Jon Fasman La biblioteca dell'alchimista (The Geographer's Library, 2005) Traduzione di Roberta Zuppet
Ad Alissa Mi rit...
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Jon Fasman La biblioteca dell'alchimista (The Geographer's Library, 2005) Traduzione di Roberta Zuppet
Ad Alissa Mi ritrovo sempre combattuto tra due convinzioni: la convinzione che la vita dovrebbe essere migliore di quanto sia e la convinzione che, quando sembra migliore, in realtà è peggiore. Graham Greene, Viaggio senza mappa
Cara H, pensavo che ormai fossi morta. Di sicuro non mi sarei mai aspettato di ricevere ancora tue notizie. E forse non le ho ricevute: la calligrafia sembra familiare, ma la contraffazione figura probabilmente tra i crimini meno gravi dei tuoi nuovi amici. Ti concederò tuttavia il beneficio del dubbio. Un'ipotesi infondata mi pare il modo migliore per renderti omaggio. Allego quanto mi hai chiesto: «Un resoconto esauriente e obiettivo dei giorni passati insieme». Hai precisato che non saresti stata l'unica a leggerlo, ma anche in quel caso dubito che l'avrei scritto diversamente: in questa sede, tu non avresti potuto essere «tu» nemmeno se io l'avessi voluto. E per quanto abbia cercato di restare in silenzio e ignorare la tua richiesta, ho scoperto di non esserne capace. A ogni modo, non avevo granché da fare. Sono rintanato qui da più tempo di quello occupato dalla nostra relazione, e anche se sono tuttora scosso (e continuerò a esserlo, almeno per un altro po'), il tuo viso è già meno nitido, cosa di cui sono lieto. Ma sono in pensiero per te. Ti auguro una vita più lunga e felice di quella che temo avrai. Paul
È vero senza errore e menzogna, è certo e verissimo.
Per il cronista di un settimanale, soprattutto se piccolo come il «Carrier», il giorno dell'uscita nelle edicole è dedicato al riposo. Di solito arrivavo in ufficio intorno alle undici, evadevo la corrispondenza, scorrevo tutti gli articoli della rivista che non ero riuscito a leggere durante la settimana, facevo qualche interurbana personale, fingevo di cominciare a meditare sui pezzi per il numero successivo e me ne andavo alle cinque in punto. Se mi sentivo virtuoso, archiviavo gli appunti e sgomberavo una pista d'atterraggio sulla mia scrivania, ma in genere riservavo quei lavoretti a quando c'era una scadenza imminente e avevo bisogno di qualche occupazione banale per chiarirmi le idee. Non che le scadenze fossero poi così importanti: come tanti piccoli centri, Lincoln, nel Connecticut, era specializzata in notizie molto longeve. Comunque, nessuno avrebbe perso il posto se non avesse consegnato in tempo un servizio riguardante la polemica a proposito della squadra di football del liceo (i Fighting Sioux: culturalmente insensibili, rispettosamente tradizionali o tradizionalmente rispettosi?). Primo, il dibattito si sarebbe riacceso l'anno dopo, con molta probabilità in autunno, quando i diplomandi ambiziosi avessero deciso di dare lustro alla loro reputazione di agitatori in vista del college. Secondo, il giornale aveva una riserva infinita di annunci, recensioni, inserzioni pubblicitarie e semplici zeppe che potevamo riciclare o ridimensionare qualora il reporter alle prime armi non fosse in grado di andare in bicicletta senza rotelle. A me, comunque, capitava sempre più di rado. Lavoravo per il «Lincoln Carrier» da quasi un anno e mezzo, da quando, cioè, mi ero laureato all'università di Wickenden. Alcuni miei amici erano passati con apparente disinvoltura dal college alla facoltà di legge o medicina, oppure a prestigiose posizioni da consulente o a qualche posto malpagato in editoria a New York, come se quelle fossero le uniche cose da fare. Io non avevo
progetti di questo tipo, e non volevo neppure tornare a New York, dove ero cresciuto. A essere sincero, avevo accarezzato l'idea di conseguire il dottorato per poi condurre l'esistenza ritirata e pacifica di un docente di storia in una piccola e pittoresca città universitaria (campanile, corso principale, cinema), un luogo dove invecchiare subito dopo la trentina e vivere senza crisi né sorprese, subendo soltanto cambiamenti incrementali per il resto dei settant'anni a me concessi. Non avevo mai preso in seria considerazione la possibilità di diventare giornalista, in primo luogo perché non avrei saputo come diventarlo. Avevo scritto qualche recensione musicale e letteraria per il giornale del college, attratto dalla prospettiva di ricevere libri e CD gratis: leggevo o ascoltavo qualcosa, buttavo giù duecento parole, e una settimana dopo vedevo il mio nome sopra un pezzo vagamente simile a quello che avevo redatto. Un racket, non una carriera. Dopo la laurea ero rimasto nell'appartamento in cui avevo alloggiato durante l'anno: non avevo motivo per traslocare. A un mese dall'inizio di quella piatta estate avevo detto di no a mio padre quando mi aveva proposto/ordinato di lavorare come paralegale nello studio di un suo amico di Indianapolis, dove si era trasferito dopo la separazione da mia madre. Mi aveva fatto sentire così in colpa per la mia condizione di disoccupato che ero andato, per la prima e ultima volta, al Centro di orientamento professionale della Wickenden. Lì avevo riempito un questionario dopo l'altro e parlato con vivaci neolaureate che indossavano mocassini, twin-set e collane di perle e avevano già un accenno di pancetta. Avevo esaminato inserzioni prive di senso. Le mie preferite erano quelle delle società di formazione: «Imparerete a implementare decisioni strategiche di protocollo gestionale» e via discorrendo. Avevo temuto che, dopo tre settimane in uno di quei posti, mi sarei tramutato in una specie di cyborg; sarei tornato a casa per il Ringraziamento e avrei comunicato mediante strisce di nastro per telescrivente che mi uscivano dalla bocca. Dopo un paio d'ore di orientamento professionale mi ero fatto la convinzione che avrei condotto una lunga vita inutile e solitaria e sarei morto abbandonato e dimenticato da tutti (ho già precisato che non mi ero mai preso il disturbo di compilare la domanda di iscrizione ai corsi di dottorato?). È un atteggiamento rinunciatario, lo so, però è quanto accade ai figli brillanti ma essenzialmente incapaci delle coppie che educano la prole a ottenere buoni voti agli esami senza trasmetterle gli sproni avvelenati della vera ambizione.
Art Rolen aveva contattato il Centro mentre mi preparavo ad arrancare fino a casa e ad annegare nell'autocommiserazione. Ricordo di aver visto la mia consulente professionale che assumeva un'espressione raggiante, anzi estasiata, mentre annuiva con crescente energia e infine diceva al suo interlocutore: «Signore, credo di avere la persona adatta seduta proprio qui davanti a me. Non lavora per il giornale del college, ma i punteggi GibsonMontaneau indicano che potrebbe fare davvero, davvero al caso suo». Mi aveva strizzato spasmodicamente l'occhio, porgendomi la cornetta con una mano e alzando il pollice dell'altra in un gesto che andava di moda nel 1983. Rispondendo, avevo udito un ringhio strascicato nel ricevitore: «Be', mi dicono che i suoi valori Gibbon-Martindale sono veramente alti. Ma il punto è: di cosa diavolo si tratta? E secondariamente, lei sa scrivere?». Conficcandomi il telefono nel torace, avevo distolto lo sguardo dall'entusiasmo accecante della ragazza. «Be', a essere onesto, non so chi sia questo Gibbon. Anche se pare che lo considerino importante. E tecnicamente non lavoro per il giornale del college: ho solo buttato giù un pezzo ogni tanto. Credo di saper scrivere abbastanza bene. Da dove chiama?» «Da Lincoln, nel Connecticut. Circa due ore a ovest di Wickenden. Dirigo un piccolo settimanale, più o meno sedici pagine. Mi serve una specie di tuttofare a tempo pieno. Per il momento ci siamo solo io, un cronista e un'addetta alla pubblicità. L'altro giornalista full-time se n'è appena andato, ha trovato un posto a Storrs. Pascoli più verdi, suppongo. Comunque, lei seguirebbe un po' di servizi, scriverebbe un po' di articoli, farebbe un po' di editing, archivierebbe un po' di scartoffie, sbrigherebbe un po' di lavoro d'ufficio.» Avevo sentito il fruscio ovattato di una sigaretta che veniva accesa. «Risponderebbe a qualche telefonata, ma non più di tutti gli altri. Niente di speciale. Non certo roba da premio Pulitzer. Potrebbe servire a capire se questa è la sua strada.» Avevo scrollato le spalle, poi mi era venuto in mente che le scrollate di spalle non si sentono al telefono. «Sembra interessante. Sì. Vuole che le mandi il mio curriculum?» «Sì, certo. Ma mi faccia un favore: me lo spedisca via posta. Il mio nuovo fax ha qualche difficoltà nel passare dalla scatola alla scrivania, e preferisco avere una copia cartacea piuttosto che leggere a video. Le dispiace?» «No, nessun problema. Vuole che venga a trovarla? Dovrò sostenere un
colloquio o qualcosa di simile?» «Pensavo che lo stesse già facendo. Per il momento si limiti a mandarmi quel materiale. A proposito, mi chiamo Art Rolen; spedisca tutto alla mia attenzione. CV e qualche campione di scrittura. Cominceremo da questo. Va bene?» Per me andava benissimo e, sedici mesi dopo, eccomi lì a Lincoln, intento a trascinarmi fuori del letto all'alba delle dieci di un gelido martedì mattina. Ero rimasto in ufficio fino alle tre di quella notte, quando finalmente tutte le copie erano uscite dalla macchina. Art voleva che uno di noi restasse in tipografia fino a stampa completata, e in realtà avremmo dovuto sobbarcarci quell'incombenza a turno, ma, poiché ero il più giovane dei quattro e l'unico a non essere sposato, toccava quasi sempre a me. Non mi pesava, davvero: il tragitto da New Haven a quell'ora era sempre rapido e tranquillo, e io ho sempre adorato il profumo dell'aria notturna. È strano pensare a che cosa stava accadendo nella sonnolenta Lincoln durante quella particolare corsa in auto. Credo che non lo saprò mai con esattezza. Abitavo nel quartiere commerciale della città, il Lincoln Station. Negli anni Venti, quando questo era un vero villaggio agricolo e non una via di fuga da New York, i treni giungevano qui carichi di biada e granaglie e ripartivano carichi di burro, latte e formaggio. Graziosi negozietti con autentici prati verdi dietro autentiche palizzate candide occupavano ora l'area della vecchia stazione. Gli uffici del «Carrier» si trovavano nella zona residenziale, denominata Lincoln Common perché (i miei occhi nativi di Brooklyn non erano riusciti a crederci quando l'avevano visto per la prima volta) nel mezzo si stendeva uno spiazzo erboso davanti a un'antica chiesa di legno bianco con tanto di campanile: il Village Common. Naturalmente, il numero di individui in grado di distinguere Lincoln Station da Lincoln Common diminuiva di anno in anno, man mano che i residenti di Lincoln morivano oppure vendevano le case costruite dai loro nonni ad avvocati o direttori di riviste della metropoli. I nuovi arrivati sventravano gli edifici e li munivano di colonne, per poi presentarsi tre weekend l'anno e sfrecciare per le vie a bordo delle loro auto sportive. Oltre a tenere formaggio di capra e cinque tipi di olive, la drogheria Manton metteva ora a disposizione «Crain's», il «New York Times» e il «Wall Street Journal». Naturalmente, anch'io ero un nuovo arrivato, ma possedevo una piccola utilitaria sgangherata, non avevo una vita altrove e (il più raro di tutti gli onori) ero amico di una famiglia del
posto, i Rolen. A ogni modo, mi piace parlare dei bei (o quanto meno migliori) vecchi tempi; ho nostalgia di qualunque epoca abbia preceduto la mia nascita. Quando, all'una di quel pomeriggio, entrai in redazione (nome troppo nobile per quello che, in sostanza, era un capanno provvisto di isolamento termico e arredato con quattro tavoli e quattro computer), Art sedeva alla sua scrivania fumando e leggendo il «Times»: scorsa rapida, sbuffo di fumo, pagina successiva; sbuffo di fumo, scorsa rapida, sbuffo di fumo, pagina successiva, sbuffo di fumo. «Eccolo qui» disse, senza nemmeno alzare lo sguardo quando mi fui richiuso la porta alle spalle. «Vispo e mattiniero.» Quindi mi scoccò un'occhiata penetrante da sopra le lenti. La stanza odorava di sigarette, meloni ed erba; Art era responsabile delle prime, ma i secondi e la terza erano imputabili a Nancy Llewelyn, che vendeva i nostri spazi pubblicitari e si assicurava, come meglio poteva, che non fossimo costretti a dichiarare bancarotta. Come Art, era nata e cresciuta in città e, secondo la signora Rolen, aveva un'innocua cottarella per il mio capo dai tempi della terza media. Annusai rumorosamente l'aria, e Art scoppiò a ridere. «È passata prima per prendere qualcosa da leggere durante le ferie, ha detto. Te lo immagini? Portarsi dietro i compiti per il "Carrier"? Questa sì che è dedizione al lavoro.» Con un altro sbuffo di fumo, voltò la pagina culturale e si concentrò su quella sportiva. «Poco fa ho ricevuto una telefonata dal Panda.» «Chi è il Panda?» Intrecciandosi le mani sulla nuca, contemplò il lago Massapaug attraverso la lunga finestra, la sigaretta all'angolo della bocca. Mi piaceva il modo in cui fumava, con una soddisfazione schietta e serena anziché con il rimorso furtivo tanto diffuso tra gli individui più attempati o il piacere forzato, chiassoso, quasi aggressivo degli adolescenti e dei californiani. Fumava perché fumava, senza vergogna, non per dimostrare una tesi, bensì perché, in qualche modo, quell'abitudine lo completava. Le folte sopracciglia bianche, gli scuri occhi infossati, la mandibola pronunciata e la barba candida conferivano al suo viso un'espressione di eterna mestizia; pareva un incrocio tra un anziano Humphrey Bogart e Lev Tolstoj verso la fine dei suoi giorni. Aveva sempre fatto il corrispondente dall'estero (Vietnam, Cambogia, Parigi, Beirut, Gerusalemme, un incarico da redattore a New York) e, come la maggior parte dei reporter di lunga data, era un cinico, e, come la maggior parte dei reporter cinici, era un
generoso sentimentale della peggior (o miglior) specie. Gettò quanto rimaneva della sigaretta in quanto rimaneva del suo caffè, estrasse un biglietto da visita dal taschino della camicia e lo fece scivolare verso di me. «Panda. Vuole che lo richiami. Gli ho fatto il tuo nome, quindi sa chi sei.» Capovolsi il biglietto. Vivepananda Sunathipala, medico legale della contea di Weston, ospedale di New Weston, Connecticut. La città più vicina, a circa quarantacinque minuti di viaggio. Piegai la testa da un lato con aria interrogativa, e Art rispose con un mezzo cenno del capo. «È il Panda. Cingalese, il nome. E anche lui. Un mio vecchio amico: compagno di scacchi, compagno di bevute, compagno di bridge. Le nostre figlie andavano a scuola insieme. Suppongo che ormai viva a New Weston da una trentina d'anni. Si è stabilito qui mentre io giravo ancora il mondo.» Si stiracchiò e sbadigliò, come se pensare all'età di sua figlia lo facesse sentire stanco. «Qualche idea sul motivo della telefonata?» gli domandai. Tirò verso di sé il taccuino. «J-A-A-N. Credo che si pronunci "Ian", giusto? Giusto. Jaan... Il cognome è un po' difficile... P-U-H-A-P-A-E-V. Ha la dieresi sulla u e sulla seconda a. Pronuncialo come ti pare. Abitava qui a Lincoln. Mai conosciuto, mai nemmeno sentito nominare. È morto questa mattina. Non so altro.» Ma io sapevo qualcos'altro: Pühapäev era un professore della facoltà di storia della Wickenden. Non ricordavo che cosa insegnasse. Mi era sempre sembrato più parte dell'arredamento (apatico, anziano, trasandato, aspetto inoffensivo) che un vero docente capace di vivere e respirare. Rivelai ad Art che lo conoscevo, o almeno che quel nome non mi era nuovo. Assentì, lisciandosi la barba. «Ti va di scrivere il suo necrologio? Di vedere che cosa c'è da dire?» «Certo.» «Che cos'altro hai in programma per questa settimana?» Feci per prendere il mio bloc-notes, ma lui mi fermò agitando la mano. «No, no, lascia perdere. Se non vuoi che mi senta in colpa perché ti obero di lavoro. E, tra parentesi, era una battuta. Piuttosto, mi domando perché per questo Pühapäev sia stato interpellato il medico legale. È strano. Potrebbe esserci qualcosa da raccontare. Qualcosa di succoso; oppure potrebbe trattarsi di un necrologio come tanti. Il che, per un giornale come il nostro, è pur sempre interessante, suppongo. Allora, ti va di vedere che cosa puoi cavarne?»
«Naturalmente.» Mi indicò il telefono, e chiamai il coroner di New Weston. «Patologia. Parla il responsabile dell'ufficio di medicina legale. Come posso aiutarla?» Il tono era diretto e sbrigativo, con una cadenza militare e un accento ritmico. «Mmm, sì, sto cercando il signor Panda.» «Il dottor Sunathipala, prego. Sono io. Chi parla, per favore?» «Signore, mi chiamo Paul Tomm, T-O-M-M, e telefono dal "Lincoln Carrier". Art Rolen mi ha chiesto di contattarla.» Rise. «Art, sì. Sta bene? È in forma?» «Sta bene ed è in forma.» «Sì, sì. Mi ha telefonato, presumo, riguardo a quest'uomo morto, il signor...» Udii il fruscio di alcuni fogli. «Il signor Pühapäev, giusto?» «Sì, giusto, volevo solo...» «Non ho ancora niente da dirle, temo. Sono arrivato presto per occuparmi di altre questioni e non posso ancora esprimermi sul signor Pühapäev. Un attimo, mi porto l'apparecchio in laboratorio.» Udii una porta che si apriva e si richiudeva, quindi un rumore di passi. «Sì, eccolo qui. Ha la stanza tutta per sé. È arrivato poco fa, vedo. Lo sto guardando proprio ora, e sembra deceduto da poco. Niente decomposizione. Anziano, direi dai lineamenti e dal corpo. Anziano.» Percepii un raschiare su cui non volli indugiare troppo. «Fumatore. Barba e baffi ingialliti intorno alla bocca. Segni molto generici di stress. Questo potrebbe indicare che... be', quasi niente, temo. Potrebbe indicare solo che ha vissuto abbastanza da diventare un vecchio dalla barba bianca e ingiallita.» Sentii un tonfo, la sua voce si allontanò e poco dopo riacquistò volume. «Sì, signor Tomm. Nulla da dire o segnalare in questo momento, a eccezione del fumo. Pessima abitudine, il fumo. Pessima ma piacevole. Il suo amico Art ne sa qualcosa. Alla fine, però, fumo o non fumo, whisky o non whisky, "ragazzi e fanciulle che paiono d'oro, / come chi spazza i camini per loro, / in polvere deve ciascuno tornare". Forse la conosce, oppure le interessano solo i balletti alla televisione e i romanzi di spionaggio?» Chiusi gli occhi. Conoscevo quei versi. Sapevo di conoscere quei versi. «Shakespeare.» «Sì, certo, bravissimo. Ma quale testo di Shakespeare?» «Un'opera tarda, con molta probabilità.» Tirai a indovinare. Avevo una
possibilità su sei. «Cimbelino?» «Sì, esatto. Ottimo e davvero notevole. Naturalmente, ho avvertito il dubbio nella sua voce, ma rammenti anche il vostro Martin Lutero: "Pecca fortemente". Meglio supporre ad alta voce che in silenzio. Bene, signor Tomm esperto di Shakespeare, mi piacerebbe moltissimo trascorrere tutto il giorno a discutere di poesia con un reporter erudito come lei, ma i morti mi aspettano. Il mio pubblico involontario. Forse sarà così gentile da richiamarmi oggi pomeriggio, o magari domani mattina. Spero vivamente che per allora l'avrò dissezionato. A risentirci e buona fortuna.» «Non aveva niente da dirmi, in realtà» informai Art. «Conosco il Panda da tanti anni, e non è mai successo che non avesse niente da dire» rise lui. «Gli ritelefoni?» «Oggi pomeriggio o domani. Dice che forse per allora avrà qualcosa.» «Dunque che cosa hai intenzione di fare?» «Adesso? Credo... be', dove abita quel tizio? Anzi, dove abitava?» «Questo sì che è parlare. Ecco qui il suo indirizzo.» Fece scivolare un foglietto verso di me. «Sai, è solo un suggerimento: potrebbe esserti utile fare un salto a Wickenden. Magari puoi andarci dopo pranzo, se hai voglia di schiacciare l'acceleratore. Magari domani. Tanto per vedere se qualcuno dei tuoi ex compagni ha qualche dichiarazione da rilasciare. Se abbiamo tempo (e ne abbiamo), perché non fare le cose per bene?» Non avevo mai visto la casa di Pühapäev perché, da quando vivevo a Lincoln, non avevo mai notato la piccola traversa in cui abitava. Era nascosta da grosse querce, e persino ora, sebbene le ultime foglie rimaste stessero per cadere, ci mancò poco che la scambiassi per un vialetto di accesso. La strada era a malapena larga abbastanza per un'unica auto, benché diventasse leggermente più ampia prima di finire in uno spiazzo di terriccio e alberi incolti. Una di fronte all'altra, addossate allo sbocco sul viale principale, si ergevano due costruzioni di pietra identiche, munite di imposte grigiazzurre e circondate da verande, simili a sentinelle in silenziosa comunicazione tra loro. In un posto diverso o in una giornata diversa, l'effetto sarebbe stato suggestivo; lì era inquietante, soprattutto perché usciva fumo da entrambi i camini ma le luci erano spente in tutti e due gli edifici. Sulla sinistra si ergeva un grande, brutto fabbricato rivestito di assicelle giallastre, che, sormontato da una piattaforma d'osservazione, pareva aerotrasportato da Rockport o Gloucester. Lì di fronte c'era il numero 4,
l'abitazione di Pühapäev; tozza e marrone, con le grondaie deformate e gli stipiti bianchi che si scrostavano. Un acero dall'aria sconsolata cresceva in mezzo a un cortile di fango, cespugli ed erba rada. Un dondolo che recava ancora qualche scaglia di vernice rosa si era staccato dalla catena e giaceva accasciato sul piccolo portico come un vecchio ciccione troppo stanco per rimettersi in piedi. Parcheggiai dietro un'auto della polizia di Lincoln, anzi dietro l'auto della polizia di Lincoln. Avvicinandomi, lanciai un'occhiata dall'altra parte della via e intravidi una mano che scostava la persiana di una finestra al piano superiore. Dopo aver bussato alla porta aperta, chiesi permesso e varcai la soglia. «Gesù Cristo» imprecò una voce esasperata. «Questo non è un museo, è una casa.» «È anche la scena di un crimine?» domandai, indietreggiando e infilando dentro il collo. «Che cosa gliene frega? È un turista o sta cercando alloggio?» Comparve un agente tracagnotto, insaccato nella divisa come un salame, che teneva il berretto sotto un braccio e un portablocco sotto l'altro. Aveva stupidi baffetti simili a un bruco addormentato sopra il labbro superiore, e varie ciocche di capelli rossicci strategicamente avvolte intorno a una testa per il resto calva. L'avevo già visto, ma non lo conoscevo: mio padre mi raccomandava sempre di stare alla larga dai piedipiatti di provincia, e di conseguenza non avevo mai preso neppure una contravvenzione per divieto di sosta a Lincoln. Di solito lo vedevo insieme a un altro poliziotto, un tipo smilzo che pareva sempre sul punto di svanire da tanto era insignificante. Se Art mi aveva mai detto il suo nome, l'avevo dimenticato. «Chi è lei?» mi interrogò. «Sono del "Carrier". Mi chiamo Paul.» Gli tesi la mano, e lui me la strinse in silenzio, senza cambiare espressione o atteggiamento, come se non avesse alcun controllo o alcuna curiosità riguardo a ciò che le sue dita toccavano. «Bert» replicò, asciutto. «Qualcosa di interessante qui dentro?» «Stavo verificando che non ci fossero segni di furto. Finora soltanto un mucchio di ciarpame.» Si guardò sopra la spalla e, sporgendomi, scorsi un'ampia stanza che faticava a contenere le forze dell'entropia. In un angolo era collocato un polveroso pianoforte a coda su cui erano posate pile di libri e giornali. Dall'altra parte del locale vi era un tavolino
disseminato di posacenere traboccanti, piatti colmi di vecchie ossa e imbrattati di ketchup (mi auguravo che fosse ketchup) e scodelle incrostate da cui spuntavano dei cucchiai. Un divano a pois completava il mobilio. Una vita domestica impazzita, una dimora per solitari cronici. L'aria era viziata: un misto di fritto, muffa, polvere, sigarette e vecchiaia. «Non so come faremo a capire se qualcuno abbia rubato qualcosa.» «Può dirmi dove l'avete trovato?» Sospirando, Bert alzò gli occhi al cielo, come se gli avessi appena ordinato di lavare le finestre, quindi indicò il divano. «Laggiù. Disteso, anzi stravaccato. Però sembrava sereno. Scommetto che ha avuto un infarto. Ma abbiamo ricevuto una chiamata dalla polizia di questo Stato, nel cuore della notte; qualcuno non aveva più avuto sue notizie o roba simile. Dobbiamo controllare ogni cosa. Comunque, stavamo per andarcene. Giusto, Al?» Il suo tetro e insulso compagno (Al, evidentemente) scese le scale arrancando. «Credo di sì» rispose con una voce tanto bassa e inespressiva da parere rassegnata alla propria inutilità ancor prima che le parole gli uscissero di bocca. «Se sei pronto, possiamo andare.» «Sì, alziamo i tacchi. Qui non c'è niente per la stampa, vero?» Bert scoccò un'occhiataccia prima a me e poi ad Al, che ci voltava la schiena, intento a fissare un'enorme pendola appoggiata alla parete più lontana. «Ancora niente» ribadì Al. «Non c'è modo di sapere se manchi qualcosa, perché immagino che vivesse da solo, ma sembra che non ci sia nulla di rotto. Era disordinato, ma la legge non lo vieta. Però guarda questo.» Probabilmente parlava con Bert, ma lo considerai un invito rivolto anche a me. Al accennò all'orologio malandato. Aveva due pesi dorati che oscillavano nella cassa di mogano, e il quadrante era decorato da intrecci di motivi geometrici. Le lancette segnavano le 10.25, e i pendoli erano impolverati: era fermo da un po'. «Bert, ricordi che nonno Per ne aveva uno simile in camera da letto? Un vecchio aggeggio a molla?» «Non saprei» disse Bert, secco. Attraversai l'ingresso con la maggiore lentezza possibile, dirigendomi verso l'uscita e oltrepassando una libreria strapiena al centro della quale spiccava una teca, chiusa e vuota. Lo scaffale conteneva quindici treppiedi di legno, tre su ciascuno dei cinque ripiani. Chissà se Pühapäev li aveva usati per montarvi sopra qualcosa. Decisi di non attirare l'attenzione degli agenti su quel dettaglio, anche se non saprei dire il perché. Testardaggine,
forse. Perché prendete a calci un sasso sul marciapiede anziché ignorarlo? Quel particolare mi rimase tuttavia impresso: una teca senza nulla da mostrare, l'unico spazio libero in una casa stracolma. «Dai, Al, ho fame» protestò Bert, facendo tintinnare l'anello portachiavi e avviandosi verso l'uscio. «Ne parliamo davanti a un piatto di uova da Vinchy. Offro io.» Posandomi la mano sulla schiena, mi spinse fuori con gentilezza ma con decisione. «Se scopriamo qualcosa, la informiamo. Giusto, Al? Nel frattempo, lei esce per primo e noi chiudiamo la porta.»
L'alambicco
L'universo stesso non è forse poco più di un alambicco sulla mensola del Creatore? Praticando questa scienza della trasformazione nei nostri piccoli e modesti recipienti, non compiamo allora l'opera di Dio in miniatura? Dichiararlo ad alta voce ci varrebbe senz'altro un'accusa di empietà, quando invece siamo i più fedeli e zelanti seguaci di Dio, la nostra missione è la più santa, e i nostri esperimenti non sono altro che fervidissime preghiere, seppur non ratificate da alcuna Chiesa a eccezione della nostra. Sanoplo di Alessandria, Sulle pratiche naturali
All'inizio della primavera del 1154, quando la brina non orlava più la salvia spontanea e i giardinieri di palazzo poterono rimuovere i teli che proteggevano gli ulivi, i limoni e gli aranci reali, Ruggero II di Sicilia convocò il suo geografo alla corte di Palermo. Costui era il famoso cartografo, erborista, medico, compositore, suonatore di oud, illustratore e filosofo Yussef Hadras ibn Azzam Abd Salih Jafar Khalid Idris, passato alla storia come al-Idrisi, bibliotecario ambulante di Baghdad. La sua infanzia e le sue origini continuano a essere un mistero: alcuni scrittori di cronache sostengono che nacque in un'agiata famiglia di mercanti a Tunisi; altri che trascorse l'adolescenza come accattone ad Aleppo, afflitto da una voce straziante e dalla discutibile dote di una preveggenza poco affidabile; altri ancora, fautori di una tesi meno credibile, che era figlio di Solomon ben Avram, rabbino cieco di Merv. Al-Idrisi era diventato celebre come scriba, poi come illustratore e infine come visir di Haroun Ali Haroun nella città di Yazd, le cui strade labirintiche permettono una circolazione d'aria fresca anche sotto il sole a picco del deserto. Da Yazd si era spostato a Baghdad su richiesta del califfo, e lì aveva fondato le trentasei biblioteche di Baghdad, la cui fama si era diffusa in tutto il mondo civile, raggiungendo persino la cristianità. Armati di manoscritti, erano giunti imam, eruditi, musicisti, uomini di Dio e uomini di scienza (divina o meno) fin da Cordoba, Buchara e Mikkouni:
avevano ricevuto l'autorizzazione a copiare uno dei volumi delle biblioteche in cambio di quello che avevano portato. In tal modo, al-Idrisi aveva creato raccolte più ricche di quanto lo fossero quelle di Alessandria prima che la tragedia, su cui non ci dilungheremo, si abbattesse su quell'infelice città. Un consigliere senza scrupoli, invidioso della fama di al-Idrisi e della stima che il suo padrone nutriva per lo «scriba bastardo», aveva messo in giro disgustosi pettegolezzi sulla fede religiosa e sulle inclinazioni sessuali del bibliotecario, soprattutto verso il nipote preferito del califfo. Al-Idrisi era fuggito a Beirut, città dissoluta che aveva trovato pullulante di spie e insidie, così era salpato verso occidente, alla volta della Sicilia, il cui dotto monarca conosceva il suo trattato sui benefici enterici ed epidermici che si potevano ottenere masticando, ma non inghiottendo, determinati cardi selvatici. Lì al-Idrisi era stato assunto come geografo reale ed erborista: curava un immenso e variegato giardino nonché diversi frutteti, sotto le cui fronde il re e la regina passeggiavano spesso quando l'afa siciliana diveniva intollerabile. Ruggero convocava di frequente al-Idrisi per progetti cartografici sempre più vasti e ambiziosi. La sua prima mappa raffigurava ogni singolo filo, punto e ornamento sugli abiti della sovrana; la seconda mostrava la posizione di ogni erba, pianta, frutto, radice, albero e cespuglio del suo giardino. Aveva completato una serie di mappe inventate per il diletto del monarca (la Sala del leone a Ounanga, un museo degli scacchi subacqueo ad Atlantide, i giardini rocciosi di una setta di iniziati gnostici cazari tra i monti Khamantor), che in età moderna furono esposte al pubblico presso la Biblioteca Bodleiana di Oxford fino al 1972, quando una bibliotecaria miope e piuttosto bruttina, coinvolta in una rovente relazione con uno dei custodi più giovani e impaziente di recarsi al suo convegno amoroso pomeridiano, sbagliò ad archiviare la collezione; da allora nessuno le ha più viste. Al-Idrisi disegnò a memoria le piante di Yazd, Esfahan, Ahvaz, Damasco, Beirut e Gerusalemme. La sua mappa di Palermo è ancora appesa nell'ufficio del sindaco di quella città, e Ruggero donò le sue carte di Malta e Minorca rispettivamente a Teobaldo il Pio e Carlo l'Azzimato. Ruggero II convocò al-Idrisi quella mattina di marzo del 1154 con una risposta affermativa alla richiesta del geografo. Quest'ultimo avrebbe ricevuto il denaro, il permesso, una nave e un equipaggio per imbarcarsi
nella maggiore impresa cartografica della sua vita, e senza dubbio della storia siciliana: disegnare una mappa del mondo conosciuto. Naturalmente, avrebbe cominciato dall'Europa, e in particolare dalle sue regioni settentrionali; erano già state spedite missive a re Sweyn III di Danimarca per ottenere il suo favore e un salvacondotto. Non senza un pizzico di tristezza, Ruggero concesse ad al-Idrisi la libertà di restare lontano quanto avesse voluto; il geografo affidò al suo vassallo i giardini, la casa e i frutteti, raccomandandogli solo di mantenere sempre uniti i libri e le rarità della biblioteca. Alla regina, donò i suoi gioielli, «regali preziosi di un'esistenza di peregrinazioni, che avevo sperato di lasciare alle mie mogli e alle mie figlie. Ora so che non ne avrò mai alcuna e, se li vorrete accettare come mio ricordo, forse mi farete l'onore di lasciarli alle vostre figlie, alleviando così, insieme con il conforto e la presenza di Dio, le pene e i rimpianti di un vecchio solitario». A estate inoltrata, al-Idrisi fece visita a Sweyn, che era ansioso di incontrare un forestiero del Sud, eternamente abbronzato dal sole del deserto. Il cartografo non si fermò a lungo; scrisse a Ruggero che, «spostandosi verso nord, si passa naturalmente dalla civiltà alla barbarie; anzi, è ragionevole mettere in dubbio che la civiltà sia possibile nei climi settentrionali. Là dove deve spendere le sue energie soprattutto per difendersi dal freddo in inverno, da malattie e zanzare infernali in estate e da predoni miscredenti in ogni stagione, come può l'uomo pretendere di sviluppare le arti dell'anima e dell'intelletto (mi riferisco alla musica, allo studio, alla cucina e alla conversazione) che, per grazia di Dio, prevalgono presso la Vostra nobile corte, per cui provo una così intensa nostalgia?». Comunicò al sovrano che avrebbe abbandonato la Danimarca il prima possibile «giacché, se devo parlare con sincerità in questa sede (e voglia Dio che questo messaggio non cada in mani diverse dalle Vostre), gli uomini sono dediti soltanto alle risse, all'ebbrezza, a gare di forza bruta e a rozzi schiamazzi cui attribuiscono l'erroneo nome di canti. Grazie al provvido disegno divino, il giovane vescovo Meinhard si trova ora a corte. Salperà verso oriente dopo che le giornate avranno principiato ad accorciarsi e raffreddarsi e, per il Vostro buon nome e la meritatissima fama della Vostra splendida corte, ha acconsentito a offrirmi un passaggio nel suo convoglio fino a Lubecca, e da lì nelle regioni inesplorate che alcuni chiamano Livonia, alcuni Cardia, alcuni Letgallia e altri Astlanda. Ho appreso che tra le città dell'Astlanda figura anche Qlwri. È un minuscolo centro simile a un grande castello; se Dio vorrà, dovrei
giungervi precedendo la prima neve». L'Astlanda corrispondeva all'odierna Estonia, e Qlwri era una delle tante denominazioni dell'attuale Tallinn. Meinhard e il suo seguito non si spinsero oltre l'avamposto cristiano di Riga; al-Idrisi proseguì i suoi viaggi cartografici lungo la costa baltica finché la sua nave si incagliò sull'isola di Hiiumaa a causa di un fortunale. Racconta che, durante quell'inverno, «inorridimmo di fronte a ogni forma di indigenza e infelicità. Gli uomini mangiavano cani, muschi, corteccia, erba secca, carne di cavallo e talvolta i loro simili. I padri e le madri deponevano i bambini in barche, augurandosi che raggiungessero una terra più sicura altrove; ci imbattemmo in decine di fanciulli congelati sulle sponde dell'isola. Le mie facoltà non bastano a descrivere la grettezza che la fame e il freddo possono provocare». Il particolare più affascinante di queste parole non è il loro tono (Adamo di Brema e le Cronache di Novgorod riportano episodi altrettanto deprecabili), bensì la loro esistenza: raggiunsero infatti la corte di Ruggero nell'aprile del 1155. Come era riuscito al-Idrisi, che non si era mai avventurato più a nord della Sicilia, a superare un inverno capace, secondo le Cronache, di uccidere un abitante di Novgorod su tre? La primavera successiva, Canuto V, sovrano dei danesi, ricevette una lettera dal vescovo Meinhard. Questi gli riferiva che, viaggiando dalla corte di re Sweyn a Riga, aveva, «allo scopo di accrescere il numero di anime della Santa Chiesa e la gloria di Nostro Signore, trascorso molto tempo conversando con uno stregone nero, anch'egli diretto in quelle zone gelide e indomite, un affabile pagano gran conoscitore del mondo naturale e delle cose invisibili. Porta con sé una sacca il cui contenuto, dice, può dare a un uomo la salvezza eterna, oppure distruggerlo per sempre».
REPERTO 1:
un alambicco è la parte superiore di un apparecchio
utilizzato per la distillazione. Questo esemplare, realizzato in resistente vetro verde, è alto 36 centimetri e ha una circonferenza di 18 nel punto più largo della base. La sommità del recipiente, stretta e scanalata, presenta una brusca piegatura verso destra; gli alambicchi vengono posti sopra una storta per raccogliere e trasferire i vapori in un altro contenitore. L'interno reca un'incrostazione di sostanza grigia che sembra essere un miscuglio di ferro, piombo e antimonio, nonché una certa quantità di materia organica, tra cui ossa canine e umane. All'esterno, sul fondo, sono visibili alcune bruciature che si allungano per 5 centimetri verso l'alto. Nessun odore riconoscibile. DATA DI FABBRICAZIONE:
sconosciuta. Le stime spaziano dal 100 a.C. al
300 d.C. COSTRUTTORE:
sconosciuto. Considerata l'epoca di produzione, la fattura è ottima; la linea relativamente semplice maschera la fatica, l'abilità, l'accuratezza e l'intelligenza che generarono un simile recipiente. Egitto ellenistico. «Alambicco» viene dall'arabo al-inbïq, derivante dal greco ámbix, che significa «tazza» o «coppa». LUOGO
DI
PROVENIENZA:
ULTIMO PROPRIETARIO CONOSCIUTO:
Woldemar Löwendahl, governatore generale di Tallinn, di origini danesi ed estoni. L'alambicco fu dissotterrato durante la costruzione della cappella di Kassari sull'omonima isola nell'aprile del 1723 e trasferito nell'ufficio di Löwendahl nel giugno di quell'anno. Il governatore generale lo collocò sull'ultima mensola di una libreria vuota in un angolo del locale e non notò la scomparsa dell'oggetto, avvenuta due anni, sei mesi e diciassette giorni dopo. VALORE STIMATO:
sconosciuto. Simili antichità si vendono di rado sul mercato legale. Se portate alla luce durante uno scavo archeologico, passano di solito al museo dell'ente finanziatore. Se rinvenute per caso o da un privato cittadino, il riserbo garantisce prezzi più alti. Nel 1997 Joop van Eeghen, collezionista olandese e magnate della liquirizia, spese 70.000 dollari per un cucchiaio distillatorio forse appartenuto a
Ruggero Bacone. Nel 1999 un signore arabo - si mormora che lavorasse come agente per il governo iracheno - pagò 790.000 dollari a un barone italiano esiliato che era venuto in possesso di un manoscritto originale dell'opera di Abu 'l-Qasim Muhammad ibn Ahmad al-Iraqi, Il libro della conoscenza acquisita riguardo alla produzione dell'oro. Il mattino dopo l'acquisto fu trovato nella sua camera d'albergo senza il volume, la testa e tre dita della mano sinistra.
Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per compiere i miracoli della Cosa-Una.
Quando tornai in ufficio, Art era già rincasato, e si stava facendo buio. Se fossi partito per Wickenden a quell'ora, al mio arrivo avrei trovato una facoltà di storia sprangata e deserta. La giornata era finita. Avrei inserito nel computer i miei appunti, se ne avessi preso qualcuno. Così spensi le luci, chiusi la porta e rientrai nel mio appartamento vuoto vicino ai binari del treno. La cena consistette in due birre e un panino consumati guardando fuori della finestra. Subito dopo il trasloco avevo apprezzato quelle tranquille serate di provincia, anzi le avevo quasi narrate a me stesso. Tra la noia e il sentimentalismo monastico esiste tuttavia una linea sottile e soggetta allo scorrere del tempo. La stavo calpestando da un po', e a lungo andare avrei sconfinato nel lato oscuro, o quanto meno opaco. Alle dieci dormivo già. Quando giunsi in redazione il mattino successivo, Austell McFarquahar era già al lavoro. Avrei dovuto prevederlo: erano le dieci e mezzo, e Austell arrivava, senza mai sgarrare, alle dieci di ogni giorno feriale. Per tutta la mia permanenza al «Carrier» non si diede mai malato. Faceva le medesime vacanze tutti gli anni: Nuova Scozia per pescare e andare in barca a vela alla fine di luglio, e feste natalizie con la famiglia della moglie in Inghilterra. Rincasava per il pranzo e per quella che definiva «pausa di lettura» dalle undici e trenta alle due, quindi lasciava l'ufficio tra le sei e mezzo e le sette. La mattina, quando Austell varcava la soglia, Art diceva a chiunque fosse presente: «Austell McFarquahar... Puoi regolare l'orologio in base a quell'uomo». Per tutta risposta, l'altro teneva un orologio immaginario nella sinistra e lo caricava con la destra, sorridendo con puerile autocompiacimento e replicando: «Puntualissimo». Austell sfruttava la «pausa di lettura» per raccogliere materiale destinato alla sua rubrica scientifica, il suo unico incarico al giornale. Le aveva
cambiato nome così spesso (Facezie sulle sponde dell'Housatonic, Pillole arboree, Piante & Co., Soffi di natura) che Art aveva finito per eliminare la riga del titolo, decisione che aveva precipitato McFarquahar nella depressione per quasi cinque minuti. Non voleva mai essere pagato per i suoi articoli, e Art mi aveva ripetuto più volte che il «Carrier» doveva la sua esistenza alla generosità di Austell. Lui e McFarquahar erano stati compagni di scuola alle elementari e alle medie. Dopo la laurea Art aveva lavorato come redattore presso l'«Hartford Courant» ed era tornato a Lincoln solo dopo essere quasi andato in pensione. Nel frattempo Austell aveva frequentato Yale senza laurearsi e alla fine aveva fatto ritorno alla sua città, diventando un pasticcione a tempo pieno e la leggenda del posto. La sua famiglia risiedeva a Lincoln (nel Lincoln Common, ci teneva a specificare, pur confessando con vergogna che alcuni cugini avevano abitato nella Lincoln Station prima di trasferirsi a San Francisco) da oltre due secoli, e blaterava senza sosta della storia di Lincoln che aveva deciso di compilare. Più parlava dell'iniziativa, più questa si allungava: una cronaca comprendente ogni singolo episodio verificatosi dacché Lincoln aveva visto la luce, indagato con cura e rigorosamente raccontato nello stesso tempo occupato dal fatto originale. Avevo smesso di domandargli come procedesse il progetto dopo essermi sorbito una soporifera e interminabile spiegazione dei motivi per cui un'ordinanza del 1892 aveva proibito il consumo ma non la vendita delle gocce di marrubio. Scherzando, Art sosteneva di tenere sempre in tasca un paio di bombe fumogene per creare un diversivo quando restava in ufficio da solo con McFarquahar. Eravamo più o meno a metà del periodo che Art aveva soprannominato «le tribolazioni di san Austell», riferendosi in realtà alle tribolazioni di chiunque circondasse Austell. Tra il Ringraziamento e la partenza per l'Inghilterra, McFarquahar si faceva prendere da un entusiasmo spasmodico e logorroico per il viaggio imminente. L'obiettivo di ogni visita consisteva nel ricreare con la maggiore fedeltà possibile l'esperienza dell'anno prima. Dodici mesi tramutavano le aberrazioni in tradizioni; se un anno il pub in cui cenavano sempre il 27 dicembre era chiuso, l'anno seguente il nuovo pub entrava a far parte dell'itinerario collettivo e quello vecchio veniva cancellato. La sua euforia, che iniziava con un'ampollosità infantile - «Non c'è nulla come il Natale inglese, sapete, anche se quella parte del Paese non vede la neve da secoli, naturalmente. Comunque, la mamma (è così che chiamo la madre di Laura) prepara ogni anno un
banchetto squisito...» -, si dissolveva dopo diversi giorni in un'accozzaglia di accenni a petardi natalizi, tortine di frutta secca e oche arrosto sul buffet. Resta ancora da stabilire se questo dipendesse dalla crescente immedesimazione di Austell nella sua fantasticheria alla Bob Dylan oppure dalla graduale trasformazione delle sue chiacchiere in rumori di sottofondo per tutti gli altri. McFarquahar pareva una girandola umana: alto e magro, espressione di perpetua sorpresa, andatura lenta e vacillante e indomiti ciuffi di capelli rossi. Quella mattina sedeva davanti a una lunga finestra; quando aprii la porta, la massa informe della sua capigliatura si mise sull'attenti a causa della corrente d'aria, e lui girò verso di me lo scarno viso da spaventapasseri con i grandi occhiali tondi di tartaruga. «Ehi, giovane scribacchino! Mattinata corroborante, vero? Proprio corroborante. Le trote abbondano, la stagione della caccia è aperta, e i boschi pullulano di gallinacci. Spiegami con esattezza perché qualcuno dovrebbe desiderare di vivere in un posto diverso dal Connecticut occidentale.» Stavo per gettare al vento la prudenza e rispondergli, quando si voltò per aprire la finestra, inalare una lunga boccata ansimante di aria gelida e richiudere i vetri con veemenza. Quell'abitudine diventava via via più fastidiosa con l'avanzare dell'inverno. «Non sei del New England, vero?» Rispondere alle domande di Austell era come camminare tra enormi pile di libri traballanti: al minimo passo falso ti avrebbe sepolto sotto una valanga di parole. Optai per uno stile diretto e conciso, soprattutto perché mi aveva già posto quel quesito almeno una decina di volte. «No, sono nato a Brooklyn.» «Brooklyn, eh? La Grande Mela, i Dodgers e tutto il resto. Perché proprio lì?» «Mio padre lavorava a Manhattan e mia madre è cresciuta a Brooklyn. Anche se in un quartiere diverso.» «Ah, il lavoro. Certo. Suppongo che qui non ce ne sia altrettanto. Naturalmente, i tuoi verranno quaggiù a ogni occasione, o sbaglio? Per fuggire dallo smog e via discorrendo.» «Veramente, mio padre è tornato a Indianapolis, dove viveva prima di sposarsi. Non è mai venuto a trovarmi. Ma mia madre abita ancora a New York. Fa un salto ogni tanto.» «Bene. È magnifico. Allora non sei solo al mondo, giusto? Sono lieto di saperlo.» Appoggiandosi allo schienale della sedia, cominciò a pulirsi i denti con il tappo di una penna a sfera, frugandosi beato nell'orecchio con
la penna in questione. «Sai» continuò, sfilandola ed esaminandola «forse questa settimana scriverò delle differenze nella struttura della cappella tra i funghi Amanita letali e meno letali. Il nostro intrepido capo sostiene che abbiamo pubblicato qualcosa di simile in precedenza, ma ho controllato, e si dà il caso che abbia scritto dei vari tipi di tronchi su cui o vicino a cui è possibile trovare le Amanita. O almeno... A ogni modo, secondo la mia tesi, non vi è differenza nella struttura della cappella e, se vai a raccogliere funghi, devi avere con te un manuale affidabile oppure qualcuno che sappia il fatto suo. Vedi, ho pensato che sono poche le persone disposte ad acquistare un intero manuale sui funghi, perciò mi limiterò a illustrare le differenze. Potrei risparmiare a molti principianti un attacco di spiacevoli disturbi gastrici o peggio. Che cosa ne pensi?» «Sembra un'ottima idea, Austell» risposi nel tono più allegro possibile allontanandomi dalla sua scrivania. «Art è nel suo ufficio?» Sbirciai dietro l'angolo, ma la porta era chiusa. «Dovrebbe esserci. Dovrebbe esserci. Intrepido capo? Intrepido capo! Il suo tirapiedi la cerca!» Rise, e l'uscio si aprì. Art aveva un auricolare drappeggiato intorno al collo e teneva un walkman nella sinistra. Abbozzando un sorriso, agitò la mano verso Austell in segno di ringraziamento, quindi mi fece entrare. Chiuse la porta, sollevando il walkman. «Meccanismo di difesa antiAustell. Gli sono affezionato, sai, ma sta attraversando una delle sue fasi loquaci. E abbiamo un bersaglio in meno, perché Nancy non ci sarà per le prossime due settimane. Dobbiamo solo aspettare che passi. È un po' troppo presto anche per lui. Sta ancora parlando di quella come-diavolo-sichiama letale?» Annuii, e lui sorrise, scuotendo la testa ed estraendo un pacchetto di sigarette dal taschino della camicia. «Se non altro, sono sicuro che se faccio questo» teneva un fiammifero in una mano e una sigaretta nell'altra «non entra qui dentro. Immagino che i benefici per la mia salute mentale superino i danni ai polmoni.» Non replicai, ma, a quanto sembrava, non voleva neppure che replicassi, perché subito dopo mi domandò della casa di Pühapäev. Gli raccontai dei due piedipiatti che curiosavano qua e là e mi avevano sbattuto fuori. «I cugini Olafsson. Riesci a crederci? Il nome perfetto per due sbirri di provincia... Pare uscito direttamente da un film poliziesco. Sono affidabili da un unico punto di vista: tu denunci un crimine in corso, e i cugini
Olafsson arrivano con mezz'ora di ritardo. Come minimo. Poi, alla fine del mese, ti danno una multa per eccesso di velocità in Elias Road anche se non hai superato il limite. Non li conoscevi?» «Solo di vista» risposi. «Non sapevo neppure che si chiamassero Olafsson. Da quanto fanno i poliziotti qui?» «Erano qui quando sono tornato, circa cinque anni fa. Quando vivevo qui da bambino, il loro nonno era lo sceriffo della città, poi ha tramandato quella carica al loro padre, che, quando Lincoln è cresciuta, ha assunto il fratello come vice. E adesso eccoli lì. Si mormora che il nonno, arrivato con la prima ondata di agricoltori svedesi negli anni Venti, non sapesse lavorare la terra, così ha convinto il sindaco ad assumerlo come sceriffo. Puoi chiedere ad Austell; ti spiegherà tutto quanto. Naturalmente te lo sconsiglio, perché comincerebbe dal loro villaggio svedese d'origine.» Gli occhi gli si appannarono per un attimo mentre pensava alla storia nella versione di Austell: calvinisti del New England, generazioni che producevano generazioni, tutta onesta gente contadina. «Così» continuò «Allen, quello magro, ha ereditato il lavoro dal padre, che era lo sceriffo, non il vice. Era bravo nella sua professione. Un agente di provincia, in una città come questa... Che cos'hai da fare, in fondo? Quando le casse piangono, parcheggi l'auto in fondo a Station Hill e cominci a distribuire contravvenzioni. Tiri giù qualche gatto dagli alberi. Oppure quello è compito dei pompieri? Credo di sì. Comunque, Bert, il figlio del vice - quello grasso -, ha fatto il poliziotto a Hartford forse per cinque o dieci anni. Poi è ricomparso all'improvviso. Allen lo assume come suo vice, ma ti invito a osservare le loro personalità: Bert comanda a bacchetta quel poveretto. Stando ai pettegolezzi, era stato bocciato più volte all'esame per diventare sergente e aveva dei precedenti schifosi (alcolismo, percosse, ogni genere di cose disgustose), così è tornato qui. Voleva voltare pagina, immagino. Il problema è che per voltarla davvero avrebbe dovuto cambiare carattere, cosa che non ha fatto. È ancora un ubriacone, uno scansafatiche e un maleducato. Non mi meraviglierei se persuadesse Allen a rientrare nella casa del defunto per sgraffignare qualcosa.» «Allora perché non pubblicare un servizio su questo argomento?» proposi. «Corruzione in città, cattiva condotta della polizia: non sono queste le cose che dovrebbero far venire l'acquolina in bocca ai giornalisti?» Emettendo un suono a metà strada fra un sospiro e un grugnito, si
raddrizzò sulla sedia. «Sì. Sì, senza dubbio. Ma questa rivista, per fortuna o per sfortuna, non è la sede adatta. Hartford lo è. Waterbury, forse. Persino New Haven. Ma questo è un giornaletto locale. Matrimoni e partite di football. Balli studenteschi. Il nuovo negozio apre, il vecchio negozio chiude. E poi quasi tutti i nostri lettori scappano dalla metropoli per sottrarsi alle notizie sui piedipiatti comprati.» Tamburellò con le dita sulla scrivania, dispiaciuto e un po' imbarazzato per la conversazione. «Inoltre, scrivendo quell'articolo, ti garantirai ogni possibile infrazione di guida e parcheggio, più qualche altra di loro invenzione. Ma il problema è che nemmeno i miei amici di Hartford vorranno occuparsene, perché a chi cazzo gliene frega di Lincoln? Vuoi dedicarti al giornalismo investigativo?» Mi lanciò un'occhiata imperscrutabile, da cui non capii se volesse una risposta positiva o negativa. Assentii. Perché no? Non sarei mica stato condannato a fare solo quello per i sessant'anni successivi. «Se vuoi dedicarti al giornalismo investigativo, ti trovo un lavoro in una città più grande. Hartford, Stamford. New Haven, magari. Potrei persino procurarti qualcosa al "Record" di Boston, ma significherebbe chiedere troppo. Se decidi di abbracciare questa carriera, dimmelo. Sai, sei qui da sedici mesi, ed è stato fantastico averti con noi. Ma non puoi restare per sempre. O ti trasformi in Austell o un giorno ti arrampichi sul campanile con un kalashnikov e cominci a far fuori i nostri lettori a uno a uno. Non posso permettere che succeda. Gira il mondo, fai un po' di casino. Potresti farlo, sai.» Spense la sigaretta. «Fine della prima lezione.» Consultò l'orologio. «Nel frattempo, hai qualcosa da fare oggi? Qualcuno da chiamare riguardo a questo professore morto? Da qualche parte deve pur esserci qualcosa, qualcuno che lo conoscesse, giusto?» Annuii. «Be', potrei andare a Wickenden per vedere se qualcuno della facoltà di storia sa dirci qualcos'altro.» «Ottima idea. Non ti spiace? A cos'altro stai lavorando?» «No, non mi spiace. Questo caso mi incuriosisce. Avevo intenzione di scrivere il pezzo su Verrill, che vuole trasferire il suo negozio di giardinaggio al chiuso e allestire un reparto di frutta e miele. Ma può aspettare.» «Come sarebbe a dire, aspettare?» domandò, sgranando gli occhi con un'espressione di finta collera. «Non è una notizia qualsiasi, è un avvenimento sensazionale qui a Lincoln. Scherzi a parte, se segui questa faccenda, abbiamo abbastanza per riempire il prossimo numero?» «Credo di sì. Preparerò l'articolo su Verrill. Poi ci sono la lista di Natale
e quel servizio sul piano regolatore che abbiamo tenuto da parte la settimana scorsa. E non dimentichi che possiamo inserire le fotografie dello scorso dicembre. Molto commoventi. A ogni modo, tornerò nel pomeriggio.» Batté il palmo della mano sulla scrivania. «Magnifico. Vai e prospera, figliolo mio. Che la strada si allarghi ad accoglierti eccetera eccetera.» Di solito il viaggio da Lincoln a Wickenden richiedeva poco meno di due ore, traffico permettendo. Avevo percorso spesso quella strada subito dopo aver accettato il lavoro, quando trascorrevo tutti i week-end con Mia. Rispetto a me, Mia Park era indietro di due anni in termini di corsi universitari e avanti anni luce in termini di acume, tenacia ed equilibrio. Avevamo avuto una di quelle logoranti relazioni simili ad autovelox nascosti tra gli alberi, uno di quei rapporti costantemente nervosi in cui nessuno dei due vuole essere il primo a rilassarsi. Ci eravamo conosciuti poco prima che mi laureassi e, con poco sforzo da parte mia e parecchio da parte sua, avevamo continuato a frequentarci fino alla fine del successivo semestre autunnale (seguivamo ancora il fuso orario accademico: pessimo segno). Come era prevedibile, ci eravamo lasciati, seppur in modo amichevole, e avevamo diradato sempre più i contatti. Dopo che Mia aveva terminato gli studi, avevo immaginato che non l'avrei più sentita, ma avevo sospettato che prima o poi avrei letto di lei. Pur essendo curioso di sapere come stesse, pensai che questa volta non sarebbe valsa la pena di infliggermi tanto imbarazzo, soprattutto perché sarei dovuto rientrare a Lincoln nel pomeriggio. Forse sarei stato di diversa opinione se ci fosse stata la possibilità di una scopata nostalgica, ma il sesso pomeridiano infrasettimanale è una delle cose a cui rinunci quando trovi un impiego diurno. (E il sesso, avevo scoperto con crescente costernazione, è una delle cose a cui rinunci quando ti trasferisci in una minuscola città del New England dove l'età media dei giovani è molto più alta della tua.) Puntai a est tra i vecchi centri industriali del Connecticut, che ormai erano tetri, poverissimi e mezzo smantellati. Dall'interstatale in poi avrei potuto guidare a occhi chiusi ero andato avanti e indietro da New York settanta od ottanta volte. Conoscevo le distanze e i panorami come casa mia: il modo in cui il selciato diventa più ruvido appena entri nel Rhode Island; la foresta che, su entrambi i lati dell'autostrada, sembra un po' fuori luogo nello Stato dell'oceano; le stazioni di servizio, i depositi dei camion e gli anonimi palazzi di uffici a Staunton ed Eastwick, tutti risalenti agli
anni Settanta. Man mano che ti avvicini a Wickenden, torni indietro di cinquant'anni. Le vie principali sono gremite di decrepite case dai colori pastello, rivestite di assicelle e munite di balconi a ciascuno dei tre piani. Poi c'è la zona industriale in mattoni rossi, un tempo abbandonata e ora abbellita da gallerie d'arte e bar in cui, per cinque dollari e cinquanta, puoi gustare un caffè a denominazione di origine controllata in una larga tazza di ceramica realizzata a mano da un artista amico del proprietario; un centro pieno fino all'inverosimile di vecchi edifici sgangherati, nuovi edifici in vetro e acciaio che mandano un luccichio fastidioso come uno zio arricchito durante una riunione di famiglia e bizzarre strade che iniziano in un parcheggio e finiscono di fianco a un fabbricato: la soffitta della nonna americana. Lo adoravo, adoravo ogni minimo dettaglio, con la possessività che si riserva agli amori indifendibili (o semidifendibili): chiunque poteva spostarsi a New York, San Francisco o Los Angeles, sbarazzarsi del passato e unirsi al coro nativista, ma quel posto non offriva granché a parte la sua stranezza e il suo fascino decadente, e impediva a chi ne restava ammaliato di amare qualsiasi altro luogo. Lasciando l'interstatale, imboccai Firwell Street, proprio ai piedi del colle su cui sorgeva l'università. La sede della Wickenden si allargava per alcuni chilometri quadrati su un'altura che dominava il lato orientale dell'abitato: dal punto di vista geografico e culturale, era abbastanza isolata perché gli studenti timidi non dovessero mai avventurarsi nella vasta e malvagia città sottostante (che in realtà era ospitale e di medie dimensioni) e abbastanza vicina perché, quando i laureandi iniziavano a soffrire di claustrofobia, avessero un luogo in cui rifugiarsi. Risalii la collina superando il tribunale e il circolo universitario e, quando gli edifici istituzionali sostituirono quelli professionali, mi fermai dietro l'angolo della facoltà di storia. Smontando dall'auto, vidi venire nella mia direzione un uomo pelle e ossa con un enorme parka azzurro tutto sdrucito, intento a chiacchierare con un numero non meglio precisato di amici immaginari. Agitò un dito nell'aria e lo puntò verso di me come un direttore d'orchestra. «Ehi, fratello. Ehi, amico, quelle ballerine sono delle figlie di puttana. Quelle maledette troie lo spennano vivo, un uomo adulto.» Credo di averlo fissato, perché mi squadrò. «Chi cazzo sta parlando con te? Strooonzo» sibilò, togliendosi un cappello unto con la scritta «Fratelli Mendes - Stazione di servizio» e grattandosi la testa calva. «Meglio che risali in quel ridicolo mucchio di merda che chiami
macchina e te ne torni a St. Louis.» Fece per superarmi, quindi si arrestò, si voltò e, scuotendo la testa, allargò le braccia con i palmi all'insù. «E di' alla signorina Ethel che non deve più preoccuparsi di niente. Ti starò sempre appiccicato, amico.» Mi scervellavo ancora alla ricerca di possibili significati mentre salivo i gradini della facoltà. Sembrava che fossero trascorsi due anni e un'altra vita da quando gironzolavo da quelle parti nei panni di uno studente passabile ma poco motivato, che scriveva bei temi per abitudine e considerava il dottorato una via di fuga, ma che non era mai riuscito a nutrire sufficiente interesse per il rammendo di calzini nell'America coloniale o per le canne di fucile nella Russia zarista. Non era tanto una mancanza di curiosità quanto una mancanza di curiosità applicata: mi sarebbe piaciuto informarmi, per esempio, sulla produzione di gallette nel Vermont o sul modo in cui le innovazioni del principale armaiolo di Caterina la Grande avevano prefigurato il kalashnikov, ma non volevo fare granché con quelle conoscenze se non soppesarle, rigirarmele nella mente e immaginarle in tre dimensioni. Non avevo certo l'intenzione di dedicare decenni a studiare archivi e spulciare fonti secondarie per metterle in discussione. Ma la facoltà mi piaceva. Mi piacevano l'atmosfera, gli scalini consunti nel mezzo, l'odore onnipresente di libri, polvere, tabacco e caffè stantio. Mi piaceva anche il ronzio delle conversazioni: gli argomenti misteriosi e le voci sommesse. Quando avevo dodici anni, la scuola di catechismo aveva organizzato una gita in un monastero vicino a Oneonta; la Wickenden aveva quasi la medesima aria di austerità appartata. Il convento offriva tuttavia molti più comfort (caminetti accesi, morbidi divani, ambienti ben isolati, una cucina calda) della facoltà di storia, stipata in una casa ottocentesca stile Regina Anna che non vedeva una mano di vernice da decenni e i cui muri, tra le raffiche di vento del pieno inverno (e persino in quel periodo, ai primi di dicembre), erano una pura formalità. Quando bussai alla porta aperta, una segretaria seduta alla scrivania principale parlava del marito, del figlio o del cane disobbediente con una collega: «... e butta tutto sul pavimento, così gli dico: "Angelo, questa sera non esci finché non hai ripulito", allora lui risponde...». «Posso aiutarla?» mi domandò. «Spero di sì. Mi chiamo Paul e sono un giornalista del "Lincoln Carrier" di Lincoln, nel Connecticut. Volevo sapere se la facoltà ha una specie di biografia, o notizie biografiche di qualsiasi genere, sul professor
Pühapäev.» Allungò il collo per sbirciare il casellario postale. «Oggi Pühapäev non è ancora arrivato. Anzi, manca da un paio di giorni, direi. Può chiedere a lui quando viene oppure può lasciare un messaggio nella sua casella.» Mi guardai intorno, un po' confuso. Come era possibile che lì nessuno lo sapesse? Ma poi capii: Jaan viveva solo e a due ore di distanza, probabilmente aveva pochi amici intimi all'università e faceva orari variabili. Il tipo ideale per una sparizione, o per una fuga. Il tipo ideale per incarnare la nostra paura più spaventosa, quella che salva innumerevoli matrimoni e tiene insieme le famiglie con un invincibile misto di amore e terrore: il tipo ideale per morire solo, senza che nessuno se ne accorga o senta la sua mancanza. «Mi spiace doverglielo dire, ma il professor Pühapäev è morto ieri notte. Abitava nella mia città. Sto solo cercando qualche informazione per scrivere il necrologio.» Impallidì, abbassando lo sguardo. Le altre impiegate smisero di battere a macchina. Era come essere in un western in cui tutto si ferma quando il forestiero entra nel saloon. La receptionist si fece il segno della croce. «Morto? Come? Che cosa gli è successo?» «A essere sincero, non lo so ancora. Viveva solo, e l'hanno trovato soltanto ieri. Sono venuto qui a cercare un po' di materiale, qualcosa per l'annuncio funebre. Sa per caso quanti anni avesse?» «Parecchi, penso. C'era già quando sono arrivata, ma lavoro qui solo da qualche anno.» Assunsi la mia espressione da «idiota innocuo», che probabilmente non era troppo diversa da quella consueta. «Ha forse qualche modulo o documento che indichi da dove venisse, dove fosse nato o cose simili?» Sospirando, fece scoppiare la gomma da masticare con aria compassionevole. «Non saprei...» La sua voce si affievolì. «Mi sembra... ecco... scorretto mostrarglieli prima che si presenti la famiglia o qualcun altro. Capisce?» Annuii, ancora una volta con l'espressione più innocua possibile. Pensai che non valesse ancora la pena di litigare con lei. «Potrebbe parlare con il professor Crowley.» Si appoggiò allo schienale della sedia per controllare di nuovo il casellario postale. «Oggi c'è. Credo addirittura che sia già arrivato, ma non ne sono sicura. Provi nel suo ufficio. Suppongo che lui e il professor Pühapäev fossero amici. Comunque, i loro uffici sono... erano... uno accanto all'altro. Terzo piano, a destra, in fondo.» Assentì, abbozzando un sorriso. «Dica ai congiunti che
siamo davvero addolorati e che ci uniamo alle loro preghiere.» «Non ne dubiti. Sono sicuro che saranno contenti di saperlo.» Mi era parsa la cosa migliore da dire. Al terzo piano, quando bussai all'ultima porta del corridoio di destra, qualcuno rispose abbaiando un «Sì?» infastidito. Aprii e infilai dentro la testa. Un volto terreo mi lanciò un'occhiata torva. «L'orario di ricevimento è domani, dall'una alle tre. Ripassi oppure fissi un appuntamento.» «Signore, non sono uno studente, sono un giornalista e...» A quelle parole, l'uomo saltò su dalla scrivania come un cane intento a fare le feste e mi si avvicinò. «Ham Crowley. Piacere di conoscerla. Sono desolato per l'accoglienza sgarbata, ma pensavo fosse uno studente. Che cosa posso fare per lei?» La sua sollecitudine mi colse alla sprovvista. In realtà, avevo seguito uno dei suoi corsi («Il potere e la stampa sotto Krusciov e Kennedy»), ma l'aula era sempre affollatissima e non gli avevo mai parlato direttamente. Era famoso come tutor dispotico, lettore eclettico, mediatore imparziale nelle discussioni e alcolizzato. Verso la fine degli anni Ottanta aveva pubblicato un libro che, attraverso un'assidua autopromozione e una lettura selettiva, pretendeva di «aver previsto» la caduta dell'Unione Sovietica. Nei primi anni Novanta aveva sfruttato quattordici dei suoi quindici minuti di gloria (cene con senatori, talk show della domenica mattina, articoli su «Foreign Affairs» ed elzeviri sul «New York Times» e sul «Wall Street Journal») e aveva trascorso il resto del decennio a cercare l'ultimo. Ipotizzai che mi avrebbe buttato fuori appena avesse scoperto il motivo della mia visita. «Ecco, signore, sto scrivendo il necrologio di Jaan Pühapäev, che è morto ieri. La receptionist mi ha detto che forse avrebbe saputo raccontarmi qualcosa di lui.» Gonfiando le guance come una rana, tornò verso la scrivania dondolando e si lasciò cadere pesantemente sulla sedia. «Be', merda. Mi dispiace. Credevo fosse venuto per il mio libro. Finora pubblicato tra un assoluto, maledetto e clamoroso silenzio.» Invitandomi ad accomodarmi con un gesto della mano, mi porse un tomo estraendolo da una pila di circa venti volumi. Che fine ha fatto l'orso? di Hamilton S. Crowley. La copertina mostrava un orso bruno in bilico su un mappamondo, con una falce e un martello da una parte e una bandiera americana dall'altra. «Orrendo, vero?» domandò nauseato. «Qualche stupido grafico di quel
ciarlatano del mio editore ha pensato che fosse spiritoso. Detesto quando mi rovinano le copertine. E non ho scelto neppure il titolo. Dannati stronzi da quattro soldi.» Mi domandai se conoscesse l'uomo delle ballerine e li immaginai intenti a cementare la loro fratellanza con fiumi ininterrotti di volgarità. «Qual era il titolo originale?» «Le riforme di mercato e la gestione delle risorse estrattive nella Russia postsovietica. Fa schifo, vero?» Allargò la bocca in una smorfia, rivelando una delle peggiori dentature di tutto il New England: dissestata come una baraccopoli dopo un terremoto. «Ma mi racconti di Johnny» mi esortò, improntando il viso rassegnato a qualcosa di vagamente simile all'interessamento. «Chi, scusi?» «Pühapäev. Jaan. Quando è arrivato qui, lo chiamavo Johnny. Penso che lo considerasse spiritoso, ma con lui non si poteva mai dire.» «Che cosa intende?» «Non era proprio il tipo da esternare i suoi sentimenti. Molto sovietico, e molto estone. Sa, hanno un proverbio, gli estoni: "Che la tua faccia possa essere come il ghiaccio". Quella di Jaan lo era. Quasi indecifrabile, cazzo.» «Insegnava questo semestre?» «Probabile. Teneva gli stessi due corsi ogni anno, da Dio solo sa quanti anni.» Prese un opuscolo e lo sfogliò. «Primo semestre: storia baltica, 1200-1600. Secondo semestre: storia baltica, 1601-1991. Penso che abbia scritto le lezioni nel 1991, sull'aereo diretto qui, e che non abbia mai cambiato una virgola. So che aveva qualche studente, ma non molti. Non so se abbia mai fatto il relatore, e credo che abbia pubblicato solo di tanto in tanto in qualche oscura rivista baltica.» «Era forse impegnato in qualche ricerca? Mi sembra che avesse un carico di lavoro estremamente leggero...» «Be', era un uomo estremamente strambo.» Appoggiò le mani sulla scrivania, annuendo con decisione. «Invitavo i miei allievi a seguire i suoi corsi, ma ho smesso di farlo un paio di anni fa. Era inutile frequentarli, davvero. Sa, una ragazza mi ha raccontato un episodio buffo. Un giorno uno studente l'ha colto impreparato con un quesito, Jaan si è limitato a stringere il leggio con entrambe le mani e a fissare il vuoto per un pezzo. Poi è scappato. Se n'è andato nel bel mezzo della lezione. Ma si è presentato alla porta dello studente alle due del mattino, ancora con il suo abito di tweed addosso, per rispondere alla domanda.»
«Qual era la domanda?» «Questo non lo so. Ha importanza?» Il fascino della conversazione con un rappresentante della stampa iniziava senza dubbio ad affievolirsi. Crowley si aprì la camicia, grattandosi l'ascella per un po'. Lo considerai un segno del mio scarso valore giornalistico ai suoi occhi. «Sa dove o quando fosse nato?» «Il nome è estone, e sono quasi sicuro che lo fosse anche lui. Non conosco quella lingua... Un guazzabuglio ugro-finnico del tutto incomprensibile, quattordici casi, vocali impronunciabili eccetera. Ma so che parlava estone, lettone, lituano, russo, tedesco e talvolta persino un po' di inglese. Per quanto riguarda la sua data di nascita, non ne ho idea. È arrivato qui trasportato da un'ondata di entusiasmo; tutti volevano assumere ex studiosi sovietici. Gli standard sono peggiorati, capisce che cosa intendo? Non voglio dire che Johnny non fosse qualificato, ma non penso occorresse sapere granché di lui a parte il fatto che era un docente universitario estone, non era membro di nessun partito ed era un tipo bizzarro.» «La facoltà ha il suo CV?» «Forse. Ma dubito che avrebbe voluto mostrarlo a qualcuno. Buona vecchia paranoia sovietica. Può provare di sotto.» «Già fatto. Mi hanno mandato qui. Sarebbe così gentile da dirmi qualcosa, qualsiasi cosa, su di lui, in modo che possa scrivere qualche riga?» Scoccandomi un'occhiata spazientita, spostò alcuni fogli sul tavolo. «Senta, signor...» «Tomm.» «Signor Tomm?» «Sì. T-O-M-M. Tomm.» «Che razza di cognome è?» «È una lunga storia. Non voglio annoiarla raccontandogliela.» «Ben detto. Signor Tomm, io e Johnny eravamo colleghi, andavamo d'accordo, ma niente di più. Non eravamo amici per la pelle. Quando è arrivato negli Stati Uniti, io e mia moglie l'abbiamo invitato a qualche barbecue... Hip, hip urrà, il 4 luglio, sventoliamo la bandiera e stronzate simili. Sono uscito a bere qualcosa con lui di tanto in tanto, ma non negli ultimi anni. Ecco tutto. Ora, se vuole scusarmi, devo tornare alla merda che stavo facendo prima del suo arrivo.» Mi alzai e, apprestandomi a togliere il disturbo, gli domandai dove
andassero a bere. «Sa, è strano, ma lo ricordo ancora. Il Lupo solitario, una bettola non lontana da Westerly, poco dopo il confine, sulla strada verso la sua città. Credo che il paese si chiamasse Clougham. Dio solo sa che cosa mi abbia spinto a guidare fin laggiù. Lui beveva soltanto lì, e beveva soltanto quel disgustoso brandy fatto in casa. Un paio di quelli, e ti raccoglievano dal pavimento con il cucchiaino. Una volta mia moglie...» Agitò la mano abbozzando un sorriso, prima che il suo volto ridiventasse cereo e deluso. «Glielo racconterò in un'altra occasione. Comunque, il Lupo solitario: era quello il locale. Buona fortuna per le sue ricerche, signor Tomm. Chiuda la porta quando esce, se non le spiace.» Augurandogli in silenzio tutte le recensioni favorevoli, i politicanti servili e le interviste sulla C-SPAN che fosse riuscito a gestire, mi accinsi a rimettermi in viaggio verso Lincoln senza saperne più di quando fossi partito. Sul pianerottolo del secondo piano, udii dietro di me una raffinata voce familiare che parlava con un inimitabile accento familiare. «Sa, una volta avevo uno studente che le somigliava molto. Il mio studente era tuttavia un giovane ben educato, quasi timoroso, che non avrebbe mai trascurato il dovere di fare almeno una breve visita di cortesia a un vecchio amico se si fosse trovato nei paraggi.» Il professor Jadid era fermo sulla soglia del suo ufficio, un fascio di fogli in una mano, blazer a scacchi diagonali intorno al braccio, sopracciglia inarcate in segno di saluto e il caratteristico sorrisetto sotto i baffi a spazzolone e gli occhiali a mezzaluna. Era il primo docente universitario che avessi mai conosciuto (il tutor assegnatomi a caso, di cui avevo seguito un corso durante il primo anno), ma mi ero consultato con lui all'inizio di ogni semestre, e la sua immagine era la prima a prendere forma nella mia mente ogni volta che sentivo la parola «professore». Gli tesi la mano - non prima di essermi accertato di aver infilato la camicia nei pantaloni (l'avevo fatto) e di non indossare scarpe da tennis (le indossavo) -, e lui la strinse con calore. «Non ricordo l'ultima volta che uno studente è salito fin quassù. Di solito i miei colleghi incontrano i loro ammiratori nell'atrio, prima di concedersi un lungo pranzo ben irrorato di vino, che pagano grazie alla loro ultima pubblicazione accademica. Che cosa la porta qui oggi?» «Salve, professore.» Avrei voluto abbracciarlo, ma penso che l'avrebbe considerata una violazione della buona creanza. «Mi domandavo se fosse
da queste parti.» «Da queste parti? E dove dovrei essere? Lieto di vederla. Allora, che cosa la porta qui oggi?» «Il lavoro. Un articolo, che ci creda o no. Il professor Pühapäev è morto ieri notte. Abitava a Lincoln, e sto cercando le informazioni biografiche più elementari per scrivere il necrologio. Finora senza risultato.» Si rabbuiò, sospirando e abbassando lo sguardo mentre sfregava una scarpa contro lo stipite. «Mi rincresce molto. Davvero molto. Suppongo che... Be', ecco, ecco...» Ricomponendosi, si raddrizzò. «Sa qualcosa di lui? Dove fosse nato, quando, cose del genere?» «Oh, non molto. So che aveva un nome estone, e so che di quando in quando mi traduceva degli articoli da tutte e tre le lingue baltiche. Non sono nemmeno sicuro al cento per cento che fosse nato laggiù. A proposito, il suo nome, Jaan Pühapäev, significa "Johnny Domenica". Molto insolito, e probabilmente del tutto fittizio. Ho sempre creduto che avesse un nome di origine ebraica e che l'avesse modificato ai tempi dell'Unione Sovietica, per evitare, o almeno ridurre al minimo, la persecuzione religiosa. Questa mia supposizione è tuttavia soltanto questo: una supposizione, priva di fondamento concreto. So che era un ottimo linguista e che la facoltà lo reputava un esperto nel suo campo, forse perché esistono pochissimi storici baltici fuori della Germania, della Russia e degli stessi Paesi baltici. So anche che era un docente mediocre.» Tacque, strofinando di nuovo la punta della scarpa con espressione meditabonda. Aveva entrambe le calzature consumate sul davanti. Non avevo mai notato questa sua abitudine, ma forse era la prima volta che parlavamo restando in piedi. «Ho anche la sensazione che sentirò molto la sua mancanza, non perché fossimo particolarmente amici, ma perché aveva un'aria di mistero e perenne melanconia, qualità che ho sempre giudicato un antidoto infallibile - e la prego, signor Tomm, non la prenda come un'accusa a tutta la sua generazione -, un antidoto, dicevo, contro l'allegria da lanciatoti di frisbee così diffusa qui dentro. «In molti dei miei studenti scorgo la ferma convinzione che a loro non capiterà mai niente di male. Guerre, epidemie, detenzioni, pestaggi... tutte cose per cui firmare petizioni durante il tragitto dall'ufficio postale alla palestra. Essendo anch'io un immigrato, posso assicurarle che occorre più impegno di quanto si pensi per conservare un atteggiamento come quello di Jaan: in genere diventiamo più americani degli americani o ci
costruiamo un duro guscio di disprezzo per tutto quanto riguarda la nostra nuova patria. Jaan è sempre rimasto se stesso, e non è cosa da poco.» Consultai l'orologio. Jadid, delicato e pieno di tatto come sempre, consultò il suo e si richiuse la porta alle spalle. «Tutti i mercoledì pomeriggio di questo semestre tengo un seminario sulla Lega anseatica, e temo di essere in ritardo. Deve scappare, oppure si lascerà persuadere a fare una passeggiata di novanta minuti nella sua vecchia università e poi bere qualcosa con me al Fitzgerald?» Era valsa la pena di andare fin lì solo per quella proposta (avevo l'impressione di aver appena superato una sorta di prova), anche se sarei stato costretto a rifiutarla. Ci avviammo insieme verso l'atrio. «Sono desolato, ma devo tornare in ufficio oggi pomeriggio. Un viaggio di due ore.» Strinse le labbra, chiuse gli occhi, scrollò le spalle e inclinò la testa prima da una parte e poi dall'altra: una pantomima della rassegnazione stile Groucho Marx. «Ah, d'accordo. Un vecchio è una cosa ridicola. Se ha in programma di tornare, sarò felice di offrirle una birra. E se non ha in programma di tornare, aggiungerei un pranzo all'invito per darle un pretesto in più. Mi fa sempre piacere ricevere notizie dal mondo esterno.» «Volentieri. Magari tra qualche giorno, dopo che avrò finito il necrologio?... Quando è più comodo per lei, davvero.» «Perché non facciamo sabato? Nessuno dei due dovrà lavorare, spero. Prenoto un tavolo al Blue Point con una finestra rivolta a ovest, e potremo concludere il pasto come fanno le persone civili in inverno: sorseggiando un brandy e contemplando il tramonto.» Accettai subito, e lui mi tese di nuovo la mano. «A sabato, allora. E mi tenga aggiornato su Jaan. Sono molto curioso di sapere che cosa apprenderà, e come lo apprenderà.» Appena uscimmo, fummo investiti dal vento di Wickenden: avevo scordato che il lato orientale della città generava le sue stesse raffiche. Trattenendo i fogli con una mano, Jadid mi salutò agitando le dita dell'altra e si diresse (testa bassa, lunghe falcate, andatura spedita) verso gli edifici dove si trovavano le aule. Dopo qualche passo, si voltò e tornò verso di me. «Sa, signor Tomm, odio spettegolare sui miei colleghi, ma Jaan era un uomo molto eccentrico. Riservato fino all'ossessione, quasi paranoico. Desidero raccontarle una cosa che forse non riuscirebbe a scoprire altrimenti, ma deve farmi una promessa.» «Certo.»
«Perfetto. Innanzi tutto, deve giurarmi di non usare queste informazioni con intenti diffamatori. Se le servono per scrivere un necrologio più completo, va bene, ma deve promettermi che non le riporterà tanto per aggiungere un po' di pepe. Mi dà la sua parola?» «Sì.» «Bene. Talvolta i rapporti di Jaan con le autorità locali sono stati più tesi di quanto dovrebbero essere quelli di un docente inamovibile. Credo che l'abbiano arrestato, anche se non penso che sia finito in carcere.» «Davvero? Per che cosa?» Quando aprii il mio bloc-notes, una smorfia attraversò il viso di Jadid, come se per lui la sconvenienza fosse un pensiero troppo doloroso. «Ecco, come ho detto, era un uomo riservato e paranoico, e aveva anche un'indole piuttosto violenta. A quanto pare, si portava sempre dietro una piccola pistola.» Gli sfuggì una mesta risatina imbarazzata. Inarcai le sopracciglia: un professore armato? «Abbiamo scoperto questo dettaglio sorprendente quando ha sparato dalla finestra del suo ufficio a un gatto randagio sul cornicione dall'altra parte del cortile. Immagino che abbia visto un'ombra e l'abbia scambiata per un malintenzionato» proseguì Jadid. «Ricorda quando è successo?» «Oh, qualche anno fa, direi. Con molta probabilità quando lei studiava ancora qui.» «Sul serio? Non rammento di averne sentito parlare.» «Lo credo bene. La facoltà e l'università si sono date un gran daffare per insabbiare la faccenda.» «Perché?» «Perché?» ripeté con garbata ironia. «Un docente munito di rivoltella in un'università di questo calibro, in questo Stato? Sarebbe scoppiato uno scandalo.» «Perché non l'hanno licenziato?» «Era inamovibile. Avremmo dovuto fornire una spiegazione, tenere un'udienza ufficiale, e abbiamo preferito evitarlo. Gli abbiamo proibito di rimettere piede nella facoltà con un'arma per qualsiasi motivo al mondo. Ha acconsentito con riluttanza, anche se, inutile dirlo, nessuno l'avrebbe perquisito all'ingresso.» «Ed è successo ancora?» «A essere sincero, non lo so. Non mi è più giunta nessuna voce, ma allora pochissimi membri del corpo docenti erano al corrente del primo
episodio. Non era proprio il caso di divulgare la notizia. Ma se desidera informazioni precise, può telefonare a mio nipote Joseph, che lavora nella polizia di Wickenden.» «Ha un nipote poliziotto?» gli domandai, incredulo. Rise. «Sì, certo. Anzi, è il mio preferito tra sette maschi, cui si aggiungono due femmine. Pensa forse che tutti i Jadid uomini ricevano una giacca sportiva con le toppe sui gomiti appena usciti dal ventre materno? No, io sono l'unico, e... comunque, sono davvero in ritardo. Potremo discutere delle nostre famiglie a pranzo. Ma contatti Joseph se ritiene che possa esserle utile. Non riesce simpatico a tutti, sa, ma è molto intelligente e, se gli dice che sono stato io a suggerirle di chiamarlo, dovrebbe essere disposto ad aiutarla.» «Grazie. Solo per curiosità, sa se il professor Pühapäev avesse qualche motivo per essere paranoico?» «Una delle eredità più tenaci dell'Unione Sovietica, signor Tomm, è la diffidenza, verso tutto e verso tutti. Naturalmente, la paranoia come psicosi non esclude la possibilità di ragioni effettive e concrete per essere paranoici. Nel caso di Jaan non azzarderei un'ipotesi in un senso né nell'altro. Era un tipo misterioso. A ogni modo, non vedo l'ora di riparlarne sabato.»
La torre
Se definiamo la torre il luogo in cui si verifica la trasformazione, la nostra non è un'affermazione limitativa, bensì amplificativa: si riferisce al recipiente stesso, al secondo recipiente in cui il primo è sigillato, al laboratorio, all'edificio del laboratorio, alla città dell'edificio, alla contea della città e così via. Un metaforista abile e introspettivo potrebbe puntare il cannocchiale verso l'interno anziché verso l'esterno, considerando se stesso il supremo recipiente della trasformazione, capace di tramutare suoni e visioni in pensieri e via discorrendo. Faremmo meglio a lasciare questo approccio a signore e romanzieri. Clarke Chumbley, Troppo poco, troppo tardi: le tragiche peregrinazioni di un alchimista vittoriano
Se il giudice più scrupoloso del tempo è l'orologio, il più sensibile è senz'altro il ladro. Omar Iblis era il ladro più abile e, nel 1154 (l'anno in cui inizia questa storia), meno noto della Sicilia. Faceva sempre in modo di passare inosservato, indossando abiti poco appariscenti, portando barba e capelli tagliati né alla moda né fuori moda, camminando né troppo lontano né troppo vicino agli altri, né troppo in fretta né troppo piano, e non attirando mai l'attenzione sulla cosa che desiderava di più. Aveva imparato a concentrarsi più sulla visione periferica che su quella centrale. La notte, allenava la memoria: raccoglieva una manciata di sassi e una di fagioli secchi, allungava le braccia davanti a sé, lasciava cadere sassi e fagioli, li fissava per un po', preparava la cena e, dopo aver mangiato, disegnava le figure formate dagli oggetti caduti. Prima di coricarsi, allenava il corpo, trascorrendo ore a muovere un unico muscolo al centro della mano, controllando il battito cardiaco e regolando la respirazione secondo il frinire delle cicale. Era passato dal furto notturno di frutta negli orti al furto di animali nei recinti al furto di ninnoli nelle botteghe al furto di denaro nelle stesse botteghe. Alla fine era diventato un ottimo scassinatore, perché riusciva
sempre a capire (dall'espressione impaziente, dalla foggia degli abiti, dalla quantità di bagagli) quando gli occupanti di un'abitazione erano in partenza per un lungo viaggio. Solo allora si introduceva nell'edificio, ne esaminava il contenuto con calma e prendeva quel che voleva, ma solo a condizione di poterlo fare senza provocare scalpore o trambusto. Non derubava mai chiese, sinagoghe o moschee né preti, rabbini o imam; pur non assistendo alle funzioni religiose, preferiva evitare di attirarsi le antipatie di Dio o dei Suoi rappresentanti terreni. Re Ruggero II tendeva a garantire la medesima protezione a tutti i servi di Dio, e le sue guardie conoscevano molti metodi atroci per punire i criminali. Un pomeriggio, Omar superò un giovane novizio, appena tonsurato e ancora impacciato nel saio, e gli domandò che giorno fosse. «Oggi è la festa di san Teodoro di Sykeon» rispose l'altro, tendendo un braccio stretto in un anello di ferro a mo' di dimostrazione. «Già. E ditemi, se lo sapete, di chi è quella villa sulla collina, circondata da giardini così lussureggianti?» «Il nostro abate ha messo gli occhi su quella costruzione. Ma il proprietario era un uomo assai strano che non visitava mai la casa di Dio e accendeva fuochi dallo strano odore a ogni ora della notte. Alcuni dicono che era uno stregone, ma ha sempre goduto del favore regale. Non conosco il suo nome.» «Parlate di lui al passato. È forse morto?» «No, è salpato ieri. L'abate sostiene che Sua Santità re Ruggero II trasformerà la dimora in un secondo palazzo, lontano dalla confusione di Palermo. Tuttavia, le sue guardie non giungeranno qui prima di domani. L'edificio resterà incustodito fino ad allora, con l'ingresso sbarrato per ordine di Sua Santità re Ruggero.» «Sul serio? Però. Ebbene, grazie per la conversazione e per la vostra affabilità, fratello.» «Vai con Dio, fratello.» Voltandosi, il monaco inciampò nella tonaca, fece due giravolte, si raddrizzò e proseguì spedito per la sua strada. Omar soppesò le varie possibilità: da una parte, una dimora abbandonata, all'apparenza lussuosa, posseduta prima da un amico di Ruggero e ora dallo stesso Ruggero, senza dubbio ben arredata. Dall'altra, non aveva la certezza che fosse abbandonata e, se l'avessero sorpreso nell'abitazione di un amico del re (o peggio, del re in persona), sarebbe stato come minimo condannato a morte. Alla fine stabilì che non ci sarebbe stato niente di male nel dare un'occhiata e, se qualcuno l'avesse
fermato, avrebbe dichiarato di essere un bracciante vagabondo in cerca di lavoro nei frutteti e nei giardini. Assolutamente nulla di male. Si tenne a lato del sentiero, sotto gli alberi ma non troppo sotto, camminando con passo deciso ma non troppo veloce, con andatura disinvolta ma non troppo baldanzosa. Dopo aver girato intorno alla costruzione, vi si avvicinò tra aranci, limoni e mandorli, fermandosi per infilarsi qualche frutto in una delle tasche che aveva cucito all'interno della tunica. Si chinò sotto la finestra e rimase in ascolto. Una vespa gli si posò sul labbro e gli zampettò sulla faccia fino all'orecchio. Una seconda vespa si aggiunse sul naso, poi una terza sulla palpebra sinistra e una quarta sulla destra. Le cosce e le ginocchia gli tremarono mentre restava accovacciato, perfettamente immobile, e le antenne degli insetti gli fecero venire voglia di starnutire. Le vespe, grandi ciascuna quanto il mignolo di un uomo, avanzavano come un esercito, dirigendosi verso un punto ben preciso e arrestandosi, come se attendessero istruzioni. Quindi, nello stesso ordine in cui erano arrivate, volarono via, e Omar strisciò davanti all'edificio e si intrufolò dentro richiudendosi l'uscio alle spalle. Il pavimento dell'ingresso era di marmo; una riga bianca nel mezzo divideva il locale in due zone uguali: un motivo a scacchi bianchi e neri su ciascun lato, gradinate che si dipartivano da entrambi gli angoli convergendo in un'unica scala a pioli, due porte da ambo le parti e, tra le porte, una mensola su cui spiccavano due identici vasi di vetro azzurro, ognuno con una rosa candida che iniziava ad avvizzire. Omar non aveva mai messo piede in una dimora tanto sontuosa. Superando la riga verso sinistra, aprì la porta più vicina: si affacciava su una parete stuccata. Anche quella più lontana dava su una parete, questa volta decorata da una bestia rossa con una lunga coda biforcuta, file di denti aguzzi e fiamme che le uscivano dalla bocca. Dirigendosi a destra, spalancò la porta più distante dall'entrata e scorse un corridoio buio che si piegava quasi subito in una brusca curva. Varcò la soglia senza chiudere l'uscio. Come tutti i ladri siciliani, portava sempre con sé una manciata di ceci secchi da usare come segnavia o pasto di fortuna, e li lasciò cadere lungo il percorso. Il tragitto zigzagava e serpeggiava, ma Omar lo seguiva da meno di un minuto, quando giunse davanti a un'altra porta. Aprendola, constatò che riconduceva nell'ingresso: era l'unica che non aveva ancora provato. Confuso, frustrato, le speranze di un ricco bottino ormai affievolite, salì la gradinata che si tramutava in scala a pioli; quando quest'ultima si interruppe davanti a una botola, la spinse e continuò ad arrampicarsi.
Sbucò in una buia stanza di pietra, lunga e bassa, con tre forni collegati a tre camini. Lungo una parete vi erano più libri di quanti ne avesse mai visti tutti insieme, anche più di quanti ne possedesse suo nonno, Maulvi Azzam. Di fronte vi erano scaffali che contenevano recipienti di ogni forma, colore e dimensione. Omar li passò in rassegna, sollevando prima una larga ciotola di pietra e poi un'alta coppa di rame, quando udì il cigolio della porta al piano di sotto. Sbirciando attraverso la botola, vide due uomini, armati di spade lunghe e corte, con lo stemma reale sugli scudi. Scostandosi in fretta e senza far rumore, Omar perlustrò il locale alla ricerca di qualcosa di prezioso da portare via. Ora non pensava più alla refurtiva, ma alla fuga (contrattò in silenzio con il Dio che non andava mai a trovare, promettendogli che d'ora in poi avrebbe pascolato le pecore e pregato, se solo, se solo, se solo...) e a un unico ninnolo da mostrare ai figli e agli amici, vantandosi di averlo rubato al re proprio sotto il naso. In un angolo giaceva un sacco informe. Chinandosi per raccoglierlo, Omar notò una piccola cassa di legno incastrata nella nicchia sotto uno dei forni. La alzò e la scosse: produsse un rumore metallico; era chiusa a chiave e abbastanza leggera. Prese in considerazione l'idea di infilarla nel sacco, ma ci entrava a malapena, e sarebbe stata scomoda da trasportare ad andatura sostenuta. Agguantò invece un pesante recipiente di pietra e lo abbatté con tutta la sua forza sul lucchetto, che si ruppe con meno rumore del previsto. Vuotò il contenuto nel sacco, che appiattì in modo da poterselo legare bene intorno alla vita, e spiò di nuovo attraverso la botola. Intravide due guardie, sedute ciascuna su una gradinata, così immobili che non riuscì a capire se dormissero. Erano entrambe sul terzo scalino, ed entrambe si tenevano la testa tra le mani nella medesima posizione, come se facessero parte dell'arredamento della stanza. Pensò di aspettare lassù, ma a parte i ceci non aveva nulla da mangiare, il sole stava per tramontare, e lui sapeva che, se i soldati avessero occupato la casa in nome del re, prima o poi avrebbero dovuto perlustrare il piano di sopra. Socchiuse la botola con delicatezza e scese il più silenziosamente possibile. Nel punto in cui la scala si divideva nelle due gradinate, si fermò (le sentinelle non si erano accorte di nulla) e, afferrato l'ultimo piolo, si lanciò in avanti con tutta l'energia di cui disponeva, quindi lasciò la presa, cadendo in piedi al centro dell'ingresso. Le guardie balzarono su all'unisono, ma Omar infilò la porta e quindi il sentiero, correndo a gambe levate. «Ti abbiamo visto!» gli urlò uno dei due. «Noi, gli uomini del re, ti abbiamo visto, ladro, e questa sarà la tua rovina!»
Quella notte dormì in un boschetto e, destandosi, scoprì che la bocca della fanciulla dalla pelle ambrata del suo sogno era in realtà il muso caldo e umido di un porcospino curioso. Procedendo rapido e senza fermarsi neppure per mangiare, raggiunse Palermo prima del crepuscolo. Conosceva tetti e vicoli meglio di chiunque altro, e camminò inosservato fino a una rozza casupola proprio in riva al mare, dove l'odore di marcio e salsedine si mescolava al profumo del tabacco alla mela e dei pesci arrostiti su rami di rosmarino che usciva dalla finestra. Non aveva ancora messo dentro la testa, quando una voce tonante gli chiese di dichiarare nome e professione e specificare se volesse essere annegato, impalato, scorticato o arso vivo. «Impaurisci chi vive nella serenità, zio. Io ho già avuto abbastanza spaventi negli ultimi due giorni.» Gli rispose una risata abbastanza fragorosa da gonfiare le vele di gabbia di una nave. «Caro Omar dalla mano lesta! Entra, accomodati; accomodati, entra. Ti va di cenare e tenere compagnia a un vecchio?» Varcando la soglia, Omar vide zio Faisal tra la penombra e la luce di una candela. Le sue dimensioni parevano aumentare di pari passo con quelle della città. Più che corpulento, era massiccio e imponente; la pelle bruna, la postura un po' goffa e la riluttanza a muoversi a meno che non fosse strettamente necessario lo facevano sembrare pietrificato. Una cicatrice che aveva la forma della lettera araba fā' gli correva dal sopracciglio destro fin quasi alla calotta della testa calva, e una barba grande quanto un nido d'aquila gli scendeva dal naso alla pancia. Gli occhi erano vacui, lattiginosi. Omar aveva imparato il mestiere da Faisal prima che questi venisse sorpreso nella casa del fattore di un piccolo duca e punito con una spada incandescente sugli occhi. Ora Faisal si limitava a dirigere la maggior parte della criminalità palermitana dal suo tugurio accanto al porto; pur non scorgendo nessun altro nella casupola e nelle vicinanze, Omar sapeva che lo zio era sorvegliato quanto il re. L'omone fece vibrare i polpastrelli in un incoerente gesto infantile, e un tizio alto, magro e armato si materializzò con un vassoio di pane, datteri, mandorle e formaggio, che depositò davanti a Omar senza degnare l'ospite nemmeno di un'occhiata. Omar mangiò con rumorosa voracità, senza neppure offrire qualcosa a Faisal, che teneva le orbite vuote fisse sul nipote, come se ci vedesse. «Perché non mi spieghi che cosa è successo, ragazzo?»
