Le Boe 179
Larry Kane
John Lennon La vera storia di un genio frainteso TRADUZIONE DI Tommaso Iannini
B.C.Dalai editore Editori dal 1897 www.bcdcditore.it e-mail:
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Traduzione dall'americano di Tommaso Iannini Titolo originale: «Lennon Revealed» Copyright © 2005 by Larry Kane © 2010 Baldini Castoldi Dalai editore S.p.A. – Milano ISBN 978-88-6073-633-8
A Donna, Michael, Alexandra e Doug e in memoria di John Lennon
PREFAZIONE
Conoscevo John Lennon. Sicuramente non bene come alcuni, ma certamente meglio di molti altri. Ha ispirato me e milioni di altre persone in cerca di verità, pace e amore. Diffondendo il suo messaggio, prima attraverso la musica e poi tramite le sue azioni. John ha spinto un'intera generazione a fare la differenza; quando eravamo in difficoltà, lui era in prima linea e ci guidava. Tra le decine di libri che ho letto sulla sua vita, questo secondo me è il più vicino alla verità. Larry Kane non si è limitato a raccogliere i suoi pensieri personali sull'amico John Lennon, ma ha messo insieme una serie incredibile di interviste con gli amici più intimi e i familiari. Senza remore, Larry ha cercato ciò che penso avrebbe voluto anche John: la dannata verità! In queste pagine leggerete che John Lennon era un bastardo, un genio, uno sciupafemmine, un pensatore, un poeta, e che era buffo, cinico, triste, e molto altro ancora. Io ho in mente com'era quando l'ho conosciuto a Los Angeles negli anni Settanta: disorientato, arrabbiato, con tanta nostalgia di Yoko più che della musica; avrebbe dato tutto per tornare a casa. Il mio amico Harry Nilsson era un vero talento nel creare guai, ed era proprio quello che John cercava. Io invece ero un giovane musicista che aveva la fortuna di uscire con il suo idolo. Volevo essere lui; ricordo che quando eravamo insieme mi permetteva sempre di rivolgergli una domanda sui Beatles, salvo poi mandarmi regolarmente a quel paese una volta che l'avevo fatta. Una sera in cui avevamo bevuto insieme, John mi prese sottobraccio e disse: «Caro Hudson (non credo neppure che sapesse con quale dei fratelli Hudson stava parlando), continua sempre a cercare la verità, e quando l'avrai trovata, dimmi dov'è». Non dimenticherò mai quel momento. Di momenti così, in questo libro ce ne saranno un milione. Pensavo di aver letto tutto e visto tutto – diamine, sono pur sempre il produttore di Ringo – di conoscere ogni retroscena, e invece MI SBAGLIAVO! Larry Kane rivela cose che mai mi sarei sognato. Durante la tournée nordamericana del 1964-65, John entrò in confidenza con Larry e si aprì con lui come forse aveva potuto fare soltanto con Paul, George e Ringo. Leggendo di quando Larry incontrò per la prima volta John, ho cominciato a ridere a crepapelle, perché Kane allora doveva sembrare proprio un tipico reporter del radiogiornale, in giacca e cravatta e con la voce bassa e monocorde, per giunta con il contegno di un repubblicano. Be', le apparenze ingannano, e infatti mi sbagliavo. Quando leggerete questo libro, incontrerete un uomo convinto e appassionato, e pure dotato di grande humour, integrità e onestà – uno alla John Lennon, per intenderci. Ed è il motivo per cui i due sono rimasti amici per tutta la vita: si chiama fiducia. La prospettiva e il pensiero che Larry presenta in questo libro mi hanno completamente catturato. Ho potuto assaporare le mille sfumature dell'uomo che mi ha cambiato la vita, e scoprire particolari che faranno la gioia di tutti i fan – come Mario, il giovane amico che recapitava le lettere di John a Yoko e a May, o Petula Clark che canta in Give Peace A Chance, o ancora la presenza di Yoko nella vita di John anche durante il «weekend perduto» e tanti, tanti altri aneddoti di questo tipo. Ne avrei da dire, ma mi fermo qui. Il resto lo scoprirete leggendo. So per certa una cosa, però: amavo John Lennon, e questo libro me lo fa amare ancora di più. Mark Hudson
INTRODUZIONE
Chi era John Lennon e perché è nei nostri cuori? Fragile. Sensibile. Sessualmente libero ed emancipato. Un buon padre e un cattivo padre. Un poeta scomparso il cui linguaggio risuona nella vita stessa. Un ribelle per tante cause. Una rockstar che ha sondato nuove galassie. Un marito. Un amante. Un uomo che combatteva per la libertà. Un filosofo, un ubriacone, un consumatore e uno schiavo della droga. Un chitarrista, pianista e armonicista, un musicista che con le sue canzoni trasmetteva pure sensazioni di piacere e paura direttamente nel sangue e nel cervello di chi lo ascoltava. Uno scrittore. Un amico. Un'anima in pena. Un maestro e uno scolaro. Una tigre che spaventava con il suo ruggito e un gatto tenero e gentile che faceva le fusa. Una leggenda vivente. Un'icona dopo la morte. Un rompicapo, per molti. Ma era davvero tutto questo?
Chi era John Lennon? Per tanti anni durante la sua vita e per altri trenta dopo la sua morte, i dotti di turno, i politici, i giornalisti e gli aspiranti tali hanno cercato di rispondere una volta per tutte a questa domanda: chi era John Lennon? Questo libro vuole fare di più – rivelare John come essere umano, non solamente come mito; squarciare il velo delle mille leggende che ne hanno accompagnato l'esistenza, splendida e creativa, e scoprire la vera persona attraverso le testimonianze e i ricordi di chi lo ha conosciuto da vicino. Lavorare tra chi tenta di custodire gelosamente i propri ricordi e chi invece vorrebbe pubblicare i propri diari è un compito arduo per un giornalista. Quello che troverete in questo libro è un ritratto libero che inquadra, da tutte le angolazioni e i punti di vista possibili, un uomo che non è più presente con il suo corpo ma ha lasciato un messaggio che, insieme al suo talento, vivrà ancora per tutto questo secolo e per i prossimi. Per prima cosa, permettetemi alcune considerazioni su come sono arrivato a intraprendere questo progetto. I reporter sono degli impressionisti. I nostri lavori non finiscono su una tela, ma riflettono una traccia della realtà impressa nelle nostre menti. Nel 1964, la mia mente di ventunenne nutriva un'impressione piuttosto dubbia sul compito che mi avevano affidato: viaggiare insieme ai Beatles per fare la cronaca della loro prima tournée nordamericana. Dopo aver studiato da cronista d'assalto, lo consideravo un lavoro adatto a chi aveva una visione meno ampia del mondo, e magari qualche nozione di musica e un po' di senso del ritmo – due cose che mi erano entrambe ignote. Avevo sì suonato un po' la fisarmonica da bambino, ma era, appunto, la fisarmonica, e non me la cavavo un granché. Onestamente, da reporter radiofonico avevo voglia di occuparmi di notizie importanti, e avrei fatto più volentieri un servizio su una rapina in banca che non viaggiare con un gruppo musicale, qualunque fosse. A essere sincero, era stata tutta colpa mia. La direzione della radio mi aveva chiesto di tenere una breve intervista con i Beatles in occasione del concerto più vicino a Miami, cioè quello al Gator Bowl di Jacksonville, in Florida. Ma alla lettera da me spedita al manager Brian Epstein avevo allegato un biglietto da visita in cui erano segnate tutte le sette emittenti del mio network, sei delle quali si
rivolgevano per lo più a un pubblico di persone di colore che difficilmente avrebbero apprezzato i Beatles. Epstein non sapeva che fossi così giovane, e infatti mi scambiò per un magnate, proprietario di sette stazioni radiofoniche. Fu così che rimasi sbalordito quando ricevetti l'invito a seguirli, come ospite del loro ufficio stampa, nell'intera tournée: 33 date in tutto, in 25 città diverse. Mi misi subito in testa che non ci sarei andato. Il motivo non era solo il mio disinteresse verso quell'evento ma anche, cosa molto più importante, il fatto che fosse appena morta mia madre, a quarant'anni, dopo aver combattuto a lungo contro la sclerosi multipla. Era la cosa più brutta che mi fosse mai successa, e lo è ancora oggi. Undici anni dopo, proprio John Lennon avrebbe impresso un marchio speciale sulla vita e sulla morte di mia madre. Nel frattempo, dovevo decidermi. Se tentenni, il destino non ti aspetta. E un tentennamento può tirare una riga su una luminosa carriera da giornalista. Pur riluttante, decisi che sarei partito. Dopo cinque anni di esperienza come inviato e conduttore di giornali radio, decisi di accettare quello che ritenevo un compito vacuo e una perdita di tempo: la cronaca di quella che sarebbe rimasta negli annali come la tournée più importante di tutta la storia della musica, l'invasione di Stati Uniti e Canada da parte dei Beatles. Fu la prima delle due tournée che seguii per intero. In totale assistetti a 63 concerti dei Beatles, li vidi al lavorare a un film, conversai per ore con quei quattro ragazzotti che stavano facendo la storia e vidi cambiare per sempre sia la mia vita che la mia idea su cosa significasse fare il reporter. Negli anni successivi avrei seguito seguito ventuno convention di partito, vari vertici tra superpotenze mondiali, sette presidenti americani, disastri causati da terremoti e uragani, guerre e ordinarie vicissitudini della vita quotidiana. Alla fine la mia carriera mi ha portato a Philadelphia, dove da trentasette anni conduco telegiornali. Ticket To Ride, il mio libro precedente a questo, è un racconto sia di quei tour visti dall'interno che della mia esperienza personale insieme ai Beatles. Molti lettori hanno avuto l'idea che mi piacesse John Lennon. Come poteva non piacermi? Avevo avuto di fronte a me un uomo dotato di talento, rabbia, individualismo, fragilità, carisma e convinzione in dosi smisurate, alla ricerca disperata di scogli su cui far infrangere le ondate d'amore che montavano dentro di lui. Le impressioni e le annotazioni sulla vita di John Lennon contenute in questo nuovo libro non si basano su una mia esperienza diretta, comunque vasta, ma fanno affidamento sui pensieri di persone che si sono trovate faccia a faccia con John in modi diversi, a seconda del ruolo che hanno avuto nella sua vita. Mi sono impegnato in investigazioni approfondite per cercare di sistemare le tessere del mosaico della sua vita che mi erano sfuggite durante i due tour in cui in pratica avevo vissuto insieme a lui e ai Beatles, e poi nelle tante telefonate e negli incontri in occasioni degli eventi speciali che si erano susseguiti nell'arco di diciassette anni. Il giornalismo beatlesiano è attraversato da una sorta di sottocultura che sembra obblighi i suoi esponenti a dichiararsi per forza come i più brillanti e i più preparati in materia. Per fortuna, nonostante esista questa presunzione secondo cui esiste un copyright sulla verità e qualcuno ne deve essere il depositario, il mio cerchio di amici beatlesiani è immune da questo petulante vizio. Ci tengo a sottolineare questo aspetto perché io per primo non ho la presunzione di essere l'unica fonte corretta di informazioni su John Lennon. Qualsiasi punto di vista sulla sua incredibile vita ci regala qualcosa di nuovo. Il mio racconto su Lennon e sulla sua vita da adulto sarà quindi diverso da quello fatto da altri, ma è mio.
18 agosto 1984. John Lennon mi insulta a causa del mio look e del mio taglio di capelli al nostro primo incontro all'Hilton di San Francisco.
LENNON: Senti, ma lo sai che sembri proprio un finocchio? KANE: Mah, sai che è meglio sembrare un finocchio piuttosto che uno zozzone come te? L'uomo che ho incontrato e con cui mi sono preso a male parole in quel pomeriggio d'estate è stato descritto nel corso dei decenni, da molti scrittori, giornalisti e presunti esperti, come rude, spigoloso,
ostile e capriccioso. Io ho un'opinione abbastanza diversa, saldamente ancorata alla convinzione secondo cui John Lennon era questo ma anche molto di più, e il «di più» significava un intellettuale determinato e brillante che ha dato molto più di quanto si sia visto restituire. Alcuni si meraviglieranno di come un uomo che abbia toccato certi estremi nella sua vita possa aver avuto un'influenza così profonda e positiva sugli altri. Per quanto mi riguarda si tratta di uno scambio d'identità. John non è l'unico argomento di questo libro. Ci siamo anche tutti noi – con il nostro potenziale positivo e la nostra tendenza a mandare tutto a ramengo. Vivere vuol dire questo. La vita di John, come le nostre, era colorata di difetti gravi e spesso compromettenti, alcuni dei quali ostacolarono la sua creatività e minacciarono la sua stessa esistenza. E nonostante ciò il suo talento e il suo messaggio sono riusciti a spuntarla. Se cercate un suo profilo psicologico – e informazioni tipo quale pappe gli davano da bambino e quali erano i suoi voti sulla pagella scolastica – forse dovreste rivolgervi altrove. Avreste solo l'imbarazzo della scelta. Quello contenuto in questo libro è un ritratto onesto e sfaccettato di un uomo che ci ha toccati in tanti modi diversi, e che rimane un'icona culturale per milioni di persone. Non ho tentato di descrivere in modo dettagliato tutti conflitti quotidiani che attraversavano la psiche di John Lennon, ma piuttosto di afferrare il modo in cui certe umane fragilità hanno plasmato un essere speciale che ne ha arricchiti tanti altri. Infine, ho cercato di portare il più possibile alla luce la verità, sfatando vecchie leggende su John – i suoi amori, la sua sessualità, la sua rabbia, la campagna di protesta contro gli Stati Uniti e molto altro. Questa è una storia vera, non ho nascosto nulla, e nulla è stato tralasciato, neanche tra le smentite o i vuoti di memoria. La mia speranza è che, nelle pagine di questo libro, John possa ritornare in vita per il lettore insieme alle sue espressioni particolari, al suo humour e alla sua totale onestà. Devo confessarvi un inconveniente che ha reso il mio lavoro assai più difficile. In tutta la brillantezza, l'irriverenza, la pazzia e la confusione, la totalità del suo talento e la realtà della persona, fondamentalmente e onestamente apprezzavo moltissimo Lennon come uomo. Dopo tutto, più di chiunque altro abbia mai incontrato, mi ha insegnato con il suo esempio che le cose futili e le scemenze sono una tremenda perdita di tempo. E nonostante tutto il mio rispetto e il mio sfrenato entusiasmo nei confronti di John e di quanto ha lasciato dietro di sé, non ho indorato la verità della sua esistenza. La vita di John in tutti i suoi periodi fu segnata da un candore sorprendente. Proprio la verità, talora a suo stesso discapito, fu il suo biglietto da visita – nelle sue dichiarazioni, nella sua musica e nei suoi scritti. Questo libro è fedele ai suoi principi e alla sua eredità. Sarebbe da ipocriti parlare della vita matura di John sorvolando sulle inadeguatezze e sulle mancanze che nemmeno lui ha voluto mascherare. Del resto, come mi ha detto Yoko Ono mentre la intervistavo per il libro: «Non voleva che la gente lo adorasse e basta, ma che sapesse di cosa era fatto davvero». Questo libro celebra la sua vita, ma alla Lennon, senza dimenticare nessuna delle sfide che tentò di vincere. In barba al suo incredibile genio e a tutti i suoi successi, John era un uomo tormentato, alla ricerca perenne della sua verità. Sono andato anch'io in cerca della verità su John Lennon, senza scuse né rimpianti, solo con ricordi meravigliosi e pieni di dolore. La mia storia inizia dalla fine, rivelando come la notte fatale in cui venne assassinato segnò alcuni tra i protagonisti della storia stessa, e finisce con il trionfo della persona di John, reso ancor più grande dagli splendidi scritti dei suoi seguaci provenienti da tutto l'universo.
John Lennon nei cieli della Pennsylvania, sul volo Philadelphia-Indianapolis KANE: John, il pubblico di Philadelphia stasera ti ha adorato. LENNON: Cosa c'è di speciale, Larry? Sono solo una persona comune che fa cose fuori dal comune. Capito, Larry?
Ho capito molto bene: un adolescente prodigio, l'uomo che guidò la più grande rock band di tutti i tempi, un uomo pieno di difetti che cercava disperatamente di trovare una via al centro di un buco nero di disperazione, un essere umano che ha infine provato il trionfo dello spirito. In tutto ciò, la cosa buffa è che John Lennon è più importante da morto di quanto lo è stato da vivo. E credetemi, da vivo era grande davvero.
RINGRAZIAMENTI
Per riuscire a completare un lavoro come questo è indispensabile tantissimo aiuto. Comincio dal gruppo di lavoro che mi ha assistito costantemente. Grazie quindi a tutto il team di Running Press: il direttore editoriale Greg Jones, che è un vero gigante dell'editoria, il direttore della pubblicità Sam Caggiula, i publisher Jon Anderson, John Whalen, Buz Teacher e Carlo DeVito. Marjorie Morrison e Tina Camma che hanno reso il lavoro così piacevole. L'art director Bill Jones e il grafico Matthew Goodman, che hanno dato il meglio della loro creatività. Il mio caro amico Paul Gluck, vice presidente e direttore del dipartimento Tv, Radio e Internet della WHYY, è stato prezioso nel fornire spunti importanti. In tantissimi mi hanno assistito nella ricerca di informazioni e si sono prestati alle mie interviste: Yoko Ono, aperta e sincera, e una deliziosa May Pang, mi hanno illuminato non poco su alcuni aspetti della vita di John. Pauline Sutcliffe e Diane Vitale hanno avvicinato me quanto i lettori all'eredità lasciata da Stuart Sutcliffe. Joe Johnson, conduttore di Beatle Brunch (www.brunchradio.com) mi ha suggerito e sollecitato l'idea della sessione interattiva in chiusura del libro; Joe, un amico straordinario. Anche Danny Somach, impresario pop, è stato incredibile. Incredibile, a dir poco, come il conduttore losangelino di Breakfast With The Beatles, l'incomparabile Chris Carter. Martin Lewis, esperto di tutto ciò che è Gran Bretagna, mi ha regalato la sua esperienza e la sua eloquenza. Grazie a Walter Podrazik, un pozzo di scienza. Voglio ringraziare John Stevens, professore della Berklee School of Music di Boston. Andre Gardner, conduttore di Breakfast with the Beatles a Philadelphia, per il suo contributo speciale all'editing, e Mark Lapidos, fondatore di Fest for Beatles Fans, che è stato di enorme aiuto nel collegare tutti i punti del mio lavoro. Mille grazie a Shelley Germeaux della rivista «DayTrippin». In Gran Bretagna devo ringraziare Mark Lewisohn, Tony Barrow, Tony Bramwell, tutti esperti beatlesiani che mi hanno aiutato a centrare il bersaglio. I ricordi di Pete Best che ho raccolto alla Festa ufficiale del fan club dei Beatles sono di un valore incalcolabile, come quelli di Al Brodax, produttore del film Yellow Submarine, e di Paul Saltzman, i cui scatti ai Beatles in India ancora oggi vanno a ruba. Tony Perkins di Good Morning America della ABC per l'iniezione di fiducia che mi ha ispirato. L'industria musicale è ben rappresentata da Mark Hudson, che per anni ha prodotto i dischi di Ringo Starr ed è stato una riserva preziosa di conoscenza e intuizione, e Alan White, batterista degli Yes, l'uomo che diede un accento tutto suo al suono di John Lennon negli anni Settanta. È stato un piacere parlare con Alan, uno dei grandi della batteria di tutti i tempi. Bob Gruen, fotografo e intimo amico di John, mi ha regalato informazioni indispensabili, così come il suo collega Allan Tannenbaum, il cui ritratto di Lennon impreziosisce la nostra copertina. Grazie al leggendario conduttore di talk show Geraldo Rivera e al suo produttore di lunga data e confidente Marty Berman per il ritratto di John al lavoro, e a Mario Casciano. A Paul Drew, conduttore radiofonico, per la sua testimonianza sul ritorno di John. E al mio vecchio amico Scott Regan, un grande conoscitore della musica di John Lennon. A Bruce Spizer, le cui cronache beatlesiane sono qualcosa di leggendario, che mi ha assistito in un momento critico. Michael Allison, produttore cinematografico che fu un amico speciale per John, mi ha illuminato sui suoi ultimi giorni. Grazie anche a Lauren Lipton di KYW Newsradio. A Joan Erle, direttrice marketing alla NBC 10 di Philadelphia, e Lawana Scales, direttrice dei programmi della stessa emittente. A John Trusty, un amico di Chicago, cui devo un grazie particolare per i suoi ricordi su John, come a Linda Reig e Arlene Reckson, ex impiegate della Apple. E ancora grazie ai giornalisti radiofonici Dennis Elsas e Dave Sholin e al conduttore Ernie Anastos, come al produttore Allan Weiss, che hanno condiviso i loro ricordi della notte fatale. E a Lynne Sherrick, Damon Sinclair, Alan Steckler, Jeffrey Michelson, Dennis O'Dell, Scott Bluebond, Gene Vassal, Anne Gottehrer, a Vince Calandra, produttore veterano, e all'esimio Professor Leon Wildes, colui che ha combattuto accanto a John la battaglia legale per farlo rimanere
negli Stati Uniti. Vorrei ringraziare Paul McCartney e Ringo Starr per le loro dichiarazioni rese nel corso degli anni, che ho usato come citazioni. Dedico il libro alla memoria di George Harrison, Derek Taylor, Malcolm Evans e Brian Epstein. A Sean e Julian Lennon, sperando che questo lavoro possa appianare le vedute conflittuali sulla straordinaria vita di vostro padre. Norman Einhorn è stato una fonte preziosa grazie alla sua profondità e al suo senso dell'umorismo. Soprattutto, infine, vorrei dire grazie a mia moglie Donna, ai miei figli Michael e Alexandra e al mio genero Douglas Weiss, per l'amore, l'aiuto, e la pazienza.
1. ASSASSINIO AL DAKOTA
«Non so cosa mi aspetta in futuro, ma sono ancora io. E quindi, finché c'è vita, c'è speranza» JOHN LENNON INTERVISTATO DA DAVE SHOLIN DI RKO GENERAL RADIO, POMERIGGIO DI LUNEDÌ 8 DICEMBRE 1980 Questa storia spiega chi era John Lennon e comincia dalla fine – dal suo assassinio, avvenuto l'8 dicembre 1980. Per comprendere l'impatto avuto da John, bisogna prima capire quanto la sua morte abbia colpito le persone di tutto il mondo. E come proprio la sua fine improvvisa sia stata in realtà l'inizio di un'altra vita. I ricordi sono giochi della memoria. Pensi di ricordare fatti accaduti anni addietro, ma devi scavare a fondo nella tua mente per rievocare ciò che davvero accadde. In alcuni casi puoi andare dritto al bersaglio; in altri, il ricordo è distorto, annebbiato. Eppure, esistono eventi per i quali lo stato d'animo vissuto sul momento rimane per sempre e può tornare a darti i brividi; all'improvviso, senza grandi sforzi, ti ricordi esattamente come ti eri sentito. Fu così per gli americani negli anni Sessanta con l'assassinio di JFK: tutti ricordavano esattamente dove erano e come reagirono quando appresero la notizia. Non accadde più fino all'8 dicembre 1980 che un lutto così unanime investisse di nuovo le masse. L'assassinio di John Lennon toccò il mondo intero. Fu un evento tale da lasciare di sasso anche i più navigati e cinici tra coloro che lavoravano nel business dell'informazione. La sensazione, per un giornalista come me, fu ancora peggiore, poiché avevo passato tantissime ore insieme a Lennon – come reporter e come amico – dalla prima volta in cui mise piede in America, nel 1964, fino a poco prima della sua morte. Fu un viaggio che non avevo desiderato né mi aspettavo di compiere, ma che ebbe un impatto e una risonanza enormi sulla mia vita. Col senno di poi, fu un sogno poter essere tanto vicino a uno dei più grandi creatori di sogni della storia. Ma i creatori di sogni incappano spesso nei carnefici dei loro sogni. E così avvenne fuori dai Dakota Apartments, casa di John Lennon, in quella fatidica sera di dicembre del 1980. La costruzione del Dakota Building iniziò sulla Settantaduesima Strada a Manhattan giusto un secolo prima della morte di John. La posizione scelta era sicuramente di richiamo, l'Upper West Side al tempo non era ancora così popolato, e il complesso si sarebbe trovato immediatamente a Ovest del Central Park, primo giardino pubblico urbano d'America. Dal 1880 al 1884, i costruttori si impegnarono a completare un edificio che seguiva gli ultimi dettami della moda architettonica. La vicinanza con il parco era un motivo di appeal ancora nuovo per New York. Ma nonostante la posizione e i comfort da ultima meraviglia dell'architettura, passarono anni prima che la vendita degli appartamenti ripagasse i proprietari del Dakota delle spese sostenute per la costruzione. Dakota sembra un nome curioso per un palazzo di appartamenti situato nel cuore della più grande metropoli americana. La leggenda vuole che, quando fu posata la prima pietra, il suo quartiere fosse un'area remota e abitata da poche persone, tanto da ricordare il territorio del Dakota all'epoca della colonizzazione. Una rappresentazione fisica più diretta di quel nome la diede un episodio accaduto durante la costruzione stessa dell'edificio, quando sopra l'imbocco della Settantaduesima fu eretta una statua raffigurante un indiano Dakota. La statua fa la guardia silenziosa al palazzo sin dall'inaugurazione, avvenuta nel 1884. Tra i caratteri ricorrenti del Dakota, progettato dallo stesso architetto che disegnò l'hotel Plaza, vi erano soffitti alti e teatrali e pavimenti intarsiati in noce e in ciliegio. Una definizione rimasta poi celebre lo descriveva come un «Cremlino vittoriano». I suoi inquilini raccontano che il senso di privacy e lusso che si vive al suo interno è di qualcosa unico a Manhattan, grazie a pareti spesse quasi un metro e salotti lunghi ben quindici. All'inizio del XX secolo, nell'Upper West Side furono costruiti
molti altri palazzi. Infine, la Settantaduesima divenne un'arteria stradale di primaria importanza, all'alba dell'era delle automobili e in virtù dei molti ristoranti alla moda presenti nel quartiere. Il Dakota è famoso per aver ospitato artisti e personaggi noti. Gli attori Boris Karloff, Lauren Bacali, Jose Ferrer e Judy Garland e il leggendario compositore Leonard Bernstein trascorsero gran parte della propria vita tra i suoi lussuosi appartamenti, che facevano da contraltare al severo disegno delle facciate esterne. Ma al di là del suo passato prestigioso e del suo rigore architettonico, il Dakota raggiunse una nuova e cupa dote di celebrità la notte dell'8 dicembre 1980. Alan Weiss passava spesso dal Dakota. Mentre andava al lavoro sulla Sessantaquattresima, il produttore del notiziario delle 18.00 della WABC-TV guardava il palazzo sapendo che ci viveva uno degli idoli della sua generazione. Weiss era un fan dei Beatles, e in particolare di John Lennon. Il destino ha voluto che incontrasse il proprio idolo nella zona d'ombra tra la vita e la morte; nel vasto universo di coloro che subirono quel lutto, fu colui che gettò sulla tragedia uno sguardo diretto e senza eguali. Quell'incontro fu possibile perché lui stesso, quella sera, aveva rischiato di morire: «Avevo un appuntamento e dovevo passare da un bancomat. Di solito quando andavo in moto mi allacciavo sempre il casco. Ma siccome dovevo solo attraversare il Central Park, mi misi in sella senza allacciarmelo. Imboccai la via di uscita che dal parco portava sulla Cinquantanovesima, all'altezza della Settima Avenue. Stavo svoltando a destra e il taxi che era all'interno stava per fare lo stesso, ma il tassista cambiò idea e provò a mettersi davanti a me. Lo centrai in pieno mentre andavo a 50 all'ora, mi schiantai sul manubrio, ruppi il parabrezza e caddi dalla moto. Diedi una testata violenta per terra, il casco slacciato si sfilò via e così battei la testa ancora un paio di volte, ribaltandomi sull'asfalto. Sembravo uno di quei sassi che schizzano sul pelo dell'acqua. Quando finalmente smisi di rotolare ero a terra, in mezzo alla strada; alzai gli occhi, e vidi un nugolo di macchine che arrivavano da dietro la curva». Oggi Alan Weiss lavora ancora a New York ed è un produttore di successo. Tra vari programmi, produce anche alcuni taglienti reportage di cronaca. Tuttavia, nulla di quanto abbia mai filmato potrà essere intenso come l'esperienza avuta quella notte. Lo shock fisico per i traumi riportati in un grave incidente fu seguito a breve da un'angoscia di tutt'altra natura. Quasi negli stessi istanti in cui Alain Weiss giaceva a terra tutto ammaccato, John Lennon e sua moglie Yoko Ono erano sulla via di casa, di ritorno dall'Hit Factory, un celebre studio di registrazione di Midtown. Diversamente dal solito, i due avevano passato quasi tutta la giornata a casa, a occuparsi di contratti, fermandosi solo per concedere una profetica intervista a Dave Sholin, responsabile di un programma a puntate dell'RKO Radio Network sulla vita delle coppie famose. Sholin era andato apposta a New York e la sua prima intervista con Lennon sarebbe stata per John l'ultima in assoluto. Il giornalista ricorda così quell'incontro: «Un'esperienza magica. Il pomeriggio dell'8 dicembre 1980 mi tolsi le scarpe, com'era costume a casa Lennon, mi sedetti su un divano foderato e, mentre il mio fonico sistemava l'attrezzatura, rimasi a guardare il soffitto. Sembrava il cielo; era dipinto a nuvole, bellissimo. Mi trovavo nel mondo di John e Yoko, ed ero un po' nervoso, ma il loro produttore David Geffen, futuro magnate della discografia e dei media in generale, mi aveva rassicurato. Pensavo che tutto sarebbe durato circa un'ora. Intorno all'una, Yoko Ono venne a salutarci in maniera molto cordiale. Iniziai l'intervista con Yoko, e dopo qualche minuto vedemmo John: «Eccomi. Siete pronti per me?» Cominciammo alla una e finimmo solo dopo le quattro. A John piacque davvero tanto, mi disse che avrebbe voluto portarsi via l'intero nastro. Fu una grande intervista». Quella di Sholin fu un'intervista rivelatrice. Alla luce del suo recente ritorno alla musica, molte delle cose dette da John rivelavano come la sua vita fosse in un periodo di cambiamenti: «Possiamo vivere o morire. Se moriamo, dobbiamo prendere atto che saremo morti; se siamo vivi, dobbiamo confrontarci con il fatto di essere vivi. Perciò domandarsi se l'Apocalisse arriverà da Wall Street o dall'Armageddon non ci sarà certo utile ad andare avanti…»
«Gli anni Sessanta ci hanno mostrato quali possibilità e quali responsabilità noi tutti avevamo. Non ci hanno dato una risposta, ma ci hanno fatto vedere che c'era uno spiraglio di luce, una possibilità… Può darsi che negli anni Ottanta saremo tutti ancora concordi nel dire: "Ok, ora proiettiamo di nuovo il lato positivo della vita"». «Non voglio più vendermi l'anima per avere un disco di successo. Ho scoperto che posso vivere anche senza, e questo mi rende più felice… Sentiamo di essere solo all'inizio. Double Fantasy, è il nostro primo disco. Lo so che abbiamo lavorato insieme anche prima… ma questo è il nostro vero primo album… Mi sento come se prima di oggi non fosse accaduto nulla…» «Bisogna ringraziare Dio o chi altro sta lassù, se siamo sopravvissuti allo scompiglio terribile che ha messo a soqquadro il pianeta. Ma ora il mondo non è più come negli anni Sessanta, è tutto cambiato. Non so cosa mi aspetta in futuro, ma sono ancora io. E quindi, finché c'è vita, c'è speranza». L'ultima, intensa intervista dà l'idea di un uomo che stava emergendo di nuovo, solo poche ore prima della sua morte; un uomo che usciva da un ritiro casalingo durato cinque anni ed era tornato a comporre musica, in apparente pace con se stesso e pronto ad affrontare tutto ciò che il futuro gli avrebbe riservato. Un uomo che era sempre stato vittima dei mali generati dall'insicurezza appariva pronto per un nuovo destino. O almeno così sembrava. Dave Sholin era felice. Pochi minuti dopo le quattro e mezza del pomeriggio guardava da un capo all'altro del marciapiede sulla Settantaduesima, mentre la sua troupe stava ritirando l'attrezzatura. Dalla parte opposta, sul lato sud, notò un paio di giovani. Uno di loro si avvicinò e gli chiese: «Hai intervistato John Lennon?» Lui non fece in tempo a rispondere che quello si era già allontanato. Sholin sostiene senza alcun dubbio – poiché quel volto lo perseguiterà per sempre – che si trattasse di colui che presto avrebbe fatto compagnia ad altri codardi assassini nella galleria dei peggiori farabutti di sempre: quell'uomo era Mark Chapman. Mentre Chapman si allontanava, dal Dakota spuntavano John e Yoko, in cerca di un taxi. Sholin si offrì di dar loro uno strappo fino allo studio di registrazione. Era deciso a prendere il volo delle 18.30 per San Francisco, ma come poteva non dare un passaggio a John e Yoko? Così fece un viaggio in furgone in loro compagnia: «Avrei dovuto tenere acceso il registratore durante il tragitto. John era così pieno di vita, così felice. Era al settimo cielo. È vero, sembrava magro, ma in salute. Ero elettrizzato dalla sola idea di dargli un passaggio ed essere parte della sua giornata. Pensavo a lui seduto su quella sedia nel suo appartamento, a come amava parlare di Double Fantasy e a come tutto questo per lui rappresentasse una sorta di rinascita. Ci accennò ai pettegolezzi su un suo presunto attrito con Paul McCartney, dicendo che non era vero, che voleva bene a Paul, ed era sincero. E poi all'improvviso si mise a cantare; era un uomo felice. Quando scese dal furgone ci salutò con la mano e Yoko ci mandò un bacio. Arrivammo di corsa all'aeroporto Kennedy e riuscimmo per pochi minuti a prendere il volo, un tempismo singolare considerando quello che sarebbe successo. Mentre l'aereo volava verso ovest, il pensiero dell'intervista mi faceva star bene. Dopo alcuni anni rinchiuso in casa, John Lennon si era aperto con me parlando di tutto. Vedendolo, mi sembrava fiducioso e pieno di speranza. Ero davvero contento per lui». Alcune ore più tardi, Dave Sholin era volato ormai oltre le Montagne Rocciose, galvanizzato dalla giornata trascorsa con John e Yoko e ansioso di ascoltare i nastri della sua intervista. Era provato ma soddisfatto; lo confortava il pensiero di quel bellissimo lavoro, che si sarebbe presto rivelato più importante di quanto si aspettasse. Si accomodò per fare un pisolino più o meno negli istanti in cui Alan Weiss giaceva scomodo e dolorante su una lettiga nel pronto soccorso del Roosevelt Hospital di New York. «Ero steso sul lettino a rotelle. Arrivò una dottoressa, una bellissima donna, che mi guardò e disse: "Sa, le dovrò fare delle lastre. Dobbiamo capire se ha qualcosa di rotto". "Va bene", risposi. "È fortunato, è una serata tranquilla". Non aveva ancora finito di dirlo quando all'improvviso un uomo entrò di corsa urlando: "Ferito da arma da fuoco. Abbiamo un ferito da arma da fuoco! Gli hanno sparato al petto!" "Quando arriva?" "Sta entrando ora dalla porta". La porta si aprì sbattendo. Sei poliziotti entrarono correndo con una barella. La dottoressa mi guardò e disse: "Alan, mi dispiace. Devo occuparmi di lui". Ero steso sul lettino mentre quelli correvano nella sala operatoria. Ero lì con
gli occhi chiusi, arrivarono due poliziotti e uno disse all'altro: "Gesù. Non ci posso credere. John Lennon". Aprii gli occhi, guardai questi due poliziotti che stavano in piedi sopra il mio lettino e dissi: "Scusi signore, cos'ha detto?" Quelli se ne andarono. La gente volava dentro e fuori dalla sala e portava sangue, garze e tutto l'occorrente; provai allora a domandare a qualcuno: "Scusatemi, chi c'è lì dentro?" Ma nessuno voleva rispondermi». Il numero ufficiale del caso presso il Dipartimento di Polizia di New York era 14854, con data 8 dicembre 1980. All'incirca alle 22.52 di quella sera, l'agente di polizia Stephen Spiro arrivava all'ingresso del Dakota dalla Settantaduesima Strada, dove trovava John Lennon gravemente ferito e un giovane seduto a pochi metri di distanza intento a leggere il romanzo di J.D. Salinger Il giovane Holden. Mentre sul posto giungevano i soccorsi e John Lennon veniva trasportato d'urgenza al vicino Roosevelt Hospital, l'agente Spiro arrestava il sospetto – identificato come Mark D. Chapman, ultima residenza conosciuta a Honolulu, Hawaii – e gli confiscava un revolver calibro 38 a canna corta. Il referto ufficiale della polizia, scritto l'indomani mattina, recitava: «La vittima è stata colpita con l'arma sopradescritta; la persona fermata è sospettata di avere causato la morte della vittima». Il referto di polizia non spiegava che Chapman aveva agito da codardo, colpendo John alle spalle. Certi assassini, o almeno molti di loro, agiscono quasi sempre in questo modo, forse per paura di guardare negli occhi le loro vittime. La mattina del 9 dicembre alle ore 8.02 Mark D. Chapman veniva messo in carcere e rinviato a giudizio con l'accusa di omicidio. Aveva con sé il libro di Salinger e 2.201 dollari e 76 centesimi in contanti. Risultava evidente dall'agguato, dalla posizione dell'aggressore e dalle circostanze del suo arresto che Mark Chapman si era recato sul luogo con l'intenzione di uccidere. Il 14 dicembre, secondo il referto del Ventesimo distretto, il caso era chiuso, in attesa dell'esito del processo. Il referto ufficiale su ogni episodio di violenza riporta i fatti cui l'agente ha assistito di persona. Ma in questo caso c'era di più. Per prima cosa, andrebbe notato come Mark David Chapman avesse assunto una posizione di tiro da militare, esplodendo sei colpi alle spalle di John Lennon. È sorprendente, e ha quasi del miracoloso, il fatto che Yoko Ono sia rimasta illesa. La scena del delitto, così come viene raccontata nei referti ufficiali della polizia, narra di un Chapman abulico, intento a leggere il suo libro fino all'arrivo della volante. Ma nel tempo trascorso prima dell'arrivo dell'agente Spiro, Chapman aveva camminato avanti e indietro senza sosta agitando il revolver. Nei minuti in cui John veniva portato a braccia su per le scale fino all'ufficio di sicurezza del Dakota, Chapman continuò a comportarsi da esagitato, urlando minacce al portiere e ad altri presenti prima di sedersi a leggere. In pochi minuti, gli agenti di polizia portarono John dalla stazione di sicurezza all'auto di una pattuglia e lo adagiarono con cautela sul sedile posteriore. La macchina si precipitò al Roosevelt Hospital proprio mentre l'assassino veniva portato via. Sì, è vero che Chapman poche ore prima aveva chiesto un autografo a John. E Lennon, sempre disponibile, lo aveva accontentato firmandogli la copia di Double Fantasy. Poi John aveva domandato a Chapman se desiderava altro oltre all'autografo. «No, grazie John», aveva risposto quello. Ovviamente non voleva solo un autografo. Quando lo portarono via dal luogo dell'omicidio, quel giovane di quasi 25 anni dall'aria innocente aveva stampato in faccia un sorriso compiaciuto, da cui trapelavano i demoni annidati dentro di lui. Il carnefice del sogno poteva anche leggere un libro sulla ribellione, ma era solo un vigliacco assassino che aveva colpito a sangue freddo il creatore di sogni, sparandogli alle spalle. Caso chiuso? No, non così in fretta. In ogni tragedia pubblica c'è un prezzo privato da pagare: il prezzo che pagano i parenti più prossimi. Ma nel caso di John Lennon e della sua famiglia estesa di fan, quel costo privato era immenso, oltre l'immaginabile. Imagine all the people… John Lennon, un uomo il cui enorme talento era talvolta alimentato da attacchi di sconforto e insicurezza, non avrebbe mai potuto immaginarsi la scena del Dakota. Né lo sforzo drammatico compiuto per tentare di salvargli la vita, o la terribile sofferenza cui andò incontro sua moglie. Sulla strada verso l'ospedale, Yoko Ono implorava l'agente di polizia Anthony Palma: «La prego, mi dica che non è vero!» Più tardi l'ufficiale avrebbe raccontato che era «in preda all'isteria». Al Roosevelt
Hospital, i medici che si occupavano di Alan Weiss si spostarono tutti per prendersi cura del ferito. Mentre i pezzi rapidamente prendevano a combaciare, Weiss comprese di essere testimone dell'incredibile. «Sentii gridare, mi girai e vidi una donna, che dall'aspetto sembrava di origine asiatica, con indosso un lungo cappotto di visone, mentre entrava al braccio di un agente di polizia molto robusto, che indossava un giubbotto da motociclista. Sembrava Yoko Ono. Doveva trattarsi di John Lennon. Mi resi conto di dovermi alzare a fare una telefonata e, forse perché intanto l'adrenalina iniziava a circolare, mi dimenticai del dolore. Allora mi alzai e fui in grado di camminare per il corridoio. C'era una porta a vetri, e fuori della porta un telefono a gettoni. Ero stato già molte volte in quell'ospedale. Sapevo com'era fatto. Stavo passando dalla porta quando un uomo della sicurezza mi fermò e mi disse: «Lei non può uscire». «Ma cosa significa che non posso uscire? Siamo in un posto pubblico. Io me ne vado. Mi faccio dimettere». «No, lei non può uscire». E mi tirò dentro dalla porta. In quel momento, il poliziotto che mi aveva portato in ospedale arrivò dall'altro lato del corridoio e quando mi vide iniziò a correre: «Signor Weiss, cosa fa in piedi? Abbiamo dovuto smontare la barella per farla entrare». E io: «Non ha sentito?» «Non ho sentito cosa?» «Non ha sentito che hanno sparato a John Lennon?» «Chi gliel'ha detto?» E io: «Nessuno me lo ha detto; ho solo sentito dei poliziotti parlarne». «Alan, lei è fuori di sé. Ha battuto la testa. Le dispiace andarsi a sdraiare?» «Certo, ma mi farebbe un favore? Mi lascerebbe chiamare il mio ufficio?» Allora il poliziotto si sporse, prese il telefono del centralino dell'infermeria e compose il numero del mio ufficio. Riuscii a parlare con Neil, il mio produttore. «Neil, sono Alan». «Ehi, Alan. Ho sentito che hai avuto un incidente: stai bene?» «Neil, penso che abbiano sparato a John Lennon e che lui sia qui al Roosevelt». Quindi mi riportarono al mio lettino; stetti seduto sul bordo e li guardai operare John dentro la sala operatoria di emergenza. Era completamente nudo, aveva le gambe rivolte verso di me, c'erano i dottori e si vedeva tutto… John Lennon era un idolo, un idolo assoluto. Adoravo i Beatles – ero cresciuto con loro e amavo in particolare John, per cui no, non feci più tanto caso ai miei dolori». Weiss era un giornalista esperto, ma anche un essere umano con i suoi sentimenti. Mentre riportava la notizia della possibile morte di John Lennon, non poté e non volle raccontare i dettagli della scena orribile che si stava rivelando ai suoi occhi, distante solo pochi metri. «Riuscivo a vedergli il petto. Era squarciato. Potrei sbagliarmi. Forse era solo insanguinato. Lo stavano operando. Quindi mi trasportarono sul lettino a rotelle fuori dalla sala di emergenza, mi sistemarono in una sala appena fuori e mi lasciarono lì. Devo essere rimasto così per un quarto d'ora. Mi ricordo che dall'impianto dell'ospedale suonavano All My Loving o Till There Was You… Ancora quattro minuti e sentii gridare: "No! No! Oh, no!" Una porta si aprì e ne uscì Yoko Ono, che piangeva come un'isterica tra le braccia di David Geffen. Uscirono dal corridoio insieme… ed era… purtroppo… finita». Dave Sholin si sentiva molto stanco per il jet-lag quando raggiunse il San Francisco International Airport. Salì in macchina e, una volta entrato in autostrada, si sintonizzò sulla sua stazione radio, la KFRC. Stavano suonando una serie di canzoni dei Beatles. Fu il primo indizio che qualcosa non andava. Sholin ricorda così quel momento: «Non suonavano mai canzoni dei Beatles. Capii che era successo qualcosa. Mi misi ad andare più forte. Sentii la notizia e mi esplosero brividi ovunque. Pensai a un incubo. Tra il momento in cui l'avevo lasciato all'Hit Factory e il mio arrivo a San Francisco, John aveva cessato di respirare. Quando aprii la porta del mio appartamento, riuscivo a malapena a camminare. Debole. Così mi sentivo. Era una cosa talmente surreale, e spaventosa. Sedetti da solo, ancora sotto shock. Dopo mezz'ora suonò il telefono. Per due giorni di fila parlai dell'ultima intervista a Today Shows, a Good Morning America e a frotte di reporter. Da allora non ho più smesso di parlare di quell'intervista. Ma non dimenticherò mai il momento in cui venni a sapere che John era morto. E la solitudine che ho provato in quell'istante». Solo. Perseguitato. Surreale. Il ricordo di quella notte trabocca ancora di parole e di emozioni, come se le persone avessero perso una parte di sé e in quel vuoto albergasse un interminabile rimpianto. E
mentre le parole raccontano la storia, le immagini le assicurano un'impronta fisica. Gli istanti colti dalla lente di un fotografo rivelano l'umore, il dolore, la gioia, la disperazione, e la speranza. Nessuno scattò più fotografie a John Lennon di Bob Gruen. La notte dell'8 dicembre 1980 si trovava a casa sua, nel West Village, a stampare la sua ultima serie di foto di famiglia per John e Yoko. Bob era un giovane fotografo di celebrità che si stava facendo un nome. Stava lavorando in camera oscura, eccitato per quei suoi scatti. Sperava di riuscire a portarli al Dakota per l'una di notte. L'ora non era inusuale per i Lennon, che vivevano secondo orari tutti loro. Pur essendo Gruen più giovane di sei anni, lui e John avevano una forte affinità, nel pieno dello spirito di quei tempi. John Lennon ebbe pochi amici uomini. È risaputo che legasse più facilmente con le donne. Gruen rappresentava un'eccezione, infatti era uno degli amici più intimi di John, ed era diventato, di fatto, il fotografo di famiglia suo e di Yoko. Quest'ultima, possessiva e sempre attenta a chiunque John frequentasse, si sentiva invece tranquilla per la sua amicizia con Bob. Mentre apportava gli ultimi ritocchi all'ultima serie di foto, Gruen ricevette una chiamata d'urgenza dal portiere dello stabile in cui abitava. «Stavo stampando le fotografie che avevo scattato due giorni prima a John. A tarda notte, come al solito, sarei dovuto andare allo studio. Erano all'incirca le 11, credo, e stavo finendo l'ultimo paio di stampe che dovevo lavare e poi asciugare, per poi correre allo studio a mezzanotte, farle vedere a John e Yoko, uscire entro l'una e andare al Village Voice a portare le foto prima del termine di consegna, fissato per le 2 del mattino. Quello era il mio programma per la serata. Il mio portiere mi chiamò e chiese se avessi la radio o la tv accese. Sapeva che conoscevo John Lennon. "No, perché?" "Guarda, ho appena sentito alla radio che hanno sparato a John Lennon". Dato che mi disse che stava registrando e che gli avevano sparato all'uscita dallo studio, pensai per prima cosa che fosse accaduto tra la Quarantaquattresima Strada e l'Ottava Avenue. In quel periodo l'area intorno a Times Square era un posto squallido e spesso vi capitava quel genere di aggressioni; se li era trovati all'improvviso dietro un angolo o qualcosa del genere, qualcuno forse aveva tentato di rapinarlo, lui non aveva soldi – perché John di solito non girava con i contanti, era Yoko a prendersi cura di tutte le questioni economiche, tanto che lui a volte non aveva in tasca neanche un biglietto da cinque dollari – e quelli lo avevano colpito a una gamba o a un braccio. Ma sparare a qualcuno non vuol dire automaticamente ucciderlo. Da quel momento il mio telefono iniziò a suonare all'impazzata. Mi chiamò un mio amico in California, che era davanti alla tv. Aveva curato l'ufficio stampa degli Elephant's Memory e avevamo lavorato molto insieme a John e Yoko. "Cosa sta succedendo?" mi domandò. "Non lo so, sono qui a New York e non ho ancora acceso la tv". "Bene, io ho la tv accesa". "Cosa diavolo stanno dicendo?" gli chiesi, e ricordo che lui rispose: "C'è sangue dappertutto. John Lennon è morto". Sai, Phil Spector una volta disse che era la più oscena delle parolacce – mentre parlava di oscenità sostenendo che non esistono parole oscene quando si parla di fare l'amore con la persona che ami. "La parolaccia più oscena è morto". Quando sentii quella parola, quella notte, quasi collassai sul pavimento e iniziai a pensare a tutti i modi in cui potevo cambiarla. Come puoi cambiarla? Cosa puoi fare? Cosa puoi fare? Non c'è niente che puoi fare quando qualcuno è morto. Mi sentii davvero disperato, impotente». Nel momento in cui Bob Gruen stava verificando quanto era accaduto, ad Allen Tannenbaum, pluripremiato giornalista di fama internazionale, squillò il telefono mentre era al lavoro nella sua camera oscura. Appena ricevuta la notizia, si precipitò al Dakota. Tannenbaum fu una delle ultime persone a fotografare John e Yoko. Il suo pensiero corse subito a loro due insieme: «Fu uno shock tremendo. Appena dieci giorni prima avevamo camminato per il Central Park. Si tenevano per mano, godendosi la rinascita della musica nella loro vita. Sembravano tanto innamorati, e così vivi». May Pang stava cenando a New York. Era una serata come tante, o almeno questo era quel che pensava. Aveva lavorato per anni per John e Yoko, e stava ancora facendo i conti con una crisi personale dovuta alla fine della sua relazione con John, all'aver tagliato i ponti con l'uomo di cui si era con ritrosia innamorata. David Bowie era un amico di May e si trovava a New York. Per un senso di premura, lui e il suo entourage si assicurarono che lei avesse un posto in cui trascorrere assieme ad
amici la tarda notte e il mattino dopo, mentre il quadro di quanto accaduto andava viepiù delineandosi. May ricorda piangendo: «Mi trovavo per coincidenza proprio nell'Upper West Side, a cena con una mia amica. Sentii annunciare alla radio che avevano sparato a un uomo, presumibilmente a John Lennon. Ma l'annunciatore aveva riferito la notizia con una tale indifferenza… Io, seduta lì, impazzivo domandandomi che senso avesse quell'indifferenza. Cercai un telefono per chiamare un amico, Mario. Lo chiamai. "Hai sentito?" "Si, non so nulla". "Pensi che…" e mentre lo dissi tornò in onda lo speaker. "Si trattava di John Lennon. È morto pochi minuti fa". Uscii completamente di testa, e corsi fuori a chiamare un'altra mia amica che viveva nel quartiere. Mi disse: "Ti riporto a casa". Così corsi a casa, il mio telefono suonava, c'erano già dei messaggi in segreteria e parlai con l'assistente di Ringo Starr. " Abbiamo bisogno del nome dell'ospedale". "Non serve più. È morto poco fa", dissi io. Si mise a urlare: "Che cazzo c'è nel vostro maledetto Paese! Adesso devo riattaccare e dirlo a tutti". Ero davvero, davvero fuori di me, e fu allora che chiamai David Bowie, perché io e John avevamo conosciuto Bowie insieme e David si trovava in città. Mi rispose la sua assistente: "È fuori per un appuntamento. Ma vieni qui da noi. Non devi rimanere da sola". Ci andai per vedere David. Lo rintracciarono e alla fine ci sedemmo tutti insieme, la sua assistente, io e lui – rimanemmo lì, seduti, senza fare niente. Rimasi con loro fino al mattino perché non volevano vedermi andare via». Ernie Anastos era un giovane anchorman della WABC-TV; la sera dell'assassinio di John Lennon si stava preparando, come al solito, a condurre il telegiornale delle 23. Lavorava a soli sei isolati dal Dakota, negli studi sulla Sessantaseiesima appena fuori Columbus Avenue. Faceva quel lavoro da due anni e se la stava cavando davvero bene. Qualche ora prima aveva avuto un appuntamento per cena con Charles Grigas, un compagno di scuola delle superiori di Nashua, nel New Hampshire. Dopo cena, Anastos e il suo ospite decisero di fare una passeggiata per l'Upper West Side. «Ed eccoci lì, di fronte al Dakota, sulla Settantaduesima. Ero un grande fan dei Beatles, e ammiravo soprattutto John Lennon. Mi chiedo ancora oggi cosa mi spinse a farlo in quella serata gelida, portare Charles a vedere il Dakota. Glielo indicai e dissi: "Qui è dove vive John Lennon, proprio lassù". Rimanemmo a guardare, e a immaginarci come poteva essere dentro. Facemmo a piedi i sei isolati per tornare al lavoro. Era un lunedì sera come un altro a New York». Anastos tornò al lavoro per preparare il notiziario delle 23. Quando arrivò la telefonata del suo collega Alan Weiss, dal Roosevelt Hospital, entrò di corsa in studio con il cuore che gli batteva a mille, l'adrenalina in circolo e le lacrime che gli sgorgavano dagli occhi. Fu probabilmente la notizia più difficile che abbia mai dovuto leggere. «Questa sera John Lennon è stato ucciso a colpi di pistola fuori dai Dakota Apartments sulla Settantaduesima Strada». Mentre emergevano i dettagli di quanto era accaduto, Ernie Anastos dava la linea ai colleghi in diretta dall'ospedale e dal Dakota, e per tutta la durata del programma, in apparenza, trattenne le emozioni che montavano dentro di lui. Oggi ricorda così quella notte dolorosa: «Ebbi una reazione emotiva fortissima. Del resto, era un attacco a tutta la mia generazione. Amavo i Beatles, e specialmente John. A volte, quando sei in onda, non hai il tempo di capire ed esprimere i tuoi sentimenti, ma venne tutto a galla mentre salivo in macchina per tornare a casa. Arrivai ai Dakota e c'era già un capannello di persone, forse un centinaio. Alcuni avevano candele in mano. Altri guardavano verso il palazzo. Quello che vidi non lo dimenticherò mai. Che serata deprimente. Intendo dire, quale capriccio del destino poteva avermi spinto al Dakota poche ore prima, la sera stessa in cui avrebbero assassinato un mio idolo?» Mentre Ernie trasmetteva la notizia a New York, io svolgevo lo stesso duro compito a Philadelphia per Channel Ten della WABC-TV, per cui conducevo i telegiornali delle 18 e delle 21. Sarà stata la mezzanotte meno dieci minuti quando corsi sul set. Mi tremarono le mani nello stringere il dispaccio con la notizia. Fu un dolore, per me, dover pronunciare quelle parole. Rabbrividii nell'annunciare: «Sono Larry Kane, con un'edizione straordinaria di Channel Ten News. L'ex musicista dei Beatles, John Lennon, è stato ucciso a colpi di pistola fuori da casa sua, ai Dakota Apartments, nel West Side di Manhattan. Abbiamo ancora pochi ragguagli sull'accaduto, ma sappiamo che Lennon è stato ferito più volte al petto, e il Roosevelt Hospital ne ha dichiarato ufficialmente il decesso. Aveva quarant'anni».
Qualche giorno dopo curai una speciale trasmissione omaggio. Piango ancora quando vedo e ascolto i nastri di quello show, con le immagini di John che cammina al parco, rintanato sotto le coperte nei famosi «bed-in» di Amsterdam e Montreal, mentre sorride sornione nelle foto da adolescente e da giovane. C'era John che scendeva dal Clipper della Pan Am durante la prima tournée dei Beatles in America e le foto del giovane studente d'arte e del rocker indemoniato nella prima città catturata dai Beatles: Amburgo. C'erano foto di lui con Cynthia Lennon e, naturalmente, con Yoko. Il nostro omaggio fu trasmesso in prune time e si concludeva con queste parole: «John Lennon ci lascia la musica e il suo messaggio, e la sua musica e il suo messaggio continueranno a vivere». Le parole dette in televisione rispecchiavano a malapena le emozioni che provavo dentro di me e i flash di memoria degli anni Sessanta, di quando ero fianco a fianco con John, lo intervistavo, discutevo con lui, ridevo ed ero il bersaglio di alcune sue battute pungenti e spassose. La morte di John anticipò altri fatti di sangue, ma allora non potevo saperlo. In pochi mesi, l'assassinio divenne un leitmotiv politico del 1981. Le vite del presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, e di papa Giovanni Paolo II furono messe in pericolo da attentati. In Egitto, Anwar Sadat, che aveva imboccato la via della pace trascinando con sé il suo Paese, fu assassinato durante una parata pubblica. L'assassinio di John sembrò l'inizio di un ciclo pericoloso. Diverse biografie di John uscirono immediatamente a ridosso dell'accaduto. Ma il vero omaggio arrivò dalla gente. Nel giro di un'ora dal momento in cui fu data la notizia della sua morte, più di 750 persone si radunarono fuori dal Dakota. Alcune avevano la vestaglia o il pigiama sotto il cappotto. Le doppie file di macchine bloccavano il traffico. A 170 chilometri di distanza, a Philadelphia, un piccolo gruppo di persone accendeva alcune candele sui celebri scalini del Philadelphia Museum of Art. Veglie simili presero forma e proseguirono fino a tarda notte a Chicago, a Los Angeles, e in altre città sparse per l'America; ma l'attenzione del mondo si concentrò sul Dakota. La parte occidentale del Central Park divenne un parcheggio. Una persona che assisteva alla veglia proclamò a voce quello che in molti pensavano dentro di sé: «È come se avessi perso qualcuno di famiglia». Alcuni tra la folla cantavano canzoni di John e dei Beatles. Cantavano piano, sussurrando le parole nell'aria gelida della notte. C'era chi piangeva e singhiozzava, e chi aveva lo sguardo perso nella notte buia. Non la presero diversamente neppure i poliziotti, molti di loro nutrivano un affetto speciale per John. Un tempo dipinto come un radicale dalla Casa Bianca dell'amministrazione Nixon, e spiato da agenti dell'Fbi, era diventato un orgoglioso cittadino di New York, e in un'occasione aveva raccolto migliaia di dollari per comprare giubbotti antiproiettile destinati a uomini e donne della polizia. Si aspettavano le comprensibili reazioni di shock e di sdegno negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Germania, e in altri luoghi in cui John Lennon era stato a contatto diretto con le persone. La cosa sorprendente, all'indomani del suo assassinio, furono i raduni spontanei e le esternazioni pubbliche in favore di un artista fuori dagli schemi, che presero forma in Paesi dove queste espressioni comportavano il rischio di finire in carcere. Migliaia di giovani riempirono le vie di Mosca e dell'allora Leningrado in quella che al tempo era l'Unione Sovietica. La canzoni dei Beatles, e specialmente di John Lennon erano un trofeo ambito in quelle città, prodotti di un mercato nero che si sarebbe estinto solo a fine decennio con la caduta del muro di Berlino. Uomini di tutto il mondo si radunarono per piangerlo e commemorarlo; nel farlo anche di fronte al pericolo, alcuni di loro emularono il coraggio pubblico dimostrato da John Lennon. Forse la più audace tra tutte le dimostrazioni di affetto ebbe luogo su un muro di Praga, allora capitale della Cecoslovacchia. Cominciò tutto da un angolo nel muretto di un cimitero risalente al XIV secolo. Lì, nei giorni successivi alla morte di John, sotto gli occhi degli agenti dello stato fantoccio in mano ai sovietici, alcuni giovani crearono quello che sarebbe diventato famoso come il «Muro Lennon». All'inizio il muro nacque come un altarino e un piccolo monumento alla memoria di John, ma ben presto si tramutò in un simbolo della protesta dei giovani contro il regime. Per nove anni, finché la «Rivoluzione di velluto» non liberò la Repubblica Ceca, il muro fu terreno di scontro continuo tra gli attivisti e il governo e vi furono dipinti slogan antigovernativi. Nel giro di pochi giorni, una mano di vernice bianca li ricopriva ma gli imbianchini del governo nascondevano i messaggi per ritrovarli ridipinti alcuni giorni dopo. Il gioco del gatto col topo continuò per anni. La maggior parte dei messaggi
erano frasi tratte dalle canzoni di John che inneggiavano alla pace e alla libertà. Nemmeno le telecamere di sorveglianza impedirono agli audaci pittori e poeti di esprimere i loro pensieri tramite la musica di John. Alcuni dei primi contestatori furono incarcerati e talvolta picchiati ma l'immagine del loro spirito, e dello spirito della persona che erano lì per esaltare, non sarebbe mai stata sconfitta. Anche in una società chiusa, gli imbianchini di regime alla fine perdono. Oggi che Praga vive in un'era di libertà, il Muro della Pace John Lennon si trova ancora fiero nel suo luogo originario, ed è visitato ogni anno da migliaia di persone provenienti da ogni parte del mondo. John Lennon non andò mai a Praga, ma il piccolo monumento è in piedi a testimoniare il potere del suo messaggio e il fascino magnetico della sua personalità e rimane un'altra prova toccante dell'influenza di John come icona. Non visse abbastanza per vedere la Rivoluzione di Praga, che fu «di velluto», pacifica, come sarebbe piaciuta a lui: non fu esploso un solo colpo. Negli anni conclusivi del regime comunista, John sarebbe stato orgoglioso di vedere i giovani rischiare la vita e lottare per la loro libertà, rendendo omaggio a lui come uomo e allo spirito liberatorio della sua musica. In parole e note, John fu la guida di quei giovani rivoluzionari che sognavano di emanciparsi e di avere finalmente la libertà di esprimersi. Nei giorni immediatamente successivi alla sua morte, in ogni capitale del mondo si accesero candele per John. A Rio de Janeiro e a Belgrado le stazioni radio misero da parte i loro palinsesti e suonarono a getto continuo la musica dei Beatles. A Liverpool, dove tutto era cominciato, la gente si radunò per numerose commemorazioni e funzioni religiose. George Harrison, Paul McCartney e Ringo Starr si trincerarono tutti nel loro isolamento. Harrison espresse il suo dolore e disse ai giornalisti: «È scandaloso che qualcuno si porti via la vita di qualcun altro quando non è chiaramente in grado di fare ordine nella propria». A Madrid, il settimanale «Cambio 16» sentenziò ancora più duramente: «Un imbecille ha zittito per sempre una voce dell'intelligenza». I giornali londinesi colsero l'occasione per tuonare contro le permissive leggi americane sul possesso di armi da fuoco e uno scrittore definì l'America «la terra dell'eterno crimine gratuito». Ma qualunque fosse la reazione, e da dovunque arrivasse, una cosa era certa: la tragedia portò con sé un senso condiviso non solo di lutto, ma anche di unità sotto la bandiera degli ideali che John rappresentava. I leader mondiali espressero pubblicamente il loro cordoglio. L'ex primo ministro inglese, Sir Harold Wilson, definì l'assassinio «una grande tragedia» e ricordò il momento in cui aveva insignito i Beatles della medaglia di membri dell'Ordine dell'Impero Britannico. Come avrebbe fatto qualunque politico di questo mondo, tralasciò di aggiungere che Lennon aveva restituito la medaglia in segno di protesta, in una delle tante clamorose uscite pubbliche che avevano segnato la sua vita, dall'infanzia fino alla morte. Il Presidente degli Stati Uniti in carica, Jimmy Carter, esternò il suo dolore, mentre il neo-eletto Ronald Reagan, che sarebbe sopravvissuto a un attentato pochi mesi più tardi, espresse anch'egli le sue condoglianze e il proprio rammarico. E mentre la grande ondata di cordoglio pubblico e privato proseguiva in tutto il mondo, molti, increduli e ancora scioccati dalla perdita, cercavano altre informazioni e un significato. Chi era quindi quest'uomo, John Lennon? Un bambino come tanti, cresciuto senza l'amore di sua madre e di suo padre. Un ragazzo che i suoi insegnanti giudicavano stravagante e ribelle, dotato di un'arguzia che faceva ridere e qualche volta arrabbiare. Un difensore delle donne che ne aveva anche per loro. Un uomo di pace in grado di essere in guerra con se stesso; un artista che aveva disegnato il mondo e la sua gente in maniera nitida; un autore che aveva sfidato le leggi di gravità della letteratura; un compositore che si era unito a un giovane amico di nome Paul per formare il più importante sodalizio nella storia della musica popolare moderna. Era un poeta la cui passione nei confronti dei meno dotati era pari alla sua intolleranza verso gli intolleranti. Un uomo pieno di forza di volontà che diventò debole per colpa dell'abuso di droghe. Il suo atteggiamento di sfida verso le autorità, affinato sin dall'infanzia, lo trasformò, mentre cresceva, in un uomo di saldi principi che compromise di rado le sue posizioni o le sue passioni. Poteva essere divertentissimo, o aspro e crudele, e usava il suo caustico umorismo e il suo temperamento per far venire la pelle d'oca a quei politici paranoici che lo facevano pedinare di notte. John Lennon era un uomo ricco che stava con i poveri, un padre che percepiva le proprie esitazioni, un marito confuso. Ebbe molte donne, ma ne amò solo tre. La sua vita fu una reinvenzione continua, il suo genio a volte debilitato dai suoi stessi demoni interiori. Da vivo, fu un
creatore e un inventore. Da morto, diventò un'icona. Sono orgoglioso di averlo conosciuto. Milioni di altri essere umani si sono sentiti vicini a lui, ciascuno a suo modo. Ecco la sua storia – la storia di un uomo che ebbe un solo passaporto, ma fu sempre, senza ombra di dubbio, in vita come in morte, un cittadino del mondo.
