né sorridere. Anzi, non la si vide affatto. E comunque dalla Regina non si era mai potuto cavar nulla, se non parole di bontà e perdono. Ha fatto sempre mostra di riferire ogni più piccola cosa al Re, per attestargli la propria fedeltà, nonostante lui osasse assegnarle come damigelle di camera le sue amanti. Era come se Maria Teresa non sapesse mostrarsi se non scialba, opaca, quasi priva di volontà propria. Era troppo buona. Troppo». Mi tornò in mente la frase di Devizé: era un errore giudicare Maria Teresa dalle sole apparenze. «Pensate che dissimulasse?» chiesi allora. «Era un'Asburgo. Ed era spagnola. Due razze fierissime, e acerrime nemiche di suo marito. Come credi che si sentisse Maria Teresa d'Austria, svillaneggiata in suolo francese? Suo Imprimatur - Monaldi & Sorti
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padre l'amava moltissimo, e aveva accettato di perderla solo per concludere la pace dei Pirenei. Io c'ero all'isola dei Fagiani, ragazzo, quando Francia e Spagna conclusero il trattato e si decisero le nozze tra Luigi e Maria Teresa. Quando re Filippo di Spagna si dovette separare da sua figlia, e sapeva che non l'avrebbe mai più rivista, l'abbracciò e pianse come un vitello. Fu quasi imbarazzante vedere un Re comportarsi in quel modo. Al banchetto che seguì l'accordo, uno dei più sontuosi che io abbia mai visto, quasi non toccò cibo. E la sera, prima di ritirarsi, lo sentivano gemere tra le lacrime, dicendo: "Sono un uomo morto" e altre sciocchezze». Le parole di Melani mi lasciarono stupefatto: mai avevo pensato che i potenti Sovrani, padroni delle sorti d'Europa, potessero soffrire così amaramente per la perdita di un affetto. «E Maria Teresa?» «Dapprima fece finta di nulla, come suo solito. Aveva fatto subito capire che il suo promesso sposo le piaceva; sorrideva, conversava amabilmente e si mostrava contenta di partire. Ma quella notte la udimmo tutti, mentre dalla sua stanza gridava straziata: "Ay, mi padre, mi padre!"». «Allora è sicuro: era una dissimulatrice». «Esatto. Dissimulava odio e amore, e simulava pietà e fedeltà. E quindi non c'è affatto da stupirsi se nessuno sapeva dei graziosi scambi di intavolature tra Maria Teresa, Corbetta e Devizé. Magari sarà tutto avvenuto sotto gli occhi del Re!» «E pensate che la regina Maria Teresa si sia servita dei chitarristi per nascondere messaggi all'interno della loro musica?» «Non è impossibile. Ricordo di aver letto qualcosa del genere, anni fa, su una gazzetta olandese. Era robaccia da pennivendoli, pubblicata ad Amsterdam ma scritta in francese per spargere veleni sul Re Cristianissimo. Raccontava di un giovane valletto della Corte di Parigi, di nome Belloc se ricordo bene, il quale scriveva brani da recitare che venivano poi aggiunti ai balletti. Nei versi venivano inseriti in cifra i rimproveri e le sof408/703
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ferenze della Regina per i tradimenti del Re, e la committente era la stessa Maria Teresa». «Signor Atto» gli chiesi allora «chi è Mademoiselle?» «Dove hai sentito quel nome?» «L'ho letto sul margine in alto dell'intavolatura di Devizé. C'era scritto: "à Mademoiselle"». Malgrado il chiarore diffuso dalla lanterna fosse alquanto debole, vidi l'abate Melani impallidire. E improvvisamente nei suoi occhi lessi la paura che da un paio di giorni aveva silenziosamente cominciato a consumarlo. Gli raccontai così il resto del mio incontro con Devizé: di come avessi inavvertitamente imbrattato d'unguento l'intavolatura del rondò e come, cercando di smacchiarla, vi avessi letto la dedica «à Mademoiselle». Gli raccontai anche le poche cose che di Mademoiselle mi aveva raccontato Devizé: e cioè che era una cugina del Re il quale, a causa del suo passato di ribelle, l'aveva condannata a restare zitella. «Chi è Mademoiselle, signor Atto?» ripetei. «Non è importante chi è, ma chi ha sposato». «Sposato? Ma non doveva restare zitella per punizione?» Atto mi spiegò che le cose erano un po' più complicate di come le aveva descritte Devizé. Mademoiselle, che in realtà si chiamava Anne Marie Louise ed era Duchessa di Montpensier, era la donna più ricca di Francia. I soldi però non le bastavano: voleva forsennatamente sposare un Re, e Luigi XIV si era divertito a rovinarle la vita vietandole il matrimonio. Alla fine Mademoiselle ci ripensò: disse che non voleva diventare Regina e finire come Maria Teresa, sottomessa a un Re crudele in qualche lontana terra straniera. A quarantaquattro anni suonati s'innamorò allora d'un oscuro signorotto di provincia: un povero cadetto guascone senz'arte né parte, che anni prima aveva avuto la fortuna di riuscire simpatico al Re, di diventare suo compagno di divertimenti e alla fine di essere nominato Conte di Lauzun. Lauzun era un seduttore da quattro soldi, disse Atto con Imprimatur - Monaldi & Sorti
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sprezzo, e aveva circuito Mademoiselle per il suo denaro. Ma alla fine il Re Cristianissimo aveva acconsentito alle nozze. Lauzun, che era un campione di presunzione, voleva festeggiamenti degni d'un matrimonio reale. «Come da Corona a Corona» ripeteva agli amici, tronfio d'orgoglio. Nel frattempo però Luigi XIV ci aveva ripensato. I due promessi sposi supplicarono, scongiurarono, minacciarono. Non ottennero nulla, e dovettero sposarsi segretamente. Il Re lo scoprì e iniziò così la rovina di Lauzun, che finì in carcere, in una fortezza lontanissima da Parigi. «Una fortezza...» ripetei cominciando a capire. «A Pinerolo» completò l'abate. «Insieme a...». «Esatto, insieme a Fouquet». Fino a quel momento, spiegò Melani, Fouquet era stato l'unico prigioniero dell'enorme fortezza. Ma conosceva già Lauzun, che aveva accompagnato il Re a Nantes per arrestarlo. Quando Lauzun venne condotto a Pinerolo il Sovrintendente languiva in cella già da nove anni. «E Lauzun quanto ci rimase?» «Dieci anni». «Ma è tantissimo!» «Poteva andargli peggio. Il Re non aveva fissato la durata della condanna, e poteva tenerlo dentro a piacere». «Come mai allora dopo dieci anni lo ha liberato?» Questo era un mistero, disse Atto Melani. L'unico fatto certo era che Lauzun venne liberato appena pochi mesi dopo la scomparsa di Fouquet. «Signor Atto, non ci capisco più nulla» dissi mentre non riuscivo a frenare il tremore che mi scuoteva le membra. Eravamo ormai quasi rientrati alla locanda, luridi e infreddoliti. «Povero ragazzo» mi compatì l'abate Melani «in poche notti ti ho costretto a imparare mezza storia di Francia e d'Europa. 410/703
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Ma è tutto utile! Se tu fossi già un gazzettante, avresti da scrivere per i prossimi tre anni». «Però in mezzo a tutti questi misteri neppure voi capite più nulla della nostra situazione» ardii ribattere, sconsolato e ansimante per la stanchezza. «Più ci sforziamo di comprendere, più la vicenda si complica. Tanto lo so: a voi interessa solo capire perché il Re Cristianissimo vent'anni fa fece condannare il vostro amico Fouquet. Le mie perline invece sono perse per sempre». «Oggi tutti s'interrogano sui misteri del passato» mi azzittì severo l'abate Melani «perché quelli presenti fanno troppa paura. Io e te invece risolveremo gli uni e gli altri. Te lo prometto». Parole sin troppo facili, pensai. Mi provai a riassumere all'abate quanto avevamo appreso in appena sei giorni di forzata convivenza al Donzello. Alcune settimane prima il Sovrintendente Fouquet era giunto presso la nostra locanda in compagnia di due gentiluomini. Il primo, Pompeo Dulcibeni, conosceva il sistema di cunicoli sotterranei e lo usava per recarsi dal medico Tiracorda suo conterraneo, che in quel momento aveva in cura il Papa. Dulcibeni, inoltre, aveva avuto da una schiava una figlia, che gli era stata rapita da un certo Huygens, spalleggiato da tal Feroni, quando Dulcibeni era al servizio degli Odescalchi, ossia la famiglia del Papa. Il secondo accompagnatore di Fouquet, Roberto Devizé, era un chitarrista in rapporti non chiari con la Regina di Francia Maria Teresa ed era allievo di Francesco Corbetta, intrigante personaggio che aveva scritto, e prima di morire donato a Maria Teresa, il rondò che sentivamo sempre suonare a Devizé. La musica del rondò portava però come dedica «à Mademoiselle», cugina del Re Cristianissimo e moglie del Conte di Lauzun. Quest'ultimo per dieci anni era stato compagno di carcere di Fouquet a Pinerolo, prima che il Sovrintendente morisse... «Vorrai dire "evadesse"» mi corresse Atto «visto che è morto qui al Donzello». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Giusto. E poi...». «E poi ci sono un gesuita, un veneziano latitante, una puttana, un oste ubriacone, un astrologo napoletano, un profugo inglese e un medico senese massacratore di poveri indifesi come tutti i suoi compagni d'arte». «E i due corpisantari» aggiunsi. «Ah già, i due mostri. Infine noi due, che ci scervelliamo mentre qualcuno nella locanda ha la peste e nei sotterranei si trovano pagine di Bibbia sporche di sangue, ampolle piene di sangue, topi che vomitano sangue... troppo sangue, a pensarci bene». «Che vorrà dire, signor Atto?» «Bella domanda. Quante volte te lo devo ripetere? Pensa sempre ai corvi e all'aquila. E comportati da aquila». A questo punto stavamo ormai arrampicandoci su per la scala che portava allo stanzino segreto del Donzello, e di lì a poco ci separammo dandoci appuntamento per l'indomani.
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Giornata settima. 17 settembre 1683
A
nche in quei giorni carichi di emozioni, mi tornava talvolta alla mente un edificante imperativo che soleva cantilenare, come s'usa coi fanciulli, l'anziana donna che mi aveva amorevolmente educato e istruito: mai abbandonare a metà un libro. Fu con la mente rivolta a tale saggio precetto, credo, che mi decisi il mattino seguente a ultimare la lettura della gazzetta astrologica di Stilone Priàso. La mia scrupolosa educatrice non sbagliava: meglio non leggere un libro, che leggerne solo una parte, serbandone parziale memoria ed erroneo giudizio. Forse le pagine seguenti mi avrebbero aiutato a ridimensionare, pensavo, la portata degli oscuri poteri che fino ad allora avevo attribuito al misterioso libretto. Al risveglio, tra l'altro, ero meno sfinito delle mattine precedenti; ero riuscito a dormire a sufficienza, dopo il carosello d'inseguimenti e fughe che dalla casa di Tiracorda ci aveva condotti a pedinare Dulcibeni percorrendo nuovamente tutta la galleria C, fino al fiumiciattolo sotterraneo. E soprattutto dopo le sorprendenti scoperte su Devizé (e il suo misterioso rondò), alle quali l'abate e io eravamo giunti durante il tragitto di ritorno verso la locanda. La mia mente si rifiutava ancora di tornar a ragionare su quella intricata storia. Ora, pertanto, mi si presentava l'occasione buona per finire di leggere la gazzetta astrologica che i corpisantari avevano sottratto a Stilone Priàso: la conservavo ancora sotto il materasso del mio lettuccio. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Quel volumetto di pronostici sembrava aver previsto con esattezza gli eventi dei mesi passati. Ora però volevo sapere cosa ci riservava il futuro. Lessi così le previsioni per la terza settimana del mese di settembre: i giorni che stavano per arrivare. I vaticini che si vanno cognietturando dagli astri, in questa settimana ci saranno dati in primo luogo da Mercurio, come ricevitore de' due Luminari ne' suoi domicilij, che per ritrovarsi nella Terza casa congiunto al Sole, promette viaggi di Principi, passaggio di spessi corrieri, e varie imbascerie Regie. Giove e Venere congiunti cercano di mettere insieme al trigono igneo un'assemblea di virtuosi per trattare una lega, o pace di grande importanza.
Subito puntai l'attenzione sui «viaggi di Principi e di spessi corrieri» e sulle «imbascerie Regie», e non ebbi alcun dubbio: si trattava dei dispacci in cui si rendeva noto l'esito della battaglia di Vienna, che in quel momento era giunta al punto decisivo. Ben presto, infatti, frotte di messaggeri a cavallo, forse guidate degli stessi Sovrani e Principi che avevano partecipato alla pugna, avrebbero percorso l'Europa per portare il verdetto in tre giorni a Varsavia, in cinque a Venezia, in otto o nove a Roma e Parigi, e più tardi ancora a Londra e Madrid. Ancora una volta l'autore della gazzetta aveva fatto centro: non solo aveva antiveduto la grande battaglia, ma anche il frenetico diffondersi delle notizie all'indomani dello scontro finale. E l'«assemblea di virtuosi per trattare una pace di grande importanza», di cui parlava la gazzetta astrologica, non era forse il trattato di pace che sarebbe sicuramente stato siglato tra vincitori e vinti? Proseguii con la lettura della quarta e ultima settimana di settembre: Pessime nuove degl'infermi si potrebbero sentire in questa quarta settimana, essendo che dispone della Sesta casa il Sole, il quale ha dato
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la cura a Saturno che per ciò regneranno quartane, flussioni, Hydropisie, enfiagioni, sciatica, podraga, e dolori per calcoli. Dispone però dell'Ottava casa Giove che presto darà la salute a' molti pazienti.
Dunque vi sarebbero state altre minacce alla salute: febbri, disturbi nella circolazione degli umori, eccessi di acqua nello stomaco, dolori a ossa, gambe e viscere. Tutte minacce gravi e però, diceva la gazzetta, non insuperabili. Il peggio infatti doveva ancora arrivare: Assai violenti potrebbono giugnere i primi avvisi di questa settimana, essendo che ci saranno spediti da Marte come padrone dell'Ascendente che per ritrovarsi nell'Ottava casa ci potrebbe far sentire la morte di huomini per mezzo di veleni, di ferro, e di fuoco, overo con arme da fuoco. Saturno nella Sesta casa, disponitore della Dodicesima, promette morte d'alcuni nobili riserrati.
Alle ultime parole mi mancò il fiato. Gettai la gazzetta lontano da me e, a pugni stretti, rivolsi al Cielo un'accorata supplica. Forse nessuna lettura nella mia vita avrebbe più segnato il mio animo quanto quelle poche e criptiche righe. Si preparavano infatti eventi «violenti», come la «morte di huomini per mezzo di veleni, di ferro e di fuoco, overo con arme da fuoco». La morte era destinata a «nobili riserrati»: alcuni pigionanti del Donzello erano chiari gentiluomini, e di certo tutti eravamo «riserrati» a causa della quarantena! Se mai mi fosse ancora occorsa una prova che quella gazzetta (opera diabolica!) anticipava il vero, ora l'avevo: essa parlava di noi, riserrati nel Donzello per la peste, e della morte d'alcuni gentiluomini tra noi. Morte violenta, anche per veleno: e non era stato forse avvelenato il Sovrintendente Fouquet? Sapevo che non era da buon cristiano cedere alla disperazione, neanche nella più tragica delle disavventure. Mentirei però se dicessi d'aver affrontato con virile dignità quelle inaudite rivelazioni. Mi sentivo abbandonato come forse mai mi era accaduto malgrado la mia condizione d'orfanello, in balia di aImprimatur - Monaldi & Sorti
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stri che chissà da quanti secoli, forse sin dall'origine del loro corso, avevano deciso il mio destino. Sopraffatto dal terrore e dalla disperazione, presi il vecchio rosario ricevuto in regalo dalla pia donna che m'aveva cresciuto, lo baciai appassionatamente e me lo infilai in tasca. Dissi tre paternoster e m'accorsi, nel timore delle stelle, d'aver dubitato della divina Provvidenza, che ogni buon cristiano dovrebbe riconoscere a sola sua padrona. Avvertii il cocente bisogno di purgare la mia anima e ricevere il conforto della Fede: era il momento di confessarmi davanti a Dio. E nella locanda, grazie al Cielo, c'era chi poteva in ciò assistermi. «Ebbene entra, figliuolo, fai bene a mondarti l'anima in questi momenti difficili». Appena udito il motivo della mia visita, Robleda m'accolse nella sua stanzetta con grande benevolenza. Il segreto della confessione mi sciolse il cuore e la favella, e onorai quel sacramento con partecipazione e ardore. Una volta ch'egli mi ebbe data l'assoluzione, mi chiese l'origine di tanto mio colpevole dubitare. Tacendo della gazzetta, ricordai a Robleda che tempo addietro egli mi aveva parlato delle predizioni riguardanti il Papa angelico, e che tale conversazione mi aveva fatto a lungo riflettere sul tema del fato e della predestinazione. Durante tali cogitazioni mi era sovvenuto che a parere di alcuni l'influenza degli astri può determinare le cose terrene, le quali quindi possono essere adeguatamente previste. Sapevo che la Chiesa rifiutava tale assunto, che anzi appartiene alle dottrine da condannare; il medico Cristofano mi assicurava però che l'astrologia può molto per la pratica medica, ed è quindi cosa buona e utile. Ecco perché, dibattendomi tra tali contrastanti verdetti, avevo pensato di chiedere a Robleda lume e consiglio. «Bravo, ragazzo, bisogna sempre rivolgersi a Santa Madre Chiesa per affrontare le multiformi incertezze dell'esistenza. Capisco che qui nella locanda, con tale traffico di viaggiatori, tu 416/703
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abbia sentito parlare più volte delle illusioni che agli spiriti semplici spacciano maghi, astrologi e negromanti di tutte le risme. Ma non devi dare ascolto alle chiacchiere. Esistono due astrologie: una falsa e una vera. La prima cerca di vaticinare, sulla base della data di nascita degli uomini, i loro eventi e comportamenti futuri. È una dottrina menzognera ed eretica, come sai, che già da tempo è stata proibita. V'è poi la vera e buona astrologia, che cerca d'investigare il potere delle stelle con l'osservazione della natura a fini di conoscenza, e non di previsione. E che le stelle influenzino le cose di quaggiù è cosa certissima». Al primo posto, argomentò Robleda lieto di poter metter fiato alla bocca e di esibire la propria scienza, c'erano il flusso e il riflusso delle maree, da tutti conosciuti e cagionati dall'occulta virtù della Luna. Ugualmente si doveva dire dei metalli nelle profondissime viscere della Terra, ove non giunge luce né calore solare, e che dunque devono essere prodotti grazie all'influenza delle stelle. E molte altre esperienze (ch'egli avrebbe potuto memorare ad abundantiam) difficilmente sono spiegabili senza ammettere l'intervento d'influssi celesti. Perfino la modesta pianticina di menta puleggia, per quanto riferisce Cicerone nel De Divinatione, fiorisce solo nel giorno del solstizio dell'inverno, il più corto di tutto l'anno. Altre dimostrazioni del potere degli oggetti celesti su quelli terrestri vengono dalla meteorologia: al nascer e al calare delle sette stelle situate nella testa della costellazione del Toro, che dai Greci vennero chiamate Hiadi, sogliono cadere infatti abbondanti piogge. Che dire poi degli animali? È noto che al calare e ricrescere della Luna le ostriche, i granchi e altri simili animali perdono forza vitale e vigore. Era poi vero quanto detto da Cristofano: già Ippocrate e altri medici peritissimi sapevano che nei solstizi e negli equinozi si verificano drammatiche mutazioni nelle malattie. Su tutto ciò, disse il gesuita, concordava l'Angelico Dottore San Tommaso, poi Aristotele nelle Meteore e molti Filosofi e Autori tra cui Domenico Soto, Iavello, Domenico Bagnes, il Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Capreolo e altri ancora, e molto di più avrei potuto apprendere sol che avessi letto La vera e falsa astrologia, saggio e veridico volume del suo confratello Giovanni Battista Grassetti, battezzato dai torchi appena pochi mesi prima. «Ma se, come voi dite, l'astrologia buona non confligge con gl'insegnamenti della religione cristiana» obiettai «allora dovrebbe esistere un'astrologia cristiana». «E infatti esiste» rispose Robleda ormai compiaciuto del proprio sfoggio di sapienza «ed è un peccato che io non abbia qui con me lo Zodiaco Cristiano locupletato ovvero i dodici segni della Divina Predestinazione, libro di purissima dottrina dovuto all'ingegno del mio confratello Geremia Drexelio e pubblicato in questa santa città quasi quarantanni fa». In tale volume, spiegò Robleda, i dodici segni della tradizione astrologica venivano finalmente sostituiti da altrettanti simboli della Vera e Unica Religione: un cero ardente, un cranio, una pisside d'oro dell'Eucaristia, un altare nudo e svelato, una pianta di rose, un albero di fico, una pianta di tabacco, un cipresso, due aste unite con una corona d'olive, un flagello con le verghe, un'ancora e una cetra. «E questi sarebbero i segni zodiacali cristiani?» chiesi ostentando meraviglia. «Di più: ognuno di essi è il simbolo di valori eterni della Fede. Il cero ardente rappresenta la Luce interna dell'Anima immortale, sì come sta scritto Lucerna pedibus meis verbum tuum et lumen semitis meis, il cranio è simbolo della meditazione della morte, la pisside d'oro raffigura la frequenza della confessione e della Comunione, l'altare... guarda, ti è caduto qualcosa». Estraendo dalla tasca il mio rosario, mi era finita in terra qualcuna delle foglie trovate da Ugonio e Ciacconio, che tenevo nella stessa tasca. «Oh, non è niente» cercai di mentire. «È una... una curiosa spezia che mi hanno regalato al mercato di piazza Navona, alcune settimane fa». 418/703
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«Dai qua» fece Robleda quasi strappandomi di mano una delle foglie. Se la rigirò stupito più volte tra le mani. «È curioso» disse infine «chissà com'è finita qui». «Perché?» «È una pianta che non cresce in Europa. Viene da lontano, dalle Indie occidentali, dal Perù». «E come si chiama?» «Mamacòca». Padre Robleda mi narrò così la sorprendente storia della mamacòca, insolita pianticella che molta importanza avrebbe avuto per gli eventi dei giorni successivi. Da principio egli m'insegnò che, una volta conquistate le Indie occidentali e sconfitti i selvaggi locali (seguaci di religioni false e cultori della bestemmia), nonché iniziata dai missionari gesuiti la santa opera di evangelizzazione, subito si passò allo studio delle innumerevoli varietà vegetali del Nuovo Mondo. Un universo sterminato: mentre la pur antica e autorevole Materia medica di Dioscoride menzionava in tutto trecento piante, il medico Francisco Hernàndez nei diciassette volumi della sua Historia naturai de las Indias era arrivato a contare oltre tremila specie vegetali. In mezzo a meravigliose scoperte si nascondevano però gravi insidie. Per i colonizzatori era infatti impossibile discernere tra piante e droghe, tra tisane e veleni, e, nella popolazione indigena, tra medici e negromanti. I villaggi abbondavano di stregoni che giuravano, grazie ai poteri di erbe e radici, di saper evocare il demonio o indovinare il futuro. «Come gli astrologi!» esclamai, sperando di scoprire qualche collegamento con gli eventi che erano capitati al Donzello. «Ma no, qui l'astrologia non c'entra nulla» rispose Robleda deludendo le mie aspettative. «Sto parlando di cose molto più gravi». Secondo gli stregoni, infatti, ogni pianta poteva essere usata in due modi: per curare una malattia o per vedere il diavolo. E Imprimatur - Monaldi & Sorti
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nelle Indie sembravano abbondare soprattutto piante adatte al secondo scopo. Il donanacal (così mi parve che padre Robleda pronunciasse l'esotico nome), che gli indigeni chiamavano «fungo meraviglioso», era ritenuto in grado di mettere in comunione con Satana. Lo stesso sospetto pendeva sui semi di oliuchi e su un altro fungo, detto peyote. Una pianta dal nome di paté veniva usata dagli stregoni per ascoltare gli oracoli fallaci dell'Inferno. L'Inquisizione decise quindi di dare alle fiamme i campi coltivati con le piante proibite e, di tanto in tanto, anche qualche stregone. Ma i campi erano troppo grandi, e gli stregoni troppo numerosi. «Si cominciò a temere per l'integrità della dottrina cristiana!» sibilò Robleda con voce accorata, agitando la fogliolina di mamacòca sotto il mio naso come a mettermi in guardia contro il Maligno. A causa delle piante maledette, riprese il racconto, perfino i selvaggi cristianizzati e battezzati bestemmiavano il sacro nome dei Dottori della Chiesa. Alcuni di essi sostenevano che San Bartolomeo si era recato in America solo per scoprire le piante dai poteri miracolosi, e che San Tommaso aveva predicato anche in Brasile, e qui aveva trovato alberi le cui foglie erano veleno mortale, ma egli le aveva tostate sul fuoco e le aveva trasformate in un farmaco miracoloso. Gli indigeni convertiti alla nostra Fede utilizzavano poi alcune potenti droghe durante la preghiera: cosa ovviamente proibita dalla Dottrina. Si diffusero insomma nuove eresie, inusitate e pericolosissime. «C'era persino chi insegnava nuovi Vangeli» disse Robleda con voce tremante, restituendomi schifato la fogliolina come se fosse appestata. «In questi Vangeli blasfemi» proseguì facendosi il segno della Croce «si diceva che Cristo, appena diventato adulto, era dovuto fuggire perché i diavoli lo avevano assalito per togliergli l'anima. Maria, rientrando a casa e non trovandovi suo figlio, montò su un asinelio e si mise alla sua ricerca. Ben presto però perse la strada, entrò in una foresta e per la 420/703
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fame e la disperazione si sentì venire meno. Gesù la vide in quello stato e le venne in aiuto: benedisse un arbusto di mamacòca che si trovava a poca distanza. L'asinello venne attratto dall'arbusto e non se ne volle più staccare; Maria capì così che esso era stato benedetto per Lei. Ne masticò alcune foglie e, come per miracolo, non sentì più fame né stanchezza. Proseguì il viaggio e raggiunse un villaggio, ove alcune donne le offersero cibo. Maria rispose di non aver fame e mostrò il ramoscello benedetto di mamacòca. Ne porse una foglia alle donne dicendo: «Seminatela, essa produrrà delle radici e svilupperà un arbusto». Le donne fecero quanto aveva detto Maria e dopo quattro giorni nacque un alberello tutto pieno di frutti. Dai frutti uscirono i semi per la coltivazione della mamacòca, alla quale da allora sono devote le donne». «Ma è mostruoso» commentai «bestemmiare così la Madonna e Nostro Signore Gesù Cristo, dire che si cibavano con le piante degli stregoni...». «Dici bene, è mostruoso» disse Robleda detergendosi il sudore dalle gote e dalla fronte «e non è finita». Le specialità proibite infatti erano così numerose che ben presto i colonizzatori (e perfino i gesuiti, disse Robleda con rassegnazione) non ci capirono più niente. Chi sapeva distinguere a colpo sicuro tra oliuchi e donanacal, peyote e cocoba, paté e cola, iopo e mate, guaranà e mamacòca? «Anche la mamacòca veniva usata per la preghiera?» «No, no» rispose con lieve imbarazzo «serviva ad altro». La foglie di quell'arbusto dall'aspetto innocente, disse il gesuita, avevano lo stupefacente potere di annullare la fatica, allontanare la fame e di rendere euforici e vigorosi. La mamacòca inoltre, come avevano verificato gli stessi gesuiti, affievolisce i dolori, ridà la forza alle ossa spezzate, scalda le membra e guarisce le vecchie ferite che cominciano a fare i vermi. Infine (ciò che forse era più importante, disse Robleda) lavoratori, braccianti e schiavi grazie alla mamacòca erano capaci di lavorare per ore e ore senza stancarsi. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Tra i conquistatori vi fu quindi chi pensò di sfruttare il flagello, anziché estirparlo. La mamacòca consentiva agli indigeni di resistere a fatiche indicibili; e le missioni gesuite delle Indie, osservò Robleda, avevano costante bisogno di manodopera. Il consumo della pianta fu quindi legalizzato. I lavoratori indigeni vennero pagati con le foglie della pianta, che per loro valevano più del denaro, dell'argento e perfino dell'oro. Il clero ebbe il permesso d'imporre decime sulla coltivazione, e molte rendite di sacerdoti e vescovi vennero pagate grazie alla vendita della mamacòca. «Ma non era uno strumento di Satana?» obiettai stupito. «Eppeppè, insomma...» tentennò Robleda «la situazione era molto complicata, e si doveva pur scegliere. Concedere maggior libertà agli indigeni nell'uso della mamacòca avrebbe permesso di costruire altre missioni, di civilizzarli meglio, insomma di riguadagnare sempre più anime alla causa di Cristo». Mi rigirai la fogliolina nel palmo della mano. La stropicciai e me la portai al naso, annusandola. Pareva una pianta qualsiasi. «E questa come potrebbe essere arrivata a Roma?» chiesi. «Forse qualche nave spagnola ne ha portato un carico in Portogallo. Da lì potrebbe aver preso la strada di Genova, o delle Fiandre. Altro non so: ho riconosciuto la pianta perché un mio confratello me ne mostrò alcune, e in seguito l'ho vista più volte raffigurata nelle lettere dei missionari dalle Indie. Forse ne sa di più chi te l'ha regalata». Stavo quasi per congedarmi, quando mi sovvenni d'un ultimo interrogativo. «Una sola domanda, padre. Come si consuma la mamacòca?» «Per carità, ragazzo, non intenderai farne uso, spero!» «No, padre, era solo una curiosità». «In genere i selvaggi la masticano, dopo aver impastato le foglie con la saliva e un po' di cenere. Ma non escludo che possa essere assunta anche in altro modo».
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Scesi a preparare il pranzo, non senza essermi fugacemente affacciato in camera dell'abate Melani per riferirgli quanto appreso da Robleda. «Interessante, interessantissimo» commentò Atto con sguardo assorto. «Anche se per ora non capisco a cosa ci possa condurre. Ci dovremo riflettere». In cucina trovai Cristofano, come al solito impegnato a far la spola tra i fuochi e la cantina. Attendeva alla preparazione dei rimedi più diversi, e in verità singolari, contro la peste che attanagliava Bedfordi. Avevo in quei giorni assistito a un crescente fermento dell'attività speziaria del medico senese, che provava ormai a usare di tutto. Lo avevo persino visto dare fondo alla riserva di selvaggina del mio padrone, col pretesto che sarebbe andata a male e che celarne il puzzo con le speziarie, come faceva Pellegrino, era costume letale alla sanità. Aveva pertanto ghermito starnotte, palombelle, pizzacchere, francolini e cocciarde, solo per farcirli di prugne damaschine o amarene e poi, messi i volatili in un sacchetto di tela bianca, spremerne le carni delicate sotto al torchio e tirarne fuori un sorsico, che sperava rimettesse in sesto il povero inglese. Sinora i suoi tentativi di mettere a punto un remedium efficace parevano andati a vuoto. Il giovane Bedfordi, comunque, sopravviveva. Cristofano disse d'aver trovato gli altri pigionanti piuttosto in salute, tranne Domenico Stilone Priàso e Pompeo Dulcibeni: il napoletano s'era svegliato con i primi segni del mal di formica sul labbro, mentre all'attempato fermano era sopraggiunto un attacco di emorroidi, senza dubbio a causa della cena a base di zinne di vacca. Il rimedio, spiegò, era lo stesso per entrambi: avremmo pertanto preparato del caustico. «Mortifica le ulcere putride e corrosive, come appunto l'erpete di formicola e le volatiche» sentenziò, e poi m'ordinò: «Recipe aceto fortissimo». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Mescolò quindi l'aceto con arsenico cristallino, sale armoniaco e argento vivo sublimato. Macinò il tutto e lo pose a bollire dentro una bozzetta. «Bene. Ora occorre attendere che si consumi metà dell'aceto. Poi salirò su da Stilone Priàso ad asciugargli le bollicine col caustico. Tu intanto puoi preparare il pranzo: ti ho già scelto dalla cantina alcune pollancotte d'India adatte alle condizioni dei nostri pigionanti. Cuocile con radiche di petrosello finché saranno quasi di color leonato, e accompagnale con una minestrina di pan grattato». Mi misi all'opera. Quando il caustico fu pronto, Cristofano mi diede le ultime disposizioni prima di salire da Stilone Priàso: «Con Dulcibeni avrò bisogno di te. Ti aiuterò pertanto a distribuire i pasti, così ti sbrigherai, visto che i pigionanti di questa locanda amano intrattenersi a chiacchierare con te un po' troppo a lungo» concluse con accento significativo. Dopo pranzo andammo a imboccare Bedfordi. Fummo poi non poco impegnati dal mio padrone. Pellegrino sembrava non gradire l'effluvio del pasto mondificativo approntatogli personalmente dal medico, che in verità aveva l'aspetto d'un curioso pappone grigiastro. Il mio padrone, almeno, appariva più vispo. I miglioramenti lenti e progressivi delle ultime ore non smentivano le mie speranze che si riprendesse del tutto. Annusò il pappone; poi si guardò attorno, chiuse la mano destra a pugno e la alzò puntando ritmicamente il pollice teso verso la bocca. Era il gesto inconfondibile con cui Pellegrino era solito mimare il desiderio d'una buona bevuta di vino. Stavo per invitarlo a essere più ragionevole e paziente ancora per qualche giorno, ma Cristofano mi fermò con la mano. «Non noti la sua maggior presenza di spirito? Spirito chiama spirito: possiamo senz'altro concedergli un mezzo bicchiere di vino rosso». «Ma ha bevuto a volontà fino al giorno in cui si è ammalato!» «Appunto. Infatti il vino va bevuto con moderazione: nutre, fa digerire, produce sangue, conforta, addolcisce, allieta, schia424/703
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risce e vivacizza. Va' quindi a prendere in cantina un po' di vinello rosso, ragazzo» disse con una traccia d'impazienza nella voce «ché un bicchieruzzo sarà a Pellegrino di gran giovamento». Mentre già scendevo le scale, il medico mi gridò dietro: «Mi raccomando però che sia fresco! A Messina, dopo che si cominciò ad adoprarsi la neve per refrigerare vino e cibo, sono cessate le febbri pestifere causate da oppilazioni delle prime vene: da allora vi muoiono ogni anno mille persone in meno!». Rassicurai Cristofano: oltre al pane e agli otri d'acqua, ci veniva regolarmente fornita anche la neve pressata. Dalla cantina tornai con una caraffetta di buon rosso e un bicchiere. Non appena lo ebbi riempito, il medico spiegò che la colpa del mio padrone era stato l'immoderato consumo di vino, che rende l'uomo forsennato, stupido, lussurioso, logorroico e omicida. Bevitori temperati, infatti, erano Augusto e Cesare; mentre beoni smodati erano Claudio Tiberio Nerone e Alessandro, il quale per l'ubriachezza dormiva anche due giorni di seguito. Dopodiché afferrò il bicchiere e ne ingollò più di metà in un sorso: «Non è malaccio: robusto e gentile» disse, innalzandosi sopra al naso il bicchiere con le poche gocce rimaste e osservandone il bel colore rubino. «E come dicevo, la giusta dose di vino muta i vizi della natura in contrario, perciocché l'uomo empio lo fa pio, d'avaro liberale, di superbo umile, di pigro sollecito, di timido audace: la taciturnità e la pigrizia della mente muta in astuzia e in facondia». Scolò il bicchiere, lo riempì di nuovo e tracannò rapidamente. «Ma guai a bere dopo le funzioni corporali o dopo l'atto sessuale» ammonì mentre col dorso d'una mano si asciugava le labbra e con l'altra si mesceva una terza dose. «Meglio bere, invece, dopo aver consumato mandorle amare e cavoli oppure, dopo il pasto, mele cotogne, cotognate, grani di mortella e altre cose astringenti». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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E finalmente somministrò qualche sorso anche al povero Pellegrino. Ci recammo quindi da Dulcibeni, che sembrò lievemente contrariato nel vedermi accompagnare Cristofano. Presto capii il perché: il medico lo aveva pregato di scoprirsi le pudenda. L'anziano ospite mi gettò un'occhiata e brontolò. Capii di aver turbato la sua intimità, e mi voltai. Cristofano gli assicurò che non avrebbe dovuto esporsi al mio sguardo, e non si doveva certo vergognare di lui ch'era medico. Lo pregò poi di disporsi sul letto carponi, appoggiandosi sui gomiti acché potessero essere comodamente adite le sue volatiche. Dulcibeni, seppure di malavoglia, acconsentì, non senza essersi prima provvisto della sua tabacchiera. Cristofano mi fece accovacciare di fronte a Dulcibeni, onde tenerlo fermo per le spalle. Di lì a poco il medico avrebbe cominciato a ungere le emorroidi col suo caustico: un movimento brusco del paziente avrebbe potuto fargli colare il liquido sui bottoni o sul petenecchio, danneggiandoli con prestezza. All'avvertimento del medico, Dulcibeni represse a stento un brivido e prelevò nervosamente un pizzico della sua inseparabile polverina. Cristofano intraprese l'opera. Sulle prime, come previsto, Dulcibeni si scuoteva per il bruciore e prorompeva in mugolii brevi e pieni di ritegno. Per distrarlo il medico cercò d'attaccar discorso, chiedendogli di quale città egli fosse originario, come mai fosse giunto al Donzello da Napoli e così via, tutti i quesiti cioè che per prudenza io non gli avevo ancora posto. Dulcibeni (come l'abate Melani aveva ben preveduto) rispose sempre a monosillabi, lasciando morire l'uno dopo l'altro gli argomenti di conversazione e senza fornire alcuna indicazione che potesse tornarmi utile. Il medico accennò così al tema di quei giorni, cioè all'assedio di Vienna, e gli chiese cosa se ne dicesse a Napoli. «Non saprei» rispose laconicamente, come prevedevo. «Ma se ne parla da mesi, e in tutta Europa. Secondo voi chi 426/703
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vincerà: fedeli o infedeli?» «Entrambi, e nessuno dei due» disse con palese insofferenza. Mi chiesi se anche in quell'occasione, dopo che il medico e io fossimo usciti dalla sua camera, Dulcibeni avrebbe intavolato un acceso soliloquio sul tema da cui ora affettava d'essere annoiato. «Cosa intendete?» insistette tuttavia Cristofano mentre le sue manipolazioni strappavano un roco urletto a Dulcibeni. «In una guerra, se non si conclude un trattato, c'è sempre un vincitore e un vinto». Il paziente s'impennò e riuscii a tenerlo fermo solo afferrandolo per la collottola. Non capii se fu il dolore a stizzirlo alquanto: fatto sta che Dulcibeni preferì per quella volta un interlocutore in carne e ossa alla propria immagine riflessa nello specchio. «Ma che ne sapete voi! Si parla tanto di Cristiani e Ottomani, Cattolici e Protestanti, fedeli e infedeli, come se i fedeli e gl'infedeli esistessero veramente. Tutti quanti, invece, spargono in ugual modo il seme dell'odio tra le membra della Chiesa: qui i cattolici romani, lì i gallicani, e via dicendo. Ma la cupidigia e la sete di dominio non professano fede che non sia quella in se stessi». «Ma vi prego!» intervenne Cristofano. «Dire che cristiani e Turchi sono la stessa cosa... se vi sentisse padre Robleda!» Ma Dulcibeni non lo ascoltava. Mentre si mandava rabbiosamente su per il naso il contenuto della tabacchiera, parte del quale però cadeva sul pavimento, la sua voce si colorava a tratti di rabbia, come per reagire alla dolorosa bruciatura delle volatiche che Cristofano gli stava infliggendo. Mentre lo tenevo fermo, cercavo di non soffermare troppo lo sguardo su di lui, cosa per nulla facile nella posizione in cui ero costretto. A un certo punto, l'austero paziente riprese a scagliarsi contro Borboni e Asburgo, ma anche contro Stuart e Orange, come già avevo da lui udito nella sua aspra e solitaria invettiva conImprimatur - Monaldi & Sorti
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tro le loro nozze incestuose. Visto poi che il medico, da buon toscano, spendeva qualche parola per difendere i Borboni (imparentati col Granduca di Toscana, suo Principe), lo rintuzzò accanendosi con particolare astio contro la Francia. «Che fine ha fatto l'antica nobiltà feudale, marchio e vanto di quella Nazione? I nobili che oggi affollano Versailles, cosa credete che siano ormai, se non i bastardi dei Re? Condé, Conti, Beaufort, il Duca del Maine, il Duca di Vendôme, il Duca di Toulouse... Principi del sangue, li chiamano. Ma quale sangue? Quello delle puttane capitate nel letto del Re Sole, o in quello di suo nonno Enrico di Navarra». Quest'ultimo, continuò Dulcibeni, aveva marciato su Chartres solo per avere Gabriella d'Estrées, che prima di concedersi pretendeva di far nominare suo padre governatore della città, e suo fratello vescovo. La d'Estrées riuscì a vendersi a peso d'oro al Re nonostante fosse reduce dai letti di Enrico III (il vecchio d'Estrées ne aveva ricavato seimila scudi), del banchiere Zamet, del Duca di Guisa, del Duca di Longueville e del Duca di Belleguarde. E tutto questo malgrado l'ambigua fama di sua nonna, amante di Francesco I, di papa Clemente VI e di Carlo di Valois. «Perché stupirsi» recitò Dulcibeni «se i grandi feudatari di Francia vollero purgare il Reame da quelle sozzerie, e accoltellarono Enrico di Navarra? Ma era troppo tardi! Il potere cieco dei Sovrani da allora in poi li avrebbe rapinati e schiacciati senza pietà». «Mi sembra che esageriate» ribatté Cristofano, alzando gli occhi dalla sua delicata opera e osservando con preoccupazione il surriscaldato paziente. Anche a me, in effetti, sembrava che Dulcibeni stesse esagerando. Certo, era sfiancato dalle dolorose bruciature inflittegli dal caustico. E purtuttavia le pacate e quasi distratte obiezioni del medico non meritavano proprio le sue reazioni di bollente ira. Il tremito come febbrile delle membra suggeriva, in realtà, che Dulcibeni fosse attanagliato in un singolare stato di sovrec428/703
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citazione nervosa. Né servivano a pacificarlo le ripetute prese dalla tabacchiera. Mi ripromisi di riferire tutto, quanto prima, all'abate Melani. «A sentir voi» aggiunse poi Cristofano «si direbbe che non ci sia nulla di buono a Versailles, né in alcuna altra Corte». «Versailles mi nominate, proprio Versailles, dove ogni giorno si offende il nobile sangue dei padri! Dove sono finiti gli antichi cavalieri? Eccoli là, tutti ammucchiati dal Re Cristianissimo e dal suo usuraio Colbert in un'unica reggia, tutti occupati a scialacquare il loro appannaggio tra balli e partite di caccia, invece di difendere i feudi dei loro gloriosi avi». «Ma così Luigi XIV ha posto fine alle congiure» protestò Cristofano. «Il Re suo nonno è morto accoltellato, suo padre avvelenato, e lui stesso da bambino venne minacciato dai nobili della Fronda in rivolta!» «È vero. Così però si è impossessato delle loro ricchezze. E non ha capito che i nobili, un tempo sparsi per tutta la Francia, minacciavano sì il Sovrano, ma erano anche la sua miglior protezione». «Che volete dire?» «Ogni Sovrano può ben controllare il suo Regno solo se ha un vassallo in ogni provincia. Il Re Cristianissimo ha fatto il contrario: ha riunito tutta l'aristocrazia in un solo corpo. E un corpo ha una sola gola: quando arriverà il giorno in cui il popolo gliela vorrà tagliare, basterà un unico colpo». «Ma suvvia! Ciò non può certo accadere» disse Cristofano con forza «il popolo di Parigi non taglierà mai la testa ai nobili. E il Re...». Dulcibeni proseguì senza più ascoltare il suo interlocutore: «La storia» urlò quasi, facendomi sussultare «non avrà pietà di questi sciacalli con la corona, nutriti da sempre di sangue umano e d'infanticidio; oppressori malvagi d'un popolo di schiavi, che hanno mandato al macello ogni volta che la loro furia omicida venne sollecitata da una qualsivoglia loro bassa passione incestuosa». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Aveva scandito ogni sillaba con acceso furore, a labbra livide e contratte, e col naso tutto impolverato per le numerose inalazioni. Cristofano rinunciò a ribattere: pareva di assistere allo sfogo d'una mente ottenebrata. Il medico, inoltre, aveva ormai terminato il suo doloroso ufficio e sistemò in silenzio delle pezzuole di tela fine tra le natiche del marchigiano, che con un gran sospiro si lasciò cadere sfinito su un fianco. E così stette, senza culotte, finché non fummo usciti.
Non appena gli ebbi riferito della lunga concione di Dulcibeni, Atto non ebbe dubbi: «Padre Robleda aveva visto giusto: se non è un giansenista lui, non lo è nessuno». «E perché ne siete così sicuro?» «Due motivi. Primo: i giansenisti odiano i gesuiti. E mi pare che il discorso di Dulcibeni contro la Compagnia di Gesù, che mi riferisti qualche giorno fa, fosse piuttosto chiaro. I gesuiti sono spioni, traditori, favoriti dai Papi, e così via: la solita propaganda contro l'Ordine di Sant'Ignazio». «Volete dire che è falso?» «Al contrario: è tutto verissimo, ma solo i giansenisti hanno il coraggio di andarlo a dire in giro. Il nostro Dulcibeni, infatti, di paura non ne ha; tanto più che l'unico gesuita nei paraggi è quel codardo di Robleda». «E i giansenisti?» «I giansenisti dicono che la Chiesa alle origini era più pura, come i ruscelli nelle vicinanze della sorgente. Secondo loro qualche verità del Vangelo non è più evidente come un tempo. Per ritornare alla Chiesa delle origini ci si deve allora sottomettere a prove severissime: penitenze, umiliazioni, rinunce; e mentre si sopporta tutto ciò ci si deve arrendere alle mani pietose di Dio, rinunziando per sempre al mondo e sacrificandosi all'Amore Divino». 430/703
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«Padre Robleda mi ha detto che i giansenisti amano stare in solitudine...». «Esatto. Tendono all'ascesi, ai costumi severi e castigati: avrai notato anche tu come ribolle di sdegno Dulcibeni ogni qualvolta Cloridia gli si avvicina...» ridacchiò l'abate. «Va da sé che i giansenisti odino al massimo grado i gesuiti, che si permettono invece ogni libertà di coscienza e d'azione. So che a Napoli c'è un grosso circolo di seguaci di Giansenio». «Dunque è per questo che Dulcibeni s'è stabilito in quella città». «Può darsi. Peccato che sin dall'inizio, per via di alcune questioni teologiche che ora non ti sto qui a spiegare, i giansenisti siano stati accusati di eresia». «Già, lo so. Dulcibeni potrebbe essere un eretico». «Lascia perdere: non è questo l'importante. Andiamo al secondo motivo di riflessione». «E cioè?» «Tutto quell'odio verso i Principi e i Sovrani. È un sentimento, come dire?, sin troppo giansenista. L'ossessione dei Re che commettono incesto, sposano puttane, generano figli bastardi; e i nobili che tradiscono il loro alto destino e si rammolliscono. Sono temi che esortano alla ribellione, al disordine, al tafferuglio». «E allora?» «Niente. Mi sembra curioso: da dove vengono, e soprattutto, dove possono portare quelle parole? Di lui sappiamo molto, e allo stesso tempo troppo poco». «Forse con tali idee hanno a che vedere i quattro numeri, i fratelli e la fattoria». «Vuoi dire le strane formule che gli abbiamo sentito dire con Tiracorda? Può darsi: lo vedremo stanotte».
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Nottata settima Tra il 17 e il 18 settembre 1683
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al gabinetto di Tiracorda filtrava la luce tremolante delle candele, mentre Dulcibeni si sedeva e posava sul tavolo una bottiglia piena di un liquido verdastro. Il medico fece schioccare sul legno i bicchierucci che la volta precedente, causa la rottura della fiaschetta, erano rimasti vuoti. Atto e io, come la notte prima, eravamo acquattati all'ombra nella stanza attigua. L'intrusione in casa di Tiracorda era stata più difficile del previsto: per un bel po' una delle donzellette che vivevano con Tiracorda aveva rigovernato la cucina, impedendoci di uscire dalla stalla. Dopo che la donzella fu salita al primo piano, indugiammo non poco tempo per essere sicuri che nessuno più si aggirasse tra le stanze. Mentre eravamo in attesa, al portone aveva finalmente bussato Dulcibeni; il padrone di casa lo aveva accolto e condotto allo studio del primo piano, ove ora li stavamo spiando. Avevamo mancato l'inizio della conversazione, e i due si stavano nuovamente cimentando con frasi incomprensibili. Tiracorda sorseggiava placidamente la bevanda verdastra. «Allora ripeto» disse il medico. «Un campo bianco, una semenza nera, cinque seminano e due li dirigono. È chia-ris- simo». «Niente da fare, niente da fare» si schermì Dulcibeni. In quel mentre, al mio fianco, Atto Melani ebbe un lieve sobbalzo; poi lo vidi silenziosamente imprecare. 432/703
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«E allora ve lo dico» disse Tiracorda. «La scrittura». «La scrittura?» «Ma sì! Il campo bianco è la carta, la semenza è l'inchiostro, i cinque che lavorano sono le dita della mano e i due che dirigono sono gli occhi. Niente male, eh? Har har har har har! Haaaaaar har har har har!» L'anziano archiatra s'era nuovamente abbandonato alla sua risatina fangosa. «Notevole, sì» si limitò a commentare Dulcibeni. In quel momento anch'io capii: enigmi. Tiracorda e Dulcibeni si dilettavano con gli indovinelli. Anche le frasi misteriose che avevamo udito la notte precedente appartenevano di certo allo stesso innocente trastullo. Guardai Atto e lessi sul suo volto il mio stesso disappunto: ancora una volta ci eravamo scervellati sul nulla. Dulcibeni però sembrava gradire questo passatempo assai meno del suo compare, e cercò di cambiare discorso come aveva fatto già durante la nostra visita precedente. «Bravo, Giovanni, bravo» disse riempiendo nuovamente i bicchieri. «Ora però ditemi: come stava oggi?» «Oh, nessuna novità. E voi avete dormito bene?» «Per quel che ho potuto» disse Dulcibeni con tono grave. «Capisco, capisco» fece Tiracorda scolando il bicchieruccio e riempiendoselo ancora. «Siete tanto inquieto» proseguì il medico. «Ma non mi avete ancora raccontato un par di cosette. Scusate se rivango sempre i tempi passati, ma perché non chiedeste aiuto agli Odescalchi per vostra figlia?» «Lo feci, lo feci» rispose Dulcibeni «ve l'ho già detto. Ma loro dissero di non poter fare nulla. E poi...». «Ah già, poi ci fu quella cosa brutta, le bastonate, la caduta...» rammentò Tiracorda. «Non fu una caduta, Giovanni: mi colpirono sul collo e mi buttarono giù dal secondo piano. Mi salvai per miracolo» disse Dulcibeni lievemente spazientito, mescendo ancora una volta nel bicchiere dell'amico. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Sì, sì, scusate, avrei dovuto ricordarlo dalla vostra gorgiera; è che la stanchezza...» Tiracorda aveva la bocca impastata. «Non vi scusate, Giovanni, ascoltate piuttosto. Ora tocca a voi. Ne ho ben tre». Dulcibeni sfoderò un libretto e con voce calda e rotonda cominciò a leggere: Dirvi dall'A fin'alla Zeta intendo quel che di nominar sempre presumo; e se voce per tutto aver pretendo, altro non sono al fin che straccio e fumo. Ma quel che importa è ch'a' ragazzi attendo, poich'essi son cagion ch'io mi consumo. E voi, Maestri, che favor mi date, sapete ben, ch'io sono figliuol di frate.
La lettura continuò con altri due, tre, quattro bizzarri poemetti, intervallati da brevi pause. «Che ne dite, Giovanni?» chiese infine Dulcibeni dopo aver letto la sfilza d'indovinelli. Gli rispose solo un imbronciato e ritmico mormorio. Tiracorda dormiva. A questo punto accadde l'imprevisto. Invece di destare il suo amico, che evidentemente aveva bevuto molti bicchieri di troppo, Dulcibeni rimise in tasca il libretto e si diresse in punta di piedi verso la porta segreta alle spalle di Tiracorda, da cui la notte prima gli avevamo visto estrarre i due bicchierucci. Dulcibeni aprì le ante e si mise a trafficare con alcuni vasi e contenitori di spezie. Estrasse poi un vaso di ceramica, sul quale erano dipinte le acque di un laghetto, alcune piante acquatiche e strani animaletti che non riuscii a identificare. In alcuni punti le pareti del vaso erano forate, come per lasciar passare l'aria all'interno. Dulcibeni accostò il vaso alla luce della candela, sollevò il coperchio, guardò all'interno e poi ripose il vaso nello stambugio, ove riprese ad armeggiare. «Giovanni!» Una voce femminile, stridula e sgradevolissima, proveniva 434/703
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dalle scale e pareva avvicinarsi. Paradisa, la temibile moglie di Tiracorda, era al di là d'ogni dubbio in arrivo. Dulcibeni ristette per qualche istante come impietrito. Tiracorda, che sembrava essersi addormentato della grossa, ebbe un sussulto. Dulcibeni probabilmente riuscì a chiudere lo stambugio segreto prima che il medico si destasse e lo sorprendesse a frugare tra le sue cose. Atto e io non potemmo però assistere alla scena: per l'ennesima volta presi tra due fuochi, ci guardammo attorno disperati. «Giovanniiii!» ripetè Paradisa sempre più vicina. Anche nello studio di Tiracorda l'allarme doveva essere al culmine: udimmo un sommesso ma frenetico trambusto di sedie, tavoli, porte, bottiglie e bicchieri: il medico stava occultando le prove del misfatto alcolico. «Giovanni» declamò infine Paradisa con una voce dal color di cielo nuvoloso, mentre faceva il suo ingresso nell'anticamera. In quell'esatto istante l'abate Melani e io eravamo con la faccia a terra, tra le gambe di una fila di sedie accostate al muro. «Oh peccatori, oh disgraziati, oh anime perse» cominciò a cantilenare Paradisa mentre si avvicinava, solenne come una sacerdotessa, all'ingresso dello studio di Tiracorda. «Ma moglie mia, qui c'è l'amico Pompeo...». «Sta' zitto, figlio di Satana!» urlò Paradisa. «Il mio naso non m'inganna». Come potemmo udire dalla nostra scomoda posizione, la donna cominciò mettere a soqquadro lo studio, spostando sedie e tavoli, aprendo e richiudendo con fragore porte, ante e cassetti, percuotendo soprammobili e oggetti d'ornamento, alla ricerca delle prove del misfatto. Tiracorda e Dulcibeni cercavano inutilmente di blandirla, assicurandole che mai e poi mai era loro venuto in mente di bere altro che non fosse acqua. «La bocca, fammi sentire la bocca!» strillò Paradisa. Il rifiuto del marito provocò altre urla e gran baccano. Fu in quel momento che risolvemmo di sgusciare dalle sedie Imprimatur - Monaldi & Sorti
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sotto cui ci eravamo nascosti, e di fuggire in silenzio ma a gambe levate.
«Le donne, le donne, maledizione. E noi, peggio di loro». Erano passati due o tre minuti, ed eravamo già nei sotterranei commentando i fatti di poc'anzi. Atto era furioso. «Te lo dico io cos'erano i misteri di Tiracorda e Dulcibeni. Il primo, quello di ieri notte, ricordi?, era indovinare cos'hanno in comune «entrar qui muto» e «quattro numeri». Soluzione: è un anagramma». «Un anagramma?» «Certo. Le stesse lettere di una frase disposte in modo diverso per formarne un'altra. Il secondo gioco era una prova d'ingegno: un padre ha sette figlie; se ognuna ha un fratello, quanta figliolanza ha quel padre?» «Sette per due, quattordici». «Ma neanche per sogno. Ne ha otto: come ha detto Tiracorda, il fratello di una è fratello di tutte. Sono tutte cretinate: quello che Dulcibeni ha letto stasera, e che inizia «Dirvi dall'A fin'alla Zeta intendo», è facilissimo: la soluzione è il dizionario». «E gli altri?» chiesi stupito dalla prontezza di Atto. «E chi se ne importa?» sbottò. «Non sono mica un veggente. A noi interessa capire perché Dulcibeni ha fatto ubriacare Tiracorda, per poi armeggiare nel suo stambugio segreto. E lo sapremmo, se non fosse arrivata quella pazza di Paradisa». In effetti in quel momento ricordai che della signora Paradisa non si sapeva granché in via dell'Orso. Alla luce di quanto avevamo visto e sentito in casa di Tiracorda, forse non era un caso che la donna non uscisse quasi mai di casa. «E ora cosa facciamo?» chiesi osservando il passo rapido con cui Atto mi precedeva sulla via per la locanda. «L'unica cosa possibile per fare un po' di luce: andiamo a 436/703
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dare uno sguardo alla camera di Pompeo Dulcibeni». L'unico rischio di tale operazione era naturalmente il rientro improvviso di Dulcibeni. Ma fidavamo nella rapidità del nostro passo, oltre che nella lentezza di quello dell'attempato gentiluomo marchigiano, che tra l'altro avrebbe dovuto trovar tempo e modo per disimpegnarsi da casa di Tiracorda. «Perdonate signor Atto» lo alloquii dopo qualche minuto di affannosa rincorsa «ma cosa credete di trovare nella stanza di Pompeo Dulcibeni?» «Che domande idiote mi fai, certe volte. Siamo di fronte a un mistero tra i più tremendi di tutta la storia dì Francia, e tu mi chiedi cosa troveremo! E che ne so? Certo qualcosa di più sul pasticcio in cui ci troviamo adesso: Dulcibeni amico di Tiracorda, Tiracorda medico del Papa, il Papa nemico di Luigi XIV, Devizé allievo di Corbetta, Corbetta amico di Maria Teresa e di Mademoiselle, Luigi XIV nemico di Fouquet, Kircher amico di Fouquet, Fouquet amico di Dulcibeni, Fouquet che viaggia con Devizé, Fouquet amico dell'abate che hai davanti... non ti basta?» Atto aveva bisogno di sfogarsi, e per farlo doveva parlare. «Eppoi la camera di Dulcibeni» continuò «è stata anche la camera del Sovrintendente. O te ne sei dimenticato?» Non mi diede tempo di rispondere che aggiunse: «Povero Nicolas, il suo destino è d'essere perquisito, anche dopo la morte». «Cosa intendete?» «Luigi XIV fece frugare di continuo e in ogni modo nella cella del Sovrintendente, durante tutti i vent'anni della sua prigionia a Pinerolo». «E cosa mai cercava?» chiesi in un sussulto di sorpresa. Melani smise di camminare, e accorato intonò una mestissima aria del maestro Rossi: Infelice pensier, chi ne conforta? Ohimè!