«Mi hanno visto. Le guardie del re mi hanno visto rubare nella villa di un amico del sovrano, e devo lasciare subito l'isola. Dove andrò, che cosa farò, come partirò non ha nessuna importanza, ma se mi trovano...» Piagnucolò al pensiero di quanto sarebbe potuto accadergli. «Nessun decreto sarà mai efficace quanto il dolore fisico» commentò lo zio con aria meditabonda. «Che cosa stavi rubando, e dove ti hanno visto?» «Non ho preso granché, nulla di valore» rispose Omar in tono concitato. Faisal agitò la mano su e giù: calma. «Ho rubato questi gingilli» proseguì suo nipote, allentando il sacco «da una dimora su un colle, a circa due giorni di rapido cammino da qui.» L'altro vi infilò dentro la mano, tastandone il contenuto. Dopo averne estratto un oggetto dietro l'altro (un flauto d'oro, una moneta dipinta, una corda annodata e attaccata a una tavoletta di rame), ripose tutto all'interno. Chiuse il sacco e lo rese a Omar, quindi sospirò. «Questa casa aveva frutteti e giardini?» «Sì, entrambi.» «Un lato dell'ingresso era identico all'altro? Hai preso questa roba da una stanza al piano superiore?» «Sì, zio, ma come fai a...» Faisal batté sul tavolo un pugno enorme, grande quanto un porcellino. «Idiota! Imbecille! Sciagura del mio sangue! Se solo riuscissi a restituire questi oggetti... Ma non puoi. Non importa.» Sospirò ancora, passandosi una mano sulla pelata e un dito lungo la cicatrice. «Mio fratello, tuo padre, è morto. Le mie mogli sono sterili e mi detestano. Non conosco i miei figli. Sei il mio unico parente ancora in vita. Ti metterò su una nave e ti darò un salvacondotto. Ravvediti oppure vai a comportarti da stupido altrove, ma non voglio sentire la notizia della tua morte quaggiù.» «Come fuggirò? E di chi è quella villa?» frignò Omar. Faisal batté le mani due volte, ed entrò ancora l'uomo magro. Confabularono tra loro, quindi il servitore si ritirò. «Quanto al come, partirai con un mercante genovese che salpa per Sudak alle prime luci dell'alba. Sai dov'è Sudak?» Omar scosse il capo. «Ignorante. Io studio ogni nuova mappa, e non riesco nemmeno a vederle. Il mondo si sta allargando, nipote, forse si sta allargando abbastanza da nascondere persino uno scemo sconsiderato come te. Quanto all'altra tua domanda, hai rubato ad al-Idrisi, geografo del re e
molto altro. Che tu sia scappato dalla sua dimora senza essere trucidato dalle guardie non mi meraviglia; che tu sia scappato senza che ti capiti qualcosa di molto più orribile... be', lo scopriremo più avanti. Il genovese mi deve dei favori per averlo messo in contatto con Assaf Qidri e le sue figlie. Ma non è un uomo onesto, e prevedo che dovrai separarti anche da una parte del tuo tesoro.» Dalla finestra giunse un fischio ritmico e sommesso. Con notevole sforzo, Faisal si alzò, si posò una mano sul cuore e si inchinò. «Vai, adesso. Segui Asif in silenzio fino alla nave e non voltarti mai indietro. Vai e abbi cura di te. Sarà quel che Dio vorrà. Che non senta mai più il tuo nome.» A bordo, Omar obbedì a tutti gli ordini del mercante Silvio (cucinare, issare le vele, pulire la cambusa), e dopo un mese avvistarono la terraferma. Silvio chiamò Omar nella sua cabina. «Quella laggiù è Sudak. La tua nuova patria. Una volta arrivato, desideri lavorare o rubare?» «Lavorare. Temo che il mio istinto per il furto mi abbia abbandonato.» «Ottimo. Non mi aspettavo risposta meno intelligente, benché non sia sincera. Ora, ho trovato questo sacco nella tua cabina. È questo che ti ha cacciato nei guai in Sicilia, vero?» Omar annuì. «Benissimo. Ti alleggerirò di questo fardello.» Omar fece per protestare, ma l'altro portò la mano alla spada. «Non sono del tutto senza cuore, però. Puoi scegliere un oggetto tra questi (ne conto quattordici qui dentro) come ricordo della tua vita precedente.» Porse il sacco aperto a Omar, che vi infilò le dita alla cieca, affrettandosi a ficcarsi nella tasca della tunica quel che pescò. «Bene. Il dovuto rispetto per il caso, il fato, la sorte, la volontà di Dio o comunque desideri chiamarlo. Ora, scendi appena approdiamo. Sei un giovanotto robusto e non avrai difficoltà a trovare lavoro al porto. Avventurati nell'entroterra solo quando sarai stanco di vivere: l'Orda d'oro e i Polovtsy combattono per il controllo dell'isola e, quando uno dei due diverrà abbastanza forte da annientare l'altro, anche noi genovesi dovremo andarcene. Farai tuttavia un favore a te stesso se resterai il più a lungo possibile tra noi gente civile. Adesso raccogli la tua roba e sbarca con il resto dell'equipaggio. Se mi importunerai di nuovo, se mai affermerai di conoscermi o accennerai anche solo al fatto di aver parlato con me, ti disosserò e scorticherò come un piccione.» Senza farselo ripetere due volte, Omar si diresse verso la prua. Quando toccarono terra, saltò quasi giù dalla nave. Un uomo trasformato, che non
aveva nulla in tasca a parte un sasso inciso di dubbio valore, trasse un profondo sospiro di sollievo per la prima volta da quando era partito dalla Sicilia, e nella luce morente si avviò a passi malfermi lungo la passerella di legno. Nonostante i timori e le preoccupazioni iniziali, Omar constatò che Sudak era una città adatta a lui: non avanzata e cosmopolita quanto Palermo, ma, come quasi tutti i porti di mare, brulicante di intrighi, sanguemisti e di tutti i piaceri che il denaro poteva comprare. Vi trascorse diverse estati senza mai riprendere a fare il ladro. Grazie alla sua conoscenza dell'arabo, del latino e del siciliano volgare era particolarmente abile come mediatore, una professione che, oltre a sfamarlo e vestirlo, gli consentì di risparmiare abbastanza da acquistare una moglie e un piccolo appezzamento tra le montagne. Quando si ritirò da Sudak, giurò che non avrebbe mai più posato gli occhi sul mare; piantò viti e aranci e divenne un vinaio piuttosto famoso nella regione. Si diffuse la voce che i suoi distillati donassero una straordinaria longevità a chi li beveva, perché Omar sopravvisse non solo alla moglie, ma anche a tutti e sette i suoi figli, spegnendosi a quella che alcuni giudicarono un'età innaturale: sul letto di morte, riferì al nipote più grande (un abate già avanti negli anni e noto per la sua inflessibilità) di aver abitato a Sudak per oltre un secolo. Il giorno del suo trapasso, nell'ora silenziosa tra il canto dei grilli e il canto degli uccelli, fece appello alle sue ultime energie per alzarsi dal letto in cui giaceva e trascinarsi fino a un punto arido e isolato tra la casa e i vigneti. Lì scavò una piccola buca e, con una serie di riti e rituali, vi sotterrò l'unico oggetto che avesse portato con sé dalla Sicilia, avvolgendolo in un panno di cotone immacolato, come se stesse finalmente seppellendo il suo io più giovane. Allo spuntar del sole, il servitore che andò a chiamarlo per le preghiere lo trovò freddo e pallido, con le lunghe unghie sporche di terriccio. Quanto al capitano Silvio Freschi, divenne celebre non solo come il navigatore più coraggioso e intrepido proveniente da una nazione di navigatori coraggiosi e intrepidi, ma anche come il mercante più agiato in un Paese di mercanti agiati. Creò insediamenti commerciali genovesi a Qingdao, Kwangju e Fukuoka. Si dice che prese moglie ad Axum, dove passò lunghi mesi a conversare con il monaco che sorvegliava l'Arca dell'Alleanza. Le rare volte in cui tornò a Genova furono sempre occasioni
di festa e meraviglia, perché arrivava con la stiva zeppa di noci, semi, spezie, frutta, libri, tessuti e strumenti musicali. Viaggiava sempre con il medesimo equipaggio e, quando uno degli uomini moriva, smetteva di lavorare o si stabiliva in una bella città, Silvio non lo sostituiva mai, dichiarando che sarebbe andato in pensione il giorno in cui fosse rimasto con una ciurma ridotta all'osso. Quando giunse quel momento, sbarcò a Genova con gli ultimi dodici marinai, e insieme affondarono la nave, usando una polvere nera che si erano procurati a Qingdao barattandola con una cassa di petali di rosa schiacciati acquistata a Masqat. Silvio invitò gli altri a casa sua per un'ultima cena insieme, durante la quale donò a ciascuno un tredicesimo del suo patrimonio. Poi, con un gesto destinato a diventare un'usanza tra i genovesi che terminavano una carriera marinara, bruciò solennemente un sacco vuoto per indicare la fine dei suoi viaggi e dei suoi commerci. Era un sacco tessuto rozzamente con canapa siciliana; l'equipaggio ricordava ancora il ladruncolo spaurito che se l'era portato a bordo, legato intorno alla vita.
REPERTO 2:
torre intagliata in una zanna di elefante. 40 centimetri di altezza, 20 di larghezza. Cava all'interno e completamente annerita, come se fosse rimasta a lungo sopra il fuoco. Visibili anche alcune bruciature esterne che si dipartono dalle finestre, come avverrebbe in una vera torre depredata. Motivi ornamentali vermigli e acquamarina intorno alla base, alle torrette e ai minareti. L'esemplare si ispira alla visione che l'hashish provocò ad Ali Rasul Ali (1034-1134 d.C), architetto e scacchista di Lahore. Ali scolpì una scacchiera interamente d'avorio, con pezzi molto più grandi del consueto. Verso
la fine dei suoi giorni divenne miope, anche se la sua passione per gli scacchi non si affievolì mai, e cominciò a giocare con i pezzi più grossi per tenersi in allenamento senza affaticare la vista. Il lavoro dell'alchimista si svolge dentro la torre, il che non spiega affatto che cosa sia, o possa essere, una torre: si potrebbe anche affermare che il lavoro dell'alchimista si svolge dentro un pisello verde, ammesso di riuscire a trovare un pisello cavo e abbastanza ampio. Le torri dovrebbero contenere fisicamente tutte le attrezzature e gli effluvi legati al processo alchemico, e perciò variano molto nelle dimensioni (questa è una delle più piccole; il Domesday Book accenna alla «fortezza nei pressi di Greate Brizes, scurita intorno alle cime delle torrette, tutta avviluppata da escrescenze e vapori fetidi, benché nessuno dichiari di viverci e nessuno sappia chi vi alloggi»). Non è neppure necessario che abbiano la struttura di torri vere e proprie. La torre massima e suprema è, naturalmente, il mondo. DATA DI FABBRICAZIONE: COSTRUTTORE:
tardo XI secolo d.C.
Ali Rasul Ali.
LUOGO DI PROVENIENZA:
Lahore.
ULTIMO PROPRIETARIO CONOSCIUTO:
Yussef Hadras ibn Azzam Abd Salih Jafar Khalid Idris. Trafugata dalla sua biblioteca nel 1154 da Omar Iblis, ladro siciliano, morto dopo essere diventato vinaio a Feodosija. Omar la tenne con sé finché cadde vittima di una grave malattia in età straordinariamente avanzata, quando la sotterrò in un punto isolato tra le sue vigne e la sua lussuosa dimora. Nessuno la trovò fino al 1943, allorché una serie di esplosioni attribuite ai separatisti tatari crimei la disseppellì. In realtà, le bombe erano state piazzate per ordine di Stalin da Jurij Starpov, un agente del KGB, allo scopo di fornire un pretesto per la deportazione e l'eliminazione definitiva della popolazione tatara. Un maggiore lituano dell'esercito sovietico rinvenne la torre tra un groviglio di radici e sangue e la portò a Svencionys, dove l'oggetto rimase dimenticato in fondo a una credenza, dietro pile di tazze sbeccate e piatti di porcellana a buon mercato, finché qualcuno lo rubò nel 1974.
in base alle vendite di scacchi antichi e artigianato pre-moghul, tra i 24.000 e i 70.000 dollari. Esistono altri pezzi di questa collezione, ma sono sparsi in tutto il mondo. La corrispondente torre bianca è conservata nel retro di un negozio di antiquariato a Pécs, dove l'ignaro proprietario ha fissato un prezzo di 400 fiorini; le due torri nere (dipinte con un miscuglio di terra, sangue di capra e bucce bruciate di cardamomo) sono state aggiudicate per 65.000 dollari ciascuna durante un'asta a Pondicherry. Sean Lallan di Roscommon, il giovanissimo campione di scacchi irlandese (ormai anziano e arricchitosi grazie ad accorti investimenti nell'industria laniera collettiva del Donegal) possiede entrambi i cavalli bianchi e un alfiere nero, e ha annunciato che cederebbe venti acri di terreno a chiunque gli procurasse l'altro alfiere. Un'imitazione della regina bianca fu acquistata per 54.000 dollari da un dentista rubacuori durante un'asta tenutasi a Toronto. VALORE STIMATO:
Come tutte le cose sono sempre state e venute dall'Uno, per mediazione dell'Uno, così tutte le cose nacquero da questa Cosa Unica per adattamento.
Il professor Jadid si allontanò, e io cominciai a rimpiangere di non aver accettato il suo invito per un drink quel pomeriggio. Forse avrei dovuto preoccuparmi soprattutto di tornare a casa, ma mi ero incuriosito: rivoltelle e cospirazioni (persino le cospirazioni accademiche come quella) rappresentavano un gradito cambiamento rispetto ai soliti servizi sulle riunioni del comitato scolastico e le polemiche a proposito del piano regolatore. Quando guardai il limpido e lapidario cielo azzurro e aspirai il caratteristico odore autunnale della città (fumo e salsedine, con qualche zaffata salmastra proveniente dal porto) , novanta oziosi minuti a Wickenden mi parvero una prospettiva allettante. Il pensiero di rincontrare il professore mi allettava ancora di più. Era un uomo raffinato, dignitoso, dalla cultura classica, europeo nel senso che quella parola aveva prima del 1914 e, come tale, si era fatto non pochi nemici al campus, individui che lo reputavano un dinosauro. Tra gli altri motivi, mi piaceva perché era indifferente a tutto questo: avevo visto studentesse rifiutarsi di varcare porte che lui teneva loro aperte, ma non avevo mai visto lui astenersi dal tenere aperta una porta. Avevamo perso i contatti soprattutto a causa della mia pigrizia: avevo scordato di rispondere a una lettera, non avevo mai pensato di fare una telefonata, e così non avevo più sue notizie da quasi un anno. Non so se, sul piano personale, mi mancasse quanto mi mancava la presenza di un benevolo sostenitore, qualcosa che non avevo più da quando mi ero laureato e mi ero ritrovato da solo, a prendere decisioni davvero importanti. Mi mancava anche Wickenden, la sua stramba cortesia e, rispetto a Lincoln, la sua vivacità. Mentre scrutavo Roderick Street (la via più frequentata dagli studenti), mi tornarono in mente centinaia di aneddoti legati a quel posto, e i fantasmi degli aneddoti divennero più
concreti dei passanti reali. Dopo due minuti il mio entusiasmo si dileguò come se mi avessero pugnalato. Ovunque andassi, mi sarei trascinato dietro tanto passato, poco presente e nessun futuro. Decisi di salire in auto e tornare alla mia vera vita. Poco più di un'ora dopo aver oltrepassato il confine del Connecticut, notai l'indicazione per l'uscita di Clougham e rammentai il bar menzionato da Crowley. Se mi fossi fermato soltanto per una birra, sarei arrivato in ufficio prima della chiusura, anzi mi sarebbe avanzato del tempo. Inoltre, poteva darsi che Pühapäev avesse avuto dei compagni di bevute. Poteva darsi che fosse il tipo da confidarsi con il barista. Poteva darsi che io fossi il tipo che si appiglia senza pudore a ipotesi inconsistenti per giustificare una birra durante l'orario di lavoro. Clougham era una delle tante cittadine con un'unica strada nel Connecticut occidentale, uno di quei centri sempre più rari che non si erano ancora tramutati in un prolungamento dell'Upper East Side di New York. Aveva una stazione di servizio con due pompe, una drogheria rivestita di assicelle bianche (invece del solito vecchio emporio) e lì accanto un ufficio postale attiguo a uno spaccio di alcolici. Subito dopo essermi trasferito a Lincoln, avevo dedicato i week-end a esplorare i dintorni, ed era così che avevo scoperto Clougham. Negli ultimi mesi avevo tuttavia smesso di esplorare e avevo iniziato a collaborare con due giornali di medie dimensioni del Connecticut e con un paio di riviste (per lo più regionali, storiche e incentrate sul giardinaggio). Art mi aveva ceduto qualche articolo affidatogli da alcuni redattori, affermando che ne avevo più bisogno di lui. Aveva aggiunto che, se mai avessi trovato un altro reporter disposto a passare a un collega incarichi freelance ben retribuiti tanto per il gusto di farlo, mi avrebbe comprato una rivista tutta per me. Davanti allo spaccio, mi voltai a guardare due coppiette (grazie a Dio probabilmente un po' più giovani di me) intente a bere birra sui pianali di pick-up adiacenti, uno decorato da lingue di fuoco, l'altro dalle onde dell'oceano. Quando rallentai, uno dei ragazzi si alzò e lanciò una lattina contro la mia auto. Pensai che fosse vuota finché colpì la portiera del conducente abbastanza forte da farmi sbandare un po' e, quando ridussi la velocità per verificare il danno nello specchietto, lui prese un cric dal cassone e si diresse a grandi passi verso di me. Avevo un'ammaccatura sulla portiera, ma nessuna arma che potesse reggere il confronto nell'abitacolo, così continuai a guidare, le mani che tremavano e
stringevano il volante con tanta energia da diventare bianche sulle nocche. Nonostante il finestrino chiuso, li sentii erompere in una risata fragorosa, e nel retrovisore vidi il ragazzo che dava il cinque al suo amico. Qualche via più in là, oltre una brusca svolta, sorgeva un tozzo edificio porpora a due piani con luminarie natalizie che, avvolte intorno ai canali di scarico, sfavillavano sotto il sole. Vi era un parcheggio al posto del cortile, e all'entrata un palo conficcato tra l'erba reggeva un piccolo cartello di legno: «Il Lupo solitario». Posteggiai tra una Crown Vic blu scuro e una Datsun arrugginita. Se non fosse stato per l'insegna al neon della birra Schlitz alla finestra e il parcheggio al posto del cortile, la costruzione sarebbe stata identica a tutti gli altri fabbricati della strada. Dietro, appena visibile da una parte, c'era un prato con un grosso barbecue sistemato accanto ad alcuni cassonetti, oltre i quali si intravedeva una triste altalena sgangherata: un quadro di Normann Rockwell visto dal fondo di una bottiglia, una scena che colpiva al cuore come una poesia. Entrai nel bar superando quella che avrebbe dovuto essere la porta d'ingresso della casa, e per un attimo pensai davvero di essere capitato nell'abitazione di qualcuno: il bancone e tutte le pareti erano ricoperti di quei fragili pannelli in finto legno diffusi negli scantinati e nelle sale ricreative; tavoli e sedie, tutti scombinati, sembravano essere appena stati scartati dall'Esercito della Salvezza. Nell'angolo, un televisore in bianco e nero trasmetteva soap opera a basso volume. Un barista dal collo taurino con capelli corvini e baffi alla Pancho Villa alzò gli occhi verso di me da dietro il banco. Alzarono gli occhi verso di me anche altri tre uomini, tutti arcigni e dall'aria sonnolenta. Sedevano ognuno per proprio conto; pareva che il mio arrivo non avesse interrotto alcuna conversazione. Il bar aveva un aspetto spoglio e deprimente. Amo il colore locale quanto un turista qualsiasi, ma cercavo sempre di stare alla larga da posti come quello. Quando entrai, le mani, che mi tremavano ancora leggermente per l'episodio della lattina, cominciarono a sudarmi. «Posso aiutarla?» mi domandò il barista. Non riconobbi l'accento, ma non era americano. Richiudendomi la porta alle spalle, assentii. «Siete aperti?» «Forse. È socio?» «Socio di che cosa?» domandai a mia volta, perplesso. «Di questo club privato. Circolo sociale, non bar. Bisogna essere iscritti per bere qui. Ha la tessera?»
«No, temo di no. Non può fare un'eccezione e darmi una birra? Non farò la spia.» Lasciandosi cadere con un tonfo sul bancone, si puntellò sulle braccia. «Niente eccezioni, amico. Bisogna essere membri. Ma magari potrebbe essere un membro temporaneo solo per oggi pomeriggio.» «Volentieri. Che cosa devo fare?» «Le serve un invito» mi rispose, sorridendo, come se l'intera conversazione fosse stata finalizzata a quelle parole. «Mi dispiace.» Un tizio pelle e ossa che portava un giubbotto da marinaio e occhialetti d'argento intervenne dall'estremità più vicina del bancone. «Su, Eddie. Dai una birra al ragazzo. Lo invito io. Cristo santo.» Mi indicò una sedia libera. «Si sieda qui. Questo è l'unico bar delle tre città qui intorno, e l'unico passabile rimasto in questa parte dello Stato. Forza, si accomodi.» Aveva la voce stridula e l'accento della zona, il minestrone del New England che arrivava nell'entroterra un po' diluito, tutto terminazioni scivolose e vocali larghe. Il barista scosse le spalle, ostentando indifferenza, anche se sembrava irritato per non essere riuscito a buttare fuori qualcuno. Non ho mai capito perché i proprietari di alcuni locali traggano tanto piacere dal negarti il servizio. «Okay, allora si sieda. L'ha invitata, perciò si accomodi. Quale birra preferisce?» «Una Bud?» «Non ne abbiamo.» «Una Rolling Rock?» «Non abbiamo neanche quella.» «Quali avete?» «Busch, Schlitz, Genesee, Heineken.» «Una Genesee, allora.» «Forse sono finite. Devo controllare.» Cacciò la testa nel frigorifero sotto il bancone. «No. Sì, ce n'è ancora. La vuole in lattina o in bottiglia?» «In bottiglia, grazie.» «Ce l'abbiamo solo in lattina.» «Okay, vada per la lattina. Senza bicchiere.» Mi fece scivolare la birra sul banco, porgendomi un bicchiere sporco con un fiammifero spento sul fondo. Un uomo dalla barba bianca seduto all'estremità del bancone incrociò lo sguardo del barista e gli rivolse lo sbrigativo cenno del mento di chi è abituato a comandare. Assomigliava a un animale di montagna
trasformatosi provvisoriamente in essere umano. L'altro gli versò un bicchierino di liquido chiaro e viscoso da una bottiglia di vetro senza etichetta e si allontanò solo dopo che il cliente ebbe annuito in segno di approvazione. Il tizio pelle e ossa (il mio ospite) si voltò verso di me, e la luce gli si rifletté sulle lenti, impedendomi di vedere i suoi occhi; pareva che avesse due quarti di dollaro iridescenti sospesi davanti alla faccia. «È venuto da Nate?» mi domandò. «Prego?» «È qui per Nate?» «Che cosa? Chi è Nate?» Rise. «Immagino di no. Fa il meccanico e il carrozziere. Ha l'officina proprio dietro il bar. Lavora bene e ha prezzi buoni. Molte volte dice ai clienti di venire qui mentre aspettano che finisca.» «Credevo che bisognasse essere soci.» Scolandosi quanto rimaneva della sua birra, indicò il barista. «Il nostro amico non rifiuta mai un dollaro. Forse all'inizio ti dà del filo da torcere, ma ti lascia sempre sedere. Giusto, Ed?» L'altro borbottò qualcosa ed emise uno schiocco sinistro spingendo la lingua contro i denti davanti, quasi tutti d'oro, quindi gli versò un'altra birra (Schlitz, lattina). «Allora» proseguì l'uomo con gli occhi simili a monete «perché un bel giovanotto come lei spreca un piacevole mercoledì pomeriggio con una banda di ubriaconi a Clougham?» Al che un grassone stravaccato sul divano levò il bicchiere: «Ehi, sta parlando di noi!» e tutti risero quanto bastava per attenuare il mio disagio. «Ho un amico che viene spesso qui. Mi ha consigliato di fare un salto se mai fossi passato da queste parti. Non ho impegni per un altro paio d'ore, così ho pensato di fermarmi a dare un'occhiata.» Smettendo di lucidare i bicchieri, il barista alzò gli occhi verso di me. «Allora forse il suo amico le ha detto che bisogna essere membri. Chi conosce che frequenta un posto come questo?» «Un mio ex professore» mentii. Avevo già destato i loro sospetti; tanto valeva accrescere la loro diffidenza ammettendo che ero andato al college. «Si chiama Jaan.» «Ehi, lo conosco» interloquì il ciccione sul divano. Si girò verso di me, e vidi che indossava un berretto con la scritta «Charlie Reed - Mangimi e Sementi». «Vecchio, piuttosto trasandato, barba lunga. Sì, viene qui due o tre volte la settimana. Non molto loquace.»
Il barista tornò a concentrarsi sui bicchieri, continuando a lucidarli senza smettere di sbirciarmi. Visto lo stato del mio bicchiere, era sorprendente che simulasse tanta pignoleria. «Parla in modo strano? Occhiali neri? Sempre con la stessa cravatta da bigotto?» domandò l'uomo seduto accanto a me. Mangimi e Sementi annuì. «Sì, lo conosco anch'io. Un tipo davvero taciturno. Non sapevo nemmeno che insegnasse. Questa sì che è una bella classe, vero?» Mangimi e Sementi rise; il barista non mollò i bicchieri. «Sentiamo, che cosa ha da dire il professore?» «Be', niente, a essere sincero. Mi spiace dovervelo comunicare, ma è morto» risposi. Il proprietario non mi degnò nemmeno di un'occhiata, e l'uomo dalla barba bianca dietro di lui mi guardò con occhi da falco, severi e imperturbabili. Il tizio pelle e ossa si voltò nella mia direzione. «È morto ieri notte. Sono un reporter del giornale di Lincoln, dove abitava, e sto cercando di raccogliere qualche informazione generale per scrivere il necrologio. Sono andato nel suo ufficio e a casa sua, e mi hanno riferito che frequentava questo bar, così ho pensato che magari qualcuno di voi sapesse qualcosa. Solo le notizie fondamentali, davvero» aggiunsi, scuotendo la testa e levando i palmi in atteggiamento di resa preventiva: la posizione «Nessuna minaccia». «Ah, merda» commentò il tizio pelle e ossa. «Maledizione, che peccato. Ma era davvero taciturno. Non so granché di lui. Ehi, Eddie, perché non ci versi un drink in memoria di Jaan?» Eddie scrollò di nuovo le spalle e dispose cinque bicchierini sul bancone, li riempì con il liquido della bottiglia senza etichetta, ne porse uno a ciascuno di noi e ne tenne un altro per sé esortando Mangimi e Sementi ad andare a prendersi il suo con un breve fischio acuto. Mi accostai il bicchiere al naso, ma l'odore precedette il liquido di circa quindici centimetri. Mi tirai indietro. «Che cos'è questa roba? Puzza di diluente per vernici.» Eddie rise. «L'ho sempre pensato anch'io. Non l'ho mai bevuto prima d'ora, ma Jaan lo faceva in casa. Sa, lo preparava con frutta, zucchero e qualche radice, lo lasciava macerare ed era pronto. Poi lo portava qui. Una specie di brandy.» «Lo produceva da sé ma lo portava al bar? E glielo pagava?» «Sì, vede, avevamo un accordo: io compravo le bottiglie, poi lui comprava il liquore da me, un bicchiere, due bicchieri, tre bicchieri e così via, perciò alla fine eravamo pari.»
Strano accordo, ma quel posto aveva un'atmosfera davvero strana, qualcosa di intimo, decrepito e improvvisato. Pareva insieme temporaneo e atemporale; se me ne fossi andato e fossi tornato l'indomani, magari il Lupo solitario sarebbe svanito, ma, se fossi tornato di lì a trent'anni, non mi sarei stupito di trovare le stesse persone nelle stesse posizioni, intente a fare le stesse cose. Guardai il bicchiere con aria dubbiosa, ed Eddie sorrise, spalancando gli occhi e assentendo. In alto, aveva due denti d'oro. Inspirai, espirai e trangugiai il brandy tutto d'un fiato. Sentii che mi apriva un buco nella gola, lasciandomi una scia infuocata nell'esofago. Ci mancò poco che cadessi dallo sgabello. Eddie scoppiò a ridere, imitato dagli altri tre. Il tizio pelle e ossa spinse il bicchiere verso il barista. «Non offenderti, Albie, ma sai che non bevo questa roba. Come dico sempre, niente di forte fino al tramonto. È il mio motto. Soltanto birra prima del crepuscolo.» Il proprietario scosse ancora le spalle e rimise il liquido nella bottiglia. «Ha appena chiamato il barista Albie?» domandai, piegandomi verso il mio ospite in modo che l'altro non sentisse. «Sì, è il suo nome, è così che lo chiamiamo.» «Pensavo si chiamasse Eddie.» «Sì. Eddie l'Albanese. È così che lo chiamano tutti quanti. Certe volte Eddie, certe volte Albie e certe volte, se vogliamo essere formali, l'Albanese. Ma non fa differenza.» Essendo sbronzo, aveva alzato sempre di più la voce, perciò il barista era ormai in piedi davanti a noi, la mano tesa verso di me, il sorriso dorato più minaccioso di quanto sarebbe stato un ringhio. «Eddie. Questo posto è mio. Se dovesse venirle voglia di menzionarlo nel suo giornale, le do un consiglio: lasci perdere. Questo è un bar tranquillo. Il mio bar» dichiarò, stringendomi le dita più forte, il sorriso che si allargava. «Non ci piacciono le seccature. Quelli che fanno troppe domande, li chiamiamo "cadaveri" dalle mie parti.» Cercai di ritrarre la mano, ma lui mi afferrò il polso con l'altra, sempre sorridendo, chinandosi ancor più verso di me, tanto che avvertii il suo puzzo di aglio, sudore e detersivo per i piatti. «Facciamo un brindisi per Jaan. Ci dispiace che sia morto, ma la gente muore in continuazione. Facciamo un brindisi, poi lei se ne va e non torna più.» Il mio ospite si era fatto piccolo piccolo sulla sedia. Eddie mi restituì la mano, con la pelle che ormai sembrava quella di un pollo crudo. La massaggiai, e riprese colore con lentezza. Sempre sorridendo, il barista si voltò e rimise la bottiglia sulla mensola. Il mio ospite mi cinse le spalle con un braccio, dicendo in tono confidenziale: «Ogni tanto l'Albanese è un
po' impulsivo. Forza, la accompagno alla macchina». Per me «un po' impulsivo» significa sferrare un pugno a una libreria quando sbatti il piede contro qualcosa o inveire contro la TV quando un oscuro quarterback dei Jet effettua un tiro a foglia morta nell'ultimo quarto. Significa rispondere male a qualcuno quando sarebbe meglio evitarlo. Tentare di staccarmi la mano paragonandomi a un cadavere mi pareva molto peggio di «un po' impulsivo». Non intendevo tuttavia contraddire l'unica persona del bar che sembrava interessata all'integrità delle mie ossa. «Ascolti, Jaan era solo un ubriacone, sa» mi informò mentre attraversavamo il parcheggio. «Questo è soltanto un bar per avvinazzati, non un ritrovo sociale. Tutti noi veniamo qui perché ci piace bere ed essere lasciati in pace. Perciò nessuno parla mai delle sue origini, di che cosa fanno i suoi figli, di che cosa usava suo padre per picchiarlo e merda del genere, perché qui non importa a nessuno. Ci sediamo, ci facciamo del male e ce ne andiamo. Eddie fa in modo che il posto sia tranquillo ed economico, e non vuole altro.» «Quindi lei e Jaan non avete mai parlato davvero?» Sospirò, sputando per terra. «Certo, chiacchieravamo, ci chiedevamo come andavano le cose, ma nulla di più. Non so niente di lui, e lui non sapeva niente di me. Io vengo qui da quando il locale ha aperto, e anche lui.» «Quando ha aperto il locale?» Inspirò come se stesse per ricominciare la ramanzina, così lo rassicurai. «Non voglio scriverlo. Sono soltanto curioso. Quando ha aperto il Lupo solitario?» Si infilò un berretto nero fatto a maglia, estraendolo dalla tasca interna. C'era qualcosa (l'aria smarrita, l'età indefinibile, il naso aquilino) che lo faceva assomigliare a una figura del vecchio New England, a un marinaio pedante del Pequod. «Be', vediamo. Ricordo che, quando sono venuto qui la prima volta, mio figlio viveva ancora a casa, ma solo per poco. Adesso è nell'esercito, abita in Germania. Sta per essere promosso capitano, credo. Ma non lo vedo da...» Abbassò lo sguardo, la voce che gli si affievoliva. All'improvviso, come una lontra che sbuca fuori dall'acqua, tornò a concentrarsi su di me. «Sarà stato il 1991 quando questo posto ha aperto. Sì, deve essere stato all'inizio del '91, perché ricordo di aver visto Scott Norwood sbagliare quel calcio da tre punti in questo bar, mentre io e Eddie posavamo le piastrelle del pavimento. Albie non aveva mai visto una partita di football. Sì, inizio del 1991.» Così dicendo, annuì, diede un colpetto al tettuccio dell'auto, agitò la mano in segno di saluto e rientrò.
Eddie gli aprì la porta e, mentre varcava la soglia, lo accolse con una pacca sulla nuca, un gesto a metà strada tra il tenero e il minaccioso. Guardando me, sfoderò il suo sorriso da teschio, sollevò il pollice e se lo fece passare sulla gola. Contro quanto mi suggeriva il buon senso (e probabilmente anche contro la legge) tornai a Lincoln senza aspettare che l'effetto del brandy e della birra si attenuasse. Clougham aveva qualcosa di inquietante: era come se la città non mi volesse lì e avesse esortato i suoi abitanti ad accertarsi che me ne andassi in fretta. Tutti tranne il tizio pelle e ossa, di cui non conoscevo il nome e a cui dovevo forse la mia incolumità. Quando giunsi alla redazione, trovai Austell e Art nelle medesime posizioni di prima: uno che guardava fisso fuori della finestra, l'altro seduto alla scrivania con la porta socchiusa e l'auricolare nell'orecchio. Era cambiata solo la luce; il debole sole della sera faceva sembrare Austell più sbarazzino, mentre Art, la lunga sagoma barbuta immersa nell'oro fuso, pareva un'icona bizantina in carne e ossa. Chiudendo l'uscio, rivolsi un saluto frettoloso a McFarquahar e mi fiondai subito nell'ufficio di Art per evitare eventuali imboscate; Austell mi seguì, appollaiandosi proprio fuori della porta. Art spense la musica. «Allora, ragazzo, che cosa hai scoperto?» «Niente. Sono al punto di partenza. Nessuno sa dove o quando sia nato Pühapäev, anche se aveva un nome estone. Uno dei suoi colleghi crede che fosse uno pseudonimo, ma non sa come si chiamasse davvero.» «Parlava estone?» «Sì.» Art soffiò un filo di fumo in un raggio di sole, e quello rallentò, come se volesse riflettere prima di dissolversi. «Estonia, eh? Tallinn. Ci sono stato nell'89 e poi di nuovo nel '93. Una di quelle cittadine europee dalla bellezza professionale. Venditori ambulanti di cartoline a ogni angolo; la città vecchia, insignificante e acciottolata, abbellita da ristoranti e negozi di souvenir. Bellezza professionale» ripeté, rabbrividendo con fare melodrammatico. «Scusa. Dunque mi stai dicendo che hai trascorso tutta la giornata a Wickenden e sei ancora dov'eri questa mattina.» «Non proprio. Un professore con cui ho parlato mi ha riferito che Pühapäev frequentava un bar di Clougham, il Lupo solitario.» Tacqui per vedere se Art conoscesse il locale, ma inarcò le sopracciglia, scuotendo la testa. «Così ho fatto un salto per controllare se magari il barista o qualcuno dei suoi compagni di bevute sapesse qualcosa.» «E?»
«Niente. Ma è un posto strano. C'era un'atmosfera che non mi piaceva.» Austell interloquì alle mie spalle. «Be', Clougham, sì, non mi sorprende. Sono sempre stati un po' strambi laggiù. Vedete, durante la guerra del 1812, e poi ancora durante il conflitto russo-giapponese...» «Ehi, Austell» lo interruppe Art «che cosa ne dici di offrirmi questa sera il drink che mi devi? Fammi solo sentire che cosa ha da dire il ragazzo, e poi arrivo subito, okay?» Austell si illuminò in volto. «L'intrepido capo che beve uno sherry davanti al mio caminetto? Be', questa sì che è un'occasione speciale. Telefono subito a Laura.» Uscì saltellando come un cane obbediente alla ricerca del bastone. Scuotendo il capo con aria di affettuosa esasperazione, Art mi fece cenno di proseguire. «Quel posto ha qualcosa che non quadra. Il barista, Eddie l'Albanese...» «Eddie l'Albanese?» rise Art. «Che cosa hai combinato, sei rimasto intrappolato in un racconto di Damon Runyon? E poi chi ha mai sentito parlare di un albanese di nome Eddie?» Si accese un'altra sigaretta. «Allora, che cosa è successo?» «Eddie si è rifiutato di parlare. E mi ha diffidato dal ripresentarmi nel suo locale.» «Stai bene?» «Sì, benissimo. Non so se ci tornerei da solo, ma voglio scoprire perché quel tale è stato così ostile. Sa, il fatto è che sembrava sapere della morte di Pühapäev. Quando gli ho dato la notizia, non ha neppure alzato gli occhi, ha solo continuato a lucidare i bicchieri, e un tizio pelle e ossa, un compagno di bevute del professore, ha detto che Jaan frequentava il bar da una decina d'anni.» «E con ciò?» «E con ciò? Stessa persona, stesso locale, stesso proprietario per dieci anni, e Eddie non alza neppure gli occhi quando gli comunico che il suo cliente è morto? Insomma, non è che ci sia molto viavai in un bar di provincia, giusto? Non so. C'è solo qualcosa che non mi convince.» «Sì, può darsi. Può anche darsi che il barista sia soltanto un po' eccentrico.» «Forse. Ma mi è parso troppo ostile. Più sulle difensive che eccentrico. Diavolo, mi ha minacciato di morte se avessi nominato il locale in uno dei miei articoli.» «Be', è un modo per farsi nuovi clienti, immagino. Ascolta, se pensi che
ci sia sotto qualcosa, scopri se c'è sotto qualcosa» disse. «Davvero, dacci dentro, e fammi sapere se posso esserti utile. Da questo lato della scrivania, ti sto solo avvisando che potrebbe non esserci sotto niente, ecco tutto.» «D'accordo. Oh, un'altra cosa: il mio ex professore mi ha riferito che Pühapäev ha avuto qualche grana legale.» «Di che genere? Problemi con il fisco?» «Be', no. Si portava dietro una pistola e ha impallinato un gatto fuori della finestra una sera tardi.» «Ha sparato a un gatto?» ridacchiò Art. «Un docente di storia armato di rivoltella? Questa vicenda diventa sempre più bizzarra. Hai chiesto conferma alla polizia di Wickenden?» «No, non ancora. Avevo intenzione di chiamarli oggi pomeriggio. Il nipote del mio professore fa il poliziotto da quelle parti.» Si passò la mano sulla testa. «Vedi, ecco perché dobbiamo trovarti un vero giornale. Ho notato che stai diventando irrequieto, e anche curioso, e queste sono due delle migliori qualità che un reporter possa avere. Ascolta, perché non ci pensiamo su questa sera? Domani decideremo se vuoi continuare a ficcanasare in giro o se preferisci tornare alla solita roba.» Annuii, e Art prese il cappotto. «Ehi, un'altra cosa che avevo dimenticato di dirle» aggiunsi. «Il piedipiatti grasso...» «Bert?» «Bert, esatto. Bert mi ha raccontato che hanno ricevuto una telefonata riguardo alla morte di Pühapäev nel cuore della notte. È stato qualcun altro a denunciarla. Sa chi è stato?» Si paralizzò, un braccio nella manica e uno fuori. «Bella domanda. Sai, non ne ho proprio idea.» Si sfilò il cappotto. «Dammi solo un minuto, chiamo il Panda.» Attivò il vivavoce, compose il numero e attese finché non si udì la voce profonda e sbrigativa del medico legale. «Panda. La tua sala d'attesa è piena di clienti o hai un secondo per me?» «Il mondo, amico mio, è la mia sala d'attesa piena di clienti. Per te ho sempre diverse centinaia di secondi.» «Sono qui con Paul Tomm, un asso del giornalismo.» «Uno studioso di Shakespeare, il signor Tomm. Come sta oggi?» «Non si lamenta. E tu come stai?» «Non mi lamento nemmeno io. Che cosa posso fare per voi signori questo pomeriggio?»
Art mi fece segno di restare in silenzio. «Panda, vorremmo sapere chi ha denunciato la morte di Jaan Pühapäev.» «Sai che queste sono informazioni e faccende riservate alla polizia. Sai che non dovrei rivelarti niente e chiederti di rivolgerti alle autorità ufficiali.» Art sospirò, facendo una smorfia. «Sì, lo so, ma ascolta, non puoi dirmelo e basta? Ti prometto che non lo pubblicheremo e che il tuo nome non comparirà da nessuna parte. Ma abbiamo qualche difficoltà nelle ricerche, e l'asso del giornalismo comincia a spazientirsi.» «Come ripeto, amico mio, per te faccio cose che non faccio per nessuno, se non altro perché sei l'unico uomo al di qua di Brighton Beach che sia minimamente in grado di sfidarmi davanti alla scacchiera.» Sentimmo un frusciare di fogli. «Ah, ecco qui. Telefonata alle 3.23, numero 860-5557217. Niente nome. Anonima. Molto spiacente.» «Be', merda. Grazie lo stesso, vecchio mio. Ci vediamo presto, giusto?» «Non abbastanza presto, temo. La prossima volta tu e Donna dovete venire a cena da me e Ananya. Giocheremo a scacchi mentre le signore bevono, chiacchierano e sonnecchiano sul divano. E prima di interrompere la comunicazione, a proposito dell'articolo di questo asso del giornalismo: intendo conservare il corpo finché qualcuno verrà a prenderselo, sempre ammesso che venga qualcuno. Altrimenti può darsi che lo sezioni, se l'università non ci mette le mani sopra per prima. Allora forse sarò in grado di dirti qualcosa in più. Per il momento posso riferirti solo che ha una pelle molto liscia, sai. Per un uomo dal viso così invecchiato. E questo cadavere ha qualcosa che vale la pena esaminare meglio. Qualcosa che non riesco... No, niente per ora. Aspetteremo il bisturi. Presto, presto. E credo che tu o lo studioso di Shakespeare mi richiamerete domattina, giusto?» «Ti richiamerà lui» rispose Art. «Lo richiamerai, vero, ragazzo?» «Certamente.» Annuii. «Hai sentito? Ha detto: "Certamente". Quattro sillabe per dire sì.» «Quattro sillabe della sua vita che nessuno gli restituirà mai. La prossima volta, studioso di Shakespeare, si limiti a rispondere di sì e ne risparmi tre per dire "Ti amo" alla sua giovane compagna. Regina in torre quattro, Arthur. A domani, signori.» Detto questo, riagganciò. Art mi porse la cornetta, appoggiandosi allo schienale della sedia. «Pensavo che dovessimo chiamarlo domattina.» «Non il Panda, ragazzo. Il numero che ti ha dato.» Ecco l'asso del giornalismo all'opera.
Composi il numero, e il telefono trillò dodici volte prima che smettessi di contarle e molte altre prima che il ricevitore venisse sollevato. All'inizio udii solo un sibilo, come se qualcuno tenesse l'apparecchio fuori del finestrino di un'auto. Poi qualcosa o qualcuno picchiettò sul microfono, tre volte, pausa, altre tre volte. «Pronto? Pronto?» urlai. «Non questa. Non questa. Non questa. Non questa. Non questa...» Una voce cupa e inespressiva seguitò a cantilenare mentre guardavo Art che dava dei colpetti a una sigaretta con l'unghia del pollice. Scostai la cornetta dall'orecchio e, quando la riavvicinai, le parole erano diventate: «La troverò. La troverò. La troverò». Bussai piano sulla scrivania per attirare l'attenzione di Art, quindi gli allungai il telefono. Restò in ascolto, lanciandomi un'occhiata interrogativa. «Che cosa ne pensa?» sussurrai. «Da queste parti lo chiamiamo segnale di linea» rispose, restituendomi la cornetta. In effetti, un segnale di linea risuonava forte e chiaro nel ricevitore. «Che cosa è successo? Hanno riattaccato o qualcosa di simile?» «No» dissi, confuso. «No, c'era un tizio che continuava a ripetere: "Non questa".» «Ah-ah» fece Art, dubbioso. «Sta' a sentire, perché non riprovi? E senza premere RIP.» La sua calma e il suo sguardo scettico mi avevano quasi spinto a dubitare di quanto avevo sentito. Ricomposi tuttavia il numero, questa volta con un esito diverso. «Sì.» Voce maschile, tono scocciato. «Ecco... ha appena risposto al telefono?» domandai. «No, coglione, le sto parlando attraverso una lattina. Che cosa crede?» «No, non ora. Poco fa. Con chi ho parlato prima?» «Prima quando? Vuole dire poco fa?» «Sì.» «Nessuno. Prima di lei, nessuno. Mi sono cagato sotto quando il telefono ha squillato. A ogni modo, che cosa diavolo vuole?» «Chiamo dal "Lincoln Carrier". Vorrei fare due chiacchiere su Jaan Pühapäev.» «Puu chi? Chi cazzo è?» Il tono passò da scocciato a furioso. La voce pareva quella di un tizio con i baffi. Udii il sonoro strombazzare di un clacson: il telefono era all'aperto. «Ieri notte qualcuno ha denunciato una morte da questo numero. Sto
tentando...» «Che cosa significa da questo numero? Chi cerca?» Camicia di flanella, pick-up, accento dell'entroterra del New England, grande appassionato di baseball. «Non lo so, ecco che cosa stavo per dire. Questo numero è comparso...» «Questo è un telefono pubblico, amico.» «Un telefono pubblico?» «Sa, uno di quelli in cui infili dieci centesimi, solo che adesso sono trentacinque, perché continuano ad aumentare i prezzi. Questa è la cabina di fronte ad Arliss.» Estrassi il bloc-notes, mentre Art inarcava le sopracciglia. «Dov'è Arliss?» domandai allo sconosciuto. «Trawbridge Road. Alla periferia di Lincoln, prima dello Stevens Bridge.» «Intende quella piccola drogheria appena fuori del Lincoln Common? Non sapevo che avesse un nome.» L'uomo sbuffò, sospirò e ringhiò in una volta sola. «Be', ce l'ha, e gliel'ho appena detto.» «Mmm.» Se fossi stato un vero reporter, avrei saputo che cosa domandargli; invece mi limitai a fare «mmm». Anche nella mia testa: «Mmm». «Dunque qualcuno ha denunciato una morte da qui? Deve essere stato l'assassino, giusto?» Raddrizzai la schiena, come se qualcuno mi avesse infilato dei cubetti di ghiaccio nella camicia. «Perché dice così?» «Non c'è niente qui intorno, boss. Questo negozietto chiude alle otto, e non ci sono altro che stagni e prati deserti per quindici chilometri buoni in ogni direzione. La città inizia a circa un chilometro di distanza, ma perché qualcuno dovrebbe venire fin qui per usare un telefono? Gli unici che chiamano da questo apparecchio sono Arliss e gli automobilisti di passaggio. Una volta si diceva che la Trawbridge fosse la via di fuga più rapida da Hanoi.» «Perché? Dove va?» «Segue per un bel pezzo la statale 87, piega verso nord da Bridgeport al Long Island Sound. Attraversa il Massachusetts e il Vermont, la selvaggia campagna del New England, neanche un'anima in giro. Finisce fuori Drummondville, sul fiume San Lorenzo.» Lanciai un'occhiata alla mappa del New England sulla parete, ma non
vidi nessun fiume San Lorenzo. «Dov'è il San Lorenzo?» «Dov'è?» mi fece eco tra uno sbuffo e una risata. «Non va spesso a pesca, vero? Bei salmoni, belle trote arcobaleno in quel fiume. È in Canada. Lezione di geografia domani alla stessa ora, se le serve, succhiacazzi.» Lo udii ridere con una donna, quindi cadde la linea. Lo immaginai mentre riagganciava con rabbia, ma suppongo che una comunicazione interrotta abbia sempre il medesimo suono. «Uno dei residenti meno affabili del Connecticut rurale» dissi ad Art. «Il telefono usato per denunciare la morte di Pühapäev è davanti ad Arliss, sulla...» «La drogheria Arliss. So dov'è. Ma che cosa c'entra il San Lorenzo?» «A quanto sembra, è lì che finisce la statale 87. Su in Canada, vicino a una certa Drummondville.» Si grattò la barba, fissando il soffitto e restando a lungo in silenzio. «Strano. Potrebbe trattarsi di un errore, sai. La calligrafia del Panda. Il numero sbagliato.» Mi guardò mentre mi agitavo sulla sedia in segno di protesta. «Okay, prima di richiamare, dovresti contattare il nipote del tuo professore per vedere se sa darti qualche altra informazione sul Signor Estonia dalla pistola a sei colpi.» Annuii, ruotai sulla sedia e telefonai. Qualcuno rispose prima che l'apparecchio trillasse. «Parla Gomes.» «Ah, non sono... Sto cercando il dipartimento di polizia di Wickenden.» «Be', l'ha trovato» replicò. «Sono il detective Gomes. Che cosa posso fare per lei?» «Mi può passare Joseph Jadid, per favore?» «Un momento, prego.» Gomes sbatté la cornetta sulla scrivania. «Linea due, capo. È per te» annunciò in lontananza. Udii una voce più grave, assonnata. «X-Files, parla il detective Jadid.» «Piantala con questa stronzata di X-Files, amico» lo rimproverò qualcuno alle sue spalle. «Sì, mi chiamo Paul Tomm. Sono un giornalista del "Lincoln Carrier" e...» «Non parlo con la stampa. Resti in attesa, le passo il nostro addetto stampa.» «No, aspetti un attimo. È stato suo zio a suggerirmi di contattarla.» «Davvero? Quale zio?» «Anton.»
«Ha suggerito a un reporter di chiamarmi? Come fa a conoscerlo?» «Era uno dei miei docenti. Mi ha dato il suo numero questa mattina.» Sospirò, schiarendosi la gola. «Be', d'accordo. Ma mi stia bene a sentire: non usi il mio nome nell'articolo. Se proprio deve citarmi, faccia in modo che la dichiarazione resti anonima. Questa è una città abbastanza piccola, e di recente ho avuto qualche noia con i giornali.» «Nessun problema.» «Esatto, nessun problema. Allora, che cosa le serve?» «Sto scrivendo l'annuncio funebre di un certo Pühapäev. Viveva a Lincoln e lavorava a Wickenden. Anzi, lavorava con suo zio; era un professore. Comunque, è morto ieri notte, e so che aveva avuto qualche grana con la legge a Wickenden. Mi domandavo quale tipo di grana.» «Vediamo un po'.» Lo sentii digitare sulla tastiera di un computer. «Puha... e poi?» «P-A-E-V. Due puntini sulla a. Le prime quattro lettere sono P-U-H-A. Due puntini sulla u.» «Questo è un computer della polizia. Non abbiamo puntini. Ecco qua. Sa, prima di rivelarle qualcosa che non dovrei rivelarle, ci tengo a precisare che non lo farei per nessuno tranne zio Abe. Se la conosce abbastanza bene da darle il mio numero, penso che anche lei sia un tipo a posto. Non mandi a puttane tutte e tre le nostre reputazioni pubblicando qualcosa di stupido, okay? Se vuole riportare direttamente qualcuna di queste informazioni, dovrà prima mostrare il pezzo a me, capito?» «Naturalmente.» «Bene. Ecco qua. Jaan Pühapäev. Residenza nel Connecticut, patente del Connecticut. Due incidenti, con vari capi di imputazione. Abbiamo due imputazioni per detenzione di arma clandestina. Abbiamo due imputazioni per disturbo della quiete pubblica. Abbiamo due imputazioni per lesioni lievi causate dagli spari della suddetta arma, e abbiamo un'imputazione per ubriachezza e condotta contraria all'ordine pubblico quando sono andati ad arrestarlo. Se l'è sempre cavata con contravvenzioni e brevi periodi in gattabuia.» «Quando è successo?» «È successo... Un secondo. Maledetto computer» ringhiò, sferrando un pugno alla scrivania o alla macchina incriminata. «Ci sono. Primo incidente: 12 gennaio 1995. Secondo incidente: 24 agosto 1998. Poi più niente. Immagino significhi che il buon professore è morto da onesto cittadino.» Il tono con cui pronunciò quelle parole indicava che pensava
l'esatto contrario. «Sì, può darsi. Comunque, grazie mille. Scusi per il disturbo.» «Nessun disturbo per un amico di zio Abe. Ma, come le ho detto, mi chiami se vuole usare questi dati. Se le informazioni della polizia di Wickenden compaiono in un giornale di Wickenden, la gente si domanda come ci siano arrivate.» «Glielo prometto. Ma, per essere precisi, non le telefono da Wickenden. Le telefono da Lincoln, nel Connecticut.» «Lincoln, nel Connecticut» ripeté a pappagallo. «Dove cazzo è?» «Circa due ore a ovest di Wickenden. Vicino ai confini del Massachusetts e dello Stato di New York.» «Oh, be', merda, se scrive da quelle parti, usi pure il mio nome, la mia foto, il mio numero della previdenza sociale, tutto quello che vuole.» Ridacchiò e tacque. «Sto scherzando, sa.» «L'avevo intuito.» «Buon per lei. Be', senta, si diverta laggiù in campagna. Faccia attenzione.» Gli amici con cui ero cresciuto a Brooklyn avevano il medesimo atteggiamento: supera i limiti della città, e sei a casa del diavolo. Supera i sobborghi più esterni, e potresti anche essere nel Terzo mondo. Mio fratello, che aveva l'asfalto nelle vene, era un esempio significativo. Riferii i punti salienti della conversazione ad Art, che si grattò la testa, si appoggiò allo schienale della sedia e cercò consiglio nel soffitto. «In sintesi, un uomo è morto» osservò, sollevando il pollice destro «ma nessuno sa come sia morto.» Alzò l'indice. «Nessuno sa chi abbia denunciato la morte.» Dito medio. «Non sembra una rapina andata male.» Anulare. «La polizia locale se ne frega; la polizia statale e federale non ha motivo per interessarsi al caso. Ma» mano destra aperta, palmo all'insù «era un professore che non insegnava quasi nulla e girava armato di pistola. Niente amici, niente familiari, niente di niente.» «Sì, il quadro è più o meno questo. Non dimentichi il misterioso dettaglio del telefono pubblico.» «Giusto» convenne con lentezza. «Quello teniamolo in sospeso finché siamo sicuri della sua pertinenza. Okay, hai qualche altra chiamata da fare?» Scossi il capo. «Bene. Sono circa le sette e mezzo, e devo andare da Austell per quel drink. Se mi rifila di nuovo il suo sherry all'acetone, Gesù Cristo... A ogni modo, presentati qui domattina pronto per parlare di questo articolo con una mia amica. D'accordo?»
«Certo, chi?» «Lo scoprirai domani. Non avere quell'aria scettica: cambia espressione, altrimenti troverai lavoro solo come reporter.»
Il ney d'oro di Ferahid
Il nostro oro è un corpo perfetto, che non abbisogna di alcunché, che imita Dio; il nostro zolfo è un corpo imperfetto e attivo, che abbisogna di una moglie, che funge da marito. Tutte le cose terrene si originano da questa unione. Hamid Shorbat ibn Ali ibn Salim Ferahid, Sugli scopi della musica e della luce solare
Sulla banchina, Jurij aveva bevuto un ultimo bicchiere con ogni membro della famiglia e due con il padre, che aveva continuato a dare la colpa dei suoi occhi lucidi alla vodka e al vento sebbene fossero tutti pigiati contro il muro, sotto il cornicione. Nel tragitto fra la stazione e il binario, la madre l'aveva coperto di baci insieme teneri e rabbiosi. Gli aveva sistemato e risistemato la camicia, annodato e riannodato la sciarpa e abbottonato e riabbottonato il cappotto, cosicché, quando era salito in carrozza, era ormai quasi paralizzato nei suoi stessi abiti. Appena gli sbuffi del treno presero un ritmo regolare, Jurij, che era brillo e si sentiva la testa pesante, si addormentò. Quando si svegliò, il caotico e familiare panorama moscovita (tozze fabbriche di mattoni mezzo costruite o mezzo distrutte, betulle piantate a casaccio davanti a palazzi imponenti, strade e cavi metallici che si irradiavano dalle rotaie verso il cuore della città) aveva ceduto il passo a immense pinete punteggiate di rari villaggi formati da qualche viuzza sterrata e una manciata di minuscole dacie illuminate, assiepate come fumatori intenti a spettegolare in una taverna. Ogni volta che guardava fuori del finestrino, pensava: «Non sono mai stato così lontano da casa» e, dopo aver letto o scritto per un po', tornava a guardare fuori e pensava: «No, non sono mai stato così lontano da casa». Tutte le volte che controllava il paesaggio fugace, avvertiva una lieve fitta di nostalgia per lo Jurij di quaranta minuti prima, che non aveva ancora visto quanto aveva visto lo Jurij attuale. Mutava io a intervalli variabili e, quando cambiò convoglio quattro giorni dopo a Novosibirsk, si considerava ormai un uomo molto più navigato del ragazzo di
Yamoskvareche che era partito quasi cento ore prima. Il viaggio durò altri tre giorni. Alla fine, le foreste dalla vastità quasi irreale (così sterminate che le città russe parevano semplici puntini, avvallamenti provvisori in un deserto sconfinato e indomabile) furono sostituite dalle montagne. E le montagne si appiattirono e si erosero fino a tramutarsi in steppa: brandelli e protuberanze di bianco stesi sopra una terra monotona e immutabile, l'orizzonte tanto nitido e lontano da sembrare un'idea. Durante una fermata fuori Aktogay, Jurij scorse uno scorpione nero che si intrufolava sul treno prima che la provodnitsa, una donna dalle dimensioni di un alce, lo spingesse sui binari con la scopa. Un uzbeko, gli raccontò, le aveva detto che quegli animali portavano fortuna, perciò lei aveva capito subito che non erano di buon auspicio e aveva ordinato a tutte le sue ragazze di fare la guardia davanti alle porte con le scope, perché quelle bestiacce amavano infilarsi sui vagoni. Aggiunse che, se avesse avuto la disgrazia di essere punto, l'unico rimedio sarebbe consistito nell'immergere un panno di mussola in un'infusione di vodka e iperico per tre minuti e premerlo contro la ferita per trentatré, affinché l'erba riuscisse a estrarre il veleno dal corpo. Poi occorreva bruciare il tessuto con estrema accuratezza e spargerne le ceneri. Di fronte a quelle parole, il suo unico contatto umano dell'intero tragitto, Jurij annuì con deferenza senza replicare. Quando finalmente raggiunse Leninabad e vide il caporale impaziente all'ingresso della stazione, si sentì di colpo preoccupato al pensiero di rientrare nel mondo che prevedeva rapporti con i suoi simili. «Ingegner Kulin?» domandò l'altro. Jurij assentì. «Posso vedere i suoi documenti, per favore? Passaporto interno e propusk.» Il propusk: quell'indispensabile foglietto di carta la cui firma e il cui timbro ufficiale trasformavano le informazioni che conteneva in verità inoppugnabili. Se un propusk con il timbro ufficiale del partito e la firma del Delegato del Popolo per la Determinazione della Statura affermava che il possessore era alto tre metri e coperto di scaglie viola, doveva essere vero. Se la vista testimoniava qualcosa di diverso, era in errore: il propusk non ammetteva contraddizioni. Il propusk dichiarava che Jurij non era un laureato in linguistica, bensì un ingegnere incaricato di «sovrintendere alle fasi preliminari dell'eventuale creazione di un museo dedicato alla cultura socialista
tagika». Evidentemente, uno degli io di cui Jurij si era sbarazzato durante il viaggio verso Leninabad era quello dell'aspirante linguista, ora soppiantato da un ingegnere. Jurij porse i documenti al militare con la maggiore noncuranza ma anche con la maggiore sicurezza possibile. Il caporale aveva la corporatura muscolosa di un giovane contadino, la carnagione chiara e rubiconda e un'espressione rannuvolata che passava automaticamente a una giovialità incerta, come se si guardasse bene dal perdersi una battuta spiritosa. Lui e Kulin, anch'egli biondo e in divisa, spiccavano tra gli individui magri, scuri e dai lineamenti spigolosi che, con turpan e lunghe barbe, li attorniavano sulla banchina. Il caporale pareva a disagio per aver infastidito un uomo colto, anche se più giovane di lui; restituì i documenti a Jurij con un elegante saluto militare e lo accompagnò all'automobile, dove poté riprendere la sua confortevole posizione di servilismo. «Le è stato assegnato un alloggio privato presso la caserma ufficiali di Leninabad» annunciò con orgoglio. «E io mi chiamo Kravčuk. Le farò da autista finché si fermerà qui.» La vettura, una Zhiguli malridotta e infangata, procedette dalla stazione all'avamposto tra scossoni e sobbalzi sulla strada lastricata solo a metà. Quando arrivarono alla caserma (una sfilza di edifici tetri e grigi che parevano succhiare il colore a qualunque cosa li circondasse e a chiunque li abitasse), Jurij aveva ormai la sensazione che l'avessero fatto rotolare come un tronco per quindici chilometri. Alla mensa ufficiali consumò una prevedibile cena a base di cotolette (il cui principale ingrediente era, inutile dirlo, pane vecchio di giorni), insalata di cavolo unto, insalata di barbabietole unte, insalata di carote unte e patate oleose, il tutto condito da abbondanti cucchiaiate di aneto e panna acida un po' maleodorante. Gli uomini intorno a lui mangiavano in gruppi chiassosi oppure sedevano in un silenzio gelido, furioso e riservato. «Lei deve essere il nostro ospite. L'ingegnere.» Davanti a Jurij si era materializzato un tizio sulla sessantina, snello e dagli occhi penetranti, che indossava un'uniforme dell'esercito ricoperta di nastrini e medaglie. Aveva i capelli un po' più lunghi del tradizionale taglio militare a spazzola e una postura più rilassata del tipico portamento militare. Jurij si alzò. «Ingegner Kulin, signore. Ma, se posso chiederglielo, ho la divisa: come fa a sapere che sono un civile e non un soldato trasferito?» «Ah-ah» rispose l'altro, chinandosi verso di lui e facendogli cenno di avvicinarsi. Indicò il suo piatto. «Le sue abitudini alimentari la tradiscono.
Taglia la carne con le posate e si porta il cibo alla bocca con la forchetta. Mangia anche l'insalata con la forchetta. Non usa il cucchiaio, lasciandolo dove l'ha messo chi ha apparecchiato. Questi uomini, questi militari di leva» abbracciò la stanza con un gesto della mano destra, e gli occhi di Kulin percorsero il locale «utilizzano per lo più il dorso della forchetta per spingere tutto il cibo possibile sul cucchiaio e quindi se lo cacciano in bocca. Ora, non è inverosimile avere una recluta dal galateo accettabile, ma è inverosimile che conservi quel galateo dopo l'addestramento. Anche lei ha fatto il servizio militare, vero?» «Sì, signore, nella Repubblica tagika.» «E la sua buona creanza è peggiorata?» Kulin tacque e, senza volerlo, abbassò lo sguardo. «Vede» proseguì l'altro con un sorriso stiracchiato «non avrebbe mostrato quelle maniere a sua madre, vero?» «No, signore.» «Bene. Volevo darle il benvenuto, non rimproverarla. Sono il colonnello Voskresenyov. Dispongo di un alloggio privato a meno di cento metri dal suo. Si rivolga pure a me per qualsiasi problema.» «Grazie, signore, non mancherò.» «Gioca a scacchi, Kulin?» «No, signore.» «Ah. Peccato. Be', si goda la cena. Buona serata.» In camera sua, Jurij preparò l'occorrente per l'indomani: carta, matite, frasari tagiko-russo e uzbeko-russo (parlava molto bene tutte e due le lingue, ma gli avevano ordinato di portarsi dietro entrambi i libri e consultarli spesso), una fotografia di cui non sopportava la vista e che si augurava disperatamente di non dover usare e un sacchettino di velluto imbottito che entrava nella tasca segreta della sua valigia. Ripassò sia il nome e l'indirizzo dell'uomo con cui aveva appuntamento sia le condizioni dello scambio. Barattare due strumenti musicali con una vita umana sembrava assurdo e crudele, ma, come gli avevano ricordato, non era un militare. Se fosse filato tutto liscio, avrebbe ripreso il treno per Mosca di lì a due giorni, sarebbe tornato al suo posto in biblioteca nel giro di una settimana e avrebbe occupato una prestigiosa posizione al ministero della Cultura prima di terminare la tesi il giugno seguente. Dopo una generosa colazione a base di tè, pane nero, kaša salato e uova in camicia, Kulin e Kravčuk rimontarono in auto e puntarono verso nord.
«Dunque, compagno ingegnere...» «La prego, Kravčuk, quando siamo soli mi chiami Jurij. Non sono un soldato.» «Ma ha fatto il servizio di leva?» «Sì. A Dušanbe, anche se nei tre anni trascorsi laggiù non mi sono mai spinto fino alla regione di Fergana.» «Se lo dice lei, comp... Jurij. Io sono soltanto un contadino di Kharvik» aggiunse, gonfiando il petto con una risatina convinta ma autoironica. «La terra piatta e scura è la mia passione. Ho sentito che ieri ha conosciuto il colonnello.» «Sì. Molto cortese.» «Cortese» ripeté Kravčuk, incredulo. «Se entri nelle sue grazie. È un tipo strambo. Ma è baltico, sa, quindi è un po'...» Agitò la mano aperta, il palmo all'ingiù. Un po' squilibrato? Un po' matto? Un po' omosessuale? Kulin si schiarì la gola. «Lei da quanto tempo è qui?» «Oggi che cos'è... il 25 settembre 1979? Allora fanno undici mesi, due settimane e tre giorni. Se tieni il conto.» Rise di cuore e ruttò. «Comunque, un mio amico lavora come dattilografo per un generale e sostiene che presto ci trasferiranno in Afghanistan. Un invito dei nostri fratelli socialisti, dice il generale.» Kulin trasalì: andarsene a zonzo lì come un imperatore era una cosa, ma durante i suoi studi aveva letto alcuni resoconti sull'esercito britannico al passo di Khyber, e temeva che l'Afghanistan sarebbe stato un altro paio di maniche. «Se non le spiace che glielo domandi, Jurij, perché l'hanno mandata qui? Insomma, perché abbiamo bisogno di un museo proprio qui?» «Caporale, a dire il vero, non lo so. Il mio superiore mi ha ordinato di presentarmi qui. Il partito locale vuole documentare ed esporre i progressi culturali che la rivoluzione sovietica ha portato nel bacino di Fergana. Devo valutare l'idoneità della sede proposta per il museo, poi tornerò a casa.» «A Mosca, giusto?» Kulin annuì. «Si capisce sempre!» esclamò Kravčuk, sorridendo e dando una pacca al volante. «Ah, scusi. Non volevo essere indiscreto. Mi mostri di nuovo quell'indirizzo. Eccolo qui: attraversiamo il ponte, ed è il villaggio lassù a destra.» Il ponte che si allungava sopra il fiume Syr Darya segnava il confine di Leninabad e, per essere più precisi, il confine di fatto dell'Unione Sovietica. Tra ottobre e maggio la neve rendeva quasi impraticabile
l'angusta strada sterrata tra lì e Taškent, circa tre ore più a nord, e tra maggio e settembre i banditi la rendevano inaccessibile a chiunque non fosse accompagnato da un battaglione di soldati. A sud si ergevano le montagne del Pamir, a est si apriva la valle di Fergana, che ospitava violente fazioni regionaliste di ogni genere, e più in là vi era la Cina. La brusca fine di Leninabad: la monotona architettura sovietica abbracciava il corso d'acqua da una parte; rilievi che sbucavano tra la neve come uccelli abbattuti si allargavano sull'altra sponda, stendendosi e innalzandosi fino ai monti Tien Shan in lontananza. Una fotografia di quel panorama scattata dalla sorgente del fiume sarebbe sembrata finta, come se qualcuno avesse incollato la veduta di una città su quella di una valle. Kravčuk indicò nove casupole sul versante più vicino del colle, raggruppate intorno a un serpeggiante tributario marrone del Syr Darya. «Vivono quasi tutti così, in questi piccoli villaggi...» «Kišlaks.» «Come?» Kulin aprì il frasario per rimediare alla gaffe. «Qui dice che kišlaks significa "villaggio" in tagiko.» L'altro annuì. «Be', comunque si chiamino, sono senza dubbio più graziosi di Leninabad.» La strada terminava proprio sotto l'abitato, e Kravčuk spense il motore. Smontarono dall'auto e si incamminarono insieme, ma Kulin chiese al caporale di aspettarlo in automobile. «Solo per sicurezza. Capisce, lasciare un'automobile incustodita da queste parti...» L'altro assentì, per nulla deluso da quella decisione. «Se ha bisogno di me, mi faccia un fischio, ingegnere. Arriverò subito.» Kulin annuì, lo salutò agitando la mano e si avviò lungo la salita arrancando. Tre bambini uscirono dalla prima casa in cui si imbatté e cominciarono a urlare: «Russo, russo! Venite a vedere il forestiero!»; quando raggiunse il centro del villaggio, le grida erano ormai cessate, ed era circondato da bimbi scuri, silenziosi, dagli occhi spalancati. «Assalom u aleykum» esordì, al che una voce stridula lo interruppe rivolgendoglisi in russo. «Perché non parla la sua lingua madre? Noi la parliamo. Alcuni hanno frustate, cicatrici e bruciature che lo dimostrano.» La voce aveva un tono beffardo che rasentava l'intimidazione; apparteneva a un uomo alto con penetranti occhi verdi e un viso solcato da profonde rughe. Indossava un turpan a righe multicolori trattenuto da una fascia in vita e rimase assolutamente immobile, senza allontanare il visitatore né dargli il
benvenuto. «Grazie» replicò Jurij, imbarazzato. Attese che lo sconosciuto reagisse, ma quello continuò a tacere con aria sospettosa, senza cambiare espressione. «Desidero parlare con Porat Badhmadullaev. Mi hanno detto che vive qui.» «È vero. Hajji Porat, è così che si chiama adesso. Ha compiuto il viaggio con suo figlio lo scorso anno. Molto difficile, molto illegale. Ma se lei è chi penso che sia, sa già tutto.» «Non sono del KGB, se è questo che vuole insinuare. Sono un ingegnere, incaricato di trovare la sede adatta per un museo dedicato alla cultura tagika. Alla vostra cultura» spiegò Kulin, abbozzando un sorriso ma accorgendosi subito che lo faceva sembrare debole e insicuro anziché entusiasta e disarmante. Il suo interlocutore reclinò il capo piegandolo leggermente da una parte, un gesto di cui Jurij non conosceva il significato. «Può accompagnarmi da lui, per favore?» L'uomo indicò l'ultima casa del villaggio, in cima al colle, e si allontanò senza una parola. Batté le mani due volte, e i bambini si dispersero. Kulin si sentì numerosi occhi puntati addosso dall'interno delle casupole, ma nessuno uscì per salutarlo, minacciarlo o anche solo fissarlo. Raggiunta l'ultima costruzione, esitò prima di bussare alla porta di legno. Una voce lo invitò a entrare. Spingendo l'uscio, vide una baracca composta di un'unica stanza, al centro della quale un piccolo fuoco ardeva in un forno di pietra. Intorno sedevano quattro uomini: avevano tutti candide barbe biforcute senza baffi, portavano tuniche e turbanti bianchi e avevano volti allungati con occhi acquosi e profondi. Pareva che fossero lì da secoli, figure fuori del tempo, forgiate dalle fiamme, guardiani immobili e custodi di segreti. «Sta cercando Hajji Porat?» gli domandò uno dei quattro in tagiko. Kulin annuì, e tre di loro si alzarono e se ne andarono, senza aprire bocca né mutare espressione. L'unico rimasto lo guardò, serio. «Sono io Porat. Si accomodi, prego, e beva un po' di tè.» Versò un tè leggero da una malconcia brocca di alluminio in una sudicia ciotola di ceramica e la passò a Jurij con entrambe le mani. «Le hanno detto chi sono e perché sono qui?» domandò «Certo. Desidera costruire un museo della cultura tagika. Un posto insolito, direi, fuori della città, su un pendio soggetto a valanghe e colate di fango. Un posto davvero poco indicato.» Kulin avvertì un improvviso disagio all'idea di dover spiegare tutta la
situazione a Porat. L'uomo che aveva organizzato la missione gli aveva detto che Hajji aveva capito e accettato lo scambio. Kulin era un semplice intermediario, scelto per la sua intelligenza, ambizione, anonimato e conoscenza delle lingue locali. Si schiarì la gola e fece per parlare, quando Porat levò una mano affusolata. «Non deve dirmi niente. Conosco il vero motivo della sua visita. Mi hanno riferito che avrebbe avuto con sé la fotografia di Akbarkhan. Posso vederla, per piacere?» «Hajji Porat, non sono sicuro che...» Porat sollevò il bastone e lo abbatté con entrambe le mani sulla tazza di Jurij, mandandola in frantumi con il fragore di una cannonata. «Posso immaginare le sue condizioni. Quello che gli avrete fatto. Sono preparato. Mi mostri la foto.» Kulin la estrasse dalle pagine del frasario tagiko e gliela porse. Raffigurava un giovane in un letto d'ospedale, una mano che gli reggeva la testa. Raccapriccianti increspature nere e viola gli circondavano gli occhi chiusi e gonfi. Il naso era quasi schiacciato, rotto in più punti e in più modi. Le labbra spaccate e tumefatte erano socchiuse a rivelare una bocca insanguinata piena di denti fracassati. Sembrava che l'avessero immerso nel vino e gli avessero dilatato il cranio. I lividi scendevano fino alle spalle, dove l'immagine terminava. Porat tentò di soffocare un singhiozzo, che però gli sfuggì come un flebile respiro capace di svuotargli il torace. Kulin non si mosse. «Di che cosa lo hanno accusato?» domandò Porat, raddrizzandosi e sistemandosi il turbante. «Hajji, non lo so. Ma posso prometterle...» «Le promesse di un agente del governo sovietico valgono meno dell'aria che serve a pronunciarle. Ma mi dica, che alternativa ho?» Kulin tacque. «Ha visto?» Porat si avvicinò a un'elaborata cassa di rame nell'angolo. «Sono certo che la pagheranno bene per il suo disturbo. Un giovanotto come lei può avere auto, lavori, ragazze. Una bella casa per sua madre. Ma qualunque cosa riceva varrà meno di quanto consegnerà. E quanto consegnerà... ecco, io vi rinuncerei mille volte in cambio di Akbarkhan, mio figlio, il mio unico figlio. «Akbarkhan è l'ultimo discendente maschio di Ferahid, scienziato e musicista samanide. Saprei recitare quell'albero genealogico a ritroso per oltre mille anni, un padre dopo l'altro. Mi dica, quando comincia il suo
albero genealogico? Chi è lei?» Porat lo fissò con intensità. Il padre di Kulin lavorava in una fabbrica di torni; sua madre faceva la segretaria nella sede locale del partito. I suoi nonni erano contadini. La sua stirpe finiva lì; non rispose. «Suppongo che non abbia importanza» continuò Porat, aprendo la cassa ed estraendone un pacchetto incartato con cura. «Io, mio padre, suo padre prima di lui e tutti i nostri padri hanno impiegato secoli per trovare questi flauti. Adesso sono suoi. La nostra famiglia le cede il suo tesoro più grande in cambio della sopravvivenza. Una decisione dolorosa ma, in fin dei conti, molto facile.» Kulin scartò l'involto e vide due piccoli flauti, uno d'oro e uno d'argento. Li capovolse, e stava per controllare l'iscrizione, quando Porat batté il bastone contro il forno. «Li metta via e mi stia bene a sentire; lei non è un ospite qui. Esigo che invii questa sera stessa un cablogramma a chiunque lei debba inviare un cablogramma e che faccia liberare subito mio figlio. Che sia maledetto se non lo fa. Rivoglio Akbarkhan a casa. Adesso vada» ordinò, voltandogli le spalle ancor prima di aver finito. Jurij non incontrò nessuno tornando verso Kravčuk e l'auto. Nessuno uscì dalle casupole, ma da ogni abitazione provenivano costanti schiocchi di lingua: il verso di disapprovazione che sua madre faceva quando lui commetteva qualche errore. Cosa che, ovviamente, era successa anche ora. Il pensiero di rivestire solo un ruolo secondario in quella vicenda lo consolava poco, anzi per nulla. Sognava da sempre di visitare la valle di Fergana, e i primi tagiki che aveva conosciuto lo detestavano. O il figlio di Porat era un criminale e Jurij stava per consegnare una bustarella che l'avrebbe liberato oppure il ragazzo era stato rapito per ottenere quei due bizzarri strumenti chiusi nella sua borsa. Si domandò che razza di flauti fossero per essere tanto importanti agli occhi di qualcuno che era abbastanza potente da scarcerare un detenuto e garantire un futuro radioso a un linguista apolitico. Sapeva per esperienza che la curiosità tendeva a causare più guai di quanti valesse la pena affrontarne per soddisfarla, così scacciò quegli interrogativi dalla mente. Quando giunse all'automobile, Kravčuk sedeva sul cofano leggendo un libro e sorseggiando una birra. La finì e gettò il più lontano possibile la bottiglia, che affondò nel Syr Darya con un rumore gratificante. «Qualche problema?» «Nessuno. Che cosa stava leggendo?» Kravčuk sollevò il volume, studiandone il dorso. «Storia
dell'Uzbekistan, del Comitato sovietico per la fratellanza tra il Caucaso e l'Asia centrale.» Kulin conosceva quel testo: un racconto noioso, prevedibile e tipicamente sovietico in cui le glorie del marxismo-leninismo salvavano le fortunate minoranze dell'Asia centrale dalla barbarie e dalla superstizione. «Interessante?» domandò in tono distratto. «Molto. Stavo proprio leggendo della fossa piena di insetti.» Muzaffar Khan, un sovrano uzbeko vissuto verso la metà dell'Ottocento, era diventato famoso per la sua abitudine di gettare gli oppositori in una profonda fossa colma di vermi, scorpioni e roditori assortiti. Ogni tanto ordinava all'apicoltore reale di scagliarvi dentro un nido di calabroni. Gli storici sovietici adoravano quegli aneddoti e li preferivano ad Avicenna, Firdausi e alla Buchara di Rudaki (e, a quanto pareva, anche a Ferahid: Kulin si annotò mentalmente di documentarsi su quel personaggio quando fosse tornato tra le Leninskie Gory, le colline di Lenin). «Esistono modi molto più puliti per appianare una divergenza o sbarazzarsi di un avversario» commentò Kravčuk, sorridendo. Kulin annuì con aria assente e salì in auto, chiudendo gli occhi. Non si accorse che Kravčuk infilava la mano sotto il sedile e ne estraeva un oggetto di metallo grigio. Se Jurij udì il clic, probabilmente pensò che l'altro stesse regolando lo schienale. Quando avvertì qualcosa di freddo alla base della mandibola, spalancò le palpebre e tutto si illuminò di bianco.
REPERTO 3:
un ney, ossia un flauto a imboccatura terminale, di forma cilindrica, lungo 28,3 centimetri e largo 2,1, con sei fori per le dita su un lato e uno per il pollice sul retro. Poco sotto il bocchino vi sono un'incisione in stile persiano raffigurante un sole e un'iscrizione in caratteri farsi: «Oro, ma non il nostro oro». In effetti, lo strumento è d'oro, o meglio è un cilindro cavo d'oro riempito di zolfo in polvere e sigillato sia a entrambe le estremità sia sul bordo dei fori. Lo zolfo attutisce le note del ney, rendendolo così pesante che quasi nessun musicista riesce a suonarlo. Anzi, si intuì che Ferahid aveva usato lo zolfo perché pochissimi suonatori esperti erano in grado di produrre delle melodie soffiando in questo strumento, come narra lo
storico samanide Ghazi Jaffar Sharaf: «Avendo ricevuto dal suo musicista Ferahid uno splendido flauto d'oro, l'illustre Ismail cercò a lungo e invano di suonarlo. Frustrato, scagliò lo strumento verso Ferahid, al che l'oggetto rimbalzò contro un pilastro, liberando una polvere giallastra. Parte di essa cadde nel fuoco, emanando un cattivo odore. Ferahid la definì "un ingrediente segreto e portentoso per ogni genere di trasformazione e medicamento efficacissimo". Fuse poi molti dei suoi tesori per riparare il flauto e lo restituì a Ismail, il fiore estivo di Buchara, che fu assai contento di tale gesto. Ferahid convocò quindi il suonatore di oud e i maestri di doura e doira e si esibì con grande fatica in un brano di sua composizione, al che la musica prodotta dal ney d'oro di Ismail risultò diversa da quella di un ney normale quanto la più dolce uva estiva da una zolla di sabbia del deserto». Come tanti altri oggetti nel laboratorio di un alchimista, il ney serve più a rammentare che a eseguire. È una rappresentazione di principi, una metafora tripartita: l'oro è, come tutti sanno, un materiale prezioso, e gli alchimisti sono stati a lungo associati, più o meno correttamente, alla trasmutazione di metalli senza valore in metalli pregiati. L'oro simboleggia pertanto la fase finale del processo alchemico, la sostanza mutata definitivamente e immutabile. Il sole rimanda sia all'oro sia al fuoco della trasformazione. È il padre alchemico, la forza calda, attiva e penetrante del processo. Lo zolfo, che Ferahid utilizzò per riempire il ney, incarna i medesimi principi maschili del sole. Secondo la teoria enunciata da Kabeljauw, questo elemento «è la forma fondamentale di tutti i metalli; benché puzzi come il diavolo, dobbiamo avere qualche contatto con esso, giacché una modesta conoscenza dei principi demoniaci ci permetterà di trionfare sulla condanna attiva (ossia la tentazione) e sulla condanna passiva dell'ignoranza». DATA DI FABBRICAZIONE: COSTRUTTORE:
1000 d.C.
Hamid Shorbat ibn Ali ibn Salim Ferahid, musicista e astronomo presso la corte samanide di Buchara nonché precettore di Abu Ali ibn'Sina (Avicenna) e proprietario della maggiore biblioteca della città. Dedicò la sua vita alla composizione di un'unica opera, mai completata e mai rinvenuta. Il suo illustre allievo riferisce che Ferahid
«ha accresciuto l'umana conoscenza di Dio più di quanto qualunque uomo abbia fatto in precedenza, ma non cerca fama in cambio delle sue fatiche, giacché il pensiero che le sue scoperte vengano usate a scopi oscuri e contrari alla saggezza divina lo tortura senza sosta, tanto che sono in apprensione per la sua salute fisica e mentale. Si rifiuta di uscire di casa, ma ho veduto i portenti di cui parla e potrei testimoniarne la grandezza al cospetto del mondo». Quando Ferahid morì, Avicenna scrisse che il suo maestro «è volato tra le braccia di Dio nella notte appena trascorsa, in circostanze assai grottesche e spaventose. È svanita ogni traccia del suo enorme lavoro, e temo proprio che passerà alla storia come un semplice artigiano». LUOGO DI PROVENIENZA:
pur essendo al servizio della corte samanide di Buchara, Ferahid visse e lavorò a Khûjand, dove probabilmente vide la luce questo flauto. ULTIMO PROPRIETARIO CONOSCIUTO:
Porat Badhmadullaev, residente a Bilanjan, una città di confine tagiko-uzbeka all'imboccatura della valle di Fergana, dall'altra parte del fiume rispetto a Leninabad (l'allora e futura Khûjand). Porat era il novantanovesimo discendente maschio di Ferahid e portò a termine l'impresa cominciata dai nipoti di quest'ultimo: trovò e ottenne i ney del suo antenato. Durante il declino della dinastia samanide, all'inizio del XII secolo, i flauti furono inviati come tributo a Baghdad, dove al-Idrisi li vinse sconfiggendo il califfo in un gioco di abilità. Il geografo li portò con sé alla corte siciliana di re Ruggero II, ma, quando scomparve durante la realizzazione di una mappa dell'Europa nel 1154, l'esistenza degli strumenti divenne una leggenda. Nel Trecento uno degli antenati di Porat raccontò di averli visti a Venezia. Duecento anni dopo, un altro fu impiccato a Trivandrum per aver cercato di rubare un flauto d'oro a un agiato proprietario terriero. Porat non rivelò mai come se li fosse procurati. Jurij Kulin, un giovane e promettente linguista specializzato negli idiomi dell'Asia centrale, fu mandato a Bilanjan con il pretesto di raccogliere la testimonianza di Porat ed esporta in un museo della cultura tagika, progettato da lungo tempo ma mai costruito. All'epoca, Bilanjan, come gran parte della valle di Fergana, stava diventando sempre più ribelle, stretta nella morsa del fervore religioso islamico del tardo Novecento.
Secondo il resoconto dell'esercito sovietico (che è, naturalmente, il resoconto ufficiale), i fratelli di Porat spararono a Jurij Kulin, ne mutilarono il corpo e lo gettarono giù per la collina verso le sponde del Syr Darya. La vittima atterrò ai piedi del caporale Aleksej Kravčuk, la scorta militare di Kulin, che denunciò l'omicidio (il cadavere senza mani, senza testa e senza orecchie) e dichiarò di aver udito i fratelli di Porat esplodere nell'aria alcuni colpi trionfanti dal villaggio. Tre ore dopo, Bilanjan fu rasa al suolo dalle bombe. Stando ai documenti disponibili, di lì a qualche ora Akbarkhan Badhmadullaev, detenuto nel carcere di Lefortovo perché sospettato di terrorismo, «si suicidò scagliandosi più volte contro le sbarre della sua cella». Tre giorni dopo, il caporale Kravčuk sparì senza più dare sue notizie. VALORE STIMATO:
l'oro varrebbe già di per sé diverse decine di migliaia di dollari. Considerando anche la sua antichità e la sua storia avventurosa, il ney potrebbe spuntare senza difficoltà una cifra milionaria. Quanto paghereste per la lampada di Aladino?
Il Sole è suo padre, la Luna sua madre.
Il mattino seguente, dalla finestra della redazione, il lago Massapaug scintillava immoto e profondo come un opale nel sole del tardo autunno. Non vi erano barche, bagnanti o pescatori che ne agitassero la superficie. I telefoni tacevano, e io e Art non parlavamo. Nancy era in vacanza e, poiché le nove erano passate da poco, Austell non era ancora arrivato. Una leggera brezza increspava l'acqua lungo le sponde, facendo strisciare i rami quasi spogli contro il tetto. Sedevamo nell'ufficio di Art, lui con caffè e sigaretta, io con un giornale. La mattina non aveva ancora cominciato ad assumere la forma di una giornata vera e propria. Avevo trascorso la sera precedente a guardare una di quelle orrende partite di football infrasettimanali su una stazione televisiva pubblica di solo sport. In quel periodo dell'anno, quasi tutti i fan dei Jet contraggono un bruciore di stomaco che non guarisce mai del tutto. Ecco come mio fratello Victor descrive la strategia della squadra: «Inspira, quindi lotta fino all'ultimo». Dopo aver perso quattro incontri che avrebbero dovuto vincere in settembre e ottobre, i Jet vincono tre incontri che avrebbero dovuto perdere in novembre e dicembre, passano ai play-off e vengono stracciati durante il primo girone. Immancabilmente. L'anno prima ero tornato a casa per vederli uscire sconfitti dal turno preliminare contro l'Oakland con Vic, sua moglie Anna e Chris, mio nipote. Era accaduto nel tremendo momento della rottura con Mia, e avevo finito per bere troppo, sparlare di lei e addormentarmi sul divano prima del calcio d'inizio. Anna era una di quelle mamme apprensive che tramava già di iscrivere Chris a Harvard; uno zio depravato che urlava una bestemmia dietro l'altra e rischiava di spaccare l'osso del collo al bambino franandogli addosso con la testa annebbiata dalla birra non rientrava nei suoi progetti. Be', pazienza. Quell'anno speravo in un invito di Art per i play-off (lui e la sua stabile famiglia erano quasi sempre più tolleranti dei miei entropici e nervosi parenti), ma mi sarei accontentato di un invito del mio divano.
Un rumore di passi rapidi e decisi sulla scala di legno che conduceva alla porta d'ingresso risvegliò me e Art dalle rispettive fantasticherie; fissammo entrambi l'uscio che si spalancava. «Sai, ti ho preparato il pranzo in modo che possa mangiarlo durante la giornata. Non puoi più vivere di tabacco e caffeina, non alla tua età e non con il tuo cuore.» Donna Rolen si avvicinò con aria teatrale alla scrivania del marito, allungandogli con risolutezza un contenitore Tupperware con un panino e una mela. Art sussultò con aria altrettanto teatrale e lo prese, sollevando il coperchio e annusando. Donna sbuffò, rivolgendosi a me. «Ciao, caro. Ti sta strapazzando troppo? Quello è un sandwich al prosciutto? Stai già pranzando?» Ebbene sì, mi vergogno ad ammetterlo, ma mangiavo un sandwich al prosciutto alle nove del mattino. «No, sì, no. È la mia colazione... Mia madre è olandese. Ma oggi non mi sono portato il pranzo; voglio restare in forma.» Donna eruppe in una risata tanto fragorosa da scuotere le tegole del tetto, molto più fragorosa di quanto richiedesse quella battuta mediocre. «Diventerai trasparente! Come fai a pensare se non mangi? Non concluderai mai niente!» Strappò il Tupperware al marito e lo depose davanti a me. «Tanto non ha intenzione di mangiarlo! Vuole solo farmi contenta. Prendilo tu. È tacchino. Ti piace il tacchino?» Annuii. «Fantastico. Non permettergli di intimidirti» aggiunse, indicando Art, che assunse la sua espressione da marito in castigo e scivolò più giù sulla sedia. «Se comincia a insultarti, sai che cosa fare, giusto?» «Lo insulto anch'io? Uso il mio anello segreto anti-insulti?» Donna mi guardò come se mi fosse appena spuntata una seconda testa (temetti di aver offeso la sua rigida sensibilità del New England), quindi rise ancor più forte. «Devi uscire di qui! Cerca altri giovani, cacciati nei guai! Art adora averti qui, giusto?» Anche se non lo degnò neppure di un'occhiata di conferma, intravidi il cenno del capo, seguito da un'alzata di occhi meno percettibile. «Ma alla tua età dovresti stare fuori tutta la notte. Sopravviveremo anche senza di te, sai.» Altroché se lo sapevo; Art e Donna sarebbero sopravvissuti a quasi tutto. Avevano abitato in più Paesi di quanti la maggior parte della gente riesca a visitarne, e la loro recita della moglie bisbetica e del marito bistrattato era soltanto questo: una recita innocua e divertente che nascondeva un amore collaudato e profondo. I miei genitori non restavano insieme nella stessa stanza da oltre dieci anni; questi due non avevano mai trascorso una notte
separati in quattro decenni. La famiglia di Donna viveva a Lincoln da quasi due secoli e, pur scherzando sul fiero puritanesimo e sulla stoica freddezza degli abitanti del New England, dopo il mio trasferimento la signora Rolen mi aveva preparato la cena tutte le sere per un mese e non mi aveva mai lasciato andare via a mani vuote, anche se questo significava rubare il pranzo al marito e darlo a me. «Gliel'hai detto?» domandò ad Art, che scosse la testa. «Dovrei preoccuparmi?» domandai. «Sì, ragazzo, sei licenziato. È il mio unico reporter in grado di lavorare» Art roteò gli occhi verso di me, parlando con Donna «e crede che voglia buttarlo fuori, consentendo ad Austell di trasformare il giornale nel "Carrier Geographic". No, non hai motivo di preoccuparti. Ieri sera io e Donna stavamo discutendo del tuo necrologio e...» «Non conoscevo quel tizio» lo interruppe la moglie «e ormai penso di conoscere quasi tutti in città. Be', tranne i turisti del week-end.» Pronunciò le ultime tre parole nel tono che normalmente si riserva alla parola «scarafaggi». «Ma credo di averne sentito parlare.» Presi il bloc-notes. «Come? Da chi?» «Dalla nostra nuova insegnante di musica.» Donna faceva la bibliotecaria alla Talcott Academy, la scuola elementare locale. «Ha preso in affitto il pianterreno della casa di Mary DeSouza in Orchard Street. Il tuo uomo abitava lì?» Consultai gli appunti e assentii. «Allora deve essere lui. Lei continua a blaterare dello strano vecchio che vive nella sua via, dicendo che non ha amici, che viene da un Paese straniero, che sa un mucchio di cose affascinanti, che le fa pena eccetera eccetera. Cucina per lui e gioca a scacchi con lui. O forse dovrei dire "cucinava" e "giocava".» «Come si chiama?» «Hannah Rowe. Ha iniziato solo quest'anno, e tutti i maschietti hanno già una cotta per lei.» «È carina?» Tentai di porre quel quesito in tono noncurante, ma con molta probabilità la mancanza di storie sentimentali recenti lo fece sembrare più interessato del dovuto. «Vedi» commentò Donna con un largo sorriso «è umano, dopo tutto.» Rise, e io avvampai. «Hannah è molto attraente. Troppo alta, se vuoi il mio giudizio, ma non ci si può fare niente.» Tacque, trattenendo il fiato per un po' prima di proseguire a voce più bassa. «Sai, non è proprio la beniamina
dei suoi colleghi. Ma io non ho mai avuto problemi con lei.» «Perché? È antipatica?» «Be', no, ma, ecco... Forse dovrei stare zitta. Una ragazza carina è destinata a smuovere qualcosa in tutti quei matusalemme.» Mi limitai ad annuire. Non avevo mai sentito Donna esternare la benché minima critica su qualcuno, e sembrava metterla a disagio. «Allora la reputa simpatica?» domandai. «Oh, be', sì, certo. Ma, sai, non la conosco molto bene. È educatissima e diligente per quanto riguarda i doveri di sorveglianza e così via.» Fece una pausa e deglutì. «Non so se la inviteremo a cena o qualcosa di simile, giusto, caro? Però è abbastanza cordiale.» «Va bene. Crede che sarà disposta a parlare con me?» «Be', penso di sì. Lo spero proprio. Con il tuo fascino sono sicura che non avrai alcuna difficoltà.» Mi diede una pacca sul ginocchio. «Non ne sono poi così convinto, ma grazie. Ha per caso il suo numero di telefono?» «Il suo numero di telefono? Accidenti. Non perdiamo tempo, eh?» Mi strizzò l'occhio. «No, ma sono certa che il servizio informazioni ce l'ha. Meglio ancora, chiama la scuola. Adesso Hannah è lì, ne sono sicura. E devo tornarci anch'io; ho promesso a Joanie che sarei stata via solo per cinque minuti.» Consultò l'orologio e guardò fuori della finestra: come la maggior parte degli abitanti di Lincoln, lasciava sempre l'auto accesa quando sbrigava una breve commissione, un'abitudine che non ha mai smesso di stupirmi. «Okay» tuonò, rivolgendosi ad Art «oggi hai intenzione di pranzare, vero? Paul mangerà il sandwich che avevo preparato per te, e tu puoi andare a casa e prendere qualcosa dal frigo.» «Vuoi consigliarmi che cosa scegliere? E già che sei qui, potresti anche ricordarmi di non restare davanti al frigorifero con lo sportello aperto.» Si posò la guancia sulla mano con un'espressione esagerata da scolaretto annoiato. Donna levò il pugno nella sua direzione e gli diede un bacio sulla fronte. «È fortunato che lo ami, altrimenti dovrei ucciderlo. Non lavorate troppo, ragazzi» concluse, agitando la mano con finta civetteria mentre chiudeva la porta e scendeva gli scalini. Dopo che fu uscita, rimisi il pranzo di Art sulla sua scrivania, e lui lo spinse di nuovo verso di me. «Mangialo tu. Davvero. Io mi arrangerò.» Stringendomi nelle spalle, presi il contenitore e cercai di rammentare l'ultima volta che mio padre mi aveva offerto un panino fatto in casa. Mai.
Non eravamo così legati. Pensavo che Vic (Vic che era passato dal college alla facoltà di giurisprudenza, Vic con moglie e figlio, Vic il simpaticone, Vic proprietario di un appartamento e giocatore di golf) mantenesse contatti e ricevesse attenzioni sufficienti per entrambi. Un tono rassegnato si insinuava nella voce di mio padre ogni volta che mi domandava cosa stessi facendo. Durante il Ringraziamento dell'anno prima aveva osservato «che molta gente affermata ha iniziato come te». Era stato allora che mi ero complimentato con Anna per la cena squisita. Quando lui aveva espresso il suo rammarico «perché hai rovinato tutto con quella bella ragazza orientale», il mio giudizio era salito a eccellente. Negli ultimi tempi mio padre aveva cambiato tattica, passando dalla belligeranza esortativa all'emissione di un lungo sospiro da martire appena dichiaravo di amare il mio lavoro. Continuavo a rimandare la telefonata che gli dovevo perché ero certo che mi avrebbe invitato a Indianapolis per trascorrere il Natale con lui, la sua nuova moglie nevrotica con i capelli tinti di biondo e i miei stupidi fratellastri. Avrei preferito ingoiare della soda caustica, ma avrei dovuto assicurarmi di scegliere la marca giusta, altrimenti papa si sarebbe sentito mortificato. «Sai, stai conducendo delle vere indagini per questo pezzo» commentò Art. «Non la solita cronaca locale di cui ti occupi per me.» Non sapendo dove volesse andare a parare, mi limitai ad assentire. «Dovremmo pubblicarlo in un giornale più importante del "Carrier".» «Per esempio?» «Ecco perché ti ho chiesto di arrivare presto oggi» disse, prendendo il telefono. «Chi stai chiamando?» «Leenie» rispose, componendo il numero. «Eileen Coughlin. È la vicedirettrice del principale quotidiano di Boston, e io e lei...» Lasciò la frase a metà, restando in ascolto. «Lee-nie» salutò la sua interlocutrice, la voce che si alzava sulla seconda sillaba mentre un sorriso appena accennato gli tremolava sulle labbra, spariva e lasciava il posto a un sorriso più largo. «Sì, hai indovinato. Come stai? Aspetta solo un minuto... Attivo il vivavoce.» Una roca voce femminile con un marcato accento bostoniano uscì gracchiando dall'apparecchio. «... vorrei tanto fare a meno di questo maledetto aggeggio e parlare come una persona normale.» «Leenie, ricordi l'altra sera da Metzger, quando ti ho parlato del ragazzo
che lavora per me? Paul Tomm?» «Sì.» «Be', è qui in ufficio con me, e sta seguendo un caso che, a mio parere, è più adatto a voi che a noi.» «Davvero? Se questo giovanotto ha ottenuto l'approvazione di Artie Rolen, sono tutta orecchie. Sentiamo.» Art mi puntò contro un dito facendo un cenno del capo: tocca a te. Le raccontai la storia nel modo più stringato possibile, gonfiando le parti più oscure (un misterioso e paranoico professore immigrato che si portava dietro una rivoltella e talvolta la usava, nessuna spiegazione plausibile per il decesso, un cittadino ignoto e preoccupato che denuncia la morte da un telefono pubblico, possibile furto, fedina penale non proprio immacolata) e sorvolando sulla conclusione più banale (un vecchio eccentrico muore da solo per cause naturali). «Be'» osservò Leenie dopo che ebbi finito «potrebbe esserci sotto qualcosa. D'altro canto, potrebbe anche non esserci sotto un bel nulla. Ma è interessante. Artie ti dà istruzioni o soltanto consigli?» «Soltanto consigli, tesoro» rispose Art. «Il ragazzo sa vestirsi da solo e ha anche imparato a usare il vasino.» «Ascolta, Paul, fammi un favore, se non ti dispiace» aggiunse lei, ridendo. «Prendi il ricevitore in modo che non debba sentirti sbraitare in una scatola di metallo. Grazie, ora va meglio. Ecco qui come stanno le cose: Art parla bene di te, e io ho una buona opinione di lui. Art pensa che tu pensi di avere qualcosa tra le mani, e tu pensi di avere qualcosa tra le mani e, se è così, è vero che non è roba per il "Carrier". Se le tue ricerche danno qualche risultato, richiamami e ne discutiamo. Nel frattempo, risultati o non risultati, di tanto in tanto pubblichiamo servizi di interesse locale da tutto il New England. Se scovi qualcosa che valga la pena di essere stampato, fammi un fischio. Ora, prima che riagganci, ti spiacerebbe passare il telefono ad Art? Buona fortuna, e fatti vivo.» Porsi il ricevitore ad Art, che si profuse in saluti, propose per educazione qualche improbabile data per un nuovo incontro con Leenie e riattaccò. «Ha detto che ti troverà un po' di spazio?» Annuii. «Se c'è davvero qualcosa sotto. Mi ha anche proposto di scrivere servizi di interesse locale da qui.» «Sì. Dovresti accettare. Il loro attuale corrispondente in questa zona è famoso per la sua pigrizia e la sua inaffidabilità.» «Chi è?»
