PETER STRAUB JULIA (Julia, 1975) A Thomas e Alice Tessier Ecco come inizia una guerra. In un periodo di pace, arriva un ...
31 downloads
2178 Views
773KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
PETER STRAUB JULIA (Julia, 1975) A Thomas e Alice Tessier Ecco come inizia una guerra. In un periodo di pace, arriva un avviso, una minaccia. Da qualche parte cade una bomba, i potenziali traditori vengono imprigionati senza troppo rumore. Per un certo tempo, giorni, mesi, un anno forse, la vita continua a scorrere in modo apparentemente tranquillo, come nei periodi di pace. Ma se la guerra dura da molto tempo, tutta la realtà diviene guerra, tutti gli avvenimenti vengono in qualche modo collegati alla guerra e della pace non rimane più nulla. Gli avvenimenti e la realtà in cui essi accadono sono strettamente dipendenti gli uni dall'altra. Non è possibile che i fatti della realtà siano distaccati dal loro contesto vitale ed è quindi impossibile che una bomba esploda senza coinvolgere tutto quanto le sta intorno. Se questo accade, ciò significa che non si è capito, non si è visto. Doris Leasing, The Four-Gated City PARTE PRIMA La persecuzione: Julia 1 La bambina bionda - sui nove, dieci anni, l'età di Kate, e abbastanza somigliante a Kate da turbare Julia - comparve come dal nulla correndo lungo Ilchester Place e, roteando le braccia all'angolo della strada, si gettò per il sentiero di Holland Park. Julia, ferma sui gradini della casa con l'impiegato dell'Agenzia Markham & Reeves, provò l'ormai familiare dolore lacerante che immancabilmente l'assaliva ogni volta che ricordava il tragico episodio. La sensazione fu tanto violenta che temette di sbigottire l'agente immobiliare svenendo sui tulipani appassiti, ma quello, convinto di avere a che fare con una cliente nevrotica ed eccentrica fino alla pazzia, si sarebbe forse limitato a mormorare un'osservazione sul caldo, fingendo che non fosse accaduto nulla di strano. Il fatto che Julia avesse già perso due volte le chiavi del numero 25, che avesse versato un assegno di ventimila sterli-
ne di caparra la prima volta che aveva visto la casa (ed era anche la prima casa che le mostrava), che intendesse rilevare l'arredamento dei precedenti proprietari - un fabbricante di tappeti e la moglie, che si erano ritirati alle Barbados - che volesse abitare tutta sola in una villa di otto stanze - ma a questo proposito lui sapeva cosa pensare - l'aveva preparato ad aspettarsi di tutto da quella cliente. Pur consapevole della propria fretta e della propria bizzarria, e anche un pochino timorosa del sottile disprezzo che il funzionario le dimostrava, Julia sperava che attribuisse almeno in parte quel comportamento al suo essere niente più che una delle solite, ridicole "ricche americane"; sicché, all'improvviso insofferente, non ebbe che una lieve esitazione nell'obbedire all'altra reazione suscitata in lei dalla vista della bambina che correva: doveva seguirla. L'impulso era fortissimo. L'uomo di Markham & Reeves, tenendola delicatamente per il gomito, stava estraendo dal taschino del gilè la terza chiave, al cui foro aveva legato un nastrino giallo vivo. "Il giallo per ricordare," disse in tono condiscendente. "Confesso di aver rubato l'idea a un motivo pop. Può..." "Mi scusi." Julia scese in fretta la scala. Non voleva correre prima di essere uscita dal campo visivo dell'uomo e così aspettò di aver voltato l'angolo sul parco. La bambina assomigliava molto a Kate. Naturalmente non poteva essere lei: Kate era morta. A volte però sembra di intravedere degli amici tra la folla o da un autobus, pur sapendo che questi amici sono in realtà lontani migliaia di chilometri, non significa forse che quegli amici sono in pericolo o sul punto di morire? Julia, già ansimante, riprese a camminare. Era circondata da bambini: alcuni giocavano nei recinti di sabbia, altri correvano sull'erba a chiazze, altri ancora si arrampicavano sugli alberi che lei vedeva dalla finestra della camera da letto. Ormai la piccola doveva essersi addentrata nel parco: forse si era confusa tra la gente, sul grande prato a destra, oppure aveva imboccato uno di quei sentieri poco avanti, o era andata verso l'Aranceto. Magari non era neppure passata per il campo giochi ed era corsa direttamente lungo il viottolo che portava a Holland House. Ma era da quella parte, Holland House? Là, oltre il recinto dei pavoni? Non conosceva la geografia del parco abbastanza bene da seguire il fantasma... una bambina come tante altre che andava a raggiungere i suoi amichetti a Holland Park. Julia, che stava ancora vagando soprappensiero tra i recinti della sabbia, si fermò. Seguire la bambina bionda era stato un atto assurdo e irragionevole, forse isterico: tipico suo, insomma. Sto perdendo la testa, pensò, e a voce alta si lasciò sfuggire un'imprecazione che
le guadagnò uno sguardo di rimprovero da un passante con un paio di baffoni fulvi. Imbarazzata, Julia si voltò e alzò lo sguardo oltre il muro di cinta dei giardini, verso le finestre al primo piano della sua nuova casa. Le era costata un capitale: Magnus non doveva assolutamente venire a sapere che l'aveva acquistata e aveva già firmato tutte le carte. Per un terribile istante l'immagine di Magnus in collera le ottenebrò il cervello. Magari era stata irragionevole, addirittura scriteriata, come avrebbe subito sottolineato lui, ma ragionare con Magnus era impossibile. Le severe linee allungate della villetta, di cui si era innamorata a prima vista, contribuirono a rasserenarla. Una mano sul petto, Julia ripercorse il sentiero fino all'angolo di Ilchester Place. Si ricordò dell'agente immobiliare solo quando lo vide appoggiato alla porta d'ingresso con un'espressione a metà tra la perplessità e la noia. Era la stessa che doveva aver fatto quando, telefonando dal proprio ufficio alla banca di lei, aveva conosciuto il saldo del suo conto corrente. Si aspettava che l'uomo dicesse qualcosa ma, a quanto pareva, non era un tipo di molte parole. Non fece che staccarsi dallo stipite e porgerle la chiave, tenendola per il vistoso nastro giallo. Adesso sembrava più stanco che annoiato. E in ogni caso che cosa avrebbe potuto dire Julia? Poteva spiegargli che era scappata per rincorrere una bambina che le ricordava la figlia morta? Lui non sapeva nulla di Kate né di lei. Inventò qualcosa di più plausibile. "Mi deve scusare," gli disse, fissando il suo viso affilato e grigiastro. "Volevo controllare una cosa sul retro prima che lei se ne andasse." Il funzionario le gettò uno sguardo strano: se voleva esaminare il retro della casa, perché non l'aveva attraversata, anziché girarci intorno? "In questa via non abitano molti bambini, signora Lofting," le assicurò. "Naturalmente vanno a giocare nel parco, ma si accorgerà che Ilchester Place è la zona tranquilla che le ho detto." Altro sarcasmo? No: aveva notato la bambina e ora voleva solo essere gentile: non aveva creduto neppure per un attimo alla scusa improvvisata da Julia. "Grazie." Julia prese la chiave e l'infilò in una tasca dell'abito. "È stato molto cortese." "Si figuri." Lo sguardo dell'uomo corse all'orologio, poi alla propria auto e infine alla Rover, il cui sedile posteriore era carico di valigie, piante in vaso, due bracciate di libri legati con lo spago e una scatola con le bambole di panno di Julia da piccola. Erano gli unici oggetti che aveva preso con sé, oltre ai vestiti, e venivano tutti dalla stanza dove aveva alloggiato dopo a-
ver lasciato l'ospedale. I libri erano un di più, ma appartenevano a lei, non a Magnus. Perché regalarglieli? "Per carità, non è il caso!" si affrettò a toglierlo d'imbarazzo. "Non mi sognerei mai di chiederglielo, dopo... tutto questo." "Allora..." L'agente, visibilmente sollevato, cominciò a scendere gli scalini. "Avrei qualcosa da sbrigare in ufficio, quindi, se mi vuole scusare, la lascio alla sua nuova casa." Alzò lo sguardo sulla facciata di mattoni. "E davvero bella. Ci si troverà benissimo. In caso di bisogno può telefonarci. Sbaglio o non è molto pratica di Kensington?" Julia annuì. "Sarà per lei una piacevole scoperta, vedrà. Dove abitava prima? Ad Hampstead?" "Sì." "Questa parte di Kensington non è molto diversa." Raggiunse l'auto e, dopo aver aperto lo sportello, si voltò ancora. "Ci chiami senz'altro se si presentano dei problemi, signora Lofting. A proposito, le suggerirei di farsi fare qualche chiave di scorta in uno dei negozi di High Street. Bene, buona giornata, signora Lofting." "Arrivederci." Julia salutò con la mano. Quando l'auto si fu allontanata, si avviò alla sua Rover e guardò verso la casa, adesso veramente sua. Era una solida costruzione di mattoni in stile neogeorgiano, simile in tutto e per tutto alle altre su quel breve, elegante tratto di Ilchester Place. Là sarebbe stata al sicuro da Magnus. Appena l'aveva vista, la villa le era sembrata un luogo di pace e serenità e in lei era come scoccata una scintilla. Aveva dovuto acquistarla come aveva dovuto seguire la bambina bionda che somigliava a Kate. In quella casa finalmente avrebbe vissuto al sicuro da Magnus; in seguito, quando si fosse abituato all'idea della sua fuga, gli avrebbe telefonato o scritto un biglietto. Aveva trascorso la notte precedente in un albergo di Knightsbridge, tremando a ogni passo che poteva annunciare Magnus con il viso atteggiato a una falsa cordialità e arrossato nello sforzo di trattenere la violenza. Magnus sapeva essere terrificante: quella smisurata autorità di maschio era l'altra faccia della sua impotenza. Sì, l'avrebbe lasciato per un po'. Nel suo biglietto aveva spiegato tutto quello che c'era da spiegare. L'aspettava l'ingrato compito di portare in casa le valigie e il resto delle sue cose. Julia tentò di aprire la portiera, ma era scattata la chiusura. Trasse di tasca la chiave ma era quella di casa, con lo sfacciato nastrino giallo. Si chinò a guardare dal finestrino e vide tutto il mazzo di chiavi che penzola-
va dal cruscotto. Niente da fare. Sentì le lacrime salirle agli occhi. E per sua immensa fortuna Magnus non era presente. "Julia, sei totalmente incapace". "A volte mi chiedo se fai mai una cosa giusta," oppure la condanna recisa, brutale: "Tipico". Essendo avvocato, Magnus disponeva di una gamma svariata di tecniche per insinuare che gli altri, e in particolare sua moglie, mancavano di cervello. "Oh, Dio sia ringraziato," disse forte: si era accorta che il finestrino di sinistra era abbassato, benché anche quella portiera fosse bloccata. Per "tipico" che potesse essere, Julia lo prese come un buon auspicio per il primo giorno nella nuova casa. Forse sarebbe davvero riuscita a tenere alla larga Magnus... almeno per un paio di settimane. Quasi che tra i due corresse un legame, il pensiero di Magnus le rammentò la bambina; infilando il braccio nel finestrino e abbassando la maniglia per aprire la portiera, immaginò di cercarla in Holland Park. Scacciò l'immagine di se stessa e della piccola sedute a chiacchierare su una panchina. Dietro quella visione ce n'era un'altra, di orrore e disperazione, e Julia, sentendola affiorare alla coscienza, com'era accaduto durante le settimane in ospedale, fece deliberatamente il vuoto nella propria mente. Si sarebbe occupata del bagaglio e delle piante: un vaso si era scheggiato e, all'interno, si vedeva la terra nera e granulosa percorsa da sottili radici bianche. Aveva comperato la casa in Ilchester Place, riflette, così come si era presa Magnus per marito: d'impulso. Tuttavia aveva speso il proprio denaro per la propria casa: era il primo atto totalmente autonomo che avesse compiuto da quando aveva sposato Magnus, undici anni prima. A quell'epoca, era una ragazza di venticinque anni, graziosa, con vistosi capelli fulvi e un viso morbido, liscio, sereno: "il viso di una ragazza a un picnic impressionista", lo aveva definito suo padre. Guardando indietro nel tempo, le pareva di aver frequentato scuola privata e Smith College in una specie di trance, senza una vera partecipazione. Al di fuori dei corsi e di qualche professore, poche cose l'avevano stimolata o interessata a fondo. Aveva perso la verginità con un ragazzo ebreo studente di inglese alla Columbia University, alto e sensibile. L'aveva corteggiata con aneddoti su Lionel Trilling e sulla vita sessuale di poeti famosi, e l'aveva portata a vedere un gran numero di film francesi. Dopo c'erano stati altri ragazzi, ma nessuno l'aveva conosciuta a fondo quanto lo studente della Columbia: con loro non era andata neppure a letto. Dopo la laurea era entrata a Time-Life, nell'ufficio selezione stampa di Sports Illustrated, ma se n'era andata un anno dopo, quando aveva sentito
per caso un'altra ragazza, che riteneva amica, parlare di lei come dell’"ereditiera stronza". Licenziarsi era stato un sollievo: sapeva di non avere la competenza necessaria e di essere durata un anno perché il caposervizio, un certo Robert Tillinghast, sposato, si era preso una sbandata per lei. Julia lo trovava simpatico, ma non al punto di spogliarsi davanti a lui, cosa alla quale lui evidentemente mirava. Dopo era vissuta sei mesi in casa dei suoi, leggendo romanzi e guardando la televisione, terrorizzata dal mondo che aveva scoperto fuori del campus dello Smith. Un giorno poi aveva incontrato al ristorante una compagna d'università ed era venuta a sapere che la casa editrice per la quale l'amica lavorava cercava un'impiegata di redazione. La settimana dopo il posto era suo. Aveva il compito di curare la redazione dei testi nella sezione universitaria della società e ne provava un piacere quasi meccanico, superficiale: amava ripetere che imparava qualcosa da ogni nuovo libro. Aveva preso in affitto un appartamento nella Settantesima Strada Ovest. La sua vita aveva assunto un ritmo offuscato, serrato, senza pause di riflessione. Spesso, andando in ufficio con l'autobus (prendeva il taxi raramente, per principio), sbrigando la corrispondenza, lavorando sui manoscritti, pranzando con l'uno o con l'altro, aveva l'impressione di guardare dall'esterno se stessa agire come se la sua vita non fosse ancora realmente incominciata. Finché una mattina si era svegliata nel suo letto accanto a Robert Tillinghast e, in preda al panico, aveva deciso di lasciare gli Stati Uniti e di andare in Inghilterra. "Mi muoverò orizzontalmente, visto che non sono capace di muovermi verticalmente," aveva spiegato ai suoi amici. Robert Tillinghast l'aveva accompagnata all'aeroporto. "Che cosa ne sarà di te?" le aveva detto. "È quello che mi chiedo anch'io." A Londra aveva affittato una stanza in Drury Llane e sei mesi dopo, trovato un impiego presso un editore di libri d'arte, si era trasferita in due locali in Camden Town. "Ma questo è un canile!" aveva esclamato suo padre, venuto a controllare la situazione dagli Stati Uniti. "Dove sono le offerte d'immobili?" Le aveva trovato un appartamentino indipendente, con grandi finestre e due camere da letto ("Ti serve una stanza per lavorare") ad Hampstead, tre volte più caro di quello a Camden Town. Una sera, alcuni mesi dopo, a una festa data da due coniugi che lavoravano per l'editore d'arte, aveva conosciuto Magnus Lofting. Hugh e Sonia Mitchell-Mitchie erano coetanei di Julia. Lui, che circolava in jeans e maglietta e sfoggiava un orecchino d'oro a spirale, era diretto-
re artistico. Sorda, come Julia, lavorava in redazione. Erano una coppia brillante e disinibita; Julia, alla quale i due piacevano benché la sconcertasse la loro abitudine di passare un'incredibile quantità di tempo a discutere sulle loro questioni amorose, non sospettava che la loro idea di "festa" contemplasse due ore passate bevendo il più possibile e giochi di società per il resto della serata. Quando gli altri avevano cominciato a giocare, Julia si era ritirata in un angolo del salotto, sperando di passare inosservata. I divertimenti di gruppo le davano un senso di insicurezza. Sonia aveva preso a punzecchiarla e in un attimo Julia si era trovata puntati addosso gli occhi di una ventina di persone. Si era sentita crudelmente presa di mira. "Non essere antipatica, Sonia," aveva detto un uomo. "Farò quattro chiacchiere con la tua amica." Voltandosi in direzione di quella voce imperiosa, Julia aveva scorto un uomo alto, robusto, dai tratti marcati, in completo gessato. Era parecchio più vecchio degli altri ospiti: i capelli sopra le orecchie gli si stavano già brizzolando. "Si sieda vicino a me," le aveva ordinato. "Mi ha salvato la vita," aveva detto Julia. "Lasci perdere" aveva minimizzato Magnus. Lei gli si era seduta accanto con gratitudine. Dieci anni dopo non ricordava gli argomenti di quella conversazione, ma allora aveva avvertito immediatamente la forza che emanava da lui: era maschio al cento per cento e ogni suo gesto faceva pensare che prenderla gli sarebbe stato facile come accendere una sigaretta. Con l'istinto tipico dei benestanti, Julia aveva intuito che Magnus, qualsiasi attività svolgesse, doveva essere un uomo di successo. Sembrava capirla perfettamente, o essere del tutto indifferente a tutto ciò che non capiva. Affascinava, ma come un serpente. Avevano trascorso il resto della serata parlando tra loro e, mentre Hugh, Sonia e gli altri attaccavano un altro gioco, nel quale l'"assassino" uccideva le sue "vittime" strizzandogli l'occhio, Magnus le aveva sussurrato: "Credo che me ne andrò. Vuole un passaggio? Com'è arrivata fin qui?" "In autobus," aveva confessato lei. "È troppo tardi per prendere un autobus, ormai." Si era alzato. La superava di tutta la testa ed era troppo imponente per definirlo semplicemente corpulento. Aveva sollevato una mano, e Julia era indietreggiata istintivamente, ma Magnus l'aveva portata alla nuca per lisciarsi i capelli. "L'accompagnerò a casa, a meno che non abiti in qualche posto impossibile.
Blackheath o Guildford, per esempio." "Sto ad Hampstead." "Questa sì che è fortuna! Anch'io." Si erano avviati alla sua auto, una Mercedes nera, parcheggiata in Fulham Road. Julia era venuta a sapere che faceva l'avvocato e che un tempo era stato vicino di casa di Sonia Mitchell-Mitchie, la quale era diventata una specie di sua nipote adottiva. Magnus non le aveva chiesto nulla, tuttavia Julia si era messa a parlare a ruota libera. Per un motivo che avrebbe capito solo molti anni dopo, raccontando la sua fuga da New York aveva nominato persino Robert Tillinghast. Soltanto quando aveva capito che avrebbe lasciato Magnus si era resa conto di averlo sposato, di essersi innamorata di lui, principalmente perché le ricordava il padre. Ed erano entrambi occasionali e generosissimi adulteri. Julia si era accorta molto presto che Magnus aveva altre donne: a questo proposito, era brutalmente disinvolto. Nel tragitto verso Hampstead le aveva proposto di bere qualcosa insieme e si era fermato a un club dietro Shepherd's Market, dove aveva scritto il nome di Julia nel libro degli ospiti e l'aveva condotta in un locale semibuio non molto affollato di un'eleganza quasi pacchiana. Le cameriere indossavano abiti lunghi dai colori pastello che rivelavano seni prorompenti e ben separati. Per un terzo, gli uomini presenti erano ubriachi; oltre a Julia e alle entraineuses c'erano soltanto altre due donne nella sala. Un uomo alticcio, appena entrati, le aveva messo un braccio intorno ai fianchi, e Magnus lo aveva spinto via senza neppure osservarlo. Aveva ordinato da bere e si era guardato intorno con aria aggressiva, come sfidando qualcun altro a importunarli. Le due donne, aveva notato Julia, non gli staccavano gli occhi di dosso. Aveva sorseggiato un po' di liquore, provando una piacevole eccitazione. "Gioca d'azzardo?" le aveva chiesto Magnus. Lei aveva scosso la testa. "Le spiace se gioco io?" "No. Tutt'a un tratto non ho più sonno." Julia lo aveva seguito oltre una porta in fondo alla sala, fino a uno sportello protetto da sbarre, dove Magnus aveva comprato dei gettoni. Gli aveva visto posare davanti al cassiere cinque biglietti da cinquanta sterline e, dopo una breve esitazione, aggiungerne un sesto. In cambio aveva ritirato un mucchio di gettoni sorprendentemente piccolo. Erano passati insieme accanto a diversi tavoli fino alla roulette. Magnus aveva puntato quattro gettoni sul rosso. Il fiato sospeso, Julia aveva segui-
to con gli occhi la pallina girare e fermarsi con un rumore secco sul rosso. Magnus aveva lasciato i gettoni dov'erano e la pallina si era fermata nuovamente sul rosso. Poi Magnus aveva spostato tutta la vincita sul nero e aveva vinto di nuovo. Quanto valevano quei gettoni? Cinquecento sterline? Di più? Nello sbirciare Magnus che fissava accigliato la montagnola di gettoni, Julia si era sentita vagamente disorientata: la festa doveva aver annoiato a morte Magnus. Al giro successivo lui aveva perso qualche gettone, ma era rimasto impassibile. "È il suo turno, bellissima," aveva ordinato. Poi aveva spinto verso di lei alcuni gettoni. Julia si era resa conto con smarrimento che valevano almeno duecento sterline. "Non posso. Perderei e il denaro è suo." "Non sia codarda. Punti come vuole." Aveva puntato sul rosso, dato che con quello Magnus aveva vinto la prima volta. La pallina era finita sul nero. Lo aveva guardato costernata. "Niente paura. Punti ancora." Le aveva messo davanti altri gettoni. Lei aveva eseguito e aveva perso di nuovo. Si era allontanata dal tavolo. Magnus aveva continuato a giocare, dando l'impressione di ignorarla. Julia gli era tornata accanto e aveva guardato la pila di gettoni crescere. Pareva che vincere lasciasse Magnus del tutto indifferente. Rimaneva inchiodato al suo posto, seguendo il gioco con aria cupa e collocando qua e là pile di gettoni bianchi e rossi. Alcuni giocatori gli avevano rivolto la parola, ma lui aveva risposto in tono reciso, scoraggiandoli. Dopo circa mezz'ora una donna snella e con i capelli neri, che Julia ricordava di aver visto nell'altra sala, si era avvicinata a Magnus e lo aveva baciato. "Sono secoli che non ti fai vedere. Rischi di perdere tutti i tuoi vecchi amici." Così dicendo aveva lanciato uno sguardo penetrante a Julia, che si era sentita come nuda. Magnus le aveva mormorato qualcosa, poi si era concentrato nuovamente sul gioco. Quando aveva cambiato i gettoni, Julia aveva calcolato che doveva aver vinto quasi mille sterline. "Quella donna è la sua amante?" gli aveva chiesto una volta risaliti in macchina. Per la prima volta lui era scoppiato a ridere. Lasciandola sulla porta di casa le aveva chiesto il numero di telefono, quindi aveva tirato fuori della tasca della giacca due banconote da cinquanta sterline e gliele aveva messe in mano. "La chiamo mercoledì," aveva detto, e se n'era andato prima che Julia potesse protestare. Lei aveva messo
il denaro in un cassetto, ripromettendosi di ridarglielo quando l'avesse rivisto; due mesi dopo, aprendo quello stesso cassetto, lo aveva ritrovato, ma era troppo tardi per restituirlo. Alla fine aveva donato cinquanta sterline a un'organizzazione benefica e le altre cinquanta ad Amnesty International. Il lunedì successivo, in ufficio, aveva appreso due cose sul conto di Magnus: era stato il primo amore di Sonia Mitchell-Mitchie e tutti pensavano che Julia fosse andata a letto con lui. "Fa sempre così: abborda le ragazze a una festa, poi se le porta a letto. Con te non lo ha fatto?" "Mi ha sì e no sfiorata." "Forse non stava bene!" aveva dedotto Sonia. Nelle settimane seguenti, Magnus aveva occupato sempre più il tempo di Julia, ma avevano fatto l'amore soltanto quando lei aveva cominciato a domandarsi se si sarebbe mai deciso. Era indubbiamente l'uomo più enorme col quale fosse andata a letto. A quell'epoca, due mesi dopo la festa dai Mitchell-Mitchie, Magnus era diventato un punto di riferimento nella sua vita. Julia tendeva a giudicare gli altri uomini secondo gli standard di Magnus, cercando di immaginare se a lui sarebbero piaciuti. Certo nessuno era eccitante quanto Magnus Lofting: aveva quella assoluta sicurezza di sé che i più giovani, ancora intenti ad affermare la propria maturità e la propria carriera, non possono vantare. Eppure era stato solo dopo che le aveva descritto la sua infanzia che Julia, già innamorata, aveva capito di doverlo sposare. Lui e la sorella, la "povera Lily", maggiore di un anno, erano stati cresciuti da genitori eccessivamente distratti. Preoccupati solo di se stessi, totalmente disinteressati alle opinioni e ai sentimenti altrui, i Lofting avevano viaggiato molto, lasciando i bambini a casa con una serie di istitutrici. Julia non aveva mai sospettato che dei genitori potessero essere tanto poco amorevoli, per non dire crudeli, con i propri figli. A parte le istitutrici e la "povera Lily", Magnus era cresciuto nel più assoluto silenzio, abbandonato nel gelido mausoleo che era la loro casa nell'Hampshire. I suoi ricordi d'infanzia colpirono profondamente Julia che da parte sua, a differenza di Magnus, aveva avuto un padre invadente, verboso e autoritario. I primi anni della sua vita e il forzato isolamento bastavano a giustificare certe tendenze di Magnus da adulto: all'inizio non aveva conosciuto scrupoli nella vita professionale e anche adesso vi profondeva tante energie psichiche da far funzionare una macchina a vapore. L'infanzia di Magnus non solo aveva aiutato Julia a meglio comprenderlo, rendendoglielo più accessibile, ma aveva contribuito anche a umanizzarlo. Da
principio, le era parso incredibile che Magnus avesse avuto davvero dei genitori; che avesse avuto la "povera Lily" e Mark, un fratello adottivo molto più giovane, le era sembrato addirittura sconvolgente. L'aveva ulteriormente sorpresa la profondità del suo attaccamento alla "povera Lily", ma anche qui entrava in gioco la loro fanciullezza. Erano cresciuti in un sodalizio a due, legati da un affetto tenace, l'uno unica compagnia dell'altro. Avevano inventato un linguaggio di fantasia che usavano ancora adesso quando scherzavano, e nel quale si chiamavano "Magnim" e "Lilim". Si erano organizzati giochi complicati per i quali utilizzavano ogni angolo della casa e del giardino, giochi nei quali, fin dall'età di cinque o sei anni, lui aveva rivestito ruoli di comando: re, generale, primo ministro, Coriolano, Priamo, Ulisse. Tutto era proseguito così finché Magnus era entrato a Cambridge. Lily non si era mai sposata, e Julia aveva saputo che il fratello passava con lei almeno un pomeriggio o una serata la settimana. In realtà Julia pensava che l'immancabile uso dell'aggettivo "povera" nel riferirsi a Lily fosse stato adottato non tanto per un'intrinseca stranezza della stessa Lily, quanto per il desiderio di parare l'eventuale gelosia della stessa Julia. Malgrado le sue eccentricità, il suo spiritualismo, la sua aria di signorile abbandono, Lily non meritava quell'epiteto. Quando finalmente Julia l'aveva conosciuta, l'aveva trovata una donna indubbiamente deliziosa, con i capelli grigi e un viso così delicato che, sotto la pelle, si distinguevano i muscoli facciali. Al suo confronto Julia si era sentita goffa e accaldata, e probabilmente sporca in qualche posto bene in vista. Solo due anni dopo, alla nascita di Kate, Lily era divenuta cordiale. Mark, figlio di un funzionario consolare in Africa morto suicida, amico di sir Greville Lofting, era un'altra faccenda. I Lofting avevano adottato il bambino, che a quel tempo aveva due anni, in un gesto di generosità atipica, avendo promesso a sua madre, in fin di vita in un ospedale ai tropici, che si sarebbero presi cura di lui. La qual cosa aveva significato per loro spedire il piccolo a una bambinaia in Inghilterra preceduto da un telegramma e da una spigliata missiva in cui avvertivano il quindicenne Magnus e la sedicenne Lily che sarebbe capitato in mezzo a loro un fratellino nuovo. Lo avevano detestato subito. Il loro mondo era stato troppo a lungo una sacra alleanza a due per accettare un terzo incomodo. Per Magnus era invariabilmente un "buono a nulla" e un "portatore di guai". Anche Lily manteneva un atteggiamento sospettoso nei suoi riguardi. A volte lo definivano un disastro, forse riferendosi al fatto che a quindici anni aveva messo incinta una ragazza del paese, o forse perché, appena raggiunta l'età
adulta, aveva voluto assumere di nuovo il cognome d'origine, Berkeley, muto commento ai metodi educativi di casa Lofting. Mark era stato una delusione: non aveva mai imparato il loro linguaggio segreto, anche perché loro non gliene avevano dato l'occasione, si era laureato a Cambridge con il minimo dei voti e ora lavorava presso una scuola politecnica, dove teneva un corso di sociologia; materia che Magnus aveva sempre ritenuto superflua. Mark aveva sempre simpatizzato con gruppi politici estremisti, aveva partecipato a marce, distribuito volantini e adesso si dichiarava un maoista: una volta Magnus l'aveva sorpreso addirittura con una copia di Stella Rossa sulla Cina sotto il braccio. "Non vedo che cosa ci sia di male nell'allargare i propri orizzonti leggendo. La pensi così anche tu." "Non ho detto che lo leggeva, ma che l'aveva con sé. Per far colpo. Nel suo ambiente è l'equivalente di un disco dei Rolling Stones." "Non voglio difendere Mark, ma adesso sei cattivo e ingiusto. Lo condanneresti anche se non gli avessi visto quel libro." "Ha importanza il mio giudizio su un maoista di Notting Hill?" Mark indossava solitamente jeans e una camicia di tela; abitava a Notting Hill Gate nelle stesse stanze che aveva affittato appena uscito da Cambridge e dormiva su un materasso steso a terra in mezzo a un indescrivibile caos. La maggior parte di queste notizie, che Magnus sottolineava con grugniti di disapprovazione, Julia le aveva apprese da Lily, ma non aveva conosciuto Mark fino a tre o quattro mesi dopo, il giorno in cui si era presentato a casa di Magnus in Gayton Road tre settimane prima del matrimonio, dicendo di voler conoscere la vittima. Julia aveva sentito la sua voce allegra e ironica, tanto diversa da quella dei Lofting, dalla scala d'ingresso, e poi le parole di Magnus: "La cosa? Immagino che tu alluda alla mia fidanzata". "La tua vittima, Magnus." Un sospiro. "Be', visto che sei qui, entra." "Sempre generoso, Magnus." Julia aveva immaginato in Mark un potenziale alleato sin da quando lo aveva sentito denigrare da Magnus e Lily; quanto meno era un essere umano afflitto da difetti, e come tale un suo simile. In preda a un improvviso batticuore aveva gettato il Guardian sulla poltrona e si era alzata per andargli incontro. Magnus era entrato con fare cupo nella stanza, seguito da un giovanotto alto con i capelli lunghi, neri e lucidi. Dopo aver notato la smorfia del futu-
ro sposo alla vista del giornale sgualcito sulla poltrona, Julia aveva costatato che Mark Berkeley era il tipo di uomo che le donne si voltano a guardare per la strada. Era tanto bello era sessualmente attraente. I capelli lunghi e scuri incorniciavano un viso leggermente olivastro, dall'espressione divertita, con gli zigomi alti e la bocca carnosa. Sotto le sopracciglia nere gli occhi erano sorprendentemente azzurri. Quando le aveva porto la mano, lei si era accorta che aveva le unghie sporche. "E carina quasi quanto me l'ha descritta Lily," aveva detto Mark. "Vorrei averla conosciuta io per primo. Sarà simpatico avere un'altra bella donna in famiglia, non trovi Magnus, ora che Lily non è più di primo pelo?" Stringendo quella mano piuttosto sporca, Julia aveva sentito, sotto quelle frasi banali, che Mark avrebbe saputo leggerle dentro. Sarebbe stato un alleato per lei, ma non del genere che si attendeva. Anche Mark era formidabile, eppure sembrava tutt'altro che freddo. Mentre già sentiva simpatia per lui, Julia provò una di seguito all'altra una serie d'impressioni. Mark sembrava più il figlio che il fratello di Magnus; la sua aria di totale incoscienza appariva quasi studiata. Era impossibile immaginarlo occupato in un lavoro, a meno che non fosse un lavoro puramente verbale. Inoltre, aveva riflettuto Julia, la sua mano ancora in quella di lui, la stava abilmente ingannando. Era fin troppo facile cedere al fascino di una persona tanto attraente. Ritrasse la mano. Non sapeva mai se fidarsi degli uomini troppo belli. "Sul serio," aveva ripreso Mark, "non sembra una di quelle visioni che appaiono a Lily nelle sue sfere di cristallo? Deve essere un tipo fuori del comune per volerti sposare." "Oh," era intervenuta Julia, cercando di salvare la situazione, "metà delle donne di Londra vorrebbero essere al mio posto." Ma Magnus le aveva voltato le spalle, irritato. Il resto del pomeriggio si era trascinato penosamente, con Mark che provocava Magnus, e Magnus che s'incupiva sempre più. Quanto a Mark, per Julia restava un enigma. Un anno più tardi, quando aveva capito, amareggiata, che Magnus non aveva smesso di frequentare le altre sue donne nemmeno per un mese, Julia gli aveva urlato rabbiosamente in faccia che non le sarebbe dispiaciuto avere una relazione con suo fratello. "Perché dovresti divertirti solo tu?" Magnus l'aveva afferrata per un braccio con tanta forza da procurarle dei lividi; lei, tremante di paura e di collera, aveva capito che si tratteneva a fatica dal picchiarla. Poi la morsa si era allentata e Magnus, falsamente placato, aveva fatto un passo indietro. "Ti ucciderei, se andassi a letto con Mark." Lo aveva detto con tale freddezza che Julia non aveva esitato a
credergli: nonostante tutte le sue chiacchiere su quello "squilibrato" di Mark, solo allora si era accorta dell'odio di Magnus per il fratello. Per lo meno, questo le era parso di leggere nel suo sguardo. Non molto tempo dopo quella lite, avevano cominciato a parlare di mettere al mondo un figlio. L'estate dopo era nata Kate. Per i nove anni successivi, i Lofting erano vissuti borghesemente ad Hampstead, compiendo frequenti viaggi all'estero. Magnus aveva comprato una fattoria sul fiume Dordogne, e ci erano volute tre estati per rimetterla a nuovo. Vedevano Lily a intervalli regolari e Mark due o tre volte l'anno, quando piombava da loro senza preavviso. Lily lo teneva al corrente delle novità di casa Lofting. Al primo compleanno di Kate, le aveva mandato una bella casa per le bambole; telefonava spesso quando Magnus era fuori città e s'intratteneva al telefono con Julia in civettuole conversazioni. Magnus continuava ad avere delle amanti, ma la cosa aveva perso il potere di ferire Julia. Sembravano tutte relazioni senza importanza, che sottraevano poco o nulla a Julia e Kate. Imprevedibile come sempre, a volte terribile, Magnus nutriva per Kate un amore assoluto. Julia aveva vissuto nove anni della vita di Kate tra le mura domestiche, soddisfatta solo in apparenza. Una volta, a un ricevimento, aveva udito la propria voce dire: "Non si può vivere per un'altra persona? Certo. Io vivo per la mia...". Stava per dire "bambina", ma Magnus la stava fissando e così aveva cambiato in "famiglia". Potrò essere me stessa, liberamente, stabilì ora, e scoprirò che cosa significa. E, se diventerò pazza, mi starà ugualmente bene. Davanti alle tende aperte della finestra in camera da letto, Julia guardava il campo giochi popolato di bambini e il verde del parco. Alzò il pannello inferiore della finestra e si sporse, pensando: la donna all'inizio della sua nuova vita si affacciò alla finestra... nella stanza si soffocava. L'aria che veniva da Holland Park sembrava più fresca e tonificante, malgrado la giornata calda. Svuotando le valigie e slegando i pacchi di libri Julia si era sentita sudata, appiccicaticcia e stranamente cinica: i vestiti potevano stare dappertutto, visto che la camera, come tutta la casa, era soltanto sua. Dopo aver messo la scatola delle bambole in un'anta dell'armadio, si sedette sul bordo del letto sentendosi insopportabilmente accaldata. Per un attimo le dimensioni della casa le parvero opprimenti. Tuttavia l'aveva voluta, e l'aveva. I mobili dei McClintock erano vecchi e un po' sciupati, ma comodi, con una certa sovrabbondanza di cuscini e imbottiture. Al momento oppor-
tuno se ne sarebbe sbarazzata per comprarne altri, ma per ora era soddisfatta sia dell'arredamento sia della casa, il cui aspetto solido e familiare infondeva sicurezza e senso di protezione. Curioso come la villetta avesse quasi chiesto di diventare sua. Inizialmente Julia aveva pensato di trasferirsi in un residence, magari a Knightsbridge, ma la provvisorietà di quella sistemazione la deprimeva, così si era rivolta a un'agenzia immobiliare con la vaga intenzione di affittare un appartamento. Ma dopo aver visto la villetta di Ilchester Place... "Naturalmente non fa al caso suo," aveva detto l'impiegato, invece Julia aveva capito che doveva averla. Era la prima volta in vita sua che spendeva il proprio denaro in modo così istintivo. Senza Kate, risparmiare non aveva più senso. L'immagine degli ultimi minuti di vita di Kate minacciò di ricomparire e, per scacciarla, Julia si allontanò in fretta dalla finestra. Quasi inconsciamente aveva cercato con lo sguardo la bambina bionda che aveva visto la mattina. Che bello se l'acquisto della casa l'avesse messa in affettuoso contatto con un'altra bambina, una ragazzina come Kate, con la quale coltivare un'amicizia senza complicazioni! Ma era impossibile: non poteva fare sua la figlia di altri. Stava diventando sempre meno realistica, sempre più cieca alle verità più ordinarie. Era possibile che, invece di iniziare una nuova vita, avesse semplicemente creato lo scompiglio in quella vecchia? Non poteva permettersi di pensarla così. Se era stata chiacchierona, disorganizzata, trascurata e tutto ciò di cui l'aveva accusata suo marito, poteva darsi che tutti questi apparissero come difetti soltanto a Magnus: lei aveva diritto alle sue debolezze. Già ora, dopo due soli giorni di libertà, Julia era in grado di giudicare quanto fosse stato opprimente Magnus con le sue valutazioni. Probabilmente significa che il mio matrimonio è finito, si disse, e l'idea sorprese lei per prima. Ovviamente la decisione di lasciare Magnus era strettamente legata alla morte di Kate, all'orribile spettacolo sul pavimento della cucina, al sangue che sgorgava dal suo corpicino terrorizzato... Ma forse lo aveva lasciato anche perché sapeva di non poter vivere un solo minuto di più con lui. Kate li aveva tenuti uniti. Kate era stata il loro solo punto in comune. Interessante, pensò, poi si rese conto di averlo detto ad alta voce. "Diventerò di quelle donne che parlano da sole. Be', perché no?" Si girò verso lo specchio dei McClintock e prese a pettinarsi i lunghi capelli, resi splendenti dal sole che entrava a fiotti dalla finestra.
Dopo aver messo a posto tutto, aver pulito la cucina già immacolata e passato l'aspirapolvere sul tappeto del salotto, Julia fece la doccia e poi uscì. Aveva deciso che, tutto sommato, sarebbe andata da Lily, che ora abitava a Plane Tree House, proprio sull'altro lato di Holland Park. L'avrebbe persuasa a non rivelare a Magnus il suo nuovo indirizzo. Negli ultimi nove anni, la "povera Lily" era diventata una buona amica, al punto che una delle attrattive di Ilchester Place era la vicinanza a Plane Tree House. In effetti Julia si era avvicinata a entrambi gli altri Lofting: l'appartamento di Mark a Notting Hill era così vicino che poteva raggiungerlo a piedi. Julia si assicurò di avere la chiave in tasca, quindi si avviò verso il parco. Rivide quasi subito la bambina bionda. Era seduta a terra, a poca distanza da un gruppo di altri ragazzini che la osservavano attentamente. Julia si fermò, quasi temendo che, vedendola, la bambina interrompesse il gioco. Stava maneggiando qualcosa con grande concentrazione, il visino assorto. Julia non vedeva che cosa l'assorbisse tanto, ma anche gli altri bambini avevano un'espressione grave e trattenevano il fiato. Questo dava alla scena il carattere di una rappresentazione. Pensando a Kate, capace di far pendere dalle sue labbra una decina di bambini inventando storie fantastiche, Julia, con il sorriso sulle labbra, lasciò il sentiero e si sedette sull'erba sul lato opposto del campo giochi a una ventina di metri dalla ragazzina e dal suo pubblico. La bimba era seduta a gambe distese nella sabbia traboccata dalla vasca: una piccola isola come l'ostacolo di un campo di golf. Parlava adagio al suo pubblico, suddiviso in gruppetti di tre o quattro nell'erba secca davanti a lei. Erano tutti innaturalmente immobili, ipnotizzati dalla ragazzina bionda. Gli altri bambini intenti a giocare non li guardavano nemmeno. Julia dimenticò che stava andando da Lily, dimenticò anche Lily. Erano le cinque e mezzo e faceva ancora molto caldo: il sole le scaldava la fronte e le braccia. Come molte donne di Londra, era pallida come se vivesse sotto una coltre perenne di nuvole. Forse, per la prima volta dopo anni, si sarebbe abbronzata. Mentre guardava la bambina continuare i suoi complicati gesti accompagnati da frasi di monito, Julia provò un pigro, gradevole senso di pace. Aveva fatto bene a comprare la casa: aveva svoltato un angolo e poteva cominciare a vivere diversamente. Credette per un istante che la bimba le avesse lanciato una rapida occhiata, ma era molto più probabile che si fosse semplicemente guardata attorno, a caso. Di certo era la stessa bambina bionda che aveva visto correre per la strada. Non assomi-
gliava a Kate se non nei capelli, di un biondo chiarissimo, eppure le rammentava in qualche modo sua figlia. Stranamente guardarla non le provocava alcuna sofferenza, anzi, le dava una gioiosa emozione. Era il distacco da tutto, una liberazione pura, felice, scaldata dal sole. I lineamenti della ragazzina, a quella distanza, apparivano aristocratici e il suo profilo netto, quasi disegnato a matita. Sembrava che stesse non tanto narrando, quanto tenendo una lezione, e incantava gli altri. Muoveva continuamente le mani e nella destra aveva qualcosa che i bambini osservavano attentamente. La bimba rise, eccitata, e Julia le vide scintillare un oggetto nella sinistra. Lo accostò a quello che teneva nella destra, un riquadro verde. Il riquadro verde, forse uno straccio, volò in aria, e una spettatrice abbassò la testa; Julia vide le sue spalle sussultare, come stesse ridendo. La biondina le si rivolse con severità e l'altra rialzò la testa. Il pubblico avanzava lentamente, affascinato. No, affascinato non era il termine appropriato. I bambini sembravano avvicinarsi con soggezione alla biondina, che sicuramente era il loro capo. La bambina parlò loro rapidamente, puntando un indice. Sembrava una professoressa dinnanzi a una scolaresca. Agitò nuovamente il riquadro verde. Una femminuccia parve per un attimo spaventata. Poi la ragazzina riprese a gesticolare mentre gli altri le si raccoglievano intorno. Julia allungò il collo per vedere cosa stessero facendo, ma vedeva soltanto la testa bionda della bambina. Una delle spettatrici più piccole scoppiò a piangere. Qualche istante dopo era tutto finito. I bambini si sparpagliarono, alcuni correndo e gridando eccitati, altri avviandosi lentamente alla vasca della sabbia, dove girellarono con aria svogliata, sferrando di tanto in tanto un calcio alla sabbia. Questi ultimi continuarono a sbirciare la bambina bionda, rimasta seduta dov'era, con le spalle verso di loro. Spianava la sabbia col palmo della mano, forse riempiendo un buco fatto da lei stessa. Dal suo atteggiamento s'indovinava che sapeva di essere guardata e che se l'aspettava, era al tempo stesso impacciata e indifferente. Quand'ebbe battuto e lisciato la sabbia, si alzò e si pulì le mani. Alzò la testa in un gesto regale, e Julia ebbe un tuffo al cuore. La bambina si diresse verso il sentiero, verso Julia. Sul viso aveva ancora la stessa espressione di leggero imbarazzo. Che ruoli e riti complicati hanno i bambini, pensò Julia. Sapeva che la bambina non l'avrebbe guardata, e così fu. Arrivata sul sentiero, la ragazzina si addentrò nel parco e, dopo qualche passo, si mise a correre; un attimo dopo raggiungeva la sua massima velocità e di lì a un istante era scomparsa dietro un gruppetto di adolescenti i cui lunghi capelli lisci on-
deggiavano come code di cavallo. Anche Julia si alzò, con meno grazia della bambina, ed entrò nel campo giochi. Si sentiva stordita, come se fosse appena uscita da un sonno profondo. Il sole le pareva stranamente caldo. Voleva vedere il punto dove la bambina aveva condotto il suo gioco. Una negretta di due o tre anni, con i capelli crespi e immensi occhi malinconici, le sbarrò la strada. Giunse le mani davanti al bavaglino e spinse indietro la testa, scrutando Julia a bocca aperta. "Come ti chiami?" le domandò. "Julia." La bocca della piccina si aprì un po' di più. "Dulia?" Lei le sfiorò i capelli pungenti. "E tu come ti chiami?" "Laua." "Conosci la bambina che giocava qui? La bambina bionda che era seduta e parlava?" Laura annuì. "Sai come si chiama?" La piccola annuì ancora. "Dulia." "Julia?" "Laua. Potami con te." "Laura, che cosa faceva la bambina? Raccontava una storia?" "Lei fa cose." La piccola battè le palpebre. "Potami con te. Pendi in baccio." Julia si chinò. "Che cosa fa? Che cosa fa la bambina?" Laura fece qualche passo indietro, il faccino serio, fissando Julia. "Pu," disse, poi rise, mostrando i dentini perfetti. "Pu." Si girò troppo in fretta, cadde a sedere, si rialzò laboriosamente e sgambettò via. Julia la guardò barcollare in direzione dell'altra vasca di sabbia, poi si diresse verso il punto dove le sembrava che la bambina bionda fosse stata seduta e vi si inginocchiò. Esitò un istante, chiedendosi se stesse violando un segreto o un simbolo, quindi passò una mano sulla sabbia, come aveva fatto la piccola. Non incontrò resistenza. Ripetè il gesto, poi, delicatamente, tolse un pochino di sabbia. Continuò ancora, con molta lentezza, a scavare con la punta delle dita. Quando la piccola buca fu profonda nove o dieci centimetri, toccò qualcosa di duro e metallico. Scavò tutt'intorno, sempre usando una sola mano. A poco a poco scoprì un coltellino con la lama incrostata di sabbia. Julia lo studiò stupita, poi riprese a togliere sab-
bia finché le sue dita incontrarono un altro oggetto duro. Tirò fuori senza sforzo una tartarughina morta, di quelle che al tempo della sua infanzia si vendevano ai bambini per un quarto di dollaro. Vide subito che era stata mutilata. Un urto di vomito le salì dallo stomaco e, dopo aver lasciato cadere la tartaruga e il coltellino nella buca, deglutì con disgusto. Con il piede li ricoprì di sabbia. Temendo di svenire Julia lasciò in fretta quel posto, e si diresse verso una panchina all'ombra, sul vialetto principale che attraversava il parco. Mi siedo un momento a riprendere fiato, poi andrò da Lily, si ripromise. Strofinò distrattamente le mani sul vestito e, poco dopo, si accorse di avere lasciato una scia di sangue lungo una cucitura. Il sudore le imperlò la fronte e lei lo asciugò con la manica. Sul tessuto rimasero striature scure e chiazze irregolari. Cercò di vuotare la mente e si concentrò sul sole, sul pizzicore che sentiva lungo le braccia e sulla fronte. Non riusciva più a guardare i bambini. Dopo qualche minuto, Julia alzò la testa e chiuse gli occhi contro la luce accecante del sole. Aveva bisogno degli occhiali scuri. Li aveva, da qualche parte. Erano rimasti in Gayton Road. Ricordava di averli visti, con le stanghette incrociate, su un piano di formica in cucina. Ne avrebbe comprato un altro paio. Sì, ho reagito impulsivamente, senza pensare, si disse. Non c'erano prove che la bambina avesse ucciso o mutilato a quel modo la bestiola. Forse Julia aveva scavato nel punto sbagliato. Le bambine non fanno cose simili. Una regola psicologica, per quanto ingiusta, vuole che i bambini belli siano più sani ed emotivamente più stabili di quelli brutti. In realtà, cercò di convincersi Julia, era rimasta sconvolta perché la vista della tartarughina le aveva ricordato quanto era accaduto a Kate. Non ne avrebbe parlato a Lily, decise. Si alzò e, attraversando il grande prato, si avviò verso Plane Tree House. Si sentiva tutta sottosopra. 2 Le due donne sedevano sulla terrazza di Lily. Il sole, ora, era meno caldo e più piacevole. Dall'ultima volta che Julia l'aveva vista, la "povera Lily" aveva tagliato i capelli, precocemente grigi come quelli di Magnus, e adesso li portava lisci e corti come quelli di un ragazzo. I suoi lineamenti fini ne risultavano accentuati, come pure il suo aspetto di persona in rapporti un po' tesi con il resto del mondo. Eppure Lily non era rimasta per nulla scossa dalle notizie di Julia, dall'evidente stato di agitazione. Per la
prima mezz'ora Julia aveva sospettato che la cognata fosse contenta di riavere Magnus tutto per sé, poi aveva capito di farle un'ingiustizia: Lily reagiva diversamente dagli altri. Alla fine, completato il racconto, Julia si era rilassata, cullata dal terzo gin tonic, servito in un bicchiere alto e tintinnante di ghiaccio... e dalla imprevedibilità di Lily. "Sei proprio straordinaria," stava dicendo la cognata. "Straordinaria e impetuosa. Una vera eroina. Non riesco a immaginare me stessa fare un passo tanto temerario e coraggioso." "Non sono affatto coraggiosa, credimi," ribattè Julia, ridendo. "Sì, invece: hai uno spirito coraggioso." "Allora sono una codarda con lo spirito coraggioso." "Non devi credere che sia da vigliacchi temere Magnus. Lui non è come tutti gli altri. È sempre diverso dagli altri. È un dominatore. A volte penso che non appartenga a questo mondo, o che abbia mille anni e si mantenga giovane per qualche sortilegio. L'ho sempre temuto, sin da quando aveva tre anni. Anche allora pareva animato da uno spirito antico e potente. Naturalmente sono convinta che tu abbia fatto male a lasciarlo e spero con tutte le mie forze che tornerai da lui." Lily bevve un sorso di tè dalla tazza che aveva in mano, lasciando intendere che aveva ancora qualcosa da dire. Julia, ascoltando quella descrizione di suo marito, si chiese quante volte Lily avesse meditato in questi termini sullo "spirito antico e potente" di Magnus. Era tipico da parte sua vedere il fratello sotto quella luce romantica. "Ma dato che i miei consigli vengono generalmente ignorati, suppongo che non li seguirai." "Hai avuto sue notizie, Lily? Com'era?" "Disperato, proprio disperato. Naturalmente non sono riuscita a dargli un minimo di consolazione. E dire che la sua consolazione sarebbe anche la mia... Mi rattristerebbe sapere che non tornerai più da lui." "Non posso." "Ti ama. Te lo posso assicurare perché l'unica persona che Magnus abbia mai amato, a parte Kate, sono io." "Lily, ti prego. Lasciamo stare, per adesso." Un attimo dopo, gli occhi fissi sul parco, Julia tornò sull'argomento. "Era arrabbiato?" "Non la chiamerei rabbia. Angoscia, semmai." "Lily, devi promettermi che non gli dirai dove sono. Non preoccuparti di quello che secondo te è interesse mio o di Magnus. Non dirglielo e basta. Promettimelo." "Come preferisci, ma sarei più contenta se anche tu mi facessi una pro-
messa: vorrei che pensassi seriamente alla possibilità di tornare da tuo marito." "Mi sono comprata una casa," rispose Julia. "Ho comprato dei mobili. No, non me la sento assolutamente di affrontare Magnus. Non posso farti una promessa simile. Non posso neppure pensarci, a Magnus." "Invece ho l'impressione che pensi continuamente a lui." Lily le lanciò uno sguardo interrogativo. Julia non disse nulla e Lily riprese: "Quello che è successo a Kate non è stata colpa di nessuno. Avete fatto entrambi, con molto coraggio, quello che andava fatto. All'inchiesta hanno lodato il comportamento tuo e di Magnus." "È una magra consolazione." "Peccato che tu non ci fossi." Consapevole di portare troppo crudelmente Julia su un tema che non sarebbe stata in grado di abbordare forse per mesi, Lily resistette all'impulso di prendere le difese di Magnus nella questione della morte di Kate. La vicenda era viva e presente nella mente di Lily almeno quanto in quella di Julia, e Lily sapeva, e capiva benissimo, come Julia poi fosse crollata. Doveva aver cominciato a cercare casa subito dopo dimessa dall'ospedale dove l'avevano trattenuta per una terapia sedativa. Julia ne era uscita soltanto per partecipare al funerale di Kate, e anche quello era stato un errore. Quella creatura pallida, smarrita, istupidita dai tranquillanti, braccata dai fotografi sotto la pioggia... Era improbabile che Julia ricordasse qualcosa di quel mattino. Evidentemente aveva iniziato i preparativi per la fuga sin dal primo giorno del suo ritorno in Gayton Road: Lily dubitava che fosse stata capace di guardare Magnus negli occhi. In effetti la morte di Kate era stata orribile. Si era strozzata con un boccone e Magnus e Julia, dopo aver fatto il 999 e atteso alcuni minuti l'ambulanza mentre la figlia soffocava, avevano preso la disperata decisione di tentare una tracheotomia d'urgenza. Kate era morta dissanguata in attesa dell'ambulanza. A detta di Magnus, Julia aveva mantenuto per tutto il tempo la calma e il controllo di sé. Solo il giorno seguente aveva dato segni di squilibrio. Anche ora appariva in preda all'agitazione, e stava bevendo troppo gin. "Raccontami della tua casa," la sollecitò Lily. "A che numero di Ilchester Place?" "Venticinque." "Curioso che tu sia andata ad abitare proprio in quella via. O forse no, considerato che a Londra i ricorsi e le coincidenze sono all'ordine del giorno."
