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Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Arrigo Petacco, Joe Petrosino, L'uomo che sfidò per primo la mafia italoamericana. Copyright 2001 Arnoldo Mondadori Editore S.p. A., Milano. Innumerevoli sono i libri e i film che hanno illustrato le gesta dei mafiosi italoamericani, a cominciare dai malavitosi giunti oltreoceano a fine Ottocento insieme agli immigranti, per arrivare ai padrini dei giorni nostri, che si muovono con disinvoltura nei sofisticati ambienti del crimine organizzato. Ma come si è sviluppata la mafia in America? Come riuscirono quei «pezzi da novanta» arrivati dalla Sicilia a inserirsi nella società americana fino a raggiungerne i massimi livelli? In questo libro (uscito per la prima volta nel 1972, tradotto all'estero con successo e dal quale è stato tratto uno sceneggiato televisivo) Arrigo Petacco indaga su Vito Cascio Ferro, l'uomo che trapiantò nel Nuovo Mondo la struttura della mafia siciliana, e ricostruisce la vicenda di Joe Petrosino, il poliziotto che avvertì per primo l'incombente minaccia e cercò di fermarne sul nascere la diffusione. Nella storia della mafia «don Vito» occupa un posto di grande rilievo: «semianalfabeta ma intelligente, astuto, autorevole e, a modo suo, filosofo e saggio», gettò le fondamenta di quel «ponte nero» che ancora oggi collega Palermo a Brooklyn. Joe Petrosino, poliziotto italoamericano di umilissime origini, fu l'acerrimo nemico di don Vito Cascio Ferro: lo combatté per anni costringendolo addirittura a tornare in Sicilia, ma non riuscì a impedire che il seme da lui portato in terra americana germogliasse. La sua impari lotta si concluse in modo tragico una sera in piazza Marina, a Palermo, dove si era recato sperando di «colpire nel suo centro vitale la piovra che stava ormai allungando i propri tentacoli fra i palazzi di Manhattan» La sua storia risulta tuttora di grande attualità perché illumina le origini del fenomeno mafioso e perché ricorda da vicino le imprese, spesso solitarie e osteggiate, di chi ha lottato contro Cosa Nostra. Arrigo Petacco è nato a Castelnuovo Magra, La Spezia, e vive a Portovenere. Giornalista, inviato speciale, è stato direttore de «La Nazione» e di «Storia Illustrata», ha sceneggiato alcuni film e realizzato numerosi programmi televisivi di successo. Nei suoi libri affronta i grandi misteri della storia, ribaltando spesso verità giudicate incontestabili. Fra gli altri ricordiamo: L'anarchico che venne dall'America, Il Prefetto di ferro, Riservato per il Duce (nuova edizione L'archivio segreto di Mussolini), Dal Gran Consiglio al Gran Sasso (con Sergio Zavoli), Pavolini. L'ultima raffica di Salò (nuova edizione Il superfascista), I ragazzi del '44, Dear Benito, caro Winston, La regina del Sud, La principessa del Nord, La signora della Vandea, La nostra guerra. 1940-1945, Il comunista in camicia nera, Regina. La vita e i segreti di Maria José, L'armata scomparsa, L'esodo e L'amante dell'imperatore. A Monica e Carlotta [p. 3] INTRODUZIONE Agli inizi del XX secolo, gli americani la chiamarono «Black Hand» (Mano Nera), poi «Rachet» (neologismo derivato dall'italiano «ricatto»), poi «Sindacato», poi «Cosa Nostra», ma sempre di mafia si trattava. Sulle origini di questa organizzazione criminale che dalla Sicilia si è diffusa nel mondo grava ancora il mistero. Non si sa quando è sorta e neppure si conosce il significato del termine «mafia»: c'è chi dice che derivi dall'arabo mahias, millanteria, e chi da una voce dialettale che sta per baldanza, braveria. Al contrario, sappiamo molto sulla mafia americana. Decine di libri e centinaia di film hanno provveduto, spesso esagerando, a illustrare le gesta dei gangster italoamericani, a cominciare dai rozzi padrini Pagina 1
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt con i baffi a manubrio giunti oltreoceano confusi nelle masse di immigranti che tra Otto e Novecento si riversarono nel Nuovo Mondo, per arrivare agli azzimati padrini dei giorni nostri, che si muovono con disinvoltura nei sofisticati ambienti del crimine organizzato e multietnico dove la globalizzazione ha ormai cancellato i confini che un tempo dividevano le varie mafie. Quando la mafia siciliana approdò in America, ne esistevano già altre: quella irlandese, per esempio, o quella ebraica, ma la mafia italiana ebbe ben presto ragione su tutte. Come si sviluppò? Come riuscirono quei rozzi «pezzi da novanta» arrivati dalla Sicilia a inserirsi nella società americana fino a raggiungere i livelli che conosciamo? Le [p. 4] risposte le troverete in questo libro in cui, per la prima volta, fu rivelato il nome del padrino che innestò in America la malapianta mafiosa e anche il nome del poliziotto che avvertì l'incombente minaccia e cercò invano di schiacciare sul nascere quel seme venefico che avrebbe infettato gli Stati Uniti. Il primo si chiamava Vito Cascio Ferro, il secondo Joe Petrosino. Nella leggenda nera della mafia «don Vito» occupa una posizione di primissimo piano. Semianalfabeta ma intelligente, astuto, autorevole e, a modo suo, filosofo e saggio, è l'uomo che modernizzò la mafia arcaica trasferendola dalla campagna alla città e poi in America. Fu lui a stabilire i codici, le regole e gli organigrammi del moderno potere mafioso. E fu ancora lui a individuare i nuovi campi in cui, oltre il tradizionale abigeato, l'«onorata società», non più contadina, avrebbe potuto sviluppare la sua attività criminosa. Il «pizzo», per esempio, ossia la tangente che sono costretti a pagare i commercianti taglieggiati dalla mafia, è una tecnica di sua invenzione. «Pizzo» in siciliano significa «becco» e «fammi bagnare il becco» era il mellifluo invito che il ricattatore rivolgeva alla vittima. Anche il termine «omertà», oggi entrato nel linguaggio comune, è un neologismo di sua invenzione. Per don Vito voleva dire «essere uomini» D'onore, naturalmente. Fu dunque don Vito, durante una sua trasferta americana, a trapiantare nel Nuovo Mondo, adattandoli all'ambiente, i costumi della mafia siciliana e a gettare le fondamenta di quel «ponte nero» Palermo-Brooklyn che ancora oggi collega la «casa-madre» con la sua creatura prediletta. Joe Petrosino, poliziotto italoamericano di umilissime origini, fu il mortale nemico di don Vito Cascio Ferro. Lo combatté per anni, lo costrinse infine a tornare in Sicilia, ma non riuscì a impedire che il seme da lui portato in terra americana germogliasse rigogliosamente. La sua lotta impari e spesso solitaria si concluse infatti in modo tragico una buia sera in piazza Marina, a Palermo, dove si era recato in gran segreto con la vana speranza di colpire nel [p. 5] suo centro vitale la piovra che stava ormai allungando i propri tentacoli fra i palazzi di Manhattan. La sua storia, raccontata in questo libro (che uscì per la prima volta nel 1972), risulta tuttora di grande attualità: una drammatica vicenda alle origini del fenomeno mafioso che ricorda da vicino le imprese spesso solitarie e osteggiate di chi ha lottato contro Cosa Nostra. [p. 7] I L'uOMO nEL bARILE Carmelina Niscemi, vedova Zillo, si affacciò cautamente alla finestra dell'unica stanza che divideva con i suoi quattro figli. Erano le 6 del mattino del 14 aprile 1903. Sotto di lei, l'Undicesima Strada Est, nel quartiere italiano di New York, era ancora deserta. Solo dalla vicina Terza Avenue giungevano i primi rumori del traffico. Con molta circospezione, Carmelina si sporse in fuori per scrutare attentamente la strada e i palazzi di fronte, poi, quando fu ben certa che nessuno la osservava, raccolse di scatto il secchio dell'immondizia e ne scaraventò il contenuto dalla finestra. Ogni mattino ripeteva quell'operazione pur sapendo che la polizia era estremamente severa con chi lordava le strade. D'altra parte, Carmelina non era la sola a commettere tutti i giorni quell'infrazione. Cinque piani più sotto, nello slargo sul retro Pagina 2
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt della casa, si levava una montagna di rifiuti piovuti evidentemente anche da molte altre finestre. Deposto il secchio, Carmelina si riaffacciò alla finestra con fare disinvolto. «Se gli spazzini non passano neanche oggi, finiremo tutti appestati» commentò a mezza voce osservando con disgusto l'ammasso di immondizie. A questo punto la sua attenzione fu attratta da qualcosa di insolito, al margine dell'ammasso. Guardò meglio e nella grigia luce dell'alba scorse un grosso barile ritto, presso l'orlo del marciapiede. Un barile, se ben conservato, per una madre di famiglia, vedova, emigrata e povera, può rappresentare un oggetto [p. 8] adatto a mille usi. E poiché Carmelina era appunto in tali condizioni, scese senza perdere tempo sperando di non venir preceduta da eventuali concorrenti. Uscita nella Terza Avenue, già affollata di operai e di donne di servizio che si recavano al lavoro nella parte alta di Manhattan, la donna si aggiustò lo scialle nero attorno al capo e voltò nell'Undicesima Strada per raggiungere il retro del vecchio edificio in cui abitavano innumerevoli famiglie di emigrati italiani. Alto e panciuto, con le doghe nuove e i cerchi appena arrugginiti, il barile era ancora al suo posto. Carmelina cercò di spostarlo, ma il suo sforzo risultò vano. Il barile non era vuoto, anzi, era incredibilmente pesante. Incuriosita, la donna cominciò ad armeggiare intorno al coperchio finché non riuscì a sollevarlo. Poi guardò dentro, lanciò un grido e svenne. Qualche minuto dopo, richiamati dai lamenti, sopraggiunsero alcuni passanti e un agente del Secondo distretto. Quest'ultimo, un irlandese di nome John O'Brien, andò a guardare dentro il barile che Carmelina, non ancora in grado di parlare, gli indicava con gesti disperati. Anche per O'Brien lo spettacolo risultò sconvolgente: dalla segatura emergeva la testa di un uomo con gli organi genitali ficcati in bocca. Il «caso dell'uomo nel barile», come venne definito questo delitto dai giornali newyorkesi che gli dedicarono molti titoli di prima pagina, fu affidato per competenza agli agenti del Secondo distretto, che operavano agli ordini dell'ispettore David Schmittberger. E il caso risultò subito molto difficile. L'uomo era stato ucciso a coltellate, e aveva poi subito la mutilazione che abbiamo detto. (*) Ma indosso al cadavere, che era stato trasportato nella sede del Secondo distretto in Union Market insieme al suo rudimentale sarcofago, non [p. 9] fu trovato alcun documento che permettesse di stabilirne l'identità, o anche soltanto la nazionalità. Tuttavia, da un primo esame, l'ispettore giunse alla conclusione che doveva trattarsi di un mediterraneo, probabilmente greco o armeno. Egli espresse anche la convinzione di trovarsi di fronte a un delitto rituale, una sorta di sacrificio umano compiuto da una delle tante sette segrete che gli orientali avevano importato nel Nuovo Mondo. Questa sua convinzione si rafforzò quando, nelle tasche del morto, fu rinvenuto un piccolo crocifisso dorato sul quale era incisa la sigla J. N. R. J. Schmittberger, che era ebreo e non sapeva cosa significassero quelle lettere, le scambiò infatti per il simbolo della setta cui lo sconosciuto doveva appartenere. Più tardi, quando già i giornali della sera riportavano le ipotesi più strampalate sulla natura del delitto, un agente, frugando per l'ennesima volta negli abiti dell'ucciso, vi rinvenne un foglietto arrotolato sul quale era scritta una frase in lingua italiana. La frase era: «Vieni subito, è importante» Ma nessuno degli agenti del Secondo distretto conosceva questa lingua; e solo più tardi, con l'aiuto di un commerciante italiano di Mott Street, fu possibile tradurre il laconico messaggio. A questo punto, Schmittberger rinunciò a difendere la sua teoria. «Forse ho preso un granchio» disse al collega McCafferty. «E' sicuramente una storia di italiani. Sarà meglio chiamare il "dago".» Col nomignolo di «dago» (deformazione di Diego e termine spregiativo usato dagli americani per indicare italiani e spagnoli) negli ambienti della polizia era comunemente conosciuto il detective Giuseppe Petrosino, l'unico agente di origine italiana asceso Pagina 3
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt all'olimpo del Bureau, ossia all'ufficio cui facevano capo i cinque più abili investigatori di New York. Un'ora dopo, un uomo tarchiato, vestito di scuro con bombetta e bastone, dalla faccia dura e quadrata, leggermente butterata dal vaiolo, si presentava alla sezione di polizia del Secondo distretto. [p. 10] «Il mio nome è Petrosino» disse con un certo sussiego all'agente di piantone, poi si fece accompagnare nell'improvvisato obitorio dove erano stati sistemati i resti dell'ucciso. Qui salutò con un cenno del capo Schmittberger e, senza perdere tempo in convenevoli, si mise al lavoro. Dopo aver esaminato il cadavere con una scrupolosità che a Schmittberger parve eccessiva, visto che egli stesso lo aveva ispezionato più volte, Petrosino si occupò degli abiti e ne rovesciò le tasche per raccogliere in una busta la polvere in esse contenuta. Successivamente passò a osservare il barile. Trascrisse sul proprio taccuino la sigla W. T. stampata sul coperchio, grattò con un temperino fra gli interstizi delle doghe e ne raccolse della polvere bianca che assaggiò con la punta della lingua e, infine, frugò col bastone nel mucchio della segatura che era servita per il macabro imballaggio. La segatura era molto sporca, c'erano pezzi di carta e mozziconi di sigari e di sigarette. Il detective osservò ogni cosa con molta attenzione. «Questo è un toscano» commentò fra sé raccogliendo un pezzo di sigaro. Poi pregò un agente di mettergli in un sacchetto alcune manciate di quella segatura: l'avrebbe esaminata meglio più tardi. Terminato il suo lavoro, Petrosino si voltò verso l'ispettore Schmittberger. «Vorrei vedere gli altri oggetti che avete rinvenuto sul cadavere» disse. Schmittberger lo condusse nel suo ufficio e tolse da un cassetto chiuso a chiave il biglietto e il crocifisso. «Questo è una traccia» osservò Petrosino intascando il foglietto. «Questo invece non mi serve» aggiunse restituendo il crocifisso. «Ma la sigla... guardate bene la sigla!» insistette stupito Schmittberger. Petrosino, che non rideva mai, abbozzò una specie di sorriso. «Sono le iniziali di "Jesus Nazarenus Rex Judaeorum"» spiegò «e significano che Gesù è il vostro re, anche se voi ebrei non siete d'accordo.» [p. 11] Schmittberger incassò senza prendersela a male. Riuscì anche a ridere. Petrosino si alzò per andarsene. «Vi manderò qualcuno del Bureau per fare una fotografia del morto. Spero che sarà possibile ricomporre il cadavere, in modo da avere una fotografia decente.» «Chiamerò qualcuno delle pompe funebri, sono degli artisti in materia» disse Schmittberger. «Bene» approvò il detective. «E sarebbe anche utile rintracciare una ditta che usa come marchio di fabbrica la sigla W. T. Dovrebbe trattarsi di una fabbrica di dolciumi, dato che l'interno del barile è inzuccherato.» Schmittberger, ammiratissimo per la perspicacia del suo interlocutore, promise di fare il possibile. Poi chiese a Petrosino se intendeva rilasciare una dichiarazione ai cronisti che stazionavano da tutto il giorno di fronte al Secondo distretto. L'altro accettò di buon grado; era sempre molto sensibile nei confronti della stampa. Del resto erano stati proprio i giornalisti a fare di lui il poliziotto più famoso di New York. La sera del 14 aprile 1903 Giuseppe Petrosino rilasciò dunque una dichiarazione sul caso. «"L'uomo del barile"» disse «è certamente un italiano e probabilmente un siciliano. Penso che sia stato ucciso per un regolamento di conti all'interno di qualche banda. In Sicilia, a quanto pare, il trattamento dei genitali in bocca è riservato a quelli che parlano troppo.» Alla domanda di un giornalista che gli chiedeva se il delitto potesse essere attribuito alla «Mano Nera», l'organizzazione criminale che terrorizzava il quartiere italiano, Petrosino rispose seccato: «Ho già detto più volte che la Mano Nera, come organizzazione vera e propria, non esiste. Sono stati i giornali a Pagina 4
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt creare il mito di questa piovra che avvolgerebbe nei suoi tentacoli la città di New York. Quelle che realmente esistono sono delle bande, spesso molto piccole e comunque non collegate fra di loro, che [p. 12] sfruttano autonomamente questo nome inventato dagli anarchici per meglio terrorizzare le loro vittime» Lasciati i giornalisti, Giuseppe Petrosino tornò alla centrale di polizia al numero 300 di Mulberry Street, proprio nel cuore del quartiere italiano. Qui lo raggiunse per telefono l'ispettore Schmittberger che, senza nascondere la propria eccitazione, gli comunicò di avere scoperto la ditta che marchiava i propri barili con la sigla W. T. «Si tratta della fabbrica di dolciumi Wallace e Towney situata al 365 di Washington Street» continuò Schmittberger. «Produce generi di pasticceria, soprattutto per gli ambulanti, ma fornisce anche alcuni locali di ritrovo servendosi appunto di quei grossi barili. Fra questi locali» concluse l'ispettore «figurano due bar che si trovano nella mia zona. Si tratta di una birreria tedesca di Prince Street e del bar Stella d'Italia gestito da certo Pietro Inzerillo e situato al 260 di Elizabeth Street.» Petrosino, che aveva preso frettolosamente degli appunti, ringraziò Schmittberger e riappese. Ora la faccenda cominciava a farsi più chiara. Poco prima della mezzanotte il detective scendeva da una carrozza davanti alla Stella d'Italia, avendo scartato a priori la birreria tedesca. Il suo ingresso fu accolto dal solito brusio che sempre si sollevava quando egli entrava in uno dei tanti fumosi locali in cui si davano convegno i malviventi italiani. La Stella d'Italia era uno di questi. Petrosino riconobbe, seduti ai tavoli davanti alle carte e al fiasco di vino, molti gangster che secondo lui avrebbero dovuto essere espulsi o trovarsi in galera, ma che circolavano liberamente grazie all'eccessiva (sempre secondo lui) puntigliosità delle leggi americane circa la protezione delle libertà individuali. Come di consueto, il poliziotto prese posto a un tavolo d'angolo, in modo da avere le spalle protette dalla parete, poi ordinò da bere. Rimase così, immobile, per una decina di minuti. Voleva dare l'impressione che si trattasse di una delle sue solite visite di controllo. [p. 13] Entrando, aveva già notato che il pavimento della sala era coperto da uno strato di segatura, che consentiva ai clienti di sputare in libertà. Era proprio questa segatura che lo interessava prima di tutto. Fingendo di allacciarsi una scarpa ne raccolse un pizzico e lo nascose nel risvolto dei pantaloni. Uscito in strada, fece il giro dell'isolato. Sul retro, dove si apriva la porta di servizio del locale, erano accatastati alcuni grossi barili. Tutti portavano il contrassegno della ditta Wallace e Towney. Il giorno seguente, un esperto del modesto laboratorio scientifico di cui era da poco tempo dotata la centrale di polizia della città di New York, assicurò Petrosino che la segatura da lui raccolta alla Stella d'Italia era identica a quella contenuta nel barile. A questo punto la soluzione del caso appariva abbastanza vicina. Evidentemente, l'uomo era stato ucciso in quel covo di tagliagole che era la Stella d'Italia e sistemato bene in vista nell'Undicesima Strada affinché - secondo l'uso siciliano - coloro che dovevano intendere capissero qual era la sorte che attendeva «le spie» Su questa tesi, Petrosino non aveva il minimo dubbio. Conosceva troppo bene gli ambienti della malavita italiana dell'East Side. Sapeva anche che gli assassini ricorrevano a messinscene così granguignolesche solo quando intendevano dare un «avvertimento» Le vittime delle normali aggressioni preferivano gettarle nell'East River, con un blocco di cemento appeso ai piedi come zavorra. Occorreva adesso dare un nome all'«uomo del barile» Solo attraverso la sua identificazione sarebbe stato possibile individuare i colpevoli. Questa indagine preliminare impegnò Petrosino per alcuni giorni. Risulta dai verbali che centinaia di italiani furono fatti sfilare davanti al cadavere nella speranza che qualcuno lo riconoscesse. Ma Pagina 5
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt fu una fatica inutile. Soltanto un siciliano, di nome Michele Bongiorno, identificò la vittima per certo Antonino Quattrocchi, genero di un notissimo arruolatore di mano d'opera clandestina. Però [p. 14] Quattrocchi, vivo e vegeto, si presentò spontaneamente alla polizia quando la notizia della sua morte stava per essere comunicata in maniera ufficiale. Di questo incidente approfittarono subito i numerosi giornaletti italiani di New York, che non perdevano occasione per gettare discredito sull'opera degli investigatori (come avevano già fatto quando si era risaputo il particolare del crocifisso con la sigla misteriosa) Anche Petrosino fu preso di mira. Egli, infatti, godeva di buonissima stampa sui giornali americani, ma assai di meno su quelli in lingua italiana. L'errore di identificazione non frenò comunque l'opera del detective. Nel frattempo la sua indagine era andata a incrociarsi incidentalmente con un'altra inchiesta che veniva condotta dall'agente di polizia segreta William J. Flynn sul conto di una banda di falsari italiani che operava fra New Orleans, Pittsburgh e New York. Questa banda, infatti, era solita darsi convegno alla Stella d'Italia. Era dunque assai probabile che i due investigatori stessero dando la caccia alle medesime persone. Grazie anche alle informazioni di Flynn, Giuseppe Petrosino concentrò i propri sospetti su un gruppo di otto individui i cui nomi vanno tenuti a mente perché riemergeranno spesso nel corso di questa storia. Essi erano: Giuseppe Morello, originario di Corleone, che la voce pubblica indicava come il capo della Mano Nera di New York. Ignazio Lupo, detto «The Wolf», uomo di una certa istruzione (per qualche tempo aveva fatto anche il libraio), ma temuto per la sua violenza e dedito soprattutto al ricatto. Giuseppe Fontana, che in Italia era accusato di avere ucciso il barone Emanuele di Notarbartolo, direttore del Banco di Sicilia, per conto del «re della mafia» Raffaele Palizzolo, un deputato di Palermo. Tommaso Petto, detto «The Bull», il Toro, per l'eccezionale [p. 15] muscolatura che gli aveva fatto vincere molti concorsi di bellezza maschile. Petto, che diceva di fare lo stiratore, era in realtà un killer, un assassino di mestiere. Vito Cascio Ferro, un «uomo di rispetto» giunto da poco dalla Sicilia. E infine Giuseppe Favaro, Vito Lo Baido e Antonio Genova, noti per i loro precedenti burrascosi e per essere legati a Morello da un patto di sangue. Tutti costoro erano siciliani e implicati in un traffico di dollari falsi. Proseguendo le loro indagini, i due detective finirono per convincersi che anche l'«uomo del barile» doveva essere in qualche modo legato all'attività criminosa di Giuseppe Morello e soci. Ma come provarlo? Anche questa volta fu Flynn a indicare la pista giusta. Qualche tempo prima, l'agente segreto aveva arrestato a Pittsburgh un falsario di nome Giuseppe Di Primo, che ora stava scontando una condanna nel carcere di Sing Sing. «Di Primo» disse Flynn a Petrosino «lavorava per Morello e ora ce l'avrà a morte con i suoi complici che l'hanno lasciato nelle peste. Chissà, forse voi che parlate italiano potreste riuscire a cavarne qualcosa.» Il giorno seguente, Giuseppe Petrosino era a colloquio con Di Primo nel parlatorio di Sing Sing. «Conoscete quest'uomo?» gli chiese il detective mostrandogli la fotografia dell'ucciso. «Ma questo è Nitto!» esclamò subito Di Primo. «E' mio cognato Benedetto Madonnia, che vive a Buffalo con mia sorella. Ma nella fotografia ha l'aria di un morto! Che gli è successo? E' stato malato?» Petrosino non rispose alla domanda. «Sapreste dirmi quando e perché è venuto a New York?» «Fui io a mandarlo» disse Di Primo. «Lui era venuto a trovarmi e io Pagina 6
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt lo pregai di andare a ritirare certi miei beni personali dall'amico Giuseppe Morello. Ma per piacere» insistette «ditemi cosa gli è successo. E' malato?» «Non è malato. E' morto. Lo hanno ucciso» ribatté il detective [p. 16] pensando forse, con questa notizia improvvisa, di indurlo a parlare. Accadde invece il contrario. Di Primo non volle più rispondere ad alcuna domanda. «Questa è una faccenda che sbrigherò da solo appena sarò libero» si limitò a dire. Petrosino rientrò comunque alla centrale abbastanza soddisfatto. Evidentemente, Benedetto Madonnia era andato da Morello per chiedergli il denaro del cognato. Forse lo aveva anche minacciato, e Morello lo aveva fatto uccidere. Quella stessa sera, l'ispettore McCafferty fu incaricato di eseguire una retata alla Stella d'Italia. L'intera banda fu arrestata. Tranne Tommaso Petto, che cercò di reagire tanto che occorsero quattro agenti per immobilizzarlo, gli altri non opposero resistenza: la loro esperienza delle leggi americane li rendeva ottimisti. Accuratamente perquisiti dall'ispettore McCafferty, gli otto uomini risultarono tutti armati di pistola e di coltello. In tasca a Tommaso Petto fu anche rinvenuta la polizza di pegno di un orologio. Intanto, Giuseppe Morello e Vito Cascio Ferro, che sembravano essere i «cervelli» della banda, non avevano perduto tempo. Convocato il loro legale, l'avvocato Le Barbier, uno dei più noti penalisti di New York, chiesero di essere rilasciati su cauzione. La richiesta era legittima e il giudice dovette accoglierla a malincuore. Si limitò soltanto a fissare cifre molto alte, nella speranza che i gangster non riuscissero a mettere insieme il denaro necessario. Chiese infatti 5000 dollari per Morello, altri 5000 per Lupo, 3000 per Petto, 2000 per Favaro, 1000 per Cascio Ferro e 500 dollari a testa per gli altri. Totale circa 16.000 dollari; una somma enorme, per quei tempi. Le speranze del giudice furono però frustrate dall'efficienza della malavita siciliana. Il mattino seguente, l'avvocato Le Barbier andò da lui accompagnato da un barbiere di Mott Street, di nome Macaluso. Quest'ultimo [p. 17] portava, racchiusa in un grosso fazzoletto, la somma necessaria per la scarcerazione dell'intera banda. «Questo denaro» si affrettò a dichiarare il legale al giudice, onde evitare possibili indagini sulla sua provenienza «è il frutto di una colletta organizzata nel quartiere italiano.» Poche ore dopo Morello e compagni lasciavano la centrale di polizia, accolti con applausi e abbracci da una piccola folla composta da amici e parenti. Ancora fremente per lo scorno, il capo della polizia di New York, l'assessore McAdoo, convocò nel suo ufficio i suoi migliori detective per esaminare la situazione. Petrosino, che era fra questi, non perdette, com'era suo solito, l'occasione per inveire contro le stupide leggi americane che permettevano ai criminali di prendersi gioco della polizia. «Con i malviventi italiani bisogna applicare i sistemi italiani» concluse «altrimenti l'America continuerà a essere per loro il paese della cuccagna.» McAdoo lo calmò con un gesto della mano. «La nostra Costituzione è sacra. Noi dobbiamo difendere la nostra società con le nostre leggi.» Petrosino alzò le spalle con un gesto di stizza. «Datemi almeno una squadra di agenti italiani» riprese poi. «Con gli irlandesi e gli ebrei non caverete mai un ragno dal buco.» «Sapete benissimo che la vostra richiesta è all'esame del consiglio comunale» ribatté McAdoo. «Sì. Da due anni...» sbuffò Petrosino. «E intanto si continua a respingere le domande di arruolamento dei miei connazionali. Ma vi rendete conto» soggiunse alzando la voce «che in questa città, in cui vivono mezzo milione di italiani, gli agenti capaci di parlare la loro lingua sono soltanto undici, compreso il sottoscritto e l'agente Bonoil che, in realtà, è un francoirlandese?» «Avete ragione, Petrosino. Avete ragione» lo calmò McAdoo. «Io, lo sapete, sto facendo di tutto...» Pagina 7
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt «Lo so, lo so, signor assessore» convenne il detective. [p. 18] «Però così non si può andare avanti. Io passo la vita ad arrestare gente che poi, per una ragione o per l'altra, il magistrato rimette in libertà.» «Bene» disse McAdoo. «Torniamo al nostro argomento. L'indagine va ripresa dall'inizio. Occorrono altre prove per poter arrestare definitivamente quei gangster. Io sarei del parere che Petrosino andasse domani a Buffalo a parlare con la famiglia Madonnia. Forse potrà trovare qualche nuovo indizio.» Tutti approvarono, e Petrosino chiese a McCafferty di consegnargli l'orologio riscattato con la polizza di pegno trovata indosso a Tommaso Petto. «Anche questo potrebbe essere una prova» commentò, osservando il grosso «Roskoff» da poco prezzo consegnatogli dal collega. Il sospetto di Petrosino risultò esatto. L'orologio era effettivamente appartenuto a Benedetto Madonnia, e fu subito riconosciuto sia dalla moglie sia dal figlio della vittima. La donna spiegò anche di aver scritto lei stessa il biglietto trovato in tasca all'ucciso. Un amico le aveva segnalato che Nitto stava correndo serio pericolo a New York, e lei gli aveva scritto per indurlo a tornare a casa. Grazie alle indicazioni dei congiunti della vittima, Giuseppe Petrosino riuscì infine a ricostruire l'intero mosaico della vicenda. Dopo il suo arresto, Giuseppe Di Primo aveva mandato il cognato Benedetto Madonnia da Giuseppe Morello per reclamare la sua parte del ricavato dallo spaccio di una partita di dollari falsi. Morello aveva però rifiutato e Madonnia, dopo un'accesa discussione, aveva minacciato di rivolgersi alla polizia. Con ciò, l'uomo aveva firmato la propria condanna a morte. A ucciderlo era stato Tommaso Petto, il killer della banda. Di questo, Petrosino era certissimo. Oltre alla polizza di pegno trovata in suo possesso, il detective aveva appreso da alcuni avventori della Stella d'Italia che Madonnia e Petto erano usciti insieme dal locale la sera del delitto. [p. 19] Soddisfatto della propria missione a Buffalo, il poliziotto saltò sul primo treno in partenza per New York. Aveva fretta. Adesso che finalmente era in possesso della prova che avrebbe messo Tommaso Petto con le spalle al muro non voleva perdere tempo nel timore che la banda riuscisse a eclissarsi. Ma quando il detective giunse alla centrale ebbe l'amara sorpresa di apprendere che il «New York Evening Journal» era uscito poche ore prima con la notizia in esclusiva del riconoscimento dell'orologio da parte della famiglia Madonnia. «A quest'ora avranno preso il volo» commentò con rabbia Petrosino gettando via il giornale. Ma si sbagliava. Incredibilmente, quella sera gli agenti del Secondo distretto riuscirono a catturare i componenti dell'intera banda. Li trovarono seduti tranquilli alla Stella d'Italia a bere vino e a giocare a carte. Mancava soltanto Vito Cascio Ferro, che Schmittberger stabilì essere fuggito a New Orleans. Nel suo rapporto, lo stesso Schmittberger precisò che Tommaso Petto, contrariamente alle sue abitudini, si era lasciato arrestare senza opporre la minima resistenza. A questo punto va detto che il comportamento remissivo di Petto e dell'intera banda aveva una sua spiegazione. I gangster infatti, su consiglio di Vito Cascio Ferro, avevano sostituito Tommaso Petto con un altro individuo che, sia per il colore dei capelli e la piega dei baffi sia per l'eccezionale muscolatura, poteva corrispondere ai dati segnaletici del «Toro» Quest'uomo si chiamava Carlo Costantino, ma in America, dove era giunto pochi mesi prima, aveva cambiato il proprio nome in Giovanni Pecoraro. La sera della retata, agli agenti che lo scambiarono per Tommaso Petto, Costantino alias Pecoraro rifiutò di declinare le proprie generalità. «Io non sono Petto» si limitò a dire. Gli agenti, per niente convinti, gli frugarono nelle tasche e vi trovarono un documento intestato a Petto Tommaso, di anni ventiquattro. Pagina 8
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt [p. 20] «Cosicché voi non sareste Petto?» gli chiesero sventolandogli il documento sotto il naso. Il presunto Petto non rispose, e si lasciò portar via. L'incredibile imbroglio anagrafico escogitato dai banditi ebbe pieno successo. Due giorni dopo, quando, secondo il sistema giudiziario americano, gli imputati furono condotti davanti alla corte, nessuno aveva ancora avuto la possibilità di scoprire la sostituzione di persona. L'udienza iniziò alle 9 del mattino del 29 aprile 1903. Tommaso Petto era accusato di essere l'esecutore materiale del delitto, gli altri di averlo aiutato nell'impresa. E' inutile dire che il processo si trasformò in farsa fin dalle prime battute. Il presunto Tommaso Petto, servendosi dell'interprete, chiese di poter fare una dichiarazione. E quando ne fu autorizzato disse ad alta voce: «Io non sono Tommaso Petto!» La sua affermazione sollevò mormorii di sorpresa nell'aula. «E chi sareste, allora?» gli chiese stupito il presidente. «Io mi chiamo Giovanni Pecoraro. Posso provarlo.» Dalla sala, dove si assiepavano molti italiani, si levarono grida e risate. «Ma perché non lo avete detto prima?» chiese ancora il presidente. «Io dissi di non essere Petto agli agenti che mi arrestarono due sere fa» precisò Pecoraro dando tempo all'interprete di tradurre le sue parole. «Da allora» riprese «non ho più avuto modo di parlare con qualcuno che comprendesse la mia lingua.» A conclusione dell'udienza Giovanni Pecoraro fu scarcerato, mentre gli altri furono rinviati a giudizio con l'accusa di concorso in omicidio. Ma data la piega che avevano preso le cose, e col vero Tommaso Petto sempre latitante, l'accusa non poté essere sostenuta. Soltanto Giuseppe Morello e Ignazio Lupo dovettero subire un secondo processo per fabbricazione e spaccio di dollari falsi. Furono, in un primo tempo, condannati a [p. 21] venticinque anni di carcere, ma, in seguito, grazie all'abilità dei loro avvocati, riuscirono a ottenere la sospensione della pena. Giuseppe Di Primo, cognato di Benedetto Madonnia, uscì da Sing Sing due anni dopo. Petrosino fu subito informato che l'ex detenuto era stato visto alla Stella d'Italia, dove aveva insistentemente chiesto notizie dell'amico Tommaso Petto. «Lasciatelo fare, ma senza perderlo d'occhio» disse il detective ai suoi agenti. «Chissà che non ci aiuti a ritrovare il "Toro".» Giuseppe Di Primo riuscì invece a sfuggire alla sorveglianza. E circa un mese dopo, giunse alla centrale di polizia la segnalazione che a Wilkes-Barre, in Pennsylvania, Tommaso Petto, che nel frattempo aveva mutato il proprio nome in Tom Carrillo, era stato freddato sulla porta di casa da uno sconosciuto. «Di Primo è stato più bravo di noi» fu il commento di Petrosino. NOTE: (*) Più tardi, per questa ragione, il caso venne anche erroneamente definito come quello dell'«uomo tagliato a pezzi» [p. 23] II NEGLI aNNI a cAVALLO dEL sECOLO Negli anni a cavallo del secolo, New York era rapidamente diventata la «città italiana» più popolosa dopo Napoli. Un quarto dei suoi abitanti, oltre mezzo milione, risultava composto di italiani. Mentre un altro milione di nostri connazionali si era sparso nei vari stati dell'Unione. Questa gigantesca ondata migratoria, che proveniva dalle regioni più povere e più meridionali dell'Italia, si era riversata in America nel giro di pochi anni creando problemi spesso insolubili. Se infatti la giovane industria americana aveva estremo bisogno di braccia a buon mercato, il paese, dal canto suo, non era attrezzato per accogliere i nuovi ospiti. Di conseguenza, il primo impatto degli italiani col Nuovo Mondo fu estremamente duro. Privi di istruzione, resi ciechi, sordi e muti dall'incapacità di esprimersi nella lingua del paese, Pagina 9
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt essi finirono per raggrupparsi dando vita in ogni città a ghetti le cui condizioni sono difficilmente descrivibili. A New York, per esempio, il mezzo milione di italiani che decise di fermarsi in questa città, si ammucchiò nei decrepiti edifici in legno dell'East Side, a ridosso del ponte di Brooklyn, che i newyorkesi avevano da tempo abbandonato per stabilirsi in zone residenziali più moderne. L'insediamento degli italiani nell'East Side fece naturalmente la fortuna degli speculatori e dei padroni di case, ma trasformò anche il quartiere in una sorta di formicaio umano dove la miseria, la delinquenza, l'ignoranza e la sporcizia erano gli elementi predominanti. [p. 24] I rapporti di osservatori autorevoli che studiarono in quel periodo le condizioni di vita del quartiere, offrono un quadro agghiacciante della situazione. Il commediografo italiano Giuseppe Giacosa, che lo visitò nel 1898, ha scritto: «E' impossibile dire il fango, il pattume, la lercia sudiceria, l'umidità fetente, l'ingombro, il disordine di quella zona.» Questo era il quartiere italiano di New York a cavallo del secolo. Un agglomerato di gruppi regionali diversi dove ogni giorno si celebrava la festa di qualche santo patrono, dove riecheggiavano grida in tutti i dialetti italiani, ma dove non si udiva quasi mai una parola inglese. Un formicaio in continuo movimento, dove i pedoni dovevano essere sempre pronti a scansare le docce di rifiuti che piovevano dalle finestre, dove oltre cinquemila carretti a mano si aggiravano per le strade vendendo di tutto, dai lacci da scarpe alle mortadelle. Questo era l'ambiente in cui centinaia di migliaia di nostri connazionali si erano trasferiti e ora lottavano per rifarsi una vita. Dimenticati dal loro governo che si limitava a rallegrarsi per il cospicuo reddito fornito dalla «politica dell'esportazione delle braccia»; snobbati dagli aristocratici diplomatici che quasi si vergognavano di rappresentare una siffatta schiera di connazionali, essi finirono ben presto per ritrovarsi, come al paese d'origine, alla mercé degli speculatori e dei malviventi. E' infatti inutile dire che l'affollatissimo quartiere italiano rappresentò quasi subito un grosso problema per la polizia. Centinaia di malviventi, approdati felicemente in America grazie all'allegro sistema della distribuzione dei passaporti instaurato dal governo italiano per liberarsi, oltre che degli affamati, anche delle «pecore nere», trovarono in questo quartiere il terreno adatto per trapiantarvi i propri sistemi mafiosi. Il detective Giuseppe Petrosino, che era allora l'italiano più famoso di New York, si batté strenuamente per arginare [p. 25] l'afflusso di criminali che minacciava di inquinare in modo irreparabile la colonia italiana che stava sorgendo. Ma i suoi sforzi risultarono vani. Le leggi e le tradizioni liberali americane non gli fornivano gli strumenti necessari per condurre a compimento una radicale opera di disinfestazione. Accadde così che, in un certo senso, le autorità americane finirono per rassegnarsi all'idea che Little Italy si trasformasse in un bubbone infetto. Ci si limitò soltanto a circondare simbolicamente il ghetto italiano con un cordone sanitario, lasciando in pratica liberi i pochi malviventi di taglieggiare la moltitudine dei loro connazionali. Che gli italiani, insomma, se la sbrigassero pure fra di loro, l'importante era impedirne lo sconfinamento nelle zone più progredite della città. Un sintomo di tale accettazione quasi fatalistica del problema italiano, lo si rileva in un rapporto dell'allora assessore alla polizia della città di New York, William McAdoo. Egli scrisse: «Considerando la spaventosa congestione della popolazione, il gran numero di famiglie che accoglie ogni edificio, le condizioni dei quartieri e la strettezza delle strade, il basso East Side dove vivono gli italiani presenta per la polizia un problema insolubile. La densità della popolazione in alcune zone ha dell'incredibile. E' semplicemente impossibile inscatolare degli esseri umani in questi alveari aperti sugli stretti canyon delle strade e pretendere poi di fare di loro dei cittadini rispettosi e ossequienti alla legge.» D'altra parte, la legge faceva di tutto per non farsi rispettare. Pagina 10
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Gli emigrati italiani trovarono in America un ambiente generalmente ostile. Spesso furono costretti a subire le prepotenze dei gangster irlandesi sotto lo sguardo sornione dei poliziotti, che erano pure irlandesi. La polizia di New York era infatti composta quasi esclusivamente da irlandesi e da ebrei, ossia dai rappresentanti dei gruppi etnici dominanti. Su trentamila agenti, come ricordava sovente Petrosino, soltanto undici erano in grado di comprendere l'italiano, ossia la lingua parlata da circa un quarto della popolazione della città. Era quindi prevedibile [p. 26] che i nostri emigrati, già atavicamente diffidenti nei confronti della polizia, diffidassero ancora di più di una polizia che neppure comprendeva il loro linguaggio. Sarà appunto questa mancanza di «dialogo» - in senso letterale - fra emigrati e poliziotti, a favorire lo sviluppo della mafia. A questo proposito, è stato scritto che, considerata l'accoglienza riservata dall'America agli italiani, soltanto i santi potevano resistere alla tentazione di farsi gangster o amici dei gangster. Indubbiamente si tratta di un'esagerazione, anche se non del tutto infondata. D'altra parte, tale affermazione serve solo a dar credito alla leggenda secondo la quale la mafia prese piede in America perché riuscì a colmare il vuoto lasciato dall'assenza delle leggi e di chi sapesse farle rispettare. La realtà è ben diversa: i mafiosi non furono dei «Fra Diavolo», bensì dei malviventi senza scrupoli che si accanirono con spietatezza proprio contro i loro connazionali, evitando con cura di infastidire gli appartenenti ai gruppi etnici dominanti. L'apparizione spesso clamorosa di questi focolai di malvivenza italiana contribuì ad accrescere il sospetto e l'ostilità degli americani verso i nuovi arrivati. L'opinione pubblica, solita a generalizzare, finì ben presto per considerare indiscriminatamente tutti gli italiani dei potenziali nemici o, comunque, gente da tenere alla larga. Fu appunto in questo periodo che si diffuse in America l'immagine dell'italiano piccolo e bruno, di razza incerta, dedito ai lavori più umili e pronto a maneggiare il coltello. Sempre in questi anni, ossia nell'ultimo decennio del secolo, i lettori americani furono anche incuriositi dall'apparizione sui giornali di termini misteriosi e intraducibili, quali mafia, camorra, omertà. A titolo di curiosità diremo che un giornalista cercò di fornire ai propri lettori una spiegazione etimologica di questi neologismi che stavano entrando nel linguaggio comune. Apprendiamo infatti da un numero del «New York Herald» del 1891 che omertà deriva da uomo e significa [p. 27] «virilità», «comportarsi da uomo», mentre camorra viene dallo spagnolo (in cui significa «litigio», da cui camorrista, «uomo litigioso») Ma se queste due spiegazioni sono fondate, quella invece che lo stesso giornalista dette del termine mafia (che deriva dall'arabo) è del tutto fantastica. La mafia viene infatti presentata come l'erede degenerata di un'organizzazione patriottica che avrebbe ricavato il proprio nome dalle iniziali del grido di rivolta «Morte Ai Francesi Italia Anela!», lanciato dai siciliani nel 1282 in occasione dei Vespri. La parola mafia apparve comunque per la prima volta sui grandi giornali americani nel marzo del 1891, in occasione del «linciaggio di New Orleans», una tragica vicenda che costò la vita a undici italiani. L'episodio di New Orleans, che ebbe vasta eco in tutto il mondo e si concluse quasi con una minaccia di guerra da parte dell'Italia, fu provocato da un incidente di tipico stampo mafioso. In quegli anni si era stabilita nella Louisiana una folta colonia siciliana che, trovandovi condizioni ambientali molto simili a quelle dell'isola natale, aveva impiantato molte fattorie dedicandosi alla coltivazione degli agrumi e degli ortaggi. Purtroppo, come sempre accadeva in quegli anni, unitamente a migliaia di laboriosi agricoltori siciliani, erano sbarcati a New Orleans una ventina di malviventi che subito avevano avviato una redditizia industria del ricatto. Questa cosca, dominata dalla famiglia Provenzano e detta anche Pagina 11
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt degli «Stoppaglieri», aveva controllato indisturbata il mercato ortofrutticolo della città fino a quando non era entrata in azione una seconda banda. Quest'ultima gang, detta dei «Giardinieri» e dominata dalla famiglia Matranga, aveva a sua volta cominciato a taglieggiare gli agricoltori inserendosi cioè in quella che gli «Stoppaglieri» consideravano la loro giurisdizione. Le due cosche finirono per scontrarsi. Ne seguì una piccola guerra, con circa mezza dozzina di morti, ma le autorità [p. 28] locali, visto che si trattava di cose fra italiani, non se ne preoccuparono eccessivamente. La cittadinanza fu invece pronta a insorgere quando a cadere ucciso fu il capo della polizia, Dave Hennessey. Quest'ultimo, raccolto morente la sera del 18 ottobre 1890, prima di morire ebbe il tempo di dire: «Sono stati i "dago", gli italiani» E ciò fu sufficiente per dare inizio al pogrom. New Orleans, città allora nota soprattutto per i suoi postriboli e le sue case da gioco, non era popolata di mammolette. La violenza era all'ordine del giorno. Tuttavia, il gesto criminale compiuto dagli italiani contro un esponente della classe dominante provocò una sorta di guerra santa. Ma questo spirito di crociata che pervase gli abitanti di una delle più turbolente città americane può servire soltanto per spiegare la sanguinosa conclusione della vicenda. Vale piuttosto la pena di illustrare brevemente la biografia dell'ucciso, visto che si è guadagnato un posto nella storia del suo paese quale «prima vittima americana della mafia italiana» Dave Hennessey apparteneva a quella schiera di focosi irlandesi che prima dell'avvento dei gangster nostrani forniva la maggioranza dei malviventi e degli avventurieri che scorrazzavano per l'America. Figlio di un soldato di ventura ucciso in una rissa da osteria, Hennessey aveva girovagato a lungo per il West alternando l'attività di fuorilegge con quella di cacciatore di taglie. Era stato processato anche per due omicidi, ma i giudici lo avevano assolto. Più tardi era approdato a New Orleans dove un suo cugino, già comandante della polizia, ne era stato espulso per indegnità. Dave riuscì a farsi eleggere al suo posto. Si iscrisse anche al club Lanterna Rossa i cui scopi sociali si possono arguire dal fatto che quel tipo di lanterne era allora utilizzato per indicare le case di tolleranza. Hennessey si dimostrò comunque il poliziotto duro e risoluto che i suoi elettori pretendevano. Pochi mesi prima [p. 29] della sua morte era riuscito per esempio a catturare un famoso brigante calabrese, certo Giovanni Esposito, ricercato in Italia per diciotto omicidi e inoltre per il sequestro a scopo di ricatto del pastore protestante inglese Godwin Rose, al quale il brigante aveva tagliato un orecchio per inviarlo come prova alla moglie di lui. C'è da aggiungere tuttavia che il capo Hennessey non era per niente un tipo incorruttibile. Si sapeva, a questo proposito, che l'anno prima aveva salvato alcuni membri della cosca dei Provenzano da una condanna per omicidio con una deposizione a dir poco scandalosa. La sua uccisione sollevò comunque la massima indignazione; e fu in quell'occasione che i giornali americani pubblicarono per la prima volta il nome di un certo agente «Joseph Petrosino», di New York, presentandolo come un esperto di cose italiane. A Petrosino, infatti, fu chiesta la sua opinione sul delitto ed egli rispose che gli investigatori di New Orleans avrebbero fatto bene a indagare sui «precedenti della vittima», alludendo con ciò a una possibile collusione della stessa con elementi mafiosi. Questa era in effetti la pista giusta. Risultò infatti che Dave Hennessey aveva ricevuto diversi «avvertimenti» dai Matranga che lo accusavano di parteggiare sistematicamente per la cosca rivale. Ma la constatazione che il capo della polizia si era lasciato corrompere dai Provenzano non incrinò assolutamente il rimpianto generale per la sua scomparsa, anche se servì come prova che a uccidere Hennessey erano stati i «Giardinieri» di Matranga. I membri della banda furono tutti arrestati. Essi erano: Carlo Matranga, Antonio Scaffidi, Antonio Bagnetto, Emanuele Polizzi, Antonio Marchese, suo figlio Aspero di quattordici anni, Pietro Monastero, Bastiano Incardona, Salvatore Sunseri, Carlo Trajna, James Pagina 12
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Caruso, Rocco Geraci, Charles Patorno, tutti siciliani; nonché Lorenzo Comitez, Charles Poitza, J. P. Macheca e Frank Romero, la cui esatta provenienza non fu accertata, ma che, malgrado i nomi, risultarono italiani anche loro. [p. 30] Gli arrestati respinsero tutti l'accusa. Soltanto Emanuele Polizzi, che risulterà ammalato di mente, firmò una confusa confessione che poi ritrattò. In ogni modo, gli abitanti di New Orleans erano tutti convinti della loro colpevolezza. Per l'occasione furono costituiti un Consiglio dei Cinquanta, composto da altrettanti influenti cittadini, e un Comitato di Vigilanza col compito di garantire che giustizia venisse fatta. Intervennero anche delle organizzazioni segrete sul tipo del Ku Klux Klan e della Lega Bianca che, come avevano fatto precedentemente coi neri, ora davano addosso agli italiani invocando la «salvaguardia della razza» Per i sessantamila agricoltori siciliani che lavoravano nelle campagne della Louisiana seguirono giorni duri. Bande di cavalieri mascherati, i cosiddetti «Night-Riders», misero a ferro e fuoco molte fattorie. Croci fiammeggianti apparvero sulle colline e molti raccolti andarono distrutti. L'ondata d'odio raggiunse vette altissime. Duemila siciliani che, ignari di tutto, sbarcarono in quei giorni a New Orleans, furono accolti a sassate da una massa urlante. Altro indice della violenza incalzante fu il gesto di un certo Thomas Duffy. Costui si recò nel carcere e chiese di parlare con uno degli arrestati, Antonio Scaffidi, che non aveva mai visto prima. Poi, quando il siciliano si fece avanti gli sparò un colpo di pistola ferendolo al collo. Per questo gesto, Duffy fu condannato a sei mesi di reclusione. Innocenti o colpevoli che fossero, i «Giardinieri» si preparavano intanto al processo reclutando i migliori avvocati dello stato. Di mezzi non erano sprovvisti: sembra che gli «amici» sparsi per gli Stati Uniti d'America facessero pervenire loro circa 75.000 dollari. Il processo, d'altra parte, non si annunciava difficile per gli imputati. Tranne la contraddittoria confessione di Polizzi, nessuna prova concreta era stata raccolta contro di loro. Il dibattimento si protrasse per molti giorni mentre gruppi di facinorosi manifestavano intorno al palazzo di [p. 31] Giustizia. Ma, alla fine, il 13 marzo 1891, il Gran Giurì assolse tutti gli imputati tranne tre: Scaffidi, Polizzi e Monastero. Com'era prevedibile, il verdetto provocò una nuova ondata di risentimento. I giurati furono accusati (sembra con ragione) di essersi lasciati corrompere e alcuni di essi vennero malmenati dalla folla. Anche i difensori subirono aggressioni e dovettero cambiare città. Ma il peggio doveva ancora arrivare. La vendetta della città fu organizzata in maniera ufficiale. Il sindaco, che si chiamava Shakespeare e che per la sua impresa fu poi eletto governatore dello stato, chiamò a raccolta i cittadini. Fu diffuso un manifesto che si concludeva con questa frase: «Venite preparati all'azione!» I giornali locali pubblicarono articoli che erano veri e propri incitamenti alla strage. Da parte sua, il Comitato di Vigilanza distribuì armi ai più volonterosi. La mattina del 14 marzo una folla di circa seimila persone si riunì in piazza. Salito sopra un podio improvvisato, un certo avvocato W. S. Parkerson arringò gli scalmanati. «Ci sono qui» urlò «uomini capaci di mutare il verdetto di quell'infame giuria in un atto di giustizia?» «Sì» rispose la folla. «Andiamo a prendere gli italiani e impicchiamoli tutti.» Detto fatto, la massa si diresse verso le carceri gridando: «Vogliamo i "dago"!» I «dago», gli italiani, che ancora non erano stati rimessi in libertà, chiesero aiuto al direttore del penitenziario, John Davis, ma questi allargò le braccia dicendo di non poter far nulla. Sapeva che i dimostranti non si sarebbero fermati davanti alla porta. Tuttavia, quando udì crollare l'uscio d'ingresso sotto i colpi della folla, Davis fece uscire di cella gli italiani invitandoli a nascondersi dove meglio potevano. Pagina 13