«Io» rispose con un sorriso timido. «Scrivo forse un articolo ogni tre o quattro mesi, ma tu potresti prepararne uno al mese senza problemi. La paga è discreta, i pezzi non sono troppo difficili, ed è una buona occasione e un ottimo aggancio se vuoi andare a Boston. E, credimi, tu vuoi andarci. Magari Leenie ti affiderebbe qualcosa che ti permetterebbe di non fare troppa gavetta, sai, in modo da non doverti trasferire da qui a... non so... New Haven, Springfield o roba simile. Intanto devi continuare a scavare.» Abbassò la testa, indicando l'apparecchio. «Intendi chiamare l'insegnante di musica?» Come le aziende di scarpe da tennis sponsorizzano i corridori, i produttori di telefoni dovrebbero sponsorizzare i reporter: a parte gli operatori di telemarketing, nessuno li usa quanto noi. Composi il numero della scuola, e mi rispose una strozzata voce da filologa. «Talcott Academy, qui è la signora Turley. Come posso aiutarla?» «Mi può passare Hannah Rowe, per favore?» «Oggi la signorina Rowe è in malattia. Posso lasciarle un messaggio?» «Veramente, è una questione importante. Ha un numero dove possa reperirla?» «Chi parla, prego?» «Sono suo cugino Brett» mentii, tra i risolini silenziosi di Art. «Ho telefonato perché passerò a Lincoln questa sera e volevo fermarmi a salutarla. Il fatto è che ho lasciato il suo numero a Philadelphia e non riesco a rintracciare mia moglie. Forse potrebbe mettermi in contatto con lei in qualche modo?» «Oh. Be', di solito non... Ma immagino... sì, immagino che, trattandosi di un parente... Eccolo qui: 555-0791. Le auguri una pronta guarigione da parte mia.» «Non mancherò. Grazie mille, signora Turley.» Allora non credevo nel fato, nella sorte, nella predestinazione e in nessuno degli altri «segni dell'opera divina su questa terra» tanto amati da Hannah. Prima di conoscerla, guardavo a queste idee con perplessità, considerandole l'innocua imposizione di un ordine narrativo a un mondo essenzialmente casuale. Ora provo un forte disprezzo nei loro confronti; sono pericolose, se non addirittura folli, e ho imparato che la gente ci crede per vanità. Non posso provare sdegno per Hannah senza pensare le medesime cose (o cose ancor peggiori) di me stesso, che la giudicai tanto ammaliante per un periodo così breve.
Non posso neppure fare a meno di considerare quella conversazione telefonica qualcosa di eccezionale; la trascrissi in un diario che cominciai a tenere quella sera, ma in realtà le parole di Hannah sono tuttora impresse nella mia memoria, scolpite nel ghiaccio e congelate. La storia che sto raccontando non vuole essere una testimonianza, bensì uno strumento per celare le emozioni dietro un velo di parole, e dunque per sconfiggerle. Distruggerò il ricordo di Hannah conservandolo. Ma andiamo avanti. Composi il numero che mi aveva dato la signora Turley e al terzo squillo sentii un: «Pronto?». «Parlo con Hannah Rowe?» «Sì, sono io.» «Mi chiamo Paul Tomm e sono un giornalista del "Lincoln Carrier".» La sua voce si accalorò; aveva un sorriso percettibile che mi colpisce ancora come un pugno nello stomaco quando ci penso. «Oh, adoro il "Carrier". La conosco; ha scritto l'articolo sulla ricostruzione del vecchio mulino.» «Esatto. Lei sì che sa come lusingare un reporter.» «Non sono lusinghe. Io e il signor Relaford, l'insegnante di educazione artistica, abbiamo portato gli studenti al mulino dopo aver letto quel pezzo. Loro disegnavano mentre io suonavo in quell'enorme stanza di pietra. È stato come suonare in una chiesa. Un'acustica stupefacente. Perciò grazie, signor Tomm.» Sentire la sua voce pronunciare il mio nome mi riempì già di imbarazzo e gratitudine. Ecco che cosa accade quando un maschio giovane e sano se ne sta rintanato per mesi in una cittadina di provincia senza amicizie femminili. Ma all'epoca ero certo più bravo a costruire storie d'amore nella mia mente che nella realtà. «Grazie a lei. Come dicevo, siamo tutti egocentrici da queste parti. Siamo contenti quando vediamo il nostro nome stampato nero su bianco. Quello che desideriamo davvero è la celebrità. Quindi lei ha reso memorabile la mia settimana.» Eruppe in una risata stuzzicante, compiaciuta, accompagnata da un doppio singulto. «Le ho telefonato perché sto scrivendo un articolo su Jaan Pühapäev. Ho saputo che è il suo vicino.» «Sì.» «L'ha visto di recente?» «Vediamo. Oggi no, ieri neanche, e martedì sera ho fatto la sorvegliante alla gita del gruppo giovanile. Di solito faccio un salto da lui una volta nel week-end e una volta durante la settimana, ma non ho ancora avuto il
tempo di andare a trovarlo.» «Così l'ultima volta che l'ha visto sarà stata...?» 118 «Vediamo. Giovedì o venerdì scorso, credo. Sta preparando un pezzo su di lui? Ottima idea, sa. È un uomo così affascinante.» Tacqui. Non per rispetto del defunto (anche se mi vergogno ad ammetterlo), ma perché non volevo rovinare la conversazione accennando a qualcosa di triste. Ma poi pensai che avrei potuto consolare e abbracciare questa donna sconosciuta, con cui parlavo solo da qualche istante. «Mi rincresce molto comunicarglielo, ma il professor Pühapäev è deceduto. È successo all'inizio della settimana.» Restò in silenzio, quindi la udii gemere piano. «Mi dispiace così tanto» le dissi, e parlavo sul serio. «Sta bene?» Tirò su con il naso. «Oh, benissimo. Detesto soltanto l'idea che sia morto da solo. Ma sono sicura che adesso è in un posto migliore.» Non volevo contraddire quell'ultimo commento. «Ascolti, crede che sia possibile incontrarci per parlare di lui? Sto cercando di scrivere un articolo, e lei sembra essere l'unica persona in tutto il Connecticut e il Rhode Island che lo conoscesse davvero.» «Un articolo? Vuoi dire un necrologio?» «Sì.» Quasi. Forse. Tecnicamente sì, presumo. Sospirò. «Certo. Ufficialmente sono in malattia, perciò preferirei non uscire. Perché non viene a prendere il tè qui oggi pomeriggio?» «Volentieri. So che abita vicino a Jaan.» «Forse sarebbe meglio dire "abitavo"» replicò con un respiro e una risatina mesta. «Sono dall'altra parte della strada, un po' più in là lungo la via. Non c'è il numero civico, ma è un edificio marrone a due piani, con le imposte bianche. Io vivo al pianterreno.» «Okay. Grazie per la disponibilità.» Tacque e fece per parlare due volte prima di riuscire a trovare le parole. «Gli ero affezionata, sa. Gli ero affezionata, e voglio che la gente lo ricordi. Naturalmente, lo faccio per lui. Se può, passi oggi pomeriggio intorno alle quattro.» «Va bene. Ci vediamo alle quattro.» Ci salutammo prima di riagganciare. Forse dipese dal fatto che, dopo Mia, non ero andato a letto, né tanto meno avevo flirtato, con nessuno. Forse dipese dal fatto che il professore frustrato dentro di me scorgeva sempre una promessa nell'autunno. Forse
mi sentivo solo. Ma avevo l'impressione che qualcuno mi avesse appena svegliato con una scrollata e, riattaccando, notai che mi tremava la mano. «Bene. Alle quattro. Che cosa hai intenzione di fare adesso?» mi domandò Art. «Andare a prepararmi?» Ridacchiando, si appoggiò allo schienale della sedia e incrociò le braccia dietro la testa. «Vacci piano. Non è un appuntamento, giusto? Stai ancora lavorando a questo caso, vero?» «Sì. Scusi. Adesso credo che...» «Che telefonerai al Panda per vedere se oggi ha qualche novità.» Feci il numero del suo ufficio, ma la voce femminile sommessa e nasale che mi rispose non era quella che mi aspettavo. «Ufficio di medicina legale della contea di New Kendal.» «Il dottor Sarath... Schata...» Consultando il biglietto da visita, sillabai: «Sunathipala, per favore». «È un parente?» «Mi scusi... Mi sta chiedendo se ho telefonato per la restituzione di un corpo? No.» «No. Volevo sapere se è un congiunto del dottor Sunathipala.» «No, e...» «Chi parla, prego?» «Paul Tomm. Sono un giornalista. Un suo amico» mentii. «Allora sono spiacente di informarla» proseguì in tono solenne «che il dottor Sunathipala è morto ieri sera. Un'auto l'ha investito mentre tornava a casa.» «Morto? Come sarebbe...? Ma l'ho sentito soltanto ieri. Io non...» Art mi fissava, gli occhi strabuzzati, la bocca socchiusa, la mano paralizzata nel gesto di estrarre il pacchetto di sigarette dal taschino della camicia. Scosse la testa ma non disse nulla, con un'espressione che manifestava paura, sgomento, incredulità. «Lo so. Siamo tutti esterrefatti. Era un uomo così caro. Terremo una cerimonia commemorativa in suo onore qui in ufficio. Non so ancora che cosa farà la famiglia.» La sua voce divenne più incerta, come se cercasse di trattenere i singhiozzi. Che cosa potevo dire? Volevo solo mettere giù il prima possibile. «Sono desolato.» «Grazie.» La ringraziai di nuovo, riagganciai e riferii l'accaduto ad Art. Si tenne
l'indice e il pollice destro sul dorso del naso così a lungo che pensai si fosse addormentato. Come una scultura di ghiaccio sotto un asciugacapelli, si mosse pian piano, quasi sciogliendosi in una pozzanghera sulla scrivania. Mi alzai in silenzio e stavo per posargli una mano sulla spalla, quando si raddrizzò. «Sono solo... Sai, quando lavori in svariate zone di guerra, cominci a conoscere più morti che vivi» osservò in tono pacato. «Ma non diventa mai più semplice.» Si infilò una mano in tasca e ne estrasse un foglio floscio e sgualcito dal tempo. «Me l'ha dato un vescovo a Hebron vent'anni fa, forse venticinque. Allora vivevo a Beirut per seguire la guerra civile. Brutto periodo. Ricordo ancora...» Agitò la mano e, con gli occhi chiusi, scosse rapidamente il capo, come se stesse rifiutando qualcosa. «Un'altra volta. Comunque, questo vescovo aveva costruito una piccola capanna su una collina. Il movimento dei coloni stava prendendo piede sotto Begin, e lui voleva protestare contro l'idea secondo cui Dio aveva promesso la terra alla gente nata da questa parte e non da quella. Così ha lasciato la sua chiesa e si è trasferito in questa minuscola baracca, dove intendeva restare per quaranta giorni e quaranta notti (aveva dell'acqua, ma niente viveri), ma dopo circa tre settimane un medico arrivato da Brooklyn per finire la vita che Dio gli aveva concesso gli ha sparato al fianco, quindi l'ha portato all'ospedale della colonia e l'ha operato - effettivamente, gli ha salvato la vita. Non voleva ucciderlo, soltanto allontanarlo dal colle. Alcuni di noi giornalisti sono andati a intervistare il religioso. Non dimenticherò mai una delle sue frasi: disse che, quando la sua fede veniva messa alla prova (e immagino accadesse abbastanza spesso), non si affidava ai Vangeli, all'Apocalisse, alle promesse del cielo o a cose simili, ma a un unico versetto dell'Ecclesiaste.» Lesse dal foglio: «"Tutto ciò che trovi da fare, fallo finché ne sei in grado, perché non ci sarà né attività, né ragione, né scienza, né sapienza giù negli inferi, dove stai per andare"». Alzò gli occhi verso di me. «Gli rammentava, ha spiegato, che la fede va e viene, persino nei religiosi - "Nemmeno noi riusciamo a credere sempre", ha dichiarato e che la cosa importante sono le azioni, non la fede pura. Ricordo che mi ha guardato, un cattolico praticante sa sempre riconoscerne uno non osservante, e mi ha detto: "Sei venuto per un proiettile, ma non saresti venuto per la messa". Aveva ragione. «Ora, che cosa diavolo c'entri con il Panda, non lo so. Ma questo pezzo di carta che il vescovo teneva con sé nella capanna (vedi, è scritto in arabo
da una parte e tradotto in inglese dall'altra), lo leggo ogni volta che muore un mio conoscente. E credimi, ragazzo, succede più spesso di quanto immagini. Ma solo se sei fortunato, e non sei tu a morire.» Mi rivolse una stanca strizzatina d'occhio, si alzò e infilò il suo vecchio cappotto verde, dandosi dei colpetti sulle tasche. «Vado a casa a piangere. Poi andrò a trovare Ananya. Ci vediamo qui domattina.»
Il ney d'argento di Ferahid
Hermes, Thot e Mercurio: lesti di gambe e di ingegno, amati nonostante la loro volubilità. Il dotto Galeno diede alla progenitrice della mia arte il nome del membro greco di quel triumvirato. Tale metallo è, quanto queste divinità, prevedibile nelle sue proprietà e nel suo carattere ma non nelle sue azioni specifiche. Assomiglia pertanto alle donne, all'acqua e alla musica, che creano, alimentano e danno sapore alla vita. Hamid Shorbat ibn Ali ibn Salim Ferahid, Sugli scopi della musica e della luce solare
un ney, ossia un flauto a imboccatura terminale, di forma cilindrica, lungo 28,3 centimetri e largo 2,1, con sei fori per le dita su un lato e uno per il pollice sul retro. Poco sotto il bocchino vi sono un'incisione in stile persiano raffigurante una luna e un'iscrizione in caratteri farsi: «Argento, ma non il nostro argento». Lo strumento è un cilindro cavo d'argento riempito di mercurio e sigillato sia a entrambe le estremità sia sul bordo dei fori. Questo ney è il più famoso della coppia; il suo soprannome persiano significa «strumento mobile che induce alla follia». L'aggettivo «mobile» si riferisce alla mancanza di note fisse; agitandosi all'interno del flauto in reazione al calore e alla pressione delle dita, il mercurio ridistribuisce il peso dell'oggetto, modificando così il tono e il timbro dei suoni prodotti. Ghazi Jaffar Sharaf descrive il momento in cui Ferahid lo regalò a Ismail: «Ferahid donò a Ismail, il frutto del più nobile albero dei samanidi, un secondo flauto, fatto d'argento, con una luna e una raffinata iscrizione sul bocchino. "Con questo strumento è possibile riprodurre più note che con altri tre di varie dimensioni" spiegò al suo REPERTO 4:
padrone. "Esso richiede tuttavia una fermezza di spirito riflessa nella fermezza delle dita." «Così dicendo, coprì tutti i fori e soffiò nell'imboccatura, e in effetti il suono vibrò e non si spense per lungo tempo. Inchinandosi, Ferahid porse lo strumento a Ismail, che lo guardò con la benevolenza e la dolce bonarietà per cui viene giustamente ricordato. "Musicista" domandò "mi concederai la tua unica figlia se riuscirò a produrre una sola nota di prolungata chiarezza?" Ferahid accettò senza indugio. "Musicista" domandò allora Ismail "mi concederai la tua unica figlia se non riuscirò a produrre una sola nota di prolungata chiarezza e ti chiederò la sua mano?" Ancora una volta, Ferahid accettò senza indugio. "Musicista" domandò quindi Ismail "hai una figlia?" Ferahid rispose che Dio gli aveva dato soltanto un maschio. Ismail, la Ghirlanda di Buchara, il signore del mondo, adagiò il flauto sul tavolo più vicino al trono e sorrise». Come il suo gemello, il ney d'argento rimanda a tre metafore: l'argento, essendo un po' meno prezioso dell'oro, simboleggia il compimento quasi totale del processo alchemico; rappresenta più il tentativo che il trionfo. Se il Sole è il padre, la Luna è la madre e, come tale, esprime i puri, freschi e ricettivi principi femminili della procedura. Il mercurio, spesso soprannominato «argento vivo», incarna la trasformazione, o la stessa alchimia. Veloce e informe, questo elemento è possibilità pura e inaffidabile, e per domarlo occorre una mano guidata più dalla conoscenza che dalla forza. Quasi tutti gli alchimisti colsero l'ironia secondo cui Mercurio era, tra le altre cose, il dio del commercio e della ricchezza. DATA DI FABBRICAZIONE: COSTRUTTORE:
si veda Il ney d'oro di Ferahid.
si veda Il ney d'oro di Ferahid.
LUOGO DI PROVENIENZA:
si veda Il ney d'oro di Ferahid.
ULTIMO PROPRIETARIO SCONOSCIUTO: VALORE STIMATO:
si veda Il ney d'oro di Ferahid.
si veda Il ney d'oro di Ferahid.
Il vento l'ha portata nel suo ventre, la terra è la sua nutrice.
Lasciai l'ufficio subito dopo che Art se ne fu andato: non avevo voglia di discutere della morte con Austell. Imboccai la strada della «passeggiata senza meta» che Art aveva ideato allo scopo di aggirare McFarquahar e mi aveva mostrato appena mi ero trasferito lì: fuori dalla porta secondaria, giù per la collina e verso i boschi, poi lungo il corso d'acqua finché quest'ultimo passava sotto la stazione di servizio che segna l'inizio del Lincoln Common. Proprio a metà tragitto, iniziò a piovere: non una pioggerella trascurabile che avrei potuto fingere di scambiare per foschia né un temporale di cui potessi attendere la fine sotto un albero. La pioggia gelida e insistente del tardo autunno nel New England, quella che raffredda e oscura ogni cosa. Passai dal mio appartamento, che era di fronte alla stazione di servizio, mi cambiai, indossai un giubbotto impermeabile e agguantai un ombrello. Quando tornai, la redazione era vuota (grazie a Dio), e c'era una busta indirizzata a «Paul» sulla mia scrivania. La aprii, vi trovai un foglio con il timbro della contea di New Kendal e un Post-it giallo: «PT, se ti interessa, leggi l'allegato. Se no, leggilo ugualmente per riguardo al Panda. Quando hai finito, rimetti tutto sulla mia scrivania, per piacere. Buona fortuna con l'insegnante di musica. Ricorda: la vita è per i vivi. A domani. AR». Sotto il timbro c'era il verbale della morte di Vivepananda Sunathipala redatto dalla polizia di New Kendal. La data e l'ora accanto alla firma indicavano che era stato archiviato alle 22.03 della sera precedente; secondo la data stampata in alto a destra, l'avevano trasmesso per fax ad Art alle 11.47 di quel mattino. Mi domandai chi conoscesse il mio capo nella polizia di New Kendal. Il documento spiegava che il Panda era stato investito da un'auto ultimo modello, a due o quattro porte; nera, grigia, viola o blu scuro, con uno o più passeggeri, di sesso maschile o femminile. Cinque testimoni avevano visto cinque automobili diverse con cinque conducenti diversi. Due paramedici avevano visto un coroner morto sulla
strada. Tutti concordavano nell'asserire che la vettura non si era fermata (anzi, non aveva neppure rallentato) dopo aver travolto il Panda. Il secondo decesso misterioso in cui incappavo negli ultimi due giorni; due in più rispetto a quelli totalizzati nei miei ventitré anni. Collegai Pühapäev e il Panda sulla base di una semplice concomitanza di circostanze, quindi mi domandai se non vi fosse davvero una relazione tra le loro scomparse. Il fatto che l'unico uomo del Connecticut a esaminare da vicino il cadavere di Jaan fosse stato ucciso a sua volta era senza dubbio singolare. Ma gli altri lo avrebbero considerato singolare o vi avrebbero scorto soltanto due morti accidentali tra cui il mio lavoro creava un tenue legame? Il verbale era firmato da un certo tenente Haynes Johnson, e lo contattai per sapere se avesse qualcosa da aggiungere. Ma quando gli dissi che chiamavo da un giornale, mi passò l'agente addetto alle pubbliche relazioni, secondo cui «le informazioni riguardanti un'indagine in corso, siano esse rilevanti o irrilevanti per detta indagine, non vengono divulgate fino al momento in cui le autorità hanno la certezza che rendere tali informazioni di dominio pubblico sia utile al fine di arrestare il sospetto o i sospetti». Un rapporto sillabe/contenuto davvero astronomico; dopo averlo ringraziato, riagganciai, posai il foglio sulla scrivania di Art con un messaggio («AR, ho fatto come richiesto. Grazie mille. Spero che lei, Donna e la famiglia del Panda stiate bene per quanto lo consenta la situazione. PT») e uscii sotto la pioggia per andare a interrogare un'insegnante di musica. Quando svoltai a sinistra in Orchard Street, mancando per un pelo i rami che si protendevano su entrambi i lati della strada, Allen Olafsson arrivava dall'altra direzione con l'auto della polizia. Mi guardò strizzando gli occhi attraverso il mio e il suo parabrezza bagnato, cercando di capire chi fossi. Quando fummo quasi a contatto di paraurti, mi salutò con un lieve cenno della testa e l'abbozzo di un sorriso, poi mi fece gli abbaglianti e azionò il lampeggiante rosso e blu senza attivare la sirena, fermandosi sul bordo della via e abbassando il finestrino. Mi arrestai al suo fianco e ci fronteggiammo attraverso i finestrini aperti. «È la seconda volta che ci incontriamo in questo quartiere» commentò, asciutto. «Che cosa ci fa qui?» Pensai di precisare che non erano affari suoi, ma è sempre sconsigliabile attirarsi le antipatie degli sbirri di provincia. «Sono venuto per
un'intervista.» «Un'intervista? Chi abita qui che valga la pena intervistare?» «C'è un'insegnante che vive dalla signora DeSouza.» «Mary DeSouza, eh? Tipa stramba, quella. L'intervista ha qualcosa a che vedere con il nostro compianto amico?» «Sì, è per il necrologio» risposi. Non c'era motivo di accennare al coroner, al verbale della polizia e alle ricerche per un giornale di Boston. Meglio restare sul vago. «Ha trovato qualcosa nella casa?» «No» disse, togliendosi il berretto e passandosi una mano sui radi capelli paglierini. «Non sono neanche entrato, a essere sincero. Mi limito a dare un'occhiata ogni tanto. Sa, per accertarmi che non rubino niente, che non ci siano degli intrusi. Non so a quanto serva.» Mi rivolse un sorriso mesto. «Detto tra noi, Bert crede che sia una perdita di tempo. Ma mi fa stare meglio. È una scusa per uscire dall'ufficio.» Annuii senza parlare, augurandomi che interpretasse il mio silenzio come un invito a terminare la conversazione. Fui accontentato. «Non voglio trattenerla» aggiunse. «Ma ascolti: se scopre qualcosa di interessante su questo tizio, mi informi. Io farò lo stesso con lei; sa, così avrà una specie di fonte.» Non sapevo se mi stesse prendendo in giro, ma accettai. Ci stringemmo la mano, quindi si allontanò, il lampeggiante silenzioso che continuava ad accendersi e spegnersi sul tettuccio. La strada si interrompeva una decina di metri più in là. Il fumo usciva ancora dalle due costruzioni di pietra alla mia destra e alla mia sinistra, e le luci erano spente in entrambi gli edifici. Il dondolo di Pühapäev era ancora fuori combattimento, e la pioggia aveva tramutato il cortile anteriore in un fangoso paesaggio lunare punteggiato di crateri. Parcheggiai davanti all'abitazione a tre piani rivestita di assicelle (l'unica con qualche segno di vita in quella via) e mi diressi verso la porta. Un adesivo bianco sotto il campanello diceva DESOUZA, con una freccia che puntava verso il pulsante, e ROWE, con una freccia che puntava oltre il lato della casa, così seguii l'indicazione, scavalcando una pozzanghera. Avviandomi verso l'entrata laterale, incespicai in qualcosa lungo il vialetto e lo feci volare contro l'uscio con un colpo fragoroso e imbarazzante. Era un'enorme chiave inglese. La raccolsi mentre la porta si apriva. Era più bassa di quanto avessi immaginato dopo la descrizione della signora Rolen (tre o quattro centimetri più alta di me, ma la magrezza e i
capelli lunghi la facevano sembrare ancora più alta) e aveva i capelli castano chiaro, gli occhi grigi e i lineamenti spigolosi e marcati. Era un viso dalla semplicità perfetta, che diventava più profondo man mano che lo si guardava. L'ho sempre considerato indecifrabile: i ripensamenti e gli sbalzi di umore lo attraversavano come acqua, scomparendo sotto la superficie con altrettanta velocità. Naturalmente, tutto questo venne solo più tardi, ma quella donna mi mise al tappeto sin dal primo incontro. «Hannah Rowe?» «Paul Tomm?» domandò nel medesimo tono. Non capii se volesse punzecchiarmi o soltanto rispondere con voce armoniosa. Abbassò lo sguardo sulla chiave inglese che tenevo in mano e che ora le porgevo come se fosse un fiore. Fece un largo sorriso, e io avvampai. «So che i greci portavano doni, ma non ho mai sentito dire che i reporter portassero chiavi inglesi. Lei è Paul, vero?» Assentii, e mi invitò a entrare, prendendo l'attrezzo e gettandolo con noncuranza sul vialetto. «È un po' in anticipo» commentò, liquidando le mie giustificazioni con un gesto della mano. «Era solo una constatazione, non c'è ragione di scusarsi. Gradisce un tè?» Accettai, e mi disse di accomodarmi. Indicò due poltrone verdi nell'angolo della stanza, intorno a un tavolo di legno rotondo. Mi accostai a una delle due e, sfilandomi il giubbotto, rovesciai il tavolo. Un bizzarro assortimento di ciarpame (alcune ceramiche, una carta da gioco e quelli che sembravano disegni infantili) cadde sul pavimento con uno schianto. Hannah rise, e io avvampai di nuovo. «Paul Tomm, dovremo sistemarla in un posto sicuro. Immagino che avrei dovuto coprire di gommapiuma tutti gli spigoli.» Le orecchie mi diventarono bollenti e iniziarono a ronzarmi; sarei voluto correre fuori per ricominciare tutto da capo. Immobile e mortificato, restai accanto al mobile capovolto, il giubbotto gocciolante in una mano e il bloc-notes nell'altra. «Stavo solo scherzando. Era una battuta. Non c'è bisogno di arrossire» mi tranquillizzò, prendendomi il giaccone e stendendolo sul calorifero. «Si sieda e si rilassi. No, non raccolga niente; rimetta a posto solo il tavolo e lasci perdere il resto. Si metta qui» mi ordinò, posandomi le mani sulle spalle e guidandomi verso la poltrona. D'istinto, le sfiorai la mano (non so se in segno di scusa, saluto o gratitudine), ma lei sollevò le dita e strinse le mie con cortesia mentre mi sedevo. «Bene. Ora resti lì, io metto un po' di musica e vado a prendere il tè. Che cosa vuole ascoltare?» «Non è che mi intenda granché di musica. Va bene qualsiasi cosa.»
Sorridendo, premette un tasto dello stereo nell'angolo. Il suono di un unico violoncello - ricco, triste, lamentoso ed espressivo - riempì il locale. La sequenza delle note non era una melodia vera e propria; il registro e il ritmo volutamente irregolare la facevano quasi assomigliare alla lingua umana. Non avevo mai sentito niente di simile; mi invase il cervello, e mi ritrovai ad attendere con impazienza la fine di ogni frase. «Che cos'è?» le domandai mentre armeggiava in cucina. «Marais. È un duo per viola da gamba intitolato Les Voix Humaines, qui arrangiato per un unico violoncello. Dovrebbe ricordare una voce umana. A me rammenta una poesia, o una preghiera.» Adagiò sul tavolo appena sgomberato un vassoio con una teiera, due tazze, una zuccheriera colma di zollette e un piatto di biscotti. «Vede, senza volerlo ha fatto qualcosa di buono. Dove avrei appoggiato il tè se non avesse liberato un po' di spazio?» Si accomodò lì accanto con uno dei suoi sorrisi cordiali. Risposi con uno sguardo troppo lungo per essere educato, quindi estrassi il blocnotes e due penne dal taschino della camicia. Ho sempre invidiato ad Art la capacità di avviare una conversazione con chiacchiere disarmanti che conducono dritte filate a domande utili. Mi aveva spiegato più volte quanto fosse importante mettere a loro agio gli intervistati. Ovviamente, Hannah era più a suo agio di me; io avevo lo stomaco che ballava il cha cha cha dell'arrapato e cominciavo a sudare. Non mi venne in mente nulla da dire se non quello che ero venuto a dire. «Posso chiederle di Jaan?» Il sorriso svanì di colpo, senza lasciare alcuna traccia di calore sul suo viso aquilino. Pareva spaurita; con la luce tenue sulla pelle chiara e sui capelli lunghi, sembrava uscita dalle pagine di una storia di fantasmi ottocentesca. «Mi dispiace così tanto. Che sia morto solo. Spero sapesse dove stava andando.» «E chi lo sa?» «Io» rispose, girandosi verso di me. Era così bella in quel momento, con il chiarore della lampada sul volto e un'espressione penetrante, che faticai a non balzare in piedi e scappare. Chiunque creda che la bellezza sia seducente anziché spaventosa o è ignorante o ha coraggio da vendere. «Io» ripeté piano. «Pensa che lo sapesse anche lui?» Si torse le mani in grembo. «Me lo auguro. Me lo auguro di cuore. Solo che... Era molto anziano, sa? Molto anziano. Spero che ci avesse riflettuto» continuò, rivolta più a se stessa che a me.
Mi schiarii la gola. «Sa quanti anni avesse?» Mi guardò diritto negli occhi, e l'aria spaurita scomparve; i capelli catturarono la luce, assumendo una sfumatura fulva e incorniciandole con durezza il volto cupo e grave come quello di un angelo scolpito nella pietra. «Con esattezza? No. Mi ha raccontato di aver vissuto in Estonia quando il Paese era indipendente, tra le due guerre, perciò immagino che avesse circa ottant'anni. Ma per favore» aggiunse, vedendo che prendevo appunti «non mi consideri una fonte affidabile. A proposito, deve citare il mio nome nell'articolo?» Le risposi di no; se non voleva che il suo nome comparisse, non l'avrei certo menzionato. Le domandai come avesse conosciuto Pühapäev. «L'ho conosciuto quando ho traslocato, un paio di anni fa. Ho bussato alla sua porta per presentarmi, e mi ha gridato di andarmene» spiegò ridacchiando, il viso illuminato da quel ricordo. «Così ho cominciato a ridiscendere i gradini. Poi credo che abbia sbirciato fuori, perché ho sentito la porta che si apriva e lui che mi domandava, con il suo forte accento: "Perché non mi ha detto di essere una bella ragazza?". Poi mi ha invitata a entrare, abbiamo chiacchierato per un po' e, come si suol dire, da cosa nasce cosa.» «Sa di dove fosse originario, se avesse qualche parente, che tipo di lavoro facesse e cose del genere?» continuai, facendo il finto tonto come mi aveva insegnato Art. Meglio ricevere troppe risposte che troppo poche. Abbassò lo sguardo, staccando minuscoli bioccoli di lana dalla coperta che ricopriva la poltrona. «Be', era estone. Credo di averglielo già detto. Parlava spesso di Tallinn, ma anche della campagna e delle isole. Amava mostrarmi un album con le foto di una delle isole (mi pare si chiamasse Saaremaa). Suppongo che avesse alcuni parenti, ma non so chi fossero né dove vivessero. Tuttavia, la scorsa estate è tornato in Estonia per tre settimane.» Si avvicinò alla libreria e prese una bottiglia color granato. «Mi ha portato questa.» VANA TALLINN, diceva l'etichetta. La aprii e ne annusai il contenuto; odorava di caramello e liquirizia e aveva un aspetto sciropposo, come uno sherry lasciato a bollire per un po'. Hannah me ne versò un goccio nel tè; era dolce e, sebbene non bruciasse, ne avvertii il calore nel petto mentre lo inghiottivo. «E quanto al lavoro? So che faceva il professore, ma...» «Penso che fosse più o meno in pensione. So che non insegnava granché. Non lavorava da queste parti, ne sono certa.» «Era un docente del Wickenden College.»
«Allora ha fatto qualche ricerca. Ottimo. Jaan scriveva parecchio; aveva quaderni pieni dei suoi scritti, ma non credo che ne avesse pubblicati molti. Ogni tanto prendeva qualche oscura rivista dalla mensola e mi mostrava il suo nome. Per quanto ne so, avrebbe potuto essere sempre la stessa rivista. Niente libri, però, non credo. Ma se cerca informazioni sul suo lavoro, dovrebbe andare a Wickenden e domandare a qualcuno.» «Già fatto. Mi sono laureato lì» replicai con una frase stupida e tronfia. In realtà, volevo soltanto raccontarle qualcosa di me, metterglielo davanti e vedere come reagisse. «Davvero? Volevo andarci anch'io. Mi hanno respinto» ribatté, picchiettandosi la tempia con la punta dell'indice. «Non avevo abbastanza cervello.» «Mi dica qual è l'addetto alle ammissioni a cui devo sparare.» Rise. «Che cosa ne pensa?» domandò, indicando le casse acustiche. «Mi piace» risposi come un idiota, incapace di trovare qualcosa di più intelligente. Sembrava una musica. Una musica gradevole. «Quali strumenti suona?» «Soltanto il piano e il violoncello» disse, stringendosi la testa tra le mani e scuotendola. «È un marchio d'infamia per un'insegnante di musica. Lo so, sono un'imbrogliona» aggiunse con un sorriso mesto. «Non un'imbrogliona. Un'appassionata.» «Lei è molto dolce.» Stavo quasi per confermare («Sì, sì, dolcissimo!»), quando mi domandò se suonassi qualcosa. «No. Non so assolutamente nulla di musica. Non ho orecchio, ho le mani di legno e i piedi equini.» Rise. «E ha anche bisogno di un cuore, di un cervello e di un po' di fegato, giusto? Dovrei farle un corso accelerato.» Alzai gli occhi come un cane goffo e troppo socievole. «Mi dica quando. Non vedo l'ora.» Sorrise, inclinò la testa di lato e, posando un'esile mano affusolata sull'avambraccio, accennò al mio bloc-notes aperto. «Vuole sapere qualcos'altro?» «Sa dirmi qualcos'altro?» «Solo che gli volevo bene. Gli volevo bene» ripeté, come se l'avessi messo in dubbio. L'aveva già sottolineato al telefono. Fu allora che raggiunsi un nadir romantico e provai gelosia verso un estone morto. «Gli facevo la spesa quando ne aveva bisogno, cucinavo per lui un paio di volte la settimana. Parlavo con lui. Anzi, lo ascoltavo mentre parlava e
fumava. Tutto qui, davvero. Ora vorrei avergli chiesto qualcosa di più sulla sua vita, ma... Sono sicura che ovunque sia adesso ha un fuoco, una poltrona comoda e un'infinità di libri, tabacco e belle ragazze disposte ad ascoltarlo.» Si strinse nelle spalle, inarcando le sopracciglia con tristezza. Ci fissammo in silenzio, con intensità, abbastanza a lungo da poter fare a meno di qualsiasi domanda. Il divano, la libreria e il violoncello nell'angolo cominciarono a tremolare e offuscarsi; avvertivo un formicolio sotto i vestiti e sentivo il mio battito cardiaco alla base della mandibola. Hannah posò la tazza troppo vicino al bordo, e quella cadde, frantumandosi contro la gamba del tavolo. Balzammo in piedi entrambi. «Be'» sussultò. «A quanto pare, anch'io sono piuttosto maldestra.» Guardai i frammenti di porcellana fra tutti gli oggetti religiosi ancora sparpagliati sul pavimento. «A proposito, che cosa sono quelli?» la interrogai. «Oh, è il mio tavolo di Dio» rispose, con un sorriso che mi impedì di capire se dicesse sul serio. «Credo in qualsiasi cosa» proseguì. «In qualsiasi religione. In tutte le religioni.» Assentii, incapace di commentare. «È credente?» volle sapere. «No, sono un ibrido.» Sorrisi. Parve inorridita. «Non si definisca così. Qualunque cosa sia, va bene, purché sia qualcosa, sa? Non riesco a immaginare nulla di peggio di non credere in niente. A parte gli scherzi, qual è la sua fede?» «Ebrea, luterana, cattolica, greca ortodossa. Madre olandese-irlandese e padre greco-ebreo. Un nonno in ciascuna chiesa, e ora dodici nipoti in nessuna chiesa.» «Be', è meraviglioso. Pensi a tutte le alternative che ha. In quale religione è stato allevato?» «Dipendeva da dove trascorrevamo le ricorrenze, suppongo. Una storia lunga» risposi, consultando l'orologio e facendo appello alle mie riserve di coraggio, sempre scarsissime. «Una storia lunga e a tratti interessante, che sarebbe meglio raccontare a cena. Che cosa ne pensa?» «L'asso del giornalismo invita fuori la combattiva insegnante di musica, giusto?» «Non potrei desiderare di meglio. Al Longwood Inn?» «Ha gusti raffinati per uno scribacchino di provincia. Che cosa ne dice di un posto un po' più lontano? Preferirei non dovermi preoccupare che i miei colleghi ci vedano, spettegolino nella sala professori e così via. È mai stato
alla Trota?» «No. Non l'ho mai nemmeno sentito nominare.» «Perché è a Pelton, circa quarantacinque minuti a nord da qui. Proprio sul fiume e quasi nel Massachusetts. Ha la macchina?» «Sì. Quando ci vediamo?» «Domani?» Annuii. «Bene» osservò. «Non faccio programmi per il venerdì sera da settimane. Purtroppo ho del lavoro da sbrigare a scuola, perciò, se le è possibile, perché non viene a prendermi dietro la Talcott, nel punto in cui la collina inizia a digradare dal Common verso la Station? Partiremo da lì. Verso le sette?» «Perfetto» accettai mentre apriva la porta. Le tesi la mano. La guardò con compassione, quindi alzò gli occhi verso di me, disse: «Sei dolcissimo». Mi posò le dita sulle spalle, mi diede un fuggevole bacio sullo zigomo e, salutandomi con la mano, richiuse l'uscio. Mentre svoltavo l'angolo della costruzione, vidi con la coda dell'occhio qualcosa che si muoveva sulla veranda. Quando mi girai, un gatto mi sfrecciò accanto alla faccia, sfiorandomi proprio dove Hannah mi aveva baciato, e si dileguò con un fruscio tra i cespugli. Spiccai un balzo all'indietro, e sono certo di aver urlato, o quanto meno imprecato a un volume imbarazzante. La porta principale si aprì, e comparve una vecchietta pelle e ossa che indossava un'informe vestaglia trapuntata, ciabatte scompagnate e una bitorzoluta coperta azzurra avvolta intorno alla testa come un turbante. Vedendomi, trasalì. «Oh. Mio Dio, non sono presentabile. Sa, casa mia è piena di spifferi» mi informò, chinandosi in avanti e accennando con la mano come se mi stesse rivelando un segreto «e il riscaldamento è così costoso. Perché si aggira qui intorno, giovanotto?» Preso alla sprovvista, e sforzandomi di non ridere, spiegai: «Ho fatto visita a Hannah». «Oh, fidanzato, fidanzato, vero? Avrei dovuto immaginarlo. Sa, sono una donna all'antica e non posso dire di approvare il modo in cui voi giovani saltate di continuo da un letto all'altro.» Non sapevo se essere offeso o orgoglioso del suo giudizio sulla mia virilità. «Signora, sono un reporter» balbettai «e ho parlato con Hannah del vostro compianto vicino. Siamo rimasti in piedi o seduti - su poltrone separate, naturalmente - per tutto il tempo.» «Scommetto che le è dispiaciuto, vero?» Mi sbirciò da sopra gli occhiali,
un gesto che la fece soltanto sembrare bassa. «Non mi pare che lei viva nei paraggi.» «No» confermai, reciso, dirigendomi verso l'auto. «Non mi volti le spalle mentre le parlo, giovanotto. Ha detto di essere venuto per scrivere del vecchio che abitava qui di fronte?» «Sì.» «Be', sono la signora DeSouza e, se vuole, può citarmi.» «Volentieri. Come l'ha conosciuto?» le domandai, la penna sospesa con ostentazione sopra il bloc-notes aperto. «Vivo in questa casa da settantadue anni. Dovrà pur contare qualcosa.» Si strinse la vestaglia intorno al busto esile e sistemò la coperta, che cominciava a vacillare trascinandola con sé. «Non abbiamo mai preso il tè insieme, se è questo che intende. Non si è mai disturbato a presentarsi quando si è trasferito qui» sibilò. «Poi, quando finalmente sono andata a rimproverarlo per il suo comportamento, non mi ha neppure invitata a entrare. Riesce a immaginarlo? Ha solo aperto la porta di una minuscola fessura e ha a malapena cacciato fuori la testa.» «Allora l'ha conosciuto in seguito?» «In seguito? Dopo il modo in cui mi ha trattata? Sta scherzando. Non avrei dato a quello schifoso figlio di marinaio nemmeno un fiammifero durante una tormenta.» Non riuscii più a trattenermi; cercare di soffocare una risata servì soltanto a renderla più fragorosa. La signora DeSouza si raddrizzò, lanciandomi un'occhiataccia, ma quel movimento sbilanciò la gigantesca bolla azzurra sulla sua testa, che scivolò troppo da una parte, facendola quasi ruzzolare a terra. «Non uso un simile linguaggio con leggerezza, giovanotto. Ormai nessuno prende più sul serio l'etichetta. Avrebbe dovuto essere lui a venire da me per primo.» «Certo. Lo so. Be', se non ha nient'altro da raccontarmi...» «Se non ho nient'altro da raccontarle? Che cosa vuol dire?» «Per il mio pezzo. Nient'altro riguardo a Jaan.» «L'unica persona che, come dice lei, ha qualcosa da "raccontare" su di lui è la sua amichetta musicista. Non l'ho mai visto aprire la porta a nessun altro. Posso immaginare il perché» ribatté, abbassando la voce e scoccandomi un'occhiata maliziosa. «Sono sicuro che non è successo nulla del genere.» «Oh, senza dubbio. Un vecchio come quello? Probabilmente il piffero non gli si rizzava dai tempi di Roosevelt. Sto solo dicendo che il fascino
della signorina Rowe è molto efficace, proprio come i suoi trucchetti. Un uomo solo e anziano ne sarebbe stato lusingato, anche se non avrebbe mai nemmeno stretto la mano a nessun altro.» «Interessante. Grazie, signora DeSouza. Questa conversazione mi è stata davvero molto utile.» «Non sia condiscendente con me. E non voglio vederla entrare e uscire da questa casa a tutte le ore della notte, capito?» «Certo.» Al che sbatté la porta, e io montai in auto. Il gatto spiava la veranda con aria scettica da sotto le siepi.
L'etiope
Il cigno muore dopo molte estati, e il mito muore dopo molte ere. Lonnrot, un mio collega, ritiene che i miti, anziché morire, vengano soppiantati. Questa idea mi pare tuttavia non tanto scorretta quanto basata su una visione prosaica e limitativa dell'argomento. A primavera inoltrata le foglie soppiantano i fiori, ma è altrettanto vero che nel tardo autunno le foglie che «non sono» soppiantano le foglie che erano. Dentro questi brevi vuoti scorgeremmo dei prodigi, se solo sapessimo come guardare. Olav Grynzstein, La camera di Menelik
19 novembre 1979 Axum, Stato rivoluzionario popolare dell'Etiopia Al compagno colonnello Virju Saarju, esercito dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, ufficiale di collegamento speciale con l'Associazione dei ricercatori e dei docenti di etnografia etiope, divisione estone Dal capitano Felix Armando Correa, esercito rivoluzionario popolare cubano Compagno colonnello, Le porgo un fraterno saluto in nome della rivoluzione popolare ancora in corso e della lotta socialista contro il menscevismo, la regressione, il borghesismo, il formalismo, la superstizione e il pensiero controrivoluzionario. Porgo anche un caloroso saluto personale a Sua moglie, Nataša Georgovna, e ai Suoi figli, Grigorij e Fëdor, sperando che questa missiva trovi Lei e la Sua stimata famiglia in condizioni di salute buone quanto quelle in cui vi ho visti l'ultima volta a Santiago de Cuba. Le nostre unità seguitano a combattere con valore contro i ribelli nazionalisti, benché siamo in netto svantaggio per quanto concerne la conoscenza del terreno. Grazie alle barricate erette nei punti di ingresso strategici lungo passi e strade, le nostre forze rivoluzionarie controllano le maggiori città etiopi. La nostra autorità termina tuttavia al calare delle tenebre e non si estende molto oltre il perimetro degli abitati. La nostra amicizia è, mi auguro, così solida che non mi devo vergognare di confessarLe il mio sollievo all'idea di aver lasciato
Asmara. La mia posizione qui è stata coperta da Cesar Reyes, il quale, obbedendo a quelle che presumo essere le Sue istruzioni, ha riferito al mio battaglione che sono andato avanti per perlustrare gli altipiani con un'esigua avanguardia. Questo annuncio ha dato adito a storie assai ridicole riguardanti la mia dedizione e temerarietà. Quando sono partito, uno dei miei sergenti, un uomo rude e vigoroso di nome Juan Colón, mi ha infilato di nascosto tra le mani una piccola croce di mogano, spiegandomi che era appartenuta al suo bisnonno Ernesto. Convinto di avere il Suo permesso, ora mi esprimerò in termini semplici, lasciando l'uso delle espressioni tecniche ai nostri stimati colleghi dalle inclinazioni più militaresche. Magari mi farà la medesima cortesia e, quando ci rivedremo, mi dirà se Juan Colón è uno dei nostri oppure solo uno dei tanti uomini che, nei nostri due Paesi, sono solidali con la causa ma sono ancora all'oscuro di questa particolare missione. Sia come sia, ho accettato i suoi auguri come un buon segno, inviatomi da Lei o da qualcun altro, e ho viaggiato su un aereo militare da Asmara ad Axum senza alcun contrattempo. Sono ad Axum ormai da sei settimane circa per indagare su questa faccenda. Ho una piccola villa in stile etiope (mattoni di fango, soffitti bassi, stanze anguste, tavoli stretti) con tanto di interprete (Gebredan, originario di questa città), cuoca, fattorino e donna delle pulizie. Sono davvero soddisfatto della mia sistemazione, sebbene l'accoglienza sia stata, in generale, tutt'altro che calorosa: qui la gente mi odia. Odiano Menghistu, odiano me, e odierebbero Lei se mettesse piede quaggiù. Gebredan continua a ripetermi che indossare l'uniforme in pubblico equivale a rischiare la vita inutilmente; ogni volta che ammazzano una capra o un pollo, gli abitanti del villaggio gridano: «Russo!» o «Cubano!» mentre la punta del coltello trafigge l'animale. Nonostante episodi di questo tipo, sono riuscito a conquistare la fiducia del mio interprete mediante la fede, la tenacia, la modestia e la buona volontà. Ciò ha reso il mio lavoro qui molto più facile e più chiaro. In altre parole, ho compreso quanto debba essere ambigua la risposta che Le darò. Conosce il medico tedesco Schrödinger e il gatto della sua teoria? Come quel gatto, quel che cerchiamo è in sovrapposizione; c'è e non c'è al tempo stesso. Convincere Gebredan a fare qualcosa oltre a recitarmi gli slogan socialisti ha richiesto una notevole quantità di rum, denaro, insulti e sigari. All'inizio ha scambiato questi ultimi per un prodotto a base di carne affumicata, con risultati che mi hanno costretto a restare chiuso nel mio studio quasi per una giornata intera, ma, una volta chiarito l'equivoco, è diventato piuttosto loquace. È un uomo pio, un cristiano e, da quando gli ho insegnato il Credo di Nicea in spagnolo e lui l'ha insegnato a me in amarico, andiamo d'amore e d'accordo. La regina di Saba, mi ha raccontato, era etiope (il suo presunto palazzo sorge poco distante dalla pista su cui sono atterrato) e, durante una visita a Gerusalemme, concepì il figlio di re Salomone. Diede alla luce un maschio,
Menelik, che, all'età di dodici anni, si recò in città e fu ricevuto con tutti i fasti e gli onori: il padre e i cortigiani lo riconobbero. Dopo che il ragazzo si fu trattenuto per alcuni anni, i consiglieri di Salomone si ingelosirono e lo obbligarono a partire. Lui obbedì, rubando l'Arca dal sancta sanctorum di Gerusalemme. In qualche modo, riuscì a celare il furto ai suoi compagni finché furono, per citare Gebredan, «fuori dalla portata del lungo braccio di Salomone»; Menelik e gli altri conclusero che un'azione tanto audace, irriverente e improvvisata non sarebbe mai stata coronata dal successo se non avesse coinciso con la volontà di Dio. Così, con la grazia e l'approvazione divina, Menelik e i suoi seguaci trasferirono l'Arca ad Axum, dove costruirono un magnifico tempio per nasconderla. Il mio interprete mi ha assicurato che si trova ancora lì. Ma naturalmente Lei lo sapeva già, altrimenti non mi avrebbe mandato qui, con tutti i rischi e i sotterfugi che un incarico come questo comporta. Mi domanda se la leggenda corrisponda a verità. Le comunico che non lo sapremo mai; questa città esiste (e questa è l'unica cosa che so con certezza) per difendere un percorso all'interno di un edificio, percorso che forse conduce alla stanza dove potrebbe essere custodita l'Arca. Quest'ultima è protetta da un misto di paura, terrore, orgoglio e superstizione. Non lo dico per denigrare il tempio o coloro che si lasciano intimidire dalla sua leggenda: resta ancora da stabilire se i poteri di Dio vadano oltre l'instillazione di simili sentimenti. Solo un uomo, il monaco guardiano, può vedere l'Arca; sceglie il suo successore sul letto di morte. Gebredan mi ha raccontato che lo stesso individuo ricopre questo ruolo da quando lui è nato, e da quando sono nati suo padre e il padre di suo padre, per un totale di circa settant'anni. Poiché il custode viene scelto tra le file dei monaci, e non dei novizi, la sua età deve essere di un secolo o più. Quando gli ho domandato che cosa potesse fare un centenario contro un nemico, o un battaglione di nemici armati e determinati a impossessarsi del tesoro, Gebredan è scoppiato a ridere, precisando che il guardiano non protegge l'Arca dagli intrusi, bensì gli intrusi dall'Arca. Il monaco prescelto non è il più forte o il più abile nei combattimenti, bensì il più sagace, intelligente e persuasivo, quello più bravo nel convincere i curiosi a desistere per la loro stessa incolumità. Se il religioso dovesse fallire, ha aggiunto Gebredan, ad Axum non mancano certo uomini disposti a uccidere per salvare l'Arca. La chiesa in cui quest'ultima sarebbe conservata non è inoltre priva di dedali, trappole, labirinti, deviazioni e nicchie nascoste capaci di ostacolare la fuga od occultare gli abitanti del villaggio ansiosi di trasformare l'edificio nella tomba dell'eventuale malintenzionato. Gebredan non vuole rivelare nulla riguardo a tali trappole, se non che, per superare la più semplice, occorre una profonda conoscenza dell'ebraico, dell'aramaico, dell'amarico e del tigrayan. La chiesa è scavata nel versante di una montagna: vi è un'unica entrata, e per raggiungerla bisogna coprire diversi chilometri lungo un angusto sentiero con la parete rocciosa da una parte e uno strapiombo dall'altra.
Due notti fa ho pregato ancora Gebredan di mostrarmi l'interno della costruzione, ma si è rifiutato per l'ennesima volta. Da allora si comporta in modo strano, evitando di allontanarsi dalla casa, esortandomi ad assumere qualcun altro per i «lavori esterni» e restando chiuso nelle sue stanze per gran parte della giornata. Posso solo ipotizzare che mi abbia detto troppo. Non so se tema la tradizione o qualcosa di molto più tagliente. Per quanto mi riguarda, la mia missione qui è terminata. Che l'Arca sia o non sia in quella chiesa, per noi l'esito è il medesimo. Quasi nessuno degli abitanti del villaggio (anzi, uno solo) ha visto l'Arca, ma tutti credono che si trovi là dentro e agiscono come se si trovasse là dentro, il che basta a rendere opinabile la questione. Ovviamente, sarebbe possibile entrare ad Axum con un battaglione armato fino ai denti e farsi largo fino all'edificio. Convincere l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, ufficialmente atea, a trasferire preziose risorse belliche dal fronte per ottenere un fantomatico manufatto religioso di autenticità discutibile è un compito che con molta probabilità supererebbe anche la Sua capacità di persuasione. Per ragioni che vanno oltre le esigenze materiali della lotta contro il Fronte di liberazione del popolo tigrayan - ragioni che un funzionario sovietico definirebbe «superstizione regressiva» ma che io e Lei conosciamo sotto un altro nome —, ritengo sia meglio lasciare Axum alla sua pace. Ho l'impressione che la mia presenza la profani, anche se tornerei qui volentieri in circostanze diverse. Rientrerò ad Asmara all'inizio della settimana prossima, e da lì spero di giungere a Santiago prima della natività di Nostro Signore (benché abbia sentito dire che il Suo attaché culturale, quel grasso buffone di Gennadij Štarpin, insiste a definire il Natale «la festa invernale del sequestro operaio dei mezzi di produzione e degli utili sempre crescenti dell'industria collettiva sotto la benevola mano di ferro del socialismo»). Sempre Suo nel cameratismo e nella profonda amicizia personale, capitano Felix Armando Correa de Todos los Santos
REPERTO 5:
trittico di legno intagliato, con un pannello centrale i cui lati misurano circa 8 centimetri nascosto da due pannelli. Un'incisione
sulla parte anteriore delle alette laterali rappresenta una cassa di legno sormontata da due figure alate (cherubini) poste una di fronte all'altra. Un attento esame dell'immagine mostra tracce di vernice d'oro sugli angeli. Aprendo le alette, si scopre un'icona raffigurante un uomo calvo, bruno, snello e barbuto che troneggia in primo piano, le braccia sollevate con le mani rivolte verso l'esterno a indicare le scene riprodotte sui due lati (ossia all'interno di ciascuna aletta). Alla sua destra vi è una rappresentazione policroma della cassa incisa sul davanti, questa volta con due coni gialli che simboleggiano il fuoco celeste e si irradiano da ciascun cherubino. Alla sua sinistra i coni convergono su tre alti obelischi, come se questi ultimi fossero stati, chissà come, evocati dalle fiamme. Lo sguardo intenso, gli occhi grandi e le labbra serrate conferiscono al personaggio in primo piano un'aria di preoccupazione e di sfida. Molti alchimisti europei usavano la figura di un uomo nero (o, per coloro che si consideravano sofisticati, di un etiope) per rappresentare la fase iniziale del processo, in cui la sostanza da trasformare deve decomporsi e annerirsi prima di rinascere. Gli alchimisti del Corno d'Africa, che appresero i segreti della loro arte dagli scienziati arabi incaricati di guidare i convogli commerciali attraverso il Mar Rosso, usavano tuttavia l'autoritratto per indicare non la decomposizione, bensì il potere e la possibilità di una sostanza affrancata da qualsiasi forma inferiore: la libertà presente rispetto alla schiavitù passata anziché l'informità presente rispetto alla perfezione futura. DATA DI FABBRICAZIONE:
sia l'uomo in primo piano, con la testa troppo grande e allungata e le labbra arricciate, sia lo stile del trittico (legno intagliato, con un'unica immagine sul davanti che, estendendosi su entrambe le alette, preannuncia la scena rivelata all'interno) sono tipici della scuola iconografica etiope tereyu, il che farebbe risalire l'oggetto al tardo XI o al primo XII secolo. COSTRUTTORE:
la sua identità è sconosciuta, ma con molta probabilità proveniva dalle file dei monaci tereyu, famosi da Lubecca a Costantinopoli e oltre per le loro creazioni artistiche nonché per le innovazioni strategiche adottate durante la battaglia contro i figli dell'imam Ali Rashid, quando difesero per sette anni e sette mesi la
Fortezza del sogno del pastore dagli invasori arabi. LUOGO DI PROVENIENZA:
probabilmente tra le attuali città di Massaua e Zula, in Eritrea. La regione compresa tra questi due centri fu molto attiva sul piano commerciale dall'VIII al XVIII secolo; quasi tutti gli oggetti che lasciarono l'Etiopia per l'Asia o l'Europa passarono per questa zona. ULTIMO PROPRIETARIO CONOSCIUTO:
il Centro per l'etnografia e la cultura africana presso l'Università dell'Avana, a Cuba. Questa icona era contenuta in una delle quattro casse stipate di «curiosità orientali» portate a Santiago de Cuba da Felix Armando Correa, ex capitano della milizia cubana, in seguito studioso del cristianesimo africano. Nel 1980, dopo essere stato espulso dall'esercito in circostanze misteriose, Correa dedicò otto anni a ricostruire i viaggi di Cosmas Indicopleustes, un monaco itinerante del VI secolo. Dopo il suo ritorno nel 1988 si ritirò nella piantagione di tabacco della sua famiglia, dove trascorse il resto dei suoi anni digiunando, studiando e pregando. Dopo l'uragano verificatosi nell'agosto del 1989, fu necessario ritinteggiare il museo e provvedere al rifacimento dell'impianto elettrico; per ultimare la ristrutturazione in tempi brevi, fu ingaggiato un gruppo di elettricisti russo-uzbeki che alloggiavano in un «ritiro per lavoratori». La scomparsa dell'icona fu denunciata un giorno dopo il ripristino della corrente e due giorni dopo il ritorno degli operai a Čirčik. Un anno dopo la sparizione del trittico tereyu, il nipote di Correa trovò il nonno nell'essiccatoio, con il cervello contro la parete e una doppietta tra le mani. VALORE STIMATO:
i venditori ottimisti lo fisserebbero intorno ai 70.000 dollari, quelli realisti intorno ai 55.000 e gli acquirenti scaltri a non meno di 45.000. A seconda delle condizioni, le rare e antiche icone tereyu spuntano di solito fra i 15.000 e i 45.000 dollari per un unico pannello di pietra e fra i 30.000 e i 70.000 dollari per un dittico o un trittico di legno intagliato in buono stato.
Il padre di tutto, il Telesma di tutto il mondo, è qui.
Quando, venerdì mattina, arrivai in ufficio più tardi del dovuto, vi trovai Austell, stilografica in mano, fogli protocollo sulla scrivania e libri con incisioni e fotografie di funghi sparsi sul pavimento davanti a sé. «Ah, buon giorno, Paul. O farei meglio a dire triste giorno, eh?» Indicò l'ufficio buio di Art. «È andato a una veglia per quel medico, quello con il nome...» «Panda» lo interruppi. «Sì, esatto. Panda. Splendido nome. Non lo conoscevo. Oh, be', suppongo che Art e Donna me l'abbiano presentato durante una delle loro deliziose serate bohémien. Un signore dalla pelle scura, vero?» Mi limitai a stringermi nelle spalle. Non l'avevo mai visto. «Sì, lo immaginavo» proseguì Austell, distratto. «Mmm. Un tipo molto gentile, comunque. È morto all'improvviso, vero?» «Un pirata della strada. L'auto non si è neppure fermata.» Si tolse gli occhiali, fissandomi come se mi vedesse per la prima volta. «Davvero? Davvero? È orribile. Ecco, è solo che... Qualcuno è andato alla polizia?» Il modo in cui si soffermò sulla parola «polizia» sottolineò quanto quel vocabolo fosse insolito per lui: uomini violenti che indossano blazer da quattro soldi e spalancano le porte con le pistole spianate. Mi domandai se avesse mai incontrato un poliziotto (Olafsson esclusi). «Sì, la polizia è stata avvertita dopo l'incidente. Ancora nessun sospetto; i testimoni non concordano sul tipo di macchina e sul conducente.» «Hai parlato direttamente con la polizia?» «Sì. Non è servito a granché.» «Peccato. E come va il resto del tuo lavoro?» mi domandò in tono quasi paterno. «Bene, non mi lamento, grazie.» «Ah, ottimo. Sai, ho sentito che Verrill vuole aggiungere un reparto
ortofrutticolo. La notizia sta suscitando molto scalpore da queste parti, posso garantirtelo. Hai in programma qualche altra visita a Clougham?» «No, nessuna all'orizzonte. Pare che tutte le novità riguardino Lincoln o Wickenden.» «Eccellente. Come ti ho già detto, Clougham è sempre stata un posto alquanto bizzarro. Se potessi evitarlo, non ci andrei.» Annuii con espressione amichevole e mi voltai verso la mia scrivania. Per il resto della mattina lavorammo in un silenzio interrotto di tanto in tanto da Austell che leggeva una frase tra sé o da me che picchiettavo sulla tastiera del computer, trascrivendo la conversazione del giorno prima con Hannah. Quella donna continuava a tornarmi in mente contro la mia volontà e, quando cominciai a contare prima le ore e poi i minuti che mi separavano dal nostro nuovo incontro, trovai sempre più difficile concentrarmi. Austell aveva iniziato a canticchiare senza musica e sembrava un calabrone sbronzo. Nella tarda mattinata ero ormai così agitato al pensiero di un vero appuntamento con una vera ragazza che non riuscivo più a stare fermo. Informai Austell che sarei andato dai Verrill per intervistarli sull'allargamento del negozio e uscii prima che mi chiedesse di comprargli qualcosa. Alle sette meno venti il sole era ormai tramontato, l'aria era diventata nebbiosa e pungente, e io avevo corso una maratona nel mio appartamento. Non riuscendo a trovare un modo proficuo per riempire quel pomeriggio, avevo ripiegato sul vecchio passatempo di lanciare una pallina da tennis contro la parete finché la mia padrona di casa aveva risposto con una serie di colpi sul pavimento. Poi avevo guardato il telegiornale. I notiziari di provincia sembravano organizzati allo scopo di confutare l'affermazione secondo cui il giornalismo descriveva un mondo in via di cambiamento; dopo due mesi a Lincoln e dintorni, per me il telegiornale della sera si era trasformato in un esercizio di teoria combinatoria: incendio, consigliere comunale nei guai, la squadra di football del liceo vince, previsioni del tempo; giocatore della squadra di football del liceo nei guai, consigliere comunale propone un nuovo modo di pagare le imposte municipali, incendio, previsioni del tempo; tormenta, notizie sulla squadra di hockey del liceo, giudice licenziato per aver palpeggiato la segretaria, incendio, previsioni del tempo. Quella sera il servizio principale riguardava l'inaugurazione di una nuova e lussuosa drogheria due città più in là, il che significava che i turisti del week-end non dovevano più portarsi dietro la
quinoa, la tela di Frisia e la birra al caffè, cioccolato e bacche di mirto. Quando avevano annunciato che la squadra di pallacanestro del liceo era passata ai quarti di finale statali, avevo spento la TV. Avevo indossato una giacca sportiva per la prima volta dalla laurea (pareva essersi ristretta intorno alla vita dopo essere rimasta chiusa nell'armadio tanto a lungo), mi ero spazzolato i capelli indomiti fino a ottenere ciuffi castani semiobbedienti ed ero uscito, lanciando le chiavi in aria, mancandole e ripescandole da una pozzanghera. L'interminabile vialetto a ferro di cavallo della Talcott brillava sotto le sue lune piene private, lampade gialle che si allungavano su entrambi i lati dall'ingresso alla magnifica facciata, serpeggiando accanto ai campi da gioco illuminati a giorno e ai dormitori con il loro guazzabuglio di stili (vecchio rustico del New England, mattoni rossi coperti di edera, complessi residenziali anni Settanta di Hartford) fino alle sobrie porte posteriori in vetro e acciaio. Hannah, che era proprio lì dietro, uscì quando agitai la mano e le lampeggiai con gli abbaglianti (perché lo feci? Non lo faccio mai; non è uno dei miei gesti preferiti. La serata fu un susseguirsi di recriminazioni silenziose rivolte da un io all'altro io). Nella pozza di luce calda, con la mantella di lana verde, i capelli color miele e i lunghi orecchini d'argento, sembrava fuori del tempo, magica, una sorta di gazzella liquida. «Sei puntualissimo» commentò, salendo in auto. «Mi fa piacere; ho finito di correggere alcuni compiti cinque minuti fa.» «Compiti di che cosa?» «Oh, il solito. Musica. Ho cercato di spiegare il contrappunto agli studenti più grandi. Ho suonato la prima Suite francese e poi When I'm Sixty-four per la parte del clarinetto nell'ultima strofa, hai presente?» Non avevo presente. «Certo.» «Giudicando dagli elaborati, non credo che abbiano capito molto.» Si guardò nello specchietto retrovisore e si passò le dita tra i capelli, separando le ciocche. «Pazienza. A proposito, sai la strada?» «No. Niente senso dell'orientamento. Mi perdo nei parcheggi.» Ridacchiò... Un punto per la squadra di casa. «Indicamela tu.» «Okay, devi prendere la 87, che è su...» Si entusiasmò all'improvviso, posandomi una mano sul braccio. «Oh, fermati, fermati qui davanti alla chiesa di Santo Stefano.» Un imponente edificio di pietra torreggiava alla nostra sinistra; lì davanti, due uomini in tonaca e parka erano intenti a conficcare nel prato
cartelloni su paletti. Erano opposti sotto quasi tutti i punti di vista: uno era grasso, rubizzo, allegro e bianco; l'altro era snello, ordinato, serio e nero. Il sacerdote nero teneva ferma l'asta, mentre quello bianco la piantava nel terreno, ansimando per lo sforzo. Quando frenai, si bloccarono entrambi, alzando gli occhi: preti illuminati dai fari. Vedendo Hannah, il grassone mollò subito il martello e si accostò all'auto. «Be', guarda chi si vede. Ciao, Hannah. Che bella sorpresa. Dove vai questa sera? Luke, guarda chi c'è» urlò all'altro. «La signorina Rowe.» Il secondo religioso si avvicinò e salutò Hannah con un sorriso cortese e un cenno del capo; lei rispose allo stesso modo ma parlò solo con il primo. «Stiamo andando a cena. Questo è il mio amico Paul» mi presentò. «Questo è il reverendo Hampden.» Il prete si sfilò la manopola e mi porse una mano flaccida come una carpa morta senza nemmeno ricambiare la stretta, quindi si affrettò a rimettersi il guanto. «E questo è il reverendo Makgabo.» Il nero mi strinse la mano con energia e aggiunse persino un «Piacere». Non riconobbi l'accento. «Allora, dove passerete questa splendida serata voi ragazzi?» domandò Hampden. «Alla Trota.» «Ah, ottimo, ottimo. Magnifica scelta. Mi dica, Paul, è di queste parti?» «Non sono nato qui, ma adesso abito a Lincoln.» «Davvero? Fantastico. Che cosa fa? Quale chiesa frequenta?» «Non vado spesso in chiesa, ma lavoro per il "Carrier".» «Un reporter. Suppongo che questo spieghi tutto» osservò, rivolgendo a Hannah una scherzosa e ostentata strizzatina d'occhio. «Gli impegnatissimi membri della stampa non hanno molta voglia di andare in chiesa di questi tempi. No, nemmeno Art e Donna vengono a Natale. Naturalmente, Art è cattolico, perciò forse...» Si interruppe, levando le mani guantate come se mi fossi avventato contro di lui. «La prego, non si offenda se anche lei è cattolico o, se è per questo, qualsiasi altra cosa. Ma, sa, la nostra Hannah è uno dei pochissimi giovani attivi nella nostra chiesa. Giusto, Luke?» Makgabo annuì, ma Hampden non si voltò neppure a guardarlo. «Per esempio, è appena stata la sorvegliante del nostro gruppo giovanile, vero?» Hannah assentì. «Sai, mi chiedevo se potessi entrare solo un secondo per parlare della prossima gita» le disse Hampden, portandosi una manona alla testa e spostando la pancia sotto il parka e la tonaca. «Paul, posteggi pure qui, se desidera. Ci metteremo solo un attimo. Luke, puoi finire con i cartelli, per
favore?» Voltandosi verso di me, alzò di nuovo le mani. «Sono queste dannate muffole. Non riesco a combinare niente. Hannah?» Quando lei scese dall'auto, il sacerdote le cinse le spalle con un braccio, e si avviarono verso la chiesa. Hannah si girò e, sollevando un dito, sillabò le parole: «Un minuto». Spensi il motore e smontai. «Posso aiutarla con quelli?» proposi a Makgabo. I cartelloni pubblicizzavano una vendita di prodotti da forno e un'asta senza banditore per raccogliere fondi destinati alla canonica. «Sì, grazie. Ci vogliono due persone, sa, per piantarli come si deve. E il terreno è scivoloso dopo tutta questa pioggia. Lei li tenga fermi, e io li martello. No. No. Tenga il paletto, non la parte superiore. Non voglio romperle le dita.» «Posso chiederle da dove viene?» «Dall'Uganda. Sono venuto negli Stati Uniti per uno scambio di due anni. Il reverendo Jonas, un prete di New Haven, ha preso il mio posto a Gulu per lo stesso periodo.» «Perché Lincoln e non New Haven?» «A essere onesto, non lo so nemmeno io. Sono solo andato dove mi hanno ordinato di andare. Lavoro a New Haven tre sere la settimana, ma più come volontario che come parroco. Sembrerebbe che là abbiano più bisogno di consigli. Mi perdoni per averlo detto, se l'ho offesa.» «Niente affatto. Che cosa fa a New Haven?» «Lavoro in una mensa dei poveri gestita dalla chiesa. Cucino, pulisco, ascolto.» Conficcò un paletto nel terreno con energia e ne afferrò un altro. «Lei fa il giornalista qui? Le piace la sua professione?» Mi guardò con intensità, un'espressione aperta e cordiale. «Suppongo di sì.» «Supporre non serve a niente. Lei è un uomo colto, perciò può scegliere l'attività che preferisce, supporre è inutile. Hannah sembra molto soddisfatta del suo lavoro.» Tacque, rivolgendomi un sorriso allusivo, gli occhi che gli brillavano maliziosi. «E lei sembra molto soddisfatto di Hannah. L'ha seguita con lo sguardo finché è entrata in chiesa.» Arrossii senza replicare, e Makgabo rise. «Ah, vede. Lo sapevo. Anch'io ho una moglie, e la guardo nello stesso modo. Il fatto che sia un sacerdote non significa che non sia umano.» Aveva una risata contagiosa, a piena gola, cui non riuscii a resistere. «Sì, è carina» ammisi, il che suscitò altre risa. «Carina. Come no. Sì, davvero carina.» Mi guardò di nuovo, con la
medesima aria sorniona e divertita. Aveva un che di vivace, birichino e accattivante. «Mi permetta di dire che sarebbe un tallonatore perfetto.» «Scusi?» Occhi ammiccanti e altre risate. «Mi riferisco al rugby. Le piace?» «Non l'ho mai praticato.» «Ah, be', allora deve entrare nella nostra squadra. Quando è possibile, una ventina di noi gioca nei week-end. Oltre a me nessun altro ha mai giocato prima. Espongo locandine a New Haven e Lincoln, convincendo i miei confratelli di entrambe le città ad azzuffarsi come selvaggi per qualche ora. Sa, non può immaginare quanti problemi si risolvono sul campo da rugby. Anziché rimuginare, litigare e complottare, ti scagli contro qualcuno e sfoghi le frustrazioni tutte insieme.» «Gioca anche il reverendo Hampden?» «Ah. Quella preghiera non è ancora stata esaudita» rispose, gli occhi che danzavano. «Ma eccolo che arriva.» Hampden, che barcollava lungo il vialetto come un tricheco ubriaco, agitava una mano di lato per tenersi in equilibrio, guidando Hannah con l'altra. La mano sulla schiena della ragazza non era infilata nel guanto, e l'espressione del sacerdote stava a metà tra l'estremo interesse e la lascivia ambigua, ma la frequenza con cui le sbirciava sotto la scollatura quando lei non lo guardava faceva pendere l'ago della bilancia più verso la lascivia. Quando ci raggiunsero, Hampden mi diede una pacca sulla spalla. «Be', vede, Paul, ho tempestato la nostra amica Hannah di domande sul suo conto, ma non ha saputo dirmi niente.» Incerto su come replicare, guardai Hannah, aspettando che intervenisse. Non lo fece. «Be', a me sembra un bravo ragazzo. Che cosa ne pensi, Luke? L'hai torchiato per bene, vero?» domandò Hampden con una vistosa strizzatina d'occhio a Hannah. «Oh, sì. A me pare abbastanza rispettabile.» «Be', allora la questione è risolta. Paul, sono molto lieto di averla conosciuta. Guidi con prudenza. È sempre bello vederti, Hannah» aggiunse Hampden, baciandola sulla guancia e stringendola in un abbraccio del tutto superfluo e alquanto viscido. «Tornerai presto, spero.» «Lo spero anch'io.» «Magnifico. Paul, se vuole passare di qui per vedere che cosa combiniamo, è sempre il benvenuto.» Diverse migliaia di domande mi guizzarono nel cervello come girini.
Non trovando alcuna frase educata, optai per una silenziosa stretta di mano. Il reverendo Makgabo mi invitò a raggiungerli il mattino dopo sul campo da gioco della Talcott. Premendomi un dito contro la schiena in direzione dell'auto, Hannah mi ricordò che era ora di andare. La Trota sorgeva accanto a un ruscello, poco a sud del confine con il Massachusetts, lungo un grande prato attorniato da boschetti di pini e da una fila di colline che si stagliava contro il blu della notte come un'idea. «Quello oltre gli alberi laggiù è l'Appalachian Trail» ci spiegò il barbuto proprietario, accompagnandoci al tavolo. «Non lo sanno in molti; quando sente parlare degli Appalachi, la gente pensa al Tennessee. Ma se, dopo mangiato, seguite il sentiero in fondo al parcheggio e svoltate a sinistra al primo gruppo d'alberi, il Tennessee è il posto dove vi ritroverete continuando a camminare. Quando siete pronti per ordinare, venite alla cassa. Il menù è scritto sulla lavagna sopra il bancone laggiù. Se fossi in voi, eviterei il salmone» ci avvisò, ammiccando. Hannah scelse la birra fatta in casa e il pasticcio di carne. Io chiesi un cheeseburger con patatine fritte e una Budweiser. Hannah e il proprietario mi guardarono inorriditi, come se avessi ordinato un bebé rosolato in padella. «Sei sicuro di volere la Budweiser?» mi domandò Hannah, sottintendendo di essere sicura che non la volevo. «Qui producono la loro birra.» «Davvero?» L'uomo annuì e sorrise, chiudendo gli occhi con espressione beata: davanti a tanto autocompiacimento, mi aspettavo la perfezione in un bicchiere da una pinta. «Allora prendo... Mi porti quello che porta alla signorina.» Lui sbuffò, contrasse il volto in una smorfia di accondiscendenza e si allontanò. Mi strinsi nelle spalle. «Lo so, sono un conformista. Se tenessero le lattine, ne avrei ordinata una.» Hannah mi guardò con finta irritazione. «Spero che nessuno mi veda con uno zoticone come te» scherzò, sfiorandomi la mano. Le domandai che cosa ne pensasse di padre Hampden. «Oh, è un vecchietto dolcissimo. Ama quello che fa ed è l'autentica incarnazione di un prete del New England, non trovi? Che impressione ti ha fatto?» Mi limitai a inarcare la sopracciglia. «Il reverendo Makgabo mi è sembrato simpatico.» «È piuttosto taciturno. Non lo conosco molto bene. Ma padre Hampden pare così spontaneo, sai? Sembra fatto su misura per il posto in cui è.»
Non ero del tutto persuaso dalle argomentazioni di Hannah, ma non valeva la pena litigare per questo. «Posso farti una domanda?» mi chiese Hannah. Annuii. «Che razza di cognome è Tomm? Insomma, quando mi hai telefonato, ho pensato che ti chiamassi Paul Tom. Un po' come Billy Bob, Becky Sue o qualcosa del genere.» Risi, assentendo: me l'avevano già detto altre volte, e il mio cognome incuriosiva tutti. «Non voglio essere indiscreta» continuò, piegando la testa di lato e scostandosi i capelli dal viso. Era un colpo basso, pensai; avrei rivelato dei segreti di Stato per rivedere quel gesto. «Mio nonno, il padre di mio padre, è venuto a Brooklyn dalla Polonia. Solo che sarebbe dovuto andare a Liverpool, perché suo fratello si era già trasferito laggiù, e perché credeva che quella fosse la destinazione della sua nave. Non sapeva leggere né scrivere, e presumo sia saltato sulla prima nave con un equipaggio inglese. Così, durante il viaggio verso ovest, decide di anglicizzare il suo cognome. Comunque, si rivolge a un membro della ciurma...» «Il comandante in seconda?» «Il nostromo? L'addetto ai giri di chiglia? Chissà; l'unica nave su cui sia salito in vita mia è il traghetto di Staten Island. A ogni modo, chiede a questo tizio: "Qual è il nome più inglese che ti viene in mente?", e l'altro risponde: "Tom". Così quello è diventato il suo cognome. Non so come sia stata aggiunta la seconda m, ma, che tu ci creda o no, questi sono i fatti. E tu? Rowe? Sei una figlia del Mayflower?» Rise, risputando senza volerlo un po' di birra nel boccale. «Esatto. A mio padre piace crederlo. Ma mia madre è la tipica ragazza del Midwest. Origini scandinave, scozzesi-irlandesi. Forse anche qualcos'altro. È il genere di patrimonio etnico che non conta davvero come patrimonio etnico.» «Una famiglia unita?» «Sono molto affezionata a mia madre. Abita poco distante da Chicago. Schaumburg, se ti dice qualcosa.» Scossi la testa. «Ma è tutto qui. Mio padre, lo vedo ogni tanto, il meno possibile. Quando avevo circa sei anni, è scappato con un'altra, che ha mollato di lì a poco. Da allora ci sono state molte "altre". Comunque, ora vive in Florida, in uno stupido e piccolo bungalow affacciato su un campo da golf, dove può bere 7&7 e non prendersi il disturbo di cambiare una virgola della sua vita. Detesta il
freddo, perciò non viene mai a trovarmi. Uno dei tanti vantaggi di abitare a Lincoln.» Ci avevano servito la cena mentre parlava, e si buttò sul pasticcio di carne come se non mangiasse da giorni. Credo di averla guardata con un po' troppa intensità, perché alzò gli occhi con imbarazzo e cominciò a pulirsi il mento e a controllare di non essersi macchiata la camicia. «Sei a posto, non preoccuparti. È solo che adoro le ragazze voraci.» «Oh, grazie. Io lo sono, immagino. Una buona forchetta.» «Non volevo... Scusa, intendevo soltanto...» Rise, agitando la mano. «Lo so. Raccontami di te. Sei un ibrido di Brooklyn. Cos'altro?» «A dire il vero, mio padre è tornato a Indianapolis, dove è nato. I miei si sono separati quando avevo dodici anni. Mamma vive ancora a Brooklyn. Anzi, vive nella casa in cui è cresciuta, un grande edificio di tre piani. Continua a ripetere che vuole affittare i primi due, ma penso che voglia regalarli a mio fratello e sua moglie.» «Però. Una famiglia di tre generazioni negli Stati Uniti. Niente meno che a New York.» «Sì, be', non ci piace molto andare in giro.» «Niente viaggi?» «No, credo che in famiglia nessuno ami viaggiare. I miei genitori ci hanno portato a Londra una volta, quando ero piccolo, e ogni tanto mia madre va in Olanda e in Irlanda a trovare i suoi parenti. Mio padre dice che inizia a soffrire di nostalgia appena si sposta a est di Cleveland o a ovest di Omaha.» «Okay, ecco qui la domanda più importante.» Imitò un lieve rullo di tamburi picchiettando con le dita sul tavolo. «Quanti anni hai?» «Quanti me ne dai?» «Non lo so. Ventisette? Ventotto?» Mi accasciai contro lo schienale della panca di pelle rossa. «Mi offendi. Mi offendi davvero. Ne ho appena compiuti ventitré.» Si mise una mano sulla bocca e strabuzzò gli occhi, che scintillarono catturando la luce delle candele sugli altri tavoli. «Mio Dio. Un bambino. Non riesco a crederci. Ho avuto relazioni con uomini più giovani di me, ma non così giovani. Questa è pedofilia.» Arrossii. Aveva appena affermato che avevamo una relazione? «Perché? Posso chiederti...» «Io? Decrepita. Spacciata. Una matusa. Ho trentun anni.»
Ammutolii, il che, ripensandoci, fu peggio di un commento sarcastico. Avevo un ricordo abbastanza vivido del ventottesimo compleanno di mia madre. Trentun anni erano un'età da adulto. «Non sono mai uscito con qualcuno così... Be', presumo che, essendo al college, non ne abbia avuta...» Il fosso diventava sempre più profondo man mano che la mia faccia avvampava. «Oh, smettila di arrossire. Accertati che il mio caffè sia decaffeinato, procurami un deambulatore per quando usciamo dal ristorante, e andrà tutto bene. Non preoccuparti.» Di solito non parlo tanto apertamente con qualcuno, soprattutto con le donne... soprattutto con le donne da cui sono attratto. Ma la nostra conversazione filò via liscia e, più diventava facile, più avevo la sensazione che la posta in gioco salisse. A quel tavolo, il mondo divenne più grande e benevolo. Quando le confessai di non sapere che cosa volessi fare davvero, replicò che non lo sapeva nemmeno lei. Prima di trasferirsi a Lincoln, aveva vissuto a Boston, insegnando inglese, cantando in un paio di cori e conducendo «la vita un po' dissoluta di una single abbastanza avvenente in un'enorme città universitaria». Aveva traslocato quando aveva saputo del posto vacante alla Talcott e aveva avvertito il bisogno di scappare dalla metropoli, ma dichiarò di essere «più contenta che felice» della sua esistenza. Si domandava se fosse un problema o qualcosa cui si sarebbe dovuta abituare. Mi strinsi nelle spalle, rispondendole che non lo sapevo. «Certo che non lo sai; sei a malapena abbastanza grande da offrirmi una birra. A proposito della quale...» Agitò il bicchiere vuoto con la sinistra. «Un'altra di queste. E la promessa è ancora valida: torna a questo tavolo con una Budweiser, con qualcosa di simile a una Budweiser o con una lattina, e me ne vado.» Quando, dopo che avemmo chiacchierato per altre due ore e altrettante birre, mi alzai per consultare l'orologio dietro il bancone, scorsi, solo e appollaiato su uno sgabello lì sotto, un tizio dall'aria familiare. Aveva una faccia bonaria, da lupo di mare, gli occhi azzurri e la barba bianca; indossava abiti da insegnante che parevano non avere forma né colore (cascanti, di un beige tendente al marrone). Pur non riuscendo a inquadrarlo, ero sicuro di averlo già visto. Risedendomi, lo indicai a Hannah; ipotizzando che quel tale fosse di Lincoln, pensai che potesse conoscerlo. Quando si girò, l'uomo stava guardando diritto verso di noi; Hannah tornò a voltarsi di scatto, ancor
prima di riuscire a cancellarsi del tutto dalla faccia la paura e lo sgomento. «Non so chi sia. Non credo di averlo mai visto. Penso che dovremmo andare» disse tutto d'un fiato, abbozzando un finto sorriso. «E poi sono stanca» aggiunse, posando una mano sulla mia. «Che cosa c'è che non va? Chi è quello?» «Te l'ho appena detto, non lo so. Per favore, adesso possiamo andare? Per favore?» «Devi ancora finire la tua birra. Sei sicura di non...» Mentre parlavo, prese i soldi dalla borsetta, preparandosi a pagare il conto. Allora cedetti. «Okay, ferma. Ce ne andiamo. Ma se sei preoccupata, forse dovresti rivolgerti alla polizia, o magari...» Si costrinse ad assumere un'aria di calma alticcia e affaticata, ma quell'espressione pareva sospesa sopra i suoi lineamenti come una maschera attaccata male. «Quell'uomo mi ricorda le vecchie fotografie di mio padre.» Se fosse stato vero, suo padre avrebbe dovuto avere circa sessant'anni quando era nata, il che era strano, se non addirittura impossibile. Non riuscivo tuttavia a immaginare quel tipo stile vecchio marinaio in un bungalow affacciato su un campo da golf della Florida. Nonostante il sorriso disinvolto e la falsa andatura spigliata con cui si diresse verso la porta, Hannah aveva le mani che le tremavano mentre si allacciava la mantella.
L'avorio dello Xinjiang (la terra)
La terra: un poeta barbaro osservò, con insolita perspicacia, che da essa veniamo e a essa torneremo. Come hanno constatato gli antichi, è il primo e il più importante degli elementi, il principale per qualità e dignità, nota soprattutto perché fredda e asciutta, ma in realtà anche ricettacolo e terreno fertile per gli altri tre. Il vero scienziato, asserisce Tsun Li Bai, dovrebbe mangiare un cucchiaio della sua terra natale al giorno, portandola con sé quando deve viaggiare. Non occorre aggiungere altro riguardo al suo infelice destino... Yun Feiyan, La ruota del dragone
[Quanto segue è tratto dalla testimonianza di Jakob Harve, poeta estone considerato nemico del popolo e internato nel campo di lavoro di Yamal nell'agosto del 1974. Redasse questo documento durante la sua evasione, diciassette mesi dopo. Mancano la pagina o le pagine iniziali.] ... perché avevo sentito dire che erano stati tutti collettivizzati e trasformati in obbedienti esemplari di Homo sovieticus. Gli domandai se in realtà non fosse così. «Sì, in gran parte» rispose in un russo troppo corretto (questo particolare avrebbe già dovuto mettermi in guardia: che stupido sono stato). «Ma alcuni dei nostri gruppi continuano a vagare liberi, come abbiamo sempre fatto e faremo sempre.» Abbassò gli occhi sulle mie gambe: calzavo gli stivali leggeri e scadenti distribuiti dalla prigione, le cui suole iniziavano a staccarsi. A essere sincero, avevo i piedi del tutto intorpiditi da diverse ore (le punte delle dita cominciavano ad annerirsi), ma ero così ansioso di mettere un po' di distanza tra me e l'inferno da cui ero fuggito che non me ne ero accorto. Ridendo di cuore, usò il coltello per tagliare due brandelli dal suo cappotto, consigliandomi di avvolgerli intorno agli stivali. Si tolse quindi
quella pelliccia immensa e informe e me la strinse intorno alle spalle. Quando gli dissi che non avevo mai conosciuto uno jacuto, replicò che gli unici russi in cui lui e la sua gente incappassero erano i prigionieri fuggitivi. Estrasse dalle tasche due strisce di carne essiccata (non gli domandai da quale animale provenisse) e me le porse. Avevo la bocca così secca, e la carne era così legnosa, che potei soltanto farmene sciogliere un pezzetto sulla lingua come se fosse una caramella dura. Lo jacuto mi diede una pacca sulla schiena, indicando una iurta all'orizzonte. Mi domandò se fossi abbastanza in forze da camminare; naturalmente risposi di sì. Quando ci avviammo vacillando verso l'accampamento, il digiuno e i piedi congelati ebbero tuttavia la meglio su di me: incespicai e caddi in avanti, sperando che la neve attuasse la caduta. Invece, così a nord, ricevetti un colpo ghiacciato alla mandibola. Mi destai sentendomi strofinare la faccia da un cencio caldo e umido con uno strano odore dolciastro, anzi rancido. Aprii gli occhi e vidi che, in realtà, si trattava della lingua di una renna, impegnata a leccarmi il sudore della febbre dalla fronte e dalle guance. Costernato, mi rizzai con un movimento troppo brusco e capovolsi il tavolo accanto al mio giaciglio, facendo cadere per terra tè, pane e striscioline di carne e facendo indietreggiare per lo spavento il mio amico a quattro zampe. Udii risate di vario tono e genere: flautati risolini infantili, catarrosi colpi di tosse da vecchio, sonori sghignazzi da grassone, risatine stridule di età e sesso imprecisati e una serie di sogghigni indefiniti a completare il repertorio. Con un senso di vertigine, mi alzai lentamente a sedere, rendendomi conto che ero in una tenda chiusa, soffocante e affollata: puzzava di sego, alcol, sudore, tabacco e flatulenza. Dopo 947 giorni mi svegliai tuttavia in un luogo diverso dalla mia cella, cosa per cui ringraziai Dio ad alta voce per la prima volta dopo quasi tre anni. Seduto su una pelle d'orso lì accanto vi era il mio salvatore, a capo scoperto e intento a fumare una lunga e rudimentale pipa di legno. «Bulun?» domandò. Annuii. «Per quanto tempo?» «Quasi tre anni.» Grugnì, inarcando le sopracciglia. Una donna tarchiata e dal volto piatto, probabilmente sua moglie, alzò gli occhi dalle calzature imbottite di pelo che stava aggiustando e schioccò la lingua con compassione. «Niente
male» commentò l'uomo. «L'ultimo che è stato qui ci era rimasto per quindici anni. È morto prima di raggiungere la tenda, ma era quasi un cadavere già da tempo.» Raccogliendo quanto avevo rovesciato, me lo porse. «Pane. L'ha fatto mia moglie.» Accennò alla donna paffuta, che mi rivolse un sorriso mesto. «E carne di renna. Fa molto bene.» «Anche un po' di tè» interloquì una roca voce femminile dall'altra parte della tenda. Apparteneva a una signora anziana, seduta accanto a un uomo della stessa età; erano entrambi così vecchi, rugosi e imperscrutabili da parere scolpiti nel legno. «Bevi il tè» aggiunse lei, accentuando la parola «tè» come se fossi un forestiero (cosa che ero, presumo). «Caldo in inverno. Ottimo per le ossa. Ottimo anche per il cervello» continuò, picchiettandosi la testa per sottolineare il concetto. «Tè, madre. Porta all'ospite un po' di tè» la pregò il mio salvatore. «Finisci di mangiare, adesso; ti scalderai. Fumi?» Scossi il capo. «Non ho mai conosciuto un prigioniero che non fumasse.» «Potevo comprare più roba con le sigarette se non le fumavo mai.» «Ingegnoso. Sei russo?» «Estone.» Disse qualcosa ai due vecchi, che annuirono con un'espressione indecifrabile e una sincronia inquietante. «I miei genitori» spiegò. «E anche quelle tre piccine sono mie» proseguì, indicando tre bambine che mi spiavano guardinghe dall'angolo più lontano. «Un quarto in arrivo.» Mi strizzò l'occhio. «Il ciccione che russa laggiù è quel buono a nulla di mio cognato. Ma i parenti sono parenti. Hai qualcuno da cui tornare?» «Una moglie. Ho una moglie.» In carcere avevo imparato a reprimere ogni ricordo di lei; ora, scaldata dalla possibilità del ritorno, la sua immagine si scongelò nella mia mente, prima pian piano e poi in maniera incontrollabile. Quando rammentai le sue mani, la sua voce, il suo profumo, cominciai a tremare e a piangere davanti a quella famiglia di estranei. Non riuscii più a tollerare il suo pensiero. «Dimmi, chi sei? E perché mi hai aiutato?» domandai dopo essermi ricomposto. «Mi chiamo Nei. Siamo sakha, cioè jacuti. Gli ultimi jacuti liberi di questa regione. Perché ti ho aiutato? Perché è mio dovere, ecco perché.» Com'è stupefacente e deplorevole la velocità con cui la crosta della prigione si scioglie appena esposta al calore umano. Diventa ancor più deplorevole quando quel calore è una simulazione, una torcia elettrica anziché un fuoco. «Sono passati anni, amico mio, da quando ho sentito
qualcuno parlare del dovere in quel modo. Il dovere come qualcosa di diverso dal calpestare chi sta sotto di te e inchinarsi a chi ti sta sopra.» Allungai la mano verso di lui, e credo che l'avrei abbracciato se il lembo della tenda non si fosse sollevato rivelando due stivali familiari, seguiti da una faccia ancor più familiare. «Bel discorso, poeta.» Ghignò. «Ma Nei si riferiva al suo dovere socialista verso di me, non a un'idea puerile e retrograda che lo obbligherebbe ad aiutare i nemici dello Stato.» Pur essendomi augurato di non rivedere più il volto del comandante Ženskij, sapevo che non l'avrei mai scordato. Eppure, nonostante tutti i miei sforzi (tutti i segreti, le bustarelle, le speranze, le attese, le ore trascorse a scavare o a battere i denti e il rischio di morire o di essere ricatturato cui mi illudevo di essermi sottratto), rieccolo lì, sempre lo stesso [PARAGRAFO CANCELLATO]. «Te la sei cavata meglio di tanti altri, sai. Hai superato entrambi gli schieramenti di guardie e sei sopravvissuto abbastanza a lungo da raggiungere Nei. Sono davvero colpito. Dimmi, dove hai prestato il servizio militare?» Sedette vicino al fuoco, in un posto libero. Strano che fosse libero, a meno che, naturalmente, non fosse riservato a lui (come credo che fosse). «Murmansk.» «Questo spiega tutto. Pensi di essere abituato al freddo, vero?» Non risposi. «Lascia che ti dica una cosa: nessuno si abitua mai a questo freddo. Se non avessi incontrato Nei dove l'hai incontrato, saresti morto nel giro di qualche ora. Pensi che Bulun sia una prigione? Bulun è un'oasi, un paradiso di calore e convivialità rispetto al resto di questa regione dimenticata da Dio. Questo deserto è la vera prigione. Sai da quanto vivo quaggiù? Diciotto anni. E sai perché? Perché mi pagano. Profumatamente. Ho un'enorme casa sulle rive della Lena, dove posso pescare; godo di privilegi per i viaggi all'estero e dell'accesso agli ospedali per me, i miei genitori e i miei figli; ho automobili e autisti, e vivo meglio del novanta per cento dei funzionari di partito con un grado tecnicamente superiore al mio. Ma devo vivere in questa desolazione. Nove mesi di freddo insopportabile e tre mesi di zanzare. «Compagno poeta, quante volte sei stato all'aperto da quando sei mio ospite? No, no: non dirmelo. Lo so già: sei stato fuori tutte le volte che ti abbiamo permesso di uscire. Di che cosa odorano le tue mani?» Odoravano di pesce, naturalmente, e suppongo che non perderanno mai
quel tanfo. Le annusai, tentando di restare impassibile, ma devo aver arricciato il naso, perché Ženskij rise. «Lo immaginavo. Vogliamo che non vi sbarazziate mai del tutto di quel puzzo. E stiamo aumentando la produzione, sai. Ne stanno arrivando altri: altri scrittori ebrei, altri attori finocchi, altri cantanti capelloni. E abbiamo spazio e lavoro per tutti.» Nei e la moglie fissavano il pavimento con aria triste. Bastò che Ženskij li guardasse perché i loro occhi si spalancassero all'istante, le loro teste si chinassero e due sorrisetti falsi atterrassero come insetti tra i loro nasi e i loro menti. Il comandante ordinò a Nei di versarmi un po' di tè e portarmi il cibo. Fiutò il piatto, espirò con disgusto e me lo porse. «Penso che alla fine ci si faccia l'abitudine. Io non ci sono mai riuscito. Carne di renna cruda, congelata e tagliata sottile. Ributtante. Sai, preferisco il caviale osetra che arriva ogni mese, accompagnato da una cassa di vodka e una di champagne crimeo. Solo il meglio. Ma tieni, serviti pure. Cerca di scaldarti. Poi vorrei mostrarti una cosa, se posso.» Mi era passato l'appetito, ma non volevo che pensasse di avermi spaventato, così mangiai. Quando ebbi finito tutta la carne e il pane, restituii il piatto direttamente alla moglie di Nei, ringraziandola con un cenno del capo. Lei mi rivolse un sorriso radioso, quindi lanciò un'occhiata a Ženskij e tornò di corsa accanto al marito, la testa bassa. «Vieni fuori per un attimo» mi invitò Ženskij. «Voglio che tu veda una cosa.» Tentai di alzarmi dal giaciglio, ma ero congelato. La temperatura e la reputazione sanguinaria del comandante mi avevano paralizzato la metà inferiore del corpo. «Poeta» domandò, accostando al mio viso la faccia butterata, simile alla pelle di un pollo crudo «hai paura di me?» Anziché rispondere, mi costrinsi ad alzarmi e mi avvolsi nel cappotto di Nei. Sollevato il lembo della tenda, uscimmo in una notte così fredda e serena che sembrava di essere in una lastra di vetro. Il cielo conteneva più stelle di quante ne avessi mai immaginate; pareva traboccare. Udii un tintinnio e un crepitio sommesso che sembravano venire da lontano. Ženskij indicò dietro di noi, e io distinsi a fatica un tenue baluginio. «Bulun. Non è poi così distante. Quattro chilometri, forse. Ma vedi questo accampamento? La forma dell'accampamento?» Non mi ero nemmeno accorto di essere in un accampamento. Poi notai tende di pelle uguali a quella di Nei che si allungavano in entrambe le direzioni a intervalli regolari. «È una linea» osservai.
«No. Vieni qui e guarda di nuovo.» Ci spostammo sull'altro lato della iurta. «Un cerchio. Le tende...» «Un anello. Bulun e la mia casa sorgono nel mezzo. Adesso capisci? Gli jacuti hanno il permesso di vagabondare. Hanno le loro mandrie, le loro pelli e la loro lingua. Non sono a Magnitogorsk, non estraggono carbone dalle miniere di Vorkuta o Voronez, i loro figli non vengono mandati nei convitti statali. In cambio chiediamo solo un po' di sorveglianza e di informazioni.» Una lacrima mi spuntò dall'occhio, mi rigò il volto e, già congelata, cadde a terra con un suono metallico. Ženskij si piegò per raccoglierla. La scia ghiacciata mi pungeva la guancia, ma la stilla di pianto si imperlò sul palmo del comandante come un dono. «Il sussurro delle stelle» disse Ženskij. «Il che cosa?» «Un poeta come te dovrebbe saperlo. Lo chiamano "sussurro delle stelle". Ascolta» continuò, sollevando un dito per zittirmi. Udendo ancora il tintinnio, tesi il collo per vedere che cosa fosse. Ženskij rise. «No, qui. Guarda.» Allargò la bocca in una O espirando con lentezza. Vidi la nuvola del suo alito che si depositava sul terreno sotto forma di goccioline. Ecco che cosa avevo sentito: il nostro respiro che cadeva. «È un modo di dire jacuto. Indica un periodo così freddo che il fiato ghiaccia prima di dissiparsi. Gli jacuti sostengono che non bisogna mai rivelare segreti all'aperto durante il sussurro delle stelle, perché anche le parole si solidificano, e con il disgelo primaverile chiunque passi in quel punto le udirà. In primavera l'aria si riempie di pettegolezzi superati, ordini non eseguiti, voci di bambini diventati adolescenti e scampoli di conversazioni dimenticate. La tua voce, compagno poeta, il nostro dialogo, resteranno qui molto più di te.» A quel punto pensai che volesse uccidermi. Invece mi diede una pacca sulla spalla, mi riaccompagnò verso la tenda e infilò la testa sotto il lembo. «Nei. Jacuto grasso e pigro. Portami la scatola, ti spiace?» «Quale scatola, comandante?» Il viso di Nei, così schietto, candido e pieno di sollecitudine quando mi aveva trovato a vagabondare tra la neve, si era tramutato in una spigolosa maschera di terrore e ossequiosità. «Quella di avorio, la scatola di avorio intagliato in cui tieni il tabacco. Quella per cui ti ho fatto i complimenti durante la mia ultima visita. Quella che sei stato così scortese da non regalarmi.» «Ma, comandante, quella scatola apparteneva...»
