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I edizione: novembre 2 0 0 4 © 2002 Victoria Schofield Pubblicato in accordo con I.B. Tauris & Co. Ltd, Londra e in italiano attraverso Nabu Literacy Agency. L'edizione originale dell'opera, dal titolo Kashmir in Conflict. India, Pakistan and the Unending War, è stata pubblicata da I.B. Tauris & Co. Ltd, Londra © 2 0 0 4 Fazi Editore srl Via Isonzo 42, Roma Tutti i diritti riservati Traduzione dall'inglese di Massimiliano Manganelli Grafica di copertina: Maurizio Ceccato ISBN: 8 8 - 8 1 1 2 - 5 8 2 - X www.fazieditore.it
Stampato con il contributo della Comunità Europea
Istruzione e cultura
Cultura 2000
Victoria Schofield KASHMIR INDIA, PAKISTAN E LA GUERRA INFINITA
traduzione di Massimiliano Manganelli
©
Fazi Editore
Prefazione
Chi non ha udito della Valle del Cashmere, Con le sue rose più vivide che la terra mai diede, I suoi templi e le sue grotte, e fontane limpide Come gli occhi rischiarati d'amore sospesi sull'onda?'
Nel 1846, secondo quanto stabilito dal trattato di Amritsar, le autorità britanniche vendettero la magnifica valle del Kashmir al governatore indù Gulab Singh, della dinastia dei Dogra. In qualità di maharajah dello Jammu e Kashmir, egli potè finalmente includere quel territorio come "gioiello" tra gli altri suoi possedimenti territoriali, che annoveravano lo Jammu, il Ladakh, il Baltistan e numerosi stati collinari, attraverso i quali scorreva il fiume Indo con i suoi affluenti orientali. In tal modo, popoli di diverse tradizioni linguistiche, religiose e culturali furono sottomessi all'autorità di un unico sovrano. L'annessione della valle, a maggioranza islamica e più densamente popolata, fece diventare gli induisti, i sikh e i buddisti una minoranza. Quando, un secolo più tardi, e cioè in occasione dell'indipendenza nel 1947, il subcontinente fu diviso, il maharajah Hari Singh, pronipote di Gulab Singh, non seppe decidere se unirsi al nuovo dominion del Pakistan o all'India. Per più di due mesi, il suo Stato rimase "indipendente". A ottobre, dopo che un vasto numero di uomini delle tribù provenienti dalla frontiera di nord-ovest del Pakistan ebbero invaso lo Stato, finalmente accettò di unirsi all'India. La sua decisione fu immediatamente contestata dal Pakistan, con riferimento alla presenza nello Stato di popolazione a maggioranza islamica. La conseguente guerra tra India e Pakistan fu infine interrotta nel 1949 da un cessate il fuoco vigilato dalle neonate Nazioni Unite. Per oltre cinquantanni, India e Pakistan si sono scontrati per lo Jammu e Kashmir sia sul campo di battaglia sia al tavolo dei negoziati; entrambi volevano assorbire i due territori entro i propri confini, ma nessuno dei due è riuscito a farlo del tutto. Un terzo dell'ex principato è amministrato dal Pakistan ed è conosciuto come Azad ('libero') Jammu e Kashmir e le aree settentrionali; due terzi, con il nome di Stato dello Jammu e Kashmir, sono controllati dall'India. Queste aree comprendono le regioni del Ladakh, dello Jammu e la rinomata valle del Kashmir. Sin dal 1949,
la linea del cessate il fuoco è stata sorvegliata da una piccola forza del Gruppo di Osservatori Militari delle Nazioni Unite in India e Pakistan (UNMOGIP). Benché le ostilità siano nuovamente scoppiate nel 1965, questa linea è rimasta di fatto il confine. A seguito della guerra del 1971, allorché il Pakistan Orientale si separò per diventare il Bangladesh indipendente, in base all'accordo di Simla' del 1972 tra India e Pakistan, la linea del cessate il fuoco fu ribattezzata «linea di controllo». Successivamente, l'India chiese il ritiro dell'UNMOGIP dal versante indiano della linea di controllo, con il pretesto che il suo mandato era venuto meno. Nel nord-est, la Cina rivendica una porzione di terra disabitata, l'Aksai Chin, attraverso cui, negli anni Cinquanta, fu costruita una strada che collegava il Tibet allo Xinjiang. Il confine - chiamato «linea di controllo effettivo» - tra i territori indiano e cinese non è mai stato delimitato. A complicare ulteriormente le cose, la linea del cessate il fuoco tra lo Jammu e Kashmir amministrato dall'India e quello amministrato dal Pakistan si arrestò bruscamente al ghiacciaio Siachen (alla coordinata cartografica NJ9842), che si estende per più di sessanta chilometri fino al confine di fatto con la Cina. Nel 1984, truppe indiane presero il controllo di parte del ghiacciaio; da allora le forze indiane e pakistane si sono fronteggiate nella zona di guerra più alta del mondo. Nel 1986 iniziarono colloqui bilaterali riguardanti il ghiacciaio, ma nel 1992, dopo sei sessioni, furono sospesi senza alcuna intesa. Ciò che distingue il conflitto per il Kashmir da altre dispute regionali è che, per rendere effettivo il cessate il fuoco, nel 1948 il governo indiano presentò un reclamo formale al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite contro 1'"aggressione" del Pakistan. Un tale reclamo in sede internazionale trasformò quella che era nata come una controversia tra due paesi in una questione che richiedeva l'attenzione mondiale. Le raccomandazioni delle Nazioni Unite, formulate in tre risoluzioni approvate nel 1948 e nel 1949, formalizzarono peraltro la presenza nella discussione di una terza parte, costituita da coloro che vivevano nella terra per la quale India e Pakistan combattevano. Tutte e tre le risoluzioni sollecitavano i due paesi a tenere un referendum, come già convenuto tra i governi, in modo che la popolazione stessa potesse decidere del proprio futuro3. Il fatto che il referendum non sia mai stato indetto non costituisce, probabilmente, una sorpresa. Innanzi tutto, quale prima condizione, al Pakistan fu chiesto di ritirare le proprie forze dal territorio occupato. In un secondo momento, fu chiaro che il governo indiano avrebbe acconsentito a indire il plebiscito soltanto quando fosse stato sicuro che la maggioranza avrebbe confermato l'unione con l'India. Di fatto, la riluttanza del Pakistan a sgomberare il territorio che aveva occupato fornì all'India la scusa per venir meno all'impegno di tenere un referendum; la divisione de facto dello Stato, raggiunta attraverso l'intervento militare del Pakistan, non
fu quindi revocata né confermata. Tuttavia, anche se i successivi governi indiani si sono rammaricati per il fatto che, nella discussione sul futuro dello Stato dello Jammu e Kashmir, sia stato sempre coinvolto un organismo internazionale, le risoluzioni delle Nazioni Unite restano le uniche all'ordine del giorno. Qualunque cosa India e Pakistan possano aver concordato tra loro nei vertici successivi - a Taskent nel 1966, a Simla nel 1972 e a Lahore nel 1999 - , la natura trilaterale della questione, con il plebiscito quale mezzo per determinare l'appartenenza politica degli abitanti dello Stato, era già stata avvalorata dalle Nazioni Unite nel 1948. Come rilevò Sir Owen Dixon, rappresentante ONU per l'India e il Pakistan, la difficoltà di decidere il futuro dello Stato era comunque accresciuta dal fatto che esso non costituiva «davvero geograficamente, demograficamente o economicamente un'unità», ma «un agglomerato di territori sottomessi al potere politico di un solo maharajah». Sul versante della linea del cessate il fuoco amministrato dal Pakistan, le popolazioni delle aree settentrionali, comprendenti gli ex regni di Hunza, Nagar, Gilgit e Baltistan, sono culturalmente distinte non solo l'una dall'altra, ma anche dagli abitanti del resto dello Stato; lo stesso vale per la gente dell'Azad Jammu e Kashmir, concentrata nei distretti di Kotli, Punch, Mirpur e Muzaffarabad. Sono tutti musulmani, ma mentre nelle aree settentrionali prevalgono gli sciiti, nell'Azad Jammu e Kashmir i sunniti sono in maggioranza4. Nei due terzi del territorio amministrato dall'India, la maggior parte degli abitanti della valle è costituita da musulmani kashmiri, con una piccola percentuale di induisti e di sikh. Nello Jammu all'incirca due terzi della popolazione sono induisti, un terzo musulmani, i quali vivono principalmente nelle aree di Doda e di Rajauri, che confinano con l'Azad Jammu e Kashmir amministrato dal Pakistan. Il Ladakh è scarsamente popolato: più della metà dei suoi abitanti sono buddisti, meno della metà musulmani sciiti e una piccola percentuale è induista5. Sin dal principio, Owen Dixon osservò che, con popoli di origini così diverse nominalmente uniti sotto un'unica autorità politica, qualunque fosse l'esito di un referendum, l'insoddisfazione della minoranza sarebbe stata certa. Suggerì pertanto, come hanno fatto i futuri commentatori, che un plebiscito su base regionale avrebbe fornito un risultato più equo, anche se avrebbe senza dubbio condotto alla divisione dello Stato. Come ha riconosciuto lo scrittore indiano Sumantra Bose, la sfida è sempre stata quella di trovare un terreno intermedio tra «la compartimentazione comunitaria e la chimera di un'inesistente unità» 6 . Nel 1989, un ampio numero di abitanti musulmani della valle diede vita a un movimento di protesta, un movimento che costituiva al tempo stesso una lotta armata e il rifiuto politico della sudditanza permanente nei confronti dell'Unione Indiana. La difficoltà che essi affrontarono, sempre implicita in ogni dibattito riguardante le loro rivendicazioni, fu la man-
canza di un'evidente unanimità di obiettivi all'interno del movimento. Alcuni lottavano ancora affinché si tenesse il referendum e in tal modo la valle potesse unirsi al Pakistan; altri volevano invece una consultazione che includesse una «terza opzione», e cioè l'indipendenza dell'intero Stato così com'era nel 1947, compresa l'area controllata dal Pakistan 7. Gli indipendentisti trovarono una giustificazione legale nella risoluzione delle Nazioni Unite adottata il 13 agosto 1948, che raccomandava che la decisione finale sullo statuto dello Jammu e Kashmir «fosse determinata in conformità con la volontà del popolo», senza alcun riferimento a una scelta tra India o Pakistan. Altri abitanti dello Stato - i buddisti del Ladakh e i musulmani sciiti dell'area di Kargil - non offrirono il proprio sostegno al movimento di protesta, né lo fecero i musulmani Gujar e Bakerwal, un tempo nomadi. Anche gli indù e i sikh della regione dello Jammu si sono sempre considerati come parte dell'Unione Indiana e hanno fatto resistenza contro la volontà dominante dei musulmani della valle, numericamente superiori. Tuttavia, il governo pakistano, che non ha mai fatto segreto della propria delusione per il fatto che, al momento dell'indipendenza, lo Stato non si fosse unito al Pakistan, è stato fin troppo lieto di sostenere il movimento «moralmente e diplomaticamente». Ufficiosamente, il paese è stato anche pronto a contribuire affinché rivivesse lo spirito della jihad del 1947 attraverso una guerra dissimulata per appoggiare gli insorti kashmiri, grazie alla quale si sarebbe infine potuto ottenere militarmente ciò che non era stato conseguito con i negoziati. Quello che era iniziato come un movimento laico per una maggiore libertà politica della valle è divenuto tutt'uno con le rivendicazioni di matrice islamica: ciò è dipeso direttamente dai cambiamenti avvenuti nella società pakistana e dagli influssi provenienti dall'Afghanistan. A un osservatore esterno, il deliberato sostegno da parte del Pakistan alla lotta dei kashmiri per la loro autodeterminazione può sembrare in contraddizione con l'obiettivo nazionale di assimilare lo Stato dello Jammu e Kashmir al Pakistan stesso. Ma leggendo tra le righe le dichiarazioni pakistane, nessun governo ha mai accettato una definizione di "autodeterminazione" se non come una scelta tra India e Pakistan. Di recente, e in via ufficiosa, quest'ultimo ha modificato la propria posizione riguardo a due aspetti significativi. In primo luogo, le autorità non si aspettano più, realisticamente, di incorporare l'intero Stato (compresi il Ladakh e lo Jammu) entro i propri confini; in seconda istanza, sono state obbligate a riconoscere l'esistenza di un movimento per l'indipendenza tra i kashmiri della valle. In attesa di pattuire un qualunque altro accordo riguardante la soluzione della questione, le autorità pakistane restano legate alle risoluzioni delle Nazioni Unite redatte nel 1948 e nel 1949, senza le quali temono di perdere il loro locus standiné&a questione. Per non "sabotare" il proprio movimento, gli inquieti kashmiri hanno anche concordato di
non risolvere il dilemma dei propri obiettivi duplici e alla fine probabilmente concorrenti. Parimenti, malgrado dichiarazioni che insistono sul fatto che, dal punto di vista legale, l'intero Stato dello Jammu e Kashmir apparterrebbe all'India, il governo indiano non si aspetta più di poter assorbire l'Azad Jammu e Kashmir e le aree settentrionali nel proprio territorio. Il pomo della discordia tra i due paesi è dunque, da sempre, lo statuto della valle del Kashmir. Sin dal 1947, la comunità internazionale ha guardato la situazione dello Stato con inquietudine, nel timore che il conflitto si risolvesse in un'altra guerra. Il contributo che essa ha saputo dare è stato tuttavia limitato. Una volta approvate le risoluzioni ONU del 1948 e 1949, i successivi governi dell'India hanno cercato di sfuggire a ogni tentativo di mediazione internazionale, sia da parte delle Nazioni Unite sia da parte di qualunque altro organismo o singolo paese. L'accordo di Simla del 1972 con il Pakistan ha dato all'India l'opportunità di affermare che la questione non era più «internazionale» bensì bilaterale; ma anche i negoziati bilaterali hanno condotto a uno stallo della retorica. Ogni volta che il Pakistan si è appellato a una mediazione di terzi, l'India si è opposta alT«internazionalizzazione» della questione. L'I 1 settembre 2001, gli attacchi terroristici contro il World Trade Center di New York e contro il Pentagono a Washington hanno avuto ripercussioni immediate in Asia meridionale. Il governo pakistano ha accettato di aiutare gli Stati Uniti in «una guerra contro il terrorismo» che lambiva i suoi confini con il vicino Afghanistan. Di conseguenza, le autorità indiane hanno visto in questo un'occasione per mostrare alla comunità mondiale il sostegno permanente fornito dal Pakistan alla militanza nello Jammu e Kashmir. Il Pakistan si è così trovato contemporaneamente ad essere elogiato per la lotta contro il terrorismo in Afghanistan e condannato per il sostegno datogli nel Kashmir. Quando, nel dicembre 2001, fu compiuto un attentato dinamitardo contro il parlamento di New Delhi, l'India cominciò a parlare molto più seriamente che in passato di porre fine al «terrorismo di frontiera». Il confine internazionale tra i due paesi fu chiuso e nella primavera del 2002 essi sembrarono nuovamente sul punto di entrare in guerra. La prospettiva poteva avere effetti spaventosi, poiché ambedue i governi parlavano di usare le armi nucleari sperimentate nel 1998. Il conflitto nel Kashmir rimane una lotta per la terra e per i diritti del popolo di determinare il proprio futuro. Fino a oggi, non è stata raggiunta alcuna intesa né tra India e Pakistan, né con la popolazione, sul futuro dello Stato, ma soltanto uno status quo non riconosciuto, nei confronti del quale sembra tuttavia sussistere un singolare attaccamento, nel timore che qualche alterazione possa provocare un trauma ancora più grande nella regione. Inoltre, non vi è più un'evidente volontà "collettiva" tra gli ete-
rogenei abitanti dell'intero Stato dello Jammu e Kashmir, che ora è stato diviso per più di metà, ammesso che sia mai stato un tutto unificato. Nel fuoco incrociato tra molteplici obiettivi restano le vite, e purtroppo spesso le morti violente, di uomini, donne e bambini travolti in una guerra mortale di parole e di armi, una guerra apparentemente infinita. Come mi è stato detto spesso durante i miei anni di ricerca sul Kashmir: «Non puoi parlare del Kashmir come di una disputa tra due nazioni. È un conflitto, perché noi - i kashmiri - siamo nel mezzo».
Ringraziamenti
«Un paese di così impressionante bellezza naturale deve certamente, in qualche periodo della sua storia, aver prodotto persone raffinate e nobili», scrive Sir Francis Younghusband nella sua History of Kashmir. Nulla di più vero, e nel corso del mio viaggio attraverso la storia contemporanea del paese ho avuto l'onore di entrare in contatto con alcune di queste persone. Oggi, sono grata ai tre principali protagonisti della lotta in corso: gli indiani, i pakistani e i kashmiri; tra questi ultimi includo tutti gli abitanti dell'ex principato. La mia gratitudine va anche ai governi dell'India e del Pakistan, i cui rappresentanti mi hanno sempre ricevuta con franchezza, così come le loro rispettive alte commissioni a Londra. Inoltre, vorrei ringraziare i membri del governo dello Stato dello Jammu e Kashmir, della Ali Parties Hurriyat Conference, del governo Azad dello Jammu e Kashmir, numerosi funzionari e privati cittadini. Nessun libro è scritto da una sola mano. Tutti coloro che ho intervistato, spesso con un breve preavviso, non avrebbero potuto essere più disponibili nell'aprirmi il loro cuore e le loro case affinché comprendessi la loro storia. Se essi non hanno saputo comporre le proprie divergenze al tavolo dei negoziati, io ho cercato invece di avvicinarmi a loro in maniera imparziale per ascoltarne le rimostranze e condividerne i sogni. Anch'essi, dunque, hanno contribuito a questo libro. Ringrazio anche per avermi permesso di citare brani tratti dalle numerose opere elencate nella bibliografia; l'ho fatto con un'attenzione particolare ai resoconti di prima mano, che colgono un evento molto meglio di quanto sia possibile fare con il senno di poi. Nel citare giudizi e opinioni di altri, ho voluto fornire al lettore il beneficio delle loro analisi così come della mia. Sono grata a tutti quelli che mi hanno aiutata durante i miei lunghi anni di ricerca sul Kashmir, specialmente a David Page, dal quale ho ricevuto preziosi consigli. Sono riconoscente anche verso Lord Ahmed, il defunto Lynne Ali, Lord Avebury, Rahul Bedi, Gulam Butt, Brian Cloughley, Alexander Evans, M.J. Gohel, Irfan Husain, Alastair Lamb, Margot Norman, Rashmi Shankar, Leslie Wolf-Philips e Malcolm Yapp, nonché verso Philip Armstrong e Russell Townsend per aver disegnato le carte geografiche. I miei ringraziamenti vanno poi al personale della British Library e della Orientai and India Office Collection, per le molte ore che ho trascorso in que-
ste biblioteche. Ringrazio per il permesso accordatomi di citare da libri e manoscritti conservati nelle loro collezioni. Vorrei esprimere gratitudine anche alla London Library per la sua generosa politica di prestito, alla United Nations Library e alla Roya] Geographic Society, di cui ho consultato le collezioni di carte geografiche. Infine, vorrei ringraziare la mia agente Sara Menguc, il mio editore Iradj Bagherzade e i suoi colleghi alla I.B. Tauris, mio marito, Stephen Willis, i miei figli Alexandra, Anthony e Olivia, e i miei amici, i quali mi hanno tutti sostenuta emotivamente e praticamente mentre cercavo di comprendere le complessità del Kashmir. Salvo indicazione contraria, tutte le opinioni e le conclusioni espresse in questo libro sono mie.
KASHMIR
La valle del Kashmir (Fonte: Raghubir Singh, Kashmir: Garden of the Himalayas, Londra, Thames and Hudson, 1983)
1. Il Kashmir: una presentazione
Può sembrare davvero piccolo il paese visto dalla parte delle grandi pianure che si estendono a sud, e limitata la storia di cui è stato lo scenario. Eppure, come le attrattive naturali della valle gli hanno guadagnato la fama al di là dei confini dell'India, così l'interesse attorno alla sua storia supera di gran lunga gli stretti limiti geografici. SIR AUREL STEIN, 1 9 0 0 '
La valle del Kashmir, territorio dall'irregolare forma ovale, è uno dei luoghi più belli del mondo. Estesa per poco più di centoquaranta chilometri, sulla carta geografica appare remota e impervia, isolata dal gruppo delle montagne himalayane che si stagliano alte sulle pianure del subcontinente. La sua apparente inespugnabilità è tuttavia illusoria: accessibile attraverso più di venti valichi, essa è al tempo stesso un crocevia e un luogo di rifugio. Un documento unico della storia del Kashmir, il Rajatarangini ('Cronaca dei Re'), scritto nel XII secolo dal poeta Kalhana, descrive come, sin da tempi leggendari, i sovrani del luogo fossero entrati in contatto e in conflitto con i loro vicini2. A volte la valle del Kashmir ha fatto parte di un grande impero, altre invece ha racchiuso un proprio regno. Da sempre, la sua gente ha conservato un forte attaccamento alla propria Kashmiriyat, identità culturale che trascende la religione. La lingua kashmiri è inoltre distinta dall'hindi o dall'urdu parlati dagli abitanti delle pianure 5 .
1.1. L'antico Kashmir Il primo periodo della storia "imperiale" del Kashmir ha inizio nel III secolo avanti Cristo con il dominio di Asoka, l'impero del quale si estendeva dal Bengala al Deccan, dall'Afghanistan al Punjab, e comprendeva anche questo territorio. In origine fervido induista, Asoka si convertì al buddismo e inviò missionari a diffondere questa religione nella valle. Alla sua morte, il Kashmir guadagnò nuovamente la propria indipendenza. Nel I secolo dopo Cristo, fu invaso dai Kushan, provenienti dalla Cina nord-occidentale, i quali erano riusciti a conquistare l'intera India settentrionale. Anche il re Kanishka, convertitosi al buddismo, amò il Kashmir e riunì sovente la propria corte nella valle. I re Kushan furono
noti per il loro amore per l'arte, l'architettura e il sapere e 0 periodo fu segnato da una rinascita intellettuale. I mercanti, che attraversarono la famosa Via della Seta, non portavano solamente merci ma anche idee letterarie e artistiche. Nei decenni che seguirono, il Kashmir godette di quella che venne ricordata come un'«età dell'oro». La vita economica del popolo era semplice: lavorava la terra ed era obbligato a cedere una parte del raccolto al sovrano. I kashmiri divennero famosi in tutta l'Asia come persone colte, miti e istruite, e il contributo intellettuale di scrittori, poeti, musicisti e scienziati del luogo al resto dell'India fu paragonabile a quello dato dagli antichi Greci alla civiltà europea. Lalitaditya, che governò all'inizio dell'vill secolo, è ancora considerato uno dei più celebri re induisti. Precursore dell'imperatore europeo Carlo Magno, incarna il modello dell'eroe conquistatore sul quale si fonda l'orgoglio kashmiro nei confronti dei propri antichi sovrani. Significativo fu inoltre il suo contributo come amministratore. Avantivarman, vissuto nel IX secolo e dal quale prende il nome la città di Avantipur, è un altro dei grandi re induisti, il quale si guadagnò le lodi di Kalhana per la sua opera di consolidamento interno dello Stato. Ma, a partire dal X secolo, le lotte per il potere in Kashmir si intensificarono. La politica isolazionista adottata dagli ultimi re induisti per contrastare l'Islam emergente nell'India settentrionale finì col rendere insufficienti le risorse per sostentare la popolazione. Il primo grande monarca del periodo musulmano fu Shahab-ud Din, che ascese al trono nel 1354. Ripristinata la pace dopo le devastazioni dei mongoli, egli si concentrò nella conquista di territori stranieri, annettendo il Baltistan, il Ladakh, Kishtwar e lo Jammu. Amò anche la cultura e patrocinò l'arte e l'architettura; sposò un'induista, Laxmi, e manifestò un grande rispetto nei confronti dei diversi sentimenti religiosi di tutti i suoi sudditi. Durante il regno del suo successore, Qutb-ud Din, il ritmo delle conversioni all'Islam aumentò. L'induismo tuttavia perdurò e l'amministrazione rimase nelle mani di uomini colti, i bramini"1, tradizionalmente riconosciuti come la casta burocratica; e anche il sanscrito rimase la lingua ufficiale di corte. Nel 1420 salì al trono un illustre personaggio, popolarmente noto come Bud Shah ('grande re'): nipote di Qutb-ud Din, prese il nome di Sultan Zain-ul Abidin. Nel corso del suo lungo regno, che durò fino al 1470, la valle prosperò. La corte di Bud Shah fu ricca di poeti e musicisti; egli protesse anche studiosi e intellettuali, fu tollerante nei confronti dei bramini e ricostruì i templi distrutti durante il regno di suo padre. Molti indù, che avevano abbandonato il paese, vi fecero ritorno. Il persiano divenne la nuova lingua ufficiale e a coloro che lo imparavano venivano offerte cariche di governo. Bud Shah introdusse anche l'arte della tessitura e della cartapesta, che hanno reso l'artigianato locale famoso fino a oggi. Il suo regno non fu comunque immune dalle con-
suete lotte di potere: negli ultimi diciotto anni della sua vita infuriò una guerra di successione tra i suoi tre figli. Negli anni successivi, la fama del Kashmir attrasse i Moghul, che inizialmente non riuscirono a dominare la valle. Si trattava però soltanto di una questione di tempo. Salito al trono di Delhi nel 1558, l'imperatore Moghul Akbar approfittò di un'altra lotta di potere che si era scatenata nel Kashmir e nel 1586 inviò una spedizione alla conquista del paese. L'ultimo dei suoi re morì in esilio. E con l'assimilazione di questo territorio all'impero Moghul, si concluse la sua lunga storia come regno indipendente. Quando i suoi abitanti guardano oggi alla propria eredità politica, ricordano con orgoglio le dinastie indù e i sultanati musulmani. Ma la cosa più importante è che, sebbene la vita del popolo fosse innegabilmente dura, nessuno dei suoi antichi governanti ha mai dovuto prendere ordini da Kabul, Lahore o Delhi, e le loro gesta fanno parte di un passato che i kashmiri sentono come un proprio inalienabile retaggio.
1.2. Moghul e afgani, 1586-1819 La conquista della valle da parte dei Moghul è generalmente considerata come il punto d'inizio della storia moderna del Kashmir. Per circa due secoli, quest'ultimo fu l'avamposto più a nord di un impero la cui autorità centrale era a Delhi. Dopo essersene impadronito, Akbar adottò una politica di conciliazione e stipulò alleanze matrimoniali con la nobiltà locale. Qui come nel resto dell'India, egli diede prova di grande tolleranza. E suo figlio Jehangir, che ne ereditò il trono nel 1605, è forse il sovrano che ha lasciato il migliore ricordo nel Kashmir proprio grazie al suo amore per questo paese. Durante il suo regno lo abbellì con oltre settecento giardini. Si dice che in punto di morte, quando gli fu chiesto se desiderasse qualcosa, egli rispose: «Nient'altro che il Kashmir». Anche suo figlio, lo Shah Jehan, che gli succedette nel 1624, amò questa valle, che divenne per l'aristocrazia Moghul un luogo molto amato dove trovare rifugio dalle calde estati delle pianure indiane. Con l'avvento dei Moghul ebbe inizio un regime destinato a diventare fin troppo familiare alla gente del Kashmir: la provincia era amministrata da un governatore inviato da Delhi, che aveva il compito di riscuotere le tasse. Tuttavia, malgrado l'imposizione di un'autorità esterna, la prima fase dell'impero è generalmente ricordata come un periodo di relativa stabilità e prosperità per il Kashmir, che accolse poeti e letterati. Furono intraprese inoltre riforme agrarie e coloro che vi fecero visita negli anni seguenti serbarono la convinzione che anche la dominazione Moghul costituisse un'età dell'oro. Aurangzeb, salito al trono nel 1658, fu l'ultimo degli imperatori di que-
sta dinastia ad avere un qualche peso sulla storia del Kashmir. Quando lo visitò per la prima e unica volta nel 1665, era accompagnato da un medico francese, François Bernier, il cui entusiasmo per questo paese ha indubbiamente influenzato i futuri viaggiatori. «Sono incantato dal Kashmir. In verità, il regno supera in bellezza tutto quello che la mia fervida immaginazione aveva pronosticato». Bernier scrisse favorevolmente del popolo, che «è celebre per la sua acutezza ed è considerato molto più intelligente e ingegnoso degli indiani»5. In questo periodo, l'artigianato dello scialle, iniziato da Bud Shah, stava riscuotendo il meritato successo e Bernier prese nota del gran numero di questi indumenti confezionati dalla gente del luogo. Verso la fine del regno di Aurangzeb accadde un evento destinato ad avere un significato particolare per le successive generazioni di musulmani del luogo. Nel 1700, un pelo della barba del profeta Maometto, la Mo-i Muqaddas, fu portato in Kashmir dal servitore di un ricco mercante. In un primo momento fu esposto nella moschea di Srinagar, che si rivelò poi troppo piccola per accogliere le folle accorse in pellegrinaggio. La reliquia fu così trasferita in un'altra moschea sulle rive del lago Dal Superiore, celebre inizialmente come Asar-i Sharif ('santuario della reliquia') e poi come Hazratbal, lago dell'Hazrat, ovvero del Profeta. Ed è sempre rimasta lì fin da allora, salvo un breve intervallo nel 1965 quando scomparve misteriosamente. Diversamente da Akbar, Aurangzeb fu intollerante verso le altre religioni e la memoria del suo regno è macchiata dalla persecuzione degli indù e dei musulmani sciiti. I bramini restarono comunque al loro posto nella pubblica amministrazione e ai seguaci di entrambe le religioni continuò ad essere offerta la possibilità di distinguersi grazie ai meriti personali e all'istruzione. La fine del potere di Aurangzeb e la guerra di successione fra i tre figli scoppiata alla sua morte, nel 1707, segnarono un progressivo declino del dominio dei Moghul nel Kashmir. All'inizio del Settecento aumentò il numero di indù che lasciavano la valle. Ma sebbene ciò fosse attribuito alle persecuzioni, è anche possibile che i bramini se ne fossero andati in seguito alle opportunità offerte dai contatti stabiliti nel periodo in cui il Kashmir era parte dell'impero Moghul6. Quando il re persiano Nadir Shah invase Delhi nel 1738, il controllo dei Moghul su questo paese si attenuò ulteriormente, lasciandolo alla mercé di altri invasori. Nel 1751, l'Afghanistan, sotto il regno di Ahmed Shah Durrani, lo assorbì nel suo impero in espansione. I nomi dei governatori afgani che dominarono il Kashmir sono quasi tutti dimenticati, non così invece la loro crudeltà, indirizzata soprattutto verso gli indù. L'oppressione assunse la forma di estorsione ai danni dei sudditi e della brutalità contro gli oppositori. Gli abitanti del luogo vissero nel timore per la propria incolumità, molti furono fatti prigionieri e inviati come schiavi in Afghanistan. Dopo la morte di Ahmed Shah Durrani, nel 1772, il suo impero non riuscì più a eguagliarne le gesta, ma conservò il controllo sulla
valle del Kashmir per altri quarantasette anni. Durante la dominazione afgana, l'artigianato dello scialle entrò in declino, probabilmente a causa delle tasse onerose. Intorno al 1780 c'erano 16.000 telai in funzione a fronte dei 40.000 dell'epoca Moghul; all'inizio dell'Ottocento, la domanda di scialli in Europa fece sì che il numero dei telai salisse ai 24.000 del 18137. Malgrado l'oppressione religiosa cui erano soggetti, molti induisti furono tuttavia utili agli afgani grazie alla loro esperienza amministrativa. Ai pandit locali non fu impedito di entrare al servizio del governo e ci furono famiglie i cui cognomi - Dhar, Kaul, Tikku e Sapru - comparivano regolarmente nei pubblici uffici8. A sud del Kashmir, il sovrano sikh Ranjit Singh, figlio di Mahan Singh, capo di una delle dodici confederazioni sikh note come misi, stava ampliando il proprio impero nel Punjab a spese di quello afgano in declino. Nel 1799 aveva acquisito Lahore e il titolo di maharajah da Zaman Shah, re dell'Afghanistan; nel 1801 conquistò Amritsar. Nel 1809, inglesi e sikh stipularono un trattato di «Amicizia e Concordia», con il quale questi ultimi riconobbero la sovranità britannica sul Sind, mentre i primi accettarono che il loro territorio si fermasse al fiume Sutlej. Nel 1819, Ranjit Singh, divenuto famoso con il soprannome di "Leone del Punjab", riuscì infine a conquistare il Kashmir, inizialmente con sollievo della popolazione locale, che aveva sofferto sotto gli afgani.
1.3. Il dominio sikh Com'era pratica abituale sotto i Moghul e gli afgani, il Kashmir fu posto sotto il controllo di una serie di governatori. Furono così introdotti vari provvedimenti che mettevano in evidenza il prevalere del credo induista su quello dei musulmani, come la pena di morte per chi praticava la macellazione bovina. Il quadro fornito dagli europei, che cominciarono a visitare sempre più frequentemente questo paese, era quello di un luogo afflitto dalla povertà e dalla fame. Nel 1823 William Moorcroft attraversò il Kashmir diretto a Buhara, allo scopo di individuare una migliore razza equina fra i destrieri turcomanni da destinare alle scuderie militari della Compagnia delle Indie Orientali. Prima di diventare un chirurgo veterinario, aveva studiato da medico e durante il soggiorno a Srinagar curò la gente del luogo: La popolazione versava ovunque nelle più misere condizioni, vessata dall'amministrazione dei sikh e sottoposta a ogni sorta di estorsione e di oppressione da parte dei suoi funzionari. E il risultato di questo sistema è stato il graduale spopolamento del paese.'
Secondo le sue stime, non più di un sedicesimo della superficie coltivabile era effettivamente sfruttato, per cui la popolazione affamata era fuggita in gran numero in India. Stroncato dalla febbre nel 1825, Moorcroft non riuscì a completare la sua missione, ma i suoi diari, curati da H.H. Wilson, forniscono una preziosa testimonianza della condizione del popolo nel primo periodo della dominazione dei sikh. I kashmiri, com'egli scrisse, erano trattati «poco meglio del bestiame»10. Nel 1821 giunse nella valle Victor Jacquemont, un botanico francese che descrisse Srinagar come il luogo «più miserevole del mondo [...] in nessun'altra parte dell'India le masse sono così povere e nude come in Kashmir»11. Analogo il racconto di Godfrey Vigne, che visitò questi luoghi nei tardi anni Trenta dell'Ottocento. «Non passava giorno, mentre ero in viaggio verso il Kashmir, e poi anche nella valle, senza che vedessi le pallide spoglie di qualche infelice caduto vittima della malattia o della fame»12. Il contatto con gli europei portò tuttavia alcuni benefici: vennero compiuti studi dettagliati dell'area e la mappa del capitano Wade, presentata a Ranjit Singh, fu la prima carta geografica aggiornata del Kashmir. Venne inoltre avviato un rudimentale sistema postale. Ranjit Singh non visitò mai la valle del Kashmir, esiste però un famoso racconto secondo il quale egli scrisse una volta a uno dei suoi governatori, il colonnello Mian Singh: «Avverrà mai che almeno una volta nella mia vita io possa gustare la delizia di passeggiare nei giardini del Kashmir, fragranti di mandorli in fiore, e giacere sull'erba fresca?». Per accontentare il maharajah, il governatore locale ordinò uno speciale tappeto tessuto su fondo verde, costellato di piccole macchie rosa e cosparso di minuscoli punti simili a perle. Quando lo ricevette, Ranjit ne fu incantato e vi si rotolò sopra come se fosse un prato del Kashmir". Per lui fu messo in lavorazione persino uno scialle che raffigurava una mappa della valle, ma quando fu completato, ben trentasette anni dopo, il Leone del Punjab era morto. Lungo i confini del Kashmir, nelle vicine pianure dello Jammu, i Rajput Dogra erano profondamente interessati a quanto succedeva nella valle. Essi si erano stabiliti attorno ai laghi di Mansar e Siroinsar, nel tratto di terra che sale dalle pianure del Punjab alle montagne del nord, e prendevano il nome da Dogirath, che in sanscrito vuol dire 'due laghi'. Intorno al 1820, il sovrano dello Jammu, feudatario di Ranjit Singh, era il rajah Gulab Singh, nato nel 1792. Con i suoi due fratelli minori, Dhyan e Suchet, Gulab aveva saputo rendersi indispensabile alla corte del sovrano sikh. Quali vassalli di Ranjit Singh, i tre fratelli riuscirono ad accumulare terre e ricchezza sia nelle pianure sia negli stati collinari a nord del Punjab. Nominato rajah dello Jammu da Ranjit Singh nel 18221"1, Gulab Singh estese ancor più il suo territorio in nome del regno dei sikh, fino a includere il Ladakh, al confine con la Cina. Quando, Ranjit Singh
morì, nel 1838, durante il caos per la successione Gulab Singh si ritrovò così ben piazzato per poter controllare gli eventi non soltanto nel cuore dell'impero sikh a Lahore, bensì anche nel Kashmir e negli Stati contigui. Fino alla morte di Ranjit Singh, la Compagnia delle Indie Orientali aveva mantenuto relazioni amichevoli con i sikh, i quali a loro volta non vollero turbare gli inglesi. In seguito però i rapporti si deteriorarono. L'11 dicembre 1845, durante la prima guerra contro gli inglesi, l'esercito sikh attraversò il fiume Sutlej e fu sconfitto in due battaglie - a Mudki e Firuzshar - , anche se in maniera non definitiva. L'anno seguente, il 10 febbraio 1846, si scontrò nuovamente con gli inglesi a Sobraon, un piccolo villaggio sulle rive del Sutlej. Gulab Singh fece da spettatore, offrendo aiuto ai propri sovrani, ma solo a parole, e rimase in contatto costante con gli inglesi. Senza il suo sostegno, la sconfitta dei sikh fu inevitabile. I rappresentanti delle opposte forze in campo si incontrarono a Kasur, dove i due eserciti si erano attestati, a circa cinquanta chilometri da Lahore. E gli inglesi, riconoscendo che la neutralità di Gulab Singh aveva spostato l'ago della bilancia della guerra in loro favore, lo trattarono come un ambasciatore gradito. Il trattato di pace, ratificato a Lahore il 9 marzo 1846 tra il giovane maharajah sikh Dulip Singh e gli inglesi, tendeva volutamente a favorire Gulab Singh. Invece di esigere un risarcimento di dieci milioni di rupie, ai sikh fu chiesto di cedere alla Compagnia delle Indie Orientali le province del Kashmir e di Hazara. Essi furono inoltre obbligati a riconoscere la sovranità di Gulab Singh sui territori che stavano per essergli ceduti con un accordo separato. Una settimana dopo, il 16 marzo, Gulab firmò il trattato di Amritsar con gli inglesi, impegnandosi a versare loro l'esatto ammontare dell'indennizzo al quale essi avevano rinunciato in cambio della presa di possesso delle due province. Venticinque lakh (ovvero un quarto di quei dieci milioni di rupie) furono in seguito detratti poiché gli inglesi mantennero alcuni territori al di là del fiume Beas15. Grazie al trattato di Amritsar, Gulab Singh potè liberarsi dall'obbedienza ai sikh; da quel momento in poi, non fu più loro feudatario ma, come maharajah dello Jammu e del Kashmir, costituì un contrappeso nei loro confronti. I suoi possedimenti comprendevano non solo il natio Jammu, ma anche il regno himalayano del Kashmir, il Ladakh e il Baltistan, che un suo famoso generale, Zorawar Singh, aveva conquistato per conto dei sikh nel 184016.
MoggloniiiiQ m u l i n a n o I Maggioranza
fadù-rihh
I Maggioranza buddista
Nota sulla popolazione: il censimento del 1941 Indico una popolazione t o l d e di 4.021.616 abitanti, dei quali il 7 7 per coito erano musulmani, il 2 0 per cento indù, ti ,64 per cento e 11 per cento buddisti. Nel 1981 la popolazione totale era stimata in B.529.389 abitanti.
La creazione dello Stato dello }ammu e Kashmir con i gruppi comunitari (Fonte: Alastair Lamb, Crisis in Kashmir, Londra, Routhedge & Kegan Paul, 1966)
1.4. I Dogra Nonostante la sua posizione di maharajah, Gulab Singh fu guardato ancora una volta con sospetto non appena i sikh iniziarono la loro seconda guerra contro gli inglesi nel 1848. Ma egli decise di non rivoltarsi contro i suoi nuovi signori, come invece le autorità britanniche temevano. Al contrario, quando gli inglesi chiesero il suo sostegno, come previsto dalle clausole del trattato di Amritsar, egli non si tirò indietro. La sconfitta dei sikh nella battaglia di Gujrat, il 21 febbraio 1848, condusse
al completo smembramento dell'impero sikh e all'annessione del Punjab da parte degli inglesi. Sebbene il Kashmir fosse stato aggiunto ai possedimenti dei Dogra, la popolazione locale ebbe sempre la sensazione che essi considerassero lo Jammu come la propria patria e la valle come un territorio conquistato. Gli inglesi, severamente biasimati dai kashmiri per aver venduto il loro paese, non poterono fare molto per migliorare la sorte degli abitanti, dal momento che non avevano alcun mandato per ingerire nei suoi affari interni. Si preoccuparono comunque di far pressione su Gulab Singh per l'abolizione del sati, l'infanticidio delle femmine e l'uccisione dei figli illegittimi. Il maharajah, tuttavia, continuò a permettere la libertà universale di culto e, benché non approvasse i matrimoni misti tra indù e musulmani, non li proibì. Nel 1856, dopo dieci anni di regno, la sua salute cominciò a peggiorare; aveva il diabete sin dal 1851 e soffriva inoltre di idropisia. Allo scopo di facilitare la successione al trono e prevenire le rivalità da parte dei figli dei suoi fratelli, Dhyan e Suchet, chiese al governatore generale di nominare maharajah il suo terzo figlio, Ranbir Singh, l'8 febbraio 1856. Ma, nonostante avesse formalmente abdicato, divenne governatore della provincia e mantenne la piena sovranità fino alla morte, sopraggiunta il 7 agosto 1857. La rivolta generale dei sepoy, le truppe locali utilizzate nell'esercito della Compagnia delle Indie Orientali, - che gli inglesi definirono un «ammutinamento» e gli indiani una «guerra d'indipendenza» - ebbe inizio a Meerut, presso Delhi, il 10 maggio 1857. Si estese subito ad altre città e centinaia di europei furono massacrati. Il capo legittimo dell'ex impero Moghul, Bahadur Shah II, sostenne i ribelli. E l'insurrezione, che durò per più di un anno, non solo incrinò la fiducia degli inglesi nel loro governo in India, ma li spinse anche a ricercare alleati leali. Lo Stato dello Jammu e del Kashmir, sotto la guida congiunta del sofferente Gulab e di suo figlio Ranbir, rispose favorevolmente alle loro richieste di aiuto. I due inviarono in Punjab una grande somma di denaro per pagare gli stipendi arretrati delle truppe. Ai rivoltosi fu inoltre proibito di cercare asilo nel Kashmir, che, dopo l'annessione del Punjab da parte degli inglesi, confinava ora con l'India britannica. Donne e bambini inglesi in fuga dalle pianure poterono così trovare rifugio nella valle. Ma, soprattutto, i Dogra acconsentirono a inviare un corpo di spedizione per aiutare le truppe britanniche durante l'assedio di Delhi. Dati però i persistenti dubbi sulla sua fedeltà agli inglesi, il contingente venne mobilitato solo dopo la morte di Gulab, nell'agosto del 1857, e compì azioni molto circoscritte. Ma la decisione di impegnare truppe del Kashmir a fianco di quelle britanniche superò in importanza, sotto il profilo psicologico, quella di un loro possibile contributo nello svolgimento effettivo del conflitto17. Dopo la rivolta, il governatore generale divenne il rappresentante della regina,.
assurgendo al rango di viceré, e l'amministrazione del paese non venne più affidata alla Compagnia delle Indie Orientali, bensì al governo dell'India. Con la rettifica del trattato di Amritsar, nel 1860 Sua Altezza il Maharajah Sir Ranbir Singh (Indar Mahindar, Sipar-i-Saltanat, Generale, Asakir-i-Inglishia, Mushir-i-Khas-i-Qaisara-i-Hind, Gran Commendatore dell'Ordine della Stella dell'India, Gran Commendatore dell'Ordine dell'Impero Indiano) fu ricompensato per la sua fedeltà e per l'aiuto durante la rivolta dei sepoy con l'autorizzazione a designare un successore da un ramo collaterale della famiglia. Nel 1862 George Canning confermò che «in mancanza di eredi naturali, l'adozione di un erede della Casa di Vostra Altezza, secondo l'usanza e le tradizioni, sarà volentieri riconosciuta [...] finché la vostra Casa resterà fedele alla Corona»18. Ciò avrebbe assicurato per sempre la successione dei Dogra, nel caso in cui egli o i suoi successori non avessero avuto un erede. La regina Vittoria conferì al maharajah Ranbir Singh il titolo dell'Eminentissimo Ordine della Stella dell'India e i suoi colpi di cannone a salve furono elevati da diciannove a ventuno. Più popolare, ma meno autorevole, di suo padre, Ranbir non fu tuttavia in grado di migliorare le condizioni del proprio popolo. Il paese rimase nelle mani dei burocrati, i quali non erano motivati né dotati intellettualmente per intraprendere alcuna riforma. Il colonnello Ralph Young, che visitò il Kashmir nel 1867, osservò lungo la strada per Srinagar che «una volta tutto il paese era coltivato, ma adesso è una terra desolata, di certo non fiorente». Durante i suoi viaggi incontrò Frederick Drew, che stava studiando la geologia delle montagne su incarico del dipartimento forestale del governo di Ranbir Singh e più tardi divenne governatore del Ladakh. Da suoi colloqui con quest'ultimo, Young maturò la convinzione che tutti i ceti sociali fossero «scontenti del governo dello Jammu e che si sarebbero ribellati se non avessero temuto che gli inglesi sarebbero intervenuti per sedare la rivolta»19. Robert Thorp, il quale espresse apertamente il proprio sdegno per la vendita del Kashmir ai Dogra nel 1846, era convinto che gli inglesi avessero qualche responsabilità «verso il popolo che avevano reso schiavo di Gulab Singh». Un popolo «le cui caratteristiche (morali e intellettuali) dimostrano una passata grandezza, calpestata da una razza in tutto inferiore ad esso, e in costante declino sotto l'influsso di un dispotismo oppressivo, che ostacola qualunque miglioramento, sociale, spirituale o religioso». La morte o l'emigrazione erano l'unica via di fuga da questa forma di servitù; i fabbricanti di scialli lavoravano per un tozzo di pane. «Lo Stato requisisce gran parte di quasi tutto ciò che produce il suolo e i numerosi funzionari addetti alla raccolta ricevono in compenso una larga quantità di grano sottratta alla quota spettante ai proprietari delle terre»20. Il regno di Ranbir Singh, durato ventotto anni, si contraddistinse per la
sua indifferenza verso il governo locale, accompagnata da una serie di catastrofi naturali. Nel 1884 Lord Kimberley, segretario di Stato per l'India, scrisse al governo del viceré: «Non esiste alcun dubbio sull'urgente bisogno di riforme nell'amministrazione dello Stato dello Jammu e del Kashmir». E aggiunse che, considerate le circostanze in cui i Dogra avevano assunto il dominio del Kashmir, «l'intervento del governo britannico a favore della popolazione maomettana è stato già fin troppo rimandato» 21. Ma, oltre alla preoccupazione degli inglesi per la situazione interna di questo paese, vi fu una ragione più importante per la quale il governo dell'India scelse di intervenire in maniera più energica nei suoi affari interni: lo Stato dello Jammu e del Kashmir costituiva la frontiera settentrionale dell'India imperiale.
1.5. Il Kashmir: uno Stato di frontiera La politica imperiale britannica nei confronti dello Stato dello Jammu e del Kashmir alla fine dell'Ottocento fu guidata principalmente dal timore di un'avanzata russa verso l'India attraverso le montagne del Pamir, come nel caso della distesa di terra a nord dell'Hindukush e dell'Himalaya, nota come Turkestan, la cui parte occidentale era sotto il governo nominale della Cina. Inoltre, gli inglesi erano costantemente preoccupati dalla politica indipendente adottata dall'Amir dell'Afghanistan, le cui terre si estendevano anch'esse fino alla frontiera nord-occidentale del subcontinente. Per la sua posizione strategica, lo Stato dello Jammu e del Kashmir sembrava costituire un cuscinetto ideale contro potenziali incursioni nel subcontinente dalla Russia, dall'Afghanistan o dalla Cina. A condizione che potessero mantenere un'alleanza fattibile con il maharajah, gli inglesi non sarebbero stati obbligati in prima persona a incorrere nelle spese di fortificazione della frontiera settentrionale. Una siffatta politica, tuttavia, implicava un grado di controllo sul maharajah che gli inglesi non avevano. Il trattato di Amritsar non prevedeva un rappresentante britannico alla corte di Gulab Singh, al quale, benché tecnicamente fosse feudatario degli inglesi, nessuna clausola impediva di tenere proprie relazioni diplomatiche indipendenti. Dal momento che il trattato era vago in merito al confine dello Stato a ovest dell'Indo, nell'area del Dardistan, il maharajah era interessato a estendere il proprio controllo agli stati confinanti. Chilas, sulla strada di Gilgit, pagava già un tributo simbolico al Kashmir. Poco prima della morte di Gulab Singh, i Dogra erano stati costretti a cedere l'area di Gilgit, in posizione strategica, al confine con i regni indipendenti di Hunza e Nagar. Nel 1860 Ranbir Singh aveva inviato un corpo di spedizione che aveva riconquistato Gilgit, la quale era stata annessa allo Stato dello Jammu e del Kashmir. Alla fine del
decennio, Hunza e Nagar, tradizionalmente rivali, pagavano ambedue tributi al maharajah e in cambio ricevevano un sussidio annuale. In considerazione di questi sviluppi, la fine dell'Ottocento vide un periodo di intenso interesse da parte degli inglesi verso la frontiera settentrionale del subcontinente. Lord Mayo, che divenne viceré nel 1869, orientò la propria politica verso il Kashmir tenendo ben presenti gli obiettivi imperiali della Gran Bretagna. Il suo successore, Lord Northbrook, non si oppose all'estensione dell'influenza del Kashmir da parte del maharajah se, al contempo, essa poteva servire gli interessi inglesi; il pensiero di Northbrook venne accolto da Lord Lytton, il quale gli subentrò nel 1876. Ranbir Singh, tuttavia, fu molto allarmato quando gli inglesi proposero di assegnare un funzionario con incarichi speciali (Officer on Special Duty, OSD) a Gilgit, il quale avrebbe riferito direttamente al governo britannico sugli sviluppi della frontiera. Quando il viceré e il maharajah si incontrarono a Madophur nel novembre 1876, i loro colloqui rasentarono il fallimento; soltanto quando Lord Lytton assicurò a Ranbir Singh che gli inglesi non avrebbero avuto alcuna ingerenza negli affari interni dello Stato, il maharajah acconsentì. Il colonnello John Bidduph fu così inviato a Gilgit nel 1877 come primo OSD britannico. Lytton stava comunque considerando anche la possibilità di ridefinire le relazioni britanniche con l'Afghanistan; riteneva che l'evidente allontanamento di Sher Ali, l'Amir dell'Afghanistan, dagli inglesi fosse dovuto alla loro stessa negligenza nei suoi confronti. Fece dunque profferte di amicizia e nel 1877 inglesi e afgani si incontrarono a Peshawar. Se i negoziati avessero avuto successo, sarebbe venuto meno l'obbligo, percepito dagli inglesi, di dipendere dal maharajah dello Jammu e del Kashmir per la salvaguardia della frontiera settentrionale. Ma quando le relazioni con Sher Ali si guastarono e si arrivò alla guerra nel 1878, la dipendenza inglese dal maharajah divenne più tangibile. Anche Ranbir Singh faceva il proprio gioco: Bidduph non fu bene accetto a Gilgit e il maharajah non collaborò mai pienamente con lui. Anche il sovrano di Chitral, il Mehtar, obbligato ad accettare la sovranità kashmira nel 1878, era un partner riluttante nelle relazioni ed era molto più disposto a trattare con i suoi correligionari musulmani in Afghanistan piuttosto che con gli indù e i kafir dei suoi confini orientali. Nel 1881 la Gilgit Agency fu abbandonata: non si era dimostrata un luogo d'ascolto particolarmente valido e il maharajah fu lasciato da solo a guardia della frontiera settentrionale. Il presupposto della politica di Lytton era peraltro la piena fedeltà del Kashmir al governo britannico rispetto alla Russia e all'Afghanistan: ci si accorse invece che il maharajah aveva intrattenuto relazioni con ambedue gli stati. Il ruolo del Kashmir quale guardiano della frontiera settentrionale dell'India non era determinato soltanto dalle aree occidentali di Gilgit e Hunza, ma anche dall'est, cioè dal Ladakh, acquisito da Gulab Singh nel 1834.
La via da Srinagar a Leh conduceva oltre fino a Khotan, Yarkand e Kashgar nel Turkestan. Dopo la creazione dello Stato dello Jammu e del Kashmir, uno dei compiti della Commissione per la Frontiera fu di definire i confini del nuovo Stato e fu in quell'occasione che gli inglesi presero ufficialmente atto di una strada attraverso il Ladakh per la Cina. Dato che l'impero russo premeva sempre sulla frontiera nord-occidentale, le autorità britanniche cominciarono a preoccuparsi per il possibile estendersi degli interessi russi fino al Turkestan cinese, circostanza che avrebbe tolto agli inglesi l'opportunità di espandere le loro relazioni commerciali nella regione. La dinastia Manciù era in declino e la dominazione cinese sui sudditi musulmani dell'Asia centrale si era fortemente indebolita dopo che, nel 1861, i musulmani cinesi del Gansu si erano ribellati. Ranbir Singh era al corrente della situazione fluida alla propria frontiera settentrionale e tentò di trarne vantaggio per incrementare i rapporti commerciali con il Turkestan orientale. Queste iniziative autonome del maharajah furono tuttavia guardate con preoccupazione dalle autorità britanniche, che non avevano ancora deciso fino a che punto gli avrebbero consentito di portare avanti una politica estera indipendente. Comunque, anche se nei decenni successivi l'Asia centrale divenne teatro di intense rivalità, il Ladakh rimase al di fuori del terreno di scontro immediato per il resto del secolo. I successivi tentativi britannici di stabilire il confine nell'Aksai Chin non furono contraccambiati dai cinesi22, cosicché sia il confine sia l'area ancora oggetto di controversia tra India e Cina furono a malapena delimitati alla catena dei monti Kunlun. Nel 1882, Ranbir Singh prese in considerazione l'ipotesi di designare proprio successore il figlio minore Amar, ritenuto «più saggio» dei suoi fratelli Pratap e Ram. Ripetè la richiesta agli inglesi nel 1884, ma quando morì, 1*11 settembre 1885, essi scelsero di far salire al trono il figlio maggiore Pratap; stabilirono comunque che sarebbe stato nominato un funzionario politico residente, il quale avrebbe avuto l'incarico di consigliere per la riforma dell'amministrazione. Lo stesso giorno in cui Pratap Singh si insediò, fu nominato residente il colonnello O. St John. Al Darbar, nel 1885, il maharajah annunciò una serie di riforme, che comportavano l'abolizione dei monopoli di Stato, la riorganizzazione dell'amministrazione finanziaria dello Stato, la razionalizzazione delle tasse, la costruzione di strade e l'eliminazione delle restrizioni sull'emigrazione. Ma le trasformazioni previste, come osservarono più tardi i commentatori, erano al di sopra delle capacità del maharajah, i cui funzionari erano incapaci e corrotti2'. L'opinione espressa da St John dopo quattro mesi di permanenza, e cioè che il maharajah era inadatto a governare, perdurò per tutto il lungo regno di Pratap Singh. Nel 1886 il governo dell'India lo obbligò a nominare un nuovo Consiglio, che comprendeva i fratelli minori Amar e Ram.
Un anno dopo, per porre rimedio alle ingiustizie perpetrate ai tempi degli afgani e dei sikh, fu avviato un vasto programma di assegnamento delle terre. Nominato commissario per portarlo a termine nel 1889, Walter Lawrence descrisse la posizione del popolo come peggiore di quella del Terzo Stato nella Francia prerivoluzionaria". Alla fine del 1889 il residente rivelò di aver scoperto più di trenta lettere di tradimento indirizzate allo Zar dal maharajah. Questi negò di averle scritte e in seguito fu provato che si trattava di falsi, ma l'episodio fu sufficiente per minare gli ultimi resti della fiducia che gli inglesi nutrivano in lui. 11 primo aprile 1889 Pratap Singh venne privato di tutti i suoi poteri, tranne quelli nominali. Il Consiglio fu composto dai suoi due fratelli, da due ministri e da un membro inglese «specificamente scelto dal governo dell'India». Amar Singh divenne primo ministro, poi presidente del Consiglio e capo esecutivo dell'amministrazione; il potere effettivo, tuttavia, restò nelle mani del residente inglese. Per il resto del secolo, la maggiore preoccupazione degli inglesi fu la possibilità di un'invasione russa nel subcontinente. Nel 1888 il colonnello Algernon Durand si recò a Gilgit per elaborare una strategia di difesa che prevedeva l'utilizzo delle Kashmir Imperiai Service Troops, di recente formate. Il viceré Lord Dufferin aveva deciso di far partecipare tutti i sovrani dei principati alla difesa dell'Impero con un contributo sia in uomini sia in denaro. Al suo ritorno, Durand riferì a suo fratello Sir Mortimer Durand, ministro degli Esteri del governo dell'India, di avere udito che un ufficiale russo, il capitano Grombcevskij, era stato a Hunza. Questa notizia riaccese negli inglesi i timori che i russi potessero attraversare le montagne del Pamir e che l'India fosse a portata di tiro delle loro forze. L'anno seguente, nel luglio 1889, Durand fu nuovamente inviato a Gilgit per reinsediare la Gilgit Agency. Tuttavia, appena tornati, gli inglesi furono nuovamente minacciati dalle attività dei sovrani di Hunza e Nagar, i quali strinsero un'alleanza temporanea e sfidarono l'autorità britannica. In una delle più famose azioni della storia imperiale britannica, alla fine del 1889 truppe inglesi riuscirono a far breccia nelle difese pesantemente fortificate delle forze di Hunza e Nagar, lungo il fiume Hunza. I due territori vennero così annessi alla Gilgit Agency, sulla quale in seguito gli inglesi ottennero il controllo diretto. In tempo di pace, la guarnigione di Gilgit era provvista di circa 2.000 uomini delle truppe statali dello Jammu e del Kashmir, pagati per lo più dal Tesoro dello Stato stesso. Fu non prima del 1913, con la fondazione del Corpo dei Gilgit Scouts, che furono reclutate forze locali per armare la guarnigione. Alla fine dell'Ottocento, il Kashmir era già celebre per la quiete e il sollievo che offriva ai visitatori europei provenienti dalla calura delle pianure. Una delle grandi attrattive di Srinagar era il bellissimo lago Dal, sul
quale si soggiornava in barche che si trasformarono poi nelle circa millecinquecento case galleggianti di un secolo dopo. Produttori di scialli, di ricami, di tappeti, di scatole di cartapesta, tutti beneficiarono dell'influsso dei villeggianti, funzionari con moglie e figli che ogni estate giungevano nella valle. La presenza di turisti spensierati era tuttavia in totale contrasto con la durezza della vita della gente del luogo, gran parte della quale viveva nella miseria più nera. Soltanto una piccola minoranza, concentrata soprattutto attorno ai governanti Dogra, godeva di una ricchezza ineguagliabile. Gli europei fecero sentire la propria presenza anche come medici e insegnanti. Come in altre parti dell'Impero, sotto la direzione della Church Missionary Society, gli inglesi fondarono scuole missionarie e ospedali. Il canonico Tyndale Biscoe giunse a Srinagar nel 1890 in qualità di direttore della Scuola Missionaria, fondata dal reverendo Doxey nel 1882 e vi rimase per cinquant'anni; si rese famoso perché mandava gli studenti a spegnere gli incendi che scoppiavano con regolarità nel paese. Egli insistette affinché i ragazzi imparassero a nuotare, cosa considerata sconveniente, in modo che potessero salvare vite umane nel corso delle frequenti inondazioni. Sin dalla sua deposizione, Pratap Singh giudicò il fratello Amar responsabile di tutti i suoi guai. Nel 1889 scrisse al viceré, Lord Lansdowne, pregandolo di essere reinsediato e, qualora ciò non fosse stato possibile, di sparargli «al cuore con le mani di sua Eccellenza, e in tal modo subito sollevare per sempre uno sventurato principe da infelicità, disprezzo e disonore intollerabili»25. Il viceré rifiutò tanto di reintegrarlo quanto di sparargli, ma altri principi indiani erano scontenti di un'ingerenza britannica senza precedenti nel Kashmir. La stampa indiana aveva inoltre preso a cuore la causa di Pratap Singh e aveva chiesto a Charles Bradlaugh, un noto esponente del libero pensiero, di intervenire nel 1889 presso il Congresso Nazionale Indiano, fondato di recente, per richiamare l'attenzione sulla deposizione di Pratap. Bradlaugh fu criticato per aver perorato la causa di un «despota» induista invece di concentrarsi sulla penosa situazione dei poveri musulmani, ma il maharajah venne gradualmente riabilitato. I ministri residenti e i viceré successivi non ebbero comunque mai alcuna fiducia nelle sue capacità amministrative. Quando, nel 1891, il Consiglio fu ricostituito e al maharajah venne offerta la presidenza, Amar rimase primo ministro. Soltanto alla morte di quest'ultimo, nel 1909, cessò finalmente la lunga ostilità tra fratelli. Nel 1905 il viceré Lord Curzon abolì il Consiglio e il potere nominale fu restituito al maharajah; il governo dell'India mantenne il controllo sulle finanze dello Stato, le Forze Armate, le imposte, le nomine nella pubblica amministrazione e le relazioni estere. Il maharajah doveva inoltre seguire i consigli del ministro residente britannico tutte le volte che gli venivano offerti. Allo scopo di migliorare l'amministrazione del governo kashmiro, il vi-
ceré aveva prescritto, tra le principali misure di riforma, la nomina di funzionari «onesti». La mancanza di persone del luogo istruite e qualificate per adempiere tali funzioni implicò la nomina nell'amministrazione di bengalesi e punjabi provenienti dall'India britannica, circostanza che turbò i kashmiri. Mentre la povera gente era gravata di tasse, i ceti medi provarono risentimento; laddove i pandit kashmiri beneficiavano di una migliore istruzione, i musulmani, malgrado fossero numericamente superiori, ne restavano invece esclusi. Come ebbe a notare il canonico Tyndale Biscoe: «I maomettani non mandavano i loro figli a scuola poiché ogni incarico di governo era loro precluso»26. La Ali India Muslim Kashmiri Conference, fondata nel 1896 e sostenuta da molti kashmiri musulmani stabilitisi soprattutto nel Punjab, aveva incominciato a patrocinare, sia moralmente sia finanziariamente, i kashmiri del luogo, offrendo loro borse di studio per l'India britannica. Nel 1905 il Mirwaiz, il capo religioso dei musulmani della valle, costituì un'associazione, la Anjuman-i Nusrat-ul Islam, il cui obiettivo era il miglioramento delle condizioni dei musulmani, specialmente nel campo dell'istruzione. In un primo momento, l'attivismo politico nello Stato dello Jammu e del Kashmir non era collegato al movimento per un governo «responsabile» che cominciò a emergere, in modo sempre più evidente, nei primi decenni del Novecento, capeggiato dal Congresso Nazionale Indiano, fondato nel 1885, e dalla Lega Musulmana, costituita nel 1906. Le riforme del 1906, promosse dal conte di Morley, segretario di Stato, e dal viceré Lord Minto, furono ideate per dare ai popoli dell'India britannica più ampie opportunità di esprimere le proprie opinioni sulla futura forma di governo, ma la cosa non riguardò i 565 principati, alcuni dei quali non più vasti di una proprietà fondiaria, altri, come lo Jammu e il Kashmir, ampi come alcuni paesi europei27. Nel corso della guerra del 1914-18, gli indiani provenienti dall'India britannica così come dai principati dimostrarono la loro fedeltà alla Corona britannica con un volenteroso sostegno allo sforzo bellico. «Essi hanno mostrato che la nostra contesa è la loro contesa [...]; per il nemico sono stati una sorpresa e una delusione; e motivo di gioia e orgoglio per coloro che conoscevano in anticipo la devozione dei principi verso la Corona»28. Per tutta la guerra, Pratap Singh mise le forze dello Stato dello Jammu e del Kashmir a disposizione degli inglesi. Contingenti di truppe kashmire combatterono in Africa Orientale, in Egitto, in Mesopotamia e in Francia; presero inoltre parte alle operazioni che condussero alla sconfitta dei turchi in Palestina. Mentre gli indiani combattevano oltremare per l'Impero, nell'India britannica i politici locali esercitavano pressioni per accelerare il ritmo del cambiamento. In risposta, il 20 agosto 1917 il segretario di Stato per l'India annunciò alla Camera dei Comuni che la politica del governo era di «accrescere la dimestichezza degli indiani con
ogni ramo dell'amministrazione e il graduale sviluppo delle istituzioni di autogoverno con lo scopo di realizzare progressivamente un governo responsabile in India quale parte integrante dell'Impero britannico»29. L'attuazione di tale dichiarazione fu successivamente inclusa nelle riforme Montagu-Chelmsford, rese effettive da una legge del 1919. Nel loro rapporto, il segretario di Stato e il viceré riconobbero che i sovrani dei principati avrebbero senza dubbio voluto.una parte di autorità, «se l'autorità su materie comuni all'India nella sua interezza è condivisa con alcuni elementi popolari nel governo». Essi indicarono «una ragione più seria per la quale la presente agitazione nell'India britannica non può essere una faccenda indifferente ai Principi. Speranze e aspirazioni potrebbero valicare le linee di confine come scintille attraverso una strada. [...] Nessuno si sorprenderebbe se i mutamenti costituzionali nell'India britannica affrettassero il passo anche negli stati indigeni»10. Montagu e Chelmsford raccomandarono a tutti gli stati importanti, tra cui il Jammu e Kashmir, di intrattenere relazioni politiche dirette con il governo dell'India, dal momento che «la direzione degli eventi» avrebbe inevitabilmente attratto i principati ancor più vicino «all'orbita dell'Impero». La raccomandazione era di costituire un organo consultivo, la Camera dei Principi. All'interno dello Jammu e Kashmir, Pratap Singh stava cercando di riaffermare il proprio pieno potere sullo Stato. Nell'ottobre 1918 fece un'altra richiesta e, l'anno seguente, furono ammessi alcuni cambiamenti procedurali. Nel 1920 si appellò di nuovo, facendo notare come fosse «più che mai tempo» - dopo quasi trent'anni - che le restrizioni venissero abolite. I pieni poteri gli vennero restituiti il 4 febbraio 1921, con la sola condizione che il parere del ministro residente fosse accettata dal maharajah ogni volta gli fosse stato offerto. Fu istituito un nuovo consiglio esecutivo, del quale divenne membro Hari Singh, suo nipote ed erede, figlio di Amar, e fu presentato un nuovo programma di riforme. Tra coloro che diedero voce ai musulmani del Kashmir vi fu il poeta Allama Sir Muhammad Iqbal, influente e molto rispettato. Visitò per la prima volta il paese nel 1921 e mise in versi la propria angoscia per la povertà della popolazione. Nel pungente freddo dell'inverno trema il suo corpo nudo Il cui talento avvolge il ricco in scialli regali/' I principali giornali musulmani dell'India continuavano intanto a mettere in risalto l'avanzata dei pandit kashmiri a spese dei musulmani. Nella primavera del 1924, i lavoratori delle seterie statali, per lo più musulmani, chiesero un aumento dei salari e il trasferimento di un impiegato indù accusato di estorcere tangenti. Fu concesso loro un aumento minimo, ma alcuni dei loro capi vennero arrestati, circostanza che condusse a uno
sciopero. Così riferì più tardi un'istanza indirizzata al viceré Lord Reading: «È stato inviato l'esercito e inflitto un trattamento assai disumano ai poveri, indifesi, disarmati e pacifici lavoratori che sono stati assaliti con lance, aste e altre armi da guerra». L'istanza, firmata dai due principali capi religiosi, faceva riferimento ad altre ingiustizie: I musulmani del Kashmir si trovano oggi in una condizione miserevole. II loro bisogno di istruzione è deplorevolmente trascurato. Benché formino il 96 per cento della popolazione, la quota di alfabetizzati tra loro è soltanto dello 0,8 per cento. [...] Finora abbiamo sopportato pazientemente l'indifferenza dello Stato verso le nostre rimostranze e le nostre richieste e la sua prepotenza verso i nostri diritti, ma la pazienza e la rassegnazione hanno uri limite [...] gli indù dello Stato, che formano soltanto il 4 per cento dell'intera popolazione, sono i padroni indiscussi di tutti i ministeri.'2 Quando il viceré Lord Reading inoltrò l'istanza a Pratap Singh, venne aperta un'inchiesta, ma le conclusioni del Darbar del Kashmir furono che i contestatori erano «seminatori di sedizione». I firmatari della petizione furono ammoniti, alcuni vennero banditi dallo Stato, mentre altri chiesero scusa. Per parte sua, il governo dell'India non vide ragioni per interferire nel giudizio del Darbar del Kashmir o del ministro residente".
1.6. L'ultimo maharajah Quando morì, il 25 settembre 1925, Pratap Singh era un «vecchio gentiluomo cortese ma imbottito di oppio»". Allorché gli successe al trono il luogotenente generale Sua Altezza Inder Mahander Rajrajeshwar Maharajadhiraj Sir Hari Singh, si diffuse un cauto ottimismo sul fatto che si sarebbe dimostrato un governante più valido di suo zio. L'entusiasmo della gente per il nuovo sovrano fu tuttavia subito smorzato dalla sua sontuosa incoronazione, che costò milioni di rupie. La disaffezione dei kashmiri verso Hari Singh fu acuita dalla continua presenza di "estranei" negli incarichi governativi, circostanza che aprì la strada a un movimento noto come «il Kashmir ai kashmiri», finanziato dai più colti pandit kashmiri. Nel 1927 fu approvata una legge sui «sudditi ereditari dello Stato», per mezzo della quale si proibì l'impiego di sudditi non statali nell'amministrazione pubblica; ad essi non era inoltre permesso acquistare terre (da qui l'attrazione per le case galleggianti da parte dei villeggianti inglesi). Tuttavia, con delusione dei kashmiri, le posizioni di vertice furono immancabilmente occupate da persone dello Jammu, in particolare dalla classe dirigente dei Rajput Dogra. Quando anche i pandit cominciarono a prendere piede negli uffici governativi, i musulmani ne furono ulteriormente ir-
ritati. Ai musulmani della valle non era consentito portare armi da fuoco e non era loro permesso di entrare nell'esercito. Gli unici musulmani ad essere reclutati, di norma sotto il comando di un ufficiale Dogra, furono i Suddhan di Punch e i Sandan di Mirpur. Culturalmente e linguisticamente distinti dai kashmiri della valle, il maharajah riteneva di poter fare assegnamento su di loro per reprimere qualunque disordine potesse insorgere nella valle. Subito dopo l'insediamento di Hari Singh, gli indù e i musulmani orchestrarono una campagna contro il suo potere autocratico. La stampa musulmana di Lahore non mancò di sottolineare la condizione dei kashmiri musulmani e molti giornali critici verso il maharajah furono inviati nello Stato; allo stesso tempo, piccoli gruppi si unirono per discutere le proprie lagnanze. Nel 1929 Ghulam Abbas, un musulmano dello Jammu che aveva conseguito la laurea in legge a Lahore, riorganizzò l'Anjurman-i Islam nell'Associazione dei Giovani Musulmani dello Jammu allo scopo di contribuire al progresso dei musulmani. A Srinagar, acquistò importanza il Reading Room Party, che comprendeva un certo numero di laureati dell'Università musulmana di Aligarh", nell'India britannica. Prem Nath Bazaz, Ghulam Abbas, Muhammad Yusuf Shah furono tutti attivi nel discutere le proprie rimostranze. Nel 1931 Yusuf Shah successe a suo zio come Mirwaiz di Srinagar: sfruttò così la sua posizione di rilievo nella moschea per organizzare una serie di incontri di protesta contro il governo del maharajah. Un altro attivista politico in ascesa, lo sceicco Mohammad Abdullah, dopo essersi formato ad Aligarh, fece ritorno nella valle nel 1930, proprio nel momento in cui nel Kashmir stava iniziando l'agitazione politica. Si unì anch'egli al Reading Room Party e divenne celebre come il "Leone del Kashmir". Il Kashmir era ormai come il proverbiale vaso. La goccia che lo fece traboccare fu rappresentata da un maggiordomo al servizio di un europeo, Abdul Qadir, il quale nel luglio 1931 tenne un discorso infuocato, chiedendo alla gente di combattere contro l'oppressione36. Quando fu arrestato, la folla prese d'assalto la prigione e molti altri furono incarcerati. Si verificarono ulteriori proteste e la polizia aprì il fuoco sulla folla: morirono ventuno persone, i cui corpi furono portati in processione nel centro della città. Furono devastati e saccheggiati i negozi degli indù e il governo rispose con ulteriori arresti. «I nostri sovrani Dogra scatenarono un clima di terrore», ricordò Abdullah, che era tra le molte centinaia di dimostranti arrestati a seguito di quello che sarebbe poi divenuto celebre come «il caso Abdul Qadir»' 7 . Dietro pressione del ministro residente inglese, Hari Singh nominò una commissione, guidata da Sir Bertrand Glancy, un funzionario anziano del dipartimento politico del governo dell'India, per indagare sulle rimostranze della popolazione. Nell'aprile del 1932 Glancy presentò il rapporto nel quale si suggerivano riforme per lo svi-
luppo della scuola, la nomina di funzionari governativi e l'insediamento di industrie per creare opportunità di occupazione. I suoi consigli vennero più tardi accolti e integrati dalla Conferenza per le Riforme, che propose la costituzione di un'assemblea legislativa, il Praja Sabha. Quest'organo doveva essere composto da settantacinque membri, ma dei suoi sessanta rappresentanti non ufficiali, soltanto trentatré potevano essere eletti, lasciando al maharajah il voto di maggioranza. Nel corso della loro detenzione nel carcere centrale di Srinagar, lo sceicco Abdullah e gli altri leader politici discussero della formazione di un partito politico che decisero di denominare Muslim Conference; una volta rilasciati nel giugno 1932, Abdullah ne divenne presidente e Ghulam Abbas primo segretario generale. Caratteristisca peculiare della battaglia politica di Abdullah era la sua insistenza sulla lotta contro l'oppressione delle classi più povere, non solo musulmane ma anche indù. Tuttavia, il suo continuo richiamo al laicismo finì per causare gravi disaccordi interni, che trovavano peraltro qualche fondamento nelle differenze religiose tra i musulmani. Alcuni dei maggiori capi musulmani, tra cui il Mirwaiz Muhammad Yusuf Shah, ruppero così con il partito. Reso sempre più consapevole del nuovo e più rumoroso malcontento all'interno del suo Stato, il maharajah Hari Singh partecipava inoltre attivamente alle discussioni, incoraggiate dagli inglesi, per trovare risposta alla forte richiesta in ogni parte dell'India di un governo «responsabile». Sulla scorta dei consigli di Montagu e Chelmsford per la costituzione di un organismo consultivo, fu istituita la Camera dei Principi, che comprendeva 108 sovrani di diritto e dodici rappresentanti di 127 stati più piccoli. Quando, dal novembre 1930 al gennaio 1931, si tenne a Londra, presso la Camera dei Lord, la prima tavola rotonda per discutere il futuro del subcontinente, tutti i principi, Hari Singh compreso, appoggiarono la dichiarazione del maharajah di Bikaner in favore di una federazione che comprendesse tutta l'India. Il punto di partenza del loro futuro rapporto, egli disse, doveva «essere cercato non sul terreno morto di un'impossibile uniformità, bensì in una diversità associata». Uno Stato unitario sarebbe stato impossibile e si sarebbe «schiantato sotto la sua stessa ponderabilità»". Il progetto della federazione venne elaborato in due ulteriori conferenze. All'inizio degli anni Trenta, le autorità britanniche furono nuovamente allarmate dalle attività dell'Unione Sovietica nello Xinjiang, percepite come una minaccia diretta per Gilgit. Malgrado molte delle loro preoccupazioni fossero senza fondamento, alcuni funzionari britannici, tra i quali Olaf Caroe, il viceministro degli Esteri del governo indiano, caldeggiarono energicamente la riassunzione della gestione diretta di Gilgit. Era peraltro diffusa la convinzione che, finché avessero mantenuto il controllo esclusivo della politica estera del maharajah, come avevano fatto durante il regno di Pratap Singh, gli inglesi avrebbero avuto la certezza di poter fa-
re affidamento sulle truppe dello Jammu e Kashmir per intervenire in favore del governo dell'India in caso di emergenza alla frontiera settentrionale. Dal momento che il maharajah conduceva ora una propria politica estera e non considerava la frontiera "sacrosanta" quanto gli inglesi, sembrava fosse arrivato il momento giusto per una revisione sia dei costi di mantenimento della rappresentanza di Gilgit sia del suo orientamento. Dopo più di due anni di discussioni, il maharajah propose di assumersi la responsabilità della difesa di Gilgit a condizione di non dover condividere l'amministrazione con il consigliere politico; in alternativa, egli era pronto a rimettere ogni responsabilità al governo dell'India. Malgrado le loro preoccupazioni circa i costi finanziari, le autorità britanniche optarono per la seconda ipotesi. Il risultato dei successivi negoziati fu la locazione da parte degli inglesi della Gilgit Agency a nord dell'Indo per un periodo di sessantanni a partire dal 26 marzo 1935. Nello stesso 1935, la proposta di una federazione di tutta l'India, avanzata alle tavole rotonde, venne formalizzata nella Legge per il Governo dell'India (Government of India Act). Essa prevedeva la formazione di organismi legislativi autonomi nelle undici province dell'India britannica, nonché la creazione di un governo centrale che avrebbe rappresentato le province e i principati; stabiliva inoltre che le minoranze islamiche sarebbero state protette. L'anno seguente si tennero le elezioni per gli organi legislativi. Il Partito del Congresso fu in grado di formare il governo in sette delle undici province, mentre la Lega Musulmana non conquistò alcuna provincia; pertanto nelle restanti quattro province furono costituiti dei governi di coalizione. Ai principati, nonostante rappresentassero solo un quarto della popolazione, fu assegnato più di un terzo dei seggi nell'assemblea legislativa. Il viceré Lord Linlithgow invitò i sovrani dei principati indiani a unirsi alla federazione come province dell'India britannica, ma essi, malgrado avessero in origine appoggiato il progetto di una federazione di tutta l'india, sollevarono numerose obiezioni e rifiutarono tutti di farne parte. La Legge per il Governo dell'India segnò l'inizio di una nuova fase nel dibattito sulle modalità di autogoverno della regione. Tra le varie proposte e gli atteggiamenti spesso mutevoli dei leader del Partito del Congresso e della Lega Musulmana, l'idea di una sorta di federazione rimase un tratto costante. Come principato più vasto e più settentrionale, collocato strategicamente al confine con la Cina e l'Unione Sovietica, lo Stato dello Jammu e del Kashmir avrebbe giocato un ruolo chiave nei futuri negoziati. Tuttavia Hari Singh non sembrò mai attribuire al futuro del proprio Stato né a quello del subcontinente la necessaria considerazione. Alla fine dell'agosto 1938, i capi politici del Kashmir scesero ancora una volta in piazza per protestare contro la disoccupazione, le tasse elevate, le pretese del fisco e la mancanza di strutture sanitarie. Musulmani, induisti e sikh fecero causa comune e insieme finirono in galera. Non appena ne
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Ammirútrotc da ui n ^ r a m t a i i t « H ^ H AwnMitratc dal to Stato dilb poetico británico: Pirial, XshkMian, Jtmmi a Karfwh*: Wflant, O^ku Kdi-Auir, Yuri, H u b , Nags*
L? Gilgit Agency, 1930 (Fonie: Charles Chenevix-Trench, Londra, Cape, 1985)
The Frontier Scouts,
uscirono, all'inizio del marzo 1939, reiterarono il loro impegno per il laicismo: 1*11 giugno 1939 la Muslim Conference cambiò definitivamente nome in National Conference. L'adesione al laicismo avvicinò Abdullah al leader emergente del Partito del Congresso, Jawaharlal Nehru, che prometteva un'India laica e socialista. Ogni spinta verso l'autogoverno fu tuttavia interrotta dal coinvolgimento della Gran Bretagna - e quindi dell'India britannica - nella seconda guerra mondiale. Il 3 settembre 1939 il viceré Lord Linlithgow proclamò che tra Inghilterra e Germania era scoppiata la guerra e che l'India era in stato di «emergenza bellica». Le diverse reazioni alla guerra espresse dal Partito del Congresso e dalla Lega Musulmana mostrarono la crescente spaccatura tra i due schieramenti. I politici del Congresso obiettarono che
un loro sostegno alla guerra poteva avvenire soltanto previa consultazione con i loro rappresentanti e sfruttarono la questione per contrattare l'indipendenza immediata. Mohammad Ali Jinnah, leader della Lega Musulmana, si servì del sostegno islamico allo sforzo bellico per esigere una rappresentanza in tutte le decisioni riguardanti i musulmani dell'India. Quale espressione della loro insoddisfazione, i sette ministeri del Congresso che avevano formato i governi dopo le elezioni del 1936 nell'India britannica rassegnarono le dimissioni. Nel marzo 1940 Nehru condannò il conflitto come una guerra «per fini imperialisti» alla quale il Congresso non avrebbe in alcun modo preso parte". La reazione di Nehru alla sforzo bellico inglese coincise con un drammatico mutamento nella strategia della Lega Musulmana per proteggere gli interessi dei musulmani del subcontinente. Il 23 marzo 1940 essa adottò a Lahore la propria «risoluzione per il Pakistan», nella quale si dichiarava «che le aree in cui i musulmani sono in maggioranza numerica, come nelle zone nord occidentali e orientali dell'India, dovrebbero essere raggruppate per costituire "stati indipendenti" nei quali le unità costituenti saranno autonome e sovrane»40. Quale presidente della Lega Musulmana, Mohammad Ali Jinnah approvò la risoluzione: «Unire insieme due nazioni (come gli induisti e i musulmani) in un singolo Stato, luna in minoranza numerica e l'altra in maggioranza, non può che condurre a un crescente malcontento». Non era chiaro in che modo sarebbe stata formalizzata una tale proposta, ma la richiesta di una patria separata per i musulmani del subcontinente - sulla base del fatto che esistevano due nazioni, musulmani e induisti - traeva origine dal progetto, avanzato per primo nel 1933 da uno studente di Cambridge, Chaudhuri Rahmat Ali, secondo il quale i musulmani residenti nel Punjab, nella Provincia della frontiera di nord-ovest (provincia afgana), nel Kashmir, nel Sind e nel Belucistan avrebbero dovuto essere riconosciuti come una nazione distinta, il PAKSTAN, più tardi denominato «Pakistan». Il progetto era stato preparato per i delegati musulmani alla tavola rotonda, ma dato che implicava un massiccio trasferimento della popolazione, fu liquidato dai delegati stessi come «un progetto da studenti», «chimerico» e «impraticabile»^1. Ma l'inclusione dello Stato dello Jammu e del Kashmir, in gran parte musulmano, era una prima indicazione del fatto che esisteva già un'opinione diffusa secondo la quale il principato sarebbe divenuto parte del Pakistan, se e quando quest'ultimo si fosse realizzato. Esaurite le possibilità alternative per una federazione che comprendesse l'India britannica e i principati, e una volta avvenuta la divisione del subcontinente, tale opinione prese rapidamente piede. Con il procedere della guerra, sia il Partito del Congresso sia la Lega Musulmana continuarono a spingere per un progetto d'indipendenza che si adattasse ai loro diversi obiettivi all'interno di un'India nominalmente unita. L'ingresso in guerra da parte del Giappone nel 1941 e la minaccia di
un'invasione giapponese nel subcontinente non indussero alcun leader politico a prendere seriamente in considerazione un compromesso o con gli inglesi o tra loro stessi. L'11 marzo 1942, quattro giorni dopo la caduta di Rangoon per mano dei giapponesi, il primo ministro britannico, Winston Churchill, annunciò che Sir Stafford Cripps, membro del gabinetto di guerra inglese, sarebbe giunto in India con una «bozza di dichiarazione» di futura indipendenza dopo la fine della guerra. Tuttavia, di fronte alla possibilità di un'invasione giapponese nel subcontinente, i leader politici furono poco inclini a prendere sul serio la missione di Cripps. Lo stesso Churchill non era propenso a dare sufficiente attenzione alla situazione politica in India. Il culmine della disobbedienza civile da parte del Partito del Congresso fu il movimento «Quit India» ('via dall'India') promosso da Gandhi nell'agosto 1942, che portò all'arresto dei maggiori capi del Partito. Alla fine del 1943, l'India era relativamente calma e le azioni di sabotaggio erano diminuite. Il nuovo viceré, il feldmaresciallo Lord Wavell, che aveva rimpiazzato Lord Linlithgow nell'ottobre 1943, era impegnato a condurre la guerra contro i giapponesi verso una conclusione vittoriosa. Inizialmente la politica doveva restare in secondo piano, ma quando la vittoria inglese sia in Europa sia in Estremo Oriente divenne certa, Wavell si impegnò sempre più nel difficile compito di stabilire le modalità d'indipendenza del subcontinente. Nello Stato dello Jammu e del Kashmir, Hari Singh, uno dei due rappresentanti indiani nel gabinetto imperiale di guerra, fornì il proprio contributo alla seconda guerra mondiale. Nel 1941 fece un viaggio in Medio Oriente per incontrare le truppe del Kashmir che prestavano servizio in quella zona. Nel frattempo, l'attività politica nel suo Stato non era certo venuta meno: i musulmani, soprattutto quelli che non parlavano il kashmiri, scontenti dell'atteggiamento favorevole al Congresso assunto da Abdullah, divennero fedeli sostenitori della Lega Musulmana. Nel 1941 Ghulam Abbas ruppe con Abdullah e si unì al Mirwaiz Yusuf Shah per ridare vita alla Muslim Conference, che alla fine si schierò in favore del Pakistan. Nello Jammu, dove i musulmani non erano in maggioranza come nella valle, era infatti più facile che si sentissero minacciati dalla prospettiva di un governo a maggioranza induista. Nel frattempo lo sceicco Abdullah si impegnò nel suo progetto per un «Nuovo Kashmir», progetto che conteneva uno dei programmi socialisti più avanzati del suo tempo. Com'egli stesso ammise, il «Nuovo Kashmir» era inizialmente osteggiato dagli elementi «reazionari» presenti sia tra gli induisti sia tra i musulmani, ma alla fine il Partito del Congresso Nazionale Indiano approvò il manifesto. Il maggior prestigio di Abdullah rispetto ai leader musulmani della valle, nonché la forza della sua amicizia con Jawaharlal Nehru, che raccontava di avere incontrato per la prima volta nel 1937, costituirono i fattori chiave che determinarono il futuro corso degli
eventi. Se Abdullah avesse stretto una qualunque intesa con Mohammad Ali Jinnah o se, per esempio, Ghulam Abbas o un'altra figura politica avesse preso il suo posto quale leader politico, il futuro del Kashmir sarebbe potuto essere molto diverso42. Ma Abbas, nato a Jullundur, non era un «suddito statale» e, poiché veniva dallo Jammu, non parlava kashmiri, pertanto il suo seguito tra la gente della valle era scarso. Quando visitò il Kashmir nel 1944, anche Mohammad Ali Jinnah riconobbe l'assenza di un leader «presentabile» che parlasse kashmiri. I tentativi di trovare un capo che potesse sfidare lo sceicco Abdullah, tra cui la proposta di far imparare il kashmiri a Ghulam Abbas, fallirono. Anche la posizione adottata dal Partito del Congresso e dalla Lega Musulmana nei confronti dei principati fu un elemento importante nel determinare gli avvenimenti futuri. Jawaharlal Nehru e il suo partito avevano espresso il proprio parere sugli stati indiani nell'agosto 1935: «Il Congresso Nazionale Indiano riconosce che i popoli degli stati indiani hanno un innato diritto di Swaraj ('indipendenza') non meno del popolo dell'India britannica. Si è quindi dichiarato favorevole all'istituzione di un rappresentativo e responsabile governo degli Stati» 4 '. Dall'altro lato, Jinnah e la Lega Musulmana chiarirono che non intendevano intromettersi negli affari interni dei principati. Anche se nel 1933 Rahmat Ali aveva descritto il Kashmir come parte del Pakistan, al centro dell'attenzione di Jinnah restava l'India britannica: «Non vogliamo ingerire negli affari interni di alcuno Stato, perché si tratta di una questione da risolvere in primo luogo tra i sovrani e i popoli degli Stati»44. Finita la guerra, il nuovo governo laburista inglese di Clement Attlee, eletto nel luglio 1945, fece ulteriori passi per concedere l'indipendenza all'India britannica. Nel marzo 1946 Sir Stafford Cripps tornò in India come membro di un triumvirato, allo scopo di proporre un nuovo piano della cosiddetta Missione di Gabinetto. L'obiettivo era di cercare di raggiungere un accordo sull'istituzione di un'Assemblea Costituente, la quale avrebbe redatto la costituzione di un'India indipendente ma unita. La Missione di Gabinetto proponeva inoltre la creazione di un governo provvisorio composto da politici indiani, i quali avrebbero assunto il controllo dei ministeri più importanti. Mentre il Partito del Congresso e la Lega Musulmana discutevano l'approvazione del piano (che entrambi alla fine rifiutarono), Wavell andò avanti con la formazione del governo provvisorio. In un primo momento, Jinnah rifiutò di farne parte in quanto non gli era permesso di nominare tutti i membri musulmani del governo dalla Lega, la cui mancata partecipazione non impedì, il 2 ottobre 1946, il giuramento dei membri del nuovo governo provvisorio. Nehru assunse il portafoglio degli Affari Esteri e divenne vicepresidente del Consiglio esecutivo, Sardar Patel prese il ministero dell'Interno. Quando Jinnah finalmente acconsentì a partecipare, questi importanti ministeri erano già nel-
le mani del Partito del Congresso. Nel 1947, dopo la decisione di dividere il subcontinente, il governo provvisorio, di fatto controllato dal Partito del Congresso, costituì un ministero degli Stati, il cui compito specifico era di incoraggiare i principati a unirsi all'India o al nuovo dominion del Pakistan attraverso atti di annessione oppure con patti «di non intervento». In retrospettiva, 0 fatto che la Lega Musulmana non fosse entrata nel governo sin dal principio significò per essa la perdita dell'opportunità di conseguire la parità con il Partito del Congresso «nel momento più importante dell'abdicazione dell'autorità britannica»'15. L'annuncio che tutti i poteri sovrani sarebbero stati restituiti ai governanti dei principati lasciò a ognuno dei 565 maharajah e nababbi la responsabilità di decidere il proprio futuro. Soltanto venti stati erano di grandezza sufficiente perché i loro sovrani potessero adottare decisioni serie sul loro futuro; uno di questi era lo Jammu e Kashmir. Lo sceicco Abdullah era contrario a lasciare la decisione al maharajah, il quale, a suo parere, non godeva del sostegno della maggioranza della popolazione. Riecheggiando il movimento «Quit India» del 1942 di Gandhi, lo sceicco lanciò il movimento «Quit Kashmir», descrivendo come «la tirannia dei Dogra» avesse lacerato gli animi. Ma le sue attività sfidavano ancora una volta la pazienza delle autorità e, quando tentò di far visita a Nehru a Delhi, venne arrestato e incarcerato. Il primo ministro Ram Chandra Kak impose la legge marziale nello Stato; altri attivisti politici, G.M. Sadiq, D.P. Dhar e Bakshi Ghulam Muhammad, fuggirono a Lahore, dove rimasero fino a dopo l'indipendenza. Il movimento «Quit Kashmir» di Abdullah era stato sottoposto a critiche anche da parte dei suoi avversari politici della Lega Musulmana, i quali lo accusavano di aver dato inizio all'agitazione per incrementare la propria popolarità, che stava perdendo a causa del suo atteggiamento favorevole all'India. Nel 1946 vennero arrestati anche i leader della Muslim Conference, dopo che Ghulam Abbas ebbe condotto una «campagna di azione diretta» simile a quella di Jinnah nell'India britannica. Abbas e Abdullah furono detenuti nella stessa prigione, dove discussero durante alcune conversazioni notturne la possibilità di una riconciliazione e di una ripresa della lotta comune, possibilità che, come mostrarono gli eventi successivi, non si concretizzò mai. Con un gesto drammatico, Nehru tentò di visitare il Kashmir nel luglio 1946 con lo scopo di difendere Abdullah nel suo processo. Gli fu rifiutato l'ingresso e rimase al confine per cinque ore fino a quando, infine, non fu ammesso soltanto per essere arrestato a titolo precauzionale ed essere poi rilasciato. Karan Singh, il figlio del maharajah, riteneva che questo episodio avesse segnato una svolta decisiva nelle relazioni tra il governo di suo padre e il futuro primo ministro dell'India: invece di dargli il benvenuto e cercarne la collaborazione, lo avevano arrestato! Grazie all'intercessione del viceré Lord Wavell, fu in seguito consentito a Nehru di en-
trare nello Stato e di presenziare a parte del processo ad Abdullah. Il maharajah tuttavia rifiutò di incontrarlo con il pretesto delle proprie cattive condizioni di salute. Nel gennaio 1947, i maggiori leader politici di entrambi i partiti erano in carcere, ma Hari Singh indisse nuove elezioni per l'assemblea legislativa. La National Conference le boicottò, con il risultato che la Muslim Conference proclamò la vittoria. Secondo la prima, il basso numero di voti dimostrava il successo del boicottaggio, mentre la seconda attribuì la scarsa affluenza alla neve e sostenne che il boicottaggio era stato di fatto ignorato. Nei mesi precedenti l'indipendenza, Hari Singh appariva come una figura inerme, intrappolata in un mondo che ormai stava cambiando, un mondo rispetto al quale non era in grado di tenere il passo. «Mi è sempre parso tragico che un uomo intelligente come mio padre, e per molti versi costituzionale e progressista, si sia fatto, in quegli ultimi anni, un'idea così sbagliata della situazione politica del paese», scrive Karan Singh. Ma «essere un sovrano progressista era una cosa, far fronte a un fenomeno storico di quelli che accadono una volta ogni mille anni un'altra»46. Come ammette lo stesso Karan Singh, suo padre era troppo feudale per poter giungere a un qualunque accordo effettivo con i protagonisti chiave del cambiamento. Era anche «troppo patriota per concludere qualsiasi sorta di patto surrettizio» con gli inglesi. Era ostile al Partito del Congresso, dominato da Gandhi, Nehru e Patel, in parte per via della stretta amicizia di Nehru con Abdullah. Non seppe nemmeno scendere a patti con la National Conference a causa della minaccia che quest'ultima rappresentava nei confronti della dinastia Dogra. Benché la Lega Musulmana sostenesse il diritto dei sovrani di decidere il futuro dei propri stati, Hari Singh avversava il comunitarismo intrinseco alla teoria delle due nazioni promossa dalla Lega. Così, dice Karan Singh, «quando giunse il momento cruciale [...] egli si ritrovò solo e senza amici»47. Unirsi al Pakistan avrebbe messo un sostanzioso numero di indù dello Jammu in minoranza, e così sarebbe accaduto ai buddisti del Ladakh; unirsi all'India sarebbe stato contrario al parere degli inglesi, secondo i quali si sarebbero dovute opportunamente considerare la maggioranza numerica e la contiguità geografica. In retrospettiva, Karan Singh concluse che l'unica soluzione razionale sarebbe stata quella di promuovere una divisione pacifica del suo Stato tra India e Pakistan: «Ma ciò avrebbe richiesto una chiara visione politica e una pianificazione accurata e pluriennale»48. Per il sovrano del principato più vasto, anche l'indipendenza era un'opzione allettante. Di questo sogno utopico, Karan Singh accusava in parte l'influsso di una figura religiosa, lo Swami Sant Dev, ritornato nel Kashmir nel 1946, che incoraggiò le ambizioni feudali del maharajah «mettendo in testa a mio padre visioni di un vasto regno esteso fino alla stessa Lahore, dove, un secolo prima, il nostro antenato il maharajah Gu-
lab Singh e i suoi fratelli il Rajah Dhyan Singh e il Rajah Suchet Singh avevano rivestito un ruolo cruciale»"9. E quando si sarebbero dovute prendere decisioni critiche, il maharajah non fece nulla. Con il senno di poi, sembra peraltro straordinario quale scarsa influenza esercitarono gli inglesi nel!'aiutare il maharajah nella sua decisione. Per più di quarant'anni, tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, l'Inghilterra aveva mantenuto il controllo effettivo sullo Stato dello Jammu e del Kashmir, ma, con la pace e la stabilità future del subcontinente in bilico, il governo britannico lasciò che il maharajah perseguisse il proprio destino da solo.
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2. L'indipendenza
La storia sembra a volte muoversi con l'infinita lentezza di un ghiacciaio, altre invece sembra precipitare in un torrente. L O R D MOUNTBATTEN'
Nel 1947 l'indipendenza del subcontinente era ormai certa; rimanevano ancora da definire i tempi e i modi. Il 20 febbraio il governo britannico annunciò «la sua precisa intenzione di prendere le misure necessarie per trasferire il potere in mani indiane responsabili entro e non oltre il giugno 1948». L'ultimo sforzo per tenere unito il subcontinente in una federazione si era concluso con il fallimento del piano della Missione del Governo {Cabinet Mission) del 1946.1 tentativi di mettere d'accordo i leader politici del Partito del Congresso e della Lega Musulmana non avevano avuto successo, mentre l'idea di uno Stato pakistano, fino a ieri un «sogno», una «chimera», un «progetto da studenti», stava per prendere corpo2. Un'indicazione sulla forma che avrebbe potuto assumere fu suggerita dal viceré, il feldmaresciallo Lord Wavell, nel 1946. Il suo Breakdown Pian prevedeva la concessione dell'indipendenza alle aree più omogenee dell'India centrale e meridionale e il mantenimento di una presenza britannica nelle aree a maggioranza musulmana del nord-ovest e del nord-est. Una volta raggiunti gli accordi sui confini definitivi, gli inglesi si sarebbero ritirati. Alla base di questo progetto vi era l'idea che Mohammad Ali Jinnah, con la creazione di un paese sulla base delle sole regioni in prevalenza islamiche, si sarebbe di fatto ritrovato con un "guscio vuoto", laddove invece avrebbe potuto trarre maggior profitto tenendo insieme i musulmani in una libera associazione con un'India unita, come proposto dal piano della Missione del Governo'. Sia prima che dopo il fallimento di quest'ultimo piano, il progetto di Lord Wavell, sebbene definitivamente abbandonato dal governo britannico nel gennaio 1947, era stato preso in seria conside razione da parte del governo di Londra, come dai governatori e dal viceré. Il suo significato, alla luce degli eventi futuri, sta nel fatto che, ben prima del riconoscimento dell'inevitabilità della spartizione lungo le linee comunitarie, esisteva già un documento in cui si prevedeva l'effetto geografico che una siffatta divisione avrebbe avuto sul subcontinente.
Nel marzo 1947, Lord Wavell fu rimpiazzato dal contrammiraglio Lord Louis Mountbatten, le cui direttive, impartitegli dal primo ministro Attlee, erano di «creare, se possibile, un governo unitario per l'India britannica e gli stati indiani» 4 . Poco dopo il suo arrivo, Mountbatten diede un giudizio pessimistico sul tentativo di ridar vita al piano della Missione del Governo: «La situazione qui non accenna a migliorare [...] in questa prima fase vedo ben poche possibilità di trovare un'intesa sul futuro dell'India» 5 . Seppur inizialmente egli non volesse prospettare ai leader politici indiani l'inevitabilità di una divisione del paese, alla fine di aprile concluse che l'unità era «un pio desiderio»'1. Il 3 giugno il governo britannico rese finalmente pubblico un piano per la spartizione del subcontinente. Il 18 luglio venne approvato Ylndian Independence Act, che preannunciava la concessione dell'indipendenza il 15 agosto 1947, ovvero in largo anticipo rispetto alla data precedentemente stabilita. Come ebbe a notare l'addetto stampa di Mountbatten: «I negoziati erano andati avanti per cinque anni; e quando infine venne raggiunto un accordo, dovemmo attenerci ad esso»7. La situazione intanto stava precipitando in seguito ai disordini e agli scontri fra le varie comunità, che avrebbero raggiunto proporzioni spaventose in varie regioni, e specialmente nel Punjab, che confinava con lo Stato dello Jammu e Kashmir.
2.1. Pressioni per l'adesione Benché il piano della Missione del Governo fosse stato abbandonato, le raccomandazioni per il futuro dei 565 principati, che coprivano più di due quinti del subcontinente, con una popolazione di 99 milioni di persone, divennero la base per il loro futuro assetto. In un "Memorandum sui trattati e la sovranità degli Stati" si affermava che la sovranità goduta dai principati con la Corona britannica sarebbe venuta meno al momento dell'indipendenza, in quanto le relazioni previste dal trattato in vigore non potevano essere trasferite ad alcun successore. Il «vuoto» che si sarebbe creato avrebbe dovuto essere riempito o da un rapporto di tipo federale o da «particolari intese politiche» con il governo o i governi successori, tramite i quali gli stati avrebbero aderito all'uno o all'altro dominion8. Lo Stato dello Jammu e Kashmir aveva caratteristiche uniche, non condivise dagli altri principati: guidato da un induista, con un'ampia maggioranza musulmana, esso era geograficamente contiguo sia all'India sia al futuro Pakistan. In considerazione di un potenziale conflitto d'interessi, vi erano «più che mai le condizioni per il medesimo trattamento referendario ricevuto dalla frontiera», scrive W.H. Morris-Jones, consigliere costituzionale di Mountbatten: la Provincia della frontiera di nord-ovest, con la sua forte lobby nel Congresso, capeggiata da Khan Abdul Ghaffar
Khan, si oppose alla spartizione e optò per l'India. La decisione fu quindi rimessa al popolo tramite un referendum, ma dato che non includeva l'opzione per un «Pashtunistan» indipendente, il Partito del Congresso lo boicottò, e la Lega Musulmana vinse con una maggioranza schiacciante. Un referendum nello Stato dello Jammu e Kashmir avrebbe dovuto costituire, secondo Morris-Jones, «un'opzione da prendere attentamente in considerazione, se soltanto il problema degli stati fosse stato al primo posto nell'agenda di Mountbatten, come sarebbe dovuto essere a giugno». Ma così non fu. E quando Mountbatten avanzò l'idea di una consultazione popolare da tenersi in ottobre, era ormai troppo tardi: «Non era più viceré e quindi non più nella posizione di includerlo come parte integrante dell'operazione di partizione»9. Con il senno di poi, anche Sir Conrad Corfield, consigliere politico del viceré dal 1945 al 1947, riteneva che Mountbatten, invece di ascoltare il consiglio del Dipartimento Politico Indiano, avesse preferito accogliere quello dei leader del Partito del Congresso. Corfield aveva proposto che, qualora l'Hyderabad, il secondo più grande principato, con la sua maggioranza induista e con un sovrano musulmano, e il Kashmir, a maggioranza musulmana ma con un sovrano induista, fossero lasciati a negoziare dopo l'indipendenza, l'India e il Pakistan avrebbero potuto raggiungere un accordo. «I due casi si bilanciavano l'un l'altro [...] ma Mountbatten non mi diede ascolto. [...] Tutto ciò che dissi non ebbe alcun peso contro la vecchia determinazione da parte di Nehru di tenerlo [il Kashmir] in India»10. Nonostante la sua famiglia fosse emigrata dalla valle all'inizio del Settecento, Jawaharlal Nehru aveva conservato un forte attaccamento alla terra dei propri avi. E questi sentimenti furono rafforzati dall'amicizia con Abdullah e dagli imminenti cambiamenti nel subcontinente. Nell'estate del 1947, egli progettò di andare nella valle per fare visita ad Abdullah in carcere. Tuttavia, vista la difficile situazione, Mountbatten era restio a lasciar partire lui o Gandhi e decise di accogliere un vecchio invito di Hari Singh a visitare egli stesso 0 Kashmir. Il 18 giugno il viceré volò a Srinagar. Recava con sé una lunga nota preparata da Nehru che, sulla base della popolarità dello sceicco Abdullah nella valle, metteva fortemente in rilievo le ragioni dell'annessione del Kashmir all'India: Di tutti i movimenti popolari dei vari stati dell'India, la Kashmir National Conference è stato senza dubbio il più diffuso e popolare. [...] Il Kashmir è divenuto negli anni scorsi una questione di grande rilevanza per tutta l'India. [...] E vero che la lunga detenzione dello sceicco Abdullah ha prodotto una certa confusione nella mente del popolo in relazione al da farsi. La National Conference si è battuta e si batte ancora affinché il Kashmir entri nell'Assemblea Costituente Indiana.
Nehru puntava anche il dito contro l'influenza che il primo ministro del maharajah, Ram Chandra Kak, aveva su quest'ultimo: lo riteneva responsabile dell'allontanamento del sovrano dalla National Conference e dalla possibilità di unirsi al dominion indiano. Ma soprattutto chiariva a Mountbatten che quanto avveniva in Kashmir era: della massima importanza per l'India nella sua interezza, non soltanto per gli avvenimenti verificatisi lo scorso anno, che hanno attirato l'attenzione su di esso, ma anche per la grande importanza strategica di quello Stato di frontiera. Vi è presente ogni elemento per un rapido e pacifico sviluppo in cooperazione con l'India. Concludeva ribadendo il profondo interesse da parte del Congresso nei confronti di tutta la questione e informando Mountbatten che, se non fosse stato per i suoi altri impegni, si sarebbe recato in Kashmir già da molto tempo". Anche se i resoconti pakistani affermano che Mountbatten, in considerazione del suo stretto legame con Nehru, favorì sin dal principio l'annessione del Kashmir all'India, il viceré sostenne di volere soltanto che il maharajah prendesse la propria decisione. «La mia preoccupazione principale era di persuadere il maharajah a decidere a quale dominion avrebbe dovuto unirsi il Kashmir, dopo aver ascoltato la volontà del suo popolo e senza eccessive pressioni da alcuna parte, specialmente da parte dei leader del Congresso»12. Egli recò anche il messaggio di questi ultimi secondo cui, qualora il maharajah avesse optato per il Pakistan in virtù della sua popolazione a maggioranza musulmana, essi non se la sarebbero presa «a male» 1 '. Durante il breve soggiorno di Mountbatten nel Kashmir, il maharajah gli diede scarse opportunità di discutere l'adesione. Come ha osservato suo figlio, Karan Singh: «Indeciso per natura, egli semplicemente ingannava il tempo»14. Invece di approfittare della visita per discutere il futuro dello Stato, spedì il viceré a una gita di pesca. Il capitano Dewan Singh, aiutante di campo del maharajah, confermò che questi non aveva intenzione di cedere ad alcuna pressione: «Disse a Mountbatten che si sarebbe consultato con la propria gente e che si sarebbe incontrato con lui il giorno successivo. L'incontro venne fissato per le undici, ma dieci minuti prima il viceré fu informato che il maharajah non si sentiva bene. Di fatto, non volle più incontrare di nuovo Mountbatten» 15 . Al ritorno di quest'ultimo, il suo addetto stampa Alan Campbell-Johnson rilevò che «Mountbatten ha visto da sé la paralisi dell'incertezza principesca»; il maharajah fu «politicamente molto evasivo»"'. Il viceré credette comunque di essere riuscito a dare al maharajah alcuni buoni consigli, che sperava questi avrebbe seguito a tempo debito.
Gli propose di non associarsi a nessuna delle due assemblee costituenti, fino a quando quella del Pakistan non si fosse formata e la situazione divenuta un po' più chiara. Suggerì anche la firma di accordi «di non intervento» con entrambi i paesi. Nehru non fu soddisfatto dei risultati: «La delusione è stata notevole di fronte all'assenza di risultati della vostra visita», scrisse più tardi al viceré1'. Quando Lord Hastings Ismay, capo dello staff di Mountbatten, visitò il Kashmir poco tempo dopo, ricevette il medesimo trattamento del viceré. «Ogni volta che tentavo di avviare il discorso sulla questione, il maharajah cambiava argomento. Ricordavo la nostra partita di polo a Cheltenham nel 1935? Aveva un puledro con il quale credeva di poter vincere l'Indian Derby! Ogniqualvolta tentavo di parlare di cose serie, mi lasciava bruscamente per uno degli altri suoi ospiti»18. «Il maharajah era in una disposizione mentale alla Micawber19, sperava nel meglio continuando a non fare nulla», osservò l'ex consigliere costituzionale V.P. Menon. «Per di più si trastullava con la nozione di uno "Jammu e Kashmir indipendente"» 20 . Nonostante Mountbatten avesse assicurato a Hari Singh che i leader del Congresso non avrebbero preso come un'«azione ostile»21 la sua eventuale adesione al Pakistan, considerata la popolazione a maggioranza musulmana, è chiaro che Nehru in particolare aveva forti ragioni per volere che lo Stato dello Jammu e Kashmir si unisse all'India. Inoltre, se la maggioranza islamica dello Stato, guidata dal popolare sceicco Abdullah, si fosse schierata per l'adesione all'India, la circostanza avrebbe confutato la validità della teoria delle due nazioni di Mohammad Ali Jinnah. Nehru era anche sostenuto dalla straordinaria figura di Sardar Patel, il quale scrisse al maharajah il 3 luglio: «Desidero assicurarvi che è interesse del Kashmir unirsi all'Unione Indiana senza indugio. La sua storia e le sue tradizioni lo richiedono, tutta l'India guarda a voi e si aspetta che prendiate questa decisione»22. La posizione di Patel, nella sua carica di ministro degli Stati dell'India, assunta il 5 luglio, gli forniva una posizione unica da cui guidare la politica del paese verso gli stati. Era assistito da V.P. Menon, il quale possedeva già una profonda conoscenza dei meccanismi di governo dell'India. L'influsso di Patel e Menon persuase Mountbatten a garantire l'adesione degli stati prima che venisse meno la sovranità britannica, piuttosto che lasciarli liberi di negoziare le loro future relazioni con gli stati successori in condizioni che più tardi sarebbero potenzialmente divenute turbolente. Sardar Abdur Rab Nishtar e Ikramullah ricoprivano la carica di ministri degli Stati per il Pakistan. Il 25 luglio, Mountbatten informò la Camera dei Principi che, anche se i loro regni sarebbero divenuti «tecnicamente e legalmente» indipendenti, vi erano comunque «alcuni vincoli geografici» che non potevano essere elusi. Spronò quindi i principi a concludere patti «di non intervento» con le future autorità dell'India e del Pakistan allo scopo di accordarsi2'.
La maggior parte degli stati era troppo piccola per poter pensare di sopravvivere autonomamente e la geografia, di fatto, ne determinava l'obbedienza. Ma tre dei 565 tardarono a decidere: Hyderabad, Junagadh e 10 Stato dello Jammu e Kashmir. Quando, alla fine di luglio, Mountbatten venne a sapere che Nehru stava nuovamente progettando di andare nel Kashmir, non ne fu lieto: «Lo richiamai al dovere di non scapparsene nel Kashmir fino a quando il suo nuovo governo non fosse fermamente al comando e potesse fare a meno dei suoi servigi»24. Il viceré era evidentemente irritato dall'ostinazione di Nehru e reputava preferibile una visita di Gandhi, a condizione che questi non facesse discorsi politici troppo accesi. In una nota confidenziale al colonnello Wilfred Webb, ministro residente, scrisse: «[Nehru] è sotto pressione e ritengo che una sua visita nel Kashmir in questo momento possa soltanto produrre una situazione molto esplosiva; mentre se Sua Altezza si farà convincere a trattare Gandhi con tatto, credo ci siano buone possibilità che la visita di quest'ultimo possa procedere senza alcun serio incidente»25. Nehru insisteva, ma Mountbatten continuò nel tentativo di dissuaderlo. Osservò che sia il maharajah sia il suo primo ministro, Ram d i a n dra Kak, «odiano Nehru con asprezza e mi immagino il maharajah che dichiara l'adesione al Pakistan poco prima dell'arrivo di Nehru e Kak che provoca un incidente che si conclude con l'arresto di Nehru esattamente nel momento in cui questi dovrebbe ricevere i poteri da me a Delhi». Mountbatten aveva udito anche che, durante un colloquio con Patel, «Nehru era crollato e aveva pianto, spiegando che in quel momento 11 Kashmir contava per lui più di ogni altra cosa». Dopo una cospicua corrispondenza tra i leader del Congresso e il viceré su chi dovesse visitare il Kashmir, Nehru o Gandhi, la questione venne infine risolta da Sardar Patel, il quale riteneva che né l'uno né l'altro dovessero andare, ma, considerata la grande angoscia di Pandit Nehru se la sua missione nel Kashmir fosse rimasta inadempiuta, convenne infine che uno dei due partisse. Mountbatten annotò lo schietto commento di Patel: «Si tratta di una scelta tra due mali: penso che la visita di Gandhi sia quello minore»26. L'interesse dei politici del Congresso verso il Kashmir turbava in modo evidente i futuri leader del Pakistan. Il subcontinente si trovava nel mezzo di una profonda crisi comunitaria e politica. Sia Nehru che Gandhi insistevano ancora per andare nel Kashmir; mentre nessun leader musulmano visitò i principati di Hyderabad e Junagadh e tanto meno il Kashmir. Era noto quanto i due leader indiani fossero contrari a un'eventuale dichiarazione d'indipendenza da parte del maharajah. Anche i principi di Patiala, Kapurthala e Faridkot del Punjab orientale fecero visita a Hari Singh durante l'estate, così come il presidente del Congresso
Nazionale Indiano, J.B. Kripalani. Perché così tanti visitatori? Tutti dovevano avere evidentemente un interesse particolare nel parere che diedero. Gandhi partì infine per Srinagar il primo agosto. Muhammad Saraf era tra quelli che protestarono al suo arrivo a Baramula: «Fui io a organizzare la più grande e chiassosa manifestazione contro Gandhi. I dimostranti ruppero anche qualche vetro della sua auto». Di fatto, la visita procedette senza nessun grave incidente, tuttavia Saraf si fece l'idea che, durante l'incontro con il maharajah e la maharani, Gandhi avesse persuaso il primo ad aderire all'India27. «Prima della partenza da Delhi, l'"apostolo della verità" annunciò che il suo viaggio era assolutamente estraneo alla politica», scrive Shahid Hamid, segretario particolare del feldmaresciallo Auschinleck. «In realtà serviva a fare pressione sul maharajah affinché aderisse all'India e licenziasse Kak»28. Anche la Muslim Conference di Srinagar, i cui leader restavano in prigione dopo l'agitazione del 1946, fu allarmata dal potenziale influsso della lobby filoindiana del Kashmir. «Il guaio era che, mentre il Congresso affermava che sarebbero stati i popoli degli stati a decidere del loro futuro, la Lega Musulmana continuava a ribadire che avrebbero deciso i governanti», dice Mir Abdul Aziz29. In uno Stato come l'Hyderabad, governato dal nizam musulmano, malgrado la sua collocazione nel cuore dell'India, vi era un chiaro vantaggio politico nel sostenere il sovrano, ma con lo Jammu e Kashmir la Lega Musulmana era costretta a fare affidamento sulla saggezza di Hari Singh. «Non ho alcun dubbio sul fatto che il maharajah e il governo del Kashmir porranno la massima attenzione e considerazione su questo argomento e realizzeranno gli interessi non solo del sovrano ma anche del popolo», aveva dichiarato Jinnah nel luglio 1947. «La saggezza richiede che i sentimenti e le opinioni dei musulmani che costituiscono l'ottanta per cento della nostra popolazione non siano ignorati, e tanto meno feriti»30. A differenza dei leader del Congresso, Jinnah aveva anche approvato il diritto dei principati a rimanere indipendenti: «Se desiderano restare indipendenti e negoziare oppure mettere a punto qualsivoglia relazione politica o di altro tipo, commerciale o economica, con il Pakistan, saremo lieti di discuterne con loro» 3 '. In questa prospettiva non era solo: Sir Walter Monckton, consigliere del governo dell'Hyderabad, riteneva che, a patto che fossero «trattati equamente», «una volta raggiunta l'indipendenza», i principati avessero una «più solida speranza di sopravvivenza rispetto alla fragile struttura politica del Partito del Congresso»'2.