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Appena gli uomini armati irruppero nell'interno ebbe inizio la caccia. Sei dei diciotto italiani riuscirono a salvarsi rifugiandosi nel settore femminile dove le numerose prostitute [p. 32] che vi si trovavano li nascosero generosamente sotto le ampie gonne. Gli altri furono catturati a uno a uno. J. P. Macheca fu ucciso a fucilate mentre cercava di difendersi impugnando un tomahawk, un'ascia indiana, che s'era procurato chissà come. Bagnetto fu raccolto da terra dove si era gettato fingendosi morto. Polizzi fu pescato dentro la cuccia del cane, Scaffidi dentro un bidone delle immondizie, Natali sotto una montagna di panni sporchi, Antonio Marchese nella «cella della morte», suo figlio Aspero fu trovato nel cortile, ma venne poi risparmiato. Più tardi, i prigionieri furono impiccati agli alberi di Treme Street. Il ramo cui era appesa la corda di Bagnetto si ruppe, ma un ragazzo andò subito a legarla a un ramo più robusto. Poi, mentre i disgraziati si dibattevano negli spasimi dell'agonia, trenta «tiratori scelti» del Comitato di Vigilanza scaricarono contro di loro tutti i colpi contenuti nei caricatori dei rispettivi Winchester. Terminata la carneficina, mentre torme di donne eccitate bagnavano nel sangue i fazzoletti o strappavano lembi dei vestiti delle vittime per tenerli come trofei, l'avvocato Parkerson parlò ancora alla folla. «Ora giustizia è fatta» disse. «Se sarà necessario tornerò a chiamarvi. Rientrate sereni nelle vostre case. Che Dio vi benedica!» La folla rispose: «Che Dio benedica voi, signor Parkerson»; e, sollevato a spalle, l'avvocato fu portato a casa in trionfo. I fatti di New Orleans suscitarono orrore nel mondo intero. Tranne alcuni giornali del Sud, la stampa americana si associò a quella europea nel condannare il barbaro episodio. Il «Times» di Londra scrisse: «L'indignazione dell'Italia è condivisa da tutto il mondo civile» Il governo italiano, che era allora retto dal siciliano Antonio Starabba marchese Di Rudinì, prese misure drastiche: si giunse al richiamo dell'ambasciatore da Washington e alla rottura di fatto delle relazioni diplomatiche. Qualcuno invocò addirittura la dichiarazione di guerra, e una simile eventualità [p. 33] fu presa sul serio anche da molta gente in America. A New Orleans, per esempio, si scatenò il panico quando un giornale annunciò che la flotta italiana stava puntando sulla città per bombardarla. La notizia era naturalmente fantastica, ma in alcuni ambienti di Washington si espresse davvero il timore che la squadra italiana, comprendente ventidue navi da battaglia, potesse attaccare le coste americane. L'organo del partito democratico, il «Times Democrat», scrisse in quell'occasione che gli Stati Uniti, possedendo una sola nave da battaglia, e per di più incompleta, erano praticamente «alla mercé della marina italiana» Ed è interessante ricordare che, proprio con questo pretesto, il governo americano lanciò in quei giorni un prestito nazionale per il potenziamento della flotta, dando così il via allo sviluppo della marina militare USA. La controversia con l'Italia si concluse l'anno successivo, quando il presidente Harrison, per riallacciare normali relazioni con Roma, offrì un risarcimento di 125.000 lire-oro per ciascuna delle vittime. L'offerta fu subito accettata da Di Rudinì, ma Harrison pagò caro il suo gesto di pacificazione. I democratici riuscirono infatti a sconfiggerlo nelle successive elezioni presidenziali, accusandolo di aver «utilizzato i soldi dei contribuenti per ricompensare gli assassini di Dave Hennessey» Gli undici di New Orleans non furono purtroppo i soli italiani a essere vittime della cosiddetta «Legge di Lynch», dal nome dell'americano che escogitò per primo questo barbaro sistema di giustizia. Nell'archivio storico del ministero degli Esteri italiano sono ancora conservati centinaia di fascicoli relativi a linciaggi di italiani negli Stati Uniti. 1895. Tre italiani sono linciati a Walsenburg, Colorado, dopo essere stati assolti dall'accusa di omicidio. 1896. A Hanville, Louisiana, tre siciliani accusati di omicidio sono prelevati dal carcere prima del processo e impiccati sulla Pagina 14
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt pubblica piazza. [p. 34] 1899. A Tallulah, Louisiana, cinque italiani, i fratelli Francesco, Carlo e Giuseppe Difatta con i loro amici Giovanni Cerani e Rosario Fiducia, tutti di Cefalù, sono linciati in seguito a un loro diverbio, senza spargimento di sangue, con un certo dottor Hodges che non voleva le capre dei siciliani nei propri pascoli. Questi furono i casi più clamorosi, ma l'elenco potrebbe continuare. Non sempre, fra l'altro, le vittime erano dei criminali veri o presunti. In molti casi si trattava semplicemente di emigrati ridotti al vagabondaggio, o di altri che, dopo aver subito le violenze dei loro compatrioti nei vari «quartieri italiani» delle grandi città, si erano inoltrati nell'interno del paese con la sola speranza di trovare un pezzo di terra sul quale vivere in pace. A New York, di linciaggi di italiani non ce ne furono mai. Ma il motivo va ricercato nel fatto che la colonia italiana si teneva praticamente isolata. Chiusi nel proprio ghetto, gli emigrati vivevano mantenendo immutate le proprie tradizioni regionali, continuando a parlare il loro dialetto e spesso morendo senza avere mai preso contatto con la società americana che stava sviluppandosi a pochi isolati di distanza. In questo ambiente la mafia, intesa come organizzazione criminale capace di controllare ogni tipo di traffico, si svilupperà più tardi. Ma negli anni a cavallo del secolo, i criminali approdati a New York, pur avendo tutte le caratteristiche del mafioso, non erano assolutamente all'altezza di dar vita a una vera e propria industria del crimine. D'altra parte, questi individui erano in genere dei gregari, la cui stolida ignoranza era paragonabile soltanto alla loro crudeltà. Come conseguenza, le prime organizzazioni mafiose che operarono nella città di New York usarono sistemi rudimentali e spietati. Si formarono comunque dei gruppi delinquenziali, più o meno collegati fra di loro, il cui unico scopo era quello di depredare i propri connazionali. [p. 35] Gli emigrati, che giungevano a New York con in tasca le sole cinquanta lire necessarie per ottenere il permesso di soggiorno, cadevano nella loro rete appena messo piede sulla banchina. Pilotati verso equivoche agenzie, essi venivano poi assunti da qualche impresa per essere sottoposti allo sweating system (orario massimo, salario minimo) Una buona parte del misero salario era inoltre assorbito dalle varie tangenti. Chi riusciva lo stesso a risparmiare qualche dollaro, finiva sempre per affidarlo a qualche «banchiere» che gli mangiava regolarmente tutto. I malviventi che riuscirono a spargere il terrore anche fuori degli ambienti italiani di New York, furono quelli della cosiddetta Mano Nera. Nel giro di pochi anni, questo nome sinistro assunse una potenza tale che spesso bastava l'impronta di una mano sporca di carbone sull'uscio di una casa per indurre una famiglia a cambiare città. E' molto dubbio, però, che la Mano Nera fosse una vera «società», un'organizzazione solida e ramificata sul tipo dell'attuale Cosa Nostra. Giuseppe Petrosino, pur essendo da tutti indicato come il Nemico Numero Uno della Mano Nera, rifiutò per anni questa ipotesi. Egli sosteneva che piccoli gruppi di delinquenti, e persino malviventi isolati, avevano scelto questo simbolo sinistro proprio perché tutti ne avevano paura. La Mano Nera, d'altronde, non la inventarono i delinquenti siciliani. Il nome era quello di una società segreta fondata da anarchici spagnoli e poi diffusasi in altri paesi, soprattutto nei Balcani, con lo scopo di togliere di mezzo sovrani e altri capi di stato. E' quindi molto probabile che il simbolo della Mano Nera sia stato importato in America da anarchici europei. Resta comunque il fatto che i delinquenti italiani se ne appropriarono per utilizzarlo a scopi diversi. Verso la fine del secolo, infatti, nel quartiere italiano di New York si registrò un improvviso fiorire di lettere ricattatorie con impresso il disegno di una mano e con contorno di teschi e pugnali Pagina 15
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt incrociati. Nessun emigrato che fosse [p. 36] riuscito a raggiungere una certa agiatezza riusciva a sfuggire al ricatto postale. La vittima era perentoriamente invitata a depositare una certa somma in un certo luogo. Chi non pagava, o veniva ucciso o aveva il negozio o la casa distrutti dalla dinamite. I malviventi contavano sull'omertà delle vittime; e in ogni modo, rivolgersi alla polizia non sarebbe servito che ad aggravare le rappresaglie. Ben presto, d'altra parte, tutti i delitti commessi nel quartiere italiano vennero indiscriminatamente attribuiti alla Mano Nera, e questa generalizzazione, oltre che rafforzare la diffidenza nei confronti della comunità italiana, favorì enormemente i malfattori. Anche i più scettici finirono per convincersi dell'esistenza di una società segreta dotata di grandi mezzi e con un forte numero di aderenti. E tutti finirono per assoggettarsi all'intimazione di «pagare o morire» Come eccezione che conferma la regola, si può citare questa lettera apparsa in quei giorni sul «New York Times»: «Mi chiamo Salvatore Spinelli. I miei genitori in Italia appartenevano a una onesta famiglia. Sono arrivato qui diciotto anni fa e ho cominciato a lavorare da imbianchino, come mio padre. Mi sono sposato. Mi sono formato una famiglia e sono cittadino americano da tredici anni. I miei bambini, appena sono in età per farlo, vanno tutti a scuola. Divento imprenditore. Comincio a considerarmi un benestante. Tutti nella mia famiglia sono felici. Possiedo una casa al 314 e un'altra al 316 dell'Undicesima strada che do in affitto. A questo punto si fa viva la «Mano Nera» che mi chiede settemila dollari. Io le rispondo di andare all'inferno e i banditi cercano di far saltare la mia casa. Chiedo allora l'aiuto della polizia e respingo altre richieste, ma la «Mano Nera» fa scoppiare una, due, tre, quattro, cinque bombe nelle mie proprietà. Gli affari mi vanno a rotoli. Di trentadue inquilini me ne sono rimasti sei. Ho mille dollari di interessi scadenti il mese prossimo e non posso pagare. Sono un uomo rovinato. La mia famiglia vive nel terrore. Vi è un poliziotto di guardia di fronte alla mia casa, ma cosa può fare? Mio fratello Francesco e io vigiliamo armati dalle finestre giorno e notte. Mia moglie e i miei figli non escono di casa da settimane. Quanto durerà tutto questo?» [p. 37] III LA MANO NERA dA mITO a rEALTà Il «delitto del barile» segnò una data importante nella carriera del detective Giuseppe Petrosino. Egli naturalmente non poteva sapere che fra gli individui arrestati c'era quello che, sei anni più tardi, lo avrebbe ucciso in una buia piazza di Palermo. Tuttavia il suo istinto di vecchio poliziotto lo aveva messo in guardia contro questi personaggi, che apparivano assai più scaltri di quelli con cui era abituato a trattare. Evidentemente qualcosa stava cambiando nel mondo della malavita americana. Forse era una nuova generazione di criminali che stava affacciandosi alla ribalta. D'altra parte, l'abilità dimostrata dalla banda Morello nell'organizzare la propria difesa aveva sconcertato tutti quanti. Il trucco della sostituzione di persona, per esempio, con l'impiego di un sosia, appena giunto dalla Sicilia e quindi nuovo dell'ambiente, rivelava l'esistenza di una mente organizzativa e di ramificazioni fin lì insospettate. Nonostante questa nuova esperienza, Petrosino non avrebbe ancora smesso di ripetere la sua dichiarazione del 14 aprile, o altre precedenti, sulla Mano Nera come «mito» Una di queste dichiarazioni era apparsa sullo «Herald» del 20 febbraio 1903. «C'è soltanto una cosa che può liquidare la Mano Nera» aveva detto il detective «e questa cosa è il superamento dell'ignoranza. I gangster che tengono Little Italy sotto una cappa di terrore, provengono generalmente dalla Sicilia e dall'Italia meridionale e sono degli zotici briganti di [p. 38] campagna trapiantati in città. I loro metodi brutali lo dimostrano. Nessun rapinatore americano Pagina 16
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt penserebbe mai di fermare un uomo e di tagliargli la faccia col coltello solo per prendergli il portafogli. Probabilmente si limiterebbe a minacciarlo con la pistola. Nessun delinquente americano farebbe saltare la casa o ucciderebbe i figli a chi si rifiuta di pagare cinquanta o cento dollari. «I crimini che avvengono qui fra gli italiani» aveva detto ancora Petrosino «sono gli stessi perpetrati un tempo dai ladroni di campagna in Italia; e le vittime, come gli assassini, appartengono alla stessa gente ignorante. Si tratta insomma di un brigantaggio di campagna trapiantato in una delle città più moderne del mondo.» A questo punto un giornalista gli aveva chiesto: «Come pensate di risolvere il problema del brigantaggio fra i vostri connazionali?» «Se nella colonia italiana si formerà un Comitato di Vigilanza» aveva risposto il detective «se gli italiani agiati si muoveranno per educare gli ignoranti convincendoli che le leggi americane esistono anche per la loro protezione, il problema si risolverà da sé. I cosiddetti membri della Mano Nera non hanno niente di invincibile, e verrà il giorno, io spero, che cominceremo a trovarne qualcuno penzolante da un lampione o fatto a pezzi per strada...» «Volete arrivare al linciaggio?» aveva domandato il giornalista. «No. Io vorrei soltanto giustizia» era stata la risposta di Petrosino. In realtà, Giuseppe Petrosino non avrebbe esitato a fare a pezzi uno dei tanti tagliagole che si aggiravano nei vicoli dell'East Side. L'uomo era sanguigno e violento. La continua frustrazione di vedere subito scarcerati individui cui aveva faticosamente dato la caccia l'aveva reso duro e spietato. I gangster che avevano avuto a che fare con lui portavano i segni del «colloquio» per mesi; specialmente quando si rendeva conto che le prove raccolte non sarebbero [p. 39] state sufficienti per un rinvio a giudizio o per l'espulsione dal paese, non esitava a pestarli. «Così vi ricorderete chi è Petrosino» li ammoniva dopo il pestaggio. Faceva anche il possibile per rendere loro la vita difficile a New York: li arrestava a ogni occasione, perseguitava i loro amici e clienti, finché quelli, completamente isolati, finivano per trasferirsi in lidi più ospitali. «Ho tolto di mezzo più criminali con questo sistema che con l'aiuto della magistratura» confidava ai colleghi. La frenetica attività di Petrosino, unico detective in tutta New York capace di comprendere la lingua italiana, non pose comunque alcun freno alla diffusione delle cosiddette «lettere di scrocco» Nel 1904 il problema della Mano Nera - mitologica o no che fosse questa organizzazione - aveva assunto importanza nazionale; se ne parlava a livello governativo, statale e federale; ma nessuno prese in considerazione l'insistente richiesta di Petrosino che mirava alla costituzione di una squadra di polizia italiana. In effetti, le autorità newyorkesi tendevano ancora a discriminare gli italiani. Petrosino rappresentava un'eccezione, ma gli altri... meglio tenerli alla larga. E non solo dalla «stanza dei bottoni», ma anche dalla modesta promozione sociale che poteva essere rappresentata dall'uniforme di poliziotto. Il detective italiano, intanto, continuava a ripetere che la Mano Nera era un bluff di malviventi o bande isolate avallato dalla fantasia dei giornalisti. Su questo non aveva dubbi. Ancora nel 1904, quando gli autori di lettere minatorie e i lanciatori di bombe divennero attivi come non mai, egli ebbe uno scontro con l'assessore alla polizia William McAdoo. Dopo aver sviluppato la sua tesi in un rapporto ufficiale, Petrosino affrontò il suo capo per insistere sulla necessità di costituire una squadra italiana. «Gli italiani di New York» gli disse «non collaboreranno mai con dei poliziotti che neppure comprendono la loro lingua.» [p. 40] «Io penso che non collaboreranno con nessuno» ribatté l'assessore. «Mi risulta che in Sicilia i poliziotti italiani incontrano gli stessi ostacoli.» «Qui non siamo in Sicilia» insistette Petrosino. «E gli italiani di New York non sono tutti siciliani. Concedete fiducia se volete Pagina 17
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt fiducia.» McAdoo non se ne dette per inteso. «Non credo che gli italiani meritino fiducia» replicò. «Senza dubbio sono in gran parte brava gente e ottimi lavoratori, ma il fatto è che qui si comportano come se fossero in territorio nemico.» «Probabilmente lo sono» dichiarò Petrosino. «Sapete cosa dicono i miei connazionali quando parlano dell'America? Dicono: un italiano l'ha scoperta, gli irlandesi e gli ebrei la governano. Provate a concedere un po di potere anche agli italiani, e forse qualcosa cambierà.» Il colloquio finì come al solito: McAdoo dette generiche assicurazioni e Petrosino se ne andò per niente soddisfatto. Qualche giorno dopo il detective tornò alla carica con una conferenza stampa. «La Mano Nera» disse ai giornalisti «non è neppure una società di origine italiana. Prima degli italiani, altri gruppi etnici hanno utilizzato questo simbolo proprio qui a New York e posso ampiamente dimostrarlo. Ci vogliono però dei poliziotti che conoscano l'italiano per sbarazzare da questo flagello Little Italy. Allora la Mano Nera scomparirà, perché non si tratta di una vera e propria organizzazione criminale come la mafia e la camorra, ma di individui isolati che le stesse vittime denunceranno appena si renderanno conto di essere effettivamente protette dalla polizia.» Giuseppe Petrosino seppe poi stimolare la curiosità dei giornalisti mostrando loro un pacco di lettere ricattatorie attribuite alla Mano Nera. «Guardate bene queste lettere» disse. «Anche se non conoscete l'italiano vi sarà facile notare che sono tutte scritte con calligrafie diverse. Io che le ho esaminate attentamente [p. 41] posso addirittura affermare che esse non solo sono state scritte da mani diverse, ma anche da persone provenienti da regioni diverse.» Il detective insistette molto su questo punto, invitando i giornalisti a controllare anche il simbolo della Mano Nera disegnato in calce a ogni lettera. Si trattava infatti di disegni molto diversi fra loro: in alcune la mano era disegnata aperta, in altre chiusa a pugno, in altre ancora trafitta da un pugnale o contornata di spade e di teschi. «Io penso» concluse il poliziotto «che se davvero si trattasse della stessa organizzazione, anche il simbolo sarebbe sempre lo stesso.» Era un ragionamento logico e i giornalisti lo accettarono dando il via a una campagna di stampa tendente a ridimensionare il mito della Mano Nera. Qualche articolo di giornale non fu comunque sufficiente a modificare la situazione. Anzi, i ricattatori perfezionarono i propri sistemi e le «lettere di scrocco» continuarono a perseguitare le vittime prescelte con puntuale regolarità. Petrosino, intanto, non tralasciava di insistere sulla sua tesi anche se, intimamente, cominciava a nutrire qualche dubbio. A metterlo in crisi fu comunque la domanda di un giornalista. «Visto che secondo voi si tratta di banditi isolati» gli aveva chiesto l'intervistatore «spiegatemi perché chi accetta di pagare il ricatto non è più disturbato.» Anche questo era un ragionamento logico. E Petrosino rispose imbarazzato che, probabilmente, la debole reazione della polizia aveva permesso ai malviventi di organizzarsi in gruppi più omogenei. Ma egli stesso non era convinto di questa spiegazione. Da qualche tempo il dubbio che esistesse effettivamente a New York una superbanda con complici e collegamenti a ogni livello, aveva cominciato a turbare i suoi sonni. Era giunto, per Giuseppe Petrosino, il momento di rettificare le proprie convinzioni. [p. 42] In oltre vent'anni di servizio nella polizia, Giuseppe Petrosino non era mai stato tormentato da dubbi o incertezze. Sulla complessa realtà sociale in cui operava, egli si era fatto delle idee molto precise, anche se altrettanto limitate. Aveva diviso il mondo in buoni e cattivi e aveva scelto di servire i buoni, ossia la società Pagina 18
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt americana che aveva permesso a lui, ultimo arrivato, di conquistarsi una posizione solida e sicura. Di conseguenza, tutti coloro che non accettavano le regole di questo sistema, erano dei reprobi che occorreva tenere a bada possibilmente con la maniera forte. Su questi schemi elementari, Giuseppe Petrosino aveva impostato la propria condotta. E sulla giustezza delle sue idee non aveva dubbi. Perciò, si vergognava del comportamento dei propri connazionali, comportamento di cui non avvertiva le cause profonde, ma solo gli aspetti più appariscenti: il delitto, l'omertà, l'ignoranza e l'incapacità di inserimento nel nuovo sistema sociale. D'altra parte, non si poteva pretendere di più da un poliziotto del suo grado di cultura. Per la verità, egli era convinto di essere un uomo colto, ma solo perché la sua istruzione di livello elementare, in un ambiente popolato di analfabeti, faceva di lui uno degli italiani più istruiti di New York. Per capire la psicologia del famoso poliziotto, per comprendere il suo «complesso dello zio Tom» (come i leader dei movimenti antirazzisti americani definiscono oggi quel sentimento di gratitudine e di lealtà che anima i neri che sono riusciti a inserirsi nel sistema americano) bisogna riprendere la sua storia dall'inizio. Giuseppe Michele Pasquale Petrosino era nato a Padula, in provincia di Salerno, il 30 agosto 1860. Suo padre Prospero faceva il sarto, e sua madre si chiamava Maria Giuseppa Arato. Prospero e Maria Giuseppa ebbero altri due figli: Caterina e Vincenzo; poi la madre morì e il vedovo risposò [p. 43] un'altra ragazza di Padula, Maria Mugno, dalla quale ebbe altri tre figli: Antonio, Giuseppina e Michele. Quando il piccolo Giuseppe compì tredici anni, suo padre decise di emigrare in America con tutta la famiglia. Partirono da Napoli nell'estate del 1873, con un bastimento a vela e a vapore, e raggiunsero New York dopo una traversata di venticinque giorni. Considerando l'epoca, la decisione di Prospero Petrosino di trasferirsi in America può essere giudicata piuttosto eccezionale. L'emigrazione di massa dall'Italia meridionale avrà infatti inizio molti anni dopo. A spingerlo a partire non deve neppure essere stata la nera miseria. Il sartore di Padula, anche se certamente costretto a strappare la vita coi denti, non era così povero come la stragrande maggioranza dei suoi compaesani. Il fatto che sia riuscito a mandare i figli maschi alle scuole elementari indica, considerando i tempi, una sia pur modesta agiatezza. In seguito, Giuseppe Petrosino si farà vanto della sua capacità di saper leggere e scrivere, e modificherà anche certi particolari biografici per distinguersi sempre più dai propri connazionali. Diventato famoso, confiderà ai giornalisti di avere studiato l'arpa a Napoli e, poi, il violino. Naturalmente mentiva. E' certo soltanto che egli nutriva una grande passione per la musica (l'unico svago che si concedeva era l'opera) Più avanti negli anni si dedicò al violino, che studiava di nascosto nel suo appartamento da scapolo. Ma pochissimi intimi ebbero il privilegio di ascoltarlo. Le ragioni che indussero papà Petrosino a emigrare in America non sono dunque del tutto chiarite. Per la verità, dopo il 1870 si mosse dall'Italia una prima ondata migratoria verso il Nuovo Mondo. Ma si trattava quasi soltanto di italiani del centronord, tutti professionalmente qualificati e anche politicamente impegnati, che lasciarono il paese non soltanto per la legittima aspirazione di un miglioramento economico, ma anche perché delusi dalla piega assunta dagli avvenimenti dopo il raggiungimento della tanto sospirata unità nazionale. [p. 44] Non è tuttavia molto credibile che Prospero Petrosino, morigerato suddito borbonico fino a pochi anni prima, facesse parte di questa schiera. E' molto più probabile che egli abbia voluto seguire l'esempio di certo Vincenzo Giudice che fu il primo padulese ad approdare in America e anche il primo italiano a indossare l'uniforme della polizia newyorkese (Padula, d'altronde, fornirà molti agenti alla polizia americana) A New York, il tredicenne Giuseppe Petrosino dimostrò subito un Pagina 19
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt certo spirito intraprendente. Col coetaneo Pietro Jorio, aprì un chiosco dove era possibile acquistare giornali e, nello stesso tempo, farsi lucidare le scarpe. Va anche detto, a titolo di curiosità, che il chiosco venne installato proprio davanti al numero 300 di Mulberry Street, dove aveva sede la centrale di polizia. In quegli anni, quando il termine rachet aveva ancora il significato originale di «schiamazzo», quando vocaboli esotici quali mafia, camorra, omertà, non figuravano neppure sui più aggiornati dizionari della lingua inglese, l'Italia era nota in America soprattutto per essere la patria di Giuseppe Garibaldi, una sorta di George Washington europeo al quale, come tutti sapevano, il presidente Lincoln aveva addirittura offerto il comando di un'armata durante la guerra di secessione. Gli italiani residenti negli Stati Uniti d'America erano allora guardati con simpatia e non rappresentavano comunque un problema. Erano pochissimi infatti: circa venticinquemila secondo un censimento del 1878. Il giovane Petrosino crebbe dunque in un ambiente ancora immune dai pregiudizi che sarebbero sorti più tardi. Lavorò solo per alcuni anni nel suo piccolo chiosco di giornalaio-lustrascarpe, e dedicò il resto del tempo allo studio dell'inglese, frequentando una scuola serale istituita dal comune per gli emigrati. A sedici anni conosceva molto bene la nuova lingua, anche se non imparò mai a scriverla correttamente. A diciassette otteneva la cittadinanza americana. Nel frattempo aveva anche abbandonato [p. 45] l'umile lavoro del lustrascarpe per occuparsi presso un gente di cambio di nome De Luca, che aveva gli uffici in Broome Street. La prima tappa importante della sua vita, il giovane padulese la raggiunse tuttavia a diciotto anni, quando riuscì a farsi assumere alle dipendenze del comune di New York. Per la verità, l'impiego da lui ottenuto era quello di semplice spazzino (o di «ussaro bianco», come venivano allora chiamati i netturbini per via del camice candido che indossavano), tuttavia era pur sempre l'agognato posto fisso. C'è anche da dire che, in quegli anni, gli «ussari bianchi» dipendevano direttamente dal dipartimento di polizia. Petrosino stava dunque avvicinandosi alla sua meta. Il giovanotto non restò a lungo con la ramazza in pugno. Era sveglio, capace e, cosa molto importante, parlava l'inglese. Un anno dopo era già promosso foreman, caposquadra, col compito di controllare il movimento delle chiatte che andavano a scaricare i rifiuti nell'oceano. Il suo diretto superiore era l'ispettore Alec Williams, un maturo irlandese soprannominato lo «zar del Tenderloin», ossia del quartiere malfamato in cui Petrosino svolgeva la propria attività. Frattanto, siamo nel 1880, erano cominciate ad affluire a New York le prime ondate di emigrati meridionali. Questi nuovi arrivati risultarono subito molto diversi dagli italiani che gli americani si erano abituati a conoscere. Rissosi, generalmente sporchi, apparentemente privi di ogni voglia di inserirsi nel nuovo ambiente e, soprattutto, sempre pronti a estrarre il coltello anche per futili motivi, essi costituirono subito un grosso problema. I poliziotti irlandesi li osservavano un po disorientati. Li sorprendeva più di ogni altra cosa il fatto che le vittime, invece di ricorrere alla polizia, sembravano piuttosto propense a proteggere i loro persecutori. L'ispettore Williams, nel cui distretto si era raggruppato il maggior numero di italiani, fu il più imbarazzato di tutti. [p. 46] Egli non aveva armi per difendersi dai malviventi di recente importazione. E, non conoscendo la loro lingua, non era neppure in grado di sorvegliarli. Fu per questa ragione che Alec Williams cominciò a osservare con maggiore interesse l'efficiente foreman italiano che sembrava tanto desideroso di collaborare con le autorità. Circa i motivi che indussero Giuseppe Petrosino a entrare nella polizia circolarono a suo tempo molte leggende. I suoi detrattori dissero che si era fatto poliziotto in odio ai siciliani che lo avevano respinto dalle loro gang perché salernitano. I suoi agiografi sostengono invece che si arruolò per riscattare l'onore del suo Pagina 20
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt paese, infangato dal comportamento di pochi malviventi. La verità è, comunque, che la sua carriera cominciò dal gradino più basso: quello di informatore. Fu appunto l'ispettore Williams a proporgli di cominciare a lavorare per lui in questa qualità. Ed egli, con la prospettiva di entrare poi ufficialmente nella polizia, non esitò ad accettare. Riteneva di compiere una cosa giusta e necessaria, del resto: in seguito rievocherà questa sua attività di «ausiliario» addirittura con orgoglio. Il «confidente» di Alec Williams svolse molto bene il suo compito. Conoscitore di quasi tutti i dialetti italiani che si parlavano a New York, estremamente coraggioso e altrettanto svelto nell'inquadrare una situazione ascoltando poche battute, egli si rivelò un elemento prezioso in ogni operazione di polizia condotta in ambiente italiano. Infine, il 19 ottobre 1883, quando aveva compiuto ventitré anni, Giuseppe Petrosino indossò la divisa di poliziotto. La cosa non gli fu facile, anche se poté appoggiare la sua domanda di arruolamento sul fatto che, essendo ormai noto alla malavita, la sua attività di informatore diventava sempre più pericolosa e nello stesso tempo sempre meno utile. Fu necessaria la pressante insistenza dell'ispettore Williams per far accogliere la sua domanda. Oltre alle remore dell'origine italiana, infatti, il candidato era molto al di [p. 47] sotto dei requisiti fisici richiesti, misurando - malgrado i suoi novanta chilogrammi di peso - appena un metro e sessanta di altezza. Alla fine la sua domanda fu accolta, comunque, e New York ebbe il poliziotto di più bassa statura che mai avesse avuto. Quando uscì per la prima volta di casa in uniforme, l'agente Petrosino non ricevette l'accoglienza che forse si attendeva. I suoi connazionali lo derisero. Molti lanciavano al suo passaggio motteggi e insulti. Cominciarono anche a fiorire curiosi giochi di parole basati sul suo bizzarro cognome che, in diversi dialetti meridionali, significa «prezzemolo» «Con lu petrosino» si diceva «la polizia americana diventerà più saporita, ma indigesta resterà.» Il neopoliziotto, che non era mai stato un tipo espansivo, dopo quelle prime esperienze si chiuse sempre più in se stesso. Il servizio diventò la ragione unica della sua vita. Avventure con donne non ne aveva mai avute, e non ne cercò mai. A poco a poco abbandonò anche i pochi amici che contava nel quartiere e, alla fine, lasciò il quartiere stesso andando a vivere per conto suo in un appartamentino da scapolo nella zona abitata dagli irlandesi. Con la famiglia giustificò questo trasferimento affermando che intendeva evitare loro possibili rappresaglie. In realtà egli era ormai un lupo solitario e, da quel momento, anche i suoi congiunti lo vedranno molto di rado. Per alcuni anni, Giuseppe Petrosino prestò servizio come agente di pattuglia nella Tredicesima Strada, trattato con una certa diffidenza dai suoi colleghi che erano tutti irlandesi o ebrei. Dal suo stato di servizio risulta che non si rese mai responsabile della minima mancanza. In ogni occasione sapeva dimostrarsi abile, coraggioso, scaltro e perfetto conoscitore dei regolamenti di polizia. Aveva insomma trovato, come si dice, la sua strada. Era un poliziotto per vocazione, duro, rigoroso, incorruttibile. In Italia sarebbe sicuramente diventato, e rimasto, uno di quegli efficienti marescialli dei carabinieri che rappresentano la spina [p. 48] dorsale dell'Arma. Ma la più aperta società americana gli offrì maggiori soddisfazioni. Nel 1890, l'agente italiano aveva già lasciato il monotono servizio di pattuglia per passare all'ufficio investigativo, col compito di occuparsi della malavita italiana. Era allora assessore alla polizia il futuro presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt. Elegante e raffinato (lo chiamavano «calzino di seta»), Roosevelt era anche molto ambizioso. Il posto di assessore alla polizia rappresentava d'altronde un ottimo trampolino di lancio per chi intendeva continuare nella carriera politica. Petrosino, già sulla strada del successo, poteva inoltre risultare molto utile a Roosevelt per accattivarsi le simpatie di quel gruppo di notabili italiani che cominciava a rappresentare una discreta forza elettorale. Pagina 21
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Da parte sua, Giuseppe Petrosino era abbastanza scaltro per afferrare le regole del gioco politico americano. Capì subito, per esempio, che essendo il posto di capo della polizia un incarico elettivo, chi lo ricopriva aveva soprattutto bisogno di voti per raggiungere mete più alte. La sua amicizia con Teddy Roosevelt ebbe quindi questa base. I due uomini si incontravano spesso, e il poliziotto non perdette mai occasione di fare della pubblicità all'uomo politico. In compenso, prima di trasferirsi a Washington per entrare a far parte del governo, Roosevelt personalmente nominerà Petrosino sergeant-detective, chiamando così per la prima volta un italiano nell'olimpo del Bureau. Petrosino mostrò molta scaltrezza instaurando subito ottimi rapporti con i rappresentanti della grande stampa. Da buon «americano» apprezzava la pubblicità. E' noto che quando stava per eseguire qualche arresto importante era solito avvertire confidenzialmente i reporter più conosciuti affinché potessero assistere di persona all'operazione. Le sue imprese, d'altra parte, avevano lati pittoreschi che ne accrescevano moltissimo l'interesse per la cronaca. Fin dall'inizio della sua carriera, Giuseppe Petrosino s'era [p. 49] specializzato in travestimenti. L'armadio di casa sua era più fornito del guardaroba di un teatro. Era capace di travestirsi da sterratore siciliano per andare a lavorare per settimane nei tunnel di Manhattan o lungo le strade ferrate. Quando tornava alla centrale aveva le mani coperte di calli e il taccuino pieno di informazioni. Altre volte si aggirava per le vie di Little Italy camuffato da mendicante cieco, altre ancora si trasformava in gangster e così via. Naturalmente, col passare del tempo, questa sua abilità trasformistica diventò nota a tutti, e i malviventi si fecero più sospettosi. Accadde spesso, per esempio, che quando qualcuno identificava il poliziotto mentre si aggirava per il quartiere italiano sotto mentite spoglie, i verdurai ambulanti si mettessero a decantare ad alta voce le buone qualità del loro prezzemolo. «Ecco lu petrosino buono!» gridavano. «Guardate che bel petrosino!» E chi aveva motivo di temere la presenza del poliziotto si affrettava a prendere le proprie precauzioni. Dopo la sua promozione a detective, avvenuta il 20 luglio 1895, Giuseppe Petrosino fu totalmente liberato dagli incarichi di secondaria importanza. Da quel momento gli vennero affidati soltanto casi eccezionali. Fu anche dispensato dall'indossare la divisa ed egli subito rinnovò il proprio guardaroba. Da quel giorno indossò dei completi scuri, soprabiti stile prince Albert e scarpe con la doppia suola (per guadagnare qualche centimetro di altezza) Come copricapo usò sempre il derby hat, la bombetta, che sceglieva fra quelle di tipo più alto per lo stesso motivo delle scarpe. Per questo tipo di cappello (che si toglieva assai di rado, per nascondere l'incipiente calvizie) egli venne chiamato il «detective in derby hat» Purtroppo, anche se vestito da gentleman, Petrosino non acquistò un aspetto gradevole. Era un uomo tozzo, tarchiato, col volto rotondo, da contadino, che conservava le tracce del vaiolo contratto da ragazzo a Padula. [p. 50] Luigi Barzini, che lo conobbe in quegli anni, lo descrisse così: «Era un uomo vigoroso e corpulento. Il suo viso, interamente raso, aveva tratti grossolani che una leggera butteratura deformava, e non riusciva simpatico a prima vista. Ma v'era in quella fisionomia da macellaio, l'impronta di una volontà ostinata e del coraggio, qualche cosa che faceva pensare al mastino. Petrosino aveva più del lottatore che del poliziotto. Si capiva che doveva essere più abile ad acciuffare il delinquente che a scovarlo.» Un giornalista americano scrisse invece di lui: «A prima vista egli sembra un proprietario di caffè o un bottegaio della Little Italy. E' rozzo e sembra piuttosto tardo di comprendonio. Il suo volto è inespressivo e potrebbe attraversare la folla senza attrarre l'attenzione dei passanti. Ma proprio qui sta la forza del detective. Egli è padrone dell'arte di assumere un'aria di Pagina 22
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt sbigottita semplicità. Ma più di un ladro e di un assassino hanno scoperto a proprie spese quanto sia rapida la sua mente e svelto il suo braccio.» Nel giro di qualche anno, il «detective in derby hat» diventò famoso a New York e negli stati vicini. Questo integerrimo italiano che si batteva coraggiosamente contro i propri connazionali disonesti, incuriosiva gli americani. Ogni suo gesto faceva, come si dice, notizia. Un giornalista paragonò Petrosino a uno di quei fedelissimi scouts indiani che aiutavano la cavalleria americana a stanare i nascondigli degli Apache o dei Cheyenne. E la similitudine, con tutto il suo implicito razzismo, non era in fondo sbagliata, anche se lo «scout» Petrosino dava la caccia a individui assai più temibili degli indiani. La notte del 17 luglio 1898, due agenti in servizio di pattuglia lungo Leonard Street, nella zona di Manhattan dove Little Italy confina con Chinatown, furono richiamati dalle grida disperate di un uomo. A passo di corsa e con le pistole in pugno, i poliziotti si diressero subito sul luogo. Le grida provenivano dall'angolo di Baxter Street, poco lontano dal Caffè Trinacria, un locale frequentato abitualmente da siciliani. [p. 51] Quando i due giunsero, nessuno gridava più. Se qualcuno si era nel frattempo affacciato dalle finestre o dalla porta del caffè, aveva già provveduto a ritirarsi. La zona era nuovamente immersa nel buio e nel silenzio. Aggirandosi guardinghi, con le armi in posizione di sparo, i due agenti udirono una specie di rantolo provenire da dietro l'angolo di una casa. Si avvicinarono e scorsero un giovane che, stringendo ancora in mano un coltello insanguinato, osservava come annichilito un uomo rovesciato bocconi nella cunetta della strada. Il giovane fu immediatamente disarmato e ammanettato. Per l'altro non c'era più nulla da fare: una coltellata alla schiena l'aveva ucciso sul colpo. Per i due agenti il caso risultò subito più che chiaro. Si trattava del solito delitto fra italiani e, questa volta, l'assassino era stato colto sul fatto. L'interrogatorio dell'arrestato, certo Angelo Carboni di venticinque anni, si svolse più con gesti che con parole. L'italiano non sapeva l'inglese, infatti, e gli agenti non sapevano l'italiano. Fu comunque possibile stabilire che Carboni aveva litigato quella sera con il compaesano Natale Brogno, di quarantadue anni, all'interno del Caffè Trinacria da dove erano poi usciti evidentemente per azzuffarsi nella strada. Da parte sua, Angelo Carboni ammise senza esitazione questi fatti; ma si ostinò a respingere, singhiozzando, l'accusa di omicidio. «Facevamo a pugni nel buio» spiegò «quando a un tratto Brogno m'è caduto davanti e non s'è più mosso. Io mi sono chinato su di lui per rialzarlo e gli ho trovato un coltello ficcato nella schiena. Per questo mi avete trovato con il coltello in mano.» Era una giustificazione puerile, che nessuno prese sul serio; e appena una settimana dopo, Angelo Carboni veniva condannato alla sedia elettrica. Il detective Giuseppe Petrosino decise di interessarsi del caso quando tutto sembrava ormai risolto. Il poliziotto [p. 52] italoamericano, mentre si aggirava travestito per le strade del quartiere italiano, aveva infatti raccolto strane voci secondo le quali Angelo Carboni stava per salire sulla sedia elettrica al posto di qualcun altro. Ma che senso potevano avere queste voci? Possibile che Carboni, sorpreso addirittura con in pugno l'arma insanguinata, fosse effettivamente innocente? Per qualche giorno, Petrosino fu indeciso se dare inizio a un'inchiesta supplementare col rischio di fare una brutta figura. Ma alla fine, sia perché le voci sull'innocenza del Carboni continuavano a circolare, sia perché il giovane era risultato un onesto lavoratore e padre di famiglia, decise di mettersi al lavoro. La sua indagine ripartì da zero. Non volle neppure prendere in esame i vari rapporti sul caso redatti dagli investigatori che lo avevano preceduto. Interrogò invece molto a lungo il condannato, che Pagina 23
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt attendeva l'esecuzione nella cella della morte di Sing Sing. Carboni però non aggiunse nulla di nuovo alla sua versione. «Io non l'ho ucciso» insistette. «Vi giuro che è caduto a terra mentre facevamo a pugni. Forse, nel buio, qualcuno lo colpì alle spalle.» Convinto della buonafede del giovanotto, il detective si informò sui precedenti dell'ucciso. Scoprì subito che Natale Brogno aveva molti nemici e fra questi un certo Salvatore Ceramello, di sessantadue anni, noto per essere un tipo particolarmente violento, il quale si trovava anche lui nel Caffè Trinacria la sera che Brogno aveva litigato con Carboni. Il poliziotto cercò allora il Ceramello, per interrogarlo, ma scoprì che il vecchio era scomparso da casa la sera stessa del delitto. Naturalmente questa fuga precipitosa aumentò i sospetti dell'investigatore, che subito si mise sulle tracce del fuggiasco. Ne seguì una lunga caccia all'uomo che si protrasse per circa un mese. Mentre Angelo Carboni contava i giorni che lo separavano dall'esecuzione, Giuseppe Petrosino si aggirava freneticamente per mezza America. Egli si rendeva conto che la vita [p. 53] di un innocente era legata al successo della sua missione. Le tracce di Ceramello portarono Petrosino a Jersey City, a Filadelfia, a Montreal e nella Nuova Scozia, ma sempre inutilmente. A fine agosto, il detective fece ritorno a New York rassegnato a dichiararsi sconfitto. Invece fu proprio a New York che egli ritrovò la pista dell'uomo cui dava la caccia. A fornirgliela fu un cugino di Ceramello che Petrosino rintracciò nel quartiere italiano. Usando vari travestimenti, egli pedinò quest'uomo per giorni e giorni. Lo seguì nel Bronx e quindi di nuovo a Filadelfia e poi a Baltimora. In questa città l'uomo raggiunse una casa isolata della periferia. Probabilmente era il nascondiglio del fuggiasco, ma Petrosino doveva accertarsene prima di entrare in azione. Per far questo, l'investigatore ricorse a uno dei suoi soliti trucchi. Reso irriconoscibile da una folta barba, egli si avvicinò con passo sicuro alla casa e bussò alla porta. «Sono un funzionario del servizio di Sanità» disse alla donna che era venuta ad aprire. «Mi hanno detto che qui c'è stato un caso di vaiolo.» E senza perdere tempo spinse l'uscio ed entrò. Nella stanza, oltre l'uomo da lui pedinato per tutti quei giorni, c'era anche un vecchio intento a spaccare con l'ascia dei pezzi di legno da mettere nella stufa. Petrosino non aveva una fotografia del ricercato, ma suppose ugualmente di essere vicino alla preda. «Voi come vi chiamate?» gli chiese fingendo di prendere delle note su un taccuino. Il vecchio rimase un attimo in silenzio, come preso alla sprovvista. «Mi chiamo Fiani» disse poi con un certo imbarazzo. «Invece vi chiamate Ceramello» ribatté pronto Petrosino e approfittò della sorpresa del vecchio per strappargli di mano la scure. I due uomini e la donna presenti nella stanza osservarono con odio il falso agente sanitario che nel frattempo aveva estratto la pistola. «Ma voi chi siete?» protestò il vecchio. [p. 54] «Mi chiamo Petrosino» rispose il detective togliendosi teatralmente la barba. Qualche giorno dopo, Salvatore Ceramello ammise di essere lui l'assassino di Brogno. Aveva seguito i due uomini fuori del Caffè Trinacria e quando avevano cominciato a fare a pugni egli aveva approfittato dell'oscurità per colpire Brogno alle spalle. Angelo Carboni fu scarcerato quando mancavano otto giorni alla data dell'esecuzione. Salvatore Ceramello morì sulla sedia elettrica. Qualche mese dopo, il 22 dicembre 1898, il terrazziere siciliano Antonio Sperduto vagava, più «sperduto» che mai, lungo la Bowery. Sembrava stesse molto male. Si teneva le mani premute sullo stomaco e, ogni tanto, si appoggiava al muro e vomitava. Quando un poliziotto gli si avvicinò, Antonio cercò di dirgli qualcosa nel suo incomprensibile dialetto, ma solo coi gesti riuscì a far capire che qualcuno aveva cercato di avvelenarlo. Poche ore dopo, Antonio Sperduto era di fronte a Giuseppe Petrosino e, finalmente, poté spiegarsi nella propria lingua. Pagina 24
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Era arrivato in America sei mesi prima. A San Piero Patti, in Sicilia, aveva lasciato una moglie e quattro figli. Appena giunto a New York, un arruolatore gli aveva offerto del lavoro come terrazziere in un tunnel della sotterranea. Egli aveva lavorato sodo per sei mesi, vivendo praticamente di pane e latte. Terminato il contratto e versata la tangente al caposquadra e all'arruolatore, si era ritrovato padrone di un gruzzolo di centodue dollari. La somma necessaria per farsi raggiungere dalla famiglia. Il giorno prima, l'uomo si era dunque recato presso la sede di una compagnia di navigazione italiana per chiedere notizie sulla procedura da seguire per far pervenire alla moglie il biglietto per il viaggio. Poco dopo era uscito e si era visto venire incontro uno sconosciuto. [p. 55] «Era molto ben vestito» spiegò Antonio Sperduto a Petrosino «e sembrava felice di vedermi...» «Poi» lo interruppe il detective «vi chiamò col vostro nome e disse di avervi conosciuto da ragazzo, in Sicilia...» «Sì» confermò stupito il terrazziere. «Conosceva anche il nome di mia moglie.» «E così avete accettato di andare a bere con lui per festeggiare l'incontro. Non è vero?» «Proprio così» approvò Antonio Sperduto. «Ero anche commosso per il fatto che una persona così ben vestita mi dimostrasse tanta amicizia.» «Dunque andaste a bere insieme. Dove andaste?» «A casa sua» rispose il terrazziere. «Ma di quello che è successo dopo non ricordo più nulla. So soltanto che mi sono risvegliato in un vicolo buio. Ero in un lago di vomito e senza portafoglio.» Giuseppe Petrosino era abituato a quelle storie. Da tempo dava la caccia alla banda dei cosiddetti «avvelenatori» Costoro riuscivano con vari stratagemmi a scoprire nome e luogo d'origine delle vittime prescelte (Sperduto, per esempio, aveva fornito le proprie generalità e quelle di sua moglie alla compagnia di navigazione), poi le avvicinavano fingendosi dei compaesani, e quindi offrivano loro da bere, mescolando al vino dosi di sonnifero sufficienti per atterrare un cavallo. Contrariamente alle altre vittime, che sempre rifiutavano di collaborare con la polizia, Antonio Sperduto non si fece pregare per fornire tutte le indicazioni possibili. E la sua collaborazione si rivelò decisiva. Qualche giorno dopo, Giuseppe Petrosino arrestava il capo della banda, certo Giuseppe Giuliano, mentre rientrava nel suo alloggio al terzo piano di una casa di Park Street. Il Giuliano cercò di resistere e ne seguì una zuffa drammatica. Strettamente avvinghiati, bandito e poliziotto rotolarono per le scale del terzo piano fin nella strada. Ma Petrosino era il più forte e ficcò la testa di Giuliano dentro un tombino continuando a stringerlo alla gola fin quasi a [p. 56] strozzarlo. Né si può escludere che l'avrebbe strozzato davvero, se l'altro non avesse perduto opportunamente i sensi. L'anno successivo, 1899, Giuseppe Petrosino assicurò alla giustizia la cosiddetta «banda degli assicuratori», composta di centododici persone. Costoro, oltre le solite truffe ai danni delle società di assicurazione, avevano escogitato un sistema ingegnoso quanto micidiale per incassare le polizze. Fingendosi assicuratori, essi convincevano i loro connazionali più ingenui ad assicurarsi «a credito» sulla vita. L'assicurato, insomma, poteva contrarre una polizza senza versare un dollaro. Era l'agente, infatti, che si offriva gentilmente di anticipare la somma. Come garanzia, il debitore doveva solo intestare la polizza a favore dell'agente stesso... poi, con comodo, avrebbe potuto riscattarla. Inutile dire che chi si assicurava in tal modo sulla vita, di rado riusciva a sopravvivere per più di un anno. [p. 57] IV «IO gLIEL'aVEVO dETTO...» «Umberto I ucciso a Monza da un anarchico venuto dall'America!» gridavano a squarciagola gli strilloni di Mulberry Street la mattina Pagina 25