Un forte schianto e una pioggia di scintille fecero trasalire me e Nei; caddi all'indietro e, quando alzai gli occhi, vidi Ženskij che stringeva in mano una pistola da cui uscivano spirali di vapore. L'aveva puntata contro un enorme larice, da cui ora si alzava un gran fumo. Con un gemito e un'aria rassegnata, metà del tronco si abbatté a terra, mentre il resto dell'albero, compreso di rami e radici, crollò nell'altra direzione. Ženskij rise, voltandosi verso di me: «Sai, con questo freddo si limitano a esplodere. Se cerchi di abbatterli per ricavare un po' di legna durante l'inverno, volano scintille da tutte le parti, e l'ascia ti si frantuma in mano. Ma non credevo di riuscirci così bene. Radici poco profonde». Rise di nuovo, riponendo l'arma e rivolgendosi a Nei. «Suppongo mi stessi spiegando perché non posso avere quella scatola.» Lo jacuto si affrettò a tornare nella tenda (quando entrò, intravidi la moglie e le figlie che piangevano, pigiate nell'angolo più lontano) e a uscirne con una scatoletta di avorio, che porse a Ženskij. «Sai, gli jacuti commerciavano con i mercanti di Novgorod prima di soccombere all'Orda d'oro. A loro volta, i mercanti di Novgorod ricevevano merci da tutto il pianeta. Compresa, presumo, questa bella scatola. E poiché nessuno che abbia contatti con il resto del mondo viene mai in questa merdosa regione ghiacciata e dimenticata da Dio ai confini della terra, piccoli tesori come questo rimangono all'interno delle famiglie molto a lungo. Guarda qui, guarda la lavorazione. Nessuno jacuto saprebbe intagliare così, non trovi? «Be', sia come sia, dovresti essere onorato, compagno poeta; questa tabacchiera conserverà le tue parole per me quando te ne sarai andato. Adesso ti racconterò la verità» annunciò, infilandosi le dita nella tasca del giubbotto ed estraendo una fiaschetta e un fascio di fogli. Bevve un lungo sorso dalla prima e me la tese. Pensai che fosse vodka, invece inghiottii fuoco liquido. «Samogon jakut. Non so che cosa ci sia dentro, ma ti scalda.» Dopo aver bevuto di nuovo, mise via la fiaschetta. «Qui» brandì i fogli con un gesto teatrale «ho le poesie per cui ti hanno condannato. A proposito, sai quali sono le accuse contro di te?» Gli risposi di no. «Formalismo borghese. Uso della tua posizione universitaria per. traviare i futuri leader dell'Unione Sovietica.» Cercai di protestare, ma mi zittì agitando la mano guantata. «Oh, per favore. Lascia perdere. È acqua passata. No, la verità è che questi versi mi piacciono. Parlano dell'amore e della natura; seguono piccoli schemi interessanti, sai, il modo in cui sono
abbinati i vocaboli...» «Sestine.» «Prego?» «Si chiamano sestine. Alcune. Scrivevo anche villanelle. Tutte e due forme italiane basate sui giochi di parole, e che dunque si traducono molto bene in russo. Vede, se prende la prima riga e traspone...» «Ti prego, niente lezioni adesso. Fa troppo freddo. Il punto è che queste poesie non sono pericolose. Alcuni prigionieri (ebrei, disertori, spacciatori di droga), li avrei ammazzati sul colpo, ma tu sei diverso. Potresti persino avere un avvenire in questo Paese. Naturalmente, non posso lasciarti scappare; perderei il lavoro. Ma se firmo i documenti per la tua scarcerazione e modifico la data con effetto retroattivo, chi vuoi che mi interroghi, eh?» Mi strizzò l'occhio, gesto che trovai più spaventoso della sua pistola. «Sei sempre stato abbastanza obbediente, ma hai dimostrato molta più astuzia e coraggio di quanto mi sarei aspettato da un poeta, soprattutto da un poeta estone. Ti chiedo soltanto due favori, poi potrai passare una notte tranquilla quaggiù. La prima cosa che devi fare è scrivere come sei evaso. Hai corrotto delle guardie? Voglio sapere i nomi. Ti hanno aiutato gli altri prigionieri? Voglio sapere quali. C'è un punto debole nell'architettura di Bulun? Voglio sapere dove. Non voglio sentire pretesti, non voglio sentire professioni d'onore, nessun "Non intendo tradire questo tizio"... niente del genere. Un resoconto sincero, esauriente e dettagliato, e potrai godere dei frutti della tua fatica. D'accordo? Bene. «Ora, il tuo secondo compito. Vediamo... Ah, da questa parte.» Mi chiamò con un cenno verso il larice abbattuto. Sorgeva nel mezzo di una distesa di neve, ghiaccio, schegge di legno e nero terriccio siberiano. Prese un pizzico di tabacco rosato dalla scatola, gettò via il resto e mi guidò al centro dello spiazzo melmoso. «Respira.» Il mio fiato cadde in minuscoli chicchi di grandine sulla terra già ghiacciata. «Perfetto. Ora, quale poesia desideri leggere?» «Scusi?» «Quale poesia? Qual è la tua preferita? Tieni, tieni, magari non te le ricordi. Magari adesso ti ricordi solo l'omul. Dai un'occhiata.» Sedette sul tronco ai miei piedi e si accese una sigaretta. «Questa» proposi. Si intitolava Il lamento della fruttivendola. L'avevo composta a Kurgja nell'estate dopo il mio matrimonio, dopo aver fatto l'amore con mia moglie mentre una venditrice di uva sultanina cantava
nella piazza sottostante. Mi fece segno di cominciare. Mentre leggevo, si mise a quattro zampe e, usando un coltello da caccia, raschiò la terra su cui cadeva il mio respiro e la ripose nel contenitore. Quando terminai, chiuse il coperchio e si inchinò. «Ecco fatto. Ora, ogni volta che vorrò rammentare l'illustre poeta sotto la mia sorveglianza, non dovrò far altro che aprire questa scatola quando il clima è mite. «Quanto a te, ecco qui della carta e due penne. Non perderle. Inizia a scrivere... Tutto, mi raccomando, fino a questa conversazione compresa... e tornerò tra due giorni per verificare i tuoi progressi. Se sarò pienamente soddisfatto (e sono certo che lo sarò), preparerò i documenti per il tuo rilascio e ti manderò a casa. «Sembri sorpreso. Non dovresti esserlo. Vedi, non siamo tutti mostri. No, io e Nei abbiamo soltanto escogitato un modo per sfruttare il sistema a nostro favore. Lui ottiene quel che vuole, io ottengo quel che voglio, e gli unici a rimetterci sono i criminali, i reprobi e i nemici dello Stato che sarebbero stati catturati comunque. Anche il peggiore degli evasi ha l'opportunità di assaporare qualche ora di libertà, sai? Qualche ora trascorsa a sgranocchiare carne essiccata in compagnia di queste donne dalla faccia liscia e tonda che puzzano di grasso di renna. Meglio di niente. Meglio delle interiora di pesce e dei criminali che russano. Un accordo vantaggioso, non trovi? Sogni d'oro, compagno poeta.»
REPERTO 6:
tabacchiera rettangolare di avorio, con venature laterali di giada e argento. Sulla parte superiore, un'iscrizione di giada in caratteri arabi recita: «Nel nome di Dio, il Misericordioso, il Compassionevole». All'interno del coperchio è incisa la parola «terra» in cinese. La scatola è lunga 12 centimetri, alta 3, e larga 4. Naturalmente, la terra è uno dei quattro elementi aristotelici (gli altri tre sono il fuoco, l'aria e l'acqua) e possiede le qualità della freddezza e della secchezza (il fuoco è caldo e secco, l'aria è calda e umida, l'acqua è fredda e umida). Poiché ogni elemento ha una caratteristica in comune con uno degli altri, ciascuno di essi può essere tramutato in
un altro mediante riscaldamento o raffreddamento, mediante essiccazione o aggiunta di acqua: questa idea è il principio su cui poggia l'alchimia. Idris ben Khalid al-Jubir definisce la terra «il più importante dei quattro elementi, il più diffuso e, invero, il meno utile. Come l'acqua e l'aria, la terra esiste, ma, a differenza degli altri due elementi, non può essere alterata nella forma. È il libro di tutta la materia: è come è, e ciò che è è semplicemente la materia prima per ciò che sarà, o dovrebbe essere. Il mondo concreto, la terra terrena, è vile, imperfetto e silenzioso: proprio come una voce necessita di una bocca e di un respiro che le diano forma, il mondo tangibile necessita di una mano che lo perfezioni». DATA DI FABBRICAZIONE:
per quanto sofisticate nella qualità, le venature sono piuttosto rozze nell'aspetto, e i segni del tempo sugli angoli indicano che la scatola vide la luce nel IX o nel X secolo. COSTRUTTORE:
sconosciuto.
LUOGO DI PROVENIENZA:
i materiali (giada, avorio, argento) sono tutti molto comuni in Cina, ma l'iscrizione araba e la tecnica della venatura di una pietra con un'altra rivelano un'influenza islamica. La confluenza di stile e materiale segnala che la scatola proviene dallo Xinjiang, che conobbe una fioritura dell'arte cinese-islamica quando gli arabi giunsero per la prima volta alla corte di Uygur. L'Islam divenne una moda di corte, sebbene l'arrivo di truppe arabe sempre più numerose l'abbia trasformata ben presto in qualcosa di più di una semplice moda. Pavel Vadimovic Ženskij, ingegnere capo del conservificio di pesce e comandante del Centro di lavoro e istruzione superiore di Bulun, entrambi chiusi dopo il crollo dell'Unione Sovietica. Ženskij vendette la scatola e il suo contenuto, insieme con una lettera e le ultime volontà (ormai perdute) del poeta estone Jakob Harve, a un acquirente ignoto per una somma ignota. All'epoca della vendita, nell'agosto del 1992, era appena emersa la responsabilità di Ženskij nell'assassinio di migliaia di scrittori dissidenti a Bulun. Due mesi prima, Ženskij era stato denunciato come ULTIMO
PROPRIETARIO
CONOSCIUTO:
architetto del CHP (la Divisione di pattugliamento del popolo settentrionale, in cui il KGB costringeva gruppi di siberiani a lavorare come guardie informali del campo in cambio di una parvenza di libertà), e di conseguenza era stato cacciato dalla sua sontuosa abitazione sul fiume Lena. Lo scandalo che lo obbligò a vendere le sue proprietà implicava l'accusa di aver corrotto i secondini affinché facilitassero l'evasione di famosi scrittori rivoluzionari e di aver atteso questi ultimi nell'accampamento jacuto intorno alla prigione. Una volta catturati, i fuggiaschi si vedevano promettere la scarcerazione in cambio di una descrizione dettagliata di chi li aveva aiutati a scappare; Ženskij aveva usato quelle testimonianze per ricattare quasi tutte le guardie al suo servizio. Senza eccezioni, aveva sparato ai fuggitivi o aveva pagato gli jacuti per ucciderli durante il sonno. Il primo a muovere queste accuse contro il comandante era stato un secondino frustrato; in seguito le imputazioni erano state corroborate da ogni guardia ancora in vita che avesse lavorato per Ženskij. Quest'ultimo conservava una nutrita serie di cimeli sottratti agli scrittori che aveva ammazzato o fatto ammazzare, tutti oggetti che si affrettò a vendere una volta che le sue malefatte divennero di dominio pubblico. Ljudmila Jakovlevna Ženskaja, sua moglie, ipotizzò che avesse utilizzato il denaro per uscire dai guai legali e dalla Russia: poco prima del processo, Ženskij svanì senza più dare notizie di sé. Ljudmila Jakovlevna affermò che il marito era un poeta e un saggista prolifico; leggeva e sapeva recitare a memoria molte delle opere per cui i suoi detenuti erano stati condannati al carcere. I suoi scritti erano tuttavia stati rifiutati da quasi ogni pubblicazione letteraria di prestigio dell'ex Unione Sovietica. VALORE STIMATO:
data l'antichità, la fattura e le venature di giada e argento, la scatola spunterebbe probabilmente alcune centinaia di migliaia di dollari. È una sorta di pezzo da museo, il che incoraggerebbe le richieste, allontanando al tempo stesso acquirenti più generosi ma riservati, poco inclini a fare offerte modeste in presenza di piccoli burocrati vestiti di tweed. Se venduto con abilità, organizzando un'idonea pubblicità selettiva e ponendo l'accento sui dettagli giusti (l'iscrizione o l'elegante venatura o il metallo e i minerali preziosi), l'oggetto potrebbe valere fino a 500.000 dollari.
La sua potenza è illimitata se viene converiita in terra.
Nel bene o nel male, la serata terminò a bordo della mia auto senza neppure un bacio. Hannah - la fragile vernice di calma che si scrostava in alcuni punti, lasciando intravedere l'inquietudine - disse che ci saremmo visti l'indomani, anche se non specificò dove, come o quando. Durante il tragitto verso casa cercai un paio di volte di domandarle dell'uomo barbuto al ristorante, ma ripeté che assomigliava a suo padre e, quando la sua voce cominciò ad alzarsi e a inasprirsi per l'irritazione, desistetti. Era ovvio che mentiva, ma era ancora più ovvio che era la donna più avvenente salita sulla mia auto nell'arco di mesi, forse di anni. Come ho già accennato, non volevo insistere su quello che all'epoca pareva un punto secondario (impressione che poi si sarebbe rivelata inesatta). Accingendosi a scendere, mi ringraziò per la cena e la piacevole serata e mi passò le dita lisce sulla guancia e sulla gola, fermandosi appena dentro il colletto della camicia. Mi sporsi verso di lei, ma purtroppo avevo dimenticato di mettere il cambio in folle, e la vettura cominciò ad avanzare. Idilliaco, lo so, concludere un appuntamento con un incidente stradale. Tirai il freno a mano, e ci mancò poco che entrambi ci spaccassimo la testa contro il parabrezza. Temendo per la sua incolumità (dissi a me stesso), chiuse la portiera, mi salutò con la mano e si avviò lungo il vialetto. Un altro cenno di saluto dalla soglia, e partii. Il mattino dopo, il tempo era ormai migliorato e ogni cosa pareva scintillante e tirata a lucido, i contorni degli edifici e le cime degli alberi un po' troppo nitidi per essere veri, il cielo di un azzurro troppo limpido per non essere dipinto. Il gelo aveva tracciato ricami fini e intricati che serpeggiavano dagli angoli opposti di una delle mie finestre, incrociandosi e fondendosi in un candido disegno di cristallo: un regalo del sabato mattina. Con molta probabilità erano la cosa più bella del mio appartamento, e si sarebbero sciolti entro mezzogiorno. Nel frattempo
presi una camicia blu (la mia unica camicia semistirata) dal guardaroba, dove pendeva tutta stazzonata, indossai una cravatta e un paio di pantaloni sportivi e lasciai il mio squallore minimalista per andare a pranzo con il professor Jadid. Durante il viaggio verso Wickenden decisi tuttavia di fermarmi ai campi da gioco della Talcott. Il reverendo Makgabo mi era parso simpaticissimo, anche se non sapevo il perché: in realtà, ci eravamo limitati a scambiarci dei convenevoli. La sua tranquilla compostezza sembrava però un antidoto all'eccessiva esuberanza di Hampden. Cosa più importante, mi domandavo se Makgabo sapesse qualcos'altro di Hannah. Credo di aver borbottato tra me e me qualcosa sulla verifica di tutte le potenziali fonti, una sorta di razionalizzazione giornalistica, ma, a essere sincero, ero solo interessato a lei. Per quanto fosse seducente e incantevole, aveva anche un che di misterioso e indecifrabile, e non solo per via della sua reazione di fronte al tizio del ristorante. Pur non riponendo grandi speranze nell'eventualità che un sacerdote si abbandonasse ai pettegolezzi, pensai che valesse almeno la pena di passare a salutarlo. Quando arrivai, Makgabo, con indosso pantaloncini e una maglietta da rugby a strisce bianche e verdi, era in piedi tra una ventina di ragazzi seduti in cerchio, intento a gesticolare con un pallone in mano. «... e dovete essere all'altezza degli standard universitari. Perciò, se volete giocare con noi, niente risse, niente sospensioni, niente insufficienze, niente assenze ai corsi. Si dice che il calcio sia uno sport per gentiluomini praticato da teppisti e che il rugby sia uno sport per teppisti praticato da gentiluomini. Non mi aspetto niente di meno. Adesso, per prima cosa, un po' di riscaldamento. Fate quattro giri di corsa, poi tornate qui.» Quando i ragazzi si allontanarono, alcuni scattando troppo presto, altri procedendo a lunghe falcate, il reverendo alzò gli occhi, mi vide e mi chiamò con un cenno. «È una tenuta davvero insolita per una partita di rugby» commentò, muovendo le dita su e giù come se mi stesse misurando i vestiti. «Non ne vedo una simile da quando frequentavo le elementari. Sa, ci placcavamo afferrandoci per la cravatta.» Mi gettò la palla con una sorta di tiro sottomano. «Purtroppo questa mattina non posso giocare. Ho solo fatto un salto per salutarla e vedere se magari posso scrivere un articolo sulla squadra di rugby di Lincoln.» Gli rilanciai il pallone. Makgabo scoppiò a ridere. «No, no. La società di rugby di Lincoln.
Suona molto elegante, molto professionale. Sì, certo, penso che un articolo sia una buona idea.» «Okay. Non ho con me il mio bloc-notes in questo momento, ma...» «Ah, non importa. Adesso non avrei comunque il tempo di parlare. Ma giochiamo qui ogni sabato, se è davvero curioso. Cerchiamo di cominciare intorno alle undici. Poi cerchiamo di accompagnare i ragazzi alla stazione entro le tre e mezzo.» «Da dove vengono i giocatori?» «Soprattutto da New Haven. Li ho conosciuti lavorando come volontario. Per molti di loro, questa è la prima volta che lasciano la città. E per molti abitanti di questa graziosa cittadina è, immagino, la prima volta che vedono tanti ragazzi neri tutti insieme.» Rise, e io lo imitai, con quel misto di disagio, senso di colpa e desiderio di compiacere e assecondare che segue quasi tutte le battute razziali interrazziali. «Così il reverendo Hampden non viene mai?» «Ah, no. Vorrei che venisse» rispose, ridacchiando tra sé. «Come mai? Il motivo per cui vuole che venga, intendo, non il motivo della sua assenza.» «Il mio primo allenatore mi ha insegnato che il campo da rugby è il posto migliore per eliminare le frustrazioni e appianare le divergenze. Così evitano di suppurare, di alimentare il risentimento: placchi qualcuno, lo aiuti a rialzarsi. Lui placca te, e ti aiuta a rialzarti.» «Il potere umanizzante della violenza, è questa la linea che dovrei seguire?» «Oh, no. Oh, no. Il potere umanizzante dello sport, forse. A ogni modo, probabilmente questo è un pubblico troppo ristretto e, potremmo dire, troppo umile per il reverendo Hampden.» «È invidioso di lui?» «No, no. Sono felice di lavorare come meglio credo. Questo campo è anche una specie di vocazione, sa.» «Non dimenticherò di scriverlo nell'articolo.» «Sì. Spero che lo faccia. Sta andando dalla sua amica?» «Quale amica?» «Quale amica?» mi fece eco, ridacchiando. «Sa bene a chi mi riferisco.» «Hannah?» Assentì. «No, vado a pranzo con un vecchio conoscente di Wickenden.» «Ah. Pensavo che l'avessero invitata a un matrimonio. Un abbigliamento da scolaretto a quest'ora del sabato. Deve telefonarmi o passare alla chiesa
se vuole davvero pubblicare un pezzo su di noi. Mi auguro che lo faccia.» Quando superai le pesanti porte di mogano e quindi i due battenti di vetro stile saloon del Blue Point, il professor Jadid sedeva a un tavolo accanto alla finestra, impegnato in una vivace chiacchierata con una coppia di mezza età. Era attento e immobile come un felino, mentre il fumo della sua sigaretta brillava di pulviscolo salendo tra i raggi del sole. L'uomo e la donna parlavano senza gesticolare. Sembravano due coniugi i cui gusti si erano fusi al punto che si vestivano, stavano in piedi e piegavano la testa all'unisono, con naturalezza e spontaneità. Scorgendomi, Jadid sorrise, si alzò per metà e mi chiamò con un cenno. «È in perfetto orario, signor Tomm. Sono lieto di vederla. Le presento il signore e la signora O'Sullivan, proprietari del locale e miei cari amici di vecchia data.» Come notai avvicinandomi, il marito pareva più dolce e affabile della moglie, che aveva una perenne smorfia di vaga disapprovazione intorno agli angoli della bocca. Lui si chiamava Jerry. «Così lei è un altro laureato uscito dall'Accademia della bella vita Jadid, giusto?» Non avendo capito la battuta, guardai la donna, che sembrava non averla trovata spiritosa. «Quest'uomo è uno dei nostri migliori clienti» continuò Jerry, dando un'inopportuna pacca sulla spalla al professore. «Probabilmente è anche il miglior cuoco di Wickenden.» Fece un largo sorriso, aspettando un po' troppo a lungo che noi cogliessimo il senso di quella frase. Jadid si limitò a sorridere, chiudere gli occhi e ciondolare piano la testa da una parte all'altra in un gesto di bonaria sopportazione. «Possiamo portare ai signori un drink insieme con il menù?» Jadid alzò gli occhi verso di me. Ordinai qualunque cosa avessero alla spina. Jadid chiese un bicchiere di Sancerre. Non sapevo se fosse un vino, una birra o un liquore. «Non immaginavo che cucinasse» osservai, scivolando sulla panchetta di fronte. «Altroché. Un'arte necessaria e civilizzatrice. L'abilità culinaria non è tra le molte, moltissime virtù di mia moglie. E nella mia famiglia gli uomini sono sempre stati cuochi per inclinazione e insegnanti e rabbini per professione. Suppongo che una cosa su due non sia male per un immigrato.» Jerry portò una birra ambrata per me («Harpoon's Christmas») e del vino bianco («Sakonnet's finest») per il professore. «Rabbini?» Vedendo che si infilava il tovagliolo nel colletto inamidato, lo imitai.
«Sì, be', almeno nella maggior parte dei Paesi il mio cognome spinge la gente in un'altra direzione. Ormai sono quasi non praticante. Continuo a essere ebreo solo a scopo di persecuzione, come ama scherzare il mio primogenito. Una vittima al contrario della Seconda guerra mondiale, suppongo.» «Che cosa intende?» Sospirò. «Sa, non trovo nulla di strano nel mio modo di parlare, ma per qualche ragione la prima domanda che quasi tutti i miei ex studenti mi rivolgono quando iniziamo a chiacchierare come amici anziché come professore e allievo è da dove provenga il mio accento.» Risi, e lui dondolò il capo con lentezza, gli occhi chiusi, sorridendo come un gatto assonnato. «Sì. Be', lei che cosa direbbe? Ricordi, non può offendermi sbagliando e, se non mi inganno su di lei, non credo nemmeno che riuscirà a indovinare. Ma prima, mentre ci pensa, posso ordinare anche per lei? C'è qualcosa che non le piace? No? Ottimo.» Levò la mano, e la moglie di Jerry si avvicinò, un bloc-notes tra le dita e un tiepido sorriso incollato sulle labbra. Jadid chiese delle ostriche, mezza dozzina di Wellfleet e mezza dozzina di Malpeque, quindi un waterzooi per sé, una porzione di cioppino per me e mezza bottiglia di Fumé. «Maura gestisce la cantina e si occupa dell'aspetto finanziario» mormorò quando la donna si fu allontanata. «So che sembra arcigna, ma è solo un po' timida, e più portata per i numeri che per le persone. Ma ha un palato eccellente. Allora, sentiamo la sua ipotesi.» «Be', arrischierei tedesco, ma non mi pare molto tedesco. Credo inoltre che un ebreo tedesco della sua età sarebbe una vittima diretta e non una vittima al contrario, qualunque cosa significhi.» «Bene. Un ragionamento logico e corretto.» «Potrei anche azzardare svizzero o austriaco» continuai «ma con molta probabilità valgono le stesse argomentazioni. Ungherese, magari?» Era un po' più scuro di me, con gli occhi verdognoli e i capelli grigi: a Hollywood avrebbe potuto interpretare una decina di etnie diverse. «Spagnolo? Turco? Sì, penso metà ungherese, metà turco, ma con un pizzico di qualcos'altro.» «Da lei non mi sarei aspettato una conclusione meno intelligente, signor Tomm. Ma...» «Professore, le dispiacerebbe chiamarmi Paul?» «Come vuole. Paul. Sono nato e cresciuto a Tabriz, in realtà.» La mia geografia vacillava un po' a est di Cape Cod e a sud di Baltimora.
«Non voglio sfoggiare la mia ignoranza, ma dov'è Tabriz?» «In Iran, anche se di solito ci chiamiamo persiani, con il suo permesso. Quando gli ebrei persiani vennero convertiti con la forza, presero il nome di Jadid al-Islam, o nuovi musulmani. Per motivi a me oscuri, uno dei miei antenati adottò quel nomignolo come cognome. La Persia simboleggia, più dell'Iran, la tolleranza e la raffinatezza che un tempo caratterizzavano quella parte del mondo, e che spero la caratterizzeranno ancora.» Sollevò il bicchiere e brindò a quell'affermazione; mi affrettai a fare lo stesso, ma finii per spandere la birra sul tavolo. «Che cosa intende per vittima al contrario, allora?» «Siamo stati più o meno espulsi dal Paese dopo il 1948. Non era raro, sa, in quelle regioni. Una delle ironie più crudeli della storia. Israele avrebbe dovuto offrire agli ebrei un rifugio sicuro nel mondo; una nobile aspirazione, soprattutto alla luce di quanto era accaduto di recente. Invece, in tutto il Medio Oriente, gli ebrei sono stati costretti a lasciare le città (e talvolta persino le abitazioni) in cui vivevano da secoli. La casa in cui sono cresciuto era stata costruita dal mio bis-bis-bisnonno quasi duecento anni prima. Quando siamo partiti, siamo partiti in tutta fretta. Non so nemmeno chi vi alloggi adesso.» «Così vi siete trasferiti in Israele?» «No, no. Sa, mio padre ci ha pensato un po' su, ma, dopo aver vissuto per secoli in Persia tra cristiani, musulmani, zoroastriani e individui di ogni religione, non credo che avrebbe resistito in un'atmosfera interamente ebraica. Comunque, un suo amico olandese, che aveva conosciuto prima della guerra e che era sopravvissuto ai campi di concentramento, lo ha contattato nel 1950 e lo ha invitato a diventare il rabbino di quanto restava della comunità sefardita di Leida. Così finimmo laggiù, il che spiega, presumo, perché sembri in parte tedesco, anche se non voglio far ribollire il suo sangue olandese con questo paragone. Ci aggiunga una valorosa donna di Belfast, la signora McClenahan, che ha allevato me e i miei fratelli dopo la morte di nostra madre, ed ecco il mio accento, che, a quanto mi hanno detto, è pressoché unico.» Proprio in quel momento, Maura si materializzò al nostro tavolo con due piatti fumanti in mano e una decina di ostriche su un vassoio d'argento, oltre a piccole ciotole di salsa cocktail, reseda alla birra scura e salsa di soia mescolata con zenzero e succo di limetta. Di solito scappo a gambe levate dai molluschi crudi, e non avevo mai assaggiato un'ostrica in tutti gli anni trascorsi nel Nordest. Non volevo tuttavia che Jadid mi
considerasse una sorta di zoticone. Fatto sta che presi l'ostrica, la inghiottii e, mentre mi scendeva nell'esofago come uno starnuto congelato in retromarcia, mi domandai perché qualcuno dovesse decidere di mangiare quella roba e se potessi impedirle di tornare su una volta arrivata nello stomaco. Maura posò lo stufato bianco davanti a Jadid e quello rosso davanti a me, domandandomi: «Sa perché ha ordinato queste due pietanze, vero?». Scossi la testa. «Sono entrambe sue creazioni.» Guardai il professore con aria interrogativa. Maura rise. «Alcuni lunedì, quando il ristorante è chiuso, Anton viene a spadellare nella nostra cucina. Queste sono entrambe sue ricette. Credo che abbia ideato... quanti? Quattro o cinque piatti che compaiono sul menù fisso.» «Cinque» precisò lui, sorridendo come il vincitore di una gara di ortografia. «Cioppino, waterzooi, tajine di squalo... cos'altro? Cos'altro? Pesce grigliato con chermoula e il martini Jadid. Gin con ghiaccio, un goccio di grappa e scorza di limetta.» «Sì, ma... Anton, qualcuno ha mai ordinato il martini Jadid a parte te?» replicò la donna. «Non sono responsabile dei grandi e molteplici difetti dei gusti altrui, mia cara. L'unica cosa che posso fare è proporre una magnifica invenzione al pubblico. Non gliela posso imporre.» Maura si allontanò ridendo, e il sorriso le cancellò una decina d'anni dal volto. «Dunque, ora mi racconti del suo articolo» mi invitò Jadid, tamponandosi la zuppa dagli angoli della bocca. Con molta probabilità quell'uomo avrebbe trovato il modo di esplorare persino le caverne con eleganza. «Mi racconti che cosa succede nel "mondo reale" di cui noi professori sentiamo parlare tanto spesso. Sono molto curioso di sapere che cosa ha scoperto su Jaan.» «Be', non molto, purtroppo. Non so ancora come sia morto, e il coroner incaricato dell'autopsia è stato investito da un'auto due giorni fa.» «Mio Dio. Che cosa è successo? Sta bene?» «No. È morto. Un pirata della strada. Non si è nemmeno fermato.» «È terribile.» «Lo so. Non aveva ancora finito, ma mi aveva detto che il cadavere aveva qualcosa di strano. Pare che l'unica persona a conoscere Pühapäev fosse Hannah, e...» «Chi è Hannah?» «Scusi. È un'insegnante di musica, una vicina di Jaan.» «Che anche lei conosce abbastanza bene da chiamare con il nome di
battesimo durante le conversazioni.» «Be', ecco... Immagino di sì. È una ragazza particolare.» «Abbastanza particolare da farla balbettare e arrossire. Vada avanti.» «Suo nipote mi ha confermato quanto mi aveva riferito, che Jaan era stato arrestato due volte, entrambe per aver usato una pistola.» «A proposito, questa faccenda ha stuzzicato l'interesse di Joseph. Quest'autunno si è cacciato nei guai, e nelle ultime settimane l'hanno tenuto inchiodato alla scrivania. Il suo problemino gli ha finalmente dato uno stimolo di cui aveva davvero bisogno.» «Che tipo di guai?» Sospirò, increspando gli occhi. «Joseph è sempre stato un attaccabrighe, suppongo. Ha preso dal padre, il mio fratello maggiore Daniel, che era innamorato dei ring e dei quartieri malfamati di Leida quanto io lo ero delle sue biblioteche. Comunque, Joseph è sveglio, diligente e, in fondo, molto gentile, ma è testardo come un mulo e un po' troppo precipitoso nel ricorrere alla violenza. In ottobre un'auto ha tamponato la sua in un parcheggio mentre lui era a bordo. È scoppiata una lite; hanno iniziato a spintonarsi, e purtroppo Joseph ha colpito l'altro tizio, rompendogli il naso e staccandogli due denti. Il conducente era amico del sindaco. Così, con suo grande dispiacere, Joseph è "sepolto tra le scartoffie", come dice lui, da cinque settimane. Credo che soffra di claustrofobia. A ogni modo, vuole sapere se può passare da lui lunedì.» «Dove, alla centrale di Wickenden? Sicuro.» «Splendido. Glielo riferirò questa sera. Come ho già detto, Joseph sa essere piuttosto scontroso. Ma se l'ha aiutata una volta e, a quanto pare, intende aiutarla di nuovo, deve trovarla simpatico.» «Posso farle una domanda? Una cosa che mi è rimasta impressa dal colloquio con Joe?» «Certo.» «Perché la chiama zio Abe?» «Ah. Il mio nome di battesimo è Avram. L'ho modificato in Anton quando mi sono iscritto all'università di Leida. Di conseguenza, i miei genitori, nonni, zie e zii mi chiamano Avi; gli ex compagni di corso e i colleghi qui a Wickenden mi chiamano Anton; e mia moglie, i parenti più giovani e gli amici intimi mi chiamano Abe. Piuttosto ridicolo, se vuole il mio parere, ma a mia discolpa dirò soltanto che cambiare nome sembrava un'idea molto moderna all'epoca.» «Sorprendente. Gli altri mi hanno chiamato solo e sempre Paul. Ma
posso farle un'altra domanda?» «Credo che l'abbia appena fatta, ma presumo che voglia aggiungerne un'altra. Dica pure.» «Mi ha raccontato che il professor Pühapäev non è stato licenziato perché era inamovibile. Ma come è possibile? Insomma, i docenti vengono sospesi per commenti stupidi o per semplici sospetti di molestie sessuali. Ma qui avete un tizio che spara dalla finestra della facoltà, non insegna quasi niente, non fa il tutor di nessuno. Mi ha detto che i giornali sono stati tenuti all'oscuro, ma la polizia era informata. Avreste senza dubbio potuto risolvere la questione senza fare scalpore, giusto?» Si pulì la bocca con il tovagliolo e divise l'ultimo vino rimasto tra i due bicchieri. «Mi dica, i reporter usano davvero l'espressione "in via ufficiosa", oppure esiste solo nei film?» «No, la usiamo.» «Eccellente. Allora questa conversazione si svolge, come direbbe lei, in via ufficiosa.» Annuii. «La prima volta che Jaan ha sparato è stata nel gennaio del 1995. Ha colpito un gatto, come le ho spiegato, e ha quasi fatto morire di paura la guardia notturna. All'epoca il preside di facoltà era il professor Crowley. Ora, Hamilton era stato un simpatizzante convinto di Jaan subito dopo il suo arrivo qui, quando gli altri membri non erano sicuri che Pühapäev fosse idoneo a insegnare in un'università di questo calibro. Ha sostenuto la sua domanda per l'inamovibilità, che alla fine è stata accolta. «Quando Jaan ha fatto fuoco dalla finestra, Hamilton si è dato un gran daffare per nascondere la notizia alla stampa e insabbiare la vicenda il più possibile. Non so come abbia strappato alla polizia la promessa di non divulgare le informazioni ai giornali, ma non sarei per nulla meravigliato se si scoprisse che ci sono state delle bustarelle. Siamo a Wickenden, dopo tutto. Credo che solo quattro docenti, tra cui il sottoscritto, fossero a conoscenza di che cosa aveva combinato Jaan. La fama di Hamilton andava tramontando, ma era ancora un luminare da queste parti. Attirava molti studenti e molta attenzione, e ha specificato che, se avessimo preso delle iniziative contro Jaan (contro il suo protetto, come lo considerava lui), se ne sarebbe andato. Non so quale reputazione abbia Hamilton tra gli studenti, ma suppongo che la forza del suo ego sia nota. Di conseguenza, non è stato adottato alcun provvedimento: Jaan ha promesso di non venire più all'università armato, e noi abbiamo promesso di metterci una pietra
sopra. «Ma tre anni dopo, alla fine dell'estate, poco prima che gli studenti tornassero, Jaan ha rifatto la stessa cosa: tarda sera, un'ombra, una reazione esagerata eccetera. Quella volta, guarda caso, il proiettile ha colpito il cofano della Mercedes di Crowley. Mentre lui era a bordo. Ne è uscito illeso ma terrorizzato, e ha insistito affinché Jaan venisse licenziato, arrestato, multato... a parte trascinato a coda di cavallo e squartato, qualsiasi cosa. Ero io il preside di facoltà allora. Che sia stato un bene o un male, ho fatto con esattezza quanto Hamilton aveva fatto la prima volta, pensando che, se avessimo dovuto punirlo, non sarebbe stato necessario divulgare la notizia della sua infrazione e del nostro complotto (non riesco a trovare parola più delicata). Desideravo evitare uno scandalo. Così ho estorto le medesime promesse, presentato le medesime scuse, congelato i medesimi reporter e blandito o messo sotto pressione i medesimi direttori di giornale (quasi tutti laureati di Wickenden), ottenendo i medesimi risultati. «C'è stato un solo particolare strano: quando ho detto a Jaan che sarebbe finito in galera (al diavolo la pubblicità) se avessi anche solo sentito mormorare che girava ancora armato, ho ricevuto una lettera di Vernum Sickle.» «È un nome che mi suona familiare.» «Sì, è quasi indimenticabile, vero? Dickensiano, potrebbe dire, se fosse il tipo di persona che dice simili idiozie. Nel qual caso non staremmo pranzando insieme. Comunque, Sickle è forse il più abile, e senza dubbio il più costoso, avvocato difensore del New England. A quanto ne so, rappresenta per lo più le famiglie della criminalità organizzata, con un politico di alto profilo qua e là tanto per cambiare. Il signor Sickle mi esortava a smettere di tormentare il suo cliente, il professor Jaan Pühapäev, altrimenti avrebbe citato me, la facoltà e l'università per diffamazione. Aggiungeva che, se avessi preso qualche misura basandomi su semplici voci, come avevo minacciato di fare... be', sarebbe capitato qualcosa di orribile e via discorrendo. Sottolineava anche che, pur essendo un istituto privato, ricevevamo sussidi federali e sovvenzioni municipali, e quindi eravamo vincolati dal Quarto emendamento, ossia non avevamo il diritto di perquisire l'ufficio o la persona di Jaan. Non so se questa argomentazione fosse corretta, ma era senz'altro intimidatoria. Una minaccia di guerra infarcita di legalese. Ma ha funzionato: Jaan ha conservato il posto, e non ha più usato la pistola, anche se scommetterei la
testa che se la portava dietro lo stesso. «L'intervento di Sickle mi ha incuriosito, perché dimostrava che Jaan non era sprovveduto come sembrava. Naturalmente, può aver trovato il nome di Sickle in uno degli innumerevoli articoli che lo menzionano, ma la lettera è arrivata così in fretta che presumo si conoscessero già. Come ho detto, tutto in via ufficiosa.» «Ecco, professore, sa, vorrei proprio poter utilizzare queste informazioni. Non si tratta più di un semplice necrologio. La vicenda sta appassionando me quanto ha appassionato suo nipote. C'è qualcosa che non quadra in tutto questo. Per quanto mi riguarda, non devo dichiarare di aver ottenuto i dettagli da lei; posso attribuirli a "un collega" o a "una fonte interna all'università". Ma ho bisogno di vere citazioni.» Jadid guardò fuori della finestra. Eravamo proprio ai confini del centro e, nel tardo pomeriggio invernale, gli edifici assomigliavano a un'accozzaglia di mattoncini Lego color cannella e nocciola, tenui e dolci. Il fiume catturava la luce e appariva caldo e dorato, anche se, in realtà, era probabilmente gelido e corrosivo. «Mi lasci il tempo di rifletterci su. Sarebbe un peccato se la facoltà venisse calunniata. Considerata la vostra tiratura, sta senz'altro conducendo un lodevole lavoro di ricerca.» «La tiratura non c'entra» ribattei, forse in tono un po' troppo brusco e difensivo. «Inoltre, c'è una redattrice di Boston che è interessata a questo caso. Potrebbe offrirmi un posto laggiù.» «È una notizia meravigliosa. Un giornale prestigioso in una città importante alla sua età? Eccezionale. Le più sentite congratulazioni sono di rigore, insieme con due bicchieri di brandy» si complimentò, facendo segno a Maura dietro il bancone. «Forse non spetta a me dirlo, ma lei mi è sempre sembrato il tipo di persona che è al tempo stesso ambiziosa e spaventata dalla sua ambizione. È esatto?» «A essere sincero, non lo so. Spaventato? Probabilmente no. Mi piace fare le cose per bene.» «Certo. Non lo metterei mai in dubbio. Le rammenterei soltanto che, se l'ambizione sfrenata può essere crudele, l'ambizione governata da un senso del decoro e della decenza come quello che lei evidentemente possiede è essenziale. Faccia del bene, Paul, ma questo non significa che non debba anche fare le cose per bene. Forse ha bisogno di qualche lezione della signorina Park sull'argomento.» «Mia. Come sta?» «Una delle studentesse più brillanti a cui abbia mai avuto il piacere di
insegnare. E una delle più polemiche. Senza offesa, devo ammettere che ho non poche difficoltà nell'immaginarvi come coppia.» Risi. «Non è l'unico. Andiamo molto più d'accordo come amici che come partner, anche se non la vedo da quasi un anno.» «Capita. Non voglio essere troppo indiscreto chiedendole di questa insegnante di musica, ma se le piace abbastanza da farla arrossire, deve esserci del tenero. Buona fortuna.» «Grazie.» «Ora, dovremmo fare un ultimo brindisi prima di sfidare il pomeriggio invernale. Forse dovremmo brindare ai professori lugubri che hanno una pessima mira e magari anche inclinazioni criminali, ma effetti prodigiosi sulla carriera dei giovani reporter. No, è un po' lungo, mi pare. Che cosa ne dice di un brindisi ai reporter e ai professori? Alla scoperta.» E a quella brindammo. Mentre ripercorrevo le strade violacee e addolcite dal crepuscolo, mille domande mi attraversarono la mente: come aveva fatto Pühapäev a conoscere Sickle? La storia di Jadid sull'insabbiamento orchestrato da Crowley era vera? Se sì, avrei trovato qualche conferma? Che cosa aveva appreso Joe Jadid, e perché era interessato alle indagini di un giornalista di provincia? Una domanda emerse però con più forza di tutte le altre: Hannah aveva impegni per quella sera?
La regina piangente
Alla destituzione segue la morte del re, momento in cui la regina lava con lacrime assai caste e venerabili il corpo martoriato e abbandonato del suo signore, quand'ecco che, mediante quelle lacrime, Cristo lo rende oggetto di una rinascita capace di liberare il sovrano da ogni sofferenza terrena nonché dalla lordura e dalla brevità di questa vita, tramutandolo in quel che non ha eguali. John Foxwell, Sulle cose rare e prodigiose
Lo sgangherato autobus argenteo sbuffava con lentezza lungo Pragas iela, lasciandosi dietro una scia di fumo nero e fanghiglia marrone. Il clacson, lamentoso e impotente, emetteva il verso di un'oca intrappolata da qualche parte nel tubo di scarico. Il conducente lo suonava di continuo in una serie ininterrotta di strombettii lunghi e brevi simili a un codice Morse; l'effetto era più comico che minaccioso. Prima di lasciare l'hotel Latvija (una tetra mostruosità di calcestruzzo che esercitava un fascino smodato su scarafaggi e roditori, ma quasi nullo sugli esseri umani), l'autista aveva «aggiustato» i tergicristalli, che, restando incastrati sotto la grigia melma dell'autostrada accumulatasi nelle scanalature, erano ghiacciati durante la notte. Usando una scarpa come martello e il collo seghettato di una bottiglia di birra rotta come scalpello, aveva eliminato il sudiciume e li aveva liberati, forse con un po' troppo entusiasmo: ora si muovevano avanti e indietro a quindici centimetri buoni dal parabrezza, sbattendo senza sosta uno contro l'altro e applaudendo con ironia ai suoi sforzi mentre entrava alla cieca nel parcheggio della stazione, fidandosi solo del suo intuito. Scendendo, tutti i passeggeri lo ringraziarono per la corsa. Nessun sovietico l'avrebbe mai fatto. Ma questi viaggiatori erano britannici, e smontarono in un funereo corteo di berretti grigi, galosce chiazzate, impermeabili beige, ombrelli malandati e sciarpe marroncino e verde vomito. Il conducente e la guida turistica concordavano sul fatto che quello fosse il lavoro più facile che avessero mai svolto: niente operai ubriachi di
Krasnojarsk, niente babuške insolenti di Pietrogrado, niente «compagni» condiscendenti venuti da Mosca per visitare le province. Questi turisti erano individui docili, cortesi e dagli incisivi sporgenti, arrivati da Islington e Jericho per trascorrere le feste (nessuno di loro usava la parola «Natale») nel paradiso socialista della Lettonia. Quando l'autobus si fermò, la guida usò la mano sudaticcia per incollarsi qualche ciocca di capelli alla pelata irregolare. Si schiarì rumorosamente la gola e, smontando, sputò qualcosa di ripugnante sul pavimento del veicolo. «Se per favore volete seguirmi» urlò, sollevando l'ombrello rosso sopra la folla «ora andiamo a meraviglioso mercato centrale di Riga, dove trovare ogni tipo di produzione dello Stato operaio di Unione Sovietica. Prego di venire da questa parte, prego.» Mentre si voltava, uno dei britannici lo prese a braccetto e gli sussurrò qualcosa all'orecchio. Era l'unico della comitiva a possedere una spazzola per capelli e una buona conoscenza del russo, e pareva avere vent'anni meno del più giovane tra i suoi connazionali. Un velo di preoccupazione offuscò per un attimo l'espressione annoiata della guida, che si guardò d'istinto sopra entrambe le spalle per vedere se qualcuno avesse sentito. Nessuno aveva origliato. «Ascolti» disse il britannico, posandogli una mano rassicurante sul braccio «le prometto di rientrare in hotel questa sera, non più tardi delle dieci. Se non arriverò per quell'ora, mandi la polizia a cercarmi, per favore. Dica loro che sono sgattaiolato fuori della camera, dica loro quello che vuole. Ma vorrei solo un po' di tempo per esplorare la città per conto mio. Le prometto che ne varrà la pena anche per lei» concluse, tendendogli la mano con una banconota da venti sterline piegata sottile tra il medio e l'anulare. «Gliene darò un'altra questa sera.» L'altro scosse la testa, intascò i soldi e si affrettò ad annuire. «Se fossi un agente del KGB, accetterei il denaro, la seguirei e la arresterei. Se lei fosse un agente del KGB... be', non voglio neppure pensarci. Se la squagli quando siamo al mercato. Non faccia niente di illegale, ha capito bene?» Conficcò un dito nel fianco del giovanotto: i suoi modi prepotenti da piccolo burocrate ricomparivano quando parlava la sua lingua. «Se mi causa qualche problema, le assicuro che il suo soggiorno nel paradiso dei lavoratori sarà più lavoro e meno paradiso di quanto riesca a immaginare. Verrò nella sua stanza questa sera alle dieci e mezzo, e mi aspetto di trovarla ad attendermi con un altro regalino.» Si strinsero la mano. L'inglese rientrò nella fila e cominciò a chiacchierare con un maestro in pensione di St. John's Wood.
Svoltato l'angolo, il gruppo vide cinque hangar argentei da cui si riversava un'enorme massa affaccendata di merci, odori, colori e persone. «Stimati visitatori, benvenuti a mercato centrale di Riga» annunciò la guida, scandendo le parole con lievi colpi dell'ombrello scarlatto. «Qui trovare tutti i doni e souvenir che volete comprare in Unione Sovietica, ricordando di consegnarli a ispettore doganale dell'hotel per controllo. Per favore, tutti qui alla una e mezzo per tornare in albergo e pranzare.» L'inglese aspettò che il maestro in pensione si allontanasse verso alcuni corni da vino georgiani intagliati, si sbarazzò del tataro con una gomitata nel punto giusto ed estrasse un foglio di carta dalla tasca. Seguendo le indicazioni, superò un capannello di venditori di zucche uzbeki dall'aria sospettosa, per poco non cozzò contro un gruppo di kirghisi intenti a conversare e sorseggiare tè con indosso telpek bianchi e neri, si fermò per un attimo davanti a una serie di pugnali del Dagestan (tutti falsi, tutti spuntati) e notò una piccola porta di legno incuneata tra due bancarelle sul muro posteriore. Fece una sosta per assaggiare del miele d'acacia (non solo gli occhi del vecchio venditore si illuminarono, ma la barba parve alzarglisi dal petto quando l'inglese sorrise), oltrepassò di poco il banco, fece dietro front alle sue spalle e si infilò nell'uscio. In una fitta penombra, intorno a un tavolo di legno rotondo, sedevano due uomini. Uno aveva la pelle scura e l'aspetto rozzo, con tratti vagamente asiatici, un'espressione minacciosa e larghi baffi che si curvavano verso il basso agli angoli della bocca. Guardò in cagnesco la porta che si apriva e allungò la mano destra sotto il mobile, senza mai staccare gli occhi dal britannico. Lì accanto vi era un uomo esile, simile a un uccello, con capelli di un biondo rossiccio, lineamenti anonimi e un confuso sorriso di benvenuto. Sarebbe potuto passare per un trentenne segnato dalle preoccupazioni o per un sessantenne benportante. «Allora lei è Voskresenyov?» domandò il giovane. Il tizio che rammentava un volatile assentì. «Assomiglia a suo padre» osservò in un inglese dal lieve accento straniero. «No, non più.» «Signor Hewley, questa battuta è di pessimo gusto e non si addice affatto a un giovanotto fortunato come lei.» Hewley rise. «Sarei fortunato perché sono indebitato fino al collo? Sarei fortunato perché stanno per sequestrarmi l'appartamento? Sarei fortunato perché non mi estraggono alla...»
Voskresenyov levò una mano e chiuse gli occhi con aria conciliante. «Signor Hewley, mi riferisco alla sua posizione futura, non a quella presente. Se non sapessi che la tragica e improvvisa morte di suo padre l'ha lasciata, come si suol dire, in brache di tela, non mi sarei preso il disturbo di invitarla qui oggi. Si accomodi, prego.» Indicò una sedia vuota, che il tipo dalla pelle scura calciò verso Hewley senza tante cerimonie. «Chi è questo Charlie Chan, allora?» «Per sua fortuna, Timur non parla inglese. È kazako, non cinese, e si offende molto quando lo scambiano per qualcosa di diverso da un kazako. Timur è un mio amico. Sovrintende a tutte le misure per la tutela della mia incolumità fisica.» «Allora lui è il braccio, giusto?» Hewley si alzò e si accostò a Timur, facendo piccole finte e scatti della testa, stando bene attendo a restare fuori della sua portata. «Che cos'è, un killer addestrato? Karate, nunchaku e roba del genere?» «No, signor Hewley, credo che quelli siano giapponesi. Le dispiace sedersi? Grazie. Ha portato quello che le ho chiesto?» «Aspetti un attimo. Vediamo prima quello che ha da offrirmi. Suppongo che questo duro del Khazakistan, questo Mao Tse, questo fottuto Hirohito possa comunque strapparmi le braccia da un momento all'altro.» Voskresenyov scrollò le spalle. «Nessuno è qui per derubarla, signor Hewley, e tanto meno per farle del male. Dopo tutto, che cosa direbbe Sergej Kirilovic se lei gli aprisse la porta alle dieci e mezzo di questa sera con una banconota da venti sterline attaccata a un moncherino insanguinato?» «Come fa a...» Voskresenyov liquidò la domanda agitando la mano e posò sul tavolo una ventiquattr'ore. La aprì, mostrandola a Hewley. «Centomila dollari. Li conti, se vuole. E ancor più importanti dei soldi sono queste lettere» estrasse varie buste dalla giacca e le depose sopra il denaro «in grado di rabbonire qualsiasi ispettore doganale ficcanaso in entrambi i nostri Paesi. Le consiglio di tenerle al sicuro, anche dopo essere tornato in Inghilterra. Come amico di suo padre, le giuro soprattutto che, se le lettere fallissero, la aiuterò a rientrare a Londra sano e salvo. Con i soldi e gli arti intatti. Ora, se fosse così gentile da...» Quando si chinò verso il suo ospite, gli occhi gli si illuminarono e i suoi lineamenti parvero diventare più marcati. Hewley si infilò le dita nella tasca interna del cappotto, pescandone una scatola laccata, grande più o meno quanto un pacchetto di sigarette.
Indossò un paio di guanti bianchi, aprì il contenitore e ne tirò fuori con cautela un mazzo di carte da gioco. Voskresenyov batté le mani. «Ah. È la prima volta che vedo queste carte. La prima volta, credo, che escono dall'Inghilterra. E, a giudicare dalle loro ottime condizioni, una delle poche volte che qualcuno le tocca dalla fine del Settecento. Posso chiederle di mostrarmi le quattro regine, per favore?» Hewley stese un panno di camoscio color porpora sul ripiano. Sfogliò le carte, adagiando le regine sul tessuto man mano che le trovava. «Grazie. È tutto quello che volevo vedere. Per favore, se la fa sentire più a suo agio, metta via le carte e appoggi la scatola qui in mezzo. Le prometto ancora una volta che non succederà nulla a lei né a loro.» «Allora come facciamo? Uno, due, tre, via? Io le do le carte, lei mi passa la borsa?» «Sì, se lo desidera. Come ho detto, non intendo derubarla e, data la presenza di Timur e la sua scarsa familiarità con i dintorni, lei non potrebbe derubare me, perciò scelga pure come effettuare lo scambio.» Hewley tamburellò con le dita e guardò diritto gli altri due uomini. «Avrei potuto farlo, però. Derubarla. In qualsiasi altro posto.» Voskresenyov rise. «Lo so. La sua reputazione l'ha preceduta. Lei discende dal migliore.» «Ci sono» esclamò Hewley, cominciando a battere i palmi sul tavolo a ritmo rapido. «Che cosa ne dice se giochiamo una mano di poker, eh? Queste regine non possono rimanere vergini per sempre.» «Non voglio maneggiare queste carte più del necessario. Le regine resteranno incontaminate. Tuttavia, poiché lei è tecnicamente mio ospite, non posso rifiutarle un desiderio piccolo come una mano di poker. Qual è la posta?» Hewley fece per estrarre il portafoglio, poi si fermò di colpo e guardò Voskresenyov: la rappresentazione caricaturale ma fedele di un'idea improvvisa. «Perché non ci giochiamo quello che abbiamo qui? Una sola mano, chi vince prende tutto.» «Lei è senza dubbio un giovanotto sprezzante del pericolo» rise Voskresenyov. «Proponendole uno scambio equo, le offro una somma sufficiente a saldare quasi tutti, se non addirittura tutti, i suoi debiti, eppure non si accontenta. Che valore ha per lei quel mazzo di carte?» «Non sono io che devo comprare, amico.» Hewley gli strizzò l'occhio. «Se lei è disposto a pagare centomila sterline a porte chiuse, di nascosto, credo che guadagnerei un po' di più tenendo una vera asta. Facendo
controllare le carte da Sotheby's, divulgando la notizia eccetera.» «Credevo che avessimo un accordo, signor Hewley e, se desidera lavorare nello stesso settore di suo padre, la sua parola deve essere irreprensibile. Quella di suo padre lo era.» «Sì, e guardi che fine ha fatto. Sa che non siamo nemmeno riusciti a identificarlo? L'hanno tirato su dal fondo del Severn grigio come un vecchio pesce, tutto gonfio e spellato. Non fa per me, quel tipo di morte.» Hewley rabbrividì, quindi si raddrizzò e colpì il tavolo. «E poi oggi sono di buon umore. Mi sento fortunato, sa che cosa intendo? Una mano di poker, e il vincitore se ne va con centomila sterline e questo mazzo di carte, che vale... non saprei... quanto? Forse il doppio?» Voskresenyov fece spallucce. «Come vuole. Se dovesse vincere, la prego solo di rinunciare all'asta e di fissare il suo prezzo in questa stanza. Mi sono davvero innamorato di quelle regine.» «Le spiace se le chiedo come ha fatto un russo come lei ad accumulare tanti quattrini? Credevo che doveste essere tutti uguali, sa?» «Sì, uguali. Lo siamo. Ma alcuni sono più uguali di altri. Senza offesa, vorrei precisare che suo padre ha vissuto tanto a lungo e ha avuto tanto successo anche perché non era curioso. La curiosità non conduce mai a nulla di buono.» Rivolgendosi al kazako, domandò in russo: «Tezvadze ha ancora una bancarella qui?». L'altro annuì. «Vende sempre le stesse merci?» L'altro annuì ancora. «Bene. Vai a comperare un mazzo di carte.» Porse a Timur alcune banconote e, mentre il kazako si apprestava a uscire, lo afferrò per il braccio. «E porta anche un mazziere. La solita procedura.» Quando Timur se ne fu andato, Voskresenyov spiegò: «Tezvadze vende carte da gioco georgiane. Sostiene che sono dipinte a mano, ma, se è così, sono state dipinte dall'uomo con la mano più ferma che io abbia mai visto. Le vende a baltici, russi e turisti troppo spaventati per avventurarsi più giù del Caucaso. I semi sono un po' diversi da quelli cui è abituato, ma non dovrebbe avere problemi. Quanto al mazziere... be', vediamo chi trova Timur. Gradisce un sorso mentre aspettiamo?». Voskresenyov estrasse una bottiglia di ceramica da sotto il tavolo. «Che cos'è?» «Balsamo. Rigas Melnais Balzams. Una specialità locale. Alcuni non imparano mai ad apprezzarlo, ma devo dire che, da quando ho iniziato a berlo, non mi sono mai ammalato. Efficace soprattutto per contrastare i disturbi provocati dal clima inglese.» Dopo averne ingollato un lungo sorso, lo passò al suo ospite.
Hewley annusò il liquido e si ritrasse. «Puah. Che cos'è questa porcheria?» «Nessuno lo sa davvero. Assenzio, issopo, scorza di arancia, corteccia di quercia, fiori vari. È un segreto.» Hewley bevve una lunga sorsata, inghiottì, fu assalito da conati di vomito, ricadde all'indietro sulla sedia, si raddrizzò e si passò le dita tra i capelli. Voskresenyov scoppiò a ridere, e la porta si aprì. Timur si intrufolò dentro, seguito da un'esile ragazzina di dodici o tredici anni che indossava un sudicio vestitino marrone e aveva gli occhi bendati. Il kazako gettò un mazzo di carte sul tavolo e disse, in russo: «L'ho pescata che gironzolava tra le venditrici di tè baschire». La bambina tremava in silenzio, e una lacrima rotolò sulla mano di Timur, che, posata sulla sua clavicola, la spingeva avanti. «Qui, piccola, vieni qui.» Lei si rizzò, tirò su rumorosamente con il naso e si diresse verso Voskresenyov con sicurezza e senso dell'orientamento, come se non fosse bendata. «Sai dare le carte?» Lei assentì. «Ti offro due alternative. Tra mezz'ora potrai avere più soldi di quanti tuo padre ne guadagni in cinque anni o tra mezz'ora potrai conoscere il primo delle tue migliaia di mariti. Che cosa preferisci?» All'improvviso la ragazzina gli graffiò la faccia e iniziò a urlare. «Maiale russo! Bastardo kazako! Ho riconosciuto le vostre voci...» Voskresenyov le diede un manrovescio abbastanza violento da scagliarla a terra. Lei inspirò forte ma non gridò. Timur le agguantò entrambi i polsi e la sollevò con uno strattone. «Vogliamo soltanto che tu distribuisca una semplice mano di carte» aggiunse piano Voskresenyov. Le accarezzò i capelli, e la ragazzina indietreggiò, come se le sue dita bruciassero. «Se ti comporti bene e fai la brava, ti pagheremo profumatamente e ti manderemo per la tua strada. Capito? Ma se strilli, opponi resistenza, fai i capricci o tocchi uno di noi, la tua vita diventerà di colpo molto breve e dolorosa. Dimmi, vuoi bene ai tuoi genitori?» La ragazzina non si mosse. «Be', ottimo. I soldi saranno tuoi. Dalli a loro; nascondili. Fai quello che ti pare. Ora, se accetti, il mio socio ti lascia andare. Se ti lascia andare e tu ti limiti a fare quello che abbiamo concordato, non avremo una seconda conversazione come questa. Chiaro?» Lei annuì. Timur la mollò, e Voskresenyov le allungò le carte. «Mescolale e distribuiscile, per favore. No, aspetta!» Le riprese, ne pose quattro sul tavolo e si rivolse a Hewley. «Come le ho detto, i semi sono diversi.
Spade, denari, coppe e bastoni, in questo ordine. Pronto? Una sola partita. Come giochiamo?» «A me piace la versione texana» rispose Hewley, con un entusiasmo che tentava di mascherare il disagio per l'episodio appena accaduto. «Il poker texano.» «Va bene. Niente jolly.» Voskresenyov si rivolse di nuovo alla ragazzina. «Dai le carte, per favore. Due a faccia ingiù per ciascuno di noi... In altre parole, mettile sul tavolo, una alla volta, nello stesso modo in cui le tieni in mano. Bene. Adesso mettine una di fianco, alla tua destra, e aggiungine tre a faccia insù... cioè capovolte... proprio di fronte a te. Ora un'altra di fianco e un'altra all'insù. Ancora una volta. Perfetto. Adesso allontanati. Signor Hewley, le sembra tutto in regola?» Hewley annuì, deglutendo forte. «Ottimo. Ecco, piccola, qui ci sono più soldi di quanti ne abbia mai visti in vita tua. Timur ti accompagnerà fuori e ti toglierà la benda, e tu dimenticherai quanto è successo. Inventati una storia credibile per il naso, e per favore accetta le mie scuse. Adesso vai, sbrigati, e non osare voltarti indietro.» Voskresenyov guardò le carte disposte sul tavolo (un dieci di spade, un otto di coppe, un fante di denari, un asso di denari e un dieci di coppe) e sbirciò le due rimaste coperte. Hewley lo imitò. «Questa partita perde qualcosa senza le puntate» borbottò Voskresenyov. «Signor Hewley» proseguì a voce alta «è pronto per aprire?» «Sì.»
REPERTO 7:
una carta da gioco, più lunga di circa 2,4 centimetri e più stretta di circa 1,2 centimetri rispetto agli attuali esemplari inglesi o americani standard. Un lato (il dorso) è vermiglio scuro con il bordo
dorato. All'interno del bordo, scritte in eleganti lettere intrecciate che iniziano nell'angolo in alto a sinistra e continuano in senso orario, si legge: «Sutcliffe Sanderson & Trout, artigiani specializzati in ogni genere di incisione, con particolare competenza nella produzione di carte da gioco e nelle piccole iscrizioni elaborate, fornitori di Sua Maestà il duca Mulebollocks di Fiddle-Dee-Dee, stampate con il nostro esclusivo permesso, a Londra o altrove». Sull'altro lato vi è una regina di picche, caratterizzata dalla vaga solennità e dalla massiccia forma geometrica tipiche delle carte da gioco inglesi del tardo XVIII e del primo XIX secolo. A giudicare dai dettagli che la circondano e dalla delicatezza delle linee che la definiscono, proviene da un'incisione su rame eseguita mediante la tecnica della xilografia. Lo sfondo è un mosaico di cerchi concatenati tramite mezzelune, usato a Tabriz da Yazdeh Samizdanji e dai suoi allievi per le loro carte astratte (il motivo si ispirava a una rara ma famosa serie di litografie provenienti dalla corte siciliana di re Ruggero II). La regina tiene un alambicco verde in una mano e una piccola bara con l'iscrizione latina «Il re è morto, lunga vita al re» nell'altra. Un'unica lacrima le brilla al centro della guancia sinistra, con una tenue scia che la collega all'occhio. I pochi che sanno dell'esistenza di questa carta la chiamano «la regina piangente di Hoxton». Il re è la materia originale da trasformare; quando quest'ultima comincia a rilasciare acqua, il processo ha inizio. Le lacrime della regina rappresentano sia gli attributi purificanti dell'acqua (e, per effetto transitivo, dell'alchimia) sia la tristezza che il re prova passando da una vita o una forma a un'altra. DATA DI FABBRICAZIONE: COSTRUTTORE:
tardo XVIII o primo XIX secolo.
nessuna società di nome Sutcliffe Sanderson & Trout si iscrisse mai ad alcuna corporazione di Londra o, se è per questo, dell'Inghilterra. Jan Pieterszoon van Soudcleft, un conte fiammingo appassionato di whist, bridge, vino spagnolo, arcani argomenti scientifici e ragazze giovanissime, abitò poco a est di Londra tra il 1792 e il 1820, quando morì assiderato dopo aver fatto una passeggiata di Capodanno nella brughiera, completamente nudo a parte la parrucca. Quando il suo unico figlio liquidò la proprietà
paterna e anglicizzò il cognome in Sutcliffe, tra gli oggetti messi all'asta figurarono un copialettere e alcuni strumenti da incisore, l'uno e gli altri usati poco o nulla. Il conte van Soudcleft possedeva anche una ricca collezione di xilografie islamiche, che il figlio preferì maledire e bruciare. Gli esperti di carte da gioco ipotizzano che questo mazzo (l'unico con il marchio della Sutcliffe Sanderson & Trout e l'unico esempio di ibrido islamico e inglese eseguito mediante xilografia) si ispiri alla collezione distrutta. L'identità di Sanderson e Trout è tuttora un mistero. LUOGO DI PROVENIENZA:
le carte sembrano inglesi, a giudicare dalla forma, dalle dimensioni, dalla lingua della scritta sul dorso e dall'astrattezza delle figure (le carte di corte francesi, spagnole, tedesche e olandesi si basavano tutte su personaggi storici; soltanto quelle inglesi utilizzavano raffigurazioni astratte). Hugh Hewley, collezionista, antiquario e incallito borsaiolo britannico. Dopo che fu annegato nel Galles durante un incidente di pesca con la mosca, tutto il suo patrimonio (debiti e antichità) passò al figlio Antony, che si era laureato a Cambridge e lavorava come interprete freelance di russo a Londra, ma la cui principale fonte di guadagno era il tavolo da poker. Subito dopo la scomparsa di Hugh, Antony si recò in Lettonia per ragioni tuttora sconosciute. Al suo rientro, saldò con facilità tutti gli ingenti debiti del padre e vendette il negozio e il suo contenuto ai Southall Icemen, una banda di malviventi londinesi della metà degli anni Settanta capeggiata da Azim Mehmood e Stony Rosen. Le carte non furono mai trovate nel negozio, particolare strano, perché Hugh aveva dichiarato di tenerle sempre chiuse in una cassaforte nel retrobottega e si era rifiutato più volte di venderle a qualsiasi prezzo, a qualsiasi acquirente. Si diffuse la voce che le avesse con sé quando era affogato e che fossero andate disperse in fondo al Severn. Antony morì, presumibilmente a causa di un'overdose di eroina, due settimane dopo aver ceduto l'attività agli Icemen. Non lasciò alcun discendente. ULTIMO
PROPRIETARIO
VALORE STIMATO:
CONOSCIUTO:
i mazzi di carte insoliti non faticano a spuntare cifre superiori ai 100.000 dollari. In realtà, è come se gli acquirenti (non di rado giocatori d'azzardo con notevoli quantità di contanti che
preferiscono non depositare né dichiarare) pagassero quaranta dipinti singoli. Nel 1889, il principe Alberto decise di radersi e di farsi ricrescere la barba durante le vacanze estive annuali a Balmoral; ordinò al pittore reale di ritrarlo per cinquantadue giorni di fila e quindi fece stampare un mazzo di carte per commemorare l'evento. Nel 1972 gli scagnozzi di Frankie «Chicken Man» Testa lo comprarono a un'asta privata per 120.000 dollari; il mazzo fu soprannominato «Al's Chops» con riferimento ai peli del principe e al ristorante di Philadelphia da dove Chicken Man dirigeva i suoi affari. Nel 1993, Wei Xiang, uno specializzando di robotica presso l'università della California di Berkeley, usò un braccio meccanico collegato a un aerografo per creare cinquantadue carte da gioco delle dimensioni di un microchip, raffiguranti ciascuna un personaggio della storia dell'informatica. Uno dei suoi docenti si offrì di acquistare il mazzo per 15.000 dollari, ma Wei, che aveva un appartamento molto disordinato, lo perse poco dopo averlo portato a casa. Possiamo soltanto fare delle congetture sul prezzo che le carte otterrebbero se ne fosse annunciata l'improvvisa ricomparsa.
Separerai la terra dal fuoco, il sottile dal denso, delicatamente, con grande cura.
Trascorsi il viaggio verso casa cercando di decidere se andare a casa. Dopo aver salutato il professore, avevo tentato di disperdere la nebbia del brandy di mezzogiorno facendo una breve passeggiata nel nuovo parco lungo il fiume (i marciapiedi di mattoni e le passerelle curve esprimevano la concezione di «stile europeo» maturata da qualche burocrate) e bevendo una tazza di caffè da quattro dollari nel bar dalle pareti arancione che aveva sostituito il Mama Fatima. A quanto sembrava, Mama Fatima era morta poco più di un anno prima; il marito era tornato a Loulé, e i figli avevano venduto il ristorante. Da una tavola calda per portuali era diventato un locale specializzato in focacce, mocaccino e cavolini di Bruxelles per i bohémien ad alto reddito che si stavano trasferendo nei loft dei dintorni. Gli artisti, naturalmente, avevano sloggiato tempo addietro, dopo che il quartiere ne aveva assorbito tutto il prestigio; avevano traslocato a Olneyton, mentre i medici, gli avvocati e i programmatori che indossavano il loro nervosismo con le griffe in bella vista assorbivano tutta la boriosa sciccheria disponibile. Però il caffè era migliore di quello di Mama Fatima. Per fortuna, la corsa fino a Lincoln filò liscia, e verso le sei entrai nel mio parcheggio dietro il cartello del divieto di sosta, tra il cassonetto e la Celica bianca tutta scassata. La serata era buia e limpida, con quel magnifico odore autunnale di fumo e foglie marce, e vi era il solito viavai del sabato sera in centro: assolutamente nullo. Il Colonial, la bettola dall'altra parte della strada, con insegne luminose della birra in vetrina e un moschetto e un tricorno al neon sopra la porta, sembrava abbastanza affollato, ma quello era l'unico segno di vita. Salendo l'ultima rampa di scale verso il mio appartamento, scorsi un biglietto attaccato alla porta e alzai gli occhi al cielo, emettendo uno sbuffo da toro inferocito dalle narici: la padrona di casa aveva il brutto vizio di
farmi trovare le sue rimostranze all'uscio ogni volta che infrangevo una delle sue numerose regole non scritte. Lei e il marito vivevano al piano di sotto; possedevano i dieci alloggi dell'edificio nonché le altre proprietà commerciali nel medesimo lotto. Erano scrupolosi, suppongo, ma un po' in pensiero per aver affittato un'abitazione a un giovane single della Grande Mela. La settimana prima, la signora Tawell mi aveva lasciato un messaggio dattiloscritto per informarmi che la mia abitudine di far rimbalzare una pallina da tennis contro la parete «minaccia di indebolire i puntoni e, a lungo andare, potrebbe condurre al crollo del palazzo». Sapevo che era un'abitudine irritante: a New York il vicino si sarebbe limitato a bussare sul muro. Ma presumo che non sarebbe stato yankee. Si mormorava che, nei week-end, il signore e la signora Tawell trascorressero un pomeriggio controllando i sacchi trasparenti del riciclaggio gettati dagli inquilini e indicandosi a vicenda le bottiglie di alcolici. Quando raggiunsi la porta, vidi che il foglietto era stato affisso con un chiodo arrugginito appena martellato nel legno. Era una normale busta delle dimensioni di una cartolina; sul davanti spiccava un grosso bastone con due rebbi in cima e due serpenti che vi si attorcigliavano intorno, il simbolo che compare sulle ricette di alcuni medici. Sembrava un disegno anziché una stampa, un timbro o una fotocopia. Sotto il bastone era attaccato un frammento di giornale: il mio nome ritagliato dal «Carrier». Aprii la busta: niente lettera, ma, infilandovi le dita, ne estrassi un canino umano. Sembrava strappato da poco: c'era una macchia di sangue dentro la busta, e la radice e le striature sullo smalto erano rosse, non marrone. Emanava un tanfo di marcio. In preda ai conati di vomito, aprii la porta con mani tremanti e mi affrettai a entrare. Per la prima volta da quando ero arrivato a Lincoln, sprangai l'uscio. La spia della segreteria telefonica lampeggiava e, quando premetti PLAY, udii la voce di Hannah: «Ciao, Paul Tomm. Sono io. Sono Hannah. Ti ho chiamato per sapere se fossi tornato dal pranzo con il professore. Volevo invitarti a cena con un'insegnante delle elementari. Telefonami quando rientri. Grazie». Presi la cornetta per risponderle, ma pensai che, per la mia incolumità, sarebbe valsa la pena raccontare a qualcuno del messaggio. Gli Olafsson non avrebbero mosso un dito. Art sarebbe stato interessato, ma con molta probabilità avrebbe insistito affinché mi trasferissi da lui e Donna o avrebbe avvertito gli sbirri. Non volevo creare troppo scompiglio. Per un attimo fui tentato di telefonare a mia madre, ma sarebbe potuta esplodere per la semplice preoccupazione. Anche se
Lincoln era fuori della sua giurisdizione, Joe Jadid sembrava la persona più ovvia da contattare: nutriva già una certa curiosità per il caso ed era stato schietto e gentile ancor prima di conoscermi. Dubitavo che lavorasse il sabato sera, ma fare un tentativo mi avrebbe tranquillizzato. Se non l'avessi trovato, mi sarei rivolto ad Art. Rispose al primo squillo. «Omicidi. Jadid.» «Sì, sono Paul Tomm...» «Dal vivo e in diretta dalla campagna: Paul Tomm. Come mai mi telefona qui il sabato sera?» «Come mai è in ufficio il sabato sera?» «Crede che i criminali vadano in vacanza nel week-end? Fa parte del mio programma di riabilitazione: lavoro dal sabato al mercoledì, cimiteri o turni dalle quattro a mezzanotte. Passerà di qui lunedì, giusto? Ho un paio di cosette che, credo, potrebbero esserle utili.» «Sì, farò un salto, ma ascolti, è appena successo qualcosa che forse dovrei riferirle. Non so, però; è capitato a casa mia, e lei è a...» «Di che cosa si tratta? Che cosa c'è?» «Ho trovato un biglietto inquietante sulla mia porta quando sono rientrato questa sera.» «Che cosa c'è scritto?» «Niente. C'è un disegno sul davanti, uno di quei simboli da medico, sa, il bastone con due serpenti?» «Sì. Si chiama caduceo.» «Che cosa? Come fa a saperlo?» «Caduceo. Uno dei molti vantaggi di crescere con zio Abe, l'uomo che sa tutto quanto c'è da sapere, purché sia inutile. Comunque, ha trovato un caduceo attaccato alla porta? Tutto qui?» «No. C'era un dente all'interno.» «Prego?» «Un dente. Un dente umano, a quanto sembra. Penso che ci sia del sangue fresco sulla radice. Nient'altro. Niente lettera, niente scritte, niente di niente; Solo un dente insanguinato.» «Rotto o estirpato?» «Estirpato, direi. La radice è ancora attaccata.» «Ha avvisato la polizia?» «È quello che sto facendo, no?» «No, intendo la sua polizia. I figli di puttana che sorvegliano voialtri figli di puttana laggiù.»
«No, non li ho chiamati. E se li conoscesse, non li avrebbe chiamati neppure lei.» Jadid trasse un lungo respiro. Udii la sua sedia che cigolava e la sua penna che picchiettava sul tavolo. «Senta, mi faccia solo un favore, okay? Questo è il tipo di faccenda per cui potrei finire in un mare di guai.» Abbassò la voce, ed ebbi l'impressione che avesse chiuso la mano a coppa sul ricevitore. «I tribunali non vedono di buon occhio i piedipiatti che pensano di essere piedipiatti ovunque. Ma vaffanculo; non mi vedono di buon occhio in qualsiasi caso. Ascolti, rimetta il dente nella busta e lo porti con sé quando viene lunedì. Lo spediremo al laboratorio, cercheremo di capire da chi e da dove arrivi. Vuole che mandi qualcuno a tenerla sotto controllo? In via ufficiosa, naturalmente. Non è neppure necessario che sia un poliziotto. Ma lei sarà al sicuro.» Ci riflettei su. Ma poi ricordai la chiamata di Hannah e, per quanto fossi agitato, non volevo rovinarmi i piani per la serata. Non sapevo nemmeno se fossi in pericolo o se si trattasse di una specie di scherzo, magari architettato da un dentista locale che avevo in qualche modo offeso con uno dei miei articoli. Un dentista locale che conosceva il mio indirizzo. Egoisticamente o no, saggiamente o no, rifiutai e ripetei a Joe che sarei passato da lui lunedì. «Okay, uomo duro. Ha intenzione di restare a casa stasera?» «Ecco, non ne sono sicuro. A dire il vero, stavo per uscire.» «Senti senti» commentò in un falsetto beffardo. «Eh?» «Niente. È uno di quegli intellettuali cacciatori di culetti alla Woody Allen?» ridacchiò. Non risposi. «Dai, era solo una battuta. Non se la prenda. Sono sicuro che la ragazza è carina. Ma ascolti, deve stare attento, okay? Potrebbe avere a che fare con un soggetto difficile. E poi è un ex universitario e un amico di Abe; voglio soltanto che sia prudente. Non possiede nessuna arma, giusto?» «Sta scherzando? Non faccio nemmeno a pugni da quando avevo dodici anni.» «Non sto affatto scherzando. Ascolti, faccia attenzione, okay? Non lo so ancora; insomma, potrebbe non esserci alcun motivo di preoccuparsi: potrebbe essere una sciocchezza, tutto quello che ho scoperto potrebbe essere solo circostanziale e via discorrendo. Ma si guardi alle spalle, come raccomandiamo sempre alla gente. Tenga gli occhi aperti e non vada in
giro a meno che non sia indispensabile. Che serratura ha?» «Yale, doppia mandata, con un... come si chiama... un fermo Schlage.» «Okay, perfetto. Le Yale sono ottime. Il fatto che qualcuno sia riuscito ad arrivare alla sua porta non significa che riesca ad arrivare anche all'interno. Chiuda a doppia mandata, capito? E ricordi che, se qualcuno le sta inviando un messaggio e vuole... come potremmo dire?... recapitargliene un altro più ravvicinato e personale, ha senza dubbio più esperienza di lei in questo campo. Non faccia niente di stupido.» «Gesù Cristo, agente...» «Detective, a dire il vero, ma non importa, mi chiami Joe.» «Gesù Cristo, Joe. Ero un po' nervoso prima di telefonarle, ma adesso sono terrorizzato, cazzo. Che cosa sta tentando di farmi?» Joe scoppiò in una risatina velata di amarezza. «Non sto tentando di farle niente. Con molta probabilità non ha nulla di cui preoccuparsi. Di solito sono quelli che non mandano biglietti a causare problemi. Non corra rischi, tenga gli occhi aperti, e dovrebbe andare tutto bene. Se stasera dovesse notare qualche altra stranezza, anche solo un minimo accenno di stranezza, mi chiami a casa, chiaro? Al 555-7077. Porterò la cavalleria. Ma immagino che ci vedremo lunedì, giusto? Il mio turno comincia alle quattro, ma, se viene nel primo pomeriggio, mi trova già qui. Stia bene.» Riagganciò. Mi versai tre dita di Beam Black, aggiunsi due cubetti di ghiaccio e telefonai a Hannah. «Pronto?» «Ciao, Hannah, sono Paul.» «Lo so» replicò, la voce che si alzava sulla seconda parola. Uniti al whisky, la felicità e il piacere espressi da quel cambiamento di tono mi scaldarono come una coperta sul cuore. «Sei tornato tardi. Non sapevo quando saresti rientrato, perciò ho appena finito di cenare. Ma è avanzata un po' di minestra, se non ti spiace mangiare da solo. Da solo con un po' di compagnia, intendo. Vieni lo stesso?» Era una via di mezzo tra una domanda e un ordine garbato. «Altroché.» Parcheggiai lontano dalle finestre della casa e chiusi la portiera facendo il minimo rumore possibile: non volevo avere un'altra conversazione con la signora DeSouza, soprattutto perché ormai era buio. Bussai e udii Hannah che correva (correva!) ad aprire. «Sei un fulmine.» Aveva i capelli tirati indietro e trattenuti da mollette e,
appena entrai, si chinò per baciarmi. Grazie al cinema e alla televisione, anche i più infallibili casanova vedono più baci di quanti ne diano, perciò quel primo bacio, che ti permette di avvicinarti tanto al viso di una persona in carne e ossa, è sempre una sorpresa. Hannah aveva una cicatrice a forma di C, arricciata come un minuscolo gamberetto sottocutaneo addormentato, tra la palpebra inferiore e la sommità dello zigomo. Gli occhi grigi avevano riflessi verdi e marrone, e agli angoli iniziavano a comparire piccole e bellissime zampe di gallina. «Volevo superare subito questa fase» spiegò, abbassando il capo e guardandomi da sotto la fronte. Mi accostai di nuovo a lei, ma mi mise una mano sul petto. «Vacci piano. Se non altro, togliti prima il cappotto.» Ma quando obbedii, andò in cucina. «Hai fame?» mi domandò. «Non mi offendo se rispondi di no.» «A essere sincero, no.» Era vero. Avevo quasi digerito il pranzo, ma l'agitazione aveva ucciso il poco appetito che avrei dovuto avere. «Gradisci un drink?» «Sì. Che cos'hai?» «Solo whisky, temo.» Riapparve sulla soglia del salotto con una bottiglia di Jameson. «Lo so: whisky irlandese, il preferito degli ubriaconi. E anche il mio. Ne vuoi un po'?» Annuii, e tornò con due bicchieri pieni di ghiaccio e liquore, sedendosi accanto a me sul divano. Puntò un telecomando verso lo stereo. Un crescendo di bassi riempì la stanza come un vapore, seguito da una voce femminile, di una profondità insolita, che si insinuava negli spazi liberi lasciati dal coro. «Benedici il Signore, oh anima mia» disse Hannah. «I Vespri di Rachmaninov. Salto sempre il primo brano; questo è il secondo. È tratto da una cerimonia denominata Veglia notturna, che inizia con i vespri e dura fino al mattutino. Cantano e incensano la chiesa girando qua e là. Devi restare in piedi e cantare tutta la notte.» «Hai partecipato?» «Tre volte. A Boston c'era una chiesa ortodossa russa a tre isolati da dove abitavo. Stai lì immobile, e la musica e la liturgia ti penetrano dentro. Ho avuto l'impressione di essere stata immersa nella presenza di Dio. Sai che cosa intendo?» «Sembra magnifico» svicolai. «Lo è stato. Poi, quando siamo usciti ed era mattina, pareva che fossimo stati noi a creare la luce. Sembrava che il giorno fosse spuntato per noi. Semplicemente... Non riesco a descriverlo. Devi vederlo di persona. Un
giorno verrai con me a una funzione?» «Certo. Dove e quando?» «Non so. Più avanti. Da qualche altra parte.» «Ci sarò.» Rise, versando altro whisky per entrambi. «Allora, come procede l'articolo?» «In modo strano. Oggi ho pranzato con il mio ex professore, quello che lavorava con Pühapäev. Mi ha riferito che Jaan era stato arrestato due volte. In entrambe le occasioni per aver sparato con una pistola.» Inghiottì e assentì piano prima di esclamare: «Però! È stupefacente. Insomma, sapevo che era un collezionista di armi, che aveva qualche vecchio schioppo chiuso in uno sgabuzzino a casa sua, ma non sapevo che li usasse. Li chiamava le sue "sculture letali". Pensavo che li conservasse soltanto per bellezza». Come la sera precedente alla Trota, notai che qualcosa non quadrava nella sua reazione, nella scelta dei tempi, nella pausa prima dell'espressione stupita, e ancora una volta non commentai. «A dire il vero, non si trattava di uno schioppo, ma di una rivoltella.» Mantenne uno sguardo fermo, assentendo ancora. «Non sei meravigliata?» «Be', lo sono eccome» ribatté, un po' sulle difensive. «Perché credi che non lo sia?» «No, no, non è così. Insomma, non lo credo. Non dovrei crederlo. Mi sto solo...» «Ti stai solo comportando come un reporter. Non sei mai fuori servizio?» «Sì. A partire da ora.» Si appoggiò a me, la testa che mi entrava alla perfezione nell'incavo tra la spalla e il torace. «Che cos'altro ti ha raccontato il professore?» «Niente, in realtà.» Decisi di non dirle della polizia. Qualcosa nel suo tono di prima mi aveva spinto a concludere che, in qualche modo, considerava Pühapäev un suo progetto, un esempio rivelato della sua natura generosa, una Buona Azione, e non volevo aggiungere altro sulle grane legali di Jaan. «Ma ho trovato qualcosa di inquietante quando sono rientrato questa sera.» «Che cosa?» «Una busta sulla porta.» Si irrigidì leggermente, ma abbastanza perché me ne accorgessi. «Sul davanti era disegnato un caduceo. Vedi, oggi ho imparato una nuova parola. Un caduceo è...» «So che cos'è» mi interruppe, facendo per raddrizzarsi ma ricadendo
contro di me e avvolgendosi il mio braccio intorno al petto. «Che cosa c'era scritto?» «Be', niente. C'era il mio nome sul davanti, e dentro c'era un dente. Un dente umano.» Si rizzò a sedere, fissandomi. «Mi prendi in giro?» «No, niente affatto. Sembrava anche che fosse appena stato estirpato.» Si portò una mano alla bocca. «Ne hai parlato con qualcuno?» «A parte te, vuoi dire?» «Sì, saccentone» rispose, pizzicandomi l'orecchio con fare scherzoso. «Con la polizia, il tuo direttore o qualcuno di simile.» «Non l'ho ancora detto ad Art, ma penso che dovrei riferirglielo. I poliziotti di qui... be'... li avrai visti. Che cosa vuoi che concludano?» Volevo lasciare fuori Joe. Non avrei saputo spiegare il perché, anche se, con il senno di poi, fu un'intuizione azzeccata. «Che cosa dovrei fare secondo te?» «In tutta onestà? Penso che dovresti solo lasciar perdere. Insomma, scrivi il necrologio come dovevi fare sin dall'inizio. Non hai informazioni sufficienti? Quanto al resto, sai, ci sono persone misteriose, proprio come ci sono cose destinate a rimanere per sempre un enigma. Conoscevo Jaan meglio di chiunque altro in città, giusto? E probabilmente anche meglio di tutti i suoi colleghi. Eppure non mi ha mai raccontato degli arresti, della sua infanzia o roba del genere. Se ricevi strani messaggi...» «Ricevere strani messaggi mi invoglia solo ad andare avanti. Non mi piace l'idea di lasciarmi intimidire.» «Che uomo duro» ironizzò, dandomi una gomitata nello stomaco. «Perché non scrivi il necrologio, dimentichi la faccenda per un po' e vedi se trovi qualcos'altro attaccato alla porta? Se succede, allora avrai la certezza che esiste un collegamento e potrai ricominciare a scavare.» Era una proposta accettabile e, venendo da lei, sembrava quasi convincente. Ma sarebbe comunque stato come gettare la spugna. «Una redattrice di Boston è interessata alla storia» annunciai. «Non posso darmi per vinto.» «Ah. Non ti facevo così arrivista.» «Non lo sono» la rimbeccai, un po' offeso. «Sto solo dicendo che sto lavorando a un caso e non voglio arrendermi soltanto perché qualcuno, da qualche parte, non vuole che ci lavori. A ogni modo, come faccio a sapere che il biglietto non è di un dentista arrabbiato per uno dei miei vecchi articoli?»
«Non lo sai, non lo sai. Va bene. Ma stai attento, okay? Voglio continuare a frequentarti. Non vedo solo il motivo di correre rischi per il "Lincoln Carrier". O per qualche altro incarico a Boston che probabilmente otterrai lo stesso. Insomma, hai ventitré anni, sei sveglio e hai talento. Si presenteranno altre occasioni.» È facile interpretare questa conversazione in retrospettiva, scritta nero su bianco. Ma mi lasciai incantare perché volevo lasciarmi incantare. «Forse» concessi. «Forse hai ragione.» Quella frase era stata la preferita di mia madre negli anni precedenti il divorzio da papa. Anch'io la usavo di continuo; il suo vero significato è: «Non sono d'accordo, ma adesso non ho voglia di litigare». A metà del terzo bicchiere di whisky (avevamo svuotato la bottiglia), mi resi conto che la stanza era diventata gelida. Mi alzai e mi avvicinai al termosifone: era ghiacciato, e numerosi spifferi si insinuavano sotto le finestre. Durante la pausa tra due brani musicali, udii il vecchio edificio che scricchiolava e si assestava, mentre il vento gemeva contro i suoi fianchi. Rabbrividii ancor di più. Mi infilai le mani nelle maniche del maglione, serrandole a pugno contro il tessuto. «Sembri un bambino quando fai così.» Imbarazzato, le tirai fuori. «No, no, non intendevo... So che si gela. La temperatura scende di colpo appena la signora DeSouza spegne il riscaldamento. Per fortuna ho una soluzione.» Dal ripostiglio estrasse un'enorme coperta di lana confezionata ai ferri: i quadrati variopinti dentro i bordi azzurri la facevano apparire calda e accogliente, come la tavola di un gioco per bambini. «L'ha fatta mia nonna» disse Hannah, spiegandola e scuotendola. «Vieni qui.» Ci stringemmo forte sul divano, sotto la coperta. Hannah odorava di whisky, profumo alla rosa e se stessa. Quando le baciai il lato del collo, mi afferrò le mani. «Stai tremando» osservò. «Ho freddo.» «È l'unica ragione?» Naturalmente no. Mi svegliai alle 3.36, confuso e con una forte emicrania da doposbornia prima di ricordare dove fossi. Hannah dormiva accanto a me, i capelli sparsi sul cuscino. Trangugiai tre bicchieri di acqua in piedi accanto al rubinetto del bagno, quindi tornai a letto sfidando la temperatura polare. Quando mi infilai sotto le lenzuola, Hannah mi cinse il petto con un braccio, rannicchiò le ginocchia dietro le mie e mi baciò l'orecchio. Ci
incastravamo alla perfezione. La domenica fu insieme speciale e ordinaria. Nella vita, tutti meritano una giornata del genere (o magari anche due): una giornata trascorsa non nel mezzo dell'amore, ma al suo inizio, forse, una giornata che passa come la mattina dopo una tormenta o dopo un attacco di febbre, quando tutto sembra quasi troppo nitido per essere tollerabile. Quel giorno le nostre occupazioni concrete furono prosaiche: ci alzammo tardi; preparai pane tostato e uova fritte; tornammo a letto; raggiungemmo il confine dello Stato di New York e facemmo un'interminabile passeggiata lungo un fiume; ci fermammo lungo la strada, in una grande taverna vuota con l'indimenticabile slogan «Freccette volanti e polli ruspanti», dove gustammo ali di pollo e giocammo a freccette fino alle dieci e mezzo, quando ci rimettemmo in viaggio verso Lincoln. Prima di lanciare una freccetta, Hannah abbassava la spalla con un gesto adorabile, come se cercasse di sfilarsi un top liberando le braccia per prime. Smise di mettersi la mano davanti alla bocca quando rideva, e io smisi di abbassare lo sguardo quando facevo una battuta. Quando arrivammo a casa, ci eravamo ormai lasciati un po' andare, anche se Hannah si rabbuiò appena giungemmo a Lincoln e, adducendo il pretesto della desouzafobia, insistette affinché posteggiassi nella via adiacente e raggiungessimo la porta dopo aver girato intorno all'edificio, stando alla larga da Orchard Street e dalle finestre della signora DeSouza. Non ci feci caso. Non ero in condizioni di dedicarmi al pensiero critico. Credevo che non dormissimo, ma a quanto pareva dormivamo: la radiosveglia si accese, strappandomi al sonno. Hannah gemette. «Bere la domenica sera. Perché me l'hai permesso? Riscattati andando a prendermi tre aspirine nell'armadietto del bagno e un succo d'arancia in cucina.» Mi diede uno scherzoso calcio dietro le gambe mentre mi strofinavo gli occhi. Quando tornai in camera da letto, era in vestaglia e aveva aperto il rubinetto della doccia. «Devo essere a scuola tra circa un'ora. Che programmi hai per oggi?» «Ho un appuntamento intorno alle due, ma niente fino ad allora. Perché?» «Pura curiosità.» Si avvicinò e si appoggiò a me mentre le slacciavo la cintura. «Non abbiamo molto tempo, sai.» «Sei libera questa sera?» «Certo. Chi vuole saperlo?»
«Penso io alla cena. Qualcosa di speciale.» «Non sto nella pelle. A che ora?» «Alle sette? Alle sette e mezzo?» «Va bene. Quando vuoi. Sono già emozionata.» Allontanò la mia mano, riallacciandosi la vestaglia. «Ma adesso devi andartene, affinché possa ritrasformarmi in un'insegnante rispettabile. Okay? Ci vediamo stasera.» Mi infilai il cappotto e la baciai a lungo sulla soglia. Mi accarezzò la guancia, e il tocco delle sue dita non mi abbandonò nemmeno dopo che ebbe smesso. Chiuse l'uscio alle mie spalle dopo avermi rivolto un ultimo sorriso, chinando la testa e salutandomi con la mano. Ero euforico, così euforico che gettai in aria le chiavi dell'auto, battei le mani due volte come facevo agli allenamenti di pallacanestro, mi posizionai e le mancai del tutto. Piegandomi per raccoglierle, notai un piccolo disegno tracciato con il gessetto bianco sull'ardesia di fronte alla porta d'ingresso: un bastone con due serpenti che vi si attorcigliavano intorno.
Lo sheng (l'aria)
«Senti come si avvicina il vento?» «Si avvicina in fretta, con violenza, e non so da dove.» «Nemmeno io. Chiudi le imposte: voglio restare al caldo.» Ardal Gogarty, Che abbia vissuto troppo, troppo a lungo?
Abulfaz Akhundov (cui la capacità di arrotare le r, appiattire e allungare le vocali brevi e tenere le v e le w separate nell'uso, nella mente e nella bocca era valsa il nomignolo temporaneo di Chester «Chet» Muncie) si allacciò la cravatta di reps rosso e blu acquistata da Kmart dapprima con un nodo semplice e in seguito con uno scappino, per poi scegliere, come sapeva di dover fare, un goffo mezzo scappino, volutamente spinto di tre centimetri verso il basso e a sinistra rispetto al bottone più in alto. Da quando era arrivato, non aveva visto uomini con nodi diversi. Il lasco mezzo scappino di Abulfaz era il nodo di qualcuno che accetta formalmente di indossare la cravatta ma non ci si abitua mai, che interpreta l'eccessivo interesse per un nodo come dandismo ed effeminatezza e che crede di esprimere un tacito disprezzo per il proprio nodo ostentando scarsissima attenzione nei suoi confronti. In realtà, notò Chet con una smorfia davanti allo specchio mentre pensava a quell'elegantone di suo padre, la cravatta metteva in risalto soltanto la sua sciatteria; l'idea secondo cui un uomo avrebbe prodotto risultati scadenti o incompleti perché era contrario a quel capo di abbigliamento era diffusissima tra gli adolescenti, gli impiegati americani e i militari russi. Afferrò il nodo tra il pollice e l'indice e lo strinse, premendo in direzioni opposte con le altre dita, finché divenne oblungo e scivolò ancor più lontano dal colletto: un individuo al termine di una lunga giornata trascorsa sotto le luci di un ufficio. Applicò un po' dell'inchiostro di una penna a sfera alla base del medio destro e si procurò due taglietti sull'indice e sull'anulare sinistro. Lisciandosi i baffi (tinti) di un biondo rossiccio e sistemandosi gli occhiali dall'enorme montatura d'oro stile aviatore, infilò la giacca sgualcita, girò l'interruttore e
uscì nel fosco e afoso pomeriggio estivo. Alloggiava in uno scialbo e anonimo motel dall'efficacissimo nome «U.S. 30», vicino a un'area commerciale con tanto di drogheria (che non frequentava mai, naturalmente). Nel suo Paese, gli hotel erano intitolati a leader politici, eroi di guerra e mitiche figure storico-letterarie che, si diceva, incarnavano un tratto nazionale. Gli alberghi delle province sovietiche tendevano a esaltare gli ideali di Potëmkin con ironia involontaria: a Baku, l'hotel «Amicizia di tutti i popoli» aveva, per esempio, il personale più scorbutico dell'Azerbaigian; a Erevan, la pensione «Lavoratori per l'industrializzazione delle masse volta alla pace rivoluzionaria» aveva le toilette fuori uso, era priva di telefoni e offriva con regolarità accoltellamenti all'interno del bar. Abulfaz trovava insieme assurdo, incantevole e rassicurante che, senza motivo palese, un proprietario chiamasse il suo hotel con un semplice numero. Lo U.S. 30 era sull'autostrada 30, a LaGrange Park. Chet aveva scelto quel motel in quella città quasi a caso, anche se la struttura aveva tre importanti attributi a suo favore. Primo, vi soggiornavano pochissime persone: il parcheggio era vuoto quando Abulfaz era arrivato e, a eccezione di una paffuta famiglia dall'aria amebica che si trascinava dentro e fuori da un furgone con la targa dell'Ohio, nessuno si era trattenuto per più di due notti. Secondo, a differenza degli alberghi sovietici, dove eri costretto a mostrare i documenti e a rivolgere apposite richieste formali a tre o quattro grasse vecchiette dai denti d'oro in vari gradi di decomposizione e malumore soltanto per ricevere la chiave, qui Abulfaz poteva posteggiare proprio davanti alla sua camera ed entrare senza parlare con nessuno, quando e come gli pareva. Terzo, Chet lavorava a Skokie, a quarantacinque minuti buoni da LaGrange Park. Il viaggio era così scomodo che non incontrava mai le stesse persone in entrambi i posti. I pendolari di LaGrange Park e Skokie andavano a Chicago; non andavano gli uni nella città degli altri, e Abulfaz (che negli ultimi vent'anni si era fatto chiamare Fëdor, Istvan, Cinar, Chester, Paul, Sudat, Jean-Pierre, José, João, Wim, Klaus, Yahya, Bradley, Niall, Hamid, Shmuel e, per breve tempo e solo al telefono, Katya) poté vivere e lavorare in pace, di nascosto e (secondo i suoi criteri provvisori) con entusiasmo per i ventotto giorni necessari a ultimare l'incarico. Primo giorno: entrò nel parcheggio alle 12.12, nella prima metà della pausa pranzo del Midwest. Il ristorante era anonimo, tipicamente cinese-
americano: un'insegna al neon rosa e verde con il nome del locale («Pino e Bambù») in vetrina, una piccola tenda rossa e oro sopra l'ingresso e pacchiani leoni dorati intenti a ruggire o a sbadigliare su entrambi i lati dell'atrio che collegava la porta alla sala da pranzo. Gli impiegati del posto e gruppi di madri della periferia ci andavano per trovare un po' di prevedibile esotismo e, pur avendo l'acquolina in bocca alla vista di un cuoco che, tutto solo all'estremità del lungo bancone, gustava uno stufato con anguilla e radici di loto, Abulfaz ordinò un piatto di stracciatella e pollo lo mein al suo tavolo solitario. Dal secondo al quarto giorno: copie esatte del primo, a eccezione del terzo giorno, quando un incidente in Dempster Street ritardò il suo arrivo alle 12.18. Chiese le medesime pietanze, fece il medesimo cenno guardingo e inespressivo quando salutò il cuoco trasandato e malinconico e lesse il «Sun Times» al medesimo tavolo, seduto sulla medesima sedia, una volta dopo l'altra. Quinto e sesto giorno: sabato e domenica. Non mangiò al ristorante, ma domenica, quando parcheggiò lì di fronte, notò che He-li Yaofan sembrava più grigio, più magro e più curvo di quanto paresse nella fotografia in bianco e nero in suo possesso. Il biglietto da visita del locale, chiuso nel vano portaoggetti, diceva che il proprietario si chiamava Harry Yaofan. Abulfaz sorrise, pensando a Chester. Dal settimo all'undicesimo giorno: cominciò a posticipare il pranzo poco per volta, cosicché giovedì arrivò tra le 12.45 e le 13. A partire da lunedì chiese alla cameriera consigli su che cosa ordinare: il primo giorno, la donna si limitò a stringersi nelle spalle; il secondo, abbozzò un sorriso timido, gli occhi ancora sul bloc-notes, e rispose che non lo sapeva; il terzo, gli sconsigliò la stracciatella («Non è fresca. Un prodotto in polvere»); il quarto, gli domandò che cosa amasse mangiare e assentì quando lui replicò: «Be', qualsiasi cosa buona, immagino»; il quinto, sostituì il pollo del suo lo mein con calamari e cappelunghe. Dodicesimo e tredicesimo giorno: sabato sera Abulfaz sbrigò una rapida commissione redditizia e molto spiacevole a Waukeshaw, nel Wisconsin; domenica seguì la massa diretta al Clark and Addison per vedere i Cubs perdere contro i Phillies nonostante due home run di Jody Davis e otto
coraggiosi inning di Scott Sanderson. Quattordicesimo giorno: quando entrò alle 13.07, il cuoco annuì, sorrise e gli domandò: «Come è andato il fine settimana, signore?». «Ah, benissimo, grazie. Sono andato a vedere la partita dei Cubs e ho ricevuto la visita di alcuni parenti di Mankato» rispose Chet. L'altro sorrise di nuovo e ciondolò il capo, ma non aggiunse altro. Quando la cameriera si avvicinò, l'uomo allungò il braccio come un prestigiatore che presenta la sua assistente. Quindicesimo giorno: «Le piacciono i nostri piatti, signore?» domandò il cuoco a Chet. «Sì, certo. Sono ottimi.» «Sì. Viene qui spesso, vero? Cibo cinese molto salutare!» «È quello che mi ripete sempre mia moglie. Ma mi dica una cosa: sto cercando di essere un po'... sa... un po' più avventuroso. Tanto per variare le mie abitudini alimentari. Che cosa pensate che dovrei mangiare? Perché mi sembra di prendere sempre la stessa cosa.» «Ama il cibo piccante, signore?» «Altroché.» «Ho pranzo speciale per lei, signore. Solo un momento. Forse un po' più caro di menù del giorno, okay? Solo un po' più caro, okay?» «Be', se costa solo un po' di più, d'accordo, nessun problema.» Sedicesimo giorno: «Ehi, amico, posso farle una domanda?» «Certo, signore. Sì, dica» rispose il cuoco. «Vi occupate anche di catering? La mia azienda... A proposito, lavoro nel settore del nastro adesivo e delle scatole da imballaggio; gestisco una piccola società a Dearborn con una sede qui a Skokie. Comunque, aspettiamo alcuni visitatori da fuori città, dei pezzi grossi di Omaha che vorrebbero affidarci un ordine sostanzioso, e, siccome qui il cibo è buono, volevo sapere se potete preparare un pranzo speciale per diciotto o venti persone.» «Sì, signore, certo. Per quando?» «Ah, tra una quindicina di giorni, credo. Non abbiamo ancora fissato la data.» «Okay, allora me la dica appena la sa, o magari vuole discutere adesso delle portate?»