2.2. La Commissione per i Confini La spartizione del subcontinente fu attuata il giorno dell'indipendenza e, stranamente, le autorità britanniche non ne rivelarono i dettagli in anticipo. Lord Ismay spiegò che, secondo la sua opinione, era «probabile che l'annuncio confondesse e peggiorasse una situazione già pericolosa»". Vi erano comunque diverse zone nei distretti di confine che potevano suscitare l'interesse degli indù, dei musulmani e dei sikh su dove avrebbe avuto luogo esattamente la divisione. Il piano di spartizione del 3 giugno 1947, stabilito AaWIndian Independence Act, prevedeva due Commissioni per i Confini, ognuna delle quali costituita da quattro giudici dell'Alta Corte, due nominati dal Congresso e due dalla Lega Musulmana; il presidente avrebbe avuto il voto decisivo. L'uomo al quale venne affidata tale carica era un avvocato inglese, Sir Cyril Radcliffe, giunto in India per la prima volta l'8 luglio 1947. L'obiettivo di quello che sarebbe stato ricordato poi come il celebre "lodo Radcliffe" era di dividere le province del Punjab a ovest e del Bengala a est, lasciando le aree a maggioranza islamica al Pakistan e quelle a maggioranza induista all'India. Una vaga clausola indicava che si sarebbe dovuto tenere conto di «altri fattori», senza tuttavia specificare quali potessero essere. Radcliffe aveva solo cinque settimane per portare a termine il proprio incarico. Dal momento che lo Stato dello Jammu e Kashmir era contiguo all'India britannica, la spartizione del subcontinente interessava i punti dove sarebbero venute a trovarsi le linee di comunicazione già esistenti. Due delle principali strade con cui si poteva raggiungere il Kashmir passavano attraverso zone che ci si attendeva fossero assegnate al Pakistan: la prima via Rawalpindi, Murree, Muzaffarabad, Baramula e quindi a Srinagar (la strada così proditoriamente intrapresa d'inverno da Sher Singh, quando era governatore del Kashmir negli anni Quaranta dell'Ottocento); l'altra conduceva attraverso Sialkot, Jammu e il passo Banihal. Una terza strada, niente di più che una pista di terra battuta, passava per il distretto di Gurdaspur, che comprendeva i quattro tehsil di Shakargarh, Baiala, Gurdaspur e Pathankot. Una linea ferroviaria proveniente da Amritsar passava per il tehsil di Gurdaspur e proseguiva verso Pathankot; un'altra andava da Jullundur fino a Mukerian, da lì si poteva continuare il viaggio direttamente per Pathankot su un'altra pista non spianata via Bhangala, attraversando il fiume Beas in traghetto. Da Pathankot la strada proseguiva per Madophur, attraverso il fiume Ravi, fino a Kathua nello Stato dello Jammu e Kashmir. Nell'assegnazione «teorica» fissata nella prima tabella deìl'Indian Independence Act, tutto il distretto di Gurdaspur, con una maggioranza islamica del 51,14 per cento, era stato attribuito al Pakistan, sotto il con-
Distretto di Gurdaspur Strada Strada sterrata Fwrovia Traghetto
Il distretto di Gurdaspur e gli accessi allo Stato dello }ammu e Kashmir (Fonte: Royal Geographic Society Collection. Pubblicata sotto la direzione dell'ispettore generale dell'India, revisione del 1937)
trollo del quale sarebbero finite tutte queste strade. Nella sua conferenza stampa del 4 giugno, rispondendo a una domanda sui confini provvisori e definitivi, Mountbatten avvertì comunque che la Commissione per i Confini avrebbe inverosimilmente «sbattuto» l'intero distretto di Gurdaspur nelle aree a maggioranza musulmana". Dei quattro tehsil del distretto di Gurdaspur, uno, Pathankot, era prevalentemente induista. In seguito il piano Mountbatten, riveduto, si rifece come base per la spartizione alle aree invece che i distretti. I futuri cittadini del Pakistan furono così ben presto preoccupati dalla prospettiva di un passaggio dall'assegnazione «teorica», che attribuiva tutto il distretto di Gurdaspur al Pakistan, a una nuova divisione secondo la quale una parte di Gurdaspur sarebbe stata assegnata all'India. Chaudhri Muhammad Ali, uno dei due segretari aggiunti del Consiglio per la Spartizione, fece presente che i commenti di Mountbatten sulla probabile assegnazione erano «oltremodo scorretti». Secondo il suo resoconto, i sospetti vennero confermati allorché, il 9 agosto, dietro istruzione di Jinnah, fece visita a Lord Ismay, capo dello staff di Mountbatten, per discutere a proposito di Gurdaspur. Sulle prime Ismay sembrò non comprendere la preoccupazione di Chaudhri Muhammad: «Nella stanza era appesa una carta geografica, lo chiamai vicino ad essa in modo da potergli spiegare la posizione con il suo aiuto. Attraverso la carta del Punjab vi era una linea tracciata a matita». La linea seguiva il confine lungo il fiume Ravi, come aveva udito Jinnah, assegnando così tre dei quattro tehsil del distretto di Gurdaspur all'India. «Ismay divenne pallido e chiese confuso chi stesse scherzando con la carta»". Nelle sue memorie, tuttavia, questi non fa alcun riferimento all'episodio. Nell'assegnazione finale, i tre tehsil di Batala, Gurdaspur e Pathankot andarono all'India. Un appunto preparato dal ministro di Stato, che conteneva le osservazioni di Radcliffe dopo il suo ritorno in Inghilterra, informò che il motivo del cambiamento dell'assegnazione «teorica» di Gurdaspur stava nel fatto che «le sorgenti dei canali che irrigano il distretto di Amritsar si trovano nel distretto di Gurdaspur ed è importante tenere il maggior numero possibile di tali canali sotto una sola [cioè indiana] amministrazione»36. Wavell aveva tuttavia espresso un giudizio politico più significativo nel suo piano, sottoposto nel febbraio 1946 al segretario di Stato, Lord Pethick-Lawrence: «Per ragioni geografiche, Gurdaspur deve andare con Amritsar e questa, in quanto città sacra dei sikh, deve stare fuori dal Pakistan. [...] Il fatto che buona parte del distretto di Lahore sia irrigata dal canale Bari Doab superiore, con le sorgenti nel distretto di Gurdaspur, è scomodo, ma non esiste alcuna soluzione alternativa che eviti tutte queste difficoltà». Wavell aveva anche rilevato quale problema avrebbe rappresentato lasciare Qadian, la città santa degli Ahmadiyya, in India, ma gli interessi dei sikh erano considerati prioritari: «La maggiore difficoltà è la posizione dei sikh, con le loro terre d'origine e i luoghi sacri su ambedue i lati del confine. Si tratta di
I confini della spartizione nel Punjab (Fonte: The Transfer of Power, 1942-47, a cura di Nicholas Mansbergh, Londra, M.M.S.O., 1983, voi. XIl)
un problema che nessuna versione del Pakistan può risolvere»'7. La Commissione per i Confini avrebbe dovuto lavorare in assoluta segretezza e l'assegnazione di Radcliffe è stata sempre presentata come interamente originale, benché nella loro forma finale i due piani, a parte l'assegnazione delle colline di Chittagong, in Bengala, che Wavell dava all'India e Radcliffe de-
stinò al Pakistan, siano notevolmente simili. Wavell, comunque, accentuò maggiormente la paura inglese di indisporre i sikh quale fattore chiave nel determinare l'assegnazione di Gurdaspur all'India. Che l'elemento della segretezza fosse selettivo risulta nondimeno evidente dalla corrispondenza proveniente dalla residenza del viceré. Mountbatten aveva scelto di non annunciare il piano di spartizione fino a dopo l'indipendenza, per non «rovinare» le celebrazioni, ma questo non implicava che non si potessero fornire informazioni anticipate ai governatori, «affinché si possa procedere alla migliore disposizione delle Forze Armate e di polizia»'8. L'8 agosto Sir George Abell, segretario privato di Mountbatten, che aveva lavorato anche con Wavell ed era stato a Londra nel gennaio 1947 per presentare il Breakdown Pian al governo, scrisse una lettera riservata a Smart Abbott, segretario di Sir Evan Jenkins, governatore del Punjab: «Accludo una mappa che mostra approssimativamente il confine che Sir Cyril Radcliffe propone di delimitare nel suo lodo»". Anche Lord Ismay chiese «quelle informazioni che possono essermi fornite sull'assegnazione, in modo che le autorità militari e civili che si occupano dell'ordine pubblico possano predisporre i loro piani, e se necessario ridistribuire le proprie forze». Egli non indirizzò la propria richiesta alla Commissione per i Confini, «con i cui atti non ho mai avuto a che fare, ma alla residenza del viceré»40. Quando questa lettera divenne pubblica, pochi mesi dopo, servì soltanto ad accrescere i sospetti pakistani che il viceré e i suoi collaboratori fossero largamente al corrente delle disposizioni del lodo. E se lo erano, potrebbero anche, per ragioni proprie, aver cercato di alterarlo? I sospetti destati nella mente dei pakistani dall'assegnazione di tre tehsil di Gurdaspur all'India furono incrementati dalla questione del saliente dei tehsil di Ferozepur e Zira. Nella mappa del lodo Radcliffe, inviata da Abell ad Abbott, il saliente, che si protendeva al di là del confine teorico nel cuore della terra dei sikh, era contrassegnato come parte del Pakistan, il che, per una volta, non concordava con la tendenza di Radcliffe a tenere il Pakistan a ovest del Sutlej, ma era in teoria pensato per accordare una più equa quota di controllo sulle sorgenti dei canali. Un giorno, dopo che Abell ebbe inviato la sua lettera con la cartina ad Abbott, il 9 agosto, i sikh perpetrarono il primo grave massacro di importanti burocrati musulmani, sul primo «treno speciale pakistano» che conduceva alcuni membri del governo da Delhi a Karachi. Qualche tempo dopo, il confine venne fissato con il saliente come parte dell'India. La ragione di questa inclusione definitiva era molto probabilmente la volontà di tenere conto degli interessi dei sikh militanti piuttosto che di togliere territorio al Pakistan, ma per i pakistani, suscettibili com'erano, non fu facile far propria la logica della bozza di assegnazione che andava a loro favore, sulla base delle maggioranze islamiche, da cancellare solamente a causa di «altri fattori». «E molto strano che gli altri fattori abbiano agito in modo con-
sistente a favore dell'India e contro il Pakistan», commentò Chaudhri Muhammad Ali41. Per ironia della sorte, in prima battuta Wavell non aveva assegnato il saliente al Pakistan, forse perché, come per l'assegnazione di Gurdaspur, era molto più preoccupato dai sikh. Il passaggio dall'attribuzione «teorica» alla spartizione di Gurdaspur operata da Radcliffe tra i due dominion creò notevole amarezza, non soltanto per la perdita di territorio, ma anche per la crescente consapevolezza che all'India era in tal modo assicurato l'accesso allo Stato dello Jammu e Kashmir. Malgrado il futuro dei principati fosse una questione separata rispetto alla spartizione del Punjab e del Bengala, al cui scopo era stata istituita la Commissione per i Confini, Mountbatten stesso aveva messo in relazione lo Jammu e Kashmir con le decisioni della Commissione stessa. Lo Stato, disse, «era collocato geograficamente in modo tale da potersi unire ad ambedue i dominion, a condizione che parte di Gurdaspur fosse inserita nel Punjab Orientale da parte della Commissione per i Confini»"12. V.P. Menon, descritto da Wavell come il «portavoce» di Sardar Patel4\ la pensava allo stesso modo: il Kashmir «non si trova nel cuore del Pakistan e può rivendicare uno sbocco verso l'India, specialmente se una porzione del distretto di Gurdaspur va al Punjab Orientale»44. Se l'intero distretto di Gurdaspur fosse stato concesso al Pakistan, secondo Lord Birdwood, «sicuramente l'India non avrebbe mai combattuto una guerra nel Kashmir»45. Birdwood asserì che anche se solo i tre tehsil musulmani fossero andati al Pakistan, «il mantenimento delle forze indiane entro il Kashmir avrebbe tuttavia rappresentato un problema per i comandi indiani, in quanto il loro terminale ferroviario di Pathankot è rifornito attraverso il tehsil di Gurdaspur». «Batala e Gurdaspur al sud», disse Chaudhri Muhammad Ali, «avrebbero bloccato la strada»46. La quarta strada che passava attraverso il tehsil induista di Pathankot sarebbe stata molto più difficile da attraversare, mentre la ferrovia al momento si estendeva soltanto fino a Mukerian e richiedeva il traghettamento del fiume Beas. Il giornalista indiano M.J. Akbar interpreta l'assegnazione come un semplice fatto di convenienza politica da parte di Nehru: «Il Kashmir sarebbe potuto rimanere sicuro fino a quando l'India non fosse stata in grado di difenderlo? Nehru non se la sentì di correre il rischio. E così, nel corso di incontri privati, indusse Mountbatten a lasciare il collegamento di Gurdaspur nelle mani indiane»47. Sembra una semplificazione eccessiva, considerate le altre questioni in gioco, soprattutto per quanto riguarda i sikh; tuttavia, tenuto conto delle insufficienti spiegazioni e della segretezza selettiva che avvolsero il lodo Radcliffe, la convinzione che vi fosse una congiura tra Mountbatten e Nehru per privare il Pakistan di Gurdaspur fece rapidamente presa sui pakistani. Mountbatten e i suoi apologeti negarono ripetutamente qualunque conoscenza anticipata dell'assegnazione o qualsiasi
discussione con Sir CyriJ Radcliffe. Christopher Beaumont, segretario di quest'ultimo, afferma comunque che nel caso di Ferozepur (benché non di Gurdaspur) Radcliffe si fece convincere ad assegnare il saliente all'India48. Alan Campbell-Johnson sostiene tuttavia che Beaumont fondò una tale affermazione sugli atti di una riunione alla quale non fu presente e sulla quale non gli furono forniti ragguagli"19. Quando il professor Zaidi interrogò Radcliffe nel 1967, questi disse di aver distrutto le proprie carte, allo scopo di «conservare la validità dell'assegnazione»™. L'idea dei pakistani che Mountbatten non fosse ben disposto nei confronti del loro paese, e non volesse quindi vedere il Kashmir attribuito al nuovo dominion, fu alimentata anche da voci sui cattivi rapporti tra il viceré e Mohammad Ali Jinnah. «Parlò di un folle, folle, folle Pakistan», dice il professor Zaidi51. Come riferisce Morris-Jones, Mountbatten aveva presunto di poter continuare nella carica di governatore generale dei due dominion. «Quando Jinnah, dopo lunga riflessione, gli disse che il primo governatore generale del Pakistan sarebbe stato egli stesso, la speranza di un comune capo di Stato fu distrutta e Mountbatten prese la cosa come un colpo durissimo contro il suo stesso orgoglio. Per quanto posso vedere dai documenti, quello fu l'unico momento in mesi di frustranti trattative in cui il viceré andò in collera; scoppiò furente contro Jinnah e si precipitò fuori dalla stanza»52. L'ansia dei pakistani rispetto alle intenzioni degli indiani e degli inglesi derivava dalla loro vecchia sensazione che né gli uni né gli altri volessero o si aspettassero la sopravvivenza del Pakistan. Gli indiani volevano il Kashmir proprio per avere un vantaggio strategico sul Pakistan e premere sul suo confine nord-orientale. Il possesso del paese avrebbe inoltre aggiudicato il controllo delle sorgenti degli importanti fiumi che bagnavano le pianure della valle dell'Indo. «Lo scopo di prendere il Kashmir era di accerchiare militarmente il Pakistan e di strangolarlo economicamente», scrive Suhrawardy. «L'India avrebbe avuto, tramite Gilgit, una frontiera comune con l'Afghanistan, allora apertamente ostile al Pakistan, nonché unico paese al mondo a opporsi alla sua ammissione nelle Nazioni Unite. Il Pakistan sarebbe stato schiacciato e, con il sostegno attivo dell'India e dell'Afghanistan, la montatura del Pashtunistan, sostenuta dal Gandhi della frontiera, Abdul Ghaffar Khan, sarebbe stata usata per un intervento militare»55. Il sentimento antipakistano derivava, a parere di Suhrawardy, dall'opinione indiana espressa nella risoluzione del Congresso del 5 giugno 1947: «La geografia, le montagne e il mare hanno modellato l'India così com'è, e nessuna azione umana può cambiare quella forma o frapporsi al suo destino ultimo». La risoluzione continuava affermando che una volta placate «le passioni del presente», «la falsa dottrina delle due nazioni sarà screditata e scartata da tutti»54. Ogni mossa da parte dell'India fu pertanto interpretata dai futuri pakistani come parte di una strategia a lunga scadenza.
2.3. Non
intervento?
Nel 1947, solo il maharajah e pochi stretti collaboratori possono aver accarezzato l'idea di restare indipendenti, mentre Mountbatten fu tutt'altro che aperto a questa possibilità. In una lunga lettera al conte di Listowel, datata l'8 agosto, scrisse: Non possiamo permetterci di alienarci il dominion indiano, che consiste approssimativamente in tre quarti dell'India, con le sue immense risorse e la sua importante posizione strategici nell'Oceano Indiano, per il destino della cosiddetta indipendenza degli stati. Sono sicuro che converrete con me sul fatto che non dovremmo lasciare nulla d'intentato per convincere il dominion indiano che, anche se dovemmo acconsentire al piano di partizione, non avevamo alcuna intenzione di lasciarlo balcanizzato o di indebolirlo sia all'interno che all'esterno. Inoltre, egli non voleva che la reputazione della Gran Bretagna fosse danneggiata dal fatto che la situazione degli stati non era completamente risolta al momento dell'indipendenza: Se lasciamo gli Stati senza un legame con l'uno o l'altro dei due dominion, vi sarà una gran quantità di motivi per accusarci di non aver preso alcun provvedimento per la salvezza e la sicurezza degli Stati dai disordini interni o dalle aggressioni esterne, mentre abbiamo posto termine unilateralmente a tutù i trattati e gli accordi." Ma il primo ministro del maharajah, Ram Chandra Kak, un bramino kashmiro descritto da Karan Singh come «l'unico uomo che possedeva le capacità intellettive per fare qualche sforzo coerente verso un accordo accettabile»56, era anche ritenuto la principale causa della riluttanza del maharajah a unirsi all'India". Alla vigilia dell'indipendenza, sotto l'evidente pressione di Delhi, quest'ultimo lo sostituì con un ufficiale dell'esercito a riposo. Mountbatten vide in ciò il segno che il maggiore ostacolo contro l'adesione all'uno o all'altro dominion era ormai stato rimosso. Fu quindi lieto di annotare, il 16 agosto, dopo il «licenziamento» di Kak, come 0 maharajah parlasse ora di indire un referendum per decidere «se unirsi all'India o al Pakistan, a condizione che la Commissione per i Confini gli dia un collegamento via terra tra il Kashmir e l'India». E continuò osservando con visibile ma mal riposto sollievo: «sembra dunque che questo grande problema degli Stati sia stato risolto in maniera soddisfacente nelle ultime tre settimane di governo inglese»58. Egli fu tuttavia precipitoso nella sua analisi. Quando il 14 e 15 agosto il subcontinente divenne indipendente dall'autorità britannica, lo divenne
anche lo Stato dello Jammu e Kashmir, per la prima volta da quando Yaqub Shah Chak si sottomise ad Akbar nel 1589. E lo rimase per settantatre giorni. Il 12 agosto, con uno scambio di telegrammi, Hari Singh concluse un patto «di non intervento» con il Pakistan; l'obiettivo era di assicurare che i servizi commerciali, i viaggi e le comunicazioni continuassero allo stesso modo che con l'India britannica. Il Pakistan conservò pertanto il controllo dei collegamenti ferroviari e fluviali utilizzati per far discendere il legname lungo il fiume Jhelun fino alle pianure; l'India invece non firmò alcun patto di non intervento. La spiegazione di V.P. Menon, considerato l'interesse per il Kashmir mostrato dal Congresso nei mesi precedenti l'indipendenza, è sintomatica: «Volevamo esaminare le implicazioni. Lasciammo solo lo Stato [...] inoltre le nostre mani erano piene e, a dire la verità, io per primo semplicemente non avevo tempo di pensare al Kashmir»5''. Che l'India non abbia firmato un patto con lo Stato dello Jammu e Kashmir ha semplicemente rafforzato il sospetto, diffuso tra i pakistani, che il governo indiano fosse già impegnato a fare i propri preparativi per il futuro del Kashmir e che non considerasse un patto di non intervento come parte essenziale di questi programmi. L'accordo firmato con il Pakistan, dice Abdul Suhrawardy, fu in effetti «un travestimento per nascondere le intenzioni reali e cullare il Pakistan e i suoi sostenitori in un falso sonno di soddisfazione»60. Nello Stato dello Jammu e Kashmir erano presenti fedeli sostenitori della Lega Musulmana, i quali credevano che sarebbero entrati a far parte del Pakistan al momento dell'indipendenza. Quando la libertà arrivò, alla mezzanotte del 14 agosto, esultarono. Sulla maggior parte degli uffici postali fu innalzata la bandiera pakistana, fino a quando il governo del maharajah non ordinò di toglierla. Tutti i giornali filopakistani vennero chiusi. Muhammad Saraf si trovava a Baramula, dove la bandiera restò a sventolare fino all'imbrunire: «Era uno spettacolo guardare fiumi di folla provenienti da ogni parte della città e dai sobborghi sciamare verso l'ufficio postale per dare un'occhiata alla bandiera delle loro speranze e dei loro sogni»61. Coloro ai quali le speranze furono distrutte dalla mancata annessione al Pakistan diedero il via a una serie di eventi che aveva le proprie radici nella passata delusione.
2.4. La rivolta di Punch Dei 71.667 cittadini dello Stato dello Jammu e Kashmir che servirono nelle truppe dell'India britannica durante le seconda guerra mondiale, 60.402 erano musulmani provenienti dalla tradizionale zona di reclutamento di Punch e Mirpur62. Dopo la guerra il maharajah, allarmato dalla crescente agitazione contro il governo, rifiutò di accettarli nell'esercito.
Quando tornarono alle loro fattorie, trovarono «non una terra degna di eroi, ma nuove tasse, onerose più che mai», scrive il quacchero inglese Horace Alexander. «Se il governo del maharajah puniva la gente della valle del Kashmir con la frusta, quelli di Punch venivano castigati con gli scorpioni»6'. Durante tutto il suo regno, Hari Singh aveva faticato per riguadagnare il controllo di Punch; come jagir del fratello di Gulab Singh, Dhyan, Punch aveva mantenuto un certo grado di autonomia, malgrado fosse feudo del maharajah. Tra questi e il rajah di Punch era rimasto dell'attrito fin da quando, nel 1907, Pratap aveva adottato il rajah quale suo erede spirituale. Ma alla morte di quest'ultimo, nel 1940, Hari Singh era riuscito a spodestarne il giovane figlio e a portare l'amministrazione di Punch in linea con il resto dello Stato dello Jammu e Kashmir. Questa mossa non fu gradita alla popolazione locale. «C'era una tassa su ogni focolare e su ogni finestra», scrive Richard Symonds, un assistente sociale che lavorava in Punjab con un gruppo di quaccheri inglesi. «Ogni mucca, bufalo e pecora era tassato, e persino ogni moglie». Venne introdotta una tassa aggiuntiva per pagare i costi dell'imposizione fiscale. «Truppe Dogra vennero acquartierate presso gli abitanti di Punch per imporre l'esazione»64. Nella primavera del 1947, gli abitanti di Punch avevano organizzato una campagna per l'abolizione delle tasse; il maharajah replicò rafforzando la propria guarnigione a Punch con sikh e indù. In luglio ordinò a tutti i musulmani del distretto di consegnare le proprie armi alle autorità, ma quando la tensione tra le comunità salì, i musulmani andarono su tutte le furie quando videro quelle stesse armi riapparire nelle mani degli indù e dei sikh. Ne cercarono quindi di nuove dalle tribù della frontiera di nordovest, ben note per la fabbricazione di armi. Furono così gettate le basi per un contatto diretto tra i membri della resistenza di Punch e quelli delle tribù che vivevano nella striscia del montuoso territorio "tribale" al confine tra Pakistan e Afghanistan. Un Suddhan trentaduenne, Sardar Mohammed Ibrahim Khan, convinto che il maharajah avesse espresso l'ordine di massacrare i musulmani, raccolse gli ex soldati tra i propri conterranei. «Prendemmo armi qua e là e quindi cominciammo a combattere contro l'esercito del maharajah»; racconta di aver organizzato un esercito di circa 50.000 uomini in un paio di mesi65. Il passaggio dei poteri dagli inglesi ai nuovi dominion del Pakistan e dell'India del 14 e 15 agosto non recò tregua alla situazione inquieta che il maharajah affrontava ora da sovrano indipendente. L'agitazione di Punch si era trasformata in una rivolta organizzata contro i Dogra e ricordava la ribellione guidata da Shams ud-Din, governatore di Punch, nel 1837. Tra gli attivisti c'era Sardar Abdul Qayum Khan, un proprietario terriero di Rawalakot:
A differenza di molte altre persone secondo le quali il piano di spartizione sarebbe stato attuato con sincerità di propositi, io pensavo che forse all'India sarebbe piaciuto ottenere il Kashmir, ed è per questo che ebbe luogo la rivolta armata. Contro il patto di non intervento dichiarato, il maharajah aveva iniziato a muovere le proprie truppe lungo il fiume Jhelum. Era un movimento insolito mai verificatosi prima e pensai che avesse lo scopo di bloccare il confine con il Pakistan. Per contrastare quel piano, ci levammo in armi. 66
Qayum Khan si ritirò nelle foreste fuori Rawalakot. Da lì il messaggio di rivolta si propagò in tutta Punch e a sud fino a Mirpur. Gli stretti legami con i vicini della riva occidentale del fiume Jhelum resero impossibile chiudere il confine; il governo del maharajah attribuì i disordini di Punch a infiltrazioni dal Pakistan. «Cominciarono ad arrivare rapporti dei servizi segreti dalle aree di frontiera di Punch e Mirpur, nonché dal settore di Sialkot, nei quali si parlava di un massacro su vasta scala, di saccheggi e stupri nei nostri villaggi da parte di orde aggressive provenienti da oltreconfine», scrive Karan Singh. «Ricordo la cupa atmosfera che cominciò a investirci mentre era sempre più chiaro, ormai, che stavamo perdendo il controllo delle aree esterne». Suo padre gli passò alcuni rapporti da tradurre in dogri per sua madre: «Rammento ancora il mio imbarazzo nell'affrontare la parola "stupro", per la quale non riuscii a trovare un sinonimo accettabile»67. Il governo pakistano riteneva tuttavia che l'insurrezione di Punch fosse una legittima rivolta contro l'autorità del maharajah, rivolta che stava guadagnando una crescente simpatia da parte delle tribù della frontiera di nord-ovest, solidali anche con i disordini nel Punjab. Il 23 settembre George Cunningham, governatore della Provincia della frontiera di nordovest, annotò: «Ricevo proposte praticamente da ogni tribù lungo la frontiera affinché sia loro permesso di andare a uccidere i sikh nel Punjab Orientale e penso che dovrei soltanto sollevare il dito mignolo per avere un lashkar ('esercito') da 40.000 a 50.000 uomini»68. Punch era senza dubbio influenzata dagli avvenimenti del vicino Jammu. Laddove la valle del Kashmir era protetta dalle sue catene montuose dai massacri tra comunità che devastarono così tante famiglie nelle settimane che seguirono la spartizione, lo Jammu era vicinissimo alle pianure dell'India e, di conseguenza, era esposto al medesimo odio tra comunità che dilagava nel Punjab e nel Bengala. Secondo i simpatizzanti del Pakistan, il maharajah, mentre deliberava sull'annessione, stava intraprendendo una sistematica epurazione dei musulmani. «Certo è che il governo del maharajah utilizzava le truppe Dogra per terrorizzare molti villaggi musulmani nei dintorni di Jammu», scrisse Horace Alexander. «Più avanti nello stesso anno, io stesso vidi, nei pressi di Jammu, villaggi completamente sventrati»69.
Ian Stephens, redattore di «The Statesman» (Calcutta), registrò la situazione a Jammu: «Diversamente da ogni parte dello Stato, induisti e sikh superavano leggermente in numero i musulmani, e in un periodo di circa undici settimane a partire da agosto atrocità sistematiche [...] praticamente eliminarono l'intero elemento musulmano della popolazione, che ammontava a 500.000 persone. Circa 200.000 semplicemente scomparvero senza lasciare traccia, presumibilmente trucidate o morte per epidemia o per assideramento. Il resto fuggì nel Punjab Occidentale» 70 . Testimoni oculari raccontarono anche che questi orrori erano stati perpetrati «non solo da bande incontrollate di violenti, ma anche da unità organizzate dell'esercito del maharajah e della polizia»71. A settembre, il capo di Stato maggiore uscente delle Forze Armate dello Stato dello Jammu e Kashmir, 0 generale di divisione Scott, informò 0 maharajah che la situazione stava diventando difficile da controllare per il suo esercito da solo.
2.5. Manovre Nelle settimane successive all'indipendenza, nonostante la firma di un patto di non intervento con il Pakistan, ebbero luogo manovre politiche su tutti i versanti. Sia il Pakistan sia l'India cercarono attivamente di determinare gli eventi in modo che il Kashmir si unisse ai loro rispettivi dominion. L'India mantenne il sopravvento e malgrado l'avversione per Nehru nutrita dal maharajah, questi comunicava in maniera molto più costante e amichevole con i leader indiani che con quelli pakistani. Aveva rifiutato il consiglio di Mountbatten di conservare legami militari con entrambi i paesi, ma il 13 settembre chiese in prestito al governo dell'India un ufficiale dell'esercito indiano per sostituire il generale di divisione Scott quale comandante supremo. Il primo ministro Nehru e Sardar Patel, che era divenuto ministro dell'Interno, si scrissero regolarmente con l'obiettivo di decidere in che modo assicurare il Kashmir all'India. «Una delle rivelazioni più interessanti fornite dalle carte di Patel quando cominciarono ad essere pubblicate nel 1971», scrive Alastair Lamb, «fu fino a che punto questo potente politico del Congresso si fosse direttamente impegnato in ogni piano diretto a una futura acquisizione da parte indiana dello Stato dello Jammu e Kashmir»72. Furono presi specifici provvedimenti per migliorare la comunicazione con l'India, tramite il telegrafo, il telefono, la radio e le strade. Il 27 settembre il «Pakistan Times» riportava: «la sistemazione della strada da Jammu a Kathua procede alla massima velocità. L'idea è di mantenere qualche tipo di comunicazione tra lo Stato e l'Unione Indiana, in modo tale che rifornimenti essenziali e truppe possano essere inviati in tutta fretta nel Kashmir senza doverli trasportare attraverso il territorio pakista-
no»75. Si stava costruendo anche un ponte di barche sul fiume Ravi presso Pathankot, il quale avrebbe migliorato l'accesso da Gurdaspur. Inoltre, non mancavano resoconti secondo i quali il governo del Kashmir aveva messo in cantiere una strada che, in qualunque stagione, collegasse la valle con Jammu via Punch, in alternativa alla strada di Banihal, impraticabile in inverno. In Pakistan era largamente diffusa l'opinione che l'India si stesse preparando ad annunciare l'annessione del Kashmir in autunno: il governo dichiarò che l'India aveva violato il patto di non intervento, in quanto aveva incluso il Kashmir nel servizio postale indiano. Come prova, fu esibita una nota, datata primo settembre 1947, firmata dal direttore generale del telegrafo postale di Delhi, nel quale le città dello Stato dello Jammu e Kashmir erano elencate come facenti parte dell'India74. I leader indiani nutrivano la medesima ansia rispetto alle mosse pakistane. Le incursioni armate nello Stato dal territorio pakistano e i disordini di Punch portarono gli indiani a credere che prima dell'inverno si sarebbe verificata un'invasione totale: «Mi rendo conto che la strategia del Pakistan è di infiltrarsi adesso nel Kashmir e di condurre qualche grossa azione non appena il paese sarà più o meno isolato a causa del prossimo inverno», scrisse Nehru a Patel il 27 settembre75. Gli suggerì pertanto che il maharajah «facesse amicizia» con la National Conference, «in modo che si possa avere questo sostegno popolare contro il Pakistan». Sperava che il sovrano si persuadesse ad aderire all'India prima di un'eventuale invasione e capì che l'annessione sarebbe stata accettata più facilmente se Abdullah, in quanto leader popolare, fosse stato della partita. Due giorni dopo questa missiva, il 29 settembre, Abdullah, in carcere sin dall'epoca del suo movimento «Via dal Kashmir», cioè dal 1946, fu rilasciato. La lettera nella quale prometteva obbedienza al maharajah fu ampiamente pubblicizzata; tuttavia egli ripetè la sua retorica di prima dell'indipendenza: «Quando andai in galera, vidi per l'ultima volta un'India indivisa. Oggi essa è stata spezzata in due frammenti. Noi popolo del Kashmir adesso dobbiamo badare a che il nostro sogno a lungo nutrito sia realizzato. Il sogno di libertà, benessere e progresso»76. All'inizio di ottobre Dwarkanath Kachru, segretario della Ali-India States Peoples' Conference, visitò Srinagar con l'obiettivo di convincerlo dei vantaggi di unirsi all'India. Riferì poi a Nehru che «lo sceicco Abdullah e i suoi compagni più stretti hanno deciso per l'Unione Indiana»; la decisione non doveva tuttavia essere resa nota. L'obiettivo della Kashmir National Conference era «il raggiungimento della sovranità popolare con il maharajah in una condizione costituzionale». Questo, spiegò Kachru: sarebbe il fattore principale a determinare la posizione della Conference sulla questione dell'annessione. [...] La minaccia per il Kashmir è autentica e se il Congresso non adotta un atteggiamento energico e forza il ma-
harajah a raggiungere un qualche accordo con la National Conference, il paese è condannato. E non ci sarà nulla a impedirne la conquista da parte dei leader della Lega Musulmana e dei loro eserciti privati."
Una copia di questo rapporto fu passata a Sardar Patel, il quale rispose a Nehru: «Stiamo fornendo al governo del Kashmir la massima assistenza possibile con le limitate risorse disponibili. Nel nostro impegno assoluto per aiutare lo Stato si presenta ogni sorta di difficoltà»78. Anche i leader pakistani cercavano attivamente di volgere la situazione a loro favore, mentre venivano criticati dal governo del Kashmir per le incursioni armate e per il «blocco» del confine. Immediatamente dopo il suo rilascio, Abdullah ricevette la visita del dottor Muhammad Din Taseer, suo amico ed ex direttore dello Sri Pratap College di Srinagar, ora cittadino pakistano. Era accompagnato da Anwar-ul Haq, magistrato distrettuale di Rawalpindi, incaricato di scoprire perché rifornimenti essenziali, compresi zucchero, sale, benzina, kerosene, petrolio e tessuti venissero trattenuti a Sialkot e Rawalpindi. Visto che queste merci non venivano trasportate nel Kashmir, la popolazione locale accusava i pakistani di non onorare i termini del patto di non intervento, il che equivaleva a un blocco economico per forzare lo Stato ad aderire al Pakistan. Il governo pakistano sosteneva tuttavia che ciò derivava dalla situazione inquieta nel Kashmir. Haq concluse che i camionisti erano troppo spaventati per fare il viaggio, poiché i sikh e gli indù assalivano i musulmani. Dopo alcune indagini, l'Alta Commissione britannica stabilì che potevano essersi verificate ostruzioni tollerate, forse anche incoraggiate, da alcuni ufficiali di grado inferiore79. Ma, dal punto di vista indiano, le accuse di un blocco economico erano la prova della pretesa «aggressione» del Pakistan contro il Kashmir e alimentarono l'argomento di un'invasione imminente. Mentre Anwar-ul Haq discuteva dei rifornimenti con le autorità interessate, Taseer si incontrò con lo sceicco Abdullah. «Quando Taseer ritornò la sera, mi disse di avere avuto una discussione molto proficua con Abdullah, che aveva acconsentito a incontrare il Quaid-i Azam». Ma lo sceicco prendeva tempo. Il Punjab era in fiamme. «Così sentii di dover essere molto prudente nel prendere qualunque decisione riguardante il Kashmir», disse a Bilqees Taseer, ricordando la vecchia conversazione con suo marito nel 1947. «Ritenevo anche che qualunque fosse la decisione, dovesse essere quella del popolo del Kashmir, per esempio riguardo all'unione con il Pakistan, perché non soltanto la generazione attuale sarebbe stata condizionata da una tale decisione, ma anche le generazioni a venire»80. Nelle sue memorie Abdullah osservò: «Gli dissi fermamente che il momento di decidere non era ancora giunto. Entrambi i paesi erano presi in un vortice»81. Accettò comunque di incontrare Mohammad Ali Jinnah a Lahore dopo essere stato prima a Delhi.
Nel frattempo, inviò il suo «luogotenente di fiducia», G.M. Sadiq, a Lahore con il dottor Taseer per ulteriori discussioni; Bakshi Ghulam Muhammad si trovava già lì. Ghulam Muhammad Sadiq era ansioso di assicurare che, come accadeva prima dell'indipendenza, non sarebbe stato consentito a nessun suddito non statale l'acquisto di proprietà nel Kashmir. Nell'ipotesi che lo Stato fosse infine andato al Pakistan, circolavano voci su ricchi feudatari pakistani che raccoglievano informazioni per l'acquisto di terra. Anche il governo pakistano utilizzava canali diplomatici con il maharajah e il suo governo. Linquat Ali Khan, primo ministro del Pakistan, aveva inviato a Srinagar un rappresentante «per cercare di condurre il primo ministro del Kashmir verso l'adesione al Pakistan. Disse che per tre o quattro giorni sembrò riuscirvi, ma che poi arrivò il nuovo primo ministro e gli disse di andarsene» 82 . Si trattava di Mehr Chand Mahajan, giunto a Srinagar il 15 ottobre, quando lo Stato era «sulla scacchiera della politica delle potenze» 8 ': giudice indiano, era stato uno dei rappresentanti induisti nella Commissione per i Confini. Attraverso uno scambio di telegrammi, il governo del Kashmir offrì un'inchiesta imparziale sulle accuse contro il Pakistan; altrimenti, il primo ministro Mahajan dichiarò che il governo del Kashmir sarebbe stato costretto a richiedere «aiuto amichevole» all'altro vicino dello Stato, l'India. Il governo pakistano accettò l'idea, ma il 18 ottobre Mahajan spedì un altro telegramma a Mohammad Ali Jinnah minacciando nuovamente di richiedere «aiuto amichevole», a meno che i pakistani non accogliessero la richiesta di porre fine alla presunta infiltrazione armata a Punch, al blocco della frontiera, nonché alla continua propaganda contro il maharajah. Stavolta, tuttavia, non si faceva menzione dell'inchiesta imparziale. Jinnah rispose inviando un messaggio telegrafico a Hari Singh nel quale deplorava «il tono e il linguaggio» adottati da Mahajan. Presentò inoltre numerose lamentale contro il governo del maharajah. Mise in rilievo il trattamento più favorevole riservato allo sceicco Abdullah, sin dalla sua scarcerazione alla fine di settembre, e alla National Conference rispetto alla Muslim Conference, i cui leader, tra cui Ghulam Abbas, restavano in carcere: Il vero scopo della politica del vostro governo è di cercare l'occasione per unirsi al dominion indiano attraverso un colpo di Stato, assicurandosi l'intervento e l'aiuto di quel dominion. [...] Per appianare le difficoltà e sistemare le questioni in modo amichevole propongo che il vostro primo ministro venga a Karachi per discutere gli sviluppi che si sono verificati, invece di continuare con telegrammi e corrispondenze astiosi e aspri.84 Nello stesso momento, Sardar Patel continuava la propria corrispon-
denza con il governo kashmiro. Mahajan aveva già fatto richiesta di armi e munizioni all'India per fronteggiare la crescente agitazione nello Stato. Il 21 ottobre, fu nuovamente incoraggiato ad assicurarsi il sostegno dello sceicco Abdullah: «È evidente che nei vostri rapporti, con i pericoli esterni e il disordine interno cui dovete far fronte, la sola forza bruta non è sufficiente. [...] Il mio consiglio franco e sincero è di fare un gesto tangibile per guadagnarvi l'appoggio dello sceicco Abdullah»85. Mahajan prese nota delle opinioni di Patel, ma replicò che «la situazione nello Stato al momento attuale è tale che non si ha un solo momento per pensare alla politica»86. Esortò Patel a inviare subito armi e munizioni per dare aiuto in una situazione in continuo peggioramento, alla quale, insisteva il governo del Kashmir, contribuiva il Pakistan. «Non vi sarebbero incursioni se le autorità pakistane volessero fermarle»87. India e Pakistan continuavano a corteggiare vecchi e nuovi governanti dello Stato dello Jammu e Kashmir, ma le iniziative diplomatiche furono bruscamente interrotte dalla notizia che un gran numero di predoni provenienti dal territorio tribale della Provincia della frontiera di nord-ovest aveva oltrepassato i confini e si stava dirigendo verso il Kashmir. G.M. Sadiq tornò da Lahore a Delhi. Secondo Faiz Ahmed Faiz, redattore capo del «Pakistan Times» e suo vecchio amico, quando la notizia dell'invasione tribale giunse a Lahore, «capimmo che tutto era perduto»88. La jihad delle tribù giunse sulla scia di due mesi di ufficiale non intervento, mentre, con alle spalle una situazione di ordine pubblico sempre più deteriorata, India e Pakistan stavano entrambi lavorando per l'annessione dello Stato dello Jammu e Kashmir ai loro rispettivi dominion. «Ebbe così fine l'opportunità dell'adesione del Kashmir al Pakistan», dice Faiz. «Il resto è storia»89.
3. L'annessione
Morte e distruzione si avvicinavano rapidamente a Srinagar, il nostro tronfio mondo era crollato attorno a noi, le ruote del destino avevano compiuto un giro completo. KARAN SINGH, ottobre 1947' Per oltre due mesi, dopo l'emancipazione del subcontinente dal dominio britannico, il maharajah aveva tentato di restare indipendente. Mentre le autorità del Pakistan e lo Stato dello Jammu e Kashmir erano impegnati nella loro guerra di parole sul deterioramento dell'ordine pubblico, i governanti dell'India offrivano appoggio morale, e la promessa di quello materiale, a un maharajah assediato. L'invasione del Kashmir da parte di un ampio numero di membri delle tribù della frontiera di nordovest del Pakistan obbligava il sovrano a una decisione: per poter ricevere aiuto militare dall'India, era costretto ad aderire al dominion indiano. Ma alla fine lo avrebbe fatto comunque? E in quali circostanze avrebbe aderito al Pakistan? Sarebbe potuto rimanere per sempre indipendente? E ancora, la «guerra santa» nel Kashmir fu istigata dal Pakistan o fu l'estensione di disordini interni già in atto nello Stato del maharajah?
3.1. La via della guerra Le accuse e le controaccuse di aggressione nello Stato dello Jammu e Kashmir continuarono per tutto settembre. Laddove il maharajah e il suo governo sostenevano che gli attacchi erano condotti da predoni armati che attraversavano la frontiera con il Punjab, i pakistani insistevano invece che si trattava di una rivolta indigena all'interno dello Stato, rivolta che rappresentava lo sviluppo di quell'opposizione politica al sovrano che durava dagli anni Trenta. Com'era prevedibile, gli insoddisfatti abitanti di Punch avevano attraversato il confine con il Pakistan per cercare soccorso. «Un giorno qualcuno mi presentò a Sardar Ibrahim», scrive Akbar Khan, un ufficiale di grado inferiore che si trovava a Murree nel settembre 1947. «Fino ad allora egli [Ibrahim] non era importante a tal punto da essere noto in Pakistan. Gran parte dei leader riconosciuti della filopakistana
Muslim Conference erano ancora in carcere nel Kashmir. Ibrahim, come molti altri rivoltosi appassionati, era venuto di qua dal confine in cerca d'aiuto per la sua gente»2. «Ero quasi l'unica persona rimasta per prendere decisioni», ricorda Ibrahim. «Può immaginare la situazione precaria di un giovane»3. Ibrahim Khan aveva richiesto 500 fucili, «se volevano liberarsi da soli». Akbar Khan racconta come non ci si potesse confidare con il comandante supremo dell'appena nato esercito pakistano e con altri ufficiali superiori, che erano inglesi, a proposito di qualunque piano di aiuto ai ribelli. Tramite una fonte indiretta, Ibrahim Khan riuscì ad avere 4.000 fucili. «A seconda del denaro disponibile, si sarebbero potute ottenere altre armi, fabbricate nella frontiera o all'estero». Successivamente Akbar Khan stese un piano denominato «Rivolta Armata in Kashmir»: l'obiettivo principale era di concentrarsi sul rafforzamento degli stessi kashmiri all'interno del paese. Le discussioni con il primo ministro Liaquat Ali Khan, del tutto al corrente dei loro piani, furono così «informali» al punto che Akbar Khan dedusse che «sulla faccenda c'era una completa ignoranza di qualunque cosa avesse l'aria di operazioni militari»'1. A George Cunningham, il governatore della frontiera di nord-ovest, era inoltre noto che un punjabi di nome Khurshid Anwar, «uno della Guardia Nazionale Musulmana», era stato nel distretto di Hazara «a organizzare ciò che chiamano offensiva a tridente nel Kashmir»5. Mentre i politici riflettevano, un vasto contingente di tribù della frontiera di nord-ovest si diresse verso il Kashmir. «Temo che la situazione nel paese stia per tramutarsi in una grave crisi», annotò sul suo diario George Cunningham il 20 ottobre. «Ho sentito stamattina che 900 Mahsud hanno lasciato Tank con dei camion per il fronte del Kashmir. [...] Si dice anche che sono andati 200 Mohmand» 6 . A loro si unirono presto Waziri, Daur, Bhittani, Khattak, Turis e alcuni Afridi di Tirah, nonché Swati e uomini di Dir; all'alba del 22 ottobre 1947, attraversarono il fiume Jhelum ed entrarono nel Kashmir. «La mia stessa posizione non è troppo facile», scrisse Cunningham. «Se do il mio sostegno al movimento, altre migliaia vi si accalcheranno e potrà verificarsi una grossa invasione; se vi resisto, dovrò subire attacchi qualora il movimento fallisca per mancanza di appoggio»7. Prima dell'indipendenza, gli inglesi erano riusciti soltanto a mantenere una pace instabile con le tribù, pagando sussidi ai capi, e conservando le proprie postazioni «avanzate» lungo la frontiera di nord-ovest. Ma dopo il loro ritiro, nell'agosto 1947, nel «neonato e disorganizzato Stato» del Pakistan, scrive Ian Stephens, in mezzo al pasticcio del Kashmir, il governo stava ancora elaborando le proprie relazioni con le tribù8. La convinzione generale tra i pakistani è che gli uomini delle tribù fossero incitati a una «guerra santa» dai racconti di atrocità che i musulmani in fuga portavano con sé sulla piazza del mercato di Peshawar. «Uno del-
le autorità di Peshawar mi assicurò che i cadaveri dei musulmani uccisi dai Dogra erano stati fatti sfilare per le vie di Peshawar da uomini che invitavano la gente a sostenere una jihad contro gli infedeli al potere nel Kashmir e in India», ricordò Horace Alexander dopo la propria visita alla frontiera di nord-ovest nel 19479. Nei distretti di Rawalpindi e di Jhelum, nel Punjab, si era stabilito un certo numero di famiglie musulmane del Kashmir provenienti da Punch. Inoltre, il ministro capo della Provincia della frontiera di nord ovest, Khan Abdul Qayum Khan, era un kashmiro originario di Punch. Nelle settimane a venire, i suoi funzionari aiutarono i vo-, lontari delle tribù con il rifornimento di benzina, che era scarsa, con provviste di frumento e con mezzi di trasporto10. Benché Liaquat Ali Khan sapesse del piano delle tribù per l'invasione del Kashmir, a oggi non vi è prova che Mohammad Ali Jinnah fosse coinvolto nelle discussioni. «Finora non mi sono imbattuto in quella prova», dice il professor Zaidi, curatore delle carte di Jinnah: Prometto e dichiaro che nel momento in cui tale prova dovesse venire alla luce, non verrà tenuta nascosta. Gli uomini delle tribù Pathan si mossero contro i desideri del governo federale di allora. Io personalmente lo so per certo, e non ci fu nessuno a fermarli. Quando andarono, lo fecero senza piano e coordinamento adeguati. Tutto era nella più totale confusione e l'accusa contro il Pakistan, secondo cui esso li avrebbe dispiegati per un obiettivo definito, è priva di fondamento." Muhammad Saraf, giunto a Lahore dopo aver lasciato Baramula nell'agosto 1947, afferma tuttavia che l'invasione tribale era stata avviata d'intesa con i leader pakistani allo scopo di potenziare gli sforzi dei kashmiri del luogo. «Si potrebbe sostenere in maniera enfatica che essa ebbe luogo con la benedizione del Quaid-i Azam, Mohammad Ali Jinnah, e di Liaquat Ali Khan»12. K.H. Khurshid, il segretario privato di Jinnah, non è d'accordo: Lasciai Karachi il primo ottobre 1947. Il mio ultimo incontro con il Quaid-i Azam avvenne il 30 settembre 1947. Discutemmo del Kashmir per due ore. Discutemmo di tutto e il Quaid-i Azam mi disse: «Per favore, comunica ai nostri capi nel Kashmir che al momento io non voglio creare problemi al maharajah. Voglio che restino calmi, affronteremo la situazione più tardi, come si presenterà." Secondo George Cunningham, sulla base di informazioni fornitegli dal ministro della Difesa Iskander Mirza il 26 ottobre: «Evidentemente Jinnah stesso ha udito per primo ciò che stava accadendo circa quindici giorni fa, ma ha detto "Non ditemi niente. La mia coscienza deve essere pulita"».
C u n n i n g h a m tuttavia non riferisce se J i n n a h avesse ordinato u n o specifico p i a n o di invasione o ne avesse u n a q u a l c h e cognizione. Tutti gli ufficiali britannici, disse, f u r o n o tenuti fuori dalle discussioni « s e m p l i c e m e n t e p e r non imbarazzarli» 1 " 1 .
I resoconti indiani affermano che l'intera operazione nel Kashmir fu indotta al livello più alto in Pakistan: il cervello dell'operazione, denominata in codice "Gulmarg", era probabilmente Akbar Khan, che utilizzava lo pseudonimo di Generale Tariq, in memoria del generale berbero che attraversò lo stretto di Gibilterra per invadere la Spagna nell'vill secolo13.1 predoni, disse V.P. Menon, «hanno libero transito attraverso il territorio pakistano. Operano contro il Kashmir dalle basi in Pakistan. Soltanto quest'ultimo può avergli fornito un moderno equipaggiamento militare; mortai, artiglieria e mine anticarro non fanno parte del normale armamento in possesso delle tribù»16. Secondo la stima di Menon, circa 5.000 uomini, a bordo di due o trecento camion, muovevano verso il Kashmir. La prima vera opposizione la incontrarono a Muzaffarabad, dov'era di stanza un battaglione di truppe Dogra. Riuscirono a conquistare il ponte tra Muzaffarabad e Domel e, la sera del 23 ottobre, presero Domel. Nei due giorni successivi toccò a Garhi e Chinari. La loro colonna principale proseguì verso Uri dove, secondo il loro "comandante" Khurshid Anwar, incontrarono «il primo reggimento sikh dello Stato di Patiala» 17 . Nessuno ha confermato quando arrivarono le truppe dello Stato di Patiala, ma Alastair Lamb considera la presenza di tali «forze esotiche» un'operazione coperta che, considerata l'adesione all'India da parte del maharajah di Patiala, significava che si trattava in effetti di truppe sotto il controllo dell'Unione Indiana»18. A Uri venne ucciso il generale di brigata Rajinder Singh, succeduto a Scott come capo di Stato maggiore delle Forze Armate. «Lui e i suoi colleghi vivranno nella storia», scrive V.P. Menon, «come il valoroso Leonida e i suoi trecento uomini che trattennero gli invasori persiani alle Termopili»19. Gli uomini delle tribù continuarono lungo la strada del fiume Jhelum, la via tradizionale attraversata dai loro antenati, gli afgani, verso Baramula, il punto di accesso alla valle che conduceva direttamente a Srinagar. A Mahura si trovava una grossa centrale elettrica e un'interruzione di corrente sprofondò temporaneamente Srinagar nell'oscurità, creando una sensazione d'incombente destino funesto20. Lo sceicco Abdullah tornò alla ribalta organizzando la difesa della città; i suoi sforzi eroici furono tuttavia macchiati dalle accuse secondo cui i profughi indù e sikh venivano armati dal governo del Kashmir e spinti a uccidere le persone di dubbia lealtà verso Abdullah e la National Conference21.
3.2. La fuga di HariSingh Il 24 ottobre il maharajah Hari Singh rivolse un appello urgente di aiuto al governo dell'India. In attesa della risposta, cercò di continuare a svolgere i propri doveri. «Abbastanza incredibilmente», scrive suo figlio Karan Singh, «il Darbar annuale si tenne a Srinagar come al solito [...] nella splendida sala del palazzo di città sullo Jhelum, con il suo soffitto riccamente decorato di cartapesta»22. Il sovrano avrebbe voluto annullarlo, ma il primo ministro Mahajan disse che farlo avrebbe creato panico tra la gente. A Delhi, Lord Mountbatten, governatore generale dell'India, presenziava a una cena in onore dell'ambasciatore della Thailandia, quando il primo ministro Nehru lo informò che il Kashmir era invaso da un gran numero di uomini delle tribù Pathan. Benché il governo indiano avesse parlato di un'incursione dal Pakistan, l'invasione effettiva li colse di sorpresa. Il giorno seguente, il 25 ottobre, si riunì il Comitato di Difesa del Governo, presieduto da Mountbatten. «La necessità più immediata», scrive Alan Campbell-Johnson, il suo addetto stampa, «era di affrettare la spedizione di armi e munizioni già richieste dal governo del Kashmir [...]». Il governatore generale sostenne tuttavia che «sarebbe il colmo della follia inviare truppe in uno Stato neutrale, non ne abbiamo il diritto, dato che il Pakistan potrebbe fare esattamente la stessa cosa, circostanza che potrebbe risolversi soltanto in uno scontro di Forze Armate e in una guerra». Esortò pertanto al completamento delle formalità legali riguardanti l'annessione, ma che la cosa fosse soltanto temporanea, in attesa di «un referendum, un plebiscito, un'elezione o persino, se tali metodi fossero impraticabili, incontri pubblici di rappresentanti»23. Quale primo passo verso il governo popolare, Nehru voleva che si provvedesse a far entrare lo sceicco Abdullah nel governo del maharajah. Secondo il suo biografo, Sarvepalli Gopal, durante l'incontro né il primo ministro né Patel «attribuirono alcuna importanza» all'insistenza di Mountbatten su un'annessione temporanea2"1. La sequenza degli avvenimenti, dal momento in cui il maharajah richiese aiuto al governo dell'India il 24 ottobre fino a quando giunsero le truppe indiane, il 27 ottobre, è stata sin da allora oggetto di discussione. Il resoconto ufficiale si affida molto alle memorie di V.P. Menon, il quale, nella riunione del Comitato di Difesa, ebbe l'ordine di «volare immediatamente a Srinagar al fine di studiare la situazione sul luogo e di riferire al governo». Quando raggiunse il campo d'aviazione di Srinagar, il 25 ottobre, egli registrò: «Ero oppresso da un silenzio da cimitero tutt'intorno. Su tutto pendeva un'atmosfera di incombente calamità. [...] Il maharajah era completamente atterrito dal corso degli eventi e dalla sensazione di solitaria impotenza. Praticamente non restavano più truppe statali e i predoni avevano quasi raggiunto la periferia di Baramula»25. Menon incontrò
dapprima il primo ministro Mahajan, poi si recò al palazzo del sovrano. Non fornisce dettagli sui loro colloqui, ma atferma semplicemente che la principale priorità era di portar via il maharajah e la sua famiglia da Srinagar. Il capitano Dewan Singh, l'aiutante di campo del sovrano, ricorda: «Menon disse al maharajah: "Sarebbe sconsiderato per voi rimanere a Srinagar mentre i predoni sono così vicini. Possono catturarvi e ottenere da voi qualunque dichiarazione". Così, su suo consiglio, lasciò Srinagar e venne a Jammu» 26 . Karan Singh era con i suoi genitori quando fuggirono da Srinagar: Gli eventi successivi rappresentano un guazzabuglio nella mia testa - i domestici che corrono intorno freneticamente. [...] C'era un freddo pungente quando il convoglio abbandonò il palazzo nelle prime ore del mattino. I predoni si riversavano attraverso la frontiera, razziando, saccheggiando e violentando a più non posso, e si erano sparse voci sul fatto che la strada per Jammu fosse stata interrotta ed era possibile che ci fosse teso un agguato lungo la via. [...] Per tutta quella notte spaventosa viaggiammo lentamente, a stento, come fossimo riluttanti a lasciare la bellissima valle che i nostri antenati avevano governato per generazioni. Il nostro convoglio superò lento i 2.700 metri del Passo Banihal proprio nel momento in cui incominciava a spuntare la prima luce del giorno. Secondo Victor Rosenthal, amico e confidente di Hari Singh, questi non parlò per tutta la durata del viaggio; soltanto all'arrivo al proprio palazzo di Jammu, quella sera, disse: «Abbiamo perso il Kashmir»27. Negli anni a venire, la fuga di Hari Singh da Srinagar venne adoperata dai suoi critici come giustificazione per affermare che non aveva alcun diritto di prendere la decisione sull'adesione all'India perché non aveva più il controllo del proprio Stato. Allorché il maharajah partì da Srinagar per il proditorio viaggio a Jammu, V.P. Menon andò alla Foresteria Statale per fare «un breve riposo», ma non dormì perché, come riferisce, «proprio quando stavo per andare a dormire», il primo ministro telefonò per dire che era pericoloso restare ancora in città. Mahajan e Menon andarono entrambi a Delhi «con la prima luce» del mattino del 26 ottobre e arrivarono all'aeroporto Safdarjung alle otto. Menon si recò direttamente a una riunione del Comitato di Difesa, che secondo Mahajan iniziò alle dieci28. Questi andò invece a riposare a casa di Baldev Singh, il ministro della Difesa, che alle 12,45 venne a riferirgli che era stata presa la decisione di inviare due compagnie di truppe indiane a Srinagar. Menon riferisce di aver preso un aereo per Jammu in compagnia del primo ministro Mahajan, «subito dopo la riunione».
3.3. Latto di annessione All'arrivo a Jammu, Menon trovò il palazzo «in uno stato di assoluto scompiglio, con oggetti di valore sparsi dappertutto». Il maharajah era ancora addormentato. «Lo svegliai e gli dissi ciò che era accaduto alla riunione del Comitato di Difesa. Era pronto ad aderire subito». Scrisse quindi una lunga lettera al governatore generale, descrivendo «la pietosa situazione dello Stato e reiterando la propria richiesta di aiuto militare». La sua lettera di richiesta di annessione è piena di rimpianto: «Volevo prendere tempo per decidere a quale dominion aderire [...] se non fosse nel migliore interesse sia dei dominion che del mio Stato restare indipendenti, naturalmente in rapporti cordiali con entrambi». Ma l'invasione tribale lo aveva forzato a una decisione; e l'insistenza di Mountbatten sull'adesione prima dell'aiuto lo aveva spinto un passo oltre il dovuto. L'incontro con Menon a Srinagar, la sera del 25 ottobre, gli aveva fatto comprendere la logica dell'annessione, assente nelle sue prime richieste di «aiuto amichevole». «Ovviamente, non possono inviare l'aiuto richiesto senza che il mio Stato aderisca al dominion dell'India. Ho di conseguenza deciso di farlo e allego l'atto di annessione per l'accettazione da parte del vostro governo». Asserì inoltre che era sua intenzione «istituire un governo provvisorio e chiedere allo sceicco Abdullah di sostenerne la responsabilità in questa emergenza insieme al mio Primo Ministro»29. Menon registrò divertito che, alla conclusione del loro incontro, il maharajah gli disse che: «aveva lasciato istruzioni al suo aiutante di campo che, se fossi tornato da Delhi, non avrebbe dovuto essere disturbato, poiché ciò avrebbe significato che il governo dell'India aveva deciso di venire in suo soccorso e avrebbe dovuto pertanto essergli concesso di dormire in pace; ma se io non fossi ritornato, avrebbe significato che tutto era perduto e, in tal caso, il suo aiutante di campo avrebbe dovuto sparargli nel sonno»50. Il capitano Dewan Singh ricorda l'atmosfera del momento come «molto tetra. Jammu era in fiamme»51. Con la lettera e l'atto di annessione, Menon tornò «subito» a Delhi. Sardar Patel lo attendeva all'aeroporto e quella sera andarono insieme a una riunione del Comitato di Difesa. «Ci fu una lunga discussione alla fine della quale si decise di accettare l'adesione dello Jammu e Kashmir, a condizione che si tenesse un plebiscito nello Stato non appena la situazione dell'ordine pubblico lo avrebbe consentito»52. Il precedente era il Junagadh, che rappresentava il contrario del Kashmir, con un sovrano musulmano, la cui adesione al Pakistan era messa in discussione dagli indiani in base al fatto che la maggioranza della popolazione era induista. Nella sua lettera di risposta al maharajah, datata 27 ottobre, Mountbatten affermò nuovamente che l'adesione all'India avrebbe dovuto essere confermata tramite una consultazione popolare «in conformità (sic) con
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lettera di Alexander Symon a Sir Archibald Carter. (Una nota in alto indica che Carter non ha mai visto questa lettera)
la loro politica, per cui, nel caso di Stati dove la questione dell'adesione è oggetto di controversia, la faccenda deve essere risolta secondo la volontà del popolo dello Stato»". La mancata indicazione di un plebiscito quale condizione per l'aiuto, fanno tuttavia rilevare i commentatori successivi, attenuò la forza di tale raccomandazione. «Ci si deve chiedere», scrive Josef Korbel, membro della prima commissione delle Nazioni Unite che visitò il subcontinente nel 1948, «se Mountbatten a questo punto non fosse più interessato al principio dell'adesione piuttosto che alla determinazione finale della volontà del popolo kashmiro attraverso un plebiscito»14. La mattina del 27 ottobre trecento soldati del 1° Battaglione Sikh vennero trasportati per via aerea a Srinagar. Il primo ministro Mahajan racconta che, dopo aver udito che l'esercito era atterrato, volò a Jammu con Menon per ottenere la firma del maharajah su alcuni documenti supplementari relativi all'annessione". «Quando atterrammo a Jammu, mi venne incontro il generale di brigata dell'esercito statale. Si sentiva molto sollevato dall'arrivo dell'esercito indiano a Srinagar»36. Tuttavia, la versione ufficiale degli eventi che condussero alla firma dell'atto di annessione non sempre corrisponde ai resoconti individuali. In numerose pubblicazioni si afferma che Menon dapprima raggiunse Jammu il 26 ottobre, ma, scrive Alastair Lamb, «è a questo punto che i racconti fin qui accreditati divergono drammaticamente dai fatti»". Menon aveva intenzione di tornare a Jammu il 26 ottobre, ma sembra che non potè farlo. E Hari Singh sarebbe stato lì a riceverlo? Quest'ultimo lasciò Srinagar «nelle prime ore del mattino» del 26 ottobre o, come conferma Mahajan, alle due della notte. Ci si poteva aspettare che il viaggio notturno d'inverno per strada da Srinagar a Jammu avrebbe preso almeno sedici ore38. Il convoglio di auto raggiunse il passo Banihal «quando cominciavano a spuntare le prime luci dell'alba». Fecero anche una sosta a Kud, un piccolo insediamento a un centinaio di chilometri da Jammu. Il maharajah raggiunse finalmente Jammu «la sera successiva», ricorda suo figlio Karan Singh39, ed era già andato a dormire prima dell'arrivo di Menon, ma questi afferma che la sera del 26 ottobre era di nuovo a Delhi alla riunione del Comitato di Difesa. Dunque, quando potrebbe aver incontrato il sovrano il 26 ottobre? Egli dice anche che Mahajan lo accompagnò a Jammu il 26 ottobre, ma questi non fa menzione della visita e, in effetti, asserisce che non era disposto ad andare a Jammu, «fino a quando non avessi ricevuto la notizia dal mio funzionario all'aeroporto di Srinagar che le truppe indiane erano atterrate». Mahajan ricorda inoltre che la sera del 26 ottobre, «intorno all'ora di cena», Nehru spedì un messaggio nel quale si diceva che il giorno seguente «con V.P. Menon avrei dovuto volare a Jammu per informare il maharajah» della riunione del governo nella quale si era deciso di fornire aiuto militare40; Menon non nomina tale visita. Mahajan scrive che il vice primo ministro partì per Del-
hi il 24 ottobre con una lettera di adesione, ma Menon non vi fa riferimento'". E neppure, quale testimone chiave, avvalora l'affermazione di Mahajan secondo la quale l'atto di annessione fu effettivamente firmato a Srinagar. Se era stato firmato prima che il maharajah lasciasse Srinagar42, che bisogno c'era che Menon riferisse che fu firmato il giorno successivo, al suo ritorno a Jammu? E che dire dell'incontro tra Alexander Symon, facente funzione di alto commissario britannico a Delhi, e lo stesso Menon la sera del 26 ottobre? In un passo molto citato, Lapierre e Collins riferiscono che non appena i due si sedettero per bere qualcosa, sul viso di Menon si diffuse «un enorme sorriso». «Quindi trasse fuori un pezzo di carta dalla tasca della giacca e lo agitò allegramente verso l'inglese. "Eccolo", disse. "Abbiamo il Kashmir. 11 bastardo ha firmato l'atto di annessione. E adesso che ce l'abbiamo, non lo lasceremo mai andare"» 43 . Alla data del 26 ottobre, il diario degli avvenimenti steso da Symon, riportato in una lettera riservata a Sir Archibald Carter presso il Commonwealth Relations Office di Londra, racconta una storia diversa: 3,30 del pomeriggio. In considerazione dell'importanza di stabilire un contatto [con V.P. Menon] senza tardare, andai subito all'aerodromo di Willingdon per cercare di incontrarlo prima che l'aereo decollasse [per Jammu]. Mi fu detto che l'aereo sarebbe partito dall'aerodromo di Palam, dove mi recai immediatamente. Trovai Menon sul punto di tornare a Delhi, in quanto l'aveva lasciata troppo tardi perché l'aeroplano potesse raggiungere il Kashmir prima del calar della notte. Combinammo di incontrarci a casa sua verso le cinque del pomeriggio. Quando Symon andò da Menon, questi gli disse che: sarebbe partito per Jammu la mattina seguente e sarebbe ritornato per l'ora di pranzo dell'indomani. [...] In risposta alla mia domanda a proposito della forma di aiuto che il governo dell'India stava considerando di offrire al Kashmir, mi disse che non poteva dirmi nulla di definito tranne che il governo era deciso a impedire «a tutti i costi» ai predoni di propagarsi a est e a sud. Nella sua lettera d'accompagnamento a Carter, dettata alle quattro del pomeriggio del 27 ottobre, Symon dice di «avere telefonato all'ufficio di Menon pochi minuti fa ma mi è stato detto che non è ancora tornato da Jammu» 44 . In una missiva datata 27 ottobre, Nehru scrisse al maharajah dichiarando che V.P. Menon «è tornato da Jammu questa sera e mi ha informato dei colloqui. Mi ha dato l'atto di annessione e il patto di non intervento da voi firmati, e ho visto anche la vostra lettera al governatore ge-
nerale dell'India» 45 . A difesa del punto di vista indiano, secondo cui l'atto di annessione venne firmato il 26 ottobre, B.G. Verghese afferma che «non vi è contraddizione tra ciò che asserì V.P. Menon e quanto Mahajan scrisse in seguito nelle sue memorie», ma uno studio accurato delle fonti relative non ispira una così fiduciosa conclusione46. Il dato significativo in questa sequenza di eventi non è tanto che Menon non possa aver raggiunto Jammu il 26 ottobre, quanto che il governo indiano abbia ritenuto necessario affermare nei resoconti ufficiali che egli lo fece, allo scopo di avvalorare l'idea che il maharajah avrebbe aderito all'India prima dell'invio delle truppe indiane a Srinagar. «All'inizio del 1948 il ruolo dell'atto di annessione del 26 ottobre nell'apparato delle giustificazioni indiane era largamente consolidato», scrive Alastair Lamb. Se il maharajah avesse effettivamente aderito a Srinagar prima di partire per Jammu, non sarebbe stato necessario sostenere che Menon tornò a Jammu il 26 ottobre, ma l'assenza di un atto di annessione firmato prima dell'arrivo ufficiale delle truppe indiane, il 27 ottobre, avrebbe ridimensionato la pretesa indiana di aiutare uno Stato che aveva aderito all'India. L'annessione prima dell'intervento fornì agli indiani il diritto legalmente riconosciuto di essere in Kashmir, compresa la capacità di controllare le circostanze dell'indizione di un referendum. Inoltre «consentì all'India di rifiutare ogni proposta pakistana di ritiro simultaneo da entrambe le parti»'17. E poi, perché l'atto di annessione non fu pubblicato nel libro bianco del 1948? «Avrebbe certamente rappresentato il gioiello documentario nella corona kashmira dell'India», scrive Lamb, il quale mette in dubbio l'autenticità dell'atto, datato e firmato sia dal maharajah che da Mountbatten, che compare nella corrispondenza edita di Sardar Patel, pubblicata nel 1971. «La faccenda deve restare lì fino a quando non emergano nuovi documenti a giustificare un giudizio più deciso in un senso o nell'altro»48. All'epoca, prevalse l'opinione che lo Stato dello Jammu e Kashmir avesse aderito all'India prima dell'invio delle truppe indiane. Che l'atto di annessione fosse stato firmato prima o dopo il loro atterraggio, il maharajah aveva comunque acconsentito all'adesione in linea di principio secondo i termini delineati da Mountbatten. Pur scontento, come lo fu in seguito, della propria scelta, Hari Singh non fece mai pensare di aver firmato l'atto di annessione dopo l'atterraggio delle truppe indiane, né, tanto meno, di non averlo mai fatto. Alexander Symon divenne poi alto commissario prima in Pakistan e poi in India, ma non pubblicò mai il suo diario degli avvenimenti del 26 e 27 ottobre. Nonostante le proteste del Pakistan, l'India dichiarò che dal 26 ottobre 1947 lo Stato dello Jammu e Kashmir era parte del proprio territorio e che pertanto l'azione militare per prestare soccorso nella difesa dello Stato contro gli invasori Pathan era legittima. E stata messa in dubbio, tuttavia, anche l'insistenza di Mountbatten sull'adesione prima dell'aiuto. Come osservò Josef Korbel, il governo in-
diano aveva già promesso armi per contrastare il diffondersi della rivolta di Punch: non erano arrivate, ma non vi era stata alcuna richiesta di annessione come condizione per ricevere appoggio. Mountbatten nutriva il timore di una guerra su ampia scala, che avrebbe coinvolto gli ufficiali inglesi dalle parti opposte, ma come potrebbe aver considerato la necessità che lo Jammu e Kashmir - tecnicamente un paese indipendente - innanzitutto aderisse all'India prima di ricevere aiuto militare? Perché all'epoca non fu richiesto l'intervento delle Nazioni Unite? E perché nessuno propose di prendere contatto con il governo pakistano a Karachi per una consultazione49? Non è stata offerta alcuna spiegazione convincente: «E difficile comprendere perché Mountbatten attribuisse una tale importanza all'adesione immediata», argomenta Philip Ziegler, il suo biografo ufficiale. «Se non vi fosse stata alcuna adesione, la presenza indiana nel Kashmir sarebbe stata ovviamente ben più temporanea e la possibilità di un referendum sarebbe divenuta più reale. Con un legalismo esagerato il governatore generale contribuì a determinare il risultato che più temeva: la protratta occupazione del Kashmir da parte dell'India senza alcun tentativo di mostrare che essa godeva del sostegno popolare»50. Mentre a Delhi i politici riflettevano, gli uomini delle tribù continuavano il loro attacco. Il 27 ottobre raggiunsero Baramula, che saccheggiarono, uccidendo un vasto numero di abitanti del luogo. Assaltarono anche il convento francescano di St Joseph, assassinando cinque persone, tra cui tre europei, e anche una suora. Padre Shanks, uno dei sopravvissuti, scrive che «gli uomini delle tribù - grandi belve, selvagge, nere - scesero sparando dalle colline ai due lati della città»51. E convinzione diffusa che se si fossero spostati più rapidamente, avrebbero raggiunto Srinagar e preso possesso del campo d'aviazione, impedendo così l'atterraggio delle truppe indiane. Dal resoconto del maggiore Khurshid Anwar, narrato sul quotidiano «Dawn», sembra tuttavia che gli uomini delle tribù non siano mai stati in grado di prendere l'aeroporto. Raggiunsero Baramula solo il giorno in cui arrivarono i soldati indiani e, prima di proseguire per Srinagar, dovevano innanzitutto prendere Pattan, proprio quando sopraggiunse l'aviazione. «Qui si imbatterono in un bombardamento di aerei dell'Unione Indiana e nel mitragliamento dei caccia. Gli uomini delle tribù ebbero pesanti perdite in mezzi di trasporto e munizioni». Il 31 ottobre conquistarono Pattan, ma fu ritenuto «assolutamente impossibile proseguire diritto per Srinagar». Benché Anwar e un ristretto gruppo di uomini deviassero per fare una ricognizione dell'aeroporto, scoprirono che ad Achhgam, a circa un chilometro e mezzo dal campo d'aviazione, erano di guarnigione tre battaglioni del Reggimento Kumaon. «Il maggiore Anwar e i suoi uomini, secondo il principio per cui "la prudenza è il tratto migliore del valore", si ritirarono». Ai primi di novembre, si verificarono scaramucce alla periferia di Srinagar, ma a questo punto l'offensiva aerea indiana era sta-
ta lanciata al completo. Il 10 novembre Anwar restò gravemente ferito". «Negli ultimi due giorni c'è stata una notevole ritirata da parte degli uomini delle tribù dal Kashmir», annotò Cunningham lo stesso giorno. «Sembra che abbiano preso un colpo alla periferia di Srinagar la notte del 7 e sono tornati direttamente a Uri il giorno dopo»". Continuarono a combattere sul fronte di Punch, ma Cunningham calcolò che ammontavano al massimo a circa 7.000. Di tutte le azioni della prima guerra del Kashmir, l'invasione degli uomini delle tribù, e in specie il saccheggio di Baramula, è stata la più largamente condannata. Il generale di brigata L.P Sen, veterano della campagna di Burma nella seconda guerra mondiale, che comandava la 16" Brigata di Fanteria, ricordò così l'arrivo a Baramula: «Ovunque si guardasse [...] vi erano segni di saccheggio, incendio o di inutile distruzione [...] di una popolazione di 14.000 persone, almeno 3.000 erano state assassinate»54. Ian Stephens, noto per le sue simpatie filopakistane, descrisse comunque gli omicidi nel convento di St Joseph come «un episodio brutto ma secondario, le cui proporzioni furono presto gonfiate dalla propaganda indiana indirizzata ai paesi dell'Occidente cristiano»". Muhammad Sarai, da poco diplomato al St Joseph, plaudì all'invasione tribale anche se in virtù di essa l'India continuò a condannare il Pakistan per la sua «aggressione»: «Credo che l'attacco tribale non fosse sbagliato. Portò alla liberazione dell'Azad Kashmir e delle aree settentrionali, più di 82.000 chilometri quadrati di territorio»56. Prem Nath Bazaz, un pandit kashmiro deluso dallo sceicco Abdullah e ancora ostile all'autocrazia del maharajah, riteneva che le ragioni degli uomini delle tribù dovessero essere prese in considerazione. «Volevano liberare il Kashmir dalla tirannia del maharajah e dei traditori nazionalisti. E non dovremmo dimenticare che alcuni componenti dell'esercito indiano non furono da meno nei saccheggi e nelle molestie»57. Una nota del Commonwealth Relations Office concludeva: «qualunque errore sia stato commesso da entrambe le parti da quando è nato il problema, la causa fondamentale è stata l'azione del monarca induista nel reprimere l'agitazione popolare in favore del Pakistan»58.
3.4. Tentativi di dialogo Il maharajah non perse tempo nel ringraziare Mountbatten per l'invio delle truppe: «Fu la decisione più rilevante e veloce mai presa dai politici in India», scrisse Mahajan". La maggiore preoccupazione del governatore generale era quella di evitare una guerra tra i due dominion; c'erano ancora ufficiali inglesi in servizio attivo sia nell'esercito pakistano che in quello indiano. Il feldmaresciallo Auchinleck era il comandante supremo di entrambe le Forze Armate, in teoria per collaborare alla divisione del-
l'ex esercito indiano. Quando, dopo l'annessione e l'arrivo dei soldati indiani, Jinnah convocò il generale Gracey, facente funzione di comandante in capo delle truppe pakistane, e ordinò di spostarle immediatamente nel Kashmir, Auchinleck lo persuase a ritirare l'ordine. «Auk disse che agli ordini del governo di Sua Maestà egli non aveva altra scelta se non quella di ritirare gli ufficiali inglesi se il confine veniva violato», ricorda Shahid Hamid, il suo segretario privato. «Applicava gli ordini alla lettera, senza considerare le circostanze attenuanti. Ma allora Auk non era un politico»60. George Cunningham si incontrò con Mohammad Ali Jinnah subito dopo e osservò: Jinnah ha riferito che Auchinleck gli aveva appena detto che, in caso di guerra tra i due dominion, tutti gli ufficiali inglesi in entrambi gli eserciti si ritirerebbero immediatamente. Ha sostenuto di avere una buona ragione morale e costituzionale per intervenire con la forza, solo se l'India 10 facesse. [...] Il Kashmir ha respinto ogni proposta del Pakistan ed è in gioco la vita dei musulmani di tutto lo Stato. Ma si rende conto che al momento l'esercito pakistano è debole. Jinnah non era convinto che la decisione fosse giusta, ma Cunningham concluse che «nella sua mente, egli ha escluso la possibilità di inviare truppe a combattere»61. Quando tornò dall'Inghilterra, Sir Frank Messervy, comandante in capo dell'esercito pakistano, fece visita a Delhi prima di andare a Rawalpindi. Fu sorpreso «di trovare Mountbatten che dirigeva le operazioni militari in Kashmir», scrive ancora Cunningham. «M.B. diventa ogni giorno più detestabile per i nostri musulmani, e sembra senz'altro che non sappia vedere se non con occhi indù» 62 . «Gli è caduto il mantello di governatore generale e ha assunto la divisa del comandante supremo», fece osservare un membro dello staff di Mountbatten a Chaudhri Muhammad Ali63. 11 primo novembre il governatore generale volò a Lahore per incontrare Jinnah e Liaquat Ali Khan; Nehru era «indisposto» e rifiutò di partecipare alla riunione. Mountbatten gli riferì i risultati dei suoi colloqui con i leader pakistani in una lunga nota: la «principale rimostranza di Jinnah era che il governo dell'India aveva mancato di fornire tempestive informazioni a quello del Pakistan a proposito dell'azione che si proponeva di condurre nel Kashmir». Il telegramma che lo informava dell'imminente atterraggio delle truppe indiane gli era giunto a cose fatte e «non conteneva alcun tipo di richiesta di cooperazione tra i due dominion». La posizione ufficiale del Pakistan era che l'annessione dello Stato dello Jammu e Kashmir all'India fosse basata su «frode e violenza» e che pertanto essa non fosse «autentica». Mountbatten ribatté che il maharajah era «perfettamente qualificato ad aderire a entrambi i dominion; poiché la
violenza era venuta dalle tribù di cui era responsabile il Pakistan, era chiaro che avrebbe dovuto unirsi all'India per ottenere aiuto contro l'invasore». Jinnah asserì ripetutamente che era l'India ad aver perpetrato una violenza inviando truppe a Srinagar. «Replicai ogni volta contro questo ragionamento, rendendo in tal modo Jinnah assai furioso davanti alla mia apparente stupidità». In questo incontro, il leader pakistano non accolse con entusiasmo la proposta di un referendum, e quando Mountbatten gli chiese quali fossero le sue obiezioni, rispose: «Con le truppe del dominion indiano che occupano militarmente il Kashmir e con la National Conference sotto il controllo dello sceicco Abdullah, possono essere condotte una propaganda e una pressione tali da far sì che il musulmano medio non avrebbe mai il coraggio di votare per il Pakistan». A questo punto, Mountbatten propose di invitare l'ONU a inviare degli osservatori «per garantire la creazione del clima necessario per un plebiscito libero e imparziale». Jinnah apparve tuttavia scoraggiato rispetto al futuro, sostenendo che l'India «era impegnata a strangolare e soffocare il dominion del Pakistan sin dal suo nascere e che se avessero continuato con la loro oppressione non ci sarebbe stato altro da fare per il Pakistan se non affrontare le conseguenze»64. I suoi timori furono riecheggiati più tardi nel telegramma di Liaquat Ali Khan a Nehru: «L'India non ha mai accettato di buon grado il progetto di spartizione, i suoi leader lo hanno appoggiato soltanto a parole, allo scopo di far uscire dal paese le truppe inglesi. L'India mira a distruggere lo Stato del Pakistan»65. In una trasmissione radiofonica del 4 novembre, il primo ministro del Pakistan affermò che era «una disonesta riscrittura della storia presentare la ribellione del popolo del Kashmir ridotto in schiavitù come un'invasione dall'esterno, soltanto perché alcuni estranei hanno simpatizzato con essa [...] non è stato il Kashmir ma un despota vacillante che il governo indiano e i suoi seguaci hanno tentato di salvare»66. Gli indiani diedero tuttavia molto peso alla presenza dello sceicco Abdullah a Delhi al momento dell'annessione e affermarono che egli «stava facendo pressioni sul governo dell'India per conto della Ali Jammu and Kashmir National Conference affinché fosse inviato un aiuto immediato per resistere all'invasione tribale»67. Nehru e Patel erano evidentemente sensibili alle ripercussioni che la situazione in corso nel Junagadh avrebbe avuto nel Kashmir. A differenza di quest'ultimo, lo Stato del Junagadh era circondato da territorio indiano e non aveva alcuna prossimità geografica con nessuna delle due parti del Pakistan, se non un collegamento marittimo di trecento miglia. Quando il nababbo del Junagadh, Sir Mahabatkhan Rasulkhanji, aderì al Pakistan, il governo indiano si oppose alla decisione, chiedendo un plebiscito per definire la volontà della popolazione. Truppe indiane avevano invaso il Junagadh alla line di ottobre, nello stesso momento in cui era scoppiata la
crisi del Kashmir. Il 7 novembre Sir Shah Nawaz Khan Bhutto, primo ministro dello Stato, si dimise, accettando effettivamente la posizione indiana in attesa del risultato di un referendum, che si tenne finalmente nel febbraio 1948, quando la maggioranza induista della popolazione votò in maniera schiacciante a favore dell'India. Lo stesso principio rovesciato poteva quindi essere applicato al Kashmir; perciò Nehru insistette affinché lo sceicco Abdullah, in quanto leader popolare kashmiro, fosse pubblicamente associato all'azione indiana e portato al governo dello Stato.
3.5. La rivolta di Gilgit Il 5 giugno 1941, il ministro residente di Gilgit, il tenente colonnello D. de M.S. Frazer, fu informato che, secondo l'opinione del segretario di Stato, benché fossero sotto la sovranità dello Stato del Kashmir, Hunza e Nagar non ne facevano parte, così come Chilas, Koh Ghizar, Ishkoman e Yasin. Il ragionamento inglese era basato sulle condizioni stabilite dal trattato di Amritsar, nel quale si dichiarava che i confini tra i vari territori «non potranno essere modificati in qualunque momento senza iÌ consenso del governo britannico». Il primo ministro Gopalaswami Ayyangar aveva fornito una dettagliata confutazione di tale asserzione, che venne nondimeno rifiutata. Nelle sue deliberazioni, il governo dell'India riconobbe che la propria decisione sarebbe stata assai «sgradevole» per il maharajah e ammise anche che per il momento non sarebbe stata annunciata ufficialmente allo scopo di non ostacolare lo sforzo bellico del Kashmir. Quando furono compilati i dati del censimento del 1941, il governo classificò volutamente la popolazione di queste aree separatamente rispetto a quella dello stato68. Ciò nonostante, all'annuncio del piano di spartizione, il 3 giugno 1947, la Gilgit Agency fu rimessa al controllo del sovrano. «La restituzione di Gilgit venne accettata con giubilo dal maharajah», scrive V.P. Menon69. Il maharajah inviò il generale di brigata Gansara Singh a prendere possesso dell'area. Dopo l'indipendenza, i Gilgit Scouts erano rimasti al comando di un ufficiale britannico, il maggiore William Brown, descritto da Cunningham come «uno scozzese tranquillo e sicuro di sé»; il suo vicecomandante, il capitano Jock Mathieson, era di base a Chilas. Dopo avere udito che il maharajah aveva aderito all'India, Brown si incontrò con il governatore e lo esortò ad accertare i desideri dei mir musulmani e dei rajah circa l'adesione all'India. Gansara Singh sembra non aver seguito il consiglio di Brown. Questi lo avvertì allora che avrebbe potuto prendere provvedimenti autonomi per evitare spargimenti di sangue. «Con queste parole dirette al suo superiore», scrive Charles Chenevix-Trench, «Willie varcò il Rubicone»70. La notte del 31 ottobre Brown mise in atto un audace piano denominato in codice «Datta Khel».
«Uno splendente chiaro di luna illuminava la piazza d'armi. I plotoni uscivano dalla camerate in fila indiana e gli uomini passavano davanti a un Sacro Corano poggiato su un tavolo. A turno, ponevano la mano destra sul libro e giuravano a Dio Onnipotente che sarebbero stati fedeli alla causa del Pakistan», ricorda Willie Brown. Un plotone di Scout procedette verso la residenza del governatore per arrestarlo a titolo precauzionale, altri plotoni andarono a impadronirsi delle posizioni chiave. «Cominciarono ad arrivare i rapporti. L'ufficio postale era stato preso, si teneva il Ponte di Gilgit, il bazar era stato sgomberato e imposto il coprifuoco. Alle prime ore del primo novembre, dopo aver resistito per l'intera notte, il governatore Gansara Singh si arrese». Come Brown avrebbe poi scoperto, i ribelli, mentre sostenevano apertamente il Pakistan, avevano un piano segreto per istituire una repubblica indipendente di Gilgit-Astor, che vantava l'appoggio del 75 per cento degli Scout. Come unico non musulmano, Brown non era nella condizione di dissuaderli e procedette con il loro piano di istituzione di un governo provvisorio. Riuscì tuttavia a inviare un telegramma al ministro capo della Provincia della frontiera di nordovest, Khan Abdul Qayum Khan: «Notte di rivoluzione tra il 31 e l'I Provincia di Gilgit. Tutto il popolo filopakistano ha rovesciato il regime dei Dogra. A causa del caos imminente e di spargimenti di sangue Scout e Forze Statali musulmane hanno preso il controllo dell'ordine pubblico» 7 '. I commentatori pakistani concordano sul fatto che la rivolta aveva il pieno sostegno del popolo, l'India invece considera ancora l'operazione come un colpo degli Scout privo di tale consenso. «Quali che fossero i sentimenti della popolazione, l'unica persona d'autorità che si era dichiarata inequivocabilmente favorevole all'unione con il Pakistan era lo stesso Willie Brown. L'unità con l'India era stata respinta, ma a parte gli slogan urlati, nessuno nel governo provvisorio aveva fatto qualcosa per promuovere quella con il Pakistan», scrive Chevenix-Trench72. Brown stesso afferrò la gravità della propria posizione: «Mi ero impegnato a servire fedelmente il maharajah. Avevo percepito la sua paga generosa per tre mesi. Ora avevo disertato. Mi ero ammutinato. [...] Le mie azioni sembravano contenere tutti gli ingredienti dell'alto tradimento. Eppure nella mia mente sapevo che quanto avevo fatto era giusto». Il 2 novembre, dopo aver avuto la meglio sul gruppo indipendentista ed essersi assicurato l'assenso dei mir e dei rajah all'annessione al Pakistan, Brown riferisce che sulla vecchia torre del campo dei Gilgit Scouts ne venne alzata la bandiera. «Un grido si levò al cielo: "Allah o Akbar. Pakistan Zindabad"»' 1 . L'azione di Brown aveva colto di sorpresa il governo inglese. «Il destino di Gilgit sembra dipendere dal maggiore William Brown. Chi è il maggiore William Brown?», chiese un funzionario del Commonwealth Relations Office. L'unica informazione che erano riusciti a trovare immediatamente era che aveva ventiquattro anni7'1. Nel 1994, il governo del Pakistan
gli assegnò una ricompensa postuma per il ruolo svolto nella rivolta e sua moglie, Margaret Brown, si recò a Islamabad per riceverla a suo nome. Il futuro politico della regione resta comunque ancora oggi irrisolto, poiché Gilgit e i suoi stati contigui, compresi gli ex regni di Hunza e Nagar, che firmarono gli Atti di Annessione al Pakistan il 18 novembre 1947, non sono mai stati formalmente accettati come parte del territorio pakistano, in attesa di un assetto futuro. Insieme al Baltistan compongono le aree settentrionali, sotto amministrazione pakistana ma senza gli stessi diritti e privilegi di cui godono le altre province nella costituzione dello Stato. «Si sono liberati», ha commentato Muhammad Saraf, «ma non assaporano i frutti della libertà»75. Brown tenne Gilgit per più di due settimane fino a quando, il 16 novembre, giunse Muhammad Alam a prenderne il controllo quale consigliere politico. Il giorno seguente, la bandiera del Pakistan fu issata sulla residenza del rappresentante di Gilgit. Il 12 gennaio 1948, il generale di brigata Aslam Khan subentrò a Brown nel comando degli Scout; con lo pseudonimo di "Colonnello Pasha", egli esercitò anche un ruolo guida nel comando delle forze Azad locali, che comprendevano kashmiri ostili all'annessione dello Stato all'India e uomini delle tribù Pathan. Per tutta la guerra, il generale di brigata Gansara Singh rimase prigioniero dei pakistani. Secondo il figlio di Aslam Khan, suo padre diede speciali disposizioni affinché il generale ricevesse tè e sapone76; nel 1949 fu rilasciato in cambio di K.H. Khurshid, ex segretario privato di Jinnah, che si era impegnato nella guerra contro il governo indiano per l'Azad Kashmir, di cui sarebbe in seguito divenuto presidente. Nello scambio fu liberato anche il padre di Aslam Khan, 0 generale di brigata Rahmatullah Khan, che era stato al servizio del maharajah e posto in arresto durante la guerra.
3.6. Lo scontro
continua
Alla fine di novembre Liaquat Ali Khan si recò a Delhi per incontrare Nehru, circostanza che Cunningham indicò come «un segnale di speranza». «All'epoca avevamo tutti la sensazione che una vertenza amichevole fosse a portata di mano», registrò V.P. Menon77; ma le speranze di una prossima pace vennero spezzate quando, poco dopo l'incontro, si riunì il Comitato di Difesa del governo indiano. Come osservò Mountbatten: «Fu una delle riunioni più disastrose e penose che mi fosse toccato in sorte di presiedere. Sembrò che tutti gli sforzi degli ultimi giorni verso il raggiungimento di un accordo sul Kashmir fossero ridotti a nulla». I leader indiani furono informati che altri uomini delle tribù stavano penetrando nel Kashmir e commettendo «le più spaventose atrocità»78. A dicembre, i due primi ministri si incontrarono nuovamente a Lahore dietro pressione del
governatore generale, il quale successivamente riferì che «la conversazione girò intorno alle misure da adottare per conseguire l'obiettivo su cui entrambe le parti erano in accordo, cioè l'indizione di un referendum corretto e imparziale [...]. Quale doveva essere il primo passo? [...] Il colloquio proseguì senza sosta, nel complesso molto amichevolmente, ma con saltuarie impennate, come quando Pandit Nehru si accese e dichiarò che l'unica soluzione era nella spada»79. Dal punto di vista britannico, la posta in gioco era alta sia per l'India sia per il Pakistan: «Un grave rovescio tribale avrebbe avuto ripercussioni sulla frontiera di nord-ovest così come in Afghanistan, dal momento che l'intera disputa sul Kashmir aveva assunto un aspetto fortemente islamico»; uno smacco per l'India avrebbe peraltro provocato una «perdita della faccia»80. Le accuse secondo cui i soldati pakistani aiutavano le forze locali sin dall'inizio si erano largamente diffuse. Ufficiali pakistani, «opportunamente» in congedo dall'esercito, «sicuramente combattevano al fianco delle forze Azad», riferì l'alto commissario britannico nel gennaio 194881. Il 13 gennaio 1948 il «Times» di Londra dichiarò: «Che il Pakistan sia ufficiosamente coinvolto nel prestare appoggio ai predoni è certo. Il vostro corrispondente possiede prove di prima mano che armi, munizioni e rifornimenti sono messi a disposizione delle forze dell'Azad Kashmir. Alcuni ufficiali pakistani collaborano anche nella direzione delle operazioni. E per quanto il governo pakistano possa sconfessare l'intervento, il sostegno morale e materiale è certamente profondo»82. «Sarebbe stato bello avere del personale esperto disponibile all'organizzazione e al coordinamento dell'intero sforzo», scrive Akbar Khan; «Per questo scopo non potevano essere presi ufficiali dell'Esercito, ma in Pakistan avevamo alcuni degli ex ufficiali superiori dell'Esercito Nazionale Indiano»83. Con l'esercito pakistano appena nato, qualsiasi appoggio era limitato e l'effettiva importanza non stava tanto nelle cifre quanto nei termini della loro competenza. Si diceva che Khurshid Anwar fosse «molto aspro con il governo pakistano perché non aveva prestato alcun aiuto agli uomini delle tribù nel loro eroico tentativo di conquistare Srinagar»84. Nel maggio 1948, su consiglio del generale Gracey, l'esercito regolare venne finalmente chiamato a proteggere i confini del Pakistan. A dispetto delle smentite indiane, era diffusa la preoccupazione che l'intervento dell'esercito indiano nel Kashmir non si sarebbe limitato a quel territorio e alla fine sarebbe stato rivolto contro il Pakistan. Gracey era preoccupato anche dagli uomini delle tribù. «Quasi certamente, una facile vittoria dell'esercito indiano, in particolare nella zona di Muzaffarabad, desterà la rabbia delle tribù contro il Pakistan per il fatto che non è stato fornito loro un appoggio più diretto e potrebbe benissimo indurle a una rivolta». Tecnicamente, le Forze Armate pakistane dovevano comunque evitare «fino all'ultimo momento possibile» uno scontro con l'esercito indiano; do-
vevano restare dietro le forze Azad locali e impedire l'apertura di un varco verso i confini pakistani85. Come avrebbero osservato i futuri commentatori, «con il quartier generale dell'esercito a Rawalpindi e la sede del governo a Karachi, la coesione politico-militare era difficile [ . . . ] , la direzione della guerra era a dir poco incerta e si persero molte occasioni»86. Nello sforzo di eludere le difese indiane nella valle, gli irregolari Azad e i Gilgit Scouts si erano mossi verso il Baltistan e il Ladakh. Skardu venne assediata e cadde nelle loro mani, in maggio furono prese anche Dras e Kargil, collocate in posizione strategica sulla pista di trecento chilometri tra Srinagar e Leh attraverso il passo Zoji-la. Il Ladakh centrale fu pertanto isolato dalla via di terra più facilmente accessibile; i ladakhi, tutt'altro che impazienti di essere «liberati» dalle forze Azad, inviarono una richiesta urgente di aiuto al quartier generale del generale indiano Thimmayya a Srinagar. L'aeronautica indiana trasbordò dei Gurkha di rinforzo e costruì in tutta fretta una pista di atterraggio a Leh che, a 3.500 metri di quota, rimane la più alta del mondo per l'aviazione civile. «Segui il fiume Indo fino alla pista di atterraggio», spiegò un pilota delle Indian Airlines nel 1995. «Se non riesci a vedere il fiume, non puoi atterrare»87. Mentre le forze Azad convergevano su Leh, Nehru scriveva a Patel: «La cosa non ha grande importanza sul piano militare e possiamo riguadagnare tutto il terreno perduto. Ma è irritante che, sulla carta geografica, una regione enorme possa essere mostrata come nelle mani del nemico». Ammise anche che le Forze Armate del maharajah nel Ladakh e a Skardu nel Baltistan si erano comportate «nella maniera più vile e disonorevole. Non solo sono fuggite di fronte alla minima provocazione, ma hanno anche consegnato armi e munizioni nostre al nemico»88. Per tutta l'estate, i leader indiani furono frustrati dall'assenza di progressi nella guerra, nonostante vi riversassero uomini e denaro. «Come Oliver Twist, i comandanti militari chiedono sempre più e le stime delle loro richieste cambiano costantemente», osservò Sardar Patel. L'ampiezza dell'aiuto militare indiano sollevò anche la questione del futuro delle Forze Armate del maharajah: Patel era restio a fonderle con l'esercito indiano, poiché «se e quando dovesse porsi la questione del ritiro delle nostre truppe, questa esistenza autonoma ci permetterebbe di mantenere forze amiche sul luogo». Nel caso fossero state unite all'esercito indiano, il governo avrebbe tuttavia rischiato che, al momento dell'indizione del plebiscito, gli fosse chiesto di ritirarle89. Il prolungarsi dei combattimenti pesava peraltro sulle risorse indiane ancor più seriamente di quanto previsto inizialmente: «La situazione militare non è certo buona», confidò Patel, il 4 giugno, all'ex primo ministro dello Stato dello Jammu e Kashmir Gopalaswami Ayyangar, rappresentante dell'India alle Nazioni Unite. «Ho paura che le nostre risorse militari siano tese al massimo. E difficile prevedere per quanto tempo dovremo portare avanti questa spiacevole faccenda»90. Nel-
lo stesso momento, i leader indiani dovevano dedicare la propria attenzione anche allo Stato dell'Hyderabad, nell'India centrale, che, come il Junagadh, con un sovrano musulmano e una popolazione a maggioranza induista, era l'opposto del Kashmir. L'11 settembre 1948 le truppe indiane invasero l'Hyderabad, il nizam musulmano venne deposto e questo vasto Stato divenne parte dell'India. Fu anche il giorno in cui morì Mohammad Ali Jinnah. Mentre Kargil era fuori del loro controllo, gli indiani riuscirono a utilizzare una via di terra alternativa per Leh, da Marali nel Punjab orientale attraverso i 4.900 metri del passo Barahacha. Migliaia di portatori e convogli di muli fecero arrivare i rifornimenti, ma gli indiani ritenevano che per salvaguardare i ladakhi avrebbero dovuto riconquistare Kargil e riaprire la via di terra molto più breve. Nell'ottobre 1948, il generale Thimmayya lanciò una controffensiva: impiegando i carri armati, mai utilizzati a un'altezza come quella del passo Zoji la, le forze indiane rioccuparono Kargil e, al terzo tentativo, presero il passo. Il Pakistan fu orgoglioso del fatto che la sua milizia "irregolare", munita soltanto di armi leggere, inflisse circa mille perdite e resistette all'attacco per quasi due mesi. Sul fronte di Punch, l'esercito pakistano si preparava per un'offensiva verso Jammu. «Il piano complessivo», scrive il generale di divisione Sher Ali Pataudi, inviato sul fronte del Kashmir a metà luglio, «era di interrompere la linea di comunicazione delle forze indiane nella valle di Mehndar e nell'area di Punch e di porre quindi la minaccia contro Jammu. Se la sorpresa avesse destato il panico, come ci si aspettava, allora avrei dovuto muovermi verso Jammu con tutta la mia forza di riserva dell'esercito regolare e con i mezzi corazzati e vedere che cosa sarebbe accaduto»91. Durante i combattimenti Pataudi, come molti altri, scoprì di essersi imbattuto nei suoi vecchi commilitoni dall'altra parte delle linee. «Il comandante indiano, Atma Singh, era un mio amico. Disse: "Per l'amor di Dio, fermiamoci". Io dissi: "Non posso fino a quando non ne ricevo l'ordine". Eravamo grandi amici e dovevamo combatterci l'un l'altro. Fu una tragedia»92. Di fatto, il piano per colpire Jammu non fu mai messo in atto.
3.7. Entra in scena
l'ONU
La convinzione di Lord Mountbatten, nonché del governo inglese, che le Nazioni Unite potessero svolgere un qualche ruolo utile nella risoluzione della disputa sul Kashmir fece di quest'ultima una delle prime grandi questioni che l'organismo internazionale, fondato da poco, dovette affrontare. Il governatore generale aveva proposto per la prima volta il ricorso alle Nazioni Unite nel suo incontro del primo novembre 1947 con Mohammad Ali Jinnah, a Lahore. I colloqui del dicembre 1947 tra Neh-
ru e Liaquat Ali Khan, sempre a Lahore, avvalorarono la sua convinzione della necessità di un intermediario: «Mi resi conto che ci si trovava completamente a un punto morto e che l'unica via di uscita era ora quella di chiamare in causa una terza parte con qualche potere o qualcosa del genere. A questo scopo proposi [non per la prima volta] che si facesse intervenire l'Organizzazione delle Nazioni Unite»93. Il primo ministro Liaquat Ali Khan aveva acconsentito a rimettere la disputa all'ONU, comprese le misure per fermare il conflitto e predisporre un programma per il ritiro delle truppe, ma l'India non era disposta a trattare alla pari con il Pakistan. Quando i due primi ministri si videro nuovamente a Delhi verso la fine di dicembre, Nehru informò Liaquat Ali Khan delle propria intenzione di rinviare la contesa all'ONU ai sensi dell'articolo 35 dello statuto delle Nazioni Unite, in cui si prevede che ogni membro può «portare all'attenzione del Consiglio di Sicurezza una situazione il cui protrarsi è probabile che danneggi il mantenimento della pace internazionale». Il primo ministro pakistano era scontento del tono accusatorio del ricorso, «ma pensò di doverlo accettare, dal momento che prima fossero intervenute le Nazioni Unite meglio sarebbe stato»94. Il 31 dicembre 1947 Nehru scrisse al segretario generale dell'ONU: Per allontanare l'idea sbagliata secondo cui stia utilizzando la situazione corrente nello Jammu e Kashmir per trarne vantaggi politici, il governo dell'India intende chiarire che non appena gli invasori saranno scacciati e sarà ristabilita la normalità, il popolo dello Stato deciderà liberamente il proprio destino e tale decisione sarà presa attraverso i mezzi democratici universalmente riconosciuti del plebiscito o referendum.95 Nel gennaio 1948 la questione del Kashmir fu discussa al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, a Lake Success, New York, con le istanze dei delegati indiani e pakistani. Per la noia degli indiani, Sir Zafrullah Khan tenne un discorso a chiare lettere di cinque ore a favore della posizione del Pakistan e contro il perdurare del potere dei Dogra sui kashmiri: «Ciò che non è del tutto noto è il culmine della miseria a cui sono stati ridotti da un secolo di tirannia assoluta e di oppressione da parte del potere Dogra, al punto che è difficile dire quale sia la maggiore tragedia per un kashmiro: la propria vita o la propria morte»96. Il governo indiano credeva peraltro che il Consiglio di Sicurezza, sotto la guida del delegato britannico Philip Noel-Baker, ignorasse il ricorso dell'India e assegnasse uguale considerazione alla posizione del Pakistan97. V. Shankar, segretario privato di Patel, osservò: Le discussioni al Consiglio di Sicurezza sul nostro reclamo contro l'aggressione del Pakistan nello Jammu e Kashmir hanno preso una piega as-
sai sfavorevole. Zafrullah Khan era riuscito, con il sostegno dei membri inglesi e americani, a spostare tutta l'attenzione dalla nostra protesta alla disputa tra India e Pakistan sulla questione dello Jammu e Kashmir. L'aggressione pakistana fu sospinta sullo sfondo grazie alla sua tattica aggressiva nel Consiglio nonché contro la nostra posizione piuttosto mite e di difesa che abbiamo adottato per contrastarlo.'8 Sardar Patel riteneva che, rimettendosi all'ONU, «non solo la disputa si è prolungata, ma le buone ragioni della nostra causa si sono completamente perse nell'interazione della politica delle potenze»99. Il 20 gennaio il Consiglio di Sicurezza approvò una risoluzione che istituiva una commissione, che sarà poi nota come Commissione delle Nazioni Unite per l'India e il Pakistan (UNCIP), per indagare sui fatti relativi alla controversia e mettere in atto «ogni azione di mediazione che possa verosimilmente appianare le difficoltà»100. Le discussioni furono temporaneamente interrotte dalla notizia dell'assassinio del Mahatma Gandhi, il 30 gennaio. Il 21 aprile 1948 venne adottata un'ulteriore risoluzione nella quale si faceva appello al governo del Pakistan affinché «assicurasse il ritiro dallo Stato dello Jammu e Kashmir degli uomini delle tribù e dei cittadini pakistani non normalmente ivi residenti entrati nel paese con lo scopo di combattere». Al governo dell'India fu richiesto di ridurre le proprie forze al minimo, dopo di che si sarebbero realizzate le circostanze per l'indizione di un referendum «sulla questione dell'annessione dello Stato all'India o al Pakistan»101. La Commissione delle Nazioni Unite per l'India e il Pakistan, di cui era membro Josef Korbel, ricevette l'ordine di partire senza indugio per il subcontinente. Al suo ritorno, una nuova risoluzione, adottata all'unanimità dall'UNCIP il 13 agosto 1948, delineò le disposizioni per la cessazione delle ostilità e riaffermò ancora una volta che la decisione finale sul futuro status dello Jammu e Kashmir «dovrà essere individuata in conformità con la volontà del popolo»102. Nell'ottobre 1948 Nehru era a Parigi quale membro delle delegazione indiana all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Nel primo anniversario dell'arrivo delle truppe indiane a Srinagar, scrisse a Patel: Per quanto riguarda il Kashmir, penso sia generalmente riconosciuto che la nostra è una buona ragione, ma la faccenda del referendum e le condizioni che lo regolano occupano i pensieri della gente. Naturalmente non ci si può liberare dell'idea che lo Stato è prevalentemente musulmano e pertanto verosimilmente schierato dalla parte del Pakistan musulmano. Dicono che se ci si è messi d'accordo per indire un referendum, perché ci sono difficoltà ad avere un cessate il fuoco e una tregua?
Nehru parlava già di una divisione del paese su linee «discusse in precedenza, cioè Punch Occidentale, ecc., Gilgit, Chitral, la maggior parte del Baltistan ecc. da assegnare al Pakistan»; ma questa proposta non era accettabile per Liaquat Ali Khan, il quale, come primo ministro, era il principale portavoce pakistano dopo la morte di Mohammad Ali Jinnah nel settembre 1948"". 11 cessate il fuoco venne finalmente imposto il primo gennaio 1949, firmato dal generale Gracey per conto del Pakistan e dal generale Roy Bucher, il quale a breve avrebbe passato le consegne al generale Cariappa, per conto dell'India. Fu l'ultimo documento firmato da due inglesi a nome dei rispettivi dominion a cui avevano concesso l'indipendenza sedici mesi prima. La linea sarebbe stata controllata da un Gruppo di Osservatori Militari delle Nazioni Unite (United Nations Military Observer Group in India and Pakistan, UNMOGIP). Il 5 gennaio 1949, l'UNCIP affermò nuovamente che, una volta firmata l'intesa per la tregua, la questione dell'annessione dello Stato all'India o al Pakistan sarebbe stata risolta attraverso «il metodo democratico di un referendum libero e imparziale»1™. Dal punto di vista pakistano, il cessate il fuoco arrivò quando gli indiani erano militarmente predominanti. «Sapevamo tutti che il cessate il fuoco doveva arrivare», scrive Akbar Khan, «ma la sua accettazione un mese prima avrebbe lasciato Punch come ostaggio nelle nostre mani. Oppure, dopo il rincalzo di Punch, la mancata intesa per un altro mese o due ci avrebbe nuovamente consentito di controbilanciare il vantaggio indiano»"'5. «Il cessate il fuoco ci fu imposto nel momento in cui conveniva maggiormente al nemico», scrive il colonnello Abdul Haq Mirza, che combatté come volontario dall'ottobre 1947. «Agli indiani venne concesso un periodo operativo di quattro mesi per intimidire i male equipaggiati mujaheddin e per riportare al loro ovile ampie distese dei territori liberati. Forse su segnale dell'"alto comando" nemico, la protezione delle Nazioni Unite fu predisposta per salvaguardare gli interessi indiani. Questo è ciò che pensò e disse la gente del cessate il fuoco nel Kashmir»106. Il generale di divisione Pataudi ammette che la giustificazione per l'accettazione del cessate il fuoco era che «a Lahore le nostre truppe sul campo erano scarse e che il rischio era troppo grosso»; riteneva tuttavia che se l'intero piano fosse stato messo in atto, avrebbe potuto raggiungere Jammu «in ventiquattro ore, Pathankot e Gurdaspur nelle successive ventiquattro ore e ciò avrebbe creato un tale shock tra gli indiani che non avrebbero osato muoversi in forze contro Lahore»107. Dopo l'azione del generale Atma Singh a Punch e quella del generale Thimmayya nel Ladakh, gli indiani erano evidentemente in una posizione migliore di quanto fossero stati durante l'anno e avevano inoltre tratto profitto dall'uso della forza aerea, che i pakistani non avevano. Ma anch'essi affermarono che la decisione di imporre il cessate il fuoco fu pre-
sa senza consultare i loro comandanti militari. Non avevano potuto, per esempio, riconquistare il passo Haji Pir sulla strada Uri-Punch, che ritenevano desse ai pakistani un vantaggio strategico; il Baltistan e il Gilgit restarono così sotto il controllo pakistano. Da una prospettiva politica, tuttavia, V.P. Menon riteneva che quando il cessate il fuoco entrò in vigore, «lungo l'intero fronte l'iniziativa era indubbiamente in nostro favore»11". L'obiettivo più importante della politica britannica era di garantire un cessate il fuoco mentre gli ufficiali inglesi erano ancora in carica e in grado di controllare la situazione, nel timore che il conflitto si aggravasse trasformandosi in una guerra su vasta scala. La linea del cessate il fuoco divise il Punch, lasciando la città omonima sul versante tenuto dagli indiani, mentre, malgrado questi avessero ripreso Kargil, Skardu rimase nel settore pakistano. La frontiera ufficiosa si estese pertanto da nord-est alle indefinite distese gelide del ghiacciaio Siachen. Approssimativamente un terzo dell'intero Stato era sotto il controllo del Pakistan.
3.8. La "verità" dell'India «Le radici della disputa sul Kashmir sono profonde», concluse il terzo e conclusivo rapporto dell'UNCIP, che compì tre missioni nel subcontinente tra il 1948 e il 1949. «Forti sotto le correnti, politiche, economiche, religiose, e in entrambi i dominion esse hanno agito, e agiscono, contro una soluzione facile e rapida. E indispensabile che si raggiunga una composizione della questione»109. Ma le rispettive posizioni di India e Pakistan, delineate dalla Commissione, non andavano verso una soluzione facile e i termini dell'articolo 35, ai sensi del quale l'India aveva rinviato la controversia alle Nazioni Unite, non davano a queste ultime alcun mandato per imporre una soluzione, bensì soltanto per esprimere raccomandazioni. Allora come oggi, il governo indiano si considerava in possesso legittimo dello Stato dello Jammu e Kashmir in virtù dell'atto di annessione dell'ottobre 1947, firmato dal maharajah e dall'allora governatore generale Lord Mountbatten. Questa premessa sostanziale costituì la legittimità della presenza indiana nello Stato e dell'autorità su di esso. L'appoggio che il Pa kistan diede agli uomini delle tribù che invasero lo Stato fu pertanto, secondo gli indiani, un atto ostile e il coinvolgimento del suo esercito regolare rappresentò un'invasione del territorio indiano. L'India affermò che il suo esercito era in Kashmir per una questione di diritto; l'autorità in materia di difesa, di comunicazioni e di relazioni esterne dello Stato era una diretta conseguenza dell'atto di annessione. Il Pakistan era dunque considerato come non avente alcun locus standi nel Kashmir. Il problema della smilitarizzazione doveva tenere conto della necessità di lasciare nello Stato truppe indiane e statali sufficienti per
salvaguardare la sicurezza dello Stato, di cui l'Unione era appunto responsabile. Nell'ottica indiana il referendum, al quale Nehru aveva acconsentito, si sarebbe svolto per confermare l'annessione, già compiuta da tutti i punti di vista. Come riferì la Commissione delle Nazioni Unite: «L'aspetto fondamentale della posizione dell'India è l'opinione secondo cui essa è in Kashmir di diritto e il Pakistan non può aspirare a una pari dignità nella contesa». Il Pakistan si trovava illegalmente nel Kashmir e non aveva alcun diritto in materia. Le truppe Azad avrebbero dovuto essere sciolte e disarmate in quanto rappresentavano forze in rivolta contro il governo dello Stato.
3.9. La "verità" del Pakistan La posizione del Pakistan era basata sulla convinzione che l'annessione dello Stato dello Jammu e Kashmir all'India fosse da ritenersi illegale; la legalità dell'adesione, secondo gli indiani «di fatto e di diritto fuori questione», era dunque priva di ogni fondamento. Lo Stato dello Jammu e Kashmir aveva stipulato un patto di non intervento con il Pakistan il 15 agosto 1947, che gli impediva di avviare qualsiasi tipo di negoziato o intesa con qualunque altro paese. Oltre a ciò, il Pakistan affermava che il 26 ottobre 1947 il maharajah dello Jammu e Kashmir non aveva più alcuna autorità per firmare un atto di annessione, giacché il popolo si era ribellato con successo, aveva rovesciato il suo governo e lo aveva obbligato a fuggire da Srinagar, la capitale. L'atto era stato determinato dalla violenza e dalla frode e in quanto tale era privo di validità sin dal principio; l'offerta del maharajah venne accettata dal governatore generale dell'India, Lord Mountbatten, a condizione che, non appena ristabilito l'ordine pubblico, la questione fosse decisa da una consultazione popolare. Il Pakistan riteneva peraltro che il movimento Azad fosse indigeno e spontaneo, frutto della repressione e del malgoverno del maharajah; le incursioni tribali erano altrettanto spontanee e si erano scatenate per effetto dei racconti sulle atrocità perpetrate contro la popolazione musulmana del Kashmir e del Punjab orientale. L'ingresso delle forze pakistane nel paese fu necessario per proteggere il proprio territorio dall'invasione delle truppe indiane, per arginare il movimento di un vasto numero di profughi spinti in Pakistan davanti all'esercito indiano e per impedire al governo dell'India di presentare al mondo un fatto compiuto prendendo possesso dell'intero Stato con la forza. «E opinione del Pakistan che la sua azione nel prestare aiuto al popolo del Kashmir sia molto meno soggetta a critiche di quanto non lo fosse l'intervento dell'India su richiesta di un sovrano autocratico. Il Pakistan considera di avere uno statuto identico a
quello del governo dell'India e di detenere, come parte nella disputa, uguali diritti e riguardi»110.
3.10. La "verità" della Gran Bretagna Le autorità britanniche erano convinte di avere fatto tutto il necessario per dare al subcontinente la sua indipendenza. I futuri pakistani credevano tuttavia che il loro paese non fosse stato favorito allo stesso modo dell'India, a causa della presenza di Mountbatten quale governatore generale dell'India e del rancore che essi ritenevano nutrisse perché non gli era stato offerto di ricoprire la stessa carica per il Pakistan. Ma ciò di cui non erano a conoscenza erano le perplessità che questi aveva espresso nell'accettare l'incarico di governatore generale di un dominion e non dell'altro. Come registrò il suo capo di Stato maggiore, il generale Ismay, Mountbatten aveva preso in seria considerazione l'idea di dire al Congresso di non poter diventare governatore generale della nuova India, «con il pretesto che avrebbe potuto essere accusato di avere deliberatamente favorito l'India nel suo piano di spartizione» e che pertanto sarebbe dovuto «svanire»; ma il governo inglese riteneva vi fossero «forti ragioni» perché egli accettasse la carica. Primo, perché il Congresso sarebbe stato fortemente offeso nel vedere disdegnata la sua «Corona» e, dal momento che ovviamente non l'avrebbe offerta a un altro inglese, sarebbe stato annullato ogni miglioramento nelle relazioni tra inglesi e indiani. Secondo, il Congresso sarebbe stato furibondo con Jinnah per avere «una volta di più rotto le uova nel paniere»; ogni opportunità di buoni rapporti tra i due nuovi dominion e di una equa divisione delle risorse si sarebbe dileguata. Terzo, gli ufficiali inglesi che restavano in India avrebbero probabilmente rifiutato di rimanere se Mountbatten e il suo staff fossero partiti. Quarto, anche gli stati indiani avrebbero probabilmente sentito che la loro unica possibilità di ottenere «un trattamento onesto» da parte del Congresso sarebbe sfumata. Come riferì Ismay, quando l'ex viceré si recò in Inghilterra per discutere la questione con Attlee e i leader dell'opposizione, prima di decidere finalmente di ricoprire la carica di governatore generale dell'India, ebbero luogo molte discussioni «agitate e prolungate». Mountbatten acconsentì a condizione che il re, il governo di Sua Maestà e l'opposizione «desiderassero fortemente che lo facesse»111. Un altro settore chiave di influenza inglese, che fornì i germi per le critiche degli anni successivi, fu il ruolo nelle Forze Armate. A causa della dipendenza degli eserciti del Pakistan e dell'India dagli ufficiali inglesi, entrambi i paesi ritennero di essere stati svantaggiati durante la guerra nel Kashmir: il Pakistan perché il generale Gracey aveva rifiutato di inviare
truppe quando Jinnah gli aveva chiesto di farlo; l'India poiché, invece di incoraggiare il contrattacco e la riconquista dell'area intorno a Mirpur e Muzaffarabad fintantoché aveva la supremazia militare, il generale Bucher insistette per un cessate il fuoco. Ma, dal punto di vista inglese, l'obiettivo dei due comandanti era di impedire una guerra tra dominion, che avrebbe messo gli uni contro gli altri uomini che di recente erano stati commilitoni.
4. Statuto speciale
Il Kashmir è sempre stato speciale. Nel 1947 si è unito all'India in circostanze speciali e con una speciale protezione della sua autonomia [...] qualcosa che i partiti politici indiani spesso dimenticano. TAVLEEN SINGH 1
L'atto di annessione, che costituì il fondamento del futuro rapporto dello Jammu e Kashmir con l'India, accordò allo Stato uno statuto speciale non concesso ad altri ex principati. Legalmente, la giurisdizione dell'Unione riguardava soltanto la politica estera, la difesa e le comunicazioni; era inoltre previsto che l'annessione fosse confermata con una consultazione popolare, sotto gli auspici delle Nazioni Unite. Negli anni a venire, il governo indiano cercò di integrare nella struttura federale ciò che controllava del principato originario dello Jammu e del Kashmir, noto anche come Stato dello Jammu e Kashmir. La volontà del popolo, tuttavia, non fu mai accertata in modo tale da far percepire alla gente che la questione fosse risolta. La storia di quel che accadde allo «statuto speciale» dello Stato spiega parzialmente gli eventi odierni.
4.1. La fine dei Dogra Hari Singh aveva esitato ad aderire all'India prima della spartizione perché voleva esser certo di poter conservare l'autorità sul suo Stato. «Nehru voleva che lasciasse il potere e lo consegnasse allo sceicco Abdullah», disse l'ex aiutante di campo del maharajah, il capitano Dewan Singh2. Quando finalmente aderì all'India, dopo l'invasione tribale, il suo potere contrattuale si era fortemente ridotto. Nondimeno, l'atto di annessione precisava un certo numero di garanzie per la sua sovranità: Nulla in questo Atto potrà essere preso in considerazione al fine di impegnarmi in alcun modo all'accettazione di qualunque futura costituzione dell'India [...]. (Articolo 7) Nulla in questo Atto ha effetto sul permanere della mia sovranità nello e sullo Stato [...]. (Articolo 8)'
Per Hari Singh, l'aspetto peggiore dell'annessione era il fatto di dover trattare non soltanto con il primo ministro indiano, Jawaharlal Nehru, con il quale aveva scarsi rapporti, ma anche con l'uomo che per oltre vent'anni gli si era così opposto con tanta costanza, lo sceicco Abdullah. Nehru riteneva che «nelle peculiari condizioni del Kashmir, con la sua maggioranza musulmana, fosse essenziale, per ragioni sia nazionali sia internazionali, coinvolgere appieno lo sceicco Abdullah nel governo dello Stato»4. Il 13 novembre 1947 scrisse al maharajah: «L'unica persona che possa fare quel che si deve nel Kashmir è lo sceicco Abdullah. E chiaramente la personalità più popolare del paese. [...] In lui si deve riporre piena fiducia. [...] Proporrei di tenervi in stretto contatto personale e trattare con lui direttamente, e non tramite intermediari» 5 . Il sovrano non accolse sempre con favore le proposte del primo ministro indiano, soprattutto a proposito dello sceicco e, in genere, comunicò più liberamente tramite Sardar Patel, con il quale aveva un'intesa migliore. Quest'ultimo era meno legato ai programmi socialisti di Abdullah di quanto non lo fosse Nehru e chiarì che i diritti e i privilegi del maharajah avrebbero dovuto essere rispettati. Nehru continuava comunque ad attribuire importanza alla leadership "popolare"; il primo dicembre scrisse a Mahajan, che era rimasto primo ministro dello Stato: Dal nostro punto di vista, quello dell'India, è della più vitale importanza che il Kashmir possa restare nell'Unione Indiana. [•••] Ma per quanto noi possiamo volerlo, in definitiva non si può fare se non con il consenso della massa della popolazione. Anche se le forze militari tengono da un po' il Kashmir, si potrebbe verificare in futuro una forte reazione contraria.6 Il primo incarico politico dello sceicco Abdullah nel governo dello Stato dello Jammu e Kashmir fu quello di capo dell'amministrazione di emergenza, ma i molti anni di opposizione al maharajah lo portarono a non avere né l'esperienza né le qualità richieste a un buon amministratore. La comunicazione con Hari Singh restava tesa. «Mio padre», ha scritto Karan Singh, «apparteneva alla classe feudale e, con tutta la propria intelligenza e abilità, non poteva accettare il nuovo ordine e mandar giù le politiche populiste dello sceicco Abdullah. Questi, d'altro canto, benché fosse un leader carismatico e un eccellente oratore in kashmiri, era intriso di un atteggiamento aspramente anti-Dogra e antimonarchico»7. «Praticamente in ogni questione», lamentò Mahajan a Patel, Abdullah «ignora ed elude Sua Altezza e mostra quotidianamente crescenti tendenze al comunitarismo»8. Il programma dello sceicco per un "Nuovo Kashmir" prevedeva per il sovrano nient'altro che un ruolo simbolico. Nello spiegare le sue rivoluzionarie riforme della terra, egli condannò «i diritti e i privilegi speciali del
maharajah», al quale, quando il Kashmir era stato venduto a Gulab Singh dagli inglesi nel 1846, era stata concessa come proprietà personale tutta la terra coltivata. Ciò significava che la maggior parte degli 890.000 ettari di terra coltivabile apparteneva al maharajah o agli jagirdar e ai piccoli proprietari denominati chakdar, indù dello Jammu. I contadini musulmani non avevano alcuna garanzia di possesso e in passato erano stati costretti a emigrare in India durante la stagione invernale o a morire di fame. Le riforme della terra di Abdullah stabilivano la massima proprietà terriera in 9,2 ettari, il resto era riservato agli affittuari. Per lo smantellamento degli enormi latifondi dei ricchi non sarebbe stata offerta alcuna compensazione. Lo sceicco e Hari Singh discussero anche sulla distribuzione dei ministeri governativi e la nomina di musulmani a cariche di rango più elevato. Non concordarono tra l'altro sulla creazione di una Guardia Nazionale, circostanza che avrebbe implicato il dotare di armi i musulmani della valle. Mahajan fu attaccato per aver deviato le armi destinate alla Guardia Nazionale alla filoinduista RSS. Il maharajah era inoltre ritenuto responsabile di finanziare il Praja Parishad, un'organizzazione nazionalista indù fondata nello Jammu. Tra i due uomini perdurava l'ostilità personale risalente ai tempi precedenti l'indipendenza. Lo sceicco Abdullah condannava apertamente Hari Singh per la sua partenza per Jammu la notte del 25-26 ottobre; lo accusava inoltre di essere colpevole delle atrocità compiute contro i musulmani ed era irritato perché le sue riforme venivano ostacolate. L'antipatia tra Abdullah e Mahajan rese il loro rapporto quasi impossibile, al punto che nel dicembre 1947 quest'ultimo minacciò di dimettersi se soltanto il maharajah lo avesse lasciato andare: «L'amministrazione qui ha metodi hitleriani e si sta facendo una cattiva nomea. Prima ne sarò fuori meglio sarà, perché io non desidero affatto essere associato a un governo criminale. Questo non è per nulla un governo di diritto», scrisse a Sardar Patel l'I 1 dicembre9. Il 31 gennaio 1948, mentre continuava la guerra e si discuteva del Kashmir al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il sovrano scrisse una lunga lettera a Patel, illustrando le proprie rimostranze: Talvolta sento che dovrei ritirare l'adesione all'Unione Indiana. Quest'ultima l'ha accettata soltanto in via provvisoria e se non potesse recuperare il territorio e alla fine decidesse di accogliere la decisione del Consiglio di Sicurezza, che potrebbe risolversi nel fatto che saremo consegnati al Pakistan, allora è inutile rispettare l'annessione dello Stato all'India. Propose persino di guidare le proprie truppe in battaglia contro gli uomini delle tribù, con i soldati indiani come volontari: «Sono stanco della
mia vita attuale ed è molto meglio morire lottando che guardare impotente la straziante miseria del mio popolo»10. Sia Nehru sia Patel erano contrari ad annullare l'annessione, e il secondo scrisse una breve lettera a Hari Singh dicendogli che «il parere della disperazione è del tutto inopportuno»". Ma la posizione del maharajah stava per divenire più debole. Il 2 marzo 1948 Mahajan si dimise infine dalla carica di primo ministro. Al suo posto fu insediato lo sceicco Abdullah e la spaccatura con Hari Singh si approfondì. Nehru, che prendeva stabilmente partito per lo sceicco, era preoccupato per l'effetto che una dimostrazione di forza da parte del maharajah avrebbe avuto sia sul luogo sia all'estero: «Se il popolo o il Consiglio di Sicurezza percepiscono che il maharajah è ancora abbastanza forte da ostacolare od opporsi ai rappresentanti del popolo, la nostra causa sarà molto indebolita e la conquista della gente del Kashmir alla nostra causa ne sarà ostacolata»12. Scrisse a Patel quanto fosse impopolare il maharajah «tra quasi tutti quelli che incontra, compresi gli stranieri»". Particolare imbarazzo destò il rifiuto di Hari Singh di mettere a disposizione il suo allevamento di cavalli fuori Jammu come campo per 40.000 profughi. «Nel frattempo i bambini muoiono per le strade di Jammu. Puoi immaginarti la reazione pubblica»14. Abdullah era in conflitto con il maharajah anche sul futuro delle Forze Armate dello Stato dello Jammu e Kashmir, di cui Hari Singh restava comandante in capo. Lo sceicco riteneva invece di dover ricoprire lui stesso quella carica, in qualità di primo ministro; in alternativa, il controllo amministrativo sarebbe dovuto passare all'esercito indiano (come alla fine avvenne). La persistente assenza del maharajah da Srinagar non solo destava risentimento, ma implicava contatti minimi con Abdullah. Mentre il suo prestigio declinava, il maharajah cercava di conservare le vestigia della sua gloria passata ricordando a Patel le necessarie salve di cannone per le festività indù e per il suo compleanno, che cadeva il 27 settembre: «Verranno pertanto molto gentilmente emanate sollecite istruzioni»15. Siccome i rapporti tra i due continuavano a peggiorare, e lo sceicco chiedeva l'abdicazione, Sardar Patel fu costretto a consigliare a Hari Singh una vacanza fuori dallo Stato, che sarebbe stata utile per tutti gli interessati. Nel maggio 1949 invitò dunque lui e la maharani ad andare a Delhi. Il figlio Karan Singh riferisce: «Sardar disse a mio padre gentilmente, ma con fermezza, che nonostante le pressioni per la sua abdicazione da parte dello sceicco Abdullah, il governo dell'India riteneva sufficiente che lui e mia madre si assentassero dal paese per alcuni mesi». Karan, che aveva appena compiuto diciotto anni, sarebbe stato nominato reggente. Mio padre era tramortito. Benché le voci sul fatto che potesse essere cacciato dallo Stato fossero nell'aria da un po' di tempo, mai avrebbe creduto che persino Sardar potesse consigliargli di adottare questa linea.