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt del 30 luglio 1900. La notizia provocò grande emozione nel quartiere italiano di New York. Molta gente non si recò neppure al lavoro e affollò i bar per ascoltare i particolari dalla viva voce di chi era in grado di leggere la stampa americana. Qualche ora dopo uscirono anche le edizioni speciali del «Progresso italoamericano» e dell'«Araldo», due dei più diffusi giornali italiani d'America, con lunghi resoconti dell'accaduto giunti per telegrafo dall'Italia. Nello stesso tempo, il console generale d'Italia a New York, Branchi, e l'ambasciatore d'Italia a Washington, Mayor des Planches, consegnavano alle autorità le prime note del loro governo in cui si chiedeva la collaborazione della polizia americana per scoprire le fila del complotto che era costato la vita del re d'Italia. Il regicida, tale Gaetano Bresci, di anni trentuno, da Prato in Toscana, risultava infatti proveniente dagli Stati Uniti e, precisamente, da Paterson, New Jersey, dove esisteva un'importante colonia di italiani, quasi tutti centrosettentrionali e affiliati al movimento anarchico. Le pressanti richieste del governo italiano non furono tuttavia sufficienti a mettere in moto un'approfondita indagine. Gli americani, del resto, non dimostravano grande interesse per la serie di attentati che gli anarchici (quasi [p. 58] tutti italiani) avevano compiuto in quegli ultimi anni in Europa. Tali attentati erano considerati il prodotto dei regimi assolutisti, o comunque non abbastanza democratici, che ancora sopravvivevano nel Vecchio Mondo. Erano dunque problemi che gli stessi europei dovevano provvedere a risolvere: la grande Repubblica stellata, che prosperava tranquilla all'ombra della sua Costituzione democratica, non aveva nulla da temere da quella parte. Sulla base di questa convinzione, l'inchiesta svolta a Paterson, nel «covo» degli anarchici, fu condotta in maniera blanda. Lo stesso capo della polizia locale dichiarò che non aveva alcun motivo per perseguitare dei cittadini «rispettosi delle leggi americane» quali risultavano essere gli anarchici di Paterson. Naturalmente, il governo italiano non si contentò di questa dichiarazione. A Roma si era infatti convinti che il regicidio non fosse stato «un gesto individuale di protesta», come Gaetano Bresci si ostinava inutilmente a ripetere, bensì il frutto di un vero e proprio complotto. Si sapeva, d'altronde, che Paterson era diventata da qualche tempo una cittadella dell'anarchia, dove erano di casa temibili sovversivi dello stampo di Errico Malatesta, Saverio Merlino, Camillo Prampolini e via di seguito. L'ambasciatore italiano fu dunque sollecitato a rivolgersi direttamente al presidente degli Stati Uniti per chiedergli, in nome del re d'Italia, di ordinare una nuova inchiesta. E il presidente (William Mchinley, rieletto da pochi mesi) decise di incaricare dell'inchiesta l'Intelligence Bureau, il servizio segreto. L'agente che venne scelto per l'inchiesta si chiamava Redfern, ma costui rientrò quasi subito a Washington affermando che, data la sua ignoranza della lingua italiana, non era assolutamente in grado di assolvere il compito che gli era stato affidato. Va ricordato a questo punto che l'antico assessore alla polizia di New York, Theodore Roosevelt, era riuscito nel frattempo a farsi eleggere vicepresidente degli Stati Uniti. Così, quando Mchinley lo mise al corrente della complicazione [p. 59] che minacciava nuovamente di turbare i rapporti con l'Italia, egli non faticò molto a trovare la soluzione. «Ho io l'uomo adatto per questa missione» disse Teddy Roosevelt al presidente. «Si chiama Giuseppe Petrosino, è uno dei migliori detective di New York, e saprà benissimo trovare un modo per intrufolarsi negli ambienti anarchici di Paterson.» Pochi giorni dopo, un emigrante italiano appena giunto in America prendeva alloggio al Bertoldis Hotel di Paterson. Si trattava di Giuseppe Petrosino, alias Pietro Moretti. Il Bertoldis Hotel, un alberghetto di infimo ordine, serviva anche da luogo di ritrovo per gli anarchici della città. Anche Bresci vi aveva abitato a lungo prima di andare a convivere con l'irlandese Sophie Knieland, diventata poi sua moglie. Petrosino, che provvide Pagina 26
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt pure a trovarsi un lavoro di manovale, vi abitò per tre mesi. Per gli anarchici, egli aveva sempre provato la massima avversione, e ciò non solo in quanto poliziotto, ma perché giudicava mostruosa ogni iniziativa tendente a rovesciare una società come quella americana, che riteneva la più perfetta del mondo. Gli anarchici erano per lui o dei delinquenti comuni, o dei pazzi pericolosi da rinchiudere senz'altro in manicomio. Col suo lavoro di manovale e la sua faccia da contadino, il poliziotto non destò il minimo sospetto. Si fece anzi parecchi amici fingendo, pur senza strafare, di interessarsi alle idee anarchiche e progressiste. Intanto, assorbiva come una spugna tutte le informazioni che potevano risultare utili alla sua inchiesta. E tre mesi più tardi (dopo avere anche, a quanto sembra, usato la maniera forte con Sophie Knieland per ottenere altri particolari sul conto di Bresci), tornò a New York con una cartella piena di notizie. Egli annunciò subito ai superiori di essere in possesso di rivelazioni talmente gravi da ritenere in pericolo la stessa sicurezza dello stato. Si recò quindi a Washington per riferire personalmente al presidente Mchinley e al vicepresidente Roosevelt. [p. 60] L'uccisione di Umberto I - a quanto riportò - era il risultato di un complotto ordito a Paterson da un gruppo di affiliati alla «vera» Mano Nera: quella anarchica. Gaetano Bresci era stato estratto a sorte, quale esecutore del regicidio, mediante l'estrazione dei numeri della tombola, un sistema molto in uso anche fra i malviventi di New York. Ma la scoperta più sensazionale, secondo Petrosino, era rappresentata dalla notizia, da lui raccolta, secondo la quale gli anarchici si proponevano di assassinare lo stesso presidente degli Stati Uniti. L'affermazione del poliziotto non fu presa in molta considerazione. Mchinley l'accolse anzi con un sorriso di compatimento, essendo convinto di essere l'uomo più amato d'America. E Teddy Roosevelt, col suo consueto cinismo snobistico, si limitò a questa battuta: «Spero proprio che non saranno gli anarchici a farmi presidente» E tutto finì lì. Secondo una superstizione americana molto diffusa, il presidente che viene eletto negli anni che hanno lo zero come cifra terminale è destinato a morire prima di concludere il mandato. Tale superstizione si basa su una sconcertante e ripetuta coincidenza. Il presidente Harrison, eletto nel 1840, morì appena un anno dopo. Abramo Lincoln, eletto nel 1860, fu assassinato nel 1865, James Garfield, eletto nel 1880, fu ucciso l'anno dopo. E così, di vent'anni in vent'anni (la data fatale si ripete infatti ogni ventennio), salvo un'eccezione, fino a Franklin Delano Roosevelt eletto nel 1940 e morto nel 1945 e John Kennedy, eletto nel 1960 e assassinato nel 1963. William Mchinley, rieletto presidente nel 1900, non dava peso alle leggende, né fu turbato dall'avvertimento di Petrosino. Era un americano provinciale e bonario, convinto che per conquistare gli uomini bastasse distribuire larghe pacche sulle spalle. «Io non ho nemici» soleva dire. «Perché dovrei avere [p. 61] paura?» E rifiutava rigorosamente ogni servizio di sicurezza attorno alla sua persona. «I miei concittadini penserebbero che non mi fido di loro» affermava. Fu così anche la mattina del 6 dicembre 1901. William Mchinley era giunto a Buffalo per inaugurare l'Esposizione panamericana, una di quelle colossali manifestazioni che celebravano il progresso della scienza e le vittorie dell'uomo su uno sfondo di macchine gigantesche, statue neoclassiche e drappeggi liberty. Quella mattina, il presidente avrebbe dovuto ricevere tutti coloro che desideravano vederlo, in un grande padiglione che nell'ingenua retorica dell'epoca veniva chiamato Tempio della Musica. L'idea del presidente di distribuire una stretta di mano a tutti coloro che lo desideravano impensieriva gli agenti del servizio segreto. Mchinley, scherzando, aveva finto di credere che la loro preoccupazione fosse dovuta al timore che la sua mano finisse stritolata dalle troppe strette. Pagina 27
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt «Niente paura» aveva detto. «Il mio predecessore alla Casa Bianca mi ha insegnato una tecnica speciale per stringere le mani degli elettori.» «Noi non temiamo soltanto per la vostra mano» gli aveva risposto il capo della scorta. «D'altra parte si presenterà una tale folla che non avrete il tempo di stringere la mano a tutti.» «In ogni modo capiranno che ho fatto del mio meglio» aveva insistito il presidente. «Ogni stretta di mano significa un voto sicuro.» Non c'era stato verso di indurlo a modificare il programma. Il suo segretario personale, George Cortelyou, cercò di spaventarlo ricordandogli che secondo il rapporto Petrosino egli figurava nell'elenco dei condannati a morte dagli anarchici in compagnia dello zar, del Kaiser e dell'imperatore Francesco Giuseppe. Il presidente obiettò: «Io non appartengo a quella categoria. [p. 62] Perché dovrebbero uccidermi quando sono perfettamente liberi di votarmi contro?» Alle 4 del pomeriggio, William Mchinley prendeva dunque posto sulla pedana apposita, al centro del Tempio della Musica, e avvertiva con un cenno gli uscieri che era pronto a ricevere i visitatori. Fuori del Tempio, una grande coda di gente attendeva da ore di poter stringere la mano al presidente. La polizia aveva fatto quello che poteva, allontanando alcuni tipi sospetti. Ma Leo Czolgosz, ventotto anni, di origine polacca, aveva la prerogativa di passare inosservato. Contrariamente a Gaetano Bresci, Czolgosz era un tipo silenzioso e dimesso. Di recente aveva perduto un paio di posti di lavoro per una serie di esaurimenti nervosi. Si era infine ritirato in campagna rilevando una piccola fattoria. In attesa di arrivare al presidente, aveva avvolto nel fazzoletto una piccola rivoltella Iver-Johnson calibro 32; e poi si era più volte asciugato la fronte con questo fazzoletto, senza che nessuno notasse ciò che conteneva. Quando la sfilata ebbe inizio, il preoccupato Cortelyou andò a prendere posizione a fianco dell'ingresso. Mchinley avrebbe dovuto fargli un cenno quando si fosse stancato di stringere le mani e lui voleva essere pronto a sprangare la porta. Questo cenno non gli giunse mai. Dodici minuti dopo l'inizio della sfilata, un giovanotto pallido che sembrava avere una mano fasciata si avvicinò al presidente e gli sparò due colpi di pistola nel ventre. Lo sparatore fu salvato per miracolo dal linciaggio. Quando lo perquisirono, gli trovarono nel portafoglio un ritaglio di giornale col resoconto del regicidio di Bresci. In un certo senso, l'attentato di Buffalo rappresentò una delle tappe più importanti della carriera di Giuseppe Petrosino. Egli approfittò infatti dell'occasione per farsi pubblicità [p. 63] rivelando i risultati della sua missione segreta a Paterson. «Io gliel'avevo detto!» dichiarò ai giornalisti senza nascondere le lacrime. «Gli avevo detto che i malfattori anarchici volevano ucciderlo. Ma il presidente era troppo buono e credeva troppo nella bontà degli uomini per prendere sul serio le mie esortazioni.» E proseguì spiegando come egli fosse giunto in possesso dei piani segreti che prevedevano l'eliminazione di Mchinley. Giuseppe Petrosino esagerava a proposito di questi fantomatici piani. In seguito, infatti, non si riuscì assolutamente a provare che Czolgosz avesse avuto contatti di sorta con sette o movimenti anarchici. E lo stesso attentatore, fin sulla sedia elettrica, continuò a ripetere di avere agito seguendo un impulso individuale. Ma considerata l'atmosfera da caccia alle streghe che stava montando vertiginosamente, erano proprio le dichiarazioni del tipo di quelle fatte dal poliziotto italoamericano a «fare notizia» Petrosino l'aveva avvertito, Il detective italiano aveva cercato di salvare Mchinley, I complotti degli assassini anarchici rivelati dal detective Petrosino: questi sono alcuni dei titoli che i giornali americani dedicarono al poliziotto. Il suo nome raggiunse una notorietà a livello nazionale. Alcuni quotidiani pubblicarono le sue prime inesatte biografie. Pagina 28
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt La morte del presidente, d'altra parte, aprì le porte della Casa Bianca a Teddy Roosevelt, il quale, pur essendo ambizioso, difficilmente avrebbe potuto raggiungerla. Petrosino ebbe così un potenziale protettore al vertice della nazione. La reazione degli americani contro gli anarchici non fu molto diversa da quella degli abitanti di New Orleans contro i mafiosi. Qua e là per gli States si registrarono linciaggi: chi era identificato come anarchico veniva dovunque espulso e percosso. A Broadway, mancò poco che l'anarchico polacco A. Jamowsky, direttore di un giornaletto, finisse su un rogo improvvisato [p. 64] in mezzo alla strada. A Seattle, un anarchico ebreo fu legato e immerso più volte nelle acque del lago Washington e rischiò di morire affogato. A Paterson, il minatore Giovanni Martini fu ucciso a rivoltellate perché, in stato di ubriachezza, si era lasciato sfuggire parole di simpatia per Czolgosz. E Sophie Knieland, che fino ad allora era stata lasciata tranquilla, fu obbligata dal sindaco di Paterson ad abbandonare la città. La minaccia che fino a quel momento aveva turbato soltanto i governanti europei diventò dunque anche un problema americano. Per arginare l'afflusso dei criminali e dei sovversivi, il governo istituì una sorta di campo di concentramento a Ellis Island, un'isola a due chilometri dalla punta meridionale di Manhattan, dove venivano avviati per ulteriori controlli gli emigrati che destavano qualche sospetto. Naturalmente, Petrosino ebbe il compito di controllare gli italiani. Ma come poté subito constatare, era assai più facile individuare gli anarchici che i criminali: questi ultimi, infatti, giungevano tutti con la fedina penale immacolata. [p. 65] V L'aVVENTO dELL'aSSESSORE BINGHAM Verso la fine del 1904, anche i più scettici si erano ormai convinti che la Mano Nera fosse un'organizzazione con diramazioni in ogni parte del paese, strettamente legata alla Sicilia come da un cordone ombelicale. L'unico che continuava a rifiutare questa preoccupante ipotesi era l'ambasciatore d'Italia a Washington, Mayor des Planches, il quale anzi, paradossalmente, cominciò a prendersela con lo stesso Petrosino. «La Mano Nera l'ha inventata il signor Petrosino per giustificare i propri insuccessi» dichiarò. In realtà, la malavita italiana aveva registrato enormi progressi in quegli ultimi tempi. I sistemi di ricatto si erano notevolmente perfezionati, e una specie di fredda burocrazia andava prendendo il posto della clamorosa brutalità. Le «lettere di scrocco» erano diventate uniformi quasi come le cartelle delle tasse. E mentre, fino a qualche tempo prima, i ricattatori erano capaci di chiedere cifre incredibili per poi accontentarsi di cento o cinquanta dollari, ora invece le richieste erano quasi sempre proporzionate al reddito reale della vittima. Lo stesso Giuseppe Petrosino, così, aveva finito per rettificare le proprie convinzioni sulla Mano Nera. «Sono state le nostre stupide leggi a permettere loro di organizzarsi» era solito dire come giustificazione. Tuttavia, aveva preso atto con realismo della nuova situazione. Fu in quel periodo che il detective venne a conoscenza di un nuovo sistema di ricatto che stava prendendo piede [p. 66] a Little Italy: il rachet organizzato e generalizzato, col quale si sottoponevano le vittime a una vera e propria imposta, con scadenze fisse, in luogo delle precedenti taglie da pagare una tantum. A fargli questa rivelazione fu un tremebondo bottegaio di Elizabeth Street, che poi però si rifiutò di firmare la denuncia. «Sono venuti a trovarmi l'altra sera» spiegò l'uomo intimorito. «Erano in tre, con delle brutte facce, ma eleganti e cortesissimi. Loro sapevano che in passato avevo ricevuto delle "lettere di scrocco" e così mi offrirono la loro protezione. "Dovete fidarvi di noi, don Vincenzo" mi dissero con la mano sul cuore "e d'ora in avanti nessuno Pagina 29
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt torcerà più un capello a voi o alla vostra famiglia." Io allora chiesi perché facessero questo e cosa chiedessero in compenso, poiché mi sembrava chiaro che non erano tipi da farlo per bontà. Fateci vagnari u pizzu, fu la loro risposta.» Fari vagnari u pizzu, fare bagnare il becco, indicava il sistema cui la mafia assoggettava in Sicilia, in cambio di una «protezione fissa», chi svolgeva attività commerciali; e pizzu era diventato sinonimo della tangente che il «protetto» doveva versare periodicamente all'onorata società. Giuseppe Petrosino non poteva saperlo, ma questo nuovo sistema ricattatorio era stato introdotto a New York proprio da Vito Cascio Ferro, il misterioso siciliano che dopo essere stato coinvolto nel «delitto del barile» era scomparso dalla città. Lo stesso don Vito, per il quale gangster autorevoli come Giuseppe Morello, Ignazio Lupo e Giuseppe Fontana, nutrivano un profondo rispetto, aveva spiegato ai suoi accoliti in che modo i rudimentali sistemi di ricatto usati a New York andassero aggiornati. «Bisogna schiumare il latte senza rompere la ciotola» aveva detto nel suo tipico linguaggio mafioso. «Voi invece vi state comportando come degli scassapagliara, dei ladri di poco conto. Provate a cambiare sistema. Evitate di mandare in rovina la gente con richieste assurde di denaro. Offrite [p. 67] invece la vostra protezione, favorite la prosperità dei loro commerci ed essi non solo saranno felici di pagare il pizzu, ma vi baceranno le mani per la gratitudine.» La lezione di Vito Cascio Ferro non andò perduta. Nel giro di poco tempo, buona parte dei lanciatori di bombe della Mano Nera si erano trasformati in paterni «protettori» L'apparizione del pizzu negli ambienti di Little Italy si fa risalire al 1903. Capo dell'organizzazione fu Giuseppe Morello cui spetta il primo posto nel libro nero dei grandi boss della malavita italoamericana. Il suo principale collaboratore fu suo cognato Ignazio Lupo che svolgeva nella banda la parte del comandante militare. Era lui che dirigeva le squadre incaricate di punire, e al bisogno di uccidere, coloro che rifiutavano il pagamento del pizzu. Altri luogotenenti di Morello furono Giuseppe Fontana, Carlo Costantino, Pietro Inzerillo, i fratelli Terranova, Ignazio Milone e Antonio (Antonino) Passananti. Va anche detto che il termine pizzu non si mantenne nel gergo della malavita newyorkese. Venne infatti sostituito dalla parola inglese «rachet» che, pur avendo un significato del tutto diverso, all'orecchio dei siciliani suonava come «ricatto» D'altra parte, di questi mutamenti semantici se ne registreranno moltissimi nel linguaggio cui diedero vita gli italiani d'America. Pochi sanno, per esempio, che in certi ambienti della malavita italoamericana per dichiarare la propria approvazione a un certo progetto si diceva gus by me, che, tradotto letteralmente, ha l'incomprensibile significato di «oca per me» L'origine di questa frase curiosa risale ai primi tempi dell'emigrazione quando il termine «okay», che correva sulla bocca di tutti, fu scambiato dagli emigrati per il nome del familiare palmipede e, quindi, fu da essi ritradotto nell'inglese goose (pronunciato gus) Agli inizi dell'anno 1905, l'improvviso rifiorire sotto nuove forme della delinquenza italiana indusse il consiglio comunale di New York a togliere il veto al progetto di [p. 68] costituzione di una squadra di agenti composta soltanto da italiani. «Finalmente hanno accolto la vostra richiesta» disse McAdoo a Petrosino. «Da questo momento siete autorizzato a costituire una squadra italiana. Voi stesso sceglierete gli uomini.» «Quanti uomini?» chiese ansioso Petrosino. «Non più di cinque» lo raffreddò l'assessore. «Cinque uomini per tenere a bada un quartiere di 500.000 abitanti non sono molti» commentò Petrosino con una punta di amarezza. Ma non protestò: era abituato a ottenere le cose col contagocce. Il detective fu anche informato che il consiglio comunale aveva stabilito che, almeno per il momento, gli agenti italiani non indossassero la divisa. Essi non avrebbero neppure avuto una sede Pagina 30
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt ufficiale. «Dovrete arrangiarvi, per il momento» concluse ambiguo McAdoo. E così l'Italian Branch, la «squadra italiana», venne fondata ufficialmente il 20 gennaio 1905, nell'appartamento di due stanze con bagno del detective Petrosino. Ne facevano parte il suo fido collaboratore Maurice Bonoil, un francoirlandese che, essendo nato nell'East Side, parlava meglio il siciliano dell'inglese, Peter Dondero, George Silva, John Lagomarsini e Ugo Cassidi che preferiva farsi chiamare Hugh Cassidy, come l'allora famoso pistolero Butch Cassidy. Con l'aiuto di questi uomini, il detective organizzò una vera e propria centrale di spionaggio con decine di informatori sistemati nei punti strategici di Little Italy. Periodicamente venivano tenute delle riunioni, prima nell'abitazione dello stesso Petrosino e poi in una vecchia casa che dava sulla Waverly Place, al Greenwich Village. Da soli, lavorando in pratica senza soste, Petrosino e i suoi uomini compilarono il primo schedario dei malviventi italiani in circolazione nello stato di New York, con nutriti dossier da utilizzare qualora il governo americano [p. 69] si fosse deciso a rispedire a casa loro questi cittadini indesiderabili. L'Italian Branch moltiplicò d'altra parte le denunce e gli arresti, e Petrosino iniziò i suoi collaboratori ai propri metodi. «Se la magistratura ci rimette questi delinquenti tra i piedi» disse «rendiamo loro la vita così difficile da costringerli a sgombrare in ogni modo.» Per questa facilità nel menare le mani, il detective ebbe anche qualche serio richiamo. Una volta, per esempio, la sua condotta fu apertamente deplorata dal consiglio comunale in seguito alle proteste di un consigliere di Brooklyn, il quale accusò il poliziotto di aver «fatto sputare più denti di un cavadenti professionista» Lo stesso Petrosino e i suoi compagni furono arrestati, un'altra volta, ma per ragioni del tutto diverse. Il curioso episodio risale al maggio del 1905. Da alcuni giorni il poliziotto (irlandese) di pattuglia nella zona di Waverly Place aveva notato un viavai di individui sospetti che si aggiravano nei dintorni di una casa che si affacciava sulla piazza. L'agente interrogò la portinaia, ma questa seppe soltanto dirgli che un italiano aveva affittato un appartamento al terzo piano e lì riceveva sovente la visita di loschi individui. «Secondo me» disse la donna «sono della Mano Nera.» Anche l'agente se ne convinse e corse ad avvertire il capitano del Terzo distretto, dal quale dipendeva. Poche ore dopo, alcune decine di poliziotti circondavano la casa mentre gli altri, il capitano in testa, facevano irruzione con le pistole in pugno nell'appartamento sospetto. Una dozzina di persone, riunite nella stanza, osservarono i sopraggiunti con aria sbigottita. Un gesto autoritario dell'uomo tarchiato che sembrava essere il capo indusse comunque gli altri a non aprire bocca né protestare in alcun modo. Ben ammanettati, i tipi sospetti vennero condotti sulla carrozza-cellulare che attendeva davanti all'ingresso. Molta gente presente alla scena applaudì entusiasticamente i poliziotti. [p. 70] Durante il tragitto, l'uomo tarchiato si rivolse al capitano della polizia. «Avete preso un granchio, capitano» disse. «Il mio nome è Petrosino, questi tre sono miei agenti, e gli altri sono nostri informatori.» L'ufficiale restò per qualche istante senza parole mentre il volto gli si imporporava. «Ma perché non lo avete detto subito?» gli chiese poi. «Ormai era fatta. Troppa gente assisteva alla scena e avremmo fatto entrambi una brutta figura. Pensate alle risate se questa storia si risapesse tra i rappresentanti della stampa, per non parlare di quelli della malavita!» Tre mesi dopo questa disavventura, l'Italian Branch conseguì il suo primo vistoso successo in occasione del «delitto del cercatore di funghi» Cortland Park, nel Bronx, nella parte alta di New York, è ancora Pagina 31
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt oggi un grande parco verdeggiante. All'inizio del secolo era addirittura un fitto bosco. Fu qui che il 13 agosto 1905, una domenica, venne rinvenuto il cadavere di un giovanotto trafitto da trentasei pugnalate. A fare la scoperta fu l'operaio tessile Frank Lo Cascio, di quarant'anni, che si era addentrato nella boscaglia per cercare dei funghi. Inorridito dalla vista dell'ucciso, Frank Lo Cascio corse al più vicino posto di polizia per mettere gli agenti al corrente dell'accaduto. Il poveretto non poteva immaginare che la sua sollecitudine gli avrebbe procurato seri guai. Quella mattina, il cercatore di funghi aveva incontrato due connazionali nel folto del parco. Essi gli dissero di essersi sperduti e lo pregarono di indicargli la strada per Yonkers, cittadina industriale sulla sponda sinistra dello Hudson. Lo Cascio scambiò alcune parole con i due sconosciuti, soprattutto col più giovane, che sembrava molto allegro. «Sapete» gli disse quest'ultimo «oggi è una giornata [p. 71] molto importante per me. Fra qualche ora riabbraccerò mio fratello che cerco da anni.» L'altro uomo gli chiese invece se nelle vicinanze c'era un buon ristorante e Lo Cascio indicò loro una trattoria conosciuta come La terra promessa. «La troverete appena usciti dal bosco» spiegò il cercatore di funghi. Prima di andarsene, il più giovane dei due volle offrire a Lo Cascio un sigaro marca Cremona. «Fumatelo alla mia salute, perché oggi sono felice» gli aveva detto allontanandosi. Alcune ore dopo questo incontro, Frank Lo Cascio aveva scoperto il cadavere. L'ucciso era il giovane che gli aveva offerto il sigaro. Questa curiosa storia non convinse per niente i sospettosi agenti del distretto del Bronx. Frank Lo Cascio finì in carcere. Per sua fortuna, poiché la vittima risultava essere italiana, il caso fu affidato a Giuseppe Petrosino. Il sergente-detective avviò la sua inchiesta col solito piglio aggressivo. Dopo aver ascoltato gli agenti che si erano occupati della faccenda, mandò a prendere Lo Cascio. Tremante e spaurito, il malcapitato cercatore di funghi fece la sua apparizione nella stanza. «Spogliatevi» gli ordinò Petrosino. «Qui? Davanti a tutti?» disse tremando il poveretto che da qualche giorno viveva in una sorta di incubo. «Toglietevi gli abiti, le scarpe, tutto quanto» insistette Petrosino. L'uomo obbedì senza protestare e poi, completamente nudo, accettò di girare su se stesso a seconda degli ordini secchi che il detective gli impartiva. «Vi prego di osservare» disse a questo punto Petrosino rivolto agli altri agenti «che quest'uomo non presenta il minimo graffio in tutto il corpo.» A queste parole seguì un mormorio di assenso. «Bene» riprese Petrosino «noi sappiamo che il cadavere presenta trentasei ferite di coltello, graffi e contusioni. E' [p. 72] quindi evidente che l'ucciso si è difeso strenuamente. Presumibilmente ha, a sua volta, ferito l'aggressore. Mi sembra dunque molto chiaro che quest'uomo è innocente.» Frank Lo Cascio comprese soltanto in quel momento che Petrosino lo toglieva dai guai e allora, nudo com'era, gli si gettò ai piedi per baciarglieli. Il poliziotto lo scostò con un gesto seccato. «Tenetevi piuttosto pronto a testimoniare quando sarà il caso» gli disse. Ma Lo Cascio si guardò poi bene dal farlo: la prima esperienza gli era bastata. Nel frattempo, un agente di nome Alex De Martino, che poi sarebbe entrato a far parte dell'Italian Branch, aveva fatto un'importante scoperta: aveva cioè trovato nelle tasche insanguinate del cadavere un foglietto sul quale era segnato il seguente indirizzo: «Sabbato Gizzi, P. O. Box 239 Lambertville, New Jersey». Anche gli agenti della Pagina 32
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt squadra italiana avevano fatto un buon lavoro: Peter Dondero scovò un conduttore della sotterranea che ricordava di avere notato due uomini scendere all'ultima fermata di Cortland Park. Hugh Cassidy trovò un passeggero della stessa sotterranea al quale due sconosciuti avevano chiesto la strada per Yonkers. Uno di essi gli aveva offerto un sigaro italiano, marca Cremona, di cui aveva conservato la fascetta di stagnola. A Lambertville, nel New Jersey, molti italiani erano allora occupati nella costruzione della linea ferroviaria. Erano quasi tutti terrazzieri siciliani. Sabbato Gizzi era uno di questi. Egli manifestò una certa sorpresa quando due agenti andarono a prelevarlo per condurlo a New York, ma non sembrava molto preoccupato. «Conoscete quest'uomo?» gli chiese più tardi Giuseppe Petrosino scoprendo il cadavere dello sconosciuto conservato nell'obitorio. Sabbato Gizzi osservò il corpo crivellato di colpi. «Lo conosco» rispose. «E' il mio amico Antonio Torsiello, lavorava con me alla ferrovia fino a pochi giorni fa. Poi se ne andò.» [p. 73] La storia raccontata da Sabbato Gizzi a Petrosino venne a confermare quella narrata dal cercatore di funghi. Antonio Torsiello di ventun anni, era giunto in America due anni prima alla ricerca del fratello maggiore, Vito, che da molto tempo non dava più notizie alla famiglia. «Antonio era analfabeta» spiegò Sabbato Gizzi «ma non stupido. Cominciò la sua ricerca con molto impegno. Giunse persino a pubblicare degli annunci su tutti i giornali di lingua italiana del paese. Finalmente» proseguì Gizzi «qualche settimana fa gli giunse la lettera che tanto aspettava. Era suo fratello Vito a scrivergli. Gli diceva di essere diventato un ricco imprenditore di Yonkers e lo invitava ad andare a vivere con lui.» «Quando partì esattamente da Lambertville?» chiese Petrosino. «Non rammento bene. Forse alla fine del mese. Ricordo che aspettò la paga, raccolse tutti i suoi averi e vendette le poche cose che possedeva. Se non sbaglio riuscì a mettere insieme almeno cinquecento dollari.» Gli agenti dell'Italian Branch furono inviati a Yonkers per controllare se effettivamente esisteva un imprenditore di nome Torsiello. Il risultato dell'indagine, come prevedeva Petrosino, fu negativo. «Mi sembrava inconcepibile che questo Vito avesse potuto attrarre il fratello in un simile trabocchetto» disse. Nei giorni seguenti, mentre i giornali affermavano che il delitto sembrava destinato a rimanere insoluto, Giuseppe Petrosino volle andare personalmente a Lambertville per interrogare ancora Sabbato Gizzi. «Dovete spiegarmi una cosa» chiese poi il poliziotto al terrazziere. «Se Torsiello era analfabeta, chi gli scriveva i testi delle inserzioni? Forse voi?» «Nossignore» ribatté Gizzi quasi piccato. «Io pure sono analfabeta. Per queste cose noi ci rivolgiamo a un paesano molto istruito. Si chiama Antonio Strollo e lavora con noi alla ferrovia.» «Dove posso trovare questo Strollo?» [p. 74] «Sicuramente al velodromo» disse Gizzi. «Nei giorni di festa partecipa sempre alle corse in bicicletta. E' il nostro campione.» Antonio Strollo fu avvicinato da Giuseppe Petrosino al termine di una gara nella quale si era classificato al terzo posto. L'uomo non esitò un istante ad ammettere di essere lui lo sconosciuto che accompagnava Torsiello in Cortland Park. «Sapete» si giustificò «dopo aver letto cos'era capitato a quel povero cercatore di funghi, pensai di non farmi vivo con la polizia. Con noi italiani sono sempre così sospettosi...» «Avete ragione, signor Strollo» approvò Petrosino con quell'aria melensa che sapeva assumere quando intendeva ispirare fiducia. «Ora però dovreste gentilmente raccontarmi come sono andate le cose. Voi capirete...» E così, Antonio Strollo, molto sicuro di sé, narrò al detective la sua versione dei fatti. Ammise di essere stato lui a scrivere le inserzioni per Torsiello e a leggere la lettera che gli aveva mandato Pagina 33
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt il fratello Vito. «Torsiello era davvero molto contento di averlo ritrovato» spiegò. «Mi pregò anche di accompagnarlo a Yonkers e io acconsentii... Povero ragazzo, era tanto ignorante che si sarebbe sicuramente perso. Bene, a un certo punto, mentre attraversavamo Cortland Park, incontrammo un uomo ben vestito che Antonio riconobbe immediatamente per il fratello. Li lasciai mentre erano l'uno nelle braccia dell'altro.» Questo colloquio si svolgeva nello spogliatoio del velodromo, dove Strollo si era recato per cambiarsi. Il detective lo osservava con attenzione e, a un tratto, scorse che l'uomo presentava una grossa fasciatura alla gamba destra. «Che avete fatto?» gli chiese manifestando una certa preoccupazione. «Scommetto che non vi siete neppure disinfettato. Fate vedere, fate vedere. Io mi intendo di queste cose.» Strollo non seppe resistere alle affettuose insistenze del [p. 75] poliziotto. «Mi sono ferito in casa con una forbice» spiegò, mentre l'altro gli sfasciava la gamba. «E' un taglio molto profondo» osservò poi Petrosino. «Sembra un colpo di coltello...» Quella stessa sera Petrosino riuscì a farsi accompagnare a New York dal giovane ciclista. Se questi avesse rifiutato egli non avrebbe avuto alcun motivo per chiedere la sua estradizione dal New Jersey. Ma Strollo era così sicuro di sé, così sicuro di prendersi gioco di quel poliziotto dall'aria balorda, che accettò subito la sua richiesta di collaborazione. A New York, Giuseppe Petrosino cambiò tono. Faccia al muro, Antonio Strollo fu accuratamente perquisito e gli fu trovata in tasca una lettera di Antonio Torsiello al fratello Vito che annunciava il suo prossimo arrivo a Yonkers. «Perché non l'avete spedita?» gli chiese Petrosino. «Perché questa è la brutta copia di quella che Antonio inviò effettivamente a suo fratello. Non vedete com'è scritta male? Proprio non capisco perché l'ho tenuta in tasca» rispose con sicurezza. E non ci fu verso di farlo cadere in contraddizione. Trattenuto Strollo in stato di fermo come «testimone indispensabile», Giuseppe Petrosino ripartì per Lambertville dove ebbe modo di perquisire la camera un tempo occupata da Antonio Torsiello. Non trovò molto, per la verità: soltanto la busta lacerata che aveva contenuto la lettera del fratello Vito. La busta era gualcita, ma si poteva ancora leggere il timbro postale sul francobollo da due cent: «Lambertville, New Jersey. Usa. 26 luglio 1905» «Conoscete questa busta?» domandava più tardi Petrosino a Strollo. «Certo. Conteneva la lettera di Vito nella quale invitava Antonio a raggiungerlo a Yonkers.» «Chi lesse quella lettera ad Antonio Torsiello?» «Ma io, naturalmente! Sapete bene che lui era analfabeta.» «Certo che lo so! Ed è per questa ragione che voi avete [p. 76] ritenuto inutile recarvi a Yonkers per imbucare la lettera!» La voce del detective si era fatta improvvisamente dura. «Tanto, quel povero ragazzo non sarebbe stato capace di decifrare il timbro postale. Ma io so leggere, per vostra sfortuna...» Neppure la prova che la lettera era stata spedita da Lambertville e non da Yonkers indusse Antonio Strollo a confessare. Continuò a protestare la sua innocenza, insinuando che, con ogni probabilità, qualche altro conoscente di Torsiello aveva architettato l'infame tranello. Petrosino non insistette nell'interrogatorio. L'uomo era evidentemente un duro. Neanche con la tortura avrebbe confessato. D'altra parte, le prove raccolte fino a quel momento erano insufficienti per rinviarlo a giudizio. Paziente e ostinato, il detective tornò un'altra volta a Lambertville. Si recò all'ufficio postale e chiese ai quattro impiegati se qualcuno di loro riconosceva per caso quella lettera. Fu fortunato: miss Elaine McNiel la identificò senza esitazione. «La ricordo benissimo» spiegò «per due ragioni. Primo, perché mi sorpresi quando notai che era diretta in città. Lambertville è così piccola, sapete... Seconda ragione: mi sorpresi ancora quando lo Pagina 34
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt sconosciuto mi chiese un francobollo da due cent. "Per la corrispondenza all'interno del New Jersey basta un francobollo da un cent" gli dissi. Ma lui insistette per averlo da due, come se la lettera fosse diretta in un altro stato...» La descrizione dello sconosciuto fatta da miss Elaine corrispondeva ai dati somatici di Strollo. Ma neanche con questa nuova prova in pugno, Giuseppe Petrosino si sentiva molto sicuro. Conosceva la diffidenza dei giudici verso le prove indiziarie, conosceva la loro inclinazione a scarcerare chiunque appena emergesse una minima ombra di dubbio. Così, dopo essersi consultato coi suoi collaboratori, chiese di inviare un confidente nella cella di Strollo. Costui, che si chiamava G. B. Repetto, rimase in carcere per una quindicina di [p. 77] giorni e riuscì a conquistarsi la fiducia del compagno. Qualche tempo dopo, infatti, Repetto riceveva un biglietto di Strollo, nel quale costui lo pregava di presentarsi come teste al processo. Repetto avrebbe dovuto dire ai giudici di avere visto Strollo il giorno prima del delitto con indosso un abito grigio e certe scarpe color ruggine. Indumenti che invece l'assassino aveva acquistato dopo il delitto per liberarsi di quelli sporchi di sangue che indossava. G. B. Repetto (anche lui futuro agente dell'Italian Branch) si presentò effettivamente al processo, ma non per dire ciò che l'assassino si aspettava. Antonio Strollo fu condannato alla sedia elettrica. La sentenza fu eseguita l'11 marzo 1908. Un anno dopo la sua costituzione, l'Italian Branch della polizia newyorkese trovò un autorevole protettore nella persona di Theodore Bingham, che dal 1o gennaio 1906 assunse la direzione del dipartimento di polizia. Il «generale» Bingham, come lui amava farsi chiamare anche se, per la verità, nell'esercito aveva raggiunto soltanto il grado di colonnello, era un uomo molto autoritario, molto capace e molto ambizioso. Amico personale del presidente Teddy Roosevelt, legato ai circoli più influenti del Partito repubblicano e ben visto negli ambienti finanziari, egli mirava molto in alto. E l'assessorato alla polizia, come ben sapeva, poteva rappresentare un ottimo punto di partenza. «Da questo momento» dichiarò quando ricevette l'incarico «lo scopo della mia vita sarà quello di debellare la Mano Nera e di distruggere questi ignobili malviventi stranieri che sono venuti a turbare la serenità della nostra pacifica terra.» Era naturale, a questo punto, che Bingham si appoggiasse a Giuseppe Petrosino e gli fornisse a sua volta ogni possibile appoggio. Per cominciare, gli chiese un rapporto dettagliato sull'attività e sui mezzi a disposizione della [p. 78] squadra italiana. E Petrosino, naturalmente, non si fece pregare. Nel suo rapporto, dopo avere illustrato le scarse disponibilità della sua squadra e la necessità di rafforzarla, scriveva: «Gli Stati Uniti sono ormai diventati lo scarico dei rifiuti di tutta la criminalità e il banditismo italiani, in particolare della Sicilia e della Calabria. «Qualche anno fa il governo francese ha deciso di ripulire il quartiere italiano di Tunisi a seguito del gran numero di crimini che vi venivano commessi. La Tunisia, infatti, era allora il paese preferito dalla malavita siciliana. Le investigazioni e i rastrellamenti compiuti dalla polizia francese hanno portato all'arresto e all'espulsione di oltre diecimila individui. «E dove sono andati tutti questi pregiudicati italiani? Sono venuti qui, naturalmente, e lo Zio Sam li ha accolti a braccia aperte. Sono venuti qui, e adesso vivono prosperosamente di estorsioni, rapine, traffici illeciti di ogni sorta. «Purtroppo la polizia non può far nulla contro di loro perché imbrigliata dalle leggi americane. Noi abbiamo qui a New York degli uomini, come Vincenzo Vantone, espulso dalla Tunisia perché sospettato di venti omicidi, contro il quale non si può fare assolutamente nulla poiché i suoi documenti sono in regola. Uno dei progetti che io appoggio da anni e per l'attuazione del quale conto sulla vostra collaborazione, signor Generale, è l'approvazione di una Pagina 35
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt legge che permetta di arrestare o di espellere come cittadini indesiderabili quegli individui che risultano ricercati o pregiudicati nei rispettivi paesi d'origine. Suppongo, per esempio, che sarebbe abbastanza facile indurre il governo italiano a inviarci il curriculum di ogni criminale che si è stabilito in America. «Per quanto riguarda la parte onesta della popolazione italiana, si dovrebbe fare opera educativa affinché comprenda che qui le leggi sono uguali per tutti. Gli abitanti della mia patria d'origine, infatti, non hanno diritti costituzionali come i nostri e hanno sempre paura delle autorità costituite. Di conseguenza, uno dei primi ostacoli in cui io e i miei uomini ci scontriamo è la difficoltà di indurre un italiano a testimoniare contro un altro. In molti casi, quando noi abbiamo già scoperto l'autore di una estorsione, siamo obbligati a fermarci per la riluttanza della vittima ad aiutarci. «Un'altra cosa da fare sarebbe una legge che proibisca la convivenza di più famiglie nello stesso appartamento. Questo, tra parentesi, frazionerebbe le bande. [p. 79] «Poi dovrebbero essere proibiti i carretti a mano, che servono al trasporto delle bombe da lanciare contro i negozi o le case prese di mira. Bisognerebbe anche proibire o limitare la vendita degli esplosivi da parte degli italiani: la licenza dovrebbe essere rilasciata solo a chi può dimostrare la propria integrità e la propria onestà. «Ma la cosa più importante sarebbe che il nostro Codice Penale venisse reso più severo, «più italiano» Il guaio con gli emigrati provenienti dall'Italia e, in particolare, dalla Sicilia e dalla Calabria, è che non sanno fare un uso corretto della libertà che trovano qui. Nel paese da cui provengono, il Codice Penale è specificatamente progettato per trattare con la loro ignoranza e con le loro teste calde. Là si sentono continuamente gravare sulle spalle la mano della legge. Perché là il Codice è fatto per difendere la società. Così, quando essi giungono qui e scoprono che il nostro Codice è invece fatto per difendere il cittadino, si sentono liberi di sfrenare tutti i loro bassi istinti.» Non sappiamo se Petrosino, scrivendo il suo rapporto, sperasse di ottenere risultati concreti da Bingham, dopo che per anni aveva ripetuto inutilmente gli identici concetti a McAdoo. Ma Bingham, come abbiamo detto, era un tipo diverso. Egli si prese subito a cuore la sorte della squadra italiana avviando progetti relativi al suo rafforzamento, ma soprattutto seppe guadagnarsi la gratitudine degli agenti italiani schierandosi dalla loro parte in varie occasioni. Per esempio, quando al consiglio comunale qualcuno protestò per l'ennesima volta contro i metodi troppo duri adottati da Petrosino, Bingham balzò in piedi inviperito. «Io sono il capo della polizia» gridò. «Io sono il responsabile di tutte le attività svolte dai miei agenti. Di conseguenza ogni accusa diretta contro un membro del mio dipartimento è un'accusa rivolta alla mia persona.» Poi, fattosi più calmo, aggiunse: «Petrosino è uno dei nostri migliori detective. Con pochissimi uomini deve tenere a bada migliaia di malviventi italiani. Certo, qualche volta deve usare le mani, ma dobbiamo lasciarlo fare. Lui, gli italiani, li conosce meglio di noi» «Finalmente abbiamo trovato un capo che ci capisce» [p. 80] commentò il giorno dopo Petrosino leggendo sul «New York Times» il resoconto della seduta. Sì, Theodore Bingham capiva l'importanza di una squadra italiana efficiente e fedele da utilizzare per distruggere, come egli diceva, «le bande dei malviventi italiani e dei loro complici anarchici» Nel giro di quattro mesi, l'Italian Branch contava venticinque agenti, più un distaccamento a Brooklyn di altri dieci uomini alle dipendenze del sergente Antonio Vachris. I risultati furono subito considerevoli: centinaia di malviventi italiani arrestati, molti delitti scoperti grazie alla testimonianza di cittadini che ora si sentivano maggiormente protetti. In quei giorni la stampa pubblicò anche delle cifre. Si affermò, per esempio, che l'attività della squadra italiana aveva ridotto del cinquanta per cento gli effettivi della Mano Nera. Questa era una statistica del tutto campata in aria, ma non c'è dubbio che qualcosa era stato effettivamente fatto. Pagina 36
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Nel novembre del 1906, l'Italian Branch fu trasformata in Italian Legion, Petrosino fu promosso tenente. Il primo italiano che fosse riuscito a conquistarsi i galloni da ufficiale nella polizia americana festeggiò l'avvenimento con pochi amici (Bonoil, Vachris, Dondero e De Martino) nel ristorante di Vincent Saulino situato all'angolo di Lafayette Street con Spring Street. Vincent Saulino era di Agnone, allora in provincia di Campobasso, ma viveva a Manhattan da trentacinque anni. Sua moglie Maria era un'ottima cuoca e la sua arte culinaria aveva dato lustro al locale. Petrosino era un loro cliente fisso. Egli era solito telefonare dall'ufficio per annunciare il suo arrivo e trovare la sua tavola già pronta. Attendere lo innervosiva molto. Poi mangiava in fretta per tornare subito al lavoro. Solo da qualche tempo aveva incominciato a indugiare nel ristorante per scambiare qualche parola con Adelina Saulino, figlia dei proprietari, che era tornata a vivere in famiglia dopo la morte del marito, Edward Vinti, dal quale non aveva avuto figli. [p. 81] Le attenzioni del maturo poliziotto per la vedova non erano sfuggite al vecchio Vincent. Egli ne aveva parlato anche con la moglie esprimendo qualche perplessità. Certo, una figlia vedova rappresentava un grosso problema; tuttavia, darla in moglie a un poliziotto... Tra l'altro, non correva il rischio di restare vedova un'altra volta? Ma Maria Saulino era meno pessimista, e poi quel suo taciturno cliente le era simpatico. Giuseppe Petrosino aveva allora quarantasei anni e Adelina Saulino trentasette. La sera in cui festeggiò la promozione a tenente, il poliziotto rimase più a lungo del solito nel ristorante di Lafayette Street. Furono vuotati parecchi fiaschi di Chianti e il vino gli dette il coraggio di fare a Adelina la sua proposta. «Anche voi dovete essere molto sola» le disse. «Potremo stare bene noi due insieme.» Adelina fece un cenno affermativo con la testa. Sapeva che un giorno o l'altro Petrosino le si sarebbe dichiarato e, come avrebbe raccontato più tardi, non si attendeva una dichiarazione molto diversa. Giuseppe e Adelina si sposarono la prima domenica di aprile del 1907, nella vecchia chiesa di St Patrick in Mott Street. La cerimonia fu officiata da monsignor Patrick J. La Valle, vecchio amico dello sposo. L'Italian Legion era presente al completo, e tra gli invitati d'onore non mancava Theodore Bingham. Dopo il pranzo, offerto nel ristorante Saulino, gli sposi raggiunsero la loro nuova abitazione al terzo piano del numero 233 di Lafayette Street, un appartamento di quattro stanze che Petrosino aveva preso in affitto da certo J. A. March. Per la matura coppia non ci fu luna di miele. Petrosino era troppo impegnato e Adelina, da parte sua, non aveva pretese. Era una donna saggia che aveva perfettamente capito quale genere di vita l'attendeva sposando il più famoso, ma anche il più odiato poliziotto di New York. Si adattò infatti a vivere quasi sempre in casa, a non curarsi [p. 82] delle minacce contenute nelle lettere anonime che arrivavano periodicamente, e a non affacciarsi neppure alla finestra, soprattutto di sera, per non fare da bersaglio a qualche ignoto tiratore. Non era certo una bella vita, ma i due, a loro modo, furono felici. Giuseppe Petrosino era oberato dal lavoro perché in quei giorni stava per essere varata una nuova legge sull'emigrazione che avrebbe permesso di espellere dal paese gli indesiderabili. Il tenente e i suoi uomini erano quindi occupatissimi a raccogliere informazioni e notizie per i loro schedari sulla malavita italiana. La legge tanto attesa entrò in vigore nel luglio del 1907. Essa, tuttavia, era stata notevolmente ammorbidita da una serie di emendamenti limitativi e finiva per offrire ai malviventi varie scappatoie. Secondo tale legge, infatti, un criminale poteva essere espulso solo se individuato prima del terzo anno di permanenza negli Stati Uniti. Praticamente, per i gangster più noti, come Morello, Pagina 37