2. ALL YOU NEED IS LOVE
«La cosa grande dell'amore è che ti concede sempre un'altra possibilità» JOHN LENNON A RISHIKESH, INDIA, FEBBRAIO 1968 Chi era davvero John Lennon? Quale forza ha modellato la sua vita? La risposta è: l'amore. Nell'arco di una vita l'amore si conquista e si perde di continuo. La ricerca, la mancanza e gli eccessi di questo sentimento disegnano la mappa delle nostre esistenze. L'amore cercato e quello ricevuto, con le loro gioie e delusioni, hanno marchiato a fondo la vita e la carriera di John, fatte di storie tanto diverse quanto i periodi in cui sono state vissute. L'uomo che fondò i Beatles e rappresentò la scintilla di un momento cruciale nella storia della cultura venne conteso fin dall'infanzia tra amori conflittuali. I primi, una madre assente, un padre svanito nel nulla e due zii premurosi, lasciarono un alone d'ansia e incertezza persistente che pesò come una cappa sugli anni della sua formazione. Poi vennero le storie sentimentali. La vita di John è popolata di donne ma lui ne amò davvero soltanto tre: la fidanzata del liceo, un'intellettuale d'avanguardia ossessionata dal voler eccellere a tutti i costi e una ragazza che incontrò in un momento in cui si sentiva più che mai incerto e insicuro. Ma c'è una quarta persona: il partner musicale che fu davvero il suo più grande amico, colui che lo conobbe più da vicino. Quel giovane, un essere speciale dotato di altrettanto talento, è il solo uomo che John abbia mai amato, e lo segnò per tutta la vita: si tratta di Stuart Sutcliffe. Per una persona insofferente e sicura di sé ai limiti della presunzione com'era John Lennon, la ricerca del vero amore o di un'amicizia duratura rappresentò un cammino delicato e difficile. Quattro persone gli fecero da guida, tre donne e un uomo. Quattro storie d'amore contribuirono a modellare una mente brillante e tormentata. Storie che sono, di conseguenza, la sua.
Prima di salire sul palco Il 9 ottobre del 1940, un bambino venne al mondo in un'Inghilterra bombardata non sapendo di avere un tessuto familiare fragilissimo sotto di sé. La nascita di John Winston Lennon, primogenito di Alfred e di Julia Stanley, venne salutata con grande gioia, ma l'euforia fu di breve durata. Julia era una donna libera, mentre suo marito, lavorando sulle navi, era sempre lontano, per mare. Nel 1945 i due erano formalmente separati ma avevano condotto vite separate, di fatto, anche durante il matrimonio. Da quando ebbe cinque anni fino all'età adulta, John seguì l'evolversi di una situazione difficile, diviso tra due donne che rappresentavano le cose di cui più aveva bisogno e che assai di rado riuscì ad avere insieme: ordine e affetto. Mentre il padre era sempre lontano, la presenza della madre, troppo concentrata sulla propria vita, non era mai costante. Benché non lo abbia mai abbandonato, Julia preferì affidarlo alle cure della sorella Mary Elizabeth, detta Mimi, serenamente sposata con l'affabile George Smith. Sentendosi probabilmente in colpa per le continue assenze, Julia era sempre molto permissiva al punto da viziare il picco lo John, Questi, una volta lasciato solo con zia Mimi, scoprì invece che esistevano anche la disciplina e l'organizzazione, e un altro tipo di figura materna che invece temeva e tentò di aggirare. Dagli zii ebbe l'amore e il rispetto dei veri genitori, teneri e premurosi ma attenti alle
regole. Entrambi furono la base della sua crescita e gli trasmisero la passione per la lettura e la scrittura. Zio George, poi, era un uomo particolarmente sensibile e adorava Mimi. Anche quando la moglie tendeva a imporsi, era sempre affettuoso e disposto a darle una mano. Secondo Yoko Ono, il lato più tenero e premuroso di John risentiva proprio dell'influenza dello zio. «George era un marito gentile e affettuoso. Come John, che lo aveva preso ad esempio e a casa si comportava nella stessa maniera, gentile e dolce». Ma il percorso che aveva portato John a Mendips, la casa degli zii materni sulla Menlove Avenue a Woolton, un elegante e bucolico sobborgo di Liverpool, non poteva colmare i vuoti emotivi. Suo padre Alfred, o Freddy, come lo chiamavano tutti, lo aveva abbandonato. Sua madre, libera e disinvolta, intratteneva numerose relazioni occasionali. Da una di queste, con un militare che sparì subito dalla sua vita, era nata una bambina, data in adozione a una coppia norvegese. Finita la guerra, Julia si era innamorata di un cameriere di nome John Dykins e conviveva con lui in un appartamento. Le condizioni dei due erano così misere che Mimi, spinta anche dalle pressioni di alcuni assistenti sociali, convinse la sorella a darle in affido il nipote. John divenne così l'unico figlio di Mimi e George, e Mendips fu casa sua fino a quando andò via, a 23 anni. Rimase in contatto con Julia, che ebbe poi due figli da Dykins, e la andò spesso a trovare. Questa dissociazione degli affetti fu la causa della sua insicurezza e del suo cattivo comportamento a scuola; a casa, però, poteva comunque contare su zia Mimi, che gli controllava i compiti, e su zio George, che gli leggeva dei libri per farlo addormentare. Mimi era come una mamma, e l'influenza che ebbe su John è fuori discussione. Fu lei a fargli il regalo della vita, comprandogli nel 1956 la prima chitarra spagnola. John, eccitatissimo, iniziò immediatamente a suonarla, e nonostante la zia lo avesse avvertito da subito che non avrebbe potuto guadagnarsi da vivere con la musica, in poco tempo formò la sua prima band: i Quarrymen. Mimi non poteva immaginare le conseguenze del suo dono. La vita di John con gli zii era quasi un idillio. Mimi teneva molto alla disciplina, mentre George era più rassicurante e alla mano. Julia ogni tanto gli faceva visita, e madre e figlio ascoltavano musica insieme. Ma Mimi era la regina della casa. Lei e George assicurarono al nipote le premure, l'amore, il conforto e la struttura familiare di cui aveva disperatamente bisogno. La pace si ruppe quando Freddy ritornò a casa e nel corso di un'accesa discussione, avvenuta davanti agli occhi di John, Mimi e George, pretese che Julia gli affidasse il figlio. Straziato da quella scenata, John accettò di andare a vivere con lui ma poco tempo dopo tornò in lacrime dalla madre. Fu deciso una volta per tutte che avrebbe vissuto con zia Mimi, e così avvenne. Negli anni tra il 1946 e il 1955 John crebbe fino a diventare l'adolescente fulgido e ribelle che studiava alla Quarry Bank School. Ma ancora una volta una serie di eventi imprevisti, questa volta tragici, spezzò la sua felicità. Nel 1955, zio George morì per un'emorragia. La perdita fu devastante per la moglie e privò per sempre il nipote di una figura paterna. Come se non bastasse, tre anni dopo, nell'estate del 1958, Julia morì investita dall'auto di un poliziotto. John reagì alzando una cortina di silenzio che sarebbe poi diventata il suo modo caratteristico di elaborare il lutto. Due mesi dopo, però, la sofferenza silenziosa si trasformò in dolore tangibile. John Lennon era un adolescente triste e solitario, senza genitori e rimasto solo con Mimi, che soffriva per la morte prematura del marito. Avvertiva un vuoto profondo dentro di sé e aveva ben poco con cui alleviare il suo costante dolore. Solo all'inizio degli anni Settanta avrebbe parlato direttamente di quale tragedia fosse stata la perdita della sua madre naturale: «Fu investita da un poliziotto fuori servizio, ubriaco, alla fermata dell'autobus, dopo che era stata a casa della zia mentre io non c'ero. Seppi che aveva avuto un incidente dall'ufficiale di polizia. Fu proprio come si vede nei film: mi chiese se ero il figlio di Julia e mi disse cos'era successo. Sbiancai. È la cosa più terribile che mi sia mai capitata. Subito dopo mi misi a pensare: "Adesso non ho più responsabilità nei confronti di nessuno". Fu anche quello un trauma. A sedici anni l'avevo persa due volte, quando ero andato a vivere da mia zia dieci anni prima e il giorno in cui è morta. Questo non fece che aumentare la mia amarezza, e il fardello che avevo sulle spalle da ragazzo diventò davvero pesante. Me l'avevano uccisa proprio mentre ero riuscito a riavvicinarmi a lei».
Durante le due tournée in Nordamerica del 1964-65, John e io parlammo di cosa significava perdere una madre quando si è ancora giovani, un'esperienza che ci accomunava; la sua era morta sei anni prima, mentre il mio ricordo era ancora fresco, dell'estate del 1964. Mi raccontò di quanto tempo aveva avuto bisogno per riprendersi. «Per due anni sono stato accecato dalla rabbia. Ero sempre ubriaco o mi picchiavo con qualcuno. Qualcosa dentro di me non era a posto e, a causa del mio comportamento, tutti i genitori degli altri ragazzi, inclusi quelli di Paul McCartney, raccomandavano ai figli di starmi lontani». Ci fu però un ragazzo che non seguì la raccomandazione. Nove mesi dopo aver perso la madre, John conobbe Stuart Sutcliffe, colui che divenne la sua sola compagnia fissa, l'unico a cui John stesse a cuore, il suo amico del cuore; forse l'uomo più importante nella sua vita.
Stuart La prima grande ricorrenza storica celebrata dai fan dei Beatles è l'incontro tra John Lennon e Paul McCartney, avvenuto nel 1957 in occasione del concerto dei Quarrymen alla St. Peter's Church di Woolton. Subito dopo quell'incontro, Paul si unì al gruppo di John e il resto è Storia. Se è vero che il duo Lennon/McCartney è la ditta più celebrata della storia rock, è anche vero che John, in quello stesso anno, incontrò anche una persona che avrebbe avuto un'influenza ancora più grande sulla sua vita. Quell'amicizia non finì sulle prime pagine dei giornali, né fu descritta in tutta la sua importanza se non dopo decenni, eppure ebbe un impatto enorme. Nelle menti dei più fervidi appassionati dei Fab Four, il nome di Stuart Sutcliffe evoca la prevedibile immagine del «quinto Beatle», promettente pittore morto giovanissimo. Ma c'è molto di più: Stuart era una persona squisita, oltre che di talento, un artista prolifico, il migliore amico che John Lennon abbia mai avuto. Lo influenzò tantissimo, ma sfortunatamente subì un pestaggio da parte dello stesso John, un fatto deplorevole e spesso dimenticato che per alcuni ha gettato ombre sulla morte improvvisa di Stu. La vita di Stuart Sutcliffe fu piena di curiosità, stupore e voglia di esplorare. La sua vocazione era la pittura, ma era anche un musicista e diede il suo contributo alla musica dei Beatles. Secondo la sorella Pauline, fu proprio Stuart a suggerire il nome della band: «Al contrario di quanto sostiene la mitologia popolare, l'idea venne a Stuart partendo dal nome delle Beetles, la gang femminile del film Il selvaggio». Stuart Sutcliffe e John Lennon condividevano la passione per la ricerca profonda del vero senso della vita, che li unì per quattro anni ricchi di sperimentazioni e scoperte, durante i quali finirono per scoprire se stessi. Ma il tempo che trascorsero insieme fu poco: la morte prematura di Stuart avrebbe addolorato e sconvolto John per il resto della vita. Il senso dello stile, la ricerca artistica tutta tesa verso l'eccellenza e l'atteggiamento provocatorio di Stu influenzarono per sempre i pensieri e le visioni dell'amico, indirizzandone i primi passi verso la grandezza immortale. L'amico del cuore fu depositario di tutta la gioia, la rabbia e la speranza di John. Pauline, psicoterapeuta di professione, coglie nella loro amicizia un significato profondo. Secondo la sua analisi, il legame con Stuart è stato più importante di tutte le storie d'amore: «Non trovi significativo il fatto che John abbia ripreso, con tutte le donne che ha amato, modelli che rimandavano alla sua infanzia? Cynthia, dapprima fidanzata e poi moglie amorevole e premurosa, cercava di renderlo felice in tutti i modi. Yoko, donna di polso, motivata, lo spingeva di continuo a fare meglio, addirittura mettendo in discussione il suo successo. May Pang, la giovane amante, dava tutto per rendere ogni suo giorno speciale e ricco d'ispirazione. Il rapporto con mio fratello Stuart era ancora diverso. Ebbero fin dall'inizio una fortissima affinità spirituale, c'era qualcosa di unico nella loro amicizia e nel loro amore reciproco». Tony Bramwell, icona della scena musicale di Liverpool e amico di lunghissima data dei Beatles, ha il magone nel ricordarli insieme da giovani. «Stuart Sutcliffe era l'amico più intimo di John. Condividevano segreti e ragazze. La loro influenza reciproca è inestimabile». Il suo stile particolare, che abbinava bellezza estetica e sensualità al gusto per la sfida, costituiva gran
parte del fascino di Stuart. Ma il suo magnetismo si spiegava soprattutto con la sua grande umanità. Ancora oggi, pensando a lui, la sorella prova meraviglia, oltre a nutrire profondo rispetto nei suoi confronti come persona: «Era un uomo, un ragazzo, di un'integrità assoluta. John lo considerava come un fratello. Lo guardava con ammirazione, aveva fiducia in lui e lo rispettava perché era sempre sincero. Riconosco Stuart nelle sue parole, davvero si comportava così con tutti». L'acume artistico di Stuart influenzò John da molti punti di vista. Yoko Ono sorride dolcemente al pensiero dei ricordi di suo marito. È come se proprio l'influenza del suo amico Stu l'avesse condotto da lei: «John me ne parlava continuamente come di un amico a cui teneva molto e per cui nutriva un profondo rispetto. Erano da principio due artisti, poi John si era innamorato del rock&roll ed era diventato un musicista rock, ma nel cuore aveva sempre l'arte – ne parlava spesso con Stu. Penso di avere colpito proprio quel lato della sua personalità quando mi vide per la prima volta all'Indica Gallery. Stu era un artista e lo ero anch'io. È piuttosto ovvio. Ma nella mente di John ero anche una figura materna. Ero minuta come sua madre. Ho anche qualcosa di Mimi, dentro di me. Sono sorpresa che tutti questi pezzi combacino, anche se in modo estremamente complesso». John e Stu si conobbero e fecero amicizia all'accademia d'arte. Gli amici del cuore di solito legano per il fatto di avere interessi comuni e una certa confidenza. In poco tempo i ragazzi si trovarono coinvolti nelle rispettive vite, a confessarsi segreti, a coltivare sogni condivisi (ogni tanto si scambiavano anche le ragazze) e a manifestare quel sentimento reciproco che si avverte senza bisogno di una sola parola. Ogni giorno scherzavano e si sostenevano nelle avversità, discutevano, architettavano piani diabolici per boicottare la scuola e suonavano insieme. John iniziava a dipendere da Stu, che aveva un intuito da mentore e qualità forti da leader, mentre dal canto suo lo incoraggiava a dipingere ascoltando musica e lasciandosene ispirare. L'arte e la musica li univano; durante le loro lunghe chiacchierate discutevano di come integrarle nella comune ricerca di verità sulla condizione umana, un ideale caro a tanti giovani ma, nel caso di John e Stuart, perseguito con dedizione totale. Il talento artistico di John – poi celebre quanto la sua musica – crebbe sotto la tutela del suo migliore amico. Pauline Sutcliffe crede che John, da principio, volesse diventare un artista. «Ricordo di aver parlato a lungo con Cynthia Lennon, che vive in Francia come me, appena pochi anni fa. Mi raccontò ricordi meravigliosi dell'accademia; alla fine delle lezioni, dopo che John aveva fatto casino tutto il giorno, loro tre andavano insieme nell'aula di disegno dal vero, dove lei si sedeva in un angolo a osservare Stuart che insegnava a John. A John interessavano molto le belle arti e avrebbe preferito diventare un artista piuttosto che incidere dischi, ma in realtà voleva fare anche il musicista». Stuart, di un anno più avanti nei corsi, aveva stile e idee audaci, merito anche di una famiglia in cui genitori e sorelle apprezzavano le arti e avevano incoraggiato il suo talento regalandogli una chitarra acustica. Lui e John passavano il tempo come fanno i migliori amici, sognando, facendo progetti e creando insieme, assicurandosi a vicenda il sostegno reciproco e la fiducia che li rendevano qualcosa in più, vale a dire autentici compagni per la vita. Il loro legame diventò ancora più intenso quando, con grande dispiacere di zia Mimi, John decise di trasferirsi dall'amico del cuore. Pauline lo ricorda come un cambiamento importante: «Vivevano nello studio al 9 di Percy Street, che Stuart condivideva con Rod Murray, il suo migliore amico prima dell'entrata in scena di John, arrivato a scuola un anno dopo. Rod mi raccontava storie stupende di quando scrivevano poesie e musica improvvisando con le chitarre acustiche. Insieme si divertivano, stavano bene ed erano creativi. Passarono bei momenti, erano davvero inseparabili». Inseparabili e legati da una perfetta affinità spirituale, i due continuavano le rispettive ricerche artistiche. Al contrario di quanto sostengono certi revisionisti, non fu John Lennon a iniziare Stuart alla musica; Sutcliffe sapeva già suonare la chitarra acustica, glielo avevano insegnato i suoi familiari. Fu invece Stuart che affinò l'istinto di John segnando gli sviluppi futuri dell'artista e dell'uomo. Ricorda Pauline: «Alla Liverpool Art School, Stuart era lo studente più popolare. Questo, in se e per sé, attirò John. Si capisce bene se si pensa a quanta determinazione avrebbe avuto nel voler diventare più famoso di Elvis. E per queste cose John aveva un fiuto sopraffino – le coglieva al volo». Com'era naturale, sostiene Pauline, la collaborazione creativa, la confidenza e le esperienze in comune li portarono entrambi a nutrire un profondo rispetto l'uno nei confronti dell'altro. Il
temperamento artistico e la sensibilità controcorrente di Stuart Sutcliffe ispirarono e sfidarono John Lennon a migliorarsi come artista; in risposta, la vicinanza di John accrebbe in Stuart il dissenso nei confronti di tutte le forme di autorità. Pian piano il rispetto crebbe e diventò affetto e amore. I due si dissero sempre la verità, spesso in maniera dolorosa. Pauline Sutcliffe lo vide molto da vicino: «Si amavano davvero l'un l'altro ma l'omosessualità non c'entrava, non ancora. Era un'amicizia intima e profonda tra uomini. Stuart incarnava ciò che John voleva essere mentre John era l'incarnazione vivente di quel lato della sua stessa personalità con cui mio fratello si trovava a disagio. Stuart come pittore era un anarchico, ma in maniera molto sofisticata. Il suo carattere antiautoritario emergeva in modo prepotente – se agli studenti era concesso di dipingere su tele grandi al massimo 76x40 centimetri, lui dipingeva su quelle da 180x150. Rifiutarsi di seguire le regole era una forma di anarchia. Però Stuart trovava che il modo di John di esprimere la stessa anarchia fosse preoccupante, ambiguo e inaccettabile. Leggendo tra le righe si nota come Stu cercasse di indirizzarlo verso un uso positivo e non distruttivo delle energie creative». Da quel punto di vista, riconoscendo il fallimento di John nell'incanalare in maniera positiva quell'energia, Stuart Sutcliffe giocò un ruolo decisivo nel suo sviluppo. Come i suoi scritti testimoniano, e come conferma anche la sorella, a Stuart dispiaceva più di tutto che l'abilità dell'amico fosse distorta dalla negatività nei rapporti con gli altri, che spesso si tramutava in tagliente acrimonia. Come spiega Pauline, «Stu lo prendeva di mira, lo sfidava. "Perché ti comporti così? Perché non provi a capire le persone avvicinandoti a loro, invece di fare battute sprezzanti?" Credo che nessun altro allora mettesse John alla prova, e lo capisse abbastanza da farlo con sensibilità e affetto ma in maniera aperta e onesta. Soltanto Stuart ne era capace». Gli scritti di Stuart mostrano un ragazzo che, tenendo molto a John, non condivide taluni aspetti del suo carattere ed è anzi profondamente disturbato dalla tendenza dell'amico fraterno a tenere tutto dentro di sé, celando i sentimenti più profondi. Stuart cercò in ogni modo di attenuare la rabbia e le esternazioni violente di John. Detestava, racconta Pauline, vederlo andare fuori di testa, anche se si rendeva conto che la stessa rabbia e aggressività dell'amico, mantenute in ambito creativo, lo stavano aiutando a sviluppare il proprio essere artista. Ciò che i due avevano in comune superava comunque di molto le divergenze tra le opposte filosofie. Fratelli di spirito se non di sangue, marciarono uniti verso il fatale incontro con il destino. La vita quotidiana al 9 di Percy Street era un crocevia di sperimentazioni. Stuart dipingeva ascoltando Elvis Presley, Gene Vincent, gli Everly Brothers e altri gruppi pop americani. Lui e John, a cui talvolta si univa Paul McCartney, passavano notti in bianco tra improvvisazioni creative e lunghe, corroboranti chiacchierate. Pauline sostiene che, su suggerimento di John, Stu compì uno dei passi decisivi nella storia dei futuri Beatles. «Facendo parte del comitato per le attività sociali della Liverpool Art School, poteva ingaggiare i gruppi che si esibivano a scuola il sabato sera e decidere se avevano bisogno di aggiustare i loro strumenti o di averne di nuovi. Grazie a lui, i Quarrymen poterono rinnovare e migliorare la loro attrezzatura». Gli amplificatori usati dai Beatles nelle prime esibizioni ad Amburgo, nell'agosto del 1960, furono quindi finanziati dall'Unione degli Studenti della Liverpool Art School. Nei due anni successivi, John e Stuart divennero ancora più intimi. L'amicizia era così intensa che neppure la presenza di Cynthia Powell, la bellissima ragazza che aveva conquistato il cuore di John, interferì tra i due. La loro unione e il loro spirito comune si cementarono ancora di più e progredirono con il supporto di Paul McCartney, George Harrison e Pete Best. La band cambiò nome, da The Quarrymen a Johnny and the Moondogs, poi Beatals, Silver Beetles, Silver Beats e Silver Beatles, fino al definitivo The Beatles. In quei mesi John continuò a seguire la passione per la musica e Stuart a dedicarsi alla pittura. Il momento di svolta nella vita di entrambi arrivò il 16 agosto 1960, quando i Beatles lasciarono Liverpool per avventurarsi nei meandri del celebre quartiere a luci rosse di Amburgo. Immersi nelle trasgressioni a buon mercato dei nightclub e in devianze di ogni tipo, John Lennon e Stuart Sutcliffe raggiunsero nella città tedesca il momento culminante della loro amicizia e patirono la disillusione più profonda. Affrontarono insieme nuove esperienze estreme, che crearono un legame ancora più intenso, ma provocarono anche le prime divergenze e l'inizio della loro separazione.
Le prime crepe nel loro rapporto si aprirono quando Stuart si innamorò ed ebbe una storia importante con Astrid Kirchherr, la giovane fotografa tedesca che insieme al suo ex ragazzo, Klaus Voorman, contribuì a dare ai Beatles un'immagine alla moda. Le celebri pettinature a caschetto furono proprio un'idea di Astrid, mentre le fotografie ormai classiche immortalarono la band in un momento cruciale precedente alla sua esplosione. Nonostante l'amore di Stuart per Astrid fosse ogni giorno più profondo, lui e John divennero ancora più legati, condividendo l'esperienza amburghese e le relative avventure, i concerti non-stop, l'assunzione di droghe e la sperimentazione in campo sessuale. Alcuni, come Derek Taylor dell'ufficio stampa dei Beatles, con cui lavorai a stretto contatto durante i tour americani, lasciano intendere che John e Stuart avrebbero avuto una relazione fisica. Pauline Sutcliffe non lo esclude: «Nessuno può dirlo, ma non è impossibile, tenendo conto di tutte le stranezze che li circondavano. Derek Taylor disse a un suo amico che John gli avrebbe parlato nel 1968 di un rapporto carnale avuto con Stuart sotto l'effetto della droga. Stuart stava spingendo John a migliorare come performer mentre lui affinava il suo talento sulla tela. Che abbiano mischiato tutto quel dipingere e suonare con un affaire? È possibile». Due aspetti della vita di Stuart si frapposero tra lui e John: la pittura e l'amore. Il grande talento di pittore e gli studi compiuti con un celebre artista, Eduardo Paolozzi, lo condussero alla decisione fatale. Mentre l'esperienza di Amburgo si avviava alla conclusione e i Beatles prendevano la rincorsa per entrare nel mito, John Lennon dovette di nuovo affrontare una perdita. Il suo più caro amico si era innamorato e fidanzato. La questione era forse più complessa. Pauline la vede piuttosto come un triangolo amoroso. «John, Stuart, Astrid. John invidia Stuart per via di Astrid ma anche Astrid perché è geloso di Stuart. E poi è in competizione con Stuart in ambito artistico, non tanto per il rock&roll». Stuart credeva ciecamente che i Beatles sarebbero diventati grandissimi, ma preferiva le tele al palcoscenico. John accolse con disappunto e un certo malessere la sua decisione di lasciare il gruppo. Paul e George spingevano invece perché uscisse dalla band, rimproverandolo perché poco motivato e non all'altezza. Tanti fattori portarono all'abbandono di Stuart nella primavera del 1961, ma qualunque fosse la vera ragione, la scelta spinse John Lennon a un atto di violenza che avrebbe avuto ripercussioni su tutta la sua vita. Il 10 aprile 1962 Stuart Sutcliffe fu colpito da un'emorragia cerebrale ad Amburgo. Morì durante il trasporto in ospedale. Da mesi soffriva di estenuanti emicranie e faceva fatica addirittura a camminare, mentre con un coraggio da eroe continuava a dipingere nonostante stesse sempre peggio. La causa di quel calvario non è mai stata stabilita con certezza, e la scomparsa del suo migliore amico rimane ancora oggi uno degli aspetti più controversi della vita di John Lennon. I problemi di Stuart erano cominciati la sera del 30 gennaio 1961. I Beatles suonavano alla Lathom Hall di Liverpool e un gruppetto di energumeni lo aggredì mentre aiutava a caricare gli strumenti nel retro del locale, colpendolo ripetutamente al ventre e alla testa con calci e pugni. Pete Best e John accorsero a difenderlo ma Stu era già coperto di sangue. Alla band succedeva spesso di dover fronteggiare le intimidazioni dei teddy boys, picchiatori spacconi, di solito gente frustrata della classe operaia che se la prendeva volentieri con artisti e cantanti, soprattutto con quelli di bell'aspetto che attiravano l'attenzione delle ragazze. Quell'attacco però fu particolarmente brutale. Qualche mese più tardi, Stu subì un altro pestaggio, stavolta dalla persona che più rispettava. Ad Amburgo era notte fonda. John si sentiva frustrato perché George e Paul volevano cacciare Stuart. Non solo: sentiva crescere il peso dell'ossessione di Stuart per Astrid e il suo disinteresse per la musica. In uno scatto d'ira da ubriaco lo picchiò con violenza inaudita. Dopo averlo colpito più volte alla testa, lo lasciò a terra pesto e sanguinante. Paul tentò inutilmente di intervenire e solo quando John andò via riuscì a soccorrere Stuart. Pauline, a cui il fratello riferì l'accaduto, ricorda che i medici dissero che la causa della morte fu una lesione cranica, dovuta a un trauma come un pugno o un calcio. Ancora oggi si domanda se Stuart morì per colpa di quell'aggressione: «Ho detto che quelle botte peggiorarono la situazione, non che abbiano causato la morte di Stuart. Uno scrittore, provocandomi, mi chiese come John avesse potuto picchiare mio fratello, se lo amava tanto. Gli risposi che chi formula una domanda del genere non capisce molto dell'amore: puoi amare tanto qualcuno e picchiarlo. Successe, comunque,
perché Stuart aveva annunciato di voler lasciare il gruppo». La morte di Stuart per John fu uno shock. Lo scoprì al suo ritorno ad Amburgo, dove i Beatles erano attesi da un'esibizione al famosissimo Star Club. Pianse a lungo, disperato, ma fu uno sfogo momentaneo, presto si ritirò in un silenzio irreale. Preferì sempre congelare i sentimenti più profondi e lo strazio per la perdita delle persone care, finendo poi per analizzarli negli scritti e nelle canzoni. Era ancora ad Amburgo con George Harrison, Paul McCartney e Pete Best quando la madre di Stuart arrivò in città per riportare a casa la salma. I Beatles suonarono ugualmente allo Star Club e non parteciparono al funerale a Liverpool. Pauline Sutcliffe lo ricorda con molta amarezza. Quando le ho chiesto se John poteva averlo fatto apposta perché si sentiva in colpa ha risposto con sguardo severo: «Non lo so. Astrid scrisse a mia madre raccontando quanto lui fosse addolorato per la perdita di Stuart e ne sentisse la mancanza, e che lo ricordava ogni sera in cui si esibivano suonando le sue canzoni preferite. Ma non si fece vedere per mesi e non inviò neppure un mazzo di fiori per il funerale. Che parlasse continuamente di Stuart l'ho saputo da amici di Yoko Ono». Non passò settimana, nei quattordici anni in cui rimasero insieme, senza che John parlasse di Stuart a Yoko Ono, descrivendolo come un'anima gemella, uno spirito affine e una forza che lo guidava. Ma nei giorni seguenti la tragedia, com'era accaduto dopo morte della madre Julia, si chiuse in un cupo silenzio. Andò a trovare i Sutcliffe un anno dopo. Non fu facile, cosa che aumentò il suo senso di colpa, e oltretutto venne accolto con freddezza. Stu Sutcliffe aveva sempre creduto nei Beatles più ancora di quanto i Beatles credessero in se stessi. Diceva a tutti che avevano un enorme potenziale. Purtroppo non visse abbastanza per vedere cosa sarebbero diventati ma la sua impronta su di loro è evidente. Per quanto George e Paul lo criticassero, marchiò in modo innegabile lo stile del gruppo, anche se non la sua sostanza musicale. Stuart Sutcliffe lasciò la fidanzata, i genitori e due sorelle. Ma fu John Lennon a ereditarne la sensibilità, l'impegno e il desiderio di trovare il vero senso della vita, una missione intrapresa insieme all'amico fraterno. La famiglia Sutcliffe notava una genuina somiglianza con lo stile di Stuart, apprezzato a livello mondiale, nei dipinti che John Lennon realizzò durante gli anni Settanta. L'influenza di Stu è indiscutibile quanto feconda ed è rintracciabile ovunque. Il volto del giovane e sfortunato «quinto Beatle» compare sulla copertina di Sgt. Pepper's; si dice dietro insistenza di John. La reazione dimessa alla morte di Stuart dissimulò il tumulto di emozioni che Lennon provava dentro di sé, nello stesso modo in cui rimase a torturarsi in silenzio per la morte della madre e di suo zio George. Stuart continuò a vivere nel suo spirito. John parlava spesso di lui a Cynthia e Yoko. Quando incontrai quest'ultima al Dakota, nel 2004, lei stessa confermò che rispettava e amava Stu immensamente e non aveva mai smesso di amarlo per tutto ciò che aveva significato per John. Quando Stu morì, John, che non avrebbe mai avuto timore nell'esporre le proprie fragilità al resto del mondo, tenne tutto dentro. Ma per altri 18 anni è vissuto secondo le aspettative di Stuart e i suoi timori. Divenne una superstar, battendosi contro guerre e ingiustizie e criticando i potenti. Continuò a essere spigoloso e sgarbato, eppure la stessa energia negativa e distorta alimentò il suo genio di musicista, scrittore e artista. Come Stuart sapeva e Pauline ricorda bene, John Lennon non era un santo e non avrebbe voluto essere ricordato così. Un vero fan non vorrebbe sapere tutta la verità su di lui? Secondo Pauline, no: «I fan vogliono la loro verità, e guai a chi cerca di metterla in discussione. Le persone che vogliono sapere tutto su di lui dovrebbero capire anche il suo lato oscuro, perché nessuno è perfetto e gli eroi non esistono. Mi domando se la gente lo accetterebbe per ciò che era davvero, e non per come hanno bisogno che sia stato. La verità. La pura verità. Era sempre la cosa più importante per lui fin da quando era un ragazzo. Amava tanto mio fratello perché Stuart conosceva ogni singolo aspetto della sua personalità». John Lennon cercava la verità, e la trovò assieme al suo migliore amico, più che assieme a ogni altra persona della sua vita, a parte Yoko. Ma ciò che Stu Sutcliffe gli lasciò in eredità fu molto più importante. John Lennon sviluppò una propria abilità artistica, concependo e dipingendo quadri provocatori in uno stile personale ma con uno spirito simile a quello di Stuart. Il fastidio nei confronti delle persone superficiali fu acuito dalla straordinaria capacità di Stuart di guardare oltre le maschere. Il
John anarchico e ribelle era figlio dell'atteggiamento antiautoritario dell'amico. E se anche Stu lo spronò ad affrontare gli aspetti più oscuri della sua psiche, riuscendoci solo in parte, per tutta la vita John si sarebbe interrogato su di sé e sulle proprie ragioni. Stuart Stucliffe morì giovanissimo ma la sua creatività, la sua forza interiore e il suo senso di sfida avrebbero continuato a vivere in John Lennon.
Cynthia Negli stessi anni in cui conobbe l'amicizia profonda con Stuart Sutcliffe, John scoprì anche l'amore per una ragazza con il viso d'angelo, la pazienza di una santa e un cuore d'oro che lui avrebbe spezzato più di una volta. John Lennon era sessualmente attivo fin dai primi anni dell'adolescenza. Ma l'amore è un'altra cosa. Cynthia Powell fu senza dubbio la prima ragazza di cui si innamorò. Durante la tournée del 1964, telefonava ogni giorno a Cynthia e al piccolo Julian, che allora aveva un anno. Unico dei Beatles a essere sposato, spesso ricorse all'appoggio della sua famiglia per risolvere il conflitto tra lo status di stella del rock e gli impegni della vita quotidiana, fra i quali l'essere padre. Il primo vero amore della sua vita influenzò notevolmente il suo modo di pensare, senza riuscire però a fargli smettere di fare il buffone. Ne parlai con lui nel 1964. KANE: Cynthia ti rimprovera ogni tanto? LENNON: Sì. Mi dice sempre: «Ti sei comportato da stupido stasera facendo tutte quelle boccacce». Non le piace che faccia il pagliaccio. Mi dice sempre di non fare facce stupide quando sono in tv. Sai, quelle che faccio di solito. A lei non vanno giù, vuole che sia serio. La storia d'amore tra Cynthia Powell e John Lennon, spesso dimenticata se non ignorata anche quando era nel suo pieno rigoglio, ebbe un grande significato nella vita del giovane futuro artista. Benché si fossero sposati perché Cynthia era rimasta incinta di Julian, la loro fu una storia romantica. Il ruolo ispiratore di lei nei primi anni dei Beatles non può essere messo in discussione. Tony Bramwell, che da giovane segui da vicino l'ascesa dei Fab Four, la ricorda così: «Cynthia era bella, dentro e fuori. Benché sapesse che lui poteva tradirla ovunque, votò tutta se stessa al successo di John, e fu decisiva. Lui era molto insicuro, ma lei lo incitava a insistere e a superare le proprie debolezze, come una mamma meravigliosa che lo amava con tutto il cuore». Dopo il primo incontro alla scuola d'arte, la loro relazione fu molto appassionata e li portò a condividere gioie e dolori. Cynthia comprese in fretta quanto John fosse ossessionato e sopraffatto dai drammi che aveva vissuto durante l'infanzia. Ma come il suo ragazzo, sapeva bene cos'era il dolore. Cynthia probabilmente odierà il numero 17. Suo padre morì quando lei aveva 17 anni. La madre di John morì quando il figlio aveva 17 anni e nel 1980 Julian aveva la stessa età quando assassinarono suo padre. Cynthia era straordinaria. Il carattere riservato era parte della sua bellezza, e anche la sua timidezza aveva qualcosa di seducente. Aveva molti spasimanti, ma un uomo solo le fece toccare il cielo con un dito come mai avrebbe immaginato. S'innamorò di John contro il volere dei propri genitori. Le vite di entrambi sarebbero cambiate per sempre – e ne sarebbe nata una terza – la sera in cui lui tornò da Amburgo. Quella notte d'amore alla vigilia degli ultimi esami di Cynthia al college ebbe due conseguenze: lei fu bocciata e poche settimane dopo scoprì di essere incinta. Le regole sociali del tempo imponevano un matrimonio immediato, a cui John non penso di sottrarsi. Nonostante la gravidanza inaspettata, Cynthia fu una moglie dolcissima e devota, che dedicò tutta se stessa a John e ai suoi primi passi verso il successo con i Beatles. Nonostante le prove fino a tarda notte, gli orari e le stranezze del marito, gli fu di grande appoggio nella sua tipica maniera, modesta e
poco appariscente. Pur rendendosi conto che le donne gli ronzavano attorno come api in un alveare, mentre si occupava da sola di Julian assicurò stabilità alla vita di John nel suo momento più impegnativo: la girandola di impegni che sommerse i Beatles dal 1963 fino alla grande tournée nordamericana del 1964. Lennon, come sempre imprevedibile, iniziava a trovarsi sotto i riflettori in un fascio di luce così potente da confondere e sovvertire il senso delle cose importanti della vita. A dispetto di una perentoria presenza sulla scena, i suoi momenti privati furono sempre all'insegna di preoccupanti quanto drammatici sbalzi d'umore e di un'insicurezza assoluta, come a ribadire che guadagni e fama non avrebbero potuto mai colmare i vuoti lasciati in eredità dall'infanzia. Durante i miei primi viaggi con i Beatles, John mi parlava spesso della sua famigliola. Quando raccontava di Cynthia, gli stessi occhi che avevano sempre un'espressione enigmatica, e rivelavano di rado il suo stato d'animo, brillavano letteralmente. Non le fu certo fedele, assediato com'era da orde di fan. Ma nonostante le molte avventure, i discorsi andavano a finire sempre su di lei e sul piccolo Julian, come in questo tipico scambio di battute avvenuto nel 1964: KANE: Senti sempre tua moglie e il tuo bambino? LENNON: Praticamente tutte le sere. KANE: Lei com'è? LENNON: Stupenda, e non sai com'è in gamba. Qualunque cosa succeda è sempre al mio fianco. KANE: Ama la notorietà? LENNON: Preferisce tenersi in disparte, una volta che la gente sa che sono sposato. Anche se è la moglie di uno dei Beatles vuole essere una madre di famiglia come tutte le altre. Sempre al suo fianco, nel ruolo della madre e della moglie devota e ubbidiente di un uomo il cui senso della realtà era sotto la continua minaccia di un successo tanto clamoroso e travolgente che nessuno avrebbe saputo affrontarlo senza esserne profondamente cambiato. L'ex addetto stampa dei Beatles, Tony Barrow, ricorda come Cynthia fosse sempre accanto a John, pronta a sostenerlo a qualsiasi ora e in qualsiasi momento: «Dopo una prova o uno spettacolo, andavamo in un bar del West End a bere qualcosa e a chiacchierare. Anche a notte fonda, Cynthia aspettava sempre a braccia aperte il suo ritorno. Era una ragazza dolcissima e sensibile, la gente non ha idea di quanto sia stata importante. Assicurò un sostegno a John in un momento in cui non si poteva ancora dire se i Beatles avrebbero avuto davvero successo o sarebbero stati una meteora. Lui era un leader, ma era anche pieno di timori. Tendiamo a dimenticare che Cynthia rappresentò un'autentica roccia a cui appoggiarsi nei momenti difficili». Dopo il matrimonio celebrato in fretta e furia, John trovò in famiglia un ambiente confortevole e felice. Ma in pubblico, a fronte di un successo che cresceva sempre di più, il fatto che avesse una moglie e un figlio fu quasi sempre tenuto nascosto, e non certo per caso. Brian Epstein temeva che la notizia avrebbe gelato le giovani fan, e la stessa stampa contribuì a far passare la cosa sotto silenzio. Oggi sarebbe impossibile, ma Tony Barrow spiega come questa fosse un'abitudine dei giornalisti negli anni Sessanta: «La stampa era molto più discreta e benevola con le celebrità. Nel caso di John, tacquero perché glielo domandammo noi. Nessuno scrisse che era un padre di famiglia. Potevi vederlo girare per Liverpool con Cynthia e il piccolo Julian, ma nessuno ne parlò sulla stampa nazionale. I media in generale rispettavano la privacy dei personaggi famosi assai più di quanto non facciano oggi». Forse la causa della crisi e della fine del matrimonio fu proprio l'oscurantismo ufficiale nei confronti di Cynthia, ma Barrow, che ne seguì le vicende dai primissimi anni, ha un'idea diversa. «Lei era molto più di quanto John meritasse. Come carattere, poi, erano agli antipodi. Cyn era una persona squisita, parlava in modo pacato ed era intelligente, genuina, sincera, educata. Non l'ho mai vista perdere le
staffe e mettersi a gridare. Bilanciava perfettamente la propensione aggressiva e chiassosa di John. Lo amava profondamente, e credo lo ami ancora adesso, mentre John non era davvero innamorato, e probabilmente non l'avrebbe sposata se non fosse stato costretto perché l'aveva messa incinta. Quando divorziarono, Cyn disse che non sentiva di averlo perso, perché si era resa conto che non le era mai veramente appartenuto. È la riprova che non fu un matrimonio d'amore ma un'unione di convenienza, dovuta al fatto che lei aspettava un bambino». Come inviato al seguito dei Beatles nel '64~'65, ho visto con i miei occhi il fascino che John Lennon esercitava sulle donne e la sua abilità di seduttore. Non è immaginabile che respingesse tutte le tentazioni, soprattutto quando gli facevano la posta su ogni scala o in ogni corridoio e lo inseguivano quando entrava in macchina o in camerino. La fama e il successo non hanno mai oscurato la chiara percezione che aveva di se stesso, ma il delirio che accompagnò ogni passo della scalata al vertice dei Beatles servì ad anestetizzare il senso di colpa che poteva provare nei confronti dell'infedeltà coniugale. Come suggeriva Barrow, Cynthia non fu il grande amore di John Lennon, ma un saldo appoggio in un momento di grande confusione. Benché non le fu fedele nel vero senso della parola, Lennon con il cuore non tradì mai l'alone romantico e il bisogno di sicurezza che erano alla base del suo matrimonio, fino a quando non conobbe Yoko Ono. La storia con Cynthia finì quando John e Yoko iniziarono a frequentarsi nell'inverno del 1966-67. Il matrimonio andò in pezzi in occasione del famoso viaggio in India, allorché il fato volle che un giovane canadese, Paul Saltzman, divenisse il testimone e l'osservatore delle trasgressioni di Lennon. Il Fato. Il Destino è qualcosa di concreto o fa solo parte della nostra immaginazione? È una domanda ricorrente nelle nostre vite, questa. Ogni azione porta dunque una conseguenza e la loro catena dà forma al nostro cammino? Il viaggio con i Beatles a Rishikesh all'inizio del 1968 fu un fiasco ma anche, forse per lo stesso motivo, uno degli eventi chiave della vita di John Lennon. Praticando la meditazione sulle sponde del Gange, lontano dalle folle in delirio, in cerca di pace e ristoro, John capì che lui e Cynthia si sarebbero lasciati. Fu il Fato, allora, che portò all'incontro con Paul Saltzman? Il giovane canadese originario di Toronto, in crisi per una delusione d'amore e indeciso su cosa fare della sua vita, cercò e trovò là un'illuminazione. I ricordi che rimarranno sempre vivi e impressi nella sua mente sono stati immortalati anche in alcune fotografie. Saltzman, come John e i Beatles, aveva fame di aprirsi a nuove vie di conoscenza. A 24 anni, lavorava nel cinema e cercava disperatamente di trovare il suo vero Io. Si assicurò quindi un lavoro che gli permettesse di andare in India. Nel dicembre 1967 partì. Dopo poche settimane, la ragazza che aveva lasciato in Canada gli scrisse di avere trovato un altro uomo. Disorientato e depresso, decise di non tornare a casa e di restare in India in cerca della propria verità. «Stavo molto male, tanto che avrei potuto fare qualsiasi cosa. E invece, zaino in spalla, andai a Rishikesh nella speranza di incontrare il Maharishi Mahesh Yogi e di avvicinarmi alla meditazione trascendentale». Quando Saltzman arrivò a Rishikesh, alle porte dell'Ashram di Maharishi, fu avvertito dal portiere: «Mi spiace ma non c'è posto. Sono ospiti i Beatles con le loro mogli». Interessato alla meditazione e non ai Beatles, si dovette sistemare fuori dall'Ashram, dove aspettò per otto giorni. Alla fine entrò, si uni alla comunità, iniziò a frequentare le lezioni e incontrò casualmente proprio i Beatles, nei quali finì per trovare conforto. Un giorno si arrampicò fino a una guglia di roccia dove era seduto John Lennon e gli domando un po' nervosamente se poteva unirsi a lui. «Certo, prendi pure una sedia. Sei americano? Ah no, sei del Canada, una delle nostre colonie». Saltzman rise. John disse: «Bene, vedo che avete ancora senso dell'umorismo. Perché sei qui, Paul?» Saltzman racconta che la conversazione che seguì fu sorprendente e lo fece sentire a suo agio: «Non so perché, ma la sua cordialità mi tranquillizzò e mi fece venire voglia di parlare. Gli raccontai la mia storia, in ogni singolo dettaglio. Per dirla tutta, ero un po' in imbarazzo, ma non dimenticherò mai quello che mi disse, con voce calma, parlando come un maestro: "Paul, la cosa meravigliosa dell'amore è che ti dà sempre un'altra possibilità. Ricordati, hai sempre un'altra possibilità"».
Ripensandoci, non c'era dubbio che stesse parlando con me, ma si rivolgeva anche a se stesso. Osservai con attenzione i Beatles e le loro mogli o fidanzate. L'unica tensione si avvertiva tra John e Cynthia. Tra loro due c'era il vuoto. Lei sembrava infelice. Lui pure. Rimasi sorpreso da Lennon perché era molto espansivo. Non solo con gli altri, ma anche con me. Parlammo ancora di filosofia e mi chiese come stavo. Amava la meditazione trascendentale. Ricordo che lui e George rimasero a Rishikesh più a lungo degli altri: otto settimane. Sembrava a tutti, almeno in apparenza, che la sua relazione con Cynthia stesse per finire. Non sapevo allora di Yoko Ono, ma con il senno di poi quelli furono momenti rivelatori». Nacquero in realtà anche altre tensioni. John come sempre aveva paura di essere sfruttato. Il fido Mal Evans, road manager e figura quasi fraterna per i Beatles, confidò a Paul Saltzman che Maharishi aveva chiesto a John e Paul il 25 per cento sui profitti del loro successivo disco. John rispose: «Neanche per scherzo». Per i Beatles, e per John più degli altri, la fiducia era qualcosa di molto serio: quando per gli altri la priorità diventavano i soldi, la fiducia svaniva. Avendo seguito i Beatles per due lunghe tournée, vi assicuro che per i giornalisti fu sempre difficile entrare in confidenza con loro. Ho visto molti tentare inutilmente di farlo. Alcuni avevano intenzioni oneste, altri no. Paul Saltzman fu subito accettato, tanto che il gruppo e il suo entourage lo invitarono a scattare fotografie, oggi parte di un affascinante foto-diario intitolato The Beatles in Rishikesh. I ritratti di John e Cynthia Lennon sono i più intensi del libro. Mostrano un uomo pensieroso e una donna dall'aria tesa. Nessuno può sapere cosa John avesse in mente, ma dopo avere esposto le sue foto in lungo e in largo per il Nordamerica, Saltzman conosce bene l'effetto che hanno sul pubblico: «Le ho mostrate in moltissime città ma dovunque accade la stessa cosa. C'è una foto di John che sembra assorto, come distante, e a ogni mostra qualcuno la guarda e si mette a piangere. Qualcosa in lui commuove la gente. Sono lacrime di dolore, ma potrebbero anche essere di gioia per la sua vita e tutte le emozioni che ha lasciato. Non so. Con me è stato una persona dolcissima». Paul Saltzman, che oggi fa il produttore cinematografico in Canada, ricorda con entusiasmo i momenti trascorsi insieme a lui. Solo anni dopo avrebbe scoperto che anche prima di Rishikesh c'era un'altra donna nella sua vita. Incontrando John e Paul durante un breve viaggio a New York per annunciare la nascita della Apple, domandai loro di Maharishi. Entrambi tagliarono corto. Appena la sera prima, Paul aveva definito l'incontro con il guru «un errore madornale». Chiesi a John, «È onesto?». Lui rispose in maniera concisa: «Non conosco la sua idea di onestà». Il mondo non sapeva ancora che, quattordici mesi prima di Rishikesh, John Lennon era stato per la prima volta tra le braccia di una donna che avrebbe cambiato in modo decisivo il corso della sua vita.
Yoko, parte prima. L'incontro Il 9 novembre del 1966, John Lennon, sempre curioso quando si trattava di arte, era tra i visitatori della mostra di una giovane artista giapponese all'Indica Gallery di Londra. Salito pigramente lungo una scala, vide un enorme specchio ingrandente pendere dal soffitto, accompagnato da una parola: «YES». Avrebbe poi raccontato che quell'opera e quella parola lo convinsero a restare e a incontrare di persona l'autrice, Yoko Ono. Gli esegeti più mistici dei Beatles hanno voluto leggere in quello «YES» un segno premonitore, la scintilla di una delle storie d'amore più celebri del XX secolo, coronata dal matrimonio celebrato tre anni dopo a Gibilterra. Quelle nozze gioiose e controverse cambiarono per sempre il cammino di John. L'affinità spirituale fu chiara sin dal primo istante, ma il rapporto di amicizia e d'amore maturò per mesi. In quel primo incontro alla galleria, l'artista, abilissima nel catturare l'attenzione altrui, presentò con gentilezza il suo lavoro alla superstar dei Beatles. Yoko ha sempre sostenuto, e lo ha ribadito anche a me, che non sapeva chi fosse John, e che prima di allora non si era mai interessata al rock. Fatto sta che gli fece avere un libro e si mantenne in contatto con lui in maniera amichevole ma occasionale. Non sapeva, Yoko, che il flaneur che vagava incuriosito per le sale e le rivolgeva interessato delle
domande, mister Lennon, aveva in corso un'altra storia: quella con le droghe psichedeliche. LSD e marijuana erano ormai parte della sua routine quotidiana e avevano contribuito a deteriorare il già fragile rapporto con Cynthia. Ma le droghe erano soprattutto la spia della voglia di cambiare orizzonti. Espandendo – o annebbiando – la mente, John cercava come sempre nuove possibilità fuori dal comune; questo spiega anche l'entusiasmo passeggero per la meditazione trascendentale che lo colse di lì a qualche mese. Siamo partiti da una galleria d'arte londinese alla fine degli anni Sessanta per arrivare all'interno del Dakota nell'autunno del 2004. Non si dice, in fondo, che i luoghi abitati dalle persone custodiscano anche la loro storia? A casa di Yoko Ono esistono dispense di conoscenza e creatività, che sono i libri e le opere d'arte. Tra i soffitti alti e gli ampi interni, se non fosse per gli ascensori e i rumori del traffico all'esterno, sembrerebbe di stare in una casa di campagna immersa nel verde, grazie alla vista su Central Park e all'eleganza europea dell'austero ambiente. Luce, spazio in abbondanza, con l'eccezione di un soggiorno formale, riempiono un appartamento dai colori accesi insieme agli oggetti di una vita che trasmettono il calore umano di un ambiente familiare: i ritratti di John, i tanti manifesti che ricordano il movimento per la pace e altre cause in cui furono coinvolti lui e Yoko, e le foto di famiglia, come ovvio. Il locale ha colori brillanti, a dispetto delle finiture di legno scuro degli interni del Dakota. Yoko Ono, avviata ormai verso l'ottantina, si muove con l'energia nervosa di una teenager. Il suo aspetto dimostra la metà degli anni che ha. Minuta, senza una ruga, conserva ancora un fisico intatto e la stessa passione che la animava da giovane. Dopo i saluti e uno scambio di battute, ci sediamo al tavolo della cucina. Lei dà le spalle a un'ampia finestra. Muove le mani, un po' nervosamente. «Sembri un repubblicano». «Cosa vorresti dire?» le rispondo. «Con la cravatta rossa e il vestito nero sembri proprio uno di loro». «È un equivoco. Per lavoro devo seguire anche la convention dei repubblicani». «Ah, ora capisco». Yoko Ono ha ragione a temere i repubblicani. Dopo tutto, erano stati due di loro a voler fare arrestare John. La sua diffidenza verso i conservatori e l'establishment è rimasta la stessa. Nel 2004, quando partì la convention, acquistò un'intera pagina sul «New York Times» per scrivere soltanto: «Immaginate la pace. Yoko Ono, 2004». John non è più tra noi, ma Yoko non smette di ricordare il suo impegno nelle occasioni che contano. Lei sa, come sapeva lui, che le parole sono importanti. Dalla finestra della cucina entra il sole, è la tarda mattinata. Yoko è seduta a capotavola pronta a raccontare la sua storia, circondata da memorie e cimeli dell'uomo che le ha cambiato la vita. Non mostra i segni del tempo nonostante l'età, nel viso e nemmeno nel corpo. I capelli scuri le cadono lungo le spalle, gli occhi sono vivi e pieni di energia, si muove per tutta la stanza in maniera quasi frenetica, schizzando come una pallina. Appare sicura di sé nonostante conceda interviste assai di rado. Ma è lei oggi a dirigere le danze, la custode ufficiale dell'eredità musicale, spirituale, politica, e della leggenda di John Lennon. La sua personale carriera di artista rimane un vanto, ma è determinata soprattutto a perpetuare la memoria di John e della sua musica attraverso dischi e documenti, con passione e un senso di sacra responsabilità nei confronti suoi e di ciò che ha rappresentato. Le interessa molto meno che gli altri vedano lei nella giusta luce. Dopo tutto è il suo destino, lei è Yoko Ono. Il suo nome è unito per sempre a quello di John Lennon in un inestricabile groviglio di complicità, amarezza, tenerezza e amore. Giornalisti ed esperti le attribuiscono in maggioranza la colpa della separazione dei Beatles e dell'abisso in cui John cadde all'inizio degli anni Settanta. Altri la ammirano per il suo senso degli affari, ma le riconoscono anche di essere stata una splendida e devota compagna, moglie e madre. Yoko Ono è stata celebrata, disprezzata, onorata, censurata e rispettata. La risposta che nessuno ha mai avuto sulla coppia riguarda il segreto di una relazione che ha saputo resistere a tante tempeste. Ma la prima domanda è la più semplice: dove nasceva l'attrazione reciproca? Secondo Yoko, fu l'incontro tra due personalità agli antipodi, entrambe alla ricerca di una via d'uscita dal proprio mondo:
«John veniva da Liverpool. Io da Tokyo. Eravamo diversissimi, eppure ci siamo riconosciuti l'un l'altro all'istante. Ci siamo capiti al volo fin dall'inizio. Tutto ciò che posso dire è che eravamo anime gemelle. Eravamo due ribelli. Se John non lo fosse stato, non sarebbe mai uscito da Liverpool. Anch'io ero una ribelle, alla mia maniera. Altrimenti non sarei stata a esporre all'Indica Gallery di Londra quell'anno e in quel giorno». Il loro primo incontro fu una rivelazione. Yoko insiste sul fatto che non sapeva chi fosse John, come ricorda con una certa enfasi, ma il suo comportamento di allora fu incoraggiante e sospetto. E mentre la descrive dal suo punto di vista, la scena si materializza di fronte ai miei occhi: «Pensai subito che John fosse un uomo attraente e di grande eleganza. Eleganza non è la prima parola a cui penseresti per descrivere un rocker e un eroe della classe operaia com'era lui, ma elegante lo era davvero. Poi, all'improvviso, afferrò una mela da un'installazione di Perspex trasparente e le diede un morso. "No! Ma cosa combina, è matto??!!" pensai. Si vedeva che ero seccata, anche se non dissi niente. John rise un po' mortificato e rimise la mela al suo posto. Aveva dato un morso a una mia scultura…» A questo punto della conversazione, Yoko si alza dalla sedia e mima i movimenti di John, con la faccia a un palmo dalla mia e respirando a pochi centimetri dalla mia pelle. «John disse che aveva saputo che doveva esserci un evento speciale, un happening o qualcosa di simile. Dissi "Questo è l'evento di oggi" e gli mostrai un biglietto con il messaggio "Respira", scritto a mano con i caratteri piccoli della mia grafia. John si avvicinò, con la faccia quasi appiccicata alla mia disse "Vuoi dire così?" e respirò fortissimo. Mi ritrassi per un attimo ma risposi "Sì" con calma». Nonostante quell'incontro ravvicinato, Yoko fu restia a rimanere in contatto con lui, finché, dopo alcune settimane, iniziarono a scambiarsi lettere. La comunicazione fu tutt'altro che facile. Non era un comune corteggiamento per due motivi: John Lennon era sposato ed era, soprattutto, John Lennon. Benché Yoko non spieghi nel dettaglio come, alla fine, trovò il modo di conquistarla, ci riuscì proprio nel momento in cui lei, o almeno così Yoko crede, stava per mandare tutto all'aria. «Iniziavo a provare qualcosa per lui, ma ero troppo impegnata. Poi un giorno lui si dichiarò e il modo in cui lo fece non mi piacque affatto». Il modo in cui John le confessò il suo amore non le piacque, ma il tempo, le coincidenze e i programmi in comune li fecero iniziare a vedersi sempre più spesso. «Cominciammo a ritrovarci casualmente negli stessi posti. La Liverpool Art School mi chiese di tenere una lezione e una performance. Lo dissi a John, quando lo incontrai. Pensò che era una gran cosa. "Quindi vai a Liverpool?" Aggrottò le sopracciglia un paio di volte – come Groucho Marx – e mi guardò con affetto». L'amore sbocciò nei mesi successivi. Yoko aveva una tale paura dei propri sentimenti da volersi confinare a Parigi, dove era stata dopo avere assistito a un festival di cinema in Belgio. L'amore e l'intesa sbocciarono presto dall'amicizia, crescendo a poco a poco. Ricorda lei: «Cominciai a innamorarmi. Lui era molto dolce e aveva questo accento di Liverpool molto marcato, che era davvero buffo. E poi lo divertiva la mia cadenza, sentire una giapponese con l'accento americano ogni tanto lo faceva scoppiare a ridere. Poi un giorno mi confessò di essere innamorato di me. Ne fui spaventata. Gli chiusi letteralmente la porta in faccia e andai a Parigi. Pensai: "Cosa devo fare? Non rivederlo mai più". Stavo per mandare a monte tutto quanto. Era così difficile pensarci che decisi che non sarei più tornata a Londra e avrei cominciato una nuova vita a Parigi. Ma il destino volle che mi invitassero per una performance alla Royal Albert Hall. Non potevo rifiutare, e quindi tornai. Quando aprii la porta del mio appartamento vidi un mucchio di lettere di John sparse sul pavimento». Nella vita ci sono momenti in cui bisogna fare scelte che potrebbero cambiare il corso degli eventi per anni. Successe a Yoko Ono, quando iniziò a capire che l'attenzione di John non era banale, come non lo era ciò che stava provando per lui. Qualcosa ugualmente la tratteneva, e per un po' si trovò in bilico, incapace di compiere il passo decisivo. Nell'inverno del 1966 prese finalmente la sua decisione e la storia tra lei e John entrò nel vivo. I primi appuntamenti avvennero di nascosto. All'inizio del 1967 iniziarono a comparire insieme in pubblico anche se il mistero circondava la natura della loro relazione. Per la prima volta, nel marzo di
quell'anno, la stampa britannica accennò a un'altra donna nella vita di Lennon. La notizia fu diffusa ovunque, tanto da sconvolgere Cynthia; per un po' John tentò di confondere le acque in segno di rispetto per il suo primo amore. Ma i pettegolezzi si trasformarono in un fiume di notizie che non era più possibile fermare. Al tempo del viaggio in India, Cynthia sapeva che tra lei e John sarebbe finita. La notizia del matrimonio con Yoko fece il giro del mondo, seguita dalla luna di miele con il celebre sit-in di protesta per la pace nella stanza dell'Hilton di Amsterdam, ribattezzato «bed-in». I fan dei Beatles si domandavano se Yoko sarebbe stata una minaccia per l'unità dei Fab Four. Per la nuova coppia fu un banco di prova. Yoko sostiene che il loro legame fu saldo a causa della totale e reciproca onestà: «Non c'era bisogno di nasconderci nulla perché eravamo inseparabili. All'inizio sentivo che eravamo due stupidi, nessuno voleva vederci stare insieme, il mondo ci odiava. Ma bisogna ammettere che fu qualcosa di straordinario, una magia, un vero miracolo». Anche le magie più belle e i miracoli, qualche volta cedono alle pressioni della vita quotidiana. Nei quattro anni che seguirono le nozze, John Lennon imparò che la carriera da solista lontano dai Beatles era triste e vuota. Con l'eccezione di John Lennon/Plastic Ono Band, uscito nel 1970, il successo lasciava a desiderare. L'insicurezza che lo minava dentro di sé e che fu una continua minaccia anche sulla sua vita adulta non tardò a farsi sentire di nuovo. John soffriva un'altra crisi d'identità parallela alla crisi del suo matrimonio, questa volta del secondo. Era il marito o l'amante, il rocker scapestrato o il ribelle per una causa? La verità sarebbe comunque venuta a galla, ma non in maniera indolore. A complicare le cose si aggiungeva un'opinione pubblica divisa in due partiti che poi sarebbero diventati un fronte unico. Il tam-tam degli amanti dei Beatles, sulle pubblicazioni dei fan-club, i giornali e le lettere, dava adito alla voce secondo cui Yoko fosse la causa delle frizioni all'interno del quartetto. Quando fu resa pubblica la notizia dello scioglimento, lei finì per diventare il bersaglio della rabbia di quei fan, spesso in maniera gratuita e ingiustificata. La stampa fu addirittura peggiore, descrivendo lei e John come una coppia di sbandati rovinafamiglie, senza coscienza né pudore. Nonostante la rivoluzione in atto negli anni Sessanta, la società in generale, e in particolare quella britannica, erano ancora molto puritane, se non bigotte. Un personaggio della caratura di John Lennon, sempre nell'occhio del ciclone, era manna dal cielo per i tabloid. Ma al di là dell'antipatia che la pubblica piazza poteva avere nei confronti dei due, il matrimonio entrò in crisi quando John finì tra le braccia di un'altra donna. Yoko sostiene che quello fu l'apice di un periodo di tensione crescente nella coppia, che faceva il paio con la campagna d'odio fomentata dal governo americano: «Negli Stati Uniti io e John iniziammo ad avere problemi perché manifestavamo per la pace mentre il Paese era in guerra in Vietnam. I responsabili dell'immigrazione stavano provando a buttarci fuori. Eravamo pedinati da gente vestita di nero in automobili scure. I nostri telefoni erano intercettati. La tensione era salita alle stelle». Tutto esplose la notte delle elezioni presidenziali del 1972. «La sera, quando fu chiaro che Nixon aveva battuto McGovern, eravamo in studio a mixare alcune canzoni. John era molto abbattuto. Ricevemmo una telefonata da Jerry Rubin, che ci invitò a una festa nel suo appartamento al Village. Decidemmo di andarci. Quando arrivammo là, John era talmente fatto che farfugliava parole senza senso. Il party era pieno di intellettuali, scrittori e giornalisti. John prese una ragazza, la portò in una stanza vicina e iniziò a farci l'amore. Facevano tanto rumore e i muri erano così sottili che si sentiva tutto, qualcuno accese apposta il giradischi ma non servì a nulla. Oltretutto, erano nella camera dove erano radunati i cappotti, quindi eravamo tutti bloccati, finché una ragazza non ebbe il coraggio di entrare lo stesso, prendere il suo soprabito e uscire. Uno dopo l'altro fecero tutti la stessa cosa e io rimasi lì seduta, non so per quanto, finché non vidi dalle finestre che si stava facendo giorno. Erano andati via tutti tranne il nostro assistente, Peter». Dopo quella sera ebbi molto da riflettere: il mondo odiava il fatto che noi due stessimo insieme, sarebbe stato giusto andare avanti se fossimo stati ancora disperatamente innamorati come una volta, ma così non aveva nessun senso. Eravamo sempre io e lui, per cui è normale che alla lunga potesse diventare difficile. Mi ci volle
comunque un po' prima di decidere di dire a John che forse avremmo fatto meglio a separarci per un po'. Fu l'inizio del "weekend perduto". John disse: "Sì, ma non voglio perderti". "Ma mi perderai comunque se rimaniamo insieme in questo modo". Fu davvero doloroso ma sentii che non avevamo scelta. Per questo lo invitai ad andarsene». John aveva paura di rimanere da solo, ma Yoko insistette per farlo andare via: «Gli dissi solo, "Guarda, siamo tutti e due ancora giovani, belli, sexy e intelligenti [ride, N.d.A.] Perché dobbiamo ridurci così?" John disse che non se la sentiva di andare a vivere solo. Non gli succedeva da tantissimo, oramai. Quando era nei Beatles era sempre circondato dalle persone dell'entourage, ma annunciare al mondo che ero l'amore della sua vita aveva significato tagliare i ponti e perdere tutti quanti. Mi sentivo responsabile». Nell'autunno del 1973, Yoko Ono si rese conto che la loro storia d'amore era giunta a un punto morto e ciò la spinse a prendere provvedimenti, per quanto drastici e incomprensibili. Suggerì a John di trovarsi un'amante, e non una qualsiasi, ma May Pang, una giovane di origine asiatica che era stata per anni assistente di entrambi. «John disse: "Non so stare da solo". E io: "Perché non provi con…" e gli buttai giù un po' di nomi. Quando feci quello di May lui disse "Oh, no, no, non lei". May era una bellissima ragazza. "La fai troppo lunga". Lei andava bene, anzi: era quella giusta. Lo desideravo per lui, che aveva perso tutto per amor mio». Quando Yoko propose May come amante, John reagì con aggressività, negando rabbiosamente che avrebbe potuto interessargli. La respinse in maniera così vigorosa ed esplicita che Yoko, una vera maestra nel leggere le emozioni, fu subito convinta che quel diniego celasse invece un autentico interesse. Yoko disse che non avrebbe immaginato che la storia sarebbe durata più di tanto, o avrebbe causato tanto dolore: «La situazione fu molto dura per tutti e tre. A un certo punto May mi chiamava continuamente da Los Angeles. Parlava sempre in tono molto amichevole, ma era diversa. Piangeva perché John non la trattava bene. Allora le dissi di tornare a New York e di rimanere con me. Pensavo di doverla consolare perché mi sentivo responsabile anche per lei. May era giovane, attraente e in gamba. Meritava molto di più». Ho chiesto a Yoko se avesse mai avuto voglia di prendere il telefono e dire a John di tornare da lei. «Al contrario, era lui a implorarmi di farlo tornare. Ma non pensavo che fosse una buona idea. Non penso che tu immagini cosa possa voler dire essere odiata e umiliata da tutti. Ora puoi dire che era una questione d'orgoglio. Era il mio orgoglio a essere ferito, sì. Ma sarebbe stato un danno anche per John. Eravamo i classici amanti maledetti, capaci di rovinare tutto quello che ci circondava. Pensavo che l'amore fosse tutto. Che l'amore conquisterà il mondo. Per amore avrei sacrificato tutto quello che avevo. Ma stava diventando troppo pericoloso. Amare così può distruggere. Eppure era destino che fosse così, ormai». La separazione di John e Yoko è un argomento che ha fatto molto discutere. In un certo senso, John, in rotta di collisione con il suo lato oscuro, ha cercato una sorta di liberazione. La trovò tra le braccia della donna che Yoko aveva scelto per lui. Nell'abbraccio della giovane segretaria, mentre la sua vita e la sua carriera toccavano il fondo. May Pang, l'amante restia, non poteva immaginare il vortice in cui stava per essere risucchiata. Yoko Ono dovette mettere in stand-by il loro matrimonio perché la verità nel cuore di John Lennon venisse alla luce.