Uscì dall'incontro con il viso terreo [...] mia madre andò nella sua stanza, si gettò sul letto e scoppiò in lacrime. 16
In meno di due anni dalla firma dell'atto di annessione, nel quale aveva affermato che avrebbe continuato a usufruire «dell'esercizio di tutti i poteri, dell'autorità e dei diritti attualmente goduti quale sovrano di questo Stato», Hari Singh fu costretto a lasciare il potere. Inizialmente, considerò la propria assenza soltanto come un episodio transitorio: «Gradirei che mi fosse garantito che questo passo non è il preludio a una qualunque ipotesi di abdicazione. Desidererei chiarire adesso che non posso prendere in considerazione tale idea neanche per un istante», scrisse a Patel il 6 maggio17. Ma soltanto le sue ceneri tornarono nel Kashmir, portate dal vecchio aiutante di campo, il capitano Dewan Singh, che lo servì fedelmente fino alla fine. Secondo quest'ultimo, all'ex maharajah non mancarono la bellezza della valle né le montagne: «Era una persona di grandissimo buon senso e di grande lungimiranza, per cui una volta che gli fu chiesto di andarsene, per lui era una piccolezza pensare a queste montagne»18. Morì a Bombay nel 1962. Prima come reggente, poi come sadar-i-riyasat, suo figlio Karan Singh continuò a occuparsi del Kashmir; ma la dinastia Dogra, fondata dal bisnonno di Hari Singh un secolo prima, era finita.
4.2. Abdullah al potere Per il Leone del Kashmir, gli anni dal 1947 lo avevano trasformato da fervente attivista politico contro il dominio dei Dogra nel principato dello Jammu e Kashmir a primo ministro di quella parte dello Stato conservata militarmente dall'India dopo l'invasione tribale. Per oltre trent'anni, fino alla morte, nel 1982, in carcere o al potere, lo sceicco Abdullah ha dominato la scena politica. La sua immensa popolarità nella valle traeva fondamento dalla lunga lotta contro i Dogra; non favorì la propria comunità benché fosse religioso e, all'inizio, il suo socialismo progressista fu bene accolto sia dagli induisti sia dai musulmani. Faceva direttamente appello alla povera gente e di conseguenza era sgradito ai ceti elevati di entrambe le comunità. Per i sostenitori della Muslim Conference, che rappresentavano gli interessi dei musulmani favorevoli all'annessione al Pakistan, il suo atteggiamento laico equivaleva a un tradimento dell'Islam, mentre per gli aristocratici indù, vittime inevitabili delle sue radicali riforme della terra, le sue politiche socialiste avevano implicazioni comuniste che avvantaggiavano la comunità islamica. La partenza di entrambi i genitori dallo Stato lasciò Karan Singh, sulla soglia della sua carriera politica, «in equilibrio tra il peso del passato e i
fardelli del futuro»' 9 . Toccava a questo diciottenne, sostenuto da Nehru — con il quale, a differenza di suo padre, aveva stretti rapporti - , creare un rapporto equilibrato con Abdullah, ora al culmine della propria potenza. «In tutte le mie azioni, dovevo cercare di tenere una linea intermedia tra l'apparire sottomesso allo sceicco da un lato e offendere lui e Jawaharlal dall'altro»21'. Il cessate il fuoco con il Pakistan era entrato in vigore da gennaio e Abdullah era deciso ad andare avanti rapidamente con i suoi programmi per il "Nuovo Kashmir". «Appena il tuono dei cannoni si placò, ci accingemmo a mettere in ordine il nostro Stato»21. Incoraggiato dalla statura di primo ministro, era stato felice di professare la propria obbedienza sia a Nehru sia all'India: «Abbiamo deciso di collaborare e morire con l'India», aveva detto a una conferenza stampa dopo essere diventato primo ministro nel 194822. Il suo programma di riforme agrarie era inteso a recare beneficio ai contadini e «consolidò ulteriormente il loro vincolo con l'India», scrive M J . Akbar, «perché essi compresero - e Abdullah disse loro - che una riforma siffatta non sarebbe mai stata possibile in un Pakistan che proteggeva il feudalesimo e la grande proprietà terriera»23. Fedele in pubblico all'India, Abdullah non perse mai di vista la cosiddetta "terza opzione", ovvero l'indipendenza. Quando nel gennaio 1948 visitò gli Stati Uniti insieme ad altri rappresentanti dell'India alle Nazioni Unite, parlò apertamente in favore dell'annessione, ma in privato incontrò Warren Austin, l'ambasciatore statunitense presso le Nazioni Unite. In un telegramma inviato al proprio segretario di Stato, questi riferì che Abdullah era stato impaziente di far notare «che esiste una terza alternativa, cioè l'indipendenza [...] egli non vuol vedere il proprio popolo lacerato dai dissensi tra India e Pakistan. Sarebbe molto meglio se il Kashmir fosse indipendente e cercasse l'aiuto degli Stati Uniti e della Gran Bretagna per il proprio sviluppo». Austin assicurò tuttavia al segretario di Stato: «Io, naturalmente, ho incoraggiato questa linea e sono persuaso che abbia compreso molto bene da che parte stiamo in questa faccenda»2,1. Qualunque conversazione lo sceicco abbia avuto con personalità americane, la politica ufficiale degli Stati Uniti assecondò l'assimilazione di tutti i principati all'India o al Pakistan, nel timore di una "balcanizzazione" del subcontinente, circostanza che avrebbe potuto destabilizzare l'area e contrastare gli interessi statunitensi. In un albergo di New York, lo sceicco incontrò anche una parte della delegazione pakistana, tra cui il dottor Taseer, consigliere di Sardar Muhammad Ibrahim Khan, presidente dell'Azad Jammu e Kashmir - quella porzione dell'ex principato situata a ovest della linea del cessate il fuoco, sotto il controllo pakistano - e Chaudhri Muhammad Ali, ora segretario generale del governo del Pakistan. Quando questi gli chiesero quale soluzione prevedesse per il Kashmir, rispose:
Soltanto questo, che il Kashmir dovrebbe essere uno Stato indipendente, libero sia dall'India sia dal Pakistan. Sarebbe una soluzione accettabile per tutti, una soluzione salvafaccia. Dopo, una volta divenuto indipendente, sarà naturalmente più vicino al Pakistan, innanzitutto per la religione comune e in secondo luogo perché Lahore è vicina e Delhi è lontana. Non sarebbe una soluzione dannosa per il Pakistan.
Chaudhri Muhammad Ali protestò che l'India avrebbe congiurato contro un tale scenario, ma Abdullah gli disse di «riporre un po' di fiducia nei kashmiri, che non prenderanno parte a complotti contro il Pakistan e non si faranno corrompere». Le sue parole di congedo ammonivano: «Verrà il tempo in cui dovrete ammettere che il Kashmir dovrebbe essere indipendente, ma allora non sarà possibile. Se lasciate la questione in sospeso adesso, sarete voi gli sconfitti»25. La natura restrittiva dell'adesione di Hari Singh all'India implicava che, senza un nuovo accordo, non si sarebbe verificata una totale integrazione e, fino a quel momento, il Kashmir avrebbe conservato il proprio statuto speciale. Lo sceicco Abdullah insisteva quanto il maharajah sul fatto che New Delhi non aveva alcun diritto di estendere la propria giurisdizione sul paese al di là dei tre campi concordati nell'atto di annessione, cioè gli affari esteri, la difesa e le comunicazioni. Tale statuto speciale venne dunque introdotto nella Costituzione indiana, dapprima nella bozza, come articolo 306-A, e poi perfezionato quale articolo 370. «Questo articolo», disse N. Gopalaswami Ayyangar, che lo propose all'Assemblea Costituente dell'India nell'ottobre 1949, «prospetta uno statuto speciale per il Kashmir in virtù delle sue particolari condizioni. Quest'ultimo non è nella posizione di fondersi con l'India. Noi tutti speriamo che in avvenire lo Jammu e Kashmir superi gli ostacoli e confluisca completamente nell'Unione, come il resto degli stati»26. Nella bozza finale riesaminata, venne omessa la clausola relativa ai diritti fondamentali e ai principi direttivi. «I leader dello Stato non si resero affatto conto», scrivono Teng e Kaul, «di avere conferito al governo un'autorità illimitata per cui chiunque lo avesse avuto in mano, avrebbe assunto poteri dittatoriali tali da poter essere amministrati in modo assoluto»27. L'iniziale isolamento economico del Kashmir, messo in atto attraverso dazi doganali che fornivano entrate assai necessarie, ma a danno del progresso economico, rappresentava, nell'ottica indiana, un altro aspetto insoddisfacente dei rapporti tra i due paesi. A livello politico, lo sceicco Abdullah cominciò a perseguire una propria linea. «Sembra agire in maniera indipendente ed è estremamente critico, se non ostile, verso di noi», scrisse Patel a Nehru 0 27 giugno 1950. Abdullah era peraltro rimasto in contatto con i suoi vecchi compagni, che si erano ora stabiliti al di là della linea del cessate il fuoco, nell'Azad Kashmir controllato dal Pakistan. «In particolare, mi riempiono di apprensio-
ne le manovre dello sceicco Sahib per avere un colloquio separato con Ghulam Abbas»28. Patel era preoccupato soprattutto daU'«atteggiamento dello sceicco Sahib, dalla sua incapacità di fronteggiare le infiltrazioni comuniste nello Stato e i dissensi all'interno della National Conference. Pare che sia lui sia quest'ultima stiano perdendo il loro ascendente sulla gente della valle e stiano diventando piuttosto impopolari»29. Nell'articolo 370 era prevista un'Assemblea Costituente con cento seggi, un quarto dei quali era riservato ai rappresentanti della parte di Stato conservata dal Pakistan. Nel 1951, si tennero le prime elezioni post-indipendenza del Kashmir. Lo sceicco e il suo partito conquistarono incontrastati settantacinque seggi, principalmente perché la consultazione fu boicottata dal Praja Parishad. Il Pakistan protestò che l'indizione delle elezioni pregiudicava l'esito di un referendum. Tuttavia, Abdullah continuò a proclamare pubblicamente il proprio sostegno alla definitiva annessione all'India. In un memorabile discorso del 5 novembre 1951, alla prima sessione dell'Assemblea Costituente dello Jammu e Kashmir, esaminò le variabili di una futura annessione al Pakistan, all'India o dell'indipendenza. In conclusione, si mise dalla parte dell'India per ciò che il suo laicismo significava per i kashmiri: Dopo secoli, siamo giunti al porto della nostra libertà [...] ancora una volta nella storia di questo Stato, il nostro popolo ha raggiunto il massimo del risultato tramite ciò che chiamerei il classico genio kashmiro della sintesi, nato dalla tolleranza e dal rispetto reciproco. [...] La Costituzione indiana ha posto davanti al paese l'obiettivo della democrazia laica fondata sulla giustizia, la libertà e la moderna sovranità popolare. [...] Il Pakistan è uno Stato feudale in cui una cricca sta cercando di mantenersi al potere [...] dal 15 agosto al 22 ottobre 1947 il nostro Stato fu indipendente e il risultato fu che la nostra debolezza venne sfruttata dal vicino per invaderci.50 La sua principale preoccupazione era che gli ideali di uguaglianza per tutte le comunità propugnati dal Partito del Congresso non aprissero la strada all'intolleranza religiosa. Ma poco tempo dopo, in un discorso a Jammu che turbò gli induisti, criticò l'India per il suo comunitarismo: «Nessuno può negare che lo spirito comunitario esiste ancora in India [...] se nel paese avviene una ripresa del comunitarismo, come possiamo convincere i musulmani del nostro Stato che l'India non intende divorare il Kashmir?»51. Nel luglio 1952 Abdullah riuscì a raggiungere un'intesa con il governo centrale su svariate questioni, intesa che divenne celebre come accordo di Delhi. L'articolo 370 venne accettato: al Kashmir sarebbe stata concessa la propria bandiera, ma quella indiana avrebbe avuto il primato; i kashmiri sarebbero stati cittadini dell'India; il presidente dell'India sarebbe stato il
capo dello Stato dell'intera Unione, Kashmir compreso; il governatore dello Jammu e Kashmir (sadar-i-riyasat) sarebbe stato eletto dall'assemblea legislativa dello Stato (invece di essere nominato da Delhi), ma non avrebbe potuto assumere l'incarico senza il consenso del presidente dell'India. Ma i sospetti rimasero da entrambe le parti. «Agli elementi comunitari non piacque l'accordo di Delhi», scrive Abdullah. «Alcuni giornali arrivarono al punto di scrivere che invece di un Kashmir che aderiva all'India, in realtà era l'India ad avere aderito al Kashmir»52. La popolazione dello Jammu fu scontenta per la evidente perdita di potere politico. «L'annessione dello Stato all'India e l'alba della democrazia per la gente dello Jammu», scrive Balraj Puri, «implicarono il trasferimento dei poteri da un sovrano di base nello Jammu a un'egemonia kashmira» 3 '. All'epoca dell'accordo di Delhi, Puri aveva scritto personalmente a Nehru, avvertendolo del crescente deteriorarsi delle relazioni interne tra le diverse regioni.
4.3. Malcontento nello jammu e nelLadakh Per tutti i primi anni dell'indipendenza, la popolazione dello Jammu trovò difficile rassegnarsi al governo di Srinagar. «Lo Jammu e il Kashmir, che nel 1846 erano uniti, adesso sono regioni di un unico Stato che non si sono adattate l'una all'altra», scrive Balraj Puri. «L'organizzazione politica e amministrativa dopo il 1947 produsse tensioni regionali quanto quella che aveva rimpiazzato. I sentimenti secessionisti nella valle venivano alimentati dal comunitarismo dello Jammu, che a sua volta era provocato dalle paure destate dai secessionisti»34. Con il 53 per cento della popolazione della valle a fronte del 45 per cento dello Jammu, la superiorità numerica era soltanto nominale, ma la parte di quest'ultimo nella nuova struttura di potere era marginale". Quando si era rivolto per la prima volta agli induisti dello Jammu nel novembre 1947, Abdullah li aveva sorpresi con la propria tolleranza. «L'uomo fino ad allora considerato come un nemico degli indù quasi ipnotizzò ogni animo del suo uditorio facendo appello alla pace tra le comunità in nome del Dharma induista, del Signore Krishna e di Gandhi»36. Tuttavia negli anni a venire le tensioni tra le comunità furono esacerbate dalle riforme introdotte dallo sceicco, giacché la sua rivoluzione non era soltanto sociale, ma anche economica. Se gli oppressi erano stati fino ad allora soprattutto i contadini musulmani, quelli colpiti dalle sue innovative riforme della terra ora erano induisti. Il Praja Parishad, radicato nello Jammu, aveva sostenitori influenti nonché legami con altre organizzazioni filoinduiste in tutta l'India. A Delhi anche Nehru doveva combattere con elementi estremisti impazienti di far fallire la sua politica laica. I politici del centro erano fervidi nazionalisti e lo statuto separato del Kashmir al massimo era
tollerato tacitamente. Nell'ottobre del 1951 gli indù ortodossi diedero vita al Jana Sangh, guidato da Shyama Prasad Mookerjee, che puntava ad abrogare l'articolo 370 e a integrare completamente lo Jammu e Kashmir nell'Unione Indiana. Il Praja Parishad considerava la National Conference non solo come un partito della comunità islamica, ma anche come «una copertura per la diffusione dell'ideologia comunista»". Nel febbraio del 1952 si verificarono violenze nelle strade di Jammu e per settantadue ore venne imposto il coprifuoco. Allarmato dal senso dell'accordo di Delhi, il Praja Parishad utilizzò lo slogan «Un Presidente, Una Costituzione, Una Bandiera». Non piaceva l'uso dei titoli particolari, sadar-i-riyasat e primo ministro, invece di governatore e ministro capo utilizzati negli altri stati. Affermando che non avrebbero potuto tollerare che lo Jammu e il Ladakh «cadessero nel dimenticatoio»38, i leader del Parishad accusarono lo sceicco Abdullah di impedire la fusione dello Stato con l'Unione Indiana. A novembre il capo del partito Prem Nath Dogra e uno dei suoi affiliati furono incarcerati da Abdullah, a cui, nel febbraio 1953, il dottor Shyama Prasad Mookerjee scrisse: «Lei sta sviluppando una teoria delle tre nazioni, di cui la terza è il Kashmir. Questi sono sintomi pericolosi»' 9 . Quando 0 dottor Mookerje tentò di andare a Jammu, fu arrestato al confine. La sua morte in carcere per un attacco cardiaco alimentò i sospetti di un gioco sporco e gli elementi di destra non perdonarono mai ad Abdullah di avere schiacciato il loro movimento. La popolazione del Ladakh, di origine tibetana, viveva in un effettivo isolamento e in tal modo aveva scampato il trauma degli scontri tra comunità e dei massacri al momento della spartizione. Durante la guerra, quando i predoni presero Kargil e minacciarono Leh, le relazioni tra le due comunità dei buddisti e dei musulmani si fecero tese, ma ciò nonostante la loro lunga tradizione di amicizia consentì di resistere alla tensione40. Quando subentrò come primo ministro, lo stesso sceicco Abdullah riconobbe le qualità spirituali della comunità buddista del Ladakh: «Il Kashmir è sempre stato la culla dell'amore, della pace, dell'umanità e della tolleranza, create dal buddismo e fiorite nella valle per un migliaio di anni»41. Ma i buddisti della regione erano risentiti per il suo centralismo: non volevano unirsi al Pakistan né essere governati da Srinagar. I ladakhi arrivarono presto ad accorgersi che lo sceicco aveva una scarsa comprensione del loro modo di vivere. E anche lo stesso Jawaharlal Nehru aveva capito che, facendo assegnamento su di lui quale leader politico dello Jammu e Kashmir, sarebbe stato difficile tenere insieme l'impero multirazziale creato da Gulab Singh nel secolo precedente. Nel 1949 l'Associazione Buddista del Ladakh gli aveva inviato una nota in cui si proponeva che la regione fosse integrata in qualche modo con lo Jammu, o per diventare parte di uno Stato indiano o come porzione del Punjab orientale, totalmente separata dall'amministrazione dello sceicco Abdul-
lah in Kashmir. Il piano non fu mai messo in pratica, ma i ladakhi rimasero irrequieti sotto il controllo di Srinagar. Prima dell'annessione del Tibet da parte della Cina, il capo dei lama aveva proposto la secessione e l'unione con quel paese: la loro obbedienza spirituale al Dalai Lama di Lhasa sarebbe così divenuta obbedienza politica. Ma dopo la conquista comunista del 1950, venne meno un contatto vecchio di sette secoli, che aveva influenzato la loro vita religiosa e culturale. Le riforme della terra di Abdullah minacciavano il patrimonio dei monasteri buddisti. Nel 1952 Kushak Bakula, l'abate del monastero di Spituk, considerato il lama capo del Ladakh, dichiarò che, una volta trasferito il potere dal maharajah alla National Conference, «il legame costituzionale che ci vincolava allo Stato è stato infranto e da quel momento siamo moralmente e giuridicamente liberi di scegliere la nostra linea, indipendentemente dal resto dello Stato»42. Vi era ancora un potenziale attrito con la minoritaria comunità islamica di Kargil, che tradizionalmente controllava l'economia del Ladakh, in particolare la fornitura di lana pashmina per i tessitori del Kashmir. Come nello Jammu, la gente della regione considerava il denaro riversato nella valle a proprio discapito e, come sottolinea Balraj Puri, «lo spettro del referendum» ossessionava anche la popolazione dello Jammu e del Ladakh. Il timore di un verdetto a favore del Pakistan o della prevaricazione dei leader kashmiri in relazione all'annessione, fece loro prospettare l'ipotesi di un plebiscito regionale, opzione che lo sceicco Abdullah rifiutò di prendere in esame4'.
4.4. Il referendum e le Nazioni Unite Una delle ragioni per cui nel 1949 Sardar Patel aveva indotto Hari Singh ad assentarsi da Srinagar per «qualche mese» traeva origine dalle «complicazioni derivanti dalla proposta del referendum, allora attivamente perseguita alle Nazioni Unite»44. La visita dell'UNCIP nel subcontinente aveva gettato le basi per la smilitarizzazione e l'indizione del referendum, ma come osservò Josef Korbel all'epoca, e come indicarono i rapporti della commissione, al di là di un'intesa di principio, il terreno d'incontro era molto limitato. Dopo la missione, si raccomandò che l'intero problema fosse affidato a una sola persona, perché gli stessi membri della commissione erano divisi. Nel 1949, il generale A.G.L. McNaughton, presidente canadese del Consiglio di Sicurezza, fu pertanto nominato «mediatore informale» allo scopo di istituire un piano di smilitarizzazione, prima di indire un referendum. Il Pakistan accolse le sue proposte, ma l'India non fece altrettanto. Il 27 maggio 1950 nel subcontinente giunse allora, quale successore unico dell'UNCIP, il giurista australiano Sir Owen Dixon, il cui impegno presso gli indiani nel cercare di risolvere il problema
stavolta non andò sprecato. Patel scrisse a Nehru che Dixon stava lavorando per definire un accordo sulla questione della smilitarizzazione: «Se non stiamo attenti, potremmo cacciarci nei guai perché, una volta decretata la smilitarizzazione, un referendum sarebbe, per così dire, dietro l'angolo»45. Patel tuttavia non visse abbastanza per vedere l'esito dei negoziati: l'«uomo di ferro» del governo indiano, colui che aveva influenzato così profondamente la politica dell'India verso i principati, morì il 15 dicembre 1950. Dopo tre mesi di lunghi negoziati, Dixon avanzò svariate proposte, bollate da Nehru come «una storia da Alice nel Paese delle Meraviglie, piena di indicazioni vaghe»46. In primo luogo, si sarebbe dovuto tenere un referendum regione per regione e il governo esistente avrebbe dovuto essere sostituito da un organismo amministrativo di funzionari dell'ONU; in alternativa, le aree che avessero incontestabilmente votato per il Pakistan o l'India sarebbero state assegnate ai rispettivi paesi, con un referendum nella valle. Lo Stato avrebbe dovuto essere spartito, sempre con un referendum nella valle o, infine, suddiviso lungo la linea del cessate il fuoco. Ancora una volta la questione spinosa era quella della smilitarizzazione, il che fece concludere a Dixon: Mi sono convinto che non si potrà mai ottenere il consenso dell'India a qualunque forma di smilitarizzazione o a eventuali misure per regolare il periodo referendario, cosa che secondo me permetterebbe di condurre un referendum in condizioni sufficienti da evitare intimidazioni o altre forme di influenza e abuso, che metterebbero a repentaglio la libertà e la regolarità del referendum stesso. Senza una tale smilitarizzazione, le truppe Azad locali e quelle regolari pakistane non erano disposte al ritiro dal territorio da loro controllato. La proposta finale di Dixon era di lasciare che India e Pakistan negoziassero le loro condizioni. «Fin qui l'atteggiamento delle parti è stato quello di addossare tutta la responsabilità della questione al Consiglio di Sicurezza o ai suoi rappresentanti, ma non ci sono altri mezzi per risolverla al di fuori di un'intesa tra loro». Rilevò anche gli aspetti singolari del problema: Le parti hanno concordato che il destino dell'intero Stato avrebbe dovuto essere definito da un referendum generale, ma durante un considerevole lasso di tempo non sono riuscite a concordare su nessuna delle misure preliminari evidentemente necessarie prima di organizzare un referendum.47 La decisione dell'ONU di rimandare ulteriormente la discussione sul Kashmir scatenò una tempesta di proteste in Pakistan.
La questione fu brevemente ripresa dal Commonwealth allorché, nel gennaio 1951, durante una riunione dei primi ministri, il premier australiano Robert Menzies propose di stanziare nel Kashmir truppe del Commonwealth, di insediarvi una forza congiunta indo-pakistana e di dare il diritto all'amministratore del referendum di reclutare truppe locali. Il Pakistan acconsentì, ma le autorità indiane rifiutarono, poiché erano scontente del fatto che l'aggressore, il Pakistan, fosse posto sullo stesso piano. In marzo, il Consiglio di Sicurezza discusse ancora una volta del Kashmir e ancora una volta osservò che i due contendenti avevano accettato le risoluzioni del 13 agosto 1948 e del 3 gennaio 1949, con le quali la decisione sul futuro dello Stato dello Jammu e Kashmir era demandata al «metodo democratico di un referendum libero e imparziale»48. La proposta formulata da Gran Bretagna e Stati Uniti raccomandava anche che, in caso di una mancata intesa, si prendesse in considerazione l'arbitrato. Ancora una volta il Pakistan accettò, ma Nehru rispose dichiarando che non avrebbe permesso che il destino di quattro milioni di persone fosse deciso da una terza figura. Korbel, che aveva continuato a seguire gli sviluppi, fu critico nei confronti dell'atteggiamento dell'India: «Ci si poteva attendere che un paese di così indiscussa grandezza, guidato da un uomo della statura e dell'integrità di Nehru, reagisse in modo più favorevole a un valido metodo di cooperazione internazionale, raccomandato dalla Carta delle Nazioni Unite»49. Il dottor Frank Graham, successore di Dixon quale rappresentante dell'ONU per l'India e il Pakistan, che visitò il subcontinente nella primavera del 1951, giunse in un clima di estrema tensione. Suo compito era ancora una volta cercare di attuare la smilitarizzazione in vista di un referendum; e di nuovo i due paesi non seppero accordarsi sul numero delle truppe da lasciare nel Kashmir. In estate truppe indiane si concentrarono lungo i confini del Pakistan occidentale e si diffuse una autentica preoccupazione che i due stati potessero nuovamente far ricorso alla guerra. La classe dirigente pakistana stava peraltro rivedendo la propria politica sul Kashmir. Nel gennaio 1951, Ayub Khan subentrò come comandante supremo dell'esercito pakistano; due mesi dopo, il neonominato capo di Stato maggiore, il generale di divisione Akbar Khan, "eroe" della guerra del Kashmir, venne arrestato con diversi altri per aver organizzato un «colpo di Stato». I loro obiettivi presunti erano il rovesciamento del governo, l'instaurazione di una dittatura militare vicina a Mosca invece che a Londra e l'invio di truppe in Kashmir. Nota come Congiura di Rawalpindi, la lotta di potere tra Akbar e Ayub fu «uno scontro interno al vertice della difesa pakistana tra due prospettive divergenti sulla contesa del Kashmir», scrive Ayesha Jalal50. Essa mostrò inoltre che in Pakistan era diffusa l'opinione che l'Unione Sovietica potesse essere un alleato migliore degli inglesi, accusati di non avere adempiuto la promessa di fornire ar-
mi e munizioni al Pakistan, permettendo di conseguenza all'India di arrivare al fatto compiuto nel Kashmir51. Nell'ottobre 1951, Liaquat Ali Khan fu assassinato da uno sconosciuto proprio nel momento in cui si riteneva fosse in procinto di richiedere il sostegno del mondo islamico52. La tensione con l'India rimase. All'inizio del 1952, con il suo messaggio di Capodanno, Nehru avvertì della possibilità di una guerra su vasta scala se il Pakistan avesse invaso accidentalmente il Kashmir. Il 24 ottobre 1952, il Kashmir Day venne celebrato in un clima di ostilità verso l'ONU per la sua incapacità di risolvere la questione. E, come osservò Korbel, la permanente incertezza si univa a «profondi cambiamenti politici nello Stato, che non solo stanno affievolendo la speranza di un referendum imparziale», ma stavano anche mettendo in pericolo la pace e la democrazia. Per un breve periodo, sembrò instaurarsi un sincero dialogo tra Nehru e Mohammad Ali Bogra, primo ministro del Pakistan: nel giugno 1953 i due discussero informalmente del Kashmir a Londra, dove entrambi si trovavano per presenziare all'incoronazione della regina Elisabetta II. Si tennero colloqui prima a Karachi e subito dopo a Delhi, dove i due primi ministri vagliarono insieme la nomina di un delegato con il proposito di tenere il referendum nell'intero Stato. «Dobbiamo scegliere una strada che non prometta soltanto il maggior vantaggio, ma che sia anche dignitosa e in accordo con la nostra politica», scrisse Nehru a Bakshi Ghulam Muhammad il 18 agosto 195353. Ma la riluttanza del Pakistan a prendere in considerazione un candidato diverso dall'ammiraglio americano Nimitz, disapprovato dall'India, bloccò l'intera procedura. Una tale opportunità non si presentò più. «Per ironia della storia, proprio quando l'India sembrava disponibile a regolare la disputa sul Kashmir, il primo ministro del Pakistan lasciò che l'occasione andasse sprecata», scrive Gowher Rizvi54. Le potenze occidentali, soprattutto gli Stati Uniti, iniziarono a riconsiderare la propria politica verso i due dominion. Inizialmente, i liberal americani vedevano l'India attraverso «un velo romantico», scrive Sam Burke, ma l'insuccesso statunitense, specialmente a proposito della Corea, nell'assicurarsi il sostegno dell'India alla lotta contro il comunismo, nonché l'impegno di Nehru verso una politica di «non allineamento», allontanarono infine gli USA per condurli più vicino al Pakistan. «Per gli americani il maggior problema del momento era il comunismo, per Nehru il colonialismo», scrive Burke. «Gli americani consideravano il socialismo come la via verso il comunismo; Nehru reputava il capitalismo la causa dell'imperialismo e del fascismo». Il Pakistan aveva peraltro una visione del comunismo diversa da quella dell'India, e gli Stati Uniti si disposero a considerare con maggiore favore la sua posizione a proposito del Kashmir. Tale sostegno venne dimostrato all'ONU, quando sia Gran Bretagna che Stati Uniti votarono risoluzioni soddisfacenti per il Pakistan.
La firma da parte del Pakistan dell'accordo per l'aiuto nella difesa comune con gli Stati Uniti, nel maggio 1954, e l'accettazione di aiuti americani furono ritenuti dall'India come uno sconvolgimento dell'equilibrio dei poteri nel subcontinente. Prima che l'accordo fosse siglato, Nehru aveva scritto a Mohammad Ali Bogra: Se si verifica una siffatta alleanza, il Pakistan entra definitivamente nella sfera della guerra fredda. Ciò implica per noi che essa è arrivata alle frontiere dell'India. [...] Inoltre, per noi non può non essere una questione di grave importanza, lei comprenderà, se in Pakistan verrà messo in piedi un vasto esercito con l'ausilio del denaro americano. [...] Tutti i nostri problemi dovranno essere visti sotto una nuova luce." Come ebbe tuttavia a osservare un giornalista indiano, l'accettazione del sostegno occidentale garantì la sopravvivenza del Pakistan. «L'India tenne la pistola alla tempia del Pakistan fino a quando, nel 1954, l'alleanza americana liberò il paese dall'incubo»56. A settembre il paese divenne membro della SEATO e l'anno successivo del patto di Baghdad (poi denominato CENTO), i cui altri membri erano la Turchia, l'Iran e il Regno Unito. In un primo momento, quando venne approvata una risoluzione riguardante il Kashmir, l'Unione Sovietica si astenne dal voto in Consiglio di Sicurezza e, tramite il Partito Comunista dell'India, appoggiò la posizione nazionalista. Tuttavia, nel momento in cui le relazioni con gli ex alleati della seconda guerra mondiale peggiorarono, i sovietici sostennero che gli inglesi utilizzavano il problema del Kashmir per mantenere il controllo di entrambi i dominion. Nel 1952 il loro rappresentante al Consiglio di Sicurezza affermò che lo scopo degli Stati Uniti e della Gran Bretagna era di trasformare lo Stato in un protettorato con il pretesto di fornire assistenza tramite le Nazioni Unite57. Alla fine del 1955, Nikolaj Bulganin e Nikita Kruscev si trattennero a Srinagar, dove la loro visita segnò l'inizio di una nuova fase delle relazioni indo-sovietiche. Affermarono che il popolo del Kashmir aveva chiaramente già deciso di unirsi all'India. «Siamo così vicini che se mai ci chiamerete dalle vette delle vostre*montagne noi appariremo al vostro fianco», disse Kruscev58. I leader cinesi avevano sviluppato la propria strategia nei confronti dello Stato dello Jammu e Kashmir al di fuori della tribuna dell'ONU. Nei primi anni Cinquanta, come l'Unione Sovietica, la Cina affermò che la questione veniva sfruttata dalla Gran Bretagna e dagli USA per i loro obiettivi «imperialisti», per i quali si servivano dell'ONU. Anche quando l'Unione Sovietica iniziò ad assecondare la posizione indiana, la Cina restò neutrale, con cui Nehru era comunque interessato a dar vita a un rapporto speciale. «Per il successo del suo programma di un'Asia risorgente, dalla quale doveva essere eliminato l'influsso occidentale, era essenziale che India e
Cina, i più vasti paesi asiatici, si ponessero in stretta collaborazione», scrive Sam Burke". A sostegno di tale obiettivo, per ragioni di «Realpolitik piuttosto che di moralità», il primo ministro indiano era disposto a chiudere gli occhi sulle azioni cinesi in Tibet. Ma la Cina muoveva verso lo scontro con l'India a causa dei dissensi sulla demarcazione dei confini nell'area dell'Aksai Chin, nel Ladakh, una delle tre zone contese lungo una frontiera di 4.000 chilometri. Tra il 1956 e il 1957, i cinesi avevano costruito inosservati una strada nell'angolo nord-orientale del Ladakh, inospitale e disabitato, che giungeva a un'altitudine di 4.800 metri e forniva un collegamento diretto tra il Tibet e il territorio cinese della provincia di Xinjiang. Quando, nel 1958, le pattuglie indiane incontrarono i veicoli cinesi che utilizzavano la strada, la presenza di questi ultimi era già un fatto compiuto. Nehru sperò di risolvere tutti gli incresciosi incidenti di frontiera con una diplomazia pacifica, ma il risentimento tra il popolo indiano verso le violazioni cinesi del confine fu acuto. Alla fine degli anni Cinquanta, cominciarono gli scontri lungo la frontiera contesa e il Pakistan diede allora inizio a un dialogo con la Cina. Nel 1957, Po Yi-Po, presidente della Commissione Economica cinese, prese accordi affinché un gruppo di funzionari cinesi visitasse la valle di Hunza e Gilgit, da sempre in contatto con la Cina in virtù del tradizionale rapporto di quest'ultima con il Mir di Hunza. Pechino aprì due centri a Hunza e Gilgit per promuovere «la simpatia» tra i due stati60. Zulfikar Ali Bhutto, ministro di Ayub Khan per le Risorse Combustibili e Naturali, «riconobbe in questo conflitto in incubazione tra India e Cina una fonte significativa di potenziale vantaggio diplomatico per il Pakistan, qualora adeguatamente sfruttato», scrive Stanley Wolpert61. Nel 1960 egli divenne ministro per gli Affari del Kashmir, lasciò la delegazione del Pakistan all'ONU e per la prima volta derogò alla posizione ufficiale statunitense sull'appartenenza della Cina all'ONU: invece di porre il veto, il suo paese si astenne. Dal punto di vista dell'India, scrive Louis Hayes, la crescente cooperazione sino-pakistana costituiva «una morsa, con il Kashmir indiano nel mezzo»62. In seguito si cominciò a discutere della costruzione di una strada carrabile da Rawalpindi alla Cina attraverso il passo Khunjerab, che sarebbe stata la prova visibile del crescente legame tra i due paesi63. Verso la fine del decennio, le Nazioni Unite avevano cessato di essere una possibile sede di discussione per la risoluzione della controversa kashmira. Nel 1957, il dottor Gunnar Jarring, presidente svedese del Consiglio di Sicurezza, si recò nel subcontinente per valutare la situazione nello Jammu e Kashmir. Riaffermò la necessità di rispettare l'attuale linea di demarcazione e di escludere l'uso della forza per modificare lo status quo. Il Consiglio di Sicurezza approvò poi una risoluzione in cui si esprimeva preoccupazione per l'«assenza di progressi verso una composizione della controversia» mostrata dal rapporto di Jarring6"1. Nel 1962 il dottor Gra-
ham tornò nuovamente nel subcontinente, ma la bozza di risoluzione, la quale ricordava alle parti i principi contenuti nelle precedenti risoluzioni che richiedevano un referendum, non venne adottata. Per la prima volta, invece di astenersi, l'Unione Sovietica espresse voto contrario. «E ormai del tutto illusorio chiedere un referendum», asserì il rappresentante sovietico, «così come, secondo le parole del rappresentante dell'India, nessuno ovviamente chiederebbe un referendum in Texas, nell'Ohio o in qualunque altro Stato degli Stati Uniti d'America» 65 . Le Nazioni Unite non erano riuscite ad assicurare un referendum, ma l'idea di principio di una consultazione per accertare la volontà della popolazione fu rimessa a una nuova generazione di kashmiri. Che il referendum fosse concordato in un organismo come le Nazioni Unite, significò che quella parte della popolazione contraria all'unione con l'India si trovò ad attendersi un sostegno internazionale a ciò che percepiva come il proprio diritto all'autodeterminazione.
4.5. Azad Kashmir o Kashmir
occupato?
Mentre l'India fa sempre riferimento alla parte dello Stato sotto amministrazione pakistana come al «Kashmir occupato dal Pakistan» ( P O K ) , quest'ultimo lo definisce Azad Kashmir. Ciò significa che, nell'opinione del Pakistan e dei kashmiri Azad, la "libertà" (dal controllo indiano) dovrebbe eventualmente estendersi fino a comprendere l'intero Stato. Tecnicamente, questa stretta striscia di terra montuosa, che copre circa 13.200 chilometri quadrati, fa parte dello Stato dello Jammu e Kashmir quanto la valle, e lo stesso vale per i circa 70.000 chilometri quadrati delle aree settentrionali, che includono la ex Gilgit Agency e il Baltistan. Durante l'invasione tribale del 1947, il 24 ottobre, i ribelli kashmiri avevano istituito un governo in esilio, del quale Sardar Ibrahim Khan venne confermato presidente. Il governo dell'Azad Kashmir si riconobbe come un consiglio «di guerra» il cui obiettivo era la liberazione del resto dello Jammu e Kashmir, nonché l'amministrazione di quella parte dello Stato già sotto il suo controllo. Venne formato un gabinetto con ministri incaricati per Mirpur, per Punch, per la valle del Kashmir e per lo Jammu. Nonostante fosse prevista, non esisteva rappresentanza per la valle del Kashmir. «Ciò rispecchiava il fatto che negli anni Trenta e Quaranta i musulmani della valle erano stati inclini a sostenere il partito della National Conference dello sceicco Abdullah», scrive Leo Rose66. I musulmani di Jammu, Punch e Mirpur appoggiavano invece la Muslim Conference. Tuttavia, «il governo non aveva praticamente nulla da fare, dal momento che il territorio liberato era ancora in uno stato di disordine e di confusione del tutto naturale in quelle circostanze», scrive Muhammd Saraf, il quale, una volta
L'Azad Jammu e Kashmir (Fonte: Azad Kashmir at a Glance, Muzaffarabad, Azad Government of the State of Jammu and Kashmir, 1993)
compreso che non avrebbe più potuto tornare nel versante dello Stato amministrato dall'India, si era stabilito definitivamente in Pakistan67. Nel tentativo di far valere la propria legittimità, il 3 novembre i capi del governo dell'Azad Kashmir si appellarono - tramite il segretario generale dell'oNU Trygve Lie - a diversi capi di Stato, tra cui Clement Attlee, Harry Truman, Josif Stalin e Chiang Kai-Shek, affinché ne riconoscessero la formazione. Ma lo status dell'Azad Kashmir non è mai stato legalmente definito a livello internazionale: non è né uno Stato sovrano né una provincia del Pakistan. Nella sua risoluzione del 13 agosto 1948, l'UNCIP vi faceva riferimento come a territorio da «amministrare dalle autorità locali sotto la vigilanza della Commissione». Una volta entrato in vigore il cessate il fuoco, nel gennaio 1949, l'iniziale ruolo di governo in esilio dell'Azad, con la propria sede a Muzaffarabad, fu presto superato dalle esigenze di dover amministrare giorno per giorno la terra a ovest della linea del cessate il fuoco. Inizialmente la Gilgit Agency, che comprendeva Gilgit, Hunza, Nagar e il Baltistan, si trovò sotto la sua amministrazione, ma nel 1949 subentrò il Pakistan, con la propria amministrazione diretta. Alla scarcerazione, nel marzo 1948, anche Ghulam Abbas andò in Pakistan e si impegnò nel governo dell'Azad Kashmir: in un primo momento fu incaricato di occuparsi dei profughi, che si stimava fossero 200.000, oltre alla popolazione indigena di 700.000 persone. Mir Abdul Aziz era proprio uno di quelle migliaia che fuggirono: «L'effettivo stato di guerra continuava. Venni a piedi, per quasi cinquecento chilometri, camminai nella neve. Persi tutte le unghie dei piedi per la morsa del gelo»68. Alcuni profughi si recarono nelle principali città del Pakistan, la maggior parte rimase a Sialkot, Gujrat e Gujranwala. Altri tornarono a piedi alle loro case a Mehndar e Rajauri dopo il cessate il fuoco del 1949. Nel 1950 fu approvato un decreto, «Norme per le mansioni del governo dell'Azad Kashmir», che aveva la funzione di legge fondamentale. Tutti i poteri esecutivi e legislativi furono conferiti al "Capo Supremo dello Stato", che in realtà era il partito della Muslim Conference, il quale aveva il potere di nominare il presidente, i membri del Consiglio dei Ministri, il presidente della Corte Suprema e gli altri giudici dell'Alta Corte dell'Azad Kashmir. L'autorità assoluta del capo supremo era comunque controllata dal ministero degli Affari del Kashmir (MKA) del governo del Pakistan, istituito nel 1948 e diretto da un segretario aggiunto. «I kashmiri furono naturalmente molto abili nello sfruttare e manipolare alcuni dei poveri, benintenzionati segretari aggiunti, ma vi erano dei limiti sul punto cui si potesse arrivare», scrive Leo Rose6'. Inizialmente, la Muslim Conference era subordinata anche alla Lega Musulmana del Pakistan e, come partito unico dell'Azad Kashmir, di cui Ghulam Abbas restava presidente, era, osservò Josef Korbel, «non più democratica del suo omologo, la National
Conference»70. Ma le relazioni tra Ghulam Abbas e Sardar Ibrahim Khan erano tese: come musulmano dello Jammu, 0 primo non aveva alcuna affinità culturale con Ibrahim, un Suddhan di Punch. I due tentarono un compromesso allorché Ibrahim era presidente e Abbas capo supremo del governo dell'Azad Kashmir, ma il territorio ebbe in effetti due amministrazioni parallele che funzionavano contemporaneamente. Tuttavia i dissensi tra i due uomini politici continuarono fino a quando Ibrahim venne finalmente destituito dalla carica di presidente nel maggio 1950. La comunità indipendentista Suddhan ebbe una dura reazione, con il risultato che nei primi anni Cinquanta il governo Azad non fu in grado di operare in vaste zone del Punch. Secondo i termini dell'intesa, il Pakistan doveva detenere il controllo della difesa, della politica estera, dei negoziati con l'UNICP, la propaganda riguardante il referendum sia nei paesi stranieri sia all'interno, il coordinamento delle disposizioni per i profughi e tutte le attività interne concernenti il Kashmir, come il trasporto e l'approvvigionamento di vettovaglie. Il governo dell'Azad Kashmir aveva autorità sull'amministrazione, sulla pubblicità locale, sullo sviluppo delle risorse economiche entro il suo territorio, nonché sulla gestione quotidiana dello Stato. Alla Muslim Conference furono assegnate funzioni specifiche, in relazione all'organizzazione della propaganda e delle attività politiche nell'intero Stato dello Jammu e Kashmir, oltre che al lavoro organizzativo per il referendum. Il suo obiettivo restava l'unificazione dello Stato e l'unione con il Pakistan. A differenza della National Conference, i suoi leader non coltivavano l'obiettivo dell'indipendenza. Quando Ian Stephens, giornalista britannico ed ex redattore di «The Statesman», visitò Muzaffarabad nel 1953, notò lo strano paradosso per cui, se il governo dello sceicco Abdullah a Srinagar era politicamente più forte, quello dell'Azad Kashmir vantava funzionari più qualificati, molti dei quali erano venuti da Srinagar nel 194771. Nei primi anni, i kashmiri Azad continuarono a premere per un'azione più energica da parte del governo pakistano in favore del loro sviluppo. In quella che era una delle zone più povere dell'ex principato - con l'eccezione dell'area intorno a Muzaffarabad e della più fertile regione attorno a Mirpur, estesa a nord delle pianure del Punjab - , non fu attuata alcuna riforma della terra paragonabile a quelle messe in atto da Abdullah nella valle. Il vecchio sistema feudale era stato abolito, ma le condizioni di vita erano a malapena sopportabili e vi era un disperato bisogno di scuole, ospedali, medici e infermiere. Nel maggio 1954 Ibrahim protestò contro le tangenti, la corruzione e la malversazione, accusando il ministro pakistano degli Affari del Kashmir di prefiggersi la «colonizzazione» dell'Azad Kashmir. In parte per la sua natura tronca e per la generale povertà, l'Azad Kash-
mir rimase un'appendice nella politica del Pakistan, a volte utilizzato quale trampolino di lancio per iniziative nella valle, altre volte trattato come un parente povero, mai riconosciuto al rango di provincia propria dal governo centrale, che continuava a rivendicare l'intero Stato dello Jammu e Kashmir. Allo stesso tempo, per ciò che riguardava la propria sopravvivenza economica, il territorio restò dipendente dal Pakistan. I kashmiri Azad, come quelli della valle, erano in attesa del referendum per risolvere la loro posizione, referendum che il governo pakistano era ovviamente preoccupato che si risolvesse in favore dell'annessione año Stato islamico, se e quando si fosse tenuto. Ma, mentre aspettavano, l'Azad Kashmir divenne un'unità semiautonoma per diritto proprio. «Il bimbo appena nato», scrive Muhammad Saraf, che in seguito divenne giudice capo dell'Alta Corte dell'Azad Kashmir, «che così tanti politici importanti ebbero paura di riconoscere al momento della nascita, si è trasformato, nel corso degli anni, in una struttura enorme, con tutti gli accessori di uno Stato moderno, dalla bandiera ai consigli comunali»72. E per tutto il tempo dell'esistenza dell'«Azad Jammu e Kashmir», per i kashmiri che vivevano al di là della linea del cessate il fuoco esso rappresentava una formula alternativa diversa dall'integrazione nell'Unione Indiana. Talvolta critico verso di esso, lo sceicco Abdullah si tenne comunque in contatto con i suoi leader. «Non vi è dubbio», scrive Alastair Lamb, «che la prospettiva di un accordo tra lo sceicco Abdullah e l'Azad Kashmir, per quella che potrebbe dirsi "una risoluzione interna" della questione, provocasse grande apprensione a New Delhi; e certamente fu un fattore che contribuì alla caduta dello sceicco stesso nel 1953»73.
4.6. L'arresto di Abdullah Nel 1953 Nehru e Abdullah erano ormai lontani. Crescevano i sospetti sul sincero impegno di quest'ultimo nei confronti dell'Unione e anch'egli si era disilluso rispetto al laicismo dell'India. Anche se restava avverso alla teoria delle due nazioni, contrariamente alle sue precedenti aspettative, il Pakistan si stava dimostrando in grado di sopravvivere e vi erano alcuni utili paragoni da fare. Nel suo discorso a Jammu nel 1952 indicò alcuni specifici motivi di insoddisfazione: «Avevo detto al mio popolo che i suoi interessi erano al sicuro in India, ma i musulmani istruiti, ora disoccupati, guardano al Pakistan, poiché, mentre i loro compatrioti induisti trovano le strade aperte in India, essi sono esclusi dall'amministrazione statale»74. Si oppose anche alla discriminazione nei ministeri centrali. «I musulmani erano quasi interamente esclusi dal lavoro nei servizi postali. Invece di battersi per il laicismo, i funzionari di questo ministero facevano esattamente il contrario»75.
Invece di ribadire le precedenti accuse, per cui 0 Pakistan era stato l'aggressore dello Stato nel 1947, lo sceicco cominciò a parlare dei due dominion negli stessi termini. Il suo incontro con Adlai Stevenson nel maggio 1953 fu guardato con allarme; come riportò il «Manchester Guardian», Stevenson aveva affermato che lo statuto migliore per la regione era l'indipendenza76. Malgrado gli americani negassero qualunque ingerenza negli affari del Kashmir, il governo indiano riteneva che la preferenza degli USA per un Kashmir indipendente incoraggiasse Abdullah a pensare allo stesso modo. Il 13 luglio 1953, anniversario del «Giorno del Martire» seguito all'arresto di Abdul Qadir nel 1931, lo sceicco dichiarò che non era necessario che il suo paese divenisse un'appendice dell'India o del Pakistan77. Egli veniva inoltre accusato di gestire uno Stato a partito unico. E le stesse riforme della terra potevano essere eluse dalle persone influenti, che utilizzavano i nomi dei membri della famiglia per incrementare i propri patrimoni. Nel 1953 il governo dovette ammettere che le cooperative, fondate per aiutare i contadini, erano fallite a causa della corruzione e della cattiva amministrazione. L'8 agosto lo sceicco Abdullah, dopo cinque anni di governo, venne destituito dalla carica di primo ministro e messo agli arresti. Il senso di indignazione di fronte alla propria estromissione traspare dalle sue memorie, scritte molti anni dopo il fatto: «Come poteva un patriota, lodato per la sua rettitudine da Jawaharlal Nehru e dal Mahatma Gandhi, trasformarsi in un nemico del paese?»78. Il suo temporeggiamento nel confermare l'atto di annessione non era servito all'obiettivo dell'India di consolidare la propria influenza sul Kashmir. «Da una posizione di sicuro appoggio all'annessione, negli ultimi mesi egli si era spostato verso un atteggiamento completamente diverso», scrive Karan Singh che, in qualità di sadar-i-riyasat, firmò la lettera di destituzione79. Nehru sapeva dell'imminente rimozione dello sceicco, ma sembra che se ne sia deliberatamente disinteressato, lasciando il giudizio agli «uomini sul posto»80. Fin da allora, il ruolo di primo ministro del Kashmir esercitato dallo sceicco Abdullah negli anni 1948-1953 è stato posto sotto esame. Era ancora il nazionalista laico tradito dalle ambizioni indiane di integrare il Kashmir nell'India? O stava pianificando il proprio programma in modo da conservare l'autonomia promessa nell'atto di annessione e contenuta nell'articolo 370 per salvaguardare gli interessi dei suoi conterranei? O tramava per l'indipendenza del suo Stato, come giunse a credere Nehru? «In effetti non so spiegare il suo nuovo atteggiamento se non con l'ipotesi poco benevola che ha perso la padronanza delle proprie facoltà», scrisse questi81. Un siffatto commento - afferma il suo biografo Sarvepalli Gopal - dimostra tuttavia la «totale mancanza di comunicazione» tra due uomini che avevano collaborato assai strettamente per più di vent'anni. B.N. Mullik, capo dell'Indian Intelligence Bureau, fu probabilmente meno
sbrigativo nel valutare il comportamento di Abdullah che cercava uno statuto semi-indipendente per il Kashmir. L'India lo avrebbe protetto, mentre lui avrebbe beneficiato dell'industria del turismo e di altre fonti di ricchezza del Kashmir, libero dalle ingerenze del governo di New Delhi dominato dagli induisti62. Le intenzioni di Abdullah all'epoca vennero giudicate anche dal «Times» di Londra: Lo sceicco ha chiarito di essere contrario tanto alla dominazione dell'India quanto all'asservimento da parte del Pakistan. Rivendica un'autorità sovrana per l'Assemblea Costituente del Kashmir, senza limitazioni da parte della Costituzione indiana, e questa posizione esercita un forte richiamo sui kashmiri di entrambi i versanti della linea del cessate il fuoco. E se il suo movimento di puro nazionalismo dovesse guadagnare terreno, potrebbe benissimo costringere l'India, il Pakistan e le Nazioni Unite a modificare il proprio giudizio sui futuri sviluppi." Ian Stephens, che simpatizzava per il Pakistan, lo incontrò poco prima dell'arresto e lo descrisse come «un patriota kashmiro, pieno di zelo nel tentativo di migliorare la difficile condizione dei suoi contadini; preoccupato per la valle, centro e movente della sua intera vita politica; poco interessato agli affari del resto del subcontinente». E proseguì osservando: «da ciò che ha detto è emerso che in un primo momento non prese sul serio l'idea del Pakistan, né si aspettava che esso, allorché finalmente creato, sopravvivesse. Molti altri, meglio piazzati, si fecero un'opinione altrettanto sbagliata»84. La caduta di Abdullah fu resa possibile soltanto grazie al sostegno fornito a Delhi da parte di alcuni dei suoi più fidati compagni, G.M. Sadiq e Bakshi Ghulam Muhammad, che erano stati con lui sin dagli anni Trenta. Bakshi, di famiglia povera e con un'istruzione limitata, aveva acquisito importanza come braccio destro dello sceicco, ma negli anni dopo l'indipendenza aveva incominciato ad andare per la propria strada. Dal 1948 al 1950 aveva sviluppato un rapporto particolare con Sardar Patel e Karan Singh e, al momento opportuno, acconsentì alla destituzione. Soltanto Mirza Afzal Beg non fu disposto ad accogliere il piano. Nelle prime ore del mattino del 9 agosto, Bakshi venne insediato come ministro capo. Lo sceicco Abdullah non tornò a cariche politiche fino al 1975, dopo un'assenza di ventidue anni, quando ne aveva ormai settanta.
4.7. Bakshi l'edificatore «Nessuno, se non forse lui stesso nei suoi pensieri più intimi», scrive Bilqees Taseer, «poteva aver mai sognato il momento in cui proprio lui, uno con la licenza elementare, sarebbe asceso a vette tali da poter complottare per rovesciare il Leone del Kashmir nel 1953 e prendere il suo posto per un decennale regime dittatoriale e corrotto»85. Il clamore provocato dall'arresto dello sceicco Abdullah non fu sufficiente a destabilizzare il nuovo governo di Bakshi; la destra fu soddisfatta delle sue azioni contro il movimento Praja Parishad, mentre i membri della sinistra erano stati allarmati dagli incontri di Abdullah con politici statunitensi. Anche il Partito Comunista dell'India, che inizialmente aveva dato il proprio appoggio allo sceicco, era deluso. I pakistani, malgrado le loro precedenti critiche nei confronti della posizione filoindiana di Abdullah, reagirono tuttavia in maniera rabbiosa. A Karachi si scioperò e il governo del Pakistan annunciò la cancellazione delle celebrazioni previste in agosto per festeggiare il giorno dell'indipendenza86. Bakshi aveva comunque da offrire al popolo del Kashmir un considerevole pacchetto di provvedimenti, che includeva aumenti salariali per tutti i funzionari e i lavoratori dell'amministrazione. Celebre come Bakshi l'Edificatore, egli riuscì ad assicurare fondi per lo sviluppo economico, l'edilizia e la costruzione di strade. Dal 1947 al 1953 il governo indiano aveva investito cento milioni di dollari nello Stato e costruito cinquecento scuole elementari, mentre durante il periodo di Bakshi si intraprese la costruzione di un tunnel sotto il passo Banihal lungo 2,4 chilometri87. Ancora amareggiato per il proprio licenziamento, Abdullah raccontò in seguito che «per placare i musulmani kashmiri l'India distribuì generose somme di denaro» e lamentò il fatto che Bakshi distribuisse «regalie» ai suoi sostenitori e riempisse «i propri forzieri»88. Ammise tuttavia come nel periodo del governo Bakshi si fossero verificati alcuni sviluppi positivi: per la prima volta erano stati fondati un istituto superiore medico e uno regionale di ingegneria e l'istruzione fu resa libera, dal livello primario a quello universitario. Negli anni Sessanta i kashmiri erano economicamente più ricchi, specialmente se paragonati a quelli dell'Azad Kashmir o a come erano stati ai tempi del maharajah. Compito del nuovo primo ministro era in parte la definizione dei dettagli dell'annessione all'India. Nel 1954 l'Assemblea Costituente ratificò formalmente l'adesione dello Stato dello Jammu e Kashmir, circostanza intesa a legittimare l'atto di annessione firmato da Hari Singh nel 1947; la misura era peraltro diretta a porre fine a ogni discussione sul referendum. Il 13 aprile 1954 furono tolte le barriere doganali tra il Kashmir e il resto dell'India. Rajendra Prasad fece la prima visita ufficiale di un presidente dell'India nello Jammu e Kashmir. Ancora agli arresti, lo sceicco Abdullah
guardava con ansia all'Assemblea Costituente che si accingeva a dare forma a una costituzione per lo Stato. Chiese di assistere alle sedute, ma la richiesta venne respinta. Argomentò pertanto che l'Assemblea Costituente non era nella condizione di ratificare l'atto di annessione, dato che, senza lui e i suoi sostenitori, non rappresentava più la volontà della popolazione. Il 26 gennaio 1957 lo Stato dello Jammu e Kashmir approvò la propria Costituzione, modellata sulle linee guida di quella indiana. Abdullah ne descrisse l'introduzione come una diretta sconfessione dell'impegno indiano a tenere un referendum sotto la supervisione delle Nazioni Unite. Le sue proteste e quelle del Consiglio di Sicurezza furono comunque ignorate. Il passo successivo fu l'elezione di un'assemblea legislativa, le cui funzioni per tutto questo periodo erano state svolte dall'Assemblea Costituente. Le votazioni si tennero nel marzo 1957 e Bakshi fu eletto primo ministro con una maggioranza di sessantotto seggi. Il voto provocò una frattura nella National Conference: G.M Sadiq portò un gruppo scissionista, che comprendeva D.P. Dhar e Mir Qasim, a fondare la Democratic National Conference. Il 9 agosto 1955, due anni dopo la destituzione dello sceicco Abdullah, Mir Afzal Beg aveva a sua volto promosso l'Ali Jammu and Kashmir Plebiscite Front: il 9 agosto di ogni anno fu commemorato dai suoi attivisti come una «giornata nera». Dopo più di quattro anni di carcere, Abdullah fu rilasciato nel gennaio 1958; subito dopo diffuse una dichiarazione a mezzo stampa nella quale ricominciava a parlare del referendum e del diritto di autodeterminazione per il popolo dello Stato. «L'espressione della volontà popolare tramite un referendum è l'unica formula che sia stata concordata dalle parti interessate, e in una grande quantità di divergenze sui dettagli, questo denominatore comune ha tenuto il campo fino a oggi»89. Bakshi, affermò, poteva anche «urlare dalla sommità del passo Banihal» che l'annessione del Kashmir all'India era «definitiva e irrevocabile», ma il suo governo era composto da «.goondas ['delinquenti'], opportunisti e ladri»90. Le autorità indiane considerarono le sue provocatorie affermazioni come il risultato di contatti con il Pakistan, dal quale presumevano fosse finanziato. Dopo soltanto quattro mesi di libertà, in aprile fu nuovamente arrestato e incarcerato per altri sei anni. Stavolta l'accusa contro di lui, insieme ad altri venticinque imputati, compreso Mirza Afzal Beg, era di cospirazione. La nuova carcerazione di Abdullah provocò una reazione di collera in Pakistan, dove i principali attivisti kashmiri - Muhammad Saraf, Sardar Qayum Khan e Ghulam Abbas - decisero di dare vita a un Kashmir Liberation Movement ( K L M ) , attraversando la linea del cessate il fuoco; il loro slogan era «Kashmir Chalo» ('andiamo in Kashmir'). Ma il governo guidato dal presidente Iskander Mirza non intendeva provocare l'India sostenendo il tentativo di oltrepassare la linea del cessate il fuoco. Così, centinaia di attivisti, Ghulam
Abbas compreso, furono arrestati nell'Azad Kashmir. Muhammad Sarai sottolineò l'ironia del fatto che Abbas, che aveva appoggiato la causa dell'annessione del Kashmir al Pakistan, si trovasse in una prigione pakistana, mentre il suo vecchio sodale Abdullah, che invece aveva sostenuto l'adesione del Kashmir all'India, era detenuto in India. Con un notevole ottimismo, Saraf riteneva che se il governo pakistano avesse consentito loro di attraversare la linea del cessate il fuoco, ciò avrebbe attratto l'attenzione di tutto il mondo e «portato in casa non soltanto dei leader dell'India, ma anche di quelli del mondo, l'urgenza di risolvere la questione del Kashmir secondo giustizia»91. Durante il processo per cospirazione ad Abdullah, l'accusa esaminò 229 testimoni e presentò circa trecento documenti. L'imputato continuò a protestare la propria innocenza guardando ai più ampi interessi del popolo del Kashmir. «Ciò che mi accade è cosa di poco conto», disse durante un'udienza in tribunale nel 1961, «ma il fatto che il popolo dello Jammu e Kashmir patisca la povertà, l'umiliazione e la degradazione non è una cosa di poco conto. [...] La mia voce può essere soffocata dietro le mura della prigione, ma continuerà a echeggiare e risuonare per tutti i tempi a venire»92. Anche se aveva nuovamente sollevato la questione del referendum e dell'autodeterminazione, egli non rinunciò comunque alla propria obbedienza all'India. «I miei compagni [in carcere] pensavano che non potessimo continuare ad essere legati a un paese nel quale eravamo trattati così male. Dissi loro che avevamo sposato certi ideali; finché l'India li avesse divulgati, non avremmo potuto spezzare i nostri legami» 9 '. Il 25 gennaio 1962, il magistrato speciale rinviò tutti gli imputati al tribunale per il processo, che si trascinò per altri due anni. Il governo di Bakshi non era popolare. Era ammessa l'esistenza formale di altri partiti politici, ma i loro capi venivano arrestati in maniera indiscriminata e le assemblee pubbliche furono vietate. La Brigata di "Pace" fu utilizzata per perseguitare gli oppositori del governo, la presenza di giornalisti stranieri non era gradita. Stephen Harper, un cronista del «Daily Express», scrisse: La scorsa settimana, ero appena giunto a Srinagar, la capitale, quando una gran massa di persone si è affollata attorno alla mia auto. Gridavano: «Ammazzatelo, non vogliamo giornalisti inglesi qui!». Le portiere e il tettuccio dell'auto sono stati strappati via. Alcune mani mi hanno afferrato i vestiti e hanno cercato di stracciarli. Mi sono stati versati addosso dei cestini di carbone, portati in giro per riscaldarsi, che mi hanno bruciato il viso.9" Il dissenso politico fu annientato. «All'uomo comune, sotto il potere tirannico di Bakshi, furono negate persino le libertà civili fondamentali»,
osservò Mir Qasim, suo ex compagno, ma ora oppositore politico. «Gli agenti del governo conficcavano patate bollenti nelle bocche dei loro oppositori, mettevano pesanti pietre sui loro petti e li marchiavano con ferri roventi»". Furono messi al bando i giornali critici nei confronti del governo, compreso «Voice of Kashmir», diretto da Prem Nath Bazaz, che si era trasferito a Delhi. Le elezioni del 1962 furono così palesemente truccate che Jawaharlal Nehru commentò: «In realtà, la vostra posizione si sarebbe rafforzata se aveste perso qualche seggio in favore degli oppositori autentici». Tutto ciò che si poteva dire del governo di Bakshi era che il popolo aveva una maggiore libertà rispetto al regime del maharajah. «E vero che lì non vi è la stessa libertà politica che nel resto dell'India. Ma ve n'è al contempo più di quanta non ce ne fosse prima»96. «Per quanto riguarda la vita economica e sociale dei kashmiri», scrisse Prem Nath Bazaz, che si recò nella valle nei primi anni Sessanta, «non ho dubbi sul fatto che essi siano grati all'India per il piccolo progresso che hanno compiuto [...] ma la persecuzione politica e la soppressione della libertà d'opinione unite alle vessazioni dell'elemento goonda, oltre a renderli cupi e risentiti, stanno vanificando i buoni effetti dell'atteggiamento benevolo da parte del governo dell'Unione». Egli riteneva inoltre che la questione dell'annessione non si fosse esaurita: «Per rendere eterna l'annessione dello Stato all'India, è essenziale che i kashmiri si sentano convinti che, sia economicamente sia politicamente, godranno della libertà restando parte della grande nazione indiana». Egli osservò anche che mentre lo sceicco Abdullah difendeva l'autonomia del Kashmir, «per accattivarsi il favore dell'opinione pubblica indiana», Bakshi Ghulam Muhammad «la intaccava». Con una certa preveggenza sul futuro deteriorarsi delle relazioni, concludeva: «Quando ben presto l'India si sveglierà, come dovrà succedere un giorno, nel prossimo futuro, se non oggi, potrebbe essere troppo tardi. Nessuna liberalizzazione della politica potrebbe riparare il danno»97. Il 3 ottobre 1963 Bakshi fu uno dei molti membri del governo centrale e ministri capi che, secondo il piano prospettato da K. Kamaraj, ministro capo del Madras, acconsentirono a dare le dimissioni allo scopo di impegnarsi nell'attività di partito. Fu così sostituito da Khwaja Shamsuddin. In un secondo momento, una commissione monocratica, composta dal giudice Ayyangar, indagò sulle accuse di corruzione e abuso di potere di Bakshi. In principio gli vennero mosse settantasette imputazioni, delle quali trentotto rimesse alla commissione. Ayyangar decretò che quindici erano provate. Il decennio di potere di Bakshi Ghulam Muhammad è noto per la continua erosione dello statuto speciale con il quale il Kashmir aveva cominciato i suoi rapporti con l'India. Alcuni cambiamenti sembravano soltanto esteriori, ma accrebbero tra i kashmiri i sospetti che il loro Stato si stesse conformando agli altri stati dell'India. Poco prima delle sue dimissio-
ni, Bakshi aveva annunciato che il leader del Kashmir in futuro si sarebbe chiamato ministro capo invece di primo ministro, come negli altri stati dell'Unione Indiana, e che il sadar-i-riyasat sarebbe stato riconosciuto come governatore. Venne anche estesa la giurisdizione della Corte Suprema e della Commissione Elettorale dell'India. Per gran parte di questo periodo, lo sceicco AbduUah restò in carcere, ma la sua influenza e quella dei suoi sostenitori tenne viva non soltanto la questione del referendum ma anche quella dello «statuto speciale» del Kashmir.
5. Diplomazia e guerra I negoziati tra India e Pakistan assomigliano al badminton. Il piano era quello di discutere prima qualche giorno in Pakistan, poi qualche giorno in ìndia. L'essenziale sta nel rimandare il volano nell'altro campo. J O H N KENNETH GALBRAITH 1
II vantaggio di fondo dell'India stava nel fatto che occupava già quello che voleva. Se il Pakistan avesse voluto cambiare lo statuto del territorio conteso, avrebbe dovuto fare qualcosa al riguardo e rischiare di apparire aggressivo. Gli osservatori esterni sono inclini a considerare il mantenimento dello status quo come una pace e il suo turbamento, da entrambe le parti, anche se per buone ragioni, come una mossa verso la guerra. S A M BURKE 2
Per tutti gli anni Sessanta la questione del Kashmir continuò a destare preoccupazione a livello internazionale. Nell'ottobre del 1962, la contesa irrisolta tra India e Cina a proposito del confine himalayano esplose allorché i cinesi oltrepassarono gli avamposti indiani e spinsero le truppe nell'area della frontiera di nord-est (NEFA) e nel Ladakh. Il 21 novembre, i cinesi dichiararono un cessate il fuoco unilaterale e l'immediata crisi tra i due paesi ebbe termine, ma gli indiani, che si erano mostrati particolarmente mal equipaggiati per un conflitto a una tale altitudine, si sentivano ancora vulnerabili riguardo alla loro sicurezza sul lungo periodo. Nehru, che in precedenza aveva evitato gli aiuti militari perché avrebbero comportato «in pratica un allineamento a quel determinato paese», si dispose ora ad accettarlo. In un brano molto citato, egli ammise che attraverso la politica del non allineamento «stavamo perdendo il contatto con la realtà del mondo moderno e vivendo in un clima di nostra invenzione»3. Fu persino pronto a negoziare un tacito patto di difesa aerea con gli Stati Uniti nel caso in cui i cinesi avessero ripreso la loro offensiva". In cambio, il governo indiano fu tuttavia costretto a piegarsi alle pressioni politiche dei paesi occidentali in favore di negoziati con il Pakistan per la risoluzione della questione del Kashmir.
5.1. Negoziati infiniti Alla fine di novembre del 1962 Gran Bretagna e Stati Uniti inviarono delle missioni a New Delhi - guidate rispettivamente da Duncan Sandvs,
ministro per i Rapporti del Commonwealth, e Averell Harriman, vicesegretario di Stato per gli Affari dell'Estremo Oriente - per individuare il tipo di aiuto militare di cui l'India aveva bisogno, sulla consistenza del quale americani e inglesi si preoccuparono peraltro di rassicurare il Pakistan. In una dichiarazione del 20 novembre, il presidente John Kennedy disse: «Nel fornire assistenza militare all'India, ci ricordiamo della nostra alleanza con il Pakistan. Tutto il nostro aiuto all'India ha lo scopo di sconfiggere la sovversione comunista cinese»5. Il team angloamericano intendeva inoltre dare inizio a negoziati bilaterali tra l'India e il Pakistan per agevolare la composizione delle loro divergenze, con il fine di presentare un fronte unito contro la minaccia della Cina comunista. Il Pakistan, guidato dal presidente Ayub Khan - che nel 1958 aveva assunto il potere con un colpo di Stato militare ed estromesso Iskander Mirza - , non era tuttavia convinto che una siffatta solidarietà avrebbe funzionato a suo vantaggio. I pakistani non soltanto diffidavano degli indiani, ma erano anche irritati dal fatto che questi, che con tanta costanza avevano perseguito una politica di «non allineamento», potessero ricevere armi dall'Occidente, cosa che al loro paese era stata consentita soltanto dopo la firma di due alleanze militari con l'Occidente, la CENTO e la SEATO. Per di più, il Pakistan era stato costretto a permettere agli americani di installare sul proprio suolo attrezzature di controllo, circostanza che aveva contrariato i sovietici e potenzialmente danneggiato i rapporti russo-pakistani. Lo concessione di armamenti sembrava aver collocato l'India allo stesso livello del Pakistan, che si presumeva fosse «l'alleato privilegiato» dell'America. Il governo indiano reagì ancor meno positivamente ai colloqui, in quanto quello pakistano era già impegnato in propri negoziati separati con i cinesi per demarcare il confine tra la Cina e il Kashmir settentrionale. Anche prima della guerra indo-cinese, nel giugno del 1962, Krishna Menon, ministro della Difesa indiano, aveva affermato, presso il Consiglio di Sicurezza dell'ONU, che un qualunque accordo sarebbe stato «in totale violazione di qualsiasi diritto d'autorità posseduto dal Pakistan, poiché esso non ha alcuna sovranità sullo Stato; non sta al Pakistan trattare o negoziare in merito»6. Sandys e Harriman furono comunque abili nello sfruttare il disperato bisogno di armamenti degli indiani per persuadere Nehru a incontrare Ayub, allo scopo di cercare di risolvere il problema del Kashmir. «Dipendente dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna per l'assistenza militare, l'India non potè rifiutare di discutere con il Pakistan», scrive il biografo di Nehru, Sarvepalli Gopal7. Lord Mountbatten tornò ancora una volta a Delhi con Sandys per preparare il terreno in vista dei negoziati; all'epoca, secondo Philip Ziegler, credeva che l'unica soluzione fosse quella di un Kashmir indipendente e smilitarizzato. «Quando Nehru addusse il prete-
sto della grande pericolosità, per la grande minoranza islamica dell'India, di qualunque modificazione dell'attuale equilibrio, Mountbatten replicò che non era mai stato uno che svegliava inutilmente i cani che dormono, ma che questo cane era ormai sveglio e abbaiava» 8 .1 ministri del governo indiano erano peraltro riluttanti verso la proposta. Nella loro dichiarazione congiunta, diffusa il 29 novembre, in cui si rendevano noti i negoziati, Ayub Khan e Jawaharlal Nehru annunciarono semplicemente la necessità di compiere un rinnovato sforzo per risolvere le divergenze in sospeso tra i due paesi a proposito del Kashmir e su altre questioni correlate. La prima sessione di colloqui si tenne alla fine di dicembre 1962. Durante questo e i successivi incontri furono avanzate varie proposte: laddove l'India proponeva che la linea del cessate il fuoco divenisse il confine internazionale, con alcuni riallineamenti minori intorno a Punch, i pakistani volevano tracciare il confine più a est, attribuendosi l'intero Stato con l'eccezione dello Jammu sud-orientale. Di un'area complessiva di più di 217.500 chilometri quadrati, all'India ne sarebbero rimasti meno di 7.800. Dopo la seconda fase di colloqui, giunse la firma ufficiale dell'accordo sul confine sino-pakistano, che inasprì un clima già teso. Zulfikar Ali Bhutto, che era divenuto ministro degli Esteri nel gennaio 1963 dopo la morte di Muhammed Ali Bogra, si recò a Pechino per incontrarsi con il suo omologo cinese Chen Yi per la cerimonia del 2 marzo 1963.1 pakistani pretendevano di avere guadagnato 1.900 chilometri quadrati di terra, ma gli indiani ritenevano di averne ceduti 7.000 di quello che consideravano territorio «indiano» 9 (in quanto kashmiro). Il Pakistan replicò che l'accordo era provvisorio, in attesa di un apposito trattato sui confini una volta risolta la contesa kashmira. L'assenso della Cina ai negoziati fu interpretato come un riconoscimento pubblico della posizione pakistana, secondo la quale lo statuto dello Jammu e Kashmir non era ancora stato definito. Con l'appoggio della Gran Bretagna, il Pakistan proponeva, tra l'altro, l'internazionalizzazione della valle, in modo che si potessero ritirare le truppe indiane e sostituirle con forze di altri paesi; dopo sei mesi sarebbe stata accertata la volontà popolare. Ma fu una proposta, come scrive Gopal, «che anche gli americani considerarono impraticabile, in quanto avrebbe fatto il gioco dei cinesi, i quali avrebbero influenzato ogni potenza asiatica o africana interessata»10. Sir Morrice James, alto commissario britannico in Pakistan, reputava che «la direzione giusta per l'India e il Pakistan sarebbe che ognuno dei due accetti che l'altro abbia una posizione stabile nella valle e non si esiga la cessione del Ladakh da parte del governo indiano». La proposta fu ideata «per consentire degli accordi chiaramente definiti in relazione alla sovranità, alla libertà politica, al libero movimento della popolazione, allo sviluppo del turismo e alla crescita economica»11. In un primo momento, questa soluzione fu incoraggiata dal
presidente Kennedy, che esortò il governo indiano ad avanzare proposte tali «da fornire ai pakistani la prova concreta che cercate francamente una soluzione, con la disponibilità ad assegnare loro una posizione stabile nella valle»12. Nell'aprile del 1963, il presidente inviò in India e in Pakistan Walt Rostow per valutare le prospettive di un'intesa tra i due paesi, ma questi non trovò «la precisa determinazione a comporre la contesa» in nessuna delle due parti". Dopo sei sessioni di colloqui - che si tennero in maniera intermittente fino al maggio 1963 - , nei quali Bhutto e Swaran Singh, il ministro degli Esteri indiano, furono i principali negoziatori, fu diffuso un comunicato ufficiale congiunto in cui si annunciava l'impossibilità di giungere a un'intesa per la composizione della contesa sul Kashmir. Mentre nel corso dei negoziati le due parti avevano discusso la possibilità di dividere lo Stato, nelle loro dichiarazioni pubbliche tale ipotesi fu respinta1". Il governo indiano suggerì l'esclusivo ricorso a metodi pacifici per regolare le divergenze tra i due paesi, nessuno dei quali avrebbe dovuto cercare di alterare lo status quo nel Kashmir, ma Bhutto non appoggiò la dichiarazione di «niente guerra» e assicurò soltanto che il Pakistan credeva nei metodi pacifici. «Aver promosso e visto fallire i colloqui indo-pakistani del 1962-63 era servito almeno al risultato pratico di mostrare che ulteriori sforzi del genere non avrebbero avuto successo», commentò Sir Morrice James". I negoziati del 1962-63 furono una delle rare occasioni in cui gli indiani, a causa della loro vulnerabilità verso la Cina, furono costretti a scostarsi dalla propria posizione ufficiale sul Kashmir: la discussione in qualche modo implicava che lo statuto di quel territorio era incerto. I pakistani speravano, sbagliandosi, che Gran Bretagna e Stati Uniti minacciassero il ritiro delle armi promesse all'India in cambio di un esito più favorevole al Pakistan, ma è improbabile che Nehru avrebbe ceduto a una siffatta minaccia. Nel 1962, il possesso della parte migliore del Kashmir era troppo importante, politicamente e psicologicamente, in particolare con l'opinione pubblica indiana ancora alle prese con la sconfitta del proprio esercito ad opera dei cinesi16. Dopo i colloqui Nehru si recò a Srinagar, dove constatò come l'attacco della Cina all'India avesse dato ai pakistani l'opportunità di riaccendere la questione del Kashmir, ma disse: «Il Pakistan è in errore se pensa di poterci intimidire perché stiamo affrontando la minaccia dei cinesi». Il nuovo rapporto tra Cina e Pakistan implicava comunque che anche quest'ultimo si sentisse incline a parlare da una posizione di forza: «Oggi un attacco dell'India contro il Pakistan non è più limitato alla nostra sicurezza e integrità territoriale», disse Zulfikar Ali Bhutto all'Assemblea Nazionale pakistana nel luglio 1963. «Un attacco dell'India contro il Pakistan riguarda l'integrità territoriale e la sicurezza del più vasto Stato dell'Asia»17. Fece anche la seguente drammatica affermazione: «Il Kashmir è per il Pa-
kistan ciò che Berlino è per l'Occidente» e, dal momento che il conflitto minacciava la pace e la sicurezza del mondo, si trattava di «una questione che incombe pesantemente sulla coscienza dell'umanità»' 8 . Tra i kashmiri che stavano a guardare mentre il Pakistan e l'India discutevano del loro futuro, vi erano gli scontenti dello status quo, che non si trovavano tuttavia ancora in condizione sufficientemente forte da agire in proposito. Uno dei componenti di questa generazione di attivisti era Amanullah Khan: nato ad Astor, presso Gilgit, ed educato a Srinagar, insieme ad alcuni compagni reagì al dibattito sulla divisione del Kashmir fondando un'organizzazione denominata Kashmir Independence Committee. «Proponevamo che una eventuale deviazione rispetto al referendum, dal diritto all'autodeterminazione, non dovesse essere la divisione del Kashmir, bensì l'indipendenza dell'intero Stato» 19 .1 colloqui fallirono e il comitato in seguito fu sciolto, ma, dice Amanullah Khan, era la prima volta che i nazionalisti kashmiri in esilio in Pakistan cominciavano a pensare seriamente all'indipendenza. Nell'ottobre del 1963, il governo del Pakistan rinviò ancora una volta la questione al Consiglio di Sicurezza e, nella primavera seguente, il caso fu discusso per la centodecima volta in quindici anni. Partendo per New York, Bhutto annunciò che il Pakistan era pronto a discutere la questione mille volte pur di sistemarla «in modo onorevole»20. Ma, in considerazione del veto sovietico, le Nazioni Unite potevano fare ben poco. Il presidente del Consiglio di Sicurezza espresse la preoccupazione di tutti i membri per «due grandi paesi che hanno tutto da guadagnare dal ristabilimento di buone relazioni e i cui attuali contrasti, in particolare quello incentrato sullo Jammu e Kashmir, dovrebbero essere composti amichevolmente nell'interesse della pace mondiale»21.
5.2. La politica nella valle A metà inverno, in una gelida notte della fine di dicembre del 1963, nella valle era avvenuto un fatto di eccezionale importanza: dalla moschea di Hazratbal venne trafugata la più sacra reliquia islamica del Kashmir, la Mo-i-Muqaddas, un pelo della barba del Profeta. La notizia del furto si diffuse per tutta la città e in migliaia marciarono per le strade di Srinagar, pretendendo che i ladri fossero presi e puniti. I kashmiri sdegnati istituirono un «Comitato d'Azione per il Sacro Capello», che unì temporaneamente le fazioni prò e contro Abdullah: suo figlio Farooq e il Mirwaiz Maulvi Farooq protestarono insieme. Il ministro capo Shamsuddin fu lento nel prendere l'iniziativa e Nehru inviò un dispaccio al capo dell'Intelligence Bureau, B.N. Mullik, affinché prendesse le misure necessarie per recuperare la reliquia. Mentre que-
sti si accingeva al delicato compito di localizzarla, la rabbia della popolazione si estese alle campagne. Per i diffusi timori di uno scontro tra le comunità, il 4 gennaio Karan Singh giunse a Srinagar, visitò l'Hazratbal e organizzò preghiere nei templi per la restituzione della sacra reliquia. Più tardi la moschea fu sgomberata dai poliziotti e dai funzionari. Mullik riuscì a rintracciare i ladri, la cui identità non fu mai rivelata, e a far sì che la reliquia fosse restituita in segreto alla moschea quella sera stessa. Per i pakistani, lo straordinario fervore islamico che si manifestò in tutto lo Stato per la reliquia scomparsa sembrò il segno sicuro di una crisi del cosiddetto laicismo abbracciato dagli attuali governanti del Kashmir. I disordini islamici di Srinagar furono accompagnati dalle proteste degli indù per il furto di oggetti sacri dai templi di Jammu. L'agitazione cresceva e il governo represse le dimostrazioni con la forza, uccidendo diverse persone. Per reazione, nel Pakistan Orientale scoppiarono tumulti contro gli induisti, che a loro volta si risolsero in scontri tra comunità in alcune città dell'India. L'atmosfera tesa si alleggerì soltanto quando, all'inizio del febbraio 1964, un gruppo di religiosi esaminò la reliquia e la giudicò autentica. Poco dopo il recupero della sacra reliquia, Shamsuddin venne sostituito nella carica di ministro capo da Ghulam Muhammad Sadiq: l'atmosfera nella valle mutò notevolmente e Prem Nath Bazaz descrisse «un clima politico del tutto diverso». La gente potè esprimere liberamente le proprie opinioni politiche, il teppismo si affievolì e la corruzione si ridimensionò22. Allo stesso tempo, Bazaz comprese che occorreva mantenere lo slancio della liberalizzazione: «Mi accorsi che, dopo aver restaurato le libertà civili dei kashmiri, il governo di Sadiq era incline a dormire sugli allori, pensando che il popolo dovesse rimanergli riconoscente per quanto era già stato fatto» 2 '. Ma nella mente della popolazione la questione dell'annessione era ancora irrisolta. Per di più, il processo per cospirazione ad Abdullah si era trascinato per circa sei anni e la sua perdurante detenzione era divenuta imbarazzante per il governo dell'India. «Lo sceicco Abdullah sotto processo ma l'India sotto accusa» è soltanto uno dei molti titoli di quotidiani dell' epoca24. L'8 aprile 1964 Abdullah venne infine assolto con onore e rilasciato dal carcere centrale di Jammu. «La falsità è marcia dentro. Le loro spregevoli accuse furono completamente smascherate davanti al pubblico e il processo divenne una burla», ha scritto25. Si lanciò immediatamente all'offensiva: «Dobbiamo conquistare i cuori, ma se falliremo non potremo essere governati con la forza», disse due giorni dopo la scarcerazione26. Tuttavia il governo indiano ribadì che l'annessione dello Stato dello Jammu e Kashmir all'India era «piena, definitiva e completa»27. «Quali che siano le grandiose illusioni e i sogni che coltiva oggi Abdullah, New Delhi non deve lasciare a lui e ai suoi sostenitori alcun dubbio che l'annessione sia un fatto compiuto e che restano da completare soltanto alcu-
ne delle procedure di integrazione», sostenne un editoriale dell'«Indian Express»28. «Lo sceicco Abdullah è oggi un demagogo in libertà ed è chiaramente impegnato in un'attività politica secessionista», disse il «Times of India» di Mumbai29. Al massimo livello, comunque, il malandato primo ministro dell'India Jawaharlal Nehru non era più disposto a condividere questi dubbi nei confronti del suo vecchio amico. «Il suo atteggiamento verso Abdullah era all'epoca un misto di senso di colpa per averne consentito la lunga detenzione e di preoccupazione per le conseguenze delle sue attività», scrive Sarvepalli Gopal30. Dopo la scarcerazione, lo sceicco andò a trovarlo a Delhi: Panditji espresse la propria angoscia e il dolore profondi per gli avvenimenti passati. Anch'io mi emozionai e gli dissi che ero lieto di averlo convinto a non essere sleale verso di lui né verso l'India. [...] Lo supplicai di prendere l'iniziativa per risolvere il problema del Kashmir. Panditji acconsentì e mi chiese di recarmi in Pakistan per cercare di persuadere il presidente Ayub Khan a dare inizio a nuovi negoziati con la controparte indiana." Per la prima e ultima volta nella sua vita, Abdullah visitò il Pakistan. Prima di partire diede una dichiarazione alla stampa: «Siamo di fronte a una situazione allarmante. Se non riusciremo a rimediarvi le nostre generazioni future non ci perdoneranno mai. [...] Il problema del Kashmir è un pomo della discordia di vecchia data»32. Quando giunse a Rawalpindi, ricevette un'accoglienza entusiastica da una folla di circa mezzo milione di persone. «C'era molta eccitazione in Pakistan, per la prima visita dello sceicco Abdullah, il Leone del Kashmir», scrive Altaf Gauhar, ministro dell'Informazione di Ayub Khan. «I suoi critici preferivano chiamarlo il "leopardo del Kashmir", perché alla fine aveva cambiato pelle. A che gioco giocava l'India consentendogli di recarsi in Pakistan?» 33 . Secondo Gauhar, la posizione ufficiale era di concedergli un'accoglienza calda ma non espansiva: venne dunque ideato un elaborato programma «in modo che potesse vedere da sé» i progressi compiuti dal paese dal momento dell'indipendenza34. Il leader kashmiro e il presidente pakistano erano in buoni rapporti, ma quest'ultimo fu costretto a rifiutare la proposta di una confederazione formulata da Abdullah. «Una qualsivoglia organizzazione confederale annullerebbe la spartizione e porrebbe la maggioranza induista in una posizione dominante e decisiva rispetto alle materie federali, cioè affari esteri, difesa e finanze»35. Lo sceicco raccontò più tardi che l'idea di una confederazione era una proposta tra le tante e che lo scopo della sua visita era, nello specifico, far sì che entrambe le parti «si astenessero da atteggia-
menti rigidi e prendessero opportunamente in considerazione il punto di vista l'uno dell'altro»' 6 . Nel corso di una conferenza stampa, dichiarò che una soluzione del problema kashmiro doveva soddisfare le aspettative del popolo e dipendeva dall'amicizia tra India e Pakistan, nessuno dei quali sarebbe dovuto restare con un senso di sconfitta'7. Ayub Khan acconsentì a prendere in esame qualsivoglia soluzione rispondente alle condizioni minime del Pakistan e accettò inoltre l'invito a incontrare Nehru a Delhi, alla metà di giugno. Questo imminente incontro fu annunciato il 27 maggio. Lo sceicco Abdullah partì per Muzaffarabad, ma la sua visita fu bruscamente interrotta dalla notizia improvvisa che Jawaharlal Nehru era morto, all'età di settantaquattro anni. Per uno dei misteri della storia, negli ultimi giorni della sua vita, il primo ministro indiano lasciò incompiuto ciò che avrebbe potuto fare per il Kashmir. Bhutto viaggiò con Abdullah fino a Delhi per il funerale e con lui discusse del Kashmir: secondo il racconto di Stanley Wolpert, lo sceicco gli consigliò di insistere nella richiesta di un referendum per l'intero Stato, suggerendo al contempo una soluzione realistica in una spartizione al di sotto del fiume Chenab. Bhutto era evidentemente «esultante» per l'«elasticità» di Abdullah, dal momento che, nel corso dei suoi colloqui con Ayub, questi aveva ribadito l'impossibilità di una spartizione'8. Ma gli ulteriori negoziati proposti non si concretizzarono. Secondo Abdullah, il successore di Nehru, Lai Bahadur Shastri, era impaziente di terminarne il lavoro, ma «non ebbe la forza di convincere i colleghi della validità del suo punto di vista»" e così il governo continuò a varare misure per rafforzare i legami del Kashmir con l'India. Il decreto presidenziale approvato dal governo indiano il 21 dicembre 1964, che consentiva al presidente di governare direttamente lo Stato dello Jammu e Kashmir con il cosiddetto Presidenti Rule, provocò l'amaro risentimento di tutti coloro che si opponevano al crescente controllo da parte dell'India. Altrettanto avvenne all'annuncio, il 9 gennaio 1965, che la National Conference sarebbe stata disciolta e che il Partito del Congresso Nazionale Indiano stava per istituire una sezione nel Kashmir. Il 15 gennaio 1965 fu celebrato come un Giorno di Protesta. Nel febbraio dello stesso anno, Abdullah decise di «adempiere ai principi dell'Islam decretati per tutti i musulmani, il compimento dell'Ha)»4". Con una piccola comitiva, che comprendeva sua moglie e Mirza Afzal Beg, progettò di visitare alcuni paesi islamici, la Gran Bretagna e la Francia. Ad Algeri, incontrò Chu En-lai, primo ministro cinese, con cui, stando alle sue memorie, discusse dell'intesa tra Cina e Pakistan a proposito della frontiera settentrionale del Gilgit. Il premier cinese dichiarò: «Al momento, Gilgit è sotto il controllo del Pakistan, perciò è stabilito nell'accordo stesso che ciò resterà in vigore soltanto fino a quando Gilgit sarà sotto il controllo del Pakistan». Abdullah afferma di avere inviato una
sintesi della propria conversazione all'ambasciatore indiano in Cina, ma la notizia dell'invito a visitare la Cina, rivolto da Chu En-lai ad Abdullah, sconcertò le autorità indiane. Lo sceicco scrisse anche un articolo per un trimestrale statunitense, nel quale proponeva che l'India, il Pakistan e i kashmiri trovassero una soluzione che avrebbe concesso a questi ultimi «la sostanza della loro richiesta di autodeterminazione, ma con onore e imparzialità sia per il Pakistan sia per l'India» 41 . Al suo ritorno, nel maggio del 1965, fu dunque arrestato e rinchiuso a Otacamund, nel Tamil Nadu, lontano dal Kashmir 3.200 chilometri. Afzal Beg fu incarcerato a Delhi, così come Begum Abdullah. Le proteste nella valle contro gli arresti furono represse. «Si diede inizio a una campagna di diffamazione contro di noi, con un complotto ben congegnato, teso a stravolgere la nostra immagine e a creare il clima psicologico favorevole all'attuazione di pesanti provvedimenti contro di noi»42. In Pakistan, Ayub Khan doveva far fronte a crescenti pressioni interne affinché prendesse qualche iniziativa sul Kashmir. Durante la campagna presidenziale di luglio, quando era in competizione con la sorella di Mohammad Ali Jinnah, Fatima, aveva sottolineato il proprio ruolo di difensore del Kashmir. Lo incalzavano anche i kashmiri «Azad», che sostenevano di avere una forza di ventimila uomini addestrati allo scopo di organizzare una lotta sul tipo di quella algerina per liberare i loro «fratelli». E anche sul piano militare il tempo stava scadendo: nell'aprile 1963, il ministero della Difesa indiano aveva annunciato che il potenziale dell'esercito sarebbe stato raddoppiato. Ulteriori dettagli sull'ampliamento della Marina, dell'Esercito e dell'Aeronautica, reso possibile dagli aiuti del Regno Unito, degli USA e dell'URSS, furono diffusi nel settembre successivo43.
5.3. Il conflitto armato Sul piano internazionale, il Pakistan aveva iniziato a scollarsi dalla dipendenza politica dagli Stati Uniti. La riuscita visita di Ayub Khan in Cina nel marzo 1965 aveva considerevolmente migliorato la reputazione interna del presidente: «La gente si sentì onorata nel sapere che la Cina era divenuta amica e alleata del Pakistan contro l'India», scrive Altaf Gauhar44. Quando il presidente Johnson annullò la prevista visita di Ayub Khan negli Stati Uniti45, quest'ultimo accettò immediatamente un invito da parte dell'Unione Sovietica e intraprese la prima visita di un capo di governo pakistano a Mosca. Secondo Gauhar, che lo accompagnò, Ayub Khan ebbe una franca conversazione sul Kashmir con il primo ministro Aleksej Kosygin. Sottolineò che, con l'uso del veto, l'Unione Sovietica stava «tirando l'India fuori dai pasticci» al Consiglio di Sicurezza dell'ONU. I sovietici erano sconvolti dal recente episodio dell'U2, l'aereo spia americano, lan-
ciato dalla base di Badaber in Pakistan e abbattuto in territorio sovietico. Quello che era iniziato come un freddo scambio di opinioni, secondo Gauhar alla fine si trasformò, nelle parole di Kosygin, in «un punto di svolta che condurrà a ulteriori scambi di opinioni e a grandi decisioni nell'interesse dei nostri due paesi»""'. Furono così siglati un trattato commerciale e un contratto di credito per la ricerca di petrolio. Ma mentre si trovava ancora a Mosca, Ayub Khan ricevette un cablogramma da Islamabad che segnalava il movimento di truppe indiane nel territorio conteso del Rann di Kutch. Estranea al Kashmir, la vicenda del Rann di Kutch precedette l'apertura di formali ostilità tra l'India e il Pakistan nella loro seconda guerra per il Kashmir del settembre 1965. Questo tratto di terra, equivalente per estensione al territorio della valle, separa il Sind in Pakistan dal Kutch in India: popolato per lo più da fenicotteri e scimmie selvatiche, viene invaso dalle acque durante i monsoni, mentre negli altri periodi dell'anno è secco e desolato (questo è il significato della parola «rann»). Il Pakistan aveva contestato il confine tra Sind e Kutch sin dalla spartizione e, nella primavera del 1965, uno scontro tra pattuglie di frontiera si era trasformato in un combattimento tra gli eserciti regolari. Quando le truppe indiane si ritirarono, lasciandosi dietro più di sessanta chilometri di paludi, i pakistani esultarono. Fu negoziato un cessate il fuoco per conto del primo ministro inglese, Harold Wilson, favorito dai due alti commissari britannici di Islamabad e Delhi, Morrice James e John Freeman. Il 30 giugno 1965 venne finalmente raggiunta un'intesa, nella quale si prevedeva un arbitrato che, un anno più tardi, assegnò al Pakistan la metà settentrionale del Rann. «In tal modo, accettando la mediazione occidentale tra loro e l'India, i pakistani guadagnarono più di quanto avrebbero ottenuto da soli», scrive Morrice James47. L'episodio è assai importante, perché indubbiamente confortò i pakistani nella loro convinzione che l'esercito indiano - che risentiva ancora dei postumi della sconfitta con i cinesi e non era ancora rafforzato dal suo programmato ampliamento - fosse inferiore al loro. La conclusione che, come ritiene Morrice James, il presidente Ayub Khan, Zulfikar Ali Bhutto e Aziz Ahmed, l'esperto di affari indiani di Ayub, trassero dalla vicenda del Rann di Kutch fu la seguente: se la contesa del Kashmir si fosse riaccesa, con una sollevazione nel settore tenuto dagli indiani, ne sarebbe sorta una situazione sufficientemente critica da costringere i paesi occidentali a intervenire. L'India sarebbe stata quindi sollecitata a sottoporre la controversia alla mediazione che, se riuscita, avrebbe condotto a una soluzione più favorevole al Pakistan rispetto allo status quo. Dedussero inoltre che, dopo la vicenda del Rann di Kutch, il morale degli indiani era basso48. «Nonostante tutto il suo realismo e la sua prudenza», scrive Altaf Gauhar, «per certi aspetti la ponderatezza di Ayub Khan si era attenuata con la vicenda del Rann di Kutch. Il suo vecchio pre-
giudizio per cui "gli indù non hanno fegato per combattere" si trasformò in convinzione, se non in dottrina militare, che ebbe effetti decisivi sul corso degli eventi»49. Vista dall'altra parte della linea del cessate il fuoco, la valle del Kashmir sembrava matura per una rivolta. Il furto della reliquia santa dall'Hazratbal nel 1963 avevo palesato l'intenso sentimento religioso dei musulmani della valle. Il quartier generale di quella che si sarebbe chiamata "operazione Gibilterra" fu collocato a Murree, sotto la direzione del generale di divisione Akhtar Hussain Malik. Questi era al comando di diverse unità operative che traevano i propri nomi da quelli di famosi generali della storia islamica: Tariq, Qasim, Khalid, Saladino, Ghaznavi e Nusrat - , che sarebbero avanzate nel Kashmir attraverso la linea del cessate il fuoco e avrebbero attaccato obiettivi specifici. L'iniziativa non era tuttavia priva di rischi: l'esercito indiano era, per grandezza, tre volte quello pakistano e non vi era alcuna garanzia che l'India non avrebbe invaso il Pakistan al di là del confine internazionale. Inoltre, scrive il generale di divisione Shahid Hamid, «l'esercito non era addestrato o pronto per l'offensiva, circa il 25 per cento degli uomini era in licenza. Ci fu poco tempo per rimediare a questa inadeguatezza nei nostri piani e la crisi creò una serie di battaglie isolate»50. L'obiettivo dell'unità Saladino era di raccogliersi a Srinagar l'8 agosto. Per il giorno successivo - dodicesimo anniversario dell'arresto dello sceicco Abdullah - i sostenitori del Plebiscite Front avevano indetto uno sciopero contro la sua recente carcerazione; gli strateghi pakistani ritenevano pertanto che la popolazione insoddisfatta avrebbe appoggiato la loro invasione. Dopo essersi impadronito della stazione radio e dell'aeroporto di Srinagar, un consiglio rivoluzionario avrebbe diffuso una dichiarazione di liberazione, proclamandosi unico governo legittimo dello Jammu e Kashmir. In un'operazione aggiuntiva, denominata Grande Slam, dovevano essere attaccate le linee di comunicazione nel distretto Punch-Nowshera; il possesso del ponte Akhnur sul fiume Chenab avrebbe isolato lo Stato dal resto dell'India, intrappolando sia l'esercito indiano nello Stato sia le truppe che fronteggiavano i cinesi nel Ladakh. Sembra tuttavia che non sia stato preso in anticipo alcun contatto con la leadership politica musulmana della valle. Contrariamente alle informazioni dello spionaggio pakistano, la valle non era matura per una rivolta. «I commandos pakistani, armati fino ai denti, sarebbero apparsi come liberatori nel cuore della notte soltanto per creare panico e terrore», scrive Altaf Gauhar51. Il 5 agosto, un giovane pastore riferì alla polizia la presenza di alcuni «stranieri» a Tanmarg, i quali avevano offerto soldi in cambio di informazioni; condusse così la polizia direttamente al campo base dell'unità Saladino. «In questa fase il Pakistan aveva uno scarso sostegno di massa nella valle ed è questo il motivo per cui un piano così ingegnoso non decollò», scrive il generale di divisione indiano Afsir Karim. «In ef-
fetti nessuno era del tutto certo di quanto stesse succedendo. Il Pakistan continuò a negare a voce alta il proprio "coinvolgimento" e definì la cosa un'insurrezione locale, ma non si verificò alcuna insurrezione locale»52. La rabbia mostrata dai kashmiri per il trafugamento della sacra reliquia non significò, allora, che la gente era disposta a mettersi con i pakistani e a combattere contro l'India. Con l'eccezione della Ghaznavi, le unità non furono in grado di avere alcun impatto sulle postazioni indiane. Anche il primo ministro indiano Lai Bahadur Shastri fu messo sotto pressione dai suoi consiglieri militari affinché intraprendesse un'azione decisiva. Il 16 agosto una folla di più di centomila persone marciò sul parlamento indiano a Delhi per dimostrare contro qualunque debolezza a proposito dello Stato dello Jammu e Kashmir53. La controffensiva fu di portata maggiore rispetto a quella immaginata dai pakistani. Per ragioni apparentemente difensive, cioè per chiudere i punti di accesso agli infiltrati, gli indiani attaccarono le posizioni pakistane nel settore di Kargil, a Tithwal e Uri-Punch. Il 28 agosto, l'operazione contro il passo Haji Pir lasciò le unità pakistane pericolosamente allo scoperto. Malgrado il contrattempo dell'operazione Gibilterra, di cui Ayub Khan pare fosse ignaro, il generale Muhammed Musa, comandante in capo, «esortò Bhutto a ottenere l'approvazione del presidente» per lanciare l'operazione Grande Slam54. Musa era stato nominato dallo stesso Ayub, scrive il generale di divisione Shahid Hamid, «malgrado questi fosse pienamente consapevole dei suoi limiti. La sua principale virtù era che non avrebbe mai sfidato l'autorità o la posizione del suo capo. D'altro canto, Musa andava sul sicuro e rigò sempre dritto»55. Il 29 agosto il presidente inviò al comandante l'ordine segreto di «intraprendere un'azione tale da scongelare il problema del Kashmir, indebolire la determinazione dell'India e condurla al tavolo delle trattative senza provocare una guerra totale»56. Sotto la guida di Malik, l'operazione Grande Slam fu dunque lanciata il 31 agosto. L'obiettivo era di farsi strada da Bhimber e isolare le linee di comunicazione indiane lungo la strada di Pathankot da Jammu e Srinagar attraverso il passo Banihal, pressappoco come era stato progettato nel 1947. Una volta raggiunta Akhnur, le unità pakistane avrebbero dovuto soltanto prendere il ponte sul fiume Chenab per raggiungere la città di Jammu. «A questo punto, le preghiere di qualcuno ebbero effetto», scrive il giornalista indiano M.J. Akbar. «Ebbe luogo un inesplicabile avvicendamento nei comandi»57: Hussain Malik fu sostituito dal generale di divisione Agha Mohammad Yahya Khan. Gauhar descrive i dettagli del Grande Slam come ancora avvolti «in una nebbia di confusione, indecisione e difetto di comunicazione»58. L'operazione era fondata sul presupposto che le forze indiane erano allo scoperto, ma in effetti esse stavano costruendo le proprie difese e le truppe pakistane non furono in grado di compiere il rapido passo avanti che ave-
vano previsto. Per di più, i pakistani avevano varcato una piccola porzione del confine internazionale tra Sialkot e Jammu, il che per i loro nemici costituì un'aperta istigazione a estendere la guerra. Sia in India sia tra alcuni «ufficiali di buon senso» in Pakistan si riteneva che fosse stata la repentina sostituzione di Malik ad aver condotto al fallimento del Grande Slam, ma Gauhar sostiene che il generale aveva già perso ogni credibilità dopo Gibilterra. «La verità è che il generale Malik era un uomo finito, perché sapeva meglio di chiunque altro che la sua missione era fallita»59. Quando apprese il fallimento dell'operazione Gibilterra e quanto fossero vulnerabili le Forze Armate pakistane, Ayub Khan affidò il compito di chiudere le operazioni al generale di divisione Mohammad Yahya Khan. Per di più, si rivelò falsa la convinzione, sostenuta da Bhutto e da Aziz Ahmed, che gli indiani non fossero nella condizione di attaccare attraverso il confine internazionale. Alle prime luci del 6 settembre, due colonne dell'esercito indiano marciarono verso Lahore, situata a soli 22 chilometri dal confine ufficiale. «I pakistani furono clamorosamente colti di sorpresa», ricorda Morrice Jones. Le loro truppe non erano state allertate e dormivano nelle caserme: a causa della mancanza di tempo per indossare la tenuta da combattimento, alcuni soldati partirono in armi per la linea del fronte in pigiama»60. Una terza colonna entrò nel Punjab Occidentale verso Sialkot, a nord-est di Lahore, mentre l'aviazione indiana bombardava le basi aeree in Pakistan. Il subcontinente era pronto per una guerra totale. Gran Bretagna e Stati Uniti, i maggiori fornitori di armi di entrambe le parti, annunciarono un'interruzione degli aiuti militari fino a quando non fosse stata ripristinata la pace. Nel corso della guerra, la Russia continuò a fornire armamenti all'India, ma restò apparentemente neutrale; i paesi islamici, con l'eccezione della Malaysia, promisero assistenza e sostegno morale al Pakistan. La conferenza di vertice araba caldeggiò il principio di autodeterminazione e chiese ai due paesi di regolare le loro divergenze in linea con le risoluzioni dell'ONU61. Ancora una volta le Nazioni Unite furono chiamate a cercare di stabilire un cessate il fuoco. Sulla base di informazioni fornite dal Gruppo di Osservatori Militari dell'ONU, che aveva controllato la linea del cessate il fuoco nei sedici anni precedenti, il segretario generale U Thant fece ripetutamente appello ai governi di India e Pakistan affinché ritornassero alle loro posizioni originarie lungo la linea del cessate il fuoco. Il 4 e il 6 settembre il Consiglio di Sicurezza aveva adottato delle risoluzioni che richiedevano un cessate il fuoco e il 9 U Thant visitò prima il Pakistan e poi l'India nel tentativo di far cessare i combattimenti. Quando il 7 settembre Morrice James incontrò Ayub Khan, lo trovò «visibilmente dépresso»: diceva «il cessate fuoco deve essere risoluto, in modo che possa aprire la strada a una composizione della contesa sul Kashmir»62. L'India rifiutò di negoziare e il Pakistan stava esaurendo le munizioni. Con la conquista di
Khem Karan, un villaggio indiano al di là della frontiera, la controffensiva pakistana contro Amritsar sembrò temporaneamente riuscire, ma l ' i l settembre l'India aprì le chiuse delle proprie dighe intrappolando circa cento carri armati pakistani e Khem Karan divenne, secondo Gauhar, «un cimitero di carri armati pakistani [...] per il Pakistan la guerra era finita»65. Prima di essere finalmente condotto al tavolo dei negoziati, Ayub Khan si rivolse ai cinesi. Il 4 settembre il loro ministro degli Esteri Chen Yi aveva incontrato Bhutto a Karachi e appoggiato la «giusta azione» nel respingere la «provocazione armata» indiana in Kashmir64. Seguirono ulteriori dichiarazioni a sostegno del Pakistan, che ammonivano contro l'intrusione indiana in territorio cinese, e, il 16 settembre, un ultimatum che accusava l'India di costruire opere militari sul confine Cina-Sikkim. Benché queste fossero smantellate e gli indiani acconsentissero ad astenersi da ulteriori incursioni, furono avvertiti che avrebbero dovuto far fronte alle conseguenze65. Inglesi e americani vedevano l'ingresso della Cina nella guerra di parole diplomatica con crescente allarme e come potenziale preludio di un intervento, oltre che di un allargamento della guerra. Il primo ministro inglese Harold Wilson promise pubblicamente all'India l'aiuto degli Stati Uniti e del Regno Unito, nel caso di un intervento cinese nella guerra66. Quanto quest'intervento fosse divenuto prossimo lo riferisce Altaf Gauhar, che descrive la visita segreta di Ayub Khan a Pechino, la notte del 19 settembre, e l'incontro con il primo ministro Chu En-lai. Il premier cinese offrì al presidente pakistano - secondo il fedele resoconto che questi fece a Gauhar - un appoggio incondizionato, a patto che i pakistani si rendessero conto che avrebbero dovuto essere pronti a una lunga guerra, in cui si sarebbero potute perdere alcune città come Lahore. Ayub Khan non era disposto a intraprendere una guerra prolungata e tornò in Pakistan con la stessa segretezza con cui era partito, senza accogliere l'offerta cinese67; per di più, sapeva che l'Esercito e l'Aeronautica erano contrari a protrarre il conflitto. Come ha osservato Shahid Hamid: «Tutta la pianificazione era fondata su uno scontro breve e intenso, munizioni e riserve erano quindi predisposte di conseguenza»68. In seguito, i cinesi abbandonarono il loro atteggiamento aggressivo nei confronti dell'India, ma la natura precisa delle presunte «installazioni militari» dell'India al confine non fu mai stabilita. Il 20 settembre, il Consiglio di Sicurezza dell'ONU approvò una risoluzione dal tono energico, «esigendo», per la prima volta nella sua storia, che entrasse in vigore un cessate il fuoco entro due giorni. Bhutto volò a New York per parlare al Consiglio di Sicurezza la notte del 22 settembre. La posizione ufficiale del Pakistan era ancora tutt'altro che conciliante verso l'India e in un discorso la cui retorica elettrizzò i pakistani a casa, avvertì che il suo paese avrebbe condotto la guerra per «mille anni, una
guerra di difesa»69. Ma per il Pakistan l'occasione di realizzare i propri obiettivi dichiarati era ormai passata. Il cessate il fuoco entrò in vigore a mezzogiorno del 23 settembre con il patto, offerto ad Ayub Khan da inglesi e americani, che essi avrebbero fatto del loro meglio per dirimere il problema politico che aveva causato il conflitto70.
5.4. Taskent Una volta entrato in vigore il cessate il fuoco, prevalse una tregua inquieta. Né gli Stati Uniti, preoccupati per il Vietnam, né la Gran Bretagna si trovavano nella condizione di esercitare pressioni sull'India affinché negoziasse un accordo sul Kashmir favorevole al Pakistan. L'India non aveva certo intenzione di cedere per mezzo della diplomazia ciò che quest'ultimo non era riuscito ad assicurarsi con la guerra. Swaran Singh, ministro degli Esteri indiano, aveva dichiarato all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite che il Kashmir era parte integrante dell'Unione e che il suo futuro non era negoziabile71. Le minacce velate di Bhutto all'Assemblea e al Consiglio di Sicurezza, cioè che il suo paese avrebbe dovuto ritirarsi dall'ONU se il cessate il fuoco non fosse stato condizionato alla risoluzione della questione del referendum, furono ignorate. Nel gennaio 1966 le delegazioni indiana e pakistana si incontrarono a Taskent, dove il primo ministro sovietico Aleksej Kosygin esercitò il ruolo di mediatore ufficioso. Ayub e Shastri concordarono una dichiarazione in cui si riaffermava l'impegno comune a risolvere i contrasti attraverso mezzi pacifici; decisero inoltre di ritornare alle loro posizioni precedenti il 5 agosto 1965. A poche ore dal termine dei negoziati, il 10 gennaio 1966 Shastri morì di un attacco cardiaco, e nella carica di primo ministro gli successe la figlia di Jawaharlal Nehru, Indirà Gandhi. Ayub Khan rientrò a Islamabad dopo avere accettato un ritorno allo status quo assai lontano dai dichiarati propositi di guerra del suo paese. La dichiarazione di Taskent registrava l'esistenza della contesa sul Kashmir, ma in effetti la lasciava in sospeso. In Pakistan, la stampa controllata non si poteva permettere critiche verso Taskent e così «continuò a suonare il tamburo patriottico come se la guerra con l'India fosse ancora in corso», scrive Morrice James' 2 . Lo «spirito di Taskent» fu portato agli estremi simbolici con la proibizione del popolare, ma antirusso film di James Bond Dalla Russia con amore75. Ma dietro le apparenze serpeggiava il malcontento: quelli che erano stati indotti a credere che il Pakistan fosse pronto per la vittoria non poterono comprendere la necessità del cessate il fuoco. All'inizio del 1966, si verificarono rivolte studentesche nei college e nelle università, a Lahore la po-
lizia aprì il fuoco su un gruppo di dimostranti e due studenti restarono uccisi. Quando si rivelò il vero significato del cessate il fuoco e di Taskent, la gente reagì contro il proprio presidente. «Il senso di tradimento e di frustrazione fu particolarmente forte tra la popolazione che viveva nelle aree del Punjab attorno a Lahore e Sialkot, dove nel corso degli anni si erano stabiliti molti kashmiri», scrive Morrice James. «Per loro Ayub aveva tradito la nazione e aveva perso la faccia davanti agli indiani in modo imperdonabile»74. Il dato importante nella guerra del 1965, dal punto di vista pakistano, è che - malgrado l'incapacità di conseguire i propri obiettivi, senza dubbio fondata su valutazioni e decisioni politiche sbagliate - la convinzione della legittimità dell'incursione prevalse sia nella retorica dei politici, soprattutto di Zulfikar Ali Bhutto, che nelle successive ricostruzioni della guerra. Ancora oggi, si fa riferimento ai caduti in guerra del Pakistan come a dei «martiri» per la causa della libertà. Quando fu accusato di avventurismo e di aggressione, Bhutto replicò: «Se il sostegno al popolo dello Jammu e Kashmir in lotta costituì un'aggressione contro l'India, allora tutti quei paesi come la Cina, l'Indonesia e altri che appoggiarono senza riserve la causa dei kashmiri perpetrarono un'aggressione contro l'India»75. Tale convinzione, così evidente nel 1965, era incompatibile con la posizione indiana, secondo cui, con l'avvio di un'invasione nella valle, i pakistani avevano in effetti attaccato il territorio dell'Unione. La guerra che Bhutto aveva sostenuto in modo così entusiastico era fallita, ma egli appariva come il politico più amato del Pakistan, precisamente perché aveva perseguito una linea molto più energica - e pertanto più popolare all'interno - contro l'India. Era inoltre abilmente riuscito a dissociarsi da un regime che stava diventando impopolare e a togliere terreno politico da softo i piedi ad Ayub Khan con un movimento che attraeva le masse76. Nel 1967 fondò una propria formazione politica, il Partito del Popolo Pakistano, che aveva un programma radicale di riforme in senso socialista. L'anno seguente Ayub venne sostituito dal generale Yahya Khan, il successore di Malik nell'operazione Grande Slam. La questione del Kashmir fu temporaneamente messa da parte, mentre il centro della scena era occupato dalla politica interna.