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Sospirando si rimise in ordine il giustacuore, si terse la fronte e ridiede la piega alle calze rosse. «Se solo sapessi cosa cercava il Re!» rispose poi sconsolato. «Ma è bene che io ti spieghi; ci sono ancora alcune cose che devi sapere» aggiunse dopo aver ritrovato la flemma. Fu così, per colmare le mie ignoranze, che Atto Melani mi narrò l'ultimo capitolo della storia di Nicolas Fouquet. Finito il processo e condannato all'ergastolo, il 27 dicembre 1664 Fouquet lascia per sempre Parigi alla volta della fortezza di Pinerolo, tra due ali di folla che lo acclama piangente. Lo accompagna il moschettiere D'Artagnan. Pinerolo si trova in territorio piemontese, ai confini del Regno. In molti si chiesero il motivo della scelta d'un luogo tanto lontano, e per di più pericolosamente vicino al confine con gli Stati del Duca di Savoia. Ma più della fuga il Re temeva maggiormente i numerosi amici di Fouquet, e Pinerolo rappresentava l'unica opportunità di sottrarlo per sempre al loro aiuto. Come suo carceriere viene designato un moschettiere della scorta che aveva accompagnato Fouquet da un carcere all'altro durante il processo: Benigne d'Auvergne, signore di SaintMars, personalmente raccomandato al Re da D'Artagnan. SaintMars verrà dotato di ottanta soldati per vigilare su un solo prigioniero: Fouquet. Riferirà direttamente al ministro della guerra: Francois-Michel Le Tellier, Marchese di Louvois. La prigionia di Fouquet è durissima: gli viene vietata ogni comunicazione col mondo esterno, orale o scritta. Niente visite, di nessun genere e per nessuna ragione. Non può prendere neanche una boccata d'aria nella cinta della fortezza. Potrà leggere; ma solo le opere che il Re permetterà, e un libro alla volta. Soprattutto non potrà scrivere: una volta riconsegnato, ogni libro letto dal prigioniero dovrà essere sfogliato pagina per pagina dal fedele Saint-Mars, nel caso Fouquet vi abbia annotato qualcosa, o abbia sottolineato qualche parola. Bisognerà bada438/703
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re che nella cella non venga introdotto nulla che egli possa usare per scrivere. Sua Maestà si farà carico di provvedere al vestiario, che verrà inviato a Pinerolo a ogni cambio di stagione. In quella sperduta cittadella il clima è duro. Fouquet non può fare moto; la salute del Sovrintendente, costretto all'immobilità assoluta, peggiora rapidamente. Ciononostante gli viene negata la possibilità di farsi curare dal suo medico personale, Pecquet. Fouquet ottiene però erbe per curarsi da solo. Gli viene concessa anche la compagnia di due dei suoi valletti, che per fedeltà avevano accettato di condividere la sorte del loro padrone. Luigi XIV sa quanto sia fascinoso l'animo di Fouquet. Non può rifiutargli il conforto della fede, ma raccomanda di cambiargli frequentemente il confessore, onde evitare che Fouquet possa trarlo dalla sua parte e farne un collegamento col mondo esterno. Nel giugno 1665 un fulmine s'abbatte sulla fortezza e fa esplodere un deposito di polveri. È una strage. Fouquet e i suoi valletti si gettano da una finestra. Le probabilità di sopravvivere al salto nel vuoto sono esigue: eppure i tre restano illesi. Appena la notizia arriva a Parigi, circolano poesie che commentano il fatto e si grida al miracolo: Dio ha voluto risparmiare il Sovrintendente e dare al Re un segno del suo volere. Fouquet libero!, invocano in molti. Ma il Re non cede, e anzi perseguita chi schiamazza troppo. La fortezza dev'essere ricostruita, e nel frattempo Fouquet passa un anno a casa del commissario alla guerra di Pinerolo e poi in un altro carcere. Durante i lavori, dalle ceneri della mobilia di Fouquet SaintMars scopre di cosa sia capace l'intelletto del Sovrintendente. A Louvois e al Re vengono subito inviati i piccoli tesori d'ingegnosità trovati nella cella dello Scoiattolo: biglietti scritti da Fouquet usando come piume alcune ossa di cappone, e come inchiostro un po' di vino rosso mescolato a fuliggine. Il carcerato è arrivato persino a confezionare un inchiostro simpatico e a Imprimatur - Monaldi & Sorti
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ricavare un nascondiglio per i suoi scritti nella spalliera di una sedia. «Ma cosa cercava di scrivere?» chiesi stupito e commosso da quei pietosi stratagemmi. «Non s'è mai saputo» rispose Atto. «Ciò che venne intercettato fu inviato al Re in gran segreto». Da quel momento, continuò Melani, il Re ordina di perquisirlo accuratamente ogni giorno. A Fouquet non resta allora che la lettura. Gli vengono concessi una Bibbia, una storia di Francia, alcuni libri italiani, un dizionario di rime francesi e le opere di San Bonaventura (ma gli si rifiutano San Girolamo e Sant'Agostino). Inizia a insegnare il latino e rudimenti di farmacia a uno dei suoi valletti. Ma Fouquet è in tutto e per tutto uno scoiattolo: la sua astuzia e industriosità non si fermano. Pungolato da Louvois, che ben conosce il Sovrintendente e non riesce a credere che si sia dato per vinto, Saint-Mars ispeziona accuratamente la sua biancheria intima. Gli trova addosso dei nastri di passamaneria pieni di una minuscola grafia, e pieno di scritte è anche il rovescio della fodera del suo farsetto. Il Re ordina immediatamente che a Fouquet vengano consegnati vestiario e biancheria esclusivamente di color nero. Tovaglie e tovaglioli verranno numerati per evitare ch'egli se ne impossessi. Saint-Mars se la prende con i due valletti, che non gli danno requie con le loro richieste e cercano sempre di favorire il loro padrone, a cui si sono votati anima e corpo. Intanto passano gli anni, ma la paura quasi ossessiva del Re che Fouquet in qualche modo gli sfugga non sopisce. E non ha torto: verso la fine del 1669 viene sventato un tentativo di farlo evadere. Non si sa chi lo abbia organizzato; forse la famiglia, ma si è vociferato che non ne fossero del tutto estranee madame de Sévigné e mademoiselle de Scudéry. A sacrificarsi è un suo antico servitore, commovente esempio di fedeltà. Si chiamava La Forêt, e aveva accompagnato il Sovrintendente al momento del suo arresto a Nantes. Dopo l'arresto aveva mar440/703
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ciato a piedi per ore e ore per sfuggire ai moschettieri che bloccavano Nantes, e raggiungere così la più vicina stazione di posta, da dove aveva cavalcato a spron battuto fino a Parigi. Tutto ciò, solo per essere il primo a dare la funesta notizia dell'arresto alla pia madre di Fouquet. Poi La Forêt aveva perfino atteso per la strada la carrozza che conduceva il suo padrone a Pinerolo, pur di poterlo salutare un'ultima volta. La cosa aveva commosso anche D'Artagnan, che fece fermare il convoglio e permise ai due di scambiarsi qualche parola. La Forêt è quindi l'unico a non aver perso la speranza. Arriva a Pinerolo sotto mentite spoglie, e riesce persino a procurarsi qualche informatore all'interno della fortezza e a comunicare col suo adorato padrone a gesti, attraverso la finestra. Alla fine il suo tentativo viene scoperto e il poveretto viene impiccato senza indugio. La vita si fa dura per Fouquet: gli sbarrano le finestre. Non potrà più vedere il cielo. Le sue condizioni di salute s'aggravano. Nel 1670 Louvois si reca personalmente a Pinerolo, mandato dal Re. Dopo sei anni di dinieghi e proibizioni, Luigi consulta finalmente il vecchio medico del Sovrintendente, Pecquet. «Che strano; il Re non voleva Fouquet morto?» «L'unica cosa certa è che, da quel momento, Luigi sembra preoccuparsi della salute del povero Scoiattolo. Gli amici del Sovrintendente che non erano caduti in disgrazia, come de Pomponne (appena nominato segretario di Stato), Turenne, Chéqui, Bellefonds e Charost, tornano all'attacco e inviano petizioni al Re Cristianissimo. Ma il punto di svolta deve ancora arrivare». Nel 1671 i sorvegliati speciali di Pinerolo diventano due. Nella fortezza arriva improvvisamente un altro illustre prigioniero: il Conte di Lauzun. «Perché aveva sposato di nascosto Mademoiselle, la cugina del Re» intervenni ricordando il precedente racconto dell'abate Melani. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Bravo, vedo che hai buona memoria. E ora la storia si fa davvero interessante». Dopo aver sottoposto Fouquet ad anni di isolamento, sembra inspiegabile la decisione di concedergli un compagno di prigionia. Ancor più strano è che, nell'immensa fortezza, la cella assegnata a Lauzun sia confinante con quella di Fouquet. Di Lauzun tutto si poteva dire, tranne che fosse un personaggio ordinario. In origine era un cadetto guascone senza arte né parte, spaccone e pieno di sé, che però aveva avuto la fortuna di riuscire simpatico al Re quando Luigi era ancora giovanissimo, e di diventare il suo compagno di divertimenti. Pur essendo un seduttore da quattro soldi, era riuscito a circuire Mademoiselle, la ricchissima e bruttissima cugina quarantaquattrenne del Re. È un prigioniero difficile, e ci tiene a farlo capire subito. Il suo atteggiamento è tempestoso, roboante, vituperante; appena arrivato, dà fuoco alla propria cella, danneggiando anche una trave della stanza di Fouquet. Si dedica poi a penose simulazioni di malattie o di follia, col chiaro scopo di tentare l'evasione. Saint-Mars, che ha fatto esperienza di carceriere solo col Sovrintendente, non riesce a domare Lauzun e, di fronte a tanta furia, ribattezza Fouquet «l'agnellino». Ben presto (ma lo si sarebbe scoperto molto più tardi) Lauzun riesce a comunicare con Fouquet attraverso un buco scavato nel muro. «Ma com'è possibile che non se ne sia accorto nessuno» protestai incredulo «con tutta la sorveglianza che Fouquet doveva patire ogni giorno?» «Me lo sono chiesto anch'io molte volte» convenne l'abate Melani. Passa un altro anno. Nell'ottobre del 1672 Sua Maestà autorizza Fouquet e la moglie a tenere una corrispondenza. Le lettere dei due, tuttavia, dovranno prima essere lette dal Re, che s'arroga il diritto d'inoltrarle o di distruggerle. Ma c'è di più. Senza alcuna ragione logica, dopo altri dodici mesi il Re fa consegnare a Fouquet alcuni libri sulla situazione politica più re442/703
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cente. E poco dopo Louvois invia a Saint-Mars una lettera per il Sovrintendente, aggiungendo che, se il prigioniero chiederà della carta da scrivere per rispondere, gliela si dovrà consegnare. E così accadde: il Sovrintendente scrisse e spedì a Louvois due relazioni. «Cosa contenevano?» «Nessuno riuscì a saperlo, anche se a Parigi si sparse subito la voce che i due scritti erano stati recapitati in città. Subito dopo però si seppe che Louvois li aveva rispediti indietro a Fouquet, dicendo che per il Re non erano di alcun interesse». Un gesto inesplicabile, commentò Melani. Primo, perché se una memoria non serve la si getta semplicemente via; secondo, perché è praticamente impossibile che Fouquet non sia riuscito a dare alcun buon consiglio al Re. «Forse lo hanno voluto umiliare ancora una volta» immaginai. «O forse il Re voleva qualcosa che Fouquet non gli ha dato». Le concessioni, tuttavia, continuano. Nel 1674 Luigi autorizza i coniugi Fouquet a scriversi due volte l'anno, anche se le lettere passano sempre prima per le sue mani. Le condizioni di salute del Sovrintendente peggiorano ancora e il Re si spaventa: non gli permette di lasciare la cella, ma lo fa visitare da un medico inviato da Parigi. A partire dal novembre 1677 lo si autorizza finalmente a prendere un'ora d'aria. E in compagnia di chi? Ma di Lauzun, naturalmente, e i due potranno anche conversare! A patto però che Saint-Mars ascolti le loro parole, e riferisca tutto fedelmente. Le graziose concessioni del Re si moltiplicano. Ormai a Fouquet vengono recapitati perfino numeri del Mercure galant e di altre gazzette. Sembra quasi che Luigi voglia tenere Fouquet al corrente di tutto ciò che accade d'importante in Francia e in Europa. Louvois raccomanda a Saint-Mars di porre l'accento col prigioniero sulle vittorie militari del Re Cristianissimo. Nel dicembre 1678 Louvois comunica a Saint-Mars l'intenImprimatur - Monaldi & Sorti
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zione d'intrattenere con Fouquet una libera corrispondenza epistolare: le lettere saranno rigorosamente chiuse e segrete, pertanto Saint-Mars dovrà occuparsi solo di farle arrivare a destinazione. Appena un mese dopo, l'attonito carceriere si vede recapitare un memoriale scritto dal Re di proprio pugno sulle condizioni da applicare a Fouquet e a Lauzun. I due potranno incontrarsi e conversare a loro piacimento, nonché passeggiare non solo nella cinta della fortezza, ma in tutta la cittadella. Potranno leggere ciò che desiderano e gli ufficiali della guarnigione saranno obbligati a tener loro compagnia, se questi lo gradiranno. Potranno altresì chiedere e ottenere qualunque gioco da tavolo. Passano alcuni mesi, e arriva un'altra apertura: Fouquet potrà corrispondere a piacimento con tutta la sua famiglia. «A Parigi eravamo al colmo dell'emozione» disse Atto Melani «e ormai eravamo quasi sicuri che prima o poi il Sovrintendente sarebbe stato scarcerato». Dopo alcuni mesi, nel maggio 1679, un altro atteso annuncio: presto il Re permetterà alla famiglia di Fouquet di andarlo a trovare. Gli amici di Fouquet sono al settimo cielo. I mesi corrono, passa un anno. Col fiato sospeso si attende la liberazione dello Scoiattolo, che però non arriva. Si comincia a temere qualche intoppo; magari il solito Colbert. La grazia alla fine non arriva. Arriva invece, come un fulmine a incenerire i cuori, la notizia della morte improvvisa di Nicolas Fouquet nella cella di Pinerolo, tra le braccia di suo figlio. Era il 23 marzo 1680. «E Lauzun?» chiesi mentre stavamo risalendo nel pozzo verticale che riportava alla locanda. «Già, Lauzun. Restò in carcere ancora per qualche mese. Poi venne liberato anche lui». «Non capisco, è come se Lauzun fosse stato messo in carcere per stare vicino a Fouquet». 444/703
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«Indovinato. Ma, mi chiedo, a quale scopo?» «Be', non mi viene in mente nulla, tranne che... per farlo parlare. Per far dire a Fouquet qualcosa che il Re voleva sapere, qualcosa che…». «Basta così. Ora hai capito perché stiamo per frugare in camera di Pompeo Dulcibeni». La perquisizione fu assai meno difficile del previsto. Io tenni d'occhio il corridoio, mentre Atto entrava nella stanza del marchigiano, munito solo di una candela. Lo sentii trafficare lungamente, con intervalli di silenzio. Dopo alcuni minuti entrai anch'io, roso sia dalla paura d'essere scoperti che dalla curiosità. Atto aveva già passato al setaccio una buona quantità degli oggetti personali di Pompeo Dulcibeni: vestiti, libri (tra cui i tre volumetti prelevati dalla biblioteca di Tiracorda), qualche rimasuglio di cibo, un passaporto per transitare dal Regno di Napoli allo Stato della Chiesa e alcune gazzette. Una di queste era intitolata Relatione di quanto è seguito tra l'Armi cesaree e l'Ottomane sotto li 10. luglio 1683. «Parla dell'assedio di Vienna» bisbigliò l'abate Melani. Anche le altre gazzette, oltre una dozzina, erano dello stesso argomento. Terminammo di esaminare in gran fretta tutta la stanza; nessun altro oggetto di rilievo sembrava presentarsi ai nostri occhi. Stavo già invitando l'abate Melani ad abbandonare la ricerca, quando lo vidi fermarsi al centro della stanza, grattandosi pensosamente il mento. Improvvisamente si slanciò verso l'armadio e trovato l'angolo dei panni sporchi ci affondò letteralmente dentro, tastando e stropicciando tra le mani la biancheria intima da lavare. Afferrò infine un paio di mutandoni di mussola. Cominciò a tastarli in più punti, finché le sue mani si concentrarono su uno dei budelli passanti in cui s'infilava la fettuccia che permetteva alle mutande di sostenersi. «Ecco qua. Puzzavano ma ne valeva la pena» disse soddisfatImprimatur - Monaldi & Sorti
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to l'abate Melani mentre estraeva dalle mutande di Dulcibeni un piccolo serpentino piatto. Erano alcuni fogli di carta piegati e compressi. L'abate li svolse e li mise sotto la luce della candela per cominciare a leggerli. Mentirei al lettore di queste pagine, se nascondessi che l'immagine di quanto accadde nei minuti successivi resta, nei miei ricordi, tanto vivida quanto caotica. Iniziammo a scorrere avidamente, pressoché all'unisono, la lettera formata da quei pochi fogli. Era un lungo discorso in latino, vergato in una calligrafia senile e incerta. «Optimo amico Nicolao Fouquet... mumiarum domino... tributum extremum... secretum pestis... secretum morbi... ut lues debelletur... è incredibile, davvero incredibile» sussurrò tra sé e sé l'abate Melani. Alcune di quelle parole mi riuscivano stranamente familiari. Subito però mi invitò a tenere d'occhio il corridoio, per non venire sorpresi dall'eventuale rientro di Dulcibeni. Mi appostai quindi fuori della porta tenendo d'occhio le scale. Mentre Atto completava la lettura, lo sentivo borbottare senza posa espressioni di sorpresa e incredulità. Poi purtroppo si verificò ciò che ero ormai abituato a temere. Tappandosi il naso e la bocca, con gli occhi gonfi e sbarrati, l'abate Melani si precipitò fuori dalla stanza e mi mise in mano la lettera. Si contorse ripetutamente, reprimendo disperato, e per più volte, un pericolosissimo starnuto. Andai subito alla parte finale della lettera, che verosimilmente egli non aveva potuto ancora leggere. Compresi però poco del contenuto, a causa della concitazione e delle mille bizzarre giravolte con cui Atto Melani cercava di opporre resistenza al benefico sfogo. Con lo sguardo andai direttamente alla fine, dove capii perché le parole mumiarum domino non mi erano suonate nuove allorché, quasi incredulo, decifrai la firma: Athanasius Kircheri I.H.S. 446/703
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Ormai al limite della resistenza, Atto m'indicò le mutande di Dulcibeni, dentro le quali mi affrettai a riporre la lettera. Non potevamo ovviamente sottrarla: Dulcibeni se ne sarebbe di sicuro accorto, con conseguenze imprevedibili. Pochi attimi dopo essere usciti dalla stanza di Dulcibeni, e aver richiuso la porta a chiave, Atto Melani esplose in un fragoroso, liberatorio, trionfale starnuto. La porta di Cristofano s'aprì. Imboccai le scale e le scesi a precipizio fino in cantina. Udii il medico apostrofare l'abate Melani: «Che cosa fate fuori dalla vostra camera?». L'abate Melani dovette fare appello a tutta la propria facondia per arrangiare una goffa scusa: stava appunto recandosi da Cristofano, disse, perché stava quasi soffocando a causa di quell'improvvisa crisi di starnuti. «Già, e allora perché avete le scarpe tutte inzaccherate?» chiese Cristofano con voce alterata. «Oh, be', mmmh... in effetti, si sono un tantino sporcate durante il viaggio da Parigi... e non le ho più fatte pulire, ecco, con tutto quello ch'è accaduto...» balbettò Atto. «Ma, vi prego, non parliamo qui. Sveglieremo Bedfordi» e in effetti l'inglese dormiva a due passi di distanza. Il medico borbottò qualcosa e sentii chiudersi la porta. Cristofano doveva aver fatto entrare l'abate nella propria stanza. Dopo alcuni minuti li sentii uscire nuovamente. «Questa storia non mi piace, ora vedremo chi altro si diverte a fare il nottambulo» sibilò Cristofano bussando a una porta. Dall'interno rispose la voce semisoffocata dal sonno di Devizé. «Non è nulla, scusate, solo un piccolo controllo» si scusò il medico. Sudai freddo; ora avrebbe bussato alla stanza di Dulcibeni. Cristofano bussò. La porta s'aprì: «Sì?». Pompeo Dulcibeni era tornato. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Non appena le acque si furono calmate, rientrai ad attendere Atto Melani nella mia stanza. Era successo, ahimé, quanto temevamo. Non solo Cristofano aveva scoperto Atto in giro per la locanda; il peggio era che a quel tramestio notturno aveva assistito anche Dulcibeni. Questi era evidentemente rientrato in camera proprio mentre Atto era nella stanza di Cristofano. In quel momento io mi trovavo sulle scale poco più in basso, e non avevo udito il ritorno di Dulcibeni. Il gentiluomo marchigiano doveva aver sceso i gradini che separavano lo stanzino dalla sua camera al primo piano con passo assai felpato, pur muovendosi al buio. Si era verificato insomma un caso bizzarro, anche se non impossibile. Quasi incredibile, invece, era che Dulcibeni fosse riuscito a rientrare in tempo dopo un lungo andirivieni prima nei cunicoli sotterranei, poi in casa di Tiracorda, infine nuovamente nelle gallerie; il tutto issandosi nella botola del condotto con le proprie forze, marciando nell'oscurità, scalando ripide gradinate, e in totale solitudine. Era un individuo dal fisico gagliardo, Dulcibeni, e dal fiato lungo. Troppo lungo, pensai, per un uomo della sua età. Non dovetti aspettare troppo per vedere l'abate Melani ripresentarsi alla mia porta. Era non poco rabbuiato per il modo sciocco e ridicolo con cui ci eravamo fatti sorprendere da Cristofano, mettendo in sospetto lo stesso Dulcibeni. «E se Dulcibeni fugge?» «Non credo lo farà. Teme che Cristofano dia l'allarme e che, per paura delle punizioni del Bargello, anche io e te diamo fiato all'ugola facendo scoprire il passaggio sotterraneo e la botola che conduce diritti a casa del suo amico Tiracorda. Il che potrebbe compromettere irrimediabilmente i suoi misteriosissimi piani. Piuttosto credo che, qualunque cosa Dulcibeni abbia in mente, dopo questa notte affretterà i tempi. Dobbiamo stare in guardia». 448/703
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«Però trovando la lettera nelle mutande abbiamo fatto una grande scoperta» aggiunsi riprendendo il buonumore. «A proposito, come avete fatto a scovare così rapidamente il nascondiglio?» «Vedo che detesti riflettere. Con chi si accompagnava Dulcibeni quando è arrivato alla locanda?» «Con Devizé. E con Fouquet». «Bene. E dove nascondeva Fouquet i suoi biglietti quando era segregato a Pinerolo?» Ripensai al racconto che solo un'ora prima mi aveva fatto l'abate Melani: «Nelle sedie, nella fodera dei vestiti e nella biancheria!». «Appunto». «Ma questo vuol dire che Dulcibeni sa tutto di Fouquet». L'abate annuì con ovvietà. «Quindi non è vero quanto Dulcibeni ha raccontato agli uomini del Bargello la mattina che ci hanno riserrati, cioè che aveva conosciuto da poco l'anziano francese» stupii. «Esatto. Per raggiungere un tale grado di confidenza, in realtà Dulcibeni e il Sovrintendente dovevano essersi conosciuti molto tempo prima. Non dimenticare che Fouquet era uscito malconcio da vent'anni di carcere: non credo che abbia girato molto prima di stabilirsi a Napoli. E niente di più facile, che abbia cercato anonimo riparo in qualche circolo di giansenisti, acerrimi nemici di Luigi XIV, che in quella città sono molto radicati». «E lì avrebbe conosciuto Dulcibeni, al quale avrebbe poi rivelato la sua vera identità» conclusi. «Proprio così. La loro amicizia è dunque vecchia di tre anni, non di due mesi come Dulcibeni vorrebbe far credere. E ora, se Iddio ci assiste, verremo a capo di questa faccenda». A questo punto dovetti confessare all'abate Melani che non ero del tutto certo di aver compreso appieno cosa volesse dire la lettera che avevamo appena furtivamente letto nella stanza di Dulcibeni. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Povero ragazzo, hai sempre bisogno di qualcuno che ti dica cosa pensare. Ma non importa. Accadrà anche quando sarai gazzettante». Come mi aveva raccontato nei giorni precedenti, Atto aveva incontrato Kircher quattro anni prima, ormai demente. La lettera che avevamo appena letto in camera di Dulcibeni sembrava proprio il risultato delle pietose condizioni mentali del grande scienziato: era indirizzata al Sovrintendente alle Finanze Nicolas Fouquet, come se al povero Fouquet non fosse mai capitato nulla. «Aveva perso il senso del tempo» disse Atto «come quei vegliardi che credono di essere tornati bambini, e chiedono dov'è la mamma». Il contenuto della lettera, però, era inequivocabile. Kircher si sentiva prossimo al distacco dalle cose terrene, e si rivolgeva all'amico Fouquet per un ultimo ringraziamento. Fouquet, ricordava il gesuita, era stato infatti l'unico potente al quale egli avesse confidato la sua teoria. Il Sovrintendente si era anzi gettato ai piedi di Kircher pieno di ammirazione, quando questi gli aveva illustrato per filo e per segno la grande scoperta della sua vita: il secretum pestis. «Forse ho capito!» mi affrettai a concludere «è il trattato di Kircher che parla della peste. Ne raccontò proprio Dulcibeni all'inizio della quarantena: Kircher ha scritto che la peste non dipende da miasmi e umori malsani, ma da piccoli esserini, da vermiculi animati, o qualcosa del genere. Forse è questo il segreto della peste: i vermiculi invisibili». «Sbagli di grosso» ribatté Atto. «La teoria dei vermiculi non è mai stata un segreto: Kircher l'ha pubblicata quasi trent'anni fa nello Scrutinium phisico-medicum contagiosae luis quae pestis dicitur. Nella lettera in possesso di Dulcibeni c'è molto di più: Kircher annuncia di saper praevenire, regere e debellare». «Cioè prevenire, regolare e sconfiggere la peste». «Bravo. È questo il secretum pestis. Ma per non dimenticare quello che ero riuscito a leggere, prima di venire qui da te sono 450/703
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passato in camera mia e ho preso nota di tutte le frasi più importanti». Mi mostrò alcune parole e frasi monche in latino, schizzate frettolosamente su un foglietto: secretum morbi morbus crescit sicut mortales augescit patrimonium senescit ex abrupto per vices pestis petit et regreditur ad infinitum renovatur secretum vitae arcarne obices celant
«Secondo Kircher» spiegò Atto «il morbo pestilenziale nasce, invecchia e muore proprio come gli uomini. Si nutre però a loro spese: quando è giovane e forte cerca di aumentare il suo patrimonio quanto più gli è possibile, come fa un Principe crudele che sfrutta i suoi sudditi, e con il contagio provoca infinite vittime e stragi. Poi d'improvviso s'indebolisce e decade come un povero vecchio allo stremo delle forze; infine muore. L'epidemia è ciclica: aggredisce i popoli, poi riposa, dopo anni aggredisce di nuovo, e così ad infinitum». «Allora è una specie di... insomma, una cosa che gira sempre in tondo». «Esatto. Una catena circolare». «Ma allora la peste non potrà mai essere debellata, come invece prometteva Kircher». «Non è così. Il ciclo può essere modificato, ricorrendo al secretum pestis». «E come funziona?» «Ho letto che si divide in due: il secretum morbi, per appestare; e il secretum vitae, per curare». «Cioè un maleficio pestifero e il suo antidoto!» «Proprio così». «Ma insomma, come funziona?» «Non l'ho capito. Anzi, Kircher non l'ha proprio spiegato. Ha molto insistito, a quanto ho potuto leggere, su un solo punto. Il Imprimatur - Monaldi & Sorti
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ciclo della peste ha nelle sue battute finali qualcosa di inatteso, di misterioso, estraneo alla dottrina medica: il morbo, dopo essere giunto al suo massimo, senescit ex abrupto, ossia inizia bruscamente la sua fine». «Non capisco, è tutto così strano» commentai. «Perché Kircher non ha pubblicato le sue scoperte?» «Forse temeva che qualcuno ne facesse cattivo uso. Ci vuol poco a venir derubati d'una cosa tanto preziosa, una volta consegnato il manoscritto allo stampatore. E puoi immaginare che disastro per il mondo intero se quei segreti fossero capitati nelle mani sbagliate». «Dunque doveva stimare molto Fouquet per confidarsi solo con lui!» «Posso dirti che bastava parlare una sola volta con lo Scoiattolo per restarne conquistati. Kircher però aggiunge che il secretum vitae è nascosto da arcanae obices». «Arcanae obices? Significa "misteriosi ostacoli". Ma a che si riferisce?» «Non ne ho la minima idea. Forse fa parte del gergo degli alchimisti, degli spagirici o dei negromanti. Kircher conosceva religioni, riti, superstizioni e diavolerie di tutto il mondo. O forse arcanae obices è un'espressione in codice, che Fouquet poteva decifrare dopo aver letto la lettera». «Ma Fouquet non poteva ricevere la lettera» obiettai «mentre era in carcere a Pinerolo». «Giusta osservazione. Eppure qualcuno gliela deve aver consegnata, visto che l'abbiamo trovata tra le cose di Dulcibeni. Quindi la decisione di fargliela avere è stata presa da chi controllava di persona tutta la sua corrispondenza». Tacqui, non osando tirare le conclusioni. «... cioè Sua Maestà il Re di Francia» disse Atto deglutendo, quasi spaventato dalle sue stesse parole. «Ma allora» esitai «il secretum pestis...». «Era ciò che il Re voleva da Fouquet». 452/703
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Ci mancava solo questo, pensai. Non appena Atto aveva fatto il suo nome, era come se il Re Cristianissimo, Figlio Primogenito e Prediletto della Chiesa, attraverso qualche lucernario fosse penetrato nella locanda con una ventata gelida e rabbiosa, e stesse per spazzare ciò che tra le mura del Donzello ancora restava del povero Fouquet. «Arcanae obices, arcanae obices» cantilenava intanto assorto Melani, tamburellando con le dita sulle ginocchia. «Signor Atto» lo interruppi «credete che Fouquet alla fine abbia rivelato il secretum pestis al Re?» «Arcanae... come dici? Non lo so, davvero non lo so». «Forse Fouquet è uscito dalla prigione perché ha confessato» proposi. «Be', in effetti se fosse evaso la notizia si sarebbe diffusa immediatamente. Invece le cose devono essere andate così: quando Fouquet viene arrestato, gli vengono trovate lettere di un misterioso prelato in cui si parla del segreto della peste. Le lettere devono essere state conservate da Colbert. Se quando entrai nello studio del Colubra avessi avuto più tempo, probabilmente avrei trovato anche quelle». «E poi?» «Poi è iniziato il processo a Fouquet. E ora sappiamo perché il Re e Colbert hanno impedito con ogni mezzo che Fouquet se la cavasse con l'esilio: lo volevano in prigione per estorcergli il secretum pestis. Inoltre, non avendo capito chi fosse il misterioso ecclesiastico, non potevano rivolgersi che al Sovrintendente. Se avessero saputo che era Kircher...». «E a cosa sarebbe servito loro il segreto della peste?» Era sin troppo chiaro, disse Atto infervorandosi: il controllo della peste avrebbe permesso a Luigi XIV di fare i conti una volta per tutte con i suoi nemici. Il sogno di sfruttare la peste per scopi militari, aggiunse, era vecchio di secoli. Già Tucidide narrava che gli Ateniesi, quando la loro città era stata decimata dal morbo, sospettavano che a provocare il contagio avvelenando i pozzi fossero stati i nemici Peloponnesi. In tempi più Imprimatur - Monaldi & Sorti
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vicini, i Turchi avevano cercato (ma con scarsi risultati) di utilizzare il contagio per espugnare città assediate, catapultando cadaveri infetti all'interno della cinta. Fouquet aveva in mano l'arma segreta che il Re Cristianissimo avrebbe potuto usare con gioia smisurata per ridurre alla ragione la Spagna e l'Impero, e infine per schiacciare l'Olanda di Guglielmo d'Orange. La carcerazione, quindi, era stata così crudele solo per convincere Fouquet a parlare, e per essere sicuri che non passasse il segreto a qualcuno dei suoi tanti amici. Ecco perché gli era stato proibito di scrivere. Ma Fouquet non cedeva. «Perché mai avrebbe dovuto?» si chiese retoricamente l'abate Melani. «Tenere per sé il segreto era l'unica garanzia di restare vivo!» Forse il Sovrintendente aveva per anni addirittura negato di sapere realmente come diffondere la peste; oppure aveva imbastito una serie di mezze verità volte a prender tempo e a ottenere una carcerazione meno crudele. «Ma allora perché è stato liberato?» chiesi. «Era giunta a Parigi la lettera del vecchio Kircher ormai delirante, e Fouquet non aveva più potuto negare, pena la vita sua e della sua famiglia. Forse alla fine il Sovrintendente ha ceduto e ha promesso al Re il secretum pestis in cambio della liberazione. In seguito però non deve aver rispettato i patti. Ecco perché poi... poi gli osservatori di Colbert lo hanno braccato». «Non potrebbe essersi verificato invece il caso contrario?» azzardai. «Cosa intenderesti dire?» «Forse è stato il Re a non rispettare i patti...». «Basta così. Non posso permetterti di ritenere che Sua Maestà...». Atto non finì la frase, preso in un repentino vortice di chissà quali pensieri. Capii che il suo orgoglio non poteva sopportare d'udire la mia ipotesi: che il Re potesse aver promesso al Sovrintendente la liberazione in cambio del segreto con l'inten454/703
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zione però di farlo eliminare subito dopo. Cosa che non era avvenuta solo perché, come fervidamente cominciavo a immaginare, forse Fouquet aveva previsto la mossa e in qualche modo, di certo aiutato da qualcuno, era riuscito rocambolescamente a sfuggire all'agguato. Ma forse stavo correndo troppo con la fantasia. Scrutai il viso dell'abate: con lo sguardo fisso innanzi a sé stava seguendo il mio stesso ragionamento, ne ero sicuro. «... Una cosa però è certa» disse improvvisamente. «E cioè?» «Nella fuga di Fouquet e nel secretum pestis sono coinvolti anche altri. E molti. Lauzun, prima di tutto, che di sicuro è stato mandato a Pinerolo per cercare di far sbottonare Fouquet, magari con la promessa di farlo tornare presto da Mademoiselle, la sua ricca mogliettina. Poi c'entra Devizé, che ha accompagnato Fouquet qui al Donzello. C'entra forse anche Corbetta, il maestro di Devizé, che come il suo allievo era devoto alla povera regina Maria Teresa, ed esperto di crittografia. Non dimenticare infatti che il secretum vitae è stato in qualche modo occultato nelle arcanae obices. E poi Devizé ha mentito sin dall'inizio: ricordi le sue bugie sui teatri di Venezia? Infine c'entra Dulcibeni, confidente di Fouquet, che nasconde nelle mutande la lettera che parla del secretum pestis ed è solo un mercante, ma quando parla della peste sembra Paracelso». Si fermò per prendere fiato. Aveva la bocca inaridita. «Pensate che Dulcibeni conosca il secretum pestis?» «È possibile. Ora comunque è tardi per discutere ancora». «Tutta questa storia mi pare assurda» dissi cercando di calmarlo «non temete di fare troppe supposizioni?» «Te l'ho già detto. Per capire le cose di Stato devi guardare i fatti in modo diverso dal solito. Non importa cosa pensi, ma come. Nessuno sa tutto, neppure i Re. E quando non sai, devi imparare a supporre, anche le verità che a prima vista sembrano le più assurde: scoprirai poi senza fallo che è tutto drammaticamente vero». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Terreo in volto, uscì scrutando il corridoio a destra e a sinistra, come se qualcuno gli tendesse un agguato. Ma la paura di Atto Melani, che finalmente s'era manifestata appieno, non m'era più tanto misteriosa. Non gli invidiavo più la sua missione segreta, le sue aderenze nelle Corti, la sua sapienza di uomo d'azione e d'intrigo. Era venuto a Roma per servire il Re di Francia e indagare su un mistero. Ora sapeva che per risolvere quel mistero doveva indagare sul Re.
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Giornata ottava. 18 settembre 1683
I
l giorno seguente mi destai in preda a una certa qual febbrile inquietudine. Nonostante le lunghe riflessioni con cui Atto e io ci eravamo intrattenuti la notte precedente, e il poco sonno che ancora una volta m'era concesso, ero perfettissimamente vigile e pronto all'azione. Cosa potessi fare non m'era in realtà molto chiaro: i troppi misteri che pervadevano la locanda impedivano al momento di risolversi ad alcunché. Presenze minacciose o inarrivabili (Luigi XIV, Colbert, la regina Maria Teresa, lo stesso Kircher) avevano fatto il loro ingresso nella locanda e nelle nostre vicende. Il flagello della peste non aveva ancora smesso di tormentarci e di atterrirci; alcuni dei nostri pigionanti, inoltre, avevano già da giorni assunto sembianze e atteggiamenti indecifrabili o sospetti. Come se non bastasse, la gazzetta astrologica sottratta a Stilone Priàso prometteva per i giorni successivi eventi disastrosi e mortiferi. Mentre scendevo le scale, diretto in cucina, udii risuonare, sommesso ma straziato, il canto dell'abate Melani: Infelice pensier, chi ne conforta? Ohimè! Chi ne consiglia?
Anche Atto doveva sentirsi smarrito e abbattuto. E ben più di me! Proseguii in fretta, evitando a bella posta di soffermarmi su tali scoraggianti meditazioni. Come al solito, fui di solerte assistenza a Cristofano nella cucina e nella distribuzione dei pasti. Avevo preparato maruzze bollite e soffritte con olio, aglio ammaccato, mentuccia, petrosello, spezierie e una spiga di liImprimatur - Monaldi & Sorti
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mone. E furono di molto gradimento. Lavorai di buona lena, quasi come sostenuto da un eccesso di calor vitale. Tale benefica disposizione d'animo e di corpo venne coronata da un evento tanto gioioso quanto inatteso. «Cloridia ha chiesto di te» annunciò Cristofano dopo il pranzo «dovresti recarti subito da lei». Il motivo di tale convocazione (e Cristofano lo sapeva) era del tutto futile. Trovai Cloridia col corpetto semislacciato e il capo chino sulla tinozza, mentre si lavava i capelli. La stanza era inondata dall'effluvio di dolci essenze. Stordito, la udii chiedermi di versarle sul capo l'aceto contenuto in un'ampolla posta sulla toletta: lo usava, avrei poi appreso, per rendere più lucide le chiome. Mentre provvedevo, mi ricordai dei dubbi che avevo nutrito sulle ultime parole di Cloridia al termine del nostro precedente incontro. Parlandomi delle straordinarie coincidenze numerologiche tra la sua data di nascita e quella di Roma, aveva accennato a un torto subito, legato al suo ritorno in questa città. Dopodiché, mi aveva spiegato che era approdata al Donzello seguendo una certa virga ardentis, una verga ardente, detta pure tremolante o sporgente. Cosa che, anche per l'equivoco gesto con cui aveva accompagnato le proprie parole, avevo preso per un'allusione sconcia. M'ero ripromesso allora di capire cosa intendesse in realtà. Ed ecco che la stessa Cloridia, convocandomi improvvisamente, me ne forniva l'occasione. «Passami l'asciugamani. No, non quello: l'altro più piccolo, di lino grosso» mi comandò mentre si torceva i capelli. Obbedii. S'avvolse il capo nella pezza, dopo essersi asciugata le spalle. «Mi pettineresti i capelli, ora?» chiese in tono zuccheroso. «Sono così arricciati che districarli da sola senza strapparli è quasi impossibile». Fui felice di pormi a tale grato servigio. Si sedette volgendomi la schiena, ancora semilibera dai legacci del corpetto, e 458/703
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mi spiegò che avrei dovuto iniziare dalle punte, per poi risalire su su fino all'attaccatura dei capelli. Mi parve il momento giusto per chiederle di raccontarmi cosa l'aveva portata fino al Donzello, e le ricordai quanto m'aveva anticipato già la volta precedente. Cloridia accettò. «Cos'è allora la verga ardente o tremolante, monna Cloridia?» chiesi. «"La vostra verga e il vostro bastone mi hanno consolato"» recitò. «Salmo 22». Tirai un sospiro di sollievo. «Non la conosci? È un semplice ramo biforcuto di nocciolo, lungo un piede e mezzo e grosso come un dito, non più stagionato d'un anno. È detta anche verga di Pallade, caduceo di Mercurio, bacchetta di Circe, verga d'Aronne, bastone di Giacobbe. E poi verga divina, lucente, sporgente, trascendente, cadente, superiore: tutti nomi dati dagli italiani che lavorano nelle miniere d'argento vivo di Trento e del Tirolo. Viene comparata al bastone augurale dei Romani, che lo tenevano al posto dello scettro; alla verga di cui si servì Mosè per far uscire l'acqua dalla roccia; allo scettro di Assuero Re dei Persi e dei Medi, da cui Ester - appena baciata l'estremità - ottenne tutto quanto domandava». E si tuffò in una spiegazione di rara e lucida dottrina. Già, perché, lo ricordavo bene, Cloridia non era una semplice meretrice, era una cortigiana: e non v'erano femmine che alle arti d'Amore sapessero affiancare altrettanta erudizione. «La verga si usa da oltre duecento anni per scoprire i metalli, e da un secolo per l'acqua. Ma questo lo sanno tutti. Da tempo immemore, invece, si adopera per catturare criminali e assassini in un gran numero di paesi lontanissimi: nelle terre d'Idumea, Sarmazia, Getulia, Gozia, Rezia, Raffia, Ibernia, Silesta, Bassa Irenaica, Marmarica, Manziana, Confluenza, Prufuik, Alessandria Maggiore, Argentone, Frisingia, Gaietta, Cuspia, Livonia, Casperia, Serica, Brixia, Trapezonda, Suria, Silicia, Mutina, Arabia felice, Malignes in Brabante, Liburnia, Schiavonia, Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Ossiana, Panfilia, Garamanza e infine la Lidia, che s'appellava olim Meonia, ove sono i fiumi Hermes e Pattolo, tanto celebrati dai poeti. In Gedrocia un assassino è stato addirittura seguito per oltre quarantacinque leghe per terra e oltre trenta leghe per mare, e infine arrestato. Con la verga avevano individuato il letto su cui aveva dormito, il tavolo ove aveva mangiato, le sue stoviglie e i vasi». Appresi così da Cloridia che tale misteriosa verga agisce grazie alla porosità dei corpi, i quali si separano perpetuamente da particole impalpabili attraverso emanazioni continue. Tra i corpi visibili e gli esseri inconcepibili e inintelligibili esiste infatti un genere medio di agenti volatili, assai sottili e attivi, chiamati corpuscoli, o particole della materia, atomi, materia sottile. Tali corpuscoli sono misteriosissimi ma di grande utilità. Possono essere un'emanazione della sostanza stessa da cui hanno origine; oppure sono una sostanza terza, che porta la virtù della materia irradiante verso la materia assorbente. Gli spiriti animali, per esempio, hanno una sostanza terza, che il cervello (che ne è il ricettacolo) distribuisce nei nervi e di lì nei muscoli per produrre i diversi movimenti. Altre volte, invece, tali corpuscoli sono nell'aria vicina alla materia irradiante, che sfrutta tale aria come veicolo per condurre la propria impronta fino alla materia assorbente. «Così per esempio agiscono la campana e il batocchio, che dà impulso all'aria vicina, la quale a sua volta spinge altra aria, e così via finché viene urtato il nostro orecchio, che ne ricava la sensazione del suono» chiarì Cloridia. Orbene, erano tali corpuscoli a produrre la simpatia e l'antipatia, e anche l'amore. «Infatti la ricerca del ladro e dell'assassino si basa sull'antipatia. Nel mercato di Amsterdam vidi una muta di porci grugnire rabbiosamente contro un macellaio appena questi fu loro vicino, e cercare di scagliarglisi addosso per quanto glielo consentiva la corda con cui erano legati al collo. Questo perché quei porci avevano percepito i corpuscoli di altri maiali appena 460/703
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scannati dal macellaio: corpuscoli che avevano impregnato gli abiti dell'uomo, agitando l'aere tutt'attorno a lui e infastidendo la muta di porci vivi». Per questa stessa ragione, come appresi non senza stupore, il sangue d'un uomo assassinato o anche solo ferito (o d'una donna a cui sia stata fatta violenza) si mette in movimento e cola dalla piaga in direzione del malfattore. Gli spiriti e corpuscoli che fuoriescono dal sangue della vittima avviluppano il carnefice e fortissimamente s'agitano a causa dell'orrore suscitato da un uomo tanto crudele e sanguinario, e rendono facile alla verga seguirli e rintracciarli. Ma anche se il delitto è avvenuto indirettamente e a distanza, per esempio su commissione, o per atti e decisioni che hanno causato la morte o la violenza su uno o su molti, la verga li può rintracciare, sempre che parta dal luogo dove è stato commesso il crimine. Lo spirito dei colpevoli infatti è agitato dai mortali allarmi che causa l'orrore di tanto crimine, e dalla paura eterna dell'ultimo supplizio che, come dice la Sacra Scrittura, vigila sempre la porta dell'anima scellerata. «Fugit impius nemine perseguente: l'empio fugge, anche se nessuno lo insegue» citò Cloridia con inattesa dottrina, sollevando il capo e lasciando dardeggiare le pupille. Allo stesso modo, era per antipatia che una coda di lupo, se appesa alla parete in una stalla, impedisce ai buoi di mangiare; che la vite fugge il cavolo; che la cicuta si tiene lontana dalla ruta e benché il succo della cicuta sia un veleno mortale, non nuoce punto se dopo averlo bevuto s'inghiotta il succo della ruta stessa. Come anche antipatia inconciliabile v'era tra scorpione e coccodrillo, elefante e porco, leone e gallo, corvo e gufo, il lupo e la pecora nonché il rospo e la donnola. «Ma come ho già detto, i corpuscoli producono anche simpatia e amore» continuò Cloridia, che poi recitò: Vi son nodi segreti, vi son simpatie, il cui dolce accordo fa nelle anime armonie, sì che s'amano e l'una e l'altra, e si lasciano avvi-
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luppar da questi non so che, che non si posson esplicar.
«Ebbene, mio caro, ciò che non riusciamo a spiegare sono in realtà i corpuscoli. Secondo Giobatta Porta, c'è per esempio grande simpatia tra la palma maschio e la femmina, tra la vite e l'olivo, tra il fico e il mirto. Ed è per simpatia che un toro infuriato s'acqueta subito se legato a un fico; o un elefante si pacifica alla vista d'un ariete. E sappi» disse addolcendo la voce «che secondo Cardano la lucertola ha simpatia per l'uomo, e gli piace guardarlo e cercare la sua saliva, che beve con avidità». Nel frattempo aveva allungato un braccio dietro di sé e, afferratami la mano con cui la pettinavo, m'aveva tratto al suo fianco. «Allo stesso modo» continuò come se nulla fosse «l'affezione o segreta attrazione che sentiamo imperiosa per certe persone sin dalle prime volte che le accostiamo, è causata da un'emissione di spiriti o corpuscoli di questa persona che giungono a imprimere dolcemente l'occhio o i nervi, fino ad arrivare al cervello e dare una sensazione di gradevolezza». Tremolante, mi affaccendavo col pettine alle tempie. «E sai una cosa?» aggiunse suadente. «Tale attrazione ha il magnifico potere di rendere perfettissimo e valentissimo ai nostri occhi l'oggetto dei nostri desideri». Me, nessuno m'avrebbe mai potuto vedere perfettissimo, no di certo, ripetevo mentalmente cercando di dominare la violenta emozione; e intanto non mi riusciva di spiccicar parola. Cloridia appoggiò lievemente la testa al mio petto e sospirò. «Ora mi devi districare i capelli della nuca, senza però farmi male: lì i crini sono più intrecciati, ma anche più fragili e sensibili». Detto questo, mi fece sedere davanti a lei, sul suo alto letto, e mi pose il capo in grembo, a viso in giù, mostrandomi il collo. Ancora stordito e confuso, sentii agl'inguini il calore del suo respiro. Ripresi a pettinarle i riccioli. Mi sentivo la testa completamente vuota. 462/703
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«Non ti ho ancora spiegato il modo di usare la verga con successo» riprese lentamente, mentre la sentivo accomodarsi meglio nella sua posizione. «Sappi anzitutto che la natura non ha che un solo meccanismo in tutte le sue operazioni, ed è la sola che possa rendere ragione del movimento della verga. Bisogna anzitutto intingere la punta della verga in qualche materia, possibilmente umida e calda (come il sangue o altri umori), che ha a che fare con quanto si cerca. Questo perché il tocco scopre talvolta ciò che gli occhi non possono. Poi si prende la verga tra due dita, ponendosela all'altezza del ventre. La si può anche portare in equilibrio sul dorso della mano, ma secondo me non funziona. Bisogna poi procedere lentamente nella direzione in cui si pensa sia quanto cerchiamo. Si deve andare avanti e indietro, su e giù più volte, finché la verga si solleva; e così si è sicuri che la direzione imboccata è quella giusta. L'inclinazione della verga, infatti, è la stessa cosa dell'inclinazione dell'ago della bussola: risponde a un'attrazione calamitica. L'importante, con la verga, è non agire mai bruscamente, altrimenti si rompe il volume di vapori ed esalazioni provenienti dal luogo cercato e che, impregnando la verga, la fanno sollevare nella direzione giusta. Ogni tanto è bene tenere nelle mani i due corni che stanno alla base della verga, ma senza troppo serrare, e in modo che il disopra della mano sia girato verso terra e badando che la punta della verga sia sempre ben sollevata a puntare davanti sé verso lo scopo. Devi inoltre sapere che la verga non si muove nelle mani di tutti. Ci vuole un dono particolare, e molta arte. Per esempio, non si muove nelle mani di chi ha una traspirazione di materia grossolana, rude e abbondante, in quanto tali corpuscoli vanno a rompere la colonna dei vapori, esalazioni e fumi. Ma capita a volte che la verga non si muova anche nelle mani di chi l'ha già usata con successo. Non che a me sia mai accaduto, per carità. Ma può capitare qualcosa che alteri la costituzione di chi deve maneggiare la verga, e ne faccia più violentemente fermentare il sangue. Qualcosa nel cibo o nell'aria può produrImprimatur - Monaldi & Sorti
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re sali acri e acidi. Oppure un lavoro troppo violento, veglie notturne o studio, possono creare una traspirazione acre e rude che dalle mani passa negli interstizi della verga e confonde il cammino alla colonna dei vapori, impedendole di muoversi. Questo perché la verga funziona da catalizzatore dei corpuscoli invisibili, come un microscopio. Vedessi che spettacolo, quando finalmente la verga giunge...». Cloridia s'era interrotta. Bussò Cristofano. «M'è parso d'udire un grido. Tutto bene lì?» chiese trafelato il medico, che aveva fatto le scale di corsa. «Niente di cui preoccuparsi. Il nostro povero garzoncello s'è fatto male mentre m'aiutava, ma è una sciocchezza. Vi saluto, signor Cristofano, e grazie» rispose Cloridia con sottile ilarità. Avevo urlato. E ora giacevo, sfinito di piacere e vergogna, riverso sul letto di Cloridia. Non so dopo quanto tempo né in qual modo presi congedo. Ricordo solo il sorriso di Cloridia e il tenero buffetto che mi diede sul capo prima di richiudere l'uscio. In preda ai sentimenti più contrastanti, sgattaiolai fulmineo nella mia stanza a cambiarmi di braghe: non potevo correre il rischio che Cristofano mi trovasse tanto oscenamente imbrattato. Era un bel pomeriggio tiepido e, quasi senza accorgermene, m'appisolai semisvestito sul mio giaciglio.
Mi risvegliai dopo un'oretta. Passai dall'abate Melani per chiedere se avesse bisogno di qualcosa: in realtà, al ricordo del suo straziato canto di quella mattina, provavo pena per lui e desideravo che non si sentisse solo. Lo trovai, invece, di buona vena: A petto ch'adora è solo un bel guardo. È solo un bel guardo!
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Gorgheggiò giulivo a mo' di saluto. Lo guardai senza capire. «Mi sembra d'averti udito in lontananza, ehm, soffrire stamane. Hai fatto spaventare Cristofano, sai? Era sull'uscio con me quando ti abbiamo udito, lassù, nel torrino di Cloridia...». «Oh, ma non crediate, signor Atto» mi schermii arrossendo «monna Cloridia non...». «Ma sì, certo» fece l'abate con improvvisa serietà «la bionda Cloridia non ha fatto niente: "a petto ch'adora" basta uno sguardo ammaliante, come ha ben detto il seigneur Luigi mio maestro». Mi allontanai in preda alla vergogna più nera, detestando Melani con tutte le mie forze. In cucina trovai Cristofano pallido e soverchiato dall'ansia. «L'inglese sta male. Malissimo» sillabò alla mia vista. «Ma tutte le cure che gli avete dispensato...». «Niente. Mistero. I miei prodigiosi remedia: inutili. Capito? Bedfordi muore. E noi non usciremo più di qui. Tutti spacciati. Tutti» disse parlando a scatti, con voce innaturale. Sul suo volto vidi con preoccupazione un paio di tremende occhiaie e uno sguardo vacuo e smarrito; pareva aver perso l'uso dei verbi, e parlava a scatti. In effetti la salute dell'inglese non era mai migliorata, né il paziente aveva mai ripreso conoscenza. Mi guardai attorno: la cucina era completamente sottosopra. Vasi, boccette, fornelletti accesi, alambicchi e coppe di tutte le sorte invadevano ogni mobile, tavolo, sedia, angolo, anfratto e passaggio, e persino il pavimento. Nel camino bollivano i due paioli e un discreto numero di pignatte: vidi con orrore disfatte sul fuoco le migliori riserve di strutto, carni, pesci e frutta secca della cantina, orribilmente miscelate a ignoti e puzzolenti preparati alchemici. Sul tavolaccio, sulla piattaia, sul canterano e sui ripiani della dispensa aperta giaceva una sterminata distesa di scodelline di olii e mucchietti di polveri dalle varie tinte. Accanto a ogni scodellina e mucchietto c'era un bigliettino: zedoaria, galanga, pepe lungo, pepe tondo, semente di genebro, scorze di cedri e di Imprimatur - Monaldi & Sorti
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paranze, salnia, basilico, maiorana, baccare di lauro, puleggio, gentiana, calamento, foglie di sambuco, rose rosse e rose bianche, spiconardo, cubebe, rosmarino, menta, cinnamomo, calli aromatici, camedrios, sticados, camepiteos, meleghette, maris, thuris albi, aloe patico, semente di artemisia, legno aloe, cardamomo, olio laurino, galbano, gomma hedera, incenso, garofoli, consolida maggiore, noce moscata, gengero, dittamo bianco, bengioi, cera nova gialla, termentina finissima e cenere del fuoco. Mi voltai verso il medico per chiedere spiegazioni, ma mi trattenni: pallido e con lo sguardo perso, Cristofano vagava confusamente da una parte all'altra della stanza mettendo mano a mille operazioni senza terminarne alcuna. «Mi devi aiutare. Tenteremo il tutto per tutto. Maledette giandusse di Bedfordi, non si sono aperte. Non sono neanche maturate, le schifose. E allora noi zac!, le taglieremo via di netto». «Oh no!» esclamai, ben sapendo che il taglio dei bubboni non maturi può esser letale all'appestato. «Male che vada, crepa lo stesso» tagliò corto egli con inusitata durezza. «Ed ecco il piano: primo, deve vomitare. Ma basta con i moscardini imperiali. Qualcosa di più forte, per esempio il mio diaromatico: per infermità tanto intrinseche quanto estrinseche. Due dramme a digiuno e via col vomito. Solve il corpo. Scarica la testa. E fa sputare. Segno che ammazza tutte le infermità. Recipe!» gridò improvvisamente Cristofano facendomi sobbalzare. «Zuccaro fino, perle macinate, muschio, croco, legno aloe, cinnamomo e pietra filosofale. Misce e riduci tutto in tavolette, che sono incorruttibili: miracolose contro la peste. Assottigliano gli umori grossi e corrotti, che generano le giandusse. Confortano lo stomaco. E allegrano il cuore». Guai in vista per Bedfordi, pensai. Ma d'altronde, quali alternative avevamo? Ogni speranza di salvezza era riposta in Cristofano, oltre che nel Signore Iddio. Il medico, sopraffatto dall'agitazione, impartiva comandi a 466/703
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ripetizione senza lasciarmi il tempo di eseguirli, e ripeteva meccanicamente le ricette che doveva aver letto nei testi di pratica medica. «Punto secondo: elixir vitae per ristoro. Un gran successo qui a Roma, nella peste del '56. Di tanta virtù: sana molte sorti d'infermità pessime et maligne. Di sua natura, molto penetrativo. Di virtù essiccante, et conforta tutti i luoghi offesi da qualsivoglia morbo. Conserva tutte le cose corruttibili; solve catarro, tosse e strettura di petto, et altre simili materie. Cura et sana ogni cruda specie di ulcere putride, et risolve tutte le doglie causate da frigidità etcetera». Per un attimo sembrò vacillare, con lo sguardo perso nel vuoto. Feci per soccorrerlo, ma subito riprese: «Punto terzo: pillole contro la peste di mastro Alessandro Cospio da Bolsena. Imola, 1527: gran successo. Bolo armeno. Terra sigillata. Canfora. Tormentilla. Aloe patico. Quattro dramme ciascheduno. Tutto impastato con succo di cavoli. E uno screpolo di zaffarano. Punto quarto: medicamento per bocca di mastro Roberto Coccalino da Formigine. Gran medico in Reggio di Lombardia nel 1500. Recipe!» urlò nuovamente con voce strozzata. Mi comandò così una decozione di elleboro nero, Siena, colloquintida e reubarbaro. «Il medicamento per bocca di mastro Coccalino noi glielo faremo risalire su per il culo. Già. Così s'incontrerà a mezza strada con le pillole di mastro Cospio. E insieme affronteranno quella schifosa peste. E vinceranno, sì». Salimmo poi in camera di Bedfordi, che giaceva ormai più morto che vivo, dove collaborai a mettere in pratica, non senza raccapriccio, quanto escogitato da Cristofano. Al termine delle cruente operazioni, la stanza pareva un mattatoio: vomito, sangue e sterco offrivano, miscelati in guazzetto, devastante spettacolo ed effluvio di sé. Procedemmo al taglio delle giandusse, spalmando sulle piaghe sciroppo acetoso con olio filosoforum, che a detta del medico avrebbe sanato il dolore. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«E infine bendare col cerotto gratiadei» concluse Cristofano, ansimando ritmicamente. E già, pregai, proprio la gratia dei, la Grazia di Dio, ci sarebbe occorsa: il giovane inglese non aveva in alcun modo reagito alla terapia. Indifferente a tutto, non s'era scosso neanche per gemere di dolore. Lo fissammo attendendo invano un segno, buono o cattivo che fosse. A pugni stretti, Cristofano mi fece cenno di seguirlo alla svelta in cucina. Tutto sudato e borbottante, si mise quindi a pestare grossolanamente gran quantità di aromi. Li mescolò e li mise a bollire in acquavite finissima dentro una boccia storta, che accomodò sopra un fornello a vento dando fuoco lentissimo. «Ora avremo acqua, olio e flemma. E tutte separate l'una dall'altra!» annunciò con enfasi. Ben presto dal recipiente cominciò a stillare un'acqua lattiginosa, che poi si fece fumante e gialletta. Cristofano mutò allora recipiente e serbò quell'acqua bianca in un vaso di ferro ben otturato. «Prima acqua di balsamo!» esclamò agitando il vaso con gioia esagerata e grottesca. Aumentò il fuoco sotto la boccia storta, ov'era rimasto a bollire un liquido che si trasformò in un olio nero come inchiostro. «Madre di balsamo!» annunciò Cristofano versando il sugo in un fiasco. Poi aumentò il fuoco al massimo, finché uscì dalla boccia storta tutta la sostanza. «Licore di balsamo: miracoloso!» gioì selvaggiamente porgendomelo in una bottiglia insieme agli altri due rimedi. «Lo porto da Bedfordi?» «No!» urlò con scandalo, puntando l'indice in alto come si fa con un cane o un bambino, squadrandomi dall'alto in basso. Aveva gli occhi sbarrati e iniettati di sangue: «No, ragazzo, non è per Bedfordi. È per noi. Tutti noi. Tre ottime acqueviti. Finissime». 468/703
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Mi mise in mano la storta ancora calda e si scolò con rustica frenesia una coppa del primo liquore. «Ma a che servono?» chiesi intimidito. Per tutta risposta riempì la coppa con il secondo preparato, e se la vuotò nuovamente in gola. «A fottere la paura, ah ah!» disse mentre ingollava anche una coppa della terza acquavite e la riempiva per la quarta volta. Mi costrinse quindi a un folle brindisi con la storta vuota che tenevo in mano. «Così, quando ci porteranno a crepare al lazzeretto, non ce ne accorgeremo neppure! Ah ah ah!» Detto ciò si lanciò la coppa alle spalle ed emise un paio di vigorosi rutti. Cercò di camminare, ma le gambe gli si incrociarono. Si accasciò in terra, spaventosamente bianco in volto, perdendo infine i sensi. In preda al terrore, stavo per chiamare aiuto, quando mi trattenni. Se si fosse diffuso il panico, la situazione nella locanda sarebbe precipitata nel caos. Col rischio di farci scoprire dalla sentinella di turno. Corsi allora a chiedere soccorso all'abate Melani. Con grande cautela (ed estrema fatica) riuscimmo a trasportare il medico sino in camera sua, al primo piano, senza far quasi rumore. Riferii all'abate dell'agonia del giovane inglese e dello stato confusionale in cui versava Cristofano prima del malore. Il medico, intanto, giaceva bianco e inerte sul letto ansimando rumorosamente. «Rantola, signor Atto?» chiesi col nodo alla gola. L'abate Melani si chinò a scrutare il viso del degente. «No: russa» rispose divertito. «Del resto ho sempre sospettato che negli intrugli dei medici ci sia lo zampino di Bacco. E poi ha lavorato troppo. Lasciamolo dormire, ma sorvegliamolo. La prudenza non è mai troppa». Ci sedemmo accanto al letto. Parlando sottovoce, Melani mi Imprimatur - Monaldi & Sorti
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chiese ancora di Bedfordi. Sembrava molto preoccupato: la prospettiva del lazzeretto si faceva tangibile e orrenda. Percorremmo, senza successo, le possibilità di fuga attraverso i sotterranei. Prima o poi ci avrebbero comunque ripresi. Sconsolato, cercai di pensare ad altro. Mi sovvenni così che la camera di Bedfordi era ancora da pulire dalle lordure del povero appestato. Feci cenno ad Atto che mi poteva trovare dall'inglese, lì accanto, e mi recai ad attendere all'ingrato compito. Quando tornai, trovai Atto beatamente appisolato su una sedia. Dormiva a braccia conserte, le gambe allungate sulla sedia che avevo lasciato vuota. Mi chinai su Cristofano: dormiva della grossa e il volto sembrava già recuperare un po' di colore. Lievemente rassicurato, mi ero appena accoccolato in un cantuccio sul bordo del letto, quando udii un borbottio. Era Atto. Malamente appollaiato sulle due sedie, si agitava nel sonno. La testa penzoloni gli oscillava ritmicamente. I pugni, ripiegati sul petto, stringevano il merletto delle maniche, mentre l'insistente mugolio ricordava un fantolino corrucciato di fronte al rimprovero del genitore. Tesi l'orecchio: con respiro affannoso e incerto, quasi fosse sul punto di singhiozzare, Atto stava parlando in francese. «Les baricades, baricades...» gemette piano nel sonno. Ricordavo che Atto, appena ventenne, era dovuto fuggire da Parigi durante i tumulti della Fronda con la famiglia reale e il suo maestro, il seigneur Luigi Rossi. Ora farfugliava di barricate: forse riviveva nel sonno le ribellioni di piazza di quei giorni. Mi chiesi se non fosse opportuno destarlo e sottrarlo a quei brutti ricordi. Scesi cautamente dal letto e accostai il mio viso al suo. Indugiai: per la prima volta avevo la possibilità di scrutare Atto così da vicino, senza soggiacere al suo occhio vigile e censorio. Il volto dell'abate, gonfio e chiazzato dal sonno, mi toccò: le gote, glabre e ormai cascanti, raccontavano delle solitudini e malinconie dell'eunuco. Un antico mare di pena in mezzo al quale la fossetta altera e bizzosa del mento cercava ancora, come naufrago, di tenersi a galla reclamando riverenza 470/703
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e rispetto per il diplomatico di Sua Maestà Cristianissima. Provai una stretta al cuore, ma venni di colpo distolto dai miei sentimenti. «Baricades... mistérieuses, mistérieuses. Baricades. Mistérieuses. Les baricades...» mormorò d'improvviso l'abate Melani. Vaneggiava. Inspiegabilmente però rimasi turbato da quelle parole. Cos'erano mai nella mente di Melani quelle barricate? Barricate mistérieuses. Misteriose. Cosa mi rammentavano quelle due parole? Era come se il concetto non mi fosse nuovo... Proprio allora Atto diede segni di risveglio. Non sembrava per nulla aggravato dalla pena, come poco prima. Alla mia vista, anzi, il suo volto s'allargò subito in un sorriso e canterellò: Chi giace nel sonno non speri mai Fama. Chi dorme codardo è degno che mora.
«Così mi avrebbe rintuzzato il seigneur Luigi, mio maestro» scherzò stiracchiandosi e dandosi una grattatina qua e là. «Mi sono perso qualcosa? Come sta il medico?» chiese poi, vedendomi sovrappensiero. «Niente di nuovo, signor Atto». «Credo di doverti delle scuse, ragazzo» disse dopo un attimo. «Per cosa, signor Atto?» «Ebbene, forse non avrei dovuto prendermi gioco di te in quel modo, quando oggi pomeriggio eravamo su in camera mia. Per la storia di Cloridia, intendo». Risposi che le scuse non erano necessarie; in realtà fui tanto sorpreso quanto contento per l'ammissione dell'abate Melani. Con animo meglio disposto, gli raccontai allora quanto m'aveva spiegato Cloridia, dilungandomi sulla magica e sorprendente scienza dei numeri, nei quali è celato il destino d'ognuno. Passai poi a dirgli dei poteri indagatori della verga ardente. «Capisco. La verga ardente è argomento, come dire, inusitaImprimatur - Monaldi & Sorti
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to e appassionante» commentò Atto «in cui certamente Cloridia è molto esperta». «Oh, insomma, si stava lavando la testa e mi aveva mandato a chiamare affinché le districassi i capelli» dissi respingendo la sottile ironia di Atto. O biondi tesori inanellati, chiome divine, cori, labirinti dorati...
M'apostrofò cantando sottovoce. Arrossii dapprima di rabbia e vergogna, ma venni subito conquistato dalla bellezza di quell'aria, scevra stavolta da ogni accento di scherno. ... tra i vostri splendori m'è dolce smarrire la vita e morire.
Mi lasciai trasportare dalla melodia a ragionar d'amore: mi cullai nell'immagine delle chiome bionde e ricce di Cloridia, e mi sovvenni della sua dolce voce. In cuor mio presi a chiedermi cosa mai avesse condotto Cloridia al Donzello. Era stata la verga ardente, questo me l'aveva ben detto. Ma aveva anche aggiunto che la verga si muove per «antipatia» o per «simpatia». Qual era dunque il suo caso? Era giunta alla locanda sulle tracce di qualcuno che le aveva inflitto un grave torto, e del quale si voleva forse vendicare; oppure, oh ipotesi leggiadra!, Cloridia era arrivata fin qui guidata da quel magnetismo che ci porta a scoprire l'amore e a cui pareva che la verga fosse assai sensibile? Cominciai a vagheggiare che forse era proprio così... Su tutto allacciate, legate, legate gioir e tormento!
Il canto di Atto, in omaggio alle dorate chiome della mia bruna cortigiana, faceva da contrappunto ai miei pensieri. D'altronde, continuavo nelle mie riflessioni d'amore, quei momenti di... rilassamento Cloridia non me li aveva forse disin472/703
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teressatamente donati, senza mai far cenno alcuno al denaro, come invece aveva fatto (ahimé) al termine dell'ultimo consulto onirico? Mentre così ragionavo, e Atto era tanto preso nel vortice del canto da non tenere quasi più a freno la voce, Cristofano aveva aperto gli occhi. Scrutò l'abate con occhio accigliato, senza tuttavia interromperlo. Dopo un attimo di silenzio lo ringraziò anzi per averlo soccorso. Tirai un sospiro di sollievo: a giudicare dallo sguardo e dal colorito il medico sembrava ristabilito. L'eloquio, tornato fluido e normale, finì di rassicurarmi sul suo stato di salute. Si era trattato di una crisi passeggera. «Una voce ancora splendida, signor abate Melani» commentò il medico alzatosi, mentre si riaggiustava le vesti. «Anche se non è stato prudente da parte vostra farvi udire dagli altri inquilini di questo piano. Speriamo che Dulcibeni e Devizé non mi pongano domande su cosa mai ci facevate voi a cantare in camera mia». Dopo aver di nuovo ringraziato l'abate Melani per il solerte soccorso, Cristofano si diresse in mia compagnia nella camera accanto per visitare il povero Bedfordi, mentre Atto tornava al secondo piano nella propria stanza. Bedfordi giaceva immobile come al solito. Il medico scosse la testa: «Temo sia ora di comunicare agli altri pigionanti le condizioni di questo sventurato giovine. Se dovesse morire, dobbiamo impedire che nella locanda si scateni il panico». Concordammo d'avvertire anzitutto padre Robleda, affinché potesse amministrargli l'Estrema Unzione. Evitai di riferire a Cristofano che già una volta, da me sollecitato, per paura del contagio Robleda si era rifiutato di dare l'olio santo al giovane inglese: trattavasi d'un protestante, e quindi di uno scomunicato. Bussammo così all'uscio del gesuita. Prevedevo sin troppo Imprimatur - Monaldi & Sorti
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bene la reazione del pavido Robleda alla cattiva notizia: ansia, balbettio e roboante sdegno contro l'inettitudine di Cristofano. A sorpresa, non accadde nulla di tutto ciò. «Come: non avete ancora provato a curare Bedfordi col magnetismo?» chiese Robleda rivolto al medico, appena questi ebbe terminato di spiegargli la triste situazione. Cristofano restò interdetto. Robleda gli ricordò allora che secondo il padre Kircher tutto il Creato era dominato dal magnetismo, tanto che il dotto gesuita aveva dedicato un libro a spiegare l'intera dottrina, e aveva chiarito una volta per tutte che il mondo altro non è se non una grande catena magnetica al centro della quale sta Dio, primo e unico Magnete Originario, al quale ogni oggetto e ogni essere vivente tende irrimediabilmente. L'amore (sia divino che umano) non è forse espressione di una magnetica attrazione, come anche ogni tipo di fascinazione? I pianeti e le stelle sono, come tutti sanno, soggetti al reciproco magnetismo; ma anche i corpi celesti al loro interno sono pervasi dalla forza magnetica. «Be', in effetti» intervenne Cristofano «conosco l'esempio della bussola...». «... che aiuta i naviganti e i viaggiatori a orientarsi, certo» lo rintuzzò Robleda «ma c'è molto di più». Che dire infatti del magnetismo esercitato da Sole e Luna sulle acque, così evidente nelle maree? E anche nelle piante l'universale vis attractiva è di chiarissimo riscontro, se solo si osservano le irregolarità nelle venature e negli anelli nella sezione dei tronchi degli alberi, che fanno fede dell'influenza di forze esterne sulla loro crescita. Grazie al magnetismo, le piante, attraverso le radici, suggono dal terreno il nutrimento che le tiene in vita. La stessa forza magnetica vegetale trionfa poi nel Boramez, disse Robleda, che senz'altro neppure il medico ignorava. «Ssì, in effetti...» esitò Cristofano. «Che cos'è?» chiesi io. «Ebbene, ragazzo» disse il gesuita con accento paterno «si 474/703
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tratta della celebre pianta delle terre tartariche, che magneticamente risente della presenza delle pecore vicine e lascia sbocciare mirabili fiori a foggia di pecora». Analogamente si comportavano le piante eliotrope, che seguono magneticamente il cammino del Sole (come il girasole, con cui il padre Kircher aveva realizzato uno straordinario orologio eliotropico) e le piante selenotrope, le cui gemme seguono invece la Luna. Ma anche gli animali sono magnetici: pur tralasciando gli esempi troppo noti della torpedine e della rana pescatrice, che attraggono e paralizzano le loro prede, il magnetismo animale è chiaramente osservabile nell'anguis stupidus, l'enorme serpente americano che vive immobile sottoterra e attira presso di sé le prede, per lo più cervi, che con tutta calma avviluppa nelle sue spire e trangugia, sciogliendone lentamente in bocca le carni e persino le dure corna. E non è magnetica la facoltà con cui i pesci antropomorfi, detti anche sirene, attraggono in acqua gli sventurati marinai? «Capisco» ribatté Cristofano lievemente confuso «ma noi dobbiamo curare Bedfordi, e non divorarlo o catturarlo». «E credete forse che i rimedi medicinali non agiscano per virtù magnetica?» chiese Robleda con abile retorica. «Non ho mai sentito dire di nessuno guarito in questo modo» osservai dubbioso. «Eppeppè, naturalmente la terapia è da applicare laddove gli altri rimedi abbiano già fallito» si difese Robleda. «L'importante è non perdere di vista le leggi del magnetismo. Primum, si curi il male con ogni erba, pietra, metallo, frutto o seme che ha similitudine di colore, forma, qualità, figura etcetera con l'arto malato. Si osservino le cognazioni con gli astri: piante eliotropiche per i tipi solari, piante lunari per i lunatici e così via. Poi il principium similitudinis: i calcoli renali, per esempio, vanno curati con pietruzze di vescica di porco, o di altri animali che gioiscono di ambienti sassosi, come crostacei e ostriche. Idem per le piante: la condrilla, le cui radici hanno noduli e sporgenze, cura splendidamente le emorroidi. Infine, persino i veleni Imprimatur - Monaldi & Sorti
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possono fungere da antidoto; e allo stesso modo il miele è ottimo per medicare la puntura d'api, le zampe dei ragni vanno usate per impacchi contro i morsi di ragno...». «Ora capisco» mentì Cristofano «mi sfugge però con quale terapia magnetica dovremmo curare Bedfordi». «Ma è semplice: con la musica». Padre Robleda non aveva dubbi: come Kircher aveva chiarissimamente spiegato, anche l'arte dei suoni rientrava nella legge del Magnetismo Universale. Gli antichi sapevano che i modi musicali sono capaci per magnetismo di eccitare l'animo: il modo dorico ispira temperanza e moderazione; il modo lidio, adatto ai funerali, commuove a pianti e lamentazioni; il misolidio suscita commiserazione, pietà e consimili; l'eolico o ionico induce sonno e torpore. Se poi si strofina l'orlo di un bicchiere con un polpastrello inumidito, esso emette un suono che si propaga magneticamente a tutti i bicchieri identici posti nelle immediate vicinanze, provocandone la corale risonanza. Ma il magnetismus musicae ha anche potentissime capacità terapeutiche, che si manifestano massimamente nella cura del tarantismo. «Il tarantismo?» chiesi, mentre Cristofano finalmente annuiva. «Nella città di Taranto, nel Regno di Napoli» spiegò il medico «è facile imbattersi in una sorta di ragni di grande nocività, che sono appunto detti tarantole». Il loro morso, narrò Cristofano, produce effetti a dir poco spaventosi: la vittima scoppia dapprima in una risata incontenibile, rotolandosi e contorcendosi senza requie. Poi salta in piedi e leva il braccio destro in alto come per sguainare una spada, tal quale un gladiatore che si prepara solennemente al combattimento, e si esibisce in una serie di ridicole gesticolazioni per poi gettarsi nuovamente a terra preda dell'ilarità. Poi si finge di nuovo con grande pompa generale o condottiero, indi viene preso da un irrefrenabile desiderio d'acqua e di refrigerio, e se gli viene dato un vaso colmo d'acqua vi tuffa dentro 476/703
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il capo scuotendolo freneticamente come i passerotti che si lavano alla fontana. Poi corre verso un albero, si arrampica e vi resta appeso, talora per molti giorni. Infine si lascia cadere al suolo stremato, si rannicchia sulle ginocchia e inizia a gemere e a sospirare e a picchiare coi pugni sulla nuda terra come un epilettico o un lunatico, e invoca sul proprio capo punizioni e sventure. «Ma è terribile» commentai inorridito. «E tutto questo per un morso di tarantola?» «Ma certo» confermò Robleda «e non sto a dire di altri inauditi effetti magnetici. Il morso delle tarantole rosse fa diventare la vittima tutta rossa in volto, le tarantole verdi fanno diventare verdi, quelle a strisce idem, quelle acquatiche inducono a desiderare l'acqua, quelle che stanno in luoghi caldi inducono alla collera e così via». «E come si cura?» chiesi sempre più incuriosito. «Perfezionando le primitive conoscenze di alcuni villici tarantini» disse Robleda cercando nei suoi cassetti e poi mostrandoci con orgoglio un foglietto «il padre Kircher ha elaborato un antidoto». TONUM FRIGIUM
Stu pettu è fatti Cimbalu d'Amuri Tasti li sensi mobili, et accorti Cordi li chianti, sospiri, e duluri Rosa è lu Cori miu feritu a morti Strali è lu ferru,chiai sò li miei arduri Marteddu è lu pensieri, e la mia sorti Mastra è la donna mia,ch'à tutti l'huri Cantando canta leta la mia morti.
Leggemmo con perplessità e sospetto quelle parole incomprensibili. Robleda capì subito la nostra diffidenza: «No, non si tratta di magia. È solo una poesia che i villici usano cantare, accompagnandosi con vari strumenti, per neutralizzare magneticamente l'effetto del veleno della tarantola. Il contro veleno principale non è la poesia, ma la musica: la chiamano tarantelImprimatur - Monaldi & Sorti
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la, o qualcosa del genere. Ma è stato il padre Kircher a trovare, dopo lunghe ricerche, la melodia più indicata». Mi mostrò allora un altro mezzo foglietto sgualcito fitto di note e pentagrammi. «E con cosa si suona?» «Be', i villici di Taranto la eseguono con timpani, lire, cetre, cembali e flauti. E ovviamente chitarre, come quella di Devizé». «Insomma» ribatté alquanto perplesso il medico «intendete dire che Devizé potrebbe guarire Bedfordi con questa musica». «Oh, no. Questa purtroppo va bene solo per le tarantole. Bisognerà usare qualcosa d'altro». «Un'altra musica?» chiesi. «Occorrerà andare per tentativi. Lasceremo scegliere a Devizé. Ma ricordate, figliuoli: nei casi disperati l'unico vero aiuto proviene dal Signore; giacché» aggiunse padre Robleda «nessuno ha ancora inventato un antidoto contro la peste». «Avete ragione, padre» udii dire Cristofano, mentre oscuramente mi sovvenivo delle arcanae obices. «E voglio riporre la mia totale fiducia nelle teorie del vostro confratello Kircher». Il medico, com'egli stesso ammetteva, non sapeva più a quale Santo votarsi. E, pur sperando che le sue cure avrebbero prima o poi avuto un benefico effetto su Bedfordi, non avrebbe certo privato un moribondo di quell'ultimo disperato tentativo. Mi comunicò quindi che avremmo per il momento soprasseduto a informare gli altri delle disperate condizioni dell'inglese. Più tardi, mentre già servivo la cena, Cristofano mi riferì di aver fissato con Devizé l'appuntamento per l'indomani. Il musico francese, la cui stanza era a fianco di quella di Bedfordi, non avrebbe dovuto far altro che suonare la sua chitarra sull'uscio dell'inglese. «Allora a domani mattina, signor Cristofano?» «No, con Devizé ho fissato l'appuntamento subito prima del pranzo. E l'ora migliore: il sole è alto e l'energia delle vibrazioni musicali potrà espandersi al massimo grado. Buonanotte, ragazzo». 478/703
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Nottata ottava. Tra il 18 e il 19 settembre 1683
C
hiusa! È chiusa, maledizione». C'era da aspettarselo, pensai mentre Atto Melani spingeva inutilmente verso l'alto la botola che portava nella stalla di Tiracorda. Già mentre eravamo in marcia nei sotterranei, scortati dal sommesso borbottio di Ugonio e Ciacconio, l'ennesima spedizione notturna in casa di Tiracorda mi sembrava destinata al fallimento. Dulcibeni aveva capito che lo tenevamo d'occhio. Forse non immaginava che lo avevamo già spiato nello studio di Tiracorda; ma non avrebbe mai voluto correre il rischio di essere osservato mentre conduceva strani traffici con (o contro) il suo antico amico. E infatti, dopo essere entrato in casa del compaesano, aveva provveduto a serrare la botola. «Scusate signor abate» dissi mentre Atto si nettava nervosamente le mani «ma forse è meglio così. Se questa notte Dulcibeni non nota nulla di strano mentre fa gli indovinelli con Tiracorda, forse domani troveremo via libera». «Niente affatto» rispose Atto seccamente «ormai sa di essere sotto osservazione. Se deve combinare qualcosa di strano, lo farà al più presto: stanotte stessa o, al più tardi, domani». «E allora?» «E allora bisogna trovare il modo di entrare da Tiracorda, anche se davvero non so come. Ci vorrebbe...». «Gfrrrlûlbh» lo interruppe Ciacconio facendosi avanti. Ugonio lo guardò accigliato, come per rimproverarlo. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Finalmente un volontario» commentò soddisfatto l'abate Melani. Pochi minuti più tardi eravamo già divisi in due gruppi, sebbene disuguali. Atto, Ugonio e io eravamo in marcia nel condotto C, in direzione del fiumiciattolo sotterraneo. Ciacconio invece era salito in superficie attraverso il pozzo che dal medesimo condotto portava in piazza della Rotonda, nei pressi del Pantheon. Non aveva voluto dire in che modo contasse di entrare in casa di Tiracorda. Gli avevamo pazientemente descritto fin nei minimi dettagli com'era fatta la casa del medico, ma solo alla fine il corpisantaro aveva candidamente dichiarato che la cosa non gli era di alcuna utilità. Gli avevamo perfino consegnato uno schizzo della casa, con la disposizione delle finestre; ma non appena ci eravamo separati, avevamo udito risuonare nella galleria un frenetico e beluino rimastichio. La vita del nostro schizzo, con cui Ciacconio stava orribilmente banchettando, era stata breve. «Credete che ce la farà?» chiesi all'abate Melani. «Non ne ho la minima idea. Gli abbiamo spiegato fino alla nausea ogni angolo della casa, ma è come se sapesse già cosa fare. Non li sopporto, questi due». Nel frattempo stavamo raggiungendo di buon passo il piccolo rio sotterraneo nei pressi del quale, due notti prima, avevamo visto scomparire misteriosamente Dulcibeni. Passammo accanto alle vecchie e nauseabonde carcasse dei topi, e ben presto udimmo il rumore del corso d'acqua sotterraneo. Questa volta eravamo ben equipaggiati: su richiesta di Atto, i corpisantari avevano portato con sé una lunga e robusta corda, alcuni chiodi di ferro, un martello e un qualche lungo bastone. Ci sarebbero stati utili per l'operazione pericolosa e poco saggia che Atto aveva a tutti i costi in animo di fare: guadare il fiume. Restammo alquanto tempo in pensosa osservazione del corso d'acqua, che pareva quasi più nero, fetido e minaccioso del consueto. Rabbrividii, figurandomi una caduta rovinosa in quel flusso lercio e ostile. Perfino Ugonio sembrava preoccupato. Mi 480/703
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feci coraggio rivolgendo una silenziosa preghiera al Signore. Improvvisamente però, vidi Atto staccarsi da me e dirigere lo sguardo verso il punto in cui la parete destra della galleria faceva angolo con il canale in cui scorreva il fiume. Per qualche istante Atto ristette immobile di fronte allo spigolo tra i due condotti. Poi allungò una mano lungo la parete della galleria fluviale. «Cosa fate?» dissi allarmato, vedendolo sporgersi pericolosamente verso il fiume. «Taci» sibilò tastando sempre più avidamente la parete, come per cercare qualcosa. Stavo quasi per accorrere in suo soccorso, temendo che perdesse l'equilibrio. Fu proprio in quel mentre che lo vidi finalmente ritrarsi dalla rischiosa esposizione, stringendo qualcosa nella mano sinistra. Era una piccola gomena, come quelle che usano i pescatori per tenere all'ormeggio le loro barchette sul Tevere. Atto prese a tirare la gomena, facendone mano a mano un gomitolo. Quando infine il capo opposto sembrò fare resistenza, Atto invitò Ugonio e me a guardare nel fiumiciattolo. Giusto davanti a noi, illuminata a stento dalla luce della lampada, galleggiava una chiatta.
«Ora credo che avrai capito anche tu» disse poco dopo l'abate Melani mentre navigavamo silenziosamente, sospinti dalla corrente. «Veramente no» ammisi. «Come avete fatto a scoprire la barca?» «È semplice. Dulcibeni aveva due possibilità: oltrepassare il fiume o percorrerlo in barca. Per navigare aveva però bisogno di uno scafo ormeggiato all'incrocio tra le due gallerie. Quando siamo arrivati, di barche non c'era traccia; ma se ce ne fosse stata una, di sicuro sarebbe stata sottoposta alla spinta della corrente». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Quindi, se assicurata a una corda» intuii «sarebbe stata sospinta nella galleria verso la nostra destra, per effetto della corrente del corso d'acqua, che scorre da sinistra a destra dove va a immettersi nel Tevere». «Esatto. La gomena perciò avrebbe dovuto essere assicurata in un punto situato verso destra rispetto alla galleria C, cioè sempre nel verso della corrente. In caso contrario avremmo visto proprio davanti a noi la gomena che si tendeva da sinistra a destra, verso la barca. Ecco perché ho cercato la gomena a destra. Era annodata a un gancio di ferro, messo lì chissà da chi e da quanto tempo». Mentre meditavo sulla nuova prova di sagacia dell'abate Melani, Ugonio rinforzava la nostra andatura sospingendo dolcemente l'imbarcazione con i due remi di cui disponeva la chiatta. Lo scarno paesaggio che si offriva alla luce della nostra lanterna era tetro e monotono. Sulla tondeggiante volta di pietra della galleria echeggiava lo sciabordio dei flutti contro il nostro fragile scafo. «Però non eravate sicuro che Dulcibeni avesse usato una barca» obiettai improvvisamente «avete detto "se ce ne fosse stata una…"». «A volte, per conoscere la verità, è necessario presupporla». «Che volete dire?» «Succede così anche nelle cose di Stato: in presenza di fatti inspiegabili o illogici ci si deve figurare qual è la condizione indispensabile che li determina, per quanto incredibile sia». «Non capisco». «Le verità più assurde, ragazzo, che poi sono anche le più nere, non lasciano mai traccia di sé. Ricordalo». «Vuol dire che non potranno venir mai scoperte?» «Non è detto. Ci sono due possibilità. La prima è che vi sia qualcuno che sa o che ha capito, ma non ha le prove». «E allora?» chiesi intendendo assai poco le parole dell'abate. «E allora le prove che non ha le costruisce, affinché la verità venga a galla» rispose Atto candidamente. 482/703
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«Volete dire che ci si può imbattere in prove false di fatti veri?» chiesi a bocca aperta. «Bravo. Ma non stupirti. Non devi cadere mai nell'errore che fanno tutti, e cioè - una volta che si sia scoperto che un documento o una prova sono contraffatti - di ritenere falso anche il loro contenuto, è anzi vero addirittura il contrario. Rammentatelo quando farai il gazzettante: spesso le verità più orrende e inaccettabili sono celate proprio nei documenti falsi». «E se non ci sono neanche quelli?» chiesi. «A quel punto - e questa è la seconda ipotesi - non resta che fare supposizioni, come ti dicevo all'inizio, e verificare poi se il ragionamento fila». «Allora si deve ragionare così anche per capire il secretum pestis». «Non ancora» rispose Melani. «Prima si deve capire quale sia il ruolo di ogni attore, e soprattutto la commedia che viene interpretata. E io credo di averla trovata». Lo guardai in silenzio, con il volto che tradiva la mia impazienza. «È un complotto contro il Re Cristianissimo» scandì solennemente Atto. «E chi lo avrebbe ordito?» «Ma è chiaro: sua moglie, la Regina».