«Possiamo anche parlarne più avanti, immagino. Volevo solo assicurarmi che offriste questo tipo di servizio.» «Sì, eccome.» «Devo accordarmi con lei o con il proprietario?» «Con chi preferisce.» «Davvero? Fantastico. Come si chiama il proprietario? E, a proposito, come si chiama lei?» «Io sono Wang. Il proprietario, lo chiamano tutti Harry.» «Be', piacere di conoscerla, Wang. Io sono Chet.» «Okay, signor Chet. Oggi le propongo gnocchi di maiale e verdure in conserva con senape. Non è sul menù; riservato ai cinesi, ma le piacerà molto, sono sicuro.» Diciassettesimo giorno: non si presentò per vedere se notassero la sua assenza. Naturalmente, uscì dalla sua camera vestito di tutto punto (camicia a righe bianche, cravatta a righe blu e verdi, pantaloni sportivi Sansabelt azzurro polvere, scarpe Dexter bicolori con mascherina allungata) e all'ora giusta. Ingannò il tempo sempre nello stesso modo: guidando, osservando, ascoltando le brevi conversazioni infarcite di cliché tanto essenziali per la comunicazione americana. La settimana precedente si era concentrato sulle espressioni «just goes to show you» (a riprova di quanto ti dicevo) e «funny you shoulds ay that» (questa sì che è bella, pensa che io...); durante la settimana in corso aveva rivolto l'attenzione a «if it goes, it goes» (se va, va) e «can't do a thing about it» (c'è poco da fare). Due frasi rassegnate, una soddisfatta della situazione attuale e poco fiduciosa in un miglioramento, e una finalizzata a sviare la conversazione dall'interlocutore a se stessi. Abulfaz giurò di stare alla larga da quest'ultima. Diciottesimo giorno: «Ieri abbiamo sentito la sua mancanza, signor Chet» commentò Wang. «Sì, cribbio, sono dovuto restare alla scrivania per tutta la pausa pranzo. Non sono neppure riuscito ad alzarmi.» «Vuole consegna a domicilio? Può chiamarci, e noi le portiamo il cibo.» «Davvero? Sarebbe magnifico.» «No, magnifico per noi! Magnifico per noi avere un cliente che viene così spesso. Gradisce qualcosa di speciale oggi?» «Certo. Qualsiasi cosa va bene, lo sa. A proposito, la musica che mettete
mentre mangio mi piace un sacco.» «Oh, sì. Bellissima musica. Musica cinese. Canzoni diverse, strumenti diversi.» Diciannovesimo giorno: dall'altra parte della strada, Abulfaz scorse Harry Yaofan e una donna che doveva essere sua moglie (paffuta, con la pelle butterata e la forma sferica di un litchi) fare il loro ingresso nel ristorante alle 18.08. Quando sedettero a un tavolo circa sette minuti dopo, erano gli unici clienti del Pino e Bambù e, a quanto Abulfaz riuscì a vedere attraverso la vetrina, mangiarono in assoluto silenzio. Wang servì loro una serie di piatti senza che glieli chiedessero, collocandoli al centro del tavolo con la grazia sinuosa di un ballerino. Harry e la moglie piluccarono ogni pietanza; lei bevve del tè, lui quello che pareva brandy da una piccola tazza laccata. Ventotto minuti dopo il loro arrivo, due uomini entrarono nel locale, parlarono con Wang al bancone, sedettero vicino all'uscio, si scolarono una birra a testa, ricevettero un sacchetto di plastica con del cibo e uscirono di lì a undici minuti. Non si presentarono altri clienti. Alle 19.15 Wang appese il cartello «Chiuso» alla vetrina. Harry e la moglie se ne andarono di lì a trentadue minuti, seguiti da Wang, che chiuse la porta dopo aver sparecchiato. Un'ora e cinquantasette minuti dopo, Abulfaz vide la luce della cucina che si spegneva e, dopo altri due minuti, una Datsun rossa con chiazze di ruggine e il tubo di scappamento traballante che si allontanava dietro il ristorante. Ventesimo giorno: Abulfaz si era ripromesso di riempire il serbatoio quattro litri alla volta presso undici diverse stazioni di servizio tra LaGrange Park e Skokie. Ogni volta scherzò (o meglio, fu Chester a scherzare) con il benzinaio intento a controllargli l'olio e il motore; voleva esercitare molto il suo accento, concedergli il tempo di allungarsi, accertarsi che le r si distendessero per bene e che le vocali lunghe restassero piatte e conservassero un vago sapore del Midwest. Non notò alcun errore e, a quanto pareva, non lo notarono nemmeno gli uomini con cui parlò, ma sette di loro erano stranieri, e gli altri quattro erano così giovani, inesperti e distratti che con molta probabilità non se ne sarebbero accorti nemmeno se avesse avuto la pelle verde e le antenne sulla fronte. Come gli accadeva sempre durante il potenziale ultimo giorno di una missione, defecò più volte (a ogni stazione di servizio, a dire il vero,
finché, dandosi dei colpetti sulla pancia e facendo delle smorfie, chiese a un cassiere pakistano «qualcosa per tenere un po' a freno questi cavalli»). Alle 17.59 entrò nel parcheggio accanto al Pino e Bambù, aprì una lattina di birra Old Style e si sciacquò la bocca con il liquido prima di sputarlo in un bicchiere della Coca-Cola. Se ne strofinò un po' sul collo e se lo lasciò gocciolare sulla T- shirt St. Paul Saints. Quando ebbe finito, puzzava come un uomo che avesse trascorso il pomeriggio a bere e, poco dopo aver scorto Yaofan e la moglie che arrivavano al ristorante, accostò l'auto a quella di Harry, si pizzicò naso e guance finché si tinsero di un rosso acceso, si fregò gli occhi affinché sembrassero un po' velati e varcò la soglia, intenzionato a ordinare la cena e fare quattro chiacchiere. Dapprima Wang lo guardò con incertezza, poi si illuminò in volto. «Signor Chet! Oggi vestito molto casual... Per un attimo non l'ho riconosciuta.» Chet fece un sorriso un po' troppo largo e scoppiò in una risata un po' troppo fragorosa, quindi emise un lungo rutto acuto quanto uno squillo di tuba, che spinse Wang a ridacchiare e la moglie di Yaofan a sussultare sulla sedia. «Sì, ho bevuto un goccetto con qualche amico nei paraggi. Ho pensato di fare un salto per vedere se foste aperti. Ho un certo languorino, sa.» Wang lanciò un'occhiata sopra la spalla verso Yaofan, che, fissando Chet, fece un cenno quasi impercettibile della testa. Il cuoco prese un menù e rivolse al cliente un sorriso sollevato e un energico gesto del braccio, accompagnandolo al solito tavolo d'angolo, poco distante da quello degli Yaofan, le uniche altre persone nella sala da pranzo. Chet si sistemò gli occhiali (di cui, in realtà, non aveva alcun bisogno), diede una scorsa alla lista, la chiuse e guardò Wang con l'aria più bovina possibile. «Sì, signore» disse il cuoco in tono servile, materializzandosi vicino al suo gomito. «Che cosa mangia questa sera?» «Che cosa hanno preso quei due?» sbraitò Chet. Yaofan lo guardò da sopra la spalla e rispose in tono piatto e viscido: «Uno stufato con intestini di maiale, gamberetti secchi e fagioli neri fermentati. Dubito che le piaccia». Aveva una voce dura, scura e lucida come la canna di un fucile, con la musicale pronuncia inglese di un colto cinese di Hong Kong. Wang, la cui ignara untuosità si adattava perfettamente al ruolo di complice importuno ma affettuoso, interloquì: «No, no, il signor Chet ha stomaco cinese. Faccia da Guolin e stomaco cinese». Rise finché Yaofan
gli scoccò un'occhiataccia, al che tacque di colpo, come se qualcuno gli avesse sferrato un pugno. Yaofan guardò di nuovo Chet, si strinse nelle spalle e si rivolse alla moglie in cinese. Chet indicò il piatto del proprietario e mostrò a Wang il pollice all'insù, gesto che l'altro ricambiò, sorridendo. «Sì, vengo qui quasi ogni giorno» disse Chet, parlando con la nuca di Harry. «È comodo perché è vicino al mio ufficio, e il cibo è ottimo. E poi le cameriere sono carine.» Aveva sperato che quell'ultimo commento suscitasse una reazione, ma ancora nulla. «Sono sue figlie o qualcosa del genere?» Yaofan ruotò sulla sedia, il viso placido e inespressivo come una scultura di legno. «No.» «Ah, be', mi sembrava che vi assomigliaste. L'altra cosa che mi piace di questo posto è la musica. Sa, non so granché di musica... Be', immagino di saperne qualcosa, perché ho suonato l'armonica e la fisarmonica nella banda di Walleye Creek, e ogni tanto suono ancora ai compleanni delle mie nipoti. Ma, come ho detto, non so granché di musica a confronto di chi se ne intende davvero, però quella che mettete qui mi piace. Avete delle registrazioni da vendere, per caso?» «Temo di no. Adesso deve scusarmi; mi si raffredda la cena.» «Sì, certo, nessun problema, non volevo disturbarla. Solo che l'altro giorno ho letto una cosa; un mio amico, il tizio con cui ho preso le prime lezioni di fisarmonica, suona ancora spesso, sa. Ha un locale creolo zydeco a St. Paul e si sta ingrandendo mica male, almeno rispetto agli standard locali. Comunque, è un tipo che legge molto, così mi manda questo articolo, secondo cui l'armonica e la fisarmonica derivano entrambe da uno strumento cinese detto sheng. Credo che sia questo il nome: sheng, o organo a bocca, come l'ha definito il mio amico. Il che è strano, perché mia nonna, che è danese, chiamava "organo a bocca" l'armonica. Un fatto curioso. A ogni modo, lei ci capisce qualcosa? Sa se è giusto oppure no, sa qualcosa che mi possa aiutare a vincere una o due scommesse al bar?» Il suo interlocutore espirò forte, ma si rifiutò di voltarsi. Entrando con la cena di Chet (la stessa pietanza di Yaofan), Wang vide il cliente che, senza parlare, sfoggiava un sorriso affettato e Harry, anche lui taciturno, che sedeva diritto come un fuso dando la schiena al loquace americano; rammentò di aver tenuto le sorelle in un angolo della baracca a Lengshuitan mentre i suoi genitori litigavano, rammentò l'aria pesante e i silenzi freddi e compatti come muri e, nella fretta di andarsene, per poco
non rovesciò lo stufato sulle ginocchia di Chet. Yaofan si girò quando udì il piatto sbatacchiare sul tavolo. «Qualcosa a che riguardo?» «Alla possibile derivazione delle fisarmoniche dagli sheng» rispose Chet, impedendo alla sua voce di tremare o di alzarsi, restando il più pacato possibile. «Ah. No. Purtroppo no.» «Cribbio, che peccato. Quel tizio sta per compiere quarantacinque anni, così pensavo di regalargli uno sheng. Non ho moglie né figli, e lui è il mio più vecchio amico, perciò vale la pena di spendere qualche dollaro.» Yaofan gli lanciò un'occhiata gelida, quindi sorrise e abbassò gli occhi. Stava per tornare a concentrarsi sulla cena trascurata e sulla moglie ancor più trascurata, quando Chet insistette: «Allora non lo sa?». «Non so che cosa?» «Dove potrei trovare uno sheng. Come ho detto, i soldi non sono un problema.» «Signor...» «Di cognome faccio Muncie. Ma tutti mi chiamano Chet.» «Chet. Vede, Chet, purtroppo non ho idea di dove possa procurarsi uno strumento cinese. Ci sono poco più di un miliardo di cinesi su questo pianeta, e probabilmente diverse decine di migliaia soltanto in questa città. Non ci conosciamo tutti quanti.» «No, ero soltanto sicuro che lei avrebbe saputo dove scovarne uno, sa? Adesso che ci penso, ero quasi certo che ne avesse uno qui nel suo ristorante.» Yaofan fece cadere la forchetta e, quando la moglie si chinò per raccoglierla, lui la aggredì con una voce non più alta della seta che fruscia contro il vetro. Alzandosi, la donna fulminò Chet con un'occhiata torva, schioccò la lingua e si avviò a passo malfermo verso la cucina. Yaofan si pulì gli angoli della bocca e sedette di fronte a Chet. «Lei può solo fare congetture su quanto possiedo o non possiedo. Non sopporto i cercatori di verità; le ho detto che non ho strumenti di alcun tipo, cinesi o di altra origine, e che non ne so nulla. Se ha finito di mangiare - e vedo che ha finito -, sarebbe davvero meglio che se ne andasse.» Toltosi gli occhiali, Chet si piegò in avanti. Senza lenti sembrava bellicoso (forse la sua espressione divenne più ostile, fatto sta che era più Abulfaz di quanto fosse cinque secondi prima), e i baffi che erano parsi sciatti su un grassoccio americano di mezza età con indosso una T-shirt
sportiva diventarono feroci, quasi bestiali, su questo estraneo che aveva occupato all'improvviso il corpo di Chet. «Siamo nella posizione, signor Yaofan, di offrirle qualsiasi cosa in cambio dello sheng in suo possesso. Sappiamo che l'oggetto è qui perché abbiamo già perquisito la sua casa; sappiamo di poter trattare con lei come stiamo facendo per via del modo esemplare e ingegnoso in cui si è sbarazzato dei Ghost Snakes di Macao e ora ne controlla le attività da migliaia di chilometri di distanza. Siamo anche pronti a violentare e scuoiare sua moglie, incendiare le abitazioni dei suoi fratelli e delle sue sorelle e garantire che i suoi nipoti non parlino o camminino più senza aiuto. Non amiamo la violenza gratuita e preferiamo sempre la generosità alla tortura, ma la scelta tra le due è unicamente nelle sue mani.» Yaofan era impallidito e sudava. «Dice "noi", ma io vedo soltanto lei.» Abulfaz prese tre tagliatelle dal piatto e le dispose a formare un disegno su un vassoio: una linea retta attraversata più volte da due linee ondulate. Yaofan si terse la fronte. «Ah. Ho sempre pensato che foste una leggenda. Storie di fantasmi, sa, racconti di mostri.» Abulfaz scosse la testa, sorridendo in silenzio. «Qual è la cosa che desidera di più al mondo o fuori di esso, signor Yaofan?» «Sa, mio nipote...» «Quale? L'oftalmologo a Phoenix, l'agente di cambio a Winnipeg, il ristoratore a Bourg-en-Bresse, lo studente a Hong Kong o uno dei cinque braccianti in Cina?» «Ah. È stato al ristorante francese? Anche quello si chiama Pino e Bambù. David lavorava qui, sa.» «Lo sappiamo.» «Ah.» Yaofan si agitò sulla sedia, asciugandosi i rivoli di sudore che gli scorrevano lungo le tempie tremanti. «Sono vecchio, Chet, e non mi resta molto da chiedere.» «Come senz'altro saprà, possiamo dare qualsiasi cosa a chiunque.» «Non ho finito. Non ho granché da desiderare. Ma mia moglie ha un bizzarro capriccio. Non ne parlerei a nessuno a parte lei.» Abulfaz inarcò le sopracciglia, sollevando il mento. «È anziana, sa, anziana quanto me. Siamo sposati da quarantatré anni, da quando ne avevamo entrambi diciassette. Abbiamo lasciato Lengshuitan insieme e da allora abbiamo visitato molti luoghi. Ma ci sono due cose che non abbiamo mai fatto. Non abbiamo mai trascorso una notte separati.» Tacque, lanciando un'occhiata al pavimento rivestito di moquette rossa.
«L'altra... La ragione per cui siamo partiti da Lengshuitan... è considerata una grave vergogna...» «Lo sappiamo» ripeté Abulfaz. «Ah.» Yaofan alzò gli occhi, sollevato. «Ah. Allora potete farlo?» «Sì.» «Quali garanzie avrei?» «La nostra promessa. Nient'altro.» «Ah. D'accordo, allora. Per favore, mi segua in cucina, dove potremo discutere con maggiore tranquillità.»
REPERTO 8:
uno sheng, anche denominato «organo a bocca cinese». In genere, questo strumento ha fra 13 e 17 canne di diversa lunghezza montate insieme su una base a forma di zucca o tamburo (sebbene YuT'sai Fong, un eccentrico aristocratico di Guangzhou, abbia ideato il progetto di uno sheng composto di 75.346 canne grandi quanto alberi erette intorno alla sua città natale). Ciascuna canna ha un'ancia libera, e i suoni si producono soffiando in una sola imboccatura e coprendo i fori circolari aperti in ogni tubo (nel caso dell'enorme strumento di Fong, sarebbe stato il vento a generare la musica, e sarebbero stati gli abitanti meno fortunati del villaggio a riempire i fori). Questo particolare sheng aveva 16 canne di bambù applicate a una zucca cava placcata d'oro; una sottile striscia dorata circondava i tubi fino a 13,5 centimetri dalla zucca. Lo strumento misurava 36 centimetri dal punto più basso a quello più alto e aveva un diametro di 12 centimetri alla base. Troviamo di nuovo un legame tra la musica e l'alchimia, e non ci sorprende che tale relazione riguardi l'aria, il più leggero ed etereo degli elementi. Si dice che il dominio dell'aria produca unità e affinità tra sostanze contrastanti e incompatibili, proprio come la musica
rabbonisce la proverbiale belva. Gli alchimisti conservavano spesso strumenti a fiato per ricordare che il dominio non richiede tanto il potere quanto la precisione. DATA DI FABBRICAZIONE:
prima dinastia Song, che corrisponde all'incirca al periodo tra il X e il XII secolo d.C. compresi. COSTRUTTORE:
il nome Ping Yu-tsun è inciso in un'elegante calligrafia filiforme sulla base della zucca. Non sappiamo se questo significhi che Ping realizzò lo sheng o che lo sheng fu realizzato in suo onore. Ping era il medico e lo storico di corte di Lord Menchou, famoso per la sua eccentrica (per non dire barbara) abitudine di ricevere ospiti stranieri, cosa inaudita all'epoca della prima dinastia Song. Una pergamena rinvenuta durante la costruzione di una diga nel 1978 definisce Ping «venerabile, due volte venerabile e ancora assai venerabile... colui che ha concesso al nostro signore il dono di una lunga vita». Il medesimo documento raffigura un personaggio (con molta probabilità lo stesso Ping) che si trasforma, attraverso cinque fasi, da uomo in dragone. LUOGO DI PROVENIENZA:
la corte di Menchou si collocava tra le attuali Xi'an e Lanzhou. Il legno e il modello dello sheng non sono tuttavia tipici di alcuna regione particolare della Cina. ULTIMO PROPRIETARIO CONOSCIUTO:
Yaofan He-li (Harry Yaofan), ex killer dei Jackrabbit Sharks di Macao, al momento ristoratore e padre affettuoso di un neonato a Skokie, nell'Illinois. Cedette il possesso dello sheng a un uomo che suo cugino, Yaofan Wang, conosceva solo come «signor Chet». Circa nove mesi dopo l'ultima visita di Chet, Harry annunciò ai suoi dipendenti che lui e la moglie avevano avuto un maschietto; poiché all'epoca avevano entrambi superato la sessantina, e poiché la loro primogenita aveva trentadue anni, la notizia suscitò l'incredulità e il sospetto di chi la ricevette. Secondo quanto riferito dal personale, per diversi mesi dopo l'ultima apparizione del «signor Chet», la signora Yaofan aveva cenato con il marito al locale tutte le domeniche sera senza mai mostrare alcun segno della gravidanza, ma, data la sua età avanzata, sembra improbabile che qualcuno abbia anche solo preso in considerazione una simile eventualità. Non esiste tuttavia alcun documento
riguardante un'adozione, e nessuno dei parenti interpellati dichiara di aver affidato un bimbo alla coppia. Nel periodo in cui gli Yaofan comunicarono il lieto evento, non furono denunciati rapimenti di bambini nell'area di Chicagoland. La signora Yaofan definì la nascita «un miracolo», mentre Harry la chiamava sempre «un dono» o «un risultato». VALORE STIMATO:
un figlio maschio.
Ascende dalla terra al cielo e ridiscende in terra.
Vedendo il caduceo, avvertii, in fondo alla gola, il medesimo pizzicorino metallico dell'adrenalina che avevo provato la sera prima davanti al mio uscio. Solo che ora l'adrenalina non dipendeva dall'emozione, bensì dalla paura per Hannah. Bussai con violenza. Niente. Aprii la fessura per la posta e rimasi in ascolto: lo scroscio della doccia, sovrastato da una voce che cantava a squarciagola, abbastanza forte e concentrata da soffocare i miei colpi. Udii il fruscio delle foglie sull'erba dietro di me, ma non vi prestai attenzione finché una mano secca mi afferrò il colletto della camicia e unghie aguzze mi graffiarono la nuca. «Be', immagino stia spiando la mia nuova inquilina» commentò la signora DeSouza quando mi fui girato e rialzato. Aveva le pantofole, la vestaglia e un cipiglio affettato che mescolava trionfo, disprezzo e soddisfazione. «Questa mattina ho sentito la porta di Hannah che si chiudeva prima del solito. In genere, non esce fino alle otto e un quarto. Mi sono domandata se qualcuno stesse sgattaiolando fuori. E guarda qui che cosa abbiamo: non solo un pretendente, ma anche un voyeur.» «Sono certo che la signora Rowe è sollevata dal fatto che qualcuno tenga d'occhio sua figlia così bene.» «Ecco, ho solo pensato di ricordarle la breve chiacchierata dell'altra sera. Vede, sono convinta che...» «Signora DeSouza, non se la prenda, ma la smetta di interferire. Hannah ha più di trent'anni, e non è sua figlia.» Sulle prime, il suo viso avvampò e si contrasse come se qualcuno l'avesse appena schiaffeggiata; quindi si sgonfiò, e le salirono le lacrime agli occhi. Grattai il pavimento con la punta della scarpa, borbottando delle scuse frettolose e quasi sincere e avviandomi di corsa verso l'auto. Quando mi guardai sopra la spalla, la signora DeSouza era ancora lì, le spalle curve scosse dai singhiozzi, una mano sul volto. Non erano ancora le otto del
mattino, e avevo già fatto piangere una vecchietta. Prima di partire per Wickenden, passai dal mio appartamento per lavarmi, cambiarmi e infilarmi il dente in tasca. Niente messaggi sulla segreteria telefonica, niente lettere nella casella della posta, niente buste inchiodate alla porta. Ero stato via due giorni, e nessuno aveva cercato di rintracciarmi, il che non era insolito. Per la prima volta da quando mi ero trasferito, non avevo tuttavia la sensazione di essermi assentato dalla mia vita. Avevo la sensazione che la mia vita avesse traslocato e che i dettagli non l'avessero ancora raggiunta. I parcheggi sono rari nel centro di Wickenden, e comunque ero in anticipo, perciò lasciai l'automobile in Gano Street, davanti a una casa rivestita di assicelle azzurre che sfoggiava un'enorme bandiera portoghese sopra il garage. A livello della strada, una porta viola era spalancata a rivelare una stanza lunga e stretta con il pavimento di linoleum a scacchi, un bancone con qualche sgabello, un tavolo da biliardo, alcuni divani e un televisore sintonizzato su una corsa di cani. Sopra il bancone era appeso un orologio blu della Bud Light. Accanto c'era una lavagna con lettere mobili (come quelle usate per elencare le specialità nelle tavole calde) che diceva «Pannini, no afetati venerdi e martedi». Avevo abitato a due isolati di distanza, ma non avevo mai notato quella piccola bettola, e la sua atmosfera mi colpì. Infilai dentro la testa. «Tessera, prego» intimò un ciccione dietro il banco. Indossava una camicia di flanella a quadretti gialli e verdi, floscia sopra un paio di jeans cascanti, e serviva birre e liquori a un paio di tizi pelle e ossa dall'aria assonnata. «Scusi?» «Tessera, prego. Questo è un club privato. Con accesso riservato ai soci.» L'ultima volta che avevo sentito quelle parole, un albanese dai denti d'oro aveva minacciato di uccidermi. E da quando bettole delle zone depresse del New England erano diventate così esclusive? «Non avevo mai visto questo posto. Vivevo qualche isolato più in là e...» «Questo non è un locale per studenti. Non è roba per te. Questo è il Circolo degli uomini portoghesi. Sei un uomo portoghese?» «No.» «Bene, allora smamma. Trovati un altro bar. Questo è il mio locale.»
Annuii seccamente, e lui fece lo stesso. Poi uno dei tizi pelle e ossa si avvicinò alla porta e la chiuse. Attraversai il centro a piedi in circa mezz'ora e raggiunsi la stazione di polizia intorno alle 14. Due poliziotti di ronda trascinavano un tipo ammanettato su per le scale. Il prigioniero continuava a inclinarsi verso destra bofonchiando qualcosa, mentre gli agenti sostenevano una normale conversazione sulle rispettive mogli: sembravano un simbolo della percentuale che saliva pian piano i gradini. Alla reception chiesi di Joe Jadid. «Non è di turno fino alle quattro. Vuole lasciare un messaggio?» «Mi ha detto di incontrarlo qui un po' prima. È possibile che sia già arrivato?» Emettendo un vigoroso sbuffo, il poliziotto si alzò e si chinò sulla scrivania verso di me. Indietreggiai, percependo un lieve tanfo di whisky. Indicò un uscio di vetro in fondo al corridoio. «Vede quella porta laggiù? Stanza degli interrogatori numero uno. Jadid ama rintanarsi là dentro a leggere i giornali quando nessuno la usa. Se non è lì, salga una rampa di scale e chieda del detective Gomes. La aiuterà.» «Grazie.» Assentì e si risedette, sbuffando di nuovo, la pancia che gli tremolava e gli si depositava di nuovo sulle cosce formando dei rotoli. Esitante, bussai all'uscio. Quando una voce profonda mi invitò a entrare, obbedii. Seduto all'estremità di un lungo tavolo metallico vi era un tizio corpulento, dalla pelle olivastra, con corti capelli neri e ricciuti e occhi corvini. Sembrava aver dormito con il floscio completo grigio che indossava ed era impegnato a leggere le notizie internazionali del «New York Times» di quel giorno. «Sergente Jadid?» «Esatto.» «Sono Paul Tomm.» Posato il giornale, si alzò e si avvicinò. Era quasi trenta centimetri più alto di me, e probabilmente pesava anche trentacinque chili in più. Aveva la stazza di un giocatore di football sul viale del tramonto: faceva pensare che, rinchiuso in una cabina telefonica con un orso arrabbiato, sarebbe stato capace di uscirne con addosso una pelliccia. Sulle labbra aveva lo stesso sorrisetto ironico di suo zio, con cui condivideva anche la carnagione color tè leggero, ma, se il professor Jadid era felino e pignolo, Joe debordava dai vestiti, e i suoi lineamenti avevano la rozzezza carnosa di un bullo da strada. Piegò il quotidiano in quattro, se lo infilò nel palmo
di una mano simile a un prosciutto e mi diede una pacca sulla spalla con l'altra. Per poco non caddi a terra. «Sono Joe. Lieto di conoscerla. Lieto anche che sia riuscito ad arrivare presto: sto morendo di fame. Ha già pranzato o vuole mettere qualcosa sotto i denti?» «No, non ho ancora mangiato.» «Okay. La mensa dei poliziotti la ucciderebbe in pochi minuti, ed è ancora un po' troppo presto perché l'Aluminum Room apra i battenti. Ma c'è una paninoteca niente male dietro l'angolo. Che cosa ne dice?» «Ottimo.» «Okay. Panini con polpette. Se mi dice di essere uno di quegli universitari vegetariani, mando a monte tutto quello che ho fatto per lei finora e la prendo a calci nel culo fino in cima alla collina.» «No, mi piace quasi tutto.» «Sì? Non si direbbe. Io mangio qualsiasi cosa, specie di recente, seduto alla scrivania, senza uscire, senza andare in giro, senza fare esercizio.» Si afferrò due generose manate di pancia e le fece vibrare su e giù. «Devo aver messo su dieci o venti chili. È fortunato, però, perché in questi giorni ho parecchio tempo e un sacco di energia inutilizzata.» L'avevo intuito. Una parte di lui era sempre in preda a un movimento estraneo; mentre attraversavamo Patchett Street e imboccavamo la Bishop, serrò e aprì i pugni, si passò le mani sulla testa e gesticolò come un forsennato. «Vuole sapere un'altra cosa sulla vita sedentaria? Le emorroidi, glielo assicuro, fanno piangere un uomo grande e grosso. Bisogna muoversi, camminare, sa... Se resto seduto troppo a lungo, mi pare di avere le chiappe su una graticola.» «S-sì.» «Così è un amico di zio Abe. Bene. È il mio zio preferito.» «Ha detto lo stesso di lei, anche se ha usato la parola "nipote".» «Sì, siamo sempre stati molto legati. Una famiglia numerosa e per lo più unita. I tre fratelli qui a Wickenden: Abe, mio padre Daniel e zio Sammy. Due sorelle, Amira e Claudia, a Boston. Anche un sacco di cugini, soprattutto ora che tutti cominciano a sfornare marmocchi. Non ricordo tutti i nomi. Una famiglia unita in generale, ma per qualche ragione io e zio Abe siamo sempre andati d'accordo.» «Ha figli?» «Io? Noo. Non sono sposato. Questo lavoro non favorisce le relazioni stabili, sa, a meno che non si stia con qualcun altro dell'ambiente, con una
fidanzata del liceo o roba simile. Molti sbirri si sposano e lasciano la polizia. Qualche volta diventano guardie del corpo o avviano un'attività. Il mio ex compagno si è dimesso per gestire un bar con il cognato a Olneyton. Gli ho detto che io me ne andrò solo chiuso in una bara, sa?» «Le piace? La sua professione, intendo.» «Eccome. Ci sono alcune cose che odio, ma per il resto non c'è nient'altro che vorrei fare.» Dopo aver risalito la collina per qualche minuto, giungemmo a una piccola e misera tavola calda che proponeva tappi di colesterolo in circa cinque lingue diverse. «Se vuole un consiglio, si attenga ai piatti più semplici» disse Joe, tenendomi aperta la porta. «Panini con polpette. Sandwich di gastronomia. Ha notato che chiamano questo piatto "carne lo mein" senza specificare il tipo di carne? Non è una coincidenza.» Seguii il suo suggerimento. Il panino era perfetto: per niente unto, con pane italiano fresco, salsa di pomodoro piccante che sapeva di pomodoro anziché di ketchup riscaldato e mozzarella fusa che sapeva di formaggio anziché di colla. Accompagnato da limonata e sottaceti dolci, era il pranzo ideale di Wickenden. Lo consumammo in piedi, al bancone con vista panoramica su un parcheggio. «Che cosa mi racconta di quel messaggio?» domandò Joe, spruzzandomi gocce di pomodoro sul maglione. «Eccolo qui» risposi, sfilandomi dalla tasca la busta con il dente e porgendogliela. «Che cosa intende farne?» «La diamo al laboratorio, richiediamo qualche test del DNA, vediamo se corrisponde. È un salto nel buio, ma...» Aprì l'involucro, annusò e si ritrasse. «Gesù. Ti fa passare l'appetito. Se non altro, sappiamo che il proprietario non possedeva uno spazzolino.» Si ficcò il dente nel taschino della camicia blu. «È successo qualcosa da quando mi ha telefonato?» «Be', forse.» Joe spalancò gli occhi e mi esortò a proseguire inarcando le sopracciglia (il suo unico sopracciglio, a dire il vero, che gli formava un lieve avvallamento sopra il naso storto da pugile). «Dunque, esco con una ragazza...» «L'avevo capito. Ecco perché deve mangiare quel manzo. Un po' di verdura e frutti di mare a cena, e andrà come un treno. Scusi. Non volevo metterla in imbarazzo. Comunque, continui...» «Bene. Sa quel simbolo sulla busta?» «Il caduceo.»
«Esatto. Il caduceo. Ne ho visto uno sulla porta di casa sua questa mattina.» «Che cosa vuole dire? Un biglietto come questo?» «No, un disegnino fatto con il gesso. Non sulla porta, ma proprio lì accanto, sa, sulla soglia, dove la porta incontra il telaio.» «Mmm. Chi è questa ragazza?» «Si chiama Hannah Rowe. Pare sia l'unica persona di Lincoln che conoscesse Jaan. Insegna musica al convitto locale.» «Che cosa ne pensa di lei?» La domanda da un milione di dollari. Che cosa ne pensavo di lei? «Mi piace. Ecco perché sono preoccupato.» «Preoccupato per che cosa?» Mi strinsi nelle spalle, appallottolando la carta cerata. «A essere sincero, non lo so. Che qualcuno la minacci, forse. Lo stesso simbolo disegnato sulla mia busta... La cosa mi rende nervoso.» Joe tirò su con il naso assumendo un'aria meditabonda e si passò una mano unta sui capelli già unti. «Dipende dal punto di vista, immagino. Ma conosce bene questa ragazza?» «Non lo so. Non troppo. Siamo usciti insieme solo qualche volta, ma mi piace. Mi trovo bene con lei.» Mi lanciò un'occhiata compassionevole, sopracciglio inarcato e labbra strette. «Giusto. Quindi non ha neppure preso in considerazione la possibilità che sia stata lei a mandarle questo messaggio? O che conosca qualcuno in grado di farlo? Oppure il caduceo sulla porta di questa Hannah ha un significato diverso da quello sulla sua busta. Non crede possa essere stata lei?» «Lei? Hannah? Che cosa vuole insinuare, che strappa denti nel tempo libero? Certo che no. A ogni modo, dove si procurerebbe un canino come quello? Quando l'ho vista, aveva una dentatura perfetta, e poi non fa la dentista.» «Sì, lo so. Ma... voglio seguire questa traccia. Nel frattempo mi faccia un favore: stia attento a quello che racconta a questa ragazza. Glielo suggerisce la madre ebrea che c'è in me.» Mi diede una gomitata nelle costole, cercando di allentare la tensione. Sorrisi mio malgrado: che cos'altro puoi fare quando un omone delle dimensioni di un giocatore di prima linea si paragona a una madre ebrea? «So che questa Hannah le piace, ma, come le ho detto l'altra sera, penso che abbiamo a che fare con gente molto, molto cattiva. Io e Gomes le mostreremo quello che abbiamo
scoperto, ma, da qualunque parte si guardi questa faccenda, non credo che Jaan fosse soltanto un dolce vecchietto distratto. C'è sotto qualcos'altro e, se siete usciti insieme solo un paio di volte, direi che non conosce poi così bene quella ragazza. Insomma, immagino che sia carina, giusto?» «Giusto.» «E anche tenera e intelligente, e amante dei giovanotti sensibili come lei, giusto?» Annuii, ma non risposi. Avevo le orecchie di nuovo in fiamme. Joe finì la limonata, accartocciò il bicchiere e lo scagliò con un tiro libero verso l'alto cestino della spazzatura nell'angolo. «Tenga gli occhi aperti, ecco tutto. Non sopporterei che capitasse qualcosa a un amico di Abe sotto la mia responsabilità.» Jadid si esibì in un lancio sottomano per gettare un panino a un tizio dalla pelle di mogano e dal look inappuntabile (completo scuro dal taglio elegante, con i pantaloni dalle pieghe accurate quanto quelle di Joe erano sciatte, testa rasata e occhiali rotondi cerchiati di acciaio) che sedeva alla scrivania accanto alla sua. «Che cosa mi hai portato?» domandò il suo collega, sbirciando da sopra le lenti. Non sapevo se si riferisse al sandwich o a me. «Tacchino, senape, niente maionese. Uno di quei cosi a basso contenuto di grassi che ordini sempre. Gli ho detto di aggiungerci del tofu e del müsli. Da bere, succo di farro e asparagi.» L'altro sorrise e allungò la mano verso la bottiglia d'acqua sul tavolo. «Prendimi pure in giro, Palla di lardo, ma quando avrai cinquant'anni, verrò a trovarti in ospedale tornando dal campionato estivo.» Joe agguantò una sedia da un tavolo libero. «Non ci badi» mi disse, invitandomi a sedere. «Oggi non ha preso i suoi integratori.» L'uomo azzimato sorrise, alzando il dito medio. «Sono Sal Gomes» si presentò, pronunciando il cognome in un'unica sillaba. Mi si avvicinò con la mano tesa. «Di solito Joey è il mio compagno, quando non è sospeso per aver giocato a fare Mike Tyson con un amico del sindaco. Lo sto aiutando con il caso dell'estone morto.» «Paul Tomm. Grazie della collaborazione.» «Non c'è di che. Qualsiasi cosa pur di togliermi dalle scatole uno Jadid nevrotico.» «Il nostro Paulie si è laureato alla tua università preferita» intervenne Joe.
Sal scoppiò in una timida risata e liquidò la battuta con un gesto della mano. «Non le piace la Wickenden?» gli domandai. «Non ho nulla contro quelli della Wickenden, purché si comportino come tutti gli altri.» Abbassò gli occhi su di me. «Dove abitava quando studiava qui?» «A St. Clair Point. In Gano Street.» «Oh, capisco, allora potrebbe esserci qualche problema. Dava molte feste?» «Neanche una.» «Okay, Portava fuori l'immondizia?» «Sì, certo. Due volte la settimana.» «E usava quegli strani oggetti metallici che alcuni studenti chiamano bidoni o si limitava a buttare la suddetta immondizia sulla strada?» «Usavo i bidoni.» «Però. Il ragazzo promette bene. Chi era il suo padrone di casa?» «Steve Terzidian.» «Oh, lo conosco» replicò Gomes con un sorriso sardonico. «Sì, l'ho incrociato qualche volta, mentre comprava le case dagli anziani della zona e le trasformava in alloggi da affittare, alcuni per gli studenti, alcuni per quelli che definirei scopi meno rispettabili. Mi dica, non le hanno mai rubato niente dall'appartamento, vero?» «No, mai.» «E i suoi vicini o qualcuno dei suoi conoscenti non hanno mai subito furti?» «Sì, in effetti, i ladri sono entrati un paio di volte dalla mia ragazza. Hanno preso la TV e lo stereo. A un altro tizio hanno fregato l'auto proprio davanti a casa.» «Erano inquilini di Steve?» «Non lo so. Non penso.» «Nemmeno io. È bizzarro che Steve sia sempre così fortunato con i furti. Quanto vi faceva pagare? Pura curiosità.» «Noi tre pagavamo trecento dollari a testa ogni mese.» Dal naso gli uscì un sarcastico respiro da toro. «Okay. Probabilmente lei non era uno dei peggiori, giusto?» Non sapevo a che cosa si riferisse, ma mi sembrò più furbo concordare. «Giusto.» «Bene. Ascolti, non ho niente contro di lei, e forse neppure contro i suoi
amici. Ma sono nato e cresciuto a St. Clair Point. Gli studenti non hanno rispetto per il quartiere e fanno lievitare i prezzi, ecco tutto. Nulla di personale.» «Non sono permaloso. Inoltre, adoravo quel quartiere. Adoravo vivere lì.» «È difficile non adorarlo, vero, amico? Quelle costruzioni rosa e viola, il fiume a un tiro di schioppo, il parco, i campi da baseball e da football. Adesso c'è gente di ogni tipo. Ho appena comprato la mia prima casa, vicinissima all'acqua, nella stessa via dei miei genitori e dei miei zii.» «Le Gomes Homes, le chiama. Da non confondere con le Gomez Homezz di Coastal Falls» interloquì Joe. «No, sei tu che le chiami Gomes Homes, Palla di lardo. Comunque, mi rincresce davvero se l'ho messa a disagio, Paul. Non era nelle mie intenzioni.» «Come le ho detto, non sono per niente permaloso.» «Bene» riprese Gomes, tamponandosi delicatamente la bocca con il tovagliolo. «Forse adesso dovremmo parlare del professore morto.» «Abbiamo fatto entrambi un po' di ricerche per lei» annunciò Joe, estraendo una cartellina marrone dalla scrivania. «Come le ho spiegato, ho tempo da vendere in questo periodo, e una raccomandazione di zio Abe ha sempre un certo effetto su di me. Ha anche un significato importante. Non si lasci ingannare dai suoi modi: non sono molte le persone che prende in simpatia. Ma faccia finta che non gliel'abbia detto. E Gomes qui... be', è regredito... Non è così che ha detto quel finto medium che abbiamo arrestato a Tavery Street?... È regredito, dicevo, a una vita passata per aiutarla.» «È stato anche doloroso» intervenne Gomes. «Tutti quei ricordi repressi e quella merda. Nella mia "vita passata" ero un illustre agente del governo federale degli Stati Uniti, al servizio del Federai Bureau of Investigation. Ho fatto qualche telefonata ad alcuni ex colleghi riguardo al suo uomo. Le racconterò quello che ho scoperto dopo che Joey avrà finito.» Joe aprì prima la cartellina e poi una lattina di bibita all'uva, svuotandola in due sorsi, schiacciandola nella sua manona e lanciandola con un passaggio a gancio in un cestino a circa cinque metri di distanza. Ne aprì un'altra e ne ingollò metà. «Dopo aver esaminato i precedenti penali di questo tizio» esordì, ruttando forte «la mia domanda è: perché l'università gli ha permesso di continuare a insegnare?»
«Suo zio me ne ha parlato.» «Sì, ne ha parlato anche a me. Con molta probabilità ci ha raccontato la stessa storia.» Tirò fuori dal primo cassetto un bloc-notes da reporter - uno di quelli con la spirale che usavo anch'io (mi sentii un duro per procura) - e lo sfogliò. «Vediamo, la prima volta è stato questo Crowley a tenerlo, la seconda volta è stata una decisione di Abe?» «Esatto.» «Sbagliato. O non del tutto esatto. Abe ci ha spiegato perché la facoltà di storia non ha cacciato Pühapäev. Io volevo sapere perché l'università non l'ha cacciato.» «Ma, secondo suo zio, nessuno era a conoscenza dell'accaduto a parte qualche docente di storia.» «So che gliel'ha detto, e so che ne è convinto, ma in questo caso ha torto.» Gomes interloquì dalla sua sedia. «Vede, questa non è tanto una città piccola quanto una città a forma di cono, con la punta verso l'alto, e i fatti di cui discutiamo (un crimine in cui è coinvolto un professore dell'istituzione più potente di Wickenden) sono successi proprio sulla sommità. Nella mia esperienza, episodi del genere non capitano senza che qualcuno dell'università lo scopra. Magari il guardiano notturno lo riferisce alla moglie, che lo riferisce alla sorella insegnante, che lo racconta a una collega sposata con un giornalista, che lo spiffera a un redattore, che lo rivela a un vecchio amico, che lo confida a un vicino e così via, come una catena telefonica.» «Ma quando la notizia trapela, l'uomo potrebbe ormai essere diventato Jack lo Squartatore due» commentò Jadid. «Sì, e voci come queste tendono a venire travisate, soprattutto quando vengono messe in circolazione da gente che con molta probabilità detesta le armi e già in partenza non è molto abituata ai crimini violenti, capisce?» Gomes aveva avvicinato la sedia alla nostra scrivania. Trascorrere del tempo con quei due mi faceva stare bene: mi sentivo protetto ma elettrizzato. Sembravano uniti da un'affinità intellettuale (completavano uno le frasi dell'altro, limavano uno le riflessioni dell'altro, si correggevano a vicenda), e questo, a quanto ne so, è raro. «Un uomo se ne va in giro con una rivoltella, e gli abitanti di Wickenden lo trasformano in una sorta di troglodita» proseguì Gomes. «Giusto» concordò Jadid. «Così, per prima cosa, ho chiamato zio Abe per chiedergli un favore: controllare i libri paga della facoltà presso gli
uffici universitari. Vedere quanto è costato tenere Pühapäev. Sa quanto guadagnava in un anno?» Si piegò sul tavolo, gli occhi neri che mi perforavano, le mani strette come quelle di un prestigiatore intorno a una colomba. «Un dollaro.» Schiuse le dita. «Un dollaro?» «Sì. Un dollaro. Ma non è inconsueto come si potrebbe pensare. Magari un docente viene da una famiglia agiata, oppure sposa un medico o un avvocato, e insegna solo per il gusto di insegnare, senza aver bisogno dello stipendio. Ma l'università deve pagarlo, per motivi fiscali. Così quello trattiene un dollaro simbolico e restituisce il resto. «Ma nel caso di Pühapäev non è finita qui. Oltre alla sua retribuzione, donava all'università tra i cinque e i diecimila dollari l'anno, ogni anno.» «Come ha fatto a scoprirlo?» Joe sollevò una copia del rendiconto finanziario annuale della Wickenden. Sulla copertina spiccava la solita fotografia: un gruppo multietnico di studenti (che nessuno aveva mai visto) seduti sotto un albero nel prato, che ridevano come matti, circondati da libri e buonumore, imbevuti e ammantati di beatitudine. «Il suo nome è qui. Sotto la scritta "Patrocinatore", il che significa che regalava tra i cinque e i diecimila dollari. Abbiamo esaminato i resoconti degli anni precedenti, e lui compare, sempre allo stesso livello, sin dal '92.» «Ma questo che cosa dimostra?» «Ascolta questo ragazzo» interloquì Gomes. «Ha i modi da tribunale e tutto il resto. Avrebbe dovuto fare l'avvocato. È ancora in tempo, giovanotto, sa?» «Ha parlato con mio padre?» Rise, scuotendo la testa. «Non dimostra ancora niente. Ma, come ha detto Joey, dobbiamo presumere che almeno qualche accenno al suo arresto sia arrivato a qualcuno dell'amministrazione. E dobbiamo presumere che, se è andata così, l'amministrazione abbia prevalso sulla facoltà la prima volta, perché quale università vuole un docente dal grilletto facile? Probabilmente Crowley aveva una certa influenza, ma non fino a questo punto. Una persona sola? Impossibile. Se vuole la mia opinione, è anche uno scrittore piuttosto mediocre. Comunque, tutto questo fornisce un'ipotesi fondata sul motivo per cui l'università avrebbe tenuto Pühapäev. Le regalava... quanto? Compreso il suo stipendio fanno cinquanta, sessanta, forse addirittura settantamila dollari l'anno? Un bel po' di grana. Dovevano soltanto insabbiare la faccenda, e Crowley e lo zio di
Joey hanno fatto un buon lavoro. Così eccoci qua. Ma, come al solito, sono io che ho la roba più interessante.» «Ah, vaffanculo, Gomes.» Joe mi guardò. «Questo tizio setaccia il deserto per un paio d'anni dando la caccia ai venditori di fumo, e crede di essere Eliot Ness. Torna qui tra i veri poliziotti e continua a blaterare dei suoi giorni di gloria.» «Il deserto, non nominarlo nemmeno, amico. Mi viene la pelle d'oca al solo pensarci. Le do un consiglio, giovanotto: se mai avrà voglia di entrare nella polizia, stia alla larga dall'FBI a meno che non abbia un bel po' di pazienza o un bel po' di fortuna. Vede, mi hanno affibbiato un incarico a Bisbee e Douglas.» «Dove?» «Appunto. Ho inseguito dei contrabbandieri di sigarette messicani tra Bisbee, in Arizona, e Douglas, nel Nuovo Messico. Non sopporto il caldo, e lì il sole non ti dà tregua, così bevi sei litri d'acqua al giorno e non pisci mai. Sei sbronzo appena finisci la prima birra. Che razza di vita è? Ma ho ancora alcuni amici all'FBI, e mi hanno dato qualche dritta.» «Sarebbe a dire?» «Be', è emerso che il suo uomo è stato un testimone chiave in un processo riguardante dei gioielli rubati nel 1995.» Gomes spostò il mouse del computer, e lo schermo prese vita. «I federali pensano ancora che fosse lui il ricettatore, ma non hanno mai trovato prove sufficienti a incriminarlo. Sta prendendo appunti?» «Come sempre.» «Bene. Dove siamo... okay. Nel gennaio del 1995 il Museo delle belle arti di Wickenden ha ospitato una mostra itinerante di gioielli iraniani. Oggetti molto lussuosi, alcuni provenienti dalla collezione dello scià, altri usciti in qualche modo dal Paese.» «Ehi, l'ho vista» intervenne Joe. «Zio Abe ha sostenuto l'iniziativa.» «Che cosa intende?» gli domandai. «Tutti gli strambi persiani di Wickenden (in altre parole, soprattutto i miei zii e cugini) hanno versato un po' di soldi per integrare i finanziamenti del museo. Inoltre, quasi tutti i pezzi appartenevano a collezioni private di esuli, perciò gli espatriati persiani di tutta la zona hanno dovuto fare comunque un po' di moine, un po' di opera di persuasione. Qualche anno prima Abe aveva anche proposto di allestire la mostra da queste parti. Si trattava di esemplari magnifici.» «Senza dubbio, ma ci è mancato poco che andasse tutto a rotoli» precisò
Gomes. «Vede, la mostra è arrivata qui da Manchester... quella in Inghilterra, non nel New Hampshire. I gioielli sono atterrati a Logan, e uno degli operai incaricati di trasferirli a Wickenden ha cercato di sgraffignare alcuni rubini.» «Che cosa è successo? Come hanno fatto a beccarlo?» domandai. «Come hanno fatto a beccarlo? Piacerebbe tanto saperlo anche a me. Qui non lo dice. Aspetti, no, l'ho trovato. Ecco: "Basandosi sulla soffiata di un informatore segreto a Boston, gli agenti hanno catturato Josef Khlopikov, il dipendente di una nota società di trasporti che aveva la responsabilità di trasferire in tutta sicurezza il materiale della mostra dall'air terminal privato di Logan al Museo delle belle arti di Wickenden. Gli uomini hanno pedinato Khlopikov dal suo appartamento di Dorchester al terminal, dove l'hanno visto forzare la cassa numero 27, estrarre il pacco numero 91 e occultarlo nella tasca della tuta. Subito dopo, gli agenti Williams, Szalai e Tadaki hanno arrestato il sospetto e l'hanno condotto al penitenziario federale di Springfield, nel Massachusetts". «È qui che le cose si fanno interessanti. Pare che Khlopikov abbia tentato di dichiararsi colpevole di un reato minore. Indovini che cosa ha detto?» Gomes mi guardò, e io mi strinsi nelle spalle. Guardò Jadid, che lo invitò a continuare con un piccolo movimento circolare della mano. «La pazienza è la virtù dei forti, sai. Il signor Khlopikov ha affermato di aver perpetrato il furto per ordine di un certo Jaan Pühapäev, docente di storia e studi dell'Europa orientale presso l'università di Wickenden. Ha aggiunto che il professore gli aveva promesso un milione di dollari in obbligazioni al portatore. Secondo quanto gli aveva spiegato Pühapäev, quelle pietre avevano una sorta di potere magico, ma soltanto lui era in grado di usarle. Comodo. A noi gentiluomini colti e assennati sembrano tutte stronzate, naturalmente, ma questo rapporto dice che Khlopikov era terrorizzato. È crollato soltanto quando l'FBI ha minacciato di deportare non solo lui, ma anche i suoi genitori, sua sorella e le sue nipoti. «A ogni modo, Williams e Szalai sono andati a casa di Pühapäev a Lincoln, nel Connecticut, dove, com'era prevedibile, il professore distratto ha asserito di non sapere nulla della mostra itinerante di gioielli iraniani, di Josef Khlopikov e di un complotto finalizzato al furto dei rubini. Washington l'ha avvertito di tenersi pronto a presentarsi alla sede dell'FBI di Boston per un interrogatorio. Tre giorni dopo, i federali ricevono la lettera di un avvocato secondo cui Pühapäev è la vittima innocente di una macchinazione e la mafia russa ha organizzato il colpo scegliendo il
professore come capro espiatorio. Il mio assistito è un immigrato, sostiene il legale, un docente, un tipo ingenuo, senza parenti o amici intimi, perciò è un bersaglio facile per questi sofisticati criminali...» «Questo avvocato» lo interruppi «si chiamava Vernum Sickle?» «Sì, Sickle lo Schizzato, esatto» rispose Gomes. «Se vuole la mia opinione, chi si fa difendere da Sickle deve avere due caratteristiche: essere colpevole ed essere ricco. Comunque, Sickle ha anche minacciato di intentare lunghe e costose cause per diffamazione se queste informazioni fossero giunte alla stampa. Suppongo che riceverò un mandato di comparizione da un giorno all'altro. Gli agenti hanno esaminato i tabulati telefonici di Pühapäev, hanno perquisito la sua abitazione e il suo ufficio (Sickle gli ha consentito di farlo una sera durante il week-end), ma l'unico collegamento tra lui e Khlopikov erano le affermazioni dello stesso Khlopikov. Niente prove, niente incriminazione. Fine.» «Voglio parlare con quel ladro» disse Joe. «Davvero? Non sapevo che fossi appassionato di sedute spiritiche.» «Morto?» «Qualcuno gli ha tagliato la gola durante una rissa tra detenuti due giorni dopo la condanna. Aggressore o aggressori ignoti.» Joe sospirò, grattandosi la testa. «Dunque abbiamo un tale che sembra non guadagnare un soldo, senza amici o familiari conosciuti a parte l'insegnante di musica su cui Paulie ha messo gli occhi, collegato ad alcuni ladri di gioielli russi, probabilmente connessi con la mafia.» «Perché connessi con la mafia?» gli domandai. «Scommetto l'osso del collo che la spia fa parte della piccola criminalità organizzata russa. Hanno una cosca a Boston.» «Mi permetta di farle un'altra domanda» dissi a Gomes. «Il furto risale al gennaio del 1995. È lo stesso periodo in cui Pühapäev è stato arrestato per la prima volta dopo aver sparato dalla finestra. Pensa che sia una coincidenza?» «Non esistono coincidenze in un'indagine criminale, figliolo» rispose. «A meno che tu non sia un avvocato della difesa.» «Questo professore non usciva mai di casa se non per andare al lavoro?» volle sapere Joe. «Solo per frequentare un bar di Clougham» dissi. «La Clougham tra qui e Hartford?» «Esatto. Il locale si chiama il Lupo solitario.» «Il Lupo solitario, mmm. Ci è mai stato?»
«Sì. Un minuscolo e squallido bar di quartiere. Del tutto insignificante. Il proprietario non mi ha preso molto in simpatia.» «Che cosa intende?» Gli raccontai di Eddie l'Albanese e del suo caloroso addio. «Eddie l'Albanese, eh? Sally, vale la pena fare un salto laggiù?» «Nel Connecticut? Stai scherzando, colletto bianco. Non abbiamo nessuna giurisdizione da quelle parti, e le grane che hai già ti basteranno per un bel pezzo» replicò Gomes. «Stiamo indagando sul possibile omicidio di un professore dell'università di Wickenden. Non dobbiamo mica arrestare qualcuno. Voglio solo dare un'occhiata, sai, muovere un po' queste chiappe infiammate. Nessuno sentirà la mia mancanza se non inizierò il turno in perfetto orario.» «Non dovresti indagare su un bel niente, amico. E se lo fai, io non dovrei certo aiutarti.» «Allora mi accompagni?» «Solo per tenere Palla di lardo fuori dei guai, Palla di lardo.»
La polvere di arcobaleno e la Coda del pavone
La coda del pavone, l'arcobaleno: uomini più intelligenti di me ritengono che simboleggino la rinascita imminente e l'intrìnseca volubilità del nuovo, il quale, avendo sostituito quanto è morto, non conosce ancora la propria natura. Gli arcobaleni, devo tuttavia osservare, sono più spesso fenomeni effimeri, prismatici e visivamente incompleti di quanto siano i nastri curvi che vediamo rappresentati; e i pavoni sono uccelli assai stizzosi. Boudewijn Ten Huyten, L'arco sant'Innocenzo, o la follia di Flamel
di
18 novembre 1986 Aubrey College, Oxford Al comandante [NOME CANCELLATO], marina sovietica, flotta baltica di Haapsalu, Estonia Confido che perdonerà il lungo silenzio intercorso tra l'arrivo della Sua lettera e l'invio della presente comunicazione, in cui Le annuncio con orgoglio che, finalmente e seppur sola in parte, ce l'ho fatta. Soddisfare il Suo desiderio non è stato semplice. Ha richiesto pazienza, determinazione nonché numerose ricerche e spostamenti. Come sa, divento molto nervoso e vengo assalito da un'indisposizione fisica ogni volta che mi spingo a sud-est di Londra o a nordovest del Galles; pensavo quindi con timore, forse un po' esagerato, al mio recente viaggio a Gyumri e nella regione circostante. L'opportunità di vedere la terra natale delle mie creature era tuttavia un forte incentivo a superare quelle ansie (benché non sappia che cosa ne sarebbe stato di me se non mi fossi attenuto al mio regime quotidiano di Benzedrine, Beerenburg, Seconal e una pipa sempre carica di arbusti fumabili). Il generale Petrossian si è rivelato un ospite cortese ed erudito; so che, almeno in parte, devo ringraziare Lei per questo. Senza essere offensivo, mi sento in dovere di informarLa che molte delle mie difficoltà sono scaturite dalla mediocre eloquenza e dalle inutili manovre di Voskresenyov, il Suo (e mio, suppongo, anche se con riluttanza) collaboratore.
Anzi, la sua fretta di portare a termine la missione e trasferire il nostro centro a ovest mi obbliga a scriverLe prima di ultimare il mio compito: devo segnalare le mie obiezioni al più presto, e voglio mettere nero su bianco che affidargli il centro e consentirgli di spostarlo dove propone è un errore grave come non se ne vedono da secoli. Ora, sa che non metterei mai in dubbio il Suo giudizio e che non ho il benché minimo interesse a farmi carico delle Sue responsabilità: trovo difficile gestire qualcosa oltre i confini della mia serra, si figuri dunque un'organizzazione come la nostra. Presumo pertanto che abbia avuto dei buoni motivi per incaricare Voskresenyov di ricomporre la biblioteca, ma confesso che quell'individuo mi ha ispirato poca fiducia, soprattutto in relazione all'oggetto (o agli oggetti) di cui mi sto occupando. Pensavo che, in base ai ricordi, all'induzione e all'analisi testuale, concordassimo sul carattere puramente metaforico dell'Arcobaleno (la metafora di una metafora della dissimulazione), e ho deciso di produrre per Lei dieci metafore viventi partendo da tale presupposto. Sembra che Voskresenyov consideri il mio lavoro una sorta di palliativo o di misura temporanea, provvisoria; crede che sia possibile reperire un vero Arcobaleno o una vera Coda di pavone. Pensa che si tratti di un gioiello, mi ha riferito, usato molto probabilmente come spilla o ciondolo. Dove? Quando? Come? Chi lo possiede? Quali fonti affidabili lo menzionano? Naturalmente, fa scena muta davanti a queste domande. Ripete tuttavia di continuo che Lei ha chiesto il mio operato solo perché quest'ultimo è destinato a perire e potrà dunque essere sostituito con poca sofferenza un bel mattino d'inverno, quando lui varcherà la proverbiale soglia con il suo trofeo. Per fortuna, so che Lei non è il tipo da comportarsi così. Se posso osare darLe un consiglio: tenga d'occhio quest'uomo. Ha un'aria evasiva e, quando si siede, sta troppo vicino al bordo. Se fossi un individuo assetato di fama terrena, il contenuto di questo pacco me la garantirebbe. Le invio dieci esemplari unici (rosso, arancione, giallo, verde, blu, indaco, viola, nero, bianco e traslucido), incrociati e fertilizzati mediante tecniche di mia invenzione. Alcuni sono fragili, e dovrò spedirLe dei sostituti ogni anno; altri vivranno più di noi (o almeno più di Voskresenyov, speriamo) dopo un'unica piantatura riuscita. Tutti i fiori discendono da un giardino di tulipani che i patriarchi dei Petrossian curano da quasi millecinquecento anni. Il medesimo giardino, potrei aggiungere, da cui i Petrossian (all'epoca mercenari dello scià di Persia) mandavano omaggi alla corte di re Ruggero II. Vedendoli sbocciati, l'uomo medio li considererebbe fiori magnifici: Lei vedrà una serie ininterrotta di petali, vivi e fulgidi davanti ai Suoi occhi. Attendo di ricevere il pagamento nei modi, nei tempi e negli importi concordati in precedenza. Se mai avrà occasione di attraversare il Mare del Nord e il Baltico, piegando verso sud una volta giunto al Canale della Manica e seguendo la nebbia che si diffonde dal Tamigi tra i prati, lungo le vie acciottolate che conducono al Bear, oltre High Street e lungo Calx Street fino alla portineria, troverà il più caloroso dei benvenuti, e nella mia serra Le
mostrerò cose che nemmeno Lei può immaginare. DD
REPERTO 9A:
sacchetto di pergamena trasparente che contiene dieci tulipani essiccati, ciascuno di colore diverso. REPERTO 9B: la Coda del pavone, una spilla che Valvukas, un antico signore della guerra lituano, aveva creato per la moglie. La donna la regalò all'amante, di cui non rivela mai il nome, ma che descrive nel suo diario come «l'uomo scuro degli enigmi e delle indicazioni». Dieci frammenti di ambra baltica di lunghezza compresa fra i 3 e i 6 centimetri, ognuno di un colore diverso (sangue, lava raffreddata, tardo pomeriggio d'agosto, Carelia, labbra di uomo morto, luna di gennaio, vino, tutto, niente, Dio) e contenenti ciascuno un'ala di mosca, sono incastonati su una montatura d'argento a forma di lacrima. L'alchimia soppianta e accelera la natura; il giardinaggio e l'agricoltura si limitano a seguirla, perciò non dovremmo stupirci scoprendo che pochi alchimisti possedevano bestiari e giardini ornamentali. Molti erano erboristi, altri allevavano animali a scopo alimentare, ma in genere la passione non infiammò mai la loro curiosità per la flora e la fauna, il che li rendeva contadini scadenti. La penna di un pavone (che nel folclore ha più sfumature di quante ne possieda su un vero pavone) o un mazzo di fiori variopinti sono tuttavia sempre stati doni graditi. Sul piano metaforico, si riferiscono alla fase del processo successiva al momento in cui la sostanza originale si scompone e si purifica dal suo io precedente e anteriore all'istante in cui comincia a prendere la sua nuova forma. La materia assume quindi un'intera serie di tinte e aspetti, secondo la sua natura e secondo l'abilità e l'originalità dell'alchimista.
DATA DI FABBRICAZIONE (9A):
i tulipani sbocciarono nel maggio del
1983. DATA DI FABBRICAZIONE (9B):
Valvukas si sposò durante il solstizio d'estate del 1152. Annegò la moglie in una palude durante il disgelo primaverile del 1155. Darius Dimbledon, docente universitario di botanica e tutor anziano presso l'Aubrey College di Oxford. COSTRUTTORE (9B): al-Idrisi, geografo naufragato di Baghdad e Palermo nonché precettore di Valvukas. COSTRUTTORE
(9A):
LUOGO DI PROVENIENZA (9A) :
Oxford, Inghilterra. LUOGO DI PROVENIENZA (9B): la costa estone. il professor Dimbledon spedì i fiori insieme con la lettera riprodotta qui sopra a Virju Saarju, comandante della marina sovietica famoso per la sua eccentricità ed erudizione. Gli esemplari passarono poi a Ivan Voskresenyov, che continuò la ricerca della Coda del pavone nonostante lo scherno di Dimbledon. ULTIMO PROPRIETARIO CONOSCIUTO (9B): quando Dimbledon morì (in modo violento e improvviso), la spilla fu rinvenuta nel suo comodino. Era uno dei due gioielli che non avrebbe dovuto conservare: per fortuna, la polizia non trovò nessuno dei due oggetti. ULTIMO PROPRIETARIO CONOSCIUTO (9A):
VALORE STIMATO (9A):
trascurabile. Circa sette centesimi per il sacchetto, meno per il contenuto. VALORE STIMATO (9B): i pochi che sanno della sua esistenza (non pochi come Dimbledon sostiene nella lettera, ma nemmeno tantissimi) sborserebbero probabilmente 250.000 dollari. Un'ambra così pura e variegata, montata in un solo monile da un artigiano tanto celebre, può spuntare un prezzo vertiginoso.
Raccogliendo le forze delle cose superiori e inferiori.
Jadid e Gomes bisticciarono come una vecchia coppia sposata mentre si infilavano il cappotto e scendevano i gradini della centrale. Sal canzonò Joe per il suo abbigliamento, battezzando il suo stile «neo-senzatetto»; Joe gli strappò di mano le chiavi dell'auto e mi spiegò che Gomes guidava come se temesse sempre di doversi multare per eccesso di velocità. Jadid mi raccomandò ancora di stare attento; Gomes lo rimbeccò dicendo che sapevo badare a me stesso, quindi me lo raccomandò a sua volta. Li ringraziai di nuovo per avermi aiutato, e Gomes si strinse nelle spalle. «La roba interessante si vede alla TV. I casi appassionanti sono rari nella vita: quando se ne presenta uno, ci diamo dentro.» Mi incamminai verso Allen Avenue, intenzionato a comprare la cena per me e Hannah. Immaginavo di sorprenderla, di abbagliarla con le mie doti culinarie, che di solito si limitano a portare l'acqua all'ebollizione e a versare la salsa sulla pasta. Al college, una sera in cui ero sbronzo e affamato, avevo inventato il Sandwich al toast: una fetta di pane tostato tra due fette di pane non tostato, con burro e ketchup. Per fortuna, Allen Avenue risponde alle esigenze di pasticcioni ambiziosi come me. Nessuno è in grado di dire con certezza se e quando l'area di Allen Avenue, a Carroll Hill, si sia trasformata da autentica enclave italoamericana di Wickenden in semplice sfilza di enoteche, negozi di alimentari e ristoranti italiani con proprietari saccenti, frequentati soprattutto da turisti e clienti che vengono dall'altra parte della città. Domandate a un residente di Carroll Hill (uno dei sempre più rari abitanti di seconda o terza generazione), e con molta probabilità otterrete tanto delle lamentele quanto una difesa; domandate a qualsiasi altro residente di Wickenden, e con molta probabilità vi racconterà che la zona era davvero fantastica quando lui era piccolo, ma che adesso la bazzicano soltanto mangiapasta e damerini arrivisti. Tra i due, io mi considero più un mangiapasta, il che spiega perché mi
ritrovai nella porchetteria Ciavetti a comperare salsa all'arrabbiata fresca, salame dolce, ravioli ripieni di mozzarella salata, due manciate di basilico e due bottiglie di Montepulciano. «Deve cucinare per una ragazza?» mi domandò da dietro il bancone la vecchietta con lo sguardo luminoso e il sorrisetto della bellezza avvizzita. «Sì» risposi, orgoglioso. «Già. Vede, lo capisco sempre. Cammina con passo scattante, e ha quella luce negli occhi. Le prepari questo, né più né meno, e conquisterà per sempre il suo cuore.» «Paul?» gridò una voce familiare da una finestra sopra la mia auto. «Che cosa ci fai qui?» Alzando lo sguardo, scorsi Mia affacciata al bovindo che sporgeva dal tetto della casa azzurro polvere. Si era raccolta i capelli con un elastico e una matita, come era sua abitudine quando lavorava. Portava una felpa della Wickenden e gli occhiali, che non metteva mai quando usciva. «Ehi, ciao» risposi. «Da quando vivi qui?» «Da quando hanno venduto il mio vecchio appartamento. Il nuovo proprietario ha ridipinto la facciata e raddoppiato l'affitto, così abbiamo traslocato. Aspetta un secondo, scendo subito.» «No, non ho molto...» Ma aveva già chiuso il vetro. Cercai di assumere un'aria distaccata e indifferente appoggiandomi all'automobile con nonchalance, ma nello specchietto vidi che ero solo riuscito a sembrare sonnolento o bisognoso di un paio di occhiali. Aprì la porta e uscì con un unico movimento rapido e fluido, nello stesso modo in cui faceva ogni cosa. Guardandosi la felpa, si strinse nelle spalle. «Abiti da lavoro. Scrivo da cinque ore. È buffo vedere Paul Tomm che sale in auto davanti a casa mia la prima volta che mi affaccio alla finestra. O è una coincidenza o mi stai pedinando.» Parlava con la pronuncia sorvegliatissima e la modulazione perfetta di una figlia di immigrati, e mi fissò con l'espressione indagatrice, a metà strada fra il civettuolo e il polemico, che ricordavo bene. «Non tirartela» le dissi, abbracciandola e ridendo. «Sei bellissima.» «Paul, leggo giornali tedeschi dalle sei di questa mattina. Porto gli occhiali e una tuta troppo grande, e sono ingrassata di quattro chili dall'ultima volta che mi hai visto. Non esco da settimane. Ho un aspetto di merda. Ma ti trovo bene. Che cosa combini?» «Sono in città per scrivere un articolo, se riesci a crederci.»
«Ci credo. Di che cosa si tratta?» «Del professor Pühapäev. È morto.» «Esatto; abitava dove lavori tu. Si mormora che l'abbiano assassinato, sai.» «Veramente? Come è nata questa voce?» «Come nascono le voci? L'ho sentita durante il mio seminario a Lubecca da un tizio che l'aveva sentita da qualcun altro, che l'aveva sentita da qualcun altro, blablabla.» Si tolse la matita dai capelli e scosse la testa, forse perché voleva essere leziosa, forse solo perché il suo cuoio capelluto aveva bisogno di un po' d'aria. «Potrebbe essere infondata.» «Davvero?» Sedette sui gradini dell'edificio e mi tirò per la manica finché la imitai. «Smettila di restare lì in piedi, mi rendi nervosa. Allora l'hanno ucciso sul serio?» «Be', non ne siamo sicuri» risposi, rimproverandomi subito per aver usato quell'ampolloso «noi». «Ne ho appena discusso con la polizia. Sai chi è l'agente che mi sta aiutando? Indovina.» «Paulie, non lo so.» «Dai, indovina. Indovina, indovina, indovina.» Le diedi un colpetto sul braccio a ogni esortazione. Era davvero bello rivederla. «Non lo so. L'ispettore Lestrade?» «No.» «Auguste Dupin?» «Ancora no. Quel nome non mi è nuovo. Sono quasi certo che dovrei sapere chi è Auguste Dupin.» «Dovresti, ma adesso me lo dici, per favore?» «Mi fai sempre sentire come se non stessi abbastanza attento, sai? È una cosa insieme affascinante e masochista.» Scosse il capo, distogliendo apposta lo sguardo, il volto così serio che il sorriso era implicito. «Va bene, non me ne frega niente.» «Joe Jadid. Il nipote del grand'uomo.» Rise con una mano sulla bocca. «Non ci credo. Anzi, sì, ci credo. È un fascista. Ci sarei dovuta arrivare.» «Non è un fascista.» «Eccome se lo è, e lo sei anche tu. Fascista.» Mi cacciò fuori la lingua. Mi strinsi nelle spalle, mostrando i palmi delle mani. Anche se iniziavano a un livello così infantile, le liti con Mia tendevano ad accelerare in modo rapido e imprevedibile. Un minuto ci beccavamo per
decidere se cenare prima o dopo il film, il minuto dopo mi incolpava dell'aumento della popolazione carceraria. Meglio capitolare apertamente e resistere in silenzio. «Allora, come procede la tesi?» le domandai. «Bene. Piano ma bene. Per i prossimi cinque mesi, tutta la mia vita sarà in quella stanza lassù. Non torno neppure a casa per le vacanze di Natale.» «Che cosa succede dopo?» «Dopo le vacanze di Natale?» «No, dopo che avrai finito la tesi. Il quesito tanto temuto: che cosa succede dopo?» «Dopo, vedremo. Ho fatto domanda per le esclusive borse di studio inglesi e, se ne ottengo una, parto. Altrimenti la facoltà di giurisprudenza.» «E da lì al dominio del mondo?» «E da lì al dominio del mondo. Mi servirà un ministro della Propaganda, sai. Ti interessa?» «Può darsi.» «Che cos'altro fai?» «Forse, dopo questo servizio, lavorerò a Boston. Per il "Reader".» «Però. Complimenti. Sono colpita, ma non sorpresa. Questo genere di lavoro sembra perfetto per un tipo come te.» «Come sarebbe a dire, un tipo come me?» «Non so... Curioso, ma senza una personalità forte. Politicamente moderato. Personalmente moderato. Moderatamente moderato. Ogni tanto avevo la sensazione che fossi una spugna, sai, che ti limitassi ad ascoltare i miei discorsi e i miei sfoghi, senza dare nulla in cambio. Immagino che questa caratteristica faccia di te un bravo reporter. Un fidanzato schifoso, ma un bravo reporter.» Pensavo che avessimo dato un taglio alle conversazioni di quel genere. Pazienza. Mi rivolse un sorriso obliquo per vedere se me la fossi presa. Non me l'ero presa. «Cribbio, grazie. Frequenti qualcun altro? Qualcuno che non assomigli a una spugna?» «Sì, il mio computer.» Mi fissò. Io mi irrigidii, lei si addolcì. «Adesso non ho proprio tempo, tra la tesi e tutto il resto. E poi chissà dove sarò tra sei mesi. E tu?» «Sì, diciamo di sì.» «Sì, diciamo di sì e...? Chi è?» «Insegna musica. Si chiama Hannah.» Annuì con un sorriso stiracchiato. Speravo che volesse sapere di Hannah meno di quanto io avessi voglia di parlarne. «C'è qualcosa per lei nel
sacchetto?» Allungò la mano e sbirciò dentro. «Che profumino.» «Arriva da Allen Avenue. Stasera cucino io.» «Tu non sai cucinare. Ne sono certa.» Estrasse la vaschetta di ravioli e mi guardò con aria interrogativa. «Hai imparato ultimamente?» «Sì, può darsi. Senti, devo scappare. Il viaggio è piuttosto lungo, e non voglio restare imbottigliato nel traffico dell'ora di punta.» «Oh, sì, sono due isolati difficili, vero? Ascolta quello che dici, un ragazzo di New York che si lamenta del traffico di Wickenden. Mi ha fatto piacere vederti» disse, lasciando cadere i ravioli nel sacchetto, rialzandosi e spazzolandosi via rametti e schegge di vernice dalla tuta. «Hai intenzione di tornare?» «A essere sincero, non lo so. Perché?» «Se torni, passa a trovarmi.» «Okay.» Era una promessa vana forse al settanta per cento, ma dettata da buoni propositi, se conta qualcosa. Probabilmente no. «Sarò alla mia scrivania proprio accanto a quella finestra per i prossimi cinque mesi. Lancia dei sassolini o roba simile.» Si chinò per baciarmi sulla guancia. «È stato fantastico rivederti, Paul. Scusa per il commento sul "fidanzato schifoso".» «Non preoccuparti. Ma sto cercando di migliorare.» «Lo so. Lo fai sempre. È uno dei tuoi pregi. Non montarti la testa.» «Anch'io sono contento di averti visto, Mia. Buona fortuna con i tedeschi.» Mi fece un finto saluto alla Hitler e rientrò ridacchiando. Era stata una conversazione ideale tra ex: abbastanza civettuola da produrre piccoli tremiti residui, ma abbastanza vaga da evitare complicazioni; abbastanza lunga da terminare con un'ellissi, ma non tanto lunga da farci venire in mente strane idee; superficiale, ma con una piega seria e affettuosa alla fine, anche se non tanto seria da spingerci a tirare fuori le unghie. Mi sentivo stimolato; Mia era stimolante, e mi avviai sentendo quasi la sua mancanza. Quando raggiunsi la mia auto, notai che qualcuno aveva attaccato all'antenna una bandiera portoghese. Scrissi «Grazie» sulla parte rossa e la infilai nella fessura per la posta del Circolo degli uomini portoghesi. Questa volta parcheggiai direttamente davanti alla casa di Hannah, immaginando che la signora DeSouza volesse vedermi meno di quanto io volessi vedere lei. Mi lasciai invadere da un'ondata di rimorso, decisi che era inutile piangere sul latte versato e continuai a sentirmi in colpa come
solo un ebreo cattolico calvinista sa fare. Quella vecchietta mi doveva delle scuse quanto io ne dovevo a lei, pensai mentre mi avvicinavo furtivo alla porta. Attraverso la finestra, vidi Hannah seduta sulla panca del pianoforte, ma rivolta verso il divano, le mani in grembo e il capo appena reclinato, come se ascoltasse qualcuno dalla voce bassa. La sua espressione generalmente placida e soddisfatta era infusa di un'impazienza quasi rapita (gli occhi grigi accesi e increspati sui bordi, la bocca socchiusa nell'accenno di una risata), come se volesse dimostrare all'interlocutore che apprezzava le sue parole e credeva con tutta se stessa a quel che le diceva. La cena non basta per tre, pensai con egoismo mentre bussavo. Aprì con aria guardinga e mi salutò con un sorriso forzato. Mi piegai per baciarla, ma mi fermò, la mano piatta sul mio torace mentre girava la testa di lato ed emetteva un silenzioso verso di diniego con le labbra serrate. Quando mi raddrizzai, confuso, spalancò l'uscio e mi invitò a entrare. Seduto sul divano, una tazza di tè appoggiata sulle ginocchia e un'espressione franca e gentile sul viso barbuto dai tratti marcati, c'era il tizio che avevamo visto alla Trota. «Paul, questo è Tonu, il fratello di Jaan.» L'uomo si alzò con fatica e lentezza per salutarmi, respirando affannosamente, ma mi strinse la mano con decisione, esercitando una forza straordinaria attraverso dita che erano tutte calli e ossa nodose. Sembrava un misto tra un leone e un uccello, con vigili e luminosi occhi azzurri ai lati di un naso aquilino e sopra una barba mal spuntata che pareva formare un tutt'uno con gli ispidi capelli bianchi. «Lei è Paul?» domandò con una voce tonante e un forte accento. Il suo odore di pipa e stantio mi raggiunse prima di lui. «Mi chiamo Tonu Pühapäev. Io e la sua amica stiamo tenendo una sorta di commemorazione... una piccola veglia, potremmo dire... per il mio povero fratello minore.» «Piacere di conoscerla. Non sapevo che Jaan avesse dei parenti.» «Oh, sì. Oh, sì. Non molti, naturalmente. Ormai soltanto me. Un vecchio e un altro vecchio.» Ridacchiando con aria distratta, si diede dei colpetti alle tasche dei cascanti pantaloni di velluto a coste e ne estrasse una tozza pipa marrone, una confezione di tabacco Shipman's e una scatola di fiammiferi. «Anche lei conosceva Jaan?» I baffi e la barba erano ingialliti intorno alla bocca, e dovette strofinare il fiammifero tre volte contro la striscia ruvida prima di riuscire ad accenderlo. Una volta accostatolo al fornello della pipa, tornò a sedersi con la stessa prudenza ed esitazione con
cui si era alzato. Lì accanto, sul divano, era posato un nodoso bastone da passeggio in mogano con un pomello d'argento tondo e una larga punta di gomma nera. «No, purtroppo no. Mi rincresce.» «Paul è il giornalista di cui le ho parlato» intervenne Hannah. «Quello che sta scrivendo il necrologio di Jaan per il nostro giornale.» Mi domandai se l'inganno per omissione fosse etico: lei sapeva (lo sapeva, vero?) che non si trattava più di un necrologio. Forse l'avrei corretta (o forse no), se Tonu non avesse ripreso subito la parola. «Ah, sì, ora ricordo. La memoria, sa... non è più quella di una volta. Questa è usanza davvero meravigliosa, e le sono molto riconoscente. Quando uscirà il suo necrologio?» «Tra moltissimo tempo, spero.» Quella battuta fu accolta come una scoreggia in chiesa: immagino che burlarsi di estoni decrepiti per l'uso ambiguo degli aggettivi possessivi non sia poi tanto divertente. Hannah fece una smorfia di disapprovazione, e Tonu si limitò a guardarmi, confuso e impaziente. «Mi scusi. Era uno scherzo. Veramente, non ho ancora una data di pubblicazione per l'articolo.» Già che era qui, perché no? pensai. «Se non le dispiace, magari potrei farle un paio di domande su suo fratello.» «Sì, certo, ma, sa, ho perso così tanto quassù» si diede dei colpetti alla tempia, sorridendo con rammarico «e Jaanja viveva in America da così tanto tempo, che forse alcune cose non le so troppo bene. Ma prego, faccia pure, mi chieda quello che vuole.» «Grazie.» Sedetti sulla solita poltrona, accanto al tavolo che avevo rovesciato durante la mia prima visita, quindi tirai fuori il bloc-notes e sfoderai un sorriso rassicurante. «Sa dirmi quando è nato Jaan?» «Be', non avevamo questi calendari, quelli di oggi, alla fattoria dove siamo cresciuti. Mia madre direbbe che ho sei anni più di Jaanja, e credo che sia nato in inverno, ma nessuno può stabilire quando.» «Ma quando l'Estonia faceva parte dell'Unione Sovietica, non dovevate avere tutti dei documenti ufficiali? E, a proposito, Jaan sarà arrivato qui con un passaporto, giusto?» «Oh, certo, certo, quella robaccia, sì, naturalmente. Ma, sa, inventavamo quello che ci suonava meglio. Ho un vecchio passaporto di Jaanja a casa. Forse due. Vede, un proverbio russo dice: "Senza un pezzetto di carta, che cosa sei? Con un pezzetto di carta sei un uomo".» Ridacchiò, si agitò sulla poltrona e diede boccate alla pipa finché gli occhi azzurri gli si accesero di
arancione, come se fossero illuminati dall'interno. «Allora qual è la sua data di nascita?» «La mia? Ah! Questo sì che è un reporter sveglio. Ho scelto il 7 novembre 1917.» «Perché?» «Ah! Forse non è poi così sveglio. Era una giornata sovietica molto patriottica, e contribuiva a farti sembrare un cittadino sovietico patriottico. Naturalmente, nessun estone era davvero un sovietico patriottico, ma, come ho detto, dovevi soltanto sembrarlo, non esserlo. «Conosce la Grande rivoluzione socialista di ottobre? È successa in novembre! Ah! Il calendario nuovo stile di Lenin... È stato lui a introdurlo, sa, poco dopo la Rivoluzione: trenta giorni ogni mese, dodici mesi l'anno, con cinque festività nazionali aggiuntive, al di fuori del calendario. Molto razionale, molto antireligioso, antiborghese, anticontrorivoluzionario e ridicolo, perché è riuscito soltanto a confondere tutti. Quando Lenin ha creato questo nuovo calendario per il nostro nuovo paradiso operaio socialista, la Rivoluzione di ottobre è slittata al 7 novembre.» «Ma non si parla ancora dell'Ottobre rosso?» «Sì, sì!» Si piegò in avanti, tutto infervorato, rovesciandosi la cenere del tabacco sul maglione blu. «Certo. Tipicamente sovietico. Hanno sostituito la settimana di sette giorni con una settimana di cinque giorni (i week-end erano fatti per i fannulloni capitalisti, naturalmente) e hanno trasformato ogni giorno in un giorno di riposo per un quinto della popolazione. Hanno dato foglietti colorati a ogni cittadino (vede, di nuovo la passione russa per i pezzetti di carta), così un marito e una moglie si ritrovavano magari ad avere diversi giorni liberi, se lui faceva il tubista e lei l'insegnante. Tutto per incoraggiare la produzione costante e impedire alle persone di celebrare le vecchie festività, che ovviamente erano festività religiose. Ma ha solo generato il caos! Nessuno sapeva quando lavorare; tutti avevano l'impressione che tutti gli altri fossero in vacanza quando soltanto loro lavoravano, nessuno aveva tempo da dedicare alla famiglia. Così hanno cercato di imporre una settimana di sei giorni, ma non ha funzionato nemmeno quella, perciò sono tornati alla situazione che esisteva durante la guerra. Hanno detto che serviva a migliorare il morale, come un dono del Grande leader ai suoi sudditi. Assurdità. Stupidaggini.» La sua tirata rallentò e si placò, e Tonu diede qualche boccata soddisfatta alla pipa, emanando piccoli e regolari sbuffi di fumo come una fabbrica morente. «Insomma, quello è il mio compleanno. Quindi, per Jaan, può scrivere
1923, va bene?» «Purtroppo temo di no. Devo indicare un giorno ufficiale oppure limitarmi a dire che la data di nascita è sconosciuta.» «D'accordo, allora, come vuole» concesse, stringendosi nelle spalle e ciondolando il capo da una parte all'altra. «Che cos'altro vuole sapere?» «Dove è nato Jaan?» «Ah, questo posso dirglielo con certezza: è nato nella fattoria della nostra famiglia, vicino alla città estone di Paide. Sa come si scrive?» «Mi informerò.» Non avevo idea di dove fosse, ma, pensai, tanto valeva simulare un po' di integrità giornalistica. «Lei è il suo unico parente ancora in vita?» «Sì. Soltanto io. Nessun altro.» Rise, grattandosi la testa. «Non ha mai sposato, e io non ho mai sposato. Solo noi due.» Hannah non era ancora tornata a sedersi; nella medesima posizione trepidante di quando ero arrivato, seguiva la conversazione come se sperasse che si concludesse in fretta, ridendo quando Tonu rideva e riempiendogli la tazza appena finiva il tè. Pareva a disagio per la prima volta da quando l'avevo conosciuta; i muscoli contratti delle tempie e della mascella e un'espressione di finta alacrità concentrata la facevano sembrare tesa e inquieta. «Se non sono troppo indiscreto» dissi a Tonu «come si manteneva suo fratello?» «Paul, è una domanda inopportuna. Era professore, no?» commentò Hannah, pungente. «No, no» mi difese Tonu «è un reporter, deve fare domande.» Guardandomi, inarcò le sopracciglia con aria beffarda, come a sottolineare che aveva tirato fuori il meglio di me durante quel dialogo, e si appoggiò il bastone sulle ginocchia, facendosi rotolare il pomello d'argento sulla coscia. «La fattoria della nostra famiglia era fattoria collettiva, ma in realtà sorgeva in una città così piccola che tutti i braccianti erano cugini, vecchi amici, nipoti e pronipoti di persone che lavoravano lì da secoli. Perciò, quando la Russia se n'è andata, la famiglia torna in possesso della fattoria. E io sono il figlio maggiore, così diventa la mia fattoria. E funzionava benissimo: la più grande fattoria casearia degli Stati baltici. Conduco una vita molto semplice, tra il mio lavoro, le mie passeggiate e i miei libri. Jaanja ha sempre amato viaggiare, e voleva da sempre insegnare in America, così, quando è stato possibile, gli ho dato quanto gli serviva.» «Era fortunato ad avere un fratello tanto devoto. Allora lei gli pagava il sostentamento e gli permetteva anche di fare donazioni all'università di
Wickenden ogni anno?» A quella domanda, Tonu trattenne il fiato. «Sì. Per me, nessun problema. Per Jaanja, vuole regalare qualcosa a un'università tanto meravigliosa.» «È meravigliosa. È lì che mi sono laureato.» «Ah, sì! Vede, è un'università che fa dei suoi studenti scrittori di giornali tanto in gamba. Allora capisce perché Jaanja voleva donarle i suoi soldi.» Esitai prima di porgli il quesito successivo. L'espressione di Hannah era passata dal disagio al sospetto e, quando la guardai, strabuzzò gli occhi impercettibilmente e mi rivolse un cenno della testa, esortandomi senza dubbio a terminare l'interrogatorio. L'intervista. Qualunque cosa fosse. Avevo soltanto un'altra domanda. «Oltre a provvedere al suo sostentamento, ha mai pagato un avvocato per suo fratello?» Solo per un attimo, la sua maschera da affabile vecchio barbogio scivolò via, e mi scoccò un'occhiataccia colma di odio e curiosità. In quel preciso istante, rammentai dove l'avevo visto per la prima volta: al Lupo solitario. Era il tizio che sedeva da solo all'estremità del bancone, l'unico che non aveva mai parlato. Ormai sapeva che sapevo che suo fratello era qualcosa di diverso, qualcosa di più, rispetto a quanto appariva e, dall'intensa bellicosità di quello sguardo, intuii che sapeva che sapevo. Si rabbuiò e stralunò gli occhi, socchiuse la bocca in un sorriso vacuo e si grattò la coscia con aria distratta, scrutandomi. «Un avvocato? Quello che faceva con i suoi soldi, Jaanja non me lo diceva mai. Ma perché me lo chiede?» «Ecco, secondo qualcuno che lavora alla facoltà di storia della Wickenden, ha avuto qualche problema con la legge.» «Paul!» Hannah strillò così forte che sussultai. «Tonu è venuto fin qui dall'Estonia per recuperare il corpo del fratello, non per sentir parlare dei suoi eventuali problemi. Ha davvero importanza in questo momento?» «Fa parte del mio lavoro indagare su faccende di questo tipo. E sì, potrebbe avere molta importanza, perché...» «Non vedo come» osservò Tonu, alzandosi con lentezza e appoggiandosi al bastone. «Le ho detto, credo, quello che voleva sapere, sì? Adesso è ora che un vecchio torni alle comodità della sua stanzetta.» Hannah lo aiutò a infilarsi cappello e cappotto. «Ha abbastanza da mangiare? Dove cenerà?» «C'è una piccola taverna in fondo alla via della mia pensione, credo. Mangerò hamburger e ascolterò Elvis Presley su uno dei vostri jukebox, poi dormirò nel mio grande letto americano.» «Non sapevo che il Lupo solitario avesse una cucina» azzardai.
Tacque per un secondo mentre si metteva il cappotto ed espirò, spazientito. «No, questo posto dove mi ha visto la prima volta non ce l'ha» ammise, guardandomi diritto negli occhi. «Visto che non me lo chiede, ma vorrebbe chiedermelo, ero lì perché Jaanja l'aveva menzionato nelle sue lettere. Volevo conoscere meglio la vita americana di mio fratello, perciò ci sono andato per un brandy pomeridiano. Ma non riesco ancora a capire perché questo dovrà comparire nel necrologio di mio fratello e, se ha davvero intenzione di scrivere questo articolo, la prego di farlo in fretta. La prego anche di rispettare la sacralità dei morti e di non parlare male di lui.» Baciò Hannah sulla guancia sinistra, poi sulla destra, poi di nuovo sulla sinistra, e le augurò la buona notte con un inchino educato. A me lanciò una bieca occhiata di ostilità mentre usciva vacillando e girava l'angolo della casa. Mi preparai alla sfuriata di Hannah per aver insultato il suo ospite, per la mia invadenza irriverente e per tutta una serie di altre cose che potevo aver fatto o dimenticato di fare e di cui non ero ancora consapevole. Invece, chiuse gli occhi e appoggiò la testa allo stipite. Pareva che stesse piangendo. Vidi il suo muro di riserbo e compostezza che si sgretolava e franava e, quando alzò il capo, vidi lei che cercava di ricostruirlo. Quando si voltò, sorrideva, ma il suo sorriso era freddo e stiracchiato. «Oh, Paul. Che casino.» «A che cosa ti riferisci?» «È solo che... Non so, Paul. Hai letto Amleto, vero?» «Sì.» «Ho interpretato Ofelia in una recita al college. Ho convissuto con quel dramma per un anno. Te lo ricordi bene?» «No, purtroppo. Perché?» «Il discorso del Re attore?» Mi prese la mano, intrecciando le dita con le mie, quindi la lasciò andare. Annuii, incerto. Hannah sembrava cupa, stanca, turbata e più vecchia di quanto fosse in realtà: gli occhi le tremolavano anziché brillare, era pallida in volto, e i lineamenti avevano una spigolosità così febbrile da indurmi a pensare che stesse male. «Rammenti come finisce?» «No.» «"Desideri e destini vanno in senso contrario / tanto, che i nostri calcoli son sempre rovesciati: / nostri sono i progetti, ma non i risultati."» «Non... Che cosa c'è, Hannah? Vuoi sederti? Se hai fame, ho portato
vino e cibo. Qualcosa non va?» «Come facciamo a sapere se abbiamo agito bene o se abbiamo avuto solo il proposito di agire bene?» Serrò i pugni e la mascella, tenendosi il capo tra le mani. Quando alzò di nuovo lo sguardo, era tornata quella di sempre, e propose di andare da me affinché potessi prepararle la cena. «Volentieri» accettai. «Ma sei sicura che sia tutto a posto?» «Sto bene. Sul serio. Penso di avere solo fame. E parlare con Tonu mi ha costretta a rendermi conto che Jaan è morto davvero e che mi manca.» «Tutto qui? Hannah, sono in pensiero per te. Questa mattina ho trovato...» Si chinò per baciarmi, passandomi una mano sulla guancia e intorno al collo. «Non hai nulla di cui preoccuparti» mi rassicurò, stringendomi il volto tra le dita e guardandomi diritto negli occhi. «Ricordatelo: non devi mai preoccuparti per me.» Mi mosse il capo su e giù ad annuire, poi mi prese a braccetto. «Andiamo? Non ho mai visto il tuo appartamento, e ho fame. Non mi avevi detto che sai cucinare.» «Non ne sono certo. Miei sono gli ingredienti, ma non i risultati.»
Le Gabbie del Kaghan (il fuoco)
Il fuoco inferiore è l'amore divino. Lo scoprii dopo essermi scottato la mano con una manifestazione del fuoco esteriore mentre cercavo di accendermi la pipa appeso a testa ingiù a una trave del tetto. C. Mortmain, Non solo il dragone
«Dalla parola araba ashk, che significa "amore". Questa è la città dell'amore.» La guida sorrise chinando appena il capo e si voltò verso il suo cliente, che, anziché ammirare il panorama, guardava giù verso il balcone di pietra. Uno scorpione nero delle dimensioni di una granata eseguiva una danza delle ombre ai piedi dei due uomini. La guida lo punzecchiò con il bastone, provocando cinque zampate rapide ma inutili, prima di scagliarlo lontano con un abile tiro di polso. «Giocavo a hockey. A scuola. Sulla pista degli ufficiali.» Con il bastone, disegnò un arco attraverso il loro campo visivo, continuando a saettare la testa per accertarsi che l'altro fosse soddisfatto. Con un sorriso falso e servile stampato sulle labbra, torturava un filo che gli pendeva dalla manica della tunica, appallottolandolo, torcendolo, arrotolandolo, tirandolo, allungando il filo e accorciando la manica. I monti del Kopetdag si stagliavano in lontananza come fogli di alluminio viola accartocciati. La città pareva coperta da un eterno strato di polvere; non era mai del tutto nitida, e i dettagli si spostavano a ogni alito di vento. Vie e case seguivano uno schema ben preciso; in puro stile sovietico, gli urbanisti avevano eliminato ogni traccia di fantasia o inventiva. «Nuova città, signore. Tutta nuova. Un terremoto ha distrutto la vera Ashgabat quasi quarant'anni orsono.» «L'ho letto da qualche parte. Ma non ricordo di averne mai sentito parlare.» «No. In quegli anni non... Non avrebbe mai...»