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Lupo e compagni, la legge era inoperante, in quanto essi risiedevano negli Stati Uniti da più di tre anni. Il provvedimento legislativo stabiliva tuttavia che potevano essere espulsi o estradati dall'America, senza limiti di residenza, anche quei malviventi che risultassero ancora ricercati dalla polizia dei loro paesi. Giuseppe Petrosino studiò per ore il nuovo provvedimento prima di recarsi dal generale Bingham. «Questa legge non toglie un ragno dal buco» disse. «Quasi tutti i criminali che siamo riusciti a schedare sono in America da più di tre anni. Per quelli nuovi ci occorreranno altri tre anni per identificarli, a meno che il governo italiano non ci aiuti.» «Il governo italiano non ci aiuterà» disse Bingham. «Di questo, possiamo esserne sicuri. Quindi dovremo fare da soli.» «Come?» chiese il poliziotto. «Ve lo dirò a suo tempo, tenente. Noi due insieme, vedrete, [p. 83] distruggeremo definitivamente questa banda di delinquenti e di anarchici che il vostro paese ci ha regalato.» La prima vittima della nuova legge sull'emigrazione fu Enrico Alfano, il famoso «Erricone», capo della camorra napoletana che in quel periodo era attivamente ricercato perché accusato di avere ucciso a Napoli i coniugi Cuocolo. «Erricone» si era rifugiato in America e aveva subito avviato le pratiche per ottenere la cittadinanza. Petrosino lo arrestò personalmente in maniera teatrale. Individuato il nascondiglio di Alfano, una bettola malfamata dell'East Side, il detective vi si recò da solo, dopo avere avvertito telefonicamente il capocronista del «New York Times» (che lo ricompensò, naturalmente, con una descrizione ammiratissima dell'arresto) «Erricone» era seduto a un tavolo assieme a sei individui dall'aria poco raccomandabile, quando il poliziotto entrò nel locale. «Il mio nome è Petrosino» si presentò nel suo tipico modo il detective. Seguì un momento di silenzio: tutti guardavano il piccolo uomo tarchiato con la bombetta che se ne stava fermo sull'uscio. «Enrico Alfano, siete in arresto» disse ancora. «Seguitemi.» «Erricone» si alzò in piedi sconcertato, guardò i suoi uomini che non si erano mossi e, non dubitando che fuori ci fossero interi plotoni di agenti, tese i polsi alle manette. Espellere Enrico Alfano dagli Stati Uniti non fu però una cosa facile. Gli avvocati che i suoi amici avevano assunto per la difesa riuscirono a sollevare moltissime difficoltà. E per poco non vinsero la controversia. Infine, poiché Enrico Alfano si era imbarcato per New York da Le Havre, essi ottennero dal tribunale che il malvivente non venisse estradato in Italia, bensì in Francia. Questa volta, tuttavia, la polizia italiana fu pronta a collaborare e, grazie a un rapido accordo con quella francese, il famigerato «Erricone» trovò a Le Havre una pattuglia di agenti che lo scortò senz'altro al confine italiano. [p. 85] VI UN dISCORSO dELL'oNOREVOLE DE FELICE GIUFFRIDA Quegli americani, come Petrosino, che ancora contavano su una collaborazione italiana per arginare l'afflusso di malviventi, si illudevano di grosso. Il governo di Roma non aveva la benché minima intenzione di arginare in qualche modo il disordinato flusso migratorio, che per la classe dirigente dell'epoca costituiva una doppia e comodissima valvola di sicurezza. «L'emigrazione» scriveva in quei giorni il «Corriere della Sera», tentando timidamente di suonare il campanello d'allarme «che è da molti considerata una valvola di sicurezza economica per tanti paesi poveri e popolosi dell'Italia meridionale, è da altri considerata come una valvola di sicurezza morale per la eliminazione spontanea che con essa si produce dei più pericolosi soggetti della criminalità locale. Ma l'aver favorito l'esodo di legioni di delinquenti e il chiudere frequentemente un occhio su questo esodo comporta per noi un danno più grande...» Simili avvertimenti lasciavano tuttavia il tempo che trovavano. I Pagina 38
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt vantaggi immediati della «valvola» erano troppi, rispetto agli svantaggi, perché si potesse seriamente pensare a rinunciarvi. Oltre ai motivi di «sicurezza economica» e di «pulizia morale» accennati dal «Corriere della Sera», del resto, ne esistevano altri ben più importanti per favorire l'esodo dei mascalzoni. Principale fra tutti era il rapporto mafia-politica: i mafiosi aiutavano i politici a essere eletti, i politici dovevano aiutare i mafiosi quando il terreno bruciava sotto i loro piedi. [p. 86] Ora è noto a tutti che i piemontesi, quando giunsero a Palermo, scoprirono che la mafia esisteva già e anzi, sulle prime, la utilizzarono anche a loro vantaggio. Solo più tardi, intorno al 1877, i vecchi questori piemontesi spediti nell'isola provvidero a ripulire l'ambiente con metodi alquanto radicali. Naturalmente, essi non «estirparono» le radici dell'organizzazione, ma sta di fatto che per una dozzina e più d'anni, la mafia sembrò scomparire. Riemerse però, bisogna pur constatarlo, con l'apparizione di Giovanni Giolitti al centro del firmamento politico nazionale. Giolitti non conosceva il Mezzogiorno (non scese mai più a sud di Roma) e, a quanto pare, lo considerava soltanto un utile serbatoio di voti. Pur di fare eleggere deputati di sua fiducia (i famosi «ascari»), chiudeva dunque gli occhi su vicende che, se si fossero invece svolte a nord di Roma, avrebbero suscitato la sua più accesa indignazione. «Con l'avvento di Giolitti al potere» scrive Renato Candida nella sua Storia della Mafia «ebbe inizio la vera epoca d'oro della Mafia. Giolitti, poco addentro nella natura mafiosa, per conseguire favorevoli risultati elettorali, amò considerare le consorterie dalle possibilità del numero dei voti che potevano dare al partito del governo. Uomini politici, funzionari e poliziotti inondarono di benefici i capi mafiosi. Ed è noto come avvenissero le elezioni politiche di quel tempo.» I mafiosi, d'altra parte, afferrarono subito l'importanza delle opportunità che venivano loro offerte dal sistema elettorale e si trasformarono immediatamente in procacciatori di voti. Gli uomini più audaci, più violenti e più astuti finirono così per cumulare le qualità di capimafia e capiparte politici nei rispettivi quartieri. Negli anni a cavallo del secolo la mafia, fenomeno perlopiù agrario e provinciale, si trasferì nel cuore delle città. Il ricatto, la «protezione», diventarono fonti di guadagno assai più redditizie del tradizionale abigeato. La corruzione o le minacce favorirono l'infiltrazione degli elementi [p. 87] mafiosi nelle banche, negli enti pubblici, negli uffici di governo. Il cancro si sviluppò rapidamente in tutta la Sicilia occidentale. Come se non bastasse, in quel periodo si verificò il fenomeno della cosiddetta «mafia di ritorno» rappresentata dagli individui, fuggiti a suo tempo in America, che ora potevano tornare in patria (grazie a qualche amico onorevole) a riprendere la vecchia attività, resi più abili e più crudeli dall'esperienza acquistata oltreoceano. Furono momenti neri per la Sicilia, e molto più neri di quelli, pur così gravi, dei giorni nostri. Gran parte dell'isola era in pratica in mano ai «pezzi da novanta» e ai deputati mafiosi. Per dare un quadro particolareggiato della situazione, quale veniva giudicata da sinistra, riportiamo integralmente il resoconto di un discorso che il deputato socialista Giuseppe De Felice Giuffrida (1) di Catania, pronunciò alla Camera il 23 novembre 1899. Presidente: Ha la parola l'onorevole De Felice Giuffrida. On. De Felice Giuffrida: A me non spetta riprendere il discorso al punto in cui lo ha lasciato il mio amico Bissolati. Egli ha parlato del Governo che diminuisce, o nega, la libertà che, viceversa, concede alle associazioni criminose. Così rivendicherò all'Italia meridionale l'onore che l'onorevole Di Martino, Sindaco di Palermo, dice offeso da alcuni, e che l'onorevole Casale crede compromesso da altri. L'Italia meridionale, e la Sicilia specialmente, no, non sono regioni adatte allo sviluppo del delitto: sono piuttosto vittime di un'organizzazione politica ed economica che costringe alla formazione di azioni delittuose, volute, protette o fatte germogliare dal Governo. Pagina 39
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Voci: Benissimo! E' la verità! On. De Felice Giuffrida: Giacché si è parlato di Camorra, di teppa e [p. 88] di altre associazioni a delinquere, io, discorrendo della Mafia, della quale in questo momento si occupa tutta l'Italia, debbo fare una necessaria distinzione. E la distinzione è che mentre le altre associazioni a delinquere non sono formate che da bassi fondi sociali, dalla parte malata della società, la Mafia ha invece diversi strati che la formano e la alimentano. Lo strato più basso, che è il migliore, è quello che si raccoglie in mezzo al popolo, il quale teme e quasi sopporta l'influenza della Mafia. Sopra questo c'è uno strato assai temibile: la polizia. Viene poi l'ultimo strato: il borghese prepotente, il signore, il mafioso in guanti gialli. In questa distinzione io scorgo il motivo per il quale è stato possibile, in altre parti d'Italia, vincere parecchie delle associazioni a delinquere che vi si erano manifestate, e non è stato possibile vincere la Mafia in Sicilia. Non è stato possibile perché in Sicilia si è mirato, unicamente, in tutti i tempi, da tutti i governi, a colpire la parte più debole e meno responsabile, mentre sono stati lasciati tranquilli, sicuri, potenti, coloro che l'alimentano e se ne servono: tranquilla la pubblica sicurezza, tranquilla la borghesia prepotente nei cui palazzi si raccoglie la Mafia. Avete cominciato col proporre in meno di sei mesi, nella sola provincia di Palermo, circa diecimila ammonizioni. Avete tentato nuovi mezzi, leggi restrittive, violenze; avete avuto dalla Camera leggi eccezionali; avete abusato di tutte le leggi, anche di quelle già eccezionali; ma il risultato è sempre stato lo stesso: negativo. Lo vedete? Il processo Notarbartolo insegna! Guardate il contadino, quello delle due o tre province colpite dalla Mafia. Egli non ha tendenze veramente criminose, ma è costretto dalla Mafia perché non è protetto dalle leggi. Diventa perciò una necessità per questo disgraziato, specialmente se perduto nel centro dell'isola, chinare il capo e subire le violenze del nuovo padrone. Invece il giorno in cui egli può far mostra di una certa potenza criminosa, può commettere un paio di delitti, entrare tranquillo in carcere se arrestato, uscirne impunito per la protezione del padrone mafioso o del deputato non meno mafioso, quel giorno, dicevo, egli diviene una forza (Voci a sinistra: Bene! Bravo!), è maggiormente rispettato ed è assunto a compiere uffici meglio retribuiti. Immediatamente, il povero colono diviene campiere a stipendio fisso, segue il padrone nelle sue escursioni... protegge il deputato nelle sue elezioni... Non è l'ambiente in cui lo costringete a vivere, che di un uomo onesto ha fatto un delinquente? Nessuno può asserire, o signori, che il contadino siciliano si ascriva alla Mafia perché ha [p. 89] tendenze criminose. Tutt'altro! Io l'ho veduto questo contadino molto da vicino e l'ho assai più apprezzato quando voi l'avete condannato. Gran parte dei moti della Sicilia, la guerra ai cappeddi, cioè ai signori, non ha altra origine che la prepotenza contro la quale, quando può, il contadino si ribella. E che l'indole del contadino siciliano sia buona, io l'ho anche riscontrato quando egli ha potuto sentirsi garantito da una forza collettiva che prima non conosceva. Quando sorsero i Fasci dei Lavoratori e spiegarono al vento della libertà la loro bandiera di giustizia sociale, i contadini videro una nuova forza nei Fasci, la compresero ed abbattendo l'associazione criminosa che chiamasi Mafia, si iscrissero ai Fasci dei Lavoratori. E la Mafia scomparve dovunque poté essere costituita una sezione dei Fasci. Per meglio convincere la Camera, ricordo una confessione fatta dall'onorevole Giolitti. In seguito a una interrogazione dell'onorevole Paternostro, sulle condizioni della pubblica sicurezza in Sicilia, l'onorevole Giolitti, allora Presidente del Consiglio, constatò che i reati registrati nel periodo di tempo nel quale funzionarono i Fasci dei Lavoratori, erano diminuiti rispetto al passato mentre era aumentato il numero dei reati che si scoprivano. Tutto questo significa che il giorno in cui il lavoratore siciliano si vede garantito contro la violenza di chi lo sfrutta, quel giorno egli sfoga la sua tendenza onesta. E come potrebbe essere altrimenti? Pagina 40
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Ora, se si fa violenza a un contadino, a chi può rivolgersi il disgraziato? Lo domando all'onorevole Pelloux. Forse alla pubblica sicurezza? Oh! l'autorità di pubblica sicurezza guarda come nemico il contadino; essa è fatta, istituita, funziona quasi, per servire il padrone. Si rivolge alla Giustizia? Le querele non sono che per rendere servigi ai padroni. Egli si contenta dunque di far parola di questa violenza con qualcuno della Mafia e, immediatamente, la Mafia gli fa ottenere quella giusta riparazione che non avrebbe potuto ottenere né dalla polizia, né dalla Giustizia. Io vorrei domandare ai siciliani che fanno parte di questa Camera, specialmente a quelli della provincia di Palermo e di Girgenti: quando, a danno vostro o di vostri, si commette un furto in Sicilia, vi rivolgete voi, vi siete rivolti voi mai alla pubblica sicurezza? E, nel caso che vi siate rivolti qualche volta alla polizia, avete mai avuto la fortuna di rintracciare il reo e di recuperare la cosa rubata? Ah! Nessuno risponde perché tutti sanno che volendo ricuperare [p. 90] qualche cosa altro mezzo non hanno in Sicilia (perché la polizia è inadatta, perché la Giustizia non funziona) che quello di rivolgersi alla Mafia. Ecco perché questa istituzione non è la vergogna dell'isola, ma (rivolgendosi al banco del governo) è la vergogna vostra che la mantenete. (Applausi a sinistra.) Il secondo strato, che costituisce la formazione di associazione criminosa, è la polizia. Di essa l'onorevole Bonfandini, che non era sospetto (anzi, come mi suggerisce il mio amico Pansini, sospetto avrebbe potuto esserlo nel senso inverso) scrive così: «La Mafia ufficiale esisteva sotto i Borboni e il governo italiano non ha fatto nulla per distruggerla: al contrario, la Mafia ufficiale ha reso la polizia estremamente odiosa alla popolazione onesta che vede in essa un'associazione di malfattori protetta dal Governo» Né si dica che questo è un giudizio fatto molti anni addietro. Ne cito un altro più recente. In seguito a un furto di seicentomila lire, commesso a danno della Banca dei depositi e sconti di Catania, e per il quale non si arrestava il reo, che era pubblicamente conosciuto da tutti, il sindaco stesso della città, accompagnato da un ex deputato, si recò a protestare dal Procuratore Generale. Questi, che era arrivato di fresco, rispose: «Ne so anch'io il nome, ma cosa posso fare se trovo tutte le autorità congiurate contro la Giustizia? Volete che proceda? Ebbene, lo farò, ma dovrò procedere all'arresto di questo individuo prima di spiccare il mandato di cattura, perché se spiccassi questo mandato e lo comunicassi alle autorità di pubblica sicurezza, queste lo farebbero scappare» (Commenti dell'aula.) E' un fatto storico. Se volete, sono pronto a dire il nome. On. Pantano: No, no. On. De Felice Giuffrida: In realtà, quando si ruba in Sicilia, o meglio, quando si perpetrano grandi colpi, non domandate chi li ha organizzati: è sempre la pubblica sicurezza! (Si ride.) Si ruba nella Cancelleria della Corte d'Appello di Palermo? Si svaligia la casa della duchessa di Beaufremont? Si assalta il palazzo Lanza? Si rubano oggetti del valore di dieci milioni dal Monte di pietà? Chi ha organizzato questi furti rimasti celebri negli annali della delinquenza siciliana? La polizia. La banda che aveva perpetrato questi furti era diretta da un funzionario di pubblica sicurezza. On. Gattorno, deputato piemontese: Ma sono cose dell'altro mondo! (Viva ilarità.) On. De Felice Giuffrida: A Catania, qualche tempo fa, ci fu un assassinio. [p. 91] Un uomo si recò in un negozio d'armi, comprò una pistola, uccise un altro uomo e poi si costituì ai Reali Carabinieri. «Perché l'avete ucciso?» gli fu domandato. «L'ucciso era un capo banda» rispose «e accanto a lui comandava l'ispettore di pubblica sicurezza col quale divideva il bottino: io, vittima delle persecuzioni di questa banda, non volli piegarmi alle infamie che mi si proponevano, ed allora l'associazione, approfittando della complicità dell'ispettore, mi fece denunciare per l'ammonizione. Pagina 41
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Uscito dal tribunale, fuori di me, ho comprato la pistola e l'ho ammazzato. E se volete le prove di ciò che vi dico, andate immediatamente a casa dell'assassinato e troverete prove scritte.» I carabinieri andarono e trovarono lettere e documenti comprovanti l'esistenza dell'iniqua associazione che accomunava nella solidarietà del delitto ladri e funzionari di pubblica sicurezza. Un altro fatto vi citerò, nel quale era implicato lo stesso ispettore di pubblica sicurezza. Agiva liberamente in quei giorni una società di falsificatori di biglietti di banca che nessuno riusciva a scoprire. (2) Una volta la Banca Nazionale fu informata che un pacco di carta filigranata che doveva servire ai falsari era stato spedito da Parigi a Catania. Un impiegato della Banca stessa lo vide arrivare nell'ufficio postale e allora furono messe due guardie affinché arrestassero la persona che sarebbe venuta a ritirarlo. Ma non servì a nulla: misteriosamente il colpevole riuscì a ritirare il pacco senza essere arrestato. Poi si seppe in seguito che l'associazione dei falsificatori non poteva essere scoperta per il fatto che l'ispettore al quale era stata affidata l'indagine era un complice della banda. On. Gattorno: Ma sono cose dell'altro mondo! On. De Felice Giuffrida: E questo ispettore fu forse deferito all'autorità giudiziaria? Il Presidente del Consiglio di allora promise che avrebbe punito il reo in maniera esemplare. E, infatti, l'ispettore fu subito destituito ma, con un decreto che non si fece molto aspettare, fu nominato direttore delle carceri di Catania. E le tradizioni continuano: i funzionari di pubblica sicurezza di allora sono uguali a quelli di oggi che vanno alle Assise di Milano a deporre al processo per l'assassinio del direttore del Banco di Sicilia, Emanuele di Notarbartolo. Voi vedete, davanti a un fatto così grave di Mafia, all'uccisione di un uomo che godeva la stima pubblica, davanti a un processo [p. 92] che ha destato tanta indignazione, voi vedete funzionari di pubblica sicurezza recarsi alla Corte d'Assise e non sdegnare di mostrarsi reticenti, menzogneri e falsi: voi vedete funzionari che consegnavano verbali e rapporti redatti contro i capi della Mafia alle stesse persone prese di mira nei verbali stessi. Voi vedete alti funzionari ammettere di non avere preso provvedimento alcuno quando scoprirono che i loro rapporti diretti all'autorità giudiziaria si perdevano misteriosamente per strada. Ma, cosa più grave, alcuni delegati di pubblica sicurezza sono accusati pubblicamente di avere sottratto le calze insanguinate che potevano essere prova dell'assassino; e nessuno si preoccupa, per lo meno, di sospenderli dal servizio. E passo al terzo strato di questa formazione criminosa che chiamasi Mafia: i prepotenti, i signori, gli uomini politici. Onorevoli colleghi, sarò più breve, più preciso, più calmo, se è possibile, perché la violenza in questa terza parte del mio discorso viene dalla espressione stessa del fatto. E cominciando a trattare della parte che hanno i prepotenti, i signori e gli uomini politici nella manifestazione di questo fenomeno criminoso mi piace ricordare alcune frasi di una lettera che un egregio professore mi scrive da Palermo. Egli mi assicura fra l'altro di avere saputo da un alto funzionario di polizia «che la pubblica sicurezza ha le mani legate dall'alta Mafia e dai deputati che ne fanno parte» (Commenti vivaci.) Presidente: Ma, onorevole... On. De Felice Giuffrida: Anzi, è bene che sappiate cosa mi diceva ancora questo egregio professore: egli mi scrive che «un deputato (di cui ho accertato il nome) parlando con un alto funzionario di pubblica sicurezza ebbe a dire: Finalmente la Mafia è una istituzione che bisogna rispettare» Voci: Chi è? Dica il nome. On. De Felice Giuffrida: Devo dirlo? Una voce: Siamo tutti accusati, deve dire il nome! On. De Felice Giuffrida: Signor Presidente, se ella mi autorizza a dirlo io lo dirò. Voci: Sì, sì. Pagina 42
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Presidente: Ella sta leggendo lettere private, e qui non devono portarsi opinioni di estranei. On. De Felice Giuffrida: Giacché il Presidente non mi permette di dire il nome di quel deputato, e siccome, d'altra parte, la Camera insiste che lo dica, io, obbediente ai richiami del Presidente, manifesterò quel nome a lui solo, appena avrò finito di parlare. Voci: No, no. Lo dica ora. [p. 93] On. De Felice Giuffrida: Del resto, onorevoli colleghi, prima di cominciare a gridare è bene sappiate che ci sarà qualche altro fatto che vi farà gridare anche di più. Il fatto cioè che nasce dalla convinzione che realmente non poteva essere opera di un solo deputato (3) quella che dà vita ad un'associazione tanto vasta da potere estendere le sue ramificazioni non solo nelle campagne della provincia di Palermo, ma nel gabinetto del Questore di quella città e nell'ufficio dei Ministri d'Italia. Fatto ancora più grave mi sembra questo, onorevoli colleghi, che appena un funzionario di pubblica sicurezza accennava ad agire, egli era immediatamente trasferito. Mi smentisca chi può! E chi lo faceva traslocare? Il nome questa volta dovrebbe dirlo il Presidente del Consiglio. Pelloux, presidente del Consiglio: Ma cosa sta dicendo? On. De Felice Giuffrida: Appena un Procuratore Generale, il Sighele, accennò a voler procedere sul serio, fu immediatamente mandato via da Palermo. Appena un altro magistrato, il Consigliere di appello e di accusa Trasselli, cercò di mettere il dito sulla piaga, non fu soltanto trasferito ma venne, come mi si assicura, anche intimidito. Chi otteneva questi trasferimenti? Chi faceva queste intimidazioni? Il Governo solo può saperlo e deve dirlo: perché il diritto di tutti coloro che sono deputati in Sicilia, e che testé hanno gridato domandando a me un nome, sorge impellente dalla necessità di conoscere chi poteva avere interesse a nascondere la verità. Voci: Bravo! Benissimo! On. De Felice Giuffrida: Del resto, onorevoli colleghi, sappiamo bene che la Mafia è una necessità per molti deputati in Sicilia... (Risate.) Presidente: Onorevole De Felice! On. De Felice Giuffrida: Mi vuole più calmo e più tranquillo di così? Presidente: La richiamo all'ordine. Non è permesso parlare così della Camera! On. De Felice Giuffrida: Io non faccio che esporre un fatto che è bene conosciuto dalla Camera e dal paese e aggiungo che dico molto di meno, per mancanza di tempo e di opportunità, di ciò che potrei. Non è vero, d'altronde, che in vari collegi è la Mafia che fa le elezioni? [p. 94] Smentitemi se potete! Non è vero che nel collegio del quale è deputato (mi duole di dover parlare di lui che ora è il più direttamente colpito) l'onorevole Palizzolo, egli non ha bisogno di fare comitati perché c'è un comitato segreto che sostiene la sua candidatura, e questo comitato è la Mafia? Non è vero che in molti altri collegi la Mafia è stata la base elettorale dei candidati sostenuti dal Governo? Qualche cosa di più fa la Mafia: aumenta il credito dei capi politici che ne dispongono; abusa delle finanze dei Comuni, abusa dei fondi delle Opere pie, ruba i denari delle Casse pubbliche. Serve anche a qualche cosa di più: a far scomparire gli individui ricercati o a cui è affidato il segreto di qualche delitto. Onorevole Presidente del Consiglio, a proposito dei depositari di segreti che sono stati fatti scomparire, ci saprebbe ella dire qualche cosa della scomparsa dei quattro affiliati alla Mafia che accennavano a voler fare delle confessioni sul delitto Notarbartolo? Parlo dei quattro testimoni, il fornaio Tuttilmondo, l'oste Dalma e i cocchieri Lo Porto e Caruso, dei quali fu detto che erano partiti per l'America in cerca di fortuna. La verità è che essi partirono per l'altro mondo per non compromettere la fortuna di certi mafiosi in guanti gialli! Sa dircene qualche cosa, onorevole Presidente? Poiché Pagina 43
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt sino a lei deve essere giunta la voce che i corpi dei quattro disgraziati sono stati trovati dentro una caverna presso Palermo. A questo può servire la Mafia. E può anche servire a far fuggire gli individui pubblicamente accusati come, per esempio, il Giuseppe Fontana, (4) il quale pare risulti il vero assassino di Notarbartolo. Egli doveva essere almeno sorvegliato dalla polizia. Invece fu lasciato fuggire! On. Bertesi: Lo dovevano sorvegliare almeno quanto un deputato socialista! (Risate.) On. De Felice Giuffrida: Ma ciò che è più grave è che, di tanto in tanto, il Governo si fa premura di istituire questa benefica associazione là dove la Mafia non esiste. (Commenti. Interruzioni.) E' un fatto! Nelle ultime elezioni, in un collegio della provincia di Catania, tanto per fare un esempio, si aveva bisogno di una dozzina di mafiosi. (Risate.) Poiché, come sapete, a Catania questa merce non esiste, come non esiste a Messina e Siracusa, si fecero venire [p. 95] dei grossi mafiosi dal domicilio coatto, si armarono, si pagarono Lire 200 ciascuno, si alloggiarono in un determinato albergo, dove potevano mangiare e divertirsi, e si tennero a disposizione dell'autorità di pubblica sicurezza per intimidire, minacciare ed agire nell'interesse di un Sottosegretario di Stato. (Commenti.) Se, onorevoli colleghi, la mia parola vi può sembrare esagerata, potete domandare la prova a un deputato conservatore, all'onorevole Aprile, che potrà esternarvi meglio altre circostanze. Lo stesso onorevole di San Giuliano, potrebbe dirne qualche cosa se lo volesse. (Si ride.) Comunque sia, è certo che la Mafia esercita la sua opera criminosa aiutata dal Governo. Anch'io un giorno fui affrontato da quattro mafiosi che avevano il mandato di farmi uno dei soliti complimenti. Non mi rivolsi alla pubblica sicurezza, tanto sarebbe stato inutile! Ma, conoscendoli, li presi tutti e quattro e, con l'aiuto di un amico che dette tante prove di coraggio a Domokos, dissi loro: «Che cosa volete? Sono qua!» Quanto alla polizia essa lasciava che ci seguissero e ci insidiassero. E' grave! Un altro individuo voglio indicare, il quale, ammonito e condannato al domicilio coatto, rimaneva a disposizione di alcuni amici del Governo. Un giorno costui fece delle intimidazioni ad amici miei. «Ohé!» gli dissi «bada che io so metterti a posto anche se hai dalla tua parte la polizia!» E quel disgraziato mi rispose: «Che colpa ne ho io? Sono ammonito, sono stato condannato al domicilio coatto, ma posso rimanere qui. Ho libertà, denaro e protezione, ho tutto. Perché dovrei perdere tutto questo?» On. Gattorno: Ma sono cose dell'altro mondo! On. De Felice Giuffrida: Nessuno può negare che alla vigilia delle elezioni si prosciolgono dagli obblighi dell'ammonizione i delinquenti più pericolosi, si liberano dal domicilio coatto gli individui più tristi, si accordano permessi di porto d'arme a gente di malaffare; e tutto ciò per potere, colle pressioni e colle minacce di costoro, messi a disposizione del candidato del Governo, esercitare pressioni contro gli avversari politici. Mi si neghi questo se qualcuno ne ha il coraggio! Ditemi, non è dunque il Governo che promuove lo sviluppo della Mafia dove esiste e che ne demanda la costituzione dove non c'è? Onorevoli colleghi, io ho parlato a lungo e perciò non aggiungo considerazioni. Del resto, i fatti sono più eloquenti di qualunque considerazione. A me non resta dunque che attendere dal Parlamento quei provvedimenti che valgano a colpire non i piccoli, [p. 96] gli infelici, le vittime, ma coloro che sono in alto, siano essi rivestiti della divisa di ufficiale o di agente di polizia, siano essi ornati della croce o della commenda della Corona d'Italia! (Applausi dall'estrema sinistra.) La «panoramica» di Giuseppe De Felice Giuffrida, per quanto riguarda la collusione tra mafiosi e politici, non aveva nulla di esagerato. L'oratore avrebbe potuto aggiungere, anzi, che c'erano uomini politici che addirittura si imparentavano (col rito del comparato) a capi mafiosi analfabeti, pur di essere eletti, e altri che baciavano loro la mano sulla pubblica piazza, e altri ancora (fra Pagina 44
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt cui un futuro presidente del consiglio) che non esitavano, in tempo di campagna elettorale, a far affiggere manifesti di questo tenore: «Votate per X, l'amico degli amici» Uno dei personaggi più sconcertanti di quel periodo fu l'onorevole Palizzolo, al quale si accenna più volte nel discorso che abbiamo riportato. «Don Raffaele», come tutti lo chiamavano a Palermo, era il più noto e il più influente tra i politicanti mafiosi dell'isola. Legatissimo a Crispi e poi a Di Rudinì, controllava tutti i centri di potere della Sicilia occidentale. Egli era contemporaneamente deputato, consigliere comunale e provinciale di Palermo, presidente di una decina di opere pie, consigliere di amministrazione del Banco di Sicilia e principale azionista della Società di Navigazione. All'inizio dell'ultimo decennio del secolo scorso, caratterizzato da una serie di scandali bancari che sconvolse «l'onesta Italia umbertina», Palizzolo era riuscito a far allontanare dalla direzione del Banco di Sicilia il marchese di Notarbartolo, uomo probo e capace, per mettere al suo posto il duca della Verdura a lui legato da vincoli economici e politici. Diventato praticamente padrone del Banco, il Palizzolo diede il via a una serie vorticosa di operazioni e speculazioni così da mettere in seria crisi l'istituto bancario. Emanuele Notarbartolo, che non aveva naturalmente digerito bene l'ingiusto defenestramento, cercò di denunciare l'atmosfera di affarismo e di brogli che si era venuta [p. 97] a creare, inviando un rapporto al ministro Miceli. Non sappiamo cosa si proponesse l'ingenuo marchese con questa denuncia, ma il risultato fu che Miceli passò il rapporto a Crispi e Crispi a Palizzolo e tutto finì lì. Notarbartolo tornò comunque alla carica quando, caduto Crispi, gli successe Giolitti. Questa volta, per la verità, la situazione si fece subito delicata. Fu infatti annunciata un'inchiesta della quale il Notarbartolo sarebbe stato evidentemente il principale protagonista. Ma l'onesto marchese non fece in tempo a portare a termine la sua azione. Il 1o febbraio 1893 fu infatti ucciso con ventisette pugnalate in uno scompartimento di prima classe sulla linea Termini-Palermo e, precisamente, nel tratto Trabia-Altavilla. Che si trattasse di un delitto di mafia, nessuno dubitò. Come non si dubitò che Palizzolo ne sapesse qualcosa. Tuttavia il caso fu portato avanti per anni in maniera inconcludente. Accaddero anche fatti sconcertanti: il nome degli assassini era sulla bocca di tutti, ma nessun funzionario di polizia se ne dette per inteso; il figlio di Notarbartolo, che era ufficiale di marina e che, com'è naturale, si affannava a chiedere giustizia, fu mandato a navigare nei mari della Cina (dovrà chiedere il congedo per occuparsi dell'affare); Palizzolo, intanto, mentre la voce pubblica lo accusava del delitto, otteneva da re Umberto il Gran Cordone per i suoi «meriti civici» Tutti, a Roma e a Palermo, congiuravano per affossare la vicenda. Poi, anche se stentatamente, qualcosa si mosse. Fu dapprima arrestato un gruppo di mafiosi di Villabate, fra i quali il noto Giuseppe Fontana, accusati di essere gli esecutori del crimine, ma il processo finì con un'assoluzione. Più tardi, grazie alle pressioni del figlio di Notarbartolo, si fece un nuovo processo a Milano (imputato principale, Giuseppe Fontana) Ma nel corso del dibattimento emersero tali indizi contro il Palizzolo che la Camera (era allora presidente il piemontese Pelloux) non esitò ad accordare l'autorizzazione a procedere. [p. 98] «Don Raffaele» fu arrestato l'8 dicembre 1899, e sebbene tutti i negozianti di Palermo chiudessero bottega per «lutto cittadino», l'arresto fu mantenuto. Il primo processo si svolse a Bologna dal settembre del 1901 al luglio del 1902 e si concluse con la condanna all'ergastolo di Raffaele Palizzolo e di Giuseppe Fontana. La cassazione annullò tuttavia la sentenza di Bologna, e un secondo processo ebbe così inizio a Firenze nel settembre del 1903. Nel frattempo, a dieci anni di distanza dai fatti, diversi testimoni erano morti (di morte naturale o meno), altri erano espatriati, altri ancora avevano «perduto la memoria» In conclusione, il 25 luglio 1904 i giurati di Firenze assolvevano Palizzolo e Fontana per insufficienza di prove. Pagina 45
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt La liberazione dell'ex deputato suscitò molto scalpore. Mentre i giornali continentali, e particolarmente l'«Avanti!», commentavano perplessi la sentenza di Firenze, a Palermo si faceva gran festa. Fu noleggiato il piroscafo Malta per andare a rilevare Palizzolo a Napoli; fu rinviata la processione della Madonna del Carmine per permettere all'ex ergastolano di prendervi parte; i giurati fiorentini furono proclamati cittadini onorari di Palermo; il deputato Di Stefano, succeduto a Palizzolo, diede le dimissioni per restituirgli il collegio. Le autorità di polizia che De Felice Giuffrida aveva apertamente accusato di collusione con la mafia e di occultamento delle prove a carico di Palizzolo, erano le stesse da cui il capo dell'Italian Legion si aspettava una seria collaborazione nella sua lotta contro la malavita italiana d'America. Ma Petrosino non poteva conoscere a fondo l'effettiva posizione della mafia in Sicilia, né d'altra parte poteva sapere che il governo italiano, mentre prometteva ufficialmente il suo interessamento, dava istruzioni segrete ai suoi funzionari affinché favorissero e consigliassero l'espatrio in America agli ammoniti, ai vigilati speciali, ai reduci dal carcere. Ignorava dunque che per qualsiasi pregiudicato [p. 99] era la cosa più facile di questo mondo ottenere un passaporto e una fedina penale pulita. E, nel caso che, per una ragione o per l'altra, il malvivente non vi fosse riuscito per via legale, c'era sempre il duca Francesco di Villarosa, di Palermo, che per la somma di cinquecento lire forniva qualsiasi tipo di documento a chiunque glielo chiedesse. NOTE: (1) Giuseppe De Felice Giuffrida, 1869-1920. Fervente socialista. Autorevole esponente dei Fasci siciliani (1893-1894), a seguito dello stato d'assedio fu arrestato e condannato a ventidue anni di carcere. Fu amnistiato nel 1896, dopo la caduta di Crispi. Durante la detenzione venne eletto ugualmente deputato a Roma e a Catania, ma la giunta parlamentare non convalidò l'elezione. Fu amico e seguace di Filippo Turati. (2) Ne faceva parte anche Giuseppe Morello prima della sua fuga in USA. (3) L'oratore si riferisce all'onorevole Raffaele Palizzolo che in quel momento era in stato di detenzione essendo accusato di essere il mandante degli assassini del marchese Emanuele di Notarbartolo, direttore del Banco di Sicilia. (4) Si tratta dell'esponente della Mano Nera di New York, amico di Giuseppe Morello. [p. 101] VII DON VITO CASCIO FERRO Si racconta che Vito Cascio Ferro, quando rientrò dagli Stati Uniti per sfuggire all'accusa di complicità nel «delitto del barile», portò con sé una fotografia di Giuseppe Petrosino. «Io che non mi sono mai macchiato di un delitto» sarebbe stato solito dire agli amici mostrando la foto del poliziotto «giuro che ucciderò quest'uomo con le mie stesse mani.» Ma mentre la dichiarazione è apocrifa, il fatto della foto è accertato: don Vito teneva effettivamente nel portafoglio la fotografia del poliziotto, alla moda dei killer americani che vogliono sempre essere ben sicuri di non sbagliare bersaglio. Vito Cascio Ferro era nato a Palermo il 22 gennaio 1862. Suo padre, Accursio, era «campiere» dei baroni Inglese al seguito dei quali si era trasferito a Bisacquino, non molto lontano da Palermo, per occuparsi della fattoria di Santa Maria del Bosco. Vito non frequentò alcuna scuola, ma non restò analfabeta. Sposò, infatti, giovanissimo, la maestra elementare del paese, Brigida Giaccone, che oltre a portargli in dote anche la casa in cui andarono ad abitare, gli insegnò a leggere e scrivere. Era un uomo alto, assai piacente, col volto incorniciato da una barbetta biondiccia e ben curata. Vestiva con una certa eleganza, «da galantuomo», come allora Pagina 46
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt si diceva, fumava pipe lunghissime ed emanava quell'alone di autorevolezza che in Sicilia distingue gli [p. 102] uomini «di rispetto» Quasi inconsciamente, i contadini si sorprendevano a ubbidirgli e ad anteporre al suo nome il titolo onorifico di «don» Di lavorare, don Vito sembrava non averne molta voglia. Si occupava vagamente di certe compravendite per conto del barone Inglese e di una non precisata rappresentanza dell'impresa di trasporti pubblici Caruso. Preferiva comunque frequentare i locali di Bisacquino e di Palermo, dimostrando grande interesse per il gioco del giusso (una specie di poker alla siciliana) Più tardi, quando cominciò a diffondersi nell'isola il movimento anarchico, don Vito fu uno dei primi a iscriversi. Era un temperamento esuberante, amava dirimere questioni, fare da paciere, raddrizzare i torti, far pesare la propria personalità, accogliere tutti sotto la sua ala protettrice. Aveva, insomma, tutte le tipiche caratteristiche del potenziale mafioso. Ma per cominciare fu anarchico, e come tale si dette anche molto da fare. Fu presidente dei Fasci di Bisacquino nel 1892, partecipò all'occupazione delle terre e, in seguito alle dure repressioni ordinate da Crispi, si rifugiò per circa un anno in Tunisia, per evitare il domicilio coatto. Questo «peccato di gioventù» non sarà mai rinnegato da Vito Cascio Ferro. Curiosamente, continuerà a considerarsi amico del popolo e uomo di sinistra anche quando diventerà il più importante capomafia di tutti i tempi. Rientrato dalla Tunisia, don Vito abbandonò comunque la politica per dedicarsi a imprese più redditizie. Fu in quegli anni, sicuramente, che egli organizzò la sua prima banda di malfattori, ma le notizie sul suo conto sono scarse. Si possono soltanto fare delle supposizioni, come le faceva il delegato di pubblica sicurezza di Bisacquino. «Si suppone» egli scriveva al questore di Palermo «che il noto Vito Cascio Ferro sia l'organizzatore della rapina ai danni di tre commercianti il cui calesse fu fermato da uno sconosciuto che si qualificò per delegato di pubblica sicurezza.» E ancora: «Si suppone che il prete armato di fucile che ha [p. 103] assaltato la masseria Lo Bianco sia il noto Vito Cascio Ferro abilmente travestito...». In quegli anni, i reati certi addebitati a don Vito e risultanti chiaramente dal suo fascicolo giudiziario sono quelli di «violenza sulle cose, incendio doloso e oltraggio a pubblico ufficiale», ma si tratta evidentemente di fatti accaduti in occasione dei moti contadini di protesta. Si deve infatti giungere al 1898 per cogliere, come si suol dire, don Vito con le mani nel sacco. L'episodio di cui il già influente personaggio di Bisacquino si rese protagonista presenta ancora oggi dei lati alquanto oscuri. La sera del 13 giugno 1898 la baronessina Clorinda Peritelli di Valpetroso, di diciannove anni, fu rapita da tre individui mentre percorreva in carrozza la via Paolo Paternostro di Palermo. La ragazza fu dapprima portata in una casa di campagna, dove una donna, da lei definita gentile, le fece compagnia per tutta la notte. Poi, il giorno seguente, fu rimessa in libertà perché, presumibilmente, i genitori avevano provveduto a pagare il riscatto. La polizia non era rimasta comunque inoperosa. Grazie ad alcune delazioni, gli agenti riuscirono infatti a mettere le mani addosso ai rapitori che in seguito la baronessina Clorinda, accompagnata in questura, non esitò a identificare. Essi erano: Vito Cascio Ferro, lo studente Girolamo Campisi, Giusto Picone, Antonio Enea, Pietro Di Benedetto, Valentino Di Leo e Lucrezia Zerbo. Per l'intera banda le cose si stavano dunque mettendo molto male: ma don Vito non era il tipo da arrendersi per così poco. Egli infatti dichiarò subito che si era trattato di un «ratto d'amore»: lo studente Campisi, innamoratissimo della bella Clorinda, lo aveva pregato di dargli una mano e lui, essendo in fondo un romantico, non aveva avuto il coraggio di dirgli di no. Non si sa bene come andarono le cose, ma il fatto è che la versione di don Vito fu accettata da tutti (anche se, come risulta dai verbali, la rapita Clorinda negò di avere mai avuto rapporti di sorta col Campisi) Così, don Vito [p. 104] ebbe una condanna a soli tre anni, completamente condonata. E anche gli altri arrestati poterono Pagina 47
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt tornare a casa. In seguito a questa vicenda, tuttavia, l'ex anarchico fu proposto per l'ammonizione, e di lì a poco decise di espatriare. Separatosi senza tanti rimpianti dalla moglie - ormai fatalisticamente rassegnata alle strane attività dell'irrequieto consorte - ai primi di agosto del 1901, munito di regolare passaporto e di un certificato penale senza macchia, raggiungeva Marsiglia dove si imbarcava per gli Stati Uniti. A New York egli abitò per qualche tempo presso la sorella Francesca, maritata con Salvatore Armato, nella Ventitreesima Strada. Successivamente mise su casa per proprio conto al numero 117 di Morgan Street. Fin dai primi giorni del suo arrivo, don Vito diventò un personaggio importante negli ambienti della malavita siculoamericana: la sua fama lo aveva preceduto, la sua intelligenza e la sua autorevolezza fecero il resto. D'altra parte, egli era il primo mafioso «di rispetto» che mettesse piede negli Stati Uniti, ed è quindi naturale che tutti già lo vedessero come il futuro capo dell'onorata società. Va anche detto che il suo inserimento nell'ambiente non provocò attriti di sorta con i boss locali. Nessuno, del resto, gli stava alla pari e i vari capibanda, come i Morello, i Lupo, i Fontana, che in Sicilia avevano servito come sicari o che, comunque, erano stati personaggi di secondo piano, provarono subito per don Vito quel miscuglio di venerazione e di paura che i picciotti provano per i capi di razza. Una prova della rispettosa accoglienza che fu riservata a don Vito quando giunse a New York la troviamo in una lettera che gli fu inviata in quei giorni e che sarà poi rintracciata fra le sue carte. Eccola: New York, 12 settembre 1901 «Carissimo signor don Vito, «vi do il benvenuto e mi prendo il piacere e la libertà di invitarvi [p. 105] nella mia casa. Mi sono anche preso la libertà di invitare gli amici Giuseppe Morello, Francesco Megna, Giuseppe Fontana, Carlo Costantino e Gioacchino Di Martino per mangiare insieme un piatto di maccheroni. Noi abbiamo pensato che andrebbe bene lunedì prossimo e che l'ora comoda potrebbe essere le tre del pomeriggio. Spero che non vorrete mancare e se il giorno e l'ora non vi riescono comodi avvertitemi anche per dispaccio. «Vi bacio le mani, vostro Salvatore Brancaccio» Nei pochi anni in cui rimase negli Stati Uniti, don Vito fu senza dubbio l'eminenza grigia della Mano Nera di cui riorganizzò i sistemi rendendoli più razionali e produttivi. Sicuramente egli ebbe contatti anche con il movimento anarchico, cui non dimenticava di avere appartenuto. Si recò più volte a Paterson, dove fu accolto come un «reduce dei gloriosi moti siciliani del '92» e dove lasciò credere di avere lasciato l'Italia per motivi politici. Volle anche essere presentato a Sophie Knieland, la compagna di Gaetano Bresci, che si era trasferita a Cliffside con la figlia Madeline. I due diventeranno amici e si scriveranno spesso. Non sappiamo a cosa mirasse don Vito cercando di stabilire contatti con gli anarchici allora assai numerosi negli Stati Uniti. Né sappiamo quali fossero i suoi progetti a lungo termine: se ne aveva (e certamente ne aveva), essi furono frustrati dall'apparizione sulla scena di Giuseppe Petrosino. La vicenda è nota: dopo il «delitto del barile», don Vito cercò dapprima di imbrigliare l'indagine poliziesca (la geniale trovata del sosia dell'assassino fu un frutto della sua fantasia), e poi riparò a New Orleans dove rimase per circa un anno ospite di amici fidati. Ormai l'America non era più una terra ospitale per don Vito. La denuncia mossa contro di lui da Petrosino aveva anche bloccato la sua richiesta di cittadinanza. Se voleva restare, avrebbe dovuto rassegnarsi a vivere sotto falso nome e questa prospettiva non lo allettava. Di conseguenza, decise di tornare in Italia. [p. 106] Egli salpò da New Orleans il 28 settembre 1904 salutato dal seguente telegramma giuntogli quel giorno stesso da New York: «Allarmatissimi tue sventure. Parti tranquillo sul conto mio e degli Pagina 48
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt altri. Ti auguriamo di trovare tutto bene. Coraggio. Scrivi tuo arrivo. Giuseppe». L'autore era probabilmente Giuseppe Morello. Rientrato a Palermo, don Vito si rese conto che se c'era stato qualche pericolo per lui, ora se n'era perduta ogni traccia. Tutti i conoscenti lo riverivano con la consueta deferenza. Il suo primo impegno fu quello di dare una struttura organizzativa al collegamento Palermo - New York che, fino a quel momento, consisteva piuttosto in un rapporto fra persone che fra gruppi. Grazie alla sua influenza in Sicilia e in America, don Vito diventò in breve tempo il cardine dell'alleanza fra due organizzazioni criminose: la mafia e la Mano Nera. Fu lui, insomma, a fondare quel vasto impero del crimine, con rapporti di derivazione stabili e permanenti, che esiste tuttora e che, di tanto in tanto, emerge chiaramente quando la cronaca ci rivela che i mafiosi dell'una o dell'altra parte dell'oceano hanno uguale potere e influenza nel controllo di determinati traffici clandestini. Questa ardita operazione aumentò notevolmente il potere dell'ex sovversivo di Bisacquino. Egli aveva allora quarantadue anni, la sua figura si era fatta più imponente, la sua barba, percorsa da qualche filo bianco, più autorevole. Fu in quel periodo che l'astro di don Vito raggiunse vette altissime nel firmamento della mafia. Dando prova di grande abilità, in meno di due anni riuscì ad assumere il controllo di tutte le cosche mafiose della zona. Secondo un rapporto della polizia egli fu contemporaneamente il capomafia di: Bisacquino, Palermo, Burgio, Corleone, Campofiorito, Contessa Entellina, Chiusa, Sclafani, Sciacca, Sambuca Zabut e Villafranca Sicula. Esempio unico nella storia criminale siciliana. [p. 107] D'altra parte, don Vito era senza dubbio dotato di una mente superiore. Organizzatore perfetto, vero industriale del crimine, istituì nel suo «feudo» il sistema fiscale del pizzu con un tale senso di giustizia che molti ricattati gliene rendevano merito. Sapeva leggere stentatamente, ma sapeva calcolare con precisione i guadagni di un certo commerciante allo scopo di imporgli un'equa tangente. Fu il primo a adeguare i sistemi arcaici e pastorali della mafia contadina alla vita complessa di una città moderna. Organizzò tutte le varie categorie di delinquenti, e persino i mendicanti ebbero ciascuno una propria zona. Naturalmente, come spesso accade in Sicilia con personaggi di tal fatta, la leggenda ha offuscato la verità e ancora oggi si ama ricordare don Vito come una sorta di brigante-gentiluomo sempre pronto al bel gesto. Si tende invece a dimenticare il centinaio almeno di persone che egli fece trucidare dai suoi killer. In quegli anni, egli viveva fra Bisacquino e Palermo dove era ospitato (gratis) nei migliori alberghi della città. Di preferenza andava all'Albergo Pizzuto di via Bandiera o all'Hotel de France in piazza Marina. Per il pranzo, di solito andava al Caffè Oreto, quando non era ospite dei suoi illustri amici palermitani. Oltre gli stretti rapporti con i baroni Salvatore e Antonino Inglese, egli era diventato l'uomo di fiducia dell'onorevole Domenico De Michele Ferrantelli, deputato di Bivona. Dire «uomo di fiducia» è forse un po umiliante per la memoria di don Vito. Per capire quali fossero in effetti i loro rapporti, bisogna tener conto di certe sfumature. Quando per esempio, in occasione delle elezioni, i due facevano il giro dei vari comuni del collegio, i sindaci, con fascia tricolore, accorrevano all'ingresso del paese per baciare la mano a don Vito. La mano dell'onorevole De Michele si limitavano a stringerla. Per avere un'idea, d'altra parte, della strada compiuta da Vito Cascio Ferro dopo il suo ritorno dagli Stati Uniti, si leggano questi due rapporti su di lui, inviati dal prefetto al ministro dell'Interno. Si noti che fra il primo e il secondo [p. 108] passano esattamente dieci anni, ma l'autore è sempre lo stesso. PREFETTURA dI PALERMO 10 maggio 1898 «Oggetto: Cascio Ferro Vito di Accursio e fu Ippolito Santa, nato a Palermo il 22 gennaio 1862, domiciliato in Bisacquino, nullatenente, mediatore, ammogliato con Giaccone Brigida, maestra elementare, senza prole. Pagina 49
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt CONNOTATI: Statura: alta. Corporatura: piuttosto snella. Capelli: castani. Fronte: giusta. Naso: a punta con narici aperte. Occhi: piccolo-cervini. Bocca: piuttosto larga. Mento: tondo. Viso: scarno. Colorito: un po pallido. Barba: tagliata a punta alla Mefistofele. Portamento: altero. Espressione fisionomica: mafiosa. Abbigliamento abituale: civile. Segni speciali: N. N.par «Cenno biografico: Dagli onesti cittadini è tenuto in pessimo concetto come individuo pericolosissimo sotto tutti i rapporti, è invece tenuto di gran conto e rispettato dai mafiosi e dai socialisti. Ha discreta educazione, molta intelligenza, poca o nessuna cultura ed ignorasi quali studi abbia compiuti, non avendo alcun grado accademico. E' dedito all'ozio, al gioco e alla gozzoviglia. Trae il sostentamento dallo stipendio della moglie e da ciò che guadagna come rappresentante dell'impresa di trasporti postali Caruso; ma ciò non potrebbe bastargli perché veste decentemente e spesso si reca e si intrattiene per molti giorni a Palermo di guisa che se ne deduce che egli tragga altri lucri da illecite fonti. Frequentava prima esclusivamente la compagnia di mafiosi, pregiudicati e socialisti, ma da qualche tempo frequenta anche il Circolo dei Civili di Bisacquino dove è subito a malincuore. Nei doveri verso la famiglia si comporta male perché spesso maltratta e bastona la moglie. Non ha mai disimpegnato cariche politiche o amministrative. E' ascritto al partito [p. 109] socialista rivoluzionario ed ha molta influenza non solo in questo comune ma anche a Burgio, Sambuca Zabut, Sciacca e Corleone e si mantiene in continue relazioni con capi e compagni recandosi spesso a visitarli. Dal dicembre 1893 al settembre 1894 dimorò a Tunisi dove fuggì dopo la proclamazione dello stato d'assedio in Sicilia per sfuggire al domicilio coatto. Ritornò spontaneamente in patria dando assicurazione al Questore che mai più si sarebbe occupato di politica. Appartenne, con la carica di Presidente, al Fascio dei lavoratori di Bisacquino mostrandosi audace, violento ed esternando propositi di distruzione. Non ha collaborato o collabora alla redazione di giornali. Riceve stampe sovversive che ritira personalmente nelle frequenti gite a Palermo. «Ha fatto propaganda attivissima fra i contadini, ai quali ha insegnato che la proprietà è furto, e dai quali è tenuto in massima considerazione, così da dichiararsi pronti a obbedirlo e a seguirlo ad ogni suo minimo cenno. Al tempo dei Fasci tenne clandestinamente varie conferenze con immenso profitto del suo partito e ottenendo, cosa che pare incredibile data l'indole, l'educazione e il carattere di quella classe agricola, che le donne non seguissero più la processione del viatico e si confessassero a lui e agli altri capi del Fascio. Verso le autorità si dimostra sprezzante. Non fu mai proposto o sottoposto alla giudiziale ammonizione. Venne proposto per il domicilio coatto nel 1894 ma il provvedimento non poté avere esecuzione perché fuggì a Tunisi. Molti e terribili sono i delitti che l'opinione pubblica addebita a Vito Cascio Ferro, ma dalla sua fedina penale risultano soltanto alcune ammende mentre fu sempre assolto dalle accuse di incendio doloso e oltraggio alla forza pubblica. Il Prefetto» PREFETTURA dI PALERMO 12 maggio 1908 «Oggetto: Cascio Ferro Vito di Accursio. «Risulta a questa R. Prefettura che la persona in oggetto, la quale in passato professava principi sovversivi, dal 1900 ha abbandonato gli antichi compagni di fede e mantiene una condotta irreprensibile. Egli ha contratto ora nuove e valide amicizie con il barone Inglese e Pagina 50