Di fronte alla mia incredulità, Atto dovette rinfrescarmi la memoria. Luigi XIV aveva imprigionato Fouquet per estorcergli il segreto della peste. Ma attorno a Fouquet si muovevano personaggi che, come il Sovrintendente, erano stati umiliati o rovinati dal Sovrano. Innanzitutto Lauzun, incarcerato a Pinerolo insieme a Fouquet e usato come spione; poi Mademoiselle, la ricca cugina di Sua Maestà, che non aveva potuto sposare Lauzun proprio a causa del divieto reale. Devizé, inoltre, che ha accompagnato Fouquet al Donzello, era assai fedele alla regina Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Maria Teresa, che da Luigi XIV aveva subito tradimenti, prepotenze e angherie di ogni sorta. «Ma questo non basta per sostenere che tutti loro abbiano complottato contro il Re Cristianissimo» lo interruppi dubbioso. «Questo è vero. Ma ragiona: il Re voleva il segreto della peste. Fouquet glielo rifiuta, probabilmente affermando di non saperne nulla. Quando la lettera delirante di Kircher che abbiamo trovato addosso a Dulcibeni arriva nelle mani di Colbert, Fouquet non può più negare, pena la vita sua e della sua famiglia. Alla fine fa un accordo con il Re, ed esce da Pinerolo in cambio del secretum pestis. Fin qui d'accordo?» «D'accordo». «Ebbene, a questo punto il Re ha vinto. Secondo te, dopo vent'anni di carcere duro e ridotto sul lastrico, Fouquet è contento?» «No». «Sarebbe stato umano per lui prendersi qualche piccola soddisfazione contro il Re, prima di scomparire?» «Be', sì». «Ecco. Allora immagina: un tuo potentissimo nemico ti estorce il segreto della peste. Lo vuole a tutti i costi, perché agogna a diventare ancora più potente. Ma non ha capito che tu hai anche il segreto dell'antidoto, il secretum vitae. Se non lo puoi usare di persona, cosa fai?» «Lo do a qualcuno che... insomma, a un nemico del mio nemico». «Benissimo. E Fouquet ne aveva a disposizione a iosa, tutti pronti a vendicarsi del Re Sole. A cominciare da Lauzun». «Ma perché, secondo voi, Luigi XIV non ha capito che Fouquet possedeva anche l'antidoto alla peste?» «Lo suppongo. Come ricorderai, nella lettera di Kircher io avevo letto anche secretum vitae arcanae obices celant, ossia il segreto della vita è nascosto in misteriosi ostacoli, mentre il segreto della trasmissione della peste no. Orbene, io ritengo 484/703
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che Fouquet non abbia più potuto negare di conoscere il secretum morbi, ma si sia invece tenuto per sé il segreto dell'antidoto, adducendo come pretesto - grazie a quella frase - che Kircher lo aveva celato a lui stesso. Il Sovrintendente deve aver avuto gioco abbastanza facile, visto che al Re interessa soprattutto come diffondere la peste, e non tanto come combatterla, se lo conosco bene». «Mi sembra un po' complicato». «Ma funziona. Ora seguimi: con il segreto della peste, Luigi XIV a chi avrebbe potuto dare qualche grattacapo?» «Be', soprattutto all'Impero» dissi ripensando a quanto mi aveva raccontato Brenozzi. «Benissimo. E magari anche alla Spagna, che con la Francia ha guerreggiato per secoli. Giusto?» «È possibile» ammisi senza capire dove Atto volesse arrivare. «Ma l'Impero è in mano agli Asburgo, e la Spagna anche. La regina Maria Teresa a quale casa appartiene?» «Agli Asburgo!» «Eccoci arrivati. Per mettere ordine nei fatti è quindi necessario pensare che Maria Teresa abbia ricevuto, e usato, il secretum vitae contro Luigi XIV. Fouquet può avere dato il secretum vitae a Lauzun, che lo avrà girato all'amata Mademoiselle, e lei alla Regina». «Una Regina che agisce nell'ombra contro il Re suo marito» riflettei ad alta voce. «È inaudito». «E anche qui ti sbagli» disse Atto «perché c'è un precedente». Nel 1637, disse l'abate, un anno prima che nascesse Luigi XIV, i servizi segreti della Corona francese intercettarono una lettera dell'ambasciatore di Spagna a Bruxelles. La lettera era diretta alla regina Anna d'Austria, sorella del Re di Spagna Filippo IV e consorte del re Luigi XIII. La madre del Re Sole, insomma. Dalla missiva s'intuiva che Anna d'Austria era in segreta corrispondenza con la sua antica patria. E ciò proprio menImprimatur - Monaldi & Sorti
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tre tra Francia e Spagna furoreggiava un aspro conflitto. Il Re e il cardinal Richelieu ordinarono accurate e discrete indagini. Si scoperse così che la Regina si recava un po' troppo spesso in un certo convento di Parigi: per pregare, ufficialmente, ma in realtà per scambiare lettere con Madrid e con gli ambasciatori spagnoli in Inghilterra e in Fiandra. Anna negò di essersi prestata allo spionaggio. Venne allora convocata a colloquio privato da Richelieu: la Regina rischiava la prigione, avvertì glaciale il Cardinale, e una semplice confessione non l'avrebbe salvata. Luigi XIII l'avrebbe perdonata solo in cambio d'un ampio resoconto delle notizie ch'ella aveva appreso nella sua segreta corrispondenza con gli Spagnoli. Le lettere di Anna d'Austria, infatti, non trattavano delle solite lamentele sulla sua vita alla Corte di Parigi (dove Anna, come sarebbe accaduto anche a Maria Teresa, era assai infelice). La Regina di Francia barattava con gli Spagnoli preziose informazioni politiche, forse credendo di poter accelerare la fine della guerra. Ma ciò era contro gl'interessi del suo Regno. Anna confessò tutto. «Nel 1659, durante le trattative per la pace dei Pirenei sull'isola dei Fagiani» proseguì Atto «Anna rivide finalmente suo fratello, il re Filippo IV di Spagna. Non s'incontravano da quarantacinque anni. Si erano separati con strazio quando lei, giovane Principessa appena sedicenne, si era trasferita per sempre in Francia. Anna abbracciò e baciò teneramente il fratello. Filippo però allontanò il viso dalle labbra della sorella, guardandola negli occhi. Ella disse: "Mi perdonerete d'essere stata una così buona Francese?". "Avete la mia stima" rispose lui. Da quando Anna aveva smesso di spiare per suo conto, benché costretta, il fratello aveva smesso d'amarla». «Ma era la Regina di Francia, non poteva...». «Lo so, lo so» disse sbrigativamente Atto «ti ho raccontato questa vecchia storia solo per farti capire come siano gli Asburgo, anche quando sposano un Re straniero: restano Asburgo». 486/703
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«La neracqua galoppizza». Eravamo stati interrotti da Ugonio, che dava segni di nervosismo. Dopo un tratto relativamente calmo, il fiumiciattolo si era fatto più impetuoso. Il corpisantaro vogava con maggior lena, cercando in realtà di rallentare la nostra andatura. Vogando controcorrente, aveva dapprima decapitato un remo contro il duro letto del corso d'acqua. Ora era arrivato un momento delicato: poco più oltre, il fiume si divideva in due rami, uno ampio il doppio dell'altro. Il rumore e la velocità delle acque aumentavano decisamente. «Destra o sinistra?» chiesi al corpisantaro. «Minorando li screpoli per non maggiorar li scrupoli, e per riuscir più benefice che malefice, ignorizzo la comprensione e timonizzo la direzione» disse Ugonio mentre Atto protestava. «Resta sul ramo più grande, non virare» disse l'abate «la diramazione potrebbe essere senza uscita». Ugonio invece diede qualche deciso colpo di remo, immettendoci nel canale più piccolo, dove la velocità quasi subito diminuì. «Perché non mi hai obbedito?» s'arrabbiò Atto. «Il canalicchio è conduttivo, il canalone sfiutativo, ancorv'è soddisfacendo all'obbligo s'accresce al battezzato il giubilo, benintendo». Massaggiandosi gli occhi come in preda a un forte mal di testa, Atto rinunciò a capire la misteriosa spiegazione di Ugonio e si chiuse in un iroso mutismo. Ben presto la rabbia repressa dell'abate Melani ebbe modo di trovare espressione. Dopo alcuni minuti di placida navigazione, la volta della nuova galleria cominciò a farsi più bassa. «È un condotto fognario secondario, maledizione a te e al tuo cervello di gallina» fece Atto rivolto a Ugonio. «Sepperò non sfiutizza, purconquantov'è l'altra ramizia fluttizia» rispose Ugonio senza scomporsi. «Ma che vuol dire?» chiesi preoccupato dalla volta, che si Imprimatur - Monaldi & Sorti
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stava facendo sempre più angusta. «Non sfiutizza, troppostanteciò la strettizia». Rinunciammo definitivamente a interpretare i geroglifici verbali di Ugonio, anche perché nel frattempo la galleria si era fatta così bassa che ci eravamo dovuti scomodamente acquattare nella barchetta. Ugonio poteva ormai a stento remare, e Atto stesso dovette incoraggiare l'andatura della barca spingendo da poppa con uno dei bastoni. Il fetore delle acque nere, già di per sé insopportabile, era ancora più penoso a causa della posizione e del soffocante spazio in cui eravamo costretti. Pensai con una fitta di rimpianto a Cloridia, alle intemperanze di padron Pellegrino, alle giornate di sole, al mio letto. All'improvviso udimmo un risciacquio, proprio a fianco della nostra imbarcazione. Esseri viventi d'ignota natura parevano agitarsi nelle acque attorno a noi. «Rattopi» annunciò Ugonio «fuggitizzano». «Che orrore» commentò l'abate Melani. La volta si era fatta ancora più bassa. Ugonio fu costretto a tirare i remi a bordo. Solo Atto, dalla prua, sospingeva il nostro scafo con ritmici colpetti di bastone contro il fondo del canale. Le acque che solcavamo erano ora quasi del tutto stagnanti, e tuttavia orfane del loro naturale silenzio: tutt'attorno a noi, in bizzarro contrappunto con la ritmica vogata dell'abate Melani, s'inseguivano i sinistri gorgoglìi dei topi. «Se non sapessi di essere vivo, direi che a occhio e croce ci troviamo nello Stige» disse Atto sbuffando per la fatica. «Sempre che sul primo punto non mi sbagli, naturalmente» aggiunse. Eravamo ormai sdraiati a faccia in su, pigiati l'uno a fianco all'altro nel minuscolo abitacolo della barchetta, quando sentimmo l'acustica della galleria mutare e addolcirsi, come se il canale stesse per allargarsi. Fu allora che si rivelò davanti ai nostri visi attoniti, sulla volta della galleria, un cerchio di fuoco crepitante, in cui lingue gialle e rossastre sembravano volerci 488/703
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risucchiare. Disposti a raggiera nel cerchio stavano tre maghi, immoti e fatali. Avvolti in tuniche cremisi e lunghi cappucci conici, ci osservavano gelidamente. Dentro ai cappucci, da coppie di rotondi pertugi dardeggiavano corruschi occhi malvagi e onniscienti. Uno dei tre teneva in mano un teschio. Soggiogati dalla sorpresa, tutti e tre fummo scossi all'unisono da un sussulto. La barca deviò lievemente dal suo corso naturale e si mise di traverso; prua e poppa grattarono i fianchi opposti del canale, e la barca s'incastrò proprio sotto il cerchio di fuoco. Uno dei tre maghi (o erano sentinelle infernali?) piegò in basso il capo, osservandoci con malevola curiosità. Brandiva una torcia, che ondeggiò più volte cercando d'illuminare meglio i nostri volti; i suoi sodali si consultavano sottovoce. «Forse sul primo punto m'ero sbagliato» udii balbettare Atto. Il secondo mago, che teneva in mano un grande cero bianco, si sporse in avanti a sua volta. Fu allora che Ugonio esplose in un urlo d'infantile paura, agitandosi forsennatamente e menando involontariamente un calcio nel mio stomaco e una robusta manata sul naso dell'abate Melani. Rattrappiti fino ad allora per la paura, reagimmo entrambi con imperdonabile scompostezza, dimenandoci a caso. La barca si era nel frattempo disincastrata; sicché, prima che potessimo rendercene conto, i nostri scalpitìi di terrore ebbero la meglio. Udii un tonfo, anzi due, ai miei lati. Il mondo si ripiegò su se stesso, e tutto fu d'improvviso freddo e buio mentre esseri scaturivano da diabolici gorghi e mi strisciavano sul viso, aspergendolo di sozzure infami. Urlai a mia volta, ma la mia voce si spezzò e precipitò come Icaro. Non saprò mai quanto tempo (secondi, ore?) sia durato l'incubo nel canale sotterraneo. So solo che a salvarmi fu Ugonio, che con possa animalesca mi trasse fuori dai flutti sbattendomi Imprimatur - Monaldi & Sorti
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senza tanti complimenti su un duro assito, spaccandomi quasi la schiena. Sopraffatto dal terrore, avevo perso la memoria. Dovevo essermi malamente trascinato nel canale, pensai, in parte sguazzando (potevo anch'io toccare il fondo con le punte dei piedi) e in parte lasciandomi galleggiare, per essere infine soccorso da Ugonio. Ora giacevo nella barca, nuovamente raddrizzata e posta in secco. Mi doleva assai la schiena; ansimavo per il freddo e per la paura, che ancora faceva sentire i suoi diabolici effetti. Credetti così che le pupille m'ingannassero quando, levatomi a sedere, mi guardai attorno. «Ringraziate tutti e due l'abate Melani» sentii dire Atto. «Se mentre cadevo in acqua avessi mollato la lanterna, ora saremmo cibo per topi». Il timido lume continuava eroicamente a rischiararci la vista, offrendo ai nostri occhi il più inatteso dei paesaggi. Pur lottando con l'oscurità, potei discernere con certezza che ci trovavamo al centro di un vasto lago sotterraneo. Sopra le nostre teste s'apriva, come l'eco lasciava intendere, una grande e maestosa cavità. Ovunque, attorno a noi, le nere e minacciose acque sotterranee. Ma i nostri corpi erano in salvo: eravamo approdati a un'isola.
«Per riuscire più benefice che malefice, e per esser più padre che paricida, orrorizzo l'artificiere di questa spettacolizia rivoltosa e smerdiloquente. È uno schifonico criminabile!» «Hai ragione. Chiunque sia stato è un mostro» disse Atto, per la prima volta d'accordo con Ugonio. Esplorare l'isola lacustre su cui il destino (o meglio la nostra sconsiderazione, e mancanza di timor di Dio) ci aveva pietosamente deposto non era difficile. Il piccolo lembo di terra poteva essere percorso tutto a piedi in pochi attimi, e non avrei 490/703
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detto che fosse più grande, per esser chiari, della modesta chiesetta di Santa Maria in Posterula. Ma ad attirare l'attenzione di Atto e Ugonio era il centro dell'isolotto, in cui erano raccolti alcuni oggetti di varia grandezza che ancora non riuscivo a scorgere bene. Mi toccai i vestiti: ero fradicio dappertutto, e barbellavo dal freddo. Mi diedi una scossa, cercando di ravvivare il calore interno, e scesi anch'io dalla barca tastando con piede diffidente il suolo cinereo dell'isola. Raggiunsi Atto e Ugonio, che perlustravano qui e là con espressione meditabonda e nauseata. «Devo dire, ragazzo, che il tuo talento negli svenimenti si affina» mi accolse Atto. «Sei pallidino. Vedo che l'incontro di poco fa ti ha spaventato». «Ma chi erano? Santo Cielo, sembravano...». «No, non erano i guardiani dell'Inferno. Era solo la Compagnia dell'Orazione e Morte». «La pia confraternita che seppellisce i cadaveri abbandonati?» «Proprio loro. Sono anche venuti sotto alla locanda a prendere il corpo del povero Fouquet, ricordi? Purtroppo io pure avevo dimenticato che quando si riuniscono in processione portano tuniche, cappucci, torce, teschi e così via. Un po' pittoreschi, insomma». «Anche Ugonio si è spaventato» osservai. «Gli ho chiesto perché, ma non mi ha voluto rispondere. Ho l'impressione che la Compagnia della Morte sia una delle poche cose di cui hanno paura i corpisantari. La Compagnia stava procedendo in un cunicolo sotterraneo da cui si apriva una botola verso il canale in cui proprio in quel momento, purtroppo, stavamo avanzando noi. Loro ci hanno sentiti passare e si sono affacciati, e il panico ci ha giocato un brutto scherzo. Poi sai cos'è accaduto?» «Io... non ricordo niente» ammisi. Atto mi narrò brevemente il seguito: egli e Ugonio erano caduti in acqua e la chiatta, improvvisamente sbilanciata, si era Imprimatur - Monaldi & Sorti
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capovolta. Io ero rimasto prigioniero dello scafo rovesciato, con il corpo sott'acqua e la testa fuori; ecco perché le mie urla erano rimaste soffocate, come dentro una campana. I topi che infestavano le acque del canale, impauriti dal cataclisma, mi erano saliti addosso e in faccia, lordandomi con i loro escrementi. Mi toccai il viso: era vero. Mi pulii con un avambraccio, mentre lo stomaco mi si torceva per il disgusto. «Abbiamo avuto fortuna» proseguì Atto mentre mi guidava nella perlustrazione dell'isola «perché tra un urlo e l'altro Ugonio e io siamo riusciti a toglierci di dosso quelle bestie schifose...». «Rattopi, non bestiose» lo corresse mestamente Ugonio con lo sguardo rivolto a una specie di gabbia che stava ai nostri piedi. «Ratti, topi, e va bene! Per farla breve» finì di spiegarmi l'abate Melani «abbiamo portato te e la barca fuori da quel maledetto canale, e ci siamo ritrovati in questo lago sotterraneo. I tre cappuccioni non ci hanno seguito, per fortuna, e ora eccoci qui. Animo! Non sei mica l'unico ad avere freddo. Guardami: anch'io sono tutto fradicio e pieno di fango. Chi avrebbe mai detto che avrei rovinato tante splendide vesti nella tua maledetta locanda... Ma ora vieni». M'indicò la bizzarra officina che aveva sede al centro dell'isola. Due grandi blocchi di pietra bianca erano coricati a terra, a far da piedistallo a due tavole di legnaccio scuro e marcito. Su una scorsi gran copia di strumenti: pinze, coltellini a punta e coltellacci da macello, forbici e varie lame prive di manico; accostando la lanterna, notai che tutti erano imbrattati di sangue rappreso, con sfumature che andavano dal carminio al nero delle croste. La tavola puzzava orribilmente di carogna. Tra i coltelli stava una coppia di grossi ceri mezzi consumati. L'abate Melani li accese. Passai all'altro tavolo, su cui riposavano altri e più misterio492/703
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si oggetti: un vaso di ceramica, fornito di coperchio e tutto istoriato, con alcuni fori sui fianchi, che trovai stranamente familiare; un'ampollina di vetro trasparente, anch'essa di aspetto non nuovo; a fianco un'ampia scodella di coccio arancione, svasata, del diametro d'un braccio circa, con al centro un bizzarro arnese di metallo. Era una sorta di piccola forca per impiccagioni: su un largo treppiede si ergeva un'asta verticale, che terminava con due bracci ricurvi i quali, tramite una vite, potevano essere stretti a piacimento, come per strangolare qualche sventurato omuncolo. Il vaso era semipieno d'acqua, così che il piccolo patibolo (che non era più alto di una brocca) veniva coperto tutto, tranne il cerchio strangolatore al suo apice. Per terra v'era però il pezzo più singolare di tutto il misterioso laboratorio: una gabbia in ferro, alta come un bimbetto e dalle inferriate assai fitte; come se dovesse far da prigione, pensai, a esseri minuscoli, vivaci e volatili come farfalle o canarini. Notai un movimento all'interno della gabbia, e mi feci più vicino. Un esserino grigio mi guardava a sua volta, spaurito e furtivo, dall'interno del suo giaciglio: una cassettina di legno riempita di paglia. Atto avvicinò la lampada per farmi meglio osservare ciò che lui e Ugonio avevano già riconosciuto. Ormai unico ostaggio dell'isola, e visibilmente spaventato dalla nostra presenza, scorsi con sorpresa un povero topolino. Attorno alla gabbia, ammucchiati uno accanto all'altro, sorgevano altri sinistri apparati, che esaminammo con cauto disgusto: urne piene di polveri giallicce, scolature, secrezioni, umori biliosi, scatarramenti e fangazze; orcetti colmi di grasso animale (o umano?) prestigiosamente impastato con cenere e pelle morta, e altri stomacosi composti; storte, alambicchi, bocce di vetro, un secchio ripieno d'ossa sicuramente animali (che Ugonio pretese tuttavia di esaminare pignolescamente), un tocco di carne marcia, bucce rancide di frutti, cocchie di noImprimatur - Monaldi & Sorti
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ci; un vaso di ceramica ripieno di ciocche di capelli, un altro di vetro contenente un groppo di serpentelli sotto spirito; una retina per pesci, un braciere col suo soffietto, legna vecchia da ardere, fogliacci di carta mezzomarcia, carboni e sassi; infine un paio lercio di guanti grossi, una catasta di stracci bisunti e altre carabattole di sordida e vil suppellettile. «È il covo di un negromante» dissi sconcertato. «Peggio» ribatté Atto mentre ancora ci aggiravamo spaesati in quella folle e barbara spezieria. «È il covo di Dulcibeni, ospite della tua locanda». «E cosa mai ci farebbe?» esclamai inorridito. «Non si capisce bene. Di certo fa ai topi qualcosa che non piace a Ugonio». Il corpisantaro stava ancora osservando pensoso il tavolaccio da macellaio, per nulla disturbato dall'afrore mortifero che emanava. «Prigionifica, strangolizza, bisturifica... diposcia però non si comprensiona» disse infine. «Grazie tante, fin qui c'ero arrivato anch'io» fece Atto. «Prima cattura i topi con la retina per pesci, e li mette in gabbia. Poi li usa per qualche strano sortilegio e li strangola con quella specie di piccolo patibolo. Quindi li squarta, infine non si sa cos'altro combini» disse Atto con un sorriso acido. «Il tutto comunque in ossequio alle pie prescrizioni dei giansenisti di Port-Royal. Quello nella gabbia dev'essere l'unico superstite». «Signor Atto» dissi nauseato da quel trionfo d'oscenità «non sembra anche a voi di aver già visto qualcosa?» Gli indicai l'ampolla sul tavolaccio, a fianco del patibolo in miniatura. Per tutta risposta Atto estrasse dalla tasca un oggetto di cui avevo ormai dimenticato l'esistenza. Svolgendoli da un fazzoletto, mostrò i cocci dell'ampollina vitrea piena di sangue che avevamo trovato nel condotto D. Tirò fuori i frammenti e li accostò all'ampolla ancora integra. «Sono gemelle!» m'avvidi con sorpresa. 494/703
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L'ampollina rotta era in effetti identica, nella foggia e nel vetro verdastro, a quella trovata sull'isola. «Ma anche il vaso istoriato con il coperchio l'abbiamo già visto» insistetti. «Stava, se non sbaglio...». «... nello stanzino segreto di Tiracorda» mi aiutò Atto. «Ecco!» «Eh, no. Tu pensi al vaso con cui ha armeggiato Dulcibeni, quando il suo amico si è addormentato. Questo però è più grande, e i disegni sono più fitti. Il motivo della decorazione e i fori sui fianchi, te lo concedo, sono quasi identici: forse sono opera dello stesso artigiano». Anche il vaso trovato sull'isola, infatti, disponeva di sfiatatoi laterali, ed era ornato con piante di stagno e piccoli esserini natanti, probabilmente girini, che sguazzavano tra una foglia e l'altra. Apersi il coperchio, accostai il vaso alla lampada e immersi un dito: dentro al vaso c'era acqua grigiastra, in cui galleggiavano frammenti di tela bianca leggera. Sul fondo, un po' di sabbia. «Signor Atto, Cristofano mi ha detto che maneggiare topi in tempo di peste è pericoloso». «Lo so. Ci ho pensato anch'io l'altra notte, dopo che abbiamo trovato quei topi moribondi con lo sbocco di sangue. Evidentemente il nostro Dulcibeni non ha di queste paure». «È isolizia non buonizia, non giustizia, non propizia» ammonì Ugonio con voce grave. «Ho capito bestiaccia, tra poco ce ne andremo. Invece di lamentarti, potresti almeno dirci dove ci troviamo, visto che ci siamo arrivati grazie a te». «È vero» dissi anch'io a Ugonio «se al bivio tu avessi scelto di prendere l'altro ramo del fiume, non avremmo scoperto l'isola di Dulcibeni». «Non è operizia di delizia, perquantodovec'è la mestizia dell'isolizia, esercitata sull'altare con gran perizia». «To', stasera gli vengono tutte in izia» sussurrò tra sé e sé l'abate Melani, levando gli occhi al cielo come per estremo Imprimatur - Monaldi & Sorti
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sconforto. Tacque un istante e poi sbottò: «Allora qualcuno mi dica che cosa diavolo è quest'isolizia piripiripizia!» urlò facendo rimbombare tutta la grande grotta che ci conteneva. L'eco si calmò. Senza aprir bocca, Ugonio m'invitò a seguirlo. M'indicò il retro del grosso blocco lapideo che fungeva da base a uno dei tavoli, e annuì con la testa lanciando un grugnito di soddisfazione, come per rispondere alla sfida dell'abate Melani. Atto ci raggiunse. Sulla pietra era visibile un altorilievo, in cui si distinguevano figure di uomini e animali. Melani si fece ancor più vicino, e si mise a esplorare impazientemente con i polpastrelli la superficie intagliata, come per trovare conferma a ciò che scoprivano i suoi occhi. «Straordinario. È un mitreo» sussurrò. «Guarda, guarda qui. Un caso da manuale, c'è tutto: il taurobolio, lo scorpione...». Ci trovavamo là dove, molto tempo prima, sorgeva un tempio sotterraneo in cui gli antichi Romani adoravano il dio Mitra. Era una divinità proveniente dall'Oriente, spiegò Atto, che a Roma era giunta a gareggiare in popolarità con Apollo, poiché entrambi rappresentavano il Sole. Che si trattasse di un antico mitreo era cosa certa: l'immagine scolpita su una delle due pietre mostrava il dio che uccide un toro, al quale uno scorpione attanaglia i testicoli, tipica raffigurazione di Mitra. In più, l'ubicazione sotterranea, ammesso che fosse stata tale anche all'origine, era favorita dagli adoratori di Mitra. «Abbiamo trovato solo le due grandi pietre su cui Dulcibeni s'appoggia per le sue pratiche» concluse l'abate Melani «forse perché il resto del tempio è stato sepolto dal lago». «E com'è potuto succedere?» «Con tutti questi fiumi sotterranei, ogni tanto la terra di qui sotto si risistema. Lo hai visto anche tu: nei sotterranei non ci sono solo cunicoli, ma anche grotte, caverne, grandi cavità, interi palazzi romani inglobati dalle costruzioni dei secoli recenti. L'acqua dei fiumi e delle cloache scava alla cieca, e ogni tanto crolla una grotta, un'altra si riempie d'acqua, e così via. È la natura dell'Urte subterranea». 496/703
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Ripensai istintivamente alla crepa che s'era aperta nei muri delle scale della locanda, pochi giorni prima, dopo che si era udito un boato sotterraneo. Ugonio dava nuovamente segni d'impazienza. Decidemmo di rimettere in acqua la barchetta e di tentare il rientro. Atto non vedeva l'ora di raggiungere Ciacconio per apprendere l'esito della sua intrusione in casa di Tiracorda. Varammo nuovamente il nostro umile natante (che per fortuna non aveva riportato falle né danni di rilievo) e ci apprestammo a percorrere a ritroso lo stretto canale che ci aveva portati al mitreo sotterraneo. Ugonio sembrava di pessimo umore. Improvvisamente, proprio mentre stavamo per prendere il largo, saltò giù dalla barca e, sollevando una raffica di schizzi con il suo rapido trotterellio, ritornò sull'isola. «Ugonio!» lo richiamai stupefatto. «Tranquillo, ci vorrà un attimo» disse Atto Melani, che doveva aver già intuito la mossa del corpisantaro. Dopo pochi istanti, infatti, Ugonio tornò verso di noi e saltò agilmente sulla barca. Sembrava sollevato. Stavo quasi per chiedergli cosa diavolo lo avesse riportato indietro, quando improvvisamente capii. «Isolizia non giustizia» borbottò Ugonio tra sé e sé. Aveva liberato dalla gabbia l'ultimo topo.
Il ritorno attraverso il soffocante canale che faceva da affluente al lago avvenne in modo forse meno drammatico, ma altrettanto faticoso dell'andata. L'andatura era ora resa più lenta e penosa dalla stanchezza e dalla corrente contraria, seppure debole. Nessuno parlava; a poppa Atto e Ugonio spingevano con i bastoni, mentre io a prua facevo da contrappeso e reggevo la lanterna. Ebbi voglia, dopo un po', di spezzare quel pesante silenzio, Imprimatur - Monaldi & Sorti
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intervallato solo dal viscido risciacquio del canale. «Signor Atto, a proposito dei sommovimenti provocati dai fiumi sotterranei, mi è capitata una cosa bizzarra». Gli raccontai che la gazzetta astrologica che avevamo trafugato a Stilone Priàso aveva previsto, per il mese di settembre, fenomeni naturali come terremoti e simili. Puntualmente, alcuni giorni prima, nella locanda si era udito una sorta di cupo e minaccioso rimescolamento delle viscere terrestri, e una crepa s'era aperta nel muro delle scale. Si trattava solo di un vaticinio fortunoso? O piuttosto l'autore della gazzetta astrologica sapeva che nel mese di settembre si sarebbero con più facilità verificati fenomeni di quella natura? «Posso solo dirti che non credo a tali scemenze» disse l'abate Melani con un risolino sprezzante «altrimenti sarei già corso da un astrologo a farmi dire presente, passato e futuro. Non credo proprio che il fatto che io sia nato il 31 marzo possa...». «Aries» borbottò Ugonio. Atto e io ci guardammo. «Ah già. Dimenticavo che tu sei, insomma, tu t'intendi...» disse Atto cercando di trattenere una risata. Ma il corpisantaro non si fece intimidire. Secondo il grande astrologo Arcandam, vaticinò imperturbabile Ugonio, il nato d'Aries, di natura calda e secca, sarà dominato dalla collera. Sarà di pelo rosso o biondo e avrà quasi sempre segni sulle spalle o sul piede sinistro, abbondanza di peli, la barba forte, gli occhi ben colorati, i denti bianchi, le mascelle ben composte, bel naso, grandi palpebre. Sarà scrutatore e inquisitore di parole e fatti altrui e d'ogni segreto. Sarà di spirito studioso, elevato, variabile e vigoroso. Avrà molti amici, fuggirà il male. Sarà poco incline alle malattie, a parte le gravi vessazioni che subirà dal mal di testa. Sarà eloquente, solitario nel modo di vivere, prodigo nelle cose necessarie: mediterà cose fraudolente, e farà spesso imprese di minacce. Avrà buona fortuna in ogni specie di guerre come anche nella negoziazione d'ogni cosa. 498/703
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Nella prima giovinezza sarà ben contenzioso e iracondo. Soffrirà un'ira interiore che mostrerà a malapena. Sarà bugiardo, falso e sotto dolci parole celerà dissimulazione e menzogna, dicendo una cosa e facendone un'altra, promettendo meravigliosamente e non mantenendo le promesse. Vivrà una parte della sua età in autorità. Sarà avaro e perciò avrà cura d'acquistare e vendere. Sarà invidioso e perciò facile a corrucciarsi, ma ancor più sarà invidiato dagli altri, per cui avrà molti nemici e insidiatori. Quanto alla sfortuna, potrà venir afflitto da diverse calamità, tanto che non avrà una sola comodità senza incomodità e periglio de' suoi beni. Possederà un'eredità mutevole, ossia perderà subito ciò che avrà acquisito e subito recupererà quanto aveva disperso. Ma molte dovizie gli verranno regalate. Farà molti viaggi e lascerà il suo paese e i genitori. Dai ventitré anni approderà a cose migliori e maneggerà denaro. Diverrà ricco a quarant'anni e perverrà a gran dignità. Menerà a perfezione ciò che vorrà fare; i suoi uffici saranno graditi. Non sposerà la donna che gli verrà destinata all'inizio, ma un'altra che amerà e dalla quale avrà figli nobili. Converserà con gente di Chiesa. In generale, se nascerà nelle ore del giorno sarà fortunato e in grande stima dei Principi e dei Signori. Vivrà fino a ottantasette anni e tre mesi. Invece di prenderci gioco di Ugonio, Atto e io avevamo ascoltato tutto in religioso silenzio fino alla fine. L'abate Melani aveva perfino smesso di vogare, mentre il corpisantaro aveva mantenuto umilmente il ritmo. «Be', vediamo» rifletté Atto. «Ricco, è vero. Abile nei negoziati, è vero. Di pelo chiaro, almeno finché non mi s'è imbiancato, è vero. Gran viaggiatore, scrutatore di parole e fatti altrui: ma certo. Barba forte, begli occhi, denti bianchi, mascelle ben composte, bel naso: ci siamo. Eloquente, spirito studioso, elevato, variabile e vigoroso: Dio mi perdoni l'immodestia ma non è sbagliato, anzi. Poi? Ah sì: la stima dei Principi, la frequentazione di prelati, e il mal di testa. Non so da dove il nostro UgoImprimatur - Monaldi & Sorti
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nio abbia pescato tutta questa conoscenza del segno d'Ariete, ma di certo non è del tutto campata in aria». Evitai di chiedere ad Atto Melani se si riconoscesse anche nell'avarizia, l'iracondia, la fraudolenza, l'invidia, il ricorso alla menzogna e alla minaccia di cui parlava il ritratto astrologico. E omisi di chiedere a Ugonio perché, tra i molti difetti dei nati sotto Aries, non avesse incluso anche la vanità. Mi guardai bene anche dal fare cenno al vaticinio di nozze e prole, ovviamente precluse all'abate. «Sai veramente molte cose di astrologia» mi complimentai invece col corpisantaro, memore del suo eloquente excursus nell'astrologia medica di qualche notte prima. «Leggicchiato, auscultato, verbizzato». «Sappi, ragazzo» s'intromise l'abate Melani «che in questa santa città ogni casa, ogni muro, ogni singola pietra è imbevuta di magia, di superstizione, di oscura sapienza ermetica. Le nostre due bestiole devono aver letto qualche manuale di consultazioni astrologiche; se ne trovano dovunque, purché nessuno lo dica ad alta voce. Lo scandalo è solo teatro per gl'ingenui: ricorda la storia dell'abate Morandi». Fu in quel mentre che il rumore dell'acqua corrente ci distolse dalla conversazione: eravamo tornati alla confluenza con il canale principale. «Ora converrà mettere mano ai remi» disse Atto mentre il nostro scafo si affidava alle acque ben più rapide e decise del fiumicello sotterraneo. Trascorse solo un attimo prima che tutti e tre ci guardassimo l'un l'altro, privi di favella: «I remi» dissi io «credo che li abbiamo persi quando sono apparsi i tre della Compagnia della Morte». Vidi Atto fissare Ugonio con astio, come se pretendesse una spiegazione. «Aries anche distrattibile» si difese Ugonio cercando d'imputare all'abate la perdita dei remi. 500/703
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La barchetta, preda inerme della corrente, cominciò ad accelerare con spietata regolarità. Inutile fu ogni tentativo di frenare la nostra corsa facendo leva con i bastoni contro il fondo del fiume. Per un breve tratto procedemmo sul fiumiciattolo; ben presto però un affluente si riversò da sinistra, provocando un'onda che ci costrinse ad aggrapparci con forza al nostro povero legno per non essere sbalzati fuori. Lo scroscio delle acque s'era ora fatto più forte e invadente; le pareti del canale non offrivano alcun appiglio. Nessuno osava aprire bocca. Ugonio cercò di usare la corda che aveva portato con sé per agganciare qualche sporgenza delle pareti, ma le pietre e i mattoni che le componevano erano del tutto lisci. D'un tratto ricordai che il corpisantaro, durante il viaggio di andata, aveva seppur enigmaticamente spiegato il motivo per il quale, una volta giunti al bivio per il lago, non aveva voluto procedere nel canale principale. «Hai detto che questo fiume "sfiutizza"?» gli chiesi. Annuì col capo: «Sfiatizza con pessimizia fiutanza». All'improvviso ci trovammo nel mezzo d'una sorta di quadrivio acquatico: da sinistra e da destra due affluenti uguali e contrari si riversarono con ancora maggior fragore nel nostro fiume. Qui fu l'inizio della fine. La barchetta, quasi ubriacata da quell'accavallarsi d'idriche confluenze, cominciò a roteare su se stessa, prima lentamente e poi vorticosamente. Eravamo abbarbicati non più solo allo scafo, ma anche l'uno all'altro. La rotazione ci fece presto perdere l'orientamento, tanto che per un attimo ebbi l'assurda sensazione di risalire il fiume controcorrente, verso la salvezza. Intanto un crepitio assordante si faceva sempre più vicino. Unico punto di riferimento era la nostra lampada, che con immane fatica Atto continuava a tenere immobile a mezz'altezza, come se da essa dipendesse il destino del mondo; attorno a quel punto luminoso tutto ruotava pazzamente. Pareva quasi Imprimatur - Monaldi & Sorti
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di volare, pensai, ebbro di paura e di vertigine. Venni accontentato. Sotto lo scafo l'acqua si dileguò, e sentii scrosciare i flutti sotto di noi, come se una forza magnetica ci avesse sollevati e stesse per deporci pietosamente su qualche rena salvifica. Per un brevissimo e folle istante mi tornarono alla mente le parole di padre Robleda sul Magnetismo Universale di Kircher, che promana da Dio e tutte le cose tiene insieme. Ma subito una forza cieca e colossale si schiantò contro il fondo della barca, disarcionandoci all'istante, e tutto si fece buio. Mi ritrovai in acqua, inviluppato da mulinelli gelidi e maligni, lambito da schiume sozze e infami, urlando di terrore e disperazione. Eravamo saltati da una cascata, piombando in un altro fiume ancor più fetido e disgustoso. Nell'impatto con l'acqua la barca si era rovesciata, e la lampada era andata persa. Solo a tratti riuscivo con i piedi a toccare il fondo, forse perché vi giaceva qua e là qualche grande masso. Se così non fosse stato, di certo sarei annegato. Il puzzo era irrespirabile, e riuscivo a fare forza nei polmoni solo ansimando di fatica e di paura. «Siete vivi?» urlò Atto nel buio, mentre il fragore della cascata ci martoriava le orecchie. «Io ci sono» risposi col fiato corto, annaspando per tenermi a galla. Un corpo contundente mi menò un fendente al petto, lasciandomi senza fiato. «Attaccatevi, attaccatevi alla barca, è qui in mezzo a noi» disse Atto. Per miracolo riuscii ad afferrare il bordo del natante, mentre la corrente tornava a risucchiarci. «Ugonio» strillò ancora Atto con tutto il fiato che aveva «Ugonio, dove sei?» Eravamo rimasti in due. Ormai certi di procedere verso la morte ci lasciammo trascinare dal povero relitto, galleggiando 502/703
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in mezzo a liquami e altre indescrivibili fecalità. «Sfiutizza... ora ho capito» disse Atto. «Capito cosa?» «Questo non è un canale qualunque. È la Cloaca Maxima, la più grande fogna di Roma, costruita dagli antichi Romani». La velocità aumentò ancora, e dall'acustica intuimmo di trovarci in un condotto ampio ma dalla volta assai bassa, forse appena sufficiente per lasciar passare lo scafo capovolto della barchetta. Ora il fragore delle acque era diminuito, grazie alla lontananza della cascata. Improvvisamente però la barca si arrestò. La volta era ormai troppo bassa, e aveva fatto comicamente arenare il nostro barchino in posizione capovolta. Riuscii a stento a restare attaccato al bordo; alzai un braccio e sentii, con orrore, quanto vicina e opprimente fosse la superficie della volta. L'aria era densissima e puteolenta, respirare quasi impossibile. «Che facciamo?» ansimai, cercando disperatamente di mantenere le labbra sopra il pelo dell'acqua. «Tornare indietro non possiamo. Lasciamoci andare con la corrente». «Ma io non so nuotare». «Io neppure. Ma l'acqua è densa, devi solo stare a galla. Mettiti sulla schiena e tieni il capo eretto» disse sputacchiando per pulirsi le labbra «e datti qualche colpetto con le braccia di tanto in tanto, ma senza agitarti, sennò andrai a fondo». «E poi?» «Da qualche parte usciremo». «E se prima la volta si chiude del tutto?» Non rispose. Ormai allo stremo delle forze, ci lasciammo trascinare dai flutti (se così si poteva chiamare quel brago disgustoso), finché non si verificò la mia profezia. Il flusso che ci conduceva accelerò nuovamente, come se ci trovassimo in pendenza; l'aria era così rarefatta che alternavo lunghe apnee a inspirazioni conciImprimatur - Monaldi & Sorti
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tate e improvvise; i gas malsani così inalati mi provocavano spasmi alla testa e un violento capogiro. Pareva che un gorgo remoto e poderoso stesse per inghiottirci. Improvvisamente urtai con la sommità del capo contro il tetto della galleria. La velocità aumentava ancora. Era la fine. Stavo per vomitare. Mi trattenni, tuttavia, come se stesse per giungere la liberazione e, con essa, la pace. Strozzata ma vicinissima, udii per un'ultima volta la voce di Atto. «Ahi, dunqu'è pur vero» sussurrò tra sé e sé.
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Giornata nona. 19 settembre 1683
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uarda, guarda qui. Quest'altro è giovane». Mani e occhi di angeli misericordiosi stavano prendendosi cura di me. Ero giunto al termine del lungo viaggio. Io però non c'ero più: il mio corpo doveva essere altrove, mentre io godevo il calore benefico che dal Cielo s'irraggia su tutte le anime buone. Attesi che mi venisse mostrata la via. Trascorse qualche attimo senza tempo, finché le mani di uno degli angeli mi tastarono dolcemente. Mormorii lievi e indistinti mi stavano poco a poco destando. Potei infine cogliere una stilla di quel dolce colloquio celeste: «Esamina meglio l'altro». Dopo fuggevoli ma forse eterni istanti, capii che gli alati messaggeri celesti mi avevano temporaneamente lasciato. Forse per il momento non avevo più bisogno della loro caritatevole assistenza. Mi schiusi allora alla divina luce che il Cielo benigno stendeva sopra e attorno a me, e ad altre povere anime vaganti. Contro ogni aspettativa, avevo ancora occhi per vedere, orecchie per udire e carne per godere dell'aurora santa e tiepida che mi pervadeva tutto. Sollevai dunque le palpebre, e mi si parò di fronte il simbolo divino di Nostro Signore, usato secoli or sono dai primi cristiani: un magnifico pesce argenteo, che mi osservava misericordioso. Finalmente levai lo sguardo verso il bagliore, ma subito dovetti portarmi una mano al volto. Era giorno ed ero sotto al sole, disteso su una spiaggia. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Non tardai a capire d'essere vivo, sebbene assai male in arnese. Cercai invano con lo sguardo i due angeli (o qualsiasi cosa fossero) che si erano affaccendati attorno a me. La testa mi doleva terribilmente, e i miei ocelli non tolleravano la luce diurna. D'improvviso m'accorsi di poter a mala pena reggermi in piedi. Le ginocchia mi tremavano, e il fango su cui procedevo rischiava di farmi slittare pericolosamente. Stringendo le palpebre, mi diedi ugualmente un'occhiata intorno. Mi trovavo senza dubbio sulle rive del Tevere. Era l'alba, e alcune barchette di pescatori solcavano placidamente le acque del fiume. Sull'altra sponda stavano le rovine dell'antico Ponte Rotto. A destra, la sagoma indolente dell'isola Tiberina, coronata dai due rami del fiume che da millenni la carezzano soavi. A sinistra, il colle di Santa Sabina si stagliava contro il quieto cielo dell'alba. Ora sapevo dove mi trovavo: poco più a destra stava lo sbocco della Cloaca Maxima, che aveva vomitato Atto e me nel fiume. Per fortuna la corrente non ci aveva trascinato a valle. Serbavo il ricordo confuso di essere uscito dalle acque e di essermi gettato affranto sulla nuda terra. Era un miracolo essere vivi; se tutto ciò fosse accaduto in inverno, pensai, avrei di certo reso l'anima al Signore. A confortarmi c'era invece il sole settembrino, novellamente affacciatosi sul cielo limpido; ma non appena la mente mi si rischiarò m'accorsi di essere tutto lercio e rattrappito, e un brivido inarrestabile cominciava a scuotermi dalla testa ai piedi. «Lasciami fellone, lasciami! Al soccorso!» La voce proveniva da tergo. Mi voltai e trovai la strada ostruita da un'alta siepe selvatica. La superai di scatto e trovai l'abate Melani riverso in terra, anch'egli tutto ricoperto di fango, ormai non più in grado di gridare: stava dando violentemente di stomaco. Due uomini, anzi due loschi figuri erano chini su di lui, ma non appena mi avvicinai si ritrassero e si diedero alla fuga, scomparendo dietro la lieve altura che dominava la spiaggia. Dalle barche che navigavano nelle vicinanze nessun pescatore sembrò aver visto la scena. 506/703
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Scosso da tremende convulsioni, Atto stava vomitando l'acqua ingerita durante il nostro disastroso naufragio. Gli tenni il capo, sperando che il liquido espulso non lo soffocasse. Dopo un po' fu nuovamente in grado di parlare e di respirare normalmente. «I due bastardi...». «Non vi sforzate, signor Atto». «... ladri. Li prenderò». Non avevo, né ebbi mai il coraggio di confessare ad Atto che in quei due ladri avevo visto gli angeli benedetti del mio risveglio. Invece di prendersi cura di noi, ci avevano accuratamente ispezionati per derubarci. Il pesce argenteo che avevo trovato al mio fianco non era un'epifania sacra, ma solo lo scarto di qualche pescivendolo. «Tanto non hanno trovato nulla» riprese Atto tra uno sputacchio e l'altro. «Quel poco che avevo con me l'ho perso nella Cloaca Maxima». «Come vi sentite?» «E come vuoi che mi senta, in queste condizioni, alla mia età?» disse aprendosi il giustacuore e la camicia tutti inzaccherati. «Fosse per me, me ne starei qui al sole finché mi passa il freddo. Ma non possiamo». Ebbi un sussulto. Tra poco Cristofano avrebbe cominciato il giro mattutino delle stanze. Tra gli sguardi incuriositi di un drappello di pescatori che si apprestavano a sbarcare nei pressi, ci allontanammo. Percorremmo una viuzza parallela al greto del fiume, lasciandoci sulla destra Monte Savello. Luridi e disperati com'eravamo, i pochi passanti ci guardavano allibiti. Io avevo perso le scarpe e camminavo zoppicando e tossendo senza freno; Atto pareva di trent'anni più vecchio, e i vestiti gli stavano indosso come se li avesse rubati da un sepolcro. Imprecava a mezza voce per i reumatismi e i dolori muscolari che gli avevano provocato le tremende sfacchinate notturne e l'umidità. Stavamo Imprimatur - Monaldi & Sorti
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per dirigerci verso Portico d'Ottavia, quando sterzò bruscamente. «Qui ho troppi conoscenti, cambiamo strada». Passammo allora per piazza Montanara, poi per piazza Campitelli. La gente aumentava. Nel dedalo delle stradine anguste e tortuose, umide e buie, quasi prive di selci, riassaporavo ahimé l'avvicendarsi di fango e polvere, le puzze, il vociare di sempre. Porci grandi e piccioli smusavano nella mondezza ammonticchiata attorno a fumosi paioli di pasta e larghe padelle di pesce già sfrigolante in quella presta ora, in barba ai bandi e agli editti di pubblica sanità. Udii Atto borbottare qualcosa con disgusto e stizza, mentre il frastuono improvviso delle ruote d'un carro copriva le sue parole. Tornata la quiete l'abate Melani riprese: «È mai possibile che, come i maiali, dobbiamo cercare la pace nel letame, la serenità nell'immondizia, il riposo nel bordello delle strade dissestate? A che serve vivere in una città come Roma se ci dobbiamo muovere come bestie e non come uomini? Ti supplico, Santo Padre, toglici dallo sterco!». Lo guardai interrogativamente. «Lo disse Lorenzo Pizzati da Pontremoli» rispose. «Un parassita alla Corte di papa Rospigliosi; ma quanto aveva ragione: fu lui a scrivere questa supplica senza peli sulla lingua a Clemente IX, una ventina d'anni fa». «Ma allora Roma è stata sempre così» esclamai sorpreso, essendomi immaginato in tutt'altra e fabulosa cornice l'Urbe del passato. «Come già t'ho detto, all'epoca ero a Roma: be', t'assicuro che sin da allora le strade venivano riparate (male) quasi ogni giorno. E, se ci metti anche fogne e tubi, per le vie si affogava nei cantieri. Per salvarsi dalla guazza di acque piovane e rifiuti, già allora occorreva girare con gli stivali persino ad agosto. Aveva ragione Pizzati: Roma è diventata una Babele dove si vive in continuo frastuono. Non è più una città: è una stalla» scandì 508/703
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l'abate calcando sull'ultima parola. «E papa Rospigliosi non faceva nulla per migliorare le cose?» «Tutt'altro, ragazzo mio. Ma sai anche tu che teste di capra siano i Romani. Ci si provò, per esempio, a progettare un sistema pubblico di raccolta dei rifiuti; si comandò ai cittadini di pulire la strada davanti all'uscio, specie d'estate. Tutto invano». Improvvisamente l'abate mi strattonò violentemente ed entrambi ci appiattimmo sull'angusto marciapiede: scampai così d'una sola spanna allo sfrecciare d'una enorme e lussuosa carrozza. L'umore dell'abate si fece ancor più nero. «Carlo Borromeo diceva che a Roma, per avere successo, occorrono due cose: amare Dio e possedere una carrozza» sentenziò acre Melani. «Lo sai che in questa città ce ne sono più di mille?» «Allora, è forse dovuto a loro il rombo lontano che odo anche quando per la via non passa nessuno» dissi sconcertato. «Ma dove vanno tutte queste carrozze?» «Oh, da nessuna parte. Semplicemente nobili, ambasciatori, medici, famosi avvocati e Cardinali romani si spostano esclusivamente in carrozza, anche per tragitti brevissimi. E non è tutto: passeggiano solo in carrozza e anzi, spesso, con più carrozze insieme». «Hanno famiglie tanto numerose?» «Ma no» rise Atto. «Si passeggia con un seguito di altre quattro o cinque carrozze per darsi maggior lustro. Ma Cardinali e ambasciatori in visita ufficiale possono arrivare anche a trecento. Con gl'inevitabili ingorghi e i quotidiani nembi di polvere». «Ora mi spiego la rissa per un parcheggio» gli feci eco «a cui ho assistito tempo fa, sulla piazza in Posterula: erano gli staffieri di due carrozze nobiliari, e se le davano di santa ragione». A quel punto Atto deviò ancora. «Anche qui potrei essere riconosciuto. C'è un giovane canoImprimatur - Monaldi & Sorti
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nico... Tagliamo verso piazza San Pantaleo». Sfinito com'ero, protestai contro tutti quei giri contorti. «Sta' zitto e non attirare l'attenzione» disse Atto aggiustandosi inaspettatamente la chioma bianca e sfiorita. «Meno male che, in questa animalesca confusione, nessuno bada a noi» sibilò, e con voce quasi inudibile aggiunse: «Odio essere in questo stato». Era saggio, e Atto lo sapeva, attraversare il grande affollamento del mercato di piazza Navona anziché essere avvistati, soli e vagabondi, nel mezzo di piazza Madama o della strada di Parione. «Dobbiamo arrivare a casa di Tiracorda prima possibile» disse Atto «ma senza farci vedere dalle sentinelle del Bargello che montano di guardia di fronte alla locanda». «E poi?» «Cercheremo di entrare nella stalla e d'imboccare i sotterranei». «Ma sarà difficilissimo, potremmo essere individuati da chiunque». «Lo so. Hai un'idea migliore?» Ci apprestammo dunque a gettarci nella calca del mercato di piazza Navona. Enorme fu però il disappunto quando ci trovammo di fronte la piazza semivuota, animata solo da crocchi sparsi, al centro dei quali, dall'alto di un palchetto o di una sedia, oratori barbuti e sudati si sbracciavano arringando e concionando. Niente mercato, niente venditori, niente banchi di frutta e verdura, niente folla. «Maledizione, è domenica» dicemmo Atto e io quasi all'unisono. La domenica non si teneva il mercato: ecco perché c'era poca gente in strada. La quarantena e le troppe avventure ci avevano fatto smarrire il conto dei giorni. Come in tutti i dì festivi, signori della piazza erano preti, predicatori e uomini pii che con sermoni edificanti attraevano, 510/703
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chi con la sottigliezza della logica e chi con stentorea potenza d'eloquio, piccoli drappelli di curiosi, studenti, eruditi, nullafacenti, mendicanti e infine borseggiatori pronti ad approfittare della distrazione degli altri spettatori. Il gaio caos quotidiano del mercato aveva lasciato il posto a un'atmosfera grave e plumbea; le nuvole, quasi cedendo a tale clima, coprirono improvvisamente il sole. Attraversammo la piazza storditi dalla delusione, sentendoci ancor più nudi e indifesi di quanto già non fossimo. Subito ci allontanammo dal centro dello spiazzo e ci accostammo al lato destro, lungo il quale strisciammo in punta di piedi sperando di non farci notare. Ebbi un sussulto quando un bimbetto, staccatosi da un capannello poco distante, ci indicò all'adulto che lo accompagnava. Quest'ultimo ci fissò brevemente, per poi distogliere fortunatamente l'attenzione dalla nostra furtiva e misera presenza. «Ci noteranno, maledizione. Cerchiamo di confonderci nella massa» disse Atto indicandomi un crocchio poco distante. Ci mescolammo così a un piccolo ma fitto assembramento, raccolto attorno a un invisibile punto centrale. Ci trovavamo proprio a due passi dalla grande fontana dei quattro fiumi fatta dal cavalier Bernini nel centro della piazza; le quattro titaniche statue antropomorfe delle divinità acquatiche, quasi ammonitrici nella loro marmorea possanza, parevano partecipare all'atmosfera sacrale della piazza. Da dentro la fontana un leone di pietra mi scrutava, feroce ma impotente. Sopra al monumento svettava invece un obelisco tutto istoriato di geroglifici e sovrastato da una piccola piramide dorata, quasi naturalmente proiettato verso l'Altissimo. Non era proprio quello l'obelisco decifrato da Kircher, come qualcuno mi aveva detto nei giorni innanzi? Ma fui distratto dalla folla, che s'assiepò ulteriormente per meglio ascoltare il sermone che sentivo provenire da qualche passo più avanti. Nella selva di teste, schiene e spalle potei scorgere solo per brevi attimi il predicatore. Il cappello lo rivelava per un frate Imprimatur - Monaldi & Sorti
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gesuita; era un ometto tondetto e paonazzo, la fronte sovrastata da un tricorno troppo grande per il suo capo, e intratteneva con eloquio torrenziale il piccolo ma folto gruppo di spettatori. «... E qual è la vita devota?» lo sentii declamare. «E io vi dico: parlar poco, piangere molto, essere motteggiato ora da questo ora da quello; tollerare povertà nel vivere, infermità nel corpo, insulti nell'onore, aggravi negl'interessi. E può una tal vita non essere infelicissima? E io vi dico: sì!» La folla venne percorsa da un brusio d'incredulità e di scetticismo. «Lo so!» proseguì con veemenza il predicatore. «Le persone di spirito sono abituate a questi mali, e anzi li vogliono patire spontaneamente. E se non li trovano sulla loro strada, ne vanno a caccia!» Un altro mormorio inquieto percorse la folla. «Come Simeone cirenaico, che si finse matto per poter essere sbeffeggiato dal popolo. Come Bernardo di Chiaravalle, ch'era di mala salute e si rifugiava sempre negli eremi più gelidi e crudeli! Avrebbero ben potuto farne a meno! E per questo li giudicate solo dei miserabili? No, no, state a sentire con me cosa disse il gran prelato Salviano...». L'abate Melani richiamò la mia attenzione con uno strattone: «Il campo mi pare sgombro, andiamo». Ci dirigemmo verso l'uscita di piazza Navona più vicina al Donzello, sperando che quegli ultimi passi non ci serbassero qualche cattiva sorpresa. «Il gran prelato Salviano dica quello che vuole, io non vedo l'ora di cambiarmi» sbuffò Atto, ormai allo stremo. Senza aver il coraggio di voltarmi, ebbi la spiacevole impressione che qualcuno ci stesse seguendo. Stavamo quasi per uscire indenni dalla pericolosa traversata, quando avvenne l'imprevedibile. Atto procedeva proprio di fronte a me, accosto al muro di un palazzo, quando da un portoncino vidi un paio di mani robuste e decise uscire fulminee, ghermirlo e trascinarlo a forza nel portoncino. Per la terribile 512/703
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visione, e per la stanchezza che mi pervadeva, sentii quasi mancarmi i sensi. Rimasi impietrito, indeciso se scappare o chiedere aiuto, correndo in entrambi i casi il rischio tremendo di essere identificato e arrestato. A trarmi d'impaccio arrivò alle mie spalle, celestiale come non avrei mai creduto potesse suonare, una voce familiare: «Prestìzzati anche tu nel nascondame». Per quanto grande fosse il disprezzo che l'abate Melani nutriva nei confronti dei corpisantari, credo che in quell'occasione egli abbia fatto non poca fatica a dissimulare la propria gratitudine per il loro intervento. Non solo infatti Ugonio era miracolosamente sopravvissuto alla Cloaca Maxima, ma dopo essersi ricongiunto a Ciacconio ci aveva rintracciato e - seppure con metodi un po' bruschi - messo al sicuro. Era stato poi Ciacconio a trascinare Atto nel portoncino di piazza Navona, dove Ugonio mi aveva esortato a entrare a mia volta. Una volta varcato il portoncino, e senza che potessimo avere il tempo di fare domande, i corpisantari ci fecero infilare un'altra porticina e scendere per una scaletta ripidissima, che portava a sua volta in un angusto e ancor più tetro corridoietto senza finestre. Ciacconio tirò fuori una lanterna che assurdamente mi parve tenesse, già accesa, sotto il suo lurido pastrano. Il nostro salvatore sembrava bagnato quanto noi, ma trotterellava rapido e baldanzoso come suo solito. «Dove ci portate?» chiese Atto, una volta tanto sorpreso e non più padrone della situazione. «Il piazzame Navonio pericolizza» disse Ugonio «e per esser più padre che paricida, è più salubrico il sottopantheonio». Ricordai che durante una delle esplorazioni del condotto C i corpisantari ci avevano mostrato l'imboccatura di un'uscita che portava nel cortile di un palazzo dietro al Pantheon, in piazza della Rotonda. Ci condussero per un buon quarto d'ora di cantina in cantina, con un susseguirsi ininterrotto di porticine, scalette, fondaci abbandonati, chiocciole in pietra e gallerie. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Ogni tanto Ugonio tirava fuori il suo anello pieno di chiavi, apriva una porta, ci faceva passare e richiudeva l'uscio alle proprie spalle con quattro o cinque mandate. Atto e io, già esausti, camminavamo sospinti dai due corpisantari come due involucri mortali ormai pronti a lasciare la Terra. Giungemmo infine di fronte a una sorta di grosso portale di legno, che s'aprì cigolando su un cortile. La luce del giorno ci ferì nuovamente le pupille. Dal cortile uscimmo in un vicoletto, e da questo in un altro cortile semiabbandonato, al quale si accedeva da un cancello privo di serratura. «Prestizzatevi nel cuniculizio» esortò Ugonio indicandoci una sorta di botola di legno nel terreno. Alzammo l'intavolato, che rivelò un pozzo soffocante e oscuro. Alla sommità del condotto verticale era poggiata orizzontalmente sul terreno una sbarra di ferro, che lasciava pendere una cordaccia alla quale ci avvinghiammo, lasciandoci scivolare verso il basso. Sapevamo già dove ci avrebbe condotto: nel reticolo di sotterranei collegato al Donzello. Mentre lo sportello della botola si richiudeva sopra le nostre teste, vidi i volti incappucciati di Ugonio e Ciacconio sparire nella luce del giorno. Avrei voluto chiedere a Ugonio come avesse fatto a sopravvivere al naufragio nella Cloaca Maxima, e come diavolo ne fosse uscito, ma non c'era tempo. Mentre mi calavo verso il basso, aggrappato alla corda, per un fuggevole attimo mi parve che lo sguardo di Ugonio e il mio s'incrociassero. Inspiegabilmente, fui certo ch'egli sapesse cosa stavo pensando: ero felice che ce l'avesse fatta.
Non appena rientrai in camera mia, mi cambiai precipitosamente e nascosi i vestiti sporchi e infangati. Subito mi recai in camera di Cristofano, pronto a giustificare la mia assenza con un'improbabile visita alla cantina. Troppo sfinito per preoccuparmi, ero rassegnato ad affrontare domande e obiezioni a 514/703
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cui non avrei saputo far fronte in alcun modo. Ma Cristofano dormiva. Forse ancora esausto per la crisi del giorno prima, s'era coricato senza neppure chiudere la porta. Era malamente riverso sul letto, semisvestito. Mi guardai bene dallo svegliarlo. Il sole era basso sull'orizzonte; avevo ancora tempo per qualcosa, prima dell'appuntamento che avevamo fissato con Devizé in camera di Bedfordi: dormire. Contrariamente alle attese, non fu un sonno ristoratore. Il riposo fu importunato da sogni tormentati e convulsi, in cui rivivevo la disgraziata avventura sotterranea: prima l'incontro con la Compagnia della Morte e i terribili momenti passati sotto la barca capovolta; poi gl'inquietanti ritrovamenti sull'isola del mitreo, e infine il lungo incubo della Cloaca Maxima, in cui avevo creduto di conoscere la morte. Ecco perché, quando le nocche di Cristofano rimbombarono sulla mia porta, mi destai quasi più stanco di prima. Anche il medico non sembrava affatto in buona forma. Due pesanti occhiaie bluastre segnavano il suo volto stanco; lo sguardo era acquoso e assente e la sua postura, che conoscevo solida ed eretta, si era fatta leggermente curva. Non mi salutò né mi chiese alcunché, grazie al Cielo, sulla passata notte. Dovetti anzi ricordargli che di lì a poco avremmo dovuto provvedere, come di consueto, a sfamare i pigionanti. Ma prima si doveva pensare all'emergenza. Era tempo infatti di mettere in pratica le teorie di Robleda: la peste di Bedfordi sarebbe stata trattata, questa volta, con le note della chitarra di Devizé. Passai ad avvertire il gesuita che stavamo per seguire le sue indicazioni. Chiamammo Devizé e ci recammo poi nella stanza accanto, al capezzale del povero inglese. Il giovane musico aveva portato con sé uno sgabellino per poter disporsi a suonare nel corridoio, senza dover entrare nella stanza dell'appestato e mettere così a repentaglio la propria salute. La porta sarebbe rimasta aperta, onde far penetraImprimatur - Monaldi & Sorti
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re all'interno i benefici (speravamo) suoni della chitarra. Cristofano invece si sistemò proprio accanto al letto di Bedfordi per osservarne, se ve ne fossero state, le reazioni. Io mi appostai discretamente nel corridoio, a pochi passi dal suonatore. Devizé si mise a sedere sullo sgabellino, cercò la posizione più comoda e accordò brevemente il suo strumento. Si sciolse dapprima le mani con un'allemanda. Poi si cimentò con una corrente, per poi tornare a una severa sarabanda. Si fermò per accordare e chiese notizie dell'ammalato a Cristofano. «Nulla». Il concerto riprese con una gavotta e una giga. «Nulla. Nulla di nulla di nulla. Pare che non senta neppure» riferì scoraggiato e impaziente il medico. Fu allora che Devizé suonò finalmente ciò che speravo e che, sola tra tutte le danze che gli avevo udito eseguire, sembrava capace di rapire l'attenzione e il cuore di tutti i pigionanti della locanda: il superbo rondò che il suo maestro Francesco Corbetta aveva scritto per Maria Teresa, Regina di Francia. Come sospettavo, non ero l'unico ad attendere quelle note dal fascino fatale. Devizé eseguì il rondò una volta, poi un'altra e ancora una terza volta, come a lasciar intendere che anche a lui quelle note erano - per ragioni ignote - dolcissime e dilettissime. Tutti restammo in silenzio, rapiti allo stesso modo. Avevamo ascoltato quella musica tante volte, seppure senza mai averne abbastanza. Ma mentre ascoltavamo il rondò per la quarta, il godimento dei suoni lasciò in me il posto a un evento del tutto inaspettato. Ero cullato dal ciclico ripetersi del ritornello, quando ripensai: cosa aveva detto Devizé, alcuni giorni prima? Le strofe alterne del rondò «contengono sempre nuovi cimenti armonici, che si concludono tutti in modo inatteso, quasi fossero estranei alla buona dottrina musicale. E dopo essere arrivato al suo massimo, il rondò inizia bruscamente la sua fine». E cos'aveva letto l'abate Melani nella lettera di Kircher? Che la peste è anch'essa ciclica, e «ha nelle sue battute finali qual516/703
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cosa di inatteso, di misterioso, estraneo alla dottrina medica: il morbo, dopo essere giunto al suo massimo, senescit ex abrupto, ossia inizia bruscamente la sua fine». Le parole usate da Devizé per descrivere il rondò erano quasi identiche a quelle con cui Kircher aveva parlato della peste... Attesi che la musica arrivasse al termine e feci finalmente la domanda che avrei dovuto porre da tanto, troppo tempo: «Signor Devizé, ha un nome questo rondò?». «Sì, Les Baricades mistérieuses» scandì lentamente. Tacqui. «In italiano si dice... barricate misteriose» aggiunse come per colmare il silenzio. Continuai a tacere, impietrito. Barricate misteriose, les baricades mistérieuses: ma non erano le stesse oscure parole farfugliate il pomeriggio prima nel sonno da Atto Melani? Non feci in tempo a rispondermi: l'animo mio già galoppava imbizzarrito verso altre misteriose barricate, le arcanae obices della lettera di Kircher... I miei pensieri vennero spazzati via. Scaraventato nel mare del sospetto e dell'illusione dall'esasperante ronzio che quelle due parole latine producevano nella mia mente, fui attanagliato dalle vertigini. M'alzai di scatto, diretto in tutta fretta in camera mia, sotto lo sguardo stupito di Cristofano e dello stesso Devizé, che stava riprendendo a suonare lo stesso motivo. Mi chiusi la porta alle spalle, schiacciato dal peso di quella scoperta e di tutte le conseguenze che, come la più rovinosa delle valanghe, essa trascinava con sé. II terribile mistero delle arcanae obices di Kircher, i misteriosi ostacoli che celavano il secretum vitae, proprio di fronte ai miei occhi aveva infine preso forma. Fu necessaria una pausa di riflessione, in totale solitudine, in camera mia. E non perché avessi bisogno di chiarirmi le ideImprimatur - Monaldi & Sorti
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e, quanto piuttosto perché dovevo capire con chi potessi condividerle. Atto e io eravamo sulle tracce delle arcanae obices, ossia le «misteriose barricate» che hanno la suprema facoltà di vincere la peste, menzionate da Kircher nella sua delirante lettera al Sovrintendente Fouquet; poi avevo udito l'abate nominare durante il sonno, nella lingua del suo Paese d'elezione, non meglio identificate baricades mistérieuses. E ora, domandato a Devizé come si chiamasse il rondò che egli stava suonando per curare l'appestato Bedfordi, scoprivo che si chiamava, appunto, Les Baricades mistérieuses. Qualcuno sapeva molto di più di ciò che era disposto ad ammettere.
«Ma tu non capisci proprio nulla!» esclamò l'abate Melani. Lo avevo appena destato da un sonno profondo per ottenere spiegazioni, e subito il fuoco della novità aveva reso incandescenti le sue parole e i suoi gesti. Mi chiese di ripetergli il resoconto parola per parola: Devizé che suonava il rondò per la salute di Bedfordi, e mi confessava con la più totale naturalezza che quella musica aveva per titolo Les Baricades mistérieuses. «Perdonami, ma mi devi lasciare tre minuti per riflettere» disse quasi sopraffatto dalle novità. «Voi però sapete che desidero delle spiegazioni, e che...». «D'accordo, d'accordo, ma ora lasciami pensare». Fui dunque costretto a lasciarlo, e a bussare nuovamente alla sua porta poco più tardi. Dai suoi occhi, tornati vigili e pugnaci, avrei potuto credere che non si fosse mai addormentato. «Proprio ora che siamo vicini alla verità hai deciso di diventare mio nemico» esordì quasi affranto. «Non nemico» mi affrettai a correggerlo. «Però voi dovete capire...». «Ma via» m'interruppe «cerca di ragionare». «Se me lo permettete, signor Atto, questa volta sono in gra518/703
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do di ragionare benissimo. E mi dico: com'è possibile che voi conosciate il titolo di quel rondò, e che questo sia anche la traduzione di arcanae obices?» Mi sentii orgoglioso di mettere con le spalle al muro, anche se brevemente, quell'individuo tanto sagace. Lo scrutai con occhi carichi di sospetto e d'accusa. «Hai finito?» «Sì». «Ebbene» disse infine «ora lasciami dire. Nel sonno mi hai sentito sussurrare "baricades mistérieuses", se ho ben capito». «Esatto». «Bene. Come anche tu sai, questa è più o meno la traduzione di arcanae obices». «Appunto. E vorrei proprio che mi spiegaste una buona volta come facevate voi a sapere...» «Taci, taci. Non capisci? Non è questo il punto». «Ma voi...». «Fidati di me un'ultima volta. Quello che ti sto per dire ti farà cambiare idea». «Signor Atto, io non posso più inseguire questi misteri, e poi...». «Non devi più inseguire nulla. Siamo arrivati. Il segreto delle arcanae obices è tra noi, ed è forse più tuo che mio». «Che intendete?» «Che lo hai visto, o meglio sentito più spesso tu che non io». «Cioè...». «Il secretum vitae che protegge dalla peste è dentro quella musica». Fui io questa volta ad aver bisogno di tempo per abituarmi a quell'idea sconvolgente. Nel meraviglioso rondò che tanto m'aveva affascinato si annidava il centro del mistero di Kircher e Fouquet, del Re Sole e di Maria Teresa. Atto mi lasciò il tempo necessario per trascolorare, preda inerme della sorpresa, e per balbettare indifeso: «Ma io credeImprimatur - Monaldi & Sorti
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vo... non è possibile». «È quanto mi sono detto anch'io in un primo momento, ma se ci pensi bene capirai. Segui il mio ragionamento: non ti ho forse detto che Corbetta, il maestro di Devizé, era esperto proprio nell'arte di criptare messaggi nelle sue musiche?» «Sì, è vero». «Ecco. E Devizé stesso ti ha detto che il rondò delle Baricades mistérieuses è stato composto da Corbetta, e da lui regalato prima di morire a Maria Teresa di Spagna». «Anche questo è vero». «Bene. La dedica del rondò, che tu hai visto con i tuoi occhi, è "à Mademoiselle": la moglie di Lauzun. Lauzun era in prigione con Fouquet. E Fouquet aveva ricevuto il segreto della peste da Kircher. Ora Fouquet, quando era ancora Sovrintendente, deve, in accordo con Kircher, aver incaricato Corbetta di criptare in musica il secretum vitae, ossia le arcanae obices o misteriose barricate che dir si voglia, che salvano dalla peste». «Ma anche Kircher, mi avete detto, sapeva criptare messaggi in musica». «Certo. Infatti non escludo che Kircher abbia consegnato a Fouquet il secretum vitae già criptato in intavolature musicali. Ma probabilmente queste si trovavano ancora a uno stadio piuttosto rozzo. Ricordi cosa ti ha raccontato Devizé? Corbetta ha creato il rondò, rielaborandolo da una melodia precedente. Sono certo che si riferiva a Kircher. Non solo: lo stesso Devizé, suonandolo e risuonandolo sulla sua chitarra, potrebbe averne a sua volta perfezionato l'esecuzione, rendendo ancor più insospettabile che sotto un'armonia sì sublime possa celarsi un messaggio in cifra. Incredibile, no? Stento io stesso a capacitarmene». «Ed è in foggia di rondò che il Sovrintendente deve aver conservato gelosamente il secretum vitae». «Già. Quelle intavolature sono, chissà come, scampate alle sventure abbattutesi sul mio povero amico Nicolas». «Finché a Pinerolo...». 520/703
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«... non lo ha affidato a Lauzun. Sai cosa penso a questo punto? Che è stato proprio Lauzun a vergare la dedica "à Mademoiselle": avrà dato quei fogli di musica a sua moglie per farli arrivare alla regina Maria Teresa». «Ma Devizé mi ha detto ch'erano un dono di Corbetta per la Regina». «Una bella frottola senza importanza. Un modo per imbastirti una storia semplice: la verità è che dopo Corbetta, e prima di venire in possesso di Maria Teresa, quel rondò è passato per le mani di Fouquet, Lauzun e Mademoiselle». «Una cosa non mi torna, signor Atto: non sospettavate che Lauzun fosse stato chiuso a Pinerolo vicino al Sovrintendente per carpirgli il segreto?» «Forse Lauzun ha servito due padroni. Anziché spiare e tradire Fouquet, avrà preferito parlargli chiaro, anche perché lo Scoiattolo era di cervello fino. Così Lauzun lo ha aiutato a trattare la propria libertà col Re in cambio del secretum morbi. Ma, e questo gli fa onore, s'è ben guardato dal rivelare a Sua Maestà Cristianissima che Fouquet possedeva anche il secretum vitae, ossia il rondò. Anzi, lui e Mademoiselle avranno colto l'occasione per vendicarsi del Re e far arrivare il preziosissimo antidoto contro il contagio nelle mani dei nemici di Sua Maestà. A cominciare, e mi duole immensamente dirlo, dalla Regina Sua moglie, Maria Teresa, che Dio l'abbia in gloria». Rimasi cogitabondo, ripercorrendo mentalmente tutti i passaggi che m'aveva prospettato Atto. «In effetti c'è qualcosa di strano in quella musica» osservai riannodando i fili della memoria «è come se... andasse e venisse, sempre uguale e sempre diversa. Non riesco a spiegarlo bene, ma mi fa pensare a quello che Kircher ha scritto sulla peste: il morbo si allontana e torna, si allontana e torna, e infine muore proprio quando giunge al suo massimo. È come se... quella musica ne parlasse». «Ah sì? Ancora meglio, allora. Che in quel rondò ci sia qualcosa di misterioso e indefinibile, in effetti, l'ho pensato anch'io, Imprimatur - Monaldi & Sorti
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udendolo nei giorni scorsi, prima della seclusione». Nella foga del ragionamento avevo del tutto dimenticato il motivo per cui mi ero recato dall'abate Melani: ottenere una spiegazione sulle parole da lui pronunciate nel sonno. Ma Atto ancora una volta non mi lasciò parlare. «Stammi a sentire. Ci restano ancora due problemi insoluti: anzitutto, a chi serve l'antidoto del secretum vitae contro il secretum morbi, e quindi contro Sua Maestà Cristianissima. Secondo: cosa mai stia tramando Dulcibeni. Che viaggiava con Devizé e Fouquet, prima che il mio povero amico» e qui la voce di Atto si piegò ancora una volta sotto il peso dell'emozione «venisse a spegnersi nella tua locanda». Stavo per ricordargli che si doveva anche scoprire a chi o cosa fosse dovuta la strana morte di Fouquet, e che fine avessero fatto le mie perline, quando l'abate, sollevandomi paternamente il mento con il palmo della mano, riprese: «Ora ti chiedo: se io avessi saputo a che porta bussare per trovare le arcanae obices menzionate da Kircher, avrei perso tutto questo tempo solo per giovarmi della tua compagnia?». «Be', forse no». «Sicuramente no: avrei puntato a carpire direttamente a Devizé il segreto del suo rondò. Magari ci sarei riuscito senza troppe difficoltà: forse Devizé non sa neppure esattamente cosa si annidi nel rondò delle Baricades mistérieuses. E tanti saluti a Corbetta, Lauzun, Mademoiselle e a tutta questa storia così maledettamente complicata». Proprio in quel mentre le nostre pupille s'incontrarono a mezz'aria. «No, ragazzo. Lo devo dire: mi sei davvero prezioso, ma non ho mai inteso ingannarti per avere i tuoi servigi. Ora però l'abate Melani ti deve chiedere un ultimo sacrificio. Mi obbedirai ancora?» La risposta mi venne risparmiata dall'eco di un urlo: non ebbi difficoltà a riconoscere la voce di Cristofano. Lasciai l'abate Melani e corsi immediatamente verso la stan522/703
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za di Bedfordi. «Trionfo! Meraviglia! Vittoria!» andava ripetendo il medico ansimante, il volto paonazzo per l'emozione, la mano sul cuore, la schiena al muro per non cadere. Il giovane inglese, Eduardus Bedfordi, giaceva a sedere sulla sponda del suo letto e tossiva rumorosamente. «Potrei avere un bicchiere d'acqua?» chiese con voce roca, come si fosse risvegliato da un lungo sonno.