"Che cosa stai cercando di dirmi?" "Mio fratello frequentava una casa di Ilchester Place, molto tempo fa, quando studiava a Cambridge. Credo che avesse un'amica." Quell'osservazione risvegliò l'amarezza di Julia. "Magnus e le sue amiche. Che noia! Forse è un retaggio del suo spirito tanto antico e potente." "Forse." Lily sembrava un pochino offesa. "Scusa, Lily," disse in fretta Julia. "Non possiamo essere amiche lasciando da parte Magnus? Voglio iniziare una nuova vita, devo vivere per conto mio, non sopporto di pensare a Magnus e ho paura di vederlo, quindi non ne parliamo più, però desidero moltissimo la tua amicizia." "Ma sicuro, cara. Io voglio ciò che è meglio per te. E siamo già amiche." Julia sentì le lacrime agli occhi. "Avrò una vita nuova," affermò in tono di sfida. "Mi serve il tuo aiuto." "Naturalmente." Lily allungò una mano e strinse quella di Julia. Era fredda per il contatto con il bicchiere ghiacciato e ancora un poco sporca di sabbia. La lasciò piangere in silenzio per qualche minuto. "Sai, avresti bisogno di fare qualcosa," continuò. "Solo i seccatori propongono agli altri i propri interessi, ma perché non partecipi alla nostra prossima riunione? La nostra nuova medium è la signora Fludd, una vera scoperta, la sensitiva più sensibile che abbia conosciuto dopo la morte del caro signor Carmen. E un'autentica londinese, dura come la pietra, ma è dotata in modo straordinario. Sono entusiasta di lei, personalmente, ma se queste cose antiquate ti fanno ridere, non me la prenderò. Comunque sarebbe un modo per occupare il tuo tempo." In circostanze normali Julia avrebbe accampato delle scuse, ma era commossa dalla gentilezza di Lily e si sentiva in colpa per essere stata deliberatamente scortese. "Dimmi dove e quando," s'informò. "Potrebbe essere divertente." Poi le venne un dubbio. "Ma non faranno... la signora Fludd non farà qualcosa per mettersi in contatto con... voglio dire..." "Nemmeno per sogno," le assicurò Lily. "Certo che la gente ha un concetto a dir poco obsoleto di ciò che facciamo. Scommetto che immagini ectoplasmi che sbucano dalle fessure nel pavimento!" "Più o meno," sorrise Julia. "Comunque fammi sapere quand'è la vostra prossima riunione." "Benissimo," disse Lily, palesemente soddisfatta. "Ora ti farò un regalo. In cambio spero che mi permetterai di curiosare invidiosamente in casa tua il più presto possibile. Scusami un istante." Lily lasciò la terrazza e Julia chiuse gli occhi per un momento. Che bella
coppia, Lily e io, pensò: abbiamo perso tutt'e due il lume della ragione. Le venne in mente di fare un salto da Mark, poi smise del tutto di pensare. Lily la svegliò carezzandole una spalla. Stringeva sotto il braccio un grande volume con la copertina gialla e nell'altra mano aveva un paio di forbici. "Hai dormito mezz'ora," la informò. "Stavo pensando a Mark. Mi farebbe piacere vederlo." Julia si sentiva nuovamente piena d'energia. "Potrebbe non essere una buona idea," ribattè Lily. "Ti conviene lasciarlo perdere." Julia le aveva portato via un fratello e ora non intendeva cederle anche l'altro; negli ultimi dieci anni, al contrario di Magnus, si era avvicinata al suo fratello adottivo. La difesa psicologica della "povera Lily" appariva più che trasparente alla cognata. "Mark è molto interessante, ma lo conosco così poco. Magnus non gli lasciava quasi mettere piede in casa. Ogni tanto mi telefonava e facevamo lunghe, affettuose chiacchierate. È forse l'unico uomo con cui abbia flirtato dopo aver sposato Magnus." "Ci credo," disse Lily. "Permettimi di offrirti questi doni. Mi rincresce di non poterti dar meglio il benvenuto nella tua nuova casa, ma hai fatto tutto senza preavviso. Questo è un libro pieno di fotografie e parla del tuo nuovo quartiere." Lo mise sotto gli occhi di Julia. Il Reale Distretto di Kensington, di Edna Rolph. "C'è una quantità di racconti straordinari. Non lo leggo più da anni. L'altro regalo è un mazzo di quei fiori." Accennò con la mano al rigoglioso giardino in miniatura nelle cassette in fondo alla terrazza. "Oh, ma è un peccato tagliarli!" esclamò Julia, che detestava i fiori recisi. "Sarebbe un vero delitto. Non farlo per me." "Lo faccio volentieri," insistette Lily, chinandosi a raccoglierne una dozzina. "Qualche tulipano, due o tre di queste splendide begonie, qualcuno di questi enormi garofani, i miei preferiti, e qualche altro ancora. Ecco fatto. Portali a casa e mettili nell'acqua," consigliò, porgendo a Julia il mazzo multicolore. "Resteranno freschi a lungo, vedrai." Julia guardò con apprensione le cassette di fiori, ma vide con sollievo che la mancanza di quelli recisi non ne alterava quasi l'aspetto: ce n'era una tale abbondanza che gli spazi vuoti si notavano appena. La mescolanza dei profumi le diede alla testa. Un tulipano carnoso le sfiorò la guancia. "Non vorrei aver l'aria di mandarti via," disse Lily. "I fiori li possiamo mettere nell'acqua qui finché te ne vai. Perché non ti fermi a cena? Posso
offrirti delle costolette squisite. O forse oggi è una delle mie serate vegetariane? Comunque c'è da mangiare a sufficienza. Poi potremmo guardare un nuovo sceneggiato alla televisione, uno di quei fantastici drammi in costume. Non ho mai letto molto Trollope, ma recitato dice molto di più. E il dialogo è così elegante, senza tutte quelle volgarità che piacciono tanto ai giovani drammaturghi di oggi. Vuoi guardarlo con me? È avvincente, e sono in grado di raccontarti che cosa è successo nei primi cinquecento episodi." "Non guardo più la televisione," si scusò Julia, con un sorriso. "Tuo fratello non l'ha mai voluta. Credo che andrò a casa. Grazie lo stesso, Lily." "Hai il telefono?" "Non dovrei averlo, però ce l'ho, ancora intestato a William McClintock. Ma siamo così vicine che potremmo comunicare a voce da una parte all'altra del parco." Lily annuì, apparentemente soddisfatta. Julia infilò il libro sotto il braccio e, tenendo i fiori con entrambe le mani, si girò per lasciare la terrazza. "E ricorda la tua promessa!" gridò alla cognata da sopra la spalla. Più tardi Julia si pentì di non aver accettato costolette e i Palliser offerti da Lily. Appena ci si era stesa per riposare i piedi, si era addormentata sull'enorme divano di velluto grigio dei McClintock. Aveva tentato di leggere un romanzo, una edizione economica di Herzog, che aveva comprato e iniziato la sera prima nell'albergo di Knightsbridge, ma dopo due pagine era crollata. Quando si svegliò nell'ampia stanza invasa dalla fragranza dei fiori di Lily, aveva la bocca sgradevolmente impastata e, nonostante il senso di pesantezza alla fronte, una fame da lupi. Come segnalibro mise un fazzolettino di carta stropicciato che trovò nella tasca del vestito, poi attraversò il salotto per entrare in cucina. Le superfici lucide dei fornelli e del frigorifero riflettevano una luce bianca e fredda. Julia cercò un bicchiere nella credenza, ma si accorse con costernazione che i McClintock si erano portati via, oltre alla biancheria, anche tutte le stoviglie. Non c'era nulla da mangiare né da bere e i negozi erano chiusi da un pezzo. Aprì il rubinetto dell'acqua fredda e si rinfrescò il viso, poi unì le mani a coppa e cercò di bere così, ma non riusciva a trattenervi abbastanza acqua. Alla fine ridusse un po' il flusso e piegò la testa per bere direttamente dal rubinetto. L'acqua aveva un sapore metallico e salato; la lasciò scorrere per un minuto, quindi riprovò. Andava già meglio,
ma ancora il gusto metallico persisteva. Avrebbe dovuto comprare dell'acqua minerale, pensò. Ma forse si sarebbe abituata a quel sapore. Mentre si asciugava mani e bocca nelle lunghe tende rossicce alle grandissime finestre dell'ingresso, ricordò la macchia di sangue del mattino e abbassò lo sguardo sulla cucitura laterale del vestito. La tela azzurra mostrava una macchia brunastra, a mezzaluna, lunga circa tre centimetri. Sembrava più grande rispetto al pomeriggio. Che strana scena era stata, riflette Julia; di certo aveva trovato quelle cose nella sabbia per puro caso e forse non si trovava neppure vicina al punto in cui la biondina aveva giocato. Nessun bambino farebbe una cosa del genere... be', forse un maschio sì. Magnus da ragazzino non ci avrebbe pensato su prima di mutilare una tartaruga viva. Le macchie di sangue si tolgono con l'acqua fredda o calda? Gliel'avevano detto centinaia di volte, ma non lo rammentava mai. Di solito è il contrario di quello che si pensa, così Julia decise di usare l'acqua fredda. Riattraversò l'ingresso per andare nel grande bagno a pianterreno, che i McClintock avevano rivestito di specchi rosati. (I McClintock, di gusti per molti versi estremamente convenzionali, nei loro bagni avevano rivelato una nascosta tendenza al decadentismo. I lavandini e le vasche erano di marmo, quella al piano di sopra a forma di conchiglia e incassata nel pavimento; i rubinetti erano colli di cigno dorati. Ma la sorpresa maggiore erano le pareti, coperte di specchi colorati. Quelli del bagno di Julia, al primo piano, erano neri, e riflettevano smorzandolo l'oro dei rubinetti.) Julia si sfilò il vestito, lo drappeggiò sul bordo del lavabo in modo che la parte macchiata potesse stare a mollo, poi riempì di acqua il lavabo. Va bene fredda, pensò. Si voltò e scorse la sua immagine negli specchi. Buffo vedersi di fronte e di schiena, seminuda. Indossava solo mutandine e collant. Il mio guscio, pensò. Cominciava a ingrassare: sarebbe dovuta stare attenta coi pantaloni. Ma in fondo non era tanto male: non un grissino, ma neppure una matrona. Il rosa dello specchio dava una sfumatura più scura e sana alla sua pelle. Julia decise di approfittare dell'estate per abbronzarsi. Le pareva un sogno l'idea: potersi stendere al sole in giardino senza che Magnus venisse a turbare la sua pace. Uscì dal bagno e corse su per le scale, diretta nella camera che aveva scelto al mattino. Non era ancora buio, ma lei accese ugualmente tutte le luci in corridoio e nella stanza da letto. Questo conferì alla casa un aspetto cavernoso e risonante che le fece capire quanto poco conoscesse la sua
nuova dimora. Andò alla finestra, chiuse le tende e cominciò a vestirsi. Poco dopo, abbottonando la sua camicetta preferita, e di taglio morbido, si rese conto che in camera faceva molto caldo, e lei stava sudando come prima, fuori. Non le era sembrato che facesse tanto caldo nel resto della villetta. Scostò le tende e sollevò il pannello inferiore della finestra. L'aria che affluì all'interno pareva magicamente più fresca di quella nella camera. Poteva dipendere dal fatto che la casa era rimasta disabitata un mese, o c'era un'altra ragione? Julia si avvicinò al calorifero addossato alla parete, lo toccò col palmo e ritrasse di scatto la mano: era bollente. Doveva averlo acceso l'impiegato dell'agenzia per non far visitare ai clienti una casa gelida. Forse ce n'erano anche altri accesi al pianterreno. Spense quello in camera servendosi dell'interruttore a muro e andò nel bagno con gli specchi neri a pettinarsi. Anche lì il radiatore era in funzione. Lo spense e si drizzò per guardarsi. In quei bagni era impossibile non guardarsi. Chissà a quali follie sibaritiche si erano abbandonati i McClintock davanti a quei sinistri specchi neri. Eppure i suoi capelli vi brillavano, e, tutto sommato, Julia si sentì abbastanza presentabile per entrare in un ristorante. Ne ricordava uno francese dall'aspetto decoroso in Abingdon Road, appena oltre Kensington High Street. Non ne aveva visto anche uno cinese? Ripensandoci, le seccava di aver pianto davanti a Lily, che pure si era dimostrata di una gentilezza sconfinata. Non aveva proprio motivo di piangere: quella di scegliere un ristorante era una preoccupazione che non aveva più avuto dopo il matrimonio e portava con sé una sensazione di nostalgica e deliziosa libertà. In quel momento, ancora assonnata e affamata come non era da anni, Julia si sentì giovane e capace di tutto. Una volta in Kensington High Street, decise di provare il ristorante francese al quale, ricordò, la guida Michelin aveva concesso una stella, alcuni mesi addietro. Per la prima volta poteva permettersi un lusso. In passato aveva discusso aspramente con Magnus a proposito dei ristoranti: era immorale spendere venti sterline per mangiare in due da Keats. Ma ora aveva qualcosa da festeggiare. Si incamminò per la via affollata, guardando le vetrine, annotando mentalmente dove poteva comprare gli oggetti necessari per la casa, mentre alla sua destra il traffico scorreva senza interruzione. Vide una banca: avrebbe trasferito lì il proprio conto lasciando a Magnus quanto aveva versato sul loro conto comune. Più avanti c'era una libreria, W.H. Smith. Notò un numero sorprendente di rivendite di liquori. Finalmente arrivò in Abingdon Road e attraversò High Street per raggiungere il
ristorante. L'aria della sera aleggiava languidamente accarezzandole la pelle. Mentre apriva la porta del ristorante, una bella ragazza con i capelli neri e grandi occhiali scuri che veniva da Abingdon Road le sorrise, e Julia la ricambiò come se la sconosciuta le avesse accordato diritto di abitare nel quartiere. Anche lei era una giovane donna moderna che viveva sola a Kensington. Dopo aver cenato sontuosamente e con calma, assaporando boccone per boccone le lumache, il pasticcio di pesce e la supréme de volaille, Julia pagò con un assegno e uscì nella strada animata. Il traffico sembrava non aver mai fine e scorreva con frastuono ringhioso, come se fosse anch'esso affamato. Solo quando giunse al tranquillo angolo di Ilchester Place Julia ricordò di aver dimenticato la chiave di casa nella tasca del vestito a bagno nel lavabo. "Oh, no," gemette. Salì i pochi gradini e cercò di aprire la porta di ingresso. Chiusa. Alzò gli occhi alle finestre e si accorse di aver lasciato le luci accese in bagno e in camera. La finestra della stanza da letto, sul retro, era aperta, ma fuori portata. Forse ce n'era una non bloccata in cucina o in sala da pranzo. Percorse tutto il lato destro della casa, provando ad aprire tutte le finestre alle quali arrivava. Quando abbassò lo sguardo, constatò scoraggiata di aver calpestato i fiori coltivati dei McClintock, piantati in piccole aiuole multicolori tutt'intorno alla villetta. Ora giacevano schiacciati e spezzati lungo il fianco della casa, appena visibili nell'oscurità. A Julia parve che la mole massiccia e buia della casa la stesse rimproverando. Fu una sensazione netta ma fuggevole: lei non meritava quella casa e adesso la casa lo sapeva. "Oh, per favore," bisbigliò, e spinse un'altra finestra. Incontrò resistenza. Julia voltò l'altro angolo e si trovò nel giardino interno, illuminato dalla luna. L'erba, di un colore tra il verde e il nero, era spettrale. A dire il vero tutto il giardino appariva irreale, immerso in quella luce tetra. Le aiuole di fiori erano immobili e incolori come nuvole nere. Dietro di esse si alzava il muro in mattoni che recingeva la proprietà. Julia ebbe un guizzo di paura al pensiero che ci fosse qualcuno nascosto nel giardino, ma scacciò l'idea e riprese decisamente i suoi tentativi. Fu premiata; la finestrella del bagno era socchiusa in basso, col fermo disposto in modo tale che il pannello sporgeva di sei, sette centimetri dall'intelaiatura. Infilò il braccio dentro e tolse il fermo, sbloccando il vetro e aprendo così un varco alto circa trenta e largo trentacinque, quaranta centimetri, all'al-
tezza degli occhi. Quando vi cacciò dentro la testa, vide nello specchio rosato il vano chiaro della finestra riempito dal globo scuro del proprio cranio. In altre circostanze non avrebbe creduto possibile di potersi sollevare e introdurre in un pertugio così angusto, ma non aveva scelta. L'aria calda del bagno le accarezzava il viso. L'unica alternativa era rompere una finestra, ma l'idea di usare violenza alla casa le ripugnava. Stava per issarsi e spinger le spalle all'interno, quando ebbe di nuovo la sensazione che nel giardino ci fosse un'altra persona: si voltò di scatto, agghiacciata. Non si vedeva nessuno. Intorno ai fiori, l'erba di colore indefinibile era intatta. Tutto era immobile. Julia strizzò gli occhi scrutando tra i fiori dei McClintock. Irrigidì le gambe e udì qualche zinnia della bordura scricchiolare sotto le scarpe. "So che sei qui," disse. "Vieni subito fuori." Sentendosi sciocca e coraggiosa a un tempo, pronunciò quelle parole con il tono più imperioso che le riuscì di assumere. Nessun movimento dalla massa scura e indistinta dei fiori. Dopo un'ultima minuziosa occhiata, Julia si ritenne abbastanza al sicuro da poter voltare le spalle al giardino. Ancora una volta ricevette in faccia l'ondata di calore che emanava dalla casa. Puntò i gomiti, abbassò la testa e si issò sui piedi contro il muro mentre introduceva le spalle nella finestra. Il pannello, lasciato libero, le affondò dolorosamente nel collo. Tenendosi aggrappata con un braccio, assestò una violenta manata al bordo d'alluminio della finestra e questo le consentì di infilarsi dentro fin quasi alla vita. Si dimenò, abbassando il busto in modo che il peso si trascinasse dietro la parte inferiore del corpo, ma restò incastrata. Diede due strattoni in avanti, escoriandosi la pelle dei fianchi: dal dolore improvviso, anche se tollerabile, intuì che le abrasioni sanguinavano. Facendo forza sulla parete interna, Julia si torse il più possibile e sentì i fianchi avanzare di altri due o tre centimetri; con un ultimo sforzo riuscì a entrare del tutto, ma battè violentemente i talloni contro il pannello della finestra e atterrò con la spalla destra sul tappetino del bagno. Aveva perso tutt'e due le scarpe. Rimase sdraiata a lungo sul pavimento respirando con affanno. Le sue dita toccarono il marmo freddo della vasca. Le anche le dolevano e lo stomaco era sottosopra. Per timore di star male, restò immobile per alcuni minuti. Aveva il viso e le mani in fiamme. Infine si mise a sedere con la schiena appoggiata alla vasca. Il marmo era freddo attraverso la stoffa della camicetta azzurra. La popolazione urbana moderna, tranquilla e sedentaria, esce traumatizzata da disagi fisici che in altre condizioni di vita verrebbero considerati normali. Julia aveva letto recentemente in una rivista
questa teoria, e adesso costatava mestamente che, almeno nel suo caso, era fondata. Poteva quasi percepire il pulsare del sangue sotto la pelle del viso. Appoggiandosi con una mano al bordo della vasca, si alzò. Gli specchi riflettevano una figura femminile scarmigliata, curva, con i calzoni chiari strappati. Ogni cosa emanava uno splendore rosa cupo, come attraverso un velo di nebbia. Quel poco che vedeva del suo viso sembrava nero. Si avvicinò al lavabo, afferrò il vestito di tela e lo lasciò cadere sul tappetino, poi aprì il tappo, aspettò che l'acqua fosse scesa completamente e ne fece scorrere di fresca per spruzzarsi la faccia. Odorava di monete bisunte. Quando si tolse i calzoni, vide che aveva entrambe le anche escoriate. I pantaloni, sporchi di sangue, erano rovinati. Al mattino sarebbero affiorati i lividi. Julia si chinò sul vestito fradicio, sfilò la chiave dalla tasca e mosse verso la porta con le gambe tremanti. Colpita da un sospetto, toccò il calorifero accanto alla porta: ne ebbe le dita quasi scottate. La sua mano corse all'interruttore e lo spense. Prima di uscire ricordò di mettere a bagno l'abito azzurro in acqua pulita. Tutta la casa sembrava immersa nello stesso caldo stagnante. Julia pensò che avrebbe impiegato una mattinata intera per scoprire tutti i radiatori, tuttavia il calore diffuso nel soggiorno le fece piacere. Si sedette sul divano grigio per rilassarsi un istante prima di affrontare le scale. I fianchi le dolevano. Uno dei caloriferi al pianterreno era inserito nella parete sotto le ampie finestre e un altro, più piccolo, si trovava in cucina. Julia si abbandonò contro lo schienale e allungò le gambe. Chiuse gli occhi. Le anche bruciavano, ma avevano smesso di sanguinare. Poi battè le palpebre: le era parso di udire una serie di rumori secchi in sala da pranzo. O forse venivano dalla cucina: i frigoriferi fanno i rumori più strani. Poi ne giunse uno improvviso, distinto, e lei sbattè gli occhi. Proveniva dalla sala da pranzo, come se qualcuno bussasse alla finestra. Julia spinse lo sguardo in quella direzione: i due locali comunicavano infatti direttamente. Le due grandi porte finestre erano proprio di faccia a quelle del soggiorno, cosicché un passante avrebbe potuto guardare in giardino attraverso la casa. In sala da pranzo le tende erano scostate di una trentina di centimetri, ma attraverso lo spiraglio Julia vide solo il buio. Provò un terribile disagio: aveva addosso solo camicetta e mutandine ed era visibilissima dall'esterno. Forse c'era davvero qualcuno nascosto in giardino. Il cuore prese a batterle più in fretta. Julia balzò dal divano e corse in bagno a chiudere la finestra dalla quale era entrata. Tornò sui suoi passi e sbirciò fuori, nascondendosi dietro le tende. Credette di distinguere una fi-
gura, una sagoma scura ritta davanti alle aiuole. Statura e sesso erano indefinibili, ma per Julia quei particolari non avevano importanza. Doveva essere Magnus. D'istinto si lasciò cadere sul pavimento. Vi rimase alcuni minuti, in preda al panico, prima di riconoscere che doveva essersi sbagliata. Magnus non sapeva il suo indirizzo. Se fosse stato Magnus e avesse voluto farle del male, l'avrebbe aggredita in giardino. Impossibile che non l'avesse vista scalare la finestra del bagno. E non era detto che ci fosse qualcuno in giardino. Forse un alito di brezza aveva agitato un cespuglio. Julia aprì gli occhi e guardò fuori, la faccia a livello del terreno. In giardino non c'era nulla di anomalo. Il batticuore si era calmato e Julia si mise a sedere, asciugandosi la fronte con il pesante tendaggio. L'erba aveva ancora quella lucentezza tenebrosa e spettrale e il muro di cinta si vedeva distintamente. Tra questo e la casa, non si muoveva assolutamente niente. Si alzò premendosi una mano sul petto e tornò in soggiorno, muovendosi lentamente nell'oscurità. I caloriferi, pensò, e raggiunse il grande radiatore inserito nella parete. Era stato acceso anche quello e lei lo spense. Si destò di soprassalto parecchie ore dopo; aveva sognato, ma appena aprì gli occhi non ricordò più nulla. Dal pianterreno venivano dei rumori. Nel momento stesso in cui li udì si rese conto del caldo che faceva in camera da letto. La finestra era rimasta aperta, ma la stanza non si era rinfrescata dopo che Julia era uscita per andare al ristorante. Sudava a profusione e questo si collegava in qualche modo al suo orribile sogno. Tese l'orecchio, ma non udì più nulla. Eppure c'erano stati dei rumori. Non li aveva certo immaginati: erano fruscii leggeri, come di qualcuno che si spostasse al buio. Il suo primo pensiero fu: Kate si è alzata, ma lo respinse ancor prima che fosse formulato compiutamente, consapevole che Kate, minacciata da qualcosa, era stata presente solo nel suo sogno. Spronata dall'immagine di Kate in pericolo, Julia si alzò a sedere nel letto e si mise di nuovo in ascolto, ma non sentì altri rumori. Si alzò e andò ad affacciarsi alla porta: "Adesso telefono alla polizia. Mi hai sentito, Magnus? Telefono alla polizia!" gridò. Non sapendo se aspettarsi da un momento all'altro un'aggressione, rimase sulla soglia tutta tesa ad ascoltare. Un rivolo di sudore le colò lungo la schiena. L'aria nel corridoio sembrava un pochino più fresca e leggera che in camera. Julia indugiò un lungo istante sulla porta, senza sentir nulla, la mente occupata soltanto dalla percezione delle sensazioni fisiche. Comin-
ciò a contare tra sé fino a cento, costringendosi a una pausa tra un numero e l'altro e, quando arrivò a cento, proseguì fino a duecento. In casa era silenzio. Si era certamente sbagliata, tuttavia aveva troppa paura per scendere a controllare di persona. Infine rientrò in camera e chiuse a chiave, quindi sollevò la finestra e si lasciò avvolgere dalla fresca aria notturna. Nel suo giardino e nelle zone visibili del parco regnava la quiete. Julia tornò a stendersi sul letto impregnato di sudore. Il mattino seguente, mentre Julia stava compilando una lista provvisoria di acquisti sul rovescio del libretto d'assegni, l'unica cosa utilizzabile che avesse trovato in borsetta, a parte qualche fazzolettino di carta spiegazzato, squillò il telefono. Immaginò che fosse la Markham & Reevers per questioni inerenti alla casa, poi, riflettendo che probabilmente l'agenzia l'avrebbe ignorata finché lei non li avesse importunati con qualche richiesta, concluse che doveva essere Lily. Posò il blocchetto di assegni sul tavolo di cucina e andò a rispondere in soggiorno. La luce entrava obliquamente dalle grandi finestre a sud. I terrori della notte precedente le erano parsi irreali e un tantino esagerati quando, svegliatasi nella casa inondata di sole, vi si era aggirata per tutta la mattina decidendo gli acquisti da fare: generi alimentari, piatti, bicchieri, pentolarne, lenzuola, asciugamani, coperte e posate. Acqua minerale per quei primi giorni e poi libri e whisky. "Pronto?" disse, guardando le finestre dirimpetto. Poco più in là lungo la strada un uomo lavava la macchina, rovesciando acqua in abbondanza sul tetto. Chi era quella gente? Com'erano i suoi vicini? Un secondo dopo la voce di Magnus demoliva tutto il suo ottimismo. "Julia, suppongo che tu sappia chi sono. Desidero che lasci quella casa e torni in Gayton Road, cioè al nostro domicilio. Ho parlato con l'agenzia immobiliare e ho detto loro chiaramente che qualsiasi contratto tu abbia firmato non ha alcun valore, ragion per cui potremmo tirarci fuori da questo tuo colpo di testa con una perdita modesta. Allo stato attuale, Julia, ti ritengo incapace di badare a te stessa e men che meno di prendere decisioni circa il nostro futuro. Nel frattempo ti voglio qui, a casa tua. Devi lasciare quella villa. È inconcepibile..." Julia riappese. Quando il telefono squillò di nuovo, sollevò il ricevitore e lo tenne lontano dall'orecchio. Magnus riprese il discorso in tono adirato, ma Julia afferrava soltanto qualche parola qua e là: irresponsabile... cervello di gallina... Kate... matrimonio...
"Non mi considero più tua moglie," lo interruppe. "Mi fai paura. Sei un prepotente. Non posso pensare a te senza vedere Kate. Quindi non posso guardarti, vivere con te, essere sposata con te. Lasciami in pace, ti prego! Stattene lontano da me, Magnus." "Un corno!" fu la risposta. "Non sei più in grado di ragionare, quando affronti determinati argomenti..." "Se ti pesco a gironzolare intorno alla mia casa," gridò Julia, "in giardino o altrove, chiamo la polizia!" Sbattè il ricevitore sulla forcella. Restò accanto all'apparecchio, sicura che lui l'avrebbe richiamata per minacciarla, insolentirla, mentirle. Quando fu trascorso un minuto, Julia pensò: avrà strappato il cordone dal muro. Ma, qualche secondo dopo, l'apparecchio suonò ancora. "Julia, sono Magnus. Non riappendere. Ero così furibondo che non ho potuto richiamare subito. Julia, ti voglio qui. Ti voglio con me. Sono preccupato per te. Sei in pericolo, lì sola." Julia s'irrigidì. "Perché sarei in pericolo?" "Perché sei sola. Perché hai bisogno d'aiuto." "Al contrario, Magnus. È la prima volta in due mesi che mi sento al sicuro. Lily mi aveva promesso che non ti avrebbe chiamato. Ora che l'ha fatto, l'unico pericolo che riesco a immaginare sei tu. Forse cambierò ancora casa. So che sei stato qui ieri sera: mi controllavi. Quando avremo qualcosa da discutere, t'inviterò. Fino ad allora, se non vuoi trovarti nei guai, stammi lontano." Immaginò la reazione di Magnus a queste parole: di certo aveva i pugni stretti, le labbra serrate e il viso paonazzo. "Maledetta!" sbottò Magnus. Per Julia fu come se dietro quella imprecazione pesassero dieci anni di vita in comune. Non rispose e, un istante dopo, Magnus riattaccò. Ora aveva la sensazione di essere in guerra con lui: forse il risultato principale di undici anni di matrimonio consisteva nel fatto che minacce e maledizioni non erano più mascherate dalle belle maniere: si conoscevano troppo bene per trattarsi educatamente. Venti minuti dopo, udendo per la prima volta il suono del campanello, Julia sussultò con tanta violenza da rovesciare il contenuto della borsa. Dalla telefonata era passato tempo sufficiente perché Magnus venisse in macchina da Hampstead, deciso a riportarla a casa... o all'ospedale. Sarebbe stato davvero capace di farla di nuovo ricoverare e imbottire di tranquillanti; nel frattempo avrebbe scovato qualche cavillo legale che avrebbe
fatto di lei la sua prigioniera. Quell'idea non le si era mai affacciata alla mente, e Julia, ricacciando tutto in borsetta, promise a se stessa che avrebbe lottato con lui fisicamente e con tutte le forze, piuttosto che farsi trascinar via. Scivolò al riparo di una grande poltrona marrone e da dietro le tende sbirciò i gradini d'ingresso. Vide solo un'ombra. Poi la persona che aveva suonato fece un passo indietro, mettendosi in vista. Era Mark Berkeley. Julia si precipitò alla porta. La spalancò proprio mentre Mark, sempre indietreggiando e guardando in su, era arrivato agli scalini che scendevano sul marciapiede. "Mark! Che magnifica sorpresa! Credevo che fosse Magnus. Entra, entra." Mark, fermo al sole, le sorrise. Era davvero di una bellezza straordinaria. La camicia e i calzoni di jeans erano tanto sbiaditi che avrebbero potuto essere gli stessi di quando Julia l'aveva conosciuto. "Ti secca che conosca il tuo segreto?" domandò. "Lily mi ha telefonato ieri sera. Ti ammira moltissimo, e devo dire che la penso come lei. Che bella casa! È perfetta." "Lily è una gran chiacchierona ma, nel tuo caso, non mi dispiace affatto." Julia gli fece segno di entrare. Ebbe per un attimo la sensazione che la volesse abbracciare e si scostò impercettibilmente. Mark le posò una mano calda sulla schiena. "Ha parlato anche con Magnus? Dunque sa dove sei?" Julia annuì. "Mi ha telefonato due sere fa, fuori di sé dalla rabbia. Mi ha accusato di tenerti nascosta." "Quell'uomo è un demonio." La cosa l'aveva colpita, ma dopo tutto nutrire sospetti simili era tipico di Magnus. "Mi rincresce tanto, Mark. Non voglio che t'infastidisca. Be', vieni a sederti. Posso offrirti qualcosa? Rispondo io: no, perché non ho nulla in casa, anzi, stavo proprio per andare a far compere. Oh, sapessi come sono contenta di vederti! Sei come un soffio di aria fresca." "Perché tieni le stanze a una temperatura da incubatrice? Fa più caldo qui che fuori." Mark si lasciò cadere sul divano. "Julia, sai che non ti devi scusare per il comportamento di Magnus. Lo conosco da molto prima di te. Per la verità, non ho mai capito perché tu sia stata con lui tutti questi anni. Ora credo di poterlo dire." "Puoi dire tutto ciò che vuoi," gli assicurò lei, benché non lo pensasse af-
fatto. Poi, controvoglia, aggiunse: "Abbiamo messo al mondo Kate". Se poteva pronunciare una frase simile, allora il suo matrimonio era veramente finito. Guardare Mark, il bel ragazzo messo al bando, che se ne stava pacifico in casa sua, fece sentire Julia pericolosamente libera da Magnus. "In questo momento non sopporto di parlare di lui, Mark: ne ho ancora paura. Ma sto diventando più forte. Credi che abbia fatto la scelta giusta?" "Julia liberata dalla schiavitù," commentò lui ridendo. "Naturale che hai fatto la scelta giusta. Mi preoccupa solo che non ti lasci in pace. Pensi che ti darà fastidio?" "Non so," ammise Julia. "Ho una mezza idea che ieri sera sia venuto a curiosare intorno alla casa. È stata una semplice impressione, qualcosa che ho visto in giardino, una figura. Questa mattina, al telefono, l'ha praticamente ammesso. Mi ha spaventata da morire." Mark la osservava con aria molto grave e questo infuse un certo impeto al racconto di Julia, ci sarebbe rimasta male se lui avesse sottovalutato le sue paure. "Ma è terribile!" sbottò Mark. "Proprio quello che temevo. Devi tenerlo a distanza. Francamente, non mi fiderei di qualsiasi cosa possa dire. Sarebbe capace di spaventarti solo per farti tornare con lui." "Lasciamo perdere Magnus!" lo pregò Julia. "Voglio mostrarti la mia casa. Ti piace sul serio? L'ho comprata con tale fretta che io stessa non ne sono del tutto convinta. E la prima volta che faccio un acquisto del genere senza consultarmi con nessuno." "È la casa ideale per te. Ma dove hai preso tutti questi incredibili mobili?" "Appartenevano alle persone che abitavano qui. Mi piacciono, e poi non ho voglia di pensare a comprarne di nuovi." "Hai ragione," approvò Mark con un sorriso. Julia lo guidò per la casa, facendolo entrare in ogni stanza finché arrivarono alla camera da letto. "Si arrostisce, qui dentro! Anche con le finestre aperte! I caloriferi devono essere accesi. Dove sono?" "Li ho spenti ieri," rispose Julia, attraversando il tappeto verde per raggiungere il radiatore. Guardò l'interruttore e vide che era abbassato. "Strano, mi sembrava..." S'interruppe. "Forse l'ho acceso io. No, è impossibile, perché faceva già caldo quando sono entrata. Avrò sbagliato qualcosa." Si chinò e chiuse l'interruttore. "La posizione alta significa che è spento, vero?" "Di solito sì." Mark la raggiunse e sfiorò il calorifero. "Be', in ogni modo
questo è acceso, e al massimo. Forse ospiti un poltergeist." "Speriamo: sarebbe divertente. Ecco, tu sorridi quando dico stupidaggini come questa. Magnus mi guarderebbe disgustato." "Magnus ha i suoi standard." "E un animo potente e antico." "Perdonerai Lily per avermi rivelato il tuo segreto?" "Le perdono di averlo rivelato a te, non a Magnus. Mi ha fatto passare una notte orribile." "Permettimi di venire a far spese con te e ti aiuterò a cancellare Magnus dalla mente." "Sei un tesoro. Devo comprare un mucchio di roba pesante." "La mia schiena è tua." Queste parole, pronunciate da Mark, assumevano un significato sessuale quasi esplicito. In risposta Julia lo prese sottobraccio. Un incosciente come Mark non avrebbe mai costituito una minaccia. "Se mi dai una mano, potrei ricambiare aiutandoti a mettere un po' d'ordine nel tuo caos di Notting Hill." "Affare fatto," accettò Mark. 3 Anche a distanza di tempo, Julia avrebbe ricordato quel pomeriggio di compere con gioia venata di rimpianto. L'aveva trascorso come fosse stata davvero libera da ogni legame, indipendente, spendacciona e spensierata... la ragazza che sarebbe potuta diventare dieci anni prima se Magnus non l'avesse stregata. Lei e Mark erano andati con la Rover prima in Oxford Street, dove Julia aveva comprato asciugamani, lenzuola e alcune cose che le servivano per la cucina, poi da Harrod's. Mark aveva insistito per regalarle un bizzarro braccialetto verde dal prezzo abbordabile, tenuto conto del negozio. Infine erano entrati da Fortnum and Mason's dove Julia aveva passato un'ora ridicolmente felice, e altrettanto costosa, acquistando prelibatezze esotiche. Sorprese più volte su di sé lo sguardo incuriosito di altri clienti e si rese conto di essere esageratamente chiassosa, ma per una volta non si sentì imbarazzata né in colpa. Quanto a Mark, sembrava deliziato dalla sua esuberanza. L'umore brioso di Julia lo divertiva e lei ne traeva appagamento: quella gioia semplice e serena la rendeva ebbra. Presero il tè da Fortnum, poi parcheggiarono la Rover carica in un garage e andarono in un pub; la sera Mark la portò in un ristorantino di Notting Hill. In tutta la
sua vita da adulto, Magnus non aveva mai messo piede in un pub, e sarebbe fuggito inorridito da The Ark (ammesso che lo si fosse potuto attirare in un qualsiasi ristorante di Notting Hill) alla sola vista del menù scritto col gesso su lavagne appese alle pareti. Dopo cena, in un altro pub, Mark invitò timidamente Julia a casa sua. "Nella mia stanza, per l'esattezza. Non ci sei mai stata." "Un'altra volta, Mark. Ho da sistemare quella montagna di acquisti. E ho bevuto troppo per avventurarmi a casa di uno scapolo." Quella notte Julia fece sogni orribili. Camminava adagio, a fatica, per Holland Park, un Holland Park pieno di statue e monumenti bronzei. Era sola; Magnus era sparito e Julia sapeva che si vedeva con un'altra donna. Kate la precedeva saltellando, con il vestitino bianco che spiccava nella luce grigio-verdastra. Julia cercava di andare più veloce per proteggerla, ma ogni passo le costava uno sforzo immenso, come se fosse invischiata in una palude. Poi, guardando avanti, vedeva Kate con una compagna, la bambina bionda che aveva visto il primo giorno nel parco. Le due piccole procedevano ballando, incuranti di tutto. Le loro teste colore dell'oro bianco andavano su e giù nell'aria pesante. Ormai lontane da Julia, si sedettero su una collinetta allungata. Lei fece per correre, ma era come paralizzata. L'altra bambina stava parlando a Kate: le stava dicendo qualcosa di orrendo e Kate ascoltava affascinata. Al suo avvicinarsi, le due bambine giravano verso di lei i visetti dagli occhi uguali e scintillanti. "Vattene, mamma," diceva Kate. Subito dopo, stava portando il corpo di Kate per la città. Come prima, la bambina bionda la precedeva danzando e Julia la seguiva, attraversando strade piene di traffico sotto un sole accecante finché, dopo essersi lasciate alle spalle il centro affollato, penetravano in un quartiere sinistro e decrepito, fatto di cortili tetri e senza sole e sudici casamenti di mattoni con le finestre chiuse da tavole. Un gobbo le sgusciava accanto, rivolgendole un sogghigno. La bambina superava un arco ed entrava in una delle case. Julia, sebbene spaventata, la imitava. Si trovava chissà come su un tetto, con alcuni sfaccendati vestiti di stracci che la fissavano. Le dolevano le braccia e Kate era diventata pesantissima. La bambina bionda si era dileguata oltre un secondo arco. Julia capiva che avrebbe dovuto stare per ore sul tetto stringendo il cadavere della figlia e sotto gli sguardi di quegli straccioni. Incombeva sulla scena un'atmosfera disperata e colpevole di fallimento morale. Julia voleva andarsene, ma non poteva. Si svegliò nella stanza torrida con la disperata angoscia del sogno ancora
dentro di sé. Kate le mancava terribilmente. E in quel momento, gli occhi sbarrati nell'oscurità, la sua vita le sembrò piena solo di smarrimento e incertezza. Con un fremito di meraviglia si rese conto di desiderare la presenza di Mark, non sessualmente, ma per averlo a dormire vicino e sentirlo respirare. Si girò sull'altro fianco e affondò la testa nel cuscino che odorava ancora di nuovo. Nel sonno aveva scalciato via l'unica coperta del letto. Chiuse gli occhi, sforzandosi di superare l'impressione lasciatale dal sogno. Poi udì lo stesso rumore che l'aveva svegliata la mattina precedente: un fruscio leggero e precipitoso che giungeva dal corridoio o dalle scale. Julia si tese e subito dopo si rilassò. Doveva essere stato il vento che aveva smosso le tende. Uno schianto al pianterreno la fece balzare a sedere sul letto: pensò subito che Magnus avesse fatto irruzione e stesse facendo scempio di tutto ciò che gli capitava a tiro. Dopo il primo momento la consueta paura di lui si trasformò in rabbia: non voleva Magnus in casa sua. Avvicinò il polso al viso e consultò l'orologio: erano le due passate. Se Magnus era fuori a quell'ora, doveva essere ubriaco. Negli ultimi anni aveva cominciato a bere più forte e spesso rincasava sbronzo, furioso per qualche fatto accaduto nella serata. Julia scese dal letto, infilò la camicia da notte e si avvolse nell'accappatoio, poi aprì la porta sul corridoio e tese l'orecchio ma non udì nulla. Uscì dalla camera e si avviò in punta di piedi nel corridoio. Arrivata in cima alla scala sentì di nuovo quel rumore, e il cuore le si arrestò in gola. Cercò freneticamente con la destra l'interruttore e illuminò la scala. Non c'era nessuno. Vedeva gli orli delle tende alla finestra dell'ingresso: erano immobili. Il fruscio l'aveva fatta pensare a un movimento rapido, a una presenza umana, ma femminile, per l'esattezza: era impossibile che fosse stato Magnus a produrre un rumore tanto leggero. Julia scese adagio, in silenzio, soffermandosi ogni pochi passi. Dalle stanze non giungeva alcun rumore. Sfruttando la luce delle scale, spinse la porta del soggiorno. Il chiarore lunare, argenteo e lieve, illuminava il divano e il tappeto. La copertina gialla del libro di Lily, posato sul pavimento, era ben visibile. "Magnus," chiamò, facendo un passo all'interno della stanza. "Magnus." Nessuna risposta. Le dolevano gli occhi. Anche i fianchi le pulsavano dove si era spellata. "Dì qualcosa, Magnus." Non era assolutamente da lui starsene acquattato in silenzio in una stanza buia. Sarebbe stato più nel suo stile aggredirla a parole. Julia diede una rapida occhiata intorno ma non notò nulla fuori posto; la
stanza appariva allucinata, impersonale, estranea. I mobili dei McClintock sembravano bestioni addormentati intorno a una sorgente. Entrò in sala da pranzo: le tende erano aperte e Julia poté spingere lo sguardo nel giardino, sinistro sotto i raggi della luna. Si voltò per scrutare negli angoli della stanza. E vide ciò che aveva fatto quel baccano. I fiori di Lily erano a terra in una pozza d'acqua e il vaso in cui li aveva sistemati era rotto in quattro o cinque pezzi. Julia soffocò un grido e si portò una mano alla bocca: qualcuno aveva fracassato il vaso contro il tavolo di mogano e gettato i fiori sul tappeto. Corse alla finestra e tirò la maniglia: il pannello di vetro ruotò con facilità verso l'esterno, lasciando entrare una ventata di fresca aria notturna. Non c'era il fermo. La sera prima, dall'esterno, aveva tentato di aprirla senza riuscirvi. La chiuse usando la chiave, Magnus doveva essere entrato chissà come e, dopo aver fatto a pezzi il vaso, era scappato dal giardino. La scena, nella sua immaginazione, aveva lo stesso sapore di sconfitta, la stessa irreparabilità della sua passeggiata sul tetto, nel sogno, la stessa disperazione schiacciante. Julia si chinò sul tappeto fradicio e raccolse i cocci del vaso dei McClintock, quindi andò a posarli in cucina. Più tardi avrebbe tentato di incollarli. Tornò in soggiorno, tirò su gli assurdi fiori spezzati, portò anche quelli in cucina e li gettò nella pattumiera sotto l'acquaio. Pensò a Magnus che tornava verso casa furibondo, parlando da solo e barcollando come un orso per Kensington High Street. Probabilmente sarebbe andato a consolarsi da una delle sue donne. Dopo aver asciugato un po' d'acqua con uno strofinaccio, Julia risalì in camera sua. Accaldata e irrequieta si gettò sul letto per aspettare il mattino. Impossibile riprendere sonno, pensò, ma le palpebre le si appesantirono quasi subito. Poco prima di addormentarsi le sembrò di udire in lontananza una risata, un suono malevolo, beffardo. Il caldo era opprimente. In uno dei sogni agitati che si alternavano a momenti di veglia lei e Kate erano uccelli che planavano, trasportati da correnti di aria calda. Lassù erano libere, nessuno badava a loro. Desiderava l'anonimato, la solitudine, l'isolamento. Forse, si disse, voleva realmente impazzire. "Sai che volevo vedere la tua casa," disse Lily, che aveva telefonato poco prima di mezzogiorno. "Sarebbe anche una soluzione provvidenziale per il nostro problema. Di solito c'incontriamo dal signor Piggot, in Shepherd's Bush, ma ha appena imbiancato l'appartamento e c'è un odore ter-
ribile. La signora Fludd si rifiuta di venire a Plane Tree House perché insiste per lavorare solo al pianterreno e non credo che potremmo occupare l'atrio, vero? Le signorine Pinner e Tooth abitano insieme in una stanza a West Hampstead, ma anche quella è al secondo piano. Il signor Arkwright dice che la moglie non vuol sentir parlare di sedute in casa sua. Ecco qui la nostra situazione, mia cara. Non potremmo riunirci da te? Mi rendo conto che è un'invasione, visto soprattutto che è la tua prima esperienza, ma non so più dove sbattere la testa per trovare un locale al pianterreno." "Ma no, anzi, mi fa piacere," rispose Julia, per il vero non molto entusiasta di ospitare la signora Fludd e il suo gruppo. Poi le venne in mente che, se Magnus si aggirava lì intorno, sorvegliando la sua casa, gli sarebbe stato proprio bene veder arrivare tutta quella gente. Immaginò la casa come l'avrebbe vista lui, sfolgorante di luci e con le auto parcheggiate su entrambi i lati della strada. Sarebbe stata un emblema della sua nuova indipendenza. "Sei un angelo," tubò Lily. "Ci vediamo alle nove. Gli altri saranno felici." "Devo preparare un piccolo rinfresco? Qualcosa da mangiare?" "Caffè o tè e qualche biscotto. Non siamo molto esigenti." Il resto della mattinata Julia lo trascorse in giardino, al sole, leggendo Herzog e sonnecchiando. Vi tornò anche dopo pranzo, portandosi un bicchiere di gin tonic. Il drink e il sole a picco le ricordavano i pomeriggi estivi in America, a casa e allo Smith, in compagnia delle canzoni di Nat Cole alla radio e dei ragazzi che venivano a sdraiarsi sull'erba. Julia trascorse le ore in questa atmosfera di nostalgica pigrizia, proseguendo nella lettura di Herzog. Alle quattro le venne all'improvviso un'idea: si alzò ed entrò in casa passando dalla sala da pranzo per telefonare a Mark. "Dirai che è pura e semplice follia," esordì, sentendosi un pochino sleale. "Lily ha insistito in tutti i modi perché mi unissi alla sua banda di adoratori del diavolo o quel che sono, e adesso che stanno per riunirsi in casa mia ho quasi paura di affrontarli tutta sola. Verresti a darmi man forte?" "Lily non gradirebbe," rispose Mark. "E allora? Non le ho neppure rimproverato di aver mancato alla sua promessa telefonando a Magnus. So che non ha potuto farne a meno. E poi non sono affatto sicura che si arrabbierebbe se ti trovasse qui. Non andate particolarmente d'accordo in questo periodo?" "Si è fatta delle idee strane sul mio conto," rise Mark. "Ho l'impressione che si consideri la mia tutrice."
"Anche la mia. Vieni, ti prego. L'appuntamento è alle nove, ma tu puoi venire prima." "D'accordo. Vuoi che porti qualcosa?" "Te stesso," rispose Julia. Alle nove meno dieci arrivarono Lily e una donna tozza e rubiconda con un abito a fiori sotto un informe, antiquato soprabito di tweed grigio che tirava all'unico grosso bottone. Insieme formavano una coppia irresistibilmente comica: Lily sembrava una farfalla sbiadita in confronto all'amica, un bulldog di donna alla quale mancava solo un cappello di paglia come ultimo tocco grottesco. Quando aprì loro la porta, Julia non poté reprimere un sorriso. Tra tutte le donne del suo tipo, solo Lily avrebbe osato comparire in pubblico in simile compagnia. Sembravano un duo da operetta: Lily era l'aristocratica che si prendeva le docce a sorpresa e le torte in faccia. "La signora Fludd e io abbiamo fatto una splendida passeggiata nel sole del tramonto," annunciò. "Julia Lofting, la signora Fludd." "Come sta? Si accomodi. Avete attraversato il parco?" "Holland Park è chiuso a quest'ora," spiegò Lily. "E poi la signora Fludd voleva vedere il quartiere." "C'è un caldo tropicale da queste parti," osservò l'ospite. "Però è più vicino di Shepherd's Bush. Nemmeno qui fa molto fresco, eh?" Julia si scusò, spiegando la faccenda dei caloriferi. "Dovremmo riunirci in una sala di bingo. Hanno tutte l'aria condizionata." Entrarono in soggiorno sulla scia di Lily, ma si fermarono entrambe alquanto bruscamente. Mark si alzò dal divano, sorridendo. "Lieto di rivederti, Lily. E lei deve essere la meravigliosa signora Fludd di cui ho sentito tanto parlare." Lily guardò prima lui, poi Julia. Quindi si girò, con evidente aria di disapprovazione, per rivolgersi alla signora Fludd, che la sorpresa faceva apparire ancora più paonazza e tracagnotta. "I nuovi sono due," si lagnò. "Lei aveva detto una. Non ha mai parlato di due. Ho fatto tutta questa strada per niente. Troppe interferenze, con due nuovi." "Questo è mio fratello, Mark Berkeley," spiegò Lily. "È amico della signora Lofting. La prego, signora Fludd, non dica che è impossibile. Tra poco saranno qui gli altri. Volevo solo che la signora Lofting assistesse alle nostre manifestazioni trascendentali."
"Niente manifestazioni trascendentali con due nuovi," replicò fermamente la Fludd. "Niente impregnazione e neppure incorporazioni. Questa," e indicò Julia con un dito tozzo, "è scettica. Tutte le vibrazioni si confonderanno. Non è scettica, cara?" Julia guardò Lily, interdetta, ma Lily non le fu d'aiuto. Era ancora sconvolta dalla presenza di Mark. "Credo di sì," ammise infine. "Ma certo che lo è. La sua aura è scura, scurissima. Confusione e disperazione al settimo livello. È quello della vita domestica. Giusto, cara?" "Be'..." "Giusto. E qui c'è un'altra aura offuscata." Accennò col capo a Mark. "Torbida come uno stagno. Questo però è aperto alle cose. E ricettivo. Forse troppo. I begli uomini sono così. Hanno bisogno di attenzioni particolari." "Vuol dire che non farà la seduta?" domandò Julia. La signora Fludd l'affascinava. "Ho detto che non l'avrei fatta? Ho detto niente manifestazioni trascendentali, niente impregnazioni e niente incorporazioni. In ogni caso lei, essendo scettica, non potrebbe seguire come si deve. Ma lui sì. Lui è aperto. Ha bisogno di essere riempito, come una bottiglia." Mark rise, divertito. "Signora Fludd, lei è un genio. Vale due volte il suo onorario." "Non prendo denaro," disse la donna, slacciando l'unico bottone del soprabito di tweed. "Il denaro insudicia il dono. Prendo volentieri un tè, però. Mi piace il PG Tips." Puntò decisa sul divano. "Il signor Piggot fa un tè eccezionale." Si sedette, mettendo in mostra i grossi polpacci bianchi e degli stivaletti neri da poliziotto, e guardò Julia con aria speranzosa. "Mi rincresce, ma non ho tè in casa. Ho comprato del caffè, pensando..." Sbirciò Lily che, non ancora ripresasi dalla vista di Mark, si limitò ad alzare le spalle. Era andata all'altro capo della stanza per stargli il più possibile lontano e fingeva di esaminare il giardino dalle lunghe finestre della sala da pranzo. "Non bevo acqua sporca," disse la signora Fludd. "A volte prendo un po' di Ribena. È straordinaria per le sfere superiori, la Ribena." "Purtroppo non ho neppure quella," mormorò Julia. "Ah." "Uno sherry?" La signora Fludd inclinò la testa e ci pensò su. "Be', visto che stasera non si farà niente di speciale, accetterò un goccio di sherry. La prossima
volta si procuri il PG Tips, cara. Noi beviamo tè di solito. La signorina Pinner e la signorina Tooth vanno pazze per il tè del signor Piggot. Eccole il mio soprabito, intanto." Mentre Julia andava in cucina a prendere lo sherry, suonò il campanello e lei pregò Lily di aprire. Quando tornò in soggiorno, un uomo allampanato sulla sessantina, con il viso lungo e severo e baffetti alla Hitler, stava scrutando Mark con un'espressione di grave turbamento. "Due non vanno proprio, signorina Lofting," commentò, tenendo le mani sprofondate nelle tasche di un lungo impermeabile di tela marrone, qualcosa a metà tra la guardia di un parco pubblico e un agente dell'IRA in un film di cassetta. Non mostrava alcuna intenzione di togliersi il cappello a falda larga, anche quello marrone. Mark, perfettamente tranquillo, gli sorrideva. "Su, signor Piggot," lo blandì Lily. "La signora Fludd è disposta a procedere, quindi... Questa è la signora Lofting, la padrona di casa. Julia, il signor Piggot." L'uomo le rivolse un'occhiata penetrante, parve addolcirsi un poco e si cavò il cappello. Una frangia di capelli grigi e stopposi gli circondava il cranio, calvo e all'apparenza fragile come un guscio d'uovo. "Dev'essere brava a preparare il tè." "Prenda un bel bicchierino di sherry, signor Piggot," propose Julia cercando disperatamente di ingraziarselo. "Sherry, dice? Di solito alle nostre riunioni beviamo tè. Io uso il PG Tips. Alla signora Fludd piace, vero signora Fludd? Ma non dirò di no a uno sherry, specialmente se offerto da lei. Inglese?" "Spagnolo. Manzanilla." Il signor Piggot si rabbuiò. "Be', bagnerò l'ugola. Mi è venuta sete, dopo essere venuto da Shepherd's Bush a qui in bicicletta. Sa, di solito ci riuniamo da me. Credo che sua... zia?... gliel'abbia detto. Ma la signora Fludd non vuole andare in una casa appena imbiancata. Distorce le riverberazioni." "È orribile," confermò allegramente la Fludd, accettando lo sherry. "Mi butta per aria tutto il sistema." "Sarà il signor Arkwright," disse il signor Piggot al nuovo squillo del campanello. "Puntuale come le Guardie Irlandesi, il signor Arkwright." "Vuoi aprirgli tu, Lily?" pregò Julia. Portò un terzo bicchiere di sherry a Mark, che disse una battuta a proposito della facilità con cui tutti gli offrivano da bere e si spostò accanto alla signora Fludd. Il signor Piggot continuava a fissarlo accigliato, con gli occhi azzurri troppo vicini.