5.5. La reazione della valle Nel 1965, in coincidenza con l'invasione da parte del Pakistan, nella valle non si era verificata un'insurrezione su larga scala, eppure si avvertivano i segni dell'inizio di un dissenso politico tra i kashmiri più giovani, i quali, come speravano i più anziani attivisti filopakistani, avrebbero portato avanti il movimento per il referendum e l'autodeterminazione. «La
maggiore preoccupazione della parte politicamente più sensibile della mia generazione era come coinvolgere quella nuova - i nostri figli — nella lotta per l'annessione dello Stato al Pakistan», scrive Muhammad Saraf. Nel 1947 la maggior parte di loro erano bambini, alcuni non erano nemmeno nati e molti dei loro genitori politicamente attivi, come Ghulam Abbas, Muhammad Saraf e altri, avevano optato per il Pakistan. Ampi settori della popolazione sostenevano ancora - grazie all'influsso dello sceicco Abdullah - l'annessione all'India laica e non guardavano più all'annessione al Pakistan, sotto una dittatura militare, benché l'erosione dello «statuto speciale» destasse scontento. «Secondo me, la legge marziale aveva gravemente influenzato il movimento di liberazione», dice il giudice Abdul Majeed Mallick. «Il movimento si basò principalmente sul principio del diritto all'autodeterminazione. Quando nel 1958 fu imposta per la prima volta la legge marziale, il governo indiano trattò con disprezzo il Pakistan dicendo "se non avete i diritti fondamentali in Pakistan, come potete averli nel Kashmir?"»77. Tuttavia, Selig Harrison fece un viaggio in Kashmir in luglio e raccontò di aver trovato la gente fermamente ostile al governo indiano: era soltanto la presenza di dodici brigate dell'esercito indiano a contenere il movimento per l'autodeterminazione 78 . I musulmani ritenevano che alcuni elementi all'interno dello Stato, sostenuti dal filoinduista Jana Sangh (che si era fuso con il Praja Parishad), malgrado il dichiarato laicismo, intendessero ridurre la preponderanza della maggioranza islamica forzandola ad andarsene. Alla fine degli anni Sessanta, alcuni incendi nelle aree islamiche lasciarono molte famiglie senza casa; gli attivisti ostili al governo indiano avanzarono sospetti su questi incendi, interpretati come parte di un piano per rendere il Kashmir uno Stato a maggioranza indù. Sempre sensibili alle incursioni di estranei all'interno dello Stato, si opposero ai certificati di «cittadinanza» che venivano concessi ai non musulmani stabilitisi nella valle. Nell'ottobre 1969, l'assemblea di Srinagar approvò un progetto di legge che rendeva disponibili le proprietà sfollate ai profughi non musulmani. Con l'apertura di un'università a Srinagar nel 1948 e con l'istruzione libera, venne tuttavia alla luce una nuova generazione di laureati. Siccome nel Kashmir non vi erano industrie, molti rimasero disoccupati. Il ministro capo G.M. Sadiq era sempre più consapevole del problema dei disoccupati istruiti. Nel 1968 incontrò Indirà Gandhi per spiegare il crescente malcontento nel paese e, alla presenza di Inder Gujral, le disse: «L'India spende milioni per il Kashmir, ma pochissimo nel Kashmir. Se le dicessi che la situazione dell'ordine pubblico richiede una divisione dell'esercito in più, lei la invierebbe senza battere ciglio, ma se le chiedo di impiantare due fabbriche, lei mi dirà venti ragioni per cui non si può fare. E allora, che cosa devono fare i nostri giovani?». Successiva-
mente, Gujral convocò un comitato di ministri di Stato per occuparsi della questione: Confesso con parecchio rimpianto e sgomento che le nostre conquiste furono assai marginali. Riuscimmo a impiantare due fabbriche, ma non fummo capaci di intaccare minimamente la disoccupazione. Si fecero alcuni progressi nell'agricoltura, ma non era un gran risultato, poiché i prodotti agricoli crescevano comunque. Gran parte delle concessioni fu utilizzata dalle industrie più che altro nell'area dello Jammu, ma quasi per nulla nel Kashmir. Il maggiore insuccesso sta nel fatto che avremmo dovuto concentrarci di più sugli investimenti pubblici. Al di là dei meriti e dei demeriti, gli investimenti nel settore pubblico incoraggiano quello privato. E dal momento che il Kashmir appariva sempre inquieto, per una ragione o per l'altra i privati erano assai restii a investire.79 Dharma Vira, un impiegato statale, ricordò comunque quanto i kashmiri stessero meglio in questo periodo rispetto alle loro condizioni sotto il maharajah: «Allora vedevo gente che arrivava in gran numero, vestita solo di stracci, dicendo "Dio dacci da mangiare". Ma oggi il livello di vita è cambiato. E il denaro indiano che ha prodotto questo cambiamento»80. Attribuiva l'attuale miseria del popolo kashmiri all'avidità dei suoi leader. La vittoriosa lotta dell'Algeria contro la Francia e la resistenza vietnamita agli Stati Uniti mostravano ai nazionalisti kashmiri in esilio in Pakistan che, dopo tutto, un modo per cambiare lo status quo doveva pur esserci. Nel 1965 Amanullah Khan, Maqbool Butt e diversi altri si erano riuniti per formare un partito politico nell'Azad Kashmir. «Un giorno vennero a casa mia per discutere non soltanto della formazione del partito, ma per chiedermi di partecipare», ricorda Muhammad SaraP1. «Non riuscimmo ad accordarci, perché io insistevo sul fatto che il Partito avrebbe dovuto avere, come obiettivo politico, l'annessione dello Stato al Pakistan». La nuova formazione politica si sarebbe chiamata Plebiscite Front (distinta dal Plebiscite Front costituito nella valle). Il braccio armato, che avrebbe ottenuto una maggiore notorietà, fu denominato Jammu and Kashmir National Liberation Front (NLF). «Dicevamo che non poteva esserci libertà senza versare il sangue nostro e quello del nemico», ha detto Amanullah Khan82. Come raccontò più tardi Butt: «Amanullah Khan e alcuni altri del mio gruppo erano d'accordo con la mia proposta in favore di una lotta di tipo algerino per liberare i kashmiri dall'occupazione indiana»81. Butt, venuto per la prima in Pakistan nel 1958, tornò in segreto nella valle nel giugno del 1966; per quattro mesi addestrò compagni del luogo al sabotaggio e fondò cellule segrete. Nel settembre del 1966, si scontrò con l'esercito indiano durante un conflitto a fuoco nel villaggio di Kunial, presso la sua città natale, Hand-
wara; restarono uccisi un suo compagno e un ufficiale indiano. In quanto comandante di quella che era denominato « O I D » (Operations against Indian Domination), fu accusato con alcuni altri di sabotaggio e di omicidio. Detenuto nel carcere femminile di Srinagar, difese così la propria lotta armata: Non potevo rassegnarmi alla nuova situazione politica determinata dalla destituzione e dall'arresto dello sceicco Abdullah nel 1953. Il suo successore, Bakshi Ghulam Muhammad, aveva aggiunto, più o meno contro la volontà della gente, qualche legge in più all'armamentario della repressione. Qualunque cittadino poteva essere detenuto in carcere per cinque anni d'un sol colpo e il governo non aveva alcun obbligo di informare i detenuti politici sulle ragioni della carcerazione. La vittima indifesa poteva essere arrestata di nuovo dopo il rilascio e incarcerata per un altro periodo di cinque anni.8-1 Butt fu condannato a morte, con un altro attivista, nel settembre del 1968, ma, prima dell'esecuzione, i due evasero dal carcere e fuggirono oltre la linea del cessate il fuoco, nell'Azad Kashmir. «Ciò fece sensazione ed elettrizzò la popolazione, che esultò per la loro brillante evasione», scrive Saraf. «Potrebbe esserci una prova migliore dell'innato odio dei kashmiri per l'India del fatto che per un mese essi furono protetti, trasportati e guidati dalla loro gente e fatti entrare al sicuro nell'Azad Kashmir nel gennaio 1969?»85. Lo sceicco Abdullah era stato scarcerato nel 1968. A sostegno della sua liberazione, Jai Prakash Narain, vecchio amico socialista di Nehru e compagno nel movimento di liberazione, aveva scritto alla signora Gandhi: Noi professiamo la democrazia, ma governiamo con la forza nel Kashmir [...] il problema esiste non perché il Pakistan vuole prenderselo, ma perché tra la gente c'è un profondo e diffuso malcontento politico. [...] Quale che sia la soluzione, essa deve essere trovata entro i limiti dell'annessione. E in questo che il ruolo dello sceicco può diventare decisivo. Perché propugno il suo rilascio? Perché ciò potrebbe darci l'unica possibilità che abbiamo di risolvere il problema del Kashmir.'"' Dopo la scarcerazione, Abdullah riprese il suo legame con Prem Nath Bazaz, che gli aveva spesso fatto visita in prigione. Insieme parteciparono a due raduni, tenutisi nel 1968 e nel 1970, per accertare le opinioni della gente sul Kashmir. Nel suo discorso inaugurale, Jai Prakash Narain sottolineò che nessun governo indiano avrebbe potuto accettare una soluzione al problema del Kashmir che ponesse quest'ultimo al di fuori dell'Unione; incoraggiò così i leader kashmiri ad avviare un dialogo con il go-
verno. Nel raduno del giugno 1970, lo sceicco mise nuovamente in rilievo il bisogno di libertà e di autodeterminazione del suo popolo. Quando Ved Bhasin, direttore del «Kashmir Times», fece rilevare il voltafaccia della leadership kashmira, egli ribatté che non era stato lui a rimangiarsi il proprio impegno, ma Nehru, che lo aveva tenuto in carcere e non aveva rispettato gli impegni presi davanti al Consiglio di Sicurezza87. Dopo il 1970, la situazione dell'ordine pubblico nella valle peggiorò: malgrado le proteste e le dimostrazioni fossero abituali, era emerso un nuovo fenomeno di violenza sistematica. Le autorità indiane imputarono i frequenti atti di sabotaggio a un gruppo noto come Al Fatah, presumibilmente filopakistano, ma non si accertò né la composizione né da chi prendesse effettivamente ordini. Nel gennaio del 1971, un aereo delle linee indiane, denominato Ganga, in volo da Srinagar a New Delhi, fu dirottato da due giovani kashmiri armati di una bomba a mano (si scoprì poi che era di legno) e di una pistola. L'aereo fu deviato senza pericoli su Lahore, ai ventisei passeggeri fu concesso di scendere e poi venne fatto esplodere. Il dirottamento creò un'enorme euforia in Pakistan, dove era ancora viva la delusione per il fallimento della guerra del 1965. Una folla di centinaia di migliaia di persone si raccolse all'aeroporto di Lahore, Maqbool Butt venne alla ribalta incontrando i dirottatori e rivendicando la responsabilità del dirottamento. I due kashmiri furono dapprima trattati da eroi, ma in seguito, dietro pressione dell'India, vennero arrestati dalle autorità pakistane. Il Pakistan sostenne poi che il dirottamento era stato un «imbroglio» progettato dai servizi segreti indiani88. Immediata conseguenza dell'incidente fu il divieto indiano di sorvolo tra il Pakistan Occidentale e quello Orientale, circostanza che tese le relazioni tra i due settori prima della guerra, scoppiata nello stesso anno. I rapporti di Maqbool Butt con i dirottatori furono considerati una dimostrazione del suo impegno nella lotta per la libertà nel Kashmir e così non gli venne intentata alcuna azione legale, né in Pakistan né nell'Azad Kashmir. Ma quando nel 1976 ritornò nella valle, fu catturato e incarcerato per l'omicidio di un impiegato di banca. Stavolta non riuscì a evadere e rimase in prigione. Dopo questo nuovo arresto, Amanullah Khan si trasferì in Inghilterra. «Cambiammo il nome del National Liberation Front, perché in Inghilterra non potevo gestire un'organizzazione con uno statuto che prevedeva la lotta armata tra i suoi obiettivi». L'organizzazione fu dunque trasformata nello Jammu and Kashmir Liberation Front (JKLF) e per dieci anni Amanullah Khan operò da Birmingham. «Ero solito fare la spola tra Londra, New York, Amsterdam, Berlino, proiettando il Kashmir a livello internazionale. Questo infastidiva molto gli indiani» 8 '.
5.6. La guerra e Simla Nel 1971, il presidente Yahya Khan tenne le elezioni promesse nel Pakistan Orientale e Occidentale, ma il loro esito fu traumatico. La netta vittoria nel settore orientale della Awami League, guidata dallo sceicco Mujib-ur Rahman, fu contestata da Bhutto e dal suo Partito del Popolo, che aveva conquistato la maggioranza nel Pakistan Occidentale. Bhutto propose di consegnare il potere ai partiti di maggioranza di entrambe le aree, ma dopo la rottura dei negoziati, lo sceicco Mujib avanzò la richiesta di un paese indipendente per i bengalesi, il Bangladesh. «E un'India impaziente si intromise», scrive M.J. Akbar 90 .1 rapporti tra India e Pakistan si erano andati costantemente deteriorando per tutto il 1971 e la terza guerra tra i due stati condusse alla disgregazione del Pakistan così com'era stato creato nel 1947. La pesante repressione del movimento secessionista da parte dell'esercito pakistano provocò una forte reazione in India. «Il principale movente dietro questa protesta erano i sentimenti umanitari», scrive il biografo di Indirà Gandhi, Inder Malhotra, «ma molti indiani videro in quella situazione straziante l'occasione di ridimensionare il Pakistan» 91 . Il ruolo di Indirà Gandhi nella creazione del Bangladesh è motivo di orgoglio per i cittadini indiani e di odio per quelli pakistani, che ritengono ancora l'India responsabile dello smembramento del loro paese. Il 16 dicembre 1971, in una sconfitta umiliante, l'esercito pakistano si arrese a quello indiano nell'ippodromo di Dacca. L'India fece 94.000 prigionieri di guerra, soprattutto soldati pakistani, e occupò circa 13.000 chilometri quadrati di territorio pakistano nel Sind, compresa quella parte del Rann di Kutch ceduta in virtù dell'arbitrato del 1965. «L'atteggiamento del governo indiano dopo la guerra», dice l'ex ministro degli Esteri indiano J.N. Dixit, «smentì la teoria di coloro che credevano ancora che il nostro paese fosse contrario all'esistenza del Pakistan. Se l'India avesse voluto smembrare quest'ultimo completamente, l'esercito avrebbe potuto marciare dritto su Rawalpindi» 92 . La guerra non si estese allo Jammu e Kashmir, ma esso rimase un ostacolo alla completa normalizzazione delle relazioni. In una lettera aperta al presidente Richard Nixon, Indirà Gandhi scrisse: «Noi vogliamo una pace duratura con il Pakistan. Ma esso rinuncerà alla sua incessante, benché inefficace, agitazione degli ultimi ventiquattro anni a proposito del Kashmir?» 9 '. , Alla fine di giugno del 1972, a Simla, la signora Gandhi incontrò Zulfikar Ali Bhutto, nel frattempo divenuto nuovo presidente del suo paese94. Come riconosceva il libro bianco indiano sulla guerra, il Pakistan era «economicamente distrutto e psicologicamente ferito mentre l'India stava provando l'euforia del trionfo»95. Sembrava che Indirà Gandhi potesse conseguire qualunque obiettivo politico avesse voluto. L'accordo di Simla si ri-
feriva per lo più al ripristino della pace tra i due paesi nell'immediato dopoguerra; il paragrafo relativo allo Jammu e Kashmir è inconcludente: Nello Jammu e Kashmir, la linea di controllo derivante dalla linea del cessate il fuoco del 17 dicembre 1971 deve essere rispettata da entrambe le parti, senza pregiudicare la posizione riconosciuta dell'altra parte. Nessuna delle due parti deve cercare di modificarla unilateralmente, senza riguardo per le reciproche divergenze e per l'interpretazione legittima. Ambedue le parti si impegnano inoltre ad astenersi da minacce o dall'uso della forza in violazione di questa linea. I due governi concordarono inoltre di incontrarsi nuovamente «in un momento a venire opportuno per entrambi», al fine di discutere ulteriormente le modalità di «una sistemazione definitiva dello Jammu e Kashmir e la ripresa delle relazioni diplomatiche»96. E da rilevare l'assenza, nell'articolo, di qualunque menzione del referendum. T.N. Kaul, membro della delegazione indiana alla riunione plenaria di Simia, registrò la propria conversazione con Zulfikar Ali Bhutto: «A Taskent, quando era ministro degli Esteri, lei disse che il Kashmir è la causa prima di tutte le nostre divergenze. Oggi lei, Presidente, ha l'opportunità di raggiungere una risoluzione definitiva della questione pacificamente e bilateralmente. Lo farà?». Sorrise e replicò: «Lei ha ragione, signor Kaul, su quel che dissi a Taskent. Ma là io non rappresentavo un paese sconfitto come lo faccio oggi; se accetto qui un qualunque assetto del Kashmir, sarò accusato dal mio popolo di aver ceduto alle pressioni».97 Dai colloqui con Bhutto, gli indiani trassero tuttavia l'impressione che, una volta ritornato in patria, egli avrebbe preparato il terreno per un accordo definitivo. I pakistani non si trovavano nella condizione di poter insistere per qualche concessione e gli avversari politici di Bhutto lo accusarono di avere accettato segretamente lo status quo quale soluzione permanente. Quando nel 1978 andò sotto processo per complotto a scopo di omicidio, fu sollevata quella che egli definì la «frottola» della clausola segreta. «Se l'accordo di Simia avesse contenuto una clausola segreta sul Kashmir, sarebbe stata svelata da tempo», rispose98. Affermò inoltre che sul piano giuridico non esisteva alcuna differenza, come avvertivano alcuni commentatori, nel cambiare il nome della linea del cessate il fuoco in linea di controllo: «La linea del cessate il fuoco è una linea di controllo e la linea di controllo è una linea del cessate il fuoco. Sono termini intercambiabili»95. Eppure persisteva ancora l'idea di una risoluzione segreta della controversia. Nell'aprile del 1995, un ex segretario della signora Gandhi, P.N.
Dhar, scrisse al «Times of India» che Bhutto aveva accettato la linea del cessate il fuoco come confine ufficiale: Bhutto acconsentì non soltanto a mutare la linea del cessate il fuoco in una linea di controllo, per la quale aveva in precedenza proposto il termine «linea di pace», ma accettò anche che alla linea fossero gradualmente attribuite le «caratteristiche di un confine internazionale». [...] Un aspetto importante della proposta era che nessuno dei due paesi guadagnava o perdeva territorio a causa della guerra. Inoltre essa non implicava alcun trasferimento di popolazione da una parte all'altra. I kashmiri come comunità etnica venivano lasciati indivisi sul versante indiano. La linea di controllo era pertanto una frontiera etnica e linguistica. In effetti, nel 1947, al momento della spartizione, essa era anche una frontiera ideologica, essendo il limite dell'influenza politica dello sceicco Muhammad Abdullah e del suo partito della National Conference.100 J.N. Dixit, anch'egli presente a Simla, concordava con Dhar. L'idea di convertire la linea del cessate il fuoco in una linea di controllo e successivamente in una frontiera ufficiale era «concepita in modo tale da far risultare chiusa la controversia sullo Jammu e Kashmir»101. Muhammad Sarai ritiene che Bhutto convinse la signora Gandhi dell'impossibilità di risolvere tutti i problemi tra India e Pakistan in una volta: «Era una persona molto intelligente. Disse alla signora Gandhi: "Si riservi di decidere e io lo farò ancor più". Chiamarono la linea del cessate il fuoco linea di controllo, ma non faceva alcuna differenza». Saraf crede anche che gli indiani non volessero un'altra dittatura militare in Pakistan, eventualità che si sarebbe potuta presentare se Bhutto fosse stato forzato a sistemare il Kashmir. «Era preferibile avere Bhutto e fare un compromesso»102. Quasi tutti coloro che furono direttamente coinvolti a Simla sono morti. P.N. Haksar, il capo dei negoziatori, ottantaduenne nel 1995, era orgoglioso di ricordare la parte svolta nella redazione dell'articolo relativo al Kashmir: «E troppo semplicistico dire che Bhutto venne meno a ogni promessa fatta. L'idea era di cercare di ripristinare fiducia e sicurezza reciproche per porre le relazioni indo-pakistane su un fondamento durevole di pace». Tutte le divergenze dovevano essere appianate passo dopo passo e il Kashmir era una parte di questa trafila. Egli si oppose anche, come fece Bhutto, all'idea secondo cui cambiare il nome della linea del cessate il fuoco in linea di controllo (talvolta denominata anche «linea di controllo effettivo») costituisse un riconoscimento di fatto del suo equivalere a un confine internazionale. «Il cessate il fuoco venne imposto dall'ONU, un'organizzazione multilaterale; la linea di controllo mostrava il nuovo bilateralismo del rapporto». Haksar riteneva comunque che l'esercito pakistano non avrebbe ceduto il proprio potere, il che impediva lo sviluppo del rapporto bilaterale"".
Anche i commentatori indiani di oggi ritengono che Indirà Gandhi perse l'occasione della sua carriera politica di risolvere la questione del Kashmir una volta per tutte. «Ancor più scandalosamente che a Taskent, il vantaggio conquistato dall'esercito indiano fu perso dai suoi padroni civili», scrive Ajit Bhattacharjea. «La signora di ferro dell'India e i suoi consiglieri si lasciarono sfuggire l'occasione. [...] Un portavoce ufficiale respinse le critiche asserendo che non sarebbe stato corretto dubitare della buona fede di Bhutto. L'India avrebbe pagato pesantemente per aver ceduto alle lusinghe»104. Invece di credere a un accordo segreto, è molto più verosimile pensare che Bhutto sia riuscito a convincere Indirà Gandhi che non sarebbe potuto sopravvivere politicamente all'annuncio di una sistemazione del Kashmir, come alla separazione del Pakistan Orientale. «La signora Gandhi comprese che Bhutto voleva aprire un nuovo capitolo e sarebbe iniziato un periodo di riconciliazione e di amicizia. Acconsentì così ad appoggiarne in qualche modo la reputazione politica interna», dice Girish Saxena, presente a Simia come membro del RAW (Research and Analysis Wing), il servizio segreto indiano. Finché Bhutto fu vivo, non ebbero mai luogo ulteriori negoziati sul Kashmir, ma, dice Saxena, «malgrado un certo chiasso, il presidente pakistano non fece mai nulla di rilevante sul fronte diplomatico per scompaginare Simia o per disattendere le disposizioni sulla linea di controllo. Non procedette oltre per cementare l'esito dell'accordo e quanto era stato deciso; lasciò incerta l'intera faccenda»103. Dalla sua base nel Regno Unito, Amanullah Khan prese nota del discorso di Bhutto all'Assemblea Nazionale dopo il ritorno da Simia: Mi hanno detto: «sistema il Kashmir se vuoi (sic) i prigionieri di guerra». Ho risposto: «Non posso». Hanno detto: «almeno regola i principi». Se regolo i principi ciò implica una sistemazione, questo è quel che ho detto loro, perché vi è soltanto un unico principio, ed è l'autodeterminazione. [...] Se la gente dello Jammu e Kashmir vuole la propria indipendenza, se vogliono essere liberati dal giogo induista, se vogliono essere un popolo libero in fraternità, in amicizia e in solidarietà con il Pakistan, dovranno dare il via e noi saremo con loro. Anche se l'accordo di Simia sarà spezzato, anche se metteremo a repentaglio tutti i nostri rapporti con l'India, io ti dico, Signore, dal banco di questa Camera, con l'impegno solenne del popolo del Pakistan, che se domani 0 popolo del Kashmir avvierà un movimento di liberazione, se domani lo sceicco Abdullah o [il Mirwaiz] Farooq o altri daranno inizio a un movimento di popolo, noi saremo con loro, non importa con quali conseguenze.106 Successivamente, senza ulteriori impegni se non quelli espressi nell'accordo, Bhutto si assicurò i prigionieri di guerra e i 13.250 chilometri quadrati di territorio.
A dispetto della retorica del presidente, da ciò che udì nel corso della sua visita in Pakistan nel 1974107, anche Farooq Abdullah giunse a concludere che la questione del Kashmir era risolta. «L'intera burocrazia del Pakistan e lo stesso segretario di Bhutto mi dissero che si era giunti a una soluzione definitiva; non poteva esserci nulla di più. Ciò che noi (i pakistani) abbiamo preso (nel Kashmir) ce lo teniamo, quello che hanno preso loro se lo tengono, ed ecco come stanno le cose»108. Disse anche che questa informazione gli venne confermata nei colloqui con D.P. Dhar. «Bhutto aveva abbondantemente chiarito alla signora Gandhi che la linea di controllo effettivo sarebbe divenuta il confine, che nel corso degli anni sarebbe stato in grado di convincere il proprio popolo che ciò che è dell'India è dell'India e che ciò che è nostro è nostro»109. Stanley Wolpert afferma che Bhutto non intese mai chiudere la rivendicazione pakistana del Kashmir: «L'accordo gli era occorso principalmente per provare al resto del mondo - alla dubbiosa Londra così come alle scettiche Washington e Mosca - che i pakistani restavano nel "gran giro"»110. L'assenza di una qualsiasi dichiarazione formale in un senso o nell'altro lasciò la situazione soggetta a cambiamenti, condizionata dalle circostanze politiche in India, in Pakistan e nello Stato dello Jammu e Kashmir. Inoltre, come ebbero a osservare i kashmiri di entrambi i versanti della linea di controllo, l'accordo di Simla era stato negoziato senza la loro partecipazione. Nell'Azad Kashmir, oltre che per il suo sostegno ai kashmiri al di là della linea di controllo, Bhutto è ricordato anche per essere stato il primo leader pakistano a introdurre riforme e investimenti. «Non fu che all'inizio degli anni Settanta e con Zulfikar Ali Bhutto che il governo pakistano incominciò a interessarsi di noi», ha detto un funzionario governativo dell'Azad Kashmir nel 1994. «Affluì il denaro e le nostre condizioni migliorarono»111. Fino ad allora l'economia era stata a un livello di sussistenza: nel 1947 vi erano 256 strade massicciate percorribili con il bel tempo, nel 1977 erano cresciute fino a 939; nel 1947 non vi erano ospedali e le scuole superiori erano soltanto sei, nel 1977 esistevano undici ospedali e 136 scuole superiori112. Durante la sua visita del 1974 a Muzaffarabad, Farooq Abdullah tuttavia osservò che il modo migliore per garantire ai kashmiri della valle che stavano meglio con l'India era far loro visitare l'Azad Jammu e Kashmir e far loro vedere quanto quella regione fosse povera1". Fino agli anni Settanta, l'Azad Jammu e Kashmir procedette secondo l'essenziale sistema democratico dapprima introdotto da Ayub Khan nel 1960 e poi emendato nel 1964 e nel 1968 per accogliere le istanze dei kashmiri Azad del luogo e del comitato dei profughi, i quali volevano una maggiore rappresentanza. Ma i consigli locali avevano poteri limitati e i loro fondi erano scarsi: essi rimasero pertanto dipendenti dal Pakistan. La Legge per il governo dell'Azad Kashmir del 1970, approvata sotto il presidente Yahya Khan, istituì un sistema di governo presidenziale che, in
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teoria, prevedeva un impianto pienamente democratico. Quando Bhutto formulò la Costituzione pakistana del 1973, che sostituì un sistema di governo parlamentare a quello presidenziale, il medesimo sistema venne introdotto anche nell'Azad Kashmir. Come in Pakistan, il capo del governo era il primo ministro e il presidente era solo un capo nominale; nondimeno, l'Àzad Kashmir Council di Islamabad continuò a esercitare una rilevante giurisdizione sugli affari di quel territorio. Il dato più significativo è comunque che, malgrado l'amministrazione separata dal resto del Pakistan - secondo Leo Rose, che nel 1989 ha condotto uno studio dettagliato sulla politica locale - , fu questa la prima volta in cui il Pakistan «assunse un ruolo istituzionale diretto e aperto nell'amministrazione dell'Azad Kashmir», sulla scia dell'intesa di Simla. In effetti, Rose interpreta l'accordo come «un primo passo verso la reale adesione dell'Azad Kashmir al Pakistan, nella forma come nei fatti» 1 ".
5.7. L'accordo del Kashmir Il sostegno dato a gran voce da Bhutto al diritto dei kashmiri all'autodeterminazione non poteva nascondere il consistente indebolimento della posizione pakistana in relazione a ogni ulteriore iniziativa nel Kashmir. Il fallimento della guerra del 1965, che Bhutto aveva addossato ad Ayub, la sconfitta del Pakistan e la comparsa del Bangladesh indipendente nel 1971 lasciarono ai kashmiri, che avrebbero preferito l'unione con il Pakistan, poche speranze per il futuro. G.M Sadiq era morto nel mezzo della guerra del 1971 ed era stato sostituito come ministro capo da un ex compagno, Syed Mir Qasim, presidente dello Jammu and Kashmir Congress Party, nato nel 1965 dalla vecchia National Conference. Lo sceicco Abdullah aveva voluto partecipare alle imminenti elezioni statali, ma nel gennaio del 1971 il Plebiscite Front era stato messo al bando e lo stesso Abdullah espulso dallo Stato; il governo indiano associava ancora il Front alle attività del gruppo terroristico Al Fatah. Lo sceicco fece del sarcasmo sul divieto: «Più di un milione di membri politicamente consapevoli del Plebiscite Front, dichiarato illegale, sono stati opportunamente tolti di mezzo per spianare la strada a una facile vittoria del Congresso. Così, hanno sbattuto la porta dei procedimenti democratici in faccia ai veri rappresentanti del popolo»" 5 . In assenza di alcuna seria opposizione, nel marzo 1972, Mir Qasim vinse le elezioni con un'ampia maggioranza. Il Jamaat-i Islami, con la sua propensione filopakistana, conquistò cinque seggi e il Jana Sangh tre. Il Mirwaiz Maulvi Farooq, che aveva fondato il proprio Awami Action Committee nel 1964, denunciò brogli e manipolazioni. Mir Qasim protestò allora che le elezioni erano state «le più libere e le più regolari»" 6 , ma nelle sue memorie colloca l'esclusione
del Plebiscite Front e di Abdullah all'interno di un più ampio proposito di trattare con lo sceicco per cercare di risolvere il conflitto in corso tra New Delhi e lo Stato del Kashmir: «Se le elezioni fossero state libere e regolari, la vittoria del [Plebiscite] Front ne sarebbe stata la conclusione scontata. E, in quanto partito vittorioso, esso avrebbe certamente parlato da una posizione di forza, irritando così la signora Gandhi, che avrebbe potuto rinunciare alla propria volontà di negoziare con lo sceicco Abdullah. Il che a sua volta avrebbe condotto a uno scontro tra il centro e il governo dello Jammu e Kashmir»117. Dopo le elezioni, Mir Qasim iniziò ad attenuare un certo numero di restrizioni verso gli oppositori: nell'aprile 1972 a Begum Abdullah fu consentito di tornare nello Stato, i detenuti politici furono liberati e, in giugno, fu abolito l'ordine di espulsione per Abdullah, Mirza Afzal Beg e G.M. Shah. Fu anche tolto il bando del Plebiscite Front, circostanza che fornì nuovamente allo sceicco una tribuna politica. Riferendosi all'intesa di Simla firmata di recente, questi affermò che né l'India né il Pakistan potevano discutere il destino dello Stato dello Jammu e Kashmir senza la partecipazione dei kashmiri. Diede rilievo all'attenzione di Bhutto verso l'autodeterminazione, ma sottolineò comunque la mancanza di commenti sulla situazione nell'Azad Kashmir, dove la gente avrebbe gradito lo stesso diritto all'autodeterminazione. Soprattutto, concentrò l'attenzione su una maggiore autonomia entro l'Unione Indiana, piuttosto che sul referendum non convocato. «Non vi è alcuna contesa con il governo dell'India sull'annessione: vi è invece sulla struttura dell'autonomia interna. Non bisogna dimenticare che siamo stati noi a portare il Kashmir in India, altrimenti esso non ne avrebbe mai fatto parte»118. Quando Zulfikar Ali Bhutto si richiamò nuovamente all'autodeterminazione del popolo kashmiro, Abdullah si scagliò contro qualunque ingerenza negli affari interni dello Stato. Indirà Gandhi decise di trarre profitto da questo atteggiamento più favorevole verso l'India con una serie di negoziati, che si protrassero per più di un anno. Nelle sue memorie, Abdullah giustifica così il proprio consenso a quello che sarebbe stato poi conosciuto come «accordo del Kashmir»: «Volevamo soltanto che l'articolo 370 fosse mantenuto nella sua forma originaria. [...] La nostra sollecitudine a giungere al tavolo dei negoziati non implicava un mutamento dei nostri obiettivi ma un cambiamento di strategia»119. Voleva in sostanza che l'orologio fosse rimesso indietro a prima del 1953, cioè prima della sua destituzione da parte di Nehru, ma la signora Gandhi non fece molte concessioni. Non ci sarebbero state nuove elezioni, ma lo sceicco sarebbe stato eletto ministro capo dal Congresso. «Dimenticando le mie esperienze passate, accettai di cooperare con il Congresso, ma me ne pentii presto»120. I dettagli dell'accordo in sei punti vennero annunciati da Indirà Gand-
hi al Parlamento indiano il 24 febbraio 1975. «La signora era in gran forma quel giorno», scrive M.J. Akbar. Il riconoscimento della condizione di Abdullah quale leader del Kashmir laico «fu il suo migliore risultato. Non mise indietro l'orologio, ma lo prese e lo caricò di nuovo e fu grazie a lei che il Kashmir conobbe uno splendido decennio di libertà e di pace. Alla notizia, nella nazione vi fu grande gioia»121. Lo statuto speciale del Kashmir, tutelato dall'articolo 370 della Costituzione indiana, fu mantenuto, tuttavia lo Stato venne definito «un'unità costitutiva dell'Unione Indiana». Il governo indiano poteva «emanare leggi relative alla prevenzione di attività indirizzate alla negazione, alla messa in discussione o al disturbo della sovranità e dell'integrità territoriale dell'India, che determinino la cessione di una porzione di territorio dell'India da parte dell'Unione o che arrechino oltraggio alla bandiera nazionale indiana, all'inno nazionale e alla Costituzione»122. In effetti, ciò affidò all'India il controllo dei settori di maggiore importanza. Non avrebbe avuto luogo alcun ritorno allo statuto di prima del 1953; i titoli di sadar-i-riyasat e primo ministro, prova dello statuto speciale del Kashmir, non furono riutilizzati; al contrario, come per gli altri stati, dovevano rimanere governatore e ministro capo. I cronisti dell'epoca ritennero che la questione del referendum e dell'autodeterminazione potesse essere ormai sepolta. L'adesione dello Jammu e Kashmir da parte del maharajah autocratico nel 1947 era stata confermata dallo sceicco Abdullah, leader popolare, che quasi trent'anni dopo aveva ancora il consenso della maggioranza nello Stato. Dal punto di vista indiano, il movimento per l'autodeterminazione giunse di fatto alla conclusione con l'accordo del 1975123. Il Pakistan non fu affatto felice dell'accordo. La tensione con l'India era nuovamente accresciuta dopo la prima esplosione nucleare indiana nel maggio 1974, risoltasi nella ferma determinazione, da parte dei leader del Pakistan, ad acquisire un potenziale atomico. A giugno essi intensificarono il loro clamore per un Kashmir liberato per protestare contro i negoziati in corso, che si sarebbero conclusi con l'accordo del Kashmir. Quando questo fu reso noto, venne definito un «tradimento» e Zulfikar Ali Bhutto convocò uno sciopero in tutto il Pakistan per il 28 febbraio 1975. Dichiarò inoltre che l'accordo aveva violato le condizioni di Simla e le richieste di un referendum da parte dell'ONU. Anche il governo cinese espresse la propria disapprovazione. Nello Stato dello Jammu e Kashmir, il Mirwaiz Maulvi Farooq riteneva che Abdullah avesse rinunciato al diritto dei kashmiri all'autodeterminazione; per tutto il 1974 si erano verificati scontri tra il suo Awami Action Committee e il Plebiscite Front. Il Jana Sangh di Jammu e di Delhi protestò contro l'accordo: come al solito contrari allo speciale trattamento preferenziale concesso alla valle rispetto allo Jammu, i suoi sostenitori volevano l'abrogazione dell'articolo 370 e l'integrazione dell'intero Stato nel-
l'Unione Indiana. Abdullah non si rivelò tuttavia il docile burattino che il governo indiano sperava potesse forse essere alla sua tarda età e, nell'aprile 1975, parlò di una fusione con l'Azad Kashmir124. Sia lui sia Mirza Afzal Beg avevano assunto il potere come candidati indipendenti in elezioni suppletive simulate sotto gli auspici del Partito del Congresso, ma rifiutarono la proposta di un'alleanza formale con quest'ultimo. M.J. Akbar attribuisce questa circostanza alle rivalità personali tra il ministro capo uscente, Mir Qasim, e Muhammad Mufti Sayeed, un ministro di rilievo del Congresso: allorché entrambi si resero conto che per loro o i loro parenti non ci sarebbe stato posto in un governo di coalizione, dissuasero lo sceicco dal prendere in considerazione l'idea125. Akbar non fornisce però alcuna prova documentaria di questa asserzione. Mir Qasim assunse una carica più prestigiosa nel governo di Indirà Gandhi e si impegnò nella collaborazione tra Congresso e National Conference126. Per i primi due anni dell'amministrazione di Abdullah, soltanto quest'ultimo e Beg furono ufficialmente al governo. La National Conference, inattiva per tanti anni, era stata rianimata da ciò che restava del Plebiscite Front, ma non era rappresentata nell'assemblea legislativa, controllata dal Congresso. Lo sceicco si servì pertanto della propria famiglia per avere appoggio: sua moglie Begum Abdullah, i suoi due figli Farooq e Tariq e suo genero Ghulam Muhammad Shah. La cosa gli attirò accuse di corruzione e nepotismo. Prem Nath Bazaz, che come sempre restava un commentatore critico degli eventi, descrisse la nuova amministrazione di Abdullah come «una democrazia tramite l'intimidazione e il terrore»127. Il ritorno al potere dello sceicco raggiunse il massimo di visibilità nell'ottobre 1975, quando Indirà Gandhi, che al momento governava l'India con i poteri del regime di emergenza, visitò Srinagar. La sua escursione sul lago Dal su una barca sospinta da rematori in turbante rievocò le visite degli imperatori Moghul: la folla era disposta lungo le rive e applaudiva. Comunque, la sua presenza a Srinagar rammentò decisamente ai kashmiri i legami rafforzati con il governo di New Delhi, guidato da un primo ministro che aveva limitato le libertà civili in tutta l'India, imbavagliato la stampa e fatto arrestare i propri oppositori politici. Nel marzo 1977, la signora Gandhi perse le elezioni generali in India a favore del partito Janata; i due anni del regime di emergenza ne avevano fortemente ridotto la popolarità. «Quando fu evidente che il Janata Party avrebbe formato il governo al centro, i capi del Partito del Congresso dello Stato congiurarono per prendere il potere nel Kashmir», scrive Abdullah. «Fu presentata una petizione al governatore nella quale si dichiarava che non avevo più la loro fiducia»128. Moraji Desai, il nuovo primo ministro, sciolse l'assemblea dello Stato e indisse nuove elezioni, che diedero allo sceicco Abdullah l'occasione per ristabilire da sé le proprie credenziali politiche. P.S. Verma osserva che le elezioni del 1977 furono «relativa-
mente libere dal vizio dei brogli e da altre irregolarità connesse» e attribuisce questa circostanza al fatto che il Partito del Congresso non era al potere a Delhi e il Janata era ancora agli inizi. Pertanto da Delhi non giunse alcun patrocinio ufficiale. Lo sceicco, ancora la maggiore risorsa della National Conference, fu colpito nel corso dello stesso 1977 da un grave attacco cardiaco; non fu in grado di condurre un'ampia campagna elettorale e i suoi candidati dovettero fare affidamento ai suoi discorsi registrati. Si sparsero voci sulla sua morte, perciò quando apparve disteso su una barella e sollevò la mano destra per mostrare di essere ancora vivo, la folla esultò. Le sue dichiarazioni riferite al Kashmir come a un qaum ('nazione') non restarono inascoltate dalla gente. Maulvi Farooq, che aveva costantemente adottato un atteggiamento favorevole al Pakistan, perse credibilità tra i propri simpatizzanti tradizionali facendo campagna elettorale per il partito Janata, come fece il Jamaat-i Islami. Per guadagnare consenso, Abdullah non esitò nemmeno a giocare la carta pakistana. Nella campagna elettorale vi fu inoltre un risvolto teatrale: Mirza Afzal Beg portava di solito in tasca un pezzo di salgemma pakistano (in opposizione al sale marino indiano) avvolto in un fazzoletto verde; quando il suo discorso raggiungeva l'acme, estraeva il sale con un gesto drammatico e lo mostrava al pubblico, «indicando in tal modo che se il suo partito avesse vinto, il Pakistan non sarebbe stato lontano»129. La National Conference concorse per tutti i settantacinque seggi e ne conquistò quarantasette, di cui trentanove nella valle. Il Jamaat-i Islami vinse un solo seggio, a fronte dei cinque del 1972. All'età di settantadue anni, Abdullah si accingeva ancora una volta ad affrontare la sfida del futuro. Fiducioso nel proprio nuovo mandato, ricominciò a parlare con vigore e i rapporti con il partito Janata, al governo a Delhi, si irrigidirono. Il 23 marzo 1977 minacciò la secessione dall'Unione, se al popolo non fosse stato concesso il posto d'onore secondo la tutela offerta dall'articolo 370 della Costituzione, e avvertì di una «situazione esplosiva». Quando Indirà Gandhi tornò al potere nel 1980, egli continuò a dichiarare provocatoriamente che i kashmiri non erano schiavi né dell'India né del Pakistan, ma sorge 0 dubbio che in questa fase della sua vita la sua retorica fosse destinata soltanto a rassicurare i kashmiri sull'importanza della loro identità culturale - la Kashmiriyat - , senza prevedere alcun cambiamento significativo nello status quo ormai consolidato. Allo stesso tempo, lo sceicco si scontrò con i nuovi problemi dello Stato, il cui carattere politico era cambiato da quando era stato per l'ultima volta al potere nei primi anni Cinquanta. Perdurava l'opposizione all'accordo del Kashmir e all'arena politica si stava avvicinando una nuova classe colta. «La nostra educazione ci ha insegnato che l'accordo non è la risoluzione della controversia sul Kashmir», ha detto un giornalista kashmiro che nel 1975 dirigeva un quotidiano di Srinagar130. «La nostra gioventù
si svegliò e si rese conto che non potevamo più essere schiavi dell'India»; «Noi musulmani sappiamo che siamo stati privati di qualcosa», ha detto Ali, un tessitore di tappeti, nel 1981. «Non ci è stato permesso di unirci all'India o al Pakistan di nostra libera volontà. Piuttosto, siamo stati obbligati a stare con l'India»" 1 . Il Kashmir dipendeva ancora dal turismo e nonostante il progresso economico non esisteva un'industria reale in cui 0 ceto medio potesse avere interessi. I giovani si mossero sempre più non verso il comunismo o il socialismo, ma indietro verso i fondamenti delle rispettive religioni. Musulmani, induisti, sikh, buddisti riaffermarono tutti la loro identità culturale e religiosa, in totale contraddizione con il laicismo che il governo indiano aveva abbracciato sin dall'indipendenza. Malgrado i tentativi dello sceicco Abdullah di venire incontro ai sentimenti regionalisti dello Stato, con la concessione di un piccolo grado di autonomia alle componenti dello Jammu, del Ladakh e della valle, la superiorità numerica di quest'ultima implicò l'egemonia della sua voce. Gli oppositori politici di Abdullah criticavano il suo governo anche per la discriminazione e la mancanza di risultati"2. Nella valle, alcuni dei giovani musulmani furono attratti dalle scuole gestite dal Jamaat-i Islami, ispirato dal crescente movimento fondamentalista, che aveva influenzato i paesi islamici del Medio Oriente. Altri si unirono al Jamaat-i Tulba, un'organizzazione giovanile fondata dal Jamaat-i Islami. Nel 1975, lo sceicco Abdullah aveva ordinato la chiusura delle scuole del Jamaat, in seguito proibì un raduno del Jamaat-i Tulba che si sarebbe dovuto tenere a Srinagar nel 1981. La sua reazione di fronte all'influsso islamico nelle scuole rivelava la sua preoccupazione, ma il Jamaat-i Islami aveva conquistato soltanto un seggio alle elezioni del 1977 e non sembrava rappresentare una forza politica di rilievo. Né Abdullah né nessun altro avrebbe potuto predire la crescita del consenso al movimento islamico che si verificò negli anni seguenti, specialmente dopo la rivoluzione iraniana del febbraio 1979. Questa ripresa non avrebbe potuto essere dimostrata più drammaticamente dalla resistenza all'invasione sovietica dell'Afghanistan, nello stesso 1979. «Una piccola nazione con una popolazione modesta, con risorse e armi limitate, si sollevò in rivolta contro l'attacco sovietico in Afghanistan, al punto che l'Unione Sovietica alla fine si disintegrò», dice Azam Inquilabi, all'epoca insegnante a Srinagar. «Da essa nacquero cinque stati musulmani indipendenti. Così ne traemmo ispirazione: se loro avevano potuto offrire una dura resistenza a una superpotenza, anche noi avremmo potuto combattere l'India»"'.
6. Sbruffoneria e disperazione
La storia ha visto tempi in cui il delitto è stato commesso in un attimo, ma il castigo è stato patito per secoli. SCEICCO ABDULLAH, 1 9 8 1 '
È una linea sottile tra sbruffoneria e disperazione. FAROOQ ABDULLAH 2
Gli anni Ottanta iniziarono pacificamente per la valle del Kashmir. La sua fama di luogo di vacanza idilliaco attirava stranieri da ogni parte, che portavano valuta bene accetta e partivano carichi di oggetti di artigianato tradizionale. La carismatica figura dello sceicco Abdullah quale ministro capo era in notevole contrasto con le personalità che lo avevano preceduto. Il suo accordo con Indirà Gandhi e la successiva vittoria elettorale del 1977 implicavano una temporanea limitazione del controllo degli affari locali da parte del governo di New Delhi. Il Pakistan, dal 1977 governato dalla dittatura militare del generale Muhammad Zia-ul Haq instaurata dopo il rovesciamento di Zulfikar Ali Bhutto3, era assorbito dalla guerra in Afghanistan. Non sembrava che la politica di Zia a proposito del Kashmir fosse molto diversa da quella del suo predecessore: le opzioni del Pakistan dovevano restare aperte. Dietro le apparenze, tuttavia, era diffuso il malcontento; nello Jammu o nel Ladakh lo sceicco Abdullah non era popolare e i gruppi islamici, che avevano avversato l'accordo, stavano acquisendo consenso nella valle. Quando la salute dello sceicco cominciò a guastarsi ed egli, nel 1981, regolò la successione di suo figlio Farooq, ebbe inizio una nuova epoca di violenza.
6.1. Una corona di spine Farooq Abdullah, a differenza di suo padre, non aveva fatto politica nel movimento per la libertà: aveva trascorso gran parte della propria vita adulta in Gran Bretagna, dove si era formato come medico. In una cerimonia che impressionò la folla radunata all'Iqbal Park di Srinagar, il 21 agosto 1981 lo sceicco nominò il suo inesperto discendente presidente della National Conference:
La corona che sto mettendo sul tuo capo è fatta di spine. Il mio primo desiderio è che tu non tradisca mai le speranze del nostro qaum ('nazione'). Sei giovane, dottor Farooq Abdullah, abbastanza giovane da affrontare le sfide della vita, e io prego Dio di darti il coraggio di adempiere alle tue responsabilità verso questo popolo, che io ho coltivato con tanto orgoglio, e a cui ho dato gli anni migliori della mia vita.'1
Le parole di risposta di Farooq furono salutate da un boato di approvazione: «Darei la mia vita piuttosto di farmi gioco dell'onore di questa comunità». Ma, come osserva il giornalista indiano Tavleen Singh: «Era figlio di suo padre, ma non era suo padre. Così non fu capace di prendere sul serio quelle parole se non allora, in quel giorno tumultuoso, per quel momento, quando l'avvenimento e la travolgente risposta della gente lo fecero sembrare un uomo più grande» 5 . Lo sceicco Abdullah potè affidare la propria carica al figlio, ma non poteva passargli la propria esperienza. Come avrebbero mostrato gli eventi successivi, l'ascesa al potere di quest'ultimo giunse troppo facilmente. «In tempi più felici», scrive Ajit Bhattacharjea, «Farooq Abdullah sarebbe risultato un leader ideale per il Kashmir. Alto, di bell'aspetto, affascinante e schietto, egli attrasse facilmente le folle, facendo loro credere che le avrebbe condotte fuori dall'incertezza, dagli intrighi e dalla corruzione che oscurarono gli ultimi giorni di suo padre. Ma era anche impulsivo, ingenuo, accomodante, nonché un principiante nell'amministrazione e in politica» 6 . «Gli piacevano l'attenzione e il divertimento che si accompagnavano al potere, e il clima da corte feudale che circondava suo padre», dice Tavleen Singh. «Era inoltre tanto sorpreso quanto incantato dall'adulazione della gente e delle padrone di casa dell'alta società di Delhi»7. Per il momento, il futuro del Kashmir sembrava comunque certo, la secessione non pareva più un problema e a parlare del referendum non erano più in tanti. I turisti continuavano ad arrivare, si aprivano alberghi lungo il viale di fronte al lago Dal; la produzione di frumento e di frutta aumentava, così come le entrate dell'artigianato del Kashmir, di fama mondiale. «Il boom economico diede allo Stato un clima da festa permanente, obbligando i politici di opposizione, che restavano perplessi, a tenere per sé il proprio pessimismo. Lo sceicco era troppo potente e troppo popolare per essere toccato»8. L'8 settembre 1982 il Leone del Kashmir morì. Dopo la sua morte, anche coloro che lo avevano avversato politicamente ne elogiarono le convinzioni. Shanawaz Khan Niazi, un vecchio amico emigrato in Pakistan, racconta quello che Abdullah rappresentava per una larga maggioranza della gente: Lo sceicco Abdullah era un totale idealista e il suo unico interesse era ottenere il miglior trattamento possibile per il Kashmir e i kashmiri. L'affer-
mazione che mi ripeteva spesso era che il destino aveva svolto un ruolo importante, che le circostanze erano state tali da non permettergli di giungere a un'intesa con i] Pakistan. Ogni piccola occasione che ebbe di mettere in risalto o di dimostrare l'identità separata dei kashmiri, la colse.''
Chi sapeva interpretare gli spostamenti dall'India al Pakistan, all'indipendenza e viceversa, aveva capito che, tra tutti i leader, lo sceicco Abdullah impersonava meglio la Kashmiriyat. A volte, salvaguardarla significava indipendenza, altre volte, quando Delhi era disposta ad allentare le briglie del controllo, significava autonomia entro l'Unione Indiana. E poiché la Kashmiriyat includeva sia musulmani sia induisti, Abdullah aveva optato per la laicità dell'India, promessa da Jawaharlal Nehru nei suoi primi discorsi. Eppure critici come Sardar Abdul Qayum Khan, che da «mujahid» nella guerra del 1947 era divenuto primo presidente e poi primo ministro dell'Azad Jammu e Kashmir, ritengono che Abdullah fosse un «tirapiedi» del governo indiano. «Non aveva focus standi, era una persona insignificante. Un collaborazionista appoggiato dal potere del Partito del Congresso Indiano»10. Qayum stigmatizzò l'accordo con Indirà Gandhi nel 1975 come «una presa di potere dalla porta di servizio» e aveva scarsa simpatia per un vecchio che, probabilmente, dopo tanti anni voleva la pace. Amanullah Khan riconobbe il contributo dello sceicco nei primi anni della lotta per l'indipendenza contro i Dogra, ma poi lo considerò «in gran parte responsabile delle traversie e delle tribolazioni dei kashmiri. Confidò in Nehru molto più di quanto avrebbe dovuto»11. Al funerale, tutte le ombre di inquietudine e di delusione attorno a lui furono dimenticate. «Il dolore, al passaggio del corteo», scrive Tavleen Singh, «scoppiò come un'onda incontrollabile. Il saluto "nostro leone" era sulla bocca di tutti. La gente piangeva, cantava lamenti funebri e proferiva parole malinconiche [...] per quel giorno l'uomo ricordato dal Kashmir non era lo sceicco che era stato ministro capo per cinque anni, ma quello che, per quasi trent'anni, aveva simboleggiato l'identità del paese»'2. C'è una certa ironia nel fatto che la sua tomba di marmo, che guarda il lago Dal, vicino alla moschea Hazratbal, sia oggi protetta da soldati indiani dalle profanazioni da parte dei figli di quei kashmiri di cui aveva sostenuto la causa.
6.2. L'eredità dello sceicco Una volta andatosene lo sceicco Abdullah, in un clima di rinnovata affermazione dell'identità religiosa, fu impossibile impedire l'insorgere di tendenze comunitariste. Nel periodo seguente alla sua morte, il governo statale e quello di Delhi fecero degli errori, che cambiarono il corso degli
eventi e diedero un nuovo impulso alla richiesta non tanto della Kashmiriyat o dell'unione con il Pakistan, bensì òdh'azadi, la libertà per il popolo della valle da quell'India percepita non come laica, bensì come dominata dagli indù. Con la fama di ministro capo «da discoteca», che si divertiva a girare intorno a Srinagar con la sua motocicletta, il primo problema che Farooq Abdullah ereditò dal padre fu la legge dello Jammu e Kashmir sul sussidio per il permesso di insediamento. Prima della propria morte, lo sceicco aveva proposto un disegno di legge che consentiva a chiunque fosse stato cittadino del Kashmir prima del 14 maggio 1954 o a un suo discendente di tornare nel paese, a condizione che giurasse fedeltà a entrambe le costituzioni, quella indiana e quella kashmira. In quanto profugo della valle, Mir Abdul Aziz, sostenitore della Muslim Conference e avversario politico di Abdullah sin dagli anni Trenta, riteneva che questa fosse «l'unica cosa buona che avesse fatto lo sceicco». A Delhi, il progetto, che era stato approvato dall'assemblea legislativa ma aveva bisogno ancora del consenso del governatore per diventare legge, sollevò il timore che simpatizzanti e agenti pakistani potessero attraversare il confine e creare disordine nella valle. Ciò nonostante, Abdullah era obbligato a dare seguito a una misura presentata da suo padre ed era peraltro consapevole della suscettibilità degli indù e dei sikh dello Jammu, che si erano insediati sulla terra di molti dei musulmani che se ne erano andati. Il governo dell'India non approvava che una questione riguardante la cittadinanza, considerata di propria competenza, fosse trattata dallo Stato. «Quel che Abdullah fece per salvarsi la pelle e compiacere i propri padroni indiani fu di rimetterla al parere della Suprema Corte dell'India. Così sarebbe stata accantonata senza alcun effetto», dice Mir Abdul Aziz13. Questi paragonò la situazione a quella dei tanti indiani e pakistani trasferitisi nel Regno Unito in tempi di conflittualità politica, ma ai quali non viene impedito di tornare nei loro rispettivi paesi quando vogliono farlo. E Farooq Abdullah cominciava già a rendersi conto della necessità di bilanciare i bisogni dei kashmiri con le esigenze del governo di Delhi.. Negli affari interni non dimostrò comunque la medesima cautela: i suoi tentativi di eliminare la corruzione furono salutati con entusiasmo dalla gente, ma, si chiede M.J. Akbar, «fu assolutamente saggio abbandonare tutti gli "uomini fidati" del ministero di suo padre dopo averli pubblicamente definiti corrotti?»14. Suo cognato G.M. Shah, sposato con la sorella Khalida, fu proprio uno degli esclusi dal governo del ministro capo. Abdullah fissò le elezioni per il giugno 1983 allo scopo di ottenere un'investitura da parte della popolazione. Indirà Gandhi intendeva tuttavia impiantare in modo stabile il proprio Partito del Congresso (I)" nella valle e chiese così un'alleanza con la National Conference. «Pensavano probabilmente che sarei stato un semplice burattino e avrei preso la direzione
voluta da loro»16, disse Abdullah, che rifiutò l'alleanza, credendo che la gente del Kashmir se ne sarebbe risentita. Si offrì invece di presentare dei candidati deboli in alcune circoscrizioni in modo da consentire al Congresso di conquistare qualche seggio. La signora Gandhi non accettò e alcuni interpreti delle sue azioni successive ritengono che non perdonò mai Abdullah. Tavleen Singh, che si occupava delle elezioni per la stampa indiana, testimoniò lo straordinario interesse del primo ministro verso la campagna elettorale: «Sembrava che la signora Gandhi si stesse giocando il proprio ¿zzai ('onore') sulla vittoria. Dopo rapidissime visite a Jammu, scese nella valle con tutti i fasti e le formalità che accompagnano i primi ministri in visite del genere»17. Nel corso delle sue interviste nella valle, il giornalista chiese se il referendum fosse un problema: «Quasi dovunque la risposta era un enfatico no. La gente diceva che il passato era morto e che partecipavano alle elezioni come indiani»18. Farooq Abdullah era popolare, ma la popolazione votava in effetti in memoria di suo padre. La campagna elettorale portò ad alcune animosità tra la National Conference e il Partito del Congresso. «La propaganda elettorale stabilì un nuovo primato di brutalità, che degenerò spesso in "assoluta volgarità"», scrive il biografo di Indirà Gandhi, Inder Malhotra19. Abdullah stipulò un accordo con il Mirwaiz Maulvi Farooq, l'ostilità del cui zio nei confronti dello sceicco nel 1932 aveva provocato una spaccatura durevole tra i musulmani. «La bakra ('capra')20 filopakistana si congiunse con il leone Abdullah, destando sospetti a Delhi», scrive M.J. Akbar21. Nello Jammu, gli induisti temevano che i più numerosi musulmani della valle si unissero nuovamente contro di loro su base religiosa. Abdullah fece inoltre l'errore di piegarsi alle pressioni della famiglia affinché tra i candidati inserisse alcuni sostenitori di Shah, la cui reputazione era discutibile22, come lo fu la loro lealtà verso Abdullah. I consiglieri di Indirà Gandhi e una parte della stampa pronosticarono una vittoria del primo ministro, ma la National Conference conquistò quarantasei seggi su settantacinque. Il Congresso se ne aggiudicò solo due nella valle. Nello Jammu, dove aveva fatto un'energica campagna elettorale, ottenne ventiquattro seggi. Sia la destra del Bharatiya Janata Party (BJP), che sosteneva gli interessi degli indù, sia il Jamaat-i Islami, che promuoveva quelli dei musulmani, non riuscirono a conquistare alcun seggio23. Tavleen Singh descrive quelle del 1983 come le prime «vere» elezioni, in cui la questione del Kashmir sembrava chiusa2"1. Quasi subito dopo l'annuncio dei risultati elettorali, il Congresso iniziò una campagna contro Farooq Abdullah, denunciando che il voto era stato truccato, ma, come osservò Tavleen Singh, «in quell'estate del 1983 non si verificarono tumulti nella valle, malgrado i tentativi del Congresso di crearli. Quest'ultimo aveva un alleato importante nella stampa nazionale e in retrospettiva arriverei a dire che la stampa fu la ragione principale per
cui ebbe inizio la disaffezione del Kashmir»25. Su indicazione dei consulenti governativi, che Singh descrive come «una corte medievale in cui pressoché ogni decisione veniva presa personalmente dalla signora Gandhi», il primo ministro dell'India si accinse a sovvertire il governo eletto del Kashmir26. «Indirà sembrava determinata a non lasciarlo governare in pace, perché la violenta campagna elettorale e la vittoria di Farooq l'avevano resa più che mai rabbiosa con lui», scrive Malhotra27. Abdullah fece peraltro il gioco della signora Gandhi: invece di limitarsi alla politica dello Jammu e Kashmir, salì alla ribalta nazionale per discutere dell'autonomia regionale con i leader dell'Andhra Pradesh, del Karnataka, del Bengala Occidentale e del Tamil Nadu, in preparazione di un'alleanza anti-Congresso alle elezioni generali del 1984. Si incontrò anche con l'Akali Dal nel Punjab, dove un violento movimento separatista tra i sikh sarebbe alla fine costato la vita a Indirà Gandhi. Nell'ottobre del 1983, ospitò per tre giorni a Srinagar un'assemblea dell'opposizione che coinvolgeva cinquantanove leader di stati di diciassette diversi partiti regionali. «Tutto ciò fu una maledizione per Indirà Gandhi», scrive Ajit Bhattacharjea. «Da sempre insicura, si sentiva ora gravemente minacciata»28. La signora non apprezzava la linea indipendente di Abdullah, che ricordava le tattiche spesso impiegate da suo padre, lo sceicco. Questi non aveva tuttavia mai sfidato il Partito del Congresso fuori del Kashmir, com'era chiaramente nelle intenzioni di Farooq. Gandhi avvertì con chiarezza che non sarebbero stati tollerati quelli che definiva sentimenti «antinazionali», cioè in favore dell'autonomia regionale. Nei mesi successivi cominciò a destabilizzare quegli stati che mostravano tali tendenze. «I metodi di riffa o di raffa utilizzati per cercare di spaccare i governi del Karnataka, Andhra e Kashmir», scrive M.J. Akbar, «costituirono una macchia sul vero concetto di federazione. Farooq Abdullah, per i suoi peccati, era in cima alla lista nera»29. Di questa strategia faceva parte l'idea di dipingere Abdullah come «un debole» per il Pakistan. Nell'ottobre 1983, si diede pertanto molto peso a una partita di cricket tenutasi a Srinagar tra l'India e le Indie Occidentali: la squadra indiana venne fischiata dalla folla e i sostenitori del Jamaati Islami sventolarono le bandiere verdi del loro partito, che assomigliavano, ma non erano identiche, a quella pakistana. «Per Delhi, questo fu materiale provvidenziale per la propaganda. La bandiera pakistana sventolava liberamente nel regno di Farooq», scrive M.J. Akbar' 0 . Il 28 ottobre Mufti Muhammad Sayeed, capo del Congresso nel Kashmir, annunciò che Farooq aveva perso il controllo dell'amministrazione; a Jammu una folla protestò contro l'insuccesso del governo. Per tutta la valle, piccole dimostrazioni, chiaramente orchestrate dal Congresso, portarono ad arresti. L'autodifesa di Farooq fu inascoltata. «In quel momento, non vi era affatto una mano pakistana visibile nel-
la valle», scrive Tavleen Singh, «ma i leader del Congresso misero apertamente in giro accuse di un coinvolgimento pakistano»". Nel febbraio 1984, il rapimento di Ravinda Mahtre, vice alto commissario in Gran Bretagna, fornì un'altra occasione per compromettere Abdullah. I rapitori chiesero un milione di sterline di riscatto e la liberazione di diversi prigionieri reclusi in India, compreso Maqbool Butt, che era in attesa dell'esecuzione nel carcere di Tihar dopo che era stata reintrodotta la pena di morte da parte dell'India. Del rapimento e del successivo assassinio di Mahtre fu considerato responsabile il Kashmir Liberation Army ( K L A ) , che era ritenuto associato al J K L F di Amanullah Khan. La presunta connessione di Farooq Abdullah con il rapimento stava nel fatto che egli aveva incontrato Amanullah Khan nel 1974, quando, su richiesta di suo padre, durante le discussioni precedenti l'accordo del 1975, aveva visitato Muzaffarabad. A quasi dieci anni di distanza, di questa visita veniva ora data un'interpretazione sinistra allo scopo di alimentare la diffidenza nei confronti di Farooq Abdullah. Quando Butt, descritto da Ajit Bhattacharjea come «un brillante doppiogiochista utilizzato sia dall'India sia dal Pakistan»' 2 , fu giustiziato, a Srinagar e in altre città della valle si tenne uno sciopero per piangere la sua morte, circostanza che mostrò nuovamente a Delhi le inclinazioni potenzialmente sovversive dello Stato dello Jammu e Kashmir. Farooq Abdullah aveva nemici anche all'interno dello Stato. Ghulam Muhammad Shah non aveva mai accettato l'ascesa al vertice del cognato; a lungo sostenitore politico dello sceicco, si era considerato il suo successore naturale. Poiché i rapporti tra i due si erano guastati, a ottobre Farooq espulse G.M. Shah dalla National Conference. Questi si vendicò con la formazione dell'Awami National Conference Party. «L'aria si riempì di voci su affari sporchi e vaste quantità di denaro che venivano date agli scontenti della National Conference per persuaderli a unirsi alla fazione scissionista di G.M. Shah»". Volenteroso cospiratore nel piano per rovesciare Farooq, Shah mise insieme tredici membri delusi dell'assemblea legislativa, inclusi quel gruppo di suoi sostenitori ai quali Farooq aveva assegnato dei seggi. Combinati con i ventisei seggi conquistati dal Congresso, essi potevano rivendicare una maggioranza semplice nell'assemblea legislativa. Braj Kumar Nehru, governatore e cugino del primo ministro, sarebbe stato idealmente disposto ad acconsentire alla destituzione di Farooq con una congiura di palazzo, ma, nonostante l'autoritario stile di governo di quest'ultimo, insistette affinché i dissidenti costituissero una propria maggioranza nell'assemblea legislativa. All'inizio del 1984 Nehru fu invitato a rassegnare le dimissioni, per essere poi trasferito nel Gujarat. Il nuovo governatore era Shri Jagmohan, un burocrate che era stato accanto a Indirà Gandhi durante il regime di emergenza del 1975-77. All'inizio di giugno, nel Punjab Indirà Gandhi mise in atto l'operazio-
ne Blue Star, con l'assalto al Tempio d'Oro contro gli estremisti sikh dell'Akali Dal, guidati da Sant Jarnail Singh Bhindranwale. Il Punjab scoppiò immediatamente in tumulto. E, con somma fiducia, fu eseguito anche il piano per la destituzione di Farooq. Subito dopo la Blue Star, Gandhi visitò il Ladakh; al proprio ritorno riunì parecchi direttori di giornali, compreso Inder Malhotra: «Non fece alcun segreto della propria convinzione che la permanenza di Farooq quale ministro capo del Kashmir fosse dannosa per lo Stato e il paese. Questo scosse la maggior parte di noi. Dopo quello che era accaduto nel Punjab, non era certo prudente imbarcarsi in un conflitto nel Kashmir»". A livello nazionale, a causa del suo incontro con Bhindranwale, avvenuto nello stesso anno, Farooq fu accusato di appoggiare in segreto i separatisti sikh e di permettere loro di addestrarsi nello Stato dello Jammu e Kashmir. Le appassionate smentite di Farooq e dei membri del suo governo non misero a tacere il clamore a Delhi, che alla fine di giugno era al suo apice. Il 28 il governatore Jagmohan ricevette una lettera firmata dai tredici membri dell'assemblea legislativa del Kashmir, in cui essi annunciavano il ritiro del proprio appoggio al governo di Abdullah. Delhi aveva ora munizioni sufficienti contro il ministro capo e avviò quella che quest'ultimo avrebbe in seguito denominato operazione New Star. G.M Shah e i suoi seguaci furono convocati alla residenza del governatore, nel Raj Bhavan di Srinagar, nelle prime ore del mattino del 2 luglio. Con un'azione che Jagmohan affermò essere del tutto improvvisata, e che tuttavia ebbe luogo con la precisione di un meccanismo a orologeria, Farooq fu estromesso e sostituito dal cognato. «Con insolita rapidità», scrive Ajit Bhattacharjea, «un contingente di poliziotti armati del Madhya Pradesh atterrò a Srinagar presto la mattina successiva, facendo pensare che fossero stati allertati uno o più giorni prima»". Anche l'esercito era dalla parte di Jagmohan, che svolgeva con convinzione il proprio ruolo di «sicario»' 6 della signora Gandhi. «Ero molto preoccupato di impedire la violenza nelle strade. Le folle del Kashmir sono facilmente eccitabili, diventano subito isteriche. È irrilevante se sostengono o contestano una causa particolare»'7. Jagmohan informò Farooq che aveva «perso la fiducia» della maggioranza dei componenti dell'assemblea legislativa. Tavleen Singh, che fece la cronaca della vicenda, racconta che il deposto ministro capo reagì «con l'emotività di uno scolaretto piuttosto che con la maturità di un politico»'8. In uno sdegnato documento intitolato My Distnissal, in seguito Farooq puntò il dito contro la sfacciata complicità di Jagmohan: Egli partecipò direttamente alla congiura, ma, con una serie di sotterfugi ai quali fu dato un tocco drammatico, essa fu fatta apparire come un evento politico naturale. [...] L'azione del governatore nel destituire il mio governo fu giuridicamente nulla. Il Raj Bhavan non era il luogo per
verificare la maggioranza quel giorno, sarebbe dovuto accadere sui banchi della Camera."
Farooq denunciò anche i tentativi da parte del Congresso di «gonfiare» i suoi presunti legami con il J K L F e rivelò l'antefatto della sua visita a Muzaffarabad nel 1974, quando ancora viveva in Inghilterra: «Dal momento che i negoziati tra lo sceicco Abdullah e la signora Gandhi si avvicinavano a un probabile accordo, essi volevano che i sentimenti della gente del Kashmir occupato dal Pakistan fossero accertati di prima mano e che poi li comunicassi a mio padre». Negò inoltre le accuse di legami con organizzazioni filopakistane. «Per ciò che riguarda gli elementi filopakistani, ci sono stati da sempre, sin dal 1947. Non sono comparsi all'improvviso durante il mio regime o per causa mia»'10. Purtroppo per lui, la sua plausibile difesa servì soltanto per la cronaca. Con il peso di Delhi dietro suo cognato e contrariamente ai desideri di Jagmohan, che invece avrebbe voluto che fosse prima imposta l'autorità del governatore, G.M. Shah fu nominato ministro capo. In retrospettiva, se Farooq fosse riuscito a convincere Delhi della propria fedeltà all'India prima e non dopo l'accaduto, se gli arrivisti del suo partito fossero stati meno facili da sfruttare, se Indirà Gandhi fosse stata meno insicura e avesse lavorato per mezzo della National Conference, come aveva fatto Nehru, piuttosto che insistere su una presenza del Congresso nella valle, Farooq avrebbe potuto mantenere un rapporto accettabile con il centro, concentrando contemporaneamente la propria attenzione sui progressi materiali per il popolo del Kashmir. Il fatto che il primo ministro dell'India volesse e potesse metterlo da parte, essenzialmente per ragioni personali, dimostrò la mancanza di riguardo che lei e il governo di Delhi avevano per il cosiddetto «statuto speciale» del Kashmir. Come ha scritto Mir Qasim: «L'atto incostituzionale di Jagmohan fu un altro duro colpo alla fiducia dei kashmiri nella democrazia e nel diritto indiani»"1. «L'orologio è stato rimesso indietro di trent'anni», disse Tavleen Singh. «Al Kashmir è stato ricordato che non importa quanto esso senta di appartenere all'India, non importa quanto spesso il suo ministro capo affermi di essere indiano, esso sarà sempre speciale, sempre sospetto»"2. La destituzione di Farooq scatenò un'ondata di proteste. Il governo di Shri fu impopolare sin dall'esordio; il suo passato di ministro con lo sceicco Abdullah era «lungi dall'essere rispettabile», scrive Inder Malhotra, «e persino i suoi migliori amici non erano disposti a farsi garanti della sua probità». E durante il suo mandato, il governo toccò «il fondo della corruzione e dell'instabilità». Perché dunque la signora Gandhi gli consentì di insediarsi? «Più si esamina la questione più ci si convince che ella era effettivamente accecata dalla sua forte antipatia per Farooq». Come scrive Malhotra: «Secondo Arun Nehru, cugino di Rajiv Gandhi e consigliere
della signora Gandhi», «Indirà puphi ('zia') ci chiese di liberarla a tutti i costi di Farooq e noi lo facemmo». L'insediamento di G.M. Shah doveva essere congegnato in modo tale che la destituzione di Farooq sembrasse indotta dai kashmiri e non da New Delhi43. Tutti i tredici transfughi giurarono come ministri del governo, perciò Shah non poteva acquisire ulteriori sostenitori tra quelli della National Conference offrendo loro posti di governo. «L'amministrazione si arricchì come se non ci fosse un domani, e data l'incertezza della situazione avrebbe potuto benissimo non esserci», dice Tavleen Singh44. L'assassinio della signora Gandhi nell'ottobre del 1984 da parte delle sue guardie del corpo sikh, per vendetta contro l'operazione Blue Star, tolse di mezzo l'architetto della destituzione di Farooq, ma il ricordo del tradimento rimase, non tanto per ciò che era accaduto personalmente a Farooq Abdullah, bensì per quello che la sua destituzione aveva significato per i kashmiri. Gli apologeti del governo di Delhi, come Jagmohan, hanno argomentato a lungo e seriamente a sostegno delle proprie azioni, ma nessuna autoassoluzione può nascondere il fatto che la congiura di palazzo contro Abdullah confermò semplicemente ciò che i kashmiri avevano a lungo sospettato, ovvero che malgrado il loro «statuto speciale», nessun leader poteva restare al potere a Srinagar senza il consenso di Delhi. Farooq Abdullah comprese appieno la lezione: quando tornò al potere nel 1987, era a capo di un'alleanza Conference-Congresso. Rajiv Gandhi, nuovo primo ministro dopo l'assassinio di sua madre, riuscì nella politica di conciliazione verso le spinte regionalistiche, non soltanto nel Kashmir, ma anche nel Punjab e nell'Assam. Malgrado il ruolo che poteva aver avuto nella destituzione di Farooq, i rapporti personali tra i due erano migliori di quelli tra quest'ultimo e la signora Gandhi. In meno di due anni, il 7 marzo 1986, G.M Shah fu sollevato dal proprio incarico in seguito a gravi rivolte comunitarie che il governo dello Stato non aveva saputo controllare. Era intervenuto l'esercito e alla popolazione era stato consigliato di restare in casa per il timore di sparatorie, inoltre era stato imposto un coprifuoco indeterminato, il che diede a G.M. Shah il soprannome di «Gul-e Curfew» ('fiore del coprifuoco'). Dopo la destituzione di quest'ultimo, Jagmohan trasse profitto dallo «statuto speciale» del Kashmir per assumere un potere esclusivo, privilegio riservato, secondo l'articolo 370, a un sadar-i-riyasat eletto e non a un governatore nominato. Sento il peso delle sfide, ma sono anche un po' euforico. Ho l'opportunità di mostrare la faccia più nobile, più pura, più radiosa del potere. Adesso posso dimostrare come il governo possa funzionare in un paese povero e in via di sviluppo, come una persona, ispirata dai più alti propositi, possa servire da amministratore modello e come si possa abolire il dominio delle élite.45
Adottò misure per ripulire sia l'amministrazione sia la città di Srinagar. I musulmani riscontrarono tuttavia di essere esclusi dai posti chiave e che era in corso un attacco generale alla cultura e all'identità islamiche, nell'istruzione così come sul piano sociale. Erano contrari alla larga diffusione di alcol, disponibile senza difficoltà in numerosi bar di Srinagar. Nella valle, i partiti islamici avevano convocato scioperi pacifici (hartals) per sfidare il potere di Delhi; molti furono gli arresti. Azam Inquilabi, segretario generale del Mahaz-i Azadi (Fronte per l'Indipendenza) fu incarcerato nel 1985 e il suo incarico di insegnante fu sospeso per un presunto coinvolgimento in attività «sovversive». Fu arrestato anche il leader della People's League, Shabir Ahmed Shah, vecchio attivista che aveva incominciato la propria carriera politica nel 1968, all'età di quattordici anni, quando era stato imprigionato per aver preteso il diritto all'autodeterminazione. Invece di promuovere nuove elezioni, Rajiv Gandhi insistette per un'alleanza Conference-Congresso. Questa volta Abdullah, che cinque anni prima aveva disdegnato quella con Indirà Gandhi, accettò: sembrò essersi reso conto che il Kashmir non avrebbe mai potuto prosperare senza un aperto sostegno da parte di Delhi. Dopo sei mesi di discussioni, nel novembre del 1986 Rajiv rinominò Farooq ministro capo di un governo provvisorio di coalizione National Conference-Congresso. Le elezioni furono fissate per l'anno seguente, ma Abdullah aveva già iniziato a pagare il prezzo del suo cedimento a Delhi. «Da un giorno all'altro, nell'opinione dei kashmiri Farooq si trasformò da eroe in traditore», scrive Tavleen Singh. «La gente non riusciva a comprendere come un uomo che era stato trattato in quel modo da Delhi, e in particolare dalla famiglia Gandhi, potesse adesso strisciare davanti a loro in cerca di accordi e alleanze»46. «Fu accusato di tradire la cinquantennale eredità di orgoglio di suo padre», dice M J . Akbar, «e questo creò un vuoto là dove era esistita la National Conference. In quel vuoto entrarono gli estremisti. La Kashmiriyat era divenuta vulnerabile ai sostenitori della violenza e dell'egemonia islamica, che ferivano il Kashmir e ne corrompevano l'identità culturale»47. In seguito, Farooq Abdullah ha ammesso che l'accordo del 1986 è stato il suo più grave errore politico.
6.3. L'ascesa del MUF e la militanza Tra coloro che occuparono quel vuoto politico vi era il gruppo di partiti che, nel settembre 1986, si organizzarono per formare il Muslim United Front allo scopo di concorrere alle elezioni. Con la supremazia dello sceicco Abdullah, la National Conference aveva conservato il proprio carattere laico, ma ora il partito era spaccato tra i sostenitori di Abdullah
e quelli di G.M. Shah e, con Jagmohan a dimostrare la forte propensione filoinduista dell'amministrazione, il MUF ebbe un notevole richiamo. Un elemento chiave del MUF, guidato da Maulvi Abbas Ansari, era il Jamaat-i Islami. Fondato nel 1942, aveva presentato candidati per la prima volta alle elezioni del 1972 e ancora nel 1977, ma il suo impatto maggiore non si percepiva in ambito politico, bensì, come aveva compreso lo sceicco Abdullah, nelle moschee e nelle scuole"8. Gli analisti di Delhi ritenevano che la forza del Jamaat risiedesse in «fondi provenienti dall'estero» e trascurarono il fascino autentico che il partito cominciava a esercitare. Si unirono al MUF almeno altri dieci partiti islamici più piccoli. E anche la People's Conference di Abdul Gani Lone e l'Awami National Conference di G.M. Shah tennero negoziati con il MUF. In seguito emersero dei contrasti, ma la potenziale combinazione di così tanti partiti di opposizione rappresentava la prima autentica sfida affrontata dalla National Conference da quando era tornata alla politica attiva, dopo l'accordo promosso nel 1975 dallo sceicco Abdullah. Il programma elettorale del MUF sottolineava la necessità di una soluzione per tutte le questioni in sospeso relative all'intesa di Simla; assicurava inoltre ai votanti che avrebbe lavorato per l'unità islamica e contro l'ingerenza politica da parte del centro. Quando i candidati, vestiti con tuniche bianche, si presentarono all'Iqbal Park il 4 marzo, si alzarono gli slogan: «La lotta per la libertà è a portata di mano» e «Cosa vogliamo all'Assemblea? La legge del Corano»49. Farooq Abdullah si allarmò eccessivamente per la forza elettorale del MUF e, prima delle elezioni, diversi suoi leader furono arrestati insieme a un certo numero di agenti elettorali. Quando si tennero le elezioni, il 23 marzo 1987, la partecipazione fu all'incirca del 75 per cento, la più alta mai registrata nello Stato, con quasi l'80 per cento di votanti complessivi nella valle50. L'alleanza ConferenceCongresso rivendicò sessantasei seggi, il Congresso conquistò cinque dei sei seggi della valle in cui aveva presentato candidati. «The Times of India» descrisse la vittoria dell'alleanza come «rincuorante da un punto di vista imparziale»51. Il MUF si aspettava di conquistare dieci dei quarantaquattro seggi per cui aveva concorso, ma se ne aggiudicò soltanto quattro. Ciò nonostante, Balraj Puri commentò che i risultati elettorali riflettevano «un fenomenale incremento delle spinte fondamentaliste nella valle del Kashmir»52. Il Bharatiya Janata Party (BJP) si assicurò due dei ventinove seggi per cui si era presentato. Il numero era irrilevante, ma la successiva ascesa del partito in India diede un nuovo impulso al comunitarismo indù, che destò sospetti tra i musulmani"del Kashmir in relazione al loro status nell'India laica. Malgrado l'esultanza nazionale per la vittoria di Conference e Congresso, si diffusero ampie accuse di brogli. «I voti sono stati assegnati al Muslim United Front, ma i risultati sono stati dichiarati favorevoli alla Na-
tional Conference», dice Mir Abdul Aziz, il quale osservava gli eventi dal Pakistan. Ancor oggi, Farooq Abdullah nega ogni accusa. «Il mio ministro della Giustizia perse il proprio seggio. Se ci fossero stati brogli, non avrei assicurato che lo conservasse?»". I suoi critici affermano tuttavia che egli fu preso dal panico: se il suo ministro della Giustizia non vinse, fu perché lui non ne voleva la vittoria. «I brogli furono spudorati», scrive Tavleen Singh. «Nella circoscrizione di Handwara, per esempio, baluardo tradizionale di Abdul Gani Lone, non appena cominciò il conteggio, il 26 marzo, i rappresentanti di lista di Lone furono buttati fuori dal seggio elettorale dalla polizia»5,1. I sostenitori del Muslim United Front erano irritati per il mancato successo elettorale. «Quella manipolazione delle elezioni deluse i kashmiri», dice Mir Abdul Aziz. «Essi dissero: "abbiamo cercato di modificare il quadro politico con metodi democratici e pacifici, ma non ci siamo riusciti. Perciò bisogna prendere le armi". Fu quella una delle ragioni della militanza. La gente del Kashmir era disgustata, scontenta e disillusa»55. Erano persone istruite ma disoccupate, le cui recriminazioni venivano alimentate dagli avvenimenti dentro e fuori la valle. E per di più si consideravano economicamente disagiate in quanto non facevano parte né della burocrazia né dell'élite. La gioventù disamorata trovò uno sfogo alla propria frustrazione nell'una o nell'altra delle organizzazioni politico-religiose. Nello stesso tempo, la più ampia alleanza del MUF andò in pezzi: la People's Conference e l'Awami National Conference non si trovarono d'accordo con la priorità, attribuita dal Jamaat, alla promozione di uno «Stato teocratico». E i sostenitori del Jamaat cominciarono anche a chiedere l'autodeterminazione del popolo del Kashmir. «Il Jamaat pose l'accento sulla secessione», disse Abdul Gani Lone, leader della People's Conference. «Noi cerchiamo la giustizia economica e un migliore trattamento da parte dell'India» 56 . L'insurrezione armata che prese slancio dopo le elezioni del 1987 colse di sorpresa il resto del mondo. Per molti spettatori, il Kashmir era un luogo turistico, un posto per il riposo e lo svago dopo un viaggio caldo ed estenuante attraverso le più cocenti pianure dell'India. Malgrado il malcontento politico all'esito delle elezioni, nel 1987 il paese rimase apparentemente calmo. Una delle condizioni dell'accordo Rajiv-Farooq era un massiccio programma di spese statali e all'inizio Abdullah sembrava fiducioso che, in virtù di tale accordo, avrebbe ricevuto tutto l'aiuto di cui aveva bisogno. Ma il promesso pacchetto di 10 miliardi di rupie non arrivò mai57. L'estradizione di Amanullah Khan dall'Inghilterra diede un involontario impulso agli attivisti del nazionalismo kashmiro in esilio in Pakistan: era stato arrestato nel settembre 1985, più di un anno dopo l'omicidio di Mahtre, il vice alto commissario, avvenuto nel 1984. Era imputato di de-
tenzione di alcuni prodotti chimici illegali, che l'accusa sosteneva potessero essere trasformati in esplosivi, ma Khan protestò che si trattava di insetticidi per il suo giardino. Venne assolto nel settembre 1986, ma estradato circa tre mesi dopo nonostante gli appelli al ministro dell'Interno, Douglas Hurd, da parte di alcuni membri laburisti del parlamento. Khan afferma di essere stato consegnato, insieme a un estremista sikh, in cambio dell'acquisto di alcuni elicotteri britannici da parte dell'India58. L'intesa per l'acquisto dei ventuno elicotteri Westland fu resa nota il 24 dicembre 1985, dopo tre anni di trattative. Come osservò l'esperto di difesa del «Times», l'ordine fu ritardato di un anno «a causa del risentimento indiano per la scarsa repressione, da parte del governo britannico, nei confronti delle attività dei membri della comunità sikh in Inghilterra, dopo l'assassinio della signora Gandhi»59. Amanullah Khan si rifugiò in Pakistan, da dove iniziò a dirigere le operazioni al di là della linea di controllo. Si era reso conto che, per dare slancio al proprio movimento, doveva procurarsi appoggio dalla valle. Vennero reclutati quattro giovani kashmiri e condotti nell'Azad Kashmir: noti come gruppo «Haji», i loro nomi erano Ashfaq Majid Wani, Sheilch Abdul Hamid, Javed Ahmed Mir e Muhammad Yasin Malik60. Il malcontento di Malik nasceva dalla sua infanzia violenta: Quando ero un ragazzo di dieci anni, ricordo che mentre vagavo per le vie della città di Srinagar si diffuse un panico improvviso, la gente correva qua e là in cerca di rifugio e uomini armati in uniforme attaccavano la gente, afferravano chiunque fosse per la strada, lo arrestavano o lo picchiavano: ero terrorizzato.61 Nel maggio 1987, fu perpetrato il primo significativo attentato contro Farooq Abdullah, allorché il suo corteo di auto venne colpito sulla via della moschea62. Per tutto l'anno, gli attentati dei cecchini divennero più frequenti e, secondo Tavleen Singh, si avvertirono i segnali di un aumento delle armi nella valle, «in un certo momento di quell'estate del 1987, quando l'amarezza per le elezioni rubate era ormai penetrata a fondo negli animi» 6 '. La reputazione interna di Farooq Abdullah fu ulteriormente ridimensionata dal suo tentativo di collocare permanentemente alcuni dipartimenti governativi sia a Jammu che a Srinagar, invece di spostarli avanti e indietro in inverno e in estate. La sua proposta provocò una sollevazione a Jammu, dove la gente scelse di scioperare per protesta e i gruppi regionalisti cominciarono a parlare di uno Stato separato per l'area dello Jammu. Il 14 novembre 1987, l'ordinanza fu abrogata. Jammu esultò, ma la valle rimase insoddisfatta: uno sciopero paralizzò la vita delle città. L'ordine degli avvocati fu in prima linea nell'agitazione: i suoi associati ritenevano che Abdullah si fosse arreso a Jammu e chiedevano di rendere Sri-
nagar capitale permanente dello Stato. La protesta si spense dopo circa una settimana, ma i critici verso il ministro capo gli addebitarono l'istigazione della sommossa per guadagnare sostegno alla National Conference tra i musulmani kashmiri, dopo la perdita di popolarità avvenuta con le elezioni di alcuni mesi prima. Per tutto il 1988 si verificarono disordini continui che disturbarono la vita quotidiana con una frequenza tale che Jagmohan, ancora governatore, ne prese nota dettagliatamente nel suo diario". A giugno ebbero luogo dimostrazioni a Srinagar contro l'improvviso aumento del costo dell'elettricità, che indispose la popolazione perché le forniture di elettricità erano, nei casi migliori, irregolari. Ma il governo rispose con l'indifferenza. Per la prima volta in più di venticinque anni di attivismo, Amanullah Khan potè parlare in modo convincente di «una lotta armata» nella valle. Si verificarono due attentati dinamitardi che mancarono di poco l'ufficio centrale del telegrafo di Srinagar e la stazione televisiva; a settembre avvenne un attacco contro il sovrintendente generale della polizia, Ali Mohammed Watali. Il J K L F proclamò il primo martire, Ajaz Dar, ucciso dal fuoco della polizia. Malgrado i danni limitati, i primi atti di sabotaggio costituirono un avvertimento di ciò che sarebbe seguito. Le fazioni della resistenza, i cui seguaci erano chiamati militanti, proliferarono con un vasto assortimento di sigle. Il J K L F , tuttavia, fu individuato dalle autorità indiane quale maggiore responsabile dell'improvvisa impennata di disordini interni. Il sentimento anti-indiano all'interno della valle si rifletté in un incremento di sostegno al Pakistan. L'I 1 aprile 1988, i giovani musulmani di Srinagar imposero ai negozianti di tenere i negozi chiusi per solidarietà con coloro che erano stati uccisi a Ojhri, in Pakistan, in un deposito di armi destinate ai ribelli afgani. Il Mirwaiz Mulvi Farooq inviò un telegramma di condoglianze al generale Zia, mentre nella moschea di Jama si pregò. Nelle strade di Srinagar sfilò una processione di lutto - dalla quale si levarono slogan a favore del Pakistan - che bruciò autobus e si scontrò con la polizia; il Gandhi Memorial College fu saccheggiato. Anche i simpatizzanti indù erano critici con il governo, ma per ragioni diverse. Il BJP lo accusava di inadeguatezza contro i contestatori; a sua volta il Panthers Party, fondato nel 1982, che rappresentava la comunità Rajpur nello Jammu, chiese le dimissioni di Farooq Abdullah. Mentre l'India si preparava a celebrare il quarantunesimo anniversario dall'indipendenza, nella valle si levavano slogan anti-indiani. I sostenitori del Pakistan celebrarono il giorno dell'indipendenza il 14 agosto, ma l'indipendenza dell'India, il 15, fu definita una «giornata nera». Due giorni dopo, il 17 agosto, il generale Zia-ul Haq restò ucciso in un incidente aereo a Bahawalpur, in Pakistan; la sua morte fu pianta nella valle e ne seguirono disordini, nel corso dei quali, si riferì, furono uccise otto persone
e almeno tredici ferite. Il contrasto tra sciiti e sunniti accrebbe le violenze: «Si ebbe la sensazione che gli sciiti in Pakistan fossero felici per la morte del generale Zia-ul Haq. Anche alcuni sciiti della valle furono accusati di ostentare slogan anti-Pakistan e anti-Zia», afferma PS. Verma6\ Il 27 ottobre - anniversario del ponte aereo indiano su Srinagar nel 1947 - vi fu uno sciopero generale contro il «giorno dell'occupazione», come ormai lo definivano i contestatori. Mentre nel 1947 i pakistani erano considerati gli invasori e gli indiani salutati come liberatori, nel 1988 nella mente dei militanti i ruoli si erano capovolti.
6.4. Il fattore
vendetta
Il Pakistan non poteva non essere al corrente degli avvenimenti della valle. «Era uno scenario allettante», scrive Ajit Bhattacharjea, «un'altra occasione per rimediare agli insuccessi del 1947 e del 1965, unita al desiderio di vendicarsi per la perdita del Bangladesh nel 1971, nella quale gli infiltrati indiani avevano avuto un ruolo»66. I commentatori indiani affermano che, già nel 1982, quasi subito dopo la morte dello sceicco Abdullah, il generale Zia aveva ideato un piano per addestrare i giovani kashmiri a lanciare una «crociata armata» nella valle, ma non aveva incontrato molto successo e fino alla metà degli anni Ottanta il piano non venne ripreso67. La posizione ufficiale del generale riguardo all'India in Kashmir era apertamente conciliatoria. Nel 1983, in un'intervista al giornalista indiano Rajendra Sareen, disse: «Il punto di vista del Pakistan è: parliamo. Potete rivendicare l'intero Kashmir, ma forse esiste una via media. Perciò almeno parliamoci. Noi non siamo propensi a ricorrere alla forza, ma non siamo nemmeno favorevoli a farci intimidire dal punto di vista indiano secondo cui, dato che esiste una linea di controllo, allora non c'è alcuna questione aperta»68. Tuttavia, la sensazione di un precoce coinvolgimento del Pakistan nella crescente militanza fu alimentata dall'apparato propagandistico del governo indiano. K. Subramanyam, uno dei massimi specialisti di difesa dell'India, affermò che nell'aprile del 1988 fu istituita in Pakistan ^'operazione Topac" - dal nome di Topac Amaru, un principe inca che combatté una guerra non convenzionale contro il dominio spagnolo nell'Uruguay del XVIII secolo - , allo scopo di alimentare un'insurrezione indigena. Largamente pubblicizzata sulla «Indian Defence Review» nel luglio del 1989, con inclusi i rapporti di presunte disposizioni del generale Zia ai suoi ufficiali, l'esistenza della Topac fu negata dalle autorità pakistane, che ribatterono che si trattava di un'invenzione, di un esercizio ipotetico del Research and Analysis Wing ( R A W ) , circostanza in seguito riconosciuta dallo stesso Subramanyam69.
Siffatti esercizi «ipotetici» di certo non contribuirono a migliorare i rapporti tesi tra i due paesi. A metà degli anni Ottanta, si profilò la minaccia della guerra, con scontri tra le truppe indiane e quelle pakistane sul ghiacciaio Siachen, uno dei punti più a nord dello Stato dello Jammu e Kashmir, dove, a causa dei 6.000 metri di altitudine, la linea di controllo non era mai stata definita in modo netto. I colloqui del gennaio 1986 tra i due ministri della Difesa contribuirono ad allentare la situazione, ma combattimenti sporadici continuarono per tutto il 1987. L'anno seguente il governo indiano introdusse gli elicotteri d'alta quota, che diedero alle sue truppe un vantaggio strategico. La nuova amministrazione di Benazir Bhutto, eletta primo ministro del Pakistan nelle elezioni tenute in seguito alla morte del generale Zia, nel 1988, tentò di dimostrare preoccupazione per l'inasprimento delle relazioni indo-pakistane. L'incontro con Rajiv Gandhi a Islamabad, nel dicembre 1988, subito dopo il suo insediamento, fu interpretato da tutti come l'occasione, per i membri della nuova generazione post-spartizione, di risolvere le proprie divergenze. All'inizio del 1989 furono avviati negoziati al massimo livello: furono così siglate due intese nelle quali i due leader acconsentirono a non bombardare le rispettive installazioni nucleari e a rispettare l'accordo di Simla del 1972, firmato dai loro genitori. Ma Gandhi e Bhutto erano soggetti anche alle pressioni interne e non poterono godere della libertà necessaria per rivedere in modo costruttivo la propria linea di condotta. Per screditarne il governo, gli avversari politici di Benazir Bhutto - di cui Nawaz Sharif, leader dell'ljl (Islami Jamhoori Ittehad), era il più accanito - la accusarono di favorire l'India nella distensione. Allo stesso modo, Rajiv Gandhi fu messo non poco in difficoltà a causa del suo riawicinamento con Bhutto in un momento in cui il Pakistan veniva condannato per l'appoggio al movimento dei separatisti sikh. Nell'agosto 1989, Bhutto, che aveva chiesto il ritiro delle truppe indiane dal Siachen, manifestò il perdurante interesse del suo paese verso quell'area compiendo una visita personale al ghiacciaio. Data la smisurata altitudine, la lotta per il Siachen era forse simbolica, ma le tensioni tra i due paesi restarono. Mentre nella valle la situazione dell'ordine pubblico peggiorava, gli analisti indiani continuavano a sostenere che i disordini erano fomentati dal Pakistan, accusando l'iSI (Inter-Services Intelligence) - istituito dal generale Zia e noto per avere svolto un ruolo primario nella guerra in Afghanistan - di condurre attività anche nel Kashmir. Ma la presunta «mano straniera» era peraltro un comodo capro espiatorio che impedì al governo indiano di vedere quale dramma si consumasse nella valle. Il rancore tra i kashmiri, che si era sempre più aggravato, la costante erosione dello «statuto speciale» promesso allo Stato nel 1947, la negligenza dei leader verso il popolo furono chiaramente responsabilità dell'India. Tavleen Singh
ritiene che il Kashmir non sarebbe divenuto un problema «se la valle non fosse esplosa da sé, grazie alle politiche sconsiderate di Delhi». Oltre un certo periodo di tempo, «la linea di controllo sarebbe stata accettata come confine e un giorno avremmo potuto dimenticare completamente la controversia»70. Invece, mentre gli anni Ottanta si avvicinavano alla fine, la valle del Kashmir divenne in effetti «la situazione esplosiva» su cui lo sceicco Abdullah aveva messo in guardia così spesso.
7. Valle di lacrime
Sarò schietto: l'indipendenza
è fuori discussione.
E devono ac-
cettarlo, devono rendersene conto. Ma, detto questo, tutto il resto rimane aperto. GIRISH SAXENA'
Nella valle, a causa dello slancio preso dall'insurrezione, gli atti di sabotaggio crescevano in frequenza e in intensità. La polizia e le forze di sicurezza reagivano con violenza, spesso a danno di civili innocenti presi nel fuoco incrociato; ogni giovane del Kashmir si trovò ad essere considerato un potenziale militante. Rapporti sulla violazione dei diritti umani finirono in prima pagina in tutto il mondo: emersero racconti di torture, stupri e assassini indiscriminati. Gli insorti non sembravano avere una strategia a lunga scadenza. Essi speravano piuttosto che la repressione delle autorità indiane nella valle del Kashmir potesse attirare l'attenzione della comunità internazionale, che avrebbe così preso atto della loro «giusta causa» e obbligato il governo indiano a rinunciare al controllo della valle. Farooq Abdullah, in quanto forza politica, fu messo da parte dai partiti islamici, che svilupparono quasi tutti un'ala militante, e i continui attentati dinamitardi diedero ampia prova di quanto fossero armati i loro sostenitori. Tra gli altri, fu colpito Neel Kanth Ganju, il giudice in pensione che aveva emesso la sentenza di morte per Maqbool Butt. Avvenivano regolarmente sparatorie da una parte all'altra della linea di controllo e in tutti i distretti di frontiera fu di conseguenza imposto il coprifuoco dall'alba al tramonto. Ignari della bomba a orologeria che stava per esplodere nella valle, i villeggianti arrivavano a frotte per trascorrere l'estate su una casa galleggiante o per fare trekking alle pendici dell'Himalaya. Secondo le stime, nel 1989 visitò il Kashmir un numero record di circa 80.000 turisti, in quella che divenne in effetti l'ultima stagione turistica della regione.
7.1. Ha inizio
l'insurrezione
Mentre "scoppiava" la pace dopo la caduta dei regimi comunisti dell'Europa dell'Est, il 1989 segnò l'effettivo inizio dell'insurrezione. Il 26 gennaio, Giornata della Repubblica dell'India, fu proclamato uno sciopero, il primo dei molti hartal del 1989, che occuparono un terzo delle giornate lavorative dell'anno2. A Jammu, gravi tumulti tra sikh e indù crearono folle incontrollate che vagavano per la città mentre i poliziotti «si comportavano da semplici spettatori passivi»3. L'11 febbraio, quinto anniversario dell'esecuzione di Maqbool Butt, fu l'occasione per un altro sciopero. Due giorni dopo, fu inscenata una massiccia dimostrazione anti-indiana contro I versetti satanici di Salman Rushdie, che durò quasi una settimana, benché il governo avesse proibito il libro. L'intera Srinagar decise di scioperare e quando cinque persone furono uccise dal fuoco della polizia, l'astensione dal lavoro si estese ad altre città della valle. A marzo si verificarono violenze tra musulmani e indù a Rajauri e per tutto il 1989 vi furono sporadici scontri tra musulmani e buddisti nel Ladakh. Questi ultimi, sempre consapevoli del predominio dei musulmani della valle, gridavano slogan come «Salvate il Ladakh, liberate il Ladakh dal Kashmir»4. Il 12 luglio 1989, Jagmohan lasciò la carica di governatore dopo cinque anni di mandato. Nelle sue memorie, spiega come sin dal 1988 egli avesse inviato a New Delhi «segnali di avvertimento» a proposito della «tempesta incombente» 5 . Fu sostituito da un generale in pensione, K.V. Krishna Rao, ex capo di Stato maggiore, che aveva una notevole esperienza nel campo della controinsurrezione, ma nessuna in politica. Farooq Abdullah venne criticato dai suoi avversari politici per la sua incapacità di controllare la situazione: «L'ultimo simbolo della Kashmiriyat laica restava una persona insignificante», scrive Bhattacharjea, «dedita a gite in elicottero sulla valle angustiata, a progetti elitari per attrarre turisti, mentre le strutture di base venivano trascurate» 6 . Bandh e hartal forzati, attentati contro uffici governativi, ponti, autobus, omicidi di informatori della polizia e di ufficiali dei servizi segreti: tutto ciò contribuiva alla crescente paralisi del governo. Parte integrante della strategia dei militanti era l'intimidazione degli attivisti della National Conference per costringerli a dissociarsi dal partito, portando infine a un collasso completo della politica. Il 21 agosto, nei pressi della sua casa nel centro di Srinagar, fu ucciso Mohammed Yusuf Halwai, uno dei leader della National Conference; i negozianti abbassarono le saracinesche «per paura, confusione e blanda disapprovazione» 7 . Un cartello sul suo corpo identificò il J K L F quale responsabile dell'omicidio. Nella «battaglia per i cuori e le menti» a cui Farooq Abdullah faceva ripetutamente riferimento, i militanti stavano palesemente avendo la meglio. «Restano senza volto e clandestini, eppure controllano il Kashmir», scris-
se Tavleen Singh il 27 agosto 1989. «Questo è l'aspetto più spaventoso dell'attuale situazione politica in questa valle inquieta. Tutta la scorsa settimana i negozi di Srinagar sono rimasti chiusi senza che nessuno fosse sicuro del perché, se non che "loro" ne avevano dato ordine» 8 . Malgrado la popolarità agonizzante, l'8 settembre la National Conference riuscì comunque a organizzare un raduno per l'anniversario della morte dello sceicco Abdullah, ma i militanti proclamarono uno sciopero a Srinagar e in altre città della valle; furono persino bruciati ritratti dello sceicco. Una settimana dopo venne ucciso il primo pandit kashmiro, il leader del BJP Tikka Lai Taploo, avvocato presso l'Alta Corte. Quindi il 4 novembre fu assassinato in pieno giorno Neel Kanth Ganju, sfuggito al precedente attentato. Gli indù, che avevano vissuto per secoli in armonia con i musulmani, cominciarono a temere per la propria vita. Il 14 novembre, compleanno di Nehru, e il 5 dicembre, compleanno dello sceicco Abdullah, si verificarono dei blackout. La risposta di Farooq Abdullah all'insurrezione fu descritta da Balraj Puri più come «un senso di sbruffoneria che di maturità» 9 . Vennero adottate misure severe, senza accertare se le proteste fossero causate da sentimenti religiosi, da opinioni filopakistane, da rivendicazioni economiche o per le libertà civili. Il ministro capo attribuiva peraltro la disaffezione non tanto alle elezioni "truccate" del 1987, quanto al mancato adempimento, da parte del governo di Delhi, della promessa di stanziare i fondi concordati al momento dell'intesa di Farooq con Rajiv. «Non potevamo creare lavoro, né fermare la corruzione. Non potevamo rifornire le fabbriche e le centrali elettriche. A ogni livello non ci veniva dato l'aiuto previsto quando ci unimmo al Congresso»10. Troppi giovani kashmiri erano disoccupati, problema che Farooq comprendeva ma al quale non poteva rimediare. «Che cosa posso fare? Ci sono tremila ingegneri in cerca di lavoro, anche se negli ultimi anni abbiamo dato lavoro a duemila di essi». Circa diecimila laureati erano disoccupati, mentre tra coloro in possesso di un titolo di studio scolastico, la disoccupazione oscillava tra le quaranta e le cinquantamila unità. Anche le accuse di corruzione nelle procedure di ammissione all'università resero ostile la gente. «Negli anni Ottanta, studenti brillanti non potevano essere ammessi nei college senza pagare tangenti ai politici», dichiarò un docente dell'università del Kashmir. «Questo generò una perdita di fiducia nel sistema e infine la rivolta»11. Anche singoli studenti avvalorarono questa dichiarazione. Nel 1989, avevano cominciato a operare nella valle svariati gruppi militanti di una certa importanza, concentrati soprattutto nelle città di Srinagar, Anantnag, Baramula e Sopore12; il loro obiettivo era la completa indipendenza oppure l'unificazione con il Pakistan. Lo Jammu and Kashmir Liberation Front, guidato nella valle dal nucleo del gruppo «Haji», era il più rilevante. Fedeli ai suoi obiettivi iniziali, i suoi sostenitori combatteva-
no per uno Stato indipendente, così com'era nel 1947. Parecchi dei partiti politici islamici, ex componenti del MUF, avevano formato frange militanti. Il gruppo Al Barq aveva legami con il People's Party di Abdul Gani Lone; Al Fateh, guidato da Zain-ul Abdeen, già candidato alle elezioni del 1987, era l'ala armata di una fazione della People's League di Shabir Shah. Entrambi i partiti si erano inoltre schierati a sostegno dell'indipendenza. Un'altra fazione armata della People's League era Al Jehad. Ulteriori gruppi miravano alla formazione di uno Stato "teocratico". Le Tigri di Allah avevano per esempio mostrato che il loro interesse principale era la chiusura dei negozi di video e dei saloni di bellezza in quanto «anti-islamici». Nel primo periodo dell'insurrezione, l'Hizb-ul Mujaheddin, con base a Sopore, considerato la frangia militante del Jamaat-i Islami, non aveva un sostegno diffuso all'interno delle valle; il suo obiettivo ufficiale era la riunificazione con il Pakistan. E anche l'Harkat-ul Ansar non faceva ancora parte del movimento militante principale. Gruppi più piccoli ritenuti favorevoli al Pakistan erano Hizbullah, Al-Umar Mujaheddin, Lashkar-i Toiba, Ikhwan-ul Mujaheddin, Hizb-ul Momineen, Tehrik-ul Mujaheddin e numerosi altri gruppi dissidenti. Azam Inquilabi aveva trasformato il suo Mahaz-i Azadi (Fronte per l'Indipendenza) nell'operazione Balakote, con l'obiettivo di creare un fronte unitario tra i gruppi rivali per liberare il Kashmir dal dominio indiano. «India e Pakistan devono riconoscere il nostro diritto all'autodeterminazione, in modo che alle due parti dello Jammu e Kashmir sia consentito annettersi l'un l'altra. Quindi il popolo deve poter decidere se rimanere libero o unirsi al Pakistan. Vogliamo determinare da noi il nostro futuro politico»13. All'inizio, le divisioni tra i gruppi non vennero alla luce: quando un gruppo proclamava uno sciopero, gli altri lo osservavano. Molti dei militanti erano gli agitatori politici delusi e i tradizionali avversari della National Conference delle elezioni del 1987: giovani tra i sedici e i venticinque anni, provenivano dalle città di Srinagar, Anantnag, Pulwama, Kupwara e Baramula. A differenza dei loro padri, che avevano condotto la campagna per l'istruzione e i diritti politici negli anni Cinquanta, la maggior parte di essi era istruita - medici, ingegneri, insegnanti, poliziotti - e la loro disaffezione era stata causata dalle politiche del governo di New Delhi, oltre che dalla mancanza di opportunità lavorative. Le loro rimostranze erano dunque economiche e politiche insieme. I militanti più anziani, come Amanullah Khan del J K L F , Ahsan Dar dell'Hizbul Mujaheddin e Azam Inquilabi dell'operazione Balakote, fornivano il movente e il contesto storico in cui veniva intrapresa la lotta. «Continuavamo a lottare per una risoluzione pacifica della controversia, ma non vi riuscimmo», ha detto Inquilabi, «così questa giovane generazione ha optato per la resistenza attiva e ha preso slancio e continuerà a farlo qualunque cosa accada»14.
All'inizio del dicembre 1989, Rajiv Gandhi perse le elezioni generali in India a vantaggio del suo ex ministro delle Finanze, V.P. Singh. Anche se il Kashmir non era una questione elettorale, il nuovo primo ministro scelse di cercare qualche appoggio nello Stato in tumulto nominando il kashmiro Mufti Muhammed Sayeed quale primo ministro dell'Interno musulmano dell'India, carica un tempo ricoperta da Sardar Patel. Sei giorni dopo il suo insediamento, l'8 dicembre 1989, il J K L F fece grande notizia con il rapimento della figlia trentatreenne, la dottoressa Rubaiya Sayeed, medico interno del Lalded Memorial Women's Hospital di Srinagar. In cambio della sua libertà, i rapitori chiesero il rilascio di cinque militanti, compresi il leader del J K L F Sheikh Hamid e il fratello di Mqbool Butt. Farooq Abdullah, che in quel momento si trovava all'estero, rientrò per fronteggiare il panico crescente nel paese; giornalisti e burocrati furono coinvolti nelle trattative per liberare Rubaiya. Il rapimento di una giovane donna nubile provocò ai militanti una pubblicità contraria, ma il governo di New Delhi non era disposto a correre rischi e il 13 dicembre i militanti furono liberati. Due ore dopo, anche Rubaiya Sayeed fu rilasciata incolume. I militanti scarcerati furono condotti in una processione trionfante, folle entusiaste esultarono e danzarono per le strade di Srinagar. La sensazione di debolezza comunicata dal governo di V.P. Singh nel negoziato con i militanti sollevò notevolmente il morale di questi ultimi. In una intervista a «India Today», Mufti Muhammed Sayeed attribuì l'attuale disaffezione del popolo alla «cattiva gestione della situazione da parte dei governi [centrale e statale] precedenti [...] le elezioni per l'Assemblea del 1987 sono state truccate e la gente ha perso fiducia nelle istituzioni democratiche»15. Gli scioperi ripetuti per tutto l'anno, gli omicidi mirati, le esplosioni e gli attentati contro il patrimonio dell'amministrazione, culminati nel rapimento ad opera del J K L F , contribuirono all'impressione di un crescente disordine. «Ero nella valle alla fine del 1989», ricorda il dottor Muzaffar Shah, presidente del Kashmir Action Committee in Pakistan e rifugiato da Baramula. «Ho visto tutta la faccenda in ebollizione, in procinto di esplodere. Non c'era amministrazione, non si riusciva a fermare la gente che scendeva in strada. Facevano manifestazioni e proclamavano scioperi. Poi l'intera zona si spalancò come una diga nel 1990»16.
7.2. Il ritorno di jagmohan Dopo il rapimento di Rubaiya Sayeed, New Delhi adottò un atteggiamento più duro. Shri Jagmohan fu nuovamente inviato in Kashmir come governatore al posto del generale Krishna Rao, rimasto in carica soltanto per poco più di sei mesi. «La tragica ironia della situazione era che io, che
avevo ostinatamente fatto rilevare come si piantassero semi velenosi, dovessi tornare per affrontare un raccolto fitto e spinoso»17. Farooq Abdullah si dimise immediatamente con il pretesto di non poter collaborare con «un uomo che odia violentemente i musulmani»18. Come sostenitore dell'Unione Indiana, egli non condivideva nessuna delle pretese indipendentiste di suo padre e non aveva alcuna comprensione per le richieste dei militanti, che all'epoca definiva «giovani sconsiderati»; ma l'accordo con Rajiv Gandhi, le elezioni del 1987, la presunta corruzione del suo governo e la conseguente incapacità di controllare la situazione, tutto gli aveva fatto perdere il consenso popolare. Si sentiva comunque ferito: «Dopo che si fu dimesso, qualcuno gli disse che il popolo del Kashmir era scontento di lui. "Bene", replicò, "anch'io sono scontento di loro"», raccontò M.J. Akbar". Jagmohan paragonò l'amministrazione, -di cui era nuovamente a capo, a «un polpo disteso disordinatamente, ma senza vita. [...] Attanagliavano la valle un caos frenetico e una selvaggia anarchia»20. Il suo ritorno al pieno controllo degli eventi nel Kashmir, il 19 gennaio 1990, segnò l'inizio di una nuova asprezza nei rapporti di New Delhi con i kashmiri, come nella loro risposta. La sua nomina fu probabilmente «il peggiore errore che il governo centrale potesse commettere in quel momento», scrive Tavleen Singh, «ma non c'era nessuno, nel neoeletto governo di V.P. Singh, che potesse dirglielo»21. Questo governo dipendeva fortemente dall'estremista BJP, che intendeva abrogare l'articolo 370 e integrare il Kashmir nell'Unione Indiana. Così, il tentativo di trovare una soluzione politica al problema fu messo da parte in favore di una politica di repressione. La notte del 19 gennaio fu condotta una perquisizione di casa in casa in una zona in cui si riteneva che si nascondessero i militanti: furono arrestate trecento persone, la maggior parte delle quali rilasciate più tardi22. Jagmohan asserì che la perquisizione era stata ordinata, prima delle dimissioni, da Abdullah, che accusava di aver abbandonato la valle; l'ex ministro capo negò. La reazione della gente fu senza precedenti: «L'intera città era fuori di casa. Io stavo dormendo, era mezzanotte. Udii gente per la strada che gridava slogan a favore del Pakistan ecf espressioni islamiche: "Allah o Akbar", "Cosa vogliamo? La libertà! "», ricorda Haseeb, uno studente di medicina kashmiro2'. Il giorno successivo, mentre Jagmohan prestava giuramento da governatore con la promessa che avrebbe trattato lo Stato come «un infermiere», per le vie di Srinagar si raccolse un'ampia dimostrazione di protesta contro la perquisizione notturna. In risposta, truppe paramilitari si concentrarono sui due lati del ponte Gawakadal, sul fiume Jhelum e, quando la folla disarmata lo raggiunse, aprirono il fuoco da entrambe le rive. La sparatoria è stata definita il peggior massacro nella storia del Kashmir: morirono più di cento persone, alcune per le ferite di arma da fuoco, altre perché, per la paura, si tuffarono nel fiume e annegarono2"1. Farooq Ah-
med, un ingegnere meccanico che stava osservando la manifestazione, fu ferito: considerato morto, venne messo su un camion carico di corpi, finché non fu soccorso dalla polizia e portato all'ospedale. «Fui fortunato, ero stato colpito alla schiena. Sei proiettili [...] ma la testa era salva, ero persino cosciente. Vidi che il ponte era completamente pieno di cadaveri [...] c'era caos, gente che correva di qua e di là»25. Mentre la stampa indiana minimizzò l'episodio, quella straniera riportò invece il massacro e le sue ripercussioni al mondo. «Migliaia di musulmani, scandendo ad alta voce "Cani indiani, andate a casa", "Vogliamo la libertà" e "Viva l'Islam", hanno marciato attraverso Srinagar e altre città, malgrado l'ordine di "sparare a vista" della polizia», informò il «Daily Telegraph»2'1. Di conseguenza, i corrispondenti esteri furono banditi dalla valle. Fu imposto un coprifuoco a tempo indeterminato, anche in parecchie altre città. Jagmohan affermò di non avere notizia di cadaveri galleggianti sul fiume Jhelum e manca di citare l'episodio nelle sue memorie. In seguito non venne ordinata alcuna inchiesta pubblica. Scrive Balraj Puri: «Con questo incidente, la militanza entrò in una nuova fase. Non si trattava più di uno scontro tra i militanti e le forze di sicurezza. Assunse gradualmente la forma di un'insurrezione generale dell'intera popolazione»27. Nonostante l'aumento d'intensità dell'insurrezione, la televisione indiana «esagerò con la cronaca in diretta dei movimenti di massa contro l'autoritarismo dell'Europa dell'Est e dell'Asia centrale, insensatamente indifferente al tremendo impatto che ogni immagine di una donna che baciava il Corano e scherniva un soldato stava avendo sul Kashmir», scrive M.J. Akbar28. E contro il «giro di vite» delle autorità, la gente continuò a scendere in strada: «Nelle moschee c'erano altoparlanti che incitavano la gente a uscire. Si gridavano slogan per tutto il giorno», ricorda Haseeb. «Azadi, Azadi [...] Allah o Akbar. Libertà, libertà. Dio è grande», si trasmetteva dai minareti. Con un ottimismo straordinario, il popolo credeva di avere vinto la propria lotta quasi prima che fosse incominciata. «Anch' io pensavo: entro dieci giorni, l'India dovrà ritirarsi dal Kashmir»29. Insegnanti, medici, avvocati, impiegati civili, studenti scesero tutti in strada per protesta. Per la prima volta, il 26 gennaio la bandiera indiana non fu alzata per celebrare la Giornata della Repubblica dell'India, commemorata come un «giorno nero». I giornalisti che si trovavano già a Srinagar restarono confinati nelle loro stanze d'albergo, i loro lasciapassare per il coprifuoco furono ritirati, le linee telefoniche e telex tagliate. Il Pakistan sembrò essere colto di sorpresa dagli avvenimenti della valle. «Islamabad era stupita quanto Delhi dall'esplosione improvvisa e drammatica del sentimento d e l l ' ^ z ^ » , scrive Edward Desmond, corrispondente del settimanale «Time»' 0 . Considerata la storia passata delle relazioni tra i due paesi a proposito del Kashmir, il governo pakistano si sentì in dovere di ripetere la propria richiesta dei decenni passati: si doveva
concedere ai kashmiri il diritto all'autodeterminazione nei termini delle risoluzioni delle Nazioni Unite. Benazir Bhutto tenne un energico discorso nell'Azad Kashmir garantendo appoggio morale e diplomatico ai «combattenti per la libertà». I colloqui del gennaio 1990 tra Inder Gujral, ministro degli Esteri indiano, e il suo omologo pakistano Sahibzada Yaqub Khan non attenuarono la tensione persistente tra i due paesi. «Yaqub Sahib è venuto con un messaggio molto forte», disse Inder Gujral, e aggiunse che la propria controparte sembrava «quasi sfidare l'autorità statale indiana nel Kashmir, affermando che nulla del passato era vincolante per loro e che l'accordo di Simla non aveva importanza»". Il governo indiano discusse anche della necessità di prepararsi psicologicamente a una guerra e dichiarò che diecimila giovani kashmiri erano andati in Pakistan per sottoporsi ad addestramento32. Però, scrive il giornalista indiano Tavleen Singh, «l'appoggio morale divenne sostegno militare soltanto dopo che migliaia di kashmiri furono scesi in strada per chiedere Yazadi»". Jagmohan resistette ai «missili della propaganda» provenienti dal Pakistan, come ebbe a definirli: «Mi persuasi di dover assolvere un dovere nazionale. Con tutta la fredda agitazione nella mia mente, con tutti gli ostacoli che avevo e la schiena gravemente ferita dalle pugnalate alle spalle, andai comunque avanti»3". Le restrizioni alla stampa impedirono tuttavia che alla valle giungessero informazioni autentiche: ad eccezione delle radio straniere, i kashmiri furono così costretti a fare assegnamento sui comunicati stampa emessi dall'ufficio di Jagmohan nel Raj Bhavan. Gli stessi articoli apparivano in giornali diversi, con il medesimo contenuto ma con firme differenti. Il 13 febbraio, alcuni militanti uccisero a Srinagar, sulla via di casa, Lassa Kaul, il direttore locale della televisione indiana Doordarshan. Il governatore spiegò l'omicidio con il fatto che Kaul si era attirato «l'ira dei terroristi trasmettendo programmi definiti anti-islamici, che facevano parte di quella che veniva etichettata come aggressione culturale da parte dell'India». I militanti incolparono l'amministrazione di aver fatto pressioni su Kaul affinché trasmettesse materiale a favore del governo indiano, «determinando così indirettamente la sua morte»35. Il giorno seguente, gli impiegati della Doordarshan si dimisero adducendo il pretesto che Jagmohan aveva distrutto la credibilità del mezzo di comunicazione di massa ufficiale. Afferma Ved Bhasin, direttore del «Kashmir Times», con sede a Jammu: «La televisione fu presa tra il fuoco incrociato dei militanti e dei militari»36. Le pressioni da entrambe le parti perché fossero deformati i resoconti o omesse informazioni resero impossibile il lavoro dei giornalisti37. Quando il 19 febbraio Jagmohan sciolse l'assemblea legislativa dello Stato, eliminò l'unico luogo di espressione politica diverso dalla moschea. Illustrò il proprio operato al ministro dell'Interno Mufti Muhammed Sa-
yeed: «Senza lo scioglimento, l'uso della forza su vasta scala non avrebbe avuto una legittimazione morale, né sarebbe stato possibile per me e i consiglieri garantire l'obbedienza ai nostri ordini da parte dei funzionari locali, i quali nutrivano costantemente l'idea che il dottor Farooq Abdullah e i suoi colleghi sarebbero tornati, dopo che il governatore avesse concluso il proprio lavoro di "macellaio"»'*. La sua strategia era la militarizzazione dello Stato con l'appoggio di Delhi. La polizia locale fu integrata da un'unità paramilitare federale, la Central Reserve Police Force (CRPF), i cui metodi violenti destarono il risentimento dei poliziotti, che scesero temporaneamente in sciopero. «Stime ufficiose dicono che nelle ultime sei settimane è stato dispiegato in Kashmir circa un lakh [100.000] di persone tra esercito, paramilitari e polizia. Se questa non è guerra, che cos'è?», si chiese il giornalista Shiraz Sidhva dopo una visita alla valle nel febbraio 1990. «Che la gente stia con i militanti è più che evidente. Nell'unico mese da quando è subentrata la nuova amministrazione, nemmeno uno di essi è stato catturato»' 9 . Alla fine del mese, circa 400.000 kashmiri marciarono verso gli uffici del Gruppo di Osservatori Militari delle Nazioni Unite per consegnare petizioni per l'attuazione delle risoluzioni ONU; fu la più grande manifestazione che il Kashmir avesse mai visto40. Ma i funzionari dell'ONU non poterono far altro che evidenziare che la loro presenza nella valle aveva solo l'obiettivo di sorvegliare la linea di controllo. Quasi ogni giorno una processione di avvocati, donne, insegnanti, medici marciava per le vie di Srinagar. Il primo marzo più di quaranta persone furono uccise dal fuoco della polizia, allorché una moltitudine imponente, stimata in un milione di persone, scese per le strade. Il persistente coprifuoco portò a gravi carenze di cibo, medicinali e altri prodotti essenziali. Gli ospedali divennero a tal punto pieni delle vittime dell'insurrezione che il nome dell'ospedale ortopedico di Srinagar (Bone and Joint Hospital) venne mutato in ospedale per le ferite da proiettile ed esplosione41. Guidato dal suo senso di missione personale, Jagmohan vide l'insurrezione come un movimento, fiancheggiato dal Pakistan, da schiacciare brutalmente, anche se ciò significava prendere di mira virtualmente l'intera popolazione. Ovviamente, non potevo camminare a piedi nudi nella valle piena di scorpioni, la valle in cui le forze interne ed esterne del terrorismo avevano cospirato per sovvertire l'Unione e impadronirsi del potere. [...] Dovevo attrezzarmi per affrontare ogni eventualità. Non dovevo lasciare nulla al caso. Una lieve svista o un errore avrebbero significato una Piazza Tienanmen o una Blue Star o la dichiarazione formale di un nuovo Stato teocratico con tutto il conseguente imbarazzo internazionale.42
Farooq Abdullah accusò il governatore di avere scatenato un clima di terrore tra la gente. Il governo di New Delhi prese alcune misure riparatone per controllare gli effetti della repressione, nominando ministro per il Kashmir George Fernandes, ben noto in India, come nel resto del mondo, per la sua attenzione verso i diritti umani. Il governatore considerava il suo atteggiamento inefficace e si fece un'opinione ostile dei suoi colloqui con «elementi inflessibili della fazione dei sovversivi». Fernandes, disse, «non prese in considerazione il fatto che finché gli elementi filopakistani, ebbri dei successi passati, avessero avuto fiducia nelle pistole e nelle bombe, non si sarebbe potuto dare inizio ad alcun proficuo sviluppo politico, e coloro che vi avrebbero aderito con buona probabilità sarebbero stati eliminati»43. Il ministro aveva comunque fiducia nel dialogo: «Conosco queste persone, le ho incontrate, alcune prima che diventassero militanti, altre dopo. Si deve interagire con loro per avere un'idea del tipo di disaffezione che provano questi giovani»44.
7.3. La fuga degli indù All'inizio di marzo, in un esodo di massa, circa 140.000 indù45 lasciarono la valle per i campi profughi fuori Jammu. I più benestanti presero residenza nelle loro seconde case di Delhi, ma la grande maggioranza fu alloggiata in squallide tende nei campi alla periferia di Jammu e di Delhi. La loro storia ci è nota quanto quella di altre popolazioni del mondo: sfollati dalle loro case per una guerra di cui non avevano il controllo, anch'essi sembravano presi nel fuoco incrociato, usati dal governo indiano come materiale di propaganda per dimostrare che durante l'insurrezione a soffrire non erano soltanto i musulmani. «Abbiamo lasciato la valle per colpa del terrorismo. Viviamo in una condizione miserabile», disse Jawaharlal, ex insegnante a Kupwara, una cittadina nei pressi della linea di controllo. «Vivevamo in pace. I musulmani kashmiri sono nostri confratelli, abbiamo vissuto insieme a loro per secoli, abbiamo condiviso gioie e dolori, ma la cultura delle armi ci ha costretti ad andarcene». In condizioni antigieniche, con cibo insufficiente, Jawaharlal riteneva che venissero violati anche i diritti umani degli indù. «I pandit kashmiri sono in minoranza. I nostri diritti devono essere salvaguardati nelle mani della maggioranza musulmana della valle. Abbiamo lasciato la nostra vita familiare, le nostre libertà civili sono state limitate. Soltanto se la comunità maggioritaria lo vorrà, allora potremo tornare nella valle; altrimenti ci è vietato l'accesso»46. Il dottor Pamposh Ganju, dell'Indo-European Kashmir Forum, dice che dal 1990, a causa delle condizioni di povertà, nei campi sono morti più di seimila indù, a fronte dei millecinquecento pandit kashmiri uccisi nel cor-
so dei primi mesi dell'insurrezione"7. (Le cifre del governo indiano per gli indù assassinati ammontano a meno di duecento nel biennio 1989-90). C'era e c'è ancora, tuttavia, la diffusa sensazione che l'allontanamento degli indù non fosse necessario e che Jagmohan, che aveva la reputazione di antimusulmano sin dai tempi del regime dell'emergenza, tentò di dare al problema kashmiro un profilo comunitario, agevolando la loro partenza con mezzi di trasporto governativi. Si tratta di un'accusa che egli rifiutò con forza: Che cosa si può dire di una commissione che se ne esce con un'affermazione per cui non è stato l'ambiente spaventoso, non il paesaggio brutalizzato, non lo spietato kalashnikov dei predoni, non sono state le bombe o gli incendi, le telefonate minatorie, l'esortazione isterica alla «Jihad» da centinaia di altoparlanti piazzati sulle moschee [...] ma è stato l'incentivo dei camion ad aver spinto i kashmiri ad abbandonare le loro case nella valle dall'aria fresca e frizzante e a trasferirsi nei campi caldi e inospitali di Jammu?48 Dopo la fuga, si disse che a occuparsi delle case degli indù erano vicini e amici musulmani. «Le proprietà, le case, i frutteti posseduti dai pandit non sono stati danneggiati nell'ultimo anno», affermò George Fernandes nell'ottobre 1990"9. Inoltre, scrive Balraj Puri, soltanto «un'inchiesta autenticamente indipendente [...] può rivelare se questo esodo di pandit, il più ampio della loro lunga storia, fosse del tutto inevitabile»50. Con quella partenza, i gruppi militanti come il J K L F , i cui obiettivi riguardavano, secondo quanto affermavano, tutti gli occupanti dell'ex principato, non poterono più rivendicare di rappresentare gli induisti, attratti a loro volta dai partiti estremisti indù, il BJP e lo Shiv Sena. Due eminenti giuristi, V.M. Tarkunde, ottantenne, e Rachinder Sachar, oltre al pedagogista Amrik Singh e a Balraj Puri, fecero un giro per il Kashmir nel marzo-aprile 1990. Condannarono sia i militanti sia Jagmohan per l'aggravamento della situazione nella valle. «Il fatto è che l'intera popolazione musulmana della valle del Kashmir è del tutto ostile all'India e, a causa della politica altamente repressiva perseguita dall'amministrazione nei mesi recenti, specialmente dall'avvento di Shri Jagmohan nel gennaio 1990, la loro disaffezione si è ora trasformata in amarezza e rabbia». Il loro rapporto condannò anche i militanti per la tattica seguita dopo il rapimento e l'assassinio, in aprile, del vicerettore dell'Università del Kashmir, Mushir-ul Haq, del suo segretario Abdul Ghani e del direttore generale della fabbrica di orologi Hindustan Machine Tools, H.L. Khera: «Con le loro attività, i militanti rafforzano l'apparato repressivo dello Stato e forniscono una parvenza di giustificazione al governo affinché assuma poteri sempre più arbitrari»51. In un certo senso, questa era la loro strategia: maggiore era la
repressione del governo indiano, più appoggio i militanti speravano di ottenere tra la gente. In tal modo si poteva dunque esercitare una maggiore pressione internazionale. Ma con i corrispondenti esteri banditi dalla valle e i maggiori attivisti politici in arresto, non era possibile alcun dialogo per modificare la posizione presa dal governo o dai militanti.