Un quarto d'ora più tardi tutta la locanda s'accalcava attorno all'attonito Devizé, dinanzi all'uscio di Bedfordi. Giubilanti e senza fiato per la lieta sorpresa, i pigionanti del Donzello erano confluiti, come vispo ruscelletto, sul corridoio del primo piano, e ora si rimpallavano l'un l'altro esclamazioni di stupore e domande di cui neanche s'aspettavano la risposta. Non osavano ancora avvicinare Cristofano e l'inglese redivivo: il medico, infatti, riacquistato il controllo, stava meticolosamente visitando il paziente. Il responso arrivò presto: «Sta bene. Sta benissimo, accidenti. Direi che non è mai stato meglio» sentenziò Cristofano lasciandosi poi andare a una risata liberatoria che contagiò gli altri. Bedfordi, al contrario del signor Pellegrino mio padrone, era subito tornato perfettamente in sé. Chiese cosa fosse accaduto, e perché si trovasse ora tutto fasciato a quello strano modo e con un gran dolore per tutte le membra: il taglio dei bubboni e i buchi per i salassi avevano fatto scempio del suo giovane corpo. Non ricordava nulla. E a ogni quesito che gli veniva posto, da Brenozzi in testa, reagiva smarrito, sgranando gli occhi e scuotendo stancamente il capo. A ben guardare, m'accorsi che non tutti erano del medesimo umore. Al gaudio di padre Robleda, Brenozzi, Stilone Priàso e Imprimatur - Monaldi & Sorti
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della mia Cloridia (che mi regalò un bel sorriso) facevano da contrappunto il silenzio commosso di Devizé e il cereo pallore di Dulcibeni. Vidi Atto Melani cogitabondo chiedere qualcosa a Cristofano. Poi s'allontanò e risalì su per le scale. Fu solo allora che, nel baccano generale, Bedfordi comprese finalmente d'aver avuto la peste e di essere stato dato per spacciato per giorni e giorni. Trascolorò. «Ma allora la visione...» esclamò. «Quale visione?» gli venne chiesto in coro. «Ebbene... credo di essere stato all'Inferno». Raccontò così che, del suo male, ricordava solo d'aver improvvisamente provato una sensazione come di lunghissima caduta verso il basso e il fuoco. E, dopo non sapeva quanto tempo, gli si era parato innanzi nientemeno che Lucifero. Il demonio, dalla pelle verde e con mustacchi e mosca al mento (proprio come quelli di Cristofano, indicò), gli aveva conficcato in gola uno dei suoi rossi artigli, dal quale uscivano lingue di fuoco, e aveva cercato di strappargli l'anima. Non riuscendoci, Lucifero aveva brandito il forcone e lo aveva trafitto più e più volte, quasi dissanguandolo. Poi l'immonda Bestia aveva ghermito il suo povero corpo ormai sfinito e l'aveva gettato nella pece bollente; e qui Bedfordi giurava che gli era parso tutto orrendamente reale e che mai avrebbe creduto si potesse tanto schiattare di dolore. E in quella pece il giovane era restato alquanto tempo, contorcendosi di sofferenza, e aveva chiesto perdono a Dio di tutti i peccati e della sua poca fede, e aveva scongiurato l'Altissimo di strapparlo a quell'Ade infernale. Poi, il buio. Avevamo ascoltato in religioso silenzio; ma ora le voci dei pigionanti facevano a gara a chi più gridava al miracolo. Padre Robleda, che durante il racconto s'era fatto ripetutamente il segno della Croce, si sporse prudentemente dal gruppetto in direzione di Bedfordi e, commosso, segnò l'aria in atto di benedizione. Al che alcuni s'inginocchiarono e si segnarono a loro 524/703
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volta. Solo il medico s'era fatto scuro in viso. Sapeva bene, come lo sapevo io, di dove originasse la visione di Bedfordi: altro non era che il ricordo delirante delle cruente terapie cui Cristofano lo aveva sottoposto, mentre giaceva preda della peste. L'artiglio diabolico che voleva strappargli l'anima altro non erano che i moscardini imperiali, con cui Cristofano gli aveva indotto il vomito; mentre nel cruento forcone di Lucifero avevamo riconosciuto senza difficoltà gli arnesi con cui il medico gli aveva praticato i salassi; e infine la pece bollente, in cui il povero Bedfordi aveva trasfigurato il calderone fumante su cui lo avevamo accomodato per il bagno di vapore. Bedfordi aveva fame, ma al contempo, disse, aveva un gran bruciore di stomaco. Cristofano mi comandò allora di scaldargli un po' del buon brodo di palombelle ch'era avanzato. Lo avrebbe ben nutrito e gli avrebbe pacificato i visceri. In quel mentre, però, l'inglese s'assopì. Risolvemmo allora di lasciarlo riposare, e scendemmo tutti insieme nelle sale del pianterreno. Singolarmente, nessuno si dava pena d'essere uscito senza permesso del medico dalla propria stanza; né Cristofano si sovvenne che avrebbe dovuto redarguirli tutti e costringerli a richiudersi in camera. La peste pareva essersene andata: così la seclusione era finita per tacito accordo, e nessuno la nominò neppure. I pigionanti del Donzello sembravano covare anch'essi una gran fame. Motivo per cui scesi in cantina, deciso a cucinare qualcosa di saporito e ben grasso per festeggiare. Mentre a testa in giù, calato fin quasi ai piedi nelle casse di neve, reperivo festicciole e pediccioli di capretti, animelle, castrato da far in scigotto e pollancotte, una congerie di pensieri s'affollava nella mia mente. Bedfordi era guarito: com'era possibile? Devizé aveva suonato per lui, su consiglio di padre Robleda: allora forse era vera la teoria del gesuita sul magnetismo della musica. Vero anche che l'inglese pareva essersi risvegliato solo dopo Les Baricades mistérieuses... Ma quel rondò non doveva essere una Imprimatur - Monaldi & Sorti
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semplice cifra del secretum vitae? Così almeno aveva ipotizzato l'abate Melani. E ora, invece, quella melodia si rivelava essere forse essa stessa guaritrice... No, non riuscivo veramente a dare alcun ordine a tutta quella vicenda. Dovevo parlarne al più presto con l'abate Melani. Risalendo, udii la voce di Cristofano. In sala, vidi che Atto s'era aggiunto al gruppo. «Che dire?» si chiedeva il medico rivolto alla piccola assemblea. «Sarà stato il magnetismo della musica, come dice padre Robleda, o le mie cure, non lo so. Ma la verità è che non si sa perché la peste scompaia così all'improvviso. Quel che è più mirabile è che Bedfordi non aveva dato alcun cenno di miglioramento. Anzi: agonizzava; e presto sarei stato costretto a comunicarvi che ogni speranza era perduta». Robleda annuì enfaticamente col capo rivolto agli altri, a indicare che lui era già a parte di quei disperati momenti. «Vi posso solo dire» continuò Cristofano «che non è il primo caso. C'è chi spiega tali guarigioni misteriose con la convinzione che la peste non resti nelle masserizie, né nelle case o in altre cose materiali, ma possa sparire misteriosamente dalla sera alla mattina. Ricordo che quando mi trovavo qui a Roma durante la peste del 1656, non trovandosi alcun rimedio, si decise d'indire un grande digiuno e molte processioni con i piedi scalzi, durante le quali si chiedeva perdono dei propri peccati con le facce inondate di lacrime, vestiti di sacco, tutti mesti e addolorati. Iddio allora avrebbe mandato l'angelo Gabriele, che fu veduto da tutto il popolo romano l'8 di maggio sopra il Castello con la spada insanguinata in mano: da quel dì la peste cessò d'un colpo e non restò più contagio in niente, neanche negli abiti o nei letti, che di solito sono veicolo pericolosissimo dell'infezione. E non è tutto. Anche gli storici dell'antichità narrano di tali stranezze. Nell'anno 567, riferiscono, vi fu una peste alpestre e crudelissima in tutto il mondo e non ne ebbe a campare che la quarta parte dell'umanità. Ma d'improvviso la peste cessò, e non restò contagio in alcun oggetto. Nel 1348, inoltre, im526/703
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perversò nel mondo la peste nera per tre anni continui e massime a Milano, dove ne morirono sessantamila, e a Venezia ove fece pure grandissima rovina». «Nella peste del 1468» intervenne Brenozzi a sostegno «a Venezia ne morirono più di trentaseimila, a Brescia più di ventimila, e molte città rimasero addirittura disabitate. Ma anche queste due pesti finirono all'improvviso e non rimasero a covare in nulla. Così i contagi successivi: nel 1485 la peste tornò orrenda a Venezia, e uccise molti nobili e pure il Doge Giovanni Mocenigo; nel 1527 tornò in tutto il mondo, e infine nel 1556 si riaffacciò a Venezia e in tutti i suoi domini, anche se per il buon governo dei senatori fece poco danno. Ma tutti questi contagi, da un certo punto in poi, regredirono spontaneamente e non rimasero in cosa alcuna. Come, come spiegarlo?» concluse con enfasi, accendendosi in volto. «Ebbene, anch'io finora avevo preferito tacere per non spargere il malaugurio» aggiunse Stilone Priàso con accento grave «ma secondo gli astrologi, a causa dell'influenza maligna della stella di Canicola nelle ultime due settimane di agosto e nelle prime tre di settembre, tutti coloro che vengono contagiati dalla peste muoiono nel giro di due o tre giorni, o addirittura entro le ventiquattr'ore. E infatti a Londra, nella peste del 1665, quello fu il periodo peggiore e si disse che in una sola notte, tra l'una e le tre del mattino, morirono più di tremila persone. A noi invece, nello stesso periodo, non è accaduto nulla del genere». Un brivido di paura e di sollievo percorse la piccola assemblea, mentre Robleda s'alzava per venire a curiosare in cucina. Non appena le festicciole, lo scigotto e le pollancotte cominciarono a emanare i primi dolci effluvi, apparecchiai del brodo con sparaci e agresta, tanto per acconciar lo stomaco. «Ricordo quando qui a Roma nel '56» riprese a narrare Cristofano «s'era in piena pestilenza. Ero un giovane medico allora, e un mio collega, venuto a farmi visita, mi disse che la furia del morbo era ormai vicina a placarsi. Ma fu proprio in quella Imprimatur - Monaldi & Sorti
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settimana che i bollettini recarono più morti di tutto l'anno, e io lo feci notare al mio compagno d'arte: gli chiesi da cosa avesse tratto le sue ottimistiche previsioni. Egli mi diede la più sorprendente delle risposte: “A giudicare dal numero di persone che si trovano ammalate in questo momento” disse, “e se il morbo fosse ancora mortale come due settimane or sono, avremmo dovuto avere il triplo di morti. Allora infatti uccideva in due o tre giorni, mentre ora dà invece otto o dieci giorni di tempo. Quindici giorni fa, inoltre, si contava sì e no una guarigione ogni cinque casi, mentre ora su cinque casi contiamo al minimo tre guarigioni. Potete star certo che il bollettino della settimana ventura calerà ancora di parecchio, e le guarigioni aumenteranno sempre più. Il morbo ha perduto il suo carattere maligno, e per quanto la moltitudine degli infetti sia enorme, per quanto l'infezione stessa si estenda, il numero dei morti sarà sempre meno elevato”». «E andò proprio così?» chiese Devizé visibilmente turbato. «In pieno. Il bollettino di due settimane dopo s'era quasi dimezzato. Il numero dei morti, per la verità, era pur sempre grande; ma assai più grande era il numero delle persone che guarivano». Che il suo compagno d'arte non si fosse sbagliato, spiegò Cristofano, era apparso più evidente le settimane successive: un mese dopo il numero dei morti era crollato, per quanto i malati si contassero sempre a decine di migliaia. «Il morbo aveva perduto il suo carattere maligno» ripetè il medico «e non gradualmente, ma proprio nel bel mezzo del suo infuriare, quando più eravamo alla disperazione. Proprio com'è accaduto ora a noi col giovane inglese». «Solo la mano di Dio può interrompere il corso del morbo con tale rapidità» considerò commosso il gesuita. Cristofano annuì gravemente: «La medicina era impotente dinanzi al contagio; la morte mieteva vittime a ogni angolo; e se le cose fossero andate avanti così ancora per due o tre settimane, a Roma non sarebbe rimasta più anima viva». 528/703
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Perduta la sua mortifera potenza, continuò il medico, il morbo uccideva ormai solo una parte minima delle persone infette. I medici stessi se ne stupivano. Vedevano che i pazienti miglioravano; sudavano abbondantemente e avevano i bubboni in via di maturazione, le pustole non più infiammate, la temperatura non più elevata, né più soffrivano di dolori al capo. Anche i medici di meno fervida fede si erano infine trovati costretti ad ammettere che l'improvviso declino della pestilenza era d'origine sovrannaturale. «Le strade si riempirono di persone appena guarite, col collo e la testa fasciati, o zoppicanti per le cicatrici lasciate dai bubboni all'inguine. E tutti esultavano per lo scampato pericolo». Fu allora che Robleda, alzatosi in piedi e tratto fuori un crocefisso dalla veste nera, lo impose sull'uditorio ed esclamò solennemente: «Qual mirabile cambiamento, o Signore! Fino a ieri eravamo sepolti vivi, e Tu ci hai risuscitati!». Ci inginocchiammo ardenti di riconoscenza e, guidati dal gesuita, intonammo una lode all'Altissimo. Dopodiché, servito il pranzo, si posero tutti a mangiare di gran gusto. Io, invece, non potevo distogliere il pensiero dalle parole di Cristofano: la peste possedeva un suo oscuro ciclo naturale, in base al quale, dopo essersi accresciuta, scemava repentinamente perdendo la propria mortalità per poi scomparire del tutto. Misteriosamente se ne andava, così com'era venuta. Morbus crescit sicut mortales, senescit ex abrupto... il morbo cresce come i mortali, e invecchia all'improvviso. Non erano forse le stesse parole che l'abate Melani aveva letto nella delirante lettera di padre Kircher scoperta nei mutandoni di Dulcibeni? Consumato frettolosamente il mio pasto sul tavolaccio della cucina, rintracciai Atto nella sala da pranzo. C'intendemmo con uno sguardo: sarei passato da lui appena possibile. Mi recai così a portare il pranzo a Pellegrino, che si sarebbe Imprimatur - Monaldi & Sorti
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potuto considerare ristabilito se non fosse stato per la persistente stornità di testa. Mi raggiunse il medico, avvertendomi che avrebbe provveduto lui stesso a portare il brodo al giovane inglese. «Signor Cristofano, si potrebbe forse far suonare Devizé anche nella camera del mio padrone, per farlo tornare vispo com'era una volta?» colsi l'occasione di chiedergli. «Non credo servirebbe, ragazzo. Purtroppo le cose non sono andate come pensavo: Pellegrino non tornerà pienamente in sé tanto presto. Ho studiato in questi giorni i suoi miglioramenti: sono certo che non si sia trattato né di petecchie, né tantomeno di peste, come persino tu avrai capito». «Ma allora cos'ha?» sussurrai, sconfortato alla vista dello sguardo stonato e fisso del locandiere. «Sangue nella testa, a causa della caduta dalle scale. Un grumo di sangue, che solo molto, molto lentamente si riassorbirà. Credo che faremo in tempo prima a uscire tutti sani e salvi di qui. Ma non temere: il tuo padrone ha una moglie, no?» E così dicendo se ne andò. Mentre rifocillavo Pellegrino, pensai con una stretta al cuore alla sua disgraziata sorte, quando la sua severa sposa lo avesse trovato in quello stato di svagatezza.
«Ricordi cosa leggemmo?» m'investì Atto appena fui entrato nella sua stanza. «Secondo Kircher il morbo pestilenziale nasce, cresce, invecchia e muore proprio come gli uomini. Quando sta per morire, s'inalbera e raggiunge il massimo per poi spegnersi». «Esattamente quanto ha detto prima Cristofano». «Già. E sai cosa significa?» «Forse che Bedfordi è guarito da solo, e non grazie al rondò?» azzardai. «Mi deludi, ragazzo. Ma non capisci? La peste in questa lo530/703
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canda era appena agli inizi: avrebbe dovuto compiere una strage prima di cominciare a perdere la sua carica mortale. Invece non è andata così. Nessun altro di noi si è ammalato. E sai cosa credo? Da quando Devizé, costretto nel chiuso della sua stanza, ha iniziato a suonare il rondò sempre più spesso, quelle note, diffondendosi nella locanda, ci hanno preservato dal contagio». «Pensate veramente che sia stato grazie a quella musica se non abbiamo avuto altri appestati?» chiesi dubbioso. «È sorprendente, lo so. Ma rifletti: a memoria d'uomo non è mai bastato, di fronte al dilagare pestifero, il semplice rintanarsi da soli in una stanzetta. Quanto poi ai rimedi preservativi di Cristofano... lasciamo perdere» rise l'abate. «E poi i fatti parlano chiaro: il medico è stato a contatto ogni giorno col povero Bedfordi, passando poi a visitare tutti gli altri. Ma né lui né alcuno di noi s'è mai ammalato. Come lo spieghi?» E già, pensai: se io ero immune dal contagio pestifero, non altrettanto poteva dirsi di Cristofano. «Non solo» riprese Atto. «Una volta sottoposto al diretto influsso delle note del rondò, lo stesso Bedfordi, proprio quando stava per rendere l'anima a Dio, si è svegliato e il morbo è letteralmente svanito». «È come se... padre Kircher avesse scoperto un segreto che accelera negli appestati il ciclo naturale del morbo, inducendone l'innocua estinzione. Un segreto capace però anche di proteggere i sani dal contagio!» «Bravo, ci sei arrivato. Il secretum vitae, celato nel rondò, funziona proprio così». Bedfordi, riepilogò Atto accomodandosi sul letto, era pressoché risuscitato dopo che Devizé aveva suonato per lui. L'idea era venuta da padre Robleda, persuaso del magnetismo risanatore della musica. All'inizio però il musico francese aveva suonato a lungo senza che accadesse nulla. «Avrai notato che, dopo la guarigione di Bedfordi, mi sono intrattenuto a parlare col medico: ebbene, mi ha specificato che solo dopo che Devizé aveva attaccato il rondò e l'aveva riImprimatur - Monaldi & Sorti
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petuto all'infinito, l'inglese aveva dato cenni di vita. Mi sono chiesto: cosa mai si cela in queste benedette Baricades mistérieuses?» «Ci avevo riflettuto anch'io signor Atto: quella melodia deve avere misteriosi poteri...». «Esatto. Come se in essa Kircher avesse celato sì un taumaturgico segreto, ma questo fosse un tutt'uno col suo scrigno; tanto da irradiare i suoi potenti e benefici strali al solo ascolto del rondò. Hai capito bene ora?» Annuii, con scarsa convinzione. «Ma non potremmo saperne di più?» mi provai a chiedere. «Possiamo tentare di decrittare il rondò: voi v'intendete di musica; io cercherei di sottrarre a Devizé le sue intavolature e da lì potremmo andar per tentativi. Forse riusciremmo pure a cavare qualcosa dallo stesso Devizé...». L'abate mi fermò con un gesto. «Non credere che lui ne sappia più di noi» ribatté sorridendo paternamente. «E poi, che c'importa ormai? Il potere della musica: ecco il vero segreto. In questi giorni e in queste notti abbiamo sempre e solo ragionato: volevamo capire tutto e a tutti i costi. Assai presuntuosamente volevamo far quadrare il cerchio. E io per primo: Qual è 'l geomètra che tutto s'affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond'elli indige, tal era io a quella vista nova,
come dice il Poeta». «Parole del seigneur Luigi vostro maestro?» «Queste no, sono di un mio divino conterraneo di qualche secolo fa, che oggi purtroppo è fuori moda. Ciò che ti voglio dire è che ci siamo scervellati, ma non abbiamo usato il cuore». «Allora abbiamo frainteso tutto, signor Atto?» «No. Quanto abbiamo scoperto, intuito e dedotto è tutto esatto. Ma incompleto». 532/703
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«Ossia?» «Di certo, in quel rondò è cifrata non so qual formula di Kircher contro la peste. Ma questo non è tutto quanto Kircher ci voleva dire. Il secretum vitae, il segreto della vita, è qualcosa di più. È ciò che non può essere detto: non lo troverai né nelle parole né nei numeri. Ma nella musica. Ecco il messaggio di Kircher». Atto, ancora semisdraiato, aveva appoggiato il capo al muro e guardava trasognato al di sopra della mia testa. Ero deluso: la spiegazione dell'abate Melani non calmava la mia curiosità. «Ma non c'è modo di decifrare la melodia delle Baricades mistérieuses? Così potremmo leggere finalmente la ricetta segreta che salva dalla peste» insistetti. «Scordalo. Potremmo passare secoli su quei fogli senza cavarne una sillaba. Non ci resta che quanto abbiamo visto e udito oggi: quel rondò, al solo ascolto, salva dalla peste. Ci basti questo. In qual modo vi riesca, invece, non ci è dato capire: “A l'alta fantasia qui mancò possa”» scandì l'abate citando ancora il poeta suo conterraneo, e concluse: «Quel pazzerellone di Athanasius Kircher era pur sempre un grand'uomo di scienza e di fede, e col suo rondò ci ha dato una lezione d'umiltà. Non lo dimenticare mai, ragazzo mio».
Disteso sul mio lettuccio attendevo il sonno, straccato dal ciclone di rivelazioni e sorprese. Ero preda d'infinite cogitazioni e sommovimenti d'animo. Solo al termine della conversazione con Atto avevo compreso la doppia e inestricabile magia di quel rondò: non a caso Les Baricades mistérieuses portavano quel nome. E decifrarle non aveva alcun senso. Anche l'abate Melani, come Kircher, m'aveva impartito una nobile lezione: la professione d'umiltà d'un uomo cui non difettavano certo l'orgoglio e la diffidenza. Meditai sognante ancora a lungo sul miImprimatur - Monaldi & Sorti
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stero delle Baricades, mentre tentavo invano di mugolare la toccante melodia. M'aveva commosso, inoltre, l'accento paterno con cui Atto m'aveva chiamato «ragazzo mio». In tal pensiero mi cullai, tanto che solo sulla soglia del sonno mi sovvenni che l'abate, malgrado i bei discorsi e le rassicurazioni che mi aveva fornito, non m'aveva ancora spiegato come mai il giorno prima avesse pronunciato le parole «baricades mistérieuses» nel sonno. Trascorsi non so quante ore a riposare nella mia cameretta. Al mio risveglio, nel Donzello regnava un sovrano silenzio. La locanda, quetatosi il baccano, sembrava caduta anch'essa in letargo: tesi l'orecchio, ma non udii Devizé suonare, né Brenozzi vagare importunando gli altri pigionanti. E Cristofano non era venuto a cercarmi. Era ancora presto per approntare la cena, ma risolsi di scendere ugualmente in cucina: come e più di quanto avevo già fatto a pranzo, volevo festeggiare degnamente la buona nuova della guarigione di Bedfordi, e il ritorno del Donzello alla speranza della libertà. Avrei cucinato buoni e piccoli malvezzi, o tordi che dir si voglia, di stagione. Per le scale incontrai Cristofano, al quale chiesi notizie dell'inglese. «Sta bene, benissimo» rispose compiaciuto. «È solo un po' dolente, ehm, per i tagli delle giandusse» aggiunse con una punta d'imbarazzo. «Avevo in animo di cucinare malvezzi per cena: pensate che andranno bene anche per Bedfordi?» Il medico fece schioccare le labbra: «Più che bene. I tordi sono carne d'ottimo sapore, sostanziosa e nutritiva, di facile digestione e buona anche per i convalescenti e per tutti quelli che hanno la complessione debilitata. Ora poi sono al meglio. D'inverno invece giungono dalle montagne di Spoleto e Terni, e sono molto grassi in quanto si pascono in quel tempo di mortella e ginepro. Quando hanno ingerito le pipere di mortella d'altra parte giovano molto alla dissenteria. Ma se davvero in534/703
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tendi cucinarli» disse con un tocco di famelica impazienza «è meglio che ti sbrighi: la preparazione prende tempo». Una volta al pianterreno, scopersi che gli altri pigionanti erano già scesi e si stavano intrattenendo, chi con giochi di carte, chi conversando, chi gironzolando liberamente. Nessuno pareva aver voglia di tornare nelle camere ove tutti avevano temuto di morire appestati. Mi venne incontro con aria festosa la mia Cloridia: «Siamo di nuovo vivi!» esclamò felice. «Manca solo Pompeo Dulcibeni, mi pare» e mi guardò interrogativamente. Subito mi rabbuiai: ecco che riaffiorava di nuovo l'interesse di Cloridia per l'anziano gentiluomo marchigiano. «Veramente manca anche l'abate Melani» risposi secco, volgendole significativamente le spalle e affrettandomi in cantina a prelevare quanto m'occorreva. La cena che seguì fu la più felice dopo le zinne di vacca, e si meritò - mi si perdoni l'immodestia - grande e generale applauso. Come già avevo visto fare al mio padrone, acconciai i malvezzi nei modi di più onesta e libera fantasia. Alcuni ne feci impanati e soffritti con fette di presciutto in lardo battuto, poi coperti con cime di broccoli cotte in buon grasso e condite con limone; altri farciti con fegatelli tagliati, acini d'agresta, erbette, presciutto, spezie e lardo battuto. Altri ancora li arrostii, dopo aver acceso un bel focarone, tramezzati con salsiccia, fette di limone e merangolo. O li bollii con dentro robba salata, coperti con finocchietti o con torzi di lattuga legati con ova, servendoli poi involti in rete o in frondi con salsa di mostacciolo. Poi, mentre quelli cuocevano, ne feci molti allo spiedo: in crosta o tramezzati con fette di lardo e fronde d'alloro, unti con buon olio e spolverizzati con pane grattato. Non rinunciai altresì a cucinare i malvezzi come li sapeva fare al meglio Pellegrino: abborracciati, con fette di lardo o presciutto sopraficcate, con chiodi di garofali e salsa reale sopra; e poi involti in rete e in foglia di cocuzza. Qualche altro tordo più grandicello, infine, lo approntai bollito a metà cottura e poi spartito a metà e Imprimatur - Monaldi & Sorti
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fritto. Servii il tutto con verdure fritte, laccate semplicemente con zuccaro e sugo di limone, senza cannella. Negli ultimi istanti della cottura ero attorniato dai volti gaudiosi dei pigionanti, che provvidero da soli a servirsi e a dividersi i vari piatti. Cloridia, a sorpresa, mi porse la mia porzione: l'aveva accomodata in un generoso piatto che non aveva dimenticato di guarnire deliziosamente con petrosello e una spiga di limone. Avvampai, ma ella non mi lasciò tempo di dir nulla, e con un sorriso raggiunse gli altri a tavola. Nel frattempo era sceso anche l'abate Melani. Dulcibeni invece non si vedeva. Salii a bussare alla porta della sua camera per chiedergli se aveva appetito. Se anche avessi avuto intenzione di carpirgli qualcosa delle sue future intenzioni, non ne avrei avuto modo. Mi disse da dietro l'uscio che non aveva punto fame, né voglia di parlare con alcuno. Per evitare d'insospettirlo non insistetti. Mentre m'allontanavo dalla sua porta, udii un rumore ormai familiare, una sorta di rapido e saettante fruscio. Dulcibeni stava di nuovo attingendo alla sua tabacchiera.
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Nottata nona Tra il 19 e il 20 settembre 1683
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rgentizio, pericolizio e sacrizzante» assicurò Ugonio con voce insolitamente concitata. «Sacrizzante? E che vuol dire?» chiese l'abate Me-
lani. «Gfrrrlûlbh» spiegò Ciacconio facendosi il segno della Croce. «Quando verbizza un affarizio sacrizio, o perquantocomesia un presenziante chiesanzio, o Sanzio, o importanzio, soddisfacendo all'obbligo s'accresce al battezzato il giubilo che Ciacconio lo appellizzi con la respectuosità condecente, acescente e rimanente». Atto e io ci guardammo perplessi. I corpisantari parevano stranamente agitati, e cercavano di spiegarci qualcosa su un personaggio della Curia, o qualcosa di simile, per il quale parevano nutrire non poco timore reverenziale. Ansiosi di apprendere l'esito dell'incursione di Ciacconio in casa di Tiracorda, Atto e io li avevamo rintracciati nell'Archivio, affaccendati come al solito con la loro immonda catasta di ossa e sporcizia. Ridando dignità di parola ai grugniti di Ciacconio, Ugonio ci aveva subito messi in guardia: in casa del medico amico di Dulcibeni stava per accadere qualcosa di pericoloso, che andava urgentemente sventato e che aveva a che fare con una persona di rango, forse un prelato, la cui identità però non era ancora chiara. «Innanzitutto dimmi: come hai fatto a entrare da Tiracorda?» chiese Atto. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Gfrrrlûlbh» rispose Ciacconio con un sorrisetto furbo. «Ha entrizzato nel canname caminico» spiegò Ugonio. «Dal caminetto? Ecco perché non gl'interessava sapere dove affacciano le finestre. Ma si sarà tutto lordato... Come non detto» si corresse Atto, sovvenendosi che il sudiciume era l'elemento naturale dei due corpisantari. Ciacconio era riuscito a calarsi senza troppe difficoltà nel caminetto della cucina al piano terra. Qui, seguendo la traccia delle voci, aveva trovato Tiracorda e Dulcibeni nello studio, intenti a conversare di cose a lui incomprensibili. «Parlizzavano argomenzie teoristiche, indovinose... forse negromaniache» spiegò Ugonio. «Gfrrrlûlbh» confermò Ciacconio facendo sì col capo, palesemente inquietato. «Ma no, no, niente paura» li interruppe Atto sorridendo «sono solo indovinelli». Ciacconio aveva udito gli enigmi con cui Tiracorda amava trastullarsi con Dulcibeni, e li aveva presi per oscure cerimonie cabalistiche. «Nel parlizzare il doctorizio ha infibulato che, perdurando la notturnizia, si racimolerà a Monte Cavallo per terapizzare la personizia sacrizzante» aggiunse Ugonio. «Ho capito: stanotte andrà a Monte Cavallo, cioè al palazzo pontificio, per curare quella persona, quel prelato molto importante» interpretò Atto guardandomi significativamente. «E poi?» «Diposciante hanno ingoiato alcolismi magnocumgaudio, e dulcis in fungo il doctorizio si è sonnizzato». Dulcibeni aveva dunque portato nuovamente con sé il liquorino che piaceva tanto al medico, e che lo aveva fatto addormentare. Qui era iniziata la parte più importante del resoconto di Ciacconio. Non appena Tiracorda era entrato nel mondo dei sogni, Dulcibeni aveva prelevato da un armadio un vaso decorato con strani disegni, ai cui lati erano presenti diverse prese 538/703
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d'aria. Aveva poi estratto dalla tasca un'ampollina, da cui aveva fatto colare nel vaso di Tiracorda alcune gocce di liquido. Atto e io ci guardammo allarmati. «Mentre effectizzava lo sgocciolazzo, ha murmurizzato: "Per lei"». «"Per lei"... Interessante. E poi?» incalzò Atto. «Diposciante è presenziata la sfuriaggine». «La furia?» chiedemmo all'unisono. Nello studio di Tiracorda aveva fatto irruzione la moglie Paradisa, che aveva così sorpreso il marito in preda ai fumi di Bacco, e Dulcibeni in possesso degli odiati alcolici. «Si è molto sgorgogliata, in modo arrabbioso e collerizio» spiegò Ugonio. A quanto capimmo, Paradisa aveva iniziato a coprire il marito d'insulti e a bersagliarlo ripetutamente con i bicchieri serviti per il brindisi, con gli strumenti di lavoro del povero medico e con quanto le era capitato a portata di mano. Per scansare tutti quei proiettili Tiracorda aveva dovuto riparare sotto il tavolo, mentre Dulcibeni aveva rimesso frettolosamente al suo posto il vaso decorato in cui aveva stillato le gocce del misterioso liquido. «Femminizia oltraggizia: non indicizzata al doctorizio, che terapizza per riuscire più benefice che malefice» scosse il capo Ugonio, mentre Ciacconio annuiva con preoccupato sussiego. Purtroppo proprio in quel mentre, proseguì il racconto, la missione di Ciacconio aveva subito una variazione. Mentre Paradisa sfogava il suo odio per vini e grappe contro l'inerme Tiracorda, e mentre Dulcibeni se ne stava buono buono in un angolo aspettando che la sfuriata terminasse, Ciacconio aveva colto al volo l'occasione per soddisfare i suoi bassi appetiti. Già prima che giungesse la donna, infatti, aveva adocchiato su uno scaffale dello studio di Tiracorda un oggetto di suo gusto. «Gfrrrlûlbh» gorgogliò compiaciuto sfoderando dalla palandrana e mostrandoci, lucido e quasi tirato a nuovo, un magnifico teschio, completo della mascella inferiore, che Tiracorda aImprimatur - Monaldi & Sorti
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veva usato probabilmente durante le lezioni ai suoi studenti. Mentre Paradisa dava in escandescenze, infatti, Ciacconio si era intrufolato gattoni nello studio, aggirando il tavolo sotto a cui si era rifugiato Tiracorda, ed era riuscito ad agguantare il teschio senza essere visto. Il caso aveva voluto però che un grosso candelabro, scagliato da Paradisa verso Tiracorda, avesse colpito di rimbalzo proprio Ciacconio. Offeso e dolorante, il corpisantaro era così balzato in piedi sul tavolo e aveva risposto al fuoco emettendo, come urlo di guerra, l'unico suono di cui la sua bocca era capace. Alla vista inattesa di quell'essere lurido e deforme, che per di più la bersagliava a sua volta con il candelabro, Paradisa aveva urlato con tutto il fiato che aveva nei polmoni. Dulcibeni era rimasto impietrito al suo posto, mentre Tiracorda s'era ancor più appiattito sotto al tavolo. Udito l'urlo di Paradisa, le fantesche erano arrivate a precipizio dal piano superiore, giusto in tempo per incrociare Ciacconio che imboccava di corsa le scale verso la cucina. Il corpisantaro, trovatosi di fronte le tre giovani e fresche donzelle, non aveva resistito alla tentazione di allungare le manacce su quella che gli era più a tiro. La poveretta, lubricamente toccacciata dal mostro proprio là dove le sue carni erano più morbide e polpose, aveva istantaneamente perso i sensi; la seconda fantesca era esplosa in uno strepito isterico, mentre la terza era fuggita a gambe levate al secondo piano. «Non è scibile se anche spiscizzata» precisò Ugonio ridacchiando in modo assai volgare insieme al suo compagno. Sghignazzando selvaggiamente per l'insperato divertimento, Ciacconio era così riuscito a riguadagnare la cucina e il caminetto da cui era entrato, che aveva rapidamente (e in modo in verità incomprensibile) risalito fino a tornare sul tetto della casa di Tiracorda, trovando infine la libertà. «Incredibile» commentò Atto Melani «questi due hanno più vite d'una salamandra». 540/703
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«Gfrrrlûlbh» precisò Ciacconio. «Cos'ha detto?» «Che nel vasame non erano salamastre, ma sanguisucchie» chiarì Ugonio. «Prego? Forse vuoi dire...» balbettò l'abate Melani. «Sanguisughe» lo precedetti «ecco cosa c'è dentro al vaso di Tiracorda che interessa tanto a Dulcibeni...». Di colpo m'arrestai: un'improvvisa intuizione m'aveva sconvolto i pensieri. «Ho capito, ho capito tutto!» gridai infine, mentre vedevo Atto pendere dalle mie labbra. «Dulcibeni... oh, mio Dio!..». «Dimmi, parla» mi scongiurò Melani afferrandomi per le spalle e scuotendomi come un alberello, mentre i corpisantari ci guardavano attoniti e incuriositi come due gufi. «... vuole la morte del Papa» riuscii finalmente ad ansimare. Ci sedemmo tutti e quattro, quasi schiacciati dal peso insopportabile di quella rivelazione. «La domanda è: cos'è il liquido che Dulcibeni versa di nascosto nel vaso delle sanguisughe?» disse Atto. «Qualcosa che deve aver preparato nella sua isola» risposi prontamente «nel laboratorio dove squarta i topi». «Esatto. Li squarta e poi li dissangua. Sono topi malati, però» aggiunse Atto «tanto che ne abbiamo incontrati alcuni morti e altri moribondi, ricordi?» «Certo che mi ricordo: perdevano tutto quel sangue dal muso! E Cristofano mi ha detto che proprio così accade ai topi malati di peste» risposi concitatamente. «Quindi erano topi appestati» approvò Atto. «Col loro sangue Dulcibeni ha preparato un umore infetto. Poi è andato da Tiracorda e lo ha addormentato con il liquore. Così ha potuto versare l'umore pestifero nel liquido delle sanguisughe, che sono diventate veicolo della malattia. Con quelle sanguisughe, stanotte, Tiracorda farà il salasso a Innocenzo XI» concluse Atto con la voce arrochita dall'emozione «e lo appesterà. Forse siamo arrivati troppo tardi». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Ci abbiamo girato intorno da giorni, signor Atto. Avevamo perfino sentito dire a Tiracorda che il Papa veniva curato con le sanguisughe!» intervenni accalorandomi. «Santo Cielo, hai ragione» rispose Melani rabbuiato dopo aver riflettuto un istante. «Fu la prima volta che lo ascoltammo parlare con Dulcibeni. Come ho fatto a non capire?» Continuammo a ragionare, ricordare e supporre, completando e rafforzando rapidamente la nostra ricostruzione. «Dulcibeni ha letto molti libri di medicina» riprese l'abate «e lo si capisce appena tocca l'argomento. Quindi sa benissimo che durante le pestilenze i topi si ammalano, e che da essi, anzi dal loro sangue, può ottenere quanto gli serve. Inoltre accompagna in viaggio Fouquet, che conosce i segreti della peste. Infine sa bene la teoria di Kircher: la peste si propaga non per mezzo di miasmi, odori o puzze, ma per animalcula. Tramite cioè esserini piccolissimi che possono trasmigrare da un essere all'altro. Dai topi fino al Papa». «È vero!» rammentai. «All'inizio della quarantena discutemmo tutti insieme delle teorie sulla peste, e Dulcibeni spiegò la teoria di Kircher fin nei minimi particolari. La conosceva così bene che pareva non avesse mai pensato ad altro, per lui sembrava quasi...». «... un'ossessione, proprio così. L'idea di contagiare il Papa gli dev'essere venuta parecchio tempo fa. Probabilmente parlando dei segreti della peste con Fouquet, nei tre anni che il Sovrintendente ha trascorso a Napoli». «Ma allora Fouquet doveva fidarsi molto di Dulcibeni». «Certo. Tanto è vero che abbiamo trovato la lettera di Kircher nei suoi mutandoni. Altrimenti perché Dulcibeni avrebbe dovuto assistere tanto generosamente un vecchio cieco?» commentò sarcastico l'abate. «Ma dove si sarà procurato Dulcibeni gli animalcula che trasmettono la peste?» chiesi. «Focolai ce ne sono di continuo, ora qui ora là, anche se non 542/703
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sfociano sempre in vere epidemie. Mi ricordo, per esempio, d'aver udito all'inizio di quest'anno di un focolaio di peste ai confini con l'Impero, verso Bolzano. Sarà lì che Dulcibeni s'è procurato sangue di topi appestati, con cui ha iniziato i suoi esperimenti. Poi, quando ha ritenuto giunto il momento, è venuto al Donzello, accanto alla casa di Tiracorda, e ha continuato a contagiare sorci nei sotterranei, in modo da avere sempre fresco il sangue infetto». «Insomma, ha tenuto viva la peste passandola di topo in topo». «Esatto. Ma forse a un certo punto qualcosa gli è sfuggito di mano. Nei sotterranei c'era di tutto: topi infetti, ampolle di sangue, clienti della locanda che andavano e venivano... Troppo traffico. Alla fine qualche germe invisibile, qualche animalculum è arrivato fino a Bedfordi, e il nostro giovane inglese si è beccato il morbo. Meglio così: sarebbe potuto capitare a me o a te». «E la malattia di Pellegrino, e la morte di Fouquet?» «Lì la peste non c'entra. Il malore del tuo padrone s'è rivelato un semplice trauma da caduta, o poco altro. Fouquet invece, secondo Cristofano (e secondo me), è stato avvelenato. E non mi stupirei se l'avesse ucciso proprio Dulcibeni». «Oh Cielo, anche l'assassinio di Fouquet?» stupii. «Ma a me Dulcibeni non sembrava così malvagio, così... Insomma, ha sofferto molto per la figlia, pover'uomo; è di costumi fin troppo modesti; e infine ha saputo conquistarsi la fiducia del vecchio Fouquet, assistendolo, proteggendolo...». «Dulcibeni vuole uccidere il Papa» tagliò corto Atto «l'hai capito tu per primo. Perché allora non potrebbe aver avvelenato il suo amico?» «Sì, ma...». «Tutti prima o poi commettono l'errore di fidarsi della persona sbagliata» troncò con una smorfia. «E poi lo sai: il Sovrintendente si è sempre fidato troppo dei suoi amici» aggiunse, e trasalì lievemente alle sue stesse parole. «Ma se proprio ti Imprimatur - Monaldi & Sorti
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piacciono i dubbi» m'incalzò «allora io ne ho uno molto più grande. Durante il salasso di stanotte il Papa verrà contagiato dalle sanguisughe di Tiracorda, e morirà di peste. E perché? Solo perché gli Odescalchi non hanno aiutato Dulcibeni a ritrovare sua figlia». «E allora?» «Non ti sembra un po' poco per condannare a morte un Pontefice?» «Be', in effetti...». «È poco, è troppo poco» riaffermò Atto «e io ho l'impressione che Dulcibeni abbia anche qualche altro motivo per tentare una macchinazione così ardita. Ma al momento non mi viene in mente altro». Mentre noi due così riflettevamo, anche Ugonio e Ciacconio stavano discutendo fittamente per loro conto. Alla fine Ugonio s'alzò, come impaziente di mettersi in marcia. «A proposito di rischi mortali, come hai fatto a salvarti dal naufragio nella Cloaca Maxima?» chiesi al corpisantaro. «Sacramento del salvamento, questo ha fatto Baronio». «Baronio? E chi è?» Ugonio ci guardò significativamente, come per fare un annuncio solenne: «Perquantodovesia, urgentizza quanto subito una visura del conoscimento personalizio» disse mentre il suo compagno con una serie di strattoni ci invitava ad alzarci e a seguirlo. Così, guidati dai corpisantari, ci dirigemmo ancora una volta verso il condotto C. Dopo pochi minuti Ugonio e Ciacconio arrestarono bruscamente la marcia. Ci eravamo addentrati nel primo tratto della galleria, e mi parve d'udire un discreto brusio farsi a poco a poco più vicino. Mi parve anche d'avvertire un forte, sgradevole, bestiale olezzo. Improvvisamente Ugonio e Ciacconio s'inchinarono, come per omaggiare un'invisibile divinità. Dalla fitta oscurità della 544/703
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galleria vidi emergere faticosamente una serie di sagome grigiastre e caracollanti. «Gfrrrlûlbh» proferì Ciacconio con deferenza. «Baronio, di tutti i corpisantari eccellenzio, caporale e conducenzio» annunciò solennemente Ugonio.
Che il popolo tenebroso dei corpisantari avesse una certa consistenza numerica era senz'altro prevedibile. Che però fosse guidato da un capo riconosciuto, a cui la massa puzzolente dei cercatori di reliquie riconosceva prestigio, autorità e poteri quasi taumaturgici, questo davvero non ce lo aspettavamo. Eppure tale era la novità che ci si presentava. Il misterioso Baronio ci era venuto incontro, quasi presentisse il nostro avvicinamento, attorniato da un folto gruppo di seguaci. Era una truppa variopinta (se questo termine può essere adoperato per le sole sfumature del grigio e del marrone) composta da individui non troppo dissimili da Ugonio e Ciacconio: avvolti alla meglio in miseri e polverosi pastrani, i volti e le mani celati da cappucci e maniche troppo lunghi, gli accoliti di Ugonio, Ciacconio e Baronio formavano la teppa più spaventevole che mente umana possa immaginare. Il puzzo penetrante che avevo avvertito prima dell'incontro era stato nient'altro che il preavviso del loro arrivo. Si fece innanzi Baronio, che era possibile distinguere sol perché leggermente più alto dei suoi accompagnatori. Non appena ci si fece incontro, però, si verificò un imprevisto. Il capo dei corpisantari fece rapidamente marcia indietro, facendosi scudo con un paio di brevilinei adepti. L'intera rappresentanza dei corpisantari si chiuse a riccio come una falange, emettendo una selva di diffidenti borbottìi. «Gfrrrlûlbh» disse allora Ciacconio, e improvvisamente il gruppo sembrò rilassarsi. «Hai spaurizzato Baronio: ti ha scambigliato per un daeImprimatur - Monaldi & Sorti
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munculus subterraneus» mi disse Ugonio «ma ho precisionato, e posso congiurare, che sei buon compagnifero». Il capo dei corpisantari mi aveva scambiato per uno di quei demuncoli che - secondo le loro bizzarre credenze - abitano le tenebre sotterranee, e che i cercatori di reliquie non avevano mai visto, ma della cui esistenza erano orribilmente certi. Ugonio mi spiegò che di tali esseri, che abiterebbero vaste regioni sotterranee, avevano dato ampia descrizione Niceforo, Gaspare Schotto, Fortunio Liceto, Giovanni Eusebio Nierembergius e lo stesso Kircher, che aveva ampiamente discusso natura e costumi dei daemunculi subterranei nonché di ciclopi, giganti, pigmei, monopodi, tritoni, sirene, satiri, cinocefali e acefali. Ora però non avevo alcunché da temere: Ugonio e Ciacconio garantivano per me e per Atto. Ci vennero dunque rapidamente presentati gli altri corpisantari, che rispondevano (ma nei dettagli la memoria potrebbe tradirmi) a nomi inusitati come Gallonio, Stellonio, Marronio, Salonio, Plafonio, Scacconio, Grufonio, Polonio, Svetonio e Antonio. «Quale onore» disse Atto trattenendo a stento il suo ironico disgusto. Ugonio spiegò che era stato Baronio a guidare il gruppo in suo soccorso, quando la nostra barchetta s'era rovesciata lasciandoci in balia della Cloaca Maxima. Anche adesso il capo dei corpisantari aveva misteriosamente avvertito (forse in virtù del medesimo miracoloso olfatto di cui disponeva Ciacconio, o di altre facoltà fuori dall'ordinario) che Ugonio intendeva incontrarlo, e gli era venuto incontro dalle profonde viscere terrestri; o forse, più semplicemente, dalla botola che dal Pantheon portava nei cunicoli sotterranei. Tra i corpisantari pareva insomma correre un legame di fratellanza e solidarietà cristiana. Tramite un Cardinale appassionato di reliquie avevano anche richiesto informalmente al Papa di poter fondare un'Arciconfraternita, ma il Pontefice («straniziamente» aveva commentato Ugonio) non aveva ancora risposto. 546/703
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«Rubano, truffano, contrabbandano, e poi fanno tanto i bigotti» mi bisbigliò Atto. Indi Ugonio tacque per lasciare la parola a Baronio. Cessò finalmente l'ininterrotto tramestio della truppa di corpisantari, perennemente intenta a grattacchiarsi, sforforarsi, tossicchiare, nonché a sbocconcellare, mangiucchiare e ciancicare invisibili e schifose pasturie. Baronio gonfiò il petto, puntò severamente verso l'alto l'indice artigliuto e declamò: «Gfrrrlûlbh!». «Straordinario» rispose gelido Atto Melani «parliamo, come dire, la stessa lingua». «Non è linguame, è votizio» intervenne Ugonio un po' corrucciato, intuendo forse che Atto stava sottilmente deridendo il suo capo. Apprendemmo così che le limitate capacità lessicali dei corpisantari non erano dovute a stupidità o a scarsa educazione, ma a un pio voto. «Finché non trovare Sacro Oggettizio, non verbizzare» disse Ugonio, che spiegò di essere libero dal voto onde poter tenere i contatti tra la comunità dei corpisantari e il resto del mondo. «Ah sì? E cosa sarebbe questo Sacro Oggetto che andate cercando?» «Ampollonia con Vero Sanguine di Nostro Signore» disse Ugonio mentre il resto della truppa, all'unisono, si faceva il segno della Croce. «Un nobile e santo compito, il vostro» disse Atto sorridendo rivolto a Baronio. «Prega che il voto non venga mai sciolto» mi bisbigliò poi senza farsi udire «altrimenti a Roma finiranno per parlare tutti come Ugonio». «È sprobabile» rispose inaspettatamente Ugonio «conquantodovesia che il sottoscrittoio è germanizio». «Sei tedesco?» stupì Atto. «Provenizzo da Vindobona» precisò con sussiego il corpisantaro. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Ah, sei nato a Vienna» tradusse l'abate. «Ecco perché parli in modo così...». «... padronizzo il sermone italizio come un madreligneo» si affrettò a completare Ugonio «e sono gratifico alla vostrissima decisionità per il complemento di stima che mi addobba». Dopo essersi fatto i complimenti da solo per il suo eloquio sgangherato e fatiscente, Ugonio spiegò ai suoi compagni quanto stava accadendo: un losco individuo, pigionante della nostra locanda, aveva escogitato un piano per assassinare Sua Beatitudine Innocenzo XI tramite un salasso pestifero, e ciò proprio mentre a Vienna si decideva il destino della Cristianità. Il piano mortale sarebbe stato portato a termine proprio quella notte. I corpisantari accolsero la rivelazione con espressioni di profondo sdegno, e quasi di panico. Prese il via un breve ma concitato dibattito, che Ugonio ci tradusse sinteticamente. Plafonio propose di ritirarsi in preghiera, e di chiedere l'intercessione dell'Altissimo. Gallonio si disse invece a favore di un'iniziativa diplomatica: una delegazione dei corpisantari si sarebbe recata da Dulcibeni e gli avrebbe chiesto di desistere dal suo piano. S'inserì nella discussione Stellonio, sostenendo tutt'altra opinione: si doveva entrare al Donzello, catturare Dulcibeni e giustiziarlo seduta stante. Grufonio osservò però che un tale colpo di mano avrebbe provocato contraccolpi sgradevoli, come per esempio l'arrivo delle guardie pontificie. Marronio aggiunse che entrare in una locanda chiusa per sospetto contagio pestifero avrebbe comportato ulteriori, innegabili rischi. Svetonio osservò che tale colpo di mano non sarebbe neppure servito a fermare il complotto di Dulcibeni: se Tiracorda si recava dal Papa (e qui Grufonio si fece ancora il segno della Croce) tutto era perduto. Bisognava quindi fermare Tiracorda a ogni costo. L'intero gruppo dei corpisantari volse allora lo sguardo a Baronio, che li arringò efficacemente: «Gfrrrlûlbh!». La teppa di Baronio si mise allora a saltare e a grugnire guerresca e invasata, e poi si dileguò sotto i nostri occhi incolonnata a due a due, come un manipolo di soldati, imboccando 548/703
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il condotto C nella direzione che portava verso la casa di Tiracorda. A tutto ciò Atto e io assistemmo impotenti e spaesati; Ugonio, ch'era rimasto con noi insieme al suo compare di sempre, dovette quindi spiegarci quanto stava accadendo: i corpisantari avevano deciso d'intercettare Tiracorda a ogni costo. Si sarebbero appostati nelle viuzze attorno alla casa dell'anziano archiatra, per intercettare la sua carrozza diretta al palazzo pontificio di Monte Cavallo. «E noi, signor Atto, cosa faremo per fermare Tiracorda?» chiesi in preda all'agitazione e alla voglia di scatenarmi con tutto me stesso contro chi attentava alla vita del Vicario di Cristo. Ma l'abate non m'ascoltava. Rispose invece alla spiegazione di Ugonio: «Ah, è così» proferì con voce incolore. La situazione gli era sfuggita di mano e non ne sembrava molto soddisfatto. «Insomma, che facciamo?» «Tiracorda va fermato, questo è certo» disse Melani cercando di riguadagnare un contegno deciso. «Mentre Baronio e gli altri controllano la superficie, noi ci dedicheremo ai sotterranei. Guardate qua». Sotto i nostri occhi stese una versione aggiornata della pianta del sottosuolo che aveva realizzato in precedenza, e che aveva smarrito durante il naufragio nella Cloaca Maxima. La nuova pianta conteneva anche il tratto C, compresa l'intersezione con il fiumiciattolo sotterraneo dal quale si raggiungevano l'isolalaboratorio di Dulcibeni e la Cloaca Maxima. Era visibile poi lo sviluppo del condotto D fino al suo sbocco nella stalla di Tiracorda, proprio di fianco al Donzello.
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«Per intercettare Tiracorda non basta controllare le strade attorno a via dell'Orso» spiegò Atto. «Non possiamo escludere del tutto che il medico, onde mantenere maggior segretezza, preferisca passare per i sotterranei, infilando nell'ordine i condotti D, C, B e A, e uscire sul greto del Tevere». «E perché?» «Potrebbe per esempio fare un tratto in barca, risalendo il fiume fino al porto di Ripetta. Allungherebbe la strada, ma seguirlo diventerebbe quasi impossibile. Oppure potrebbe tornare in superficie da qualche uscita a noi ignota. Sarà bene dividersi i compiti, e prevenire tutte le possibilità: Ugonio e Ciacconio terranno d'occhio le gallerie A, B, C e D». «Non è un po' troppo per loro due soli?» «Non sono due, sono tre: c'è anche il naso di Ciacconio. Io e te, ragazzo, esploreremo la parte del condotto B dove non siamo mai stati. Giusto per essere sicuri che Tiracorda non possa scapparci da lì». 550/703
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«E Dulcibeni?» chiesi. «Non temete che nei sotterranei si aggiri anche lui?» «No. Ha fatto tutto ciò che poteva: infettare le sanguisughe. Ora è sufficiente che Tiracorda vada dal Papa e gli applichi il salasso». Ugonio e Ciacconio partirono immediatamente quasi di corsa, imboccando il cunicolo C a ritroso. Mentre ci mettevamo in marcia, non potei però rinunciare a soddisfare un'impellente curiosità: «Signor Atto, voi siete un agente del Re di Francia». Mi guardò di traverso: «Ebbene?». «Ecco, è solo che... insomma, questo Papa non è certo buon amico del Re Cristianissimo. Voi invece lo volete salvare, vero?» Si fermò: «Hai mai visto decapitare un uomo?». «No». «Ebbene, sappi che mentre la testa rotola giù dal patibolo, la lingua può ancora muoversi. E parlare. Per questo nessun Principe è mai contento che un suo pari grado muoia. Teme quella testa che rotola, e quella lingua che può dire cose pericolose». «Allora i Sovrani non fanno mai uccidere nessuno». «Be', non è proprio così... possono farlo, se è in gioco la sicurezza della Corona. Ma la politica, ricorda ragazzo, la vera politica è fatta di equilibri e non di assalti». Lo osservai di sottecchi; la voce incerta, il volto pallido e gli occhi sfuggenti tradivano il ritorno delle paure dell'abate Melani: malgrado le sue parole, avevo ben scorto il suo tentennamento. I corpisantari non gli avevano lasciato il tempo di riflettere: avevano rapidamente preso l'iniziativa e stavano organizzando il salvataggio d'Innocenzo XI; un'impresa eroica che Atto non aveva altrettanto tempestivamente intrapreso, e nella quale si trovava ora a sorpresa catapultato. Non poteva più tornare indietro, ormai. Cercò di mascherare il proprio disagio affrettando il passo, e mostrandomi così solo la schiena rigida e nervosa. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Una volta giunti all'Archivio cercammo invano tracce della presenza di Ugonio e Ciacconio. I due dovevano essere già in agguato, ben mimetizzati in qualche anfratto. «Siamo noi! Tutto tranquillo?» chiese Atto ad alta voce. Dietro qualche archi volta sepolta nell'oscurità, ci diede risposta affermativa l'inconfondibile grugnito di Ciacconio. Proseguimmo quindi nell'esplorazione e durante il cammino riprendemmo a ragionare. Era stata imperdonabile cecità, convenimmo entrambi, non collegare tra loro già nei giorni precedenti i chiarissimi indizi di cui eravamo a conoscenza. Fortunatamente era ancora possibile riacciuffare per la criniera il cavallo impazzito della verità. Atto cercò ancora una volta di riassumere gli elementi a nostra conoscenza: «Dulcibeni lavorava per gli Odescalchi, come contabile o qualcosa di simile. Aveva una figlia, Maria, avuta da una schiava turca. La giovane viene rapita dall'ex negriero Feroni e dal suo braccio destro Huygens, di certo per esaudire un capriccio di quest'ultimo. Maria viene probabilmente portata molto lontano, da qualche parte nel Nord. Per ritrovarla Dulcibeni si rivolge allora agli Odescalchi, ma loro non lo aiutano. Per questo Dulcibeni li odia, e logicamente odierà soprattutto il potente cardinal Benedetto Odescalchi, che nel frattempo è diventato Papa. In più, dopo il rapimento, succede qualcosa di strano: Dulcibeni viene aggredito e gettato da una finestra, probabilmente per ucciderlo. Siamo d'accordo?». «D'accordo». «E qui è il primo punto oscuro: perché qualcuno, forse su mandato di Feroni o degli Odescalchi, voleva farlo fuori?» «Forse per impedirgli di andare a riprendersi la figlia». «Forse» disse Atto con poca convinzione. «Ma hai udito anche tu che tutte le ricerche dei suoi emissari risultarono vane. Credo piuttosto che Dulcibeni fosse diventato pericoloso per qualcuno». «Signor Atto, ma perché la figlia di Dulcibeni era una schia552/703
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va?» «Non hai sentito Tiracorda? Perché sua madre era una schiava turca, che Dulcibeni non aveva mai voluto sposare. Non conosco bene i commerci di negri e d'infedeli, ma - a quanto dice Dulcibeni - la bastardina veniva considerata anch'essa schiava degli Odescalchi. Mi chiedo solo: perché Huygens e Feroni non l'hanno semplicemente comprata?» «Forse gli Odescalchi non gliel'hanno voluta vendere». «Però hanno venduto sua madre. No, penso piuttosto che sia stato Dulcibeni a opporsi alla cessione di sua figlia: per questo è stata rapita, magari con l'appoggio degli stessi Odescalchi». «Intendete dire che un atto tanto abominevole sarebbe stato spalleggiato dalla famiglia?» inorridii. «Certo. E magari proprio dal cardinal Benedetto Odescalchi, che oggi è Papa. Non dimenticare che Feroni era ricchissimo, e assai potente. Un uomo a cui non si rifiuta nulla. Si spiegherebbe così perché gli Odescalchi non hanno voluto aiutare Dulcibeni a ritrovare sua figlia». «Ma con quali mezzi Dulcibeni ha potuto opporsi alla vendita, se la ragazza era di proprietà degli Odescalchi?» «Dici bene: con quali mezzi? Qui sta il punto, credo: Dulcibeni deve aver sfoderato un'arma che ha legato le mani agli Odescalchi e forse non ha lasciato loro altra scelta che concertare il rapimento con Feroni, e tentare poi di mettere a tacere per sempre Dulcibeni». Feroni: stavo per dire all'abate che quel nome non mi suonava punto nuovo. Ma, non riuscendo a sovvenirmi quando e dove l'avessi già udito, tacqui. «Un'arma contro gli Odescalchi. Un segreto, forse... chissà» mormorava intanto l'abate con un lampo lubrico negli occhi. Un inconfessabile segreto nel passato del Papa: capii che Atto Melani, agente di Sua Maestà Cristianissima, avrebbe dato la vita per scoprirlo. «Dobbiamo venirne a capo, dannazione!» esclamò al termine delle sue cogitazioni. «Ma prima ricapitoliamo di nuovo: Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Dulcibeni partorisce l'idea di assassinare nientemeno che il Papa. Non può certo sperare di ottenere udienza presso il Pontefice, e di assestargli una coltellata. Come uccidere un uomo a distanza? Si può cercare d'avvelenarlo; ma introdurre veleno nelle cucine del Papa è cosa ardua. Dulcibeni ha escogitato invece una soluzione più raffinata. Rammenta di avere un vecchio amico che fa al caso suo: Giovanni Tiracorda, archiatra pontificio. Papa Odescalchi, e Dulcibeni lo sa, ha sempre avuto problemi di salute. Tiracorda lo cura, e Dulcibeni può sfruttare la situazione. Proprio in questo periodo, inoltre, le condizioni di Innocenzo XI, attanagliato dal terrore che a Vienna le armate cristiane vengano sconfitte, si aggravano. Al Papa vengono applicati i salassi; i salassi vengono realizzati con le sanguisughe, le quali appunto si cibano di sangue. Allora cosa fa Dulcibeni? Tra un indovinello e l'altro fa ubriacare Tiracorda. Non è un'impresa difficile, perché la moglie del medico, Paradisa, è bigotta e mezza pazza: crede che l'alcol porti alla dannazione dell'anima. Tiracorda è costretto a bere di nascosto, e quindi quasi sempre a garganella. Non appena è sbronzo, il suo amico Dulcibeni contagia con l'umore pestifero, che ha prodotto sulla sua isola, le sanguisughe destinate a salassare il Papa. Gli animaletti affonderanno i denti nelle sante carni del Pontefice, che verrà aggredito dal contagio». «È orribile!» commentai. «Non direi. È semplicemente ciò che un uomo assetato di vendetta è capace di fare. Ricordi la nostra prima intrusione in casa di Tiracorda? Dulcibeni gli ha chiesto "Come stanno?" e si riferiva - ora lo sappiamo - alle sanguisughe, che aveva già intenzione d'infettare. Poi però Tiracorda ha accidentalmente rotto la bottiglia di liquore, e Dulcibeni ha dovuto rinviare l'operazione. Ieri notte, invece, le cose gli sono andate lisce. Mentre infettava le sanguisughe ha detto "Per lei": stava consumando la sua vendetta contro gli Odescalchi per la scomparsa di sua figlia». «Però aveva bisogno di un posto tranquillo per preparare il 554/703
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suo piano e per realizzare i suoi traffici» osservai. «Bravo. E soprattutto per coltivare, con arti a noi sconosciute, il morbo pestifero. Dopo aver catturato i topi li chiude in gabbia nell'isola e inocula loro il contagio; poi ne estrae il sangue e lo elabora per produrre l'umore infetto. È stato sicuramente lui a perdere nei sotterranei il foglio di Bibbia». «Quindi avrebbe rubato lui le mie perline?» «E chi altrimenti? Ma non m'interrompere» tagliò corto Atto, e aggiunse: «Dopo l'inizio della quarantena e il malore del tuo padrone, Dulcibeni, per poter avere ancora accesso ai sotterranei e quindi all'isola nel mitreo, ha dovuto trafugare le chiavi dalla cintola di Pellegrino, e farne fare una copia da un chiavaro. Ha avvolto la copia nel foglio di Bibbia di Komarek; ma con tutti quei traffici tra topi, sanguisughe e alambicchi era inevitabile che lo sporcasse accidentalmente di sangue». «Sull'isola abbiamo trovato un vaso per sanguisughe uguale a quello di Tiracorda» osservai «e poi tutti quegli strumenti...». «Il vaso gli è servito, immagino, per allevare alcune sanguisughe, e magari per accertarsi che possano cibarsi del sangue infetto senza perire anzitempo. Quando però ha capito di non essere l'unico ad andare a spasso nei sotterranei, e che qualcuno poteva essere sulle sue tracce, si è liberato delle piccole succhiatrici, che avrebbero provato il suo disegno criminale. Gli apparati e gli strumenti dell'isola gli sono serviti invece non solo per gli esperimenti sui topi, ma anche per preparare l'umore pestifero. Ecco perché tutto faceva pensare al laboratorio di un alchimista: alambicchi, unguenti, fornelli...». «E quella sorta di piccolo patibolo?» «Chissà, forse gli è servito per tenere fermi i topi mentre li salassava, o per squartarli e raccogliere il loro sangue». Ed ecco perché, ci ripetemmo ancora una volta, nei sotterranei avevamo trovato i topi agonizzanti: erano forse sfuggiti o malamente sopravvissuti agli esperimenti di Dulcibeni, e li avevamo incontrati poco prima che si spegnessero. L'ampollina vitrea piena di sangue che avevamo rinvenuto nella galleria D, Imprimatur - Monaldi & Sorti
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infine, era stata sicuramente smarrita da Dulcibeni, che forse aveva cercato senza successo d'infettare direttamente con il sangue dei sorci le sanguisughe dell'amico Tiracorda. «Però nei sotterranei abbiamo trovato anche le foglie di mamacòca» osservai. «Questo in effetti non me lo spiego» ammise l'abate Melani. «Non c'entrano nulla con la peste, né con il progetto di Dulcibeni. Altra cosa: non riesco a credere che Dulcibeni per giorni e giorni abbia potuto correre, remare, arrampicarsi e sfuggire al nostro pedinamento con il brio d'un ragazzino, e per giunta di notte. Viene quasi da pensare che qualcun altro lo abbia aiutato». Mentre ci producevamo in tale ragionare, eravamo giunti alla botola che faceva da intersezione tra i condotti B e A. La parte sinistra del tratto B era l'ultima delle tre esplorazioni che giorni addietro ci eravamo ripromessi di compiere, per completare la conoscenza delle gallerie sottostanti al Donzello. Contrariamente al solito, quindi, non ci calammo attraverso la botola dalla galleria B alla A, come avremmo fatto per ritornare al Donzello, ma continuammo la marcia. Grazie alla pianta predisposta da Atto, mi era chiaro che stavamo procedendo in direzione del fiume, tenendo la locanda alla nostra destra e l'ansa del Tevere alla sinistra. Il percorso non offerse sorprese di sorta, finché ci imbattemmo in una scala di pietra a pianta quadrata non troppo dissimile da quella che dallo stanzino segreto del Donzello portava nei sotterranei, e che ormai conoscevamo fin troppo bene. «Ma così riemergeremo in via dell'Orso» dissi mentre ci inerpicavamo sui gradini verso la superficie. «Non proprio, forse un poco più a sud, in via Tor di Nona». L'ascesa stava conducendo in una sorta di vestibolo con un lastricato di antichi mattoni, anch'esso simile a quello che avevamo calcato più volte nelle nostre sortite dalla locanda. Sulla volta del vestibolo si mostrava (e più ancora si ricono556/703
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sceva al tatto) una sorta di pesante tombino di ferro, o forse perfino di piombo, tetragono a ogni vibrazione e difficile assai da aprire. Occorreva rimuovere quell'ultimo ostacolo per scoprire in qual punto della superficie il nostro cammino ci aveva portati. Con uno scatto di reni, e spingendo vigorosamente contro l'ultimo gradino della scala in pietra, riuscimmo con le nostre forze congiunte a sollevare il pesante disco. Potemmo così scostarlo quel tanto che permetteva la sortita dal sottosuolo, facendolo slittare con un breve rombo sul selciato; frattanto con la coda dell'occhio, oltre che con l'udito, avvertivamo che a pochi passi da noi si consumava una violenta tenzone. Ci facemmo strada nella poca luce notturna. Nella semioscurità distinsi in mezzo alla strada una carrozza, che due torce fissate ai lati opposti dell'abitacolo illuminavano in guisa obliqua e sinistra. Grida soffocate provenivano dal postiglione, impegnato in una colluttazione con alcuni individui per cercare di liberarsi dalla loro morsa. Uno degli aggressori doveva aver preso possesso delle redini e fermato la corsa dei cavalli, che nitrivano e sbuffavano nervosamente. Proprio in quel mentre un altro individuo sgattaiolò fuori dalla carrozza, tenendo in braccio (così mi parve) un oggetto voluminoso. La carrozza, fuor d'ogni dubbio, veniva svaligiata. Pur confuso dalla lunga permanenza substradale riconobbi d'istinto attorno a noi la via Tor di Nona, che parallelamente al Tevere porta verso via dell'Orso: le valutazioni dell'abate Melani sulla nostra destinazione si erano rivelate giuste. «Presto, avviciniamoci» sussurrò Atto indicando la carrozza. La scena di violenza a cui stavamo assistendo m'aveva quasi paralizzato; sapevo che a poca distanza, ai capi del vicino ponte Sant'Angelo, sostavano di norma alcune guardie. Il rischio d'essere coinvolti in un così grave attentato non bastò a dissuadermi dal seguire l'abate, che tenendosi prudentemente accosto al muro si stava avvicinando al teatro della rapina. «Pompeo, aiuto! Guardie aiuto!» sentimmo guaire dall'inImprimatur - Monaldi & Sorti
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terno della carrozza. La voce flebile e strozzata del passeggero apparteneva senz'ombra di dubbio a Giovanni Tiracorda. In un lampo capii tutto: l'uomo seduto a cassetta, che si ribellava inutilmente a forze soverchianti e lanciava rochi urletti, era di certo Pompeo Dulcibeni. Contro ogni nostra previsione, Tiracorda gli doveva aver chiesto d'accompagnarlo a rendere i suoi servigi al Papa al palazzo di Monte Cavallo. Il medico, troppo vecchio e impacciato per guidare la propria carrozza, aveva evidentemente preferito farsi accompagnare dall'amico, piuttosto che da un vetturino qualsiasi, verso la sua delicata e segreta missione. I corpisantari però, ben appostati nelle vicinanze, avevano intercettato la carrozza. Tutto si concluse in pochi attimi. Non appena il bagaglio venne estratto dall'abitacolo, i quattro o cinque corpisantari che costringevano Dulcibeni mollarono la presa dandosi alla fuga; passarono a poca distanza da noi e scomparvero alle nostre spalle in direzione del tombino da cui noi stessi eravamo usciti. «Le sanguisughe, devono avergli preso le sanguisughe» dissi eccitato. «Ssst!» m'ingiunse Atto, e capii ch'egli non aveva alcuna intenzione di prendere parte all'accaduto. Alcuni abitanti delle case circostanti, udito il rumoreggiare della rissa, si erano intanto affacciati alla finestra. Le guardie sarebbero potute accorrere da un momento all'altro. Dall'interno della carrozza Tiracorda si lamentava flebilmente, mentre Dulcibeni smontava dal suo scranno, probabilmente per soccorrere l'amico. Fu allora che accadde l'incredibile. Un'ombra rapidissima, tornando indietro dal tombino in cui s'erano dileguati i corpisantari, si avvicinò zigzagando e s'infilò nuovamente nella carrozza. Sembrava tenere ancora sottobraccio l'oggetto voluminoso che avevamo visto sottrarre al povero Tiracorda. 558/703
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«No, maledetto, il crocefisso no, c'è una reliquia...». La voce implorante del medico risuonò pietosamente nella notte, mentre dopo un breve trambusto l'ombra scese a terra dalla parte opposta. Un errore fatale: qui lo attendeva Pompeo Dulcibeni. Crudele e secca sentimmo schioccare la frusta di cui questa volta s'era munito, e con la quale Dulcibeni arpionò alle gambe il predatore, facendolo rovinare a terra. Mentre cercava inutilmente di rialzarsi dalla polvere, alla luce di una delle due torce di bordo riconobbi la figura goffa e gibbuta di Ciacconio. Ci avvicinammo ancora un poco, rischiando così di essere scoperti. Con la vista parzialmente impedita dalla portiera ancora aperta, sentimmo la frusta schioccare un'altra volta, e poi una terza, accompagnata dall'inconfondibile grugnito di Ciacconio, questa volta con una chiara sfumatura di protesta. «Cani schifosi» disse poi Dulcibeni mentre poggiava qualcosa all'interno della carrozza, richiudeva la portiera e con un salto si precipitava a cassetta spronando i cavalli. Ancora una volta il troppo rapido susseguirsi degli eventi m'impedì di considerare le ragioni della prudenza e dell'intelletto, nonché quelle del giusto timor di Dio, che mi avrebbero suggerito di sottrarmi alla pericolosa influenza dell'abate Melani e di non immischiarmi in azioni avventate, criminose e violente. Ecco perché, ancora compreso nell'audace progetto di salvare la vita a Nostro Signore Innocenzo XI, non osai tirarmi indietro quando l'abate Melani, trascinandomi fuori dall'ombra, mi guidò verso la carrozza che proprio allora si metteva in moto allontanandosi. «Ora o mai più» disse mentre con un breve inseguimento montavamo a bordo sulla pedana per i servitori posta dietro l'abitacolo. Non appena ci fummo aggrappati alle grosse maniglie posteriori, avvertii un terzo tonfo sulla pedana e mani rapaci che mi strattonavano, rischiando di trascinarmi in strada. Quasi Imprimatur - Monaldi & Sorti
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sopraffatto dall'ennesima sorpresa mi voltai, e mi trovai di fronte l'orribile sorriso deforme, sdentato e diabolico di Ciacconio, che teneva in mano un crocefisso a cui era legato un pendaglio. Gravata così da un terzo passeggero abusivo, la carrozza aveva intanto subito un brusco scarto laterale. «Cani schifosi, vi ammazzerò tutti» disse Dulcibeni mentre la frusta schioccava ripetutamente. La carrozza svoltò a sinistra infilando via di Panico, mentre sul lato opposto ci scorreva davanti la ciurma disordinata dei corpisantari che assisteva impotente alla deviazione e poi alla fuga del nostro mezzo. Non vedendo tornare Ciacconio, erano evidentemente tornati in superficie. Tre o quattro di loro si lanciarono all'inseguimento a piedi, mentre voltavamo ancora a destra all'altezza di piazza di Monte Giordano in direzione della Chiavica di Santa Lucia. A causa dell'imboscata Dulcibeni non aveva potuto prendere la strada verso Monte Cavallo, e ora sembravamo procedere a caso. «Ne hai fatta un'altra delle tue, vero bestiaccia?» gridò l'abate Melani a Ciacconio mentre la carrozza prendeva velocità. «Gfrrrlûlbh» si giustificò Ciacconio. «Capisci cos'ha combinato?» replicò Atto rivolto a me. «Siccome aver vinto non gli bastava, è tornato indietro per rubare dalla carrozza anche il crocefisso con la reliquia, che Ugonio aveva già cercato di sgraffignare la prima volta che siamo entrati nella stalla di Tiracorda. Così però Dulcibeni gli ha ripreso le sanguisughe». Nella nostra scia i corpisantari non desistevano dall'inseguimento, anche se già stavano perdendo terreno. Proprio allora (avevamo svoltato ancora a sinistra) sentimmo la voce tremula e terrorizzata di Tiracorda, che si era sporto dal finestrino: «Pompeo, Pompeo, ci inseguono, e qui dietro c'è qualcuno...». Dulcibeni non rispose. Uno schianto inatteso e violentissimo ci rese sordi, mentre una nuvola di fumo ci privava momenta560/703
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neamente della vista e le orecchie venivano sforzate da un fischio lacerante e crudele. «Giù! Ha una pistola» ci esortò Atto rattrappendosi sulla pedana. Mentre lo imitavo, la carrozza accelerò ancora. Già provati dall'arrembaggio dei corpisantari, i nervi dei poveri cavalli non avevano tollerato l'improvvisa detonazione. Invece di porsi al riparo, Ciacconio scelse come al solito la strada più insana e s'arrampicò sopra alla carrozza dirigendosi carponi verso Dulcibeni, tenendosi aggrappato per miracolo al tettuccio malsicuro e ballonzolante. Ma passò appena qualche istante, e lo schiocco della frusta lo costrinse immediatamente a rinunciare all'assalto. Stavamo sbucando a tutta velocità da via del Pellegrino in campo di Fiore quando vidi Ciacconio, ancora minacciosamente arroccato sul tettuccio, staccare dal crocefisso il pendaglio con la reliquia e scagliare con forza la Croce sacra verso Dulcibeni. Il leggero scarto laterale della carrozza diede l'impressione che il bersaglio fosse stato centrato. Ciacconio cercò nuovamente di avanzare, forse tentando di approfittare dell'occasione prima che Dulcibeni riuscisse a caricare nuovamente la pistola. «Se Dulcibeni non ferma questa corsa ci sfracelleremo contro un muro» udii a malapena da Atto nel fracasso delle ruote sull'acciottolato. Sentimmo nuovamente risuonare la frusta; invece di rallentare, la velocità aumentava. Notai che il nostro tracciato era stato pressoché privo di svolte. «Pompeo, oh mio Dio, fermate questa carrozza» sentimmo piagnucolare Tiracorda dall'interno dell'abitacolo con la voce quasi coperta dallo sferragliare delle ruote e degli zoccoli. Avevamo ormai attraversato piazza Mattei e persino piazza Campitelli; la folle corsa notturna della carrozza, che s'era lasciata sulla destra il Monte Savello, sembrava ormai priva di logica e di salvezza. Mentre la doppia scia delle due torce lateImprimatur - Monaldi & Sorti
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rali fendeva festosamente il buio, i rarissimi e furtivi passanti notturni, intabarrati nei mantelli e ignoti a tutto fuor che alla luna, assistevano interdetti al nostro sfrecciante e fragoroso transito. Incrociammo persino una ronda notturna, che non ebbe tempo né modo di fermarci e interrogarci. «Pompeo, vi prego» implorò nuovamente Tiracorda. «Fermate, fermate subito». «Ma perché non ferma, e perché va sempre dritto?» urlai ad Atto. Mentre attraversavamo piazza della Consolazione non s'udivano più la frusta di Dulcibeni né i borborigmi di Ciacconio. Ci affacciammo prudentemente al di sopra del tettuccio e scorgemmo Dulcibeni in piedi, a cassetta, scambiarsi con Ciacconio una sequela selvaggia e disordinata di manate, pugni e calci. Nessuno teneva le redini. «Mio Dio» esclamò Atto. «Ecco perché non abbiamo mai svoltato». Fu allora che entrammo nella lunga spianata tetragonale del campo Vaccino, ove si mostra quanto rimane dell'antico Foro Romano. Alla disperata frenesia dei nostri occhi si offrivano a sinistra l'arco di Settimio Severo, a destra le rovine del tempio di Giove Statore e poi l'ingresso degli Orti Farnesiani; in fondo, sempre più vicino, l'arco di Tito. L'andatura era adesso resa ancor più avventurosa dal fondo barbaramente sconnesso del campo Vaccino. Evitammo per miracolo un paio di vetuste colonne romane riverse al suolo. Passammo finalmente sotto l'arco di Tito e infilammo la discesa successiva, terminandola a folle velocità, e pareva che nulla ci potesse più fermare mentre udivo la voce rabbiosa di Dulcibeni: «Cane schifoso, va' all'inferno». «Gfrrrlûlbh» lo insultò a sua volta Ciacconio. Qualcosa di grigiastro e cencioso rotolò allora giù dalla carrozza, e ciò proprio mentre il convoglio entrava sfinito e trionfante nell'ampio spiazzo su cui domina da sedici secoli, magnifico e indifferente, lo stanco rudere del Colosseo. 562/703
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Mentre ci avvicinavamo all'imponente anfiteatro, udimmo sotto ai nostri piedi uno schianto secco. L'assale posteriore aveva ceduto alle sollecitazioni della lunga cavalcata, facendo scarrocciare e piegare violentemente il nostro mezzo sulla destra. Prima che la carrozza si rovesciasse, urlando di terrore e di sorpresa Atto e io ci lasciammo cadere e rotolare al suolo, evitando miracolosamente di finire stritolati nei raggi delle grandi ruote che saettavano ai nostri fianchi; i cavalli rovinarono assai malamente a terra, mentre la carrozza e i suoi due passeggeri si schiantavano lateralmente slittando e planando poco più oltre sopra un doloroso sudario di terra, sassi ed erbacce.