"Buonasera a tutti." Un uomo di bassa statura entrò nella stanza qualche passo avanti a Lily. Era anche lui calvo e con i baffi, ma i suoi erano più grossi di quelli del signor Piggot, e il cranio aveva un'apparenza più solida. Julia notò una medaglia appuntata sulla sua giacca, e subito dopo che aveva una manica vuota e rivoltata in su. "Sono l'ultimo?" Lanciò un'occhiata a Mark, poi andò verso Julia. "Vedo che le signore di West Hampstead non sono ancora arrivate. Lei dev'essere Julia Lofting. Piacere di conoscerla. Mi chiamo Arkwright, Nigel Arkwright. Dello sherry, che pensiero gentile. Bella casa. Mio cugino Penny Grimes-Bragg ha comprato molti anni fa una casa in questo quartiere, in Allen Street. Non è lontano da qui." "No, infatti" rispose Julia, chiedendosi se il signor Arkwright uscisse sovente. Vedeva però in lui un possibile alleato contro l'imprevedibile signora Fludd e le tuttora sconosciute signore di West Hampstead. "Cinque minuti, di buon passo," stava dicendo il signor Arkwright. "Venendo qua col mio vecchio macinino pensavo ai bei tempi, quando Penny e io..." "Venga vicino a me, signor Arkwright," interloquì Lily. La sua innata socievolezza aveva prevalso sul risentimento per la presenza di Mark, tanto che sorrise a Julia alle spalle del signor Arkwright. "Con piacere! Ah, signora Fludd, stasera ci sono due nuovi. Questo limiterà il solito bagaglio di trucchi, eh?" "Bevi il tuo sherry, Nigel," gli consigliò amichevolmente la donna. Si era scostata di qualche centimetro da Mark tanto sprofondato nel divano che sembrava dover scivolare sul pavimento da un momento all'altro. Aveva l'aria terribilmente annoiata, ma Julia percepì in lui una certa tensione trattenuta, nascosta. Anche la signora Fludd pareva aver accumulato energia psichica, perché guardò in direzione della porta un istante prima che il campanello suonasse ancora. Julia andò ad aprire. Sulla soglia c'erano due donne, entrambe magre e attempate e con lunghi soprabiti neri e logori. Alle loro spalle Julia intravide una vecchia bicicletta nera appoggiata al marciapiede e, dietro, una ancor più decrepita e rugginosa Mini, che indovinò essere il "macinino" del signor Arkwright. Probabilmente le signore di West Hampstead avevano preso l'autobus. Se Magnus si aggirava nei paraggi spiando i vari arrivi, l'effetto non sarebbe stato quello desiderato. Il contrario, semmai. Magnus l'avrebbe creduta del tutto impazzita. Riuscì ugualmente a sorridere alle due donne. "Sono Julia Lofting. La signorina Pinner e la signorina Tooth, suppon-
go." "Com'è lontano!" "Mai quanto Shepherd's Bush." La signorina Pinner e la signorina Tooth entrarono in casa di Julia lanciando esclamazioni estatiche. Raggiunta la porta del soggiorno, si precipitarono insieme verso la signora Fludd, le dissero qualche parola, poi si girarono per sorridere agli altri. Quando la Pinner notò Mark, il suo sorriso si spense. La signorina Tooth, al contrario, gli riservò uno sguardo di vaga benevolenza. "Chi è questo giovanotto?" s'informò la prima. "Norah..." la redarguì l'altra. "Chi è?" "Il fratello della signorina Lofting, Mark. Ha un'aura molto scura. Anche la sua è molto forte stasera, signorina Pinner. Arancio vivo, il colore di forti movimenti nella quarta casa. Forse avremo fortuna, stasera." Così dicendo la signora Fludd fece girare lo sguardo, senza più badare alla signorina Pinner. Julia notò che pareva più tesa rispetto a quando l'aveva guardata l'ultima volta. "Con due nuovi non si parlerà neppure di stadi superiori," osservò la signorina Pinner. Lily, a fianco del signor Arkwright, rispose: "La signora Fludd ha gentilmente consentito a limitarsi agli elementi essenziali." Julia studiò le due ultime arrivate e i loro volti, che prima, sulla porta, le erano sembrati tanto simili, cominciarono ad acquistare ciascuno una propria fisionomia. La signorina Pinner aveva una certa somiglianzà col signor Piggot, in quel momento impegnato a descrivere a Lily e al signor Arkwright come avesse pescato in Hyde Park attaccando pezzettini di pane all'amo: entrambi avevano il viso lungo e occhi piccoli e azzurri come frammenti di cielo. La signorina Tooth aveva invece un aspetto sbiadito, con il volto rugoso di una governante in pensione. La signorina Pinner poteva essere stata una direttrice di scuola famosa per il suo alto senso della disciplina. Julia appese tutti i soprabiti nel guardaroba dell'ingresso e tornò con lo sherry per le due donne. Prima di accettare il suo, la Tooth guardò la Pinner e, al suo cenno di consenso, prese il bicchiere nella mano piccola e tremante. Mark scoccò a Julia un'occhiata di sconforto e si alzò dal divano per unirsi a Lily, che ascoltava il racconto delle illecite esperienze di pesca del signor Piggot. Per quei vecchi le sedute spiritiche rappresentavano occa-
sioni mondane. Il signor Arkwright punteggiava le avventure del signor Piggot di fragorose risate militaresche. Nel suo torrente di parole non aveva rivelato alcuna particolare simpatia per Julia, ma aveva dimostrato il piacere di essere uscito dalla solitudine. La casa di Julia era piena di gente della quale lei non apprezzava la compagnia. Lo stesso Mark era incupito. Ora la signorina Pinner e la signorina Tooth stavano esaminando i mobili: trovavano tutto "così carino". Julia avrebbe voluto scappare e chiudersi la porta alle spalle, invece bevve un sorso di sherry e si sedette sul divano vicino alla signora Fludd. "Io me ne andrei," disse la medium. "Oh, no, signora Fludd! Le sarei tanto grata se restasse. Lily non vedeva l'ora..." "Non occorre che menta con me, signora Lofting. Lei stessa sarebbe felice se ce ne andassimo tutti quanti. Ma io intendevo un'altra cosa: se fossi in lei, non starei in questa casa." Julia la guardò sorpresa e il suo stupore crebbe quando vide che i suoi occhi non erano affatto vuoti, ma acuti e perspicaci. Ne fu sconvolta come se si fosse accorta che la signora Fludd era in realtà un uomo travestito in quel modo assurdo. L'aveva vista come una "macchietta", una persona da non prendere sul serio, e adesso arrossì evidentemente per la sua errata intuzione. Se il resto della cerchia di Lily era composto da eccentrici solitari, lo sguardo freddo e diretto della signora Fludd rivelava una personalità più dura di quanto le chiacchiere di impregnazioni e incorporazioni avessero lasciato supporre. "C'è qualcosa in questa casa." "Crede che me ne dovrei andare?" domandò Julia, costernata. "Vede qualcosa? Sente rumori? È successo qualche fatto inspiegabile?" Aveva mutato anche modo di parlare. "Non so," confessò Julia. "A volte mi sembra di sentire qualcosa..." "Sì." La signora Fludd assentì seccamente. Ricordando le parole di Mark, Julia domandò: "Mi sento sciocca a chiederglielo ma è possibile che in questa casa abiti un poltergeist?" "I poltergeist sono del tutto innocui. Spostano gli oggetti, qualche volta rompono uno specchio o un vaso... sono creature dispettose. Sarebbe in pericolo solo se fosse molto ricettiva, come il suo piacente amico laggiù, o se fosse dominata da una forte passione distruttiva: odio, invidia. Allora, se lo spirito volesse vendetta, potrebbe influenzarla. E raro, ma accade se lo spirito è particolarmente malefico o se vi è un qualsiasi legame tra lei e lo spi-
rito. A Wapping, un ladro morto da cinquant'anni appiccò il fuoco a una casa abitata dalla famiglia di uno scassinatore. Morirono tutti." "Come fa a saperlo?" insistette Julia. "L'ho sentito. L'ho capito." Una sicurezza così granitica non poteva che incantare Julia. E comunque non ammetteva discussioni. "Qui sente qualcosa?" La signora Fludd annuì. "Sì, anche se non posso ancora definirla. Ma questa casa non mi piace. Chi ci abitava prima?" "Una coppia di nome McClintock. Lui era fabbricante di tappeti. I mobili li ho comprati da loro." "Qualche morte improvvisa in famiglia? Tragedie?" "Non so. Non avevano figli." "Però lei ha visto delle cose in questa casa." "Può darsi che fosse mio marito," ammise Julia, ridendo. La signora Fludd si chiuse immediatamente in sé, interrompendo il contatto con Julia, poi ci ripensò e le prese una mano. "Mi telefoni se vorrà un consiglio." Prese dalla borsetta un bigliettino bianco con la scritta Rosa Fludd, medium e parapsicologa e in basso un numero di telefono. Il signor Piggot si avvicinò al divano, seguito dal baldanzoso signor Arkwright. "È ora?" chiese Piggot. "Non vedo l'ora di approfondire certe teorie che ho elaborato in negozio dopo il nostro ultimo incontro." "Certo, tesoro," disse la signora Fludd, rientrata nel personaggio. Battè due volte le mani e le conversazioni nella stanza cessarono. La signorina Pinner e la signorina Tooth si girarono rapite verso il divano. "È ora," sussurrò la Tooth. Anche Lily e Mark, ai lati opposti della stanza, si voltarono verso la signora Fludd, Lily con un'espressione tra l'impaziente e il soddisfatto, Mark stancamente. Julia ebbe appena il tempo di chiedersi che cosa avesse prima che Lily la pregasse di spegnere le luci. Lei scattò in piedi e andò all'interruttore. Dalle grandi finestre entrò una luce grigia e in quella soffusa semioscurità Julia poté cogliere le espressioni immobili e attente dei presenti. Lei e Mark erano estranei in mezzo a loro, così andò a metterglisi vicino. "Avrebbe una candela o una piccola lampada, signora Lofting?" Julia andò in sala da pranzo e accese un lume di ceramica a forma di boccale. "Lo allontani un po', per favore," ordinò la signora Fludd. "Devo chiede-
re a tutti voi di prendervi per mano all'inizio. Guardate la luce dietro di me. Sgombrate la mente da ogni pensiero." La lampada spandeva nel soggiorno una luce fioca. Unendosi al gruppo, Julia si trovò alla destra Mark, che le strinse la mano tanto da farle male. A sinistra, invece, la mano del signor Piggot era sorprendentemente soffice e umida. Il suo cranio brillava pallido nella penombra. Formata la catena, i membri del gruppo sedettero goffamente sul pavimento, tirandosi dietro Julia e Mark. Solo la minuta signorina Tooth passò dalla posizione eretta a quella seduta con le gambe incrociate con grazia fluida; la signorina Pinner si muoveva con l'efficienza di una macchina. A Julia, che la osservava di nascosto, parve quasi che dovesse odorare d'olio e d'ingranaggi. Dal pavimento, i membri del gruppo guardarono oltre la testa della signora Fludd la debole luce che emanava dal lume a forma di boccale. Mark, sempre più cupo, aveva assunto un'espressione di paziente sopportazione. Timorosa e scettica, anche Julia fissò la lampada e dopo un poco gli occhi presero a bruciarle. Osservando gli altri notò che li avevano chiusi. I loro visi erano sospesi nell'aria come maschere mortuarie. La signora Fludd sedeva sul divano davanti a loro in atteggiamento perfettamente normale, le mani intrecciate in grembo. La sua testa e la lampada si riflettevano nel vetro più scuro dell'alta finestra sul retro. Nubi biancastre correvano sopra l'alone evanescente del lume acceso. "Chiudete gli occhi," disse la signora Fludd con voce bassa e quieta. Il signor Piggot, alla sinistra di Julia, sospirò e si afflosciò all'indietro, tirandole la mano. "Potrete aprirli dopo, se vorrete." Julia obbedì. Sentiva i respiri intorno a sé. Mark le serrò più forte la mano. Quando l'agitò per segnalargli di allentare la stretta, lui l'aumentò. "Uno di noi è in difficoltà," disse la signora Fludd. "Chi?" "Io me ne vado," annunciò Mark. Si staccò da Julia e si alzò. "Chiudete la catena. Signor Berkeley, lei siederà in silenzio fuori del gruppo e starà a guardare." Julia si sporse e afferrò la mano di Lily, completamente passiva. A differenza di tutti gli altri, non aveva aperto gli occhi mentre Mark parlava. Ora questi era seduto alle loro spalle, di fronte alla signora Fludd. "Mi occorre il suo aiuto, signora Lofting," mormorò la Fludd. "Vuoti la mente, che sia completamente sgombra e bianca. Non permetta che vi entri nulla." La sua voce si stava facendo più lenta e profonda. Julia aprì un occhio e, guardando in direzione del divano, scorse le guance della signora
Fludd delineate dalla luce soffusa dietro di lei. I suoi capelli erano un velo bianco. Sembrava più grassa e vecchia. Julia richiuse gli occhi e pensò a un piatto bianco. Il respiro della signora Tooth, a sinistra, diventò un ansito rumoroso. La mano di Lily era ancora inerte in quella di Julia. Poco dopo, Julia cominciò a provare dolore alle cosce. Dietro le palpebre chiuse sfilavano frammenti di scene, visi di persone o paesaggi che dopo un istante si dissolvevano in altre immagini. Moses Herzog, con la faccia di un anziano professore di inglese della Smith, si trasformò in una pulce. Le sembianze ripugnanti dell'insetto si tramutarono nel viso di Magnus. Con uno sforzo di volontà Julia scacciò questa visione e pensò a uno strato di nuvole che la copriva. Dissipandosi, le nubi rivelarono uno di quegli uomini laceri e oziosi presenti nel suo sogno. Ora l'uomo era suo padre, che la osservava con un'espressione di sfinita pietà. Vedeva se stessa ritta sulla carta catramata nera del tetto, con Kate morta tra le braccia. Le facevano male le cosce, la destra poi stava per avere i crampi. Julia si piegò di lato e stese le gambe avanti. Il signor Piggot le strizzò la mano in segno di rimprovero. Riaprendo gli occhi, Julia vide che ora la signora Fludd sedeva abbandonata come se dormisse. La bocca era aperta, nera e sdentata nella massa carnosa del volto circondato dalla penombra dei capelli. Il corpo tozzo della donna era come schiacciato: "abbandonato" non era la definizione esatta, perché sembrava sottoposto a una crescente pressione. "Chiudere gli occhi," ingiunse con voce aspra. Julia trasalì e obbedì immediatamente. Udì gli stivaletti della signora Fludd strusciare sul tappeto. Adesso era di nuovo sul tetto, sola con quegli uomini. Suo padre, che era morto un'estate mentre lei e Magnus si trovavano nel Perigord, le voltava le spalle. Gli parlò tra sé, come faceva spesso quando si sentiva in colpa. Eri un brav'uomo, ma troppo autoritario. Me ne rendo conto adesso. Ho sposato Magnus perché aveva la tua forza, sapeva dominare come te, e poi ho capito quale arma fosse la tua forza. Però ti amavo, papà. Sarei venuta al tuo funerale, se avessi saputo. Voglio che mi perdoni per essere stata lontana, ti ho sempre amato, perdonami, e promettimi che... Quando le parole divennero ripetizione meccanica, la visione svanì. Era sola sul tetto, oppressa da quell'atmosfera di disfacimento morale. Tutto era sporco, meschino, imperfetto. Chinò la testa. La scena si dissolse in un'oscurità opaca dalla quale Julia si sentì inghiottire. Le girava la testa e aveva l'impressione di cadere lentamente nel vuoto. La stanza sembrava aver fatto un giro su se stessa: sicuramente ora aveva davanti la finestra sulla facciata e non
la signora Fludd. Resistette alla tentazione di aprire gli occhi. Evocò ancora l'immagine del piatto bianco, freddo, immacolato, tutto superficie, e se ne colmò la mente. Per un poco, gli unici rumori nella stanza furono il respiro della signorina Tooth e lo stropiccio rassicurante dello stivale della Fludd sul tappeto. Julia si calmò e si chiese che cosa facesse e pensasse Mark dietro di loro nel buio. Subito dopo aver attraversato la stanza per mettersi vicino alla signora Fludd, aveva cominciato ad agitarsi. Lei doveva avergli detto qualcosa, come a Julia. E adesso che effetto gli facevano, seduti come idioti sul tappeto davanti alla massiccia figura della signora Fludd? Si trattenne a stento dal girare la testa per cercarlo. Un fremito della mano molle del signor Piggot la richiamò alla realtà. "Ach. Ach." Di certo quel rantolo usciva dalla gola della Tooth, pensò Julia. Poi udì un gemito che poteva essere solo della Tooth e capì che quell'ansito strozzato e insistente proveniva dalla gola del signor Arkwright. Anche Lily emetteva un suono: il più esile e femminile dei suoni, un sospiro leggero con appena un soffio di voce. Era incredibilmente sensuale. Julia si sentì tirare avanti e indietro le mani e in breve anche lei cominciò a dondolarsi. Le gambe avevano ricominciato a dolerle, ma non le passò neppure per la testa di interrompere l'irresistibile moto di oscillazione per ripiegarle sotto di sé. Socchiuse audacemente gli occhi e vide, come attraverso la nebbia, le teste scure degli altri ondeggiare. Ciascuno produceva un suono, basso, ritmico e insistente. La signorina Pinner ronfava come un gatto. Di fronte a loro la signora Fludd aveva i piedi fermi e il viso contratto. La mano del signor Piggot era madida di sudore. Julia chiuse gli occhi e riprese a dondolarsi. Per nulla desiderosa di rammentare la faccia della signora Fludd, sgombrò il più possibile la mente. Pensò di non pensare a nulla. Presto lei stessa fu una particella ondeggiante di nulla. Poi vide Kate, Kate che le voltava le spalle. Una voce gracchiante li fece fermare tutti. "Aah, basta." Richiamata brutalmente in sé, scossa dalla visione di Kate, Julia ritirò la mano da quella del signor Piggot, ma continuò a stringere quella di Lily. Aprì gli occhi. La signora Fludd era schiacciata contro i cuscini del divano, il viso paonazzo. Non mostrava affatto l'espressione distesa che Julia associava all'idea del sonno medianico: aveva gli occhi sbarrati e muoveva le labbra. "Basta. Basta." "Qualcosa non va," bisbigliò il signor Piggot. Guardarono tutti la signora Fludd in evidente difficoltà, senza sapere
come aiutarla. Con uno strattone alla mano Lily fece capire a Julia di non alzarsi. A poco a poco il volto della signora Fludd riprese il colorito normale e gli occhi si chiusero. Giacque semidistesa e svuotata di ogni energia, il viso immobile, poi sbiancò. "È finita," mormorò, con la voce tornata bassa come all'inizio della serata. Ma ora sembrava tremarle. Anche le sue mani tremavano quando le appoggiò sul petto per calmare il respiro. "Finita?" saltò su la signorina Pinner. "Ma se abbiamo appena..." "Dobbiamo smettere," ribadì la signora Fludd, senza riuscire a calmare il tremito nella voce. "Mi spiace. Non posso proseguire. Non posso terminare la seduta." Pareva terrorizzata. "Portatemi il soprabito," ordinò, cercando di alzarsi dal divano. "Stasera basta così. Il mio soprabito, per favore." Ricadde giù, sfinita, e Julia si accorse con sgomento che ricacciava a fatica indietro le lacrime. Tutti si alzarono nella stanza buia, perplessi e turbati. Solo la signorina Pinner era visibilmente indignata. Mentre bisbigliava qualcosa alla Tooth, Lily si avvicinò alla signora Fludd. "Portatemi il soprabito," ripetè quest'ultima, piangendo ormai senza ritegno. "Qualcuno vada a prenderle un bicchiere d'acqua," chiese Lily, e la Pinner interruppe la sua intensa conversazione con l'amica. Julia assisteva impietrita, incapace di muoversi. "Che cosa è successo?" domandò. "Signora Fludd, che cosa le è successo?" "Vada via da questa casa," sussurrò la medium, abbandonandosi boccheggiante sui cuscini. Le lacrime continuavano a rotolarle giù per le guance. "Un po' d'acqua!" implorò. La signorina Pinner uscì esasperata dalla stanza, e Julia notò che non si dirigeva verso la cucina, ma verso il bagno nel corridoio. "È spaventata," mormorò Lily a Julia. "Che cosa ti ha detto?" Julia scosse la testa. La signora Fludd stava nuovamente tentando di parlare. Si curvò su di lei e sentì il cattivo odore del suo alito. "Pericolo. Sono in pericolo. E anche lei." La poveretta tremava violentemente. Un odore forte e acido salì verso Julia, ma lei lo riconobbe solo quando la signora Fludd ansimò nel disperato sforzo di alzarsi. Era umiliata e terrorizzata, e Julia, immersa in quel sentore acre d'ammoniaca, stentava a trattenerla. Frugò con lo sguardo i recessi scuri del soggiorno, sopra le teste della signorina Tooth, del signor Piggot e del signor Arkwright, ma Mark non c'era. Se n'era andato senza farsi vedere. Lo strillo della Pinner troncò le sue riflessioni e l'immobilizzo così co-
m'era, con le braccia intorno alle spalle della signora Fludd. La signorina Tooth si precipitò fuori della stanza. Anche la medium aveva sentito l'urlo e ricadde sul divano, chiudendo gli occhi. Julia rincorse la Tooth e, quando arrivò in bagno, vide la signorina Pinner supina sul pavimento, appena oltre la porta. La sua amica le teneva in grembo la testa. Julia scavalcò il corpo disteso ed entrò nel bagno. Gli specchi riflettevano il suo viso rotondo, con gli occhi sbigottiti, facendola apparire innaturalmente sana e bella. Poi, per una frazione di secondo, scorse qualcuno dietro di lei che usciva dal suo campo visivo: si girò di scatto, ma oltre a loro tre non c'era nessuno nella stanza. Comunque, se ci fosse stato, la signorina Tooth l'avrebbe visto. Si rigirò verso lo specchio ed ecco di nuovo la figura apparire e sparire. Eppure Julia, come tutti, aveva già sperimentato questo fenomeno tipicamente nervoso e comune quanto il sentirsi chiamare per la strada. Doveva essere stato quello o qualcosa di simile a spaventare la signorina Pinner. Julia si avvicinò al lavabo per prendere un bicchiere d'acqua e vide il suo abito di tela blu ancora a bagno, dimenticato: l'acqua nel lavabo era diventata colore della ruggine, ma la macchia c'era ancora. 4 Quella sera, quando finalmente rincasò poco dopo le undici, Julia si coricò subito. Aveva la sensazione che sarebbe rimasta in apprensione sino alla fine dei suoi giorni, e l'inquietudine era in buona parte dovuta alla sua incapacità a individuarne la causa. Lei e Lily avevano accompagnato a casa in taxi la tremante signora Fludd. Per vie squallide e desolate, assai simili a quelle dei suoi sogni, avevano raggiunto il condominio della donna, in una strada senza uscita poco oltre Mile End Road. I lampioni erano stati tutti rotti e i cocci biancastri luccicavano sui marciapiedi sporchi. Anche la carreggiata era disseminata di schegge di vetro, di quelle verdi e minute dei parabrezza. Una targa illuminata sul palazzo della signora Fludd informava che il casermone grigio, che insieme ad altri uguali formava un complesso di abitazioni, si chiamava Baston; davanti al Baston, bande di ragazzotti in jeans arrotolati scorrazzavano su e giù, schiamazzando con voci rauche. Molti di loro si fermarono per fissare a bocca aperta il taxi. Quando videro la signora Fludd, cominciarono a urlare: "Strega schifosa! Strega schifosa!" La donna non aveva detto parola durante il lungo tragitto da Kensington, benché Julia le avesse domandato due volte cosa le fosse accaduto, cosa avesse visto. La medium aveva serrato la bocca con tale
forza che il labbro superiore era diventato bianco. I giovinastri l'avevano terrorizzata ulteriormente, tanto che lì per li aveva rifiutato di scendere dal taxi. Lily, smontando dal lato della strada, aveva momentaneamente spiazzato la banda, ma quelli avevano subito ricominciato, facendo di lei il loro bersaglio. Ignorandoli, Lily, con l'aiuto di Julia, aveva convinto la signora Fludd a scendere dal taxi. "Ci aspetti," aveva detto Lily all'autista, e avevano sostenuto la medium fin nel cortile. Diversi di quei teppisti le avevano seguite gridando oscenità. "Qui," aveva mormorato la Fludd, indicando una porta. Abitava a pianterreno, come Julia aveva previsto. L'avevano accompagnata attraverso l'appartamento scrupolosamente pulito fino alla camera da letto, dove un pappagallino dai colori sbiaditi dormiva in gabbia. La stanza, non più grande di un ripostiglio, conteneva un letto e un piccolissimo cassettone. Alle pareti bianche erano appese croci, carte siderali e una decina di quadri bizzarri ai quali Julia non aveva badato molto. Lily era andata in cucina a cercare qualcosa per la signora Fludd, e Julia l'aveva aiutata a sedersi sul letto e a slacciare gli stivali. Mentre disfaceva i nodi, Julia aveva sentito una mano grassoccia sulla nuca. "Vada via di qui," aveva gracidato la signora Fludd. "Volevo solo esserle utile," si era scusata Julia, alzando gli occhi sul viso congestionato della medium. L'aveva sfiorata il dubbio che fosse malata di cuore. "No, intendo dire: se ne vada da questo paese," aveva mormorato la Fludd, il respiro sibilante. "Torni in America. Qui c'è pericolo. Non rimanga." "Pericolo qui in Inghilterra?" La signora Fludd aveva assentito come rivolgendosi a una bambina ritardata, poi si era sdraiata sul letto. "Durante la seduta, signora Fludd, che cosa ha visto?" "Una bambina e un uomo. Stia attenta. Potrebbe accaderle qualcosa." La donna aveva chiuso gli occhi e si era messa a respirare pesantemente, con la bocca aperta. Alzando lo sguardo, Julia si era ritrovata a fissare una stampa di Keane. "L'uomo è mio marito?" "La casa è sua," aveva risposto la signora Fludd. "Deve andarsene." Poi aveva girato il viso verso Julia e le aveva afferrato le mani. "Ascolti. Io faccio trucchi. Imbrogli. Per gli altri. La signorina Pinner e il signor Piggot. Lo vogliono loro. Non tutti. Quella storia sulla trascendenza... una truffa. Ma io vedo. Cose. Aure. Davvero. Ma li ipnotizzo, se così si può di-
re. Ora ho paura. Erano un uomo e una bambina. La mettono in pericolo. Anche me. In pericolo. Sono malvagi." "L'uomo è mio marito?" "Esca," aveva farfugliato la medium. "Per favore." "La prego, signora Fludd, chi è la bambina? Deve dirmelo!" L'altra si era voltata sul fianco, gemendo. Una zaffata di aria mefitica era salita dal suo corpo. "Vada via." In taxi, Lily aveva voluto sapere cos'era successo. "Era spaventata a morte. Che cosa ti ha detto?" "Non credo di aver capito bene," aveva risposto Julia, sulla difensiva. Poco dopo il tassista aveva confessato di essersi perso e avevano percorso a caso strade buie e squallide prima di ritrovare quella giusta. Julia era scesa dal taxi a Plane Tree House e aveva pagato la corsa nonostante le proteste di Lily: le era costato tutto quello che aveva nel portafogli. Si era avviata verso casa costeggiando il parco, dai cui recessi scuri, al di là dei cancelli chiusi, le erano giunte voci e risate. Quando fu a casa, passò di stanza in stanza, cercando non sapeva neppure lei cosa e senza risultato; per la maggior parte, le luci erano rimaste accese e la casa aveva un'aria vuota, d'attesa, come se fosse disabitata. I bicchieri di sherry semivuoti erano incollati ai tavoli. Uno si era rovesciato, formando una chiazza scura e irregolare sul tappeto. Forse per via di quello che le aveva detto la signora Fludd, la casa le appariva nemica, "malefica", era la singolare espressione usata dalla medium. Nelle camere disabitate, con i mobili coperti di teli protettivi e il silenzio come unico ospite, Julia si sentì una presenza inconsistente mentre girellava senza meta, in cerca di qualcosa che sapeva non avrebbe trovato. Polverose e abbandonate, quelle stanze sembravano raggelate dal vuoto che vi regnava. Controllò i caloriferi: erano spenti. Eppure la casa era una struttura gigantesca, una forma immensa che la escludeva e la respingeva; avrebbe resistito alle sue imposizioni, non le avrebbe ceduto. Julia ne percepì intimamente l'ostilità e sentì, ora più che mai, di vivere in un errore che comprendeva tutta la sua vita: all'esterno l'attendevano forze più grandi delle sue. Un uomo e una bambina. L'angoscia la spinse infine verso la sua camera, caldissima, soffocante. Si spogliò velocemente e buttò i vestiti su una sedia. Prima di coricarsi diede uno sguardo all'interruttore del calorifero: la levetta era in basso. Julia ricordava di averla alzata la mattina precedente, con Mark. Da allora non l'aveva più spostata. Toccò il radiatore e lo trovò bollente, come se
non fosse mai stato spento. Significava che era stato acceso durante la notte, visto che quel tipo d'impianto non funzionava durante le ore diurne. Ma non aveva controllato, la sera prima? Maledì la propria cattiva memoria. Però la sera prima Magnus era entrato in casa. Poteva averle fatto un dispetto infantile come accendere tutti i caloriferi? Ma, se si abbassava a spaccare gli oggetti per spaventarla senza pietà, come quei giovinastri avevano fatto con la signora Fludd, non era un'ipotesi da scartare. Quand'era in collera, Magnus era capace di tutto. Julia spense un'altra volta il radiatore, poi le venne un'idea: prese dall'armadio un rotolo di nastro adesivo e fissò la levetta alla placca. Benché l'idea le ripugnasse, la questione di Magnus e dei suoi sentimenti verso di lui andava affrontata. Quali erano questi sentimenti? Julia aveva l'impressione di trovarsi sull'orlo d'un precipizio; il suo controllo, il suo dominio sulle cose di solito solido e normale, era divenuto così fragile. La sua calma e serenità erano in gran parte fittizie. Sotto la superficie covava l'orrore, lo stesso che stava in agguato in fondo al precipizio. L'immagine di Magnus che uccideva Kate, la vista di lui mentre affondava il coltello nella gola di Kate che si dibatteva sul pavimento poteva affiorare in lei in qualsiasi momento, com'era accaduto prima che la portassero all'ospedale e la imbottissero di narcotici. Perfino allora era stata torturata dagl'incubi. Più e più volte, i polsi bloccati ai lati del letto, aveva immaginato di afferrare il braccio di Magnus e piantare il coltello nella propria gola. Anche quella visione l'aveva ossessionata. Morire per Kate... Sarebbe morta volentieri per Kate. Invece aveva assistito passivamente al più maldestro dei delitti. Magnus era legato in modo indissolubile a quell'orrore, l'orrore dell'inazione, dell'inerzia che significava sconfitta, della menzogna, del vuoto senza fine né senso: questa era la morte, che ora sembrava trasudare dai muri stessi di quella casa. Una bambina e un uomo. Kate e Magnus. La signora Fludd li aveva visti. E che cosa aveva detto prima di cadere in trance? Qualcosa riguardo l'odio e l'invidia che possono rendere "malefico" uno spirito. Kate era presente. C'era Kate dietro le insensate incursioni di Magnus in Ilchester Place. Kate non perdonava. La logica la conduceva implacabilmente a quell'illogica conclusione. Julia cominciò a rotolarsi da una parte all'altra del letto, gemendo. Stava per crollare. Tornò l'immagine del precipizio sul cui ciglio aveva camminato con tanta cautela: zolle e sassi che si staccavano dal bordo, frantumandosi nella caduta. Era Kate. La signora Fludd aveva visto Kate. Magnus era in qualche modo dominato da Kate e costituiva un
pericolo gravissimo per la mente di Julia. Incapace di dormire e dominare i propri pensieri, Julia accese il paralume accanto al letto, poi distese le braccia lungo il corpo. Appiattì le dita in maniera che le palme toccassero il lenzuolo, tese i pollici e tentò di rilassarsi. Fece due respiri profondi. Avrebbe parlato con la signora Fludd. Se doveva abbandonare la casa per sfuggire al pericolo di Magnus, poteva farlo. Per adesso le era impossibile dormire, ma non avrebbe lasciato la camera da letto. Era sua. Se fosse stata cacciata da quella stanza, avrebbe lasciato anche la casa. Girò la testa per guardare i libri sul comodino. Aveva finito il romanzo di Bellow; ora aveva a disposizione The Millstone, The White House Transcripts, The Golden Notebook e The Unicorn. Aveva bisogno di letture meno impegnative in quel momento. Kate e Magnus: le allusioni e gli avvertimenti della signora Fludd delineavano una temibile possibilità: che lo spirito di Kate vivesse ancora, che la odiasse e si servisse della collera di Magnus, alimentandola. Che lo spirito di Kate impregnasse quella casa. E tutto ciò era reale, stava accadendo proprio a lei. Doveva chiamare la signorina Pinner, oltre che la signora Fludd. Prima che le signorine di West Hampstead se ne andassero, la Pinner era troppo impaurita e sconvolta per descrivere quanto aveva visto in bagno. Poi Julia scorse un altro libro che aveva posato ultimamente sul comodino, nascosto dietro la piccola pigna di tascabili. Era il Reale Distretto di Kensington, il regalo di Lily. Un sobrio e giudizioso elenco di fatti, qualche aneddoto, tavole a colori... Esattamente quello che le ci voleva: un libro eccitante come un catalogo di ferramenta, un sonnifero di sicuro effetto. Si appoggiò in grembo il pesante volume e cominciò a sfogliarlo, leggendo qualche paragrafo a caso. Personalità residenti a Kensington nel diciottesimo secolo... Kensington come un villaggio... storia politica del reale distretto... la progettazione dei Kensington Gardens... tra i mercanti molto facoltosi figuravano... il famigerato signor Price, impiccato per il furto di un cane da corsa... Scorrendo le pagine dopo aver letto della sorte del signor Price, Julia lesse il titolo Delitti, fantasmi e loro apparizioni. Sulle prime evitò di leggerlo e passò oltre, ma la curiosità era troppa: tornò indietro e iniziò la lettura. Da principio non trovò nulla che fosse più eccitante delle precedenti liste di illustri assessori e mercanti di Kensington: l'autore aveva collezionato diversi aneddoti su case abitate da fantasmi e li aveva trascritti in uno stile semplice e disadorno. Si parlava di una monaca senza testa che si aggirava
in un edificio "feudale" di Lexham Garden, di due sorelle suicide in case contigue in Pembroke Place, che erano state viste attraversare mano nella mano i giardini sotto la luna, di un tranquillo padre di famiglia di Edwardes Square, epoca 1912, che, posseduto dallo spirito del bisnonno pazzo, aveva preso a vestirsi alla moda stravagante di un secolo prima e aveva finito per assassinare i propri figli. Julia lesse tutte queste storie con scarso interesse. Poi una frase e il nome di una via catturarono la sua attenzione. Uno dei delitti più controversi e inquietanti di tutta Kensington è il caso di Heather e Olivia Rudge, abitanti in Ilchester Place 25. Heather Rudge, americana, una delle ultime donne condannate a morte in Inghilterra, aveva acquistato la casa in Ilchester Place dall'architetto che l'aveva fatta costruire per sé nel 1927, ma che due anni dopo aveva voluto trasferirsi altrove per motivi familiari. In quell'epoca la signora Rudge, separata dal marito, godeva fama di padrona di casa brillante e spregiudicata e, nel suo giro, era considerata una donna facile. (Eda Rolph alludeva a un debole per giovanotti prestanti e facoltosi uomini d'affari della City.) Un contemporaneo, autore di gradevoli raccolte di versi e di una serie di romanzi a carattere teologico, la descrive con "un viso piccolo, vivace, apertamente conturbante nel quale fatalmente si mescolavano bellezza e avidità. Vanitas, senza dubbio, eppure la trovavamo dotata di un fascino innegabile". La nascita di una figlia, Olivia, dodici anni dopo l'acquisto della casa, in piena guerra, influenzò solo marginalmente la sua già compromessa carriera di organizzatrice di serate: la disponibilità di una donna ricca sì, ma attempata, la cui stella era tramontata sei o sette anni prima, interessava ormai solo a pochi. Le feste continuarono, saltuariamente e con molto minor sfarzo di prima, poi cessarono del tutto. Fino al 1950 si parlò poco delle Rudge. Quell'anno Olivia, di nove anni, venne menzionata in relazione alla morte per soffocamento, in Holland Park, di un bambino di quattro anni, Geoffrey Braden, di Abbotsbury Close. Olivia Rudge e quelli che la stampa popolare battezzò concisamente "piccoli teppisti di Holland Park", un gruppo di dieci o dodici bambini capeggiati da Olivia, erano stati visti molestare il piccolo Braden il giorno precedente la sua morte. Il mattino dopo, secondo un sorvegliante del parco, Olivia e parecchi altri lo avevano nuovamente inseguito e maltrattato. Il custode aveva cacciato via i bambini e aveva consigliato al piccolo Braden di andarsene a casa. Quando era tornato in quella zona
del parco, aveva trovato il cadavere del bambino in un punto in ombra, accanto a un muro. Polizia e opinione pubblica avevano escluso che l'assassinio fosse avvenuto per mano dei ragazzini quando si era scoperto che Geoffrey Braden, prima di essere ucciso, aveva subito sevizie sessuali. Un vagabondo fu poi impiccato per quel delitto. Due mesi dopo l'esecuzione del vagabondo, Heather Rudge telefonò alla stazione di polizia di Kensington confessando di aver assassinato la figlia. Al loro arrivo gli agenti trovarono Olivia pugnalata nel letto; più tardi il coroner riferì che il corpo era trafitto da oltre cinquanta ferite. La signora Rudge venne immediatamente arrestata e protetta in tal modo dalla folla dei giornalisti. L'assassinio di Olivia Rudge diventò rapidamente un boccone da prima pagina per la stampa scandalistica, che dissotterrò ben presto il passato dell'assassina ("Regina del sesso massacra la figlia"). Processata e giudicata colpevole di omicidio, Heather fu condannata a morte, pena in seguito commutata in ergastolo. Rimangono irrisolti alcuni interrogativi. Perché Heather Rudge uccise la figlia? Perché la condanna fu commutata? Esisteva un nesso con l'omicidio, avvenuto l'anno prima, di Geoffrey Braden? I giornali lo insinuarono con insistenza. La stampa si era impadronita del caso, sostenendo che la Rudge era stata condotta alla follia dalla figlia. Alcuni giornali sostenevano che Olivia avesse provocato la madre mostrando di sapere molte cose sul delitto Braden, e che Heather avesse deciso che la figlia non aveva il diritto di vivere. Qualche tempo dopo la Rudge, che ormai aveva assunto il ruolo di vittima, fu riconosciuta inferma di mente da una speciale commissione medica. Attualmente vive in isolamento in una clinica privata per malattie mentali nel Surrey. Le domande restano comunque senza risposta. Heather Rudge porterà nella tomba il segreto del ruolo avuto dalla figlia nel caso Braden. Dimenticata dall'opinione pubblica, la mente ottenebrata, Heather Rudge è un fantasma vivente. Il primo pensiero di Julia, una volta terminata la lettura, fu una banalità. Ecco chi aveva fatto mettere quegli specchi: Heather Rudge, con i suoi festini animati da aitanti giovanotti, non i rispettabili McClintock. Subito dopo capì di dover assolutamente scoprire ogni minimo particolare su Heather e Olivia Rudge. Scorse in fretta le due pagine, poi tornò indietro e le rilesse ancora, con calma e attenzione. Eda Rolph non affermava mai direttamente che Olivia Rudge avesse assassinato o aiutato ad assassinare Geoffrey Braden: su che cosa si basavano le illazioni in quel senso? Julia co-
minciò subito a chiedersi come ottenere informazioni sul caso Rudge. I giornali: certo al British Museum, se non in una biblioteca di quartiere, avrebbe trovato le annate microfilmate dei quotidiani. Heather Rudge era ancora viva? Cercò nelle prime pagine del volume i dati editoriali. Il Reale Distretto di Kensington era stato pubblicato dalla Lompoc Press nel 1969 cinque anni prima. Poteva benissimo essere ancora viva. "... una clinica privata per malattie mentali nel Surrey." Come trovare il nome della clinica? Heather Rudge era vissuta in quella casa, aveva dormito in quel letto. Nel sonno, il suo corpo aveva occupato l'identico posto di Julia. Julia ebbe l'impressione di roteare vertiginosamente nel tempo, un tempo elastico, distorto, infido. Il passato parve avvolgerla come un gas nauseabondo. Si mise a sedere di scatto, il cuore in gola. Forse Heather Rudge aveva pugnalato Olivia proprio in quella camera. Olivia in punto di morte come Kate, sanguinante come se il sangue fosse ansioso di abbandonare il corpo vivo. Sangue che copriva schiumando quel punto oltre un angolo sepolto nel tempo... Julia schizzò quasi dal letto. Non poteva essere vero. Quella doveva essere la stanza di Heather, si disse, la figlia doveva avere una delle camerette più piccole che si affacciavano sul corridoio. E là doveva essere stato commesso il delitto. Perché m'interesso tanto a questa storia, a questa gente? si domandò Julia. Perché mi darà una spiegazione. Si sentì sveglia e piena di energie come se avesse bevuto tre tazze di caffè forte. Voleva telefonare a Mark, vedere Lily, voleva chiamare Eda Rolph per chiederle il nome della clinica dove Heather Rudge era rinchiusa da oltre vent'anni. Ma è anche qui, pensò, è parte di questa casa e vive ancora qui, sale e scende le scale con la gonna frusciante, prepara un letto, corre alla porta per accogliere uno spasimante o un amico, chiusa nella sua bolla senza tempo. Ogni momento scorre parallelo a tutti gli altri. Che cosa aveva visto la signorina Pinner, per svenire? Dal pianterreno le giunse, come in risposta, un rumore secco, lo stesso che aveva udito quando, nascosta dietro le tende, le era parso di vedere Magnus ritto e immobile in giardino. Era il rumore di qualcosa fuori che voleva entrare. Julia si rese conto che, paradossalmente, aveva meno paura di Magnus ora, di quanta ne avesse prima, quando leggeva di Heather e Olivia Rudge. Magnus era di carne e sangue. Tutt'intorno a lei si muovevano i segni del passato della casa, echi del suo stesso passato. Stesa nel letto, ascoltò il sommesso bussare alle finestre da basso. Pochi minuti dopo prese The White House Transcripts e lesse testardamente per due ore, ar-
rivando quasi a metà del libro prima di crollare addormentata, con la luce accesa. Il bussare, tenace e insistente, risuonava per tutta la casa. In un bagno di sudore, sognò Kate. Si svegliò due ore dopo con la sensazione di essere stata toccata, anzi accarezzata. La luce era ancora accesa. Julia allungò il braccio e la spense. La camera era ancora più calda di quando era entrata: le sembrava di essere coperta da un velo di sudore. Le tende pendevano immobili: in quella stanza l'aria si rifiutava di circolare e vi si ammassava, densa. Dalla finestra si vedeva brillare il cielo, più chiaro dell'interno. Julia sentiva ancora, lungo il fianco sinistro non del tutto guarito, il tocco lieve di una mano. Una carezza delicata, sensuale. Naturalmente non c'era nessun altro in camera: era stata lei a immaginare la carezza, forse perché ne aveva bisogno. Si sistemò meglio tra le lenzuola, decisa a rilassarsi. I colpi giù erano cessati: non essendo riuscito neppure stavolta a terrorizzarla, Magnus doveva essersene andato. Julia chiuse gli occhi e incrociò le mani sotto il seno. Forse Heather Rudge aveva allattato Olivia proprio in quella stanza, parlandole con il linguaggio che si usa coi bambini. Forse la signora Fludd aveva visto Heather accanirsi sulla figlia. Un evento simile perdura di certo nell'ambiente dove si è compiuto, continua a riecheggiarvi... La mente di Julia cominciò a vagare. Udì un frammento di musica, un'esecuzione orchestrale, metallica, come trasmessa da una radio, ma anche quella svanì insieme a tutto il resto. Piombò immediatamente in sogni che si confondevano col dormiveglia. La stavano accarezzando ancora. Mani delicate, insieme alle sue, indugiavano su di lei, la sfioravano. Piccole mani si muovevano leggere sul suo corpo. Si fermarono, poi ripresero. Julia vide Kate accanto a sé: erano abbracciate. Kate era con lei. Le carezze erano come musica: sommessa, toccante, a ondate. Julia provò una quiete, una pace infinita. Le piccole mani erano come lingue che la leccavano. Si abbandonò a quella piacevole sensazione. Sogni spezzati, alimentati da quelle lunghe carezze, s'insinuarono nella sua mente. Lei e Mark, seduti a fianco a fianco sul divano grigio, pronunciavano parole che non riusciva a sentire. Lui le prendeva le mani. Nuotava in una piscina d'acqua calda come quella del bagno. Non portava costume, e l'acqua era liscia come olio intorno a lei. I pori della pelle erano dilatati e il sole scottava. Le dita si spostavano in carezze insinuanti sul suo corpo che si schiudeva. Mark e Kate, poi, all'improvviso, solo Kate. "No," gemette, e la propria voce la richiamò dal sonno. "No." Av-
vertì l'ultimo contatto della mano che l'accarezzava tra le cosce. Si sentì piena di disgusto e di paura, così eccitata. Adesso era completamente sveglia. Aveva sognato Kate. Che cosa orribile aveva sognato? Si aspettava quasi di udire Heather Rudge che scendeva leggera le scale. Ora il pensiero di Kate era terrificante. Kate doveva odiarla. Era prigioniera di una terribile situazione e mentre il suo corpo cercava sollievo, la coscienza era sbigottita da ciò che la logica non poteva spiegare. Adagio, sentendosi sporca, Julia fece scivolare la mano in quel punto del corpo che la reclamava e, con un movimento circolare delle dita, raggiunse l'orgasmo. Si sentiva come il fantasma non appagato della Heather Rudge vivente. Il suo corpo odorava di sconfitta e fallimento, di sforzi affannosi. Il mattino seguente Julia compose con mani tremanti il numero che Rosa Fludd le aveva lasciato. Per la prima volta in vita sua aveva bevuto alcolici al mattino: un goccio di whisky di malto liscio, trangugiato ancora in vestaglia. Le era subito venuta voglia di un altro. La pronta esplosione di calore, l'immediato rilassamento che si sarebbe concluso con l'annullamento totale della coscienza, l'aveva riportata al periodo del ricovero in ospedale, pochi secondi dopo l'iniezione del mattino. Adesso so perché la gente beve al mattino, aveva pensato. È meglio della colazione. Aveva subito riavvitato il tappo della bottiglia ed era andata al telefono, vicino al quale c'era il cartoncino bianco datole dalla signora Fludd. Sentì il trillo sordo nell'appartamentino asettico della Fludd. L'apparecchio squillò sei, sette volte, senza risposta. Era ancora là, custodita dal pappagallino e dai grandi occhi romantici della fanciulla nella stampa di Keane? Doveva assolutamente parlarle: che cosa le avrebbe detto la medium, si domandò, se lei, Julia, avesse saputo di Heather e Olivia Rudge la sera prima? Al decimo squillo qualcuno rispose. "Sì?" disse una voce femminile, giovane. "Vorrei parlare con la signora Fludd, Rosa Fludd. Sono Julia Lofting." "Un momento." Julia udì delle voci soffocate: la donna aveva coperto il microfono e si stava consultando con un'altra persona nella stanza. "Mia zia dice che non le può parlare." "Qualcosa non va?" s'informò Julia. "Proprio lei dovrebbe saperlo. Non è una delle due signore che l'hanno accompagnata a casa?" Aveva un accento così pesante che Julia distingueva a malapena le parole. "È anche colpa sua se ora si trova in questo stato."
"In quale stato?" "Di agitazione! Lei e gli altri suoi amici visionari le avete quasi fatto perdere la testa. Le sembra una bella cosa da fare? E questa povera donna non prende nemmeno un soldo per farvi divertire." Si udì un'altra voce in sottofondo e la mano tappò di nuovo il ricevitore. "Le dica che ho altre informazioni," insistette Julia. "È importantissimo." "Dice che ha altre informazioni. Sicura? Ci tieni davvero?" Un attimo dopo la signora Fludd era all'apparecchio. "Eccomi." Il suo tono era molto controllato. "Signora Fludd, sono Julia Lofting. Sta bene? Ero preoccupata per lei." "Lasci perdere. Che cosa voleva dirmi?" "Per caso ho letto un episodio riguardante la mia casa in un libro su Kensington e volevo riferirglielo. È sempre lì, signora Fludd? La casa apparteneva a una certa Heather Rudge, un'americana, che aveva una figlia di nome Olivia. La Rudge pugnalò la bambina. Mia figlia fu uccisa allo stesso modo. Mio marito voleva salvarla perché stava soffocando, invece l'ammazzò. Il delitto avvenne oltre vent'anni fa, proprio in questa casa. È questo che ha visto? E questo che ha visto nel bagno la signorina Pinner?" "Non so nulla della signorina Pinner." "Signora Fludd, è possibile... è possibile che mia figlia mi perseguiti? Che cerchi di farmi del male? E questo che intendeva, ieri sera? Kate ha tentato di nuocere a lei? C'è mia figlia dietro questa storia?" In preda all'isteria e alle lacrime, Julia tacque per ritrovare il controllo. "Mi può aiutare, signora Fludd?" "Torni nel suo paese." "Non può dirmi che cosa ha visto?" "Non ho visto nulla." "Ma lei ha parlato di una bambina e di un uomo. Kate e Magnus." "Non ho visto nulla. La signorina Pinner è una vecchia matta e neppure lei ha visto qualcosa. Se ne vada da quella casa, lasci l'Inghilterra. E tutto quanto posso dirle." "Signora Fludd, per favore, non riappenda. Ho pensato tanto, ho tante cose da chiederle. Come fanno le persone vissute nel passato ad agire attraverso le persone che vivono nel presente? Come fanno i morti a controllare i vivi? È possibile che avvenga un fatto simile?" "Gliel'ho già detto. Mi sta facendo perder tempo. Addio." "Ha parlato di odio e invidia." "Se ne ricorda, allora. A volte vogliono toglierle qualcosa di suo e darle
qualcos'altro: questo aiuta lo spirito malefico. Ma gli spiriti forti non hanno bisogno d'aiuto, signora Lofting. Fanno quello che vogliono. Non posso parlare, signora Lofting. Mi lasci in pace, la prego." Riappese, e Julia tenne il ricevitore incollato all'orecchio finché non sentì il segnale di linea libera. Abbassò la forcella per riformare il numero, ma in quello stesso istante il telefono squillò. "Pronto?" rispose Julia con un filo di voce. "Ti riporterò a casa," affermò la voce cupa di Magnus. "Non puoi sfuggirmi. Mi senti? Mi senti, Julia?" Lei riappese. Le parve di vedere una figura spostarsi precipitosamente fuori del suo campo visivo e si voltò di scatto, il respiro bloccato in gola. Era sola nella stanza. "Kate," bisbigliò. "Kate, no." Quando Julia entrò in cucina per bere un bicchier d'acqua, dal rubinetto scese un liquido marrone, dal puzzo talmente schifoso che lei fece un passo indietro. Si premette una mano sulla bocca e chiuse il rubinetto, interrompendo il getto che ora aveva un odore metallico, come di monete. Qualche secondo dopo provò a riaprire: il liquido nauseabondo riprese a scorrere. Di nuovo Julia girò convulsamente il rubinetto per arrestare il flusso. Sotto l'acquaio c'era una dozzina di bottiglie di acqua minerale, ne prese una, svitò il tappo e riempì un bicchiere. Aveva un sapore incredibilmente dolce: bevendola, Julia si rese conto di essere stata lì lì per vomitare. Ancora adesso dall'acquaio saliva il fetore del liquido brunastro che le rivoltava lo stomaco. Poi il malessere fisico le fece ricordare una cosa. La sera in cui si era introdotta in casa dalla finestra del bagno aveva perso le scarpe: erano cadute fuori quando era riuscita finalmente a insinuarsi nella stretta apertura. E fuori erano rimaste, dove Magnus poteva facilmente trovarle: qualcosa presa, qualcosa data, aveva detto la signora Fludd. Quasi tutto ciò che possedeva l'aveva avuto da Magnus. Portava il suo anello, le aveva comprato orecchini, ciondoli, collane, vestiti. Per spogliarsi di tutto ciò che le era stato dato da Magnus, avrebbe dovuto andare in giro quasi nuda. Quanto tempo erano rimaste in giardino le scarpe? Tre notti e due giorni. Forse erano ancora sotto la finestrina del bagno. Dalla cucina Julia raggiunse l'anticamera e poi il bagno. Riflessa negli specchi rosa, tolse il fermo al vetro e lo sollevò. Tenendolo con la sinistra, e in punta di piedi, sporse la testa. Vide i fiori bianchi e gialli, alcuni staccati dallo stelo, altri
calpestati nel terreno soffice. Ma non vide le scarpe. Si protese in fuori più che poté, ma non ce n'era traccia. Erano sparite: qualcuno le aveva prese. Ecco una prova: un uomo e una bambina volevano farle del male. Per alcuni istanti Julia, terribilmente agitata, camminò su e giù per la stanza da bagno. Si rendeva conto di emettere un verso gutturale, orribile, ma non sapeva frenarsi e il suono echeggiava tra gli specchi, rimbalzando avanti e indietro come il suo corpo. Devo smetterla, si disse, e si costrinse a sedersi sul pavimento. Il suono fuoriusciva in singulti, poi si concentrò in gola, dove Julia poteva fermarlo. Quando si accorse che un filo di saliva le era colato dalla bocca, si asciugò con un gesto brusco. Guardò in giro, stranita. Sedeva accanto alla vasca, gli occhi vacui, la bocca aperta: negli specchi rosa il suo volto appariva quasi esotico. Magnus si era preso le sue scarpe. Julia si alzò barcollando, aggrappandosi con entrambe le mani al lavabo, dove il suo abito era immerso in un'acqua bruno-arancione. La macchia di sangue si vedeva ancora: sembrava addirittura essersi ingrandita e adesso era lunga una spanna. Julia agguantò l'abito, tolse il tappo e strizzò la stoffa fradicia mentre l'acqua tinta e maleodorante scorreva via. Non stava realmente pensando. Sapeva di dover distruggere il vestito azzurro e non perse tempo: l'azione fu quasi più veloce del pensiero. Doveva bruciare quell'indumento. Con il vestito in mano, passò dalla cucina, dove prese dei fiammiferi e proseguì fino al caminetto del soggiorno. Lasciò cadere il vestito sulla griglia e avvicinò un fiammifero acceso a un angolo asciutto di tessuto. L'abito non prese fuoco. Julia accese un secondo fiammifero e lo accostò allo stesso lembo di stoffa, che questa volta prese fuoco, arricciandosi e annerendosi sotto la lingua di fuoco che si allargava. Un odore acre invase il soggiorno seguito dal fumo. Una buona metà del vestito bruciò prima che la fiamma si spegnesse a contatto con la parte bagnata. La stanza puzzava di stoffa incendiata, di pelo bruciacchiato, ma Julia non vi fece caso. Si ostinò nello sforzo di appiccare il fuoco al resto del vestito, ma quello, ancora zuppo, si anneriva soltanto. Poi Julia vide il Guardian del mattino su un tavolino accanto al divano e andò a prenderlo. Tolse quattro pagine che ficcò nel caminetto, sotto l'abito. Quando sollevò quello che ne restava, sporco di cenere e fuliggine, vide ancora la grande macchia di sangue color ruggine che partiva dalla cucitura. Gettò altri fogli di giornale sul vestito e su di essi dei fiammiferi. Si levò un fumo denso e giallastro. Julia buttò altri fiammiferi sulla carta che si
consumava lentamente, ma il vestito non voleva prendere fuoco. Lei aveva le mani nere di cenere. Desistendo dal suo tentativo, andò in cucina a prendere un sacco di plastica nera per la spazzatura, lo aprì e lo portò al caminetto. Con l'aiuto della paletta sollevò il mucchio di cenere e tessuto bruciacchiato e spugnoso e lo infilò nel sacco, che chiuse e portò fuori, sul vialetto di fianco alla casa. Il sole e il caldo furono una sorpresa per Julia. L'ultima mezz'ora, o forse un'ora, era stata un incubo. Era stata dominata da un disgusto violento e irresistibile. Mentre le sue pulsazioni rallentavano, Julia tornò ad accorgersi di quello che la circondava, della luce tra i fili d'erba, del sole che le accarezzava i capelli. Prese a respirare più regolarmente, rendendosi all'improvviso conto di aver ansimato. Quella cosa nel sacco nero: aveva dovuto distruggerla come se fosse stata viva. Ripreso il sacco, fu sopraffatta nuovamente dalla repulsione e lo sbattè nel bidone dell'immondizia, richiudendo subito il coperchio. Grosse macchie di cenere le imbrattavano la vestaglia e anche le gambe erano sporche. Julia si sentiva come se avesse appena terminato una corsa estenuante. Magnus: la sua telefonata, come per un perfido sortilegio, le aveva fatto perdere la ragione. Non ricordava più le sue parole, ma ne aveva ben presente il significato minaccioso. Le aveva preso le scarpe. Julia rientrò di corsa nel caldo rifugio della casa. Venti minuti dopo, un'altra visita: la sua vicina, una donna ancora giovane, che abitava al 23, la casa accanto. Più piccola di Julia, i capelli corti quasi come quelli di Lily, aveva un viso roseo, timido e sorridente che cominciava appena a mostrare le rughe. Si chiamava Hazel Mullineaux. Le sue prime parole: "Non so se sia il caso di importunarla adesso," suscitarono in Julia grande imbarazzo per via della vestaglia macchiata e delle mani annerite. E anche del viso, perché dalle occhiate della signora Mullineaux Julia capì di avere anche le guance e la fronte imbrattate. Nascose le mani dietro la schiena. "Sembra tanto indaffarata che non so se posso approfittare del suo tempo." Julia, intenta a darsi un contegno, si scordò persino d'invitarla a entrare. "Oh, ho tutto il tempo del mondo," rispose, dandosi subito dopo della stupida per l'esagerazione. "Il fatto è che abbiamo pensato di doverglielo chiedere. Ci sembra giusto che lei sappia," si scusò, poi tentò di sdrammatizzare. "E naturalmente vo-
levamo conoscere la nostra nuova vicina." "Grazie." "Mi scusi, non ho afferrato il suo nome." Non gliel'aveva detto. "Julia Lofting." Hazel Mullineaux occhieggiò verso la casa, alle spalle di Julia. "È canadese? Sto cercando di individuare l'accento..." "Sono americana, ma vivo qui da molto tempo." "Questo spiega perché l'accento è quasi sparito." "Oh, non ci faccio caso, credo che cambi in continuazione. Mio marito diceva sempre che parlavo come una contadina dello Iowa, e pensare che non sono mai stata nello Iowa, e nemmeno lui, d'altronde." Parlava a caso, respirando il puzzo di bruciato. Aveva sventagliato un giornale in soggiorno per dieci minuti, ma l'odore era rimasto: sembrava che avesse arso un gatto. Le divagazioni sullo Iowa lasciarono evidentemente perplessa la vicina. "Dunque, come le dicevo, abbiamo pensato che fosse giusto informarla. Ieri sera mio marito ha visto un uomo fermo davanti a casa sua." Julia s'immobilizzò. "A che ora?" "Alle dieci, quando è tornato dall'ufficio. Come tutti gli editori, lavora fino a tardi, sa... Verso le dieci e mezzo, per caso, ha guardato fuori, e ha visto lei che entrava in casa. L'uomo era ancora lì. Perry diceva che non aveva l'aria del delinquente, però si era spostato ed era vicino all'albero davanti al numero diciassette, dove stanno gli Armbruster. Perry era incuriosito, così l'ha tenuto d'occhio e dopo che lei è entrata, l'uomo si è avvicinato di nuovo a casa sua e si è fermato sul marciapiede opposto. Perry dice che ci è rimasto almeno un'ora. Naturalmente nessuna legge proibisce di guardare le case, ma la cosa ci è sembrata strana. Mio marito si è chiesto se non fosse il caso di telefonare alla polizia. Gli ho detto che ne avrei parlato con lei, nel caso quell'individuo ritornasse. Spero non pensi che ficchiamo il naso nei suoi affari privati." "Oh, no!" protestò Julia. L'odore di gatto bruciato si era fatto decisamente forte e anche la signora Mullineaux l'aveva fiutato. La donna la guardava in modo strano, e fece un passo indietro. "Stavo facendo un po' di pulizia," spiegò Julia. "So di non essere presentabile." "Sì, cioè no, naturalmente. Ma siccome quell'uomo si è trattenuto parecchio davanti a casa sua, ho voluto dirglielo. Spero non pensi che abbiamo sbagliato a non chiamare la polizia." "Era mio marito," rivelò Julia. "Credo che mi sorvegli. Anzi, ne sono si-
cura." "La sorveglia?" domandò stupita la signora Mullineaux. "Non abita qui," spiegò Julia, sentendo di aver già dato fin troppe spiegazioni. Ma non sapeva come evitarlo. "Vede, ho comperato questa casa solo per me. Non posso più vederlo e lui mi importuna, mi telefona. Credo che una sera si sia intrufolato in casa..." Ora la signora Mullineaux era l'immagine stessa dello sbigottimento e della disapprovazione. "Oh, la prego, voglio che diventiamo amiche!" esclamò Julia. "I vicini dovrebbero essere amici, vero? Non l'ho neppure fatta entrare. Gradirebbe una tazza di caffè? È stata gentile a venirmi ad avvertire. Non so se sia giusto chiamare la polizia. Non so se ci sia pericolo... È diventato tutto così confuso in questi due o tre giorni, per via di Kate, nostra figlia, voglio dire la nostra bambina morta... Lui mi mette addosso una paura terribile, ma non credo di dovermi rivolgere alla polizia, è una faccenda che non capirebbero. Tuttavia ringrazi suo marito per essersi preoccupato per me, apprezzo molto...". Guardò gli occhi sgranati di Hazel Mullineaux. "Non vuole entrare a bere una tazza di caffè? Dovrò dare aria al soggiorno per mandare via questo odoraccio, ma potremmo sederci in cucina o nel giardino sul retro." "Ora non posso, grazie," rispose l'altra, avviandosi giù per i gradini. "Sarà per un'altra volta." "Ah, volevo chiederle una cosa," la bloccò Julia. "Conosceva la gente che stava qui prima?" "Sicuro che conoscevamo i McClintock. Erano anziani, riservati, ma molto cari, davvero." "No, non i McClintock. Quelli prima di loro. La signora Rudge, Heather Rudge. Aveva una figlia." "Prima dei McClintock? Noi ci siamo trasferiti qui nel sessantasette e i McClintock ci stavano da vent'anni, credo." "Già, naturalmente, naturalmente. Non può averla conosciuta." La signora Mullineaux si voltò, scese gli ultimi scalini e, prima di raggiungere il marciapiede, si girò ancora a guardare Julia, abbozzando un sorriso. E convinta che io sia pazza, si disse Julia. Poi pensò a Magnus che pattugliava la strada. Quella notte aveva bussato per ore alla finestra della sala da pranzo. Voleva farla precipitare nel baratro. Julia desiderò la presenza spensierata di Mark, la sua mascolinità senza problemi: era un talismano
contro Magnus. Neppure su Lily poteva contare per essere salvata da Magnus. Sentì Hazel Mullineaux sbattere la porta. Mark l'avrebbe protetta anche da quello. "Hai bisogno di aiuto, cara. Sei sotto pressione e non oso biasimarti se sei inquieta e sospettosa." "Inquieta, Lily? Naturale che sia inquieta. La serata di ieri mi ci voleva proprio..." "Intendevo proprio questo. Verso mezzogiorno ho chiamato la povera signora Fludd, ma non ha risposto nessuno. Non esce mai se non per le sue sedute. È successo qualcosa di terribile, sono sicura. Sono in pensiero per lei, è più forte di me." "Be', io sono in pensiero per me. Magnus è stato visto aggirarsi da queste parti, ieri sera. Sono anche certa che due sere fa è riuscito a infilarsi in casa mia. Sta cercando di farmi tornare da lui. E fuori di senno e forse lo sono anch'io. Sai che cosa penso? Kate mi vuole punire. La signora Fludd ha parlato di un uomo e di una bambina. Kate è entrata nel cervello di Magnus. Ogni tanto viene anche in questa casa, e mi odia. Crede alle bugie di Magnus." "Oh, cara..." "Lo vuoi tutto per te, vero? E vuoi pure Mark. Ti piacerebbe che Magnus mi considerasse pazza. Immagino che lo chiamerai subito per riferirgli quello che ti ho detto, ma non lo troverai perché probabilmente sta ronzando qui intorno per controllarmi." "Julia, non penserai questo di me!" "Gli hai telefonato. Sei venuta meno alla tua parola." "Perché volevo che tornassi da lui." "Però lo vuoi per te, vero? E anche Mark." "Julia, questa discussione non fa bene a nessuna delle due. Ed è terribilmente ingiusta. Ascolta, Julia: Kate non ha motivo di odiarti, nulla di quanto hai fatto era diretto a nuocerle. Sei stata coraggiosa." "Magnus l'ha uccisa. Magnus mi odia per averlo lasciato e adesso anche Kate mi odia. La signora Fludd li ha visti." "Julia, perché non vieni da me, così potremo parlarne? Vieni, ti prego. Da quel giorno non sei più te stessa." "Che cosa intendi? Che cosa vorresti farmi dire?" "Nulla, Julia, nulla. Pensavo solo che parlarne ti avrebbe giovato, se non con Magnus almeno con me, ma forse non sei ancora pronta e allora la-