«I terremoti non colpivano i Paesi socialisti» replicò il cliente con un sorriso furbesco. «Certo che no. Procedevamo impavidi verso un glorioso futuro, e stavamo costruendo lo stato ideale delle relazioni sulla terra. Lavoravamo in armonia con la natura. La dominavamo. La natura non poteva dunque rivoltarsi contro di noi, capisce? Ricorda?» «Sì.» «E, se non sono indiscreto, dove si trovava all'epoca?» «Veramente, non ero ancora nato. Ma insegno presso la facoltà di studi storici e dialettici marxisti-leninisti di Rostov sul Don e ho letto molto riguardo a quegli anni. Un periodo difficile, soprattutto in queste repubbliche.» La guida, più per abitudine che per necessità, si guardò sopra entrambe le spalle prima di girarsi ancora con disagio verso il cliente. Con un gesto nervoso, schioccò piano la lingua attraverso lo spazio dove gli mancavano tre denti superiori sul davanti. La gente non parlava ancora con schiettezza di simili argomenti. La nuova franchezza che, a quanto si mormorava, si era diffusa negli ambienti ufficiali di Mosca e Leningrado non aveva ancora soffiato verso sud fino a quella desolata capitale di una regione caduta per sempre nell'oblio. «Allora devo chiamarla "professore", "compagno" o magari in qualche altro modo?» «Come preferisce. Professor Ostrov è perfetto.» In realtà, era tutt'altro che perfetto: quella era la prima volta che vestiva i panni di un russo e, benché parlasse bene la lingua, il suo accento caucasico si insinuava di tanto in tanto nella sua pronuncia, vanificando ogni sforzo. Sperava che gli altri lo scambiassero per una cadenza meridionale... Ecco perché aveva dichiarato di venire da Rostov sul Don. Ovviamente, aveva comprovato quella dichiarazione, e tutte le altre fatte dal professor Ostrov, con gli indispensabili documenti firmati, sigillati, decorati, goffrati e timbrati. Cancellando la religione, l'Unione Sovietica aveva sostituito con foglietti di carta e timbri di gomma le icone annerite dall'incenso che, sulle pareti delle chiese, rappresentavano meste figure dagli occhi affossati. Quando si era registrato all'Hotel Turist, aveva esibito una lettera con il bollo dell'Istituto tecnico di Rostov sul Don che lo identificava come un ricercatore storico venuto ad Ashgabat per ammirare le opere dei mitici turkmeni esposte presso il bazar di Tolkuchka. La receptionist l'aveva guardato con l'annoiata superiorità del funzionario di
provincia che esercita un potere gretto e limitato. Avviandosi lungo il corridoio a passo strascicato come una tartaruga in cerca del suo guscio, l'aveva accompagnato in camera, gli aveva detto quando avrebbe avuto a disposizione l'acqua calda e gli aveva raccomandato di restituirle la chiave ogni volta che fosse uscito dall'albergo. Desiderando fare un favore a un illustre studioso in visita dalla Russia, l'Istituto tecnico per il potere del popolo di Ashgabat aveva fornito a Ostrov una guida. Lui ne aveva rifiutate quattro, finché gli avevano mandato l'uomo che voleva incontrare: Murat, in quel momento impegnato a schiacciare pistacchi con i molari e a sputare i gusci giù dal balcone attraverso la fessura tra i canini, mirando ai passanti. Murat non sapeva che il cliente fosse venuto ad Ashgabat per vedere proprio lui, cosa che rendeva la missione molto più semplice. Per trasformarsi in Ostrov, Abulfaz si era raso sia la sommità della testa sia i baffi o la barba che portava di solito e aveva indossato un blazer blu della taglia sbagliata con una spilla di Lenin sul bavero, una camicia bianca da quattro soldi e una cravatta rossa frusta e macchiata. Inarcò le sopracciglia, ma curvò verso il basso gli angoli della bocca per sembrare insieme attento e perennemente insoddisfatto: un'espressione da docente. Quando guardò Murat, la guida si infilò i pistacchi in tasca e si allontanò dal bordo del balcone. «Andiamo?» domandò Ostrov. «Certo, compagno professore. Dove desidera andare?» «Be', come sa, sono qui per analizzare e documentare il tradizionale artigianato turkmeno, soprattutto i tappeti, perciò...» «Giusto. Allora andiamo a Tolkuchka? In tal caso, dobbiamo organizzare il trasferimento.» «Naturalmente. La aspetto davanti al mio hotel con un'auto tra un'ora. Suppongo che dovrò pagare gli spostamenti privati. Se è possibile in macchina e, se è possibile, con una macchina che non si guasti oggi.» «Sì, signore. Tra un'ora.» Sessanta minuti e trentadue secondi dopo, Abulfaz/Ostrov e Murat scivolarono sul sedile posteriore di una Lada viola. Il cugino di Murat - un omone dalla barba di uguale lunghezza in tutte le direzioni, tanto folta e arruffata da parere una sfera deposta sulla metà inferiore della sua faccia guidava l'automobile in conformità al principio secondo cui la casualità era
l'unico fattore determinante del destino umano. La forza di volontà, una colla industriale sgraffignata in una base aerea sovietica e qualche funicella di gomma tenevano a bada l'entropia della vettura. Abulfaz, che aveva viaggiato in posti peggiori con autisti peggiori, non aveva paura, ma Ostrov ne avrebbe avuta, perciò contrasse i muscoli, producendo gocce visibili sulla testa calva e mezzelune sotto le ascelle. Murat e il cugino chiacchieravano animatamente in dialetto russo e turkmeno; spesso il conducente si girava del tutto sul sedile e gesticolava con entrambe le mani verso il suo interlocutore, stringendo il volante tra le ginocchia. Affrontando una svolta (ovviamente con tutta la velocità consentita dall'auto), andarono quasi a cozzare contro il paraurti di un sudicio camion grigio il cui pianale traboccava di tessuti variopinti, colori sgargianti di ogni sfumatura intrecciati in motivi come quelli che si producono all'interno della palpebra strizzando gli occhi contro il sole di mezzogiorno. Il cugino imprecò e strombazzò. Centinaia di tappeti, prelevati dalle pagine delle fiabe o dai versi di canzoni dimenticate e caricati su un vecchio veicolo sconquassato in quell'angolo polveroso e abbandonato di un Paese fatiscente. Abulfaz si fregò gli occhi; Murat rise. «Belli, compagno professore, vero? Tappeti turkmeni, i più raffinati del mondo. È questo che è venuto a vedere?» «Belli» concordò Abulfaz. Le bancarelle apparvero tremolando nel pomeriggio del deserto, ma, una volta dentro, Tolkuchka si liberava ben presto delle sue pretese da bazar e si tramutava in un mercato sovietico: informi abiti beige, sigarette arrotolate a mano e pezzi di ricambio per automobili. La ripetizione e un eccesso di merci inutili alimentavano l'illusione dell'abbondanza. Murat si trasformò subito in guida, protettore, interprete e venditore ambulante per Abulfaz, che desiderava solo farlo sentire competente e a suo agio per poi prenderlo alla sprovvista. Si lasciò dunque tirare per il gomito e offrire polli vivi, denti d'oro (strappati, si augurava, a qualche cadavere), berretti quadrati ricamati d'oro, spazzole per capelli, ragazze, radio illegali a onde corte, mattonelle di hashish, pezze di tessuto grezzo, pezze di tessuto cangiante e bestie da soma con gli occhi tristi, mantenendo per tutto il tempo un'aria concentrata di superiorità etnica e intellettuale. «Come si compra qui?» domandò a Murat. «In molti modi, compagno professore. A volte con valuta estera, soprattutto per i turisti. Per lo più barattando e contrattando. Perché me lo
chiede?» «Perché pensavo che la maggior parte delle merci pregiate venisse spedita a Mosca. Come quella pila di tappeti o quelle lenzuola di seta porpora.» «Sì. Molte cose vengono spedite, ma la gente tiene qualcosa da parte, tiene qualcosa da parte per sé, e tutti tengono da parte un paio di oggetti da vendere o scambiare qui. E deve ricordare che la gente arriva da tutto il mondo, da tutto il mondo, da tutto il mondo. Da ogni angolo del pianeta. Oggi sembra enorme, ma domani ne giungeranno altre migliaia dopo che queste migliaia avranno venduto quanto hanno da vendere.» «Da tutto il mondo?» «Be', sì. Certo, no, non proprio da tutto il mondo, ma da tutta questa zona, da tutta l'Asia centrale.» « «Che cosa mi dice dei russi provenienti dall'Asia centrale?» «Ah. Ah, sì.» Murat ridacchiò, strofinandosi le dita di una mano su quelle dell'altra con fare nervoso. «Niente russi. Tranne lei. Lei è l'unico russo qui oggi» aggiunse con una risata fasulla. «Ah.» Ostrov si guardò intorno, attento a impedire che la sua maschera di inquietudine rivelasse la sua curiosità. «E che cosa accadrebbe se lei si allontanasse da me? Se mi lasciasse qui, in mezzo al mercato, vestito come sono, con l'aspetto che ho.» «Non vale la pena pensarci. Non succederà.» «Lo so. Ma tanto per dire.» «Ah. Be', si volti. Piano.» Abulfaz obbedì. Dietro di lui, un uomo dal torace a botte con folti baffi e un solo sopracciglio ne picchiava un altro con la marmitta di un'automobile. Una donna con un foulard del colore della sabbia sotto la luna stava in piedi, impassibile, davanti a file di sacchi che contenevano spezie lentamente disseccate dal sole pomeridiano. Quando l'aroma dei chiodi di garofano arrostiti gli aggredì le narici, Abulfaz pensò alle dita macchiate di sua nonna; la brezza cambiò, e lui avvertì il profumo delle erbe aromatiche, za'atar, timo e sommacco, e rammentò uno zio panettiere mezzo arabo e il caldo pane alle erbe che spezzava con le mani. Cantastorie e venditori di spezie, rifletté, avevano un potere crudele sulla memoria e andavano evitati. Proprio in quel momento sentì una goccia di liquido tiepido che gli schizzava sulla mano. Udì un urlo agghiacciante e vide il sangue che spruzzava dalla gola di un agnello appena sgozzato. Con qualche squarcio
e qualche strattone, il macellaio gli staccò la pelle come un guanto. Murat diede ad Abulfaz un colpetto sulla schiena e accennò quasi impercettibilmente a un gruppo di tre uomini silenziosi (tutti alti, snelli e quasi regali, con il naso lungo, gli occhi verdi e la pelle coriacea) tra il macellaio e la venditrice di spezie, gli occhi fissi su di lui. «Vede? I suoi amici. I suoi nuovi amici» ridacchiò Murat. «Siamo in Unione Sovietica, perciò siamo tutti fratelli nel socialismo, naturalmente, ma lei, compagno professore... lei è il primogenito. Il preferito dei genitori.» «E allora?» «E allora, forse noi fratelli minori vorremmo un po' di spazio tutto nostro. Non possiamo tenere fuori i russi, no di certo, ma facciamo in modo che non abbiano voglia di venire qui. Devono essere scortati da uno di noi, altrimenti devono portarsi un battaglione di soldati, e forse finirebbero male anche in quel caso.» «Quegli uomini sono armati?» «Armati? Questa è l'Asia centrale. Tutti sono armati. Guardi qui» rispose Murat, aprendo la tunica e mostrando una Walther fissata al suo fianco. «Ma lei non si preoccupi. Andremo dove vuole, e filerà tutto liscio.» Mentre la guida si riallacciava la veste, Abulfaz si avvicinò ai tre uomini e rivolse loro la parola. Murat lo fissò a bocca aperta, ma poi vide strette di mano, seguite da sorrisi e sospettosi cenni della testa. Abulfaz si parò davanti ai tre sconosciuti; Murat notò che si infilava le dita nella giacca, si presentava con prudenza ma con enfasi e si portava la mano al cuore con un lieve inchino. Quando si voltò, la guida ebbe la fugace impressione che fosse un'altra persona (il modo in cui teneva il capo un po' più alto, forse, o un'espressione molto più dura dello sdegno che gli apparve per un attimo sul volto vacuo), ma Ostrov tornò a essere Ostrov quando lo raggiunse. «Che cosa ha fatto?» gli domandò Murat, stizzito. Abulfaz non avrebbe saputo dire se fosse furioso o terrorizzato. «Li stava provocando? L'avevo avvertita, compagno professore, per la sua sicurezza, si giri piano. Non attiri la loro attenzione. Che cosa ha fatto?» «Adesso Ahmot, Ilham e Mundir sono i miei protettori.» «Io e mio cugino siamo i suoi protettori» sibilò Murat «e lei ci ha insultato, ha insultato il nostro onore.» «Non era nelle mie intenzioni, ma mi serve una garanzia. In caso lei decidesse di abbandonarmi al mio destino.» «Perché? Non le ho mostrato la pistola? Non vede mio cugino a dieci
passi di distanza, che la sorveglia di continuo? Perché anche loro?» «Murat, voglio che mi porti da sua zia.» «Che cosa? Ma io non...» «Coraggio, voglio che mi accompagni dalla Venditrice di leggende.» Dopo aver superato quattro bancarelle di spezie (tutte gestite da donne di mezza età con la medesima espressione fissa e confusa e foulard dalle tinte neutre che si avvolgevano due volte e mezzo intorno alle loro teste), Abulfaz cominciò a pensare che il mercato fosse un labirinto di specchi. C'erano un agnello e un macellaio, un venditore di falchi con un occhio di vetro, e Murat lo guidava in cerchi concentrici lontano dal centro del bazar. Per fortuna, i suoi tre protettori li seguivano; avrebbe solo dovuto gettare a terra gli occhiali, e quelli avrebbero tagliato la gola a Murat e portato via lui, garantendo la sua incolumità e la propria ricchezza. Nella sua carriera, Abulfaz aveva assistito ai miracoli che si potevano compiere con una conoscenza approssimativa della lingua locale, un briciolo di carisma e una scorta inesauribile di ritratti di Beniamino Franklin in nero e verde. Murat si succhiò i denti, girò la testa e sputò. Mollò il braccio di Abulfaz per pulirsi la bocca con la manica e, appena persero il passo, Ahmot lo spintonò in malo modo, esortandolo con un gesto a riprendere a braccetto il professore. «In che lingua ha parlato a quei tre?» domandò Murat al suo protetto. «In tagiko. Non lo conosco molto bene, ma a quanto pare è bastato.» «Capisce quando io e mio cugino conversiamo in turkmeno?» «Un po'. Non quanto dovrei. Magari, dopo che avremo fatto visita a sua zia, potrebbe darmi qualche lezione.» «Può darsi, per il giusto prezzo. Se è riuscito a trasformare questi uomini nelle sue guardie, forse sa fare cose più grandiose che imparare un'altra lingua. Quante ne parla?» «Più di quante creda.» «Non mi sorprende. Qui la maggior parte degli uomini conosce due lingue: il turkmeno e la versione del turkmeno diffusa nel rispettivo clan. Quelli colti, come me, sanno anche il russo. Gli uzbeki che vengono qui ne parlano quattro o cinque. In questo Paese, tutti ne conoscono più dei turkmeni. Tutti ottengono di più, tutti guadagnano di più, tutti... Sempre, sempre, sempre, in eterno.» «Posso raccontarle una barzelletta sulle lingue?» domandò Abulfaz.
«Una barzelletta. Sì, d'accordo.» «Come si chiama un russo che parla quattro lingue?» «Non lo so.» «Sionista. E un russo che ne parla tre?» «Non lo so.» «Spia.» «E uno che ne parla due?... Non lo sa? Nazionalista. E se ne parla solo una?... Internazionalista.» «Non mi pare molto spiritosa» commentò Murat, imbronciato. «Pensavo che un individuo originario delle province internazionalizzate della Madre Russia ne avrebbe apprezzato l'umorismo.» «Sta cercando di mettermi nei guai inducendomi a sparlare dell'Unione Sovietica? Perché le dico subito che amo la mia patria, e credo fermamente che stiamo spianando la strada verso un futuro radioso, uniti sotto il vessillo rosso del socialismo.» «Sì, certo. E io credo che ogni inverno Papà Gelo e la Fanciulla delle nevi escano dalla foresta distribuendo regali a tutte le bambine e i bambini buoni.» Murat si passò la lingua sulle labbra secche e lo fissò. Il suo cliente era più piccolo di lui, e anche più tondo, con una faccia così priva di carattere e dettagli, di pregi e difetti, da sembrare incompleta. Ostrov si beffava dei principi sovietici (e senza paura, per giunta), ma aveva con sé un'autorizzazione sovietica che gli consentiva di visitare un mercato per cui, a quanto pareva, non provava alcun interesse. Veniva da una cittadina della Russia meridionale, ma aveva fatto amicizia con tre tagiki che l'avrebbero ucciso alla minima provocazione. E sapeva qualcosa che era sepolto da secoli non solo nel clan di Murat, ma quasi esclusivamente nella sua famiglia. Davanti a una bancarella piuttosto spoglia, la guida baciò una vecchietta che portava sedici gabbie intorno al collo, contenenti ciascuna un grosso e vivace scarafaggio dalle lunghe antenne. «Portano fortuna» spiegò Murat. «Si libera sulla soglia di casa uno di questi khorens. Se va fuori, la casa è benedetta per sette raccolti e sette inverni. Se va dentro, bisogna seguirlo mentre raccoglie gli spiriti nascosti all'interno e, dopo che ha fatto il giro di tutte le stanze, buttarlo nel fuoco. Mia zia è l'unico membro del nostro clan che ha il permesso di catturarli nel deserto.» La donna rivolse uno sbrigativo cenno del capo a un ragazzo dal volto insignificante e dagli
occhi ridotti a fessure che tentava di spennare un pollo vivo chiuso in una stia; lui prese la collana, e lei accompagnò i due uomini in una piccola iurta improvvisata dietro il banco. Li invitò a sedere su una stuoia con un motivo di triangoli vermigli, verde muschio e oro brunito. Si accomodò di fronte, estrasse un tappeto circolare con le frange da un baule alle sue spalle e lo stese sul pavimento davanti a sé. Guardò i suoi ospiti con espressione vacua, trepidante, circospetta. «Sa chi sono?» le domandò Abulfaz in russo. «Sapevo che oggi un forestiero sarebbe venuto a trovarmi» rispose. La sua voce aveva il timbro e il dolce stridore di un flauto di legno. Sembrava poco usata, e dunque più giovane di ogni altra parte del suo corpo. «Il resto non è affar mio, ma sono passate molte generazioni da quando qualcuno della mia stirpe ha trattato con uno straniero. Non sapevo che voi sapeste della nostra esistenza, ma supponevo che sapeste della mia ignoranza, e a mia volta sospettavo le vostre congetture sulla mia inconsapevolezza. Questa è una catena, vede, e, come quasi tutte le catene di informazioni, è insieme infinita e insensata. Ma è anche di buon auspicio, perché ha costituito l'argomento della nostra prima conversazione, e mi sento in dovere di offrirgliela.» Dal baule, tirò fuori una spessa cintura nera che sembrava attraversata da un movimento costante e incontenibile: tre rettili, la bocca dell'uno attaccata alla coda dell'altro mediante rudimentali ami doppi. «L'Anello di Munatir, re selgiuchide dei serpenti e mio bis-bis-bis-bisnonno. Per aiutarla a mostrare molte facce al suo nemico. Ma forse un forestiero come lei non ha bisogno di un simile strumento.» «Infatti» replicò Abulfaz, ritraendosi. La donna ripose nel baule le serpi che continuavano a divincolarsi e si girò verso Abulfaz, le mani giunte con garbo sulle ginocchia in un gesto insieme austero e tanto infantile da essere sconcertante. «Perché è venuto?» Il suo tono era un misto di scherno e curiosità sincera. «Per le Gabbie del Kaghan.» A quelle parole, lei ridacchiò e si portò una mano alla bocca; gli anni le caddero dal volto come foglie morte nella brezza. «Questo è un vero onore. Persino molti della nostra gente se ne sono scordati. Dovrei chiederle come fa a esserne a conoscenza, ma temo la sua risposta. Comunque, io sono solo una povera venditrice di mercato. Che cosa mi darà in cambio?»
«Sono in suo possesso?» Lei sospirò, allungando una mano all'indietro. Il baule le inghiottì il braccio fino alla spalla, e lei vi frugò dentro distogliendo gli occhi, come se fosse cieca. Inarcando le sopracciglia, estrasse un vaso di argilla. Era largo quanto il palmo della mano di un uomo e alto due volte tanto; lo spesso coperchio aveva un pomello rudimentale al centro. Pareva fatto da un bambino e lasciato asciugare al sole, senza vetrina, finiture o decorazioni di alcun tipo. Abulfaz si domandò quante persone l'avessero visto lungo la strada e fossero passate oltre; si domandò quante volte il clan fosse stato depredato e fosse riuscito a conservare la Gabbia per il suo aspetto così dimesso. Si domandò quanto sarebbe stato diverso il mondo se i ladri fossero stati al corrente del suo valore. «Me lo faccia vedere» disse alla donna. Lei si sollevò il vaso davanti agli occhi, come per esaminarlo, quindi lo tese verso l'uomo, affinché potesse fare lo stesso. Abulfaz annuì. Lei alzò il coperchio, accese un fiammifero e lo gettò nel vaso. Le pareti di argilla si scaldarono e arsero come una lanterna. La luce si rifletté sugli occhiali del professore, atterrando sulle guance della sua interlocutrice e dando l'impressione che piangesse lacrime incandescenti. Abulfaz allungò una mano, e lei scostò l'oggetto. «È per questo che è venuto?» gli domandò. Lui assentì. Con un sorriso furbesco, lei scostò il coperchio e soffiò sulla fiamma. «Lo splendore di un minuscolo sole. Un'unica scintilla dura finché qualcuno la spegne di sua volontà. Può portarla ovunque, in qualsiasi condizione meteorologica.» «Come funziona?» volle sapere Abulfaz, gli occhi luccicanti di qualcosa che assomigliava molto alla lussuria. «Le storie si fermano qui. Non lo so. Dubito che qualcuno lo sappia. La mia antenata, forse, che è stata l'ultima visir e l'ultimo medico del Kaghan, ma nessun altro. Che importanza ha?» Abulfaz annuì con cortesia. «Dov'è la gemella?» «La gemella?» «Zia, non le ho forse chiesto le Gabbie del Kaghan? Ne esistono due. Desidero acquistarle entrambe.» «Ah.» Giungendo di nuovo le mani in grembo, lei abbassò lo sguardo mentre parlava. «A questo punto devo confessarglielo: lei non è il primo, bensì il secondo straniero che fa visita a una Venditrice di leggende. Anzi, è il secondo straniero che mi fa visita nel giro di una luna. Ne è venuto un altro... Murat ha accompagnato qui anche lui, insieme con suo cugino. Ma
non aveva quei tre leoni travestiti da uomini che lo sorvegliavano, e non parlava russo. Sapeva delle Gabbie, ma credeva che ve ne fosse soltanto una. Ne ha comperata una sola, sa. La Gabbia della luna.» «E lei gliene ha venduta una? Ha separato le gemelle?» «Be', sì. Avevo un debito, vede, un debito molto oneroso lasciatomi dalla bisnonna della mia bisnonna. Lui l'ha saldato in cambio della Gabbia.» Abulfaz si meravigliò per la prima volta in molti anni. «Chi era? Dov'è finita l'altra Gabbia?» «Non mi ha detto come si chiamava. Ha affermato di essere inglese e di coltivare piante. Alcuni dei suoi esemplari sono molto speciali e crescono soltanto sotto i raggi della luna, e le giornate estive, ha aggiunto, sono così lunghe in Inghilterra.»
REPERTO 10:
vaso rotondo di argilla grezza, del diametro di 20 centimetri e alto 10. Né vetrinato né dipinto, con le impronte del costruttore ancora visibili all'esterno. Una delle due Gabbie del Kaghan emette una brillante luce gialla e fu battezzata Gabbia del sole. La gemella, realizzata in argilla nera, produce un bagliore freddo e argenteo e fu denominata Gabbia della luna. DATA DI FABBRICAZIONE:
i dettagli che forniscono qualche indicazione al riguardo sono pochissimi, se non addirittura inesistenti. Il vasaio era maldestro o inesperto, per caso o per scelta. Ignorava l'esistenza degli smalti oppure decise di non usarli; non conosceva alcun motivo ornamentale oppure li riteneva inadatti alla sua creazione; non sapeva usare il forno oppure scelse la cottura al sole. Naturalmente, l'esemplare è unico per la sua capacità di raccogliere, emettere, intensificare e conservare la luce. COSTRUTTORE:
la leggenda associa le Gabbie alla corte dei Kaghan cazari. Il titolo «Kaghan» deriva dalla parola ebraica cohen, ossia
«sacerdote», o dal tataro khan, cioè «signore»; sceglie la prima etimologia chi crede che i cazari abbiano accettato il giudaismo, e preferisce la seconda chi crede che abbiano adottato l'islamismo (o il cristianesimo, l'alternativa più probabile dal punto di vista storico, anche se meno interessante sul piano linguistico). Lo Stato cazaro sparì intorno al X secolo (ancora una volta, le condizioni precise della sua scomparsa e le successive storie dei suoi abitanti variano a seconda della fede abramica), ma al-Idrisi ne collocò il cuore tra i fiumi Don e Volga, vicino all'attuale città russa di Rostov sul Don. I rappresentanti di tutte e tre le religioni menzionano le Gabbie nei loro scritti sui cazari. Solomon Benjamin ben Benjamin - rabbino andaluso nonché compositore, teologo e teorico del colore - riferisce quanto segue: «Il Kaghan che voi chiamereste Yusuf e io Joseph mi domandò se sulla terra fosse possibile trovare una luce più durevole di quella del sole e della luna, che si spengono ogni notte, e più fedele di quella del fuoco, che può infuriare e morire come un vecchio la cui unica figlia sia andata in sposa a un infedele. Risposi che il sole è eterno e la notte è solo la cecità della terra, ma egli contraddisse tale tesi producendo due contenitori di terracotta, uno chiaro e l'altro scuro, entrambi più rozzi di qualsiasi oggetto adatto a un califfo, e immergendo in ciascuno una cannuccia accesa, al che il recipiente più chiaro assunse prima la sfumatura della guancia di una fanciulla innamorata, quindi mostrò il luccichio degli occhi di un uomo che ha trovato la soluzione a un problema assillante e infine mantenne lo splendore di un piccolo sole. L'altro brillò forte quanto una donna orgogliosa corteggiata da uno studioso entusiasta ma povero, argentea come un lago durante la notte, come la figlia della luna». Un religioso noto soltanto come Sa'ad fu inviato da Tripoli con un seguito di mille soldati, duecentocinquanta donne e duecentocinquanta bambini per il Kaghan. Purtroppo i militari più promettenti e di buona famiglia perirono una volta giunti a corte, «giacché, al vedere queste lampade che imitano le sfere celesti, il mio amato Ibrahim si offese, ricordando il divieto coranico contro la riproduzione delle creazioni divine, e cercò di fracassare i vasi con la parte piatta della sua spada. Appena si fu slanciato in avanti, con la mano che scivolava verso il fodero, venti frecce, scoccate da arcieri invisibili nascosti negli infiniti recessi della camera del Kaghan, lo abbatterono sui due piedi. Spiegai al Kaghan perché Ibrahim fosse morto in quel modo, e il re infedele
restò molto colpito da una religione capace di liberare i suoi seguaci dalla paura della morte. Il visir affermò che gli adepti del nostro credo soddisfano l'esigenza umana di vivere nel terrore sostituendo la paura della morte con la paura della trasgressione, con la differenza che la morte arriva solo una volta e l'uomo, essendo mortale e disgustoso, trasgredisce a ogni respiro». Anche i vescovi Dulcinio e Sandromes fecero visita al Kaghan nel corso del IX secolo d.C, quando i cazari erano impegnati in una violenta guerra contro gli eserciti arabi che avanzavano da sotto il Caucaso. Dulcinio (martirizzato a Tyre e divenuto il santo patrono degli uomini capricciosi e laconici che camminano guardando per terra nonché degli autori di manoscritti) affermò in tono enigmatico che «il Kaghan può tenere in mano la luce del sole e la luce della luna, ma non ha ancora nel cuore la luce di Cristo Nostro Signore, ed è questa la luce che gli porterò, rendendolo tre volte benedetto su questa terra». Il costruttore originale è sconosciuto. LUOGO DI PROVENIENZA:
lo Stato cazaro si estendeva nelle regioni del Caucaso e del Volga. Ne ignoriamo i confini precisi; comprendeva senza dubbio alcune parti della Russia e forse anche alcune zone oggi appartenenti alla Georgia, all'Armenia, all'Azerbaigian, al NagornoKarabah e alla Turchia orientale. dopo l'assorbimento quasi completo dei cazari da parte del giudaismo, del cristianesimo, dell'islamismo o semplicemente della storia, l'ubicazione delle Gabbie scomparve dalle testimonianze scritte. La gente ne parlava ancora, ma le loro dimensioni e il loro potere aumentarono e diventarono più vaghi con il moltiplicarsi delle leggende. Alla corte dei selgiuchidi, «Gabbia del sole» divenne il nome di una costellazione, e «Gabbia della luna» il nome delle esili nuvole che racchiudono la luna settembrina su tre lati. Dopo la diaspora dei selgiuchidi, vi furono solo echi incorporei sulle Gabbie, racconti relativi a storie riguardanti un elemento originale sepolto chissà dove nel deserto, inghiottito nell'infinità della steppa. Ciascun clan di coltivatori con ricordi ancestrali di conquista, ciascun clan di pastori e nomadi che un tempo aveva controllato la rispettiva area definiva se stesso il primo ULTIMO
PROPRIETARIO
CONOSCIUTO:
proprietario delle Gabbie e ne considerava la scomparsa un simbolo della preminenza perduta. Dopo che i russi e i britannici ebbero spezzato l'Asia centrale come una forcella maledetta nel petto di un uccello, e soprattutto dopo che i russi ebbero tramutato questi guerrieri e cercatori in altrettanti esemplari di Homo sovieticus, le Gabbie si trasformarono nel mostro di Loch Ness della cultura locale, un racconto di fantasmi nato tra il museo Pitt-Rivers e il pub Eagle and Child di Oxford. Benché smarrite per il resto del mondo, le Gabbie entrarono in possesso di un unico clan, il cui nome è impronunciabile in qualsiasi lingua, ma la cui discendenza può essere fatta risalire con certezza direttamente a Oghuz Khan, il conquistatore turco che governò un impero esteso dal Mare arabo al fiume Irtysh e che, secondo la tradizione, pianificava le battaglie con l'aiuto di un solitario lupo grigio. Le donne di quel clan continuarono a essere una sorta di guaritrici, di «artigiane», come le avrebbe quasi definite Robert Burton: psichiatre e ciarlatane che avevano una miniera di storie popolari inventate e rimedi dai nomi altisonanti ma di scarsa o nessuna efficacia oltre alla suggestione. L'ultima di queste Venditrici di leggende aveva documenti sovietici che la identificavano come Yomtuz Muramasov: lei, i nipoti Murat e Mahmut e tre cittadini tagiki sconosciuti furono trucidati in una iurta poco oltre i confini del bazar di Tolkuchka nell'agosto del 1985. VALORE STIMATO:
incalcolabile. Yomtuz avrebbe potuto scambiare le Gabbie con una vecchissima Lada o addirittura con il Cremlino. Per determinare un prezzo occorrerebbe esaminare oggetti analoghi, che però non esistono.
Tu avrai così la gloria di tutto il mondo e fuggirà da te ogni oscurità.
Lungo il tragitto verso casa mia, feci qualche vano tentativo di conversazione. Hannah rispose a monosillabi, guardando fuori del finestrino. Cercai di mostrarmi allegro, ma in realtà ero curioso come una biscia, sia riguardo a Hannah sia riguardo all'eventualità di trovare un'altra parte del corpo inchiodata al mio uscio. Avevo pensato di insistere affinché restassimo da lei, ma non sapevo come chiederglielo con educazione. Avevo anche preso in considerazione l'idea di raccontarle del disegno sul telaio della sua porta, ma non sembrava in vena di parlare. Decisi che, se fosse stata necessaria qualche spiegazione, avrei improvvisato e che, se qualcosa o qualcuno ci avesse minacciati... be', avrei almeno tentato di non scappare. Quei giornalisti sotto i trent'anni che rispondono alle lettere personali dei lettori, nelle rubriche Stili di vita delle riviste, ti consigliano come presentarti ai futuri suoceri, come appianare le divergenze religiose con il coniuge e come affrontare una fidanzata tanto paranoica da controllare la tua posta elettronica, ma, a quanto ne so, nessuno di loro ha mai scritto che cosa fare quando trovi un canino umano e un simbolo occulto sull'uscio e non sai se la tua ragazza stia dalla tua parte o da quella del dentista. «Qual è il tuo?» mi domandò Hannah mentre parcheggiavamo dietro il palazzo. Indicai il terzo piano, dove una luce gialla brillava da dietro le tendine sempre tirate. «Sprechi l'elettricità, vedo» commentò, abbozzando un sorriso. Sembrava più stanca che arrabbiata. «Quella è la cucina. Immagino di aver avuto la testa tra le nuvole quando sono uscito. Come ricorderai, non ho dormito granché ieri notte.» Sorrise, questa volta con più calore, baciandomi l'angolo della bocca e sfiorandomi il viso con le dita. Quando smontammo dall'auto, volle essere lei a prendere il sacchetto dei viveri nonostante le mie proteste.
Dall'altra parte della strada, due tizi baffuti con il ventre prominente e una felpa delle scuole medie municipali di Lincoln uscirono dalla Colonial Tavern barcollando sulle gambe malferme e tenendosi a braccetto. Ridevano entrambi troppo forte per essere sobri. A un tratto uno dei due si girò come se qualcuno gli avesse sparato e vomitò nel cassone di un pickup rosso che aveva un fucile da caccia fissato a un sostegno sul lunotto. «Ah, merda, questo qui ha il grilletto facile. Muoviamo il culo» biascicò, crollando sul sedile dell'automobile guidata dal suo amico. «Casa dolce casa» commentai. «Quei tipi sembrano un po' troppo grandi per indossare la felpa della scuola, non trovi?» «Sì, oppure li hanno bocciati una ventina di volte.» Le aprii il portone, e salimmo. Una striscia di luce attraversava il corridoio proprio sotto il mio appartamento. Veniva dalla mia porta, che era socchiusa. Cominciai a sudare, con lo stomaco in gola. «Cazzo.» «Che cosa c'è?» «Entro io per primo» annunciai con voce tremante. Non convinsi nemmeno me stesso del mio coraggio, e ancor meno Hannah, che mi guardò in silenzio, strabuzzando gli occhi. «A volte dimentico di girare gli interruttori, ma non dimentico mai di chiudere a chiave. Puoi aspettarmi qui?» Annuì, restando in un punto da cui riusciva a vedere bene l'uscio. Lo scostai piano, lasciandolo aperto dietro di me e urlando: «C'è qualcuno? C'è qualcuno?». Per tutta risposta, una voce profonda iniziò a cantare in cucina. Pur essendo familiare, religioso e latino, il canto non mi tranquillizzò per niente. Afferrai l'unico oggetto del mio alloggio che fosse vagamente simile a un'arma: una mazza da baseball blu in miniatura, di quelle che vengono distribuite in omaggio negli stadi, autografata dai Mets nel 1985. Sollevandola nella mano sudaticcia, avanzai di soppiatto, sperando di non sporcare di sangue la firma di Hubie Brooks. In cucina, in piedi su una delle mie sedie sgangherate e intento a cantare a squarciagola, vidi Sal Gomes, con la luce della lampadina che gli trasformava la testa in una sfera da discoteca. Joe Jadid sedeva accanto a lui, ridendo in silenzio. Sul tavolo c'erano due bottiglie di Heineken stappate. «Come avete fatto a...?» farfugliai. Jadid diede una pacca al polpaccio di Gomes, indicò la mazza e fu preso
da un accesso di riso così violento e fragoroso che si capovolse, rompendo la sedia con uno schianto e versandosi la birra sul davanti della camicia stropicciata e macchiata di senape. Gomes tacque e lo aiutò a rialzarsi. «È stata una sua idea, amico» annunciò, faticando a tirare su Jadid, che continuava a spanciarsi dalle risa. «Ti paghiamo la sedia.» «Gesù Cristo, Paulie, con quel coso farebbe cagare sotto un ladro nano, miope, nervoso e affamato. Dia qui» intervenne Joe, strisciando a quattro zampe come se si stesse arrampicando su per una collina. La mazza pareva un pennarello tra le sue manone. «Questi Mets mi hanno spezzato il cuore. Mookie Wilson. Bob Ojeda. Ray vaffanculo Knight.» Si scosse dalla sua fantasticheria sportiva, scagliò l'oggetto sul pavimento e mi guardò. «A proposito, ricorda cosa le ho detto riguardo alla serratura oggi pomeriggio alla centrale?» «Sì.» «Mi sbagliavo. In realtà, è una merda; l'ho scassinata in circa dieci secondi.» «Deve capire» lo interruppe Gomes, pulendo il tavolo con la mia spugna logora «che Palla di lardo sa forzare le serrature migliori. Ora, so che non si direbbe vedendo quelle dita grassocce, ma è la verità.» Jadid si strinse nelle spalle, fissandosi le mani. «Non ho neppure dovuto romperla. Dovrebbe funzionare come prima. Ma deve investire in qualcosa di meglio, e deve farlo domani.» «Chi vi ha dato il mio indirizzo?» «I vostri stimati agenti di polizia, Mutt e Jeff» rispose Gomes, buttando la spugna nel lavello con aria sdegnata. «Bert e Allen.» «Come preferisce. Quello con i lunghi baffi da tricheco è una personcina davvero affabile. I piedipiatti di provincia sono diversi dagli altri. Ne avevamo di simili a St. Clair Point quando ero bambino. Non ha molta simpatia per chi ha la pelle scura, quello.» «Non ha molta simpatia per nessuno. Che cosa ha fatto, si è limitato a fornirvi il mio indirizzo?» «Be', abbiamo improvvisato un po'.» Sai guardò Joe, impegnato ad asciugarsi la birra dalla camicia con la cravatta, l'altra sedia che cigolava minacciosa a ogni suo movimento. Dopo un paio di secondi, Jadid notò che nessuno parlava e alzò gli occhi. «Sì, ci ha dato subito il suo indirizzo, senza problemi» disse con un sorriso da predatore. «Abbiamo solo dovuto raccontargli della denuncia
sporta contro di lei a Wickenden. Voleva accompagnarci qui di persona.» «Come? Quale denuncia? Che cosa ho fatto?» «Atti osceni in presenza di un minorenne» rispose Joe, ridendo di nuovo a crepapelle. «Che cosa?! Che cosa? Io non ho mai... Non è vero. Mi dica che è uno scherzo e che non avete dato a Olafsson più di quanto avesse già contro di me.» Questa volta Gomes non riuscì a soffocare una risata, che gli esplose prima dal naso come uno starnuto e poi dalla bocca in una cascata di note discendenti. «Certo che non l'abbiamo fatto. Anche se Joey avrebbe voluto. Gli abbiamo solo detto che volevamo parlarle riguardo a un'indagine in corso a Wickenden. Però era pronto a sellare la cavalleria, sfondare la porta e trascinarla fuori per interrogarla. Ascolti, se la fa stare più tranquillo, gli spediremo una lettera spiegando che l'abbiamo rintracciata e...» Si raddrizzò di colpo, e le sue risa cessarono, lasciando il posto a un sorriso repentino e cordiale. Inarcò le sopracciglia in un saluto carico di interesse. Joe si alzò, asciugandosi le mani bagnate sui pantaloni. «È tutto a posto?» domandò Hannah dietro di me. Mi voltai: aveva gli occhi grigi spalancati e le labbra strette, piegate all'insù in un arco di curiosità confusa. Era davvero un viso splendido, tutto zigomi alti, espressioni mutevoli e calma liquida. «Mi dispiace molto, Paul, non avevamo idea che avesse compagnia» si scusò Gomes. «Sì, ha una bella ragazza che lo aspetta sulle scale, ed entra qui rompendo tutti i mobili della cucina» incalzò Jadid. «Va tutto bene» rassicurai Hannah. «Questi sono due miei amici scassinatoti, Joe Jadid e Sal Gomes. Questa è Hannah Rowe.» «Piacere di conoscerla, signorina Rowe. A proposito, è giusto informarla che è stato Palla di lardo a distruggere la sedia, non Paul» aggiunse Gomes. «Okayyy» replicò Hannah, esitante, prima di rivolgersi a me domandandomi in tono vivace: «Paul, dove metto la spesa? Vuoi che corra a comprare qualcos'altro, se siamo in quattro?». La domanda ebbe l'effetto desiderato, perché Gomes si alzò, dichiarando: «Grazie, ma dobbiamo scappare. Anzi, siamo stati maleducati a intrufolarci qui dentro in questo modo». Le baciò la mano, e lei rispose subito con una finta riverenza.
Joe si accontentò di una goffa stretta di mano che inghiottì le dita di Hannah nelle sue. «Era il Libera me del Requiem di Fauré, vero?» domandò lei. «Esatto» confermò Gomes, girandosi e inchinandosi. «Uno dei vantaggi duraturi di un'istruzione cattolica.» «Adoro quel brano.» «"Liberami, Dio, dalla morte eterna." Lo adoro anch'io.» Gomes rivolse a entrambi un cenno di saluto generale, e Jadid mi picchiettò sulla spalla, invitandomi a seguirli fino all'auto. Raccomandai a Hannah di chiudere la porta. Lei obbedì, ma un'espressione sospettosa le passò sul viso. «Così voi ragazzi avete deciso di non tornare a Wickenden dopo essere sgattaiolati fuori della vostra giurisdizione? Avete preferito venire a forzare la serratura di un reporter, probabilmente rovinandogli qualunque opportunità avesse di trascorrere una piacevole serata con una bella donna?» sbottai. «È davvero carina» osservò Gomes. «Ottima scelta. Ma avere una relazione con una fonte non è una violazione dell'etica giornalistica?» «Sì» continuò Jadid «proprio l'altro giorno il sergente alla reception mi ha dato una circolare su questo argomento. Basta sesso con le ragazze dei sospettati. D'ora in avanti soltanto pompini.» «Cazzo, senti che roba» lo rimproverò Gomes, ridacchiando con me. «Io sono un padre di famiglia, e con molta probabilità lei è troppo giovane per ascoltare questi discorsi.» Jadid mi cinse con un braccio da orso e si chinò verso di me. «Paulie, quella ragazza...» «Ehi, lascialo in pace» gli ordinò Gomes. Non so se, nell'oscurità, avesse notato che ero arrossito. L'espressione di Jadid era un misto di vergogna e compiacimento diabolico. Sorrisi mio malgrado. «Siamo passati dal bar del professore morto. Ecco perché siamo qui. Il Lupo solitario. Abbiamo pensato di fermarci, già che stavamo facendo una gita in campagna.» «Strano posto, quello. Tutte le città hanno uno o due bar aperti la mattina e il pomeriggio, ma non ne ho mai visto uno così deprimente. Insomma, ha il linoleum rappezzato, i divani dell'Esercito della Salvezza, una piccola TV in bianco e nero dietro il banco. Una vera bettola per disperati» commentò Jadid. Raggiungemmo l'automobile: una Crown Vic blu che, pur non avendo segni distintivi, non avrebbe potuto essere più distinguibile nemmeno se
qualcuno avesse scritto PIEDIPIATTI sul cofano con una bomboletta spray. «Sì, questo Eddie l'Albanese è un vero simpaticone» proseguì Joe. «Una cosa, però: non credo che sia albanese.» «No? Come fa a saperlo?» «Be', zio Abe parla non so quante lingue. Credo che ne conosca dieci, forse dodici, alla perfezione e che ne mastichi un'altra decina. Comunque, quando io e tutti i miei cugini eravamo piccoli, ci ha insegnato due frasi in ogni lingua europea. Be', non in ogni singola lingua, ovviamente, ma ripeteva sempre: "Vale la pena saper parlare un po' di tutto, persino l'albanese". Era quella la sua battuta preferita: "Persino l'albanese".» «Quali frasi?» «"Questa è una bellissima nazione" e "Paga lui".» «E allora...» «E allora queste cose mi sono rimaste impresse nella memoria, sa, così le prime parole che ho detto al nostro Eddie per rompere il ghiaccio sono state: "Questa è una bellissima nazione" in albanese. Non ha capito un cazzo.» «Forse è dipeso dalla sua pronuncia» ipotizzai. «Sì, è sempre colpa mia, giusto?» mi rimbeccò, ruttando forte. «Ho pensato che forse non l'avevo detto bene, ma ho tentato quattro o cinque volte, finché mi ha esortato a ordinare un drink o a sloggiare. Allora abbiamo preso due birre e due liquori, poi gli ho domandato se si chiamasse Eddie. È sembrato sorpreso e ci ha chiesto come facessimo a saperlo. Gli ho risposto che eravamo amici di Jaan Pühapäev, al che è caduto in preda all'agitazione, replicando che gli dispiaceva per la sua morte ma che il professore aveva sempre avuto la lingua troppo lunga. Lo meravigliava che tutti volessero parlare di Jaan, comunque non aveva importanza, e stronzate del genere.» «E poi?» «E poi io e Gomes gli mostriamo il distintivo, ma in fretta, perché non si accorga che veniamo da Wickenden, e quello va su tutte le furie. Afferma di pagare gli sbirri tutti i mesi. Riesce a crederci? Mi definisce un avido maiale americano e mi intima di uscire dal suo locale. Minaccia di telefonare al capo della polizia. Lo invito a farlo, è nel suo diritto. Poi sferra un pugno al bancone, continuando a ripeterci di alzare le chiappe. Così finiamo le birre, e lui agguanta i boccali e li mette nel lavello. Mentre ci volta le spalle, mi infilo in tasca un bicchierino da liquore. Adesso lo ho con me... Cazzo, per fortuna non si è rotto quando sono caduto» concluse,
dando un colpetto al taschino del blazer e producendo un tintinnio. «Ora torniamo alla centrale, e Sally confronta le impronte con quelle di tutti i criminali possibili. Con molta probabilità è un salto nel buio, ma non si sa mai.» «Da dove pensa che venga Eddie?» gli domandai. «Perché racconterebbe alla gente di essere albanese? E a chi volete mandare le impronte?» «Un piccolo bastardo curioso, eh?» disse Jadid a Gomes. «Non so da dove venga. Non ho riconosciuto l'accento, anche se di solito sono abbastanza bravo con gli accenti. Perché racconta alla gente di essere albanese? Non lo so, ma sembra una storia credibile se non vuole far sapere da dove viene davvero. Insomma, quanti immigrati albanesi potrà mai incontrare qui? Chi cazzo sa come parla un albanese? Quante persone saprebbero trovare l'Albania su una cartina? Lei ci riuscirebbe?» «Probabilmente no» risposi, mesto. «E lei?» «Sì, altroché, cazzo» dichiarò con fierezza. «Il grande Joey è un patito delle cartine» intervenne Gomes. «Prima di conoscerlo non avevo mai visto nessuno sedersi a leggere le cartine: cartine stradali, cartine delle città, cartine del mondo... e roba simile. Inoltre, ha una memoria di ferro. So che è un po' sciatto e che si veste come un senzatetto, ma ha un cervello a cui non sfugge niente.» «Mi piace questo completo» si difese Joe. Gomes abbassò gli occhi, sorrise e scosse la testa. «Comunque, veniamo alla sua ultima domanda» proseguì Jadid. «Chi confronterà le impronte? La polizia statale e locale, nessun problema. I federali, cui probabilmente Sally chiederà di aiutarci. Persino l'Interpol. Si vantano tanto del loro sistema di archiviazione, ma di solito hanno archivi merdosi. Un burocrate battifiacca di Lisbona non è diverso da un burocrate battifiacca di Wickenden, giusto? A ogni modo, vedremo se salta fuori qualcosa. Sarebbe meglio se sapessimo da dove viene questo Eddie... Sarebbe meglio se conoscessimo il suo cognome, Cristo... ma cominceremo da qui.» «Sa» interloquì Gomes, soffiandosi sulle mani per scaldarle «forse confronteremo le impronte di Pühapäev con le altre raccolte. La faccenda diventa sempre più strana man mano che scaviamo. L'avevamo già schedato, tentar non nuoce.» «Sì» riprese Joe. «Magari potremmo mandare il suo nome e le sue impronte in Estonia. Vedere se hanno qualcosa su di lui. Ma dubito che ci
sia qualcuno che parla estone alla centrale, giusto?» «Non credo» rispose Gomes. «Ma che cosa ne dici di quel ragazzo, quello che sembra sempre impaurito e lavora nella sezione Criminalità organizzata? Sai a chi mi riferisco?» «Sì, penso di sì. Pelle e ossa, direi che si serve nei tuoi stessi negozi...» «Se questo significa che ha buon gusto in fatto di abbigliamento» ribatté Gomes, guardandolo da sopra gli occhiali «allora sì, stiamo parlando dello stesso uomo. Da dove viene?» «Priyenko. Si occupa della mafia russa. Ho sempre pensato che fosse russo, ma non ne sono sicuro. Sì, potrebbe aiutarci con l'Estonia. Probabilmente laggiù parlano un po' di russo. Però non gli ho mai rivolto la parola. Forse puoi entrare nelle sue grazie. Scambiando pareri su cravatte, dopobarba e roba simile.» «Spiritoso. E lei, giovanotto» disse Gomes a me «farebbe meglio a tornare di sopra e a salvare quella bella ragazza da se stessa. Come ha detto il ciccione, la serratura dovrebbe funzionare, e Joe stava proprio per pagarle la sedia, giusto?» Jadid sospirò, alzò gli occhi al cielo ed estrasse dalla tasca posteriore un portafoglio delle dimensioni di un pugno, traboccante di biglietti e scontrini. Con aria lugubre, mi porse una banconota da cinquanta dollari, domandandomi se fosse sufficiente. Ricevuta una risposta affermativa, annuì. «A proposito» annunciai «oggi ho conosciuto un tale che sostiene di essere il fratello di Pühapäev. Non che gli abbia creduto.» «Sul serio?» fece Gomes. «Dove l'ha visto?» «Da Hannah. Secondo lei, è venuto per portare via la salma.» «Ma non significa che sia suo fratello, giusto?» «Non significa nemmeno che non lo sia. Anche i cattivi hanno dei fratelli» osservò Jadid, battendo le palpebre con finto sentimentalismo stile Disney. «È ora di andare, Sally. I posti come questo mi fanno venire la pelle d'oca. E non dimentichi di procurarsi una nuova serratura domani. I fabbri esistono anche quaggiù?» «No, di solito inchiodiamo un tronco d'albero alla porta prima di coricarci. Ma ti complica le cose se devi usare il bagno esterno durante la notte.» Quando entrai, Hannah era sulla soglia tra il salotto e la cucina, le braccia conserte, il sacchetto della spesa ai suoi piedi, un misto di irritazione e
confusione che le incupiva il volto. «Chi erano quegli uomini?» mi domandò appena ebbi chiuso la porta. Jadid aveva ragione: la serratura funzionava perfettamente; l'unico segno di manomissione erano un paio di graffi accanto alla toppa. Sprangai l'uscio e tirai la catenella. «Due amici di Wickenden. Mi stanno aiutando con l'articolo su Jaan.» Sollevò le braccia e se le lasciò cadere sulle cosce con un tonfo. «Con quante persone hai intenzione di discuterne? Non dovresti essere un reporter? Vuoi davvero scrivere qualcosa oppure vuoi solo andartene in giro convincendo degli estranei a infangare Jaan?» «Chi ha detto che vogliono infangarlo?» Stizzita, espirò e reclinò il capo, guardandomi da sotto la fronte, come un toro. «Chi... erano... quei... due... tizi?» ripeté con lentezza e decisione. Per due secondi, litigai con me stesso in modo non del tutto coerente per decidere se mentire o confessare. Ero propenso a mentire, ma non riuscii a inventare una frottola persuasiva abbastanza in fretta: che cosa avrei mai potuto avere a che fare con due uomini adulti che scassinavano serrature, cantavano in latino, guidavano una Crown Vic e indossavano, anche al chiuso, blazer con rigonfiamenti sospetti sul lato del torace? Cos'altro avrebbero potuto essere? «Sono due detective della polizia di Wickenden» ammisi, non senza un certo imbarazzo. Hannah esplose. «La polizia! Ti sei rivolto alla polizia? Quando? Perché? Che cosa stai combinando? Che cosa ti hanno detto?» Si avviò a grandi passi verso di me, si arrestò di colpo e tornò indietro, quindi mi si avvicinò abbastanza da riuscire a baciarmi. Le posai una mano sulla spalla, ma lei la allontanò con una sberla, fulminandomi con lo sguardo. «Gli ho parlato oggi pomeriggio. Ecco come faccio a sapere di Jaan e dell'avvocato. Mi hanno riferito che era stato arrestato un paio di volte.» «E poi?!» «E poi niente. Quello robusto è il nipote del mio ex professore. È stato sospeso, e ha tempo per aiutarmi.» «Sospeso per che cosa?» «Per aver picchiato qualcuno che non avrebbe dovuto picchiare in un posteggio.» «Oh, splendido. È fantastico, proprio il tipo di sbirro che tutti vorrebbero avere dalla loro parte.» «Non è violento, e non sta dalla parte di nessuno.» Tacqui, in attesa della sua reazione. Si limitò a fissarmi. La mia eventuale capacità di interpretare
la sua espressione era svanita; non avevo idea di che cosa le frullasse per la testa. Avevo la sensazione di aver commesso un errore; qualunque cosa la turbasse era sbagliata per principio. Se avessi potuto chiedere a Joe e Sal di lasciar perdere, l'avrei fatto. Ma poi mi venne in mente una domanda: «Non vuoi sapere che cosa è successo a Jaan? Com'è morto?». Sospirando, si passò la mano a coppa sulla fronte, quindi la appiattì e si accarezzò i capelli. «Certo. Certo. Era mio amico, non tuo; io non lo consideravo solo un trampolino di lancio per un nuovo lavoro.» «Non è così, sei ingiusta. Mi spiace, ma non capisco perché tu sia tanto sconvolta. Stiamo cercando di scoprire che cosa sia capitato a Jaan. Al tuo amico. Che cosa c'è che non va?» «Paul... Ascolta, non voglio più parlarne, okay? Vado a casa.» Si infilò il cappotto e aprì la porta. «No, aspetta. Perché?» Si limitò a scuotere il capo. «Ti chiamo dopo» promisi, apatico. Chi avrà inventato questa formula di condiscendenza? «Come vuoi» replicò piano, quasi sorridendo. Chiuse la porta senza far rumore, e udii i suoi passi che si attutivano sulle scale e il portone che sbatteva. Avrei voluto cenare e trascorrere una lunga notte con Hannah. Pensai di correrle dietro, ma, per quanto possa sembrare strano a questo punto della storia, ho almeno un briciolo di orgoglio. Avevo acquistato gli ingredienti per un banchetto da gourmet, programmato ogni dettaglio mentre tornavo da Wickenden e assaporato il dopocena immaginando mille deliziose permutazioni. La mia vera serata non corrispose, naturalmente, a nessuna di quelle fantasticherie: intingendo i ravioli crudi in un contenitore di plastica pieno di salsa all'arrabbiata fredda e accompagnando quel pasto deprimente con il Montepulciano bevuto a canna, guardai le repliche di alcune sit-com che non erano mai state divertenti durante la prima programmazione e sicuramente non lo erano ora. A un certo punto delle inesauribili vicende di famiglie smancerose ma inossidabili, adolescenti-adulti disadattati che dividevano un appartamento e discutevano dei loro fallimenti sentimentali con altri adolescenti-adulti disadattati e piagnucolosi manhattaniani narcisisti che pronunciavano ampollosi luoghi comuni, mi addormentai sul divano e mi svegliai davanti a un monoscopio (la gloria delle piccole
emittenti commerciali), mentre il vino rosso mi colava sulla camicia macchiandomi il petto di rosa.
La Mediko bianca Il bianco è il colore delle vie di mezzo: dei mariti mai cornificati, non dei giovani invaghiti; degli scrittori delusi, non dei poeti adolescenti; dei castelli semifiniti, non delle case semifinite. Georg Nagy, La tragedia di Sorrati
18 marzo 1987 Amico mio, allego una delle due monete che hai chiesto a me e ad Abulfaz di recuperare. Accetterò i tuoi ringraziamenti, ma purtroppo non posso offrirtene nessuno in cambio: i miei viaggi con quella detestabile nullità in quel Paese disgustoso hanno esaurito le mie simpatie nei tuoi confronti. Questa è la terza volta in tre anni che ho dovuto allontanarmi da casa per condurre una futile missione ispirata dal progetto di Voskresenyov: l'Armenia e il Turkmenistan erano stati abbastanza intollerabili, ma ero sempre andato molto fiero di non aver mai messo piede sul suolo statunitense. Trovo insopportabile non solo il fatto di essere venuto meno a quell'impegno, ma anche di averlo dovuto fare con un uomo nella cui compagnia non ho mai trascorso un momento di pace. Dovrei essere furibondo, se io non fossi me stesso e tu non fossi tu. Ma non ha importanza. Voskresenyov mi ha ripetuto più volte che questa spartizione del bottino è stata una tua idea; questa è l'unica ragione per cui l'ho accettata. Posso solo supporre che tu l'abbia pretesa per il medesimo motivo per cui hai organizzato questa maledetta spedizione: la questione americana. Sai bene quali sono le mie opinioni in merito: questo incarico le ha soltanto confermate. Quanto alla veridicità del mio resoconto, sono certo che non hai mai notato in me alcuna disonestà, mentre l'inganno è solo uno dei tanti metodi ripugnanti con cui il mio ex compagno di viaggio si guadagna da vivere. Ci siamo incontrati, come concordato, in una delle tante bettole disseminate nell'aeroporto di Bruxelles. Come faccio sempre quando ho l'opportunità di visitare il Belgio, mi domandavo perché la nazione più noiosa della terra dovesse dedicarsi alla produzione di una varietà così ragguardevole di birre. I belgi pensano forse che questo mitighi la loro monotonia? Si sbagliano. Pensano forse che renda qualche utile servizio al pianeta? Si sbagliano. Non vale neppure la pena menzionare una nazione il cui orgoglio può essere inghiottito a bicchieri (e ciascuno realizzato con il vetro adatto, per giunta). E per favore non cominciare a elogiare re Baldovino, che nessuno ricorda, o Tintin, che, dopo tutto, è un fumetto prodotto da un uomo troppo ottuso (anche se, come spesso accade, i suoi sostenitori sostituiscono «gentile» o «fiducioso» a «ottuso») per accorgersi di essere stato sfruttato dai nazisti. Il mondo non avrebbe subito alcuna perdita se il Belgio fosse stato fagocitato dalla Francia,
dalla Germania o (posso osare sognarlo?) dal Mare del Nord. Comunque, eccomi lì a godermi la mia Leffe in santa pace, quando un uomo vestito come uno strozzino dell'East End che ha finalmente imbroccato il cavallo giusto scivola sulla sedia di fronte a me. Mi sono occorsi alcuni istanti per capire che, in realtà, era Abulfaz: si era sbiancato i capelli, si era fatto crescere degli stupidi baffetti e indossava un paio di ridicoli occhiali d'oro a forma di televisore. Appena l'ho salutato, mi ha informato che non avremmo dovuto usare i nostri veri nomi, nemmeno in privato: io avrei dovuto chiamarlo Riley, e lui mi avrebbe chiamato Parker. Ovviamente, non sapeva che a me era toccata la sorte migliore (chi sceglierebbe di essere irlandese?), sebbene il suo accento sembrasse venire dal BBC World Service anziché da Auld Erin (o persino da Kilburn High Road). Portare avanti questa pantomima di fronte a una barista dagli incisivi sporgenti e a un paio di grassi europei mi pareva un'esagerazione, ma Abulfaz ha ribadito l'importanza di «calarsi sempre nella parte», sia per garantire la continuità sia perché «non si sa mai chi ci ascolta». Sì, ha detto proprio così, come in uno di quei film di spionaggio da due soldi che programmano la domenica pomeriggio. Mi è sembrato più semplice cedere che protestare, perciò ho ceduto. Durante il volo interminabile, Riley ha insistito anche affinché leggessi il dossier («dossier», l'ha definito; non «materiale» o «documenti», ma proprio «dossier») che aveva raccolto riguardo alle monete della Mediko, supponendo che fossi rozzo, incolto e ignorante quanto lui. Ho sottolineato che uno degli articoli (un piccolo strillo poco originale, comparso in una di quelle riviste locali senza lettori, scritto da una specializzanda greca a forma di rapa a cui il padre, un imprenditore edile, aveva comprato l'ammissione al college) era stato redatto sotto la mia supervisione e che venivo citato quattro volte nella bibliografia. Questa volta è stato lui a cedere. In breve, ecco qui la storia delle monete: come Riley senz'altro ignorava prima di cominciare a prepararsi per questo incarico, Medea è considerata una delle matriarche di alcune arcane branche della botanica, e numerose piante medicinali, terapeutiche e decorative originarie del Caucaso portano il suo nome. Secondo la leggenda (spesso la fonte più affidabile nel mio campo), a queste due monete va il merito dei rigogliosi giardini esistenti alla corte di re Davide il Costruttore, che governò la Georgia fra l'XI e il XII secolo. Furono donate a un certo geografo arabo di nostra conoscenza, che aveva reso un misterioso ma importante servigio incentrato su quattro fazzoletti, sulla brutta figlia del sovrano, su un tronco d'albero scavato e riempito di vernice vermiglia e su un asino nelle prime fasi dell'eccitazione sessuale. Quando il geografo annunciò l'intenzione di trasferire le monete a Baghdad, Davide gli impose l'unica condizione di riportarle a Katusi dopo trecento nuove lune. Davide, si può presumere con una certa sicurezza, non previde mai le glorie che sarebbero seguite a Baghdad e in Sicilia: nessuno le previde. Nessuno avrebbe potuto prevederle, e da allora nessuna fantasiosa impresa di giardinaggio le ha eguagliate (a eccezione, forse, dei progetti di Capability Brown). Il fatto che il
geografo abbia mantenuto la sua parte dell'accordo senza alcun atto consapevole della sua volontà è una delle coincidenze (o delle prove, se preferisci) più bizzarre della storia araba, botanica, caucasica o numismatica. Dopo aver smesso di istruirmi, Riley ha dedicato il resto del volo ad agghindarsi: a quanto sembra, pur viaggiando sui carri bestiame, gli accademici spendono centinaia (anzi, migliaia) di sterline in abiti di lusso. Il suo era strabiliante: a tre pezzi, ovviamente, verde scuro, un'impeccabile cravatta di seta con una spilla di zaffiri e un fazzoletto rosso nel taschino. L'effetto era davvero assurdo: una via di mezzo tra il dandy vittoriano e il sosia di Al Capone (gli mancavano soltanto le ghette e il bastone da passeggio), eppure Abulfaz sembrava piuttosto fiero di sé. Mentre atterravamo, un branco di scolarette urlanti e i loro accompagnatori scimmieschi e foruncolosi si sono stipati tutti in una mezza fila di posti accanto al finestrino. Non ho mai compreso la leziosa tenerezza che i bambini paiono ispirare ad alcune persone. I bambini (allargo questo termine a chiunque abbia meno di quarant'anni) sono creaturine maledettamente moleste: brutali, caparbie, rumorose e capaci di sprizzare liquidi e feromoni in ogni direzione. Comunque, suppongo che le marmocchie sperassero di vedere la Statua della Libertà o magari qualche supereroe che saltava giù dai palazzi. Forse cercavano di scorgere il luccichio dell'oro nelle strade. Invece abbiamo visto una via dopo l'altra di case piccolissime, costruzioni decrepite e deprimenti (anche da quell'altezza) che avrebbero a malapena ravvivato Luton o Slough. Finalmente siamo fuggiti da quell'enorme bara d'argento e abbiamo raggiunto con lentezza la dogana, dove ci hanno fatto segno di passare senza nemmeno degnarci di un'occhiata. Riesci a immaginarlo? In Armenia e in Turkmenistan mi avevano fatto un vero e proprio terzo grado (Da dove venivo? Che cosa facevo? Di quali documenti ero munito?), e di conseguenza ero stato in una botte di ferro per l'intero viaggio. Qui credo che usino il buon vecchio intuito americano e che controllino solo se sei buono o cattivo e se la tua rivoltella a sei colpi ha il manico bianco o nero, tutto qui. Riga diritto, sì, ricorda di non mangiare mai meno di otto hamburger al giorno, e il gioco è fatto. Anziché esaminare i nostri documenti (cioè anziché fare il loro lavoro), i funzionari si sono prostrati tutti davanti a un bellimbusto di quinta categoria, tutto denti e manicure, con i capelli tirati da una parte in una specie di nido d'uccello. Riley mi ha spiegato che era un attore televisivo americano; conosceva persino il titolo del programma in cui compariva, informazione che, naturalmente, ho scordato il prima possibile. Una volta superata la dogana, abbiamo ritirato la nostra misera valigia a testa e ci siamo ficcati in un taxi per andare alla «pensione» che Riley si vantava di aver prenotato. Tra un boccone e l'altro della porcheria maleodorante che estraeva con le mani unte da un pacchetto di alluminio, il tassista ha continuato a parlare per l'intero tragitto. Dopo essermi fatto largo tra la fila al parcheggio e un vero e proprio reggimento di individui sporchi e disgustosi rimpiattati dietro i volanti di quegli orribili mostri gialli, desideravo solo chiudere gli occhi
e arrivare a destinazione. Niente da fare: il conducente ha dovuto raccontare a Riley (e Riley ha dovuto interrogarlo senza tregua sull'argomento) di tutta la sua maledetta famiglia, di tutti i suoi figli e del suo villaggio nel Wogistan o comunque si chiami il buco da cui è strisciato fuori, finché gli ho dato una gomitata nei fianchi e ha smesso di blaterare. Avevo sognato una comoda stanzetta con un letto, un catino e magari addirittura una borsa dell'acqua calda, dove mi sarei potuto stendere in santa pace. Invece siamo arrivati a un sudicio ristorantino con una vistosissima insegna al neon in vetrina. Non ricordo neppure che cosa dicesse né capisco come qualcuno possa leggere parole che lampeggiano senza sosta. Il locale... be', aveva gusci di arachidi e mandorle sparpagliati sul pavimento, puzzava d'aglio ed era gremito di grassi giudei dai denti d'oro che cicalavano come è loro consuetudine. Gli uomini portavano quegli stupidi piccoli zucchetti da scuola elementare, e le donne dalle labbra carnose sfoggiavano, naturalmente, giganteschi ciondoli tempestati di gemme. Lascio il resto alla tua immaginazione. Pur sapendo parlare inglese a malapena, il proprietario si è presentato con disinvoltura come «Sam». Mostrando finalmente un po' di carattere, anziché inchinarsi e prosternarsi davanti a qualunque straniero gli rivolgesse la parola, Riley gli ha domandato se Sam fosse il suo vero nome, e quello ha ammesso di no: aveva uno dei soliti nomi impronunciabili e, come fanno sempre questi individui, l'aveva modificato. Non fa alcuna differenza, ovviamente; i giudei si distinguono sempre (dalla forma della fronte, dalla curvatura del naso e dalle orecchie a sventola), e a New York sono ovunque. Le stanze non erano molto migliori delle celle di un carcere: nient'altro che una scrivania e un letto troppo largo e troppo corto. Nemmeno un catino, per non parlare di un lavello o di un gabinetto privato. Dal pavimento saliva una volgare musica stridula, che il proprietario avrebbe spento se Riley non avesse insistito affinché «non cambiasse le sue abitudini a causa nostra». Quando il vecchio e coraggioso Sam ha finalmente preso congedo, si è limitato a consegnarci le chiavi e a ritirarsi al piano di sotto, senza neppure pretendere il pagamento (cosa che, in tutta franchezza, mi ha sbalordito, viste le sei punte della stella appesa al suo collo flaccido e cosparso di macchie rossicce) e senza dirci quando saremmo dovuti rientrare la notte, a che ora avrebbero servito la colazione, chi chiamare per avere l'acqua calda e indicazioni simili. Sembrava contento di averci abbandonato al nostro destino, come se fossimo già membri o amici intimi della famiglia (riesci a immaginarlo?). Naturalmente, ho esortato Riley a reclamare, o quanto meno ad accertarsi che avessimo compreso le regole della casa di cui eravamo ospiti, ma lui ha soltanto sorriso con aria solenne, traendo un profondo respiro e replicando che, a suo parere, non avremmo avuto alcun problema, perché non saremmo dovuti uscire quella sera. Be', non era quello il punto, vero? La qualità va sempre garantita... tranne nel Queens, a quanto pare. Il mattino successivo siamo andati a fare spese di buon'ora, e ne sono stato lieto, perché pensavo significasse che avremmo lasciato l'America entro breve.
«Sam», mi ha spiegato Riley, era cugino dell'uomo che «possedeva» le Mediko, e lui aveva intrattenuto uno scambio epistolare con il proprietario per diversi mesi prima di avere la certezza che le monete fossero autentiche e di concordare la cifra. Come volevasi dimostrare: c'è un bottegaio o un negoziante in ciascuno dei loro clan, ed è sempre necessario negoziare il prezzo; non riescono mai a parlar chiaro e a darti una risposta onesta, decisa e adeguata. Suppongo tuttavia che Riley abbia gradito questo tipo di contrattazioni, perché, in fondo, è soltanto un mercante di tappeti con qualche abito costoso e un po' di cultura. Come era prevedibile, il negozio era schifoso: pieno di polvere, la moquette verdognola disseminata di cenere e Dio solo sa cos'altro, e innumerevoli vetrine piene di monete, nient'altro che soldi, soldi, soldi... una sorta di paradiso ebraico, direi. Il proprietario si è presentato come «Hank», un'invenzione quanto il «Sam» del cugino. Ovviamente, lui e Riley hanno fatto amicizia in un batter d'occhio. Non riesco proprio a capire come tu possa riporre tanta fiducia in qualcuno come Riley-Abulfaz o qualunque altro nome usi per i suoi scopi attuali: non ha identità né personalità; è un palinsesto umano alimentato da un'infinita sfilza di domande e da un costante afflusso di informazioni inutili. Un individuo come lui (un individuo che fugge di continuo da se stesso, che gioca a travestirsi con accenti e passaporti nell'armadio della mamma) si affezionerebbe senza dubbio a quella nazione ibrida, infelice e cacofonica. Mentre scrivo questa lettera, ho il biglietto da visita del proprietario qui accanto a me: «Negozio di monete Forest Hills, Hank Tonchailov, numismatico e collezionista specializzato nell'URSS, aperto da domenica a venerdì negli orari consueti, e in altri orari solo su appuntamento». Naturalmente, è un'esagerazione. In realtà, Hank è un sudicio robivecchi capace dì sottrarre ai suoi correligionari gli ultimi ninnoli che hanno portato via dalle rispettive patrie: in altre parole, è un americanizzatore. Ho persino tentato di domandargli come potesse vendere e barattare i ricordi del suo popolo (e utilizzo l'espressione «il suo popolo» in senso molto libero), ma ha frainteso il mio tono ed è diventato piuttosto aggressivo. Riley ha cercato di appianare le cose e, per fortuna del minuscolo Tonchailov, mi ha impedito fisicamente di dare a quel piccolo giudeo indisciplinato la lezione che meritava. Una simile fatica sarebbe stata del tutto superflua, perché saremmo stati i suoi ultimi clienti. Riley ha acquistato le monete per 7.300 dollari, che ha contato con meticolosità mentre gli occhi del negoziante si allargavano a ogni banconota da cento. Concluso l'affare, Hank ha teso la mano a Riley (io ero stato relegato a una sedia in un angolo del locale, dove i bambini cattivi aspettano che i loro papà sbrighino le faccende da adulti), che gliel'ha stretta con la destra, mentre con la sinistra estraeva un manganello e vibrava un poderoso colpo alla nuca dell'ebreo. Tonchailov si è afflosciato come se qualcuno gli avesse sfilato la colonna vertebrale. Riley è andato nel retrobottega, ha trovato la conduttura del gas, l'ha forata e ha piazzato una piccola bomba artigianale regolata per esplodere di lì a quaranta minuti. Poi,
con la sua solita e ripugnante nonchalance, ha pulito tutto quello che avevamo toccato e mi ha allungato un paio di guanti da guida. Siamo tornati alla pensione di Sam, abbiamo recuperato i bagagli, pagato le camere e preso il primo volo per Bruxelles.
REPERTO 11:
la Mediko bianca. Grossa moneta (5,3 centimetri di diametro) dai bordi ruvidi e dalla forma circolare imperfetta. Un lato è di semplice rame; l'altro è rivestito di smalto candido su cui è dipinta la figura di una donna con un braccio teso, come se chiamasse qualcuno. Nell'altra mano tiene una bottiglia verde. Gli alchimisti apprezzano la moneta non solo per il ritratto di Medea, ma anche per il colore bianco, che, scaturendo dalla folle indecisione dell'arcobaleno, annuncia la nascita serena ma inevitabile della forma a venire. DATA DI FABBRICAZIONE:
sconosciuta. L'oggetto risale presumibilmente all'epoca postcristiana (si veda più avanti), ma la Georgia abbracciò il cristianesimo nel I secolo d.C. COSTRUTTORE:
quasi tutti i manufatti smaltati venivano realizzati nei conventi e, come non conosciamo le vite e i volti dei celti senza nome che dedicarono la loro esistenza a miniare le B panciute e a rendere le curve delle S seducenti quanto quelle delle donne che non avrebbero mai visto, ignoriamo il nome del monaco, o dei monaci, che dipinsero Medea intenta a chiamare i suoi figli. Pur essendosi diffusa soprattutto attraverso la tragedia di Euripide, la leggenda appartiene alla mitografia georgiana almeno quanto a quella greca. Medea era figlia di Eeta, re della Colchide, che oggi corrisponde alla regione della Georgia intorno al Mar Nero. Il principe tessalico Giasone, sfidato dallo zio Pelia a trovare il Vello d'oro, risalì il fiume Phasis fino alla capitale di Eeta, con molta probabilità Katusi o Vanj. Eeta gli promise il Vello se fosse riuscito ad aggiogare due tori
sbuffanti fiamme dalle narici, a seminare i denti di un drago e a sconfiggere i guerrieri che ne sarebbero nati. Medea, un'abile creatrice di pozioni e amuleti (il vocabolo moderno «medicina» deriva dal suo nome, e Mediko è il soprannome georgiano di Medea), regalò a Giasone un talismano che gli consentì di sopravvivere ai tori, uccidere il drago e vincere il Vello. Da qui in poi le storie divergono. Nella versione di Euripide, naturalmente, Giasone porta a casa Medea e la respinge per un matrimonio di convenienza con Glauce, figlia di Creonte. In seguito, Medea si abbandona alla follia e all'infanticidio. La tragedia di Euripide termina con la maga che si allontana su un carro trainato da suo nonno, il dio del sole. La tradizione georgiana vuole invece che Egeo, sovrano ateniese, impaziente di ottenere il favore di una donna tanto saggia e del suo illustre padre (un re guerriero), abbia incoraggiato Medea e i suoi figli a trasferirsi dalla Tessaglia ad Atene, e da lì nella sua dimora. Medea somministrò ai bambini un preparato che ne bloccò la respirazione per qualche tempo, quindi sgozzò un agnello e portò i piccoli, insanguinati e apparentemente privi di vita, al marito con l'intenzione di farlo impazzire. Dopo aver ottenuto l'effetto desiderato, svegliò i piccini, fuggì e visse per un intero secolo come madre, guaritrice e consigliera (ma mai amante) del re ateniese. LUOGO DI PROVENIENZA:
come gran parte dell'arte georgiana medievale, il motivo geometrico smeraldo, zafferano e blu oltremare sul bordo della moneta indica un'influenza persiana. La pelle color vinaccia di Medea, il suo volto scarno dai tratti e dall'espressione raffigurati con estrema accuratezza (preoccupazione, trepidazione, le sopracciglia inarcate, le guance scavate e le labbra socchiuse), le pieghe della veste e la posizione stilizzata della mano esile sono tutti caratteristici dell'iconografia cloisonné georgiana. Il soggetto è invece tipico della Colchide. ULTIMO PROPRIETARIO CONOSCIUTO:
Lavrentij Mašenabili, discendente di sacerdoti, padre di mostri, marito di una donna bisbetica (anzi, del capo del partito di Bat'umi), aggiustatore e otturatore di denti rotti che trascorse i suoi giorni con le dita immerse nella saliva e nelle carie altrui, maestro del trucco sovietico di arrivare sempre terzo o quarto, abbastanza bravo da ispirare fiducia ma non tanto da destare sospetti.
Lavrentij compì due gesta coraggiose in tutta la sua esistenza. Si vergognava di questo numero modesto; non lo consolava il fatto che fosse superiore a quello di cui poteva fregiarsi la maggior parte delle persone. Il padre di Lavrentij era scampato alla morte durante l'insurrezione del 1924 nascondendosi sotto un mucchio di cadaveri contro cui un coscritto pazzo o ispirato dell'Armata Rossa originario di Voronez aveva scaricato 564 proiettili con un revolver. Diciotto mesi dopo era stato deportato in Siberia ed era morto durante il viaggio, lasciando tre bambini e una moglie incinta. I funzionari del partito locale tennero d'occhio David, il primogenito, perché era figlio di un deportato. Quando fu abbastanza grande da assolvere il servizio militare, lo mandarono in un remoto avamposto nel deserto del Garagumy. Durante una giornata interminabile, spinto dalla noia e da una vodka distillata in casa, il giovane accettò la scommessa proposta dal suo comandante e inghiottì sei scorpioni vivi, dopo di che morì di una morte tanto atroce che i nipoti dell'ufficiale la vedono ancora nei loro incubi. Zviad, il secondogenito, annegò durante l'addestramento sottomarino a Vilnius. Anziché arruolarsi nell'esercito che gli aveva ucciso il padre e due fratelli, Leon, il terzo figlio, fuggì attraverso la Turchia e si stabilì tra le colline ai piedi dei monti Talish, dove si convertì all'islamismo, tagliò i ponti con la famiglia e aprì un piccolo caffè all'ombra. Vive ancora lì: ricco, anonimo e tormentato. A Bat'umi, Lavrentij sposò una ragazza di media intelligenza, dai denti rotti e dai polpacci simili a prosciutti, e divenne un dentista rispettato, anche se un po' indolente e distratto. Nel 1983, quando tutti, compresa la moglie, pensavano che fosse troppo vecchio per defezionare, fu scelto per rappresentare la Repubblica sovietica della Georgia durante un convegno internazionale di dentisti a Philadelphia, dove defezionò. Quattro mesi prima che se ne andasse, suo cugino Boris (figlio, si mormorava, del traditore del padre di Lavrentij) tornò a Bat'umi da Leningrado. Non per fermarsi lì, ovviamente (era diventato famoso, grasso e viscido lavorando come istruttore di manovre navali marxiste-leniniste presso l'Istituto di addestramento per gli ufficiali della marina sovietica), bensì per informarsi sull'ubicazione di «quelle
due bizzarre monetine che il nonno giurava sempre che avrebbe sotterrato in chiesa piuttosto che lasciarle in mano ai russi». Finché fossero rimaste sepolte non sarebbero servite a nessuno, pensò, mentre sarebbero state motivo d'orgoglio per Bat'umi se fossero state esposte a Mosca, presso il Museo della fratellanza socialista dei popoli nativi. Naturalmente, non avrebbe chiesto nulla per sé, soltanto la costruzione di una nuova scuola nella città dei suoi antenati; e, se le autorità avessero ritenuto opportuno darle il nome del loro illustre concittadino... be', lui non avrebbe avuto nulla in contrario. Lavrentij era più vecchio di Boris, e forse ricordava meglio i racconti del nonno; rammentava per caso dove quest'ultimo avesse sotterrato le monete, oppure Boris avrebbe dovuto mandare degli escavatori russi a smantellare la chiesa mattone dopo mattone e a rastrellare le macerie? VALORE STIMATO:
Lavrentij disseppellì le monete a mani nude nel cuore della notte (nello stesso modo in cui suo nonno le aveva sepolte) e le cucì nella fodera della sua valigia. Durante il suo primo viaggio a New York, notò un'inserzione sull'ultima pagina del «Novoje Russkoje Slovo». Vendette gli oggetti per una cifra sufficiente ad acquistare un biglietto di sola andata per la California, aprire un ambulatorio dentistico a Bakersfield e assumere il nome di Larry Mack.
Qui consiste la Forza forte di ogni Forza, perché vincerà tutto ciò che è sottile e penetrerà tutto ciò che è solido.
Ero in fondo all'oceano con anguille cariche di elettricità che mi mordevano le orecchie, e gridavo. Ero steso sulla sabbia del deserto, destinato a tramutarmi in un arrosto di reporter accanto a una ragliante iena in calore. Un grassone mi sedeva sulla testa e traeva la nota più alta possibile da un clarinetto. Qualcuno mi aveva riempito la bocca con carne di cavallo marcia mescolata a gomme da masticare raccattate dal pavimento di una stazione della metropolitana, quindi me l'aveva chiusa ermeticamente; le porte del treno suonarono i campanelli di allarme, forte e senza tregua. Mi ero scolato quasi due bottiglie di vino rosso, e il telefono squillava. Alzandomi come un pezzo di legno dal divano (indossavo ancora tutti i vestiti, scarpe comprese), afferrai la cornetta con una mano simile alla zampa di un'aragosta. «Mmmmmmmmm» risposi. «Paul?» «Sì?» «Lavori ancora per me?» «Art. Gesù Cristo.» Vacillai un po', urtai il contenitore di salsa aperto e crollai sul divano come un palloncino d'acqua bucato, tutto schizzato di pomodoro e puzzolente di vino. «Stai male? Se sì, Donna mi ha chiesto di dirti che ti porta un po' di brodo.» Chiusi gli occhi, sfregandomi la faccia tanto secca da sembrare di carta. Anche così, la stanza oscillava in modo irregolare da una parte all'altra. Ero ancora ubriaco; il doposbornia non era nemmeno iniziato. «Non sto male. Ho solo avuto una serataccia, tutto qui.» «Ah, capisco» replicò Art, dandomi l'impressione di aver capito davvero. «Ecco, Eileen Coughlin mi ha appena telefonato. Mi ha chiesto come procedesse l'articolo, e ho dovuto restare sul vago.» Tacque e, pur
sapendo che avrei dovuto dire qualcosa, non sapevo che cosa dire. «Allora, come procede l'articolo?» «Bene» lo rassicurai. Non ero in vena e neppure in condizione di fargli un resoconto degli ultimi giorni. In quello stato, era già tanto se ricordavo di avere due braccia. «Okay, bene. Se va bene, va bene. Ma dovresti chiamare Leenie entro la fine della settimana. È davvero interessata al pezzo, e a te. Non dovresti lasciarti scappare questa occasione, Paul, fidati.» Non avevo voglia di ascoltare delle esortazioni. Non me lo meritavo nemmeno. Così mi limitai a dire: «Okay». «Bene. Okay. Okay. Bene. È come parlare con mia figlia quando aveva tredici anni. Ascolta, riposati e bevi un po' d'acqua. Magari, se fai un salto questo pomeriggio, avrò qualcos'altro da assegnarti. Austell dice di sentire la tua mancanza.» «Sì, ci scommetto» gracchiai. «Ci vediamo tra qualche ora.» «Ascolta: acqua, letto, bagno caldo, rasoio. In quest'ordine. Ripetere se necessario. È quello che ti insegnano alla facoltà di giornalismo, sai.» «Davvero? Pensavo che ti insegnassero solo il significato "ndr".» «Sì, anche quello. Vuoi sapere che cos'altro ti insegnano? Che un reporter non dovrebbe uscire con le sue fonti.» «Art, io...» «Ti sto solo dando del filo da torcere. Paese piccolo, la gente mormora. La tua vita privata non è affar mio, e non intendo immischiarmi. Non credo che diventerà un'abitudine, ma è il genere di cose per cui è preferibile non diventare famosi.» «Me lo segno subito.» «Bravo. Tieni duro. A presto.» Dopo diversi bicchieri d'acqua e altrettanti di ginger ale, un lungo pisolino nella mia vasca da bagno incrostata di calcare e un'accuratissima rasatura con schiuma da barba al mentolo, passai da spaventoso a bruttissimo. Dopo altri tre quarti d'ora, non avevo più la bocca cotonosa né lo stomaco pieno di vetro macinato e piombo: ero tornato a essere quasi umano, e pensai che la quasi-umanità fosse la condizione perfetta per andare in ufficio. Durante il tragitto verso la redazione, passai accanto alla Talcott e, finché non scorsi il cancello principale, finsi di non avere voglia di svoltare e vedere Hannah, proprio come finsi di essere uscito per puro caso all'ora
di pranzo, quando ero certo che sarebbe stata libera. Essendo un esperto dell'autoinganno, sapevo tuttavia quando smettere: svoltai, varcando il cancello della Talcott. La segreteria della scuola era un alveare di inattività. Tre esili impiegate di mezza età sedevano a tre scrivanie di legno identiche ed equidistanti: quella a sinistra fissava torva il suo tavolo vuoto, quella a destra parlava piano al telefono, quella al centro mi guardò con un viso del tutto inespressivo. Pareva che dormissero nella naftalina e vivessero di tè leggero al tiglio; assomigliavano a forme platoniche della segretaria ideale di un istituto privato del New England. Feci quello che ritenevo un amichevole cenno della testa alla donna nel mezzo, e lei si infilò una ciocca invisibile di capelli dietro un orecchio avvizzito ma pulitissimo senza staccarmi gli occhi di dosso. Le domandai dove potessi trovare l'ufficio di Hannah Rowe. Si schiarì la gola e prelevò un invisibile ciuffo di lanugine dalla scrivania, depositandolo con metodicità nel primo cassetto. «Segua il signor Heatherington» disse, indicando un tizio davanti a un casellario postale. Sentendo il proprio nome, quello si raddrizzò di colpo e si voltò nella nostra direzione con aria interrogativa. Mi si avvicinò con la mano tesa. Stringerla fu come toccare un sacchetto bagnato pieno di ramoscelli. Ringraziai l'impiegata, ma era già intenta a cancellare qualcosa da una scheda e non mi rispose nemmeno. Seguii le toppe sui gomiti del signor Heatherington lungo diversi corridoi e su per una rampa di scale. A un tratto additò una porta a due battenti. Non proferì parola e, se avessi creduto anche solo un pochino ai fantasmi, avrebbe confermato la mia convinzione. Dall'ufficio provenivano delle risa (quelle di Hannah unite a quelle di un uomo), e dentro vidi Hannah e un tale dalla bellezza irritante e dal volto squadrato, il tipo che non sembrerebbe fuori luogo se posasse per la pubblicità di pullover a trecce si candidasse a una carica pubblica. Mi guardò con condiscendenza (in questo caso facilmente interpretabile come gentilezza, tranne che da parte di individui perspicaci o paranoici), quindi tornò pigramente a concentrarsi su Hannah. «Paul, che cosa ci fai qui?» mi domandò lei con una voce molto controllata. «Passavo di qui andando al lavoro e volevo parlarti per un secondo.» Sorrise, prima a me e poi, con aria furbesca, ai denti bianchi seduti lì di fronte. «Scusami» disse al suo interlocutore in tono per nulla dispiaciuto. «Paul, questo è Chip Gregson, uno dei nostri insegnanti di scienze. Chip,
questo è il mio amico Paul. Io e Chip stavamo discutendo dell'orario.» Chip inarcò le sopracciglia e annuì, ma non si alzò né mi tese la mano. «Mi rincresce. Non volevo interrompervi, ma se hai soltanto un minuto...» «D'accordo» sospirò. «Chip, ti raggiungo dopo l'ultima lezione. Sarai ancora a scuola?» gli domandò, sorridendo. «Sì, certo. Se non sono qui, sono sul primo campo, ad allenarmi un po' con la difesa dei principianti. Vieni a cercarmi; facciamo quattro passi.» Mi domandai con quanta facilità si sarebbe potuto rompere una gamba «allenandosi un po'». Chip finì il suo tè e venne verso di me con una camminata atletica, dandomi una pacca sulla schiena mentre mi superava. «Piacere di averti conosciuto, amico» disse. «Piacere mio.» Quando uscì, sedetti accanto a Hannah. «Chip ha delle belle spalle» osservai. Non replicò e non mi degnò neppure di uno sguardo. Forse non era il momento adatto per il sarcasmo. Allungai la mano verso il suo viso, e mi permise di sollevarle il mento fino a guardarla negli occhi. «Non ci sto capendo niente» dichiarai piano. «Mi spieghi che cosa succede, per favore? Dimmi dove ho sbagliato, oppure che cosa sta capitando dentro la tua testa. E magari anche fuori.» Restò in silenzio. «Sei ancora sconvolta per Jaan?» Un velo di tristezza le vibrò intorno agli occhi, per poi attraversarle il viso. Sembrava che si sforzasse di piangere o che si sforzasse di non piangere. «Paul, posso chiederti una cosa?» «Certo.» «Perché ti importa?» «Di che cosa?» «Di tutto questo. Di Jaan, di che cosa potrebbe essergli accaduto. Di me.» «La prima domanda è facile: Jaan è un personaggio interessante in sé e per sé» risposi. Raccolsi i pensieri, fissando i cerchi olimpici disegnati dalle tazze di tè sulla scrivania. «Ascolta, era un professore che non insegnava quasi nulla. Aveva contatti con dei ladri di gioielli. Riesci a immaginare una vita più isolata e innocua di quella di chi insegna storia baltica all'università di Wickenden e abita qui a Lincoln? E poi, non solo si porta dietro una rivoltella, ma la usa due volte, sottraendosi a qualsiasi misura disciplinare in entrambe le occasioni grazie alla protezione della
facoltà di storia e dell'università... cui, tra parentesi, dona tutto il suo stipendio e anche qualcosa in più. Come si mantiene? Come fa a conoscere un tipo come Vernum Sickle? Di che cosa ha tanta paura? Voglio scoprire chi fosse.» Tacqui. Hannah restò indifferente. In momenti come quello desideravo avere uno sceneggiatore più abile che mi scrivesse le battute. «Inoltre» ripresi con maggiore lentezza «qualcuno ha lasciato un avvertimento, un dente umano insanguinato, inchiodato alla mia porta. Questo mi fa incazzare. Insomma, non sono coraggioso; non ho mai dovuto esserlo. Ma vado su tutte le furie se qualcuno mi minaccia anziché mostrarmi abbastanza rispetto da spiegarmi perché non dovrei pubblicare l'articolo o quali conseguenze subirei se lo facessi e darmi così l'opportunità di prendere una decisione. «Anche la seconda domanda è facile.» «Non dire niente di stupido» mi raccomandò, gli occhi che le brillavano. «È davvero una domanda facile.» Premette il petto e le spalle contro di me e mi posò le mani sulla schiena nuda, sotto la camicia, baciandomi come se fosse in cerca di cibo, quindi mi tirò sul pavimento e si mise a cavalcioni su di me. Mi fece rotolare in modo che potessimo guardarci negli occhi, io sul fianco destro e lei sul sinistro, stesi sullo spoglio pavimento di linoleum che odorava di disinfettante e polvere di gesso accumulatasi nel corso di decenni. «Non ci capisco niente» ammisi. «Che cosa stai combinando?» «Non chiedermelo. Per favore. Faresti una cosa per me?» «Certo.» «Dimenticati di Jaan. Lascialo riposare. Solo per uno o due giorni.» «Che cosa intendi?» Si rizzò a sedere, scuotendo via la polvere che le si era depositata tra i lunghi capelli. «Promettimi soltanto» riprese, premendosi ancora contro di me «che lascerai Jaan in pace per un paio di giorni. Poi fai quello che vuoi. Ti prego.» «Perché?» «Lo farai? Per favore, se non per il suo bene, allora per il mio? Per favore?» Sospirai e mi alzai, avvicinandomi a una sedia accanto alla scrivania. «Solo per un paio di giorni?» «Due. Concedi a Jaan un po' di tregua. Poi fai tutte le ricerche che vuoi. Domanda quello che ti pare.» La mancanza del complemento di termine nell'ultima frase avrebbe dovuto colpirmi più di quanto fece.
«D'accordo.» «Davvero?» «Davvero. Posso prendermi un paio di giorni liberi, immagino. In ogni caso, ho altri servizi a cui lavorare.» Sedette sulle mie ginocchia e mi cullò la testa tra le mani. «Ti devo una spiegazione, lo so. Ma per adesso puoi fidarti di me se ti dico che è davvero la scelta migliore? Per Jaan, per chiunque gli volesse bene e per me?» «Non lo farei per nessun altro» risposi. «Grazie, Paul. Paul.» Il mio nome restò sospeso tra noi nella sua voce come una resistente bolla di sapone, che si ruppe quando lei si alzò. «Adesso devo proprio andare in ufficio.» «E io ho una lezione tra quattro minuti. Come mai l'unico pezzo classico che piace ai teenager è il Bolero?» «Che cos'è il Bolero?» «Sei irrecuperabile. Promettimi che studierai un po' di musica» ribatté in tono un po' troppo serio. «Sarai tu la mia insegnante?» «Volentieri. Mi piacerebbe.» «A parte gli scherzi, che cosa sta succedendo?» Mi baciò due volte, la mano che indugiava sulla mia guancia. «Devo scappare. Mi chiami più tardi?» «Certo.» «Affidabile Paul. Grazie. Di tutto.» Avevo davvero intenzione di fare marcia indietro. Andava contro tutti i miei istinti, ma l'avrei fatto perché riuscivo a sentire il sapore di Hannah in fondo alla gola ogni volta che la vedevo. Se significava lavorare ad altri articoli (cosa che dovevo fare comunque) e mettere da parte Jaan per un paio di giorni (dopo tutto, la rivista seguiva un transigente ciclo bisettimanale), allora d'accordo: io avrei potuto accettarlo, e anche Art. Non che dovesse saperlo. Il caso volle tuttavia che entrassi nella redazione del «Carrier» appena in tempo per rivolgere ad Austell un frettoloso cenno di saluto prima di agguantare il telefono trillante. «Sì, Paul Tomm, per piacere.» «Sono io.» «Ah, eccellente. Mi sembrava di averla riconosciuta. Sono Anton Jadid.»
«Professore, sono lieto di sentirla. Grazie ancora per il pranzo di sabato.» «Si figuri, si figuri. A dire il vero, l'ho chiamata oggi pomeriggio per invitarla ancora a mangiare.» «Volentieri. Quando?» «Questa sera.» «Questa sera?» «Sì. Mi scuso per il poco preavviso, ma ho trovato qualcosa che dovrebbe interessarle.» «In relazione al professor Pühapäev?» «Sì, in strettissima relazione con Jaan. Preferirei parlargliene di persona. Ma ha tempo di passare dalla facoltà questa sera? Diciamo alle cinque e mezzo? Mi scuso ancora per il poco preavviso e l'orario insolito, ma sarebbe davvero l'ideale.» Avevo tempo? Suppongo che la mia promessa a Hannah fosse stata vana, e non mi facevo illusioni (o quanto meno mi facevo solo illusioni superficiali e autoimposte, illusioni illusorie) sul perché avessi assunto quell'impegno. Quando l'avevo assunto, credo che avessi il proposito di mantenerlo, ma non era stato un proposito molto fermo. Primo, tutto quanto le avevo riferito sul motivo per cui desideravo continuare a indagare era vero. Secondo, Jadid e suo nipote si erano dati un gran daffare per aiutarmi, e non potevo certo dire loro che avrei mollato tutto. E terzo, so che sembrare carrierista non fa una buona impressione, ma è molto più semplice quando non hai alcuna carriera di cui preoccuparti: io volevo quel lavoro a Boston. «Sì, certo» risposi. «Devo portare qualcosa?» «No, ci mancherebbe altro. Le chiedo solo di arrivare curioso e affamato. Purtroppo mia moglie è partita questa mattina per una conferenza a Cincinnati; avrebbe davvero voluto conoscerla. Perciò mi dovrò sobbarcare le responsabilità culinarie. Venga alla facoltà alle cinque e mezzo. Sarà quasi sicuramente chiusa, ma tenderò le orecchie in attesa che lei bussi, quindi bussi forte. A stasera, allora?» «A stasera.» Consultai l'orologio: le tre e un quarto. Per giungere a Wickenden in tempo, tenendo conto anche dell'ora di punta, sarei dovuto partire quindici minuti prima. Da dietro la porta chiusa dell'ufficio, udii il cigolio della sedia di Art. Lui chiuse un cassetto della scrivania e mosse qualche passo verso l'uscio. Non c'era ragione di spiegare al capo perché ero rimasto in redazione per ben tre minuti in un giorno feriale, giusto? Certo che no.
Quando iniziai a prendere in considerazione le controargomentazioni, ero già alla periferia di Hartford, diretto verso est a centodieci chilometri orari. Entrai nel parcheggio della facoltà di storia mentre gli ultimi riflessi del tramonto svanivano nel fiume Wickenden alle mie spalle. Non c'erano altre auto, il che mi inquietò; mi ero aspettato di trovare almeno quella di Jadid. Schermandomi gli occhi con la mano per sbirciare dalla finestra, scorsi soltanto le luci fluorescenti dell'ingresso, ma immaginai che fossero sempre accese. Dentro, tutte le porte erano chiuse; la logora moquette grigia, gli scalini di legno consunto, la vernice che si scrostava dalla ringhiera di ferro battuto e il fischio del vento serale contro il rivestimento esterno facevano assomigliare l'edificio a un vecchietto assopito e ronfante. Bussai, prima con garbo, poi con decisione, poi con insistenza, poi con forza e infine con i pugni e la punta della scarpa. Jadid percorse in fretta la scala con indosso una camicia di cotone azzurro dal colletto aperto e jeans ben stirati; non l'avevo mai visto con qualcosa di diverso da una cravatta e un blazer. Gli occhiali gli rimbalzavano da una cordicella intorno al collo mentre scendeva i gradini. Senza l'armatura da professore, sembrava un nonno benevolo e giovanile. «Paul, mi fa piacere rivederla così presto. Scusi se l'ho fatta aspettare: è qui fuori da molto?» «No, non molto.» Solo abbastanza da fratturarmi entrambi gli alluci. «Anche a me fa piacere rivederla.» «Benissimo.» Si scostò, facendomi entrare nell'ingresso buio. «Sa, il mio ufficio si affaccia sul cortile posteriore. Un bel posto tranquillo, del tutto deserto dopo la chiusura della facoltà. L'ho scelto proprio per quel motivo, ma questa sera, purtroppo, mi ha reso difficile sentirla. Sono contento di esserci riuscito alla fine. Si accomodi, si accomodi.» Mi mise un braccio paterno intorno alle spalle, tirandomi nel locale silenzioso e ammuffito prima di richiudere la porta. «Le spiego subito perché l'ho chiamata» annunciò, fregandosi le mani, anche se non avrei saputo dire se per il freddo o per l'impazienza. «No, anzi, credo sia meglio mostrarglielo. Suppongo che ormai non violeremo alcuna regola sulla privacy, giusto?» «La privacy di chi?» «Ah, bella domanda. Di chi? Di Jaan, ovviamente. Vede, lui... Non sono mai stato bravo a fare regali. Da questa parte, di sopra.» Salendo le scale, proseguì: «Come quasi tutte le facoltà di studi
umanistici, la nostra ha una grave carenza di spazio. I professori Ryerson e Zinoman, che abbiamo assunto all'inizio di quest'anno, dividono un ufficio e, per quanto siano entrambi molto socievoli, immagino che nessuno dei due trovi ideale questa situazione. Così, oggi ho deciso di sgomberare l'ufficio di Jaan per assegnare loro una stanza ciascuno entro il prossimo semestre. Ma ho scoperto che era impossibile» concluse, invitandomi a fermarmi davanti all'uscio di Pühapäev. Mi accorsi che Crowley aveva affisso lì accanto la copertina del suo libro e tre recensioni favorevoli. «Non nota niente di strano in questa porta?» Aveva quattro lati, una serratura, una maniglia di metallo e uno strato di vernice bianca scrostata, come tutte le altre della facoltà. «No, niente.» «Ah. Lo pensavo anch'io. Guardi in basso, se non le spiace.» Obbedii, e scorsi due toppe di acciaio, una su ciascuno dei due angoli inferiori. Erano romboidali e così grandi da inghiottire una normale chiave dentata. Jadid aveva il sorriso compiaciuto di uno scienziato che ha appena eseguito un esperimento particolarmente difficile e spettacolare. «Interessante, no? Io non ho certo autorizzato quelle serrature, e non so nemmeno quando Jaan le abbia installate.» «Ha le chiavi?» «Naturalmente no. Credo che volesse essere l'unico ad avere accesso a questa stanza.» «Perché? E come facciamo a entrare?» «Be', risponderò prima alla seconda domanda: sono già entrato. So che ieri sera Joseph le ha dato una dimostrazione della sua abilità di scassinatore. Una dimostrazione sgradita, forse?» «Gliel'ha raccontato, allora? No, non troppo sgradita, suppongo, almeno in teoria. Insomma, sono stato lieto di vederlo. Ma forse poi... Ecco... Non importa.» «Mmm.» Mi sbirciò da sopra gli occhiali. «Joseph ha avuto l'impressione che la sua amica non abbia reagito con altrettanta tolleranza.» «Sono stati insieme nella stessa stanza per così poco che non me ne sono reso conto» mi difesi. «Senza dubbio, senza dubbio. Joseph sa essere un osservatore attentissimo dei piccoli dettagli, soprattutto dei piccoli dettagli personali. Una capacità preziosa nel suo lavoro. Forse in questo caso si è sbagliato» replicò Jadid, comprensivo. «Comunque, Joseph è riuscito a forzare queste serrature, ma ha impiegato quasi un'ora, il che, secondo i suoi standard
olimpici, significa che sono a prova di manomissione. E guardi qui» mi esortò, spingendo la porta e introducendomi in un locale freddissimo che sapeva di chiuso. Sei lunghi cilindri di acciaio, tutti del diametro di quattro o cinque centimetri buoni, attraversavano il pannello posteriore della porta, tre collegati da una sbarra sulla sinistra, e tre sulla destra. Si incastravano in altri sei cilindri dello stesso materiale, tre su ciascun lato del telaio. «Ogni serratura controlla tre di queste robuste aste» spiegò il professore, passandovi sopra la mano. «Secondo Joseph, questo tipo di chiusura è diffuso nei caveau delle banche, anche se di solito le aste sono all'interno di una spessa porta di acciaio. Suppongo che quest'ultima avrebbe dato troppo nell'occhio in una semplice facoltà di storia. Ma mio nipote non aveva mai visto un simile sistema per uso privato. Perché, a suo parere?» «Non lo so. Per via del costo?» «Sì, in parte sì. In realtà, nella nostra fetta di mondo esistono poche società che installano serrature di questo genere. Joseph mi ha promesso di telefonare oggi a quelle di Wickenden e dintorni per controllare se qualcuna avesse mai effettuato un lavoro a questo indirizzo. A suo avviso, è probabile che i ricchi collezionisti d'arte privati abbiano chiusure simili. Ma ha aggiunto di non averne mai viste, perché funzionano così bene che di solito la polizia non ha occasione di indagare su crimini riguardanti gli oggetti custoditi dietro di esse. Naturalmente, Joseph è Joseph (qualche volta esagera per fare colpo), ma la sua tesi è corretta: chiunque possa permettersi una porta tanto complessa e inespugnabile non solo intende proteggere quanto si nasconde là dietro, ma ci riesce quasi sempre.» «Che cosa si nasconde là dietro?» «Ah, questa non è, ritengo, solo una domanda affascinante, ma anche una domanda fondamentale, che va molto, molto oltre i confini della morte di un professore. Ecco, potrebbe sembrare...» Si girò verso la stanza, e io lo imitai. Vorrei poter dire che vi era un cadavere appeso al soffitto, una porta segreta sul retro oppure bilance ed enormi sacchi di cocaina, ma in realtà il locale assomigliava all'ufficio di qualsiasi altro docente: librerie traboccanti di fogli e volumi, una scrivania carica di altri fogli, un computer e una macchina per scrivere elettrica su un tavolino adiacente. L'unico particolare insolito era la presenza di un'unica sedia, collocata dietro la scrivania: Pühapäev sembrava aver abolito gli orari di ricevimento. «Che cosa intende fare con le sue cose?» domandai.