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt con l'onorevole De Michele Ferrantelli che gli concedono la massima fiducia. Gode la stima dei cittadini onesti, tanto che è stato ammesso a far parte del Circolo dei Civili; mantiene ottimi rapporti con i galantuomini e, soprattutto, si dimostra deferente verso le Autorità. Il Prefetto, De Seta» [p. 110] Da «uomo di rispetto» che era, don Vito, dopo il suo ritorno dall'America, diventò dunque «uomo di grande rispetto» Si vestiva da Bustarino, il negozio di via Maqueda allora famoso perché offriva ai clienti il meglio del mercato inglese; frequentava i teatri e la buona società. Molti si sarebbero sorpresi nell'apprendere che quell'uomo elegante era un contadino semianalfabeta e che, sotto l'abito di stoffa inglese, portava ancora la grossa cintura con incisa una serie di tacche che utilizzava per fare i conti, come fosse un pallottoliere. Tutti sapevano quanto contasse, comunque; o per interesse o per paura, o anche per spontanea ammirazione, facevano a gara per diventarne amici. «Beato chi vi bacia la mano, don Vito» lo salutavano. E lui, benignamente, la mano la dava da baciare a tutti, anche alle autorità. Da autentico mafioso, badava soprattutto a guadagnarsi il rispetto della gente. In un certo senso, amava più la potenza del denaro. E, in verità, non fu mai avido: si lusingava piuttosto di avere amici pronti a mettere a sua disposizione qualunque somma di cui avesse bisogno. L'alone che lo circondava era di mistero, oltre che di rispetto, e il popolino non mancava di associare il suo nome a certe colorite leggende (come quella dei Beati Paoli, una setta di giustizieri del XVII secolo da cui alcuni vorrebbero far nascere la mafia primigenia); e sembra del resto che egli effettivamente si preoccupasse di rinverdire gli antichi riti della mafia, organizzando complicate cerimonie d'investitura e scenografici processi in cui la sorte di nemici pericolosi, o di affiliati sospettati di tradimento, veniva decisa in luoghi macabri e tenebrosi. Può sembrare strano che don Vito, mafioso razionale e moderno, amasse questo genere di messinscena. Ma le voci che correvano in proposito appaiono confermate dal seguente curioso rapporto che il delegato di pubblica sicurezza di Bisacquino, cavalier Ponzio, fece pervenire nell'agosto del 1908 al questore di Palermo Baldassarre Ceola. [p. 111] «Nel corso delle indagini sulle attività del noto Cascio Ferro Vito, mi fu confidato che egli fa da molto tempo parte di una associazione criminosa esistente a Palermo e, come prova, mi fu detto che il medesimo incaricò tempo fa un individuo di Bisacquino di portare una lettera in una casa contigua ad una chiesa esistente in prossimità del Monte di Pietà in Palermo, alla quale casa si accede per una porta piuttosto piccola a fianco della chiesa medesima ove, bussato, gli sarebbe stato aperto da una giovane sordomuta che, ritirata la lettera, avrebbe aperto una porticina conducente ad un sotterraneo e di là sarebbe ritornata con una lettera di risposta, contenente del denaro, che avrebbe consegnato a lui. «L'incaricato, rintracciata la casa indicatagli, eseguì le istruzioni ricevute, e poiché ebbe consegnata la lettera, la sordomuta, probabilmente sorella del sacrista di detta chiesa, del quale ritenne la casa medesima fosse l'alloggio, aperta la porticina conducente al sotterraneo, che gli sembrò sottostante alla suddetta chiesa, lo introdusse in esso. «Quivi trovò riuniti parecchi individui a lui sconosciuti e dall'aspetto sinistro, ed alcuni tavoli disposti regolarmente lo convinsero che quello era il luogo di ritrovo della delinquenza dove avveniva la spartizione della refurtiva e si pronunziavano le sentenze a carico dei suoi membri. Poiché ebbe atteso per qualche tempo, gli fu consegnata la lettera di riscontro con il denaro per il destinatario, e prima di allontanarsi gli fu raccomandato di serbare, pena la vita nel caso di trasgressione, il segreto su quanto aveva osservato. «Fatte pertanto accurate ricerche per la identificazione del misterioso locale, ho dovuto convincermi che la chiesa di cui Pagina 51
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt trattasi è quella dei Beati Paoli, sita nella piazza omonima, e la casa suindicata è quella contigua alla stessa chiesa e situata precisamente nel punto in cui la piazza in parola forma angolo con il vicolo delle Orfane.» C'è anche da dire, però, che il rapporto del coscienzioso delegato di Bisacquino non dette luogo a verifiche di sorta; per cui, in definitiva, l'esistenza di quella curiosa «corte dei miracoli» resta appesa a un punto interrogativo. [p. 113] VIII «DOVREMO fARE dA sOLI» Giuseppe Petrosino gettò con un gesto stizzito la bombetta sulla sedia più vicina e andò a piantarsi davanti al tavolo dell'assessore Bingham. «Generale, io sono stufo di lavorare a vuoto» disse. «Anche stavolta il tribunale ha respinto tutte le proposte di espulsione presentate dal nostro dipartimento. E sapete con quali pretesti?» L'assessore Bingham si limitò a stringersi nelle spalle. «Una pratica» continuò Petrosino «è stata respinta perché le generalità del soggetto non erano esatte; un'altra perché il soggetto vive in America da tre anni e cinque giorni (come se fossimo stati noi a rinviare la causa di mese in mese!); un'altra ancora perché non si conosce il nome del porto di partenza e quindi non si sa dove rispedirlo... Devo continuare?» «No, basta così» disse Bingham con un sospiro. «Ormai questa storia la conosco bene.» Ma l'altro continuò il suo sfogo. «Sapete qual è» chiese «il risultato di quasi un anno di lavoro in questo settore? Su cinquemila delinquenti italiani schedati dalla mia squadra, siamo riusciti a ottenere un provvedimento di espulsione dagli Stati Uniti soltanto per venti. E di questi venti, sette sono poi riusciti misteriosamente a fuggire da Ellis Island poco prima dell'imbarco.» «Avete ragione, tenente» disse Bingham. «Purtroppo le nostre leggi sono quelle che sono. Tuttavia ciò che più ci è mancato è la collaborazione della polizia italiana.» [p. 114] «E con questo? Volete dire che dobbiamo rassegnarci?» «Niente affatto» ribatté il capo della polizia con voce fattasi improvvisamente più dura. «Ma, come vi ho già detto più volte, dovremo fare da soli...» L'ufficiale guardò perplesso il suo superiore. In effetti Bingham andava ripetendo da tempo questa ambigua affermazione. «Che significa da soli, generale?» chiese. «Ve lo spiegherò a tempo debito, tenente. E' una mia idea e potrebbe dare risultati importanti. La cosa è già allo studio e vi farà piacere apprendere che avrete una parte molto importante nella realizzazione del mio progetto.» Nella primavera del 1908, a circa un anno dalla sua promulgazione da parte del Senato degli Stati Uniti, la nuova legge sull'emigrazione si era già rivelata un completo fallimento. Gli avvocati dei malviventi minacciati dal provvedimento di espulsione ne avevano trovata una più del diavolo per invalidare o rendere inoperanti quasi tutti gli articoli. Consapevole dell'inadeguatezza del provvedimento legislativo, il governo americano, su invito dello stesso presidente, aveva provveduto in quegli ultimi mesi a nominare alcune commissioni di senatori e di rappresentanti, affinché si recassero in Europa e, in particolare, in Italia, per studiare sul posto una nuova legge che potesse risultare effettivamente utile a tenere i criminali lontani dall'America. Una di queste commissioni, presieduta dal senatore Wetchorm, fu anche ricevuta da Vittorio Emanuele III, il quale promise la propria personale cooperazione, ma tenendosi accuratamente sul generico. Da parte sua, il senatore Latimer, della Carolina del Sud, aveva messo allo studio una nuova legge secondo la quale ogni emigrante per essere ammesso in America avrebbe dovuto produrre un «certificato di Pagina 52
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt provenienza» rilasciato dal consolato americano più vicino al suo luogo di residenza. I viaggi in Europa di dette commissioni senatoriali costarono [p. 115] all'erario degli Stati Uniti circa trecentomila dollari, ma i loro risultati pratici possono essere desunti da un commento del «New York Times», il quale scrisse: «Considerando che la canaglia napoletana, calabrese e siciliana sta raggiungendo l'apice dell'affluenza nel nostro paese, gli sforzi dei nostri senatori possono essere paragonati a quelli di quel pastore che, mentre i lupi irrompevano nel suo ovile, corse in biblioteca a consultare un trattato di zoologia» Quasi a farlo apposta, proprio nei giorni in cui infuriava la polemica sulla malavita italiana, Raffaele Palizzolo, l'ex deputato già condannato all'ergastolo per l'uccisione del marchese Emanuele di Notarbartolo, decise di fare la sua apparizione negli Stati Uniti. I motivi di questo suo viaggio erano specificatamente elettoralistici. Raffaele Palizzolo intendeva ripresentarsi candidato nel collegio di Palermo alle elezioni fissate per il 1o marzo 1909, e aveva concepito questa visita alla colonia siciliana degli Stati Uniti sia per farsi propaganda, sia per raccogliere fondi. Portava infatti nel suo bagaglio ben ventimila copie di un libro autobiografico che aveva intitolato Le mie prigioni e che intendeva vendere ai suoi ammiratori al prezzo di un dollaro la copia. Palizzolo giunse dunque a New York l'8 giugno 1908 a bordo del piroscafo Martha Washington. Lo accompagnava il cugino avvocato Ferlazzo, direttore del giornale «La Forbice» di Palermo. Incredibilmente, il noto esponente della mafia che, si badi bene, in quel momento non era neppure deputato, ebbe accoglienze ufficiali. Grazie a una ben orchestrata campagna di stampa condotta dal «Progresso italoamericano» e da alcuni altri giornaletti di lingua italiana, migliaia di siciliani che portavano sul petto il classico «bottone» con l'immagine di Palizzolo (a quei tempi si trattava di una grossa novità) erano affluiti sul molo. In testa alla folla plaudente c'era il console generale d'Italia a New York, conte Massiglia, che presentò l'ospite alle autorità [p. 116] americane qualificandolo per official representative of the Italian govemment, inviato negli Stati Uniti per svolgere una campagna educativa fra i siciliani e per combattere la Mano Nera e la mafia. Ancor più incredibilmente, queste parole del console furono prese per oro colato. Lo stesso assessore Bingham dichiarò quel giorno al «New York Times»: «Sono certo che l'onorevole Palizzolo potrà rendere preziosi servigi alla polizia di New York nella lotta contro la Mano Nera» Tuttavia, la beffa di Palizzolo non poteva durare a lungo. Un giornale coraggioso, il «Bollettino della Sera», prese l'iniziativa per informare gli italiani d'America di quale pasta fosse l'uomo che si proponeva di educare i siciliani. Altri giornali italiani lo imitarono, ma il «Progresso italoamericano», spalleggiato dall'influentissimo «New York Herald» e dal suo foglio in lingua italiana, «L'Araldo», continuò imperturbabile la campagna palizzoliana. Gli italiani allora si divisero. In molte città da lui visitate Palizzolo trovò il vuoto intorno a sé; in altre ebbe invece accoglienze festosissime. Naturalmente, aveva successo dove i siciliani erano più numerosi. Alcuni giornali scrissero anche che l'ex deputato si era incontrato più volte con l'«amico» Giuseppe Fontana, «suo compagno di martirio nel lungo processo», con Giuseppe Morello e Ignazio Lupo. Ma per dare un'idea concreta degli entusiasmi che Palizzolo suscitò in America, riportiamo questo commento a una conferenza da lui tenuta alla Tammany Hall, la sede del partito democratico di New York. « l'oratore non mette mai in fallo una parola. Si spiega così come l'onorevole Palizzolo riesca a commuovere e a suggestionare la folla. Mettete quest'uomo in piazza Quattro Cantoni, in piena Sezione Palazzo Reale, a Palermo, fra Monte Pellegrino e Monreale: mettetegli in bocca la più calda e sonora prosa poetical'unica che si deve usare quando si parla della Sicilia! - e vi spiegherete l'adorazione per «l'amico del popolo» Vi spiegherete il fenomeno Palizzolo!» Pagina 53
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt L'«amico del popolo» non doveva rimanere a lungo negli Stati Uniti. Giuseppe Petrosino, dopo aver chiarito le [p. 117] idee all'assessore Bingham, si mise subito alle sue calcagna riuscendo a rovinargli più di una conferenza, ora eseguendo degli arresti fra il pubblico, ora frammettendo ostacoli di carattere burocratico. Alla fine, i due uomini si erano incontrati faccia a faccia nella camera d'albergo del Palizzolo. Non si sa cosa si dissero (Petrosino non volle mai rivelarlo, anche se faceva intendere di avergli «fatto paura») In ogni modo, Raffaele Palizzolo lasciò New York con un mese d'anticipo sul previsto. Partì infatti il 2 agosto 1908 col piroscafo Liguria. Petrosino era sul molo al momento della partenza: ora aveva un nuovo nemico a Palermo. A titolo di curiosità, diremo che il viaggio non fu comunque infruttuoso per l'ex deputato. Egli riuscì infatti a vendere tutte le copie del suo libro Le mie prigioni, intascando così la bella somma di ventimila dollari. Per quanto riguarda lo strano comportamento del console generale d'Italia, non si registrarono gravi conseguenze. Malgrado la denuncia fatta alla Camera dall'onorevole Napoleone Colajanni, il conte Massiglia se la cavò con una ramanzina del ministro degli Esteri Tittoni e rimase tranquillo al suo posto. Il resto dell'estate del 1908, Giuseppe Petrosino lo trascorse a letto, per una broncopolmonite che lo tenne infermo per un paio di mesi. Per assisterlo, la moglie dovette chiedere l'aiuto di una cugina molto più giovane di lei, che poi resterà a vivere in famiglia. In quel periodo, infatti, la trentottenne Adelina era incinta, e la sua gravidanza destava qualche preoccupazione. Petrosino era ancora ammalato quando gli giunse dal consolato generale d'Italia la comunicazione ufficiale che il governo italiano aveva deciso di offrirgli un orologio d'oro con incisa sulla cassa questa dedica firmata da Giolitti: in segno di riconoscimento per l'intelligente opera svolta nell'identificazione e l'arresto dei criminali sfuggiti alla giustizia italiana. Un altro orologio con dedica venne [p. 118] offerto al sergente Antonio Vachris, capo della squadra italiana di Brooklyn. Il tenente poté ricevere il suo premio soltanto il 20 ottobre, quando fu completamente ristabilito, e l'orologio gli fu consegnato dal console generale, conte Massiglia, in persona. Prima di accettarlo, però, il poliziotto s'era fatto scrupolo di chiederne ufficialmente il permesso al generale Bingham, come risulta dalla seguente lettera che ancora figura agli atti: «All'Assessore «alla polizia di New York 19 ottobre 1908 «Signore, «a norma dell'articolo 3, capitolo XXX del regolamento per il Dipartimento di polizia, chiedo rispettosamente di essere autorizzato a ricevere un orologio d'oro che mi viene offerto dal governo italiano. «Con osservanza Commissario Sezione Italiana dell'Ufficio di Polizia» Nel frattempo, l'assessore Bingham aveva messo a punto quel suo progetto personale di cui aveva già fatto alcuni vaghi accenni al tenente Petrosino. Egli si proponeva di costituire a New York un servizio segreto che doveva dipendere da lui solo: lui soltanto avrebbe conosciuto il nome degli uomini chiamati a farne parte; lui soltanto - senza renderne conto a nessuno - avrebbe preso tutte le decisioni sull'attività da svolgere. Bingham intendeva mettere a capo di questo servizio il fedele tenente Petrosino, autorizzando sia lui che i suoi uomini ad agire con ogni mezzo, anche fuori della legalità, «per stritolare la Mano Nera e gli anarchici» Si trattava, in poche parole, di organizzare una squadra di agenti «con licenza di uccidere»; liberi cioè di dare la caccia ai malviventi senza dover sottostare alle complesse regole previste dalla Costituzione americana. Quando parlò al consiglio comunale del suo progetto, Bingham non lo presentò naturalmente con tinte così crude. Ma le sue proposte Pagina 54
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt sollevarono lo stesso proteste e polemiche [p. 119] feroci. Tutti avvertirono i pericoli che avrebbe comportato l'affidargli una così importante leva di potere. «Voi dovete ammettere» gli disse l'assessore Redmond nel corso del dibattito «che potreste indirizzare il vostro servizio segreto non soltanto contro la Mano Nera, ma anche in altre direzioni da voi ritenute opportune.» «Io sono il capo della polizia» rispose Bingham con tono autoritario. «E finché lo sarò, nessuno potrà impedirmi di istituire i servizi che ritengo più opportuni.» «Noi però potremo sempre negarvi i fondi necessari» ribatté l'assessore Redmond. «Posso anche farne a meno, dei vostri fondi!» ribatté Bingham con tono di sfida. E' possibile che i sospetti dell'assessore Redmond e dei suoi colleghi circa l'impiego del servizio segreto «in altre direzioni» fossero infondati. Probabilmente Bingham, d'accordo in questo con Petrosino, era giunto alla conclusione che senza mezzi eccezionali non sarebbe mai riuscito a estirpare la malapianta della mafia che ormai si andava ramificando in tutto lo stato. E d'altra parte, lo stesso Bingham si rendeva ben conto che un'azione rapida e radicale contro la delinquenza straniera, gli avrebbe assicurato una popolarità tale da aprirgli la strada verso mete assai più alte. Sta di fatto, comunque, che l'efficiente assessore riuscì a costituire il «servizio» malgrado la decisione del comune di negargli i fondi necessari. Il finanziamento (circa trentamila dollari per il primo anno di attività) egli lo ottenne da privati cittadini, da enti e organizzazioni, mediante una sottoscrizione segreta. Bingham non fece mai nomi, infatti, benché alcuni giornali affermassero che i principali sottoscrittori erano stati i finanzieri Andrew Carnegie e John D. Rochefeller, il City Club, la Camera di commercio italiana di New York, il N. Y. Stock Exchange, e molti ricchi esponenti della colonia italiana. L'annuncio ufficiale della costituzione del nuovo organismo fu dato nel dicembre del 1908, e lo spirito con cui fu [p. 120] accolto da una parte dell'opinione pubblica può essere rilevato da questi titoli e sottotitoli di un articolo che il «New York Herald» pubblicò su quattro colonne: IL SERVIZIO SEGRETO dI BINGHAM hA pRESO l'aVVIO «L'annientamento della «Mano Nera» è lo scopo apparente della nuova squadra.» PUò eSSERE iMPIEGATA dIVERSAMENTE «Nessuno conosce gli uomini che fanno parte della nuova organizzazione salvo i due che la controllano.» PETROSINO è aLLA sUA tESTA «I fondi per il mantenimento del Servizio Segreto forniti da privati cittadini dopo il rifiuto degli Assessori Municipali.» Meno sospettoso del «New York Herald» (la cui azione in questa vicenda desta, come vedremo, qualche perplessità) fu invece il «New York Times», che scrisse: IL nUOVO SERVIZIO SEGRETO pER cOMBATTERE lA «MANO NERA» «Il Capo della Polizia Theodore A. Bingham ha finalmente il suo servizio segreto. Esso è segreto in ogni senso del termine, giacché nessuno al n. 300 di Mulberry Street, eccetto il tenente Petrosino e lo stesso Bingham, conosce la sua composizione. «Larghi fondi per il mantenimento della Squadra Segreta sono stati messi a disposizione dell'Assessore di Polizia, questo è tutto ciò che egli ammette. Quanto alla loro provenienza, egli non ne vuol parlare, limitandosi a dire che non sono municipali. Si ritiene generalmente che il denaro sia stato offerto da numerosi agiati commercianti e banchieri italiani di questa città, preoccupati per le estorsioni avvenute durante gli ultimi anni. «Si dice anche che Andrew Carnegie e John D. Rochefeller abbiano contribuito, ma ciò non è stato confermato. Ad ogni domanda sull'argomento, l'assessore Bingham risponde: «Ho denaro in Pagina 55
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt abbondanza, ed esso non è di provenienza municipale» «Gli uomini del Servizio Segreto sono stati reclutati al di fuori del Dipartimento di Polizia e il loro campo d'azione è completamente indipendente da esso. Il tenente Petrosino ne è il capo e potrà svolgere la sua lotta contro la «Mano Nera» nel modo che riterrà più opportuno. A sostituire il tenente Petrosino al comando della Squadra Italiana è stato chiamato provvisoriamente il tenente Gloster.» Tutto questo accadeva alla fine di dicembre del 1908. Ai primi di gennaio dell'anno successivo, Giuseppe Petrosino [p. 121] fu avvertito direttamente da Bingham che doveva prepararsi a compiere un viaggio in Italia. Petrosino non ne fu entusiasta. Da poche settimane, il 30 novembre, sua moglie aveva dato alla luce una bambina che era stata battezzata in St Patrick coi nomi di Adelina Bianca Giuseppina, e lui, ormai quasi cinquantenne, aveva cominciato a prendere gusto alla vita in famiglia e alle gioie della paternità. Ogni giorno, appena libero dal servizio, correva a casa per dedicarsi affettuosamente a quella bambina che era giunta, anche se molto tardi, a dare uno scopo diverso alla sua vita di poliziotto. Ma Petrosino era troppo abituato a eseguire gli ordini, per sollevare difficoltà. Chiese soltanto di essere tenuto lontano da casa il minor tempo possibile. Circa i motivi che indussero Bingham a inviare Petrosino in Sicilia sono finora circolate delle voci in gran parte inesatte. Siamo in grado di pubblicare un eccezionale documento: si tratta del programma dettagliato di quanto Giuseppe Petrosino avrebbe dovuto fare in Sicilia. Lo abbiamo rintracciato negli archivi del dipartimento di Giustizia dello stato di New York (sezione Organized Crime and Racheteering) Esso contiene anche una premessa esplicativa dettata probabilmente dallo stesso Bingham. Eccone il testo integrale: Verso la fine dello scorso anno 1908, al Dipartimento di Polizia di New York venne sottoposto un progetto che, secondo la convinzione del suo autore, un abile criminologo profondo conoscitore dei metodi della criminalità italiana nel nostro Paese ed all'estero, dovrebbe dimostrarsi efficace per liberare New York di molti stranieri che vi hanno instaurato un regno di illegalità, di ricatto e di assassinio. Questo progetto venne commissionato dal prof. Jeremiah W. Jenks, della Cornell University, e da lui trasmesso al capo del Dipartimento di Polizia di New York, Theodore Bingham. La persona che ha redatto il piano su richiesta del prof. Jenks non desidera essere nominata. Si tratta di uno studioso italiano, trasferitosi nel nostro Paese pochi anni fa, che si è dedicato ai problemi dell'immigrazione con particolare riguardo a quello della delinquenza. Egli è ora impegnato [p. 122] in servizio straordinario presso il Ministero del Tesoro degli Stati Uniti. Il piano da lui ideato viene da noi giudicato uno dei più efficaci per indebolire la potenza della «Mano Nera» nella nostra città. Il piano, che ha per motivo chiave la raccolta di prove in Italia contro uomini qui definiti pericolosi, propone la nomina di agenti segreti per l'Italia, e suggerisce intanto l'invio di un uomo in Italia a questo scopo. Il piano stesso è stato presentato al prof. Jenks dallo studioso in questione, unitamente alla seguente lettera in data 7 novembre 1908: «Egregio prof. Jenks. Ho il piacere di sottoporre alla vostra attenzione la relazione da voi richiestami sulla criminalità italiana negli Stati Uniti, unitamente ad alcuni suggerimenti che, a mio giudizio, porterebbero a risultati molto soddisfacenti. «Nella mia trattazione io non considero che una forma particolare di criminalità, affatto diversa da quella che solitamente risulta dall'ignoranza della legge americana o dall'impulso delle passioni. «Quelli di cui parlo sono criminali abituali, che erano già tali in Italia, e che una volta qui in America, si raggruppano con altri dello stesso tipo venendo a costituire quella che è comunemente indicata come la "Mano Nera" «Sono costoro, e soltanto costoro, a rappresentare il lato decisamente indesiderabile dell'immigrazione italiana. «Il comune immigrato italiano, di regola, non diviene mai un criminale una volta in America. Se egli è un uomo onesto quando Pagina 56
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt giunge per la prima volta negli Stati Uniti, rimane tale, essendogli molto difficile, per le sue abitudini e per la sua stessa ignoranza, scivolare in quella particolare, astuta, intelligente, forma di criminalità locale che trova negli Stati Uniti. A mio avviso, quasi il 90% dei criminali italiani negli Stati Uniti erano già tali in Italia, e sono sicuro che opportune indagini sui loro precedenti confermerebbero ampiamente la mia asserzione. «I criminali italiani giungono in America in tre modi differenti: «1. Come passeggeri di terza o seconda classe, o della classe emigranti, con un passaporto ottenuto tramite appoggi politici o denaro, giacché per un criminale sarebbe impossibile procurarsi altrimenti un passaporto dal governo italiano. «2. Con un passaporto rilasciatogli sotto falsa identità. «3. Introdotti a bordo clandestinamente in uno dei porti italiani, senza passaporto, da coloro che hanno fatto di questo una professione. [p. 123] «I criminali italiani che giungono negli Stati Uniti devono essere distinti in classi differenti: «1. Italiani che, compiuto un reato in Italia, e scontatane la pena in carcere, sono venuti in America per sfuggire alla successiva sorveglianza speciale. «2. Italiani che hanno commesso reati in Italia e che sono fuggiti nel nostro Paese prima del giudizio. «3. Italiani notoriamente considerati criminali, ma di cui la Pubblica Accusa non è mai riuscita a provare un reato specifico. Costoro si rifugiano qui o perché costretti dalla pubblica opinione, o per timore di una eventuale incriminazione, o per paura di una vendetta dei loro nemici. «A queste tre classi, decisamente criminali, ne va aggiunta un'altra che io ho avuto modo di scoprire quando ho lavorato presso il Servizio di Dogana degli Stati Uniti. Quella cioè dei contrabbandieri: una categoria di uomini rotta al rischio, non criminali abituali nel senso comune del termine, ma in molti casi già condannati per reati minori in Italia, e pronti ad allearsi con i criminali veri e propri quando ne abbiano l'opportunità. «Questi sono i diversi tipi dei criminali italiani che affluiscono negli Stati Uniti, ed ecco quali sono i motivi che li inducono a lasciare l'Italia: «La sorveglianza speciale è l'incubo dei pregiudicati italiani ed è una particolare forma di restrizione della libertà individuale applicata dai tribunali italiani quando, in base all'indole del condannato ed ai suoi cattivi precedenti, si ritenga che egli commetterà altri reati non appena liberato. «In base all'applicazione di detta legge, il pregiudicato deve rimanere nel suo luogo di residenza per un periodo dai due ai quattro anni dopo il suo rilascio, presentarsi alle locali autorità di polizia due o tre volte la settimana, ritirarsi in casa alle sei del pomeriggio. Se poi egli viene sorpreso armato, o in stato di ubriachezza, o in luoghi, atteggiamenti o compagnie sospette, viene rimandato in carcere. «Ora, la ragione prima per cui i criminali vengono in America, una ragione che è molto importante prendere qui in considerazione, è la facilità con cui negli Stati Uniti è possibile sfuggire al castigo. Un confronto potrà dimostrare la verità effettiva di questa asserzione: «Nel 1896 negli Stati Uniti sono state processate per omicidio 10.662 persone, in Italia il loro numero è stato di 3606. La proporzione - considerata la popolazione rispettiva dei due paesi - è quasi [p. 124] uguale. Ma mentre in Italia il 62% dei processati sono stati condannati, la percentuale di sentenze di colpevolezza negli Stati Uniti non ha superato l'1,3% Questo mostra chiaramente la ragione del costante aumento dell'immigrazione di criminali italiani in America. «Qui la sorveglianza della polizia è quasi nulla. Qui è facile acquistare armi e dinamite per scopi criminali. Qui non vi è una pena per avere dato nome e indirizzo falsi, come avviene invece in Italia. Qui è agevole nascondersi, in parte grazie all'enorme estensione del territorio americano, in parte a causa delle condizioni di Pagina 57
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt sovraffollamento delle città più grandi, e delle leggi e dei regolamenti che variano da uno stato all'altro. A tutto ciò, che rende lunga e spesso infruttuosa l'azione della polizia, si aggiunga la facilità con cui si ottiene la libertà su cauzione. «Un'altra cosa da considerare è che molti dei più incalliti criminali italiani, poco tempo dopo il loro arrivo in America, si associano a certe bande politiche per cui lavorano ricevendone in cambio protezione illimitata. Io ho udito più volte dire, nel caso di un criminale scampato per miracolo ad un verdetto di condanna: "Nulla da fare contro di lui. E' uno della Tammany" (organizzazione centrale del Partito Democratico) «I famigerati Paul Kelly e Jim Kelly, capibanda del basso East Side, sono italiani associati a bande politiche, e l'immunità di cui godono conferma la mia asserzione. «Per un italiano che ha studiato i vari aspetti della criminalità in Italia, è molto facile comprendere perché questa gente guardi agli Stati Uniti come alla Terra Promessa. E io potrei addirittura fornire nomi ed esempi di bande siciliane che, dopo aver condannato a morte qualcuno, lo spingono con minacce o lusinghe ad emigrare in America, allo scopo di ucciderlo qui con maggior facilità e minor rischio di incriminazione. «Ma non ho bisogno di dare qui degli esempi. Tutti i delitti commessi negli ultimi tre anni da siciliani, dei quali la polizia non è riuscita a identificare gli autori, sono la prova di quello che io sostengo. «Benché in teoria sia molto difficile per un criminale ottenere un passaporto in Italia, ho già detto come la cosa sia di fatto possibile. E d'altra parte, in base a rapporti e documenti indiscutibili, potrei provare come soltanto nell'ultimo mese più di un centinaio di italiani si siano introdotti negli Stati Uniti senza passaporto. «In queste condizioni, e finché non verranno introdotti speciali regolamenti e leggi speciali, il meglio da farsi è studiare come la situazione possa essere fronteggiata in base alla legge esistente (quella del luglio 1907) «I paragrafi 2 e 19 di detta legge stabiliscono che tutti gli stranieri [p. 125] entrati illegalmente nel nostro Paese potranno essere espulsi e ricondotti ai rispettivi paesi di provenienza, purché ciò avvenga entro tre anni dalla data di arrivo. Ora questa legge, con l'appoggio di una speciale organizzazione, basterebbe a ridurre drasticamente gli effettivi dal grosso della criminalità italiana, negli Stati Uniti, e porterebbe in brevissimo tempo alla diminuzione dei delitti, frenando sensibilmente l'afflusso di nuovi criminali. «Procedo ora a dimostrare come sarebbe possibile individuare ed espellere quegli italiani che avevano precedenti criminali già prima del loro espatrio, e il cui ingresso negli Stati Uniti, con passaporto o no, è quindi avvenuto in violazione della legge. «Il documento che pone in grado le autorità americane di decretare l'espulsione è il certificato penale rilasciato da un Tribunale italiano, attestante che il soggetto ha riportato una o più condanne per qualche reato specifico; oppure un certificato di polizia da cui il soggetto risulti di cattiva condotta pur non avendo mai riportato condanne specifiche. Tali certificati possono essere ottenuti facilmente in Italia, poiché qualsiasi avvocato può richiederli agli archivi dei Tribunali senza dover fornire alcuna giustificazione. «Io stesso ho chiesto ed ottenuto un gran numero di questi certificati per il Dipartimento di polizia della città di New York. Ma per ottenerli, naturalmente, è necessario fornire al Tribunale le generalità esatte del soggetto, compreso il luogo e la data di nascita e il nome dei genitori. Ora, è ovvio che questi dati sarebbe ben difficile procurarseli dai criminali stessi, che hanno anzitutto l'interesse a falsificarli in tutto o in parte, in modo da fuorviare la ricerca. Bisognerebbe invece procedere inversamente, e avere degli agenti nelle province italiane in cui la criminalità è più forte, e da cui partono più criminali per gli Stati Uniti. Questi agenti, con l'appoggio delle autorità locali o attraverso informazioni private, dovrebbero accertare dove e sotto quale nome i criminali emigrati vivano negli Stati Uniti. Armate quindi dei relativi certificati Pagina 58
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt penali, le autorità americane potrebbero procedere alla deportazione. «E' quasi impossibile fare questo per corrispondenza, poiché sarebbe difficilissimo sperare di spiegarsi e di ottenere le informazioni desiderate per lettera. Il lavoro da eseguire è di un genere difficile e sarebbe problematico trovare da qui le persone adatte su cui fare assegnamento perché lo svolgano senza timore e senza cedere alla corruzione. «Ciò che io propongo in questo caso è quanto segue: «1. Inviare in Italia una persona di fiducia a conoscenza delle condizioni locali della criminalità, delle procedure criminali italiane e delle leggi di immigrazione americane. Questa persona potrebbe, [p. 126] in un tempo relativamente breve, preparare il terreno come segue: «a) Ottenere per prima cosa dagli archivi giudiziari italiani una lista dei criminali che hanno terminato di scontare la propria condanna nelle prigioni italiane negli ultimi sei anni. Dico sei anni perché non è probabile che un pregiudicato che abbia vissuto in Italia per più di sei anni dopo la scadenza della sua pena e della sorveglianza della polizia, decida poi di venire in America. «b) Tramite la polizia o le informazioni private stabilire chi di questi pregiudicati sia entrato ufficialmente o segretamente negli Stati Uniti. Ottenerne, se possibile, l'indirizzo e la foto e quindi assicurarsi il certificato penale necessario ad avviare qui il procedimento di deportazione. «2. Tramite i Tribunali stessi, procurarsi le generalità e i dati segnaletici dei criminali che sono stati condannati e la cui pena scade entro i prossimi sei anni. Tali dati, depositati in ordinati archivi, potrebbero offrire alle autorità di immigrazione un mezzo per prevenire l'ingresso negli Stati Uniti di altri malviventi. «3. Trovare in ogni città e regione italiane sede di Tribunale, nelle province sopra specificate, un uomo onesto (se possibile un avvocato) che possa combinare la sua regolare attività con quella a noi utile, secondo i metodi delineati sopra e mediante un compenso a copertura delle spese, ecc. «Se questo lavoro potesse venire svolto nei capisaldi della Mafia in Sicilia e della Camorra a Napoli, nelle infami aree anarchiche tra Firenze e Bologna, e in alcune ristrette zone criminali nel Nord, sarebbe facile individuare ciascun criminale italiano residente attualmente negli Stati Uniti. «Tale lavoro preliminare potrebbe essere eseguito in sei mesi circa e, una volta avviato, un ufficio situato a New York con una squadra di quattro o cinque detectives potrebbe procedere a rintracciare i criminali ed a spiccare mandati di deportazione. «Per quanto concerne questo gruppo di detectives, ritengo sarebbe saggio sceglierne almeno due dall'Italia, tra i funzionari migliori della polizia italiana attualmente in servizio e in grado di parlare inglese. Io credo che sarebbe facile convincere due di questi funzionari a chieder un congedo di un anno o due per venire in America a fare questo lavoro. Nessuna particolare formalità sarebbe necessaria per ottenere tale permesso. «Vi sono in Italia diversi funzionari di polizia che hanno trascorso molti anni della loro vita nel meridione e che conoscono quasi tutti i criminali di laggiù. Sono uomini avvezzi ad una disciplina [p. 127] militare e potrebbero, una volta qui, organizzare un servizio molto efficiente. «Per quanto riguarda la persona di fiducia da inviare subito in Italia, le spese (calcolate per una missione di sei mesi) sarebbero le seguenti: iaggio andata e ritorno: 250 Spese per viaggi in Italia: 1500 Spese di personale (stenografi e segreteria), stipendio di dollari 100 al mese per ciascun dipendente: Spese d'albergo: 2000 Stipendio, dollari 500 al mese: 3000par «Non vi sarebbero altre spese, tranne i compensi da pagare per le informazioni private. Le informazioni della polizia sono gratuite. «Agli agenti creati in Italia potrebbe essere corrisposto un compenso di 2 o 3 dollari per ogni criminale individuato. Pagina 59
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt «Grazie a questo sistema, le autorità degli Stati Uniti potrebbero agire come segue: «a) Per i criminali che risiedono negli Stati Uniti da meno di tre anni, basterà il certificato penale dimostrante che sono pregiudicati per garantire la loro deportazione. «b) Per i criminali tuttora ricercati dalla giustizia italiana, sarà sufficiente il certificato di polizia per la loro estradizione. «c) Quanto ai criminali entrati illegalmente negli Stati Uniti sarà sufficiente una conferma da parte italiana circa la loro partenza clandestina per rimandarli nel loro paese. «In questa breve relazione mi è stato difficile spiegare i molti vantaggi del sistema, tuttavia sono sicuro che se sarà inviato in Italia un uomo di fiducia del Dipartimento di Polizia, capace di creare in loco una rete di informatori, registreremo molti sviluppi ora impossibili da prevedere, ma il risultato sarà senz'altro soddisfacente.» [p. 129] IX DA NEW YORK a GENOVA Il tenente Giuseppe Petrosino lasciò New York il 9 febbraio 1909. Non era per niente allegro. I suoi fidati collaboratori, fra i quali il sergente Vachris, che lo accompagnarono fin sulla nave, diranno che il suo umore era pessimo. Era soprattutto dispiaciuto di doversi separare per un lungo periodo dalla moglie e dall'adorata figlioletta, ma aveva anche altri problemi. L'impresa che gli era stata affidata, a parte la sua estrema laboriosità, non era infatti delle più comode. Secondo le istruzioni di Bingham, egli doveva fingere con le autorità italiane di essere incaricato dal suo governo di svolgere un'inchiesta di carattere generale, mentre in realtà doveva costituire una rete informativa segreta che avrebbe operato in contatto diretto con la polizia americana e all'insaputa di quella italiana. Si trattava, insomma, di un'operazione di spionaggio, che gli italiani non avrebbero sicuramente gradito qualora ne fossero venuti a conoscenza. Il gioco era dunque molto grosso. Se l'impresa fosse riuscita, molti interessi sarebbero stati colpiti e la storia della malavita italiana in America oggi sarebbe probabilmente diversa. Petrosino era al centro di questo gioco. Egli aveva praticamente in tasca la chiave che avrebbe chiuso le porte degli Stati Uniti all'emigrazione dei malviventi italiani. E non poteva non rendersi conto del grosso rischio personale che l'impresa comportava. La sua partenza da New York fu coperta dal massimo segreto. Alcuni giorni prima, negli stessi ambienti della [p. 130] polizia era stata diffusa ad arte la voce che il tenente aveva avuto una ricaduta della sua recente malattia e che il medico gli aveva ordinato un lungo periodo di riposo. Soltanto Bingham e i suoi stretti collaboratori conoscevano la verità. Egli si imbarcò sul piroscafo Duca di Genova, diretto nel capoluogo ligure, sotto la falsa identità del commerciante ebreo Simone Velletri. Non volle neppure che sua moglie lo accompagnasse alla banchina. Il poliziotto portava con sé due grosse valigie nuove di cuoio giallo. In tasca aveva delle lettere credenziali indirizzate al ministro degli Interni e al capo della polizia, Leonardi, e un taccuino sul quale erano segnati i nomi di numerosi malviventi (in prima linea figuravano Giuseppe Morello, Ignazio Lupo, Giuseppe Fontana, Carlo Costantino e Antonino Passananti), dei quali intendeva procurarsi personalmente i certificati penali onde accelerare le pratiche di estradizione che la polizia americana aveva già avviato. Aveva anche un elenco di potenziali informatori che intendeva contattare appena giunto in Sicilia. Chiusa in una valigia, teneva la sua pistola d'ordinanza: una Smith & Wesson calibro 38, con relativa fondina. Al poliziotto, che viaggiava in prima classe, fu assegnata la cabina numero 10, che disponeva di tre cuccette. Lo steward addetto a tale cabina si chiamava Giuseppe Izzo. I passeggeri del piroscafo erano in tutto 192, di cui 53 diretti a Genova, mentre gli altri Pagina 60
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt avrebbero poi proseguito per Napoli o Palermo con un'altra nave della stessa società. I viaggiatori di prima classe erano 14. Pochi giorni prima di partire, Giuseppe Petrosino aveva condotto a termine una complessa indagine su alcuni malviventi siciliani che si erano specializzati nella tratta delle bianche. Costoro agivano da tempo in contatto diretto con altri complici che operavano in Sicilia. Il sistema era semplice: dalla Sicilia venivano periodicamente inviati a questi malviventi nomi e indirizzi di ragazze «chiacchierate» o, comunque, desiderose di espatriare. Da parte [p. 131] sua, l'organizzazione newyorkese provvedeva a far pervenire alle ragazze stesse, o ai loro genitori, lettere di «giovanotti siciliani onesti e laboriosi che, nella lontana America, avrebbero voluto avere al fianco una donna della loro terra» Seguiva poi il consueto scambio di corrispondenza e di fotografie finché le interessate non decidevano di accettare la proposta di matrimonio e il biglietto gratis inviati loro dagli sconosciuti pretendenti. Il seguito è facilmente immaginabile. Le ragazze, appena giunte a New York, trovavano ben altra gente ad attenderle sulla banchina. E, con lusinghe o con minacce, venivano avviate alla prostituzione. Petrosino era dunque riuscito a sgominare questa banda e a spedire in carcere i responsabili. Soltanto uno era sfuggito alla condanna. Si chiamava Paolo Palazzotto, di ventisette anni, da Palermo. Il giovanotto comunque non l'aveva passata liscia: era stato infatti di nuovo fermato dall'agente della squadra italiana Giuseppe Corrao, e condotto davanti a Petrosino dal quale era stato duramente percosso e quindi trasferito a Ellis Island per essere rispedito in Italia. Paolo Palazzotto avrebbe dovuto essere rimpatriato proprio col Duca di Genova. La sua partenza era stata però differita a seguito di un suo ricovero in infermeria (pare per via di alcuni denti che il poliziotto gli aveva fatto saltare percuotendolo con un mazzo di chiavi strette nel pugno) Sulla nave c'erano però altri «indesiderabili» fatti espellere da Petrosino. Fra questi, certi Leonardo Crimi e Domenico Saidone. Il Duca di Genova salpò alle 4 del pomeriggio. Giuseppe Petrosino, malgrado il freddo pungente, restò a lungo sul ponte a osservare la sua città che scompariva nella nebbia. Dire che aveva brutti presentimenti, sarebbe peccare di fantasia; ma il fatto è che era di cattivo umore. Lo confermeranno in seguito il comandante della nave, Giovanni Orengo, e alcuni suoi compagni di viaggio. Per giunta soffrì subito il mare e dovette rimanere un paio di giorni in [p. 132] cabina accudito dal cameriere Izzo che gli serviva «pasti solidi» Poi si riprese e strinse amicizia con un certo Francesco Delli Bovi, di trent'anni, che risultava abitante a Muro Lucano. I due furono visti così spesso insieme che, in seguito, verrà avanzato il sospetto che Delli Bovi fosse anche lui un agente segreto. In realtà, questo personaggio scomparirà dalla circolazione subito dopo il suo arrivo a Genova e non sarà più rintracciato. Una sera, il falso Simone Velletri si stava intrattenendo col commissario di bordo, Carlo Longobardi. «Io so chi siete» gli disse a un certo punto il commissario «ho visto la vostra foto sui giornali. Ma contate sulla mia discrezione.» Secondo quanto testimoniò in seguito Longobardi, il poliziotto sembrò molto lusingato di essere riconosciuto. E sebbene raccomandasse al commissario di tacere con tutti, gli confidò di avere «una importante missione da compiere in Italia» Dopo di che, si lasciò anche andare a raccontargli alcune delle sue più interessanti avventure. Probabilmente, essendo abituato a essere segnato a dito quando passava per strada, Petrosino provava un certo fastidio a recitare la parte del comune passeggero. Non risulta tuttavia che, oltre al Longobardi e, forse, al Delli Bovi, abbia rivelato ad altri la sua vera identità. A bordo fece conoscenza con altri passeggeri e dimostrò molta simpatia per un ragazzo di dodici anni, Guglielmo Andreacci, che viaggiava con la madre Rosa Florio, di Bari. A un certo momento ammise anche di aver conosciuto il padre del ragazzo, Domenico, che lavorava come interprete al centro di raccolta di Ellis Island. Non spiegò, tuttavia, in quali circostanze lo avesse incontrato. Con gli altri conoscenti occasionali, come il commerciante lucchese Francesco Pagina 61
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Galli, che viaggiava con la moglie e il figlio, si mostrò riservato. Al Galli disse che si recava in Italia per curarsi un catarro intestinale, e l'altro lo consigliò di rivolgersi al professor Cardarelli, di Roma. [p. 133] E' curioso notare che, pur essendosi registrato come Simone Velletri, egli si presentò a qualche compagno di viaggio sotto il nome di Guglielmo Simone. Un altro aneddoto che può interessare la cronaca è il seguente. Una sera, mentre erano a tavola, disse al Galli che era sua intenzione recarsi a Palermo. «Stia attento a non guardare le donne» lo avvertì con tono scherzoso Francesco Galli. «Sennò laggiù la uccidono.» «Io non ho paura di nessuno» ribatté lui piccato. La traversata registrò anche un piccolo episodio «giallo» che non mancò di avere Petrosino per protagonista. C'era infatti a bordo un passeggero di terza classe, certo Paolo Grattucci, che si comportava con molta spavalderia e arroganza. Stranamente, egli era lasciato libero di circolare sia in seconda che in prima classe, consumava i pasti nella sala di seconda e veniva servito prima e meglio degli altri passeggeri. Forse era semplicemente amico o parente di qualcuno del personale; ma poteva anche essere qualcosa di più. L'incidente si verificò quando un altro passeggero di seconda, l'ingegner Luigi Galassi, di ventotto anni, da Roma, protestò col personale per il trattamento privilegiato che veniva riservato all'intruso. Grattucci se ne risentì subito e ne seguì un vivace litigio. I due si rividero anche a quattr'occhi sul ponte e, dopo questo incontro, l'ingegner Galassi si recò dal comandante chiedendo di essere protetto in quanto, disse, temeva per la propria vita. Quando venne a conoscenza dell'episodio, Petrosino volle intervenire personalmente. Andò a cercare il Grattucci, scambiò con lui alcune rapide battute e, da quel momento, l'altro non si fece più vedere in giro. Il Duca di Genova giunse a destinazione alle 6 del mattino del 21 febbraio 1909. Aveva circa ventisei ore di ritardo. Prima di scendere, Petrosino chiese al commissario Longobardi presso quali alberghi avrebbe potuto prendere alloggio a Roma, a Napoli e a Palermo. Longobardi gli consigliò l'Hotel Inghilterra a Roma, l'Hotel de Londres a Napoli, l'Hotel de France a Palermo. [p. 134] Il poliziotto, dopo avere salutato i compagni di viaggio, scese da solo rifiutando di consegnare le proprie valigie ai facchini. Dal porto raggiunse in carrozza la stazione Principe e salì sul primo treno per Roma. Non perdette un solo minuto per visitare la città. La sua complessa missione aveva inizio. Ora un uomo solo, al quale era stato affidato un compito certamente più grande di lui, si accingeva ad affrontare un nemico potente e invisibile. Se lo scopo della sua missione in Sicilia fosse stato reso noto, egli sarebbe diventato automaticamente un bersaglio ambulante. Ma Petrosino era sicuro di essere coperto dal segreto. E, mettendo piede in Italia, rinnovò con se stesso l'impegno preso al momento della partenza: non fidarsi di nessuno. Gli risuonavano ancora nelle orecchie le ultime parole del fedele Vachris: «State attento, capo. Laggiù tutto è mafia» Mentre il poliziotto viaggiava per Roma convinto che la sua missione fosse avvolta nel segreto, milioni di americani erano già al corrente da più di ventiquattr'ore degli scopi del suo viaggio. La sconcertante rivelazione era stata fatta dal «New York Herald» del 20 febbraio 1909 e, cosa ancora più incredibile, a fornire la notizia era stato lo stesso capo della polizia, Theodore Bingham. Ma ecco quanto aveva pubblicato l'«Herald»: «Come primo atto dell'attività del nuovo Servizio Segreto istituito dall'Assessore Bingham, il tenente Giuseppe Petrosino si è recato in Italia, e precisamente in Sicilia, dove si procurerà importanti informazioni sui criminali italiani residenti negli Stati Uniti e in particolare a New York, dove la polizia, che vorrebbe procedere all'espulsione di numerosi criminali, manca però della necessaria Pagina 62