Passati alcuni istanti di comprensibile obnubilazione, mi rialzai in piedi. Ero malconcio, ma non ferito. La carrozza giaceva su un fianco, con una ruota che girava ancora a vuoto, lasciando immaginare poco piacevoli conseguenze per i suoi passeggeri. Le torce laterali, fumanti, erano spente. Sapevamo già che la macchia grigiastra espulsa poco prima dal nostro convoglio doveva essere il povero Ciacconio, che Dulcibeni doveva aver gettato dalla carrozza in corsa. Ma subito la nostra attenzione fu presa da altro. Atto m'indicò una portiera della carrozza, rimasta aperta ed eroicamente rivolta verso il cielo. C'intendemmo all'istante: senza frapporre indugi ci precipitammo nell'abitacolo, dove giaceva riverso Tiracorda, gemente e semisvenuto. Più svelto di Atto, afferrai dalle mani dell'archiatra un pesante bauletto di cuoio dai rinforzi in metallo, il cui tintinnio interno tradiva la probabile presenza d'un vaso. Pareva al di là d'ogni dubbio il medesimo oggetto che avevamo visto trafugare da Ciacconio: il contenitore del robusto vaso ermetico che serve ai dottori per trasportare le sanguisughe. «L'abbiamo!» esultai. «Ora fuggiamo!» Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Ma non feci quasi in tempo a terminare la frase, che una presa poderosa mi distolse dall'interno della carrozza ricacciandomi di mala grazia sul duro selciato, ove rotolai dolorosamente come un piccolo fagotto di stracci. Era Dulcibeni, forse ripresosi in quel mentre. Cercava ora di strapparmi il bauletto: ma io, stringendolo nei pugni con quanta forza avevo in corpo, m'ero chiuso a riccio attorno alla preda, facendole da scudo con braccia, busto e gambe. Così che ogni tentativo di Dulcibeni si risolveva col sollevare tutt'insieme di peso me e il mio prezioso carico, senza però riuscire a dividerci. Mentre Dulcibeni così s'affannava, schiacciandomi col suo peso possente e infliggendomi molte e dolorose ammaccature, l'abate Melani cercava di contrastare la furia dell'anziano giansenista. Ma invano: Dulcibeni sembrava possedere la forza di cento uomini. Caracollammo a terra tutti e tre, aggrovigliati in una mischia caotica e furibonda. «Lasciami, Melani» si sgolava Dulcibeni. «Non sai cosa stai facendo, non sai!» «Davvero vuoi arrivare ad assassinare il Papa a causa di tua figlia? Per una bastarda mezza negra?» «Tu non puoi...» ansimò Dulcibeni, mentre Atto riusciva per qualche attimo a torcergli un braccio, mozzandogli il fiato in gola. «La figlia di una puttana turca t'ha ridotto così?» incalzava Atto con scherno mentre, tossendo aspramente per lo sforzo, aveva dovuto mollare il braccio di Dulcibeni. Pompeo gli sferrò un pugno diritto sul naso, che fece gemere assai l'abate, e lo lasciò a terra semitramortito. Non appena si voltò verso di me, Dulcibeni mi trovò ancora avvinghiato al bauletto. Paralizzato dalla paura, non osai neppure muovermi. M'afferrò per i polsi e, quasi stritolandomeli, liberò dal mio abbraccio il contenitore del vaso. Poi si diresse di corsa nuovamente verso la carrozza. Lo seguii con lo sguardo al chiarore lunare. Uscì poco dopo dall'abitacolo della carrozza, saltando bravamente al suolo. 564/703
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Teneva il bauletto con la sinistra. «Dammi l'altra. Sì, bravo, è lì dietro» disse rivolto all'interno della carrozza. Poi infilò la destra dentro la portiera e ne trasse, se i miei occhi non mi tradivano, una pistola. Piuttosto che ricaricare la prima arma, aveva giustamente preferito munirsi di una seconda pistola già pronta all'uso. Atto s'era intanto rialzato e si stava precipitando verso la carrozza. «Abate Melani» disse Dulcibeni a metà tra lo scherno e la minaccia «visto che ti piace pedinare, ora puoi completare la tua opera». Poi si voltò e cominciò a correre in direzione del Colosseo. «Fermo! Dammi quella borsa» gl'intimo Atto. «Ma signor Atto, Dulcibeni...» obiettai. «... è armato, lo so bene» rispose l'abate Melani piegandosi prudentemente a terra. «Ma non per questo ci sfuggirà». Fui colpito dal tono deciso di Atto, e in un bruciante squarcio intuii quanto s'agitasse nel suo cuore e nei suoi pensieri, e perché quella sera fosse montato abusivamente senz'esitazione alcuna dietro alla carrozza di Tiracorda, affrontando il rischio mortale d'inseguire Dulcibeni. La naturale vocazione di Atto a invischiarsi in oscuri intrighi, nonché il potente orgoglio che gli faceva giustamente gonfiare il petto allorché individuava congiurati, ebbene, tutto ciò ch'egli sentiva e voleva e serbava nel suo naturale non era ancora stato soddisfatto. Le rivelazioni su Dulcibeni rimaste a metà avevano attirato Melani nel loro gorgo. E ora l'abate non poteva, né voleva, più trarsene fuori. Voleva sapere, fino alla fine. Atto non correva per strappare a Dulcibeni le sanguisughe pestifere: voleva i suoi segreti. Mentre quelle immagini e quei pensieri mi passavano dinanzi agli occhi con velocità mille volte superiore a quella della carrozza di Tiracorda, Dulcibeni si stava dando alla fuga verso il Colosseo. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Seguiamolo, ma restiamo sempre piegati a terra» raccomandò Atto. Senza osare una protesta, consapevole dell'ardimentoso compito a cui eravamo chiamati, mi feci il segno della Croce e lo seguii.
Dulcibeni era scomparso in un batter d'occhi nell'oscuro porticato del Colosseo. Atto mi trasse con uno strattone verso destra, come a voler compiere lo stesso tragitto dell'inseguito, ma al di fuori del colonnato. «Dobbiamo sorprenderlo prima che ricarichi la pistola» mi sussurrò. Con serpentina andatura ci avvicinammo agli archi del Colosseo. Ci accostammo dapprima a una delle poderose colonne portanti, abbarbicandoci come foglioline d'edera attorno ai blocchi di pietra. Sbirciammo poi nel porticato: di Dulcibeni non c'era traccia né sentore. Procedemmo per qualche passo, tendendo le orecchie. Era solo la seconda volta in vita mia che mi aggiravo tra le rovine del Colosseo, ma sapevo che il luogo era spesso infestato, oltre che da gufi e pipistrelli, da lenoni, ladruncoli e malfattori d'ogni sorta che vi si nascondevano per sfuggire alla giustizia o per perpetrare le loro esecrabili pratiche. L'oscurità impediva quasi completamente la vista; si distingueva di quando in quando solo ciò che attingeva il riverbero del cielo, timidamente rischiarato dalla luna. Procedevamo guardinghi nel grande porticato, attenti quasi più a non incespicare in qualche lastra di pietra seminterrata che a individuare la nostra preda. Ci restituivano i rumori la volta del porticato e il muro alla nostra destra; quest'ultimo separava l'interno dell'anfiteatro dal porticato, ed era segnato a intervalli regolari da feritoie verticali che permettevano di gettare lo sguardo nella grande arena. Oltre al fruscio di passi e 566/703
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di gesti che noi stessi inevitabilmente producevamo, nulla s'udiva. Fu per ciò che sobbalzammo quando, chiara e diretta, si manifestò nel buio una voce: «Povero Melani, schiavo del tuo Re fino alla fine». Atto s'arrestò: «Dulcibeni, dove sei?». Seguì un attimo di silenzio. «Sto salendo in Cielo, voglio vedere Dio da vicino» sibilò Dulcibeni da un punto imprecisato, che suonava a un tempo vicino e lontano. Ci guardammo inutilmente intorno. «Fermati e parliamo» disse Atto. «Se lo fai, non ti denunceremo». «Vuoi sapere, abate? Ebbene ti soddisferò. Ma prima trovami». Dulcibeni si stava allontanando; ma non dietro né avanti a noi sotto al porticato, né tantomeno all'esterno del Colosseo. «È già dentro» concluse Atto. Solo più tardi, molto tempo dopo quei fatti, avrei appreso che il muro che proteggeva l'interno dell'anfiteatro dal porticato, e che però permetteva d'ammirare la grande arena, veniva regolarmente violato dai malfattori. L'ingresso all'arena era lecitamente consentito solo attraverso i grandi cancelli di legno situati ai capi opposti dell'edificio, che di notte erano ovviamente chiusi. Così, per fare delle rovine utile e segreto covo, uomini e donne di mala vita scavavano brecce nella cinta, che le autorità di rado riparavano con la dovuta tempestività. Attraverso uno di tali varchi era passato evidentemente Dulcibeni. Subito l'abate Melani cominciò a esplorare la parte circostante del muro, alla ricerca del passaggio. «Vieni, vieni, Melani» ci derideva intanto la voce di Dulcibeni, sempre più lontana. «Maledizione, non lo... eccolo!» esclamò intanto Atto. Più che un foro era un semplice allargamento di una delle feritoie nel muro di cinta, all'altezza della cintola d'un indiviImprimatur - Monaldi & Sorti
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duo di normale statura. Ci infilammo nel pertugio, aiutandoci a vicenda. Mentre mi calavo all'interno dell'arena, mi sentii scuotere da un poderoso brivido di paura: una mano, dall'esterno, mi aveva afferrato la spalla. Pensai con allarme a uno dei criminali che nottetempo infestavano la zona, e stavo per urlare quando una voce familiare m'invitò al silenzio: «Gfrrrlûlbh». Ciacconio ci aveva ritrovati, e ora si apprestava a coadiuvarci nella difficile cattura di Dulcibeni. Mentre anche il corpisantaro si calava attraverso il muro, tirai un sospiro di sollievo e comunicai ad Atto la novità. L'abate era già andato in avanscoperta. Ci trovavamo in uno dei molteplici corridoi che si dipanano tra la cinta muraria del Colosseo e lo spiazzo centrale la cui sabbia, secoli or sono, venne impastata col sangue di gladiatori, leoni e martiri cristiani, sacrificati tutti insieme al delirio delle folle pagane. Procedevamo in fila indiana tra alti muraglioni di pietra digradanti verso il centro del Colosseo, che facevano da cornice all'arena centrale e che un tempo - com'era facile congetturare - dovevano aver sorretto le gradinate su cui sedeva il pubblico. L'ora notturna, l'umidità e il fetore della cornice di mura, archi e ponti semidiruti, e infine il volo frusciante e impazzito dei pipistrelli, rendevano l'atmosfera fosca e minacciosa. Il tanfo di muffe e deiezioni organiche impediva persino a Ciacconio d'individuare, con il suo miracoloso olfatto, in quale direzione si dovesse cercare Dulcibeni. Vidi il corpisantaro protendere più volte il nasone verso l'alto e inspirare con alternato e animalesco ansimare, ma invano. Solo la luce lunare, che si rifletteva financo sulla bianca pietra degli ordini più alti del Colosseo, dava parziale ristoro allo spirito e ci permetteva di procedere, pur privi d'alcun lume, senza precipitare nelle numerose voragini che s'aprivano tra un rudere e l'altro. Dopo un'inutile perlustrazione, Atto si fermò spazientito. «Dulcibeni, dove sei?» gridò. Gli rispose solo l'inquieto silenzio delle rovine. 568/703
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«Proviamo a dividerci?» proposi. «Neanche per sogno» rispose Atto. «A proposito, dove sono finiti i tuoi amici?» chiese a Ciacconio. «Gfrrrlûlbh» rispose egli, gesticolando e facendo capire che il resto della marmaglia corpisantara, sebbene appiedato, sarebbe arrivato quanto prima. «Bene. Abbiamo bisogno di rinforzi per acciuffare…». «Servo delle Corone, non mi vieni a prendere?» Dulcibeni ci aveva richiamati all'azione. La voce proveniva stavolta inequivocabilmente da sopra le nostre teste. «Stupido giansenista» commentò a bassa voce Atto, chiaramente infastidito dalla provocazione, poi gridò: «Avvicinati Pompeo, voglio solo parlare con te». Udimmo di rimando una sonora risata. «E va bene, verrò io» ribatté Atto. Era in verità cosa più facile a dirsi che a farsi. L'interno del Colosseo, compreso tra l'arena centrale e la facciata, era un labirintico susseguirsi di mura diroccate, architravi mutili e colonne decapitate, in cui la difficoltà dell'orientamento e la poca luce s'aggiungevano alle forme barbare e sconnesse delle rovine. Per secoli il Colosseo era stato prima abbandonato e poi privato di marmi e pietre in quantità da numerosi Pontefici per la costruzione (giusta e sacrosanta) di molte Chiese; come ho detto, delle vecchie gradinate digradanti verso l'arena non restavano che i muri di sostegno. Questi s'elevavano a raggiera dal perimetro dell'arena fino in cima alla cerchia muraria esterna. A loro paralleli, correvano gli angusti passaggi di collegamento dei numerosi corridoi circolari concentrici, che abbracciavano interamente lo stadio. Il tutto formava il dedalo inestricabile in cui ora ci muovevamo. Percorremmo per un breve tratto uno dei corridoi circolari, cercando d'approssimarci al punto da cui ci pareva esser provenuta la voce di Dulcibeni. Il tentativo si rivelò inutile. Atto guardò interrogativamente Ciacconio. Il corpisantaro esplorò Imprimatur - Monaldi & Sorti
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nuovamente l'aere con le froge dilatate, ma senza risultato. Dulcibeni dovette intuire le nostre difficoltà, perché quasi subito si rifece vivo: «Abate Melani, mi stai facendo perdere la pazienza». Contrariamente alle attese, la voce era tutt'altro che lontana, ma gli echi prodotti dalle rovine impedivano d'individuare la direzione da cui promanavano le parole irridenti del fuggiasco. Curiosamente, non appena si spensero i sonori riflessi della sua voce, mi parve d'udire un sibilo breve e ripetuto, dalla tonalità assai familiare. «Avete sentito anche voi?» chiesi con un filo di voce ad Atto. «Sembra che... credo stia inalando il tabacco». «Strano» commentò l'abate «in un momento come questo...». «Gliel'ho sentito fare anche stasera, quando non è sceso a cena». «Cioè poco prima di mettersi in moto per completare il suo piano» notò l'abate Melani. «Esatto. Gli avevo visto tirare il tabacco anche prima dei suoi discorsi sulle Corone» aggiunsi «sui Sovrani corrotti, e così via. E ho notato che dopo la presa di tabacco appariva più sveglio e vigoroso. E come se gli servisse per chiarirsi le idee o... per darsi forza, ecco». «Credo proprio d'aver capito» mormorò Atto tra sé e sé, ma subito s'interruppe. Ciacconio ci stava strattonando per le maniche, attirandoci verso il centro dell'arena. Il corpisantaro s'era diretto fuori dal labirinto per poter meglio seguire la traccia odorosa di Dulcibeni. Non appena raggiunto lo spiazzo, infatti, puntò il naso a mezz'aria ed ebbe un sussulto: «Gfrrrlûlbh» disse indicando un punto dei ciclopici e impervi muraglioni perimetrali del Colosseo. «Sei sicuro?» gli chiedemmo all'unisono, vagamente sgomenti per la pericolosità e l'inaccessibilità del luogo. Ciacconio annuì col capo, e ci mettemmo subito in marcia 570/703
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verso il nostro obiettivo. I muraglioni perimetrali dello stadio erano composti da tre grandi ordini sovrapposti di archi. Il punto indicato da Ciacconio era un arco del livello mediano, posto a un'altezza da terra forse superiore a quella dell'intera locanda del Donzello. «Come saliamo lì sopra?» chiese l'abate Melani. «Fatti aiutare dai tuoi mostri» sentimmo gridare Dulcibeni: questa volta Atto aveva parlato senza abbassare a sufficienza la voce. «Hai ragione, è una buona idea» gli urlò di rimando. «Non sbagliavi» aggiunse poi rivolto a Ciacconio «la voce viene da là sopra». Ciacconio intanto stava già facendoci strada in tutta fretta attraverso il labirinto. Ci condusse verso uno dei due grandi cancelli di legno che durante il giorno venivano lasciati aperti e davano accesso all'interno dell'anfiteatro. Proprio davanti al cancello s'ergeva una grande e ripida scalinata, che si addentrava nel corpo maestoso del Colosseo. «Dev'essere salito di qua» bisbigliò Melani. La scalinata conduceva infatti al primo piano dell'edificio, ovverossia all'altezza del secondo ordine di archi. Appena terminata l'ultima rampa uscimmo all'aperto, e ci ritrovammo in un enorme corridoio ad anello che correva lungo l'intero anfiteatro. Qui, innalzatici non poco dal piano della cavea, la luce della luna si spandeva più certa e generosa. Grandiosa era la vista sullo spiazzo centrale, sulle rovine delle gradinate e, sopra di noi, sulle enormi mura che contenevano l'intera massa del circo, stagliandosi maestose nel cielo. Con il fiato corto a causa della rapida ascesa, per un istante ci fermammo quasi dimentichi del nostro obiettivo, rapiti da tanto spettacolo. «Ci sei quasi, spione dei Re» ci richiamò da destra la voce aspra e gracidula di Dulcibeni. Da destra un boato ci terrorizzò, e quasi istantaneamente ci appiattimmo al suolo. Dulcibeni ci aveva sparato. Poi una serie di rumori secchi, a pochi passi da noi, ci fece Imprimatur - Monaldi & Sorti
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nuovamente sobbalzare. Mi avvicinai carponi e trovai, semisfasciata a causa del duro atterraggio, la pistola di Dulcibeni. «Mancati due volte, che peccato. Coraggio, Melani, ora siamo ad armi pari». Porsi l'arma ad Atto, che guardò cogitabondo in direzione di Dulcibeni. «C'è qualcosa che mi sfugge» commentò mentre ci avvicinavamo al punto da cui erano giunti sia la voce che la pistola. Anche a me qualcosa non tornava. Già mentre salivamo la grande scalinata, ero stato preso da non pochi dubbi. Come mai Dulcibeni ci aveva attirato in quel bizzarro inseguimento al chiaro di luna, tra le rovine del Colosseo, perdendo tempo prezioso e rischiando d'essere colto in flagrante dagli sbirri? Come mai aveva tanta voglia di attirare l'abate Melani fin lassù con la promessa che gli avrebbe rivelato tutto quanto Atto avesse desiderato? Intanto, mentre scalavamo a perdifiato gli antichi gradini rosi dal tempo, avevamo udito l'eco di grida lontane, quasi il guerresco brusio di truppe che convergono su un obiettivo convenuto. «Lo sapevo» aveva commentato l'abate Melani con il fiatone. «Era impossibile che non si facessero vivi un po' di sbirri e caporioni. Con quella corsa in carrozza Dulcibeni non poteva sperare di passare inosservato». Con le sue irridenti provocazioni la nostra preda ci aveva facilitato la ricerca. Ma fu subito evidente che ben difficilmente avremmo potuto raggiungerlo. Dulcibeni s'era infatti inerpicato in cima a un muro di sostegno delle gradinate; dal corridoio in cui ci trovavamo il muro montava obliquamente fino a una finestruola del muraglione perimetrale, che si trovava quasi alla sommità del Colosseo. Se ne stava lì, comodamente seduto nello specchio della finestruola, la schiena appoggiata al muro, con la valigia delle sanguisughe sempre stretta tra le braccia. Rimasi stupito dalla 572/703
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bravura con cui doveva essere riuscito a rifugiarsi lassù: sotto al muro obliquo sul cui crinale si era avventurato c'era infatti un orribile e perigliosissimo strapiombo, precipitando nel quale chiunque sarebbe incorso in una fine orribile. Al di là della finestruola v'era un abisso d'altezza pari a due interi palazzi, da cui Dulcibeni non sembrava in alcun modo turbato. Tre universi spaventosi e sublimi s'aprivano dunque attorno all'inseguito: la grande arena del Colosseo, il tremendo baratro all'esterno della facciata e il cielo stellato che faceva da suggello al teatro funesto e grandioso di quella nottata. Sotto al Colosseo, intanto, sembrava di avvertire voci e presenze d'estranei: gli sbirri dovevano essere arrivati. Dalla nostra preda ci separava in linea d'aria la larghezza di una strada cittadina di media ampiezza. «Eccoli, i salvatori dell'usuraio con la tiara, della belva insaziabile di Como» ed esplose in una risata che avvertii forzata e innaturale, frutto d'insano connubio tra collera ed euforia. Atto gettò uno sguardo interrogativo a me e Ciacconio. Dulcibeni diede un'altra annusata, e poi un'altra ancora. «L'avevo capito, sai» disse Atto. «Dimmi, dimmi, Melani, dimmi cos'avevi capito» esclamò Dulcibeni rimettendosi a sedere. «Il tabacco non è tabacco...». «Ma che bravo. Sai che ti dico? Hai ragione. Tante cose non sono ciò che paiono». «Tu inali quelle strane foglie secche, come si chiama...» insistette Atto. «La mamacòca!» esclamai. «Qual perspicacia, sono ammirato» rispose caustico Dulcibeni. «Ecco perché non ti stanchi di notte» disse l'abate. «Però poi di giorno sei irascibile, e senti il bisogno di averne ancora, e così continui a imbottirtene le narici: e allora ti capita di fare interi discorsi da solo davanti allo specchio, immaginando d'avere ancora con te tua figlia. E quando inizi uno dei tuoi folli diImprimatur - Monaldi & Sorti
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scorsi sui Sovrani e sulle Corone t'infiammi e nessuno riesce a fermarti, perché quell'erba sostiene il corpo ma è... insomma, offusca la mente e rende invasati. O sbaglio?» «Vedo che ti sei divertito a insegnare al tuo garzonetto il mestiere della spia, anziché lasciarlo al suo naturale destino di diletto de' Principi e maraviglia de' spettatori» rispose Dulcibeni in una roboante risata, scoccata per vendetta contro di me. Era vero, d'altronde, che avevo origliato alla porta del giansenista ed ero andato a spifferare tutto all'abate. Dulcibeni balzò poi agilmente sul muro obliquo, dimentico del baratro che s'apriva sotto di lui, e si issò (nonostante l'impaccio del bauletto) sulla sommità del grande muro della facciata, la cui superficie era larga oltre tre passi. Il nostro avversario era ora in piedi, e quasi maestosamente si ergeva ben al di sopra delle nostre teste. A pochi passi da lui, sulla destra, svettava una grande Croce di legno, alta più d'un uomo, montata sulla facciata del Colosseo per significare la consacrazione del monumento alla memoria dei martiri cristiani. Dulcibeni diede uno sguardo verso il basso, all'esterno del Colosseo: «Coraggio, Melani, tra poco arrivano i rinforzi. C'è un gruppo di sbirri qui sotto». «E allora dimmi, prima che arrivino» riprese Atto. «Perché vuoi la morte d'Innocenzo XI?» «Spremiti il cervello» disse Dulcibeni arretrando sul ciglio del muraglione: proprio in quel mentre Atto stava riuscendo a montare a sua volta sullo stretto muro che portava al muraglione perimetrale. «Cosa t'ha mai fatto, dannazione?» lo incalzò Atto con voce strozzata. «Ha disonorato la Fede cristiana, l'ha coperta di vergogna e d'ignominia? È questo che pensi, vero? Dillo, Pompeo, che sei un invasato come tutti i giansenisti. Tu odi il mondo, Pompeo, perché non riesci a odiare te stesso». Dulcibeni non rispose. Nel frattempo Atto, avvinghiandosi 574/703
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alla nuda pietra, si stava inerpicando faticosamente sul ciglio del muro che portava in alto, verso il suo interlocutore. «Gli esperimenti sull'isola» continuava mentre si aggrappava goffamente con tutti e quattro gli arti al ciglio del muro «le visite da Tiracorda, le notti nei sotterranei... Hai fatto tutto questo per una cagnetta bastarda mezza infedele, povero pazzo. Dovresti ringraziare Huygens e quel vecchio bavoso di Feroni, se le hanno fatto l'onore di sventrarle la finocchiella prima di scaricarla in mare». Rimasi interdetto dinanzi al crudele turpiloquio che l'abate Melani aveva inaspettatamente sfoderato. Poi capii: Atto stava provocando Dulcibeni per farlo esplodere. E ci riuscì. «Taci, castrato, vergogna di Dio, tu che puoi solo farti sventrare il culo» urlò Dulcibeni da lontano. «Che ti piacesse far nuotare l'uccello nella merda l'avevo capito: ma che ne avessi anche pieno il cervello...». «Tua figlia, Pompeo» approfittò subito Atto. «Il vecchio Feroni la voleva comprare, vero?» Dulcibeni si lasciò scappare un gemito di sorpresa: «Va' avanti, ché sei sulla strada giusta» si limitò però a dire. «Vediamo...» ansimò Atto per lo sforzo dell'arrampicata, ma facendosi sempre più vicino a Dulcibeni «Huygens curava gli affari di Feroni; perciò spesso trattava con gli Odescalchi, e quindi anche con te. Un giorno scorge la tua figlioletta e se ne incapriccia. Quel rimbecillito di Feroni, come al solito, gliela vuole dare a tutti i costi. Chiede agli Odescalchi di comprarla, magari per rivenderla quando Huygens se ne fosse stufato. Forse la ottiene proprio da Innocenzo XI, che a quell'epoca era ancora Cardinale». «La ottenne da lui e da suo nipote Livio, anime dannate» lo corresse Dulcibeni. «Tu non potesti legalmente opporti» proseguì Atto «perché avevi disdegnato di sposare sua madre, una miserabile schiava turca, e così tua figlia apparteneva non a te, ma agli Odescalchi. Allora trovasti un rimedio: rivangare uno scandalo all'orecchio Imprimatur - Monaldi & Sorti
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dei tuoi padroni, una macchia sull'onore degli Odescalchi. In breve, li hai ricattati». Dulcibeni tacque ancora, e questa volta il silenzio parve più che mai una conferma. «Mi manca solo una data» chiese Atto. «Quando è stata rapita tua figlia?» «Nel 1676» rispose gelido Dulcibeni. «Aveva solo dodici anni». «Poco prima del Conclave, vero?» disse Atto facendo un altro passo avanti. «Credo tu abbia capito». «Si stava preparando l'elezione del nuovo Papa, e il cardinal Benedetto Odescalchi, che per un soffio aveva perso il Conclave precedente, stavolta era deciso a trionfare. Ma con il tuo ricatto lo tieni in pugno: se una certa notizia fosse arrivata all'orecchio degli altri Cardinali, si sarebbe sollevato uno scandalo enorme, e addio elezione. Sto andando bene?» «Non potresti andare meglio» disse Dulcibeni senza celare la sorpresa. «Qual era lo scandalo, Pompeo? Cos'avevano fatto gli Odescalchi?» «Prima finisci la tua storiella» lo invitò Dulcibeni con scherno. Il vento della sera, più sensibile a quell'altezza, ci sferzava tutti senza posa; tremavo senza sapere se per il freddo o la paura. «Con piacere» disse Atto. «Col ricatto credevi d'impedire la vendita di tua figlia. Invece hai firmato la tua condanna a morte. Feroni, forse con la complicità degli stessi Odescalchi, rapisce tua figlia e così ti chiude la bocca il tempo necessario perché Benedetto venga eletto Papa. Dopodiché cerchi di ritrovare la ragazzina. Ma non sei abbastanza bravo». «Ho girato tutta l'Olanda, in lungo e in largo. Dio solo sa che non potevo fare di più!» ruggì Dulcibeni. «Non trovi tua figlia, e resti vittima anche di uno strano in576/703
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cidente: qualcuno ti fa volare da una finestra, o qualcosa del genere. Ma te la sei cavata». «Sotto c'era una siepe, sono stato fortunato» completò Dulcibeni. «Va' avanti». Atto esitò davanti all'ennesima esortazione di Dulcibeni. E anch'io mi chiesi come mai ci stesse dando tanta corda. «Sei fuggito da Roma, braccato e terrorizzato» continuò Melani. «Il resto lo sapevo già: ti sei convertito al giansenismo, e a Napoli hai incontrato Fouquet. C'è piuttosto un'altra cosa che non capisco: perché vendicarti adesso, dopo tanti anni? Forse perché... oh mio Dio, ho capito». Vidi l'abate Melani portarsi una mano alla fronte, in atto di sorpresa. Aveva intanto percorso con audace equilibrismo un altro tratto di muro e s'era fatto ancor più vicino a Dulcibeni. «Perché ora si combatte a Vienna, e se uccidi il Papa l'alleanza dei Cristiani si sfascerà, i Turchi vinceranno e devasteranno l'Europa. Non è così?» esclamò Atto con voce incrinata dallo stupore e dall'indignazione. «L'Europa è stata già devastata: e dai suoi propri Re» ribatté Dulcibeni. «Oh, maledetto pazzo» replicò Atto. «Tu vorresti... tu vuoi...» e starnutì tre, quattro, cinque volte con insolita violenza, rischiando di mollare la presa sul muro e cadere nel baratro. «Maledizione» commentò poi indispettito. «Una volta una sola cosa mi faceva starnutire: le stoffe d'Olanda. E ora ho capito finalmente perché starnutisco tanto da quando sono entrato in quella maledetta locanda». Compresi anch'io: era colpa dei vecchi abiti olandesi di Dulcibeni. Tuttavia, mi sovvenni d'un tratto, a volte Atto aveva starnutito al mio solo arrivo. Sarà stato magari, pensai, perché ero appena di ritorno dalla stanza del giansenista. Oppure... Ma il momento richiedeva che rimandassi a dopo le mie cogitazioni. Scorsi Dulcibeni spostarsi sulla sommità della facciata dell'anfiteatro, prima a sinistra e poi a destra, continuando a tenere d'occhio la carrozza di Tiracorda. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Tu nascondi ancora qualcosa, Pompeo» gridò Atto, ripresosi dalla crisi starnutifera e tornato in equilibrio, a cavalcioni sul muro. «Con che cosa sei riuscito a ricattare gli Odescalchi? Qual è il segreto con cui tenevi in pugno il cardinal Benedetto?» «Non c'è più niente da dire» tagliò corto Dulcibeni guardando di nuovo verso la vettura dell'archiatra. «Eh no, troppo comodo! Eppoi, Pompeo, la storia di tua figlia non regge: troppo poco per decidere d'attentare alla vita d'un Papa. Ma come: prima non vuoi neppure sposare sua madre, e ora per vendicarla fai tutto questo? No, non sta in piedi. E poi questo Papa è amico di voi giansenisti. Parla, Pompeo!» «Non ti riguarda». «Tu non puoi...». «Non ho più nulla da dire a uno spione del Re Cristianissimo». «Già, però con le tue sanguisughe tu stesso volevi fare al Re Cristianissimo un bel favore: liberarlo del Papa e di Vienna in un sol colpo». «E tu credi veramente che coi Turchi vincerà anche Luigi XIV?» rispose Dulcibeni con livore. «Povero illuso! No, la marea ottomana falcerà anche la testa del Re di Francia. Nessun riguardo per i traditori: è la regola di chi vince». «Allora è questo il tuo piano di palingenesi, la tua speranza di ritorno alla pura Fede cristiana, vero giansenista?» ribatté Atto. «Ma sì, spazziamo via la Chiesa di Roma e i Sovrani cristiani, lasciamo che gli altari vadano in fiamme. Così torneremo ai tempi dei martiri: sgozzati dai Turchi, ma più saldi e più forti nella Fede! E tu ci credi? Chi è l'illuso tra noi, Dulcibeni?» Nel frattempo m'ero allontanato da Atto e Dulcibeni, e avevo raggiunto una sorta di piccola terrazza, presso la scala da cui eravamo montati al primo piano; da lì potei assistere a quanto accadeva all'esterno del Colosseo, e capii perché Dulcibeni guardasse in basso con tanto interesse. Un gruppo di sbirri stava infatti trafficando attorno alla car578/703
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rozza, e in lontananza s'udiva la voce di Tiracorda. Alcuni ci stavano osservando: tra poco, immaginavo e temevo al tempo stesso, sarebbero saliti a prenderci. Improvvisamente però a farmi rabbrividire fu non più la serotina frescura ma un urlo, anzi un coro belluino che si levò tutt'intorno allo spiazzo antistante il Colosseo, e un crepitio diffuso che pareva causato dal lancio di molti sassi e legni. L'orda dei corpisantari (che avevano evidentemente ben pianificato l'incursione) si riversò urlante nella piana davanti al Colosseo, armata di mazze e bastoni e avanzando di gran corsa, senza neppure dare tempo agli uomini del Bargello di capire cosa stesse succedendo. La nostra veduta era in parte aiutata dal chiarore che le faci degli sbirri distribuivano qui e là sulla scena. L'imboscata fu fulminea, barbara e spietata. Un gruppetto d'aggressori sbucò dall'arco di Costantino, un secondo si calò dal muro che delimitava gli orti prospicienti le rovine della Curia Hostilia, un altro venne fuori dalle rovine del tempio d'Iside e Serapide. L'urlo guerriero della teppa assalitrice si levò alto e selvaggio gettando nello sconcerto le vittime, ch'erano solo cinque o sei a fronte di un numero quasi doppio d'avversari. Un paio di sbirri più isolati dal gruppo, pressoché paralizzati dallo stupore, finirono per primi sotto le randellate, i graffi, i calci e i morsi dei tre corpisantari provenienti dall'arco di Costantino. Lo scontro determinò una mischia caotica di gambe, braccia, teste bestialmente avvinghiate in un rudimentale corpo a corpo privo d'ogni militare compostezza. I colpi però non furono certamente mortali, visto che le vittime, pur rudemente malmenate, ben presto batterono indecorosamente in ritirata verso la strada che porta a San Giovanni. Altri due sbirri (proprio coloro che probabilmente s'apprestavano a penetrare nel Colosseo per arrestarci), terrorizzati dalla rutilante schiera corpisantara, senza neppure cercare la pugna si diedero a gambe a gran velocità verso la salita che porta a San Pietro in Vincoli, inseguiti da un quartetto di gorgoglianti incursori, tra i Imprimatur - Monaldi & Sorti
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quali mi parve di discernere l'inconfondibile eloquio di Ugonio. Diversamente andarono invece le cose con i due sbirri che si trovavano presso la carrozza di Tiracorda: uno dei due si difese con la sciabola, riuscendo bravamente a tenere a distanza un terzetto di corpisantari. Nel mentre il suo compagno, l'unico in sella a un cavallo, issava un terzo personaggio, grassoccio e impacciato, che teneva (se la vista non m'ingannava) una borsa appesa al collo. Era Tiracorda, che lo sbirro aveva evidentemente riconosciuto vittima dei fatti criminosi di quella notte, e aveva deciso di trarlo in salvo. Non appena il cavallo con i due s'allontanò, guadagnando la salvezza in direzione di Monte Cavallo, anche lo sbirro appiedato si rassegnò alla fuga, scomparendo nel buio. Attorno al Colosseo tornò a regnare il silenzio. Ritornai con lo sguardo ad Atto e Dulcibeni, anch'essi temporaneamente distratti dalla vera e propria battaglia che s'era svolta sotto ai nostri occhi. «È finita, Melani» disse. «Hai vinto tu, con i tuoi mostriciattoli sotterranei, con la tua mania di spiare e intrigare, con il tuo insano desiderio di strisciare sotto le vesti d'un Principe. Ora aprirò questa borsa, e ti darò il suo contenuto, che il garzoncello qui desidera forse più di te». «Già, è finita» ripetè Atto con un sospiro di stanchezza. Aveva quasi raggiunto la fine del muro, e si trovava a pochi palmi di distanza dai piedi di Dulcibeni. Tra poco avrebbe potuto montare sul muro esterno del Colosseo, e porsi faccia a faccia col suo antagonista. Non ero però dello stesso avviso dell'abate: non era finita. Avevamo pedinato, inseguito, indagato, ragionato per notti e notti. Tutto per rispondere a una domanda su tutte: chi e come aveva avvelenato Nicolas Fouquet? Mi stupii che tra le mille domande che Atto aveva posto a Dulcibeni, proprio questa non avesse trovato spazio. Ma se non la faceva lui, c'ero pur sempre io. «Perché uccidere anche il Sovrintendente, signor Pompeo?» 580/703
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osai dunque chiedere. Dulcibeni sgranò gli occhi e scoppiò in una lugubre risata. «Chiedilo al tuo affezionato abate, ragazzo!» esclamò. «Chiedigli come mai il suo caro amico Fouquet s'è sentito male dopo il pediluvio. Fatti anche dire perché nel frattempo l'abate Melani s'agitasse tanto, e perché tormentava quel poveretto con le sue domande senza neppure lasciarlo morire in pace. E poi... chiedigli cosa c'era di così potente nell'acqua del pediluvio di Fouquet, chiedigli quali veleni riescono ad ammazzare così infidamente». Guardai istintivamente Atto, che non disse nulla, come preso in contropiede. «Ma tu...» cercò debolmente d'interporsi. «Io ho messo a bagno in quell'acqua uno dei miei topolini» riprese Dulcibeni «e dopo un po' l'ho visto crepare nel modo più orribile che tu possa immaginare. Veleno potente, abate Melani, e traditore: ben diluito in un pediluvio, penetra attraverso la pelle e sotto le unghie senza lasciare tracce, e sale su per il corpo fino ai visceri, divorandoli senza scampo. Un'autentica opera d'arte, come solo i mastri profumieri di Francia sanno creare, non è vero?» Proprio allora mi ricordai che nella sua seconda visita al cadavere di Fouquet, Cristofano aveva trovato sul pavimento, attorno al catino del pediluvio, alcune chiazze d'acqua. E ciò malgrado quella mattina io stesso avessi già asciugato accuratamente il pavimento. Nel prelevare il campione di pediluvio, Dulcibeni doveva averne rovesciato un po'. Provai un brivido nel ricordare d'aver sfiorato qualche stilla del liquido mortale. Troppo poco, fortunatamente, per patirne anche solo un lieve malessere. Poi, rivolto ad Atto, Dulcibeni aggiunse: «Forse che il Re Cristianissimo t'aveva affidato un incarico molto speciale, signor abate Atto Melani? Qualcosa di terribile, ma a cui non potevi dire di no: una prova di suprema fedeltà al Re...». «Basta così, non ti permetto!» gl'intimò Atto, cercando d'isImprimatur - Monaldi & Sorti
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sarsi finalmente sulla sommità del grande muraglione di cinta del Colosseo. «Quali vili menzogne contro Fouquet ti ha imbastito il Re Cristianissimo, mentre ti comandava di eliminarlo?» insistette Dulcibeni. «Tu, squallido servo, hai obbedito. Ma poi, mentre ti moriva tra le braccia, il Sovrintendente ha biascicato qualcosa che non ti aspettavi. Posso immaginarlo, sì: qualche accenno a oscuri segreti, poche frasi balbettate, che forse nessuno avrebbe mai saputo intendere. Ma era abbastanza per capire che eri la pedina di un gioco a te ignoto». «Tu vaneggi, Dulcibeni, io non...» cercò nuovamente d'interromperlo Atto. «Ah! Non sei obbligato a dire nulla: quelle poche parole resteranno per sempre un segreto tra te e Fouquet, non è questo l'importante» gridò Dulcibeni opponendosi al vento che si faceva impetuoso. «Ma in quel momento hai capito quanto il Re t'avesse mentito e sfruttato. E hai cominciato a temere per te stesso. Allora ti sei intestardito a indagare su tutti i pigionanti della locanda: cercavi disperatamente di scoprire il vero motivo per cui eri stato mandato a uccidere il tuo amico». «Sei pazzo, Dulcibeni, sei pazzo e cerchi d'accusarmi per nascondere le tue colpe, tu sei...». «E tu, ragazzo» lo interruppe Dulcibeni rivolto nuovamente a me «chiedi ancora al tuo abate: perché le ultime parole di Fouquet sono state "Ahi, dunqu'è pur vero"? Non ricordano stranamente un'aria famosa ai tempi d'oro del Sovrintendente? Abate Melani, non puoi non averla riconosciuta: dimmi, quante volte l'avrai tu stesso cantata al suo cospetto? E lui t'ha voluto rammentare quelle parole, mentre moriva col dolore del tuo tradimento. Come Giulio Cesare, quando vide che tra i sicari che lo pugnalavano c'era anche suo figlio Bruto». Atto non ribatteva più. Era salito sul muraglione, e ora lui e Dulcibeni si fronteggiavano. Ma il silenzio dell'abate era dovuto ad altro. Dulcibeni stava per aprire il bauletto delle sanguisughe. 582/703
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«Era una promessa, e io mantengo sempre» disse Dulcibeni. «Il contenuto è tuo». Poi s'accostò al ciglio del muraglione e capovolse il bauletto aprendolo nel vuoto. Dal bauletto (lo potei vedere chiaramente perfino io, che ero a distanza) non uscì nulla. Era vuoto. Dulcibeni rise. «Povero imbecille» disse a Melani «credevi davvero che avrei perso tutto questo tempo qui sopra solo per farmi insultare da te?» Istintivamente Atto e io ci cercammo con lo sguardo, condividendo lo stesso pensiero: Dulcibeni ci aveva attirati là sopra solo per farci perdere tempo. Le sanguisughe le aveva lasciate in carrozza prima di fuggire dentro il Colosseo. «Ora sono in viaggio con il loro padrone, verso le vene del Papa» aggiunse beffardo confermando i nostri sospetti «e nessuno le può più fermare». Atto si sedette, stremato; Dulcibeni lasciò cadere la valigia nel vuoto, all'esterno del Colosseo. Dopo pochi secondi ne avvertimmo il tonfo triste e sordo. Dulcibeni approfittò della tregua per sfilarsi di tasca ancora una volta la tabacchiera e dare una robusta sniffata di mamacòca; poi gettò nel vuoto anche la piccola scatolina, facendo roteare il braccio con gesto trionfale e sprezzante. Proprio quell'ultimo lancio, però, gli costò l'equilibrio. Lo vedemmo barcollare lievemente, poi cercare di riassumere la stazione eretta, e infine piegare verso destra, ov'era la grande croce di legno. Fu questione d'un attimo. Si portò le mani alla testa, come a causa d'un crudele e lancinante dolore, o di un improvviso mancamento, e andò a sbattere contro la croce la cui presenza - pensai - egli non aveva in alcun modo previsto. Lo scontro con il simbolo ligneo lo privò del già precario equilibrio. Vidi il suo corpo precipitare all'interno del Colosseo, percorrendo in pochi attimi l'altezza di molti uomini sovrapImprimatur - Monaldi & Sorti
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posti. Fortunatamente - e fu ciò a salvargli la vita - il primo impatto avvenne con una superficie in mattoni lievemente inclinata. Poi il corpo di Dulcibeni si depositò su un grande lastrone di pietra, che lo raccolse pietosamente come il letto d'un fiume accoglie i relitti delle navi su cui la forza della tempesta ha avuto il sopravvento.
Solo con l'aiuto degli altri corpisantari fummo in grado di sollevare il corpo esanime di Dulcibeni. Era in vita, e dopo qualche minuto riprese anche conoscenza. «Le gambe... non le sento più» fu la sua prima frase. Sotto la guida di Baronio i corpisantari raccattarono nelle vicinanze un carretto, forse abbandonato da qualche fruttivendolo. Era vecchio e malandato ma, grazie alle forze unite dei corpisantari, riuscimmo a utilizzarlo per il trasporto del povero corpo offeso di Dulcibeni. Certo, Atto e io avremmo potuto abbandonare il ferito tra i ruderi del Colosseo; ma convenimmo subito che si sarebbe trattato di inutile e pericolosa crudeltà; egli sarebbe stato prima o poi ritrovato, e in più sarebbe mancato all'appello all'interno della locanda, provocando così inevitabilmente un'inchiesta da parte di Cristofano, e poi delle autorità. Mi sentii sollevato alla comune decisione di salvare Dulcibeni: la cupa e tragica storia di sua figlia non m'aveva lasciato insensibile. La marcia a ritroso verso il Donzello fu interminabile e funerea. Seguimmo tutte le più tortuose scorciatoie per non essere nuovamente sorpresi dagli sbirri. I corpisantari, taciturni e scontrosi, erano affranti per non esser riusciti a impedire che Tiracorda s'involasse con le sanguisughe, e si maceravano sia nell'amarezza della sconfitta che nella paura che il Papa già l'indomani si potesse scoprire mortalmente infetto. D'altra parte le condizioni disperate in cui versava Dulcibeni non ave584/703
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vano ispirato a nessuno l'idea di denunciarlo: l'assalto selvaggio che poc'anzi i corpisantari avevano portato al gruppo di sbirri consigliava prudenza e silenzio. Era meglio per tutti che di quella notte, nelle menti dei tutori dell'ordine, restassero solo ricordi, e nessuna traccia. Per non formare un gruppo troppo nutrito e facile all'avvistamento, alcuni dei corpisantari ci lasciarono, non senza un frettoloso grugnito di saluto. Restammo dunque in sette: Ugonio, Ciacconio, Polonio, Grufonio, Atto, Dulcibeni (caricato sul carretto) e io. Procedevamo in gruppo, sospingendo a turno il carretto; eravamo nei pressi della chiesa del Gesù, nelle vicinanze del Pantheon, dove avremmo riguadagnato i sotterranei per rientrare al Donzello. Mi avvidi che Ciacconio aveva perso il passo ed era restato indietro. Lo osservai: camminava a fatica, trascinando i piedi. Attirai l'attenzione del gruppo di testa e aspettammo che Ciacconio ci raggiungesse. «Lo spolmonizza la vigorizia frettolosa. È sfiatabile» commentò Ugonio. Ma pareva che Ciacconio non fosse solo spossato. Non appena ci raggiunse s'appoggiò al carretto, poi si sedette a terra, con la schiena appoggiata a un muro, e restò immobile. Aveva il respiro corto e leggero. «Ciacconio, che hai?» gli chiesi preoccupato. «Gfrrrlûlbh» rispose indicandosi la parte sinistra del ventre. «Sei stanco o stai male?» «Gfrrrlûlbh» rispose ripetendo il gesto, con l'aria di non aver altro da aggiungere. Istintivamente (e benché qualsiasi contatto fisico con i corpi- santari fosse da considerare tutt'altro che desiderabile) toccai la veste di Ciacconio nel punto da lui indicato. Pareva umida. Scostai un poco le pieghe di tessuto e avvertii un odore sgradevole ma familiare. S'erano tutti quanti avvicinati, e fu l'abate Melani a farsi ancor più dappresso. Toccò l'abito di Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Ciacconio e si portò la mano al naso. «Sangue. Santo Cielo, apriamogli la veste» disse sciogliendo con nervosa rapidità il cordone che teneva chiusa la palandranaccia di Ciacconio. Aveva uno squarcio giusto a metà del ventre, da cui il sangue usciva senza sosta e gli aveva ormai intriso largamente la stoffa. La ferita era gravissima, l'emorragia copiosa, e stupivo che Ciacconio avesse fino ad allora avuto la forza di camminare. «Mio Dio, dev'essere soccorso, non può venire con noi» dissi sconvolto dalla scoperta. Vi fu un lungo attimo di silenzio. Era sin troppo facile capire quali pensieri s'agitassero nella mente del gruppo. La palla che aveva colpito Ciacconio era partita dalla pistola di Dulcibeni, che pur senza volerlo aveva ferito a morte lo sventurato corpisantaro. «Gfrrrlûlbh» disse allora Ciacconio, indicando con una mano la strada che stavamo percorrendo, e facendoci cenno di proseguire. Ugonio s'inginocchiò e gli si fece vicino. Ne seguì un rapido e inintelligibile parlottio tra i due, durante il quale Ugonio alzò più volte il tono come per convincere il compagno della propria opinione. Ciacconio invece ripeteva l'identico mormorio, ogni volta più flebile e stentato. Fu allora che Atto capì quanto stava per accadere: «Mio Dio, no, non possiamo lasciarlo qui. Chiama i tuoi amici» disse rivolto a Ugonio «che lo vengano a prendere, bisogna fare qualcosa, chiamare qualcuno, un cerusico...». «Gfrrrlûlbh» disse Ciacconio con un lieve e rassegnato sussurro, che cadde tra noi tutti più definitivo di qualsiasi umano ragionamento. Ugonio dal canto suo poggiò dolcemente la mano sulla spalla del compagno, per poi alzarsi come se il colloquio fosse terminato. Anche Polonio e Grufonio s'avvicinarono al ferito e con lui si scambiarono in un ininterrotto sussurro ragionamenti confusi e misteriosi. Infine s'inginocchiarono e all'unisono cominciarono a pregare. 586/703
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«Oh, no» piagnucolai «non può, non deve essere». Anche Atto, che pur aveva sempre manifestato così poca simpatia per i corpisantari e le loro bizzarre qualità, non potè trattenere la commozione. Lo vidi trarsi in disparte e nascondere il viso; scorsi le sue spalle scosse da convulsioni. In un pianto muto e liberatorio l'abate sfogava finalmente il suo dolore: per Ciacconio, per Fouquet, per Vienna, per se stesso, traditore forse, ma anche tradito; e solo. E mentre ripensavo alle ultime misteriose parole di Dulcibeni sulla morte di Fouquet, sentivo oscure ombre addensarsi tra Atto e me. Alla fine ci piegammo tutti in ginocchio a pregare, mentre il respiro di Ciacconio si faceva sempre più corto e soffocato; finché Grufonio s'allontanò brevemente per avvertire (così almeno mi parve di capire) il resto dei corpisantari, che infatti di lì a pochi minuti arrivarono per prelevare il povero corpo e concedergli degna sepoltura. Fu allora che si consumarono di fronte ai miei occhi gli ultimi strazianti secondi di vita di Ciacconio. Mentre i suoi compagni gli si facevano attorno, Ugonio sorreggeva pietosamente il capo del morente; con un gesto invitò tutti al silenzio, e a interrompere le preghiere. La quiete della notte calò sulla scena, e potemmo udire le ultime parole del corpisantaro: «Gfrrrlûlbh». Guardai interrogativamente Ugonio, che tra i singhiozzi tradusse: «Come lacrimizie nella piovaggine». Poi lo sventurato smise di respirare. Non vi fu bisogno d'altre spiegazioni. In quelle parole Ciacconio aveva scolpito la propria fugace avventura terrena: siamo come lacrime nella pioggia, che appena stillate già si perdono nel prepotente flusso delle cose mortali. Dopo che le spoglie di Ciacconio vennero portate via dai suoi amici, ci riavviammo con il cuore gravato da asperrimo e indescrivibile dolore. Camminavo a testa bassa, come sospinto da una forza estranea. Per la troppa pena, durante il resto del tragitto non ebbi neppure il coraggio di guardare il povero UImprimatur - Monaldi & Sorti
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gonio, temendo di non riuscire a frenare il pianto. Mi tornarono alla mente tutte le avventure che avevamo affrontato con i due corpisantari: le esplorazioni dei sotterranei, il pedinamento di Stilone Priàso, le intrusioni a casa di Tiracorda... Immaginai allora quante altre vicissitudini egli doveva aver condiviso con Ciacconio, e confrontando il suo stato d'animo col mio capii quanto disperatamente egli avrebbe rimpianto l'amico. Il lutto fu tale da far passare in secondo piano nei miei ricordi il resto del viaggio: il rientro nei sotterranei, la faticosa marcia nei cunicoli e il trasporto nella locanda, fin nella sua camera, di Dulcibeni. Per issarlo dovemmo ovviamente predisporre una sorta di lettiga, privando di alcune assi il carretto utilizzato in superficie. Il malato, ora febbricitante e semincosciente, consapevole forse solo d'aver subito gravi e magari irreversibili lesioni, venne così trasportato legato come un salame, e sollevato di botola in botola, e di scala in scala solo a prezzo di sforzi immani da parte di ben dodici braccia: quattro corpisantari, Atto e io. Era ormai l'alba quando i corpisantari si congedarono eclissandosi nello stanzino segreto. Temevo ovviamente che Cristofano avesse udito il pur lieve rumoreggiare del nostro corteo, soprattutto mentre issavamo Dulcibeni nello stanzino e poi giù per le scale della locanda fino al primo piano. Passammo invece di fronte alla sua camera, e avvertimmo solo il fremito regolare e pacifico del suo russare. Avevo dovuto anche dare l'addio a Ugonio. Mentre Atto si teneva in disparte, il corpisantaro con le sue mani artigliute m'aveva stretto forte le spalle: sapeva che assai difficilmente ci saremmo incontrati di nuovo. Non sarei più sceso nel suo mundus subterraneus, né lui saliva mai sotto la volta del cielo se non col favore della notte, quando gli onesti e i poveri (qual io ero) dormono stremati dalle fatiche del giorno. Così ci lasciammo, col cuore gonfio; e difatti non l'avrei più rivisto.
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Era urgente ritirarsi a dormire, e approfittare del poco tempo che ad Atto e me restava per recuperare le forze. Ma, troppo scosso dagli eventi, già sapevo che mai e poi mai avrei potuto prendere sonno. Decisi d'approfittarne per appuntare gli ultimi avvenimenti sul mio diario. Il temporaneo congedo da Atto fu questione d'un attimo, e d'uno sguardo che ognuno di noi due lesse negli occhi dell'altro: già da alcune ore le sanguisughe pestifere di Dulcibeni avevano aggredito le carni molli e stanche d'Innocenzo XI. Tutto dipendeva dal decorso della malattia: se lento o, come in molti casi, fulminante. Forse già il nuovo giorno ci avrebbe portato la notizia della sua morte. E con essa, chissà, l'esito della battaglia di Vienna.
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Accadimenti dal 20 al 25 settembre 1683
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li appunti stilati quella notte sul mio quadernetto furono gli ultimi. Gli avvenimenti che seguirono, infatti, non mi lasciarono più il tempo (né m'ispirarono la voglia) per continuare a scrivere. Fortunatamente quegli ultimi giorni di clausura al Donzello sono rimasti ben vivi nella mia memoria, seppur nei fatti essenziali. Il giorno seguente Dulcibeni venne trovato nel suo letto penosamente inzuppato della sua stessa orina, incapace d'alzarsi e perfino di muovere le gambe. Inutili furono tutti i tentativi di riportarlo alla deambulazione, e anche solo al controllo degli arti inferiori. Non si sentiva più neppure i piedi; si poteva perfino offendergli le carni senza ch'egli avvertisse alcuna sensazione fisica. Cristofano mise in guardia sulla gravità del male: egli stesso, riferì, aveva assistito a molti casi del genere. Tra i più simili, quello di un povero ragazzo al lavoro in una cava di marmo il quale, precipitato da un'impalcatura malamente confezionata, era atterrato battendo violentemente il dorso al suolo; il giorno successivo s'era svegliato nel suo letto nelle stesse condizioni di Dulcibeni, e in seguito non aveva ahimé più ritrovato l'uso delle gambe, restando menomato a vita. Le speranze non erano tuttavia del tutto perdute, sottolineò Cristofano, diffondendosi in una serie di rassicurazioni che mi parvero tanto verbose quanto vaghe. Il degente, in preda alla febbre, non sembrava aver preso atto del suo grave stato. Naturalmente il grave accidente di cui era vittima Dulcibeni 590/703
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provocò una raffica di domande da parte di Cristofano, che non era certo così sciocco da non capire che il marchigiano (e chi lo aveva riportato indietro) aveva avuto la possibilità d'entrare e uscire dalla locanda. Anche le sbucciature, i tagli e i graffi di cui Atto e io ci eravamo riempiti nella caduta dalla carrozza di Tiracorda richiedevano spiegazioni. Mentre Cristofano ci dispensava le sue cure - medicando le ferite col suo balsamo artificiato e acqua celeste, e ungendo le ammaccature con olio filosoforum ed elettuario di altea maestrale - fummo dunque costretti ad ammettere che sì, Dulcibeni era uscito dalla locanda cercando una via di fuga dalla quarantena, e dallo stanzino segreto s'era avventurato nel reticolo di cunicoli sotterranei sottostante alla locanda. Ma noi due, che lo sorvegliavamo da tempo, avendo intuito le sue intenzioni, lo avevamo seguito e riportato indietro. Durante il rientro, proseguimmo, egli aveva perso l'equilibrio ed era caduto nel pozzetto verticale che riportava alla locanda, e s'era così prodotto la grave lesione che ora lo condannava a letto. Dulcibeni, del resto, non era in grado di smentire: il giorno dopo la caduta la febbre s'era fatta altissima, privandolo quasi interamente del ragionamento e della parola. Solo a tratti tornava padrone di sé, e mugolava lungamente lamentando dolori atroci e interminabili al dorso. Fors'anche a causa di quello spettacolo doloroso, Cristofano fu indulgente; il nostro racconto era chiaramente lacunoso e inverosimile, e non avrebbe retto a un serio interrogatorio, specialmente se condotto da un paio di uomini del Bargello. Considerando probabilmente gli straordinari miglioramenti di Bedfordi e la prevedibile fine della quarantena, il medico soppesò rischi e benefici e finse benevolmente d'accontentarsi della nostra versione, senza riferire alla sentinella (che come sempre era di guardia di fronte alla locanda) quanto era accaduto. Alla fine della nostra reclusione, disse, si sarebbe impegnato affinché Dulcibeni ricevesse tutte le cure possibili. A ispirargli Imprimatur - Monaldi & Sorti
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tali felicissime risoluzioni fu però probabilmente anche l'atmosfera di festa che proprio allora cominciava a irradiarsi per la città, e di cui dirò subito. Già allora, infatti, avevano cominciato a rincorrersi le voci sull'esito della battaglia di Vienna. I primi rumori erano giunti il giorno 20, ma solo nella notte di martedì 21 (e di ciò ovviamente avrei saputo nei dettagli solo più tardi) al cardinal Pio era stato recapitato un biglietto proveniente da Venezia, che dava notizia della fuga dell'armata turca da Vienna. Due giorni più tardi, sempre di notte, erano giunte dall'Impero altre lettere che parlavano di vittoria dei cristiani. In città avevano cominciato a udirsi le prime ancora incerte espressioni di giubilo. Via via i dettagli s'erano fatti più precisi: la piazza di Vienna, da tanto tempo stretta d'assedio, era stata finalmente soccorsa. Il giorno 23 era giunto a Roma l'annuncio ufficiale della vittoria, portato dal corriere del cardinal Buonvisi: undici giorni prima, il 12 settembre, le truppe cristiane avevano mandato in rotta le schiere dei nemici di Dio. I particolari sarebbero arrivati con le gazzette delle settimane successive, ma nel mio ricordo i racconti della gloriosa battaglia si mescolano in un tutt'uno alle ore concitate ed esaltanti in cui si apprese della vittoria. All'apparire delle stelle, nella notte tra l'11 e il 12 settembre, l'esercito ottomano schierato era stato udito far le sue preghiere con altissime grida; lo si era anche scorto dai lumi e fuochi accesi che in gran simmetria gareggiavano con le doppie luci dei superbi padiglioni dell'accampamento infedele. Anche i nostri avevano pregato, e molto: le forze cristiane erano di gran lunga inferiori a quelle infedeli. Al primo chiarore dell'alba del 12 settembre il padre cappuccino Marco d'Aviano, gran trascinatore e ispiratore dell'armata cristiana, aveva celebrato la messa con i comandanti cristiani in un piccolo convento camaldolese su un'altura, detta del Kahlenberg, che domina Vienna dalla sponda destra del Danubio. Subito dopo 592/703
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s'erano schierate le nostre truppe, ugualmente pronte alla vittoria e alla morte. All'ala sinistra stava Carlo di Lorena con il Margravio Hermann e il giovane Ludovico Guglielmo, il conte von Leslie e il conte Caprara, il principe Lubomirski con i suoi temibili cavalieri polacchi corazzati, poi Mercy e Tafe, futuri eroi d'Ungheria. Insieme a decine d'altri Principi, si preparava al battesimo del fuoco l'ancora oscuro Eugenio di Savoia che, come lo stesso Carlo di Lorena, aveva lasciato Parigi per sfuggire al Re Sole e in seguito si sarebbe coperto di gloria, riconquistando l'est d'Europa alla causa cristiana. Preparava le sue truppe anche il Principe Elettore di Sassonia, assistito dal feldmaresciallo Goltz, e il Principe Elettore di Baviera con i cinque Wittelsbach. Al centro dello schieramento cristiano, accanto ai bavaresi, stavano le truppe francone e sveve; erano pure schierati i Principi e Regnanti della Turingia, dei gloriosi casati Guelfi e Holstein; poi altri nomi chiarissimi come il Margravio di Bayreuth, i feldmarescialli e generali Rodolfo Baratta, Dünewald, Stirum, il barone von Degenfeld, Kàroly Pàlffy e molti altri eroici difensori della causa di Cristo. L'ala destra era infine tenuta dai valorosi polacchi di re Jan Sobieski e dei suoi due luogotenenti. Appena avvistato tale poderoso spiegamento di forze amiche, gli sventurati resistenti di Vienna avevano subito dato sfogo al tripudio salutando con decine di razzi a salve. Anche dall'accampamento di Kara Mustafà venne individuata l'armata, ma quando i Turchi decisero di reagire era già troppo tardi: gli attaccanti si stavano ormai precipitando giù a perdicollo per la china del Kahlenberg. Il Gran Vizir e i suoi uomini uscirono allora precipitosamente dalle tende e dalle trincee, schierandosi a loro volta in ordine di battaglia. Campeggiava al centro Kara Mustafà con la gran massa degli spahi, al fianco gli stava l'empio predicatore infedele Wani Efendi col loro vessillo sacro, davanti l'Aghà con i suoi reggimenti di sanguinari giannizzeri. Alla destra, presso il Danubio, i sanguinari voivodi di Moldavia e Valacchia, il Vizir Kara Mehmet di DiyarImprimatur - Monaldi & Sorti
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bakir e Ibrahim Pascià di Buda; alla sinistra il Khan dei Tatari e un gran numero di Pascià. Le verdi e dolci alture ricche di vino fuori le mura di Vienna sono teatro della battaglia. Il primo, memorabile scontro avviene alle strette del Nussberg tra l'ala sinistra cristiana e i giannizzeri. Dopo lunghi rivolgimenti di fronte gl'imperiali e i sassoni riescono a sfondare, e a mezzodì i Turchi vengono ricacciati a Grinzing e Heiligenstadt. Intanto le truppe di Carlo di Lorena raggiungono Döbling e si approssimano all'accampamento turco, mentre la cavalleria austriaca del conte Caprara e i corazzati di Lubomirski fanno mordere la polvere ai Moldavi, seppure a prezzo di scontri durissimi, ricacciandoli indietro lungo il Danubio. Intanto, dall'alto del Kahlenberg, re Sobieski fa scatenare in avanti la cavalleria polacca, alla quale spianano la strada i fanti tedeschi e polacchi che danno la caccia ai giannizzeri casa per casa, vigna per vigna, fienile per fienile, e li ricacciano con crudele puntiglio da Neustift, da Potzleinsdorf, da Dornbach. Tremano i polsi dei cristiani quando Kara Mustafà tenta di sfruttare le mosse dei nemici e per un po' riesce a inserirsi nei vuoti ch'essi creano con la loro prepotente avanzata. Ma è questione di poco; Carlo di Lorena manda all'assalto i suoi Austriaci facendoli convergere a destra: a Dornbach tagliano la ritirata ai Turchi che cercavano di riparare verso Dobling. Intanto i cavalieri polacchi dilagano irresistibili fino a Hernals, travolgendo ogni resistenza. Al centro, in prima linea sotto lo sventolio della gloriosa insegna militare sarmatica, il Re di Polonia cavalca con l'ala di falco innalzata sulla punta della lancia, splendido e indomabile al fianco del principe Jakob, appena sedicenne e già eroe, al fianco dei suoi cavalieri con le cotte meravigliosamente ornate da sopravvesti millecolori, da piume, da pietre preziose. Al grido di «Gesùmaria!» le lance degli ussari e della cavalleria corazzata di re Jan spazzano via gli spahi, e si dirigono decisi sulla tenda di Kara Mustafà. 594/703
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Quest'ultimo, dal suo punto di comando, osservando lo scontro tra i suoi e la cavalleria polacca, istintivamente porta lo sguardo al vessillo verde che gli sta facendo ombra: è proprio al suo sacro stendardo che mirano i cristiani. Allora cede alla paura e decide di ripiegare, trascinando con sé in una vergognosa ritirata prima i Pascià e poi tutte le truppe. S'inginocchia anche il centro dello schieramento turco; il resto dell'esercito cade preda del panico, la sconfitta diventa disastro. I viennesi assediati prendono finalmente coraggio e osano una sortita dalla Porta degli Scozzesi, mentre i Turchi fuggono abbandonando al nemico il loro immenso accampamento, colmo d'incalcolabili tesori, non prima però d'aver sgozzato centinaia di prigionieri e di trascinare schiavi con sé seimila uomini, undicimila donne, quattordicimila fanciulle e cinquantamila bambini. La vittoria è così completa e trionfale che a nessuno viene in mente di braccare gl'infedeli fuggitivi. Per paura di un ritorno dei Turchi, i soldati cristiani vengono anzi tenuti in assetto di combattimento per tutta la notte. Il primo a entrare nella tenda personale di Kara Mustafà è re Sobieski, che fa bottino della coda di cavallo e del destriero dello sconfitto, nonché dei molti tesori e meraviglie orientali di cui si circondava il satrapo dissoluto e miscredente. Il giorno seguente si contano i morti: per i Turchi diecimila caduti, trecento cannoni catturati, quindicimila tende e montagne di armi. I cristiani piangono duemila morti, tra i quali purtroppo il generale de Souches e il principe Potocki. Ma non c'è tempo per la tristezza: tutta Vienna vuole festeggiare i vincitori, che entrano trionfalmente tra le mura della capitale scampata alla marea infedele. Re Sobieski scrive umilmente al Papa, attribuendo la vittoria a nuli'altro che a un miracolo: Venimus, vidimus, Deus vicit.
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Di tali edificanti memorie, come dicevo, solo in seguito avrei appreso nei dettagli. Attorno al Donzello però già cresceva il giubilo: il 24 settembre in tutte le chiese di Roma venne affissa una notificazione con l'ordine di suonare dalla sera stessa l'Ave Maria con tutte le campane, per ringraziare il Signore della disfatta dei Turchi; vennero poste gaie luminarie a tutte le finestre, e con giubilo universale ed eccessivo si fecero brillare botti e razzi e girandole e mortaretti in gran copia. Si poteva così udire dalle nostre finestre non solo la libera allegrezza del popolo, ma soprattutto le fragorose esplosioni dei fuochi artificiali ch'erano stati fatti brillare sui tetti delle Ambasciate, a Castel Sant'Angelo, in piazza Navona e a campo di Fiore. Aperte le imposte e abbarbicati alle grate della locanda, scorgemmo nella strada incendiarsi fantocci di Vizir e Pascià nell'incontenibile gaudio del popolo. Vedemmo intere famiglie, squadre di fanciulli, gruppi di giovani o di vegliardi marciare avanti e indietro con le fiaccole come impazziti, rischiarando le dolci notti settembrine e facendo con le loro risate da accompagnamento all'argentino contrappunto delle campane. Perfino coloro che vivevano nelle vicinanze della locanda, e che nei giorni precedenti per paura del contagio s'erano ben guardati dall'avvicinarsi alle nostre finestre, ora ci facevano partecipi del loro gaudio con grida e motti d'allegrezza. Pareva sentissero vicino il momento della nostra liberazione, quasi che il riscatto delle armi cristiane a Vienna preludesse alla ben più misera liberazione del Donzello dalla minaccia della peste. Anche tra noi dunque, sebbene ancora reclusi, s'irradiò la gioia più grande: fui io stesso a portare la notizia a ogni pigionante. Festeggiammo tutti nelle sale del pianterreno, abbracciandoci fraternamente e brindando con grande e lietissimo tripudio. Io, soprattutto, ero al settimo cielo: il piano di Dulcibeni per colpire l'Europa cristiana era arrivato troppo tardi, anche se mi restava la preoccupazione per la salute del Papa. Oltre a tali onestissime manifestazioni di contentezza, tra le notizie che correvano sulla bocca del popolo, e che dalla strada 596/703
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arrivavano fino a noi, registrai però anche due circostanze che trovai assai inattese e degne di meditazione. La prima: da una delle sentinelle (che continuavano a tener d'occhio la locanda, in assenza di ordini contrari), venimmo a sapere che la vittoria cristiana aveva potuto contare su un'inspiegabile serie di errori da parte dei Turchi. Le armate di Kara Mustafà infatti, che con la ben nota tecnica delle mine e delle trincee avevano stremato le difese murarie di Vienna, a giudizio degli stessi vincitori avrebbero potuto senz'altro condurre un attacco concentrato e vittorioso ben prima che arrivassero i rinforzi di re Sobieski. Ma invece di sferrare rapidamente l'assalto risolutivo, Kara Mustafà era rimasto inspiegabilmente immobile, perdendo giorni preziosi. Né i Turchi s'erano preoccupati d'occupare le alture del Kahlenberg, che avrebbero fornito un vantaggio tattico decisivo. Non solo: avevano anche tralasciato d'affrontare i rinforzi cristiani in arrivo prima che questi attraversassero il Danubio, e s'avvicinassero così irrimediabilmente agli assediati. Perché ciò fosse accaduto, nessuno lo sapeva. Era come se i Turchi fossero in attesa di qualcosa... Qualcosa che li aveva fatti sentire sicuri della vittoria. Ma cosa? Infine, un'altra strana circostanza: il focolaio di peste che da mesi minacciava la città s'era improvvisamente estinto, senza motivo apparente. Ai vincitori tale serie di miracoli era parsa un segno della volontà divina, la stessa benigna volontà che aveva sostenuto fino all'ultimo le forze disperate degli assediati e le truppe dei liberatori di Jan Sobieski. Il culmine dei festeggiamenti a Roma giunse infine il giorno 25; di tale circostanza dirò però più oltre, giacché corre qui acconcio narrare degl'altri importanti fatti di cui venni a conoscenza in quegli ultimi giorni di clausura. Lo strano modo in cui s'era improvvisamente estinta la peste a Vienna mi diede non poco da riflettere. Dopo aver terroImprimatur - Monaldi & Sorti
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rizzato gli assediati più dello stesso nemico ottomano, la peste s'era dileguata tanto rapidamente quanto inspiegabilmente. La circostanza era stata decisiva: se il morbo si fosse accanito sulla popolazione viennese, i Turchi avrebbero vinto di certo, e senza difficoltà alcuna. Era impossibile non mettere a confronto quella novità con i fatti che Atto e io avevamo tanto faticosamente scoperto o messo in relazione, e che mentalmente cercai di riassumere. Luigi XIV sperava in una vittoria turca a Vienna, per poi spartirsi l'Europa con gl'infedeli. Per realizzare i suoi sogni di dominio, il Re Sole contava d'utilizzare il principio di contagio del secretum pestis, ovverossia il secretum morbi, che infine era riuscito a strappare a Fouquet. Allo stesso tempo però la consorte del Re Cristianissimo, Maria Teresa, cercava di sviluppare un disegno del tutto opposto. Orgogliosamente attaccata ai destini della casa d'Asburgo, che regnava sul trono imperiale e da cui ella stessa veniva, la Regina di Francia cercava segretamente d'ostacolare il disegno del marito. Infatti, secondo l'ipotesi fatta da Atto, Fouquet aveva fatto pervenire a Maria Teresa, tramite Lauzun e Mademoiselle (i quali detestavano il Sovrano non meno della stessa Maria Teresa), l'unico controveleno capace di sconfiggere la segreta arma pestifera: il secretum vitae, cioè il rondò con cui Devizé in quei giorni al Donzello ci aveva allietato, e che sembrava addirittura aver guarito Bedfordi. E non era un caso che l'antidoto della peste fosse nelle mani di Devizé: il rondò infatti, anche se probabilmente composto nella sua forma grezza da Kircher, era stato perfezionato e messo sulla carta dal chitarrista Francesco Corbetta, maestro nel cifrare messaggi segreti nelle note musicali. Il quadro, pur così semplificato, era ingrato tanto all'intelletto quanto alla memoria. Ma se era giusto il metodo insegnatomi da Atto Melani (supporre, quando non si conosce), tutto tornava al suo posto. Bisognava dunque continuare a scovare col ragionamento ciò ch'era necessario per spiegare l'assurdo. 598/703
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Mi chiesi dunque: se Luigi XIV avesse voluto dare il colpo di grazia ai temuti Asburgo, che lo cingevano ai fianchi con l'Austria e la Spagna, e soprattutto all'odiato imperatore Leopoldo, dove avrebbe scatenato la peste? La risposta mi stupì per la sua semplicità: Vienna. Non era quella la battaglia decisiva per le sorti della Cristianità? E non sapevo forse, sin da quando in proposito m'aveva ragguagliato la conversazione svoltasi tra Brenozzi e Stilone Priàso, che il Re Cristianissimo giocava segretamente di sponda ai Turchi per stringere l'Impero in una morsa infernale tra est e ovest? Ma non era tutto. Non era forse vero che da mesi s'era manifestato a Vienna un focolaio pestifero, che aveva gettato in apprensione tutti gli eroici combattenti stretti d'assedio? E non era altrettanto vero che il focolaio s'era estinto, ovvero era stato misteriosamente domato da qualche agente invisibile e arcano, salvando così le sorti della città e di tutto l'Occidente? Pur profondamente immerso in tali elucubrazioni, faticai io stesso ad accettare le conclusioni che se ne dovevano trarre: la peste a Vienna era stata provocata da agenti di Luigi XIV, o da loro anonimi scherani, mettendo a frutto l'occulta scienza del secretum morbi. Per questo i Turchi non s'erano mossi per giorni e giorni, malgrado Vienna fosse a portata di mano: aspettavano i nefasti effetti del morbo inviato dal loro occulto alleato, il Sovrano di Francia. Ma l'infame sabotaggio s'era scontrato con forze avverse e ugualmente potenti: gli emissari di Maria Teresa erano giunti in tempo a Vienna per sventare la minaccia, attivando il secretum vitae e fermando così il focolaio d'infezione. Come, non l'avrei mai saputo. Di certo, comunque, le vane esitazioni dell'esercito turco erano costate la testa a Kara Mustafà. Tale riassunto, così affollato d'eventi, rischiava d'apparire sin troppo immaginoso, e quasi farneticante; ma era ciò che suggerivano logica e necessità. Non rasentava forse la follia anImprimatur - Monaldi & Sorti
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che tutto l'intrecciarsi delle vicende di Kircher e Fouquet, Maria Teresa e Luigi XIV, Lauzun e Mademoiselle, Corbetta e Devizé? Eppure avevo trascorso notti intere con Atto Melani a ricomporre pezzo per pezzo, in una sorta di divino impazzimento, quell'intrigo insensato. Ebbene sì: insensato, epperò ormai per me più reale della vita che scorreva fuori del Donzello. Popolavano la mia immaginazione i foschi agenti del Re Sole, intenti ad appestare la povera Vienna ormai allo stremo; dall'altra parte i difensori, gli uomini-ombra di Maria Teresa. Tutti quanti interrogavano formule segrete, annidate nei pentagrammi di Kircher e Corbetta, agitando storte e alambicchi e altri oscuri strumenti (come quelli visti sull'isola di Dulcibeni) e recitando incomprensibili clausole ermetiche in qualche fondaco abbandonato. Poi avrebbero gli uni avvelenato - e gli altri bonificato - acque, orti, strade. Nella invisibile lotta tra secretum morbi e secretum vitae alla fine aveva vinto il principio vitale: lo stesso che aveva catturato il mio cuore e la mia mente ascoltando il rondò dalla chitarra di Devizé. Da quest'ultimo, ovviamente, non avrei scucito neppure una sillaba. Ma il suo ruolo era quasi del tutto chiaro, e altrettanto limpidamente me lo immaginavo: Devizé che riceve dalle mani della Regina la copia originale del rondò delle Baricades mistérieuses; ha l'ordine d'andare in Italia, a Napoli, per congiungersi a un anziano viaggiatore dalla doppia identità... A Napoli Devizé trova Fouquet già in compagnia di Dulcibeni. Mostra forse al vecchio Sovrintendente il rondò che anni prima egli stesso aveva consegnato per la Regina nelle fidate mani di Lauzun. Ma Fouquet è cieco: avrà preso quei fogli tra le mani scarnite, li avrà carezzati, riconosciuti. Devizé gli avrà suonato il rondò, e saranno svanite tra le lacrime di commozione le ultime incertezze del vecchio: la Regina ce l'ha fatta, il secretum vitae è in buone mani, l'Europa non soccomberà al delirio d'un solo Sovrano. E Maria Teresa, prima di congedarsi da questa Terra, per mano di Devizé gli faceva giungere quell'estrema rassicurazione. 600/703
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Devizé e Dulcibeni, di comune accordo, decidono di portare il loro protetto a Roma dove, all'ombra del Papa, i minacciosi emissari del Re Sole si muovono con difficoltà. Anche se in realtà Dulcibeni ha ben altri disegni... E sempre a Roma Devizé, mentre nel Donzello suona per noi le Baricades mistérieuses, sa che da Parigi Maria Teresa ha inviato a Vienna la segreta quintessenza di quelle note, il secretum vitae, per sbarrare il passo alla pestilenza che rischia di far trionfare i Turchi. Ecco: di tutto ciò da Devizé non avrei sentito dire neppure una parola. La sua fedeltà a Maria Teresa, se genuina, non si sarebbe certo esaurita con la morte della Sovrana. E il rischio d'essere identificato come congiurato ai danni del Re Sole avrebbe comportato conseguenze letali. Ma applicando ancora una volta la regola insegnatami da Atto Melani, mi disposi a sollevare Devizé dal periglioso compito. Al suo posto avrei parlato io, umile garzone cui nessuno dava importanza. Solo poche e ben scolpite parole: non dai suoi discorsi avrei giudicato, ma dal suo silenzio. L'occasione amica arrivò ben presto. Mi aveva chiamato reclamando una merenda supplementare, nel tardo meriggio. Gli portai un modesto canestrino con un salamino e poche fette di pagnotta, ch'egli addentò voracemente. Non appena le sue gote furono colme dell'appetitoso companatico, mi congedai infilando la porta. «A proposito» dissi con noncuranza «pare che a Vienna tutti debbano testimoniare gran riconoscenza alla regina Maria Teresa per la guarigione dalla peste». Devizé sbiancò. «Mfmm» biascicò allarmato, con le fauci intasate dal cibo, alzandosi in cerca d'un sorso d'acqua. «Oh, vi va di traverso? Bevete dunque» feci porgendogli una brocchetta che avevo portato con me e che però a bella posta non gli avevo consegnato. Mentre beveva strabuzzò gli occhi con fare interrogativo. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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«Volete sapere chi me lo ha detto? Be', sapete bene che a cagione di quello sventurato incidente il signor Pompeo Dulcibeni è stato assai provato dalle febbri, e durante una crisi ha parlato molto, e a lungo. Io ero lì per caso». Era una gran menzogna, che Devizé bevve troppo avidamente, come l'acqua che aveva appena tracannato. «E cosa... cos'altro ha detto?» balbettò asciugandosi la bocca e il mento con l'avambraccio e cercando di mantenere la calma. «Oh, tante cose che forse non ho neppur ben capito. Sapete, la febbre... Se non ricordo male nominava spesso un certo Fucché, o un nome simile, poi un certo Lozen, mi pare» accennai storpiando volutamente i nomi. «Parlava di una fortezza, della peste, di un segreto della peste o qualcosa di simile, e poi d'un antidoto, della regina Maria Teresa, dei Turchi, perfino di un complotto. Insomma: delirava, sapete come succede. Lì per lì Cristofano era preoccupato, ma ormai il povero Dulcibeni ne è uscito, e ora invece si dovrà preoccupare per le gambe e la schiena, che...». «Cristofano? Ha sentito anche lui?» «Sì ma, sapete com'è, quando un medico è al lavoro sente e non sente. Ne ho parlato anche con l'abate Melani, ed egli...». «Cos'hai fatto?» ruggì Devizé. «Ho detto all'abate Melani che Dulcibeni stava male e aveva la febbre e delirava». «E gli hai raccontato... tutto?» chiese al colmo del terrore. «E chi se lo ricorda, signor Devizé?» risposi garbatamente piccato «so solo che il signor Pompeo Dulcibeni era più di là che di qua, e l'abate Melani ha condiviso con me tale preoccupazione. E ora, se mi perdonate... » dissi infilando l'uscio e congedandomi. Insieme alla verifica delle conoscenze di Devizé, mi ero concesso anche una piccola vendetta. Il panico che s'era impadronito del chitarrista parlava chiaro: non solo egli sapeva ciò che anch'io e Atto sapevamo, ma - come previsto - ne era stato attore privilegiato. Proprio per ciò gongolavo abbandonandolo 602/703
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con un sospetto atroce: i deliri di Dulcibeni (in realtà mai avvenuti) erano giunti per mio mezzo alle orecchie non solo di Cristofano ma perfino dell'abate Melani. E se Atto avesse voluto, ora avrebbe potuto additare Devizé come traditore al Re di Francia. Mi doleva ancora lo spirito tutto per il trattamento sprezzante che avevo sempre dovuto subire dal chitarrista. Grazie a qualche opportuna menzogna, quella notte avrei finalmente dormito il sonno ricco dei signori, e lui quello misero dei reietti. Lo confesso: v'era sempre una persona, e una sola, con cui avrei dovuto e voluto condividere quell'estremo cimento dell'intelletto. Ma quei tempi erano ormai passati. Non potevo negare a me stesso che, dopo il confronto con Dulcibeni sulle mura del Colosseo, tra Atto Melani e me tutto era cambiato. Certo, aveva smascherato il piano criminale e blasfemo di Dulcibeni. Ma nel momento della verità lo avevo visto vacillare, e non sulle gambe come il suo avversario. Era salito sul Colosseo da accusatore, e ne era disceso da imputato. Mi aveva lasciato stupefatto e indignato la sua indecisione nel replicare alle accuse e alle allusioni di Dulcibeni sulla morte di Fouquet. In passato lo avevo già visto esitare; ma sempre e solo per timore di minacce oscure e incombenti. Davanti a Dulcibeni, invece, era come se la causa dei suoi balbettii non fosse più il timore dell'ignoto, ma di ciò ch'egli perfettissimamente sapeva, e che doveva nascondere. E così le accuse di Dulcibeni (il veleno versato nel pediluvio, il mandato di uccidere ricevuto dal Re di Francia), anche se sprovviste di qualsiasi prova, suonavano più definitive d'una sentenza. E poi quella strana, equivoca coincidenza: come aveva ricordato Dulcibeni, le ultime parole di Fouquet erano state "Ahi, dunqu'è pur vero"; il verso d'una canzone del maestro Luigi Rossi, che un giorno avevo udito Atto cantare con sommo strazio. "Ahi, dunqu'è pur vero... che tu cangiasti pensiero": così Imprimatur - Monaldi & Sorti
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terminava la strofa, come un inequivocabile atto d'accusa. E quelle stesse parole gli avevo sentito sussurrare perfino quando, sopraffatti dai flutti della Cloaca Maxima, avevamo a nostra volta rischiato di lasciare questo mondo. Perché anche allora, di fronte alla morte, gli era affiorato sulle labbra quel verso? Con gli occhi della fantasia immaginai d'aver tolto la vita a tradimento a un vecchio amico, e finsi d'immergermi nella colpa che certamente mi avrebbe divorato. Se avessi udito le sue ultime parole, queste non avrebbero forse risuonato per sempre nelle mie orecchie, fino a riecheggiarmi apertamente sulla bocca? E mentre Dulcibeni lo accusava, e gli rinfacciava quel verso straziante e lamentoso, avevo sentito la voce di Melani spezzarsi sotto il peso della colpa, qualunque essa fosse. Non era più per me lo stesso Atto Melani ch'era stato in precedenza. Non lo stesso incalzante mentore, non il medesimo fidato duce. Era ridiventato il castrato Atto Melani che giorni prima avevo conosciuto origliando i discorsi di Devizé, Cristofano e Stilone Priàso: abate di Beaubec per arbitrio del Re di Francia, grande intrigante, ancor più grande bugiardo, grandissimo traditore, eccelso spione. E forse anche assassino. Ricordai allora che mai l'abate m'aveva fornito una convincente spiegazione del suo borbottare nel sonno le parole "baricades mistérieuses": e capii finalmente che doveva averle udite ripetere, senz'afferrarne il senso, al morente Fouquet, mentre lo scrollava per le spalle e - come Pellegrino aveva ben riferito gli urlava in viso domande destinate a restare senza risposta. Finì per farmi pena, l'abate: gabbato, come aveva detto Dulcibeni, dal suo stesso Re. Avevo ormai capito, infatti, che Atto m'aveva omesso qualcosa nel racconto della sua perquisizione nello studio di Colbert: le lettere che rivelavano la presenza di Fouquet a Roma Atto le aveva mostrate poi a Luigi XIV. Non riuscivo a capacitarmi: come, come aveva avuto il coraggio di tradire così il suo antico benefattore? Forse Atto ave604/703
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va voluto dimostrare una volta di più la propria fedeltà a Sua Maestà Cristianissima. Un gesto importante: aveva consegnato al Re su un piatto d'argento proprio l'uomo la cui amicizia gli era costata, vent'anni prima, l'esilio lontano dalla Francia. Ma era stato un errore fatale: il Re aveva ripagato il fedele castrato con un altro tradimento. Lo aveva mandato a Roma proprio per assassinare Fouquet, senza rivelargli i veri motivi di quell'ordine terribile, né l'abisso di morte e d'odio che serbava in sé. Chissà quale assurda storia il Re aveva imbastito ad Atto, di quali vergognose menzogne avrà lordato ancora una volta l'onore offeso del vecchio Sovrintendente. Negli ultimi giorni che passai al Donzello rimasi prigioniero della vergognosa immagine dell'abate Melani, mentre svendeva al Sovrano la vita del suo povero vecchio amico, e non si sapeva poi sottrarre agli efferati comandi del suo despota crudele. Con quale coraggio aveva poi inscenato di fronte a me la parte dell'amico affranto? Avrà dovuto far appello a tutta la sua arte di teatrante castrato, pensavo con rabbia. O forse quelle lacrime erano vere: ma venivano solo dal rimorso. Non so se Atto abbia pianto anche mentre, costretto dai comandi del suo Sovrano, s'apprestava a partire alla volta di Roma per porre fine alla vita di Fouquet; o se tutto eseguì come docile strumento. Le ultime stanche parole del vecchio e cieco Sovrintendente, mentre per mano sua moriva, dovettero sconvolgerlo: da quelle frasi stentate che ripetevano di misteriose barricate e oscuri segreti, ma forse più ancora da quegli occhi opachi e onesti, Atto comprese d'esser stato vittima delle menzogne del suo Re. Dopo era stato troppo tardi per rimediare, ma non per capire. Ecco perché aveva iniziato le indagini, con la mia ignara collaborazione. Ben presto non riuscii a ragionare oltre. E non riuscii a sottrarmi alla morsa di disgusto verso l'abate Melani. Non gli parImprimatur - Monaldi & Sorti
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lai più. S'era dissolta, di pari passo con le mie riflessioni, la vecchia fiducia tra noi, l'antica familiarità che così rapidamente avevamo costruito in quei pochi giorni di convivenza al Donzello. Nessuno più di lui, tuttavia, m'era stato maestro e ispiratore. Cercavo quindi di mantenere, almeno esteriormente, la premura servizievole a cui lo avevo abituato. Ma negli occhi e nella voce mi mancavano quella luce e quel calore che solo il conforto dell'amicizia può donare. Uguale trasformazione osservavo in lui: eravamo ormai l'uno all'altro estranei, e anch'egli lo sapeva. Ora che Dulcibeni era immobilizzato a letto e che avevamo smascherato il suo piano, l'abate Melani non aveva più alcun nemico da sconfiggere, nessuna imboscata da tendere, nessun enigma da sciogliere. E venute meno le impellenze dell'azione, non aveva più tentato di giustificarsi ai miei occhi, di offrirmi spiegazioni per i suoi comportamenti, com'aveva fino ad allora fatto di fronte ai miei bronci ricorrenti. Negli ultimi giorni si rinchiuse così nell'imbarazzo e nel mutismo che solo la colpa erige attorno a sé. Soltanto una volta, un mattino, mentre in cucina approntavo il pranzo mi prese improvvisamente per un braccio e mi strinse le mani tra le sue: «Vieni a Parigi, con me. La mia casa è grande, ti farò impartire la migliore istruzione. Sarai mio figlio» disse con tono grave e accorato. Avvertii qualcosa nel mio pugno: l'apersi, c'erano le mie tre margarite, le perline veneziane donatemi da Brenozzi. Dovevo immaginarlo: le aveva rubate lui sotto al mio naso, quella prima volta nello stanzino, per indurmi ad aiutarlo nelle indagini. E ora me le restituiva, ponendo fine lui stesso alla sua ultima menzogna. Era forse un tentativo di riconciliazione? Ci pensai un attimo, e decisi: «Volete che diventi vostro figlio?!» esclamai scagliando una crudele risata contro il castrato che figli non avrebbe mai potuti averne. E, aperto il pugno, lasciai cadere le margarite sul pavimento. 606/703
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Quella mia piccola e vana vendetta pose la lapide tombale su Atto e me: in quelle tre perline rotolarono lontano da noi il nostro sodalizio, la fiducia, l'affetto e tutto ciò che avevamo tanto strettamente condiviso nei giorni passati. Era finita.