May Pang: il «weekend perduto» La società mantiene sempre un ricordo vago di quella che si suole chiamare «l'altra donna». Nelle fiction e agli occhi della morale comune, amanti e compagne non sono molto considerate, soprattutto se la loro storia d'amore e affetto finisce male. I biografi dei Beatles di tutto il mondo hanno trattato la relazione tra John Lennon e May Pang in modi diversi. Alcuni le hanno concesso appena un accenno.
Altri l'hanno depennata completamente, prostrandosi a pressioni esterne da parte degli amici e dell'entourage di Yoko. Ciò è veramente paradossale perché fu Yoko a convincerli a stare insieme. Anche Ray Coleman, nel suo splendido Lennon: The Definitive Biography, svaluta il rapporto e non si prende neppure la briga di intervistare May. La verità è che negli ultimi anni di vita di John Lennon, una seconda donna contribuì a influenzare e modellare la sua storia. Ignorare il loro legame e il tempo che trascorsero insieme è un volgare tentativo revisionista. L'amicizia e l'amore tra loro due durarono ben dieci anni. A un primo impatto, nessuno riconoscerebbe nella donna attraente e riservata di oggi la stessa giovane frizzante e luminosa che rimise in piedi John, rialzandolo letteralmente da terra e giocando un ruolo pubblico e privato così importante. May Pang è l'eroina che non ti aspetteresti nella storia di John. La incontriamo nella cucina di casa sua, alla periferia di New York. Vediamo suo figlio tornare a casa da scuola e abbracciarla teneramente. Al tempo del nostro incontro, May si prendeva anche cura dell'anziana madre. Sulle pareti di casa sono appesi ritratti di John Lennon, mentre sugli scaffali troneggiano biografie, suoi libri autografati e altri ricordi. In un archivio privato, May conserva degli straordinari disegni di John, tra cui un autoritratto. Lui e il suo spirito sono gli ospiti invisibili della casa. I figli di May, due adolescenti al tempo del nostro incontro, lo ammirano e sanno tutto della storia d'amore tra lui e la mamma. La relazione e la sua influenza sul genio tormentato dell'ex Beatle sono stati l'oggetto di indiscrezioni e racconti per un quarto di secolo. Pochi però hanno capito quanta gioia e dolore ci fossero in quel rapporto. Molti scrittori l'hanno trattato come un evento di contorno. Non lo fu affatto. Alcuni fra costoro che hanno visto da vicino la storia dei Beatles e non solo, mi hanno detto che il periodo con May fu per John il più felice di tutti gli anni Settanta. Un'affermazione del genere andrebbe comunque discussa alla luce dei cambiamenti intercorsi nella sua vita tra il 1975 e il 1980, ma, senza dubbio, il periodo che trascorse con May fu felice. Che fu un momento rivelatore, oltre che di serenità, me lo disse lo stesso John nel 1975. Lei influenzò la sua musica; sul come si potrebbe discutere, ma lo strascico di quella storia andò ben oltre i diciotto mesi che passarono insieme. Il loro rapporto professionale cominciò nel 1970, divenne personale nel 1973 e continuò fino al 1980. May Pang, nata a Spanish Harlem e cresciuta con un'educazione cattolica, era una tipica «brava ragazza» quando le circostanze e le pressioni di Yoko la spinsero tra le braccia di uno degli uomini più famosi del mondo. A differenza di molte storie d'amore, questa non nacque per caso. Benché, vista la particolare situazione non poteva che essere breve, fu tuttavia molto intensa. Gli amanti dei Beatles e gli amici di Lennon nutrono grande affetto per May, pur rispettando il legame tra Yoko e John. Tony Bramwell, il ragazzo di Liverpool che crebbe guardando i Fab Four e lavorando per Brian Epstein e la Apple, la vede a modo suo: «Penso che Yoko lo soffocasse. Non credo che lei fosse in grado di capire il divertimento che circondava il lavoro dei Beatles. Gli anni Settanta, e il periodo Yoko, con tutti quegli strani esperimenti di musica e d'avanguardia, per John furono tristi. May era una bella persona, con cui poteva tornare alle sue radici di rockstar. Lasciava che si divertisse. Mentre Yoko aveva tagliato fuori chiunque altro dalla sua vita, May gli permetteva di vedere gli amici». Allan Steckler, il dirigente della Apple che ingaggiò May, la vede in modo diverso: «Adoravo May, come del resto John. Ma è stata Yoko a trasmettere a John un certo impeto creativo. Yoko era una donna piena di creatività che si interessava a tante cose, soprattutto a se stessa, è vero, ma comunque faceva di tutto per costruire situazioni che inducessero John a pensare. E quando John iniziava a pensare, era l'uomo più creativo del mondo. All'opposto, May non lo sfidava: lo proteggeva. John si sentiva felice vicino a lei. Era un pezzo di pane, lo confortava invece di pungolarlo, piena com'era di amore e premure. Lo stacco rispetto a Yoko non poteva essere più marcato». May era una donna diversa da Yoko, più protettiva nel momento più difficile. In quel periodo uno degli amici di John, il cantante e compositore Harry Nilsson, gli offriva infinite opportunità di prendere droghe, andare a donne e perdere il controllo. Non che Lennon facesse molto per sottrarsi. In tutto il periodo che trascorsero insieme, May dovette combattere per salvarlo dall'orgia di droga e alcol che era diventata la sua vita. Paradossalmente, nonostante il suo amore fosse sincero e crescesse ogni giorno di
più, fu lei che lo aiutò a tornare da Yoko Ono. La storia cominciò con una strana proposta. Per tre anni, dalla fine del 1969 all'inizio del 1973, May lavorò per la compagnia di Allen Klein, che era diventato il manager commerciale dei Beatles. Appena assunta, divenne una presenza fissa dell'entourage di John e Yoko. Quella piccola donna vivace ed energica svolgeva un'ampia serie di mansioni: li aiutò a spostarsi nei diversi appartamenti, li accompagnò in Inghilterra a prendere bagagli ed effetti personali, e seguì John (e qualche volta Yoko) durante le sedute di registrazione. Il suo rapporto con lui fu cordiale ma strettamente lavorativo, come ricorda. «Parlavamo di musica e di quello che mi piaceva. Eravamo amici. Yoko era molto esigente ma sembrava che mi apprezzasse. Per quanto fosse dura, si capiva che si fidava di me. Che splendida opportunità di carriera mi era capitata! Lavoravo, imparavo tantissimo ed ero a contatto con persone davvero affascinanti». May lavorava diciotto ore al giorno. Era ormai una presenza fissa. Le cose andavano bene fino a quando, una mattina di primavera del 1973, Yoko le fece una richiesta tanto secca quanto sconvolgente. May ricorda: «Arrivò nel mio ufficio. Quella mattina avevamo già lavorato sull'inizio di Mind Games. Entrò e si sedette davanti a me. "May, ho bisogno di parlare con te" mi disse. "Sai, io e John non stiamo più insieme". "Oh, mi dispiace". Ormai lo sapevamo tutti, era nell'aria, si percepiva stando con loro, e non era bello. "Sai, John inizierà a uscire con qualcun'altra". E poi all'improvviso: "Tu non sei fidanzata". La guardai e risposi: "Chi? Io? Non cerco mica un fidanzato". "No, no, no. Andresti bene per John". "Ma non voglio tuo marito". E lei: "Oh, lo so che non lo stai cercando. Ma penso che saresti la donna giusta per lui"». May era sorpresa. Il suo rapporto con John era professionale e amichevole, c'era una certa complicità, ma non aveva mai flirtato né si era infatuata di lui. Il suo cuore iniziò a impazzire mentre Yoko continuava. «Oh, andiamo May!» Mi parlava come se fossi una bambina; del resto aveva pur sempre diciassette anni più di me. Le dissi "No, non mi interessa". "No, no. Tu non vuoi vedere John con qualcuno che lo tratterà male?" "No, certo che no". "Lo so". Ma io le dissi: "Non sono la persona giusta per lui". "Lo sei, lo sei, invece, e dovresti metterti subito con lui". "Non voglio". "E invece dovresti". Poi si alzò e se ne andò». Gli sforzi di Yoko per mettere pressioni su entrambi continuarono nonostante nessuno dei due si mostrasse interessato. Per due settimane, John e May si parlarono a malapena, e nonostante questo iniziarono a germogliare i semi di un amore che avrebbe cambiato il destino di John in un decennio già travagliato. In ufficio, in sala di registrazione, quando s'incontravano, tra John e May c'era tensione. Finché, un giorno, mentre stavano entrando in studio scoccò la scintilla. «Entrammo in ascensore, la porta si chiuse, lui mi prese con forza e mi diede un bacio. Mi ritrassi, non sapevo cosa fare. Lo guardai e gli dissi "Stai fermo. Per cortesia, stai fermo. Ti prego". Mi guardò. "Era da tanto che volevo baciarti". "Non dirlo neanche, no". Stavo impazzendo. "Potremmo non parlarne più adesso?" Pochi minuti dopo, in studio, John era in piedi alle mie spalle e cominciò ridendo a grattarmi la schiena. Potevi leggere nello sguardo di tutti la sorpresa: "Ma cosa succede?" L'atmosfera nello studio cambiò completamente. A John rimase quel sorriso divertito. In macchina la sera gli dissi "Adesso torni al Dakota". E lui, "No, mi fermo da te". "No, torniamo al Dakota, tu vai a casa". Lo riportai al palazzo e lo feci scendere. Gli dissi ridendo. "Va'. Adesso vai a casa". E lui, "Attenta agli esserini verdi che si arrampicano sui tuoi vetri". E io, ancora: "Vattene"». Gli esserini verdi entrarono dalla finestra e la relazione cominciò. Per la giovane età di May, la sua innocenza e la sua etica professionale, i suoi colleghi alla Apple rimasero stupiti. Linda Reig, un'altra giovane assistente, lavorava fianco a fianco con May e ricorda con quale impegno lavorasse con John: «Non c'è dubbio – May lavorava tantissimo e passavano molto tempo insieme. Di fatto, lei era presente a quasi tutte le registrazioni. Curava tutti i contatti per John e Yoko. Ma non c'era dell'altro. Non c'era nessun segno di quello che sarebbe successo, o nulla che lo lasciasse
presagire. John poteva essere un bastardo, crudele e offensivo. May era un pezzo di pane. Era una coppia strana – e la loro relazione sorprese tutti». Non è mai stato sottolineato come nel 1973 Yoko Ono fosse ormai sempre più intollerante nei confronti di John, che beveva molto ed era completamente instabile. Sentendosi intrappolata e sperando in nuovi orizzonti professionali, si rivolse a May Pang. Yoko apprezzava May, rispettava il suo modo di lavorare, e non la vedeva certo come una potenziale minaccia. May Pang ricorda: «Anche se è a dir poco bizzarro, credo che si sentisse al sicuro, che contasse sul fatto che John non si sarebbe mai innamorato di me, che avremmo avuto entrambi ciò di cui avevamo bisogno. Non credo si immaginasse quello che sarebbe accaduto». Oltre trent'anni dopo, May ancora si domanda quali fossero le sue vere motivazioni: «Lei pensava che John non fosse una persona solare, e non capiva perché la gente lo ammirasse tanto. A molti musicisti diceva di essere lei la mente creativa della famiglia. Lui cercava aiuto, perché era chiaro che stava passando un momento difficile con Yoko. Lei stava diventando una figura di spicco, e pensava che Lennon non la stimolasse abbastanza. Era delusa perché John non stava creando come lei avrebbe voluto». Nessuno, neppure la stessa Ono, poteva prevedere il risultato di quell'incontro che lei stessa aveva organizzato. Nacque qualcosa che era molto più del diversivo che intendeva trovare per il marito: un'amicizia e un amore che salvarono John Lennon dal precipizio, restituendogli salute e sicurezza e, alla fine, Yoko. Dall'invito di Yoko al momento in cui l'affaire si concretizzò passarono due settimane. Prima che la loro storia finisse ufficialmente passarono altri diciotto mesi ma la storia finì davvero soltanto con la morte di John. Le ragioni di quell'amore andarono ben oltre ciò in cui la sua artefice aveva sperato. May è convinta che Yoko lo avesse sì pianificato ma ne avesse anche sottovalutato il potenziale: «Lo architettò perché voleva essere libera di occuparsi dei suoi progetti. Pensava che nulla potesse distruggere il loro legame e che John sarebbe tornato da lei. La vide come una storia di sesso credendo che in due settimane lui si sarebbe sfogato e sarebbe tornato tra le sue braccia». La relazione con May divenne subito oggetto di pettegolezzi a speculazioni, ma Bob Gruen, che vide tutto da vicino, capì cosa stava succedendo e perché, e comprese anche che il momento e la situazione personale di John giocarono un ruolo decisivo. Il pubblico, ai tempi, sapeva ben poco. «Nel 1972-73 quando era a New York, John beveva molto e dormiva poco, aveva un aspetto da bohèmienne del Lower-East Side e avvertiva molto il problema del peso. A Los Angeles è molto più facile avere un bell'aspetto, una volta che ti tagli i capelli e vai in piscina, sei pulito tutto il giorno e hai addosso la tipica abbronzatura della California. Alcune delle persone più malandate che ho conosciuto là sembravano in perfetta forma. A New York era veramente demoralizzato, non solo a causa della situazione con Yoko. Beveva, era arrabbiato e depresso: Yoko non voleva avere niente a che fare con tutto questo. Voleva andare avanti; si stava disintossicando e stava progredendo nel suo lavoro. A un certo punto gli disse chiaramente: "John, non ho intenzione di vivere con un ubriacone e per di più perennemente in collera". Allora lui si rivolse a May, che gli era molto più di conforto. Apprezzava il fatto che si prendesse cura di lui». Lei lo fece nonostante gli enormi ostacoli, primi tra tutti il bere e la droga. May provò a rendere più stabile la sua vita, addirittura progettando incontri con la sua famiglia. Appena la loro storia nacque, John e May lasciarono New York per la California, dove restarono dal novembre del 1973 al marzo del 1974. May cercò di dare un senso di normalità alla vita di John. In un momento cruciale per un uomo che era stato lui stesso abbandonato dal padre, John ritrovò suo figlio Julian. May aiutò a organizzare l'incontro e programmò anche una visita a Disneyland per John e il bambino. In uno dei momenti più imbarazzanti del primo dei tre viaggi in America, il piccolo Julian fu accompagnato per necessità da Cynthia. John la ignorò del tutto durante la gita a Disneyland e la sensibile May lo rimproverò per questo. Il risultato della visita di Julian fu che Cynthia e May divennero amiche in nome del comune amore per John e contro la loro rivale, Yoko. May crede che il suo senso della famiglia fosse mancato a John per gran parte della sua vita, e che questo lo abbia avvicinato a lei e a suo figlio: «Amava il fatto che avessi riportato la stabilità della sua vita. Non ho mai cercato di separarlo dalla sua famiglia, ma di tenere tutti uniti. Ogni weekend chiamavamo Julian e mi assicuravo
che John rimanesse in contatto con lui. Lui stesso la trovava una cosa giusta». Arlene Reckson, manager del Record Plant, uno studio di registrazione molto in voga negli anni Settanta, in seguito fidata collaboratrice di John e Yoko, divenne amica intima di May e lo è ancora oggi. Quando andò a trovarla a Los Angeles sapeva che si trovava in una situazione difficile: «Era in grande difficoltà. Yoko telefonava di continuo. May era innamorata di John, e sembrava esserlo anche lui. May era così generosa, vedere come si comportava era commovente. Aveva un istinto materno, cercava in tutti i modi di renderlo felice. Tanto sensibile e affettuosa che riuscì addirittura ad alleviare la pressione che lui si sentiva addosso». Costringere John a disintossicarsi fu una battaglia frustrante. La California per lui fu un incubo e una rivelazione. Ma l'alcol e la droga lo rendevano instabile e violento. Una sera, al culmine di una brutta ubriacatura, picchiò May sbattendola per tutta la stanza. Lei pensa che in quel caso John abbia attraversato lo stesso percorso di quando picchiò Stuart Sutcliffe: la violenza, la calma, la richiesta del perdono e infine il rimorso. «Era ancora violento come da giovane, ma cercava di imparare a controllarsi. Voleva prima di tutto capire se stesso, era una sorta di terapia. Ricordo che, quando mi picchiava, subito dopo tornava da me a scusarsi piangendo. "May, non vorrei mai farti del male". Vedevo il bambino in lui che lo spingeva a comportarsi così. "Non voglio farti male. Voglio solo stare con te"». Qualche mese dopo, la coppia tornò a New York e andò ad abitare in un piccolo appartamento dell'East Side, vicino alle Nazioni Unite, dove avrebbe trascorso gli altri diciotto mesi di convivenza. May, che nella vita di John aveva il triplice ruolo di amante, amica e segretaria organizzatrice, era a quel punto profondamente innamorata di lui. Lo accompagnava a fare gite sul Long Island Sound o a visitare i musei e aveva programmato per lui una vita dai ritmi molti più tranquilli rispetto alla frenetica routine di Los Angeles. Ma in verità Lennon era sempre il marito di Yoko Ono, e la sentiva ogni giorno. May racconta che Yoko non smise mai di telefonare e mandò diverse volte amici come Elliott Mintz, a lungo portavoce della coppia Ono-Lennon, a controllare la situazione. Yoko, da parte sua, insiste sul fatto che fosse suo marito a chiamarla quasi tutti i giorni, e Bob Gruen le dà ragione. La verità è difficile da stabilire ma l'esito di tutto rimane comunque chiaro: John tornò da sua moglie. Il primo febbraio 1975 May capì che la storia tra loro due stava per finire: «Non pensavamo di lasciarci, poi Yoko chiamo un venerdì, invitando John ad andare da lei il giorno stesso: "C'è la persona con cui devo fare la terapia per smettere di fumare. Devi venire oggi. Le stelle sono quelle giuste". Mi trovai subito a disagio e sentivo che John non era in grado di rassicurarmi a proposito. Per poco non litigammo. "Dai, è per un pomeriggio. Sarò di ritorno per cena, me l'ha promesso Yoko. Potremo andare a mangiare fuori da qualche parte, dove vuoi tu. E poi andremo da Paul e Linda. Saranno a New Orleans. Mi piacerebbe andarli a trovare". Gli dissi "Va bene". Lui usci. Era finita. Sapevo che non sarebbe più tornato». Non era davvero finita. La relazione sentimentale si ruppe ma l'amicizia tra John Lennon e May Pang continuò in segreto fino alla morte di John. Si telefonarono e si videro di nascosto, anche durante i quattro anni che Lennon passò a casa prendendosi cura del figlio Sean. Negli anni successivi, John continuò a criticare gli uomini che May frequentava, avvertendola che non sarebbe stato facile trovare la persona giusta. May ricorda una certa compiacenza nel tono di voce di John, quando orgogliosamente glielo faceva notare. «Mi domandava sempre se uscivo con qualcuno. "Sarà difficile trovarti un fidanzato": me lo ripeteva in continuazione. E se gli chiedevo il perché, rispondeva "Si sentiranno sempre a confronto con me". Non c'è dubbio che avesse ragione. Non poteva che essere così, e questo ha condizionato la mia vita. Una volta conobbe un ragazzo con cui uscivo e disse che non lo apprezzava: "Non è la persona giusta per te". Era sempre così, si preoccupava molto per me». In seguito il fantasma di John avrebbe continuato ad aleggiare sulla vita di May, anche durante il fallimentare matrimonio con Tony Visconti, storico produttore di David Bowie. May Pang è nota all'opinione pubblica come l'amante di John Lennon, ma a differenza di molte «altre donne» ha accettato l'etichetta con grazia, classe, e un sincero e autentico affetto. Nonostante John avesse ritrovato la via di casa tornando da Yoko, May non fu mai lontana dai suoi pensieri. Per comunicare con lei, scelse un messaggero particolare.
Un amico comune di nome Mario Casciano, ai tempi ancora adolescente, divenne l'intermediario tra i due, con il compito di portare messaggi e informazioni. Continuò, fedele al suo compito eseguito con dedizione, fino al dicembre del 1980. Recapitò a May uno degli ultimi pacchetti di John, contenente diverse copie di Double Fantasy, pochi giorni prima che Lennon venisse assassinato. Mario è ancora ammaliato dalla star che ebbe la fortuna di conoscere. Ed è convinto che quella di John con May non sia stata una semplice avventura: «Credo che la amasse davvero. Con la nascita di Sean imparò a guardare alla sua vita in maniera più profonda. Eppure non smise mai di amare May. Durante il periodo che passarono insieme, lui si era ristabilito, aveva ripreso a vedere gli amici, gli era tornata la voglia di fare musica. Sembrava davvero felice. S'interessò sempre a lei, a quel che faceva, a come stava. Si sentivano spesso, ma siccome non potevano vedersi, date le circostanze, incaricava me di portarle dei messaggi». Il punto di vista di May è in contraddizione con quello di Yoko. Ma non è così anche l'amore? Non c'è dubbio che il ritorno da Yoko fu qualcosa in più di una riflessione di John sul suo periodo con May. Sembrò piuttosto una risposta ai suoi bisogni. Solo John potrebbe dirci perché ritornò al Dakota. Joe Johnson, come la maggior parte degli esperti in materia, giudica questa scelta come una risposta alla sua ricerca di ordine: «Lennon aveva bisogno di una struttura. Stando per conto suo, senza avere una persona accanto, tendeva a perdere la rotta, come un aeroplano senza strumentazione a bordo. Era capace di raggiungere vette sublimi e salire fino alle stelle, ma senza una struttura e un ordine poteva smarrirsi e mettersi nei guai, come durante il "weekend perduto", quando in più occasioni finì nell'occhio del ciclone per le risse notturne. Anche se May gli fu di grande aiuto in uno dei momenti più creativi della sua vita, lei non aveva il polso necessario per tenerlo a freno. Lì stava invece la forza di Yoko Ono. Era capace di frenarlo, e di farlo sentire in grado di controllarsi. Abbiamo comunque perso prematuramente John, ma bisogna riconoscerle che fino a quel momento Yoko gli aveva salvato la vita. Lui e i Beatles erano avviati verso l'autodistruzione, come testimonia la vicenda di Let It Be, e fu proprio la forza della Ono a metterlo al sicuro e far sì che ci regalasse altra musica memorabile». Se John cercava un salvagente, Yoko gliene lanciò più di uno, preparata com'era fin da quel primo incontro alla galleria d'arte.
Yoko parte II: il ritorno Dall'inizio, e da quando la sua storia d'amore con John fu di pubblico dominio, fino alla fine della loro vita insieme, la figura di Yoko è stata circondata dal sarcasmo e dallo scetticismo generale dei media di tutto il mondo riguardo alle sue vere intenzioni. Per questo motivo, anche durante la separazione, John ebbe sempre un occhio di riguardo per lei. La difendeva e la confortava: «Mi sentivo ribollire il sangue leggendo le cose orribili che scrivevano sul mio conto. Ne parlavamo nel cuore della notte e John tirava fuori il suo lato gentile, mi chiedeva se mi sentivo bene e mi preparava da mangiare». Quando John ritornò al Dakota da Yoko, i due iniziarono a confidarsi in maniera più aperta. John, libero dalla dipendenza che gli aveva tormentato la vita, si sentiva al massimo nel fare la cosa che gli riusciva meglio: parlare. La voglia di comunicare diede nuova forza all'intimità che si era ristabilita tra di loro. Il John più energico e vigoroso che io ricordi usciva fuori nelle conversazioni o quando ingaggiava duelli verbali o partecipava a dibattiti. Durante il loro matrimonio, racconta Yoko, parlavano tantissimo: «Una volta, in ascensore, stavamo chiacchierando come matti e ci dimenticammo di premere il bottone. Eravamo fermi senza che ce ne rendessimo conto. Una signora che era là ci disse che trovava bellissimo che dopo tutti questi anni parlassimo ancora insieme con tanto entusiasmo». Negli undici anni, in cui sono inclusi un periodo di separazione e la nascita di Sean, il loro amore fu sempre intenso. «Il momento magico scattò quando ritornammo insieme. Da allora siamo rimasti come in estasi. Il giorno più felice è stato senza dubbio quello in cui nacque Sean: era il compleanno di John, che ottenne allora anche il permesso di rimanere negli Stati Uniti. Fu una tripla festa.
Ma un altro momento speciale furono l'ultimo mese, l'ultimo weekend, l'ultimo giorno insieme. Il giorno in cui morì, mentre eravamo in studio ad aspettare che gli ingegneri del suono preparassero la sala, mi sussurrò qualcosa di incredibilmente dolce ed emozionante. Risposi solamente "Oh", come se non avessi capito, non lo guardai negli occhi. Ma nel mio cuore pensai: "Ho più di quarant'anni e mio marito mi dice ancora queste cose. Sono una donna fortunata". Poco dopo ci accompagnarono a casa, e ad attenderci c'era l'incubo peggiore mai vissuto al mondo». Yoko racconta che, in prossimità della fine, il loro amore era diventato più romantico e John più affettuoso che mai: «John ha fama di maschio cinico. In realtà era romantico e appassionato. Romantici lo eravamo tutti e due. Cime Tempestose era la nostra storia preferita. Lui era Heathcliff e io Cathy. In quei giorni iniziai a pensare che era valsa la pena di affrontare tutto quel dolore per John. "Guarda come siamo vicini adesso". Ripeteva sempre questa frase: la vita è ciò che accade mentre noi siamo indaffarati con altri progetti». Inconsapevoli del fatto che la morte fosse dietro l'angolo, riconciliati in quello che speravano essere un nuovo inizio della loro storia d'amore, Yoko e John vissero gli ultimi giorni insieme in un'intensa armonia e nel calore dell'affetto reciproco: «Eravamo così dolci. Una volta, andando a fare compere, pensai di comprare dei cioccolatini per John, che ne era molto goloso. Tornai a casa e appena uscita dall'ascensore la porta si aprì e lo trovai là. "E come sapevi che ero arrivata?" "Oh, me lo sentivo". "Guarda John, ti ho comprato dei cioccolatini". "Non dovevi, Yoko, non dovevi!" Gli piacevano tanto, ma aveva paura di ingrassare! Pensa che bello, aveva aperto la porta perché conosceva esattamente il momento in cui sarei rientrata. Era diventato tutto così incredibile, e così dolce, proprio nell'ultimo mese». Sembrava quindi che la loro turbolenta relazione fosse diventata un legame profondo all'insegna della comprensione e di un'amicizia sincera. Ma come racconta Yoko, c'era ancora passione vera: «Facevamo ancora l'amore. Non succede quando si è solo amici. Eravamo teneri, ci coccolavamo, ma c'era intesa dal punto di vista sessuale». Fine. La parola che Yoko Ono non avrebbe mai pensato di pronunciare. E come all'inizio, il mondo la incolpò di tutto. I giornalisti, una categoria di cui comunque sono fiero di aver fatto parte per tanti anni, spesso si muovono in branco. Che si tratti di una campagna presidenziale o dei pettegolezzi sulle celebrità, alcuni cronisti s'inchinano sempre agli stereotipi. Fu più facile per tutti ritrarre Yoko Ono come una donna fredda e calcolatrice. E invece non c'era dubbio che fosse una mente creativa e avesse forza di volontà da vendere. Nel libro parliamo anche dei suoi errori, ma non metteremmo mai in discussione l'importanza che ha avuto per John e il legame forte che li univa. È evidente che, negli ultimi anni in cui visse, Lennon amò la sua anima gemella con tutto il cuore. Allan Tannenbaum ha seguito da fotoreporter l'Intifada, la prima guerra del Golfo, e altri momenti critici della storia contemporanea. E seguì anche gli ultimi giorni di John Lennon. Ricorda bene il servizio con lui e Yoko a Central Park a fine novembre. Quello del fotoreporter è un lavoro di intuizione. Ciò che lui capì al volo quel giorno fu qualcosa di ammirevole: «Iniziarono a fidarsi di me dopo che li fotografai per il "Soho Weekly News". Così andammo a Central Park. Chiacchieravamo e ogni tanto gli chiedevo di fermarsi per scattare un paio di foto. Erano molto affettuosi l'uno con l'altro, si tenevano per mano, sembravano davvero innamorati. Qualche giorno dopo mostrai a John alcuni provini. "Sai perché mi piacciono le tue foto? Perché fai sembrare Yoko così bella" mi disse». Il lavoro di Tannenbaum entusiasmò entrambi al punto che lo invitarono a scattare le fotografie di loro due nudi a New York nello studio in cui giravano un video promozionale per (Just Like) Starting Over, contenuta nell'ultimo disco, Double Fantasy. Tannenbaum si posizionò dietro le cineprese mentre la coppia fingeva di fare l'amore davanti all'obiettivo. «Una scena surreale. Fu un po' strano ma mi divertii davvero guardandoli mentre si godevano insieme il loro amore. Tra di loro c'era qualcosa di speciale. A volte lei dava ordini a John che rispondeva con un sorriso: "Okay mamma. Obbedisco". Ma non c'era alcun senso di dominio, erano soltanto una coppia felice».
Oggi le persone vicine a Yoko le sono molto affezionate. Mark Lapidos, creatore della «Fest for Beatles Fans» – i popolari raduni beatlesiani che si svolgono vicino a New York e Chicago – la definisce una «bambolina» che ogni anno contribuisce ai raduni e non fa mancare i suoi saluti. «Non c'è un anno in cui non si unisca a noi nel ricordare John offrendo cimeli da mettere all'asta e mandandoci messaggi di estrema gentilezza». La stessa gentilezza di cui parla il vicino di casa nel West Village, nonché fotografo di famiglia per alcune occasioni, Bob Gruen: «Apprezzo tantissimo Yoko. È una persona affascinante, molto intelligente, generosa. È forte e ha un grande senso dell'amicizia. Quando la gente mi chiede che tipo sia, rispondo sempre che era il tipo di donna che John Lennon poteva sposare. Molte persone pensano di conoscerla sapendo solo quello che dice la stampa, soprattutto britannica. Ma in Inghilterra, se non possono dire qualcosa di cattivo, non scrivono neppure di te». Leggendo ciò che di lei racconta Gruen, un reporter sarebbe indotto a domandarsi perché Yoko Ono è sempre stata così restia a mostrarsi alla gente per com'era davvero di persona. Gruen ha una sua teoria: «Be', in qualche modo ha tentato di farlo capire alla gente. È sempre stata una persona molto aperta, ma nessuno l'hai mai davvero capita. La gente non capisce. Una volta nelle fotografie appariva sempre molto seria e severa. Io provai a renderla più leggera invitandola a sorridere perché fuori dal set e a casa lei in realtà sorrideva molto, e rideva anche. Yoko è un persona meravigliosa, aperta, e felice. Ma quella di non sorridere nelle foto è un'abitudine giapponese. Fanno tutti così. Se vedi una fotografia di un giapponese, noterai che ha sempre una faccia seria. Quel popolo pensa che la vita non sia un gioco, ma qualcosa di serio, e non ci sia niente da ridere». La coppia John/Yoko, tra le più famose del mondo, fu sempre analizzata e indagata, quasi vivisezionata per cogliere i retroscena di quel rapporto. La prospettiva migliore appartiene senza dubbio alle persone che furono vicine a entrambi. Secondo Bob Gruen, John Lennon aveva bisogno della forza di Yoko, lo sentiva, e nutriva il più profondo rispetto nei suoi confronti. «Lei capiva i suoi sentimenti, e la forza di carattere dava qualcosa in più alla sua personalità. Forte non vuole dire dominante. È una ragazza determinata. Una brava newyorchese sa badare a se stessa e non si lascia buttare giù. Proprio questo aspetto aiutò John perché lui aveva piuttosto la tendenza a dire "Va bene" quando non era così, solo per non offendere nessuno. Yoko era molto più pragmatica. Il suo "no" era un "no". Punto e basta». Avere accanto qualcuno così pragmatico durante tempi duri era una necessità per John Lennon; Yoko Ono era la persona adatta. Poco dopo l'uscita di Some Time in New York City, il disco registrato insieme agli Elephant's Memory, fu organizzato un concerto al Madison Square Garden. Come ricorda Gruen, fu un'esperienza devastante per tutti i musicisti, ma soprattutto per John. «Durante le registrazioni beveva molto e prendeva anche qualche additivo chimico per stare più sveglio ed essere più in forma. Quando uscì Some Time in New York City, la stampa lo bocciò miseramente. Allora, suonammo al Madison Square Garden. Pensavamo fosse stato uno show fantastico; e la stampa lo stroncò. Si aspettavano un concerto rock nudo e crudo e non gli andò giù il fatto che fosse Yoko a cantare. Volevano ascoltare le canzoni dei Beatles. John ne suonò un paio, ma non era abbastanza. Pensarono che il suo nuovo stile di rock&roll fosse terribile. John entrò in depressione e si mise a bere ancora di più per colpa delle brutte recensioni e dell'insuccesso del disco. Lei, molto più distaccata, lo aiutò a superare il momento». Some Time in New York City uscì nel 1972. Il governo americano teneva John sotto sorveglianza. La sua nuova musica non fu ben accolta. Il John Lennon solista veniva attaccato dalla stessa stampa che aveva esaltato il suo lavoro con i Beatles. Fu un periodo cupo e travagliato. Yoko lo aiutò ad affrontarlo giorno dopo giorno. Il matrimonio stava seguendo le dinamiche tipiche della vita delle coppie sposate; era in un periodo di mutua dipendenza in cui John sembrava essere il più dipendente tra i due. May Pang lo aiutò nel 1973 e per buona parte dei 1974. Ma una volta ritornato da Yoko – e dopo anni di silenzio in casa a fare il papà – John, secondo Denny Somach, storico dei Beatles, fu incoraggiato a tornare in pista proprio da Yoko: «Sentiva, ed è documentato, che la sua vena creativa si stava inaridendo, e Yoko riuscì a rivitalizzarlo e stimolarlo a realizzare un nuovo disco cinque anni dopo Rock 'n' Roll. Fu lei che lo incoraggiò a rimettersi a scrivere mentre accudiva Sean, dando nuova energia
al suo talento». Se l'amore è tutto ciò che ci serve, John Lennon ne ha avuto la sua parte. I conflitti furono conseguenza delle sue scelte. Pauline Sutcliffe, che ha studiato con cura la vita di John, vede di nuovo un parallelo tra la vita da ragazzo e gli amori da adulto: «Stuart ebbe molta influenza su di lui. Così anche i suoi amori. Facci caso. May Pang è stata la donna protettiva, amorevole che rinunciava a sé. Yoko è la competizione, la sfida, l'apertura a nuove idee, è stata importante perché penso che lui fosse annoiato e depresso dalla sua vita. Per lui fu una vera botta di adrenalina. Ma se torniamo alla zia Mimi, lei era la donna ferrea mentre la sua vera madre, Julia, era amorevole e premurosa. Mi chiedo ancora perché diventò impenetrabilmente chiuso in se stesso quando tornò da Yoko, c'era molto dentro di lui che aveva bisogno di essere esternato». Qualsiasi fossero le rispettive influenze, le tre donne che plasmarono la vita sentimentale adulta di John Lennon non potrebbero essere più diverse. May Pang parla apertamente di lui come di un uomo «che amavo e rispettavo», mentre Cynthia si è rifiutata di parlare della loro vita insieme. Yoko, che dirige l'impero Lennon, non ha contatti con May dal 1975, e ne ha avuti pochissimi con Cynthia, nonostante in pubblico affermi di rispettarle entrambe. Sono ancora evidenti, però, i segni della competizione. May Pang coordinò le operazioni in studio per tre dei dischi di John usciti all'inizio degli anni Settanta – Mind Games, Rock 'n' Roll e Walls and Bridges. Un delle hit di Walls and Bridges è #9 Dream, scritta per May, in cui la voce di lei sussurrava il nome di John. All'epoca dell'uscita del singolo, nel settembre 1974, non esistevano i clip musicali. Un video prodotto nel 2003 in cui c'era anche #9 Dream, realizzato da Yoko per ammodernare e visualizzare la musica di Lennon, vede la stessa Yoko comparire nel clip della canzone mimando le parole sulla voce originale di May Pang. Yoko Ono, che ora coordina tutte le produzioni e le registrazioni della musica di John Lennon, poteva assegnare il ruolo a un'altra persona. Ma ha deciso di interpretarlo lei stessa. Un momento rivelatore e un tributo al suo amore infinito, che fu tale anche nei diciotto mesi in cui lei e John rimasero separati. Immaginate: due delle donne che amarono John Lennon riunite in una canzone, evocano il suo nome e competono per il suo affetto – o la percezione dello stesso – a un quarto di secolo dalla morte. Gli amori di John Lennon furono sempre intensi, nei periodi di gioia come in quelli di dolore. Ma il ritorno da Yoko fu una svolta. Risollevato dagli abissi della droga, riportato alle sue passioni dalla cura di May Pang, cominciò a capire ciò di cui aveva bisogno: ricreare l'arte che aveva definito la sua esistenza fino a quel momento. Tornare da Yoko gli diede anche una direzione, elevandolo a una dimensione di vita che non era mai riuscito a raggiungere prima – un nuovo senso della famiglia e dell'essere padre. Questo obiettivo finalmente colmò anche il desiderio di trovare la pace e la verità, divenuto sempre più forte proprio in quegli ultimi mesi, e premiò il tentativo estremo di portare la luce nei recessi più bui e pericolosi della sua anima.
3. PERICOLI IN AGGUATO
«Mia madre mi raccomandava di stargli lontano. "Con lui ti metti nei guai", mi ripeteva sempre, ma nessuno resisteva al suo fascino e al suo carisma» TONY BRAMWELL, MUSICISTA E AMICO D'INFANZIA DI JOHN LENNON «Gli piaceva interpretare sempre il ruolo del duro. Era un duro, ma anche una persona sensibile, e in privato poteva piangere in qualsiasi momento, come chiunque altro» TONY BARROW, UFFICIO STAMPA DEI BEATLES Tutte le persone che furono vicine a John Lennon, che lo amarono e lo ammirarono, condividono lo stesso cruccio: quello di non essere mai riuscite a tenerlo lontano dai guai. Ma i guai erano un punto centrale nella vita di John, come artista e come uomo. Provocare disordine era il suo modo di spingersi oltre i propri limiti superando nuove frontiere, da bambino, da ragazzo, da adulto e come artista; a volte nel bene, altre nel male. Il più grande problema fu la voglia esprimere le proprie idee e prendere posizione su argomenti importanti come la guerra in Vietnam. Aveva un'abilità sorprendente nel coinvolgere le persone, convincendole a vedere le cose da una prospettiva diversa e ad agire per il cambiamento. Anzi, sotto questo aspetto, la sua vocazione a dare fastidio fu un fatto positivo, che rese il mondo migliore. Ma John aveva anche una capacità innata di causare guai a se stesso e alle persone a lui vicine, mettendo in atto un comportamento sfrontato e in qualche caso persino volgare. Lo stesso modo di agire gli stroncò quasi la carriera e, per gran parte della sua vita, rese estremamente difficile per gli altri vivere nel suo mondo. Tony Bramwell, un amico con cui crebbe a Liverpool, lo ricorda molto bene: «John era di un'ironia feroce. Vedeva le cose come nessun altro. A volte giocava dei brutti tiri. Era quello che negli anni Cinquanta chiamavano un "giovane scapestrato". Ma era anche molto affascinante, tranne quando beveva». Bramwell partecipò alla nascita dei Beatles e allo sviluppo della Apple. Lo vide crescere da quando era un ragazzo a Liverpool fino alla «fase Yoko», come lui l'ha battezzata. E non fu sorpreso di vederlo diventare un opinion leader, la voce critica della sua generazione. «Lui era diverso e sfidava sempre tutti. Si può dire a ragione che le stesse manifestazioni di rabbia che sfogava da adolescente si sarebbero trasformate nelle proteste di quando era adulto. Aveva il fuoco dentro, e tanta rabbia nel cuore. Era una persona straordinaria, ma era come un iceberg che nascondeva una personalità profonda e misteriosa. Se volevi stargli vicino come ho fatto io, dovevi prendere tutto o lasciare, sia il bene che il male. Ma non c'era dubbio che ti avrebbe stimolato a riflettere su tante cose». La coscienza sociale maturò in lui alla Quarry Bank School, dove l'arte di John nacque insieme alla tendenza alla satira e al cinismo. I bersagli delle sue caricature erano due: gli insegnanti e i disabili. Divenne popolare perché scriveva poesie e parodiava in maniera salace le figure dei professori. Spesso nei suoi schizzi prendeva in giro gli handicappati, ritraendoli con sarcasmo, soprattutto se deformi. Il motivo di questa ossessione rimane un mistero; forse era legata alla paura di soffrire egli stesso di qualche handicap. Da adulto si sarebbe spesso impegnato in campagne a favore delle persone meno fortunate. Schernire le persone colpite da menomazioni fisiche è una tipica manifestazione da ragazzo
immaturo. Non avrebbe più fatto niente di simile da adulto, se si eccettuano alcune pose sul palcoscenico con le quali imitava gesti da storpio o espressioni da mentecatto. Invece l'attitudine a ironizzare sulle autorità e la propensione a creare conflitti e mettersi nei guai avrebbero dato vita a una vera e propria escalation. L'arte di creare guai è stata vista da qualcuno come qualcosa di infantile, legato agli stereotipi dei cattivi ragazzi, ma chi ha conosciuto da vicino John e ne ha capito le le intenzioni e la personalità sa scendere più nel profondo. Tony Barrow, che spese notti intere a tentare di sorvolare su suoi guasti quando non a pensare a come porvi rimedio, lo ricorda ancora con affetto e rispetto. «Gli piaceva recitare sempre il ruolo del duro. Lo era, certo, ma era anche una persona sensibile, e in privato poteva mettersi a piangere come chiunque altro di noi. Quando gli uscì quella battuta infelice sui Beatles più famosi di Gesù, prima della tournée del 1966, e si accorse che aveva esagerato e deluso gli altri, ci rimase malissimo. Era fuori di sé da tanto era mortificato. Era John Lennon, ma soffriva d'insicurezza come tutti». Tra le persone che più di tutte gli sono state vicine, May Pang pensa che un po' recitasse: «A John piaceva mostrarsi sfrontato e andare in cerca di grane. Amava molto il fatto che la gente lo credesse più duro e imprevedibile di com'era in realtà. Nutriva una certa ansia riguardo a come il pubblico poteva reagire alle sue azioni, ma non ha voluto lasciar passare l'idea secondo cui fosse una persona vulnerabile». I danni peggiori causati dalla sua proverbiale temerarietà derivarono da celebri incidenti o da commenti inopportuni, ma a rischiare di distruggerne vita e carriera nel momenti in cui erano all'apice furono episodi avvenuti nel «dietro le quinte». La fortuna volle che fosse in grado di gestire, a volte a stento, oppure di eludere, le trappole e i pericoli insiti negli atti di sfida al sistema. La tournée dei Beatles del 1964 fu costellata di feste notturne che spesso lambivano le prime luci dell'alba. Le regole non scritte di allora impedivano ai giornalisti di addentrarsi nella descrizione di vizi privati, se non rivolgendo domande dirette agli interessati. Niente di più diverso da oggi. Gli scandali che riguardavano John Kennedy o altri personaggi famosi erano un tabù per i reporter degli anni Sessanta, e infatti passarono sotto silenzio. Vidi sfilze di ragazze entrare e uscire dalle stanze d'albergo dei Beatles, scene che chiunque si aspetterebbe di vedere, ma che io non ho mai raccontato nel dettaglio. John Lennon ricordò quelle notti in un'intervista del 1975: «I nostri tour erano come Satyricon. Un mondo a parte, in cui una volta entrato ti trovavi in un'altra dimensione. Dovunque andassimo, sembrava di essere in una scena del film di Federico Fellini. Non dormivamo mai, e puoi immaginare perché». Scene forti non mancavano, anche più pesanti di quelle del film di Fellini. Per un ragazzo americano come me, cresciuto negli anni Cinquanta, era come vedere materializzarsi le più sfrenate fantasie sessuali e osservare dal vero un mondo di avventure ai confini della realtà che non pensavo nemmeno potessero avverarsi. Nella sua totale sincerità, John non ebbe timore di condividere i ricordi di quelle orge con Yoko. Quando io e lei ci incontrammo al Dakota nel settembre del 2004, mi disse che lui le aveva raccontato tutto, forse sentendosi in colpa, ma non senza una punta di malcelato orgoglio per quelle prodezze notturne. «Sai, è l'altra faccia della medaglia. Quando ci mettemmo insieme, ormai era una persona diversa. Mi ha raccontato tantissimi aneddoti e retroscena. Con me è sempre stato sincero. Anzi, mi diceva: "Se non sono sincero con te, con chi mai potrei esserlo?"» Nonostante gli eccessi e i bagordi non abbiano rilevanza alcuna nella storia dei Beatles, non si può dire la stessa cosa riguardo a quella di John Lennon, se è vero che per poco – talvolta per eccessiva gentilezza – tutto questo non arrivò a minacciarne la carriera. I Beatles, strettamente sorvegliati da Brian Epstein e protetti dai tour manager, Neil Aspinall e Malcolm Evans, e dall'addetto stampa, Derek Taylor, erano molto prudenti nello scegliersi le compagnie per il dopo concerto. Non ho mai visto passare per le loro stanze d'hotel ragazze che non
fossero chiaramente oltre la maggiore età. Ad eccezione delle leader dei fan club locali, che li andavano a salutare nei camerini per chiedere un autografo o scattare una foto, alle minorenni non era permesso di avvicinarsi ai quattro. La band evitava accuratamente tutte le situazioni che avrebbero potuto creare scandalo, compromettendo la loro immagine o il loro successo. I Beatles, benché fossero lo spauracchio delle vecchie generazioni, in pubblico erano sempre ordinati e rispettavano le buone maniere. Erano determinati a conservare quell'immagine ma una notte, o una mattina presto, a seconda dei punti di vista, il codice interno che vietava la presenza di minorenni fu pericolosamente violato. Per colpa di John. I sogni dei Beatles rischiarono di infrangersi per sempre nelle ore piccole del 20 agosto 1964. I politici colti in flagrante in uno scandalo sono soliti sostenere che l'apparenza equivalga alla sostanza. Ed è quello che successe al Sahara Hotel di Las Vegas. L'episodio dimostra quali conseguenze può innescare il gesto di cortesia di un uomo sensibile che compie l'errore di invitare le persone sbagliate nel posto sbagliato, anche solo per ingenuità e senza cattive intenzioni. Chi ha in testa lo stereotipo della rockstar lasciva e pericolosa non mi crederà. Ma ciò che vi sto per raccontare è realmente accaduto, ed è la verità. La sera precedente era stata un vero ciclone: prima il concerto al Cow Palace di San Francisco, poi il volo per Las Vegas e l'arrivo all'hotel, circondati da una folla incontrollabile di fan; e infine il riposo al 23° piano, completamente blindato dalla sicurezza. Ma nell'albergo c'era comunque troppo rumore; fuori, i fan cercavano inutilmente di salire sulla scala antincendio per raggiungere le stanze dei Beatles. Nonostante il baccano, mi misi a dormire, estremamente felice di essere lì, ma anche preoccupato per ciò che ci poteva attendere. Gli avvenimenti delle successive 24 ore furono all'insegna della pazzia più totale. Mi svegliarono bussando forte alla porta della mia stanza alle 5 del mattino. Era Malcolm Evans. La visione di Malcolm renderebbe chiunque più sollevato, anche nel cuore della notte. Ma leggevo la preoccupazione nei suoi occhi, era molto agitato. Le sue parole non le dimenticherò mai: «Avremmo bisogno di te nella hall. Abbiamo un problema con John. Puoi scendere in giacca e cravatta?». Conoscevo Malcolm Evans da nemmeno due giorni, ma mi ero accorto che qualcosa lo tormentava. Mi aspettò fuori mentre mi vestivo. Mi chiedevo che cosa mai potesse essere successo, ma capivo che, di qualsiasi cosa si trattasse, doveva essere grave. Scoprii addirittura che era in gioco il resto della tournée, se non della stessa carriera dei Beatles. Mentre andavamo nella hall, Evans fu raggiunto da Derek Taylor e Neil Aspinall. Taylor faceva da portavoce, uno stiloso e serio professionista che si comportava come il fratello maggiore dei quattro ragazzi. Loro amico da tantissimo, era una persona soave e tranquilla, ma dotata di una certa autorità. Mi spiegarono la situazione. Due gemelle erano entrate nella stanza di John Lennon per chiedere autografi e scattare fotografie insieme a lui. Erano parte di un gruppo di fan che aveva aggirato la sicurezza. Gli altri se n'erano andati ma loro due erano rimaste a dormire su un letto vuoto in camera di John. «Non è successo niente» mi disse Derek Taylor. «John non ha fatto niente di male». Scrutai la sua faccia per capire se mi nascondeva qualcosa o se stava dicendo la verità. «La madre è nella hall e chiede dove sono e cosa stanno facendo. Devi andare da loro e dire che va tutto bene». «Dove sono le ragazze?» domandai. Malcolm fece una smorfia. Neil non disse niente, e Derek indicò l'ingresso con un dito. La porta della stanza di John non era chiusa a chiave. Derek la aprì, c'era John che sonnecchiava sul suo letto con gli occhi mezzi aperti, e le gemelle riposavano sui bordi dell'altro letto guardando la televisione poggiata sullo scrittoio. Era strano che delle fan minorenni fossero entrate nella stanza di uno dei Beatles. Allora capii l'entità del problema. «Perché io? Non voglio prendere parte a nessuna messinscena». «Non è una messinscena. Sono soltanto entrate in camera per salutarlo». Derek insisteva e io insistetti a mia volta: «Perché proprio io?» Rispose: «Perché sei un giornalista. Di te ci si può fidare». Gli feci capire che mi fidavo della sua parola, ma mi sarei rifiutato di prendere parte a una recita.
Mal Evans e io scendemmo in ascensore nella hall. L'ingresso al casinò era quasi vuoto, c'era giusto qualche giocatore che incassava le monete da una slot machine. Ci venne incontro una signora intorno ai 35 anni, tremante per l'ansia. Ma lei dov'era mentre le sue figlie aggiravano la sicurezza per partecipare a una festa di musicisti rock? Dato che aveva in mano delle fiches, sapevamo già la risposta. Ma in mano quella signora teneva anche delle carte che avevano il potere di distruggere l'immagine pulita, da bravi ragazzi, dei Beatles. Nell'America puritana del 1964, soltanto il sospetto che potessero avere ospitato ragazze minorenni in una stanza d'albergo avrebbe potuto mettere una croce sulla loro carriera. La Beatlemania si sarebbe trasformata in scandalo e avrebbe smesso di rappresentare una forza positiva, la più grande esplosione di sentimenti della musica moderna. Fidandomi della parola di Taylor, mi presentai alla donna e le spiegai che quella delle ragazze era stata solo una semplice visita in cerca di foto e di autografi. Anche se, in quanto giornalista, sbandierai la mia estraneità all'entourage del gruppo, lei non ne fu convinta. Ma quando, un minuto più tardi, le porte dell'ascensore si aprirono, un agente di polizia uscì, accompagnando le due ragazze. Entrambe sorridevano e parlavano entusiaste della cortesia di John. Ne fui rassicurato. Dopo tutto, com'era possibile che si comportassero in modo così innocente nel caso ci fosse stato dell'altro? Ma qualcosa ancora non mi convinceva. L'agente com'era entrato? Il suo ruolo per me è rimasto un mistero. Nonostante la polizia abbia svolto un'indagine, non ci furono strascichi legali. Alcuni giornalisti ventilarono l'ipotesi di un accordo tra gli avvocati e la madre delle ragazze, sancito nei mesi successivi. Una farsa, perché John aveva solo invitato le ragazze, come disse il giorno dopo, «a guardare insieme a me la tv». Credo che la sua sia stata una leggerezza, ma senza cattive intenzioni. Per come ho conosciuto Lennon, posso ben credere che sia così. All'alba madre e figlie se ne andarono. Malcolm Evans sorrise. Derek Taylor fece rapporto a Brian Epstein, mentre lui e Malcolm mi ringraziarono di cuore. Epstein era furibondo. E anch'io mi sento ancora in imbarazzo, ripensandoci. «Che cosa ci faceva John con quelle ragazze?» «Niente» rispose Derek. Troppo ingenuo o superficiale? Né l'uno né l'altro. Solo, non riuscivo a capire come potesse mettere a repentaglio il suo futuro per due ragazzine. Ma John spesso oltrepassava il confine sottile tra cordialità con i fan e malizia. Eppure, sono convinto che in quel caso si trattò di un equivoco. Quando seppe dell'accaduto, lui, che all'inizio non sapeva che io lo avevo scagionato di fronte alla madre, professò la sua innocenza. Ancora oggi non sono sicuro di cosa sia successo in quella stanza d'albergo. Il mio istinto mi dice che non è successo niente. La verità non si saprà mai, ma l'incidente andò davvero molto vicino a compromettere il successo dei ragazzi. Tutto ciò è un perfetto esempio dei rischi a cui andava incontro John durante la tournée. Eppure allora sembrava ignaro del pericolo corso. Quando lo avvicinai in aereo, mi ringraziò e disse: «Non è successo niente, erano solo due ragazzine simpatiche». Ma quando riuscii a conoscerlo meglio, mi accorsi del paradosso che stava dentro di lui. John era un personaggio di estrema sensualità; ma oltre a questo era anche una persona cordiale e pulita, del tipo che potrebbe davvero invitare due ragazzine in camera sua a guardare tranquillamente la televisione. Simpatizzava di frequente con i fan che lo volevano avvicinare, senza pensare a quanto quella vicinanza potesse diventare rischiosa. Lennon continuò a camminare sul filo del rasoio, in bilico tra il comportamento oltraggioso e il desiderio di avere un rapporto umano e diretto con il pubblico che lo adorava. Durante un periodo particolare come il suo «weekend perduto di diciotto mesi» smarrì l'equilibrio. In quei mesi subì l'influenza di due persone che frequentava, due giganti della musica come lui: il cantautore Harry Nilsson e il celebre e geniale produttore Phil Spector. May Pang, che fu sempre accanto a John in quei mesi, diffidava soprattutto di Nilsson. «John amava Harry, la sua energia e il suo modo di scrivere. Apprezzava la sua amicizia e la sua personalità rilassata. Harry però beveva, molto. Quando ci uscivi insieme, potevi stare sicuro che ti
avrebbe cacciato in una zuffa e saresti stato tu a uscirne malconcio, anche se era stato lui a cominciare. Harry, poi, versava da bere a John fino a quando era troppo tardi». Mark Lapidos vede Nilsson in un altro modo: «Lasciamo perdere la droga, Harry era un grande amico di John. Come lui, non amava perdere tempo in sciocchezze. Preferiva la compagnia degli amici, dei veri amici, piuttosto che uscire con gente superficiale e tirapiedi. Era una persona sincera. Io e mia moglie Carol apprezzammo la sua compagnia quando fu ospite alle nostre convention. Ma non abbiamo mai sperimentato quel lato oscuro di cui tutti parlano». John amava Nilsson, ma la sua amicizia con lui si stava assottigliando, anche durante i giorni passati a Los Angeles nel corso del «weekend perduto». Mark Hudson vide di persona l'influenza nefasta che Nilsson aveva su John: «Harry era un tipo in gamba. Io gli volevo davvero bene. Insieme erano molto affiatati, ma John aveva iniziato a capire come la sua amicizia con lui stesse diventando pericolosa». Il lato distruttivo di Nilsson fu l'incubo di May Pang, amante e, in maniera non ufficiale, balia di John a Los Angeles. May Pang temeva anche Phil Spector, il leggendario e vulcanico produttore che inventò la nozione di «muro di suono» all'inizio degli anni Sessanta e poi lavorò in alcuni dischi di John. A Malibu, Hollywood e Beverly Hills, John era circondato dai suoi demoni e May non sapeva cosa fare. A volte neppure John. «Quando lavoravamo, John dava il cento per cento e aveva un'etica professionale integerrima» ricorda May. «Gli piaceva iniziare presto e lavorare, lavorare, lavorare. Phil Spector era diverso. A volte arrivava in studio con due o tre ore di ritardo, indossando un costume. Una volta era travestito da dottore, quella successiva da maestro karateka. Beveva pesantemente. Scolava una bottiglia di vodka per sera e comandava tutti alzando la voce. Lo odiavo quando sniffava sotto il naso quei popper che puzzavano come calzini sporchi. La scena peggiore fu una sera in cui Phil stava facendo il suo solito gioco, "Io sono Dio", atteggiandosi come una divinità. Strappò a John gli occhiali, senza i quali non riusciva più a orientarsi. Schiumava di rabbia. John si mise urlare e pensò di essere vittima di qualche scherzo pesante quando la guardia del corpo di Phil tentò di afferrarlo. Strillava e tirava calci. Non successe niente ma John era terrorizzato». Il talento musicale di Phil Spector aveva sempre colpito John, ma un'aura di pericolo circondava sempre il grande produttore, oggi in carcere per l'omicidio della modella e attrice Lana Clarkson, trovata morta nella sua residenza il 3 febbraio 2003. «Ero negli studi della A&M con i fratelli Hudson e tutti sapevano chi stava lavorando nella sala vicina. Sentivamo Phil Spector che urlava contro John. Una volta tirò fuori una pistola e iniziò a rincorrerlo per i corridoi. John provò a metterla sul ridere, ma fu comunque una cosa orrenda. Sapevamo che Spector aveva una cattiva reputazione. Mi spaventò a morte». Lontano da casa, innamorato di una nuova fiamma che lasciava spazio alla sua insicurezza e alle sue contraddizioni, portato sulla cattiva strada da amici che giocavano con il fuoco, John Lennon stava sprofondando nell'abisso. Poi ci fu la sera al Troubadour. Si tratta di un famoso nightclub di West Los Angeles. Le serate passate lì da John e i suoi amici potevano essere splendide o detestabili. In una di queste ultime, lui. May Pang e il leggendario chitarrista Jesse Ed Davis andarono a cena abbastanza presto in un ristorante di Santa Monica, dove John si ubriacò prima di sparire nel bagno. «Uscì dal bagno con un assorbente sulla fronte» racconta May. «Lo pregai di toglierlo. Lui rise». Il trio si trasferì al Troubadour, dove John continuò a bere, ignorando le suppliche di May. Il tutto finì quando ebbe la ventura di chiedere a una cameriera: «Non sai chi sono io?» La cameriera, regalando una delle risposte più spassionate di tutta la vita di Lennon gli disse: «Sì, sei un coglione con un assorbente appiccicato sulla fronte». L'incidente passò quasi inosservato. Ma ciò che accadde pochi giorni dopo, il 13 marzo, scosse l'esistenza di John. Lui e Harry Nilsson avevano deciso di vedere gli Smothers Brothers al Troubadour. Tommy Smothers aveva fatto parte del coro di Give Peace A Chance durante il bed-in di Toronto, qualche anno prima.
Come spesso facevano insieme, John e Harry si ubriacarono. A stomaco vuoto, fumando come una ciminiera e incitato da Nilsson, John si mise a provocare gli Smothers Brothers. Un conto è inveire contro un gruppo che suona. Ma farlo contro due che recitano su un palco è molto più fastidioso. Tanto l'azione quanto il linguaggio furono molto volgari. Seduto lì accanto c'era Peter Lawford, accompagnato da una ragazza. L'attore urlò più volte a John di piantarla. Ma Lennon continuava. Ken Fritz, manager del duo, provò di persona a risolvere la questione. Alzò il braccio, ma l'ex Beatle gli allungò un destro e gli tirò un bicchiere pieno di liquore. I responsabili del club buttarono fuori all'istante Lennon e Nilsson, con May che assisteva inorridita alla scena. Pieno di imbarazzo, John mi avrebbe poi descritto l'accaduto: «Cominciammo a urlare a Tommy e a suo fratello. Abbiamo quasi rovinato lo spettacolo. Poche settimane prima ero nello stesso posto, e mi ero messo in testa un assorbente che avevo preso in un distributore. Feci ancora un po' lo stupido. E non ricordo come, ma mi sbatterono fuori a calci nel culo». John era pentito. Sembrava mortificato per l'inconveniente, che May Pang ricorda con disappunto: «Capii che dovevo impegnarmi molto di più per farlo tornare pulito. Le influenze negative erano tante, stavo perdendo la mia battaglia. Ma in fondo era una persona di cuore. Però tutto quel bere gli prosciugava le emozioni, e quella serata fu il punto più basso». Sfortunatamente, «quella serata» non finì con la cacciata dal Troubaour. Mentre il trio andava a riprendere la macchina successe addirittura di peggio. Una fotografa free lance di 50 anni, Brenda Mary Perkins, scattò una fotografia a John. Lennon la colpì in faccia appena sopra l'occhio sinistro. Dichiarando di non averle fatto nulla, John accusò la donna di volersi fare pubblicità in maniera non proprio onesta. «Non ero nella miglior forma. Ero ubriaco marcio. Però non mi sono mai avvicinato a lei, che non ha neppure le fotografie da mostrare. Era la prima notte che bevevo il Brandy Alexander, che andava giù come se fosse un milkshake. Sballai in un attimo. Harry Nilsson non mi era d'aiuto, continuava a dirmi "Ancora, John". Ero completamente ubriaco ma non ho assolutamente picchiato quella donna, che voleva soltanto finire sui giornali e guadagnare qualche dollaro». La signora Perkins sporse denuncia alla polizia di Los Angeles. Dopo due settimane di indagini, il procuratore distrettuale deliberò che non vi erano prove sufficienti per un'incriminazione. John fu fortunato. Un procedimento nei suoi confronti avrebbe facilitato di molto i piani dell'amministrazione Nixon e i suoi sforzi per arrestarlo sulla base della condanna per possesso di marijuana che gli era stata inflitta pochi anni prima in Inghilterra. Nella vita di ognuno di noi, i momenti brutti possono indurre a un rapido declino o alla presa di coscienza della necessità di un cambiamento. L'umiliante figura rimediata al Troubadour fu per John il momento della verità. L'imbarazzo per lui sembrava insostenibile. Inviò lettere di scuse agli attori, ai loro manager e ai responsabili del club. Ma il disastro servì anche a uno scopo. Venendo a sapere dell'episodio accaduto mentre May era da sola a Los Angeles, Yoko rimase sotto shock. E soprattutto, la cattiva pubblicità dovuta alle conseguenze del fattaccio spinse Lennon a riflettere, ispirando non solo le tipiche scuse del giorno dopo ma intere settimane di autoanalisi e di intensi rimorsi di coscienza. Da quel giorno John iniziò anche a liberarsi dal vizio di bere che ne aveva minato il corpo, la mente e l'anima. Tony Bramwell, il cui amore e rispetto per lui sono fuori discussione, ricorda come l'alcool abbia sempre tirato fuori il suo lato peggiore: «John era una persona creativa sempre al limite, ma quando beveva era terribile, da ragazzo e da adulto». Jeffrey Michelson, che in passato ha diretto l'ufficio stampa della Apple a New York, considera il fiuto di John per i guai come una controparte insostituibile del suo talento: «Per esperienza personale, vi dico che era un genio perché con le sue idee ha cambiato la storia della musica. Ha creato un nuovo standard e si è spinto oltre tutti i limiti. La sua testa funzionava in modo particolare, perché sapeva toccare gli estremi opposti. Ho incontrato due veri geni in vita mia: Norman Mailer e John Lennon. Avevano un'intelligenza superiore e allo stesso tempo sapevano cadere in basso come nessuno. John aveva una mente fantastica, profonda e brillante. Era un tesoro, ma sapeva anche usare il suo spirito e la sua intelligenza per essere molto crudele e correre grossi rischi. Credo che tutti i geni portino agli estremi la loro capacità, nel bene e nel male».