sciamo stare. Continuo a pensare che dovresti trasferirti da me per qualche giorno, in modo..." Julia ebbe l'improvvisa, chiarissima visione di un uomo in camice bianco che le piantava un ago nel braccio. "Spiacente, Lily. Arrivederci." Riappese, tremando con tale violenza che il ricevitore scivolò dalla forcella e cadde sul pavimento. Doveva uscire subito di casa. Salì di corsa in camera e si tolse la vestaglia sporca. Andò in bagno e fece una rapida doccia, evitando il più possibile di guardare il proprio riflesso nel timore che un'occhiata agli specchi cogliesse il guizzo della figura sfuggente che usciva dal suo campo visivo. Il telefono cominciò a suonare mentre si asciugava. Lei non rispose e contò gli squilli. Al ventesimo, smise. Julia continuò a vestirsi, rifiutando di ripensare alle parole di Lily. Le venne invece voglia di comprare ancora dei libri, per entrare nella vita inventata di altre persone. Quella era liberazione. Venti minuti dopo, spinta da quel desiderio, percorreva a passo svelto Kensington High Street, i capelli ancora umidi che le aderivano al collo, accompagnata da ricordi vividi della sua adolescenza: le estati nel New Hampshire, dove faceva sempre caldo come quel giorno a Londra. Il suo bisnonno aveva acquistato la tenuta dopo aver lasciato la presidenza della compagnia ferroviaria che, negli anni del boom, gli aveva fruttato centinaia di milioni di dollari. La terra, l'aria stessa le erano apparse diverse laggiù, quando era stata innocentemente assorbita dalla vita di famiglia. Per un istante Julia provò fortissimo il desiderio di tornare in America. Si fermò in Kensington High Street, tra un negozio di liquori e la libreria di W. H. Smith. I clacson delle auto laceravano l'aria e lei ricordò all'improvviso una vallata del New Hampshire e, al di là della valle, le distese sconfinate del continente. Ma quei luoghi non erano più così, e lo sapeva. In realtà desiderava tornare al passato. Eppure covava in lei un confuso struggimento per quella terra immaginaria e feconda: le sembrava di aver trascorso anche l'infanzia in quei luoghi. Entrò da Smith e acquistò un'edizione economica di Gravity's Rainbow. Con il libro sotto il braccio, Julia fendette la folla di High Street. Faceva davvero caldo, come in agosto nel New Hampshire. Rimase un momento incerta se imboccare Kensington Church Street in direzione di Notting Hill Gate, per vedere se Mark era in casa. Ricordava l'indirizzo e, le sembrava, anche dove si trovava il suo appartamento; era una di quelle vie lunghe e curve, Pembridge qualcosa, che intersecavano Notting Hill Gate, una stra-
da su cui si affacciavano case spaziose, ora suddivise in mono e bilocali. Mark aveva un appartamento nel seminterrato. Julia immaginò una rampa di scale che scendeva dal marciapiede fino a una stanza priva di luce, e le bastò per incamminarsi verso Holland Park, dove poteva stendersi al sole. Non si sentiva ancora pronta ad andare a casa di Mark. Capitare là inaspettatamente avrebbe scatenato una serie di conseguenze che non si sentiva di affrontare. Mentre passava davanti alla fila di negozi, Julia scrutava la gente cercando il viso di Magnus. Forse la pedinava di nascosto, fingendo di guardare le vetrine: doveva aspettarsi che suo marito adottasse una tattica del genere. O forse, e questa era l'ipotesi più inquietante, in quello stesso momento si stava introducendo in casa sua. Ma non poteva correre là a controllare di persona, non l'avrebbe mai colto sul fatto, questo era certo. Malgrado tutto, Julia non riusciva a liberarsi dall'immagine di Magnus che incombeva alle sue spalle. Sbucata sulla lunga piazza del Commonwealth Institute, si voltò di scatto e diede una gomitata nello stomaco a un prete. Nello scambiarsi le scuse, si riconobbero dall'accento come americani. Il prete, un uomo bruno, distinto, dal viso intelligente, la guardò incuriosito mentre scambiavano qualche battuta. Julia supponeva che stesse inconsciamente rispondendo a qualcosa che traspariva dal suo atteggiamento o dal suo sguardo vacuo. Che cos'aveva di tanto strano da allarmare perfino uno sconosciuto? Alzò una mano per asciugarsi la fronte imperlata di sudore e vide che tremava. "Non è nulla," assicurò al prete. "Sono solo un po' ansiosa. Sono una persona normale. Di solito non prendo gli uomini a pugni nello stomaco." Si ritrovò in Holland Park. I vialetti erano pieni di gente e così pure i prati. Un gruppo di bambini correva strillando nell'erba, dividendosi in girotondi turbinosi per poi raggnipparsi di nuovo, schiamazzando. Ragazzi in jeans, ragazze in lunghi abiti leggeri, ragazze in jeans, tedeschi bardati con macchine fotografiche e vestiti costosi. Julia girò intorno a una comitiva di venti giapponesi che parlavano tra loro cantilenando. Una giovane coppia davanti a lei si scambiò un lungo bacio. Il ragazzo, incurante della gente, toccava e massaggiava le natiche della compagna. Julia reagì con una fitta di dolore fisico, poi vide il prete americano che la precedeva, camminare in fretta e senza voltarsi. Respinse fermamente il ricordo del suo sogno notturno e i postumi di esso, incamminandosi senza meta sulla scia del prete. Il libro le pesava come un macigno. Il prete lasciò il viale principale per imboccarne uno più stretto che, co-
me Julia ricordava, costeggiava l'area in cui pavoni e altri uccelli passeggiavano impettiti all'ombra degli alberi. Julia lo seguì, fissando l'abito nero come se contenesse un messaggio. Il prete si soffermò un attimo a guardare i pavoni, quindi proseguì verso il boschetto che occupava la parte più alta del parco. Camminava di buona andatura e poco dopo sparì tra gli alberi. Tre donne che spingevano ciascuna una carrozzina, accompagnate da un solo uomo con una bottiglia di vino aperta, attraversarono davanti a Julia. Il prete era scomparso. Fu allora che Julia scorse Magnus. Era seduto su una panchina e non la guardava. Appariva stanchissimo. Lei si fermò di scatto, fece due passi indietro, poi gli voltò le spalle. La visione di Magnus in abito grigio chiaro, le spalle curve, la fronte corrugata, le bruciava dentro. Se avesse girato la testa, l'avrebbe vista. All'inizio percorse il sentiero a passi veloci e leggeri; superata la curva rallentò e, fattasi coraggio, si guardò alle spalle; non l'aveva seguita. Si diede un'occhiata intorno: là avanti, a destra, c'era un'uscita, proprio di fronte a Plane Tree House. Per tornare a casa avrebbe percorso il perimetro del parco. Trotterellò giù per il sentiero, ignorando gli sguardi degli uomini e assumendo un'espressione decisa. L'idea di fermarsi nel parco a leggere il libro era fuori discussione: doveva tornare a casa e chiudersi a chiave. Stava per raggiungere il cancello quando scorse la bambina negra che aveva incontrato il primo giorno. La piccola la scrutava di sotto in su come aveva fatto quella volta. "Ciao, Laura. Ti ricordi di me?" "Pupù," disse Laura, sorridendo a Julia con la bocca aperta. Gli occhi le brillavano. "Non è una bella parola." "Pupù. Cacca." La piccola ridacchiò. "Fottiti." Julia era sbigottita. "Fottiti. Cacca. Fottiti." "Ma che..." Julia si voltò e si trovò a guardare negli occhi della bambina bionda. Stava toccando una bicicletta appoggiata alla cancellata che circondava il parco e guardava Julia diritto in faccia. Non c'erano altri bambini nei pressi. Le persone più vicine erano un uomo e una donna addormentati nell'erba a una ventina di metri. Intorno a Julia e alla bambina pareva essersi creato un vuoto senza tempo. La biondina portava dei calzoni di tela di foggia curiosamente antiquata con l'elastico alto in vita e le gambe larghe. La sua somiglianza con Kate riempì di paura il cuore di Julia. Si osservavano soltanto, senza parlare, e Julia ebbe la sensazione che la bion-
dina l'avesse attesa in quell'angolo isolato. Poi la bambina sorrise e la somiglianzà con Kate sparì. Aveva un incisivo spezzato a metà e il pezzetto di dente rimasto formava un arco che rendeva irregolare e asimmetrico il suo sorriso. "Chi sei?" domandò Julia. Il sorriso della ragazzina prese una sfumatura stranamente adulta, provocante. Le sue mani accostate si mossero, o si mosse qualcosa dentro di esse. Quando Julia guardò, si accorse che la biondina non stava toccando la bicicletta, ma teneva le mani vicino alla ruota posteriore. Le ci volle qualche secondo per capire che cosa tenesse tra le palme. Solo quando la creatura fremette, Julia vide che era un uccellino. "È ferito?" domandò. La bambina non rispose, ma continuò a fissarla con quel suo sorriso sbilenco e asimmetrico. Tutto il suo essere pareva compreso in se stesso. Con un movimento sicuro e veloce la bambina infilò l'uccellino nella ruota, incastrandolo tra i raggi e le bacchette metalliche che sostenevano il parafango. La scena si stampò nella mente di Julia con estrema chiarezza: come nell'attimo prima di un disastro previsto, il tempo divenne fisso come il sorriso della bambina. Julia guardò l'uccellino un istante prima che la biondina spingesse avanti la bicicletta. Era trattenuto fra due asticelle, non nel cerchione come le era sembrato, e il corpicino sporgeva tra i raggi. "Non farlo... no," balbettò. La ragazzina spinse la bicicletta e l'uccellino si tramutò in un grumo di piume sanguinolente; la testa cadde a terra senza rumore. Julia alzò gli occhi sulla ragazzina, che stava montando in sella. Non se ne andò subito, ma rimase ferma a cavalcioni della bici, fissandola intensamente. Julia aprì la bocca per parlare, poi scorse la testa dell'uccellino che giaceva con gli occhi aperti vicino alla ruota posteriore e si sentì prendere da una nausea violenta. Si girò e vomitò nella polvere. Quand'ebbe finito, la bambina non era più accanto a lei. Pedalando lentamente e con aria noncurante era già arrivata al cancello, e un attimo dopo era sparita nel traffico. Julia fece un passo e scoprì che le ginocchia le tremavano; si costrinse a correre. Incurante di Magnus si precipitò direttamente verso casa, la bocca aperta, il corpo tremante, il respiro corto. Traversò di corsa i prati, scansando i curiosi che le cedevano il passo, e infilò il sentiero che aggirava la zona giochi dei bambini. Aveva la gola asciutta e il fianco sinistro doloran-
te. Voltò l'angolo di Ilchester Place e riprese un'andatura normale. Ansimando, con il viso in fiamme, salì i tre gradini che portavano al suo vialetto. La casa aveva un aspetto impassibile, scostante; Julia non desiderava altro che buttarsi sul letto e dimenticare tutto nel sonno. Il libro che portava sembrava triplicato di peso. Arrivata alla porta infilò una mano in tasca e toccò un fazzolettino di carta usato, un orecchino con la spilla rotta, un mentino e due monetine. La chiave, ricordò, era in fondo alla borsa, su un ripiano della cucina. Le ginocchia le mancarono del tutto e Julia si accasciò nell'erba soffice. Prima che i suoi occhi si chiudessero, vide la faccia sbalordita di Hazel Mullineaux che la guardava da una finestra del 23. La vecchia si alzò a sedere nel letto; il chiaro di luna si piegava come una lunga pagina bianca tra muro e pavimento. Una voce bassa l'aveva svegliata dolcemente pronunciando ripetutamente e sommessamente il suo nome in tono quasi canzonatorio. Ora la voce si udì di nuovo, lontano, da un altro punto della casa. La donna non voleva seguire la voce; resistette aggrappandosi al lenzuolo. Ma sapeva di non poter resistere a lungo. La voce era acqua fresca, l'acqua azzurra di cui aveva bisogno. I deboli muscoli delle braccia cominciarono a tremare. Sapeva chi era. Passò la lingua arida sui denti. Sentì pronunciare il proprio nome dal corridoio. Infine il suo corpo smise di lottare. Come per volontà propria, le braccia della vecchia scostarono il lenzuolo e i piedi toccarono terra. Le gambe malferme sapevano dove portarla. Nella sua mente pareva esserci solo la voce. I piedi trovarono le scarpe basse e vi s'infilarono. La donna percorse il corridoio e vide la porta aperta. Appena oltre la soglia, avvolta in una luce gialla, c'era la persona, e la chiamava. Là avanti l'aspettava la conoscenza, la conoscenza e la pace. Mentre passava davanti all'attaccapanni, la sua mano s'allungò per prendere il pesante soprabito di tweed. Stupida mano, stupido soprabito, inutile. Serviva solo per coprire la camicia da notte. Se lo tirò sul ventre prominente e allacciò l'unico bottone. Gentile e insistente, la persona aspettava. Seducente... troppo attraente. La donna mosse lenta verso la porta, la superò e si trovò in uno spazio ampio e familiare. La persona camminava a ritroso, in fretta, facendole cenno di seguirla. Luce bianca sui capelli, sul dorso delle mani in movimento. Tutto di lei era indistinto e nebbioso. Altre voci raggiunsero le orecchie della vecchia, ma
lei non voltò neppure la testa. La voce fu l'ultima cosa che udì. PARTE SECONDA La ricerca: Heather 5 "Sono stata sul punto di capire," disse Julia. "Ero a letto e leggevo il libro che mi hai regalato, e quando sono arrivata al capitolo su Heather e Olivia Rudge mi sono resa conto che stavo per comprendere quello che mi succede, perché, vedi, Lily, non sono invenzioni. Era tutta una gran confusione con Kate e la bambina che ho visto prima di svenire. C'ero così vicina, mi sentivo piena di energia e volevo chiamarti, avevo tante idee in testa. C'è qualcosa che riguarda la casa vista dalla signora Fludd, ed è importante per via di ciò che Magnus ha fatto a Kate. In qualche modo l'energia della casa si concentra su di me. La signora Fludd sapeva di essere in pericolo, e mi ha detto che lo sono anch'io. Basta a convincerti che non è tutto frutto della mia immaginazione?" Vi fu un lungo silenzio sulla linea mentre Lily cercava di conciliare il senso di tutte quelle affermazioni. Infine disse: "Cara, la signora Fludd è stata travolta e uccisa da un'auto pirata vicino a casa sua. Sembra che sia scesa dal marciapiede nel traffico di Mile End Road, e la macchina si è dileguata prima che qualcuno si rendesse conto dell'accaduto. È sempre meglio cercare una spiegazione ragionevole e razionale prima... prima di allarmarsi per nulla." "Lo so, ma certe cose non hanno una spiegazione razionale." "Cara, non vi è nulla di soprannaturale in un incidente del genere, per quanto grave sia." "Il male non è razionale, Lily. So che qualcosa mi odia, qualcosa presente in questa casa. Anche la signora Fludd lo sentiva, e mi aveva avvertita. Ero vicina alla spiegazione, la sera che ho letto della Rudge. Con tutti quei pensieri e quelle idee... Sentivo il passato intorno a me. Il passato è in questa casa. Non capisci che sono coinvolta in questa storia, a causa di Kate? È la chiave di tutto." "Be', quanto alla chiave di tutto..." Lily s'interruppe. Aveva promesso a Magnus (ne avevano parlato insieme, con l'autorevole consiglio del medi-
co di Julia) che non avrebbe portato Julia su quell'argomento; se Julia avesse mai dovuto riconoscere la verità sulla morte di Kate, era necessario che ci arrivasse da sola. Concluse quindi la frase dicendo: "Credo che stia nel tuo stato mentale". Si pentì subito di aver scelto quelle parole. "Il mio stato mentale? Grazie tante, Lily." "Non intendevo in quel senso. È la verità, mia cara." "Non posso credere che proprio tu non voglia neppure discutere la possibilità che stiano accadendo cose fuori dell'ordinario. Se la signora Fludd ha visto o sentito qualcosa, com'è stato, tu per prima dovresti crederci. Pensavo che fossi aperta verso fenomeni del genere." "Solo nelle circostanze adatte, Julia. Sai che credo fermamente nel soprannaturale, ma..." "Allora che mi dici di Heather e Olivia Rudge? Lily, non si tratta d'incidenti. Non in questo caso. Questi fenomeni mi hanno colpita per una ragione precisa. Forse ci vuole un fatto casuale per metterli in moto, o forse esiste una sorta di piano. So soltanto che nei giorni scorsi ho studiato parecchio il caso Rudge e sono sicura che è questa la strada da prendere. Ho scoperto dove Heather Rudge è rinchiusa, nella Breadlands Clinic, e le ho scritto per chiederle se potevo incontrarla." "Come ci sei arrivata?" "Era in una vecchia copia del Times. Il mio vicino, Perry Mullineaux, mi ha prestato la tessera per la sezione periodici del British Museum e ho trascorso questi ultimi tre giorni spulciando vecchi giornali. Ricordi quando mi hai detto che mi occorreva qualcosa da fare? Be', me la sono trovata. Sai, qualche volta mi pare quasi di vederle, me le sento intorno, in questa casa, ascolto la musica che ascoltavano loro, a volte ho persino l'impressione quando entro in una stanza, che loro siano appena uscite. Ti ho raccontato dei caloriferi? Continuavo a spegnerli senza averli mai accesi. Lo faceva qualcun altro, pensavo Magnus, ma alla fine l'unica stanza dove capitava era la mia camera da letto, così ho fissato l'interruttore al muro con il nastro adesivo, e il radiatore ancora non si è spento. Ho tagliato i fili, ma è rimasto bollente. E un particolare da poco, capisco, ma prima c'è stata la faccenda della macchia di sangue sul mio vestito che non se ne andava, e anzi continuava ad allargarsi, e ci sono quelle fulminee apparizioni che vedo sempre negli specchi e poi l'acqua, che è diventata stomachevole. Puzza, puzza come sterco, come diarrea ma piena di soldi. A volte ha l'odore di unto dei vecchi centesimi americani. Non faccio un bagno come si deve da una settimana. Poi ci sono i rumori e l'atmosfera della casa. Mi vuole
qui, ma non le piaccio. Lily, perché ho comprato questa casa? Proprio questa? Non credi che abbia il diritto di scoprirlo? Ecco perché la signora Fludd è stata uccisa. E orribile, spaventoso, quella vecchia è stata assassinata per impedirmi di sapere troppo presto. Andrò da Heather Rudge e scoverò tutti coloro che conobbero Olivia. Seguito a vedere le impronte del male nei bambini. Non semplice cattiveria, male vero e proprio. C'è Kate, dietro tutto questo, dopo la morte è diventata perversa e io mi devo impegnare, vedere cosa posso fare. È tanto ingiusto..." "Julia," disse Lily, quando la voce della cognata si spezzò in una serie di singhiozzi, "voglio che ti trasferisca qui da me. Non è bene che tu stia da sola." "Non posso andarmene. Tutto ciò che m'interessa è qui." "Julia, hai bevuto in questi giorni?" "Non molto. Perché? Non importa. Magnus beve." "Voglio che tu venga a stare da me." "Che buffo: tutti vogliono che vada ad abitare da loro. Sono molto popolare nella famiglia Lofting. Non so dirti quanto mi fa sentire desiderata." "Dormi bene la notte?" "Non ho più bisogno di dormire, sono troppo agitata per prender sonno. Forse riposerò un paio d'ore per notte. Faccio sogni incredibili, quasi tutti su quella bambina che ho visto in Holland Park. Simboleggia Kate, immagino. Sembra totalmente priva di qualità positive." "Julia, il senso di colpa non deve..." "Non ho alcun senso di colpa. Li lascio a tuo fratello." Julia tolse la comunicazione. Preoccupata, Lily portò l'innaffiatoio nella sua cucina ultramoderna e lo riempì sotto il rubinetto, poi andò in terrazza e si mise a dare acqua ai fiori che avevano cominciato a soffrire per il lungo mese di siccità, evento quasi eccezionale per un'estate londinese. Ma prima o poi il tempo sarebbe cambiato. Il ricordo più recente che aveva di un così lungo periodo di caldo risaliva a un'estate di oltre vent'anni prima. L'aveva presente perché era l'anno in cui Magnus aveva acquistato la casa in Gayton Road. Allora non era così grasso e le aveva detto che gli piaceva andare ad Hampstead Heath e togliersi la camicia. Un giorno lo aveva incontrato in Gayton Road ed era andata con lui fino all'Heath: in un avvallamento, Magnus si era spogliato della camicia e si era addormentato al sole. Le era parso enorme, maestoso, con quel petto massiccio e la bella testa che si stagliava sul verde brillante dell'erba. L'aveva contemplato per un'ora intera, ammirata di come perfino
nel sonno Magnus sembrasse più forte, più imponente degli altri. Naturalmente era crudele, ma non con lei. - Magnim, - aveva sussurrato, passandogli il dito su un sopracciglio ispido: si chiamava così nel loro linguaggio segreto. Era contenta che avesse delle donne, e ancor più che sembrasse non intenzionato a sposarsi. A quel tempo Lily pensava che nessuna donna fosse tanto pazza da desiderare Magnus come marito. Julia era stata una grossa sorpresa: ingenua e radiosa, con splendidi capelli e modi schivi, in assurdo contrasto con l'aspetto da benestante, era esattamente il tipo che Magnus amava sedurre (fisicamente era più una versione americana di Sonia Mitchell-Mitchie che una Hoxton), ma lontanissima dal genere di donna che lui avrebbe ragionevolmente potuto prendere in moglie. Chissà perché Lily aveva sempre pensato che, se Magnus si fosse sposato, avrebbe scelto una donna più vecchia di lui. "Sarà per i suoi occhi alla Burne-Jones," aveva suggerito Mark. Povero, invidioso Mark: avrebbe voluto qualsiasi donna della quale Magnus reclamasse la proprietà, fosse stata anche una megera. In seguito Lily aveva scoperto l'entità delle sostanze di Julia, e il matrimonio di Magnus le era diventato molto più comprensibile. Tuttavia, solo dopo qualche anno aveva smesso di soffrire. Kate aveva contribuito alla riconciliazione, forse anzi era tutto merito suo, poiché Magnus, pur cambiando pochissimo sotto altri aspetti, aveva rivelato insospettate doti paterne. Aveva riversato su Kate un amore così profondo che Lily non aveva potuto che imitarlo e alla fine lei e Julia erano diventate amiche. Il fatto che sin dall'inizio Julia avesse desiderato quell'amicizia l'aveva favorita, ma forse il cambiamento aveva avuto inizio il giorno in cui, arrivando da lei, Lily aveva trovato Julia che allattava leggendo non un manuale di puericoltura, ma Middlemarch. Julia era troppo giovane e troppo ricca, però aveva buon gusto in fatto di narrativa. Alla fine Lily le aveva passato alcuni suoi libri sull'occulto, raccomandati dal signor Carmen e dalla signorina Pinner, e si era compiaciuta dell'attenzione con cui Julia li aveva letti (anche se aveva apprezzato di più il Roheim e il Mircea Eliade del signor Carmen che non i libri sulla proiezione astrale della signorina Pinner). Poco tempo dopo aveva avuto altri motivi per rallegrarsi di Julia, all'insaputa di questa, giacché aveva acquistato l'appartamento in Plane Tree House in larga misura con il denaro prelevato da Magnus sul conto in comune con la moglie. E sapeva senza bisogno di chiederlo che quasi tutti i costosi doni che riceveva da Magnus erano pagati con i quattrini di Julia. L'essenziale, pensò Lily, era restituire Julia a Magnus, anche se sarebbe-
ro andati perduti i soldi della casa e di ciò che conteneva. Tutt'e due avevano bisogno di leccarsi le ferite. Lily sapeva benissimo di essere a volte gelosa di Magnus semplicemente perché era un uomo, e di Julia perché si era messa tra lei e il fratello come neppure Mark aveva mai fatto. Ma era nell'interesse di tutti che i due si riavvicinassero. La settimana prima Magnus era stato peggio di quanto Lily lo avesse mai visto. Ogni tanto sembrava quasi odiare Julia benché, orgoglioso com'era, non gli occorresse alcuna assistenza soprannaturale per questo, mentre invece voleva disperatamente che tornasse da lui. E Julia aveva molto più bisogno di Magnus che non lui di lei. Aveva un aspetto terribilmente debole e malato; i suoi bellissimi capelli erano diventati opachi e flosci e il viso si era fatto pallido e gonfio. Talvolta sembrava prestare appena orecchio a quello che le si diceva. Si reggeva esclusivamente con la forza dei nervi. Nessuna meraviglia che vedesse bambini diabolici dappertutto o che si abbandonasse a fantasie morbose riguardo a Kate. E adesso c'era l'ossessione del caso Rudge, perfettamente spiegabile alla luce di ciò che Julia si sforzava di reprimere. Lily l'immaginò in sala di lettura a sfogliare disordinatamente vecchi giornali prendendo appunti, simile a un'Ofelia fluttuante in un fiume di carta stampata. Ho un dovere verso Julia e verso me stessa, si disse Lily. Quand'ebbe finito di innaffiare, posò il recipiente in terrazza ed entrò in casa per telefonare a Magnus. Prima di tutto doveva tenere Julia lontana da Mark. A quel ragazzo mancava qualcosa, e il vuoto morale era colmato dal suo astio per Magnus. Lily sapeva che Mark non si sarebbe lasciato sfuggire l'occasione di umiliarlo. Julia, nel suo attuale stato di debolezza e isteria, era più vulnerabile che mai al fascino di Mark. Compose il numero di Gayton Road, ma non rispose nessuno. Provò allo studio, dove la segretaria, che non l'aveva visto in tutta la giornata, riferì che aveva lasciato detto di non aspettarlo. Lily capì al volo e, uno dopo l'altro, chiamò tutti i club che Magnus era solito frequentare e lo trovò finalmente al Marie Lloyd, sicuro presagio di guai. Quand'era al Marie Lloyd, il meno simpatico dei club che bazzicava in tutta la città, attaccava sempre briga con qualcuno. Una volta aveva preso a pugni davanti al locale un camionista che l'aveva sbeffeggiato. Lily doveva valutare attentamente lo stadio di ubriachezza del fratello e regolarsi di conseguenza. Era l'informatrice di Magnus, ma si vedeva anche come sua protettrice. Dalle
prime battute capì che sarebbe stato pericoloso irritarlo, e così omise dalla relazione del suo colloquio con Julia la maggior parte dei riferimenti alle Rudge. "Sì, sta molto meglio," affermò. "Credo che sia svenuta per lo sfinimento e si sia messa a riposo. Ha un progetto sul quale intende lavorare e questo l'aiuterà a occupare il tempo. Pare una faccenda innocua. Magnus, non devi più avvicinarti a quella casa. È una tattica sbagliatissima." "Dov'eri quand'è svenuta? L'hai vista?" Il che significava che Magnus preferiva ignorare il suo consiglio. "L'ha vista una vicina." Non era il momento di comunicargli che pochi minuti dopo era arrivato Mark. "Sono stata avvertita e l'abbiamo aiutata a entrare. Si era chiusa fuori, ma le portefinestre sul retro non erano bloccate e siamo passati di là." "Quelle dannate finestre sono sempre aperte," grugnì Magnus. "Adesso vado da lei e me la porto a casa." "Al tuo posto non lo farei," si affrettò a dire Lily. "Nel suo stato d'animo non farebbe che aggravare la situazione." "Al diavolo." "Senti, perché non vai a casa? Dovresti lasciare che le cose seguano il loro corso per qualche giorno, finché non si sarà schiarita le idee. È ancora molto confusa." "L'ho vista: ha un pessimo aspetto. Ma chi non è confuso?" "Magnus, tra poco dovrà affrontare la realtà di quanto è accaduto a Kate. E spaventosamente ingiusto che addossi la colpa a te, lo so, e capisco il tuo dolore, ma credo che ora la cosa migliore per te sia tornare a casa e magari telefonarle più tardi, e cercare di parlarle con calma. Sono convinta che, alla lunga, sia la tattica migliore." "Ho la sensazione che tu mi nasconda qualcosa, Lily." "No, ti sbagli." "Cosa sarebbe questo progetto?" Magnus ruttò sonoramente. "Cristo, ho bisogno di pisciare. A che progetto lavora?" "Credo che abbia a che fare con la sua nuova casa." "Cristo," ripetè Magnus, e riattaccò senza un saluto. Quando riappese, Julia era ancora euforica. L'alcol non c'entrava quasi per nulla, nonostante le insinuazioni di Lily, perché aveva bevuto solo un whisky allungato nel pomeriggio, al ritorno dalla sezione periodici di Colindale. Tuttavia provava qualcosa di simile all'ebbrezza: la sensazione i-
stintiva, di grande ottimismo, che la soluzione fosse ormai vicina. C'era senz'altro un nesso con le Rudge: loro l'avrebbero aiutata a esorcizzare Kate, a darle finalmente la pace. Come non lo sapeva, ma era sicura che sarebbe avvenuto. In ogni modo non aveva più scelta: doveva per forza scoprire la verità su Olivia Rudge. La lettura delle copie arretrate del Times e dell'Evening Standard l'aveva convinta almeno di una cosa: Olivia era stata una malata di mente. Secondo un ragazzino del suo gruppo, del quale non si faceva il nome, Olivia era "picchiata". Un giornalista l'aveva definita "inquietante". Se Julia fosse riuscita a stabilire la verità sull'assassinio del piccolo Geoffrey Braden, forse questo avrebbe placato Kate. Non ne era prova la straordinaria trasformazione del suo umore da quando aveva letto quelle pagine di Il Reale Distretto di Kensington? Stentava ancora a concentrarsi per ricordare quello che doveva fare il momento successivo, ma le pareva di cavalcare un'onda immensa che la trascinava irresistibilmente con sé. Lasciava bruciare le sue cene, aveva disseminato la casa di tazzine di caffè ancora mezzo piene, ma da quando aveva chiesto a Perry Mullineaux di procurarle quella tessera aveva un importante scopo che la sosteneva e lo stesso Magnus era passato in secondo piano. Che circolasse pure nei paraggi: lui era soltanto nel presente, non aveva alcun legame con ciò che contava realmente. Voltandosi verso il soggiorno e le finestre sul giardino, soddisfatta di come aveva risposto a Lily, Julia rammentò un'idea che le era balenata al termine della sua giornata di ricerche in biblioteca. Prima di parlare con Heather Rudge, come sarebbe di certo accaduto poiché non dubitava di ricevere al più presto sue notizie, avrebbe esaminato le vecchie annate del Tatler. Nel periodo mondano della sua vita era stata sicuramente fotografata per quella rivista. Forse avrebbe trovato anche delle foto dei suoi ricevimenti. Julia ricordò poi una frase che Mark aveva detto comparendo magicamente al suo fianco quando era svenuta. Tornando in sé, si era trovata tra le braccia di Hazel Mullineaux, con Mark che le teneva una mano. Pur intontita e confusa, si era resa conto che la vicina non era insensibile al fascino di Mark e si era sforzata di ristabilire la parità. Mark le aveva stretto più saldamente la mano dicendo a Hazel: "Non ho il piacere di conoscerla ma, visto che è tanto gentile, non potrebbe andare a chiamare la cognata di Julia, Lily Lofting, dall'altra parte del parco?" Le aveva dato l'indirizzo, dicendo che sarebbe rimasto a occuparsi di Julia. Un tantino perplessa, ma lieta di rendersi utile, Hazel era partita.
"Sono stato in gamba, vero?" aveva domandato Mark. "Le donne obbediscono sempre ai tuoi ordini?" "Quasi sempre. Di solito si fanno anche premura di non terrorizzarmi. Credevo che stessi per tener fede ai tuoi occhi luttuosi. Come quella fanciulla di Burne-Jones alla Tate Gallery che mi hai sempre fatto venire in mente." "Occhi luttuosi? Burne-Jones? Ma di chi stai parlando? Mi sento già meglio." Julia si era raddrizzata, quasi completamente rimessa. "La fanciulla di Re Cophetua e la Mendica. Avete gli stessi occhi. Lo notai alcuni anni fa, quando ci conoscemmo. Come mai questo malore?" Gli aveva raccontato della ragazzina bionda al parco, affrettandosi a finire prima che arrivasse Lily. L'episodio era così personale che, almeno per il momento, poteva condividerlo solo con Mark. Julia ficcò qualcosa in borsetta e si precipitò fuori proprio mentre un taxi svoltava l'angolo opposto di Ilchester Place. Quando fu più vicino, lo fermò e disse all'autista: "Alla Tate Gallery, per favore." Meglio così: era troppo sottosopra per mettersi al volante della Rover. Giunta a destinazione, diede al tassista un biglietto da una sterlina e salì in fretta la scalinata di pietra grigia, superando le solite comitive di turisti, quindi oltrepassò i tornelli di entrata. "Mi sa dire dove posso trovare i preraffaelliti?" domandò a un custode. "Cerco un quadro particolare, un Burne-Jones." Avute tutte le informazioni necessarie, Julia scese le scale e finalmente raggiunse la sala indicatale. Individuò immediatamente il quadro. La fanciulla, seduta con un cuscino dietro le spalle, stringeva timidamente in mano un mazzo di fiori; il re, ai suoi piedi, alzava lo sguardo su di lei. Julia assomigliava veramente alla ragazza. Occhi luttuosi. Erano così rotondi, i suoi? E il re? Il re, non fosse stato per la barbetta, era Mark. Restò senza fiato per il piacere. Sostò davanti al quadro per una decina di minuti, quindi, sempre guardandolo, prese posto su una panca e continuò la sua contemplazione. I visitatori entravano e uscivano dalla sala. Quando qualcuno le chiudeva la visuale, Julia si spostava sulla panca. Infine, di nuovo sola, si mise a piangere silenziosamente. Aveva Mark, almeno lui. Erano entrambi vittime di Magnus. La frase di Mark riassumeva la storia insignificante del suo matrimonio. Chissà se piangeva per quei nove anni sprecati oppure per il sollievo, perché Mark le aveva indicato, sia pur vagamente, il modo di lasciarseli alle spalle. Mark, Mark.
Quando entrò l'ondata successiva di visitatori, Julia si asciugò gli occhi, salì le scale e riattraversò le sale per tornare all'ingresso. Uscì al sole, alla luce e al frastuono del traffico, scese la scalinata, passò sull'altro lato della strada e s'incamminò sul lungofiume. Dopo un tratto si fermò e si appoggiò alla balaustra per fissare l'acqua limacciosa. La bassa marea aveva lasciato incagliati tra il fango e la ghiaia degli argini, qualche ciuffo d'erbacce, una gomma di bicicletta, una bambola malridotta e un berretto da bambino. Julia era certa che avrebbe presto ricevuto notizie di Heather Rudge; si sentiva stranamente disincarnata, come se stesse fluttuando nel fiume. Si sorprese ad assumere l'espressione della fanciulla nel quadro di BurneJones. Quella figliola sta crollando, si disse Lily, e se crolla davvero, sarà un guaio per tutti noi. Mentre si asciugava le mani, cercò di ricordare se qualcuno avesse dato una qualsiasi spiegazione della comparsa di Mark accanto a Julia. Era stato invitato? Aveva l'abitudine di andare da lei? La prima ipotesi era meno temibile, ma di poco, della seconda. In ogni caso doveva cercare di far tornare in sé Julia, di strapparla da quello stato d'animo irrazionale. Una cosa era sicura: Julia era uscita troppo presto dall'ospedale. Magnus avrebbe rimediato. La poveretta era fissata su quel sordido affare Rudge, del quale aveva solo un vago ricordo. I giornali se n'erano occupati per diverse settimane, molto tempo addietro. Ora che ci pensava, era successo la stessa estate in cui Magnus aveva acquistato la sua casa. Ma si trattava soltanto di un caso giornalistico privo di qualunque relazione con Julia. Di certo era per effetto del suo confuso stato mentale che Julia si accaniva a studiare la vicenda. Nessuna relazione. A meno che... no, impossibile. Nonostante le insistenze di Julia, coincidenze e incidenti accadono quotidianamente. Bastava pensare a Rosa Fludd per averne la prova. Povera, cara Rosa Fludd. Quella sua odiosa nipote era stata molto villana con Lily, al telefono. Dal soggiorno Lily si spostò in camera da letto, fermandosi a guardare il disegno di Stubbs, dono di Magnus per il suo ultimo compleanno. Forse poteva ancora convincere Julia a dormire nella camera degli ospiti. Doveva, anzi, costringerla. Tutti loro erano stati eccessivamente indulgenti e accomodanti con lei. Nella mente di Lily, Julia era una farfalla che sbatteva contro un vetro: per mantenere intatti i suoi colori, bisognava metterla sotto vetro. Una volta messa Julia al sicuro a Plane Tree House, Magnus sarebbe riuscito a indurla alla ragione. E, a proposito di Magnus, Lily pensò
di interrogarlo in merito alla coincidenza che aveva ricordato un momento prima, tanto per vedere se la sua ipotesi fosse fondata e, in caso positivo, per sapere se Julia poteva giungere a scoprire la verità. Si seccò per la sua ignoranza sui particolari della vita di Magnus. Qual era stata esattamente la sua meta quando un tempo frequentava Ilchester Place? Ma era senz'altro una forzatura immaginare... Con una scrollata di spalle Lily scartò l'idea e si girò verso il suo armadio. Aveva deciso di cambiarsi d'abito. Più sobriamente si vestiva, più sarebbe stata convincente. Passando in rassegna i vestiti, decise per un tailleur di lino blu scuro: aveva otto anni, ma era sempre elegante. Sospirò e cominciò a svestirsi. Indossato il tailleur blu con la camicetta bianco latte che Julia le aveva regalato l'anno prima, Lily aprì il cassetto dei foulard. Ne provò tre prima di sceglierne uno rettangolare di Kermes, a motivi bianchi e rossi, poi controllò l'effetto nello specchio. Il suo abbigliamento era più ricercato del solito: poteva essere un'avvocatessa in pensione o la moglie di un agiato professionista. Ora bisognava pensare a che cosa dire a Julia. Diede un'occhiata all'orologio: era trascorsa mezz'ora da quando aveva parlato con lei al telefono. Doveva essere ancora in casa. Decise di servirsi della storia di Rosa Fludd. Le avrebbe ricordato che la Fludd le aveva consigliato di lasciare quella casa. Era il momento di riprendere saldamente il controllo di sé prima che la situazione le sfuggisse completamente di mano. Non doveva nominare Kate, a meno che Julia non ne parlasse per prima. Era mostruosamente sleale verso il fratello, ma Magnus, ricordò Lily, aveva accettato il consiglio del medico molto più prontamente di lei. Bisognava troncare la fantasia di Julia. Forse era più giusto usare il plurale, considerato che una fantasia ne aveva generato un'altra mezza dozzina. "Le ci vorrebbe una doccia fredda," borbottò, controllando allo specchio che la gonna le cadesse bene. Era pronta. Fuori, nel sole caldo, entrò nel parco. Come tutti i venerdì pomeriggio, Holland Park sembrava più affollato del solito, salvo forse il fine settimana. Lily, curata e con la borsetta che oscillava a ogni passo, attraversò diversi crocchi di giovani. Sfaccendati, per lo più. Studenti. Che cosa poi trovassero il tempo di studiare, era un mistero. Naturalmente c'è quella famosa materia, pensò, vedendo una coppietta che si sbaciucchiava sull'erba. Magnus avrebbe dovuto sposare una della sua età: per un uomo del suo stampo ci voleva una moglie rispettabile. E non un'americana. Nonostante tutte le loro automobili e i loro spazzolini da denti elettrici, gli americani
non capivano un sacco di cose. Ormai Magnus avrebbe dovuto avere il titolo di patrocinante della corona, ma ogni possibilità era svanita quando Julia era diventata la signora Lofting. Era una cara ragazza, niente da dire, e il suo denaro era stato di grande utilità. Ma anche per questo esisteva il rovescio della medaglia. A quanto aveva potuto capire Lily, il vecchio furfante che l'aveva accumulato era stato una specie di filibustiere. Il bisnonno di Julia era stato uno di quegli spietati baroni delle ferrovie della fine dell'Ottocento, a detta di Magnus con le mani sporche di sangue fino al gomito. Il nonno, a quanto pareva, era stato della stessa pasta: per accrescere il suo patrimonio intere foreste erano state abbattute, si erano depredati fiumi, combattute guerre, rovinate società e uccisi uomini. Il denaro di Julia portava la storica macchia del disonore. Lily alzò la testa e, con i tacchi che facevano un rumore ritmato sull'asfalto, si addentrò nel parco. Scendendo una breve rampa di scale tra due aiuole, Lily notò una bambina bionda scattare in piedi da una panchina su cui degli anziani prendevano il sole e correre nella sua direzione. Fatti pochi metri, la bambina si mise a camminare. Che carina quella piccola, pensò Lily, sembrava uscita da un quadro. Assomigliava anche un po' a Kate, almeno di spalle. Poco dopo si accorse che erano i pantaloncini lunghi a darle quell'aria fuori moda: avevano la vita alta e un elastico nella parte superiore, come quelli che i bambini portavano venticinque anni prima. La piccola si era anche lei incamminata verso la casa di Julia. Precedeva Lily saltellando e rallentava ogni volta che la lasciava indietro di più di quindici, venti metri. Poi, quando Lily stava per raggiungerla, ricominciava a correre; quasi fosse stata, osservò Lily, al guinzaglio. Quando furono all'altezza del campo giochi, visibile dalla casa di Julia, la ragazzina si dileguò. Lily si fermò, interdetta. Diede un'occhiata ai bambini che giocavano nella sabbia e vicino agli alberi, ma non vide il balenio di quegli straordinari capelli... gli stessi di Kate. Alla sua sinistra, sull'erba, c'erano soltanto tre bambini piccoli in lacrime, ma della biondina nessuna traccia. Lily scrutò ancora in giro, poi, quando stava per rimettersi in marcia, si raggelò di colpo. Aveva visto il profilo di una donna anziana e corpulenta, seduta su una panchina verde. Era Rosa Fludd. Piuttosto distante, sulla destra di Lily, stava immobile, lo sguardo fisso davanti a sé. Portava lo stesso trasandato soprabito della sera dell'ultima seduta. Lily continuò a fissarla, sentiva un blocco di ghiaccio al posto dello stomaco e le punte delle dita che le formicolavano. Non era in grado di parlare.
Con un violento sforzo di volontà, distolse lo sguardo dalla donna e tornò a guardare i bambini che scavavano nella sabbia. Le loro voci le giungevano chiare e dolci. Girò di scatto la testa verso la panchina: era vuota. Come la bambina, anche Rosa Fludd era scomparsa. Riprese gradatamente a respirare, come se per qualche minuto l'aria fosse stata una massa irrespirabile intorno a lei. Raddrizzò la schiena e si ravviò i capelli sulla nuca. Guardò ancora la panchina: non vi sedeva nessuno. Nessuna signora robusta in grigio. Naturale. Neppure prima c'era. Che strano, pensò Lily, avere un'allucinazione proprio mentre si recava a far entrare un po' di buon senso nella testa di Julia. Una persona meno equilibrata di lei avrebbe condiviso all'istante le fantasticherie di Julia, condannandosi per sempre al distacco dalla realtà. Lily si concesse un sorriso immaginando la reazione della signorina Pinner e della signorina Tooth alla resurrezione della signora Fludd, poi si chiese che cosa avesse visto la Pinner nella stanza da bagno, in quella imbarazzante serata. Per finire, intimò a se stessa di non entrare assolutamente in argomento con Julia. Si trovava nelle condizioni di un prete costretto a frenare l'entusiasmo di un nuovo convertito per i miracoli. Ora si sentiva di nuovo calma, anche se non del tutto. L'esperienza era stata decisamente dégoûtant. Diede un altro sguardo alla panchina vuota, quindi si avviò con passo deciso lungo il sentiero. All'angolo di Ilchester Place Lily si fermò, cercando di dare un ordine alle proprie argomentazioni. Non aveva idee sulle parole da usare, ma sapeva di aver bisogno di qualcosa con cui far leva su Julia, che doveva a tutti i costi abbandonare quella casa. Forse poteva servirsi di Magnus. Ci voleva qualche sottile minaccia. Se avesse buttato là la parola "ospedale" nel tono giusto... Indugiò ancora, assaporando il gusto nuovo del potere e della complicità. Alzò gli occhi alle finestre della camera da letto di Julia. O erano quelle delle camere disabitate? La casa aveva un aspetto d'abbandono: altre fantasticherie pensò, Lily. Quella dannata allucinazione l'aveva scombussolata. Guardò obliquamente attraverso le finestre laterali e costatò che almeno metà del soggiorno era deserto. Dal marciapiede di fronte sarebbe stata in grado di spingere lo sguardo fino al giardino posteriore e, se le tende erano chiuse, non significava forse che Julia era probabilmente in casa? Lily sentì un'inesplicabile riluttanza a dare inizio alla sua crociata. Raggiunse il marciapiede opposto e occhieggiò oltre le due finestre verso il giardino verde e luminoso, rimpicciolito dal gioco dei vetri. Doveva
suonare il campanello. Perché non sapeva decidersi? Una reminiscenza affiorò dall'inconscio: la signora Weatherwax a un cocktail party dell'immediato dopoguerra (all'Albany, ricordò). La signora, un donnone gigantesco, moglie di un ministro, dominatrice incontrastata dalla sua cerchia, era di umore particolarmente nero e aveva occupato un posto a sedere dal quale, con una smorfia di disapprovazione sul viso, sembrava sfidare chiunque ad avvicinarsi. La casa le aveva assurdamente ricordato la signora Weatherwax che trasudava ostilità da un divano a fiori dell'Albany. Quei fiori schiacciati lungo il fianco della casa sembravano davvero stampati su stoffa, o era una sorta di scherzo della vista? Scherzo o no, l'impressione era stata netta e decisa. Stupidaggini, pensò Lily, e scese dal marciapiede. Poi vide comparire la faccia di Magnus nel riquadro di verde sul retro della villa e s'immobilizzò. Subito dopo indietreggiò velocemente e ripercorse il marciapiede fin dove poteva arrivare senza perdere d'occhio le finestre sulla facciata posteriore. Magnus dava strattoni alla maniglia e intanto le sue labbra si muovevano. Mentre Lily osservava sbalordita, lui tirò fuori dal portafogli qualcosa che sembrava un cartoncino e lo insinuò tra i due battenti della finestra. Il suo braccio andò su e giù rapidamente, la finestra si aprì e Magnus entrò in casa. Lily non poté vedere altro. 6 Magnus stava in ascolto nella stanza inondata di sole. In qualche parte della casa vuota un interruttore scattò avviando il ronzio di un motore celato dietro le pareti. Magnus ripose laboriosamente la carta di credito nel portafogli, quindi avanzò di un passo e si fermò ancora, rizzando le orecchie come un animale. Forse il ronzio era dentro la sua testa. Non aveva dormito più di sette o otto ore in tutta la settimana, si era nutrito quasi esclusivamente con whisky, manteneva in circolazione l'adrenalina immaginando di far scenate a Julia. Dormiva nel suo studio, tra un cliente e l'altro, o sulle panchine dei parchi; una volta si era addormentato nell'aiuola del giardino sorvegliando la finestra di Julia. Vedeva se stesso picchiare Julia, fare l'amore con lei, svegliarla un'ora prima dell'alba e parlarle, incalzarla, persuaderla. Come molte persone socievoli, Magnus detestava stare solo, e qualche volta nel corso della settimana, trascorsa tappato in casa passeggiando con la bottiglia in mano, si era rivolto a Julia così seriamente che gli era parso di averla davanti. Due volte l'aveva udita in-
vocare il suo nome, in un momento di pericolo o di dolore e, ubriaco, aveva attraversato la città in macchina per parcheggiare davanti alla casa buia di Ilchester Place. Non sapeva cosa si aspettasse di vedere... o forse sì: Julia che, immobilizzata da Mark, si dibatteva in un ultimo disperato sforzo prima di cedere. Quella scena compariva nei suoi sogni e Magnus balzava a sedere nel letto col cuore in gola. Aveva ripreso a masturbarsi, cosa che non faceva dagli anni dell'adolescenza. C'era una donna a cinque minuti da casa sua, una vecchia cliente che abitava a Hammersmith, e un'altra altrettanto vicina, moglie di un detenuto, ma Magnus si rendeva conto di frequentarle soprattutto perché le intimoriva. Inoltre, rappresentavano solo un'alternativa temporanea a Julia. Senza di lei, non gli servivano. Così si era ridotto a spiare la casa dall'esterno, di notte, pieno di rabbia e frustrazione che il whisky non poteva sedare, senza altri piani che quello di dire a Julia le parole che trovava sempre quando era solo. Al telefono non ce la faceva a controllarsi: lei era sprezzante, insolente, distaccata. Lo mandava su tutte le furie. Il ricordo di quella rabbia e il tono di simulata freddezza di Julia che l'aveva provocata aiutarono Magnus a calmare almeno momentaneamente le sue apprensioni. Che tra tutte le case di Londra Julia avesse scelto proprio quella, era quasi sufficiente a incoraggiarlo a credere agli sproloqui sull'occulto di Lily. Il venticinque di Ilchester Place racchiudeva per lui troppi ricordi frustranti perché potesse accettare con serenità il fatto che ora ci abitava Julia. Nonostante gli anni trascorsi, il passato disgraziatamente si ridestava. Dovrei bruciare questa casa fino alle fondamenta, pensò. L'idea gli infuse nuovo coraggio e si mise a girare per la sala da pranzo, pigliando in mano qualche oggetto e posandolo. Non si sarebbe lasciato spaventare. Era giorno pieno, a differenza delle altre volte in cui era rimasto acquattato fuori a bussare alle finestre prima di cercare il modo di entrare. In quelle occasioni aveva sentito la casa minacciarlo fisicamente... era il solo modo di descrivere la sensazione. Magnus tirò fuori la fiaschetta del cognac e bevve un lungo sorso prima di entrare nel soggiorno. Accorgendosi che aveva cominciato a sudare, si allentò la cravatta e si asciugò la fronte con il fazzoletto. In passato la casa non era mai stata tanto calda, semmai il contrario. Qualcuno aveva installato quegli orribili caloriferi. Il calore era sgradevole, opprimente. Magnus si strappò di dosso la cravatta e la ficcò nella tasca dei calzoni. Chiamò Julia. Quando nessuno rispose, barcollò fino al divano e si ap-
poggiò allo schienale imbottito. Abbaiò ancora il nome di Julia e imprecò quando gli rispose soltanto il ronzio sommesso. Guardando verso la scala, per un momento vide doppio e si costrinse a stare con la schiena eretta. Mise a fuoco le immagini. Naturalmente i mobili erano cambiati. Anni prima la stanza era stata più gaia, con la tappezzeria in raso... ricordava bene? Sembrava raso. Anche le lenzuola di lei erano di raso e di seta. Nel soggiorno c'erano diversi divani a due posti, quadri pieni di luce: il locale appariva molto più grande. Man mano che invecchiamo, tutto si rimpicciolisce, pensò Magnus. Non assomiglia affatto alla stanza in cui venivo anni fa: quella era allegra, frivola, un tantino fatua. E noi giovanotti di vita ci accalcavamo qui. La casa l'aveva attirato perché, all'opposto di Cambridge, vi regnavano la spensieratezza, l'atmosfera di eterno carnevale, la permissività che a quell'epoca gli era parsa tipicamente "americana". Tutto ciò senza trascurare il fascino della padrona. Rivide con la fantasia Heather Rudge varcare la soglia con uno shaker in mano, una Sobranie tra le labbra seducenti. Era questo che voleva impedire a Julia di scoprire e a se stesso di ricordare. Magnus si alzò faticosamente dal divano e mosse in direzione della cucina. Anche là era tutto cambiato: tutto bianco, come in un ospedale. Spalancò vari armadietti: bottiglie di acqua minerale, piatti, bicchieri. Un cassetto di posate nuove. Da una parte, sotto l'acquaio, trovò alcune bottiglie di whisky. Era stato lui a insegnarle ad apprezzarlo. Ne toccò una. La loro presenza era quasi rassicurante. Ormai sarà morta, pensò. Poi la sua mente si appannò e credette di aver pensato a Julia. La paura provata la sera in cui aveva rotto il vaso tornò ad assalirlo. No, era morta l'altra, non Julia. Doveva essere morta nel posto dove l'avevano rinchiusa. Quella donna debole, stupida. Le aveva inviato denaro per anni. Probabilmente altri uomini gliene avevano mandato. Vantava lo stesso diritto su tutti loro. Magnus sbattè l'antina dei liquori, sperando di far saltar via un po' di vernice bianca o di danneggiare la chiusura. Dalla cucina andò nel bagno del pianterreno. Si fermò sulla porta: percepiva una presenza vicina. Guardò negli specchi, rosa. Qualcosa si stava sottraendo fulmineamente alla sua vista. Era sbronzo. Non c'era nulla da temere. Pareva che la testa gli ronzasse all'unisono con una vibrazione remota. Sbirciandosi negli specchi tracannò ancora un po' di cognac. Ed ecco ancora la cosa che spariva. "Maledetta," borbottò Magnus. I capelli folti e grigi gli cadevano sulla fronte, il vestito era macchiato e spiegazzato. Si
ravviò i capelli con le dita. "Tu non esisti," disse ad alta voce. "Va' all'inferno!" Che cosa l'aveva spaventato quella prima sera che era entrato dal giardino? Era stato più sobrio di adesso. In parte aveva sperato di ficcare un po' di buonsenso nella testa confusa di Julia, in parte aveva desiderato di starsene semplicemente seduto nella casa di lei e goderne l'atmosfera. Aveva sollevato il vaso di fiori per annusarli. La casa era un fittissimo intreccio di rumori che non era riuscito a identificare, tuttavia gli era parso di sentire Julia che si muoveva al piano di sopra, parlando da sola. Poi, da principio in sordina, quasi timidamente, poi via via più forte, aveva avvertito la sensazione di essere osservato, come da un piccolo animale. Aveva sentito degli occhi fissi su di sé. La sensazione si era accresciuta, irrazionalmente: il piccolo animale era diventato una tigre, una bestia sinistra, immensa, feroce. Non aveva mai provato un terrore simile, tanta disperazione e paura: si era sentito perduto, senza speranza. Le mani strette intorno al vaso, non aveva avuto il coraggio di voltarsi, sapendo che qualcosa di orripilante era accovacciato alle sue spalle. La morte di Kate. Quel preciso istante sembrava sospeso dietro di lui, sul punto di ingoiarlo. Un dolore tremendo gli aveva attanagliato la testa. Qualcosa si era avventato su di lui, Magnus aveva lasciato il vaso, che si era fracassato a terra con uno spaventoso baccano, e lui era corso fuori, in giardino, senza neppure voltarsi indietro. "Va' all'inferno!" ripetè, e uscì dal bagno per fermarsi ai piedi delle scale. Se Mark era lassù l'avrebbe... l'avrebbe strangolato. Posò il piede sul primo gradino. Di sopra c'era qualcuno. La pelle pareva scottargli. Ridiscese sul tappeto e sentì subito allentarsi la pressione. Anche il ronzio nella sua testa diminuì. Il piano superiore della casa era pieno di rumori. Qualcosa correva, si agitava: per ragioni che gli sfuggivano completamente, quei suoni rappresentavano un terribile pericolo. Tornò a mettere il piede sullo scalino e sentì l'atmosfera addensarglisi intorno. Un cerchio di ferro gli stringeva la testa, i suoi polmoni chiedevano aria. Indietreggiò. La casa lo avviluppava, quasi tangibilmente. Se fosse rimasto, l'avrebbe ucciso. Lo percepì con assoluta certezza. Cercò di estrarre il fazzoletto di tasca e scoprì che le dita erano senza forza. La mano gli tremava. Era diventato incapace di coordinarne i movimenti. Aveva paura di voltare le spalle alla scala. Alla fine raggiunse la porta. Quando si trovò al sole, sul gradino d'ingresso, Magnus vacillò legger-
mente e toccò la fiaschetta in tasca, carezzandola come si vezzeggia un cane. Con la coda dell'occhio scorse qualcuno che lo spiava da dietro i vetri di una finestra e si girò per vedere chi fosse. Il viso di donna, grazioso e liscio, indugiò un istante tra le tende, poi si ritirò. Magnus fece una smorfia. Se avesse visto Julia... l'avrebbe ammazzata di botte. Qualcuno doveva pagare per quella umiliazione. Le avrebbe suonate a chiunque gli si fosse parato davanti. Il giorno successivo Julia viaggiava in direzione sud al volante della sua auto, seguendo le indicazioni datele dal direttore della clinica. La mancanza di sonno la faceva sentire vigile e lucida. Teneva un'andatura sostenuta, ma se ne accorse solo quando lo sguardo le cadde sul cruscotto. Le pareva di non aver mai guidato così bene, con tanta sicurezza. Il suo corpo pilotava automaticamente la piccola macchina, quasi fosse stata un'estensione dei propri nervi. A Guildford l'insegna di un ristorante le fece ricordare di essere affamata. Non mangiava da quando aveva ricevuto la lettera, le due lettere, per l'esattezza: il biglietto scarabocchiato dalla signora Rudge inserito in un foglio scritto a macchina dal direttore. Il biglietto diceva: Julia Lofting, si chiama davvero così e abita nella mia vecchia casa? Ricorda la mia vicenda? Venga pure a trovarmi, se lo desidera. HR Nell'agitazione aveva appena dato una scorsa all'altro biglietto, il cui mittente si dichiarava assai lieto che la signora Rudge ricevesse una visita dopo tanti anni di isolamento, e assicurava che nessun impedimento burocratico l'avrebbe ostacolata. Un tempo c'erano state difficoltà con la stampa che aveva maltrattato "la paziente". Il direttore sarebbe stato inoltre lieto di conoscere la signora Lofting dopo l'incontro con "la paziente". Quel frasario suggeriva l'idea di una scrivania ingombra di carte e di una segretaria indaffarata e dietro a essi, l'odore tipico di ammoniaca degli ospedali. Dopo aver imparato a memoria le istruzioni per raggiungere la Breadlands Clinic, Julia aveva buttato via la lettera. Aveva riletto invece una decina di volte il messaggio di Heather Rudge, cercando tracce della sua personalità nei caratteri disordinati e quasi indecifrabili. Era una calligrafia americana, senza gli svolazzi e gli stacchi usati da quella stessa generazione di inglesi.
Julia aveva trascorso il mattino e il pomeriggio in attesa impaziente dell'incontro con la Rudge: era come un segugio che tira il guinzaglio, cieco a tutto fuorché alla selvaggina intravista dietro il cespuglio. Aveva lasciato squillare il telefono senza rispondere, poi era uscita a passeggiare fino a sera nelle vie sporche di Hammersmith e Chiswick. Dopo le undici si era accorta di essere finita dalle parti di Gunnersbury Park e aveva preso la metropolitana per tornare a Kensington. Neppure i rumori e le forze che si scatenavano in casa erano riusciti a spaventarla; erano il segno che si stava avvicinando davvero a scoprire ciò che guidava la sua vita. Finalmente era in grado di agire. E il poltergeist, lo spirito, era soddisfatto. Era quasi arrivato a mostrarsi. Naturalmente, se era lo spirito di Kate, non avrebbe potuto rivelarsi sino alla fine, su questo non nutriva dubbi. Però il caldo in camera sua era raddoppiato d'intensità e i rumori notturni, passi e fruscii, erano quasi frenetici. A volte udiva due voci, una di donna e una di bambina, bisbigliare in corridoio, oppure frammenti di musica. Magnus era passato in secondo piano. Era solo una forza estranea, minacciosa ma non predominante, uno strumento. Julia provava la sensazione di farsi sempre più vicina a una luce accecante, troppo intensa per lasciare posto alla paura. Doveva stare nel pieno splendore di quella luce, doveva capire tutto, altrimenti la signora Fludd era morta invano. Forse anche la morte di Kate sarebbe stata inutile. Sentì il peso del passato spingerla verso quel nucleo bruciante di luce. Appena fuori del centro di Guildford, Julia vide un ristorante e crampi feroci le torsero ancora lo stomaco. Accostò al marciapiede ed entrò. Passando davanti al banco della tavola calda, afferrò tutto ciò che le capitava a tiro: alla cassa pagò yogurt, patatine fritte, due salsicce, un uovo, pane tostato e caffè. Portò il vassoio a uno dei pochi tavoli liberi della sala e, senza quasi guardarsi intorno, cominciò a trangugiare il cibo. Dopo pochi bocconi la fame sparì, improvvisamente com'era venuta, ma Julia finì ugualmente le salsicce e l'uovo. Poi uscì, lasciando il resto intatto. Mezz'ora dopo scorse la targa d'ottone della Breadlands Clinic e svoltò nel viale lungo e stretto, che correva intorno a un folto d'alberi per terminare davanti a una grande casa grigia. Julia aveva la bocca arida e il cuore che sembrava perdere colpi. Per calmarsi richiamò alla mente le foto di Heather Rudge che aveva visto. Finalmente si sentì pronta ad aprire la portiera e salire i gradini dell'ingresso. L'accolse una donna di una certa età, in camice bianco. "La signora Lofting? La signora Rudge è stata così contenta della sua lettera! Sa che dopo
il dottor Phillips-Smith desidera vederla? Bene. È piuttosto distante, quindi, se mi vuol seguire... La nostra paziente non è più così difficile, ora, ma noi dobbiamo rispettare il regolamento. È naturale, no? Certo che la poveretta ha anche i suoi lati sgradevoli. Continua a rivangare la storia della figlia, come immagino lei sappia. Ha l'aria di aver bisogno di riposo, cara. Vuole aspettare un po' prima di vedere la signora Rudge?" La donna in camice scrutò Julia con occhi vivaci da scoiattolo. "No, non è necessario." L'altra le indirizzò un sorriso professionale e assai poco dolce. "Allora da questa parte, signora Lofting." Percorsero speditamente un corridoio anonimo sul quale si aprivano porte numerate, il tutto di un colore bianco avorio. "Siamo riusciti a spostarla nell'ala E," comunicò l'attempata infermiera. "Ah. E come sta?" "Molto meglio." "Meglio..." Mentre l'altra apriva con la chiave una porta metallica, Julia si voltò e vide in una stanzetta bianca una figura che giaceva immobile sotto un lenzuolo. Accanto al letto si trovava un carrello d'acciaio carico di flaconi e siringhe. Julia si sentì le gambe molli e il cibo le sobbalzò nello stomaco come un gatto infuriato. "Di qui, prego." In fondo al corridoio, un'altra pesante porta metallica. Un omone calvo, con un camice piuttosto sporco, si alzò pesantemente da uno sgabello e andò loro incontro con il grosso ventre ballonzolante. "Vuole andare a chiamare la signora Rudge, Robert? Io accompagno la signora Lofting nella saletta delle visite." Robert annuì e si allontanò a passo lento. L'infermiera fece strada a Julia attraverso un piccolo locale ravvivato da acquerelli. Alcuni vecchi che lavoravano intorno a un tavolo la guardarono a bocca aperta. I loro volti stranamente lisci e inespressivi sembravano spaventati. Uno portava occhiali neri e, senza la luce degli occhi, il suo viso sembrava intagliato nel granito. Perché sono qui? si domandò Julia. È un luogo orribile. Il suo disagio aumentò quando l'infermiera la precedette in altre due sale, le cui pareti dai colori gai erano in stridente contrasto con i pallidi abitatori dagli sguardi attoniti. Visi che fuggivano la realtà... Julia si sentì presa in trappola dalla loro avidità. "Siamo arrivate, cara." La donna svoltò un altro angolo e aprì la porta di
una stanzetta spoglia, con due sedie ai lati opposti di un tavolo verde, di metallo. "Viene subito," soggiunse, additandole una pila di vecchie riviste. Quando l'infermiera se ne fu andata, Julia si accomodò sulla sedia di fronte alla porta. Poco dopo si udirono dei passi. La porta si aprì e Robert si fece da parte per lasciar passare una donna. Il primo pensiero di Julia fu che avesse sbagliato persona. Quell'essere scialbo in grembiule da casa non assomigliava neppure lontanamente alle foto della Heather Rudge intorno alla quarantina, col viso ovale, elegante e voluttuoso. Julia sbirciò Robert, ma questi aveva preso posto sullo sgabello, situato in un angolo del piccolo parlatorio, le dita intrecciate sul ventre e lo sguardo fisso a terra. La donna indugiava ancora sulla soglia. Era identica alle creature sbiadite e sperdute che Julia aveva visto nelle altre stanze. "Come si chiama?" domandò la Rudge, e le sue parole dispersero le prime impressioni di Julia. "Mi scusi..." le rispose, alzandosi. "Ero tanto ansiosa di conoscerla. Lei è Heather Rudge?" "La signora Lofting?" Mi hanno imbrogliato, mi hanno portato un'altra, pensò Julia. "Sì. Mi scusi, ma è una tale emozione conoscerla... Ho comprato la sua casa, sa? Penso a lei, penso molto a lei." La vecchia si avvicinò strascicando i piedi e si sedette dirimpetto a Julia. Sulle gote flaccide le spuntava qualche pelo bianco. "Perché voleva sapere il mio nome?" La donna la guardò di traverso. "Così." Julia si sporse in avanti. "Non so proprio da dove cominciare... Le fa piacere ricevere visite? La trattano bene, qui?" "Si sta male, ma meglio che in prigione. Sono stata in prigione, sa." Julia riconobbe la pronuncia del Midwest. "Non occorre che mi racconti della vita fuori. Ci lasciano leggere, qui." "Oh, avrei dovuto portarle qualcosa, un libro, delle riviste, tascabili. Non ci ho pensato." La donna la fissava ottusa, impassibile. "Sono venuta per parlare di lei." "Non sono più nessuno. Qui però sono al sicuro. Non può succedermi niente, qui." Julia non riusciva a parlare. Infine sbottò: "Anche mia figlia è morta. Abbiamo molte cose in comune, lei e io. Cose importanti."