Non tutto però era risolto. Mancava infatti ancora qualcosa al quadro che avevamo ricostruito: qual era la vera ragione dell'odio atroce di Dulcibeni per gli Odescalchi, e in particolare per papa Innocenzo XI? Un movente in realtà esisteva: il rapimento e la scomparsa della figlia di Dulcibeni. Ma, come aveva giustamente notato Atto, sembrava non esser l'unico motivo. Fu proprio lambiccandomi su tale interrogativo, un paio di giorni dopo la notte al Colosseo, che mi colse, lacerante e inaspettata, una di quelle illuminazioni di cui nella vita così di rado (nel momento in cui scrivo posso dirlo ormai per diretta conoscenza) ci viene fatto dono. Tornai ancora una volta con la memoria a quanto avevo appreso dalla ricostruzione che l'abate Melani aveva fatto dinanzi a Dulcibeni. La figlia dodicenne di Dulcibeni, schiava degli Odescalchi, era stata rapita e poi portata in Olanda da Huygens e Francesco Feroni, mercante di schiavi. Dov'era adesso la figlia di Dulcibeni? Schiava in Olanda, visto che il braccio destro di Feroni se n'era invaghito; oppure venduta in qualche altro Paese. Ma avevo pure udito che alcune tra le schiave più belle riuscivano prima o poi ad affrancarsi: col meretricio ovviamente, che in quelle terre strappate al mare sapevo essere assai florido. Quale sarebbe stato il suo sembiante? Se era ancora viva, avrebbe avuto ora circa diciannove anni. Dalla madre, ch'era di pelle negra, avrebbe certamente ereditato un simile tono di carnagione. Difficile immaginare il suo volto, senza conoscere quello della madre. Di certo però era stata maltrattata, reclusa, Imprimatur - Monaldi & Sorti
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percossa. Il suo corpo, pensai, ne doveva serbare i segni. «Come l'hai capito?» si limitò a chiedere Cloridia. «Dai polsi. Le cicatrici che hai sui polsi. E poi l'Olanda, i mercanti italiani che tanto detesti, il nome di Feroni, il caffè che ti rammenta tua madre, il tuo chiedere sempre di Dulcibeni, la tua età e la tua pelle, la tua ricerca con la verga ardente che t'ha condotto qui; e poi l'Arcano del Giudizio, ricordi?: la riparazione dei torti subiti cui m'accennasti» risposi. «E infine gli starnuti dell'abate Melani, sensibile alle stoffe olandesi, che solo tu e tuo padre indossate in questa locanda». Naturalmente Cloridia non s'accontentò della spiegazione, e per giustificare la mia intuizione le dovetti raccontare succintamente buona parte delle avventure di quei giorni. All'inizio naturalmente non credette a molte delle mie rivelazioni, nonostante avessi tralasciato di proposito numerosi eventi che io stesso avrei giudicato fantasiosi e inverosimili. Ovviamente fu assai difficile dimostrarle che suo padre aveva elaborato un piano per attentare alla vita del Papa, cosa della quale si sarebbe convinta solo molto tempo dopo. Alla fine comunque, dopo lunga e paziente spiegazione, credette alla mia buona fede e alla maggior parte dei fatti di cui l'avevo messa al corrente. Il racconto, intervallato dalle sue numerose domande, occupò quasi un'intera nottata, durante la quale avemmo naturalmente agio di ricavar pause di riposo, nelle quali ero invece io a domandare e lei a istruire. «E lui non ha mai sospettato?» le chiesi alla fine. «Mai, ne sono certa». «Glielo dirai?» «All'inizio volevo farlo» rispose dopo un breve silenzio. «L'avevo tanto cercato. Ma ora ho cambiato idea. Dapprima non ci crederebbe; dopo, forse, non ne sarebbe neppure felice. E poi, sai, mia madre: non riesco a dimenticare». «Allora lo sapremo solo noi due» osservai. «Meglio così». 608/703
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«Che non lo sappia nessun altro?» «No: meglio che lo sappia anche tu» disse carezzandomi il capo.
A questo punto, un'ultima notizia si faceva attendere, e non solo da me. Il gaudio universale per la vittoria di Vienna riempiva la città di gioiosi festeggiamenti. Troppo tardi erano quindi giunti gli sforzi di Dulcibeni per affondare la Vera Religione in Europa. Ma il Papa? Le sanguisughe di Tiracorda avevano già fatto effetto? Forse l'artefice della vittoria sui Turchi proprio in quelle ore si rivoltava febbricitante nelle coltri, preda della peste. Di certo non avremmo potuto saperlo già allora, e soprattutto non dal chiuso delle nostre stanze. Ma presto sarebbe arrivato un fatto destinato a liberarci finalmente dalla cattività. Ho già avuto più volte occasione di dire che nei giorni precedenti l'inizio della quarantena s'era udito un forte rimbombo risuonare nel terreno sotto alla locanda, e subito dopo padron Pellegrino aveva scoperto una crepa nel muro delle scale, all'altezza del primo piano. Il fenomeno aveva naturalmente suscitato non poca preoccupazione, passata però in secondo piano per la morte di Fouquet, l'introduzione della quarantena e i molti eventi successivi. Ma la gazzetta astrologica di Stilone Priàso per quei giorni prevedeva, com'avevo potuto leggere coi miei stessi occhi, «terremoti e fuochi sotterranei». Se d'un caso si trattava, pareva fatto apposta per turbare gli animi più tranquilli. Il ricordo di quei sotterranei tambureggiamenti m'instillava quindi nell'animo una certa qual inquietudine, accresciuta dalla crepa delle scale che - non avrei saputo dire se per forza d'immaginazione - mi sembrava farsi giorno per giorno più lunga e profonda. Fu forse a cagione di tale stato d'ansietà che, nella notte tra Imprimatur - Monaldi & Sorti
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il 24 e il 25 settembre, mi svegliai nel cuore della notte. Appena aperti gli occhi, l'oscurità umida della mia stanza mi parve più angusta e soffocante del consueto. Cosa m'aveva destato? Non l'urgenza d'una minzione notturna, né il fastidio di qualche rumore, come potei subito accorgermi. No: si trattava d'un sinistro e diffuso scricchiolio, di cui non riuscivo a individuare la provenienza. Era come il gemito di sassi l'un contro l'altro maciullati, quasi che una poderosa macina li stesse lentamente stritolando. Pensare e fare fu tutt'uno: spalancai la porta della mia stanza e mi precipitai nel corridoio, e poi ai piani inferiori, gridando a squarciagola. La locanda stava per crollare. Cristofano, con lodevole prontezza d'animo, ebbe cura anzitutto d'avvisare la guardia notturna, acché ci lasciasse sortire al sicuro in istrada. L'evacuazione del Donzello, osservata con un misto di curiosità e preoccupazione da alcuni vicini subito accorsi alle finestre, non fu facile né priva di pericoli. Gli scricchiolii provenivano dalle scale, ove la crepa nel giro di poche ore s'era fatta voragine. Come al solito fu necessario il coraggio di pochi (Atto Melani, Cristofano e io) per asportare l'inerme Dulcibeni e condurlo in salvo all'esterno. Il convalescente Bedfordi se la cavò da solo. E così anche il mio padrone che, benché stonato, ritrovò la solita presenza di spirito per imprecare contro la mala sorte. Non appena fummo tutti usciti, parve quasi che il pericolo fosse cessato. Non era però saggio rientrare, e lo dimostrò un forte rumore di calcinacci proveniente dall'interno. Cristofano si consultò fittamente con la guardia. Ne sortì la decisione di rivolgersi al vicino convento dei padri Celestini che, sicuramente impietositi dalla nostra triste condizione, avrebbero accondisceso a fornirci assistenza e ricovero. Così infatti fu; svegliati nel cuore della notte, i padri ci accolsero senza grandi entusiasmi (fors'anche per il sospetto di peste dei giorni scorsi), ma con pia generosità ci assegnarono delle cellette, nelle quali ognuno potè trovare dignitosissimo e 610/703
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confortevole ritiro. La grande novità del giorno seguente, sabato 25 settembre, arrivò già al risveglio. La città era ancora immersa nel clima festante delle celebrazioni per la vittoria viennese, e non appena misi il naso fuori dalla mia celletta m'avvidi che tale spensierata svagatezza toccava anche i padri. Nessuno di essi infatti ci sorvegliava in modo particolare, e l'unica visita di controllo che ricevetti fu quella di Cristofano, che aveva dormito nella stanza di Dulcibeni onde poterlo aiutare nelle eventuali necessità notturne. Egli mi confermò con un filo di sorpresa che non eravamo sottoposti a restrizioni di sorta, e che teoricamente chiunque tra noi avrebbe potuto involarsi da una delle molte uscite del convento, e che nei giorni prossimi qualche fuga sarebbe stata inevitabile. Non sapeva invece che la prima evasione sarebbe avvenuta già nel giro di poche ore. Fu infatti l'indiscreta conversazione tra due dei padri Celestini, svoltasi di fronte alla mia porta, che portò alla mia conoscenza l'evento che si preparava per la sera: nella basilica di San Giovanni si sarebbe celebrata la vittoria di Vienna con un grande Te Deum. E al solenne rito di ringraziamento avrebbe preso parte Sua Beatitudine papa Innocenzo XI. Trascorsi quasi tutta la giornata nella mia celletta, tranne un paio di visite a Dulcibeni e Cristofano, e una a Pellegrino. Ai pasti provvide, con risultato abbondante ma poco appetitoso, la dispensa dei Celestini. Al mio povero padrone, ai dolori del corpo s'erano aggiunti quelli dell'animo: gli era stato spiegato che la locanda era pericolante, e che nelle prime ore del mattino avevano ceduto tutte le scale, dal primo all'ultimo piano, nonché i pianerottoli e la parete che dava sul cortile interno. A quella notizia sobbalzai io stesso: ciò significava con tutta probabilità che anche lo stanzino segreto da cui si accedeva ai sotterranei era andato perduto. Avrei voluto condividere quella novità con l'abate Melani; ma non era più tempo. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Quando la luce pomeridiana si corrompeva ormai nel dolce abbraccio della penombra serale, non mi fu difficile sgattaiolare fuori dalla mia stanza e poi dal convento, grazie a una porticina secondaria incustodita. Mi assicurai la complicità d'un servetto di quei frati, dietro pagamento di una modesta sommetta (che prelevai dai pochi risparmi salvati nella fuga dal Donzello), per esser certo di ritrovarla aperta al ritorno. Non era una fuga: avevo un solo obiettivo, soddisfatto il quale mi sarei ritirato nuovamente al convento. Ci volle non poco per raggiungere la basilica di San Giovanni, dove si stava raggruppando gran concorso di popolo. Dal convento dei Celestini raggiunsi dapprima il Pantheon, poi piazza San Marco e da lì il Colosseo. Nel volgere di pochi minuti, percorsa la strada che menava dritto dall'anfiteatro alla basilica, mi ritrovai infine nella piazza di San Giovanni in Laterano, attorniato da una folla trepidante e febbrile che di minuto in minuto andava aumentando. M'avvicinai dunque all'ingresso della basilica, ove mi avvidi d'essere arrivato appena in tempo: attorniato da due ali di folla giubilante, faceva la sua uscita proprio in quel momento Sua Santità. Mentre mi allungavo per vedere meglio, mi buscai sull'orecchio la gomitata d'un vecchio che cercava di farsi largo al mio fianco. «E sta' attento, ragazzo» mi disse con sgarbo come se il colpo fosse toccato a lui. Nonostante i troppi colli e le troppe teste che mi sovrastavano, incuneandomi faticosamente nella calca riuscii alfine ad avvistare Sua Beatitudine, appena prima che risalisse in carrozza, sottraendosi allo sguardo plaudente della moltitudine. Lo vidi proprio mentre salutava i fedeli e con gesto sorridente e amabile li benediva una, due, tre volte. Profittando della mia giovanile agilità, ero riuscito a portarmi a pochi passi dal Santo Padre; potei così scrutare il suo viso da presso e discernere il colorito delle gote, la luce degli occhi e quasi perfino la consistenza dell'incarnato. 612/703
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Non ero un medico, e neppure un veggente. Fu forse solo la mia sete di sapere, spingendo le mie facoltà d'osservazione in guisa quasi soprannaturale al di là dei confini della comune esperienza, a dirmi che in lui nulla v'era di malato. Aveva il volto di chi ha molto sofferto, è vero: ma era dolore dell'animo, a lungo appenato dall'ansia per le sorti di Vienna. Proprio vicino a me sentii due anziani prelati sussurrare che, dopo la lieta novella della vittoria, Innocenzo XI era stato visto piangere come un bambino, inginocchiato a terra, irrorando di pietose lacrime le mattonelle della sua stanza. Ma malato no, non era: lo dicevano lo sguardo luminoso, la pelle rosea, e per ultimo lo scatto breve ma vigoroso con cui terminò d'issarsi sulla carrozza guadagnando l'interno dell'abitacolo. Non lontano scorsi d'improvviso il volto placido di Tiracorda. Era attorniato da un gruppetto di giovani (forse i suoi studenti, pensai). Prima che la mano robusta di una guardia pontificia mi respingesse, feci in tempo a udire Tiracorda: «Ma no, troppo buoni, non è merito mio... È stata la mano del Signore: dopo la lieta notizia, non ho più dovuto far nulla». Ora avevo la certezza. Una volta appreso della vittoria di Vienna, il Pontefice si era sentito meglio e il salasso si era reso inutile. Il Papa era sano e salvo. Dulcibeni aveva fallito. M'avvidi che non ero il solo a sapere. Poco distante nella folla riconobbi, non visto, il volto fremente e ombroso dell'abate Melani.
Rientrai alla locanda per mio conto, confuso nella calca che sciamava disordinatamente verso le proprie case, senza più scorger l'abate Melani, né cercando di rintracciarlo. Attorno a me era tutto un gaio fiorire di commenti sulla cerimonia, sulla santità del Papa e sulla sua gloriosa opera a favore della cristianità. Mi trovai per caso nella scia d'un vivace gruppo di padri cappuccini, che si facevano strada agitando gioiosamente Imprimatur - Monaldi & Sorti
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alcune fiaccole, e perpetuavano così la letizia ch'essi stessi avevano attinto durante la celebrazione del Te Deum. Dai loro conversari carpii alcuni curiosi dettagli (della cui veridicità mi sarei poi certiorato nei mesi a venire) di ciò ch'era capitato a Vienna nei tempi dell'assedio. I padri si riferivano a notizie giunte da Marco d'Aviano, il cappuccino che tanto valorosamente s'era impegnato nella lega antiturca. Al termine dell'assedio - li udii raccontare con le lingue sciolte dall'emozione - il re polacco Jan Sobieski aveva contravvenuto agli ordini dell'imperatore Leopoldo ed era entrato solennemente a Vienna acclamato come vincitore da tutti i viennesi. L'Imperatore, come aveva egli stesso confidato a Marco d'Aviano, non gl'invidiava il trionfo, ma l'amore dei sudditi: tutta Vienna aveva visto Leopoldo abbandonare la capitale al suo destino e scappare come un ladro; e ora salutava festosa il Re straniero che aveva appena rischiato la vita sua, della sua gente e persino del suo primogenito per salvarla dal Turco. Ovviamente adesso l'Asburgo la faceva pagare a Sobieski: al loro incontro, l'Imperatore era stato scontroso e glaciale. «Sono pietrificato» aveva confidato Sobieski ai suoi. «Ma poi l'Altissimo ha disposto affinché tutto s'aggiustasse per il meglio» concluse conciliante uno dei cappuccini. «Eh sì, se Dio vuole» gli fece eco un confratello «alla fine tutto s'aggiusta». Quelle sagge parole mi risuonavano ancora in testa quando, l'indomani, mi venne comunicato da Cristofano che nel giro di qualche giorno saremmo stati liberati dall'obbligo della quarantena. Complice il clima festivo, il medico aveva facilmente convinto le autorità che non v'era più pericolo alcuno di contagio. L'unico ad aver ancora bisogno d'assistenza era Pompeo Dulcibeni, il cui stato era stato spiegato dal medico alle guardie con un'accidentale caduta dalle scale del Donzello. Dulcibeni era adesso, ahi lui, candidato all'immobilità perpetua. Cristofano avrebbe potuto assisterlo ancora per qualche dì; poi anche 614/703
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il medico sarebbe tornato nel granducato di Toscana. Chi avrebbe badato, pensai con un amaro sorriso, a colui che aveva tentato di assassinare il Papa?
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Accadimenti dell'Anno 1688
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rano passati cinque anni dalla terribile avventura del Donzello. La locanda non era stata più riaperta: Pellegrino se l'era portato via sua moglie, credo presso i propri parenti. Cloridia, Pompeo Dulcibeni e io vivevamo in un modesto casale fuori dalle mura cittadine, ben oltre Porta San Pancrazio, ove tuttora mi trovo mentre affido alla carta queste righe. Le giornate e le stagioni erano, allora come oggi, scandite solo dal raccolto del nostro campicello e dalla cura delle poche bestie da cortile acquistate grazie ai risparmi di Dulcibeni. Conoscevo già ogni asprezza dei campi: avevo imparato ad affondare le mani nella terra, a interrogare il vento e il cielo, a barattare il mio con i frutti delle altrui fatiche, a contrattare prezzi e prevenire le frodi. Avevo imparato a sfogliare le pagine dei libri, a sera, con le mani gonfie e luride del contadino. Cloridia e io vivevamo more uxorio. Nessuno ce ne avrebbe mai fatto una colpa: nella nostra sperduta contrada non arrivavano neppure i preti per la benedizione pasquale. Da quando s'era definitivamente rassegnato alla perdita delle gambe, Pompeo era diventato ancor più taciturno e scontroso. Non s'aiutava più, infatti, inalando le foglie tritate di mamacòca, la droga del Perù che si era procurato in Olanda. Proprio grazie a ciò, d'altra parte, non era più vittima di quegli stati di cupa esaltazione che gli erano divenuti necessari per sostenere le sfrenate scorribande nelle gallerie del Donzello. 616/703
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Ancora non capiva perché l'avessimo accolto presso di noi, dandogli ricovero e assistenza. Dapprima sospettava che mirassimo al non piccolo gruzzolo che avrebbe portato in dote. Non seppe mai di Cloridia. Neppure lei, d'altra parte, volle mai svelargli d'essere sua figlia. Non gli aveva mai perdonato, in cuor suo, d'aver lasciato vendere sua madre. Quando il tempo trascorso fu sufficiente a proteggerla dall'ambascia del ricordo, Cloridia mi narrò infine le vicissitudini che aveva patito dopo esser stata strappata al padre. Huygens le aveva fatto credere d'averla comprata, ancora bambina, da Dulcibeni. L'aveva tenuta segregata e poi, stancatosi di lei, prima di tornare in Toscana da Feroni l'aveva rivenduta in Olanda ad altri ricchi mercanti italiani. Per lunghi anni la mia Cloridia aveva viaggiato al seguito di quei mercanti, e poi di altri e altri ancora, più d'una volta comprata e rivenduta. Di lì all'antica e vergognosa arte il passo era stato breve. Ma col denaro segretamente e faticosamente racimolato aveva comprato la libertà: l'opulenta e liberale Amsterdam era la città ideale per quel turpe traffico di corpi. Infine però l'ansia di rivedere il padre, e di chiedergli conto dell'abbandono, aveva preso il sopravvento, fino a portarla sull'uscio del Donzello con l'aiuto della scienza dei numeri, e con la pratica arcana della verga ardente. Malgrado le sofferenze patite, e i tristi ricordi che a volte le negavano il sonno, Cloridia assistette Dulcibeni con costanza e dedizione. Egli, dal canto suo, cessò presto di trattarla con sprezzo. Non le fece mai domande sul suo passato, risparmiandole l'imbarazzo della menzogna. Ben presto Pompeo mi chiese d'andare a recuperare i bauli di libri che aveva lasciato a Napoli. Me ne fece dono, preannunciandomi che col tempo ne avrei apprezzato sempre di più il valore. Grazie a quei libri, e ai ragionamenti che ne potemmo cavare, poco a poco la lingua di Dulcibeni si sciolse. Col tempo passò dai commenti ai ricordi, e da questi agl'insegnamenti. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Non solo però di dottrina, ma anche d'esperienza: chi ha praticato la mercatura per anni in tutta Europa, e al servizio di una casa potente come gli Odescalchi, ha molto da raccontare. Tra noi restava però, sospeso a mezz'aria, quel mistero non rivelato: perché Dulcibeni aveva attentato alla vita del Papa? Un giorno, confidavo, egli mi avrebbe svelato l'arcano. Sapevo però che chiederglielo, a cagione del suo naturale ombroso e testardo, sarebbe stato del tutto inutile. Bisognava attendere.
Era dunque l'autunno del 1688, e a Roma le gazzette portavano notizia di fatti gravissimi e dolorosi. Il principe eretico Guglielmo d'Orange aveva passato con la sua flotta lo stretto della Manica, sbarcando in una località della costa inglese chiamata Torbay. Il suo esercito stava avanzando quasi senza incontrare opposizione, e nel giro di pochi giorni Guglielmo aveva usurpato il trono del cattolico re Giacomo Stuart, colpevole d'aver avuto appena due mesi prima dalla sua seconda moglie il tanto sospirato erede maschio che avrebbe tolto all'Orange ogni speranza di diventare Re d'Inghilterra. Con il colpo di mano di Guglielmo l'Inghilterra sarebbe caduta preda degli eretici protestanti, perduta per sempre alla religione di Roma. Quando gli ebbi riferito di tali drammatiche novità, Pompeo Dulcibeni non commentò in alcun modo. Era seduto in giardino, e stava accarezzando un gattino che gli sedeva in grembo. Sembrava tranquillo. D'un tratto lo vidi però mordersi il labbro e scacciare la bestiola, sferrando subito dopo un colpo con la mano tremante sul tavolo al suo fianco. «Cosa vi succede, Pompeo?» chiesi balzando in piedi e temendo che si sentisse poco bene. «Ce l'ha fatta, maledetto! Alla fine ce l'ha fatta» ansimò in preda a una sorda ira, fissando l'orizzonte oltre la mia testa. Lo guardai interrogativamente, ma non osai porgli doman618/703
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de. E Pompeo Dulcibeni, socchiudendo lentamente le palpebre, cominciò a parlare.
Tutto era iniziato quasi trent'anni prima. Fu allora, narrò Dulcibeni, che la famiglia Odescalchi si macchiò del crimine più infame: aiutare gli eretici. Era circa il 1660. A quell'epoca il principe Guglielmo d'Orange era ancora un bambino. La casa d'Orange era, come sempre, a corto di denari. Tanto per dare un'idea, la madre e la nonna di Guglielmo avevano impegnato tutti i gioielli di famiglia. Il teatro europeo era foriero per l'Olanda di guerre tremende, che infatti ben presto sarebbero scoppiate. Contro l'Inghilterra prima, e poi contro la Francia. Per combatterle, servivano denari. E molti. Dopo una serie di segretissimi preamboli, dei quali neppure lo stesso Dulcibeni conosceva i particolari, la casa d'Orange si rivolse agli Odescalchi. Erano tra i prestasoldi più solvibili d'Italia, e non si tirarono certo indietro. Fu così che le guerre dell'eretica Olanda vennero finanziate dalla famiglia cattolica del cardinal Odescalchi, futuro papa Innocenzo XI. Naturalmente tutta l'operazione dei prestiti venne condotta in modo accortissimo. Il cardinal Benedetto Odescalchi viveva a Roma; il fratello Carlo, che dirigeva in prima persona gli affari di famiglia, risiedeva a Como. I soldi agli Orange vennero invece inviati da Venezia tramite due fidatissimi prestanome, e così in nessun modo si sarebbe potuto risalire alla famiglia d'Innocenzo XI. I bonifici, inoltre, non erano indirizzati direttamente a membri della casa d'Orange, ma a intermediari segreti: l'ammiraglio Jean Neufville, il finanziere Jan Deutz, i commercianti Bartolotti, il membro del Consiglio di Amsterdam Jan Baptista Hochepied... Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Da questi ultimi i soldi venivano poi girati alla casa d'Orange, per finanziare la guerra contro Luigi XIV. «E voi?», lo interruppi. «E io facevo avanti e indietro con l'Olanda per conto degli Odescalchi: m'assicuravo che le lettere di cambio arrivassero e venissero incassate, e che fosse rilasciata la relativa ricevuta. In più, controllavo che tutto si svolgesse al riparo dai curiosi». «Insomma, i soldi di papa Innocenzo XI sono serviti per lo sbarco degli eretici in Inghilterra!» conclusi allibito. «Più o meno. Gli Odescalchi però hanno prestato soldi agli eretici olandesi solo fino a una quindicina di anni fa, mentre Guglielmo è sbarcato solo adesso». «E allora?» Allora era successa una cosa bizzarra, spiegò Dulcibeni. Nel 1673 era morto Carlo Odescalchi, il fratello del futuro Papa. Il Pontefice allora non poteva più seguire da Roma gli affari di famiglia, e decise di sospendere i prestiti agli Olandesi. Il gioco s'era fatto troppo pericoloso, e il pio cardinal Odescalchi non poteva rischiare di farsi scoprire. La sua immagine doveva restare immacolata. Era stato previdente: dopo appena tre anni si sarebbe svolto il Conclave che lo fece Papa. «Ma aveva prestato soldi agli eretici!», dissi scandalizzato. «Ascolta il resto». Col tempo il debito della casa d'Orange verso gli Odescalchi era aumentato a dismisura, oltre centocinquantamila scudi. Ora che Benedetto era stato eletto Papa, come sarebbero stati restituiti tutti quei soldi? In caso d'insolvenza, l'accordo iniziale prevedeva che gli Odescalchi avrebbero potuto rifarsi sulle proprietà private di Guglielmo. Ora però Benedetto Odescalchi, diventato Pontefice, era sotto gli occhi di tutti: non poteva certo pignorare il feudo d'un Principe eretico, facendo scoprire anche i prestiti. Sarebbe scoppiato uno scandalo micidiale. È vero che nel frattempo Benedetto aveva fatto una donazione di facciata di tutti i suoi beni al nipote Livio, ma in realtà si sapeva 620/703
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bene ch'era sempre lui a controllare ostinatamente tutto. Poi c'era un altro problema. Guglielmo era sempre a corto di denari, poiché i suoi finanziatori olandesi (cioè le ricche famiglie di Amsterdam) tenevano stretti i cordoni della borsa. Innocenzo XI rischiava insomma di non riavere più i suoi soldi. Ecco perché, disse Dulcibeni, Innocenzo XI era stato sempre così ostile a Luigi XIV: il Re Cristianissimo di Francia era l'unico a sbarrare la strada a Guglielmo, era l'unico che poteva impedirgli di salire sul trono inglese. Luigi XIV era l'unico impedimento tra Innocenzo XI e i suoi soldi. Gli Odescalchi erano riusciti nel frattempo a tenere tutto sotto silenzio. Ma nel 1676, poco prima che si apra il Conclave, accade l'incidente: Huygens, braccio destro del mercante di schiavi Francesco Feroni (anch'egli in affari con gli Odescalchi), s'incapriccia della figlia che Pompeo Dulcibeni ha avuto da una schiava turca e - forte dell'appoggio di Feroni - pretende d'impossessarsene. Dulcibeni non può opporsi legalmente, perché non ha sposato la madre della bimba. Allora fa capire agli Odescalchi che se Feroni e Huygens non rinunciano alle loro pretese, potrebbe circolare qualche indiscrezione assai pericolosa per il cardinal Benedetto: una storia di prestiti a interesse, concessi agli eretici olandesi... e addio Conclave per il cardinal Odescalchi. Il resto lo sapevo già: la bambina viene rapita, e mani misteriose gettano da una finestra Dulcibeni, che sopravvive per miracolo. Pompeo deve darsi alla macchia, mentre Benedetto Odescalchi viene eletto Papa. «Fino a oggi però il Pontefice non è riuscito a riavere i soldi da Guglielmo d'Orange. Ne sono sicuro, so come funzionano queste cose. Ma ora tutto si risolverà» concluse Dulcibeni. «E perché?» «Ma è chiaro: ora Guglielmo diventerà Re d'Inghilterra, e in qualche modo riuscirà a pagare i suoi debiti col Papa». Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Tacqui, confuso e smarrito. «Ecco il vero perché di tutto il vostro piano» dissi allora «le visite a Tiracorda, gli esperimenti sull'isola... Aveva ragione l'abate Melani: non vi muoveva solo il rapimento di vostra figlia. Per voi era come giustiziare il Papa, non so come dire, per tradimento di…». «... tradimento della Religione, esatto. Per i soldi ha svenduto l'onore della Chiesa e della Cristianità. E ricorda, il male del corpo non è nulla in confronto a quello dell'anima. È quella la vera peste». «Però voi volevate far rovinare l'intera Cristianità: per questo avete scelto di contagiare il Papa durante l'assedio di Vienna». «L'assedio di Vienna... c'è ancora qualcosa che devi sapere. E qui coi soldi degli Odescalchi c'entra anche l'Imperatore». «L'Imperatore?» esclamai. Il gioco era semplice, e anche questa volta condotto nella massima segretezza. Per finanziare la guerra contro i Turchi, la casa d'Asburgo era stata sovvenzionata dalle casse della Camera Apostolica. Ma allo stesso tempo l'imperatore Leopoldo prendeva soldi a prestito a titolo privato anche dagli Odescalchi. La famiglia del Papa riceveva come cauzione l'argento vivo, o mercurio che dir si voglia, estratto dalle miniere imperiali. «E gli Odescalchi che ci facevano con l'argento vivo?» «Semplice: lo rivendevano agli eretici olandesi. Per la precisione, al banchiere protestante Jan Deutz». «Ma allora Vienna è stata salvata anche grazie agli eretici!» «In un certo senso è così. Ma soprattutto con i soldi degli Odescalchi. E puoi star certo che riusciranno a farsi restituire il favore dall'Imperatore. E non parlo solo di soldi». «Che volete dire?» «Sicuramente l'Imperatore finirà per concedere qualche grosso favore politico al Papa, o a suo nipote Livio che ne è l'unico erede. Aspetta qualche anno e vedrai». 622/703
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Settembre 1699
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el momento in cui chiudo questa memoria, sono passati quasi undici anni dallo sbarco di Guglielmo d'Orange in Inghilterra. Il Sovrano eretico regna tuttora, e felicemente; l'onore della Religione e dei cattolici inglesi è stato svenduto da Innocenzo XI per un pugno di denari. Ma papa Odescalchi non potrà più ripetere la sua miserabile impresa. È spirato dieci anni fa, dopo una lunga e penosa agonia. All'apertura della salma gli hanno trovato le budella marce e le reni piene di sassi. Qualcuno ha già proposto di dargli l'onore degli altari e proclamarlo Beato. Anche Pompeo Dulcibeni ci ha lasciati. È morto quest'anno, da buon cristiano, dopo molte preghiere e il pentimento sincero per i suoi non pochi peccati. È accaduto una domenica d'aprile; avevamo mangiato forse un po' più del dovuto ed egli (ch'era sempre troppo rosso in viso, e negli ultimi anni si accostava spesso alla bottiglia) m'ha chiesto di aiutarlo a raggiungere il letto per riposare un po'. Non s'è più alzato. Ciò che oggi sono, credo di doverlo in gran parte a lui: era divenuto per così dire il mio nuovo maestro, Dio solo sa quanto diverso dall'abate Melani. Grazie alla sua lunga e dolorosa permanenza su questa Terra, Pompeo m'ha disvelato molto della vita e dei suoi mali, seppure cercando sempre di trasmettermeli col conforto della Fede e del timor di Dio. Ho letto tutti i volumi ch'egli m'aveva regalato: libri di Storia, di Teologia, di Poesia e financo di Medicina, più alcuni contenenti i rudimenti della scienza dei mercanti e delle aziende, in cui Dulcibeni tanImprimatur - Monaldi & Sorti
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to era versato, e che oggigiorno non si può più pensare d'ignorare. Per ciò ora m'accorgo d'aver forse stilato le memorie d'allora col pensiero di oggi, attribuendo sovente al giovane e sprovveduto garzone del Donzello cogitazioni e parole di cui solo adesso Iddio mi fa grazia. A offrirmi le maggiori scoperte, tuttavia, non sono stati i tomi di dottrine politiche o morali, ma quelli di Medicina. Ho faticato non poco per convincermi che non ero affatto immune dalla peste, come invece Cristofano aveva assicurato all'inizio della quarantena: la mia sventurata condizione non mi proteggeva in alcun modo dal contagio. Il medico aveva mentito, forse per potersi avvalere dei miei servigi, e s'era inventato tutto: dalla favola dell'omuncolo sodomizzatore africano alle classificazioni di Gaspare Schotto, Fortunio Liceto e Giovanni Eusebio Nierembergius, in alcuna delle quali in realtà s'accenna affatto a una mia pretesa immunità. Cristofano sapeva benissimo che la statura non ha alcun rapporto con la peste. E contro il morbo pestifero a nulla vale essere, come io sono, un povero nano: «diletto de' Principi e maraviglia de' spettatori», come m'aveva schernito Dulcibeni. Sarò comunque sempre grato a Cristofano: grazie alla sua veniale menzogna, il mio petto di pigmeo si gonfiò d'orgoglio. Fu l'unica volta. La mia crudele menomazione mi ha fruttato solo l'abbandono in tenera età, e la derisione di tutto l'umano consorzio; malgrado - come già aveva sottolineato Cristofano io sia da annoverare tra i più fortunati della mia razza, i mediocres di statura, e non tra i minores o, peggio, tra i minimi. Quando ripenso all'avventura del Donzello, mi risuonano ancora nelle orecchie le risa crudeli degli uomini del Bargello, mentre mi spingono a forza nella locanda, all'inizio della quarantena; e poi Dulcibeni che mi dileggia chiamandomi latinamente pomilione, nanetto. Evoco dinanzi agli occhi l'osceno vizio di Brenozzi di pizzicarsi il sedano tra le cosce, proprio all'altezza del mio naso; e la folla dei corpisantari che mi scambia per uno dei daemunculi subterranei, i minuscoli diavoletti 624/703
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che popolano i loro incubi. E mi rivedo, quasi creato per quel mondo sotterraneo, mentre precedo agilmente Atto negli angusti cunicoli della locanda. In quei giorni al Donzello la mia infelice condizione mi fu di peso non meno che nel resto della vita. Ma ho preferito lasciarla in ombra nella rievocazione del gran teatro di quelle vicende: chi mai presterebbe fede al racconto di colui che solo le rughe fanno diverso da un fanciullo?
Le rivelazioni di Dulcibeni, nel frattempo, sono state confermate dai fatti. Il nipote di Innocenzo XI, Livio Odescalchi, unico erede del Papa, ha comprato a prezzo stracciato dall'imperatore Leopoldo il feudo ungherese del Sirmio. E ciò, si vocifera a Roma, nonostante l'opposizione degli stessi funzionari imperiali. Per aggiungere lustro al buon affare, l'Imperatore lo ha perfino nominato Principe del Sacro Romano Impero. Ma ogni regalo troppo sfacciato, si sa, nasconde la restituzione d'un favore. Dunque era vero: anche l'Imperatore era in debito verso gli Odescalchi. Ora ha restituito quel denaro con gl'interessi. Livio Odescalchi non sembra provare vergogna alcuna per i suoi traffici esosi e sfacciati. Alla morte d'Innocenzo XI si dice che disponesse di più d'un milione e mezzo di scudi, oltre al feudo di Ceri. Subito dopo ha messo le mani sul ducato di Bracciano, il Marchesato di Roncofreddo, la Contea di Mondano e la Signoria di Palo, nonché sulla villa Montalto di Frascati. Stava per comprare anche il feudo di Albano, e solo la stessa Camera Apostolica è riuscita in extremis a soffiargli l'affare. Infine, dopo la morte di re Jan Sobieski, il trionfatore di Vienna, Livio ha tentato di succedergli sul trono di Polonia offrendo otto milioni di fiorini. Inutile sdegnarsene: i soldi - orda infame senza terra né pietà - non hanno mai cessato d'appestare l'Europa, e sempre più Imprimatur - Monaldi & Sorti
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calpesteranno l'onore della Fede e delle Corone.
Non sono più il ragazzo innocente di quei giorni al Donzello. Ciò che allora ho visto e sentito, e che mai potrò rivelare ad alcuno, ha segnato per sempre la mia vita. La Fede non mi ha abbandonato; inevitabilmente, tuttavia, il sentimento di devozione e fedeltà che ogni buon cristiano dovrebbe nutrire per la sua Chiesa si è per sempre corrotto. Affidare a queste pagine le mie ricordanze è servito, se non altro, a superare i momenti di maggior sconforto. Al resto hanno provveduto la preghiera, la vicinanza di Cloridia e le letture di cui mi sono nutrito in questi anni. Tre mesi fa Cloridia e io ci siamo infine congiunti in matrimonio: abbiamo colto l'occasione con l'arrivo d'un frate cercatore nella nostra misera contrada. Pochi giorni fa ho venduto qualche raspo d'uva a un cantore della Cappella Sistina. Gli ho chiesto se gli capitasse mai di cantare arie del celebre Luigi Rossi. «Rossi?» ha risposto aggrottando le sopracciglia. «Ah sì, forse ho inteso questo nome, ma dev'essere roba vecchia, del tempo dei Barberini. No» aggiunse ridendo «oggi non se ne ricorda più nessuno: adesso a Roma tutta la gloria è per il grande Corelli, non lo sai?» Solo adesso mi rendo conto d'aver lasciato trascorrere gli anni fuori dalla porta della mia casetta. No, non conosco quel Corelli. Ma so che non potrò mai dimenticare il nome del seigneur Luigi, né gli accenti sublimi delle sue arie, già fuori moda quando l'abate Melani le rievocava per sé e per me. Di tanto in tanto, a volte perfino in sogno, mi sovvengono la voce e gli occhietti aguzzi di Atto Melani, che immagino ormai vecchio e curvo nella sua casa di Parigi, quella casa spaziosa dove una volta m'aveva offerto d'andare a vivere. 626/703
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Per fortuna, la fatica m'allontana la nostalgia: il nostro podere si è ingrandito e il lavoro aumenta sempre. Vendiamo tra l'altro erbette fresche e buona frutta alla villa della famiglia Spada, qui vicino, dove spesso mi chiamano pure per qualche altro servizio. Appena il lavoro mi dà una pausa, però, torno a ricordare le parole di Atto, a ripetermi una frase che dice d'aquile solitarie e schiere di corvi, e cerco dentro di me di replicarne i toni, gli accenti e le intenzioni, sebbene li sappia sconsigliati e audaci. Molte volte sono tornato invano in via dell'Orso, per chiedere ai nuovi inquilini del palazzetto ove sorgeva la locanda (ora vi sono solo appartamenti d'affitto) se vi fossero lettere da Parigi per me, o se qualcuno abbia chiesto del garzone di allora. Ma ogni volta, come temevo, la mia attesa è andata delusa. Il tempo mi ha aiutato a capire. Solo oggi ho compreso che l'abate Melani non intendeva in realtà tradire Fouquet. È vero, Atto consegnò al Re Sole le missive rubate a Colbert, dalle quali si scopriva che il Sovrintendente era nascosto a Roma. Ma già prima d'allora il Re aveva cominciato a mostrare clemenza verso Fouquet; gli aveva concesso una prigionia meno dura, e anzi ormai si sperava nella sua liberazione. Tutti però credevano che la scarcerazione tardasse a causa del solito Colbert: e allora non era forse una buona idea portare le lettere del Colubra al Re? Melani non poteva certo immaginare ciò che il Re avrebbe pensato, alla velocità del fulmine, non appena viste le lettere rubate da Atto nello studio del Colubra: Fouquet era a Roma, con il secretum pestis, e forse lo avrebbe consegnato al Papa, che sosteneva la resistenza di Vienna... Luigi XIV non poteva permettere che tutto andasse a rotoli proprio in quel momento, quando i suoi piani d'intesa col Turco stavano per giungere a compimento. Avrà congedato frettolosamente Atto. Avrà preso tempo per riflettere. L'avrà richiamato poco più tardi, raccontandogli chissà quale storia. Qualunque essa fosse, sono sicuro di come quell'incontro si sia Imprimatur - Monaldi & Sorti
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concluso: Atto venne inviato a compiere un estremo e tragico atto di fedeltà alla Corona. Oggi tutto ciò non mi pare più orribile. Ripenso quasi con tenerezza al trucco di rubarmi le perline per coinvolgermi nelle sue indagini. E vorrei poter tornare indietro, all'ultimo giorno in cui vidi Atto Melani: signor abate, fermatevi, vorrei dirvi... Ormai non è più possibile. Ci divisero, allora e per sempre, il mio candore di ragazzo, il mio entusiasmo deluso, la mia impazienza. Ora so che fu ingiusto sacrificare l'amicizia alla purezza, la confidenza alla ragione, il sentimento alla sincerità. Non si può essere amici d'una spia senza dire addio alla verità.
Tutte le profezie si sono compiute. Nei primi giorni di quarantena avevo sognato Atto che mi consegnava un anello e Devizé che suonava la tromba. Ebbene, nel libro di oniromanzia della mia Cloridia ho letto che l'anello è simbolo di bene congiunto a difficoltà, mentre la tromba indica conoscenze occulte: proprio come il segreto della peste. In sogno avevo visto Pellegrino morto che risorge: presagio di travagli e danni, che infatti poi si sono abbattuti su tutti noi. Nelle mie fantasie oniriche avevo poi visto spargere sale, che simboleggia assassinio (la morte di Fouquet); e poi una chitarra, che indica malinconia e lavoro senza reputazione (io e Cloridia, ignoti e negletti nel nostro campicello). Solo l'ultimo simbolo mi era stato favorevole, e Cloridia ben lo sapeva: il gatto, annunciatore di lussuria. Anche la gazzetta astrologica di Stilone Priàso aveva previsto tutto: non solo il crollo della locanda, ma anche la prigionia d'un gruppo di gentiluomini (la quarantena al Donzello), l'assedio di una città (Vienna), le febbri maligne e i morbi velenosi (capitati a più d'un ospite), la morte d'un Sovrano (Maria Teresa), i viaggi degli ambasciatori (per dare la notizia della vittoria 628/703
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di Vienna). Solo un vaticinio non s'era avverato, o meglio era stato vinto da una forza più grande: le Baricades mistérieuses avevano impedito che si verificasse quella «morte di gentiluomini riserrati» che la gazzetta aveva antiveduto. Tutto ciò mi ha aiutato a prendere una decisione, o meglio a liberarmi di un antico e insano appetito. Non voglio più fare il gazzettante. E non solo per il dubbio (incompatibile con la Fede) che siano i capricci delle stelle a governare i nostri destini. A spegnere in me l'antico ardore è stato anche altro. Nelle gazzette, che dopo l'avventura del Donzello ho avuto occasione di leggere in gran numero, non ho trovato nulla di ciò che Atto mi aveva insegnato. E non parlo dei fatti: sapevo già che i veri segreti dei Sovrani e degli Stati non trovano mai posto nei fogli volanti che si vendono in piazza. A mancare dai resoconti dei gazzettanti è soprattutto il coraggio del ragionamento, la sete di conoscenza, la prova onesta e audace dell'intelletto. Non che siano del tutto inutili, le gazzette: ma non sono fatte per chi davvero ricerca la verità. Non avrei certo potuto, con le mie povere forze, mutare questo stato di cose. Chi mai osasse divulgare i misteri di Fouquet e Kircher, Maria Teresa e Luigi XIV, Guglielmo d'Orange e Innocenzo XI verrebbe immediatamente arrestato, messo in catene e gettato per sempre nel carcere dei pazzi. È vero ciò che diceva Atto: conoscere la verità non è d'aiuto a chi scrive le gazzette. Al contrario: è il più grande degli ostacoli. Il silenzio è l'unica salvezza di chi sa. Ciò che nessuno potrà più restituirmi, e che più mi manca, non sono tuttavia parole, ma suoni. Delle Baricades mistérieuses (di cui ahimé non potei serbare una copia) mi resta ormai solo un ricordo esiguo e lacunoso, vecchio di sedici anni. Ne ho fatto una sorta di trastullo solitario, una giocosa tenzone con la mia stessa memoria. Com'era, come suonava quel Imprimatur - Monaldi & Sorti
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passaggio, quell'accordo, quell'ardita modulazione? Quando la canicola estiva dissecca il capo e le ginocchia, mi accomodo sotto la quercia che ombreggia la nostra modesta casetta, sulla sedia che Pompeo Dulcibeni preferiva. Allora chiudo gli occhi e sommessamente canticchio il rondò di Devizé: una volta, poi due e poi ancora, pur sapendolo a ogni tentativo più sbiadito, più incerto, più lontano dal vero. Pochi mesi fa ho spedito una lettera ad Atto. Non avevo il suo indirizzo di Parigi, e ho inviato la lettera a Versailles, nella speranza che qualcuno gliela facesse recapitare. A Corte tutti conoscono, ne sono certo, il celebre abate castrato consigliere del Re Cristianissimo. Gli ho confidato la mia profondissima pena per essermi da lui congedato senza porgergli i sensi della mia gratitudine e devozione. Gli ho offerto i miei servigi, scongiurandolo di volermi far la grazia d'accettarli e chiamandomi suo servo umilissimo e fedelissimo. Infine gli ho accennato d'aver scritto queste memorie, che ho redatto sulla scorta del mio diario di quei giorni, diario di cui Atto neppure sospettava l'esistenza. Purtroppo non mi ha ancora risposto. Così, negli ultimi tempi un sospetto atroce ha iniziato a trafiggermi il pensiero. Cos'avrà riferito Atto al Re Cristianissimo, una volta tornato a Parigi? Sarà riuscito a dissimulare quanti segreti regali era riuscito a scoprire? Oppure avrà abbassato lo sguardo, incalzato dalle domande, lasciando intuire al suo Re d'essere a conoscenza di troppe infamie? E così a volte mi figuro un agguato notturno in qualche vicolo sperduto, un grido soffocato, i passi dei sicari che fuggono e il corpo di Atto riverso nel fango e nel sangue... Ma non demordo. Lottando con le mie fantasie, continuo a sperare. E mentre attendo che arrivi la posta da Parigi, sussurro talvolta qualche verso del suo antico maestro, il seigneur Luigi: 630/703
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Speranza, al tuo pallore so che non speri più. E pur non lasci tu di lusingarmi il core...
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Addendum
Caro Alessio, siete alfine giunto al termine dell'opera dei miei due vecchi amici. Sta ora a Voi fare l'ultimo passo che la porterà nelle mani del Santo Padre. Mentre affido alla carta queste righe, prego che lo Spirito Santo ispiri la Vostra lettura e la decisione che ne seguirà. Sono passati ormai quasi quarant'anni da quando ricevetti per posta il dattiloscritto in cui veniva narrata la storia del Donzello e del suo garzone nano. Ovviamente, pensai subito si trattasse di un'opera in cui predominava la fantasia. Certo, i due autori avevano utilizzato, a loro dire, un documento storico: la memoria inedita di un garzone del 1699. Inoltre sapevo già, come sacerdote e studioso, della correttezza storica di quanto detto sull'abate Morandi e Campanella, su giansenisti e gesuiti, sull'antica Compagnia dell'Orazione e Morte così come sull'ormai scomparso convento dei Celestini, nonché sulle bizzarre credenze che circolavano nel XVII secolo in materia di confessione ed Estrema Unzione. E infine, non poche licenze lessicali, come talune disinvolture nelle citazioni latine, riportavano indiscutibilmente alla lingua in uso nel Seicento. Anzi, spesso i personaggi ricalcavano smaccatamente la lingua e la terminologia dei trattatisti barocchi, fino alle più pesanti ampollosità. Ma, a parte queste poche cose, quanto era in realtà liberamente inventato? Il dubbio era inevitabile, e non solo per il carattere audace e talora mirabolante della trama, ma anche per l'incerta collocazione storica delle vicende e dei personaggi. C'erano poi alcuni spregiudicati prestiti che gettavano ombre ancora più oscure sulla genuinità di tutto lo scritto: per esempio, 632/703
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una delle tirate con cui Pompeo Dulcibeni si scaglia contro le teste coronate, accusandole di sciacallaggio e incestuosità, era stata in parte mutuata senza tanti complimenti da un celebre discorso di Robespierre, al quale gli autori stessi ammiccavano lasciando Dulcibeni sul letto «senza culotte», sans culottes, ovvero come un sanculotto. V'erano infine non poche temerarietà. Come le insolite figure di Ugonio e Ciacconio: modellate sulla falsa riga dei tombaroli, i predatori di oggetti antichi che ancor oggi infestano il nostro Paese, esse prendevano il nome (come gli altri corpisantari Baronio e Gallonio) da celebri eruditi e studiosi di catacombe del secolo XVII. Per non dire della cortigiana Cloridia, che mentre ascolta e interpreta il sogno del garzone, lo fa allungare sul letto e gli si siede dietro al capo, in evidente e anacronistico atteggiamento da psicoanalista. Anche la malevola rappresentazione del personaggio di papa Innocenzo XI mi pareva nient' altro che un maldestro tentativo di stravolgere la realtà storica. Ben conoscevo, da buon comasco, la figura e l'opera del Papa mio concittadino. Parimenti mi erano note le malignità e calunnie che - già lui vivente - erano state sparse sul suo conto per palesi fini di propaganda politica, e che padre Robleda ammannisce al garzone. Ma tali insinuazioni erano state ampiamente smentite dagli storici più seri. Tra questi ultimi aveva eccelso per esempio il Papasogli che, con la sua poderosa monografia di oltre trecento pagine sul Beato Innocenzo XI, negli anni Cinquanta del secolo passato aveva contribuito a fare piazza pulita di ogni menzogna. Prima d'allora già il Pastor, nume tutelare degli storici della Chiesa, aveva sgombrato il campo da tanti sospetti. E questa non era l'unica inverosimiglianza: c'era infatti la storia del Sovrintendente Fouquet. Nel racconto del garzone, Fouquet muore nella locanda del Donzello avvelenato da Atto Melani l'11 settembre 1683. Ma perfino sui manuali di scuola si legge chiaramente che il Sovrintendente morì nel carcere di Pinerolo nel 1680, e non a Roma nel 1683! Alcuni fantasiosi storici e romanzieri, è vero, hanno ipotizzato che Fouquet non sia morto in carcere, e la questione è troppo Imprimatur - Monaldi & Sorti
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vecchia e logora perché io debba qui ripeterla. Voltaire, che potè parlare con i parenti ancora viventi del Sovrintendente, sosteneva che non si saprà mai con certezza quando e dove egli sia morto. Ma mi sembrava davvero troppo ardito affermare, come avevo letto nell'opera inviatami dai miei due antichi amici, che Fouquet fosse morto a Roma in una locanda, ucciso per ordine di Luigi XIV. Avevo scovato un'incongruenza, anzi una manipolazione storica bella e buona. Ero quasi persuaso a cestinare il romanzo. Non avevo forse trovato la prova che si trattava di un falso? Scoprii invece ben presto che le cose non erano così semplici. Tutto cominciò a intorbidarsi quando decisi di studiare più a fondo la figura di Fouquet. Da secoli il Sovrintendente viene additato nei libri di storia come prototipo del ministro ladro e corrotto. Colbert, al contrario, passa per uno statista modello. Secondo Atto Melani, invece, l'onesto Fouquet era stato vittima innocente dell'invidia e dell'ostilità del mediocre Colbert. All'inizio avevo bollato tale sorprendente rovesciamento come puro frutto di fantasia. Dovetti invece ben presto ricredermi. Trovai in una biblioteca il ponderoso saggio di uno storico francese, Daniel Dessert, che una sessantina d'anni fa documenti alla mano - levò alta la propria voce per restituire a Fouquet la meritata gloria e smascherare le bassezze e i complotti di Colbert. Nel suo mirabile saggio Dessert esponeva punto per punto (e comprovava in modo inequivocabile) tutto quanto Atto narra al garzone in difesa del Sovrintendente. Purtroppo, come spesso accade a chi mette in discussione mitologie secolari, il prezioso lavoro di Dessert era stato condannato all'oblio dalla consorteria degli storici, che Dessert aveva osato accusare di pigrizia e ignoranza. È significativo tuttavia che nessuno storico abbia mai avuto il coraggio di smentire il suo poderoso e appassionato studio. Dunque la drammatica vicenda di Fouquet, come l'aveva accoratamente rievocata l'abate Melani, era tutt'altro che una mera invenzione narrativa. Non solo. Proseguendo nelle mie ricerche di biblioteca, verificai che anche la conoscenza tra Kircher e Fouquet, 634/703
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per quanto non chiaramente documentata, è assai probabile, visto che il gesuita (lo riferisce Anatole France nella sua piccola opera su Fouquet, e ve n'è parziale conferma nelle opere di Kircher) si interessò davvero alle mummie del Sovrintendente. Anche la storia misteriosissima della segregazione di Fouquet a Pinerolo, come ho scrupolosamente verificato, è autentica riga per riga. Il Re Sole sembrava realmente tenere in prigione il Sovrintendente per timore di ciò ch'egli sapeva; ma non s'è mai scoperto perché. È fedelmente rappresentato anche l'ambiguo Conte di Lauzun, che venne recluso per dieci anni a Pinerolo, dove riuscì a comunicare in segreto (e inspiegabilmente) con Fouquet, e venne scarcerato subito dopo la scomparsa del Sovrintendente. V'erano dunque alcuni solidi e documentati richiami alla realtà storica. «E se fosse tutto vero?» mi capitò di pensare turbato sfogliando il dattiloscritto.
Non potei trattenermi a quel punto dall'intraprendere qualche altra ricerca in biblioteca, nella speranza d'incappare subito in qualche grossolano errore che dimostrasse la falsità dello scritto dei miei due amici, e mi permettesse di liquidare rapidamente la questione. Lo confesso, avevo paura. Le mie recondite ansie, ahimé, si realizzarono. Con impensabile rapidità, schizzando fuori da dizionari, enciclopedie e manuali dell'epoca, mi sfrecciarono davanti agli occhi - esattamente come li avevo letti nel dattiloscritto - le descrizioni di Roma, le misure di quarantena, tutte le teorie sulla peste come anche la peste di Londra e quella di Roma, i rimedi di Cristofano così come le ricette del garzone; e poi Luigi XIV, Maria Teresa, gli specchieri veneziani, fino agli indovinelli di Tiracorda e alla disposizione dei cunicoli sotterranei dell'Urbe. Mi volteggiarono dinanzi la verga ardente, l'interpretazione dei sogni, le dottrine numerologiche e astrologiche, la saga della maImprimatur - Monaldi & Sorti
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macòca (cioè la coca). E infine l'assedio e la battaglia di Vienna, compresi i segreti delle tecniche d'assedio francesi di cui si erano misteriosamente impadroniti i Turchi, nonché il mistero degli errori strategici degli infedeli che determinarono la loro rovinosa sconfitta. Nella Biblioteca Casanatense di Roma, ancora incredulo davanti a una copia originale del foglio di Bibbia stampato da Komarek, mi sono dato per vinto: tutto quanto avevo letto mi si mostrava stupefacentemente, spavaldamente autentico, fino ai più insignificanti particolari. Seppure a malincuore, mi trovai così costretto a proseguire. Invece di errori, trovavo fatti e circostanze provati e veritieri. Cominciavo a sentirmi preda di un astuto trabocchetto, un ingranaggio maligno, una tela di ragno in cui più ci si addentra, più si resta impegolati. Mi decisi così ad affrontare le teorie di Kircher: conoscevo già abbastanza la sua vita e i suoi scritti, ma mai avevo udito del secretum pestis, né del preteso secretum vitae capace di scansare il morbo della peste, e tantomeno di un rondò in cui quel segreto fosse criptato. Certo avevo letto anch'io, come padre Robleda, il Magnes, sive de arte magnetica di Kircher, dove il gesuita tedesco sostiene il potere terapeutico della musica e propone persino l'uso di una melodia, da lui stesso composta, come antidoto contro il morso della tarantola. Sapevo d'altra parte che in tempi moderni Kircher era stato talvolta tacciato di ciarlataneria: nel suo trattato sulla peste, per esempio, sosteneva d'aver osservato al microscopio i bacilli del morbo. Ma ai tempi di Kircher, obiettano oggi gli storici, ancora non esistevano lenti d'ingrandimento così potenti. Tutto inventato, quindi? Se così era, dovevo raccogliere tutte le prove necessarie. Mi chiarii anzitutto le idee sullo storico morbo che chiamiamo peste: si tratta della peste bubbonica, causata dal vibrione Yersinia pestis che si trasmette dalle pulci ai topi, e da questi all'uomo. Niente a che vedere con le varie pesti animali o con la cosiddetta peste polmonare che colpisce occasionalmente il Terzo Mondo. 636/703
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Ma la sorpresa arrivò quando lessi che la peste bubbonica non esiste più da secoli, e nessuno sa perché. Mi scopersi ormai a sorridere, quando lessi che in Europa (e ancor prima in Italia) la peste praticamente sparì proprio tra la fine del XVII e l'inizio del XVIII secolo, quasi contemporaneamente ai fatti del Donzello. Me l'aspettavo. Teorie sulla sua misteriosa scomparsa ve ne sono molte, ma nessuna definitiva. Secondo alcuni il merito è delle misure di prevenzione sanitaria più avanzate via via adottate dall'uomo; secondo altri invece bisogna essere grati all'arrivo in Europa del rattus norvegicus (ratto marrone) che soppiantò il rattus rattus (ratto nero), il quale ospita la xenopsilla cheopis, la pulce portatrice del bacillo pestifero. Altri danno il merito alle nuove costruzioni in mattoni e tegole, e non più di legno e paglia, o all'eliminazione dei depositi domestici di granaglie, che avrebbero allontanato dalle abitazioni i topi. Altri infine insistono sul ruolo svolto dalla pseudotubercolosi, una malattia benigna che ha l'effetto di immunizzare contro la peste bubbonica. Dalle discussioni accademiche però emerge solo una certezza: a cavallo tra Seicento e Settecento l'Europa s'è misteriosamente liberata del suo flagello più antico: proprio come prometteva di fare Kircher tramite i suoi segreti. Le coincidenze s'infittivano quando ripensavo all'enigma delle Baricades mistérieuses, il rondò che sembra fare da scrigno al secretum vitae, proprio come la tarantella di Kircher racchiude l'antidoto al morso della tarantola. Ma proprio qui, Dio mi perdoni, ebbi la segreta soddisfazione di trovare finalmente un errore storico irreparabile. Mi bastò infatti sfogliare un qualsiasi dizionario musicale per apprendere che Les Baricades mistérieuses non sono opera del misconosciuto chitarrista e compositore Francesco Corbetta, come si narra nello scritto dei miei due amici, ma di Francois Couperin, il celebre compositore e clavicembalista francese nato nel 1668 e morto nel 1733. Il rondò è tratto dal primo libro dei suoi Pièces de Clavecin; è destinato quindi a essere eseguito al clavicembalo, e Imprimatur - Monaldi & Sorti
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non alla chitarra. Ma soprattutto è stato pubblicato per la prima volta solo nel 1713: trent'anni dopo le vicende che avrebbero avuto luogo nella locanda del Donzello. L'anacronismo commesso dai due giovani autori era così grave da privare il loro lavoro non solo di veridicità, ma anche di verosimiglianza. Una volta scoperta tale grave e inattesa incongruenza, mi parve inutile confutare il resto del marchingegno narrativo. Figuriamoci se uno scritto contenente un errore tanto grave poteva minacciare la fama gloriosa del Beato Innocenzo XI! Per qualche tempo, nei momenti di ozio serale, mi limitai a sfogliare pigramente le pagine del dattiloscritto, col pensiero rivolto ai suoi due autori più che al contenuto della storia. Quell'inquietante racconto, pieno di velenosi pettegolezzi sul Papa mio concittadino, mi parve un'aperta provocazione, anzi una burla. Nel mio animo alla fine prevalsero l'astio e la naturale diffidenza che (lo confesso) da sempre nutrivo per i giornalisti. Passarono gli anni. Avevo ormai quasi del tutto dimenticato i miei due antichi amici, e con essi il dattiloscritto, seppellito in un vecchio ripostiglio. Per eccesso di prudenza lo avevo però tenuto nascosto a occhi estranei, che rischiavano di leggerlo senza gli indispensabili controveleni. Non potevo ancora sapere quanto tale precauzione si sarebbe rivelata saggia.
Tre anni fa, quando seppi che Sua Santità desiderava riaprire il processo di canonizzazione di papa Innocenzo XI, non ricordavo neppure più dove fosse finito quel mucchio di fogli ingialliti. Ma ben presto esso tornò a bussare alla mia porta. Accadde a Como, in un'umida serata di novembre. In seguito alle pressanti insistenze di alcuni amici, presenziavo a un concerto organizzato da una benemerita associazione musicale della mia diocesi. Verso la fine della prima parte si esibiva al pianoforte il nipote di un mio vecchio compagno di studi. Ero al termine di una 638/703
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giornata intensa, e sino ad allora avevo assistito alla serata un po' distrattamente. All'improvviso, però, un motivo insinuante e ineffabile mi sedusse come nessuna musica aveva mai saputo fare. Era una danza di impronta barocca, ma con accenti e armonie sognanti che ondeggiavano da Scarlatti a Debussy, da Franck a Rameau. Sono sempre stato un appassionato cultore della buona musica, e mi vanto di possedere una non piccola collezione discografica. Se però mi fosse stato chiesto da quale secolo uscivano quelle note senza tempo, non avrei saputo cosa dire. Solo alla fine del brano apersi il programma, che avevo ormai dimenticato sulle ginocchia, e lessi il titolo della musica: Les Baricades mistérieuses. Ancora una volta il racconto del garzone non aveva mentito. Quella musica aveva come nessun'altra il potere inspiegabile d'incantare, di confondere, di avvincere la mente e il cuore. Dopo l'ascolto, la memoria non se ne liberava più. Non era una sorpresa che il garzone ne fosse tanto turbato, e che poi, anni dopo, continuasse a rimuginarne il motivo. Il mistero del secretum vitae era annidato in un altro mistero. Non era abbastanza per dire che anche tutto il resto era vero. Ma era troppo per resistere alla tentazione di andare fino in fondo. Il mattino successivo acquistai una costosa registrazione integrale delle numerose Pièces de Clavecin di Couperin. Dopo averla ascoltata per giorni e giorni con somma attenzione, la conclusione mi sembrò evidente. Nessuna musica di Couperin assomigliava alle Baricades mistérieuses. Consultai dizionari, lessi monografie. I pochi critici che se n'erano occupati erano d'accordo: Couperin non aveva composto null'altro di simile. Le danze delle suites di Couperin hanno quasi sempre un titolo descrittivo: Les Sentiments, La Lugubre, l'Ame en peine, La Voluptueuse e così via. Vi sono poi titoli come La Raphaèle, L’Angélique, La Milordine o La Castelane: alludevano a qualche ben nota dama della Corte, che i contemporanei si divertivano a indovinare. Solo per le Baricades mistérieuses non esiste una spiegazione. Un musicologo definiva il pezImprimatur - Monaldi & Sorti
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zo «veramente mistérieux». Era come se fosse opera di qualcun altro. Ma di chi, allora? Irte di audaci dissonanze, di struggenti e distillate armonie, le Baricades sono troppo lontane dallo stile sobrio di Couperin. In un ingegnoso gioco di echi, anticipi e ritardi, le quattro voci della polifonia si fondono nella delicata orologeria di un arpeggio. È lo stile brisé, che i clavicembalisti avevano copiato dai liutisti. E il liuto è il parente più prossimo della chitarra... Cominciai ad ammettere l'ipotesi che forse Les Baricades mistérieuses erano state scritte davvero da Corbetta, come riferiva il garzone. Ma perché allora era stato Couperin a pubblicarle sotto il proprio nome? E come erano finite nelle sue mani? Secondo il manoscritto, l'autore del rondò era l'oscuro musicista italiano Francesco Corbetta. Sembrava un'invenzione bella e buona: a nessun musicologo era mai venuto in mente nulla del genere. C'era però un precedente suggestivo: già mentre Corbetta era in vita, si scatenarono polemiche sulla paternità di alcuni suoi pezzi. Lo stesso Corbetta accusò uno dei suoi allievi di avergli carpito alcune musiche, per pubblicarle poi a proprio nome. Verificai con facilità che Corbetta era stato realmente maestro e amico di Devizé: è pertanto quantomai verosimile che qualche intavolatura sia passata dall'uno all'altro. Ai loro tempi la musica stampata era pochissima, e i musicisti copiavano personalmente ciò che loro interessava. Quando scompare Corbetta, nel 1681, Robert Devizé (o De Visée, secondo la grafia moderna) godeva già di grande fama come virtuoso e professore di chitarra, liuto, tiorba e chitarrone. Luigi XIV in persona reclamava le sue esibizioni quasi ogni sera. Devizé era ospite di tutti i migliori salotti di Corte. Qui suonava in duo con altri acclamati musici e, guarda caso, anche con il clavicembalista Francois Couperin. Devizé e Couperin dunque si conoscevano e suonavano insieme; verosimilmente si scambiavano complimenti, pareri, consigli, forse qualche confidenza. Sappiamo che Devizé si divertiva a suonare con la chitarra le musiche di Couperin (alcune sue trascrizioni sono arrivate fino a noi). Non è improbabile che Couperin a sua 640/703
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volta provasse sul clavicembalo le suites per chitarra dell'amico. Ed è inevitabile che quaderni e spartiti passassero dalle mani dell'uno a quelle dell'altro. E forse una sera, mentre Devizé si lasciava distrarre dalle civetterie delle cortigiane, Couperin sottrasse dalle carte dell'amico quel bel rondeau dallo strano titolo, pensando: glielo restituirò la prossima volta. Sotto la suggestione di quella musica celestiale, e del mistero che si andava formando sotto ai miei occhi, in poco tempo divorai di nuovo tutto il racconto, annotando minuziosamente su un taccuino i passi e le circostanze da verificare. Sapevo che solo così avrei potuto sgomberare per sempre il mio cuore dalle ombre del sospetto: quella strana storia era solo un'abile invenzione, che manipolando il vero spacciava falsità? Il frutto dei tre anni di ricerca che seguirono è tutto nelle pagine che state per leggere. Premetto, nel caso voleste servirvene, che dei documenti e libri citati conservo riproduzioni fotostatiche.