Come per molti artisti geniali, anche nel caso di John gli alti e bassi erano spesso ispirati dall'abuso di droghe. Una consuetudine iniziata da adolescente e cresciuta in maniera esponenziale: «Cominciai con le pillole quando avevo intorno ai 15-17 anni. Quando andammo a suonare ad Amburgo, l'unica maniera di tirare avanti per otto ore di fila ogni notte era prendere anfetamine. Te le portavano i camerieri. Ero un ubriacone di merda anche alla scuola d'arte. Quando con i Beatles incidemmo "Help!" mi buttai sulla marijuana e smisi di bere. Ho sempre avuto bisogno di una droga per sopravvivere. Anche gli altri, ma a me servivano sempre più pillole, soprattutto perché ero il più pazzo». Una cosa è chiara: John ha amato il rischio fin da ragazzo, ma senza droghe e alcool sarebbe stato una persona pragmatica e realistica come tutti. Nella tappa di Dallas nel 1964, i quattro Beatles furono assaliti da giovani fan che lavoravano come cameriere nel club riservato dell'hotel, il Cabana Motor Inn. Paul McCartney era particolarmente colpito, e pensai che gli occhi di John sarebbero schizzati dalle orbite non appena una di loro si fosse avvicinata a lui. Mi sconvolse la sua reazione; spaventato dall'inconveniente con le due ragazzine a Las Vegas, urlò: «Via di qua! Siamo arrivati quasi alla fine. State attenti ragazzi». A Brian Epstein non parve vero di essersi tolto il peso del mondo dalle spalle. La capacità di contenersi sembrò non esistere più nei giorni trascorsi a Los Angeles in compagnia di Harry Nilsson. John capiva che non aveva il più controllo sulla sua vita e che il suo comportamento lo stava spingendo ben oltre i suoi limiti? Ma soprattutto, perché Yoko Ono, moglie imperiosa e sempre vigile su di lui, non si stava impegnando direttamente per aiutarlo a sconfiggere eccessi e depressione? Oppure lo aveva confinato lì con May Pang apposta per mostrargli i pericoli della vita senza di lei, convincendolo infine a tornare? In un'intervista rilasciata tre mesi prima di morire, John analizzò il suo comportamento di allora con la reporter di «Newsweek» Barbara Graustark. Definì il suo periodo post-Beatles «un prolungamento della mia follia con i Beatles. Ma quando andavo fuori, allora c'erano Paul o Brian Epstein a contenere il mio ego e a risolvere i problemi. Improvvisamente, ero da solo in alto mare, per la prima volta senza nessuno che mi potesse proteggere da me stesso». Lennon trovò il modo di uscire dal «weekend perduto» e di prendere la via di casa – in modo metaforico e reale. Ma in quel periodo altre persone lo osservavano e non per proteggerlo. Volevano anzi rimandarlo al suo paese d'origine, l'Inghilterra, cacciandolo dagli Stati Uniti.
4. GIVE PEACE A CHANCE
«La battaglia legale di quattro anni che John Lennon ha intrapreso pur di restare nel nostro Paese è la prova della sua fiducia nel Sogno Americano» IRVING R. KAUFMAN, GIUDICE CAPO DELLA SECONDA SEZIONE DELLA CORTE D'APPELLO DEGLI STATI UNITI, 7 OTTOBRE 1975 Oggi sembra inconcepibile che qualcuno possa essere diventato un bersaglio politico del governo degli Stati Uniti, intenzionato a farlo arrestare soltanto perché aveva espresso il proprio desiderio di pace e giustizia per il mondo. Ma John Lennon viveva proiettato mentalmente molto in avanti rispetto alla propria epoca; per questo motivo, tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta, le autorità USA lo additarono come un nemico interno. Lennon coltivava idee forti e nette su molti argomenti scottanti, e non gli mancava certo il coraggio per esprimerle. Aveva dalla sua il potere della poesia, della musica e dell'arte, e sfruttava la sua grande passione e la sua fama come megafono per le proprie opinioni. Fin dall'infanzia aveva utilizzato il suo pulpito di bullo per cause sociali e politiche, alcune delle quali erano decisamente impopolari quando lui se ne fece per la prima volta portavoce. Spille contro la guerra e slogan di protesta contro ogni discriminazione adornavano i berretti che indossava durante il tour con i Beatles del 1965, anno in cui la guerra del Vietnam andava incontro a una vera escalation e negli Stati Uniti si alzava il livello dello scontro razziale. Lo ricordo durante un'intervista con set fotografico a Chicago, quando mostrò una copia della rivista «Ebony» che in prima pagina intitolava: «Il problema dei bianchi in America». I miei capi alla radio WFUN rimasero scioccati. Brian Epstein impallidiva per simili sfrontatezze politiche, temendo che avrebbero potuto ritorcersi contro la popolarità della band. Fece del suo meglio per porre un freno a quelle manifestazioni, ma non c'era verso di fermare John. La contestazione gli scorreva nelle vene insieme al sangue. Che siate d'accordo o meno con le sue idee, rimane un punto fermo: fu la prima superstar a usare – e rischiare – la propria celebrità per sostenere istanze politiche, aprendo la strada per centinaia di stelle che hanno investito energie e denaro per cause in cui credevano. Quando protestava, sembrava non temere niente e nessuno. Quando cominciò? La rabbia e l'indignazione nei confronti di guerre e ingiustizie nascevano dai semi gettati durante la travagliata gioventù? O era solo un tentativo di puntare il dito in direzione delle piaghe sociali del tempo per aumentare la propria fama e la propria influenza? No. Uno degli aspetti più importanti della vita di John Lennon è la concretezza del suo impegno politico e sociale. Prima e dopo essere diventato uno degli uomini più celebri al mondo, John era rimasto virtualmente lo stesso: un cinico irriducibile, un individuo che non smetteva mai di formulare domande scomode, un intellettuale agguerrito che con le sue prese di posizione spingeva gli altri a pensare e agire. A suo modo, fu un coraggioso e straordinario giornalista investigativo. Pauline Sutcliffe crede che le sue crociate manifestassero qualcosa che aveva sempre avuto dentro di lui: «Tutte le questioni politiche di cui John si interessò durante gli anni Settanta mi sembravano un'altra forma dello spirito anarchico che lo animava da adolescente. Aveva trovato una valvola di sfogo e un modo più adatto di esprimere la stessa attitudine. Lui è sempre stato contro il sistema». L'immagine da ragazzaccio di John Lennon divenne proverbiale tanto più si avvicinava al suo trentesimo compleanno. La battaglia di una vita contro l'establishment raggiunse l'apice nel 1969,
arrivando a una svolta nell'autunno di quello stesso anno. E nonostante le sue azioni appaiano decisamente nella norma per gli standard odierni, allora le reazioni di molti furono all'insegna dello shock, dell'apprensione e della rabbia nei suoi confronti. Il 1 settembre 1969, restituì la medaglia di Membro dell'Impero Britannico che aveva ricevuto insieme ai Beatles come riconoscimento per il successo mondiale. La avvolse in un sacchetto di carta marrone e la inviò alla regina Elisabetta, allegandovi questo messaggio: «Restituisco la medaglia di Membro dell'Impero Britannico, in segno di protesta contro il coinvolgimento della mia nazione nel conflitto tra Nigeria e Biafra e l'appoggio dato agli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, e contro l'affossamento in classifica di Cold Turkey. Con amore, John Lennon». Zia Mimi si infuriò, come molti altri inglesi. L'ironia, che John Lennon non perse mai, aveva voluto che l'assegnazione del premio ai Beatles sollevasse le proteste dei veterani di guerra, alquanto contrariati dal fatto che lo stesso riconoscimento conferito agli eroi militari fosse stato regalato a un gruppo musicale. Spedire la lettera e l'incarto a Buckingham Palace rappresentava uno sberleffo nei confronti della massima autorità e del simbolo assoluto della tradizione britannica. Non contento di avere scioccato la regina, inviò lo stesso messaggio al primo ministro. Nonostante i suoi tipici scoppi di violenza, John Lennon era un vero pacifista. Capiva la natura difficile delle relazioni personali, ma chiaramente aborriva l'idea che dei giovani, uomini o donne, andassero a morire in virtù di decisioni politiche sulle quali non potevano esprimersi. L'odio per tutte le guerre, dalla carneficina in Biafra al Vietnam, fu ulteriormente alimentato dalla relazione con Yoko Ono. John fu ipnotizzato dalle opere di Yoko fin dal primo contatto avvenuto durante la mostra londinese del 1966. Era affascinato dalla sua abilità nel saper adoperare l'arte al fine di indurre le persone a vedere il mondo – e il loro ruolo all'interno di esso – in una luce nuova. In anni recenti, i critici asiatici hanno esaltato in particolar modo un lavoro intitolato Gioca sulla fiducia che consiste in un set di pezzi da gioco monocromatici con cui è impossibile impostare una partita. L'approccio intellettuale di Yoko e quello spontaneo di John, la sua istintiva vocazione a contestare, creavano una miscela esplosiva. Dall'amico Stuart Sutcliffe, Lennon imparò a disegnare e dipingere, mentre dalla seconda moglie comprese il potere e il significato dei simboli e il modo in cui esprimere idee anche senza usare le parole. Per l'intera durata delle tournée dei Beatles in Nordamerica, Brian Epstein tentò di impedire a John e agli altri di parlare di politica al fine di evitare polemiche, non proprio il pane quotidiano per un manager che aveva a cuore il successo di massa. Ogni volta che domandavo a John della guerra in Vietnam, Epstein appariva visibilmente contrariato. Ma John, invece, si infervorava, ansioso di innescare una discussione senza pensare molto alle possibili conseguenze. «Quale soluzione proporresti per fermare la guerra?» gli domandai una sera. «Non credo che ce ne sia una diversa dal cessare il fuoco» rispose. «Se tutti le lobby al potere hanno le stesse armi, qualcuno ne vorrà ancora di più. Perché combattere quando puoi parlare? È così semplice». John mi ricordava sempre che ero stato il primo reporter a domandargli del Vietnam. La prima volta che toccai l'argomento fu il 18 agosto 1964. Nel 1970, quando ormai era coinvolto a pieno titolo nelle proteste organizzate, riflettendo sulle convinzioni che già negli anni precedenti nutriva insieme a George Harrison mi disse: «Anche durante il periodo con i Beatles provai a schierarmi contro la campagna in Vietnam e come me fece George. Epstein tentò in tutti i modi di convincerci a non dire nulla. Ma a un certo punto gli rispondemmo: "La prossima volte che ci fanno una domanda, risponderemo che quella guerra non ci piace e dovrebbe finire". Ed è quello che abbiamo fatto. Ai tempi era una presa di posizione piuttosto radicale per un gruppo come i Beatles. Devi ricordare che mi sono sempre sentito represso, tanta pressione addosso ci dava raramente l'occasione di esprimere le nostre idee. Eravamo chiusi in un bozzolo tra mito e sogno. Quando sei come un imperatore e tutti ti dicono quanto sei meraviglioso offrendoti regalini e donne, non è così scontato ribellarti e dire: "Be' non voglio essere un re, ma una persona vera"».
La volontà di essere «vero» era l'essenza di John Lennon. Il matrimonio con Yoko Ono non fece che aumentare la determinazione di quest'ultima ad aiutarlo a trovare nuove occasioni per dimostrarlo. Una settimana dopo le nozze, i due sposini occuparono una stanza al settimo piano dell'hotel Hilton di Amsterdam. Non erano soli. Invitarono i giornalisti ad assistere alla luna di miele, che si trasformò nel bed-in per la pace. Foto e articoli comparvero sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Nella redazione in cui lavoravo, alla WFIL-TV di Philadelphia, decidemmo di realizzare un'intervista con John al telefono. Nell'epoca in cui non esistevano i collegamenti via satellite, il filo era il mezzo di comunicazione più veloce. Lo raggiunsi all'Hilton di Amsterdam il 27 marzo 1969. KANE: Ciao. LENNON: Ciao, Larry, come stai? KANE: Bene, come stai tu? LENNON: Tutto ok. KANE: Avrei alcune domande da farti. Prima di tutto, come va il tuo matrimonio? LENNON: Benissimo. KANE: Vuoi richiamare l'attenzione del mondo, ti stai solo divertendo o che cosa? LENNON: Mah, sto cercando di richiamare l'attenzione della gente. Invece di fare in privato la nostra luna di miele abbiamo deciso di dedicarla alla richiesta di pace, cosa in cui crediamo sinceramente. È un doppio evento. Come un happening, soltanto che lo facciamo stando a letto giorno e notte o rimanendo nella nostra stanza. Che è una cosa piuttosto insolita, soprattutto per una luna di miele. KANE: Stai protestando contro la guerra? LENNON: Certo, protestiamo contro la violenza, e un'altra parte della protesta è intitolata «Hair Peace». È un gioco di parole con P-I-E-C-E; invece di rompere vetrine, invitiamo le persone a lasciarsi crescere i capelli come forma di mobilitazione finché non ci saranno tanti capelloni che porteranno le loro chiome come segno permanente di protesta. LARRY: Forse è il primo tentativo di concepire un bambino in pubblico, non trovi? LENNON: Non so se sia così. Non direi, ma il concetto è proprio quello di fare l'amore in pubblico. KANE: Una sorta di messaggio per il mondo? LENNON: Sì, senza dubbio. Ci abbiamo dedicato una settimana del nostro tempo. Tante persone ciniche diranno: «Be', è facile essere ricchi e stare una settimana a letto all'Hilton». Si può fare dovunque, e non lo facciamo perché abbiamo tempo da buttare. Sono le prime due settimane che possiamo trascorrere insieme. Non ho avuto un giorno libero dai tempi del viaggio in India, che è stato un anno fa, e Yoko non si prende una vacanza da tre o quattro anni. Stiamo dedicando questo momento alla pace, in totale sincerità. KANE: A tutti quelli che dicono che è scandaloso o immorale, rispondete che è solo una mobilitazione per la pace? LENNON: Sì, e se qualcuno non capisce e vuole farsi una risata, non ci importa, va bene lo stesso. KANE: Cercate di rendere il mondo un po' più felice? LENNON: Sì. Penso che stiamo tutti diventando troppo seriosi; anche se è una cosa importante, c'è bisogno di ridere. Oltre che informare le persone, cerchiamo anche di farle divertire. KANE: Grazie John, e auguri di cuore per il tuo matrimonio. LENNON: Ok, Larry. Mi ha fatto piacere parlare con te. Una settimana dopo, durante una breve conversazione al telefono, John, soddisfatto e rinvigorito da quell'esperienza, senza l'ansia di dover fronteggiare un registratore all'altro capo del filo, mi parlò della provocazione che aveva lanciato alla stampa di tutto il mondo. «Larry, tutti quei reporter venuti da Londra pensavano che ci avrebbero visti scopare. Li abbiamo
fregati, non trovi? Tanto la nostra luna di miele sarebbe stata comunque di pubblico dominio, quindi perché non mostrarci a letto per la pace. Vogliamo sì far ridere, ma anche fare in modo che le persone guardino a cosa accade nel mondo. Alcuni pacifisti vogliono la violenza. Posso anche essere una persona violenta, dentro di me, ma voglio la pace. Voglio veder ridere la gente. Ricordati: "sistema" è un sinonimo di "male"». John si stava godendo i risultati dello spettacolo ma lui e Yoko erano già pronti per il bis. Il 26 maggio 1969 intrapresero un'altra maratona di dieci giorni battezzata «Bed Peace» al Queen Elizabeth Hotel di Montreal. Parlai in breve con John della sua seconda luna di miele. «La cosa giusta da fare, Bed for Peace II. E ti prometto, Larry, che stavolta passeremo alla storia». Yoko e John, quest'ultimo con la barba che gli scendeva oltre le spalle, intrattennero i giornalisti e il pubblico con dichiarazioni contro la guerra e la fame nel mondo. Questa volta, però, vollero registrare un disco. Lennon invitò Tommy Smothers, Derek Taylor, Abraham Feinberg, il rabbino di Montreal, membri del Canadian Rhada Krishna Temple e Petula Clark a registrare una canzone con lui e Yoko a letto. La Clark era l'unica cantante professionista. Give Peace A Chance diventò un singolo di successo. Con una punta d'ironia, insieme a Imagine, sarebbe stato l'inno che avrebbe accompagnato la morte di John. È difficile stabilire con precisione il momento esatto in cui John Lennon divenne un paladino della pace. Ma la sua contrarietà a ogni guerra fu chiara fin dal 1965, quando si infervorava sparando a zero sul conflitto in Vietnam. «La generazione precedente alla nostra ha dato la vita per salvare il mondo da Hitler e dal colonialismo giapponese. Perché non dovremmo liberare il Sud-est asiatico dalla dittatura comunista?» gli domandai. «Sono cazzate, Larry. Come puoi fare un simile a paragone? Veramente vorresti servire il tuo Paese in una guerra come il Vietnam?» Gli avrei risposto nel febbraio del 1966, quando decisi di arruolarmi tra le riserve dell'Aeronautica. L'addestramento di base terminò il 4 giugno e il mio impegno militare mi rese impossibile seguire i Beatles nel 1966. Tuttavia, riuscii a far loro una visita durante il tour, creando un momento di tensione che non mi sarei mai dimenticato. Lo ricordo come la nostra «grande discussione sull'aereo». Ero arrivato a St. Louis per assistere al concerto in programma al Busch Stadium, e Brian Epstein mi invitò a unirmi a loro sul volo che li avrebbe portati a New York. Sull'aereo ebbi con John un battibecco riguardo al Vietnam che durò quasi due ore. Lui fu contentissimo di vedermi, ma quando notò che mi ero tagliato i capelli, capì il motivo e inizio una lunga tirata. «Tu mi prendi per il culo, Larry. Non ci posso credere. Sembra che ti hanno fatto lo scalpo a Little Big Horn». «Faccio il mio dovere per il Paese» risposi. Lui andò su tutte le furie e replicò: «Il tuo dovere mi fa schifo». Eravamo seduti nelle file posteriori dell'aeroplano a bere e fumare, quando John mi disse senza mezzi termini che dovevo disertare: «Vieni in Inghilterra, ti aiuteremo a trovare un bel lavoro». «John, no. È un obbligo ormai, sono stato fortunato a essere tra le riserve». «Fortunato? Ma se stai servendo una causa fottuta». «Lo faccio per il mio Paese. È il mio dovere». «Lo ripeto: la tua dannata guerra fa schifo!». Faccia a faccia, discutemmo animatamente. John era talmente inferocito per il mio arruolamento da volontario che aveva il viso paonazzo. Al momento ciò che mi stupì fu la forza appassionata dei suoi sentimenti. L'avevo tanto ferito che mi aspettavo saltasse giù dal sedile da un momento all'altro. Con il senno di poi, che aiuta sempre a vedere meglio le cose, John era avanti anni luce per come vedeva la guerra in Vietnam. Che una superpotenza stesse combattendo per una causa persa e i motivi sbagliati sarebbe apparso chiaro solo nel decennio successivo. Io, da parte mia, stavo facendo ciò che credevo utile per il mio Paese. Il risultato di quella discussione a mezz'aria scoppiata per colpa del mio taglio di capelli fu un fatto curioso.
Alla fine della tournée, il produttore Dennis O'Dell e il regista Richard Lester contattarono John per fargli interpretare il ruolo del soldato Gripweed nel film Come vinsi la guerra. O'Dell, che contribuì alla realizzazione del primo film dei Beatles, A Hard Day's Night, disse che non fu facile convincerlo: «Dovette cambiare look perché interpretava un soldato, non un musicista. E non gradì molto la cosa». Infatti dovette tagliarsi i capelli. John acconsentì, ma non senza malumori. Aveva anche paura che le sue ciocche fossero vendute, così le fece bruciare. Aveva compiuto un altro gesto simile con i Beatles all'Edgewater Hotel di Seattle, urinando su un tappeto dove erano stati in piedi per impedire che qualcuno lo tagliasse a pezzi e vendesse come cimelio. Il film, che ebbe un successo di culto, era contro la guerra e fornì a John un'altra opportunità di sostenere la causa cui teneva di più. La maggiore parte delle scene fu girata nell'Almeria, in Spagna; fu lì che nacque Strawberry Fields Forever. Quando vidi il film, mi venne da sorridere. Pochi mesi dopo il mio taglio di capelli, John aveva fatto la stessa cosa. Andandolo a trovare a Londra nel 1968, gli ricordai il particolare e non lui non ne fu molto divertito. Il nostro dibattito sulla guerra continuò per anni. Come la storia avrebbe dimostrato, John precorreva di molto i tempi, lanciando i suoi messaggi con una strategia mediatica aggressiva ben prima che altre celebrità salissero sullo stesso carro. Ma le proteste pacifiste erano solo una parte della sua controversa retorica. Pochi mesi prima, infatti, aveva fatto infuriare mezzo mondo con i commenti su Gesù, messi in risalto e passati al setaccio dalla critica e dall'opinione pubblica, al punto da mettere a repentaglio la stessa popolarità dei Beatles. A confronto della polemica che scaturì da quelle affermazioni, l'equivoco delle due ragazzine al Sahara Hotel di Las Vegas sarebbe stato una bazzecola. Dalle prime rockstar come i Beatles, idolatrate dai giovani ma guardate sempre con sospetto dagli adulti, nessuno si aspettava che esprimessero opinioni, tanto meno su argomenti delicati come la religione, la guerra e il razzismo. Anche i più attempati divi del cinema si guardavano bene dallo schierarsi pubblicamente. Oltretutto, pochi anni prima, molti personaggi dello spettacolo che avevano espresso simpatie politiche si erano visti distruggere la vita e la carriera dalle liste di proscrizione dei maccartisti. John Lennon abbatté quel muro di silenzio. Durante le mie prime interviste con lui, nel 1964, mi colpì la sua voglia di toccare argomenti che spaziavano ben oltre la musica. Fu anzi una delle ragioni per cui legammo così tanto. John era un uomo serio che amava parlare di questioni serie, e io un giornalista molto più interessato ai problemi del mondo che non al taglio di capelli o alle caramelle preferite – di cui parlava il 99 per cento di chi intervistava i Beatles. Durante la tournée del 1964, in un'intervista che sarebbe andata in onda in varie stazione radio d'America, domandai a John e Paul come giudicavano il fatto che a Jacksonville bianchi e neri sarebbero stati divisi tra il pubblico del loro concerto. Entrambi mostrarono rabbia e colsero subito la sfida. Dichiararono che i Beatles non suonavano dove vigeva la segregazione razziale. Il loro proposito ebbe successo: non vi fu separazione tra il pubblico di quel concerto. Nei due anni successivi, John fece numerose dichiarazioni pubbliche su argomenti importanti, ma nulla aveva preparato Epstein e gli altri Beatles ad affrontare un polverone come quello sollevato dal caso Lennon-Gesù. La grande polemica iniziò, senza alcuna malizia da parte di John, con un'intervista dell'aprile del 1966 in cui una giornalista del «London's Evening Standard», Maureen Cleave, aveva voluto sondare il suo lato intellettuale. La stessa Cleave, una delle penne preferite di Lennon, pochi mesi più tardi mi confessò che la risposta dell'opinione pubblica mondiale alle provocazioni sulla religione – inviperita e in forte ritardo – lo colse completamente di sorpresa. Uno stralcio dell'intervista recitava: «Il cristianesimo non durerà in eterno, ma anzi tra poco sarà ridimensionato e svanirà nel nulla. Non voglio nemmeno discutere sull'argomento, so di avere ragione e il tempo lo dimostrerà. Già adesso noi Beatles siamo più famosi di Gesù; non so chi se ne andrà via prima, se la cristianità o il rock&roll. Non ce l'ho con Cristo, ma con i suoi discepoli, che erano ottusi e banali. Sono stati loro a distorcere a rovinare il suo messaggio». La frase incriminata, che i media britannici avevano in larga maggioranza ignorato, diventò una
notizia da prima pagina solamente quattro mesi dopo negli Usa, quando fu strillata in copertina dalla rivista «Datebook», mentre i Beatles avevano appena cominciato il loro terzo e ultimo tour negli Stati Uniti. In poche ore, le agenzie di tutto il mondo comunicavano che John Lennon aveva proclamato che i Beatles erano più importanti di Gesù Cristo. Le reazioni non si fecero attendere. Una quarantina di stazioni radiofoniche americane, la maggior parte delle quali trasmetteva dalla cosiddetta «Bible Belt», misero all'indice la musica dei Beatles. Ma successe di peggio ai dischi che furono messi al rogo, bruciati sulla pubblica piazza in grandi falò. Anche l'emittente radio dove lavoravo allora, la WFUN di Miami, fu tempestata di lettere e telefonate che contestavano Lennon. In Sudafrica, dove i Beatles avevano avuto dall'inizio un grandissimo successo, il governo mise al bando il gruppo e le loro canzoni, cogliendo probabilmente l'occasione per rifarsi delle polemiche di John contro l'apartheid. Brian Epstein volò immediatamente negli Usa a gettare acqua sul fuoco, temendo che la polemica spingesse il pubblico a disertare i concerti e allontanasse i promoter. Non prima di avere tentato per tre giorni di seguito a convincere John a chiedere scusa. Ma Lennon non ne voleva sapere – l'ipotesi era fuori discussione. Fu allora che entrò in scena l'addetto stampa Tony Barrow. Barrow era una persona dotata di grande equilibrio, un pilastro per tutto l'entourage dei Beatles. Sapeva da dove nasceva la vocazione contestataria di John ma anche che cosa bisognava fare per placare i media americani: «Il suo essere "contro" – la guerra, il sistema – era un retaggio dei tempi dell'adolescenza. Non era mai veramente cresciuto da quegli anni di rabbia, e non voleva mostrarsi debole agli occhi degli altri. E poi sentiva trattare le sue parole al di fuori del contesto in cui le aveva pronunciate. Non era sua intenzione insultare la fede religiosa dei credenti, ma non voleva dare l'idea di aver ceduto a causa delle polemiche. E la sua volontà non era certo quella di ritrattare». Dopo lunghi tentativi, Barrow ed Epstein riuscirono ad averla vinta appellandosi al suo spirito di squadra. Temendo di recare danno anche agli altri del gruppo, John cedette e acconsentì a indire una conferenza stampa a Chicago. Il faccia a faccia con i giornalisti lo vide recitare un mea culpa triste e mortificato dopo un incidente che avrebbe potuto troncare la carriera dei Beatles. Ma un simile atteggiamento era comunque tipico: così come non ci fu mai niente di superficiale e falso nella sua vita, anche la «confessione» forzata di Chicago fu sincera e sentita. Iniziò con una dichiarazione semplice: «È accaduto che, parlando a un'amica dei Beatles, io abbia sottolineato la nostra responsabilità legata alla possibilità di influenzare i giovani più di qualsiasi altra cosa, religione compresa, ma mi sono espresso in modo sbagliato». I giornalisti pretesero qualcosa e allora John fece in modo di accontentarli: «Non sto dicendo che siamo più famosi o importanti, paragonandoci a Gesù come essere umano o tantomeno a Dio. Ho detto ciò che ho detto e ho sbagliato, tutto qui. Non sono un ateo o un anticristo. E non ho nulla contro chi è credente o contro il fatto di credere in sé… Credo anch'io, non a un vecchio signore che sta nell'alto dei cieli, penso invece che la gente chiami "Dio" qualcosa che si trova dentro ciascuno di noi. Se vi rende felici chiederò scusa. Non ho capito il perché di tutto questo clamore. Ho provato solamente a dire ciò che pensavo. Ma se credete che lo debba fare e vi aspettate questo, allora scusatemi». Tony Barrow avrebbe sperato in qualcosa di più, ma era il massimo che si poteva ottenere. Il devoto addetto dell'ufficio stampa abbozzò, rispettoso della verità di John e in ansia per le sorti della tournée. Qualche giorno dopo, quando avemmo il battibecco sull'aereo, Lennon tornò sulla questione e si disse stupito. La polemica, secondo lui, era colpa dell'indifferenza degli adulti nei confronti del grido di libertà e dell'urgenza di esprimersi che animava le nuove generazioni negli anni Sessanta. Non aveva voluto dire che i Beatles erano più importanti di Cristo atteggiandosi a nuova divinità per il solo fatto, innegabile, di essere diventati più famoso. Il suo commento era rivolto alla società di cui il gruppo stesso era un prodotto. La sua unica colpa fu quella di dire la verità ammettendo qualcosa di ovvio: nel 1966 il rock che i Beatles avevano elevato verso nuove vette era il punto di riferimento, la voce più forte che parlava a milioni di adolescenti.
I Fab Four superarono la polemica con una certa ironia. Lennon avrebbe sfruttato interviste e conferenze stampa per denunciare la recrudescenza del conflitto vietnamita. Le sue dichiarazioni furono molto importanti per il movimento pacifista, anche se sistematicamente tenute sotto silenzio dai mezzi di comunicazione. L'opposizione pubblica alla guerra colpì molto più i fan, e in maniera positiva, della controversia sulla religione. La polemica pacifista attestò una volta più i tratti salienti del carattere di John: determinazione, risolutezza, curiosità intellettuale, e assoluta refrattarietà a compromessi sulla libertà d'espressione. Elementi distintivi che lo avrebbero portato a innescare rischiose diatribe, ma che negli anni Sessanta risultavano una boccata d'aria fresca per tanti giovani come lui, i quali non si riconoscevano certo nelle starlette patinate e nei grigi politicanti. John Lennon, l'artista, il poeta, il cantante e compositore, diventava così la voce di una generazione. Nel 1966 pensavo che le sue idee sul Vietnam fossero l'apice dell'ingenuità, il parere di un giovane ignaro e appassionato. Ma molti suoi coetanei e giovani considerarono molto seriamente quelle parole, prendendo spunto da esse per formarsi un proprio punto di vista. Mentre, con intenti opposti, all'insaputa dell'opinione pubblica, elementi della vecchia guardia che occupavano i piani alti del governo americano prestarono tutt'altro tipo di attenzione, al punto da lanciare in segreto un'operazione finalizzata a metterlo a tacere. Le stesse idee furono il cardine della battaglia legale che infuriò negli anni Settanta. Tutto sarebbe ruotato, in teoria, intorno a una vecchia condanna per possesso di marijuana; in realtà c'era molto di più. L'attivismo di Lennon, di cui sono stato io stesso testimone, accentuato in seguito dal rapporto con Yoko Ono, e l'impegno contro la guerra in Vietnam, finirono nel mirino delle autorità statunitensi, che ne fraintesero completamente il senso. Il dossier stilato dai servizi segreti che registrava tutti i movimenti dell'ex Beatle fu costruito a partire da supposizioni sbagliate e dal timore ossessivo-compulsivo per l'influenza delle celebrità sul pubblico. Convinti che Lennon e altri personaggi famosi potessero minare il sostegno degli americani allo sforzo bellico in Indocina, la Cia e membri dell'amministrazione Nixon iniziarono a raccogliere informazioni sulle sue attività, allo scopo di mettere a tacere lui e alcuni suoi amici. John in quegli aveva stretto amicizie e collaborato con persone già nella lista nera del governo. Dopo che insieme a Yoko si stabilì nel West Village, entrò in contatto con numerosi attivisti intenzionati a sfruttarne la popolarità per i loro scopi. Bob Gruen, che viveva nello stesso quartiere, vide la coppia protestare pubblicamente per la prima volta a un corteo contro la repressione della protesta dei detenuti del carcere di Attica, nel 1971. «Non li vedevo molto in giro finché nel novembre di quell'anno mi recai all'Apollo ad assistere a un concerto di beneficenza destinato a raccogliere fondi per i detenuti rimasti feriti. Andai perché sapevo che ci sarebbe stata Aretha Franklin. Quando entrai, sentii lo speaker annunciare all'improvviso: "Ecco a voi John Lennon, Yoko Ono e la Plastic Ono Band". Rimasi come fulminato». Il giovane fotografo notò allora per la prima volta il legame tra la coppia e alcuni noti leader della contestazione alla guerra. «Yoko conosceva diverse persone che erano in contatto con i vari Jerry Rubin, Tom Hayclen e Abbie Hoffman, e alcuni di questi cominciarono a parlarne in giro. Fu così che l'Fbi iniziò a pedinare John e il governo a cercare un pretesto per espellerlo dal Paese, a causa dei radicali che cercavano di coinvolgerlo nelle loro iniziative». Bob non crede che John si fosse mai considerato un radicale. «Non penso proprio che ne condividesse le tattiche esasperate. Desiderava soltanto vivere una vita serena in America. Come mi spiegò una volta Yoko, non furono mai "contro": la loro protesta era sempre "per" qualcosa. Per la pace o per il voto. Cercavano sempre di incoraggiare le persone ad aprire la propria mente, immaginare e realizzare qualcosa di positivo». Il direttore creativo della Apple, Allan Steckler, si confrontava spesso con John sui temi della pace.
«Amavo moltissimo discorrere con lui di come andava il mondo. Vedeva le cose come un purista. Era un profeta di pace già prima di conoscere Yoko, anche se lei giocò un ruolo importante. Erano uniti nella lotta per la pace e si trovavano in buona compagnia a New York. Ma, credetemi, lo facevano con sincerità. Non furono mai antiamericani, John amava il nostro Paese. Non avevano secondi fini e tantomeno bisogno di farsi pubblicità. Il clima politico era molto simile a quello maturato nei primi anni del 2000 intorno alla guerra in Iraq, spaccato in due tra fautori e contrari, contesi tra opposti estremismi. Il governo, o almeno una parte di esso, si trovava in uno stato di terribile paranoia». Joe Johnson, conduttore esperto di Beatles, fu impressionato dal coraggio e dall'integrità che John mantenne per tutto il decennio. «Nonostante fosse plurimiliardario, viveva ancora come una persona appartenente alla classe operaia. Negli anni Settanta fu un modello per le persone comuni: scendeva in strada a protestare, prendeva posizione contro la guerra e il razzismo, cercava di indurre il mondo a cambiare idea con i sitin per la pace insieme a Yoko. Molti altri con il suo status non si sarebbero impegnati e non avrebbero alzato la voce. Lui invece si spinse oltre, al punto da rischiare di non ottenere la cittadinanza». Come arrivò a essere quasi espulso dagli Stati Uniti? Quando affiancò Jerry Rubin, Abbie Hoffman e gli altri esponenti di spicco del movimento per la pace, il governo, temendo il carisma che esercitava sulle giovani generazioni, si mosse per bloccarlo. L'amministrazione Nixon ordinò al Dipartimento per l'Immigrazione di avviare le procedure per allontanarlo dal Paese. La ragione ufficiale del provvedimento fu la detenzione scontata qualche anno prima in Inghilterra per possesso di stupefacenti. L'avvocato Leon Wildes ribaltò il corso delle udienze quando riuscì a ottenere come prova l'apertura di due documenti secretati: una lettera del senatore repubblicano Strom Thurmond indirizzata al presidente Nixon e un memoriale della commissione interna di sicurezza del Senato che la accompagnava. La missiva, datata 4 febbraio 1972, suggeriva che «con un intervento appropriato si risparmierebbero ulteriori grattacapi». Nel memoriale John era presentato come «ex membro del gruppo noto con il nome di Beatles». Il nocciolo della questione era chiaro: dal momento che Lennon e la sua consorte erano coinvolti nella protesta contro la guerra, il mancato rinnovo del permesso di soggiorno sarebbe stato una «contromisura strategica». L'assistente di Nixon aveva risposto in marzo, assicurando a Thurmond che il governo avrebbe dato ordine di annullare il visto di Lennon. Il ministero della Giustizia e la commissione del Senato temevano che lui e i suoi amici avessero intenzione di disturbare il congresso nazionale repubblicano a Miami e altri avvenimenti politici, preludio alle elezioni del 1972. Il caso fu chiuso nell'ottobre del 1975 dopo una battaglia legale senza esclusione di colpi. Wildes dichiarò di fronte alla corte: «Esistono sostanziali ragioni per credere che l'azione governativa fosse diretta a reprimere un caso di dissenso politico protetto dalla tutela della libertà di espressione sancita dal Primo Emendamento». Il giudice Irving R. Kaufman, in rappresentanza della Seconda Sezione della Corte d'Appello, ribadì con forza il medesimo concetto, indicando nel dissenso politico la vera motivazione della causa intentata contro John Lennon. «Se in due secoli di indipendenza abbiamo realizzato parte dei nostri ideali, dobbiamo questa conquista al fatto di avere sempre dato spazio allo spirito di libertà e a coloro che erano desiderosi di incrementarlo. La battaglia legale lunga quattro anni che John Lennon ha intrapreso pur di restare nel nostro Paese è la prova della sua fiducia nel Sogno Americano». Il giudice si era già pronunciato in casi di alto profilo. Era stato lui, nel 1951, a presiedere la corte che aveva votato la condanna a morte dei coniugi Julius ed Ethel Rosenberg, riconosciuti colpevoli per aver rivelato segreti nucleari ai sovietici. Un veterano come Kaufman, poco prima di andare in pensione, mise la parola fine al processo di John, che sfogò tutto il suo entusiasmo non appena sentì pronunciare il verdetto: «Un bellissimo regalo di compleanno da parte dell'America per me, mia moglie e mio figlio». Fu una grande settimana per la famiglia Lennon, coronata dalla nascita di Sean. La loro vittoria era indiscutibile. Tuttavia, per completare l'intero mosaico mancavano ancora alcune tessere. Nel 1981, il professor Jon Wiener, insegnante di Storia della University of California, iniziò un'altra battaglia, durata sedici anni, per rendere pubblico il dossier dell'Fbi, appellandosi al Freedom of Information Act. La polizia federale aveva pedinato John praticamente ovunque, anche quando andò in tv al Mike
Douglas Show. A essere seguiti furono anche alcuni suoi amici. La pubblicazione dei documenti confermò a Bob Gruen il sospetto che aveva avuto già ai tempi in cui abitava nello stesso quartiere di John e Yoko, in particolare in una bizzarra sera del 1972 nella quale era di ritorno a casa da uno studio nel centro di New York. «Lasciai lo studio per rientrare a casa e mi accorsi di essere seguito da un'altra automobile. Dopo che svoltai tre volte, dissi tra me e me: "Che strano, fa la stessa identica strada". Quando arrivai all'angolo vicino a casa mia, trovai in fretta un posto dove parcheggiare e saltai giù per vedere chi c'era in macchina. Erano in due, sembravano uomini d'affari. Appena si accorsero che li guardavo, il guidatore ripartì in tutta fretta. Più che spaventato, ero quasi incuriosito da una situazione tanto misteriosa». Leon Wildes non conosceva John Lennon quando ne divenne l'avvocato difensore. I suoi studenti di legge ora gli chiedono in continuazione del caso e dell'impatto che ebbe sulla questione del libero pensiero. Ancora oggi nutre grande ammirazione per il suo assistito: «L'aspetto più importante fu il suo orgoglio nel voler diventare a tutti i costi cittadino americano. Vincere al processo gli infuse una nuova libertà che gli permise di tornare a comporre musica e di essere uno splendido padre. Il giudice Kaufman spiegò tutto alla perfezione quando nella sentenza affermò che la sua fede nei nostri ideali aveva prevalso sui tentativi fatti per ostacolarlo». Grazie a quel primo trionfo in tribunale, John Lennon ritornò in un'aula di giustizia per chiedere la cittadinanza americana. Testimoniarono a suo favore, tra gli altri, il giornalista televisivo Geraldo Rivera, gli attori Gloria Swanson e Pete Boyle, e Norman Mailer, un altro artista e uomo che come lui aveva il coraggio di affermare di fronte a tutto il mondo le proprie opinioni. Il grande scrittore parlò dell'ex Beatle davanti alla corte definendolo «uno tra i maggiori artisti del mondo occidentale». Dopo quattro anni, Lennon aveva finalmente il permesso di risiedere negli Usa che tanto aveva agognato. Gli esponenti del governo che avevano sostenuto un duro scontro pur di espellerlo non avevano mai capito i suoi veri propositi. Non era certo un sovversivo intenzionato a rovesciare la democrazia, ma un amante della libertà che desiderava diventare americano a tutti gli effetti e aiutare gli Stati Uniti a diventare una nazione migliore, più salda nei suoi principi fondamentali. Paradossalmente, i politici paranoici che avevano lanciato l'operazione avevano mirato al bersaglio giusto. Gli appelli alla pace avevano avuto un grandissimo impatto e toccarono davvero il cuore dei più giovani. In molte classi delle superiori, nell'anno scolastico 1972- 1973, Imagine divenne l'inno dei ragazzi. Studenti di tutta la nazione identificavano Lennon con il suo messaggio di pace e speranza. Vivo ancora oggi. Wally Podrazik, esperto di media e di storia dei Beatles, sottolinea come la lotta per diventare cittadino americano gli procurò molte simpatie. «Gli altri Beatles avevano residenze in America ma, con la sua lotta per la cittadinanza, John aveva sancito che la sua scelta era l'America. Amava le libertà, e desiderava con tutto il cuore di vivere negli Stati Uniti. A John fu permesso di diventare americano per il suo desiderio di stabilirsi nel nostro Paese». Non è interessante il fatto che un milionario che avrebbe potuto vivere dappertutto abbia scelto, al pari di molti emigranti prima di lui, gli Stati Uniti d'America? Cercava i grandi spazi aperti, quella libertà di esprimersi per cui tanto aveva combattuto, o l'anonimato? Forse tutte e tre le cose, ma una certezza l'abbiamo: la città in cui decise di abitare giocò un ruolo importantissimo nell'ambito della sua rivoluzione culturale.
5. IO AMO NEW YORK
«Ma la cosa più strana fu vederlo tutto solo in quella stanza, a fumare. Pensai: "Ma è così che passa le giornate?"» LINDA REIG, IMPIEGATA DELLA APPLE E ASSISTENTE DI JOHN LENNON East Side, West Side. Nell'ultimo decennio della sua breve esistenza, John Lennon ebbe modo di conoscere i vari aspetti di New York, la città che lo aiutò a vivere meglio. Un luogo può cambiare il corso di una vita? John Winston Ono Lennon, cittadino del mondo, era il benvenuto ovunque andasse (tranne, forse, alla Casa Bianca). Tuttavia, dal momento del suo primo viaggio in America, rimase travolto e disorientato a prima vista da New York. Il suo secondo matrimonio, celebrato a Gibilterra nel 1969, lo convinse definitivamente a stabilirsi a Manhattan, dove la nuova consorte Yoko Ono si sentiva a casa, avendo ottenuto negli anni Cinquanta i primi successi come artista sperimentale. John era innamorato di New York. Da quando aveva girato gli Stati Uniti in tournée aveva capito che quella città era il vero centro. Durante il tour gli domandai delle sue prime impressioni sull'America: «La trovo meravigliosa, soprattutto New York e Hollywood. Mi piacciono i grandi spazi, le metropoli che brulicano di gente e di vita». John era sempre con la valigia in mano. A vent'anni aveva già cambiato sei case. Appena diventato adulto, seguì soprattutto le persone a lui vicine. Stuart Sutcliffe era un estimatore dell'Europa continentale, in particolare della Germania. Nonostante la sensazione mista di amore e odio lasciatagli dal periodo trascorso ad Amburgo, Lennon era attratto dall'Europa per la sua cultura. Cynthia stava benissimo in Inghilterra, e così John, negli anni in cui furono sposati. May Pang incoraggiò il desiderio, coltivato a lungo, di vivere vicino al mare; il periodo a Long Island gli lasciò ricordi speciali. Ma fu grazie a Yoko se il Dakota rappresentò quanto di più vicino all'essere «casa sua». New York, con i suoi santuari del potere e i suoi quartieri polverosi, era la città su misura per John Lennon. John, che aveva una fissazione per l'Impero Romano, una volta raffigurò in un parallelo storico la propria decisione di abitare a Manhattan: «Se fossi vissuto al tempo dei Romani sarei andato a Roma. Oggi quell'impero è l'America e New York è la vera capitale. È stata Yoko a farmela conoscere. Mi ha fatto girare strade, parchi, piazze e mostrato ogni più piccolo particolare. Mi sono innamorato della città a ogni angolo di strada». Agli amici, John raccontava di aver trovato la stessa energia di Liverpool, e di adorare la vita a tutte le ore e lo spirito delle persone. A modo suo, descrisse l'affinità con i newyorchesi: «Mi piacciono perché non hanno tempo per le piacevolezze della vita. Mi assomigliano. Sono aggressivi per natura e detestano le perdite di tempo». Quando lui arrivò a New York fresco di luna di miele, il suo genio musicale si trovò la strada spianata dai mille stimoli intellettuali e culturali della metropoli. Ma l'infatuazione era cominciata nell'estate del 1964. Dopo qualche visita sporadica alla Apple alla fine degli anni Sessanta, il matrimonio con Yoko fu il motivo della decisione di stabilirsi là. Dopo cinque mesi si dimostrava già un cittadino partecipe, che contribuì al concerto di beneficenza all'Apollo Theater in favore dei detenuti del carcere di Attica e delle loro famiglie. Se la scelta di New York fu semplice, non lo fu altrettanto quella della casa in cui abitare. Prima di optare per Bank Street nel West Village, John e Yoko vivevano quasi come turisti, passando da un hotel all'altro: Regency, St. Moritz, Park Lane e infine il St. Regis. John Lennon continuò a fare la spola con
l'Inghilterra, fino all'inizio del 1971. Quando si riaffacciò a New York qualche mese dopo, era gonfio e si vestiva sempre di nero. Lui e Yoko erano sovrappeso al punto che Allen Klein, allora capo della Apple, insistette per una dieta e perché comprassero nuovi vestiti, in tempo per il concerto insieme a Frank Zappa al Fillmore East. I loro spostamenti a New York erano così caotici che May Pang, l'assistente che si occupava fisicamente di tutti i traslochi, affittò degli enormi portabagagli di legno, di quelli che si usavano sulle navi. «Fu un continuo traslocare. Finché non trovarono il Dakota, non sapevano dove vivere. Avevano sempre la valigia pronta. Penso che la cosa non abbia fatto molto bene a John». Una volta sistemati in Bank Street, ebbero finalmente un'abitazione stabile. L'appartamento era piccolo e li limitava, ma almeno avevano un vero vicinato; per la coppia fu il primo approccio vero con la comunità newyorchese. Il periodo al West Village segnò anche un giro di vite rispetto alla dipendenza dalle droghe. Benché oggi i commenti sugli abusi John negli anni Settanta siano soprattutto ironici, la cosa non era affatto divertente per chi gli era vicino. Come le sigarette che gli avevano riempito i polmoni per anni, le droghe erano diventate un vizio difficile da estirpare. Memore della sua detenzione per possesso di marijuana in Inghilterra, John si premurava che gli uffici della Apple a Manhattan fossero riforniti in modo da non poter risalire al destinatario. Qualcosa arrivava ogni settimana. Linda Reig pagava i corrieri. Era una giovane innocente che a dodici anni aveva visto per la prima volta i Beatles all'aeroporto di Idlewild nel febbraio del 1964. Tra i compiti che le assegnarono, vi fu quello di portare ingenti somme di denaro al 105 di Bank Street. «Erano senza dubbio per la droga. Prelevavo migliaia di dollari in contanti e li portavo all'indirizzo di Bank Street. L'autista di John si occupava di procurare la droga, soprattutto marijuana. Una volta arrivai con i soldi. La porta era aperta su una sala quasi completamente buia. John era seduto sul letto a fumare erba. Aveva gli occhi vitrei. Mi offrì uno spinello. Non sapevo che fare, così accettai. Ero allibita. Mi stavo facendo una canna insieme a John Lennon. Ma la cosa più strana fu vederlo tutto solo in quella stanza, a fumare. Pensai: "Ma è così che passa le giornate?"» In verità trascorse molti giorni nella semioscurità. Le notti invece, le passava spesso al Record Plant, lo studio di registrazione preferito da lui e Yoko. Potevano andare avanti fino alle 4 o alle 5 del mattino, o anche oltre, specialmente quando in ballo c'erano i film di Yoko. Sempre in cerca di novità, lei si spacciava per una grande filmaker, e John, secondo l'opinione dei suoi amici, la assecondava nella ricerca di nuove forme creative. Ammirava la grande immaginazione di Yoko. Poteva sentirsi orgoglioso o rimanere indifferente rispetto alle sue creazioni, ma nutriva sempre grande stima per le sue intuizioni artistiche. I film di Yoko ad alcune persone facevano cadere le braccia, ma in un caso fecero addirittura calare le braghe. Linda Reig collaborò a diverse produzioni. Fu la sua unica esperienza nel cinema. Una volta dovette cercare insetti per le riprese. «Credo di essere stata la prima persona al mondo a telefonare a un'agenzia di casting in cerca di insetti ammaestrati da far recitare. Ho interpellato zoo, fattorie e negozi per trovare la mosca perfetta. Il film si chiamava The Fly. Yoko aveva filmato una donna nuda coperta di miele a cui si era appiccicata una mosca. Alla modella non sembrava neppure dare fastidio che un insetto affamato si arrampicasse sul suo corpo. Non ho mai trovato mosche ammaestrate, ne abbiamo catturata una e abbiamo girato. Un altro film, Up Your Legs Forever, mostrava solamente donne nude riprese dalla vita in giù. Pagammo le comparse un dollaro ciascuna. John mi disse: «Tocca a te». Voleva che mi togliessi la gonna e mi mostrassi nel film. "Neanche per idea, perché non ti togli tu le mutande e ti fai riprendere nudo?". Lui rise e mi diede i soldi con cui pagare le attrici». The Fly e Up Your Legs Forever non ebbero successo commerciale, ma premiarono gli sforzi di Yoko creando nuove forme d'arte. John era confuso al riguardo, ma nel 1975, ormai fuori dal tunnel della droga e contagiato dall'ottimismo per via della futura paternità, mi disse: «Yoko ha molto talento. Si occupa di tutto. La sua arte non è apprezzata, ma un giorno lo sarà. Nonostante sia geniale, è come se la mia fama la oscurasse. Ma non merita questo. Un giorno avrà tutto ciò che le spetta». Il giorno non arrivò mai finché John fu in vita, ma tra il 2001 e il 2004 l'arte di Yoko fu protagonista
di importanti esposizioni nelle gallerie di New York, Londra e Tokyo. The Fly e Up Your Legs Forever sono acqua passata ma le sue opere oggi godono di grande prestigio. La vita della coppia a New York era in sé un'opera d'arte, ispirata e plasmata dall'improvvisazione e dall'estro. Dal dicembre 1970 May Pang passò molti weekend in viaggio verso l'Inghilterra per prelevare vestiti, oggetti personali e anche una copia di Erection, un film di John e Yoko che aveva per soggetto la costruzione di un edificio. Nonostante una vita disorganizzata fatta di viaggi transoceanici, John e Yoko trovarono un simulacro di ordine nel West Side di Manhattan: passavano insieme la maggior parte del tempo, e i vicini li lasciavano relativamente tranquilli. Per stimolare John, però, serviva una conversazione – a New York non era difficile. Lui aveva una parlantina straordinaria. La cosa più difficile per ogni sua controparte era tenere botta. Bank Street era un covo di intellettuali, anche molto originali, interlocutori perfetti per la coppia: attivisti politici come Jerry Rubin, Abbie Hoffman, Tom Hayden, il poeta beat Allen Ginsberg, tutti leader del movimento per la pace. Per quanto riguarda i musicisti, a Manhattan c'erano i vecchi compagni Ringo Starr e George Harrison, Elton John, Frank Zappa e molti altri. Molti personaggi carismatici popolavano la vita della coppia Lennon/Ono, ma John non riuscì a instaurare con nessun uomo il livello di complicità che aveva raggiunto ai tempi con Stuart Sutcliffe. Gli amici davvero intimi di John sono stati sempre pochi. Uno di questi fu Peter Boyle, un attore di successo che ha recitato in film come Taxi Driver e Frankenstein Junior, celebre anche per la sit-com Tutti amano Raymond. Boyle conobbe Lennon frequentando la giornalista di «Rolling Stone» Loraine Alterman, amica di Yoko. Si trovavano bene insieme, e avevano idee simili sulla politica e l'arte. Quando Peter sposò Loraine, John fece loro da testimone. John e Yoko furono vicini alla coppia mentre lei aspettava la sua prima bambina, che sarebbe nata quattro giorni dopo l'assassinio di John. L'intesa tra l'attore e l'ex Beatle era perfetta. Dotato di notevole talento, Peter aveva trovato presto la sua verità. In gioventù era stato monaco per l'ordine dei Fratelli Cristiani, ma aveva rinunciato ai voti ed era diventato una delle star più versatili di Holywood, conosciuto anche fuori dallo schermo per la sua violenta opposizione alla guerra in Vietnam. John aveva trovato qualcuno sulla sua lunghezza d'onda. Lennon era di natura schiva, e molto scettico sulla durata dei rapporti interpersonali. Bob Gruen e Peter Boyle furono i suoi migliori amici durante tutto il periodo a New York. Erano persone con cui si trovava in sintonia, in particolare sul piano politico, in una città che era la culla del pensiero liberal d'America. Ma soprattutto, la loro presenza nella sua vita gli era di conforto. Gruen fu accolto con molto calore. Nonostante fosse un giovane fotografo che poteva avere un secondo fine nel rapporto con John, non strumentalizzò mai il fatto di essergli amico per tornaconto personale. Lennon infatti odiava essere usato, come anche Yoko: per questo i due troncarono molte conoscenze. Riconoscevano subito chi cercava qualcos'altro oltre all'amicizia, ma in Bob Gruen ebbero sempre piena fiducia. Fu una delle poche presenze fisse della loro vita. «A volte in un backstage o in studio avrei potuto fotografarli con il teleobiettivo ma non volevo farlo di nascosto, e quindi non scattai le foto. Alcuni anni dopo, mentre rievocavo i tempi passati discorrendo con Yoko, lei mi disse di essersene accorta, allora, e di esserne rimasta impressionata. La maggior parte delle altre persone che conoscevano cercavano di sfruttarli per ottenere vantaggi. Io non ero così. Spesso lasciavo da parte delle foto speciali per loro; ero uno dei pochi a dare qualcosa di mio senza chiedere niente in cambio». A New York, come ovunque, trovare amici veri, disinteressati, per John fu difficile. Ma quello di costruire una cerchia di amici intimi non era neppure un suo desiderio. Ciò che più amava di New York erano il crocevia di persone, architetture, polvere, e l'anonimato che gli veniva garantito. Gruen se ne accorse in più di un'occasione fotografandolo con Yoko. Quelle immagini sono speciali grazie ai momenti di intimità che hanno saputo catturare. La coppia si fidava tanto di Bob che si fece immortalare come non avrebbe fatto con nessun altro, e si rivolse a lui per le foto private di famiglia insieme a Sean. Il ritratto più famoso di Bob Gruen fu quello di John che indossava una maglietta bianca con la scritta «New York City» ricamata sul petto. La scattò sul tetto del palazzo in cui Lennon visse con May Pang nell'East Side di Manhattan. Un popolarissimo e immortale souvenir indossato da un uomo che amava veramente New York.
Gruen, un newyorchese purosangue che ancora vive nel West Village, ha compreso bene il fascino che la città esercitava su John: «Il motivo per cui scelse New York invece di altre città era la privacy che poteva conservare anche camminando per strada. La gente che lo incontrava rimaneva di stucco per un attimo – "Oh cielo, ma quello è John Lennon!" – ma non si fermava e non cambiava programmi perché aveva da fare: viveva e lasciava vivere. È normale vedere persone famose in giro per New York senza che siano circondate da una folla o un codazzo di cacciatori d'autografi o altro». Dal suo rapporto con John, Gruen, uomo schivo e gentile, ricevette in cambio non solo il prestigio professionale ma un'amicizia vera, autentica: avere vicino una persona del calibro di John, che rispettava e con cui condivideva gioia e divertimento nello stare insieme, mangiare, parlare e spartire i piccoli piaceri della vita. «Era sempre bello uscire con lui, alla fine si rideva tantissimo ma si imparava sempre qualcosa. Apprezzavo molto il fatto che gli piacesse mangiare bene. Ed era divertentissimo. Cercavo sempre di incontrarlo per pranzo o per cena». A New York John poteva vivere da persona vera, e non da celebrità come invece era accaduto regolarmente dal 1963. Senza preoccuparsi di questioni di sicurezza, viveva come un uomo qualsiasi in Bank Street. Tuttavia, benché amasse il West Village, aveva bisogno di più spazio. Non era un mistero che lui e Yoko desiderassero avere un figlio. Il primo aprile 1973 i due acquistarono un appartamento al Dakota. John dovette cambiare luoghi preferiti, come ristoranti e bar, scegliendone di più vicini al centro della metropoli. La momentanea separazione da Yoko e il weekend perduto lo portarono a spostarsi di nuovo. Dopo Lower Manhattan (Bank Street) e l'Upper West Side (il Dakota), andò a convivere con May Pang nell'East Side. L'ambiente più intimo e alla mano fu proprio quell'appartamento vicino alle Nazioni Unite. L'East Side era molto informale e la libertà di movimento era massima. Fu un'esperienza eccitante per John, la cui routine fu identica per tutto il periodo in cui vi rimase. Al mattino beveva una tazza di caffè e leggeva avidamente il «New York Times» dall'inizio alla fine. May ricorda che avrebbe potuto sfidare chiunque in qualsiasi dibattito sull'attualità. La vita a New York, così stimolante sotto molti altri aspetti, gli dava anche la possibilità di comportarsi come un uomo comune. «Ricordo che adorava le cose più semplici. Come sedere sul terrazzo a guardare l'East River. Gli donava il senso di uno spazio aperto illimitato. Amava anche il paesaggio urbano di New York. Difficilmente usavamo la macchina. Lo incoraggiavo a passeggiare per le vie, guardare le vetrine, andare alle mostre, mangiare nei ristoranti, come se fosse stato solo un cittadino qualunque della grande metropoli. E poi adorava andare a vedere i film. Era affascinato dalle stelle del cinema. Poteva fare tutto girando a piedi in pochi isolati. Quante altre città ti regalano queste opportunità?» John aveva la patente ma guidava di rado. A volte gli veniva voglia di vedere l'oceano. E allora lui e May andavano negli Hamptons, a Long Island, una località alla moda ma non così popolare come oggi. Lì avevano sempre compagnia: «Il suo angolo di spiaggia preferito era sotto casa di Peter Boyle. Peter e sua moglie ci ospitavano ed erano gentilissimi; anche se Loraine era amica di Yoko, non c'è stato mai nessun attrito tra noi. I veri amici di John non si schieravano dalla parte di nessuno se lo vedevano felice. Non l'ho visto mai più contento di quando camminava nelle acque dell'oceano, iniziava a nuotare o si lasciava scivolare sul dorso. Per seguirlo, una volta, per poco non affogai». New York gli diede quello che Los Angeles in quella folle primavera del 1974 non avrebbe mai potuto dargli. In Bank Street con Yoko, nell'East Side con May, e tornando da Yoko nell'Upper West Side negli ultimi cinque anni della sua vita, John visse in un ambiente reale, dove poteva mangiare al ristorante, camminare per strada e andare ogni tanto al mare. Al Dakota poteva passeggiare nel vicino Central Park, rilassarsi in un coffee shop, gironzolare per le vie e avere tante cose da guardare. A New York puoi vivere sotto i riflettori e le mille luci, ma anche trovare rifugio tra l'immensa folla. L'amico Michael Allison, ricorda l'amore di Lennon per New York: «John la vedeva come il centro dell'universo. Credo proprio che la città lo abbia ispirato a uscire fuori dal guscio della sua solitudine e trovare nuove energie. Amava tantissimo le persone di New York, e lo spirito che le accomunava.
Spesso mi chiedo come avrebbe reagito l'11 settembre. Si sarebbe certamente indignato, ma sono sicuro che sarebbe stato il primo a portare cibo e acqua a poliziotti e pompieri. Benché fosse ricco e famoso, lo spirito della sua gioventù, il suo lottare per gli altri e i loro bisogni non sarebbe mai svanito». Il conduttore televisivo Geraldo Rivera, che lavorava all'ABC a pochi isolati dalla casa di John, con cui fece anche amicizia, definisce il suo rapporto con la città un «matrimonio perfetto». «Era un newyorchese duro e puro. Non è un caso se ha passato qui un quarto della sua vita. Con la stessa determinazione con cui lottò per rimanere negli Stati Uniti, avrebbe reso New York la sua casa per sempre. Quando mi aiutò in una raccolta di fondi per i meno fortunati nel Central Park all'inizio degli anni Settanta, ricordo che gli brillavano gli occhi nell'incontrare la gente. Sembrava che New York, con le vittorie e le sconfitte di tutti i giorni, riflettesse la sua vita. In breve lui e Yoko lasciarono un segno profondo sui newyorchesi proprio per l'amore che dimostrarono alla città». John Lennon mise per la prima volta piede a New York nel 1964, in tour con i Beatles. Il più spettacolare concerto dei Fab Four fu quello allo Shea Stadium. Fu allora che John Lennon elettrizzò l'America con una presenza scenica così forte, così potente, così conturbante, che avrebbe definito un modello per i decenni a venire.