"Crede che la mia bambina sia morta?" La vecchia le lanciò un'occhiata rapida e scaltra. "Ne sono convinti tutti. Ma non la conoscevano. Olivia non è morta. E perché dovrebbe importarmi di sua figlia, signora Lofting?" "Non è morta? Ma che..." "Niente 'che'. È come dico io. Perché le interessa Olivia? Non è venuta qui per parlare con me?" Diede in un'inaspettata risatina. "Povera sciocca. Non sa dov'è capitata." Il cibo pesante si rimescolò nello stomaco di Julia. "Devo cominciare da principio..." "Prima deve sapere dov'è il principio." "Mi sono successe certe cose e gliene voglio parlare. Ho letto del suo caso su vecchi quotidiani, li ho studiati per giorni interi e credo ci sia una relazione tra le nostre..." "Mi guardi, signora Lofting," la interruppe la vecchia. "Sono io la morta, non Olivia. La signora Lofting. La buona signora Lofting che va a trovare la pazza. Mangi i suoi escrementi, signora Lofting, ci si rotoli, poi capirà che cosa sono diventata." Julia ostinata ritentò. "Forse anch'io posso aiutarla. Parte di lei è prigioniera della mia casa, a volte la sento distintamente. Sono pazza a pensare questo? Perché ha detto di essere al sicuro qui?" L'attenzione della signora Rudge era completamente concentrata su Julia. "Non posso fare nulla per lei, Sua Maestà signora Lofting. Io la disprezzo." Aveva il viso contorto e pareva quasi che sputasse le parole. "Viva nella sua casa. Le parlerò di Olivia, Sua Maestà, anzi Sua Bontà. Olivia era cattiva. Era perversa. Il malvagio non è come gli altri. Non ce ne possiamo sbarazzare. Ottiene vendetta. Vuole vendetta e l'ottiene." "Quale... quale è stata la sua vendetta?" Il silenzio fu meglio degli insulti. "Intende dire che fu Olivia a farle fare quello che ha fatto?" "Ride di me, adesso. E ride anche di lei. La sente, non è così? Lei non sa nulla." Il viso bianco, cascante, contratto intorno alla bocca distorta e agli occhi ridotti a due fessure, sembrava incombere su Julia. "Io ho fatto quello che ho fatto, signora Merda, perché ho visto quello che Olivia era. Mi deve proprio chiedere quale è stata la sua vendetta?" "Signora Rudge," incalzò Julia. "Sua figlia ha davvero commesso il delitto di cui la gente la ritenne colpevole?" "Era peggiore delle sue azioni. La gente comune non può capirlo. Sono felice di essere qui, signora Lofting. Vuol conoscere un segreto?" Il suo vi-
so contorto emanava malignità. "Sì." Julia si protese sul tavolo, nello sforzo di capire le sue parole confuse. "Per lei sarebbe una fortuna essere me." Robert sbuffò dal suo angolo. "Lei è stupida, signora Merda. Almeno quanto noialtri qua dentro." Julia chinò la testa. Gocce di saliva brillavano sulla superficie del tavolo. La stanza sembrava insopportabilmente angusta. Un odore nauseabondo l'avvolse, dandole le vertigini. "Con chi altri posso parlare?" domandò. "Chi la conosceva, signora Rudge?" "Con quella strega della Braden," ringhiò la Rudge. "Parli con quella mangiacrauti. Parli con gli amici di mia figlia. Loro avranno capito." "Come si chiamano?" "Nomi. Minnie Leibrook. Francesca Temple. Paul Winter. Johnny Aycroft. Qualcun altro? David Swift. Freddy Reilly. Aha! Chieda a loro di risolvere i suoi problemi, signora Merda." "Grazie." "Lei è proprio come pensavo. Il suo posto è qui. Stupida donna. E adesso se ne vada." "Ha otto minuti," avvertì Robert dall'angolo. "No, preferirei..." Julia s'interruppe e si alzò. "Stupida, stronza porca. Stupida, maledetta, stronza porca." Julia si proiettò verso la porta, la spalancò. Robert, sorpreso, alzò gli occhi e tese una mano tozza. Julia imboccò di corsa il corridoio e girò un angolo. Quando vide una porta larga, con una luce sopra, la superò e sospinta dalla visione del viso torvo e alterato della signora Rudge e di Robert che l'inseguiva goffamente, fuggì per i corridoi, ritrovandosi in uno stanzone lungo, gremito di uomini e di donne. I loro volti erano molli e grigi, o rigidi e grigi. Quando Julia entrò, tutti si voltarono a guardarla. Lei si fermò un momento, poi, muovendosi con calma, attraversò la sala. Gli uomini erano completamente assenti: fissandola con occhi vacui si fecero in disparte per lasciarla passare, alcuni annaspando nella sua direzione con mani incerte. Uno dall'aspetto cadaverico ridacchiò da sotto la capigliatura arruffata. Julia intravide il tavolo da pingpong, le sedie metalliche disposte in fila. Intorno a lei aleggiavano gli odori della biancheria pulita, della carne malata e dei disinfettanti, come se Heather Rudge le fosse balzata in groppa. Quelle facce... sembrava che
perdessero segatura. Un uomo con nocche grossissime le sfiorò il polso nel tentativo di agguantarlo. Julia si ritrasse bruscamente, e l'uomo gigantesco le sibilò in faccia. Una donna bassa e sfatta, con i capelli giallo oro, gli fece eco. Un uomo con il viso tutto storto da un lato, come fosse appeso a un amo, le si parò davanti e le afferrò i gomiti mentre lei cercava di evitarlo. Julia ebbe la sensazione di annegare in quel carnaio grottesco e puzzolente... Respinse l'uomo con incontrollabile repulsione e corse in fondo alla sala proprio mentre Robert vi entrava all'altra estremità. Era un lungo corridoio semibuio. Dietro di sé Julia sentiva ombre furtive, passi pesanti. Si mise a correre. In fondo al corridoio una rampa di scale scendeva in un altro passaggio più buio, più stretto, col pavimento di pietra. Julia lo percorse correndo fino a metà, nell'oscurità, poi, premendosi le mani sulla milza, raggiunse a passo spedito una porta di legno sbarrata. Tirò i chiavistelli e l'aprì, ansante per lo sforzo. Tre larghi scalini di pietra salivano a un prato, oltre il quale cominciava il bosco. Le tornarono in mente i nomi elencati sprezzantemente da Heather Rudge: Braden, Minnie Leibrook, Francesca Temple, Paul Winter, Johnny Aycroft, David Swift, Freddy Reilly. Guardò il bosco scuro e folto e, ripetendo i nomi, salì i tre gradini. Magnus, ritto accanto alle vasche della sabbia e circondato dai bambini, fissava scioccato le finestre della camera di Julia, incapace di credere ai suoi occhi. Toccò la fiaschetta nella tasca della giacca. Un ragazzino gli sfiorò una gamba e Magnus indietreggiò, sentendo la sabbia scricchiolare sotto le scarpe. Il suo cuore sembrava essersi fermato. A poco a poco i suoni cominciarono a filtrare nel vuoto silenzioso che era calato su di lui come una campana di vetro. Udì le voci acute dei bambini e il rimbombare lontano di un reattore. Una bambina gli si strinse alla gamba sinistra. Magnus aveva attraversato il parco a piedi, dopo aver lasciato alquanto irritato Plane Tree House. Lily era stata più riservata del solito, quasi avesse un segreto. Aveva assunto l'atteggiamento disapprovatore al quale ricorreva spesso quando veniva a sapere qualcosa di riprovevole sul suo conto, ma aveva rifiutato di parlare apertamente della sua presunta trasgressione. Aveva invece sostenuto il diritto di Julia alla propria "vita privata", parlando del suo bisogno di un "incontro leale" con Magnus e delle "necessità di tutti gli interessati", gli occhi scintillanti di acuto, pungente ammonimento. Lui aveva immaginato che tutto questo avesse a che fare con il proprio vizio di bere.
Poi Lily era tornata sulla mancata nomina a patrocinante della Corona. "Per amor del cielo, Lily," era esploso, "te l'ho spiegato cento volte. Se volessi, potrei esserlo. Ma tutto si limiterebbe a raddoppiare i miei onorari e a ridurre a un quarto le pratiche che tratto. Non hai idea di cosa sia un patrocinante della Corona. Per un uomo nella mia posizione sarebbe un tragico sbaglio." "Voglio che il mio illustre fratello diventi patrocinante della Corona." "Cioè vuoi essere la sorella di un patrocinante della Corona, senza neppure sapere che cosa significhi. Assurdo. E poi non c'entra con Julia. Te lo vuoi mettere in testa?" "Magnim..." "Non siamo più bambini." Lily aveva fatto marcia indietro. "Ti occorre qualcuno che si occupi del tuo guardaroba. Sembra che tu abbia dormito col vestito addosso." "Chi ti dice che non sia così?" Quando era uscito da casa di Lily, Magnus aveva mal di testa e un inizio d'indigestione. Aveva camminato cupamente per il parco, irritato dal sole e dai fannulloni sdraiati sull'erba. I giornali prevedevano un cambiamento del tempo per i prossimi giorni, il che faceva al caso suo. Desiderava la pioggia. Voleva nuvole e vento. Infine era arrivato al campo giochi e aveva lasciato il sentiero per andare sull'erba. Poi aveva alzato irosamente gli occhi alla finestra di Julia e aveva visto Kate, la sua nuca bionda che splendeva al di là del vetro. Un attimo dopo era sparita. Ma era Kate. Conosceva il colore dei suoi capelli meglio di quello dei propri. Per un lungo momento aveva smesso di respirare. Si staccò dalla gamba una sorridente negretta di due o tre anni e, boccheggiando fece qualche passo avanti. Aveva lo stomaco in fiamme e una pala di legno al posto della lingua. Non poteva aver visto Kate. Eppure l'aveva vista... con i capelli lucenti come quelli della principessa di una fiaba. Per un secondo Magnus provò una delle più vivide e altruistiche emozioni della sua vita: un'incontenibile paura per l'incolumità di Julia. Le gambe lo portarono fino alla strada che usciva dal parco. Corse pesantemente per un breve tratto di Ilchester Place poi, soffiando, prese a camminare in fretta. Scrutò la facciata inespressiva della casa. Impossibile dire che stesse accadendo all'interno. Il momento della grande paura era superato, ma ancora abbastanza recente per fargli imboccare il vialetto, salire i tre gradini e suonare il campanello. Sentì il trillo spegnersi lontano: la casa era vuota.
Si allontanò dalla porta e fece mezzo giro della casa, spiando all'interno attraverso i vetri. Tutto appariva immoto, sepolcrale, morto. Tempestò di colpi la finestra della cucina finché il bianco sterile della stanza non lo nauseò, poi raggiunse il retro, dove tentò le maniglie delle portefinestre. Erano chiuse a chiave. Si avvicinò ai vetri e, facendosi schermo con le mani, spinse lo sguardo tra le tende accostate. I mobili massicci troneggiavano sul pavimento come usciti da un negozio d'imbalsamatore. Prima di estrarre la carta di credito guardò la casa accanto e vide la vicina dal viso minuto fissarlo inorridita dalla finestra del primo piano. Stava agitando il pugno nella sua direzione quando vide l'uomo alto e magro svoltare l'angolo della villa per dirigersi verso di lui. L'espressione del suo viso, quella del poliziotto che si appresta a strapazzare un vagabondo, mandò fuori dei gangheri Magnus, come l'aspetto in generale dello sconosciuto dai capelli biondi e lunghi, come voleva la moda, la giacca di velluto e il fazzoletto di seta intorno al collo. Quando l'uomo gettò un'occhiata sospettosa al vestito stazzonato e sporco di Magnus, questi si voltò come una furia a pugni chiusi, pronto ad affrontarlo. "Un momento," disse l'uomo biondo. "Ehi, lei, aspetti un momento." Magnus lo squadrò e vide, con la sicurezza che gli derivava da anni di dimestichezza con la psicologia di testi e giurati, una debolezza di fondo sotto l'atteggiamento spavaldo. "Si levi di torno," gl'intimo. L'altro si fermò, esitando, poi gli si avvicinò. "Non so quali intenzioni abbia, amico, ma se non gira al largo da questa casa passerà dei guai. L'ho già vista da queste parti e non mi piace la sua faccia." "Razza d'imbecille! Sparisca e mi lasci in pace. Mi chiamo Lofting e mia moglie abita qui. Non so chi diavolo sia lei e non me ne frega niente. Adesso se ne vada." Sul viso ben curato dello sconosciuto si dipinse un'espressione stupita. "Il mio nome è Mullineaux," rispose, ma se ne pentì all'istante e Magnus, accorgendosene, decise di approfittarne. "Sto nella casa accanto. Ora devo chiederle di andarsene." Magnus appoggiò la fronte al vetro della finestra con un ghigno feroce. "Ha del fegato, per avere la faccia che ha. Devo entrare. Credo che mia moglie sia in pericolo." Si raddrizzò e sorrise all'uomo, già sapendo che, sebbene controvoglia, avebbe dovuto venire alle mani con lui. "Sua moglie non è qui e comunque dubito che potrebbe fare qualcosa per lei, nello stato in cui è." Mullineaux levò un indice ammonitore. "Se sparisce immediatamente, le do la mia parola che, nonostante tutto, non la
denuncerò. Adesso se ne vada." "Adesso se ne vada," gli fece il verso Magnus. "Se ne vada lei, imbecille, perché io entro. Può stare qui a guardarmi, oppure darmi una mano." "Senta..." cominciò l'altro, facendo un passo avanti e posandogli una mano sul braccio. Come in un lampo Magnus, con l'assoluta certezza della sua superiorità fisica, gli sferrò un pugno alla tempia, facendolo vacillare. Il colpo fu debole, perché aveva usato la sinistra, ma Mullineaux si afflosciò a terra. Nello stesso istante, il viso di Mark si affacciò alla mente di Magnus, che digrignò i denti, infuriato, e si avvicinò alla figura che giaceva bocconi sull'erba. Aveva già alzato il piede destro per dargli un calcio alla mandibola quando alzò lo sguardo sulla casa vicina e vide la donna gridare al di là del vetro. "Vieni a portarti via quest'idiota," brontolò, sentendo sbollire la rabbia, e girò attorno alla casa per raggiungere la strada. Aveva lasciato la macchina a Plane Tree House. Kate? Kate? Mentre attraversava irosamente il parco, l'aria estiva infuocata e appena velata di foschia sembrò oscurarsi intorno a lui. 7 Mark si svegliò al buio, con il lenzuolo sudicio attorcigliato ai fianchi. Aveva sognato Julia, una variazione del sogno che faceva regolarmente da tre o quattro anni. Di solito iniziava con lui che entrava in un'aula e prendeva posto in cattedra, per accorgersi subito dopo di non essere minimamente preparato. Non soltanto non aveva una lezione pronta per quella particolare classe, ma non ricordava nemmeno quale materia insegnava. Studenti di vari anni e corsi lo guardavano stupiti e già annoiati: se non trovava qualcosa da dire l'ora, che non aveva la più pallida idea di come riempire, sarebbe andata persa. Era Storia del movimento operaio in Inghilterra, al lunedì, mercoledì e venerdì dalle 9.30 alle 10.20? Nuove tendenze del pensiero socialista, martedì, mercoledì e venerdì, dalle 16 alle 17.25? Si rendeva conto con crescente sgomento di non sapere che giorno fosse. Quella notte, il sogno era arrivato a questo punto, poi Julia si era alzata da una sedia e prendendo dalla borsetta un blocco di appunti, aveva dato inizio a una brillante esposizione sulla London Corresponding Society e il suo segretario, Thomas Hardy. Si era risentito con lei per avergli usurpato la lezione, ma nello stesso tempo aveva ascoltato affascinato il suo iniziale compendio di notizie e l'abbondanza di idee, che esprimevano esat-
tamente ciò che durante l'anno precedente si era sforzato di comunicare a quella classe. Era sicuro che avrebbe ricordato ogni parola di Julia, e che avrebbe inserito i suoi concetti nel primo capitolo del libro che intendeva scrivere, ma tutto era svanito appena sveglio. Invece delle sue idee, rammentava la sua camicetta bianca e la gonna gialla, i capelli morbidamente sciolti sulle spalle... Era la Julia che aveva conosciuto quella prima mattina a casa di Magnus. Aveva un'aria incantata, come una donna che conversasse con le fate, una donna che portava ancora su di sé le ultime meravigliose tracce dell'infanzia. Mark fìssò il soffitto basso della sua stanza e si accorse che il sogno aveva destato in lui una viva eccitazione sessuale. Desiderava intensamente Julia. Non poteva più considerarsi moglie di Magnus dopo la brutale intrusione di lui a casa sua, il pomeriggio precedente. Quel pensiero gli diede energia sufficiente per girarsi sul fianco e premere l'interruttore della luce, vicino al letto. Magnus sembrava finalmente esploso. Sia Lily sia Julia gli avevano descritto l'incidente, consigliandogli di tenersi a distanza da Magnus almeno per il momento. Ma quando mai non se n'era tenuto a distanza? Una delle prime e più vivide impressioni della vita di Mark, era stata che Magnus lo detestasse. Forse sarebbe stato più esatto dire che lo odiava, si corresse, e sorrise. Sempre sorridendo, liberò le gambe dal lenzuolo e si alzò, evitando con cura pile di piatti e le lattine mezzo vuote sparse per la stanza. Aveva cominciato a mangiare a letto l'inverno precedente, quando il letto era il posto più caldo di tutta la casa, e aveva mantenuto l'abitudine. Su una sedia vicino al letto c'era una pila di vestiti e Mark estrasse una camicia e un paio di pantaloni, che infilò facendo molta attenzione con la cerniera dei calzoni. Prelevò un pacchetto di Gauloise e un accendino dal taschino della camicia e si accese una sigaretta, godendo del fumo che gli riempiva la bocca e i polmoni. Poi cercò a tentoni nei pressi del materasso e trovò l'orologio. Erano le undici. Gettò uno sguardo alla scrivania, posta sotto la finestra dall'altra parte della stanza, e immediatamente perdette ogni desiderio sessuale. C'erano la macchina per scrivere, qualche matita in un vasetto, una risma di carta, alcuni fogli di appunti e una dozzina di volumi in due pile: tutto il necessario per iniziare a lavorare al libro. Era lì dall'estate prima, quando aveva rinunciato a insegnare per poter scrivere. L'estate però era trascorsa in una serie di incontri galanti senza storia, fantasticherie, progetti grandiosi che non si erano mai realizzati. Aveva trascorso un'inverosimile quantità di tempo dormendo, come esaurito dall'inattività. Dopo altri tre trimestri d'insegnamento, aveva pensato di potersi finalmente dedi-
care al libro, ma ora non riusciva a guardare la scrivania senza avvertire un allarmato senso di colpa. Adesso era meno sicuro delle proprie idee di quando gli era venuto per la prima volta in mente di scrivere la sua interpretazione dei movimenti sociali delle classi lavoratrici. Ora, quando si costringeva a pensare al libro, tentava di prevedere le recensioni che si sarebbe guadagnato: "Il passo avanti compiuto nel pensiero socialista da questo giovane, brillante professore..." "Questo classico della prassi marxista..." Spense la Gauloise su un piatto e andò in bagno. Tornato nella stanza, Mark scostò le tende sopra la scrivania e fece entrare una pallida versione di luce solare. Sprofondato al disotto del piano stradale, l'appartamentino richiedeva le luci accese a tutte le ore del giorno. Sempre piuttosto buio, quando il cielo era coperto racchiudeva ampie zone di oscurità brunastra. Le finestre, come quella più piccola della cucina, l'unica altra stanza, guardavano su un muro di cemento, che un tempo era stato bianco. Tra poco avrebbe avuto di nuovo mal di testa. Gli era venuto la prima volta circa un mese prima, subito dopo il risveglio. Da allora l'insistente pulsare alle tempie e il senso di oppressione alla sommità del cranio non avevano più smesso di tormentarlo. Quando di notte sognava Julia, la sensazione era più intensa. Quelle cefalee, non decisamente dolorose, avevano influenzato le sue capacità di concentrazione. Anche se fosse riuscito a sedersi alla scrivania, dubitava di essere in grado di scrivere una frase decente. Perdeva continuamente il filo delle conversazioni, scopriva all'improvviso, come nel sogno della lezione, di non sapere che cosa voleva fare di lì a un momento. Diverse volte, per la strada, si era scordato dove stava andando. Si sorprendeva sovente a pensare a Julia e Magnus. Sentendosi lui stesso bambino, solo e sperduto, negli ultimi tempi Mark aveva cominciato a vedere in Julia, che per anni aveva considerato nulla più che una donna di casa dolce e neppure troppo bella, il suo equivalente. Il possesso che Magnus vantava su di lei gli appariva una crudele, lampante ingiustizia. Nessun uomo bastardo e arrogante come Magnus meritava di avere una moglie, tanto meno una moglie sensibile come Julia. E i quattrini di Julia, che lui avrebbe potuto impiegare per assecondare tanti meritevoli scopi, come per esempio la stesura del libro, erano stati sperperati in bevute e cene borghesi, e quasi certamente dirottati nelle tasche di Lily. A volte Mark quasi detestava Julia per aver tollerato tanto a lungo quella grossolana parodia di matrimonio. Il denaro inoltre veniva da quel vecchio pirata di Charles Windsor Freeman, bisnonno di Julia, il classico saccheggiatore e sfruttatore americano: Mark avrebbe potuto usarlo contro la classe cui ap-
partenevano e mondarlo da quella macchia. Era l'ora degli esercizi. Mark si stese sul tappeto che mostrava la trama sotto ciuffi di pelo verde, e, dopo aver fatto il vuoto nella sua mente, sollevò un braccio, quindi l'altro. Tese i muscoli e spinse in su con tutte le sue forze. Ripetè il movimento con le gambe. Si rilassò, assunse la posizione del loto e tentò di toccare il pavimento con la fronte. Sporse la lingua finché gli fece male all'attaccatura. Infine rimase seduto, in attesa. Chiuse gli occhi e scivolò in una piacevole oscurità. Fissò intensamente le tenebre opache, lasciando che prendessero forma intorno a lui. Nessun movimento, nessun pensiero. Era un recipiente da colmare. Dopo dieci minuti il caos dell'appartamentino era svanito, lasciandolo in un universo rotante e pieno di vibrazioni. Era un punto luminoso che danzava nel buio, uno stretto passaggio per lo spirito. Stelle e mondi muovevano intorno a lui come sfere. L'unica lampada accesa era una sfolgorante ruota dorata di coscienza verso la quale lui volava roteando. Respirava e pulsava, fremente di vita e conoscenza. Il suo corpo, da minuscolo che era, divenne immenso. Il suo vorticare abbracciava mondi, galassie. Mark-corpo diventò Mark-essere, che aspirava folate di spirito. Il tempo lo avvolgeva, leggero come polvere. Tutto era sacro. Poteva soffiare via il tempo e frantumare il mondo lasciando solo se stesso, solo luce sacra. Le sue mani coprivano i continenti, senza peso come il ronzio di una mosca. Le sue braccia si alzavano per raggiungere enormi lontananze. Canti senza parole riempivano lo spazio intorno a lui. Una pace incorporea indistinguibile dalla tensione lo illuminava e lo innalzava. Muscoli, uccelli, volo. Era in alto. Ora viaggiava verso uno sciame di particelle splendenti che si fusero mentre superava la grande distanza che lo separava da esse. Bramava quell'unione. Vide dapprima una città d'oro, poi un viso che seppe essere quello di Julia prima ancora di distinguerlo. La stava plasmando dallo spirito. Lo spazio cominciò a ronzare d'energia, a risuonare. Lui si dissolveva in fiamme e candele, in luminosità assoluta. Il volto che vedeva non era quello di Julia, ma di una bella bambina. La luminosità s'intensificò e lo splendore era accecante. Fuori, molto lontano, alla sua sinistra, un taxi strombazzò. Mark cominciò a scendere, a spirale, gli ampi spazi molecolari del suo corpo pervasi dalla pesantezza. Cadde bocconi sul tappeto, le cosce irrigidite. La sua lingua toccò un bioccolo polveroso di capelli. La signora Fludd, seduta accanto a lui sul divano nel soggiorno di Julia, gli disse: "La stanno bloc-
cando". Con un altro forte, assordante colpo di clacson del taxi arrivò il mal di testa, che gli calò sul cranio come un velo di tenebra. "Le sono davvero grata per avermi ricevuto," disse Julia all'amabile e sorridente donna di mezz'età che le aveva aperto la porta della grande casa bianca al 4 di Abbotsbury Close. "È molto importante che le parli, importante per me... Mi ha stupito trovare il suo nome nella guida telefonica. Pensavo che si fosse trasferita, dopo la tragedia. Ricorda che le ho telefonato, signora Braden? Sono Julia Lofting. Mi aveva detto di venire stamane, prima di pranzo..." La donna aprì del tutto la porta e fece entrare Julia in un ingresso buio. Tutto quanto poteva scorgere della casa sembrava marrone scuro. Alla parete di fronte era appeso un gruppo di vecchie fotografìe coperte da uno strato di polvere. "Non ha parlato con me," sussurrò la donna. "La signora Braden è di sopra, in camera sua. L'aspetta. Si tratta di Geoffrey, vero?" L'accento tedesco era quello che Julia aveva udito il giorno prima al telefono, ma la voce della donna era più acuta, argentina. Julia pensò che avrebbe potuto essere la voce di un'ipnotizzatrice. "Non è lei?" Julia lanciò un'occhiata alla scala, che terminava sotto un arco in ombra. "Sono la dama di compagnia della signora Braden," spiegò la donna con voce suadente, carezzevole. "Mi chiamo Huff. Ho conosciuto la signora Braden solo dopo la tragedia. All'inizio venivano in tanti: giornalisti, polizia, gente cattiva che veniva a spiare... i curiosi. Li tenevo lontano da lei. Adesso è da un pezzo che non viene nessuno. La signora desiderava molto vederla." La signora Huff, muovendosi con una rigida efficienza che rammentava la signorina Pinner, e che soltanto allora Julia riconobbe come artrite, aprì una porta alla sua sinistra che dava in un salotto dal forte odore di chiuso. Due poltrone imbottite si fronteggiavano sul tappeto tarmato e, vicino a ognuna di esse, era collocata una pianta lanuginosa. "Aspetti qui finché ritorno. Non ci vorrà molto." "C'è un signor Braden?" domandò Julia. "È morto in guerra," rispose la signora Huff, e uscì. La porta si chiuse con uno scatto alle sue spalle. Julia non voleva occupare una di quelle poltrone; le ricordavano certe piante vischiose che catturano gli insetti e poi li digeriscono. Prese a passeggiare su e giù per la piccola stanza scura, troppo eccitata per osservare i
mobili, che sembravano sospesi nella penombra. Si soffermò davanti a una libreria di legno e guardò i titoli, dai caratteri uniformemente impressi in oro sui larghi dorsi. Poi si accorse che erano tutti in tedesco. Passò le dita sui volumi e le ritirò nere. Se le pulì con un fazzolettino di carta preso dalla borsetta e poi camminò in tondo sul tappeto scuro. Turco, probabilmente. Suo nonno ne aveva uno simile. Avvertì una leggera tensione alla vescica. Dov'era il bagno? Colpa dell'agitazione, senza dubbio: se si fosse distratta, sarebbe passato. Accelerò il passo; se la tensione aumentava, avrebbe dovuto sedersi a gambe accavallate su una di quelle orrende poltrone. Il suo andirivieni la portò davanti a una piccola tela e Julia si fermò, attirata dalla sua apparenza familiare. Non aveva mai visto quel dipinto, ma conosceva un'altra natura morta con tavola inclinata verso l'alto, una pipa e un brandello di giornale. Braque... era un Braque. Lo studiò più da vicino. Doveva essere una riproduzione. Quando però lesse la firma, riconobbe le morbide pennellate in rilievo. La sorpresa le fece dimenticare lo stimolo alla vescica. Si voltò proprio mentre si apriva la porta. La signora Huff la chiamò con un cenno rigido della mano, sorridendo. "La signora Braden la riceve subito. Mi segua, prego." "Quel quadro... non posso credere!" disse Julia. "Venga, prego. Non so nulla di quadri." Julia si affrettò fuori della stanza, spronata dalla voce squillante della dama di compagnia. Quest'ultima le indicò con un sorriso la scala e cominciò a salire. Julia la seguì. Superato l'arco, la signora Huff aprì una porta a metà di un corridoio senza luce. Julia ebbe il tempo di notare file di quadri appesi alle pareti, ma l'oscurità li rendeva indecifrabili. Passò in fretta l'uscio che la Huff le teneva aperto. "Si accomodi, signora Lofting," disse una signora robusta e vestita di nero, alzandosi per accoglierla. "Sono Greta Braden. Ha parlato con me, al telefono. Prenda la poltrona alla sua sinistra. La troverà comoda. Grazie, Huff." La porta si chiuse adagio dietro Julia, che si trovò a fissare un dipinto dalla cui cornice d'oro pendeva un drappeggio scorrevole di velluto rosso, ora raccolto di lato a mostrare una donna nuda e prosperosa la cui pelle sembrava assorbire tutta la luce della stanza. Incredibile: un Rubens. Il resto della camera da letto era caratterizzato dalla stessa atmosfera di eleganza sbiadita che emanava da chi la abitava. La tappezzeria ruvida, un tempo rosso e oro, era coperta da una patina marrone spento. Sul pavimen-
to erano sparsi libri e giornali, molti dei quali ingialliti. Sul logoro copriletto di velluto nero era posato un vassoio con gli avanzi della colazione. Pareva che la polvere si fosse depositata anche nelle pieghe del viso largo e angoloso della signora Braden. I capelli grigi erano induriti dall'unto. Guardandola, Julia dubitò che fosse del tutto sana di mente. "Desidera parlare con me di mio figlio. Perché, signora Lofting?" Julia si sedette sulla poltrona indicatale e sentì i cuscini scivolare sotto il suo peso. Ora aveva davanti agli occhi la fotografia di un bambino occhialuto dall'aria gracile, appesa alla parete sopra l'immenso letto. Vicino, un'altra fotografia ritraeva un uomo alto e magro, in giacca sportiva e pincenez. "Quello era Geoffrey e quell'altro mio marito. Perché s'interessa a me, signora Lofting?" "Due giorni fa ho visto Heather Rudge," disse Julia, e vide l'altra irrigidirsi nel guscio nero e lucido dell'abito. "E stata villana e sconclusionata, ma mi ha suggerito di parlare con lei." Ignorando un cenno secco e sdegnoso della Braden, Julia soggiunse in fretta: "Non lavoro per Heather Rudge, stia tranquilla. Vede, ho comprato da non molto la casa in cui abitava. Mi stavo... mi stavo rimettendo da una lunga malattia. Qualcosa in quella casa mi ha attirato irresistibilmente. Da allora ho cominciato a indagare nel passato della famiglia Rudge e in quello della casa. È stato quasi inevitabile... Voglio scoprire tutto il possibile su di loro. Credo che la verità sulla morte di suo figlio non sia mai venuta a galla, signora. C'è sotto molto di più, ma lei mi prenderebbe per pazza se glielo raccontassi. Devo sapere delle Rudge, questa è la cosa principale". La signora Braden la osservava con occhi acuti. "E poi magari scriverà ciò che ha scoperto?" "Be', non so..." si tenne sul vago Julia, temendo che una risposta sbagliata potesse costarle la fine prematura del colloquio. "Ventiquattro anni fa non avrei parlato con lei, specialmente se avesse menzionato il nome Rudge. Ora molto tempo è passato e io ho aspettato che qualcuno dicesse la verità sulla morte di mio figlio. Molti sono rimasti impuniti. Quando avvenne la tragedia, la polizia non volle darmi ascolto. Ero una straniera, una donna, e mi giudicavano sospettosa, stupida. Mi ignorarono, signora Lofting. La morte di mio figlio non è stata vendicata. Adesso capisce perché l'ho ricevuta?" "Io... credo di sì." "Il mio mondo è in questa stanza. Non esco di casa da vent'anni. Sono
invecchiata qui dentro. Huff è i miei occhi e le mie orecchie. Non m'interesso che della collezione di quadri di mio marito, della sua memoria e di quella di mio figlio. Persino Huff non sa tutto dell'assassinio... non le sembra terribile questa parola, signora Lofting? Sa cos'è l'assassinio? Il più grande delitto contro l'anima, anche l'anima dei vivi. È un delitto eterno." "Sì, me ne rendo conto..." mormorò Julia. "Ma a me occorrono prove. O, più che prove, fatti." "Prove." La donna sputò quella parola come fosse stata carne guasta. "Non mi servono prove. L'uomo che la polizia fece giustiziare era un innocuo vagabondo, un sempliciotto, un bambino anche lui. Gli piaceva chiacchierare con i piccoli. Che prove aveva la polizia quando lo uccise?" "Quindi lei è convinta che fosse innocente?" "Naturalmente! Ascolti quello che sto per dirle: tra me e Geoffrey non c'erano segreti. So cosa gli fecero in quel parco. Quegli altri lo tormentavano ogni giorno. Gli rendevano la vita un inferno perché era sensibile e soffriva d'asma. E perché era in parte tedesco. Lo chiamavano Crauto. Erano cattivi, quei bambini." "Conosceva la signora Rudge?" "Quella! Rideva di me, mi prendeva in giro. La supplicai di aiutarmi, per amore di Geoffrey, ma era cieca e idiota. Non capiva quello che avveniva nella sua stessa casa. Non si rendeva conto di difendere un mostro. Non ho dubbi su ciò che accadde al mio figliolo. La piccola Rudge lo mutilò e poi l'uccise. E gli altri l'aiutarono. Crede che io sia in errore?" Julia sfiorò la manica lucida della signora Braden. "Com'era Olivia? Me la può descrivere?" La risposta distrusse le sue attese. "Era una bambina e basta. L'aspetto non conta. Era simile ad altre centinaia di sue coetanee. Morì poco dopo Geoffrey. Ne sarà certo al corrente." "Sì, lo so, ma per motivi personali devo sapere com'era. Aveva i capelli biondi? Era alta?" "Dettagli banali. Bionda... sì, forse era bionda. Ma guardandola non si sarebbe detto che era malvagia." "È la stessa parola usata da sua madre." La signora Braden sorrise. "Quella stupida. Quella sciocca, rozza, volgare donnetta. No, signora Lofting, non deve perder tempo a indagare sulle vite mal spese delle Rudge. Deve trovare gli altri. Deve obbligarli a confessare." "Sì, devo trovarli," convenne Julia. "Conosco già qualche nome: Minnie
Leibrook, Francesca Temple, Paul Winter..." "E John Aycroft, David Swift, sì. E il ragazzo Reilly. Lei mi sorprende, signora Lofting. Questi sono i bambini che aiutarono Olivia Rudge a uccidere mio figlio. Se vuole prove, parli con loro. Anch'io posso esserle utile in questo senso." Julia la scrutò ansiosa, non sapendo che cosa aspettarsi. "Alcuni di loro sono morti. Nessuno ha fatto fortuna. Come può immaginare, le vite di quelle persone mi interessavano. Mi sono tenuta al corrente, come si suol dire. Posso dirle che il giovane Reilly scomparve in America, il suo paese, dieci anni fa, e non diede più notizie. John Aycroft si uccise quando la sua ditta fallì. Minnie Leibrook morì in un incidente stradale: era ubriaca. Francesca Temple fu molto saggia: si fece suora. Ora vive nel convento delle Ancelle di Maria, che hanno la regola del silenzio, a Edimburgo. Paul Winter diventò militare di carriera, come suo padre, ma venne espulso dal reggimento. Sta in un appartamento a Chelsea. David Swift rovinò il commercio di vini della sua famiglia e perse la moglie in maniera singolare: restò fulminata da una scarica elettrica. Alloggia sopra un pub in Upper Street, a Islington. Vada da questi due uomini, signora Lofting. Se li farà parlare, avrà le prove che cerca." Julia era sbalordita. "Come ha scoperto tutte queste cose?" La signora Braden alzò le spalle, facendo frusciare la stoffa. "I miei occhi e le mie orecchie: Huff. La pago profumatamente. Ora la prego di andarsene, signora Lofting, ma prima voglio darle un consiglio. Sia pignola. E stia attenta." "Be', è naturale che dovresti stare attenta," osservò Mark, quella sera. "Mai sentita un'idea più ridicola. Intendi sul serio andare da quei due e interrogarli su un omicidio avvenuto ventiquattro anni fa? Per il quale è già stato giustiziato un uomo? Da' retta, bevi ancora qualcosa e scordati questa storia. Dio solo sa in quali guai potresti cacciarti." "Bevo ancora se permetti che paghi io. Per favore, Mark." "Se insisti, accetto a malincuore." Mark aveva contato il suo denaro poco prima, alla toilette degli uomini, e sapeva che, dopo l'ultimo giro, era rimasto con sessantatré pence. Doveva venti sterline a un collega e, pagato il debito, del prossimo stipendio della scuola gli sarebbe avanzato appena quanto bastava a pagare l'affitto e mangiare sino alla fine del mese. Tuttavia poteva far aspettare Samuels un altro mese, addirittura fino al secondo trimestre. Sbirciò avidamente Julia che tirava fuori dal borsellino un bi-
glietto da dieci sterline. Con un moto di compiacimento, Mark si rese conto di considerare già suoi i quattrini di Julia. "Molto gentile da parte tua," aggiunse, e prese la banconota. Tornando dal banco con i due bicchieri, posò sul tavolino il resto. "Ti danno fastidio gli spiccioli?" domandò. Lei lo guardò meravigliata. "Perché, hai bisogno di soldi?" "Solo qualcosa per tirare a fine mese. Sono un po' a corto." Julia spinse il denaro verso di lui, gli occhi deliziosamente fissi nei suoi. "Prendili, Mark. Davvero. Ne vuoi degli altri? io ne ho. Non mi importa di averne tanti quando a te non bastano. Sul serio, te ne servono ancora?" "Ne possiamo parlare dopo." Nella luce tenue che illuminava quell'angolo in fondo al pub, Julia aveva un aspetto molto migliore, pensò Mark. Era ancora pallida per la mancanza di sonno, ma più sicura, vibrante, come la Julia di un tempo, prima che Magnus affondasse in lei i suoi artigli. "Ti senti bene, Mark?" gli chiese. "Solo un po' di mal di testa. Va e viene." Mark assunse la sua espressione più tenera, quella che una sua vecchia amica aveva battezzato "la faccia da lupo travestito da pecora". "Secondo me," proseguì, "dovresti lasciar perdere subito tutta questa storia. Non vedo perché prenderti la briga di andare a trovare quei due ruderi. Non capisco la tua preoccupazione per Kate. Kate è ancora tua, tesoro. È parte di te. Non può farti del male. È Magnus che ti ha instillato tutta questa paura. Lo strangolerei per quello che ti sta facendo. Avresti dovuto lasciar andare alla polizia quel Perry come-si-chiama." Il mal di testa era peggiorato un po', ma Mark non lo diede a vedere, mettendo semmai più calore nello sguardo. "Odi Magnus, vero?" domandò Julia, vagamente stupita. "E un bastardo." "Ti vedo come mia unica ancora di salvezza contro di lui. Quella volta che sono svenuta, sei comparso come per incanto. E tu e Lily siete le uniche persone con le quali posso parlare di ciò che mi sta succedendo. Non fosse per la povera signora Fludd, probabilmente non ne potrei parlare per niente. Hai sentito dell'incidente?" Mark annuì, ma una fitta alla testa gli fece roteare intorno il pub. "Me l'ha detto Lily. Peccato. Era uno strano tipo." "Aveva visto qualcosa e sapeva di essere in pericolo. Credo che sia stata uccisa perché non potesse dirmi cos'era. Mark, sarei impazzita se non fosse stato per lei. Devo fare in modo che non sia morta inutilmente." Julia bev-
ve un lungo sorso dal suo bicchiere. "E stata assassinata, ne sono sicura." "Ha attraversato davanti a una macchina, no? Quindi è omicidio colposo, non assassinio." "Ma perché è accaduto? E se si è trattato di un comune incidente, come mai sapeva di essere in pericolo di morte? La signora Fludd ha detto che c'erano un uomo e una bambina. Ho sempre pensato che fossero Magnus e Kate. Sospettavo che lo spirito di Kate frequentasse la mia casa, ma c'è un'altra possibilità. Ovviamente l'uomo è Magnus, questo lo so, perché è un essere totalmente irrazionale, ma la bambina potrebbe essere qualcun altro. La piccola che ho visto al parco. Per questo devo incontrare quei due uomini." Mark si massaggiò le tempie. "Secondo me, tu sbagli. Dovresti scordare tutto." Julia aveva preso un'aria da esaltata che gli urtava i nervi. "Che cosa ti ha detto la signora Fludd quella sera? Mark, devo saperlo. Potrebbe essere utile." "Niente. Non ricordo nemmeno." "Oh!" Julia parve calmarsi. "Davvero? Sforzati, ti prego." "Ho la testa che mi scoppia, sai. Be', credo che mi abbia detto qualcosa come 'la stanno bloccando', e poi che dovevo andarmene da casa tua." "È quello che ha detto a me! Oh, Mark, voleva salvare anche te!" Julia allungò la mano e gli accarezzò i capelli arruffati. Il dolore sembrò scemare. Mark le guardò il viso arrossato e gli occhi lucidi e capì che la sua esaltazione era dovuta in parte al whisky. "Caro Mark," disse Julia. "La tua povera testa..." "Forse cercava di tenermi lontano da te." Questa era stata in effetti la sua impressione. "Questa settimana sono andata alla Tate," continuò lei, sempre carezzandogli la testa. "Ho guardato quel quadro. Il Burne-Jones. Ci sei anche tu. Grazie al cielo ho te." Quando Mark alzò il viso dalle mani vide che Julia piangeva. "Finisci di bere e andiamocene," disse. L'emicrania aveva ripreso le sue solite proporzioni. Erano nello squallore dell'appartamento di Mark, abbracciati. Bilanciandosi con cura per sostenere il peso di Julia senza calpestare un piatto incrostato abbandonato sul pavimento, Mark le accarezzava i capelli lunghi e spettinati. Notò una quantità di doppie punte e dei capelli ispidi sollevati a formare una sorta di confusa aureola. "Mark, non so cosa mi succede," sta-
va dicendo Julia. "A volte ho una tale paura. È come se non fossi più padrona di me. Da quando ho letto del caso Rudge, ne sono come dominata, non penso ad altro. Perché vorrebbe dire che Kate..." La schiena le sussultava per i singhiozzi. "Non parlarne," bisbigliò Mark. Fece scivolare la destra tra loro due e prese a carezzarle il seno. Julia trattenne un attimo il respiro, poi si strinse di più a lui. "Resta con me," disse Mark. "Ho bisogno di te." "Resto," gli mormorò lei Sul collo. A Mark cominciava a dolere la schiena per lo sforzo di sostenerla. Era più pesante di quanto avesse pensato. "Sei l'unico uomo che abbia mai desiderato, a parte Magnus. Ma..." "Ho bisogno di te," ripetè lui. "Sei bella, Julia, bellissima." Le fece fare una mezza giravolta, dando un calcio a un piatto e rovesciando una bottiglia di latte vuota, e, con una certa fatica, l'adagiò sul materasso. "Ti prego, Julia, facciamo l'amore." Si curvò e prese a sbottonarle la camicetta, per poi sfiorarle il ventre con le labbra. Alla luce dell'unica lampada accanto al letto, il viso di Julia appariva rosso e chiazzato. "Non posso," gemette lei. "Puoi fare tutto ciò che vuoi." Le scostò la camicetta dal seno e posò la bocca su un capezzolo. Poi si appoggiò su un fianco e la baciò sulle labbra. Erano calde e piene, e sapevano di frutta. "Mark..." "Ssst..." "Mark, non posso," protestò Julia, ma non si mosse. "Stammi vicino e basta." Lui le abbassò la camicetta sulle spalle, gliela sfilò dalle braccia e la gettò per terra. Si levò rapidamente la camicia, poi le diede un altro lungo bacio. Julia stava inerte, con gli occhi vitrei e assenti nella luce fioca. Dopo essersi slacciato la cintura e tolto le scarpe, Mark si liberò dei pantaloni. "Va bene, mi accontenterò di starti vicino." "Promettilo. Per favore." "Prometto." Mentre Mark finiva di spogliarsi, Julia si tolse con titubanza il resto degli abiti. "La tua casa è un disastro," gli disse, posando la gonna sopra la camicetta. "Toccami." Mark le guidò la mano. "Sei morbido," gli sorrise, vicinissima. "Dolce. Grande, morbido Mark." "Ho ancora mal di testa," confessò lui. "Di solito non mi succede così."
La mano di Julia gli prese il membro con tenerezza esitante. "No, non toglierla di lì." Cominciava a sentirsi eccitato e s'irrigidì. La mano di Julia lo risvegliò del tutto. Le lambì i capezzoli, insinuandole una mano tra le gambe. Il corpo di Julia pareva un'immensa, feconda distesa di calore. "Santo cielo!" esclamò. "Come ti è successo?" Sulle cosce aveva degli enormi lividi. "Entrando dalla finestra una sera che avevo dimenticato la chiave." "Accidenti," commentò Mark. Aveva perso quel briciolo di erezione appena raggiunta. La testa gli pulsava. L'appoggiò sul cuscino, vicino a quella di Julia, e allungò la mano per tirare su il lenzuolo. Toccò un ginocchio caldo, la curva di un polpaccio, poi abbassò gli occhi e vide il lenzuolo aggrovigliato intorno ai loro piedi. Richiuse gli occhi e sentì le dita di Julia calde sulla schiena. Le passò una mano tra le cosce e carezzò un ciuffo di lunghi peli ruvidi. "No," sussurrò Julia, stringendosi improvvisamente a lui. "No. Stiamo solo vicini." Mark non sarebbe stato in grado di fare altro. Gli sembrava di avere la testa grossa il doppio del normale e un vuoto tra le gambe. Spense la lampada e si aggrappò al corpo caldo di Julia, perché lo ancorava alla stanza. La sua testa trovò il seno di lei come guanciale. Tutto gli girava intorno. Cercò di provocare un'erezione con la forza di volontà, ma il cervello non ce la faceva a produrre le immagini necessarie. Il corpo gli dava la sensazione di essere in movimento, in movimento attraverso grandi distanze, verso un grappolo di luci. La voce di Julia lo riportò parzialmente alla realtà, ma non era in grado di concentrarsi neppure su questa. "Continuo a vedere il grottesco ovunque. Hai notato quell'uomo al pub? Aveva un moncherino rosso al posto di una mano, tutto cicatrici e la bocca..." Mark si costrinse a riflettere: non aveva visto alcun uomo con una mano sola al pub. "... una stanza piena di gente senza espressione, flaccida, che voleva prendermi... quella vecchia alla Breadlands, che imprecava..." La voce svanì del tutto. Al mattino Julia se n'era andata, e l'erezione di Mark fu del tutto inutile. Sul cuscino trovò un biglietto: Sei un tesoro. Continuo le mie indagini. Baci. E sotto, un assegno per cento sterline. 8 Lo spirito non gradiva che Julia passasse la notte fuori casa. Rientrata
con l'intenzione di lavarsi e cambiarsi prima di mettersi alla ricerca di Paul Winter e di David Swift, Julia notò con una punta di meraviglia che qualche mobile era stato spostato, le sedie rovesciate e i cuscini lanciati negli angoli del soggiorno. Dal piano di sopra venivano colpi rabbiosi che, sapeva, sarebbero cessati appena avesse messo piede sulla scala. In mezzo al baccano udì una radio che trasmetteva un motivo degli anni Quaranta: anche la musica sarebbe cessata. Il ricordo della strana notte con Mark, che aveva dormito addosso a lei, immobile come fosse stato drogato, si dissolse. Oltre alla tenerezza per Mark, in quelle lunghe ore dopo che gli effetti dell'alcool si erano esauriti, aveva avvertito la profonda consapevolezza di non essere nel posto giusto, dove accadevano le cose importanti. L'incapacità di Mark di fare l'amore era stata un sollievo: lontana dalla sua camera, distolta dalla sua ricerca, aveva desiderato soltanto conforto alla sua desolazione. Tornata a casa, vicino all'origine del mistero, sentiva quella desolazione come il suo elemento familiare, il grigio mare nel quale nuotava. Quello che le accadeva era necessario: era a casa. Andò in cucina e provò ad aprire il rubinetto. Un tubo rumoreggiò nel muro come un gufo intrappolato e una sostanza marrone gelatinosa apparve alla bocca del rubinetto. Julia lo richiuse precipitosamente. "Sei arrabbiata con me," mormorò. Il fracasso di sopra si quietò un istante. Quando ebbe versato in una pentola tre bottiglie di acqua minerale e la ebbe messa a scaldare, andò in soggiorno a raddrizzare sedie e a sistemare cuscini. "Tu non sei Kate," affermò inclinando all'indietro la testa. "Sei Olivia e io lo dimostrerò. Voglio scoprirlo, voglio scoprirlo... Non è per questo che sono qui?" Il lume a forma di brocca volò a terra e si fracassò. "Ti aiuterò," bisbigliò Julia. La temperatura nella casa sembrava salire a ogni parola. "Sei molto potente, ma ti serve il mio aiuto. E io scoprirò, scoprirò tutto. Saprò perché torturi Magnus, e allora sarò libera anch'io." Attese altri colpi al piano superiore, ma la casa sembrava sospesa intorno a lei. "Libererò te e me," ripetè sommessamente Julia. "Tu vuoi che Magnus mi faccia del male, ma io ti libererò. Sono venuta per questo, vero? Avevi bisogno di me. Ti occorreva che vivessi qui." Un pesante quadro piombò sul pavimento e il vetro si ruppe con un rumore secco, come un colpo di pistola. "Non ho paura," affermò Julia, e soggiunse: "Non è necessario che abbia paura finché non avrò saputo." Mentiva, si aspettava da un momento all'al-
tro che le arrivasse qualcosa in testa, ma era una menzogna che conteneva un accenno di verità. La paura non poteva tenerla lontana dalla verità più segreta: la paura era un semplice fatto personale. Dopo essersi lavata, strofinando ascelle e parti intime con una spugna, Julia salì verso il caldo opprimente del primo piano. La porta della sua camera era spalancata. Rumori sembravano trapelare qua e là dalle pareti. Dalla stanza usciva un soffio d'aria calda che le mosse i capelli e le asciugò la pelle al suo ingresso. La vernice del calorifero si era sollevata e scrostata, lasciando chiazze tonde e brunastre simili a piaghe. Julia udì un fruscio di passi nel corridoio, dov'era stata fino a un attimo prima. Le ante dell'armadio erano socchiuse. Si avvicinò e le aprì del tutto, la gola serrata. Alcuni suoi vestiti erano stati strappati dalle grucce e buttati in mezzo alle scarpe. Poi vide la scatola con le bambole. Era stata aperta con violenza e le bambole scagliate in fondo all'armadio. I loro corpi flosci erano lacerati e sventrati. Dai loro petti fuorusciva vecchia lana grigia. Il terrore sommerse di nuovo Julia, che cadde in ginocchio. La sua sicurezza di poco prima svanì e la vista le si appannò. Kate aveva amato quelle bambole, e ora una Kate perversa voleva distruggerle. Per un attimo provò fortissimo il desiderio di essere ancora all'ospedale. Quando si precipitò in bagno, notò per prima cosa che la persona riflessa nello specchio nero, forse lei stessa, appariva disfatta e vecchia, scarmigliata e con gli occhi dilatati dall'orrore. Quindi vide che il grande specchio non tinto sopra il lavabo di marmo era stato imbrattato di sapone. Fissò i segni e le strisciate finché si fusero in una sequela di oscenità. Le tornarono in mente tutti i particolari della notte trascorsa con Mark, insozzati dalle parole scritte sullo specchio. Lo spirito sapeva e la odiava per ciò che aveva fatto. L'ultima parola la colpì come uno schiaffo: ASSASSINA. "Bugiarda" ringhiò Julia, sconvolta. Afferrò il primo oggetto pesante che le capitò sotto mano, un uovo di pietra venato di rosa, levigato fino a sembrare di vetro, e mandò lo specchio in mille pezzi. Il suo cuore cessò di battere. Magnus pareva essere dappertutto intorno a lei, l'avvolgeva in un sudario nero e gelido di inganno. Quella parola accusatrice le bruciava ancora negli occhi. Alcuni minuti dopo trasse un profondo respiro e si mise a raccogliere le schegge dello specchio. Mentre raccattava automaticamente anche i pezzi più piccoli, la sua mente cominciò a lavorare. Era stata lei a scrivere quelle cose? A mutilare le bambole? Per un breve istante fu sicura di sì.
WINTER, CAP. PAUL S. 2B STADIUM ST. SW 10. Entrambi gli uomini figuravano sull'elenco telefonico. Stadium Street si trovava nella parte meridionale di Chelsea, vicino ai quattro moli e al World's End. Julia percorse con la Rover l'animata e pittoresca King's Road da Sloane Square, avanzando a passo d'uomo tra gruppi di giovani dall'abbigliamento eccentrico che passavano da una boutique all'altra, traversò Beaufort Street e si trovò in un altro mondo. La folla vivace e variopinta era sparita, al posto delle boutique e dei ristoranti c'erano muri di fabbriche e le facciate scrostate delle case a miniappartamenti. I pochi negozi di abbigliamento appendevano le loro merci alle tende esterne; vecchie curve con il carrello della spesa arrancavano sui marciapiedi, borbottando tra sé. Svoltando in Cremorne Road, Julia vide con la coda dell'occhio, dal finestrino laterale, un uomo grasso con un soprabito lacero legato in vita da uno spago che cercava di cacciare a viva forza in un sacco di carta un cocker terrorizzato. Lo teneva per la gola e cercava d'infilare nel sacco le zampe del cane che scalciava freneticamente. Assassina, l'accusa vergata col sapone, si riaffacciò alla mente di Julia. La fiancata rosso vivo del furgoncino di un panettiere le chiuse la visuale, e Julia sterzò bruscamente per evitare l'urto. La scritta MOTHER'S PRIDE sgusciò via, la Rover sbandò sulla destra, rimbalzò contro una macchina parcheggiata e tornò in carreggiata. Si levò un coro di clacson e grida, ma Julia pigiò sull'acceleratore e fuggì. Lasciò la macchina nella desolata Stadium Street e subito fiutò l'odore pesante e oleoso del Tamigi, che sembrò appiccicarsi sulle sue dita e sui capelli. Ebbe la sensazione di inspirare ragnatele umide impregnate di odore di pesce. Scrutò la porta più vicina e, sotto gli strati di vernice, lesse il numero 15. Percorse lentamente la fila di povere, minuscole case con le persiane che sbattevano. Sul bordo del marciapiede giaceva la carcassa rugginosa di una bicicletta, simile al cadavere di un insetto mostruoso. 10, 8, 6. Il numero 5 si distingueva appena tra le macchie rosse, blu e gialle di pittura, sulle quali era scritto, a grandi lettere nere: LA RIVOLUZIONE È UN DIRITTO DI TUTTI e HENDRIX. La porta era chiusa con un grosso lucchetto grigio. Julia attraversò la strada e spinse il cancelletto rugginoso del numero due. In cima al vialetto di pietre sconnesse, l'uscio era decorato da una fila di campanelli affiancati dalle targhette. Julia si avvicinò e lesse i nomi che vi erano scarabocchiati: Voynow, una targhetta vuota, Mertz & Polo, Gandee, Moore, Gilette, Johnson. Non compariva alcun Winter e lei non se la sentì di suonare a uno sconosciuto. Indietreggiò un po', incerta
sul da farsi, e vide sul cemento butterato del muro una B lucida e nera sovrastante una freccia. Sollevata, guardò in su e soltanto allora si accorse che il tempo era cambiato. Le nubi si rincorrevano in cielo, oscurando il sole e addensandosi in uno strato di un grigio plumbeo. La B contrassegnava una porticina sul lato posteriore della casa, dalla quale filtrava una musica metallica. Julia bussò. Un istante dopo le aprì un uomo magro in maglione e calzoni neri. La musica, ora più forte, si rivelò un'esecuzione di Ravi Shankar. Julia notò gli zigomi ossuti e sporgenti del padrone di casa, e poi che portava un vistoso parrucchino molto più chiaro dei suoi capelli. "Il capitano Winter?" gli domandò. "Sono secoli che nessuno mi chiama a questo modo. Immagino che lei sia l'indignatissima sorella di Roger. Be', sarà meglio che entri." Una volta dentro, Julia sentì nell'aria un forte aroma d'incenso. "È meglio che le spieghi," disse. "Non sono la persona che crede. Mi chiamo Julia Lofting. Capitano Winter..." "La prego," gemette l'altro. "Mi chiami come vuole, ma non capitano." "Signor Winter." "Paul." "Paul. Grazie." Guardando la faccia sveglia e inequivocabilmente disonesta di Winter, Julia osservò sorpresa che doveva avere più o meno la sua età. Doveva essere sulla trentina quando era stato costretto a lasciare il reggimento, per quanto, osservando la stanza esotica ingombra di cuscini a piccoli disegni persiani, e gli arazzi africani, alternati a riproduzioni di dipinti, e i vivaci tappeti Drusi, non le riuscisse di immaginare Winter nei quadri di un qualsiasi esercito. Si concesse però una costatazione sleale: Winter aveva risolto meglio di Mark il problema di come vivere in un monolocale. Solo che questo tipo di stanza sottintendeva l'esistenza del buio perpetuo al di là della porta: rifiutava la luce del giorno. "Non può essere la sorella di Roger," stabilì il capitano. "Quella non perderebbe tempo ad ammirare la mia piccola collezione di oggetti. Il mio nido le piace?" "Sì, molto." "Quando chiudo la porta mi isolo dal mondo ed esisto solo in quello che mi sono creato io. È la mia oasi, il mio rifugio. E infatti me ne allontano di rado. Qui c'è tutto quello che mi occorre: bellezza, pace, arte, sensazioni raffinate. E poi è un indirizzo di Chelsea, la qual cosa ha la sua importanza, non trova? Non vivrei da nessun'altra parte, eppure ho visitato tutti gli
angoli del mondo. Sa, l'esercito." Si faceva bello davanti a lei e Julia lesse nel suo interlocutore un curioso miscuglio di fallimento e di arroganza: vedeva in se stesso un Oscar Wilde, ma l'assurda vanità del parrucchino lo rendeva patetico. Tra un minuto, previde, avrebbe cominciato a inventare epigrammi. "Naturalmente conoscerà," proseguì Winter "il mio brillante curriculum militare." Gli zigomi sembrarono diventargli più aguzzi. "Acqua passata. Gradisce una sigaretta? Sono turche." "No, grazie. Mi spiace importunarla così, Paul, ma c'è qualcosa del suo passato che m'interessa per ragioni personali." "Oh, Dio!" sospirò lui con fare teatrale. "Il passato non esiste." Ci pensò su un momento, poi si corresse. "Nessun uomo intelligente crede nel passato." La terza versione lo soddisfece di più. "Coloro che credono nel passato sono condannati a viverci." A Julia parve di indovinare un giustificato sospetto negli occhi dell'uomo. "Be', il suo passato ha molto a che vedere con il mio presente," disse. "E difficile da spiegare." Per un attimo rivide davanti a sé le bambole squarciate e le parole accusatrici tracciate col sapone sullo specchio, e sbiancò. "Ehi, ha l'aria di voler svenire!" esclamò Winter, allarmato, e spinse una sedia verso di lei. Quando si fu seduta, andò a piazzarsi su un cuscino. "Che le succede?" "Gli spiriti mi perseguitano," confessò d'un fiato. "Ma, cara," tubò, "si trasformi in attrazione turistica e faccia pagare il biglietto ai visitatori!" Julia sorrise. "Devo intendere che questa sua deliziosa situazione ha qualcosa a che vedere con me?" Lei annuì. "Sì." "Divertente. Domandi pure. Non ho più segreti, io. Sono così come sono, semplicemente, e la gente deve accettarmi o respingermi, perché non vale la pena di nascondere la propria natura interiore. Alla fine la verità personale trionfa. Entrai nell'esercito soltanto perché mio padre lo voleva, e scoprii che era un'autentica palude di ipocrisia. Per questo si liberarono dì me: perché non potevo tollerare le loro assurde pose e restrizioni. Sentivo la necessità di essere me stesso. Un grosso imbarazzo glielo procurò il fatto che io fossi figlio di un generale. Come Rimbaud, no? Il poeta francese. Senta, non starà per caso facendo una qualche indagine, eh? Non potrei sopportarlo. O forse delle ricerche per un libro?"