«Penso che le conserverà la facoltà, a meno che si faccia avanti qualcuno. Jaan non aveva nessuno a carico, giusto?» «A essere sincero, ho conosciuto suo fratello.» Jadid si voltò verso di me, gli occhi che brillavano, con un'aria meno sorpresa di quanto avrei immaginato. «Suo fratello? Davvero? Mi dica, gli assomiglia?» «Non molto, a quanto ricordo. È anche lui anziano, barbuto e bianco di capelli, ma niente di più.» «Ah» fece, sorridendo con aria distratta e picchiettando con la punta della scarpa contro lo stipite. «Ma questo non dimostra niente. Il fratello le ha fatto un'impressione particolare?» «No. Però non sembrava gradire le mie domande.» «Certo, certo. Certo che non le ha gradite. Bene, bene. Esamini le librerie, se crede, e mi dica se vede qualcosa di singolare.» I volumi erano scritti in così tante lingue che non potevo sapere se fossero singolari oppure no. Ne notai qualcuno in inglese: Poly-Olbion di Michael Drayton, Brief Lives di John Aubrey, The Patterne of all Wisdome di Geoffrey LeMetien, Collectanea Chymica di Sir George Ripley, Arabs of the North Sea di Herve Tiima e Pale Fire di Vladimir Nabokov. «Non saprei. Purtroppo conosco solo l'inglese e un olandese scolastico.» «E io conosco bene otto lingue, e altre sei con l'aiuto di un dizionario. Ma non ne conto meno di trenta fra questi libri. Arabo. Cinese. Russo. Urdu. Vari caratteri sembrano arabi, ma usano segni diacritici diversi. Coreano. Ungherese. Finlandese. Conosce qualcuno che sappia leggere o parlare tante lingue?» «No.» «Nemmeno io. Impararle tutte richiederebbe decenni. Forse ci vorrebbero secoli per essere in grado di consultare ogni volume di questo ufficio. Ma questo non dimostra nulla. Tra quelli che riesco a decifrare, nessuno ha a che vedere con la storia baltica, il presunto campo di Pühapäev, a eccezione di quel testo sugli arabi nel Mare del Nord, che, a quanto ne so, non esistono. E guardi qui» aggiunse, avvicinandosi allo scaffale più alto e più largo della stanza. «Sa che cosa c'è dietro questi libri?... No? Una finestra.» «E allora?» «La politica della facoltà ruota intorno alle finestre. Un sociologo potrebbe scrivere un saggio meraviglioso riguardo alle finestre come status symbol nelle facoltà universitarie. Cia-scun ufficio ne ha due; i professori
aspettano per anni di trasferirsi in un locale dotato di finestre. E Jaan copre deliberatamente la sua. Non ha grande importanza, naturalmente; questa finestra si affaccia su un vicolo, offrendo una magnifica vista dei cassonetti del Tortilla. Ho esaminato la finestra dal vicolo, constatando che la tenda era tirata. Una tenda tirata... e, come può vedere qui dietro, una tenda molto robusta, che sembra essere stata incollata alla parete intorno al telaio... e un'enorme libreria che la protegge. Un'altra precauzione eccessiva, non trova? Forse Jaan preferiva semplicemente una stanza buia, ma pare improbabile, perché non ha coperto l'altra finestra, quella dietro la scrivania.» «È quella da cui ha sparato?» «Esatto. Ma sembra che da allora vi abbia apportato qualche modifica. Per favore, se non le spiace, prenda questo libro.» Estrasse dalla mensola un pesante tomo ebraico, rilegato in cuoio rosso e impreziosito da scritte dorate, e me lo porse. «Lo prenda e lo scagli contro la finestra dietro la scrivania.» Restai immobile con il volume in mano, perplesso. Il volto di Jadid si illuminò di vitalità, il suo eterno sorriso felino che si allargava sotto gli occhi scintillanti e le guance contratte. «Forza, dia qui. Non voglio sembrarle insistente, ma non si preoccupi.» Si accostò al vetro e vi lanciò contro il libro. Il dorso del volume si ammaccò, ma la finestra restò intatta. Il professore picchiettò su una lastra con le nocche, producendo un cupo rumore sordo, come se bussasse sulla pietra. «Plexiglas. Antiproiettile, immagino. Pare spesso dieci centimetri. Ho seri dubbi che le pallottole di un'arma leggera riescano a sfondarlo. E guardi qui» continuò, chinandosi verso il telaio e passandovi sopra un dito. «Chiuso ermeticamente, non semplicemente verniciato. Questo posto è una fortezza.» Dai suoi jeans provenne un motivetto: I Dream of Jeanie with the Light Brown Hair. Si infilò la mano in tasca e tirò fuori un cellulare; non mi avrebbe meravigliato di più se ne avesse estratto una pipa da crack. Verificò il numero da cui proveniva la chiamata, annuendo soddisfatto. «Joseph? Sì, bene, grazie, e tu? Ottimo. Ottimo. Come? Davvero? Be', che cosa... Okay. No, no, è qui. Qui con me nell'ufficio di Jaan. Credo di aver trovato... Anche tu? Perfetto, perfetto. Volevo esporre la mia a Paul questa sera a cena. Ti va di venire? Eccome no? A casa mia. Sì, partiamo subito. A tra poco, allora. Okay. Ciao.» Chiuse il telefono di scatto e si voltò verso di me. «Mio nipote: detective, buongustaio, memoria ambulante e ladro di oggetti rari.»
«Che cosa intende?» «Pensavo di aver scoperto di che cosa si occupava Jaan, se non addirittura chi era. Non vedevo l'ora di illustrarle la mia teoria questa sera. Ora Joseph ritiene di aver fatto una scoperta analoga. La mia si incentra sul contenuto di questa cassaforte.» Indicò un piccolo cubo nero sotto la scrivania, vuoto e con lo sportello aperto. «Joseph è stato così gentile da forzarla. Ma guardi, questo sì che è ingegnoso. Venga a vedere.» Mi piegai sotto il tavolo e sbirciai dentro. Jadid additò due piccole sporgenze cilindriche negli angoli superiori. «Sa che cosa sono quelli?» mi domandò. «Non ne ho idea.» «Getti di gas. A quanto pare, questa cassaforte è attrezzata per incenerire il proprio contenuto se qualcuno dovesse cercare di scassinarla. Non è fantastico? Come in un film di spionaggio.» «Come ha fatto Joe ad aprirla?» «Be', prima ha rimosso il pannello inferiore e poi i due laterali. Ha eliminato entrambi i contenitori di gas. Quindi ha fatto qualcosa di straordinario con uno stetoscopio e due lunghi pezzi di metallo flessibile, e lo sportello si è spalancato. Sa, sua madre ha sempre sognato che diventasse medico. E, devo ammetterlo, trovo molto affascinante l'immagine di Joseph in camice bianco che inveisce contro i rischi dell'obesità con un tritatutto in una mano e una birra nell'altra. Ecco qui il contenuto della cassaforte.» Con aria trionfante, sollevò uno scatolone scuro. «Non vede nient'altro, vero?» Guardai dentro. Sembrava vuota. Stavo per raddrizzarmi e chiudere lo sportello, quando scorsi un luccichio sul fondo. «Aspetti. Qui c'è qualcosa. Le dispiace passarmi un foglio di carta? Grazie. Vediamo un po'.» Raccolsi quelli che, pur parendo minuscoli frammenti di vetro, non mi tagliarono. Più polvere che frammenti, in realtà, sfavillanti di verde nella luce dell'ufficio. Tesi il foglio a Jadid, il cui viso scintillava insieme con quella misteriosa sostanza. «Che cos'è?» gli domandai. «Credo sia quella che mio nipote definirebbe "una prova schiacciante". Coraggio» mi esortò, aiutandomi a rialzarmi. «È ora di cena.»
Il kamal di al-Idrisi (l'acqua)
Un uomo non può mai dire «È», bensì solo «Credo che sia stato» e «Spero che sarà». La trasformazione è l'unica costante. Dalla terra veniamo e alla terra torneremo, ma mentre la calpestiamo, siamo destinati a essere informi e mutevoli come l'acqua. Tandou Armah Cissé, Così lontano, così lontano da
casa
Durante le Olimpiadi del 1980, le regate si tenevano a Pirita, un molo sulla baia di Tallinn nell'angolo nord-orientale della città. Anche otto anni dopo, contemplando i parchi a ridosso delle mura oltre la stazione ferroviaria, Voskresenyov riusciva a vedere i risultati del denaro che Mosca aveva stanziato per abbellire Tallinn. Persino gli uomini dell'apparato del PCUS avevano alzato il muso dal trogolo per un attimo e consentito che parte del loro pastone per maiali scorresse verso nord-ovest allo scopo di fare buona impressione sugli ospiti internazionali. Naturalmente, l'ospite che sarebbe dovuto restare più colpito era rimasto a casa, ma Voskresenyov rammentava con chiarezza come gli altri ufficiali avessero assunto un'aria raggiante (per essere più precisi, l'aria raggiante tipica dei militari russi, caratterizzata da scambi di occhiate, mascelle paralizzate in un sorriso da trota pigra che non viene mai del tutto in superficie e voci arrochite dall'alcol che gracchiavano: «Giusto!») sentendo Radio Free Europe e il BBC World Service accennare con ammirazione al «gioiello del Baltico». Il progetto di abbellimento aveva tuttavia avuto una conseguenza inattesa: gli estoni erano diventati troppo orgogliosi della loro capitale estone (non sovietica). Voskresenyov se ne rese conto allontanandosi dalla stazione e attraversando la città vecchia per recarsi al suo appuntamento: dopo così tanti anni, così tante rivoluzioni e così pochi cambiamenti, aveva davvero maturato una sensazione di instabilità sociale. Cominciano a succedere delle cose. «Vaffanculo chiunque sia al comando» si legge sui muri di un ponte rinomato. Un sasso vola attraverso la finestra del governatore a tarda ora; la strada sottostante è deserta. Prima
di obbedire all'ordine di un poliziotto o corrompere qualcuno, un cittadino esita e fissa l'uniforme (perché è questo quello che vede: soltanto l'uniforme, non l'uomo) per due secondi più del normale. I moduli vengono smarriti anziché archiviati. Nessuno paga le multe. Il governatore si sveglia nel cuore della notte avvertendo odore di fumo: la sua bandiera, ancora in cima all'asta fuori della finestra, è stata incendiata. I prigionieri politici diventano simboli anziché nullità, eroi anziché reietti. Uomini grassi, calvi e grigi corrono qua e là con i loro completi; uomini giovani e snelli se la prendono comoda con i loro giubbotti di pelle. Il tempo si piega: un lato lo spinge avanti; l'altro cerca prima di fermarlo, poi di rallentarlo, poi di nascondersi dietro di esso e infine soltanto di sottrarvisi. Voskresenyov ebbe la sensazione che tutto iniziasse qui, nell'occhiata scettica rivolta da un giovanotto alle sue medaglie sulla Pühavaimu, nello sfregio mai riparato sulla fiancata di un'auto della polizia sulla Müürivahe e nelle note e nelle melodie di una chitarra provenienti da una finestra al secondo piano sulla Pärnu mantee. La città vecchia assomigliava all'immagine dell'Europa raffigurata su una cartolina americana: spesse mura sormontate d'erba, un castello sulla cresta di una collina, strade acciottolate che serpeggiavano accanto a edifici dalle tinte tenui muniti di frontoni. L'influenza anseatica faceva sembrare Tallinn un centro antico alto-tedesco, come Bruges e Danzica, civile, marittimo e, in quell'ultimo scorcio del XX secolo, piacevolmente fuori luogo. Era impossibile amare al tempo stesso Mosca e Tallinn: o prosperavi nella grottesca energia moscovita o la consideravi inumana; o ti entusiasmavi per l'ospitalità teutonica di Tallinn o la giudicavi una noia mortale. Voskresenyov la riteneva monotona, anche se in passato l'aveva adorata e avrebbe potuto adorarla ancora in futuro, quando una nuova rivoluzione l'avesse scaricata nelle mani di qualcun altro. Passò sotto l'arco di Raeapteek e, sentendo le campane della Pühavaimu che suonavano le undici, si domandò che cosa sarebbe stato conservato e che cosa sarebbe stato bruciato negli anni a venire, grato per la possibilità di seguire quella rivoluzione estone da lontano. Guidò attraverso i sobborghi disarmonici e abbandonati in cui il lustro della città sbiadiva e diveniva sovietico prima di smorzarsi del tutto al confine di Keila-Joa. Appena fu smontato dall'auto, udì il rumore della cascata nel centro di Tallinn e scorse il tetto di legno del palazzo. Alle spalle dell'edificio vi era una tipica foresta estone (pini scuri inframmezzati da betulle bianche) che si allungava dall'orlo dell'abitato a quello del mare.
Vide una giovane coppia che scompariva tra gli alberi, mano nella mano. Gli innamorati erano entrambi biondi e flessuosi, così simili e sprizzanti di salute che sarebbero risultati subito sospetti in una qualsiasi metropoli russa. Accanto al punto in cui i due ragazzi svanirono cominciava una fila di casette di legno, abbastanza innocue e graziose da sfuggire chissà come agli occhi degli urbanisti sovietici, che avevano un talento esagerato per le demolizioni. Voskresenyov bussò alla porta della costruzione più lontana, notando lo scintillio del mare attraverso una radura dietro l'abitazione. L'uomo che gli aprì assomigliava a un uccello corroso dagli agenti atmosferici. Torreggiava sul comandante di oltre una spanna e lo fissava da sopra un lungo naso sottile e una candida barba sfilacciata. Un occhio, divenuto offuscato e lattiginoso con il passare degli anni, vagava nell'orbita come una bussola rotta; l'altro era nero come quello di un corvo. Entrambi erano circondati da una rete di rughe e rilievi, come laghi su una mappa topografica. Si arrotolò le maniche del maglione cascante fino a metà degli avambracci, come se si apprestasse a sferrare un pugno, e attese che il visitatore parlasse. «Compagno Tiima?» domandò Voskresenyov. L'altro annuì, e Voskresenyov gli mostrò la piastrina di riconoscimento. «Compagno Tiima, sono qui per indagare su una denuncia sporta contro di lei dai suoi vicini. Documenti, prego.» Allungò la mano, rivolgendo l'espressione più vacua possibile al vecchio, che estrasse dalla tasca un passaporto interno protetto da una foderina di cuoio senza mai staccare gli occhi da quelli del comandante. Quest'ultimo finse di esaminarlo, anche se, in realtà, cercava solo di calcolare per quanto tempo avrebbe dovuto guardare ogni pagina allo scopo di convincere Tiima che stava guardando ogni pagina. Chiuse il passaporto di scatto e lo restituì dopo che il suo interlocutore ebbe spostato il peso del corpo da un piede all'altro per la quinta volta. «Posso entrare?» domandò Voskresenyov. «Dipende.» L'occhio lattiginoso roteò mentre Tiima puntava quello buono sulla bocca dell'ospite. «Da che cosa?» «Da chi è lei. Dalla natura della denuncia. Che cosa succede se le rispondo di no?» «Sono Voskresenyov, comandante dell'esercito sovietico, capo delle Forze baltiche. Se mi impedisce di entrare, sarà colpevole di aver ostacolato il corso della giustizia.»
Il vecchio inarcò le sopracciglia con aria stanca. «Un uomo dell'esercito vuole entrare in casa mia ora?» «Ne possiamo discutere più tardi. Ma il fatto che non sia un poliziotto non significa che non possa arrestarla.» «Allora è meglio che si accomodi.» Nella casupola si respirava fumo di pipa, fumo di legno, fumo di carbone e l'aria salmastra che il vento trasportava attraverso la finestra posteriore. Gli occhi di Voskresenyov presero a lacrimare, e il vecchio sorrise quando lo vide togliersi gli occhiali per asciugarli. Una piccola vittoria. «Vuole tornare fuori?» «No, no. Mi fermo solo per un attimo. Posso sedermi?» «Faccia pure. Ma prima non ha intenzione di dirmelo?» «Dirle che cosa?» «Il motivo della denuncia.» «I suoi vicini, signor Tiima, credono che lei celebri cerimonie religiose in questi locali.» «Mai capitato» sibilò. «Questa non è Mosca. Conosco i miei vicini, e loro conoscono me. Nessuno ha mai detto niente di simile, perché non è mai accaduto.» «Ho qui una deposizione firmata che afferma...» «La deposizione può affermare quello che vuole. Non significa che io l'abbia fatto. Si può persuadere chiunque a dire qualsiasi cosa.» Voskresenyov proseguì, la voce un po' più alta e le labbra arricciate in quello che sperava sembrasse un ghigno sprezzante. Tenne gli occhi fissi sul documento davanti a sé; non voleva che l'altro vi leggesse il desiderio, l'avidità. «Afferma che lei organizza incontri non autorizzati nel retro della sua abitazione e che "simboli iconici e accessori ecclesiastici" sono chiaramente visibili dalla finestra posteriore. A quanto pare, il bosco dietro casa sua è un sentiero molto frequentato dagli escursionisti.» «Lo è sempre stato. Quei sentieri li ho scavati io cinquant'anni fa, forse sessanta. Conducono diritti al mare.» «E ha ottenuto il permesso necessario a scavarli?» Il vecchio storse la bocca e tacque, scuotendo il capo con incredulità ma senza stupore. «Adesso posso vedere la stanza attigua, per favore? Non sarà difficile verificare se la denuncia è fondata oppure no.» «Non è una chiesa» ribatté l'altro senza muoversi. Voskresenyov si alzò, guardandosi intorno. La casa avrebbe potuto avere
più di duecento anni; avrebbe anche potuto averne venti. La boiserie era troppo raffinata per essere sovietica, e le poche decorazioni presenti (un arazzo dalle tinte vivaci, un dipinto dell'alba sulla costa baltica, una fila di navi intagliate nel legno su una rozza mensola sopra una stufa panciuta) erano semplici e grossolane, più tipiche del XIX che del XX secolo. Gli formicolavano le cosce e i polpastrelli, come gli accadeva sempre quando era vicino a qualcosa che desiderava. Naturalmente, se si fosse sbagliato, avrebbe potuto scusarsi e scomparire, ma non si era sbagliato: la giusta combinazione di soldi e privilegi riusciva a procurare informazioni accurate persino nell'Unione Sovietica. «Nel rispetto dei principi nazionali e ai fini della prosperità del popolo sovietico, sarò io a stabilire se sia o non sia una chiesa, signor Tiima. Lei si limiti a mostrarmi il locale.»
REPERTO 12:
una fune, marcia in alcuni punti e di colore indecifrabile, lunga 35 centimetri, con otto piccoli nodi distribuiti sull'intera estensione. Un'estremità della corda era annodata; l'altra era legata a una tavoletta placcata di rame delle dimensioni di una carta da gioco, diventata verde con il passare del tempo. Si trattava di uno strumento arabo per la navigazione detto kamal, usato per mantenere una particolare latitudine su una rotta familiare. L'alchimia può prolungare l'esistenza di una persona, ma non può protrarre all'infinito una singola vita: a prescindere dalle precauzioni adottate, ciascuna vita è popolata, e prima o poi le persone cominciano a domandarsi quando un vicino, un conoscente, un passante abituale e talvolta persino un amico soccomberà alla morte. Gli alchimisti adorano Mercurio anziché Titone o Nabucodonosor per un motivo ben preciso: gli alchimisti fuggono. Nessuno di loro è mai diventato o diventerà famoso per una longevità straordinaria: quando cominciano a dare nell'occhio per la loro età o il loro aspetto, spariscono e basta, sbarazzandosi della vecchia esistenza come un serpente muta pelle, e
ricompaiono con un'altra identità da qualche altra parte. Una bussola o, in questo caso, un kamal con una storia significativa rammenta al proprietario che alla fine dovrà riconciliarsi con la vita e abbandonarla, benché ciò significhi qualcosa di molto diverso e di molto meno doloroso e permanente rispetto a quanto significa per i più. DATA DI FABBRICAZIONE:
7 Jumada 'l-'ula 538. Nel calendario occidentale, questa data cadde durante l'Avvento del 1150. COSTRUTTORE:
sul bordo della tavoletta di rame si legge quest'incisione: «In nome di Dio, il Misericordioso, il Compassionevole. Le tue dita stringono il kamal di Yahya Rifaat Tawfit al-Hashemi, artigiano di Umm Qasr. Le sue mani intrecciarono l'ultimo trefolo e assestarono l'ultimo colpo a questo rame il 7 Jumada 'l-'ula 538. Che porti la benedizione di Dio al suo possessore e lo guidi tra mari calmi e brezze delicate ovunque Egli desideri mandarlo». LUOGO DI PROVENIENZA:
si veda sopra.
ULTIMO PROPRIETARIO CONOSCIUTO:
Herve Tiima, sarto, soldato, eremita, stagnino, marinaio, sacerdote, cuoco di bordo e sostenitore di bizzarre teorie storiche prive di fondamento. Tiima era figlio di Jaan-Uus, sindaco di Paldiski, che scrisse (ma non pubblicò mai) un «esadecalogo» di romanzi che narravano la storia dell'Estonia dalla prospettiva di alcune ondate migratorie intrappolate tra il Mar Baltico e la baia di Matsula, che sognavano gli oceani ma erano destinate a vagare per secoli tra Hiiumaa e la costa occidentale vicino Rohukula. L'unica ondata sfuggita a questo purgatorio fu quella protagonista del quarto libro, che portò una nave danese dalla corte di re Sweyn all'Estonia occidentale e infine a Hiiumaa durante una tempesta invernale. Herve sviluppò un'ossessione per le implicazioni metaforiche del quarto volume della serie e alla fine redasse un manoscritto riguardante i passeggeri della nave, che, a suo avviso, non era fittizia. Secondo la sua opera sugli arabi nel Mare del Nord, il segreto dell'identità estone era un oggetto di potere e valore straordinario che al-Idrisi aveva portato da Baghdad, il centro immobile della Terra, alle
gelide e arretrate regioni tra il Mar Baltico e il Lago dei Ciudi. Negli ultimi giorni dell'Unione Sovietica, quando guaritori, indovini e visionari d'ogni sorta si tramutarono tutti in nord temporanei per gli aghi impazziti della sete religiosa che tormentava i cittadini disorientati, la teoria di Tiima godette di un'effimera celebrità tra i villaggi a ovest di Tallinn. Herve ebbe persino l'ardire di tenere un gruppo di lettura e discussione nel retro della sua casupola, le cui pareti erano ornate da cimeli marinari che l'uomo aveva ereditato dal padre: un astrolabio, un sestante e una tavoletta di rame attaccata a una vecchia fune. Gli abitanti della zona organizzarono una veglia illegale nella piazza più importante di Keilajoa quando qualcuno rinvenne Tiima assassinato, ucciso da una pallottola alla nuca nella foresta dietro casa sua. Il proiettile proveniva da una pistola identica a quelle fornite in dotazione alla polizia locale. La veglia fu pacifica, ma i cittadini non obbedirono quando ricevettero l'ordine di disperdersi. La notizia della protesta si diffuse ben presto in tutto il Paese e, sebbene non si siano verificati sommosse, episodi di violenza né altre dimostrazioni di solidarietà, ogni singolo abitante di Keila-Joa prese parte alla catena della «Via baltica» tenutasi tre anni dopo. VALORE STIMATO:
una corda di novecento anni fissata a un rettangolo di rame verdastro potrebbe spuntare dieci dollari presso un robivecchi. Potrebbe anche essere considerata spazzatura e non spuntare nulla. Potrebbe infine essere venduta per 30.000 dollari, come accadde al presunto kamal del primo ufficiale di rotta di Vasco de Gama.
Così fu creato il mondo.
Non mi ero accorto di quanto fosse sudicia la mia auto finché aprii la portiera per Jadid, che, prima di salire, corrugò le sopracciglia e si paralizzò, forse chiedendosi se chiamare un taxi. Prelevai dal sedile del passeggero qualche manciata di giornali, bicchieri di carta e involucri di panini insieme con due ombrelli rotti e scaraventai il tutto dietro. Gettai quindi a terra briciole di ogni sfumatura del beige. Il professore montò con cautela. «Per pura curiosità» disse mentre uscivo dal parcheggio «più di una semplice curiosità oziosa, in questo caso... Mi domandavo se si considerasse religioso.» «Che cosa intende? Un credente in che cosa?» «Oh, il "che cosa" non ha molta importanza. Suppongo che la religione sia innanzi tutto qualcosa di spontaneo. Ma quel che voglio dire è: per carattere è più incline alla fede o allo scetticismo? Non che i due elementi siano inconciliabili, naturalmente.» «Be', immagino di non aver mai creduto molto nella religione. Da bambino, ogni tanto andavo in chiesa, ma non sono mai stato cresimato o roba simile. Non ho mai avuto la sensibilità necessaria, e anche i miei genitori sono ibridi, perciò non si sono mai davvero legati a una corrente o a una comunità particolare. Nessun membro della mia famiglia l'ha mai fatto, ma presumo che questa sia un'altra storia.» «E ha l'impressione di essersi perso qualcosa?» «Credo di essere un po' invidioso di chi ci trova una consolazione, sa, o persino di chi trasforma i rituali in una parte della sua vita.» «Giusto. Ritengo che, anche se la religione non riesce a offrire un conforto ontologico, riesca almeno a offrire una struttura. Una struttura cronologica, se non proprio spirituale.» Risi, e lui mi imitò. Gli domandai che cosa avesse condotto a quell'argomento di conversazione. «Ero curioso, solo curioso, pura curiosità. Devo ammettere che di questi
tempi entro di rado in una sinagoga. Come forse saprà, mia moglie è cristiana ortodossa, nata in California da genitori siriani. Abbiamo allevato le nostre due figlie secondo quel credo, il che ha causato non poco scompiglio all'interno della mia famiglia. Ma, invecchiando, mi sento sempre più attratto non tanto dalla cosmogonia o dalla teologia dell'ebraismo quanto dai suoi rituali, come diceva lei prima. Dalla sensazione di partecipare a qualcosa di antico e ininterrotto. Con una buona dose di vergogna, ho l'impressione di essermi dimostrato l'anello debole di una catena di credenti che, dal figlio al padre al nonno, è iniziata secoli fa. Se fossi meno coinvolto, forse mi renderei conto di quanto sia ironico che la prosperità abbia prodotto ciò che la sfortuna non è mai riuscita a produrre. Una volta costretti a integrarci, suppongo che abbiamo finito per fare proprio quello. E per "noi" intendo "io", ovviamente. «Bene, bene. Bando alle ciance. Per favore, prosegua diritto lungo Grover Street e svolti a sinistra nella Appleman. La mia casa è subito dopo la Torrance.» Viaggiammo in silenzio per una decina di minuti, finché il professore accese l'autoradio su una stazione di musica classica. «Eccola, eccola lì» annunciò. «Parcheggi nel vialetto o sulla strada, come preferisce.» Lasciai l'auto nella via davanti alla costruzione: un piccolo edificio impeccabile e tipicamente wickendeniano, con la facciata rivestita di assicelle, verande su tutti e tre i piani, scale che portavano da una veranda giù (o su, credo) fino alla successiva e una piattaforma di osservazione. Non era troppo diversa dalla mia vecchia abitazione né da quella attuale di Mia. Non so perché mi fossi aspettato qualcosa di differente, ma me l'ero aspettato: un castello, forse, una villa o un monastero. Una fattoria in campagna. Vedere il professore in parka e stivali mentre oltrepassava un tosaerba e si fermava a raccogliere un giornaletto locale gratuito dai gradini sembrava assurdo: Jadid avrebbe dovuto dissolversi in un caffè viennese di fine Ottocento al termine di ogni giornata. La cucina era lunga e bassa, illuminata da una luce calda, con molte superfici scure: il tipo di stanza in cui trascorrere l'infanzia. Jadid sminuzzò velocemente due pomodori e due piccole cipolle rosse, quindi li ridusse in poltiglia con il dorso di un cucchiaio di legno, insaporendoli con qualche spicchio d'aglio, le foglie di tre rametti di maggiorana strappati da un vaso sul davanzale, una goccia di olio d'oliva e una spruzzata di vino bianco. Tagliò a cubetti un pezzo di agnello e lo aggiunse al composto di
verdure, versando il tutto in una pirofila di ceramica che infilò nel forno. Riempì due bicchieri di vino bianco e insistette affinché brindassimo all'ingombrante scatolone posato nell'angolo. «Perché?» domandai. «Tutti i misteri verranno svelati» rispose, inarcando le sopracciglia come un presentatore televisivo. Espirai con impazienza. Sedemmo a un tavolo rotondo davanti a una porta scorrevole che si affacciava sul giardino posteriore, ma, per via dell'oscurità e della luce sopra e dietro di noi, scorgevamo soltanto il nostro riflesso nel vetro. Un colpo improvviso alla porta, e la scomparsa delle nostre immagini mi fece sussultare e rovesciare il vino. Jadid mi rivolse una smorfia comprensiva («Joseph posteggia sempre sul retro»), quindi andò ad aprire. Suo nipote, che teneva una confezione da sei bottiglie di Newport Storm in una mano e un fascicolo nell'altra, si infilò tra i due battenti. Abbracciò lo zio, inghiottendolo quasi del tutto, e si baciarono tre volte alternando le guance. Dietro Joe vi era un giovane alto e magrissimo con un completo porpora dalla piega impeccabile, una camicia gessata e una cravatta porpora decorata da una spilla di granato. Portava un giubbotto di pelle intorno al braccio e assomigliava a un musicista spaurito e mezzo morto di fame saltato fuori dal Greenwich Village degli anni Cinquanta. «Questo è Lyosha Priyenko» lo presentò Joe. Lyosha varcò la soglia con prudenza, come se avesse paura che qualcuno lo notasse, e tese una mano ossuta a me e al professore. «Lyosha, questo è mio zio Abe, e questo è Paul, che ha dato il via all'intera faccenda. Lyosha lavora nella sezione Criminalità organizzata.» «È un piacere, Lyosha. Si accomodi» lo invitò Jadid. «Che cosa posso portarle da bere?» Priyenko levò una mano con il palmo all'infuori e la agitò avanti e indietro, scuotendo la testa a ritmo. Gli sporgenti zigomi a forma di ascia parevano dividergli la faccia in un rettangolo sormontato da un trapezio, e i gesti goffi facevano sì che le due metà del viso si muovessero leggermente fuori tempo. «Ah, niente, signore, grazie: sono ancora in servizio.» Parlava con un lieve accento (le vocali erano lunghe e gommose, mentre le consonanti cozzavano tra loro lungo il tragitto fra la gola e la lingua) e aveva la postura e il volto inespressivo di una recluta militare. «Certo, certo. Prego.» Il professore porse una sedia a Joe e Lyosha, e noi due riprendemmo i nostri posti. Joe stappò una bottiglia di birra e rifiutò il
bicchiere offertogli dallo zio. «Allora, chi comincia?» domandò Jadid. Joe si pulì la bocca sulla manica. «Lyosha deve tornare al suo vero lavoro, perciò è meglio che iniziamo noi.» Si grattò il ventre prominente e annusò l'aria, con un'espressione che poteva essere offesa o meditabonda. «Abe, che buon profumino. Quando si mangia?» Anton schioccò le dita, accostandosi l'indice alla tempia. «Grazie, Joseph, per avermelo rammentato.» Depositò piatti e posate sul tavolo e aprì il forno per controllare l'agnello. «Manca poco; niente fino ad allora. Conosci le mie regole.» Avvicinatosi a un ripiano, prese a tagliare le verdure per l'insalata. «Vi ascolto» gridò da sopra la spalla. «Bene» mi disse Joe, stappando un'altra bottiglia e posando quella vuota sul pavimento «ricorda ieri, quando siamo andati al Lupo solitario e abbiamo sgraffignato un bicchiere per analizzare le impronte?» «Sì.» «Be', Sally e Lyosha le hanno analizzate. A proposito, zio Abe, Sal si scusa per non essere potuto venire. Questa sera uno dei suoi figli aveva una recita.» Anton annuì e sollevò il coltello per segnalare che aveva capito. «Comunque, il nostro Lyosha ha un fratello... un fratello o un cugino?» «Due fratelli, a dire il vero» rispose Priyenko, raddrizzandosi come se fosse appena stato chiamato dal maestro. «Uno fa l'investigatore per l'ufficio del pubblico ministero di Mosca, l'altro fa l'assistente per il ministro degli Affari interni.» «Giusto. Ora, secondo lui, ricoprire quei ruoli in Russia è come appartenere alla famiglia dello zar. Questi tizi esercitano una vera influenza?» Lyosha si strinse nelle spalle, abbassando lo sguardo sul tavolo. «Influenza, sì, credo di sì. Begli incarichi, immagino, ecco che cosa ottieni. Durante il mio prossimo viaggio porterò molti regali ai miei nipoti, perciò ci hanno aiutato.» «Okay, a ogni modo» interloquì Joe, appollaiandosi, tutto emozionato e in equilibrio precario, sul bordo della sedia «ho passato a lui e Sally le impronte di Eddie il barista e una copia di quelle di Pühapäev. Ora, Pühapäev aveva già dei precedenti penali qui ed era stato un testimone chiave in un processo federale, giusto? Non era proprio stato schedato, ma l'FBI lo conosceva.» Assentii. Jadid posò sul tavolo un'enorme insalatiera con lo stesso cipiglio che
gelava il sangue agli studenti e li faceva arrossire. «Sì, ne ho parlato con zio Abe ieri. Non è stato troppo contento di apprendere che Jaan aveva cercato di rubare i gioielli arrivati a Wickenden grazie ai suoi sforzi» spiegò Joe. «Abbiamo scoperto che l'FBI conosceva anche Eddie. I federali lo segnalano come... vediamo» continuò, aprendo il foglio di carta che Lyosha gli aveva allungato. «Edouard Ivanov, condannato il 4 febbraio 1992 nella Kings County di New York per possesso di refurtiva. Ha scontato sessanta dei suoi novanta giorni di pena a Ossining; dopo essere stato rilasciato con la condizionale vedeva con regolarità il funzionario incaricato della sua sorveglianza, buona condotta, niente lamentele, blablabla. In seguito, nessuno l'ha più sentito nominare presso il tribunale della Kings County né in nessun'altra corte federale.» «Che tipo di refurtiva?» lo interrogai. «Oro. Icone d'oro trafugate da una chiesa ortodossa ucraina alla periferia di Bridgeport, nel Connecticut. Confini di Stato: ecco spiegata l'incriminazione federale. Sembra una faccenda identica a quella di Pühapäev: i ladri deficienti pagati da questi due tizi sono stati arrestati con la roba addosso e hanno dichiarato che era stato Ivanov a istigare il furto. Pare che Eddie abbia ricevuto dalla corte un difensore d'ufficio anziché affidarsi a un avvocato di grido della nostra città. Perché cazzo questi due uomini usano ricettatori tanto idioti?» Alzò gli occhi come se si attendesse una risposta, ma udimmo soltanto lo sfrigolare e lo scoppiettare dell'agnello nel forno. «Soldi?» azzardò Lyosha. «Magari erano due vecchi spilorci sovietici.» «Sì, può darsi» convenne Joe, incerto. «Dunque non ti sei mai imbattuto in questi due prima?» Rivolto a me e a Jadid, aggiunse: «Lyosha si occupa della mafia russa a Wickenden e dintorni». «No, non li ho mai sentiti nominare. Ma, sapete, nessuno di loro viveva in città, e io sono qui solo da nove o dieci mesi.» Estrasse un pacchetto di Parliament dal taschino della camicia con lunghe dita femminili e scoccò un'occhiata interrogativa al professore, che gli mise davanti un posacenere e una scatola di fiammiferi. Joe annuì con solennità e si grattò sotto il mento. Ogni uomo è condannato a trascurare una parte della faccia mentre si rade. Ecco dov'era quella di Joe: una chiazza oblunga di folta barba gli cresceva come muschio nella piega tra il collo e la pappagorgia. «Ma raccontagli la parte più interessante.» Nessuno capì con chi parlasse. Jadid servì un piatto di agnello arrosto a ciascuno di noi, e Joe vi si avventò sopra come un cane
affamato. Diede a Lyosha una gomitata amichevole che per poco non lo catapultò sul pavimento. «Coraggio» lo esortò, mentre un rivolo di sugo rosa gli si infilava nel colletto. «Raccontaglielo.» «Oh, io. Certo. Be', è emerso che Ivanov e questo Pühapäev hanno dei precedenti penali in Russia.» Nessuno fiatò. Priyenko fece un lieve gesto svolazzante con la mano che teneva la sigaretta. Non stava mangiando. «Sì, be', non è nulla di sorprendente, sapete. Chiunque entrasse nell'esercito o nel Komsomol o vivesse in una grande città doveva farsi prendere le impronte digitali. È sorprendente che io sia riuscito a scoprirlo in un solo giorno» dichiarò, ridacchiando. «Mio fratello, quello che lavora per il pubblico ministero, mi ha riferito che hanno appena messo su computer le pratiche più recenti, ma quelle vecchie sono ancora nello stanzone sotto la Novokuznetskaja dove sono sempre state. Per fortuna, ha avuto una relazione con quattro delle sei segretarie, e tre di quelle storie sono finite senza rancore. L'unico uomo a Mosca in grado di trovare quel che cerchiamo.» Nessuno rideva, ma Lyosha sembrava considerarlo molto divertente. «Che cosa ne dici di arrivare al punto? E mangia qualcosa, mingherlino.» Appena ottenne il permesso, Priyenko cominciò a mangiare con voracità. «Grazie, è squisito. Turca?» «La ricetta?» domandò Anton. L'altro assentì. «Forse era greca in origine, ma adesso è tutta mia. Ottima intuizione, però. Potrebbe essere turca, suppongo. La prossima volta potrei aggiungere un po' di sommacco, e magari...» «Abe, scusa, ma Lyosha deve andare via tra poco. Possiamo rimandare le chiacchiere culinarie a un'altra occasione?» Anton, che in un primo momento parve seccato, si strinse nelle spalle con espressione bonaria. «Mi dispiace. Quasi tutti i vecchietti si gingillano in giardino o sul campo da golf; io mi gingillo in cucina. Per favore, prosegua, Lyosha.» «Sì, okay. Secondo mio fratello, le impronte di Ivanov appartengono a un certo Ibragim Ikhmayev, un uomo originario dell'Inguscezia condannato a quarant'anni di lavori forzati per aver capeggiato un gruppo di contrabbandieri nel 1985.» «Strano» commentò Anton. «Nel 1985? Non c'è stato un processo di riesame dei criminali quando l'Unione Sovietica è crollata?» Priyenko storse la bocca, inarcò le sopracciglia e si strinse nelle spalle.
«I criminali non erano una questione di massima priorità all'epoca. In una situazione come questa, presumo, le autorità avranno detto che un furto è un furto; non esiste un furto comunista né un furto sul libero mercato. Ma non lo so...» «Non sa che cosa?» interloquii. «Aspetti, mi faccia finire.» Estrasse un bloc-notes dalla tasca della giacca. «Ikhmayev gestiva un intricato racket del furto e della ricettazione. Vendeva icone e manufatti storici e religiosi russi ai turisti occidentali. Quasi tutti falsi, naturalmente... Gli occidentali non li riconoscono mai» aggiunse con un sorriso mesto, abbassando gli occhi. «Senza offesa, ovviamente. Per i russi importava illegalmente automobili, abiti occidentali, musica pop e sigarette di marca dalla Scandinavia e dalla Germania dell'Ovest.» «Sembrano reati di poca importanza» osservò Joe, appoggiandosi allo schienale ed emettendo un rutto soddisfatto, simile alla lunga nota di una tuba, prima di stappare un'altra birra. «Sì, ma non ho ancora finito.» Priyenko tacque per assicurarsi di essere al centro dell'attenzione e, quando ne ebbe la certezza, fece un cenno compiaciuto e quasi impercettibile. «Importava illegalmente anche gioielli e metalli preziosi dall'Asia centrale.» «Ci sono sempre di mezzo i gioielli» notai. «Esatto» confermò il professore con un sorriso enigmatico. Priyenko infilzò un pezzo di carne con la forchetta e lo triturò con i molari. «Il particolare interessante» continuò con la bocca piena «è che questo genere di cose avrebbe dovuto valergli una pallottola in corpo. La mafiya, il tipo di criminalità organizzata per cui la Russia è famosa adesso, non esisteva sotto i sovietici. No, non è corretto: esisteva, ma solo come sistema di governo.» Ridemmo tutti, e lui alzò gli occhi scintillanti, ma senza sorridere. «Non è una battuta. Oppure è una battuta e una nonbattuta. Tutti i gruppi di malavitosi russi in cui sono incappato si ispirano, più o meno consapevolmente, al Partito comunista dell'Unione Sovietica. L'unica differenza è che i malavitosi perpetrano i loro furti senza farli precedere da lunghi discorsi e nobili ideali in cui nessuno crede. «A ogni modo, come dicevo, Ikhmayev meritava davvero che gli sparassero per quel reato. Ma non è successo. Immagino che avesse qualche contatto. Con molta probabilità nell'esercito o nei servizi segreti: altrimenti come avrebbe potuto organizzare una cosa del genere? Ma nemmeno questo» soggiunse, l'indice sollevato come la bacchetta di un
direttore d'orchestra l'attimo prima che la musica attacchi «è il dettaglio più singolare riguardo a Ikhmayev.» «Gesù, ragazzo, questo non è uno spettacolo teatrale» lo rimbrottò Joe. «Sputa il rospo.» «Be', il punto è che, secondo l'archivio della polizia russa, Ikhmayev è ancora a Magadan.» «Dov'è Magadan?» domandai. «Qualche migliaio di chilometri a nord del Giappone, qualche migliaio di chilometri a sud-ovest dell'Alaska e qualche milione di chilometri da qualsiasi altro posto. È un carcere» rispose Joe. Ci guardammo, confusi, e Priyenko scoppiò a ridere. «Non riesco a credere che un detective della polizia americana sappia dove si trova Magadan. Dove l'ha sentito?» Joe gli rivolse una compiaciuta scrollata di spalle e un sorriso a trentadue denti. «È soltanto buffo che l'archivio sia un tale casino» proseguì Priyenko. «Ho detto a mio fratello che questo Ikhmayev era qui, e lui ha cominciato a imprecare e bestemmiare, vedete, perché, se qualcuno stava origliando la conversazione telefonica, ormai sapeva che lui era al corrente dell'esistenza di un problema nell'archivio. Magari poi gli ordinano di andare a Magadan per una verifica.» «Come si fa a fuggire da una prigione come quella?» domandò Joe. «Oh, veramente ci sono molti modi. Se Ikhmayev aveva davvero i contatti che credo, evadere non sarebbe stato difficile; sarebbero bastati un modulo fasullo o un paio di guardie corrotte. No, la domanda interessante è: come è riuscito a superare il deserto ghiacciato? Credo che alcuni jacuti vivano laggiù, ma era risaputo che venivano reclutati per consegnare i fuggiaschi. La Divisione di pattugliamento del popolo settentrionale. Scoprire come sia uscito dalla Jacuzia è più importante di scoprire come sia scappato dal carcere. Ma questo, suppongo, è quello che fa un gruppo di contrabbandieri: trasferisce cose da un luogo all'altro senza rischi.» Il professore sparecchiò e riempì di nuovo i bicchieri. Joe si servì la quarta birra, e anche Anton ne prese una. «Ti sto salvando da te stesso, Joseph» gli disse «come spesso è necessario quando hai a portata di mano un tavolo carico di cibi e bevande.» Quindi si accese una delle sigarette di Lyosha. «E penso che abbia anche qualche informazione su Jaan, vero?» «Sì, certo» confermò Priyenko. «Potrebbe non significare nulla, ma il
detective vuole che ve lo dica comunque.» «Sarei io» intervenne Joe. «Il detective. Come l'ho convinto a darsi tanto da fare per un caso così lontano dalla sua giurisdizione? Crede che gli debba un favore.» Lyosha alzò gli occhi come se l'avessero morso, sbalordito e furibondo. «E naturalmente è così. Insomma, glielo devo. Un favore, sapete?» «Potrei garantire per Joseph» interloquì Anton in tono rassicurante «anche se non fosse mio nipote. Noi Jadid non dimentichiamo i debiti né ci indebitiamo con leggerezza.» Joe annuì e diede a Lyosha un colpetto sulla spalla. «Sì, certo, non mi preoccupo. Posso andare avanti? Bene» riprese Lyosha. «Ho trasmesso via fax a mio fratello le impronte digitali di Pühapäev, e mi ha riferito che combaciavano al quaranta per cento circa con quelle di Ivan Voskresenyov, un comandante della marina inviato prima a Murmansk, poi a Riga e infine al Direttorato per la strategia e la sicurezza navale a Mosca.» Lanciò un'occhiata al bloc-notes. «Secondo gli appunti, è andato in pensione nel 1991, e da allora nessuno ha più avuto sue notizie. In altre parole, niente ricoveri ospedalieri, niente funerale. Forse è ancora in Russia, ma conduce una vita molto appartata.» «E fino a che punto è attendibile una corrispondenza del quaranta per cento?» domandò il professore. «Molti giudici non la accetterebbero; questo te lo dico gratis» rispose Joe. Priyenko piegò la mano prima a sinistra, poi a destra, poi ancora a sinistra. «È difficile stabilirlo. Le impronte di Voskresenyov risalgono al... vediamo... 1957. Sono state scannerizzate su microfilm, caricate su un database rudimentale nel 1989 e quindi trasferite a un sistema di elaborazione più sofisticato solo lo scorso anno, ma mio fratello afferma che la qualità delle immagini è ancora molto scadente. Quando usano le impronte digitali, si affidano ancora quasi sempre al confronto umano. Uno dei motivi è che spesso le loro macchine non garantiscono una qualità delle immagini sufficiente a una lettura accurata. Come hai detto che si chiamano quegli aggeggi?» «Chi cazzo se ne frega?» ribatté Joe. «Joseph, per cortesia.» «Scusa, Abe. Scusa. Hai ragione.» «Okay, comunque» ricominciò Priyenko «non sapremo mai se sia una corrispondenza esatta o se non sia affatto una corrispondenza. A proposito,
un particolare bizzarro: Voskresenje significa "domenica" in russo. Il sergente Jadid mi ha detto che "Jaan Pühapäev" significa "John Domenica". "Ivan" è, naturalmente, la versione russa di "John". Piuttosto bizzarro.» «Voskresenyov è un cognome diffuso in Russia?» domandò il professore. «Be', non proprio, ma, sa, esistono moltissimi cognomi russi. Magari quindici o venti nomi di battesimo, ma tantissimi cognomi.» «Sì, a proposito» si intromise Joe. «Secondo gli amici di Sally, nessun documento dimostra che un certo Jaan Pühapäev sia emigrato dall'Estonia. Ma esiste un passaporto americano emesso a quel nome, ed è stato rilasciato dall'apposito ufficio di Hartford.» Joe diede a Priyenko una pacca sulla spalla. «Okay, ragazzo, oggi hai fatto un bel lavoro. Ma ricordati che ho appena cominciato a darti del filo da torcere, okay?» «Ho la pelle dura» replicò Lyosha, alzandosi e indossando la giacca. Era un giubbotto molto corto di pelle color tabacco, il modello con cui ogni uomo di città vorrebbe sembrare fico. Priyenko lo sembrava. «Bene. Dieci e lode per oggi.» Priyenko sorrise e liquidò il commento di Joe agitando le dita. «Pensi che stia scherzando? Vattene, adesso. Lavoreremo di nuovo insieme.» Lyosha uscì dopo aver stretto la mano a tutti e aver ringraziato Anton per la cena. «Bene» feci. «Bene» ripeté Joe. Jadid non aveva spento il forno, e la temperatura in cucina cominciava a diventare torrida, mentre si sentiva l'odore degli avanzi che bruciavano all'interno. Eppure, nessuno si mosse. «Straordinario» osservò Anton dopo una lunga pausa. «Il mio collega non era quel che era.» «Che cosa vuol dire?» gli domandai. «Che si fosse arruolato nell'esercito sovietico non mi stupisce. Che il suo nome fosse uno pseudonimo dovrebbe essere evidente per chiunque si prendesse la briga di rifletterci sopra. Ma ha cercato di trafugare dei rubini molto particolari: rubini incastonati in anelli fabbricati di nascosto, da un gioielliere sasanide che aveva anche la reputazione di alchimista. Si ipotizza che quelle pietre donino al giusto possessore una lunga vita e, se trattate e invocate nei modi prescritti, la protezione dai nemici visibili e invisibili. Che ci si creda o no, la leggenda ne accresce senza dubbio il
valore. È questo che mi stupisce. Aggiungeteci che Jaan dedicava il suo tempo libero a bere nel locale di un altro emigrato sovietico e, a quanto pare, di un altro ladro di gioielli. E poi c'è la questione dello pseudonimo che ha una strana somiglianza con il nome di un illustre colonnello della marina, guarda caso scomparso. Aggiungeteci il sospetto di Priyenko (fondato, a mio parere), secondo cui la banda di Ikhmayev aveva contatti con gli ambienti militari, e inizia a prendere forma un quadro molto singolare.» «Pensi che Pühapäev fosse una specie di ladro di gioielli?» domandò Joe. «Non proprio, e probabilmente non nel senso in cui intendi quella professione.» «Sarebbe a dire?» Sospirando, Anton adagiò lo scatolone sul tavolo. Senza parlare, lo aprì e ne estrasse una busta gialla di trentacinque centimetri per venticinque. «Mi rendo conto che una scatola così grande è piuttosto ridicola, ma garantisce il necessario effetto drammatico. A ogni modo, era l'unica cosa che avessi sottomano oggi nel mio ufficio. Ho portato alla facoltà un mucchio di elaborati degli studenti e avevo intenzione di riportarla a casa vuota. Non importa. Come lei sa, Paul, e come tu non sai, Joseph, qui dentro c'è il contenuto della cassaforte di Jaan. «Reperto numero uno.» Il professore tirò fuori dalla busta un lungo pezzo di carta ripiegata, del genere usato dalle vecchie stampanti per computer: entrambi i lati presentavano bordi perforati staccabili con fori a intervalli regolari. Chi utilizzava ancora una carta simile? «L'itinerario di un viaggio.» Certo: le agenzie di viaggio. «Jaan aveva in programma una vacanza invernale piuttosto costosa e movimentata. Avrebbe dovuto prendere un aereo da Boston a Berlino. Tre giorni dopo da Berlino a Mosca. Cinque giorni dopo a Teheran. Da Teheran sarebbe andato a Riyad, quindi ad Amman, quindi a Baghdad, quindi , (in un modo o nell'altro) a Gerusalemme, perché la tappa successiva l'avrebbe condotto da Gerusalemme a Bombay, poi a Los Angeles per una breve sosta e infine di nuovo a Boston.» «Un giretto da niente» scherzò Joe. «Esatto. Una bella avventura per un vecchio professore, non vi pare?» «Che cosa aveva in mente?» domandai. Anton mi zittì levando l'indice e tornò a frugare nello scatolone. «Reperti dal due al sei: passaporti. Estone, russo, olandese, britannico e iraniano. Joseph, sai dirmi se gli Stati Uniti
permettono la doppia cittadinanza con qualcuna di queste nazioni a eccezione dei Paesi Bassi e della Gran Bretagna?» «Non credo.» «Esatto. Non è consentita. Presumibilmente, allora, questi passaporti (che, come vedete, sono del tutto vuoti, senza neppure un nome o una fotografia) erano destinati a rimpiazzare, e non ad arricchire, la sua identità americana, che, come abbiamo scoperto questa sera, sembra aver rimpiazzato la sua identità estone. E viceversa, forse.» «E viceversa?» gli feci eco. «Quanti anni ha questo tizio? Insomma, quante persone si può essere in una sola vita?» «Be', questa sì che è una domanda affascinante. Secondo quanto mi ha riferito Joseph, il medico legale incaricato di eseguire l'autopsia di Jaan ha notato un'anomala mancanza di usura negli organi.» «Sì, ma questo che cosa dimostra? E le ricordo che il coroner è morto, che non ha mai completato l'autopsia. Magari ha solo detto qualcosa tanto per dire. Una lunga giornata, diamo una sbirciatina, rimandiamo a domani. Non ho chiamato il suo sostituto; può darsi che abbia scoperto qualcosa, ma questo... non capisco che cosa significhi.» «Forse niente. Ma questa particolare constatazione riguardante le condizioni straordinariamente buone degli organi pare più compatibile con un'osservazione attenta che con una mancanza di osservazione, vero? Se il coroner fosse stato pigro oppure avesse condotto un'autopsia frettolosa o incompetente, avrebbe senz'altro attribuito al corpo di Pühapäev le caratteristiche più probabili e non quelle più improbabili, non trova? Perché un esperto dovrebbe fare affermazioni dubbie ma facilmente confutabili?» Bella domanda, e non avevo alcuna risposta. Non ne aveva nemmeno Joe. «Reperto sette» proseguì il professore. «Un foglio di carta con la lista scritta a mano di quindici oggetti arcani: un alambicco, una torre, un ney d'oro, un ney d'argento, un trittico etiope, la scatola d'avorio dello Xinjiang, la regina piangente di Hoxton, uno sheng, la Coda del pavone, le Gabbie del Kaghan, la Mediko bianca e la Mediko rossa, il kamal di alIdrisi, il Sole nascente di Ardabil e l'Ombra del sole.» «Polvere di arcobaleno?» sghignazzò Joe, allungando ciascuna sillaba fino a spezzarla con il peso del suo disprezzo. «Che cos'è una Mediko?» domandai. Anton sorrise, rivolgendoci un'occhiata indulgente. «Nemmeno io so che
cosa sia la polvere di arcobaleno, ma immagino che abbia più importanza di quanta gliene conferisca il tuo tono. E dovresti rammentare, Joseph, Mediko Tshvalianidze, quella bellissima georgiana che cantava con il coro nella chiesa di San Cirillo.» «Non sono mai andato in chiesa, zio Abe, ricordi? Tifo per l'altra squadra.» «Certo, certo. La confusione di un vecchietto. A ogni modo, immagino siano oggetti antichi di cui Jaan era entrato in possesso negli ultimi tempi. Notate il segno di spunta tracciato accanto a ogni articolo con colori e inchiostri diversi, probabilmente perché li ha acquistati in momenti diversi.» «Gesù, Abe, avresti dovuto fare il poliziotto.» «Ti prego, Joseph, così mi lusinghi.» Cacciò di nuovo la mano nel contenitore e ne estrasse sei carnet di assegni rilegati in pelle. «Reperti dall'otto al tredici: libretti bancari: Citibank, Barclays, ABN AMRO nonché istituti di credito in Svizzera, nel Liechtenstein e nelle isole Cayman. In ogni libretto sono infilate le coordinate per il deposito. Negli ultimi tre, noterete che non ci sono assegni. Con molta probabilità il titolare deve presentarsi di persona per effettuare dei prelevamenti, ma posso anche sbagliarmi. Comunque, tutti e tre questi Paesi sono famosi perché zeppi di banche molto accomodanti con chi desidera nascondere o riciclare ingenti somme di denaro. «Ed ecco qui qualcosa di interessante. Il reperto quattordici è, come vedete, un altro foglio di carta. Vi leggerò che cosa ha scritto Jaan. Ho riconosciuto la sua calligrafia: «È vero senza errore e menzogna, è certo e verissimo. Ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per compiere i miracoli della Cosa-Una. Come tutte le cose sono sempre state e venute dall'Uno, per mediazione dell'Uno, così tutte le cose nacquero da questa Cosa Unica per adattamento. Il Sole è suo padre, la Luna sua madre, il vento l'ha portata nel suo ventre, la terra è la sua nutrice. Il padre di tutto, il Telesma di tutto il mondo, è qui.
La sua potenza è illimitata se viene convertita in terra. Separerai la terra dal fuoco, il sottile dal denso, delicatamente, con grande cura. Ascende dalla terra al cielo e ridiscende in terra raccogliendo le forze delle cose superiori e inferiori. Tu avrai così la gloria di tutto il mondo e fuggirà da te ogni oscurità. Qui consiste la Forza forte di ogni Forza, perché vincerà tutto ciò che è sottile e penetrerà tutto ciò che è solido. Così fu creato il mondo. Da ciò deriveranno innumerevoli adattamenti mirabili, il cui segreto è qui. Pertanto io fui chiamato Ermete Trismegisto, depositario delle tre parti della Filosofia di tutto il mondo. Ciò che ho detto sull'opera del Sole è perfetto e completo.»
«Che cosa cazzo è?» domandò Joe, parlando per entrambi. «La traduzione, eseguita da E.J. Holmyard, della Tavola smeraldina, talvolta chiamata anche Tavola di smeraldo o Tabula smaragdina, che è uno dei testi fondanti dell'alchimia medievale. Allegate a questo foglio vi sono le versioni in tedesco, farsi, arabo, ebraico nonché sedici righe in cirillico e in due alfabeti derivati dal sanscrito, che non capisco, ma che reputo altre traduzioni della Tavola. Reperti dal quindici al ventuno, tra parentesi, se non avete ancora perso il conto.» Anton sedette con le mani aperte sul tavolo, volgendo lo sguardo da me a Joe e viceversa. Sorrideva e gli brillavano gli occhi. Pescò dallo scatolone un libro rilegato in pelle verde, con caratteri tedeschi gotici sul dorso e sulla copertina. «Sono sicuro che entrambi avrete notato la vastità delle lingue rappresentate nelle librerie di Jaan. Dubito tuttavia che abbiate osservato una corrispondente ristrettezza di argomenti. Quasi tutti i volumi si concentravano, in un modo o nell'altro, sulla teoria e sulla storia dell'alchimia. Tra questi, molti erano dedicati alla Tavola smeraldina o alle tradizioni denominate ermetismo, ermeticismo e gnosticismo, da cui la Tavola scaturisce senza ombra di dubbio. «Questo libro, per esempio, è una curiosità di cui avevo spesso sentito parlare ma che non avevo mai visto. Sapete perché? No? Perché questa è una delle uniche tre copie mai stampate. A quanto si mormora, una è da qualche parte in Germania. Una è bruciata con Hitler nel suo bunker. Che
la terza si trovasse a una sola rampa di scale sopra il mio ufficio... Be', non avrei mai potuto immaginare una cosa simile.» «Che cosa diavolo è?» lo interruppe Joe. «Ci stavo arrivando. Questo è il diario personale di Volker von Breitzlung, uno degli astrologi di Hitler. No, no, non ridete; Hitler faceva affidamento sulle pratiche occulte più di qualsiasi altro leader occidentale, persino più di Nancy Reagan.» Tacque, sorridendo. «O di suo marito. Comunque, gli studiosi non sono concordi sull'esistenza di un simile volume e, se non fossi stato persuaso dall'antichità, dai segni di stampa e dalle tracce di usura, potrei considerarlo un falso. Potrebbe addirittura essere un falso, ma un falso di pregio e fattura tali da essere anch'esso prezioso. «Ascoltate» ci esortò, aprendolo a una pagina segnalata da un foglietto giallo. «"Il Führer mi ha chiesto ancora della Grande Pietra Verde, se fosse davvero in grado di fare quel che gli ho spiegato ieri. Gli ho risposto di sì, aggiungendo che chiunque entrasse in possesso della Pietra e sapesse come usarla non incontrerebbe mai più ostacoli insormontabili. Gli ho ripetuto che, secondo quanto si mormorava da tempo, era in Estonia, e lui ha replicato che i sovietici avevano delle mire sulle tre repubbliche baltiche ma che, anche se avesse ceduto il potere politico a quegli odiosi atei, avrebbe mantenuto in vita una rete vigile e clandestina di fedeli patrioti e sostenitori tedeschi incaricati di cercare, cercare, cercare finché avessero trovato la Pietra." «E infine» continuò, chiudendo il libro e mostrandoci un foglio piegato «abbiamo il reperto ventidue.» Lo aprì con attenzione, rivelando la polvere verde che avevo notato sul fondo della cassaforte. «Credo che Jaan, o qualunque fosse il suo vero nome, si fosse impossessato in qualche modo della Tavola smeraldina. Credo che stesse tentando di venderla, o almeno di reclamizzarne l'effetto.» Dopo qualche istante di silenzio Joe si sporse sul tavolo verso lo zio. «L'effetto? Cazzo, Abe, ti ha dato di volta il cervello? Quale effetto? Cristo, stai parlando della favola di un astrologo. L'alchimia? Che cosa voleva fare Pühapäev, salire sul primo aereo per Baghdad o l'Arabia Saudita e trasformare un po' di sabbia in oro?» «Innanzi tutto, giovanotto, ti proibisco di usare un linguaggio tanto indecoroso in casa mia.» Joe tornò ad accasciarsi contro lo schienale, gli occhi mortificati che gli sporgevano da sotto la fronte massiccia.
«Secondo, l'alchimia non è soltanto la trasformazione del piombo (o della sabbia, come l'hai volgarmente chiamata tu) in oro. È la scienza che insegna a tramutare, a comprendere la natura fondamentale dell'universo e di tutti i suoi oggetti. In teoria, un alchimista esperto sarebbe capace di trasformare qualsiasi cosa in qualsiasi altra. Metafisica fisica, potresti chiamarla. E infine, perché sei così scettico persino verso la semplice possibilità che questo oggetto particolare abbia dei poteri straordinari?» «Abe, quali poteri?» «In tutta onestà, non lo so. Non con precisione. Ma prendi le condizioni del cadavere di Jaan. Qualcosa deve avergli consentito di arrestare, rallentare o magari addirittura invertire il normale processo di invecchiamento degli organi. Altrimenti come spieghi il suo stato?» «Un coroner incompetente, ecco come.» «Puah. Sei cinico. Un cinico prematuro. Joseph, non mi riferisco al genere di cose che potresti trovare nel negozio di cristalli in Prescott Street. Non mi riferisco a una moda new age o a qualcosa di fronte alla quale annuire con solennità bevendo una tazza di... che cos'è quella porcheria che piace così tanto a tua cugina Mira?» «Il chai?» «Esatto... chai. Riconosco che vi è una certa vaghezza, una mancanza di specificità nella descrizione di quanto la Tavola sa fare, ma vi sono straordinarie analogie nella letteratura sull'argomento. Analogie tra le culture, tra le epoche, analogie tra autori che non avrebbero mai potuto leggere l'uno le opere dell'altro. Alcuni accenni a una grande tavoletta di pietra verde compaiono inoltre nella letteratura alchemica di numerosi Paesi, e questo oggetto viene sempre definito come qualcosa che separa e purifica, qualcosa che si libera della materia morta e ringiovanisce quella viva. Come te lo spieghi?» «Be', una coincidenza, prima di tutto...» «Sciocchezze. La letteratura non ammette coincidenze.» «Forse non ci possono essere coincidenze in un solo libro» ribatté Joseph. «Ma è certo che tutti i miti sono simili pur venendo da posti diversi. Comunque, se dovessi scegliere tra la coincidenza e una qualche prova indiziaria (e dico "prova" tra grandi, enormi, gigantesche virgolette al neon rosso fuoco), opterei per la coincidenza.» «Ha davvero importanza?» interloquii. Smisero di bisticciare e mi guardarono. «Insomma, diciamo che Jaan aveva questo gioiello o l'aveva trovato. Concordate entrambi sul fatto che sia possibile, giusto? Aveva
cercato di ricettare qualcosa in precedenza, e quel barista, Eddie l'Albanese, è un contrabbandiere bell'e buono. Perciò è plausibile che Jaan avesse questo oggetto. Che abbia dei poteri straordinari oppure no, ha tentato di venderlo, giusto? La procedura (trovare un acquirente, contattare i complici in altri Paesi, versare i soldi su un conto estero non rintracciabile) è sempre la stessa. Sul semplice piano accademico (senza offesa, naturalmente), posso capire perché le interessa sapere se la Tavola avesse dei poteri oppure no, professore. Ma tutto il resto (il viaggio, le vendite, le azioni di Jaan) sarebbe identico sia che la pietra fosse solo un grosso pezzo di smeraldo sia che fosse un grosso pezzo di smeraldo magico, giusto? Insomma, l'unico elemento davvero importante è il fatto che i compratori ci credessero.» «Il ragazzo ha ragione» osservò Joe. «A proposito, quanto pensi sia grande, Abe?» «Non lo so con esattezza. Secondo la leggenda più diffusa, Noè la portò con sé sull'arca, e Sarah, la moglie di Abramo, la trovò fra le braccia di un sacerdote che giaceva morto in una grotta. Qui, nel libro di von Breitzlung, viene chiamata "Grande Pietra Verde". Le parole "tavola" e "tavoletta" non sono molto esplicative; nessuna delle due indica le vere dimensioni e, a quanto ne so, entrambe vengono usate con frequenza più o meno uguale per designare il medesimo oggetto. Ma se quella sul fondo della cassaforte era davvero la polvere della Tavola, e se la cassaforte è davvero stata acquistata allo scopo di custodirvi la Tavola, sarebbe quasi sicuramente lo smeraldo più grande mai conosciuto. All'incirca le dimensioni di un foglio di carta legale, diciamo? Dovrebbe avere quella grandezza, vero, affinché un uomo adulto, anche se un uomo adulto molto minuto, potesse stringersela al petto? Riuscite a immaginare il valore di una simile gemma? Milioni? Decine, centinaia di milioni? Sarebbe incalcolabile. Insomma, sarebbe letteralmente incalcolabile.» «Ehi, che cos'erano le altre cose della lista?» domandò Joe. «Quali altre cose?» «La torre, l'alambicco, la Regina piangente... quella roba.» «Antichità, suppongo. Io non vedo alcun legame tra questi articoli disparati. E voi?» «Sì. Sono tutte antichità.» «Be', ovviamente sì. Intendevo un collegamento concreto.» «Questo è abbastanza concreto. Se definisci qualcosa un'antichità anziché un vecchio pezzo di merda in soffitta, implichi che ha un valore.
Che vale qualcosa. Magari Jaan non era solo un ladro di gioielli; magari era il ricettatore di una banda di ladri specializzati. Sarebbe stato la persona adatta, credo.» «Interessante. Sembra che nutrisse un profondo interesse per oggetti dal passato misterioso.» «Appunto» ribadì Joe. «Questo li rende ancora più preziosi. Ricchi svitati che passano le giornate a fare yoga e tai chi, dormendo sotto una tenda a ossigeno e cercando un modo per vivere più a lungo. Questo farebbe lievitare il prezzo di tutta quella roba.» «Mmm» borbottò Anton, togliendosi gli occhiali e massaggiandosi il dorso del naso. «Continuo a credere che vi siano più cose in cielo e in terra, Joseph...» 367 «Sì, l'ho letto anch'io. Concordiamo di discordare su questo punto. Quel che voglio fare ora è perquisire la casa di quel tipo.» «I piedipiatti del posto non ce lo permetteranno mai» intervenni. «Anche se non porto Sally e lei mi aspetta in auto?» «Sì.» «Allora non glielo chiediamo. Che cosa mi dice della sua amica, l'insegnante di musica? Avrà la chiave?» «A essere sincero, non credo sia una buona idea. Ho accettato di non ficcare il naso in questa storia per un paio di giorni.» «La ragazza l'ha pregata di fare marcia indietro? Perché?» «Ha detto solo che non voleva pensarci. Vuole che Jaan riposi in pace.» «Stronzate.» «Forse è ancora piuttosto scossa» azzardò Anton. «Non mi pare improbabile.» «Bene, che sia pure scossa, ma perché costringere anche Paul a lasciar perdere?» «È andata su tutte le furie quando ha scoperto che avevo parlato con la polizia» aggiunsi. «Sì? Be', non importa. Di lei ci preoccuperemo dopo. Ma scommetto qualsiasi cosa che riesco a entrare nella casa di quell'uomo.» Io e Anton non fiatammo. «Chi tace acconsente. Comunque, sono soltanto le nove; non ho niente da fare fino a molto più tardi. Ma berrei volentieri un'altra birra.» «Joseph, ti sei appena scolato tante birre durante un solo pasto quante io ne consumo in un mese» gemette Anton.
«Sì, lo so. Non intendevo qui. Penso che dovremmo fare un salto da Eddie mentre andiamo a Lincoln.»
Il Sole giallo
Non vi sono albe in mare. Quando, dalla coffa, l'osservatore attento avvista i primi bagliori gialli che si insinuano nel cielo, è innanzi tutto sollevato, a prescindere dal fatto che il suo sentimento dominante sia la felicità o l'inquietudine. Le albe gialle indicano l'approssimarsi della costa: la vedetta sta per rimettere piede sulla terraferma. Søren Åstergaard, Ricerche a favore della vita
15 dicembre 1989 Aubrey College, Oxford Al primo assistente medico Reparto di psichiatria, James Hinchcliffe Hospital La presente accompagna il signor K. R. Prasad, vicepreside di facoltà dell'Aubrey College, e il signor Benjamin Glantz, un nostro specializzando in condizioni di grave afflizione. Come sicuramente apprenderà, oggi il college ha subito una terribile perdita. Senza volerlo, il signor Glantz è rimasto direttamente coinvolto, perché è stato lui a rinvenire il corpo del dottor Dimbledon. Questa mattina era in un tale stato di apoplessia nervosa che per il momento ho ritenuto opportuno affidarlo alle Sue cure. So che il signor Glantz è un giovanotto capace e molto intelligente (sebbene presenti una disposizione ansiosa e piuttosto impressionabile) e mi auguro che, dopo qualche giorno di riposo in un ambiente sereno, tornerà in sé. Ho una richiesta particolare e spero che, in considerazione del Suo rapporto di lunga data con questa università, sarà disposto a soddisfarla. Avrà senz'altro sentito qualche voce su quanto è accaduto qui, ed entro domani potrà leggere ogni dettaglio nei nostri giornali più scandalistici e meno autorevoli. Per favore, non rivolga alcuna domanda al signor Glantz e, per favore, non sollevi l'argomento al suo cospetto. È giovane e sensibile, ed è rimasto molto turbato dal ruolo, seppur secondario, che si è ritrovato a svolgere in questi avvenimenti. La prego di frenare la curiosità finché il ragazzo resterà da Lei. Naturalmente, preferirei che la frenasse anche dopo, ma ho abbastanza buon senso da non moraleggiare di fronte alla fama e all'inchiostro, per quanto entrambi possano essere effimeri.
A ogni modo, eccolo qui. Lo tratti bene. Distinti saluti, Sir Peter Allham Rettore, Aubrey College 15 dicembre 1989 Al personale e ai fellows dell'Aubrey College Ormai saprete che il dottor Darius Dimbledon, tutor anziano e illustre fellow di questo college da quasi cinquant'anni, è morto oggi pomeriggio. Il dottor Dimbledon è arrivato all'Aubrey all'inizio della guerra, e da allora è stato una presenza costante e familiare. Inutile dire che ci mancherà moltissimo. Sono a conoscenza delle numerose e macabre dicerie riguardanti la causa e le circostanze della sua morte, e preferisco non commentarle. Vi invito a fare altrettanto, soprattutto con i reporter appostati poco oltre il nostro cancello, perché attireremo senza dubbio parecchia attenzione salace e indesiderata da parte dei media. Mi sento in dovere di ricordarvi che il dottor Dimbledon ha vissuto presso il nostro istituto per tutta la sua permanenza in carica: non aveva alcuna famiglia a parte noi, e in momenti come questi dovremmo trattare le questioni del college come questioni di famiglia. La polizia cittadina e universitaria è impegnata in un'indagine accuratissima e, qualora venisse dimostrata l'ipotesi dell'omicidio, sono sicuro che chiunque abbia perpetrato questo abietto crimine verrà consegnato a una giustizia rapida e severa. Sono certo che offrirete agli investigatori la Vostra piena e fervida collaborazione. Noterete la presenza di un poliziotto in portineria. È una misura di routine volta a garantire la sicurezza di tutto il personale, dei fellows, dei visitatori e, quando rientreranno, anche degli studenti, e non deve assolutamente allarmarVi. Le esequie del dottor Dimbledon si terranno domani alle quindici nel cimitero dell'università. Questa sera alle diciannove siete tutti invitati nella cappella del college per una funzione commemorativa celebrata dal reverendo Wethersby. Cordiali saluti, Sir Peter Allham Rettore, Aubrey College 16 dicembre 1989 Dal «Times» Il mio ex compagno di scuola «Hammy» (a voi noto come Sir Peter) Allham mi ha telefonato ieri per mettere a mia disposizione gli alloggi del rettore presso l'Aubrey College qualora avessi voluto intervenire alla funzione commemorativa per il dottor Darius Dimbledon, l'ultimo fellow rimasto dei miei giorni alcioni all'università. Dimby era un vecchio reazionario già allora, e
comunque io e la signora P dovevamo assistere alla prima di Rusalka al Covent Garden, così mi sono scusato, e Hammy ha promesso di chiamarmi la prossima volta che si avventurerà fuori da Oxford per venire nella metropoli. Si è impegnato ad accettare la mia offerta al più presto, specificando che l'ultima settimana è stata molto faticosa. Ma che cosa significa «molto faticosa» per un docente universitario, Hammy? Terminare la scorta di Fino e doversi accontentare dell'Amontillado finché il tesoriere sborsa i soldi per altre cinque o sei casse? Diario sociale di MD 17 dicembre 1989 Al rettore Allham Con il presente messaggio desidero informarLa che la polizia ha finito di interrogare chi ha partecipato alla conferenza e pernottato negli alloggi dell'Aubrey College all'epoca della tragica morte del dottor Dimbledon. Come sono spiacente di doverLe comunicare, un uomo che si era iscritto al convegno e che ha ritirato la chiave dal sottoscritto sembra essere scomparso. Si chiama Federico Soares, e ricordo che era un tale piuttosto piccolo, dai capelli scuri e di corporatura media, con la carnagione di uno spagnolo o di qualcuno proveniente da quelle zone. Non mi ha restituito la chiave, e nessuno degli altri partecipanti l'ha visto, o almeno così mi è stato riferito. Lascerò le ulteriori decisioni al riguardo nelle Sue abili mani, ma mi pareva giusto avvertirLa, e mi permetto inoltre di porgerLe le mie più sentite condoglianze, perché anch'io conoscevo il dottor Dimbledon, seppure - ne sono certo - non bene quanto Lei. Grazie, Barry Finch Portiere capo, Aubrey College 17 dicembre 1989 Al rettore Sir Peter Allham Poche righe per informarLa che domani mattina dimetteremo il signor Benjamin Glantz. Gli abbiamo prescritto un trattamento a base di Diazepam e raccomandato di continuare la consulenza e/o la terapia finché lo riterrà necessario. Come afferma nella Sua lettera, il signor Glantz è un giovanotto dotato e intelligente, ma l'educazione piuttosto protettiva (assenza di ristrettezze economiche, elevate ricompense in cambio del profitto scolastico, genitori la cui apprensione assumeva talvolta un carattere dispotico e soffocante) non l'aveva preparato allo shock che ha subito. Confido che perdonerà la mia generalizzazione, ma la tendenza americana a «sviscerare» i problemi sfocia spesso in una sorta di ossessione: naturalmente, è impossibile che il signor
Glantz cancelli l'orrore di cui è stato testimone, ma ha incontrato altrettante difficoltà nel superarlo. Ora sembra tuttavia abbastanza calmo e lucido, tanto che trattenerlo ancora qui gli farebbe probabilmente più male che bene. Grazie per averlo affidato alle nostre cure. Ovviamente, io e i miei collaboratori seguiteremo a rispettare il Suo invito a non discutere del signor Glantz con i rappresentanti della stampa. Auguro a Lei e al college di mettere a tacere la faccenda quanto prima. Distinti saluti, dottor Sanjeev Singh Primo consulente psichiatra James Hinchcliffe Hospital 19 dicembre 1989 A Sir Peter Allham, rettore dell'Aubrey College Grazie per aver esposto al ministro degli Interni i Suoi timori riguardo a uno dei partecipanti alla conferenza europea di management da poco tenutasi presso il Suo istituto. Il ministro mi ha riferito la vostra conversazione, e il mio ufficio è stato incaricato di indagare sulla scomparsa di Federico Soares. Innanzi tutto, mi rincresce doverLa informare che non abbiamo alcuna notizia del signor Soares. L'ufficio luso-iberico ritiene che il nome sia di indubbia derivazione portoghese. Non sappiamo se quest'uomo sia o fosse di origine o cittadinanza portoghese o brasiliana. A giudicare dalla descrizione del signor Finch, consideriamo improbabile che venga da una delle nazioni africane lusofone (Angola, Mozambico, Guinea-Bissau, Capo Verde oppure São Tomé e Príncipe), anche se ciò è comunque possibile. Si è iscritto al convegno come rappresentante delle PDL Industries, inviando la documentazione a una casella postale di Brema. Non esiste un'azienda con questa denominazione a Brema né nel resto della Germania, e la corrispondenza che giungeva a Brema veniva inoltrata a un'altra casella postale in Turchia. Ciò non dimostra tuttavia l'esistenza di una frode, perché la combinazione di una società fantasma in Germania e di un recapito in Turchia non è poi così rara. Detto questo, un imprenditore turco-tedesco avrebbe solitamente un nome turco, non portoghese. Vi sono inoltre sei cittadini tedeschi e residenti stranieri che si chiamano Federico Soares; quattro hanno meno di sedici anni, uno ne ha settantacinque, e l'unico dell'età adatta lavora presso la BMW come esperto dello sviluppo prodotti e non si è allontanato da Stoccarda negli ultimi nove mesi. Nelle sei settimane precedenti la conferenza, sono giunti in Gran Bretagna tre uomini di nome Federico Soares. Due sono ripartiti nel giro di tre settimane, e l'unico rimasto fa escursioni tra i monti Pennini da dieci giorni con un tour organizzato, sempre in compagnia di guide e altri turisti. Nei tre giorni dopo il
convegno, nessun Federico Soares è uscito dalla Gran Bretagna. Ciò significa che è ancora nel Paese con un nome diverso (nel qual caso il mio ufficio lo troverà) o che si è iscritto con un nome falso, nel qual caso abbiamo purtroppo poche speranze di rintracciarlo. Convincere i dipartimenti di polizia stranieri a offrirci il loro appoggio in una situazione come questa, in cui qualcuno è collegato a un crimine da prove tutt'al più indiziarie, è molto difficile. Ma continueremo le indagini. Le riferiremo eventuali novità, e confidiamo che Lei farà lo stesso con noi. Cordiali saluti, Reginald Danvers, responsabile dei servizi Direttorato per l'immigrazione e la cittadinanza Ministero degli Interni 19 dicembre 1989 Dal «National Herald» La polizia della Thames Valley è giunta a una battuta d'arresto di fronte al presunto assassinio di uno dei docenti di Oxford con la maggiore anzianità di servizio. Quattro giorni fa, il dottor Darius Dimbledon, fellow dell'Aubrey College da quasi cinquant'anni, è stato trovato morto nella sua stanza. A rinvenirlo è stato uno studente che sarebbe entrato nella camera per errore, credendo che fosse la sua. Il giovane, che alloggiava nel locale attiguo, era tornato molto tardi e piuttosto stanco. L'Aubrey College non ne ha rivelato il nome, e il personale universitario si è rifiutato con ostinazione di rispondere a qualsiasi domanda sul suo conto. Un componente dello staff, che desidera restare anonimo, ha affermato che il corpo del dottor Dimbledon aveva subito «cose orribili», ma non ha voluto aggiungere altro. In via ufficiale, la polizia non ha ancora classificato la morte del dottor Dimbledon come omicidio. Quando gli abbiamo domandato come pensava fosse deceduto il professore, Henry Standage, il capo della polizia della contea, ha risposto: «A causa di ferite che potrebbero essere autoinflitte, che potrebbero derivare da un incidente, ma che non indicano necessariamente un assassinio». In via ufficiosa, le indagini procedono però come se fosse stato commesso un crimine. Secondo una fonte interna alla polizia della Thames Valley, i primi sospetti sono ricaduti su Benjamin Glantz, lo studente che ha scoperto il cadavere, ma non è stato possibile dimostrare alcun legame tra i due uomini, e un'altra fonte sostiene che il signor Glantz non è più sotto inchiesta. Il silenzio della Divisione investigazioni criminali della Thames Valley ha alimentato voci di ogni genere. Richard Frosk, inviato dell'«Incandescent» per il Medio Oriente, ha asserito dalla sua villa di Beirut che «gli oscuri tentacoli
del Mossad si protendono sull'assassinio crudele, sanguinoso e accuratamente preparato del dottor Dimbledon», osservando che «sia il nome Benjamin sia il cognome Glantz sono molto diffusi negli ambienti dell'estremismo sionista in Israele e negli Stati Uniti [...]. Perché l'ambasciata israeliana non ha confermato che Glantz non è mai stato in Israele? Quali potenti personaggi hanno obbligato la polizia a modificare così in fretta il corso delle indagini?». Finora nessun altro giornale ha seguito le congetture del signor Frosk. Molti studenti dell'Aubrey ipotizzano che il professore, un uomo celibe e solitario, sia stato ucciso per motivi passionali. La polizia ha condotto ricerche frenetiche per stabilire se il dottor Dimbledon avesse avuto dissidi con qualche collega, ma non è ancora emerso nulla in tal senso. All'epoca della morte di Dimbledon, l'Aubrey e il Ripley College ospitavano una conferenza europea di management. Uno dei partecipanti è scomparso, e non è più stato rintracciato, sebbene la polizia di tutto il Paese si sia mobilitata per una caccia all'uomo segreta. Secondo Sharon Viers, membro del consiglio municipale di Oxford, «è stata una fortuna che il fatto sia accaduto quando quasi tutti gli studenti erano partiti per le vacanze invernali, e naturalmente siamo molto sollevati perché pare trattarsi di un episodio isolato e non dell'atto di un folle intenzionato a prendere di mira anche la comunità locale». Cyril Brackett, capocronista
19 dicembre 1989 Gentile signor Bowman, mi chiamo Benjamin Glantz e sono iscritto al secondo anno del corso di specializzazione in filosofia, politica ed economia presso l'Aubrey College. Le scrivo per chiederLe formalmente la sospensione della mia borsa di studio Rhodes per il resto di quest'anno accademico, come mi ha consigliato di fare durante la conversazione telefonica di qualche ora fa. Come suppongo saprà, sono rimasto direttamente coinvolto nei recenti fatti verificatisi all'Aubrey. Ho scoperto il corpo del dottor Dimbledon e, a causa del trauma, ho trascorso due giorni nel reparto psichiatrico del James Hinchcliffe Hospital. Mi sento ancora molto nervoso all'interno dell'università, soprattutto perché alloggio nella camera attigua a quella del dottor Dimbledon. Credo che, per la mia salute, sarebbe meglio se interrompessi gli studi per qualche tempo. Se dovesse avere qualche dubbio riguardo alle mie condizioni, o se dovesse credere che stia simulando la malattia, la prego di contattare il dottor Sanjeev Singh del James Hinchcliffe Hospital o il rettore Sir Peter Allham, che è stato molto disponibile con me negli ultimi giorni. Se invece dovesse avere qualche dubbio sulla mia serietà di studente, La prego di contattare il professor
Trelawney, il mio tutor, che garantirà per la qualità del mio lavoro. E se dovesse aver bisogno di qualsiasi altra delucidazione per vagliare e soddisfare la mia richiesta, non esiti a chiamarmi. Come forse immaginerà, desidero davvero tornare a casa, in un ambiente familiare, il prima possibile. La ringrazio sin d'ora per l'attenzione e spero di ricevere presto buone notizie. Cordiali saluti, Benjamin Glantz
21 dicembre 1989 Caro signor Glantz, grazie per la Sua lettera. Dopo la nostra conversazione telefonica iniziale, ho contattato gli altri membri del comitato di supervisione della Rhodes. Non vediamo alcun motivo per respingere la Sua richiesta di sospensione della borsa di studio, e comprendiamo il Suo desiderio di tornare dalla Sua famiglia il prima possibile. La aspettiamo a Oxford nell'ottobre del prossimo anno. La prego di chiamarmi entro e non oltre il 15 agosto 1990 per confermare la Sua intenzione di tornare. Accetti le condoglianze del comitato e i miei migliori auguri per una pronta ripresa. Distinti saluti, William Bowman Presidente del Comitato supervisione borse di studio della Fondazione Rhodes
22 dicembre 1989 A Sir Peter Allham, rettore dell'Aubrey College Come mi ha chiesto, Le invio un resoconto delle indagini a una settimana dal loro inizio. Temo di non poterLe segnalare alcun passo avanti rispetto a sette giorni fa. Non abbiamo rinvenuto alcuna impronta digitale utile nelle stanze del dottor Dimbledon; per essere più precisi, abbiamo rilevato centinaia di impronte, appartenenti per lo più alla vittima. È importante ricordare che decine di ospiti, studenti e addetti alle pulizie hanno senz'altro avuto accesso a quei locali e che, senza un obiettivo specifico o la possibilità di un confronto, il progresso dipende solitamente dalla cieca casualità. Vale la pena sottolineare che gli unici punti in cui abbiamo trovato le impronte del signor Glantz sono la maniglia e il tappeto su cui è caduto. Ciò avvalora la nostra mancanza di sospetti verso il giovanotto, e se, durante gli interrogatori, l'abbiamo trattato con più durezza di quella cui è abituato, sono certo che capirà. Se sapessimo qualcosa in più riguardo allo scomparso Soares, gli daremmo sicuramente la caccia, ma, poiché sembra essere un fantasma, non
abbiamo nulla da cercare. Non ci ha fornito alcun indizio neppure la nostra solita rete di informatori e agenti sotto copertura a Oxford. Ho l'impressione che la malavita della città sia rimasta sconcertata quanto noi di fronte alla morte del dottor Dimbledon, il che è una consolazione, suppongo. Non dobbiamo dimenticare che quasi tutti i casi di omicidio nascondono almeno qualche pista e che quelli senza piste entro la prima settimana restano spesso irrisolti. La prego tuttavia di non interpretare questa osservazione come un'ammissione della nostra sconfitta, bensì soltanto come un avvertimento di quanto ci attende. Cordiali saluti, Henry Standage
23 dicembre 1989 Caro Peter, be', mi auguro che tu sia contento. Il pasticcio capitato nel tuo college ha interrotto le vacanze natalizie di molti dei tuoi compagni qui al servizio di sicurezza interno. Ormai sono ex compagni, naturalmente. Eppure, non c'è riposo per chi è stanco, presumo. Dunque Hammy ha chiamato Bumster al ministero degli Interni, Bumster ha chiamato Reg alle Immigrazioni, e Reg marcia avanti e indietro come si addice al piccolo cerbero che è. Non ha scoperto un bel niente, il che è normale per le sue limitate capacità, ma in questo caso (per quanto sia doloroso dirlo) non si può biasimarlo, perché non vi è niente da scoprire. Questo Dimbledon è stato ammazzato da un vero professionista. Le Immigrazioni non hanno concluso nulla, noi non abbiamo concluso nulla, e nemmeno Standage della Thames Valley (a proposito, è un ottimo detective, più rispettabile e professionale di quanto si possa sperare) ha concluso nulla. Nessuna traccia di Soares: niente a Oxford, niente a Londra, niente da nessuna delle spie e degli agenti del servizio di sicurezza internazionale in Armenia, Turkmenistan e New York... Solo un totale e stramaledetto silenzio. Phipps ha persino indagato di nascosto sulla mafia giapponese, la poca presente a Londra (a quanto pare, l'asportazione di un dito è una forma tradizionale di espiazione autoinflitta nella yakuza), e – indovina un po'? – non ha trovato niente. Questo Dimbledon è un vero enigma. Professore di Oxford per cinquant'anni, fa qualche lavoretto di giardinaggio per arrotondare, e all'improvviso e vittima dell'assassinio più accurato che la Gran Bretagna veda da anni. C'è qualcosa che non quadra, e il guaio è che probabilmente non sapremo mai di che cosa si tratta. Ho il fermo proposito di accantonare la questione per i prossimi dodici giorni. Ti suggerirei di fare lo stesso. È morto, Beanie, morto come muoiono tutti. Facci sapere se adocchi qualche elemento promettente del terzo anno, okay?
Sai, all'Aubrey sono stati piuttosto rari di recente, e anche nel servizio di sicurezza internazionale. Buone feste, Crumms 23 maggio 1997 Dal «New York Times» Teresa Althea Watkins, figlia di Harold e Alice Watkins di Brooklyn, New York, ha sposato ieri Benjamin Herschel Glantz, figlio di Herman e Leora Glantz di Thousand Oaks, California. L'onorevole Edward T. Harries, giudice ausiliare della Corte suprema di New York, ha officiato la cerimonia presso il Museo d'arte di Brooklyn. Hanno preso parte alla funzione anche il rabbino Adam Maisels della sinagoga Beth Shalom di Los Angeles e il reverendo Hosea I. M. Jefferson della chiesa sionista Temperance Ame di Fort Greene, Brooklyn. La signora Watkins, 27 anni, manterrà il cognome da nubile. Lavora come viceprocuratore distrettuale a Manhattan. Si è laureata presso l'università Johns Hopkins e la facoltà di giurisprudenza di Yale. Suo padre è capoconservatore delle Antichità dell'Asia meridionale presso il Museo d'arte di Brooklyn. È anche un membro fondatore e un baritono della Musica Antiqua Brooklyn, un gruppo vocale dedicato alla riproduzione storicamente informata della musica rinascimentale. La madre della sposa è l'altro membro fondatore del gruppo nonché il suo primo soprano, e insegna arti visive presso l'università di New York. Il signor Glantz, 32 anni, è da poco diventato socio dello studio legale Sanders, Clark, Monk, Brown & Garrett, che si occupa soprattutto di contratti governativi. Ha conseguito una laurea in lettere e una in giurisprudenza presso l'università di Chicago e un dottorato in lettere presso l'università di Oxford. I suoi genitori gestiscono una rosticceria a Thousand Oaks, California.
REPERTO 13:
anello di platino con uno zaffiro giallo taglio a brillante da 9,04 carati incastonato al centro. All'esterno reca l'iscrizione araba: «È il sole mattutino ed è la fine». All'interno è inciso un intreccio di
foglie acuminate. Si crede che sia uno dei tre anelli fabbricati in segreto ad Ardabil da Osman, gioielliere di corte del deposto Firooz, ultimo sovrano dell'impero sasanide, per commemorare il termine del suo regno. Il monile viene generalmente denominato «Sole nascente di Ardabil». Anche gli altri due anelli sono impreziositi da zaffiri; uno è rosso e si chiama «Sole calante di Ardabil», mentre l'altro, denominato «Ultimo sole del mondo», è nero. Il Sole calante e l'Ultimo sole sono entrambi custoditi presso la City Art Gallery di Manchester, anche se verso la metà degli anni Novanta i due gioielli e altri antichi oggetti persiani hanno girato quattro città americane. la complessità dell'incisione e la combinazione di elementi islamici (i caratteri arabi) e preislamici (la rappresentazione di elementi viventi, ossia le foglie) collocano il Sole nascente nel secolo successivo al declino della dinastia sasanide (metà dell'VIII secolo). DATA
DI
FABBRICAZIONE:
COSTRUTTORE:
negli annali sasanidi compare solo come Osman il Gioielliere, ma non sappiamo se ciò significhi che non aveva altri nomi (indicazione di origini modeste) o che era così celebre da non averne bisogno. LUOGO DI PROVENIENZA:
Ardabil, città in gran parte costruita dal re sasanide Firooz e precedentemente avamposto achemenide sul confine settentrionale dell'impero persiano. Oggi l'abitato si trova nell'Iran nord-orientale, poco distante dal confine con l'Azerbaigian. ULTIMO PROPRIETARIO CONOSCIUTO:
Darius Dimbledon, individuo senza età e docente dell'Aubrey College. Nel 1988 il dottor Dimbledon lo rubò dalla valigia del suo compagno di viaggio mentre impersonava il curatore di un museo a New York. Il furto fu scoperto solo diversi mesi dopo, al che il precedente proprietario, agendo con il tacito consenso dei suoi mandanti, riuscì ad avere accesso agli alloggi dell'Aubrey College con un raggiro e una sera si recò nelle stanze del dottor Dimbledon. Obbligò il professore a spogliarsi e a sedere sulla sua poltrona preferita con il gioiello all'anulare e procedette ad asportargli le dita
una a una con un coltellino affilato. Le dispose a formare un caduceo sulla scrivania (sebbene abbia avuto bisogno anche di varie dita dei piedi e di un pene per completare il disegno), quindi se ne andò con l'anello, la testa di Dimbledon e alcuni documenti. VALORE STIMATO:
lo zaffiro presenta una straordinaria purezza e un taglio elegante; spunterebbe senza difficoltà 5.000 dollari a carato. Considerando anche la splendida lavorazione dell'anello d'oro, la sua antichità e la sua storia, il valore potrebbe sfiorare i 100.000 dollari.
Da ciò deriveranno innumerevoli adattamenti mirabili, il cui segreto è qui.
Durante il tragitto da Wickenden a Clougham, io e Joe non vedemmo nessuno. Non c'erano automobili sulla strada né nel parcheggio del Lupo solitario. Attraversare Clougham fu come attraversare un dipinto di Clougham. Posteggiammo proprio accanto all'ingresso del bar. L'atmosfera spettrale e inquietante della città accrebbe il mio disagio, e persino Joe, che con molta probabilità sarebbe stato in grado di incantare il cadavere eviscerato di Pühapäev e persuaderlo a parlare con qualche moina, non disse quasi nulla per tutto il viaggio. Io pensavo a Hannah, naturalmente, e vacillavo tra l'ansia, la rabbia, la confusione e la melanconia, tutte infilate sotto un po' di lussuria e un pizzico di rammarico. La mia solita gamma emotiva, in altre parole. Tutto questo per un necrologio sull'ultima pagina di un giornale che qualche centinaio di persone scorre a malapena prima di gettare via, un pezzo che avrei potuto scrivere il giorno del suo decesso (Muore illustre professore emigrato, un paio di capoversi sulla sua carriera, magari la frase elogiativa di un collega e poi, nuda e patetica, l'osservazione finale: «A quanto si sa, non ha parenti vivi»). Che si era tuttavia trasformato in qualcos'altro, qualcosa che mi elettrizzava pur spaventandomi, che mi dava l'impressione di aver finalmente spezzato la campana di vetro, di aver iniziato a solcare la superficie del mare. Finalmente, nella vita, mi sentivo qualcosa di diverso da un osservatore; non avrei saputo dire se dipendesse dal fatto di procedere verso una soluzione con Joe, lavorando e pensando a qualcosa che nessun altro sapeva mentre il resto del mondo dormiva, o se avesse a che vedere con Hannah, con la possibilità di provare per lei sentimenti insieme tanto profondi e incerti in così poco tempo, oppure se fossero entrambe le cose insieme. Strattonai la cintura di sicurezza e tamburellai con le dita contro la portiera. Volevo vedere come sarebbe andata a finire. L'unica luce del Lupo solitario veniva da una partita di basket alla TV
dietro il bancone. Appena entrammo da dietro una fortezza di bottiglie Rolling Rock vuote, riconobbi il tizio dall'irriconoscibile aria mite intento a guardare la televisione: indossava il berretto «Charlie Reed - Mangimi e Sementi». «Posso aiutarvi?» grugnì, girando la testa sbronza verso di noi come se fosse sbilanciata e attaccata male. «Sì» rispose Joe, avanzando con le mani in tasca e guardandosi intorno. «Siamo amici di Eddie. È qui?» «Non l'ho visto per tutto il giorno.» «Ha forzato la serratura? Oppure Eddie le ha dato la chiave per il cliente del mese?» Joe accese le luci per accertarsi che funzionassero (funzionavano), quindi le spense di nuovo. «La porta era aperta quando sono arrivato. Non avevo voglia di andare a casa, così ho preso qualcosa dal frigorifero. Ehi, gli lascio i soldi, se è questo che la preoccupa.» «No, ma glieli lasci lo stesso.» L'uomo espirò forte, scosse il capo e tornò a concentrarsi sulla partita. «Li tiri fuori subito» gli ordinò Joe, torreggiando sopra di lui. Mangimi e Sementi posò una banconota da dieci dollari sul banco. «È un po' pochino, ma per questa volta chiudiamo un occhio.» Joe gli agitò il distintivo davanti alla faccia e lo richiuse in fretta affinché l'altro non avesse tempo di leggere quanto era lontano dalla sua giurisdizione. «Come si chiama, signore?» «Mike Venables.» «Ci faccia un favore, Mike: spenga il televisore e si sieda su quel divano laggiù.» Qualsiasi diciassettenne può testimoniare sulla velocità con cui un poliziotto che abbaia ordini riesce a dissipare la nebbia dell'alcol. Probabilmente Mike non si muoveva così in fretta da anni. Si tolse il berretto e sedette sul divano con le mani in grembo. Joe si diresse verso il retro e aprì la porta. «Okay, Mike, vedo che c'è un piano superiore. È mai salito?» «No, signore, mai.» «Sa che cosa c'è di sopra?» «Penso che ci abiti l'Albanese.» «Okay. Ha sentito qualcosa da quando è qui? Rumori, per esempio persone che camminano, acqua che scorre e roba simile?» «No, signore, agente, nemmeno uno. Solo la partita di pallacanestro alla TV.» «Okay, Mike, voglio che non si muova da quel divano. Io e il mio
compagno vogliamo controllare se Eddie sta bene. Se vede o sente qualcosa, ci chiami, okay? Ma resti lì e non faccia niente finché non glielo diciamo noi, capito?» «Sì, signore, nessun problema. Stia tranquillo.» Mike si rimise il berretto per poi toglierselo di nuovo. «Signore?» Parlava con la voce tremante di chi inizia una confessione. «Signore, ho qualche precedente, e non volevo combinare niente questa sera, capisce? Sono soltanto entrato, il locale era aperto, e Eddie mi conosce, sa? Sa che sono un tipo tranquillo nonostante quello che bevo, e sa dove vivo, perciò... ecco... Se si potesse, sa, metterci una pietra sopra e dimenticare l'accaduto, allora, sa...» «Gesù, Mike, vuole restare fermo lì e chiudere quella maledetta boccaccia? Nessuno ha intenzione di arrestarla questa sera, okay? Chiaro?» L'altro annuì, espirò e si abbandonò contro lo schienale. «Okay, dai, socio, andiamo da Eddie.» Cercai di imitare l'andatura di un piedipiatti, ma con molta probabilità camminai come se avessi preso troppo sole sulle gambe. «A suo parere, quel tizio ha capito che lei non ha nessuna giurisdizione qui?» bisbigliai a Joe. «Stia zitto e mantenga la calma; certo che no. Vede un distintivo e obbedisce. Venga qui e rimanga dietro di me; se succede qualcosa, deve succedere prima a me.» La scala era polverosa e sgangherata; i gradini cigolavano e gemevano sotto di noi. In cima alla rampa c'era una porta grigiastra tutta scrostata e una serratura che Joe scassinò in circa dieci secondi. Quando girò l'interruttore, ci ritrovammo sotto la mesta luce di una lampadina nuda, in un'immensa stanza dal pavimento di legno con alti soffitti lavorati e un caminetto di fronte all'entrata. Aveva più o meno le dimensioni del bar, abbastanza ampia da comprendere l'intero appartamento. Avrebbe potuto essere elegante, se non addirittura lussuosa, ma le assi erano marce in alcuni punti, e la vernice alle pareti era costellata di bolle e si staccava a falde. Non vi era neppure un mobile; sul lato più lontano, diversi tubi sporgevano tristi e inutili dal vano in cui, a quanto sembrava, qualcosa (una stufa? un forno? una cucina economica?) era stato strappato via. Però non c'era odore di gas, e l'alloggio era molto più freddo del locale di sotto. Accanto alla stufa mancante c'era una porta; Joe la aprì, rivelando un piccolo bagno bianco. «Se non altro c'è qualcosa di pulito» sussurrò. «Perché sussurra?» sussurrai.