6. EIGHT DAYS A WEEK (LENNON IN TOUR)
«Gambe divaricate. Bacino in avanti. Bocca quasi a ingoiare il microfono. Chitarra all'altezza del petto. Occhi che lanciano dardi. Un'espressione angelica sul viso. Occhi indemoniati. Si gira. Un'occhiata a Ringo. Una donna nuda attraversa il palco di corsa. Si gira. E fa un gran sorriso» LARRY KANE, APPUNTI SUL CONCERTO AL COMISKEY PARK DI CHICAGO DEL 20 AGOSTO 1965 «Il sesso è sopravvalutato se non lo fai» JOHN LENNON, SUL VOLO LOS ANGELES-DENVER, 26 AGOSTO 1964 La prima volta che vidi John Lennon fu il giorno di San Valentino del 1964, un venerdì. Non sono superstizioso ma scettico. Una qualità necessaria nell'ambiente del giornalismo. Il mio iniziale scetticismo fu giustificato quando ci incontrammo faccia a faccia poche ore dopo come in molti dei nostri primi incontri. Mentre sudavo sul tarmac del Miami International Airport, migliaia di adolescenti dietro di me erano pressati come sardine agli arrivi della National Airlines. Freschi reduci dalla trionfale apparizione all'Ed Sullivan Show, i Beatles e Brian Epstein arrivavano a Miami, dove erano in programma alcuni giorni di riposo e una seconda apparizione per Sullivan che sarebbe stata registrata al Deauville Hotel di Miami Beach. Seguivo il loro arrivo in Florida per conto della stazione radio locale per cui dirigevo i. notiziari, chiedendomi perché non fossi al municipio o in tribunale a occuparmi di cose più serie. I Beatles scesero uno per uno dalla scaletta, e fu allora che notai ciò che avrei sempre chiamato lo squint (strabismo). Disorientato dalla propria miopia, John Lennon strabuzzava gli occhi e controllava dove metteva i piedi a ogni passo. Fece un cenno di saluto ai fan mentre aveva addosso la curiosità di quella folla chilometrica, e Paul McCartney usava lo stesso sorriso caloroso per i gruppi di fan per e ogni persona che incontrava. Un'ora più tardi partecipavo a una conferenza stampa insolitamente poco affollata all'interno del Deauville Hotel. I Beatles risposero in maniera affabile e professionale alle domande della stampa prima di prendersi una pausa per qualche giorno di svago prima del secondo concerto per Ed Sullivan, in programma per il 16 febbraio. Sarebbero ritornati in Inghilterra dopo qualche giorno con la consapevolezza che quello che avevano seminato in America era maturo per essere raccolto pochi mesi più tardi. La Beatlemania era nata ed era ormai sul punto di sbocciare. I Fab Four invasero ufficialmente l'America nell'agosto del 1964, inizio della prima di tre tournée. Io ero a bordo, ci rimasi per due estati e parte di una terza. Seguivo «i ragazzi», come li chiamava la loro cerchia, alla conquista del Nuovo Mondo. Sugli aeroplani, nelle stanze d'hotel, nei vari backstage, sul set dei film, ai party, durante le conferenze stampa e nei momenti di pausa ho scrutato John Lennon da vicino come nessun altro. La storia delle sue tournée è come il resto della sua storia: illuminante e imprevedibile. Ho visto tutto con i miei occhi in quanto facevo parte del seguito dei Beatles. Parlo di una rivelazione. Non c'è esperienza in grado di compattare maggiormente un gruppo di persone, creando tra loro intimità, rispetto all'essere intrappolati tutti insieme su un aereo. Essere costretti in uno scompartimento per ore può far nascere discorsi profondi che dicono tantissimo sui tuoi compagni di viaggio. Durante i
trentasei voli che ho condiviso con i Beatles dal 1964 al 1966, ho conversato, riso, litigato e giocato con John, Paul, George, e Ringo raggiungendo un grado di confidenza con loro davvero incredibile. Per la maggior parte del tempo, volavamo su un Lockheed Electra dell'American Flyer, un velivolo a motore turbo rumoroso ma efficiente. In fondo c'era una sala a forma di semicerchio dove i Beatles si potevano rilassare stando da soli. La cerchia più stretta viaggiava davanti, insieme a pochi giornalisti e altri ospiti. Paul, Ringo e George rimanevano nel retro, tranne in alcune occasioni. John, sempre iperattivo, passava la maggior parte del tempo del volo cambiando posto, scambiando sigarette, vuotando drink come un beduino del deserto che avesse incontrato una provvidenziale oasi sul proprio cammino, e come al solito, alla sua maniera, intrigante, affascinante, facendo casino. Il diavolo dentro Mr. Lennon era parte della persona e del personaggio, allevato sin dalla più tenera età con l'astuzia e l'intuito di un artista magistrale con il vezzo della caricatura. Ma su un aeroplano non ci sono tavolozze, solo il desiderio di una mente fantasiosa di voler divertire gli altri passeggeri. Quello che, in una miriade di modi giocosi e creativi, John Lennon era capace di fare così bene. Per la maggior parte delle tappe della tournée tirò fuori il bambino che ancora albergava dentro di lui con estro e inventiva. Divenni la vittima predestinata dei suoi scherzi, probabilmente a causa del mio aspetto così «regolare» ai suoi occhi, che mi rendeva vulnerabile alle sue trovate. O forse mi apprezzava tanto da pensare che amassi farmi massaggiare la testa con dosi di purè e piselli, o provassi un brivido di piacere quando i cubetti di ghiaccio che mi infilava nel colletto della camicia scendevano giù lungo la schiena, fermandosi poco sopra la vita. In ogni momento poteva scatenare una battaglia a cuscinate, gettando per aria piumini e pezzi di gommapiuma che andavano ad aggiungersi al fumo di sigaretta e all'odore di scotch e bourbon come parte dell'atmosfera. Per quanto ingenui e sciocchi potevano essere questi passatempi da ragazzino, riflettevano bene il suo bisogno di respirare un po', svincolarsi dal clima opprimente del tour che odiava con tutto il cuore. Statene certi, John Lennon era nato per il palcoscenico ma se fosse dipeso da lui avrebbe trovato un trucco magico per catapultarsi direttamente da uno stadio all'altro, evitando la noia di viaggiare, volare e sfuggire a folle fameliche di ammiratori e ammiratrici. Nel 1968, durante un'intervista al St. Regis Hotel di New York, John e Paul McCartney raccontarono qualche retroscena del tour. KANE: Qual è il stato il momento clou delle vostre tournée americane? LENNON: La fuga da Memphis! (quando il motore dell'aeroplano prese fuoco, con uno scoppio scambiato per uno sparo, durante il tour del 1966) KANE: Farete altri tour? McCARTNEY: Be', tutto è possibile… Abbiamo smesso di fare concerti solo perché eravamo stati dappertutto. LENNON: I club mi spaventano a morte, la gente con i fucili e con le maschere antigas. John fece un sorriso forzato per accompagnare quelle parole riguardo alla sicurezza, ma sono sicuro che, tra tutti i Beatles, fosse lui il più spaventato dal tour e dalle resse di fan, nonostante, grazie al suo carisma, fosse capace di far brillare i volti e agitare i corpi di migliaia di persone in arene stracolme. Gli unici luoghi in cui trovava un po' di pace erano gli aerei, lassù nel cielo, al sicuro dalla pazza folla, e le stanze d'albergo. Nonostante si divertisse con le sue ragazzate, trascorreva molti momenti liberi leggendo. Era il più istruito tra i Beatles, divorava quotidiani, riviste, qualche volta romanzi. Le letture della buonanotte di zio George dovevano essere state una fonte di ispirazione. Nel 1965 gli diedi una copia di un romanzo molto avvincente, che immaginava come sarebbe stata la vita dopo una guerra atomica. Era Addio, Babilonia di Pat Frank. Il libro colpì molto John. Passò intere nottate a leggerlo, e fu senz'altro un ulteriore argomento per la sua polemica nei confronti della guerra. Non era mia intenzione, benché le nostre discussioni in merito furono a dir poco brillanti, con lui che si immaginava come nel futuro le persone avrebbe potuto riprendersi dagli orrori di un conflitto nucleare. John aveva paura di volare, lo capii la volta in cui sfiorammo un incidente sulla rotta verso Portland.
Ripensandoci è quasi buffo, ma sul momento fu vero terrore. Seduto vicino al finestrino, per primo notai che il motore di destra stava andando a fuoco. All'inizio fui quasi incredulo, ma quando capii la gravità della cosa corsi ad avvertire i piloti che si trovavano sul retro a chiacchierare con John. Urlai che c'era un principio di incendio al motore destro. John saltò giù dal sedile e corse verso la porta di uscita, ignorando me e gli altri che lo pregavamo di non farlo, perché si sarebbe ammazzato. Ma lui cercò di ancora di arrivare all'uscita, ripetendo «Buddy Holly, come Buddy Holly!» Si riferiva all'incidente aereo in cui Buddy Holly e Ritchie Valens erano morti. Riuscimmo finalmente a farlo ragionare; ancora con il sangue che gli pulsava nelle tempie riuscì a calmarsi e ad accendersi una sigaretta. C'era una ragione di più per ammirare John Lennon. Quasi tutti i personaggi pubblici – politici, musicisti, e celebrità di ogni campo – farebbero di tutto per nascondere le loro paure e fobie, soprattutto le manifestazioni di questo tipo. Andando ancora una volta controcorrente, Lennon non ebbe mai paura di mostrare che era un essere umano che come tutti provava dolore, aveva paura e poteva perdere il controllo di sé. Più della sua musica magnifica, è il senso di affinità con le persone comuni che rese John Lennon una personalità vibrante nella vita e nella memoria di milioni di esseri umani, a dispetto di tutte le sue fragilità e i suoi fallimenti. L'empatia di John nei confronti delle persone a lui affini emergeva anche nel modo in cui si comportava con i musicisti che avevano la sfortuna di aprire i concerti dei Beatles. Per loro provava simpatia. Sull'aereo era sempre il primo dei ragazzi ad attraversare il corridoio e parlare con colleghi che a ogni concerto facevano il sacrificio di suonare per gente che non li ascoltava. Migliaia di seguaci che, nello stile della Beatlemania primigenia, urlavano dal primo secondo in cui mettevano piede nell'arena. Con la conseguenza che autentiche stelle come i Righteous Brothers, Jackie DeShannon, Brenda Holloway e King Curtis venivano virtualmente ignorati. Con il cameratismo dei tempi di Amburgo, John parlava di musica e teneva loro compagnia. Spontaneo e rispettoso nei confronti di autentici professionisti, compiva questo atto cortese pressoché ogni sera. In particolare, uno dei gruppi spalla gli diede l'occasione di scagliarsi contro le ingiustizie razziali, uno dei problemi che più gli stavano a cuore e per cui spese tanto tempo e molte energie. Le Exciters sono state un pionieristico gruppo vocale, che ha anticipato molti dei complessi femminili composti da ragazze di colore in voga alla fine degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta. Erano come diceva il loro nome: incredibilmente sexy e capaci di splendide performance. Nel 1964, durante un breve periodo di riposo, John e le ragazze delle Exciters guadagnarono le prime pagine dei giornali nazionali americani grazie a una fotografia che li ritraeva insieme mentre facevano il bagno in una piscina. Niente di scandaloso, ma non tutti ai tempi erano disposti ad accettarlo. Quando l'immagine fu resa pubblica creò shock e sdegno nel Sud degli Stati Uniti. Vedere un uomo bianco e delle donne nere fare il bagno nella stessa piscina offese la suscettibilità di chi accettava la segregazione razziale come la vera legge di quelle terre. Lennon non si scusò affatto, e approfittò anzi del momento per mettere le cose in chiaro su ciò che pensava del razzismo. L'immagine uscì il giorno prima del concerto dei Beatles al Gator Bowl di Jacksonville, che John e Paul McCartney avevano tentato di cancellare perché avevano saputo che il pubblico sarebbe stato diviso tra bianchi e neri. La sera dell'11 settembre 1964 lo scenario del Gator Bowl fu invece un esempio di armonia tra persone di razze diverse. Quattro pensieri occupavano la mentre di John Lennon durante i tour del 1964 e del 1965: la musica, il tempo libero e come occuparlo, la genuina attenzione verso il pubblico e le notizie giornaliere sulla vita di suo figlio Julian, che era rimasto in Inghilterra con Cynthia. Molti osservatori che hanno sottolineato la lunga assenza di John dalla vita del figlio all'inizio della sua relazione con Yoko Ono sarebbero sorpresi di sapere quanta attenzione John avesse per lui. Chiamava ogni giorno Cynthia (quando ancora non esisteva la linea diretta) e parlava sempre di loro. Lo stesso uomo che non rifiutava le avventure con altre donne durante la tournée non lasciava passare giorno sentire la voce di Julian. Nel 1965 nutriva grandi progetti per lui. KANE: Raccontami di tuo figlio. LENNON: Ogni volta che lo guardo camminare a gattoni sul pavimento, penso a come sia stato possibile, è un miracolo. KANE: Come ti fa sentire la responsabilità di essere padre?
LENNON: Voglio solo che cresca felice, è questa la cosa importante. KANE: Pensi mai a quello che puoi dargli? LENNON: Solo amore… Deve crescere felice sapendo di essere amato. Non mi interessa mandarlo in una scuola importante se significa doverlo spedire lontano. Deve rimanere accanto a noi, sempre. Negli anni successivi, quel desiderio non avrebbe avuto modo di avverarsi. Il nuovo amore, il divorzio da Cynthia e le seconde nozze con Yoko lo avrebbero impedito. Ma durante le tournée degli anni Sessanta, John Lennon dimostrava tutta l'intenzione di fare in modo che suo figlio fosse, a differenza sua, circondato dall'amore autentico di due veri genitori e da tanto affetto. Non voleva che Julian passasse ciò che aveva passato lui, abbandonato dal padre, trascurato e poi privato per sempre a diciassette anni dell'amore materno, lo stesso ho visto come fosse quasi ossessionato dalla determinazione di essere padre a tutti gli effetti, non solo nel nome. La realtà e gli obblighi di carriera non gli permisero di avere successo in questo suo proposito – facendolo anzi andare incontro a un assoluto fallimento – ma è tuttavia importante capire quale desiderio avesse di essere un buon genitore. Art Schreiber, allora corrispondente nazionale per la Westinghouse Broadcasting, che seguì parte del tour del 1964, ricorda con tenerezza le conversazione telefoniche di John con il figlio: «Per lui era una cosa molto importante, e sembrava deciso a voler dimostrare che, qualunque cosa succedesse intorno a lui, il suo primo pensiero andava sempre a Julian. E a Cynthia, per cui aveva molta premura. Era un giovane padre determinato a fare in modo che tutto andasse per il meglio. Sapevo che era preoccupato dalla situazione folle del tour, ma era anche risoluto nel trovare comunque il tempo di chiamare casa e mantenersi in contatto con la moglie e il figlioletto di un anno». A legare i molti momenti della vita di John in tour sono la sua sollecitudine nei confronti dei fan e le persone comuni e l'odio per i ricchi e i potenti. Nella storia della musica non c'è probabilmente un gruppo che più dei Beatles abbia dimostrato affetto verso i fan. Lennon e McCartney ogni giorno si lamentavano con i responsabili dell'entourage del fatto che i loro ammiratori riuscivano a malapena a vederli per un attimo da lontano. I poliziotti e i responsabili della sicurezza, spesso con il beneplacito del management, pensavano che mantenere i ragazzi a una certa distanza dai fan fosse un modo per salvaguardare la loro incolumità. I Beatles e John Lennon, nonostante la paura congenita delle folle, non avrebbero mai voluto che fosse così. Anzi, desideravano instaurare un rapporto diretto con il proprio pubblico tanto quanto i loro ammiratori volevano vederli da vicino. I Beatles non gradivano affatto che gli eccessi di zelo della sicurezza – il motivo per cui molti giornalisti e fan li consideravano distanti, inavvicinabili – fossero attribuiti a una loro volontà. Lo stesso desiderio di un contatto umano con i propri ammiratori avrebbe contraddistinto la carriera solista di John. Era una situazione paradossale: i membri del gruppo avevano allo stesso tempo il timore di essere esposti alle manie collettive durante i tour e la voglia di incontrare da vicino il pubblico. Un conflitto che presupponeva il dover affrontare le proprie paure e l'incarnare il ruolo sempiterno dell'eroe popolare. Il nostro uomo sbiancò quando al Montreal Forum vide una schiera di poliziotti armati di mitra formare un cordone di protezione del palco per paura di possibili attacchi ai musicisti, essendo il Quebec una regione notoriamente dai forti sentimenti anti-inglesi. Era la stessa persona che, ignara del pericolo, avrebbe camminato davanti al Dakota quella tragica notte di dicembre del 1980. Un artista cui il pensiero della propria sicurezza personale non impedì mai di dimostrarsi aperto e disponibile nei confronti degli altri. John e i ragazzi si dimostrarono molto più che alla mano in un pomeriggio di sole che ricordo molto bene; era il 26 agosto 1965, i Beatles si stavano godendo la casa affittata a Benedict Canyon, un'area molto chic nei dintorni di Los Angeles. Ci stavamo rilassando ai bordi della piscina quando sentimmo un grido. All'improvviso, una ragazzina atterrò non lontano da Ringo. Aveva la faccia impiastrata di terra e sangue. Si era arrampicata sul muro di cinta e aveva invaso Beatlesville. Invece di farla allontanare all'istante, come avrebbero voluto fare Mal Evans e Neil Aspinall, John le appoggiò dolcemente una mano sulla spalla, le pulì il viso con una salvietta e un po' d'acqua e le sussurrò qualcosa
nell'orecchio. I minuti successivi sarebbero rimasti scolpiti nella mia memoria come il più impagabile ricordo di John Lennon. Le parlò pacatamente, a quattr'occhi, dando netta l'impressione di sincerità e di genuina sollecitudine nei suoi confronti. Non sentii una parola ma quella piccola stalker, malconcia per il tuffo e l'arrampicata, in profondo imbarazzo per ciò che aveva fatto, ferita fuori e dentro, fece un sorriso a 32 denti che avrebbe fatto sciogliere all'istante anche il più duro dei cuori. Mi accorsi allora di che uomo fosse nel profondo John Lennon. Lo stesso ragazzo che mi faceva scherzi pesanti o era capace di umiliare un miliardario con il suo umorismo schietto e pungente, scintillava come un gioiello quando si confrontava con le paure, le frustrazioni e i desideri dei più giovani. È probabile, penso io, che in quella ragazzina rivedesse un po' di se stesso. O che ricordasse dei giorni in cui era lui l'escluso che guardava il mondo da fuori. Nessun altro episodio rivela l'avversione che John nutriva verso le autorità e il suo disprezzo per ricchi e potenti quanto un inconveniente avvenuto nella bellissima città di Kansas City, Missouri. La protesta cominciò sull'aereo nel momento in cui John rifiutò di avallare un'accorata richiesta di Brian Epstein, che lo pregava di accettare la sua idea di offrire condizioni speciali a un ricco promoter. Kansas City fu un'aggiunta dell'ultima ora nel calendario del 1964, in ragione di un'offerta ricevuta da parte di Charles O. Finley, eccentrico proprietario della squadra di baseball dei Kansas City Athletics: ben 150.000 dollari per un singolo concerto, una cifra spropositata per l'epoca. Epstein accettò a nome della band, ma Finley voleva qualcosa di più, di unico. All'entrata della suite dei ragazzi al Muehlebach Hotel, lo vidi tentare di negoziare un contratto speciale. Sperava che i Beatles suonassero più a lungo rispetto al loro standard di 35 minuti, aumentando addirittura l'offerta. Epstein spalancò gli occhi quando vide John rispondere «no» a nome del gruppo. Finley offrì ancora più denaro ma ricevette un altro rifiuto. Visibilmente adirato, il promoter fece una terza più lauta offerta che Lennon rifiutò immediatamente. Allora Finley se ne andò su tutte le furie. Più tardi allo stadio, nel corridoio che portava ai camerini, sentì Lennon gridargli: «Chuck, non era il caso di spendere tutti quei soldi per noi». Facendo una rara concessione, i Beatles suonarono una canzone in più: una cover di Kansas City, l'hit di Wilbert Harrison. Il pubblicò locale andò in visibilio. Ma per me il ricordo più memorabile della serata sarà sempre un altero John che insolentiva un potente miliardario. Era parte del gioco: John che prendeva posizione in nome del gruppo, senza guardare in faccia nessuno e tantomeno i potenti, scavalcando Epstein; si proponeva così in prima linea come frontman per eventuali polemiche, anche se con il benestare di Paul e degli altri. L'avversione per l'autorità, nata a scuola, gli rimase per tutta la vita, e la disputa con il miliardario americano fu un momento emblematico. Nel viso di John, leggevo il compiacimento per la forza avuta nel guardare un uomo ricco e dirgli di no in faccia. La stessa impertinente indipendenza fu dimostrata da tutti i Beatles, ma da John in particolare, anche a una festa di beneficenza a Brentwood, in California, a casa di Alan Livingston, boss della Capitol Records, poche settimane prima dei fatti di Kansas City. Per raccogliere più denaro a favore della Hemophilia Foundation, i quattro Beatles si sistemarono nel giardino sul retro di casa Livingston a firmare autografi a stelle di Hollywood come Jack Palance, Jack Lemmon, Shelley Winters, Dean Martin, Lloyd Bridges, Edward G. Robinson e altri. John fece il suo dovere, ma più tardi espresse senza remore il suo disgusto perché erano mancati i veri ammiratori. «Mi dà fastidio che i veri fan non ci possano avvicinare, mentre la gente che ha i soldi può. Quel party era tutto una finta, lo sai anche tu» mi disse. Il momento clou di tutta la festa fu per me quando John, parlando con Brain Epstein, gli chiese: «Dov'è la babbiona con lo strano cappello?» Si riferiva a Hedda Hopper, la storica cronista di Hollywood. Pochi giorni dopo a Cincinnati, Lennon cacciò il sindaco della città dai camerini dei Beatles. Non voleva nessun pezzo grosso nei paraggi. Per quanto scortese e poco raffinato fosse il suo comportamento, veniva pur sempre dalla stessa persona che provava disgusto per la superficialità e avrebbe preferito la presenza di persone comuni. Ho sempre notato il contrasto stridente tra la reazione di John ai meeting ufficiali e il rapporto positivo e spontaneo che aveva con i membri dei fan club incontrati nei camerini. Per John il tempo dedicato a ricchi e potenti era solo fuorviante. Lo stesso valeva per i giornalisti. Quasi a ogni tappa del tour era in programma una conferenza stampa in cui si sentiva ripetere sempre le stesse domande. Anche oggi i giornalisti americani preferiscono accodarsi al gregge, armati solo di slogan facilotti e di luoghi comuni. Nei primi giorni trascorsi in America, i ragazzi dei Beatles non ce la facevano più a sentirsi formulare ovunque le stesse domande e a vedersi descrivere
in modi poco piacevoli: dal «mocio», riferito ai capelli a caschetto, a nomignoli come «formiche», «insetti»… LENNON: Mocio per la pettinatura. KANE: Non ti dà fastidio che ne parlino continuamente? LENNON: Non ce la facciamo più. Come a sentirci definire «ye-ye-ye». KANE: Che poi è solo una canzone. LENNON: Che sia diventato un modo di dire internazionale non ce ne importa più di tanto, ma non ne possiamo più di sentirci ripetere fino alla morte «yeah yeah yeah», «mocio» e «i quattro dai capelli a caschetto». Ti sembro un mocio? Per coloro che hanno avuto la fortuna di vederlo dal vero, i ricordi che accompagnano le sue performance sul palcoscenico rimandano flashback di concerti di un livello elettrizzante. John Lennon non aveva bisogno degli artifici che accompagnano gli spettacoli di molti artisti. Disponeva già degli strumenti più eccelsi, vale a dire la sua mente e il suo corpo. Assistere a sessantuno suoi concerti in tre anni è stato un'esperienza memorabile e direi educativa – memorabile perché sono stato testimone oculare di eventi bizzarri e inusuali, educativa perché ho avuto modo di comprendere le abitudini e le relazioni con il mondo dei singoli Beatles. Paul McCartney non trovò mai un palcoscenico che non gli piacesse. Si infilava di corsa in camerino, si pettinava un centinaio di volte e assomigliava sempre a una tigre in agguato nell'erba, pronto a esplodere di emozione. Quando McCartney saliva infine sul palco, flirtava con il pubblico più di chiunque altro. Faceva l'amore con gli occhi. Ringo Starr era gioviale ma distante a causa della sua posizione di retrovia, e George Harrison non si agitava più di tanto, muoveva il busto su e giù seguendo il ritmo della sua chitarra. George dava la sensazione di suonare soltanto per le proprie orecchie. John Lennon era un altro tipo di showman. La sua performance in palcoscenico, di un'intensità che dava moltissimo all'intero gruppo, era preceduta da una preparazione al concerto che era allo stesso tempo metodica e inquietante. La realtà è che nessuno nasce per salire su un palco ed esibirsi di fronte a migliaia di persone senza percepire una sorta di malessere al cervello o allo stomaco. La vulnerabilità, piaccia o meno, fa parte dell'essere persone umane. Nonostante il coraggio e la temeraria sfrontatezza di certe uscite pubbliche, l'artista Lennon la sentiva molto più di quanto la maggior parte della gente possa immaginare. Perché tutti la avvertiamo, ma ci aspettiamo che le persone amate non siano meno che perfette. Per fortuna del mondo, le imperfezioni di John lo resero ancora più amabile e affascinante. Nel 1964 e nel 1965 vidi da vicino e con una certa trepidazione quali emozioni avessero il sopravvento su John prima dei concerti. Sudava, tremava, e i suoi comportamenti andavano ben oltre i sintomi della tipica ansia da palcoscenico. Mi sono rimasti in mente il pomeriggio e la sera del 14 agosto 1965. Era sabato e i Beatles si esibivano allo Studio 50 della CBS di New York, oggi conosciuto come Ed Sullivan Theater, tra la Cinquantatreesima e Broadway. Il gruppo era in città da ventiquattro ore. Il weekend era fitto di impegni: prova alle 2 del pomeriggio di sabato per la registrazione serale dell'intera performance per l'Ed Sullivan Show, che sarebbe andata in onda nella prima puntata stagionale del programma, prevista per il 12 settembre. La prova durò tre ore. Quando Malcolm Evans accompagnò il quartetto all'entrata, aveva lo sguardo corrucciato e quasi depresso. I road manager come Malcolm sembrano sempre preoccupati, soprattutto durante gli spostamenti, quando sono sempre all'erta per ragioni di sicurezza. Ma questa volta l'uomo cordiale e sempre di buon umore con cui ricordo di avere passato molti bei momenti era diverso dal solito. Si leggeva lo spavento nei suoi occhi e le dita con cui teneva la sigaretta gli tremavano. Aveva un'espressione angosciata anche mentre accompagnava i ragazzi nei camerini, da dove uscì qualche minuto dopo. «Che cosa succede Mal?» gli domandai. «John ha i sudori freddi, trema, deve aver preso troppe pillole», rispose. «Pillole?» chiesi. «Sì, anfetamine, sedativi, analgesici, sai» mi rispose sempre con la stessa espressione accigliata. Avevo visto John prendere pillole ma non avevo mai collegato mentalmente la droga alla tremarella che gli veniva sempre prima di un concerto.
Anni dopo, amici e biografi avrebbero confermato che John ingoiava molti farmaci, ma le storie che giravano su quanta droga prendesse quando aveva vent'anni erano molto esagerate. È quello che pensa anche Tony Barrow: «Tutti i Beatles ad Amburgo ingoiavano anfetamine perché li aiutavano a stare svegli e ad avere ancora energie dopo ore. A Liverpool a volte suonavano uno show all'ora di pranzo e uno alla sera, e John, specialmente, aveva bisogno di un aiutino per stare sveglio. L'ho sempre visto avere sbalzi d'umore, ma, pillole o meno, era sempre teso in una maniera allucinante prima di ogni concerto. Era imprevedibile». Teso è un eufemismo. La stessa cosa che a Paul McCartney procurava pura gioia, sembrava dilaniare i nervi di John, non sempre ma abbastanza perché un cronista lo notasse. Mal Evans ha sempre detto che i Beatles erano nervosi prima di suonare dal vivo: «È il segno che erano autentiche star». Quel pomeriggio, nel backstage dello Studio 50, Evans faceva avanti e indietro davanti ai camerini, chiaramente nel panico. «Gli altri sanno che non sta bene?» gli domandai. «No, pensano che sia nervoso per via di Help!» rispose lui. Tony Barrow aveva detto che Paul era su di giri e non vedeva l'ora di dover cantare Yesterday, ma non pensava che Help! sarebbe stato un problema per John. «Non c'entra la canzone» disse Malcolm Evans, «è solo di cattivo umore». Dopo pochi minuti, i Beatles uscirono dai camerini. John mi passò accanto senza salutarmi, neppure con un cenno del capo. Guardava avanti con gli occhi fissi e torvi. Andò sul palco come se non ci fosse stato nessuno, anzi: come se nessun altro fosse esistito; anche se gli invitati alle prove gridavano eccitati. Il soundcheck durò a lungo. Ai Beatles, sempre puntigliosi e perfezionisti, ci vollero tre ore prima di trovare l'assetto adatto. Quando John cantò Help! aveva sempre quello sguardo che sembrava diretto chilometri lontano, e mostrò ben poche emozioni durante le prove d'abito. Per tutto il pomeriggio mantenne quel modo di fare stoico e determinato. Uno dei produttori dell'Ed Sullivan Show rimase attonito poiché i Beatles non si accontentarono delle apparecchiature dello studio. Vince Calandra, in seguito produttore per l'American Film Institute, ricorda la scena. «Era incredibile. Lennon era veramente agitato, non c'è dubbio. Ma usò quell'energia nervosa per stimolare i tecnici a migliorare il sound. Paul McCartney e George Harrison erano più educati, ma John andava dritto al punto. Riuscì a intimorire uno dei tecnici al punto che quello andò in un negozio e comprò del nuovo materiale da aggiungere alle apparecchiature già in dotazione. Gli ingegneri del suono rispettarono comunque il loro impegno. Lennon e i Beatles stavano confermando quanto fossero importanti». Durante quelle prove notai le stesse abitudini del 1964: John Lennon a volte cantava masticando chewing-gum, un trucco davvero curioso. Come faceva a masticare e allo stesso tempo cantare e suonare la chitarra? Brian Epstein mi raggiunse vicino al palco, guardando i suoi protetti con orgoglio, mentre si muoveva continuamente come un animale in gabbia. Ci scambiammo convenevoli anche mentre i ragazzi passavano per tornare nei camerini. Paul sembrava al settimo cielo, ma John era cupo. Appena prima che si iniziasse a registrare, John guidò i Beatles verso il palco. Aveva la camicia madida di sudore. Si guardò in giro e all'improvviso le sue sopracciglia si inarcarono verso l'alto; era segno che tutto andava bene. Mal Evans e Neil Aspinall, nervosi com'erano, si sentirono risollevare. La quarta e ultima apparizione all'Ed Sullivan Show (benché non trasmessa in diretta), fu un trionfo del genio beatlesiano. La prova di McCartney in Yesterday, che richiedeva una gamma vocale straordinaria, fu eccezionale. Mentre la voce di John in Help! fu talmente perfetta che, a occhi chiusi, sembrava di ascoltare il disco. Alla fine della registrazione, Mal mi sussurrò: «Ora teniamo le dita incrociate per domani sera. Per me è un concerto come gli altri, ma per loro è davvero importante». La sera dopo – quella del 15 agosto 1965 – sarebbe stata un momento epico nella storia dello spettacolo contemporaneo. Più di 55.000 persone si riversarono allo Shea Stadium per il più grande concerto dal vivo mai visto fino ad allora. Brian Epstein aveva tenuto la band lontana dalle grandissime arene per il classico incubo di ogni promoter: il timore di vedere posti vuoti immortalati nelle fotografie. Ma Sid Bernstein, che aveva già portato i Beatles alla Carnegie Hall, convinse Epstein che avrebbero potuto riempire anche lo stadio del baseball. Il manager dei Fab Four era riluttante all'idea, ma si fidò del talento imprenditoriale di Bernstein e acconsentì a programmare il concerto per quella storica domenica sera d'agosto.
Dopo l'esibizione per Ed Sullivan del sabato, i Beatles si ritirarono al Warwick Hotel, dove c'ero io ad aspettarli per un compito speciale. Il rapporto particolare che avevo con loro aveva convinto Epstein e i ragazzi (specialmente John) a premere sulla produzione dell'Ed Sullivan Show perché ingaggiasse me per condurre le audiointerviste incluse nel documentario intitolato The Beatles at Shea Stadium. Effettuammo le registrazioni alla vigilia e dopo il concerto. La prima fu sabato notte, a meno di ventiquattro ore dallo spettacolo. Arrivando nella suite al Warwick, vidi con sorpresa John sprofondato sul divano con la testa tra le mani. Mi guardò con l'espressione feroce che mostrava quando non gradiva di vedere qualcuno. «Che diavolo ci fai qui?» mi domandò. «Devo registrare con voi le interviste per il filmato sul concerto di domani» gli risposi in fretta, per rassicurarlo, come feci sempre in quel tour, che non ero un intruso e non volevo invadere la privacy di nessuno. «Bene, allora siediti e non rompere il cazzo» mi disse. La prima sessione con i ragazzi procedette spedita, con John che dichiarava quanto fosse contento ed eccitato prima di suonare di fronte al pubblico più vasto nella storia dei concerti dal vivo. Ma non appena schiacciai il bottone per spegnere il registratore, lui si chinò su di me e con il suo tipico modo di increspare le labbra mi sussurrò: «La verità, Larry, è che ho paura da morire, sai. Sono spaventato a morte. Secondo te come fa la polizia a controllare tutta quella gente? Te lo dico io cosa siamo: carne da macello. Stacci lontano, Larry. Siamo carne da macello». La paura fa tremare le nostre viscere in tutte le fasi della nostra vita. Per John, lo showman, la paura stessa sembrava giocare un ruolo importante nel suo approccio alle performance. Mi sembrava paradossale. Lo stesso uomo che desiderava ardentemente di potersi mescolare alle gente comune era terrorizzato al pensiero delle grandi folle di ammiratori. Era la stessa persona che avrebbe scelto come casa le strade affollate di New York al pensiero di poter camminare libero tra la gente della classe operaia. Ma i demoni che gli instillavano la paura e il panico vivevano dentro di lui. Timore di non essere altezza? Terrore che qualcuno potesse fargli davvero del male? C'entravano forse le medicine? A rendere il tutto ancora più scioccante erano la forza e l'entusiasmo che sprigionavano le sue esibizioni. Il problema era arrivare fino al concerto. Ma una volta salito sul palcoscenico le sua abilità spettacolari sapevano fargli mollare i freni inibitori e mantenere tutte le promesse. Nessun esempio della presenza potentissima di John Lennon sul palco può superare il primo spettacolo allo Shea Stadium. Il 15 agosto 1965 i Beatles raggiunsero il luogo del concerto in elicottero, atterrando vicino alla sede della Fiera Mondiale. Pochi minuti dopo arrivò un furgone blindato della sicurezza su cui salirono per compiere il resto del tragitto, facendo il loro ingresso allo Shea Stadium dall'entrata che dava verso il centro del campo. Il furgone si fermò vicino alla seconda base, dove era stato sistemato il palco. I Beatles scesero diretti al tunnel dal lato della terza base, dove li aspettavo insieme a Ed Sullivan, a Sid Bernstein e a schiere di poliziotti. Non dimenticherò mai il volto di Bernstein nel momento in cui arrivarono. Il promoter, personaggio tuttora leggendario nella società di Manhattan, ricorda così quella serata: «Avevo già lavorato con Frank Sinatra e tutti i big ma quel momento fu favoloso. Guardare loro quattro dirigersi verso il tunnel e sentire il rumore della folla coprire ogni altro suono, che serata eccezionale». Il tunnel portava a un corridoio e a un gruppo di camerini. In uno di quelli, John, Paul, George e Ringo si travestirono con uniformi militari color kaki su cui appuntarono le stelle a sei punte date loro dagli autisti della Wells Fargo. Solo la camminata dal furgone al tunnel, durata un minuto, e le grida del pubblico che la accompagnarono, bastavano a togliere il fiato. Le urla continuarono mentre i quattro si vestivano. Quando arrivarono agli scalini che conducevano all'uscita, il muro del suono venne infranto. Le grida erano le più forti che avessi mai sentito a un concerto, e dopo due minuti di brusio e una sbrigativa presentazione di Ed Sullivan, il set ebbe inizio con Twist and Shout, l'hit degli Everly Brothers che i Beatles avevano in pratica adottato, in una versione stridente ma di grande forza dinamica. La temperatura in quella notte d'estate era sui 30 gradi. John Lennon non ne poteva più, continuava a slacciarsi i bottoni della giacca mentre si girava e si rigirava agitandosi sul palco. «Shake it up baby now». Eccome se si agitava! Era un John Lennon d'annata. Le sue labbra, come sempre, erano a un palmo dal microfono. Le gambe divaricate, il bacino proteso in avanti. Teneva la chitarra in alto,
l'addome puntava verso la folla, aveva la schiena dritta, e ogni tanto faceva ondeggiare il bacino. Il linguaggio del corpo era tutto suo, puro Lennon, ma c'era anche un altro effetto che sfuggiva ai più. La sua faccia appariva come trasognata, a volte svenevole e angelica, oppure con un'espressione intensa, ma sempre con l'inconfondibile ghigno, anche nella pioggia di spille e caramelle. Semplicemente guardandolo, mi accorsi che la sua «mistica» era plasmata da un'esplosione di pura gioia. Sempre lui, che aveva i sudori freddi per la paura, si trasformava in un fascio di pura estasi e di esilarante energia. In pochi minuti su quello stesso palco avrebbe suonato il piano con i gomiti e mugugnato frasi incomprensibili a migliaia di fan. Sembrava giapponese ma era solo una pronuncia gutturale di parole inventate – un'altra delle sue tipiche gag. Giocava con il pubblico gustandosi ogni secondo di divertimento. In mezzo alla baraonda, Paul ululò contro un poliziotto che stava cacciando via un fan che aveva scavalcato le barriere e si era avvicinato alla terra di mezzo. Lennon lanciò a Paul un'occhiataccia rabbiosa. Più tardi mi confessò che aveva paura che Paul incitasse tutti a fare «boo» in massa. Al là dei differenti stati d'animo, fu un concerto emblematico per John e Paul. Tutti e due interpretarono da brividi le loro canzoni-simbolo, la melodica e suadente Yesterday per Paul e Help! il brano che dava il titolo al film del 1965, per John. Durante Help! vidi la quintessenza del talento concertistico di John: riusciva a cantare la canzone muovendosi incessantemente in ogni direzione. Lennon era un teatro a tutto tondo. Come veterano dei concerti dei Beatles, non ho mai visto nessun'altra esibizione paragonabile allo Shea Stadium, all'insegna dell'emozione pura, sospinta da un entusiasmo e da un impeto senza pari da parte del pubblico, suggellata dallo stupore che si leggeva negli occhi di John mentre buttava occhiate sulle migliaia di fan urlanti che riempivano il semicerchio dello stadio del baseball in quella serata d'estate afosa e battuta dal vento. Ancora una volta, il nervosismo e la vera e propria agonia del pre-concerto si erano trasformati in pochi secondi. Ma non era un caso di personalità dissociata. C'entrava solo l'abilità di John nello stoppare quelle paure, di cui parlava abbastanza spesso. «In camerino sono sempre nervoso, stressato. Fumo, non mi va nemmeno di mettermi i vestiti di scena. Ogni tanto mi sento così spossato… ma una volta vestito, lo stomaco smette di agitarsi, e inizio a essere pronto». Ma niente può preparare uno showman a un blackout tecnico, esattamente quello che capitò durante il concerto. Il vento alzava la terra del campo. Tra le urla, il rumore di fondo e il boato della folla, mi resi conto che i ragazzi non si sentivano tra loro. Vince Calandra, che il giorno prima era allo Studio 50, coordinava il lavoro dell'unico operatore che filmava il concerto per lo speciale in cui mi occupavo delle interviste. Guardò dal tunnel verso il palco e rimase stupito: «Non riuscivano a sentirsi, andò tutto perso nel frastuono generale. Ma Lennon era incredibile. Anche se non riusciva a sentire gli altri, continuò a dare spettacolo. Non dimenticherò mai come suonò contemporaneamente la chitarra, l'armonica e il piano usando i gomiti. Era così calmo nei camerini, ma sul palco tirava fuori un magnetismo animale. Anche quando biascicava nel microfono parole incomprensibili, la folla impazziva». I miei appunti di quella sera raccontavano la stessa storia: «Non riescono a sentirsi tra loro. Ringo sembra perplesso. John ha la giacca aperta. È straordinario. Suona contemporaneamente la chitarra, l'armonica e il pianoforte usando i gomiti. Il vento solleva la terra del campo. Lui non fa una piega. Ragazzi, se è un esaltato. Persino a McCartney viene da ridere. Che spettacolo! A guardarli mettono i brividi. È possibile fare meglio?» Insieme alle Exciters, anche Del Shannon e le Supremes brindarono con i Beatles nell'aftershow al termine di una serata indimenticabile. Nelle interviste che realizzai subito dopo, John sfiorava la presunzione ed era con il morale a mille, convinto come gli altri che i Beatles avessero infranto una barriera. Dopo i concerti John era sempre di buon umore. Le paure che lo perseguitavano sparivano nell'ebbrezza del trionfo. Nessun altro concerto dei Beatles mostrò il talento di John come il più controverso di tutti. Al Public Auditorium di Cleveland il 15 settembre 1964, il pubblico, oltre a scatenarsi, creò anche disordini. Fu una data storica – anche se qualcuno la definirebbe «isterica» e non tanto in maniera ironica.
Lennon e la sua banda erano al massimo della forma. Come accadeva di solito, un gruppo di persone diede l'assalto al palco. All'improvviso vidi un uomo entrare sul palcoscenico dal lato sinistro, dondolando la testa su e giù. L'intruso, si scoprì poi, era un pappone. I solerti poliziotti in un batter d'occhio spinsero fisicamente i Beatles giù dal palco, senza nessuna spiegazione, e approfittarono di uno dei microfoni per annunciare che il concerto era interrotto. I ragazzi del gruppo, furibondi, si ritirarono nei camerini. Fu il primo concerto sospeso nella carriera dei Beatles. Ma nessuno era più furente di John. Urlò e imprecò per tutto il tragitto verso i camerini e lì continuò. Più tardi mi disse: «Avrei preso quei poliziotti a calci in culo; sono saliti e hanno buttato giù dal palco me e George senza dare una spiegazione. Qualcuno poteva farsi male, ma non stava succedendo niente di pericoloso. Invece quelli ci hanno cacciati dal palcoscenico. Li avrei presi a pedate». Era l'ennesima sfida di John alle autorità, ma quella volta manifestò la sua rabbia in una battaglia mai vista. Dopo aver minacciato che non sarebbero tornati a suonare, Lennon guidò i ragazzi fuori dai camerini e regalò in tutta risposta ai fan di Cleveland il più animato concerto (o mezzo concerto) che abbia mai visto. Conservo il ricordo ancora vivido di John che inalava aria dalle narici e lanciava sguardi di fuoco ai poliziotti che circondavano il palcoscenico. Fu più di un concerto. Lo spazio di appena quattro canzoni fu un'esplosione del più smagliante rock&roll e di totale energia sessuale, che insieme allo sguardo di sfida ai poliziotti decretarono che quella sera l'ultima parola era dei Beatles. Nonostante il caos che lo circondava e le pressioni emotive delle esibizioni, John Lennon era al settimo cielo per quel tour del 1964. L'ultima sera, in una stanza dell'hotel Riviera appena fuori New York, ne parlai con lui. KANE: Hai un ricordo particolarmente caro di questa tournée? LENNON: Be', è stato tutto fantastico. Non ci sarà mai un altro tour come questo. Nessun altro potrà eguagliarlo, ed è una cosa che ci ricorderemo per il resto dei nostri giorni. È stato semplicemente meraviglioso. Aveva ragione. Nulla fu più come nel 1964. Quel tour fu una combinazione di drammi, grande musica e avvenimenti dietro le quinte sconsigliabili ai deboli di cuore. La maggior parte delle persone associa l'idea di girare con un gruppo rock alle abbuffate notturne di sesso e droga. Non sono certo lontani dalla verità, ma i Beatles, per via dell'immagine pulita, non avevano tutta questa facilità a trovare partner temporanee. Benché sposato, John non si tirava indietro. Ma nonostante l'appetito sessuale, Lennon, come è testimoniato anche nei diversi libri sulla sua vita, non si abbandonava a comportamenti sfrenati né partecipava a orge inenarrabili per il solo gusto di raccontarlo il giorno dopo. Era anzi discreto, e usava molta attenzione nello scegliere le sue occasionali amanti, ma soprattutto rispettava tutte le persone con cui si incontrava. La maggior parte delle donne veniva selezionata da Malcolm Evans e Neil Aspinall, e il loro «talent scouting» non era esattamente una garanzia di successo. A Minneapolis e Portland nel 1965, John si lamentò con me che le donne che aveva incontrato «non c'erano state». Anche le superstar a volte vanno in bianco, e Lennon, saggio com'era, se n'era fatto una ragione e la prendeva con filosofia. Durante la nostra prima visita a Hollywood nel 1964, alle feste e al celebre Whiskey A Go Go sul Sunset Strip, John visse una memorabile avventura con Jayne Mansfield che non fu molto reclamizzata dai giornali del tempo. Nonostante sembrassero molto presi l'uno dall'altra, non furono scattate molto foto, la stampa non si interessò più di tanto e nessuno sa veramente cosa sia accaduto tra loro. Dopo il viaggio a Los Angeles, dissi per scherzo a John: «Deve essere incredibile avere tutte quelle donne che ti desiderano». Lui rispose con una battuta memorabile: «Il sesso è sopravvalutato se non lo fai». Le tensione sessuale era tutta un'altra cosa. A colpirmi durante i tour fu l'incredibile energia erotica che sapeva sprigionare sul palco. Non flirtava con gli occhi come faceva Paul McCartney. Ma non c'è dubbio che il linguaggio del suo corpo e la sicurezza che ostentava eccitarono molte ragazze del
pubblico. Mi sembra abbastanza ironico che la maggior parte degli incontri tra John e le sue fan non abbiano mai superato la tensione sessuale insoddisfatta che si instaura tra un musicista che si esibisce su un palcoscenico e le ammiratrici tra il pubblico. Non era parte di quella stessa attrattiva il fatto che un uomo in apparenza così sicuro di sé fosse, visto da vicino, così vulnerabile e bisognoso? Al di là delle diramazioni fisiche e sessuali implicate dal fatto di suonare su un palcoscenico davanti a delle ammiratrici, una cosa era certa. L'anima gentile dalla coscienza sporca aveva una pericolosissima capacità: con la sola presenza, mostrandosi e dando sfogo alla propria passione sul palco, volente o nolente poteva scatenare all'istante un tumulto, tra la folla di una sala da concerto e nel corpo di una giovane fan.
7. JOHN E «I RAGAZZI» «Ero io il leader fino ad allora. Pensavo "cosa succederà se lui entra nella band"? Ma era davvero bravo. E poi assomigliava a Elvis» JOHN LENNON SULLA DECISIONE DI FAR ENTRARE PAUL McCARTNEY NEL SUO GRUPPO «John ha sempre sentito Paul come un suo pari, di non doversi mai preoccupare per lui. "Non mi preoccupo per Paul, sa cavarsela da solo. Mi preoccupo per gli altri due"» MAY PANG RACCONTA COME JOHN VEDEVA GLI ALTRI BEATLES Non abbiate dubbi. Alle origini, i Quarrymen, Johnny and the Moondogs, i Beatals, i Silver Beatles, e quindi i Beatles – qualsiasi fosse il nome del gruppo – erano la band di John Lennon. All'inizio fu così. Ma con l'ingresso di Paul McCartney i Beatles diventarono la confluenza di due talenti naturali. Il trio formato da John, Paul e George Harrison – il nucleo originale Beatles – era una banda di sognatori come tutti i giovani gruppi dell'epoca. Nei tardi anni Cinquanta, i complessi di amici rimanevano in vita facendo quello che fa la maggior parte degli aspiranti musicisti, ovvero suonare per se stessi. John, ricordando i primissimi tempi, disse una volta: «Non aveva senso fare prove per concerti che non avremmo mai fatto. Andavamo avanti a suonare perché ci dava uno stimolo. Di solito ci trovavamo a casa di qualcuno, suonavamo sul giradischi gli ultimi successi americani e cercavamo di riprodurre gli stessi effetti». A proposito rapporto tra John Lennon e Paul McCartney, divenuto ormai leggenda, non sono pochi gli equivoci e i fraintendimenti. Nonostante le frizioni tra i due, la loro partnership musicale fu siglata molto presto e l'eredità del loro sodalizio fu per larga parte positiva fino alla morte di John Lennon. Ricordate che quando John invitò Paul a unirsi ai Quarrymen era più vecchio di lui di diciannove mesi. Per gli adolescenti, nella violenta fase di transizione dovuta alla crescita, una differenza d'età di più di un anno e mezzo è piuttosto significativa. Fa abbastanza impressione pensare a come John Lennon abbia scelto un ragazzo più giovane di eccezionale talento per la sua band. Martin Lewis, che ha lavorato a progetti sui Beatles dal 1967 ed è considerato uno dei maggiori esperti mondiali dei Fab Four, sottolinea come la scelta dimostrava una maturità incredibile per un ragazzo di soli diciassette anni: «Prima di tutto, Paul era più attraente di lui, e suonava meglio la chitarra. Fin dall'inizio John lo trattò da pari. Gli esperti e i saggi sottolineano sempre le frizioni tra loro due, ma dimenticano la genialità di quella decisione. Da subito John dimostrò rispetto per Paul e il suo talento, privilegiando la propria passione per la musica rispetto al desiderio naturale che aveva di essere un leader. Le scelte di questo tipo danno la vera misura del carattere di un uomo.
Lennon merita un credito enorme per aver deciso d'istinto che era la cosa giusta per migliorare il gruppo. Da lì sarebbe nata una rivalità tra fratelli incredibilmente sana e fruttuosa dal punto di vista artistico». Durante il periodo di riflessione alla fine degli anni Settanta, John ricordava così quella decisione cruciale: «Un amico di nome Ivan che viveva dietro casa mia era compagno di scuola di Paul McCartney, alla Liverpool Institute High School. Fu dunque merito suo se conobbi Paul. Pensava fosse il tipo adatto per il gruppo, dato che stava sempre a discutere di musica. Così lo portò un giorno a Woolton a vederci suonare. Lo ricordiamo bene entrambi. Sappiamo anche a memoria la data. Era il 15 giugno 1955». John sbagliava spesso le date: in realtà fu il 6 luglio 1957. «I Quarrymen suonavano sopra una piattaforma rialzata e c'era abbastanza gente perché era una bella giornata di sole. Ero io il leader fino ad allora. Pensavo "cosa succederà se lui entra nella band"? Ma era davvero bravo. E poi assomigliava a Elvis. Avevo la mia band. Poi ho incontrato Paul e ho deciso di farlo entrare, come poi lui ha fatto. Avere uno come lui era un'ottima cosa. Oltre a migliorare il gruppo, mi rendeva più forte. La decisione è stata mia e mia soltanto». Avere il senno di poi è facilissimo; ti regala l'abilità di giudicare il passato e di mettere meglio a fuoco l'immagine che avevi sul momento. Il gruppo migliorò grazie a Paul, e la collaborazione tra lui e John avrebbe fatto epoca. Nei primi anni di carriera dei Beatles e nel periodo dei loro primi successi, non c'erano dubbi che John, per quantità e qualità, fosse il numero uno. Walter J. Podrazik, opinionista di NPR (National Public Radio) e storico della prima era beatlesiana, sostiene che «con il tempo la leadership divenne doppia, ma all'inizio era del solo Lennon. Basta ascoltare la nuova versione di Beatles '65 per rendersene conto. La voce principale e il ruolo dominante sono suoi. Sono i pezzi in cui è voce solista come Twist and Shout quelli davvero memorabili». Inizialmente, Paul accettò senza problemi il ruolo secondario, forse solo perché era l'ultimo arrivato ed era John che aveva in mano le redini del gruppo e ne era il motore. Ma il suo momento sarebbe arrivato, né John avrebbe fatto alcunché per impedirne la crescita. Per Martin Lewis, i primissimi tempi e la successiva ascesa crearono un legame tra i due, un sigillo fatto di confidenza e di rispetto reciproco, che niente avrebbe potuto rompere, qualsiasi cosa fosse successa dopo: «John considerava Paul come un fratello… lo scrivere canzoni insieme fu la testimonianza di quel legame. Da allora entrarono sempre più in confidenza… La loro scrittura era il vero cuore dei Beatles. Senza, sarebbero stati solo una magnifica cover band». Il contributo di John non si limitò allo splendido tandem compositivo formato insieme a Paul McCartney. Negli storici tour del 1964 e del 1965, Lennon era considerato il leader perché più anziano ma non solo. Nelle conferenze stampa di routine che accompagnavano i concerti in ogni città, prendeva sempre la parola mostrando ogni volta la sua idiosincrasia e imprevedibilità, insieme all'umorismo tagliente, ma da autentico leader si assicurava che avessero il giusto spazio anche Paul, George e Ringo. Soddisfatto delle interviste private giornaliere che registravo per il network nazionale, potevo sedermi tranquillamente nelle ultime file dietro al gruppo dei reporter delle news e sentire i loro scioglilingua ma soprattutto gustarmi stupito l'inesauribile sense of humour di John. Una delle sue più grandi doti, cui non facevo caso durante il cerimoniale quotidiano delle conferenze, era il modo in cui coinvolgeva i compagni. Faceva i suoi rilievi salaci ai giornalisti, soprattutto a gesti, e subito si girava a destra o a sinistra facendo così segno a Paul, Ringo o George di continuare o di rispondere alla domanda successiva. Durante quelle cruciali tournée John guidava la band, soprattutto in tutti gli eventi, i raduni e le apparizioni pubbliche. La sua leadership era brillante, il perfetto trampolino per le sue uscite imprevedibili, e nonostante avvertisse fortemente la propria insicurezza, aveva una presenza autorevole quando il gruppo era al completo. Ne fosse o meno consapevole, John si comportava da perfetto leader. Lo era, e sarebbe stato considerato tale anche dopo lo scioglimento dei Beatles.
Il più grande conoscitore di segreti beatlesiani, Mark Lewisohn, ha un'idea chiara a proposito. «Da ragazzo il mio preferito era Paul. Poi ho avuto una fascinazione per George negli anni Settanta, ma più studio e più parlo con le persone che li conoscevano, e più mi rendo conto che John era la vera anima dei Beatles. Lo dico nel massimo rispetto di Paul McCartney, il cui talento straordinario ha spinto il gruppo verso il successo, ma in realtà i Beatles erano il gruppo di John. I due ripetevano sempre di essere alla pari. Ma anche quando smisero di sostenerlo, fu sempre chiaro a chi apparteneva veramente la band». Anche alla luce di questa acuta osservazione, la cosa più stimolante per me fu osservare da vicino l'interazione tra i quattro. Era qualcosa di davvero affascinante. Con tutte le pressioni del tour, e la vita dentro un bozzolo controllato rigidamente dall'esterno, il penetrante senso dell'umorismo e della performance fu qualcosa di più che ammirevole. L'intuito che John dimostrava verso i suoi compagni aveva qualcosa di soprannaturale. Provava quasi un istinto paterno verso Ringo, che lo ricambiava con un affetto genuino e un rispetto profondo, nonostante da leader del gruppo fosse a volte strampalato e imprevedibile. A differenza degli altri, Ringo si tenne alla larga dal manifestare alcun dissenso riguardo alla relazione tra John e Yoko Ono, che fu causa del progressivo allontanamento fra i Beatles sfociato nella separazione. Al contrario, fu sempre contento e grato a John per averlo accolto nel suo gruppo, orgoglioso di averne fatto parte. Ringo era una persona alla mano, cordiale, molto positiva, come talvolta il suo sguardo indolente non lasciava presagire. Nel 1965 gli chiesi se non si sentiva un po' «dietro le quinte», messo in ombra dalla personalità degli altri: KANE: Non ti secca che John e Paul siano sempre sotto i riflettori? STARR: Loro sono dei leader, ma quando viaggiamo e lavoriamo insieme io mi sento uno di loro. Mi trattano sempre con grande rispetto. Quando non siamo insieme mi mancano. Quando mi sono tolto le tonsille e hanno viaggiato per un po' senza di me, mi mancavano davvero. La sollecitudine di John verso Ringo continuò per tutti gli anni Settanta. Il batterista era considerato il più buffo e quasi la mascotte dei Beatles, ma possedeva un lato umano che pochi conoscevano. La sua visione del mondo era spesso oscurata dal suo posto nell'immaginario pubblico, nel ruolo defilato di batterista che ciondola la testa e mulina le braccia al riparo dei tamburi. La sua opinione sulla guerra in Vietnam o il razzismo in America era sulla stessa linea di quelle di John. Come sapeva bene Lennon, Ringo era il più sensibile dei quattro. Era l'ultimo arrivato e non potendo condividere gli inizi leggendari di John, Paul e George aveva accettato di buon grado un ruolo di secondo piano. Nei momenti sociali – sull'aereo, nelle conferenze e alle feste – John chiacchierava per la maggior parte del tempo con Ringo. Non mi sorprese il fatto che, dopo la fine dell'avventura dei Beatles, fra tutti i vecchi compagni fu John il più preoccupato dell'esistenza solitaria di Ringo a Los Angeles. Il batterista per un periodo visse addirittura come ospite di Lennon e May Pang nella loro casa in California. John si comportò da amico con Ringo anche per vie professionali. Molti suoi biografi dimenticano di sottolineare un aspetto, di cui l'aiuto dato a Ringo è la più esemplare dimostrazione: la generosità, l'altruismo creativo di John rimangono qualcosa di raro nel mondo della musica, se non dell'arte tutta. Oltre a comporre musica per il suo primo disco, spalleggiò generosamente l'amico batterista nella sua scalata al successo. Bruce Spizer, autore di The Beatles on Apple Records e The Beatles Solo on Apple Records, ricorda di essere rimasto sbalordito dalla sua generosità: «John riarrangiò il classico dei Platters Only You. Fece uno splendido lavoro che avrebbe potuto tenere per sé. Doveva essere la canzone guida per un suo disco. Ma la regalò a Ringo per il suo Good Night Vienna. La canzone uscì come singolo, raggiungendo il numero sei delle classifiche. Fu un regalo speciale che aiutò tantissimo la carriera solista di Starr». Il motivo per cui John era tanto affezionato a Ringo era la singolare accoglienza nei confronti del connubio tra lui e Yoko Ono. A differenza di George Harrison, di Paul McCartney, della cerchia dei Beatles e della maggior parte del pubblico, Ringo non disse in nessun modo la sua; semplicemente accettò la scelta privata di John. Di fatto non si oppose alla presenza di Yoko. John capì e gliene fu
grato. Guardando con il senno di poi a quella situazione appare chiaro che la frattura fra la coppia e il resto del mondo fu istigata dal comportamento di Paul e George, almeno per quanto riguarda l'ostracismo da parte di tutta la «famiglia» dei Beatles. McCartney fu restio a manifestare i suoi sentimenti, sfuggendo come sua abitudine il confronto diretto, ma non fu lo stesso per Harrison, che non esitava a esternare senza mezzi termini ciò che pensava, a parole o con chiare espressioni dal viso. John che fu il mentore di George negli anni dopo i Beatles, soffriva molto le sue continue irriverenze nei confronti di Yoko e le parole dettele in faccia a muso duro. Ricordava quegli episodi con rabbia e disappunto: «È terribile quando si permettono di insultarti perché ami qualcuno. George le si rivolgeva spesso in modo offensivo, davanti a tutti negli studi della Apple. Era il suo modo di "essere franco". "Bene, in tutta franchezza, ti dico che ho saputo da Bob Dylan e da altre persone che lei ha una pessima reputazione a New York. Mentre tu sei diventato sgradevole come non mai". Non so come ho fatto a non colpirlo, non so come; lasciammo perdere ma speravo di ritornare sulla cosa, prima o poi. Non potevo crederci. Stavano tutti lì seduti con le loro mogli come una giuria, come se fossimo gli imputati. Ce l'avevano tutti con noi; gli unici a non comportarsi così erano Ringo e sua moglie Maureen. Gli altri non li perdonerò mai, anche se non smetterò di voler loro del bene». Era tipico di John terminare qualunque discussione riguardo ai Beatles con un'attestazione di affetto, anche quando raccontava di essere stato disgustato dal loro comportamento. Questo continuo ribadire che li amava era il riflesso di un legame silenzioso ma indissolubile consolidatosi negli anni e che non sarebbe mai stato spezzato. Il modo in cui mise in mezzo Yoko fu parte di quel cambiamento che colse George Harrison alla fine degli anni Sessanta. Prima ossequioso verso John e Paul, da allora era divenuto più intraprendente. Pian piano stava spezzando i lacci che lo tenevano legato alla leadership di John. Il motivo era chiaro: stava maturando. Il viaggio in India e il riconoscimento delle sue doti compositive lo ispirarono nella ricerca di maggiore indipendenza. Il suo rapporto con John era complesso. John lo amava ma fu spiazzato quando Harrison cominciò a mostrare la sua stessa sicurezza, soprattutto nelle interviste. Nonostante i loro scontri riguardo a Yoko, la loro amicizia rimase allacciata al loro comune interessa per la musica, decisamente più eclettico rispetto a quello, più convenzionale, degli altri due Beatles. Fu il motivo per cui George non esitò mai a rispondere alla chiamata di John e suonare la sua magica chitarra su molti dei dischi solisti dell'amico. L'amicizia tra John e Paul mi apparve sempre sincera e calorosa quando ebbi l'occasione di seguirli in tournée. Se mai avessero avuto qualche risentimento reciproco durante i migliori anni dei Beatles, di certo sapevano bene come mascherarlo. In tutto il tempo trascorso con i ragazzi in America non ho mai visto nulla tra loro due che potesse anche solo sfiorare dissenso, sfiducia, ripicca o malevolenza. Durante l'ultima intervista filmata realizzata da loro due insieme, che ebbi l'occasione di condurre nel 1968, nonostante le voci di attriti che già li circondavano, sembravano fortemente legati e votati alla stessa causa come uomini e come musicisti. Le successive controversie – senza dubbio reali – mi sorpresero, soprattutto per il ricordo che avevo del loro mutuo supporto e delle attestazione di stima che avevano espresso reciprocamente tanto in privato quanto in pubblico. Ho ancora impressa nella memoria la visita all'ufficio londinese dei Beatles nel West End, nel 1968, quando Paul mi presentò una delle prime artiste della Apple, Mary Hopkin. Si comportava come un maestro orgoglioso in presenza della sua allieva prediletta. Era così convinto del potenziale di Mary che mi fece ascoltare un nastro con le sua canzone Those Were The Days, destinata a vendere milioni di copie. Mi ricordo bene quando disse subito «Larry, Mary diventerà grande. L'abbiamo scoperta io e John. Lui è rimasto impressionato come me. Ha un'abilità naturale nel riconoscere i talenti». In aggiunta al rispetto reciproco, c'è un altro aspetto da sottolineare, come spiega Bruce Spizer: «John ha dimostrato un rispetto e una generosità incredibile nei confronti di Paul quando si trattava di dividere i diritti d'autore. La registrazione di Give Peace a Chance fu un esempio lampante. Paul non diede alcun contributo creativo alla canzone, ma John gli accordò ugualmente il 50%. Da parte sua McCartney fece lo stesso in altri casi, ma Give Peace a Chance era una creazione del solo John». Rispetto reciproco e generosità tali da stupire chiunque creda che Paul e John fossero rivali sin
dall'inizio. Una vera e aspra rivalità si verificò raramente e in episodi circoscritti, ma soprattutto dopo lo scioglimento dei Beatles, motivata da rancori dovuti alla separazione, dalla gelosia, da una coppia di mogli protettive e dalla partnership artistica di John con George e Ringo che tendeva invece a escludere Paul. Martin Lewis, storico dei Beatles, considera il disamore tra John e Paul come il risultato del vuoto creato dallo scioglimento dei Fab Four: «Nei Beatles cercavano sempre di dimostrarsi a vicenda di poter fare meglio. Scrivevano con la stessa frequenza con cui la gente normale parlava, e sapevano di possedere quella magia… E anche verso il 1970 il fluido creativo c'era ancora, nonostante tutti i rancori. La rabbia che uscì allo scoperto negli anni Settanta nacque dalle divergenze personali… Litigavano come le coppie divorziate. Avevano avuto una storia d'amore artistica che era finita e allora affrontavano in pubblico il divorzio». Un veterano del mondo mediatico come il conduttore Scott Regan sostiene che è facile dimenticarsi per quanto tempo sono stati insieme. «John disse una volta "Se dici John, Paul, George e Ringo nomini una parte di me". Era consapevole del fatto che fossero stati un tutt'uno. Hanno suonato e cantato insieme dal 1956 al 1970. John e Paul erano stati insieme per quattordici anni, metà delle loro vite, quasi più di quanti ne avevano quando si sono conosciuti». La separazione – e la rivalità che aveva stimolato – sfociò in una guerra di versi e immagini cominciata nel maggio del 1971, che finì, come doveva, dopo la morte di John, con una canzone toccante scritta per lui da Paul. Chris Carter, conduttore del programma Breakfast with the Beatles in Los Angeles – e considerato tra i più fini intenditori della musica di Lennon e McCartney – ricorda l'inizio del battibecco: «L'artwork di Ram, il disco solista di Paul datato 1971, era accreditato a lui e alla moglie Linda. Nella foto della copertina McCartney teneva una pecora per le orecchie, mentre il retro mostrava l'accoppiamento di due scarafaggi. Mandato su tutte le furie dalle immagini e da un testo, John inserì all'interno del suo secondo Lp, Imagine, una propria foto in cui afferrava un maiale nello stesso modo in cui Paul teneva la sua pecora». Ma il botta e risposta tra illustrazioni fu nulla rispetto allo scambio di liriche al vetriolo che cominciò con Too Many People, un brano di Ram: Era chiaro il colpo basso, nella canzone ci sono riferimenti allo stile di vita, più eclettico, di John e alla sua nuova esistenza. TOO MANY PEOPLE GOING UNDERGROUND TOO MANY REACHING FOR A PIECE OF CAKE TOO MANY PEOPLE PULLED AND PUSHED AROUND TOO MANY WAITING FOR THAT LUCKY BREAK THAT WAS YOUR FIRST MISTAKE YOU TOOK YOUR LUCKY BREAK AND BROKE IT IN TWO NOW WHAT CAN BE DONE FOR YOU? YOU BROKE IT IN TWO TOO MANY PEOPLE SHARING PARTY LINES TOO MANY PEOPLE EVER SLEEPING LATE TOO MANY PEOPLE PAYING PARKING FINES TOO MANY HUNDRED PEOPLE LOSING WEIGHT THAT WAS YOUR FIRST MISTAKE YOU TOOK YOUR LUCKY BREAK AND BROKE IT IN TWO NOW WHAT CAN BE DONE FOR YOU? YOU BROKE IT IN TWO1 1 Troppe persone che si rifugiano sottoterra/ Troppe persone che si arrabattano per una fetta della torta/ Troppe persone sbattute di qua e di là/ Troppe persone che aspettano un colpo di fortuna/ Quello è stato il tuo primo errore/ Hai avuto il tuo colpo di fortuna e l'hai buttato via/ Cosa si può fare per te?/ Hai buttato via tutto Troppa gente che condivide programmi di partito/ Troppa gente che dorme fino a tardi/ Troppa gente che paga multe per i parcheggi/ Troppa gente oltre i cento chili che perde peso/ Quello è stato il tuo primo errore/ Hai avuto il tuo colpo di fortuna e l'hai buttato via/ Cosa si può fare per te?/ Hai buttato via tutto
La risposta di John arrivò cinque mesi dopo sull'album Imagine, e fu un attacco mirato. Secondo Carter: «Nella canzone How Do You Sleep? John colpì il punto sul quale Paul McCartney era più suscettibile – il proprio talento e la propria creatività. I versi sono estremamente puntuali… soprattutto nel riferimento alla canzone immortale di Paul, Yesterday. SO SGT. PEPPER TOOK YOU BY SURPRISE YOU BETTER SEE RIGHT THROUGH THAT MOTHER'S EYES THOSE FREAKS WAS RIGHT WHEN THEY SAID YOU WAS DEAD THE ONE MISTAKE YOU MADE WAS IN YOUR HEAD AH, HOW DO YOU SLEEP? AH, HOW DO YOU SLEEP AT NIGHT? YOU LIVE WITH STRAIGHTS WHO TELL YOU YOU WAS KING JUMP WHEN YOUR MOMMA TELL YOU ANYTHING THE ONLY THING YOU DONE WAS YESTERDAY AND SINCE YOU'RE GONE YOU'RE JUST ANOTHER DAY AH, HOW DO YOU SLEEP? AH, HOW DO YOU SLEEP AT NIGHT?2
Non finì. Sullo stesso Imagine, John portò la sfida a un livello più profondo in Crippled Inside, attaccando il senso di prigionia di McCartney. Il testo è quanto di più velenoso: YOU CAN SHINE YOUR SHOES AND WEAR A SUIT YOU CAN COMB YOUR HAIR AND LOOK QUITE CUTE YOU CAN HIDE YOUR FACE BEHIND A SMILE ONE THING YOU CAN'T HIDE IS WHEN YOU'RE CRIPPLED INSIDE YOU CAN WEAR A MASK AND PAINT YOUR FACE YOU CAN CALL YOURSELF THE HUMAN RACE YOU CAN WEAR A COLLAR AND A TIE ONE THING YOU CAN'T HIDE IS WHEN YOU'RE CRIPPLED INSIDE3
La guerra di parole del dopo Beatles oggi sembrerebbe pretestuosa, ma i due iniziarono a beccarsi solo a metà degli anni Settanta. E come sottolinea anche Chris Carter, la controversia ebbe un finale commovente: «Paul fu profondamente addolorato dalla morte di John. Lo disse molte volte, ma lo fece capire nel modo più speciale in una canzone che scrisse per lui. Here Today si trova sull'album del 1982 Tug of War. AND IF I SAY I REALLY KNEW YOU WELL WHAT WOULD YOUR ANSWER BE IF YOU WERE HERE TODAY OOH- OOH- OOH- HERE TO-DAY
2 Così Sgt. Pepper ti ha colto di sorpresa/ Avresti fatto meglio a chiedere consiglio a tua madre/ Quei pazzi avevano ragione a dire che eri morto/ L'errore è stato quello nella tua testa/ Ah, come dormi?/ Come dormi la notte? Vivi con dei tirapiedi che ti dicono che tu sei il re/ Ma corri non appena mamma ti comanda qualcosa/ L'unica cosa che hai fatto è stata Yesterday/ E da allora c'è stato solo Another Day/ Ah, come dormi?/ Come dormi la notte? 3 Puoi lucidarti le scarpe e indossare un vestito/ Pettinarti i capelli e sembrare carino/ Nascondere la tua vera faccia dietro un sorriso/ La cosa che non puoi nascondere/ È quando sei storto dentro Puoi metterti una maschera e dipingerti la faccia/ Chiamarti il genere umano/ Puoi metterti il colletto e una cravatta/ Una cosa non puoi nascondere/ Quando sei storto dentro
WELL KNOWING, YOU YOU'D PROBABLY LAUGH AND SAY THAT WE WERE WORLDS APART IF YOU WERE HERE TODAY OOH- OOH- OOH- HERE TO-DAY BUT AS FOR ME, I STILL REMEMBER HOW IT WAS BEFORE AND I AM HOLDING BACK THE TEARS NO MORE OOH- OOH- OOH- I LOVE YOU, OOH. WHAT ABOUT THE TIME WE MET WELL I SUPPOSE THAT YOU COULD SAY THAT WE WERE PLAYING HARD TO GET DIDN'T UNDERSTAND A THING BUT WE COULD ALWAYS SING WHAT ABOUT THE NIGHT WE CRIED BECAUSE THERE WASN'T ANY REASON LEFT TO KEEP IT ALL INSIDE NEVER UNDERSTOOD A WORD BUT YOU WERE ALWAYS THERE WITH A SMILE AND IF I SAY I REALLY LOVED YOU AND WAS GLAD YOU CAME ALONG IF YOU WERE HERE TODAY OOH- OOH- OOH- FOR YOU WERE IN MY SONG OOH- OOH- OOH- HERE TODAY4
Gran parte delle ragioni di quel malanimo derivano da scelte di affari, ma nel 1974 cominciò il disgelo. Andre Gardner, che lavorava in radio a New York e Philadelphia, seguiva Lennon e ricorda il cambio d'umore: «Negli anni Settanta, intervenne il disamore reciproco ma durante la separazione da Yoko, e anche in seguito, John e Paul iniziarono a sentirsi piuttosto spesso per telefono. John si addolcì molto verso la fine del decennio. Le rispettive mogli non si sopportavano, ma il legame autentico e la storia che avevano fatto insieme fin dai primi successi li portò a manifestarsi di nuovo affetto e una sorprendente amicizia». Le espressioni di quell'amicizia rinata furono sorprendenti. Bob Gruen ricorda un episodio al Dakota avvenuto nel dicembre del 1978: «Un paio di settimane prima di Natale, ero al Dakota. Non c'erano domestici. Solo John, Yoko e Sean che dormiva in un'altra stanza. Non stavamo facendo niente di particolare, guardavamo la televisione bevendo tè e rilassandoci. All'improvviso sentimmo bussare alla porta dell'appartamento. Una cosa del tutto inusuale perché il Dakota ha sistemi di massima sicurezza. A John e Yoko era successa due volte una cosa del genere: a Londra quando erano stati arrestati per possesso di marijuana, in Bank Street quando la polizia aveva tentato di entrare per arrestarli. Quindi se sentivano soltanto suonare il campanello diventavano nervosi. C'ero solo io con loro e John mi chiese di vedere chi era. Aprii la porta interna e sentii dei canti di Natale arrivare da fuori. Urlai a John e Yoko in camera da letto. "State tranquilli, sono solo ragazzini che cantano canzoni natalizie". Aprii la porta esterna e non erano bambini, ma Paul e Linda: "Buon Natale". Mi sentii in imbarazzo. "Ah, ma non state cantando a me, volete i due signori che stanno in camera da letto. Entrate". Li feci entrare e cantarono fino in camera da letto. John e Yoko furono estasiati nel vederli. Si abbracciarono come fanno i vecchi amici. 4 E se dicessi che ti conoscevo bene/ Cosa avresti risposto/ Se fossi qui oggi/ So bene che avresti probabilmente riso e detto che eravamo lontani anni luce/ Ma se solo fossi qui oggi Ma per quanto mi riguarda/ Ricordo ancora com'eravamo/ E non trattengo più le lacrime/ Ti amo E cosa dici di quando ci incontrammo/ Penso che dirai che ce la mettevamo tutta/ Non capivamo nulla/ Ma potevamo sempre cantare E della notte in cui abbiamo pianto/ Perché non c'era più ragione di tenerci tutto dentro/ Non ho capito una parola/ Ma tu eri sempre lì con un sorriso E se dicessi che ti amavo tanto/ E sono felice di averti avuto con me/ Se solo tu fossi qui oggi/ Perché nella mia canzone c'eri tu
Non vidi il famoso astio tra Linda e Yoko. Si scambiarono normalissimi convenevoli: "Come stai? Tutto bene? Ti va un po' di tè?"» May Pang crede che in pochi capissero la complessità dei sentimenti di John verso gli altri Beatles, soprattutto nei confronti di Paul, e al contrario di quanto sostenevano i pettegolezzi e le speculazioni sul loro rapporto, rispettava sua moglie Linda e nutriva un amore fraterno verso di lui. «Credo non pensasse che Paul avrebbe sposato Linda. Pensava a qualcuno di più fascinoso. Questo non significa affatto che non la apprezzasse. Non importa che cosa pensano gli altri… amava tutti i ragazzi dei Beatles e aveva cura di loro. Anche se aveva avuto quello screzio con Paul, qualsiasi cosa dicesse la stampa, se gli fosse successo qualcosa, lui gli sarebbe stato accanto. Dal punto di vista professionale ebbero delle divergenze. Ma non parlavano di affari quando erano insieme. Parlavano degli ultimi avvenimenti, della musica che stavano ascoltando, di cosa stava succedendo, dei loro progetti… più come due fratelli, lasciando il business fuori dal loro rapporto». C'è una sorta di schema nel comportamento di Paul McCartney e nella reazione di John Lennon. In molti casi fu Paul a cercarlo e John a negarsi. L'esempio perfetto di questo gioco tra gatto e topo è la jam session «segreta» agli studi Burbank, quando John era impegnato a produrre il disco di Harry Nilsson Pussycats. Fu uno dei casi nei quali Paul offrì il suo ramoscello d'ulivo con una visita a sorpresa. Chris Carter ricorda: «Fu un evento straordinario. In studio c'era Jesse Ed Davis alla chitarra insieme a Stevie Wonder. Paul faceva spesso visita. In quel periodo era nella sua casa in California e passava spesso allo studio. Quel giorno venne con Linda per fare una jam. Il gruppo era formato da John alla chitarra, Paul alla batteria, Stevie Wonder alle tastiere e Jesse alla chitarra. Suonarono Lucille, Stand By Me e altre canzoni. Paul e John si incontrarono altre volte ma quella session fu storica. Paul sembrava molto a suo agio in presenza di May Pang. Infatti quello era il periodo in cui lei e John vivevano insieme in California. Fu l'unica volta in cui Lennon e McCartney suonarono insieme dopo lo scioglimento dei Beatles». Una sola jam session, inedita, segnò l'unica collaborazione post-Beatles di Lennon e McCartney. Ma più significativo ancora della musica è il fatto che, ancora una volta, superando le barriere della rivalità tra le rispettive consorti, John e Paul ripresero la ricerca comune interrotta con lo scioglimento della band, rivelando la loro fratellanza, e, di nuovo, crogiolandosi nella gloria di ogni breve contatto che potevano condividere. All'inizio degli anni Novanta, venti anni dopo la guerra fredda tra John e Paul, Derek Taylor, ex responsabile dei rapporti con la stampa, un uomo che ha passato un'eternità dentro e fuori dalle vite dei Beatles, si lamentava di quel disamore e di quella apparente disillusione. Parlando con me al telefono nel 2004, Derek mi raccontava: «Caro Larry, forze esterne avevano bisogno di creare ostilità, ma al di là di tutte le stronzate sensazionalistiche, del fuoco e delle fiamme alimentate dai giornali, Paul amava John, a modo suo, e John amava Paul. John era il più sensibile dei due, per cui fu il primo a riconciliarsi. Ma qualunque cosa sia accaduta, si è ormai sgonfiata. C'era un sentimento sincero tra loro due, un affetto che anche la discordia pubblica non poteva fermare». Agli esordi, nella scalata al successo, e anche dopo la fine dei Beatles, la fratellanza tra John e i ragazzi – apparentemente incrinata dai litigi pubblici, dalla rivalità tra le mogli e dalle incomprensioni – rimase intatta fino alla morte di John. Ringo gli era sempre vicino e riconoscente. George era il più indipendente, ma non rifiutò di suonare sulla canzone di Imagine che attaccava Paul. Quanto a Paul McCartney, benché non sia sempre stato in armonia con John nel corso degli anni, c'è una verità che nessuno potrebbe ignorare. Una volta messe da parte le divergenze, e lasciate le emozioni a decantare, anche con la discordia sempre dietro l'angolo, John e Paul come i loro milioni di fans non avrebbero mai potuto rinnegare la loro straordinaria intesa musicale.