"No, è una questione personale," ripetè Julia. "Sono rimasta coinvolta in qualcosa nella quale potrebbe essermi d'aiuto, se volesse essere tanto gentile." "Il lato spirituale delle cose mi ha sempre interessato. Sono Vergine con ascendente Ariete." "Voglio chiederle di alcune persone che forse ricorda." "Affascinante." Winter si accomodò meglio sul cuscino. "Faccia tutte le domande che vuole. Sono così contento che non sia la sorella di Roger!" "Non so come cominciare. Ricorda, ehm... Francesca Temple? O Freddy Reilly?" L'uomo battè le palpebre. "Santo cielo, ma è roba di secoli fa! Giocavamo insieme." "Dunque ricorda." Era un'affermazione troppo precisa per Winter, che tentò una precipitosa marcia indietro. "Più o meno. Vagamente... Si rammenta a grandi linee, per così dire. Non si è gli stessi, da bambini. L'infanzia è una bugia che gli adulti si raccontano. L'uomo crea la propria infanzia, non so se mi spiego. Ora vediamo. Francesca Temple. Una ragazzina modesta, con meravigliosi riccioli bruni. Sì, adesso" frullò una mano nell'aria "la vedo. Era una che seguiva. Lei sarebbe stata un buon soldato. Faceva qualunque cosa le si dicesse. Freddy Reilly invece era una pellaccia. Formidabile per i giochi. Non mi dica che è di Freddy Reilly lo spirito che le sta intorno!" Batté le mani senza far rumore e scoprì una fila regolare di denti piccoli e leggermente scoloriti. Julia raccolse tutto il suo coraggio. "Può dirmi niente degli altri? Ricorda per esempio Olivia Rudge?" Winter sgranò gli occhi, poi si mise a giocherellare con la frangia del cuscino. "Non molto bene, purtroppo. Una ragazzetta piuttosto strana, mi pare." Si alzò all'improvviso e raddrizzò la piega dei pantaloni. "Gradisce qualcosa di caldo? Una tazza di tè? Faccio un tè squisito, metà cinese e metà indiano. Eccellente." "No, grazie. Che cosa può dirmi di lei? Di Olivia?" "Penso," disse Winter, "che lei cominci a essere un tantino noiosa." Emanava un'emozione che Julia riconobbe quasi istantaneamente come paura. "Sono sempre stato dell'opinione che l'infanzia è il periodo meno interessante della nostra vita. Credo di non voler rispondere ad altre domande sulla mia." "La prego! Non avrà seccature. Ci sono certe cose che devo assoluta-
mente sapere." L'uomo guardò ostentatamente l'orologio. "Temo di non aver più tempo per questi affascinanti ricordi. Quella donna doveva essere qui alle due e non so dirle che noia sarà. Altro che le sue insignificanti grane." "Signor Winter... Paul... Come morì Geoffrey Braden?" Lo choc fu tale che Winter sbiancò. O forse era vergogna. "Dovrò ritirare l'offerta del tè, cara. Sono costretto a chiederle di volersene cortesemente andare prima che arrivi la mia visitatrice. Non ho neppure sentito la sua ultima domanda. Aveva una giacca?" Le stava spingendo la spalla con la punta delle dita. "Davvero. Sciupa il suo tempo interrogandomi su queste vecchie vicende. Sono sempre andato male in storia." Julia si alzò, riluttante. "Potrebbe magari descrivermi Olivia..." cominciò. "Sono cascato in trappola come un vecchio idiota," si rimproverò Winter, spingendola verso la porta, "ma questo è un argomento che non desidero trattare. Il libro è chiuso, carissima." Julia era ferma fuori della porta e guardava quel viso penosamente contratto sotto la parrucca bionda. Dietro di lui, la musica indiana era divenuta frenetica. "Olivia mi vuole," disse Julia. "Sicuro. Non torni, per piacere. Mi lasci in pace, chiunque lei sia." "Julia Lofting." Ma la porta era già chiusa. Sedevano in terrazza al crepuscolo, e intanto guardavano la pioggia che cadeva fìtta sul parco piegando le foglie e tormentando i cespugli all'esterno dei muri. Quando una raffica di vento spinse le gocce fin sul pavimento della terrazza, lei tirò delicamente al riparo la sua sedia. Lui invece ignorò gli schizzi e si lasciò bagnare le scarpe. Lily notò che erano già incrostate di fango secco e screpolato. L'intera persona di Magnus appariva disfatta e lei provò un attimo di profonda avversione per Julia, che l'aveva ridotto così, e per il fratello, che l'aveva permesso. "Così era proprio quella casa," disse Lily. "Davvero il momento giusto per scoprirlo." "Non sono affari tuoi." "Insomma," scattò lei esasperata, "come pensi che possa aiutarti se mi nascondi le cose? Nascondere equivale a mentire. C'è qualcos'altro di cui mi hai tenuto all'oscuro e che potrebbe riguardare Julia?" "Domanda assurda," brontolò lui fissando torvo la pioggia. "Mi piace
questo tempo. E più inglese del sole a picco." "Quanto sei insopportabile! Ti rendi conto che sta riesumando quella dannata vecchia storia? Credo che non mangi nemmeno più. È convinta che abbia a che fare con Kate. Mi ha detto persino di essere visitata dagli spiriti. Gli spiriti! Nel suo stato, ogni particolare assume proporzioni gigantesche. Magnus, devi dirmi se c'è altro che possa scoprire." "Non so. Cos'ha scoperto?" "Dubito che me lo direbbe." "Ma a quello psicotico di Mark sì." Lily ignorò con tatto la risposta, pur concordando in cuor suo. "Se rivuoi tua moglie, e posso immaginare solo questo come motivo del tuo incredibile comportamento della settimana scorsa, devi dirmi tutto quello che sai, in modo che possa servirmene a tuo beneficio." "Intendi dire che vuoi usare Julia a tuo beneficio." "Fingerò di non aver sentito." Gli lanciò un'occhiata prima di osservare: "Se non vieni via di lì, ti prenderai una polmonite". Con un sospiro, Magnus spinse indietro la sedia. "Esiste ancora un collegamento tra te e quella casa? Sarebbe il colpo di grazia per la salute mentale di Julia. Almeno potremmo chiuderla all'ospedale, dov'è il suo posto." "È questo che vuoi?" Magnus guardò la sorella con genuina meraviglia. "Verrà a casa con me, non in ospedale. No, non credo che esistano collegamenti. È roba di tanti anni fa." "E la figlia? La conoscevi bene?" "Mai vista." "Sicuro?" Magnus trasalì. "Certo che sono sicuro. E adesso piantala con i tuoi interrogatori. C'è rimasto niente da bere?" "Ricordati che per poco il bere non ti costava la galera, Magnus. Il bere e il tuo caratteraccio. Comunque serviti pure, se vuoi." "Non è che lo voglio: ne ho bisogno." Magnus entrò in cucina dalla terrazza e poco dopo tornò con un bicchiere pieno a metà di un liquido ambrato. Lily attese che si sedesse prima di riprendere. "Allora, che cosa hai fatto stavolta? Hai lasciato in giro dei bigliettini?" "Ho buttato all'aria qualche sedia e basta. Capirà che sono stato io." Bevve, visibilmente soddisfatto. "E magari pensi di aver fatto qualcosa di utile. Sono due le cose che
rimpiango: la prima è di averla lasciata fantasticare sulla morte di Kate. Bisogna darle una scrollata, anche brutale, se necessario. Glielo direi in faccia, se fosse qui. L'altra è l'averla presentata alla povera signora Fludd. Le due cose combinate hanno dato il via alle sue storie di fantasmi." "La signora Fludd? Ah, la tua guru." "Prima di morire aveva messo in agitazione Julia con un sacco di oscure allusioni. Rosa aveva il dono, ma non sapeva resistere alla tentazione di impressionare la sua platea. Ed è morta nel momento meno opportuno." Era chiaro che il destino della medium non interessava minimamente Magnus. "Per conto mio, a Julia serve uno psicoterapeuta. Forse anche a me. Non so che mi succede, in questi ultimi tempi. Ho dei vuoti mentali. E visioni. Un giorno ho visto Kate." "Povero tesoro," disse Lily. "Dunque anche tu sostieni che dobbiamo ricoverarla nuovamente in ospedale?" "Può darsi." Magnus le rivolse uno sguardo complice. "Dimmi una cosa," riprese Lily, ora che questo era stabilito. "Che cosa hai provato tornando in quella casa? Vergogna?" "No. Un'emozione più semplice: paura. Ero spaventato a morte. Avevo voglia di ammazzare qualcuno." "Avresti dovuto sposare una donna della tua età." "Una come te, vuoi dire." "Quello che c'è tra noi è una specie di matrimonio," rispose Lily. "Ci capiamo al volo, noi due." Fermo sotto la tenda del negozio di liquori, Mark Berkeley guardava la pioggia che gocciolava dalla grondaia formando una pozza nera e scivolosa che tra poco avrebbe invaso tutta quella parte della strada. Dopo aver incassato l'assegno di Julia e comprato un po' di scatolame, un paio di stivali, una cintura di serpente e le due bottiglie di whisky, aveva ancora in tasca una settantina di sterline. Ricordava di aver deciso di non pagare Samuels fino al trimestre successivo per acquistare gli stivali; ricordava il giro per i negozi e i numerosi tentativi di telefonare a Julia nel pomeriggio, ma non di essere uscito sotto la pioggia per andare al negozio di liquori. Guardò il tombino intasato lungo il marciapiede: il lampione rivelava sulla superficie dell'acqua il mutevole, multicolore disegno di una chiazza d'olio. Cercò di ricostruire il tragitto da casa sua. Aveva le spalle e i capelli fradici di pioggia. Forse, pensò, quei vuoti di memoria erano una conseguenza dei suoi esercizi, ultimamente più efficaci che mai. Temeva forte-
mente che quelle prolungate esperienze ultraterrene lo portassero a un punto pericoloso, ma non era la prova di quanto la vecchia aveva detto sulla sua "ricettività"? Ecco cosa c'era dietro i suoi mal di testa: la dimostrazione di un potere che non sapeva di possedere. Lui era Mark, era straordinario, era fortunato. Una ragazza alta di cui non rammentava il nome gli si fermò accanto. Scosse i capelli e sorrise, e Mark ricordò la forma e il sapore della sua bocca. "Vai a una festa?" gli domandò. "Divertiti." "Che cosa?" "Una festa. Le bottiglie, Mark. Vai a una festa?" Lui fissò le bottiglie nel sacchetto bianco. "Non so dirti dove stavo andando. Me lo sono scordato." Lei lo squadrò insospettita. "Mi sa che prendi qualcosa." "No, no. Faccio meditazione. Un paio d'ore al giorno." "Be', adesso è troppo tardi per meditare," affermò decisa la ragazza. Come si chiamava? "Vuoi venire a casa mia? Potremmo organizzare una festicciola per noi." Allora ricordò: Annis. Una delle ragazze dell'estate scorsa. Guardò i suoi grandi occhi neri, vogliosi, i suoi capelli nei quali luccicavano gocce di pioggia e avvertì una fitta di interesse sessuale, poi il viso di Julia si sovrappose a quello di Annis. La mente di Mark parve vacillare. "Stasera non posso. Devo vedere una persona." "Be', va' a farti fottere, allora!" esclamò gaiamente Annis, e corse via sotto la pioggia. SWIFT, DAVID N. 337 UPPER STREET N1. Julia si agitò irrequieta sul sedile accanto al posto di guida della Rover, cercando di trovare una posizione comoda senza perder d'occhio la porta immediatamente vicina al Belli e Dannati. Si era già sforzata di ingannare il tempo tentando di ricordare quanti pub di Londra prendessero il nome da titoli di romanzi, ma le era venuto in mente solo il Mare Crudele di Hampstead, nel quale Lily era entrata una volta, definendolo poi puerile, come il libro. Julia era arrivata all'indirizzo di Swift alle otto, poi aveva girato in macchina per Islington fino alle nove e, non trovandolo per la seconda volta, aveva guidato d'impulso fino in Gayton Road, dove tutte le luci accese e le tende aperte rivelavano le stanze vuote. Quindi era tornata ad attendere il rientro di Swift. Erano le undici passate e la schiena cominciava a dolerle. Di tanto in tanto
batteva i piedi sul pavimento della macchina perché le gambe non le si addormentassero. Quando un uomo in soprabito logoro e berretto di tweed indugiò davanti alla porta attigua al pub, Julia mise in funzione il tergicristalli e si sporse ansiosamente in avanti. L'uomo girò le spalle alla strada. Trattenendo il fiato, Julia attese che aprisse la porta. Ma lo sconosciuto si limitò a incassare la testa tra le spalle per proteggersi dalla pioggia e si piazzò a gambe larghe vicino all'uscio. Julia capì finalmente ciò che stava facendo e voltò la testa, esasperata. Un gruppo passò davanti al pub e, camminando senza fretta, raggiunse il Wimpy Bar, in fondo all'isolato. Alle undici e un quarto dal pub uscì una compagnia di ragazzi che sostarono al riparo della piccola tenda, un po' dentro e un po' fuori della pioggia, spintonandosi con le mani sprofondate delle giacche. Nascondevano la porta di Swift, e Julia gemette, pregando in cuor suo che si disperdessero e se ne andassero a casa. Altri giovani uscirono dal pub. Se Swift fosse arrivato in quel momento, le sarebbe facilmente sfuggito. "Per favore," bisbigliò Julia. David Swift era la sua ultima speranza. Mentre li osservava, uno di loro cominciò a gridare. Un amico lo prese per un braccio, ma l'altro lo respinse con violenza, mandandolo a gambe all'aria sulla strada. Metà del gruppo sparì in un batter d'occhio. Un terzo ragazzo girò intorno al primo, che seguitava a sbraitare, e un attimo dopo si stavano azzuffando. Julia li guardò scivolare sul marciapiede bagnato, afferrandosi i polsi e le spalle prima di separarsi per prendersi ancora a pugni. Intorno a loro la strada, a parte il ticchettio della pioggia, si era fatta silenziosa. Uno dei due, Julia non capì bene chi, mollò un colpo poderoso in faccia all'altro, che si afflosciò come un sacco vuoto. L'avversario gli sferrò un calcio terribile, poi un altro. Julia, inorridita, si tappò la bocca con la mano. L'aggressore sollevò l'altro dal marciapiede e ricominciò a colpirlo al viso, ripetutamente. È come Magnus, pensò Julia e, disperata, accese i fari. Quello ancora in piedi girò per un attimo la testa nel fascio di luce, dando modo a Julia di vedere un mento barbuto e un naso prominente, poi voltò la faccia sanguinante e scappò zoppicando per Upper Street. La sua vittima giaceva sul marciapiede con i vestiti zuppi di pioggia. Tutti gli altri si erano dileguati. Sotto gli occhi di Julia, il corpo dell'uomo ebbe un fremito, poi cominciò a strisciare a terra come un cinghiale ferito. Raggiunto il muro si tirò su a sedere: aveva la faccia rossa di sangue. Julia aprì la portiera e si sporse fuori. Bisognava chiamare un'ambulanza. Cercò con lo sguardo una cabina telefonica, ma la pioggia le offuscava
la vista. Passò una mano sugli occhi e scorse, a una certa distanza, una cabina rossa di fronte a un cinema con le luci spente. Attraversò la strada deserta e corse in quella direzione. Incrociò un uomo robusto, senza soprabito, con una borsa scura da cui veniva un rumore di vetri, ma non lo notò finché non fu dentro la cabina. Fu allora che, guardando attraverso i vetri rigati di pioggia, vide l'uomo posare la borsa davanti alla porta di Swift e cavare di tasca una chiave. Restò un momento nella cabina, incerta sul da farsi, poi riappese il ricevitore proprio mentre l'uomo scompariva all'interno dell'abitazione. Ripercorse Upper Street fino al pub. Il ferito era accovacciato sul marciapiede, con i gomiti appoggiati nel proprio sangue. Emetteva lamenti da ubriaco. Julia premette parecchie volte, in rapida successione, il campanello di Swift, poi non staccò più il dito. L'uomo addossato al muro rotolò su un fianco, premendosi le mani sul viso. Passi pesanti discesero una scala. Quando la porta si spalancò, Julia vide la sagoma massiccia di un uomo nella penombra di un minuscolo ingresso. In cima alla scala, un'unica lampadina illuminava il pianerottolo. "Il signor Swift?" domandò Julia. "Sono io." Le arrivò in viso un'acre zaffata di whisky. "Che c'è?" Il suo accento da ceto medio-alto sorprese e confortò Julia. Era l'accento di Magnus e dei suoi amici, lo stesso che Mark aveva coscientemente rinnegato. "Devo parlarle. E c'è anche stata una rissa. Quell'uomo è ferito. Bisogna chiamare un'ambulanza." "Io non mi occupo degli ubriachi." Swift si affacciò alla porta, e la luce rossastra del pub rivelò un viso roseo, largo, e capelli corti e ricciuti. La giacca era unta e lisa. "Per me può anche crepare. Diceva che voleva parlarmi?" La squadrò con occhio ammirato, e Julia annuì. "Va bene. Venga nella mia tana." Appena entrata Julia respirò ancora l'odore pungente del whisky, e si ripromise di chiamare l'ambulanza nonostante Swift. Quest'ultimo stava già salendo, con passo leggermente malfermo, la scala. "Venga, venga," la invitò. La fece entrare in un misero salottino con la tappezzeria gialla piena di macchie, un tappeto verde logoro come quello di Mark, mobili sgangherati sicuramente di seconda o terza mano, simili a quelli del suo appartamentino di Camden Town, anni addietro. Swift, davanti a un tavolino, tirò fuori alcune bottiglie dalla borsa e, borbottando, ruppe il sigillo di una. "Beve?"
"Posso?" "Se gliel'ho offerto..." "Allora sì, grazie." Swift prese due bicchieri da uno scaffale e li riempì quasi fino all'orlo. Ne diede uno a Julia, che vide, sopra il livello del liquore, ditate, chiazze d'acqua, tracce di unto. Lo posò sul tavolino. "Potrei telefonare, prima? Quell'uomo per strada..." "No," disse Swift. Visto alla luce della lampada, il suo viso appariva pieno di macchioline rosse, come fosse stato sfregato con una spazzola. "Che vada al diavolo. Che cosa voleva? E chi è lei, prima di tutto? Un avvocato?" Julia si avvicinò a una sedia dall'aria non precisamente solida e si sedette, asciugandosi con la mano il viso ancora bagnato di pioggia. "Mi chiamo Julia Lofting e non sono un avvocato. Sono interessata a... sono coinvolta in una certa faccenda per la quale mi occorre il suo aiuto." "Non mi dica che si tratta di affari," sbuffò Swift. Era ancora in piedi e teneva il bicchiere con una mano e la bottiglia con l'altra. "Temo che la Swift e Soci non esista più. Tre generazioni di prosperità finiscono col rottame che vede davanti a sé. Vuole un tovagliolino?" Tracannò una sorsata di whisky scuotendo la testa. "Be', non stia lì tutta confusa, smarrita e sexy." "Si tratta della sua infanzia," disse in fretta Julia. "Devo sapere alcune cose accadute allora. Le prometto che non riferirò nulla di quanto mi dirà. Il mio è un interesse esclusivamente personale." Non gli dico che credo di essere perseguitata dagli spiriti, decise, altrimenti mi butta fuori. Doveva evitare gli errori in cui era incorsa con Winter. "Non sono una scrittrice né niente del genere, e non sono della polizia." Swift levò gli occhi al cielo. "Sarà meglio che mi sieda." Traballò fino al divano e, sempre con bottiglia e bicchiere, si lasciò cadere di fronte a Julia. "La mia infanzia. Immagino di averne avuta una. Che diavolo vuol sapere della mia infanzia?" Julia congiunse le dita, abbassò lo sguardo sul tappeto, poi lo levò su Swift. Aveva una faccia liscia, da persona agiata, con gli occhi leggermente sporgenti. Non era difficile immaginarlo vestito elegantemente, mentre dava ordini a un esercito di segretarie. Il fatto che non le piacesse rendeva per un certo verso più facile il colloquio. "Abito in Ilchester Place al venticinque," cominciò. "È la vecchia casa di Olivia Rudge. Voglio scoprire tutto quello che la riguarda."
Swift la fissò stranito. Chinò bruscamente la testa sul bicchiere, ma non fece l'atto di sbatterla fuori. "Dio," mormorò, "quella piccola megera. È morta da più di vent'anni." Fissò il liquore, evidentemente deciso a non fornire altre informazioni. "Oggi pomeriggio ho parlato con Paul Winter." Swift s'illuminò. "Quel finocchio! Scommetto che non le ha detto niente." "Lei è l'unico rimasto. Il giovane Aycroft si è ucciso e Minnie Leibrook è morta in un incidente. Uno di voi è scomparso in America. Un'altra ragazza è in convento. E Paul Winter mi ha messo fuori." L'uomo sogghignò. "Suppongo che non gli andasse l'idea di avere una donna in casa. A me invece fa un gran piacere, creda. Probabilmente aspettava uno dei suoi amichetti. È per questo che l'hanno cacciato dal reggimento. Si era innamorato del suo autista, ma non era corrisposto. Paulie si fece un po' troppo ardito, l'autista scatenò un pandemonio e Paulie venne cancellato dai ranghi come una macchia sul tappeto. Bum. Chiuso." Bevve un altro sorso e ripetè: "Chiuso. Il figlio del generale cadde in disgrazia. Quanto ad Aycroft, si ammazzò quando scoprirono che sottraeva quattrini alla sua ditta. Scusi, banca. La sua banca. Tanti saluti, Aycroft. E Minnie Leibrook..." S'interruppe. "Perché poi vuol sapere tutte queste cose? Abita nella vecchia casa Rudge. Congratulazioni. Ma io che c'entro?" "È una questione personale. Voglio solo sapere di Olivia." "Ne è rimasta affascinata, ho capito." Swift si riempì ancora il bicchiere. "Ha gettato uno sguardo nella sua breve e odiosa vita, e si è invaghita di lei. Come posso essere sicuro che non userà contro di me le notizie che le fornirò?" "Le do la mia parola." Poi Julia ebbe una improvvisa ispirazione. Frugò nella borsa, prese due biglietti da dieci sterline e li depose sul tavolino. Gli occhi di Swift luccicarono. Julia aggiunse un'altra banconota. Il cuore le batteva forte. "Le pagherò le sue informazioni." Swift arraffò il danaro. "Bene, bene. Non capita tutti i giorni che una donna come lei arrivi qui a offrirmi dei soldi." La sbirciò con occhi cupidi. "Parlerò con lei se si siede vicino a me." Julia esitò, poi girò intorno al tavolino e si avvicinò al divano. Prese posto accanto a lui, circospetta. "E adesso beva," disse Swift. "È rimasta indietro." Julia accostò le labbra al bicchiere sporco. "Ancora." Lei obbedì. "Mi racconti di Olivia, la prego." Lasciò che Swift le posasse la mano sul ginocchio.
"Una volta conosciutala, era impossibile dimenticarla. Era cattiva nel vero senso della parola. Era la sua caratteristica più saliente, e anche il motivo per cui tutti noi, i ragazzini di cui ha sentito parlare, la seguivamo. Avevamo fondato un club. Vuol sapere qual era il regolamento?" Le strinse il ginocchio e Julia assentì. "Ancora un goccio." Le versò dell'altro whisky, e lei lo sorseggiò. "La prima regola voleva che si uccidesse un animale. Aycroft ammazzò il suo cane. Lo portò a Olivia, lei lo sventrò col suo coltello e fece bere ad Aycroft un po' di sangue. Fu una bella cerimonia. Toccò a tutti, a uno a uno. Io portai il gatto di un vicino. Solito rituale idiota, ma io fui furbo e bagnai appena la punta della lingua nel sangue. Dovevamo appiccare incendi, bruciare una casa o una baracca, qualcosa del genere, insomma. Agivamo insieme. Lei stava a guardare e ci dava istruzioni." "E lo faceste?" "Ci provammo. Lei rubò non so dove un fusto di benzina e inondammo il portico di una casa di legno dietro High Street. Quell'accidenti non voleva prendere fuoco. Olivia era furente, sembrava proprio una strega inviperita, e forse lo era davvero, una strega. Pensavamo tutti che lo fosse. Comunque riuscimmo a bruciare buona parte del portico, ma i vigili del fuoco arrivarono in tempo per salvare il resto. Poi dovevamo rubare e consegnare a Olivia la refurtiva. Dovevamo vederla tutti i giorni e stare con lei tutto il giorno durante le vacanze. Eravamo tutti infatuati di lei, credo perfino le ragazze, e la temevamo. Sapevamo che non aveva paura di nulla. Con i suoi giochi osceni ci insegnò tutto sul sesso. Se non si faceva quello che voleva, andava a spifferare tutto ai genitori. L'aveva sempre vinta. Se uno di noi l'avesse denunciata a un adulto, l'avrebbe certamente ucciso." "Non ne dubito," mormorò Julia. "Sarebbe stata capacissima di farlo. Era perfida. Si fece leccare dalla piccola Temple, che le obbediva ciecamente. Leccare, capisce?" Swift carezzò il ginocchio di Julia. "Era più forte di tutti noi messi insieme." "E uccise Geoffrey Braden," soggiunse Julia a bassa voce. La stretta sul suo ginocchio si accentuò prima di allentarsi. "Un uomo fu giudicato colpevole e condannato a morte." "Un innocuo vagabondo," ribattè Julia. "Amava i bambini e aveva l'abitudine di chiacchierare con loro. Lei sa che non era colpevole." Swift girò verso Julia la faccia rosea e svuotò il bicchiere. "E stata stupida a darmi quei quattrini. Proprio stupida. Nessuno ha pensato a Geoffrey Braden in venticinque anni. Nessuno farà più nulla, adesso." "Non è per questo che devo sapere."
"Non mi importa," mormorò Swift, e Julia si sentì mancare il cuore. "Gliel'avrei detto comunque. Non era necessario che mi pagasse. Io sono innocente. Non ho fatto nulla." "Guardò soltanto," azzardò Julia. Sentiva il sangue pulsare nel collo. Swift sorrise. "Già, guardai soltanto." "Quindi fu lei a ucciderlo," sussurrò Julia. "Naturalmente." Lo sguardo di Swift era trionfante. "Gli mise un cuscino sulla faccia. Aveva già tentato due volte prima, ma un sorvegliante aveva sentito le grida di Geoffrey ed era intervenuto. Olivia fece appena in tempo a nascondere il cuscino. Un pomeriggio, poi, ci riuscì. Tre dei più grandicelli lo tennero fermo e gli cacciarono della roba in bocca, poi Olivia gli appoggiò il cuscino sulla faccia e ci si sedette sopra. Era ciò che aveva sempre sognato: uccidere qualcuno. Glielo si leggeva in faccia, che non desiderava altro. Scommetto che quel giorno ebbe un orgasmo." "Che aspetto aveva? Era bionda?" "Biondissima. Una tinta che sembrava artificiale, tanto era chiara. Erano i più bei capelli che abbia mai visto. E che visetto dolce aveva. Era incantevole. A volte mi chiedo come sarebbe se vivesse ancora... Avrebbe rivoltato il mondo, ne sono sicuro." La mano di Swift scivolò su per la gamba di Julia. "Mi piace parlarne, sa? Se non fossi ubriaco, probabilmente la sbatterei fuori, ma mi piace star qui a raccontare. Era divertente. Ci faceva sentire tutti soldati in guerra." "Quel dente," disse Julia. "Non aveva..." "Come fa a saperlo? Il primo giorno che cercò di far fuori il piccolo Braden, lui le diede una testata sulla bocca e le spezzò un incisivo. Dopo quel fatto non ebbe più la minima speranza di cavarsela. Olivia doveva ammazzarlo. Veramente non aveva speranze fin dal principio, il poverino. Sa cosa accadde poi? Con Paulie, il suo amico finocchio?" Ora le stringeva la coscia, da sotto, e lei gli mise una mano sul polso. Era bollente. Julia scosse la testa. "Paulie era gay già allora. A Olivia piaceva. Gli fece mordere Geoffrey dopo che era morto." "Mordere?" "Sì, mordere: gli fece mordere il suo uccello." Swift le agguantò il polso, poi avvicinò la bocca al viso di Julia. "Disse che, se non avesse obbedito, l'avrebbe fatto lei a Paulie." Julia si divincolò e si alzò. Liberatasi dalla stretta di Swift, arretrò barcollando verso la porta.
"Lei non se ne va," grugnì Swift. "Resta qui con me." Cercò goffamente di alzarsi. "Devo parlare con Olivia," disse risolutamente Julia. L'attimo di stupore di Swift le consentì di arrivare alla maniglia e aprire la porta. "È pazza!" strepito Swift, curvo davanti al tavolino. Aveva una protuberanza nei calzoni all'altezza della cerniera. Scendendo a precipizio le scale, Julia lo sentì gridare dall'alto: "Troia! Ricordati che non gliene frega più niente a nessuno, di questa storia! Non puoi fare nulla!" Julia sbattè il portone. Il ferito non c'era più, ma il suo sangue tingeva ancora le pozzanghere. Corse alla macchina. Ora sapeva, finalmente. Era stata sempre e soltanto Olivia Rudge: Kate era salva. Una volta in auto scoppiò in singhiozzi, ma non avrebbe saputo dire lei stessa se per l'orrore o il sollievo. ORA SAI. Le parole erano state tracciate col sapone sullo specchio nero sopra la vasca da bagno. Dall'atmosfera di quiete carica di tensione che regnava in casa, per la prima volta in due settimane non aveva udito i soliti fruscii al piano di sopra, Julia si era attesa qualche atrocità e aveva avuto paura a lasciare il pianterreno. Non aveva idea di ciò che Olivia intendesse farle, ora che aveva scoperto la verità. Salì cercando un qualsiasi segno di vittoria o di oltraggio. Nel calore soffocante della camera, tutto era rimasto come la mattina: le bambole squarciate da cui spuntavano grigi bioccoli di lana, in fondo all'armadio, non la spaventavano più. Ogni volta che guardava di sopra la spalla si aspettava di vedere Olivia Rudge. Quel suo sorriso adulto, provocatorio. Oppure temeva di vedere Magnus, controllato dallo spirito. Ma tutto ciò che trovò furono quelle due parole di conferma: ORA SAI. Le grattò via con un coltello da tavola e strofinò le macchie rimaste con un asciugamano finché sullo specchio nero restò solo una patina che offuscava il suo riflesso. Sarebbero avvenute altre cose, molte altre. Quella tregua, quella calma e le due parole erano più spaventose dello sfoggio di potere di Olivia. Scrutò dalla finestra: era buio e pioveva. Fuori tutto era scomparso nell'oscurità. La realtà era dentro. Spense la luce, si spogliò e raggiunse a tentoni il letto. Poi giacque sotto il lenzuolo e guardò le tenebre muoversi. Un piano nero composto di milioni di particelle scese verso di lei, si ritrasse, poi ridiscese. Il sudore le
gocciolava tra i capelli. Un guizzo improvviso di paura le fece accendere la luce, e il piano nero svanì. Non c'era nulla, nessun gigantesco guanciale di oscurità. Spense la luce e lo vide tornare. Quando le piccole mani la toccarono s'irrigidì, rendendosi conto di aver dormito. Una mano fredda le scivolò all'interno della coscia, e lei rotolò via su se stessa, avvolgendosi nel lenzuolo. La mano le si posò sulle natiche, lisciando, palpando. Senza respiro, Julia rotolò ancora dall'altra parte del letto. Due braccia la immobilizzarono; le gambe, imprigionate nel lenzuolo, erano come inchiodate al materasso. La piccola mano fredda trovò il triangolo di peli pubici, poi la fessura, e cominciò delicatamente a massaggiarla. Le sembrava di essere nuda nell'aria scura, nonostante il lenzuolo che l'avvolgeva. Julia gemette: la mano le stava accarezzando il clitoride. Piume, lingue che la lambivano. Era una mosca intrappolata in una tela vischiosa e un ragno le si aggirava intorno. Contro la sua volontà, con orrore, sentì che il suo corpo entrava a poco a poco in una tensione ritmica. La mano instancabile accarezzava, massaggiava, come fosse stata immersa in olio; con un moto circolare s'insinuò dentro di lei. Julia inarcò la schiena, i suoi capezzoli s'indurirono. Il sudore le scorreva sul petto. Inspirò una boccata d'aria calda. Stava cadendo in un pozzo profondissimo. Il lenzuolo, che l'avviluppava come un sudario, era una carezza lievissima, palme di mani sul suo seno. Bastava inarcare la schiena perché la pressione di quelle mani aumentasse, e dal suo centro si dipartissero cerchi di piacere. Vide davanti a sé Mark, il corpo rigido di desiderio. Le mani che si muovevano su di lei erano la punta del suo membro. Erano le sue braccia a circondarla, adesso. Aprì le gambe e il suo pene la penetrò. Julia digrignò i denti: braccia, gambe, mani, morbido velluto la incatenavano. Lo vide, lo sentì irrigidirsi e affondare in lei, e un suono le si spezzò in gola mentre tutto esplodeva. Il mattino successivo, quando Julia si trascinò in bagno in preda alla nausea, Olivia si mostrò per la prima volta all'interno della casa. Non sparì dalla sua visuale all'ultimo momento, non guizzò via. La bambina bionda restò sorridente alle spalle di Julia che guardava nello specchio nero. Julia si coprì il pube con la mano e girò su se stessa. E di nuovo Olivia comparve dietro di lei nell'altro specchio. Olivia le rivolse il suo sorriso asimmetrico, di sfida, e si passò lentamente l'indice sulla gola smorta. Nell'altra mano teneva stretto il corpicino martoriato, ancora sussultante, di un uccellino decapitato.
La sera tardi, un gabbiano del Tamigi sbattè contro la finestra con un fracasso pauroso e svegliò di soprassalto l'uomo disteso sul morbido cuscino indiano. Agitato, le ultime ventiquattr'ore erano state turbate dalla paura, senza sapere dove si trovava, allungò una mano e rovesciò la bottiglia di Calvados. La stanza, piena di ricordi della sua vita, gli si raccolse intorno, rassicurante; la puntina del giradischi crepitava e fischiava negli ultimi solchi. Raddrizzò la bottiglia e scrollò la testa. Non si era versata neppure una goccia, perché durante la notte, dopo che il suo ospite se n'era andato, aveva bevuto quasi tutto il liquore avanzato. La mente gli funzionava al rallentatore e le sigarette forti gli avevano lasciato la bocca impastata. Al di là della porta qualcuno pronunciò piano il suo nome. Si sedette con le gambe sotto di sé e ascoltò il suono della voce. Non era di uomo né di donna e invocava il suo nome. "Piccolo stupido," borbottò l'uomo, e per parecchi secondi riconsiderò la sua decisione di non aprire ancora la porta. Ma anche quella era un'idiozia. Entrambi avevano bevuto troppo. L'uomo si protese in avanti e si rizzò in un solo movimento, sentendo reclamare i muscoli delle cosce. Quando fu in piedi, sistemò il parrucchino e si rassettò il pullover. Mosse verso la porta più adagio che poté, assaporando il suono incalzante, urgente e supplichevole del suo nome. Aprì la porta alla persona sconosciuta... sconosciuta? Conosceva bene quella voce. La persona sorrise e l'uomo riconobbe i tratti di quel sorriso. Troppo tardi vide il coltello sgusciar fuori di sotto gli abiti. Colto da un panico immenso e disperato, arretrò mentre la persona varcava la soglia, ripetendo ancora il suo nome. PARTE TERZA Il cerchio si chiude: Olivia 9 Era sera, e Julia camminava in Kensington High Street, sperduta nella calca che rincasava tardi dal lavoro, incerta su dove andare. Aveva sbagliato strada e se ne rendeva confusamente conto. Il polso sinistro sanguinava ancora e lei tamponò il taglio con un fazzolettino di carta, sperando che smettesse. Ma il polsino della camicetta era macchiato di sangue, come il lenzuolo. Annebbiata dal sonnifero, la sua mente stentava a ritenere le immagini e lei dovette guardare due volte il cielo prima di esser sicura che
avesse smesso di piovere. Sopra di lei era tutto grigio scuro, uniforme. Nessun buco, si disse, nessuno sfogo d'aria, e vide se stessa bussare alla faccia inferiore della coltre grigia, quasi fosse stata uno spesso strato di ghiaccio che l'imprigionava nell'acqua gelida. I marciapiedi e la strada erano ancora bagnati di pioggia. Salire, salvarsi, salire, salvarsi, martellava il suo cervello. Ma non riusciva a immaginare una via di salvezza. Olivia la teneva in pugno. Pensò al re della mendicante, Cophetua, al suo viso immobile nell'estasi d'amore. Mark. Era sano e salvo? Le aveva telefonato subito dopo che lo spettro sorridente della bambina era svanito dallo specchio. "Prendi un sonnifero e va' a dormire," le aveva detto. "Ne hai in casa?" "Sonnifero? Sì." "Hai bisogno di riposare. Prendi un paio di pillole e fatti una bella dormita." "Devo vederti. Sono in pericolo. Come aveva detto la signora Fludd. Davvero, Mark." "Dammi ascolto: i fantasmi non uccidono. Il pericolo viene da Magnus, e tu gli stai lontana. Julia, tesoro, sei affaticata. Chiudi a chiave la porta e mettiti a letto fino a stasera." "Ho bisogno di te, Mark. Lei mi vuole." "Mai quanto me," aveva risposto lui, ridendo. "Ci vediamo stasera." "Salvami." Aveva detto così: Salvami? Forse la conversazione era frutto della sua fantasia. Ricordava chiaramente solo di aver inghiottito due pastiglie, rabbrividendo nel rammentare l'ospedale, di essere salita al piano superiore e di aver scagliato l'uovo di marmo rosa contro le pareti della stanza da bagno. Gli specchi neri si erano frantumati in mille schegge, sfiorandole il viso. Poi era scivolata su un grosso pezzo di vetro ed era caduta tra i frantumi, tagliandosi un polso. Non aveva quasi avvertito dolore. Ora non potrà più entrare qui, aveva pensato, incurante del sangue che sprizzava dalla ferita e le colava sul palmo. L'intonaco grigio chiaro dei muri era punteggiato come un grafico di piccoli tasselli neri ad alcuni dei quali erano ancora attaccati frammenti di specchio. I vetri, che riflettevano la luce smorzata del soffitto, erano sparsi sul tappetino del bagno e componevano lunghe forme serpeggianti nella vasca e nel lavabo. Julia sentì il sangue caldo gocciolarle sui piedi nudi, strappò una salvietta dalla sbarra e l'avvolse intorno al polso. Qualche frammento di vetro le era rimasto nella ferita. Vacillando sui vetri rotti, aveva raggiunto la camera da letto.
(E così sette ore dopo, quando Magnus e Lily si erano presentati insieme a casa sua, non aveva udito il campanello.) Come all'ospedale, aveva fatto lunghissimi sogni ininterrotti. Allora aveva sognato di rivolgere il coltello su se stessa, di sacrificarsi per Kate, di poter restituire a Kate la vita: il suo sangue per quello della figlia, una specie di baratto. In quei momenti aveva sentito il perdono di Kate. Ora invece tutti i suoi sogni avevano lo stesso sapore di cenere, sconfitta e fallimento. Anche quando cominciava a scivolarvi a precipizio, cercava di resistere, perché intuiva l'avvicinarsi di una desolazione senza fine. Camminava di nuovo per le strade portando il cadavere della figlia. La bambina che sapeva essere Olivia la spiava di lontano, tenendosi nascosta, ed era suo dovere trovarla. Il cielo sopra i tetti scuri degli edifici era livido, rosso e arancione striato di nero. Il suo lungo, faticoso errare la riportava in uno squallido cortile. Passava sull'acciottolato sporco davanti a magazzini abbandonati, con le porte murate, e sotto l'arco del cortile. Un laido gobbo con il soprabito lacero le strizzava l'occhio, chiamando dalla porta una piccola negra con la testa riccioluta. Julia saliva i gradini consumati e usciva, come sapeva sarebbe accaduto, su un tetto piatto. Una donna piccola, avvolta in un ampio soprabito marrone, stava seduta su una sedia traballante. Era la signora Fludd. Vedendola, Julia sentiva le lacrime agli occhi. "Mi spiace," diceva. "L'ho mandata io qui. E mi serve ancora il suo aiuto." "Non posso aiutarla." Il corpo di Kate le veniva tolto dalle braccia. Ne aveva avuto bisogno per arrivare lassù, e ora poteva sparire. "L'ha richiamata lei." "Sì," rispondeva Julia. "L'ha evocata. Le occorreva qualcuno che la richiamasse, ed è stata scelta lei. Questo è avvenuto a causa di sua figlia." "Che cosa devo sapere?" "Non le andrà a genio che conosca i suoi segreti." La signora Fludd si girava di fianco, rifiutandosi di aggiungere altro. "Mi parli, la prego." La vecchia rivolgeva ancora il volto grave e terreo verso Julia. "Prenderà i suoi amici." Poi correva in una lunga galleria e, correndo, si accorgeva che non conduceva in alcun posto, che si restringeva via via che vi si addentrava. In fondo c'era Mark, la valle del New Hampshire, la pace... ma Julia sapeva
che al termine della sua corsa ci sarebbe stato solo un buco stretto e nero. Intorno a lei risuonava la risata volgare di Heather Rudge. Aveva aperto gli occhi mentre ancora la risata riecheggiava intorno a lei, mescolandosi agli altri rumori della casa. L'asciugamano non le fasciava più il braccio e il lato sinistro del letto era chiazzato di rosso. Aveva avuto la sensazione che, come nel sogno, Olivia Rudge fosse invisibile ma vicinissima, in attesa di comparire. Non ci sarebbe voluto molto. E così aveva ricordato le ultime parole della signora Fludd. Sforzandosi di ristabilire un po' d'ordine nella sua mente sconvolta dal sogno, Julia aveva avvolto il polso nel lenzuolo e si era messa a sedere. Guardando fuori della finestra, aveva visto il cielo grigio e piovigginoso. Una folata di vento fresco l'aveva raggiunta dai vetri aperti, disperdendosi subito nella calura della stanza. Per la prima volta si era resa conto dell'odore ferino che impregnava la camera: il lezzo di una gabbia di leoni. Aveva gettato via il lenzuolo sporco e si era alzata, con uno sguardo all'orologio: erano le otto e aveva dormito tutto il giorno. I suoi amici. Mark, il suo amico più fedele, era in pericolo. Aveva sentito la bocca piena di polvere. Quando aveva guardato nell'armadio aveva rivisto le bambole sventrate, si era allontanata barcollando dal letto e aveva sentito il sangue riprendere a scorrere denso giù dal polso. Aveva strappato diversi Kleenex dalla scatola vicino al letto e li aveva premuti sulla ferita, che aveva cominciato a pulsare e a farle male. Infilando la vestaglia aveva abbottonato la manica sinistra per far aderire i fazzolettini alla ferita, poi era scesa per telefonare a Mark. Olivia era scesa in campo, Olivia avrebbe avuto chiunque volesse. Non è possibile sbarazzarsene. Vuole vendetta, aveva detto Heather Rudge. Vuole vendetta. Il telefono di Mark aveva squillato una decina di volte. Le sarebbe toccato andare a casa sua. Adesso camminava come una sonnambula in Kensington High Street. Il tampone di Kleenex era caduto chissà dove e il sangue imbeveva il polsino della camicetta. Tra il cielo grigio e la strada annerita dalla pioggia, i lampioni già accesi diffondevano un'aspra luce gialla sulla folla in movimento. Di tanto in tanto un gruppo di uomini immersi nei propri pensieri la ricacciava indietro di qualche passo, e Julia barcollava, sospinta da una spalla all'altra. Cercava Mark in tutti i visi e trovava invece, almeno così le pareva, solo ghigni e risate. Capì che la credevano ubriaca. Il sonnifero non le aveva mai fatto un effetto così violento. Forse era dovuto al lungo digiuno.
Ma l'immagine del cibo, una massa di carne rosa-grigiastro, le dava la nausea. Un fitto velo nero le scese davanti agli occhi, cancellando il mare di folla che avanzava gomito a gomito e il frastuono del traffico. Julia fece ancora qualche passo, poi si addossò contro il muro ruvido di un palazzo. Per un momento, mentre i passanti le sfioravano i gomiti e le ginocchia e le pestavano i piedi, perse coscienza della propria identità e di ciò che la circondava. L'ondata di nausea e di stordimento, svuotandola da ogni responsabilità, era quasi un sollievo, e Julia vi si abbandonò, scordando perché fosse in strada e dov'era diretta. La sua mente tornò all'immagine dell'esausta signora Fludd, seduta tutta sola su quella sedia instabile in cima al tetto. I suoi amici. Poi la lunga, interminabile fuga nel tunnel sempre più stretto. L'amica più cara era stata Kate. Il pensiero di Julia recalcitrò come un cavallo imbizzarrito. Aprì gli occhi nell'oscurità macchiata di giallo acido. Ora sono nel suo mondo, riflettè. Presto la rivedrò. Ormai so quasi tutto. Le due donne imprigionate, i due uomini falliti l'avevano portata a un passo dal sapere tutto, e per scoprire il resto avrebbe dovuto farsi strada nel mondo di Olivia Rudge. Uomini simili a bestie le passavano accanto, ognuno occhieggiando verso la donna addossata al muro di mattoni della banca. Una sottile linea rossa, un grido, attraversò il cielo. Gli uomini la seguivano con lo sguardo. Mentre li guardava illuminarsi di lussuria o di divertimento (che aspetto avrò? si chiese) i loro volti assumevano le sembianze di cinghiali, tori, cani selvatici. Dai loro musi spuntavano setole, i loro piedi erano zoccoli che grattavano il terreno. La loro pelle ardeva nella luce malsana e giallastra. Credette di distinguere il brontolio cupo di Magnus nel vocio confuso e trasalì, la mente smarrita. Si toccò le gambe. Cotone. Portava calzoni di cotone. Non rammentava di essersi vestita. Abbassò lo sguardo e vide una camicetta chiara e una corta giacca marrone. Passò le mani sui capelli e li sentì unti. La voce non era di Magnus, ma soltanto di un tale che gridava qualcosa a un altro tale sulla strada. Quattro ragazzi dai capelli languidamente arricciati la superarono; quando si voltarono a fissarla, Julia vide i loro visi infiammati di pustole, la morte nelle loro gote, gli occhi come rasoi che la tagliavano a pezzi. Nella fronte alta e calva di un uomo che procedeva tra la folla vide la morte che gli stirava la pelle sul cranio, e la vide ancora nelle labbra incolori di una donna. E poi vide che erano tutti morti, e le passavano davanti nel frastuo-
no di voci e di automobili. Le tenebre li avevano tutti inghiottiti. Fronti lucide, ombrelli scheletrici contro il cielo buio, ormai quasi invisibile, e il giallo dei lampioni e dei fari. Era il suo sogno divenuto realtà. Tentò affannosamente di rimettersi in equilibrio. Il movimento sarebbe bastato a fugare quella tremenda illusione ottica. I ragazzi, ormai in fondo all'isolato, erano ragazzi come tanti altri; gli uomini e le donne, semplicemente stanchi del lavoro e del tragitto per rincasare. Provò una familiare fitta di rimorso, un'eco della sua vecchia personalità, al pensiero che la sua giacca marrone rappresentava, per la maggior parte di quelle persone, almeno due settimane di paga. L'aveva convinta Magnus a comprarla, o l'aveva comprata lui con i suoi quattrini? Dopo tanti anni faceva poca differenza, ma sperava che fosse stato lui ad acquistarla. La proprietà è un disonore. Allora perché aveva comprato la casa? Lei era stata scelta. In questo era l'ultimo mistero. Un passo, un altro. Tirò l'orlo della giacca e rizzò la schiena. Nessuno la stava guardando, adesso. Julia cominciò a camminare più sicura e si accorse di aver fatto oltre metà strada in direzione di Kensington Church Street. Di là si poteva arrivare a Notting Hill, benché dalla direzione opposta. Si fermò un istante in mezzo al marciapiede affollato, in dubbio se tornare indietro e costeggiare il parco verso nord per sbucare in Holland Park Avenue, poi decise, nell'aria frizzante e trasparente, di continuare per la via più lunga. Quell'insolita frescura le avrebbe schiarito la mente. Si rimise in movimento, superò la libreria Smith, una rivendita di liquori e un negozio di abbigliamento con i manichini che tendevano le braccia come mendicanti. Poi scorse il suo riflesso in una vetrina e allungò il passo, incapace di distogliere lo sguardo. Il suo volto era un'informe massa bianca, livida sotto gli occhi, simile al viso delle ospiti della Breadlands Clinic: l'espressione era quella di un animale in fuga dalla realtà. Per un attimo si vide come sarebbe stata da vecchia e, distolto brutalmente lo sguardo, si mise a correre con la borsetta che le sbatteva contro il fianco. Un viso noto nella coda a una fermata d'autobus di fronte a Biba la fece rallentare. La vecchia nel lungo abito nero non l'aveva ancora vista. Julia girò le spalle alla fila di gente lungo il bordo del marciapiede, desiderando istintivamente di fuggire. Ma forse si era sbagliata. Arrischiò ancora un'occhiata in quella direzione. Viso cavallino, ora di profilo, mento aguzzo, ricci bianchi che sfuggivano dal cappellino nero: era la signorina Pinner. La sua prima reazione era stata di panico. Forse non voleva sapere che
cosa la Pinner avesse visto in bagno in quell'infausta notte. Forse lo sapeva già. Ma la sua curiosità a proposito di quella sera era troppo forte per riuscire a metterla a tacere; non poteva fuggire anche dalla signorina Pinner. Quella decisione sembrò aiutarla a esorcizzare il mondo di Olivia, perché la fila di gente stanca alla fermata dell'autobus le sembrò tanto anonima quanto rassicurante. Lasciò passare un paio di persone, poi attraversò il marciapiede nero e lucido e battè leggermente sulla spalla della donna. Pronunciò il suo nome e udì la propria voce risuonare chiara e forte. "Sì?" La vecchia si riscosse dai suoi pensieri e puntò gli occhi blu da direttrice scolastica su Julia. Non mi riconosce, pensò questa. "Mi scusi..." cominciò, e le vide sporgere le labbra, come aspettando la richiesta di un'indicazione stradale. "Che sorpresa incontrarla qui, signorina Pinner." Un lampo di paura passò negli occhi della donna, che uscì dalla coda. "La signora Lofting? Mi spiace, non l'avevo riconosciuta. Ha una cattiva cera, cara. Sì, ha ragione, non vengo spesso da queste parti e vado di fretta." Mostrò un pacchettino marrone. "Ci piaceva tanto fare spese in questa strada e, visto che tra poco cade il compleanno della signorina Tooth, volevo vedere se potevo trovare una cosina per lei da Derry e Tom, ma ho scoperto che sono stati rimpiazzati da quel curiosissimo negozio, e il piccolo ristorante all'ultimo piano era chiuso, così le ho comprato un regalo altrove." Mentre parlava, lanciava occhiate nervose giù per la strada, nell'evidente speranza di veder giungere l'autobus. "Sono già in ritardo. Devo rincasare in tempo per preparare la cena. Santo cielo, sono le otto passate." "Ha qualche minuto da dedicarmi prima che arrivi il suo autobus, signorina Pinner?" "Temo proprio di no." Al guizzo di paura nei suoi occhi si sostituì un'espressione astuta. "Mi spiace di essermi sentita male nella sua splendida casa, signora Lofting. È stata una serata davvero penosa per tutti noi. E la povera signora Fludd che ci ha lasciati così all'improvviso! La nipote ci ha proibito di partecipare al funerale. Ma io sono stata maleducata a non scriverle due righe di ringraziamento per la sua ospitalità. Anni fa, la signorina Tooth e io siamo state ricevute in molte case signorili, quando la signorina Tooth poteva ancora svolgere la sua attività, come lei sa, ma non abbiamo mai peccato a questo modo contro l'ospitalità. Spero che mi vorrà perdonare." "Si è sentita male?" disse Julia, aggrappandosi all'unica frase che fosse
riuscita a seguire. "Uno svenimento," rispose la Pinner, con quel lieve ma percettibile imbarazzo che tradisce le bugie delle persone oneste. "In questi ultimi mesi sono stata occupatissima a riguardare tutti i nostri album di ritagli." Alzò le spalle con i movimenti legati di chi si rassegni alle fitte di un'artrite di vecchia data. "Non posso più farlo la mattina, così i miei pomeriggi sono molto stancanti. Ma la signorina Tooth..." e qui il suo viso severo perse ogni traccia d'imbarazzo, "la signorina Tooth riesce ancora a fare ginnastica." "Davvero?" Julia si domandò se per caso il sonnifero non appannasse ancora le sue percezioni. "Può ancora lavorare alla sbarra," dichiarò la Pinner, raggiante di soddisfazione. "Si conserva molto agile." "Alla sbarra?" ripetè Julia, cercando di immaginare la signorina Tooth in tribunale. "Oh sì! Naturalmente non ha più la resistenza di quando era giovane, ma non ha perso nulla della sua grazia. Stiamo preparando un libro con l'aiuto degli album di ritagli. Molti la ricordano ancora, come lei, a quanto vedo. Certamente avrà soltanto sentito parlare di lei. È troppo giovane per averla vista danzare." "Già, purtroppo ero troppo giovane." C'era arrivata, finalmente. Ricordò come, durante la seduta spiritica, la Tooth si fosse seduta sul pavimento con grazia armoniosa. "Era famosissima, vero?" tirò a indovinare. "Che gentile a ricordarlo!" esclamò la signorina Pinner, divenuta al'improvviso amichevole. "Rosamund era una grande artista. Sono stata la sua costumista per venticinque anni e abbiamo lasciato insieme l'attività. Dopo aver lavorato per Rosamund Tooth, mi era impossibile lavorare per altri. E non avrei neppure toccato con un dito quelle delle nuove leve. Tutte tecnica e niente poesia." "Quella sera, dopo il suo svenimento, la signorina Tooth vide qualcosa nello specchio?" domandò Julia a bruciapelo. Il viso della Pinner tornò completamente inespressivo. "Mi sembrò di vedere qualcosa quando entrai dopo di lei," proseguì Julia. "E so cos'era." La Pinner appariva atterrita, e Julia si sentì in colpa per averle detto una menzogna. "Forse lo vide anche lei." "No... no! Signora Lofting, non mi chieda di quella sera. Ero stanca del lungo tragitto da casa nostra fino alla sua e avevo avuto un pomeriggio pesante. Non so che cosa vidi." Rientrò nella fila e Julia la seguì.
"Era una bambina? Una bambina bionda? Era, anzi è, una creatura malvagia, signorina Pinner. Me lo dica, la prego." Ma era già sconcertata dall'espressione a metà tra la sorpresa e il sollievo sul viso angoloso dell'anziana signorina. "Non era la bambina bionda?" "Ho paura a parlarne, signora Lofting. Oh, arriva il mio autobus! Non mi trattenga, per piacere. Sarà qui a momenti." Julia, temendo di non ottenere risposta, sfiorò con la destra la stoffa spessa e nera del soprabito della Pinner. "Non era la bambina? Fa cose orribili. Una volta svenni anch'io a causa sua." La Pinner scrollò la testa. "Non credo..." cominciò. In fondo all'isolato, l'autobus s'incanalò nel traffico e venne verso di loro. I fari gialli fendevano l'oscurità sempre più fitta. D'un tratto Julia ebbe la disperante certezza di essersi grossolanamente sbagliata: era di nuovo sull'orlo dell'abisso, timorosa di guardar giù. L'autobus accostò al marciapiede in uno sfavillio di luci gialle sotto l'imperiale. Nella sua cabina, dietro i vetri rigati di pioggia, il conducente pareva un idolo di pietra. "Devo prendere questo o aspettare altri venti minuti," disse la signorina Pinner. La coda avanzò lentamente, come un gigantesco carico di pacchetti e ombrelli. "Non avrei parlato tanto se lei non avesse saputo di Rosamund." Era quasi ai gradini dell'autobus, da cui la divideva soltanto una donna grassa alle prese con due cagnolini e una ragazzina con la faccia da maialetto viziato. "Devo sapere," disse Julia mentre la donna spingeva sui gradini la bambina e issava ansimando se stessa e i cagnolini. "Devo sapere." Alzò le mani in atto di preghiera. La signorina Pinner guardò allibita la mano sinistra di Julia e il polsino della camicetta, poi la fissò con occhi pietosi. "Ho visto lei," disse. Il bigliettaio l'aiutò a montare sulla piattaforma e l'autobus ripartì. Qualche ora prima, quello stesso giorno, fratello e sorella sedevano a tavola, l'uno di fronte all'altra, a casa di Lily. Tra loro, due bottiglie di vino vuote, fondine e piatti con avanzi di ossa. Magnus, afflosciato sulla sedia, fissava i poco invitanti resti del pasto. Aveva il viso gonfio e congestionato, però si era messo abito e camicia puliti e portava scarpe lucidissime. Era imponente. Dai suoi lineamenti traspariva un misto di autorità, forza e cinismo, che Lily gli conosceva da sempre. "Magnus, sei un bell'uomo," affermò lei.
"Che?" Lui alzò di scatto la testa, e Lily vide gli occhi iniettati di sangue. "Per amor di Dio, Lily: ho cinquantatré anni, peso venti chili di troppo e ultimamente soffro d'insonnia. Sono stanco." Lily fece per ribattere, ma Magnus glielo impedì. "E poi non sono affatto convinto di questa storia. Secondo me acceleri troppo i tempi." "Ieri eri d'accordo con me," rispose la sorella, godendo di quel momento come di tutte le seppur rare occasioni in cui era più forte di lui. "Sappiamo entrambi che deve essere ricoverata il più presto possibile. Magnus, tua moglie è in pericolo. Potrebbe fare del male a se stessa. Per non parlare del male che sta facendo a te." "Figuriamoci," minimizzò Magnus. "Voglio sperare che la proteggerai da Mark," insinuò furbescamente Lily. "Mark è uno sciagurato, un fallito. Ha sempre avuto qualcosa che non va, lo sai." "Quel qualcosa che non va sei tu, e lo so benissimo. Ma Julia lo sa? Magnus, lei lo conosce appena." "Sì, certo che voglio proteggerla da lui." "Le hai mai detto delle sue crisi di nervi?" Magnus scosse la testa. "Sono anni che non ne ha più." "Be', io la penso così," riprese Lily. "Julia lo conosce solo superficialmente. E l'apparenza di Mark è molto attraente." Ora Magnus la stava ascoltando. "Mi hai capito, e non fingere che la faccenda non ti preoccupi come preoccupa me. Se riusciamo a riportarla in ospedale, avremo risolto almeno questo problema. A parer mio, dobbiamo prima di tutto persuaderla a lasciare quella casa e a trasferirsi nella mia camera degli ospiti. Potremmo.... Insomma, la porta si chiude solo dall'esterno." "Sei proprio sicura che non ci sia nulla di vero in quel che dice? Ho visto Kate dalla finestra della sua camera da letto, un pomeriggio, lo stesso in cui le ho suonate a quel babbeo. Sono certo che era Kate. Non potrei mai sbagliarmi. Mi è venuto un colpo. Poi ho sentito... delle cose in quella casa. Non saprei come descriverle. So soltanto che voglio Julia lontana di là. Quel posto mi sconvolge." "Vi sconvolgete da soli," osservò Lily, calma. "Vedi tua figlia perché ne senti la mancanza, e Julia è ossessionata da un delitto avvenuto venticinque anni fa: una madre che uccide a pugnalate la figlia. Tu salti i pasti e perdi il sonno, e Julia si sta consumando. Naturale che tutt'e due abbiate
delle visioni. Quanto però all'ipotesi che Julia sia realmente in contatto con degli spiriti, la definirei semplicemente assurda." "Come puoi esserne così certa? Lo ero anch'io, prima di vedere Kate." "Esperienza," replicò Lily con aria di superiorità. "I fantasmi li vedono solo gli sconvolti di mente, oppure quelli che hanno mangiato o bevuto troppo. Magnus, questo è il mio campo, come la legge è il tuo. Ti assicuro che, se uno spirito dovesse apparire a qualcuno di questa famiglia, questo qualcuno sarei io. Un tipo inesperto come Julia non avrebbe la più pallida idea di come interpretare un'autentica apparizione. Magnus, con tutto il rispetto, quando una persona impreparata si mette in testa di essere in contatto con uno spirito, scatta in lei una sorta di ipnosi che libera le fantasie più improbabili, e le è facile persuadere altri a condividerle. Ti confesserò che è accaduto anche a me, sia pure non a questi livelli." "Negli ultimi tempi?" domandò interessato Magnus. "Sì." "Dunque hai visto anche tu Kate." Il sangue gli stava affluendo al viso. "No, ma se dessi retta a te e a Julia potrei vederla. Ho visto, o meglio ho creduto di vedere, qualcosa di molto più terreno." "Che cosa?" Magnus sembrò diventare più grande, e Lily avvertì un piacevole brivido di paura, la familiare paura di lui. "Ho immaginato di vedere la signora Fludd," disse, e Magnus si abbandonò di nuovo sulla sedia. "La qual cosa prova che dobbiamo stare attenti a non farci influenzare dalle farneticazioni di Julia." "Ma se avesse ragione? E se avessi ragione anch'io e non si trattasse soltanto di stanchezza?" Ma Lily comprese dal tono stesso della sua voce che Magnus non voleva crederlo. "Allora dovremmo essere tutti in pericolo. Qualsiasi spirito realmente vendicativo e distruttivo, una volta liberato, trae forza dalla sua stessa malvagità. Può addirittura controllare una mente tanto debole da essergli aperta. Ma sono casi estremamente sporadici, forse uno ogni secolo. Il male genuino è raro. Gran parte di ciò che chiamiamo male è semplice mancanza di immaginazione." "Quasi tutti gli assassini sono dei poveri infelici," convenne Magnus. "Ne ho difesi diversi i quali, più che commettere un delitto, ci si sono trovati dentro." "Esattamente. Ritengo quindi che possiamo escludere la possibilità che si tratti di una autentica manifestazione." "E allora che cosa ho visto a quella finestra? E che cosa ho sentito in
quella casa?" "Hai visto e sentito le tue paure. Se un fatto del genere può accadere al mio energico fratello, credo che la faccenda abbia superato i limiti. Non avrei mai dovuto presentare Julia alla signora Fludd. E noi due non avremmo dovuto permettere a Julia di indulgere nelle sue fantasie morbose sulla morte di Kate." "Adesso basta," disse Magnus in tono ammonitore, allontanando la sedia dal tavolo. "Un'ultima cosa. Noi, cioè tu e io, dobbiamo accettare la verità. Rinchiuderemo in ospedale Julia, per il suo e per il nostro bene. Credi che abbia tendenze suicide?" "Non so." "Ecco il punto: non sappiamo. Non puoi permetterti il divorzio e non vuoi che muoia. Dev'essere riportata in ospedale, e restarvi ricoverata finché non sarà diventata docile. E suggerisco che tu compia i passi opportuni per assicurarti la disponibilità del suo denaro. Devi essere in grado di controllarlo. Devi essere in grado di controllare lei." Magnus stava curvo, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia, e la guardava negli occhi. "Sei molto esplicita, Lily." "E troppo tardi per non esserlo," ribattè pronta. "La verità è che tutti noi desideriamo avere Julia. Tu, io... e Mark. Vogliamo tutti possederla." "Io voglio salvarla," mormorò Magnus. "E io cos'ho detto?" "Allora va bene." "Ti adoro, quando sei così ragionevole," cinguettò Lily, "e ti adorerò sempre. Secondo me dovremmo andare da lei adesso. Possiamo attraversare il parco a piedi." "Comincerò a occuparmi della cosa, domani," decise Magnus, poi si alzò e lasciò cadere il tovagliolo accanto al piatto. Quando Julia ebbe seguito con lo sguardo, come intontita, l'autobus che voltava l'angolo di Kensington Church Street, una stanchezza mortale sembrò invaderla a ogni respiro, appesantendole le ossa. L'intero corpo pesava come un macigno, tanto che non se la sentiva di trascinarsi fino a Notting Hill. Avrebbe voluto appoggiarsi al braccio di Mark. Pensò con desiderio al proprio letto, a un lungo sonno, a leggere un libro posato sulle ginocchia, con una luce accesa a proteggerla dall'oscurità. Mi ha visto morta, pensò. O forse la signorina Pinner aveva visto... Un'idea fragile co-
me un'ala di farfalla, ma gravata di tutta la malvagità di Olivia, palpitò per una frazione di secondo ai margini della sua coscienza e fu subito soffocata, dimenticata. La mente di Julia mutò direzione, rifiutando di accettare ciò che aveva appena formulato. Anche Julia mutò direzione, sbattendo le palpebre, desiderando soltanto di essere a casa. Arrivò a metà strada, poi i piedi doloranti si rifiutarono di proseguire. A pochi passi da lei c'era una panchina: la raggiunse zoppicando e vi si lasciò cadere con un sospiro. Un uomo in impermeabile nero col colletto alzato si sedette accanto a lei e le sfiorò una gamba con la sua. Julia gli diede un'occhiata di sbieco, sperando che se ne andasse, e notò, o le parve di notare, che l'uomo non aveva labbra. Pareva che il suo viso fosse stato asportato dal naso in giù e ricominciasse al mento. In mezzo c'era uno squarcio bianco, come una smorfia fissa tutta denti e gengive annerite. Julia ebbe paura a guardarlo ancora ed era troppo stanca per spostarsi, così restò lì, ingobbita, lo sguardo perso nel vuoto. Anche l'uomo era curvo nel suo impermeabile nero col bavero alzato e guardava avanti a sé. La gamba sempre aderente a quella di Julia non esercitava altra pressione che quella della leggera stoffa nera dei calzoni. Dopo un intervallo che a Julia sembrò lungo un'ora, l'uomo si mosse. Julia gli lanciò una rapida occhiata e vide che, dopo tutto, aveva un viso normalissimo, tondo, con le labbra piene. Si accorse di aver trattenuto il fiato e inspirò sonoramente. L'uomo premette di nuovo la gamba contro la sua, ma adesso era una persona come tante altre e lei si fece in là, fingendo di cercare qualcosa sul marciapiede, per non offenderlo. Poco dopo l'uomo si allontanò, lasciandosi dietro una copia dell'Evening Standard. Julia la raccolse distrattamente e si avviò verso casa. Da Holland Park provenivano strilli e rumori. La casa, con le luci accese, pulsava di calore e l'aspettava silenziosa. Julia attraversò le stanze che apparivano estranee e morte, lontanissime da lei. Non udì alcuno degli ormai familiari rumori degli spiriti prigionieri delle Rudge. Julia pensò, abbandonandosi stancamente sul brutto sofà dei McClintock, che Olivia si fosse ritirata, lasciandola per sempre nel suo mondo. Ecco qual era la forza del male: l'assenza di ogni speranza, il lezzo della rovina morale. Rivide per un istante il vagabondo in Cremorne Road che ficcava il cane nel sacco. Il male era un condensato di tutti quei sordidi momenti, privi di speranza. Appoggiò la nuca allo schienale, chiuse gli occhi e cancellò un'immagine che minacciava di irrompere nella sua mente.