7.4. La morte del Mirwaiz Sin dai giorni della sua opposizione allo sceicco Abdullah, derivante dall'ostilità di suo zio Yusuf negli anni Trenta, il Mirwaiz Maulvi Farooq era stato conosciuto per i suoi sentimenti filopakistani. L'alleanza FarooqFarooq con Abdullah, nel 1983, segnò un cambiamento di breve durata e, quando quest'ultimo venne emarginato dall'ascesa dei partiti islamici, il Mirwaiz assunse il ruolo di un anziano rispettato, cui, nella crisi attuale, potevano rivolgersi sia il governo sia i militanti, poiché, quale capo predicatore alla Jama Masjid di Srinagar, esercitava un'indiscussa autorità religiosa. Ma il 21 maggio fu ucciso nella sua casa. I militanti addebitarono il crimine agli agenti indiani, il governo di New Delhi incolpò a sua volta i militanti, ma non in maniera sufficientemente convincente, così che nessuno gli credette. L'assassinio scosse entrambe le parti. Il figlio adolescente Omar accusò «quegli elementi che lavorano contro gli interessi del movimento kashmiro» 52 .1 sostenitori dell'annessione dello Stato all'India rilevarono che la morte cambiò la reputazione del Mirwaiz dal giorno alla notte: «Finché non venne ucciso [...] era considerato un traditore e un secessionista», scrive Tavleen Singh. «Appena morto, cominciò all'istante ad essere venerato come un martire e un moderato»". Le ripercussioni dell'assassinio provocarono ancor più danni al governo: durante il corteo funebre, quando la folla passò davanti all'Islamia College, dov'era acquartierato il sessantanovesimo battaglione della CRPF, alcuni agenti aprirono il fuoco. Le autorità affermarono di averlo fatto per rappresaglia contro un attacco alle forze di sicurezza ad opera di una parte della folla. I morti ufficiali furono ventisette, ma fonti ufficiose affermarono che furono cento, e forse di più54. Persino la bara del Mirwaiz fu perforata dai proiettili. Lo sdegno per l'assassinio si trasformò in isteria contro il governo. Quando fu intervistato dalla Punjab Human Rights Organisation, Satish Jacob, uno dei corrispondenti della BBC a Delhi, descrisse i gruppi militanti come tutt'altro che «rattristati per la morte di Maulvi. Non al punto che fingevano di essere. Tutta quell'ostentazione di dolore è simulata». Secondo la sua opinione, l'omicidio fu compiuto dall'Hizb-ul Mujaheddin, perché Maulvi Farooq era un sostenitore del J K L F . Disse anche, sulla base delle proprie informazioni, che le forze di sicurezza erano completa-
mente in torto per la sparatoria al corteo funebre e che non c'era prova di provocazioni da parte della folla. La sua stima era di quarantasette morti". Sotto Jagmohan, la valle era una zona di guerra chiusa. Quando la Punjab Human Rights Organisation indagò sulla morte di Maulvi Farooq, descrisse «una spessa cortina di ferro» che separava il Kashmir dal mondo esterno. «Il regime di coprifuoco pervade tutto. Sono in atto restrizioni severe per gli indiani estranei che cercano di entrare nella valle»56. In retrospettiva, è sorprendente che il governo indiano non si rendesse conto prima dell'effetto controproducente di una repressione così indiscriminata dell'insurrezione. Il mandato di Jagmohan durò soltanto cinque mesi, eppure, durante quel periodo, l'ostilità della valle contro il governo indiano divenne quasi totale. Quando il governatore lasciò lo Stato, il suo punto di vista non aveva nulla a che vedere con le promesse qualità di infermiere: Ogni musulmano del Kashmir è oggi un militante. Sono tutti per la secessione dall'India. Annullo i programmi della Doordarshan di Srinagar perché lì ognuno è un militante. [...] La situazione è così esplosiva che non posso uscire da questo Raj Bhavan; ma so quello che succede, minuto per minuto. Le pallottole sono l'unica soluzione. Se i militanti non sono spazzati via del tutto, nella valle non può tornare la normalità.57 Ashok Jaitley, un rispettato impiegato civile che lavorava sotto Jagmohan, vedeva le cose in maniera diversa: «Quello che lui fece in cinque mesi loro [i militanti] non avrebbero potuto realizzarlo neanche in cinque anni»58.
7.5. Lavvento di Saxena Dopo la morte del Mirwaiz Farooq, Jagmohan fu sostituito nella carica di governatore da Girish "Gary" Saxena, che aveva passato diciassette anni nel RAW (Research and Analysis Wing), il servizio segreto indiano. Al momento di assumere l'incarico, ricevette da dieci alti funzionari statali, tra cui Ashok Jaitley, un rapporto, in cui questi tentavano di tracciargli un quadro realistico della disaffezione della valle, dovuta al malgoverno delle autorità. Per quanto Saxena sia generalmente considerato dall'atteggiamento più aperto rispetto a Jagmohan, Tavleen Singh ritiene che fosse soltanto più astuto: «L'ultima cosa che il nuovo governatore volesse udire erano delle spiacevoli verità»59. Non adottò la tattica apertamente repressiva del suo predecessore, ma si impegnò ugualmente a soffocare l'insurrezione con la forza. Per combatterla, si fece sempre più affidamento sulle forze di sicurez-
za di frontiera, ma, come ammise Saxena in seguito, si trattava di giovani non addestrati per il tipo di compiti che erano chiamati ad assolvere. Le forze di sicurezza di confine sono addestrate per sorvegliare le frontiere, pattugliare e controllare i picchetti, non contro il terrorismo urbano e le tecniche di guerriglia. Così devono imparare molte cose per esperienza. Si può agire per fretta o per panico, il che è più probabile in un piccolo gruppo comandato da un giovane ufficiale. Se improvvisamente si trova esposto al fuoco di una mitragliatrice o a un attacco con i razzi, può avere l'impressione che lui o il suo gruppo siano sopraffatti. [...] A causa di una guerra per procura che viene condotta dall'altra parte del confine e promuove la violenza terroristica su vasta scala, era a volte difficile assicurare reazioni mirate e controllate da parte delle forze di sicurezza. In alcune occasioni si verificarono reazioni eccessive o persino illegalità.60 Come molti dirigenti indiani, Saxena credeva fermamente che il Pakistan avesse intrapreso la propria «guerra per procura» nel Kashmir, non soltanto con la fornitura di armi ai militanti, ma anche consentendo loro di addestrarsi sul proprio territorio. Nel febbraio 1990, il servizio segreto indiano aveva fatto rivelazioni su quarantasei campi in tutto l'Azad Kashmir, descritti come «luoghi sicuri» dove ai militanti veniva impartito l'addestramento alle armi e agli esplosivi6'. Nel giugno dello stesso anno, il giornalista del «Financial Times» David Housego viaggiò per tutto l'Azad Kashmir e gli furono mostrati i campi profughi del Jamaat-i Islami, i quali erano: completamente diversi dai campi ufficiali del governo locale, dove si vedono le intime sofferenze della vita dei rifugiati. [...] Nei campi del Jamaat non ci sono donne, bambini o anziani. Sono tutti uomini giovani che vengono da diverse città e villaggi della valle [...] il loro morale è alto. Dicono che sono ben curati [...] si dipingono come profughi, ma gli adesivi sul muro rivelano che sono membri dell'Hizb-ul Mujaheddin.62 I governi del Pakistan e dell'Azad Kashmir negavano di fornire sostegno materiale ai militanti, ma le attività del Jamaat-i Islami e di altri gruppi di certo non erano ostacolate. «Non ci sono campi di addestramento in Pakistan, naturalmente, ma per quel che riguarda l'Azad Kashmir, esso è parte integrante dello Stato dello Jammu e Kashmir», disse Azam Inquilabi". «Possiamo impiantarvi dei campi di addestramento militare e lo stiamo facendo». Il giudice Tarkunde valutò i campi di addestramento nel contesto della lotta politica dei kashmiri contro il governo dell'India:
È assai probabile che il Pakistan abbia fornito addestramento militare e armi ai militanti del Kashmir. Tuttavia non è responsabile dello scontento della gente della valle verso il governo indiano. Causa della débàcle nel Kashmir sono l'iniziale negazione del diritto all'autodeterminazione e le successive politiche antidemocratiche perseguite dal governo dell'India.64 Nel marzo 1990 John Kelly, sottosegretario di Stato per gli Affari del Vicino Oriente e dell'Asia meridionale, dichiarò davanti a una sottocommissione per gli Esteri della Camera: «Siamo preoccupati per il recente accendersi delle tensioni tra India e Pakistan a proposito del Kashmir [...] gli Stati Uniti pensano che il quadro migliore per una risoluzione di questa controversia si possa trovare nell'accordo di Simla del 1972»65. Con l'indebolirsi del rapporto indo-russo seguito al collasso dell'Unione Sovietica, come osservarono i commentatori indiani, gli Stati Uniti si resero peraltro conto delle notevoli opportunità di sviluppare legami più stretti con l'India, i cui acquisti militari dagli USA passarono dai cinquantaseimila dollari del 1987 ai cinquantasei milioni del 199066. Contemporaneamente, il Pakistan affrontava difficoltà nelle relazioni con gli Stati Uniti a causa del proprio programma nucleare; nell'ottobre 1990, in linea con l'emendamento Pressler, furono interrotte le forniture militari americane. E Nawaz Sharif, che aveva rimpiazzato Benazir Bhutto quale primo ministro dopo la destituzione di quest'ultima nell'agosto 1990, incontrava critiche all'interno per la sua politica sul Kashmir. Entro alcuni ambienti pakistani si riteneva che, malgrado le dichiarazioni contrarie, gli americani favorissero un Kashmir indipendente - allo scopo di poterlo utilizzare come base per i propri obiettivi strategici - e che, non prendendo una posizione sufficientemente dura, nella sostanza Nawaz acconsentiva a queste finalità. «Lo scenario che l'Occidente sta cercando di creare qui è più o meno questo», disse Mian Zahid Sarfraz, ex collaboratore politico di Nawaz Sharif: Se non si può seppellire il Kashmir, come vorrebbero gli indiani, allora deve diventare un paese indipendente, piuttosto che una parte del Pakistan tramite un referendum, come previsto in origine. Ma se diviene indipendente o gli viene dato uno statuto del genere, sarà nella migliore delle ipotesi un possedimento chiuso, un protettorato internazionale destinato a restare per sempre sotto il controllo indiano. [...] Accettando l'idea degli USA, Nawaz ha rinunciato alla sicurezza nazionale.67 Era comunque chiaro che, al di là di una certa ambiguità nelle dichiadel premier pakistano, il duraturo impegno del suo paese a risolquestione del Kashmir in base alle risoluzioni ONU implicava un cambiamento della linea politica, teso ad accogliere la «terza opzione» dell'indipendenza, di fatto accettabile. razioni v e r e la
7.6. Repressione
e
ritorsione
Attentati dei militanti contro obiettivi specifici, rappresaglie del governo, cordoni di polizia e perquisizioni per scacciare gli attivisti e trovare armi, appelli allo sciopero da parte di questi ultimi: per i kashmiri, questa sequenza di eventi era divenuta un ingrediente della vita quotidiana, con uno scarsissimo dialogo in mezzo. Le organizzazioni umanitarie, limitate nell'accesso, condannavano la violazione dei diritti umani. Nel 1991, Asia Watch dichiarò che le forze governative «hanno anche violato sistematicamente la legge internazionale sui diritti umani utilizzando armi letali contro dimostranti pacifici»68. Il Kashmir svaniva dalle cronache internazionali per qualche settimana o mese, per ricomparire soltanto quando un giornalista riferiva qualche avvenimento terribile. Saxena invitava alla moderazione le forze dell'ordine, sulla base del ragionamento che gli eccessi regalavano reclute alla militanza, ma continuavano a venire alla luce racconti di brutalità, perpetrate soprattutto nelle aree rurali, dove il controllo dal vertice non era così efficace, se non scarsissimo. Il decreto speciale sulle Forze Armate (dello Jammu e Kashmir), introdotto nel luglio del 1990, fornì alle forze dell'ordine i poteri straordinari di sparare e uccidere, perquisire e arrestare senza un mandato, il tutto nell'immunità dall'incriminazione «riguardo a qualunque atto compiuto o presumibilmente compiuto nell'esercizio del potere conferito da questo decreto». Subito dopo la sua emanazione, si riferì che le forze di sicurezza si diedero a «una sbornia» di incendi, bruciando negozi e case per ritorsione contro un recente agguato da parte dei militanti69. Una delle più gravi denunce di eccessi affrontate dal governatore Saxena fu in relazione a quanto verificatosi nella cittadina di Kunan Poshpura. Nel febbraio del 1991, si sparsero racconti su cinquantatré donne stuprate in gruppo, mentre gli uomini venivano tenuti al freddo glaciale o rinchiusi nelle case e interrogati. «Ciò che è accaduto a Kunan Poshpura è avvertito come il peggiore episodio di atrocità perpetrato dalle forze di sicurezza», scrisse Christopher Thomas sul «Times» 70 .1 soldati vennero identificati come componenti del quarto fucilieri di Rajpur. Tre inchieste separate conclusero che la testimonianza delle donne era incoerente e, su tale base, il governo indiano asserì che l'episodio era «un imponente imbroglio orchestrato dai gruppi terroristici, dai loro mentori e simpatizzanti nel Kashmir e all'estero» 71 . La missione della Commissione Internazionale di Giuristi, che visitò lo Stato nel 1993, concluse tuttavia che «se lo stupro di massa di Kunan Poshpura non può essere provato al di là di ogni dubbio, sussistono in ogni caso ragioni sostanziali per credere che esso abbia avuto luogo»72. «In questo remoto villaggio, nel fi ne settimana, le forze di sicurezza indiane hanno legato sette uomini e ragazzi - tutti componenti della stessa famiglia musulmana - e gli hanno
sparato, come calcolato atto di brutalità per dissuadere gli abitanti del villaggio dall'aiutare i separatisti kashmiri», scrisse David Housego da Malangam, nella valle del Kashmir, nell'aprile del 1991. «Le rappresaglie condotte evidentemente a sangue freddo dalla BSF contro gli abitanti del villaggio, che si ritiene proteggano i militanti o le armi, costituiscono un'ulteriore prova di un collasso della disciplina tra le truppe indiane nel Kashmir»73. Nel giugno dello stesso anno, Tony Allen-Mills raccontò che gli abitanti di Kulgam erano stati soggetti al fuoco indiscriminato nelle strade, per rappresaglia contro un attacco con i razzi sulla caserma della BSF, in cui erano rimasti leggermente feriti due soldati: Abdul Hamid Wazi, aiutante di un fornaio, ha visto alcuni soldati versare polvere da sparo sui muri esterni della sua casa. Hanno sparato un colpo e dato alle fiamme l'abitazione: il tetto di paglia gli è crollato addosso. Wazi è saltato attraverso le fiamme, ustionandosi gravemente una gamba e il viso. Quando la rabbia dei soldati passò, erano stati bruciati ventotto negozi e due case, c'erano fori di proiettili nella moschea e diverse donne sostennero di essere state violentate.74 Nel 1991 Tim McGirk dell'«Independent» valutò generosamente le forze combinate dei maggiori gruppi militanti in 45.000 combattenti armati e addestrati, mentre l'esercito indiano e i paramilitari furono inizialmente stimati in 150.000 uomini75. Con il tempo, queste cifre oscillarono sia nella realtà sia nella percezione: la convinzione che «mezzo milione di soldati indiani» fossero stanziati in Kashmir divenne un dato acquisito nell'opinione di tutti i gruppi di opposizione. Il governo indiano affermava che vi fossero meno militanti e di sicuro meno militari. Dopo i primi successi del J K L F , i suoi leader scoprirono che l'Hizb-ul Mujaheddin incontrava un appoggio maggiore da parte del Pakistan a loro discapito; Amanullah Khan si lamentava del fatto che le sue reclute venissero costrette a unirsi all'Hizb e ad altri gruppi. Nel dicembre 1991, in una conferenza stampa a Islamabad, si rammaricò del fatto che l'Hizb filopakistano uccideva gli attivisti del J K L F . E accusò anche i sostenitori filopakistani di fornire alle forze di sicurezza indiane indicazioni sui nascondigli del J K L F , il che rendeva più facile la cattura dei militanti. Nel 1992 Amanullah Khan fece il tentativo, assai pubblicizzato, di attraversare la linea di controllo, per dimostrare che il J K L F non riconosceva la linea che divide «la madrepatria del Kashmir»7''. Il suo primo tentativo, 1*11 febbraio 1992 - ottavo anniversario dell'esecuzione di Maqbool Butt - , fu impedito dalle autorità pakistane e dodici dimostranti furono uccisi. Prima che potesse provarci di nuovo, il 30 marzo, Amanullah fu trattenuto con cinquecento sostenitori; anche un terzo tentativo in ottobre fallì. Nono-
stante l'insuccesso, la pubblicità che ne derivò incrementò 0 consenso verso di lui e dimostrò che il JKLF era disposto a perseguire i propri obiettivi anche contro il governo pakistano.
«Il J K L F organizzò un rientro», scrive Balraj Puri, «e lo slogan dell'azadi tornò nella valle a discapito dei sentimenti filopakistani». Puri ritiene che in questa fase i kashmiri cominciarono a perdere molte delle illusioni a proposito dell'appoggio pakistano al loro movimento. «Se questo processo di disillusione non fu completo, lo si dovette al mancato riconoscimento, da parte del governo centrale, delle aspirazioni fondamentali dei kashmiri e alle azioni repressive delle forze di sicurezza indiane»77. Il governo di New Delhi subiva intanto i propri sconvolgimenti: dopo meno di due anni in carica come primo ministro, V.P. Singh fu sostituito a seguito delle elezioni del giugno 1991. Il suo successore fu Narasimha 'Rao, nuovo leader del Partito del Congresso dopo l'assassinio, in maggio, di Rajiv Gandhi. Benché il BJP non esercitasse più la stessa influenza sulla politica del Kashmir, durante questo periodo il comunitarismo indù rimase un fattore importante e raggiunse proporzioni allarmanti alla fine di dicembre del 1992, con la distruzione, da parte di elementi estremisti, della moschea di Ayodha nell'Uttar Pradesh, a sud del Nepal. «Dopo Ayodha», commentò un attivista kashmiro, «non comprendiamo perché i musulmani dell'India non facciano come noi e non insorgano contro il governo indiano». Con Saxena, il governo indiano lavorò anche per affinare la propria attività di reperimento delle informazioni e le misure antisommossa nella valle. I militanti che non resistevano alla tortura sotto interrogatorio venivano «convertiti» e utilizzati come «Cats» (Concealed Apprehension Tactics, 'tattica nascosta di cattura') per identificare i compagni di militanza. L'"operazione Tigre", lanciata nell'agosto 1992, fu la prima di una serie di iniziative delle forze di sicurezza denominate in codice «Shiva», «Aquila», «Cobra», il cui scopo era la soppressione dei vari gruppi militanti attraverso un criterio di «prendi e ammazza». Una delle città a soffrire maggiormente per mano delle forze dell'ordine fu Sopore, dove il 6 gennaio del 1993 furono uccise almeno quarantatre persone e un'intera parte del centro della città fu ridotta in cenere. Fu considerato 0 più grande attacco per rappresaglia da parte delle forze dell'ordine durante l'insurrezione. «L'episodio segnò uno spartiacque, obbligando le autorità dello Stato e del governo centrale a riconoscere per la prima volta che le forze della BSF avevano deliberatamente operato una ritorsione contro la popolazione civile della città, dopo che in un attentato militante due dei loro uomini erano stati feriti e in seguito erano morti». Secondo Asia Watch, testimoni riferirono di aver visto i soldati della BSF versare benzina su alcuni stracci, accenderli e lanciarli su case e negozi. Affermarono anche che la BSF impedì ai pompieri di spegnere le fiamme78.
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Durante la guerra del governo indiano contro gli insorti, succedeva assai spesso che, come era accaduto al Mirwaiz Maulvi Farooq, una persona molto nota venisse uccisa, circostanza che attirava una maggiore attenzione e provocava generalmente più imbarazzo al governo indiano. Anche la morte di un militante poteva essere l'occasione per un immenso corteo funebre che si trasformava in una manifestazione del sentimento antigovernativo. Il 18 febbraio 1993, il dottor Farroq Ashai, primario chirurgo ortopedico al Bone and Joint Hospital del centro di Srinagar, venne assassinato mentre tornava a casa in auto con la moglie e la figlia; dato che era un medico rispettato, la sua morte provocò scalpore. La vedova, la dottoressa Farida Ashai, raccontò che gli unici spari uditi furono i tre colpi sparati contro la loro auto: «Fu un omicidio deliberato. Invece di raggiungere casa, raggiunse il cimitero»79. Al contrario, il governo affermò che si era trattato di un conflitto a fuoco, ma la famiglia riteneva che il medico fosse stato ucciso per i suoi noti legami con giornalisti stranieri e rappresentanti delle organizzazioni di tutela dei diritti umani. Faceva anche da portavoce dei civili feriti nel Kashmir: «Siccome era un esperto di ferite da proiettile, allora veniva spesso richiesto anche dai militanti»80. Fuori dell'ospedale i suoi studenti eressero in seguito un monumento alla memoria del loro amato insegnante, «chirurgo eminente, intelletto competente, patriota umanitario caduto per i proiettili delle forze dell'ordine». Visto che c'era stato uno scontro a fuoco, disse il governatore Saxena, l'incidente non era dunque premeditato: «E assai improbabile che qualcuno abbia avuto il sospetto che sull'auto vi fosse il dottor Ashai. Pertanto non c'era movente e questo episodio scosse tutti noi, perché si trattava di un uomo molto stimato, rispettoso della legge» 8 '. Ma rimase l'impressione che, ancora una volta, le forze di sicurezza si fossero fatte giustizia da sé. A marzo venne ucciso a Srinagar un altro medico rinomato, il dottor Abdul Ahad Guru, cardiochirurgo e noto simpatizzante del J K L F , identificato da Jagmohan come uno degli «inflessibili tra i sovversivi». Si pensò che fosse stato ucciso da membri dell'Hizb-ul Mujaheddin, ma era comunque tenuto sotto sorveglianza dal governo ed entrambi i gruppi militanti ritennero che la sua morte fosse stata provocata dalle forze dell'ordine, malgrado i dinieghi delle autorità. Ancora una volta, la mancanza di un'inchiesta provocò rabbia. Durante il funerale si raccolse una vasta folla. «C'erano da cinque a seimila persone, ma la BSF aveva fatto un cordone attorno all'area del cimitero dei Martiri e annunciò che sarebbero passate soltanto cento persone», disse un parente82. Nello scontro che seguì, la polizia aprì il fuoco e il cognato del dottor Guru, Ashiq Hussain, uno dei portatori della bara, fu centrato alla testa e morì sul colpo. «Le prove non indicano che la polizia mirò a Hussain, eppure, dalle testimonianze e
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Lo Jammu e Kashmir oggi (Fonte: Sezione Cartografica delle Nazioni Unite, 1994)
dalle fotografie appare evidente che spararono direttamente sulla folla», dichiarò Asia Watch8'. Nel febbraio del 1993, più di trenta partiti politici si raggrupparono insieme per formare un'organizzazione più ampia cui fu dato il nome di Ali Parties Hurriyat ('Libertà') Conference (APHC). Ne divenne presidente il figlio adolescente di Maulvi Farooq, Omar, in quanto «leader meno criticabile per ciascuna delle fazioni»84. L'esperienza politica dietro la A P H C era fornita da Syed Ali Shah Gilani del Jamaat-i Islami, Abdul Gani Lone della People's Conference, Maulvi Abbas Ansari del Liberation Council e il professor Abdul Gani Bhat della Muslim Conference, i quali furono tutti in arresto per gran parte di questo periodo. Orgoglioso per essere riuscito a mettere insieme così tanti gruppi disparati, Omar Farooq aveva assunto anche il ruolo di suo padre, quello di Mirwaiz della Jama Masjid. L'obiettivo comune dell'organizzazione, malgrado le divergenze tra i componenti sull'indipendenza o l'unificazione dello Stato con il Pakistan, era il diritto alla scelta da parte della popolazione. Si trattava della vecchia richiesta di autodeterminazione e di un referendum, ma questa volta i kashmiri insistevano perché non fosse esclusa la terza opzione dell'indipendenza. Dal momento che le risoluzioni ONU contemplavano soltanto l'alternativa tra India e Pakistan, Omar Farooq suggerì che «una soluzione politica più equa si sarebbe potuta trovare in negoziati tripartiti» 85 . La Hurriyat Conference diede ai militanti una piattaforma politica unitaria tramite la quale essi poterono esprimere le proprie rimostranze, ma le loro richieste non permettevano di prendere in considerazione una soluzione entro l'ordinamento esistente dell'Unione Indiana. Memore degli effetti dannosi della censura praticata al tempo di Jagmohan, Saxena abolì le restrizioni alla stampa: «Proprio durante il mio mandato in Kashmir, l'ingresso venne accordato a chiunque, a tutti i corrispondenti della stampa, i giornalisti, le troupe televisive, alla BBC, "Time", "Newsweek", alla TV tedesca; li nomini e vedrà che c'erano. Devo avere incontrato personalmente più di cento giornalisti stranieri. L'accesso alla valle non era negato, persino i diplomatici potevano incontrare militanti di vertice». Soltanto ad Amnesty International venne ostinatamente proibito l'ingresso, circostanza che il governatore attribuì al ruolo del Pakistan: «Qualsiasi organizzazione come Amnesty, che ha una straordinaria essenza internazionale, sarà sfruttata dal Pakistan come un'arma per internazionalizzare la questione». Affermò anche che i militanti avrebbero usato la presenza dell'organizzazione per dare vita a uno scontro: «Non volevo il vecchio fenomeno di centinaia di migliaia di persone che marciavano per le strade»86. Saxena era sicuro che, nei suoi tre anni da governatore, la situazione della sicurezza «migliorò qualitativamente in modo eccezionale: il 1990 e il 1991 attestarono i nostri sforzi a contenere la militanza sul terreno e
quella fase terminò all'inizio del 1992, quando anche la marcia del J K L F dell'I 1 febbraio si concluse con un nulla di fatto. Certo, la paura delle armi c'è ancora, i militanti hanno ancora una significativa capacità di nuocere. A volte possono attaccare le forze dell'ordine, possono colpire obiettivi facili». Sottolineò inoltre che, durante il suo governatorato, furono lasciate aperte le linee di comunicazione per un dialogo politico con i gruppi militanti e i «giovani sconsiderati»; attraverso questi canali ci si sforzò di farli desistere dalla violenza e farli tornare alla politica convenzionale. La linea di condotta non fu mai quella di regolare l'intera faccenda con la forza o le questioni politiche con le armi87.
8. Cuori e menti
Non si può semplicemente formare un governo e ignorare che in qualche modo bisogna riconquistare i loro cuori. FAROOQ ABDULLAH 1 Dovremmo
pensare al cuore della gente, non alle teste del go-
verno. MIRWAIZ OMAR FAROOQ2
Nel 1993, le autorità indiane erano sicure che, nella valle, il movimento di massa contro il governo fosse in declino. Per le strade non si verificavano più manifestazioni di grandi proporzioni e sembrava che la gente desiderasse un ritorno alla normalità. Ma restava il problema di come arrivarci. Qualunque leader politico disposto a farsi interprete delle richieste degli attivisti e dei militanti kashmiri sarebbe stato inaccettabile per Delhi; per contro, qualunque leader approvato da Delhi sarebbe stato rifiutato dai militanti. E, anche se la militanza era diminuita a Srinagar e nei dintorni, i militanti continuavano comunque ad essere attivi nelle campagne ed erano ancora in grado di organizzare gravi attentati contro le forze dell'ordine. In attesa di una soluzione politica, la valle restava sotto assedio. Per di più, i gruppi di tutela dei diritti umani, i deputati inglesi, i membri del Congresso USA e altri osservatori internazionali cominciavano a guardare più che mai criticamente gli eventi della valle dall'inizio dell'insurrezione.
8.1. Normalizzazione? Nel marzo 1993, Girish Saxena venne richiamato e sostituito dal generale in pensione Krishna Rao, al suo secondo incarico. «Alla popolazione della valle del Kashmir è così arrivato un messaggio contrastante», affermò il corrispondente dell'«Economist» da Srinagar. «Come governatore dello Stato nel 1989, il generale Rao ha qualche responsabilità per l'immobilismo verso la militanza kashmira durante quel periodo. D'altro lato, la sua formazione di soldato di professione dovrebbe contribuire a infondere una maggiore disciplina tra le forze dell'ordine»'. A luglio, Rajesh Pilot, ministro dello Stato per la Sicurezza interna, ribadì che il governo, nei suoi sforzi per porre un freno al movimento «separatista» nello Jammu e Kashmir, rispettava i diritti umani. Nel corso della stessa estate, 0 go-
verno indiano consentì inoltre a un gruppo internazionale di giuristi di visitare lo Stato e, a ottobre, istituì la Commissione Nazionale per i Diritti Umani con la Legge per la Tutela dei Diritti Umani". Tuttavia, secondo Amnesty International, i cui osservatori non erano ancora ammessi nella valle, la Commissione aveva poteri limitati, perché non era autorizzata a indagare sulle denunce di violazioni dei diritti umani da parte dell'esercito e delle forze paramilitari. «Tutto ciò che può fare, quando si trova di fronte a denunce di questa natura, è richiedere un rapporto ufficiale da parte del governo, e in tal modo funziona in effetti da "cassetta delle lettere" delle opinioni ufficiali» 5 . Nell'ottobre 1993 la moschea di Hazratbal richiamò ancora una volta l'attenzione internazionale. Sin dalla primavera, i militanti sfilavano apertamente nelle strade circostanti, erano lieti di parlare con i giornalisti e sfoggiare le proprie armi. «Vidi i leader militanti, sia del J K L F che dell'Hizbul Mujaheddin, scortati in pubblico da guardie del corpo armate», ricorda un giornalista occidentale. «Feci diverse interviste all'aperto con alcuni leader. L'area era completamente controllata dai militanti. Intorno non c'erano forze dell'ordine» 6. In autunno, il governo indiano decise di intervenire. Azam Inquilabi - i militanti dell'operazione Balakote erano anch'essi all'Hazratbal - disse che l'intento dell'esercito indiano era di distruggere la moschea: Volevano umiliare i sentimenti religiosi dei kashmiri, al punto che, una volta demolito il santuario con il bombardamento, avrebbero detto: «Vedete, anche dopo che è stato demolito questo santuario, le truppe pakistane non possono intervenire. Non esprimono solidarietà con voi, gente in lotta. Vi lasciano nelle peste; questa è l'ipocrisia del mondo islamico. Perché dovreste combattere per il mondo islamico e non vi rassegnate alla situazione com'era nel 1989?».7 Il Pakistan condannò come sacrilegio l'azione indiana di accerchiamento della moschea e, quando nel 1984 l'esercito indiano attaccò i militanti sikh, gli osservatori, interni e stranieri, temettero un esito analogo a quello dell'assalto al Tempio d'Oro di Amritsar. M.N. Sabharwal, sovrintendente generale della Polizia dello Jammu e Kashmir, ha una storia diversa da raccontare: Un luogo religioso che era stato molto caro ai kashmiri veniva utilizzato dai militanti non soltanto come nascondiglio, ma anche come centro per gli interrogatori. Avevamo inoltre ragione di credere che le serrature che custodiscono la sacra reliquia fossero state manomesse dai militanti, allo scopo di calunniare le forze dell'ordine. Allora queste hanno fatto irruzione per salvare la reliquia.6
L'area fu circondata da un cordone di uomini, che lasciò circa un centinaio di militanti e alcuni civili all'interno della moschea: iniziarono le trattative e dopo trentadue giorni gli occupanti si arresero. Entrambe le parti furono orgogliose del risultato. «I militanti fecero sì che gli indiani non sparassero una sola pallottola contro il santuario», dice Inquilabi. Anche le autorità indiane si attribuirono il merito della responsabilità e dell'equilibrio adoperati dalle forze dell'ordine nell'Hazratbal. «Fu inviato cibo all'interno, così che né i militanti né i civili morirono di fame», dice Sabharwal. L'immagine dell'equilibrio indiano fu tuttavia minata dalle azioni delle forze di frontiera a Bijbihara, dove uccisero almeno trentasette dimostranti disarmati che protestavano contro l'assedio dell'Hazratbal. Di questo crimine vennero ritenuti responsabili quattordici membri della BSF. Secondo il governo indiano, furono intraprese due inchieste, una della magistratura e l'altra del tribunale. Quest'ultimo incriminò quattro agenti per abuso della forza, mentre l'inchiesta del magistrato accusò dodici persone5 e concluse peraltro che la sparatoria era stata del tutto ingiustificata10. Per impedire ai militanti di occupare nuovamente la moschea, il governo dispose le forze di sicurezza in alcuni bunker attorno all'Hazratbal; i kashmiri si opposero a questa «fortificazione». Un anno dopo, Yasin Malik disse di aver proposto «un'audace iniziativa per togliere l'assedio. Proposi di fare un digiuno a oltranza, pertanto vi sarebbero state due sole opzioni per il governo dell'India: o avrebbe ammesso la nostra morte o avrebbe rimosso i bunkeD>. La sua proposta condusse però a una spaccatura temporanea con la Hurriyat Conference. «La risposta fu negativa. Fecero un comunicato in cui si diceva che il digiuno era anti-islamico»". La preoccupazione internazionale per il Kashmir si acuì nel febbraio 1994, quando il primo ministro pakistano Benazir Bhutto, tornata in carica nell'ottobre dell'anno precedente, sollevò la questione presso l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, a Ginevra. La situazione nello Stato era intollerabile, disse, come lo era il silenzio del mondo. Nonostante la repressione, l'India non era riuscita a imporre la propria volontà all'indomito popolo dello Jammu e Kashmir. In difesa della posizione del governo indiano, il ministro delle Finanze Manmohan Singh disse che il primo ministro del Pakistan aveva offerto una visione del tutto erronea della situazione. Anche Farooq Abdullah scagionò l'India, condannando una volta di più il Pakistan per l'addestramento e la fornitura di armi ai militanti12. Anche se la risoluzione del Pakistan contro l'India non ottenne un appoggio sufficiente e dovette essere ritirata per le pressioni di Cina e Iran, il fatto che altri paesi fossero a conoscenza della violazione dei diritti umani nel loro Stato sollevò il morale degli attivisti kashmiri. E colse di sorpresa anche l'amministrazione indiana: «Gli artefici della politi-
ca indiana sono stati scossi dalla nuova aggressività pakistana, che poteva essere attribuita solamente alla crescente convinzione, a Islamabad, che il governo indiano fosse debole, concentrato esclusivamente sull'economia e distolto dagli affari della sicurezza nazionale», scrisse Shekhar Gupta su «India Today»". Subito dopo Narasimha Rao, che definì la risoluzione di Ginevra «un tendenzioso stratagemma per garantire altri fini nello Jammu e Kashmir»14, istituì una commissione governativa con il proposito di avviare un dialogo politico. Scrisse Shekhar Gupta che vi era «la consapevolezza che "siamo stati noi a mettere completamente sottosopra il Kashmir" e che si dovrebbe trovare nella Valle una qualunque soluzione»15. Processo politico e normalizzazione divennero le espressioni chiave nelle discussioni del governo indiano sullo Jammu e Kashmir in vista dell'indizione di nuove elezioni per l'assemblea legislativa dello Stato, sciolta da Jagmohan nel febbraio 1990. Gli ambasciatori residenti a Delhi e quelli dell'Organizzazione dei Paesi Islamici furono invitati nello Stato. Ancora fuori questione, tuttavia, restava qualsiasi dialogo con il Pakistan a proposito di un territorio che il governo indiano continuava a rivendicare come parte integrante dell'Unione. La risposta dei militanti a queste iniziative fu negativa. L'assassinio nel marzo 1994 di Wali Mohammed Yattoo, uno dei leader della National Conference ed ex presidente dell'assemblea legislativa dello Stato, fu interpretato come un ammonimento contro i tentativi di avviare nella valle sviluppi politici indesiderati. Il governo andò comunque avanti. Rajesh Pilot parlò di una «riabilitazione» 16 dei giovani kashmiri; Karan Singh tornò alla ribalta chiedendo l'istituzione di un ministero degli Affari del Kashmir con l'obiettivo di innescare «un processo di riconciliazione»17. Alle celebrazioni per l'indipendenza dell'India, il 15 agosto 1994, il primo ministro Narasimha Rao annunciò formalmente il varo di una politica di normalizzazione interna nella valle. Come segnale di disponibilità, il governo rilasciò alcuni dei principali attivisti politici, compresi Shabir Shah - che era stato in galera in modo intermittente per circa vent'anni - , Syed Ali Shah Gilani, Abdul Gani Lone e altri 276 detenuti politici. Yasin Malik, in arresto sin dall'agosto 1990, era stato scarcerato su cauzione nel maggio 1994. Alla fine di ottobre i militanti tentarono ulteriormente di far deragliare la procedura elettorale con il furto da un ufficio governativo dei registri elettorali di Srinagar, a cui diedero fuoco «mandando in fumo l'ultimo sforzo governativo per portare la pace nell'inquieto Kashmir», scrisse Tim McGirk sull'«Independent» 18 . Data l'ostilità dei militanti alla proposta di elezioni, non era chiaro come queste potessero rappresentare un'opzione pratica, dal momento che non sembravano esserci candidati evidenti. «Prima di tutto, non hanno il giusto tipo di infrastrutture; non c'è il sostegno per far funzionare le ca-
bine elettorali o per i presidenti di seggio», disse nel 1995 Haroon Joshi, un giornalista indiano residente a Srinagar. «Normalmente questo è il compito degli impiegati governativi, ma loro non vogliono farlo; in secondo luogo, chi voterà? E terzo, chiunque si candidi, cosa succederà alla sua famiglia e ai suoi amici? Anche se le votazioni venissero fatte per gradi, una settimana nello Jammu, una seconda nel Kashmir e poi nel Ladakh, ci vorrebbero all'incirca diecimila persone (tremila seggi con tre persone per una cabina elettorale) per far procedere le votazioni nella valle. Ma anche se dovessero trovare questi funzionari portandoli dallo Jammu», disse Joshi, «non c'è ancora nessuna strategia per spingere la gente a candidarsi»19. Quando, nella primavera del 1995, le speculazioni sulle elezioni erano al culmine, uno dopo l'altro i membri della Ali Parties Hurriyat Conference annunciarono che non avrebbero partecipato. «Il governo indiano ci ha imposto questa procedura elettorale perché vuole dare al mondo esterno l'idea di credere nel sistema democratico», disse Yasin Malik, 0 quale aveva a tal punto a cuore le elezioni proposte che minacciò di immolarsi: Non compio questo atto contro l'India. Se la coscienza internazionale si farà avanti, può fermare il governo indiano in questa cosiddetta procedura elettorale. Se non lo farà, compierò questo atto contro la coscienza internazionale; allora mi convincerò che non c'è nessuno che sappia ascoltare la voce della gente oppressa.20 Shabir Shah, ritenuto uno dei pochi leader idoneo a rappresentare una forza unificante in tutto lo Stato, disse che non avrebbe preso parte alle elezioni. «Non abbiamo alcuna fiducia in Delhi. Hanno intaccato i nostri diritti fin dal 1953 e non pensiamo che ce li restituiranno»21. Abdul Gani Lone era disposto a prendere in considerazione le elezioni soltanto all'interno di un processo che avrebbe determinato il futuro dello Stato: Questa non è una parte dell'India, né del Pakistan e non è nemmeno indipendente. L'assetto futuro va stabilito per mezzo di elezioni libere e regolari. [...] Quando parliamo del nostro diritto all'autodeterminazione, non si possono imporre limitazioni alla nostra scelta. Non ci sono solo due opzioni, c'è anche la terza, quella dell'indipendenza.22 Il professor Abdul Ghani della Muslim Conference descrisse il tentativo da parte del governo indiano di indire le elezioni come «una ciarla politica piuttosto che un'iniziativa politica». Da sostenitore dell'annessione al Pakistan, continuava a rifiutare l'idea dell'indipendenza. «Una piccola nazione chiusa, circondata da vicini potenti, non potrebbe sopravvivere»23.
«La Hurriyat Conference ha un solo obiettivo: che l'India liberi il Kashmir», precisò Mian Abdul Qayum, presidente dell'ordine degli avvocati di Srinagar e membro della Hurriyat24. Il governo indiano continuò comunque a corteggiare i leader politici, facendo rilevare che fino a quando non avessero partecipato alle elezioni, non avrebbero potuto parlare a nome della gente. «Quelli che rivendicano di rappresentare il popolo dimostrino il proprio consenso alle elezioni, senza l'uso delle armi», disse il governatore Krishna Rao nell'aprile 1995". Le elezioni erano convocate per una data indefinita del 1995, ma l'impasse politico perdurava. Persino Farooq Abdullah, impegnato a trovare una soluzione all'interno dell'India laica, pose rigorose condizioni alla propria partecipazione: «Chiediamo il ritorno all'autonomia esistente prima del 1953 e un sostanzioso pacchetto economico, che deve essere annunciato formalmente al Parlamento indiano»26. Il suo legame con il governo dell'India gli aveva tuttavia fatto perdere consenso nella valle. Anche se pareva fiducioso che i suoi quadri fossero pronti a concorrere al voto, purché fossero accettate le loro condizioni, la possibilità di una vittoria elettorale della National Conference era vista come un passo indietro al 1987, quando erano iniziati i recenti disordini. Nel novembre 1995, le autorità indiane manifestarono una volta di più il proprio impegno inviando agenti elettorali a Srinagar, con l'obiettivo di tenere le elezioni a dicembre. Stavolta fu promesso un ritorno allo status del Kashmir del 1975, all'epoca cioè dell'accordo tra lo sceicco Abdullah e Indirà Gandhi. Malgrado ciò, i partiti politici rappresentati dalla Hurriyat precisarono nuovamente di non essere disposti a partecipare a una consultazione elettorale nel quadro della costituzione indiana. «La loro idea del voto serve solo a creare un governo, un ministro capo, un'amministrazione e poi basta», disse Omar Farooq. «Mentre il nostro parere è che le elezioni non possono essere un surrogato dell'autodeterminazione. Se fossero una soluzione al problema, ne abbiamo già avute otto o nove, ma la questione di fondo è ancora irrisolta». Riteneva anche che l'impegno indiano a svolgere le elezioni fosse a beneficio della comunità internazionale. «L'India si rende conto che con le elezioni non si possono fare cambiamenti drammatici, ma vuole dare alla comunità internazionale l'impressione di fare qualcosa e sviare l'attenzione dalla questione essenziale dell'autodeterminazione»27. Ancora una volta, la scadenza elettorale di dicembre fu rimandata.
8.2. La mentalità dei militari Fino all'avvio di un iter politico accettabile per tutti i protagonisti, il governo indiano continuava a dipendere dalle Forze Armate per controlla-
re l'insurrezione nella valle del Kashmir. Il loro adattamento alla guerriglia non è stato facile. «Un uomo in divisa è stato addestrato a combattere un nemico identificabile», disse il generale di brigata Arjun Ray nel 1995: Lo scopo di un soldato è di uccidere o fare prigionieri; vinca o perda deve applicare la massima forza per motivi di ordine militare; ma nel Kashmir deve fare da un giorno all'altro una capriola. Non c'è un nemico identificabile: è la sua stessa gente che ha preso le armi contro di lui. Perciò, si può vincere militarmente, ma si può perdere la guerra.28 I soldati avevano peraltro pagato per la loro presenza: secondo fonti militari, l'esercito indiano aveva subito un tasso proporzionalmente alto di vittime. Provenienti da diverse parti dell'India, gli uomini non avevano alcuna cognizione storica e nutrivano una scarsa simpatia per i militanti. Anche i giovani militari hanno sofferto il trauma della guerra e l'ipertensione è diffusa. «Le truppe devono stare nei bunker, costantemente vigili. Un minuto di negligenza e tutto può essere perduto»29. Il 29 marzo 1994 ebbe luogo uno dei più gravi attentati contro l'esercito: un'esplosione nell'acquartieramento di Badami Bagh, fuori Srinagar, uccise il generale di divisione E.W. Fernandes, che stava per assumere l'incarico di direttore generale del servizio di controspionaggio militare, e tredici militari, mentre altri dieci rimasero feriti. «Questo episodio è spaventoso. Nessuno crederà alla fandonia che si tratta di un incidente», dichiarò un ufficiale dell'esercito dopo l'esplosione30. Il Jamiat-ul Mujaheddin, uno dei gruppi militanti più piccoli, rivendicò la responsabilità dell'esplosione, così come di altre più piccole contro veicoli del governo seguite allo scadere dell'ultimatum per l'allontanamento delle truppe indiane ancora schierate intorno alla moschea di Hazratbal. Gli oppositori dell'occupazione militare insistono nell'affermare che in tutto lo Stato erano ammassati 600.000 uomini, con il più alto rapporto di densità truppe-popolazione civile in qualsiasi regione del mondo31. Si presume che questa cifra includesse più della metà delle trentatre divisioni dell'esercito regolare, le forze di sicurezza di frontiera (centomila) e la Polizia dello Jammu e Kashmir (trentamila). Le autorità indiane risposero che si trattava di una grossolana esagerazione: «E noto che il nostro esercito ha poco più di un milione di uomini. Potremmo forse tenerne metà nel Kashmir e lasciare incustodite altrove le frontiere?», chiese un ufficiale dell'esercito, prevedibilmente evasivo, però, sul numero effettivo degli uomini. Altre fonti avanzano la cifra di «circa centomila uomini delle forze paramilitari di sicurezza di frontiera e trentamila della polizia statale del Kashmir», più cinque divisioni dell'esercito32. Oltre a ciò, per affrontare specificamente la controinsurrezione, nella valle fu dislocato un corpo «scelto» di Rashtriya ('nazionali') Rifles (RR).
Durante tutta l'insurrezione, il governo è rimasto assai suscettibile riguardo alla condotta delle forze dell'ordine in Kashmir. In un primo momento, fu enormemente restio a riconoscere o a rendere pubblico qualsiasi eccesso presunto, uccisione indiscriminata o sparizione arbitraria registrata dai gruppi per la tutela dei diritti umani, per il timore di umiliare ed eventualmente demoralizzare i soldati. Ma, con il perdurare dell'insurrezione, cominciò a rendersi conto che ogni abuso delle forze dell'ordine creava ulteriore ostilità tra la gente e che era pertanto importante, per l'opinione pubblica internazionale e per quella interna, porre maggiore attenzione al comportamento dei militari. «Sono state istituite cellule nodali nell'esercito e in ciascuna delle forze paramilitari per controllare i casi di delinquenza. Ogni due settimane si tengono dei resoconti a livello superiore presso il ministero dell'Interno con i rappresentanti dell'esercito e delle forze paramilitari»33. Come rilevato dal rapporto della Commissione Internazionale di Giuristi dopo la visita dell'agosto 1993, «l'esercito è divenuto sempre più consapevole dell'esigenza di migliorare la propria immagine e ha posto maggiore attenzione sull'educazione ai diritti umani con varie "cose permesse e cose non"». Ma i giuristi notarono anche che le autorità erano state «lente nell'intentare azioni contro il personale governativo che commette abusi sulla popolazione e hanno creato un'aura di impunità che circonda gli ufficiali che violano i diritti umani». In conclusione, affermarono: Il governo indiano è sinceramente ansioso di migliorare il proprio operato rispetto ai diritti umani nel Kashmir. Le violazioni di questi ultimi non sono nel suo interesse. [...] C'è ancora, tuttavia, molta strada da fare per vincere l'indisciplina e la cattiva condotta delle forze dell'ordine, in particolare della BSF, l'uso persistente e regolare della tortura negli interrogatori e la pratica delle esecuzioni extragiudiziali." Dall'inizio dell'insurrezione, la tortura di militanti o di sospetti militanti è stata una peculiarità della tattica di controinsurrezione indiana, come mezzo per estorcere informazioni, costringere alla confessione o punire. Secondo Amnesty International, «la brutalità della tortura nello Jammu e Kashmir è incredibile, ha reso persone mutilate e disabili a vita. La gravità delle torture inflitte dalle forze dell'ordine indiane è la ragione principale dello spaventoso numero di morti in stato d'arresto»35. La tortura prevedeva scariche elettriche, bastonate e l'uso di un pesante rullo sui muscoli della gamba, che può danneggiarli pesantemente e portare a un'insufficienza renale acuta. Sono state riferite altre forme di trattamento inumano su varie parti del corpo, comprese le molestie sessuali. Secondo una vittima, citata da Amnesty, «sai sempre in anticipo della "corrente", perché mandano il barbiere per rasarti dalla testa ai piedi. Si pre-
sume che questo faciliti il flusso dell'elettricità. Dopo che ha finito di rasarti, ti porge una tazza d'acqua da bere e poi attaccano gli elettrodi»' 6 . Altri metodi comuni, descritti dall'Agenzia statunitense per i Diritti Umani Asia Watch, includono la sospensione per le mani o i piedi, la divaricazione delle gambe o la bruciatura della pelle con un ferro da stiro o un altro oggetto arroventato. Le vittime sono state anche prese a calci e calpestate da uomini delle forze di sicurezza che calzavano stivali chiodati". Nel 1995 si riteneva fossero attivi nello Jammu e Kashmir sessantatre centri per gli interrogatori in cui veniva praticata la tortura, per lo più gestiti dalla BSF e dalla CRPF. Accampamenti militari, alberghi e altri edifici sono stati adibiti dalle forze dell'ordine a centri di detenzione. Un centro della BSF era situato in una delle vecchie foresterie del maharajah prospicienti il lago Dal e le montagne. Con la carta da parati scolorita, i tappeti consumati e i trofei di cervo alle pareti, i lussi del passato invadevano in modo inopportuno la brutalità del presente. Mentre un ufficiale in servizio ammetteva la necessità di dare «qualche sberla» ai militanti catturati per fargli rivelare dove avessero nascosto le armi, gli attivisti per i diritti umani e i simpatizzanti dei militanti fornirono ai giornalisti interessati fotografie raccapriccianti di corpi mutilati. Nel suo rapporto del dicembre 1993, Amnesty addusse informazioni sulle sparizioni nel Kashmir. Il governo indiano replicò a molte delle accuse contenute nel rapporto e fornì particolari su alcuni degli scomparsi. «Il governo dell'India non ha mai affermato che in nome del terrorismo si possa fare qualunque cosa, nella completa libertà o immunità per la polizia e le forze di sicurezza». Nonostante un dialogo avviato nel 1992, persiste la diffidenza verso le motivazioni di Amnesty. «Non cerchiamo gloria da Amnesty ma chiediamo ugualmente: questa è un'inchiesta o un'inquisizione?» 38 . Nel gennaio 1995, un altro rapporto riguardante 705 persone morte dal 1990 in stato di arresto in seguito alle torture, perché colpite con armi da fuoco o per negligenza medica, provocò ancora una confutazione ufficiale. Amnesty descrisse comunque la risposta come «evasiva e fuorviarne. Con compiacimento, il governo rifiuta di riconoscere che occorre intraprendere con urgenza un'azione decisiva per porre fine alla terribile violazione dei diritti umani nello Jammu e Kashmir»39. Nei suoi rapporti, Amnesty ha condannato anche gli «omicidi premeditati e arbitrari, le torture e i sequestri» compiuti dai militanti, ma assicura che, «per quanto provocatori» potessero essere i loro abusi, non giustificano affatto gli eccessi delle forze dell'ordine. «Tali pratiche contravvengono chiaramente alle norme internazionali sui diritti umani che il governo indiano è tenuto a far rispettare»40.
8.3. Riparazione
legale?
La natura della legislazione in vigore nello Stato dello Jammu e Kashmir, dipinta dalla Commissione Intemazionale di Giuristi come «draconiana», ha dato ai militari ampi poteri senza riparazione. Secondo Amnesty, le ordinanze del tribunale per proteggere i detenuti politici sono state abitualmente violate. Nonostante le promesse di indagini sulle morti durante la detenzione, le investigazioni ufficiali erano rare; quando hanno avuto luogo, le prove non sono state rese pubbliche, circostanza che riduceva la credibilità delle conclusioni governative. «Il governo vanifica inoltre la propria dichiarata intenzione di eliminare le violazioni dei diritti umani»41. La Legge per la Pubblica Sicurezza dello Jammu e Kashmir (1978) consentì che le persone fossero detenute fino a due anni con il pretesto vagamente definito di impedire loro di agire «in qualunque modo lesivo [...] della sicurezza dello Stato e il mantenimento dell'ordine pubblico»42. Era possibile la detenzione senza accusa fino a un anno nel caso di minaccia all'ordine pubblico e fino a due anni quando sussisteva una minaccia per la sicurezza dello Stato. L'ordine doveva essere comunicato alla persona arrestata non più tardi di cinque giorni dall'arresto; nel 1990 la legge fu emendata allo scopo di dispensare le autorità dall'informare il detenuto sulla ragione del suo arresto. Nel suo rapporto, la Commissione Internazionale di Giuristi concluse che la legge aveva condotto a «sofferenze tra gli arrestati per suo effetto. Il suo carattere fortemente discrezionale indebolisce gli sforzi per scoprire l'ubicazione delle persone arrestate e la ricerca dell'habeas corpus» 4 '. La Legge per la Prevenzione delle Attività Terroristiche ed Eversive del 1987 (TADA) n o n solo proibì gli atti di terrorismo, ma definì anche in generale le attività «eversive»; in vigore fino al 1995, istituì tribunali speciali per processare gli arrestati. L'espressione «attività eversive» comprende: qualunque azione, in atti o in parole o attraverso qualunque altro mezzo o in qualunque altra maniera, che metta in dubbio, destabilizzi [...] la sovranità o l'integrità territoriale dell'India o che sia intesa a causare o sostenga qualunque pretesa di cessione di qualunque parte dell'India o la secessione di qualunque parte dall'Unione.44 Come fecero notare i giuristi internazionali, la definizione di «attività eversive» è «una vistosa trasgressione del diritto alla libertà di parola». I due «tribunali designati» erano a Srinagar e Jammu, ma l'operato del primo fu temporaneamente sospeso. La necessità di andare al tribunale di Jammu rese impossibili le udienze rapide per la richiesta di libertà provvisoria.
La natura discrezionale della legge sui poteri speciali delle Forze Armate (dello Jammu e Kashmir), promulgata da Saxena nel 1990 - che attribuiva al governatore o al governo di New Delhi l'autorità di dichiarare tutto lo Stato o parte di esso «area in tumulto», nonché di ricorrere alle Forze Armate per sostenere il potere civile - , implicava l'utilizzazione dei militari «per reprimere l'attività politica lecita». Secondo la Commissione Intemazionale di Giuristi, i militari potevano non essere affatto giustificati e, dal momento che avevano il potere di sparare per uccidere, questo costituiva «in sé una potenziale infrazione al diritto alla vita»45. Sono state introdotte o riprese anche altre leggi «con un impatto negativo sui diritti umani». Nel febbraio 1992, fu estesa l'autorità presidenziale, fatto che eliminò qualsivoglia obbligo per il governo centrale di ripristinare un governo eletto. Trascorso questo periodo di tempo, venne approvato un nuovo emendamento alla Costituzione. L'effetto complessivo di questa legislazione è che nello Stato dello Jammu e Kashmir il governo ha potuto agire in relativa impunità. Siccome il sistema giudiziario è «pressoché inefficiente»46, vi sono lunghi ritardi nei procedimenti. «La magistratura qui nello Stato dello Jammu e Kashmir è diventata quasi irrilevante», disse nel 1994 Mian Abdul Qayum, presidente dell'ordine degli avvocati di Srinagar. «Se emettono una qualunque sentenza, a questa non obbedisce nessuno. Oggi presso l'Alta Corte di Srinagar vi sono in sospeso circa cinquemila istanze di habeas corpus riguardanti persone detenute per le leggi preventive, e nessuno darà loro udienza»47. Secondo le autorità indiane, il governo dello Stato ha risposto al «99 per cento» di tutte queste istanze, «malgrado l'enorme sollecitazione cui l'intero sistema legale e amministrativo è stato sottoposto dalla violenza e dal terrorismo persistenti»48.
8.4. La mentalità dei militanti Per il governo indiano i veri colpevoli sono sempre stati i militanti, che ritiene responsabili di terrorizzare la popolazione del Kashmir in aperta ostilità contro l'India e di commettere numerose esecuzioni extragiudiziali, tra le quali elenca quella del Mirwaiz Maulvi Farooq, del professor Mushir-ul Haq, del vicerettore dell'Università del Kashmir, il dottor A.A. Guru, dell'ottantasettenne Maulana Masoodi, coetaneo e compagno dello sceicco Abdullah, ucciso nel dicembre 1990, presumibilmente per il ruolo esercitato nell'annessione dello Stato all'India. Grazie agli sforzi dei militari, comunque, l'insurrezione era stata ormai «arginata e ridotta a livelli accettabili», disse il generale di brigata Arjun Ray nel 199549. «La popolazione si rende sempre più conto dell'inutilità delle armi», aggiunse M.N. Sabharwal50. Nel 1995, il governo indiano registrò che il livello di
violenza era calato ulteriormente, fatta eccezione per i mesi di maggio, ottobre e novembre, quando si fecero dichiarazioni a proposito delle elezioni51. Le autorità ritenevano inoltre che la militanza non godesse del consenso popolare che aveva avuto all'inizio degli anni Novanta. Scrisse Balraj Puri: «I militanti hanno perso parte del loro slancio originario per diverse ragioni: una continua proliferazione di gruppi, la confusione e la divisione tra le loro file a proposito dell'obiettivo finale e la mutevole politica del Pakistan nei confronti dei diversi gruppi» 52 . Nelle stime del governo si valutò che in tutta la valle operavano non più di seimila militanti, il che rendeva il rapporto tra questi e le truppe estremamente alto. Le autorità indiane affermavano peraltro che i giovani venivano rapiti per farli diventare militanti contro la loro volontà. Nell'agosto 1993, il «Times of India» riferì che i militari avevano intercettato un vasto gruppo di «giovani kashmiri» che, sotto la minaccia delle armi, venivano condotti nell'Azad Kashmir da membri del gruppo militante Al Jehad, i quali avevano promesso loro somme tra le duemila e le diecimila rupie5'. In contrasto con il giudizio di Jagmohan, il generale Krishna Rao aveva adottato un atteggiamento conciliatorio: «Non consideriamo i militanti come nemici, ma come nostri amici e parenti, benché essi si siano permessi di essere indotti in errore. Il governo si prende la responsabilità di riabilitarli nella maniera adeguata, purché essi ritornino sulla via del buonsenso»54. L'aspettativa di vita di un militare era stimata dal governo in due anni, periodo dopo il quale egli veniva ucciso oppure perdeva la dedizione al combattimento. Per i militanti che si arrendevano era previsto un rudimentale programma di riabilitazione e talvolta un cambiamento di identità. Come le forze dell'ordine, i militanti sono stati soggetti ad accuse di eccessi, soprattutto intimidazione, estorsione e attentati indiscriminati contro persone sospettate di simpatizzare per il governo indiano. «La signora della porta accanto una sera è stata avvicinata dai militanti, che le hanno chiesto del denaro», ricordò uno studente nel 1995; «ai vecchi tempi, li avrebbe invitati a entrare e offerto loro del cibo. Stavolta ha rifiutato e ha sbattuto loro la porta in faccia. Allora hanno sfondato la porta e le hanno sparato»55. «I militanti venivano alla tua porta e ti chiedevano soldi o un figlio per combattere. Se non avevi i soldi, allora dovevi consegnare un figlio», dice un kashmiro del luogo. «Nel 1993, i militanti chiesero 5 lakh», disse un uomo d'affari nel 1995, «l'anno scorso 3 lakh, quest'anno mi aspetto che ne chiedano uno» 56 .1 ricchi proprietari delle case galleggianti e i mercanti di tappeti sono stati presi di mira per il denaro, hanno avuto paura anche di parlare apertamente delle perdite negli affari causate dall'insurrezione. «Ci dicono: "tu ti lamenti che perdi soldi e noi perdiamo la vita"» 57 .1 giornalisti venivano minacciati perché scrivevano resoconti in-
terpretati come favorevoli alle autorità indiane. Nel settembre 1995, fu spedito un pacco bomba a Yusuf Jameel, il corrispondente da Srinagar della BBC e della Reuters: un fotografo aprì il pacco nel suo ufficio e morì nell'esplosione. Nel giugno 1994, il JKLF ammise che le atrocità commesse dai militanti avevano allontanato la gente e dichiarò l'inizio di un'azione rigorosa contro gli «elementi che sbagliano» all'interno del movimento58. Il più grave incidente collegato al comunitarismo fu l'assassinio di sedici uomini indù, che il 14 agosto 1993 vennero presi da un autobus a Kishtwar, sulla strada di Jammu, e uccisi; sia il JKLF che l'Hizb condannarono l'azione. E l'omicidio del vicerettore dell'Università del Kashmir, avvenuto nel 1990, fu spiegato dagli attivisti come opera di «rinnegati» tra i numerosi gruppi marginali in attività. Anche i racconti di stupri da parte dei militanti danneggiarono la loro immagine. «Mentre non è sicuro che i leader militanti abbiano esplicitamente autorizzato tali abusi», dichiara Asia Watch, «sono scarsi gli indizi che indicano che i militanti abbiano fatto qualcosa per impedirne il compimento. Alcuni episodi di stupro da parte dei militanti sembra siano motivati dal fatto che le vittime o le loro famiglie sono accusate di fare da informatori»59. Nel 1994, l'ex governatore Saxena dichiarò piuttosto sorprendentemente che «per ogni accusa di stupro commesso dalle forze dell'ordine, ce ne sono cento commessi dai militanti»60. Nei primi giorni dell'insurrezione, le donne subivano attacchi per non aver aderito al prescritto codice dell'abbigliamento, il burka. Nella diffusione di minacce era particolarmente attivo il gruppo femminile ortodosso delle Figlie della Nazione: alcune donne dovettero essere ricoverate perché sui loro volti scoperti era stato spruzzato dell'acido. Ma a metà degli anni Novanta, per l'effetto contrario suscitato, questo fenomeno era cessato e, soprattutto a Srinagar, le donne non si sentivano più obbligate a indossare il velo. Contro alcuni militanti - nonché contro militari e funzionari governativi - vennero indirizzate accuse di corruzione e di traffico di droga, in quella che le autorità definirono la «criminalizzazione» del movimento. «C'è un nesso», disse Farooq Abdullah nel 1995, «tra i militanti, le forze paramilitari e alcuni settori del governo, che hanno goduto di un potere assoluto e di una corruzione di cui nessun governo ha mai beneficiato»61. Secondo alcune denunce, militanti e funzionari governativi si spartivano i fondi per lo sviluppo o le forze dell'ordine non solo rivendevano le armi prese al nemico, ma consentivano gli attraversamenti del confine a caro prezzo62. «Molti frutteti del Kashmir, di proprietà degli indù fuggiti, adesso sono stati divisi tra i militanti di vertice. Stanno cambiando i documenti e pertanto sarà impossibile rintracciarne i proprietari originari» 6 '. Il governo affermava che il principale stimolo di molti militanti era il denaro, piuttosto che la convinzione politica. Eppure, malgrado queste accuse, i
militanti cercavano e ottenevano ancora rifugio tra la popolazione. «Come altro pensa che sopravvivano?», chiese il Mirwaiz Omar Farooq nel 1995, che considerava la militanza ancora ampiamente appoggiata dalla gente". Nel 1993, il JKLF sembrò avere perso il proprio potere militare a vantaggio dell'Hizb-ul Mujaheddin, benché sul piano politico l'organizzazione rivendicasse di avere mantenuto l'85 per cento dei consensi da parte della popolazione. Quando fu scarcerato nel maggio 1994, Yasin Malik rinunciò alla lotta armata e propose un negoziato politico. «Abbiamo offerto un cessate il fuoco unilaterale e il negoziato con tutti i poteri coinvolti, il Pakistan, l'India e i kashmiri; riteniamo che a tutti debba essere attribuita pari dignità». Secondo lui, da parte del governo dell'India giunse il messaggio che la trattativa sarebbe stata possibile, ma soltanto con il popolo kashmiro, perché non si riconosceva il Pakistan quale parte nei negoziati. Egli non fu d'accordo in base al fatto che il Pakistan era parte della controversia, giacché quasi un terzo dello Stato è sotto il suo controllo. Fu anche irremovibile sulla necessità, per raggiungere una soluzione permanente, di offrire al popolo dello Jammu e Kashmir anche la terza opzione. «Finché rimandano la terza opzione dell'indipendenza alla risoluzione dell'ONU, essa resterà inaccettabile per il popolo»65. Sin dai primi tempi componente del nucleo «Haji», che si riteneva coinvolto nel rapimento di Rubaiya Sayeed del dicembre 1989, Malik riconosceva ora nel Mahatma Gandhi, e nella non violenza, le sue principali motivazioni alla lotta. Ciò lo aveva portato a riaffermare la natura laica del JKLF, fondata sulla Kashmiriyat tradizionale, che comprende gli indù, ma il suo atteggiamento non violento provocò una frattura con Amanullah Khan, che aveva continuato a fungere da presidente del JKLF in absentia, da Rawalpindi e Muzaffarabad. «Purtroppo la nostra organizzazione è divisa praticamente in due gruppi. La causa fondamentale di contrasto è stata l'offerta da parte di Yasin Malik di un cessate il fuoco unilaterale senza informarci», disse Amanullah Khan66. Alla fine del 1995, questi destituì Yasin Malik dalla carica di segretario generale del JKLF; per contro, Malik lo espulse come presidente. Shabir Ahmed Siddiqi, scarcerato nell'estate del 199567, prese temporaneamente la guida della fazione di Amanullah. I rapporti furono ulteriormente complicati dal riconoscimento, da parte del Pakistan, di Yasin Malik invece che di Amanullah Khan quale leader del JKLF, nonostante quest'ultimo continuasse a risiedere in Pakistan. Anche altri gruppi militanti avevano rivisto la propria posizione. Nel 1995, Azam Inquilabi, dell'operazione Balakote, lasciò la propria base nell'Azad Kashmir e tornò a Srinagar, dove si dichiarò favorevole a lavorare per una «soluzione politica». L'Hizb-ul Mujaheddin, la cui forza attiva nel 1995 era stimata dalle autorità indiane in circa 2.500 uomini, guadagnò autorità militare a metà degli anni Novanta, grazie all'appoggio da parte dei simpatizzanti del Jamaat di base in Pakistan. Dominò i gruppi filopa-
kistani più piccoli e, attraverso il Jamaat-i Islami, guadagnò una forte presa sulla Hurriyat Conference. In un primo momento, Ahsan Dar, leader dell'Hizb, affermò che la strategia di rendere il paese impraticabile alle forze di sicurezza indiane avrebbe infine confinato i militari nei loro campi, dove i militanti avrebbero potuto attaccarli. Ma questa strategia fallì. (Ahsan Dar, che lasciò l'Hizb per fondare il Muslim Mujaheddin, fu in seguito arrestato). I militanti sono inoltre divisi tra la dedizione al Pakistan e un'indefinita fede nella libertà. Un giovane dichiarò di volere l'azadt, mentre la decisione di aderire al Pakistan era stata presa dagli anziani; piuttosto inaspettatamente, il suo mentore, sui quaranta, affermò che azfldi significava libertà dall'India come dal Pakistan68. L'Harkat-ul Ansar operava al fianco dell'Hizb, mentre Al Barq e Al Jehad rimasero attivi nelle aree di Doda, Punch e Rajauri. I dissensi e le rivalità personali ridussero chiaramente la forza dei militanti, ma, disse Omar Farooq, «in un movimento come questo ci sono alti e bassi. C'è stato un tempo in cui si verificarono molti scontri tra i gruppi, ma se si studia la situazione oggi il diagramma è sceso. Le divergenze sono state risolte». Egli riteneva che la tattica repressiva e le misure controinsurrezionali restassero un fattore determinante nell'unire la gente contro l'India. Il governo percepì tuttavia una spaccatura nella leadership della APHC, che riteneva ormai divisa tra due fazioni, una comprendente Yasin Malik, Abdul Gani Lone e Syed Ali Shah Gilani, e l'altra con Omar Farooq, Abdul Ghani e Maulvi Abbas Ansari, con il tacito appoggio di Shabir Shah69. Nel 1996, le autorità indiane aprirono un dialogo con quattro ex militanti - due dei quali dell'Hizb-ul Mujaheddin: Baba Badr, ex capo del Muslim Janbaz, e Bilal Lodhi, ex leader di Al Barq - , nel tentativo di dare vita a un'alternativa politica alla Hurriyat. I militanti furono inoltre sfidati da un ex cantante di musica folk, Kukka Parrey, che, con l'appoggio del governo indiano, riunì un gruppo di più di mille combattenti con l'obiettivo della «liberazione» di parte della valle dal controllo dei militanti stessi. Gli attivisti negavano comunque che Parrey avesse alcun credito tra i kashmiri. Anche i quattro militanti dissidenti insistevano affinché il governo dell'India riconoscesse nel Kashmir un problema storico e politico. Grazie alla guerra in Afghanistan e all'abbondanza di armi fornite agli afgani, si verificò un approvvigionamento apparentemente inesauribile di armi ai militanti kashmiri. «Gli USA hanno messo a disposizione gli armamenti per combattere la guerra contro i sovietici in Afghanistan», disse un kashmiro, rattristato dalla cultura delle armi diffusa nella valle, «ma non sono mai tornati per portarsele via e adesso queste sono nella valle». M.N. Sabharwal disse che prima dell'insurrezione non vi erano kalashnikov nella valle, adesso sono invece disponibili grandi quantità di armi, tra cui fucili AK, mitragliatrici universali, pistole cinesi, fucili di precisione, lancia-
razzi e granate. Esattamente quante furono indicate dalle cifre del governo per le armi sequestrate tra il 1989 e il 1995, che includevano 13.427 AK47, 750 lanciarazzi, 1.682 razzi, 54 mitragliatrici leggere, 735 mitragliatrici polivalenti70. Il governo affermò di recuperare in media ogni anno 4.000 armi di varia fabbricazione; nel 1995 rinvenne 587 bombe, a fronte delle 300 del 19947'. I kashmiri erano tuttavia meno armati rispetto agli afgani: con evidente sollievo delle forze dell'ordine indiane, nel 1995 non vi furono rapporti sulla possibilità da parte dei militanti di introdurre missili terra-aria. Né avevano, fino ad allora, portato la loro lotta nelle strade di Delhi, Calcutta o Bombay, dove il terrorismo urbano avrebbe avuto un impatto maggiore sulla vita del popolo indiano e quindi sul governo. Stranamente, tra gli indifferenti analisti filogovernativi, persisteva la convinzione che i kashmiri, nonostante tutte le loro armi, non fossero dei buoni combattenti. «Nel Kashmir si parla di mandorle sottilissime, di noci sottilissime; bene, noi parliamo di militanti sottilissimi»72.
8.5. La guerra per procura Per tutta la durata dell'insurrezione, le autorità indiane continuarono ad accusare la «mano straniera» nel Kashmir, senza la quale ritenevano che la sollevazione non avrebbe mai preso slancio né sarebbe stata in grado di sostentarsi. «Il Pakistan ha preso la risoluta e netta decisione di intromettersi», dichiarò l'ex governatore Saxena nel 1994. Stavolta hanno fatto del proprio meglio e hanno creato disordini su grande scala, addestrando migliaia di giovani, dando loro enormi quantità di armi, senza preoccuparsi quanto avevano fatto in precedenza della soglia di tolleranza dell'India, con il risultato che il tutto ha acquistato le proporzioni di un esteso movimento terroristico e di un'insurrezione armata, diretta, su iniziativa del Pakistan, da giovani addestrati in Pakistan.73 La tattica utilizzata dai militanti per destabilizzare il governo era considerata analoga a quella dei pakistani inviati nella valle nel 1965: attentati dinamitardi, interruzioni delle linee di comunicazione, attacchi contro le guardie e la polizia. Malgrado le smentite delle autorità pakistane (e l'autentica incertezza sulle azioni del Pakistan prima del 1990), secondo le quali il sostegno non era altro che morale e diplomatico, in India era opinione comune che tramite l'iSI si fornisse un appoggio materiale e finanziario senza il quale sarebbe stato più facile, per l'esercito indiano, reprimere il movimento. «E improbabile che il Pakistan rinunci al proprio sostegno dissimulato», scrisse il corrispondente di «Time» Edward Desmond, «la questione del
Kashmir è centrale per l'identità nazionalistica e islamica del paese [...] l'onere di aiutare i ribelli è lieve»74. «Su una scala da uno a dieci, se in Bangladesh noi eravamo impegnati fino a dieci, allora lo stesso vale per il loro coinvolgimento nel Kashmir», disse un giornalista indiano di Delhi nel 1995". A sostegno di questa asserzione, il governo citava un rapporto della Camera dei Rappresentanti statunitense del febbraio 1993 - "Unità operativa antiterrorismo e guerra non convenzionale" - in cui si sosteneva che il Pakistan «ha incominciato a estendere il proprio operato per finanziare e promuovere separatismo e terrorismo principalmente nel Kashmir, quale programma strategico a lungo termine». Ma il governo pakistano respinge ogni addebito76. Malgrado i tentativi indiani di chiudere ermeticamente il confine, impossibile da raggiungere dal versante indiano per un giornalista occidentale, gli ottocento chilometri della linea di controllo sono rimasti aperti. Nel 1995, il primo ministro dell'Azad Kashmir Sardar Abdul Qayum Khan ammise che, anche dal loro versante, il confine non era sigillato. «Non badiamo ai ragazzi che vanno e vengono»77. Militanti e profughi prendono quella che chiamano la strada «naturale» per passare da un versante all'altro. Quando la Commissione Internazionale di Giuristi visitò la zona nel 1993, concluse che, al di là delle smentite e della suscettibilità pakistana in materia, la presenza di molti rappresentanti dei gruppi militanti nell'Azad Kashmir «indica un'affinità con le operazioni nel vicino Jammu e Kashmir». I giuristi internazionali ritenevano peraltro che un qualsivoglia aiuto militare avrebbe costituito una violazione degli obblighi accettati dal Pakistan con l'accordo di Simla; pertanto questo avrebbe dovuto «interrompere qualunque sostegno di natura militare (compreso lo stanziamento di denaro a scopi militari)» 78 . Ma era evidente che il Jamaat-i Islami, e quindi l'Hizb, vantava ancora una considerevole presenza sia nell'Azad Kashmir sia in Pakistan. Nel novembre 1995, un documentario della BBC mostrò le prove dell'esistenza di campi sovvenzionati dal Jamaat, dove i combattenti venivano addestrati e professavano apertamente la loro intenzione di andare a combattere una guerra santa in Kashmir79. E alcuni simpatizzanti pensavano onestamente questo: «Dopo il 1945, il mondo è diventato più piccolo. Nessuno può farmi un esempio al mondo di un qualunque movimento di liberazione, in qualunque paese, che sia iniziato senza una base straniera», affermò Muhammad Saraf, il quale fece peraltro rilevare le sincere rimostranze dei kashmiri del luogo: «Se non dai denaro e armi alla gente, questa comincia a morire. La domanda che bisogna farsi è: cosa li ha resi pronti a cominciare a morire?» 80 . Tra alcuni attivisti si pensava inoltre che l'esercito pakistano dovesse agire apertamente, non per rivendicare la terra, ma nello stesso modo in cui quello indiano era intervenuto nel 1971 nel Pakistan Orientale per aiutare i bengalesi.
Nel 1995 Omar Farooq assunse una prospettiva pragmatica: «La questione se il Pakistan dà o non dà appoggio rappresenta un problema per noi. Gli Stati Uniti hanno sostenuto l'Afghanistan, ma non è stato chiesto loro di spiegare il perché appoggiavano gli afgani. Così, non importa se per qualunque motivo il Pakistan appoggia i kashmiri. Lei vede che il nostro è un movimento del tutto indigeno e sono i kashmiri ad essere ammazzati». Farooq incluse nella sua analisi l'appoggio da parte dell'Azad Kashmir. «Se ci aiutano, nessuno se ne deve preoccupare, perché, storicamente, loro appartengono allo Stato dello Jammu e Kashmir e hanno dei doveri verso la propria gente, che si trova sotto occupazione»81. Yasin Malik era tuttavia contrario a «qualunque tipo di presenza straniera nel Kashmir, che si tratti di mercenari stranieri pakistani o indiani»82. Tra coloro che hanno attraversato la linea di controllo dall'Azad Kashmir e dal Pakistan, vi erano quelli che combatterono in Afghanistan, la cui presenza nell'insurrezione era agevolata anche dal confine permeabile nel territorio tribale che divide il Pakistan dall'Afghanistan. Si ritiene che il loro numero sia cresciuto dopo la caduta, nel 1992, del regime di najibullah in Afghanistan 8'. I kashmiri sostengono che gli afgani, che appartengono per lo più all'Harkat-ul Ansar, sono venuti per appoggiare la loro lotta in quanto musulmani, in cambio dell'aiuto dato dai kashmiri durante la jihad degli afgani contro l'Unione Sovietica. Tra il 1990 e il 1995, le autorità indiane identificarono 297 «mercenari stranieri» arrestati o uccisi, dei quali 213 erano del Pakistan o dell'Azad Kashmir e 84 dell'Afghanistan84. Inoltre, rilevarono la presenza, in misura minore, di sudanesi, egiziani e libanesi, che si erano uniti ai gruppi rivali. Invariabilmente la realtà dell'insurrezione nel Kashmir non corrispondeva alle aspettative di questi ultimi: «Quando arrivai per la prima volta pensai fosse una guerra santa, ma poi sentii dire della lotta di potere all'interno dei gruppi militanti», disse Sheikh Jamaluddin, un diciannovenne di Gardez, in Afghanistan, catturato dalle forze di sicurezza alla periferia di Srinagar nel 199385. La presenza straniera nel Kashmir si manifestò quando, nel marzo 1995, Master Gul, un ex negoziante della pakistana Provincia della frontiera di nord-ovest, occupò la moschea di Charar-e Sharif, a circa quaranta chilometri da Srinagar, venerata per il suo legame con Nund Rishi, il santo patrono della valle. Gul si era addestrato durante la guerra in Afghanistan e tra i suoi seguaci vi erano circa settanta «mercenari», come li definivano le autorità indiane. I militanti proclamarono di avere liberato la zona dalle forze di sicurezza, ma gli indiani risposero circondando l'area, come avevano fatto all'Hazratbal. Stavolta però la moschea fu distrutta dal fuoco, imputato dai militanti alle forze dell'ordine, che a loro volta li accusarono di averlo iniziato. Krishna Rao espresse «dolore e angoscia» per la distruzione del santuario86 e, per scoraggiare le proteste nella valle, venne incrementata la sorveglianza. Anche se rimasero uccise più
di quaranta persone, Master Gul riuscì a fuggire in Pakistan, da dove continuò a predicare la guerra santa87. La presenza di stranieri ebbe tuttavia ripercussioni anche tra i kashmiri del luogo. «Sono stati piuttosto prepotenti, pensano di essere venuti per fare un lavoro e di dover essere obbediti. Non hanno alcun ruolo ufficiale ma tendono a fare i bulli», disse un militante kashmiro. Nelle sue prese di posizione ufficiali, il Pakistan ha messo in rilievo sulla scena internazionale le violazioni dei diritti umani e l'ostilità dei kashmiri verso l'autorità indiana, ponendo la questione nel suo contesto storico e riferendosi alle risoluzioni ONU. Evidentemente consapevole del fatto che l'autodeterminazione era invariabilmente interpretata dagli abitanti della valle come indipendenza dall'India e dal Pakistan, nel 1994 il ministro degli Esteri pakistano Nazimuddin Sheikh affermò che, parlando d'indipendenza in questa fase, si metteva il carro davanti ai buoi. «Occorre una certa avvedutezza per evitare di avviare un dibattito su tale questione prima che l'India abbia accordato il diritto all'autodeterminazione al popolo kashmiro»88.
8.6. Il Kashmir «libero» e le aree
settentrionali
L'insurrezione aveva influito anche sulla vita dei kashmiri dell'Azad, che aspettano ancora la definizione della loro posizione costituzionale. L'appoggio incondizionato all'annessione al Pakistan è oggi attenuato, per alcuni, dal sogno dell'indipendenza, ma mentre quelli della valle hanno creduto che fosse a portata di mano, tra i kashmiri Azad vi è molta meno convinzione sul futuro. Se stava per realizzarsi un cambiamento, nel 1994 il primo ministro Sardar Qayum espresse la propria solidarietà con la valle: «Accettiamo in termini definitivi la loro guida. Si tratta di gente che soffre e non devono esserci controversie sulla divisione del potere»89. Nel novembre 1995, il Mirwaiz Omar Farooq si incontrò con lui a New York. «Ha convenuto che la Ali Parties Hurriyat Conference li rappresenti anche a livello internazionale», disse90. I kashmiri Azad sono stati tradizionalmente solidali con quelli della valle, dove molti hanno ancora dei parenti. Sin dal 1987, a Muzaffarabad è attiva una «cellula di liberazione» che mantiene stretti legami con il governo dell'Azad Jammu e Kashmir del luogo e di Islamabad. I suoi rappresentanti guidano gli stranieri attraverso le questioni politiche in gioco e nei campi profughi, istituiti per accogliere coloro che fuggirono dalle città di frontiera di Kupwara, Handwara e Baramula nei primi anni dell'insurrezione. «Mangiamo e abbiamo da vestirci», disse un profugo del campo di Ambore fuori Muzaffarabad, «ma quando ricordiamo i nostri fratelli e sorelle nel Kashmir occupato tutto ci diventa disgustoso» 9 '. «Abbiamo
rilevato la necessità, per le donne, di assistenza psichiatrica», disse Nayyar Malik, che aveva lavorato come assistente sociale volontario. «Hanno visto cose terribili e hanno bisogno di parlare»92. Dal 1960 è attiva anche una stazione radio: venne fondata inizialmente per pubblicizzare le attività di sviluppo del governo dell'Azad Jammu e Kashmir, ma, disse il direttore Masood Kashfi, «non è stato possibile tenere gli occhi chiusi sulla situazione del Kashmir occupato, perciò una parte considerevole delle trasmissioni è stata riservata a programmi su argomenti come il movimento per la libertà, la storia della libertà e altri temi attinenti». Dopo l'inizio dell'insurrezione nel 1989, Radio Azad Kashmir cambiò la propria programmazione per eliminare gli «aspetti di intrattenimento» e concentrarsi su programmi «interessanti» legati alla lotta per la libertà, e per ritrasmettere così anche alcuni programmi di Radio Pakistan. «Viene presentata la posizione del governo del Pakistan sulla questione del Kashmir e la reazione della gente di entrambi i versanti della linea di controllo viene dipinta in modo corretto ed equilibrato», disse Kashfi, il quale riteneva che la radio dell'Azad Kashmir fosse a tal punto popolare nel «Kashmir occupato» che il governo indiano aveva imposto un divieto di ascolto della stazione e «faceva il massimo sforzo per disturbarne le trasmissioni»93. L'afflusso di gente dalla valle ha creato inoltre, in anni recenti, qualche attrito tra coloro che parlano il kashmiri di quell'area e quelli dei distretti di Punch e Rawalakot. «Spesso mi si dice che non sono un kashmiro perché non parlo kashmiri», disse un Suddhan di Punch il cui padre e nonno erano stati attivi in politica negli anni Quaranta. «Ma politicamente sono kashmiro perché appartengo allo Stato dello Jammu e Kashmir»94. Gli abitanti di Punch sottolineano ancora oggi il loro retaggio storico d'indipendenza e molti kashmiri Azad si preoccupano peraltro molto meno dell'indipendenza che dell'assenza di uno statuto proprio all'interno del Pakistan, uno statuto che consenta loro di avere accesso agli stessi fondi, agli stessi diritti politici e aiuti allo sviluppo concessi alle altre province. Il governo è al contempo riconoscente verso Islamabad. «Come vede devo tenere il passo, ma per tenere il passo a volte non si possono fare cose che vorresti fare e bisogna tener conto della situazione», disse il primo ministro Sardar Qayum nel 19949'. I kashmiri Azad hanno inoltre espresso risentimento verso i loro «confratelli» del Pakistan e del mondo islamico, perché nel corso degli anni non hanno fatto abbastanza per aiutare la causa degli abitanti della valle. Chi vorrebbe l'intero Stato dello Jammu e Kashmir indipendente è contrario all'«occupazione» dell'Azad Kashmir da parte del Pakistan quanto alla posizione indiana nella valle. «Non siamo soddisfatti della posizione di fatto del Pakistan nell'Azad Kashmir», disse Azam Inquilabi nel 1994. «Tengono lì le loro truppe e hanno l'autorità, ma noi tolleriamo questa situazione fino a un certo punto»96. E aggiunse Yasin Malik: «Se lì [nel
Kashmir occupato dal Pakistan] non abbiamo avviato un movimento militare dipende dal fatto che la posizione ufficiale del Pakistan è di accettazione del diritto all'autodeterminazione per il popolo dello Jammu e Kashmir»97. Malgrado la distanza geografica, il destino delle aree settentrionali, con una popolazione di meno di un milione di abitanti, resta direttamente influenzato dall'attuale situazione nello Jammu e Kashmir. La regione non è mai stata integrata nel Pakistan, anche se nell'ottobre-novembre 1947 si verificò una rivolta. «Avevo sette anni quando ho combattuto per il Pakistan», disse Raja Nisar Wali, membro della Northern Areas Mutahida Mahaz ('Fronte unito'), formata per fare pressione sulla rappresentanza politica. «Adesso ne ho cinquantasette, mi sto ingrigendo e combatto ancora per farne parte»98. Nel 1975, Zulfikar Ali Bhutto abolì la vecchia proprietà terriera e i regni di Hunza e Nagar per riorganizzare l'intera area in cinque distretti amministrativi. «Introdusse riforme di vasta portata», precisò Wazir Firman Ali, che crebbe a Skardu sotto «la schiavitù dei Dogra» e in seguito lavorò per quindici anni come funzionario governativo nelle aree settentrionali. «Se Bhutto fosse vissuto più a lungo, penso che le aree settentrionali sarebbero diventate la quinta provincia, ma con la dittatura militare del generale Zia divennero la "quinta zona" - la zona E - e lui non fece nulla per esse». Il JKLF in particolare ha tentato di insediare propri rappresentanti a Gilgit e nel Baltistan, con l'obiettivo di incoraggiare il movimento d'indipendenza, ma la gente ha una scarsa affiliazione politica con la valle ed è generalmente ritenuta favorevole alla piena integrazione con il Pakistan. «La prima alternativa sarebbe l'integrazione con il Pakistan e una sistemazione in chiave provinciale», disse Wazir Firman Ali, «la seconda un assetto simile a quello dell'Azad Kashmir e la terza l'integrazione con quest'ultimo»99. Nel marzo 1993, l'Alta Corte dell'Azad Jammu e Kashmir dichiarò che le aree settentrionali erano parte della regione e ordinò che la loro amministrazione fosse restituita al governo dell'Azad Kashmir. Ma la popolazione sciita che predomina nelle aree settentrionali era restia a fondersi con l'Azad Kashmir dominato dai sunniti. La decisione dell'Alta Corte venne dunque respinta in appello dalla Corte Suprema100. Il governo pakistano ha cercato di soddisfare la mancanza di rappresentanza costituzionale con un pacchetto di riforme, ma si è però trattenuto dall'integrare formalmente le aree settentrionali nel paese per il timore di mettere a repentaglio la richiesta di risolvere l'intera questione secondo i termini delle risoluzioni ONU. Non sembra siano stati compiuti tentativi di avvalersi del parere espresso dalle autorità britanniche del 1941, secondo le quali la Gilgit Agency e i territori connessi dovevano essere considerati soltanto sotto la sovranità dello Stato dello Jammu e Kashmir e non quali parti di esso. Pertanto, malgrado il sostegno al dirit-
to dei kashmiri all'autodeterminazione, non è nell'interesse del governo pakistano appoggiare la richiesta della «terza opzione» dell'indipendenza dell'intero Stato com'era nel 1947, allorché comprendeva le aree settentrionali. Gilgit e Hunza - che permettono l'accesso alla Cina attraverso il passo Khunjerab lungo l'autostrada del Karakoram, aperta nel 1978 - sono strategicamente importanti per il Pakistan quanto lo erano per gli inglesi ai tempi dell'Impero. In attesa di una risoluzione definitiva della disputa sullo Jammu e Kashmir, la regione rimane amministrata dal Pakistan, ma non ne fa parte. «Nelle aree settentrionali abbiamo molti ponti sospesi e la nostra posizione costituzionale è anch'essa sospesa», dichiarò un funzionario governativo locale nel 1995.
8.7.1 civili sotto assedio Nell'insurrezione contro il governo indiano gli sconfitti sono i kashmiri. Nel 1995 la città di Srinagar era sporca e piena di polvere, con i rifiuti non raccolti ammassati ai bordi delle strade, dove rovistavano cani e mucche. Le strade erano piene di buche, i resti carbonizzati di edifici un tempo venerati, come la biblioteca presso la moschea di Hazratbal, erano una memoria visiva delle battaglie passate; il lago Dal era stagnante e fitto di alghe. La vita degli abitanti è stata sconvolta dalle bombe, dalle rappresaglie, dalle sparatorie incrociate e dal coprifuoco, le loro case sono state oggetto di irruzioni e talvolta distrutte a causa delle frequenti azioni delle forze di sicurezza. Sopore era ancora per metà sventrata dal fuoco. «Prima mi spaventavo quando arrivava l'esercito, ma adesso mi ci sono abituata», disse una ragazza del luogo. «Le perquisizioni distruggono totalmente le nostre case. Sparpagliano la roba e rompono le cose»101. Dal 1989 i kashmiri hanno vissuto con la paura delle armi, fossero quelle dei militanti o delle forze dell'ordine indiane. I loro figli, se sospettati di essere militanti o simpatizzanti, sono stati arrestati, torturati, uccisi o sono semplicemente scomparsi. «In pratica, ogni giovane musulmano che vive in un villaggio, in un'area rurale o in una zona della città noti per le attività di uno qualunque dei gruppi indipendentisti o filopakistani può diventare un sospetto e un obiettivo per le perquisizioni su larga scala, spesso brutali», dichiarò Amnesty nel 1993102. Le esecuzioni extragiudiziali di militanti sono spesso state proclamate morti avvenute durante «un conflitto». Quasi ogni kashmiro ha da raccontare la storia triste di un familiare prelevato dalle forze dell'ordine con l'accusa di essere un militante. Il dottor Rashid è una delle migliaia di persone che hanno subito una perdita personale:
Mio fratello aveva venticinque anni e gestiva un negozio di cosmetici. Venne la BSF e lo prese; fu ucciso davanti a mio padre e alla mia famiglia. Qualcuno lo aveva indicato come militante. Non era armato e al notiziario della sera dissero che c'era stato un conflitto, ma non è affatto vero. Non molto tempo dopo, anche il fratello minore del dottor Rashid venne ucciso perché sospettato di essere un militante. Poi egli udì le notizie a proposito del figlio di suo cugino: Aveva diciotto anni, era uno studente; fu arrestato. Andai alla stazione di polizia e chiesi di vederlo perché avevo sentito che aveva delle ferite di arma da fuoco. Mi dissero di aspettare e avrebbero visto dove fosse. Aspettai là per due ore. Poi mi portarono il suo cadavere. Il rapporto diceva che stava scappando e allora gli avevano sparato. Se stava scappando, avrebbe dovuto avere le ferite alla schiena, ma aveva due ferite da proiettile a due centimetri di distanza dal cuore, davanti.10' Per la maggioranza della gente, gli effetti negativi di una vita sotto assedio sono stati enormi. Non sono avvenute inondazioni e il raccolto è stato buono, eppure nessuno è stato in grado di valutare il trauma degli avvenimenti sulla loro vita dal 1989.1 bambini spesso non hanno potuto andare a scuola e la qualità dell'istruzione è scaduta. Dal 1950, il numero delle scuole era cresciuto di dieci volte, ma molte sono state bruciate dai militanti «rinnegati» che gli attivisti kashmiri ritengono lavorino contro la loro causa. Le scuole nelle zone rurali sono state occupate dalle forze dell'ordine, che si sono insediate anche nei campus universitari. Le cifre ufficiali affermano che le scuole funzionarono per novantatre giorni nel 1993-94 e per centoquaranta nel 1994-95 e che l'istruzione primaria in generale è regredita104. Nell'istruzione superiore, i kashmiri avevano fatto grandi progressi, ma la complessiva destabilizzazione provocata dall'insurrezione ha ancora una volta ridotto il livello dell'insegnamento e prevale l'illegalità generalizzata. Per tanti giovani kashmiri la militanza è divenuta uno stile di vita: i combattenti fanno sfoggio delle proprie armi e le usano per risolvere le dispute personali. I musulmani più anziani, che hanno conosciuto la valle in pace, si rammaricano dell'insurrezione perché credono che abbia rovinato la vita di moltissime persone senza generare alcun giovamento politico. Le attrezzature mediche sono insufficienti e gli ospedali non sono igienici, i medici sono oberati di lavoro e molti sono fuggiti; alcuni sono stati presi con la minaccia della armi per curare i militanti feriti e poi riportati. Nel 1995 l'ospedale ortopedico aveva soltanto tre medici dirigenti, oltre a nove specializzandi e sei specialisti. I programmi di vaccinazione dei bambini sono rimasti indietro, nel 1995 fu stimato un numero di casi psichiatrici venti volte superiore rispetto al 1989105. Le statistiche ufficiose va-
lutano che tra il 1988 e il 1995 siano morte 40.000 persone, ma il governo colloca la cifra attorno a 13.500106: di tale numero, meno della metà erano militanti. Amnesty fonda le proprie cifre sulle fonti della polizia e degli ospedali e calcola il numero in eccesso sui 17.000. «Ma riteniamo anche che ve ne siano diverse migliaia in più su cui non abbiamo statistiche», disse un rappresentante dell'organizzazione nel 1995107. Il cimitero dei martiri di Srinagar è pieno di tombe nuove con madri piangenti e spettatori che se ne stanno in disparte. Il mausoleo di Maqbool Butt, che resta sepolto entro le mura della prigione di Tihar a Delhi, rappresenta il ricordo penoso che l'uomo, che ha ispirato così tanti nella lotta per l'azadi, è morto da tempo. Anche le ferite o le morti dovute alle sparatorie tra militanti e forze dell'ordine hanno mietuto molte vittime. Nel 1994, M.N. Sabharwal, sovrintendente generale della Polizia di Srinagar, ammise che almeno 1.500 civili erano stati uccisi e molti altri feriti nel fuoco incrociato. Nell'aprile 1994, una di queste vittime giaceva in una corsia dell'ospedale ortopedico. Era andato a fare la spesa in moto con sua moglie, quando incominciò una sparatoria in una via affollata, i soldati gli spararono contro per farli scendere e stendere faccia a terra. Sia lui sia la moglie rimasero feriti. Dapprima pensò che gli avessero sparato apposta, ma poi si rese conto che erano soltanto civili presi nel fuoco incrociato. Piangeva mentre raccontava la sua storia: «Mia moglie è nell'ospedale femminile, io sono qui. Che cosa abbiamo fatto per meritarci questo?». La sua ferita, vicino al cuore, era così grave che il medico mi aveva consentito di intervistarlo a condizione che non gli dicessi che la moglie era già morta. «L'emozione potrebbe ucciderlo», avvertì il medico108. All'inizio del 1996, l'eccezionale euforia che aveva sollevato il morale della gente nei primi tempi del movimento era svanita. I civili della valle erano stanchi della guerra, ma il desiderio di un ritorno alla normalità era attenuato dal persistente rifiuto di un ripristino dello status quo. «Sì, vogliono la pace», disse Omar Farooq, «ma a quale prezzo?». Si sono patite troppe sofferenze perché l'orologio possa essere riportato indietro. Nonostante tutte le instabilità degli anni passati, i tassisti, i proprietari di case galleggianti, i negozianti parlano ancora d'indipendenza, senza capire ancora in quale modo possa essere conseguita. «Chiedono l'azadi, ma è un concetto che manca ancora della coreografia», affermò il generale Arjun Ray105. Azadi vuol dire cose diverse per diverse persone: per alcuni è l'indipendenza dell'intero Stato, mentre per quelli che abitano la valle è la conservazione della loro cultura unica - la Kashmiriyat - che comprende indù e musulmani. Per altri, influenzati dalla rinascita islamica, è sinonimo della creazione di uno Stato teocratico. «Non si tratta di un concetto geografico, bensì emotivo», disse Ashok Jaitley, «la libertà di essere se stessi, con dignità e amor proprio, dovunque possano ottenerla»110.
Farooq Abdullah, che preferisce parlare di autonomia entro l'Unione Indiana, descrive Yazadi come una pillola amara ricoperta di zucchero: La gente vorrebbe vedere Yazadi ma non ne vede le conseguenze. Se diventiamo indipendenti, come ci sostenteremo, da dove verrà il denaro? Dove è possibile svilupparci? Siamo chiusi dai potenti vicini della Cina e del Pakistan. Se otteniamo l'indipendenza e l'India se ne va, sono sicuro che il Pakistan sopraggiungerà da un giorno all'altro e ne prenderà il posto. La gente dice vogliamo Yazadi, senza dirci che cosa ci riserverà.1" Né i buddisti del Ladakh né gli indù dello Jammu condividono gli obiettivi dei kashmiri musulmani della valle. La loro principale preoccupazione è stata quella di insistere per l'autonomia contro il predominio della valle, più popolosa. «Entrambi avvertono che i frutti dello sviluppo non li hanno raggiunti, perché la maggior parte del denaro è stata spesa nella valle», affermò nel 1995 Ram Mahan Rao, consigliere del governo dello Stato. «Il problema del nostro paese è che la coperta è troppo corta. Se copre la testa, allora non può coprire i piedi» 112 .1 funzionari indiani sottolineano che nello Stato dello Jammu e Kashmir sotto amministrazione indiana esistono otto aree linguistiche e culturali e che quella kashmira è solo una di esse; la conclusione è che, nonostante la superiorità numerica dei kashmiri della valle, i loro obiettivi non possono condizionare il futuro dell'intero Stato. Nel Ladakh, i disordini scoppiati nel 1989 tra i musulmani del distretto di Kargil e i buddisti si sono ormai calmati. «La Hurriyat Conference ha scarse possibilità di ottenere credito nel Ladakh», disse il politico ladakho Pinto Narboo113. Lo scopo del Ladakh Autonomous Hill Development Council è stato di promuovere gli obiettivi della scarsa popolazione degli abitanti buddisti dell'area di Leh, ma i kashmiri della valle lo hanno interpretato come una mossa, spalleggiata dal governo indiano, per dividere lo Stato per linee comunitarie. Tuttavia anche i musulmani dello Jammu, che non parlano la lingua kashmiri, non necessariamente appoggiano le richieste dei correligionari della valle. «I musulmani dello Jammu sono per lo status quo, e noi appoggiamo l'annessione e l'integrazione», disse uno dei capi musulmani del Congresso nel 1995. «Un quinto della popolazione totale dello Jammu e Kashmir è composto dai Gujar, che non parlano kashmiri; gli abitanti della valle non hanno nulla in comune con questa gente se non la medesima religione»" 4 . Omar Farooq sostiene però che, nello Jammu, i distretti di Rajauri, Doda, Kishtwar e Punch non seguono così incondizionatamente il governo indiano, come piace affermare ai politici di New Delhi, e che nel 1996 la APHC progettò di aprire una sede a Jammu. «Nel nostro approccio siamo stati molto democratici. Abbiamo detto che tutte queste regioni, il Gilgit e anche il Baltistan, dovreb-
bero avere una propria rappresentanza». Resta tuttavia la diffidenza tra i musulmani e i pandit kashmiri sfollati, alcuni dei quali chiedono oggi una terra separata nella valle per i 700.000 pandit che vivono in diverse parti dell'India. Tutte le comunità hanno sofferto nel corso dell'insurrezione, ma tra i musulmani kashmiri della valle che hanno appoggiato così entusiasticamente la richiesta di azadi, in base alla promessa di un referendum che avrebbe precisato il loro futuro, il senso di tradimento è forse maggiore. La repressione degli anni Novanta, le uccisioni indiscriminate e inutili hanno semplicemente alimentato la loro rabbia. Ho sentito ripetutamente delle persone dire: «Come potremmo mai accettare di nuovo il governo indiano, dopo quello che i militari hanno fatto alla nostra gente?».
8.8. Il rapimento dei turisti Da quando il conflitto cominciò sul serio nel 1989, il rapimento di civili ha fatto parte della strategia dei militanti. Come nel caso del sequestro di Rubaiya Sayeed, l'obiettivo è stato in genere di tenerli in ostaggio fino al rilascio di compagni detenuti o per fare pressione su organizzazioni militanti rivali. Parecchie centinaia di civili kashmiri sono stati inoltre rapiti durante l'insurrezione allo scopo di estorcere denaro alle loro famiglie. Secondo il governo indiano, nel 1995 furono sequestrate 450 persone, delle quali quasi la metà vennero uccise, mentre l'anno precedente, ne furono rapite 315 e ne fu ucciso meno di un quarto115. Soltanto in rare occasioni, però, furono gli stranieri ad essere presi in ostaggio. Di conseguenza, con l'eccezione del 1990, il governo indiano, con una volontà di ostentazione e attento alla propria immagine internazionale, preferì sostenere che la valle non era chiusa al turismo e che gli stranieri erano i benvenuti. Chi vi si è avventurato negli anni Novanta è rimasto spesso sorpreso di scoprire che, purché restasse nelle case galleggianti, non veniva turbato dall'insurrezione e poteva godersi le vacanze. «Quando sono arrivato all'aeroporto con tutti quei militari, mi sono un po' allarmato, ma una volta salito sulla mia casa galleggiante mi sono sentito molto meglio», disse Stephen Humphrey, un contabile di Birmingham in viaggio nel Kashmir nel 1994 "6. Robert Shadforth, della compagnia di pullman turistici Top Deck, ha portato turisti nello Stato, come tappa di un tour dal Nepal a Londra, due volte l'anno, tranne che nel 1990. E Sylvain Soudain ha portato gruppi selezionati di europei che praticano l'heliski. Il loro problema principale non è stata l'insurrezione, bensì l'hotel Centaur, gestito dal governo, alla periferia di Srinagar, dove mancavano i servizi essenziali e l'igiene. Il numero record di 80.000 turisti stranieri che nel 1989 si recarono nella valle, nel 1995 era ridotto a circa 9.000. Alcuni episodi isolati di seque-
stro di stranieri che lavoravano nel Kashmir o vi erano giunti come turisti, nonché lo stupro di una ragazza canadese nell'ottobre del 1990 da parte di uomini dell'esercito, costituirono un ovvio deterrente. Lo stesso valse per la militarizzazione della valle e per il paradosso di godersi una vacanza mentre la gente del luogo era soggetta a misure restrittive e al fuoco incrociato. L'assenza di turisti produsse naturalmente un danno per gli affari degli abitanti del luogo; i proprietari di case galleggianti, gli Hanji, che le avevano gestite per generazioni, gli shikara wallah, i tassisti, i guidatori di tonga, i proprietari d'albergo e quelli che dipendevano dalla vendita dei prodotti artigianali ai turisti persero tutti l'unica possibilità di reddito loro offerta. «Questa casa galleggiante, che una volta era così popolare, oggi è quasi andata», disse Iqbal Chapra, presidente onorario dell'Associazione dei proprietari di case galleggianti117. «Preghiamo per la pace nella nostra valle e allora i turisti verranno», affermò nel 1994 Muhammed Kotru, presidente della stessa associazione118. Soltanto pochi privilegiati hanno potuto continuare a esportare e vendere tappeti, prodotti dell'artigianato e ricami in tutta l'India e all'estero. Un pandit kashmiro fuggito dalla valle sostiene che alcuni kashmiri musulmani adesso sono più ricchi, perché non devono più passare per gli intermediari indù. Nel 1994 i media occidentali concentrarono la loro attenzione sul Kashmir a causa del rapimento di due uomini, uno dei quali era il figlio dell'ex giornalista del «Financial Times» David Housego. La famiglia Housego era in vacanza nel Kashmir per festeggiare il cinquantesimo compleanno di Jenny Housego. Il 6 giugno, quando raggiunsero il villaggio di Aru, dopo tre giorni sulle montagne presso Pahalgam, vennero fermati e derubati di denaro, orologi e vestiti. Furono condotti in un albergo, dove incontrarono un'altra coppia, David e Cathy Mackie, anch'essi tenuti sotto la minaccia delle armi, che avevano fatto trekking sulle montagne. I militanti presero il figlio di Housego, Kim, di sedici anni, e David Mackie, di trentasei, lasciando i genitori Housego e Cathy Mackie a negoziare il loro rilascio tramite una serie di intermediari. Dopo la liberazione, avvenuta diciassette giorni dopo, Mackie fece commenti rivelatori sui militanti: «Avevano sentito dalla BBC che avevo un ginocchio malato, così la mattina dopo mi hanno provvisto di un bastone e hanno destinato uno del gruppo a starmi vicino. Mi è stato concesso di camminare alla mia andatura»119. «Si sono accertati che avessimo i posti migliori presso il fuoco di bivacco», disse Kim Housego. «Ascoltavano i servizi della BBC in urdu e li traducevano per noi»1/0. L'Harkat-ul Ansar venne reputato responsabile del rapimento, che si ritenne fosse stato un errore. L'anno successivo l'incidente era stato pressoché dimenticato. Quando la neve invernale si sciolse, piccoli gruppi di turisti, che non avevano mai udito dei disordini oppure non ne erano sufficientemente turbati, giunsero nella valle. Martha Fichtinger, una donna austriaca che visitò il Kashmir
nell'aprile 1995, disse di aver trovato il viaggio da sola in quel paese non più sconfortante di quelli precedenti in Sud America e di avere sentito molto poco dell'insurrezione121. Sam Valani, un ugandese-asiatico con la propria famiglia, che vive oggi in Canada, aveva sempre voluto andare nel Kashmir, pensava però che fosse troppo pericoloso: «Ma quando un impiegato delle linee aeree indiane di Delhi ci disse che era possibile, abbiamo annullato il nostro viaggio a Udaipur e Jaipur e siamo invece venuti qui»122. Gary Lazzarini, proprietario di un negozio di scarpe, e Philip Peters, un ingegnere edile di Londra, trascorsero sedici giorni nello Stato con l'intenzione di andare a sciare a Gulmarg, un tempo alla moda. Scoprendo che le piste erano praticamente chiuse, soggiornarono in una casa galleggiante, il cui proprietario fece loro l'unica richiesta di inviargli, una volta tornati in Inghilterra, mosche e lenze per la pesca delle trote. «Ognuno ha qualcosa da dire sui disordini in atto. Non sembrano troppo ottimisti e sono più interessati a riportare la loro vita alla normalità. Ma sono preoccupati per i diritti umani»12'. Una coppia sudafricana preferì soggiornare all'hotel Ahdoo nel centro di Srinagar, perché nelle case galleggianti si sentiva in trappola. Nel 1995 l'Ahdoo era ancora l'unico albergo rimasto aperto; talvolta mancava la luce, i telefoni in genere funzionavano e il cibo era appena sopportabile. Il direttore era felicissimo per la presenza della coppia sudafricana: «Questi sono i primi turisti che abbiamo avuto. Per il resto ci sono stati soltanto giornalisti che vengono per raccontare l'insurrezione»124. Nel luglio 1995, le speranze di quelli che reputavano la valle sicura per i turisti furono ancora una volta infrante. Sei stranieri furono rapiti e tenuti prigionieri da un gruppo militante «poco noto», Al Faran, considerato l'ala radicale dell'Harkat-ul Ansar. Erano stati a fare trekking a Pahalgam e furono presi in tre circostanze separate. Uno di essi, John Childs, fuggì a pochi giorni dal rapimento. Gli altri erano Donald Hutchings, americano, Paul Wells e Keith Mangan, entrambi inglesi, Dirk Hasert, tedesco, e il norvegese Hans Christian Ostro. I rapitori chiesero il rilascio di ventuno militanti detenuti dalle autorità indiane, per lo più appartenenti all'Harkatul Ansar. E minacciavano di uccidere gli ostaggi qualora i loro compagni non fossero stati scarcerati. Il 17 luglio le agenzie di stampa di Srinagar ricevettero una dichiarazione manoscritta: «Il governo indiano non mostra alcun interesse nell'assicurare il rilascio degli ostaggi. La comunità internazionale, in particolare coloro che hanno fatto appello a noi [per il rilascio degli stranieri], dovrebbe fare pressione sull'India affinché cessi la violazione dei diritti umani nel Kashmir e accetti immediatamente le nostre richieste»125. L'obiettivo del gruppo nel prendere i turisti fu considerato come un'altra variazione sul tema persistente dell'insurrezione: il coinvolgimento della comunità internazionale nella «giusta» causa dei kashmiri. Malgrado il rilascio dei militanti dopo il rapimento della dottoressa Rubaiya Sayeed, avvenuto nel 1989, e i numerosi episodi in cui erano stati
conclusi dei patti, il governo indiano rifiutò pubblicamente di prendere in considerazione uno scambio. «Non se ne parla neppure di rilasciare alcun militante [in cambio dei cinque turisti rapiti]», dichiarò il ministro dell'Interno K. Padmanabhaiah, nel primo di molti rifiuti126. Mentre le autorità indiane cercavano di mettersi in contatto con Al Faran, scadevano gli ultimatum per l'uccisione degli ostaggi. Il JKLF condannò il sequestro, come fece Omar Farooq, il quale dichiarò che la APHC aveva cercato senza riuscirvi di mettersi in contatto con i militanti di Al Faran. Anche il Pakistan deplorò il rapimento e alcuni commentatori ritennero persino che l'incidente fosse un elaborato stratagemma del servizio segreto indiano, teso a screditare il movimento kashmiro e indirettamente il Pakistan. «Il Pakistan non ha indubbiamente avuto nulla a che fare con questo rapimento, ma il suo appoggio complessivo all'insurrezione lo renderebbe responsabile», commentò un analista occidentale, convinto che il paese avesse fornito armi agli insorti. «Allo stesso modo, se dai una pistola a un bambino e lo lasci in una stanza con i suoi fratelli e lui gli spara, sei responsabile del loro omicidio». Il 13 agosto, fu ritrovato al margine di una strada il corpo decapitato di Hans Christian Ostro. Uccidendo uno straniero, i rapitori riuscirono a farsi pubblicità in tutto il mondo, ma per le ragioni sbagliate. L'azione fu condannata sia dai gruppi politici sia dagli altri gruppi militanti, e uno sciopero per l'intera giornata in tutta la valle volle mostrare che i kashmiri si dissociavano dall'assassinio, che Omar Farooq definì un atto di terrorismo. A causa del potenziale danno di immagine al loro movimento, egli e molti altri erano scettici sulle origini e il movente del gruppo: «Chi è questa gente che viene fuori in un momento in cui stiamo cercando giorno e notte di guadagnare consenso al nostro movimento? Non credo che siano in alcun modo impegnati nella lotta dei kashmiri»127. Nel dicembre 1995 le forze dell'ordine indiane catturarono tre membri del gruppo Al Faran, i quali confermarono che gli ostaggi erano ancora vivi, ma non diedero alcuna informazione riguardante il loro rilascio. Nel 1996 si temeva che fossero morti. I punti di vista diametralmente opposti del Pakistan e dell'India a proposito del rapimento dimostrarono quanto fossero ancora distanti su ciò che avveniva in Kashmir. Da un lato, il governo indiano era persuaso che il gruppo fosse costituito da mercenari stranieri, sostenuti e fiancheggiati dai pakistani. Dall'altro, questi ritenevano si trattasse di agenti del governo indiano, pagati per screditare la lotta dei kashmiri per l'autodeterminazione e, per analogia, il Pakistan stesso. In mezzo a questi giudizi contrastanti, il popolo kashmiro era come sempre preso nel fuoco verbale incrociato. La valle, circondata dalle magnifiche montagne dell'Himalaya, la cui bellezza ha per secoli attratto visitatori da ogni parte, era ancora la patria della tragedia.
9. Conflitto o consenso?
Ricordando [...] che un clima di pace e di sicurezza è nel supremo interesse nazionale di entrambe le parti e che la risoluzione di tutte le questioni pendenti, compreso lo ]ammu e Kashmir, è a tale proposito essenziale. DICHIARAZIONE DI LAHORE, 2 1 febbraio 1999
Un decennio dopo che migliaia di kashmiri erano scesi in piazza per chiedere ì'azadi, non era ancora chiaro come potessero conseguire il loro obiettivo, dal momento che né il Pakistan né l'India erano disposti a considerare ì'azadi come sinonimo d'indipendenza. Ciò nonostante, cronisti e osservatori continuavano a valutare la richiesta di autodeterminazione per individuare le conseguenze di un eventuale referendum. Prima di tutto, sarebbe stato giusto per tutti gli abitanti un referendum unitario, in cui la voce della maggioranza avrebbe prevalso a scapito della minoranza? O sarebbe stata meglio una consultazione su base regionale, per far decidere i vari gruppi etnici, anche se questo avrebbe inevitabilmente formalizzato la divisione dello Stato? In seconda istanza, qualora, sulla base di un voto di maggioranza, gli abitanti dell'intero ex principato avessero scelto di diventare indipendenti, in che modo sottrarre le aree settentrionali e l'Azad Kashmir al Pakistan e il Ladakh e lo Jammu all'India? Oppure, nel caso di un voto regionale, nel quale soltanto la valle avesse scelto l'indipendenza, come avrebbe potuto sopravvivere? Per di più, come poteva il governo del Pakistan insistere ancora sul diritto dei kashmiri a determinare il proprio futuro e poi concedere loro soltanto l'opzione di scelta tra i due dominion? Questi in realtà non avrebbero concesso nulla? C'erano le basi per un'intesa o il conflitto sarebbe continuato?
9.1. L'opinione
internazionale
Per tutto il corso della lotta, gli attivisti kashmiri si rammaricarono per la riluttanza del resto del mondo ad aiutarli in quella che essi percepivano come una «giusta» causa. Ritenevano che la loro incapacità di richiamare un concreto appoggio internazionale fosse in contrasto con quello
dato agli afgani negli anni Ottanta, durante la resistenza contro l'Unione Sovietica. E i kashmiri conoscevano anche bene la storia passata del subcontinente, storia nella quale l'Inghilterra aveva svolto il proprio ruolo imperiale. Al culmine dell'insurrezione, l'ottimistica convinzione, secondo cui sarebbe bastato creare un certo disordine nella valle per attrarre il sostegno internazionale, non si tradusse nei fatti. «Nessun paese era disponibile a rischiare interamente i propri rapporti con New Delhi per la causa del Kashmir», scrisse il corrispondente di «Time» Edward Desmond nel 1995, «soprattutto là dove era chiaro che New Delhi non aveva alcuna intenzione di ritirarsi»1. Nei primi anni dell'insurrezione, parlamentari inglesi, eurodeputati, deputati del Congresso americano, attivisti per i diritti umani, ebbero tutti una parte nell'ascoltare le lamentele dei kashmiri. Una volta presentate le loro rimostranze e dopo aver scritto i propri rapporti, le azioni che avrebbero ancora potuto intraprendere erano scarse. L'opinione internazionale era preoccupata tanto per il presunto ruolo del Pakistan nell'«esportare il terrorismo» e per il suo potenziale atomico, quanto per gli avvenimenti in quello che l'India si ostinava a definire come parte integrante del suo territorio. A fronte di un movimento che chiedeva l'indipendenza, il Pakistan - che a quell'indipendenza era contrario - stava peraltro perdendo il proprio credito di sedicente portavoce degli interessi kashmiri. Per di più, con l'incremento degli interessi commerciali in India, si ridusse la propensione da parte dei governi occidentali a prendere un'iniziativa polemica a proposito del Kashmir. Quest'ultimo appariva lontano, al centro di una questione che non aveva la stessa immediatezza della Bosnia, dell'Irlanda del Nord, del Medio Oriente o, alla fine degli anni Novanta, del Kosovo. Le critiche internazionali più pesanti affrontate dall'India sono state, nei primi anni Novanta, quelle relative alle violazioni dei diritti umani. Ma quando gli osservatori stranieri sollevarono il tema del referendum e dell'autodeterminazione, come raccomandato dalle risoluzioni ONU, gli analisti si trovarono su un terreno meno sicuro. Non solo le risoluzioni delle Nazioni Unite omettevano la scelta della «terza opzione», ovvero l'indipendenza per il popolo kashmiro, ma invitare all'attuazione di tali risoluzioni avrebbe portato alla luce tutte le vecchie ragioni per le quali lo stesso referendum non si tenne mai. Tra le proprie scusanti, l'India faceva rilevare che il Pakistan non sgomberò mai quella parte dello Stato costituita dalle aree settentrionali e dall'Azad Kashmir, circostanza indispensabile all'indizione di un plebiscito. Peraltro, uno degli argomenti più energici messi avanti dal governo indiano era che, qualora lo Stato dello Jammu e Kashmir avesse lasciato l'Unione Indiana, altre regioni insoddisfatte avrebbero potuto volere la secessione. E nessun membro della comunità internazionale avrebbe voluto vedere la destabilizzazione del subcontinente.
Eppure, i kashmiri che sfidarono l'autorità indiana ritenevano a loro volta che la comunità internazionale avesse il dovere morale di sostenere la loro causa, poiché le successive risoluzioni, adottate all'unanimità dal Consiglio di Sicurezza, richiedevano la soluzione della controversia per mezzo di un referendum libero e imparziale con il patrocinio di un organismo internazionale, le Nazioni Unite appunto. Consideravano inoltre essenziale che la «terza opzione» fosse inclusa nelle risoluzioni ONU. «Al popolo deve essere offerta la libertà di scelta tra unirsi all'India, al Pakistan o diventare indipendente», disse Yasin Malik nel 1995. «E qualunque cosa decida il popolo, noi accetteremo incondizionatamente la decisione, perché crediamo nella prassi democratica» 2 . Gli attivisti kashmiri rifiutavano l'equazione, propugnata dagli indiani, secondo cui la secessione del Kashmir avrebbe condotto alla disgregazione dell'India stessa; né ritenevano che, con più di cento milioni di cittadini musulmani dell'Unione, quest'ultima dovesse conservare lo Stato nell'interesse della propria immagine «laica». Dopo le prime iniziative diplomatiche degli anni Cinquanta e Sessanta, gli Stati Uniti si sono tenuti lontani dalla questione del Kashmir. L'intesa di Simla del 1972 tra India e Pakistan aveva tranquillizzato la comunità internazionale inducendola a pensare che non fosse necessario preoccuparsi di quella che veniva ora definita una questione "bilaterale". Ma negli anni Novanta, senza il peso dell'Unione Sovietica negli equilibri di potere della regione, gli Stati Uniti hanno manifestato maggiore interesse verso un problema che nel 1993 James Woolsey, capo della CIA, valutò come «forse la più probabile prospettiva di un futuro uso delle armi di distruzione di massa, comprese quelle atomiche» 3 . L'eventualità di una guerra tra India e Pakistan che si contendevano il ghiacciaio Siachen, dove periodicamente si scontravano sin da quando, nel 1984, le truppe indiane erano state trasportate al ghiacciaio con un ponte aereo, era davvero terrificante. La paura che questa disputa locale si estendesse in un conflitto più ampio fu fondamentale per il cambiamento della politica estera statunitense degli anni Novanta. «Abbiamo pensato che fosse ora di tirare fuori il nostro fascicolo sul Kashmir, di rispolverarlo e vedere il da farsi», disse un funzionario del dipartimento di Stato nel 19954. Nel momento in cui l'amministrazione USA iniziò a occuparsi della questione, i suoi funzionari si resero conto della suscettibilità dei governi indiano e pakistano. Quando, nell'ottobre 1993, Robin Raphel, sottosegretario di Stato per gli Affari dell'Asia meridionale, rimarcò che gli USA consideravano ancora lo statuto dello Jammu e Kashmir quello di un «un territorio conteso, ciò significa che non riconosciamo l'atto di annessione come condizione per una durevole integrazione dello Stato nell'India», le sue osservazioni furono respinte da New Delhi'. Nell'aprile 1994, allorché il vicesegretario di Stato Strobe Talbott fece visita a New Delhi e Islama-
bad, entrambi i paesi reagirono nervosamente a qualunque favoritismo percepito nei confronti dell'altro. «Gli Stati Uniti hanno buoni rapporti con l'India e con il Pakistan», dichiarò Talbott alla sua conferenza stampa a New Delhi6. A loro volta, le considerazioni del ministro degli Esteri inglese Douglas Hurd, per il quale le risoluzioni ONU non avevano più la stessa rilevanza, indisposero i pakistani nel corso della sua visita a Islamabad alla fine del 1994. E quando nel 1995 Robin Cook, in qualità di ministro degli Esteri ombra, parlò a un convegno organizzato da indiani a Wembley, nel Regno Unito, e sostenne che il Kashmir era parte dell'India, vi fu una protesta da parte dei pakistani e di kashmiri originari di Mirpur. Cook fu costretto a chiarire il proprio pensiero e asserì che la sua dichiarazione si limitava a riflettere la situazione sul terreno piuttosto che quella giuridica. Le successive pressioni politiche per conto dei kashmiri portarono, nell'ottobre 1995, all'approvazione di una netta risoluzione sulla questione al congresso annuale del Partito Laburista, redatta dal Comitato Esecutivo Nazionale: La Gran Bretagna deve accettare la propria responsabilità di ex potenza imperiale in una controversia che risale agli accordi per l'indipendenza e riconoscere che ha l'obbligo di ricercare una soluzione che sia fondata sul nostro impegno per la pace, la democrazia, i diritti umani e la tolleranza reciproca. [...] Il Partito Laburista al governo sarà pronto a utilizzare il proprio stretto legame con l'India e il Pakistan allo scopo di fornire i buoni uffici per contribuire a una soluzione negoziata di questa tragica controversia. L'incapacità occidentale di indurre il governo indiano a mutare atteggiamento non fu interpretata soltanto come una mancanza di determinazione di fondo, ma generò anche un notevole sentimento antioccidentale. «L'Occidente ha una doppia morale assoluta», disse nel 1994 Abdul Suhrawardy, uno della prima generazione di «combattenti per la libertà». «Non hanno moralità. Parlano di democrazia, parlano di diritti umani, ma si tratta soltanto di slogan ipocriti» 7 .1 simpatizzanti kashmiri indicarono esempi nei quali le potenze occidentali erano pronte a intervenire con la forza, come in Kuwait nel 1990, dove erano evidentemente in gioco i loro interessi, o come in Kosovo nel 1999, nel cuore dell'Europa. Nondimeno, in considerazione del rifiuto da parte del governo indiano di concedere alcunché agli attivisti kashmiri e della consapevolezza che i militanti non avrebbero potuto sconfiggere l'esercito indiano, riconoscevano comunque che la loro speranza più grande stava nel coinvolgimento della comunità internazionale nella loro «giusta» causa.