8. L'UOMO, IL MITO, LA VERITÀ
«Con tutte le sue fragilità, le sue paure, i suoi picchi e le sue cadute, era come tutti» TONY BRAMWELL, AMICO D'INFANZIA, DIRIGENTE DELLA APPLE E PRODUTTORE DI FILM «John è una forza della natura. A volte sa essere veramente brusco, se capisci bene che cosa intendo. Ma è la più grande persona che io conosca» MALCOLM EVANS, ROAD MANAGER DEI BEATLES Su nessun personaggio simbolo della cultura contemporanea si sono dette e scritte tante cose come su John Lennon, dai suoi primi momenti di popolarità agli anni che hanno seguito la sua tragica morte nel 1980. Le analisi sulla sua vita e sull'epoca che ha rappresentato non hanno niente da invidiare per la complessità e il rigore a quelle dedicate alla carriera dei grandi leader mondiali, a tal punto la leggenda persiste, il mito rimane, ma di avere l'ultima parola definitiva è un lusso che ci possiamo concedere ben poco. La vita di John è stata una dicotomia: da una parte la sua personalità pubblica, dall'altra quella privata. Solo che, in questo caso, il pubblico non era così distante dal privato, come avviene di rado per uomini che hanno raggiunto un tale livello di fama. Avrà anche avuto paura dei pericoli che accompagnavano le esibizioni in pubblico, ma non ha mai temuto che il mondo fosse testimone delle sue forze e delle sue debolezze. Forse sapeva che la vulnerabilità che mostrava senza remore lo avrebbe reso caro a chiunque avesse provato nella propria vita le stesse debolezze. Certo, il peso della fama è la venerazione da eroe che sfugge al proprio controllo. I veneranti, nel loro zelo di idealizzare o crocifiggere, dimenticano che il loro idolo è un essere umano, esattamente come loro. Spendono analisi infinite su dei fatti e li omettono quando a loro non conviene. Definiscono e classificano. Fanno tutto questo mentre le aspettative create dalla loro fantasia impediscono loro di vedere – o anche solo di cercare – la verità. Pochi ci hanno permesso di vedere la verità come John Lennon. Eppure il mito persiste e le leggendo fioriscono. Era un bastardo? Un pazzo casinista? Un erotomane aggressivo? Un tiranno della musica? Un drogato? Un gay? La risposta a simili domande – come l'uomo – è complessa. Ma le prove ci sono, e sono tante. Esistono spiegazioni chiare per molti miti che da tempo circondano la figura leggendaria di John, e ve le darò. Ma se vogliamo comprendere e afferrare la totalità di un uomo, per svelarla bisogna togliere tanti strati sottili come le bucce di una cipolla. In questa operazione si trova la verità. I tabloid londinesi lo hanno sempre ritratto come un uomo perennemente nei guai con la legge. Invece, oltre alle punizioni a scuola e a essere stato messo in prigione per detenzione di marijuana nel 1968, un fatto fin troppo sottolineato, non ebbe mai veri problemi con la giustizia. Benché vivesse la sua vita privata sul filo del rasoio, pagava le tasse, rispettava i semafori (quando prese finalmente la patente), e si accontentò di essere un rispettabile, se non discreto, cittadino dei due Stati in cui visse. La reputazione da ragazzaccio che lo seguiva, e che fu fonte di tanta agitazione e cattiva fama, non era affatto meritata. Il suo rispetto per le forze dell'ordine, per esempio, è testimoniato dalle generose donazioni con cui contribuì a dotare di giubbotti antiproiettile la polizia di
New York. Certo non c'era dubbio che John avesse la parola «estremo» tatuata su tutto il corpo, e spesso faceva gli altri a pezzetti. Mentre scendeva dall'aereo con i Beatles all'aeroporto di Minneapolis il 21 agosto 1965, una giornalista gli si avvicinò a un palmo dalla faccia per fargli una domanda. Non sentii cosa gli disse ma non dimenticherò mai la sua reazione. Le diede uno schiaffo e corse alla macchina. Mentre si avvicinava alla limousine gli chiesi cosa fosse mai successo. Prima ancora che potessi battere ciglio, mi rispose: «Fatti i cazzi tuoi». Tecnicamente aveva senza dubbio ragione, ma sono sempre stato solidale con i miei colleghi ed ero particolarmente curioso. Schiaffeggiare una reporter perché non gli andava il suo comportamento non è certo qualcosa che avrei consigliato o approvato. Più tardi nella hall del Leamington Motor Court nel centro di Minneapolis, lo rimproverai di nuovo per lo schiaffo. «Quella stronza mi ha chiesto se sono fedele a mia moglie». Per scherzare gli dissi: «Perché invece di schiaffeggiarla non le hai risposto di no e ti sei fatto una risata?» Non replicò, ma una specie di sorriso gli arricciò i bordi delle labbra, un sottile messaggio per dirmi che aveva capito di aver esagerato. Trattandosi del 1965, quella giornalista era anni luce più avanti dei colleghi nel proporre domande così audaci. La reazione estrema (e sfortunatamente violenta) di John provava semplicemente provava che era stato punto sul vivo più quanto riusciva a tollerare. E non era importante chi lo aveva fatto. Dietro l'apparenza di John, si nascondeva sempre il rischio di un improvviso scoppio di rabbia. Uno dei fattori scatenanti erano le domande troppo personali, soprattutto quelle che riguardavano la sua fedeltà coniugale. Una volta, nel 1964, ci trovavamo nella casa che i Beatles avevano affittato a Hollywood. Durante la festa che seguiva il concerto all'Hollywood Bowl, John era seduto sul divano a chiacchierare con una ragazza. «Long John» Wade, un famoso deejay di Hartford, nel Connecticut, entrò nella stanza con un registratore in mano e si avvicinò alla ragazza. Mentre lo teneva con fare ostentato, cercando di far ridere, diresse il microfono su di lei e chiese «E tu chi saresti?» Il registratore era spento ma non era uno scherzo da fare comunque, tanto più che John non lo sapeva e non lo trovò affatto divertente. Così si alzò di scatto dal divano e colpì con un pugno l'avambraccio di Wade. Questi sembrò scioccato mentre il microfono, staccatosi del registratore, volava attraverso la stanza. «Rimasi di sasso» racconta Wade. «Ma la cosa è più interessante è come John tentò di fare pace nei giorni successivi. Era così accomodante, così amichevole». Qualche giorno dopo Lennon lo invitò a bere un drink. «Fece letteralmente di tutto tranne che farmi delle avances. Era un osso duro, però era una persona vera. Mi spaventai a morte quando mi colpì, ma considerando il mio scherzo ingenuo, non mi meraviglio di certo». Lo stesso schema comportamentale, cercare di farsi perdonare e amare di nuovo dopo aver picchiato qualcuno, era ben noto alle persone a lui vicine. May Pang mi ha parlato ripetutamente degli scatti d'ira da ubriaco e di come diventasse tenero e dolce una volta che aveva capito di essere andato oltre, spingendosi verso il baratro dell'indecenza o addirittura della violenza. Coloro che vedono solo il lato negativo delle cose sostengono che Lennon era un cocciuto bastardo. Tuttavia, come sostengono molti a lui vicini, la sua collera era molto spesso giustificabile e i suoi rimorsi erano sempre sinceri. Che lo facesse per reagire a pressioni esterne o puramente d'istinto, in modo viscerale, diceva sempre la verità. E qualche volta la verità è una forza tanto potente da intimidire. Anche ai primi tempi quando era il leader dei Quarrymen e di Johnny and the Moondogs, Lennon spesso mandava segnali di pericolo. Pauline Sutcliffe ricorda come quell'elemento di rischio lo rendesse un conduttore di elettricità da concerto nei momenti in cui suonava dal vivo. «Lo trovavo davvero interessante, era travolgente, faceva paura. E poi era incredibilmente attraente. Mio fratello ha provato a farlo calmare, spesso ci è riuscito. Sapevo che poteva essere molto sgarbato e volgare. Non avrei mai voluto essere il bersaglio della sua rabbia, ma era anche quello che rendeva la sua personalità così elettrizzante. Mi meravigliavo di come mio fratello riuscisse ad affrontarla e ad amarlo lo stesso». Quando arrivai all'Hilton Hotel di San Francisco, per l'inizio del tour del 1964, rimasi di sale al mio primo incontro ravvicinato con John. Lo avevo già visto di persona e intervistato insieme ai Beatles nel febbraio di quello stesso anno, e non vedevo l'ora di riconnettermi con i ragazzi chiedendomi cosa bolliva in pentola. Fui scioccato – per dire poco – dal saluto di John. Mentre fumava con aria stanca, mi
prese in giro davanti a tutti per il mio abbigliamento e il mio aspetto in generale, dandomi del frocio. «Meglio che uno zozzone come te», gli ringhiai in tutta risposta. Qualche minuto dopo corse fuori dalla hall, mi raggiunse, mi girò intorno, e mi chiese scusa tutto contrito. Bisognerebbe dire qualcosa di questo candore. È ammirevole quando ti rendi conto di aver passato il segno e fai di tutto per rimediare. Pochi cronisti della vita di John Lennon gli hanno riconosciuto di aver amato più che odiato, creato più che distrutto e, infine, di averci lasciato un mondo migliore. Molti suoi colleghi divennero veri amici, in particolare Mick Jagger ed Elton John. Essere amici di John Lennon significava dover affrontare delle vere montagne russe emotive, ma Denny Somach suggerisce che persone come Elton non si tiravano indietro, lo rispettavano come amico leale ed erano catturati dalla sua personalità e dalla sua presenza. «La descrizione migliore di Lennon me la diede proprio Elton John. "John Lennon era mio amico – il migliore amico che avevo al mondo. Era una grandissima persona, ma a volte era anche uno stronzo". Lo descriveva così. Una cara, carissima persona, ma in alcuni momenti era davvero un problema». Più di ogni altra cosa, Lennon vedeva l'ironia nelle persone e si divertiva a rimproverarle o a convincerle lusingandole. Vince Calandra, allora giovane produttore dell'Ed Sullivan Show, ricorda un incontro a Miami Beach: «Sapevo che aveva un senso dell'umorismo molto sarcastico. Ma non lo trovavo particolarmente cattivo. Poi, quando andammo a Miami, nel bel mezzo della conferenza stampa, lui e Ringo iniziarono a prendermi in giro. Sai "Ecco lo scemo dell'Ed Sullivan Show che ci tampina", come a dire "Facciamolo arrestare". Era buffo, molto buffo. Il suo umorismo era così, affettuoso e divertente». Lennon aveva anche un'abilità pazzesca nell'iniettare di humour le situazioni imbarazzanti, soprattutto quando era lui a crearle. Nel party che seguì il concerto all'Holywood Bowl del 1964, stavamo parlando con una discografica della Capitol quando lui se ne uscì dal niente con un «Dica un po', me lo farebbe un pompino?» Mentre io arrossivo per l'orrore, quella rispose «Ma scherzi?! Neanche per sogno». E lui, «Be', allora può delegare?» Ridemmo tutti, anche se in imbarazzo. Per finire, John le disse «Non si offenda, era solo uno scherzo». Scherzo o meno, lui sapeva che pensare ad alta voce gli avrebbe creato grattacapi, ma anche che era capace di uscire con tranquillità da situazioni spinose. Nulla potrebbe testimoniare meglio il lato più premuroso del carattere di John del suo rapporto con Malcolm Evans, l'alto e occhialuto road manager che faceva coppia fissa con Neil Aspinall durante le tournée dei Beatles. Evans aveva una personalità magnetica, ed era il preferito dei giornalisti e delle donne che si aggregavano alla comitiva. La sua affabilità e il suo fascino potevano ingannare; avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di proteggere i ragazzi dei Beatles. Nel 1964, mentre viaggiavamo in aereo da Jacksonville a Boston, si sedette accanto a me nel retro, stanco e in lacrime. «Cosa è successo?» domandai. «John non vuol più saperne di me, mi ha mandato affanculo. Senza ragione, così. Ma io gli voglio bene. John è una forza della natura. A volte sa essere veramente brusco, se capisci bene che cosa intendo. Ma è la più grande persona che io conosca». Non ho mai saputo il motivo di quel litigio, ma so che pochi minuti dopo John arrivò all'improvviso, scuro in volto, e abbracciò Malcolm. Nel febbraio del 1965, mentre eravamo a Nassau, alle Bahamas, dove si girava Help! Evans mi chiese di bere qualcosa con lui in città. Fu allora che accennò ai retroscena di un mito che riguarda la vita di John – uno dei più controversi – oggetto di dibattito ancora oggi. Tra le leggende e i misteri che ci ha lasciato Lennon in eredità rimane il dubbio se abbia o meno avuto relazioni omossessuali, come quella presunta con il manager dei Beatles Brian Epstein. Fans, scrittori, sceneggiatori, tutti improvvisati detective, credono di sapere cosa è veramente accaduto. Ma dal mio punto di vista, sempre che sia valido, John Lennon, con il desiderio che aveva di essere onesto e diretto, l'avrebbe ammesso anni fa. Se mandiamo avanti veloce il nastro della sua vita, vediamo che questa storia è emersa poco dopo la sua morte ma la voce circolava già e in maniera piuttosto insistita tra i musicisti della scena di Liverpool. Prima di tutto, contestualizziamo. Malcolm Evans si sarebbe messo davanti a un treno pur di proteggere John. Non è un caso se l'allampanato Mal era arrabbiatissimo per le accuse che giravano nel 1965. Era partito tutto da una vacanza. Alcune settimane dopo la nascita di suo figlio Julian, Lennon partì con Brian Epstein per un viaggio
di dodici giorni in Spagna. I due partirono il 28 aprile 1963, per un semplice soggiorno tutto sole e riposo. Eppure quella vacanza fece nascere dicerie e insinuazioni che continuano ancora oggi. La domanda era, e per qualcuno ancora è: «John Lennon ebbe una relazione omosessuale con Brian Epstein?» I pettegolezzi furono soltanto locali fino al giorno della rissa alla festa per i 22 anni di Paul McCartney. Bob Wooler, un famoso deejay locale e amico di John, disse qualcosa riguardo al viaggio in Spagna. Lennon, pesantemente ubriaco, rispose con i pugni e lo pestò. L'episodio finì sui giornali, ma senza le motivazioni del gesto di John. Tony Barrow, responsabile dei rapporti con la stampa, attento e saggio, fece in modo che non uscissero accenni al discorso sull'omosessualità. John si scusò con Wooler e diede la colpa all'alcool. Anni dopo avrebbe dichiarato di essere stato per la prima volta in prima pagina in Gran Bretagna «per aver preso a pugni un amico che mi aveva chiamato finocchio». Ma che cosa è successo davvero in Spagna? Mentre è ormai risaputo oggi che Brian Epstein era gay, è importante notare come l'omosessualità fosse ancora illegale nel Regno Unito a metà degli anni Sessanta. «L'amore che non si chiama con il suo nome» era oggetto di disprezzo in gran parte del mondo, e lo stesso Epstein fu sempre molto discreto riguardo alle sue preferenze sessuali. Confidò il suo segreto più intimo a pochissime persone, e che sappia io a un solo giornalista. In una tarda serata durante il tour del 1965, Brian mi invitò nella sua dependance al Beverly Hills Hotel. Mangiammo insieme e parlammo dei Beatles. I suoi discorsi toccavano soprattutto i suoi problemi con John. Sentiva che stava perdendo il controllo del gruppo ed era chiaramente preoccupato. Alla fine della serata, mi offrì del vino e disse, brindando: «A noi due». Al che, appoggiò una sua mano sulla mia. E io tagliando corto, ma educatamente, me ne andai. Ai tempi ero piuttosto ingenuo, e non collegai la mia serata con Brian Epstein alla storia del viaggio in Spagna che avevo sentito da Malcolm Evans pochi mesi prima. Mentre mi raccontava tutto a Nassau, Mal si lamentava perché John era ancora offeso da quelle voci, e così era lui: «È un uomo, ed è disgustoso quello che dicono di lui». La rabbia di Evans, il suo racconto, la mano di Epstein, il brindisi «a noi due» alla fine mi accesero la lampadina. Per cui mi sono chiesto, come hanno fatto molti per decenni, se poteva essere vero. Che John Lennon e Brian Epstein avessero avuto una relazione fisica. Era un dubbio che circolava in molte teste nell'ambiente dei Beatles, e un po' meno nella scena musicale di Liverpool. Più tardi ne avrebbe parlato Albert Goldman nella sua biografia The Lives of John Lennon, e fu anche il soggetto di una sceneggiatura e di un film, The Hours and Times. Goldman sostenne senza remore che John avesse usato il sesso con Epstein per la sua carriera e per proclamarsi leader dei Beatles. Quella di Goldman era una provocazione scandalistica di bassa lega, pensata soprattutto per vendere copie, e non ha senso perché John era già il leader indiscusso della band. Lo strumento su cui poteva fare leva era il suo talento, non gli serviva dell'altro. Anche The Hours and Times fa credere agli spettatori che l'infatuazione di Epstein per John sia stata ricambiata a Barcellona. Il suo ritratto di quei giorni è più sottile dei racconti di Goldman, ma anche mostrando i due protagonisti mentre flirtano uno con l'altro il film lascia in ogni caso aperta la grande domanda. Gli amici di Lennon e coloro che gli furono vicini hanno le loro idee in materia, basate certamente su un'evidenza a cui Goldman e altri innumerevoli speculatori come lui non avranno mai accesso. Tony Bramwell, che conosceva John sin dagli inizi a Liverpool, nega tutto con rabbia. «Secondo me non è mai accaduto, sono tutte invenzioni, tutte stronzate». Tony, che lavorava con Epstein e lo chiamava affettuosamente «Eppy», la spiega così: «Brian era vicino a tutti noi, ma non ha mai fatto avances a nessuno. Era una cosa che teneva nel privato. L'omosessualità era illegale. Essere scoperto era una delle sue più grandi paure. Rivelare che era gay avrebbe distrutto tutto. Per giunta, ai tempi si finiva in prigione». Tony Barrow, lo straordinario spin doctor dei Beatles, ha una sua opinione sul famigerato viaggio in Spagna. «Nessuno può sapere. John era audace, diretto, determinato a essere diverso. Non potrei mai dire "mai". Ma conoscendoli entrambi, direi che non è mai successo. Senza dubbio Brian provava
un'attrazione di tipo sessuale per John; Brian era un uomo sensibile. Le guance gli diventavano viola quando John era duro con lui, e John era scorbutico a volte. Un atteggiamento del tipo "stammi alla larga" era il suo modo di dire "Non sono gay, non puoi amarmi, ma puoi essere il mio migliore amico". Ma ricordati, c'era tensione. John era il motivo per cui Brian Epstein si era interessato ai Beatles. Aveva un forte legarne con lui, ma sapeva anche che se si fosse scoperta la sua omosessualità, questo avrebbe mandato in frantumi i sogni del gruppo. Poteva anche desiderare John, ma, da quanto ne so io, lo ha avuto solo nei suoi sogni». Il momento scelto per quel viaggio fu causa di tensioni in famiglia per Lennon. Era appena nato Julian. Invece di stare a casa con il figlio, se ne andò in vacanza. Per alcuni, il dubbio se John Lennon e Brian Epstein abbiano consumato o no una relazione sessuale durante quel viaggio inizia con il domandarsi perché andarono in vacanza insieme. Tony Barrow spiega le ragioni del viaggio in rapporto al periodo e alle circostanze della vita di John: «Allora, se la tua ragazza rimaneva incinta, la cosa era semplice: ti sposavi. John non era felice, gli ci vollero mesi perché volesse bene veramente a Julian. Era il fatto di essersi dovuto sposare per forza a disturbarlo. La sua decisione di andare Spagna, per quanto egoista, era un "vaffanculo" verso tutto quello che gli era capitato. Per ironia della sorte, appena pochi mesi dopo in un pub del West End, lo Speakeasy, avemmo una chiacchierata dopo una registrazione. Parlammo molto da uomini sensibili di quanto amavamo i nostri bimbi appena nati e di come era bello essere padri. John amava Julian, ma non era certo felice degli avvenimenti che avevano circondato la sua nascita». May Pang, che ha visto da vicino tutti i lati di John Lennon, bolla le speculazioni su lui e Brian come puro revisionismo storico: «L'idea di John che ha una storia con Brian Epstein è assurda, del tutto impossibile. Quella volta in cui Phil Spector lo fece immobilizzare e minacciò di abusare di lui, John era terrorizzato». Una cosa è certa: se John oggi fosse vivo, si sarebbe gustato il dibattito e avrebbe fatto del suo meglio per lasciarci nell'incertezza, come provò a fare in un'intervista del 1973: «Sono andato in vacanza in Spagna con Brian, e da lì sono nate tutte quelle voci su una storia tra noi due. Non abbiamo mai consumato niente. Anche se avevamo un rapporto molto stretto. Era la prima volta che conoscevo una persona omosessuale. Brian me lo aveva confessato. Abbiamo fatto quella vacanza insieme lasciando Cyn a casa con il bambino… sono nate un sacco di storie strane. Al massimo sedevamo nei caffè e dicevo a Brian "Ti piace quel ragazzo? Ti piace quest'altro?" Il viaggio insieme e la nostra amicizia intima hanno generato tutte quelle dicerie». I più cinici che credono in questa storia sostengono che John avrebbe negato. Ma la verità definitiva me la rivelò lo stesso Brian Epstein all'indomani del nostro imbarazzante incontro nella sua dependance. I Beatles suonavano al Balboa Park di San Diego. Andai da lui mentre era in piedi fuori dai camerini improvvisati che servivano per lo spettacolo. Lui arrossì, ma io ruppi il ghiaccio dicendogli: «Grazie per ieri. È stata una bella serata». I momenti imbarazzanti non sono mai piacevoli, ma cercando di dimostrargli la mia comprensione, gli dissi a bassa voce: «Spero che tutto quel parlare che si è fatto del viaggio in Spagna non ti abbia ferito». Lui rispose: «Larry, amo John, ma non è successo niente, niente. Semplicemente non era possibile». Credo di essere stato il primo e unico giornalista che abbia mai rivolto questa domanda a Brian Epstein. Se avessi saputo al tempo quanto si sarebbe ricamato su quella vacanza avrei insistito io stesso con molta più aggressività. Ma per il giornalismo degli anni Sessanta, anche solo l'idea era off-limits. Dopotutto, la breve descrizione che mi aveva fatto Brian non poteva essere più drammatica, né più sincera. La storia della Spagna non avrebbe interessato il pubblico se non anni dopo. Guardando indietro, la risposta di Epstein alla mia domanda – di cui non avevo mai parlato prima d'ora – conteneva già tutta la verità. Le persone che conoscevano meglio John Lennon sono quelle che trascorrevano più tempo con lui. In alcuni casi, quel tempo fu breve, ma rivelatore. Altri vivevano le loro giornate fianco e fianco e a lui e possono avere un quadro ancora più chiaro. Dai loro racconti emerge il più fidato e minuzioso ritratto dell'artista. Come uomo, Lennon era confuso come tutti noi, ma le sue canzoni e i suoi testi rivelano l'abilità
incredibile che aveva nel «leggere» gli altri. Allan Steckler, dirigente discografico che divenne l'unico americano dello staff della Apple nei primi anni Settanta, lo considera l'essere umano più interessante che abbia mai incontrato. Steckler aveva un talento così innovativo che i Beatles si fidavano ciecamente nel fargli scegliere i talenti, progettare il lancio dei dischi e le strategie di marketing. Grazie all'orecchio per la musica e al talento per il merchandising, lavorava a stretto contatto con i Rolling Stones, Engelbert Humperdinck, e i Badfinger, un gruppo della Apple della cui resurrezione fu l'artefice primo. Era un uomo con cui bisognava avere a che fare, e a volte serviva da collegamento tra il braccio creativo della Apple e John Lennon e Yoko Ono. Si ricorda di averli incontrati nella loro casa a Tittenhurst Park in Inghilterra: «Rimasi folgorato dal famoso pianoforte bianco, dalle stanze bianche e dal bosco sul retro della casa. Ero intimidito, ma lui mi trattò con calore e gentilezza. Mi sentivo a casa mia a casa di qualcun altro, e succede di rado. Io e John ci capimmo al volo». John e George spesso facevano visita ad Allan nel suo ufficio a New York e gli cantavano le loro canzoni per avere il suo parere. «John e George stavano cantando e Yoko si era aggiunta. John le disse in maniera gentile "Non ora Yoko", la sollevò di peso e la portò fuori dall'ufficio. Era uno scherzo, non una cattiveria. Rideva anche lei». Steckler ha sempre nutrito un profondo rispetto per Yoko, cui attribuisce il merito di avere tenuto John nella giusta concentrazione durante le registrazioni di Some Time in New York City e la sua collaborazione il gruppo degli Elephant's Memory. «Fu un periodo difficile per John a causa di tutto quello che stava succedendo, era sempre nell'occhio del ciclone» ricorda Steckler. «Ma anche con tutte le cose brutte, si esprimeva in modo intenso e personale, era molto umano, pungente e spassoso. Non maligno, ma pungente. Mi faceva morire dalle risate». Come molti di coloro che l'hanno conosciuto da vicino, Allan Steckler prova disgusto per l'immagine, largamente accettata, di John uomo crudele e sprezzante. «Aveva un genuino sentimento di compassione, una sensibilità profonda verso gli altri esseri umani». Si ricorda invece di quando portò sua figlia, che allora era una bambina di dieci anni, a lavorare con lui. «Stava giocando con la macchina da scrivere quando le si avvicinò e iniziò a parlarle. Si interessava veramente a cosa stava facendo, alla sua vita, alle sue attività. Quando lui se ne andò, mi figlia non poteva credere che quello era John Lennon. Ho sempre apprezzato il modo in cui John e Yoko mi trattavano, non come un collaboratore professionale, ma come un essere umano». Era sempre stupefacente osservare la capacità che aveva di analizzare una situazione e di percepire le vere motivazioni della gente. Quanti di noi sanno giudicare le persone all'istante e vederci quasi sempre giusto? Bob Gruen si meravigliava allora e lo fa ancora oggi: «Aveva un sesto senso incredibile, velocissimo. Poteva vedere nel profondo delle persone e degli eventi, capire in un batter d'occhio tutta la loro complessità. Non dava giudizi superficiali. Vedeva qualcosa e intuiva subito cosa c'era dietro, che cosa stava succedendo, quali erano le vere motivazioni dietro quelle di facciata. E aveva un modo di esprimerlo molto diretto, istantaneo, e molto ironico. Si esprimeva con una battuta… un gioco di parole o una barzelletta per renderlo divertente. Lo faceva senza malizia e le persone lo accettavano. E poi viveva tutto all'essenziale. Non usava convenevoli con le persone. Bastava un motto di spirito, ma a volte erano osservazioni ironiche. Entrava in relazione con la gente a un livello di realtà molto semplice. Lontano anni luce dalle stronzate. Apprezzava e rispettava la realtà delle persone che erano umili e accettavano quello che erano e cosa succedeva loro, in questo era molto aperto». Al Brodax ha una visione di John Lennon molto complessa e accumulata del corso degli anni. Brodax è una figura leggendaria nel mondo dei film e dell'animazione; ha creato e prodotto la serie televisiva a cartoni dei Beatles e il loro film di animazione Yellow Submarine, considerato un classico del genere. Negli anni Sessanta ebbe modo in svariate occasioni di entrare in contatto con i Beatles e il loro pubblico. L'autore e impresario premiato con l'Oscar offre alcune acute riflessione su John Lennon, puntualizzate dal ricordo di un inusuale appuntamento in un ristorante del quartiere di Soho a Londra, che divenne un vero e proprio viaggio. Brodax, un duro cresciuto nel quartiere di Brooklyn, veterano decorato della battaglia di Bulge nella
seconda guerra mondiale – da cui riportò ferite e medaglie – non fu particolarmente impressionato dalla mistica lennoniana: «Non ci credevo. Alla prima conferenza stampa in cui fu dato l'annuncio della serie animata, gli alti tre Beatles risposero alle domande mentre lui si era nascosto sotto il tavolo e non voleva saperne di alzarsi. Sembrava avere bisogno di attenzione. Più che altro era un diversivo. Non era certo il più facile da trattare dei Beatles, ma gli animatori erano in soggezione quando lui entrava in studio e suggeriva di cambiare una o due battute del dialogo. Era una combinazione di brillantezza, impazienza, acidità, ma aveva un che di misterioso e sorprendente». Brodax, che ha scritto un libro splendido, intitolato Up Periscope Yellow: The Making of the Beatles' Yellow Submarine, è orgoglioso ma ribolle anche di rabbia al pensiero di quanta frustrazione dovette sopportare e quante energie vennero spese per produrre il film. Nel suo volume serba un'ira speciale per i maneggi e gli sbalzi d'umore di John Lennon. Ma di persona mi ha regalato questo tenero ricordo di una discussione avuta a pranzo proprio con lui. «Fu un invito che mi fece sul momento. Mi guardò e disse: "Brodax, pranzo?" Non avevo scelta. Era John Lennon, e mai mi sarei aspettato di vedere l'intero pomeriggio trasformarsi in un dialogo così stimolante, tra le fumate di marijuana e i bicchieri di scotch che mandavo giù uno dopo l'altro (e l'erba che fumavo dopo aver bevuto). L'oggetto della discussione erano i romanzi di Aldous Huxley. Lui ne aveva un paio con sé. Fu il punto di vista altamente intellettuale che Huxley aveva del futuro tecnologico a catapultarci in una delle discussioni più esaltanti e profonde che abbia mai avuto. Per me le opere di Huxley erano teoremi ancora senza dimostrazione, non punti di svolta storici. Lui rispose stizzito: «Be', non sono certo all'altezza delle tue ricerche su Braccio di Ferro, Barney Google, Krazy Kat e gli Antenati!» Ma mentre il pranzo si trasformava in un battibecco carburato dall'alcool e della marijuana, Brodax capiva con chi aveva a che fare, e lo ricorda anche nel suo libro: «Conoscere John, e pochi lo conoscono davvero, non è tentare di capirlo, ma di compensare l'elitismo percepito per il suo straordinario talento, e la sua accettazione, la sua impazienza e il suo gusto per le osservazioni pungenti, in cambio della sua compagnia e della sua brillantezza. In ogni evento, in ogni momento John era unico e memorabile. Credo che i suoi bombardamenti verbali avessero molto a che vedere con la smania che aveva di accendere la discussione, ispirare un dibattito». Il risoluto Brodax apprezza John perché era un'artista brillante, e oggi riflette su qualcosa di molto speciale in lui che è difficile da dimenticare: «Conoscerlo valeva tutta l'irritazione che poteva crearti. Nella vita non capita di incontrare tante persone così. Una volta che era uscito da sé stesso, era squisito. Era il tipo di persona con cui avresti voluto pranzare ogni giorno». Come conciliare l'intellettuale fulgido e argomentativo con l'uomo che si considerava l'imperterrito eroe della classe operaia mondiale? Prendere le misure di un uomo è sempre un compito arduo. Ma durante l'operazione, anche nelle normali contraddizioni della vita, una qualche coerenza emerge. Nella vita di John Lennon, un tratto è rimasto immutato negli anni, il desiderio lancinante di essere il campione della gente comune. Qualche volta, nel compiere questa missione, ha saputo trasformare l'ordinario in straordinario. Tocca ora a Mario Casciano. Mario non è mai stato in nessuna lista di cosiddetti amici celebri di John, eppure per qualche anno è diventato più un amico di un semplice ammiratore. La sua storia inizia nel novembre 1974. Mario, studente quattordicenne della Edward R. Murrow High School di Brooklyn, era un fan dei Beatles. Meglio ancora, aveva una positiva ossessione nei confronti di John Lennon. Al tempo dell'audace viaggio di Mario dentro la vita di Lennon, John e May Pang abitavano in una mansarda al 434 Est della Cinquantaduesima Strada in un quartiere alla moda come il tranquillo East Side di Manhattan. Casciano aveva ascoltato un programma alla radio in cui John raccontava di avere visto un Ufo. Dai pochi dettagli come pietre miliari, segnali stradali, e cartelloni pubblicitari che aveva indicato, Mario era riuscito a risalire a dove abitava John. Prima cercò di fingere di dover consegnare una pizza, ma non
trovò nessuno in casa. Poi, con un guizzo di fantasia, prese i prodotti per lavare a secco di suo padre, salì sulla metropolitana travestito da rappresentante e suonò il campanello. Venne a rispondere John. Appena vide Mario, urlò a May, «è solo un fan dei Beatles». Poi lo scrutò e gli disse: «Come hai fatto a trovarmi?» Mario gli raccontò la storia dell'Ufo. John lo guardò: «Fammi cercare tra i vestiti se trovo qualcosa di utile». Mario non si scorderà mai gli attimi che seguirono: «Ero lì, e il mio idolo mi faceva entrare a casa sua. Il cuore mi batteva così forte da non riuscire a parlare. Poi mi disse: "Ok, ora che mi hai trovato che facciamo?" Potevo solo pensare che non l'avrei più visto. Perciò gli chiesi di farmi un autografo, poi un altro e un altro, e qualcuno ancora per la mia famiglia. Non disse molto. Nella stanza entrò May con un viso allegro, sorridente. Si erano spaventati entrambi nel vedermi lì. E poi, con mio grande shock, John mi diede una busta che conteneva degli oggetti, mi chiese di portarla alla radio WNEW e di prendere per lui qualcosa alla Columbia. Ero un messaggero, il galoppino del giorno, ed ero felice. Mi sono goduto ogni secondo. Tu immagina, se i miei amici mi avessero chiesto cosa avevo fatto dopo la scuola cosa avrei risposto, che ero andato a casa di John Lennon e avevo lavorato per lui?» Le visite pomeridiane divennero un'abitudine per John, May e Mario. May adorava quel ragazzino, John sorrideva quando c'era lui, e Mario, tra i quattordici e i quindici anni, lavorava nell'industria discografica, in un certo senso. Quando John e May si lasciarono all'inizio del 1975, Mario continuò a svolgere i suoi compiti speciali per John. Spesso comprava i biglietti del circo per John, Yoko e Sean. Mario e John erano fans dei Beatles, e si scambiavano pezzi delle loro collezioni. Sì sì, proprio così, John Lennon, l'uomo che aveva fondato i Beatles e li aveva proiettati nell'Olimpo delle celebrità, era pure lui un loro fan! La sua amicizia con Mario continuò anche durante il periodo in cui rimase in casa. Durante la loro tranquilla e riservata relazione nei tardi anni Settanta, John e May parlavano di Mario come di uno di famiglia. Difatti, quando accompagnò May in tribunale a testimoniare a favore di John in una causa discografica, Lennon lo guardò e gli disse «Scommetto che ha avuto la tua custodia». Quando John morì, Mario Casciano fu così sconvolto da non riuscire a riprendersi. Aveva guardato il volto della grandezza e aveva scoperto un uomo normale. «Amavo John. Ero solo un ragazzino, un suo fan di quattordici anni, che aveva deciso di volerlo conoscere a tutti i costi. E lui mi ha trattato con rispetto. A lui piacevo e a me piaceva tutto di lui. Sono ancora amico di May, e ogni tanto ricordiamo la Cinquantaduesima, il giorno in cui ci siamo incontrati, i miei strani trucchi, e tutto quello che ho imparato da loro negli anni successivi. L'incontro con John, l'ispirazione che mi ha dato, i primi passi nel business della musica mi hanno permesso di fare quello che faccio oggi, Un'esperienza davvero inestimabile». Di valore assoluto fu anche il rapporto umano tra John Lennon e gli altri Beatles, per lui e per loro. Eppure è stato spesso messo in discussione dai media e da molti fans. Soprattutto quello con Paul è stato sottoposto negli anni a speculazioni velenose. È un fatto documentato che tra i due ci fossero serie divergenze professionali, dovute alla diversità del loro talento e dei loro desideri, per non parlare poi di due mogli volitive e intraprendenti, Linda e Yoko. Con l'eccezione di alcuni attriti occasionali, Lennon e McCartney sono sempre stati amici, anche negli anni Settanta, quando il loro contatto continuo fu sottolineato da alcune occasioni sociali ma anche da incontri personali. Un cosa è certa: John Lennon aveva a cuore ciascuno dei Beatles, questo sentimento era reciproco nonostante dispute e commenti finiti in prima pagina del corso degli anni. Yoko Ono, Cynthia Powell e May Pang sono tutte concordi nel sostenere John che non fosse in pensiero per Paul. Considerava McCartney un suo pari. Si preoccupava più di George e specialmente di Ringo, quando lo vide andare alla deriva in California negli anni Settanta. Per qualche mese, Ringo Starr abitò a casa di May e John a Los Angeles. Lennon era determinato a riportarlo alla musica. Anche se, come lui, abusava di alcool e droghe e non era facile essere una guida. In ogni caso John aveva un istinto paterno nei confronti di Ringo e di George Harrison, che dimostrò più volte, come ricorda anche May Pang: «John si preoccupava per loro due. Si teneva costantemente in contatto telefonico con George, e gli
piangeva il cuore quando pensava a cosa Ringo stesse facendo della sua vita. In California si prese cura di Ringo. Quando invece era a New York negli uffici della Apple, si premurava sempre di avere tempo per parlare con George, che era un po' insicuro sulla sua carriera da solo». Linda Reig, che lavorava alla Apple, ricorda le visite di Harrison. «John poteva anche essere un bastardo, ma per George Harrison faceva salti mortali. George era un tesoro, un vero gentleman. Veniva sempre in ufficio. Quando arrivava, John smetteva di fare qualsiasi cosa per stare con lui. Credo che lo vedesse come un fratello più giovane». Durante i tour del 1964 e del 1965, i Beatles avevano tutti lo stesso spazio in pubblico. Non ho mai visto acrimonia, neppure un segno di discordia tra John e Paul, Ma c'era una differenza nel loro stile quando erano lontani dai riflettori e dai fans. Un elemento fondamentale della personalità di John, notato di rado da molti osservatori, fu una delle principali ragioni del successo dei Beatles. Per dirla in breve, in tournée John Lennon ce la metteva tutta per fare sentire ognuno a proprio agio. Una simile qualità non si può sottovalutare. Non dimenticherò mai le notti in cui John, esausto per lo show, andava nella parte anteriore dell'aeroplano per rincuorare i musicisti di spalla, spesso ignorati dalla stampa e dal pubblico. Era John, dopotutto, quello che anche tra la fatica del tour e i tormenti della sua angoscia da palcoscenico posava il braccio sulle spalle di Ringo all'entrata del Montreal Forum, quando il batterista aveva ricevuto minacce di morte. Ringo era terrorizzato. John lo rassicurò. Quando un membro della band aveva un problema, era John a risolverlo, come ricorda Tony Barrow: «Prima di tutto, Paul e John andarono d'accordo prima, durante e dopo i Beatles. Che tra loro scorresse cattivo sangue è una leggenda, punto e basta. Rimane però un fatto: durante il picco della Beatlemania, era John a fare il "lavoro sporco". Quando uno dei ragazzi era scontento per qualche motivo, Paul andava a lamentarsi da John. John si confrontava con Brian Epstein. E Brian risolveva o tentava di risolvere la questione. Paul a volte sembrava il bravo ragazzo perché non si impegnava in conversazioni scomode. Tutti e due erano leader nati, ma era John ad assumersi i rischi quando erano in ballo questioni davvero serie». La sfida numero uno nel lavoro di Tony Barrow era tenere i Beatles lontani dalle polemiche. Iniziò nel 1962, e la sua esperienza nel conoscere John testimonia in modo chiaro l'ambivalenza di Lennon: «Incontrai i Beatles per la prima volta in un pub di Manchester Square. Era un incontro importante, tutti erano estremamente socievoli e avevano voglia di conoscermi, ma John stava nelle retrovie. Di solito era restio a incontrare persone se non doveva, ma nel mio caso era necessario. Fu l'ultimo a presentarsi e salutarmi. Poi siamo diventati amici, ma era tipico di lui comportarsi in quel modo. John Lennon si fidava poco delle persone a prima vista. A priori eri suo nemico finché non gli dimostravi il contrario. Doveva avere la prova che eri a posto, o, per lui, non lo eri. Come ufficio stampa fu il mio più grande problema, non tanto per quello che diceva, ma perché temevo sempre di fare qualcosa di sbagliato. Il suo tipico atteggiamento era quello: "Dimostrami che sei mio amico e non mi farai del male e sarò anch'io tuo amico". Era fatto così». Che fosse sul palco, in conferenza stampa, o in situazioni quotidiane, John mostrava sempre una certa impudenza. Quando iniziai a conoscerlo bene, mi accorsi che era solo una corazza che lo difendeva dalla sua profonda insicurezza, il tipo di incertezza che rende i grandi artisti ancora più grandi, perché li costringe a dare di più e a raggiungere l'eccellenza, combattendo contro le proprie paure. Mi ci volle un po' per capirlo. Barrow se ne accorse immediatamente: «In tutta la sua vita, John mostrò quell'impudenza come una forma di difesa. Era molto sicuro e si circondò di quel guscio duro. È buffo, ma non smaniava per fama e successo. Non era così ambizioso come Paul. Amava solamente la musica e il rapporto con le persone, quando le conosceva e si sentiva a suo agio». Quando la fama e il successo dei Beatles crebbero fino a esplodere, a John non andò giù il nuovo corso degli impegni. Odiava i calendari, anche se rispettava le qualità organizzative di Brian Epstein. Nel 1962 e all'inizio del 1963, di fronte alla marea montante del successo commerciale, Lennon compattò il gruppo e lo tenne unito, ma provò nostalgia per i tempi dei Quarrymen. Sulla questione della moda, dice Tony Barrow, era particolarmente sensibile:
«Odiava la formalizzazione, il look seriale, l'immagine che ha reso i Beatles tanto popolari. A lui piaceva andare controcorrente. Perciò fece un compromesso con Epstein. Si può vedere di che statura umana fosse dal fatto che ha sempre disperatamente cercato di rimanere fedele alle proprie radici; di questo bisogna dargli credito». La natura del fascino che esercitava sulle donne e il suo atteggiamento verso l'altro sesso è materia per un'equipe di psicoanalisti. Non c'è dubbio che le amasse e che con loro amasse spingere su certi bottoni. Alcuni pettegolezzi scandalistici, parte della sua mitologia, raccontano che ne avrebbe avute alcune con la forza, o che abusasse di loro. Se modo in cui parlava o si comportava con le donne non fu sempre eccezionale, nondimeno è assurdo dire che sia mai stato anche lontanamente misogino, come ad alcuni piacerebbe credere. Alcune voci raccontavano che in India nel 1968 aveva tentato di violentare Mia Farrow, ospite di Maharishi insieme a sua sorella Prudence. Paul Saltzman, il giovane filmmaker che scattò numerose fotografie alla cerchia dei Beatles a Rishikesh, mette le cose in chiaro: «John non avrebbe mai fatto niente del genere. La verità è che Mia Farrow era scappata dall'ashram dopo che Maharishi l'aveva avvicinata in modo allusivo. Sarebbe comunque tornata. Non c'è prova che John abbia mai insidiato o molestato Mia né sua sorella Prudence. Se mai ha cercato di corteggiarle, lo ha fatto con rispetto». Ma le voci non cessavano. Come ricorda Yoko Ono, l'immagine pubblica e la visione privata possono essere lontane anni luce: «John era incapace di far del male a qualcuno, e se lo faceva, questo lo assillava al punto che si sentiva sempre in dovere di rimediare». Quel bisogno di raddrizzare i torti si mostrò in tutta la sua vita. Fino a trentacinque anni, le esperienze di John con l'universo femminile furono deludenti, a dir poco. La mancanza di una madre a tempo pieno, un matrimonio affrettato e la convenienza dei rapporti occasionali gli avevano dato una visione distorta e falsata delle donne e del loro ruolo nella società. Yoko ricorda di averne parlato per anni con lui: «Era una persona diversa quando era in tour. Mi ha raccontato tantissimi episodi. Era onesto in maniera totale con me. Mi diceva "Se non lo sono con te con chi posso esserlo?" Mi ha raccontato di tutto, ma quello non era il John che conoscevo io». Il suo atteggiamento verso le donne maturò negli anni, come evidenzia questo aneddoto che Yoko mi ha confidato: «Una volta mi svegliai dopo essermi addormentata la sera, era mattino presto, la luce filtrava nella stanza e lo vidi che stava piangendo. Era stato sveglio tutta la notte a leggere un libro. Era The First Sex di Elizabeth Gould Davis, che raccontava di quello che avevano dovuto affrontare le donne nei secoli e come per le cose importanti che alcune di loro avevano fatto il merito fosse stato attribuito a degli uomini. Leggendolo, si era commosso. Disse: "Non pensavo che voi donne aveste sofferto tutto questo". Poteva piangere per una cosa del genere, aveva questo lato tenero e molto, molto sensibile. L'avevo capito ed è stato quello che mi ha tenuta accanto a lui». Pochi altri videro quel lato così intimo. Lo sprezzo per il pericolo e il chiudersi a riccio di fronte alle morti e alle tragedie sono stati un bersaglio facile per tutti quegli osservatori e quei biografi che non hanno voluto prendersi la briga di vedere l'uomo a tutto tondo. John Lennon vedeva meglio alcune cose della maggiore parte di noi, ma una cosa di cui non si accorse mai fu la sua leggenda. Sfrontato e temerario quanto insicuro, il John degli anni Sessanta e Settanta non avrebbe mai capito davvero il suo posto nella storia. All'inizio degli anni Settanta, gli altri tre Beatles uscirono con singoli al numero uno prima di lui. Vessato dalla battaglia legale per il permesso di soggiorno e in lotta contro la dipendenza da alcol e droga, il magistrale creatore era incerto del suo futuro e ignaro che il suo trionfo imminente come affermazione dello spirito umano sarebbe rimasti una leggenda nei secoli. Yoko Ono mi ha detto John sarebbe stato sorpreso di vedersi mettere dal mondo su un simile piedistallo. Ma soprattutto, che suo marito vorrebbe – come ha dimostrato in vita – che si sappia tutta la verità sulla sua esistenza. Pauline Sutcliffe avverte che il desiderio comprensibile e genuino dei fans può rinnegare la verità:
«Alcuni fans e ammiratori hanno la loro. Non capiscono che John potrebbe essere in imbarazzo se vedesse come lo mitizzano oggi. Magari gli farebbe piacere da un lato, ma dall'altro non si lascerebbe abbindolare perché nei confronti di se stesso era brutalmente onesto. Era una persona complessa, come lo sono tutte quelle di talento. Venerarlo da eroe vuol dire dargli una sola dimensione. A lui non piacerebbe affatto, perché ne aveva molte di più». Non c'è dubbio che i miti sulla vita di John continueranno. Trovare la verità sarà sempre più duro. Una verità che in questo caso può provocare delusione e gioia. Per Mark Hudson, compagno di lavoro nei giorni tempestosi di Los Angeles, non c'è alcun mistero: «È tutto così chiaro e semplice. John non temeva di dire la verità. John Lennon era la verità. Diceva sempre a tutti "Non cerco di salvare il mondo. Provo solo a dire quello che c'è nel mio cuore". Nel profondo del suo Io, era un duro che non era affatto un duro. Era premuroso e pieno d'amore». Detrattori e moralisti conclamati hanno criticato aspramente John per le sue prese di posizione in pubblico e le indiscrezioni che riguardavano la sua vita privata. Forse ciò che più disprezzavano era l'audacia mostrata nel sostenere alcune cause solo contro tutti, facendo di sé un bersaglio facile. L'esperto beatlesiano Martin Lewis non vede Lennon solo come un brillante, magnifico artista della musica, ma come un uomo capace di vedere a fondo in certe idee e in certe istanze: «Credo che John abbia lasciato come eredità un esempio di ciò che è possibile fare una volta che si raggiunge quella cosa surreale chiamata "fama". Prima di lui la maggior parte delle persone che raggiungevano la celebrità tendeva crogiolarsi nel proprio status, ad agire solo in funzione della notorietà. Pochissimi avevano usato la propria popolarità come un pulpito da cui esprimersi su questioni che riguardavano tutti. Pochi avevano prestato il proprio nome per buone cause, e meno che mai lo avevano fuso con ciò in cui credevano. Ciò che John aveva di unico era l'integrità. Nessuno mai dubitava che credesse fermamente in ciò che diceva. Diventava un sostenitore appassionato di tutto quello in cui credeva». L'ultima domanda che ha migliaia di risposte in sospeso. Perché John era così speciale. Di Mark Lewisohn, storico dei Beatles, è la risposta più concreta e onesta: «Era un uomo che capiva il modo in cui operavano gli esseri umani. Non aveva solo il talento musicale: l'atteggiamento, il rifiuto del compromesso, insieme all'umorismo e all'intuito artistico. Sperimentava tutto. Sapeva di essere grande? Agiva d'istinto. Non sempre quando lo si fa si è sicuri vincere. Ma lui ha vinto nella maggior parte delle cose che ha fatto, e le ha fatte sempre con assoluta onestà e integrità». Conoscerlo era una cosa; giocare al suo gioco con lui un'altra. Il vero John Lennon fu visto da un musicista considerato tra i più grandi batteristi rock di tutti i tempi, Alan White, dal 1972 membro stabile degli Yes. Aveva vent'anni quando John lo vide suonare in un club di Londra e riconobbe il suo talento. Quando lo invitarono per telefono a raggiungerli all'aeroporto di Heathrow per volare a Toronto e suonare con la sua band, riattaccò la cornetta pensando a uno scherzo. Quando lo richiamarono e si rese conto che era tutto vero, fece subito i bagagli. Trentasei anni dopo, ricorda ancora quel fatidico viaggio con lo stupore di un ragazzo. «Così arrivo nella sala d'aspetto dei vip e siedo accanto a John Lennon, Yoko Ono, Eric Clapton e Klaus Voorman. Ero nervoso a stare in compagnia di mostri sacri come loro. Sull'aereo registrammo sotto la direzione di John, che mi fece sentire subito il benvenuto. Nessuno di noi aveva mai suonato insieme agli altri prima che registrassimo Live Peace lì a Toronto». Pochi mesi dopo, Alan White divenne un pezzo di storia della musica, anche se ai tempi non lo sapeva: «Mi invitarono in studio a casa di Lennon a Tittenhurst Park per unirmi alla registrazione di Imagine. Mi colpì molto che John avesse dato a tutti un foglio con i testi di ogni canzone. Sapeva che stava per inviare un messaggio forte ed era molto attento. Voleva essere sicuro che nessuno di noi fosse contrario al messaggio di pace di Imagine e ai contenuti di altre canzoni, soprattutto How Do Yon Sleep? per i suoi riferimenti a Paul McCartney. Registrare quelle canzoni e poi anche Instant Karma fu uno sballo, ma soprattutto fu un vero insegnamento su di lui». White fu sospeso dal desiderio e dalla volontà di John di lasciare liberi i musicisti.
«Era un sogno. Diceva che ero il suo piccolo tamburino e finché suonavo a modo mio, sentendo il feeling della musica, mi ha lasciato fare. Era un ispiratore e suonare con lui un'esperienza incredibile. Riusciva a sentire quando le cose andavano bene. Certo, ci dava degli input creativi, ma li pretendeva anche da noi. Mi sono fermato a casa sua e ricorderò sempre come mi ha fatto sentire parte della famiglia». Nessuno poteva eguagliare John Lennon nella capacità di unire talenti per fare musica. Una rivelazione da lasciare a bocca aperta, quella di White su Imagine: la versione registrata fu la prima di tre sole prove; un tributo alla dedizione di Lennon alla libera creatività. La testimonianza di White una volta di più rafforza l'immagine di un John Lennon affamato di autentico e genuino cameratismo, che non lasciava mai che il suo ego intralciasse le vie della collaborazione. La verità su di lui, per il sottoscritto, è questa: sotto la tracotanza e lo sfoggio di superiorità che celavano l'insicurezza, il talento puro e una personalità complessa e talvolta distruttiva, c'era un uomo in cerca di amicizia e di amore, che spesso offriva senza riserve, soprattutto, in ogni suo tentativo, mettendosi sullo stesso piano di ciascuno di noi. Un uomo unico. Tanti sono i miti su di lui. Ma la verità è ciò che ci ha lasciato.
9. LA MUSICA È PASSIONE
«La vita di John è stata scandita da un rosario di tragedie. Come quelle di milioni di altre persone che raccontava nelle sue canzoni» SCOTT REGAN, PRODUTTORE RADIOFONICO «Aveva dentro più rock&roll di chiunque altro avessi mai visto. Nella mia mente pensavo: "Voglio essere John Lennon"» MARK HUDSON, MUSICISTA E PRODUTTORE, A PROPOSITO DELLE PERFOMANCE DI JOHN DAL VIVO Durante il tour del 1965, un giovane George Harrison mi sfidò, dimostrandomi come le sue dita si muovessero con agilità e gentilezza sulla chitarra. Sorridente e sicuro di sé, mi disse: «Sai, Larry, per le persone come noi la musica è la passione della vita». John Lennon ebbe tante passioni. La pace. L'uguaglianza. L'arte. La conversazione. Il cibo. Il sesso. Ma per tutta la vita ebbe un'unica, bruciante ossessione che superava tutte le altre: la musica. Come per la maggior parte dei grandi artisti, tutti i suoi sforzi musicali rispecchiarono i banchi di prova e i trionfi della sua vita. E siccome la sua esistenza fu così audace ed eccentrica, tracciò un sentiero creativo che nessuno poteva immaginare prima di lui ma che in migliaia avrebbero seguito accodandosi alle sue orme. Mark Hudson, membro degli Hudson Brothers e produttore di Ringo Starr, Carole King, e molti altri, vide per la prima volta John Lennon suonare con i Beatles a Portland, Oregon, nel 1965. Da allora sognò di lavorare nella musica. «John uscì indossando un giubbotto di pelle nera e masticando chewing-gum, sembrava sputare fuoco dalle narici, tanto appariva in forma. Con un gesto improvviso, lanciò al pubblico il suo cappello. Aveva dentro più rock&roll di chiunque altro avessi mai visto. Nella mia mente pensavo: "Voglio essere John Lennon"». Hudson non fu l'unico ad avere quella reazione, come racconta Denny Somach: «Una delle cose che ho scoperto scrivendo il mio libro e curando il mio spettacolo per la radio è che qualsiasi musicista, da Billy Joel a Joe Cocker agli Eagles, racconta che quando vide John Lennon e i Beatles – di solito "John Lennon e i Beatles all'Ed Sullivan Show" – quella stessa sera decise cosa sarebbe diventato. C'era una volta un ragazzo che arrivava del Nord dell'Inghilterra, formò una band i cui membri scrivevano le loro canzoni e suonavano i loro strumenti e conquistò il mondo. Senza John Lennon e i Beatles, quegli artisti straordinari non avrebbero mai fatto musica. Penso che sia il più grande merito di John». Anni dopo, a Los Angeles, dopo aver formato gli Hudson Brothers, Mark Hudson lo conobbe a una festa e rimase, come candidamente ammette, ammaliato: «Aveva una personalità magnetica. Solo l'idea di incontrarlo metteva i brividi. Ma soprattutto, clava tantissima ispirazione a persone come me, incoraggiandoci nello scrivere e nel produrre. Potevi vedere il genio che emanavano i suoi occhi e sentire il suo cuore pieno di gioia mentre si aggirava per le stanze della festa. Era l'inizio degli anni Settanta. Io non facevo che seguirlo e a un certo punto mi disse: "Siediti qui con me, Hudson". A quel punto, mi infervorai e gli dissi che mito lui fosse per me e lui rispose semplicemente: "Calma Hudson, calma". Penso che gradisse quando qualcuno non aveva timore di esprimergli i propri sentimenti».