Per distrarsi, Julia prese il giornale che aveva prelevato dalla panchina. Più tardi avrebbe trovato l'energia per affrontare le scale e la sua camera. Poi ricordò come aveva lasciato il bagno al piano di sopra, con le pareti grigio-bianche simili a pelle morta e dappertutto schegge di vetro nero. Il caos: e in mezzo Olivia, viva e presente. Non se la sentiva ora di rimettere piede in quello scempio. Scorse le notizie in prima pagina; sembravano distanti e prive d'importanza. Lesse nomi dei politici, guardò le loro foto senza quasi ricordare chi fossero. Non avevano nulla a che fare con lei né con Olivia Rudge. Perché leggeva quella roba? Era il primo quotidiano che vedeva da settimane. Sentì l'atmosfera della casa addensarsi intorno a lei e voltò pagina. In fondo alla quarta pagina notò un titoletto. Paul Winter non era stato giudicato degno di occupare più di tanto spazio. Il titolo diceva: FIGLIO DI UN GENERALE RINVENUTO CADAVERE IN UN APPARTAMENTO A CHELSEA Il capitano Paul Winter, 36 anni, figlio del generale Martin Somill Winter, comandante in seconda di Montgomery a El Alamein, è stato trovato privo di vita questa mattina da un amico, nella sua abitazione in Stadium St. SW10. Al capitano Winter, che aveva lasciato l'esercito da alcuni anni, erano state inferte numerose ferite d'arma da taglio. Il generale Winter è stato informato della morte del figlio subito dopo il rinvenimento del corpo. Pare che da tempo tra il generale e il figlio non corressero buoni rapporti. Il capitano Winter non era sposato. Il primo pensiero di Julia fu per David Swift: bisognava metterlo in guardia. Mentre andava come istupidita verso il telefono, udì una risata acuta, gaia, tipicamente infantile. "Maledetta, maledetta, maledetta!" urlò Julia, rendendosi contemporaneamente conto che Olivia Rudge non avrebbe mai potuto emettere un suono così innocente. Era la risata lieta di una bambina. Ma dov'era? Per un momento parve risuonare tutt'intorno a lei, riempire la casa. Julia si costrinse a stare immobile e zitta, poi la sentì venire da oltre la cucina. Sapeva bene da dove. Se non avesse fracassato gli specchi neri, sarebbe venuta dal piano superiore. Julia attraversò di corsa le stanze, dimentica di David Swift, e raggiunse in un lampo il bagno. C'era qualcuno nascosto nello specchio. Quando Julia spalancò la porta,
vide una figura china sull'orlo della vasca, riflessa in tonalità scura dagli specchi rosa. Accese la luce. La negretta, Laura, era seduta sul bordo della vasca e si dondolava, ridendo tutta contenta. Dalla sua gola tesa uscivano trilli che rimbalzavano contro le pareti specchiate, moltiplicandosi. Laura si accorse di Julia, indicò qualcosa e continuò a ridere. "Che cosa..." balbettò Julia, poi si volse fulmineamente. Olivia Rudge passò davanti alla porta del bagno, dandole la schiena, ed entrò tranquillamente in cucina. "Ferma! urlò Julia. Corse fuori dal bagno, con gli strilli di gioia di Laura ancora nelle orecchie, e vide Olivia, in jeans e camicetta rossa, che passava in sala da pranzo dalla porta laterale della cucina. Quando Julia la raggiunse, Olivia abbassò la maniglia della portafinestra e sparì in giardino. Tremante di rabbia, Julia la seguì. Girò intorno alla casa e vide la bambina, già lontana, camminare leggera e svelta. Con quei capelli così vistosi non mi scapperai, pensò Julia, e si avviò dietro di lei in direzione di Kensington High Street. I capelli di Olivia ondeggiavano venti o trenta metri davanti a Julia, splendenti come un faro nel buio. In High Street, la bambina svoltò a sinistra e Julia la perse di vista. Sola nell'oscurità, Julia corse all'angolo, udendo il proprio scalpiccio riecheggiare nella strada deserta. Guardò a sinistra: Olivia marciava decisa, a due isolati di distanza. Una cappa di silenzio parve calare su entrambe. Julia non sentiva più la confusione di voci e di rumori del traffico che poco tempo prima l'aveva tanto infastidita. Gli altri, ormai solo persone che facevano quattro passi nella sera, erano spettri incorporei tra lei e la capigliatura scintillante della bambina. Superò una traversa e proseguì lungo un altro isolato, seguendo Olivia, spinta insieme dalla collera e dalla determinazione. La biondina rallentava quando un piccolo gorgo di passanti o il traffico a un incrocio bloccavano Julia. Quando questa tentò di recuperare il distacco e corse per raggiungerla, Olivia aumentò la velocità, senza sforzo e senza dare l'impressione di affrettare il passo, e mantenne le distanze. Intorno a Julia, l'aria fredda e cristallina che odorava ancora di pioggia parve rapprendersi in un bozzolo luminoso che racchiudeva solo lei e Olivia. L'energia di Julia bruciava dentro questo bozzolo, seguendo il ritmo delle sue pulsazioni. Dopo un certo tempo Julia cessò di percepire il traffico e di vedere la
gente sul marciapiede. Quando non riuscì più a vedere la sua preda, passò sull'altro lato della strada e la vide camminare risoluta in jeans e camicetta rossa sotto il freddo bagliore dei capelli. Non c'era nessun altro al mondo. Nient'altro si muoveva intorno a lei. Giunta al Commonwealth Institute, Olivia si fermò e si girò. Julia, a un isolato di distanza, scorse il suo volto serio, assorto, e per la prima volta non vi lesse la sfida. Nervosa, perplessa, aspettava quasi impaurita che lei si avvicinasse. Julia scese dal marciapiede per correre e per poco non finì sotto una macchina che sopraggiungeva. "Ehi, sta' attenta!" berciò un'indignata voce maschile, ma Julia non vi badò. Olivia la stava conducendo da qualche parte; Olivia pareva quasi supplicarla. Intese dei suoni metallici dalla sua destra e capì che i custodi stavano chiudendo il parco. Erano le nove. Come a un segnale, Olivia si voltò e corse su per i gradini fino alla terrazza, passò sotto un colonnato e imboccò ad andatura spedita il viottolo che costeggiava il parco verso nord. Un paio di vagabondi si misero tra lei e Julia, impedendo a quest'ultima la vista di Olivia. Poi furono nuovamente sole a camminare sul lungo sentiero buio. I capelli della bambina splendevano. "Olivia!" gridò Julia, vedendo la piccola sparire nelle tenebre tra i filari di alberi. Riprese l'inseguimento, cercando di ridurre la distanza tra loro, e cominciò a correre, sentendo i muscoli rispondere come ingranaggi. Molto più avanti Olivia era sparita nell'oscurità. Riapparve nel cerchio di luce di un lampione, tra due file di alberi. Julia oltrepassò la zona meridionale, verde e silenziosa, del parco, e giunse al cancello dell'ostello della gioventù, appena all'interno del recinto. Olivia era svanita ancora. Gridò il suo nome: nulla. Tirando a indovinare, superò il cancello di legno e imboccò un sentiero stretto e tortuoso. Subito le parve di udire in lontananza i passi di Olivia. Trovandosi la strada sbarrata dal cancello esitò brevemente, quindi sporse al di là il busto, sollevò goffamente le gambe e si lasciò cadere all'interno del parco ormai chiuso. Il suo corpo era un'arma, una freccia puntata su Olivia. Davanti a lei, il viottolo aggirava Holland House e l'ostello, proseguendo verso una zona del parco che Julia non conosceva: un bosco intersecato da tante stradine di terra battuta. Olivia si muoveva a passo sicuro in quella direzione. "Olivia! Olivia!" urlò Julia, ma la bambina non si voltò. Julia riprese la corsa. Dopo pochi minuti aveva lasciato il sentiero e correva sull'erba soffice. I
capelli splendenti di Olivia apparivano e sparivano fra i tronchi. Il polsino della camicetta di Julia s'impigliò in un ramo basso e si strappò. Le sue scarpe affondavano nella terra argillosa, assorbendone l'umidità. Perse di vista la bambina tra gli alberi radi, poi scorse sulla destra un barlume tra i cespugli di una spianata scura e brulla. Si addentrarono nel bosco. Olivia scavalcando leggera le basse staccionate di legno e Julia scalandole con fatica, mantenendosi in piedi solo grazie allo slancio. Olivia le fece percorrere così oltre un chilometro, trascinandola in circoli viziosi, scomparendo dietro le piante e ricomparendo nelle radure. Dove il bosco terminava, Julia vide la bambina che scappava in mezzo agli arbusti verso una rete metallica, e prese di nuovo a correre. Quando arrivò alla rete, Olivia l'aveva già superata e camminava lentamente su un sentiero asfaltato tutto buche. L'unico punto di riferimento per Julia era un brillio quasi bianco, pallido come il respiro, nell'oscurità. Doveva scavalcare la rete, che le arrivava al mento. Aggrappandosi alla sbarra superiore, si sollevò fino a infilare nelle maglie metalliche la punta di un piede, poi l'altra, stirò i muscoli delle gambe e piegò il busto sulla sbarra, dove le estremità attorcigliate e pungenti dei fili le impedirono di rotolare dall'altra parte. Tremando cercò l'equilibrio, quindi sollevò la gamba destra per scavalcare la rete. Giù per il sentiero in discesa avrebbe trovato Olivia: questa sicurezza le diede la forza di ripetere il movimento con la gamba sinistra, restando impigliata con il polsino strappato in un viluppo di fili. Si liberò con uno strattone, irritata, e si lasciò cadere sul sentiero privo d'illuminazione. Da un punto davanti a lei le giunse un rumore di passi in corsa. Con il poco fiato rimastole, Julia continuava il suo inseguimento: la pendenza del viottolo la trascinò in una corsa che non poteva controllare. Era come se precipitasse giù da una montagna, muovendo vertiginosamente le gambe per mantenere la posizione eretta. La forza di gravita l'attirava in avanti e lei aveva l'impressione di rotolare come un macigno verso il rumore prodotto da Olivia. Quando sbucò a tutta velocità sulla strada sottostante, si trovò di fronte luci, frastuono e volti sbigottiti. Udiva ancora i passi di Olivia. Sbattè contro un'altra recinzione metallica, l'aggirò e corse fino al centro di Holland Park Avenue. I fari la trafissero come una farfalla sotto vetro: la parte superiore del suo corpo, la testa, le spalle e le braccia erano più veloci delle gambe. Quando Julia cadde, un'auto si fermò con stridore di freni e il clacson urlante a pochi centimetri dal suo corpo.
10 Olivia aveva assassinato Geoffrey Braden, aveva assassinato Paul Winter, aveva assassinato la signora Fludd, e adesso aveva tentato di assassinare Julia. Era stata richiamata dalle tenebre fetide e infide dove abitava. La comparsa di Julia in Ilchester Place le aveva dato corpo e adesso era una presenza fisica nella casa. Oppure era soltanto una sensazione di Julia: non poteva entrare in una stanza senza immaginare che la sua persecutrice ne fosse appena uscita. Quand'era sola in camera da letto, si chiudeva a chiave, pur sapendo che Olivia poteva raggiungerla in qualsiasi momento. La lunga corsa nel parco era stata come un gioco. Olivia si era trastullata con lei, cercando di riprodurre l'"incidente" di Rosa Fludd. La situazione era cambiata: la vite aveva fatto un altro giro e Olivia voleva il suo sangue. In cucina, reggendosi sulle gambe malferme e doloranti, Julia aspettava che la caffettiera bollisse. Fuori era buio come fosse ancora notte. Il cielo, del quale poteva vedere una striscia sopra una staccionata marrone bagnata di pioggia, era immobile, e aveva un aspetto lanuginoso, come se rischiasse da un momento all'altro di impigliarsi nei rami degli alberi. Qualche goccia picchiettava il vetro della finestra. Paul Winter. Qualcuno era andato da lui e l'aveva massacrato. Qualcuno sotto l'influsso di Olivia, qualcuno guidato dall'odio, di modo che Olivia potesse entrare in lui, una persona di cui l'assurdo, toccante, piccolo Paul Winter si era fidato. Qualcuno che era il Magnus della vittima. Chiunque fosse, non avrebbe saputo di aver ucciso un uomo perché aveva parlato con una donna di nome Julia Lofting. Forse non avrebbe neppure rammentato di aver commesso l'omicidio, forse Olivia poteva impadronirsi di una mente e poi uscirne senza lasciare un ricordo del suo passaggio. A quel pensiero Julia si sentì mancare le gambe e si appoggiò a un ripiano grondando di sudore. La nevrotica reclusa di Abbotsbury Close avrebbe letto la notizia sul giornale o l'avrebbe saputa da Huff e ne sarebbe stata crudelmente felice. Anche lei era una vittima di Olivia. Il prossimo sarebbe stato David Swift, se Julia interpretava esattamente il piano di Olivia. Uscì subito dalla cucina e andò in soggiorno. Dovette cercare nell'elenco il numero di Swift. Le sue parole l'avrebbero convinto del pericolo che correva? Lui aveva visto Olivia all'opera, ma era un uomo stupido e arrogante. Non c'era altra via: doveva persuaderlo. Compose il
numero e ascoltò il telefono squillare in casa di Swift. Pregò che rispondesse, ma nessuno alzò il ricevitore. Forse era fuori, pensò, o a letto, a smaltire una sbornia con una buona dormita. Julia non voleva considerare la terza eventualità, ma nemmeno la ignorò. Nel primo volume della guida telefonica trovò i numeri dei commissariati di polizia e chiamò quello di Islington. "Può darsi che ci sia un morto," cantilenò. "Andate a vedere in Upper Street 337, nell'appartamento sopra il pub Belli e Dannati. Si tratta di un certo Swift. È un fatto collegato all'assassinio del capitano Paul Winter. Sbrigatevi." "Quali rapporti ci sono tra lei e il signor Swift, signora?" domandò la voce strascicata dell'agente. "Sono in pensiero per lui," rispose Julia, e riattaccò immediatamente. Sollevata dall'aver fatto almeno qualcosa, tornò in cucina, dove il bollitore pieno d'acqua minerale stava già fischiando. Si ripromise di richiamare Swift più tardi. Bevve il caffè in piedi, cercando di decidere come affrontare la sfida di Olivia. Avrebbe tentato ancora di ucciderla. Tutta la notte precedente, dopo essere stata soccorsa dallo sbigottito e furente automobilista che aveva rischiato di investirla, era stata distesa sulle lenzuola nella stanza arroventata, timorosa di chiudere gli occhi. Poi aveva giurato di andarsene da Ilchester Place: il segreto di Olivia era stato svelato, non c'era più nulla da scoprire; ora doveva difendere se stessa. Tuttavia al mattino si era resa conto che Olivia poteva raggiungerla ovunque. Non esistevano case più sicure della sua. Aveva pulito il bagno, riempiendo secchi e sacchetti di schegge di vetro nero con quella certezza fissa in testa. L'idea le balenò mentre finiva il caffè: se c'era un posto in cui poteva ritenersi al sicuro da Olivia, questo era l'America. Era giunto il momento di ritornare. Il suo matrimonio era finito. Non voleva Magnus, né aveva bisogno di lui. Era vicina a Heather e Olivia Rudge più che a chiunque altro in Inghilterra... salvo Mark. Ma lei e Mark non avevano mai parlato seriamente tra loro. Gli sarebbe piaciuto vivere nel New Hampshire? Si rese conto scoraggiata di sapere ben poco di lui. Tuttavia il pensiero di Mark le diede la forza di rispondere quando in soggiorno suonò il telefono. Chiamò a raccolta il proprio coraggio, preparandosi forse a sentire per la prima volta la voce di Olivia Rudge. Riconobbe invece quella di Lily. "Julia, spero che non ti spiaccia se ti chiedo come stai." Julia scoprì di potersi rivolgere a lei solo in tono freddo, impersonale.
Lily sembrava emergere da un'altra era. "Buongiorno, Lily. Come sto? Non so. Mi sento come sospesa, molto strana. Sono successe parecchie cose. So com'è stata uccisa la signora Fludd. Olivia ci ha riprovato con me. Credo che per lei sia un gioco." "Cara, mi stai dicendo che..." "Che Olivia ha tentato di ammazzarmi, proprio così. La prossima volta non sarà più solo uno scherzo. Che cosa faresti se la tua vita fosse in pericolo?" "Andrei da Magnus," rispose semplicemente Lily. "Tu, forse, ma io non posso. La prossima volta potrebbe essere Magnus a tentare di investirmi. Capisci anche tu che non posso, vero? Proprio no." Julia avvertì che Lily stava perdendo le staffe. "Capisco solo che sei molto provata, ma dovresti renderti conto anche tu che quello che dici è semplicemente assurdo. Magnus ti ama, Julia. Ti vuole come moglie. Vuole ricostruire il vostro matrimonio. Ieri dopo pranzo siamo venuti a trovarti, Magnus e io. È un peccato che non fossi a casa, perché avresti visto con i tuoi occhi com'è ridotto." "C'ero, ma dormivo. Avevo preso due pastiglie di sonnifero. Olivia mi aveva appena comunicato un messaggio. Mi credi, Lily? E ieri sera ha cercato di attuarlo. Mi ha attirato fuori casa e ha fatto in modo che mi buttassi sotto un'auto. Non sono stata travolta per un pelo. Ero come ipnotizzata. La stessa cosa l'ha fatta alla signora Fludd. Lo chiameresti un incidente, Lily?" "Ti sei mai chiesta perché tutti questi fatti capitino proprio a te?" "Brava, Lily. È la sola cosa che mi resta da scoprire." "Sei stata molto attiva in questi ultimi tempi, hai avuto parecchie avventure. Da quanto tempo sei uscita dall'ospedale?" "Non so." Julia sentiva che il suo distacco voluto cominciava a sgretolarsi. "Che importanza ha? Circa un mese." "Non così tanto. Cara, cara Julia, è stato un periodo tremendo per te. Non pensi di meritarti un po' di riposo? Non dire nulla, per ora, ma vorrei che ci pensassi. Vorrei anche che esaminassi la possibilità di venire a stare da me per qualche tempo. Tutta sola come sei, qualcuno potrebbe farti del male, o tu potresti ferirti in qualche modo e nessuno ne saprebbe nulla. Per questo Magnus e io desideravamo parlarti, ieri pomeriggio. Volevamo chiederti di trasferirti provvisoriamente a casa mia." "Tu e Magnus," scattò Julia. "Tu e Magnus volevate, tu e Magnus pensavate, tu e Magnus questo e tu e Magnus quello. Adesso temete che mi fe-
risca da sola. Che cosa intendi dire, Lily?" "Niente, cara. Eravamo semplicemente..." "Voglio che tu sappia una cosa, Lily. Proprio stamattina, prima che tu chiamassi, pensavo che mi piacerebbe tornare in America. Non c'è più nulla che mi trattenga qui, salvo forse Mark Berkeley. Voglio divorziare da Magnus. Siamo troppo diversi, troppo distanti. Se sopravvivo a questo assedio, chiederò il divorzio. Ecco qua. Che ne pensi, Lily?" "Penso che la tua psiche sia profondamente turbata. Continui a incolpare Magnus di quanto è accaduto, e qualcuno dovrebbe proibirtelo." "Capisco," ribattè freddamente Julia. "Presumo che saresti contenta di vedermi di nuovo all'ospedale." "Desidero solo che tu rifletta, cara," ribadì Lily, spazientita. "Quanto dormi? Come mangi? Puoi badare a te stessa? Perché pensi che quella Olivia voglia ucciderti? Proprio te, tra tutte le persone che avrebbe potuto scegliere." Julia ascoltava, la bocca socchiusa, aspettando quasi che glielo spiegasse lei. "Siamo sempre allo stesso punto," riprese Lily. "Ti prego, considera l'idea di stabilirti nella mia stanza degli ospiti. Non è vero che vuoi tornare nel tuo travagliato paese e lasciare la cara, vecchia Inghilterra e Magnus. Hai bisogno di lui. Hai bisogno di aiuto. Julia, nessuno di noi sarà sereno, nessuno di noi sarà com'era prima se non accetterai alcune verità fondamentali. La verità su Kate..." "Non conosci la verità su Kate, non conosci la verità su Magnus!" urlò Julia nel microfono, e riagganciò. Poco dopo Lily richiamò. "Julia, sei una vera eroina e ti rispetto sotto ogni punto di vista, ma sei anche piuttosto originale. Hai interrotto tu la comunicazione?" "Lasciami perdere, Lily. Non vivo più nel tuo mondo, ma in quello di Olivia. Chiedilo alla signorina Pinner." "Sarà meglio che ci pensi alla svelta e bene," disse Lily a Magnus cinque minuti più tardi, dopo averlo strappato al sonno con la sua telefonata. "Vuol divorziare da te e sostiene di voler tornare in America." "Buon Dio!" riuscì a dire Magnus. "È pazza? Non può chiedere il divorzio." "Direi che può presentare motivi sufficienti per divorziare cinquanta volte, se necessario. A parte questo, penso anch'io che sia pazza. Quel caso
Rudge le ha completamente stravolto il cervello. Le sono saltati i nervi, Magnus. C'è senz'altro un sistema perché tu possa farla ricoverare in ospedale. Per sempre, se fosse il caso. O almeno finché tornerà alla ragione." "Lily," sibilò Magnus, con voce cupa e minacciosa, "che diavolo le hai detto? Le hai parlato di nuovo di Kate?" "No, non direttamente. E troppo presa dalla storia delle Rudge per pensare a Kate. Vuoi andare in studio e cercare nei tuoi tomi polverosi una qualsiasi legge da invocare per poterla ricoverare senza complicazioni? Perché se non lo fai, un altr'anno a quest'epoca sarai senza moglie. Potrebbe andare a Reno, o dove diavolo vanno gli americani quando vogliono essere particolarmente volgari." "Vedrò quello che posso trovare," borbottò Magnus. "Cercherò cosa occorre per un ricovero forzato." "Avresti potuto farlo quando ti ha lasciato," osservò Lily nel suo tono più soave. "Avevo bisogno che me lo suggerissi tu." Una delle domande di Lily le ronzava ancora in testa. Perché proprio a te? Perché io ho comprato la casa, avrebbe potuto rispondere, ma questo riportava semplicemente un passo indietro la questione. Non era soddisfatta di ciò che già sapeva; le pareva che la forza che l'aveva guidata alla Breadlands Clinic e alla vecchia banda di Olivia fosse ancora padrona di lei. Il suo massimo desiderio era inghiottire due pastiglie di sonnifero e dormire per il resto della giornata. Ma c'era qualcosa, un'idea che non aveva attuato... Si mise a pensare febbrilmente. Sì, una rivista. E ricordò anche il titolo: The Tatler. Il giorno in cui aveva visto il dipinto di Burne-Jones, era andata a cercare nel The Tatler le foto dei ricevimenti di Heather Rudge. Be', si disse, perché no? Dopo la scoperta della parte avuta da Olivia nella morte del piccolo Braden, si era sentita disoccupata. Le pareva di dover solo aspettare... aspettare che Olivia decidesse la sua prossima mossa. Era molto più divertente sfogliare periodici a Colindale. Che Olivia comparisse pure nella sala di lettura, che brandisse il coltello sulle annate rilegate di John O'London's e Punch. L'immagine era così bizzarra che Julia, per la seconda volta, si aggrappò a quanto restava del suo equilibrio mentale. Era possibile che fosse stata lei a squarciare le bambole e a scrivere sugli specchi? Ad accendere i caloriferi? Forse aveva solo immaginato di vedere Olivia. La sua mente lacerata dai dubbi si ripiegò su se stessa.
Eppure qualcuno aveva ucciso Paul Winter. Questo non se lo era inventato. Olivia non era un'illusione. Conscia che di lì a poco si sarebbe sentita grata della terribile morte di Winter, Julia si vestì nella camera torrida e silenziosa, uscì, salì in macchina e partì sotto una pioggerella insistente verso Colindale e la collezione di periodici. La sua tessera fu esaminata con meticolosità quasi offensiva da un custode in divisa. Mentre passava tra le file simmetriche di tavoli, vide con la coda dell'occhio due ragazzi seduti davanti a una gran pila di pubblicazioni scambiarsi un sorriso. Julia pensò di avere più che mai l'aspetto di una mendicante. Aveva ancora le scarpe infangate dopo l'inseguimento in Holland Park e il collant strappato, e non si lavava i capelli da una settimana. Il posto al quale sedeva abitualmente era occupato da un negro imponente con occhiali cerchiati d'oro che sembravano lampeggiare. Sulle guance allungate e piatte aveva tre cicatrici purpuree in rilievo. Squadrò Julia con aria aggressiva, come un orso che difenda il suo territorio, e lei si avviò verso l'altro lato della sala, cercando un tavolo libero. Due o tre uomini la seguirono con uno sguardo di benevolo divertimento. Trovò finalmente un banco vicino alla parete e buttò l'impermeabile schizzato di fango sullo schienale della sedia. Dopo aver compilato il tagliando di richiesta per tutte le copie del Tatler dal 1930 al 1941, lo portò alla nuova bibliotecaria, una giovane donna con i capelli scuri e grandi occhiali dalle lenti colorate. La guardò portare il tagliando a uno dei commessi e all'improvviso ricordò di averla vista due settimane prima davanti al ristorante francese in Abingdon Road. Era la ragazza che aveva sentito simile a sé, quella che le aveva sorriso. Ora non sentiva più nulla del genere. Non aveva niente in comune con la giovane, graziosa bibliotecaria. I capelli fulvi arruffati, il collant nero strappato, le scarpe sporche, e le occhiaie scure, Julia si sedette al tavolo di legno chiaro e subito si sentì meglio. Non si sarebbe commiserata. Un ragazzo le posò davanti sei grossi volumi rilegati in nero. "Manderanno gli altri quando avrà finito questi," l'avvertì in tono di scusa, quasi aspettandosi che quella strana donna lo rimproverasse. Sapeva che avrebbe trovato qualcosa. Si sentiva rinata moralmente. Prese il primo volume della pila e cominciò a sfogliarlo, osservando avidamente le immagini di uomini e donne in abito da sera, e ricordando la sua infanzia. Le sembrava quasi di udire le loro voci. Passò la prima ora senza trovare nulla, e così pure la seconda: solo poco prima di mezzogiorno ebbe il primo piccolissimo successo. Aveva scorso
metà dell'annata 1933-34, quando una foto, un viso visto su una pagina precedente, le si ripresentò alla mente, e lei tornò indietro al novembre 1933. Da una delle pagine di destra le sorrideva Heather Rudge, sigaretta in una mano e coppa di champagne nell'altra. La sensualità di quella donna dalle spalle marmoree la fece avvampare. Intorno aveva dei giovani dandy. Gli occhi di Julia corsero alla didascalia. La notissima e brillante padrona di casa americana, Heather Rudge, al ricevimento di Lord Kilross, qui ritratta con Maxwell Davies, ]eremy Reynolds, Lord Panton, l'onorevole Frederick Mason e il visconte Gregory. Nient'altro. Non uno di quei volti, accesi dalla stessa infatuazione, era noto a Julia, e non vide altre foto di Heather al ricevimento. Fece passare lentamente il resto del volume, ma Heather non vi compariva più e Julia non ne trovò traccia per altri tre quarti d'ora, quando rivide il suo viso ovale, provocante, fatuo e sensuale sbocciare dal collo armonioso sulle splendide spalle. Era circondata da altri giovani, tra i quali Maxwell Davies, il visconte Gregory e l'onorevole Mason. Non apparivano cambiati. L'occasione mondana, lesse Julia, era quella di una festa offerta da Lord Panton, fotografato al fianco di una biondina tutta fronzoli, denti e ricci, una nobildonna. Dovevano essere tutti amanti di Heather. Chissà chi di loro aveva avuto l'onore di procreare Olivia, si domandò Julia. Trovò altre immagini di Heather tre volte, nei volumi che andavano fino al 1936. Sembrava che frequentasse più o meno sempre gli stessi uomini, con l'aggiunta, di quando in quando, di qualche baffuto e attempato gentiluomo con pancetta e occhi sporgenti. Oliver Blankenship, Nigel Ramsay, David Addison. Ma ogniqualvolta uno di questi anziani signori compariva, era controllato da vicino dai giovani cavalieri di Heather. Nelle foto lei era invariabilmente LA NOTISSIMA (o popolare, o famosa) e BRILLANTE PADRONA DI CASA AMERICANA, ma non c'erano immagini di ricevimenti. Julia fece cenno al commesso di riprendersi i sei volumi e di tornare con i successivi. Aveva il viso accaldato e prese a tamburellare le dita sul tavolo lanciando occhiate nella sala silenziosa, dove le persone curvavano il capo sui libri come abbeverandosi a essi. Erano le tre e mezzo. Dopo il caffè del mattino, non aveva più mangiato né bevuto nulla. Un'ala della biblioteca ospitava una piccola tavola calda. Julia pensò di mangiare un panino prima di andare avanti. L'impulso nasceva dal suo nuovo buonumore, dall'ottimismo che cominciava a rianimarla, e Julia decise di seguirlo, benché non avesse fame. Scrisse due parole per il ragazzo,
percorse speditamente il corridoio e uscì dalla sala di lettura, indirizzando un sorriso luminoso quanto svagato al custode. Percorse rapida il lungo corridoio buio fino alla tavola calda, prese un vassoio sotto lo sguardo annoiato di un'indiana con la retina per i capelli e studiò i piatti disponibili. "Troppo tardi per un pasto caldo," annunciò l'indiana dal suo sgabello. Julia annuì, esaminando i panini imbottiti. "Niente pranzo caldo adesso, solo panini," insistette la donna. "Va bene." Da un ripiano ne scelse uno al formaggio e pomodoro, avvolto nella pellicola. Toccando l'involucro frusciante lo immaginò appiccicato al suo viso, a turarle la bocca e le narici. Lo lasciò cadere sul vassoio. "Caffè?" chiese Julia davanti alla scintillante macchina per l'espresso. La donna scosse la testa. "Niente caffè, troppo tardi. Ci sarà di nuovo alle quattro e mezzo." "Bene," disse ancora Julia, ed estrasse da una scatola una bibita all'arancia. Quando arrivò alla cassa, la donna lasciò lo sgabello e si avvicinò dietro gli espositori dei cibi, sospirando rumorosamente. Arrivata finalmente al registratore di cassa, battè gli acquisti di Julia. "Due sterline." "Ci dev'essere un errore. Un panino due sterline?" La donna fissò in viso Julia, poi guardò profondamente tediata il vassoio. Schiacciò altri tasti. "Trentadue pence." Julia portò il vassoio a un tavolo sgombro e si guardò alle spalle, aspettandosi quasi che la cameriera le ingiungesse di sedersi a uno di quelli laterali, ancora sporchi. L'indiana stava ciabattando verso il suo sgabello, ignorandola ostentatamente. L'aranciata aveva un sapore dolce e fresco e aprì un canale fin giù nello stomaco. Julia provò ad addentare il sandwich: il pane sembrava senza pori, sintetico, e i denti non affondavano nel formaggio. Continuò a masticare distrattamente qualche istante il panino raffermo, innaffiandolo con l'aranciata. Quando lo stomaco le si contrasse, lasciò in fretta il tavolo e si precipitò verso la porta con la scritta SIGNORE. Dentro uno dei loculi metallici vomitò nella tazza del gabinetto, e sentì di nuovo in bocca il dolciastro dell'aranciata. Lo stomaco le si rovesciò ancora, ma non venne su che un rivoletto giallastro. Andò a un lavabo e si sciacquò la bocca. Lo specchio le rimandò l'immagine di una megera di età indefinibile, dall'aspetto allucinato. I capelli
sulle tempie erano grigi, aveva le labbra screpolate e, vicino all'occhio destro, c'era un graffio che si era fatta cadendo in Holland Park Avenue. Cercò di ravviarsi i capelli con le dita e riuscì ad apparire per lo meno soltanto spettinata prima di uscire dalla toilette e tornare in sala di lettura. I cinque spessi volumi l'aspettavano sul tavolo. Poco dopo Julia era già all'opera sul primo: esaminava tutte le foto su una pagina, poi passava oltre. Alle quattro ne aveva viste altre due della famosa e brillante padrona di casa americana: una in compagnia di Jeremy Reynolds e la seconda al braccio del visconte Gregory. Heather non era cambiata, ma i suoi accompagnatori, più vecchi di cinque anni, erano visibilmente appesantiti, con un inizio di doppio mento e le gote cascanti. Nell'annata 1937-38 scovò una fotografia di Heather in piedi accanto a una poltrona a rotelle sulla quale sedeva, incredibilmente raggrinzito e fragile, David Addison, uno dei dignitosi, anziani signori dagli occhi sporgenti che l'avevano tante volte scortata. Dall'altra parte della poltrona c'era Maxwell Davies, la cui agile e bruna bellezza era offuscata e rammollita dall'adipe. La sua bocca era spalancata in un sorriso avido e idiota. Un brivido scosse Julia. Le sembrava quasi di poter fiutare il suo alito. In mezzo a quei due ruderi, Heather Rudge brillava, un freddo sorriso di trionfo sulle labbra. Non c'erano altre immagini di Heather in quel volume e neppure nel successivo. Alcuni degli ex giovanotti, lord Panton e il visconte Gregory e altri ancora, presenziavano a balli e feste, ingrassati, i tratti involgariti, il colorito acceso degli ex atleti. Julia finì il volume alle cinque: la biblioteca chiudeva alle cinque e mezzo e lei fu in dubbio se valesse la pena di sfogliare anche gli altri due. Decise di scorrerli nella mezz'ora rimasta e poi di ritelefonare a David Swift. Prese la raccolta 1939-40, la aprì al primo numero e cominciò a sfogliare le pagine più rapidamente di quanto avesse fatto finora. Quando arrivò alla copia del 19 maggio, posò lo sguardo su un servizio fotografico da Cambridge e le sfuggì un'esclamazione. Un Magnus Lofting giovane, eretto ed elegante in abito da sera, sorrideva radioso dalla pagina. Accanto a lui c'era Maxwell Davies. Due allievi di Cambridge parlano dei canottieri di Oxford, diceva la didascalia, citando anche i loro nomi. Da quel momento Julia s'immerse nell'esame degli ultimi due volumi, cercando la foto che sapeva avrebbe certamente trovato. Non si soffermò sulle istantanee isolate di Heather, o di lei con il consueto seguito: sfogliava meccanicamente, setacciando le pagine in cerca dell'inevitabile fotogra-
fia. La trovò alla fine del volume, in un numero del febbraio 1940: l'anno precedente la nascita di Olivia, ricordò Julia. MORALE ALTO A KENSINGTON IN TEMPO DI GUERRA, diceva il titolo. Un'immagine mostrava inequivocabilmente un angolo del soggiorno in Ilchester Place, 25. La carta da parati era vistosa e, anziché i mobili massicci dei McClintock, lungo le pareti c'erano graziose poltroncine e divani. La stanza era piena di uomini di varie età, molti dei quali in uniforme. Heather, giovane e sensuale esattamente come nel 1930, appariva in gran parte delle foto. Ballava con il tenente Frederick Mason e con il capitano Maxwell Davies, e compariva in animata conversazione con il colonnello Nigel Ramsay, ma la fotografia dalla quale Julia non riuscì a distogliere gli occhi finché la campana non suonò nella sala di lettura, mostrava una coppia di una certa età, assurdamente fuori posto alla festa, che sorrideva incerta al fotografo. Erano presentati come Lord e Lady Selhurst. Dietro di loro, in un angolo della sala, il ventunenne Magnus Lofting cingeva le spalle nude di Heather Rudge. Julia sollevò lo sguardo mentre l'africano che le aveva usurpato il posto si stava alzando, e gli lanciò un'occhiata talmente strana che quello lasciò cadere un fascio di carte. Julia allontanò i volumi e si alzò. C'erano solo lei e il negro nella sala di lettura, a parte la graziosa bibliotecaria e gli ultimi due o tre ritardatari già sulla porta. Le sembrava di avere il cuore in fiamme. Ora sapeva come rispondere alla domanda di Lily. Perché proprio te? Perché Magnus è il padre di Olivia, pensò. Perché tutt'e due le bambine sono state pugnalate a morte. Perché Olivia vuole vendetta. Perché il disegno è ormai chiaro. Uscì dalla biblioteca con la testa che girava, e si trovò sotto una pioggerella grigia e insistente. Nuvole nere striavano il cielo buio. Julia frugò in borsetta cercando le chiavi, aprì la macchina e si mise al volante. Aveva mani e viso freddi e umidi di pioggia. Quelle sensazioni, come il gusto amaro alla base della lingua, non vennero registrate dalla sua mente sconvolta. Se gliel'avessero chiesto in quel momento, non avrebbe saputo dire sui due piedi in quale paese si trovasse. Le tessere del mosaico erano tutte a posto, e la risposta alla domanda di Lily era stata trovata, come doveva essere, nel passato. Non le occorreva che Magnus confermasse o negasse quello che aveva appreso; sapeva di essere nel giusto. Magnus era il padre di Olivia: aveva avuto una relazione giovanile con Heather Rudge e poi l'aveva abbandonata. Questo spiegava tutto, e chiariva anche il comporta-
mento di Heather Rudge durante il loro incontro alla Breadlands Clinic. Ecco perché per ben tre volte le aveva domandato se Lofting fosse il suo vero nome. Julia appoggiò la testa al sedile e guardò la nera corazza del cielo. Ora comprendeva molte cose. Era più che logico che Olivia Rudge, visto il tipo che era, tentasse di uccidere la seconda moglie del padre che l'aveva abbandonata, e che volesse replicare il proprio assassinio. Era necessario che si recasse in un certo luogo. Una parte della sua mente se ne rendeva conto con estrema chiarezza, anche se tutto il resto era ancora alla deriva, confuso dalle simmetrie di Olivia. In circostanze normali non si sarebbe fidata a guidare: le pareva di essersi scolata mezza bottiglia di whisky. Ma non c'era altro mezzo per arrivare dove doveva. Girò la chiavetta d'avviamento e il motore della Rover si accese. Innestò la marcia e partì con un balzo dal parcheggio. La pioggia velava il parabrezza e, svoltando sulla strada, Julia azionò il tergicristalli. Non sapeva come arrivare, ma la mappa impressa nel suo cervello l'avrebbe condotta a destinazione. Olivia, Magnus. Olivia, Magnus. L'aveva saputo dalla sera dell'incontro con la signora Fludd, ma soltanto ora afferrava il meccanismo del rapporto, e quale parte avesse lei nel piano di Olivia come in quello di Magnus. Olivia sarebbe potuta essere Kate, pensò, e l'auto schizzò avanti, sfiorando una Volkswagen gialla. Olivia sarebbe potuta essere sua figlia. Lei e Heather Rudge erano intercambiabili. "No," disse forte, e portò la Rover sulla corsia di sorpasso, schiacciando l'acceleratore. Sorelle. Erano sorelle. Donne dello stesso uomo. Madri di fìglie assassinate. Quando finalmente si accorse del rosso, Julia premette a fondo il pedale del freno, ignorando gli sguardi incuriositi che i passanti le lanciarono da sotto gli ombrelli. Seduta al volante, le labbra secche dischiuse, guardò in alto aspettando il verde. Magnus appariva più insondabile che mai, un mare di possibilità e sorprese: non avrebbe mai potuto accettarlo, né bandirlo dalla sua vita. Quel veleno che era Olivia scaturiva dal profondo di lui, da un potere frustrato e distorto nella sua infanzia. (Come Mark, suggerì una cellula sleale del suo cervello.) I clacson si scatenarono dietro di lei. Julia inserì la marcia e superò l'incrocio. Sapeva dov'era diretta. L'oscurità del cielo calò sulle sue mani che stringevano il volante.
Aveva investito un cane? Non ricordava. A dire il vero non ricordava la maggior parte del tragitto. C'era stato un cane, nei pressi di Golders Green e Finchley Road, un cane rossiccio che trotterellava in mezzo alla strada. Julia aveva sterzato immediatamente, andando a sbattere contro il fianco di un'auto parcheggiata e accartocciandole una portiera, ma un sospetto l'aveva colta quando, allontanatasi dalla vettura parcheggiata, aveva avvertito un secondo urto all'altezza della ruota anteriore sinistra. Accelerando, non aveva avuto il coraggio di guardare nel retrovisore. Ora, in piedi accanto alla sua auto in Upper Street, i capelli bagnati dalla pioggia incessante, pensava quanto fosse orribile uccidere un cane. Non riusciva a guardare la Rover. Il dono di Magnus (comprato con i suoi quattrini) era sempre stato ostentatamente lustro ed elegante. Era caratteristico di Magnus comprarle qualcosa con i suoi quattrini e poi usarla contro di lei. Sbirciando con la coda dell'occhio, le parve di vedere delle ammaccature all'estremità posteriore della fiancata e il paraurti curvato in dentro come il corno di un ariete. Curvò le spalle per difendersi dalla pioggia. Dov'era il soprabito? In macchina no. L'aveva lasciato a cavallo della sedia in biblioteca. Si augurò di non aver investito il cane. Poteva esser morto anche senza aver lasciato segni. Le finestre del pub dall'altra parte della strada erano rettangoli di luce rossa; i bicchieri capovolti, simili a pipistrelli, scintillavano come decorazioni natalizie. La pioggia rimbalzava sull'asfalto e scorreva in rivoli verso gli scarichi. I lampioni disegnavano sul marciapiede una striscia luccicante giallo acido, un colore da dare i brividi. L'acqua restava intrappolata nelle ciglia e sopracciglia di Julia. Guardò le finestre sopra il pub e non vide alcuna luce. Doveva salire in casa di Swift, doveva vedere. Non c'era traccia della polizia: perché? Attraversò la strada, dimenticando di spegnere i fari della macchina e di sfilare la chiave e fermandosi a metà per lasciar passare auto quasi invisibili che sollevavano davanti a lei spruzzi. Giunta alla porta di David Swift bussò due volte. Poi, con la pioggia che le gocciolava sulla testa e sul collo, trovò il campanello e lo premette. Quando nessuno aprì, Julia si sentì raggelare. Che cosa stava facendo la polizia? Non avevano capito il suo messaggio? Spinse la porta e incontrò resistenza. Confusa, frustrata, voltò la testa e vide i fari della Rover puntati su di lei. Erano tutto ciò che si vedeva dell'auto.
Tremante d'impazienza si girò ancora verso la porta. Un fatto raccontatole da Magnus le tornò in mente nei più minuti particolari: una volta aveva difeso uno scassinatore e le aveva riferito come l'uomo usasse un riquadro di plastica per aprire le serrature. Si era servito della carta di credito di Julia per darle una dimostrazione. Julia rovistò nella borsetta in cerca del portafogli e tirò fuori la carta, rovesciando foglietti e banconote sul fondo della borsetta. Ne inserì un lato tra la porta e lo stipite, poi spinse in alto e verso l'interno. Uno spigolo scivolò indietro e si udì uno scatto secco. Quando spinse la maniglia l'uscio si aprì. Lei sgattaiolò dentro, sottraendosi alla luce dei fari. Era ai piedi della sudicia scala dalla quale Swift l'aveva chiamata. Dall'alto venne un rumore soffocato. Una morsa le attanagliò il cuore, poi si allentò, benché la paura le scorresse addosso come acqua gelida, e lei cominciò a salire. Aveva sognato quel momento, ma non ricordava quando. Posò le dita tremanti sulla porta di Swift: da dentro proveniva un borbottio, una serie di sillabe senza significato. Spinse un pochino e la porta si aprì dolcemente. Le sue dita lasciarono piccole impronte scure sul legno. Percepì la presenza di Olivia nell'atmosfera tesa e insidiosa che creava immancabilmente intorno a sé. L'odore di Olivia, il suo puzzo leonino impregnava la stanza. Era lì, o se n'era appena andata. Julia vide prima il coltello. Sorpresa, lo raccolse dal pavimento e sentì il palmo della mano aderire all'impugnatura. Rammentò, come se avesse sognato anche quello, il temperino che aveva scoperto nella sabbia il primo giorno in Ilchester Place. Stringendo il coltello ebbe la sensazione della sabbia che le grattava il palmo. Olivia. Si voltò di scatto, sicura che Olivia l'avesse chiamata. Era stato invece un rumore proveniente dal divano, lo stesso borbottio che aveva inteso dalla scala. Come in sogno attraversò il tappeto liso fino al divano e scorse David Swift sdraiato sulla schiena, con gli occhi aperti e le labbra che emettevano sillabe smozzicate. Parla nel sonno, pensò Julia. Mentre lo guardava, la sua testa si piegò bruscamente di lato e il suo petto sembrò fiorire all'improvviso. Dallo sterno alla cintola si aprì una fessura dalla quale sprizzò schiumando un fiotto rosso. Era come se fosse sbocciato un fiore, rivelando una improvvisa configurazione complicata e astnisa. Altro sangue sgorgò da sotto il mento e inondò il collo. Alzò gli occhi in quelli di Julia e si sforzò di parlare, ma il sangue gli riempì la gola e gli zampillò dalla bocca, annegando le parole.
"Lei..." "Lei è appena uscita," terminò Julia. Swift aveva già perso una quantità impressionante di sangue; Julia prese una piccola tovaglia dal tavolino e la premette sulla lunga ferita al torace. Doveva aver visto male, riflette, sorprendentemente calma: Swift stava già morendo, quand'era entrata. Mentre premeva inutilmente la tovaglia sullo squarcio, David Swift si dibattè sul divano spruzzandole di sangue la mano, poi ricadde immobile. Julia lasciò cadere il coltello nella pozza vischiosa sul pavimento, quindi si alzò, sbattendo le palpebre. Olivia era arrivata per prima e l'aveva ucciso nel sonno. Nella stanza aleggiava il suo fetore. Si lavò le mani nell'acquaio, voltando le spalle al cadavere di Swift. Quand'ebbe eliminato ogni traccia di sangue, fuggì precipitosamente lasciando socchiusa la porta su strada, sperando che qualche poliziotto entrasse a dare un'occhiata. Corse verso la Rover nella luce dei fari, sotto la pioggia sferzante, inseguita dalle risate e dalla musica del pub. L'orrore per ciò che aveva visto la invase solo quando fu seduta in macchina, con l'acqua che le scorreva giù dai capelli nel colletto. Cominciò a oscillare avanti e indietro, dal sedile al volante, tirando e spingendo con le braccia, le mani aggrappate al cerchio di legno. Era arrivata troppo tardi. Anche la polizia non aveva potuto nulla contro Olivia. Julia sbattè la portiera e si rannicchiò al posto di guida, tremante e gelata. Tornò padrona della mente molto prima che del corpo. Immagini dell'America, di vallate e di spazi verdi la invasero. 11 Guidava per strade buie e scivolose di pioggia, accompagnata dal rumore ritmico del tergicristalli, e coscientemente contromano. Si sarebbe dovuta trovare sulla destra, perché stava attraversando i sobborghi di una città simile a Boston che le era nota in modo surreale, di sogno. Eppure, tutti gli altri veicoli tenevano la sinistra, e anche questo le era vagamente familiare. Julia seguiva il flusso, compiaciuta della sua conoscenza di quella strana città e, nello stesso tempo, infastidita dal fatto di non riuscire a orientarsi bene. Vide una macchiolina di sangue sull'unghia del pollice e la pulì senza pensarci sulla cucitura dei calzoni. Il raccordo che doveva imboccare, l'accesso all'autostrada, doveva essere nelle vicinanze: di là al New Hampshire c'erano un paio d'ore di macchina. Lo sapeva perché in vita sua non si era mai allontanata di più di due ore di
viaggio dalla valle della sua famiglia. A Julia sembrava di vedere tutte le strade, autostrade, superstrade, carrozzabili di contea e sterrate usate dai contadini, che formavano una fitta rete di collegamenti tra il luogo dove si trovava lei e la vallata. Vedeva anche nei minimi particolari l'ultima svolta prima della valle, la rampa di uscita tra le colline scure, qualche lume misterioso che brillava nelle gole laterali, in lontananza l'alone luminoso di una città. Vedeva ogni palmo di quella buia imboccatura della valle e sapeva, anche senza scorgerlo, dov'era il fiume. Ora avrebbe voluto vederselo davanti. Viaggiava in una città americana simile a Boston, diretta a sud. Case dell'ottocento in mattoni rossi, ora marrone sporco, fiancheggiavano le vie strette. La pioggia tamburellava sulla carrozzeria. Attraversare in macchina una città americana, attraversare in macchina l'America. Londra era una macchia confusa nella sua memoria. Londra non esisteva. Lei era a Boston e non c'era alcuna Londra. Tra poco sarebbe entrata nel Berkshire, con la sua meravigliosa, lunga autostrada tra gli alberi. Boschi intricati. Julia diede gas e l'auto slittò sull'asfalto bagnato di Pentonville Road. A parte tutte quelle macchine, pareva proprio la periferia di Boston. Sapeva che da quelle parti la gente circolava nel senso sbagliato. Ormai ci aveva fatto l'abitudine. Perché doveva essere così? Non volle pensarci. Non aveva età, andava a casa, non le era accaduto nulla. Suo padre l'aspettava in un elegante abito grigio scuro. Il nonno era appena morto e per quello rientrava dallo Smith. Boston era un errore, non era là che doveva trovarsi, ma sapeva quale percorso seguire. Adesso era vicina ai Fens, pensò. Sarebbe apparso molto diverso, perché ogni cosa era cambiata e lei mancava dallo Smith da molti anni. Girò un angolo alla cieca, la mente altrove. La visione del petto di un uomo dal quale sgorgava quel liquido... Non significava nulla, anche se il suo piede era scivolato nel sangue rosso. Nulla. Julia si costrinse a sorridere a un tizio che attraversava la strada sul passaggio pedonale e lui ricambiò il sorriso. Aveva un viso americano, tondo sotto i capelli lunghi bagnati di pioggia. Un volto insignificante, che non lasciava tracce. La Rover lo superò con un sobbalzo. Tra poco Julia avrebbe trovato la direzione giusta e allora avrebbe guidato senza sforzo lasciandosi dietro la città e poi lungo la rampa d'uscita dell'autostrada, e si sarebbe addentrata tra le colline, oltrepassando piccole luci spettrali in una valle dove le curve del nastro d'asfalto brillavano sotto gli alberi.
Nello stesso tempo sapeva dove andava, anche se a volte la sua mente sembrava separarsi da lei e vagare per Boston. Mentre percorreva Marylebone Road, notò sul dorso del polso sinistro un'altra macchiolina di sangue e in fretta, disgustata, strofinò il polso sul sedile dell'auto. Non riuscì a liberarsi della sensazione di essere nel Massachusetts finché, dopo aver parcheggiato la macchina davanti a una casa di Notting Hill, non ebbe percorso il vialetto sotto la pioggia e sceso i sei gradini di fianco all'edificio. Il suo cervello sembrava andare in pezzi, come un brandello di stoffa conteso da un nugolo di uccelli. Suonò con determinazione il campanello. Un seminterrato, una valle. Il respiro le si spezzava in gola, soffocandola. La bocca aperta era asciutta. Finalmente la porta si aprì e Julia si buttò addosso all'uomo che stava dentro, toccandogli il viso umido con le mani. Lui la stringeva e intanto lottava per liberarsi dall'impermeabile. Il viso rigato di pioggia, lei gli si accoccolava contro il petto, scossa da ciò che solo dopo parecchi minuti avrebbe riconosciuto come pianto. Mark, appena dentro la soglia, la lasciò singhiozzare. L'impermeabile bagnato gli pendeva fastidiosamente dalle spalle e, sempre tenendo fra le braccia Julia, riuscì a sfilare prima una manica, poi l'altra. Lo lasciò scivolare a terra e strinse più forte Julia, che tremava contro di lui come un uccellino impaniato. "Grazie a Dio sei a casa," balbettò infine lei. "Avevo tanta paura di non trovarti, perché allora..." La voce le s'incrinò a tal punto che non poté continuare. "Sono arrivato in questo preciso istante," le disse lui tra i capelli che aderivano al cranio ai lati di una scriminatura naturale. "Santo cielo! Non ti ho mai ringraziato per quel denaro. Veramente non avrei dovuto accettarlo, ma ero in un momento di magra e..." Julia inclinò indietro il viso stravolto per guardarlo, perplessa. Evidentemente aveva dimenticato del tutto l'assegno. "Non fa nulla," si affrettò a dire Mark, e l'abbracciò stretta. "Che ti è successo?" Lei gli posò una guancia sulla spalla e cercò di riprendere fiato. "Di tutto," mormorò. "Mi vuole uccidere. Ho visto... Ho visto..." Lo fissò con occhi appannati, senza vederlo. "Che cosa hai visto?" Mark le accarezzò una guancia, ma Julia non reagì. "Durante tutto il tragitto per venire qui ho creduto di essere in America,
a Boston. Cercavo l'autostrada per arrivare nel New Hampshire. Volevo andare alla casa di mio nonno, nella valle. Non è buffo?" "Sei sotto stress." "Sto per essere uccisa," ripetè Julia. "Nessuno può fermarla. Non voglio morire. Posso restare con te, stasera? Sei tutto bagnato." Gli sfiorò il viso. "Come mai sei bagnato?" "Ero fuori. Ho scambiato due chiacchiere con Lily. Abbiamo parlato di te." Le sorrise. "Sono tornato un istante prima che tu arrivassi. Entra." La condusse nella sua stanza, l'aiutò a sedersi su un cuscino e le sfilò le scarpe. Poi le asciugò i piedi con un asciugamano, le strofinò le mani, e finì asciugandole delicatamente anche il viso. "Hai un altro livido." "Sono caduta. Sulla strada. Si stava prendendo gioco di me." "E questa sul polso cos'è?" Mark indicò la fasciatura sporca sotto il polsino della camicetta. "Mi sono ferita. Non di proposito. È stato dopo che l'ho vista. Ti ho telefonato." Julia guardava fìsso davanti a sé; come se adesso che era arrivata fino a lui, temesse che Mark non potesse più offrirle aiuto. "Voleva che fossi investita da un'auto. Come la signora Fludd. Non le importa di uccidere. Le piace. Fa in modo che piaccia anche agli altri." "Aspetta un momento," disse Mark, prendendole le mani e sfregandogliele per scaldarle. Accovacciato davanti a Julia, studiava i suoi occhi assenti. "Chi sarebbe questa lei? La bambina di cui parlavi prima? Olivia Rudge?" Gli occhi di Julia ritrovarono d'un tratto l'espressione. "Non ti ho mai detto il suo nome," affermò, cercando di sottrargli le mani. "Me lo ha detto Lily." "Lily non mi crede. Non può. Per via di Magnus." "Lascia perdere Lily. Dimmi della bambina." Julia guardò affascinata una formica zampettare fuori della camicia di Mark e attraversare un risvolto del colletto. La formica, minuscola, rossa e velocissima, scese sul petto e sparì nuovamente dentro la camicia. "Vuole ucciderti." "Sì." "Sa che hai scoperto tutto sulla morte di quel bambino vent'anni fa." "Geoffrey Braden." Julia pensò al faticoso cammino della formica tra i peli del petto di Mark. Sentiva la testa straordinariamente vuota. "E adesso vuole ammazzarti."
"Ha ucciso altri due uomini, Paul Winter e David Swift. Vengo ora da casa di Swift." Parlava con voce piatta, gli occhi fissi sulla camicia di Mark. "Posso sdraiarmi sul tuo materasso?" "Certamente!" Lui l'aiutò ad alzarsi e a raggiungere il materasso. Coperte e lenzuola giacevano aggrovigliate dalla parte dei piedi e Mark gliele stese sulle gambe. Poi si sedette accanto a lei sul pavimento, allontanando il disordine di indumenti e piatti. "Ti cerco un sonnifero", così potrai rilassarti." "Non ho bisogno di dormire." "Ma hai bisogno di riposare," insistette Mark. Le sollevò la testa e v'infilò sotto il cuscino sporco. La lasciò che fissava il soffitto e andò in cucina a prendere un flacone di compresse e un bicchiere d'acqua. "È solo Valium," disse, tornando. "Ne prendo troppe," protestò Julia, ma ne inghiottì lo stesso una. Poi concentrò lo sguardo sugli occhi di Mark, che vide le sue pupille contrarsi, e scandì: "Ho scoperto che Magnus è suo padre. Ecco perché ha scelto me. Ecco perché mi ha voluta sin dall'inizio." "Chiudi gli occhi, Julia. Ne parleremo domattina. Abbiamo tante cose da dirci, noi due." Lei obbedì. "Mi sono lavata le mani perché erano sporche di sangue." Girò la testa verso Mark e riaprì gli occhi. "Voglio che tu mi protegga. Solo questa notte. Ti prego." Senza volerlo lui stava fissando il contorno delle cosce di Julia sotto i calzoni. Notò uno sbaffo brunastro lungo una cucitura ed ebbe un violento sussulto, come se avesse toccato un filo elettrico scoperto. "Sto per sentirmi male," stava dicendo lei. "Mi sento così strana. Non voglio morire. Non voglio morire, Mark." Mark spense la luce e si spogliò al buio, ma non sapeva dove dormire. Julia giaceva completamente vestita di traverso al materasso. Non osava muoverla: le sue condizioni gli apparivano pericolose, confermando in pieno tutto quanto aveva detto Lily. C'era il rischio che, anche soltanto toccandola, precipitasse nella follia totale. Il suo accenno a Magnus l'aveva sconvolto, ricordandogli ancora che, nonostante gli avvenimenti delle ultime due settimane, era pur sempre la moglie del suo fratello adottivo. Mark sapeva fin troppo bene che Magnus era più forte di lui e non avrebbe esitato a coprirlo di botte se avesse sospettato che dormiva con Julia. Magnus lo aveva picchiato due volte, da ragazzo, e Mark evitava di ricordare
quelle esperienze. Tirò fuori dall'armadio una coperta indiana regalatagli anni prima da una ragazza di cui non ricordava più il nome e vi si avvolse alla bell'e meglio per poi accoccolarsi in una poltrona. Magnus sembrava essere dappertutto, dietro ogni sasso e ogni angolo; la sua virilità, secondo Julia, aveva procreato Olivia Rudge, il fantastico spettro di Julia stessa. Benché fossero all'incirca della stessa statura, Mark aveva sempre ritenuto il fratellastro molto più alto di lui, di aspetto due volte più massiccio e imponente. Possibile che Lily riuscisse a controllarlo? La sua offerta era stata un tipico esempio di pagamento per servizi resi, ma sarebbe stata valida soltanto se Magnus avesse riconosciuto che l'opera di persuasione di Mark su Julia meritava una ricompensa. Mark sapeva che il fratellastro lo giudicava un incapace, una nullità, ma non credeva che Magnus l'avrebbe truffato. Di certo nessuno di loro poteva permettersi che Julia lasciasse l'Inghilterra. Mark si allungò sulla poltrona, con la testa che gli ciondolava e la coperta che gli graffiava la pelle come fosse stata carta vetrata. Julia era ancora immobile sotto il lenzuolo. Magnus e Lily avevano ragione a dire che le occorreva un lungo riposo, sotto controllo medico. Finora Mark non aveva fatto che assecondarla in tutto ciò che sembrava allontanarla da Magnus, ma forse era giunto il momento di cambiare strada. La verità era che la sua carriera accademica stava toccando il punto più basso e l'insegnamento gli era venuto terribilmente a noia. Il suo libro era un fantasma, qualcosa di morto che viveva solo nell'illusione. Lo stipendio d'insegnante era la sua unica entrata, a parte la misera somma lasciatagli in eredità da Greville Lofting. Il vecchio bastardo non aveva voluto saperne di un'equa distribuzione dei beni. Non che, in confronto a Julia, ne avesse posseduti molti. Julia si lamentò e mormorò qualcosa. Mark pensava che il mal di testa, che gli era venuto mentre usciva da Plane Tree House e non gli aveva dato tregua per quattro ore, sarebbe tornato con l'arrivo della cognata, invece, con sua grande sorpresa, era andata altrimenti, di certo grazie alle condizioni di Julia: una Julia tanto debole e indifesa non poteva far scattare quella sorta di grilletto che gli scatenava l'emicrania. (Negli ultimi giorni aveva avuto la sensazione di una pallottola, un corpo estraneo incandescente che gli forava il cervello.) Udì la voce di Julia. "Mark?" "Sono qui," bofonchiò, "sulla poltrona." "Perché non vieni a letto?" "Stavo pensando."