Un enigma anzitutto mi teneva sulle spine, poiché rischiava di trasformare in una catastrofe la canonizzazione del Beato Innocenzo Odescalchi. Era il grande segreto di Dulcibeni, l'origine di tutte le sue disgrazie e il vero movente di tutte le sue trame: Innocenzo XI fu davvero complice di Guglielmo d'Orange? Il garzone, purtroppo, riferisce della questione solo nelle pagine finali, quando si scioglie l'enigma di Dulcibeni. Né i miei due amici avevano ritenuto di arricchire di propria iniziativa la storia con ulteriori notizie in merito. Perché mai, mi chiesi con estremo disappunto, due giornalisti curiosi come loro non l'avevano fatto? Ma forse, supposi poi speranzoso, non erano riusciti a trovare alcunché contro il grande Odescalchi. Mio dovere restava comunque d'indagare e, mettendo nero su bianco, dissipare ombre e calunnie dall'immagine del Beato. Andai dunque a rileggere le rivelazioni che alla fine dello scritto il garzoImprimatur - Monaldi & Sorti
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ne apprende da Pompeo Dulcibeni. Il debito di Guglielmo nei confronti del Papa, aveva detto il giansenista, era garantito dai beni personali del Principe d'Orange. Ma dov'erano dunque i suoi possedimenti? Mi accorsi di non avere alcuna idea di dove si trovasse il feudo di Guglielmo. Forse in Olanda? Misi mano a un atlante, e quando ebbi finalmente localizzato Orange non potei trattenere la sorpresa:
Il principato di Orange si trovava nel sud della Francia, circondato dalla legazione di Avignone. Ma questa altro non era che lo Stato della Chiesa: sin dal Medioevo, infatti, Avignone faceva parte del Papato. E la legazione di Avignone era circondata a sua volta dalla Francia! Bizzarra situazione: il principato di Orange era circondato dal nemico cattolico, accerchiato a sua volta da un altro nemico: Luigi XIV, grande avversario di Innocenzo XI. Dunque, Avignone: bisognava cercare lì. O meglio, bisognava cercare tra le carte che riguardavano Avignone. Mi feci allora rilasciare un permesso speciale per l'Archivio segreto vaticano, e vi trascorsi alcune settimane. Sapevo già dove mettere le mani: nella corrispondenza diplomatica e amministrativa della burocrazia vaticana tra Roma e Avignone. Passai al setaccio mucchi di corrispondenza, sperando di trovare qualche cenno a Orange, a Guglielmo, a prestiti in denaro. Per giorni e giorni non trovai nulla; stavo quasi per gettare la spugna quando, in un pacco di corrispondenza del tutto priva di interesse, trovai tre quaternetti sciolti. Risalivano agli 642/703
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ultimi mesi del 1689, pochi mesi dopo la morte di Innocenzo XI. Al Soglio pontificio era appena asceso il nuovo Papa, Alessandro Vili Ottoboni. La lettura dei tre quaternetti, ahimé, pareva accessibile solo agli iniziati: 22 76 18 1l 97 46 98 64 48 36 71 37 81 18 73 67 14 38 69 26 10 48 46 31 22 14 76 39 0 71 48 76 98 13 48 76 39 37 71 44 22 41 67 14 0 22 34 13 83 78 89 5 77 44 0 64 0 39 93 14 11 48 97 84 34 48 11 76 0 2499 0 55 0 71 11 37 18 16 34 73 93 39 0 29 22 76 18 22 97 97 37 98 38 2575 5 36 14 34 0 76 13 84 18 79 69 2347 94 18 22 19 1914 78 2316 9748 94 36 34 37 14 18 71 71 73 18 22 97 46 39 37 46 88 48 71 19 34 37 76 16 37 19 0 98 46 18 13 13 48 39 93 0 34 94 20 9714 77 76 37 14 38 69 2610 555 48 2336 0 55 64 0 16 37 71 73 39 016 44 48 16 39 14 19 14 18 81 0 34 31 22 18 16 73 34 48 79 71...
E così via per dodici pagine, per un totale di ventiquattro colonne come quella qui riprodotta. Era una lettera cifrata, e a prima vista disperai di poterci capire qualcosa. Fortunatamente però il cifrario usato nella lettera era quello abitualmente adottato in quel periodo dalla segreteria di Stato vaticana. Confrontai quindi il messaggio con altre lettere già decifrate e riuscii alfine a passare a una prima, provvisoria decrittazione:
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UNSUDDITOFEDELISSIMODELLASANTASEDEEDIBVO NTALENTOGENTILHVOMOAVIGNONESE,MIHAFATTO PERVENIREUNALETTERA,ALUISCRITTADAVNSVDDIT ODELPRINCIPEDEORANGES...
Furono necessari due giorni di lavoro per ricavare una versione corretta e leggibile del testo. Fui d'altronde costretto a mantenere in numeri qualche termine indecifrabile, che per fortuna non era essenziale per la comprensione del testo. Era una lettera di monsignor Cenci, vicelegato papale ad Avignone, che scriveva a Roma per raccontare di una strana trattativa: Un suddito fedelissimo della Santa Sede e di buon talento, gentiluomo avignonese, mi ha fatto pervenire una lettera, a lui scritta da un suddito del Principe d'Oranges, per la quale si suppose grande desiderio dei sudditi di quel Principato di assoggettarsi al dominio della Santa Sede... Se mi parlerà di tal negozio sentirò e riferirò tutto ciò che mi dirà, e né accettarò né slontanerò il 2657. Pare non si possa dubitare del consenso delli Oranges... Il mio ministerio mi ha obbligato a communicare quello che io so circa l'importantissimo negotio. L'incluso foglio contiene copia della lettera di sopra enunciata, la quale è stata scritta al signor Salvador, auditore della Rota di Avignone, dal signore Beaucastel, gentilhuomo di Courteson...
Ecco cos'era successo: monsieur di Beaucastel, gentiluomo della cittadina di Courthézon, suddito del Principe d'Orange, aveva contattato dapprima un sacerdote di Avignone, l'auditore di Rota Paolo de Salvador, e poi il vicelegato Cenci. Beaucastel aveva in serbo una proposta a dir poco sorprendente: il principato di Orange voleva offrirsi al Papato. Ero attonito: come mai i sudditi di Guglielmo d'Orange, che oltretutto erano in buona parte protestanti, volevano darsi al Papato? E come potevano sentirsi così sicuri che Guglielmo avrebbe acconsentito? 644/703
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Frugando ancora nella corrispondenza tra Roma e Avignone rinvenni anche le altre lettere scambiate tra Cenci e la segreteria di Stato vaticana, e perfino la missiva iniziale di Beaucastel a de Salvador. Le poche lettere in cifra erano tutte corredate della versione decrittata. Notai però con sorpresa che solo la prima che avevo tradotto, la più importante di tutte, ne era sprovvista. Era come se qualcuno, vista l'estrema gravità del contenuto, avesse fatto sparire la decifrazione... In più la lettera era fuori posto, ben lontana dal mazzo che racchiudeva le altre missive. Nonostante le difficoltà riuscii infine a ricostruire una storia straordinaria, che nessuno storico aveva mai portato alla luce. Il motivo per cui gli orangisti volevano passare sotto la bandiera dei Papi era tanto semplice quanto sconvolgente: Guglielmo d'Orange aveva accumulato una montagna di debiti nei confronti di Innocenzo XI. E i sudditi di Orange, che avevano già dovuto sborsare parecchio denaro al Papato, avevano pensato bene di risolvere i propri problemi offrendo direttamente la propria annessione allo Stato della Chiesa: «Qui nel Regno» scrive monsignor Cenci «è assai comune credenza che il Principe di Oranges restasse debitore al Pontificato passato di grosse somme, in pagamento delle quali crede potesse lassare facilmente il possesso di uno Stato di cui puol fare sì poco capitale». Proprio per questo motivo, però, non tutti i sudditi di Orange erano d'accordo: «In passato abbiamo già dato troppi soldi alla Chiesa!» protestava monsieur de Saint Clément, ex tesoriere del principato. A Roma, comunque, la proposta di Beaucastel venne seccamente rifiutata. Il segretario di Stato, cardinal Rubini, e il nipote del nuovo Papa, cardinal Ottoboni, ordinarono a Cenci di respingere l'imbarazzante offerta. Per forza: il nuovo Papa non sapeva assolutamente nulla di tali debiti. Inoltre era impossibile - scrisse a Cenci il cardinal Rubini - che il glorioso papa Odescalchi avesse prestato soldi a un Principe eretico... Ero costernato. Le lettere trovate nell'Archivio segreto vaticano Imprimatur - Monaldi & Sorti
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confermavano ciò che Dulcibeni aveva rivelato al garzone: Guglielmo era stato debitore di Innocenzo XI. Non solo: se il Principe d'Orange non pagava, sarebbe scattato il pignoramento dei suoi beni personali. Il debito, anzi, era diventato così alto che i possedimenti e i sudditi di Guglielmo avevano pensato di donarsi spontaneamente!
Non potevo però accontentarmi. Dovevo trovare una conferma alle affermazioni dei sudditi di Orange. Dovevo perciò chiarirmi le idee su Guglielmo: da dove prendeva i soldi per le sue imprese guerresche? E chi aveva finanziato l'invasione dell'Inghilterra? Le opere sulla glorious revolution, come viene chiamato oggi il golpe con cui il Principe d'Orange si impadronì del trono inglese, ripetono invariabilmente la stessa cantilena: Guglielmo è buono, Guglielmo è forte, Guglielmo è così idealista e disinteressato da non voler neppure diventare Re! A sentire gli storici pare che vivesse d'aria, il prode Guglielmo; ma chi mai, sin dalla giovinezza, gli diede le sostanze necessarie a combattere e a sconfiggere le armate di Luigi XIV? Qualcuno glieli aveva pur dati i soldi per le vettovaglie, i mercenari (che a quei tempi costituivano la maggior parte delle milizie), i cannoni e qualche generale degno di questo nome. Tutti i Sovrani europei invischiati nelle guerre, infatti, erano assillati dalla ricerca di finanziamenti. Ma il Principe d'Orange aveva un vantaggio: se c'era una città in cui nel XVII secolo circolavano soldi, moltissimi soldi, questa era Amsterdam, dove non a caso fiorivano le banche dei prestatori ebrei. La capitale delle Province Unite d'Olanda era la piazza finanziaria più ricca d'Europa, proprio come raccontano al garzone del Donzello prima Cloridia e poi gli altri personaggi. Consultai qualche buon testo di storia economica, e scoprii che, ai tempi di Guglielmo d'Orange, buona parte degli affaristi di Amsterdam erano italiani. La città pullulava di cognomi come Tensini, Verrazzano, Balbi, Quingetti, e poi i Burlamacchi e Calandrini già 646/703
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presenti ad Anversa (quasi tutti sono ricordati nel racconto del garzone prima da Cloridia e poi da Cristofano). Erano Genovesi, Fiorentini, Veneziani, tutti commercianti e banchieri, alcuni anche agenti di Principati e Repubbliche italiane. I più intraprendenti erano riusciti a entrare nel cerchio ristretto dell'aristocrazia di Amsterdam. Altri si erano ben inseriti nel lucroso ma pericoloso traffico di schiavi: è il caso di Francesco Feroni. L'esempio più interessante era però quello dei bolognesi Bartolotti: prima umili birrai, poi commercianti e infine ricchissimi finanzieri. Si erano mescolati a una famiglia olandese, fino a perdere tutto l'originario sangue italiano. Ebbene, i protestanti Bartolotti nel giro di qualche decennio erano diventati tanto ricchi da finanziare la casa d'Orange, prestando denari in quantità prima al nonno di Guglielmo, e poi allo stesso Principe. I prestiti erano talvolta garantiti da ipoteche su terreni in Olanda e in Germania. Soldi contro terreni: secondo il racconto di Dulcibeni, gli Odescalchi avevano stretto un identico patto con la casa d'Orange. Interessante coincidenza. Per ora sapevo abbastanza di mercanti italiani e di finanziatori della casa d'Orange. Era il momento di passare agli Odescalchi. E di far parlare le loro carte. Trascorsi mesi e mesi, non so più neppure quanti, nell'archivio di palazzo Odescalchi e nell'Archivio di Stato di Roma, forte solo dell'aiuto di un mio giovane collaboratore, entrambi torturati dal gelo e dalla polvere, con il capo chino tutto il giorno sulle carte. Passammo al setaccio tutti i documenti di Innocenzo XI, alla ricerca di ciò che poteva portare a Guglielmo d'Orange: lettere, contratti, rescritti, relazioni, memoriali, diari, libri mastri. Inutilmente. Era passato molto tempo dall'inizio delle mie ricerche, e avevo la sensazione di essermi arenato. Cominciai ad accarezzare l'idea di rinunciare. Finché pensai: cos'aveva detto Dulcibeni? I soldi per gli Olandesi partivano da Venezia. E a Venezia c'era una filiale dell'azienda della famiglia Odescalchi: era da lì che dovevo cercare di aprimi la via. Imprimatur - Monaldi & Sorti
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Dal testamento di Carlo Odescalchi, fratello maggiore di Benedetto, appresi che i beni di famiglia erano rimasti sempre communi et indivisi tra i due: insomma, ciò che era dell'uno, era anche dell'altro. Ecco perché dalle sue carte il Papa sembrava quasi povero: solo facendo i conti in tasca al fratello avrei potuto scoprire cosa veramente possedesse. Orbene, Carlo Odescalchi era il fulcro dell'attività economica di famiglia: amministrava i rilevantissimi possedimenti degli Odescalchi in Lombardia; inoltre dirigeva da Milano la filiale di Venezia, dove operavano due procuratori. Cercai dunque i due libri di inventario dei beni, citati nel testamento di Carlo. Avrebbero potuto risolvere il problema: se era stata allegata una lista dei debitori, sarebbe saltato fuori anche Guglielmo d'Orange. Ma dell'inventario, stranamente, non c'era traccia. Diedi allora uno sguardo ai libri mastri privati di Carlo, e finalmente trovai. Nei pesanti volumi rilegati in cuoio, tenuti dal fratello del Beato Innocenzo fino alla morte e oggi custoditi all'Archivio di Stato di Roma, si scoprivano traffici e transazioni colossali: milioni e milioni di scudi. Una piccola parte delle operazioni riguardava transazioni commerciali, incassi di gabelle, canoni d'affitto. Poi veniva ciò che a me interessava: centinaia di operazioni finanziarie, in buona parte eseguite da Venezia dai due procuratori, Cernezzi e Rezzonico, ai quali spettavano le relative provvigioni. Sentii battermi violentemente il sangue nelle tempie quando vidi che la maggioranza delle operazioni era diretta in Olanda. Non fu difficile arrivare fino in fondo alla questione. Dal 1660 al 1671 Carlo Odescalchi aveva ordinato versamenti in varie valute da Venezia verso l'Olanda per un totale di 153.000 scudi: una somma quasi pari all'intero, gigantesco disavanzo annuo dello Stato ecclesiastico (173.000 scudi) nel momento in cui Benedetto venne eletto Papa. Nel giro di nove anni circa, dal 1660 al 1669, gli Odescalchi inviano ben 22.000 scudi al finanziere Jan Deutz, fondatore e proprietario di una delle maggiori banche olandesi. La famiglia Deutz era letteralmente un pezzo di Olanda, non solo per le ingentissime ricchezze accumulate, ma anche per le cariche di governo che i 648/703
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suoi membri occuparono a tutti i livelli, nonché per le parentele e i legami matrimoniali con i vertici della classe dominante olandese. Cognato di Jan Deutz era stato il Gran Pensionarlo Jan de Witt, precettore e mentore del giovane Guglielmo III. Jan Deutz junior, figlio e socio del banchiere, era stato membro del Consiglio municipale di Amsterdam dal 1692 al 1719; altre discendenti dei Deutz erano andate in moglie a borgomastri, generali, commercianti e banchieri olandesi. Era solo l'inizio. Dal giugno al dicembre del 1669 altri 6000 scudi circa vengono inviati dagli Odescalchi a una compagnia di cui era socio Guglielmo Bartolotti: uno dei finanziatori di Guglielmo d'Orange. Era la prova decisiva: gli Odescalchi inviavano soldi ai Bartolotti, e questi prestavano a Guglielmo, il denaro passava dalle casse del futuro Papa a quelle della casa d'Orange. Più bussavo, più le porte mi venivano aperte. I procuratori veneziani degli Odescalchi avevano inviato dal novembre 1660 all'ottobre 1665 altri 22.000 scudi a tale Jean Neufville. E Neufville non era certo ai margini dell'entourage di Guglielmo: sua figlia Barbara sposò Hiob de Wildt, segretario dell'Ammiragliato di Amsterdam e poi Ammiraglio generale per volontà di Guglielmo d'Orange in persona. I de Wildt del resto erano legati da sempre alla casa d'Orange: il nonno di Hiob, Gillis de Wildt, era stato nominato membro del Consiglio cittadino di Haarlem dal principe Maurizio d'Orange. Hiob de Wildt raccolse invece i finanziamenti per l'invasione dell'Inghilterra nel 1688 e, dopo che Guglielmo salì al trono inglese, funse da suo rappresentante personale in Olanda. Infine, nell'ottobre del 1665, una piccola somma viene inviata dai procuratori degli Odescalchi anche alla compagnia di Daniel e Jan Baptista Hochepied, il primo dei quali era membro del Consiglio di Amsterdam, nonché direttore del commercio con il Levante: il polmone commerciale e finanziario dell'Olanda eretica e protestante. Dunque era vero. Dulcibeni non aveva inventato nulla: gli Olandesi finanziati segretamente dagli Odescalchi erano proprio coloro che il giansenista aveva infine rivelato al garzone. Coincideva Imprimatur - Monaldi & Sorti
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anche un dettaglio importante: per non lasciare tracce, i soldi venivano inviati agli amici della casa d'Orange dai due prestanome veneziani degli Odescalchi, Cernezzi e Rezzonico. Talvolta infatti Carlo Odescalchi annotava nei libri mastri che questa o quella operazione doveva essere fatta a nome di Cernezzi e Rezzonico, ma i soldi erano suoi. E quindi anche di suo fratello. Infine trovai anche i finanziamenti allo schiavista Francesco Feroni: 24.000 scudi in dieci anni, dal 1661 al 1671. Chissà quanto hanno fruttato quei prestiti; di lì doveva originare la condiscendenza degli Odescalchi verso le pretese di Feroni sulla figlia di Dulcibeni. Non solo: gli Odescalchi avevano prestato denari anche ai genovesi Grillo e Lomellini, titolari dell'appalto reale di Spagna per la tratta degli schiavi, amici e a loro volta finanziatori di Feroni. Ho verificato quante migliaia di scudi ogni anno furono inviate in Olanda dagli Odescalchi, e ne ho ricavato un grafico:
I soldi servivano sicuramente a finanziare guerre. Lo confermano le date: nel 1665 per esempio, quando nei versamenti si registra il picco massimo di 43.964 scudi, l'Olanda entra in guerra contro l'Inghilterra. Il mio lavoro sarebbe stato assai più agevole se avessi potuto confrontare i libri mastri di Carlo Odescalchi con la sua corrispondenza commerciale. Stranamente però le lettere dal 1650 al 1680, che dovevano riportare i nomi dei debitori olandesi, sono introva650/703
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bili: non risultano né all'Archivio di Stato di Roma né all'archivio di palazzo Odescalchi, gli unici due luoghi consultabili ove si conservano le carte della famiglia. Ma non è la prima volta che in questa vicenda avviene qualche strana scomparsa. Luigi XIV stipendiava a Roma una spia di alto rango: il cardinal Alderano Cybo, strettissimo collaboratore di Innocenzo XI. Cybo aveva passato ai Francesi un'informazione preziosissima: il segretario di Stato vaticano Lorenzo Casoni era in segreto contatto con il Principe d'Orange. Vero o falso che fosse, alla fine del XVIII secolo i volumi della corrispondenza di Casoni conservati in Vaticano vennero fatti sparire da mani ignote.
Perfino i dettagli più tristi e imbarazzanti del dattiloscritto dei miei due vecchi amici si sono rivelati veritieri. Non è possibile, avevo pensato all'inizio, che Innocenzo XI e la sua famiglia disponessero di Cloridia come di cosa propria, tanto da cederla a Feroni, come volgari negrieri! Dopo aver consultato qualche saggio ben documentato, però, ho dovuto ricredermi. La famiglia Odescalchi, come molte altre famiglie patrizie, possedeva normalmente schiavi. Livio Odescalchi, nipote del Pontefice, era per esempio padrone di Ali, quindicenne, nativo di Smirne. E il Beato Innocenzo XI possedeva Selim, un moretto di nove anni. Ma non era tutto. Nel 1887 l'emerito archivista Giuseppe Bertolotti pubblicò su un negletto periodico specialistico, la «Rivista di disciplina carceraria», un approfondito studio sulla schiavitù nello Stato della Chiesa. Ne emergeva un ritratto sorprendente del Beato Innocenzo, che certo non è possibile ritrovare in alcuna delle sue biografie. Tutti i Papi, fino all'età barocca e oltre, fecero ricorso a schiavi acquistati o catturati in guerra, sia per impiegarli come vogatori sulle galere pontificie che per scopi privati. Ma i chirografi firmati da Innocenzo XI in materia di schiavi erano di gran lunga i più crudeli, osserva Bertolotti, che prova ribrezzo di fronte ai «contratImprimatur - Monaldi & Sorti
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ti da negriero per carne umana» sottoscritti personalmente dal Pontefice. Dopo anni di fatiche disumane, i forzati, ormai inabili al lavoro, chiedevano la libertà. Come riscatto papa Odescalchi pretendeva il povero gruzzoletto che anno dopo anno gli sventurati avevano umilmente accumulato. Così Salem Ali di Alessandria, malato agli occhi e dichiarato inabile dal medico, per liberarsi dalle catene delle galere pontificie deve pagare 200 scudi alle casse papali. Ali Mustafà di Costantinopoli, acquistato dalle galere di Malta per 50 scudi, sofferente per «indisposizione di doglie e di sciatica» e incapace di assolvere il servizio, pagherà all'erario vaticano 300 scudi. Mamut Abdì di Toccado, 60 anni di cui 22 passati in schiavitù, deve offrire 100 scudi. Ibrahim Amur di Costantinopoli compra la libertà con 200 scudi. Mamut Amurat del Mar Nero, 65 anni e in cattiva salute, può invece offrire solo 80 scudi. Chi non aveva soldi veniva fatto attendere, finché la morte risolveva il problema. Nel frattempo veniva rinchiuso in carcere, dove i medici si vedevano consegnare poveri corpi distrutti dalle fatiche, dalle privazioni, da orribili ulcerazioni, da piaghe decennali. Sconvolto dalla scoperta, ho cercato i documenti utilizzati da Bertolotti, che li definiva «facilmente consultabili». Niente da fare: spariti anche questi. Le carte avrebbero dovuto trovarsi nell'Archivio di Stato di Roma, Acta Diversorum del Camerlengo e del tesoriere della Camera Apostolica, anno 1678.1 volumi del Camerlengo coprono tutte le annate fino al 1677, poi riprendono dal 1679: manca proprio il 1678, e solo quello. Per quanto riguarda il tesoriere, un unico volume miscellaneo raggruppa gli atti dal 1676 al 1683. Ma anche qui dell'anno 1678 non c'è traccia.
Belua insatiabilis, belva insaziabile: non era così che la profezia di Malachia chiamava Innocenzo XI? 652/703
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Dopo mesi passati a tossire nel pulviscolo dei manoscritti secenteschi, ho ripreso in mano un libro a stampa, l'Epistolario Innocenziano: centotrentasei lettere scritte nel corso di vent'anni da Benedetto Odescalchi al nipote Antonio Maria Erba, senatore milanese. Il paziente curatore dell'epistolario, il comasco Pietro Gini, nell'entusiasmo devozionale non deve essersi reso conto di ciò che gettava in pasto alla pressa del tipografo. Si tratta di lettere private, è vero; e proprio da qui, dalla corrispondenza familiare, emerge prepotente il carattere dell'uomo, e del suo rapporto col denaro. Atti catastali e terreni, eredità, luoghi di monte, cause di risarcimento, somme da esigere, confische a debitori. Ogni frase, ogni riga, ogni annotazione è intossicata dal pensiero martellante dei soldi. Tranne poche altre beghe familiari e informazioni sulla salute dei congiunti, nelle lettere private di Innocenzo non c'è altro. Abbondano invece i consigli su come tenersi stretti i soldi, o come farseli restituire dai debitori. Meglio non avere mai a che fare con i tribunali, riflette il Papa in una lettera del settembre 1680, ma se si vuole riavere il proprio denaro, allora si deve essere i primi a fare causa: per un compromesso c'è sempre tempo. Perfino la cerchia degli intimi sembra seguire con perplessità la foga del Papa. Un'annotazione manoscritta del nipote Livio, attorno al 1676: si deve trovare «qualche ministro per corrispondere sugli affari dell'azienda, perché volendo seguitare il Papa a far tutto da sé di testa e pugno, non potrà resistere nella salute». L'ossessione dei soldi gli consuma persino la carne.
Caro Alessio, ora dunque so. Sotto ai miei occhi, giorno dopo giorno, la memoria del garzone del Donzello è diventata realtà. I segreti che Pompeo Dulcibeni alla fine rivela al garzone, e che erano il movente del tentato assassinio di Innocenzo XI, sono tutti veri. Il Beato Innocenzo fu complice degli eretici protestanti a danno dei cattolici; lasciò che l'Inghilterra venisse invasa da Guglielmo Imprimatur - Monaldi & Sorti
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d'Orange, e solo per farsi restituire un debito in denaro. Papa Odescalchi fu poi finanziatore del traffico negriero, non rinunciò a possedere schiavi personalmente e trattò con crudeltà sanguinaria i vecchi e i moribondi. Fu un uomo gretto e avaro, incapace di elevarsi al di sopra delle preoccupazioni materiali, ossessionato dal pensiero del lucro e del denaro. La figura e l'opera di Innocenzo XI furono quindi celebrate ed elevate ingiustamente, con argomentazioni false, fuorvianti o parziali. Vennero occultate le prove: l'inventario del testamento di Carlo Odescalchi, le lettere e ricevute commerciali dell'archivio Odescalchi dal 1650 al 1680, la corrispondenza del segretario di Stato Casoni, i chirografi sugli schiavi citati da Bertolotti, più altre carte di cui segnalo la scomparsa, per lo più inspiegabile, nei documenti finali. Alla fine trionfò dunque la menzogna, e il finanziatore degli eretici fu detto Salvatore della Cristianità. Il commerciante avido divenne un saggio amministratore, e il politico testardo uno statista coerente; la vendetta si travestì da orgoglio, l'avido venne chiamato frugale, l'ignorante si trasformò in uomo semplice, il male prese i panni del bene e quest'ultimo, abbandonato da tutti, si fece terra, polvere, fumo, ombra, nulla. Ora forse capisco la dedica scelta dai miei due amici: «Ai vinti». Vinto fu Fouquet: a Colbert toccò la gloria, a lui l'infamia. Vinto fu Pompeo Dulcibeni, che non riuscì a ottenere giustizia: le sue sanguisughe fallirono. Vinto fu Atto Melani: venne costretto dal Re Sole a uccidere il suo amico Fouquet. E nonostante mille peripezie, non riuscì a carpire a Dulcibeni il suo segreto. Vinto fu poi il garzone, che di fronte alla visione del Male perse la fede e l'innocenza: da aspirante gazzettante finì per rifugiarsi nel semplice e duro lavoro dei campi. Vinta fu anche la sua memoria che, pur compilata con tanta cura e fatica, giacque dimenticata per secoli. Tutto l'agitarsi di quei personaggi fu quindi inutile di fronte alle maligne forze dell'ingiustizia che dominano la storia del mondo. I loro sforzi servirono forse solo a loro stessi, a scoprire e capire ciò che a nessuno - e per molto tempo ancora - sarebbe stato dato sa654/703
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pere. Servirono, forse, soprattutto a soffrire. Se di romanzo si tratta, è il romanzo dell'inanità.
Spero che perdonerete, caro Alessio, lo sfogo cui mi sono abbandonato in queste ultime righe. Da parte mia, ho fatto ciò che ho potuto. Saranno gli storici, un giorno, a completare lo spoglio dei documenti d'archivio, la verifica scrupolosa delle fonti, delle circostanze, dei dettagli. Prima ancora però spetterà a Sua Santità, e solo a Lui, giudicare se l'opera dei miei amici debba essere pubblicata, o se vada tenuta segreta. Le implicazioni d'una sua diffusione sarebbero molteplici, e non riguarderebbero solo la Chiesa di Roma. Come potranno, infatti, gli orangisti britannici sfilare ancora spavaldi e protervi per le vie di Londra e Belfast, quando il 12 luglio di ogni anno festeggiano l'anniversario della vittoria del Boyne, con cui Guglielmo d'Orange schiacciò definitivamente le forze cattoliche? Che significato avranno più le loro celebrazioni d'oltranzismo protestante, quando sapranno che le devono a un Papa? Se gli antichi vaticini non mentono, il Santo Padre prenderà ora la decisione più giusta e ispirata. Secondo la profezia di San Malachia, evocata da padre Robleda, il nostro beneamato e assai longevo Pontefice sarà infatti l'ultimo Papa, e il più santo: De Gloria Olivae, come lo chiama la profezia. So che la lista dei Papi attribuita a Malachia è stata da tempo riconosciuta falsa e confezionata nel Cinquecento, anziché nel Medioevo. Ma nessuno studioso è riuscito a spiegare perché in essa siano comunque correttamente previsti i nomi dei Papi moderni, fino a oggi. Quella lista ci dice che il tempo è ormai esaurito: Fides intrepida (Pio XI), Pastor angelicus (Pio XII), Pastor et nauta (Giovanni XXIII), Flos florum (Paolo VI), De Medietatae Lunae (Giovanni Paolo I), De labore solis (Giovanni Paolo II), e per ultimo De Gloria Olivae: tutti i 111 Pontefici della profezia hanno ormai varcato Imprimatur - Monaldi & Sorti
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il Sacro Soglio. Il Santo Padre, dunque, è forse colui che preparerà il ritorno di Pietro in Terra, quando ognuno verrà giudicato e ogni torto riparato. Cloridia aveva detto al garzone d'essere giunta a Roma seguendo la via dei numeri e l'oracolo dei Tarocchi: l'Arcano del Giudizio reclamava la «riparazione dei torti subiti» e l«'equo giudizio dei posteri». Se la profezia di Malachia dice il vero, è giunto il tempo in cui ciò avverrà. Già troppe volte la Storia è stata offesa, tradita, mutilata. Se ora non si interverrà, se non si dirà la verità ad alta voce, se non verrà diffuso lo scritto dei miei due amici, è possibile che la sparizione delle prove continui: che le lettere di Beaucastel e monsignor Cenci vadano disperse, riposte per errore nel fascicolo sbagliato, o che i libri mastri di Carlo Odescalchi spariscano inspiegabilmente, come già tante altre carte. So, caro Alessio, quanto amiate rispettare le scadenze che il Vostro ufficio impone. Proprio per questo confido che trasmetterete con la massima solerzia a Sua Santità questo incartamento, affinché Egli possa valutare se ordinare un estremo, eppure ancora tempestivo imprimatur.
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NOTE
Il Donzello La locanda del Donzello è realmente esistita. Ho potuto localizzare con esattezza dove sorgeva grazie agli Stati animarum (il censimento effettuato ogni anno a Pasqua dai parroci di Roma) dell'antica parrocchia di Santa Maria in Posterula, la chiesina che sorgeva vicino alla locanda. Nel XIX secolo la chiesa, e la piazzetta a cui dava il nome, vennero sacrificate alla costruzione degli argini del Tevere; ma i censimenti effettuati anno dopo anno dai parroci di Santa Maria in Posterula sono stati conservati, e sono consultabili presso l'archivio storico del vicariato di Roma. L'antico albergo si trovava proprio là ove dice il garzone: in un palazzetto cinquecentesco all'inizio di via dell'Orso, oggi sito ai numeri civici 87 e 88. L'ingresso principale è un bel portone bugnato; accanto è visibile l'ampia porta ad arco oblungo che nel 1683 conduceva nella sala da pranzo della locanda, e ora è l'ingresso di un negozio d'antiquariato. L'edificio venne acquistato e ristrutturato alcuni decenni fa da una famiglia, che ancora oggi vi abita e ne concede alcuni appartamenti in affitto. Con una serie di ricerche catastali ho potuto verificare che dal 1683 a oggi l'edificio di via dell'Orso ha subito qualche cambiamento, che tuttavia non ne ha stravolto l'aspetto originario. Le finestre del pianterreno e del primo piano, per esempio, oggi non hanno più le grate; il sottotetto è diventato il terzo piano, sovrastato da una terrazza. L'ordine di finestre che affaccia sul vicolo all'angolo con via dell'Orso è stato interamente murato, ma è ancora visibile. Il torrino che avrebbe ospitato la cortigiana Cloridia è stato ampliato, fino a costituire un vero e proprio piano sopraelevato. Negli altri piani sono rimasti solo i muri maestri, mentre le pareti di tramezzo sono mutate più volte nel corso dei secoli. Non è sopravvissuto neanche lo stanzino che nascondeva la scala segreta di accesso ai cunicoli sotterranei: al suo posto è stata costruita ex novo in tempi più recenti una nuova colonna di appartamenti. La locanda è insomma lì, come se il tempo non fosse mai passato. Con un po' d'immaginazione, sotto quelle antiche finestre si potrebbe
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credere di sentire ancora la voce irosa di Pellegrino, o i borbottìi di padre Robleda. Il tempo ha pietosamente risparmiato altri documenti, che sono risultati decisivi per le mie ricerche. Nel fondo Orsini dell'archivio storico capitolino ho ritrovato un prezioso registro degli ospiti del Donzello fino all'anno 1682. Il volume, protetto da una rozza copertina di cartapecora, è stato intitolato da una mano insicura Libro nel quale vi sta notato ciascheduno, che è venuto ad alloggiare alla Cammera Locanda della sig.ra Luigia de Grandis Bonetti all'Orso. All'interno, un'annotazione manoscritta conferma che la locanda era detta «del Donzello». Dal registro degli ospiti si apprendono molte sorprendenti coincidenze. Nel racconto del garzone si diceva infatti che la proprietaria del Donzello, la signora Luigia, era spirata di morte violenta in seguito all'aggressione di due zingari. Ebbene, il registro della locanda s'interrompe bruscamente al 20 ottobre 1682. E sembra che attorno a quella data la locandiera Luigia Bonetti abbia davvero subito un grave incidente: di lei infatti non si sa più nulla fino al 29 novembre successivo, giorno della sua morte (ho potuto verificarlo negli atti di morte della parrocchia di Santa Maria in Posterula). Ma non è tutto. Non credevo ai miei occhi, quando nel registro degli ospiti del Donzello lessi alcuni nomi assai familiari: Eduardus Bedfordi di ventotto anni, inglese; Angelo Brenozzi di ventitré anni, veneziano; e infine Domenico Stilone Priàso di trent'anni, napoletano: tutti ospitati nella locanda tra il 1680 e il 1681. I tre giovani, dunque, erano persone in carne e ossa, e avevano davvero soggiornato al Donzello già ai tempi della signora Luigia, prima che vi arrivasse il garzone. Ho quindi cercato anche tracce del garzone, che purtroppo nella sua memoria non rivela mai il proprio nome, e del suo padrone Pellegrino de Grandis. Il garzone dice d'essere stato assunto da Pellegrino nella primavera del 1683, allorché Pellegrino, giunto da Bologna con moglie e due figlie, aveva preso temporaneo alloggio vicino al Donzello «in attesa che il palazzetto si liberasse da alcuni inquilini di passaggio». Ebbene, tutto corrisponde. Negli Stati animarum ho trovato che in quella primavera il palazzetto del Donzello ospitava alcune famiglie d'affittuari; poco lontano compariva per la prima volta un tal Pellegrino de Grandis, bolognese, cuoco, con la moglie Bona Candiotti e due figlie. Li accompagna un garzone ventenne di nome Francesco. Che fosse lui il ragazzo nano della locanda? L'anno dopo nel palazzetto del Donzello si trovano di nuovo altri inqui-
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lini: segno che i danni del crollo descritto dal garzone alla fine del racconto sono stati riparati, ma Pellegrino non riprende più l'attività di locandiere. E né di lui né del suo giovane aiutante vi sono più tracce.
Personaggi e documenti Il medico Giovanni Tiracorda fu uno dei più noti archiatri pontifici, e curò più volte Innocenzo XI. Come ho potuto accertare (anche questa volta grazie agli Stati animarum di Santa Maria in Posterula), abitava davvero in via dell'Orso, accanto alla locanda, insieme alla moglie Paradisa e a tre fantesche. La sua figura grassoccia e gioviale, così com'è descritta dal garzone, risponde esattamente alla caricatura che ne fece Pier Leone Ghezzi, oggi conservata nella Biblioteca Vaticana. Anche i libri, i mobili, le suppellettili e la pianta della casa di Tiracorda descritti dal garzone rispondono fin nei minimi dettagli all'inventario dei beni allegato al testamento del medico che ho potuto consultare presso l'Archivio di Stato di Roma. Perfino il carattere capriccioso della moglie Paradisa sembra corrispondere a verità. Presso l'Archivio del Pio Sodalizio dei Piceni di Roma, infatti, sono depositate le poche carte di Tiracorda scampate alla razzia delle truppe napoleoniche di stanza nell'Urbe. Tra i documenti superstiti, ho consultato un fascicolo di cause legali intentate contro Paradisa dopo la morte del marito. Da alcune perizie emerge che la donna non era più in possesso delle proprie facoltà mentali. Del cognome Dulcibeni ho trovato non rare testimonianze nella cittadina marchigiana di Fermo, nelle due visite da me colà effettuate; purtroppo non ho rinvenuto nessuna memoria di qualcuno che nel XVII secolo rispondesse al nome di Pompeo. Ho però trovato conferma dell'esistenza a Napoli di un importante circolo di giansenisti: probabilmente quello a cui avrebbe aderito Dulcibeni. All'Archivio mediceo di Firenze ho potuto verificare quasi per intero anche la storia di Feroni e Huygens: tornato in Toscana dall'Olanda, Francesco Feroni voleva combinare nozze aristocratiche per la figlia Caterina. La ragazza però era perdutamente innamorata del braccio destro di suo padre, Antonio Huygens di Colonia, tanto che s'era ammalata «di febbre continova, convertita da poi in terzana». Malgrado ciò, Huygens aveva continuato a lavorare per Feroni, andando infine a dirigere la filiale della sua azienda a Livorno. Anche qui, a quanto pare, la memoria del garzone non ha mentito. Circa il medico senese Cristofano, ho rintracciato solo notizie del suo omonimo padre, il ben noto Provveditore alla Sanità Cristofano Ceffini, che
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fu effettivamente attivo durante la peste di Prato del 1630. Lasciò anche un Libro della Sanità, con un elenco delle prescrizioni che gli ufficiali sanitari dovevano osservare in caso di peste. Luigi Rossi, maestro di Atto Melani, visse a Roma e a Parigi, ove fu amico e mentore del giovane Atto. Tutti i versi che l'abate Melani canticchia sono tratti da sue canzoni. Il seigneur Luigi (come si trova indicato negli spartiti originali sparsi nelle biblioteche di tutta Europa) non si curò mai in vita di dare alle stampe le sue pur acclamate opere, che i sovrani a quel tempo addirittura si contendevano. Così Luigi Rossi, malgrado venisse considerato nel Seicento il più grande compositore d'Europa, precipitò nel dimenticatoio già all'alba del nuovo secolo. Sono riuscito a rintracciare in commercio solo due incisioni con le sue canzoni amorose, ma sono stato fortunato: vi ho trovato proprio gli stessi brani cantati da Atto e ho potuto così ascoltarne rapito le stupefacenti melodie. La gazzetta astrologica di Stilone Priàso, sulla quale si arrovella il garzone del Donzello, è stata pubblicata nel dicembre 1682 ed è consultabile presso la Biblioteca Casanatense di Roma. Con estrema inquietudine - lo confesso - ho scoperto che l'autore aveva davvero predetto che la battaglia di Vienna si sarebbe svolta nel settembre 1683. È un mistero, ritengo, destinato a restare tale. Presso la Biblioteca Casanatense, grazie alla professionalità e alla estrema cortesia dei bibliotecari, ho potuto rintracciare anche il manuale astrologico da cui è tratto l'oroscopo dell'Ariete che Ugonio, durante la navigazione nei canali sotterranei, recita ad Atto e al garzone. Il trattatello venne pubblicato a Lione nel 1625, giusto un anno prima che nascesse l'abate Melani: Livre D'Arcandam Doctevr et Astrologve traictant des predictions d'Astrologie. Ebbene, nel caso di Atto Melani i vaticini di Arcandam si sono realizzati con inaudita precisione, compresa la durata della vita: ottantasette anni, come prevedeva l'astrologo.
Atto Melani Tutte le circostanze della vita di Atto Melani contenute nel racconto del garzone sono autentiche. Cantante castrato, diplomatico e spia, Atto fu al servizio prima dei Medici, poi di Mazzarino e infine del Re Sole, ma anche di Fouquet e di un numero imprecisato di cardinali e di famiglie nobili. La sua carriera di castrato fu lunga e gloriosa, e il suo canto venne davvero cele-
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brato - come egli si vanta col garzone - da Jean de La Fontaine e Francesco Redi. Oltre a essere citato in tutti i principali dizionari musicali, il nome di Atto compare nella corrispondenza di Mazzarino e nelle opere di alcuni memorialisti francesi. Anche Atto viene fisicamente, e caratterialmente, ben descritto dal garzone: per rendersene conto basta soffermarsi davanti al monumento funebre fatto erigere in suo onore dagli eredi nella cappella Melani della chiesa di San Domenico a Pistoia. Volgendo lo sguardo all'insù s'incontreranno gli occhi vispi dell'abate, e si riconoscerà la piega dispettosa delle labbra e la fossetta impertinente del mento. Il marchese di Grammont nelle sue memorie definì il giovane Atto Melani «divertente, e nient'affatto stupido». E basta leggere le tante lettere di Atto, sparse come disiecta membra per gli archivi dei principati di tutt'Italia, per stupirsi della sua vena allegra e ironica, pettegola e acutissima. Nella sua corrispondenza si ritrovano molti degli insegnamenti impartiti da Atto al garzone, a cominciare dal suo dotto (e discutibile) ragionamento in base al quale era assolutamente lecito per un re cristiano allearsi con i turchi. Anche la guida alle meraviglie architettoniche di Roma, che l'abate Melani stava scrivendo nella sua stanza al Donzello tra un'avventura e l'altra, sembra tutto fuorché un'invenzione. La guida di Atto infatti è straordinariamente simile a un manoscritto anonimo in lingua francese, pubblicato per la prima volta nel 1996 da una piccola casa editrice romana, dal titolo Specchio di Roma barocca. L'anonimo autore del manoscritto era un abate colto e benestante, buon conoscitore delle cose politiche e con aderenze nella corte papale, misogino e filofrancese. Sembra il ritratto dell'abate Melani. Non solo: l'autore della guida deve aver soggiornato a Roma tra il 1678 e il 1681 ; proprio come Atto, che infatti incontra Kircher nel 1679. Come la guida di Atto, anche lo Specchio di Roma barocca è rimasto incompiuto. L'autore ha abbandonato l'opera mentre descriveva la chiesa di Sant'Attanasio dei Greci. Incredibilmente, nello stesso punto Atto Melani interrompe la stesura della sua guida, folgorato dal ricordo del suo incontro con Kircher. Solo un caso? Atto conosceva poi davvero Jean Buvat, lo scrivano che - come si legge nel racconto del garzone - sbrigava a Parigi la sua corrispondenza, imitandone a perfezione la grafia. Buvat è realmente esistito: era un copista della Biblioteca Reale, abilissimo decifratore di pergamene e ottimo calligrafo. Lavorò anche per Atto, che lo raccomandò - ma inutilmente - presso il prefetto della Biblioteca per un aumento di stipendio. A Buvat comunque la storia ha riservato una sorte migliore di Atto:
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mentre l'abate Melani è stato inghiottito dall'oblio, Buvat ha una parte di rilievo in Le chevalier d'Harmental di Alexandre Dumas padre.
Atto e Fouquet Ho ritrovato una breve biografia di Atto, scritta qualche anno dopo la sua morte dal nipote Luigi, da cui si apprende che Atto fu amico di Fouquet, come si legge nella memoria del garzone. Il Sovrintendente, secondo il nipote di Atto, intrattenne anzi con l'abate Melani un fitto carteggio. Ma di questo epistolario, a dire il vero, nessuna traccia ho potuto trovare. Quali furono dunque i veri rapporti di Atto con il Sovrintendente? Quando Fouquet viene arrestato, Atto è a Roma. Come ricordato anche nella memoria del garzone, è sfuggito alla collera del duca de La Meilleraye, il potente erede di Mazzarino, che ha visto il castrato ficcanasare troppo in casa sua, e ha chiesto al re di esiliarlo. A Parigi però si diffonde la voce del suo coinvolgimento nello scandalo Fouquet. Da Roma, nell'autunno 1661, Atto scrive a Hugues De Lionne, ministro di Luigi XIV. È una lettera accorata (da me rintracciata nell'archivio del ministero degli Affari Esteri di Parigi; l'originale è in francese), in cui la grafia nervosa, la sintassi tormentata e gli errori ortografici rivelano tutta la sua angoscia:
Roma, l'ultimo giorno d'ottobre 1661 Mi dite che il mio male è senza rimedio, e che il Re è sempre irritato con me. Scrivermi questo è comunicarmi la mia condanna a morte, e siete stato disumano, visto che sapete della mia innocenza, a non avermi almeno un po' consolato, perché non ignorate quanto io adori il Re, e la passione che ho sempre avuto per servirlo come si conviene. Volesse Iddio che non l'avessi tanto amato, e che fossi stato più attaccato al Signor Fouquet che a lui: almeno mi vedrei punito giustamente, per un crimine da me commesso, e non dovrei lamentarmi che di me stesso. Ché ora io sono il più miserabile giovane al mondo, perché mai mi potrò consolare, perché non considero il Re come un gran Principe, ma come una Persona per la quale provavo il trasporto d'un Amore così grande quanto è possibile a persona umana. Non aspiravo che a servirlo come si conviene, e a ben meritarmi buone grazie, senza pensare in alcun modo al più piccolo tornaconto, e vi posso dire che non sarei rimasto così a lungo in Francia, anche vivente il Signor Cardinale [Mazzarino], senza l'amore che provavo per il Re.
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La mia Anima non è forte abbastanza per resistere a una così grande sventura. Non oso lamentarmi, non sapendo a chi imputare una tal disgrazia, e anche se mi sembra che il Re mi faccia una grande ingiustizia, non posso neppure aprire bocca, perché ha avuto ragione d'essere sorpreso che io avessi un commercio di lettere con il Signor Sovrintendente. Ha avuto ben motivo di credermi un perfido e un malvagio, vedendo che invio al Signor Fouquet le minute delle lettere che scrivo a Sua Maestà. Ha ragione a condannare la mia condotta, e i termini che mi servo [sic] scrivendo al Signor Fouquet. Sì, mio povero De Lionne, il Re mi ha trattato giustamente, dichiarandovi d'esser malcontento di me, perché la mano che ha tradito tutte le sue lettere merita d'esser tagliata, ma il mio cuore è innocente, e la mia Anima non ha commesso sbaglio alcuno: sono stati sempre fedeli al Re, e se il Re vuol essere giusto, deve condannare l'una, e assolvere gli altri, poiché la mano ha sbagliato per un eccesso d'amore che il mio cuore ha avuto per il Re. Ha sbagliato perché ho provato in eccesso il desiderio di tornare presso di lui; perché mi trovavo in ristrettezze, abbandonato da tutti; e perché credevo che il Sovrintendente fosse il migliore e più fedele Ministro del Re, che gli manifestava la propria bontà più che a chiunque altro. Sono questi i quattro motivi che in tal guisa mi hanno fatto scrivere al Signor Fouquet, e non c'è una sola parola nelle mie lettere che io non possa giustificare, e se il Re vuole avere la bontà d'accordarmi questa grazia, che non è mai stata rifiutata ad alcun criminale, fate pure che si esaminino tutte le mie lettere, che io sia interrogato, che io vada in prigione prim'ancora di rispondere, per esser punito, o per avere il perdono, se lo merito. Non si troverà, nelle lettere che ho scritto al Signor Fouquet, se non che gli ho scritto al tempo in cui caddi in disgrazia, e ciò prova che io non l'ho conosciuto prima. Non si troverà, in tali resoconti, ch'egli m'abbia elargito alcuna somma, e che io sia stato nel numero di coloro che da lui ricevevano una pensione segreta. Per mezzo d'alcune delle lettere ch'egli m'ha scritto posso ben dimostrare tutta la verità, e che egli, conoscendo il motivo che mi portava a scrivergli, mi diceva (sia ciò verità o lusinga) che mi avrebbe reso dei buoni uffici presso il Re, e che voleva prendersi cura dei miei interessi. Ed ecco qui allegata una copia dell'ultima lettera, l'unica che abbia ricevuto da quando sono a Roma. Se desiderate l'originale, non
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avete che da dirmelo... Atto dunque confessa: quando scriveva al re, passava di nascosto la minuta delle lettere al Sovrintendente! Erano lettere di un agente di Francia, ed erano indirizzate addirittura al sovrano: un peccato mortale. Atto però nega di averlo fatto per soldi: si era messo in contatto con Fouquet solo dopo essere caduto in disgrazia, cioè quando era esplosa l'ira del duca de La Meilleraye, ed egli aveva bisogno di un posto dove nascondersi (proprio come racconta Devizé nella memoria del garzone). Per provare quanto dice, Atto allega la copia di una lettera scrittagli da Fouquet. È un documento commovente: il Sovrintendente scrive al castrato il 27 agosto 1661, pochi giorni prima di essere arrestato. È una delle sue ultime lettere da uomo libero. Fontainebleau, 27 agosto 1661 Ho ricevuto la vostra lettera del primo del mese con quella del Signor Cardinal N. Vi avrei scritto prima, se non avessi avuto un raffreddore che mi ha tenuto quindici giorni a letto e non mi ha lasciato che ieri. Mi appresto a partire dopodomani con il Re per la Bretagna, e farò in modo che gli Italiani non intercettino più le nostre lettere; ne parlerò al Signor de Neaveaux non appena sarò a Nantes. Non siate in pena per i vostri interessi, perché ne ho speciale cura, e sebbene negli ultimi giorni la mia indisposizione m'abbia impedito d'intrattenere il Re come al solito, non ho trascurato di testimoniargli lo zelo che avete per il suo servizio, ed egli ne è assai contento. Questa lettera vi sarà consegnata dal Signor abate di Crecy, del quale potete avere fiducia. Ho letto con piacere ciò che mi comunicate da parte del Signor Cardinal N., e vi prego di dirgli che non v'è nulla ch'io non voglia fare per servirlo. Vi prego anche di voler porgere i miei saluti a madame N.; le porgo tutti i sensi del mio onore, e mi dichiaro suo servitore. La confusione in cui mi trovo alla vigilia di un viaggio così importante m'impedisce di rispondere con maggiori dettagli a tutto il contenuto della vostra lettera. Inviatemi una memoria su quanto della vostra pensione vi è dovuto, e state sicuro che non tralascerò nulla per mostrarvi la stima che ho di voi e quanto io desideri servirvi. Se davvero così Fouquet scrisse ad Atto (l'originale, se esisteva, è andato perso), non era un'idea brillante discolparsi mostrando queste righe al re.
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Troppo ambiguo ciò che accade tra il castrato e il Sovrintendente, troppo carico di sospetti il clima intorno a loro: lettere intercettate, corrieri riservati, un cardinal N. (forse Rospigliosi, l'amico di Atto?) e una misteriosa madame N. (forse Maria Mancini, nipote di Mazzarino, ex amante del re e anche lei a Roma in quei giorni?). Ma soprattutto, è sospetto il balletto di Atto e Fouquet attorno al re. Il primo passa segretamente la propria corrispondenza con Luigi XIV al secondo, che a sua volta raccomanda l'amico al sovrano. E poi, quella pensione per cui Fouquet promette aiuto ad Atto... Nonostante lo scandalo da cui venne travolto, Fouquet non tradì il suo amico. Durante il suo processo, quando gli verrà chiesto dei loro rapporti, Fouquet risponderà evasivamente, riuscendo così a risparmiare il carcere ad Atto: ne ho trovato piena conferma nei verbali d'udienza, esattamente come Devizé riferisce agli ospiti del Donzello.
Gli ultimi anni di Atto Melani Negli ultimi anni, il castrato Melani doveva avvertire il peso della solitudine. Per questo, forse, trascorse il periodo finale della vita nella casa di Parigi con due nipoti, Leopoldo e Domenico. E allora può ben esser vero, come dice il garzone del Donzello nel suo manoscritto, che negli anni precedenti gli abbia offerto di condurlo con sé. Sul letto di morte Atto ordinò che tutte le sue carte venissero imballate e portate in casa di un amico fidato. Sapeva che durante l'agonia la casa si sarebbe riempita di curiosi e profittatori, golosi dei suoi segreti. E forse ripensava a quando egli stesso, come narra il garzone, si era intrufolato nello studio del meno previdente Colbert...
La dedica iniziale Rita e Francesco mi avevano detto d'aver rinvenuto la memoria del garzone tra le carte di Atto. Ebbene, com'era finita lì? Per capirlo bisogna rileggere con attenzione la misteriosa dedica iniziale, la lettera anonima senza mittente né destinatario che precede il racconto del garzone: Signore, nell'inviarVi questa Memoria che ho infine rinvenuta, oso sperare che Vostra Eccellenza riconoscerà nei miei sforzi per esaudire i Vostri desideri, l'eccesso di passione e d'amore che ha sempre fatto la mia felicità, quando ho potuto testimoniarlo a Vostra Eccellenza...
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Nelle ultime pagine del racconto il garzone, roso dai rimorsi, scrive ad Atto offrendo nuovamente la propria amicizia. Si fa però sfuggire d'aver compilato prima un diario, e poi una dettagliata memoria delle vicende accadute nella locanda. Il garzone dice che Atto non gli rispose mai, e teme addirittura per la sua vita. Ma noi sappiamo che lo scaltro abate se la cavò, e visse ancora molti anni, e quindi dovette ricevere quella lettera. Immagino anzi il primo lampo di piacere nel suo viso di fronte a quelle righe, e poi subito la paura, e infine la decisione: incarica un suo fedele scherano di recarsi a Roma, e di trafugare la memoria del garzone prima che capiti nelle mani sbagliate. Quelle pagine svelavano troppi segreti, e lo accusavano dei crimini più orrendi. La dedica anonima sarà quindi stata scritta ad Atto dal suo scherano, dopo aver adempiuto all'incarico. Ecco perché Rita e Francesco mi dissero d'aver rinvenuto la memoria del garzone tra le carte di Melani. Atto e il garzone non si videro più? Chissà che un giorno l'abate Melani, colto dalla nostalgia, non abbia improvvisamente ordinato al suo valet de chambre di riempirgli i bauli da viaggio, ché doveva partire urgentemente per la corte di Roma...
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Innocenzo XI e Guglielmo d'Orange. Documenti
La storia da rifare La liberazione di Vienna nel 1683, le dispute religiose tra Francia e Santa Sede, la conquista dell'Inghilterra da parte di Guglielmo d'Orange nel 1688 e la fine del cattolicesimo inglese, l'isolamento politico di Luigi XIV di fronte alle altre potenze, l'intero assetto politico europeo nella seconda metà del XVII secolo e nei decenni seguenti: un intero capitolo della storia d'Europa andrebbe riscritto alla luce dei documenti che rivelano le mosse segrete di papa Odescalchi e della sua famiglia. Ma per farlo si deve alzare una cortina fatta di silenzio, ipocrisie, menzogne. Innocenzo XI finanziò la vittoria di Vienna contro i turchi con i fondi della Santa Sede. È questo un merito che storicamente nessuno può negare. Ma, come è possibile verificare sui libri mastri di Carlo Odescalchi, è vero anche ciò che scrive il garzone del Donzello quando riprende la sua memoria nel 1699: gli Odescalchi prestavano all'imperatore anche a titolo privato, come normali banchieri. In garanzia dei prestiti ricevevano barili di mercurio (o argento vivo, com'era chiamato allora), che la famiglia del papa rivendeva infine al banchiere protestante olandese Jan Deutz. Il 75% del ricavato andava agli Odescalchi, il resto invece ai soliti prestanome Cernezzi e Rezzonico, che da Venezia curavano con discrezione tutta l'operazione. Nessuna gloria, quindi, per queste operazioni volte al lucro. Alla morte di Innocenzo XI, l'imperatore si affrettò a manifestare la sua riconoscenza per gli Odescalchi: cercò di concedere a Livio, il nipote del papa, terre in Ungheria a prezzi di favore. L'operazione venne però bloccata: la Camera imperiale aveva giudicato troppo generose le condizioni concesse a Livio Odescalchi. L'imperatore vendette allora a Livio per 336.000 fiorini il feudo del Sirmio, in Ungheria. Un prezzo anche questo di convenienza? Si trattava della terra faticosamente riconquistata agli invasori turchi dopo la vittoria di Vienna. La capitale dell'impero era dunque stata salvata coi soldi della Santa Sede, ma alla fine i frutti della riconquista finivano agli
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Odescalchi. A suggello di tutto, Livio venne nominato principe del Sacro Romano Impero. Che la strettissima liaison tra l'imperatore e gli Odescalchi potesse nascondere qualcosa non era sfuggito neppure ai contemporanei. Già nel 1701 il diarista Francesco Valesio nota che «con strana metamorfosi» l'ex aiutante di camera di Livio Odescalchi è stato fatto addirittura «consigliere aulico dell'Imperatore con amplissimo privilegio». Ma i soldi possono comprare (quasi) tutto. Al termine della sua memoria il garzone ricorda che Livio Odescalchi, dopo la morte dello zio papa, acquistò per somme enormi feudi, palazzi e ville. E dopo la morte di re Jan Sobieski di Polonia, le cui armate avevano spezzato l'assedio di Vienna, Livio inondò Varsavia di denaro tentando (ma invano) di comprare il trono polacco. Solo in questo modo si spiega perché papa Odescalchi continuò finché ebbe respiro a mandare denaro all'imperatore, anche quando il pericolo turco non era più così pressante: tutto l'investimento doveva tornare alla famiglia. Non importa se per conseguire questo scopo egli dovesse favorire l'eretico Guglielmo d'Orange. Una linea spietata, che il papa si ostina a mantenere anche nei momenti più drammatici. Come ricorda lo storico Charles Gérin, quando Luigi XIV e Giacomo Stuart chiedono a Innocenzo XI di fermare i finanziamenti a Vienna e di inviare urgentemente denaro alle truppe cattoliche degli Stuart, impegnate in Irlanda contro le forze eretiche di Guglielmo d'Orange, il papa ribatte con frasi che solo oggi rivelano il loro pieno significato. Spiega che a Vienna egli sta combattendo «una crociata perpetua» in cui ha preso, come i suoi predecessori, «una parte personale». È lui che fornisce agli alleati «le proprie galere, i propri soldati e il proprio denaro», e difende non solo l'integrità dell'Europa cristiana, ma «i suoi interessi particolari di Sovrano temporale e di Principe italiano».
I prestiti di Innocenzo XI a Guglielmo d'Orange Purtroppo ha ragione Atto Melani, quando racconta del processo a Fouquet: la storia la fanno i vincitori. E fino a oggi, a vincere è stata la storiografia ufficiale. Su Innocenzo XI nessuno ha potuto (o voluto) scrivere la verità. A parlare di prestiti fatti da Innocenzo XI a Guglielmo d'Orange furono per prime alcune gazzette anonime, fatte circolare dai francesi già all'indomani dello sbarco del principe protestante in Inghilterra. Secondo le memorie di madame de Maintenon, inoltre, il papa avrebbe inviato a Guglielmo un finanziamento di 200.000 ducati per lo sbarco in Inghilterra: ma è un'opera di dubbia autenticità. Si trattava di voci messe in giro dai francesi, con l'evidente scopo di diffamare il pontefice. Le dicerie vennero poi diffuse da me-
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morialisti e libellisti, ma non fornivano alcuna prova di quanto affermavano. Assai più insidioso per la memoria di Innocenzo XI fu invece Pierre Bayle nel suo celebre Dictionnaire historique et critique. Bayle ricorda che Innocenzo era nato da una famiglia di banchieri e riporta un commento satirico appeso a Roma sotto la statua di Pasquino, il giorno in cui il cardinal Odescalchi venne elevato al pontificato: «Invenerunt hominem in telonio sedentem. Ovvero: hanno scelto un papa seduto al tavolo dell'usuraio». Questa volta non si trattava di un pettegolezzo pilotato ad arte. Bayle, grande intellettuale preilluminista, non poteva essere tacciato di bassa partigianeria filofrancese. Era infine assai vicino ai fatti di cui parlava (il suo Dictionnaire venne pubblicato nel 1697). Nessuno storico però cercò di chiarire i fatti, di seguire la traccia indicata dalle gazzette clandestine e da Bayle. La verità sugli Odescalchi venne così relegata in un pugno di scritti clandestini, e nel vecchio e polveroso dizionario di un filosofo olandese rinnegato (Bayle passò dal calvinismo al cattolicesimo, per poi fare marcia indietro e infine respingere ogni credo). L'agiografia, nel frattempo, trionfò senza neppure combattere, e Innocenzo XI passò alla Storia. I fatti parevano incontrovertibili: nel 1683 Vienna viene liberata grazie a colui che ha mobilitato i principi cattolici e ha inviato i sussidi della Camera apostolica in Austria e in Polonia. Innocenzo XI è il papa eroico e asceta che ha messo fine al nepotismo, che ha risanato i conti della Chiesa, che ha vietato alle donne di mostrarsi in pubblico con le maniche corte, che ha messo fine alla follia insana dei carnevali, che ha chiuso i teatri di Roma, luogo di perdizione... Dopo la sua morte è un diluvio di lettere da tutta Europa: ogni casa regnante chiede di farlo beato. Già nel 1714 inizia il processo di beatificazione, grazie anche alle premure del nipote Livio. Vengono sentiti i testimoni ancora vivi, acquisiti documenti, ricostruite le vicende biografiche sin dall'infanzia. Quasi subito però si presentano alcuni intoppi, che rallentano il corso dell'istruttoria. Vengono forse segnalati i vecchi pamphlet francesi e il Dictionnaire di Bayle: scritti maligni, dicerie non provate e forse non comprovabili e che tuttavia, persino nel caso di una vita casta, virtuosa ed eroica come quella di Benedetto Odescalchi devono essere vagliate. Si sospetta anche un'opposizione da parte della Francia, che vede di mal occhio l'elevazione di un suo vecchio e acerrimo nemico. Il processo di beatificazione, già appesantito dagli innumerevoli e accuratissimi atti istruttori, segna il passo; da torrente impetuoso si fa melmoso, e tutto sembra arenarsi. Passano i decenni. Perché si torni a parlare di Innocenzo XI bisogna attendere il 1771, quando lo storico inglese John Dalrymple pubblica i suoi
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Memoirs of Great Britain and Ireland. E forse si intravede cosa stia rallentando la beatificazione. Per capire la tesi di Dalrymple bisogna però fare un passo indietro, e allargare lo sguardo al panorama politico europeo alla vigilia dello sbarco di Guglielmo d'Orange in Inghilterra. Negli ultimi mesi del 1688 si era acceso in Germania un nuovo, gravissimo focolaio di tensione politica. Da mesi si attendeva la nomina del nuovo arcivescovo di Colonia, carica in cui la Francia voleva imporre a tutti i costi il cardinal Fürstenberg. Se la manovra fosse riuscita, Luigi XIV avrebbe avuto a disposizione una preziosissima testa di ponte nell'Europa centrale, conquistando un predominio militare e strategico che gli altri principi non intendevano tollerare. Lo stesso Innocenzo XI aveva negato il suo consenso, giuridicamente indispensabile, alla nomina di Fürstenberg. Tutta Europa, nelle stesse settimane, assisteva preoccupata alle manovre militari delle truppe di Guglielmo d'Orange. Cosa si apprestava a fare Guglielmo? Stava per intervenire contro i francesi per risolvere con le armi la questione dell'arcivescovo di Colonia, e accendere così un tremendo conflitto in tutta Europa? Oppure - come alcuni sospettavano - stava per invadere l'Inghilterra? Ecco quindi la tesi di Dalrymple. Guglielmo d'Orange fece credere al papa di voler impiegare le sue truppe contro i francesi. Innocenzo XI, che come al solito non vedeva l'ora di mettere i bastoni tra le ruote a Luigi XIV, cadde nel tranello e prestò a Guglielmo i soldi necessari per mantenere la sua armata. Il principe d'Orange invece traversò la Manica, e riguadagnò per sempre l'Inghilterra alla religione protestante. L'eresia pertanto avrebbe trionfato grazie ai soldi della Chiesa. Il papa, sebbene ingannato, aveva comunque armato un principe protestante contro un principe cattolico. Questa ipotesi era già circolata in alcune delle gazzette anonime comparse ai tempi di Innocenzo XI e Luigi XIV. Ma questa volta Dalrymple sfodera le prove decisive: due lunghe e dettagliate lettere del cardinal d'Estrées, ambasciatore straordinario di Luigi XIV a Roma, indirizzate al sovrano francese e a Louvois, ministro della Guerra del Re Sole. Secondo le due missive, i più stretti collaboratori di Innocenzo XI conoscevano con largo anticipo le vere intenzioni di Guglielmo d'Orange: la conquista dell'Inghilterra. Già alla fine del 1687 - un anno prima dell'invasione dell'Inghilterra da parte del principe protestante - il segretario di Stato vaticano Lorenzo Casoni sarebbe stato in contatto con un borgomastro olandese, inviato segretamente da Guglielmo d'Orange. Tra i servitori di Casoni si nascondeva però un traditore, grazie al quale vennero intercettate le missive inviate da Casoni all'imperatore Leopoldo I. Dalle lettere si apprendeva che il papa teneva grosse somme di denaro a disposizione del principe d'Orange, nonché dell'imperatore Leopoldo I, affinché essi potessero combat-
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tere i francesi nel conflitto che stava per scoppiare a causa della questione dell'arcivescovo di Colonia. Dalle lettere di Casoni a Leopoldo appariva chiara anche la vera intenzione di Guglielmo: non un conflitto in Europa centrale contro i francesi, ma l'invasione dell'Inghilterra, della quale quindi i ministri di Innocenzo XI sarebbero stati perfettamente a conoscenza. Le lettere di d'Estrées erano un colpo mortale per il processo di beatificazione. Anche se Innocenzo XI fosse stato all'oscuro del vero progetto covato da Guglielmo, e cioè l'abbattimento del cattolicesimo in Inghilterra, appariva comunque certo che egli lo aveva finanziato a fini bellici, e per di più contro il Re Cristianissimo. Una selva di storici riprese negli anni successivi le lettere di Dalrymple, demolendo la memoria di Benedetto Odescalchi. Oltre a ciò, erano emersi dubbi anche su questioni squisitamente dottrinali, che complicavano ulteriormente l'iter della beatificazione: l'elevazione agli altari di Innocenzo XI sembrava irrimediabilmente compromessa. Era necessario che trascorresse un lasso di tempo proporzionale alla gravità di queste circostanze, prima che qualcuno ritrovasse il coraggio e la lucidità necessari per affrontare nuovamente la questione. Solo nel 1876 un magistrale articolo dello storico Charles Gérin fa compiere alla Storia una virata di 180 gradi. Sulla Révue des questions historiques Gérin dimostra con rigore e ricchezza di argomentazioni che le lettere di d'Estrées pubblicate da Dalrymple altro non sono che grossolani falsi, attribuibili verosimilmente ancora una volta alla propaganda francese. Inesattezze, errori, inverosimiglianze e soprattutto alcuni clamorosi anacronismi le svuotano di ogni attendibilità. Come se non bastasse, Gérin dimostra che gli originali delle lettere, che a detta di Dalrymple dovrebbero trovarsi negli archivi del ministero degli Esteri di Parigi, sono introvabili. Lo stesso Dalrymple, osserva Gérin, aveva candidamente confessato di non aver mai visto gli originali e di essersi affidato a una copia consegnatagli da un conoscente. Il contraccolpo dell'articolo di Gérin, sebbene limitato ai circoli degli storici, è pesantissimo. Sono decine gli autori (compreso il tanto celebrato Leopold von Ranke, decano degli storici del papato) che avevano attinto allegramente ai Memoirs di Dalrymple senza preoccuparsi di verificare le sue fonti. La conclusione è inevitabile. Con cieca simmetria, una volta provata la falsità delle lettere, diventano falsi i fatti che queste riferiscono, e vero diviene invece tutto ciò che va in direzione opposta. Se le accuse provengono da carte false, l'accusato diventa immediatamente innocente. L'ormai antica questione dei rapporti tra Innocenzo XI e Guglielmo d'Orange, che sembrava risolta per sempre da Gérin, viene inaspettatamente
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risfoderata dallo storico tedesco Gustav Roloff all'inizio del Primo conflitto mondiale. In un articolo pubblicato nel 1914 sui Preussische Jahrbücher, Roloff porta alla luce nuovi documenti su Innocenzo e il principe d'Orange. Da un rapporto di un diplomatico del Brandeburgo, Johann von Görtz, si scopre che nel luglio 1688, pochi mesi prima dello sbarco di Guglielmo d'Orange sulle coste inglesi, Luigi XIV aveva segretamente chiesto all'imperatore Leopoldo I d'Austria (cattolico ma tradizionale alleato degli olandesi) di non intervenire se la Francia avesse invaso l'Olanda. Leopoldo però già sapeva che il principe d'Orange intendeva invadere l'Inghilterra, e si era quindi trovato di fronte a un drammatico dilemma: appoggiare la cattolica Francia (odiata però in tutta Europa), o l'eretica Olanda? A sciogliere i dubbi dell'imperatore, secondo il rapporto di Görtz, sarebbe stato Innocenzo XI. Il papa avrebbe infatti comunicato a Leopoldo di non approvare affatto azioni e disegni di Luigi XIV, in quanto essi «non derivavano da una giusta passione per la Religione Cattolica, bensì dall'intenzione di buttare a mare l'Europa intera e di conseguenza anche l'Inghilterra». Leopoldo, scrollatosi il peso del dubbio religioso, non esitò a stringere ulteriori patti di sostegno e di alleanza con Guglielmo, favorendo così l'invasione dell'Inghilterra da parte di un principe eretico. Il parere risolutivo di Innocenzo XI sarebbe arrivato a Vienna proprio a ridosso del colpo di mano del principe d'Orange, della cui imminenza il papa avrebbe dovuto essere informato dal suo rappresentante a Londra, il nunzio D'Adda. Certo, nota Roloff, non è stata ancora ritrovata una lettera di Innocenzo XI con il parere per Leopoldo; ma è facile ipotizzare che si trattasse piuttosto di una rapida e discreta comunicazione orale, per tramite del nunzio vaticano a Vienna. Lo stesso Roloff, comunque, non è del tutto appagato dalla sua stessa spiegazione. Doveva essere in gioco anche altro, dice lo storico tedesco: «Se Innocenzo fosse stato un papa del Rinascimento, si sarebbe facilmente potuto spiegare il suo comportamento con l'opposizione politica alla Francia. Ma tale motivo, nell'epoca successiva alle grandi guerre di religione, non è più sufficiente». A determinare le mosse del papa era, anzi doveva essere qualcosa d'altro, di cui si avverte solo, per ora, l'oppressiva presenza. La partita non è chiusa. Nel 1926 un altro storico tedesco, Eberhard von Danckelman, riparte al contrattacco con l'intenzione dichiarata di combattere e vincere la battaglia decisiva. Con un articolo apparso sul periodico Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, Danckelman prende subito di petto la tesi di Roloff. Non solo Innocenzo XI non sapeva della spedizione del principe d'Orange, dice Danckelman citando una serie di lettere dei rappresentanti diplomatici vaticani, ma seguiva con angoscia l'evolversi della situazione in Inghilterra.
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Poi viene ciò che a noi sta più a cuore. Uscendo allo scoperto quasi con nonchalance, Danckelman aggiunge che in passato si erano sparse voci che il principe d'Orange sarebbe stato debitore al papa di grosse somme. Debiti in conseguenza dei quali Guglielmo avrebbe pensato di rinunciare al suo principato di Orange a favore di Innocenzo. Le somme, precisa Danckelman, sarebbero state prestate proprio per la spedizione in Inghilterra. In cinque righe Danckelman deposita tra i piedi del lettore una vera e propria bomba. È vero, anche Saint Simon nei suoi Mémoires aveva fatto sua quella velenosa ipotesi (che Voltaire era poi intervenuto a bollare di inverosimiglianza). Nessuno storico moderno, serio e documentato, però, aveva mai preso sul serio l'ipotesi scandalosa che il beato Innocenzo avesse prestato soldi al principe d'Orange per rovesciare in Inghilterra la religione cattolica. Lo stesso Roloff, infatti, si era limitato a concludere che il papa sapeva in anticipo che il principe d'Orange avrebbe invaso l'Inghilterra, e che non aveva fatto nulla per impedirlo. Ma non aveva in alcun modo sostenuto che Guglielmo fosse stato finanziato da Innocenzo XI. Danckelman aveva invece deciso di dare un nome - pur confutandolo - a quel «qualcosa» che, secondo l'intuizione di Roloff, aveva guidato le mosse del papa e che lo faceva segretamente tifare per Guglielmo: il denaro. L'ipotesi che Innocenzo abbia finanziato l'impresa di Guglielmo, argomenta Danckelman, poggia naturalmente su un presupposto: che il papa cioè sapesse dell'imminente sbarco del principe d'Orange, come Roloff riteneva di avere provato. Una volta approdato al trono inglese, Guglielmo avrebbe potuto facilmente onorare i debiti con il papa, e gli avrebbe presto o tardi restituito tutto, con gli interessi: come a un prestasoldi qualsiasi. E invece il papa non sapeva, giura Danckelman. Nulla doveva ricevere da Guglielmo, perché nulla sospettava dell'imminente sbarco in Inghilterra. Lo provano, sostiene Danckelman, le lettere scambiate, nell'imminenza dello sbarco di Guglielmo, tra il segretario di Stato, cardinal Alderano Cybo, il nunzio a Vienna, cardinal Francesco Buonvisi, e il nunzio a Londra, Ferdinando D'Adda. Secondo le missive, il papa è molto allarmato dalle manovre militari del principe d'Orange, e nessun accenno viene fatto a intese segrete tra la Santa Sede e Guglielmo. Il papa, dunque, non sa. Anche ammettendo che Innocenzo abbia fatto pervenire finanziamenti a Guglielmo, incalza Danckelman, i denari sarebbero dovuti quasi certamente passare attraverso il canale della nunziatura di Londra. Ma dai versamenti da Roma alla nunziatura di Londra, scrupolosamente setacciati dallo studioso tedesco, non esce alcuna traccia di finanziamenti a Guglielmo. I documenti esaminati, conclude compiaciuto Danckelman «fanno piena chiarezza sulla questione». La tesi di Roloff è demolita ed è sconfitto chiunque abbia osato affermare che il papa aveva prestato soldi all'Orange, quod erat
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demonstrandum. Nel 1956 arriva finalmente la beatificazione di papa Odescalchi, forse con la complicità - secondo alcuni - della guerra fredda: i turchi diventano metafora dell'impero sovietico, mentre il papa vivente si fa continuatore dell'eroe di tre secoli prima. Innocenzo XI ha salvato l'Occidente cristiano dalla marea turca, Pio XII lo protegge dagli orrori del comunismo. Per troppo tempo la verità ha dovuto attendere. Una volta cristallizzatasi la versione ufficiale, gli storici furono zelanti come non mai nel ripetere il già detto. Turbati forse da domande insieme troppo vecchie e troppo nuove, dedicarono solo uno sguardo indifferente all'abisso misterioso che lega per sempre Guglielmo III d'Orange, il principe che ricondusse l'Inghilterra alla religione anglicana, e il più grande papa del Seicento. Fiorivano intanto monografie, saggi e tesi di laurea sulla depilazione nel Medioevo, la vita quotidiana dei sordomuti nell'ancien régime o la concezione del mondo presso i mugnai della Galizia inferiore. Ma nessuno si è mai degnato di andare a risolvere quel grande interrogativo della Storia, di leggere con onestà le carte degli Odescalchi e di Beaucastel, di impolverarsi negli archivi.