La sua abilità e l'impegno nell'esprimere i propri sentimenti attraverso le canzoni ispirarono migliaia di musicisti come Mark Hudson a fare lo stesso, favorendo la nascita di una generazione di autori senza precedenti nella storia della musica. Alcuni furono spinti a tirare fuori il meglio dal proprio talento e dal proprio stile: altri si limitarono a copiare il suono dei Beatles. Nel 1965, George, Ringo e Paul parlavano malvolentieri dei loro imitatori-competitori. Non Lennon, con la sua solita schiettezza. Quando gli domandai se non gli davano fastidio le band che copiavano pedissequamente i Beatles, rispose: «No, perché lo sanno tutti. Solo i più fessi non si accorgono che ci copiano. Mi fa ridere. Vedo tanti di quegli imitatori in giro. Ma non ce la faranno mai a sfondare davvero. Avranno forse un singolo di successo ma nessuno si farà imbrogliare tanto a lungo». In alcuni momenti della sua vita, John avrebbe forse fatto meglio a copiare la freschezza, la vitalità e la brillantezza musicale dei migliori Beatles. Invece, per buona parte degli anni Settanta, mentre la sua vita era immersa nella confusione, lo fu anche la sua musica. La depressione, l'abuso di sostanze e i conflitti personali influenzarono in negativo le sue composizioni, facendole scivolare nella mediocrità. «Non c'è dubbio, quando John stava bene ed era felice, scriveva le cose migliori. Quando la sua vita entrò in confusione, lo stesso accadde al suo messaggio e alla sua scrittura. Il livello e i parametri del suo talento si misuravano con la sua realizzazione come uomo, con la sua verità personale. Quando aveva la mente sgombra ed era serio e lucido, era sempre il brillante compositore che aveva stupito il mondo insieme a Paul McCartney». Eppure Lennon fu capace anche di convogliare gli aspetti più disturbanti della sua personalità nella scrittura di alcune delle canzoni più oneste e riuscite della sua carriera. Il classico dei Beatles Help! è un esempio illuminante di una canzone di successo in cui era anche contenuto un ritratto veritiero dello stato in cui si trovava allora John, emotivamente e intellettualmente. Non stava bene, come ammetteva lui stesso: «Quando nel 1965 usci Help! era veramente un grido d'aiuto. Tutti pensano invece che sia solo una canzone rock&roll veloce e scanzonata. Non me ne resi subito conto; la scrissi su commissione per il film. Più tardi capii che stavo davvero invocando qualcuno di aiutarmi. Mi sentivo come l'Elvis sfatto degli anni Settanta. Basta vedere il film, com'ero grasso, insicuro e… completamente perso. Cantavo di quando ero più giovane e di tutto il resto, guardandomi indietro mi rendevo conto di come la vita fosse più facile allora. Adesso vedo tutto in modo più positivo, ma ho attraversato momenti in cui ero davvero depresso e avrei voluto buttarmi da una finestra. Allora ero grasso, depresso e avevo bisogno di aiuto». Scott Regan, il deejay numero uno di Detroit negli anni Sessanta, ricorda la prima volta in cui riconobbe il genio di Lennon nel conciliare emozioni conflittuali trasformandole in splendida musica, un elemento essenziale per la grandezza sua e dei Beatles. Lo disse per la prima volta a me e Brian Epstein mentre ci trovavamo insieme in macchina dopo il concerto del 1964 a Kansas City: «C'è qualcosa che vuoi domandarmi?» E io: «Cosa rende così grande la musica dei Beatles?» «Mette insieme gioia e tristezza, il bello e il brutto» rispose. «Tutte le loro canzoni esprimono sentimenti spontanei, autentici. Lennon capiva la semplicità del rock&roll… e la sua trasparenza». La dolorosa rottura con i Beatles nel 1970 catapultò John in una nuova fase della sua esistenza, dove fu spesso costretto a lottare per trovare la propria voce, e il suo cammino lo portò spesso a sondare gli aspetti più profondi e oscuri di sé. La musica che creò da solista fu talvolta brillante, oppure farraginosa e sgradevole, come la sua vita. «Quando una band si scioglie», dice Chris Carter, «il momento è sempre intenso e gravido di emozioni. Per alcuni musicisti è come aver perso una parte di sé. Cercano una direzione. Successe anche a John come agli altri Beatles». Il primo disco solista, Plastic Ono Band, regge benissimo il confronto con le pagine più ispirate dei Beatles, e per buone ragioni, come ribadisce ancora Carter: «Nel 1970 era al settimo cielo per il suo matrimonio, e si sentiva eccitato e nel pieno di un torrente creativo. Considerando che era per la prima volta da solo dopo dieci anni con i Beatles, il risultato del disco era in linea con la sua personale euforia».
Ma la musica di quello storico primo album da solista rifletteva anche la battaglia con i fantasmi che lo tormentavano da molto prima di formare il gruppo. Nel periodo precedente alla registrazione di Plastic Ono Band Lennon si sottopose a intense sedute di «terapia primordiale», un trattamento sviluppato alla fine degli anni Sessanta dal dottor Arthur Janov. La terapia consiste nel depurare i pazienti delle tossine rimaste nella loro psiche, scorie di conflitti della prima infanzia. Janov incoraggiava i suoi pazienti, come John e Yoko Ono, a confrontarsi per la prima volta con i traumi originari della loro vita, fronteggiandoli in modo da potersene finalmente affrancare e passare oltre. Nel maggio del 1970, John spiegava così la tecnica: «Janov mi mostrò come sentire la mia paura e il mio dolore, e da allora sono riuscito ad affrontarli meglio di quanto non accadesse prima. Sono lo stessa persona, ma adesso ho una valvola di sfogo. Non rimane più tutto dentro di me. Posso essere più sollevato. Credo che la terapia primordiale sia ottima ma non la voglio trasformare in un'altra nuova frontiera, come era stato per Maharishi e la meditazione trascendentale. Se la gente sa che cosa ho attraversato, e desidera scoprirlo, può farlo, ma niente di più. Non credo che nient'altro possa funzionare con me. Inoltre non ho ancora finito: è un processo che continua. Proseguiamo la terapia praticamente ogni giorno. Non voglio insistere perché può essere imbarazzante. È come togliere il guscio a qualcosa che hai dentro. La terapia primordiale ci ha permesso di provare continuamente determinati sentimenti dolorosi, che ti fanno piangere. Tutto qui. Prima non li sentivo. Prima erano come bloccati. Una volta che li hai liberati, piangi e ti sfoghi. È tutto molto semplice in realtà». Non c'è dubbio che il confronto con i traumi della vita passata in Plastic Ono Band abbia modellato alcune delle sue migliori canzoni. Le liriche dell'album sono emozionanti e rivelatrici. Scrivono in pratica una biografia di alcuni dei momenti più importanti e dolorosi dell'esistenza di John, identificandone i responsabili. Mother è dedicata ai genitori che lo avevano abbandonato quando era ancora piccolissimo: MOTHER, YOU HAD ME, BUT I NEVER HAD YOU I WANTED YOU, YOU DIDN'T WANT ME SO I, I JUST GOT TO TELL YOU GOODBYE, GOODBYE. FATHER, YOU LEFT ME, BUT I NEVER LEFT YOU I NEEDED YOU, YOU DIDN'T NEED ME SO I, I JUST GOT TO TELL YOU GOODBYE, GOODBYE. CHILDREN, DON'T DO WHAT I HAVE DONE I COULDN'T WALK AND I TRIED TO RUN SO I, I JUST GOT TO TELL YOU GOODBYE, GOODBYE. MAMA DON'T GO5
In un altro brano, la vibrante Working Class Hero, Lennon guarda alla sua relazione con la società inglese: AS SOON AS YOU'RE BORN THEY MAKE YOU FEEL SMALL BY GIVING YOU NO TIME INSTEAD OF IT ALL TILL THE PAIN IS SO BIG YOU FEEL NOTHING AT ALL A WORKING CLASS HERO IS SOMETHING TO BE A WORKING CLASS HERO IS SOMETHING TO BE THEY HURT YOU AT HOME AND THEY HIT YOU AT SCHOOL THEY HATE YOU IF YOU'RE CLEVER AND THEY DESPISE A FOOL 'TILL YOU'RE SO FUCKING CRAZY YOU CAN'T FOLLOW THEIR RULES A WORKING CLASS HERO IS SOMETHING TO BE 5 Madre tu hai avuto me, ma io non ho mai avuto te/ Io volevo te e tu non volevi me/ Per cui ho dovuto dirti addio, addio./ Padre, tu mi hai lasciato/ Ma io non ho mai lasciato te/ Io avevo bisogno di te/ E tu non avevi bisogno di me/ Per cui ho dovuto dirti addio, addio/ Bambini, non fate come ho fatto io/ Non sapevo ancora camminare e ho tentato di correre./ Per cui ho dovuto dirvi addio, addio./ Mamma non andare via.
A WORKING CLASS HERO IS SOMETHING TO BE6
Il suo picco di irriverenza John lo raggiunge comunque in God, in cui rigetta l'idolatria che lo ha reso uno degli uomini più famosi e influenti del mondo, nominando anche i suoi eroi personali come Elvis e Bob Dylan (citato con il nome di battesimo, Robert Zimmerman): I DON'T BELIEVE IN KINGS I DON'T BELIEVE IN ELVIS I DON'T BELIEVE IN ZIMMERMAN I DON'T BELIEVE IN BEATLES I JUST BELIEVE IN ME YOKO AND ME AND THAT'S REALITY7
A causa del suo linguaggio crudo e del suo misurarsi con argomenti difficili, Plastic Ono Band non fu un grandissimo successo. Ma per lo stesso motivo, rimane il capolavoro di John da solista. Andre Gardner, conduttore di un longevo programma radiofonico sui Beatles in quel di Philadelphia, sostiene che l'album servì una dose di realtà che per i fan era troppo dura da mandare giù: «È un fantastico disco rock. Ma molte stazioni radio si rifiutarono di trasmettere le canzoni a causa del suo linguaggio. Per questo non fu un successo commerciale. Se parliamo però di vera arte, è difficile trovarne in un altro disco più che in Plastic Ono Band. John Lennon ha messo a nudo la propria anima nel nome del rock&roll. Quali altri artisti potrebbero mai farlo?» Anche Mark Hudson conviene su questo punto: «Se ci fai caso è un album fondato sul concetto di purificazione, di catarsi. Ha il coraggio di affrontare ogni crisi, dal rapporto con i genitori allo scioglimento dei Beatles, alle tensioni con Paul McCartney. Parla di Dio, dei mantra, di sua moglie – tutte le cose con cui si scontrava tutti i giorni – e allo stesso tempo era autobiografico, era come se dicesse: "Racconta tutto di Yoko e di me…" È quanto di più vicino a un'autobiografia musicale si possa immaginare». La musica dell'anima di Plastic Ono Band era, come asserisce Andre Gardner, troppo forte per molte stazioni radio. John ammise qualche anno più tardi che il linguaggio usato nei testi frustrò gli sforzi per ottenere una buona messa in onda. Ma, come suo solito, non si scusò: «Se ho messo la parola "fucking" è perché ci stava. Non mi accorsi nemmeno che la ripetevo due volte in Working Class Hero finché qualcuno non me lo fece notare. Quando la cantai mi dimenticai un verso che aggiunsi in un secondo momento. Si dice "fottere il cervello". Io parlo così. Stavo per farlo anche in passato con altre canzoni, ma poi mi sono trattenuto, il che fu pura ipocrisia, una cosa davvero stupida». Eppure, nonostante questo fosse il suo carattere, John era vulnerabile rispetto alle reazioni del pubblico nei confronti dei suoi testi. I critici e l'ascoltatore medio avrebbero impiegato decenni per capire l'arte di Plastic Ono Band. John non voleva che la stessa cosa si ripetesse per il suo disco successivo, perciò in Imagine cercò di veicolare il suo messaggio senza ricorrere a termini tanto crudi da poter urtare la gente. A pochi giorni dall'uscita, il giorno prima del suo trentunesimo compleanno, disse di Imagine che era «un disco sincero. Era come Working Class Hero con una spruzzata di cioccolato. Ho cercato di farlo pensando alla gente che lo avrebbe ascoltato». Una parte del disco fu registrata in Inghilterra, nella casa di Ascot, insieme a Phil Spector. George Harrison suonò la chitarra in cinque canzoni. Imagine tratta molti degli stessi temi di Plastic Ono Band, ma John aveva preso una serie di contromisure affinché i fan lo trovassero più ascoltabile, in particolare 6 Appena nasci ti fanno sentire piccolo/ Non dandoti un minuto invece di tutto il tempo che vuoi/ Finché il dolore è così forte che non provi più nulla/ Essere un eroe della classe operaia, è una cosa di cui andare fieri/ Ti fanno male a casa e te ne fanno a scuola/ Ti odiano se sei intelligente e ti disprezzano se fai lo stupido/ Finché non ti fottono così il cervello da non poter seguire le loro regole/ Essere un eroe della classe operaia, è una cosa di cui andare fieri 7 Non credo nei re/ Non credo in Elvis/ Non credo in Bob Dylan/ Non credo nei Beatles/ Credo solo in me e Yoko/ E questa è la realtà.
evitando qualsiasi espressione scurrile. Questo approccio risulta particolarmente significativo prendendo in esame il testo della celeberrima Imagine, le cui idee filocomuniste erano potenzialmente offensive per molti occidentali assai più di qualsiasi parolaccia. «La canzone dice: "Immagina che non ci siano religione, né nazioni, né politica", concetti che sono gli stessi contenuti nel Manifesto di Marx ed Engels. Non sono un vero comunista, né del resto appartengo ad alcun movimento. Imagine ha lo stesso messaggio di Working Class Hero, solo con una punta di zucchero in più. Ora ho capito cosa bisogna fare. Esprimere le proprie idee politiche con un cucchiaino di miele. Quello che io, Yoko, Jerry Rubin e gli altri facciamo è provare a scuotere le nuove generazioni dalla loro apatia». La strategia funzionò. Benché non raggiunse mai il numero uno, Imagine divenne una delle canzoni più celebrate della storia della musica contemporanea. Un inno che conteneva le speranze di una generazione e fu la colonna sonora di molte manifestazioni politiche negli anni Settanta. Ma quel brano fu anche il segno del ruolo sempre più vitale di Yoko Ono nella vita e nell'arte di John. Il testo si ispirava ad alcuni passaggi del libro di Yoko, Grapefruit. Denny Somach sostiene che lei abbia contribuito alla scrittura di Imagine, anche se non le è mai stato riconosciuto: «Ha dato molto alla scrittura di quella canzone. Quando la presentarono al loro editore, era siglata come una canzone di Lennon/Ono. Fu rifiutata. Dissero che John stava solo tentando di smettere di dividere a metà i diritti di publishing. Rifiutarono di aggiungere il nome di Yoko». A Yoko Ono sono sempre stati riconosciuti pochi meriti per il suo impatto positivo su John, mentre è stata contestata per quella che molti fan percepirono come un'influenza negativa sull'arte e sulla vita di suo marito. Ma la musica racconta una storia diversa. Perché quando John iniziò ad allontanarsi da Yoko, anche quella cominciò a perdere la direzione. Nei primissimi mesi del 1972, John iniziò a lavorare sull'album Some Time in New York City. Chris Carter sostiene che il disco rifletteva l'ansia crescente e il venir meno del rispetto per se stesso durante il periodo che sarebbe culminato nel «weekend perduto» iniziato nell'estate del 1973. «Fu il punto più basso della carriera di John. Scioccò il mondo della musica e il resto del mondo quando cantò Woman is the Nigger of the World. Il solo titolo sconvolse molte persone. Quella canzone non soltanto puntava il dito contro tutti ma era uscita in un periodo dove era forte il riflusso antiBeatles. L'album fu accolto molto male. L'intero periodo tra il 1972 e il 1973 fu difficile, soprattutto il 1973 quando gli altri ex Beatles uscirono tutti con singoli di successo. John uscì invece con l'album Mind Games, leggerino e piuttosto debole. Stava vivendo il «weekend perduto». May Pang fu in studio con lui per la maggior parte del tempo, e la sua organizzazione lo aiutò senz'altro. Ma John e la musica non se la passavano bene. Mancavano la magia e la creatività di Plastic Ono Band. Poi fu la volta di Walls and Bridges». Registrato tra luglio e agosto del 1974, il disco conteneva ottime canzoni come #9 Dream e Steel and Glass, oltre alla bella e spesso sottovalutata Bless You. Secondo Carter, rifletteva i miglioramenti nella vita di John. «C'erano alcuni dei pezzi migliori che avesse mai creato. Stava iniziando di nuovo a fare sul serio. Stava uscendo dalla depressione e dal dolore e iniziava a sentirsi di nuovo bene. La musica è paragonabile a quella di Plastic Ono Band, che è il suo miglior album da solo. Walls and Bridges scorreva più liscio, non c'era la mano di Phil Spector. Ma era comunque un disco eccezionale per varietà e raggio d'azione». May Pang lo definisce come il periodo più produttivo della carriera solista, ma Walls and Bridges rappresenta anche il ponte che lo riportava da Yoko, artisticamente, emotivamente e anche nei fatti, grazie alla canzone Whatever Gets You Thru The Night, un duetto con Elton John che divenne il primo singolo al numero uno di Lennon dopo l'epopea dei Beatles. Denny Somach racconta come nacque la canzone e in che modo aiutò John e Yoko a tornare insieme: «Fece un accordo con Elton John. Elton gli disse: "Se fai questo disco, io canto con te. Sarà numero uno, e se succede, siamo d'accordo già adesso che canterai al Madison Square Garden insieme a me"». Il 28 novembre 1974, quando Elton si esibiva in testa al cartellone del Madison Square Garden, prima dell'ultima canzone, presentò John Lennon e insieme cantarono Whatever Gets You Thru The Night, Lucy In The Sky With Diamonds e I Saw Her Standing There. Fu il giorno in cui lui e Yoko si ritrovarono.
L'incontro nel backstage gettò i semi del loro ritorno insieme, pochi mesi dopo. Yoko diede alla luce Sean nell'ottobre dell'anno successivo. Elton John gli fece da padrino. Con la nascita del suo secondo figlio, John Lennon si ritirò di fatto dalla scena pubblica e passò i cinque anni successivi a occuparsi di Sean. In quegli anni, mentre gli altri Beatles continuavano a sfornare dischi di successo, in tanti se la presero con Yoko Ono per aver ridotto al silenzio uno degli artisti più brillanti della sua epoca, trasformandolo in un baby sitter e in un eremita. I dubbi sui benefici creativi e personali che la relazione con Yoko ebbe su di lui svanirono con l'uscita di Double Fantasy, a cui avevano lavorato insieme. L'album arrivò nei negozi il 17 novembre 1980, tre settimane prima che John venisse assassinato. Walter J. Podrazik, studioso dei Beatles e professore all'Università dell'Illinois, considera l'uscita di quel disco come uno dei momenti più felici della vita di Lennon: «L'assassinio causò una serie di tragedie. Due bambini persero il loro papà. Una moglie il marito. Dal punto di vista della cultura di massa, la morte trasformò il senso del suo ritorno. Aveva ancora molto da dare. Lo aveva dimostrato in Double Fantasy. John scrisse sole sette canzoni. Non c'entra la quantità ma la qualità. Ho sempre pensato che il pezzo migliore del disco fosse I'm Losing You: è un esempio così poderoso della sua abilità di coprire tutta la gamma di una singola emozione, dalla paura all'amore assoluto. (Just Like) Starting Over è un brano storico. Era il suo modo di dire: "Eccomi, sono tornato". Quella canzone d'amore riaffermava il legame con Yoko. Il messaggio era chiaro: si è più completi come persone quando si ha accanto qualcuno che si ama. È una canzone molto personale, una canzone speciale». Un dubbio che ha sempre assillato John Lennon riguardava la sua voce. Per quanto possa sembrare sorprendente, John, nonostante fosse stato il cantante solista della band più popolare del pianeta, la sentì sempre inadeguata. Le sue insicurezze infiammarono l'atmosfera in studio a Los Angeles e New York, dove registrò i vari Rock 'n' Roll, Some Time in New York City, Walls and Bridges e Mind Games. Confidava ancora nella propria scrittura, tanto aver composto tutte le canzoni di Mind Games in neanche una settimana. Ma quando registrava, soprattutto le tracce vocali, era dolorosamente un'altra storia. May Pang lo ricorda bene: «Nel 1973 Yoko e altri gli dissero che non aveva una gran voce. Fumava a non finire. Era preoccupato, continuava a dire: "Mi sono giocato la voce". Era ossessionato. Harry Nilsson gli diede coraggio. Harry, benché fosse una pessima influenza per altri motivi, in questi casi poteva essere di grande aiuto. L'ansia raggiunse il picco massimo nei primi anni Settanta, ma lo aveva perseguitato sin dagli esordi con i Beatles, quando usava molto l'elettronica per trattarla o per coprire i suoi difetti. Joe Johnson è ancora adesso affascinato da come Lennon non sentisse la sua voce come il resto del mondo». «La odiava, e usava spesso metodi elettronici per modificarla, camuffarla o toglierle i difetti. Chiedeva sempre a George Martin di mettere qualche effetto. È lampante in canzoni come Tomorrow Never Knows, dove la sua voce è filtrata attraverso un amplificatore Leslie. Anni dopo, sull'album Rock and Roll, tutte le tracce vocali furono trattate con il delay. Non c'è dubbio che fosse fatto apposta, un tentativo di catturare il feeling delle canzoni rock anni Cinquanta come Heartbreak Hotel. Ma è triste per i suoi ammiratori pensare che John doveva distorcerla per sentirsi a proprio agio, quando aveva una delle più belle voci del mondo». La vita musicale di John Lennon si divide in due grandi periodi. Con Paul McCartney e i Beatles oltrepassò le barriere creando una nuova energia musicale positiva e innalzò il rock a vette di popolarità e arte che nessuno pensava fosse possibile raggiungere allora. Da solista, allargò il vocabolario dell'autobiografia, dell'esplorazione di sé e della confessione attraverso i testi e la musica. Il deejay Scott Regan ricorda bene l'impatto che ebbero Lennon e i Beatles: «Gli anni Sessanta furono l'evoluzione dei Beatles. Influenzarono e allo stesso tempo furono il riflesso di quel decennio. Dopo le splendide canzoni che Lennon e McCartney scrivevano nei primi anni, iniziarono a muoversi verso un suono differente, ad andare incontro alla spiritualità orientale. Sgt. Pepper's inaugurò l'era del Flower Power. Nessuna delle due cose era mainstream, ma all'inizio degli anni Settanta Lennon le fece
diventare di massa. Le sue canzoni più significative in tema di spiritualità sono All You Need Is Love e l'ultima che incise con i Beatles: Across the Universe. Da solo, cominciò a lasciar scorrere tutto, da Working Class Hero a Imagine. In pochi anni, divenne l'artista della confessione intima e l'oratore in musica delle grandi sfide dell'umanità. La vita di John è stata scandita da un rosario di tragedie. Come quelle di milioni di altre persone che raccontava nella sue canzoni». John e la sua musica hanno continuato a prosperare anche nei decenni successivi alla sua morte, in radio, nei lavori dei musicisti che hanno ispirato, negli atteggiamenti del pubblico verso temi come la spiritualità, la pace e la giustizia, e persino negli atenei. A partire dalla primavera del 1981, pochi mesi dopo il suo assassinio, il professor John Stevens del Berklee College of Music di Boston tenne per la prima volta un corso intitolato La musica di John Lennon. Da oltre trent'anni, le iscrizioni al corso sono a numero chiuso, con una lunga lista di attesa per ogni semestre. Stevens, fan dei Beatles da quando era adolescente, non è sorpreso dal fatto che Lennon e la sua musica continuino a catturare: «John ci ha lasciato tutto. Plastic Ono Band, Imagine e Walls and Bridges raccontano la storia della sua vita. È bene dirlo, è una delle poche persone di cui ci interessava sapere tutto. Nella sua musica, specialmente nell'album Plastic Ono Band, narra della sua infanzia distrutta e della sua guerra senza fine contro l'establishment. In Imagine poteva lanciare messaggi tanto audaci perché la musica era così bella; la presentazione era talmente soft che la gente non faceva caso al testo, anche se conteneva frasi come "immagina che non esista Dio, che non ci siano Stati". Riuscì in un'impresa quasi impossibile: con la bellezza della sua musica, fu capace di intavolare argomenti per una discussione che forse ci avrebbe aperto gli occhi». Stevens, che da giovane portava occhialini rotondi e imitava lo stile di John, afferma che i suoi studenti sembrano molto colpiti dall'abilità di Lennon nell'agganciare al mondo gli eventi della sua vita attraverso le canzoni. «Li affascina molto, al di là dell'incredibile successo dei Beatles, il fatto che la sua musica fosse di tale effetto benché costruita solamente con chitarra, piano, basso e batteria. Li ossessiona la qualità della sua voce, ma più ancora di questo, il fatto che negli anni Sessanta e Settanta i suoi testi e le sue performance documentassero tutto ciò che lui e i Beatles stavano attraversando». Stevens sostiene che, intrecciando la musica alla sua vita, Lennon fu capace di toccare nel profondo tutte quelle persone che stavano affrontando le stesse sue emozioni e difficoltà. Realizzando quella connessione, aprì un regno spirituale in cui ciascuno poteva ritrovare risonanze ancora più profonde: «La sua musica brucia e ha ancora la stessa potenza di quando è stata scritta. Ha un senso di eternità, di verità nuda e cruda sul mondo com'è ancora adesso, riflette le speranze e i fallimenti di ognuno di noi. Non è così?». La sua domanda retorica non fa che confermare quale spirito incarnava l'uomo John Lennon. E sottolineare la verità, ovvero che, con l'avvicinarsi della fine, il suo amore per la vita e la musica lo salvarono quando era sull'orlo del baratro per condurlo a un trionfo personale che sarebbe andato di gran lunga al di là del successo di pubblico.
10. IL TRIONFO DELLO SPIRITO
«Devo essere onesto – fare in modo che sappiano di che cosa sono fatto. Non sono assolutamente perfetto e loro devono saperlo» YOKO ONO, CITANDO JOHN RIGUARDO ALLA SUA RELAZIONE CON I FAN «Era così entusiasta della sua nuova musica. Sembrava in salute, pieno di energia e pronto ad affrontare qualsiasi cosa il futuro gli avesse riservato» PAUL DREW, PRODUTTORE Pochi sono capaci di tollerare i fallimenti di una persona di successo. Se fossimo tutti ricchi e famosi la felicità sarebbe dietro l'angolo. Ma per gli esseri umani la felicità è spesso sfuggente, a prescindere dalla posizione economica o sociale. Da una diversa prospettiva, «avere tutto» può condurre direttamente alla povertà. Difficilmente la ricchezza materiale porta a vivere bene. È sopravvalutata, e di sicuro nel caso di Lennon e dei suoi «ragazzi» non è la ragione della vera felicità. E così i curiosi e le persone che li informano sono affascinati dall'impatto sulla vita di ricchezza e celebrità. John Lennon ha vissuto la vita più pubblica e privata di tutte. Con i Beatles lavorava, mangiava, si riposava e portava avanti i propri affari personali sotto riflettori da superstar internazionale che di rado avevano illuminato in quella maniera la vita di qualcuno. Ma negli ultimi cinque anni si era sottratto alle luci della ribalta e aveva vissuto un'esistenza appartata, condivisa per la maggior parte soltanto con sua moglie, suo figlio appena nato e pochissime altre persone. Al culmine della fama e nei suoi anni di quiete familiare insieme a Yoko e Sean, compì un'impresa ancora più imponente: sforzarsi di mantenere i legami con la gente comune. A differenza di tante stelle, insistette sempre per presentarsi a chi incontrava come una persona normale. Non conosceva nessun altro modo di essere. Avendo conosciuto la Beatlemania sia da fan che da reporter dietro le quinte, fui sempre impressionato dalla compostezza di John, Paul, George e Ringo in mezzo a tutta quella vertiginosa – e spesso pericolosa – frenesia che avevano intorno. E mi infuriavo quando i giornalisti biasimavano il loro modo di comportarsi o mettevano in dubbio il loro talento. John Lennon fu trattato male più di tutti gli altri Beatles messi insieme. Il suo attivismo in favore della pace e dei diritti civili, i suoi strani scherzi, spesso fraintesi, diedero tantissimo da scrivere a reporter opportunisti e a beceri redattori di pettegolezzi. Quando lo conobbi, potei capire perché lo prendevano per il verso sbagliato, perché è quello che capitò inizialmente anche a me. Molte cose che con gli altri funzionavano da dissuasori – il tono diretto e genuino, l'insofferenza per le stronzate – mi portarono invece ad apprezzarlo. Posso dire che era pieno di difetti e soffriva sempre per qualcosa. Molti artisti vivono simili conflitti e provano a trovare sollievo dalle angosce con quantità eccessive di alcool, sesso e droga, come fece lui stesso. Eppure ciò che lo rendeva diverso da tutte le altre stelle, poche escluse, non era solo la volontà ma il suo cercare con insistenza di condividere la propria vita con le altre persone. Ha condiviso con i fan, attraverso le sue canzoni, i momenti di dubbio, dolore, umiliazione e scoperta, in tutto il loro splendore e il loro pathos. Ha fatto di tutto per spartire i momenti di vita quotidiana con le persone comuni, a cui offriva una sigaretta, con cui si fermava a bere o a parlare per qualche minuto o per intere ore.
Una volta, un incontro di questi durò per ben tre giorni. Non lo vidi mai così felice come quella volta. Il 16 maggio 1975, dopo diverse telefonate da parte mia e di Gene Vassall, dirigente della mia stazione radio, John accettò di venire a Philadelphia per prendere parte a una maratona di solidarietà organizzata dall'emittente per cui lavoravo. Quale altra star avrebbe partecipato a un simile evento fuori dalla propria città? E chi, se non John Lennon, sarebbe potuto arrivare da solo in treno? Quando si aprirono le porte ne uscì in un cappotto bianco, con un sorriso a trentadue denti. «Il signor Kane, suppongo…» «Ehi John, benvenuto nella mia città». Era diverso dall'ultima volta che l'avevo visto. Aveva sempre i capelli lunghi fino alle spalle ma molto più radi. Gli occhi dietro le lenti sembravano meno penetranti. Era più pallido e smunto del solito. Ma nonostante il suo aspetto, ero elettrizzato dalla semplice gioia di vederlo. John Lennon era riemerso nel mio mondo, prendendo un treno come qualunque mortale. Mentre salivamo le scale della stazione gli chiesi come stava. «Un po' meglio, adesso». Sembrava una risposta strana. Se avessi saputo che cosa aveva passato in quella prima metà del decennio sarei stato sorpreso di vederlo ancora in piedi, se non ancora vivo. Mentre camminavamo diretti alla limousine che ci aspettava, lo riconobbero in pochi, anche se quelli corsero da lui per un autografo. Nel 1975 ero al culmine del mio successo come conduttore del telegiornale alla WPVI, allora la tv numero uno a Philadelphia. Ci fu più gente che si accorse di me rispetto a quella che si accorse di lui. E John, invece di essere contrariato, era felice per me. Mi disse con gioia: «Cazzo, Larry, sei una rockstar!» In macchina parlammo. Senza registratori. Senza telecamere. John, che una volta era così vivace, appariva molto più pacato. «Grazie per essere venuto» gli dissi. «Sai, avevo bisogno di muovere il culo da casa. Sono tornato da qualche mese. Era tempo di uscire. Mi serviva una tregua». John sembrava stanco, ma il suo spirito era sereno. Da quattro mesi Yoko era incinta di Sean, lo avevano concepito appena un mese dopo il ritorno a New York dal «weekend perduto» lungo un anno e mezzo. Sul suo periodo a Los Angeles mi disse: «Larry, avrei potuto essere più felice che mai. Amavo quella donna. Ho scritto alcune belle canzoni e mi sono sbronzato e strafatto». Ero perplesso. «Perché sei ritornato?» «Amo anche Yoko. Trovare qual è la tua vera casa può essere difficilissimo, non so se mi capisci, giovanotto». La conversazione fu interrotta dalla prima fermata: la Campana della Libertà. Volevo mostrare a John il grande simbolo della Rivoluzione americana, allora ospitato nel retro della Independence Hall. Mentre gli recitavo la mia lezioncina di storia, gli occhi di John brillavano come quelli di un bambino, come avevano sempre fatto nei momenti di illuminazione e di scoperta, quando imparava qualcosa. Poi lo sguardo si indurì e le labbra si contrassero. «Una guerra crudele» disse a proposito della Rivoluzione. Poi aggiunse: «Proprio come il Vietnam – oh merda, mi metteranno in croce per questo». «Non ti preoccupare», risposi, «solo io, te e milioni di persone sappiamo cosa pensi della guerra». Ridemmo. Si riferiva, non c'è dubbio, al tentativo del ministero della Giustizia di espellerlo sulla base della condanna per detenzione di marijuana in Inghilterra. Era un gioco scoperto dell'amministrazione Nixon – che aborriva il suo sostegno al movimento per la pace – per cacciarlo dal Paese. Ironia della sorte, la visita a Philadelphia mi diede l'opportunità di sollecitare lettere di sostegno da parte di membri del Congresso eletti nella nostra area – Pennsylvania, New Jersey e Delaware – e dal sindaco di Philadelphia, Frank Rizzo. Pochi mesi più tardi John ottenne la green card al culmine di una difficile battaglia legale. Quel venerdì pomeriggio, però, era di buon umore o pronto a fare rock&roll, non solo suonando. Tornammo alla limousine e riprendemmo la marcia verso la stazione radiotelevisiva, dove la
maratona di beneficenza stava entrando nel vivo. Non c'erano folle di fan ad aspettarci mentre parcheggiavamo. Dopo tutto, nessuno, nemmeno i deejay e i miei colleghi, credeva davvero che John sarebbe venuto a partecipare. Nel corso del fine settimana, migliaia di persone si sarebbero accalcate nello stesso parcheggio, cercando di intravvedere per un attimo l'ex Beatle. Molti riuscirono ad avere di più. La WFIL Radio Helping Hand Marathon andava in onda in collaborazione con la WPVI, la televisione dove lavoravo come anchorman, e i fondi raccolti sarebbero andati alla National Multiple Sclerosis Society. Le due emittenti dividevano un palazzo al 4100 di City Line Avenue, dove la città di Philadelphia incontra i sobborghi lussuosi di Philadelphia Main Line. Le 56 ore passate in studio per la maratona dicono molto dell'uomo John Lennon: l'amore per la gente, il desiderio di donare tutto se stesso, la fede nell'uguaglianza, la volontà di far capire che non era un Dio ma un essere umano come tutti gli altri. In un decennio fatto in egual misura di successi e delusioni personali, sembrava felice di essere di nuovo in un contesto positivo, in un luogo dove erano altre le necessità al centro dell'attenzione. Quando arrivò allo studio, John si lanciò nella sua migliore performance di sempre come speaker, buttandosi addirittura in personalissime previsioni del tempo: «La giornata di oggi è per buona parte all'insegna del sereno, si prevedono nubi per questa sera, e occasionali dolori per la giornata di domani». Non sapeva che il nostro direttore delle news, Ron Tindiglia, che lo ascoltava nel suo ufficio, quando sentì le sue previsioni meteo ebbe una brillante idea che avrebbe messo in pratica nel weekend. John, che era ancora una delle star più famose del mondo, passò gran parte del primo pomeriggio omaggiando tutti quelli che contribuivano alla raccolta di fondi. Pronunciò centinaia di nomi, ringraziando anche chi aveva donato 50 dollari o 50 cent. Un ascoltatore disse, a un certo punto, che avrebbe donato una somma importante se lui avesse detto in diretta: «I gay sono belli». John disse immediatamente: «Tutti i gay sono belli… E ne ho anche incontrati di brutti». Fuori, la folla iniziava a radunarsi nel parcheggio. Le persone della radio dovettero spostare le macchine per fare posto ai fan. Quando John lo venne a sapere, uscì nel parcheggio e mise all'asta i suoi calzini, sporchi e appena tolti, prendendosi gioco della sua celebrità nel nome della beneficenza. Harry Bluebond aveva 24 anni ed era tra la folla assiepata per vedere John Lennon, quel venerdì: «Firmava autografi e riceveva donazioni. Rimasi affascinato dalla sua presenza, perché era davvero diverso da come me lo aspettavo. Non stavo guardando il cantante, l'idolo di quando ero adolescente e dei miei vent'anni, era una persona vera. Si comportava in maniera naturale. Era come me o te». Al piano di sopra, nella redazione delle news, mi stavo preparando per il notiziario delle 6 quando ricevetti una telefonata dal sindaco di Philadelphia, Frank Rizzo. Era un politico popolare quanto intransigente. Lo avevano informato della folla fuori dagli studi. «Signor Larry Kane, devo inviare lo Stakeout?» Lo Stakeout Squad era l'unità d'élite di tiratori scelti usata per il controllo di situazioni difficili. «No», risposi io, «ma ci vorrebbero alcuni agenti in più». Nel giro di qualche minuto già si sentivano in lontananza le sirene che portavano schiere di agenti in divisa blu per garantire la sicurezza. John era scatenato. Voleva fare di tutto per dare una mano. Quando il direttore Ron Tindiglia mi chiese se poteva sostituire per quella sera Jim O'Brien, il nostro celebre conduttore del meteo, che era in vacanza, gli risposi: «Ma scherza? Non vede l'ora!» Alla 17.45 accompagnai John Lennon nello studio di Action News alla WPVI per il suo debutto televisivo come lettore delle previsioni meteo. Il direttore Damon Sinclair camminava insieme a noi, filmando la scena con una cinepresa a mano. Guardai John e gli dissi «Pronto?» «Tutto ok, baby, tutto ok» rispose. Le previsioni del tempo furono un turbinio di tre minuti di incomprensibile – di fatto – ma adorabile lennonismo. John sparpagliò numeri e simboli sulla lavagna magnetica. «C'è un'area di alta pressione qui, una di bassa lì, e qua un fronte di aria fredda diretto verso uno di aria calda. O forse no. Afferrato?»
Per il resto del giornale, lessi una sfilza di notizie, dalle più liete alle più tragiche. John stava in un angolo del set a fare le facce e a cercare di distrarmi nella sua maniera diabolica, riuscendoci in più di un caso. Fu la prima e l'ultima volta che lesse le previsioni del tempo, ma fu un momento magico e memorabile. Lasciando attoniti centinaia di migliaia di spettatori, il meteo di John trasformò la Helping Hand Marathon in un successo durato l'intero fine settimana. Il numero di spettatori e ascoltatori, curiosi di sapere cosa avrebbe combinato John, fu da record per tutto il weekend. Tornato negli studi della WFIL, John si divertì a fare il deejay, facendo dediche per un dollaro e presentando gli ultimi successi. A un certo punto Lauren Lipton, una delle giornaliste della radio, andò verso di lui e, presentandosi, gli disse: «Ciao John, mi chiamo Lauren Lipton, piacere di conoscerti». E lui, fermandosi un attimo, la guardò con curiosità e disse: «Mi piacciono le tue tazze da tè». In sala piombò il silenzio. Intendeva qualche punto particolare dell'anatomia di Lauren? Aveva forse fatto una battuta un filo di cattivo gusto? Poi capimmo che si riferiva al tè Lipton. Tutti scoppiammo a ridere. Conversare con John era sempre un'avventura. Rimase in diretta per tutti e due i giorni. La domenica, stanco e giù di voce, annunciò ai tanti ascoltatori: «Avanti gente, fate donazioni in memoria di un vecchio come me». Benché fosse esausto, insistette per continuare a salutare i fan assiepati fuori dagli studi. Lynn Sherrick, una studentessa delle superiori di Montgomery County, in Pennsylvania, stava tornando da un campeggio la domenica mattina quando si sintonizzò sulla WFIL e sentì il programma alla radio: «Gridai dietro a mia madre e a mia sorella, che aveva 13 anni, finché non le convinsi ad andare. La mia tattica funzionò. Quando arrivammo al parcheggio, tutta l'area era transennata, ma riuscii a farmi largo, arrivai molto vicina a John Lennon e gli raccontai della mia famiglia. Gli chiesi di firmarmi delle banconote, ma lui le voleva per la maratona. Fu splendido vederlo da vicino. Non mi ero mai resa conto che aveva i capelli rossicci. Stava benissimo. Poi dovetti tornare a casa. Ma non era finita. Chiamai un amico e gli chiesi di portarmi di nuovo là. Lo vidi di nuovo! E mi chiese ancora soldi per la raccolta. Era irremovibile, ma anche molto alla mano. Mi disse: "Scrivimi". Io l'ho fatto e lui mi ha risposto, mi ha anche inviato un biglietto di auguri per il mio compleanno, il 12 febbraio 1977. Non lo dimenticherò mai». Joan Erle, un'altra studentessa di scuola superiore del New Jersey, fu accompagnata dal fratello Ed. Scavalcarono una barriera davanti all'ospedale adiacente alla stazione. Si precipitarono entrambi su John. «Rimasi sorpresa per quanto era magro. Sembrava consunto. Ma era così allegro. Chiedeva un dollaro per ogni autografo e metteva tutto nella cassa della beneficenza. Quello che mi ha impressionato di più è stato quanto fosse affascinante e disponibile nei confronti di tutte le persone che erano accalcate intorno a lui. Ricorderò sempre quel giorno». Nonostante ore insonni, il pandemonio che circondava lo studio, fan che andavano e venivano, John non perse mai l'aplomb per tutto il fine settimana. Guardò l'ammontare dei fondi raccolti dalla maratona con l'occhio dell'uomo che aveva una missione. Missione compiuta. Alla fine avevamo raccolto più denaro di quanto avessimo mai fatto prima, grazie, per buona parte, a lui. E lui non fece che ringraziarci. Quando la maratona finì, la notte della domenica, esausto ma raggiante, si rivolse al nostro direttore commerciale, Gene Vassal, e gli disse: «Grazie. È stato bellissimo». Mentre lo salutavo, mi venne vicino, faccia a faccia come era solito fare, e mi sussurrò quasi con dolcezza: «È stato davvero speciale. Avevo bisogno di una cosa come questa. Avevo bisogno di pensare agli altri. Mi sono divertito. Non avevo mai incontrato così tanta gente, gente normale. Grazie. Grazie davvero». Ormai per le rockstar è una moda prestare il proprio nome e un paio di canzoni a eventi benefici. Ciò che distingueva John era il modo in cui si sentiva coinvolto nel profondo quando sosteneva una causa del genere. Il suo più celebre impegno di beneficenza ebbe inizio quando sul canale tv WABC di New York
vide il servizio di un giovane reporter di nome Geraldo Rivera. Usando una chiave presa in prestito, Geraldo si era infilato nella Willowbrook State School di Staten Island, un istituto che ospitava bambini con ritardi mentali, e insieme a una troupe aveva documentato gli abusi subiti dai piccoli pazienti. John e Yoko furono così sconvolti che lo contattarono immediatamente. Rivera rimase tanto impressionato dalla compassione e dalla dedizione di entrambi da ricordarlo ancora oggi: «Li incontrai nella loro casa di Bank Street nel 1971. Fu un'emozione incredibile. Ero un grande fan dei Beatles e più ancora di John Lennon. Diventammo amici. Quando l'inchiesta iniziò, nel febbraio f 972, John mi chiamò e mi offrì il suo aiuto. Lui e Yoko si sentivano cittadini adottivi di New York. Volevano dare qualcosa in cambio. John era straordinariamente sensibile ai bisogni degli altri». John allestì un intero concerto di beneficenza e raccolse 250.000 dollari per gli ospiti di Willowbrook. Rivera, che avrebbe in seguito testimoniato al processo per il visto, ricorderà sempre la sua umanità: «Non era la celebrità che prestava giusto il nome alla causa. Quando veniva coinvolto, lo era in maniera totale. La sua solidarietà per i bambini di Willowbrook è qualcosa che non dimenticherò mai». Non lo dimenticherà neppure l'allora produttore esecutivo di Geraldo, Marty Berman, che ha ancora vivo il ricordo di un'altra apparizione di John in favore dei piccoli di Willowbrook in un festival a Central Park: «Era sincero. Negli anni Settata lavoravamo con altre stelle e celebrità. Lui era diverso. Era vero, come una persona qualsiasi. Si mescolava con la folla, non aveva entourage, era lui solo con la gente». Dagli inizi della sua carriera – dalle sudatissime jam session alla Casbah di Mona Best ai sordidi nightclub di Amburgo alle trionfali incursioni al Cavern Club – John Lennon aveva sempre voluto stare vicino ai propri ammiratori. Yoko Ono, la persona che più di tutte le altre gli fu davvero vicina, dice che desiderava interagire con i fan perché gli fossero d'ispirazione, per far vedere che, in realtà, non era diverso da loro: «Sentiva una responsabilità estrema nei confronti del pubblico. Per questo, invece di mostrare solamente il suo lato migliore, faceva l'opposto. Diceva: "No. Devo essere onesto – fare in modo che sappiano di che cosa sono fatto. Non sono assolutamente perfetto e loro devono saperlo". Non voleva che lo adorassero e basta. Voleva essere sicuro che capissero: "Sono una persona, sono fatto così e non dovete sentirvi sminuiti al mio cospetto"». Quando da Philadelphia tornò da sua moglie incinta, sapeva che stava per iniziare una nuova fase della sua vita, in cui avrebbe dovuto limitare i suoi eccessi e le sue libertà. Il modo in cui affrontò un cambio radicale di priorità e di responsabilità fu un esempio per i padri tutto il mondo. Come in molti altri aspetti della vita, fu pioniere anche di una nuova idea di paternità. Mario Casciano, che da fan assetato divenne amico di lui e di May Pang, ricorda la trasformazione: «Era tornato da Yoko e aspettavano un figlio. Era così tenero. Probabilmente si era sempre sentito in colpa per la sua assenza nei confronti di Julian. Anche se, non fosse stato per May, non si sarebbe neppure tenuto in contatto con lui. Ormai non poteva rimediare. Ma era determinato a non ripetere la stessa esperienza». La gravidanza di Yoko sembrò quasi un miracolo. A 43 anni, aveva già avuto diversi aborti e i dottori le avevano ripetuto più volte che rimanere incinta avrebbe messo in serio pericolo la sua salute. John aveva saputo di essere quasi sterile. Tuttavia, avevano tentato lo stesso. Su pressione di uno specialista di agopuntura cinese, avevano cambiato dieta e smesso con alcolici e droghe. La prova che tutto aveva funzionato arrivò il 9 ottobre 1975, il giorno del trentacinquesimo compleanno di John, con la nascita di Sean Lennon. John cambiò drasticamente stile di vita, trasformandosi da artista di alto profilo in padre a tempo pieno. Yoko era al settimo cielo per l'arrivo di Sean. Ma fu ancora più felice nel vedere un marito rigenerato affrontare una prova così difficile. I mesi passavano. Gli amici continuavano a chiedersi che fine avesse fatto John. Pochi credevano che stesse davvero accudendo in prima persona un bambino. Invece adorava ciò che stava facendo: «Fare il pane e badare ai bambini è come un lavoro a tempo pieno. Mentre guardavo mangiare il mio pane pensavo sempre: "Be', non è più importante di un disco d'oro o di diventare baronetto?"»
Si dedicò anche anima a corpo alla sua nuova passione per la cucina sana. Ancora una volta, precorrendo i tempi, adottò un regime macrobiotico e cercò di eliminare dai pasti gran parte dello zucchero. Bob Gruen ricorda come si impegnava a mantenersi in salute e a evitare di eccedere nel mangiare usando diversi metodi creativi di controllo mentale. «Cominciò a leggere libri di cucina, sulla nutrizione e il cibo, perché la sua mente era concentrata su quello e poteva trovare spunti per la sua fantasia, come quando leggeva come preparare piatti complessi o pranzi prelibati. Poteva leggere un intero libro e fantasticare senza mangiare. Leggere e pensare non gli avrebbero fatto sentire la fame per altre due ore». Crescere un bambino non lo trasformò, come sostengono in molti, in un pantofolaio a secco di ispirazione. Yoko racconta che ogni giorno scriveva, suonava la chitarra e si sbizzarriva in altre attività creative. Martin Lewis è convinto che il periodo casalingo abbia rappresentato per lui un rinnovamento personale e artistico. «Di John Lennon ammiravo soprattutto la capacità di riconoscere i propri errori. Non aveva certo trattato bene Cynthia. Per Julian, poi, era stato un pessimo padre. Quando rimase accanto a Sean dopo la sua nascita raggiunse con naturalezza la vera maturità. Furono anni felici. Nonostante tutte le speculazioni sul suo ruolo di uomo di casa, si riappropriò della sua vita. Dopo un ciclo senza fine e senza sosta iniziato nel 1957, stava cercando la sua vera dimensione. Aveva bisogno di riparare agli errori fatti con Julian e lo cominciò a fare. Era contento. Fu un importante periodo di autoanalisi». Michael Allison ebbe modo più di ogni altro, eccezion fatta per Yoko e Sean, di vedere da vicino John in questa sua seconda giovinezza. Atletico e intelligente, era un ciclista da lunghe distanze e un produttore di documentari; in quel momento stava lavorando come montatore a un film sul Brill Building, il cuore del quartiere della musica a New York. Inoltre aveva un'altra attività parallela: curare piante per interni. Un giorno fece visita a domicilio a un potenziale cliente indicatogli da un amico al Dakota. Quando suonò e gli aprirono la porta, vide un uomo alto circa un metro e settanta con in braccio un bambino. «Buongiorno, io sono John e lui è Sean». Allison riconobbe l'uomo che gli stava davanti, ma si comportò comunque con nonchalance per quanto gli era possibile: «Fu come un appuntamento al buio. Non avevo idea del fatto che sarei andato a casa di John Lennon. Ero un grande ammiratore dei Beatles e anche un suo fan, ma quel giorno mi dimenticai chi era. Credo che lui abbia molto apprezzato il fatto che mi sia comportato normalmente. Da allora, dal marzo 1976 fino alla primavera del 1982, per tutto il tempo in cui ho lavorato per John e Yoko, ho mantenuto lo stesso atteggiamento. Penso che rispettasse molto il fatto che io lo mattavo da persona e non come un'entità speciale o una star». Soprannominato «Michael Tree» da John, Allison divenne una presenza fissa al Dakota. Durante quel periodo imparò qualcosa di inaspettato sul suo cliente. «Era davvero un uomo squisito. La durezza che esibiva in pubblico era solo di facciata. Mi accorsi subito di avere di fronte una persona di classe, molto sensibile riguardo i sentimenti degli altri». Michael Allison ricorda come il suo ruolo nella vita di John Lennon crebbe, da maestro giardiniere ad amico a persona di fiducia: «Si sentiva a suo agio con me. Giravo per la stanza bianca, in cucina, nella sala egizia, a volte aprivo la porta della camera da letto dove riposava e lui mi faceva entrare. Divenni, in un certo senso, parte della casa. Dopo la visita di suo figlio Julian nell'inverno del 1977 sembrava abbattuto. Mi raccontò che non voleva fare a Sean quello che aveva fatto a Julian: essere assente e non solo. Era un buon padre, anche un po' severo con Sean, soprattutto nel periodo in cui non ebbero una tata. Ma era molto affettuoso nei suoi confronti. In questo periodo di risveglio, accaddero diverse cose. Continuava a sentire May, a cui a volte rispondevo io per lui e, man mano che il tempo passava, i suoi sentimenti per Yoko divennero più intensi». Dopo quindici anni sotto i riflettori, John si godeva la tranquilla vita domestica al Dakota. Ma fece anche in modo di continuare la routine di tutti i giorni e incontrare persone. Lo si vedeva spesso passeggiare a Central Park in compagnia di Sean. A volte, i due si spingevano anche più lontano. Padre e figlio fecero un viaggio di due ore da New
York alla Leigh Valley, in Pennsylvania, per esplorarne parchi e boschi. Molti abitanti della zona rimasero sbalorditi nell'incrociarli mentre camminavano tranquillamente insieme. John si tenne in contatto per telefono con i vecchi amici. Sentiva spesso Elton John, che ebbe un ruolo importante nella sua decisione di tornare a New York. Chiamò anche me in diverse occasioni. Una volta, parlammo dei suoi sforzi con Sean: «Larry, ogni tanto faccio qualche giro in Pennsylvania, devo proprio venire a Philadelphia a trovarti». Un'altra telefonata mi fece capire, senza mezzi termini, che i giorni di pace, riposo e impegno da genitore non avevano ammorbidito il suo umorismo tagliente né la sua linguaccia. Da un anno e mezzo dirigevo il notiziario delle 23 alla WABC a New York. Benché un lavoro a New York, la piazza numero uno per i media in America, fosse considerato il top delle tv locali – e una bella piattaforma da cui spiccare il salto verso una rete nazionale – volevo tornare a Philadelphia per occuparmi dei miei bambini. Forse ero stato ispirato proprio da John, che aveva fermato la sua carriera per il bene di suo figlio. Ma lui non era dello stesso avviso. Mi chiamò nell'ottobre del 1978 e mi redarguì per la mia decisione, dandomi del pazzo e bersagliandomi con tutte le parolacce che il suo illimitato vocabolario di oscenità poteva contenere. Quando gli spiegai, in modo molto diretto e con una certa emotività, i motivi familiari della mia decisione, fece una pausa e colse l'attimo per dirmi quanto era felice in quel momento della sua vita. La conversazione si chiuse quindi piacevolmente su una nota di tenerezza. Non era la prima volta in cui discutevo animatamente con John Lennon. Mi fece ricordare le sue armi più splendenti – aveva una parlantina tra la più sciolte al mondo. Se non fosse morto, non ho dubbi che sarebbe potuto diventare uno dei più grandi conduttori di talk show della sua generazione. Il John Lennon Show. L'avrei guardato tutti i giorni. Nella primavera del 1979, John e Yoko resero pubblico il loro idillio domestico, con quella che descrissero come una «Lettera d'amore alle persone che ci chiedono come, quando e perché». Il testo fu pubblicato sul «New York Times» domenica 27 maggio. Una parte recitava così: «Negli ultimi dieci anni abbiamo notato che tutto quello che desideravamo si è a suo tempo avverato, nel bene e nel male, in un modo o in un altro. Abbiamo continuato a dirci che uno di questi giorni ci saremmo organizzati e avremmo sperato solo in cose buone. Poi è arrivato il nostro bambino. Eravamo colmi di gioia ma allo stesso tempo sentivamo molto la responsabilità. Ora i nostri sogni riguardavano anche lui. Abbiamo capito che era giunto il momento… di fare qualcosa per intervenire sui nostri desideri – la pulizia di primavera delle nostre menti! È stato un duro lavoro. Abbiamo continuato a rovistare tra cose vecchie nell'armadio della nostra memoria, cose che non ci eravamo accorti che erano rimaste, che avremmo voluto trovare. Abbiamo iniziato ad amare le piante, a godere il rumore della città mentre prima ci dava fastidio. Abbiamo fatto un mucchio di errori e ne facciamo ancora… Il cammino da fare è ancora lungo. Più facciamo pulizia e più è veloce il processo di desiderare ed essere esauditi… Sean è bellissimo, le piante crescono, i gatti fanno le fusa… Viviamo in un bellissimo universo. Siamo ogni giorno grati per la pienezza della nostra vita. Speriamo che nella vostra mente abbiate lo stesso spazio silenzioso per far sì che i vostri desideri si avverino. Grazie per tutto l'amore che ci dimostrate… La prossima volta che pensate a noi, ricordate che il nostro silenzio è un silenzio d'amore e non di indifferenza». Pagata come un annuncio pubblicitario, la lettera venne pubblicata anche sui giornali di Tokyo e Londra. Poetica e piena di riflessioni profonde, non servì solo come aggiornamento ma annunciava che, nonostante i suoi doveri di padre, John era pronto a tornare di nuovo in pista. Nel marzo del 1980, si recò a Città del Capo, in Sudafrica, come turista e attivista, per incontrare i responsabili della politica repressiva e di segregazione in vigore nel Paese. John aveva espresso il suo biasimo per l'apartheid già molti anni prima, facendo infuriare il governo, che aveva bandito la musica dei Beatles dalle stazioni radio. La sua visita del 1980 dimostrò che era pronto a riprendere la lotta. Un altro viaggio di quello stesso anno mostrò che erano maturi i tempi per un suo ritorno sul palcoscenico. Con un equipaggio di cinque uomini, John salpò con il suo yacht di 30 metri, l'«Isis», per andare alle Bermude insieme a Sean. I giorni ai Caraibi furono pieni di sole, tra shopping e passeggiate in spiaggia. Il mare azzurro e gli splendidi cieli gli ispirarono Double Fantasy, un album composto di nuove canzoni
in collaborazione con Yoko. Tornò a New York rigenerato e pronto a registrare di nuovo. Paul Drew, conduttore di Atlanta, aveva dato una mano ai Beatles durante i tour negli Stati Uniti e in seguito era diventato amico di John e Yoko. Ricorda una telefonata che ricevette da lei nel 1980: «Mi disse che John era stato ispirato dal viaggio alle Bermude e le cantava le nuove canzoni al telefono. A sua volta lei mi chiamò più volte per cantarmele». Yoko invitò Paul a New York, dove poté vedere da vicino il rinato John Lennon: «Ci incontrammo nell'area riservata di un ristorante. Mi parlarono di questo album meraviglioso, per il quale si sarebbero divisi a metà le canzoni. Si trattava di Double Fantasy. Mi meravigliai soprattutto dell'aspetto di John. Il suo viso aveva preso colore. Parlava della sua musica come un giovane ansioso di presentare al mondo il suo lavoro. Non l'avevo mai visto così entusiasta, neppure agli inizi dei Beatles. Negli anni Sessanta a volte era solo e di malumore. Lì al ristorante, lo vedevo su di giri come non mai. Passava le ore del giorno con Sean, le notti a registrare in studio, e si vedeva che l'entusiasmo per la musica era parte della sua vita». Nell'autunno del 1980, l'amore per la vita sembrava rinvigorito dallo splendido e caldo autunno di Central Park. Un pomeriggio, mentre camminavano nel parco con Sean, John e Yoko incontrarono Geraldo Rivera. Il giornalista li invitò nel suo appartamento dove parlarono per un po'. John era abbronzato e scoppiava di salute: «Avevano appena finito di registrare Double Fantasy. Non lo avevo mai visto così rilassato. Era dolcissimo, felice di stare con sua moglie e suo figlio. Sembrava felice. Alla fine, aveva lasciato da parte il cruccio di essere sempre identificato con i Beatles. La sua musica era di nuovo viva e lui era calato nel ruolo del padre, del marito, una star senza più il peso della fama. Era davvero bello rivederlo. Per me sarebbe stata l'ultima volta». Quando (Just Like) Starting Over divenne una hit a livello nazionale, Lennon fu ancora più incoraggiato a far uscire Double Fantasy, il 17 novembre 1980. L'album fu prodotto da Jack Douglas, che aveva lavorato come ingegnere del suono sulla maggior parte dei dischi solisti di John. Oggi conosciuto soprattutto per il suo lavoro decennale con gli Aerosmith, Douglas racconta di come l'esperienza del disco avesse motivato Lennon a guardare avanti in diverse direzioni. «Lui e Yoko avevano in programma un tour per la primavera del 1981, tanto che avevano già disegnato gli schizzi di scena. John me li mostrò. Il palco sembrava un granchio gigante le cui chele si allungavano sopra gli spettatori». Douglas assegnò il progetto a Dick Hansen e Henry Smith. Hansen, che in seguito ha lavorato a Hollywood, ricorda di essersi impegnato molto per portarlo a termine: «Henry e io elaborammo il concept e Mark Fisher, della compagnia Britannia Row, eseguì i disegni. Era la stessa persona che aveva disegnato il muro di The Wall per i Pink Floyd. Il progetto includeva le enormi chele, in realtà giraffe munite di telecamere. C'erano anche cinque schermi. L'idea era quella di girare un video per ogni concerto e rendere la ripresa parte dello show, progettandolo in modo diverso per ogni città. Se si fosse suonato a San Francisco, per esempio, gli schermi avrebbero mostrato il meglio delle riprese in quella città». Smith portò il progetto in studio a New York poco prima del giorno del ringraziamento del 1980. I due avrebbero continuato la loro carriera lavorando per Roberta Flack, vicina di casa di John e Yoko al Dakota. Mentre preparava il tour, John sognava anche di riunire i Beatles. Jack Douglas ricorda con quale orgoglio parlasse di quel possibile grande colpo: «Era soddisfatto di aver proposto a Paul McCartney di collaborare con lui al successivo disco di Ringo. Non invitò George Harrison perché si sentiva offeso da un libro che aveva appena pubblicato». Un ricordo commovente riguarda la fascinazione che John aveva ancora per i Beatles, documentata in tante altre pagine di questo volume: «Era fiero dei Beatles. Divenne un loro fan accanito, e quando ritornò alla ribalta con Double Fantasy, i suoi pensieri andarono spesso ai Beatles, ai loro successi, alla loro musica». All'uscita, Double Fantasy riscosse critiche positive e un notevole consenso di pubblico. Ma John non aveva che poche settimane per godersi il successo e la propria rinascita artistica. Michael Allison ricorda l'ultima volta che lo vide. Era il pomeriggio dell'8 dicembre 1980, poche ore
prima che morisse crivellato di colpi fuori da quel Dakota dove aveva trovato finalmente tanta felicità: «Sembrava in salute e contento, guardava al futuro. Mi disse: "Michael, stiamo aprendo piano la porta per vedere se c'è ancora qualcuno là fuori"». Tornando a casa, Allison incrociò Mark David Chapman, una delle persone che aspettavano John appena fuori dall'ingresso del Dakota. Chapman era un fan degenere dei Beatles, che aveva trasformato il suo egotismo e la sua devozione verso il gruppo preferito – un sentimento che John aveva sempre scoraggiato – nella convinzione che Lennon dovesse morire per mano sua. Per questo gli sparò alle spalle una raffica di quattro proiettili calibro 38 a punta cava. John Lennon, 40 anni, fondatore dei Beatles e portavoce della sua generazione, fu dichiarato morto poco dopo all'ospedale. Quando il dispaccio con la notizia finì tra le mie mani tremai per l'angoscia. Riuscii a stento a leggerlo in onda. Mentre tornavo a casa dopo mezzanotte, le lacrime scendevano sul mio viso mentre pensavo ai Beatles e a John. Era stato un soggetto dei miei servizi di reporter. Ma con lui avevo sviluppato un legame speciale, forgiato nel mutuo rispetto e nella comune esperienza di essere sopravvissuti alla Beatlemania, ai suoi folli ed esilaranti eccessi. Come molte altre persone che l'hanno conosciuto, ho deciso di dedicarmi a mantenere viva la memoria del suo incredibile talento e del suo spirito. È quello che spero di fare con questo libro, augurandomi che abbia una piccola parte nel mio obiettivo. Certamente non sono da solo. Quando Allan Tannenbaum arrivò al Dakota quella notte per fotografare il luogo del delitto, rimase sbalordito dalle espressioni dei volti nelle persone che si erano radunate sulla scena. Guardavano le stelle, cercando un barlume di speranza. Tenevano candele accese e sul loro viso era disegnato quello che Tannenbaum chiama «lo sguardo dell'incredulità». Si dice che i giornalisti imparino a erigere muri intorno alle loro emozioni in modo da poter lavorare senza che la normale angoscia e il dolore interferiscano. Per la prima volta Allan Tannenbaum si occupava della morte di qualcuno che conosceva. Cinque giorni dopo, si trovò sommerso in un fiume di lacrime. «Stavo annegando nelle lacrime. Non riuscivo a smettere di piangere. Era una combinazione di tristezza e rabbia che non riuscivo a fermare. Non potevo non pensare: che fine orribile per una vita stupenda». Fu una fine orribile ma, come la storia ha provato, nella vita di John Lennon, sempre sorprendente e sconcertante, ci sarebbe stato un altro inizio. Sfogliando le pagine successive di questo libro, troverete la testimonianza dell'impatto che hanno avuto la vita e la morte di John Lennon. La gente sarà giudice e giuria della sua vita. Diciamolo: se mai John è stato dipendente da qualsiasi cosa, lo è stato dalla gioia e dalla meraviglia delle persone. La sua fede nell'umanità permette a lui di vivere ancora e al suo spirito di prevalere su tutto. Il suo cuore ha cessato di battere l'8 dicembre 1980, ma il pulsare della sua musica e l'eco della sua ricerca di verità risuonano ancora. Sta alle persone giudicare. Alcune di loro tra poco parleranno.