9.2. Mutamento
politico
Il 1996 vide, da parte del governo indiano, un rinnovato sforzo per «normalizzare» la situazione nella valle. La strategia era la stessa degli anni precedenti: il tentativo combinato di reprimere i militanti e allo stesso tempo persuadere la popolazione locale alla partecipazione al voto per l'assemblea legislativa dello Stato. Come in passato, i resoconti di violazioni dei diritti umani contro i civili continuarono a pregiudicare l'affermazione del governo indiano secondo la quale esso prendeva di mira solo i militanti. Il 27 marzo 1996 Jalil Andrabi, un eminente avvocato per i diritti umani kashmiro, venne trovato torturato e ucciso a Srinagar; secondo la moglie, che era con lui al momento della "scomparsa", fu fermato mentre guidava verso casa da soldati dei Rashtriya Rifles. Il governo negò ogni addebito contro i componenti degli RR, ma, come era avvenuto in occasione della morte del dottor Farooq Ashai nel 1993, quella di Andrabi fu ampiamente condannata dai commentatori intemazionali e dai gruppi di tutela dei diritti umani8. La politica intema dell'India pose tuttavia temporaneamente un punto interrogativo sulla futura linea di condotta del governo nel Kashmir. Dopo cinque anni, Narasimha Rao venne sconfitto alle elezioni generali di maggio. Nello Stato dello Jammu e Kashmir, l'elezione dei suoi sei rappresentanti al Lok Sabha - la prima dal 1989 - si tenne in tre fasi e sotto pesanti misure di sicurezza: nel Jammu e nel Ladakh, a Baramula e Anantnag, a Srinagar e Udamphur. Stando a quanto fu riferito, nello Stato fu dislocato un contingente suppletivo di 50-60.000 soldati. Dal momento che la APHC e la National Conference avevano rifiutato di partecipare, gli unici candidati per le sei circoscrizioni elettorali dello Stato appartenevano al BJP, al Congresso (I) o erano indipendenti. Per di più, il boicottaggio ad opera della APHC fu accompagnato da minacce da parte dei militanti contro gli impiegati elettorali e i votanti9. I cronisti filogovernativi furono entusiasti dei risultati: «La schiacciante partecipazione dei votanti alle elezioni per il Lok Sabha nel Kashmir ha dimostrato la falsità dell'ostinata propaganda condotta dal Pakistan, secondo cui il voto nello Stato non si sarebbe tenuto o sarebbe stato truccato», scrisse Dev P. Kumar10. La stampa internazionale registrò tuttavia il verificarsi di numerosi episodi di voto espresso sotto la minaccia delle armi". Al Lok Sabha nessun partito conquistò una netta maggioranza; per quattordici giorni, una coalizione del BJP cercò di formare un governo, senza riuscirvi, e dovette infine dimettersi. Sebbene il BJP non fosse riuscito in questa occasione nella formazione di un governo, il fatto che vi andò vicino fu il segnale della sua crescente forza. Alle elezioni del 1989 aveva ottenuto soltanto due seggi, nel 1996 aveva incrementato il proprio consenso a duecentodue, compresi gli alleati. Fu H.D. Deve Gowda, un
politico relativamente sconosciuto, a riuscire finalmente a mettere insieme il consenso sufficiente per formare una coalizione di governo del Fronte Unito, la prima di questo tipo a livello nazionale. Nello Jammu e Kashmir, il governo del Fronte Unito andò avanti con le elezioni dell'assemblea legislativa statale, impresa che un anno prima era sembrata impossibile e che era tanto più urgente dal momento che l'autorità del presidente (il Presidenti mie) sarebbe scaduta il 16 luglio 1996. Il governatore Rao era fiducioso che il voto sarebbe andato avanti perché «è arrivato il messaggio che il governo può resistere a tutte le sfide»12. Ma nemmeno stavolta la APHC cedette nel suo rifiuto di concorrere e tentò invece di promuovere un boicottaggio del voto. Gli sforzi del governo indiano per coinvolgere la maggioranza della popolazione ricevettero inoltre una battuta d'arresto, quando gli impiegati governativi della valle scesero in sciopero per protestare contro il licenziamento di ventidue colleghi accusati di presunti legami con i militanti. Al contrario, dopo un po' di tergiversazioni, Farooq Abdullah e la National Conference acconsentirono a partecipare e le elezioni furono finalmente fissate per settembre. Il programma elettorale di Abdullah prevedeva la «massima autonomia» e un sostanzioso pacchetto economico, che gli osservatori più critici ritenevano impossibili da ottenere. Abdullah difese il proprio voltafaccia con il pretesto che era meglio fare qualcosa piuttosto che niente. « O si permette alla situazione di andare alla deriva e non si ha alcun coinvolgimento pubblico oppure si raccoglie la sfida e si vede come meglio la si possa cambiare» 1 '. L'affluenza fu bassa e si registrarono racconti di molestie ai sostenitori della APHC, eppure la rielezione di Farooq Abdullah a ministro capo venne comunque salutata come una pagina nuova nel «terrificante capitolo della storia recente del Kashmir»14. Il quotidiano indiano «The Statesman» aggiunse una nota di prudenza: «L'ampio margine della sua vittoria deve convincerlo che il voto non è tanto un voto per la sua richiesta di maggiore autonomia, bensì nella speranza che trovi una via d'uscita dal disordine attuale»15. Per la prima volta dai giorni peggiori del gennaio 1990, il governo indiano potè compiacersi del ritorno al governo civile nel Jammu e Kashmir. - In Pakistan, l'elezione fu condannata come un «imbroglio» dal primo ministro Benazir Bhutto, che chiese immediatamente all'ONU la convocazione di una conferenza multilaterale (che coinvolgesse l'India, il Pakistan, i cinque membri del Consiglio di Sicurezza, nonché Germania e Giappone) per risolvere la questione del Kashmir e instaurare un sistema di sicurezza regionale nell'Asia meridionale. Le elezioni tenutesi a giugno nell'Azad Jammu e Kashmir furono ugualmente criticate dalla stampa indiana: in quella che Sumantra Bose descrisse come «una farsa manovrata», Sardar Qayum Khan fu sostituito quale primo ministro da un membro del Partito del Popolo Pakistano, Sultan Mehmood. Ai partiti indipendentisti
fu vietato di partecipare alla consultazione, in quanto i loro candidati rifiutarono di firmare dichiarazioni in cui dovevano giurare obbedienza al Pakistan16. Il primo ministro Benazir Bhutto era comunque alle prese con i propri guai politici. All'inizio di novembre, il presidente Farooq Leghari la destituì con l'accusa di corruzione, cattiva amministrazione ed esecuzioni extragiudiziali a Karachi. In Pakistan fu ancora una volta istituito un governo provvisorio, in attesa di nuove elezioni fissate per febbraio 1997.
9.3. Le celebrazioni
dell'anniversario
L'importanza del 1997, cinquantesimo anniversario dell'indipendenza, fu sfruttata da India e Pakistan come occasione per una significativa iniziativa mediatica, tesa a dipingere i loro rispettivi paesi agli occhi del mondo come progressisti e democratici. Il 1997 fu inoltre caratterizzato dall'avvento di un nuovo primo ministro nel Pakistan, in India e in Gran Bretagna, circostanza che aprì la strada a un nuovo atteggiamento rispetto alle «questioni pendenti» tra i due dominion e a una nuova iniziativa politica nell'ex potenza imperiale. Nel febbraio di quell'anno, Nawaz Sharif fu rieletto primo ministro del Pakistan con una netta maggioranza all'Assemblea Nazionale; inviò immediatamente un messaggio al primo ministro dell'India per la ripresa dei negoziati, che sarebbero stati i primi al massimo livello dai tempi di Benazir Bhutto e Rajiv Gandhi, ovvero dal 1989. A marzo, a Delhi ebbero luogo dei colloqui tra i sottosegretari agli Esteri: all'ordine del giorno vi erano «tutte le questioni». Un mese dopo, ancora a New Delhi, si incontrarono i ministri degli Esteri, che confermarono il proprio impegno a condurre negoziati bilaterali; contemporaneamente, il governo indiano ebbe modo di dimostrare il proprio atteggiamento ormai irrigidito verso un compromesso sullo Stato dello Jammu e Kashmir. Quando Farooq Abdullah propose la trasformazione della linea di controllo in frontiera ufficiale tra India e Pakistan, le sue opinioni furono disapprovate dai nazionalisti indiani di destra in un astioso dibattito al Lok Sabha, come dagli attivisti politici kashmiri. Il ministro della Difesa Mulayam Singh Yadav dichiarò che il governo indiano era determinato a riconquistare l'Azad Jammu e Kashmir, in quanto questo costituiva parte «integrante» dell'Unione Indiana17. La tempesta di proteste riguardante l'Azad Kashmir era in notevole contrasto con la tacita accettazione della linea di controllo quale punto di arrivo dell'influenza indiana dopo Simla, nel 1972. Quando i primi ministri dei due paesi si incontrarono al vertice dell'Associazione Sud-Asiatica per la Cooperazione Regionale ( S A A R C ) , a maggio alle Maldive, Deve Gowda era stato sostituito dal suo settantaset-
tenne ministro degli Esteri, Inder Kumal Gujral. In qualità di primo ministro, questi sviluppò la cosiddetta «dottrina Gujral», cioè un atteggiamento più cordiale verso i vicini dell'India, volto ad attenuare le tensioni nell'Asia meridionale e a migliorare i rapporti con il Pakistan. Al loro incontro alle Maldive, Gujral e Sharif annunciarono un progetto per la costituzione di «gruppi di lavoro» congiunti per prendere in esame tutte le questioni in sospeso. Quando si videro nuovamente a giugno, a Islamabad, «con l'obiettivo di promuovere una relazione cordiale ed equilibrata», i sottosegretari agli Esteri concordarono la formazione di otto gruppi che avrebbero esaminato tutte le principali problematiche, Kashmir compreso18. Su nessuna di queste, però, si raggiunse un'intesa, nella loro riunione di settembre a New Delhi, se non l'impegno di avviare un'altra fase di negoziati. I primi ministri si ritrovarono nuovamente alla fine di settembre, all'Assemblea Generale dell'ONU a New York, dove convennero di intraprendere un'azione per porre fine alle scaramucce di frontiera nel Kashmir, ma nulla di più. Privatamente, alcuni pakistani espressero il desiderio che, dalla sua posizione di forza nell'Assemblea Nazionale, Nawaz Sharif ratificasse ufficialmente lo status quo nello Jammu e Kashmir, in base al ragionamento per cui il loro paese sarebbe stato più ricco senza la questione del Kashmir a oberarne l'economia e lo sviluppo psicologico19. Nei mesi che seguirono, il primo ministro non prese comunque tale iniziativa e cedette presto alla retorica tradizionale sul diritto dei kashmiri all'autodeterminazione, senza portare avanti il dibattito sulla sua eventuale acquisizione, a fronte di un'India ostinata a proclamare lo Stato dello Jammu e Kashmir parte integrante del proprio territorio, e del rifiuto pakistano di valutare la terza opzione dell'indipendenza. A sua volta, l'elezione di un governo laburista in Gran Bretagna ai primi di maggio rinnovò l'attenzione di esponenti della diaspora kashmira e li incoraggiò a pensare che l'Inghilterra sarebbe stata ora nella condizione di impegnarsi più apertamente per una possibile soluzione del problema. La risoluzione del Comitato Esecutivo Nazionale del 1995 ne implicava l'adozione nel programma elettorale e nella politica ufficiale del Partito Laburista. Di fatto, l'ammissione da parte dei laburisti che la questione del Kashmir era da considerarsi quale parte della «vicenda incompiuta della spartizione» fu interpretata come un impegno ufficiale, da parte del governo britannico, ad adottare un atteggiamento più attivo in materia. Ma questa ingerenza «di terzi» fu comunque rifiutata dal governo indiano, la cui freddezza verso la Gran Bretagna quale potenza mondiale fu espressa apertamente da Gujral nel corso delle celebrazioni per l'indipendenza indiana, ad agosto. «La Gran Bretagna ha smesso di essere un'importante potenza a metà degli anni Quaranta. Era una nazione esausta, una nazione che nella guerra aveva perso parecchio. Gli americani erano
una potenza in ascesa e Churchill e gli altri che lo seguirono pensarono fosse meglio farsi portare a cavalluccio»20. I rapporti tra la Gran Bretagna e l'ex colonia si inasprirono ulteriormente quando, nell'ottobre 1997, il ministro degli Esteri Robin Cook accompagnò la regina nella sua visita ufficiale nel subcontinente. Mentre si trovava in Pakistan, Cook ebbe i consueti incontri con i suoi omologhi al ministero degli Esteri pakistano e anche un colloquio con Nawaz Sharif, durante il quale garantì al primo ministro pakistano i «buoni uffici» della Gran Bretagna a proposito del Kashmir. Riteneva si trattasse di un'osservazione innocua in linea con i commenti sulla questione fatti in precedenza dall'ex premier John Major. Quando la stampa pakistana, su indicazione del ministero degli Esteri, riferì che Cook aveva offerto i propri servizi come mediatore nella disputa sul Kashmir, gli indiani si irritarono; e il ritorno di Cook in Gran Bretagna per il fine settimana significò che non era in grado di controbattere al crescente clamore in India. «Articoli secondo i quali il ministro degli Esteri britannico Robin Cook ha offerto di mediare nella controversia sul Kashmir - argomento che l'India considera un affare interno - hanno infiammato la stampa indiana», riferì la CNN21. «Cook guasta il brodo22, vuole mettere le dita nella torta del KashmÌD>, commentò l'«Indian Express»23. Al suo arrivo in India, Cook negò immediatamente di aver fatto «alcuna dichiarazione, intervista o conferenza stampa a proposito del Kashmir durante la visita in Pakistan»24. Secondo il suo biografo, il ministro riteneva che l'unico modo per non menzionare affatto il Kashmir durante la visita in Pakistan sarebbe stato quello di non incontrare Nawaz Sharif, cosa su cui «non c'era scelta»25. Il danno alle credenziali di dichiarata imparzialità del governo britannico fu nondimeno enorme. Il primo ministro Gujral chiarì una volta di più che il governo indiano non desiderava alcuna mediazione di terzi nella questione. Gli attivisti politici kashmiri utilizzarono comunque le celebrazioni dell'indipendenza come scusa per manifestare la propria sfida contro l'autorità indiana: sui pali elettrici e sulle case di parecchie zone di Srinagar, come nelle città di Anantnag, Baramula e Kupwara, furono innalzate bandiere pakistane26, rapidamente rimosse dai soldati indiani. La Giornata della Repubblica dell'India, il 26 gennaio 1998, fu accolta dai kashmiri della diaspora in tutto il mondo come un «giorno nero». Manifestazioni di protesta si tennero anche a Islamabad e nelle città di tutto l'Azad Kashmir: si chiedeva ancora una volta un referendum nella regione, promosso dall'ONU. Le proteste non violente furono però guastate - alla vigilia delle celebrazioni per la Giornata della Repubblica - dall'uccisione di ventitré pandit kashmiri, tra cui cinque donne e due bambini. Una volta di più la APHC dovette porsi sulla difensiva. «E un atto vile», dichiarò Shabir Shah. «Gli omicidi sono stati commessi da criminali. Io condanno tutto ciò, è un inganno pianificato per allontanare gli indù da noi»27.
9.4. La militanza ininterrotta L'interesse dei media occidentali per la militanza fu sollecitato dal silenzio sulla sorte dei quattro ostaggi occidentali rapiti nel 1995. Dalla loro scomparsa e dopo l'assassinio del norvegese Hans Christian Ostro nell'agosto dello stesso anno, si era stabilito un contatto costante tra Al Faran e le autorità indiane, coordinate con l'Alta Commissione britannica e con le ambasciate statunitense, tedesca e norvegese. Particolare preoccupazione destava il fatto che le operazioni indiane contro i militanti della valle non puntassero a zone nelle quali il gruppo potesse nascondere gli ostaggi, per la paura che un attacco militare ne mettesse a repentaglio la sicurezza. A metà dicembre 1995, un membro del gruppo aveva telefonato a Sir Nicholas Fenn, l'alto commissario britannico in India, dopo alcune precedenti conversazioni con il suo vice Hilary Synnott. Chi telefonava chiese trattative dirette con l'alto commissario nella speranza di assicurarsi del denaro. Fenn sottolineò «il valore della magnanimità» e spiegò anche perché i quattro governi non potessero pagare un riscatto28. Acconsentì tuttavia a ricevere il telefonista a New Delhi pochi giorni dopo, ma all'appuntamento non si presentò nessuno29. Questo sembra sia stato l'ultimo contatto con il gruppo, all'epoca però nessuna delle ambasciate coinvolte «aveva ragione di ritenere gli ostaggi morti e gli sforzi per assicurarne il rilascio continuavano»' 0 . Nei tre anni successivi, i loro parenti e amici tornarono in Pakistan e in India nel tentativo di seguire qualunque traccia di possibile avvistamento: nessuna si concretizzò. Oggi tutti ritengono che gli ostaggi siano stati in effetti uccisi nel dicembre 1995. All'inizio del mese, le forze dell'ordine indiane che operavano contro i militanti nell'area avevano ucciso un certo numero di componenti di Al Faran, compreso uno dei suoi capi operativi, Hamid alTurki. Nel 1998, per conto della BBC, Sean Langan viaggiò a lungo nella valle fino a Pahalgam, dove erano stati rapiti gli ostaggi, verso la zona di Kishtwar per cercare di localizzare un militante che riteneva essere «l'ultimo membro noto di Al Faran», con l'obiettivo di interrogarlo sulla sorte degli ostaggi. Quando, dopo numerose false partenze, raggiunse finalmente il villaggio dove si diceva che si nascondesse il militante, scoprì con grande delusione, e senza ulteriori spiegazioni, che il militante era stato ucciso soltanto poche ore prima del suo arrivo. Dopo il sequestro del '95, gli stranieri vennero diffidati dal compiere viaggi nella valle e in particolare dall'avventurarsi fuori da Srinagar per andare a fare trekking sulle montagne. Il turismo rimase pertanto ben al di sotto del suo massimo precedente l'insurrezione; ciò nonostante, allorché il ricordo del rapimento svanì, i villeggianti ricominciarono ad affluire verso la valle. «I turisti stanno tornando», disse entusiasticamente Farooq Abdullah alla fine del 1998. «Quest'anno abbiamo avuto 150.000 visita-
tori alle grotte di Amarnath. Il cinema ha riaperto, stiamo aprendo un nuovo albergo a cinque stelle per i turisti»31. Quando nel 1997 tornò nella valle per la prima volta dopo quattro anni, il ricercatore Alexander Evans registrò una certa riduzione della tensione e fu sgomentato dal silenzio. «Un po' dopo mi venne in mente: nessuno sparo. Evidentemente le cose sono cambiate, quanto meno a Srinagar»' 2 . Danny Summers, che arrivò nel giugno 1998, fu intimorito più dai soldati indiani con le loro armi che dagli invisibili militanti33. M.J. Gohel - direttore generale del Segretariato per l'Asia meridionale, un'organizzazione «per la risoluzione dei conflitti» con sede a Londra - , il quale visitò da privato lo Jammu e Kashmir nell'agosto 1998, trovò che nella capitale si respirava «un netto clima di normalità»: «Le giovani coppie andavano in barca sul lago Dal fino a tarda ora, gli alberghi avevano riaperto, le case galleggianti facevano di nuovo affari, le strade erano piene di gente, compresi i turisti stranieri». Tra molti kashmiri percepì «un sollievo unito alla paura che a un certo punto la pace andasse in pezzi»' 4 . Lord Avebury, che venne per la prima volta nel Kashmir nel novembre 1998, incontrò «profonda preoccupazione per il prolungarsi delle morti nello Stato, inclusi gli assassini politici e i massacri settari. Ciò ha prodotto un clima di intimidazione, nel quale è difficile per la gente esprimersi liberamente»35. Secondo il giornalista Jonathan Hurley, «la vita nella capitale estiva migliora», ma riteneva che la cosiddetta «normalità», come la chiamavano i funzionari indiani, fosse definita più accuratamente dal termine «adattabilità» 36 . Come sottolineò «The Economist» nella sua inchiesta del maggio 1999: «La normalità è relativa. Srinagar sembra ancora una città gettata dentro un carcere di massima sicurezza, con le armi che sporgono dai mucchi di sacchetti di sabbia quasi a ogni angolo»37. Un decennio dopo l'inizio dell'insurrezione, la gente soffriva ancora di ansia e depressione e le donne continuavano a piangere i loro figli «scomparsi». Amnesty International dichiarò che gli «scomparsi» durante la detenzione nelle carceri di Stato «sono a rischio di ulteriori violazioni dei diritti umani [...] lontano dalla sorveglianza degli avvocati, dei familiari e degli osservatori, è verosimile che gli "scomparsi" siano torturati o uccisi nell'impunità» 38 . Nel 1999 lo Stato dello Jammu e Kashmir era ancora soggetto a leggi che consentivano alle forze dell'ordine di sparare ai sospetti e distruggere proprietà e, nei casi di abuso di potere, non era prevista ancora alcuna riparazione legale39. Fondato su indagini della fine del 1998, il rapporto di Human Rights Watch concluse che l'India e il Pakistan erano entrambi da deplorare per le violazioni dei diritti umani e che a tenere vivo il conflitto nel Kashmir erano stati la repressione e gli abusi. Di quelli presi di mira dai militanti, tra il 1997 e la metà del 1999 erano stati uccisi più di trecento civili. Il rapporto accusava inoltre l'esercito indiano e le forze dell'ordine di adottare metodi brutali, comprese le esecuzioni
sommarie, le sparizioni, la tortura e lo stupro40. Anche i pandit kashmiri restarono vittime dell'insurrezione: con l'eccezione dei ricchi che erano riusciti a fuggire nelle loro case di Delhi, quelli relegati nei campi profughi fuori Jammu erano sempre più scoraggiati. «Vorrebbero tornare alle loro case, ai loro affari e alle loro fattorie, ma queste sono state distrutte o se ne sono impadroniti i kashmiri musulmani», disse M.J. Gohel, che visitò i campi nell'agosto 1998. «Nessuno sembra preoccuparsi dei loro diritti umani»41. Fondamentali per l'esito positivo delle operazioni condotte dal governo indiano contro i militanti furono spesso le misure di controinsurrezione. Nel 1993 fu istituito un «comando unificato» per coordinare l'esercito e le forze paramilitari nella valle, il governo indiano adottò inoltre una propria strategia "psicologica", intesa a contrastare le iniziative pakistane e kashmire di pubbliche relazioni. Faceva parte di questa strategia il miglioramento dell'immagine delle forze di sicurezza indiane nella valle, con la fornitura di assistenza medica gratuita alla popolazione, proiezioni gratuite di alcuni degli ultimi film di Bollywood e una maggiore politica di "trasparenza" riguardo alle accuse di violazioni dei diritti umani. La campagna includeva l'appoggio ai gruppi filoindiani attraverso l'uso di ex militanti, «riabilitati» per guidare le forze dell'ordine nelle loro azioni, o di agenti segreti all'interno dei gruppi militanti attivi. Il più celebre dei gruppi militanti anti-insurrezione era quello guidato dall'ex cantante folk Kukka Parrey, attivo con il nome di Mohammed Yousuf alias Jamsheed Shirazi. Leader dell'Ikhwan-ul Muslimoon, una fazione dissidente dell'Ikhwan-ul Muslimeen, a metà degli anni Novanta, al culmine delle operazioni di controinsurrezione nella valle, il gruppo riuscì a ridurre le attività dell'Hizb-ul Mujaheddin e a eliminare anche numerosi attivisti del Jamaat. L'Ikhwan-ul Muslimoon prese di mira anche i media e lo si ritiene responsabile dell'esplosione, nel settembre 1995, negli uffici della BBC di Srinagar, quando venne ucciso il fotografo Mushtaq Ali. Altri gruppi di controinsurrezione includevano il Muslim Liberation Army, operante attorno a Kupwara, il Muslim Mujaheddin, fondato da Ahsan Dar (il quale era in arresto e il cui gruppo era passato alla controinsurrezione), Al Ikhwan, l'Ai Barq indiano e Taliban, un gruppo militante Gujar, che agiva nella zona di Kangan presso Srinagar, dove predominano appunto i Gujar. La BSF riuscì a creare, con ex militanti «arresi», la Kashmir Liberation Jehad, la cui principale occupazione era di guidare le forze dell'ordine nelle azioni contro i gruppi militanti a Srinagar. In termini militari, questi gruppi si mossero effettivamente per tutta la metà degli anni Novanta. Secondo fonti dell'esercito indiano, Bandipur fu sgomberata dai militanti Hizb grazie alle attività dei gruppi di controinsurrezione, mentre l'Ikhwan-ul Muslimoon neutralizzò con successo le attività dell'Ikhwan-ul Muslimeen a Baramula42. Anche se le autorità tentarono di dipin-
gerii come 0 frutto di una reazione spontanea alla militanza da parte della popolazione, le loro attività furono indubbiamente promosse dal governo stesso. Ma i loro successi militari, in ogni caso, non incoraggiarono il sentimento filoindiano tra la gente, di conseguenza la loro utilità fu limitata alla strategia complessiva di normalizzazione intrapresa dall'India. Le accuse di violazione dei diritti umani e di estorsione ne guastarono peraltro l'immagine. Nel 1996, si riferì che i membri della APHC, in cerca di consenso al boicottaggio delle elezioni statali, furono presi di mira dall'Ikhwan-ul Muslimoon. E Amnesty rilevò che molti di essi «da quanto si dice sono stati allettati, persuasi o sottoposti a maltrattamenti durante la detenzione o ad altre forme di pressione allo scopo di farli passare dalla parte del governo»'". Che molti di essi fossero Gujar, come si diceva, tradizionalmente ostili alla militanza, rispecchiava la dinamica di un'insurrezione che in realtà non aveva prodotto un consenso diffuso da parte di coloro che nella valle non parlavano kashmiri. Alla fine degli anni Novanta, l'efficacia della controinsurrezione era minata da questi comportamenti. Nell'ottobre 1997 il sovrintendente generale della Polizia, Gurbachan Jagat, riferì: «La collaborazione continuata dei militanti che si sono arresi si stava rivelando controproducente, in considerazione dei resoconti di eccessi nel corso delle operazioni». Il governo federale e quello statale cercarono pertanto di "riabilitarli" nelle forze dell'ordine, in particolare nella CRPF e nella BSF; alcuni furono anche nominati agenti speciali (SPO) all'interno della polizia dello Stato. Sembrava tuttavia che alcuni dei «rinnegati» riabilitati fossero ancora impegnati in attività criminali «indipendenti» 44 . L'idea di un'insurrezione con l'appoggio di massa di tutti i kashmiri si era ridotta, rispetto all'inizio degli anni Novanta, ma i militanti continuavano a compiere numerosi atti di sabotaggio, sempre più con "dispositivi tecnologicamente avanzati", operando da basi nella valle e nel distretto di Doda, nello Jammu. «Le forze dell'ordine hanno recentemente ritrovato un dispositivo letale, due moduli aerodinamici telecomandati con un potente motore», riportò Iftikhar Gilani sul «Kashmir Times» nel gennaio 199945. Pur parlando di militanti che «rigavano dritto», Farooq Abdullah riconobbe che altri necessitavano ancora di «essere riabilitati». Sulla stampa indiana e pakistana apparivano regolarmente resoconti di scontri o sulla morte o la cattura di militanti. Nel gennaio 1999, un rapporto del ministero dell'Interno dell'Unione presentato al primo ministro Vajpayee dimostrò che, contrariamente al giudizio diffuso da Abdullah, la situazione dell'ordine pubblico nello Stato stava in effetti peggiorando. Il documento citava 186 persone della sicurezza uccise nel corso del 1997, mentre nel 1998 la cifra era salita a 234. Grazie alla strategia dei militanti, cioè di prendere di mira solo le forze di sicurezza e la polizia e non i civili, i morti tra questi ultimi erano diminuiti dai 938 del 1997 agli 833 del 1998. Le
autorità indiane dovettero inoltre riconoscere che, malgrado la politica attiva contro i militanti, nel 1998 avevano conseguito meno successi nella loro eliminazione rispetto all'anno precedente: le cifre registravano 950 militanti uccisi nel 1998 rispetto ai 1.075 del 1997" Come in passato, obiettivo degli attentati dei militanti non erano soltanto le forze di sicurezza indiane, ma anche i membri della National Conference. Nel febbraio 1998 Farooq Abdullah scampò a un tentativo di omicidio: un «rudimentale congegno esplosivo» fu collocato a una riunione in cui stava parlando a Gandarbal. Nel settembre dello stesso anno, un altro attivista della National Conference, Ghulam Nabi Rather, venne colpito nella sua casa alla periferia di Srinagar. Le azioni dei militanti contro la National Conference dimostravano che, contrariamente alle assicurazioni date dal governo dello Stato a proposito della «normalità», «per la gente in generale e per l'organico del partito in particolare non era tutto rose e fiori»47. Nel maggio 1999 a Langate, nel Kashmir settentrionale, fu assassinato anche Abdul Ahad Kan, membro dell'assemblea legislativa dello Stato. Alla fine degli anni Novanta, dei gruppi che continuavano a predominare, il Lashkar-i Toiba ('l'esercito dei puri'), l'Harkat-ul Ansar e l'Hizbul Mujaheddin, fondati nel 1989, avevano la maggior parte dei seguaci. Lo United Jihad Council, guidato da Syed Salahuddin, era un'organizzazione che faceva da ombrello a quattordici gruppi più piccoli, operanti fuori Muzaffarabad, che comprendevano Al Badar e Tehrik-i Jihad. Nel novembre 1997, Harkat-ul Ansar fu dichiarata dagli Stati Uniti organizzazione terroristica in base al fatto che aveva legami con Al Faran e che molti membri di quest'ultimo gruppo, compreso Hamid al-Turki, erano ex membri dell'Harkat. Per evitare le restrizioni statunitensi sui viaggi e i finanziamenti, l'organizzazione si diede immediatamente il nuovo nome di Harkat-ul Mujaheddin. Con la sua base a Muzaffarabad, nel 1999 si riteneva che avesse un nucleo di circa trecento militanti, pakistani e kashmiri, oltre ad afgani e arabi che avevano combattuto nella guerra afgana48. La durevole presenza di attività militanti veniva sfruttata sia dal Pakistan sia dall'India per dar peso alla loro rispettiva propaganda: laddove i pakistani descrivevano i militanti come indigeni della valle combattenti per la libertà, il governo di Delhi poneva in evidenza gli «attraversamenti della frontiera» e l'onnipresente «mano straniera», senza la quale, sosteneva, la militanza non avrebbe avuto alcuna durata. Che i militanti predicassero sempre più a gran voce la jihad, la guerra santa, non faceva altro che confermare la convinzione, condivisa non solo dagli indiani ma anche dagli osservatori occidentali, che i kashmiri fossero sempre meno e che i militanti provenissero effettivamente dai campi di addestramento ideologicamente più ortodossi dell'Afghanistan e del Pakistan, in particolare da quelle madrasa in cui si erano formati i giovani studenti che ave-
vano dato vita al movimento dei talebani in Afghanistan. I rapporti, secondo cui il dissidente saudita Osama Bin Laden addestrava i militanti per combattere la guerra santa, apparvero del tutto credibili"'. Quando, nell'agosto 1998, gli Stati Uniti attaccarono il suo presunto campo di addestramento, presso Khost in Afghanistan, alcuni degli uccisi furono identificati come militanti kashmiri50. Malgrado ciò, il governo indiano scelse di non fare distinzione tra i kashmiri «indigeni», addestratisi altrove, e gli stranieri autentici, classificabili come «mercenari». L'Hizb-ul Mujaheddin era ancora considerato il gruppo con il maggiore consenso indigeno; per tale ragione, il governo indiano ne minimizzò notevolmente le attività a paragone di quelle dell'Harkat o del Lashkar-i Toiba, che si riteneva avessero molti più affiliati «stranieri»". Per quanto riguarda gli obiettivi degli attivisti politici, restavano le divergenze riguardanti il traguardo finale: l'indipendenza o il Pakistan. Era inevitabile che i gruppi sostenuti da quest'ultimo esprimessero più schiettamente il desiderio di unirsi ad esso, ed era altrettanto evidente che, per tutta l'insurrezione, il patrocinio del Pakistan aveva rappresentato una variabile essenziale nel determinare le modalità di sviluppo e di sostentamento dei vari gruppi. Ma, oltre al sostegno pakistano, giungevano elargizioni da parte di simpatizzanti dei paesi islamici.
9.5. Le opzioni
politiche
La tendenza crescente di molti dei partiti politici riuniti sotto l'ombrello della Ali Parties Hurriyat Conference era quella di dissociarsi dalla militanza. Gli attivisti della valle del Kashmir si resero conto che gli atti di violenza e di sabotaggio, compreso il sequestro degli ostaggi occidentali e l'assassinio di uno di essi nel 1995, non avevano aiutato il loro movimento. «Viene dipinto come un movimento terroristico e fondamentalista islamico, mentre non è così. Vogliamo che i pandit kashmiri ritornino», disse Omar Farooq nel 1995. «Pensiamo che la battaglia debba essere combattuta in campo politico. Sappiamo che la pistola non può essere la risposta al problema: ha presentato il problema a livello internazionale, lo ha tratto dal dimenticatoio per portarlo alla ribalta, ma adesso è compito dei leader politici lavorare per il movimento»". I moderati riconoscevano che la militanza persistente aveva causato un danno e che sarebbe potuta finire nelle mani degli estremisti, come era accaduto in Afghanistan. Ogni anno, il 13 luglio, la A P H C tradizionalmente commemorava il «Giorno dei Martiri» in memoria non solo dei morti nell'incidente di Abdul Qadir, che nel 1931 segnò l'inizio del movimento di protesta contro l'autocrazia del maharajah, ma anche di coloro che erano caduti combattendo contro le forze di sicurezza indiane. Nello sforzo di farsi valere co-
me una forza politica alternativa al governo dello Stato, la APHC lanciava un messaggio chiaro: l'erede del movimento nazionalista degli anni Trenta e della missione incompiuta dei «martiri» era la Hurriyat Conference e non il governo di Farooq Abdullah53. A differenza dell'agitazione contro il maharajah, che divenne un movimento laico contro il suo dispotismo, la APHC si muoveva sempre più verso l'espressione di una richiesta di azadi non condivisa dalle minoranze religiose. I tentativi di allargare la sua base di consenso nel Ladakh e nello Jammu non ebbero successo. Anche se Shabir Shah - che dopo la scarcerazione nel 1995 era entrato nella APHC nella speranza di creare «un'unità positiva» - fece parecchie visite nelle varie regioni dello Stato, la APHC appariva ancora come un'organizzazione radicata nella valle, senza rappresentanza nel Ladakh, nello Jammu o tra i pandit sfollati. Attivisti importanti cominciavano peraltro a provare delusione per l'incapacità dell'organizzazione di porre fine agli scontri tra i militanti. Dopo il ritorno nella valle nel gennaio del 1995, a seguito della rinuncia alla militanza, Azam Inquilabi accusò la APHC di aver «dato per scontato il popolo e l'intero movimento». In un discorso alla Jama Masjid, che contrassegnò il suo ritorno all'attività politica, affermò che essa non era riuscita a dare Y azadi ai kashmiri e che la sua leadership doveva «cercare il consiglio e il consenso delle forze storiche che hanno lavorato in questo movimento negli ultimi trent'anni» 54. Quelle «forze storiche» erano impersonate dal contributo dello stesso Inquilabi e da quello di molti dei suoi compagni nei decenni precedenti l'insurrezione. La sua esperienza precedeva il carattere più comunitario e islamico del movimento. La APHC attraversava per di più un periodo di cambiamenti interni alla sua gerarchia: nel 1997, dopo quattro anni a capo dell'organizzazione, Omar Farooq fu rimpiazzato da Syed Ali Shah Gilani, leader del Jamaat-i Islami. Queste dimissioni furono trattate come una normale transizione di potere, si registrarono voci, non confermate, su una polemica interna dopo l'offerta di trattative incondizionate al governo indiano avanzata da Farooq (circostanza peraltro negata)55. Lo stesso Jamaat non presentava più un fronte unitario. Nonostante il sostegno alla sua ala militante, l'Hizb-ul Mujaheddin, avesse fortemente contribuito ai primi successi di quest'ultimo e soprattutto al suo ascendente sui militanti seguaci del JKLF, a metà degli anni Novanta i moderati del partito cominciarono a dissociarsi dalla militanza. Credevano che questa avesse modificato la direzione religiosa del partito e, nel 1997, l'assassinio ad Anantnag del capo religioso Qazi Nissar portò a manifestazioni contro la leadership del Jamaat e la militanza «promossa dal Pakistan». Con una mossa a sorpresa, il 23 ottobre 1997, parecchi capi di Kulgam condannarono pubblicamente il terrorismo e giurarono di eliminare la militanza. In un'intervista del giorno stesso, il nuovo Amir Ghulam Mohammed Butt chiese un'intesa negoziata per la crisi
dello Jammu e Kashmir: «Il nostro partito deve essere interpretato attraverso il suo messaggio e il suo programma e non attraverso la propaganda di interessi particolari». La dichiarazione fu Ietta come una sfida diretta all'influenza di Gilani, che dettava tradizionalmente la linea di condotta militante e politica56. Questi venne inoltre criticato per il presunto dirottamento di milioni di dollari di donazioni straniere destinati alla ricostruzione della moschea di Charar-i Sharif; e accuse di corruzione furono indirizzate anche ad altri leader della Hurriyat. Tuttavia, contro il mutato atteggiamento dei moderati, gli attivisti del Jamaat ribadirono che esso dirigeva ancora la militanza. Anche Shabir Shah aveva iniziato a mettere in dubbio l'efficacia della Hurriyat. Nel luglio 1996 fu «sospeso» dal consiglio esecutivo per l'atteggiamento indipendente adottato nel condurre negoziati privati. La sua delusione scaturiva dal fatto che la APHC non era stata disponibile ad adottare il suo programma di riforme in otto punti, presentato nel dicembre 1994, che riteneva necessario per rinvigorire la lotta. Nel maggio 1998, annunciò dunque la formazione di un nuovo partito, lo Jammu Kashmir Democratic Freedom Party, il cui slogan, «Le nazioni si costruiscono dal basso», rispecchiava la sua convinzione che il movimento potesse rafforzarsi e ampliare il proprio richiamo soltanto con un appoggio rappresentativo a livello di base. Riaffermò inoltre la propria fede nel diritto all'autodeterminazione dell'intero Stato com'era prima del 14 agosto 1947, posizione che condivideva con numerose altre organizzazioni indipendentiste di entrambi i versanti della linea di controllo, compreso il JKLF. Shabir Shah rifiutava di condannare la militanza, eppure insisteva nel ribadire la sua vecchia opinione, secondo cui le armi erano una soluzione per il problema del Kashmir e la questione doveva essere risolta coinvolgendo i «veri» rappresentanti del popolo57. La delusione dei sostenitori della Hurriyat era dovuta alla sua mancanza di un adeguato peso politico. Incapace di formare un governo alternativo per sfidare Farooq Abdullah nello Stato dello Jammu e Kashmir, quanto di contrastare l'egemonia del governo Azad a Muzaffarabad, l'organizzazione scoprì che il proprio ruolo veniva sempre più emarginato. «Guardi il governo dell'Azad Jammu e Kashmir. Hanno un primo ministro, un presidente e dei funzionari governativi, mentre la Hurriyat non ha una tale struttura», dichiarò il dottor Ayub Thakar del World Kashmir Freedom Movement. Destava preoccupazione la sensazione che il governo pakistano e quello dell'Azad Kashmir si presentassero come i portavoce del movimento kashmiro per l'autodeterminazione. «Doveva essere la leadership della valle a guidare il movimento. Dobbiamo dire al mondo che la nostra voce è quella vera», dichiarò Thakar. Come kashmiro della valle in esilio dal 1981, questi era peraltro scettico verso il reale desiderio di modificazione dello status quo da parte di quelli dell'Azad Jammu e
Kashmir. «Se la valle fosse unita al Pakistan, dovrebbero rimettersi ai nostri politici; se diventasse indipendente, e anche loro lo diventassero, dovrebbero comunque rimettersi a noi, cosa che non vogliono»58. Per evitare di indebolirsi, la APHC e il governo Azad continuarono comunque a presentare un fronte unitario sulla questione dell'indipendenza o dell'unificazione con il Pakistan, e a nascondere le crepe del loro dissenso. Secondo l'ex primo ministro dell'Azad Jammu e Kashmir Sardar Abdul Qayum Khan, ciò che tutti i kashmiri continuavano a volere era la libertà: «La gente è più interessata alla libertà che alla sua ombra; che sia l'indipendenza o il Pakistan non si deciderà sul campo di battaglia, ma attraverso vie istituzionali»59. Dopo più di due anni di governo, Farooq Abdullah non aveva ottenuto né «la massima autonomia» né un sostanzioso pacchetto economico; come nella sua precedente amministrazione, i critici lo accusarono di autoritarismo e di corruzione. Fu ulteriormente imbarazzato dall'annuncio che sua madre, l'ottantenne Begum Jehan, sarebbe entrata in politica se dalla sua amministrazione non fosse stata estirpata la corruzione, accusa che rifiutò40. Abdullah fu biasimato anche per la «deplorevole dipendenza dalle misure amministrative, comprese le operazioni delle forze dell'ordine», invece di sostenere il dialogo con gli attivisti politici, che avrebbero potuto rappresentare un legame importante tra la gente e l'amministrazione61.1 ladakhi restavano insoddisfatti della subordinazione dei loro interessi a quelli della valle. «Abdullah ha negoziato duramente a New Delhi perché il sussidio economico fosse incrementato a causa dei problemi del territorio del Ladakh difficile da amministrare; ma quando il contributo è stato stanziato, allora lo ha distribuito secondo la densità della popolazione, il che ha giovato alla valle e non al Ladakh» 62 . Anche gli abitanti dello Jammu. continuavano a temere il predominio della valle. Il loro disagio era stato accresciuto dall'influsso dei pandit kashmiri, con i quali avevano dovuto competere per l'impiego professionale, sempre più determinati nel rivendicare la propria identità "nazionale", la Kashmir Panun63. Da ministro capo, Farooq Abdullah era ancora un appassionato portavoce nei dibattiti internazionali dei diritti del popolo kashmiro e dei torti perpetrati contro di esso: «Nel Kashmir abbiamo bisogno di sviluppo economico, di strade, di ponti, di acqua potabile pulita; quando la gente non ha niente, allora dice "perché non combattere?"». In contrasto con la politica ufficiale indiana, ribadiva peraltro che l'unica soluzione era il riconoscimento della linea di controllo quale confine ufficiale tra quel terzo dello Stato controllato dal Pakistan e la parte amministrata dall'India. La gente si fa questa domanda: «Per che cosa combattiamo?» La linea [di controllo] è esattamente nello stesso posto, nulla è cambiato. Uccidiamo soltanto persone innocenti su entrambi i lati della linea. Prendía-
mo il ghiacciaio Siachen, 120 chilometri di ghiaccio: lanciamo centinaia di bombe attraverso la linea sul ghiaccio. Le operazioni sul Siachen costano dai novanta ai cento milioni di rupie al giorno 64 . Non si potrebbe spendere meglio il denaro? 65
9.6. Gli esperimenti atomici e Labore Nel marzo 1998 il governo del Fronte Unito di Gujral cadde, perché il Congresso ritirò il proprio appoggio. Per la prima volta nella storia politica dell'India, si insediò una coalizione guidata dal partito nazionalista indù Bharatiya Janata Party (BJP), con Atal Behari Vajpayee come primo ministro66. Mentre nelle sedi internazionali il governo pakistano parlava ancora della necessità di risolvere la questione essenziale tra i due paesi - il Kashmir - e della propria preferenza per un mediatore internazionale, quello del BJP sviluppò una politica molto più energica rispetto ai suoi predecessori. Prima di tutto, rilevò ripetutamente che l'intero ex principato apparteneva all'India, compreso l'Azad Jammu e Kashmir «occupato con la forza dal Pakistan»; in secondo luogo, riportò all'attenzione pubblica il proprio programma nucleare. Il gabinetto del Fronte Unito di Deve Gowda aveva perseguito una linea analoga nel tentativo di sfidare il monopolio del nucleare detenuto dai cinque membri del "club atomico" - Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Russia, Cina - , bloccando l'adozione, nell'agosto 1996, della bozza di un trattato per il bando globale degli esperimenti, ma dal 1974 nessun governo indiano aveva osato compiere un test atomico. L'I 1 e il 14 maggio, senza preavviso, l'India condusse cinque esperimenti sotterranei nel deserto Stato occidentale del Rajasthan. La reazione della comunità internazionale fu immediata e sdegnata: venne annunciata una serie di azioni punitive, tra cui l'imposizione di sanzioni da parte degli Stati Uniti, la sospensione di un finanziamento annuale di 26 milioni di dollari da parte del Giappone, il congelamento degli aiuti allo sviluppo da parte della Germania. Dal canto suo, la Svezia tagliò un impegno di aiuto triennale, mentre la Danimarca congelò aiuti per 28 milioni di dollari l'anno67. Il presidente Clinton chiese immediatamente al governo del Pakistan di mostrare moderazione, Nawaz Sharif replicò tuttavia dicendo che il suo paese non aveva altra scelta se non di prendere «misure adeguate» per proteggere la propria sovranità e la propria sicurezza. Il potenziale atomico del Pakistan era un segreto di Pulcinella, ma, dietro continua pressione da parte degli Stati Uniti per impedire la proliferazione nucleare nell'Asia meridionale, il paese asiatico si era astenuto dal far esplodere un ordigno nucleare. Alcuni commentatori ritenevano che il Pakistan avrebbe fatto meglio a utilizzare la questione nucleare per negoziare una maggiore pressione della comunità internazionale sull'India,
affinché facesse alcune concessioni sul Kashmir; la forza dell'opinione pubblica pakistana poteva rivelarsi preponderante. Il 28 maggio il governo annunciò così di aver condotto cinque esperimenti nella remota zona di Chagai, nei deserti del Belucistan. Il 30 maggio giunse l'ulteriore annuncio di un'altra esplosione a completamento della serie di test. Dopo queste azioni, la comunità internazionale espresse nuovamente la propria disapprovazione imponendo delle sanzioni economiche. Il vertice del G8 in Gran Bretagna condannò gli esperimenti e affermò che avevano condizionato «le relazioni di entrambi i paesi con ognuno di noi, peggiorato piuttosto che migliorato il clima della loro sicurezza, danneggiato le prospettive di conseguimento dei loro obiettivi di sviluppo economico sostenibile e sono, andati contro gli impegni mondiali verso la non proliferazione nucleare e il disarmo atomico»68. Anche se i cronisti pakistani cercavano di ritrarre l'economia del loro paese come solida e capace di sostenere l'effetto delle sanzioni, il Pakistan era molto più vulnerabile sul piano economico rispetto all'India. Di conseguenza, l'impatto delle sanzioni sarebbe potuto essere molto maggiore. «Qualunque misura Sartaj Aziz, ministro delle Finanze del Pakistan, introduca oggi nel bilancio statale per vanificare il danno delle sanzioni, si avvertono già i segni che il governo ritiene possa non essere sufficiente», scrisse Mark Nicholson sul «Financial Times» nel giugno 199869. Di fatto, una volta che entrambi i paesi acconsentirono a una moratoria degli esperimenti nucleari e all'impegno a firmare il trattato per il bando globale degli esperimenti, nel settembre 1999, le sanzioni economiche furono ridotte. L'11 novembre 1998, l'addetto stampa della Casa Bianca spiegò che il presidente Clinton aveva deciso di attenuare le sanzioni contro India e Pakistan in risposta ai «passi positivi che entrambi i paesi hanno intrapreso per rispondere alle nostre preoccupazioni sulla non proliferazione [...] noi e molti altri paesi siamo assai impensieriti per la crisi finanziaria del Pakistan. Il Fondo Monetario Internazionale sta lavorando attivamente con il paese per sviluppare un programma di prevenzione delle inadempienze del suo debito estero»70. A seguito di una decisione del gennaio 1999 del Club di Parigi, che rappresentava venti paesi dell'OCSE, le rate dei prestiti e i pagamenti degli interessi che scadevano alla fine dell'anno, che ammontavano a 3,3 miliardi di dollari, vennero riscadenzati. Il FMI, la Banca Mondiale e la Banca Asiatica di Sviluppo promisero inoltre nuovi afflussi per quattro miliardi di dollari. Nella rinnovata belligeranza tra India e Pakistan, le richieste degli attivisti kashmiri uscirono rapidamente dalla scena internazionale. Mentre entrambi i paesi continuavano a sperimentare i propri missili a lunga gittata, capaci di portare testate nucleari, il timore di una nuova corsa agli armamenti era molto più allarmante delle richieste di autodeterminazione indefinite e apparentemente irrealizzabili dei kashmiri. Ma secondo l'òpi-
nione del governo pakistano, la politica nucleare dell'India era strettamente collegata alla questione del Kashmir e al suo impegno di riprendersi l'Azad Kashmir. «Due cose hanno aggravato la situazione dopo i recenti esperimenti dell'India», affermò Sardar Qayum Khan nel luglio 1998. «Prima di tutto, le fonti di informazione del Pakistan ci hanno detto che l'esercito indiano ha portato le sue truppe d'attacco, i paracadutisti, gli elicotteri da combattimento e l'artiglieria fino alla linea del cessate il fuoco nello Jammu e Kashmir. Il loro scopo è di cercare di invadere l'Azad Kashmir, che potrebbe poi essere utilizzato come mezzo contrattuale in cambio del consenso del Pakistan a una qualche sistemazione della valle»71. Il governo indiano negò comunque di nutrire intenzioni aggressive e il primo ministro Vajpayee dichiarò: «non c'è alcuna tensione tra i due paesi a seguito dei nostri esperimenti»72. Ma tra i governanti era diffusa la consapevolezza della necessità di attenuare le tensioni. Quando i due primi ministri si incontrarono al SAARC nello Sri Lanka a luglio, concordarono di riprendere formalmente i negoziati. Ancora una volta i pakistani speravano di far entrare come mediatore la comunità internazionale. «Queste armi sono state realizzate da ambedue i paesi e non sono destinate ad essere mostrate nelle parate, oliate, pulite e lucidate», dichiarò il ministro degli Esteri Gohar Ayub al vertice. «C'è la possibilità di una guerra, un punto caldo, la leadership mondiale deve intervenire come terza parte e incoraggiarli a risolvere la disputa sul Kashmir»73. Il 23 settembre 1998, i due primi ministri concordarono «che un clima di pace e di sicurezza è nel supremo interesse nazionale di entrambe le parti e la risoluzione di tutte le questioni pendenti, compreso lo Jammu e Kashmir, è a tale proposito essenziale». A ottobre il sottosegretario agli Esteri indiano K. Ragunath si incontrò a Islamabad con il suo omologo pakistano, Shamshad Ahmad. In armonia con lo stato d'animo di riconciliazione, quest'ultimo fece nuovamente riferimento al Kashmir alla luce del loro mutato statuto atomico: «Nel clima drasticamente modificato, è importante che ci uniamo insieme per una pace e una soluzione durevoli»74. Il culmine di questi discorsi fu, il 20 febbraio 1999, la storica visita di Atal Vajpayee alla corsa inaugurale del servizio di corriere Delhi-Lahore. In uno degli incontri più significativi tra i due primi ministri, Nawaz Sharif accolse Atal Vajpayee a un banchetto nel forte di Lahore. Il premier indiano visitò anche il Minar-i-Pakistan, da dove Mohammed Ali Jinnah annunciò per la prima volta il progetto della Lega di un Pakistan indipendente. I rispettivi sottosegretari agli Esteri firmarono un memorandum d'intesa in otto punti, promettendo di «impegnarsi in consultazioni bilaterali su nozioni di sicurezza e conoscenze atomiche», nonché nella revisione delle proprie comunicazioni, nella creazione delle misure di fiducia, nelle consultazioni su questioni di sicurezza, disarmo e non proliferazio-
ne75. In un documento che è divenuto noto come dichiarazione di Lahore, i primi ministri Nawaz Sharif e Atal Vajpayee stabilirono di «intensificare i propri sforzi per risolvere tutte le questioni, compresa quella dello Jammu e Kashmir» e di «trattenersi da interventi e ingerenze negli affari l'uno dell'altro»76. A dispetto dell'entusiasmo per la visita di Vajpayee in Pakistan, era chiaro che la dichiarazione di Lahore non avrebbe avuto alcun significato se nessuna delle parti fosse andata avanti sulla questione del Kashmir. I rapporti tra i due paesi non potevano essere migliorati, dichiarò Syed Ali Shah Gilani, presidente della APHC, «senza una soluzione duratura della questione cruciale dello Jammu e Kashmir»77. Il suo parere fu riaffermato dal primo ministro dell'Azad Jammu e Kashmir, Sultán Mehmood: «Chiediamo che il dialogo per risolvere la questione non si svolga su base bilaterale, tra India e Pakistan, bensì trilaterale, poiché anche i kashmiri rappresentano una parte che dovrebbe decidere del proprio futuro» 78 . Per di più, a Lahore era stata reiterata la determinazione a rendere effettivo l'accordo di Simia «nella lettera e nello spirito». Ma, siccome, secondo l'opinione degli attivisti kashmiri, quell'intesa era già fallita, c'erano tutte le probabilità che ancora una volta la dichiarazione di Lahore non portasse a compimento la vastità delle richieste dei kashmiri. Subito dopo la visita in Pakistan, Vajpayee dichiarò che «il Kashmir è parte integrante dell'India e non un'area singola del suolo indiano che possa essere ceduta». Questi rimase come primo ministro provvisorio, dopo la sconfitta del governo di coalizione del BJP nel voto di fiducia al Lok Sabha dell'aprile 1999, in attesa delle elezioni fissate per settembre.
9.7. Guerra non dichiarata? A Lahore, Nawaz Sharif e Atal Vajpayee avevano anche deliberato di «continuare a rispettare la loro rispettiva moratoria unilaterale della conduzione di ulteriori esperimenti nucleari, a meno che l'una o l'altra parte decida, nell'esercizio della propria sovranità, che i suoi supremi interessi sono stati messi a repentaglio da eventi straordinari». Gli analisti militari stranieri temevano ancora che la prossima guerra tra India e Pakistan potesse essere atomica, per questo entrambi i paesi erano sotto continua pressione per la firma del trattato per il bando globale degli esperimenti. Sin dai loro test nucleari del 1998, il vicesegretario di Stato USA Strobe Talbott aveva tenuto negoziati in nove riprese con funzionari in India e in Pakistan per esortarli a firmare il CTBT. La questione restava tuttavia delicata: gli analisti ritenevano inopportuno far apparire i due stati come «ricompensati» per gli esperimenti con la loro accettazione quali membri formali del "club nucleare", cosa che, secondo Talbott, avrebbe a sua volta
potuto incoraggiare altre nazioni ad «aprirsi la strada a colpi di esplosioni verso la schiera dei paesi dotati di armi atomiche». E il procedere delle discussioni bilaterali per risolvere la controversia sul Kashmir costituiva peraltro uno dei settori di primaria importanza per gli U S A 7 9 . Appena tre mesi dopo la dichiarazione di Lahore, India e Pakistan si trovarono più vicini alla guerra di quanto non lo fossero mai stati dal 1971. Con lo sciogliersi delle nevi invernali e il ritorno delle truppe ai loro avamposti, si intensificarono gli scambi di artiglieria tra i due eserciti lungo la linea di controllo: i villaggi furono pertanto evacuati. Nei due anni passati, il distretto di Kargil, vicino alla linea di controllo, a nord-est di Srinagar, era stato l'obiettivo di attacchi particolarmente gravi. Nell'ottobre 1997, dopo un intenso cannoneggiamento al di là del confine, I.K. Gujral aveva ammonito Nawaz Sharif che, se qualche paese avesse avuto cattive intenzioni, «sarà nostro dovere difendere la nostra nazione»80. Nell'agosto 1998, si riferì che circa cento persone erano state uccise dal bombardamento e dal fuoco dell'artiglieria lungo la linea di controllo. Nella primavera del 1999, sotto la copertura del fuoco dell'artiglieria pesante e dei mortai, circa seicento militanti81 si fecero strada sui 4.800 metri delle montagne dell'area di Kargil. A differenza delle normali scaramucce, tuttavia, questa operazione, simile al ponte aereo a sorpresa delle truppe indiane sul ghiacciaio Siachen dell'aprile 1984, comportò l'occupazione di centotrenta picchetti in precedenza tenuti dagli indiani. Inosservati, i militanti erano riusciti a prendere il controllo di postazioni di difesa che gli indiani munivano di uomini d'estate, ma da cui si ritiravano durante l'inverno e che non avevano perlustrato. Secondo fonti del servizio segreto indiano, la mancanza di coordinamento tra il RAW e gli ufficiali del controspionaggio militare, «oltre all'assenza di fiducia reciproca tra di essi, hanno condotto nel Kashmir a una situazione di gravi proporzioni»82. Da queste strategiche posizioni di forza, i militanti proclamarono di avere «liberato» 300 chilometri quadrati del Kashmir «indiano». Erano in grado di minacciare non solo la sicurezza della strada da Srinagar a Leh, ma anche le vie di rifornimento verso il ghiacciaio Siachen. Il governo indiano asserì che si trattava di «mercenari» afgani, soldati regolari pakistani e, a quanto riferito, alcuni volontari musulmani britannici 8 ', che avevano tutti attraversato la linea di controllo dopo essere stati addestrati dall'esercito pakistano al combattimento in alta quota e armati con missili stinger statunitensi. Il governo del Pakistan rispose negando qualsiasi coinvolgimento nell'incursione e dichiarò che i militanti erano «combattenti per la libertà» indigeni, in lotta per la liberazione del Kashmir. Alla fine di maggio, per la prima volta dall'inizio dell'insurrezione e con l'Occidente «troppo occupato» per concentrarsi sul Kashmir84, l'India ricorse al bombardamento aereo contro i militanti nel distretto di Kargil. Il
Pakistan ricambiò immediatamente l'attività aerea così prossima alla linea di controllo abbattendo due caccia MIG che, si disse, avevano attraversato la linea di controllo nello spazio aereo pakistano. Un pilota fu ucciso, mentre l'altro venne catturato come prigioniero di guerra (e poi restituito all'India)85. Il giorno dopo fu abbattuto anche un elicottero da combattimento indiano. Il pericolo che siffatti «incidenti» portassero a un'escalation delle ostilità venne alla luce allorché fu colpita accidentalmente una scuola nel versante pakistano della linea di controllo: dieci bambini restarono uccisi e si diffusero appelli popolari alla «vendetta». La rabbia montò anche in India quando sembrò che i corpi di sei militari indiani, restituiti dall'esercito pakistano, fossero stati mutilati, accusa che il governo del Pakistan respinse. Nel tentativo di ridurre le tensioni in aumento, Nawaz Sharif utilizzò subito la linea telefonica diretta per parlare con Vajpayee: «Inviare aerei peggiorerà soltanto le cose», gli disse. Gli attacchi aerei continuarono comunque e l'India annunciò anche piani per l'invio di truppe di terra. In considerazione del terreno difficile su cui si erano attestati i militanti, era difficile credere alle asserzioni del Pakistan, secondo cui si trattava di «combattenti per la libertà» assolutamente indigeni: erano chiaramente ben addestrati e ben armati. «Non puoi avventurarti lassù in pantaloncini e canottiera. Le condizioni in cui operano implicano la necessità di un appoggio. Da soli, il razionamento del cibo è un obbligo continuo. Una forza di seicento uomini avrebbe bisogno di una tonnellata di cibo al giorno. Gli unici che possono fornire questo tipo di supporto sono i pakistani, e non possono farlo senza l'aiuto dell'esercito», commentò Brian Cloughley, ex vicecomandante dell'UNMOGIP86. In un primo momento, non era chiaro se l'incursione fosse stata autorizzata dal primo ministro Nawaz Sharif; sembrava difficile credere che, subito dopo le strette di mano con Vajpayee con la dichiarazione di Lahore del febbraio 1999, potesse avere velatamente approvato un'operazione al di là della linea di controllo, che avrebbe avuto certamente ampie ripercussioni sui tentativi di riconciliazione. George Fernandes, il ministro della Difesa indiano, scelse di assolvere sia il primo ministro pakistano sia Pisi, offrendo un passaggio sicuro agli infiltrati per il loro ritorno al di là della linea di controllo (offerta che più tardi ritrattò). I suoi oppositori politici nel Partito del Congresso ritenevano che si fosse fatto ingannare dalle smentite del primo ministro pakistano e ne chiesero immediatamente le dimissioni. Il capo dell'lSI, il tenente generale Zia Ud Din, era stato nominato da Nawaz Sharif, perciò non sembrava possibile che Pisi o il primo ministro non avessero saputo nulla - e di conseguenza approvato - dell'incursione. Quest'ultimo pareva avere il pieno controllo dell'esercito: nell'ottobre 1998 ne aveva costretto alle dimissioni il capo, il generale Jehangir Karamat, che aveva criticato apertamente il governo, e lo aveva
rimpiazzato con il generale Pervez Musharraf, in sostituzione di altri generali superiori. L'offensiva di Kargil sembrava inoltre avere tutte le caratteristiche di un'operazione militare ben pianificata, non indirizzata alla valle e al diritto all'autodeterminazione dei kashmiri, bensì a fare pressione sugli indiani lungo il ghiacciaio Siachen. Non era un segreto che i pakistani fossero ancora seccati per le incursioni indiane a nord delle coordinate geografiche NJ9842, dove terminava la demarcazione della linea di controllo. Ma, invece di dare spiegazioni, il governo del Pakistan rimase coinvolto in una serie di smentite improbabili cui nessuno credette, tanto più confuse perché incoerenti. Se il movente manifesto dell'incursione era appannato dalle smentite pakistane di coinvolgimento, gli analisti esaminarono le ragioni per le quali il Pakistan dovesse provare ancora una volta a "internazionalizzare" la questione del Kashmir. «Sharif sta cercando di consolidare il proprio potere personale di fronte a una notevole opposizione, soprattutto da parte delle regioni. E probabile quindi che ritenga di poter guadagnare consenso ponendosi a capo di un'iniziativa che raggiunga un traguardo nazionale profondamente sentito», commentò l'«Oxford Analytica» 67 . E probabilmente il premier cercava di compiacere la piccola ma influente lobby islamica ortodossa del paese, oltre che di smorzare le influenze d'oltre confine dei talebani dell'Afghanistan. Si trattava, ipotizzarono i commentatori, di una ripetizione della sconsiderata guerra del 1965, quando una cricca di consiglieri aveva persuaso i propri superiori a intraprendere quella che gli stessi giornalisti del Pakistan indicarono come una guerra avventurista? A sostegno delle accuse sulla complicità pakistana, gli indiani pubblicizzarono il fatto che avevano trovato una carta d'identità del Pakistan e buste paga dell'esercito pakistano in uno zaino abbandonato dopo la riconquista delle postazioni strategiche sulle montagne88. Nel giugno 1999, le autorità indiane resero inoltre pubblica la trascrizione dei nastri di due conversazioni telefoniche, secondo quanto si disse, registrate il 26 e il 29 maggio, tra il capo dell'esercito pakistano, generale Pervez Musharraf, in visita a Pechino, e il capo di Stato maggiore generale Mohammed Aziz, a Islamabad. Oltre ad essere prova del coinvolgimento pakistano, le conversazioni, secondo gli indiani, dimostravano che i generali pakistani erano impazienti di utilizzare l'operazione come un esercizio di pubbliche relazioni. Aziz venne registrato mentre diceva a Musharraf: «Oggi nelle ultime due ore la BBC ha fatto la cronaca ininterrotta degli attacchi aerei dell'India. Che continuino a servirsene, lasciamo che continuino a servirsene, lasciamo che continuino a gettare bombe. Per quanto riguarda l'internazionalizzazione, questa è la più veloce che si sia mai verificata». Nel tentativo di sostenere che gli aggressori erano gli indiani, i due generali, a quanto si dis-
se, concordarono che non si dovesse fare cenno alle bombe che venivano sganciate sul versante indiano della linea di controllo, ma soltanto a quelle lanciate sul versante pakistano". Quando le trascrizioni furono rese note alla stampa, le autorità del Pakistan le bollarono come «inventate». Non mancarono peraltro i militanti che, sia pure tardivamente, rivendicarono il coinvolgimento delle loro organizzazioni. Il 31 maggio il Lashkar-i Toiba diffuse una dichiarazione in cui proclamava che a Kargil si trovavano mille dei suoi mujaheddin; il 9 giugno il suo portavoce Abdullah Montazir affermò che l'azione era stata pianificata dall'anno precedente. Il 14 giugno Fazlul Rehman Khalil, dell'Harkat-ul Mujaheddin, disse che le loro cellule si trovavano a Kargil e che avrebbero accolto tutti i musulmani per la jihad. dall'Egitto, dalla Cecenia e dal Sudan. Il Lashkar-i Toiba ammonì persino il governo di Sharif che se, dietro pressione straniera, fosse stato loro chiesto di ritirarsi, avrebbero distrutto il governo stesso90. Nel tentativo di dimostrare che sulle montagne di Kargil si trovavano kashmiri «indigeni», i simpatizzanti descrissero come questi ultimi vi sopravvivessero con una dieta di farina di orzo cruda unita a zucchero e acqua, oltre che con le cibarie lasciate nei bunker dall'esercito indiano91. Anche se comprendevano anche membri delle organizzazioni militanti, secondo gli indiani gli insorti si trovavano a Kargil con l'ausilio dei militari pakistani, per eseguire manovre evidentemente in linea con gli obiettivi della politica estera irredentista del Pakistan. Sette settimane dopo l'inizio dell'offensiva, gli ufficiali indiani ammisero di avere perso 251 uomini, con 420 feriti e un costo stimato di quattro milioni di dollari al giorno92. Dichiararono anche di avere ucciso 467 «soldati pakistani» e 120 insorti durante l'operazione contro Kargil9'. Il capo dell'aviazione, Amai Yaswant Tipnis, confermò che ci sarebbe voluto tempo per rimuovere gli infiltrati: «Respingere gli intrusi è un processo lento. Il terreno è difficile e loro detengono posizioni elevate»94. Era peraltro evidente che il costoso bombardamento aereo - definito dal governo come «efficace per un terzo» - non era sufficiente a scacciare gli insorti. «Volare tra le cime delle montagne in condizioni così infide pone problemi enormi; le bombe che non colpiscono i loro bersagli non avrebbero impatto perché sarebbero immediatamente assorbite dalla neve», precisò Brian Cloughley9'. Vittima del conflitto fu ancora una volta un vasto numero di civili. Secondo Lord Ahmed, un kashmiro originario di Mirpur stabilitosi in Gran Bretagna, a causa dell'offensiva, dai villaggi attorno a Kargil e Dras erano sfollate ventimila persone, che si trovavano attualmente nel Ladakh, perché non avevano altri posti dove andare. Il suo scopo, quale vicepresidente di «Justice for Jammu and Kashmir» in Gran Bretagna, era che fossero ufficialmente riconosciuti come profughi internazionali, invece che come persone sfollate, in modo che potessero arrivare loro aiuti umanitari96.
A livello politico, il clima tra India e Pakistan restava ostile. Alla fine di maggio, il segretario generale dell'ONU Kofi Annan aveva offerto di mandare un inviato a New Delhi e Islamabad per allentare la tensione, ma Vajpayee aveva rifiutato: se occorreva un inviato per discutere la pace, disse, doveva essere mandato a Islamabad e non a New Delhi. Dopo la visita nella capitale indiana del ministro degli Esteri pakistano Sartaj Aziz, il suo collega indiano Jaswant Singh era scettico sui vantaggi dei negoziati: «La condotta dei pakistani fa sorgere seri dubbi sullo scopo dichiarato di "allentare la tensione" asserito da Aziz»57. Un giorno dopo il fallimento dei negoziati, nel corso di una visita nel distretto di Kargil, il primo ministro Vajpayee accusò il Pakistan di «tradire l'amicizia dell'India». A Srinagar, la APHC organizzò uno sciopero di protesta contro la visita per avvertire l'India che il Kashmir «non può essere tenuto a lungo in schiavitù con l'uso della bruta forza militare»98. Ancora una volta, ribadendo l'argomentazione pakistana che gli insorti erano «indigeni» e le loro azioni riflettevano la richiesta di autodeterminazione da parte dei kashmiri, i leader della APHC si appellarono alla comunità internazionale affinché all'India fosse attribuito il «crimine della negazione di tutti i principi di libertà». Ma era ormai chiaro che il centro d'interesse della comunità internazionale sul conflitto in Kashmir si era spostato dalla situazione nella valle a Kargil; a causa della preoccupazione per l'aumento della tensione tra India e Pakistan, ci si dimenticò momentaneamente del fatto che la popolazione non aveva fatto ulteriori progressi nella richiesta di autodeterminazione. Gli attivisti kashmiri credevano, leggendo l'enorme spazio dato al Kosovo dalla stampa occidentale, a fronte della sporadica menzione del loro paese, che la comunità internazionale fosse ancora troppo preoccupata per quella crisi da accollarsi un'altra questione umanitaria. Tra l'altro, lo spostamento dell'attenzione su Kargil fornì alle, forze di sicurezza indiane di stanza nella valle l'occasione di continuare a reprimere il dissenso politico in relativa impunità. Scrisse il giornalista Peter Popham: «Qui c'è un'imponente contraddizione. Nell'estremo nord, l'India combatte una lotta giusta, ma duecento chilometri più a sud, si comporta come la peggiore potenza occupante». All'epoca si riferì che, a metà giugno, tre militanti giunsero in un villaggio nell'angolo nordoccidentale della valle del Kashmir, dove trovarono rifugio in una casa. Il giorno seguente arrivò la BSF, circondò la zona e diede fuoco alla casa, bruciando due dei militanti. «Poi non si sono fermati qui», raccontò uno degli abitanti del villaggio, Ghulam Kadar, «e hanno dato fuoco all'intera zona, uno studente è stato bruciato vivo, con i libri di scuola in mano...». Furono distrutte anche cinquanta case. «Dovunque c'erano cumuli di mattoni, pietre, legname annerito e lamiere dei tetti bruciacchiate. I senzatetto stavano lì attorno a frugare in quello che era rimasto della loro vita», scrisse Po-
pham, che si recò nella zona". Ghulam Kadar espresse anche il dilemma dei civili, come al solito stretti tra le forze di sicurezza indiane e i militanti: «I militanti vengono nei nostri villaggi, che cosa possiamo fare? Non abbiamo legami con loro, ma se qualcuno ti punta un'arma e ti dice: staremo a casa tua?»100. In un'altra occasione, si raccontò che alcuni poliziotti avevano dato fuoco a più di cinquanta banchi del mercato di Srinagar per ritorsione contro l'uccisione di un collega101. Il governo indiano non voleva che i leader della A P H C sfruttassero politicamente a proprio vantaggio l'operazione di Kargil: quando cercò di visitare Kargil, Shabir Shah fu arrestato. I capi dell'organizzazione, compreso Yasin Malik, che approntò una marcia di protesta a Srinagar, per chiedere l'attenzione della comunità internazionale sulla questione del Kashmir, furono trattenuti per un giorno102. New Delhi impose anche un divieto temporaneo alle trasmissioni via cavo della televisione pakistana all'interno dell'India, con l'obiettivo di fermare un enorme livello di «propaganda». Il ministro dell'Informazione del Pakistan, Mushahid Hussain, definì il divieto come un tentativo «di nascondere la realtà sia al proprio stesso popolo che alla comunità internazionale»103. Allo stesso modo, i telespettatori che in Pakistan guardavano il canale indiano Zee-TV furono bollati come antipatriottici. Malgrado questi tentativi di neutralizzazione delle notizie televisive, i due paesi non poterono impedire il diffondersi di una «guerra virtuale» su Internet. «La battaglia della propaganda elettronica, o guerra virtuale, è diventata l'ultimissima maniera di attacco, dal momento che un numero crescente di persone da entrambe le parti in conflitto sforna e-mail ardenti e mette su pagine web sciovinistiche», disse Charu Lata Joshi della BBC. Il 12 giugno, India Votes.com fece una domanda ai naviganti: «Dopo l'atto barbarico del Pakistan, che cosa dovrebbe fare ora l'India?». Riferì Joshi: «Al sito sono arrivate velocemente risposte infuocate, ognuno cercava di essere più nazionalista dell'altro. [...] La tragedia è che mentre oggi su Internet hanno accesso molti atteggiamenti intransigenti, sembra vi siano pochi siti a patrocinare un abbattimento delle barriere che dividono i due paesi»10"1. Per tutta la durata dell'offensiva indiana contro gli infiltrati nel distretto di Kargil, il governo pakistano fece appello alla comunità internazionale per un contributo alla risoluzione della disputa sul Kashmir. Ma, tutt'altro che persuasa dalle smentite di un coinvolgimento del Pakistan, la risposta occidentale si rivelò molto più favorevole alle richieste di ritiro dell'India, piuttosto che a quelle pakistane di negoziati. Al vertice del G8 di giugno a Colonia, nella loro dichiarazione sulle questione regionali, i paesi membri espressero la propria preoccupazione circa il persistente scontro militare nel Kashmir a seguito dell'infiltrazione di clandestini armati che hanno violato la linea di controllo. Consideriamo ir-
responsabile qualunque azione militare tesa a modificare lo status quo. Chiediamo pertanto la fine immediata di tali azioni, il ripristino della linea di controllo e alle parti di lavorare per una cessazione immediata dei combattimenti, il pieno rispetto della linea di controllo in futuro e la ripresa del dialogo tra India e Pakistan nello spirito della dichiarazione di Lahore. 105
Il presidente Clinton addossò direttamente la colpa al Pakistan in un messaggio a Nawaz Sharif, consigliandogli di ritirare gli infiltrati, che gli americani ritenevano fossero soldati pakistani della Fanteria Leggera del Nord (NLl). Il governo pakistano protestò per la definizione americana dei «mujaheddin kashmiri» quali «infiltrati dal Pakistan», ma l'opinione pubblica internazionale accettò di fatto che i militanti di Kargil erano venuti dal Pakistan. «Stavolta il Pakistan è l'istigatore. E deve capire in che modo restaurare il precedente status quo»106, disse un alto funzionario dell'amministrazione USA. A Mosca, il viceministro degli Esteri Girgorij Karasin chiese all'ambasciatore pakistano Mansoor Alam e anche a Islamabad di ritirare gli infiltrati. Alla fine di giugno, il generale statunitense Anthony Zinni, comandante in capo del Comando Centrale USA (CENTCOM), accompagnato da un alto diplomatico americano, Gibson Lanpher, visitò Islambad per alcuni colloqui. E invece di acconsentire a fare pressione sull'India per una modificazione dello status quo, gli americani ripeterono a Nawaz Sharif la richiesta del presidente Clinton del ritiro degli infiltrati. Nella sua veste di alleato tradizionale, la Cina aveva assicurato al Pakistan il proprio «profondo e costante interesse verso la questione e sostegno alla sovranità, all'integrità territoriale, all'indipendenza e alla sicurezza del Pakistan»107. Questo non implicava tuttavia l'incoraggiamento di idee di «autodeterminazione» tra i kashmiri e, durante la visita di Nawaz Sharif a Pechino alla fine di giugno, i dirigenti cinesi furono notevolmente restii ad accettare l'idea che gli insorti di Kargil fossero «combattenti per la libertà». «La Cina è preoccupata che oggi tocchi al Kosovo, domani al Kashmir e dopodomani al Tibet», commentò un analista occidentale108. I cinesi erano peraltro impegnati a migliorare i rapporti con l'India: nel 1993 i due paesi avevano siglato un'intesa di «pace e tranquillità» e un altro patto per attenuare le tensioni lungo il confine conteso. La Cina aveva inoltre invitato velatamente il Pakistan a prendere in considerazione il riconoscimento della linea di controllo come confine internazionale11". Ebbero luogo anche numerose altre iniziative diplomatiche: il sottosegretario agli Esteri indiano K. Ragunath andò in Francia e in Gran Bretagna per cercare appoggio alla posizione indiana sul Kashmir, i diplomatici pakistani cercarono di ottenere consensi alla conferenza dell'Organizzazione dei Paesi Islamici (Ole) in Burkina Faso. Nelle prime settimane del conflitto il timore di un'escalation verso una
guerra atomica sembrò più che mai reale. L'accenno del Pakistan al fatto che la guerra avrebbe potuto portare all'uso delle armi atomiche, qualora una soluzione alla questione del Kashmir non fosse stata prossima, venne considerato un «ricatto nucleare». Anche se l'India aveva dichiarato che non avrebbe utilizzato armi nucleari al primo attacco, gli analisti militari continuavano comunque a interrogarsi sull'eventualità, da parte del Pakistan, di cedere alla tentazione di attaccare con armi nucleari le installazioni militari dell'India, in considerazione dell'incapacità del paese di vincere una guerra convenzionale contro le forze superiori del nemico indiano. E nonostante il ministro dell'Informazione pakistano Mushahid Hussain descrivesse come «remota» la prospettiva della guerra atomica, il suo rifiuto di dichiarare in modo categorico che al primo attacco non sarebbero state adoperate armi atomiche accentuò la sensazione che l'aggressore fosse il Pakistan110. Voci di una possibile offensiva indiana al di là del confine internazionale nel Punjab provocarono inoltre apprensione da entrambe le parti della frontiera. Il governo indiano annunciò ripetutamente di non volere l'aggravarsi della guerra, ma i suoi Corpi d'Assalto, comprendenti circa diecimila uomini tra truppe meccanizzate, formazioni corazzate e divisioni di fanteria, furono avvertiti di fare i preparativi per lasciare le loro basi. Anche la marina indiana fu messa in stato di massima allerta111. Le fotografie di un satellite spia americano rivelarono inoltre carri armati, cannoni pesanti e altro materiale su convogli in una base nel Rajasthan. Questi preparativi furono definiti «precauzionali» dall'ambasciatore indiano a Washington, tuttavia, siccome era inverosimile che i carri armati fossero destinati alle operazioni sulle montagne del Kashmir, gli americani ne dedussero che l'India si stava preparando a invadere il Pakistan oltre il confine internazionale112. Sul versante indiano della frontiera, la popolazione di Khem Karan, scenario di intensi combattimenti nella guerra del 1965, calò da 16.000 a 5.000 persone. Ciò nonostante, i visitatori continuavano comunque a fare il viaggio in entrambe le direzioni sul treno bisettimanale tra Delhi e Lahore113. Anche in Pakistan, coloro che vivevano vicino alla frontiera internazionale e alla linea di controllo temevano le conseguenze di un'escalation dello scontro. Si riferì che, nell'Azad Jammu e Kashmir, più di 25.000 persone abbandonarono la zona di Mangia nel Mirpur per sfuggire ai cannoneggiamenti d'oltreconfine114. I pakistani non credevano alle spiegazioni del loro governo, al contrario, erano scettici sull'eventuale esito dell'offensiva di Kargil. «Ogni giorno che passa», scrisse Ayaz Amir su «Dawn» il 25 giugno, «dovrebbe diventare chiaro anche agli ottenebrati che nel Kashmir ci permettiamo di farci prendere al laccio. Mentre l'obiettivo finale dell'impresa in corso resta avvolto in un velo di confusione e di dichiarazioni contraddittorie, le potenze occidentali, il cui giudizio per noi conta perché si tratta dei no-
stri creditori, non si bevono la fandonia che l'esercito pakistano non ha nulla a che fare con l'occupazione delle alture di Kargil e con i combattimenti da essa scatenati»115. Dato che il governo pakistano negava ogni coinvolgimento, non si potevano dare spiegazioni sul possibile esito della pressione sull'India per la questione del Kashmir. Tra gli indiani, che misuravano l'efficacia delle reazioni di Vajpayee quale parametro del suo possibile successo elettorale, gli atteggiamenti si stavano inasprendo. Come osservò un cronista: «La diffusione dei televisori ha portato nelle case di ogni parte dell'India immagini dell'infiltrazione di Kargil e delle sacche per i cadaveri. Prima di Kargil sarebbe stato possibile, per il primo ministro indiano, regolare la questione del Kashmir riconoscendo la linea di controllo quale confine ufficiale senza chiedere quel terzo dello Stato che l'India definisce Kashmir occupato dal Pakistan. Ma ora questa concessione è politicamente assai difficile, c'è la sensazione che il Pakistan a Kargil si sia sparato sui piedi e abbia rinviato qualunque riawicinamento per moltissimo tempo»116. Gli indiani diedero ampia pubblicità alla riconquista delle posizioni strategiche lungo i 130 chilometri del fronte; quella del Punto 5140 sull'altura di Tololing, descritta come «senza precedenti nella storia della guerra di montagna»117, contrassegnò l'inizio di una serie di vittorie vantate dalle autorità indiane, nella cosiddetta "operazione Vijay". La battaglia di Tiger Hill a luglio fu definita «un punto di svolta», dal momento che la cima di 5.000 metri guardava sulla strada da Kargil a Leh. Un'informativa dell'esercito pakistano per la stampa liquidò invece la pretesa conquista indiana di Tiger Hill come «una finzione». Gli analisti ritenevano comunque che, per le difficili condizioni in cui gli indiani combattevano e per la loro impreparazione a una campagna militare in alta quota, le vittorie fossero meno gloriose di quanto volessero dipingerle i loro portavoce. «E più che probabile che le forze che tengono Tiger Hill abbiano abbandonato l'azione e che gli indiani siano quindi sopraggiunti e abbiano proclamato come proprie le posizioni», commentò Brian Cloughley118. Anche gli abitanti locali della zona criticarono il governo per la gestione della guerra: «Mandano soldati quassù da posti come il Rajasthan, che sono sul livello del mare, e gli ordinano di scalare una montagna»" 9 . Meno clamore si fece al contrario attorno al fatto che le truppe indiane sul Siachen risentirono della crisi di rifornimenti durante l'occupazione delle alture di Kargil. A giugno Vajpayee aveva peraltro avvertito Clinton dell'effetto disastroso esercitato dalle sacche per i cadaveri sull'opinione pubblica.
9.8. Vittoria o sconfitta? Ai primi di luglio, nel clima teso del perdurante conflitto, il primo ministro Nawaz Sharif chiese un incontro urgente con il presidente Clinton a Washington, dopo il quale i due diffusero una dichiarazione in cui si ribadiva l'impegno del primo ministro pakistano a prendere «misure concrete» per il ripristino della linea di controllo in conformità con l'accordo di Simla. Nell'intesa di Washington, Clinton acconsentì a «interessarsi personalmente nell'incoraggiare una rapida ripresa e intensificazione» degli sforzi bilaterali indo-pakistani, una volta ripristinata del tutto «l'inviolabilità» della linea di controllo120. Ma, come sottolinearono numerosi cronisti, come poteva il primo ministro pakistano rispettare l'impegno preso con Clinton di fare pressione sugli infiltrati per il ritiro se, come aveva affermato in precedenza, non esercitava su di essi alcuna autorità? E poi, come avrebbe potuto l'«interesse personale» di Clinton per la questione del Kashmir essere vincolante per un qualunque governo USA subentrante una volta che egli avesse lasciato l'incarico? Il 12 luglio, Nawaz Sharif parlò alla nazione, spiegando le ragioni della sua richiesta ai militanti di ritirarsi: «La nostra decisione di dare alla diplomazia un'altra opportunità non è stata dettata da alcuna pressione, fretta o ansia». Senza giustificare l'ambiguità delle precedenti smentite sui rapporti con gli infiltrati, disse a un pubblico di dimensioni nazionali che l'obiettivo dei militanti nel conquistare le alture di Kargil era quello di attirare l'attenzione della comunità internazionale sulla questione del Kashmir. «La loro azione ha avvalorato il nostro giudizio che il Kashmir è un punto caldo nucleare»121. Con la promessa da parte degli Stati Uniti di contribuire a una risoluzione della questione, l'attenzione della comunità intemazionale era ormai stata richiamata; non era pertanto più necessario per gli insorti restare sulle montagne di Kargil. L'impegno di Nawaz Sharif a chiedere il ritiro degli infiltrati fu immediatamente respinto dagli attivisti e dai militanti kashmiri, che dichiararono di non essere tenuti a onorare alcun accordo siglato tra il Pakistan e gli Stati Uniti senza il loro consenso. L'Hizb affermò nuovamente che non si sarebbe fermato fino a quando l'autorità «illegale» nel Kashmir «tenuto dagli indiani» non fosse stata rovesciata. «Kargil è la nostra terra; perché dovrebbero chiederci di ritirarci?», domandò Kaleem Siddiqui, portavoce dell'Hizb. I membri del Jamaat-i Islami nell'Azad Jammu e Kashmir inscenarono a loro volta una manifestazione di protesta a Muzaffarabad122. Il capo del partito, Munawwar Hassan, criticò il premier pakistano per aver tradito l'esercito e i mujaheddin e per avere infranto le speranze di 140 milioni di persone nel suo paese: «Non la scamperà» 12 '. Distaccandosi dal proprio abituale atteggiamento filopakistano, il presidente della APHC Gilani chiarì che, nonostante il Pakistan avesse sostenuto «la lotta indigena
del p o p o l o dello J a m m u e Kashmir m o r a l m e n t e , d i p l o m a t i c a m e n t e e politicamente [...], ciò non significa che possa p r e n d e r e u n a decisione a nom e nostro» 1 2 4 . Il JKLF criticò il governo p a k i s t a n o p e r la « d i s a v v e n t u r a » di Kargil, c o n d a n n a n d o l a c o m e u n ' a z i o n e sbagliata p e r u n a causa giusta 125 .
L'ex presidente Farooq Leghari, presidente del Millat Party del Pakistan, chiese le immediate dimissioni di Sharif per la «completa resa diplomatica»126, com'ebbe a definirla l'ex ministro degli Esteri Sardar Aseff Ali. Benazir Bhutto espresse critiche prima di tutto per la decisione di inviare infiltrati a Kargil. Si trattava, disse, del «più grosso errore nella storia del Pakistan, che ci è costato caro. Quelli che sono stati uccisi sono stati rimandati indietro di nascosto perché il nostro governo non ha avuto il coraggio di riconoscerli»127. In un'intervista alla BBC, si disse inoltre sicura che Nawaz Sharif avesse autorizzato l'invasione per sviare l'attenzione dai suoi fallimenti interni e dalle accuse di corruzione128. In precedenza, Bhutto aveva proposto una politica di apertura delle frontiere tra India e Pakistan (come era accaduto tra Israele e Giordania) per risolvere la questione del Kashmir; riconobbe inoltre che, da primo ministro, aveva sbagliato a «tenere le relazioni indo-pakistane in ostaggio» di quella singola questione, nella speranza di mettere in luce la causa del popolo kashmiro: «Quella politica sicuramente non ha fatto progredire la causa della pace nell'Asia meridionale»129. In India, il ritiro degli insorti fu salutato come una vittoria. A un raduno del BJP a New Delhi, il ministro dell'Interno L.K. Advani ricordò al proprio uditorio che l'infiltrazione di Kargil doveva già essere in atto mentre il Pakistan «negoziava la pace» a Lahore e che le operazioni militari sarebbero continuate fino a quando non fosse stato scacciato «l'ultimo invasore»130. «I cannoni», disse il ministro della Difesa George Fernandes, «risponderanno» a qualunque infiltrato fosse rimasto sulle proprie posizioni; e Jaswant Singh, il ministro degli Esteri, escluse qualsiasi imminente tentativo di negoziati"1. Ma Vajpayee fece nuovamente riferimento alla dichiarazione di Lahore come a «un fermo impegno dei nostri due paesi a risolvere tutte le questioni bilateralmente. Vediamo se il Pakistan è pronto a un nuovo inizio»132. Per evidenziare ancor più le conseguenze del «bellicismo» del Pakistan, la India League pagò una cifra stimata in 25.250 sterline per un annuncio a tutta pagina sul «Times» di Londra133 (e un'altra somma per un annuncio sul «New York Times»), intitolato "Uno Stato nello Stato, un moderno Esercito Canaglia con il dito sul bottone nucleare", che recitava: «Una lunga eredità cinquantennale di menzogne [...] e illegalità»134. L'Alta Commissione pakistana di Londra protestò per la «propaganda» malevola contro il proprio esercito, che aveva «un passato impeccabile di professionalità e di merito». Diventava sempre più faticoso per il governo pakistano continuare comunque con la pretesa che né esso né l'esercito avevano avuto nulla a che fare con l'incursione. (Il 14
agosto la NLI fu arruolata nell'esercito regolare e a 64 persone, per lo più della stessa NLI, vennero conferite medaglie al valore per il ruolo svolto a Kargil)"5. Il ripiegamento degli infiltrati a metà luglio coincise con uno sciopero nella valle, indetto dalla Hurriyat per ricordare i «martiri» dell'incidente di Abdul Qadir del 1931; la National Conference e la APHC ricordarono il 13 luglio come giornata di commemorazione. La APHC esortò a una soluzione della questione del Kashmir per scongiurare «un pericoloso olocausto» nello stato"6. E l'attività dei militanti finì nuovamente in prima pagina: nel distretto di Doda, a nord di Jammu, fu condotto un attacco contro il comitato di difesa di un villaggio, istituito per proteggere i villaggi sperduti da attacchi del genere. Gli abitanti impegnarono i militanti in una sparatoria, alla fine della quale si contarono dieci abitanti e cinque militanti morti157. In un altro attacco furono uccisi quattro operai edili a Punch. Il 21 luglio, un assalto con bombe a mano in un mercato della frutta a Baramula uccise due civili e ne ferì altri sedici, mentre a Srinagar venne assassinato Habibullah Wani, un sostenitore locale del Partito del Congresso. Il 27 luglio esplose una bomba su un autobus in viaggio da Rawalpindi a Muzaffarabad, almeno sette persone rimasero uccise e diciannove ferite. Fu il primo episodio del genere a verificarsi nell'Azad Jammu e Kashmir138. Nawaz Sharif affrontava continue critiche interne per aver autorizzato il ritiro: i partiti islamici intransigenti erano infatti indignati per il fatto che egli avesse «ceduto» alle pressioni degli USA. Il 25 luglio, secondo il corrispondente della BBC da Islamabad, Owen Bennett-Jones, a Lahore si verificò «la più importante» protesta di strada contro il governo di Nawaz Sharif, nel corso della quale decine di migliaia di manifestanti gridarono «Abbasso l'America» e bruciarono ritratti del presidente Clinton. Il Jamaat chiese di nuovo la destituzione del premier, mentre altri gruppi militanti giurarono di continuare a combattere nel Kashmir, minacciando di compiere attentati suicidi139. Dal punto di vista indiano, il fatto che Nawaz Sharif avesse mancato di dare seguito a un'iniziativa di pace ufficiosa condotta da un rispettato ex alto commissario pakistano in India, Niaz Naik, e da R.K. Mishra, una confidente del consigliere per la sicurezza nazionale dell'India, rivelava il suo «doppio gioco». Se avesse accolto l'offerta di un ritiro graduale degli infiltrati tre settimane prima della sua effettiva realizzazione, sarebbero state risparmiate molte vite. Ma, ritenevano gli indiani, soltanto quando gli infiltrati avevano cominciato a incontrare rovesci militari aveva fatto visita a Clinton negli Stati Uniti1"10. Nelle settimane successive al ritiro, si registrarono resoconti contrastanti su militanti ancora operanti al di là della linea di controllo. I combattenti tenevano le posizioni nella valle di Mushkoh, nei settori di Dras e Batalik. Finalmente, il 26 luglio - dieci settimane dopo l'avvio dei bombardamenti aerei da parte dell'India e i primi titoli internazionali - il te-
nente generale N.C. Vij, capo delle operazioni militari indiane, annunciò che l'ultimo degli invasori kashmiri era stato espulso. «Non c'è più alcuna presenza pakistana sul territorio indiano»"". Alla fine di luglio fonti indiane confermarono che le perdite ammontavano a 417 soldati morti, 570 feriti e 15 dispersi. Dichiararono inoltre che sul versante pakistano si riteneva fossero morti 690 soldati pakistani e 150 «guerriglieri» 142 . Ma è opinione diffusa che le cifre effettive siano molto più elevate. La vita di migliaia di persone a Kargil e nei villaggi circostanti era sconvolta. Al culmine dei bombardamenti, la dottoressa Zohara Bannu, uno dei tre soli medici rimasti nell'ospedale distrettuale di Kargil, disse al giornalista Peter Popham: «Abbiamo molti casi di parto prematuro a causa dello shock dei continui bombardamenti, aborti indotti dalla tensione, depressione, insonnia»14'. Quando l'ospedale venne colpito e si infransero le finestre degli alloggi delle infermiere, queste fuggirono. Secondo il corrispondente della BBC da Delhi, Daniel Lak, durante i combattimenti più di 30.000 persone avevano lasciato le loro abitazioni. «Gli elicotteri e i convogli di camion delle Forze Armate indiane in partenza tornano a casa con una sensazione di vittoria, convinti di avere fatto un bel lavoro nello scacciare gli invasori dall'altra parte della linea di controllo. Ma, a pochi mesi dall'inverno incredibilmente rigido di Kargil, è chiaro che la battaglia per ricostruire le vite distrutte ed evitare la fame e le malattie sarà una sfida ancora più grande per l'India»144. Nella valle, l'industria turistica doveva nuovamente affrontare le ripercussioni dei combattimenti: «Quest'anno i proprietari di case galleggianti, incoraggiati dal ministero del Turismo, hanno sperperato in vernice e lanterne colorate nella speranza che i tempi brutti fossero finiti», scrisse il corrispondente dal fronte dell'«Independent». «E fino alla metà di maggio lo erano. In primavera nel Kashmir sono venuti circa 150.000 turisti, più che nell'intero 1998, ma poi è scoppiata la guerra di Kargil e sono tutti scomparsi»145. Lungo la linea di controllo nel distretto di Kargil, l'esercito indiano si dispose inoltre a mantenere una sorveglianza di circa 8-10.000 soldati per tutto l'anno, al costo stimato di 1,8 milioni di sterline al giorno. «Il compito è arduo e i costi astronomici», disse un ufficiale dell'esercito di stanza a Dras146. In una precedente visita a Kargil, il generale V.P. Malik, capo dell'esercito indiano, aveva sottolineato la difficoltà di rendere sicura la linea di controllo, dichiarando che era troppo lunga e accidentata perché l'esercito potesse difenderla perfettamente147. Le Forze Armate compresero che, anche dopo l'operazione di Kargil, la militanza nella valle sopravviveva. Il primo agosto fonti ufficiali indiane riferirono uno scontro con «combattenti pesantemente armati appoggiati dal Pakistan». Nel distretto di Kupwara, 190 chilometri a sud-ovest di Kargil; sei «infiltrati» erano stati uccisi e si lavorava per scacciare il resto148. Con le elezioni generali fissate per settembre, Vajpayee faticava per
contrastare le critiche dei partiti di opposizione, che condannavano il governo del BJP per l'imponente insufficienza nel controspionaggio che aveva facilitato l'infiltrazione attraverso la linea di controllo. Fu dunque annunciato un immediato rimpasto nel RAW. La formazione di un comitato, diretto da un esperto analista di difesa, K. Subramanyam, per indagare le ragioni di un tale vuoto nella sicurezza, venne accolta con un certo scetticismo: «Generalmente, le commissioni ufficiali in India non sono riuscite a gettare molta luce sull'oggetto delle loro inchieste», commentò il «Times of India»'49. Nel tentativo di vincere la guerra di propaganda con il Pakistan, il ministro dell'Informazione e delle Comunicazioni dell'India, Pramod Mahajan, annunciò che sarebbero stati spesi circa cento milioni di dollari per migliorare le reti televisive di Stato nel Kashmir; nel corso di una visita nello Stato, infatti, la gente del luogo gli aveva detto che la ricezione della televisione pakistana era migliore di quella della rete statale indiana Doordarshan. Malgrado il Pakistan avesse la sensazione di avere conseguito una «vittoria» nell'internazionalizzazione della questione del Kashmir a Kargil, la perdita di credibilità internazionale che ne seguì fu notevole. Il costo finanziario, le vite umane perdute, la sfiducia dell'India in future iniziative di pacificazione, l'impulso alla posizione del governo indiano sullo Stato dello Jammu e Kashmir furono in ugual misura considerevoli. L'Unione Indiana beneficiò anche di un disgelo con gli Stati Uniti, che ne avevano duramente criticato il governo per i test nucleari del maggio 1998. Il 20 luglio Clinton aveva fatto una telefonata a sorpresa a Vajpayee plaudendo alla «moderazione» del suo paese a Kargil: riaffermò inoltre il proprio interesse a compiere una visita in India, visita che l'anno precedente era stata annullata150. Il segretario di Stato USA Madeleine Albright parlò chiaramente in sfavore della militanza: «Gli atti di terrorismo devono cessare immediatamente, in quanto tali azioni rendono il conflitto del Kashmir più, e non meno, difficile da risolvere»151. Quando la Albright incontrò il ministro degli Esteri indiano Jaswant Singh a Singapore, alla vigilia del forum regionale dell'ASEAN, secondo un alto funzionario statunitense, «il ministro degli Esteri indiano ha espresso apprezzamento e gratitudine per il ruolo degli Stati Uniti nell'aiutare a condurre il problema di Kargil a una soluzione soddisfacente, cosa che finora non è affatto avvenuta, ma va in quella direzione». Un portavoce indiano definì i colloqui «ottimi e sinceri»152. Con una mossa destinata a compiacere gli Stati Uniti, Singh confermò inoltre l'impegno di Delhi a firmare il trattato per il bando globale degli esperimenti. Nel frattempo, Nawaz Sharif cercava appoggio tra gli amici islamici del Pakistan: durante la sua visita di luglio, elogiò il «ruolo importante» che l'Arabia Saudita stava svolgendo nella risoluzione del conflitto sul Kashmir15'. Il fatto che tanto l'India quanto il Pakistan potessero rivendicare la «vit-
toria» dopo Kargil dimostrava, una volta di più, quanto il conflitto kashmiro fosse lontano da una risoluzione. Un decennio dopo l'inizio dell'insurrezione - a più di cinquantanni dal momento in cui la divisione del subcontinente aveva condotto alla contesa per il possesso dello Stato - , non esisteva ancora alcun consenso tra i principali protagonisti. Come poteva dunque esserci vittoria? Quei kashmiri che erano invecchiati nella battaglia per la libertà politica, e i cui figli avevano intrapreso la lotta, erano ancora pedine sulla scacchiera indo-pakistana della rivalità diplomatica.
9.9. Dopo Kargil Il 10 agosto, un aereo della marina pakistana fu abbattuto da due caccia MIG-21 indiani nel Rann di Kutch. Le autorità indiane affermarono che aveva violato il loro spazio aereo e, allorché gli era stato intimato di non procedere, aveva agito in maniera «ambigua e aggressiva». Accusando gli indiani di «omicidio a sangue freddo», il governo pakistano replicò che l'aereo, i cui sedici occupanti, tra equipaggio e passeggeri, morirono tutti, stava conducendo un'ordinaria esercitazione di addestramento ed era stato abbattuto sul territorio pakistano. Dal canto suo, il governo indiano sosteneva che il velivolo era in missione spia e accusò che, da maggio, aerei pakistani avevano violato lo spazio aereo indiano già otto volte. La posizione precisa dell'apparecchio prima di essere colpito era un elemento più delicato di quanto apparisse in un primo momento; anche se il confine tra Sind e Kutch era stato fissato tramite arbitrato nel 1965, i 61 chilometri di estuario del Sir Creek, che separa la provincia pakistana del Sind dallo Stato indiano del Gujarat ed è ricco di petrolio e risorse naturali, non erano ancora demarcati. Il giorno dopo, il governo indiano dichiarò che forze pakistane avevano sparato a tre elicotteri che stavano visitando il sito dell'aereo precipitato, i cui rottami erano atterrati su entrambi i versanti della frontiera intemazionale. I pakistani dissero di non avere sparato agli elicotteri, bensì a due caccia MIG che li accompagnavano e si trovavano nello spazio aereo pakistano. Ancora una volta, nel timore che la rinnovata ostilità tra i due paesi potesse aggravarsi in un conflitto armato, gli Stati Uniti fecero appello all'equilibrio ed esortarono India e Pakistan a rispettare il loro impegno del 1991 a non volare entro dieci chilometri dalla frontiera comune. E chiesero anche una ripresa del dialogo di pace in stallo, iniziato sei mesi prima. L'abbattimento dell'aereo non era direttamente collegato alla questione del Kashmir, ma il persistente antagonismo tra India e Pakistan, dopo una sequenza da occhio per occhio di reclami e controreclami, sottintendeva l'impossibilità di qualunque speranza di riconciliazione, e di conseguenza di ripresa del dialogo politico. «E difficile essere ottimisti in questa fase»,
dichiarò James Rubin, il portavoce del dipartimento di Stato USA, dopo l'abbattimento dell'aereo. «Se mai, gli eventi di oggi sono il segno che stiamo andando nella direzione sbagliata»154. Da quanto fu riferito, i leader militanti di base nell'Azad Jammu e Kashmir minacciarono di vendicarsi per l'attacco «in un modo che l'India si ricorderà per gli anni a venire»155. Le autorità pakistane chiesero di nuovo la mediazione internazionale per contribuire a comporre le divergenze con l'India. Con il pretesto che indiani e pakistani «parlano la stessa lingua» e pertanto non avevano bisogno di un interprete, il governo dell'India respinse qualunque coinvolgimento di terzi, da parte degli Stati Uniti come delle Nazioni Unite. Per tutta l'estate, all'interno dello Stato dello Jammu e Kashmir ad amministrazione indiana si registrò un notevole incremento delle attività militanti. Le autorità indiane ritenevano che avessero di recente attraversato la linea di controllo più di mille militanti, la maggior parte dei quali erano penetrati nella valle presso Kupwara, una regione povera dove godevano di un forte appoggio. «Sono avanzati lentamente attraverso foreste descritte da un generale di brigata come così folte che "un uomo potrebbe passarti sotto il naso in una giornata nuvolosa e non lo vedresti"», riferì Julian West da Kupwara sul «Sunday Telegraph»156. Gli audaci attacchi dei militanti, citati come appartenenti all'Harkat-ul Mujaheddin e all'Hizb-ul Mujaheddin, contro i campi forti di 30.000 Rashtriya Rifles - la forza di controinsurrezione a cui competeva l'incombenza di combattere la militanza nella valle - generarono «onde d'urto» in tutto l'apparato di sicurezza del paese157. Ai primi di agosto, circa quaranta militanti occuparono alcune case vicine a una postazione dell'esercito nel distretto di Kupwara, all'alba aprirono il fuoco con armi automatiche e razzi, uccidendo cinque militari indiani e ferendone dodici. Il giorno seguente, il colonnello Balbir Singh; che stava indagando sull'assalto, e quattro dei suoi uomini caddero in un agguato mortale. Secondo Julian West, i militanti erano notevolmente sfrontati: prima dell'attacco nel distretto di Kupwara, avevano giocato a cricket in un campo strettamente sorvegliato nei pressi della postazione dell'esercito. Per tutto agosto vi furono numerosi altri incidenti, tra cui l'esplosione di una mina terrestre che uccise quattro poliziotti e ne ferì più di dieci. Le autorità indiane reputavano che la ripresa dell'attività militante fosse un'iniziativa da «adesso o mai più» per conto del governo pakistano, con lo scopo di riaccendere l'insurrezione nella valle dopo avere fallito nel tentativo di «intemazionalizzare» la questione a Kargil. Gli indiani registrarono anche nuove operazioni sul ghiacciaio Siachen: con una scarsa visibilità, una pattuglia pakistana tentò invano di conquistare una postazione indiana e cinque dei suoi componenti morirono. In risposta all'esplosione di violenza e dopo una riunione ad alto livello dell'Ufficio del Controspionaggio (IB), del Segretario Speciale (per la Si-
curezza) e del direttore del Gruppo Speciale di Protezione (SPG), si decise di incrementare le forze di sicurezza nello Stato, «spogliato» a causa di Kargil, con una particolare attenzione a «rendere sinergiche» le operazioni contro i militanti, nonché alla ristrutturazione delle reti dei servizi segreti. Come raccontò Rahul Bedi per la BBC, lo spostamento di 40.000 uomini «da un giorno all'altro» dalla valle a Kargil aveva «indebolito gravemente la rete della sicurezza nella valle del Kashmir». Con una rivolta armata che non era «neanche lontanamente prossima alla fine», e con la linea di controllo che richiedeva una costante supervisione, gli ufficiali dell'esercito ammisero che il vuoto nella sicurezza era stato insufficientemente riempito dai Rashtriya Rifles, dispiegati in modo troppo esteso. Riconobbero anche che il frequente dispiegamento aveva portato a crolli nervosi e al fraggiri, allorché i soldati si infuriavano, sparando ai propri commilitoni e poi a se stessi158. India e Pakistan celebrarono il loro cinquantaduesimo anniversario dell'indipendenza in un'atmosfera cupa. Nel discorso del 14 agosto, Nawaz Sharif accusò l'India di costituire, dopo l'abbattimento dell'aereo nel Rann di Kutch, una minaccia per la pace e la sicurezza nella regione. Il 15 agosto le celebrazioni per l'indipendenza dell'India si tennero tra pesanti misure di sicurezza; Atal Vajpayee chiarì che il dialogo con il Pakistan non sarebbe ripreso fintantoché i «separatisti» kashmiri venivano addestrati nei campi sul suolo pakistano. «Come si possono tenere negoziati concreti in questo clima? Il Pakistan deve capire che non può risolvere i problemi incoraggiando le attività terroristiche»159. Nella valle, il giorno dell'indipendenza fu commemorato come una giornata nera: molti negozi restarono chiusi e il traffico fu ridotto. Le autorità indiane ritenevano che l'obiettivo dell'improvviso aumento di attentati militanti fosse quello di creare il panico con atti di sabotaggio nella corsa alle elezioni generali di settembre. Con una mossa fatta verosimilmente per richiamare gli elettori, e in contrasto con le sue dichiarazioni alle celebrazioni dell'anniversario dell'indipendenza, Vajpayee affermò che, qualora rieletto, oltre a rafforzare le Forze Armate del paese, il governo del BJP avrebbe cercato di riaprire il negoziato con il Pakistan. «Si dovrà trovare un terreno d'incontro»160. Sonia Gandhi, leader del Partito del Congresso, che a sua volta prometteva negoziati con il Pakistan, iniziò la propria campagna elettorale accusando il governo del BJP di «sonnecchiare» allo scoppio della crisi di Kargil. Come aveva fatto nelle precedenti elezioni fin dal 1991, la APHC avviò «un campagna antivoto» nello Jammu e Kashmir, nel tentativo di spingere la gente a boicottare quelle che i suoi leader definivano elezioni «fasulle». Di fatto, il boicottaggio ebbe un sorprendente successo e l'affluenza fu generalmente bassa, con l'eccezione dei votanti dell'area di Kargil. Il governo rispose alla campagna contro le elezioni con l'arresto dei leader della APHC Syed Ali Shah Gi-
lani, Maulana Abbas Ansari, Yasin Malik, Javed Mir e Shabir Shah. A causa del boicottaggio della A P H C , dei sei candidati eletti al Lok Sabha nello Stato dello Jammu e Kashmir, due appartenevano al BJP e quattro alla National Conference. Farooq Abdullah conservò il proprio incarico di ministro capo e Girish Saxena, che aveva sostituito Krishna Rao quale governatore nel maggio 1998, restò in carica. Come ci si aspettava, dopo la chiusura delle urne ai primi di ottobre, Atal Vajpayee annunciò la vittoria elettorale della coalizione guidata dal BJP. Per quanto avesse cercato il più possibile di colpevolizzare il governo per la scarsa vigilanza a proposito di Kargil, il Partito del Congresso non riuscì a erodere il vantaggio politico che il BJP aveva saputo guadagnare nel corso della guerra. All'interno, entrambi i paesi seguitarono a mettere in luce gli aspetti «positivi» di Kargil. Il governo indiano continuò a compiacersi della propria vittoriosa campagna contro il Pakistan che, come credevano gli indiani, si era smascherato quale vero istigatore dell'insurrezione nel Kashmir. I pakistani indicarono come un vantaggio positivo per la posizione del loro paese le spese crescenti affrontate dall'India per pattugliare la linea di controllo. All'interno come all'estero, il governo pakistano insisteva sull'attuazione delle risoluzioni ONU, con l'indizione di un plebiscito, quale unica soluzione per la questione del Kashmir. Il referendum a Timor Est nel settembre 1999 delineò inoltre reazioni fortemente contrastanti da parte del governo indiano e degli attivisti politici kashmiri. Mentre questi ultimi tracciarono all'istante dei paralleli, l'India dichiarò che non sussisteva alcuna analogia tra la questione del Kashmir e Timor Est, opinione con la quale gli Stati Uniti concordavano. A livello diplomatico, nel corso della seduta dell'Assemblea Generale dell'ONU alla fine di settembre, sia il Pakistan sia l'India cercarono di esercitare pressioni in favore dei propri rispettivi punti di vista, rivendicando una volta di più la vittoria. Il governo pakistano accolse di buon grado l'appello avanzato da quaranta membri della Camera dei Rappresentanti nel quale si chiedeva a Clinton di nominare un inviato speciale per mediare in Kashmir. I funzionari indiani misero tuttavia in rilievo la loro vittoria sulla questione del Kashmir in quanto il presidente Clinton si era ripetutamente rifiutato di mediare. Parimenti, sul terreno, cioè nella valle del Kashmir, sia il Pakistan sia l'India vedevano la situazione in atto a proprio vantaggio. Mentre gli indiani sostenevano che l'insurrezione era in declino, i pakistani ritenevano che la sua persistenza avrebbe continuato a esaurire preziose risorse indiane rendendo inevitabile un compromesso futuro. A l l ' i n i z i o di ottobre, il governo pakistano fu nuovamente in imbarazzo per la decisione del capo del JKLF, Amanullah Khan, di cercare di attraversare la linea di controllo con migliaia di sostenitori. Come nel precedente tentativo del 1993, egli fu arrestato prima che potesse raggiungere la linea e la marcia venne annullata.
Il 12 ottobre, la storia delle relazioni tra Pakistan e India ebbe una nuova svolta, quando il generale Musharraf organizzò un colpo di Stato militare incruento, estromettendo il primo ministro Nawaz Sharif. Per settimane, si erano diffuse voci su un golpe imminente, che avevano indotto il presidente Clinton ad ammonire fermamente che gli Stati Uniti si sarebbero opposti a qualsiasi alterazione dell'ordine costituzionale in Pakistan. In effetti, dopo Kargil i rapporti tra Sharif e Musharraf si erano evidentemente inaspriti. Oltre a dover ammettere la quasi bancarotta del paese, il premier continuava a fronteggiare l'opposizione interna alla ritirata di Kargil da parte di coloro i quali ritenevano che, qualunque fosse la ragione - le preoccupazioni americane che il governo indiano desse ascolto alle sollecitazioni interne perché si attraversasse il confine internazionale o la linea di controllo "all'inseguimento" e la possibilità che gli USA «staccassero la spina» del Fondo Monetario Internazionale - , il primo ministro avesse ceduto troppo facilmente alle pressioni americane. Per porre fine alle speculazioni su una spaccatura con il capo dell'esercito, Sharif confermò il ruolo di capo di Stato maggiore di Musharraf fino alla fine del proprio mandato, nel 2001. Alcuni giorni dopo, mentre quest'ultimo era in visita nello Sri Lanka, il premier ne annunciò il pensionamento e la sostituzione con il tenente generale Zia Ud Din, capo dell'lSI. Con l'appoggio dell'esercito, Musharraf poté immediatamente tornare in Pakistan e organizzare una contromossa. Tutti gli ufficiali designati furono destituiti, la costituzione fu sospesa e, senza dichiarare la legge marziale, il generale assunse la funzione di capo dell'esecutivo. Malgrado le azioni del generale fossero duramente criticate da parte della comunità internazionale per aver violato la prassi democratica istituzionale, il colpo di Stato sembrò gradito alla maggioranza dei cittadini del Pakistan. Senza specificare alcuna data per il ritorno del paese a un potere civile eletto, Musharraf annunciò un programma in sette punti che comprendeva l'impegno a migliorare le relazioni con l'India e a ridurre le forze lungo la frontiera internazionale. Ma, com'era prevedibile, non propose il ritiro lungo la linea di controllo né un compromesso con il governo indiano sul Kashmir. Alla fine del 1999, data la necessità di bilanciare le spinte interne con il bisogno, ugualmente irrefrenabile, di sostegno internazionale, era arduo definire i modi in cui i dirigenti del Pakistan avrebbero proseguito la loro «guerra incompiuta» per lo Stato dello Jammu e Kashmir, né era chiaro come gli inquieti kashmiri avrebbero vinto la propria.
10. Nuovo secolo, nuova prospettiva?
Io credo che vivremo in pace. La questione è quanto dolore dovremo attraversare per arrivarci. Salman Asif, "Khidmet seminar"1 Le mentalità dovranno essere modificate e ci si dovrà disfare del bagaglio storico. Primo ministro ATAL VAJPAYEE al presidente Pervez MusharraP
All'inizio del XXI secolo, il conflitto per il Kashmir non sembrava esser vicino a una soluzione; gli attivisti politici e i militanti, che chiedevano l'indipendenza o l'annessione al Pakistan, pensavano che il «diritto all'autodeterminazione» non fosse stato ancora concesso e insistevano per un dialogo che coinvolgesse l'India in negoziati tripartiti con il Pakistan. Consapevoli di non poter avere l'egemonia, politicamente e militarmente, contro il governo indiano, guardavano perciò alla comunità internazionale per il sostegno alla loro causa. Il governo indiano tentava ancora di normalizzare la situazione nella valle, accusando contemporaneamente il Pakistan di agevolare il «terrorismo di frontiera». Pur disponibile ad avviare un dialogo con gli attivisti kashmiri, non vedeva alcun vantaggio nel discutere la situazione della valle del Kashmir con il Pakistan o nel prendere in considerazione la secessione di tutto lo Stato o parte di esso, la cui conservazione, per la sua popolazione prevalentemente islamica, era considerata essenziale per l'identità laica dell'India'. Infine, non prevedeva alcun ruolo per l ' O N U , quale forza di pace o mediatore, né il coinvolgimento di nessun altro paese nelle discussioni sulla questione. Ufficialmente, il governo pakistano parlava ancora di determinare la volontà del popolo secondo quanto indicato dalle risoluzioni delle Nazioni Unite, nella convinzione che una popolazione a maggioranza islamica avrebbe inverosimilmente scelto di continuare a far parte dell'India. Ma era ancora stretto in una posizione ambigua, tra il sostegno al diritto all'autodeterminazione dei kashmiri e l'incongruo rifiuto di concedere la «terza opzione», e cioè quella dell'indipendenza. Ufficiosamente, nell'appoggio alla causa del Kashmir i pakistani erano divisi: da un lato, volevano mostrare solidarietà ai loro fratelli e sorelle musulmani della valle, dall'altro, si trovavano di fronte all'inutilità di una lotta che sembrava insormontabile.
Come in passato, e soprattutto da quando India e Pakistan avevano sperimentato le armi atomiche, la comunità internazionale reputava la questione del Kashmir come la più probabile fonte di conflitto tra i due paesi, ma vista l'insistenza dell'India nel rifiutare l'intervento di un mediatore terzo, si sentiva impotente a intraprendere un ruolo più attivo nella composizione della disputa. E si riconosceva peraltro che, benché a Kargil nel 1999 fosse stata scongiurata la minaccia di una guerra totale e il Pakistan non avesse usato le armi atomiche (che, da quanto si disse in seguito", aveva comunque dispiegato), occorreva soltanto un'altra scintilla per riaccendere il dibattito ideologico e territoriale sullo Stato dello Jammu e Kashmir.
10.1. Il
dirottamento
Il termometro dell'attenzione internazionale verso il Kashmir salì nuovamente quando, il 24 dicembre 1999, un gruppo di uomini armati di bombe a mano, pistole e coltelli, dirottò un aereo delle linee aeree indiane in volo dal Nepal a New Delhi con a bordo 178 passeggeri e l i membri dell'equipaggio 5 . L'aereo cercò di atterrare a Lahore, ma il governo pakistano negò il permesso; i dirottatori lo diressero allora su Amritsar, dove trascorse quaranta minuti a terra, prima di fare un atterraggio di emergenza a Lahore, per rifornirsi e prendere a bordo del cibo, infine decollò per Kabul. Ma le autorità afgane dichiararono che era impossibile atterrare in sicurezza di notte e l'aereo proseguì così per Mascate, la capitale dell'Oman, ma l'atterraggio non fu autorizzato. Si diresse allora verso gli Emirati Arabi Uniti per fare nuovamente rifornimento; durante la sosta furono rilasciati ventisette ostaggi. I dirottatori scaricarono anche il corpo di un indiano venticinquenne, che tornava dal suo viaggio di nozze a Kathmandu, ucciso dai dirottatori. Secondo uno degli ostaggi liberati, non aveva tenuto gli occhi coperti quando a tutti era stato ordinato di farlo e aveva guardato i dirottatori. Dopo essersi rifornito, l'aereo partì per Kandahar, ove giunse la mattina del 25 dicembre. Il Lashkar-i Toiba condannò immediatamente il dirottamento e negò ogni coinvolgimento; se ne attribuì invece la responsabilità un gruppo autonominatosi Fronte Islamico di Salvezza. Una volta che l'aereo ebbe raggiunto l'Afghanistan, i dirottatori comunicarono la loro prima richiesta pubblica, chiedendo il rilascio, tra gli altri, di Maulana Masood Azhar, un capo religioso pakistano che era andato in Kashmir nel 1994 per prendere parte all'insurrezione, era stato catturato subito dopo e rinchiuso in un carcere di massima sicurezza nei pressi di Jammu. Si trattava di un ideologo e di un procacciatore di denaro dell'Harkat-ul Ansar (ricostituito nel 1997 come Harkat-ul Mujaheddin) e la sua scarcerazione era stata ri-
chiesta anche dal gruppo Al Faran, che rapì i turisti occidentali nel 1995. Malgrado la presenza dell'aereo sul suolo afgano, il ministro degli Esteri dei talebani negò con fermezza ogni mediazione: «Tocca alle Nazioni Unite intervenire e porvi fine», disse in un'intervista telefonica all'Associated Press6. L'ONU dichiarò di non avere ricevuto una richiesta ufficiale di intervento da parte dei talebani, ma venne comunque designato Erick de Mul, coordinatore dell'ONU per l'Afghanistan, per trattare con i dirottatori. Mentre l'aereo restava a terra, barbuti soldati talebani con turbanti neri facevano la guardia nei loro veicoli blindati, armati di fucili d'assalto. Malgrado l'identità dei dirottatori fosse ignota, uno si faceva chiamare Ibrahim, fratello di Azhar. Mentre proseguivano le trattative dalla torre di controllo dell'aeroporto, il primo ministro Vajpayee affermò che il suo governo non si sarebbe piegato alle richieste dei dirottatori, che nel frattempo erano aumentate fino a comprendere altri trentacinque militanti kashmiri e 125 milioni di sterline di riscatto. Ma dopo tre giorni, i pirati dell'aria ridussero le propri richieste e il governo indiano alla fine acconsentì a rilasciare tre militanti, compreso Azhar. La crisi si concluse infine allorché i cinque dirottatori, a viso coperto, lasciarono armi in pugno l'aeroporto su un furgone con autista fornito dai talebani. Scomparvero immediatamente con i tre militanti scarcerati nella campagna afgana. Oltre ad Azhar, i rilasciati erano Mushtaq Zargar, membro fondatore del gruppo militante Al Umar, e lo sceicco Omar Saeed, che era stato implicato nel rapimento di tre cittadini britannici (poi liberati) a New Delhi nel 1994. Titolare di un passaporto britannico, sembrò uno strano scherzo del destino che, dopo la scarcerazione, fosse a buon diritto libero di tornare in Gran Bretagna. Ricomparve insieme ad Azhar in Pakistan, dove quest'ultimo tenne apertamente manifestazioni pubbliche accompagnato da guardie con il fucile in spalla. In seguito il governo USA informò quello pakistano di ritenere l'Harkat-ul Mujaheddin responsabile del dirottamento e avanzò dubbi sul coinvolgimento di Islamabad nel sostegno alle sue attività tramite i propri militari e il controspionaggio. Ma gli Stati Uniti non accolsero le richieste indiane di inserire il Pakistan nella lista degli stati finanziatori del terrorismo7, stilata dal dipartimento di Stato. Allo stesso tempo, il governo indiano fu criticato per «aver mandato il segnale ai militanti kashmiri che l'India è uno stato arrendevole, influenzabile nei confronti dell'attività terroristica». In risposta esso giustificò la propria capitolazione affermando di avere diminuito il numero dei militanti rispetto a quello richiesto in origine e «salvato 160 vite umane» 8 .