Il papa mercenario Eppure è così: su Innocenzo XI nessuno ha mai cercato di raccontare la verità. Nella Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele di Roma ho consultato una curiosa operina scritta nel 1742: il De supposititiis militaribus stipendibus Benedicti Odescalchi, del conte Giuseppe Della Torre Rezzonico. Scopo di Rezzonico è smentire una diceria che si era diffusa già subito dopo la morte di Innocenzo XI: e cioè che il beato, negli anni giovanili, avesse combattuto come mercenario in Olanda sotto le armi spagnole, subendo tra l'altro una grave ferita al braccio destro. Rezzonico sostiene che l'allora giovanissimo Benedetto Odescalchi aveva sì fatto il soldato, ma nelle milizie comunali di Como, e non come mercenario. Peccato che l'autore fosse parente di quel Rezzonico che da Venezia faceva da prestanome agli Odescalchi; peccato anche che gli stessi Rezzonico fossero imparentati con la famiglia di Innocenzo XI. Per smentire i trascorsi militari del beato, si sarebbe dunque preferito uno storico più distaccato dagli eventi di cui parla. Ma anche alcuni dati di fatto fanno rimpiangere un esame più attento. Secondo Pierre Bayle, il giovane Benedetto Odescalchi, mentre combatteva da mercenario in Spagna, venne ferito al braccio destro. Curiosamente, come riferiscono i referti medici ufficiali, il pontefice sofferse fino alla morte di forti dolori proprio a quell'arto. Ma a prescindere dal merito, colpisce l'oblio in cui per decenni è stato lasciato anche questo aspetto oscuro della vita di papa Odescalchi. All'in-
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terno del volume di Rezzonico ho trovato un talloncino della biblioteca con cui il lettore precedente aveva richiesto in visione il volume. La firma: «Baron v. Danckelman, 16 aprile 1925». Dopo di lui, nessuno aveva più sfogliato quelle pagine.
Vero e falso Dice bene Atto Melani quando istruisce il garzone: non sempre i falsi dicono il falso. Anche le lettere false di d'Estrées pubblicate da Dalrymple, viste nella giusta luce, appartengono a questa bizzarra categoria di documenti: sono apocrife, ma dicono il vero. Non a caso un'altra lettera (questa autentica) del cardinal d'Estrées a Luigi XIV del 16 novembre 1688 conferma i contatti tra il conte Casoni e Guglielmo d'Orange: Il cardinal Cybo [...] ha saputo che, tramite un religioso che venne dall'Olanda l'anno scorso con lettere di alcuni missionari di quel Paese, a cui si faceva sperare che gli Stati [cioè le Province Unite d'Olanda] avrebbero accordato la libertà di coscienza per i cattolici, egli [Casoni] aveva stretto una specie d'intelligenza con un uomo dipendente del Principe d'Orange e che gli faceva sperare questa libertà; che tale uomo intratteneva il missionario nella convinzione che il Principe d'Orange aveva un grande rispetto per il Papa e che avrebbe fatto molte cose per lui; che negli ultimi tempi questi rapporti si erano rinsaldati e che sicuramente il Principe d'Orange aveva fatto sapere che non aveva che buoni propositi. La circostanza riferita da d'Estrées è credibile se non altro perché la fonte della notizia, cioè il cardinal Cybo, era una spia a libro paga di Luigi XIV. Il sovrano francese, infatti, il 9 dicembre seguente rispondeva irato a d'Estrées: Se volesse ristabilire buoni rapporti con me, il Papa dovrebbe allontanare per sempre Casoni e la corrispondenza criminale ch'egli ha intrattenuto col Principe d'Orange. Anche le memorie di madame de Maintenon, in cui si parla di prestiti di Innocenzo XI a Guglielmo d'Orange, sono apocrife. Ma non dicono forse il vero?
La missione Chamlais Come si è visto, la partita tra il principe d'Orange, Luigi XIV e Innocenzo
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XI si risolve nell'autunno 1688: Guglielmo tiene in sospeso l'Europa senza far capire se attaccherà i francesi sul Reno per la questione dell'arcivescovo di Colonia, oppure se invaderà l'Inghilterra. Il papa sta a guardare, e finge di non sapere cosa succederà. E Luigi XIV? Il Re Sole, che pure non era un amante della pace a tutti i costi, aveva cercato per tempo di non far precipitare gli eventi. Nei mesi precedenti aveva spedito a Roma un inviato speciale, monsieur de Chamlais, per un incontro riservatissimo con il papa. La missione era così segreta che perfino i rappresentanti diplomatici ufficiali della Francia a Roma ne erano stati tenuti all'oscuro. Chamlais aveva il compito delicatissimo di farsi ricevere personalmente dal papa, e di presentargli un'ambasciata da parte del Re Cristianissimo, suo acerrimo nemico. Il tema centrale della comunicazione è facilmente immaginabile: trovare un'intesa sul problema dell'arcivescovo di Colonia, disinnescare la bomba a orologeria di Guglielmo d'Orange e scongiurare un conflitto in tutta Europa. In Vaticano Chamlais viene ricevuto da Casoni, al quale annuncia di dover conferire personalmente col papa, e solo col papa, su incarico del re di Francia. Casoni lo rimanda indietro a mani vuote: gli spiega di essere solo il segretario delle cifre, mentre per un affare tanto delicato è bene che l'inviato reale si ripresenti per conferire con il cardinal Cybo, primo ministro del papa. Chamlais accetta, a condizione che nessuno sappia del suo abboccamento con Cybo. Chamlais dunque torna, e mostra a Cybo la lettera che Luigi XIV gli ha affidato per il papa. Gli viene detto di tornare dopo due giorni per la risposta. L'inviato si ripresenta per l'ennesima volta; a quel punto però Cybo gli dice che il papa non lo può ricevere. Chamlais riferisca pure tutto a Cybo, gli viene detto, proprio come se ad ascoltarlo ci fosse stato il pontefice medesimo... Innocenzo XI sa benissimo che gli ordini di Luigi XIV impediscono a Chamlais di parlare con chicchessia, se non col papa in persona. Tra un rinvio e l'altro, per giunta, gli uomini del papa sono riusciti a far passare giorni e giorni. L'inviato segreto, estenuato e offeso, se ne deve tornare in Francia senza aver potuto cercare un accordo con Innocenzo XI. Luigi XIV è su tutte le furie. Il contrasto tra Roma e Parigi per la questione dell'arcivescovo di Colonia non viene risolto, la tensione in Germania resta alta, e così le truppe del principe d'Orange conservano un ottimo pretesto per restare sul piede di guerra. Per attaccare poi... Londra. Il papa, rifiutandosi di ricevere Chamlais, può fingere di non sapere quale pericolo incombe sui cattolici inglesi. Ma dopo lo sbarco del principe d'Orange, si tradirà con una frase rivelatrice, ricordata da Leopold von Ranke: Salus ex inimicis nostris, la salvezza arriva dal nemico.
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La rivoluzione del 1688 Tutto ciò non si esaurisce in una mera discussione accademica. Per apprezzare la portata della glorious revolution, e quindi del comportamento di Innocenzo XI, lasciamo nuovamente la parola a Roloff: La rivoluzione con cui nel 1688 Guglielmo d'Orange rovesciò il cattolico Giacomo ha segnato il passaggio da un'epoca a un'altra quanto fece l'altra grande rivoluzione europea, quella francese del 1789. Per l'Inghilterra l'avvento del Principe d'Orange significò non solo il definitivo stabilirsi della fede evangelica, ma anche lo stabilirsi del dominio del Parlamento e l'apertura della strada che avrebbe condotto al Regno gli Hannover, tutt'oggi regnanti. La vittoria del Parlamento sulla Monarchia di Giacomo II rese possibile l'affermazione di entrambi i partiti che si erano divisi il governo nella storia inglese [cioè tories e whigs]. Il potere politico passò durevolmente nelle mani delle aristocrazie di nascita e di denaro, che rappresentavano l'interesse mercantile in genere. Inoltre (ciò che più sarebbe dovuto importare a un papa) dopo la vittoria dell'Orange vennero notevolmente inasprite le leggi che escludevano i cattolici dalla vita pubblica; durante il regno di Giacomo II si erano professati cattolici 300.000 inglesi. Nel 1780 erano scesi ad appena 70.000.
I debiti di Guglielmo I conti in tasca al principe d'Orange: questo si sarebbe dovuto fare sin dall'inizio. Nelle biografie su Guglielmo d'Orange, invece, resta sempre assai nebuloso lo stesso fondamentale capitolo: chi finanziò gli eserciti che egli comandava a difesa dell'Olanda? Non c'è risposta, ma solo perché la domanda non è stata posta con sufficiente fermezza. Eppure un po' di curiosità qualche studioso poteva ben nutrirla. Secondo il vescovo anglicano Gilbert Burnet, contemporaneo e amico di Guglielmo, il principe d'Orange, «venne al mondo già in condizioni assai svantaggiate [...]. I suoi affari privati versavano in pessime condizioni: il suo patrimonio era stato depauperato di due grossi fondi, andati a sua madre e sua nonna, per non parlare di un forte debito che suo padre aveva contratto per soccorrere la Corona inglese». Burnet era stato parte attiva nella preparazione della rivoluzione del 1688, era stato tra i pochissimi a conoscenza del progetto di sbarco in Inghilterra ed era stato al fianco di Guglielmo nei momenti più delicati del suo
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«golpe», compresa la marcia finale dalla costa fino a Londra. Non sarebbe stato quindi sorprendente se avesse taciuto altri fatti, più imbarazzanti per la corona e la fede anglicana. Lo storico tedesco Wolfgang Windelband riporta una lettera di Guglielmo all'amico Waldeck, scritta poco dopo essere salito al trono inglese: «Se sapeste l'esistenza che conduco, avreste di certo pietà di me. La sola consolazione che mi resta è che Dio sa che non è l'ambizione a muovermi». Sono queste le parole, si chiede stupito Windelband, di chi ha appena realizzato il sogno di tutta una vita? E queste parole, aggiungo io, non potrebbero forse venire dalla bocca di chi ha pressanti e inconfessabili problemi di soldi? I sudditi inglesi non consideravano il nuovo re un campione di frugalità. Come segnala von Ranke, nel 1689 Guglielmo chiese al parlamento una rendita personale permanente, come i sovrani Stuart che l'avevano preceduto: «È necessario alla nostra sicurezza avere denaro a disposizione». Il parlamento non si fidò: al re venne concessa solo una rendita annuale, con la clausola espressa «non più a lungo». Guglielmo apparve profondamente colpito e considerò il rifiuto come un'offesa personale. Ma non aveva alcun mezzo per opporvisi. Proprio in quel periodo, guarda caso, si svolge la trattativa segreta tra Beaucastel, Cenci e la segreteria di Stato vaticana. Tutta la storia della casa di Orange, a ben vedere, è intessuta di episodi rivelatori, dai quali il rapporto dei principi protestanti con il denaro appare quantomeno sofferto. Secondo la storica inglese Mary Caroline Trevelyan, «le ambizioni di Guglielmo II [il padre di Guglielmo III] sarebbero state assai poco turbate se, in qualità di Capitano Generale della Repubblica olandese, non avesse tentato di mantenere un esercito più grande di quello per cui era in grado di pagare». Per trovare i soldi necessari alla difesa, Guglielmo II giunse a fare ricorso alla violenza, imprigionando nel 1650 ben cinque dei principali deputati degli Stati d'Olanda e marciando all'assedio di Amsterdam. Nel 1657, sempre secondo la Trevelyan, la madre di Guglielmo III aveva impegnato i propri gioielli ad Amsterdam per poter far fronte ai desideri dei suoi fratelli. Nel gennaio 1661 morì in Inghilterra. Nel maggio successivo la nonna di Guglielmo, la principessa Amalia di Solms, fece aprire un'inchiesta per reclamare i gioielli. Il suo segretario Rivet scrisse a Huygens, segretario di Guglielmo, che il giovane principe «non parla che di questo affare». Ma perché a Guglielmo interessavano tanto quelle gemme, tra cui un diamante da 39 carati montato su argento? Gli premeva solo riscattare un umiliante prestito su pegno? O piuttosto il valore venale dei gioielli? Ai principi d'Orange, del resto, dovevano essere necessarie grandi risorse finanziarie per sostenere le loro imprese belliche. Nei mesi di preparazione dello sbarco in Inghilterra anche gli agenti papali in Olanda erano a
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conoscenza delle stringenti necessità di Guglielmo: a metà dell'ottobre 1688 (è Danckelman a riportare la circostanza) segnalavano che, a causa del forte vento, 10 o addirittura 12 vascelli della flotta di Guglielmo non erano rientrati dalle manovre in mare aperto, e il principe d'Orange era in grandi ambasce poiché il ritardo nei preparativi gli costava 50.000 livres al giorno. Il bisogno, se pressante, può spingere ad atti indegni di un principe, compresi la frode e il tradimento. Secondo lo storico della numismatica Nicolò Papadopoli, nel XVII secolo la zecca del principato di Orange falsificava disinvoltamente gli zecchini veneziani, sfuggendo con facilità alle relative sanzioni. Quando nel 1646 venne scoperto l'imbroglio, la Serenissima Repubblica Veneta era impegnata nella guerra di Candia contro i turchi e traeva proprio dall'Olanda armi e milizie: i veneziani dovettero così subire in silenzio. I principi d'Orange, infine, falsificavano probabilmente anche gli ongari, la divisa normalmente corrente in Olanda.
I finanziatori dello sbarco in Inghilterra Dunque Guglielmo d'Orange era povero, o per meglio dire perennemente indebitato e a caccia di denari per le sue imprese guerresche. Bisogna quindi vedere chi furono i suoi finanziatori, cominciando da quelli alla luce del sole. L'azione politica e militare di Guglielmo d'Orange, inclusa l'invasione dell'Inghilterra, era sostenuta da tre cordate principali: i banchieri ebrei, l'ammiragliato della città di Amsterdam e infine alcune famiglie patrizie. I banchieri ebrei occupavano una posizione di primo piano nella vita finanziaria di Amsterdam e di tutta l'Olanda. Tra di loro spiccava il barone Francisco Lopes Suasso, che oltre a fare da intermediario diplomatico tra Madrid, Bruxelles e Amsterdam foraggiava generosamente Guglielmo. Secondo i contemporanei, gli anticipò 2 milioni di fiorini olandesi senza alcuna garanzia, commentando il prestito con la celebre frase: «Se avrete fortuna, so che me li renderete; se sarete sfortunato, acconsento a perderli». Altri aiuti finanziari vennero al principe d'Orange dai Provediteurs General (come egli stesso li aveva fatti chiamare) Antonio Alvarez Machado e Jacob Pereira, due banchieri ebrei sefarditi. Non meno importante per Guglielmo fu poi l'appoggio dell'ammiragliato di Amsterdam che, secondo lo storico Jonathan Israel, fornì circa il 60% della flotta da guerra e dell'equipaggio dell'armata che sbarcò in Inghilterra. Secondo stime dell'epoca si trattava di 1800 uomini, che nell'imminenza dello sbarco erano impegnati a rotazione giorno e notte. Infine Guglielmo ottenne il contributo di alcune famiglie olandesi, sebbene tra mille difficoltà. Ossessionati dal pericolo di armare un principe, os-
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serva Israel, i patrizi di Amsterdam fecero infatti in modo che i fondi da loro stanziati per la flotta non fossero ufficialmente destinati alla spedizione inglese, come se la spedizione militare fosse affare solo di Guglielmo, e non anche di Amsterdam e di tutte le Province Unite. Alla fine perciò doveva essere Guglielmo a rimanere con il fiammifero acceso in mano: la responsabilità era sua, e a suo carico erano i debiti. Per realizzare questa messa in scena, il denaro venne fatto passare con un'etichetta fittizia, affinché nei conti pubblici non figurasse alcunché. Una parte dei finanziamenti, per esempio, venne distolta segretamente dai 4 milioni di fiorini che le Province Unite olandesi avevano raccolto, nel luglio precedente allo sbarco, per migliorare il loro sistema di fortificazioni. Tutto ciò spiega perché alla fine a essere esposti ai creditori siano stati i beni personali di Guglielmo, e cioè il principato di Orange. D'altra parte Guglielmo era destinato a diventare re d'Inghilterra, cosa che avrebbe dovuto consentirgli di risolvere tutti i suoi problemi d'indebitamento.
I Bartolotti Vengono poi i finanziatori occulti: gli Odescalchi. La famiglia del papa forse non finanziò direttamente lo sbarco di Guglielmo in Inghilterra; ma di certo da molto tempo faceva pervenire soldi alla casa d'Orange per vie tortuosissime e segrete. Il canale più interessante utilizzato a questo fine dagli Odescalchi è quello dei Bartolotti, la famiglia di cui Cloridia parla al garzone nel loro primo colloquio. Erano originari di Bologna, ma ben presto il loro sangue si diluì totalmente in quello della famiglia van den Heuvel, che continuò a portare il cognome italiano solo per ragioni ereditarie. Ben integrati nell'aristocrazia olandese, alcuni Bartolotti-van den Heuvel ebbero accesso a cariche importanti: divennero comandanti della fanteria di Amsterdam, reggenti delle città o pastori calvinisti. I legami con il ceto dominante vennero infine coronati dal matrimonio della figlia di Costanza Bartolotti, Susanna, con Constantin Huygens, segretario di Guglielmo III d'Orange. Ma salire i gradini della scala sociale era concesso solo a chi compiva una pari ascesa sul piano della ricchezza. E nel giro di pochi decenni i Bartolotti erano diventati banchieri tra i più potenti, in grado di servire i grandi, tra cui la casa d'Orange. Guglielmo Bartolotti, per esempio, fu tra gli organizzatori di un prestito da 2 milioni di fiorini al tasso del 4% a favore di Federico Enrico d'Orange, il nonno di Guglielmo. E sempre a Guglielmo Bartolotti la nonna di Guglielmo, Amalia di Solms, aveva dato in pegno i gioielli di famiglia. Il figlio di Guglielmo Bartolotti, che aveva preso il nome del padre, prestava soldi a interesse e commerciava con un socio di nome Frederick Rihel
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(entrambi figurano tra i debitori nei libri mastri di Carlo Odescalchi). Dal padre il giovane Bartolotti aveva ereditato non solo soldi e beni immobili, ma anche titoli di credito. E nel dicembre 1665, dopo che era morta anche sua madre, Guglielmo Bartolotti junior diventò creditore di Guglielmo III d'Orange, che allora era appena quindicenne. Il principe d'Orange doveva infatti ai Bartolotti 200.000 fiorini, da rimborsare in base a due obbligazioni. La prima, da 150.000 fiorini, era garantita da un'ipoteca «sul dominio della città di Veere e i suoi polders», cioè i terreni bonificati strappati al mare. La somma restante era invece garantita da un'ipoteca «su alcuni domini in Germania», dove infatti si trovavano alcuni possedimenti della casa d'Orange. L'afflusso di denaro dalle casse degli Odescalchi verso l'Olanda, e quindi in direzione del principe d'Orange, tocca il massimo nel 1665. È vero che in quel momento Guglielmo era ancora un acerbo quindicenne, e che solo nell'aprile del 1666 gli Stati Generali d'Olanda, sempre rosi dalla diffidenza nei confronti dei sovrani ereditari, si sarebbero convinti ad adottarlo con il titolo provvisorio e ambiguo di Infante di Stato. Ed è vero anche che durante i due anni del conflitto anglo-olandese che scoppia nel 1665 tutti gli scambi commerciali con l'Italia (e quindi forse anche le transazioni finanziarie) subirono un sensibile incremento, e quindi l'aumento delle rimesse degli Odescalchi potrebbe essere dovuto a questo processo più generale. Nessuno però può negare che i soldi dei fratelli Odescalchi finirono in mano al fiore dell'aristocrazia patrizia calvinista di Amsterdam, che poi sostenne Guglielmo e la spedizione in Inghilterra. Nel caso dei Bartolotti risulta addirittura per tabulas un flusso di denaro che parte dagli Odescalchi e termina con Guglielmo d'Orange. Dare soldi ai Bartolotti, insomma, era come darli a Guglielmo. Non va poi dimenticato che i prestiti degli Odescalchi agli olandesi continuarono fino al 1671, quando Benedetto Odescalchi era cardinale da molti anni, ed era già in corsa per diventare pontefice. Dopo il 1665 i versamenti dagli Odescalchi verso l'Olanda crollarono improvvisamente. Fu forse la prudenza, o l'ambizione, ad avere infine il sopravvento. Cosa sarebbe accaduto se si fosse scoperto che un cardinale di Santa Romana Chiesa inviava soldi in terra d'eretici? Di sicuro uno scandalo dalle proporzioni devastanti, che lo avrebbe travolto. E Benedetto Odescalchi non poteva assumersi rischi di sorta: di lì a poco, nel giugno del 1667 avrebbe preso parte, per la seconda volta nella sua vita, al conclave. Questa volta il suo nome appariva nella lista dei papabili. Se a qualcuno fosse venuto in mente di rivelare i flussi finanziari verso l'Olanda, egli non sarebbe stato eletto quell'anno, né mai più.
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Feroni, Grillo e Lomellini La lista dei finanziamenti segreti degli Odescalchi è tutt'altro che esaurita. Nel giro di dieci anni, dal 1661 al 1671, anche lo schiavista Feroni riceve in Olanda finanziamenti dagli Odescalchi, per un totale di 24.000 scudi. Anche in questo caso non si tratta certo di transazioni commerciali: nei rari casi in cui ordina il pagamento di merci, Carlo Odescalchi annota accuratamente il genere di bene acquistato, i termini della consegna e tutti i dettagli utili. Nel caso di Feroni invece, come in quello degli olandesi, si tratta di pure e semplici rimesse di denaro. Prestiti, ancora una volta. Feroni si dedica al traffico negriero dal 1662 circa al 1670. La data chiave è il 1664, quando la corona spagnola concede a due genovesi trasferitisi a Madrid, Domenico Grillo e Ambrogio Lomellini, l'appalto per la deportazione di schiavi negri nei domini spagnoli d'Oltreoceano. Turbolenze politiche ed economiche mettono però in difficoltà finanziarie i due mediatori, che vengono salvati per ben due volte dall'intervento di Feroni. Il mercante toscano infatti versa per loro conto, e a nome del re di Spagna, 300.000 fiorini all'imperatore di Vienna, che attendeva i fondi per farne uso nella lotta contro i turchi. Quattro anni più tardi, e precisamente nel 1668, Feroni soccorre ancora Grillo e Lomellini anticipando alla corona spagnola 600.000 pesos sulla piazza di Anversa. Negli stessi anni, come abbiamo visto, Feroni riceveva i soldi degli Odescalchi. I quali, del resto, finanziavano direttamente anche Grillo e Lomellini: in un piccolo libro mastro dell'azienda Odescalchi, datato 1669 e conservato nell'Archivio di Stato di Roma, figurano nella lista dei debitori anche i due schiavisti di Madrid. Qualcuno obietterà che Feroni non era solo un mercante di schiavi; aveva iniziato l'attività commerciando in sete e liquori, e teoricamente i soldi degli Odescalchi potevano essere stati impiegati per negozi meno crudeli. Ma Grillo e Lomellini no: loro operavano unicamente nel traffico schiavistico. E grazie alle somme ricevute dagli Odescalchi e da Feroni, i due genovesi riuscirono a riprendere il controllo del commercio di esseri umani, e a toglierlo dalle mani di Inghilterra e Olanda.
Interessi personali Nessuno ha mai cercato di chiarire cosa veramente avvenne tra Innocenzo XI e Guglielmo d'Orange. Eppure tutte le carte che ho letto erano raggiungibili: bastava cercare. Nessuno l'ha mai fatto, e forse non senza motivo. Chi doveva sapere, sapeva. Chi conosce l'arte di leggere tra le righe, esaminando le confutazioni di Danckelman e degli altri storici favorevoli a
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Innocenzo XI, aveva subito capito dove stava la verità. Gli storici che hanno difeso Innocenzo XI dagli attacchi e dai sospetti, tra l'altro, non erano immuni da condizionamenti personali. Il conte Della Torre Rezzonico, che difese Innocenzo XI dall'accusa di aver prestato servizio come mercenario, era imparentato, come si è visto, con gli Odescalchi nonché discendente di quell'Aurelio Rezzonico che da Venezia inviò i finanziamenti ad Amsterdam per conto degli Odescalchi. Anche la posizione di Danckelman merita qualche osservazione. I baroni von Danckelman erano strettamente legati alla casa d'Orange sin dai tempi di Guglielmo III. Nel XVII secolo un celebre avo e omonimo dello storico, Eberhard von Danckelman, era stato istitutore alla corte del principe elettore Federico di Brandeburgo ed era poi diventato primo ministro. Ma il principe era anche zio di Guglielmo III d'Orange, e lo aveva più volte spalleggiato nelle guerre contro la Francia. Era stato sempre il principe elettore di Brandeburgo a concedere ai Danckelman il titolo nobiliare. Calvinisti osservanti, essi non potevano certo tollerare la verità: Guglielmo d'Orange si era impossessato del trono inglese anche grazie ai soldi di un papa, giovandosi per di più della politica estera di Innocenzo XI. Il quale, come lo stesso Guglielmo, era acerrimo nemico di Luigi XIV. Non si può infine escludere che a interessare i Danckelman fossero anche questioni economiche: la famiglia era originaria della contea di Lingen, che faceva parte del patrimonio della casa d'Orange; dopo la morte di Guglielmo passò allo zio principe elettore di Brandeburgo. Come tutti gli altri storici, Danckelman tenne però i suoi lettori all'oscuro dei propri condizionamenti personali. Grazie a reticenze e artifizi, i fatti vennero rappresentati con consapevole e subdola parzialità. Alcuni attori delle vicende storiche non furono da meno. Perfino il cardinal Rubini, il segretario di Stato di Alessandro Vili che impose a monsignor Cenci di non accettare l'offerta di Beaucastel, aveva interessi personali nella questione. La famiglia Rubini, infatti, già ai tempi del nonno del cardinale era tra i debitori di Innocenzo XI, come risulta chiaramente dai libri mastri di Carlo Odescalchi. Chiudere subito l'imbarazzante storia di prestiti sollevata ad Avignone da Cenci era la cosa più prudente: Rubini sapeva molto bene che i soldi degli Odescalchi erano andati in mille direzioni. Lo sapeva bene anche un altro esponente delle gerarchie vaticane: monsignor Giovanni Antonio Davia, che durante il colpo di mano di Guglielmo d'Orange occupava la carica strategica di internunzio apostolico a Bruxelles. La sua famiglia prendeva denari a prestito da quella del papa (ne fanno fede ancora una volta i libri mastri di Carlo Odescalchi), e stranamente monsignor Davia non ebbe il fiuto necessario per capire che l'Inghilterra stava per cadere in mano agli eretici.
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Non ebbe riflessi pronti neppure il nunzio apostolico a Londra, il conte Ferdinando D'Adda il quale, come hanno notato gli storici, fu stranamente incapace di intuire e riferire a Roma le trame con cui gli amici londinesi di Guglielmo si preparavano a sostenere dall'interno il golpe. Davvero un cattivo servizio quello reso dal conte D'Adda, che però poi venne promosso nunzio da Innocenzo XI (col quale tra l'altro era imparentato). Forse servire male era il suo compito?
Il problema ebraico Come abbiamo visto, in due dei tre canali palesi di finanziamento utilizzati dal principe d'Orange individuati dagli storici (cioè l'ammiragliato di Amsterdam, le famiglie nobili olandesi e i banchieri ebrei) circolavano i denari degli Odescalchi. I prestiti della famiglia di Innocenzo XI erano finiti infatti sia nelle mani dell'ammiragliato di Amsterdam (nella persona di Jean Neufville, nominato ammiraglio dallo stesso Guglielmo d'Orange) che di numerose famiglie dell'aristocrazia economico-finanziaria olandese: i Deutz, gli Hochepied e i Bartolotti, che figurano tutti nei libri mastri di Carlo Odescalchi. Due canali su tre, insomma, erano foraggiati dalla famiglia del Beato Innocenzo. Neil'appoggiare finanziariamente la casa d'Orange, gli Odescalchi avevano allora un solo concorrente: i banchieri ebrei. Sarà un caso, ma tra le molte misure rigoriste introdotte da Innocenzo XI durante il suo pontificato, ve n'era una che tocca proprio la finanza. Il beato Innocenzo proibì agli ebrei, sotto la minaccia di gravi pene, l'esercizio dell'attività bancaria: proprio il campo in cui eccelleva la famiglia Odescalchi. Il grave provvedimento, che segnava la fine di un lungo periodo di tolleranza da parte dei papi, determinò la decadenza economica degli ebrei romani, che fino all'inizio del XIX secolo assistettero impotenti alla crescita ininterrotta dei loro debiti, e al crollo dei loro introiti. Allo stesso tempo papa Odescalchi istituì il Monte di pietà, che - pur costituendo un'iniziativa meritoria e socialmente preziosa - sottrasse ai banchieri ebrei risorse e clienti in quantità crescente. Il divieto di esercitare il prestito a interesse venne introdotto da Innocenzo XI nel 1682. Nello stesso anno il banchiere ebreo Antonio Lopes Suasso aveva concesso a Guglielmo d'Orange un prestito di 200.000 guilders. Una coincidenza? Come abbiamo visto, gli Odescalchi finanziavano a Madrid il traffico negriero di Grillo e Lomellini. Anche qui però gli ebrei erano loro concorrenti: l'impresa di Grillo era finanziata anche dai banchieri Lopes Suasso. Un altro capriccio del caso? Forse non è abbastanza per sostenere che il divieto di Innocenzo XI sia stato adottato per finalità personali. Molti secoli dopo, la beatificazione di
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papa Pio IX è stata accompagnata da roventi polemiche a causa del suo asserito antisemitismo. A ben vedere, però, non fu certo lui il primo avversario degli ebrei a ottenere l'onore degli altari, ma papa Odescalchi. Il quale, forse, al contrario di Pio IX aveva qualche concreto e personalissimo motivo di astio verso il popolo di Israele. E per un ennesimo capriccio della Storia, la beatificazione di Innocenzo XI avvenne sotto il pontificato di Pio XII: un altro papa il cui atteggiamento verso gli ebrei, com'è ormai noto, è quantomeno controverso, essendo egli stato perfino accusato di aver tenuto nascosto quanto sapeva della Shoah.
Gli altri finanziamenti degli Odescalchi in Olanda Oltre ai finanziamenti destinati a Guglielmo d'Orange, dai libri mastri della famiglia Odescalchi emergono molti altri flussi di denaro meritevoli di approfondimento. C'è per esempio il caso di Henrik e Franciscus Schilders, ai quali dal marzo 1662 al maggio 1671 vengono versati 10.542 scudi. Gli Schilders erano attivi nel settore delle forniture militari: Franciscus era stato commissario alle scorte alimentari dell'esercito ad Anversa, nei Paesi Bassi spagnoli. A fornirgli segale per l'esercito spagnolo è il mercante italiano Ottavio Tensini. Assicuratore, noleggiatore di navi, importatore di caviale, sego e pellicce dalla Russia nonché fornitore di farmaci per lo zar, anche Tensini riceve soldi dagli Odescalchi: 11.206 scudi dal gennaio 1665 al novembre 1670. Potevano essere impiegati per forniture militari al principe d'Orange? Sarebbe opportuno indagare anche sugli oltre 11.000 scudi inviati in tre anni da Cernezzi e Rezzonico alla società commerciale olandese di Giovan Battista Bensi e Gabriel Voet. Bensi, oltre che pelli e cereali, trattava anche armi, ed è quindi lecito chiedersi se qualche partita di moschetti (magari con tracolla in pelle di foca, come quelli che vendeva il mercante italiano) non sia stata comprata con i soldi dei cattolici Odescalchi per poi finire nelle braccia di soldati protestanti. Andrebbero poi chiarite molte altre operazioni finanziarie. Per esempio, i versamenti effettuati a partire dal 1687 a favore del cardinale austriaco Kollonitsch: nell'archivio «privato» degli Odescalchi si trovano infatti mandati di pagamento e lettere di cambio con cui vengono inviati 3600 talleri effettivi imperiali a Kollonitsch. Il cardinale, strenuo difensore di Vienna durante l'assedio del 1683, fu anche protagonista della successiva riconquista dell'Ungheria. Ma in Ungheria si trovava anche il ducato del Sirmio, che l'imperatore vendette in seguito a Livio Odescalchi: forse perché gli Odescalchi erano suoi creditori? Si aggiunga poi che nel 1692 Livio Odescalchi presta nuovamente all'imperatore 180.000 fiorini per la guerra contro i turchi, al tasso d'interesse del 6% e con la garanzia di un'ipoteca sui dazi
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imperiali della provincia di Bolzano. Sarebbe ben oltraggioso per la Fede cattolica scoprire, come pare, che le terre d'Ungheria vennero riconquistate col sangue dei soldati cristiani solo per essere poi vendute ai finanziatori dell'impero: gli Odescalchi. Potrebbero poi essere d'interesse per i cultori della storia i numerosi versamenti di denaro, testimoniati dal libro di Carlo Odescalchi, in favore di altri mercanti italiani in Olanda e a Londra: Ottavio Tensini (suocero di Feroni), Paolo Parenzi, Gabriele Voet, Giuseppe Bandinucci, Pietr'Andrea e Ascanio Martini, Giuseppe Marucelli, Giovanni Verrazana, Stefano Annoni, Giovan Battista Cattaneo e Giacomo Bostica. Restano da chiarire anche i rapporti con altri affaristi olandesi e fiamminghi come Geremia Hagens, Isach Flamingh, Tomaso Verbecq o Peter Vandeput. Sono tutti destinatari di somme che complessivamente arrivano anche a 14.000 scudi, per le quali in nessun caso Carlo Odescalchi ha annotato la causale del versamento. Una ricerca approfondita dovrebbe iniziare dagli archivi notarili di Amsterdam, Londra e Venezia alla ricerca degli atti costitutivi di società commerciali, contratti e lettere di cambio.
Il gioco dell'imperatore Nei vorticosi giri di denaro che segretamente condizionarono la politica europea dal 1660 al 1700, una posizione di particolare rilievo va in ogni caso assegnata all'imperatore Leopoldo I d'Asburgo. Leopoldo era pienamente a conoscenza dei passaggi di denaro tra i prestanome veneziani degli Odescalchi e i finanzieri eretici olandesi. Basta uno sguardo a documenti noti da tempo (Hans von Zwiedineck, Das gräflich Lamberg'sche Familienarchiv zu Schloss Feistritz bei Ih, Graz 1897) per rendersene conto. Mentre da Venezia Aurelio e Carlo Rezzonico concedevano prestiti a Leopoldo tramite la Camera imperiale di Graz e rivendevano agli olandesi i barili di mercurio avuti in pegno dall'imperatore, quest'ultimo nel gennaio 1666 concedeva il titolo baronale ai due prestanome degli Odescalchi «per una più rapida conclusione dell'affare». In realtà, di difficoltà non ce ne potevano essere troppe, visto che l'ispettore capo delle miniere austriache di mercurio, cioè il tramite finanziario di parte imperiale nell'operazione, il barone Abbondio Inzaghi, era un conterraneo degli Odescalchi: anch'egli proveniva da un'antica famiglia di Como, come il beato Innocenzo. Da Vienna poi, fungeva come mediatore tra Inzaghi e i Rezzonico il barone Andrea Giovannelli, cugino di Carlo e Benedetto Odescalchi, anch'egli asceso al titolo nobiliare per volontà di Leopoldo. Nel 1672, l'anno del furibondo conflitto tra Francia e Olanda, il conte Karl Gottfried von Breuner, fiduciario di Leopoldo negli affari economici e
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militari, propone di nominare Inzaghi agente per i «progettati scambi commerciali con gli Olandesi». L'imperatore da parte sua ricorda a Breuner di essere già indebitato per 260.000 fiorini con un certo Deutz: lo stesso banchiere olandese eretico, cioè, a cui gli Odescalchi rivendevano il mercurio. Il notaio di Como che rogava i contratti tra Rezzonico, Cernezzi e Inzaghi era un tal Francesco Peverelli. Ma la famiglia Peverelli era composta anche da sudditi di Leopoldo, che tra l'altro aveva fatto loro generose concessioni in soldi e terreni. Ancora: la restituzione dei prestiti concessi a Leopoldo era garantita non solo da barili di mercurio, ma anche dalle entrate dei dazi doganali di confine dell'impero. Dopo la morte di Carlo e Benedetto Odescalchi, Leopoldo continuerà a finanziarsi offrendo come garanzia i dazi. Ma lo farà - guarda caso - con Livio Odescalchi, il nipote del beato Innocenzo, che gli presterà somme ingenti per le spese militari. L'affaire Odescalchi era cosa per poche persone fidate, insomma. E quando ci sono segreti da mantenere anche per molto tempo, è meglio rivolgersi sempre a chi già sa. Quando nel 1758 un Rezzonico diventerà papa col nome di Clemente XIII, come cameriere segreto sceglierà, guarda caso, un Giovannelli. Ma di esempi simili, in questa storia, ce ne sono fin troppi. Basti ricordare che i soldi degli Odescalchi finirono in mano ai Bartolotti, imparentati con Johann Huydecoper, borgomastro di Amsterdam e diplomatico accreditato dal governo di Amsterdam presso la corte del principe Federico di Brandeburgo, lo zio di Guglielmo d'Orange, di cui come sappiamo era suddito un certo Danckelman...
Il segreto dei libri mastri Molto tempo è stato necessario per decifrare le scritture contabili dei libri mastri di Carlo Odescalchi. La tenuta dei libri contabili venne resa obbligatoria dalle autorità veneziane del XVI secolo a garanzia e protezione del commercio. Non appena introdotta, tuttavia, la norma venne abilmente aggirata dai mercanti, che trasformarono i loro libri in fitti elenchi incomprensibili di cifre e nomi, redatti da contabili di fiducia sotto il diretto controllo del loro principale, e solo da quest'ultimo decifrabili. Carlo Odescalchi fece di più: compilava personalmente, con una grafia quasi inintelligibile, i libri mastri. I registri contabili di famiglia, come quelli di Carlo Odescalchi, erano poi custodi di segreti ancor più reconditi, di delicatissime questioni private. Erano tenuti sotto chiave in nascondigli inaccessibili, e sovente distrutti prima che potessero cadere in mani estranee. La partita doppia, la cui tecnica trovava applicazioni pur rudimentali nei
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mastri dei mercanti italiani, non pare trovare riscontro nelle scritture contabili degli Odescalchi. Le operazioni vengono mescolate senza rigore di cronologia né di imputazione. Figurano gli impieghi, ma resta ignoto il risultato delle singole operazioni e, soprattutto, l'esito complessivo finale. Tutto sarebbe stato più semplice se si fossero potuti consultare i giornali aziendali che descrivono le operazioni, i cui importi vengono annotati nei libri mastri. Ma i giornali, disgraziatamente, non sono stati conservati. Anche l'inventario dell'eredità di Carlo Odescalchi avrebbe potuto aiutare a rintracciare eventuali crediti contratti nei confronti di Guglielmo d'Orange. Ma anche dell'inventario non c'è traccia.
Carlo il diligente Presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano (fondo Trotti n. 30 e 43) si trova il puntiglioso diario giornaliero, finora mai individuato, che Carlo Odescalchi tenne dal 1662 fino alla morte. Purtroppo nulla vi si legge sugli affari di famiglia: contiene solo metodiche annotazioni sulla salute, gli incontri quotidiani, le condizioni atmosferiche. Alla data del 30 settembre 1673, giorno del trapasso di Carlo, una mano anonima ha descritto gli ultimi istanti del morente: l'estrema unzione, l'assistenza spirituale prestatagli da due padri della Compagnia di Gesù, la morte vissuta con sentimenti «da vero Cavagliere». Poi un breve elogio delle sue qualità: prudenza, umiltà, giustizia, prudenza. Ma soprattutto «fu diligentissimo in notare tutte le sue cose di proprio pugno, il che giovò per fare che nulla andasse in sinistro doppo la sua morte, e si potessero fare tutti gli Inventarij de mobili, stabili, crediti et interessi esterni». Lodando il defunto, l'anonimo spende più parole per la precisione nel tenere e registrare i conti e le carte d'affari che per le sue virtù morali. Doveva essere un vero maestro dell'archiviazione, il «cavagliere» Carlo Odescalchi. Come si spiega, allora, che non si trovino proprio l'inventario della sua eredità e i giornali dei suoi libri mastri?
Trattative segrete Sin dal tempo dei papi medievali che anziché a Roma soggiornavano ad Avignone, la cittadina provenzale e le campagne circostanti (il cosiddetto contado venaissino) erano parte integrante dello Stato Pontificio. Nel settembre 1688 però le dispute tra Luigi XIV e Innocenzo XI avevano portato all'occupazione di Avignone da parte delle truppe francesi. Meno di un anno dopo, nell'agosto 1689, era morto papa Odescalchi. Il nuovo pontefice, Alessandro Vili Ottoboni, aveva subito ribaltato la politica del suo pre-
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decessore, inaugurando una linea apertamente filofrancese. In segno di disgelo il Re Cristianissimo aveva allora acconsentito a liberare Avignone. Sul finire del 1689 nella cittadina provenzale si era quindi recato il vicelegato apostolico Baldassarre Cenci, con l'incarico di controllare la restituzione dei territori pontifici, fare la conta dei danni causati dall'occupazione delle truppe francesi e assumere nuovamente la guida dell'amministrazione locale. Da subito però Cenci si era trovato a fare i conti con una situazione a dir poco turbolenta. Se Avignone aveva subito ingenti danni dall'occupazione francese, le cose andavano ancor peggio nel confinante principato di Orange, il feudo del principe Guglielmo, che da decenni era vittima delle periodiche e devastanti visite dei dragoni francesi. In più il principe d'Orange era appena diventato re della lontana d'Inghilterra, e i suoi sudditi si sentivano - non a torto - abbandonati a se stessi. Erano in buona parte protestanti, e temevano che le persecuzioni dei francesi, unendo le ragioni religiose a quelle politiche e militari, avrebbero dato il colpo di grazia al loro già martoriato principato. Ecco perché, se ad Avignone tornava la pace, a Orange la situazione era in gran fermento. Il 7 novembre Cenci aveva riferito a Roma che nell'antico anfiteatro romano di Orange (che tutti allora chiamavano «Le Cirque») si era tenuta un'assemblea con i rappresentanti di tutti i sudditi del principato, i quali avevano preso la risoluzione di offrire a Luigi XIV il dominio sul regno di Guglielmo. Era una mossa disperata: meglio sotto il nemico, che contro di lui. Mentre Cenci era in viaggio da Roma verso Avignone, un prelato avignonese, l'auditore di Rota Paolo de Salvador, aveva ricevuto una strana lettera da uno dei sudditi di Orange: monsieur de Beaucastel, protestante da poco convertito al cattolicesimo e rappresentante dei cittadini di Orange alla corte di Parigi. La lettera conteneva una proposta a dir poco esplosiva: stanchi delle persecuzioni francesi, gli abitanti del principato di Orange desideravano in realtà darsi al papato. Vista la delicatezza della questione, appena letta la lettera ricevuta da de Salvador, Cenci riferisce subito a Roma, alla segreteria di Stato vaticana. La proposta è da accogliere, scrive Cenci. Certo, Orange si è appena data alla Francia. Ma Luigi XIV potrebbe forse accettare di rinunciare al principato di Guglielmo se il papa si unisse a lui nel sostenere l'ex re cattolico Giacomo Stuart contro il principe d'Orange, che lo aveva appena spodestato. Sarebbe però non poco imbarazzante per la Chiesa accettare in dono il feudo di un principe eretico (che tra l'altro è ora diventato sovrano inglese). Cenci propone quindi un pretesto: il principato potrebbe essere accettato a titolo di risarcimento per i danni causati ad Avignone dalle lotte tra cattolici e protestanti, che per lungo tempo avevano straziato la Provenza.
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La segreteria di Stato vaticana ordina invece al vicelegato di rifiutare l'offerta: Beaucastel si rivolga a Luigi XIV, che molto meglio della Chiesa può proteggere il principato di Orange. Intanto però Beaucastel si reca di persona da Cenci e, alla presenza di de Salvador, ripete l'offerta. Cenci la respinge, e allora Beaucastel gli replica in modo ambiguo. Dice che già in passato la Santa Sede ha fatto un'operazione analoga: essa, infatti, possiede il contado venaissino «in vigore di una divisione fatta fra il Re di Francia e il Papa dopo la guerra contro gli albigesi». È un'allusione velenosa: tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo, infatti, in Provenza era stata faticosamente sradicata la mala pianta dell'eresia. Con una sanguinosa, atroce crociata era stato ridotto a mal partito l'esercito del principe Raimondo VI, signore della Provenza e da tempo accusato di propalare le dottrine degli albigesi, contrarie alla Chiesa di Roma. Temendo di essere presto catturato e consegnato all'Inquisizione, Raimondo aveva allora promesso al papato alcuni territori, tra cui tre castelli situati nel contado venaissino, nonché una parte di Avignone. Se Raimondo avesse sposato le ragioni degli eretici albigesi, recitava il patto con il papato, quei beni sarebbero passati alla Chiesa. E proprio così avvenne: Raimondo perseverò nell'errore, venne proclamato eretico e scomunicato. Proseguì allora la lotta suo figlio Raimondo VII, che infine venne sconfitto sul campo per mano di papa Gregorio IX e del sovrano francese, Luigi IX il Santo. Seppure con la forza, quindi, l'obbligazione tra Chiesa ed eretici venne onorata: con il trattato di Parigi del 1228 le terre e i castelli degli albigesi passarono al Vaticano. La promessa di Raimondo alla Santa Sede, è vero, non era conseguenza di un prestito in denaro da parte del papa. Ma l'allusione di Beaucastel a un patto tra cattolici ed eretici, pagato con le terre di questi ultimi, suona quanto mai insinuante. Torniamo però alla trattativa segreta tra Cenci e il rappresentante di Orange. Dopo la maliziosa allusione al passato, arriva l'affondo: «Qui nel Regno era assai comune credenza» rivela Beaucastel «che il principe di Oranges restasse debitore al Pontificato passato di grosse somme, in pagamento delle quali credeva potesse lassare facilmente il possesso di uno Stato di cui puol fare si poco capitale». Guglielmo d'Orange, insomma, si era fortemente indebitato con Innocenzo XI e pensava di poterlo ripagare regalandogli il piccolo principato di Orange che, del resto, a lui fruttava troppo poco. Cenci riferisce nuovamente tutto a Roma. Ma dalla Santa Sede arriva un secondo e ancor più netto rifiuto: non è possibile che papa Odescalchi abbia prestato denari a un principe eretico. La scandalosa rivelazione però è sulla bocca di molti. Cenci scrive infatti nuovamente a Roma, aggiungendo che perfino l'ex tesoriere di Guglielmo d'Orange, monsieur de Saint Clément (che degli affari del principe parlava certamente con cognizione di causa),
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consiglia ai suoi concittadini di sottomettersi ai francesi. Abbiamo già pagato troppo al papato, dice l'ex tesoriere di Guglielmo, e mantenere le truppe di Luigi XIV è comunque più conveniente che fare «venire dallo Spirito Santo» i soldi per il papa. Pare quasi di capire che il principato di Orange fosse stato tassato per restituire i soldi al pontefice. Qui c'è l'evidenza più chiara dei debiti contratti da Guglielmo d'Orange nei confronti di Innocenzo XI: lo stesso tesoriere di Guglielmo ne parla apertamente, e la circostanza viene riportata in via riservatissima da una fonte (il vicelegato apostolico di Avignone) che non ha certo interesse a spargere veleni. Il nuovo papa - risponde a Cenci il segretario di Stato, cardinal Rubini non ha alcuna intenzione di accogliere tra i suoi sudditi il popolo di Orange, nonostante la sua «unanime volontà» di unirsi al papato: il pontefice non aveva alcun interesse ad aumentare il numero dei suoi sudditi, ma solo a mantenere quelli attuali. Il re di Francia avrebbe avuto invece ben maggiori possibilità di provvedere alle necessità della gente di Orange. Ma soprattutto, sottolinea Rubini, era da respingere la giustificazione di una tale annessione: e cioè che «il Principe di Oranges resti debitore al Pontificato passato di grosse somme». La trattativa tra Cenci e Beaucastel è fallita, Orange resta alla Francia. Quest'ultima lettera (e solo essa) è stata pubblicata da Danckelman, ma ad confutandum: poiché Rubini nega che Innocenzo XI abbia mai potuto prestare soldi a un principe eretico, allora i prestiti non esistono! Assai furbescamente però Danckelman ha evitato di pubblicare anche le lettere precedenti di Cenci (conservate, come quella da lui pubblicata, nell'Archivio segreto vaticano) da cui si ricava una conclusione esattamente contraria. Una conclusione confermata, come si è visto, dai libri mastri di Carlo Odescalchi.
Il carteggio Cenci Si riporta qui la corrispondenza, conservata presso l'Archivio segreto vaticano, tra monsieur Beaucastel, il vicelegato di Avignone Baldassarre Cenci e la segreteria di Stato vaticana. Fondo segreteria di Stato, legazione di Avignone, busta 369 Monsieur Beaucastel a Paolo de Salvador (tradotta), 4 ottobre 1689: Signore, Dopo avervi testimoniato la gioia interiore che sento con il veder ri-
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stabilita l'autorità del Papa, Sua Eminenza in procinto di ritornare e voi nuovamente nelle funzioni del vostro ufficio, mi corre l'obbligo di dirvi che l'estrema desolazione da cui questo Stato è minacciato da diciassette compagnie di dragoni e venti compagnie di fanteria, che abbiamo già ricevuto ordine di alloggiare, ci ha costretti a darci al Re [di Francia], e che la cerimonia fu tenuta martedì scorso, festa di Ognissanti, alla piazza del Circo dove si ritrovarono tutti gli organi di questo Stato. Non so dirvi se si trattasse di cosa preordinata, ma in verità lo credo e ve ne parlerò compiutamente non appena saprò che Sua Eminenza [Cenci] è arrivato. Vi spiegherò di fronte a Ella i miei pensieri se [parola incomprensibile] confidarla alla carta, la indovinerete facilmente se vi dico ch'essa renderebbe la nostra felicità pari alla vostra, e che la congiuntura degli affari presenti potrebbe portarla a compimento senza troppa pena. Sono preda di un reumatismo che mi ha pressocché prostrato, ma quando sarò in piedi mi farò portare ad Avignone, non appena saprò che Sua Eminenza vi è giunta, per andargli a rinnovare i sensi della nostra umile e rispettosa servitù. Vi prego di far sì ch'Egli intenda i voti che ho fatto per il suo ritorno, e il dolore che ho provato per il suo allontanamento. Gioite intanto delle dolcezze che provate; noi vi partecipiamo indirettamente, giacché è impossibile che qualche raggio non spetti anche a noi; per conto mio, posso in particolare assicurarvi che ho provato tanta gioia per ciò che è accaduto [cioè il ritorno di Avignone in mano del Papato] come se fossi stato vostro compatriota (se solo avessi potuto), ma non datur omnibus adire Corinthum, o per meglio dire Avenionem. Non saprei più dire se in queste tre parole di latino abbia commessoqualche infrazione alle regole, ma Vi posso assicurare che non ne commetterò mai contro i voti che ho espresso. Vostro umilissimo e obbedientissimo servitore monsieur Beaucastel Fondo segreteria di Stato, legazione di Avignone, busta 350 Monsignor Cenci alla segreteria di Stato (decifrata), senza data: Un suddito fedelissimo della Santa Sede e di buon talento, gentiluomo avignonese, mi ha fatto pervenire una lettera, a lui scritta da un suddito del Principe d'Oranges, per la quale si suppose grande desiderio dei sudditi di quel Principato di assoggettarsi al dominio della Santa Sede, e molta facilità che questo possa riuscire dalle circostanze de tempi presenti, et aggiunge che verrà a rallegrarsi meco del mio rito ma non subito che gli sarà permesso da una malattia di catarro che soffre presentemente. Se mi parlerà di tal negozio sentirò e riferirò tutto ciò che mi di-
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rà, e né accettarò né slontanerò il 2657 [= affare?]. Pare non si possa dubitare del consenso delli Oranges perché le grandi angustie nelle quali sono stati ridotti dal Ré Christianissimo, e l'impossibilità di esserne difesi dal loro Principe naturale, gli ha condotti al disperato partito di ribellarsi da questo e darsi al Ré Christianissimo, come ho avvisato con le passate, onde molto più gradirebbero di essere sogetti al dominio dolcissimo della Sua Santità, quale hanno sperimentato li sudditi di questo Stato, senza have re che desiderare di megliore per più centinaia di anni. A vista loro, forse il Ré Christianissimo posporrebbe ogni altro suo interesse di ritenere quel Principato a quello dell'impegno nel quale metterebbe Sua Santità, e li suoi successori di sostenere il Ré Giacomo di 2488 [= mobilitarsi?] contro il Ré Guglielmo se la Santa Sede spogliasse questi del Principato sudetto. La giustizia dell'acquisto si può sostenere col consenso del popolo, che si darebbe alla Sua Santità per levarsi dalla sogettione di un Principe eretico, et il quale o non è in istato o non ha la volontà di difenderlo da un'estrema miseria; inoltre con le pretensioni della Santa Sede per lo gravissimo danno fatto ne' tempi passati dalli Oranges in odio della 2601 [= fede?] cattolica, il quale non so che sia stato mai risarcito, con mettere in contribuzione tutto questo Paese, per le quali contributioni particolarmente la communità di Avignone si ritrova un debito di centinaia di migliardi di scudi [...]. Il mio ministerio mi ha obbligato a communicare quello che io so circa l'importantissimo negotio. L'incluso foglio contiene copia della lettera di sopra enunciata, la quale è stata scritta al signor Salvador, auditore della Rota di Avignone, dal signore Beaucastel, gentilhuomo di Courteson. Questo, per altri affari che ho seco trattati in voce, mi pare huomo di grande talento, e nuovo convertito ma con apparenza esteriore di essere veramente convertito e grato alla Corte di Francia e gode nella sua patria posto di consideratione conferitogli dal Ré Christianissimo a cui fu deputato due anni or sono per interessi del suo pubblico come huomo il più capace e più grato a' suoi concittadini. Il predetto monsieur Salvador che mi ha consegnato la predetta lettera mi ha detto in voce che uno dei consoli di Courteson ha anima [parola incompr.] in voce a proporre l'accettatione del Principato con assicurarlo che il Ré Christianissimo vi acconsentirebbe certamente. Fondo segreteria di Stato, legazione di Avignone, busta 350 Monsignor Cenci alla segreteria di Stato (decifrata), senza data: Martedì scorso il Beaucastel venne da me col auditor Salvador et in sua presenza mi dichiarò apertamente la volontà conforme delle persone
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del Principato di Oranges di essere sotto il dominio della Santa Sede. Gli risposi come di una cosa desiderabile, ma lontana dal poter succedere, e nel progresso del discorso, gli motivai qual fondamento vi potesse essere circa l'havere il consenso del Re di Francia. Egli mi rispose solamente, che anche questo contado venaissino la Santa Sede lo possiede in vigore di una divisione fatta fra il Re di Francia e il Papa dopo la guerra contro gli albigesi. Da se medesimo mi aggiunse che qui nel Regno era assai comune credenza che il Principe di Oranges restasse debitore al Pontificato passato di grosse somme, in pagamento delle quali credeva potesse lassare facilmente il possesso di uno Stato di cui puoi fare si poco capitale. Gli dedussi diffusamente quanto è improbabile che il Santo Pontefice defonto habbia somministrato danari al Principe d'Oranges e, non potendo da lui ritrarre altro di rilevante, conclusi che il mio ministerio non portava di avere tale cogni tione e mano negl'interessi che S.Stà poteva havere col Ré Christianissimo, e con gl'altri Principi di Europa, che mi potesse dar occasione di procurare a lui et a' suoi concittadini la soddisfatione desiderata; non lasciando però di rimpostargli sentimenti di gratitudine per una tale propensione di diventare sudditi del mio Principe, e di compassione per lo stato veramente miserabile al quale sono ridotti. Il Salvador, essendo ritornato a parlarmi di questo negotio in altro giorno, mi ha detto che il Beaucastel era travagliato per havermi trovato freddo in questo particolare, et io gli ho replicato le medesime cose. Fondo segreteria di Stato, legazione di Avignone, busta 350 Il cardinal Ottoboni a monsignor Cenci, 6 dicembre 1689: Di tutto ciò, che V.S. mi accenna col suo foglio in numeri intorno à quello, che le ha costì partecipato il gentilhuomo avignonese con la lettera scrittagli dal suo amico in Oranges, in cui si presuppone il vivo desiderio di quei Sudditi di darsi alla Santa Sede, ho io fatta distinta relazione a Sua Beatitudine, et approvando Nostro Signore, che V.S. senta volontieri, e mostri sensi di piena sodisfatione e gradimento del buon animo de medesimi, e di ogn'altra cosa, che le si esprima in tal proposito veda però bene, ch'ella si tenga sempre lontana da qualsivoglia impegno, riflettendo Nostro Signore, ché con più sicurezza potranno essere difesi dal Re Christianissimo, e vivere sotto la sua protezzione, che sotto quella della S.ta Sede, ché non ha forze, né armi da difendere lo Stato d'Oranges. Fondo segreteria di Stato, legazione di Avignone, busta 59 Monsignor
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Cenci al cardinal Ottoboni, 12 dicembre 1689: Vengo accertato che il Signor Conte di Grignano e il Signor Intendente di Provenza [i luogotenenti francesi ad Avignone] habbiano fatto sapere a quelli della città di Oranges e degli altri luoghi del Principato che il Re Cristianissimo habbia gradito l'atto consaputo ch'essi fecero di sottrargli dal Dominio del Prencipe, e di sottomettergli a quello di S.M.à, e che li habbiano inoltre assicurati, che nell'entrare dell'anno seguente haverebbero ricevuti contrasegni della sua bontà. Un tal M.r de Saint Clément, ch'era prima tesoriere del Prencipe d'Oranges, hà detto che non si pagarebbe da loro in avvenire, che un soldo di utensili per ciaschedun soldato, ove per lo Papato hanno pagato molto più, e ch'il pane e farina di monitione per lo sostentamento d'essi soldati, non si farebbe più venire da Santo Spirito, come si è praticato per lo Papato, ond'Eglino haveranno campo di ritrarre più tosto sollievo, che danno dall'alloggio della Fanteria esistente ne' loro luoghi [...]. Da E. Danckelman, Zur Frage der Mitwissenschaft Papstes Innozenz XI. an der oranischen Expedition, Quellen und Forschungen aus italie- nischen Archiven und Bibliotheken, 18 (1926), pp. 311-333. Il cardinal Rubini a monsignor Cenci, 13 dicembre 1689: Alle nuove dichiarazioni fattesi a V.S. dal Beaucastel in presenza dell'uditor Salvador, dell'unanime volontà de i popoli d'Oranges di darsi e rimaner insieme sotto il dominio della Santa Sede, rispose saviamente V.S., come pur fece nel falsissimo presupposto, che il Principe di Oranges resti debitore al Pontificato passato di grosse somme, per le quali potesse ceder egli quello Stato, di cui puoi far si poco capitale il prencipe istesso. Troppo improprio e maligno essendo un tal giudizio, mentre a tutto il mondo riman ben noto che ne pur quel Santo Pontefice era capace d'unirsi e prestar aiuti a prencipe eretico, ne haver intelligenza alcuna con lui, e con altri prencipi eretici. E quanto alla risposta da darsi loro, se più essi le ritornano avanti, potrà ella far le medesime che io l'espressi per comandamento della San.tà S. nell'ordinario scorso, cioè che la medesima ben considera che con più sicurezza potranno quei popoli esser difesi dal Ré Cristianissimo e viver sotto la sua protezione, che sotto quella della sede apostolica, la quale non desidera gli Stati altrui, ma solo di conservar i suoi proprii, né ha armi né forze da difender quello d'Oranges.
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Restituire il prestito Il prestito degli Odescalchi a Guglielmo d'Orange venne mai restituito? Per rispondere si deve esaminare un'altra vicenda, non meno straordinaria. Innocenzo XI passa a miglior vita nell'agosto 1689. Pochi mesi più tardi a Roma muore anche Cristina di Svezia, la sovrana che oltre trent'anni prima si era convertita dal protestantesimo alla religione cattolica e si era trasferita a Roma, sotto la protezione del papato. Prima di morire, Cristina nomina suo erede il cardinal Decio Azzolino, per lunghi anni suo consigliere e intimo amico. Il cardinale, però, muore a sua volta nel giro di pochi mesi, e l'eredità di Cristina passa a un suo parente, Pompeo Azzolino. Pompeo, piccolo gentiluomo di provincia (gli Azzolino erano di Fermo, nelle Marche, come anche Tiracorda e Dulcibeni), si trova così tra le mani la gigantesca eredità di Cristina di Svezia: oltre duecento dipinti di Raffaello, Tiziano, Tintoretto, Rubens, Caravaggio, Michelangelo, Domenichino, Van Dick, Andrea del Sarto, Bernini, Guido Reni, Carracci, Giulio Romano, Parmigianino, Giorgione, Velàzquez, Palma il Vecchio; arazzi d'oro e d'argento disegnati da Raffaello; centinaia di disegni di autori famosi; un'intera galleria di statue, busti, teste, vasi e colonne di marmo; più di seimila medaglie e medaglioni; armamenti, strumenti musicali, mobilia di pregio; gioielli custoditi in Olanda, crediti vantati verso la corona svedese e quella francese, nonché pretese su alcuni domini in Svezia; infine la straordinaria biblioteca di Cristina, con migliaia di libri a stampa e manoscritti che già i contemporanei giudicavano di incomparabile valore. Appena entrato in possesso del tesoro di Cristina, Pompeo si guarda bene dal fare salti di gioia. L'eredità di Cristina è infatti gravata da forti debiti ed egli, se non riuscirà a vendere al meglio, rischierà di finire strangolato dai debitori. Pochissimi hanno mezzi sufficienti per acquistare un patrimonio di quelle dimensioni: bisogna forse intavolare trattative con qualche sovrano, purché non troppo indebitato. Ma Pompeo è un parvenu: non sa neppure da dove iniziare, e Roma è piena di avventurieri pronti ad abbindolare questo timido gentiluomo appena arrivato dalla provincia. Pompeo cerca di semplificare le cose, vendendo in blocco tutta l'eredità, ma l'operazione si rivela troppo difficile e rischiosa. I creditori cominciano a innervosirsi; Pompeo decide allora in tutta fretta di smembrare il patrimonio, vendendo singole collezioni e pezzi isolati. Gli arazzi e altri preziosi arredi (tra cui uno specchio disegnato da Bernini) finiscono presto agli Ottoboni, la potente famiglia del nuovo pontefice, Alessandro VIII; i libri vanno invece ad arricchire la Biblioteca Vaticana. Nel frattempo però le difficoltà si moltiplicano. Oltre ai debiti, infatti, l'eredità di Cristina porta con sé alcune insidiose beghe legali. La Svezia vanta
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diritti sui gioielli di Cristina impegnati in Olanda, vincolati presso un banchiere, e li fa sequestrare dai magistrati di Amsterdam. Un incidente diplomatico con la Svezia è l'ultima cosa che Pompeo voglia affrontare. Gli viene consigliato di scrivere una supplica a chi può mediare facilmente con gli svedesi e influire sulle cose d'Olanda: il principe Guglielmo d'Orange, ora re d'Inghilterra. Nel marzo del 1691 Pompeo Azzolino indirizza quindi una supplica a Guglielmo, chiedendogli protezione e aiuto per la questione delle gioie. La risposta è a dir poco inattesa: appena saputo che la raccolta di Cristina è in vendita, tramite un intermediario Guglielmo propone di comprare tutto quanto resta, e chiede immediatamente un inventario delle collezioni. È un fulmine a ciel sereno. Fino a pochi giorni prima Pompeo stava ancora vendendo i quadri uno a uno, e non gli par vero di poter concludere tutta la vendita in un colpo solo. Ma ancor più stupefacente è che Guglielmo, che aveva sempre dovuto elemosinare soldi per le imprese militari, improvvisamente senta il bisogno di spendere una fortuna per quadri e statue. Perfino il Re Sole aveva rinunziato a candidarsi all'acquisto delle collezioni di Cristina, quando il suo ambasciatore a Roma, cardinal d'Estrées, gli aveva segnalato la possibilità di comprare quei tesori. E qui avviene il secondo colpo di scena. Entra in gioco un altro acquirente che ben conosciamo: Livio Odescalchi, il nipote di Innocenzo XI. Per 123.000 scudi Livio soffia l'affare a Guglielmo e compra quasi tutto ciò ch'era rimasto dell'eredità. Incredibilmente, Guglielmo non solo non se ne ha a male, ma resterà in ottimi rapporti con Pompeo Azzolino. In un baleno la complicata vicenda dell'eredità si è risolta. È un epilogo tanto sorprendente quanto inverosimile. Un re protestante sempre a corto di soldi pretende di comprare una costosissima collezione d'arte. Il nipote di un papa (che tra l'altro a quel re aveva prestato un mucchio di soldi) gliela soffia sul filo di lana, e il sovrano si limita a fare i complimenti al venditore. Qualche cifra: gli Odescalchi avevano prestato a Guglielmo circa 153.000 scudi. Livio compra le opere d'arte di Cristina per una cifra non lontanissima: 123.000 scudi. Che menti raffinate si erano messe all'opera! Dalla fine del 1688 Guglielmo era finalmente re d'Inghilterra, e quindi nella posizione giusta per restituire il debito agli Odescalchi. L'anno dopo però Innocenzo XI era morto. Come restituire il debito agli Odescalchi? Probabilmente, in quel momento, solo una parte era stata resa. L'occasione offerta dal lascito di Cristina di Svezia, quindi, è da non perdere. Compra Livio, ma a pagare è Guglielmo, tramite qualche discreto intermediario. Dopo tante guerre, la segreta partita tra casa Odescalchi e gli Orange si conclude in punta di piedi. Facile immaginare la scena. Ammirando un Tin-
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toretto o un Caravaggio alla luce dorata del meriggio romano, un fidato procuratore di Guglielmo avrà lasciato scivolare una lettera di cambio nelle mani di un emissario di Livio Odescalchi. Il tutto, ovviamente, lodando la memoria della grande Cristina di Svezia, buonanima.
Livio e i Paravicini Fu forse grazie all'eredità di Cristina di Svezia che Guglielmo d'Orange, quindi, potè restituire il prestito agli Odescalchi. Ma la famiglia di Innocenzo XI gli aveva prestato almeno 153.000 scudi, sui quali andavano poi computati gli interessi. Pompeo Azzolino, quando vende a Livio Odescalchi l'eredità di Cristina, incassa solo 123.000 scudi. Che fine ha fatto la differenza? Carlo Odescalchi, il fratello di Innocenzo, era morto nel 1673. Nel 1680 era stata liquidata l'azienda Odescalchi di Venezia, e quella di Genova aveva già chiuso i battenti da anni. Di quale tramite esperto e affidabile disponeva ora Innocenzo XI per incassare la prima tranche di restituzione del prestito? Certo non poteva incaricarne suo nipote Livio, e non solo perché fosse troppo esposto agli occhi del mondo. Livio è il prototipo del rampollo ricco e viziato: ombroso, ribelle, introverso, capriccioso, instabile, forse persino facile alle lacrime. Ama il denaro: ma solo quando l'hanno già fatto altri. Lo zio Benedetto lo tiene lontano dagli affari di Stato, vuole che perpetui la stirpe. Livio invece, quasi per rivalsa, non si sposerà mai. E mai si sposterà da Roma per visitare i possedimenti ungheresi del Sirmio acquistati dall'imperatore. Papa Odescalchi chiude per amor di decenza tutti i teatri? Dopo la morte dello zio, Livio si compra per ripicca un palco al Tor di Nona. Dallo zio eredita forse una certa tendenza all'avarizia e alla furberia: quando l'ambasciatore austriaco a Roma gli chiede di farsi cambiare un po' di ducati imperiali in valuta romana, Livio cerca maldestramente di turlupinarlo offrendogli 40 baiocchi a ducato (il cambio ufficiale è di 45). Risultato: l'ambasciatore, seguendo il facile antisemitismo dell'epoca, sparge la voce che il nipote di Innocenzo XI tratta gli affari «come un ebreo». Livio compie anche una grave gaffe con l'imperatore, al quale promette di inviare un prestito in denaro e un contingente militare: 7000 soldati da affiancare alle truppe imperiali non appena queste si avvicineranno agli Abruzzi. In cambio, pretende il titolo di principe dell'impero. Come sappiamo il titolo gli viene concesso, e Livio presta in effetti all'imperatore qualche modesta somma di denaro (per di più ad alto interesse). Ma dei 7000 soldati nessuno vedrà mai traccia. Vittima di fissazioni ipocondriache, il nipote del beato Innocenzo conserva gelosamente consulti medici e referti di autopsie. Con una minuscola, illeggibile calligrafia registra ossessivamente i più insignificanti segnacoli di
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malattia. Sedotto dall'occulto, passa le notti tra esperimenti alchemici e affannose ricerche di remedia, che è disposto a pagare profumatamente perfino a sconosciuti. E nei momenti in cui la sua personalità morbosa soffre troppo le imposizioni dello zio, si sfoga annotando osservazioni e pettegolezzi malevoli, quasi a preparare un'infantile vendetta. Giammai un uomo siffatto avrebbe potuto reggere il peso di segreti opprimenti, di incontri compromettenti, di decisioni senza ritorno. Per incassare da Guglielmo la restituzione del debito serviva un procuratore esperto, fulmineo, dal sangue freddo. Innocenzo XI aveva avuto, a Roma, chi era in grado di curare i suoi interessi con discrezione e fedeltà. Era il banchiere Francesco Paravicini, nato da una famiglia vicina agli Odescalchi. Aveva le competenze e la concretezza di un vero uomo di negozi, e seguiva i più svariati affari economici del futuro papa: dalla riscossione degli affitti all'acquisto dei luoghi di monte, dall'incasso dei soldi inviati a Roma dai parenti all'esazione dei crediti. Già nel lontano 1640 era stato Paravicini a comprare per incarico di Carlo Odescalchi due segretariati prelatizi di cancelleria e un presidentato (costo: 12.000 scudi) a favore di Benedetto, inaugurando col denaro, com'era allora abituale, il suo ingresso nella gerarchia ecclesiastica. La famiglia Paravicini doveva godere quindi della fiducia più totale da parte degli Odescalchi. Appena il cardinal Benedetto diventa papa, nomina subito altri due Paravicini, Giovanni Antonio e Filippo, tesorieri segreti nonché pagatori generali della Camera apostolica: incaricati, cioè, di provvedere alle elargizioni d'ogni genere ordinate dalla Santa Sede o dallo stesso papa. Allo stesso tempo però il nuovo pontefice abolisce la carica di pagatore delle legazioni pontificie di Forlì, Ferrara, Ravenna, Bologna e Avignone: un incarico che verrà attribuito, senza che appaia chiaro il perché, ai Paravicini. Valeva la pena di affidare ai Paravicini (che risiedevano a Roma) un compito nella lontana Avignone, dove il pagatore generale doveva occuparsi solo delle spese di routine del palazzo apostolico e di qualche soldatesca? Curiosamente, non appena muore Innocenzo XI e cessa l'occupazione francese in Provenza, la carica di pagatore di Avignone viene restituita a Pietro Del Bianco, la cui famiglia era stata titolare della carica per decenni. Quanto profonda fosse la confidenza che aveva il papa con Giovanni Antonio e Filippo Paravicini appare evidente anche da alcuni dettagli rivelatori. Quando si dovranno mettere a disposizione dei nunzi apostolici di Vienna e Varsavia i fondi necessari per la guerra ai turchi, i soldi della Santa Sede verranno fatti transitare sulle piazze di Ulm, Innsbruck e Amsterdam (rieccola...) tramite intermediari di fiducia del papa: oltre al ben noto Rezzonico, i due Paravicini. Non sarebbero stati questi ultimi, allora, i mediatori ideali per incassare i soldi restituiti dal principe d'Orange?
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Le frasi di monsieur de Saint Clément e di Beaucastel riferite da monsignor Cenci lasciano sospettare che, per restituire i debiti contratti con la famiglia del papa, ai sudditi di Orange fosse stata imposta una sorta di Odescalchi tax. Una volta drenati i soldi, la soluzione più economica e sicura sarebbe stata dunque restituirli a pochi chilometri da Orange: nella stessa Avignone, magari, su cui erano competenti i fidati Paravicini. Il tesoriere di Guglielmo avrebbe fatto consegnare periodicamente a un intermediario del papa una semplice lettera di cambio, in qualche angolo sperduto della campagna provenzale. Niente più prestanome, conti bancari e triangolazioni internazionali.
Altre carte introvabili Per trovare conferme documentali a questa ipotesi si doveva frugare negli atti della depositeria di Avignone, conservati presso l'Archivio di Stato di Roma. Da queste carte si apprende che i Paravicini, appena entrati in carica come pagatori, entrano subito in credito: anziché pagare, incassano alcune migliaia di scudi, derivanti da compensazioni di cassa. Indizio interessante. Purtroppo i registri di Avignone presentano una grave, inspiegabile lacuna: mancano cinque anni, dal 1682 al 1687, quasi metà del pontificato di Innocenzo XI. Per sciogliere i dubbi poteva essere d'aiuto la corrispondenza del superiore gerarchico dei Paravicini, il tesoriere generale della Camera apostolica. Niente da fare: questa volta mancano addirittura tutti gli anni dal 1673, anno della morte di Carlo Odescalchi, fino al 1716.
Soluzione finale Nel secondo dopoguerra, pochi anni prima della beatificazione di Innocenzo XI, l'Archivio segreto vaticano acquisì le carte Zarlatti, un fondo archivistico contenente documenti relativi agli Odescalchi e ai Rezzonico. Il fondo si formò a partire dal XVIII secolo; sarebbe stato interessante sapere se a quell'epoca esistessero ancora tracce documentali degli antichi rapporti tra Benedetto Odescalchi, suo fratello Carlo e i loro prestanome di Venezia. Invece non lo si saprà mai. Gli stessi responsabili dell'Archivio segreto vaticano hanno rilevato le «strane dispersioni» e le «evidenti estrapolazioni» subite dal fondo non appena venne depositato in Vaticano: fascicoli separati dal fondo originario, lasciati privi di segnatura (cioè non identificabili) e collocati erroneamente (cioè non rintracciabili). Forse qualcuno ha preferito andare sul sicuro? Nel solco luminoso dell'esempio di Giovanni Paolo II, che quarant'anni
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or sono non esitò a riconoscere e a chiedere perdono per i gravi errori commessi dalla Chiesa nella sua storia, sarebbe un passo indietro non solo occultare, ma addirittura premiare le deviazioni e le troppe ombre che hanno costellato l'opera terrena di papa Benedetto Odescalchi. È forse giunta l'ora di saldare anche questo conto.
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