11. PARLA LA GENERAZIONE LENNON
«John mi ha dimostrato che ciò in cui credi e a cui dai valore nella vita ha un significato profondo. Seguilo, abbi fiducia e non accettare compromessi. Quando non ci sarai più, di te rimarranno soltanto ciò che eri e le impressioni che hai lasciato» BILL HEMSLEY, FAN DEI BEATLES Giovani o anziane, vicine o lontane, le persone che hanno amato John Lennon meritavano il giusto spazio in un'appendice speciale. L'amico Joe Johnson, il cui programma Beatle Brunch va in onda in oltre cento stazioni radio del network Westwood One, ha invitato i suoi ascoltatori a partecipare al nostro libro con il proprio ricordo di John Lennon. Tra le centinaia di mail ricevute, ne ho selezionate alcune in modo da avere un ampio ventaglio di punti di vista. Ne è nato così un diario interattivo le cui parole, a volte commoventi, a volte tristi e malinconiche, portano quest'opera a una degna conclusione. Voglio ringraziare tutti gli ascoltatori che hanno contribuito. Inizialmente pensavo che questa operazione mi avrebbe aiutato a cogliere la prospettiva delle varie persone riguardo la vita di John Lennon. Invece, superando le mie aspettative iniziali, mi ha regalato uno sguardo di grande emozione e profondità. Lascio la parola alla «generazione Lennon».
Il soldato Nel 1977, mentre prestavo servizio nella Guardia Costiera degli Stati Unti, ebbi una licenza per un fine settimana. Con un mio amico andai a New York. Mentre camminavamo per Central Park, vidi un uomo seduto su una panchina all'ombra, che scrutava il cielo. Mi avvicinai e, non ci potei credere quando mi resi conto che si trattava John Lennon. Era da solo, seduto lì a passare il tempo. Mentre passavo, un po' nervosamente, gli chiesi: «Come va?» Ricordo benissimo come mi rispose lui: «Sai, va meglio». Allora, cercando di mantenere una certa disinvoltura e di non mostrare quanto ero emozionato, dissi «John Lennon, vero?» «Semplicemente John, ma soprattutto "papi" in questi giorni» rispose lui. A quel punto arrivò Yoko Ono con in mano quelli che credevo fossero caffè. Non volevo essere uno di quei fan invadenti, per cui feci un passo indietro come per andarmene. «Ah, la mia droga» disse lui. «Yoko, questo ragazzo l'ho appena conosciuto. Lei è mia moglie, Yoko». Risposi una banalità dei tipo: «Piacere di conoscerla». Avevo così paura di violare la loro privacy che alla fine dissi soltanto: «Devo andare ora. Scusate se vi ho rubato un po' di tempo, vi ringrazio». Anche se sono passati anni, penso ancora a quel breve incontro con uno degli idoli della mia infanzia. Rimarrà per sempre scolpito nella memoria, anche se sarà durato sì e no tre minuti. Mentre voltavo loro le spalle per andarmene via, John mi rispose: «Tu hai preso un po' del mio tempo e io ne ho preso un po' del tuo. Fanne buon uso».
Pensai che fosse proprio da lui dire una cosa del genere. Ora però mi rendo conto che era un pensiero profondo. Steven D. Emerson Edwardsville, Illinois
Il mezzobusto della tv È difficile credere che siano passati tanti anni dall'insensato assassinio di John Lennon. John ha continuato a essere così presente nelle nostre vite che a volte sembra sia ancora qui, insieme a noi. Sento che ci è vicino, perché ha contribuito a plasmare il nostro mondo in maniera tanto semplice quanto profonda. Sarebbe fin troppo banale e limitativo riassumere la sua vita citando le solite statistiche: i Beatles sono il gruppo che ha venduto più dischi in tutto il mondo; cd, libri e film continuano a vendere in maniera impressionante. Lennon fa parte stabilmente della Rock & Roll Hall Of Fame… Ma è chiaro che la sua influenza va oltre le classifiche e i musei. Per molti, lui è un esempio di come si possa vivere la propria vita in maniera onesta e positiva, esaltando il valore della vita stessa. John Lennon non era certo un santo, e non era neppure perfetto. Ma ha passato l'ultima metà della sua esistenza nella ricerca di un modo per superare le proprie insicurezze e i propri demoni, dando senso a chi era veramente: non l'artista John Lennon, il musicista dei Beatles, ma la persona. Ha continuato incessantemente a cercare di migliorarsi, e i problemi e i banchi di prova che ha dovuto affrontare possono servire da lezione per tutti noi. Conosciamo bene i fatti della sua infanzia. Suo padre lo abbandonò quando era ancora un bambino. Sua madre Julia lo affidò alla zia Mimi perché lo crescesse mentre lei si rifaceva una vita e una famiglia con un altro uomo. Julia morì in un incidente quando lui aveva 17 anni, e aveva appena riallacciato i rapporti con lei. Il ragazzo che fu probabilmente il suo migliore amico, Stu Sutcliffe, morì giovanissimo per un'emorragia cerebrale. È comprensibile che John sia diventato un giovane arrabbiato e insicuro. E lo è anche che la sua ambizione di diventare qualcuno, combinata con il suo straordinario talento per la scrittura, l'arte e la musica, lo abbia aiutato ad avere successo, anche se questo fu imprevedibile e inaudito. Ma altrettanto stupefacente, forse, fu la voglia di crescere, e di toccare il fondo delle sue paure e delle sue insicurezze. Per sentirsi sicuro, come tanti, all'inizio cercò rifugio nel sesso, nelle droghe e nell'alcool. Persino la popolarità raggiunta con i Beatles potrebbe essere vista come una fuga dalla realtà e da ciò che lui sentiva davvero di essere (eppure i segni c'erano tutti, anche se non sapevamo vederli all'epoca: «Dietro la maschera, ho un viso triste», i versi di I'm A Loser del 1964, o il grido di Help! del 1965). Ci sarebbero voluti tutti gli anni con i Beatles, gli esperimenti con la meditazione trascendentale e la terapia primordiale, una dolorosa separazione da Yoko negli anni Settanta, il ritiro dalla musica che era stata il lavoro di una vita e la nascita di Sean, perché John venisse a patti con il dolore che gli era stato inflitto durante l'infanzia e l'adolescenza. Eppure ce l'aveva fatta. Nel dicembre del 1980 John Lennon sembrava un uomo felice, soddisfatto di ciò che era, fiducioso nel futuro. Ricordo bene la sua intervista a «Playboy» di quello stesso periodo. Credo di aver finito di leggerla proprio l'8 dicembre. Ero così contento che fosse tornato in scena dopo i cinque anni di ritiro autoimposto e che fosse felice. Quell'intervista era così diversa da quella graffiante e rabbiosa uscita su «Rolling Stone» dieci anni prima, intitolata Lennon ricorda. John era tornato, ed era una grande notizia, non solo perché era «l'ex Beatle» o «il leader della controcultura» (quel termine aveva ancora senso) ma perché era John Lennon, il marito, il padre, l'essere umano che ci avrebbe aiutati a sopportare il decennio reaganiano che stava per cominciare. Poi ci fu quella notte. La cosa più terribile della morte di John è che venne assassinato nel momento in cui aveva trovato
un po' di pace interiore ed era diventato un uomo migliore. Un'altra cosa orrenda fu il fatto che derubò una moglie del marito, un bambino del padre (e rubò a un altro ragazzo la possibilità di affrontare i problemi con il proprio genitore, che era stato per buona parte assente dalla sua vita). E, ovviamente, abbiamo perso un grande musicista. Molti, e tra questi anch'io, speravano in un ritorno dei Beatles. Le nostre speranze furono spazzate via. Ma nel complesso, una possibile reunion dei Beatles era la cosa meno importante. Del resto, la loro musica vive ancora e la loro leggenda continua. Avevano già dato tutto. Quello che mi ha reso triste per i Beatles è stato questo: sarebbe stato bello se tutti e quattro fossero tornati a stare insieme un giorno, come Paul, George e Ringo hanno fatto per il progetto Anthology, solo per se stessi, per rinnovare la loro amicizia, ricordare i bei tempi e farsi due risate. Solo quattro persone al mondo hanno passato ciò che hanno passato loro, e sarebbe stato bello se, come gruppo, avessero potuto mettere da parte le vecchie ruggini. Per loro stessi, non per noi. Che bella cosa sarebbe stata. Io e Richard, il mio migliore amico, avevamo in mente di fare un viaggio a New York un giorno (vivevamo dalle parti di Washington) per andare al Dakota e incontrare John. Raccontavano tutti che non era difficile, che lui era molto disponibile e paziente con i suoi ammiratori. Mi sarebbe piaciuto incontrarlo, anche solo per ringraziarlo di tutta la grande musica che ci aveva regalato, i dischi, i libri e tutto quanto. Chissà in quanti lo avevano già fatto, ma per me era importante dirgli il mio personale «grazie». Davamo per scontato che lui ci sarebbe stato sempre, e invece non ho mai potuto fargli avere il mio messaggio. Prima di oggi. Grazie John, grazie di tutto. Grazie per aver contribuito a rendere il mondo migliore, grazie per aver condiviso con noi la tua vita, e grazie per aver aiutato anche me a essere una persona migliore. We all shine on. Tony Perkins Good Morning America
Un poeta tra noi Caro signor Kane, nonostante John Lennon sia morto quando non avevo neppure un anno, ho sempre sentito una forte affinità con il suo spirito. Ho portato questa sensazione con me, insieme al bisogno di capire un uomo che ho potuto conoscere soltanto attraverso fotografie, immagini e canzoni durante il viaggio in Inghilterra che ho fatto nel 2000, a 20 anni. Il 27 marzo 2002 ho scritto questa poesia sulla mia esperienza a Strawberry Field. Grazie per avere dato a tutti noi la possibilità di essere parte di questo libro. Beautiful Boy Con uno scoppio del tuo fascino spiritoso Da un sorriso diabolico Avresti catturato Anche il cuore dei Blue Meanies E solo tu avresti potuto chiedere alla regina Di scuotere i suoi gioielli mentre tu gridavi e ti dimenavi Quando hai iniziato scrivevi canzoni su Biancaneve E prima te ne andassi ci hai invitati a immaginare… Il nostro più grande desiderio Era di trascorrere un giorno di quella vita
Che magicamente possedevi. Perciò vent'anni dopo Chapman Ti ho chiesto un autografo In un giorno di pioggia a Liverpool Sono stato a guardare oltre quel muro di mattoni Che aveva l'insegna di Strawberry Field Allargavo il mio sguardo a latitudini estreme Sperando di trovare qualcosa di te. Sulla gabbia di mattoni che conteneva la tua serenità, Pensavo di tracciare col gesso Un ricordo di un uomo che non ho mai conosciuto. Ho scritto solo poche parole. Siglate con l'amore per uno splendido ragazzo. Meghann Boser Pierz, Minnesota
I ricordi di una madre Se sei come me guardi alla tua vita attraverso fotografie, taccuini e souvenir. La mia infanzia non è stata normale, non è stata facile, ma ho tanti ricordi che mi hanno avvolta nel tepore e hanno aiutato la bambina che ero a superare i momenti difficili. Avevo la camera tappezzata di memorabilia dei Beatles e sono stata fan di John Lennon da quando avevo 6 anni. Nella mia folle gioventù Lennon è stato una costante. Musica, parole e protesta. Quando è morto ho sentito una fitta al cuore. Il suo talento leggendario mi aveva fatto sentire felice, confortata, e libera. Quando mio figlio ascolta le sue canzoni sul suo lettore mp3, so che il mondo è ancora bello perché abbiamo avuto John Lennon tra noi. Hillary Robert Keyport, New Jersey
Cosa farebbe John? Non è stato il look di John Lennon a colpire la mia attenzione. Neppure il fatto che era nei Beatles. È stato il suo carattere affascinante. La sua personalità mi ha catturato. In lui vedevo un uomo schietto, ironico. Vedevo una profondità e un debordare di opinioni che aspettavano solo di poter essere liberati. Quando lo guardavo non vedevo un santo o un angelo mandato dal Signore, come potevano fare gli altri. Lo vedevo per quello che era, con le sue debolezze e tutto. Il fatto che non camuffasse i suoi difetti di fronte a nessuno è ciò che mi ispira a essere me stesso, che alle persone piaccia o meno. Mi domando sempre: «Cosa farebbe John?» E funziona! Grazie di cuore, signor Kane, per avere dato a noi fan di Lennon la possibilità di farci sentire. Kimber Austin Saskatoon, Saskatchewan, Canada
È arrivato il dottore Ho ascoltato i Beatles dall'inizio; avevo 14 anni ed ero molto impressionabile. Mi hanno sempre colpito le risposte secche e ironiche di John, il suo sarcasmo e il suo spirito, il suo dire ciò che vedeva. Sono molto candido con le persone e non mi piacciono i falsi e gli ipocriti. Ho cercato di tramandare tutto ai miei figli, che sono anche loro ammiratori dei Beatles. Da psicologo e amministratore delegato di un consultorio, so cosa significa individuare cose che non vanno e sottolinearle con humour, e posso ben dire che «è facile vivere con gli occhi chiusi, e fraintendere tutto quello che vedi». Grazie Dr. Chuck. Meseck Milwaukee
È cambiato il vento Ciao Larry… ho saputo del tuo libro ascoltando Beetle Brunch poche settimane fa e ho sentito subito che dovevo mandarti una mail. Che splendido tributo; ti auguro di avere un grande successo. Quelle che seguono sono le mie riflessioni su come John Lennon ha cambiato la mia vita. Ho 57 anni, per cui i Beatles sono come vecchi amici; come la mia famiglia, in realtà. Sono nata e cresciuta a Manhattan, come i miei genitori. Io e papà stavamo guardando il football alla tv quando Howard Cosell diede la notizia della morte di John. Mi ricordo che mio padre piangeva e gridava: «Se questa città può uccidere John Lennon, può uccidere chiunque… È ora di andarsene e spero che verrai con me… ma a quest'ora, l'anno prossimo, con o senza di te, sarò da un'altra parte». Non erano certo parole leggere per un newyorchese purosangue come lui… ma la morte di John fu devastante. Era un dramma troppo grande per me. Non avevo idea di cosa sarebbe successo, ma avvertivo fortissima dentro di me la sensazione che entro un anno me ne sarei andata. Per settimane, forse mesi, mi venne da piangere, in qualunque momento e qualsiasi cosa stessi facendo. Le lacrime non finivano mai. Sono stata in ansia per mesi. Cinque mesi dopo, mi trasferii a Phoenix, o per meglio dire ci trasferimmo tutti a Phoenix. I miei genitori, io, mia sorella e il nostro cane. Non ci siamo più guardati indietro. Io e mio marito, che ho conosciuto in Arizona, abbiamo festeggiato il diciottesimo anniversario di matrimonio. I miei genitori hanno celebrato il loro cinquantacinquesimo. Mia sorella si è sposata qualche anno fa. Siamo qui, uno per tutti, e partecipiamo attivamente alle nostre comunità. Posso dirti, in confidenza, che nulla di tutto ciò sarebbe successo se non avessimo cambiato città. Senza la tragedia della morte di John, le nostre vite sarebbero state completamente diverse. Da allora, e con una certa frequenza, quando devo confrontarmi con situazioni difficili che richiedono di decidere o agire immediatamente, oppure quando mi capita qualcosa di brutto, come dal nulla spunta una canzone di John Lennon, alla radio, in ascensore, dagli altoparlanti di un supermercato. E io sorrido. Una volta dicevo che era una curiosa «coincidenza». Adesso ho capito. Succede di proposito. So che in un modo o nell'altro siamo tutti in contatto, e nonostante farei di tutto per cambiare ciò che è successo a John, non sono certo la sola persona a cui quel giorno ha cambiato la vita. Sono convinta che molte tessere di domino siano state toccate, e abbiano cominciato a toccarsi delicatamente l'una con l'altra, grazie a quella brezza gentile che è stata la vita di John Lennon. Io sono solo una di queste tessere, e gliene sono grata. Kris Lecakes-Haley Phoenix, Arizona
Mia madre entrò con una brutta notizia John, secondo me, era la chiave della mistica dei Beatles. Il suo spirito, la sua voce, la sua schiettezza mi avevano attratto fin dall'inizio. I Beatles erano la sua band, e la loro percezione dall'esterno nasceva dalla sua convinzione che fossero il miglior gruppo del mondo. Era il misto di confidenza e fragilità, freddezza e compassione, onestà e senso di giustizia che mi aveva colpito tanto in lui. Il giorno in cui morì per me fu un colpo durissimo. Ricordo che venne mia madre a svegliarmi. Era più presto del solito, ed era in lacrime. Aveva iniziato ad amare i Beatles anche lei per osmosi, e sapendo quanto li amassi aveva pensato che a scuola sarebbe stato un giorno difficile. Non appena seppi cos'era successo la sera prima a New York, mi sentii all'istante come se avessi perso un amico importante. Lo so, lo so, io IN REALTÀ non lo conoscevo. Ma la sua musica – e la sua figura – mi avevano toccato nel profondo. Come ho già detto, mi identificavo soprattutto con la sua mistica. Un altro grande rammarico fu quello di non averlo mai visto suonare dal vivo. Il suo assassinio è uno degli atti più insensati della storia recente. Posso solo immaginare come avrebbe reagito all'11 settembre, o al clima politico di questi anni. Non ci sarà più un altro John Lennon. È scontato, lo so. Ma tra tutti gli artisti che hanno provato a portare avanti la sua fiaccola, pochissimi si sono avvicinati alla sua onestà di intenti. Lui era un musicista, un leader, aveva sempre la battuta pronta, era un VERO attivista, aveva tante frecce al suo arco. A te, John Winston Ono O'Boogie Lennon. Mi manchi, ma ringrazio Dio per la tua eredità. Grazie dell'ascolto. Ray Whitaker
Messaggio dal Maine Caro Larry, vuoi sapere come John Lennon ha cambiato la mia? Ci vorrebbero fiumi di inchiostro. Non sarei la persona che sono, senza John. Mi influenza ancora oggi, sia nel mio intimo sia nella mia vita sociale, ogni giorno, e sono felice che lo faccia. Credo che gli altri se ne accorgano, persino. Non potrebbe essere altrimenti. Io e la mia migliore amica abbiamo visto John Lennon dal vivo a New York in quel famoso concerto al Madison Square Garden. Quando lui invitò tutti a cantare in coro, dissi alla mia amica: «Ricordati questo momento, stiamo cantando insieme a John Lennon» (era come essere nella stessa stanza con lui, non importa quanto fosse grande, era pur sempre lo stesso luogo e voleva dire cantare con lui. Questo conta. Per cui, abbiamo cantato con John Lennon!) Questo è solo un piccolo aneddoto. Le immagini di John adornano ancora le pareti del mio soggiorno. Divenne parte della mia vita quando i Beatles invasero l'America nel 1964 (stavo per compiere 9 anni) ed è stato lui a insegnarmi a cantare, a leggere (e scrivere) poesie, a pensare controcorrente, a vestirmi (a farlo in maniera sgargiante, come andava a me, e mostrarlo a un mondo che non era ancora preparato, come ha fatto lui), a essere artista, a sfruttare le occasioni, a VIVERE. Ha insegnato al mio cuore ad amare per la prima volta… ed è un amore che terrò nell'anima per sempre, qui e nell'aldilà. Quando andai a Liverpool a metà degli anni Ottanta, visitai la città dei Beatles e il museo. Il vestito nero che John aveva indossato all'Ed Sullivan Show era appeso su un sostegno – non un manichino, c'era solo il vestito, in piedi. L'ENERGIA che irradiava quell'abito era qualcosa che non avevo mai provato prima. Era circondato dal solito cordone e, ovviamente, non si poteva toccare… ma ho provato lo stesso. Non sono riuscita a toccare la stoffa, ma non ce n'era bisogno. La sua forma, il taglio, quello era John. Come se fosse stato in piedi davanti a me. Così vicino!!! Era il John che ha cambiato il mondo… soprattutto il mio.
Ricordo quando una sera ascoltavo una delle stazioni radio in Fm di New York (poteva essere stata la WPLJ quando era orientata sul rock puro, prima che virasse sulla Top 40), e il disc jokey che era in onda disse: «Va bene, gente, può darsi che io venga LICENZIATO per quello che sto per dirvi, ma non sto più nella pelle, devo raccontarlo a tutti voi. Sabato sera sono stato a una festa in cui c'era anche JOHN LENNON. ERA COME ESSERE NELLA STESSA STANZA CON DIO». Tutti noi che l'abbiamo sentito sapevamo che non stava esagerando. Il carisma, il talento, l'energia, la forza vitale che trasudava John Lennon non potevano non influenzare chiunque l'avesse conosciuto. John vive nella mia anima e mi aiuterà sempre a rimanere coraggiosa, creativa e viva come voglio essere. Da John ho imparato che, se ho dei limiti in questo mondo, è solo per colpa mia. Grazie per avermi permesso di condividere quello che provo. Fatemi sapere se lo avete letto, se potete. Per la viva memoria di John, Audrey Sparkes Bangor, Maine
Appena in tempo per spezzarle il cuore I Beatles all'Ed Sullivan Show nel febbraio del 1964 furono la cosa più eccitante ed energia che avessi mai visto in vita mia, e amo ancora guardare quei filmati perché mi riportano indietro a quei ricordi incredibili. L'immagine di loro quattro sul palco che facevano ondeggiare i capelli a caschetto cantando She Loves You ti toglieva il fiato. Avevano una tale energia. Io ero una bambina di 7 anni di Los Angeles e impazzivo per il pop, seduta a gambe incrociate sul pavimento del soggiorno strillavo e andavo su e giù mentre loro cantavano. Adoravo i Beatles e non mi rendevo conto di quale fenomeno fossero. Erano così diversi dai musicisti che ascoltavano i miei genitori, e tutti pensavano che sarebbero stati una bolla di sapone. E invece passarono su tutto come un rullo compressore, rivoluzionando completamente la musica popolare. Ricordo di avere pensato che, come noi ridevamo della musica di mamma e papà, i nostri figli probabilmente avrebbero riso della nostra. Ma questo non è mai accaduto. Le generazioni di fan dei Beatles continuano a nascere. Questo racconta quanto la loro musica non abbia confini temporali e quale impatto enorme abbiano avuto sulla società. I Beatles rappresentavano una cultura che stava cambiano in maniera epocale. Non ho mai apprezzato davvero John Lennon fino al giorno in cui è morto. Allora avevo 24 anni, mi ero sposata e vivevo a Seattle; amavo Double Fantasy, il nuovo disco, ed ero felice di vedere che stava così bene ed era tornato al lavoro. Non ho mai fantasticato su un suo ritorno con i Beatles. Il mattino dell'8 dicembre 1980 mi alzai con l'influenza e dovetti stare a casa dal lavoro. Passai la giornata a letto a sentire l'album e a leggere l'intervista di John a «Playboy». Era un articolo lunghissimo, mentre lo leggevo continuavo a dormicchiare e a sognare di lui, risvegliandomi ogni tanto con il giornale in mano. Non riuscivo a metterlo giù. Rimasi sorpresa da quello che scoprii su di lui leggendo quell'intervista. Rivelava così tanto di se stesso. Lessi della sua infanzia infelice e capii, perché era così simile alla mia. Non ci potevo credere. All'improvviso iniziavo a vedere una realtà più profonda che mi si rivelava, e a capire chi era veramente, non come membro dei Beatles o leggendario «uomo di pace», ma come essere umano. Ne fui davvero commossa. Avevo riscoperto John Lennon a livello personale, ed ero eccitata da quello che avrebbe potuto fare in futuro. Era scattato qualcosa che mi aveva fatto sentire un legame profondo con lui, pieno di empatia, comprensione e amore. Intorno alle 9 di sera, mio marito entrò di corsa e mi svegliò con la tragica e incredibile notizia che John Lennon era appena stato assassinato a New York. Tremavo. Lo shock mi mise in ginocchio, ero devastata oltre l'immaginabile. Piansi quell'intera notte e molti altri giorni, davanti alla tv, guardando tutti i filmati. Il dolore era insopportabile.
Mi sembrava che John mi avesse raggiunto appena in tempo per spezzarmi il cuore. Quell'emozione provocò in me la passione della scoperta, iniziai a leggere di lui, a parlare con chi l'aveva conosciuto, ad ascoltare incisioni rare, guardare le sue interviste, viaggiare nei luoghi che aveva conosciuto e amato, visitare le sue mostre e andare agli spettacoli in suo onore. Il suo spirito è con me dovunque io vada. Presto ho capito di dover condividere le mie esperienze con altri ammiratori, e ho iniziato a scrivere. Da quattro anni collaboro con «Daytrippin'», una fanzine dedicata ai Beatles conosciuta a livello internazionale. È il mio modo di aiutare a tenere viva la sua memoria, e a onorare la sua ricerca di contatto con il mondo in maniera onesta. Sento ancora la sua presenza. In un modo o nell'altro è ancora qui con noi, e vuole che lo sappiamo. Spero alla fine di avere contribuito anch'io a perpetuare la sua eredità, che rimarrà per sempre. Shelley Germeaux Corrispondente dalla West Coast di «Daytrippin'»
Memorie di un uomo della radio Ricordo la prima volta che ascoltai i Beatles. Era il 1977 e avevo 4 anni. Ero in macchina con mio padre nella sua Volkswagen Rabbit rossa sull'Ohio River Boulevard a Pittsburgh quando alla radio trasmisero All You Need Is Love. Nel momento esatto in cui John e Paul riprendevano il ritornello di She Loves You nel finale, chiesi a mio padre chi cantasse quella canzone e lui mi fece un corso accelerato di Beatles. Non so cosa stessimo facendo in giro quel giorno, ma appena tornammo a casa, presi le sue copie di Abbey Road e Let It Be e da quel momento la mia vita non fu più la stessa. Il motivo per cui amo i Beatles è che mi hanno fatto venire voglia di fare ciò che hanno fatto loro. No, non intendo fare parte di una rock band e cambiare il cambiare il mondo (per quanto, se si fosse presentata l'opportunità.) ma fare parte di un gruppo in grado di fare la differenza. Di fatto, userei i Beatles per un'analogia con la mia carriera nella comunicazione. Cominciando dalla radio del college. Il piccolo giornale di Sewickley e la radio di Pittsburgh in cui lavoravo part-time sono state la mia Amburgo e il mio Cavern Club. I dieci anni alla Cnn sono stati il mio Ed Sullivan Show. Ok, ammetto che le cronache sportive o i programmi di musica (qualche volta sui Beatles), non sono cool quanto un singolo come Paperback Writer/Rain, ma per me sono stati un grande successo. È un fatto innegabile ormai che ciascun Beatle abbia portato un ingrediente personale nella ricetta, ma Lennon è sempre stato il mio preferito. Forse era la sua voce (grezza e impertinente in Twist And Shout, sognante e ipnotica in In My Life, letteralmente perfetta in Strawberry fields Forever) o forse i suoi testi, o il modo da galletto in cui marciava al ritmo del suo batterista. Quel qualcosa che aveva non è certo sparito. Guardo il suo sorriso sornione sulla copertina di Rubber Soul. È ancora cool adesso come lo era allora. Tutti i Beatles erano dei grandi, ma penso che John Lennon sia stato quello che li ha aiutati a rendersi conto di quanto fossero grandi sin dagli esordi. Era il fratello maggiore a cui gli altri guardavano (fate caso a Paul nel clip di We Can Work It Out) mentre stavano diventando più famosi di chi sapete voi… Prendendo Lennon e i Fab Four come modello per spingermi oltre, non vedo l'ora di arrivare ai miei Rubber Soul, Revolver e Sgt. Pepper. E finalmente, il giorno in cui andrò in pensione, credo che indovinerete che cosa dirò quando mi daranno metaforicamente o per davvero un orologio d'oro… John Lorinc CNN Radio, Atlanta
Pensieri profondi dall'Indiana Come John Lennon ha influenzato la mia vita… Di John mi ha sempre impressionato il coraggio di
parlare a chiare lettere, anche se non ero sempre d'accordo con lui. Ho ammirato davvero la sua sincerità. Di sicuro non era un ipocrita… aveva sempre tantissima dedizione per ciò in cui credeva e la sua visione del mondo, ci teneva davvero. Anche se non condividevo tutte le sue idee, lo rispettavo perché il suo impegno era genuino, non aveva paura di esprimere le sue convinzioni, anche in una maniera unica, spesso non convenzionale, che la gente faticava a capire. Non sembrava che gli importasse di ciò che gli altri pensavano di lui, e io ammiravo questa sua sfrontatezza. Ma ha avuto un impatto forte sulla mia vita, soprattutto attraverso la sua meravigliosa e splendida musica, e la sua favolosa voce, così evocativa, che amo ancora ascoltare e che amerò sempre. Lo adoravo perché non esitava a sperimentare nuovi suoni in studio, ed è stato così audace da creare alcuni brani musicali tra i più originali e grandiosi della storia… Lo amavo profondamente, e mi manca tantissimo. Sally Dee Perry Indianapolis
Ricordi di un gelido mattino Il 9 dicembre 1980 avevo 11 anni e i miei genitori mi svegliarono molto presto. Era un giorno di scuola ma non era ora di alzarmi, fuori era ancora buio pesto, e non avevano svegliato il mio fratellino. Da come si comportavano, capivo che qualcosa non andava. Sembravano titubanti e a disagio, finché mio padre, finalmente, disse con delicatezza: «Ieri sera hanno sparato a John Lennon». Spalancai gli occhi, chiesi se stava bene, se avevano arrestato quello che gli aveva sparato, ero così confuso. I miei non trovavano le parole. Mi portarono nella loro camera da letto e mi misero davanti alla piccola tv in bianco e nero dove guardai il telegiornale che parlava di John. Non ce ne furono altri quella mattina. Rimasi di sasso. Scoprii più tardi che le mie sorelle maggiori avevano chiamato in piena notte dal college per chiedere ai miei genitori «Cosa direte a Tom?» perché tutti mi conoscevano allora come «il ragazzino a cui piacevano i Beatles». Il mio ultimo compleanno era stata una festa beatlesiana, la torta era a forma di chitarra con la scritta «Beatles», e guardammo i film su di loro presi in prestito dalla biblioteca. Ricordo ancora i regali di quell'anno: gli album Abbey Road e McCartney 2, un poster, una maglietta con il sottomarino giallo e uno spartito per chitarra con le tablature (avevo appena iniziato a prendere lezioni). Non mi meraviglio che i miei non sapessero come darmi la notizia della morte di John, per cui guardai incredulo il telegiornale. Lessi il giornale con indosso un maglione ruvido mentre facevo colazione con i fiocchi d'avena. Ero ancora pietrificato. Poi mia madre accese la radio e la prima canzone che sentii fu Golden Slumbers. Andai in soggiorno e mi sedetti lì ad ascoltare; fu allora che si aprirono le cataratte. Piansi mentre Paul McCartney cantava quella canzone, che non riesco ancora ad ascoltare senza ricordare quel giorno… «Smiles awake when you rise, sleep pretty darling, don't cry». Avevo 11 anni e non sarei più stato un bambino. Auguri a lei e buona fortuna per il libro, Thommy Burns Annandale, Virginia
La donna della verità Ciao, Larry: volevo rispondere al tuo invito a condividere un ricordo di John Lennon e dell'effetto che ha avuto sulla mia vita. Sai, John ha influenzato le mie scelte nella scuola e nel lavoro. Ero una fan adolescente in piena Beatlemania nel 1966, quando John fece quel famoso commento sui Beatles «più famosi di Gesù». In un attimo vidi i Beatles, e John in particolare, demonizzati dai media di cui erano i
cocchi fino al giorno prima. Vidi con orrore le immagini dei roghi dei dischi, molti dei quali erano stati portati proprio da ragazzini della mia età. Non potevo credere che succedesse dai noi, in piena guerra fredda, quando avevamo tanto criticato i nostri nemici perché avevano fatto le stesse cose. Fu ancora più triste perché persino io, quindicenne, potevo capire che quella frase era stata estrapolata dal suo contesto. Guardai i notiziari con le spiegazioni di John nei giorni successivi, e a vedere la sua faccia mentre cercava di spiegare che non intendeva dire che i Beatles erano «meglio di Gesù» mi si spezzò il cuore. Quell'uomo gentile e pieno di talento era diventato vittima di quella stessa fama di cui aveva goduto per tanti mesi. Giornali, radio e tv rifiutarono di accettare le sue scuse e continuarono a dire malignità su di lui con soddisfazione. Fu allora che decisi che volevo cambiare le cose e diventare qualcuno che raccontava la verità. Volevo fare la giornalista, ma in un modo diverso da quelli che avevano distorto le parole di John Lennon. Volevo occuparmi di fatti, non fare del sensazionalismo. Dico la verità perché altri hanno detto bugie sui miei amati Beatles. E credo che la verità sia che devo ringraziare John Lennon per molto di quello che sono oggi. Grazie per avermi permesso di raccontare questa storia. In bocca al lupo Larry! Amo Ticket To Ride e non vedo l'ora di leggere il tuo nuovo libro. Jill Finan Rochester, New York
La maestra Ho 28 anni e John Lennon è stato parte della mia vita sin da quando ero bambina. Il merito è di mio padre. Era lui che suonava per me la musica dei Beatles e di John Lennon e mi faceva ballare e parlare di pace e amore. Per tutta la vita sono stata sempre interrogata sulla mia passione per John e la sua ricerca di pace. Ho cercato disperatamente di portare la sua parola a chi non la capisce. Sono maestra d'asilo. Adesso insegno ai miei bambini il suo messaggio. Impariamo tutto sulla ricerca di pace del «signor John Lennon» studiando i suoi disegni e i suoi testi. Alla fine dell'anno gli alunni possono scegliere la canzone preferita dei Beatles che diventerà parte dello spettacolo per i genitori, che ogni anno mi ringraziano per aver aperto il cuore dei loro bambini e aver loro insegnato ad amare i Beatles e John. John mi aiuta a insegnare ai nostri futuri leader il significato di pace e amore. Forse possiamo davvero «dare una chance alla pace» se queste giovani menti imparano quanto sia importante. All you need is love, Valerie Ryan Stanley Coral Springs, Florida
Ha suonato la mia chitarra Ciao, mi chiamo Michael Lowry. Ascolto sempre Beatle Brunch e ho sentito che vi interessano ricordi di John. Ecco il mio. Sono cresciuto nel Sudest dell'Oklahoma. Nel 1963, a 14 anni, quando ho ascoltato per la prima volta i Beatles, capii che vivere da musicista sarebbe stato il mio sogno. Suonavo già le tastiere, per cui comprai un piccolo organo Farfisa Combo Compact e misi in piedi una garage band. Salto nel tempo, 1972 o 1973. Ventura, in California. Stavo ancora cercando fama e fortuna ma la mia vita era entrata in un circolo vizioso. Comunque, mi ricordo che stavo per farmi la doccia un pomeriggio quando un amico entrò di corsa dalla porta principale e gridò: «Da non crederci, vieni a vedere chi c'è da John's at the Beach!» John's at the Beach era un locale molto frequentato, dove mangiavano soprattutto i turisti, ma la gente del luogo andava volentieri a bere. C'era anche un piccolo palco dove spesso facevano spettacoli. C'era un vecchio piano verticale scordato. Comunque, chiesi al mio amico che cosa c'era di così eccitante. John e Yoko erano lì a mangiare. «Grande! Andiamo!» Prendemmo un paio chitarre e ci
infilammo sul pick-up di un amico. Il ristorante alla spiaggia era a un passo, erano le due ed era tutto tranquillo. Parcheggiammo su un lato, così da poter vedere attraverso le finestre. Era John Lennon, non c'era dubbio. Stavamo per impazzire. Abbiamo cantato alcune canzoni dei Beatles seduti sul cassone del pick-up, discutendo su come potevamo entrare per conoscerli. Di sicuro non volevamo disturbare il loro pranzo, perché se avessimo dato fastidio sarebbe andato tutto a rotoli. Per cui ce ne restammo lì con le mani in mano. Dopo un po' si alzarono da tavola e andarono nella sala da biliardo. Decidemmo che lì avremmo fatto la nostra mossa. Non dimenticherò mai cosa è successo dopo. Entrai dal bar e passai sul retro. C'era una piccola sala con un tavolo da bar, cioè non delle dimensioni regolari di un biliardo ma più piccolo. Non c'era nessuno nel bar quando entrai, e dal momento che non mi fermò nessuno arrivai nel retro. Vidi Yoko che sedeva su uno sgabello a sinistra, con la schiena attaccata al muro. C'era un altro uomo che stava a metà strada tra la porta e la stanza. Lo superai e vidi John al biliardo mentre preparava un colpo. Era allungato sul tavolo e cercava di concentrarsi. Qualcosa che aveva al collo e sembrava d'argento brillava alla luce. Entrai e rimasi fermo, a bocca aperta: ero nella stessa stanza di John Lennon. So come ci si comporta, le regole della casa dicono che quando qualcuno prepara un colpo di biliardo non si deve parlare e non ci si deve muovere. Perciò rimasi a guardare, come di sasso. Dopo aver tirato si alzò e mi guardò incuriosito. Aveva sbagliato. Non era un gran giocatore. Mi stava guardando, siccome avevo invaso il suo spazio, credo volesse lasciare a me il compito di rompere il ghiaccio. Avevo preparato e memoria quello che gli dovevo dire, era il mio momento. «John Lennon, è una vita che volevo incontrarti e pensavo di venirti a cercare e invece sei venuto tu da me». Lui rispose: «Sapevo che eri qui». Rotto il ghiaccio, fu qualcosa di incredibile. Avevo letto le interviste a «Rolling Stone» in cui parlava della terapia primordiale. Mi venne anche in mente che lui e Yoko stavano girando l'America in cerca della figlia di lei, Kyoko. Doveva essere stata portata via dal suo primo marito. Perciò stavano cercando di trovarla e intanto giravano l'America in una Oldsmobile station wagon verde. Quando iniziai a parlare con lui dopo i soliti convenevoli sulla sua musica e su come mi aveva cambiato la vita, mi sentii abbastanza a mio agio da citare l'intervista a «Rolling Stone». Parlammo brevemente della sua carriera dopo i Beatles e dei demoni che doveva avere nascosto dentro di lui, sapendo che se avesse detto ai suoi fan di buttarsi da una rupe, alcuni sarebbero stati così folli da farlo per davvero. Alla fine mi diede un consiglio su come vivere il presente senza farsi influenzare dal passato: «Una volta che hai fatto una cosa, è fatta, non devi mai guardare indietro». Ora può sembrare una banalità, ma sapevo che cosa intendeva e come lo intendeva. È vero, non si può tornare indietro, quindi perché arrovellarsi? Grazie, John. Ora mentre gli parlavo da vicino e lo guardavo negli occhi notai il mestolino d'argento per la cocaina che portava al collo. Aveva il naso un po' rosso. Tirai fuori un pezzo di carta e domandai a lui e a Yoko due autografi che ora ho montato sul poster di Imagine, quello con John seduto al pianoforte bianco nella stanza bianca. Vorrei dire che Yoko era radiosa. Non è per nulla fotogenica, ma vista di persona e da vicino era splendida. Ricordatevi che era tanto tempo fa. Aveva un'aura intorno a sé, che era… be', dovevate esserci. Rimasi attaccato al muro a guardare mentre John e i suoi amici finivano la partita. Dissi: «John abbiamo un paio di chitarre e c'è un pianoforte verticale. Ti andrebbe di suonare?» Rispose semplicemente «Sono con queste persone, se a loro non dispiace…» Così, John e Yoko si sedettero in un angolo del piccolo palco. Lui suonava la mia Martin D-35. Cantò canzoni da tre accordi come Kansas City, e, credo, Bad Boy e Blue Suede Shoes. Tutte molto semplici. Fu grandioso. Il locale si riempì in pochi minuti non appena la voce iniziò a girare in spiaggia. Quando fu pieno non fecero più entrare nessuno. Iniziarono a girare birre gratis. Che cosa dire, fu il massimo. Ero
seduto a nemmeno un metro da John Lennon. Morivo per la felicità. Il sogno, l'ebbrezza di una vita. E stava suonando la mia chitarra. Mi sentivo come se fosse stato un concerto privato, solo per me. Avevo iniziato a suonare il vecchio piano, ma era così scordato che non volevo rovinare il momento. Per poco, purtroppo, non posso raccontare di aver suonato con John. Ma ricorderò sempre quell'attimo, quando il tempo sembrava essersi fermato. Lì, davanti a me… John avrà suonato mezz'ora. Alla fine ci fu un boato nel ristorante. Quando mi restituì la chitarra, ci stringemmo la mano. È andata così. È tutto vero e il sentimento che ho provato non è paragonabile a nulla che possa descrivere. In my life… there is no one compares to you. Michael Lowry Lake Ridge, Virginia
La sua musica, la mia voce Anche se John Lennon è morto un anno prima che io nascessi, la sua vita e la sua musica mi hanno colpita in maniera profonda. La sua musica, grazie ai miei genitori, è diventata la mia musica. L'ho ascoltata e ho imparato che tutto ciò di cui il mondo ha bisogno è amore. John non era solo un artista di talento, ma una bella persona, che esprimeva i suoi sentimenti e le sue idee con le parole e la musica. Era un uomo appassionato, pieno di creatività, semplice, le cui voce è stata e sarà quella di molte generazioni, passate, presenti e future. La sua musica, poi, è diventata la mia voce. Senza, non penso che sarei la persona che sono oggi. John Lennon mi ha insegnato a essere una sognatrice, a essere creativa, a sperimentare sempre. Queste qualità sono ciò che ho preso da lui come essere umano. Vorrei solo essere nata prima per poter vivere, in tempo reale, John e la sua presenza. Raeanne Garcia Roseville, California
La definizione di cool Per me John Lennon è la definizione di ciò che è cool. Tutti i miei amici pensano che sono matto perché il mio idolo viene da quell'epoca. Sono stato fortunato ad avere due genitori che erano suoi ammiratori. Mamma e papà avevano comprato Shaved Fish e a ogni Natale svegliavano me e i miei fratelli suonando Happy Xmas (War Is Over) e ballando. La canzone dava loro così tanta gioia. Ero curioso, così ho «preso in prestito» l'album quando avevo 11 anni e un giorno l'ho ascoltato. Ho scoperto che quest'uomo aveva la più bella voce del mondo. Mentre ascoltavo il disco ho letto il foglio con i testi e mi sono reso conto che scriveva con il cuore. Mi sono anche accorto di avere sentito già molte canzoni alla radio o suonate dai miei genitori come Instant Karma, Cold Turkey e Whatever Gets You Thru The Night. Una canzone però si staccava dal tutto il resto, una delle pochissime che mi hanno fatto piangere in vita mia: Imagine. Era come una preghiera privata resa pubblica. Qualche giorno dopo ho chiesto a mia madre quanto fosse famoso John. Lei ha risposto che «era nel più grande gruppo di tutti i tempi, i Beatles». Avevo ascoltato i Beatles in qualche occasione ma non sapevo chi facesse parte della band. Mi interessai ancora di più a loro, e, guarda caso, proprio quella settimana, c'era uno spot in tv della loro antologia di singoli 1. Ho scongiurato mia madre di comprarla, ma lei ha detto di no. Così per tre anni mi sono scordato i Beatles e John Lennon, finché quando ero in Polonia non ho trovato un negozio che aveva molti ed dei Beatles e fortunatamente anche 1. Costava poco e avevo i soldi, per cui l'ho comprato e me ne sono subito innamorato. La mia canzone preferita è probabilmente The Ballad of John and Yoko perché mi fa sentire felice. Ho collezionato molti album dei Beatles su cd. Ho anche comprato due dischi di John Lennon (Double Fantasy e Imagine) a un mercatino
dell'usato Ho delle foto di John in cantina. Sono ossessionato. Mi ha anche ispirato a scrivere canzoni e a imparare a suonare la chitarra. Altri suoi fan a scuola mi dicono che gli assomiglio, e per me è un bellissimo complimento, anche se non ho mai potuto avere una parte della sua vita, ma lui l'ha avuto nella mia più di qualunque altro musicista o di qualsiasi altra persona. Non sarò mai parte della sua vita ma la cosa più vicina in quello che posso fare è comprare in un libro che parla della sua vita, amarlo e ascoltare la sua musica. Vi chiedo scusa di essere stato un po' lungo e per gli errori di scrittura e di grammatica. Con sincerità, Matthew Ruta Troy, Michigan
Lo amavo ancora di più. Ho cominciato ad apprezzare la musica dei Beatles quando avevo 11 anni. Naturalmente, essendo una quasi adolescente, mi innamorai subito di Paul McCartney. Le sue tenere ballate, il suo aspetto da bravo ragazzo e il suo fascino mi conquistarono completamente. Gli altri tre erano niente male, ma nessuno era come Paul. Più crescevo, e più iniziavo ad ascoltare le parole. C'era un messaggio, e mi piaceva; pace, amore, tolleranza. Quando crescevi nella Bible Belt era difficile trovare quel sentimento di tolleranza. Non fatevi ingannare dal nome religioso. La Bible Belt è famosa per i suoi pregiudizi. Ma per fortuna c'erano i Beatles. All You Need Is Love. Che cosa favolosa! Ma l'uomo dietro tutto quel pace e amore era John Lennon. Ho imparato ad apprezzarne il messaggio. Più leggevo di lui e più lo amavo. I suoi principi e i suoi valori rispecchiavano i miei. Soprattutto nei giorni di una guerra ingiusta, le sue parole suonavano così vere. È una delle ispirazioni della mia vita. Se non fosse stato per le sue parole di tolleranza, di accoglienza e di pace, avrei continuato a vivere con nozioni preconcette su persone che non conoscevo nemmeno. Ad avere paura di qualcuno solo per il colore della sua pelle o per il modo in cui prega Dio, Buddha o Allah… o chiunque altro. Ringrazio il Signore perché John è stato su questa terra a insegnare alle persone le cose importanti della vita. Ed è così tragico che nonostante la sua natura pacifica sia stato ucciso in un modo così orribile. Non ho mai avuto la possibilità di vederlo da vicino. Ma gli sono grata perché la sua musica vive ancora oggi. Quando i miei figli cantano All You Need Is Love mi vengono i brividi. La musica e il ricordo di John Lennon vivranno per sempre. La ringrazio per avermi permesso di esprimere i miei sentimenti, signor Kane. Ho apprezzato molto. Grazie per il suo tempo. Susan Fischer Mamma St. Louis, Missouri
Aveva solo 17 anni, sai che cosa voglio dire Ehi Larry, mi chiamo Katie e ho 17 anni. Come capirai dalla mia età, non c'ero ancora quando era vivo John ma ho imparato tante cose su di lui, e la sua musica mi ha cambiata per sempre. Mi sono appassionata ai Beatles dopo avere fatto una tesina di Storia americana su di loro. Mentre svolgevo la mia ricerca, avevo l'impressione che John fosse il più interessante di tutti. La prima volta che ho visto i Beatles è stato sul mio computer, guardando il clip di I Want To Hold Your Hand dall'Ed Sullivan Show del 1964, e ho pensato immediatamente che
fosse il più serio dei quattro. Il modo in cui cantava e l'espressione del suo viso mi facevano pensare che fosse molto serio. Ragazzi, se mi sbagliavo! Non solo ho scoperto che non era il più serio, ma che era completamente matto (nel senso buono, dico). Ricordo la prima volta che ho visto il film A Hard Days Night: era un isterico! Dovevo saperne di più. Così sono entrata in tutti i siti che ho trovato e ho cominciato a imparare cose su di lui. Quello è stato il punto di svolta della mia vita. Nei mesi successivi avevo maturato un forte rispetto per John e per tutto quello che ha fatto. Sapevo che non aveva avuto una vita semplice, di suo padre che non aveva mai visto e di sua madre che era morta proprio mentre si stava «avvicinando a lei. Doveva essere stato tutto veramente difficile, ma la musica era il suo sfogo. So che non passerò certo le stesse cose nella vita ma ho anch'io avuto le mie delusioni qua e là e la musica di John Lennon mi è stata d'aiuto nell'affrontarle. Nella maggior parte delle sue canzoni non riesco a riconoscermi completamente perché non ho mai avuto problemi di droga o una vita sentimentale come l'ha avuta lui, ma riesco sempre a trovare un messaggio per cui posso dire «sì, è lo stesso per me». Non sono soltanto i pezzi dei Beatles, anche le sue canzoni da solista sono fantastiche, ma sono sicuro che lo saprete già! John Lennon ha cambiato il mio sguardo sulla musica e sulla vita. Le sue canzoni sono qualcosa che non avevo mai sentito prima e a cui nessun brano di oggi può essere paragonato. Dove sarebbero nella musica di oggi classici come Instant Karma, Watching The Wheels, Mother, che sono le mie preferite? I suoi testi sono profondi, metteva le proprie emozioni nella musica, non scriveva, usava il cuore. Non riesco a immaginare un altro artista che abbia dato al mondo quello che ha dato John Lennon. Forse alcune sue azioni erano gratuite e non rientravano in ciò che gli altri consideravano buono e giusto, ma lui sin dal primo giorno è stato diverso e non è mai rientrato nei ranghi. Era proprio questo che lo rendeva così brillante. Il suo accettare di essere diverso e di fare ciò che voleva, non quello che si aspettava la gente, lo ha portato dove voleva lui. Per riassumere, se potessi ringrazierei John per ciò che ha fatto alla cultura pop americana, alla musica americana, e alla vita americana. In molti casi, le sue azioni parlavano più forte delle sue parole, e cambiavano tutto. Sono così grata di essermi avvicinata ai Beatles e ai dischi solisti di John perché mi hanno cambiata per il meglio. John Lennon, sei splendido, grazie per essere stato te stesso! Grazie! In bocca al lupo per il suo libro! Sono sicuro che sarà bellissimo! Katie Marmo Babylon, New York
Una fonte di ispirazione Caro signor Kane, mi chiamo Danielle e ho 14 anni. John Lennon ha toccato la mia vita in molti modi. Uno è stato ispirarmi a scrivere canzoni. Quando cerco con tutte le mie forze di imparare a suonare la chitarra, penso a quanto era bravo lui e tengo duro. Ma c'è un altro modo in cui ha influenzato la mia vita, ed è il più importante: limitandosi a essere qualcuno da cui prendere esempio. Ha avuto una vita dura, e quando penso a quello che ha passato, la mia non mi sembra più così triste come sento qualche volta. Quando ho un problema o un dilemma particolare, mi siedo sul mio letto e guardo il suo poster sulla parete, dove è stampato anche il testo di Imagine. Nella fotografia lui guarda avanti, completamente assorto; avrà avuto in mente una canzone o pensava alla sua idea del mondo. Quando fisso abbastanza a lungo quel ritratto, mi vengono sempre in mente un evento della sua vita o un verso di una canzone, ed è sempre qualcosa che mi fa sentire molto meglio. Mi ha anche insegnato a dare voce alle mie opinioni. A volte vorrei dire la mia, sulla politica o sulla situazione mondiale. A volte non lo faccio, perché certe persone pensano che non sappia di cosa parlo, o perché non so come dirlo. Il signor Lennon ha dato voce a quello che pensava con la musica e con le sue azioni, e non ha mai esitato a fare ciò che doveva per trasmettere il suo messaggio. Quando ci penso, non sono più preoccupata di dire qualcosa che gli altri potrebbero giudicare completamente ridicolo.
È così che John Lennon, il più incredibile musicista, filosofo, umanista e uomo che il mondo ha mai conosciuto, ispira la mia vita ogni giorno. Danielle Betters
Meditazioni da Manitoba Ho letto sul sito del Beatle Brunch di Joe Johnson che sta scrivendo un libro su John Lennon e cerca fan che raccontino le proprie storie e l'influenza che John ha avuto sulla loro vita. Vorrei condividere la mia storia con lei. Ho 16 anni e sono una fan degli anni Sessanta da quando mio padre mi ha regalato una cassetta dei Guess Who. Ho saputo di John Lennon e dei Beatles guardando le pubblicità del cd 1 nel 2000. Sono rimasta stupefatto dai costumi fluorescenti di Sgt. Pepper e ho potuto sentire l'energia pura e la chimica tra di loro durante il concerto allo Shea Stadium del 1965. Dopo aver visto quelle immagini, volevo capire il perché di quel chiasso, così mi fermai davanti a Music World al centro commerciale, chiedendo ai miei genitori se era un buon negozio. Ma siccome loro sono nati negli anni Settanta, mi hanno detto che non erano sicuri e che se volevo il disco, dovevo comprarlo. Quel giorno, a dodici anni, ho scambiato i Guess Who, la gloria locale, con i quattro di Liverpool, anche se non ho saputo niente fin quando sono tornata a casa e ho strillato di gioia alla vista di un poster dei Fab Four con i loro strumenti appeso sulla porta della mia stanza. Da allora ho passato ore a comprare e leggere libri su ciascun membro dei Beatles, ascoltato per la milionesima volta Strawberry Fields Forever per dimostrare che John dice «Cranberry sauce» e non «I buried Paul», a raccontare in onda al deejay di una radio locale gli ultimi aneddoti su di loro che avevo scoperto, a correre nella mia stanza per prendere nota degli avvenimenti del giorno nella storia beatlesiana e camminare per il quartiere indossando con orgoglio la mia maglietta di Let It Be che mio padre era riuscito per un pelo a comprarmi perché ci aveva messo dieci minuti per trovare un parcheggio. Una delle domande più difficili per un fan dei Beatles è questa: «Chi era il tuo preferito?» Ognuno aveva o ha la sua personalità e la sua dinamica nel gruppo, il che rende ancora più ingiusto preferire uno rispetto agli altri. Ma John aveva un magnetismo che lo rendeva unico. Anche se a volte si comportava come un cafone testa di legno, ma probabilmente era proprio per coprire il suo lato più sensibile e vulnerabile, che mostrava di rado. Riusciva a invece a incanalare i suoi sentimenti nella sua creatività, componendo musica e poesia e creando alcuni dei più grandi capolavori di sempre. Le sue canzoni mi hanno ispirato alcune delle migliori poesie che ho scritto, è sorprendente come riuscisse a fare sentire a un ascoltatore ciò che stava provando, a trasformare una sciocchezza in qualcosa di astratto e viceversa, o a trasformare la malinconia in gioia e la gioia in malinconia. Nonostante sia cresciuta sapendo che lui non c'era più, ho sempre pensato che la sua morte sia stata una disdetta per il talento che aveva, ma quale morte non lo è? John è stato una parte importante della mia vita; ha influenzato alcune mie convinzioni, i miei gusti musicali e la mia scrittura. Anche se non sono stata sempre d'accordo con lui e con quello che ha fatto, non lo posso condannare perché ha vissuto sempre secondo le sue regole. Troppi talenti sono stati manovrati come marionette dai discografici e dai manager che hanno insegnato loro a non mostrare personalità per paura di offendere qualcuno. Signor Kane, spero di esserle stata utile. Mi faccia sapere se posso esserle ancora d'aiuto. Sua Heather Robbins
Winnipeg, Manitoba, Canada Il tributo degli adolescenti continua… È incredibile immaginare quanta influenza John Lennon abbia avuto sul mondo, in tutto quello che ha fatto, dalla musica alle campagne per la pace. John ha lasciato un'impressione fortissima nelle teste e nei cuori di chiunque abbia avuto il tempo di ascoltarlo con mente aperta. Io sono una di queste persone anche se sono nata sette anni dopo la sua tragica morte. Il suo messaggio immortale di pace e amore raggiunge e cattura ancora l'attenzione di persone di tutte le età. Sono cresciuta con i Beatles che mi hanno fatto da colonna sonora, tra i viaggi in macchina con la mamma a cantare Let It Be o la ricerca di musica in seconda elementare sui più grandi compositori di tutti i tempi. Chi? Lennon e McCartney, ovviamente. I testi di John hanno lasciato un segno nella mia vita. Ma tutto quello che sapevo di lui, appunto, è che aveva scritto canzoni stupende che facevano pensare, finché il coro della mia scuola gli ha dedicato un tributo lungo un anno, che ha acceso il mio interesse, allora ho deciso di leggere alcuni libri sulla sua vita, non solo con i Beatles ma anche negli anni da solista. Sono rimasta di stucco per quello che leggevo. L'onestà e la schiettezza nel dire la sua opinione saranno stati anche duri, a volte, ma li ho amati. Ero ipnotizzata dalle cose che diceva della pace e dell'amore, e dalla sua convinzione che non importa di che colore sia la tua pelle o se sei uomo o donna: se hai qualcosa da dire la gente ti deve ascoltare. La vita di John mi ha commossa in un modo che le parole non possono propriamente descrivere, e sarà sempre una parte importante della mia vita. Non era un santo, ma un uomo incredibile che ha condiviso la sua musica e il suo cuore con il mondo e sarà sempre ricordato dalle persone, come me, a cui ha cambiato la vita con il suo amore. Mindy Zimmerman Des Moines, Iowa
L'infiltrato Sono cresciuto in una città chiamata Stone Mountain, in Georgia. Martin Luther King l'ha ricordata nel suo celeberrimo discorso di Washington del 1963, I have a dream, perché lì è nato il Ku Klux Klan. Da adolescente, pensavo che il KKK fosse una cosa normale, che esisteva per difendere noi bianchi. Ma ero anche un grande fan dei Beatles. E i Fab Four dovevano tutto alla musica afroamericana. Più mi interessavo a loro, più entravo nella loro ottica sociale. Ho ascoltato l'album The Beatles Tapes (che conteneva le interviste di David Wigg) con una dedizione religiosa. Ho studiato la storia di Some Time In New York City. Mi divenne allora chiaro che se volevo essere un fan dei Beatles e di John Lennon, non solo dovevo ripudiare la logica del Klan, ma dovevo battermi attivamente contro di esso, essere come John. John morì quando avevo 16 anni ed ero all'ultimo anno delle superiori. L'anno successivo entrai al college, mi iscrissi alla facoltà di Sociologia e iniziai a studiare il fenomeno del razzismo. Come studente, ho passato otto anni sotto copertura nel Klan e in gruppi di skinhead. Ora sono un professore universitario e dirigo uno dei principali centri di ricerca sui crimini legati all'odio sociale in America. Lo spirito dei Beatles e di John e Yoko mi guida ogni giorno. John disse nel 1980: «Se vuoi salvare il Perù, vai a salvare il Perù». Mi ha dato la forza, da fan di un eroe quale ero, di passare all'azione. Power to the people, right now. Dr. Randy Blazak Facoltà di Sociologia Portland State University
Fate la differenza! Be', cercherò di tagliare corto il più possibile. È cominciato tutto quando ho sentito per la prima volta Imagine. Credevo veramente che avesse cambiato la mia vita per il meglio, desideravo solo essere una persona positiva, dare pace e amore, non giudicare nessuno per nessun motivo ma accettare tutti per quello che erano, tentando allo stesso tempo di rendere il mondo migliore. Abbiamo suonato Imagine il giorno del nostro diploma dopo averla votata come canzone della classe, e so di non essere l'unico che immaginava che grandi cose sarebbero arrivate da quel brano e da John Lennon. Mia moglie e i miei sei figli, che hanno dai 18 ai 28 anni, mi hanno regalato una festa a sorpresa per i miei 50 anni. Per tutta la vita gli ho sempre spiegato come potevano fare la differenza da persone pacifiche e piene d'amore, come sono diventati tutti quanti. Alla festa c'era della musica in sottofondo. Stavo parlando con due dei miei figli e mi sono ritrovato ad abbracciarli quando è partita Imagine. Prima che me ne rendessi conto, ci eravamo abbracciati tutti quanti in cerchio, ondeggiavamo da una parte all'altra cantando. Siamo rimasti così per l'intera canzone, ma la cosa che mi ha più commosso è stato sentire uno dei miei figli dire che era tutto lì, che non servivano altre parole, un altro ribadire quanto ci amava tutti, mentre un altro ancora continuava a cantare; tutti avevamo le lacrime agli occhi, mia moglie è stata nel cerchio per poco ma ha fatto un passo indietro per lasciare che rimanessimo solo io e i miei figli, insieme, per un momento. Siamo rimasti in cerchio ancora per un po' dopo che la canzone era finita e ci siamo sciolti; allora, mentre cercavo mia moglie ho visto che tutti gli altri ospiti erano in piedi in lacrime, e anche mia moglie piangeva per avermi visto condividere con i miei sei figli uno dei momenti più belli della nostra vita. Ora so che non siamo stati solo io e mia moglie a fare la differenza e credere a ciò di cui John parlava in quella canzone, ma anche i miei figli ci credono e sanno di poter fare la differenza grazie a John Lennon e alla sua Imagine. Ken Bernard Pawtucket, Rhode Island
Barbara e Bill Prima di tutto grazie infinite per il suo splendido Ticket To Ride. È stato una lettura illuminante su quegli anni così SPECIALI… Avevo 14 anni nel 1964, e questo dovrebbe dirle quanto mi ha commosso leggere il suo libro… splendido, signor Kane… Ricordo come fosse ieri quel punto di svolta nella mia vita quella domenica sera di febbraio… a molti sembrerò sdolcinato… ma mi cambiò la vita… il mio amore per la musica… il mio volere stare in un gruppo… il mio senso estetico… più invecchio, Larry, e più mi sembra evidente… Ho pianto quando abbiamo perso John e George… e non ho vergogna nel dirlo a tutti… sono un newyorchese che ora vive in Florida… Mi sono trasferito qui nel 1986… quella sera al Dakota e quello che è successo dopo a Central Park sono scolpiti nella mia mente… sono diventati parte di me… So che il suo nuovo libro mi entrerà nel cuore… penso a John Lennon quasi ogni giorno, sognava che tutta l'umanità potesse vivere unita… se fosse ancora vivo, sento che sarebbe sempre un attivista, ma oggi è molto peggio, non riesco a pensare a come si sentirebbe… perché mi fa sentire triste… la sua musica ci ha spinti tutti a pensare… sai che si scrive sempre dell'influenza che Bob Dylan ebbe sui Beatles e di quella che i Beatles ebbero su Dylan… ma io penso sempre che sia stato soprattutto John a influenzare Dylan… certo, non sono così dentro la materia come gli esperti… è una sensazione che viene dallo stomaco… Mi ferisce quando sento dire che siamo stati derubati delle canzoni che avrebbe potuto scrivere John, per me è un modo egoista di reagire a una tragedia insensata… d'altro canto, le sue canzoni potrebbero essere state scritte sei mesi fa… è musica senza tempo, qualcosa che non esiste più al giorno d'oggi… Avevo 21 anni quando ho sentito per la prima volta Working Class Hero e ora che ne ho 54 colpisce ancora di più… per non parlare di quel verso di Imagine… «Immagina che non esista la proprietà», suona ancora così toccante, con tutta l'avarizia che
domina il mondo… Larry, potrei proseguire all'infinito, non voglio annoiarti… So che sei una persona importante, sono amico di Charlie Mills, che è stato direttore dei programmi alla WPEN di Philadelphia per anni… mi disse di conoscerti quando stavo comprando Ticket to Ride… e mi ha detto tutto di te… mi è sembrato di essere lì nel '64-'65… tu ci sei stato davvero… non vedo l'ora di leggere il tuo nuovo libro… grazie ancora per il tuo penetrante ritratto di quegli anni e ora per il ricordo di quella notte tragica dell'8 dicembre del 1980… Ero andato a dormire non sapendo quello che era accaduto… Lavoravo per la compagnia di telefoni di New York… abitudinario com'ero… ascoltavo sempre la radio WNEW quando andavo al lavoro la mattina… allora c'era in onda Dave Hermann… quando entrai in macchina sentii una canzone dei Beatles, niente di straordinario, poi un'altra, e poi un brano di John, ho pensato che era strano perché non trasmettevano mai un blocco di musica dello stesso artista… Quando fu terminata l'ultima canzone del set, Hermann tornò in onda e mi resi conto immediatamente che era depresso, e poi parlava di John al passato… Rallentai, accostai e mi fermai sul ciglio della strada… Capivo che qualcosa era successo, poi disse… che John Lennon era stato ucciso… e cominciai a piangere… Sedevo stordito nella mia macchina pensando a chi mai potesse avere fatto una cosa tanto orribile… Rimasi così per tre quarti d'ora… poi pian piano tornai a casa… mia moglie mi chiese perché ero tornato indietro… le raccontai quello che era successo… piangemmo entrambi… e ricordammo tutti i bei momenti che avevamo condiviso grazie alla sua musica… la tv a New York era tutta per lui… eravamo increduli e furiosi… la veglia funebre a Central Park sembrava avvenuta in un sogno… Vivere in Florida dal 1986 ci ha fatto sembrare tutto come se fosse accaduto in un'altra vita… In chiusura, il duo Lennon/McCartney è la migliore coppia di autori del XX secolo e vivrà per sempre… anche John con tutte le sue insicurezze sopravviverà con la sua musica come la vera icona che è stato e sempre sarà… Grazie Larry per avermi dato la possibilità di esprimere i miei sentimenti profondi. Bill e Barbara Pellegrino Pinellas Park, Florida
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