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt documentazione sui loro precedenti in Italia. «Molti di costoro, d'altra parte, sono stati condannati in Italia in contumacia, e sono ricercati dalla polizia di quel paese. Basterà quindi che vengano identificati, perché sia possibile procedere alla loro estradizione. Il Servizio Segreto riuscirà in tal modo a liberare la nostra città da molti soggetti pericolosi contro i quali non era stato possibile, finora, elevare imputazioni specifiche.» [p. 135] Perché Bingham rivelò alla stampa una notizia tanto delicata? Probabilmente per farsi pubblicità. Si era in periodo di campagna elettorale, e l'ambizioso assessore non seppe forse resistere alla tentazione di far colpo sui propri elettori. E' infatti da escludere il sospetto, in seguito insinuato, che la fuga di notizie sulla missione segreta di Petrosino facesse parte del complotto che doveva costare la vita al celebre detective. Per informare i capi della Mano Nera non c'era bisogno di pubblicare la notizia sul giornale. L'indiscrezione, comunque, fu ripresa da tutti i giornali di New York e apparve anche sulle colonne dell'edizione europea del «New York Herald» che usciva a Parigi. Ora tutti sapevano della missione «segreta» di Petrosino. Chi aveva motivo di temere la sua venuta in Sicilia era avvertito. Nel frattempo, erano rientrati improvvisamente a Partinico due vecchie conoscenze del detective. Si trattava di Carlo Costantino alias Giovanni Pecoraro, alias Tommaso Petto, e di Antonino Passananti, due noti esponenti della Mano Nera di New York, a suo tempo implicati nel famoso «delitto del barile» I due erano giunti a Napoli il 17 febbraio col piroscafo Romanic, salpato da New York quasi contemporaneamente al Duca di Genova. Pur non avendo conti in sospeso con la giustizia italiana, avevano viaggiato con nomi e documenti falsi. Costantino aveva assunto le generalità di Vincenzo Carbone; Passananti quelle di Antonino D'Amico. Il loro rientro a Partinico fu una sorpresa per tutti. Neppure i loro familiari ne erano stati informati. Anzi, Costantino aveva scritto poco tempo prima ai genitori annunciando di essersi costruito una bella casa a Brooklyn dove intendeva trasferirsi definitivamente con la moglie. I due, d'altra parte, erano adesso molto diversi dai poveri picciotti salpati sei anni prima per l'America con in tasca appena ottanta lire in due. Ora erano senza dubbio [p. 136] ricchi, fecero una quantità di regali ai parenti, e Costantino versò al Banco di Sicilia trentamila lire, intestandole però al cognato Salvatore Inghilleri. Il giorno dopo il suo arrivo, Costantino spedì da Partinico a New York un telegramma che l'ufficiale postale trovò così strano, da indursi a passarne una copia al delegato di pubblica sicurezza, cavalier Battioni. Il testo diceva: «Io Lo Baido lavoro Fontana» Era indirizzato a «Giuseppe Morello, New York, 360 East 61(th) Street» Si trattava evidentemente di una frase convenzionale che solo il capo della Mano Nera americana era in grado di interpretare. Trascorsi alcuni giorni in famiglia, i due uomini si recarono a Bisacquino a fare visita al vecchio amico Vito Cascio Ferro. [p. 137] X ROMA-NAPOLI-PALERMO Il diretto Parigi-Roma, sul quale aveva preso posto Petrosino partendo da Genova, giunse nella capitale italiana alle 20,20. Il poliziotto, che aveva viaggiato solo in uno scompartimento di prima classe, uscì dalla stazione con le sue pesanti valigie di cuoio giallo e prese posto su una carrozza. «Portatemi all'Hotel Inghilterra» disse al cocchiere nel suo italiano dal pesante accento dialettale. Giunto nell'albergo di via Bocca di Leone, il poliziotto fissò la camera numero 9 sotto il nome di Guglielmo Simone e si ritirò immediatamente rifiutando di consumare il pranzo. Era stanco e Pagina 63
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt sofferente per le fatiche del lungo viaggio. Il giorno seguente, 22 febbraio, uscì verso le 10 e si fece accompagnare all'ambasciata degli Stati Uniti. Pur essendo una giornata feriale, Petrosino fu sorpreso dall'aria di festa che aleggiava per le strade. Ne chiese spiegazione al cocchiere. «Oggi è martedì grasso» gli rispose questi. «Festa di carnevale.» Anche l'ambasciata era chiusa. «Festeggiate anche voi il carnevale?» chiese al custode. «Nossignore» fu la risposta. «L'ambasciata è chiusa perché oggi ricorre l'anniversario della nascita del presidente George Washington.» Petrosino approfittò dell'inattesa vacanza per compiere un breve giro turistico nel centro cittadino. Più tardi rientrò [p. 138] in albergo e scrisse, nel suo incerto italiano, la seguente lettera al fratello Vincenzo che, da alcuni anni, era tornato a vivere nella casa natia di Padula. Roma, 22 febbraio 1909 «Caro fratello, «credo ti sorprendo quando sentirete che mi trovo a Roma per affare secreto. Non fate sapere niente a nessuno che in poco tempo vengo a trovarvi. Quando io vengo ti avviso con telegramma. Di nuovo ti ripeto di non fare sapere niente a nessuno, nemmeno a tua moglie. «Ti saluto caramente, tuo fratello Giuseppe «P. S. Sono arrivato a Roma ieri.» Nel pomeriggio, Petrosino uscì nuovamente. Passeggiò per via Sistina e quindi si spinse verso piazza San Silvestro, passando proprio davanti alla Sala stampa. Qui sostavano molti giornalisti e due di questi riconobbero subito il poliziotto. Si trattava di Camillo Cianfarra, redattore dell'«Araldo» di New York, che si trovava in Italia come inviato speciale per il recente terremoto di Messina, e di Guido Memmo, corrispondente da Roma dello stesso giornale. I due gli corsero subito incontro. «Joe! Che diavolo fate a Roma?» gli chiese Cianfarra. Petrosino non nascose, questa volta, il proprio disappunto per essere stato riconosciuto. «Zitto, per carità» disse con un sussurro. «Non chiamatemi per nome. Mi rovinereste!» «Va bene, va bene» rispose Cianfarra. «Ma che fate qui?» «Forse» intervenne Guido Memmo in tono scherzoso «vi ha mica chiamato Giolitti per lavorargli le elezioni?» In quei giorni, infatti, l'Italia era in piena campagna elettorale. Le elezioni erano fissate per il 1o marzo. «Non precisamente» scherzò Petrosino. «Ma in ogni modo, se ci tenete alla mia amicizia, mi farete il piacere di non dire a nessuno di avermi visto. Sono qui per lavoro, naturalmente. Ma ho un paio di giorni di libertà, e avrei [p. 139] proprio bisogno che qualcuno mi facesse da guida per visitare questa bella città.» Poco dopo i tre uomini erano in carrozza. Petrosino ebbe così modo di vedere tutti i monumenti di Roma e ne rimase molto colpito. Con i due accompagnatori, ammise che era sua intenzione recarsi in Sicilia per svolgervi delle indagini, tuttavia lasciò intendere che lo scopo principale della sua missione era una storia di dollari falsi recentemente venuta in luce a Milano. Durante la passeggiata, Petrosino notò di essere seguito da uno sconosciuto. Questi, vistosi scoperto, si allontanò in fretta ma il poliziotto e i due giornalisti lo seguirono a loro volta. Dopo un lungo pedinamento, essi scorsero l'uomo dirigersi verso lo sportello del telegrafo delle poste di piazza San Silvestro dove dettò un telegramma. «Io ho già visto quell'uomo» disse il tenente ai due amici «ma non ricordo dove.» Più tardi essi riuscirono a scoprire che lo conosciuto aveva telegrafato a Noto, in Sicilia, ma non ebbero modo di leggere il testo del dispaccio. L'episodio fu rivelato dallo stesso Cianfarra in un articolo sull'«Araldo» A sera, i tre pranzarono in una saletta riservata del ristorante Umberto I di via della Mercede, dove furono serviti dal cameriere Federico Antonelli. Mentre uscivano dal locale, Petrosino si sentì Pagina 64
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt ancora una volta chiamare per nome. Era l'ex console generale di New York, Carlo Branchi, che stava pranzando con degli amici. I due si salutarono cordialmente e fissarono un appuntamento per il giorno dopo. Anche ai giornalisti, Giuseppe Petrosino promise di rivederli il giorno seguente, ma invece non si fece più vivo con nessuno. Il 23 febbraio, il poliziotto si recò dall'ambasciatore degli Stati Uniti, Lloyd A. Griscom, il quale gli comunicò di avere già ricevuto istruzioni da Washington e che si sarebbe subito interessato per fissargli un appuntamento col ministro dell'Interno italiano e col capo della polizia. Rientrato in albergo, scrisse una lunga lettera alla moglie [p. 140] Adelina. Le scrisse in italiano, ma il testo che pubblichiamo - in mancanza dell'originale che non abbiamo potuto procurarci - è una ritraduzione dall'inglese. Roma, 23 febbraio 1909 «Carissima moglie, «ti ho comunicato per telegramma che mi trovo nella Città Eterna. Il popolo romano è in festa per il carnevale e gli uffici pubblici sono tutti chiusi, cosicché non ho potuto vedere i funzionari che volevo e non lo potrò fino a domani. Devo perciò trattenermi un paio di giorni di più, poi andrò in Sicilia. Da lì ti farò sapere in quale parte dell'isola, ma penso di andare a Palermo. «Ho visto la cattedrale di San Pietro, la Cappella Sistina e le Gallerie di Michelangelo, che sono le meraviglie del mondo. Davanti alla cattedrale sono rimasto incantato. Essa è al di là dell'umana immaginazione. Che grandioso e immenso luogo! La cattedrale potrebbe ospitare facilmente centocinquantamila persone: ma come posso dartene un'idea? Sono cose che devi vedere con i tuoi occhi. Nessuna descrizione è in grado di rendertene l'idea. Io non credo che nel mondo intero vi sia nulla di più grande. «Ho visto il Parlamento Italiano, il Senato e il Ministero di Giustizia. Ho visto anche il palazzo dove abita la Regina Madre e i grandi edifici storici dell'antica Roma. Essi devono risalire a tremila anni fa, ma sono ancora meravigliosi: per osservare tutto convenientemente sarebbe necessario rimanere a Roma per anni. «Malgrado tutto sono triste e devo dire che, quanto a comfort, preferisco la mia cara New York che spero di rivedere molto presto. Spero anche che il mio collega non tardi molto a venire perché mi sento stanco di trovarmi qui tutto solo. (1) «Mi sembra comunque che mille anni mi separino dal mio ritorno. Qui la gente è completamente diversa, anche la polizia spesso non dà alcun aiuto quando le si rivolgono delle domande. Il vitto è costoso esattamente quanto a New York, ma la gente guadagna molto di meno. Da New York a Genova abbiamo avuto un viaggio burrascoso. La nave è arrivata con ventisei ore di ritardo. Tutti i passeggeri erano più o meno sofferenti. Nessuno è riuscito a mangiare qualcosa tranne me, che ho avuto un forte appetito per tutto il viaggio, non risentendo per nulla il mare. [p. 141] «Bacia per me la mia cara bambina e saluta tutti gli amici e i parenti. Un abbraccio dal tuo affezionato marito Giuseppe Petrosino» La mattina del 24, Giuseppe Petrosino fu presentato al capo di Gabinetto di Giolitti, Camillo Peano, dallo stesso ambasciatore degli Stati Uniti. Il colloquio fu breve e ufficiale. Il poliziotto spiegò brevemente i motivi del suo «viaggio di studio» e Peano (che Petrosino scambiò per il ministro dell'Interno), lo congedò invitandolo a prendere direttamente contatto col capo della polizia Francesco Leonardi. Da Leonardi, Petrosino andò il giorno seguente. Non era accompagnato da nessuno. «Il mio nome è Petrosino» disse entrando. Leonardi rimase un poco sconcertato. «Per la verità» confiderà in seguito «il suo nome mi era noto. Tuttavia ebbi l'impressione che egli si ritenesse assai più famoso di quanto non fosse in realtà.» I due conversarono per circa mezz'ora. Petrosino gli consegnò una lettera d'accredito scritta da Bingham e quindi gli spiegò le ragioni ufficiali del suo viaggio, senza naturalmente fare il minimo accenno al suo progetto di costituire una rete di informazione privata. Pagina 65
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Prima di congedarlo, Leonardi gli affidò una lettera diretta a tutti i questori di Sicilia. Essa diceva: «Il signor Giuseppe Petrosino, Luogotenente della polizia di New York, si reca in Sicilia per incarico del Governo degli Stati Uniti per compiere investigazioni e ricerche occorrenti allo studio delle varie manifestazioni della delinquenza nei rapporti internazionali. Le SSLL sono pertanto pregate di usare al signor Giuseppe Petrosino tutte le possibili agevolezze perché egli possa adempiere al mandato conferitogli. Il Capo della Polizia Francesco Leonardi» La mattina del 26 febbraio, il poliziotto scrisse la sua prima lettera-rapporto all'assessore Bingham. Eccone il testo: [p. 142] «Caro assessore Bingham, «sono giunto a Roma alle 8,20 p.m. del 21 corr. ma essendo l'anniversario della nascita di Washington e contemporaneamente la festa del carnevale romano, che è durata due giorni, non ho potuto vedere alcuna delle persone cui dovevo rivolgermi. Alfine, grazie ai buoni uffici dell'Ambasciatore americano, ho potuto essere presentato al Ministro degli Interni on. Peano con il quale ho avuto una conversazione sui criminali italiani e sulle loro malefatte negli USA. Egli si è tanto interessato alla questione che ha dato disposizione al Capo della Polizia, S. E. Francesco Leonardi, di ordinare tassativamente ai Prefetti, Sottoprefetti e Sindaci di tutto il Regno di non rilasciare passaporti ai criminali italiani diretti negli USA. Mi ha anche dato una lettera indirizzata a tutti i Questori della Sicilia, Calabria e Napoli, con l'invito a facilitarmi in ogni modo nell'adempimento della mia missione. Sia il Ministro che il Capo della Polizia, avevano già sentito parlare di me. Ho anche mostrato loro l'orologio d'oro donatomi dal Capo italiano, come sapete. «Caro generale, il viaggio è stato molto brutto: per quasi tutta la durata il tempo è stato cattivo. La nave ha avuto ventisei ore di ritardo e io non mi sento troppo bene, per cui, prima di mettermi concretamente al lavoro, mi prenderò un paio di giorni di riposo. Quando sarò a Palermo per iniziare il «lavoro», vi informerò costantemente dei risultati. «Augurando una vita lunga e felice a voi e al signor Woods (2) rimango vostro devotissimo Giuseppe Petrosino» Il detective americano lasciò Roma la mattina del 27. Saldò il conto all'Hotel Inghilterra pagando la somma di trenta lire: sei lire per notte. Prima di lasciare la città, telegrafò al fratello Vincenzo annunciandogli il suo arrivo a Padula col treno delle 13,53. Poche ore dopo, Petrosino giungeva al paese natale. Suo fratello era ad attenderlo alla stazione in compagnia di uno sconosciuto. «Perché non sei venuto solo?» gli chiese Petrosino dopo averlo abbracciato. Sembrava molto contrariato per la presenza dell'intruso. [p. 143] «Ma è il cugino Vincenzo Arato, il figlio della sorella di nostra madre buonanima!» spiegò il fratello. Questa notizia sembrò tranquillizzarlo. «Sai» disse «il mio viaggio è segreto. Nessuno deve sapere.» «Proprio di questo volevo parlarti» disse Vincenzo, togliendosi di tasca una copia del giornale «Il Pungolo» «Guarda» aggiunse indicando un titolo sottolineato con la matita. «Qui si parla del tuo viaggio in Italia.» Con un gesto rabbioso, il poliziotto strappò il giornale dalle mani del fratello e lesse la notizia che lo riguardava, ripresa dal «New York Herald» Vincenzo lo udì imprecare sottovoce. Petrosino si fermò a Padula soltanto poche ore. Non volle vedere nessuno benché molta gente si fosse radunata davanti alla sua casa per festeggiare il celebre concittadino. Non volle visitare il paese che lo aveva visto nascere. Se ne rimase immusonito in casa del fratello, scambiando con lui poche parole. Era evidentemente molto irritato per quanto aveva letto sul giornale, tuttavia non ritenne necessario modificare i suoi piani. Alle 19 era di nuovo su un treno diretto a Napoli. Al fratello non rivelò neppure la sua destinazione. «Forse andrò a Messina» gli Pagina 66
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt disse. «Al ritorno passerò a salutarti.» Sul treno consumò un modesto pranzo che gli era stato preparato dalla cognata. Fu suo compagno di viaggio fino a Napoli il cavalier Valentino Di Montesano, un ex capitano dei carabinieri che lo riconobbe, ma che fece finta di nulla. Fine del secondo volume Braille NOTE: (1) Probabilmente Petrosino si riferiva all'agente che avrebbe dovuto dargli il cambio appena conclusa l'operazione. La polizia di New York ha comunque sempre smentito che fosse stata presa in considerazione questa eventualità. Di conseguenza, l'accenno al suo prossimo arrivo resta inspiegabile. (2) L'assistente dell'assessore. [p. 145] XI PIAZZA MARINA e dINTORNI Piazza Marina, a Palermo, ha perduto molto del suo antico splendore. I suoi vecchi palazzi con le grandi porte carraie che immettono nei cortili interni e quindi nel reticolato di vicoli che si apre sul retro sono stati in gran parte spazzati via dalle ruspe. Le sue due chiese, quella di San Giovannuzzo, all'angolo di corso Vittorio Emanuele, e quella di San Giuseppe dei Miracoli, all'angolo opposto di via Longarini, sono vecchie e cadenti. Di intatto non c'è rimasto che il giardino Garibaldi, un rettangolo di giungla, circondato da un'alta cancellata e ricco di splendide piante esotiche. Una volta questa piazza era un punto nevralgico della città. Situata in prossimità del vecchio porto, al limite estremo del quartiere arabo della Kalsa, ospitava durante la dominazione spagnola il Tribunale della Santa Inquisizione ed era il luogo preferito per le esecuzioni dei condannati. All'inizio di questo secolo, proprio per la sua ubicazione vicina al porto, piazza Marina era il centro commerciale di Palermo. Di notte, sia per la scarsa illuminazione, sia per le ombre proiettate dal giardino centrale, non era molto frequentata, ma di giorno era movimentatissima. Sul lato a monte, davanti a palazzo Partanna, ora demolito, c'era il capolinea dei tram elettrici della società Shukert; sull'angolo a destra, verso via Porto Salvo, si apriva il noto Caffè Oreto e più avanti c'era la sede della Società di navigazione generale, mentre sul lato a mare, a fianco di [p. 146] palazzo Chiaramonte, proprio dove sorgeva il Tribunale dell'Inquisizione (ora c'è l'intendenza di Finanza), era situato uno degli alberghi più eleganti della città, l'Hotel de France, al quale si accedeva mediante un'ampia scalinata che esiste tuttora. Giuseppe Petrosino vide per la prima volta questa piazza la mattina del 28 febbraio 1909: arrivava in carrozza dal vicino porto dove era giunto alle 8 col postale proveniente da Napoli. La prima cosa che attrasse l'attenzione del poliziotto non fu tuttavia lo splendido giardino, ma una serie di manifesti affissi alle cantonate che invitavano gli elettori del collegio di Palermo I a votare per Raffaele Palizzolo, «l'amico del Popolo» Si era infatti alla vigilia della prima tornata delle elezioni politiche e, vigendo allora il sistema uninominale, era previsto per la domenica successiva il ballottaggio fra quei candidati che non avessero ottenuto la maggioranza assoluta nei rispettivi collegi. Palizzolo aveva dovuto ripresentarsi nel collegio di Palermo I essendo state frustrate le sue speranze di farsi assegnare quello di Caccamo, lasciato libero dal defunto marchese Di Rudinì. Vittorio Emanuele Orlando, che ne era in quel momento il titolare, lo aveva ceduto al professor Mosca optando egli per quello di Partinico. Di conseguenza il Palizzolo, che si presentava come monarchico, doveva ora fare i conti con un temibile avversario, il giolittiano Di Stefano, il quale era poi lo stesso deputato che anni prima, dopo la sconcertante sentenza di Firenze, si era dimesso per restituire il seggio all'ex ergastolano. Evidentemente, le quotazioni del «re della Pagina 67
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt mafia» erano molto ribassate. Negli altri due collegi di Palermo erano candidati Empedocle Restivo, Giovanni Pecoraro e Pietro Di Trabia. Il «protetto» di Vito Cascio Ferro, l'onorevole Domenico De Michele Ferrantelli, si ripresentava invece nel collegio di Bivona contro il radicale avvocato Imbornone e il ferroviere socialista Umberto Bianchi. [p. 147] All'Hotel de France, dove si recò direttamente, Giuseppe Petrosino fissò la camera numero 16 (cinque lire per notte) e si registrò sotto falso nome firmando per esteso: «Simone Valenti di Giudea» Poche ore dopo egli era già nell'ufficio del console americano di Palermo, William A. Bishop, a palazzo Pecoraino in piazza Castelnuovo. Al diplomatico rivelò i suoi progetti, e manifestò l'intenzione di mettersi subito al lavoro. Gli disse anche di avere a Palermo degli informatori che avrebbero collaborato con lui. Uscito dal consolato, si recò alla Banca Commerciale dove aprì un conto a proprio nome versando duemila lire. Chiese anche al direttore il permesso di farsi recapitare la corrispondenza presso la stessa banca. La sua richiesta fu accolta e il direttore (che precedentemente aveva avuto un colloquio con Bishop) promise di mantenere il massimo segreto sulle attività dello strano cliente. Nel pomeriggio, accompagnato da una persona che non sarà mai identificata, il poliziotto si recò in tribunale, presso l'ufficio certificati penali, per controllare i precedenti di alcuni individui i cui nomi figuravano nell'elenco in suo possesso. Senza che nessuno gli chiedesse spiegazioni, fu lasciato libero di lavorare per un paio d'ore. Uscito dal tribunale, raggiunse in carrozza la sede della ditta A. Capra, dove prese in affitto per un mese una macchina da scrivere marca Remington. Lasciò un deposito di dieci lire e firmò la ricevuta col nome di Salvatore Basilicò. Alle 20,30 consumò un rapido pranzo al Caffè Oreto, sedendo solo a un tavolo d'angolo. Uscì alle 21,15, tagliò a sinistra e raggiunse per la via più breve l'Hotel de France, che si trovava sul lato opposto della piazza. Era stanco, nervoso e infastidito. Appena in camera scrisse a sua moglie una lettera, che sarà l'ultima. Dal testo originale che pubblichiamo è facile comprendere quale fosse il suo stato d'animo. [p. 148] «Weinen's Hotel de France Palermo, 28 febbraio 1909 «Carissima moglie, «sono arrivato in Palermo, mi trovo tutto confuso e mi pare mille anni di ritornare. Non mi piace niente affatto tutta l'Italia che poi quando ne vengo ti spiego. Dio, Dio che miseria! Sono stato malato cinque giorni. C'era influenza e ho dovuto stare a Roma, ma adesso mi sento bene. Dunque tutte le comunicazioni mandale alla Banca Commerciale di Palermo che questa è la mia direzione. «Saluta Angelina, Luigi. Bacia cugino Arturo come pure mio fratello Antonio con la sua famiglia, Compare Carlucci e sua famiglia. Saluta tua sorella e suo marito, alla mia cara Bambina e a te mille e mille abbracci. «Tuo aff.mo fratello (sic) Giuseppe Petrosino» Il giorno dopo, domenica, Petrosino rimase in albergo per battere a macchina le copie dei certificati penali che aveva esaminato in tribunale. Poi chiuse tutto in un plico e lo indirizzò all'assessore Bingham con la seguente lettera d'accompagnamento. «All.mo sig. Theodore A. Bingham «Assessore alla polizia Palermo, 1o marzo 1908 «Egregio signore, «facendo seguito al mio cablogramma, vi accludo il certificato penale di Candela Gioacchino e altri. Sono stato a letto con l'influenza negli ultimi sei giorni e ho ricevuto appena oggi il vostro cablogramma perché non ho potuto andare a Palermo fino al 28 u.s. Ora sto un po meglio e mi metto al lavoro. Vi spiegherò ampiamente tutto nella mia prossima lettera. Non c'è nulla nei casellari penali a carico di Manatteri, Pericò e Matranga. Forse troverò qualcosa sul loro conto più tardi. Pagina 68
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt «Devotamente Joseph Petrosino «P. S.: indirizzare: Banca Commerciale, Palermo, Italia» Dal 28 febbraio al 6 marzo, Petrosino evitò accuratamente di prendere contatto con la polizia italiana. Si aggirò per Palermo e nei centri vicini cambiando nome di volta in volta, spesso travestendosi, e senza lasciare tracce del suo passaggio. Di sicuro ebbe contatti con molte persone: aveva infatti [p. 149] rivelato ai suoi agenti che, appena in Sicilia, avrebbe utilizzato alcuni suoi ex confidenti di Little Italy che nel frattempo erano rimpatriati. Il fatto che nessuno di costoro si sia fatto vivo dopo l'uccisione del poliziotto non deve sorprendere. Se si trattava di autentici confidenti, questi temevano evidentemente la sicura rappresaglia della mafia. Se invece, come è assai più probabile, erano uomini-esca cui era stato affidato il compito di attrarre Petrosino nella trappola mortale, il loro silenzio è ancora più comprensibile. Soltanto il 5 marzo, dunque, Giuseppe Petrosino annunciò al console Bishop, al quale faceva visita ogni giorno, la sua intenzione di recarsi dal questore della città. «Non mi fido per niente della polizia italiana» disse. «Qui ho saputo cose da fare rizzare i capelli.» Bishop assentì con un sorriso. «Non parlatemene. Ne so qualcosa, io che vivo qui da cinque anni! Tuttavia» aggiunse «col nuovo questore le cose sono un poco cambiate. Lo hanno mandato da Milano proprio per ripulire la questura degli elementi mafiosi.» «Domani andrò a trovarlo» disse Petrosino. «Voi mi dovreste presentare.» Il questore Baldassarre Ceola era stato trasferito a Palermo il 15 luglio 1907. A Milano, dove aveva servito per una decina d'anni, aveva dovuto occuparsi indirettamente di un tragico quanto clamoroso episodio: il 29 luglio 1900, un anarchico venuto dall'America aveva ammazzato il re d'Italia Umberto I. Ora, a nove anni di distanza, un poliziotto pure venuto dall'America stava per coinvolgerlo in una vicenda non meno clamorosa. Venerdì mattina 6 marzo, alle 11, quando l'usciere gli annunciò la visita di uno sconosciuto che veniva a nome del console americano, il commendator Ceola era di buonumore. La prima tornata elettorale si era risolta in modo favorevole per i candidati governativi e il ballottaggio della domenica successiva avrebbe confermato tale successo. L'onorevole Giolitti, che era nello stesso tempo capo [p. 150] del governo e ministro dell'Interno, si sarebbe sicuramente felicitato con lui. Pochi minuti dopo, Petrosino era nel suo studio. Appena letta la lettera di presentazione di Bishop e quella del capo della polizia Leonardi, Baldassarre Ceola salutò molto calorosamente il nuovo venuto. «Ho sentito molto parlare di voi» gli disse poi. «In che cosa posso esservi utile?» «Sono incaricato dal mio governo di verificare se i passaporti agli emigranti vengono rilasciati in conformità alle leggi» spiegò Petrosino. «Troppi delinquenti giungono nel mio paese dalla Sicilia. Noi siamo stanchi di questo.» Ceola avvertì il rimprovero implicito nelle parole del suo interlocutore. «I passaporti rilasciati da questa questura sono sempre in regola con la legge» ribatté secco. «Allora perché molti criminali da me arrestati, pur essendo pregiudicati, presentavano certificati penali perfettamente puliti?» «Forse perché erano stati riabilitati» osservò Ceola. «Voi saprete cos'è l'istituto della riabilitazione, immagino.» «No. Non so niente di questo. So soltanto che voi ci mandate dei malviventi con tanto di fedina pulita. E' proprio questo strano sistema che il mio governo intende eliminare.» «Io mi resi subito conto» scriverà in seguito Baldassarre Ceola al prefetto «che il signor tenente Petrosino non era per sua sfortuna dotato di molta cultura. Fra l'altro ignorava i regolamenti nostri, e così gli spiegai cos'era l'istituto della riabilitazione...» Ma non Pagina 69
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt gli spiegò, naturalmente, che si era soliti «riabilitare» i criminali e i mafiosi proprio quando chiedevano un passaporto per l'America. Fin dalle prime battute del colloquio, Petrosino provò ostilità e diffidenza per quel distinto funzionario che lo trattava con una certa aria di paternalistica superiorità. E i suoi sospetti verso la polizia italiana si acuirono. «In ogni modo» gli stava intanto dicendo il questore [p. 151] Ceola «ritenetemi a vostra disposizione. Anzi, darò ordine subito che vi sia affidata una scorta personale.» Petrosino scosse energicamente la testa. «Grazie, ma non desidero essere scortato.» «Ma sarà pericoloso per voi girare solo per Palermo!» esclamò l'altro. «Siete troppo conosciuto. I giornali hanno annunciato il vostro arrivo in Italia e chissà quanti nemici contate in questa città.» «Ho anche degli amici a Palermo, signor questore» ribatté Petrosino con sussiego. «Basteranno loro a proteggermi.» «Invidio la vostra sicurezza, tenente» tagliò corto Ceola, che cominciava a seccarsi per la manifesta diffidenza del poliziotto. «Posso comunque sapere dove abitate?» «Non intendo rivelarlo» fu la risposta. «Potrete cercarmi presso il consolato del mio paese.» Baldassarre Ceola, a questo punto, chiamò l'usciere e gli disse di pregare il cavalier Poli, comandante della Brigata Mobile, di raggiungerlo subito. «Il cavalier Poli» spiegò Ceola a Petrosino quando il commissario sopraggiunse «è un ottimo funzionario. Per qualsiasi cosa potrete prendere contatto con lui. E ora, se volete scusarmi, ho altre cose da fare.» Il questore era chiaramente infastidito. Petrosino e Poli si recarono a conversare in un'altra stanza. Neanche a Poli, tuttavia, il detective volle dare il suo recapito. «Verrò io a cercarvi quando avrò bisogno di consultarvi» gli disse. E se ne andò. Più tardi, l'altro si recò a riferire al suo superiore. «Ho l'impressione che non si fidi assolutamente di noi» commentò. «Sono soltanto riuscito a farmi promettere che non lascerà Palermo senza avvertirmi.» Baldassarre Ceola alzò le spalle: «Lasciatelo fare, ma non perdetelo troppo di vista» Nei giorni che seguirono, Petrosino s'incontrò alcune volte con Poli fissandogli degli appuntamenti a mezzo lettera, [p. 152] ma non volle mai tornare in questura. Questi incontri furono essenzialmente tecnici, e fra i due non si stabilì il minimo rapporto di amicizia. Petrosino forniva a Poli dei ragguagli sulle indagini svolte e gli chiedeva ulteriori dettagli sui pregiudicati di cui si stava occupando. Il cavalier Poli si rese subito conto che il collega americano doveva disporre di un certo numero d'informatori, alcuni dei quali dovevano essere personaggi altolocati. Infatti, certe notizie delicate in possesso di Petrosino potevano essere state raccolte solo da persone che disponevano di autorevoli entrature negli ambienti giudiziari. Poli confidò anche a Ceola di nutrire timori per l'incolumità del detective, che si mostrava così temerario da avventurarsi anche di notte nei quartieri più malfamati di Palermo, dove aveva misteriosi conciliaboli con degli sconosciuti. «Il tenente Petrosino» scriverà Ceola più tardi nel suo rapporto a Giolitti «frequentava i centri più pericolosi della malavita, si metteva in relazione, senza averne bisogno, con diverse persone addette a pubblici uffici, parlava troppo, spesso e volentieri anche col personale del Caffè Oreto dove prendeva i pasti, portava addosso buona parte dei suoi appunti e della sua corrispondenza: in una parola, mentre con la questura e con lo stesso suo console mostravasi di una riservatezza spinta all'eccesso, non usò fuori, in tutti i suoi atti, quella elementare prudenza che si rendeva assolutamente necessaria non solo a salvaguardia della sua vita, ma altresì alla riuscita del delicato servizio che si era assunto. Seguiva in tutto il pregiudizio di coloro fra i siciliani che credono di essere meglio Pagina 70
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt protetti rivolgendosi anziché alle autorità e alla giustizia, a qualche noto e temuto delinquente che eserciti autorità e influenza nella malavita.» Anche se Baldassarre Ceola evidentemente esagerava, in questo brano c'è tutto Petrosino, col suo coraggio, il suo attivismo e, soprattutto, il suo naturale esibizionismo. E' certo che egli in quei giorni mosse troppo le acque attorno a sé e mise in allarme la malavita palermitana. [p. 153] «Cosa diavolo vuole questo sbirro?» dovettero chiedersi in molti. «Vuole impedire ai siciliani di andare in America a guadagnarsi il pane? O vuole mettere nei guai chi è tornato dall'America a godersi il gruzzolo?» Questi interrogativi circolarono sicuramente fra i malviventi di Palermo, nessuno dei quali aveva certo da rallegrarsi per la venuta di Petrosino: chi aveva conti in sospeso negli Stati Uniti, come per esempio Vito Cascio Ferro, Carlo Costantino e Antonino Passananti; chi aveva in America amici o parenti che ora rischiavano di esserne espulsi; e chi, infine, temeva di vedersi sbarrare l'unica via di salvezza qualora fosse stato necessario fuggire dall'isola. Anche se, come sembra, il complotto ai danni del detective fu organizzato in America, esso trovò dunque a Palermo un terreno fertilissimo sul quale attecchire e svilupparsi. Ignaro, o piuttosto incurante, dei pericoli che incombevano sopra di lui, Giuseppe Petrosino continuava intanto ad agitarsi. Era così sicuro di essere protetto che, molto spesso, usciva disarmato. Evidentemente i suoi misteriosi informatori erano riusciti a conquistarsi la fiducia del diffidente poliziotto americano. Il giorno 11 marzo, giovedì, Petrosino fece una nuova visita al console Bishop. Gli parlò del suo lavoro e gli annunciò che la mattina seguente si sarebbe recato a Caltanissetta per svolgere indagini nel locale tribunale. «Vi prego di non parlarne con nessuno» disse poi. «Ho promesso alla polizia italiana di non muovermi da Palermo senza prima avvertirla, ma non intendo affatto rispettare la promessa. Del resto tornerò in giornata. Alle 4 del pomeriggio ho un appuntamento qui a Palermo, e ne ho un altro, molto importante, verso le 9 di sera.» Quando uscì, la piazza Castelnuovo era gremita di persone, tutti aspiranti emigranti che sostavano come di solito davanti al consolato in attesa del visto per l'espatrio. Quella mattina, però, alla folla consueta si era aggiunta una vecchia conoscenza del detective, ossia quel Paolo Palazzotto che egli aveva fatto espellere dall'America poche [p. 154] settimane prima. Palazzotto era giunto a Napoli col piroscafo Indiano il 2 marzo. Consegnato ai carabinieri, era stato tradotto a Palermo, ma qui era stato subito rimesso in libertà. Ora egli era davanti al consolato in compagnia dell'amico Ernesto Militano, un giovane noto per essere titolare «del più bel paio di baffi di Palermo» Ma questo Militano era conosciuto dalla polizia anche per altri motivi. Ecco come lo descriveva il delegato di pubblica sicurezza del suo quartiere: «Militano è un ricottaro impenitente. Tutte le notti se ne va in giro per i lupanari della città dove pretende di giacere con la donna che sceglie, e alla quale poi non solo nega, dopo il congiungimento, la giusta mercede, ma anzi toglie i guadagni della serata» Petrosino passò accanto ai due senza notarli e salì sulla carrozza che lo attendeva. Palazzotto, invece, appena lo vide ebbe un gesto di rabbia e fece l'atto di seguirlo, ma Militano lo trattenne. Allora, parlando ad alta voce così che tutti poterono udirlo, disse indicando la carrozza che si allontanava: «Quello è Petrosino, il nemico dei siciliani. E' venuto a Palermo a farsi ammazzare!». Il detective naturalmente non lo udì. Egli raggiunse la Banca Commerciale dove ritirò dal suo conto la somma di duecento lire. Delle duemila versate il 28 febbraio aveva prelevato fino a quel momento milleduecento lire: una cifra notevole. Probabilmente l'aveva utilizzata per pagare i suoi informatori. La sera di giovedì 11 si verificò un altro episodio degno di nota. Mentre Petrosino pranzava come al solito al Caffè Oreto, entrarono nel locale Paolo Palazzotto ed Ernesto Militano che andarono a bere del vino restando in piedi davanti al banco. Essi furono visti lanciare sguardi minacciosi verso il poliziotto, che stava mangiando Pagina 71
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt da solo. Poco dopo entrarono nel locale due altri pregiudicati: Francesco Nono e Salvatore Seminara. Quest'ultimo era stato espulso mesi prima dagli Stati Uniti, sempre per opera di Petrosino. Anche questi due uomini sostarono a lungo osservando [p. 155] di tanto in tanto il detective e parlottando fra loro. Un cliente di nome Volpe, che era confidente della polizia, essendo seduto lì accanto raccolse e riferì questo curioso scambio di battute: Nono (ridendo): Ma allora lu petrosino (il prezzemolo) ti provoca la diarrea! Seminara (minaccioso): Si moru mi drivocu, si campu l'allampo (Se muoio sarò sepolto, ma se campo l'uccido) Nono: Non ne sarai capace. Seminara: Tu non sai chi sono i Seminara. Poco dopo le 21, Petrosino uscì dal ristorante e raggiunse l'albergo. Faceva freddo e minacciava un temporale. Il mattino seguente si alzò di buonora e prese il treno delle 6,30 per Caltanissetta dove s'intrattenne un paio d'ore in tribunale per le solite ricerche nel casellario giudiziario. Fu coadiuvato nel suo lavoro dal cancelliere Fiasconaro, al quale non rivelò la sua vera identità. Il detective rientrò a Palermo nel primo pomeriggio. Alle 17, forse dopo essersi incontrato con le persone che gli avevano fissato un appuntamento per le 16, raggiunse l'Hotel de France. Prima di salire nella propria camera chiese una copia del «Giornale di Sicilia» I giornali di quel giorno pubblicavano tutti con grossi titoli i risultati del ballottaggio di domenica 7 marzo. La vittoria di Giolitti, già delineatasi nella prima tornata elettorale, si era rivelata schiacciante. Il capo del governo e ministro dell'Interno era riuscito, nella sola Italia meridionale, a far eleggere ben duecento suoi seguaci. Naturalmente, com'era suo costume, Giolitti non aveva guardato troppo per il sottile sia nella scelta dei candidati, sia nei mezzi da adottare per la loro elezione. Prefetti e questori, pregiudicati e mazzieri, avevano tutti svolto un ottimo lavoro. Non va infatti dimenticato che proprio a seguito delle elezioni del 1909 un giovane deputato socialista, di nome Gaetano Salvemini, scrisse il suo famoso saggio intitolato Il ministro della malavita. In Sicilia lo stesso Giolitti fu eletto in tre collegi, benché [p. 156] non avesse mai messo piede nell'isola. A Palermo l'onorevole Palizzolo, rimasto legato al vecchio gruppo monarchico-crispino, fu sonoramente battuto dal giolittiano Di Stefano per 1981 voti contro 125. Nel collegio di Palermo II, il cattolico Pecoraro sconfisse Empedocle Restivo, in quello di Palermo III venne eletto Pietro Di Trabia. A Bivona, il protetto di don Vito Cascio Ferro, l'onorevole Domenico De Michele Ferrantelli, ottenne una rielezione quasi plebiscitaria. Giuseppe Petrosino, dopo avere dato una scorsa al giornale, si immerse nel suo lavoro. Copiò a macchina alcuni certificati penali raccolti a Caltanissetta, poi preparò degli appunti per il giorno dopo. Si era portato dall'America un piccolo registro con l'elenco dei malviventi sul conto dei quali voleva documentarsi per avviare le relative pratiche di espulsione. Quella sera, in fondo all'elenco, appuntò frettolosamente con una matita copiativa: Vito Cascio Ferro, nato a Sambuca Zabut, residente a Bisacquino, provincia di Palermo, temibile criminale. Perché Petrosino scrisse questa annotazione? Per quale motivo si accingeva a svolgere indagini sul conto di un individuo che, abitando già in Italia, non aveva ragione di figurare in un elenco di persone da espellere dagli Stati Uniti? Forse intendeva denunciarlo alla polizia italiana per il «delitto del barile»? L'interrogativo è destinato a restare senza risposta. Verso le 18, il temporale che si annunciava dalla sera prima scoppiò fragorosamente. Per oltre un'ora, fra tuoni e fulmini, piovve a dirotto. Alle 19,30 la pioggia cessò di colpo. Petrosino, prese ombrello e cappello, indossò il soprabito e uscì dall'albergo per recarsi a cena al Caffè Oreto. [p. 157] XII Pagina 72
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt LA sERA dEL 12 mARZO La sera di venerdì 12 marzo 1909, piazza Marina, a Palermo, era buia e deserta. La luce giallastra dei quattro deboli lampioni a gas posti sugli angoli si rifletteva nelle pozzanghere lasciando appena intravedere i contorni dei palazzi circostanti. Il giardino Garibaldi, al centro della piazza, era una macchia d'oscurità che proiettava ombre sinistre sul lastricato umido di pioggia. Tutto era immerso nel silenzio. Soltanto dal lato a monte, dov'era situato il capolinea dei tram della società Shukert, proveniva il brusio soffocato delle voci dei passeggeri che, in attesa della partenza, si erano sistemati nella vettura in sosta per ripararsi dal freddo pungente. Giuseppe Petrosino, con la sua corpulenta figura ben chiusa nell'ampio soprabito che gli giungeva fin quasi ai piedi, percorse a passo svelto i duecentocinquanta metri che separavano l'Hotel de France dal Caffè Oreto. L'interno del locale era affollato di persone che sostavano in piedi davanti al banco delle mescite. La sala del ristorante, invece, era quasi vuota e il detective andò a sedersi al suo solito tavolo d'angolo con le spalle rivolte verso la parete. Da lì poteva dominare l'intero ambiente. Ordinò subito la cena: pasta al pomodoro, pesce arrosto, patate fritte, formaggio col pepe, frutta e mezzo litro di vino. Mangiò con molto appetito. Era al formaggio quando due uomini entrarono nel locale e si guardarono intorno come se cercassero qualcuno. Un cameriere di nome Geraci li vide avvicinarsi al poliziotto, che evidentemente [p. 158] conoscevano, e salutarlo con rispetto. Essi parlarono con lui restando in piedi e fu un colloquio brevissimo. Poi Petrosino li licenziò con un gesto della mano che poteva significare: «Vi raggiungo subito» Usciti i due sconosciuti, il detective finì rapidamente di cenare, chiese il conto, che ammontava a due lire e settanta e lasciò sul tavolo tre lire senza attendere il resto. Quindi si avviò in fretta verso l'uscita terminando di abbottonarsi il soprabito. Erano le 20,45. Appena fuori, Petrosino non tagliò come al solito a sinistra per prendere la via più breve per l'albergo, ma andò diritto, rasentando la cancellata del giardino Garibaldi, come se intendesse percorrere l'intero perimetro della piazza. Evidentemente si dirigeva verso un punto prestabilito con i due sconosciuti. Percorrerà esattamente duecentosette metri. Circa cinque minuti dopo, quattro colpi di pistola di cui tre simultanei e uno isolato, rompevano fragorosamente il silenzio che gravava su piazza Marina. I colpi provenivano dall'angolo dove sorge la chiesa di San Giuseppe dei Miracoli, ossia a una trentina di metri dal capolinea dei tram. Incredibilmente, di tutti i passeggeri in attesa, il solo ad accorrere sul luogo della sparatoria fu un marinaio. Gli altri, o rimasero immobili, o fuggirono nella direzione opposta. Il coraggioso marinaio era il ventunenne Alberto Cardella, di Ancona, imbarcato sulla Regia Nave Calabria da alcuni giorni alla fonda nel porto di Palermo. Cardella fu dunque il primo a rendersi conto dell'accaduto e il solo che, in seguito, fornirà un'attendibile testimonianza. In quei pochi secondi che impiegò per raggiungere il luogo del delitto, il giovane registrò mentalmente alcuni fatti importanti. Egli vide un uomo corpulento staccarsi dalla cancellata del giardino e abbattersi pesantemente al suolo mentre due individui, sbucati dall'ombra, fuggivano in direzione di palazzo Partanna perdendosi poi nell'oscurità del cortile interno che aveva altre uscite verso i vicoli [p. 160] retrostanti. Il soccorritore avvertì anche il rumore di una carrozza che si allontanava. Per alcuni lunghissimi minuti, il marinaio rimase solo davanti al corpo massiccio dello sconosciuto che giaceva immobile sul marciapiede del giardino. Lì accanto c'erano un ombrello e una grossa pistola a tamburo. La bombetta della vittima era rotolata fino alla base di un tabellone pubblicitario sul quale erano affissi due manifesti. Il primo annunciava: «Questa sera, 12 marzo 1909, alle ore 20, al Teatro Biondo, debutto di Paule Silver, l'eccentrica Pagina 73
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt francese» Sull'altro si leggeva: «Cuscini di pura lana da lire 1,75 a lire 2» Poco dopo, Alberto Cardella fu raggiunto da un tenente medico della Regia Nave Calabria. Questi esaminò il corpo dello sconosciuto e, quando si rese conto che non c'era più nulla da fare, si allontanò ordinando al marinaio di rimanere di guardia. Finalmente, quasi un quarto d'ora dopo, sopraggiungeva il commissario di pubblica sicurezza Frasca accompagnato dal vicecommissario Li Voti e dal delegato Scherma. Più tardi arrivò anche il giudice istruttore Cosentino. Intanto, per un'improvvisa interruzione dell'illuminazione a gas, piazza Marina era piombata nel buio completo. L'interruzione (che si sospettò essere stata premeditata per favorire la fuga degli assassini) ostacolò il sopralluogo degli investigatori. Fu necessario mandare un passante a procurarsi delle candele per illuminare la scena. L'ucciso indossava un completo nero, scarpe nere e soprabito grigio scuro. Al collo aveva una cravatta di seta color marrone e nel taschino del panciotto un orologio d'oro appeso a una catena pure d'oro fermata al secondo occhiello. Presentava tre ferite d'arma da fuoco: una alla spalla destra, una alla gola e un'altra alla guancia destra. Un proiettile fu poi trovato nella stoffa della giacca. Considerata la posizione delle ferite appariva chiaro che l'uomo non era stato aggredito alle spalle ma colpito, a distanza ravvicinata, da individui che gli stavano di fronte mentre lui era appoggiato alla cancellata di ferro. [p. 161] Nessuno degli astanti riconobbe lo sconosciuto che - come fu scritto nel verbale - «aveva l'aspetto di uno straniero ricco ed elegante» Soltanto dopo la perquisizione del cadavere, il giudice Cosentino scoprì che si trattava di Giuseppe Petrosino. Questa perquisizione, affidata al solito marinaio Cardella, fu molto minuziosa. Nel taschino destro del panciotto venne trovato un biglietto con scritto a penna il numero 6824. Nelle altre tasche furono rinvenuti: un libretto di assegni della Banca Commerciale, una banconota da cinquanta lire e quattro da cinque lire; alcune buste «formato Maddalena», indirizzate a varie personalità palermitane fra le quali il sindaco di Palermo, senatore De Martino, il commissario del porto Enrico Ghilardi, il delegato di pubblica sicurezza Cutrera e il brigadiere dei vigili urbani Grillone. Le buste, che erano ancora suggellate, contenevano lettere di presentazione, firmate da certo L. Bonanno, marchand. 24 Stone Street, Room 906, New York, che Petrosino non aveva ancora recapitato ai destinatari. Furono ancora rinvenuti trenta biglietti da visita del detective, la lettera di presentazione del capo della polizia Leonardi, un taccuino con molti nomi di pregiudicati e con l'ultima annotazione dedicata a Vito Cascio Ferro, alcuni promemoria sul lavoro da svolgere, una cartolina illustrata indirizzata alla moglie Adelina con su scritto: «Un bacio a te e alla mia bambina che ha compiuto tre mesi lontana dal suo papà», e infine il badge della polizia americana, ossia una placca metallica col numero 285. La notizia che l'ucciso era il famoso detective si sparse allora per la città. Il questore Ceola, che si trovava in un palco del teatro Biondo per ammirare Paule Silver, l'eccentrica francese, lasciò a metà lo spettacolo per correre sul luogo del delitto. In un primo tempo, il ritrovamento del grosso revolver, che era di marca belga e risultava mancante di un solo proiettile, fece supporre che Petrosino avesse tentato una disperata difesa. Si ritenne infatti che fosse stato lui a sparare [p. 162] quel quarto colpo che era stato udito risuonare isolato dagli altri tre. Ma l'ipotesi fu scartata quando, dopo la perquisizione della sua camera, venne rinvenuta la sua pistola Smith & Wesson rinchiusa nella valigia. Dunque, quella sera, Giuseppe Petrosino era uscito disarmato. Evidentemente nutriva la massima fiducia nelle persone che gli avevano teso l'agguato mortale. Intanto, mentre il cadavere del detective - sempre sorvegliato dal marinaio Cardella - attendeva di essere trasportato all'obitorio del cimitero dei Rotoli, in questura aveva inizio l'interrogatorio dei pochi testimoni rastrellati sul posto. Pagina 74
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Fu fatica sprecata. Gaetano Casalis e Giuseppe Morello, bigliettai della società Shukert, furono i primi a essere interrogati. Casalis ammise di avere udito gli spari. «Ma non ho visto nulla» si affrettò a precisare. Morello fu ancora più laconico: «Non ho sentito nulla» disse «ho soltanto visto un signore e una signorina che scappavano spaventati, ma non ne compresi il motivo» Ai bigliettai seguirono due conducenti, Giovanni Battista Salerno e Lorenzo Rossiglione. Il primo ammise di avere udito degli spari, ma niente di più. Rossiglione disse invece di avere visto dei bagliori. «Ma non ho udito neppure gli spari» precisò. Un carabiniere fuori servizio fermò di sua iniziativa certo Luigi Schillaci, ingrassatore dei tram, che sembrava sapere qualcosa sui due individui che erano stati visti fuggire. Ma quando fu in questura, Schillaci perdette di colpo la memoria. «Non ho visto e non ho sentito nulla» insistette. Più tardi, poiché il marinaio Cardella continuava a sostenere di avere visto gli assassini fuggire verso palazzo Partanna, furono prelevati i portinai del palazzo: Giovanni Battista Patricola e Nunzia Lo Cascio. Ma anche costoro dissero di non aver visto né udito nulla. Il primo arresto importante operato dalla polizia fu quella di Paolo Palazzotto. Il giovane era stato visto quella [p. 163] sera al Caffè Oreto in compagnia di Ernesto Militano. Inoltre, il suo nome figurava nel taccuino di Petrosino insieme a quelli dei suoi fratelli Domenico e Michele, noti esponenti della Mano Nera di Brooklyn. Palazzotto fu strappato dal letto della sua abitazione di vicolo Speranza 13, alle 2 di notte. «Sono stato tutto il giorno in casa perché mi sentivo male» si ostinò a dichiarare. Poi, ad aggravare la sua posizione, giunse la testimonianza di certo Enrico Fazio, abitante in via Lolli 13, che lo aveva udito rivolgere oscure minacce all'indirizzo di Petrosino mentre questi lasciava il consolato americano di piazza Castelnuovo. Ernesto Militano fu arrestato più tardi. Gli agenti faticarono a riconoscerlo perché proprio quella mattina aveva deciso di radersi i suoi famosi baffi. «Perché ti sei tagliato i baffi?» «Perché la mia donna mi preferisce senza.» Né ci fu verso di cavarne altro. Intanto, mentre il questore Ceola provvedeva ad avvertire il ministro dell'Interno e il console americano Bishop, il cavalier Poli dava il via a una grande operazione di rastrellamento di tutti quei siciliani, espulsi recentemente dall'America, che avevano motivi di rancore nei confronti di Petrosino. Sempre in quella notte l'indagine registrò notevoli progressi, tanto da far ritenere molto prossima la scoperta dei colpevoli. Una importantissima testimonianza fu fornita da Tommaso Chiusa, di trentun anni, da Partinico, che lavorava come portiere nel palazzo sito al numero 8 di piazza Castelnuovo. La mattina precedente Tommaso Chiusa aveva portato la propria bambina al giardino Garibaldi, e qui aveva riconosciuto, seduti su una panchina, Carlo Costantino e Antonino Passananti. La cosa lo aveva sorpreso, perché credeva che i due fossero sempre in America. E ora, dopo l'uccisione di Petrosino, la sua sorpresa si era trasformata in sospetto. Per questo aveva deciso di avvertire la polizia. Per la verità, la polizia non ignorava il rientro di Costantino [p. 164] e di Passananti sotto falso nome. Il delegato di Partinico, cavalier Battioni, aveva redatto sul loro conto un rapporto molto preciso. Da questo rapporto, oltre al testo del misterioso telegramma spedito da Costantino a Morello, risultava che i due, pur possedendo a New York un'avviata mescita di liquori, erano tornati improvvisamente a Partinico. Invitati dallo stesso cavalier Battioni a spiegare il motivo del loro inatteso rimpatrio, essi avevano dichiarato di essere stati costretti a lasciare New York per sfuggire a certi strozzini ebrei che reclamavano il pagamento di alcuni crediti. La loro affermazione tuttavia contrastava col fatto che essi risultavano inequivocabilmente ricchi. Il delegato di pubblica sicurezza aggiungeva ancora che, da informazioni confidenziali, gli risultava Pagina 75