10.2. Questione
centrale?
In Pakistan, il generale Musharraf- ancora nella carica a cui si era destinato da sé - adottò un atteggiamento pacificante nei confronti dell'India, continuando d'altro canto la politica dei suoi predecessori nel descrivere il Kashmir come la «questione centrale» nelle relazioni tra i due paesi. «Abbiamo tentato ogni sorta di diplomazia delle corriere e del cricket [...] perché sono tutte fallite? Perché non ci si rivolgeva alla questione centrale [...] perché c'è soltanto una controversia, la controversia sul Kashmir [...] le altre sono solo deviazioni, divergenze d'opinione minori che possono essere risolte», disse nella sua prima intervista a un giornalista indiano9. All'interno parlò di riforme e promise di indire le elezioni nell'ottobre 2002, dopo la ratifica da parte della Corte Suprema del suo mandato, a tre anni dalla data del colpo di Stato; a livello internazionale, sollecitò gli investimenti e chiese alla comunità mondiale di comprendere le ragioni che gli avevano fatto rovesciare Nawaz Sharif, il quale, dopo un processo e una condanna per complotto per l'uccisione del capo dell'esercito, fu poi esiliato per dieci anni in Arabia Saudita. Malgrado le dichiarazioni concilianti verso l'India, il premier pakistano portò comunque avanti la tradizionale politica del suo paese di appoggio al movimento kashmiro per l'«autodeterminazione». Il 5 febbraio 2000, giorno celebrato in Pakistan come «Giornata della Solidarietà con il KashmÌD>, visitò un campo profughi fuori Muzaffarabad: tra gli slogan che si levarono durante il suo discorso, egli fece una distinzione tra il terrorismo e quei «combattenti per la libertà» che lottavano per la loro autodeterminazione contro il governo indiano. «Ci sono alcune fazioni, alcune persone sconsiderate che danno una cattiva fama ai mujaheddin. Queste persone dovrebbero desistere da ogni forma di terrorismo, che sia il dirottamento di aerei, l'uccisione di civili innocenti o attentati dinamitardi» 10. Sul piano politico, insisteva ancora sul fatto che le risoluzioni ONU fossero la via accettabile per risolvere il conflitto. Adottò anche un tono indignato nei confronti dell'India, dicendosi disponibile a negoziare «dovunque in qualunque momento» con il primo ministro Vajpayee, ma «spiacente di dire» che il maggiore ostacolo al riawio del dialogo era l'intransigenza indiana11. Il primo ministro indiano rimase impassibile e fece rilevare che, qualora il capo del governo pakistano potesse avere dimenticato Kargil, il popolo indiano non lo aveva fatto ed era inutile tenere dei negoziati mentre i «terroristi» continuavano a infiltrarsi attraverso la linea di controllo12. In ambito internazionale sembrava che l'India avesse preso il sopravvento nel gioco della propaganda. A marzo, il presidente Clinton fece la prima visita nel paese di un capo di Stato americano dopo ventidue anni, ma il suo viaggio fu oscurato dalla notizia di un massacro di sikh nel
Kashmir. La sera del 20 marzo, un gruppo di circa quindici uomini, vestiti con divise da battaglia dell'esercito e armati di bombe a mano e fucili d'assalto, entrarono nel villaggio di Chittisinghpura nel distretto di Anantnag, 80 chilometri a sud-ovest di Srinagar. Dopo che gli abitanti ebbero terminato le preghiere serali, gli uomini furono separati dalle loro famiglie e fatti sedere in due gruppi contro le mura del tempio, apparentemente per controllare i documenti di identità. «Ordinarono a donne e bambini di andarsene, poi uccisero tutti gli uomini sparando a bruciapelo per almeno dieci minuti», disse Gurmukh Singh, un testimone oculare13. Nel peggiore massacro nello Stato del Kashmir dall'inizio dell'insurrezione, vennero assassinati trentaquattro uomini, mentre un altro morì più tardi per le ferite14. Fu anche il primo attacco contro la comunità degli 80.000 sikh del Kashmir, rimasti neutrali per tutta l'insurrezione. Gli ufficiali indiani accusarono immediatamente della strage il Lashkar-i Toiba e l'Hizb-ul Mujaheddin, dichiarando che la loro intenzione era di «internazionalizzare» la disputa sul Kashmir alla vigilia della visita di Clinton; ma quando tre attivisti per i diritti umani indagarono sull'episodio, conclusero che le responsabilità andavano cercate tra i «rinnegati» piuttosto che tra i militanti. Si obiettò inoltre che nei pressi era di stanza un'unità dei Raashtriya Rifles, che però non fece nulla per aiutare gli abitanti del villaggio e ispezionò la scena soltanto il giorno dopo. L'indagine non stabiliva tuttavia che gli esecutori appartenessero alle forze di sicurezza15. Nel corso della sua visita in India, di grande rilievo, il presidente Clinton sbalordì gli attivisti kashmiri non facendo riferimento allo Stato né durante il suo discorso al parlamento indiano né nella «dichiarazione d'intenti» che firmò con il primo ministro Vajpayee. Nel corso dei colloqui, quest'ultimo assicurò agli americani che, malgrado le apparenze, la regione non era un «punto caldo nucleare». «Abbiamo un problema di terrorismo di frontiera, ma non c'è alcuna minaccia di guerra» 16 . E, in considerazione della condanna espressa dagli Stati Uniti contro il golpe militare di Musharraf, il presidente Clinton fece solo una visita simbolica in Pakistan. Il suo messaggio, in un discorso teletrasmesso al popolo pakistano, fu cupo: doveva essere ripristinata la democrazia e Musharraf doveva prendere misure per controllare i gruppi di insorti di base nel paese, i cui componenti attraversavano la linea di controllo per combattere nello Jammu e Kashmir. Avvertì inoltre l'uditorio che «nessuna ingiustizia, nessuna causa, nessun impianto di fede possono mai giustificare l'uccisione deliberata di innocenti». Con una dichiarazione assai distante dall'«interesse personale» che nel 1999 aveva promesso di prendere dopo Kargil, annunciò dunque che gli Stati Uniti non potevano mediare o risolvere la disputa sul Kashmir: «Soltanto voi e l'India potete farlo attraverso il dialogo»17. L'effetto della visita cordiale di cinque giorni in India, paragonato alla gelida sosta a Islamabad, produsse una reazione
variegata in Pakistan. Laddove alcuni analisti ritenevano che fosse il momento di salvare l'antica amicizia con gli Stati Uniti, negli ambienti militari si riconosceva che, qualora il Pakistan intendesse continuare a perseguire la propria politica sul Kashmir, gli sarebbe stato necessario riscoprire i propri alleati tradizionali nella regione. «Occorre non avviare una corsa agli armamenti con l'India, ma non possiamo lasciar andare il Kashmir. Facciamo che diventi una ferita sanguinante per l'India», affermò l'ex capo di Stato maggiore Aslam Beg. «I costi saranno pesanti da entrambe le parti, ma soprattutto per l'India» 18 . Nel frattempo, nella valle si facevano sentire le ripercussioni del massacro dei sikh. Poco dopo l'assalto, il governo statale del ministro capo Farooq Abdullah annunciò che sarebbe stato compiuto ogni sforzo per trovare i responsabili, ma quando un'unità congiunta dell'esercito e del gruppo per le operazioni speciali uccise cinque uomini in un villaggio del distretto di Anantnag, imputandogli di essere i responsabili del massacro dei sikh, la gente del luogo non credette al resoconto ufficiale. Furono inscenate dimostrazioni di protesta nelle quali si reclamò che i morti erano civili innocenti. E, nonostante il governo promettesse l'esumazione e ulteriori indagini, gli scioperi continuarono. All'inizio di aprile parecchie migliaia di dimostranti marciarono su Anantnag per presentare una nota al commissario delegato. La situazione volse al peggio quando i manifestanti cominciarono a lanciare sassi contro un posto di polizia. Più tardi, quando la folla raggiunse il villaggio di Brakpora, la polizia aprì il fuoco e uccise sette persone, ferendone altre quindici e dando così il via a un'ulteriore sequenza di recriminazioni e indagini.
10.3. L'autonomia, il cessate il fuoco e il
censimento
Sul fronte politico, Farooq Abdullah stava tentando di rimediare alla propria promessa di ripristinare lo Stato nella sua autonomia pre-1953. Secondo le raccomandazioni del rapporto sull'autonomia del Kashmir19, l'autorità di New Delhi doveva essere nuovamente limitata a difesa, politica estera e comunicazioni, com'era prima del 1953; il rapporto proponeva inoltre che lo Stato dovesse avere un primo ministro e una suprema corte propri. Tuttavia Abdullah era avversato non soltanto dal governo centrale, ma anche dagli otto membri del BJP all'opposizione nell'assemblea statale. Con delle fasce nere in testa, questi scandirono slogan accusando la National Conference di essere filopakistana e quando, dopo cinque giorni di acceso dibattito, venne approvata la risoluzione, abbandonarono l'aula. Anche se durante il dibattito avevano avversato l'autonomia, richiamando piuttosto l'attenzione del governo sulla lotta alla povertà e ai militanti, i componenti dell'opposizione del Congresso (I) si
astennero dal voto. Anche le comunità buddista e induista erano contrarie al progetto di Abdullah e lo criticavano come un primo passo verso la secessione. A New Delhi, il governo indicò che non era contrario a dare allo Stato una certa dose di autonomia, per quanto concedere lo statuto pre-1953 avrebbe indebolito l'integrità nazionale dell'India20. La Hurriyat respinse l'autonomia quale soluzione della disputa del Kashmir: Syed Ali Shah Gilani, il presidente, disse che la lotta per il diritto all'autodeterminazione e per una soluzione permanente del problema sarebbe continuata. Per tutto il 2000, gli attentati dei militanti contro edifici e dipendenti del governo continuarono a seguire il loro schema stagionale. A luglio, inaspettatamente, Majid Dar, comandante nella valle dell'Hizb-ul Mujaheddin, annunciò un cessate il fuoco unilaterale per tre mesi e offrì l'apertura di un dialogo con il governo indiano. «In pochi giorni, i militanti dell'HM giocavano a cricket con le forze di sicurezza indiane (e vincevano)», scrisse Alexander Evans21. New Delhi rispose dando istruzione alle forze dell'ordine di contraccambiare e accettò l'offerta di dialogo, ma il cessate il fuoco non fu rispettato dalle altre organizzazioni militanti, soprattutto dal Lashkar-i Toiba e da Al Jehad. Il primo agosto, centocinque civili furono uccisi in sette diversi incidenti. Nell'attentato più grave, a Pahalgam furono assassinati ventitre pellegrini indù, allorché uomini armati non identificati entrarono in un mercato, lanciarono bombe a mano e aprirono il fuoco con armi automatiche. In seguito, i testimoni oculari indicarono che all'inizio dell'attacco le forze dell'ordine erano state prese dal panico e avevano sparato indiscriminatamente sulla folla, causando più morti e feriti. Un'inchiesta successiva concluse che le forze di sicurezza avevano fatto «un uso eccessivo della forza» per ritorsione contro l'attacco da parte di due militanti. Il rapporto non fu tuttavia reso pubblico e gli identificati non vennero arrestati22. Nella prima settimana di agosto, il cessate il fuoco era già fallito. Da Muzaffarabad, Syed Salahuddin, capo dell'Hizb in Pakistan, insisteva perché quest'ultimo entrasse in un qualunque negoziato con gli stessi diritti, il che per gli indiani era inaccettabile. Anche la APHC non aveva dato il proprio appoggio politico al cessate il fuoco. «L'occasione c'era ma è andata sprecata», disse Abdul Qadri, segretario generale del JKLF di base a Muzaffarabad. «Abbiamo alcune divergenze rispetto al metodo che è stato adottato. Sarebbe dovuta essere una decisione collettiva»2'. Da Rawalpindi, il leader del JKLF Amanullah Khan aveva presentato una formula in cinque fasi, riaffermando ancora una volta la propria convinzione che le uniche condizioni per portare la pace erano la riunificazione e la piena indipendenza dello Stato, in modo che, invece di essere «un pomo della discordia», il Kashmir sarebbe divenuto «un ponte d'amicizia» tra India e Pakistan. «Questo mutamento da un lato salverà l'Asia meri-
dionale dagli orrori di una guerra atomica o convenzionale e libererà i due paesi da bilanci per la difesa così pesanti, dall'altro, annuncerà l'alba di un futuro pacifico, prospero e dignitoso per India, Pakistan e Kashmir»24. Ma, nonostante il preteso consenso diffuso al di là della linea di controllo, la sua posizione di presidente del JKLF era indebolita dalla persistente spaccatura con Yasin Malik. All'interno dello Stato dello Jammu e Kashmir sotto amministrazione indiana, l'attenzione era concentrata anche sulla realizzazione di un censimento25, pubblicizzato come una pratica nell'interesse del popolo per aiutare il governo a delineare i suoi piani di sviluppo. A maggio nello Stato furono dispiegati più di ventimila dipendenti governativi, i quali segnavano case, edifici industriali e commerciali e registravano la disponibilità di elettricità, acqua e altri servizi di base. A settembre si tenne l'effettivo computo della popolazione. Come nel 1991, quando i gruppi militanti costrinsero all'annullamento del censimento, fu imposto un divieto con la motivazione che non era possibile tenere un censimento credibile perché migliaia di kashmiri erano sfollati, emigrati o in carcere. L'Hizb-ul Mujaheddin lo definì «una pratica inutile» e avvertì tutti i funzionari musulmani che avrebbero affrontato «terribili conseguenze» se vi avessero preso parte. Nonostante il conteggio procedesse tranquillamente nel Ladakh e nello Jammu, nella valle restò problematico e la scadenza per la conclusione del censimento dovette essere estesa al 30 settembre. Anche se le autorità indiane annunciarono alla fine che le operazioni erano state completate, da quanto si riferì per svariate aree le cifre furono fondate su ipotesi, dal momento che gli impiegati incaricati non osarono procedere porta a porta per via del bando dei militanti26. Nel frattempo, comparivano resoconti quotidiani di militanti arrestati, attacchi e contrattacchi. Nel 2000, il numero degli omicidi legati all'insurrezione nello Jammu e Kashmir fu più alto dell'anno precedente. Come registrato dal Rapporto sui Diritti Umani in India del dipartimento di Stato USA, gli assassini extragiudiziali da parte di forze governative, che comprendevano le morti in stato di arresto e «le uccisioni in scontri simulati», continuarono ad essere frequenti27. Sebbene la Commissione Nazionale per i Diritti Umani, nominata e finanziata dal governo indiano, avesse ordinato che su tutte le morti negli scontri si indagasse immediatamente, era largamente noto che i membri delle forze dell'ordine raramente venivano ritenuti colpevoli degli assassini. Inoltre la Commissione, qualora non fosse soddisfatta delle conclusioni delle indagini svolte, non aveva alcun potere statutario per indagare sui presunti abusi delle forze dell'ordine. Il governo indiano continuava a fare affidamento sulle attività dei controinsorti per rintracciare e anche, come si diceva, per perpetrare uccisioni «extragiudiziali» di militanti. Ma si conveniva che la loro complessiva utilità era in calo, poiché non avevano più lo stesso appara-
to informativo di quando erano inizialmente passati dalla parte del governo28. Anche se la Legge per la Prevenzione delle Attività Terroristiche ed Eversive era stata lasciata scadere nel 1995, si diceva che più di mille persone restavano detenute senza processo e si riteneva che diverse altre migliaia fossero tenute nei centri per gli interrogatori per brevi periodi di reclusione, che potevano durare fino a sei mesi. La maggior parte dei detenuti lo erano in virtù della Legge di Pubblica Sicurezza dello Jammu e Kashmir, risalente al 1978. La legge per le aree agitate dello Jammu e Kashmir e quella sui poteri speciali delle Forze Armate, entrambe approvate nel 1990, davano ancora alle forze dell'ordine poteri ad ampio raggio, compresa l'autorità di sparare a tutti quelli che erano sospettati di infrangere la legge o turbare la pace, nonché di distruggere edifici nei quali si riteneva fossero nascosti i militanti e/o le loro armi. Infine, il sistema giudiziario funzionava ancora con difficoltà. Abdullah affermava che avrebbe istituito inchieste «imparziali», ma era criticato per il fatto di utilizzare un linguaggio poco propizio a migliorare i rapporti tra gli elementi scontenti della società e a preparare il terreno per il dialogo. L'I 1 gennaio 2001 una bomba a mano lo mancò di poco ed egli dichiarò che i militanti dovevano essere abbattuti a qualunque costo. Come riportò Amnesty International, «un tale linguaggio istiga ulteriore violenza e contribuisce a un clima di impunità, in cui i rappresentanti dello Stato possono sentirsi qualificati a perpetrare esecuzioni extragiudiziali in base al presupposto che non verranno incriminati» 29. Ne fu esempio l'arresto, nel febbraio 2001, di Jalil Ahmad Shah. Il governo lo dipinse come un «comandante militante», ma un portavoce del JKLF respinse l'accusa, sostenendo al contrario che si trattava soltanto di un segretario distrettuale del partito, il cui programma era non violento. La sua morte in uno «scontro» mise ancora una volta in moto una serie di incidenti collegati, come dimostrazioni di protesta e sparatorie indiscriminate sulla folla da parte delle forze dell'ordine, che condusse a più morti e più recriminazioni. Nel frattempo, il governo indiano perseverava nei tentativi di avviare un dialogo in uno spirito, come lo definì il primo ministro Vajpayee, di insatiiyat ('umanità'). A novembre 2000, questi dichiarò che non sarebbero state condotte- «operazioni di combattimento» contro i musulmani durante il sacro mese di digiuno, il Ramadan. Il Pakistan ricambiò annunciando che le truppe lungo la linea di controllo avrebbero esercitato il «massimo equilibrio». Ma, malgrado il "cessate il fuoco" indiano restasse in vigore per più di sei mesi, tra gli abitanti del luogo vi fu un generale scetticismo a proposito della sua reale efficacia. Scarso entusiasmo aveva accolto peraltro il dialogo incoraggiato da Shri K.C. Pant, un anziano ex ministro indiano: per la prima volta il governo indiano si diceva disposto
a parlare con i militanti che avevano rinunciato alle armi, ma il punto morto restava la sua insistenza sull'integrità dell'Unione Indiana.
10.4. Ad Agra Mentre il popolo degli Stati Uniti eleggeva il suo quarantatreesimo presidente, nell'elezione più tenacemente contestata della propria storia, l'occhio dell'amministrazione statunitense si distolse temporaneamente dagli avvenimenti nell'Asia meridionale. Ma, persino prima che l'elezione di George W. Bush venisse convalidata, i funzionari del dipartimento di Stato confermarono che la nuova amministrazione avrebbe proseguito la politica avviata da Clinton all'inizio del suo secondo mandato: l'Asia meridionale era di rilevanza crescente per gli interessi degli USA ed era pertanto importante per questi ultimi migliorare le relazioni con i paesi della regione. A dicembre 2000 Karl Inderfurth, sottosegretario di Stato per l'Asia meridionale, aveva inoltre precisato che il suo paese avrebbe continuato a esercitare il ruolo di «agevolatore» piuttosto che di mediatore per cooperare con India e Pakistan nella risoluzione dei loro problemi, compreso il Kashmir. Quando si insediò, Bush chiarì immediatamente che la sua amministrazione avrebbe spinto i due stati asiatici a riprendere il dialogo. Nella primavera del 2001, Vajpayee mitigò il proprio atteggiamento invitando Musharraf in India. Da un giorno all'altro, le colonne dei giornali si riempirono di dichiarazioni incoraggianti da parte degli analisti, che guardavano a un nuovo radioso futuro in cui la questione del Kashmir fosse risolta e Pakistan e India potessero vivere in pace. Persino gli abitanti delle aree settentrionali sembrarono pensare che la visita di Musharraf avrebbe sistemato la loro posizione anomala in virtù della quale non avevano alcuno status nella costituzione del Pakistan, pur essendo considerati, a tutti gli effetti, come facenti parte di esso30. Altri nel paese erano più scettici e ritenevano che l'improvviso voltafaccia di Vajpayee fosse dovuto alle sollecitazioni degli Stati Uniti, che a loro volta avrebbero insistito con il Pakistan affinché controllasse i militanti in Kashmir. «Se il presidente Musharraf non vuole essere tiranneggiato da Washington e festeggiato a Delhi, deve chiarire adesso la propria posizione. Il suo ministero degli Esteri deve imparare a protestare e ad abbandonare le riunioni ogni volta che un qualunque funzionario indiano utilizza le espressioni "terrorismo di frontiera" e "separatisti kashmiri"», affermò un generale di brigata in pensione31. Anche gli attivisti politici kashmiri operanti nella valle non erano convinti che dall'incontro di Musharraf con Vajpayee sarebbe venuto qualcosa. Yasin Malik, che si recò per la prima volta negli Stati Uniti e in Gran Bretagna per cure mediche, era persua-
so che qualunque accordo fatto sulla testa dei kashmiri sarebbe stato respinto: il Kashmir, disse, non è «un animale da spartirsi»". Prima della visita, con una mossa non del tutto inattesa, Musharraf assunse anche l'incarico di presidente. Come per il colpo di Stato del 1999, l'ulteriore assunzione arbitraria di potere non fu bene accolta dalla comunità internazionale, tuttavia diede a lui la prospettiva di restare in carica oltre il periodo di tre anni ratificato dalla Corte Suprema. I negoziati indo-pakistani, fissati per la metà di luglio, si tennero ad Agra e comportarono anche una nostalgica visita alla casa avita di Musharraf nella vecchia Delhi. Nondimeno, malgrado l'ostentazione di cordialità tra i due leader, durante i colloqui non si ottenne alcun risultato accettabile per entrambi. Successivamente Musharraf proclamò di essere riuscito a ottenere il consenso di Vajpayee sulla centralità della questione del Kashmir nei rapporti tra i due stati, ma al momento di firmare il comunicato ufficiale, la formulazione era stata corretta per includere un riferimento al «terrorismo di frontiera», che il presidente pakistano non era disposto a concedere". Dopo avere dapprima rimandato la propria partenza per cercare di concordare un testo soddisfacente, questi concluse il vertice tornando repentinamente a Islamabad nel cuore della notte. Immediatamente dopo i colloqui, entrambe le parti cercarono di giustificare i propri rispettivi punti di vista e di mantenere al contempo un atteggiamento ottimistico rispetto all'esito. «Siamo naturalmente delusi che le due parti non siano potute pervenire a un testo concordato», dichiarò il ministro degli Esteri indiano Jaswant Singh. «Ciò è avvenuto a causa della difficoltà di conciliare i nostri approcci di fondo alle relazioni bilaterali. L'India è convinta che approcci ristretti, frazionati o univoci semplicemente non funzioneranno. La nostra attenzione deve restare sulla totalità delle relazioni». Anche il ministro degli Esteri pakistano, Abdul Sattar, rilevò la «convergenza delle opinioni». Entrambe le parti avevano tenuto colloqui ad ampio raggio su svariate questioni, dichiarò, ma era spiacevole «che l'atteso compimento non si sia concretizzato»34. Musharraf rifiutò di definire i negoziati un fallimento, disse invece che erano stati inconcludenti. Vajpayee affermò in seguito che il vertice di Agra era stato un fallimento, perché il presidente pakistano aveva rifiutato di riconoscere che nello Jammu e Kashmir c'era il terrorismo35. La reazione internazionale al risultato dei negoziati fu di riserbo. Il segretario generale dell'ONU Kofi Annan incoraggiò i due leader a considerare il vertice di Agra come un «primo passo» verso l'istituzione di un dialogo bilaterale sostenibile per comporre le loro divergenze. Anche gli USA furono misurati: «I due paesi erano alle prese con questioni molto difficili che li hanno divisi per più di cinquant'anni», dichiarò il sottosegretario di Stato per l'Asia meridionale Christina Rocca. «Eppure il clima serio e costruttivo di questi negoziati mi dice che entrambe le parti sono
impegnate ad appianare le divergenze»' 6 . La risposta dei gruppi militanti fu meno indulgente: «Il fallimento dei colloqui ha dimostrato la giustezza della posizione dei mujaheddin, secondo i quali l'India non intenderà mai risolvere la questione attraverso il negoziato. La risoluzione di tale questione è possibile soltanto con la jihad», sostenne Ahmaf Hamza, vicecomandante del gruppo militante Al Badar37. Intanto nell'Azad Jammu e Kashmir c'era fermento per l'annuncio che il JKLF di Amanullah Khan avrebbe partecipato alle imminenti elezioni; ma il requisito era che i candidati dichiarassero di credere nell'«ideologia del Pakistan, nell'ideologia dell'annessione dello Stato al Pakistan e nell'integrità e sovranità del Pakistan». Quando si rifiutarono di farlo, i loro documenti per la candidatura furono respinti' 8 . Per coloro che combattevano per l'indipendenza dello Stato, fu un altro segnale dell'ambiguo sostegno del Pakistan al «diritto all'autodeterminazione» dei kashmiri.
10 J. L'11 settembre Quando, martedì 11 settembre, vennero dirottati quattro aerei, due dei quali furono pilotati contro il World Trade Center di New York, un altro contro il Pentagono, mentre un quarto precipitò in un campo della Pennsylvania, non venne fatto alcun collegamento immediato con il Pakistan e la «lotta per la libertà» dei kashmiri. Ma appena il governo degli Stati Uniti si convinse che gli attentati terroristici erano stati indotti dal dissidente saudita Osama Bin Laden, stabilitosi in Afghanistan dal 1996 e appoggiato dal regime talebano del mullah Omar, a sua volta sostenuto dal Pakistan, il governo di questo paese si trovò nuovamente al centro dell'attenzione. Dopo una breve riflessione, e contro i settori islamici radicali dell'opinione pubblica, il presidente Musharraf effettuò una completa inversione di rotta nella politica afgana: annunciò la propria alleanza con il presidente Bush contro i talebani nella «guerra al terrorismo» e 11 proprio sostegno al progetto degli Stati Uniti di distruggere la rete Al Qaeda di Osama Bin Laden con una serie di attacchi aerei contro obiettivi in Afghanistan. Ciò rinsaldò il rapporto USA-Pakistan, ma implicò anche che la politica pakistana in Kashmir sarebbe stata messa pesantemente sotto osservazione. Il governo indiano, in particolare, fu turbato dalla prospettiva della collaborazione del Pakistan con gli Stati Uniti e i suoi alleati nella guerra al terrorismo in Afghanistan, Pakistan che nel frattempo continuava ad appoggiare il «terrorismo di frontiera» nello Jammu e Kashmir. La distinzione venne ulteriormente offuscata dal fatto che alcuni kashmiri si erano addestrati in Afghanistan e alcuni afgani avevano combat-
tuto in Kashmir; Musharraf si trovò pertanto sotto una crescente pressione internazionale affinché condannasse tutti gli atti di terrorismo, ovunque avessero luogo. Non dovette attendere a lungo: il primo ottobre vi fu un attentato suicida contro l'Assemblea di Srinagar, in cui morirono trentotto persone. Rendendosi conto della delicatezza della situazione, 0 presidente telefonò immediatamente a Vajpayee per condannare l'atto di «terrorismo». Molto più grave, per la reazione che suscitò da parte del governo indiano, fu l'attentato contro il parlamento dell'India, il 13 dicembre, nel quale restarono uccise quattordici persone. Gli indiani non persero tempo nell'incolpate il Pakistan di dare ricetto ai terroristi, che si presumeva fossero del Lashkar e del Jaish-i Mohammed, un gruppo radicale formato nel 2001 da Azhar, uno dei militanti liberati dopo il dirottamento del dicembre 1999. Vajpayee ordinò prontamente la chiusura del confine tra India e Pakistan e sospese tutti i voli da Delhi a Lahore; venne inoltre interrotto il servizio di corriere inaugurato nel 1999 insieme all'ex primo ministro Nawaz Sharif. L'unico punto di accesso e di uscita che restava aperto al confine era l'attraversamento a piedi di Wagah - a metà strada tra Lahore e Amritsar - , che era a uso degli stranieri e dei soli cittadini «per affari ufficiali». Gli Stati Uniti, ancora pesantemente impegnati nelle loro operazioni in Afghanistan, appoggiarono la reazione indiana, ma erano al contempo evidentemente desiderosi di non mettere troppo in imbarazzo il Pakistan. Alla fine di dicembre, il Lashkar-i Toiba e il Jaish-i Mohammed furono definite come «organizzazioni terroristiche straniere» secondo la legge degli Stati Uniti e fu chiesto al Pakistan di far cessare l'attività dei gruppi. «Questi gruppi, che rivendicano di sostenere il popolo del Kashmir, hanno condotto numerosi attentati terroristici in India e in Pakistan», dichiarò il segretario di Stato Colin Powell. «Come mostrano chiaramente i recenti attentati raccapriccianti contro il parlamento indiano e l'Assemblea Legislativa Statale di Srinagar, il Lashkar-i Toiba, il Jaish-i Mohammed e gente simile cercano di aggredire la democrazia, di minare la pace e la stabilità nell'Asia meridionale e distruggere le relazioni tra India e Pakistan»' 9 . Il 29 dicembre il ministro della Difesa indiano George Fernandes annunciò che le Forze Armate erano interamente mobilitate, il Pakistan seguì immediatamente l'esempio annunciando la propria completa mobilitazione il primo gennaio 2002. Allo scopo di convincere il proprio popolo e la comunità internazionale che il Pakistan era serio nel contrastare il terrorismo, il 12 gennaio il presidente Musharraf tenne un fondamentale discorso politico nel quale ordinò un giro di vite contro gli estremisti nel paese. Ma, in un passaggio significativo del discorso, espresse il durevole appoggio del suo paese alla lotta per la libertà dei kashmiri. «Il Kashmir ci scorre nel sangue. Nessun pakistano può permettersi di recidere i legami con esso. L'in-
tero Pakistan e il mondo lo sanno. Noi continueremo a dare il nostro sostegno morale, politico e diplomatico ai kashmiri»40. Mentre la comunità internazionale prese il discorso alla lettera e gradì l'impegno del Pakistan ad agire contro «ogni singolo, gruppo o organizzazione pakistani di cui si scopra il coinvolgimento nel terrorismo all'interno o fuori del paese», il governo dell'India non ne fu convinto. Il confine internazionale restava chiuso e la prospettiva era che gli indiani continuassero a controllare la situazione fino allo scioglimento delle nevi, per determinare se da qualcuno dei settantadue punti di accesso stimati della linea di controllo fossero entrati più militanti41. Per gli osservatori della politica di Musharraf, si ponevano due domande prevalenti: quanta autorità esercitava sui militanti e quanto sinceramente lui e quelli dietro le quinte - i comandanti dei corpi militari e lisi intendevano contenere le incursioni nello Stato dello Jammu e Kashmir? E vi era poi una terza domanda: fino a che punto il presidente riusciva effettivamente a contenere l'estremismo nel suo paese? La risposta a quest'ultima domanda la fornì tragicamente il rapimento del corrispondente del «Wall Street Journal» Daniel Pearl, avvenuto a Karachi il 23 gennaio. Per tutto febbraio vi furono intense congetture sul fatto che fosse morto o vivo; finalmente, un mese dopo il sequestro, la sua morte fu confermata quando i rapitori inviarono al consolato USA di Karachi una videoregistrazione, che mostrava Pearl mentre gli veniva tagliata la gola. Anche se il suo rapimento non fu messo in relazione con l'ideologia della questione del Kashmir, il fatto che lo sceicco Omar Saeed, rilasciato dopo il dirottamento del dicembre 1999, confessasse la propria implicazione nel rapimento, dimostrò ancora una volta come gli atti di terrorismo non potessero più essere divisi in compartimenti42.
10.6. Un'occhiata alla valle Nella valle del Kashmir, dopo l'attentato del 13 dicembre al parlamento indiano, il dispositivo di sicurezza si era irrigidito; ancora una volta, gli abitanti del luogo furono oggetto di pesanti accuse. Tutta la teleselezione in uscita dallo Stato e i servizi di internet, introdotti nel 1998, furono immediatamente sospesi. Soltanto la gente negli alberghi e negli uffici, che riusciva a ottenere una connessione tramite New Delhi, poteva adoperare la posta elettronica, che era più lenta e più costosa. Non più in grado di utilizzare le cabine telematiche con i loro computer nuovi, i giovani stavano in ozio, a giocare a biliardo e a parlare. «Se il governo indiano vuole riguadagnarsi la loro fedeltà», disse nell'aprile 2002 uno studente kashmiro venuto dall'Inghilterra per fare visita alla sua famiglia a Srinagar, «questo non è certo il modo per farlo» 4 '.
Ma, ancor prima di tutto questo, la promessa normalizzazione nella valle non aveva prodotto i suoi effetti essenziali. Benché nei frutteti del Kashmir la raccolta continuasse, l'agricoltura era stata colpita dalla mancanza di investimenti e dalla cattiva gestione e distribuzione. Come ammise lo stesso governatore Saxena, l'immissione di finanziamenti nello Stato non aveva sempre raggiunto coloro ai quali era destinata44. Nella primavera del 2002, con gli eserciti indiano e pakistano ancora minacciosamente disposti lungo la frontiera internazionale e i cannoneggiamenti costantemente in corso da una parte all'altra della linea di controllo, la valle era un luogo triste. Specialmente nelle zone rurali, i kashmiri erano ancora in attesa di un miracolo che li avrebbe liberati dalle forze occupanti del governo indiano, come dagli attentati dei militanti, e avrebbe ripristinato la pace e la prosperità generali. Dietro le porte chiuse, molti abitanti si rammaricavano dell'insurrezione e si auguravano di poter tornare a come stavano prima le cose, ma non erano opinioni che osavano esprimere pubblicamente. Altri restavano irremovibili sul fatto che non sarebbero tornati alla situazione precedente il 1989 dopo tutta la sofferenza, le violazioni dei diritti umani e le vite perdute45. Dopo tredici anni di insurrezione, le donne erano dipinte come le perdenti «invisibili»: si stimava che 5.000 fossero vedove, con un numero pari, forse maggiore, di donne i cui mariti erano scomparsi, lasciandole a mantenere da sole la famiglia, non libere di addolorarsi né di risposarsi; più di 50.000 bambini erano orfani. I livelli di violenza domestica erano cresciuti, «ma quando è in gioco la nazione, la violenza in casa sembra priva d'importanza»46. In anni recenti, per sfuggire al trauma delle misure restrittive, ai cordoni di sicurezza e alle operazioni di perquisizione nelle zone rurali, si era verificato un costante movimento di gente verso i più sicuri dintorni di Srinagar. La comunità pandit restava tuttavia esiliata dalle proprie case; la richiesta di un «Panun Kashmir» per la comunità induista della valle rivelava il loro sentimento di disaffezione, ma non era una risposta ai loro problemi o a quelli della comunità kashmira nella sua interezza. Continuavano gli scioperi come arma di dissenso contro le azioni del governo indiano. Il 6 aprile i negozi furono nuovamente chiusi per protestare contro la promulgazione della Legge per la Prevenzione del Terrorismo. Amnesty ammonì immediatamente che il decreto avrebbe minato i diritti umani per via degli ampi poteri di reclusione che conferiva alla polizia. «Tuttavia», disse un giornalista kashmiro residente a Srinagar, «ci sono leggi molto peggiori, come quella per le aree agitate, che dà alle forze dell'ordine poteri amplissimi, compresa l'autorità di sparare a quelli che sono sospettati di "turbare" la pace»47. Anche se godevano di una maggiore libertà rispetto al passato, i giornali locali erano ancora soggetti a intimidazioni. Alla fine del giugno 2002, tre uomini entrarono negli uffici di Srinagar di «Kashmir Images», uno dei diversi quotidiani locali
in lingua inglese: dopo aver parlato per venti minuti con il redattore Zafar Iqbal, uno di essi estrasse una pistola e gli sparò. A metà luglio, vi fu un grave attentato contro Shahid Rashid, ex militante e fondatore del giornale in urdu «State Reporter». Inoltre, i militanti tendevano sempre a prendere di mira i sostenitori della National Conference: in un solo mese vennero uccisi cinque attivisti del partito. Malgrado tutto, la gente cercava di condurre una vita normale. Un'oasi di calma per i più fortunati era fornita dalla Tyndale-Biscoe School nel centro di Srinagar; nascosto dietro enormi cancelli eretti al culmine dell'insurrezione per tener fuori gli intrusi, il direttore Pervez Kaul considerava il ruolo della scuola come un «faro» in tempi difficili48. L'industria del turismo era ancora l'ombra di ciò che era stata al suo apogeo, sebbene l'elite dei pandit e dei punjabi più ricchi avesse meno paura che negli anni precedenti di tornare alle proprie case galleggianti, custodite dai loro domestici musulmani all'apice dell'insurrezione. I proprietari di case galleggianti avviati da più tempo, come Gulam Butt a Naseem Bagh, erano riusciti a sopravvivere grazie a una precedente diversificazione dell'attività nella vendita di tappeti e di prodotti dell'artigianato. Quelli che poterono procurarsi dei punti vendita nelle maggiori città dell'India e all'estero soffrirono meno del kashmiro medio. Il boom a livello mondiale nella vendita degli scialli di pashmina a metà degli anni Novanta giovò inoltre ad alcuni commercianti, ma coloro che ne trassero profitto inevitabilmente furono gli intermediari, piuttosto che i tessitori kashmiri49. Dice l'autrice Justine Hardy, che ha messo su i propri affari importando pashmina dal Kashmir all'Inghilterra: «A gran parte dell'enorme domanda vennero incontro i nepalesi. I tessitori kashmiri non potevano certo produrre scialli a sufficienza». Il loro commercio potenziale fu colpito anche dalla crisi di Kargil del 1999. «Le capre che producono la lana pashmina di ottima qualità pascolano sui colli del Ladakh e, a causa di Kargil, le truppe indiane interruppero tutto il traffico che andava lassù»50. Inoltre, gli artigiani kashmiri furono influenzati negativamente dal divieto di filare lo shahtoosh dell'antilope tibetana protetta. II coprifuoco era stato allentato, eppure Srinagar mancava ancora della vitalità di un tempo. I laghi erano più puliti, ma le strade ancora sporche. I negozianti stavano in attesa davanti ai loro negozi, impazienti di attirare i pochi occidentali che venivano a Srinagar, immancabilmente giornalisti. «Ringrazio Dio per un po' di pane e burro», disse Gulzar, un sarto di Srinagar, i cui unici clienti negli ultimi anni erano stati giornalisti stranieri, ufficiali e diplomatici dell'ONU, «ma adesso mi piacerebbe un po' di marmellata»51. Come ha spiegato in modo appropriato Mark Tully, in un documentario trasmesso dalla televisione inglese nel giugno 2002, il Kashmir potrebbe essere uno dei luoghi più belli del mondo, ma l'ultimissima guida turistica dell'India non gli dedica un capitolo; al contra-
rio, avverte che la valle è una zona di guerra e raccomanda ai turisti di non visitarla. Sul piano politico, la Hurriyat aveva migliorato il suo profilo grazie ad alcune visite all'estero; il soggiorno di Yasin Malik negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel 2001 gli aveva dato più visibilità nei media stranieri di quanta ne avesse mai sperimentata a Srinagar. I tentativi della APHC di visitare i suoi equivalenti nell'Azad Kashmir erano tuttavia ancora ostacolati dal controllo dei passaporti effettuato dal governo indiano52. Nella primavera del 2002, per replicare all'accusa del governo secondo cui l'organizzazione non aveva alcuna rappresentanza in quanto non aveva mai concorso alle elezioni, Malik avviò una «commissione elettorale» alternativa che avrebbe sovrinteso all'elezione di candidati da considerare portavoce rappresentativi. Prima che l'iniziativa decollasse, venne tuttavia arrestato con l'accusa presunta di avere ricevuto 100.000 dollari in violazione delle disposizioni valutarie dell'India. Negò gli addebiti, ma fu comunque tenuto in carcere, circostanza che lo allontanò dalla scena politica in una congiuntura critica, mentre la APHC si preparava a eleggere un nuovo presidente al posto di quello uscente, Abdul Gani Bhat5'. La APHC stava peraltro tentando di ripensare la propria strategia elettorale prima del voto di settembre per l'assemblea legislativa dello Stato. Circolavano voci su una spaccatura tra i membri del consiglio esecutivo, divisi tra quelli che volevano partecipare alle elezioni per cercare di impedire a Farooq Abdullah, o al figlio ed erede legittimo Omar, di perpetuare il mandato della National Conference, e coloro che rifiutavano ancora di farlo a causa dell'obbligo di dichiarare la fedeltà dello Stato all'Unione Indiana54. Ad aprile, Omar Farooq e Abdul Gani Lone visitarono Dubai, ove ebbero un incontro «fortuito» con l'ex primo ministro dell'Azadjammu e Kashmir Sardar Abdul Qayum Khan, nel corso del quale affermarono ancora una volta la propria convinzione che il modo migliore per risolvere la questione del Kashmir fosse il dialogo tra gli abitanti di entrambi i versanti della linea di controllo. Discussero anche delle imminenti elezioni e decisero di continuare il proposto boicottaggio, cercando al contempo di creare «un clima favorevole a uno sviluppo pacifico»' 5 . Successivamente, l'assassinio di Lone, il 21 maggio, privò il movimento di uno dei suoi "decani" della politica, un uomo che aveva fatto parte del movimento di protesta da prima dell'insurrezione. In attesa dell'identificazione del suo assassino, furono accusati gli estremisti islamici, che lo avevano già minacciato di morte per il suo atteggiamento più moderato nei confronti dell'India56. Il figlio Bilal venne immediatamente cooptato al suo posto nel consiglio esecutivo della APHC, in qualità di segretario del Consiglio Supremo della People's Conference.
10.7. A quattr'occhi Per tutti i mesi invernali, mentre Srinagar era ancora avvolta dalla neve e i passi di montagna erano chiusi, il governo dell'India sospese il giudizio sulla sincerità del Pakistan nel fermare il movimento attraverso la linea di controllo. Ma c'era irritazione per il fatto che Musharraf non aveva consegnato i venti indiani dei quali il governo aveva chiesto l'estradizione. Seguitavano inoltre le voci secondo cui migliaia di combattenti aspettavano di entrare nel Kashmir settentrionale non appena fosse arrivata la primavera. In Pakistan gli attentati terroristici mettevano seriamente in dubbio la fiducia della comunità internazionale sulle capacità di Musharraf di controllare gli elementi estremisti nel suo stesso paese, restando al contempo in prima linea nella guerra al terrorismo in Afghanistan. A marzo si verificò un attentato con bombe a mano contro una chiesa che si trovava nell'enclave diplomatica di Islamabad. Restarono uccise cinque persone, di cui due americani, e altre furono ferite. All'inizio di maggio esplose un'autobomba nei pressi dell'Hotel Sheraton di Karachi, morirono undici tecnici francesi e tre pakistani. E il referendum indetto da Musharraf il 30 aprile - orchestrato per mostrare alla comunità internazionale che egli godeva ancora di un consenso durevole da parte della popolazione - ricordò comunque che non si trattava di un leader eletto e che pertanto non aveva un vero mandato da parte del suo popolo. Dall'altra parte del confine internazionale, anche il governo del BJP si trovava a fronteggiare i propri problemi interni. A febbraio aveva perso quattro elezioni suppletive, in modo più rilevante nell'Uttar Pradesh. In pochi giorni, scoppiò una violenza «di Stato» equivalente a un «pogrom deliberato» contro la popolazione musulmana del Gujarat; ufficialmente vi furono novecento morti, in scene che ricordarono la spartizione". Il governo indiano tentò di sviare l'attenzione dai suoi problemi interni condannando nuovamente il Pakistan, accusato di finanziare il «terrorismo di frontiera» nello Jammu e Kashmir. Gli eserciti di ambedue i paesi entrarono in stato di massima allerta. All'inizio di maggio il capo dell'isi, Eshanul Haq, avvertì di «un livello mai raggiunto di rischio» di conflitto nelle settimane a venire. Dichiarazioni eccitate provenienti dai due paesi sul potenziale uso delle armi atomiche attrassero immediatamente l'attenzione internazionale. Di fatto, il Pakistan continuava a riservarsi il diritto di un primo attacco, in considerazione della propria incapacità di vincere una guerra convenzionale. Quasi senza rendersi conto della gravità delle proprie parole, il governo dell'India affermò che avrebbe potuto «assorbire» il primo attacco ed essere comunque nella condizione di ricambiare. Ancora una volta, come per Kargil, ciò che preoccupava di più l'opinione internazionale non era la questione del Kashmir, bensì il latto che India e Pakistan ne discutessero ancora e che ciò potesse con-
durre a una guerra totale. Persino gli aspetti umanitari immediati avevano scarsa copertura giornalistica, ma siccome bombardamenti e scambi di artiglieria attraverso la linea di controllo continuavano, la vita di migliaia di persone nelle zone di confine fu sconvolta una volta di più. A metà maggio, un attacco militante contro una base militare di Jammu fece più di trenta morti, tra cui diciannove donne e bambini, e andò a sommarsi alle tensioni sempre più crescenti. Tra rigide misure di sicurezza, Vajpayee fece una visita di tre giorni nello Stato dello Jammu e Kashmir, per nulla turbato dallo sciopero indetto per protesta contro la sua presenza. Andò a trovare anche i feriti dell'attacco alla base militare nell'ospedale di Jammu. Più sinistramente, si recò a Kupwara per parlare alle truppe in prima linea, minacciando, in toni insolitamente bellicosi per un ultrasettantenne dai modi gentili, che l'India doveva prepararsi a «uno scontro decisivo» con il Pakistan. In risposta alle manovre indiane lungo la frontiera internazionale, che includevano il dispiegamento delle navi da guerra in prossimità di Karachi, il Pakistan si preparò a richiamare le proprie forze dalla missione di pace dell'ONU in Sierra Leone e dalla frontiera occidentale con l'Afghanistan 58. Mentre gli osservatori e i cronisti internazionali si aspettavano una dichiarazione di guerra, gli analisti valutavano la relativa potenza dei loro eserciti in quello che sarebbe stato ovviamente uno scontro sanguinoso, opponendo i numeri maggiori dell'esercito indiano con la superiore qualità di quello del Pakistan. E continuavano a calcolare gli effetti di un possibile attacco nucleare, con le mappe pubblicizzate dei potenziali obiettivi59. Per spiegare l'ostilità, Vajpayee informò il presidente Bush e il primo ministro Blair che l'India stava perdendo la pazienza con il Pakistan. «Si è diffusa una collera nazionale», spiegò, «perché Musharraf non ha tradotto in realtà le promesse fatte nel discorso del 12 gennaio di fermare il "terrorismo di frontiera"» 60 . Nonostante le smentite del presidente pakistano, gli indiani restavano convinti che l'iSI desse aiuto agli insorti secondo un ordine del giorno che era cambiato di poco dall'inizio dell'insurrezione. Il giornalista indiano Deepak Sharma riferì che Musharraf continuava a «ingannare» i propri alleati nella lotta al terrorismo: «Da un lato, il generale promette di fermare l'infiltrazione entro trenta giorni, mentre dall'altro i suoi uomini dellìsi continuano a finanziare i gruppi terroristici attivi nel Kashmir». Il resoconto di Sharma sosteneva che il controspionaggio indiano aveva prove sufficienti per avvalorare il coinvolgimento di alti ufficiali dell'lSI nel finanziamento dei terroristi per il tramite di banche di Londra e New Delhi61. Più dannosa fu la successiva dichiarazione del ministro degli Esteri britannico Jack Straw alla Camera dei Comuni, per il quale vi era «un chiaro legame» tra l'iSI e i gruppi militanti kashmiri62. Gli attivisti restarono inoltre sbigottiti quando Straw disse che i kashmiri non erano impegnati in una lotta «per la libertà». La
sua affermazione, disse il dottor Ayub Thukar del World Kashmir Freedom Movement, «ha affrettato la morte delle nostre speranze»63. Mentre Gran Bretagna e Stati Uniti annunciavano il ritiro di tutti i propri cittadini dall'India e dal Pakistan, il presidente Bush si appellò personalmente sia a Musharraf sia a Vajpayee affinché riflettessero sulle conseguenze del loro atteggiamento bellicoso. Il messaggio a Musharraf faceva riferimento alla cessazione di ogni sostegno al «terrorismo», la richiesta a Vajpayee era invece di ridurre la tensione. Il dipartimento di Stato USA avvertì inoltre che anche se i leader non intendevano avviare una guerra, «elementi irresponsabili» avrebbero potuto farlo contro la loro chiara volontà. Ai primi di giugno, Islamabad e New Delhi conobbero un flusso di visitatori di alto livello: dopo la visita di Jack Straw alla fine di maggio, nelle due capitali giunse il vicesegretario di Stato americano Richard Armitage, che, a seguito dei colloqui con Musharraf, disse di sentirsi «molto rincuorato» dall'assicurazione del presidente pakistano che non avrebbe dato inizio a una guerra. Armitage aveva messo di fronte ai pakistani l'ipotesi che i combattenti di Al Qaeda potessero operare in Kashmir, ma fu costretto ad ammettere che non c'era alcuna «prova pesante» e i pakistani respinsero l'idea. La visita fu seguita poco dopo da quella del ministro della Difesa statunitense Donald Rumsfeld, il quale trascorse due giorni a Delhi prima di raggiungere Islamabad. Appena dopo la sua visita, esplose un'autobomba fuori dal consolato americano a Karachi, vicino all'Hotel Marriott, che uccise undici pakistani e ferì più di cinquanta persone. Oltre all'assassinio di Daniel Pearl, l'attentato, senza rapporti con la questione del Kashmir, fu un altro segno del sentimento antioccidentale diffuso tra i gruppi estremisti, esacerbato dalle azioni statunitensi in Afghanistan. Dalla caduta del regime dei talebani, numerosi tra i loro sostenitori e i fiancheggiatori di Al Qaeda avevano trovato rifugio tra i loro simpatizzanti naturali in Pakistan, che continuavano a opporsi alla «guerra al terrore» degli Stati Uniti e al contributo che ad essa forniva il loro paese. Che il Pakistan fosse così esposto al propagarsi del caos imperante in Afghanistan comportava la necessità ancor più impellente di una pace con l'India. In considerazione dei loro interessi nell'Asia meridionale, anche Cina e Russia avevano espresso preoccupazione per la situazione di stallo indo-pakistana. Mentre Vajpayee e Musharraf partecipavano a una conferenza di vertice regionale programmata ad Almaty, in Kazakistan, il presidente russo Vladimir Putin aveva persino offerto di svolgere il ruolo di intermediario. Sia quest'ultimo sia il presidente cinese Jiang Zemin incontrarono separatamente Vajpayee e Musharraf, ma il clima tra i due leader era glaciale, tanto che entrambi utilizzarono i loro pronunciamenti pubblici al vertice per protestare contro la persistente bellicosità dell'altro. In seguito, l'unico sviluppo positivo sembrò essere la proposta del
governo indiano di un pattugliamento congiunto della linea di controllo da parte dei due contendenti. Il progetto fu nondimeno bocciato dal governo pakistano, che preferì «appoggiare» l'idea di una forza neutrale. A metà giugno, nelle dichiarazioni di entrambi i leader, pakistano e indiano, a proposito dell'uso delle armi nucleari subentrò una certa misuratezza. Vajpayee attribuì il miglioramento delle relazioni all'impegno di Musharraf di porre fine al movimento attraverso la linea di controllo, ma la pressione e l'attenzione sulla regione da parte dagli Stati Uniti avevano evidentemente contribuito a raffreddare gli animi". Le condizioni atmosferiche e l'arrivo del monsone implicavano peraltro l'impraticabilità di una guerra convenzionale attraverso il confine internazionale in Punjab. Ma anche se India e Pakistan si ritrassero verbalmente dal gioco mortale della politica del rischio calcolato, che per settimane aveva tenuto il mondo con il fiato sospeso, le rimostranze di fondo tra i due stati e il popolo kashmiro erano irrisolte. L'unico risultato - una lezione che avrebbe dovuto già essere stata appresa a Kargil - fu la consapevolezza che la disputa del Kashmir era divenuta troppo pericolosa per essere trascurata.
10.8. Soluzioni
visionarie?
Molti cronisti e analisti hanno scritto migliaia di parole proponendo soluzioni per la questione del Kashmir, per portare la pace e la prosperità nell'Asia meridionale. Hanno preso in considerazione l'indipendenza dello Jammu e Kashmir, la valle come parte dell'India o del Pakistan, come regione autonoma, come protettorato congiunto, lo Stato diviso permanentemente lungo la linea di controllo, smilitarizzato, con o senza le forze di pace dell'ONU, la risoluzione della questione tramite un referendum unitario, un plebiscito regionale, elezioni, negoziati bilaterali, dialogo tripartito, con o senza mediazione. Nessuna proposta specifica ha tuttavia mai lasciato la fase di progettazione65. Le ragioni sono lampanti. Prima di tutto, il governo indiano detiene il possesso fisico della valle del Kashmir, che rappresenta la principale area di contesa; non ha pertanto sentito la necessità di impegnarsi in un dialogo al di là di quello che ha così tanto vanamente perseguito con i kashmiri insoddisfatti della valle. In seconda istanza, malgrado il desiderio dichiarato di migliorare i loro rapporti, India e Pakistan hanno ancora uno strascico di diffidenza troppo grande, risalente alla spartizione, per potersi disfare del loro «bagaglio» storico ed emotivo. Con il passare del tempo, l'atteggiamento indiano si è, semmai, irrigidito. Contrariamente alle vecchie definizioni dello Stato dello Jammu e Kashmir quale «territorio conteso», i funzionari indiani tentano oggi di allontanarsi del tutto dal definire la questione del Kashmir come una «contesa». «Una conte-
sa», mi disse il governatore Saxena nell'aprile 2002, «è pressappoco quando due persone hanno il potenziale diritto a qualcosa. In questo caso lei ha una situazione in cui c'è una casa, un'altra persona vuole questa casa, entra, ne occupa un terzo e poi mi dice che abbiamo una contesa»66. E, anche se in sede privata molti indiani ammettono i propri errori nella gestione del Kashmir, il governo continua a condannare incondizionatamente il Pakistan per l'insurrezione. Nel clima ostile del 2002, l'affermazione più illuminata fatta dal ministro della Difesa George Fernandes nel 1990 sembrava dimenticata: «Non credo che nessuna mano straniera abbia architettato il problema del Kashmir. Lo abbiamo creato noi e, se altri hanno deciso di trarne profitto, non credo che se ne debba fare una questione. Data la natura della politica del subcontinente, un tale sviluppo era inevitabile»67. Dall'altra parte del confine, a dispetto della sincera cordialità che c'è tra i due popoli a livello sociale e intellettuale, la classe dirigente pakistana è parimenti caduta vittima della convinzione che l'India sia impegnata a destabilizzare il Pakistan e a veder frammentare il paese. Ciò è diventato particolarmente vero soprattutto con l'avvento al potere nel 1998 del governo del BJP, sotto l'influsso dominante del ministro dell'Interno L.K. Advani, nominato vice primo ministro nel luglio 2002. Rispecchiando l'estremismo dei gruppi islamici radicali in Pakistan, le organizzazioni fondamentaliste indù hanno «riscritto» in maniera allarmante la storia, con l'obiettivo di definire l'India come un paese induista piuttosto che laico. Questo tipo di propaganda ha reso i pakistani ancor più preoccupati sul destino dei loro confratelli musulmani dall'altra parte della linea di controllo, nella valle del Kashmir. Anche i pakistani, nel frattempo, hanno riscritto la propria storia, analizzando le cause del conflitto di Kargil o ammettendo fino a che punto avessero aiutato militarmente l'insurrezione per obiettivi propri. Finché non muteranno i sentimenti in entrambi i paesi, sarà quindi impossibile per qualsiasi leader sedersi e discutere in buona fede una questione che ha implicazioni storiche, religiose ed emotive così profondamente radicate. Persino a Simla, quando la comunità internazionale credette che si fosse compiuta una svolta, con l'accettazione, da parte dell'India, del Pakistan quale partner «bilaterale» nei negoziati, ambedue i paesi agivano su premesse differenti. L'India riteneva che il Pakistan avesse tacitamente accettato la linea di controllo come frontiera ufficiale, mentre quest'ultimo negò di averlo fatto. Per di più, se intendono fare progressi, entrambi i paesi devono adottare una politica di consenso nazionale sul Kashmir, altrimenti qualunque concessione una delle due parti si senta mai in grado di fare sarà verosimilmente bocciata da un'opposizione impaziente di suscitare una risposta emotiva da parte della gente. E se si devono prendere decisioni per conto della popolazione, devo-
no inoltre colmare il vuoto di conoscenze che hanno a proposito delle questioni in gioco, ma non leggendo manuali prevenuti o siti web sciovinisti, bensì attraverso un dibattito informato. La fine della guerra del Vietnam venne accelerata perché gli americani, rendendosi conto delle implicazioni, protestarono nelle strade. Il conflitto per il Kashmir potrebbe essere anch'esso terminato dai popoli dell'Asia meridionale, una volta compreso quale enorme impatto negativo esso abbia avuto sulla loro vita. Ma anche se Pakistan e India dovessero concordare di discutere del Kashmir con maggiore sincerità, produrrebbe soltanto una soluzione di breve durata pensare che la questione possa essere risolta senza la partecipazione rappresentativa dei milioni di abitanti dello Stato dello Jammu e Kashmir, per i quali le elezioni nello Stato - che si può dire non siano mai state libere e regolari - non hanno rappresentato né un dialogo autentico né un vero nel processo di «autodeterminazione». Che alcuni, frustrati dalla mancanza di libertà politica, oppressi dalle ingiustizie economiche e sociali, abbiano preso le armi per combattere per la loro visione del futuro ha reso la questione più mortale e la sua risoluzione più urgente. «Parlate di questi uomini come terroristi», disse un vecchio attivista politico ed ex militante, «ma si tratta di persone ferite»68. Mentre le loro rimostranze restavano senza indirizzo, altri, utilizzando una versione politicizzata dell'Islam, avviarono una jihad che si rafforzò da sé. Occorre che il governo indiano riconosca urgentemente la profondità di queste ferite, convenendo prima di tutto che le proteste dei kashmiri risalgono a ben prima dell'insurrezione degli anni Novanta e che usare il terrore per contrastare il terrore genera soltanto ancor più odio e violenza69, in secondo luogo, ammettendo che il Pakistan ha un ruolo da svolgere e che l'India ha bisogno che lo svolga, affinché i due paesi vivano in armonia come vicini. Finché l'India continua ad accusare il Pakistan di intraprendere una guerra «per procura», c'è sempre la possibilità che un altro grave attentato militante conduca nuovamente le due nazioni sull'orlo della guerra (e anche oltre)70. Purtroppo, chi ha trascorso molti anni a combattere per l'indipendenza dell'intero Stato dello Jammu e Kashmir è obbligato a restare deluso. A meno che i confini nazionali non mutino drammaticamente come quelli dell'ex Unione Sovietica nel 1991, non esiste alcuna probabilità che India e Pakistan accettino uno Stato dello Jammu e Kashmir indipendente. Anche i cambiamenti immaginati nelle intermittenti discussioni della diplomazia «non ufficiale» o la proposta di Vajpayee di «decentramento» dei poteri lascerebbero ancora la valle a far parte dell'Unione Indiana71. E quindi la sfida dei «combattenti per la libertà» kashmiri, che lottano contro l'«occupazione» da parte delle truppe indiane, è capire che senza il consenso indiano non avrà mai luogo alcuna modificazione
del loro statuto politico. Dopo 1*11 settembre, la distinzione tra lotta per la libertà e terrorismo è stata di fatto cancellata. Ormai anche molti politici kashmiri hanno capito che qualsiasi guadagno essi vogliano ottenere oggi deve essere conseguito al tavolo dei negoziati. Anche il governo pakistano deve comprendere dove la questione del Kashmir sta portando il suo paese e il suo popolo, preso nel suo ciclico trauma di agitazione interna, estremismo religioso e colpi di Stato militari. Possibile che i suoi leader non acquisiscano la lungimiranza per vedere dove possono condurre una continua bellicosità e la politica del rischio calcolato? Vogliono veramente combattere ancora una guerra convenzionale con l'India, perché questa continua ad amministrare un'area, centrata sulla valle, che più cinquantanni fa credeva di poter controllare? Al culmine della crisi, nessuno sembrò notare l'amara ironia insita nell'ammonimento del presidente Musharraf, secondo cui il Pakistan avrebbe utilizzato le armi atomiche per proteggere la propria sovranità, senza riconoscere che il loro uso sarebbe stato il modo più certo non solo di distruggere la sovranità del Pakistan, ma anche il paese e probabilmente la regione. In una situazione in cui l'alternativa è potenzialmente la guerra nucleare, c'è ampio spazio per i gesti visionari. Il governo indiano potrebbe cominciare indicando che non ha alcuna pretesa sulle aree settentrionali e l'Azad Jammu e Kashmir, i cui abitanti non hanno mai mostrato alcun desiderio di unità con l'India. Le discussioni relative al ghiacciaio Siachen, dove muoiono più uomini per congelamento e per le valanghe che in battaglia, potrebbero riprendere immediatamente. Potrebbe avere luogo la smilitarizzazione, allo scopo di liberare i kashmiri dalla costante sensazione di essere «occupati». Quanto prima i confini diventano "flessibili" meglio è, in modo che le persone le cui famiglie sono state divise per più di mezzo secolo possano incontrarsi, partecipare ai matrimoni, andare ai funerali e imparare a comprendere e a rispettare i punti di vista divergenti gli uni degli altri. Se è potuto esistere un checkpoint Charlie ai tempi bui tra Berlino Est e Ovest, perché non, allora, come primo passo, un checkpoint Chakoti sulla linea di controllo? Se può esistere una corriera da Delhi a Lahore, perché allora non una corriera da Srinagar a Muzaffarabad? I pakistani possono giudicare l'accettazione della linea di controllo, la cui «inviolabilità» il presidente Clinton ribadì dopo Kargil nel 1999, una rinuncia troppo grande, ma il governo potrebbe almeno iniziare con l'indicazione delle aree dello Stato su cui non avanza pretese. In passato, i pakistani argomentarono con forza affinché si tenesse il referendum, come concordato da India e Pakistan nel 1947 e come raccomandato dalle risoluzioni dell'ONU. Potrebbe essere comprensibile che, in mancanza di qualunque altro piano ufficiale o intesa per conservare la propria condi-
zione di parte nella discussione, il Pakistan non abbia ammesso che indire un referendum unitario, il cui risultato creerebbe indubbiamente delle minoranze scontente, non possa essere oggi il modo migliore per fare un passo avanti. Tuttavia, in realtà i pakistani non si aspettano più di impossessarsi dell'intero Stato, comprese quelle aree del Ladakh buddista e dello Jammu induista i cui abitanti sono evidentemente soddisfatti della loro condizione all'interno dell'India. Forse adesso è il momento di dirlo72. Il Pakistan dovrebbe inoltre pensare a eliminare l'ambiguità nelle sue dichiarazioni riguardanti il diritto all'autodeterminazione dei kashmiri. Combatte perché la valle ne diventi parte o, nel caso in cui l'India acconsentisse a trasferire i poteri, sarebbe disposto a vedere quel territorio, troppo piccolo per essere completamente indipendente, costituito con uno statuto autonomo? E, se la linea di controllo non è accettabile come confine ufficiale, forse adesso potrebbe essere il momento per indicare dove, realisticamente, possano essere fatti degli aggiustamenti. Dopo mezzo secolo, è possibile che le autorità del Pakistan percepiscano che, senza la questione del Kashmir a unire l'opinione pubblica, la raison d'être dello Stato possa in qualche modo essere sminuita; si tratta però di una condizione mentale che il dibattito ragionato ha tranquillamente ma costantemente cominciato a sgretolare. Anche prima dell'innalzarsi della tensione nei mesi di maggio e giugno 2002, il presidente Musharraf ammetteva che ambedue i paesi dovevano allontanarsi dalle loro posizioni prefissate 7 '. Il Kashmir rappresenta oggi una delle situazioni più pericolose del mondo, non tanto per la questione in sé ma a causa del mancato rapporto tra India e Pakistan nell'affrontarlo. Benché i leader indiani abbiano aspramente deplorato il fatto che qualunque coinvolgimento di terzi sarebbe un'«ingerenza» nei loro affari interni, il primo ministro Vajpayee ha ora accettato che gli Stati Uniti svolgano l'utile ruolo di «agevolatori»74. Forse, siccome l'esito non giova semplicemente all'India ma soddisfa gli interessi geostrategici ed economici degli Stati Uniti, questa «agevolazione» potrebbe almeno cominciare a infrangere la situazione di stallo. Se il nostro ingresso nel XXI secolo ci ha insegnato qualcosa, è che, quando la pace mondiale è minacciata e i diritti umani sono violati, gli affari interni degli stati-nazione non sono sacrosanti. La rivoluzione dei media elettronici, le comunicazioni digitali e satellitari implicano che non è più possibile isolare le questioni come se non avessero alcun impatto in un contesto più ampio. Il fatto che il mondo possa essere reso schiavo perché India e Pakistan, dopo più di mezzo secolo, discutono ancora delle loro rispettive posizioni nel Kashmir, desta preoccupazione internazionale al massimo livello. Come certamente vedremo nei decenni a venire, il futuro non sta nella rigidità degli stati-nazione, bensì nella fluidità della comunicazione in-
terculturale e regionale. All'inizio del prossimo secolo, la «guerra infinita» di parole e armi per lo Stato dello Jammu e Kashmir potrà sembrare un piccolo dato nel nostro carico di informazioni elettroniche, quando l'Asia meridionale sarà divenuta da molto tempo la nuova unione economica d'Oriente. Soltanto allora, forse, la gente comprenderà quanto sia stata grande la tragedia, al punto che si sono perse tante vite umane e tanto tempo e denaro sono stati sprecati per litigare sul possesso di una terra, che avrebbe prosperato molto di più se al suo popolo fosse stato consentito di vivere in pace, muovendosi come la geografia determinava il suo passaggio, molto prima che le divisioni politiche fossero create per limitare l'inevitabile interazione dell'umanità.
Note
Prefazione 1.
T. M o o r e , Lalla Rookh. An Orientai Romance, L o n d r a , Darf, 1986, p. 2 5 6 .
2.
Oggi Shimla. Per coerenza, ho mantenuto il nome originale, Simia, del 1972.
3.
Una risoluzione venne approvata dal Consiglio di Sicurezza (il 21 aprile 1948); due dall'UNCIP, la Commissione delle Nazioni Unite per l'India e il Pakistan, costituita dal Consiglio di Sicurezza per sovrintendere all'attuazione del referendum (13 agosto 1948 e 5 gennaio 1949).
4.
I musulmani sciiti credono che il Profeta abbia scelto Ali, suo genero e cugino, quale proprio successore. I sunniti ritengono che il ruolo del Profeta nella rivelazione delle leggi di Dio e come guida del popolo sia terminato con lui. Le differenze sono fondamentali e hanno causato un conflitto significativo tra le due comunità.
5.
Ecco le cifre della popolazione dello Stato dello Jammu e Kashmir nel 1981: valle del Kashmir 3 milioni, 95 per cento dei quali musulmani e 4 per cento induisti; Jammu 2,7 milioni, di cui 66 per cento induisti e 30 per cento musulmani; Ladakh 134.000, più della metà dei quali erano buddisti, il 46 per cento musulmani sciiti e meno del 3 per cento induisti. Popolazione totale dello Jammu e Kashmir nel 2001: 10.069.917. Fonte: Jammu and Kashmir2001, Information Department. Azad Jammu e Kashmir: 2.915.567; aree settentrionali: 870.347 (nel 1998). Fonte: Alta Commissione del Pakistan di Londra, agosto 2002.
6.
S. Bose, The Challenge in Kashmir, New Delhi-Londra, Sage, 1997, p. 177.
7.
Nella valle vi furono anche musulmani kashmiri che non sfidarono l'autorità indiana.
1. Il Kashmir: una 1.
presentazione
M . A . Stein, p r e f a z i o n e a Kalhana, Rajatarangini, A Chronicle of the Kings of Kash-
mir, Westminster, Constable, 1900, p. XXIV.
2.
Bramino kashmiro celebrato come l'Erodoto del Kashmir, Kalhana scrisse la propria Cronaca dei Re a metà del XII secolo. Sir Aurei Stein ne diede la prima traduzione inglese nel 1900; dopo aver rintracciato il manoscritto originale, che era stato diviso tra tre proprietari, gli ci vollero più di dieci anni per tradurre e annotare l'opera.
3.
Il kashmiri è classificato quale membro del gruppo dardico o nord-occidentale delle lingue indoarie. E l'unica lingua del gruppo dardico ad avere una scrittura e una tradizione letteraria.
4.
La casta più alta nella gerarchia sociale induista.
5.
F. Bernier, Travels in the Mogul Empire, AD 1956-1668,
a cura di A . Constable, Del-
hi, Chand, 1968, p. 400. 6.
H . Sender, The Kashmiri Pandits. A Study of Cultural Choice in North India, Del-
hi-Oxford, Oxford UP, 1988, p. 34. 7.
P.N.K. B a m z a i , A History of Kashmir, Political, Social, Cultural from the Earliest Ti-
8.
Il titolo onorifico di pandit per gli indù del Kashmir deriva dalla loro condizione di classe dirigente "colta" della società. Esso viene normalmente applicato, piuttosto vagamente, agli induisti della casta più elevata che vivono nella valle, benché non si tratti sempre di bramini.
9.
W . M o o r c r o f t , Travels in the Himalayan Provinces of Hindustan and the Panjab,
mes to the Present Day, New Delhi, Metropolitan Book, 1973, p. 426.
Londra, Murray, 1841, p. 123. 10. Ivi, p. 293. 11. V. Jacquemont, Correspondence inèdite, 1824-1832, Parigi, Lévy, 1867, p. 97. 12. G . V i g n e , Travels in Kashmir, Ladakh, Iskardo, I, L o n d r a , C o l b u m , 1842, p. 2 5 7 .
13. M. Saraf, Kashmiris fight for freedom, I, Lahore, Ferozsons, 1977, p. 65.
14. Gulab Singh ottenne Jammu nel 1820; la cerimonia di conferimento del titolo di rajah ebbe luogo nel 1822. 15. Al cambio di 51 rupie per un dollaro, 75 lakh (7,5 milioni di rupie) equivalevano a 150.000 dollari. 16. Nel 1841 falB una spedizione alla conquista del Tibet. 17. B.S. S i n g h , The ]ammu Fox. A Biography of Maharajah Gulab Singh of Kashmir,
1792-1857, Carbondale, Southern Illinois UP, 1974, p. 162.
18. Sunnad di adozione al maharajah Ranbir Singh, Cashmere, 5 marzo 1862. 19. R. Y o u n g , Journal of a trip to Cashmere, 1867, M S S Eur, B 133, p. 16.
20. R. Thorp, Cashmere Misgovernment, Londra, 1870, pp. 8-9. 2 1 . Lord Kimberley al governo dell'India, cit. in A. Lamb, Kashmir. A Disputed Legacy, 1846-1990, Hertingfordbury, Roxford, 1 9 9 1 , p. 13.
22. W. Fisher - L.E. Rose - R.A. Huttenback, Himalayan Battleground, Londra, Pall Mall Press, 1963, p. 69. 2 3 . K.M. Teng - R.K. Bhatt - S. Kaul, Kashmir: Constitutional History and Documents,
New Delhi, Light & Life, 1977, p. 27. 24. W. L a w r e n c e , The Valley of Kashmir, L o n d r a , F r o w d e , 1895, p. 2.
25. Pratap Singh a Lord Lansdowne, in K.M. Teng - R.K. Bhatt - S. Kaul, op. cit., p. 39. 26. C.E. Tyndale-Biscoe, An Autobiography, Londra, Seeley, 1951, p. 52. 27. Cfr. S.A. P a t a u d i , The Elite Minority, The Princess of India, Lahore, S.M. M a h m u d ,
1989, p. 1; 565 è normalmente dato come numero dei principati, ma esso è stimato anche in 584 o 562. 28. Montagu e Chelmsford, "Report on Indian Constitutional Reform", 22 aprile 1918, MSS Eur C 264/42, IOIC, p. 141. 29. Cit. in ivi, p. 5. 30. Montagu e Chelmsford, op. cit., p. 76. 31. A. Iqbal, cit. in S.M. A b d u l l a h , Flames of the Chinar. An Autobiography, N e w Del-
hi-New York, Viking, 1993, p. 3. 32. Istanza al viceré, Lord Reading, da parte dei Khadman di Khanqah Muallah, Shah Hadman, Srinagar, 29 settembre 1924, cit. in "Muslims of Kashmir", Rl/1/1474, OICI. 33. G.K.S. Fitze a S.M. Shah, 1 luglio 1925, "Muslims of Kashmir". 34. Maggiore Searle, viceconsigliere politico, Chilas, "Diary 1924-25", MSS Eur A 165,
oioc, p. 27.
35. Fondata dall'eminente pedagogista Sir Syed Ahmed Khan nel XIX secolo, Aligarh era la principale istituzione educativa musulmana dell'India Britannica. 36. Prem Nath Bazaz dice che fece «un discorso violento sostenendo il massacro degli i n d ù » , in The History of the Struggle for Freedom in Kashmir, Cultural and Politi-
cal, New Delhi, Pamposh, 1954, p. 152.
37. S. Abdullah, op. cit., p. 24. 38. M a h a r a j a h di Bikaner, R o u n d Table Conference, The Round Table Conference. India's Demand for Dominion Status, M a d r a s , Natesan, 1931, p. 32.
39. H.V. Hodson, The Great Divide: Britain, India, Pakistan, Londra, Hutchinson, 1969, p. 78.
40. Cit. in ivi, p. 79. 41. Cfr. A. Jalal, The Sole Spokesman, jinnah, the Muslim League and the Demand for
Pakistan, Cambridge, Cambridge UP, 1985, p. 12, nota 14.
42. P. G u p t e (Mother India. A Political Biography of Indira Gandhi, N e w York, Scrib-
ner's, Toronto, Maxwell Macmillan Canada, 1992, p. 270) cita in nota la diceria infondata secondo la quale lo sceicco Abdullah era figlio illegittimo del padre di Nehru, Motilal. 43. Commissione di Lavoro del Congresso, 29 luglio-1 agosto 1935, cit. in M.J. Akbar, Kashmir. Behind the Vale, New Delhi-New York, Viking, 1991, p. 81.
44. M . A . J i n n a h , 17 g i u g n o 1947, in Speeches and Statements as Governor General of
Pakistan, 1947-1948, Islamabad, Govt, of Pakistan, 1989, p. 17.
45. Cfr. P. French, Liberty or Death. India's Journey to Independence and Division, Lon-
dra, Harper Collins, 1998, pp. 255-6. 46. K. Singh, Heir Apparent, An Autobiography, Delhi-Londra, Oxford UP, 1982, p. 41. 47. Ivi, p. 42. 48. Ivi, p. 53. 49. Ivi, p. 38. 2.
L'indipendenza
1.
Cit. in M. Edwardes, The Last Years of British India, Londra, Cassell, 1963, p. 89.
2.
H.V. Hodson, op. cit., p. 83.
3.
A.P. Wavell, The Viceroy's journal, a cura di P. Moon, Karachi-Oxford, Oxford UP, 1973, pp. 199-200.
4.
C. Attlee, cit. in P. Ziegler, Mountbatten. The Official Biography, Londra, Collins, 1985, p. 259.
5.
L. Mountbatten, cit. in H.V. Hodson, op. cit., p. 289.
6.
Ivi, p. 293.
7.
A. Campbell-Johnson, "Address to Pakistan Society", Londra, 12 ottobre 1995.
8.
W.H. Morris-Jones, "Thirty-six Years Later: the Mixed Legacies of Mountbatten's transfer of Power", in «International Affairs», LIX, 1983, n. 4, p. 624.
9.
Ivi, p. 625. Morris-Jones fu consigliere costituzionale di Mountbatten nel periodo giugno-agosto 1947.
10. Sir C. Corfield, "Some Thoughts on British Policy and the Indian States, 19351947", in The Partition of India, a cura di C.H. Philips - M.D. Wainwright, Londra, Allen & Unwin, 1970, p. 531. 11. Nehru a Mountbatten, 17 giugno 1947, in The Transfer of Power, 1942-47, a cura di N. Mansbergh, Londra, H.M.S.O. 1970-83, vol. XI, doc. 229, pp. 443-4. 12. Mountbatten a Saraf, 3 novembre 1978, cit. in M. Saraf, op. cit., vol. II, p. 1395. 13. V.P. M e n o n , The Story of the Integration of the Indian States, L o n d r a - C a l c u t t a ,
Longmans, Green & Co, 1956, p. 394. 14. K. Singh, op. cit., p. 48. 15. Capitano Dewan Singh, intervista, Jammu, 11 aprile 1994. 16. A. C a m p b e l l - J o h n s o n , Mission with Mountbatten, L o n d r a , 1972, p. 120.
17. Nehru a Mountbatten, 27 luglio 1947, in The Transfer of Power, cit., vol. XII, doc. 249, p. 368. 18. H . Ismay, The Memoirs of General the Lord lsmay, L o n d r a , H e i n e m a n n , 1960, p.
433. 19. Micawber è un personaggio del David Copperfield di Dickens, povero ma ottimista rispetto al futuro. [N.d.T.]. 20. V.P. Menon, op. cit., p. 395. 21. A. C a m p b e l l - J o h n s o n , Mission with Mountbatten, cit. p. 120.
22. Patel a Hari Singh, 3 luglio 1947, in S. Patel, Correspondence, 1945-50, a cura di D. Das, Ahmadabad, 1971, vol. I, doc. 34, p. 33. 23. L. Mountbatten, Time Only to Look Forward, L o n d r a , Kaye, 1949, p. 52. 24. Id., in The Transfer of Power, cit., vol. XI, doc. 319, p. 593.
25. Mountbatten a Webb, 28 giugno 1947, ivi, vol. XI, doc. 387, p. 720. 26. Rapporto del Viceré, 1 agosto 1947, n. 15, ivi, vol. XII, doc. 302, p. 449. 27. M. Saraf, intervista, Rawalpindi, marzo 1994. 28. S. H a m i d , Disastrous Twilight. A Personal Record of the Partition of India, Londra,
Cooper, 1986, p. 273. 29. M.A. Aziz, intervista, Rawalpindi, marzo 1994.
30. M.A. Jinnah, in «India News», 13 luglio 1947, in The Transfer of Power, cit., vol. XII, doc. 87, p. 128. 31. Id., 17 g i u g n o 1947, Speeches and Statements as Governor General of Pakistan, 1947-1948, cit., p. 17.
32. Sir Walter Monckton a Lord Ismay, 9 giugno 1947, in The Transfer of Power, cit., vol. XI, doc. 112, p. 216. 33. I s m a y a M o u n t b a t t e n , 7 a p r i l e 1948, in Select Documents on Partition of Punjab,
1947, a cura di K. Singh, New Delhi, National Book Shop, 1991, doc. 238, p. 706.
3 4 . L. M o u n t b a t t e n , Time Only to Look Forward, cit., p. 30.
35. C.M. Ali, The Emergence of Pakistan, New York, Columbia UP, 1967, pp. 218-9. 36. Cit. in H. Tinker, "Pressure, Persuasion, Decision: Factors in the Partition of the Punjab, August 1947", in «Journal of Asian Studies», XXXVI, 1977, n. 4, p. 702. 37. Lord Wavell a Lord Pethick-Lawrence, 7 febbraio 1946, in The Transfer of Power, cit., vol. VI, doc. 406, p. 912. 38. "Draft Statement to be made by Parliamentary Spokesman", così cit. in H. Tinker, op. cit., p. 704. 39. Abell ad Abbott, 8 agosto 1947, in National Documentation Centre, The Partition of the Punjab 1947, Lahore, National Documentation Centre, 1983, vol. I, doc. 198, p. 245. 4 0 . I s m a y a M o u n t b a t t e n , 7 a p r i l e 1948, in Select Documents on Partition of Punjab, 1947, cit., doc. 238, p. 706.
41. C.M. Ali, op. cit., p. 213. 42. "Report of the Interview between Mountbatten and Nawab of Bhopal and Nawab of Mysore", 4 agosto 1947, in The Transfer of Power, cit., vol. XII, doc. 335, p. 509. 4 3 . A.P. W a v e l l , The Viceroy's Journal, cit., p. 3 8 4 .
44. Lettera a Peter Scott, 17 luglio 1947, in The Transfer of Power, cit., vol. XII, doc. 151, p. 214. 45. C.B. Birdwood, Two Nations and Kashmir, Londra, Hale, 1956, p. 74. 46. C M . Ali, op. cit., p. 215. 47. M.J. Akbar, op. cit., p. 98. 48. C. Beaumont, corrispondenza con l'autrice, 10-17 ottobre 1995. 49. A. Campbell-Johnson, "Address to Pakistan Society", cit.
50. Professor Zaidi, intervista, Islamabad, aprile 1994. 51.
Ibid.
52. W.H. Morris-Jones, op. tit., p. 628. 5 3 . A . H . S n h r a w a r d y , Kashmir: the Incredible Freedom Fight, L a h o r e , J a n g , 1991, p. 3 6 .
54. Cit. in ivi, p. 37. 55. Mountbatten a Listowel, 8 agosto 1947, The Transfer of Power, cit., vol. XII, doc. 383, pp. 586-7. 56. K. Singh, op. cit., p. 55. 57. A. Lamb, Birth of a Tragedy. Kashmir 1947, Hertingfordbury, Roxford, 1994, p. 52.
58. Rapporto personale del Viceré, n. 17, The Transfer of Power, cit., vol. XII, doc. 489, par. 51, p. 757. 59. V.P. Menon, op. cit., p. 395. 60. A.H. Suhrawardy, op. cit., p. 25. 61. M. Saraf, intervista, aprile 1994. 62. Cfr. J. Korbel, Danger in Kashmir, Princeton, Princeton UP, 1954, p. 54. 63. H. Alexander, Kashmir, Londra, Friends Peace Committee, 1952, p. 7. 64. R. Symonds, cit. in J. Korbel, op. cit., p. 68. 65. S.M.I. Khan, intervista, Islamabad, 24 marzo 1994. 66. S.A. Qayum Khan, intervista, Islamabad, marzo 1994. 67. K. Singh, op. cit., p. 54. 68. G. Cunningham, 23 settembre 1947, "Diary", MSS Eur D 670/6, OIOC. 69. H. Alexander, op. cit., p. 7. 70. I. Stephens, Pakistan, Londra, Benn, 1963, p. 200. 71. A. L a m b , Kashmir. A Disputed Legacy, 1846-1990,
cit., p. 123.
7 2 . Id., Birth of a Tragedy, cit., p. 70. 7 3 . A. B h a t t a c h a r j e a , Kashmir. The Wounded Valley, N e w Delhi, U B S , 1994, p. 177.
74. J. Korbel, op. cit., p. 66.
75. Nehru a Patel, in S. Patel, op. cit., 27 settembre 1947, vol. I, doc. 49, p. 45. 76. S. Abdullah, "Speech at Huzoori Bagh", 2 ottobre 1947, in cit., p. 86.
Flames of the
Chinar,
77. Kachru a Nehru, 4 ottobre 1947, in S. Patel, op. cit., vol. I, doc. 57, allegato, pp. 54-5. 78. Patel a Nehru, 8 ottobre 1947, ivi, vol. I, doc. 58, p. 56. 79. 80.
A. L a m b , Birth of a Tragedy, cit., p. 6 7 . B. Taseer, The Kashmir of Sheikh Muhammad Abdullah, L a h o r e , F e r o z s o n s , 1986,
pp. 50 e 271. 81. M. Abdullah, op. cit., p. 88. 82. Registrato da G. Cunningham, "Diary", 18 ottobre 1947. 83. M.C. Mahajan, Looking Back, Londra, Asia Publishing House, 1963, p. 133. 84. Quaid-i Azam - M.A. Jinnah, Speeches and Statements, cit., pp. 91-2; cfr. anche J. Korbel, op. cit., pp. 69-70. 85. Patel a Mahajan, 21 ottobre 1947, in S. Patel, op. cit., vol. I, doc. 65, p. 62. 86. Mahajan a Patel, 23 ottobre 1947, ivi, doc. 66, p. 63. 87. Nota per la stampa, 23 ottobre 1947, ivi, vol. I, doc. 67, p. 65. 88. Cit. in B. Taseer, op. cit., p. 145. 89. C i t . in ibid.
3.
L'annessione
1.
K. Singh, op. cit., p. 57.
2.
A. Khan, Raiders in Kashmir, Karachi, Pak Publishers, 1970, p. 11.
3.
S.M. Ibrahim, intervista, Islamabad, 24 marzo 1994.
4.
A. Khan, op. cit., p. 17.
5.
Sir G. Cunningham, 15 ottobre 1947, "Diary", MSS Eur D 670/6, OIOC. Cunningham si riferisce probabilmente alla Guardia Nazionale Pakistana istituita il 7 ottobre, al comando del maggiore generale Shahid Hamid, quale forza di complemento alle Forze Armate pakistane. «Molte» unità presero parte alle operazioni in Kashmir; cfr. S. Hamid, Early Years of Pakistan, Lahore, Ferozsons, 1993, p. 62.
6.
G. Cunningham, op. cit., 20 ottobre 1947.
7.
Ivi, 22 ottobre 1947.
8.
I. Stephens, op. cit., p. 202.
9.
H. Alexander, op. cit., p. 8.
10. A. Jalal, The State of Martial Rule. The Origins of Pakistan's Political Economy of
Defence, Cambridge, Cambridge UP, 1990, p. 58.
11. Professor H. Zaidi, intervista, Islamabad, 18 aprile 1994. 12. M. Saraf, intervista, Rawalpindi, marzo 1994, op. cit., vol. II, p. 988. 13. Cit. in R. Sareen, Pakistan. The India Factor, New Delhi, Allied Publishers, 1984, p. 221.
14. G. Cunningham, op. cit., 26 ottobre 1947. 15. Cfr. A. Bhattacharjea, op. cit., p. 136. 16. V.P. Menon, op. cit., p. 410. 17. «Dawn», 7 dicembre 1947. 18. A. L a m b , Kashmir. A Disputed Legacy, 1846-1990, cit., p. 131.
19. V. P. Menon, op. cit., p. 397. 20. Ci sono resoconti contrastanti se ciò sia stato dovuto o no a un assalto degli uomini delle tribù. 21. J. Korbel, op. cit., p. 77. 22. K. Singh, op. cit., p. 57. 23. A. Campbell-Johnson, Mission with Mounthatten, cit., p. 224.
24. S. Gopal, Jawaharlal Nehru. A Biography, Londra, Cape, 1975, vol. I, p. 19.
25. V.P. Menon, op. cit., pp. 397-8. 26. Capitano D. Singh, intervista, Jammu, 11 aprile 1994. 27. K. Singh, op. cit., p. 59. 28. M.C. Mahajan, op. cit., p. 151. 29. White Paper on Indian States, New Delhi, Govt, of India, 1948, in "Kashmir Internal Situation", L/P e S/13, OIOC. 30. V.P. Menon, op. cit., p. 400; capitano D. Singh, intervista, Jammu, aprile 1994.
31. D. Singh, intervista, Jammu, aprile 1994. 32. V.P. Menon, op. at., p. 400. 33. Documents on Kashmir Problem, a cura di M.S. Deora - R. Grover, New Delhi, Discovery, 1991, vol. XIV, cit. in A. Bhattacharjea, op. cit., p. 150. 34. J. Korbel, op. cit., p. 84. 35. M.C. Mahajan, op. cit., p. 152. 36. Ivi, p. 154. 3 7 . A . L a m b , Birth of a Tragedy. Kashmir 1947, cit., p . 9 6 .
38. Collins e Lapierre dicono che il viaggio durò diciassette ore; cfr. Stanotte la libertà, Milano, Mondadori, 1992, p. 399. 39. K. Singh, op. cit., pp. 58-9. 40. M.C. Mahajan, op. cit., p. 152. 41. Ivi, p. 150. 4 2 . Ivi, p. 2 7 6 ; cfr. a n c h e A . C a m p b e l l - J o h n s o n , Mission with Mountbatten, cit., p. 2 2 4 .
43. L. Collins - D. Lapierre, op. cit., p. 356. 44. A. Symon a Sir A. Carter, 27 ottobre 1947, in "Kashmir Internal Situation", UP e S/13, OIOC. 45. J. Nehru, Selected Works, a cura di. S. Gopal, New Delhi, Jawaharlal Nehru Memorial Fund, vol. IV, 2" ediz., p. 278. 46. B.G. Verghese, "Lamb's Tales in Kashmir", in «Sunday Mail», 14-20 giugno 1992, cit. in The Kashmir Issue, Londra, High Commission of India, 1993, p. 155. 4 7 . Cfr. A. L a m b , Birth of a Tragedy. Kashmir 1947, cit., p p . 9 9 - 1 0 0 .
48. Ivi, pp. 102-3. 49. J. Korbel, op. cit., p. 79. 50. P. Ziegler, op. cit., p. 446. 51. Cit. in J. Korbel, op. cit., p. 76. 52. Racconto del maggiore Khurshid Anwar, riportato in «Dawn», 7 dicembre 1947. 53. G. Cunningham, op. cit., 10 novembre 1947.
54. Generale di brigata L.P. Sen, cit. in R. Kadian, The Kashmir Tangle. Issues and Op-
tions, New Delhi, Vision Books, 1992, p. 93.
55. I. Stephens, op. cit., p. 202. 56. M. Sarai, intervista, Rawalpindi, marzo 1994. 57. P.N. Bazaz, AzadKashmir, Lahore, Ferozsons, 1951, p. 33. 58. Commonwealth Relations Office Note, 1 dicembre 1947, in "Kashmir Internal Situation", L/P e S/13, OIOC. 59. Mahajan a Mountbatten, 27 ottobre 1947, in S. Patel, op. cit., vol. I, doc. 70, p. 69. 60. S. H a m i d , Disastrous Twilight, cit., p. 278.
61. G. Cunningham, op. cit., 28 ottobre 1947. 62. Ivi, 7 novembre 1947. 63. C.M. Ali, op. cit., p. 293. 64. Mountbatten a Nehru, 2 novembre 1947, in S. Patel, op. cit., vol. I, doc. 72, pp. 71-81. 65. Liaquat Ali Khan a Nehru, in White Paper on ]ammu and Kashmir, Delhi, Govt, of India, 1948, cit. i n j . Korbel, op. cit., p. 96. 66. Cit. in V.P. Menon, op. cit., p. 406. 67. Ivi, p. 400. 68. "Status of Hunza, Nagar and Political Districts", OIOC. 69. V.P. Menon, op. cit., p. 393. 70. C. Chenevix-Trench, The Frontier Scouts, Londra, Cape, 1985, p. 273. 71. Maggiore W. Brown, cit. in «The Scotsman», 22 marzo 1994. 72. C. Chenevix-Trenph, op. cit., p. 276. 73. Maggiore W. Brown, cit. in «The Scotsman», 22 marzo 1994. 74. C. Chenevix-Trench, op. cit., p. 269. 75. M. Sarai, intervista, Rawalpindi, 24 marzo 1994. 76. A.A. Khan, intervista, sulla strada del Baltistan, 17 aprile 1995. 77. V.P. Menon, op. cit., p. 410. 78. L. Mountbatten, cit. in H.V. Hodson, op. dt., pp. 462-3.
79. Cit. in ivi, p. 465. 80 Commonwealth Relations Office, nota, 1 dicembre 1947, in "Kashmir Internai Situation", L/P e S/13, OIOC. 81. Bollettino dell'alto commissario britannico n. 3, 8 gennaio 1948, cit. in A. J a l a l , The State of Martial Rule, cit., p. 58.
82. «The Times», 13 gennaio 1948, cit. in J. Korbel, op. cit., p. 84. 83. A. Khan, op. cit., p. 13. L'Esercito Nazionale Indiano (INA) combatté contro gli inglesi durante la seconda guerra mondiale. 84. «Dawn», 7 dicembre 1947. 85. A. Khan, op. cit., p. 100. 86. E. B o k h a r i , Kashmir Operations 1947-48, L a h o r e , ISPR F o r u m , 1990.
87. Sulla rotta di Leh, aprile 1995. 88. Nehru a Patel, 30 maggio 1948, in S. Patel, op. cit., vol. I, doc. 152, pp. 190-1. 89. Patel a Nehru, 4 giugno 1948, ivi, vol. I, doc. 153, pp. 192-3. 90. Patel a Ayyangar, 4 giugno 1948, ivi, vol. I, doc. 156, p. 199. 91. S.A. P a t a u d i , The Story of Soldiering and Politics in India andPakistan, L a h o r e , W a -
jidalis, 1978, p. 119 92. Id., intervista, Islamabad, 14 aprile 1995. 93. L. Mountbatten, cit. in H.V. Hodson, op. cit., p. 465. 94. H.V. Hodson, op. cit., p. 466. 95. J. Nehru, cit. in J. Korbel, op. cit., p. 98. 96. Sir Z. Khan, Discorso al Consiglio di Sicurezza, 16 gennaio 1948, cit. in A. Karim, Kashmir. The Troubled Frontiers, New Delhi, Lancer, Londra, Spantech & Lancer, 1994, p. 281. 97. Cfr. S. Gopal, op. cit., vol. II, p. 23. 98. V. Shankar, memorie inedite, p. 607. 99. S. Patel, op. cit., 3 luglio 1948, vol. VI, doc. 327, p. 387. 100. Risoluzione 39, 20 gennaio 1948, doc. n. S/654, cit. in governo del Pakistan, Kashmir m the Security Council, Islamabad, Govt, of Pakistan, s.d., p. 2. 101. Risoluzione 47, 21 aprile 1948, doc. S/726, cit. in ivi, p. 7.
102. Risoluzione, 13 agosto 1948, doc. n. S/1100, datato 9 novembre 1948, cit. in ivi. 103. Nehru a Patel, 27 ottobre 1948, in S. Patel, op. cit., voi. VII, doc. 576, p. 665. 104. Risoluzione, 5 gennaio 1949, doc. n. S/1196, datato 10 gennaio 1949, cit. in Kashmir iti the Security Council, cit., p. 10.
105. A. Khan, op. cit., p. 155. 106. Colonnello A.H. Mirza, The Withering Chinar, Islamabad, Institute of Policy Studies, 1991, p. 173. 107. S.A. Pataudi, op. cit., pp. 119-20. 108. V.P. Menon, op. cit., p. 412. 109. Organizzazione delle Nazioni Unite, Consiglio di Sicurezza, Reports of the United Nations Commission for India and Pakistan. June 1948 to December 1949, N e w Del-
hi, ministero degli Affari Esteri, 1952. 110. Cit. in ivi. 111. W.H.J. Christie Collection, OIOC, MSS Eur D718.
4. Statuto
speciale
1.
T. Singh, Kashmir. A Tragedy of Errors, New Delhi, Viking, 1995, p. XI.
2.
Capitano D. Singh, intervista, Jammu, 11 aprile 1994.
3.
Cit. in M.J. Akbar, op. cit., p. 135.
4.
K. Singh, op. cit., p. 83.
5.
J. Nehru, IV, p. 325, cit. in A. Bhattacharjea, op. cit., p. 166 e K. Singh, op. cit., p. 83.
6.
Nehru a Mahajan, 1 dicembre 1947, in S. Patel, op. cit., vol. I, doc. 88, p. 101.
7.
K. Singh, op. at., p. 85.
8.
Mahajan a Patel, 24 dicembre 1947, in S. Patel, op. cit., vol. I, doc. 103, p. 128.
9.
Mahajan a Patel, 11 dicembre 1947, ivi, vol. I, doc. 92, p. 113.
10. Hari Singh a Patel, 31 gennaio 1948, ivi, vol. I, doc. 124, pp. 162-3. 11. Patel a Hari Singh, 9 febbraio 1948, ivi, vol. I, doc. 127, p. 166. 12. Nehru a V. Shankar, segretario privato di Sardar Patel, 3 aprile 1948, ivi, vol. I, doc. 138, p. 175.
13. Nehru a Patel, 12 maggio 1948, ivi, vol. I, doc.149, p. 189. 14. Nehru a Patel, 5 giugno 1948, ivi, vol. I, doc. 157, p. 200. 15. Hari Singh a Patel, 9 settembre 1948, ivi, vol. I, doc. 180, p. 225. 16. K. Singh, op. cit., p. 92. 17. Cit. in K. Singh, op. at., p. 96. 18. Capitano D. Singh, intervista, Jammu, 11 aprile 1994. 19. K.Singh, op. cit., p. 101. 20. Ivi, p. 104. 21. M. Abdullah, op. cit., p. 108. 22. Cit. in M.J. Akbar, op. cit., p. 137. 23. Ivi, p. 139. 24. Cfr. A. Bhattacharjea, op. cit., p. 183, nota 26. 25. B. Taseer, op. cit., p. 51. 26. N.G. Ayyangar, cit. in M. Abdullah, op. cit., p. 113. 27. K.M. Teng - S. Kaul, Kashmir's Special Status, Delhi, Oriental, 1975, p. 45. 28. Patel a Nehru, 27 giugno 1950, in S. Patel, op. cit., vol. X, doc. 247, p. 353. 29. Patel a Nehru, 3 luglio 1948, ivi, vol. X, doc. 250, p. 357. 30. M. Abdullah, cit. in K.M. Teng - S. Kaul, op. cit., appendice IV, p. 198. 31. M. Abdullah, 10 aprile 1952, Ranbir Singhpura, Jammu, cit. in B. Puri, Jammu and Kashmir: Triumph and Tragedy of Indian Fédéralisation, N e w Delhi, Sterling, 1981,
p. 99. 32. M. Abdullah, op. cit., p. 118. 33. B. Puri, Kashmir. Towards Insurgency, Londra, Sangam, 1993, p. 27. 34. Id., Jammu. A Clue to Kashmir Tangle, N e w Delhi, 1966, p p . 7-8. 35. Id., Jammu and Kashmir: Triumph and Tragedy of Indian Fédéralisation, cit., p. 94. 36. Id., Jammu. A Clue to Kashmir Tangle, cit., p. 11. 37. A. L a m b , Kashmir. A Disputed Legacy, 1846-1990, cit., p. 197.
38. B. P u r i , ]ammu. A Clue to Kashmir Tangle, cit., p. 93.
39. Ivi, p. 98. 4 0 . J . Rizvi, Ladakh. Crossroads of High Asia, D e l h i - O x f o r d , O x f o r d UP, 1983, p. 7 0 .
41. M. Abdullah, op. cit., p. 121. 4 2 . Cit. in P.S. V e r m a , Jammu and Kashmir at the Political Crossroads, N e w Delhi, Vi-
kas, 1994, p. 42. 4 3 . B. P u r i , ]ammu and Kashmir: Triumph and Tragedy of Indian Federalisation, cit., p.
93. 44. K. Singh, op. cit., p. 92. 45. Patel a Nehru, 27 giugno 1950, in S. Patel, op. cit., vol. X, doc. 247, p. 353. 46. S. Gopal, op. at., vol. II, p. 90. 47. Lettera datata 15 settembre 1950 indirizzata da Sir Owen Dixon al Consiglio di Sicurezza, cit. in Korbel, op. cit., pp. 172-3. 48. Risoluzione 91 (1951), doc. S/2017/REV.I, cit. in Kashmir in the Security Council,
cit.
49. J. Korbel, op. cit., p. 179. 5 0 . A . J a l a l , The State of Martial Rule, cit., p. 120.
51. Ivi, p. 117. 52. Ivi, p. 132. 53. Nehru a Bakshi Ghulam Muhammad, 18 agosto 1953, cit. in S. Gopal, op. cit., vol. II, p. 182. 54. G. Rizvi, "Nehru and the Indo-Pakistan Rivalry over Kashmir, 1947-1963", in «Contemporary South Asia», IV, marzo 1995, 1, p. 27. 55. Nehru a Mohammad Ali Bogra, 10 novembre 1953, cit. in S. Gopal, op. cit., voi. II, p. 185. 5 6 . N i r a d C. C h a u d h r i , cit. in S. B u r k e , Mainsprings of Indian and Pakistani Foreign Po-
licies, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1974, p. 143.
5 7 . R.K. J a i n , in Soviet South Asian Relations, 1947-1978,
1978, vol. I, p. 4. 58. N. Kruscev, cit. in M. Abdullah, op. cit., p. 134. 59. S. Burke, op. cit., p. 148.
N e w D e l h i , R a d i a n t , 1978,
60. B.L. Kak, The Fall of Gilgit. The Untold Story of Indo-Pak Affairs from Jinnah to
Bhutto, New Delhi, Light & Life, 1977, p. 31.
61. S. W o l p e r t , Zulfi Bhutto of Pakistan. His Life and Times, N e w Y o r k - O x f o r d , O x -
ford UP, 1993, p. 64. 62. L . D . H a y e s , The Impact of US Policy on the Kashmir Conflict, Tucson, University of
Arizona Press, 1971, p. 28. 63. L'autostrada del Karakoram venne aperta nel 1978.
64. Risoluzione 126,2 dicembre 1957, cit. in Kashmir in the Security Council, cit., p. 38. 65. Morozov, 21 giugno 1962, cit. in R.K. Jain, op. cit., vol. I, p. 45. 66. L. Rose, "The Politics of Azad Kashmir", in Perspectives on Kashmir: the Roots of Conflict in South Asia, a cura di R.G.C. Thomas, Boulder, Westview Press, 1992, p. 237. 67. M. Saraf, op. cit., vol. II, pp. 1289-1290. 68. M.A. Aziz, intervista, 24 marzo 1994. 69. L. Rose, op. cit., p. 238. 70. J. Korbel, op. cit., p. 200. 71. Cfr. I. Stephens, Horned Moon. An Account of a journey through Pakistan, Kashmir,
and Afghanistan, Londra, Chatto & Windus, 1953, p. 138.
72. M. Saraf, op. cit., vol. II, p. 1294. 73. A. L a m b , Kashmir: A Disputed Legacy, 1846-1990, cit., p. 189.
74. M. Abdullah, 10 aprile 1952, cit. in M. Saraf, op. cit., vol. II, p. 1200. 75. Id., op. cit., p. 122. 76. Cfr. B. P u r i , Kashmir. Towards Insurgency, cit., p. 2 0 .
77. P.S. Verma, op. cit., p. 46. 78. S. Abdullah, op. cit., p. 127. 79. K. Singh, op. cit., p. 160. 80. S. Gopal, op. cit., p. 133. 81. Nehru a G.S. Bajpai, 30 luglio 1953, cit. in ivi, p. 132. 82. A. L a m b , Kashmir: A Disputed Legacy, 1846-1990,
cit., p. 199.
83. «The Times», 8 maggio 1952, cit. in B. Taseer, op. cit., p. 148. 84. I. Stephens, Horned Moon, cit., pp. 210-1. 85. B. Taseer, op. cit., p. 23. 86. B.L. Kak, op. cit., p. 27. 87. «New York Times», 28-30 luglio 1955, cit. in J. Korbel, op. cit., p. 319. 88. S. Abdullah, op. cit., p. 128. 89. Id., f e b b r a i o 1958, cit. in A. L a m b , Kashmir: A Disputed Legacy, 1846-1990, cit., p.
203. 90. Cit. in J. Korbel, op. cit., 1966, p. 322. 91. M. Saraf, op. cit., vol. II, p. 1322. 92. Estratti dalle ultime dichiarazioni dello sceicco Abdullah, Kashmir and the Peoples Voice, 1964.
93. S. Abdullah, op. cit., p. 143. 94. «Daily Express», 5 febbraio 1957, cit. in M. Saraf, op. cit., vol. II, p. 1226. 95. M. Qasim, My life and Times, New Delhi, Allied Publishers, 1992, p. 82, cit. in PS. Verma, op. cit., p. 52. 96. Nehru cit. in S. Gopal, op. cit., vol. ili, p. 262. 97. P.N. Bazaz, The Shape of Things in Kashmir, New Delhi, Pamposh, 1965.
5. Diplomazia e guerra 1.
J.K. Galbraith, ambasciatore degli Stati Uniti a New Delhi, 19 gennaio 1963, cit. in A. G a u h a r , Ayuh Khan, Pakistan's First Military Ruler, L a h o r e , S a n g - e - M e e l , 1993,
p. 227, nota 41. 2.
S. Burke, op. cit., p. 187.
3.
J. Nehru, cit. in S. Gopal, op. cit., vol. Ill, p. 223.
4.
S. Burke, op. cit., pp. 166 e 169.
5.
Presidente Kennedy, cit. in A. Gauhar, op. cit., p. 215, nota 28.
6.
B.L. Kak, op. cit., p. 43.
7.
S. Gopal, op. cit., vol. Ill, p. 256.
8.
P. Ziegler, op. at., p. 601.
9.
B.L. Kak, op. tit., p. 47.
10. S. Gopal, op.tit.,p. 258. 11. M. James, Pakistan Chronicle, Londra, Hurst, 1993, p. 97. 12. Telegramma del dipartimento di Stato, datato 9 marzo 1963, cit. in ivi, p. 96. 13. Rostow era il presidente del Policy Planning Council del dipartimento di Stato USA, cfr. ivi, p. 98. 14. Cfr. S. G u p t a , Kashmir, a Study in India-Pakistan Relations, L o n d r a , A s i a P u b .
House, 1966, p. 355. 15. M. James, op. cit., p. 102. 16. Cfr. ivi, p. 101. 17. B.L. Kak, op. tit., pp. 48-9. 18. Z.A. Bhutto, cit. in S. Wólpert, op. cit., p. 74. 19. A. Khan, intervista, Rawalpindi, aprile 1995. 20. Z.A. Bhutto, cit. in S. Wolpert, op. cit., p. 77. 21. Documento datato 18 maggio 1964, S/PV 1117, in Kashmir in the Security Council, cit.,
p. 42.
22. P.N. Bazaz, The Shape of Things in Kashmir, cit. 23.
Ibid.
24. «Observer», 16 dicembre 1960, cit. in M. Abdullah, op. cit., p. 144. 25. Ivi, p. 144. 26. M. Abdullah, riportato da «The Times of India», 10 aprile 1964, cit. in Kashmir and the Peoples Voice.
27. K. Menon, 13 aprile 1964, cit. in ivi. 28. «Indian Express», editoriale, 13 aprile 1964, cit. in ivi. 29. «The Times of India», editoriale, 16 aprile 1964, cit. in ivi. 30. S. Gopal, op. cit., p. 264. 31. M. Abdullah, op. cit., p. 152.
32. Ivi, p. 154. 33. A. Gauhar, op. cit., p. 257. 34. Ivi, p. 260. 35. Ivi, p. 265. 36. M. Abdullah, op. cit., p. 155. 37. M.James, op. cit., p. 114. 38. Cfr. S. Wolpert, op. cit., p. 78. 39. M. Abdullah, op. cit., p. 157. 40. Ivi, p. 158. 41. Sceicco Abdullah, cit. in S. Burke, op. cit., p. 186. 42. M. Abdullah, op. cit., p. 160. 43. S. Burke, op. cit., pp. 186-7. 44. A. Gauhar, op. at., p. 290. 45. Johnson fu contrariato per il fatto che i carri armati US Patton del Pakistan stessero muovendo verso il confine indo-pakistano. Erano stati venduti al Pakistan con la condizione che non fossero utilizzati contro l'India. 46. A. Gauhar, op. cit., p. 301. 47. M.James, op. cit., p. 126. 48. Ivi, p. 129. 49. A. Gauhar, op. cit., p. 312. 50. S. H a m i d , Early Years of Pakistan, cit., p. 177.
51. A. Gauhar, op. cit., p. 493. 52. A. Karim, op. cit., p. 80. 5 3 . A. L a m b , Kashmir. A Disputed Legacy, cit., p. 2 6 1 .
54. A. Gauhar, op. cit., p. 326. 5 5 . S. H a m i d , Early Years of Pakistan, cit., p. 177.
56. Ayub Khan, 29 agosto 1965, cit. in S. Wolpert, op. cit., p. 90.
57. M.J. Akbar, op. cit., p. 171. 58. A. Gauhar, op. cit., p. 330. 59. Ivi, p. 334. 60. M. James, op. cit., p. 136. 61. S. Burke, op. cit., p. 190. 62. M.James, op. cit., p. 141. 63. A. Gauhar, op. cit., p. 342. 64. Cit. in ivi, p. 347. 65. Cfr. M. James, op. cit., p. 144. 66. «The Times», Londra, 18 settembre 1965, cit. in A. Gauhar, op. cit., p. 348. 67. A. Gauhar, op. cit., pp. 352-3. 68. S. H a m i d , Early Years of Pakistan, cit., p. 184.
69. Z.A. Bhutto, 22-23 settembre 1965, cit. in S. Wolpert, op. cit., p. 94. 70. M. James, op. cit., p. 150. 71. J. Korbel, op. cit., p. 347. 72. M. James, op. cit., p. 166. 7 3 . H . F e l d m a n , From Crisis to Crisis, Pakistan 1962-1969,
L o n d r a , O x f o r d UP, 1972,
p. 159. 74. M. James, op. cit., p. 157. 75. «Dawn», 16 marzo 1966, cit. in A. Gauhar, op. cit., p. 404. 76. Cfr. M. Lodhi, "Bhutto, the Pakistan Peoples Party and Political Development in Pakistan, 1967-1977", tesi di PhD, 1981, Londra School of Economics. 77. Giudice A.M. Mallick, intervista, Mirpur, 30 marzo 1995. 78. «Washington Post», 14 agosto 1965, cit. inj. Korbel, op. cit., 1966, p. 341. 79. I. Gujral, intervista, New Delhi, 9 aprile 1994. 80. D. Vira, intervista, New Delhi, aprile 1994. 81. M. Saraf, op. cit., vol. II, p. 1378.
82. A. Khan, intervista, Rawalpindi, marzo 1994. 83. M . Butt, cit. in B.L. Kak, Kashmir. The Untold Story of Men and Matters, J a m m u Ta-
wi, Jay Kay, 1987, p. 76.
84. Ivi, p. 77. 85. M. Saraf, op. cit., vol. II, p. 1379. 86. J.P. Narain, lettera confidenziale alla signora Gandhi, 26 giugno 1966, cit. in M.J. Akbar, op. cit., p. 183. 87. Cit. in PS. Verma, op. cit., p. 53. 88. Cfr. A. L a m b , Kashmir. A Disputed Legacy, cit., p p . 2 9 0 - 4 .
89. A. Khan, intervista, Rawalpindi, marzo 1994. 90. M.J. Akbar, op. cit., p. 173. 91. I. M a l h o t r a , Indira Gandhi. A Personal and Political Biography, L o n d r a , H o d d e r
and Stoughton, 1989, p. 133. 92. J.N. Dixit, intervista, New Delhi, aprile 1994. 93. I. Gandhi a R. Nixon, 15 dicembre 1971, in I. Gandhi, India, Londra, Hodder and Stoughton, 1975, p. 173. 94. Simla si scrive oggi Shimla; ho conservato la grafia originaria com'era all'epoca dell'accordo. 95.
White Paper on the Jammu and Kashmir Dispute, 1977, cit. in A . L a m b , Kashmir. A Disputed Legacy, cit., p. 2 7 .
96. Accordo di Simla, sottoparagrafo 4 (II), cit. in ivi, p. 297 e in altre pubblicazioni. 97. T.N. Kaul, in «Sunday Times of India», 17 ottobre 1993. 98. Z. A. Bhutto, If I am Assassinated, New Delhi, Vikas, 1979, p. 130. 99. Ivi, p. 131. 100. P.N. Dhar, in «The Times of India», 4 aprile 1995. 101. J.N. Dixit, ivi, 7 aprile 1995. 102. M. Saraf, intervista, marzo 1994. 103. P.N. Haksar, intervista telefonica, New Delhi, aprile 1995. 104. A. Bhattacharjea, op. cit., pp. 232-3.
105. G. Saxena, intervista, New Delhi, 16 aprile 1994.
106. Z.A. Bhutto, discorso all'Assemblea Nazionale, cit. in «Pakistan Times», 19 luglio 1972. 107. Farooq visitò il Pakistan durante i negoziati per l'accordo sul Kashmir. 108. F. Abdullah, cit. in M.J. Akbar, op. cit., p. 186. 109. F. Abdullah, intervista, Srinagar, 5 aprile 1995. 110. S. Wolpert, op. cit., p. 192. 111. Intervista, Muzaffarabad, marzo 1994. 112. Dati tratti da Azad Kashmir at a Glance, Muzaffarabad, Azad Govt, of the State of Jammu and Kashmir. 113. F. Abdullah, intervista, Srinagar, 5 aprile 1995. 114. L. Rose, op. cit., p. 241. 115. S. Abdullah, in «Hindustan Times», 5 marzo 1972, cit. in PS. Verma, op. cit., p. 122. 116. M. Qasim, in «Hindustan Times», 18 marzo 1972, cit. ibid. 117.M. Qasim, in op. cit., p. 132. 118. S. Abdullah, intervista a «The Times», Londra, 8 marzo 1972, cit. in A. Bhattacharjea, op. cit., p. 234. 119. S. Abdullah, op. cit., p. 164. 120. Ivi, p. 165. 121. M.J. Akbar, op. cit., p. 188. 122. Accordo del Kashmir, cit. in P.S. Verma, op. cit., p. 58; M. Saraf, op. cit., vol. II, p. 1276. 123. P.S. Verma, op. cit., p. 57. 124. A. L a m b , Kashmir. A Disputed Legacy, cit., p. 309.
125. Cfr. M.J. Akbar, op. cit., p. 189. 126. M. Qasim, op. cit., p. 145. 127. P.N. Bazaz, cit. in A. L a m b , Kashmir. A Disputed Legacy, cit., p. 312.
128.S. Abdullah, op. cit., p. 168.
129. P.S. Verma, op. cit., p . 129; colloqui con la APHC di Islamabad, marzo 1995. 130. Intervista, Muzaffarabad, marzo 1994. 131. Ali, intervista, Srinagar, marzo 1981. 132.P.S. Verma, op. cit., p. 62. 133. A. Inquilabi, intervista, Islamabad, aprile 1994.
6. Sbruffoneria e
disperazione
1.
M. Abdullah, Iqbal Park, 21 agosto 1981, cit. in M.J. Akbar, op. cit., p. 197.
2.
F. Abdullah, 24 settembre 1989, cit. in B. Puri, Kashmir: Towards Insurgency, cit., p.
57. 3.
Bhutto fu giustiziato il 4 aprile 1979 con l'accusa di avere cospirato per far uccidere un oppositore politico.
4.
M. Abdullah, cit. in T. Singh, op. cit., p. 16.
5.
T. Singh, op. cit., p. 18.
6.
A. Bhattacharjea, op. cit., p. 241.
7.
T. Singh, op. cit., p. 19.
8.
Ivi, pp. 20-2.
9.
Cit. in B. Taseer, op. cit., p. 67.
10. Primo ministro S.A. Qayum, intervista, Islamabad, 25 marzo 1994. 11. A. Khan, intervista, Rawalpindi, 24 marzo 1994. 12. T. Singh, op. cit., p. 24. 13. M.A. Aziz, intervista, Rawalpindi, 24 marzo 1994. 14. M.J. Akbar, op. cit., p. 199. 15. Quando nel 1969 Indira Gandhi ruppe con la vecchia guardia del Partito del Congresso, quest'ultimo si divise in diverse fazioni. Nel 1978 ella formò il proprio parato, denominato Congresso (I), cioè Indira. 16. F. Abdullah, intervista, New Delhi, aprile 1994. 17. T. Singh, op. cit., p. 34. 18. Ivi, p. 30.
19. I. Malhotra, op. ät., p. 278. 20. I sostenitori del Mirwaiz erano chiamati «capre» in virtù della loro tradizione di portare la barba. 21. M.J. Akbar, op. cit., p. 202. 22. Ivi, p. 205. 23. P.S. Verma, op. cit., pp. 129,143. 24. T. Singh, intervista, New Delhi, aprile 1994. 25. Id., op. cit., p. 38. 26. Ivi, p. 40. 27. I. Malhotra, op. cit., p. 279. 28. A. Bhattacharjea, op. cit., p. 245. 29. M.J. Akbar, op. cit., p. 207. 30. Ivi, p. 206. 31. T. Singh, op. ät., p. 53. 32. A. Bhattacharjea, op. cit., p. 246. 33. T. Singh, op. cit., p. 54. 34. I. Malhotra, op. cit., p. 295. 35. A. Bhattacharjea, op. cit., p. 248. 36. T. Singh, op. cit., p. 68. 37. S. Jagmohan, My Frozen Turbulence in Kashmir, New Delhi, Allied Publishers, 1994, p. 286. 38. T. Singh, op. at., p. 68. 39. F. Abdullah, My Dismissal, New Delhi, Vikas, 1985, p. 11. 40. Ivi, p. 32. 41. M. Qasim, op. cit., p. 163. 42. T. Singh, in «Telegraph», India, 11 luglio 1984, cit. in Kashmir. A Tragedy of Errors, cit., p. 74. 43. I. Malhotra, op. at., p. 297.
44. T. Singh, op. cit., p. 79.
45. S. Jagmohan, op. cit., p. 346. 46. T. Singh, op. cit., p. 98. 47. M.J. Akbar, op. cit., p. 213. 48. Cfr. P.S. Verma, op. cit., p. 74. 49. Cit. in ivi, p. 159. 50. Ivi, p. 137. 51. «Times of India», 26 marzo 1987, cit. in ivi, p. 141. 52. Cit. in P.S. Verma, op. cit., p. 141. 53. F. Abdullah, intervista, New Delhi, 15 aprile 1994. 54. T. Singh, op. dt., p. 102. 55. M.A. Aziz, intervista, marzo 1994. 56. Cit. in P.S. Verma, op. cit., p. 79. 57. F. Abdullah, intervista, New Delhi, 1994; A. Bhattacharjea, op. cit., p. 253. 58. A. Khan, intervista, Rawalpindi, marzo 1995. 59. R. Cowton, in «The Times», 27 dicembre 1985. 60. E. Desmond, "The Insurgency in Kashmir (1989-91)", in «Contemporary South Asia», IV, marzo 1995, n. 1, pp. 6-7. 61. Y. Malik, Our real crime, Srinagar, Jammu Kashmir Liberation Front, 1994, p. 1. 62. T. Singh, op. at, p. 108. 63. Ivi, p. 107. 64. S. Jagmohan, op. cit., pp. 111-3. 65. P.S. Verma, op. cit., p. 229. 66. A. Bhattacharjea, op. cit., p. 255. 67. P.S. Verma, op. cit., p. 208. 68. R. Sareen, Pakistan. The India Factor, New Delhi, Allied Publishers, 1984, p. 40. 69. E. Desmond, op. cit., p. 8.
70. T. Singh, op. cit., p. 204.
7. Valle di lacrime 1.
«Sunday Observer», 10 agosto 1990, cit. in R. Kadian, op. cit., p. 147.
2.
R.C. Tremblay, "Kashmir: The Valley's Political Dynamics", in «Contemporary South Asia», IV, marzo 1995, vol. IV, n. 1, p. 81.
3.
P.S. Verma, op. cit., p. 230.
4.
Ivi, p. 236.
5.
S. Jagmohan, op. cit., p. 125.
6.
A. Bhattacharjea, op. cit., p. 257.
7.
B. P u r i , Kashmir. Towards Insurgency, cit., p. 5 8 .
8.
T. Singh, op. at., p. 110.
9.
B. P u r i , Kashmir. Towards Insurgency, cit., p. 5 6 .
10. F. Abdullah, intervista, New Delhi, 15 aprile 1994. 11. «Peace Initiatives», a cura di S. Waslekar, I, 1995, n. 2, pp. 16-8. 12. Jagmohan elencò 44 «organizzazioni terroristiche» all'inizio del 1990; cfr. op. cit., appendice XV, pp. 751-2. 13. A. Inquilabi, intervista, Islamabad, 25 marzo 1994. 14. Ibid.