"Ah," mormorò Julia, già quasi riaddormentata. Aveva l'abitudine di parlare di notte con Magnus? Di chiedergli di raggiungerla a letto? Quell'idea lo eccitò e, messosi a sedere, osservò le forme di Julia sotto il lenzuolo. Dormiva con la faccia affondata nel cuscino e i capelli scompigliati, simile alle molte altre donne che avevano posato la testa su quel cuscino. Pronunciò distintamente il nome di Mark nel sonno. Lui immaginò involontariamente il corpo pesante di Magnus sopra quello di Julia, la pancia di lui che la schiacciava, Julia che apriva le gambe, Magnus che la prendeva. Era sua. Vedeva le braccia di Magnus che la circondavano, le gambe di Julia avvinte ai suoi fianchi. Il pene di Mark si eresse contro la stoffa ruvida e lui buttò via la coperta per attraversare la stanza e sdraiarsi accanto a lei. Poco più tardi, dopo una breve battaglia con bottoni ed elastici, sentì la sua mente viaggiare per gli spazi infiniti mentre si buttava sopra la moglie del fratello. Era come far l'amore sotto l'effetto dell'LSD in corpo, ma anche quella era stata un'esperienza da nulla, in confronto con questa, perché, per tutto il resto della notte, allucinazioni e visioni lo innalzarono e lo ispirarono: era un uccello splendidamente sessuato che fecondava l'aria. L'innocenza si irradiava intorno a lui, cancellando gli odori di sudore e di cucina stantia. Al mattino Mark andò a comprare uova, pancetta e pane e Julia, sola nello squallore di quella stanza, si mise a piangere. Si sentiva abbandonata e inerme, come una naufraga su una spiaggia grigia. Nemmeno Mark poteva restituirla alla normalità o salvarla dalla desolazione. Singhiozzò qualche minuto, poi rassettò le lenzuola sul materasso. Mostravano righe e macchie indurite che Julia finse accuratamente di non vedere. Si stava chiedendo se la polizia avesse scoperto il cadavere di David Swift e, in questo caso, se i giornali avrebbero pubblicato la notizia della sua morte. Swift non era figlio di un generale. Qualcuno doveva essere messo al corrente dell'accaduto. Mark aveva solo finto di crederle e lei era stata troppo stanca e sconvolta per spiegargli gli avvenimenti della serata. Si rese conto che c'era una sola persona alla quale poteva telefonare. Lily staccò il ricevitore al primo squillo, pensando che Magnus avesse scoperto come fare per internare la moglie in ospedale. "Pronto?" disse, e guardò in rapida successione il cavallo di Stubbs, i suoi vasi e il paravento persiano. La voce di Julia, stanca e fioca, le fece apparire pietrificato ciascuno dei suoi tesori.
"Lily? Devo dirti alcune cose. Ascoltami." "Dove sei?" domandò prontamente Lily. "Ieri sera Magnus e io abbiamo tentato di chiamarti, ma non eri in casa." "Be', adesso ci sono," mentì Julia. "Ho passato la notte fuori." "Pensi di aver fatto bene, cara? Siamo tutti dell'idea che dovresti riposare il più possibile. Sarei felice di aiutarti a portare qui un po' delle tue cose, così non saresti sola..." "Ormai è troppo tardi, Lily," rispose debolmente Julia. "Cara, parla nel microfono." "Devi credermi, Lily. Nessun altro vuol farlo. Non posso parlare con nessuno." Sembrava lontanissima e disperata e per un istante Lily la immaginò in volo verso ovest, una figura su un aereo che rimpiccioliva sempre più nel cielo. "Hai ricominciato a tormentarti. Perché non vieni qui e mi racconti tutto?" "Lily, Magnus è il padre di Olivia. Lo so. S'incontrava regolarmente con Heather Rudge... nella mia casa. C'è una foto di loro due insieme, scattata meno di un anno prima della nascita di Olivia. È lui il padre di Olivia, Lily. Per questo lei ha scelto me. L'ho vista uccidere una persona, ieri sera. David Swift. La conosceva e ha parlato troppo, come Paul Winter. Li ha fatti uccidere da qualcuno. Io sono arrivata subito dopo, e lui stava morendo. La prossima sarò io, Lily, non è rimasto nessuno oltre a me. Sta per arrivare il mio momento." Lily non udì l'ultima parte dell'annuncio. Quando Julia aveva detto che Magnus era il padre della bambina, aveva sentito immediatamente che era la verità. La collera per l'inganno e le menzogne di Magnus balenò in lei come un'esplosione. Si sentiva completamente tradita. "Sei certa che Magnus..." balbettò. "Certissima," rispose la voce alterata di Julia. "Per questo Olivia voleva me. Ha un suo schema." "Dio mio!" esclamò Lily, intravedendone un altro. "Capisci ciò che stai dicendo? Julia, se quello che dici è vero, esiste una ragione per cui sei stata scelta da Olivia. Magnus..." "Magnus e Kate," bisbigliò Julia. "Magnus e Olivia. La differenza è che Olivia era malvagia. E può operare attraverso la mente di altre persone." "Julia, questo è importante," disse Lily, esaminando affannosamente le varie possibilità. "Cerca il nome di quell'uomo sul giornale," la pregò Julia, senza ascol-
tarla. "Swift. Era uno della sua banda. Mi ha narrato dell'assassinio di Geoffrey Braden. Lo ha ucciso lei. Ho visto il suo corpo... era coperto di sangue." "Ju... Ma Julia aveva riattaccato. Lily compose il suo numero e, in un turbinio di pensieri, ascoltò l'apparecchio squillare. "Rispondi!" borbottò. "Rispondi, rispondi!" Alla fine abbassò la forcella con un dito e, dopo aver sentito il segnale di libero, fece il numero di Magnus, in Gayton Road. "Non è semplice come schiacciare un interruttore," l'investì lui. "Esistono due possibilità. Andrà tutto bene. Ti farò sapere entro sera." "Non ti ho chiamato per questo," l'interruppe con asprezza Lily. "Devo farti una domanda e voglio la verità, Magnus." "Cos'altro c'è?" Il suo tono annoiato mandò su tutte le furie Lily. "Eri tu il padre di quella bambina perversa? La piccola Rudge? Ho appena parlato con Julia, e dice che ne ha le prove." "Aspetta, Lily. Hai detto 'le prove'?" Il suo tono di divertita incredulità valeva quanto una confessione. "Sa che eri tu... mi sembra che si sia espressa così. Voglio la verità, Magnus." "Non so quale sia." "Cioè?" "Non so se ero io il padre. Potevo esserlo, esattamente come altri due o tre. Succhiava denaro a tutti noi. Forse la bambina era una realizzazione di gruppo. In certi fine settimana mancava poco che ci fosse la coda." "Sei uno sciocco, Magnus. Avresti potuto dirmelo una settimana fa e sarebbe stato un gran bene. Ora potrai dirti fortunato se rivedrai la faccia di Julia." "Non puoi cercare di rimediare, mentre io preparo le carte? Non posso fare tutto da solo." "Villano!" scattò Lily. "Per adesso cercherò sul giornale se ci sono notizie di un certo Swift. Tua moglie dice di averlo visto assassinato." "Per amor del cielo, stai diventando pazza anche tu?" "Ciao." Lily riappese con garbo e andò al divano. Su un bracciolo erano piegati il Times e il Daily Telegraph del mattino e lei li stese sul tappeto. Sfogliò il Times leggendo i titoli di ciascuna pagina e, quando arrivò a quella dello sport, lo risfogliò al contrario, per sicurezza. Non si parlava né di David Swift, né di morti misteriose. Molto sollevata, passò al Daily Telegraph. Era tutta un'allucinazione di
Julia, un motivo in più per ricoverarla. Niente in prima pagina, naturalmente, e neppure in seconda. Lily scorse la terza pagina con la crescente certezza di essersi lasciata sopraffare da un panico irragionevole; doveva trovare il modo per scusarsi con Magnus salvando la faccia. Un titoletto in fondo a una colonna della quinta pagina mise brutalmente fine alle sue riflessioni: UCCISO A COLTELLATE Il corpo privo di vita di David Swift, 37 anni, è stato rinvenuto nelle prime ore del mattino di giovedì dalla polizia, nel suo appartamento di Islington. Gli agenti stavano accertando come mai la porta dell'abitazione fosse aperta, quando hanno scoperto il cadavere di Swift, morto in seguito a numerose ferite da taglio. Testimoni rintracciati dalla polizia affermano che una sconosciuta è stata vista lasciare la casa del signor Swift circa un'ora prima del rinvenimento della vittima. Rilesse in fretta il trafiletto, poi si alzò e lasciò cadere a terra il giornale. Era vero: Julia era stata vista fuggire dall'appartamento. Magnus era il padre di Olivia. Il disegno che aveva intravisto mentre parlava con Julia acquistava maggior chiarezza. Non potendo coglierlo, Julia ne aveva inventato un altro che si adattasse ai fatti che conosceva. Lily si era rifiutata di prendere in considerazione le storie di Julia perché non esisteva un motivo convincente per cui dovesse essere stata oggetto di un'autentica manifestazione. E ora che il motivo appariva tanto ovvio e lampante, non riusciva a capire come potesse esserle sfuggito. (Però riconosceva, vergognandosene, quanta patte avesse avuto l'orgoglio nel suo rifiuto.) Il sangue le affluì al viso. Lily si accostò alla finestra e guardò il parco deserto. Il cielo era scuro e piovigginoso. Ora più che mai era importante portar via Julia da quella casa. Se Olivia Rudge vi fosse apparsa... Lily rabbrividì e tornò al telefono. Aveva paura, ammise, paura per tutti loro. Se Julia aveva ragione, nessuno della famiglia era al sicuro. E se Rosa Fludd avesse visto veramente qualcosa, e fosse morta per questo? Lily gemette e staccò il ricevitore per chiamare Mark. Julia sapeva che Lily l'avrebbe richiamata al numero sbagliato. Poi cosa avrebbe fatto? Avrebbe dato un'occhiata al giornale, sperò. Era impossibile che a Londra un uomo trovasse morte violenta senza che ne parlassero i
quotidiani. Qualcuno deve credermi, pensò Julia, e ora c'è solo Lily. L'atteggiamento di Mark, quando non era a letto, era distaccato, pedante, tranquillizzante; aveva capito che non le credeva e si era sorpresa, nel suo stato di choc, di non esserne rimasta ferita. Ciò confermava il suo isolamento: qual era l'atmosfera più adatta a Olivia se non quella? L'atmosfera del sogno del tetto. Si sedette sull'orlo del materasso, confusa, non sapeva che fare. Le uova e la pancetta erano state un'idea di Mark. Per lei nulla era più remoto del pensiero del cibo. Quello che voleva, nonostante la vagina le pulsasse dolorosamente, era stringersi di nuovo a Mark, abbracciarlo e rannicchiarsi vicino a lui, la mente vuota. Dialogò con lo sguardo sull'incredibile disordine dell'appartamento: il pavimento era disseminato di capi di vestiario, piatti, bottiglie di latte vuote. I libri erano accatastati nei posti più impensati. Sotto l'odore diffuso di Gauloise ce n'era un altro, singolare, di gabbia per uccelli mal pulita. Si alzò vacillando: aveva deciso di fare qualcosa per il pavimento. Quando si chinò per raccogliere una pila di piatti, il sangue le andò alla testa e vide un vortice di macchie rosse e nere. Si sedette pesantemente sul materasso, aspettando che la vista le si schiarisse. La stanza ondeggiava intorno a lei. Toccò i piatti: una sostanza marrone si era indurita in superficie incollandoli in un unico blocco. Julia li tenne in grembo finché la stanza cessò di vibrare, poi li portò in cucina. L'acquaio era già stracolmo di tazze e bicchieri immersi in acqua fredda e untuosa, così Julia posò i piatti sul piccolo frigorifero e andò di là a raccogliere altra roba. Quando tornò in cucina con due bicchieri e due bottiglie del latte, ne scoprì un'altra ventina su un ripiano sotto l'acquaio, avvolte in una complicata e sottilissima ragnatela di filamenti verdastri. Julia le spinse indietro e trovò posto anche per le sue due. Nell'altra stanza suonò il telefono e Julia esitò prima di rispondere. Forse Lily aveva indovinato dov'era: ci teneva a nasconderlo ancora? Sollevò il ricevitore, indifferente. "Mark, che cosa ti prende in questi ultimi tempi?" alitò nel microfono una voce femminile calda e sensuale. "Annis dice che sei stato impossibile con lei e le hai parlato solo di meditazione. Be' noi pensiamo che un Grande Amore ti assorba completamente. E la sola spiegazione perché non sono cose da te. Forse dovremmo trovarci un giorno al 'Sole Nascente' per..." "Non è in casa," disse Julia e riappese su uno scoppio di risa sbalordite che le fece cadere di mano l'apparecchio. Quando toccò il pavimento, la
base di plastica si spaccò come il guscio di una lumaca. Julia si avvicinò alla scrivania di Mark, si sedette e scostò le tende. La pioggia picchiava sul muro grigio davanti alla finestra, appiattendo gli sparuti ciuffi d'erba cresciuti nelle fessure del cemento. Uno spicchio di cielo bigio era sospeso nell'angolo superiore del vetro e appariva assurdamente inclinato, fuori prospettiva. Julia sfiorò la macchina per scrivere di Mark, poi leccò la polvere dal dito. Non capiva quella telefonata. Alle sue spalle, l'apparecchio rotto cominciò a ronzare a intermittenza, come un'ape infuriata. Il Grande Amore? Annis? Che razza di nome era? Non riusciva a comprendere le parole della sconosciuta al telefono. Aveva l'impressione di essere stata schernita, beffeggiata da quel riso, anch'esso con l'accento di Knightsbridge. Appoggiò il capo sui tasti freddi della macchina. La scrivania, i libri, le carte di Mark. Lavorava a qualcosa. Provò una viva riconoscenza per il suo lavoro, per la sua appartenenza alla confortante categoria degli uomini che fanno, che costruiscono ponti, scrivono libri e prendono decisioni. Carezzò la risma di carta lì vicino. Mark. Quel nome sembrava batterle nel petto. Non si poteva biasimarlo per la sua riluttanza ad accettare la sua folle storia. Più tardi gli avrebbe mostrato il giornale con la prova che non si era inventata la morte di David Swift. Il pomeriggio pareva lontanissimo; anche il semplice pensare sembrava richiedere uno sforzo sproporzionato. Era sicura che la donna al telefono avesse riso di lei. Ancora una volta si trastullò con l'idea di partire per l'America. Si stese sul materasso, sperando che Mark tornasse presto. L'anta dell'armadio era aperta, e Julia guardò pigramente le poche cose di Mark appese a grucce di filo metallico. A quanto pareva possedeva solo una cravatta, larga quasi un palmo, color argento, con un sole arancione in mezzo. Julia ricordò le centinaia di cravatte a righe di Magnus, in file ben ordinate, e abbozzò un sorriso. Mark aveva inoltre un abito di tweed verde, chiaramente risalente agli anni Cinquanta, che probabilmente non era più stato indossato da allora. Magnus dava l'impressione di non tenere molto ai vestiti, ma ne possedeva una infinità. Disponeva ad esempio di sette paia di scarpe, esattamente identiche e confezionate dallo stesso calzolaio di Cork Street che aveva fornito suo padre. Mark invece sembrava avere solo stivali, un paio neri e un paio marrone, con le cerniere laterali. Un paio di sandali. Qualcosa di marrone, seminascosto da una borsa in fondo all'armadio, richiamò l'attenzione di Julia. Conosceva quella particolare sfumatura marrone legno e, mentre la sua mente registrava questo fatto, cominciò ad av-
vertire dentro di sé un campanello d'allarme. Sporse il braccio dal materasso e spostò la borsa con la punta delle dita. Aveva sotto gli occhi la parte posteriore di un paio di scarpe con i tacchi bassi e robusti e un marchio stampigliato discretamente sul cuoio in fondo alla cucitura dietro. Era una piccola lettera D che stava per David Day, l'artigiano che le aveva cucite. Le aveva comprate lei quattro anni prima, e ne ricordava ancora il prezzo. Erano le scarpe che aveva perso arrampicandosi dalla finestra la prima sera in Ilchester Place. Julia fissò le scarpe, il respiro affrettato, la mente restia ad accettare ciò che vedeva. Infilò una mano nell'armadio come se avesse contenuto un serpente a sonagli, e le tirò fuori. Le tomaie erano macchiate d'acqua e sformate per essere state due giorni all'aperto. Era stato Mark, non Magnus, a prenderle. "Aspetta," si disse, toccando il cuoio marrone. Il cuore le martellava in petto. Si guardò il polso destro, dove portava il braccialettino verde donatole da Mark. Qualcosa presa, qualcosa data, aveva detto la signora Fludd. Lo sfilò con uno strattone dal braccio e lo lasciò cadere sul lenzuolo sporco. Mark era comparso in diverse occasioni nella scia di Olivia. Lei aveva pensato che si trattasse di una specie di magica telepatia, ma a ben pensarci Mark era comparso ogni volta, immancabilmente. Poteva aver trovato semplicemente le sue scarpe? Ma allora, perché nasconderle nell'armadio? Ricettivo, aveva detto la signora Fludd. Dev'essere riempito come una bottiglia. Julia si rese conto di emettere un suono gutturale, ma scoprì di non poterlo controllare né reprimere. Il cuore sembrava rimbombarle come un tamburo dentro le costole. Si strappò la benda dal polso. Si sentì andare in pezzi, come un osso sottile. La lunga ferita era gonfia, un segno violaceo e frastagliato sulla pelle, e lei l'aprì con le dita della mano destra. Affiorò subito un lucente nastro di sangue. Mark saprà, le disse la sua mente. Divaricò le labbra della ferita e il sangue colò sulla mano e gocciolò sul letto di Mark. Julia strofinò le scarpe nel sangue e le lasciò sul materasso. Il braccio cominciava a pulsarle. Il suono di gola si era trasformato in un brontolio basso, quasi un ringhio. Impresse sulle lenzuola il marchio rosso della ferita. Quand'ebbe finito di sporcare ogni cosa, tornò a fasciarsi il polso, ignorando le nuove macchie sui pantaloni, e corse alla porta. Doveva andarsene prima del ritorno di Mark. La vagina le pulsava allo stesso ritmo del polso
ferito. Ebbe un fremito, ricordando che cinque minuti prima aveva pensato alla salvezza. Non c'era salvezza, ma solo l'illusione di essa. Aprì la porta e guardò ansiosamente la scala, quasi temendo di vedere Mark che le sorrideva dall'alto dei gradini. La pioggia le si polverizzava sul viso. Julia salì fino alla strada e, pochi istanti dopo, la stoffa leggera della camicetta le aderiva già alla pelle. Corse lungo l'isolato, inseguita dal sorriso beffardo di Olivia e dall'immagine di Mark. Esisteva una sola via d'uscita, una sola possibilità di salvezza. Davanti a lei c'era Kate. Nella fretta e nella paura non si ricordò della Rover finché non fu in fondo alla strada. In casa c'era una temperatura equatoriale. Julia sbattè la porta e chiuse a chiave, sapendo che Hazel Mullineaux l'aveva vista percorrere zoppicando il vialetto, i capelli grondanti e gli abiti zuppi. La vicina era ferma all'ingresso laterale della sua villetta, il viso bianco e splendente sotto un grande ombrello nero. Sembrava il manifesto pubblicitario di una crema per la pelle. Trafelata, Julia attese dietro la porta ciò che sapeva sarebbe accaduto. Non erano passati trenta secondi che il trillo del campanello risuonò nell'ingresso. "Via di qui," bisbigliò Julia. Hazel Mullineaux bussò, poi suonò ancora. "Sto benissimo!" disse Julia, un po' più forte. Dopo aver bussato di nuovo, Hazel si chinò a sollevare l'aletta della fessura per la corrispondenza. "Signora Lofting? Le serve aiuto?" "Se ne vada. Non ho bisogno del suo aiuto." "Oh!" Julia avrebbe scommesso che la vicina era in ginocchio davanti alla porta. Sicuramente adorabile, in quell'atteggiamento. "Mi è sembrata... sconvolta," disse la voce bassa attraverso la fessura. "Mi lasci in pace. Torni a casa sua!" "Non volevo disturbarla." "Tanto meglio. Se ne vada, la prego." Julia restò appoggiata alla porta finché udì i passi di Hazel Mullineaux che si allontanava, riluttante, poi andò nel soggiorno buio e strappò il cordone del telefono dal muro. Con l'apparecchio ormai inutilizzabile tra le mani, si accorse che quelle settimane di calore anormale avevano prodotto delle trasformazioni chimiche nelle pareti, perché in alcuni punti la tappezzeria si era gonfiata e una striscia penzolava dal soffitto come la lingua di un cane. Tutta la stanza sembrava invecchiata, rugosa, cadente. I mobili dei McClintock avevano perso
il loro solido aspetto vittoriano, e parevano spelarsi come pelle bruciata dal sole. Una delle sedie in sala da pranzo era scollata e un angolo del tappeto si era arricciato. Julia gettò a terra il telefono. Il polso ferito, i muscoli dei polpacci e il basso ventre le facevano male. Aveva la sensazione che la carne sul suo viso fosse un'escrescenza tumefatta delle ossa facciali. Non poteva fidarsi di nessuno. Al piano di sopra si sedette sul bordo del letto e aspettò. Il vuoto della casa la circondava. Ora nessuno poteva telefonare e lei non avrebbe aperto la porta. Gli altri sapevano ciò che dovevano sapere. Era Mark o Magnus, uno dei due. Uno dei due era stato usato da Olivia Rudge, e la signora Fludd l'aveva visto settimane prima. Mark l'aveva ingannata. Era Mark. Poteva essere Mark. Julia si alzò, andò al suo scrittoio e prese da un cassetto un foglio e una matita. Bisognava che qualcuno sapesse, che fermasse Olivia altrimenti lo spettro avrebbe continuato a impossessarsi delle menti delle persone, a strumentalizzarle, passando dall'una all'altra come un morbo. Se verrò trovata morta, non si sarà trattato di un incidente. Se verrò trovata morta in questa camera o altrove, qualsiasi possa apparire la causa del decesso, sarò stata assassinata da mio marito o da suo fratello, Mark Berkeley. Uno dei due progetta di uccidermi. La stessa persona avrà provocato la morte di Rosa Fludd e, probabilmente, del capitano Paul Winter e di David Swift. (Ma forse no.) Questo perché... Questo è collegato alla bambina defunta di nome Olivia Rudge, morta come mia figlia. Mio marito Magnus era padre anche di Olivia. Si parla di lei nei giornali del 1950. Ma tralasciando il soprannaturale, dato che può influenzare l'opinione di chiunque leggerà queste righe, vi prego di credere che non sono morta suicida e che non sono stata vittima di un incidente o un male improvviso. CREDETEMI, PER FAVORE! Senza rileggere lo scritto, Julia piegò il foglio e lo infilò tra due pagine della sua agenda, che nascose tra due maglioni in un cassetto. Quindi si stese sul letto e fissò le forme in movimento sul soffitto. Attendeva. Suoni gioiosi parvero erompere da altri angoli della casa. Intorno a lei alitavano aria torrida e puzzo ferino. Alla fine ingoiò tre compresse di sonnifero. 12 Un tempo tutto era stato diverso. C'era una graziosa e placida giovane
donna di nome Julia Lofting che viveva a Londra col marito, un uomo di successo, e la loro bella bambina, e tutti e tre conducevano un'esistenza felice e serena, devoti al nucleo familiare e devoti l'uno all'altro... C'era una volta una ragazza ricca che si chiamava Julia Freeman e aveva sposato un uomo più anziano di lei, un inglese di nome Magnus Lofting e viveva con lui a Londra, tollerando i suoi tradimenti e le sue scenate per amore della loro bambina (della bambina di Julia)... Una volta, una confusa e smarrita donna americana chiamata Julia viveva in una casa con la figlia e vedeva il marito solo a tarda sera, quando rientrava da uno dei club che frequentava per bere... C'era una volta una bella bambina piena di fantasia che si chiamava Kate Lofting... ma ora è morta... C'era una volta una coppia, Magnus e Julia, con una casa elegante, ma non quanto avrebbero potuto permettersi perché loro (lei) detestavano gli sperperi, con due auto e una figlia, e pochi amici fuori della cerchia familiare perché Magnus non piaceva a molta gente e perché Julia era molto tìmida e a loro bastava la bambina, davvero... Una volta una ragazza americana si era buttata tra le braccia di un uomo di nome Magnus e aveva avuto una figlia da lui, si era servita del proprio denaro per portarselo a letto (farsi sposare)... C'era una volta una ragazza simpatica a tutti. Julia guardò il soffitto attraversato da crepe della camera da letto, pensando a se stessa bambina, beniamina del padre (la sua caratteristica più bella erano i capelli). Aspettava. La parte migliore e più vera di lei era nel passato che le aveva mandato Olivia Rudge. Della quale aveva sposato il padre. Era troppo stanca per alzarsi dal letto, e la sua mente errava da una versione all'altra. Dal piano di sotto venne il rumore di una sfuriata, di vetri rotti, di scoppi sordi, di stoffa lacerata. Cominciati in cucina, i rumori si spostarono in sala da pranzo. Ora pareva che qualcuno scagliasse le sedie contro il muro. Volevo liberarti, pensò Julia, volevo darti la pace. Ma tu non vuoi la pace. Vuoi il dominio. Odi tutti noi e questa casa. Ti ho liberato, ma nella maniera sbagliata. In un punto della casa si schiantò del legno e a quel frastuono seguì immediatamente un'altra serie di esplosioni attutite. Le tazze della sala da pranzo. Poi il rumore dei piatti di porcellana che cadevano a uno a uno. Una bottiglia si fracassò contro il muro. Vino? Whisky? Julia, mezzo intontita, annusò l'aria, ma avvertì soltanto un debole odore di escrementi. "La faccenda è risolta." "Come?"
"Ci occorre un certificato firmato dal suo medico curante e da un altro. Due medici dell'ospedale, il dottor Comesichiama e un suo collega, accetteranno di firmarlo. Julia verrà tenuta in osservazione per un certo periodo. Sarà un ricovero temporaneo, ma mi darà il tempo di studiare il sistema per farla trattenere là, lontana dai guai. Sei soddisfatta?" "Non so cosa potrebbe soddisfarmi, in questo momento." "Non fare scene con me, Lily. L'idea è stata tua, e lo sai benissimo." "Per il tuo bene, fratellino." "Per il nostro. E per il suo." "Ma soprattutto il tuo." Magnus guardò all'altro lato della stanza, dove Lily sedeva sul suo piccolo, aggraziato sofà vicino al paravento persiano. Lo stava osservando in modo strano. I suoi occhi apparivano più grandi del solito e le iridi nocciola parevano nuotare nel bianco circostante. Era pallidissima. "Per amor del cielo, Lily, sei ancora arrabbiata con me per quella dannata bambina? Lavori troppo di fantasia, sai. Non ti ho mentito. Non l'ho mai vista. Chiunque poteva essere suo padre." "Non è stato chiunque." "E un po' tardi per la prova del sangue." "Vorrei che non fossi tanto ottuso, a volte." Magnus la guardò interrogativamente. "Lily, vorrei spiegarti la nostra posizione. Julia può essere internata all'ospedale appena avrò la firma dei medici, al più tardi martedì. In caso di ricovero permanente o morte di Julia, ho il controllo di tutti i beni, sia di quelli comuni sia di quelli separati. La morte comunque è solo un'eventualità estrema. Il punto legale in questione è l'incapacità mentale, che sarà provata dall'autorizzazione dei medici alla nostra richiesta di internamento coatto. È molto semplice." "Telefonale," ordinò Lily. "Ora, subito." "Cosa? Vuoi farla venire qui? Non è più necessario, ora che i dottori..." "Telefonale!" "Ma che cosa ti prende?" "Sono terrorizzata, idiota! Ha sempre detto la verità e io ero troppo stupida e presuntuosa per capirlo. È in pericolo di morte." "Ma che..." Magnus non credeva alle proprie orecchie. "Vuoi dire che adesso credi a queste assurdità? Ma se due giorni fa mi avevi assicurato che erano fantasie. Non è così che hai detto?" "Sì," ammise Lily, "ma avevo torto. Dobbiamo tentare di salvarle la vita. Per favore, Magnus, telefonale! Voglio essere certa che è ancora viva."
Magnus si alzò controvoglia dalla sua poltrona e si avvicinò al telefono. Fece il numero di Julia e attese qualche istante in silenzio. "Non risponde. Che cosa significa, Lily?" "Vendetta," rispose la sorella. "E la vendetta di Olivia Rudge." Ecco cos'è, pensò Julia, ascoltando il bailamme al piano di sotto. È la sua vendetta. Olivia odiava essere ostacolata e Heather le aveva stroncato la carriera, per cui era rimasta vittima della sua vendetta. E la signora Braden murata viva nella propria camera era anche lei vittima della sua vendetta, come pure i membri della sua banda che avevano visto le loro vite distrutte o ridotte in cenere, senza aver costruito nulla se non a prezzo di terribili sofferenze. Era stata destinata a comprare la casa. Olivia aveva allungato i suoi tentacoli e aveva trovato lei, l'unica donna che potesse catapultarla di nuovo nel mondo. Se Kate non avesse tentato di ingoiare quel pezzo di carne, se lei e Magnus avessero atteso qualche istante di più l'ambulanza... A Julia sembrava di non essere più nel suo letto, ma di trovarsi sospesa su una scogliera di rocce aguzze sopra un mare in tempesta. La sua pelle scottava come se avesse la febbre. Immaginò di avere tra le braccia Kate, ma Kate era in quella piccola, profonda fossa, in quella piccola cassa sotto terra. In quell'orribile camposanto di Hampstead. Avrebbe voluto portar via di là Kate. Stare sospesa con lei lassù, sopra il mare e le rocce. Poi vide Kate che le voltava le spalle. Era ciò che aveva visto prima che la signora Fludd interrompesse la seduta. Sono responsabile, pensò, senza sapere cosa significasse. Un uccello nero sfrecciò accanto a Mark sussurrandogli un messaggio, come avrebbe fatto con un suo simile. Una sola parola: volto, forse, o volo. Lui guardò l'uccello salire roteando nella zona luminosa sopra le cime degli alberi, dove il cielo era d'un rosa innaturale. La parte inferiore della spessa coltre di nubi, che avevano appena finito di spruzzare di pioggia la città, pareva filtrare il colore incandescente della parte superiore. Sembravano dipinte da Turner: a questo pensiero Mark si commosse fino alle lacrime. Sentì un formicolio al cuoio capelluto. Gli uccelli gli parlavano, camminava sotto le nuvole di Turner. Dopo l'ultima meditazione, era stato quasi insopportabilmente felice... aveva raggiunto l'estasi. I colori dell'erba e degli alberi lo investivano come urlati da un altoparlante: quanti verdi
diversi! Sentiva di non aver mai captato realmente tutte quelle sfumature, come si fondessero l'una all'altra, come balzassero avanti o arretrassero nello spazio. Il colore era uno splendido dono. Julia aveva perso sangue sulle sue lenzuola. Anche quello gli sembrava un segno di grazia. Sangue dopo aver fatto l'amore. Aveva la sensazione che Julia fosse la sua altra metà, come se spartissero le stesse membra, o lo stesso cuore. Lei aveva trovato le scarpe nell'armadio, sapendo con quanto amore lui le avesse trafugate dopo averle trovate in giardino una mattina. Mark era dovuto andare a guardare la casa di Julia, ne aveva fatto il giro passando le mani sui mattoni scabri, ed era quasi venuto meno. Perfino il mal di testa non aveva diminuito la sua gioia. Julia aveva lasciato Magnus, e sarebbe stata sua. Era sua. Camminava come abbacinato per Holland Park, quasi solo sui sentieri, felice di questa consapevolezza. Era penetrato in lei, conosceva le sue ossa e le sue giunture. Julia era luce e visione. Era una creatura di sangue, una fornace di sangue. Andando verso Julia, andava verso la felicità. Una gioia smaniosa, ebbra lo assalì. Lei attendeva regalmente. L'impatto con questa certezza lo fece barcollare. Una ragazza che camminava lentamente davanti a lui abbassò l'ombrello con un movimento tanto armonioso che gli salì alle labbra un singhiozzo. Riconobbe la sua nuca e il collo, dove i capelli neri cadevano sulla giacca di pelle marrone. Mark la raggiunse in pochi passi e la prese sotto braccio, ridendo. Quando lei lo guardò, stupita e un poco spaventata, lui baciò quella bocca conosciuta e sentì la propria anima espandersi con un grido di gioia. "Non lo posso credere," disse Magnus, ancora col ricevitore in mano. "Ho tentato di convincerti che poteva esserci del vero nella storia di Julia, ricordi? E tu eri tanto sicura che fossero tutte sciocchezze, che hai finito per persuadere anche me. Non posso cambiare di nuovo idea, Lily." Posò il microfono con molta cura, un segno che Lily conosceva bene: stava rapidamente passando dal fastidio all'irritazione. "Forse no," disse Lily. "Non conta molto che tu sia convinto o meno. Ma cerca di ricordare, Magnus: cosa hai visto il giorno in cui hai creduto di riconoscere Kate?" "Come posso risponderti? Non so quello che ho visto. Il riflesso di una nuvola, un barbaglio di sole nel vetro..." "No, voglio dire: che cosa hai creduto di vedere?"
Lui la guardò con disgusto. "Vuoi farmi passare per stupido?" "Dimmelo. Dimmi solo che cosa hai visto." "Kate. Alla finestra della camera di Julia." "Come sai che era Kate? Era rivolta verso di te?" "Non occorreva. Anzi, la bambina che mi è parso di vedere mi girava le spalle e ho visto soltanto la nuca." "Poteva non essere Kate! Poteva essere l'altra!" Lily quasi si alzò dalla sedia. "Magnus, ci siamo. Tu hai visto Olivia Rudge. Voleva che tu la vedessi e che la scambiassi per Kate. Voleva ferirti e confonderti." "Lily," scandì lentamente Magnus, "non ho mai interferito con i tuoi entusiasmi e non me ne sono mai fatto gioco. Ma se mi stai dicendo che in quella finestra ho visto un fantasma.:." "Come ti sentivi quando sei entrato in casa sua, quel giorno? Non mi hai forse confessato di aver provato terrore?" "Ero spaventato, e anche ubriaco." "No, Magnus, tu hai sentito Olivia. Hai avvertito la sua malvagità. Odia anche te." "Oh, santo Dio, sono in una gabbia di pazzi! Che senso avrebbe tutto questo? Perché quel piccolo demonio dovrebbe tornare improvvisamente dal passato?" "Per via di Julia. Aveva bisogno di Julia per essere liberata. Entrambe le tue figlie sono state pugnalate dalle loro madri. A Olivia serviva Julia." Prima ho partorito Kate, pensò Julia, poi ho partorito Olivia. Ma parte di lei è ancora in me. La completo. Il sonnifero e il digiuno facevano fluttuare la sua mente intorno alla vaga percezione dei rumori al pianterreno. Gli oggetti continuavano a essere fracassati. Il caldo soffocante che le inaridiva la gola e le bruciava gli occhi pareva sollevarla a qualche centimetro dal letto su un vasto spazio indefinito, nel quale poteva precipitare da un momento all'altro. Julia sapeva che questa sensazione era dovuta a una deformazione, una piega nella sua mente che era parte di Olivia. Voleva leggere, obbedire ancora alla forza di gravità, ma era troppo debole per prendere un libro dal comodino. Sembrava che un vento africano stesse spazzando la casa. Il vetro di un quadro dei McClintock si frantumò tra risa esagerate, poi Julia udì dei tonfi mentre la tela veniva presa a calci. Forse tutto questo avviene solo nella mia testa, pensò. Sarebbe per questo meno reale? Tutto il mondo pareva stipato nella sua testa. Un odore animalesco, di pelle bruciata, l'avvolse.
"Uno stupro, Mark? Non lo credevo il tuo stile." Annis, di fronte a lui, aveva il respiro leggermente affannoso e il viso arrossato. Mark vedeva il punto del suo turgido labbro inferiore che aveva morso. "E poi mi pareva di essere stata liquidata." "Cara, dolce Annis." Mark la strinse di nuovo. "Bella, adorabile, meravigliosa,. seducente Annis, come potrei liquidarti?" Rise della sua assurdità e della propria, che gli montava dentro. "È la meditazione responsabile di questi repentini cambiamenti di umore? Ti consiglierei un po' di riposo. Ti droghi?" "Sei tu la mia droga, Annis," canterellò Mark, sollevandola e facendole fare una giravolta. Lei cercò di liberarsi. "Mark, mettimi giù. Non mi piace." Lui rise pazzamente vedendo se stesso da dentro e da fuori, e per poco non cadde. "Stavi andando da qualche parte? Entriamo in un pub. Entriamo in un pub e teniamoci le mani. Stavo proprio osservando che il cielo sembra uscito dal pennello di Turner. Non trovi?" Lei alzò gli occhi, un po' genuinamente interessata e un po' perplessa. "Se vuoi la mia opinione, pare un tetto d'ardesia. Ascolta, non occorre che tu faccia tutte queste scene con me. Sono dispostissima a ricominciare a uscire con te. Però pensavo che avessi qualche nuovo interesse." "Tutt'altro, mi sto staccando da qualcuno dei vecchi. Ho deciso di mollare l'insegnamento. Voglio viaggiare. Vieni con me, Annis. Saresti stupenda su una barca." Scoppiò in una risata incontrollabile e si abbandonò su una panchina. Annis e Julia erano di un'unica sostanza, e Mark, in preda alle vertigini, scorse i lineamenti di Julia trasparire dal volto dell'altra. Quando Annis gli voltò le spalle, seccata, la prese per il polso e l'attirò a sé. "Non sto scherzando. Beviamo qualcosa insieme e parliamone." Scrutò il suo viso largo, bello, ingordo, e si esaltò. La faccia di Annis s'infranse su di lui come un'onda. "Adesso ho un impegno," disse lei. "Pranziamo insieme all'una?" "Pranzo all'una, che bello!" si beò Mark. "Manca soltanto un'ora." La gioia gli scoppiava dentro il petto e afferrò la mano di Annis. "Dimmi due posti in cui vorresti andare." "Non ho mai visto la California. Non mi vengono in mente altri posti che mi piacerebbe vedere." "L'Europa?" "L'Europa è noiosa. Preferisco la California."
"L'avrai." "Non ci vuole una valanga di quattrini per andarci?" "Non avviene tutto grazie alla meditazione? Il Budda provvederà, Annis, il Budda provvederà." "Avremo tutto," annunciò Magnus, ormai decisamente arrabbiato. "Stiamo per avere tutto quello che c'è, e tu ti metti a fare la misteriosa e l'esoterica. Non è vero che tra poco avremo tutto quello che volevi? Ho una moglie pazza che resterà internata per Dio solo sa quanto tempo, ma tu metterai le mani sui suoi dannati soldi. Che scherzi sono questi?" "Non sei molto attraente quando ti piangi addosso. Intendo dire finalmente la verità. Che ne diresti se un bel giorno Julia saltasse fuori con una sua idea a proposito di un qualche problema giuridico sul quale ti stai lambiccando da mesi? Magari una mattina davanti alla tazza della colazione." "Accidenti alle tue analogie," sbottò Magnus, ancor più incollerito e incutendole più paura di quanto sapeva di poter rivelare. "Te lo dico io cosa faresti: la ignoreresti e te la prenderesti per la sua intrusione nel tuo territorio. La stessa irritazione l'ho provata io." "La legge non è un ridicolo mucchio di menzogne e fantasie!" tuonò Magnus. Lily si limitò a guardarlo, non osando aggiungere altro. Quando lui si voltò e calò un pugno sul ripiano di cucina, Lily attese che si calmasse. Vide le sue spalle abbassarsi all'altezza normale e il collo sgonfiarsi, come se perdesse strati di tessuto, poi riprese: "Prova a richiamarla. Sono in pensiero per lei." "Va' al diavolo," disse lui, ma a bassa voce. "Qualcuno ha ucciso quei due uomini," insistette Lily, rivolta alla sua schiena. "Julia lo sapeva prima che i giornali ne pubblicassero la notizia." "Ne sei sicura? Julia non è un'indovina." Lily ripensò al suo ultimo colloquio con la cognata. "Credo di sì. Del secondo mi ha parlato di sicuro. Di quello Swift. Era nel suo appartamento." "Allora sono contento che sia crepato." "Era là per metterlo in guardia contro Olivia. Mi pare che abbia detto così. O forse ho avuto io questa impressione." "Sono già due cose sulle quali ti mantieni piuttosto nel vago. Non sei molto convincente." "E la signora Fludd è stata uccisa perché aveva visto Olivia." "Idiozie. Aspetta: vuoi dire che Julia si trovava nell'appartamento di
quello Swift quando è stato ucciso?" "È quanto mi ha riferito." "Ti ha detto di averlo visto... cosa? Morire? Venire assassinato? Che cosa ti ha detto esattamente?" "Non ricordo. Ha detto che era là." "Maledizione," ruggì Magnus. "Non ha informato la polizia?" "Probabilmente non credeva che potesse fare gran che contro un fantasma." "I fantasmi non ammazzano la gente," dichiarò Magnus, e tornò al telefono. Compose il numero e, dopo aver atteso muovendo nervosamente le labbra, annunciò: "Ancora niente." "Allora si è imbottita di sonnifero, oppure è uscita. Dobbiamo fare subito qualcosa. Olivia le dà la caccia, lo so. Ha già tentato una volta di ucciderla." "Mi domando se Julia sia veramente più pazza di te. Vi si dovrebbe rinchiudere tutt'e due." Magnus riflettè un momento, contenendo la collera, poi continuò: "Pensa un momento, Lily: se Julia ha ragione, non siamo tutti in pericolo? Tu e io con lei? Dopo tutto, sappiamo anche noi di Olivia." "Siamo tutti contaminati, tutti insudiciati," mormorò Lily. "Anche Mark, immagino. Forse hai ragione, siamo in pericolo come lei." "Sciocchezze." "Rammenta come ti sentivi in quella casa," ribattè Lily. "Olivia odia anche te. Si è divertita a torturarti." Julia portava Kate, un fagotto non più pesante di una bracciata di foglie e rametti, all'ospedale. Kate era ferita e Julia doveva trovare immediatamente l'ospedale: sentiva un liquido caldo inzupparle le maniche della camicetta. Vagava per strade sporche e deserte, cercando il nome dell'ospedale sulle porte sprangate. Era colpa sua se non lo trovava e si trascinava invece in quelle vie malsane, sbirciando esausta in un sordido cortile dopo l'altro. Aveva fallito e sapeva che Kate era già morta, che il minimo soffio di vento si sarebbe portato via quel corpicino leggero come una piuma. Tra poco sarebbe arrivata su quel tetto squallido, circondato dallo sfacelo e dalla desolazione. Vide se stessa allontanare il coltello dal corpo di Kate e volgerlo contro di sé. Passi che correvano per la casa, lasciandosi dietro l'odore del caldo e delle bestie selvatiche. Vagava per le strade deserte cercando l'ospedale che avrebbe potuto ri-
mediare a quello che già era stato fatto. "Dove vai?" Lo guardò ansiosa raccogliere in fretta e furia impermeabile e ombrello. "Bisogna che esca da questa stanza," rispose lui, più calmo che poté. "Vado a fare due passi, altrimenti spacco tutto. Chiamala tu." "Ritorni? Magnus, ti prego..." "Certo, certo, torno," abbaiò lui. Lily lo guardava spaurita dalla soglia della cucina. Magnus girò sui tacchi e uscì a testa bassa, come un bisonte. Sbattè la porta con tanta violenza che lo stipite si scheggiò. Julia risalì di un gradino verso la coscienza, col cuore che le martellava, accorgendosi che la mano che aveva volto verso di sé non era di Magnus. Era una mano femminile, come la sua. Era la sua. La bocca le si riempì di un fiotto caldo e di una sostanza simile alla pece e subito dopo capì di essersi morsicata la lingua. Aveva riconosciuto la propria mano nel sogno. Inghiottì un filo di sangue, avvertendo il dolore per non più tempo di quanto ne intercorse tra il vedere la mano di donna con il coltello da tavolo tra le dita e il riconoscerla come sua. Invece del dolore, sentiva un pulsare profondo nella lingua. Il suo corpo pareva asciutto come il letto screpolato di un fiume. Il corpicino di Kate, leggero come una foglia o un rametto, levitò dalle sue braccia. Le sue labbra divennero insensibili. L'istante dopo era precipitata ancora nel torpore del sonnifero e saliva le scale sporche verso il tetto spoglio e cupo. Conosceva ogni macchia dei muri e ogni solco nei gradini. Mark era disteso scompostamente sull'erba umida, con il suolo che gli aderiva alle spalle e alle natiche. Si rendeva confusamente conto delle punte lucide degli stivali nuovi, che emanavano uno scintillio di un caldo color oro bruno. Aveva la testa piena di cinguettii. Il fatto di aver appena incontrato e parlato con qualcuno gli appariva miracoloso, un incredibile sforzo di coerenza e volontà. Ma anch'io l'ho vista, pensò Lily, ascoltando da dietro la porta chiusa Magnus che scendeva rumorosamente le scale. È stato il giorno in cui ho visto Rosa Fludd seduta sulla panchina del parco. Mi ci aveva condotta Olivia. Rosa era veramente là, o l'aveva fatta apparire la bambina? Voleva che vedessi Magnus penetrare in casa di Julia, che provassi quell'amara de-
lusione. Forse Rosa mi si è mostrata come avvertimento. Aveva messo in guardia Julia e quel giorno ha fatto lo stesso con me. Lily si appoggiò pesantemente al ripiano di cucina e sentì la bordura metallica penetrarle nel fianco. Mark si muoveva al centro di una scintillante foschia d'oro, una cupola scesa su di lui mentre era sdraiato sull'erba bagnata. Sapeva che quell'aura dorata e ronzante era la forma esteriore del mal di testa procuratogli dalle sue più riuscite meditazioni, e che quella cangiante bellezza provava la rarità, il valore assoluto della sua mente. Provava anche il valore assoluto dei suoi esercizi, perfino delle sue emicranie, visto che l'avevano trasportato materialmente nell'euforia. In Paradiso. Gli alberi accanto a cui passava tendevano rami ardenti, la corteccia si copriva di vesciche e le foglie tintinnavano come monete d'oro. Si era già sentito così, ma non ricordava quando. I suoi stivali facevano tremare il terreno. Se avesse battuto abbastanza forte i tacchi, si sarebbe aperta una crepa profonda fino al centro incandescente del pianeta. Sprofondata nel sonno, Julia raggiunse il tetto e uscì sulla carta catramata, che le aderiva tenacemente alle suole delle scarpe. Il cielo era di un grigio uniforme striato di rosa vibrante. Lo strano accostamento di colori le serrò lo stomaco e le fece sentire un gorgoglio nei visceri. La bocca, patinata di una sostanza amara come il succo di tabacco, le pulsava. Un ago di pino le trapassava la lingua. Voleva Kate, ma Kate era morta. Olivia infuriava sotto di lei nella casa disabitata lanciando stridule risate. Perfino lassù, sul tetto piatto, con la disperazione che le cresceva dentro, udiva i rumori provenienti dal basso: urla roche, grida, fracasso. Non aveva più importanza. Guardava se stessa come in uno specchio. La sua pelle scottava già per la vergogna. Lily si staccò dal ripiano ed entrò a passo malfermo nel soggiorno. Si inginocchiò davanti al telefono e, con mano tremante, compose il numero di Julia. Invece degli squilli sentì solo l'interminabile silenzio, percorso da scariche di elettricità statica, che precede il segnale di libero. Abbassò la forcella, e il profondissimo vuoto grigio riempì il ricevitore. Quando riabbassò la forcella, udì con sollievo il segnale di libero. Formò di nuovo il numero di Julia e udì le cifre chiudere il relè, poi un suono come di chi precipiti nello spazio, andando incontro alla morte.
Riattaccò con forza il ricevitore, attese finché si sentì in grado di poterlo risollevare, si accertò di udire il suono basso e rassicurante della linea libera, poi chiamò il centralino. Diede alla telefonista il numero di Julia e aspettò. "Mi dispiace", annunciò poco dopo la voce nasale della centralinista. "Questo numero pare temporaneamente fuori servizio." "Perché? Come sarebbe a dire fuori servizio?" "Non siamo autorizzati a fornire informazioni," rispose sdegnosamente l'impiegata. "Può parlare col capoturno." "Me lo passi." "Resti in linea, per favore." Lily si inumidì le labbra e aspettò ancora. Il silenzio nell'apparecchio era corposo e denso, più compatto di prima. Lo ascoltò per quelli che le parvero interi minuti, poi non ce la fece più e riattaccò. Prese a passeggiare nervosamente nel soggiorno aspettando il ritorno di Magnus. Non sarebbe andata in Ilchester Place da sola. Qualcosa volò lungo il corridoio al piano di sopra, qualcosa d'infinitamente disperato. Lentamente, con intento pietoso, il coltello nella sua mano scivolò nella gola ostruita di Kate. La sua mano, la mano che aveva sognato di rivolgere contro se stessa, stringeva il coltello viscido tra pollice e indice, col filo in su. Kate emise un suono strozzato, semincosciente, e aprì gli occhi nell'attimo stesso in cui Julia cominciò a incidere. Gli occhi di Kate erano nuvole. Come in uno specchio, la scena le ammiccò da dove si stava svolgendo, l'orlo piatto del tetto: due figure vicine e curve in una goffa parodia dell'amore. Sentì la porta della camera spalancarsi e una ventata calda investirla, appannando la scena e il cielo pennellato di rosa. Colei che la voleva era con lei, e Julia si voltava di scatto e vedeva solo desolazione, carta catramata sudicia e un cielo devastato. Una bianca colonna di aria soffiava verso di lei. Dentro turbinavano follemente polvere e pezzi di carta. Da un punto della strada o da un angolo della stanza giunse un suono soffocato che sapeva essere il riso represso di una bambina negra della quale non rammentava il nome. Braccia robuste la cinsero, l'odore disgustoso di Olivia le invase le narici e la bianca colonna di aria la risucchiò insieme a polvere, a brandelli di vecchi giornali, polvere e carta.
Novembre "Dicevi di aver avuto notizie di Mark, finalmente." "Sì." "Ancora in California?" "Ancora in California. A Los Angeles." "Con quella ragazza?" "Come si chiamava?" "Annis." "Che strano nome. O è il cognome?" "Non so. Dice che ha cominciato a lavorare. Ha trovato posto come addetto alla manutenzione in una scuola. A quanto pare Annis dispone di una piccola rendita mensile." "Credi che la sposerà?" "Non so se lei sposerebbe lui." "Suppongo significhi che stai diventando una donna moderna, Lily." Lily arricciò il naso e tornò al suo romanzo. Quando fu sicura che il fratello non la guardava, sbirciò il Sisley dall'altra parte della stanza. Magnus gliel'aveva regalato in ottobre. Era appeso al posto del cavallo di Stubbs, ora relegato in sala da pranzo, benché lei lo preferisse. "E così Mark ha trovato il posto che fa per lui," stava dicendo Magnus. "Addetto alla manutenzione. Vuole dire uomo delle pulizie. Mi stupisce che nella città degli angeli non lo si classifichi addirittura come tecnico della manutenzione." "Dice anche che segue un corso di yoga." "E sarà senz'altro iscritto anche alla Lega rivoluzionaria di tattica scacchista Che-Mao-Lumumba. Una volta non ti ha detto, prima dell'inchiesta, che è stato lo yoga, con quei dannati esercizi, a farlo ammattire del tutto? Pensavo che sarebbe stato alla larga da quel genere di cose." "Sai benissimo che non è stato quello. Non occorre che scenda in particolari, suppongo." "No, per favore," replicò Magnus, in tono piuttosto offeso. "Però ha ammesso anche lui che lo yoga ha contribuito al suo esaurimento." "Julia è stata la vera causa," obiettò maliziosamente Lily. "Mi pareva di aver appena detto che non ho bisogno che mi si rinfreschi la memoria. Un brutto choc, scoprire che mia moglie ha passato la notte nel letto di un altro prima di uccidersi. Nel letto di un pazzo, poi. E l'idiota non è stato neppure abbastanza intelligente da capire che Julia era sconvol-
ta." Magnus abbassò gli occhi sulle mani, che teneva strettamente allacciate in grembo. "Per nostra grande fortuna ha lasciato quella lettera. Ha reso le cose molto più chiare. Il coroner aveva ragione a ritenerla una prova di instabilità mentale e un'evidente indicazione di propositi suicidi, vero?" "È urtante vedere come si possa influenzare fino a questo punto una giuria," brontolò Magnus. "I coroner godono di troppo potere in questo Paese. Piccoli dèi. Ma sì, Lily, per la millesima volta sì. Il giudice aveva ragione, maledettamente ragione. Non ci sono dubbi. Chiunque guardando com'erano ridotte la casa e la macchina avrebbe capito che Julia aveva perso la ragione. E adesso si potrebbe avere una tazza di tè? Veramente preferirei un drink. Me lo daresti un goccio? No, mi servirò da solo." Si alzò e si avvicinò al carrello dei liquori. "Mangia un po' di formaggio con i cracker, Magnus. C'è dello Stilton sulla credenza." "Il vero Stilton non si trova più. I supermercati vendono solo surrogati. Hai visto o, il cielo non voglia, assaggiato quella roba che hanno il coraggio di chiamare Sage Derby? Ci dovrebbero fare becchime per uccelli. Un maiale che si rispetti lo rifiuterebbe." "Pensavo solo che avresti gradito un boccone di formaggio e qualche cracker," si scusò Lily, guardandogli versare in un bicchiere una dose di whisky ancor più abbondante di quanto si fosse aspettata. "Non volevo farti arrabbiare." "Non sono... non sono... arrabbiato." "Magnus, sai che ti sono profondamente, sinceramente riconoscente per non esserti fatto contagiare dalla mia stupidità, quell'ultimo giorno. Avevo perso completamente la testa, e tu invece sei stato forte, non ti sei lasciato abbattere. Te ne sono immensamente grata. Ti sono grata per la tua lucidità e il tuo coraggio." Lui la guardò e bevve un lungo sorso. "Non dovresti ringraziarmi per aver evitato di comportarmi come un imbecille. È un complimento negativo." Adesso però era più calmo. "E non smetterò mai di ringraziare il cielo per quel biglietto," continuò Lily. "Se non avesse nominato voi due..." "Lo hai già detto cento volte, Lily." Magnus attraversò di nuovo la stanza e si sedette lentamente in poltrona. Alla sorella pareva che stesse ingrassando di giorno in giorno. "Sarei stato nei guai, almeno fino a che non avessero tentato di incastrare Mark."
"Sai, credo di capire quello che sentiva. Non riguardo a te e neppure a Mark, naturalmente, ma riguardo alla vita. Quel giorno, quando mi sono comportata in modo così sciocco, ho provato un terribile senso di sconforto e disperazione. Ero completamente stremata, come se mi fossi lasciata da un pezzo alle spalle tutte le cose per cui vale la pena di esistere. Julia deve aver sentito qualcosa di simile." "Julia aveva perso la ragione. Nessuno di noi può sapere che cosa pensasse in generale e meno ancora come vedesse una cosa che sfugge a ogni definizione come la vita." La guardò con aria stizzita. "Non hai visto in che condizioni era la casa?" "Non ho potuto entrarci, mi è stato proprio impossibile." Lily passò a un argomento più sicuro. "Hai trovato un acquirente?" "In questo momento nessuno compra immobili, specialmente non cari come quello. Quell'incapace impiegato della Markham & Reeves mi ha detto che il mercato non andava tanto male da quindici anni." "Sei già stato al cimitero, Magnus?" Lei vi si era recata in settimana, per controllare lo stato dei fiori. "Non dopo il funerale. Non posso soffrire il cimitero di Hampstead. Sembra un sobborgo di Melbourne." "Non piaceva nemmeno a Julia." "Stupidaggini. Come puoi saperlo tu?" "Perché me lo ha detto il giorno del funerale di Kate. Avrebbe voluto che Kate fosse sepolta in un cimitero più vecchio. A Highgate." "Non credo che Julia potesse essersi formata un'opinione tanto precisa su un camposanto che vedeva per la prima volta, e in uno stato di totale prostrazione." Lily scrollò le spalle, irritata. "In ogni modo pare che nessuno voglia quella dannata casa," ribadì Magnus. Era un modo indiretto per chiederle scusa, e Lily sbirciò ancora il dipinto di Sisley. Magnus stava continuando a parlare. "La gente la guarda e, chissà perché, non la trova di suo gusto. Ti ho detto che quel McClintock ha scritto chiedendo se Julia era disposta a rivendergli i mobili? Sembra che alle Barbados non se ne trovino come quelli. Gli sarebbe venuto un colpo, se avesse visto com'erano conciati." "È un argomento che mi dà i brividi. Possiamo parlare di altro?" "Per me fa lo stesso," borbottò Magnus, e sorseggiò ancora il suo liquore. "C'è niente di buono alla televisione, stasera?" "No. Io pensavo di provare a leggere uno di quei libri di Julia. Questo lo
finisco prima di stasera. Strana coincidenza, vero? Prima non avevo mai tempo per guardarli, e poi non mi andava. Ma è un peccato lasciarli lì. Ce n'è uno lungo che parla di un arcobaleno. Credo che comincerò da quello: sembra una lettura piacevole. Aveva una quantità di libri, vero?" "Perché non aveva amici," rispose seccamente Magnus. "Come puoi dire una cosa simile?" si meravigliò Lily. "Ne aveva moltissimi. Tu e io lo eravamo sicuramente. E in un certo senso lo era anche Mark." "Maledetto. Spero che finisca sotto un autobus." "Mark ha sofferto moltissimo." Magnus si girò dall'altra parte, spazientito. "Sicura che non ci sia nulla alla televisione? Avrei voglia di vedere qualcosa, stasera." Come Lily sapeva, questo significava che desiderava passare la serata con lei e che l'avrebbe trascorsa insultando i programmi televisivi e tutti coloro che li seguivano. Si augurò che se ne andasse: era in uno dei suoi periodi di rabbia contro il mondo intero, e ultimamente Lily ne era più che mai infastidita. "Non c'è niente che ti possa piacere. Tu disprezzi la televisione, come entrambi sappiamo. Però puoi fermarti a cena," aggiunse più per abitudine che per convinzione. "È una delle mie sere vegetariane. Preparerò una bella insalata." Magnus rabbrividì. "Potrei andare a prendere qualcosa a una tavola calda. Non posso soffrire i tuoi martedì di magro." "Come vuoi," disse Lily, nel tono più indifferente possibile. "Allora d'accordo." Esasperata, Lily mise da parte il libro e andò alla finestra che dava sulla terrazza. I suoi fiori erano ancora in piena fioritura e, nell'aria umida e grigia, i loro colori sembravano particolarmente violenti. Agli occhi di Lily apparivano come piccole bandiere gioiose: noi, se non altro, non abbiamo problemi, dicevano. Dietro di lei, Magnus si schiarì la gola. "Per curiosità, cara sorella, frequenti ancora quelle tue sedute?" Lily guardò il verde cupo delle cime degli alberi. "Meno spesso di prima." "Come mai? Non ti piace la nuova santona?" Lily studiò con gli occhi la corteccia ruvida e rugosa delle piante. In quel novembre freddo e tetro poca gente indugiava nel parco e sul viale uomini e donne camminavano in fretta, le mani sprofondate nelle tasche dei cappotti. Apparivano grigi e inconsistenti come sbuffi di fumo sullo sfondo
dei grandi alberi. "Oh, la signora Venable non è male," rispose distrattamente. "Sono le riunioni che non mi attirano più tanto." Stava guardando una bambina in un giubbotto col cappuccio alzato che filava in bicicletta sul viale, cosa assolutamente vietata. I passanti sembravano non badarle, come se anche le loro opinioni fossero fumo. "Ma non voglio deludere gli altri." La bambina saltò giù dalla bicicletta, e l'appoggiò a un albero. Una bicicletta da donna, notò Lily. "Rosamund Tooth è tanto cara e Nigel Arkwright sa essere delizioso, quando non chiacchiera troppo." La bambina si era voltata e sembrava esaminare il terreno, con quel cappuccio che la faceva assomigliare a un frate in miniatura. "Ma non sono più interessata come una volta," continuò Lily. "La specialità della signora Venable è comunicare con i defunti per mezzo di uno spirito-guida che si chiama Marcel." Magnus sbuffò in modo insolente, mettendola nella stessa categoria di quelle persone che chiedevano informazioni agli spiriti-guida che si chiamavano Marcel. Lily vide il viso bianco della bambina, che fissava il vuoto come se stesse contando mentalmente. Poi alzò la faccia e guardò proprio in direzione di Lily. I suoi occhi erano azzurri e inespressivi. Sempre fissando Lily negli occhi, abbassò il cappuccio con entrambe le mani rivelando capelli color oro bianco. Lily si allontanò d'un balzo dalla finestra e pronunciò la prima frase che le venne in mente: "Non avremmo dovuto seppellire Julia nel cimitero di Hampstead." "Come?" disse Magnus. FINE