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt che alcuni giorni prima del loro arrivo don Vito Cascio Ferro era venuto a Partinico per chiedere notizie sul loro conto. Costantino e Passananti si erano poi recati a loro volta a Bisacquino per fare visita al noto mafioso. Questo rapporto, che non aveva suscitato particolare interesse fino a quel momento, permise a Baldassarre Ceola di intravedere la trama di un complotto internazionale contro il poliziotto americano. Spedì immediatamente degli agenti a Partinico. Carlo Costantino fu trovato in casa. Quando gli chiesero cosa avesse fatto la sera prima, non seppe fornire un alibi convincente. Antonino Passananti non fu invece rintracciato. Aveva lasciato Partinico il 12 marzo e non aveva più fatto ritorno. La cerchia dei sospetti continuò peraltro ad allargarsi. A meno di quarantott'ore dal delitto, gli investigatori avevano concentrato la propria attenzione su quindici individui, tutti reduci dagli Stati Uniti e tutti legati alla mafia o alla Mano Nera. Essi erano: [p. ]aolo Palazzotto, di anni 27, via Speranza 13. Ernesto Militano, di anni 27, via Speranza 29. Salvatore Seminara, di anni 40, via Spirito Santo 13. Camillo Pericò, di anni 44, via Santa Cristina 27. [p. 165] Francesco Pericò, di anni 46, via Santa Cristina 27. Pasquale Enea, di anni 40, via Divisi 86. Carlo Costantino, di anni 35, via De Leone 1, Partinico. Antonino Passananti, di anni 30, via Roma 45, Partinico. Giovanni Ruisi, di anni 40, vicolo della Conceria 2. Giuseppe Bonfardeci, di anni 28. Giuseppe Fatta, di anni 33, via Montalbo 2. Giovanni Dazzò, di anni 36, via Santo Spirito 6. G. Battista Finazzo, di anni 28, via Sperlinga 25. Gaspare Tedeschi, di anni 45, via Celso 67. Vito Cascio Ferro, di anni 47, da Bisacquino.par Di tutti costoro, soltanto Vito Cascio Ferro e Antonino Passananti non erano ancora stati rintracciati. A New York il primo giornale a pubblicare in esclusiva assoluta la notizia della morte di Petrosino fu il «New York Herald» Un reporter di questo giornale bussò alle due di notte alla porta di Adelina Petrosino, al numero 233 di Lafayette Street. «Avete notizie di vostro marito?» «No. Perché? Cosa gli è successo?» «Allora non sapete nulla?» «No, Dio mio! Cos'è successo. L'hanno ucciso?» «No, no. Solo ferito... Credevo che sapeste.» Il giornalista non disse altro e corse via. Adelina, in lacrime con la bambina in braccio, salì al piano di sopra, dal fratello Louis. Questi chiamò il dottor Asselta, amico del poliziotto da circa venticinque anni, e gli affidò la sorella. Quindi uscì di casa e raggiunse la centrale di polizia. Nessuno, naturalmente, volle credere alle parole di Louis Saulino. «Petrosino morto? Impossibile.» «Sarà il solito giornalista fantasioso.» «Magari è un trucco del tenente. Non è la prima volta che si sparge la voce della sua morte.» «Ti ricordi quella volta che...» Louis Saulino lasciò la centrale di polizia all'alba. Era sicuro che si trattasse di uno scherzo di qualche malintenzionato. [p. 166] Ma quando fu in strada gli strilloni del «New York Herald» già gridavano a squarciagola l'annuncio della morte del celebre poliziotto. Dopo una scorsa al giornale, che conteneva un articolo molto dettagliato trasmesso per cablo dal corrispondente di Roma, Louis tornò sui propri passi. «Credete ancora che si tratti di una falsa notizia?» chiese gettando il giornale sul tavolo. Il funzionario di «notturna» ritenne opportuno a questo punto telefonare al viceassessore Woods (il generale Bingham si trovava a Washington e doveva rientrare in giornata) Woods giunse di corsa. Pagina 76
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Lesse il giornale scuotendo la testa e mormorando come fra sé: «E' impossibile, è impossibile» Fino alle 10 del mattino, alla centrale di polizia si visse in spasmodica attesa. Poi giunse il cablogramma del console di Palermo che confermava ufficialmente la notizia. Il testo del messaggio era il seguente: «Palermo, Italia, 12 marzo 1909 «Petrosino ucciso a revolverate nel centro della città questa sera. «Gli assassini sconosciuti. Muore un martire. Console Bishop» Più tardi, Woods acconsentì a rilasciare una dichiarazione alla stampa, benché i giornalisti fossero ormai meglio informati di lui. Il generale Bingham, invece, appena giunto a New York si rinchiuse nella stanza dell'Hotel Iroquois, dove abitava, e non volle ricevere nessuno. Il suo segretario, Daniel Slattery, annunciò che l'assessore rifiutava per il momento di fare qualsiasi dichiarazione. Il compianto per la scomparsa del poliziotto italiano fu generale. I giornali dedicarono più spazio alla sua uccisione di quanto ne avessero dedicato alla morte del presidente Mchinley. Per giorni e giorni non si parlò d'altro a New York e, naturalmente, riprese con violenza la campagna di stampa contro l'emigrazione italiana. Riapparvero di nuovo articoli di fondo dal titolo Buttiamoli fuori! Nessuno di questi indignati articolisti sembrò tuttavia rilevare [p. 167] che «il fedele difensore di New York», «il nemico numero uno della Mano Nera, l'eroico tenente Petrosino» era, tutto sommato, anche lui un italiano. Si sviluppò subito a New York anche una feroce polemica contro la polizia italiana. La questura di Palermo fu accusata di scarsa collaborazione e complicità con gli assassini per il fatto che rifiutava di far pervenire alla polizia americana un rapporto dettagliato sull'accaduto. (In realtà il questore Ceola aveva dovuto, secondo la prassi, inviare il rapporto per via diplomatica. Di qui il ritardo nella consegna.) A fomentare questa polemica fu, in particolare, il generale Bingham, desideroso, presumibilmente, di scaricare ogni responsabilità sui colleghi d'oltreoceano. Il più diretto collaboratore di Petrosino, Antonio Vachris (promosso nel frattempo tenente e aspirante alla successione) affermò chiaro e tondo che il suo capo «era stato sicuramente tradito dalla polizia di Palermo» Da parte sua, il viceprocuratore distrettuale, Francis L. Corrao, rilasciò alla stampa la seguente dichiarazione: «Il Governo italiano deve essere ritenuto largamente responsabile per la morte di Petrosino. Non c'è dubbio che il suo assassinio sia stato decretato e pianificato qui a New York, ma la sentenza capitale è stata eseguita con militaresca obbedienza dalla Mafia siciliana. Da ciò che ho visto e sentito durante il mio recente viaggio in Italia, non ho dubbi che i pubblici funzionari in Sicilia siano in combutta con la Mafia. Ho avuto l'impressione che il Governo italiano collabori nel mantenere in piedi l'organizzazione. Fino a che non sarà distrutta la comunanza di interessi tra i capi mafiosi e la polizia, il regno della Mafia in Sicilia non avrà fine.» Anche l'ex presidente Theodore Roosevelt, appena informato della morte del suo antico collaboratore, volle fare una dichiarazione. «Non trovo le parole» disse «per esprimere il mio profondo rimpianto. Petrosino era un uomo grande e buono, un patriota leale e valoroso. Lo conoscevo e lo stimavo da molti anni. Egli non ha mai saputo cosa fosse la paura. Era un uomo che valeva la pena di conoscere. [p. 168] Io sono sinceramente addolorato per la morte del mio amico Joe.» In quei giorni di «isterismo collettivo», come ebbe a scrivere l'imparziale Arthur Brisbane sul «New York Journal», la stampa americana avanzò le più strampalate ipotesi sulla misteriosa vicenda. Alcuni giornali insinuarono che il delitto fosse stato commesso dagli anarchici italiani, in combutta con i mafiosi, sottolineando il fatto che Petrosino era acerrimo nemico di questi come di quelli. A questo proposito, il corrispondente da Londra del «New York Times» si ritenne in dovere di intervistare Errico Malatesta per conoscere la sua opinione sul delitto di Palermo. Il leader anarchico manifestò tuttavia un completo disinteresse per quanto era capitato al detective italoamericano. «Posso soltanto dire» si limitò a Pagina 77
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt dichiarare «che in considerazione di quanto ho dovuto subire per colpa della polizia, la morte di Petrosino mi lascia del tutto indifferente.» La stampa d'oltreoceano continuò comunque a battere la «pista degli anarchici» Per alcuni giorni, per esempio, i lettori furono dettagliatamente informati sulla caccia che la polizia londinese stava dando a un anarchico, di nome Angelo Caruso, che possedeva un cane rognoso al quale aveva imposto il nome di Petrosino in ricordo di un brusco colloquio da lui avuto col detective nel «lager degli indesiderabili» di Ellis Island. (Poi, quando Caruso fu rintracciato, si accertò naturalmente che era completamente estraneo al delitto.) Al centro dell'accesa campagna di stampa antitaliana scatenatasi in America, va messo comunque in evidenza il violentissimo atto d'accusa pubblicato dal giornalista White sul numero domenicale dell'autorevole «Ledger», del 21 marzo 1909. L'articolo, che provocò un vivace incidente diplomatico, diceva tra l'altro: «Gli assassini di Petrosino non saranno mai assicurati alla giustizia. E' bene che la popolazione di New York si rassegni a questo fatto. [p. 169] «Né è minimamente probabile che qualcuno dei più importanti documenti in suo possesso al momento della sua morte carte relative alle sue ricerche dei curriculum criminali degli italiani in America - arrivino mai a Mulberry Street. Infatti essi sono stati presi dal suo cadavere e requisiti nel suo alloggio, immediatamente dopo il delitto, dalla polizia di Palermo; la quale, si può ritenere con sicurezza, ha fatto e farà quanto è in suo potere per proteggere non soltanto gli assassini del detective, ma tutti quegli italiani d'America i cui precedenti penali erano proprio l'oggetto della sua investigazione. «Questo non significa necessariamente che la polizia di Palermo sia stata complice attiva degli assassini di Petrosino, ma significa che essa non intende né osa alzare un dito contro di loro. Ciò sarebbe contrario al suo particolare senso dell'onore e del dovere, oltre al fatto che attirerebbe - come essa sa bene - ogni sorta di mali sui suoi membri e sulle loro famiglie. Similmente influenzati saranno i magistrati incaricati di far luce sul caso, ed è dubbio che qualcuna delle persone arrestate sia effettivamente connessa con la tragedia. «Giudicando in base alle esperienze del passato, è probabile che arrestati siano del tutto innocenti, e che il loro più o meno breve imprigionamento, anzi, sia dovuto proprio al fatto che sono incorsi nella collera della Mafia, la quale approfitta dell'occasione per punirli e fare loro sentire il peso della sua potenza. Queste persone possono ritenersi fortunate se la Mafia non decide di produrre delle false testimonianze che le facciano apparire responsabili della morte di Petrosino; in questo caso, a pagare saranno degli uomini assolutamente innocenti, se non di ogni delitto, certo di questo omicidio in particolare. «Tutto ciò potrà suonare bizzarro, ed io sono perfettamente consapevole che queste dichiarazioni saranno trovate ridicole dai funzionari italiani che rappresentano all'estero il loro Governo. Essi sanno bene infatti che costerebbe loro il posto l'ammettere che esistano tali cose quali la Mafia e la Camorra. Si insegna loro invece ad insistere sul fatto che tali società od associazioni segrete a scopo criminale sono divenute da molto tempo null'altro che dei miti, sopravviventi solo nell'immaginazione di stranieri e di fantasiosi giornalisti, che dipendono per il loro sostentamento dall'invenzione di trame romanzesche. «Ma il Senatore Costanzo Codringhi, proveniente dall'Italia settentrionale, che per la sua integrità e coraggio era stato nominato personalmente dal fu Re Umberto suo alto Commissario in Sicilia all'espresso scopo di cancellarvi la Mafia, fu spinto a ritirarsi da forze politiche ancora più potenti del suo sovrano. Codringhi non [p. 170] si ritirò, d'altra parte, prima di essersi convinto della vanità del suo compito, poiché non soltanto l'intera popolazione dell'isola era coalizzata in difesa della Mafia, ma questa comandava perfino sull'appoggio e sulla buona volontà degli alti funzionari locali, e per di più anche sul Consiglio dei Ministri Pagina 78
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt pesando con la sua influenza ed i suoi ordini su ciascun deputato e senatore siciliano nella Legislatura Nazionale. Il Senatore Codringhi emerse pochi anni fa dal suo isolamento per testimoniare al processo di Palizzolo, per l'assassinio del Marchese Emanuele Notarbartolo, ed in tale occasione parlò come segue, sotto giuramento, della Mafia: ««Essa esercita la sua velenosa influenza su tutto in Sicilia. Tutti la temono... Ed allo scopo di proteggere i propri beni e la propria persona, la gente è costretta a sottomettersi ai suoi ordini... Il suo potere non conosce ostacoli neppure dinanzi al Governo. Leggete la descrizione dei Bravi nei Promessi Sposi ed avrete una vaga idea della potenza della Mafia.»» Nel frattempo, il «New York Herald» non aveva perduto occasione per esaltare l'eccezionalità dei propri «servizi in esclusiva» Ecco cosa scriveva il 14 marzo a «cappello» di un ampio resoconto sulle indagini che si svolgevano a Palermo: «Il «New York Herald» ha battuto il primato giornalistico di questi mesi con il resoconto dell'assassinio del tenente Petrosino. Nessuno degli altri giornali del mattino di ieri aveva una riga su questo delitto. Solo i giornali del pomeriggio hanno ripreso la notizia pubblicandola a grandi caratteri. Perfino alla Centrale di polizia nessuno era informato dell'assassinio fino a quando, alle ore 10 di ieri, non giunse un cablogramma del signor Bishop, console degli Stati Uniti a Palermo.» Stranamente, nessun giornale americano rilevò in quei giorni l'inopportunità della nota rivelazione dell'assessore Bingham (pubblicata anche questa in esclusiva dall'«Herald») a proposito della missione segreta di Petrosino in Italia. Tuttavia, il rifiuto da parte di Bingham di commentare la morte del poliziotto, sta a dimostrare che il capo della polizia di New York doveva avvertire un certo imbarazzo. Ma se la gravità dell'episodio non fu sottolineata dalla stampa americana, la polizia italiana (anch'essa ormai impegnata a scaricarsi il più possibile delle responsabilità) [p. 171] non mancò di deplorare con la massima severità quella sconcertante indiscrezione. I giornali italiani le fecero eco. Ignorando che fosse stato lo stesso Bingham a fornire l'informazione, si esternò il sospetto che l'annuncio dell'«Herald» sul viaggio segreto di Petrosino in Italia avesse avuto il preciso scopo di mettere in allarme la mafia siciliana. A proposito di questo scambio di accuse fra le due polizie interessate al caso, ecco quanto scrisse all'assessore Bingham un americano di nome A. H. Russel, che si trovava in quei giorni a Palermo. La lettera originale è tuttora conservata nell'archivio della polizia di New York. Palermo, 17 marzo 1909 «Egregio signore, «forse quanto le scriverò in merito al caso Petrosino non le dirà nulla di nuovo al momento in cui riceverà questa mia, ma l'ultimo numero dell'edizione di Parigi del «New York Herald» scrive che i funzionari di polizia di Palermo non la tengono informata. «Il ritaglio che le accludo, e che è del 14 u.s., dà quasi parola per parola la notizia come apparve sul giornale «Il Mattino» di Napoli lo stesso giorno, ma fu in realtà stampato la sera precedente. Le mando anche alcuni estratti successivi di articoli del «Mattino» «E' stata espressa grande perplessità per il fatto che la «Mano Nera» fosse a conoscenza dei movimenti di Petrosino, tanto più che viaggiava sotto falso nome. Quanto all'«Herald», esso si fa un gran merito per la sua scoperta, per il record battuto nel dare per primo la notizia del delitto. Ma se per questo, dal punto di vista giornalistico, esso può essere lodato, io ritengo che debba essere severamente biasimato per il fatto che fu proprio l'«Herald» a rendere di pubblica ragione la notizia segreta del progettato viaggio di Petrosino in Sicilia. «La copia dell'«Herald» che le invio, del 14 marzo u.s. edizione di Parigi, contiene, evidentemente come un vanto dell'impresa giornalistica, il testo di un articolo del 20 febbraio u.s. in cui si dice tutto su tale progettato viaggio. Non occorreva un particolare acume ai malintenzionati, quale che sia in realtà la loro Pagina 79
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt organizzazione, per seguire Petrosino dopo un tale avvertimento. «Poiché non è possibile pensare che l'agente abbia voluto dare pubblicità al suo viaggio per poi assumere un altro nome, mi pare probabile che la notizia sia stata spifferata da qualche elemento di fiducia del vostro servizio segreto. E' accaduto, insomma, come per [p. 172] i movimenti di guerra americani che, specialmente se segreti, vengono sempre annunciati dai nostri giornali in tempo per avvertire il nemico. Sarebbe assai meglio seguire i metodi dei giapponesi... «L'immediato e completo resoconto dato dal giornale di Napoli mi ha impressionato per il fatto che la stampa italiana non si distingue per immediatezza d'informazione né per compiutezza ed esattezza delle notizie. Sembrava quasi che questa volta la notizia fosse stata in anticipo pronta per la pubblicazione, e quando il «New York Herald» dette lo stesso resoconto, mi chiesi se questo giornale, con la perfezione della sua «impresa», non fosse giunto al punto di incaricare i suoi corrispondenti di seguire Petrosino a Palermo. «In Italia è severamente commentata l'inefficienza dimostrata dalla locale polizia in questo caso, poiché i funzionari erano venuti sicuramente a contatto con Petrosino e, anche se egli non voleva essere scortato, elementari misure cautelative avrebbero potuto impedire il delitto. «Le ragioni del viaggio del poliziotto erano precisamente quelle indicate dall'«Herald» del 20 febbraio u.s. e non è possibile che la polizia di Palermo abbia dato ai giornalisti notizie sulla identità del poliziotto se non era in intimo contatto con i giornalisti stessi e, forse, con gli assassini. Chissà che anche il corrispondente dell'«Herald» non faccia parte della banda? «Con distinti saluti A. H. Russel Maggiore a riposo dell'esercito» L'ex maggiore ignorava che era stato lo stesso Bingham a informare l'«Herald», e si attendeva probabilmente degli elogi per la sua encomiabile iniziativa, nonché, forse, un invito a collaborare alle indagini. Dovette qui ndi restare molto deluso nel ricevere questa freddissima risposta: New York, 1o aprile 1909 «Egregio signor Russel, «l'assessore alla polizia mi incarica di comunicarle che ha ricevuto la sua lettera con i relativi allegati. Le sue informazioni saranno tenute nel dovuto conto. Un assistente dell'assessore (firma illeggibile)» La sera del 18 marzo 1909, la salma di Giuseppe Petrosino fu trasportata dall'obitorio del cimitero dei Rotoli alla camera mortuaria dell'Albergo dei Poveri di corso Calatafimi. Qui, il professor Giacinto Vetere - giunto appositamente [p. 173] da Napoli procedette all'imbalsamazione del cadavere secondo una sua tecnica personale e segreta. La complessa operazione lo tenne occupato per circa quattro ore. Più tardi, Petrosino veniva composto in una bara con rivestimenti speciali, realizzata in previsione del lungo viaggio che avrebbe dovuto affrontare per raggiungere New York. Il mattino seguente, giorno di San Giuseppe, onomastico del poliziotto, nella chiesa annessa all'ospedale, furono celebrati i funerali alla presenza di ottanta vigili urbani comandati dal maggiore Crapa. La bara era coperta di corone e fiori inviati dal sindaco, senatore Di Martino, dalla procura generale e dalla questura di Palermo. Alle 9 il pubblico che stazionava numerosissimo fuori della chiesa fu ammesso a sfilare davanti alla salma. Il pellegrinaggio continuò ininterrottamente fino alle 14, quando venne formato il corteo funebre che avrebbe percorso il seguente itinerario: corso Calatafimi, piazza Indipendenza, corso Vittorio Emanuele, Quattro Canti, via Maqueda, via Ruggero Settimo, piazza Castelnuovo. La folla era enorme: per l'occasione, le scuole, gli uffici e le officine erano stati chiusi onde permettere una numerosa partecipazione di popolo. Dirigeva la cerimonia il console americano Bishop, che appariva nervoso. Destò molta curiosità la presenza di Pagina 80
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt una troupe cinematografica, diretta dall'operatore Lucarelli, incaricata di riprendere la scena per conto dell'ambasciata degli Stati Uniti. In testa al corteo marciavano carabinieri in alta uniforme, seguivano guardie notturne con bandiera, quindi il sindaco, il questore Ceola, il console Bishop, una rappresentanza del Circle des Etrangers di Palermo, le altre autorità cittadine, i parlamentari, la banda municipale, i pompieri, le guardie daziarie, le guardie di finanza e i vigili urbani. Il feretro, posto sopra un carro trainato da sei cavalli neri, era avvolto nella bandiera americana e affiancato da otto carabinieri. Dietro il carro si snodava un corteo lungo circa due chilometri, che era chiuso dai membri della Società garibaldina in camicia rossa e con bandiera. Delle autorità [p. 174] cittadine era assente soltanto il prefetto De Seta, che si era fatto rappresentare dal cavalier De Lanchenal. In piazza Castelnuovo, dove il corteo giunse alle 17,30, accadde un fatto strano. Secondo il programma, avrebbero dovuto pronunciare l'elogio funebre il sostituto procuratore generale Nuccio Grillo e il cavalier De Lanchenal. Ma quando i due oratori erano già saliti sul palco improvvisato per l'occasione, fu visto il console Bishop parlare in modo concitato col cocchiere del carro funebre. Un attimo dopo si udiva uno schiocco di frusta e i cavalli, incitati anche a voce dal conducente, presero il galoppo inaspettatamente dileguandosi in direzione del porto. La fuga sconcertante del carro funebre destò molta sensazione. Subito si sparse la voce che si era trattato di uno stratagemma per mandare a monte una manifestazione ispirata da un gruppo di anarchici. Ma la verità era un'altra: il console Bishop aveva preso questa decisione semplicemente per scongiurare i discorsi funebri in programma. Raggiunto il porto, la bara fu messa «a deposito» e presa in consegna dall'impiegato Settimo Codiglione. Essa rimase nel magazzino fino al 23 marzo e quindi imbarcata sul piroscafo inglese Slavonia, della Cunard Line, diretto a New York. La nave arrivò a New York il 9 aprile e i funerali si svolsero il 12 nella vecchia chiesa di St Patrick in Mott Street, dove il vescovo La Valle, vecchio amico del detective, celebrò il rito e pronunciò un elogio funebre. Concluse dicendo che Petrosino era «un uomo con uno stemma nobiliare, non su una pergamena, ma nel cuore» Nessuna personalità americana aveva mai ricevuto un così alto omaggio come quello che i newyorkesi tributarono al tenente italoamericano. Una folla immensa prese parte al corteo. La giornata fu dichiarata festiva e in ogni ufficio pubblico di New York fu esposta la bandiera a mezz'asta. La bara venne portata a spalle dalla chiesa alla sede del [p. 175] Partito repubblicano di Lafayette Street, dai più fedeli collaboratori del poliziotto scomparso. Qui fu deposta sul carro funebre mentre la banda della polizia intonava Più vicino a Te, mio Dio. Poi fu anche eseguito il Requiem di Verdi. Tutte le autorità cittadine parteciparono al corteo. Il carro funebre era seguito dalla vedova e dai familiari, da 1000 poliziotti a piedi e a cavallo, da 2000 scolari, da 60 associazioni italiane in uniforme, e da una folla di circa 200.000 persone. La manifestazione durò cinque ore e mezzo, e per tutto questo tempo il centro di New York rimase paralizzato. Dalla Quinta Avenue, dove il corteo si sciolse, il carro funebre, seguito da due compagnie di agenti a cavallo, dalla guardia d'onore e da numerose carrozze sulle quali avevano preso posto la vedova e le autorità cittadine, raggiunse il cimitero del Calvario, dove, dopo un'altra commovente cerimonia, la bara fu sepolta ai piedi di un piccolo monumento sul quale si legge: «Eretto da Adelina Petrosino in memoria dell'amato marito Joseph Petrosino, morto il 12 marzo 1909 all'età di 49 anni» Il compianto degli americani per la scomparsa del famoso detective fu generale e molto sentito. Petrosino fu commemorato anche al Senato degli Stati Uniti. Quando poi si scoprì che il poliziotto era morto povero, New York si dimostrò molto generosa con la sua famiglia. Con una sottoscrizione pubblica furono raccolti diecimila dollari e il consiglio comunale della città assegnò alla moglie Adelina una Pagina 81
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt pensione annua di mille dollari. Purtroppo, la povera vedova non ricevette in quei giorni soltanto manifestazioni di solidarietà. Ricevette anche molte lettere da parte della Mano Nera nelle quali venivano rivolte oscure minacce a lei e alla sua bambina. Per questa ragione, decise di abbandonare la vecchia casa al numero 233 di Lafayette Street per trasferirsi presso il fratello Vincent al numero 623 della Cinquantesima Avenue di Brooklyn. In questa casa, dove la vedova del poliziotto morì nel [p. 176] 1957, all'età di ottantotto anni, ha abitato a lungo la figlia di Petrosino, che è scomparsa alcuni anni fa. Dal suo matrimonio con Michael J. Burke, dipendente della casa editrice Harper, nacque Susan Ann, che ora insegna Storia all'università di Brooklyn. [p. 177] XIII L'iNCHIESTA dEL qUESTORE CEOLA Per alcune settimane, Baldassarre Ceola, questore di Palermo da meno di due anni, si trovò nell'occhio del tifone scatenato dall'affare Petrosino. Neppure l'uccisione del re Umberto I a Monza aveva messo così a dura prova il suo sistema nervoso. Perseguitato da dispacci sempre più pressanti del capo del governo (il parsimonioso Giolitti giunse addirittura ad autorizzarlo a offrire la somma di diecimila lire a chi fornisse utili indicazioni per la soluzione del caso); oppresso dagli ispettori generali di pubblica sicurezza piombati da Roma; ossessionato dal console Bishop e dall'ambasciatore Griscom, che reclamavano l'arresto dei colpevoli, egli doveva anche fare i conti con la stampa italiana e straniera che non perdeva occasione per insinuare malignamente una sua presunta complicità con la mafia. Malgrado questo, Baldassarre Ceola fece un buon lavoro. Era un funzionario integro e capace. Nato a Pergine (Trento), il 29 settembre 1846, aveva percorso una brillante carriera. Questore a Milano dal 1899, era stato promosso ispettore generale di pubblica sicurezza nel 1905. A Palermo, dove operava dal 1907, aveva già provveduto a disinfestare l'ambiente della polizia dalle infiltrazioni mafiose. Le indagini sull'assassinio di Petrosino furono da lui dirette con intelligenza e con metodo. Se poi i suoi sforzi non furono coronati dal successo, le responsabilità devono essere ricercate in ambienti diversi da quelli della questura di Palermo. [p. 178] Fin dall'inizio delle indagini, Ceola indicò ai suoi collaboratori tre ipotesi: 1. Petrosino era stato ucciso da Paolo Palazzotto o da altri «indesiderabili» che intendevano vendicarsi sia per il rude trattamento ricevuto in America sia per la loro espulsione dal paese. 2. Petrosino era stato condannato a morte dalla mafia per impedirgli di realizzare il suo progetto di sbarrare ai malviventi siciliani la via d'accesso agli Stati Uniti. 3. Petrosino era stato ucciso su commissione della Mano Nera che, per via dei certificati penali che il detective andava raccogliendo, paventava l'espulsione dall'America di molti suoi affiliati. Per alcuni giorni, gli investigatori lavorarono febbrilmente in queste tre direzioni, ma fin dall'esame dei primi risultati, il questore di Palermo espresse l'opinione che le tre ipotesi iniziali potevano essere fuse in una soltanto. Petrosino, insomma, era stato ucciso per un complesso di motivi che accomunavano la vendetta personale, la sopravvivenza del «ponte nero» Palermo - New York e la salvaguardia dei capi della Mano Nera minacciati di espulsione. «La venuta del tenente Petrosino a Palermo» scrisse il questore in un suo rapporto «faceva paura a troppa gente e minacciava troppi interessi. Per questo motivo si formò contro di lui una vera e propria coalizione internazionale. D'altra parte, la trappola mortale organizzata accuratamente dagli assassini con l'ausilio di falsi confidenti che riuscirono a convincere l'ingenuo detective di poter fare a meno della collaborazione della polizia, dimostra chiaramente Pagina 82
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt che la preparazione del delitto deve essere attribuita a un'associazione di criminali dotata di notevoli possibilità.» Baldassarre Ceola era arrivato a questa conclusione sulla base di una serie di deduzioni ricavate dai primi accertamenti e anche da segnalazioni giunte dagli Stati Uniti. [p. 179] Ora, infatti, Ceola era in grado di rispondere alla classica domanda: «a chi giova?», che si era posto fin dal primo momento, davanti al cadavere di Petrosino riverso sul marciapiede di piazza Marina. La morte del poliziotto giovava naturalmente alla mafia, che si sentiva minacciata nei suoi disegni di espansione in America, ma giovava singolarmente anche a un numero notevole di personaggi. Giovava a Vito Cascio Ferro, per il quale l'arrivo di Petrosino e l'eventuale riapertura del «caso del barile», di cui doveva ancora rispondere alla giustizia americana, poteva significare la fine della sua tranquilla e redditizia «rispettabilità» Giovava a Giuseppe Morello, Giuseppe Fontana, Ignazio Lupo e ad altri capi della Mano Nera per cui erano in corso delle pratiche di estradizione che, con la sua visita a Palermo, Petrosino avrebbe sicuramente portato a buon fine. E giovava a Paolo Palazzotto e a tutti gli altri «indesiderabili» che aspiravano a tornare negli Stati Uniti, e che potevano supporre di facilitare il proprio rientro eliminando l'uomo che rappresentava il principale ostacolo. Quanto a Carlo Costantino e Antonino Passananti, il questore era ancora incerto sulla parte da essi sostenuta. Potevano, infatti, essere dei sicari inviati appositamente a Palermo, come potevano essere dei semplici malviventi che, rimpatriati per godersi il gruzzolo malguadagnato, avevano partecipato al delitto nella convinzione che Petrosino fosse venuto in Sicilia per acciuffarli. A fugare i residui dubbi nella mente di Ceola circa le cause e le modalità del delitto, giunsero da New York tre lettere anonime. Queste lettere hanno grande importanza, anche se la mancanza della firma impone le dovute riserve. Esse furono scritte nei giorni immediatamente successivi al delitto (la prima porta addirittura sul timbro postale la data del 13 marzo, ossia fu compilata poche ore dopo l'annuncio della morte del poliziotto) Di conseguenza è [p. 180] da escludere che gli autori fossero influenzati dalle ipotesi in seguito elaborate dalla stampa. Ecco la prima: New York, 13 marzo 1909 «Illustrissimo signor Questore, «su di voi cade la responsabilità dell'assassinio del povero Petrosino, perché voi, sapendo la sua alta missione, non lo faceste mai accompagnare dai vostri dipendenti. «Con ciò si sarebbe evitata una immensa catastrofe. «In ogni modo, cosa fatta capo ha. Voglio solo dirvi che gli organizzatori di tale assassinio furono: Giuseppe Morello, capo della «Mano Nera» Giuseppe Fontana, assassino del marchese di Notarbartolo. Ignazio Milone. Pietro Inzerillo, proprietario della bettola «Stella d'Italia» E i due fratelli Terranova, fratellastri di Giuseppe Morello. Tutti della «Mano Nera», tutti pericolosissimi. «L'incarico fu da loro affidato al collega Vito Cascio Ferro, di Bisacquino, di cui il Petrosino, desideroso di arrestarlo, portava sempre indosso la fotografia. «Tutto ciò è quanto posso dire. Segretezza e non altro. Un onesto siciliano «P. S. Ho scritto una lettera uguale anche al Ministro dell'Interno.» Qualunque importanza si voglia dare a questa segnalazione, è rimarchevole il fatto che essa contiene un'accusa precisa contro Vito Cascio Ferro, il cui nome non solo non era ancora apparso sui giornali, ma neppure era stato ancora preso in considerazione dalla polizia. Tre giorni dopo, lo stesso anonimo scriveva a Baldassarre Ceola una seconda lettera: New York, 16 marzo 1909 «Signor Questore, «vi confermo la mia raccomandata di giorni orsono. Badate che la congiura di assassinare il povero Petrosino fu tenuta a New York e fu Pagina 83
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt mandato l'incarico a Vito Cascio Ferro, di Bisacquino, e a Ignazio Lupo, di Palermo. (1) Questi due delinquenti erano implacabili nemici di Petrosino e furono il terrore di New York. Il complotto fu ordito a [p. 181] New York e i principali organizzatori sono: Giuseppe Morello, cognato di Ignazio Lupo, Gioacchino Lima, pure cognato di Morello, Ignazio Milone e i fratelli Terranova. Essi sono i più terribili assassini di New York avendo consumato omicidi anche in pieno giorno. La polizia conosce bene tutti questi signori. Essi si tassarono per scudi 50 ciascuno onde mandare due sicari per assassinare Petrosino, ma sembra che all'ultimo momento abbiano cambiato idea. «Date retta a me: battete questa strada e arriverete alla meta. Non incolpate altri. Che andassi all'elemosina se non vi scrivo il vero. Oggi a New York non è un mistero per nessuno. Molti affiliati della «Mano Nera» ne parlano con vanto. Un onesto siciliano» Anche questa seconda lettera conteneva un nuovo elemento che non poteva essere attribuito alla fantasia dell'autore né all'influenza della stampa: ossia l'accenno ai due sicari che avrebbero dovuto partire per l'Italia. In quel momento, infatti, i giornali non avevano ancora parlato di Costantino e Passananti e, di conseguenza, l'anonimo aveva evidentemente raccolto delle voci che circolavano a Little Italy. Intanto un'altra lettera anonima di autore diverso, ma comunque importante, partiva dall'America diretta al questore di Palermo. Curiosamente, essa è scritta in dialetto, anche se l'autore dimostra una certa familiarità con la penna. Probabilmente si tratta di un italoamericano abbastanza istruito, ma che usa il dialetto imparato dai genitori. Brooklyn, 16 marzo 1909 «Signuri Questuri, «mi dispiaci la morti di Petrosino perché era troppo bravu e perciò vi fazzo sapiri che un certo Paolo Orlannu era troppo nemicu di Petrosino perché è lu capo della mafia di Brooklyn mentre prima era lu capu della mafia di Tunisi. Da ca lo mannaru via e vinni a Brooklyn avvi la casa al n. 32 di Hopkins stritta. Lui fici ammazzari issu da due Partinicoti che spariru da Brooklyn perché ficiru bancarutta e si portarono via tanti dinari. Petrosino li cercava. Issi lasciaru tuttu lo vino del loro store a chistu Paulo [sic] Orlannu e se non mi vuliti cridiri scrivete a Tunisi e vidriti che è la verità. Putiti scriviri a Brooklyn per li due Partinicoti che si chiamano A. Passananti e l'atru Carlo Costantino, Savannah 593, Husking a.v. Un siciliano onorato» [p. 182] Unito alla lettera - in cui si indicavano per la prima volta con nome e cognome i due sicari a cui si accennava nella precedente - c'era un pezzo di giornale, edito a Filadelfia, con un'etichetta arancione che portava scritto a stampa: «A. Passananti, 593 Finslimg» Queste tre lettere anonime furono le uniche, fra le migliaia giunte da ogni parte del mondo, a essere prese in considerazione dalla polizia. Va anche detto che, a causa del lungo tragitto, esse giunsero a destinazione il 1o di aprile, ossia quando Ceola riteneva di avere concluso l'inchiesta. Esse quindi non rivelarono fatti nuovi, ma confermarono invece la validità della tesi sostenuta dalla polizia. Il questore di Palermo, infatti, era ormai convinto di essere riuscito a risolvere il caso. Egli era giunto alla conclusione che il «cervello» del complotto doveva essere Vito Cascio Ferro coadiuvato da Carlo Costantino e Antonino Passananti. I tre erano amici ed erano stati visti insieme prima del delitto. Inoltre si sapeva che Costantino (oltre il famoso telegramma a Morello: «Io Lo Baido lavoro Fontana») aveva comunicato in altre occasioni con il capo della Mano Nera. Sempre secondo Ceola, era stato don Vito a organizzare il delitto sfruttando la disponibilità di uomini e di mezzi che la sua posizione di capomafia gli consentiva. Era anche certo che gli altri tredici pregiudicati fermati dalla polizia subito dopo il delitto avevano preso parte all'operazione, chi fingendosi collaboratore di Pagina 84
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Petrosino, chi favorendo la fuga degli uccisori e chi, infine, per fare semplicemente confusione indirizzando la polizia su false piste. Il 2 aprile 1909, quando Baldassarre Ceola si accinse a compilare il suo rapporto conclusivo, mancavano ancora all'appello Antonino Passananti, che si era reso irreperibile la sera stessa del delitto, e Vito Cascio Ferro, che era scomparso da Bisacquino. La loro assenza deponeva comunque a loro danno. Ecco il testo del rapporto che il questore indirizzò al presidente della sezione d'accusa del tribunale di Palermo: [p. 183] «Già da qualche tempo risultava a codesta Questura che il pericolosissimo pregiudicato Vito Cascio Ferro, di Accursio e di Ippolito Santa, nato il 25 giugno 1862, era ricercato dalla polizia di New York quale autore, con altri, dell'assassinio di certo Benedetto Madonnia, il cui cadavere fu trovato dentro un barile tagliato a pezzi. Ora, da notizie giunte da New York, risulta che Petrosino intendeva visitare anche il comune di Bisacquino dove il Cascio Ferro ha la sua residenza. E poiché è notorio, anche perché il «Giornale di Sicilia» occupandosi a suo tempo del menzionato delitto accennò all'accusa elevata contro Cascio Ferro (allora erroneamente indicato per Cassa Ferro), aggiungendo che del caso era incaricato il tenente Petrosino, non sarebbe improbabile che il prementovato funzionario intendesse recarsi a Bisacquino proprio per occuparsi del suddetto pregiudicato il cui nome, d'altra parte, figura a chiare lettere nel suo taccuino. «Il Cascio Ferro, di cui si allegano i precedenti, emigrò in America nel 1901 per sfuggire alla vigilanza speciale e ne tornò nel 1904 (ossia dopo la consumazione del «delitto del barile») destando meraviglia per la sua improvvisa ricomparsa a Bisacquino. «Ora, egli risulta notoriamente affiliato alla cosiddetta «alta Mafia»; ha estese relazioni nei comuni limitrofi nonché nei circondari di Bivona, Sciacca e Palermo ove controlla i pregiudicati più terribili. In questa città egli viene con frequenza, dimorandovi anche per parecchi giorni. Quantunque non risulti avere fonti di reddito, mena vita dispendiosa frequentando teatri e caffè e giocando presso questo Circolo dei Civili somme molto rilevanti. Pertanto si ritiene che nelle sue perigrinazioni, durante le quali, per la sua non comune scaltrezza, riesce difficile farlo sorvegliare, egli possa organizzare impunemente i suoi reati. «Il Cascio Ferro vorrebbe far credere che i suoi mezzi gli provengono dall'opera di mediatore da lui prestata nella vendita delle derrate per conto dell'onorevole De Michele Ferrantelli e del barone Inglese che lo onorano della loro amicizia e protezione. Nei giorni scorsi, prima delle elezioni politiche, il surripetuto Cascio Ferro si allontanò da Bisacquino e vi rientrò il 18 marzo facendo intendere di essere stato impegnato nei comuni del collegio elettorale di Burgio e Bivona per lavorare alla riuscita della candidatura del prefato on. De Michele. Da allora è scomparso. «Poiché non è stato possibile accertare con precisione dove egli si trovasse il giorno in cui fu ucciso Petrosino, e pure ammettendo che egli sia stato in giro nei comuni anzicennati per il motivo suespresso, non è da escludere che il giorno del delitto egli possa essersi recato a Palermo per la sua organizzazione o per commetterlo egli stesso, ripartendo [p. 184] immediatamente per Burgio onde costituirsi un alibi. Risulta ancora che egli, quando viene a Palermo, prende talvolta alloggio all'Albergo Belvedere, sito in piazza San Francesco, in prossimità di piazza Marina, ma quasi sempre, per non lasciare traccia del suo passaggio, trova alloggio presso amici e protettori. «Per quanto riguarda gli altri nominativi elencati nelle due lettere anonime, firmate «un onesto siciliano», già inviate al vostro esame, credo sia mio dovere riassumere la biografia penale di alcuni degli individui cui si fa cenno. «Il Giuseppe Fontana, notorio mafioso più volte ammonito e condannato per grassazione, rapine, ecc. fu direttamente accusato quale autore principale dell'assassinio del commendatore Notarbartolo. Emigrato, in seguito, in America è considerato dalla polizia locale un malvivente terribilissimo. Gli si attribuiscono tre delitti e si ritiene che viva di estorsioni e di ricatti. La polizia Pagina 85
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt ritiene altresì che la birreria posseduta a New York da Fontana e da Ignazio Milone, sia un luogo di riunione degli affiliati della «Mano Nera» Sono da tempo in corso le pratiche per la sua espulsione dagli Stati Uniti. Si deve aggiungere infine che, sibbene dal certificato penale pervenuto da codesta ill.ma Presidenza del Tribunale, non risulti che una sola imputazione dalla quale peraltro figura assolto per insufficienza di indizi, dagli atti del mio Ufficio le imputazioni mosse al Fontana risultano assai più numerose. «Il Giuseppe Morello, da Corleone, emigrato da parecchi anni in America, è stato più volte condannato per fabbricazione e spaccio di banconote false. Dall'America fu segnalato più volte come responsabile di gravi reati. Devo aggiungere che, secondo il sottoprefetto di Corleone, Morello non sarebbe estraneo all'omicidio di Petrosino essendo esso avvenuto in coincidenza con le pratiche per la di lui espulsione dall'America che sarebbe sicuramente avvenuta appena Petrosino avesse accertato l'esistenza di una condanna a 6 anni di reclusione emessa dal Tribunale di Messina nel 1894 e dal Morello mai espiata. «Ignazio Lupo, di Rocco e di Saitta Onofria, di anni 32, da Palermo, è tuttora ricercato dalla polizia italiana per l'uccisione di certo Salvatore Morello. Sul suo conto sono in corso le pratiche di espulsione da parte della polizia americana. Anche gli altri nominativi elencati dall'anonimo nelle sue due lettere corrispondono a pregiudicati che si trovano in posizioni analoghe a quelle suaccennate. «Di conseguenza, come già espressi negli altri rapporti, la causale dell'uccisione di Petrosino deve ricercarsi principalmente nel timore enorme che la sua preannunziata gita in quest'Isola deve avere prodotto fra i numerosi delinquenti siciliani responsabili di gravi [p. 185] reati, rimasti finora impuniti, che si sono rifugiati negli Stati Uniti, così come fra quelli che sono fuggiti di là in Italia per sottrarsi alle ricerche di quella polizia. «Per essi, non vi ha dubbio, il viaggio di Petrosino, di cui i giornali di New York diedero dettagliate notizie molti giorni prima, rappresentava un imminente gravissimo pericolo. Di conseguenza fu decisa e organizzata con feroce astuzia la di lui soppressione. «E il truce misfatto, che impressione enorme destò ovunque, sarebbe rimasto avvolto nel mistero più profondo, anche in omaggio a quel non mai abbastanza deplorato e deplorevole principio di omertà, se il sequestro della copia del telegramma spedito da Partinico dal Costantino Carlo al Morello Giuseppe di New York: «Io Lo Baido lavoro Fontana», non avesse gettato uno sprazzo di vivida luce nel regno tenebroso delle ricerche. «Quel breve telegramma di quattro parole soltanto fu una rivelazione ed assunse importanza eccezionale quando furono identificati lo speditore e il destinatario e quando, a loro riguardo, vennero assodate le gravi circostanze di fatto, consacrate nei precedenti rapporti da me inviati. «Carlo Costantino e Antonino Passananti tornarono improvvisamente dall'America cercando di giustificare il loro inaspettato ritorno con la scusa di essersi così voluti sottrarre al pagamento di alcuni piccoli debiti, mentre entrambi portavano in Italia grosse somme di denaro e mentre, appena poco tempo prima, il Costantino aveva divisato di stabilirsi definitivamente a Brooklyn dove si era fatto costruire una casa di proprietà arredata con mobili e velluti di lusso. «Costantino, che per sua stessa ammissione viaggiò sotto falso nome, afferma di essere sbarcato a Le Havre, mentre a noi risulta che scese a Napoli. Interrogato a proposito del misterioso telegramma, non ha voluto spiegare perché non lo firmò e perché rifiutò di dare il proprio indirizzo all'ufficio telegrafico. Circa il testo misterioso ha cercato di fare intendere che egli doveva acquistare vino assieme a un certo Lo Baido per incarico del Fontana, ma poi non sa spiegare perché ha indirizzato il telegramma al Morello (che afferma di non conoscere neppure di vista) invece che al Fontana. Inoltre, per quante ricerche fatte, non è stato rintracciato alcun Lo Baido che si occupi di vino e che sia conosciuto dal Costantino. «Interessanti sono alcune fotografie sequestrate al Costantino, in Pagina 86
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt una delle quali si vede il prospetto di un negozio di New York intestato alla ditta «Pecoraro-Lo Baido» Io nutro infatti il sospetto che il Lo Baido della ditta «Pecoraro-Lo Baido» di New York, e il Lo Baido del telegramma, sia in realtà Antonino Passananti che, forse, come è [p. 186] d'uso in America, si nascondeva sotto questo nome. (2) Prove comunque non ne ho trovate e, pel momento, non posso quindi escludere che possa trattarsi di altra persona. E' degno tuttavia di nota il fatto che Passananti è scomparso la mattina del 12 marzo, giorno in cui a Palermo fu ucciso Petrosino. Devo inoltre segnalare a questo proposito la lettera anonima inviata da Brooklyn, che è già di vostra conoscenza, in cui si afferma chiaramente che i «partinicoti» Costantino e Passananti furono incaricati di compiere il delitto. «Per quanto riguarda Vito Cascio Ferro pregiomi significare che i miei agenti lo stanno cercando. «Riassumendo: abbiamo la prova che Cascio Ferro temeva di essere ricercato da Petrosino; la conferma della di lui scomparsa da Bisacquino e il noto appunto scritto a lapis dal tenente americano in cui il Cascio Ferro è indicato come un terribile criminale. Abbiamo ancora l'esito delle perquisizioni eseguite al domicilio di Costantino, le di lui dichiarazioni e giustificazioni risultate false; la scomparsa del Passananti il giorno del delitto; una lettera anonima diretta al console americano Bishop che indica Morello quale organizzatore del delitto; i tre anonimi a me diretti nei quali vengono chiamati in causa Cascio Ferro, Costantino e Passananti. «Tutte queste documentazioni, già assai gravi di per se stesse perché basate su dati di fatto, raggruppate insieme si completano perfettamente ed assumono forza di prova diretta, evidente e indiscutibile. «Circa il movente del delitto credo che, dopo quanto ho esposto, si possa affermare che luce completa sia stata raggiunta. «Veniamo ora agli esecutori materiali dell'omicidio. Due furono sicuramente gli autori diretti: molti sono stati i cooperatori e i complici, necessari non solo per la consumazione del reato, ma anche per agevolare la fuga degli esecutori. Costoro credo di averli tutti individuati fra le settanta persone che feci arrestare. Si tratta di tredici pregiudicati, oltre naturalmente Cascio Ferro, Costantino e Passananti, di cui allego l'elenco e che pregiomi di denunciare a codesta Ill.ma Sezione di accusa quali responsabili dell'uccisione del tenente Giuseppe Petrosino. Il Questore Baldassarre Ceola (3)» NOTE: (1) Lupo era infatti scomparso in quei giorni da New York, ma sarà poi rintracciato a Paterson, nel New Jersey. (2) Peccato che il questore Ceola ignorasse che Costantino, fin dall'epoca del «delitto del barile» si faceva chiamare Pecoraro. In tal caso il suo sospetto si sarebbe trasformato in certezza. (3) Il rapporto del questore di Palermo, ricco di felici intuizioni e di prove documentate, convinse i magistrati della Sezione d'accusa a far tramutare in arresto il fermo dei tredici sospetti, mentre due mandati di cattura venivano spiccati nei confronti di Cascio Ferro e di Passananti. [p. 187] XIV «PER iNSUFFICIENZA dI iNDIZI» Don Vito Cascio Ferro fu arrestato a Bisacquino il pomeriggio del 3 aprile. Egli era appena sceso dal treno e si accingeva a raggiungere in carrozza la propria abitazione quando si vide venire incontro il vicecommissario Di Stefano, accompagnato dal delegato Salvatore Ponzio e dalla guardia scelta Benedetto Chillé. «Non sapevo di essere ricercato» dichiarò quando gli fu mostrato il mandato di cattura «altrimenti mi sarei presentato spontaneamente.» Don Vito, che aveva avuto venti giorni per prepararsi a quell'incontro e per studiare la propria linea di difesa, appariva molto sicuro di sé. Pagina 87