15. M.M. Sayeed, cit. in T. Singh, op. cit., p. 120. 16. Dottor maggiore (in pensione) M. Shah, intervista, latore, 7 aprile 1994. 17. S. Jagmohan, op. cit., p. 373. 18. F. Abdullah, intervista, New Delhi, 15 aprile 1994. 19. Cfr. M.J. Akbar, op. cit., p. 281. 20. S. Jagmohan, op. cit., p. 342. 21. T. Singh, op. cit., p. 131. 2 2 . Cfr. B. P u r i , Kashmir: Towards Insurgency, cit., p. 60.
23. Haseeb, intervista, Srinagar, 7 aprile 1995.
24. Cfr. T. Singh, op. tit., p. 132.
25. T. Allen-Mills, in «The Independent on Sunday», 28 gennaio 1990. 26. «Daily Telegraph», 22 gennaio 1990. 27. B. Puri, Kashmir. Towards Insurgency, cit., p. 60.
28. M.J. Akbar, op.tit.,p. 219. 29. Haseeb, intervista, Srinagar, 7 aprile 1995. 30. E. Desmond, op. cit., p. 8. 31. I. Gujral, cit. in «Newsline», maggio 1990, p. 17. 32. B. Puri, Kashmir. Towards Insurgency, cit., p. 63.
33. T.Singh, op. di., p. 205. 34. S. Jagmohan, op. at., p. 34. 35. Ivi, p. 364. 36. V. Bhasin, intervista, Jammu, 10 aprile 1994. 37. Cfr. Asia W a t c h , Human Rights in India: Kashmir under Siege, N e w York, H u m a n
Rights Watch, 1991, p. 57. 38. S. Jagmohan, op. at., p. 419. 39. S.S. Sidhva, "Present Insurgency is a Peoples Movement", cit. in Human Rights Commission, Kashmir Bleeds, Islamabad, Institute of Policy Studies, 1991, p. 34. 40. «The Guardian», 24 febbraio 1990. 41. T. Singh, op.tit.,p. 144. 42. S. Jagmohan, op. tit., p. 21. 43. Ivi, p. 465. 44. G. Fernandes, "India's Policies in Kashmir: an Assessment and Discourse", in Perspectives on Kashmir: the Roots of Conflict in South Asia, cit., p. 288.
45. È stata fornita anche la cifra di 250.000 su un totale di 300.000 pandit kashmiri della valle (Human Rights in Kashmir: Report of a Mission, Ginevra, Commissione In-
ternazionale di Giuristi, 1995). 46. Jawaharlal, intervista, campo di Mishriwalla, Jammu, 10 aprile 1994.
47. Dr. P. Ganju, intervista, Londra, febbraio 1996.
48. S. Jagmohan, op. cit., p. 492. 49. G. Fernandes, op. cit., p. 291. 50. B. Puri, Kashmir. Towards Insurgency, cit., p. 65.
51. Rapporto di Tarkunde, Sachar, Singh e Puri, cit. in A. Bhattacharjea, op. cit., p. 267. 52. O. Farooq, intervista, Londra, 9 novembre 1995. 53. T. Singh, op. cit., p. 152. 54. Punjab Human Rights Organisation Report, 1990. 55. S. Jacob, "Interview with Punjab Human Rights Organisation", 1995. 56. Punjab Human Rights Organisation Report, 1990 57. S. Jagmohan, "Current. 26 May-1 June. 1990", cit. in ivi. 58. A. Jaidey, cit. in E. Desmond, op. cit., p. 6. 59. T. Singh, op. cit., p. 157. 60. G. Saxena, intervista, New Delhi, 16 aprile 1994. 61. D. Brown, in «The Guardian», 14 febbraio 1990. 62. D. Housego, in «The Financial Times», 6 giugno 1990. 63. A. Inquilabi, intervista, Islamabad, 25 marzo 1994. 64. V.M. Tarkunde, "Kashmir for Kashmiris", in «Radical Humanist», 1990, n. 3. 65. Cit. in R. Kadian, op. cit., p. 141. 66. R. Kadian, op. at., p. 142. 67. M.Z. Sarfraz, intervista, in «Friday Times», 6-21 giugno 1991. 68. Asia Watch, Human Rights in India: Kashmir under Siege, cit., p. 5.
69. E. Desmond, op. cit., p. 15. 70. C. Thomas, in «The Times», 4 aprile 1991. 71.
Response of the Government of India to Report of Amnesty International titled "An Unnatural Fate", d i c e m b r e 1993, p. 17.
72. Human Rights in Kashmir: Report of a Mission, cit.
73. D. Housego, in «The Financial Times», 22 aprile 1991. 74. T. Allen-Mills, in «The Independent», 2 giugno 1991. 75. T. McGirk, in «The Independent», 17 settembre 1991. 76. A. Iqbal, in «The News», 8 febbraio 1992. 77. B. Puri, Kashmir. Towards Insurgency, cit., p. 67. 78. Asia W a t c h , The Human Rights Crisis in Kashmir: a Pattern of Impunity, N e w York,
Human Rights Watch, 1993, p. 45. 79. F. Ashai, cit. in ivi, p. 44. 80. A s i a W a t c h , The Human Rights Crisis in Kashmir, cit., p. 4 5 .
81. G. Saxena, intervista, New Delhi, 16 aprile 1994. 82. Intervista, Karachi, 1 aprile 1994. 83. Asia W a t c h , The Human Rights Crisis in Kashmir, cit., p. 5 5 .
84. A. Sinya, in «The Pioneer», 11 aprile 1994. 85. Mirwaiz O. Farooq, intervista telefonica, Srinagar, aprile 1995. 86. G. Saxena, intervista, New Delhi, 16 aprile 1994. 87.
Ibid.
8. Cuori e menti 1.
F. Abdullah, intervista, New Delhi, 15 aprile 1994.
2.
Mirwaiz O. Farooq, intervista, Londra, 9 novembre 1995.
3.
"Kashmir: Another Try", in «The Economist», 27 marzo 1993, p. 81.
4.
I membri della missione erano: Sir William Goodhart (dalla Gran Bretagna), il dottor Dalmo Dallari (dal Brasile), Florence Butegwa (dall'Uganda) e il professor Vitit Muntarbhorn (dalla Thailandia). Il loro rapporto venne pubblicato nel novembre 1994.
5.
A m n e s t y I n t e r n a t i o n a l , Torture and Deaths in Custody in Jammu and Kashmir, 31
gennaio 1995, p. 8. 6.
Giornalista, intervista, Londra, settembre 1995.
7.
A. Inquilabi, intervista, Islamabad, 25 marzo 1994.
8.
M.N. Sahharwal, sovrintendente generale della polizia dello Jammu e Kashmir, intervista, Srinagar, aprile 1994.
9.
Response of the Government of ìndia to Report of Amnesty International on Torture and Deaths in Custody in }ammu and Kashmir, p. 22.
10. A m n e s t y International, Torture and Deaths in Custody in Jammu and Kashmir, cit.,
p. 7. 11. Y. Malik, intervista, Srinagar, 6 aprile 1995. 12. Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Ginevra, febbraio 1994, E/CN.4/1994. 13. S. Gupta, "On a Short Fuse", in «India Today», 15 marzo 1994, p. 26. 14. N. Rao, "Don't Underestimate Us", ivi, p. 34. 15. S. Gupta, op. cit., p. 29. 16. S. Ahmad, in «Greater Kashmir», 12 aprile 1994. 17. K. Singh, in «The Times of India», Bangalore, 11 aprile 1994. 18. T. McGirk, in «The Independent», 31 ottobre 1994. 19. H. Joshi, intervista, Srinagar, aprile 1995. 20. Y. Malik, intervista, Srinagar, 6 aprile 1995. 21. S. Shah, intervista, Srinagar, 5 aprile 1995. 22. A. Gani Lone, intervista, Srinagar, 5 aprile 1995. 23. Professor A. Ghani, cit. in «Asian Age», 12 aprile 1994. 24. M.A. Qayum, avvocato, intervista, Srinagar, 14 aprile 1994. 25. Governatore generale (in pensione) K. Rao, dichiarazione alla TV Doordarshan, Jammu, 3 aprile 1995. 26. F. Abdullah, intervista, Srinagar, 5 aprile 1995. 27. Mirwaiz O. Farooq, intervista, Londra, 9 novembre 1995. 28. Generale di brigata A. Ray, Stato maggiore, quartier generale dei reparti, intervista, Srinagar, aprile 1995. 29. «Peace Initiatives», cit., p. 13. 30. Cit. in S. Sidhva, "Faltering Steps", in «Frontline», New Delhi, 9-22 aprile 1994, p.4.
31. K. Omar, "Special Report on Kashmir", in «The News on Friday», 28 luglio 1995.
32. R. Bedi, "On the Kashmir Beat", in «Jane's Dcfence Weekly», 21 maggio 1994, p. 19. 33. Response of the Government of India to Report of Amnesty International on Torture and Deaths in Cuitody in ]ammu and Kashmir, cit.. p. 21. 34. Human Rights in Kashmir: Report of a Mission, cit. 35. Amnesty International, Torture and Deaths in Custody in }ammu and Kashmir, cit.,
p. 2. 36. «The Observer, Londra, 13 novembre 1994, cit. in ivi p. 19. 37. Asia W a t c h , The Human Rights Crisis in Kashmir: a Pattern of Impunity, Rawal-
pindi, giugno 1993, p. 58. 38. Response of the Government of India, pp. 22-3. 39. Amnesty International, India: Analysis of the Government of India's response to Amnesty International's Report on Torture and Deaths in Custody in ]ammu and Kash-
mir, marzo 1995, p. 1.
40. Amnesty International, Torture and Deaths in Custody in ]ammu and Kashmir, cit.,
pp. 60-1. 41. Ivi, p. 10. 42. Paragrafo 8 ( 1 ) , cit. in Human Rights in Kashmir: Report of a Mission, cit. 43. Human Rights in Kashmir: Report of a Mission, cit.
44. Paragrafo 4, cit. in ivi. 45. Human Rights in Kashmir: Report of a Mission, cit. 46. Ibid.
Al. M.A. Qayum, intervista, Srinagar, aprile 1994. 48. Response of the Indian Government, p. 10.
49. Generale di brigata A. Ray, intervista, Srinagar, aprile 1995. 50. M.N. Sabharwal, sovrintendente generale della polizia dello Jammu e Kashmir, intervista, Srinagar, aprile 1994. 51. Alta Commissione indiana, Londra, febbraio 1996. 52. B. Puri, Kashmir. Towards Insurgency, cit., p. 78.
53. D. Kumar, in «The Times of India», agosto 1993. 54. Governatore generale (in pensione) K. Rao, dichiarazione alla TV Doordarshan, Jammu, 3 aprile 1995. 55. Studente, intervista, Srinagar, aprile 1995. 56. Uomo d'affari, intervista, Srinagar, aprile 1995. 57. Proprietario di una casa galleggiante, intervista, Srinagar, aprile 1995. 58. A m n e s t y International, Torture and Deaths in Custody, cit., p. 5 9 . 59. Asia W a t c h , The Human Rights Crisis in Kashmir, cit., p. 98.
60. G. Saxena, intervista, New Delhi, 16 aprile 1994. 61. F. Abdullah, intervista, Srinagar, 5 aprile 1995. 62. Cfr. Human Rights in Kashmir: Report of a Mission, cit.
63. Intervista, Srinagar, aprile 1995. 64. Mirwaiz O. Farooq, intervista, Londra, 9 novembre 1995. 65. Y. Malik, intervista, Srinagar, 6 aprile 1995. 66. A. Khan, intervista telefonica, febbraio 1996. 67. Siddiqi era tra le trentadue persone uccise dal fuoco della polizia nel marzo 1996, quando la moschea di Hazratbal venne nuovamente posta sotto assedio. 68. Interviste, Srinagar, aprile 1995. 69. Alta Commissione indiana, Londra, febbraio 1996. 70. Statistica della fine di marzo 1995, fornita da Ram Mahan Rao, consigliere del governo dello Jammu e Kashmir, New Delhi, aprile 1995. 71. Alta Commissione indiana, Londra, febbraio 1996. 72. Intervista, Srinagar, aprile 1994. 73. G. Saxena, intervista, New Delhi, aprile 1994. 74. E. Desmond, op. cit., p. 15. 75. Intervista, New Delhi, 1995. 76. Response of the Government of India, p. 5.
77. Primo ministro S.A. Qayum Khan, intervista, Islamabad, marzo 1995.
78.
Human
Rights in Kashmir:
Report of a Mission,
cit.
79. The Islamic Blowback, BBC 2, 11 novembre 1995
80. M. Saraf, intervista, Rawalpindi, marzo 1994; egli morì nel novembre 1994. 81. Mirwaiz O. Farooq, intervista, Londra, 9 novembre 1995. 82. Y. Malik, intervista, Srinagar, aprile 1995. 83. A. Davis, "The Conflict in Kashmir", in «Jane's Intelligence Review», VII, 1995, n. I. 84. Alta Commissione indiana, Londra, febbraio 1996. 85. S. Jamaluddin, intervista, Srinagar, aprile 1994. 86. I. Wani, in «The Daily Telegraph», 12 maggio 1995. 87. Il ruolo di Master Gul fu pubblicizzato nel documentario The Islamic Blowback, trasmesso dalla BBC 2, 11 novembre 1995. 88. N. Sheikh, intervista, Islamabad, 29 marzo 1995. 89. Primo ministro S.A. Qayum, intervista, Islamabad, 25 marzo 1994. 90. Mirwaiz O. Farooq, intervista, Londra, 9 novembre 1995. 91. Intervista, campo di Ambore, Muzaffarabad, 29 marzo 1994. 92. N. Malik, intervista, Muzaffarabad, 29 marzo 1994. 93. M. Kashfi, direttore della radio, intervista, Muzaffarabad, 29 marzo 1994. •94. Intervista, Rawalpindi, aprile 1995. 95. Primo ministro S.A. Qayum, intervista, Islamabad, marzo 1995. 96. A. Inquilabi, intervista, Islamabad, marzo 1994. 97. Y. Malik, intervista, Srinagar, aprile 1995. 98. R.N. Wali, intervista, Gilgit, 16 aprile 1994. 99. W.F. Ali, intervista, Islamabad, 14 aprile 1995. 100. Vedi la sentenza su Gilgit e Baltistan (aree settentrionali), Mirpur, 1993. 101. Studentessa, intervista, Sopore, aprile 1994. 102. Amnesty International, An Unnatural Fate, dicembre 1993, p. 7. 103. Dr. Rashid, intervista, Srinagar, aprile 1994.
104.«Peace Initiatives», cit., p. 15. 105. Ivi, p. 11. 106. Secondo le cifre del governo indiano per il 1995 sono 2.796 le persone uccise; per il 1994 ben 2.899. Ciò a fronte delle 31 uccise nel 1988, delle 92 del 1989 e delle 1.177 del 1990 (Alta Commissione indiana, Londra, febbraio 1996). Le statistiche ufficiose sono molto più elevate. 107. Amnesty, intervista, Londra, ottobre 1995. 108. Bone and Joint Hospital, intervista, Srinagar, aprile 1994. 109. Generale di brigata A. Ray, intervista, Srinagar, aprile 1995. 110. A. Jaitley, intervista telefonica. New Delhi, 11 aprile 1995. 111.F. Abdullah, intervista, Srinagar, 5 aprile 1995. 112. R.M. Rao, intervista, New Delhi, 10 aprile 1995. 113. P. Narboo, intervista, New Delhi, 10 aprile 1995; anche P.K. Triparthi, commissario distrettuale, intervista, Leh, 12 aprile 1995. 114. Politico del Congresso, intervista, Jammu, aprile 1995. 115. Alla Commissione indiana, Londra, febbraio 1996; nel 1995 fu assassinato il 45 per cento degli ostaggi, a fronte del 20 per cento del 1994. 116. S. Humphrey, intervista, Srinagar, aprile 1994. 117.1. Chapra, intervista, Srinagar, aprile 1994. 118. M. Kotru, intervista, Srinagar, aprile 1994. 119. D. Mackie, in «The Daily Telegraph», 24 giugno 1994. 120. K. Housego, ivi. 121. M. Fichtinger, intervista, Srinagar, aprile 1995. 122. S. Valani, intervista, Srinagar, aprile 1995. 123. G. Lazzarini, intervista, Srinagar, aprile 1995. 124. Direttore dell'Ahdoo's Hotel, intervista, Srinagar, aprile 1995. 125. K. Omar, servizio speciale sul Kashmir, in «The News on Friday», 28 luglio 1995. 126. K. Padmanabhaiah, ivi. 127.0. Farooq, intervista, Londra, 9 novembre 1995.
9. Conflitto o consenso?
1.
E. Desmond, op.tit.,p. 8.
2.
Y. Malik, intervista, Srinagar, 6 aprile 1995.
3.
J. Woolsey, cit. in «The Economist», 7 gennaio 1994.
4.
Conversazione privata, marzo 1995.
5.
R. Raphel, cit. in «The Financial Times», 1 novembre 1992.
6.
S. Talbott, conferenza stampa, New Delhi, 8 aprile 1994.
7.
A.H. Suhrawardy, intervista, Rawalpindi, marzo 1994.
8.
Cfr. S. Bose, op.tit.,p. 195.
9.
India Human Rights Abuses in the Election Period in ]ammu and Kashmir, A m n e s t y
International, ASA 20/39/96. 10. D.P. Kumar, Kashmir. Return to Democracy, New Delhi, Siddhi, 1996, p. 11.
11. C. Thomas, in «The Times», 24 maggio 1996. 12. Cit. in D.P. Kumar, op.tit.,p. 13. 13. F. Abdullah, intervista, New Delhi, 14 dicembre 1998. 14. http://jammukashmir.nic.in/normalcy/welcome.html. 15. «The Statesman», 3 ottobre 1996; http://jammukashmir.nic.in/normalcy/welcome.html. 16. S. Bose, op.tit.,p. 177. 17. Agenzie, New Delhi, cit. in «The News», 6 marzo 1997. 18. Negoziati indo-pakistani tra ministri degli Esteri, Dichiarazione congiunta, 23 giugno 1997. 19. Informazioni private, Islamabad, Karachi, maggio 1997. 20. Cit. in «The Observer», 17 agosto 1997. 21. "Even the Queen's departure from India stirs up trouble", Madras, India, CNN, 18 ottobre 1997. 22 Gioco di parole sul cognome del ministro inglese: Cook significa infatti 'cuoco'. [N.d.T.] 23. «Indian Express», New Delhi, 10 ottobre 1997.
24. «Business Standard Newspaper», 14 ottobre 1997. 25. ]. Kampfner, Robin Cook, Londra, Gollancz, 1998, pp. 175-8. 26. «The News», 15 agosto 1997. 27. APP, Muzaffarabad, cit. in «The News», 27 gennaio 1998. 28. Malgrado la morte del norvegese Hans Christian Ostro, il governo norvegese restò impegnato fino alla fine nelle discussioni per una questione di principio. 29. Sir N. Fenn, GCMG, corrispondenza, 9 luglio 1999. 30. H. Synnott, conversazione, 26-27 luglio 1999. 31. F. Abdullah, intervista, New Delhi, dicembre 1998. 32. A. Evans, "Kashmir: the Past Ten Years", in «Asian Affairs», febbraio 1999, p. 30. 33. D. Summers, corrispondenza, luglio 1999. 34. M.J. Gohel, corrispondenza, Londra, 28 giugno 1999. 35. Dichiarazione di Lord Avebury, membro del gruppo liberaldemocratico per gli Affari Esteri e vicepresidente del gruppo parlamentare britannico per i Diritti Umani, New Delhi, 29 novembre 1998. 36. J. Harley, in «The Herald», giugno 1999, p. 49. 37. "India and Pakistan", in «The Economist», 22 maggio 1999. 38. «If they are dead, tell us». «Disappearances» in }ammu and Kashmir, A m n e s t y In-
ternational, ASA 20/02/99, febbraio 1999. 39. "India and Pakistan", in «The Economist», 22 maggio 1999. 40. Human Rights Watch, http://news.bbc.co.uk/hi/english/world/south asia. 41. M.J. Gohel, corrispondenza, 28 giugno 1999. 42. Cfr. A. Evans, materiale di ricerca inedito, 1999. 43. Amnesty International, ASA 20/09/96, settembre 1996. 44. Amnesty International, ASA 20/02/99, febbraio 1999. 45. I. Gilani, in «The Kashmir Times», 24 gennaio 1999. 46. Ivi, Rapporto del ministero dell'Interno dell'Unione. 47. Editoriale, in «The Kashmir Times», 30 settembre 1998.
48. Cfr. A. Evans, materiale di ricerca inedito, 1999. 49. Cfr. I. Wilkinson, "Pakistan funds Islamic terror", in «The Sunday Telegraph«, 16 maggio 1999; A. Evans, in "Kashmir: the Past Ten Years", cit., p. 32. 50. Documento informativo, "U.S. strike on Facilities in Afghanistan and Sudan", dipartimento di Stato USA, 21 agosto 1998. 51. Informazione privata. 52. Mirwaiz O. Farooq, intervista, Londra, 9 novembre 1995. 53. Portavoce della APHC cit. in Kashmir Global Network, Kashmir News Report, 12 luglio 1997, cit. in J.D. Cockell, "Ethnic Nationalism and Subaltern Political Process: exploring autonomous democratic action in Kashmir", in «Nation and nationalism», VI, 2000, n. 3. 54. A. Inquilabi - Jama Masjid, Srinagar, 21 luglio 1995, cit. in J.D. Cockell, op. cit. 55. A. Evans, materiale di ricerca inedito; BBC News, "Kashmiri separatist wants talks with India", 25 maggio 1998. 56. «The Pioneer», 27 ottobre 1997. 57. Srinagar, NNS, «The Nation», Londra, 5-11 febbraio 1999. 58. Dr. A. Thakar, World Kashmir Freedom Movement, 26 luglio 1999. 59. S.A. Qayum Khan, intervista, Londra, 6 luglio 1999. 60. Agenzie, New Delhi, cit. in «The Nation», Londra, 4-10 giugno 1999. 61. «The Kashmir Times», 30 settembre 1998. 62. Conversazione privata, luglio 1999. 63. S. Bose, op. cit., p. 95. 64. Circa 700.000 dollari al giorno. 65. F. Abdullah, intervista, New Delhi, 14 dicembre 1998. 66. Vajpayee era stato il ministro degli Esteri del governo di Morarji Desai, nel 197779. 67. Washington, NNS, cit. in «The Nation», Londra, 15-21 maggio 1998. 68. http://www/library.utoronto.ca/97/foreign, 12 giugno 1998. 69. M. Nicholson, "Pakistan's economy looks too weak to stand many international sanctions", in «The Financial Times», 12 giugno 1998.
70. "Easing of Sanctions on India and Pakistan", dichiarazione dell'addetto stampa, Casa Bianca, 7 novembre 1998. 71. S.A. Qayum Khan, intervista, 4 luglio 1998. 72. Vajpayee a New Delhi, cit. in «The Nation», 27 luglio 1998. 73. «The Nation», Londra, 31 luglio 1998. 74. Cit. in «The Nation», Londra, 17-18 ottobre 1998. 75. Memorandum d'intesa firmato dal sottosegretario agli Esteri indiano K. Ragunath e dal sottosegretario agli Esteri pakistano Shamshad Ahmad, Lahore, 21 febbraio 1999. 76. Dichiarazione di Lahore firmata dai primi ministri di India e Pakistan il 21 febbraio 1999. 77. Cit. in «The Nation», Londra, 5-11 marzo 1999. 78. Cit. in ivi, 25 marzo 1999. 79. P. Montagnon, "Pakistan, India set for fresh N-talks", in «The Financial Times», 27 gennaio 1999. 80. "Stern Gujral cautions Pak", in «The Asian Age», 3 ottobre 1997. 81. Le cifre sono contrastanti; a metà maggio il quotidiano «Excelsior», con sede a Srinagar, dichiarò che una pattuglia dell'esercito indiano aveva visto due-trecento militanti «stranieri» che «sembravano essersi infiltrati» dal versante pakistano della linea di controllo. Questo numero fu in seguito collocato a circa seicento. Oggi è certo che si trattava per lo più di componenti della NLI (la Fanteria Leggera del Nord), di base a Skardu. 82. Come riferito da R. Bedi, in «The Daily Telegraph», 28 maggio 1999. 83. J. West, "British guerillas blamed for border conflict with India", in «The Sunday Telegraph», 30 maggio 1999. 84. A. Rashid, in «The Daily Telegraph», 28 maggio 1999. 85. Se gli aerei fossero stati effettivamente abbattuti o avessero avuto un'avaria al motore era oggetto di contrasto tra i resoconti. Uno di essi asseriva che il MIG-21 aveva deviato nello spazio aereo pakistano ed era stato colpito da un missile terra-aria, mentre il MIG-27 aveva avuto un guasto al motore e si era schiantato. 86. B. Cloughley, ex vicecomandante dell'UNMOGIP, autore di A History of the Pakistan Arrny, Wars and Insurrections, intervista, g i u g n o 1999.
87. "In Perspective", rubrica settimanale di «Oxford Analytica», 9 giugno 1999. 88. Cfr. il resoconto di J. West, in «Sunday Telegraph», 30 maggio 1999.
89. Cit. in «Asian Age», 12 giugno 1999. 90. Rassegna stampa, Ambasciata dell'India, Settore Stampa, Informazione e Cultura, Washington DC, maggio-giugno 1999. 91. Informazione privata, luglio 1999. 92. Istituto di Studi della Difesa, cit. in «The News», 16 giugno 1999; K. Guruswamy, "India Takes Strategie Kashmir Peak", in «Associated Press», 5 luglio 1999. 93. «Kashmir Times», 26 giugno 1999; K. Guruswamy, op. cit. 94. Cit. in «The News», 17 giugno 1999. 95. B. Cloughley, giugno 1999. 96. Lord Ahmed, intervista, Londra, 30 giugno 1999. 97. New Delhi, NNS, cit. in «The Nation», 4-10 giugno 1999. 98. Agenzie, cit. in «The News», 13 giugno 1999. 99. P. Popham, "India uses 'dirty war' tactics in Kashmir", in «The Independent», 20 giugno 1999. 100. S. Price, http://news.bbc.co.uk/hi/english/world/south asia, giugno 1999. 101. BBC News, South Asia, 23 giugno 1999. 102. Srinagar, NNS, «The Nation», Londra, 25 giugno-1 luglio 1999. 103. http://news.bbc.co.uk/hi/english/world/monitoring, 4 luglio 1999. 104. C.L. Joshi, "Kashmir cyberwar", in http://news.bbc.co.uk/hi/english/world/south asia, 28 giugno 1999. 105. Dichiarazione dei G8 sulle questioni regionali, documenti del vertice G8 di Colonia, trascrizioni 18-20 giugnol999; http://www/usia/gov/topical/econ/g8koln/ g8region.htm. 106. T. Lippman, in «The International Herald Tribune», 28 giugno 1999. 107. Cit. in «The Nation», Londra, giugno 1999. 108. Informazione privata, luglio 1999. 109. "India and Pakistan", in «The Economist», 22 maggio 1999. 110. BBC 24 News, "Hard talk with Tim Sebastian", 23 giugno 1999. 111. «The Sunday Telegraph», 20 giugno 1999.
112. B. Fenton, "India was set to invade Pakistan", in «The Daily Telegraph», 27 luglio 1999. 113. http://.bbc.co.uk/hi/english/world/south asia, 4 giugno 1999. 114. P. Constable, in «International Herald Tribune», 7 giugno 1999. 115. A. Amir, in «Dawn», 25 giugno 1999. 116. Corrispondenza privata, giugno 1999. 117. R. Bedi, in «Daily Telegraph», 22 giugno 1999. 118. B. Cloughley, luglio 1999. 119. Cit. da P. Popham, in «The Independent», 1 luglio 1999. 120. http://.bbc.co.uk/hi/english/world/monitoring/newsid, 5 luglio 1999. 121. Primo ministro N. Sharif, 12 luglio 1999, Islamabad, NNS, cit. in «The Nation», Londra, 16-22 luglio 1999. 122. Muzaffarabad, NNS, «The Nation», Londra, 9-15 luglio 1999. 123. http://.bbc.co.uk/hi/english/world/south asia, 5 luglio 1999. 124. «Greater Kashmir», Srinagar, 20 luglio 1999. 125. Islamabad, NNS, «The Nation», Londra, 16-22 luglio 1999. 126. R. Bedi - C. Lockwood, "Pakistanis protest over Kashmir retreat", in «The Daily Telegraph», 13 luglio 1999. 127. B. Bhutto, ex primo ministro e leader dell'opposizione, Londra, 20 luglio 1999. 128. http://.bbc.co.uk/hi/english/world/south asia, 23 luglio 1999. 129. B. Bhutto, in «The New York Times», cit. in «The Nation», Londra, 11-17 giugno 1999. 130. Agenzie, New Delhi, «The Nation», Londra, 9-15 luglio 1999. 131. Agenzie, Srinagar, «The Nation», Londra, 16-22 luglio 1999. 132. Agenzie, New Delhi, «The Nation», Londra, 9-15 luglio 1999. 133. Il costo medio di un annuncio a tutta pagina in bianco e nero sul «Times» (ufficio pubblicità). 134. «The Times», 13 luglio 1999. 135. Islamabad, NNS, «The Nation», Londra, 20-26 agosto 1999.
136. Cit. in «The Nation», Londra, 23-29 luglio 1999. 137.1 resoconti sono discordanti sul numero dei morti. 138. http://.bbc.co.uk/hi/english/world/south asia, 27 luglio 1999. 139.0. Bennett-Jones, http://news.bbc.co.uk/hi/english/world/south asia, 25 luglio 1999. 140. S. Goldenberg, "Early deal to end Kashmir conflict was ignored", in «The Guardian», 22 luglio 1999. 141. http://.bbc.co.uk/hi/english/world/south asia, 26 luglio 1999. 142. «Daily Telegraph», 27 luglio 19990 143. P. Popham, dal fronte, in «The Independent», 1 luglio 1999. 144. http://.bbc.co.uk/hi/english/world/south asia, 23 luglio 1999. 145. Dal fronte, «The Independent», 22 luglio 1999. 146. R. Bedi, "Year-round watch put on border in Kashmir", in «The Daily Telegraph», 20 luglio 1999. 147. http://news.bbc.co.uk/hi/english/world/south asia, 19 luglio 1999. 148. http://.bbc.co.uk/hi/english/world/south asia/newsid, 1 agosto 1999. 149. http://.bbc.co.uk/hi/eng!ish/world/south asia/newsid, 26 luglio 1999. 150. http://news.bbc.co.uk/hi/english/world/south asia, 20 luglio 1999. 151 .Ibid.
152. http://news.bbc.co.uk/hi/english/world/south asia, 25 luglio 1999. 153.Jedda, NNS, «The Nation», Londra, 23-29 luglio 1999. 154. http://news.bbc.co.uk/hi/english/world/south asia/newsid, 12 agosto 1999. 155. Cit. in «The Nation», Londra, 13-19 agosto 1999. 156. J. West, in «The Sunday Telegraph», 15 agosto 1999. 157.1. Gilani, in «The Kashmir Times», 7 agosto 1999. 158. http://news.bbc.co.uk/hi/english/world/south asia/newsid, 15 agosto 1999. 159. Ibid.
160. http://news.bbc.co.uk/hi/english/world/south asia/newsid, 16 agosto 1999.
1.
S. Asif, "Khidmet seminar", "Indian and Pakistani relations in the 21" centurv", SOAS, Londra, 24 luglio 1999.
2.
Cit. nel discorso del presidente Musharraf alla nazione, 12 gennaio 2002.
3.
Tale convinzione viene contestata dall'ideologia dell'induità (hindutva), diffusa da alcuni indù del ceto medio urbano, secondo cui l'India è un paese induista e i musulmani dovrebbero andarsene o riconoscere la propria condizione di stranieri.
4.
B . B . R i e d e l , American Diplomacy and the 1999 Kargil Summit at Blair House, P o -
licy Paper Series 2002, Center for the Advanced Study of India, University of Pennsylvania, 2002, cit. in «The Sunday Times», 12 maggio 2002 e su hrtp://news. bbc.co.uk/hi/english/world/south asia, maggio 2002. 5.
La maggior parte dei passeggeri erano indiani, dodici erano europei e due americani.
6.
Intervista telefonica, Associated Press, Kabul, 25 dicembre 1999.
7.
Tra le nazioni della lista ci sono l'Iran, l'Iraq e la Siria. Una tale iscrizione porrebbe fine ai prestiti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale al Pakistan, il che causerebbe il collasso economico del paese.
8.
R. Bedi, "Hostages released in bargain with India", in «The Daily Telegraph», 1 gennaio 2000.
9.
Gen. Pervez Musharraf, intervista a «The Hindu», 16 gennaio 2000.
10. Id., campo profughi di Ambore, febbraio 2000. 11. Id., intervista, Karachi, febbraio 2000. 12. Cfr. S. Qadir, "An Analysis of the Kargil Conflict 1999", in «RUSI Journal», aprile 2002.
13. G. Singh, cit. in «The Daily Telegraph», 22 marzo 2000. 14. Alcuni resoconti affermano che due uomini morirono in seguito a ferite, portando il totale degli uccisi a trentasei. 15. Gli attivisti comprendevano il giudice in pensione Ajit Singh Bains, presidente dell'organizzazione per i Diritti Umani del Punjab, Sardar Inderjit Singh Jaijee, membro del movimento contro la Repressione Statale e il tenente generale Kartar Singh Gill, consigliere delle due organizzazioni. 16. Primo ministro Atal Vajpayee, cit. in «The Daily Telegraph», 22 marzo 2000. 17. Discorso del presidente Clinton al popolo del Pakistan, in «Dawn», 25 marzo 2000.
18. Generale A. Beg, cit. da P. Constable, in «International Herald Tribune», 28 marzo 2000. 19. Il gruppo di esperti fu convocato nell'ottobre 1996; il rapporto fu definitivamente presentato davanti all'assemblea dello Stato nel giugno 2000. 20. Il governatore Saxena me lo ha confermato nel corso di un'intervista dell'aprile 2002 a Jammu. 21. A. Evans, "Reducing Tensión is Not Enough", in «Washington Quarterly», primavera 2001. 2 2 . A m n e s t y I n t e r n a t i o n a l , India: Impunity must end in Jammu and Kashmir, a p r i l e
2001, ASA 20/023/2001. 23. A. Qadri, segretario generale del JKLF, intervista, Muzaffarabad, ottobre 2000. Majid Dar è stato ucciso da aggressori ignoti nel marzo 2003. 24. Formula del JKLF per risolvere la questione del Kashmir, 1-2 luglio 2000. Nel novembre dello stesso anno, la figlia di Amanullah Khan sposò a Islamabad il figlio di Abdul Gani Lone, Sajad, in un matrimonio che «univa le famiglie» da una parte all'altra della linea di controllo. 25. In India si tiene un censimento ogni dieci anni; l'ultimo nello Jammu e Kashmir indiano era avvenuto nel 1981. 26. Secondo il governo indiano, malgrado il divieto, il censimento fu completato in tutti i distretti. Per il 2001 le cifre analitiche non sono ancora disponibili. 27. Dipartimento di Stato USA, Rapporto sui Diritti Umani in India, 2000. Le cifre del governo indiano indicano che nei primi nove mesi del 2000 negli scontri vennero uccisi 1.520 militanti, a fronte dei 1.082 del 1999. 28. Governatore Saxena, intervista, Jammu, aprile 2002. 29. Amnesty International, aprile 2001, ASA 20/023/2001. 30. Informazione privata, Hunza, giugno 2001. Il Balawaristan National Front, che chiede l'indipendenza per le aree settentrionali, non ha un seguito significativo. L'appoggio al movimento viene da coloro che restarono delusi dal fatto che gli uomini della Fanteria Leggera del Nord, i quali avevano combattuto a Kargil, fossero inizialmente "disconosciuti" dal governo pakistano. In seguito essi furono onorati come «martiri». 31. Usman Khalid, leader di Al Ansaar, di base nel Regno Unito, cit. in «The Pakistan Post», 31 maggio 2001. 32. Y. Malik, intervista, Londra, 20 giugno 2001. 33. Presidente Musharraf, intervista, Rawalpindi, aprile 2002; informazione privata supplementare.
34. J. Singh e A. Sattar, Agra, NNS, cit. in «The Nation», Londra, 20-26 luglio 2001. 35. Primo ministro Vajpayee, intervista a «Newsweek», giugno 2002. 36. Washington Online, luglio 2001. 37. ANI, Rawalpindi, luglio 2001. 38. Amanullah Khan, intervista, Rawalpindi, giugno 2001. Questa clausola sui documenti per la candidatura fu introdotta da Sardar Qayum Khan negli anni Settanta come misura "provvisoria" in attesa di un referendum sotto l'egida dell'ONU. 39. Segretario di Stato Colin L. Powell, 26 dicembre 2001, dipartimento di Stato USA. 40. Presidente Musharraf, discorso alla nazione, 12 gennaio 2002. Egli espresse sentimenti analoghi nel suo discorso alla nazione del successivo 27 maggio. 41. Il governo indiano iniziò inoltre a discutere con gli Stati Uniti della collocazione di sensori per sorvegliare la linea di controllo. 42. Lo sceicco Omar Saeed in seguito ritrattò la sua confessione; venne condannato a morte nel luglio 2002. 43. Informazione privata, Srinagar, aprile 2002.1 servizi di posta elettronica e la teleselezione furono riconnessi nel maggio 2002. 44. Governatore Saxena, intervista, Jammu, aprile 2002. 45. Informazioni private, Londra e Srinagar, 2002. 46. U. Butatia, "Speaking Peace. Womens' Voices from Kashmir", in «Sunday Times of India», 7 aprile 2002. 47. Intervista, Srinagar, 2002. 48. P. Kaul, direttore della Tyndale-Biscoe School, Srinagar, aprile 2002. 49. La qualità della lana dipende dall'altitudine a cui hanno pascolato le capre; per una discussione sulle origini della pashmina, cfr. J. Hardy, Goat. A Story of Kashmir and Notting Hill, Londra, Murray, 2000. 50. J. Hardy, intervista, Londra, giugno 2002. 51. Gulzar, della K. Salama & Sons, intervista, Srinagar, aprile 2002. 52. Il passaporto di Malik era «specifico per paese» e gli consentiva di viaggiare soltanto per gli USA e il Regno Unito. All'inizio del 2001 cinque membri del consiglio esecutivo della APHC volevano visitare il Pakistan per avere dei colloqui con il generale Musharraf, ma il governo indiano rifiutò il passaporto a Syed Ali Shah Gilani e allo sceicco Abdul Rashid.
53. A settembre 2002 Yasin Malik resta in carcere. L'elezione del nuovo presidente della APHC è stata rinviata. 54. In Gran Bretagna agli eletti è richiesto un giuramento prima dell'assunzione del seggio. Per stimolare la partecipazione degli scontenti alle elezioni, India e Pakistan dovrebbero entrambi prendere in considerazione l'adozione di questo sistema. Intervista, Lord Avebury, luglio 2002. 55. S.A. Qayum Khan, intervista, Londra, giugno 2002; Sardar Qayum è oggi presidente della Commissione Presidenziale Nazionale per il Kashmir con il ruolo di ministro di Gabinetto. 56. Vennero formulate accuse anche contro gli estremisti indù e i sostenitori di Farooq Abdullah, i quali si sarebbero opposti alla sfida di Lone contro l'effettivo monopolio del potere da parte di Abdullah. Lone era stato duramente picchiato da un estremista indù a una conferenza stampa il primo aprile e aveva ricevuto minacce di morte anche dai militanti. 57. "Gujarat Carnage 2002. A report to the Nation by an independent fact finding mission", aprile 2002. Le cifre ufficiose parlano di più di 2.000 morti. 58. Per aiutare gli USA contro Al Qaeda e i combattenti talebani vennero schierati approssimativamente 8.000 soldati. Il regime era caduto nel dicembre 2001, ma la posizione del mullah Omar e di Bin Laden era ancora ignota. 59. Si stimava che il Pakistan avesse 25-50 testate, l'India 100-150, 20 per ciascuno sganciabili dai caccia, il resto da installare sui missili Shaheen, Ghauri e Hatf (Pakistan) o Agni e Prithvi (India). Fonte: Jane's Strategie Weapon Systems. 60. Primo ministro Vajpayee al primo ministro Blair, come riportato in «The Nation», Londra, 6 giugno 2002. 61. D. Sharma, in «The Pioneer», 26 maggio 2002. 62. J. Straw, testo del dibattito parlamentare alla Camera dei Comuni, giugno 2002. L'accusa di Straw fu respinta dal ministro dell'Interno del Pakistan, Moin Hyder. Anche USA, Giappone e Russia hanno accettato il legame tra USI e i gruppi militanti kashmiri. 63. Dr. A. Thukar, World Kashmir Freedom Movement, intervista, Londra, luglio 2002.
64. Il 10 giugno Vajpayee aveva abolito il divieto imposto ai voli pakistani di sorvolare il suo territorio. I voli nella tratta Lahore-Delhi rimasero sospesi. (Anche Colin Powell visitò la regione a gennaio e a luglio del 2002). 65. Cfr. Kashmir Study Group, The Kashmir Dispute at Fifty, 1947-1997, New York, Kashmir Study Group, 1997 e Kashmir. A Way Forward, ivi, 2000. 66. Governatore Saxena, intervista, Jammu, aprile 2002. India e Pakistan discutono ancora della validità dell'atto di annessione: si veda la confutazione, da parte di Prem Shankar Jha, dell'asserzione del professor Alastair Lamb secondo cui lo Sta-
to non aderì all'India prima dell'arrivo delle truppe indiane il 27 ottobre 1947, che Lamb a sua volta ha confutato, a causa dell'inattendibilità della testimonianza prodotta dallo scrittore indiano. 67. G. Fernandes, 12 ottobre 1990, op. cit., p. 286. 68. Intervista, Srinagar, aprile 2002. Syed Salahuddin, il leader intransigente dell'Hizb-ul Mujaheddin e dello United Jihad Council, era un ex candidato alle elezioni del 1987. 69. A metà luglio, uomini armati attaccarono Qasimnagar, una bidonville presso Jammu, uccidendo più di venti indù, per la maggior parte donne, e ferendone almeno altri trenta. 70. Cfr. S. Ganguly, The Crisis in Kashmir, Cambridge, Cambridge UP, 1997, p. 42, per un'applicazione del ragionamento di Samuel Huntingdon secondo cui in una situazione nella quale si verificano declino istituzionale e mobilitazione politica, si presenta spesso l'instabilità. Cfr. anche J. Ray, "Kashmir 1962-1986: a footnote to history", in «Asian Affairs», XXXIII, 2002, n. 1. 71. Nel luglio del 2002, il governo indiano annunciò che avrebbe iniziato dei colloqui sulT«autonomia» con il governo dello Stato; in seguito dichiarò che i colloqui avrebbero riguardato un «decentramento dei poteri» ma non la piena autonomia. Nello Jammu le discussioni furono riferite alla creazione di un consiglio regionale. Gli oppositori avvertirono dei pericoli di una «triforcazione». 72. Un sondaggio MORI condotto nelle città principali di Srinagar, Jammu e Leh dello Stato dello Jammu e Kashmir ad amministrazione indiana nell'aprile 2002 ha rivelato che il 61 per cento riteneva di stare meglio politicamente ed economicamente come parte dell'India; il 6 per cento come parte del Pakistan; il 33 per cento non sapeva. Il 70 per cento voleva un'attenuazione delle restrizioni nell'attraversamento della linea di controllo. L'opzione dell'indipendenza non era fornita, benché il 55 per cento dicesse che avrebbe gradito una maggiore libertà politica in entrambe le parti dello Stato, quella ad amministrazione pakistana e quella indiana. L'inchiesta fu commissionata da Lord Avebury, il quale riteneva che, entro i limiti in cui avevano potuto operare, senza poter comprendere alcuna rappresentanza delle aree rurali, le sue conclusioni erano corrette. Ci vorrebbe un referendum con una piena partecipazione, senza vincoli, per mostrare l'autentica volontà della gente. 73. Presidente Pervez Musharraf, intervista, Rawalpindi, aprile 2002. 74. Primo ministro Vajpayee, in «Newsweek», giugno 2002.
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Organizzazioni
militanti
Nel 1989 c'erano, a quanto riferito, 130 organizzazioni militanti; oggi sono circa venti, la maggior parte delle quali hanno poche centinaia di componenti. Alla fine degli anni Novanta vennero fondati anche diversi gruppi di controinsurrezione. Al-Umar Mujaheddin: fondata da Mushtaq Zargar dell'Awami Action Commmittee, partito politico che appoggia il Mirwaiz Omar Farooq; poca appartenenza indigena. Al Badar, diramazione dell'Hizb-ul Mujaheddin. AlBarq: istituita nel 1990 come ala militante del partito politico di Abdul Gani Lone, la People's Conference (che sosteneva l'indipendenza). Al Fateb: filopakistana. Guidata da Zain-ul Abdeen, ex candidato alle elezioni del 1987. Costituita come diramazione di Al Jehad con qualche centinaia di membri. Al Faran: gruppo dissidente delTHarkat-ul Ansar. E ritenuto responsabile del rapimento di cinque turisti occidentali nel 1995; non più attivo. Al Jehad: costituita nel 1991 come ala militante della Peoples League di Shabir Shah. Filopakistana (benché Shah si sia schierato a favore dell'indipendenza). Allah Tigers: gruppo islamico che impose la chiusura di bar, videoteche e cinema in quanto anti-islamici. Non è più attivo. Dukhtaran-e Millat (Figlie dell'Islam)-, gruppo fondamentalista femminile, guidato da
Asyia Andrabi; sosteneva le Allah Tigers. Attività limitata, non ha compiuto attentati armati. Harkat-ul Mujaheddin: precedentemente noto come Harkat-ul Ansar. Hizh-ul Mujaheddin-, fondato nel settembre 1989 quale ala militante del Jamaat-i Islami. L'obiettivo ufficiale è la riunificazione con il Pakistan. Guidato da Syed Sala-
huddin. cinquantenne, candidato del MUF alle elezioni del 1987. Stimato come il gruppo militante "indigeno" più ampio, con parecchie migliaia di membri. Harkat-ul Ansar. fondato nel 1993 da due gruppi istituiti nel 1980 per gestire i campi profughi afgani. Gruppo islamico radicale favorevole al Pakistan. Nel 1997, a seguito di un bando da parte degli Stati Uniti è stato rinominato Harkat-ul Mujaheddin. Bandito dal Pakistan nel dicembre 2001. Hizbul Momineen-, unico gruppo sciita, con un piccolo seguito, fondato nei primi anni Novanta come ala militante del partito politico di Maulvi Abbas Ansari, l'Ittehadul Muslimeen. Hizbullah: non più operativo. L'ala politica è la Muslim League of Kashmir. Ikhwan ul Muslimeen-. a favore dell'indipendenza. Avviato come Fronte Studentesco di Liberazione nel 1989 con poche centinaia di membri, dopo che il suo leader Ghulam Nabi Azad venne ucciso, divenne un gruppo di controinsurrezione denominato Ikhwan ul Muslimoon. Ikbwan-ul Muslimoon-, maggiore gruppo di controinsurrezione, guidato da Kukka Parrey. Costituito alla fine degli anni Novanta, creò un'ala politica, l'Awami League: due candidati concorsero alle elezioni nello Stato del 1996, ma entrambi persero. ]aish-i Mobammed: gruppo islamico radicale, fondato nel gennaio 2001 da Mohd Azhar. Di base in Pakistan e responsabile di numerosi attentati suicidi in Kashmir. E stato bandito dagli USA nel dicembre 2001 e dal Pakistan nel gennaio 2002. Azhar fu arrestato in Pakistan nel dicembre 2001. }ammu and Kashmir Liberation Front (JKLF): a favore dell'indipendenza. F o n d a t o da
Maqbool Butt nel 1964, guidato da Amanullah Khan, di base a Rawalpindi. Nel 1995 il JKLF si divise tra la sua ala pakistana e quella di base in India guidata da Yasin Malik a Srinagar. La APHC riconobbe Malik, il quale aveva rinunciato alla militanza, quale leader legittimo del JKLF. Lashkar-i Toibam. fondato nel 1993. Gruppo islamico radicale con base in Pakistan, molti membri sono ex mujaheddin dell'Afghanistan. Bandito dagli Stati Uniti nel dicembre 2001 e dal Pakistan nel gennaio 2002. Muslim ]anbaaz Force: formato come gruppo militante della Peoples League di Shabir Shah, ha soltanto poche centinaia di membri. Non più operativo. Muslim Liberation Army. il più vecchio gruppo di controinsurrezione Gujar. Muslim Mujaheddin: filopakistano.. Fazione dell'Hizb-ul Mujaheddin, appoggia la Muslim Conference. Operazione Balakote'. istituito da Azam Inquilabi, con poche centinaia di membri. Nell'Ottocento, Syed Ahmed di Balakote, presso Abbottabad, nella pakistana Provincia della Frontiera di Nord-Ovest, aveva combattuto una battaglia perdente contro i sikh; Inquilabi scelse il nome per indicare l'impari lotta combattuta contro il governo indiano. Nel 1995 Inquilabi ritornò a Srinagar e abbandonò la lotta armata. Taliban: gruppo di controinsurrezione Gujar.
Kashmir
Liberation
Jehad:
costituto dalla Border Security Force con militanti arresi.
Tehrik-ul Mujaheddin: piccolo gruppo militante indigeno, che appartiene alla scuola di pensiero Jamaat Al Hadith. United Jihad Council: organizzazione ombrello di tutti i gruppi militanti indigeni, istituita nel 1990. Originariamente guidata da Azam Inquilabi, oggi da Syed Salauddin. N o t a . In questo libro ho utilizzato i nomi con cui i rispettivi governi chiamano quella parte dello Stato che controllano: perciò «Azad Jammu e Kashmir» per la parte amministrata dal Pakistan e «Jammu e Kashmir» per quella amministrata dall'India. Quando mi riferisco ai kashmiri, in genere intendo gli abitanti della valle, sebbene tutti gli abitanti dello Stato dello Jammu e Kashmir siano, politicamente parlando, kashmiri.
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Abbas, Ghulam Azad Kashmir, 90 influenza nel Kashmir, 26-28 Kashmir Liberation Movement, 101 Muslim Conference, 22, 26, 53 Young Men's Muslim Association, 21 Abdul Qadir, incidente di, 21, 226 Abdullah, Begum, 119, 137, 139 Abdullah, Farooq aiuto economico, 229 autonomia regionale, 145, 217, 229, 258-259 complotto contro, 148-149 elezioni, 217, 250 giudizi, 143, 148 linea di controllo come frontiera, 218, 229 National Conference, presidente, 142143 perdita della carica, 149-150,164,229230 politica, 135, 145-146 sostegno, 146, 150, 164-165 tentativi di omicidio, 155, 225, 262 Abdullah, Omar, 269 Abdullah, Sheikh Muhammad accordo del Kashmir, 137 accordo di Delhi, 91 amministrazione di emergenza, 84 arresti, 28, 104, 107, 119, 137 atteggiamento filopakistano, 104 atto di annessione, 65 autodeterminazione dei kashmiri, 52 Azad Kashmir, 103, 139 Chu En-lai, incontro, 118
destituzione, 104 giudizi, 104-105, 138-139 Hari Singh, rapporti con, 84-86 Jamaat-i Islam, 141 J anata Party, 140 Karan Singh, rapporti con, 87-88 Mahajan, rapporti con, 85 minaccia di secessione, 140 morte, 143-144 Muslim Conference, 22 Nehru, rapporti con, 84, 104, 117 "Nuovo Kashmir", 26-27, 84-85 opzione confederale, 117 opzione per l'indipendenza, 88-89, 104,107,119,129-130 politiche, 87, 89, 140 primo ministro, 85 processi, 107, 116 Qayum Kahn, 144 questione dell'annessione, 85, 61, 6365,116 referendum, 46, 107 accordo del Kashmir (1975), 136-141 accordo Pakistan-USA per l'aiuto nella difesa comune, 97 accordo sul confine sino-pakistano (1962), 113 Advani, L.K., 274 Afghanistan fonte di armi, 197 incontro anglo-afgano, 14 invasione sovietica, 141 politiche verso la Gran Bretagna, 13 Agra, vertice di, 263 -264 Ahmed, Lord, 237
Ahsan Dar, 163, 197,223 Akali Da], 147 Akbar, imperatore, 5-6 Aksai Chin, frontiera, Vili, 98 AI Badar, 225, 264 Al Barq, 163 Al Faran, ostaggi occidentali, 210-211, 255 Al Fatah, 130, 136 Al Jehad, 163, 194, 197,259 Al Qaeda, 264, 272 Al-Ikhwan, 223 Al-Umar Mujaheddin, 163 Albright, Madeleine, 247 Ali, Chaudhuri Rahmat, 25 Ali India Muslim Kashmir Conference, 18 All Jammu and Kashmir Plebiscite Front, 107 All Parties Hurriyat Conference (APHC) accuse di corruzione, 228 autodeterminazione, 181,258 autonomia, 259 Azad Kashmir, 201 elezioni, 187, 250, 269 formazione, 181 Giorno dei Martiri, 226 incursione di Kargil, 228-229 obiettivi politici, 226 valle del Kashmir, 226, 227-228 Ali-India States Peoples' Conference, 51 Almaty, vertice di, 272 Amanullah Khan, vedi Khan, Amanullah Amnesty International, 261, 267 sparizioni, Pakistan, 191 esclusione, 181 rapporti, 204, 206, 222, 224 ammutinamento indiano, 11 Amritsar Commissione per i Confini, 39 Tempio d'Oro, assalto al, 149 trattati anglo-sikh, VII, 7,10, 12-13,70 Andhra Pradesh, 147 Andrabi, Jalil, assassinio, 216 anglo-sikh, trattati (1846), VII, 7,10,12-13, 70 anglo-sikh, guerre, 7-8 Anjuman-i Nusrat-ul Islam, 18 Annan, Kofi, 238, 263 annessione (post-indipendenza) vedi anche r e f e r e n d u m
atto di, 61, 79-80, 83-84,85 decreto presidenziale, 118 indecisione, 35-36
India, condizioni dell'aiuto, 59-60, 61 indipendenza, vedi indipendenza (Jammu e Kashmir) opzione confederale respinta, 117 patti di non intervento, 36, 47, 49-52, 64,80 pressioni pakistane per, 53 ratificata, 106 statuto speciale, 89-90, 91, 109 visita di Gandhi, 37 Ansari, Maulvi Abbas, 153, 181, 197 aree settentrionali vedi anche Baltistan; Gilgit; Hunza Azad Jammu e Kashmir, 201-204 Mutahida Mahaz (piattaforma congiunta), 203 statuto diplomatico, 202-204 armi atomiche India, 138,230-231,233-234,254,270 minaccia di guerra nucleare, 233,253254,270, 272,323 n. 59 Pakistan, 233, 234, 241, 254, 270, 276 trattato per il bando globale degli esperimenti, 230, 231, 233, 247 Armitage, Richard, 272 articolo 370, 89-90, 104 artigianato, turismo, 4, 6, 7, 143 Asia Watch, 175-177 Asoka, imperatore, 3 Assemblea Costituente in India/Pakistan, 27,34 Assemblea Costituente nello Jammu e Kashmir annessione ratificata, 107 costituzione, 107 elezioni, 90 insediata, 90 assemblea legislativa (Praja Sabha), 22 dopo il 1947, vedi elezioni scioglimento, 167-168, 186 assemblea legislativa, attentato di Srinagar, 265, 266, 269 Associazione Buddista del Ladakh, 92 Associazione dei Giovani Musulmani di Jammu, 21 attentati dinamitardi, 164, 256, 270, 272 atto di annessione condizione del referendum, 61, 63 discrepanza nei resoconti, 63-65, 258259 Hari Singh, 65, 83-84 legittimità, 63-65, 79-80, 258-259 pubblicazione, 65
questione dell'aiuto militare, 65 ratifica, 61, 106 restrizioni, 89, 91 Stati Uniti, opinione, 214 Aurangzeb, imperatore, 5 autodeterminazione, 52, 129-130, 139, 219 autogoverno, programma, 19 autonomia, 258-259, 277, 324 n. 71 Avantivarman, re, 4 Avebuty, Lord, 222, 314 n. 35,324 n. 72 Awami Action Committee, 136, 138 Awami National Conference Party, 148, 153-154 Ayub Khan, vedi Khan, Mohammad Ayub Ayyangar, Gopalaswami 70, 74 Azad Jammu e Kashmir Abbas, 89, 108 aree settentrionali, 203 campi del Jamaat-i Islami, 173 condizione costituzionale, 102 economia, 102-103 elezioni, 217, 264 esplosione di un autobus, 245 gruppo Haji, 155 Kashmir, rapporti con, 201 linea di controllo come frontiera, 135, 158,218,242,251,263 movimenti politici, 107, 128, 200 Pakistan, rapporti con, 102, 202-203 Plebiscite Front, 128 programmi radiofonici, 202 referendum, 103 Sheikh Abdullah, 102 statuto diplomatico, 99, 101, 102 Azad Kashmir Council, Islamabad, 136 Azad Movement, 72, 74, 80-81 Azhar, Maulana Masood, 254, 255, 265 Baghdad, patto di (Central Treaty Organisation), 97 Bakshi, Ghulam Muhammad condizione, 106 dimissioni, 109 elezioni 1962, 109 politiche, 106, 107 Balawaristan National Front, 321 n. 30 Baltistan, 79, 99 Bangladesh, creazione, 131 Baramula attacco militante, 245 saccheggio, 65-67 Batala, lodo di annessione, 41, 44
Bazaz, Prem Nath attività politica, 21 proposte democratiche, 67, 129, 139 BBC fotografo ucciso, 195, 223 trasmissioni, 199, 221, 244-246, 256 Beg, Aslam, 258 Beg, Mir Afzal, 105, 107, 118, 119, 132, 134,140 Bharatiya Janata Party (BJP) coalizione, 230 elezioni, 146, 153 Bhat, Abdul Gani, 181,269 Bhutto, Benazir Azad Jammu e Kashmir, nel!', 167 Commissione per i Diritti Umani dell'ONU, 185 destituzione, 174, 218 incontro con R. Gandhi, 158 incursione di Kargil, 244 opposizione, 159 primo ministro, 158 Bhutto, Zulfikar Ali accordo del Kashmir, 136 accordo sul confine con la Cina, 113 autodeterminazione, 136 ministro degli Affari del Kashmir, 98 negoziati con I. Gandhi (Simla), 131134 negoziati indo-pakistani, 114 trattato di Simla, 131 bilateralismo
vedi anche India-Pakistan, fallimento
dei negoziati, 275,277-278 dimensione internazionale, 256-257 identificazione della questione, 254255 intransigenza, 257-258 mancanza di coinvolgimento dei kashmiri, 254 prospettive nazionali opposte, 254-255 sfiducia reciproca, 256-257 Bin Laden, Osama, 226,264, 323 n. 58 Blair, Tony, 271 Bogra, Mohammad Ali, 96-97, 113 Brakpora, massacro di, 258 Brown, William, 70-72 Bucher, Roy, 78, 81 Bud Shah, vedi Zain-ul Abidin, 4, 6 buddismo, 2, 92-93 Bush, George W„ presidente, 262,264,271, 272 Butt, Gulani, 268
Butt, Maqbool, attivismo politico, 128-130, 148, 160-161,206 Campbell-Johnson, Alan, 35, 45, 59 Camera dei Principi, 19, 22, 36 campi profughi Jammu, 169 morti indù, 169 Canning, George, 12 cartografia, ÌW/Wade, capitano censimento, 258 cessate il fuoco, 258-259, 261 Central Reserve Police Force (CRPF), 168, 171, 191,224 Central Treaty Organisation (CENTO, ex Patto di Baghdad), 97, 112 centri per gli interrogatori, forze di sicurezza, 191, 261 Charar-e Sharif, moschea, incendio, 200 Chilas, 13,70 Childs, John, sfugge al rapimento, 210 Chitral, sovranità, 14 Chittisinghpura, massacro, 257 Chu En-lai, 118-119,124 Church Missionary Society, scuole, 17 Cina Ayub Kahn, visite, 124, 110 frontiera con il Kashmir, 13, 97 India guerra, 112 intesa di «pace e tranquillità», 240 ultimatum sulla frontiera, 123-125 Ladakh, 15,98,262-263 legami commerciali, 15 missione di Hunza e Gilgit, 98 politica sul Kashmir, 93, 263-266 Pakistan accordi sul confine, 113, 114, 119 alleato tradizionale, 240 richiesta di aiuto, 223-225 Clinton, Bill, 230, 231, 240, 242-243, 252, 256,262,276 Cloughley, Brian, 235 colpo di stato, Pakistan, 252, 263 Comitato d'Azione per il Sacro Capello, 115 Comitato Esecutivo Nazionale, risoluzione, 215,219 Commissione delle Nazioni Unite per l'India e il Pakistan (UNCIP) Azad Kashmir, 101 istituzione, 77-80 rapporti, 79-80 referendum, divisione, 93
commissione elettorale, 269 Commissione Internazionale di Giuristi forze di sicurezza, 190, 192-193 Pakistan, aiuto militare, 199 Commissione Nazionale per i Diritti Umani, 184, 260 restrizioni, 184 Commissione per i Confini comunicazioni, 39, 44 criteri religiosi, 39, 41 questione di Gurdaspur, 39-42, 43-44 Radcliffe, 30, 41, 43 segretezza, 41-43 Commonwealth Conference, 67 Compagnia delle Indie Orientali ammutinamento, 11 annessione di Hazata, 9 annessione del Kashmir, 9 annessione del Punjab, 11 comunicazioni area di Gurdaspur, 50-51 Commissione per i Confini, 39 Conferenza di vertice araba, conflitto indo-pakistano, 123 confini vedi anche Commissione per i Confini, linea di controllo Aksai Chin, 15, 98 chiusura, 265 Cina, 98, 112, 124 commissione, 15 incidenti aerei, 248 Pakistan, vedi linea di controllo Russia/Unione Sovietica, 13, 14, 16, 240 controinsurrezione, 198, 223, 260 Cook, Robin, 215, 220 Cripps, Stafford, 26,27 Cunningham, George, 49,56-58, 67, 72 Dal, lago effetti della guerra, 204 turismo, 16-17, 143,208-209,221-222 Dar, Majid, 155,259 Datta Khel, piano, 70 Delhi, intesa di, 91-92 Delhi-Lahore, servizio di corriere, 232, 265 Democratic National Conference, formazione, 107 Desai, Moraji, 139 detenzione, norme, 192-193 Dev, Swami Sant, 29
Dhar, D.P., 28, 107, 135 diritti umani libertà di parola, 192 violazioni, 175, 222-223 forze dell'ordine, 191,222-223,260261 gruppi militanti, 191 Pakistan, 130, 191, 201, 254 dirottamenti, linee aeree indiane, 130,254 disoccupazione giovani, 162 kashmiri istruiti, 162 Dixon, Owen, IX, 93-95 Doda, distretto, attacco militante, 245 Dogra assedio di Delhi, 11 dinastia, 11 Gilgit, 13 Jammu, 8, 10 Domel, attacco tribale, 58 donne norme sull'abbigliamento, 195 rapimento, 164 stupro, 195 effetti psicologici del conflitto, 205,222 elezioni Assemblea Costituente nello Jammu e Kashmir (1951), 90 assemblea legislativa dello Jammu e Kashmir (1957), 107 (1962), 109 (1972), 136 (1977), 140 (1983), 146-147 (1987), 153 (1996), 186-187,217,224 (2002), 269,275 Azad Kashmir (1996), 217, 264 generali Gran Bretagna (1997), 224 India (1977), 139 (1989), 164 (1991), 177 (1996), 216-217 (1999), 246 (2002) elezioni suppletive, 270 Pakistan (1988), 158 (1990), 174 (1993), 181 (1997), 218
gestione nello Jammu e Kashmir, 187-
188
organismi legislativi dell'India britannica, 23,27-28 emendamento Pressler, 174 esercito, vedi forze di sicurezza Evans, Alexander, 222, 259 Farooq, Mirwaiz Maulvi assassinio, 171 autodeterminazione, 138 Awami Action Committee, 136 massacro al funerale, 171 Sheikh Abdullah, intesa, 146 Farooq, Mirwaiz Omar, 171, 179, 181, 188,196,197,200,201,206,211 federazione, proposte, 22, 23, 25 Fenn, Nicholas, 221 Fernandes, George, 235, 244, 265, 274 Figlie della Nazione, 195 Fondo Monetario Internazionale, Pakistan, 231, 252, 320 n. 7 forze di sicurezza (indiane) Central Reserve Police, 168 centri per gli interrogatori, 131,261 diritti umani indagine della Commissione Internazionale di Giuristi, 190 violazioni, 191,222-223 gruppi militanti, 171,204, 238,249 massacri di Sopore, 177 massacri di Srinagar, 166 poteri tutelati, 191-193, 260 rappresaglie, 175-176,238-239 "riabilitazione", 223 tasso di perdite, 189 frontiera di nord-ovest incursioni dalla, 51, 55, 56-57, 66-67 sovvenzioni tribali, 56 Gandhi, Indirà accordo del Kashmir, 134-135 assassinio, 151 Bangladesh, creazione, 131 Bhutto, negoziati (Simla), 131,132-133 Farooq Abdullah, 147, 149,150-151 Ladakh, visita, 149 primo ministro, 125, 139, 140 Srinagar, visita, 129 Gandhi, Mohandas Karamchand (Mahatma), 26, 28,29, 34, 37-38, 77 Gandhi, Rajiv accordo con Farooq Abdullah, 152
B. Bhutto, incontro, 158 politica sulle spinte regionalistiche, 151 primo ministro, 151, 164 Gandhi, Sonia, politica sul Kashmir, 250 Ganguly, Sumit, cause dell'insurrezione, 255 Gauhar, Altaf, 117, 119-120, 121-124 Ghaffar Khan, vedi Khan, Abdul Ghaffar Ghani, Abdul, 187 Giappone, invasione dell'India, 26 Gilani, Syed Ali Shah, 181, 186, 197, 224, 227-228,233,243,259 Gilgit Agency affitto, 23 amministrazione dell'Azad Kashmir,
101
annessione di Hunza, 16 annessione di Nagar, 16 Cina, relazioni, 98, 118, 119 controllo dei Dogra, 14 occupazione pakistana, 71-72, 79 piano di indipendenza, 71 presenza britannica, 14 reinsediamento, 16 sorveglianza del confine, 14, 23 Gilgit Scouts, Corpo dei, 16, 70, 71, 74 Giornata della Solidarietà con il Kashmir, 256 Giorno dei Martiri, 226 Giorno Nero, 220 Glancy, Bertrand, commissione d'inchiesta, 21 Gohel, M.J., 222, 223
Government of India Act (1935), 23
Gracey, generale, 68, 73, 78, 81 Graham, Frank, 95 Gran Bretagna dichiarazioni di responsabilità, 215,219 fedeltà dei kashmiri, 11,14-15 India decadenza delle relazioni, 219-220 missione, 111-112 Pakistan, sopravvivenza, 45 politica russa di frontiera, 13-14 trattato di Amritsar, 13-14 gruppi militanti
vedi anche organizzazioni ad vocem
accuse contro, 195 appartenenza, 163, 193-194,225-226 armamenti, 224 fonte delle armi, Afghanistan, 197-198 forze di sicurezza, atteggiamento, 193194, 204
controinsorti, 223 incursioni Kargil, 234-235 Kupwara, 249 interrogatori, 177 mercenari stranieri, 200 moschea HazratbaI, 184 omicidi, 193,245 origini, 196 reazione governativa, 169 "riabilitazione", 224-225 ricerca, 165 scopi, 162-163 scuole, distruzione, 205 sostegno indigeno, 226 sostegno pakistano, 173, 184, 198-199 violazioni dei diritti umani, 191,194 Gruppo di Osservatori Militari delle Nazioni Unite (UNMOGIP) conflitto indo-pakistano, 123 linea del cessate il fuoco, 78 richiesta di azione, 168 gruppo di studio sul Kashmir, 262 guerra sino-indiana, 112 guerra virtuale, 239 guerre anglo-sikh, 10 incursioni di Kargil, 243-247 India-Pakistan (1965), 123-124 (1971), 131,135 minacce, 1999,234,240-241,265,270273 prima guerra mondiale, truppe indiane, 18 seconda guerra mondiale invasione giapponese, 26 opposizione del Congresso, 24-25 sostegno musulmano, 24-25, 47 vittime, 206 Gujarat, massacro, 270 Gujral, Inder Kumar (I.K.), 127 Nawaz Sharif, incontro, 219 primo ministro, 219, 230 Yaqub Khan, incontro, 167 Gulab Singh, vedi Singh, Gulab Gurdaspur, Commissione per i Confini, 39,41-43 Guru, Abdul Ahad, assassinio, 179 Hamid al-Turki, 221, 225 Hamid, Sheikh Abdul, 155, 164 Hardy, Justine, 268
Hari Singh, vedi Singh, Hari Harkat-ul Ansar, 163, 197, 200, 209, 225 Harkat-ul Mujaheddin, 225, 249,254 Hasert, Dirk, rapimento, 210 Hazara, annessione della Compagnia delle Indie Orientali, 9 Hazratbal, moschea assedio, 184-185 reliquia Mo-i Muqaddas, 6, 115 Hizb-ul Momineen, 163 Hizb-ul Mujaheddin vedi anche Jamaat-i Islami assassinio di Maulvi Farooq, 171 attività, 257 Azad Jammu e Kashmir, 199 cessate il fuoco, 259 incursioni, 243, 249 politiche, 196, 257 sostegno, 163,176, 196, 225 Hizbullah, 163 Housego, famiglia rapimento, 209 Human Rights Watch, 222 Huntingdon, Samuel, cause dell'insurrezione, 324 n. 70 Hutchings, Donald, rapimento, 210 Hunza amministrazione dell'Azad Kashmir, 101 annessione al Pakistan, 72 Cina, relazioni, 98 Gilgit Agency, 16 statuto diplomatico, 70 Hurd, Douglas, 155,215 Hurriyat vedi Ali Parties Hurriyat Conference Hyder, Moin, 323 n. 62 Ibrahim Khan, vedi Khan, Sardar Mohammed Ibrahim Ikhwan-ul Mujaheddin, 163 Ikhwan-ul Muslimeen, 223 Ikhwan-ul Muslimoon, 223-224 impero musulmano, 4 incontro anglo-afgano, Peshawar (1877), 14 incursioni dalla frontiera di nord-ovest, 54, 55, 56-57,66-67 da parte dell'India ghiacciaio Siachen, 234,236 guerra del 1965, 123-125 da parte del Pakistan Kargil, 243-247 operazione Gibilterra, 121 operazione Grand Slam, 121-122
presunte, 54, 55, 57-58,233-234 smentite, 55
India vedi anche India-Pakistan, negoziati; atto di annessione; forze di sicurezza agenti elettorali, 187 annessione a, 55 armi atomiche, 138, 230-231, 270 Cina, confine, 112, 114 Cina, «pace e tranquillità», 240 Commissione per i Diritti Umani, limitazioni, 183-184 comunicazione, Jammu e Kashmir, 5051 condizione di non allineamento, 112 dichiarazione di integrazione, 125 diritti umani, 183, 190-191, 192-193, 222-223,260 dirottamento aereo, 130, 254-255 ghiacciaio Siachen, 158 Gran Bretagna, relazioni, 111-112,218219 gruppi militanti, trattative, 196-197,261 incursione di Kargil, 248-250, 252 indipendenza, 27-29,32,33,39,48-49, 220 intesa bilaterale, appello in favore, 45 linea di controllo come confine, 135, 158,218,241,263,274,277 Nazioni Unite diritti del Kashmir, 80 riduzione delle truppe, 77 opzione dell'arbitrato, rifiuto, 95 Pakistan aereo abbattuto, 248 battaglie di frontiera, 234-235 dichiarazione di Lahore, 233 guerre, 123-125, 131-132, 135, 234-236 identificazione della questione, 256 impressione sul sostegno, 198 incremento degli armamenti, 241 incursioni presunte, 53, 55, 57 interessi esterni, 257 minacce di guerra, 234-235, 240241 prospettive divergenti, 254 sfiducia reciproca, 257 politiche governative, 52, 185 questione della secessione, 213 Rann di Kutch, incidente, 120 referendum, 25, 260-261 Stati Uniti, missione di pace, 111-112
Taskent, dichiarazione di, 125 trattato per il bando globale degli esperimenti, 233 India-Pakistan, negoziati accordo di Taskent, 125 bilateralismo, insuccesso, 253-258 conferenza del Commonwealth, 95 dichiarazione di Lahore, 232-233 Gujral e Nawaz Sbarif, 218-219 Gujral e Yaqub Khan, 166-167 I. Gandhi e Z.A. Bhutto (Simla), 131133 intesa di Simla, 131-133 Nehru e Ayub Khan, 112-113 Nehru e Bogra, 96 Nehru e L.A. Khan, 72, 76 R. Gandhi e B. Bhutto, 158 Ragunath e Shamshad Ahmed, 232 Shastri e Ayub Khan (Taskent), 125 sottosegretari agli Esteri, 218 Swaran Singh e Z.A. Bhutto, 114 Vajpayee e Musharraf, 262-264 Vajpayee e Nawaz Sharif, 232-233 Indian Al Barq, 223
campi prolughi, morti, 169 confìsca delle terre, 195 conflitto con i musulmani, 161 fuga dal conflitto, 169 esodo, 6 Indù, re, 4 induismo, 4, 7 Inquilabi, Azam, 141, 152, 163, 173, 184, 196, 202, 227 insurrezione cause, 154, 162-163,256 coinvolgimento pakistano, 157, 198199,251,253-254 declino, 183, 193,251 inizi, 142, 152-153,154-155, 160-164 Inter-Services Intelligence (ISI), 158,235, 252,266,270,271 intesa di «pace e tranquillità», 240 invasione afgana, 6 Iqbal, Allama Muhammad, 19 Ishkoman, 70 Islam vedi anche m u s u l m a n i
conversione, 4 reliquia Mo-i Muqaddas, 6, 115 Indian Independence Act (1947), 33, 3 9 settarismo, 101, 156, 203, 255 Indipendenza (India) celebrazioni per il cinquantenario, 220 Islami Jamhoori Ittehad (IJI), 158 Ismay, Lord Hastings, 36, 39, 41, 43 Commissione per i Confini, 39 istruzione dichiarazione, 26, 49 effetti della guerra, 205 governo provvisorio, 27 Missionary Church Society, 17 Indian Independence Act, 33 programmi di espansione, 106 politica del Partito del Congresso, 27 musulmani, 18 politica della Lega Musulmana, 27 qualità, 17-18 principati, 33 proposte della missione del governo, università del Kashmir, 127, 162 27-32 Ittebad-ul Muslimeen (Liberation Council), 181 indipendenza (Jammu e Kashmir) vedi anche atto di annessione analisi, 262, 275 Jagmohan, Shri concezione popolare, 206-207, 253 Farooq Abdullah, deposizione, 149 dichiarazione di Nawaz Sharif, 174 governatore, 148, 161 dichiarazione di Z.A. Bhutto, 135 indù, fuga, 169-170 movimento in favore, 260 musulmani, discriminazione contro, obiettivi dei militanti, 162-163 153 prospettiva intemazionale, 212-213 presa di potere, 150 reazione di Mountbatten, 46 proteste a Srinagar, 165 settantatré giorni di, 47 reincarico, 164 Sheikh Abdullah, proposte, 35-36, 86zona di guerra del Kashmir, 171-172 88, 105 Jaish-i Mohammed, 265 Fronte per l'Indipendenza (Mahaz-i Aza- Jamaat-i Islami di), 152, 163 vedi anche Hizb-ul Mujaheddin Indo-European Kashmir Forum, 169 Ali Parties Hurriyat Conference, 197 indù Azad Jammu e Kashmir, 199,243
campi profughi, 173 elezioni, 136, 140 incursione di Kargil, 243 Muslim United Front, 152 scuole, 141 separatismo, 154 sostegno, 147, 152-153, 173 Jamaat-i Tulba, 141 Jammu (città), agitazione, 92, 161 attentato dinamitardo, 271 Jammu (regione) campi profughi, 169 eliminazione dei musulmani, 49 espansione nel Ladakh, 8 maggioranza indù-sikh, 50 Muslim Conference, 99 predominio del Kashmir, 228 separatismo, 91,156 violenza post-indipendenza, 50 Jammu Kashmir Democratic Freedom Party, 228 Jammu and Kashmir Liberation Front (JKLF) formazione, 130 incursione di Kargil, 244 leadership, 156, 162 marcia di frontiera, 176, 251 rapimento, 164 sostegno, 176, 196 spaccatura, 196,260 violenza, 155-156 Jammu and Kashmir National Liberation Front (NLF), 128,130 Ali Jammu and Kashmir Plebiscite Front, formazione, 107 Jammu e Kashmir, Stato vedi anche Azad Jammu e Kashmir; Jammu; annessione del Kashmir (post-indipendenza), vedi annessione; atto di annessione aiuto promesso, 157, 162 autodeterminazione, 52,107,129-130, 138 bilateralismo, fallimento, 253-258 Commissione per i Confini, 39-45 confini, 13-16, 98, 112, 123-124, 248249 vedi anche linea di controllo consiglio esecutivo, 19 creazione, 15 decreto presidenziale, 118 disoccupazione, 128-129,162 elezioni, 139, 164,216-217,250-251
futuro, 267-268 incursione di Kargil, 234-235 indipendenza vedi indipendenza (Jammu e Kashmir) laicismo, 23-25,90-91 prospettiva internazionale, 253-254 referendum regionale, 93-94 statale, 34,69, 93-94,214,250 statuto speciale, 89-91, 109,138, 158 turismo, 141, 143, 161,208,221-222 violazioni dei diritti umani, 175, 222 Jana Sangh accordo del Kashmir, 138 azioni anti-islamiche, 127 elezioni, 136 fondazione, 32 unione con l'India, 138 Janata Party, 139 Jarring, Gunnar, 98 Jehangir, imperatore, 5 Jha, Prem Shankar, sull'annessione, 324 n. 66 Jinnah, Moharnrnad Ali governatore generale, 45 governo provvisorio, 27 Lega Musulmana, leader, 25 morte, 75 Mountbatten, rapporti con, 45 movimenti di truppe, Kashmir, 68 questione del referendum, 69 Junagadh, invasione indiana, 69 Kak, Ram Chandra, 28, 35, 37, 38,46 Kanishka, re, 4 Karakoram, autostrada, 204 Karan Singh vedi Singh, Karan Kargil, 268,270, 273,276 battaglie di frontiera, 234, 242 incursione ammissione pakistana, 245 perdite indiane, 246 ritiro pakistano, 245 vittime civili, 238,246 linea di controllo, difesa, 246,277 militanti, 237 riconquista indiana, 75, 79, 122 Karnataka, 147 Kashmir vedi anche Azad Jammu e Kashmir; Jammu e Kashmir; Srinagar disputa, 256, 273 Compagnia delle Indie Orientali, annessione, 9
forze di sicurezza, rappresaglie, 174175,238 importazione di funzionari, 18 India incremento delle difese, 249-250 ostilità, 127 questione centrale, 256, 262 rivolta armata, 56 zona di guerra chiusa, 171 Kashmir Action Committee, 164 Kashmir Independence Committee, 115 Kashmir Liberation Army (KLA), rapimenti, 148 Kashmir Liberation Jehed, 223 Kashmir Liberation Movement (KLM), formazione, 107 Kashmiri (lingua), 3 Kashmiri (popolazione), fedeltà alla Gran Bretagna, 11, 14-18 Kashmiriyat, 3, 140, 144, 145, 152, 161, 196, 206 Khan, Abdul Ghaffar, 33, 45 Khan, Sardar Abdul Qayum, 48,107,269, 322 n. 38, n. 55 minaccia indiana, 232 opinione di Sheikh Abdullah, 144 primo ministro, 199, 201-202, 217, 229 Khan, generale di divisione Akbar, 95 Khan, Amanullah estradizione dal Regno Unito, 154 JKLF, rimozione dalla carica, 196 linea di controllo, 155-156,251 nazionalismo kashmiro, 115,128,130, 154,163,259 Sheikh Abdullah, 144 Khan, generale di brigata Aslam, 72 Khan, Khan Abdul Qayum, 57, 71 Khan, Liaquat Ali assassinio, 96 incontro con Mountbatten, 68 incontro con Nehru, 72, 76-78 rinvio all'ONU, 76 Khan, Mohammad Ayub Cina, 119, 126 esercito, comandante in capo, 95 guerra del 1965, 119 kashmiri Azad, 119 opzione confederale, rifiutata, 118 Partito del Popolo Pakistano, 126 presidente, 112 Rann di Kutch, incidente, 120 Shastri, negoziati (Taskent), 125
Stati Uniti, visita annullata, 119 Unione Sovietica, visita, 119 Khan, Sardar Mohammed Ibrahim, 48, 56, 88, 99, 102 Khan, Zafrullah, 76-77 Koh Ghizar, 70 Korbel, Josef, 63, 65, 77, 93, 95, 96, 101 KrishnaRao, generale K.V., 161,184,188, 194,200 Kulgam condanna del terrorismo, 227 rappresaglie delle forze di sicurezza, 176 Kunan Poshpura, rappresaglie delle forze di sicurezza, 175 Kupwara, incursioni militanti, 249 Kushan, popolo, 3 Ladakh acquisizione da parte di Gulab Singh, 14 avanzata delle truppe Azad, 74 Cina confini, 98 strade, 4, 15, 98 malcontento, 229 scontri musulmani-buddisti, 161 spirito indipendente, 92 statuto multietnico, 207 Tibet, unione, 93 Lahore risoluzione del Pakistan (1940), 25, 232 rivolte studentesche, 125, 126 servizio di corriere per Delhi, inaugurazione, 232 trattato anglo-sikh, 10 Lahore, dichiarazione di (1999), 233-235, 240, 244 Lalitaditya, re, 4 Lamb, Alastair, sull'annessione, 63, 65, 258, 324 n. 66 Lashkar-i Toiba, 163, 225, 226, 237, 254, 257, 265 Lega Musulmana elezioni, 1936, 23 fondazione, 18 movimento pro-India, 38 movimento «Via dal Kashmir», 28 Muslim Conference, rapporti, 101 politica dell'indipendenza, 25, 47 risoluzione del Pakistan (1940), 25 seconda guerra mondiale, sostegno, 24 Legge di Pubblica Sicurezza dello Jammu e Kashmir (1978), 261
legge marziale, 28, 127 Legge per il governo dell'Azad Jammu e Kashmir (1970), 135 Legge per la Prevenzione del Terrorismo (POTA), 267 Legge per la Prevenzione delle Attività Terroristiche ed Eversive (TADA) (1987), 192,261 Legge per la Tutela dei Diritti Umani (1993), 184 legge per le aree agitate dello Jammu e Kashmir (1990), 261 legge sui poteri speciali delle Forze Armate (dello Jammu e Kashmir), 193, 261 legge sui sudditi ereditari dello Stato, 20 Leghari, Farooq, 218,244 Leh, avanzata delle truppe dell'AJK, 74 Liberation Council (Ittehad-ul Muslimeen), 181 linea di controllo attraversamento, 199 cannoneggiamento di frontiera, 234 come confine, 135,218,242,251,262264,266,269-271,273,274 controllato dall'ONU, 267-268 come linea del cessate il fuoco, 132133 ghiacciaio Siachen, 158,249, 254 guerra di Kargil, 234,242-248 incremento delle armi indiane, 231 istituzione, intesa di Simla, 132-133 lingue diversità, 206 kashmiri, 3 persiano, 4 sanscrito, 4 lodo Radcliffe, 39, 41,42, 43, 44 Lok Sabha (Parlamento indiano) attentato dinamitardo, 265 dibattito sulla linea di controllo, 218 elezioni (1977), 139 (1989), 164 (1996), 216 (1999), 250 Lone, Abdul Gani, 153, 154, 162, 181, 186,187,197,269 Lytton, Lord, 14 Mahajan, Mehr Chand atto di annessione, 63 azioni filoinduiste, 85 dimissioni, 86
primo ministro, nomina, 53 Sheikh Abdullah, rapporti, 85 Mahaz-i Azadi (Fronte per l'Indipendenza), 152, 163 Malik, Muhammad Yasin, 155 all'estero, 262, 269 APHC, 197,239 arresto, 186, 251 digiuni, 185 rinuncia alla lotta armata, 196 rottura con Amanullah Khan, 196,260 "terza opzione", 214 Malik, generale di divisione Akhtar Hussain, 121, 122, 123 Mangan, Keith, rapimento, 210 Mayo, Lord, 14 Media
vedi anche BBC
censura, 170, 239 copertura massacro di Srinagar, 166 pressione dei militanti, 167 Radio Azad Kashmir, 202 televisione, propaganda, 247 mediatori Robin Cook, 215, 222 Aleksej Kosygin, 125 generale McNaughton, 93 Sandys-Harriman, 111, 112 Harold Wilson, 120, 124 mediazione, 253,258, 262-263, 277 Mehmood, Sultan, 217 negoziati trilaterali, necessità, 233 "Memorandum sui trattati e la sovranità degli Stati", 33 Menon, Krishna, 112 Menon, V.P. abbandona Srinagar, 60 atto di annessione, 61-63 incursioni pakistane, 58 mercenari stranieri gruppi militanti, 200 Kargil, 243 Mir Qasim, Syed carica di governo, 136, 139 Democratic National Conference, 107 elezione, 1972, 136 Mirpur Muslim Conference, 99 truppe nella seconda guerra mondiale, 47 Mirza, Iskander, 107, 112 Missione del Governo, proposte di indipendenza, 27, 32
Moghul impero, 5 invasione, 5-6 Mo-i Muqaddas, reliquia, 6, 115 Moorcroft, William, 7, 8 MORI, sondaggio, 324 n. 72 Mountbatten, Lord Louis annessione (Jammu e Kashmir), 34-35, 64,66 assegnazione di Gurdaspur, 41, 44 invasione Pathan, 59 Jinnah, rapporti con, 45, 68 opzione dell'indipendenza, 46 minaccia di guerra indo-pakistana, 67 Nehru, rapporti con, 37, 44 Osservatori delle Nazioni Unite, proposta, 69 viceré, nomina, 33 visita nel Kashmir, 34 movimento Kashmir ai kashmiri, 20 movimento «Via dal Kashmir», 51 movimento «Via dall'India», 26, 29 Mufti Sayeed, Muhammad, 139 Mujib-ur Rahtnan, 131 Muro di Berlino, paragonato alla linea di controllo, 115 Musa, generale Muhammed, operazione Grande Slam, 122 Musharraf, generale Pervez, capo di Stato maggiore, 236, 252, 256 Almaty, 272 presidente, 262, 264, 265 Vajpayee, 262 Mushir-ul Haq, 170, 193 Muslim Conference APHC, 181 diventa National Conference, 24 elezioni, 29 formazione, 22 Lega Musulmana, rapporti, 101 ripresa, 26 sostegno, 87, 99 Muslim Liberation Army, 223 Muslim Mujaheddin, 223 Muslim United Front (MUF) elezioni, 1987, 153 formazione, 152 politiche, 153 musulmani
vedi anche islam
attivisti politici, 21 azioni contro, 127 discriminazione, 21,53
istruzione, 18 eliminati nello Jammu, 50 furto del Sacro Capello, 115
hartals (scioperi), 152, 161
Jagmohan, discriminazione, 152 laicismo, reazione, 90 limitazioni sulle armi da fuoco, 21 massacri sikh, 43 scontri con gli indù, 161 scontri con i buddisti, Ladakh, 161 settarismo, 101, 156 tenore di vita, 19 Muzaffarabad, attacco tribale, 58 Nagar annessione al Pakistan, 72 Gilgit Agency, 13, 101 statuto diplomatico, 70 Narain, Jai Prakash, 129 National Conference Party alleanza con il Congresso, 152, 153 autorità, 90 elezioni, 29, 90,140, 261 Farooq Abdullah, presidente, 143-144 formazione, 24 intimidazione dei militanti, 161 omicidi, 224, 268 questione dell'annessione, 51 riformata, 136 scioglimento, 118 sostegno, 99 spaccatura, 107 tendenza filoinduista, 152 National Liberation Front (NLF), Jammu and Kashmir, 128 Nawaz Sharif accordo di Washington, 243 autodeterminazione, 218-219 colpo di stato, 252 incontro con Clinton, 243 incontro con Gujral, 219 incontro con Vajpayee, 232-233 incursione di Kargil, 234-235,243-244 primo ministro, 174, 218 processo ed esilio, 256 servizio di corriere Lahore-Delhi, 232 Nehru, Jawaharlal annessione del Kashmir, 34 arbitrato, rifiuto, 95 governo provvisorio, 27 Hari Singh, rapporti, 84-86 incontro con Bogra, 96 incontro con L.A. Khan, 72, 76
morte, 118 Nazioni Unite, rinvio, 75-78 Pakistan ammonimento, 95 visita, 117 Partito del Congresso, leader, 24 radici kashmire, 34 rapporti con Mountbatten, 37 referendum, 73, 96 Sheikh Abdullah, rapporti, 24, 26, 28, 29, 84,103-104 spartizione, 78 Northbrook, Lord, 14 "Nuovo Kashmir", 26 Omar, Mullah, 264, 323 n. 58 Operations against Indian Domination (OID), 129 operazione Balakote, 163, 184, 196 operazione Blue Star, 149, 151, 168 operazione Gibilterra, Srinagar, 121-123 operazione Grande Slam, Punch-Nowshera, 121-123, 126 operazione New Star, 149 operazione Topac, 157 opzioni confederali, respinte, 117-118 Organizzazione delle Nazioni Unite appello per il cessate il fuoco, 124,133 conflitto indo-pakistano, offerta di mediazione, 263 Consiglio di Sicurezza, Vili, 76-77,8586, 93-97, 107, 112, 115, 119, 123124,214 forza di pace, 273 India, atteggiamento presunto, 77-78 ingresso del Pakistan, 45 opzione dell'indipendenza, 213 referendum, 69, 213, 261 risoluzioni, 251,253,256, 276 Osama bin Laden vedi Bin Laden, Osama Ostro, Hans Christian, assassinio, 210 rapimento, 211 pace, desiderio popolare di, 206 Pahalgarn, 209-210, 221, 259 Pakistan vedi anche Azad Jammu e Kashmir; India-Pakistan, negoziati accordo del Kashmir, 138 aiuto ai gruppi militari, 57, 185, 99 annessione, 53, 68, 80, 145 armi atomiche, 138, 230-233, 241 Azad Jammu e Kashmir, rapporti, 110, 202
Breakdown Plan, 32
CANTO, ingresso, 97 cessate il fuoco, svantaggi, 78 Cina accordi sul confine, 113, 114, 118 intesa di «pace e tranquillità», 240 sostegno, 240 colpo di stato, 252 Commissione per i Confini, 39-45 confini vedi anche linea di controllo difesa, 73 congiura di Rawalpindi, 95 dichiarazione di Lahore, 233 dichiarazione di Taskent, 125 embargo presunto, 52 espansionismo militare, 230,231 ghiacciaio Siachen, 158,214, 229-230, 234,236,242,276 golpe militari, 112, 252 incursione di Kargil, 234,243-248,252 incursioni giustificate, 80 negate, 58, 238 presunte, 53, 55, 57, 73, 121-122, 234 Punch, 121-122 Srinagar, 121 India aereo abbattuto, 248 guerre, 123-125, 131-136 identificazione della questione, 256 interessi esterni, 257 minacce di guerra, 233-237, 240242 prospettive divergenti, 254 riarmo, 114,242 Inter-Services Intelligence (ISI), 158, 198,271 Jinnah, governatore generale, 45 Nazioni Unite richiesta di ritiro delle truppe, 77 opposizione dell'India all'ingresso, 45 sistemazione del confine, 264-265 nome, origini, 25 opzione dell'arbitrato, accettazione, 9596 patto di non intervento, 36, 46, 47, 80 prestiti, 230 Punch, movimenti dell'esercito, 75 Rann di Kutch, incidente, 120 referendum, 270
referendum, richiesta, 250 Russia, richiesta di ritiro delle truppe, 240 sanzioni, 230 SEATO, ingresso, 97 USA accordo di difesa, 97 aiuto militare, 97,174 politiche, 97,104,112,119,214 proteste contro, 264-265 richiesta di ritiro delle truppe, 240 violazioni dei diritti umani, 191,202 Pakistan Orientale (Bangladesh), 131 ruolo indiano, 131 Pakistan-occupied Kashmir (POK) vedi Azad Jammu e Kashmir Pandit repressione, 22 richiesta di terra, 207-208, 229, 267 rispettati, 76 Pant, K.C., 261 Panther Party, formazione, 156 Parrey, Kukka, 197,223 Partito Comunista dell'India (CPI), 97, 106 Partito del Congresso (I) (Partito del Congresso Nazionale Indiano) alleanza con la National Conference, 152 elezioni, 145-146 Partito del Congresso (Congresso Nazionale Indiano)
vedi anche Partito del Congresso (I)
boicottaggio del referendum nella NWFP, 34 disobbedienza civile, 26 elezioni (1936), 23 Kashmir, 18,118 politica indipendentista, 27 seconda guerra mondiale, opposizione, 24,25 Partito del Congresso Nazionale Indiano, vedi Partito del Congresso Partito del Popolo Pakistano, 126,217 Patel, Sardar, 27,29,36,44,50-54,61,74, 76,84-87, 90, 93,105 Pathan, invasione del Kashmir, 59 Pathankot, lodo di annessione, 41 Pattan, riconquista, 66 patti di non intervento, 80, 47, 50-52, 64 Pearl, Daniel, 266,272 Peoples' Conference, 51 People's League, 152,163
persiano, lingua ufficiale, 4 Peshawar, incontro anglo-indiano, 14 Plebiscite Front, 107, 121 Plebiscite Front (Azad Jammu e Kashmir), 128, 136,137-139 polizia, massacri a Srinagar, 165-167 Powell, Colin, 265 Praja Parishad, 85, 90-91, 92,106, 127 Praja Sabha (assemblea legislativa), 22
vedi anche assemblea legislativa/elezioni
Prasad, presidente Rajendra, 106 Pratap Singh vedi Singh, Pratap principati India, fine della sovranità, 33 Pakistan, indipendenza, 38 restituzione dei poteri, 28 propaganda, televisione, indiana/pakistana, 247 proteste
vedi anche scioperi
all'UNMOGIP, 168 condizioni sociali, 24 contro Gandhi, 38 contro l'India, 157, 161 contro l'oppressione musulmana, 2021,152 filopakistane, 196 Punch agitazione, 48-50 attacco militante, 245 cessate il fuoco, 75-79 fuga di musulmani, 57 Hari Singh, 48 Muslim Conference, 99 operazione Grande Slam, 121 Pakistan, 55 spirito indipendente, 202 truppe nella seconda guerra mondiale, 47 Punjab annessione della Compagnia delle Indie Orientali, 11 spartizione proposta, 39 Putin, Vladimir, 272 Qadian, Commissione per i Confini, 41 Qadir, Abdul, incidente, 226,245 Qadri, Abdul, 104, 259 Qasimnagar, massacro, 324 n. 69 Qayum Khan, vedi Khan, Sardar Abdul Qayum questione centrale, vedi Kashmir
Ragunath, K. servizio di corriere Delhi-Lahore, inaugurazione, 232 Shamshad Ahmed, incontro, 232 Rajatarangini ('Cronaca dei Re'), 3 Rajauri, scontro indù-musulmani, 161 Ranbir Singh, vedi Singh, Ranbir Ranjit Singh, vedi Singh, Ranjit Rann di Kutch disputa, 120 guerra del 1971, 131 Rao, Narasimha, 177, 186,216 Raphel, Robin, 214 rapimenti Daniel Pearl, 266 donne, 164, 208 turisti gruppo, 210-211 inglesi, 209, 210 rapporto sull'autonomia, 258 Rasthriya Swayam Sevak Sangh (RSS), 85 Rawalpindi, congiura di, 95 Ray, generale di brigata Arjun, 189, 193, 206 Reading, Lord, 20 Reading Room Party, Srinagar, 21 referendum interessi della minoranza, 260 Nazioni Unite divisione, 93, 94 richiesta, 213 Nehru e Bogra, 96 opinione di Jinnah, 68 opzione dell'arbitrato, 95 opzione regionale, 93, 94,260,264-265 Sheikh Abdullah, 46, 107 Reform Conference, 22 religione vedi anche buddismo; induismo; islam; sikhismo intolleranza, 6, 169-170 tolleranza, 90-91 riforma Montagu-Chelmsford proposte, 19 riforme agrarie diritto di possesso, 15-16 limitazioni all'acquisto, 20 monasteri buddisti, 93 riforme amministrative, XIX secolo, 13, 15, 19,21 risoluzione del Pakistan (1940), Lega Musulmana, 25,232 Rocca, Christina, 263
Round Table Conferences, proposte di federazione panindiana, 22 Rumsfeld, Donald, 272 Russia (per il periodo 1922-1991 vedi Unione Sovietica) frontiera del Kashmir, 13 minaccia di invasione, 15-16 Pakistan, richiesta di ritiro delle truppe, 240 Sadiq, Ghulam Muhammad (G.M.), 28 Democratic National Conference, 107 disoccupati istruiti, 127 ministro capo, 116 morte, 136 Saeed, Sheikh Omar, 255 Salahuddin, Syed, 259 Sandan, popolo, 21 sanscrito, lingua di corte, 4 Saraf, Muhammad, 103, 108 Sattar, Abdul, 263 Saxena, Girish censura abolita, 181 governatore, 172 poteri delle forze di sicurezza, 175 sicurezza del confine, 173 sostituzione, 183 violazioni dei diritti umani, 175-176 Sayeed, Muftì Muhammed, 139,147,164, 167-168 servizio di corriere, 232,265 scuole vedi anche istruzione
Church Missionary Society, 17 distruzione bellica, 205 programma edilizio, 106 Shah, Ghulam Mohammad Awami National Conference Party, 153 destituzione, 151 • primo ministro, 150 Shah Jehan, 5 Shah, Muhammad Yusuf, attività politica, 21 Shah, Shabir Ahmed, 152, 163, 187,220, 227-228,239,251 Shahab-ud Din, 4 Shamshad Ahmed, incontro con Ragunath, 232 Shamsuddin, Khwaja furto della Mo-i Muqaddas, 116 nomina, 109 Shastri, Lai Bahadur Ayub Khan, negoziati (Taskent), 125
morte, 125 operazione Gibilterra, controffensiva, 122 primo ministro, 118 Shimla vedi Simla Siachen, ghiacciaio, scontri, 157-158,214, 230,234,236,242,249, 276 Sikh massacri di musulmani, 43 separatismo, 147, 158 trattato con l'Inghilterra, 7 Sikh, dominio affermazione dell'induismo, 7 conquista del Kashmir, 7 guerre anglo-sikh, 9-10 Jammu, 8 Sikhismo, Tempio d'Oro, assalto, 149 Simla, intesa clausola segreta, 132 Gandhi e Bhutto, 131-133,158 reazione internazionale, 214 Singh, Amar, 16 Singh, generale di brigata Gansara, 70-72 Singh, Gulab ammutinamento, sostegno agli inglesi,
10
annessione del Ladakh, 14 regno, 9-10 Singh, Hari abdicazione, 87 annessione, 20 appello all'India, 59 atto di annessione, 65, 83 Nehru, rapporti, 83-84 profughi, 86 Punch, 48 Round Table Conference, 22 Sheikh Abdullah, rapporti, 83-85, 86 Singh, Jaswant, 238, 244,247, 263 Singh, Karan fuga da Srinagar, 60 politiche, 28-29 reggenza, 87 Sheikh Abdullah, rapporti, 87-88 spartizione, 29 Singh, Pratap, 15-20, 23 Singh, Ranbir ammutinamento, sostegno agli inglesi, 12
regno, 11-14 successione, 15 Singh, Rajinder, 58 Singh, Ranjit, 7,8
Singh, V.P. crisi del rapimento, 164 primo ministro, 164 Skardu, occupazione pakistana, 74 Sopore distruzione bellica, 204 massacri delle forze di sicurezza, 177 South East Asia Treaty Organisation (SEATO), Pakistan, 97 spartizione
vedi anche Commissione per i Confini
criteri religiosi, 39 Karan Singh, 29 piano "Breakdown", 32 risoluzione del Pakistan (1940), 25 Srinagar vedi anche lago Dal Breakdown Pian, 32
attacchi tribali, 58 bombe, 155 distruzione, 204-205 fuga di Hari Singh, 59 massacro della protesta, 165 Ottocento, 8 Reading Room Party, 21 violenza, 161,162 visita di Bulganin e Krusciov, 97 Stati Uniti d'America Ayub Khan, visita annullata, 119 emendamento Pressler, 174 India guerra di Kargil, 247 missione, 111-112 politiche, 96 Jammu e Kashmir risoluzione, 243 territorio conteso, 214 Pakistan accordo di difesa, 97 condizione di alleato privilegiato, 112
patrocinatore del terrorismo, 198199 politiche, 96,119,214 taglio delle forniture militari, 173174 rapporto sui diritti umani, 260 strade autostrada del Karakoram, 204 Ladakh,15 programma, 15, 50, 106 Straw, Jack, 271,272 Suddhan, popolo, 21
Summers, Danny, 222 sussidio per il permesso di insediamento (1982), 145 sviluppo intellettuale, periodo d'oro, 4, 12 Swaran Singh, vertici indo-pakistani, 114 Symon, Alexander, 64-65 Synnott, Hilary, 221 Talebani, 226, 236,255, 264,272 Talbott, Strobe, 214, 215,233 Tamil Nadu, 199, 147 Tarkunde, V.M., 170 Taskent, dichiarazione di, 125 Tehrik-i Jihad, 225 Tehrik-ul Mujaheddin, 163 terrorismo di frontiera, 253,257,262-264, 270, 271 terrorismo, guerra al, 264, 270 terrorismo urbano, minaccia, 198 "terza opzione", 253 tessitura, 4 Tibet, Ladakh unione, 93 Tigri di Allah, 163 tortura, forze di sicurezza, 190 turismo guerra di Kargil, effetti, 246 importanza, 105, 113, 141, 143 lago Dal, 17, 143,208 rapimenti, 208-211 ripresa, 208 trattati Amritsar (1846), 10,12-13 Lahore (1846), 9 trattato per il bando globale degli esperimenti (CTBT), 230-231,233,247 Tully, Mark, 268 11 settembre, 264,276 Unione Sovietica (1922-1991)
vedi anche Russia
Afghanistan, invasione, 141 attività di frontiera, 23 Ayub Khan, visita, 119 politica sul Kashmir, 97 unità Saladino, "liberazione" di Srinagar, 121
United Jihad Council, 225 Università del Kashmir corruzione, 162 fondazione, 127 omicidi, 170 Vajpayee, Atal Behari Agra, vertice, 263 Almaty, 272 Clinton, 242, 247, 257 Clinton, guerra di Kargil, 247 dirottamento, 255
insaniyat (umanità), 261
Jammu e Kashmir, visita, 271 Musharraf, incontro, 256, 262 Nawaz Sharif, incontro, 233 primo ministro, 230 terrorismo di frontiera, 257, 263 Via della Seta, 4 vittime civili, guerra, 204-206, 222 Washington, intesa, 243 Wade, capitano, 8 Wavell, feldmaresciallo Lord, viceré, 2628,32-33,41,42,44 Wells, Paul, rapimento, 210 World Kashmir Freedom Movement, 228, 272 World Trade Center, XI, 264 Yaqub Khan, Sahibzada, Gujral, incontro, 164 Yasin, 70 Yahya Khan, Agha Mohammad operazione Grande Slam, 122 presidente, 126,131 Zain-ul Abdeen, 163 Zain-ul Abidin, sultano, 4 Zargar, Mushtaq, 255 Zemin, presidente Jiang, 272 Zia Ud Din, 235,252 Zia-ul Haq, Muhammad dittatore, 143 Kashmir, crociata armata, 156 morte, 156
Indice
Prefazione Ringraziamenti
VII XIII
KASHMIR 1. Il Kashmir: una presentazione
3
1.1. L'antico Kashmir, p. 3 - 1.2. Moghul e afgani, 1586-1819, p. 5 - 1.3. Il dominio sikh, p. 7 - 1.4.1 Dogra, p. 10 - 1.5. Il Kashmir: uno Stato di frontiera, p. 13 - 1.6. L'ultimo maharajah, p. 20
2. L'indipendenza
32
2.1. Pressioni per l'adesione, p. 33 - 2.2. La Commissione per i Confini, p. 3 9 - 2 . 3 . Non intervento?, p. 4 6 - 2 . 4 . La rivolta di Punch, p. 4 7 - 2 . 5 . Manovre, p. 50
3. L'annessione
55
3.1. La via della guerra, p. 55 - 3.2. La fuga di Hari Singh, p. 59 - 3.3. L'atto di annessione, p. 61 - 3.4. Tentativi di dialogo, p. 67 - 3.5. La rivolta di Gilgit, p. 70 - 3.6. Lo scontro continua, p. 72 - 3.7. Entra in scena l'ONU, p. 75 - 3.8. La "verità" dell'India, p. 79 - 3.9. La "verità" del Pakistan, p. 80 - 3.10. La "verità" della Gran Bretagna, p. 81
4. Statuto speciale 4.1. La fine dei Dogra, p. 83 - 4.2. Abdullah al potere, p. 87 - 4.3. Malcontento nello Jammu e nel Ladakh, p. 91 - 4.4. Il referendum e le Nazioni Unite, p. 93 - 4.5. Azad Kashmir o Kashmir occupato?, p. 99 - 4.6. L'arresto di Abdullah, p. 103 - 4.7. Bakshi l'edificatore, p. 106
83
5. Diplomazia e guerra
111
5.1. Negoziati infiniti, p. I l i - 5.2. La politica nella valle, p. 115-5.3.11 conflitto armato, p. 119 - 5.4. Taskent, p. 125 - 5.5. La reazione della valle, p. 126 - 5.6. La guerra e Simla, p. 131 - 5.7. L'accordo del Kashmir, p. 136
6. Sbruffoneria e disperazione
142
6.1. Una corona di spine, p. 142 - 6.2. L'eredità dello sceicco, p. 144 6.3. L'ascesa del MUF e la militanza, p. 152 - 6.4. Il fattore vendetta, p. 157
7. Valle di lacrime
160
7.1. Ha inizio l'insurrezione, p. 161 - 7.2. Il ritorno di Jagmohan, p. 164 7.3. La fuga degli indù, p. 169 - 7.4. La morte del Mirwaiz, p. 171 - 7.5. L'avvento di Saxena, p. 172 - 7.6. Repressione e ritorsione, p. 175
8. Cuori e menti
183
8.1. Normalizzazione?, p. 183 - 8.2. La mentalità dei militari, p. 188 8.3. Riparazione legale?, p. 192 - 8.4. La mentalità dei militanti, p. 193 8.5. La guerra per procura, p. 198 - 8.6. Il Kashmir «libero» e le aree settentrionali, p. 201 - 8.7.1 civili sotto assedio, p. 204 - 8.8. Il rapimento dei turisti, p. 208
9. Conflitto o consenso?
212
9.1. L'opinione internazionale, p. 212 - 9.2. Mutamento politico, p. 216 9.3. Le celebrazioni dell'anniversario, p. 218 - 9.4. La militanza ininterrotta, p. 221 - 9.5. Le opzioni politiche, p. 226 - 9.6. Gli esperimenti atomici e Lahore, p. 230 - 9.7. Guerra non dichiarata?, p. 233 - 9.8. Vittoria o sconfitta?, p. 243 - 9.9. Dopo Kargil, p. 248
10. Nuovo secolo, nuova prospettiva?
253
10.1. Il dirottamento, p. 254 - 10.2. Questione centrale?, p. 256 - 10.3. L'autonomia, il cessate il fuoco e il censimento, p. 258 - 10.4. Ad Agra, p. 262 - 10.5. L'11 settembre, p. 264 - 10.6. Un'occhiata alla valle, p. 266 10.7. A quattr'occhi, p. 270 - 10.8. Soluzioni visionarie?, p. 273
Note
279
Glossario
325
Bibliografia
329
Indice analitico
343
Collana « L e terre»
1. Walter Friedrich Otto, II volto degli dèi. Legge, archetipo Giampiero Moretti. Traduzione di Alessandro Stavru.
e mito, a cura di
2. Cento romanzi italiani (1901-1995), presentazione di Giovanni Raboni. 3. Seamus Heaney, Attenzioni. Preoccupations - Prose scelte 1968-1978, a cura di Massimo Bacigalupo. Traduzione di Piero Vaglioni. 4. Arnaldo Colasanti, Novanta. Il conformismo 5. Jonathan D. Spence, Girotondo zione di Cristina Foldes.
della cultura
italiana.
cinese, a cura di Carlo Laurenti. Tradu-
6. Angela Carter, La donna pomodoro. Vigano.
Eros, cibo e letteratura, a cura di Valeria
7. Claudio Damiani, La miniera. 8. Antonella Anedda, Cosa sono gli anni. Saggi e
racconti.
9. Edoardo Albinati, Orti di guerra. 10. Thomas Cahill, Come gli Irlandesi salvarono la civiltà, traduzione di Catherine McGilvray. (2* ed.) 11. Anais Nin, Mistica del sesso, prefazione di Gunther Stuhlmann. Traduzione di Anna Chiara Gisotti. 12. Dan Hofstadter, La storia d'amore come opera d'arte, traduzione di Chiara Vatteroni. 13. Franco Ferrucci, Il formidabile 14. Seamus Heaney, Il governo Massimo Bacigalupo. 15. Tommaso Giartosio, Doppio
deserto. Lettura di Giacomo
Leopardi.
della lingua. Prose scelte 1978-1987, a cura di ritratto.
16. David Lodge, Il mestiere di scrivere, traduzione di Alessandra Tubertini. 17. Lawrence Durrell, Un sorriso nell'occhio zio Bartocci. 18. Stefano Pistolini, Le provenienze Nick Drake misconosciuto cantautore
della mente, traduzione di Mauri-
dell'amore. Vita, morte e postmortem inglese, molto sexy.
19. Robert Dessaix, Lettere di notte, traduzione di Paolo Bartoloni. 20. Manlio Cancogni, Matelda. Racconto di un amore.
di
21. Thomas Cahill, Come gli Ebrei cambiarono il mondo, traduzione di Maurizio Bartocci. 22. Franco Ferrucci, Le due mani di Dio. Il cristianesimo e Dante. 23. Seamus Heaney, La riparazione della poesia. Lezioni di Oxford, a cura di Massimo Bacigalupo. 24. John Fante, Lettere 1932-1981, a cura di Seamus Cooney. Traduzione di Alessandra Osti. 25. David Denby, Grandi libri, traduzione di Lucia Olivieri. 26. Valentino Zeichen, Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio. (2* ed.) 27. Tim Page, Datun Powell. Una biografia, traduzione di Chiara Vatteroni. 28. Alessandro Zaccuri, Citazioni pericolose. Il cinema come critica letteraria. 29. Claudio Damiani, Eroi. 30. Michele Lauria, L'Amante Assente. (2' ed.) 31. Camillo Langone, Cari italiani vi invidio. 32. Gabriella Sica, Poesie familiari. (2' ed.) 33. John Fante, Sto sulla riva dell'acqua e sogno. Lettere a Mencken (1930-1952), introduzione di Michael Moreau. Traduzione di Alessandra Osti. 34. Gore Vidal, La fine della libertà. Verso un nuovo totalitarismo, traduzione di Laura Pugno. (3" ed.) 35. Richard Stengel, Breve storia della piaggeria, traduzione di Daniele Ballarmi. 36. Tommaso Orsini, Quintodecimo.
I sogni dei fanatici, i paradisi delle sette.
37. Seamus Heaney, Beowulf, a cura di Massimo Bacigalupo. Con un saggio di John R.R. Tolkien. Con testo inglese a fronte. (Poesia) 38. Joel Dyer, Raccolti di rabbia, traduzione di Pietro Meneghelli. (Interventi) 39. Anton La Guardia, Terra Santa, guerra profana, traduzione di Nazzareno Mataldi. (Interventi) 40. Nafeez Mosaddeq Ahmed, Guerra alla libertà. Il ruolo dell'amministrazione Bush nell'attacco dell'I 1 settembre, traduzione di Pietro Meneghelli. (Interventi) (3a ed.) 41. Roberto Galaverni, Dopo la poesia. Saggi sui contemporanei.
(Scritture)
42. Pier Luigi Celli, Breviario di cinismo ben temperato, presentazione di Domenico De Masi. (Scritture)
43. Filippo Tuena, La passione dell'érror mio. Il carteggio di Michelangelo. tere scelte 1532-1564. (Scritture)
Let-
44. Gore Vidal, Le menzogne dell'impero e altre tristi verità. Perché la junta petroliera Cheney-Bush vuole la guerra con l'Iraq e altri saggi, traduzione di Luca Scarlini e Laura Pugno. (Interventi) (3" ed.) 45. Philippe Beaussant, Anche il Re Sole sorge al mattino. Una giornata di Luigi XIV, prefazione di Giuliano Ferrara. Traduzione di Laura Pugno. (Scritture) 46. Alessandro Spaventa - Fabrizio Saulini, American Lies. Ascesa e caduta della Enron. (Interventi) 47. Ekkehart Krippendorff, L'arte di non essere governati. Politica etica da Socrate a Mozart, traduzione di Vinicio Parma. (Pensiero) 48. Dag Tessore, La mistica della guerra. Spiritualità delle armi nel e nell'islam, prefazione di Franco Cardini. (Civiltà)
cristianesimo
49. Jacques Allaman, Cecenia. Ovvero, l'irresistibile ascesa di Vladimir Putin, traduzione di Giuliano Cianfrocca. (Interventi) 50. Antonio Monda, La magnifica illusione. Un viaggio nel cinema (Scritture)
americano.
51. Nafeez Mosaddeq Ahmed, Dominio. La guerra americana all'Iraq e il genocidio umanitario, traduzione di Thomas Fazi, Andreina Lombardi Bom, Nazzareno Mataldi, Pietro Meneghelli, Vincenzo Ostuni e Isabella Zani. (Interventi). 52. Mario Gamba, Questa sera o mai. Storie di musica contemporanea.
(Scritture)
53. Christopher Hitchens, Processo a Henry Kissinger, traduzione di Marco Pettenello. (Interventi) 54. James Wilson, La terra piangerà. Le tribù native americane dalla preistoria ai nostri giorni, traduzione di Alberto Bracci Testasecca. (Civiltà) 55. Baruch Kimmerling, Politicidio. Ariel Sharon e i palestinesi, traduzione di Elisa Bonaiuti. (Interventi) 56. Colm Tóibin, Amore in un tempo oscuro. Vite gay da Wilde ad Almodóvar, traduzione di Pietro Meneghelli. (Scritture) 57. Robert Nozick, Invarianze. La struttura del mondo oggettivo, introduzione di Sebastiano Maffettone. Traduzione di Gianfranco Pellegrino. (Pensiero) 58. Manlio Dinucci, Il potere nucleare, prefazione di Giuliette Chiesa. (Interventi) 59. Rita Di Giovacchino, Il libro nero della Prima Repubblica, prefazione di Massimo Brutti, con un'intervista a Giovanni Pellegrino. (Interventi) (2" ed.)
60. Clyde V. Prestowitz, Stato canaglia. La follia dell'unilateralismo traduzione di Irene Floriani. (Interventi)
americano,
61. Will Hutton, Europa Vs. USA. Perché la nostra economia è più efficiente e la nostra società più equa, prefazione di Guido Rossi, con un saggio di Massimiliano Panarari. Traduzione di Fabrizio Saulini. (Interventi) 62. Gianfranco Fini, L'Europa che verrà. Il destino del continente e il ruolo dell'Italia, a cura di Carlo Fusi, prefazione di Giuliano Amato. (Interventi) 63. Thomas Cahill, Desiderio delle colline eterne. Il mondo prima e dopo Gesù, traduzione di Nazzareno Mataldi. (Civiltà) 64. William Blum, Il libro nero degli Stati Uniti, con un aggiornamento di Nafeez Mossadeq Ahmed. Traduzione di Giorgio Bizzi, Maria Fausta Marino, Riccardo Masini, Chiara Vatteroni e Isabella Zani. (Interventi) (4" ed.) 65. Alessandro Spaventa - Fabrizio Saulini, Divide et impera. La strategia dei neoconservatori per dividere l'Europa. (Interventi) 66. Gore Vidal, Il canarino e la miniera. Saggi letterari 1956-2000, postfazione di Claudio Magris. Traduzione di Stefano Tummolini. (Scritture) 67. James Barnford, Lorecchio di Dio. Anatomia e storia della National Security Agency, traduzione di Riccardo Masini. (Interventi) 68. Tariq Ali, Bush in Babilonia. La ricolonizzazione Francesca Minutiello. (Interventi)
dell'Iraq, traduzione di
69. Klaus K. Klostermaier, Induismo. Una introduzione, traduzione di Mimma Congedo. (Civiltà) 70. John H. Berthrong - Evelyn Nagai Berthrong, Confucianesimo. zione, traduzione di Marcello Ghilardi. (Civiltà)
Una introdu-
71. Hilary Putnam, Fatto/Valore. Fine di una dicotomia e altri saggi, introduzione di Mario De Caro, traduzione di Gianfranco Pellegrino. (Pensiero) 72. Lapo Pistelli - Guelfo Fiore, Semestre nero. Berlusconi e la politica estera, prefazione di Lucio Caracciolo. (Interventi) 73. Henri de Grossouvre, Parigi Berlino Mosca. Geopolitica dell'indipendenza europea, prefazione di Pierre Marie Gallois. Traduzione di Maura Posponi. (Interventi) 74. Jonathan Spence, Mao Zedong, traduzione di Loredana Baldinucci. (Biografie) 75. Paul Johnson, Napoleone, traduzione di Ilaria Belliti. (Biografie) 76. Philip Jenkins, La terza chiesa. Il cristianesimo nel XXI secolo, prefazione di Franco Cardini. Traduzione di Pietro Meneghelli. (Civiltà)
77. Franco Ferrucci, Il teatro della fortuna. Potere e destino in Machiavelli Shakespeare. (Scritture)
e
78. Gore Vidal, Democrazia tradita. Discorso sullo stato dell'Unione 2004 e altri saggi, traduzioni di Marina Astrologo, Giuseppina Oneto e Stefano Tummolini. (Interventi) 79. Ekkehart Krippendorff, Critica della politica estera, prefazione di Gian Giacomo Migone. Traduzione di Elisabetta Dal Bello. (Pensiero) 80. John Gray, Al Qaeda e il significato della modernità, postfazione di Sebastiano Maffettone. Traduzione di Lorenzo Greco. (Pensiero) 81. Gret Haller, I due Occidenti. Stato, nazione e religione in Europa e negli Stati Uniti, con una postfazione dell'autrice all'edizione italiana. Traduzione di Francesca Febbraro. (Interventi) 82. Paolo Cacace, L'atomica europea. I progetti della guerra fredda, il ruolo dell'Italia, le domande del futuro, prefazione di Sergio Romano. (Interventi) 83. Richard Heinberg, La festa è finita. La scomparsa del petrolio, le nuove guerre, ilfuturo dell'energia, prefazione all'edizione italiana di Alfonso Pecoraro Scanio, prefazione all'edizione statunitense di Colin J. Campbell, prefazione dell'autore all'edizione italiana. Traduzione di Nazzareno Mataldi. (Interventi) 84. Michele Lauria, Telekom Serbia, pupi e pupari, con la collaborazione di Laura Trovellesi. (Interventi) 85. David Ray Griffin, 11 settembre. Cosa c'è di vero nelle "teorie del complotto", prefazione all'edizione inglese di Michael Meacher, prefazione all'edizione statunitense di Richard Falk. Traduzione di Giuseppina Oneto. (Interventi) 86. Nafeez Mosaddeq Ahmed, Guerra alla verità. Tutte le menzogne dei governi occidentali e della Commissione "indipendente" USA sull'I 1 settembre e su Al Qaeda, traduzione di Nazzareno Mataldi, Pietro Meneghelli, Matteo Sammartino, Francesca Valente e Piero Vereni. (Interventi) 87. Franco Rella, Pensare per figure, Freud, Platone, Kafka, il pos fumano. (Pensiero) 88. Robert R. Reich, Perché i liberal vinceranno ancora, prefazione di Walter Veltroni, con un saggio di Massimiliano Panarari. Traduzione di Francesca Minutiello. (Interventi) 89. Frances Stonor Saunders, La guerra fredda culturale. La CIA e il mondo delle lettere e delle arti, prefazione di Giovanni Fasanella. Traduzione di Silvio Calzavanni. (Interventi) 90. Robert Pogue Harrison, Il dominio dei morti, con un contributo di Andrea Zanzotto. Traduzione di Pietro Meneghelli. (Scritture)
91. Fausto Bertinotti, Lidia Menapace, Marco Revelli, Non violenza. Le ragioni del pacifismo. (Interventi) 92. Victoria Schofield, Kashmir. India, Pakistan e la guerra infinita, traduzione di Massimiliano Manganelli. (Storia) 93. E1 Hassan Bin Talal, Il cristianesimo nel mondo arabo, prefazione di Carlo d'Inghilterra, prefazione all'edizione italiana del cardinale Pio Laghi. Traduzione di Flavia Tesio Romero. (Civiltà
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