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt «Sono certo che si tratta di un equivoco» aggiunse abbozzando un sorriso conciliante «comunque consideratemi pure a vostra disposizione.» «Vi cerchiamo da molti giorni, don Vito» gli disse il delegato Ponzio. «La vostra assenza ci aveva messo in allarme. Dove siete stato?» «A Burgio, naturalmente; è là che abito da alcuni mesi e proprio in questi ultimi giorni ho iniziato le pratiche per costituirmi il domicilio in quel comune.» «Ma non è qui che avete casa?» chiese Ponzio. «Certo, signor delegato» disse don Vito col solito tono suadente. «Qui c'è mia moglie che, poverina, da alcuni anni è paralizzata, c'è il mio vecchio padre e, come certamente a voi non sarà sfuggito, a Bisacquino ho anche un'amante e un figlio naturale... Ma consentitemi di dire che tutto [p. 188] questo non mi impedisce di eleggere il mio domicilio dove meglio mi aggrada.» «A Burgio avete una casa?» insistette il delegato Ponzio, che non riusciva a intuire dove don Vito intendesse andare a parare. «No, non ancora» replicò con calma l'interpellato. «Ma intendo eleggere il mio domicilio presso l'onorevole De Michele Ferrantelli. Come saprete, io lavoro da tempo per lui. Ho contribuito, sia pure modestamente, alla sua elezione nei giorni scorsi e in cambio egli mi onora della sua alta protezione.» Il vicecommissario Di Stefano, allarmato per la piega che stava assumendo la conversazione, cercò di interromperla. «Di queste cose» disse «sarà meglio parlarne a Palermo, davanti al questore.» «Servo vostro» assentì don Vito accennando un leggero inchino, ma subito aggiunse con voce fattasi improvvisamente autoritaria: «Comunque sia ben chiaro che io, dal 6 al 14 marzo, ho sempre dimorato, giorno e notte, in casa dell'onorevole De Michele. Lui stesso potrà confermarlo se sarà necessario» «Un alibi di ferro» commentò il delegato Ponzio in tono non meno ironico che scoraggiato. Mentre Vito Cascio Ferro veniva tradotto a Palermo, il vicecommissario Di Stefano procedeva a una minuziosa perquisizione della sua casa. Al termine del lavoro egli effettuò il sequestro del seguente materiale: - Una fotografia eseguita a New York raffigurante: Carlo Costantino, Giuseppe Morello e moglie, Vito Cascio Ferro, Antonino Tamburello, Giuseppe Zito, Mario Maniscalco, l'ingegner Domenico Pasqua Ragusa, Giacomo Ganci, Francesco Aiello, Giuseppe Fontana, Aurelio Bonomi, Paolo Valzer e moglie. - Una cartolina illustrata proveniente da New York con la scritta: «Affettuosi baci e prospero avvenire dal tuo amico Riccobono» [p. 189] - Una fotografia con due donne e una dedica in inglese firmata Tillie. - Una lettera proveniente da Brooklyn, del seguente tenore: «Caro don Vito, vi dono notizie della mia perfetta salute, come spero sentire di voi. Vorrei sapere come è finito il nostro fatto: lo voglio tutto raccontato. Vi saluto immensamente, Vincenzo Di Leonardo» - Una lettera da Ribera, in data 29 marzo 1909, dal seguente contenuto sibillino: «Affezionatissimo compare signor don Vito. Mi farà per preghiera di mandarsi a prendere il suo cane. (1) Io mi trovo frastornato e il cane vuol svago perché è giovane mentre io vorrei trovare chi fa svagare me con questo tempo che mette sacche gonfiate. Suo sempre affezionato compare Emanuele Geraci». - Un biglietto da visita di «Lo Baido Vito, di Domenico, Brooklyn» - Un biglietto di viaggio New Orleans-Palermo in data 28 settembre 1904. - Un biglietto con quattro righe scritte in inglese, firmato Sophie Bresci. (Si trattava della moglie del regicida. Purtroppo il biglietto è scomparso e nessuno pensò mai di tradurlo. E' anche curioso che Baldassarre Ceola, pur avendo avuto a che fare con Gaetano Bresci a Monza, abbia trascurato di approfondire quale misterioso legame unisse don Vito alla vedova dell'attentatore.) Più tardi, a Palermo, Cascio Ferro fu perquisito e un funzionario Pagina 88
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt trascrisse due foglietti trovati nelle sue tasche. Ma non si trattava che di appunti presi dal versatile don Vito per perorare la causa di suoi protetti che s'erano messi nei guai per abigeato. Ecco comunque il curioso testo: «Giuseppe Voltaggio «Precedenti buoni. Racconta il fatto sinceramente. Il maresciallo ritiene dica la verità. Prima oppone rifiuto. Perché? Manca il preaccordo. [p. 190] Precedente concerto. Contraffazione di marchio. Tusitante [?] art. 366. Conferma buona fede. Non aveva animali. Lo Bianco non dà ordine di allontanare gli animali. Sua Eccellenza Toto è vicino.» «Antonio Lombardo «Due imputazioni: falso e ricettazione doppia. Niente falso. Bolletta lire 158. Giumenta di legittima provenienza. Ricettazione pecore. Perché gli fu sequestrata. Rapina. Restituzione giumenta e bolletta. Ricettazione. Buona fede. Comprata in fiera. Contraddizione verbale. Dolo fiera. Calcolo animali n. 115 pecore, 24 agnelli: un terzo o bono mitre [?] Prezzo lire 12,50. Capre n. 32, abbono un terzo, uguale lire 8,50. Lire 1500 - 1500 e più, lire 1610. Allontanamento campagna. Avuta lettera e telegramma arrestarono. Niente sorveglianza!!! Forte. Pizzo. Lo Bello. Russo. Fino a 15-16. Da uno a quattro anni. Precedenti buoni (porto d'armi).» Anche durante il suo interrogatorio in questura, don Vito Cascio Ferro si mostrò perfettamente sicuro di sé. Ripeté di essere rimasto presso l'onorevole De Michele Ferrantelli dal 6 al 14 marzo. Precisò che il 15 si era recato a Sciacca, sempre in compagnia dell'onorevole, per occuparsi di un certo appalto di lavori ferroviari e che, infine, era rientrato a Bisacquino ignorando di essere ricercato dalla polizia. Non c'è bisogno di dire che l'onorevole De Michele Ferrantelli, quando venne interrogato a sua volta, confermò sul suo onore l'alibi presentato da don Vito. Successivamente furono mostrate all'arrestato le fotografie e i documenti trovati a casa sua, ma egli non volle firmare il verbale di sequestro. «Potreste averli trovati altrove» disse. Invitato a dare chiarimenti in ogni modo sulla fotografia in cui appariva al fianco di Giuseppe Morello, don Vito disse di non conoscere nessun Morello. «Non ricordo» aggiunse «in quale occasione fu eseguita questa foto. Evidentemente, questo signore che voi dite essere Giuseppe Morello è solo una delle tante conoscenze casuali che feci durante il mio soggiorno a New York.» In conclusione, egli rifiutò anche di firmare l'innocuo verbale di interrogatorio. «Non intendo firmare alcun documento» dichiarò con [p. 191] fermezza «come non intendo fare altre dichiarazioni. Se avrò da dire qualcosa, lo farò davanti all'autorità giudiziaria.» Quella sera stessa, don Vito fu tradotto alle carceri dove già erano rinchiusi quattordici suoi presunti complici. Chiese una cella a pagamento, e ottenne l'autorizzazione a farsi inviare i pasti da un vicino ristorante. Se Vito Cascio Ferro sembrava molto sicuro del fatto suo, non altrettanto sicuro appariva invece Baldassarre Ceola. Il questore di Palermo era naturalmente convinto della validità della sua denuncia, tuttavia, conoscendo la Sicilia e, soprattutto, sapendo di quale pasta era l'uomo da lui fatto arrestare, aveva validi motivi per temere qualche improvviso colpo di scena che venisse a far franare il castello dell'accusa così pazientemente messo in piedi. Per questo motivo, ancora dopo l'avvio del processo istruttorio, Ceola continuò le sue indagini tendenti sia a rintracciare Antonino Passananti, sia a raccogliere ulteriori prove sulla colpevolezza dei quindici arrestati. Ma non ebbe modo di concludere il suo lavoro. Il colpo di scena da lui paventato si verificò al momento giusto, anche se in maniera non del tutto sgradevole. Il 17 luglio 1909, a quattro mesi dalla morte di Petrosino, giungeva da Roma a Baldassarre Ceola un dispaccio che gli annunciava brutalmente di essere stato esonerato dall'incarico e lo richiamava Pagina 89
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt immediatamente a Roma. Pochi giorni più tardi, lo collocarono a riposo col titolo onorario di prefetto del regno, come ricorda il nipote, professor Federico Curato di Milano. Ceola moriva il 1o aprile 1913. Per una singolare coincidenza, il 17 luglio 1909 fu una giornata decisiva anche per il capo della polizia di New York, Theodore Bingham. Già da tempo i suoi avversari, ossia la quasi totalità dei membri del consiglio comunale che avevano osteggiato la costituzione della polizia segreta, si erano coalizzati contro di lui. E ora, dopo la morte di [p. 192] Petrosino, Bingham aveva finito per perdere anche i pochi alleati. Solo ed esposto alle critiche dei suoi nemici che lo accusavano di arrivismo, di smania pubblicitaria e soprattutto di avere, con le sue dichiarazioni all'«Herald», fatto fallire sul nascere la già rischiosa impresa affidata a Petrosino, il capo della polizia di New York si presentò al consiglio comunale della città, convocato per la sera del 17 luglio, più in veste di imputato che di assessore. Egli cercò di difendersi riversando gran parte della responsabilità sull'inettitudine della polizia italiana e sull'efficienza della Mano Nera. Aggiunse che la notizia sul viaggio gli era stata carpita da un reporter dell'«Herald» che aveva ingannato la sua buona fede e concluse affermando che, in ogni caso, la Mano Nera aveva ben altri canali di informazione senza dover ricorrere alle colonne dell'«Herald» L'autodifesa di Bingham non ebbe effetto alcuno sugli ascoltatori e la loro reazione fu estremamente dura. Parlando a nome di tutti, l'assessore Doull disse: «Per quanto mi risulta, il vero assassino di Petrosino siete voi, assessore Bingham. La notizia del suo viaggio in Italia è uscita dal vostro ufficio al numero 300 di Mulberry Street, ed è in questo ufficio che deve cercarsi il responsabile della morte del valoroso tenente.» In base a un suo diritto, il sindaco di New York destituì quella stessa sera Theodore Bingham dall'incarico di capo della polizia. La sua carriera politica era così conclusa. Dopo la partenza di Ceola, la fase istruttoria del processo contro don Vito e i suoi presunti complici, prese una piega che già mostrava chiaramente come tutto si sarebbe risolto con un nulla di fatto. Nel giro di pochi mesi, tutti gli imputati furono rilasciati; chi in libertà provvisoria, chi in libertà su cauzione. Era tuttavia necessario rinviare nel tempo la conclusione dell'istruttoria affinché il caso clamoroso si sgonfiasse e l'opinione pubblica fosse distratta da altri avvenimenti. Ed è comprensibile che per gli americani, [p. 193] abituati a veder comparire gli imputati davanti ai giudici pochi giorni dopo l'arresto, queste lungaggini procedurali risultassero più che sospette. La decisione, che fu di proscioglimento per tutti, la si ebbe oltre due anni dopo, il 22 luglio 1911, ed essa non trovò la minima eco sulla stampa, in quel momento troppo impegnata dall'approssimarsi della guerra di Libia che sarebbe scoppiata due mesi dopo. Malgrado tutte le possibili ricerche fatte, non siamo purtroppo in grado di ricostruire le fasi dell'interminabile istruttoria. L'intero fascicolo processuale è infatti scomparso dagli archivi di Palermo, e, con esso, si sono volatilizzati i verbali d'interrogatorio, le testimonianze, i documenti, le prove e la requisitoria del procuratore generale. Siamo invece riusciti a rintracciare una copia manoscritta della sentenza di proscioglimento pronunciata dai giudici della sezione d'accusa del tribunale di Palermo. E' una lettura sconcertante. Tutti gli imputati furono prosciolti per insufficienza di indizi, la formula classica quando si tratta di processi a mafiosi. Eppure, dalla stessa sentenza risulta che gli indizi, a carico almeno dei tre imputati principali, erano molto consistenti. Non si capisce dunque come, in un processo di tanta gravità, gli istruttori potessero negare il rinvio a giudizio e non lasciare che fosse la Corte d'Assise a decidere circa la sufficienza o meno degli indizi stessi. «In nome di Sua Maestà Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e Pagina 90
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt volontà della Nazione Re d'Italia. «La Corte di Appello di Palermo, Sezione d'accusa, composta dai signori Nicola Nicofora, presidente, Giuseppe La Mantia e Nicola Ratti, consiglieri, il giorno 22 luglio 1911 si è adunata in camera di consiglio per deliberare sulla requisitoria del Procuratore Generale in ordine al processo contro: «Palazzotto Paolo, Ernesto Militano, Salvatore Seminara, Camillo Pericò, Francesco Pericò, Pasquale Enea, Giovanni Ruisi, Carlo Costantino, Giuseppe Bonfardeci, Giuseppe Fatta, Giovanni Dazzò, Giovanni Finazzo, Gaspare Tedeschi, Vito Cascio Ferro e Antonino [p. 194] Passananti, imputati di omicidio volontario qualificato mercé armi da fuoco, commesso in Palermo la sera del 12 marzo 1909 in persona di Giuseppe Petrosino, luogotenente della polizia di New York. «Udito il rapporto del cav. Cannada, sostituto Procuratore Generale il quale, prima di ritirarsi, lasciò sul tavolo gli atti del processo e la requisitoria scritta dal Procuratore Generale cav. Mercadante, osserva che nei primi giorni di marzo del 1909 sbarcava a Palermo Giuseppe Petrosino, luogotenente di polizia della città di New York. Egli era incaricato di una missione e primieramente doveva procurarsi qui in Sicilia una serie di informazioni e di precedenti penali riguardanti parecchi emigrati siciliani che, al di là dell'Oceano, nella grande Repubblica nordamericana, appariscono maggiormente indiziati o sospettati di essere gli autori di quei numerosi reati che per una caratteristica a loro particolare sono raggruppati sotto la denominazione di «Mano Nera», e cioè: rapine, sequestri, lettere di scrocco, getto di bombe, ecc. «Per compiere meglio la sua missione e sfuggire alle investigazioni di coloro che avevano interesse a mandare a monte il suo progetto, il Petrosino viaggiava sotto falso nome il quale peraltro egli non poteva conservare né col console americano, né con le diverse autorità italiane con cui era costretto a trattare, senza tener conto che fra i moltissimi emigranti rientrati in patria dall'America, non era impossibile, né tampoco difficile, che alcuni di loro, imbattendosi in Petrosino, lo riconoscessero. «Ed invero, risulta che fu da diverse persone riconosciuto mentre frequentava l'ufficio del console americano di Palermo. Né questa fu la sua sola imprudenza, che riesce quasi inspiegabile in un detective tanto celebrato come il Petrosino. «Sebbene il Questore di Palermo mettesse a sua disposizione degli agenti in borghese egli declinò la cortese e prudente proposta. Né questo è tutto: pur sapendo che piazza Marina è un posto di riunione di emigranti, volle prendere dimora presso l'Hotel de France e consumare regolarmente i pasti al ristorante Oreto, tanto l'uno quanto l'altro situati nella suddetta piazza Marina. «Il 12 marzo di sera, ritornato da Caltanissetta, egli andò a pranzare all'Oreto dopo di che uscì nella piazza dove fu raggiunto e investito da più di un colpo. «Lunghe e accurate indagini furono svolte per lo scoprimento degli autori del delitto. Sventuratamente, la Mafia e l'omertà che travagliano e inquinano l'animo del volgo siciliano (che nell'uccisione di un poliziotto non vede che l'esercizio di una giusta punizione), la noncuranza spiccatissima che mostrò la polizia di New York nel praticare le ricerche di cui era stata incaricata dalle autorità italiane, [p. 195] l'insufficienza del sistema giudiziario americano che in modo superlativamente inadeguato poté dare (quando lo volle) una risposta alle nostre pressanti e numerose rogatorie, tutto contribuì a mantenere il più fitto velo intorno agli autori del delitto. «Intanto, mentre venivano effettuati i fermi dei primi sospetti, le indagini venivano estese ai passeggeri che avevano viaggiato sullo stesso piroscafo di Petrosino e su quelli che erano giunti dall'America immediatamente prima e immediatamente dopo, ma l'esito delle ricerche era negativo. «A conclusione della lunga e difficile istruttoria, non sono emersi molti elementi di reità a carico degli imputati Palazzotto, Militano, Seminara, Pericò Camillo e Francesco, Enea, Ruisi, Bonfardeci, Fatta, Dazzò, Finazzo e Tedeschi, laonde per codesti imputati deve dichiararsi non luogo a procedere per insufficienza di prove. Pagina 91
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt «Contro Costantino Carlo esistono invece degli indizi di reità, ma non sembrano sufficienti per indurre la Sezione d'accusa a rinviarlo a giudizio, e lo stesso si dica per Passananti Antonino e Cascio Ferro Vito. Codesti indizi di reità, in ordine al Costantino sarebbero: la sua capacità a delinquere, la sua fuga da New York sotto mentite spoglie, il suo arrivo in Sicilia quasi contemporaneo a quello di Petrosino, la sua improvvisa fortuna, i suoi enigmatici telegrammi dai quali lo si rileva amico di due famigerati criminali siciliani residenti negli Stati Uniti e cioè: Giuseppe Morello e Giuseppe Fontana, il primo dei quali sta ora scontando una grandissima pena per ricatti e fabbricazione di moneta falsa. Tutti questi indizi che investono il Costantino sono addebitabili anche al Passananti il quale rientrò dall'America con quest'ultimo e gli fu sempre vicino durante il soggiorno in Sicilia. Inoltre, il suo nome, come quello di Costantino, figura nel taccuino rinvenuto nelle tasche del tenente Petrosino e vi è indicato come un terribile malfattore. «In ordine al Vito Cascio Ferro, che il Costantino dichiarò di non conoscere, occorre notare che contro di lui sorsero subito dei sospetti. Egli è uno dei più noti mafiosi e risulta provato che negli Stati Uniti formava, insieme ai predetti Costantino, Morello, Fontana e altri designati come capi della «Mano Nera», una sinistra congrega che era tenuta d'occhio in modo speciale dallo stesso Petrosino. E' ugualmente provato che più di una volta Costantino andò a confabulare col Cascio Ferro sia a Corleone, sia a Bisacquino, mentre lo scopo e il contenuto di questi colloqui non sono stati da essi plausibilmente spiegati. «In ogni modo, come è già stato detto, siffatti indizi non sono sufficienti per ordinare il rinvio al giudizio dei tre imputati. Pertanto il Costantino, il Passananti e il Cascio Ferro devono essere prosciolti [p. 196] dagli obblighi assunti alla loro scarcerazione, mentre deve ordinarsi la restituzione ad essi delle somme versate a titolo di cauzione.» Se questa sentenza pose ufficialmente la parola fine all'inchiesta per la morte del tenente Petrosino, il caso rimase aperto per molti anni ancora. Da ogni parte del mondo continuarono a giungere denunce, rivelazioni e confessioni relative al misterioso delitto. Queste segnalazioni, benché assai spesso contenessero elementi utili a illuminare la polizia sul conto di pericolosi malviventi, risultarono tuttavia inutili per la soluzione del caso. Esse stanno comunque a testimoniare l'enorme eco sollevata in ogni paese dall'uccisione del famoso poliziotto. D'altra parte, Petrosino era ormai entrato nella leggenda: lo dimostrano le centinaia di libri, fascicoli e album a fumetti che ebbero una diffusione mondiale e che fecero del poliziotto italiano il protagonista delle più mirabolanti avventure. Hollywood, da parte sua, gli dedicò nel 1960 anche un film: Pagare o morire, interpretato da Ernest Borgnine. Di tutte queste rivelazioni, una sola, per la verità, avrebbe dovuto essere presa in maggiore considerazione: quella che l'ex capo della Mano Nera di New York, Giuseppe Morello, fece dal carcere di Atlanta nel 1911. Ma qui occorre una breve premessa. Dopo la morte di Petrosino e la destituzione dell'assessore Bingham, il nuovo capo della polizia di New York, William F. Baker, diede incarico al vicecommissario Flynn (lo stesso che aveva collaborato con Petrosino per il «delitto del barile») di riaprire l'inchiesta contro Morello e Ignazio Lupo per la vecchia accusa di fabbricazione di dollari falsi, dalla quale erano stati prosciolti. Era questo, secondo Baker, l'unico punto debole in cui si potevano colpire i due gangster. La nuova inchiesta ebbe successo. Incredibilmente, testimoni che sei anni prima avevano manifestato al processo una totale amnesia, riacquistarono all'improvviso la memoria. Gli sforzi degli avvocati difensori non valsero a [p. 197] nulla. Giuseppe Morello fu condannato a venticinque anni di carcere, Ignazio Lupo a trenta. Entrambi furono inviati a espiare la pena nel carcere di Atlanta. In realtà, a far condannare Morello e Lupo era stata la stessa mafia di cui facevano parte. I testimoni avevano riacquistato la memoria semplicemente perché nessuno aveva loro ordinato di tacere. Lo stesso Morello dichiarò di essere vittima di un tradimento. E in Pagina 92
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt effetti, già da qualche tempo il «trono» di Morello era seriamente minacciato da pretendenti più giovani e più preparati di lui. Questi pretendenti si chiamavano Jim Diamond Colosimo, Giuseppe Masseria detto «Joe the Boss», e Johnny Torrio, padrino di un ragazzotto di nome Alfonso Capone, detto «Al» Le «rivelazioni» di Giuseppe Morello, dunque, furono probabilmente dettate dal desiderio di vendetta. Sta di fatto, comunque, che nel marzo del 1911 egli chiese di parlare col vicecommissario Flynn per dirgli tutto sulla morte di Petrosino. E disse che Passananti e Costantino, rifugiatisi in Italia per sfuggire all'arresto, avevano subito pensato che Petrosino fosse venuto in Sicilia per loro, e si erano quindi rivolti a Vito Cascio Ferro per essere protetti. Morello aggiunse che era stato don Vito ad architettare la trappola. Egli aveva dapprima fatto avvicinare Petrosino da falsi confidenti e, alla fine, aveva assunto egli stesso la parte di stool pigeon, piccione da richiamo, garantendo al detective tutta la sua collaborazione. Secondo Morello, insomma, la sera del 12 marzo 1909, Petrosino aveva un appuntamento in piazza Marina con lo stesso Cascio Ferro, ed era stato questi personalmente a ucciderlo. Giuseppe Morello fece questa rivelazione a Flynn in via confidenziale, ma gli disse anche di essere pronto a firmare una dichiarazione. Senonché il giorno dopo, informati non si sa da chi, i giornali italiani di New York pubblicarono la notizia. Verosimilmente allora, Morello ricevette in carcere minacce di rappresaglia; o ebbe altre ragioni per ritornare sulla propria decisione. Il fatto è che quando [p. 198] Flynn, accompagnato da un magistrato, tornò a fargli visita, il gangster rifiutò di firmare alcunché. Nel marzo del 1911, ossia quando l'istruttoria di Palermo non era ancora conclusa, anche i giornali italiani riportarono le «rivelazioni» di Morello. Non risulta però che esse fossero prese in considerazione dai giudici. Di altre «rivelazioni», in complesso, ne giunsero a migliaia. Alla sola questura di Palermo ne sono arrivate circa tremila. Tale voluminosa documentazione è venuta a formare un grosso dossier tuttora conservato negli archivi della questura. Il materiale in esso contenuto è spesso servito per risolvere altri casi o per ricostruire la biografia di noti delinquenti. Il vicequestore Angelo Mangano (l'uomo che arrestò personalmente Luciano Liggio) quando era impegnato in Sicilia ebbe spesso occasione di consultarlo. E così pure il capo della Squadra Mobile palermitana, dottor Mendolia, e il commissario Boris Giuliano, che a scopo di studio hanno riesaminato a fondo l'affare Petrosino. NOTE: (1) Gli investigatori sospettarono che il «cane» fosse in effetti il ricercato Antonino Passananti, ma non fu possibile dimostrarlo. [p. 199] XV LA «cONFESSIONE» dI dON VITO Molti anni dopo, quando ormai non aveva più nulla da perdere essendo - per le ragioni che vedremo - all'ergastolo, Vito Cascio Ferro disse di essere stato lui a uccidere Giuseppe Petrosino. «In tutta la mia vita» affermò «ho ucciso una sola persona e feci questo disinteressatamente.» Il che sembrerebbe implicare una pura questione di prestigio: Petrosino aveva sfidato la mafia venendo a indagare in Sicilia, toccava al capo dell'onorata società rispondergli. «Petrosino» disse anche don Vito «era un avversario coraggioso, non meritava una morte infame sotto i colpi di un sicario qualunque.» E questo significherebbe che lo uccise di persona. Ora, sebbene a nostro avviso non ci sia dubbio che Cascio Ferro fu l'organizzatore del delitto, e probabilmente anche l'esecutore materiale, bisogna riconoscere che queste dichiarazioni, insieme ad altre che egli fece verso la fine della sua vita, hanno un valore tutt'altro che indiscutibile. In primo luogo, infatti, don Vito non fece mai una confessione vera e propria, ma si limitò sempre a «lasciare intendere», col tipico linguaggio mafioso del dire e non dire, dell'alludere a fatti concreti ma in un contesto vago e Pagina 93
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt difficilmente controllabile. In secondo luogo, non solo non aveva nulla da perdere, ma, considerata la sua mentalità, aveva tutto da guadagnare: perché l'uccisione del «Nemico Numero Uno» della Mano Nera di New York dava senza dubbio lustro al suo blasone di ex capo della mafia di Sicilia. E infine, è difficile distinguere tra le dichiarazioni [p. 200] che egli fece effettivamente e quelle che gli sono state attribuite, in quanto tali dichiarazioni non vennero registrate in via ufficiale. Si era allora, infatti, alla vigilia della Seconda guerra mondiale. L'Italia fascista si vantava di avere estirpato la mafia e, nello stesso tempo, trescava con i suoi figli che, in America, si erano fatti una posizione col mitra; si proibiva che i banditi dei film americani portassero nomi italiani e, nello stesso tempo, Mussolini nominava commendatore del Regno il capo di Cosa Nostra, Vito Genovese. Fu dunque per motivi politici che si ritenne opportuno non riaprire il caso. Non si voleva dare esca alla stampa estera di riattizzare una campagna antitaliana. La notizia della «confessione» di don Vito, anche se con molto ritardo, giunse tuttavia in America. Il 6 luglio 1942, e cioè in piena guerra, il «New York Times» e il «Sun» annunciavano ai loro lettori che il «caso Petrosino» era finalmente risolto. Sotto il titolo significativo di Quando Mussolini era utile, il «Sun» riassumeva l'intera vicenda e rendeva merito al prefetto Mori che facendo arrestare e condannare Vito Cascio Ferro (sia pure per altro delitto) aveva «vendicato la morte del grande detective» Poi, a causa degli eventi bellici, la notizia non ebbe seguito. Petrosino era stato da tempo dimenticato e il mondo, in quel momento, aveva ben altro a cui pensare. Il preciso tenore delle dichiarazioni di Cascio Ferro è, come abbiamo detto, molto controverso. In ogni modo, la versione più diffusa circa l'esecuzione del delitto, generalmente accettata dagli storici della mafia, è quella secondo la quale don Vito andò a uccidere Petrosino in carrozza. Cascio Ferro, si è scritto per esempio, «era ospite quel giorno di un deputato di Palermo che dava un ricevimento per festeggiare la sua vittoria alle elezioni. A una certa ora, don Vito lasciò la casa in carrozza, raggiunse piazza Marina dove Petrosino lo attendeva, e l'uccise dopo un breve scambio di parole. Consumato il delitto, l'assassino ritornò dal suo ospite il quale, non avendo notato la sua [p. 201] assenza, confermò in seguito il suo alibi in perfetta buonafede» Questa versione, valida secondo noi nell'essenziale, contiene tuttavia un'inesattezza. Don Vito era effettivamente ospite dell'onorevole De Michele Ferrantelli, ma a Burgio, non a Palermo, e Burgio dista una settantina di chilometri da piazza Marina. La sua assenza, quindi, non fu di pochi minuti, ma di diverse ore. Di conseguenza, è lecito avanzare dubbi su questa versione. Ma quale fu la sorte dei quindici personaggi che il questore Ceola aveva denunciato per concorso in omicidio, a conclusione della sua indagine sull'assassinio di Petrosino? Possiamo rispondere a questa domanda grazie anche a una documentata inchiesta del giornalista Nicola Volpes, pubblicata dal «Giornale di Sicilia» nel sessantesimo anniversario della morte del detective. Lasciamo per ultima la storia della «decadenza e caduta» di don Vito, e cominciamo con Antonino Passananti, l'unico dei quindici che nel 1909 sfuggì all'arresto. Nell'aprile del 1911, pochi mesi prima che si concludesse il processo istruttorio, la polizia fece delle retate nella zona di Sciacca, dove si presumeva che egli fosse nascosto con il fratello Giuseppe e con Nicolò Lo Manto, fratello della sua fidanzata Rosalia. Passananti non fu trovato, ma si fece vivo poco tempo dopo a San Cipiriello, dove uccise per vendetta certo Calogero Vaccaro e ferì gravemente i fratelli di quest'ultimo, Natale e Salvatore. Per questo delitto egli fu condannato in contumacia a trent'anni, il 19 giugno 1912. Alcuni mesi dopo si ebbe un colpo di scena. In seguito a non si sa quali accordi, Antonino Passananti fece sapere che era disposto a costituirsi. E così fece, pretendendo che il delegato di Partinico, Augusto Battioni, andasse a rilevarlo in carrozza. Evidentemente, il Passananti sapeva cosa faceva quando decise di consegnarsi alla polizia. Quattro anni dopo, nell'agosto Pagina 94
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt del 1916, malgrado la condanna all'ergastolo, era infatti rimesso in libertà. Le sue tracce si perdono poi per molti anni. Nel 1926 risulta [p. 202] denunciato in stato di irreperibilità per associazione a delinquere, falso e corruzione di pubblico ufficiale. Nel 1933 si rifà vivo per chiedere la restituzione di una Fiat 514 «torpedo», targata PA 6428, che gli era stata sequestrata. Nel 1934 gli viene ritirata la patente di guida perché pregiudicato per omicidio, falsificazione di passaporti, favoreggiamento di latitanti ecc. Segue ancora un lungo periodo di silenzio poi, nel 1961, all'età di ottantatré anni, Passananti riemerge dall'oblio per chiedere e ottenere il rilascio della patente di guida. Questa tanto desiderata patente gli sarà revocata, per motivi di salute, nel 1968. Ma qualche mese dopo, il 6 marzo 1969, una breve notizia di cronaca annuncia che «il pensionato Antonino Passananti si è ucciso nella sua casa di Partinico con un colpo di pistola alla tempia» E un cronista commenta: «E' penoso pensare che si è tolto la vita quando stava per essere riammesso nella società» Passananti aveva infatti avviato le pratiche per la riabilitazione, e in un rapporto del commissario di Partinico si legge: «Non frequenta più elementi della malavita. Non è più da ritenersi individuo socialmente pericoloso» Aveva novant'anni. Gaspare Tedeschi, amico di don Vito, ebbe momenti di alterna fortuna. Schedato come anarchico e poi come capomafia di Villafrati, Mezzojuso e Baucina, riuscì anche a farsi eleggere sindaco di Villafrati. Graziato da Mussolini nel 1926, gli inviò il seguente telegramma: «Oggi stesso scarcerato nella gioia di vedermi liberamente abbracciato dai miei figli, a Voi Duce rivolgo il mio primo pensiero. Pronti a immolarci per Voi e per le Vostre idee con fedeltà e devozione indelebile» In complesso, Tedeschi totalizzò dodici mandati di cattura per rapine, tre omicidi, incendi dolosi, estorsione, fabbricazione di monete false ecc. Nel 1950, poco prima della sua morte, fu condannato per furto di energia elettrica e di gas. Il viale del tramonto. Giovanni Ruisi, rientrato dagli Stati Uniti nel 1908 perché espulso da Petrosino, espatriò ancora dopo il delitto. Risulta arrestato a Marsiglia, ad Algeri e a Tunisi. Nel 1920 [p. 203] è nuovamente a New York, membro influente della malavita locale. Rientrato definitivamente in Italia, aprì nel 1935 un negozio di macelleria a Palermo. Il suo metodo di lavoro era molto redditizio: portava via, senza che nessuno si opponesse, la carne che gli occorreva per il suo spaccio senza pagarla. L'ammontare veniva equamente ripartito fra gli altri compratori che pagavano una maggiorazione di venti centesimi al chilo. Giovanni Battista Finazzo, classe 1879, era stato denunciato nel 1908 da Giuseppe Petrosino per l'omicidio di Epifanio Arcara, un emigrante trovato ucciso con trentadue pugnalate e mutilato degli organi genitali. Quando il detective giunse a Palermo, il processo era ancora aperto. Sarà assolto in contumacia dai giudici di New York nel 1910 per insufficienza di prove. Schedato dai carabinieri come «delinquente senza scrupoli al servizio della mafia», Finazzo, fra un reato e l'altro, riuscì a entrare nelle grazie del cardinale Alessandro Lualdi che lo chiamò a far parte della congregazione per l'erigendo santuario di Santa Rosalia sul monte Pellegrino. Paolo Palazzotto non ha lasciato molte tracce di sé negli archivi della polizia. Abbrutito dall'alcol, passava di rissa in rissa. Morì nel 1958. Anche Pasquale Enea, deceduto nel 1951, non ha lasciato un fascicolo voluminoso. Risulta pregiudicato per gioco del lotto clandestino, lesioni, bancarotta, truffa, falso e violenza. Giovanni Dazzò era anche lui un reduce di Little Italy. Pregiudicato per tentato omicidio, aveva un conto in sospeso con Petrosino che era più volte intervenuto, tra l'altro, per difendere dai suoi selvaggi maltrattamenti la moglie Fanny Favarino, ed era poi riuscito a farlo espellere dagli Stati Uniti. Salvatore Seminara, Camillo e Francesco Pericò, Giuseppe Fatta e Giuseppe Bonfardeci, non offrono motivi di particolare interesse. Tutti pregiudicati con un reato in comune, quello della fabbricazione di dollari falsi, erano vecchi compagni di Giuseppe Morello. Un solo particolare [p. 204] curioso: in un rapporto di polizia, Bonfardeci Pagina 95
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt viene indicato come l'amico «preferito» di Paolo Palazzotto. Carlo Costantino era nato a Partinico il 20 gennaio 1874. Sposato con Rosalia Casarubbia, dalla quale ebbe tre figli, convisse poi con una certa Carmela, dalla quale ebbe altri figli. I carabinieri scrissero di lui: «Innata tendenza a delinquere, all'ozio, alla vita dissoluta, al vagabondaggio» Risulta pregiudicato per associazione a delinquere, tentato omicidio, rapine, falsi, truffa ecc. Arrestato il 19 marzo per il delitto Petrosino, fu scarcerato il 13 novembre dello stesso 1909. In seguito si trasferì a Ravenna e poi a Bardonecchia, dove fu arrestato per una serie di truffe. Rinchiuso all'Ucciardone di Palermo, confidò al medico del carcere, dottor Di Liberto, di avere contratto la sifilide all'età di trent'anni e di aver conservato, in conseguenza delle cure, un ronzio alle orecchie e disturbi alla memoria. Nel 1932 fu deportato a Lampedusa e vi rimase quattro anni, organizzando nella colonia penale una mescita clandestina di alcolici. Tornato a Palermo, aprì un deposito di foraggi in via del Fervore. Morì poco tempo dopo in manicomio, roso dalla sifilide. Prosciolto dall'accusa di avere ucciso Petrosino, Vito Cascio Ferro riprese indisturbato l'attività. La sua carriera fu splendida e diventò il più grande capo che la mafia abbia mai avuto. Ancora oggi, in Sicilia, il suo nome è famoso. Per circa quindici anni, egli «governò» la parte occidentale dell'isola senza incontrare il minimo ostacolo. Egli portò l'organizzazione ai massimi fastigi. Giunse a costituire una flottiglia di pescherecci per poter tranquillamente avviare sui mercati africani il bestiame rubato. Don Vito governò soprattutto servendosi del suo naturale ascendente: ricorreva alla violenza, con spietata freddezza, solo quando era necessario. Invecchiando assunse modi quasi regali e, d'altra parte, era effettivamente una specie di re. I ricchi lo temevano, le masse dei contadini lo idolatravano; sapeva, infatti, con doni, beneficenza, riparazione di piccoli torti, conquistarsi stima e fiducia. Per [p. 205] questa ragione don Vito giunse ad avere, oltre all'obbedienza assoluta dei suoi mafiosi, l'incondizionato appoggio delle autorità. Sotto di lui i contadini stavano buoni, nessuno si azzardava a scioperare, e se qualche temerario sindacalista cercava di «sobillare i lavoratori», la lunga mano di don Vito lo raggiungeva prima dei carabinieri. In quegli anni di grande fortuna, Vito Cascio Ferro non pensò, per la verità, ad arricchirsi, tutto preso com'era dall'eccitante esercizio del potere. Ebbe un figlio da un'amante (lui, nei verbali, la definisce amasia) che aveva assunto per accudire la moglie paralitica. Volle molto bene a questo ragazzo e lo fece studiare tenendolo lontano dal suo ambiente, con la tipica ambizione dei capi mafiosi di fare dei propri figli delle persone per bene. Il suo regno cominciò a vacillare intorno al 1923. E' di quell'anno la seguente segnalazione del sottoprefetto di Corleone al ministro dell'Interno: «E' uno dei peggiori pregiudicati. Capacissimo di commettere ogni delitto. La gente onesta ne ha un sacro terrore. Reso forte dal fatto che sta a capo di una potente associazione delittuosa pronta a difenderlo in tutti i modi, si è dato al crimine con tutta dedizione. Io lo denunzio per il provvedimento dell'ammonizione. Purtroppo, a causa della triste piaga dell'omertà, nessuna persona, sia pure la più onesta e coraggiosa, verrà a deporre contro di lui. Una potente organizzazione criminale agisce dietro di lui ed è pronta a difenderlo, per cui niuno oserà mettersi nel rischio di buscarsi una fucilata per il gusto di testimoniare coscienziosamente...». La segnalazione del sottoprefetto di Corleone non ebbe seguito. Nel 1924, infatti, il questore di Palermo non solo respinse la richiesta di ammonizione, ma, rifiutando anche soltanto di revocargli il porto d'armi, lo definì «ottimo cittadino, onesto, laborioso e rispettoso con le autorità» Ma era il principio della fine. Dopo il 1924, con l'avvento della dittatura fascista, la mafia si trovò isolata, essendo venuta a perdere sia l'appoggio della classe politica, che aveva abdicato di fronte alla dittatura, sia quello della [p. 206] classe agraria, che ora, poiché il regime garantiva la «stabilità sociale», non aveva più bisogno degli «uomini di rispetto» per tenere a bada i contadini. Pagina 96
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Nel maggio del 1925, Vito Cascio Ferro fu arrestato quale mandante, e Vito Campegna, di quarant'anni, da Prizzi, quale esecutore dell'assassinio di Francesco Falconieri e di Gioacchino Lo Voi, «colpevoli» di essersi ribellati alle imposizioni della mafia. Anche per questo delitto, in altri tempi, don Vito se la sarebbe sicuramente cavata con un proscioglimento per insufficienza di indizi. E di fatto, non gli fu difficile ottenere la libertà su cauzione. Solo che, appena un anno dopo, giunse in Sicilia il prefetto Mori per dare inizio alla sua operazione antimafia. L'isola, com'è noto, fu messa praticamente a ferro e fuoco, molti innocenti pagarono insieme ai colpevoli e non si fece molta differenza fra nemici della legge e nemici del regime. Don Vito fu così nuovamente arrestato e inviato, dopo quattro anni di carcere preventivo, davanti alla Corte d'Assise di Agrigento con l'accusa di «correità morale» nel duplice omicidio. La Corte lo condannò, il 6 giugno 1930, all'ergastolo con nove anni di segregazione cellulare. Poiché il fascismo aveva posto severissime restrizioni alla pubblicazione di notizie di cronaca nera, la stampa non fece il minimo accenno all'episodio. Ma a renderlo pubblico ci pensò il prefetto Mori. Egli voleva che tutti sapessero qual era stata la fine del potente don Vito e, alla maniera del Far West, fece stampare dei manifesti con la foto dell'imputato e il testo della sentenza, che furono poi affissi alle cantonate di tutta l'isola. Soltanto un giornale americano pubblicò la notizia della condanna dell'«assassino di Petrosino» Secondo una diffusa leggenda, anche dal carcere don Vito continuò a esercitare una notevole influenza, ma probabilmente non è vero. Dall'Ucciardone, dove in effetti era riverito dagli altri detenuti (si dice che nella sua cella avesse scritto con la punta di un chiodo: «Il carcere, la malattia [p. 207] e la povertà rivelano il cuore del vero amico»), egli fu molto presto trasferito a Portolongone e quindi alla casa penale di Pozzuoli, dove rimase per il resto dei suoi giorni. Così come la vita, anche la morte di don Vito fu avvolta da un alone di mistero. Morì, come siamo riusciti a stabilire, nell'estate del 1943, all'età di ottantun anni; ma due anni dopo, nel 1945, risultava ufficialmente ancora vivo. In quell'anno, infatti, giunse sul tavolo del questore di Palermo la richiesta di grazia sovrana da lui avanzata molto tempo prima. E il questore la respinse con la seguente motivazione: «Potrebbe produrre, l'atto di clemenza, atti di rappresaglia da parte dei parenti delle persone che lui fece uccidere» La spiegazione del singolare episodio va ricercata nella confusa situazione dell'estate del 1943. Crollato il fascismo, con l'esercito alleato che risaliva la penisola e le «fortezze volanti» che non davano tregua, le autorità carcerarie avevano ordinato lo sgombero del carcere di Pozzuoli, troppo esposto ai bombardamenti. In poche ore tutti i detenuti furono trasferiti, tranne uno: don Vito, che fu «dimenticato» nella sua cella. Morì di sete e di terrore, nel penitenziario lugubre e deserto, come il «cattivo» di un vecchio romanzo d'appendice. [p. ] INDICE dEI nOMI iello, Francesco, 188 Alfano, Enrico «Erricone», 83 Andreacci, Domenico, 132 Andreacci, Guglielmo, 132 Andreacci, Rosa (nata Florio), 132 Antonelli, Federico, 139 Aprile, onorevole, v. De Luca Aprile, Girolamo Arato, Maria Giuseppa, v. Petrosino, Maria Giuseppa Arato, Vincenzo, 142 Arcara, Epifanio, 203 Armato, Francesca (nata Cascio Ferro), 104 Armato, Salvatore, 104 Bagnetto, Antonio, 29, 32 Pagina 97
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Baker, William F., 196 Barzini, Luigi, 50 Basilicò, Salvatore, alias Giuseppe Petrosino Battioni, Augusto, 136, 164, 201 Bertesi, Alfredo, 94 Bianchi, Umberto, 146 Bingham, Theodore A., 77, 79-82, 113-114, 116-121, 129-130, 134-135, 141-142, 148, 166-167, 170-172, 191-192 Bishop, William A., 147, 149-150, 153, 163, 166, 170, 173-174, 177, 186 Bissolati Bergamaschi, Leonida, 87 Bonfardeci, Giuseppe, 165, 193, 195, 203-204 Bongiorno, Michele, 13 Bonoil, Maurice, 17, 68, 80 Bonomi, Aurelio, 188 Borgnine, Ernest, 196 Brancaccio, Salvatore, 105 Branchi, Carlo, 57, 139 Bresci, Gaetano, 57-60, 62, 105, 189 Bresci, Madeline, 105 Bresci, Sophie (nata Knieland), 59, 64, 105, 189 Brisbane, Arthur, 168 Brogno, Natale, 51-52 Burke, Adelina (nata Petrosino), 121, 176 Burke, Michael J., 176 Burke, Susan Ann, 176 Campegna, Vito, 206 Campisi, Girolamo, 103 Candela, Gioacchino, 148 Candida, Renato, 86 Cannada, sostituto procuratore, 194 Capone, Alfonso «Al», 197 Carbone, Vincenzo, v. Costantino, Carlo Carboni, Angelo, 51-52, 54 Cardella, Alberto, 158, 160-162 Carnegie, Andrew, 119-120 Carrillo, Tom, v. Petto, Tommaso Caruso, Angelo, 168 Caruso, Giuseppe, 94 Caruso, James, 29 Casale, Alberto, 87 Casalis, Gaetano, 162 Casarubbia, Rosalia, v. Costantino, Rosalia Cascio Ferro, Accursio, 101, 108-109, 183, 187 Cascio Ferro, Brigida (nata Giaccone), 101, 108, 187 Cascio Ferro, Francesca, v. Armato, Francesca Cascio Ferro, Santa (nata Ippolito), 108, 183 Cascio Ferro, Vito, 4, 15-16, 19, 66-67, 101-111, 136, 146, 153, 156, 161, 164-165, 179-180, 182-183, 186, 187-193, 195, 197, 199-201, 204-207 Cassidy, Hugh (Ugo Cassidi), 68, 72 Ceola, Baldassarre, 110, 149-152, 161, 163-164, 167, 173, 177-186, 189, 191, 201 Ceramello, Salvatore, 52-54 Cerani, Giovanni, 34 Chillé, Benedetto, 187 Chiusa, Tommaso, 163 Cianfarra, Camillo, 138-139 Codiglione, Settimo, 174 Codringhi, Costanzo, 169-170 Colajanni, Napoleone, 117 Colosimo, Jim Diamond, 197 Comitez, Lorenzo, 29 Corrao, Francis L., 167 Corrao, Giuseppe, 131 Cortelyou, George, 61-62 Cosentino, giudice istruttore, 160-161 Pagina 98
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Costantino, Carlo, 19-20, 67, 105, 130, 135-136, 153, 163-165, 179, 181-182, 185-186, 188, 193, 195, 197, 204 Costantino, Rosalia (nata Casarubbia), 204 Crapa, maggiore, 173 Crimi, Leonardo, 131 Crispi, Francesco, 96-97, 102 Cuocolo, coniugi, 83 Curato, Federico, 191 Cutrera, Antonino, 161 Czolgosz, Leo, 62-64 D'Amico, Antonino, v. Passananti, Antonino Davis, John, 31 Dazzò, Fanny (nata Favarino), 203 Dazzò, Giovanni, 165, 193, 195, 203 De Felice Giuffrida, Giuseppe, 87-96, 98 Delli Bovi, Francesco, 132 De Luca, agente di cambio, 45 De Luca Aprile, Girolamo, 95 De Martino, Alex, 72, 80 De Michele Ferrantelli, Domenico, 107, 109, 146, 156, 183, 187, 190, 201 De Seta, Francesco, 109, 174 Di Benedetto, Pietro, 103 Difatta, Carlo, 34 Difatta, Francesco, 34 Difatta, Giuseppe, 34 Di Leo, Valentino, 103 Di Leonardo, Vincenzo, 189 Di Martino, Gioacchino, 105 Di Martino, Girolamo, 87, 161, 173 Di Montesano, Valentino, 143 Di Primo, Giuseppe, 15-16, 18, 21 Di Stefano, vicecommissario, 187-188 Di Stefano Napolitano, Giuseppe, 98, 146, 156 Di Trabia, Pietro, 146, 156 Dondero, Peter, 68, 72, 80 Doull, assessore, 192 Duffy, Thomas, 30 Enea, Antonio, 103 Enea, Pasquale, 165, 193, 195, 203 Esposito, Giovanni, 29 Falconieri, Francesco, 206 Fatta, Giuseppe, 165, 193, 203 Favarino, Fanny, v. Dazzò, Fanny Favaro, Giuseppe, 15-16 Fazio, Enrico, 163 Ferlazzo, avvocato, 115 Fiasconaro, cancelliere, 155 Fiducia, Rosario, 34 Finazzo, Giovanni Battista, 165, 193, 195, 203 Florio, Rosa, v. Andreacci, Rosa Flynn, William J., 14-15, 196-198 Fontana, Giuseppe, 14, 66-67, 94, 97-98, 104-105, 116, 130, 179-180, 184-185, 188, 195 Francesco Giuseppe, imperatore d'Austria, 61 Frasca, commissario, 160 Galassi, Luigi, 133 Galli, Francesco, 132-133 Ganci, Giacomo, 188 Garfield, James, 60 Garibaldi, Giuseppe, 44 Gattorno, onorevole, 90-91, 95 Genova, Antonio, 15 Genovese, Vito, 200 Pagina 99
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Geraci, Emanuele, 189 Geraci, Rocco, 29 Ghilardi, Enrico, 161 Giaccone, Brigida, v. Cascio Ferro, Brigida Giacosa, Giuseppe, 24 Giolitti, Giovanni, 86, 89, 97, 117, 130, 138, 149, 152, 155, 163, 177 Giudice, Vincenzo, 44 Giuliano, Boris, 198 Giuliano, Giuseppe, 55 Gizzi, Sabbato, 72-74 Gloster, tenente, 120 Grattucci, Paolo, 133 Grillo, Nuccio, 174 Grillone, brigadiere, 161 Griscom, Lloyd A., 139, 177 Guglielmo II, imperatore di Germania, 61 Harrison, Benjamin, 33, 60 Hennessey, Dave, 28-29, 33 Imbornone, avvocato, 146 Incardona, Bastiano, 29 Inghilleri, Salvatore, 136 Inglese, baroni, 101-102, 109, 183 Inglese, Antonino, 107 Inglese, Salvatore, 107 Inzerillo, Pietro, 12, 67, 180 Ippolito, Santa, v. Cascio Ferro, Santa Izzo, Giuseppe, 130, 132 Jamowsky, A., 63 Jenks, Jeremiah W., 121-122 Jorio, Pietro, 44 Kelly, Jim, 124 Kelly, Paul, 124 Kennedy, John, 60 Knieland, Sophie, v. Bresci, Sophie Lagomarsini, John, 68 La Mantia, Giuseppe, 193 Latimer, senatore, 114 La Valle, Patrick J., 81, 174 Le Barbier, avvocato, 16-17 Leonardi, Francesco, 130, 141-142, 150, 161 Liggio, Luciano, 198 Lima, Gioacchino, 181 Lincoln, Abramo, 44, 60 Li Voti, vicecommissario, 160 Lo Baido, Vito, 15, 189 Lo Cascio, Frank, 70-72 Lo Cascio, Nunzia, 162 Lo Manto, Nicolò, 201 Lo Manto, Rosalia, 201 Lombardo, Antonio, 190 Longobardi, Carlo, 132-133 Lo Porto, Vincenzo, 94 Lo Voi, Gioacchino, 206 Lualdi, Alessandro, 203 Lupo, Ignazio «The Wolf», 14, 16, 20, 66-67, 82, 104, 116, 130, 179-181, 184, 196-197 Lupo, Onofria (nata Saitta), 184 Lupo, Rocco, 184 Lynch, Charles, 33 Macheca, J. P., 29, 32 Madonnia, famiglia, 18-19 Pagina 100
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Madonnia, Benedetto (Nitto), 15-16, 18, 183 Malatesta, Errico, 58, 168 Mangano, Angelo, 198 Maniscalco, Mario, 188 March, J. A., 81 Marchese, Antonio, 29, 32 Marchese, Aspero, 29, 32 Martini, Giovanni, 64 Masseria, Giuseppe «Joe the Boss», 197 Massiglia, console, 115-118 Matranga, famiglia, 27, 29 Matranga, Carlo, 29, 148 Mayor des Planches, ambasciatore, 57-58, 65 McAdoo, William, 17-18, 25, 39-40, 68, 79 McCafferty, ispettore, 9, 16, 18 Mchinley, William, 58-63, 166 McNiel, Elaine, 76 Megna, Francesco, 105 Memmo, Guido, 138 Mendolia, capo della Squadra Mobile, 198 Mercadante, S., 194 Merlino, Saverio, 58 Miceli, Luigi, 97 Militano, Ernesto, 154, 163-164, 193, 195 Milone, Ignazio, 67, 180-181, 184 Monastero, Pietro, 29, 31 Morello, Giuseppe, 14-18, 20, 66-67, 82, 91, 104-106, 116, 130, 136, 164, 179-182, 184-186, 188, 190, 195-198, 203 Morello, Salvatore, 184 Moretti, Pietro, alias Giuseppe Petrosino Mori, Cesare, 200, 206 Mugno, Maria, v. Petrosino, Maria Mussolini, Benito, 200, 202, 205 Nicofora, Nicola, 193 Nicola II, zar di Russia, 61 Niscemi, Carmelina, v. Zillo, Carmelina Nono, Francesco, 154-155 Notarbartolo, Emanuele di, 14, 91, 93-94, 96-97, 115, 170, 180, 184 O'Brien, John, 8 Orengo, Giovanni, 131 Orlando, Vittorio Emanuele, 146 Palazzotto, Domenico, 163 Palazzotto, Michele, 163 Palazzotto, Paolo, 131, 153-154, 162-164, 178-179, 193, 195, 203-204 Palizzolo, Raffaele, 14, 93-94, 96-98, 115-117, 146, 156, 170 Pansini, onorevole, 90 Pantano, Edoardo, 90 Parkerson, W. S., 31-32 Pasqua Ragusa, Domenico, 188 Passananti, Antonio (Antonino), 67, 130, 135, 153, 163-165, 179, 181-182, 185-186, 189, 191, 193-195, 197, 201-202 Passananti, Giuseppe, 201 Paternostro, Roberto, 89 Patorno, Charles, 29 Patricola, Giovanni Battista, 162 Peano, Camillo, 141-142 Pecoraro, Giovanni, onorevole, 146, 156 Pecoraro, Giovanni, v. Costantino, Carlo Pelloux, Luigi Girolamo, 89, 93, 97 Pericò, Camillo, 148, 164, 193, 195, 203 Pericò, Francesco, 165, 195, 203 Peritelli di Valpetroso, Clorinda, 103 Petrosino, Adelina (nata Saulino), 80-81, 117, 130, 140, 147-148, 161, 165, 175 Petrosino, Adelina Bianca Giuseppina, v. Burke, Adelina Pagina 101
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Petrosino, Antonio, 43 Petrosino, Caterina, 42 Petrosino, Giuseppina, 43 Petrosino, Maria (nata Mugno), 43 Petrosino, Maria Giuseppa (nata Arato), 42 Petrosino, Michele, 43 Petrosino, Prospero, 42-44 Petrosino, Vincenzo, 42, 138, 142-143 Petto, Tommaso «The Bull», 14-16, 18-21 Picone, Giusto, 103 Poitza, Charles, 29 Poli, comandante della Brigata Mobile, 151-152, 163 Polizzi, Emanuele, 29-32 Ponzio, Salvatore, 110, 187-188 Prampolini, Camillo, 58 Provenzano, famiglia, 27, 29 Quattrocchi, Antonino, 13-14 Ratti, Nicola, 193 Redmond, assessore, 119 Repetto, G. B., 76-77 Restivo, Empedocle, 146, 156 Rochefeller, John D., 119-120 Romero, Frank, 29 Roosevelt, Franklin Delano, 60 Roosevelt, Theodore, 48, 58-60, 63, 77, 167 Rose, Godwin, 29 Rossiglione, Lorenzo, 162 Rudinì, Antonio Starabba, marchese di, 32-33, 96, 146 Ruisi, Giovanni, 165, 193, 195, 202 Russel, A. H., 171-172 Saidone, Domenico, 131 Saitta, Onofria, v. Lupo, Onofria Salerno, Giovanni Battista, 162 Salvemini, Gaetano, 155 San Giuliano, Antonino Paternò-Castello, marchese di, 95 Saulino, Adelina, v. Petrosino, Adelina Saulino, Louis, 165-166 Saulino, Maria, 80-81 Saulino, Vincent, 80-81, 175 Scaffidi, Antonio, 29-32 Schillaci, Luigi, 162 Schmittberger, David, 8-12, 19 Seminara, Salvatore, 154-155, 164, 193, 195, 203 Sighele, Scipio, 93 Silva, George, 68 Simone, Guglielmo, alias Giuseppe Petrosino Slattery, Daniel, 166 Sperduto, Antonio, 54-55 Spinelli, Francesco, 36 Spinelli, Salvatore, 36 Strollo, Antonio, 73-77 Sunseri, Salvatore, 29 Tamburello, Antonio, 188 Tedeschi, Gaspare, 165, 193, 195, 202 Terranova, fratelli, 67, 180-181 Tittoni, Tommaso, 117 Torrio, Johnny, 197 Torsiello, Antonio, 72-76 Torsiello, Vito, 73-75 Trajna, Carlo, 29 Trasselli, C., 93 Umberto I, re d'Italia, 57, 60, 97, 149, 169, 177 Pagina 102
Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Vaccaro, Calogero, 201 Vaccaro, Natale, 201 Vaccaro, Salvatore, 201 Vachris, Antonio, 80, 118, 129, 134, 167 Valenti, Simone, alias Giuseppe Petrosino Valzer, Paolo, 188 Vantone, Vincenzo, 78 Velletri, Simone, alias Giuseppe Petrosino Verdura, Giulio Benso, duca di, 96 Vetere, Giacinto, 172 Villarosa, Francesco di, 99 Vinti, Edward, 80 Vittorio Emanuele III, re d'Italia, 114 Volpe, informatore, 155 Volpes, Nicola, 201 Voltaggio, Giuseppe, 189 Wetchorm, senatore, 114 White, giornalista, 168 Williams, Alec, 45-46 Woods, viceassessore, 142, 166 Zerbo, Lucrezia, 103 Zillo, Carmelina (nata Niscemi), 7-8 Zito, Giuseppe, 188par
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