Si girò verso di me con le sopracciglia inarcate e un sorriso tirato e bonario, la medesima espressione che suo zio rivolgeva agli studenti colpevoli di aver fatto una battuta fuori luogo o aver dato una risposta fiacca anche se ben intenzionata a una delle sue domande. Il bagno era vuoto come il resto della casa, altrettanto privo di specificità, come se qualcuno l'avesse non solo tirato a lucido, ma anche sventrato. Sulla soglia, mi voltai verso l'appartamento deserto proprio mentre un'auto passava lì vicino con una canzone rock a tutto volume. Qualcosa nel modo in cui le lamentose note della chitarra scivolavano e fluivano verso il basso mi rammentò un brano della musica per violoncello che avevo sentito da Hannah quando ci eravamo conosciuti, un brano che non sapevo nemmeno di ricordare, e all'improvviso lei si insinuò nella mia memoria in maniera così nitida e repentina da provocarmi una fitta di dolore. La rapidità con cui un paio di fugaci note fortuite evocarono Hannah mi sbalordì, ed ebbi la sensazione di essere sul punto di comprendere qualcosa di importante, quando Joe mi tirò per la manica, riportandomi alla realtà. «Niente di niente. Se porto i ragazzi della scientifica, magari trovano qualcosa, ma a prima vista sembra tutto pulito. Dia un'occhiata alla vasca» mi invitò, accennandovi con il mento. Chinandomi, la esaminai per il tempo che ritenni necessario, quindi mi raddrizzai. «Non vedo niente» dissi in tono piatto. «Esatto. Ha mai visto una vasca senza capelli, piccole pozze d'acqua o macchie sui rubinetti? Soltanto in una casa nuova. O in una casa pulita con tanta cura da sembrare nuova.» Al piano di sotto, trovammo Mike Venables che dormiva della grossa, russando con la testa rovesciata indietro e la bocca spalancata («Acchiappa le mosche» commentò Jadid). Joe si accostò l'indice alle labbra mentre passavamo accanto all'ubriacone e uscivamo. «Dobbiamo chiamare la polizia?» domandai. «Come sarebbe a dire? Io non sono forse la polizia?» «No, intendevo solo...» «So che cosa intendeva. Per che cosa li facciamo intervenire? Una vasca da bagno pulita?» «Una persona scomparsa?» Espirò attraverso le labbra arricciate, producendo una sorta di nitrito. «Certo, forse. Potremmo farlo. Ma dovremmo restare anonimi, perché una
cosa del genere potrebbe costarmi il posto. D'altra parte, però, come facciamo a denunciare un fatto simile senza dire chi siamo?» «Usando un telefono pubblico?» «Sì, buona idea. Ma non c'è fretta, giusto?» «Che cosa vuol dire?» «Dobbiamo ancora andare a casa di Pühapäev, giusto?» «Sì, forse.» «Allora muoviamoci. Qual è il problema?» Saltando in auto, Joe tamburellò «ra-ta-ra-ra-tà» sul cruscotto e, quando arrivò al «ra-tà» finale, ruttò due volte senza nemmeno sbagliare il ritmo. «Allen passa ancora di lì ogni tanto, e...» «Passa di lì alle... Che ore sono, le undici e un quarto? Uno sbirro di provincia? Impossibile.» «Soffre di insonnia.» «Vaffanculo. Posteggiamo dietro la casa. Se capita qualcosa, ce la battiamo.» «Le è già successo di doversela battere?» «Merda, sì» rispose, ingranando la marcia. «Io non ho sprecato la mia gioventù cercando di entrare all'università di Wickenden.» Anche Lincoln era sprofondata nel sonno, come il villaggio di un libro per bambini. Rallentammo attraversando la Station e raggiungendo il Common e, quando abbassai il finestrino, l'unico suono che udii fu lo stridore dei nostri pneumatici e l'unico odore che avvertii fu il fumo di un fuoco. «Sembra che qualcuno non abbia voglia di dormire questa sera» osservò Joe. «Questo posto mi fa impazzire. Dove sono i banjo e il fratello che si scopa la sorella?» «Cose di questo genere non succedono nel Nord. Questa è una città linda e amena.» «Se questa fosse una città linda e amena, io non sarei qui, il che mi starebbe benissimo.» «Ne dubito» lo punzecchiai. Accendendosi una sigaretta, sorrise e gettò fuori il fiammifero. «Dove viveva il professore, saputello?» Lo condussi in una strada poco a nord dell'abitazione di Pühapäev (e di Hannah), e superammo le costruzioni buie e sonnacchiose, raggiungendo un'area verde tra le due vie, da cui si vedeva il retro della casa di Jaan. Camminammo chini tra gli alberi facendo il minor rumore possibile (per
Joe significava muoversi con meno pesantezza del solito) fino alla malconcia porta di servizio. «Sarebbe logico pensare che un ladro di gioielli possa permettersi un imbianchino» commentò Joe, staccando scaglie di vernice dal legno intorno ai quattro pannelli di vetro. Bussò una volta in alto, una volta in basso, e una volta su entrambi i lati del telaio, quindi impugnò il pomello e lo strattonò avanti e indietro, le labbra strette e bianche per lo sforzo. «Più robusta di quanto credessi» disse, recuperando una torcia delle dimensioni di una penna dall'anello portachiavi e puntandola contro la finestrella. «Come pensavo. Guardi un po' qui.» Mi avvicinai. Cilindri metallici, uguali a quelli dell'ufficio di Pühapäev, attraversavano l'interno della porta. Joe bussò sul vetro; pareva che bussasse sul cemento. «Merda. Be', abbiamo tempo, immagino. Prenda questa» mi ordinò, lanciandomi la torcia, che mi scivolò tra le dita. «E cerchi di non farla cadere. Illumini la maniglia.» «Che cosa vuole fare?» «Secondo lei? Forzare la serratura» rispose. Con una mano infilò un passe-partout nella toppa, mentre con l'altra spiegava una piatta e sottile striscia di metallo estratta dal taschino della giacca e cominciava ad armeggiare con i cardini. «Ehi, si vergogna? Ha paura?» «No, solo che...» «Si rilassi. Io sono la polizia. Se qualcuno le fa qualche domanda, dica che l'ho rapita. Sente questo puzzo?» Fiutai l'aria, cogliendo il tanfo di un fumo acre. «Un semplice fuoco.» «Crede? A me non pare un accogliente caminetto. Stanno bruciando qualcosa che non dovrebbe bruciare, suppongo.» «Che cosa dobbiamo fare?» «Lei deve tenere ferma quella dannata mano ed evitare di allontanarsi. Ecco, ci sono quasi. Non è complicata come quella dell'ufficio.» Premette la sua stazza massiccia contro la porta, e quella cedette. Le luci si accesero: eravamo in una cucina sudicia. «Rilevatore di movimento» dichiarò mentre ritrovava l'equilibrio e si puliva le mani sui pantaloni. «Mi chiedo come mai non sia scattato l'allarme. Strano.» Sulla stufa erano posate due padelle, entrambe coperte da uno spesso strato di bianco grasso rappreso («Pancetta» constatò Joe, annusandole); ce n'erano altre tre impilate nel lavello. Qualunque cosa contenessero cominciava a marcire. Uno scarafaggio sbucò dal lavandino, mosse un paio di passi incerti, quindi ci ripensò e tornò indietro come un
fulmine. «Sa» riprese Joe «qualcuno dovrebbe buttare in giro un po' di benzina e incendiare questo posto. Puzza. È sporco. Le piacerebbe cucinare tra questa merda? Odio le cucine in disordine.» Una cucina in disordine è segno, oltre che di solitudine, anche della previsione di una perpetua solitudine. O quello o la previsione dell'indulgenza, la previsione che chiunque veda una cucina così schifosa sia disposto a considerarla incantevole o irrilevante. Io prevedevo la solitudine, credo, anche se non mi sembrava più una buona idea. «Vuole fare amicizia con gli scarafaggi o roba simile? Venga qui» mi gridò Joe dalla stanza attigua. La camera pareva essere stata travolta da una bufera di vestiti da vecchio: variazioni sui temi «informe» e «incolore» erano sparpagliate sul letto e sul pavimento, dove formavano strati di vari centimetri. I cassetti del comò erano stati estratti e ribaltati; il materasso era appoggiato alla parete, e qualcuno aveva tagliato il telaio del letto con la lama di un rasoio: strisce di tessuto pendevano in ogni direzione, come capelli dalla testa di un annegato. Joe scostò alcuni indumenti con la punta del piede; io raccolsi un pullover marrone macchiato di cenere, e Joe mi esortò subito a posarlo. «Meglio di no. Gesù, avrei dovuto pensarci...» La frase si spense in un sospiro esasperato. «Che cosa? Qualcosa non va? Che cosa ho fatto?» Alzò le mani allargando le dita come se avesse appena contato fino a dieci: indossava sottili guanti di lattice. «Sta inquinando la scena di un crimine. Avrei dovuto darglieli prima.» Mollai il maglione come se fosse elettrificato. «Allora che cosa facciamo?» Le barzellette sul tizio che raccoglie la saponetta sotto la doccia iniziarono a ronzarmi dentro la testa. In quel momento non le trovai spiritose. Joe sorrise storcendo le labbra e inarcando le sopracciglia. «Speriamo, immagino. Ascolti, non si preoccupi di niente per ora, d'accordo? Ha fatto quello che ha fatto. Adesso diamo un'occhiata in giro e ce ne andiamo.» Si frugò in tasca e mi lanciò un paio di guanti simili ai suoi, che indossai subito. Però non mi mossi. Non potevo finire in galera. «Ehi!» sbraitò Joe. «Mi ha sentito? È tardi, voglio tornare a casa, non dovrei neppure essere qui. La smetta di stare lì impalato. Se non vuole aiutarmi, va bene. Basta che si sieda su quella panca e si tolga di mezzo.» Mi diressi verso il pianoforte e sedetti mentre Joe girava piano per il
salotto, che era identico a quando l'avevo visto per la prima volta. Sollevò un paio di vassoi e ne sbirciò il lato inferiore; fece scorrere l'indice lungo le librerie, sfogliando un volume di tanto in tanto e liberando una nuvola di polvere nell'aria stagnante; frugò tra alcune carte sul tavolino e le definì «roba storica, roba che Abe capirebbe certo molto meglio di me». Infine si lasciò cadere con pesantezza sul divano. Gonfiò le guance ed espirò, consentendo alla stanchezza di tirargli i lineamenti verso il basso e addolcirlo leggermente. Era la prima volta che lo vedevo immobile, non intento a fumare, mangiare, giocherellare o schiarirsi la gola. Mi domandai che cosa facesse nel tempo libero, quale tipo di musica e di donne gli piacessero. Se preferisse camminare sull'erba o sull'asfalto, se trascorresse le vacanze al mare, in città o in montagna. A parte Art e il professore, era davvero il primo adulto (parenti esclusi) con cui avessi passato del tempo, e non potrei dirvi di lui nulla che non fosse ovvio. Che fosse un bene o un male (a mio parere era un male), avrei potuto fare la medesima affermazione su quasi tutte le persone che conoscevo eccetto una, e anche in quel caso solo a fatto compiuto, solo dopo aver compreso che soltanto a me importava quanto lei mi scaldasse, sciogliesse e commuovesse. Joe si prese la testa tra le mani, fregandosi gli occhi e tossendo due volte come una foca. Il rumore mi fece sussultare. Trasalii, facendo volare una matita dal coperchio della tastiera al pavimento. Chinandomi per raccoglierla, notai, proprio dietro i pedali, sotto la parte più larga dello strumento, quattro blocchi di fango. I due più vicini erano a forma di cialda e provenivano senza dubbio dalle suole di due stivali; più in là, verso la parete, vi erano altre due chiazze, dalla forma meno nitida ma più calcate nella moquette bianco sporco macchiata di cenere. «Joe?» «Sì» rispose senza muoversi, il capo ancora tra le mani. «Ha visto? Lì, sotto la panca?» Aprì un occhio con espressione scettica, inspirò e si alzò. «Che cosa c'è? Che cosa ha trovato?» Si sporse oltre la mia spalla, e avvertii la spossatezza che lo abbandonava di colpo. «Guardi là. Sa perché le orme sono così?» «Così come?» «A griglia qui e più schiacciate laggiù?» «Non ne ho idea.» «Qualcuno si è accovacciato sotto il piano. Ha appoggiato il peso sulle punte dei piedi» spiegò, indicando le due chiazze con una penna. «Ecco
perché sono più marcate. Quando ti rannicchi con gli stivali addosso, il fango si stacca appena pieghi le suole. Ecco perché assomigliano a cialde.» «Niente male» commentai, girandomi verso di lui. Liquidò il complimento agitando la mano. «Ma guardi qui» continuò, ancora chino sul pavimento. «Mi dia la torcia. Qui, vede?» Illuminò una striscia dal pianoforte alla porta: era cosparsa di impronte fresche, ma, a eccezione di quelle sotto il piano, erano abbastanza lievi da passare inosservate a meno che non le cercassi. «Dovevo portare una macchina fotografica. Merda» disse, rizzandosi e storcendo la bocca. «Mi trascino dietro tutta questa roba nelle tasche per tutto il tempo e dimentico l'unica cosa che ci sarebbe stata davvero utile. Be', pazienza.» Sbadigliando, si stiracchiò con un braccio e mi spinse più in là con l'altro, in modo delicato ma deciso. «Forza, già che siamo qui, tanto vale che strisci là sotto.» Si incuneò nello spazio tra il pavimento, i pedali, la panca e il pianoforte con tanta precisione che pareva avesse rimodellato il proprio corpo su misura per quella nicchia. Mi chiesi se sarebbe rimasto incastrato. «Ehi, la pianti di guardarmi il culo e venga da questa parte. Che cosa ne pensa di questo?» Scivolai verso di lui dall'altro lato dello strumento, cercando di tenermi in equilibrio con i pugni chiusi per evitare di lasciare impronte digitali ovunque. Lanciandomi un'occhiata, rischiarò un punto della moquette che non mi sembrava diverso da qualsiasi altro punto della moquette. Mi strinsi nelle spalle scuotendo la testa. Sospirò, mi guardò come se potessi svanire nella mia stessa ottusità e tracciò una linea per terra con il dito. «Qui. Che cos'è questa?» Una riga appena visibile correva parallela alla tastiera, dalle mie mani a quelle di Joe. Infilò l'indice nel solco e sollevò un lembo di tessuto, rivelando il pavimento in legno duro. «Che cosa ne dice?» mi domandò. Intuii che esisteva una risposta esatta. Intuii con chiarezza ancor maggiore che non la sapevo. «Non lo so. Forse dipende dal modo in cui ha posato la moquette.» «Oh, crede? Un riquadro come questo, di queste dimensioni, proprio qui. Mi dica, che cosa unisce? Che funzione ha?» Mi strinsi di nuovo nelle spalle. «Dai, proviamo questo.» Joe sferrò un pugno al pavimento ricoperto dietro di lui, quindi un altro al pavimento nudo davanti a lui: quello nudo sembrava cavo. «Vede? Forza, tenga questa e illumini qui. Bene. Ora, vede la venatura di questo pavimento? Va tutta da sinistra a destra, tutta in linee corte. Adesso guardi quell'unica lunga fessura nella
direzione opposta. Scommetto che...» Si interruppe, cacciandovi dentro le dita ed estraendo un quadrato di legno perfetto. «Pensa ancora che Jaan abbia solo posato la moquette in questo modo?» Tenne il metro quadrato di pavimento sopra quello che sembrava un corrispondente metro quadrato di puro vuoto. Suppongo sia dipeso dallo sfinimento, dalla posizione scomoda e dalla stranezza di quella giornata, ma, mentre sbirciavo là sotto, mi si offuscò la visione periferica. Mi sporsi un po' troppo in avanti e (per la prima e, spero, anche l'ultima volta in vita mia) svenni. Mi ripresi quando sbattei la fronte contro qualcosa di molto duro e molto freddo, il che smentiva l'ipotesi secondo cui Joe aveva aperto una sorta di buco per terra. Mi afferrò per la collottola e mi sollevò il viso finché fu proprio davanti al suo, e per un attimo, prima che rimettessi a fuoco e gli assicurassi che stavo bene, parve terrorizzato. Sentii qualcosa che mi solleticava la guancia e, quando me lo scrollai di dosso, avevo il dorso della mano striato di rosso. «Sì, niente sanguina come una ferita alla testa, vero?» domandò Joe con voce più alta e faceta del solito. «Ascolti, vada a sedersi laggiù, e ce ne andiamo tra un minuto. Mi faccia solo vedere che cosa c'è qui sotto, poi smammiamo. È sicuro di stare bene?» Gli risposi di sì. «Okay, due minuti, allora.» «Se per lei fa lo stesso, preferirei restare qui.» «Sì, certo. Basta che non mi tolga la luce. Forza, si sieda dall'altra parte, così avrà un po' di spazio per stendersi.» Mi spostai sull'altro lato e vidi meglio che cosa c'era sotto il pavimento: un metro quadrato di spessa roccia o metallo, con una serratura al centro. «Be', guardi qua» disse Joe, gli occhi che gli brillavano mentre recuperava il sottile pezzo di metallo pieghevole dalla tasca. Dieci minuti dopo si era tolto la giacca, allentato la cravatta e sfilato la camicia dai pantaloni. Grugnì mentre le mezzelune di sudore sotto le sue ascelle si tramutavano in lune piene e quindi in nubi, incontrandosi a metà strada sulla schiena. «Figlio di puttana!» imprecò, sbattendo l'arnese sul pavimento accanto alla serratura. «Antiscasso.» Si alzò per sgranchirsi. «O è antiscasso oppure sto perdendo il mio tocco. Opto per l'antiscasso. È una serratura ad anello, a quanto pare. Chiave speciale, magari una combinazione o qualcosa del genere. Nessuno riuscirà ad aprirla senza far saltare lo sportello.» «Un posto sicuro per custodire dei gioielli?» «Un posto sicuro per qualsiasi cosa. Soprattutto per i gioielli. Coraggio, andiamo a casa. Che ore sono?»
Consultai l'orologio strofinandomi gli occhi. «Le quattro meno dieci.» All'improvviso mi sentii esausto. «Mi faccia solo prendere questo» disse Joe, strisciando ancora sotto la panca per raccogliere il grimaldello. «Diamine. Che mi venga un colpo. Ehi, venga qui. Attento alla testa.» Puntò la torcia sui lati della rientranza, tra il livello del pavimento e quello della cassaforte. Lì, impegnati a danzare contro le pareti nere come mica tra la sabbia, vi erano granelli e scaglie verdi, più leggeri e polverosi del vetro, e anche meno lucidi. Joe ne raschiò qualcuno su un foglio di carta che poi richiuse e si infilò in tasca. «Sa... No, non importa. Un'ultima cosa» disse, alzandosi e dirigendosi verso la porta d'ingresso. «La serratura è intatta. Serve una chiave per aprirla, ma il telaio sembra liscio, niente di rotto o roba simile. Non vedo alcuna effrazione. Le finestre non sono frantumate, e nessuna delle chiusure è stata spaccata o forzata. Insomma, ci vorrebbe qualcuno della scientifica per capirci qualcosa, ma scommetto che non c'è alcun segno di scasso.» «Tranne il nostro, vuol dire?» gli domandai dal divano. Adesso ero io a tenermi la testa tra le mani, e sentivo che il mio umore cominciava a guastarsi. «Sì, tranne il nostro. Su, sloggiamo, la accompagno a casa. Ci resterebbero comunque solo un paio d'ore di buio.» Così uscimmo da dove eravamo entrati. Ci richiudemmo la porta alle spalle, e Joe riuscì a rimettere a posto la serratura, ma si vedeva che il telaio era crepato. Le mie impronte erano sparse in tutte le stanze e, pur indossando i guanti, Joe aveva camminato e strisciato quanto bastava perché anche la sua presenza fosse evidente a chiunque avesse prestato un po' di attenzione. E avevamo trovato soltanto altra polvere verde. Joe promise che il giorno dopo avrebbe riferito tutto a Sal e avrebbe mandato i federali a dare un'occhiata, per vedere se fossero riusciti a collegare qualche oggetto della casa di Pühapäev con un furto di gioielli commesso nella zona. Sembrava tuttavia una pista molto debole. O forse ero soltanto stremato e incline al pessimismo. Joe mi lasciò davanti al mio palazzo; credo che mi abbia augurato la buona notte, ma dopo qualche attimo seduto in auto ero crollato. Aprii la porta del mio appartamento e non mi presi nemmeno il disturbo di accendere la luce, lavarmi i denti o togliermi le scarpe. Ero a metà strada verso la camera da letto quando la lampada del salotto si accese e una voce familiare disse: «Lavora molto più di quanto immaginassi».
La Mediko rossa
Alcuni uomini vedranno il proprio sangue su un campo di battaglia e si abbandoneranno a ogni genere di comportamento femminile, come svenire, piangere, evacuare o ripararsi gli occhi. Altri troveranno all'improvviso il coraggio là dove prima non ne avevano: gli shogun di Toyama, per esempio, erano famosi perché scrivevano il nome del loro padrone nel sangue prima di morire. Gli uomini salutano la fine a seconda di come hanno trascorso la vita; per il codardo come per il temerario, il sangue è tuttavia un presagio di morte. Yamazaki Hideo, Battaglie famose
REPERTO 14:
la Mediko rossa. Grossa moneta (5,3 centimetri di diametro) dalla forma più o meno circolare. Un lato è di semplice rame; l'altro è rivestito di smalto scarlatto su cui è dipinta la figura di una donna che, sotto il braccio, si stringe due bambini al fianco. Nell'altra mano tiene una bottiglia verde, leggermente inclinata e tesa verso i piccini. DATA DI FABBRICAZIONE: COSTRUTTORE:
si veda La Mediko bianca.
si veda La Mediko bianca.
LUOGO DI PROVENIENZA:
si veda La Mediko bianca.
ULTIMO PROPRIETARIO CONOSCIUTO: VALORE STIMATO:
si veda La Mediko bianca.
si veda La Mediko bianca.
Pertanto io fui chiamato Ermete Trismegisto, depositario delle tre parti della Filosofia di tutto il mondo.
«Sarà stanchissimo, o sbaglio?» Tonu fumava sulla mia poltrona, il bianco della barba simile a fili dorati sotto la doppia luce della pipa e della lampada. «Come ha fatto a entrare?» gli domandai, ancora impalato con le gambe malferme sulla soglia tra il salotto e il resto dell'appartamento. «Oh, be'» fece, chiudendo gli occhi e agitandosi una mano davanti alla faccia come a rifiutare un complimento. «Quella serratura» sollevò il bastone indicando la porta «non vale niente. Deve farla sostituire.» «Sì, non è il primo che me lo dice.» «Non che possieda granché di prezioso.» Mi guardò, aspettando una risposta che non gli diedi. «Vero?» Mi strinsi nelle spalle. «Che cosa ci fa a casa mia?» «Vuole sedersi?» mi domandò, offrendomi la poltrona più scomoda. «No, voglio andare a dormire, e voglio che se ne vada.» «Sì. Sì, sì, sì» disse, perentorio. «E io voglio lasciarla dormire, ma prima devo farle un rimprovero.» Mi fece ancora segno di sedermi. Mi sentivo le gambe insieme rigide e cedevoli, come accade sempre quando si è esausti. Rimasi in piedi. «Un rimprovero per non aver ascoltato il saggio consiglio della sua amica.» Parlava in tono vivace e sommesso, come se spezzasse cracker di velluto. «Non doveva far altro che ascoltare. Ascoltare una bella ragazza. Quanto può essere difficile?» Tese una mano interrogativa e scosse la testa con falsa commiserazione. «Avrebbe potuto avere una vita lunga e felice.» «Che cosa...?» balbettai, fregandomi gli occhi e sentendo l'intestino che mi si liquefaceva appena coniugò la mia vita al condizionale passato. Si alzò, e io indietreggiai con un passo tremante e involontario. Così facendo, inciampai nella palla da baseball, che, a prescindere da dove la riponessi, sembrava chissà come trovarsi sempre nel posto meno opportuno. Caddi
come un personaggio dei fumetti, atterrando sul sedere con i piedi in aria e producendo un peto. Con una risatina pomposa, Tonu si avvicinò alla soglia tra la cucina e il salotto, dove giacevo stordito sul pavimento. «Niente di rotto, spero?» Piegai i polsi e le caviglie. Niente di rotto, a parte il mio orgoglio. Scossi il capo e feci per rialzarmi quando Tonu mi conficcò la punta del bastone nella spalla. «Piano, se non le dispiace» mi ordinò, ruotando il pomello. Un piccolo grilletto minaccioso sbucò fuori nel punto giusto, e notai che l'estremità del bastone era cava: la canna di un'arma. «Che cosa diavolo è quello?» «Bel gioiellino, questo» commentò, staccandolo da me per un attimo e ammirandolo. «Me lo sono procurato quando facevo parte della Guardia d'onore ottomana.» «Della cosa?» «Si alzi lentamente, per favore, e vada verso quella poltrona di fronte alla mia, come le ho già chiesto. Faremo un'ultima breve chiacchierata, da persone civili.» «Ha intenzione di uccidermi?» Vorrei poter dire che pronunciai la domanda in tono coraggioso. «Non preoccupiamoci del futuro per ora. Si sieda laggiù.» Mi alzai, portandomi dietro la palla per avere qualcosa con cui giocherellare, e presi posto dove mi aveva indicato. Le tendenze antiautoritarie hanno l'abitudine di svanire davanti alla bocca di un fucile. Si accostò alla porta e mi puntò contro il bastone senza posare il dito sul grilletto, come se volesse controllare l'allineamento della canna. Poi si infilò un paio di guanti di pelle nera e indossò il soprabito scuro. Si preparava ad andarsene, e io stavo facendo la stessa cosa, supposi. «Allora» disse, guardandomi con un misto di compassione e divertimento. «C'è qualcosa che desidera sapere? Un messaggio che magari dovrei riferire alla sua amica?» La mia bocca sembrava l'interno del cuscino di un divano, e sentivo il sangue che mi pulsava nelle orecchie con insistenza e rapidità allarmante. Mi tremavano le mani, e un sottile rivolo di sudore freddo mi scorreva dalla tempia alla mascella, fermandosi in corrispondenza del colletto. I film che mostrano personaggi capaci di pronunciare battute spiritose in momenti simili sono soltanto frottole. Dubito che sarei riuscito a parlare anche se avessi voluto.
Tonu si strinse nelle spalle. «Rispondono tutti di no, sa.» Poi, più per la collera che per la disperazione, mi asciugai la mano appiccicaticcia sui jeans, strinsi forte la palla e la scagliai nella sua direzione con tutte le mie forze. Onestamente, non so che cosa mi aspettassi. Presumo di aver solo voluto manifestare una protesta, per quanto debole: spaccare una finestra, ammaccare un muro, attirare un po' di attenzione. Chissà come, effettuai invece il miglior lancio della mia inesistente carriera sportiva, colpendogli il naso con un tiro veloce. La sua faccia scattò all'indietro come se fosse attaccata a una carrucola, entrambe le mani volarono verso il naso, e il fucile cadde a terra. Con il senno di poi, avrei dovuto agguantarlo subito, invece lo allontanai con un calcio, e l'adrenalina prese il sopravvento. Devo precisare che l'ultima persona con cui mi ero azzuffato era mio fratello Victor quando io avevo dodici anni e lui diciassette. Mi ero laureato presso un'università liberale, grazie a Dio; preferisco il baseball al football; detesto il pugilato e, quando mi arrabbio, tendo a diventare taciturno e fare il broncio. Tutto questo per dire che, prima di rendermi totalmente conto delle mie azioni, avevo il braccio sinistro intorno al collo di Tonu e lo stringevo con tutte le mie energie, mentre con il pugno destro gli assestavo una serie di colpi in faccia. Sentivo uno strano formicolio nella testa, come se fossi attraversato dall'elettricità, e vedevo tutto quel che accadeva dall'estremità di un lungo tunnel silenzioso. Fu la sensazione più gratificante della mia vita, e sono certo che avrei continuato fino ad ammazzarlo, se la padrona di casa non avesse bussato sul pavimento urlando: «La pianti di fare casino! Ha idea di che ore sono?». «Mi scusi» gridai a mia volta, il pugno ancora sospeso a livello degli occhi, pronto a colpire di nuovo. L'orribile musica della mia vicina mi aveva tenuto sveglio per molte notti, ma quello non sembrava il momento giusto per rammentarglielo. Quando mi fermai, notai che respiravamo all'unisono. Io ansimavo (stupito di me stesso, di quella capacità di fare male che non mi ero mai accorto di avere), e lui emise una serie di corti ansiti catarrosi, a metà strada tra sibili e sbuffi. Quando tornai a voltarmi verso di lui, si scansò d'istinto, e fu meraviglioso. Con la coda dell'occhio, vidi che la mia mano era molto malconcia, soprattutto sulle nocche, dove, immagino, i suoi denti mi avevano tagliato. Sono contento di poter affermare che lui sembrava ridotto molto peggio. Aveva la barba arruffata, gocciolante e nera di sangue; il naso pareva
deforme, quasi simile a quello di un maiale, e bolle di muco e sangue si gonfiavano ogni volta che respirava. Levai il pugno verso Tonu e, quando sussultò, gli sputai addosso. Lo lasciai andare e raccolsi il fucile. Scorsi un asciugamano attraverso la porta del bagno e rammentai: sono il tipo di uomo che dà un asciugamano a un estraneo sanguinante. Sono il tipo di uomo che lo fa anche se l'asciugamano è suo. Sono persino il tipo di uomo che prima bagna quell'asciugamano con l'acqua fredda, pur sapendo che poi dovrà buttarlo via, e a prescindere da che cosa gli abbia fatto l'estraneo sanguinante. Dopo un po' (non so quanto, avrebbero potuto essere trenta secondi o trenta minuti) sedevamo uno di fronte all'altro, entrambi a corto di adrenalina, e Tonu disse qualcosa che non capii. Gli chiesi di ripetere e, tanto per divertimento, diressi l'arma verso di lui. Fu davvero un divertimento. «Durak» bofonchiò. Le sue parole sembravano attutite e liquide, ma i suoi occhi erano ancora vivi, furbi e simili a fessure. «Durak. In russo significa idiota o scemo. Ma lo diciamo anche quando assistiamo a un momento di pura fortuna sfacciata. Quando un giocatore di biliardo manda la palla in buca con gli occhi chiusi, per esempio. Quando qualcuno è l'unico superstite di uno scontro ferroviario.» Fece una smorfia portandosi l'asciugamano al naso. «Quello che ha appena fatto lei. La sua mira. Durak.» «Come fa a dirlo? Magari lo faccio di continuo» replicai, accertandomi di avergli rivolto contro l'estremità giusta del fucile. Rise piano, più una serie di gracidii che altro. «Sì? È per questo che le tremano ancora le mani? È per questo che sembra ancor più spaventato di me?» Sollevando il bastone, glielo puntai dritto alla testa. «Pensa che abbia paura?» «Di usare quello?» Tacque, come se ci stesse davvero riflettendo su. «No. A essere sincero, no, non credo. Non in questo istante. Ma so che non è un pugile. E nemmeno un assassino.» «Da che cosa lo deduce?» «Perché io lo sono. Un assassino, intendo. E anche molto abile. Efficiente.» Sputò un frammento rosso e giallo nell'asciugamano. «La sua impresa è stata il risultato diretto della mia eccessiva sicurezza.» «È venuto qui per uccidermi?» «Be', sì. Posso avere un altro asciugamano, per favore?»
«No. È venuto qui per uccidermi?» «Per favore» piagnucolò, in tono quasi ossequioso. «Questo è fradicio. E un goccio di brandy, se ce l'ha.» «Niente brandy. E usi il soprabito se vuole ripulirsi. Voleva uccidermi?» «Sì, e se mi dà un po' di brandy, le prometto che me ne andrò senza torcerle un capello. E che non tornerò mai più. Glielo prometto.» «Se ne andrà senza torcermi un capello che le dia il brandy oppure no. Sono io a essere armato.» «È vero, è vero. Ha ragione. Bravo. Vedo che si sta abituando a questa faccenda della violenza. Ma se non mi sparasse, probabilmente tornerei, anche solo per vendicarmi delle sue maniere. Chi rifiuterebbe un drink a un vecchio sanguinante?» Abbozzò un sorriso, levando le mani in segno di resa. «Il mio lavoro si fonda sulla fiducia, proprio come il suo» proseguì. «Se intervista una persona per conto del suo insignificante giornaletto e si impegna a non rivelarne il nome, lo rivelerà? No. Ne andrebbe della sua reputazione. Lo stesso vale per me. Se prometto di non tornare, non tornerò. Inoltre, mi sono ricreduto sulla necessità della sua morte immediata. Ora credo che la sua morte naturale andrà altrettanto bene. Le spiegherò il perché in cambio di un generoso bicchiere di brandy.» Con il fucile, indicai l'ultimo ripiano della libreria, dove conservavo il whisky. Mezza bottiglia di Beam Black. «Niente brandy. Solo quello. Ma si serva pure. Vado a prenderle un altro asciugamano.» Svitò il tappo con una certa fatica e bevve a garganella. Alzatomi, mi avviai guardingo verso il bagno, il bastone ancora rivolto verso di lui, ma sembrava più interessato a scolarsi il liquore che a inseguirmi. Agguantai un'altra salvietta dall'armadio e aprii il rubinetto. Ma anziché bagnarla sotto l'acqua corrente, la immersi nel water prima di porgergliela. Tonu se la passò sulla ferita aperta che era la sua faccia. Sperai che si beccasse una terribile infezione. «Chi è lei in realtà, e chi l'ha mandata qui ad ammazzarmi?» gli domandai. Ingollò un altro sorso di whisky. «La prima domanda: il mio nome non significherebbe granché per lei. Posso assicurarle che non è Tonu. Trovo le cose. Riporto le cose al loro posto. E liquido la gente che le ha prese. Quanto a lei... be', di solito preferisco un finale pulito, ma, come ho detto, sono convinto che raggiungeremo quell'obiettivo senza ricorrere di nuovo alla violenza. Per quanto riguarda chi mi ha mandato, forse dovremmo
cominciare dall'inizio.» Si accese la pipa e mi fissò come un maestro sul punto di punire uno studente che considera simpatico pur sapendo che non dovrebbe. «Lei è molto più tenace e coraggioso di quanto mi aspettassi. Anzi, di quanto tutti si aspettassero. Scommetto che ha sorpreso persino se stesso.» Si portò l'asciugamano alle labbra coperte di grumi neri. «Può darsi. Ma non so se sia un insulto o un complimento.» Rise, emettendo un piccolo sbuffo di fumo. «Nessuno dei due, in realtà. Era soltanto un'osservazione.» «Basata su che cosa?» «Un giovane americano, privilegiato, istruito. Ingenuo, forse. Sgobba tanto per una rivista che ha forse poche centinaia di lettori? All'inizio abbiamo pensato che si sarebbe semplicemente stancato di indagare e che sarebbe giunto alla stessa conclusione di tutti gli altri: un vecchio era morto in solitudine. Poi abbiamo pensato che trovare un dente marcio inchiodato alla porta l'avrebbe spaventata tanto da dissuaderla. Infine abbiamo sperato...» «Allora siete stati voi. Ma chi sono questi "noi"? E di chi era quel dente?» Tacque con la bottiglia sospesa a mezz'aria, quindi alzò gli occhi al cielo come se aspettasse una risposta e poi si strinse nelle spalle. «Il dente apparteneva a un avido rompiscatole di nostra conoscenza. Quanto al "noi" ho sentito diverse volte l'espressione "fare il lavoro di Dio" da quando sono arrivato in America. La conosce?» «Certo.» «Be', ecco che cosa siamo. Facciamo il lavoro di Dio.» «Che cosa significa?» «Che cosa pensa che significhi?» «Credo di essere stanco» ribattei, sollevando il fucile a livello della sua testa «e sono molto vicino a spararle.» «Lei è molto lontano dallo spararmi, sa» replicò Tonu, ridendo. «Comunque, a quanto ho capito, fare il lavoro di Dio vuol dire fare un lavoro che Dio approverebbe, sì?» «Sì, esatto.» «Beneficenza, apostolato. Talvolta viene usato in senso ironico, ma in genere è questo il significato, vero?» «Le ho appena detto di sì.» «Fare il lavoro di Dio vuol dire fare un lavoro per Dio, lavorare per
conto di Dio.» «Sì. E allora?» «Ecco che cosa facciamo. Il lavoro di Dio. Solo che, anziché lavorare per Dio, facciamo il lavoro di Dio.» Bevve un altro sorso di whisky. Ne contai ancora tre nella bottiglia. Risi. «Oh, giusto. Questo spiega tutto. Grazie.» Non accennò neppure un piccolo sorriso comprensivo. «Impossibile» continuai. «Una bestemmia. Inoltre, perché dovrei...» «Una bestemmia? Sì, certo. Impossibile? Impossibile, impossibile... Sa, non so più che cosa voglia dire» mi interruppe in tono beffardo. «No, impossibile no.» Raccolse la palla da baseball, che ora giaceva accanto a lui sul pavimento. C'era una chiazza di sangue tra le cuciture, probabilmente nel punto in cui l'aveva colpito al naso. Pensai che intendesse infilarsela in tasca o scagliarmela addosso. «La metta giù» ordinai. «Che cosa? È paranoico, vero? Le ho già detto che non ha nulla da temere. Volevo solo esaminare...» «Vuole metterla giù, per piacere? La faccia rotolare verso di me.» Aspettò qualche secondo, poi si strinse nelle spalle, sorrise e obbedì. «Sa che cos'è l'alchimia?» mi domandò, chinandosi verso di me sulla poltrona. Mi piegai verso di lui sulla mia. Sarei potuto balzare su per la sorpresa se non fossi stato tanto stanco. Avrei dato entrambi gli occhi (che erano e, a proposito, sono tuttora in ottime condizioni) per vedere Anton Jadid che entrava dalla porta. Avevo bisogno di un po' di aiuto. «No. Insomma, ne ho sentito parlare, credo. Roba medievale.» Presi in considerazione l'idea di riferirgli che cosa avevano scoperto i Jadid, ma decisi che preferivo fosse lui a dirmelo. «Sa anche qualcosa in più, direi.» «No, si sbaglia.» «No? Niente? Lei, quel poliziotto e il suo colto zio non avete trovato nulla di illuminante andando a curiosare nell'ufficio di Jaan?» Non dissi niente. Spero anche di non aver lasciato trapelare niente, ma sono sempre stato un giocatore di poker mediocre. «Davvero? Bene, bene. Non posso obbligarla ad ammettere quel che non vuole ammettere. Non ora, comunque. «Spiegare che cos'è l'alchimia è difficile quanto spiegare che cos'è il
mondo.» Prese ad accarezzarsi la barba con aria meditabonda, ma si sporcò le mani di sangue e, schifato, se le pulì sul divano. «In due parole, l'alchimia è lo studio, la scienza e il processo della trasformazione. Della trasformazione volontaria. Di qualsiasi cosa in qualsiasi altra cosa.» Si appoggiò allo schienale, come se quelle frasi chiarissero tutto, e bevve di nuovo. Meno due. «Il piombo in oro, per esempio?» gli domandai con l'espressione più vacua possibile. Rise con condiscendenza. «Sì, ecco, suppongo di sì. Nessuno prevedeva che quella particolare impresa diventasse la mania che è diventata. Ma per secoli ogni imbroglione avido e ambizioso che fosse capace di leggere ha messo su bottega come "alchimista". I giovani sperperavano i patrimoni di famiglia, i re e i principi gettavano al vento la loro reputazione, i poeti e i commediografi si facevano beffe di noi. Ma quando lei...» «Mi scusi, ma ha detto "noi"?» «Sì, noi. Me compreso, e compreso il suo compianto concittadino. «Gli alchimisti, come si fanno chiamare a differenza nostra (mi riferisco alle figure della storia popolare e agli idioti che esistono anche oggi in sudici negozietti, circondati da cristalli e amuleti a buon mercato zeppi di simboli misteriosi), gli alchimisti hanno sempre creduto di poter andare avanti incespicando, per tentativi, fino a raggiungere la meta finale. La natura di quella meta cambia a seconda dell'epoca: oggi, per esempio, nessuno si dedica all'alchimia per arricchirsi, anche se un tempo quello era l'unico motivo per intraprendere uno studio tanto arduo. "Armonia", "progresso intellettuale", "conoscenza cosmica" o altre sciocchezze del genere: questi sono gli scopi onorevoli di oggi. Ma muteranno anche quelli. «Qualunque sia la strada che seguono, presumo esista una possibilità teorica che uno di questi imbecilli, aiutato dalla casualità e dalla fortuna, faccia qualche piccolo passo avanti, ma quell'ipotesi è molto più remota, per esempio, della proverbiale scimmia che, seduta davanti a un computer, riesce a digitare l'Amleto per pura combinazione. E nessuno ha tempo o pazienza illimitati. Gli individui dispongono dei settant'anni loro concessi. Inoltre, per quanto riguarda le fonti, si affidano ad altri alchimisti o a orribili interpretazioni erronee di Bacone o Paracelso. Hanno sempre la ferma convinzione di dover apportare solo qualche piccola modifica, e pensano che il successo li attenda il mattino seguente se solo crederanno con maggior fede e alzeranno un po' la fiamma sotto il distillatore.
«Ora» aggiunse Tonu, o qualunque fosse il suo nome «perché non mi dice qual è l'unica cosa che ha trovato sia nella casa sia nell'ufficio di Jaan?» «Abbiamo trovato un sacco di cose in entrambi i posti. Libri. Tappeti. Documenti. Polvere, moltissima polvere. Serrature sofisticate...» «Sì, serrature. E anche casseforti, vero?» «Sì, abbiamo trovato delle casseforti, ma non...» «E in tutte e due avrete trovato una luccicante polvere verde, giusto?» Non risposi. «E il suo amico, l'illustre professore, sapeva da dove proveniva la polvere...» La sua voce si alzò leggermente verso la fine della frase, che restò sospesa tra un'affermazione e una domanda. «Quella che avete trovato» continuò «è la polvere di un manuale di istruzioni sulla vita. Una guida che spiega come essere dei in miniatura. Illustra...» «Quelle che abbiamo trovato» interloquii «erano tracce di una gemma enorme e molto preziosa. E abbiamo anche scoperto che i legami di Jaan con alcuni ladri di gioielli non erano semplicemente probabili o indiziari.» «Il furto non c'entra niente. Quel che avete trovato vale più di quanto possa immaginare. Per esempio, sa dove è stata rinvenuta la Tavola smeraldina?» «No.» «Stretta al petto di Abramo, che giaceva nella sua caverna, prono e morto. È stata Sarah a vederla. Saprà senz'altro che cosa dice la Tavola.» «Il professor Jadid me ne ha letto una traduzione, credo. Non ricordo granché; per me non aveva alcun senso.» Pensavo che ormai fosse inutile fare il finto tonto. «Non mi sorprende; accade spesso con una traduzione scadente. Inoltre, quello che il suo amico le ha letto (quello che decine di traduzioni ufficiali e milioni di interpretazioni insensate pretendono di spiegare) è soltanto il preambolo.» «Da quale lingua è stato tradotto?» «Il preambolo? Dall'aramaico. Ma il succo della Tavola è scritto in una lingua ormai scomparsa dall'uso umano. Persino dalla memoria umana. Se la vedesse, un esperto di lingue semitiche straordinariamente abile riuscirebbe forse a mettere insieme qualche parola, ma il significato gli sfuggirebbe.» «E a lei non sfugge?»
«Be', no. Ma quella lingua mi è stata insegnata, e io l'ho insegnata ad altri. Un gruppo ristretto di noi la usa per comunicare, e la proteggiamo con molta attenzione.» «E Jaan faceva parte di quel gruppo ristretto?» «Sì. È sempre stato abile con le lingue. Ma esiste una ragione più importante per cui la parte principale della Tavola non è mai stata tradotta.» Tacque e mi guardò. Per quanto quella storia fosse bizzarra, la raccontava bene. Sapeva come ammaliare l'ascoltatore, dove disseminare i dettagli oscuri, come strapparmi con le blandizie informazioni che non volevo rivelare. «La ragione è che nessuno l'ha mai vista» proseguì, un sorriso che gli si contorceva avanti e indietro sulle labbra come un'anguilla insanguinata. Bevve un altro sorso di liquore. Meno uno. «Quando Sarah trovò la Tavola, Abramo se la stringeva al petto.» Abbracciò forte la bottiglia e sorrise tra la barba arruffata. Sembrava un passeggero del treno locale che partiva da New Lots Avenue alle quattro del mattino. «Che cosa ne pensa?» «A che proposito?» gli domandai, senza smettere di stringere il fucile. Espirò, alzando gli occhi al cielo. «Che cosa c'è scritto sul retro di questa bottiglia?» «Non lo so.» «Come mai?» «Be', perché non passo il tempo leggendo i testi pubblicitari sulle etichette del whisky. E perché non riesco a vedere attraverso il vetro.» «Esatto. Conosciamo il testo del preambolo perché un altro israelita deve aver accompagnato Sarah e trascritto le parole che comparivano su quello strano oggetto verde tra le braccia del patriarca morto. Ma la Tavola aveva anche un altro lato: quello appoggiato al petto di Abramo. Ed è quello il lato che nessuno ha mai visto.» «Allora mi sta dicendo che conosciamo solo metà circa di questa preziosissima pietra, di questo dono - peraltro molto famoso, secondo Jadid - fatto ad Abramo da Dio o da chicchessia perché nessuno ha pensato di guardare dall'altra parte?» «Proprio così» rispose, ridendo piano. «Assurdo, vero? Semplice e ovvio. Presumibilmente, non è che nessuno abbia pensato di guardare dall'altra parte. Allora gli israeliti erano curiosi quanto voi oggi. C'erano meno giornalisti, forse, ad alimentare la curiosità, comunque... Ma dopo essere stata scoperta da Sarah, la Tavola scomparve. Lei capì di che cosa si
trattava. O, ipotesi più probabile, un rabbino capì di che cosa si trattava e intuì che occorreva tenerla segreta. Non poteva essere distrutta, naturalmente, e chiunque fosse quell'uomo, non avrebbe potuto proteggerla da solo. Nessuno potrebbe. Così, è verosimile che abbia scelto persone di cui potersi fidare e che le abbia messe a guardia della Tavola. Non solo la difendevano a costo della vita, ma, con l'aiuto della stessa Tavola, prolungavano la propria vita per difenderla. «E da allora la Tavola è una leggenda. Una leggenda ispiratrice, certo, ma lo era anche la Fonte della giovinezza. Eldorado. La città perduta di Atlantide. La Camera dei leoni verdi. Che la Tavola esistesse davvero non aveva importanza se non la vedeva nessuno a eccezione di chi voleva tenerla nascosta.» «Come sarebbe a dire, prolungavano la propria vita?» «Non mi ha ascoltato? L'alchimia è la scienza della trasformazione. Sassi tramutati in soldi, anatre, diamanti o altri sassi. In qualsiasi cosa. Un corpo vecchio in uno giovane, per esempio. O, nel mio caso, un viso martoriato in uno sano. Sarei molto più in collera se pensassi che le mie lesioni fossero irreparabili. «Ma torniamo al punto. L'interesse della gente per la Tavola è piuttosto discontinuo. A intervalli di qualche decennio, qualcuno sostiene di averla finalmente "interpretata". Ormai, soprattutto in questo Paese, è però diventata così oscura che neppure i suoi presunti seguaci e scopritori attirano più l'attenzione. Ogni tanto esce un libro o un programma televisivo su Atlantide, e i bambini apprendono che la leggenda di Eldorado richiamò gli esploratori spagnoli nel Nuovo mondo. Per qualche motivo, la Tavola divenne tuttavia il sussurro dell'ombra della favola di una reliquia. E sarebbe rimasta tale se il suo ultimo guardiano non si fosse annoiato e abbandonato all'avidità verso le cose di questa terra.» «Jaan?» «Certo. Immagino che nel suo ufficio abbiate trovato anche l'itinerario di un viaggio? Di un viaggio piuttosto avventuroso?» Annuii. «Sa, non tutti sono cinici quanto un reporter alle prime armi. Anzi, il mondo è pieno di persone che sanno della Tavola e sono disposte a sborsare somme vertiginose per i suoi poteri.» «Perché mai avrebbe dovuto venderla? Se la Tavola ha le virtù che dice lei, Jaan non avrebbe potuto trasformare in soldi l'erba tagliata, la cenere della pipa o roba simile?»
Espirò. Alle sue spalle, l'argentea luce lattiginosa del primo mattino aveva cominciato a filtrare attraverso le tende. «Jaan era cambiato. Era diventato messianico. Paranoico. Qualche volta era già successo in passato, e senza dubbio succederà ancora. Dopo tutto, chi sopravvive di secoli a tutti i suoi conoscenti è destinato a subire qualche conseguenza psicologica. Jaan voleva mutare il corso della storia. Si era stancato di guardare uomini meno validi meritarsi la gloria terrena mentre lui, il guardiano e il possessore di un tesoro capace di ridurre tutti in polvere, viveva nell'anonimato. Aveva perso di vista la sua missione, aveva perso la fede, aveva perso...» La sua voce si affievolì con mestizia, e si strofinò gli occhi. «Posso farle una domanda?» intervenni, in tono più timoroso di quanto volessi. «Se la Tavola è stata rinvenuta tra le braccia di Abramo, come è arrivata in Estonia?» «Per caso, forse. Forse per volontà della provvidenza. Forse non vi è differenza tra queste alternative se non la narrazione che imponiamo agli eventi. A ogni modo, uno dei primi custodi della Tavola (dico "primi" per aiutarla a capire; in realtà, accadde molti secoli dopo la sua sparizione) fu un bibliotecario di Baghdad che divenne un geografo della corte siciliana. Costui fu assalito da un desiderio di viaggiare, da una brama di gloria terrena analoghi a quelli del suo ultimo inetto collega. «Voleva disegnare una mappa del mondo e finì per naufragare su un gelido isolotto popolato da pagani mezzi morti di fame. Sopravvisse, naturalmente (tutti noi sopravviviamo finché ne abbiamo voglia), ma alla fine si stancò. Nominò nuovi custodi che lo sostituissero e terminò la sua vita, lasciando la Tavola il più lontano possibile dal centro del mondo. Un luogo decisamente privo di pericoli.» «Ed è lì che è rimasta?» «Ed è lì che è rimasta.» «Perché l'avete spostata?» «Bella domanda» osservò Tonu, stiracchiando gambe e braccia. «I cambiamenti in quella parte del pianeta ci hanno persuaso, credo, che non fosse più al sicuro. E che l'indifferenza generale di questo Paese verso la storia rendesse l'America il luogo ideale.» Si diede un colpetto sulle cosce, finendo il whisky. «Mi ero sbagliato, e un botanico particolarmente antipatico che ho ignorato e in seguito smembrato aveva ragione, ma adesso è tutto sistemato. Ovviamente, visto quanto le ho appena detto, non torneremo in Estonia. Ma il mondo offre molte regioni remote in nazioni
oscure dove potremo comprare e scavare la strada verso la sicurezza.» «Quanti sono questi "noi"?» «Oh, non molti» rispose, ricominciando a tamponarsi la barba con l'asciugamano. Si era ripulito la maggior parte del sangue dalla faccia e, a eccezione di un rivoletto dal naso e una piccola chiazza sul labbro superiore, le sue ferite avevano smesso di sanguinare. Indicò gli anelli lasciati dalle tazze, le lattine di birra vuote e le bottiglie d'acqua sul tavolino. «Vedo che condivide il disinteresse del mio compianto collega verso l'ordine. No, non siamo in tanti.» «Uno in ogni Paese?» «Per favore» disse, sorridendo. «Cento tondi tondi? Duecento?» «Intende scrivere un articoletto su di noi?» mi punzecchiò. «Certo, perché no? Ho sempre desiderato cimentarmi con la letteratura di fantasia.» «Le assicuro che questa non è fantasia» ribatté, ridendo «e comunque...» «Quello che mi ha appena raccontato è verificabile? È molto avvincente, e lei è un ottimo narratore, ma sono certo che è ancora più bravo come ladro di gioielli. Lo era anche Jaan. O qualunque fosse il suo nome.» «E comunque» riprese, la voce che si alzava più per il buonumore che per la collera «non credo che abbia considerato la sua posizione. La sua e quella della sua amica, la signorina Rowe.» Sentendolo menzionare Hannah, mi accasciai sulla poltrona come se mi avessero dato un pugno allo stomaco. Ripensandoci, non so come avevo fatto a non prevederlo. «Lei che cosa c'entra?» domandai con prudenza, come se temessi di rovesciare qualcosa. «C'entra, eccome» dichiarò Tonu, battendo il palmo sul tavolo per sottolineare le sue parole. «Senza di lei non saremmo riusciti a fare quello che abbiamo fatto. Proprio così. Presumo che, grazie alla sua cocciutaggine, avrà scoperto i guai di Jaan con la legge. L'amicizia che aveva (e che ora abbiamo) con Vernum Sickle. Jaan ha trascorso gli ultimi anni della sua vita avendo paura di noi. Sparando dalle finestre, acquistando serrature più adatte al caveau di una banca che alla casa di un professore. È stato fortunato a non destare troppi sospetti. Siamo stati tutti fortunati da questo punto di vista. Pensa che ci avrebbe accolto a braccia aperte se avesse saputo che lo cercavamo? Possiamo sconfiggere la vecchiaia e la malattia, ma non siamo a prova di proiettile. Non siamo
affatto immuni dalla violenza fisica, come lei ha provato così bene questa notte.» «Non capisco ancora...» «Che cosa c'entri tutto questo con Hannah? Quella ragazza ha un cuore buono, per nulla condizionato dal cinismo prematuro che infetta tanti dei suoi contemporanei.» Agitò l'indice verso di me con fare beffardo. Non mi ero concesso alcuna reazione credibile oltre allo stoicismo e all'omicidio: scelsi il primo. «Lo sorvegliavamo da un bel pezzo» proseguì «e abbiamo notato che il suo unico ospite era una vicina giovane e affascinante. Così ho organizzato diversi incontri fortuiti con lei. Sarà stato, vediamo un po', parecchi mesi fa. Partecipava attivamente ai programmi estivi della chiesa, impartendo ai bambini lezioni di nuoto e musica. Molto generosa, la signorina Rowe e, detto tra noi, piuttosto fiera della sua generosità. Fin troppo felice di dare una mano.» Espirai, disgustato. «Quindi le avete solo detto... Che cosa? Devi aiutarci a uccidere il tuo amico?» «No, no, certo che no. Niente di così rude. Le ho rivelato poco per volta chi eravamo, chi era Jaan e che cosa intendevamo fare. Le ho spiegato (anzi, le ho dimostrato, dettaglio doloroso dopo dettaglio doloroso) come e perché la bontà le imponesse di aiutarci. Di mettere da parte i suoi piccoli interessi personali, i suoi sentimenti di amicizia, anche se solo per una sera.» «E vi ha creduto?» Pronunciai quella frase a metà strada tra un'affermazione timorosa e una domanda. Hannah credeva a tutto. Era stata lei stessa a confessarmelo. «Era d'accordo sul fatto che non potevamo liberare la Tavola nel mondo, come voleva fare Jaan. Allo stesso tempo, non era pronta (non è ancora pronta) per alcuni dei nostri lavoretti più sporchi. «Sa, Jaan le aveva dato la chiave di casa sua. Lei pensava di fare una buona azione cucinando per lui e lavandogli la biancheria, e lui adorava avere intorno una bella ragazza. Le ha raccomandato di nascondere la chiave, naturalmente, e di avvisarlo prima di usarla. Richiesta cui lei si è attenuta, ovviamente. Tutte le volte tranne una.» A quel punto, tacque. «Per quello che vale» aggiunse «tutti noi siamo dispiaciuti per la morte di Jaan. Hannah più di chiunque altro. Dopo tutto, è stato il suo rimorso a spingerci verso questo penoso tentativo di eliminazione.»
«Assassinio, vuol dire. Siete dispiaciuti di aver assassinato Jaan. E che cosa significa che il rimorso di Hannah vi ha spinti verso questo tentativo di eliminazione?» «Morte, assassinio: una pura questione di semantica. Qualunque cosa abbiamo fatto, era necessaria, e qualunque cosa abbia fatto Hannah, era altrettanto necessaria. Ora, il gesto inutile che la signorina Rowe ha compiuto è stato cercare di placare la sua coscienza telefonando ai vostri poliziotti.» «È stata lei a denunciare la morte?» «Chi altri? Dopo, si è accorta della posizione compromettente in cui si trovava, e da allora è stata molto più saggia, meno avventata. Comunque, se non altro, ha avuto tanto istinto di autoconservazione da usare un telefono pubblico fuori mano nel cuore della notte. Ma...» «Come sarebbe a dire, autoconservazione?» lo interruppi. «Ha affermato che Hannah si è limitata a permettervi di agire. Non è stata lei a ucciderlo, vero?» «Certo che no. Ma la scrupolosa signorina Rowe aveva permesso allo Stato del Connecticut di schedare le sue impronte digitali lo scorso autunno, durante un'iniziativa volta a facilitare l'identificazione dei bambini nel malaugurato caso che venissero rapiti. Le autorità avevano preso le impronte di tutti gli alunni della sua scuola con meno di tredici anni. Hannah, desiderosa di dare il buon esempio come sempre, era stata la prima ad andare, per dimostrare ai bimbi che non dovevano avere paura. Temeva che alla fine la polizia l'avrebbe torchiata se avesse stabilito che Jaan era morto in circostanze sospette, e temeva (a ragione, aggiungerei) che avrebbe vacillato durante l'interrogatorio. Per fortuna, abbiamo potuto contare sulla pigrizia dei piedipiatti di provincia e sulla nostra efficienza nel far apparire il decesso il più naturale possibile. Nonostante il coroner tamil, la cui morte ci addolora...» «Il Panda? Siete stati voi?» Alzò le spalle. «Ora mi fa comodo, diciamo, indurla a credere che siamo stati noi. Gli incidenti capitano e, essendo incidenti, talvolta recano vantaggi anche a chi non li merita.» «E talvolta non sono incidenti.» «Sì, certo. Talvolta. Come dicevo, a parte quel coroner sfortunato, soltanto una persona ha considerato sospetta la scomparsa di Jaan. Soltanto una persona non ha avuto il buon senso di non immischiarsi in faccende che non la riguardavano. Anzi, è diventata così curiosa da introdursi
persino nella casa del defunto in compagnia di un poliziotto violento e attaccabrighe. E immagino che chiunque fosse interessato troverebbe le impronte digitali di quella persona - le sue impronte digitali - con molta facilità là dentro, vero?» Mantenni un'espressione vacua. «E lei, che ha lavorato con tanta diligenza (con troppa diligenza, si potrebbe osservare) a un necrologio per una rivista ignota? E lei, che è stato visto con la signorina Rowe, che è entrato e uscito dal suo appartamento, che ha trascorso moltissimo tempo con una donna conosciuta, dopo tutto, solo una settimana fa? Vede? Io sono un cittadino straniero che viaggia con un passaporto falso: mi troveranno solo se deciderà di usare quell'arma. Ipotizzando che Jaan abbia lasciato il suo patrimonio alla signorina Rowe, e ipotizzando che quel patrimonio sia molto più ingente di quanto sembrasse, riesce a immaginare lo squallore di quanto potrebbe saltare fuori.» «Ha davvero lasciato tutto a Hannah?» Sospirò, esasperato. «L'ha fatto, non l'ha fatto? Se lei dovesse scegliere di rendere nota questa storia, sicuramente sì. Come vede, sarebbe stato molto meglio se avesse dato retta a Hannah. Se avesse lasciato perdere la faccenda. Avrebbe dovuto farlo allora, ma lo farà adesso» disse con fiducia. «L'unica differenza è il fardello che ora le grava sulle spalle, tutti questi dolorosi avvenimenti che non la riguardano.» «Ma la polizia sa già tutto» osservai pateticamente. «L'uomo che questa notte mi ha portato...» «Il detective Jadid, intende? È stato fotografato mentre si introduceva in casa altrui a due ore di distanza dalla sua giurisdizione» interloquì, estraendo una minuscola macchina fotografica dalla tasca interna. «Le foto sono già state spedite al signor Sickle, l'avvocato del compianto querelante. Jadid è anche stato fotografato mentre usciva da un bar di Clougham in atteggiamento sospetto; anche il proprietario del locale è, diciamo così, scomparso. Per una strana coincidenza, anche lui aveva avuto occasione di fare visita al signor Sickle per chiedergli qualche consiglio prima di svanire nel nulla. Queste foto saranno sulla scrivania del commissario Pereira entro questa mattina. Anzi, nel giro di qualche ora, se non sono già arrivate.» Scostò la tenda per consentire alla luce mattutina di entrare nella stanza. Era una giornata limpida, e i raggi del sole si riversarono nel mio salotto come alcol su una ferita. «So quanto lei che Joseph Jadid è un bravo poliziotto e che ama il suo lavoro. So anche che ha un temperamento focoso e la capacità infallibile di
irritare i suoi superiori. Con molta probabilità non verrà licenziato. Ma non avrà più nulla a che vedere con questa vicenda. Questa è la condizione che il signor Sickle ha posto per insabbiare la questione, per non divulgarla alla stampa.» Estrasse un foglio piegato dalla giacca e, mentre lo apriva, notai che la carta era di ottima qualità: spessa e uso bollo, con la filigrana visibile nel chiarore del mattino. Non so perché quel particolare mi sia rimasto impresso. «"Il detective Jadid dovrà evitare di screditare o infangare in qualsiasi modo la memoria di Jaan Pühapäev, stimato membro della comunità accademica di Wickenden e onesto cittadino di Lincoln, nel Connecticut." Questa è la lettera del signor Sickle al commissario Pereira.» «E adesso che cosa succede?» gli domandai dopo una lunga pausa rassegnata. «Adesso? Be', come le ho detto, non ho intenzione di ucciderla. E, a essere sincero, non ne ho nemmeno voglia, dopo la nostra conversazione. Quel che succede adesso dipende solo da lei. Se si sente in dovere di scrivere o indagare ancora su questa storia, non posso impedirglielo, anche se questa sua scelta procurerà quasi inevitabilmente un'imputazione a lei, Joseph Jadid e Hannah Rowe, come minimo per violazione di domicilio. Ma vuole un consiglio?» «Certo, perché no?» Quando aveva cominciato a blaterare di smeraldi, cristalli segreti e vita eterna, l'avevo giudicato un illuso, forse persino uno svitato. Anche se le sue stronzate sull'alchimia erano soltanto una copertura, erano pur sempre stronzate di prim'ordine. E io non sono altro che un produttore e un consumatore di stronzate. «Ascolti la sua amica, e lasci perdere. Dimentichi tutto. È giovane; la sua capacità di scordare, di guarire, supera le sue aspettative. Soprattutto ora che è così stanco e ha il cuore spezzato.» Tacque e mi fissò, gli occhi che controllavano come tenessi il bastone (basso e con la mano molle, finché lo rialzai di colpo quando mi guardò). «Inoltre, tutti perdono ogni tanto. Persino io, come può vedere. E in questo caso anche lei.» Tacque ancora una volta, e ancora una volta non gli sparai. «Se posso esprimere un parere ad alta voce, lei sembra un giovanotto serio e intelligente. Non riesco a capire perché rimanga in questa città.» «Be', c'è Hannah. C'era Hannah.» «Ah. Non la rivedrà mai più.» «Prego? Come fa a saperlo? Solo perché...»
«Ieri sera, quando è arrivato a Lincoln, avrà sentito odore di fumo?» «Sì.» «L'appartamento della signorina Rowe si è incendiato. Un guasto all'impianto elettrico. Una tragedia.» Balzai in piedi e gli puntai contro l'arma. «La ragazza sta bene» mi tranquillizzò, levando le mani con i palmi all'infuori e facendomi cenno di calmarmi. «Sta bene, proprio come la sua stravagante padrona di casa. In perfetta salute, ma il trauma di aver perso un amico e la casa in così poco tempo è stato intollerabile. Ha iniziato le vacanze di Natale in anticipo.» «Che cosa intende? Dov'è?» «Come ho detto, questo non la riguarda. Sarebbe un peccato, naturalmente, se il suo nome venisse calunniato in qualche modo, adesso che non è in grado di difendersi.» Avvicinandomi a lui, gli posai la canna del fucile contro la tempia. Quando sussultò inumidendosi le labbra, premetti più forte. «Vuole farlo davvero?» Gli conficcai il fucile nella testa finché non lo udii gemere. Poi, sentendo che l'adrenalina riprendeva ad aumentare e rendendomi conto del gesto che stavo per compiere, lo ritrassi di scatto e tornai a sedermi. «L'avete uccisa?» «No, certo che no. Una donna così seria, disponibile e avvenente. Una bellezza fuori del tempo, non crede? Un personaggio fuori del tempo? Eterno, si potrebbe addirittura definire.» Mi fece l'occhiolino. «No, le do la mia parola che sprizza salute da tutti i pori, anche se gli avvenimenti dell'ultima settimana hanno messo a dura prova il suo equilibrio emotivo. Non ha importanza. In ogni caso, come ripeto, non la rivedrà più.»
Il sole e la sua ombra
Come l'ala il suolo elude, come i due superano l'uno, come il giorno la notte definisce, così il sole e la sua ombra. John Devere (sedicesimo conte di Oxford), La tragica storia di Posthumus Leonatus e della sua penosissima morte
Nell'immaginazione popolare, gli inverni moscoviti sono considerati orribili: senza fine, senza sole, senza allegria, senza colore, una campagna sterile sotto un cielo che passa dal nero al grigio freddo e di nuovo al nero, rivoltandosi nelle sue sfumature come un paziente in un letto d'ospedale. In realtà, se la gelida e incessante pioggerella dell'autunno e della primavera tramuta la città nell'interno di un polmone tubercoloso, l'inverno riporta Mosca in vita come uno schiaffo a un dormiente. Tra dicembre e febbraio, per tre o forse quattro ore al giorno, la capitale brilla sotto la luce più perfetta del mondo. Nelle giornate migliori, la neve fresca sarà caduta la notte precedente, coprendo il catarro, la neve sporca, la birra versata, i gas di scarico, la cenere delle sigarette e le riviste dalla copertina patinata. Le vie larghe saranno più tranquille del solito, quelle antiche e anguste più affollate. Così era la mattina dell'ultima visita di Voskresenyov a Mosca: nel vicolo Soimonovskij, vicino alla Metrostrojevskaja, smontò dalla Zil guidata da un autista, e una madre con due bambini dai capelli color stoppa e dalle guance rosse come mele gli finì addosso. Lui stava recuperando la ventiquattr'ore dal sedile, e lei stava guardando una ragazzina sul punto di attraversare la strada. Dopo averlo urtato, la donna trasalì, si portò una mano alla gola e, rendendosi conto di chi aveva davanti (l'auto, l'uniforme, le medaglie, la borsa di vero cuoio), stralunò gli occhi e alzò la testa di scatto senza volerlo. Appena si riprese, gli lanciò tuttavia un'occhiata ferma, quasi sprezzante, e anziché stringersi i figli tra le braccia per proteggerli, si limitò a tendere loro le mani. I piccini le afferrarono, e tutti e tre fissarono
l'uomo, che pensò di sfoderare un sorriso accattivante, ma poi ritenne più opportuno ricambiare semplicemente il loro sguardo. Che fine aveva fatto la soggezione? Perché la madre non aveva circondato i bimbi con le braccia per difenderli, non aveva annuito con aria servile e non si era affrettata ad andarsene? Chinandosi per raccogliere la valigetta, Voskresenyov non riuscì a trattenere un sorriso; si raddrizzò con espressione impassibile, la donna lo liquidò con un lieve respiro a metà strada tra uno sbuffo e uno sputo, e i tre ripresero a camminare. «Sa, stanno per cambiare nome a questa via» annunciò una voce familiare al suo fianco. «Lubin. Grazie per essere venuto. E anche nel nostro vecchio posto.» «Sì, be', vicino al nostro vecchio posto, se vogliamo essere precisi.» Lubin gli sfiorò l'avambraccio e indicò davanti a sé per segnalare che avrebbero dovuto avviarsi. Seguirono la stradina verso nord-ovest, lontano dal fiume, finché incrociarono la Metrostrojevskaja, dove svoltarono a destra. A differenza di molti russi, Lubin era contrario al contatto fisico e alle manifestazioni emotive esagerate. Di solito lui e Voskresenyov si salutavano soltanto con una stretta di mano e un fuggevole cenno del capo. «Come sarebbe a dire, vicino? Siamo già vicini. Eccolo là. Non entriamo?» Il Dom Pertsova si ergeva lì davanti rosso e vistoso, come una casa di marzapane colorato. Voskresenyov adorava i pannelli esterni che raffiguravano scene fiabesche e i serpenti attorcigliati che sostenevano uno dei balconi laterali, e non poté fare a meno di sorridere quando scorse la costruzione. «Difficile credere che volessero abbattere tutto questo» osservò. «L'intero angolo della città: la Metrostrojevskaja, la Kropotkinskaja... tutte queste viuzze tortuose tra la stazione di Kropotkinskaja e il parco Kultury, rase al suolo per costruire un Palazzo dei sovietici. Sconcertante, sì, persino tragico, ma per nulla sorprendente. Sono solo contento che non siano arrivati a tanto» commentò Lubin. «Io non sono arrivato a tanto.» Lubin scrollò le spalle con indifferenza e additò la chiesa bianca con le cupole verdi lì davanti. La Sant'Ilya Obydenny, dove loro e altri innumerevoli contatti clandestini intergovernativi si erano visti negli anni dell'Unione Sovietica. Poiché i cittadini temevano una denuncia per aver messo piede in chiesa, gli edifici religiosi erano diventati posti sicuri per gli appuntamenti segreti tra funzionali governativi; qualunque persona
comune avesse spifferato qualcosa sarebbe parsa subito sospetta per via del suo eccessivo interesse verso un luogo di culto. Quanto agli appuntamenti tra burocrati, l'illiceità stessa di quei convegni li rendeva sicuri per chiunque. E quella chiesa particolare possedeva una bellezza fuori mano, una pace fatiscente e annerita dall'incenso che la rendevano uno dei punti di incontro più frequentati. «Vede?» domandò Lubin, indicandola. «Ah.» Un flusso debole ma costante di fedeli (uomini e donne, vecchi e giovani, poveri e meno poveri) entrava e usciva dal portale, alcuni impegnati a farsi il segno della croce con fervore, altri con goffaggine, come se non avessero ancora preso confidenza con quel gesto. «Anche in Estonia. In Lettonia. Ancora di più in Lituania e in Ucraina.» «Sì. Non ne dubito. Allora perché non facciamo quattro passi, invece?» «Certo.» «Vsekhsvyatskij, dato che non me l'ha chiesto» riprese Lubin dopo che ebbero camminato in silenzio per qualche minuto. «E questa via, la Metrostrojevskaja, diventerà Ostozenka.» Abbozzò un sorriso. Aveva gli oscuri modi da serpente di qualcuno che aveva dedicato la vita a manipolare e studiare le reazioni altrui. «Scusi?» «Questa strada. Si chiamava Ostozenka e tornerà a chiamarsi Ostozenka. Il vicolo dove ci siamo incontrati non sarà più Soimonovskij, bensì Vsekhsvyatskij. È ancora un segreto, naturalmente, ma i nomi prerivoluzionari si stanno diffondendo di nuovo. Sverdlovsk è stata la prima a sparire, ovviamente, per via di quel buffone alcolizzato. Con molta probabilità Leningrado sarà la prossima. Ma sono i nomi delle strade a farti aprire gli occhi. Ah, cambiamo argomento. Vede, non sapevo che avesse un fratello.» «E io non sapevo che lei avesse un figlio.» «Oh, sì» confermò Lubin, aggiustandosi la cravatta con orgoglio paterno. «Anzi, ne ho tre. Uno fa il medico (al momento sta studiando a Berlino), il secondo fa il pubblico ministero qui a Mosca, e poi c'è Saša, quello che le sta più a cuore.» «Solo dal punto di vista lavorativo, Lubin. Non ho mai conosciuto il ragazzo. E inoltre, che cosa vuole che ne sappia di cuori il figlio di un agente del KGB?» «D'accordo, d'accordo. Si calmi» replicò Lubin, la voce che si inaspriva senza tuttavia alzarsi per l'irritazione. «Non vedo santi tra i presenti.»
«Mi perdoni. Non volevo offenderla.» Lubin accettò le scuse reclinando il capo. «Ammiro chi si prende cura della sua famiglia. Soprattutto di questi tempi. È sicuro riguardo a Saša?» «Assolutamente sì. E lei riguardo a Tonu?» Lubin gli porse le copie scadenti di alcuni atti ufficiali. «Eccolo qui. Tonu Pühapäev, un elemento esemplare, ha un ruolo di responsabilità in un allevamento ovino sull'isola di Hiiumaa ed è stato da poco nominato presidente del Collettivo caseario di Paide. Può controllare lei stesso.» Voskresenyov afferrò i fogli e li scorse avidamente. «È quello che verrà privatizzato?» «Sì. Nel giro di un anno. L'acquirente è un consorzio di finlandesi e svedesi. Dicono che sarà il maggiore stabilimento caseario dei Paesi baltici. Probabilmente ne rifornirà addirittura alcuni in Scandinavia. Poiché la manodopera sovietica, e persino la manodopera dell'Estonia libera ex sovietica, costa così poco, dovrebbe anche essere la più redditizia. Abbiamo dovuto combattere con le unghie e con i denti per insediare Tonu. Gli estoni fiutano i soldi, sono peggio degli ebrei. E lei che cosa mi dice?» «Come concordato. Guardi» rispose l'altro, additando la misera casa di legno lì di fronte. «La madre di Turgenev viveva lì, in quella casetta, che è sopravvissuta a tutti gli incendi, a tutte le devastazioni e a tutti gli stupidi progetti sovietici. Ed eccola qui, bella e semplice come sempre, senza neppure una targa a decorarla.» Lubin sospirò con impazienza, spostando il peso del corpo avanti e indietro mentre camminava. Voskresenyov se ne accorse. «Come dicevo, mi dimetterò subito dopo questa conversazione. Ho la facoltà di nominare il mio successore; naturalmente, non come comandante delle Forze baltiche, che smetteranno di esistere molto presto, ma come generale dell'esercito russo. E come avevo promesso, Aleksandr Anatolyevic Lubin diventerà il generale più giovane della milizia. Ovviamente, non posso garantire la sua destinazione, ma se vuole Mosca, presumo che avrà Mosca.» «E non c'è modo di collegare questo favore a me?» domandò Lubin con una certa preoccupazione. Era la prima volta che Voskresenyov lo vedeva comportarsi da persona avida, e la vista di quell'uomo untuoso e imperscrutabile che strabuzzava gli occhi all'improvviso, inumidendosi le labbra e serrando i denti, gli trasmise una piacevole sensazione di superiorità. «Io e Saša non parliamo quanto dovremmo. Se sapesse che
sono stato io a organizzare tutto questo, ci sputerebbe sopra, ne sono sicuro. Una testa calda, come sua madre.» «Nessunissimo legame. Anonimato reciproco, come sempre, giusto?» «Certo. Anche se è strano, sa?» «Che cosa?» «Un dettaglio in cui sono incappato esaminando il suo dossier mentre mi occupavo di Tonu.» Voskresenyov si irrigidì. Credeva di aver sistemato la faccenda. «Non c'è alcun accenno a un fratello sulle carte del suo arruolamento. Niente accenni a un fratello come parente prossimo da nessuna parte. E tanto meno una spiegazione del motivo per cui due fratelli hanno cognomi diversi. Insoliti cognomi diversi, che significano entrambi "domenica" in lingue differenti.» Voskresenyov guardò il sole per poter chiudere gli occhi mentre rimproverava se stesso. Aveva falsificato i fascicoli presso l'ufficio centrale dell'esercito, ma naturalmente il KGB aveva gli originali. Avrebbe dovuto pensarci prima di coinvolgere Lubin. «Ha portato il dossier?» gli domandò, forse con un po' troppa fretta. «Portato il dossier? Come, qui? Certo che no, perché avrei dovuto? Non sono autorizzato.» «Perciò è rimasto con tutti gli altri dossier militari alla Lubjanka?» «Sì. Dove mai potrebbe essere, altrimenti?» Attraversarono in silenzio quell'angolo modesto e serpeggiante della città. «Che cosa intende fare?» domandò Voskresenyov. «Fare? A che proposito?» L'altro abbassò gli occhi su di lui, assumendo quella che si augurava essere un'espressione di sollecitudine sardonica ma sincera. «Oh. Sì, mi dimetto anch'io» dichiarò Lubin. «Come lei. Medesime condizioni, suppongo.» La sua fievole risata si tramutò in una tosse debole ma insistente che assomigliava al suono di una falce tra il grano secco. «Mi permetteranno di tenere una piccola dacia poco distante da Suzdal. L'appartamento passerà al mio figlio maggiore, che così avrà un posto dove vivere quando tornerà da Berlino. Io e mia moglie condurremo un'esistenza tranquilla a Suzdal. Tutto qui.» Annuì fendendo l'aria con la mano, come se, accanto a quella fila di alberi all'incrocio tra la Sechenovskij e la Ostozenka, volesse dividere il suo passato dal suo presente, o magari il suo presente dal suo futuro. «E lei?» domandò Lubin.
«Oh, sa... Ho un paio di idee in mente, credo. Più tempo libero. La pensione dell'esercito, basta con l'uniforme.» Voskresenyov cercò qualcosa da aggiungere, ma non pronunciò altro che qualche parola slegata. «Non l'ho mai capita davvero. Che cosa vuole fare? Quali progetti ha? Sa, si mormora che voglia tirare fuori un ladro di gioielli ingusci da Magadan. Questione riservatissima. E sa spiegarmi perché io sembro un uomo che ha trascorso quarant'anni a bere e fumare in una regione gelida mentre lei non è invecchiato nemmeno di un giorno?» «Salamoia» rispose Voskresenyov, schiaffeggiandosi le guance. «Me l'ha insegnato mia nonna: salamoia sulla pelle ogni mattina.» Lubin ridacchiò, esitante. «Salamoia? Sì, be', se lo dice lei può darsi. Ma non sono convinto... Sa, potrebbe comprare il dossier» disse in tono quasi sdegnoso. «Tutto è in vendita di questi tempi... Se volesse tenere per sé quelle informazioni, non sarebbe difficile comprare il fascicolo.» Voskresenyov non mutò espressione, anche se, appena udito il suggerimento di Lubin, si rese conto di non avere alternative. «Acquistare qualcosa dal KGB?» domandò, fingendosi inorridito. «Chi si può contattare per stringere un simile accordo?» Lubin strappò un'aletta dalla scatola di Winston Lights che teneva in tasca e scrisse un nome sul cartoncino bianco, porgendolo poi a Voskresenyov. «Questo è l'uomo che fa per lei. Molto discreto. Chiunque abbia soldi e aspirazioni sufficienti nella nuova Russia compra informazioni incriminanti da lui. E poiché tutti si rivolgono a lui, tutti sanno chi è, perciò è intoccabile. Ma forse funziona al contrario: magari, anche se tutti sanno chi è, tutti lo usano, ed è questa la ragione per cui è intoccabile. Una delle due, comunque.» «Sì, certo» ridacchiò Voskresenyov, pur non sapendo perché ridacchiasse. «Potrei semplicemente dare il denaro a lei? Distruggerebbe il mio dossier?» «Io? Neanche per sogno. Non faccio cose di quel genere, e poi a che cosa mi servirebbe il denaro? Ma grazie per avermelo chiesto.» Da quando Voskresenyov e Lubin si conoscevano e si scambiavano favori, ciascuno dei due cercava di mantenere il maggior vantaggio possibile sull'altro. Non per sfruttarlo, naturalmente, solo per averlo. Variazioni gerarchiche costanti e infinitesimali consentivano loro di personalizzare le loro relazioni professionali e di professionalizzare le loro relazioni personali. Voskresenyov si domandava che cosa Lubin intendesse fare con quelle informazioni. Fissando il viso flaccido e cadente sotto i radi
capelli grigi e la mano tremante cosparsa di chiazze rossicce, concluse: un bel niente. Scacco matto al re: Lubin si stava arrendendo. E non si può fare nulla con un uomo che non desidera nulla. «No, non voglio soldi» continuò Lubin, quasi borbottando e abbassando gli occhi come se parlasse da solo. «Solo un po' di tranquillità lontano da tutto questo. Io e mia moglie veniamo entrambi dalla campagna, dalla zona di Tver. Quarant'anni in questa città, in questa merda. Non voglio soldi.» Procedendo, si imbatterono in un piccolo parco all'incrocio di cinque strade, con un boschetto di betulle spoglie i cui rami si protendevano in segno di monito come mani scheletriche, troppo in alto perché qualcuno riuscisse a vederle. Al centro del parco deserto vi era una fontana (anzi, una struttura di cemento colma di acqua stagnante la cui pellicola verde era visibile sotto un fine reticolo di ghiaccio) circondata da un gruppetto di cespugli e, avvicinandosi, i due uomini passarono dai vivaci raggi del sole all'ombra degli alberi. Gli arbusti li nascondevano dalla strada; Voskresenyov afferrò Lubin e lo baciò sulla bocca spalancata per lo stupore. Sentendo che l'altro lo respingeva con le mani deboli e affusolate, si infilò le dita in tasca alla ricerca del coltello a molla, fece scattare la lama, la conficcò tra i nidi di arterie nell'inguine di Lubin e scaraventò quest'ultimo tra il ghiaccio della fontana. Dopo avervi gettato dentro anche l'arma, verificò di non avere macchie di sangue su scarpe, pantaloni e soprabito (non ne aveva) e proseguì verso la Lubjanka per comprare il resto del suo passato.
REPERTO 15:
un ciondolo con un grosso amuleto (largo 3,6 centimetri e alto 5,8) dal retro di pelle attaccato a una sottile cordicella di cuoio nero lunga 34 centimetri. Il talismano recava due pietre: uno starburst color topazio (ossia un cerchietto d'ambra con otto sottili raggi che gli conferivano la forma di un sole) e, accanto, un ovale di onice. Le
rappresentazioni di soli oscurati o calanti indicano un'impresa quasi completata ma a rischio di fallimento. Ispirano speranza e attenzione in ugual misura. DATA DI FABBRICAZIONE:
impossibile da determinare. Le pietre, crepate e offuscate dal tempo, sembrano avere come minimo diversi secoli. Il cuoio è tuttavia in discrete condizioni, anche se un po' logorato da un uso regolare. COSTRUTTORE:
Ivan Voskresenyov. Affermò di aver preso spunto da un disegno de Il sole e la sua ombra (un misterioso geroglifico alchemico) trovato nel taccuino del geografo arabo-siciliano al-Idrisi. Milos Smilos (esperto di fumetti e autore sia dell'articolo Dov'è quel pallone, Charlie Brown? Il desiderio sessuale proibito nei fumetti quotidiani sia dell'autobiografia fittizia illustrata Chiamami capo! Piperita Patty, la lesbica guerriera) scrive tuttavia che i ciondoli di pelle intarsiati con vetro giallo e ossidiana lucida divennero molto popolari tra gli artisti e gli intellettuali dei Paesi baltici nel periodo tra le due guerre. Si ispiravano all'interpretazione, proposta da un artista estone, della maglia indossata da Flash Gordon nella serie di fumetti Flash Gordon alla conquista dell'Universo (1940). LUOGO DI PROVENIENZA:
difficile da determinare quanto la data. L'Estonia è uno dei maggiori esportatori mondiali di ambra, e anche la sua industria conciaria è sempre stata molto attiva. Pur non venendo prodotta nei Paesi baltici, l'onice è una gemma diffusa e apprezzata. ULTIMO PROPRIETARIO CONOSCIUTO:
Ivan Voskresenyov. Prelevato dal suo cadavere dopo l'assassinio per opera di [NOME CANCELLATO] e ceduto a [NOME CANCELLATO] . VALORE STIMATO:
personaggi del genere di Smilos potrebbero far lievitare il prezzo di un oggetto che, anche beneficiando della suggestione storico-fumettistica e davanti a un acquirente entusiasta, spunterebbe al massimo 300 dollari.
Ciò che ho detto sull'opera del Sole è perfetto e completo.
«Bene» disse Tonu. Era nel vano della porta, soprabito infilato, un piede sul pianerottolo e una mano sul pomello. «Credo di aver risposto a tutte le domande più importanti.» Alzò la voce e le sopracciglia alla fine della frase. «Eddie l'Albanese?» «Edouard, sì. Pensavo che ce ne fossimo dimenticati» replicò con un sorriso affettato. In quel momento ebbi la sensazione di guardare un rettile di vetro, una specie di creatura svezzata con il veleno e pronta a tagliarmi appena l'avessi toccata. Non riesco ancora a capire come qualcuno possa fidarsi di lui. «Edouard era bravissimo nel contrabbando. L'aveva imparato sotto gli schivi e paranoici sovietici; eravamo convinti che se la sarebbe cavata brillantemente in questa nazione aperta e fiduciosa.» «Che cosa è successo?» Tornò ad avanzare con esitazione verso il salotto, e si era quasi richiuso la porta alle spalle, quando ci ripensò e riprese la posizione con un piede dentro e uno fuori. «Uguale a Jaan. Avido. Falso. Inaffidabile. A ogni modo, era solo un dipendente temporaneo. Nessuna dedizione. Ci ha aiutato ad acquistare alcune cose di cui avevamo bisogno, ma non aveva nessun'altra utilità.» «Quali cose?» Indietreggiò di un piccolo passo nel pianerottolo. Io mi spostai verso di lui. «No. Basta con le domande. Questo è tutto quello che deve sapere.» «No» borbottai. «Ho più domande adesso di quante ne avessi tre ore fa. Io... Non può... Quello che mi ha raccontato non ha senso.» «Qual è la parte che non le è chiara?» «Tutto. Tutto quanto. Non riesco a credere...» «Non è obbligato. Non esistono leggi che impongano di credere a qualcosa. Dovrebbe essere più riconoscente, davvero. È venuto a conoscenza di informazioni per cui molte persone sarebbero disposte a
uccidere.» «Ed è sicuro che terrò la bocca chiusa?» «Sicuro?» Scoppiò a ridere. «Certo. Con chi potrebbe parlare? Chi le crederebbe? Possiamo stare tranquilli sotto questo aspetto, ritengo, e in caso contrario sappiamo mimetizzarci bene. Comunque, se dovesse diventare loquace all'improvviso, può darsi che torni a trovarla. Inoltre, ora che Jaan ha destato la curiosità dei cercatori della Tavola, lei attirerebbe senz'altro l'attenzione degli ambienti più sgradevoli e privi di scrupoli, se dovesse vantarsi del suo legame con lui. E, come ho detto, noi saremo partiti da tempo e impossibilitati ad aiutarla.» «E se decidessi di correre il rischio? È una bella storia» bluffai in tono più spazientito che coraggioso. Tonu mi rivolse un sorriso deluso, quindi alzò le spalle e rispose: «Come ripeto, non ho intenzione di stabilirmi nel suo appartamento. Non posso controllare le sue azioni. Posso tuttavia ricordarle che verrebbe accusato di violazione di domicilio, e forse anche di omicidio. Se dovesse venirle voglia di conoscere da vicino le carceri del Connecticut, il signor Sickle si premurerà di accontentarla. Ma se vi giudicassimo avventati o stupidi, lei, Joseph e suo zio non sareste ancora vivi. Sia prudente, signor Tomm. Questo è l'unico consiglio che le posso dare. Sia prudente». E così dicendo uscì, chiudendo piano la porta, educato fino all'ultimo. Lo udii scendere le scale e poi, dalla finestra, lo vidi salire su un'auto insignificante dal colore anonimo. Accese il motore e, azionando l'indicatore di direzione benché la strada fosse deserta, si diresse verso sud, lontano da Lincoln. Ormai era troppo tardi, o troppo presto, per coricarmi. Non mi vergogno di ammettere che ancora oggi non riesco a dormire molto bene. Ma comincia ad andare meglio: quasi tutte le cose che possono distruggere la nostra vita riescono anche a renderla più sopportabile, e il tempo non fa eccezione. Anziché riposare, feci la doccia, mi rasi, preparai e bevvi un caffè (la mia caffettiera non bastava per due tazze: come tutti gli altri oggetti del mio appartamento, era pensata per una sola persona) e mi avviai verso l'ufficio alle sette e un quarto. Mi sentivo come se qualcuno mi avesse scavato e riempito di cotone, come se mi trascinassi dietro un peso morto, e quel peso morto fossi io. L'impressione di voler ballare dopo che la musica è cessata, di aver imboccato un vicolo cieco in un labirinto, di essere un ospite sgradito, colpisce tutti, immagino, tutti a eccezione di chi è sempre in movimento o
possiede un tempismo infallibile. Mi aveva assalito durante l'ultimo anno delle superiori, poi di nuovo durante l'ultimo anno di college, e adesso, come allora, era arrivato il momento di levare le tende. Quando ti pervade, puoi darle ascolto e partire oppure puoi attendere che passi e trascorrere il resto della vita a sublimare la sensazione di tremendo smarrimento in un malessere sordo e mediocre. Scelsi la prima alternativa. «Eccolo qui» osservò Art, senza nemmeno alzare gli occhi, quando entrai in redazione. «Che cosa ci fa qui così presto?» gli domandai. «Te l'ho già detto, quando invecchi non dormi più così bene.» Il ricordo più vivido che conservo di lui è l'immagine di quel mattino: stravaccato sulla sedia con i piedi sulla scrivania, un'amaca umana, intento a sfogliare il «Times» con un thermos di caffè aperto e fumante sul ripiano e una sigaretta accesa nell'angolo della bocca. Spinse verso di me una busta con il piede destro. «L'ho trovata questa mattina sotto la porta. Ho deciso di aspettare che la leggessi prima di chiederti come procedesse il necrologio interminabile.» Lo ringraziai con un cenno del capo, sedetti e aprii la lettera. Capii chi era il mittente ancor prima di vedere la calligrafia filiforme tracciata da una penna a sfera. Caro Paul, se stai leggendo questo messaggio, significa che hai parlato con Tonu, e se hai parlato con lui, ti avrà detto che ho lasciato Lincoln. Anzi, mentre scrivo, un'auto mi aspetta fuori con i pochi effetti personali che mi sono concessa di portare nella mia nuova vita. È buffo quel che scegliamo di prendere e quel che abbandoniamo. Tutti i miei dischi, per esempio, una collezione che ho costruito pezzo dopo pezzo nell'arco di quasi vent'anni, sono rimasti nell'aula di musica della Talcott, ma vorrei che fossi tu a tenerli anziché la scuola. Suppongo che sentirò la mancanza di quanto resta qui, almeno in un primo momento, ma in realtà non lascio quasi nulla che mi stia a cuore, fatta eccezione per te, che non avevo programmato di incontrare e a cui non avrei certo dovuto affezionarmi come mi sono affezionata. Non avevo mai pensato ai necrologi in precedenza. Non avevo mai pensato a chi li scriveva, e quando ho fatto quello che ho fatto, l'idea di conoscere l'autore del necrologio di Jaan non mi aveva neppure sfiorata. Ma l'ho conosciuto comunque. Per tutto il tempo mi sono sforzata dì respingerti e non sono riuscita a impedirmi di accoglierti dentro di me. Forse perché consideravo il tuo amore innegabile (ed era innegabile, Paul, cristallino come l'acqua sin dall'inizio) un segno che le mie azioni non erano poi state così cattive. Sai, credo nei segni,
anche se temo che tu non sia dello stesso parere. Questa frase riassume il nostro periodo insieme. Abbracciando, come Tonu, un punto di vista tollerante, credo a quanto mi ha raccontato (ci ha raccontato) riguardo a Jaan, alla Tavola e a quel che Pühapäev voleva fare. Tonu mi ha riferito che tu non gli hai creduto, e mi sembra di vederti, Paul, mentre litighi con lui, lo chiudi fuori e rifiuti persino la possibilità che il mondo sia più vasto e profondo, più divino e misterioso di quanto appaia. Per quel che vale, non posso e non voglio fartene una colpa. Ti prego di non fare a me una colpa delle mie convinzioni. Quanto è accaduto a Jaan sarebbe accaduto comunque. Anche se pensi che lui e Tonu fossero ladri comuni e non guardiani di un oggetto straordinario, sai che è così; sai che Jaan nascondeva loro qualcosa. Chi ha una rigida visione morale affermerebbe probabilmente che questo non ha importanza, che alla fine dobbiamo rendere conto solo e soprattutto del nostro comportamento. A me è stata tuttavia offerta l'opportunità di essere responsabile di qualcosa che andasse oltre me stessa, e ti prego di cercare almeno di capirmi, e magari di perdonarmi, prima di dimenticare tutto. Ti chiedo soltanto due favori. Primo, non ti stavo solo lusingando quando ho detto che i tuoi articoli per il «Carrier» mi piacevano, e mi faresti un enorme regalo se scrivessi i tuoi ricordi dell'ultima settimana e me li spedissi all'indirizzo allegato. Voglio sapere come sono apparse le mie azioni a qualcuno che non ci crede quanto me. So che è una richiesta gravosa, e magari ti parrà inutile, ma spero che la soddisfarai comunque. Secondo, voglio che tu mi prometta di non tentare di rintracciarmi a questo recapito. Non mi fermerò qui a lungo (di certo non abbastanza a lungo perché tu segua la pista che conduce fino a me), e più ti avvicineresti, più mi preoccuperei per la tua incolumità. Siamo d'accordo sul fatto che i momenti passati insieme sono stati bellissimi (anche se brevi, troppo brevi), ma devi giurarmi di non andare oltre. Tonu, come ti ha confessato, non era Tonu. Jaan non era Jaan. Ma io ero davvero Hannah Elizabeth Rowe. Mentre ti scrivo questa lettera, lo sono ancora, e ti ricorderò sempre con grande tenerezza, chiunque sia e ovunque vada. Con affetto, H
Be', l'ultima riga era davvero una consolazione, grazie tante: ho contribuito a uccidere un vecchio; l'ho fatto per ragioni troppo nobili e sublimi perché tu possa comprenderle; sono scomparsa con l'assassino; ma scrivi davvero bene, voglio che tu abbia i miei dischi e avrò sempre un bel ricordo di te. Che cosa avrei dovuto dire o fare di fronte a quelle parole? Spinto da una malsana galanteria o da un sano egoismo scrittorio, ho buttato giù questo resoconto della nostra settimana, di cui ora disconosco la paternità. Spero che non ti dispiaccia leggere di te in terza persona; è stato più facile parlare
e pensare a te in quel modo. A essere sincero, spero anche che tu legga queste pagine e le bruci, ma se vuoi conservarle, non posso impedirtelo. Diavolo, probabilmente non riuscirei neppure a trovarti. L'ultima cosa che mi resta da fare è, suppongo, raccontarti che cosa accadde ad alcuni dei personaggi secondari (in parte comuni mortali) di questa storia, che è fondamentalmente la tua storia. Dopo aver letto la tua lettera, battei a macchina il necrologio per Alt. Comparve nel numero successivo del «Carrier»: Jaan Pühapäev, docente estone di storia baltica presso l'università di Wickenden, è deceduto nelle prime ore dello scorso martedì nella sua abitazione di Orchard Street. Viveva a Lincoln da quando era arrivato negli Stati Uniti nel 1991. L'età, l'ora esatta della morte e la causa esatta della morte sono sconosciute. Non lascia alcun parente. Meno di un minuto dopo aver inserito l'articolo nella cartella dei testi da revisionare, udii la sedia di Art che cigolava. «Tutto qui?» mi domandò, avvicinandosi alla mia scrivania e guardandomi con espressione interrogativa. «Hai fatto la spola tra qui e Wickenden per giorni, hai interrogato le fonti interne alla polizia per una settimana, e questo è quello che hai scoperto?» «Non è saltato fuori niente» risposi. «Come sarebbe a dire, non è saltato fuori niente? Che cosa mi dici degli archivi della polizia? Che cosa mi dici, insomma... Che cosa mi dici...» Strizzò gli occhi, disegnando cerchi con le mani come se cercasse di evocare altre informazioni. «Lo sai meglio di me... Che cosa mi dici del resto?» «Non c'era nient'altro, purtroppo. Tante congetture e nulla di concreto. Nulla su cui lavorare.» «Allora prenditi un'altra settimana. Se vuoi pubblicarlo subito, d'accordo, ma non accantonare così la storia. Continua a scavare. Per Leenie e per la tua carriera, sai, se non per questo giornale.» «Ascolti, penso proprio che non salterà fuori nient'altro. E voglio passare a qualcosa di diverso.» «C'è qualcosa che vuoi dirmi?» «Per esempio?» «Non lo so. Stai proteggendo una fonte?» Alzai gli occhi verso di lui.
«Sai, mia figlia mi guardava così anziché suggerirmi di farmi i fatti miei.» Sorrisi, ma Art non mi imitò. «Però non potevo obbligarla a rispondere, perché non lavorava per me.» Prese il necrologio dalla stampante e lo cestinò. «Allora, vuoi spiegarmi che cosa sta succedendo? Perché non hai trovato nient'altro?» Restai seduto in silenzio, gli occhi fissi sulla scrivania. «Vorrei poterglielo raccontare, Art. Davvero» dichiarai piano. «Ma proprio non posso, okay? Può stampare quel necrologio, può non stamparlo. Può licenziarmi, può...» «Gesù, Paul, te l'ho già detto: nessuno vuole licenziarti. Sto solo... Sai, conduci ricerche ormai da una settimana, ti sei entusiasmato per la vicenda, hai persino entusiasmato una redattrice di Boston, e adesso è come se qualcuno avesse cambiato canale. Se non vuoi parlarmene, va bene, ma se vuoi il mio modesto parere, probabilmente stai commettendo un errore.» Tacque e mi guardò con la testa piegata di lato, come se cercasse di indovinare il mio peso. Stringendomi nelle spalle, spostai lo sguardo fuori della finestra, verso il lago lì di fronte e la strada deserta. Una località per turisti del week-end, perché non capitava mai niente. Lincoln mi piaceva, mi piaceva parecchio, e magari sarei tornato di lì a qualche anno. Ma la città mi aveva espulso. Come aveva detto Tonu, talvolta bisogna accettare le sconfitte e andare avanti. Quando comunicai ad Art che volevo dimettermi, non reagì con totale indifferenza né, purtroppo per il mio ego, strappandosi i capelli e supplicandomi di rimanere. All'inizio si limitò a restare in silenzio e a tornare nel suo ufficio mentre io armeggiavo intorno alla mia scrivania cercando di non dare a vedere che la stavo sgomberando. Ma verso mezzogiorno mi portò al Colonial per il pranzo e quello che definì «il vaglio delle possibilità». Mi domandò dove volessi trasferirmi e, siccome non ci avevo riflettuto fino a quel momento, risposi che sarei tornato a Brooklyn finché avessi deciso il da farsi. Discutemmo di chi avrei dovuto conoscere e di chi avrebbe dovuto ricevere le sue referenze (mi promise «una raccomandazione che ti aprirà le porte del paradiso»). Era una delle poche persone di mia conoscenza a non avermi mai indirizzato nella direzione sbagliata, perché non aveva mai tentato di indirizzare nessuno: prendeva le cose come venivano, le valutava e reagiva a quanto gli stava davanti anziché a quanto avrebbe dovuto stargli davanti. Non cercò di convincermi a rimanere, cosa che apprezzo ancora. Invece, dopo che
avemmo finito le birre, mi domandò quando sarei partito. «Appena caricati i bagagli in auto, penso.» «Ti va di cenare da noi venerdì?» mi domandò, guardandomi con la coda dell'occhio, come se temesse un mio rifiuto. «A Donna farebbe piacere salutarti.» «Certo. Splendido.» E lo fu... splendido, intendo. Mi trattarono come un figlio, e durante quella cena d'addio ebbi la sensazione di separarmi da una vera famiglia. Donna pianse, io e Art alzammo il gomito, e Austell ricreò, con chicchi di mais e noccioli di oliva, l'unica battaglia combattuta da Lincoln durante la Guerra d'indipendenza. Dana, la figlia dei Rolen, era rientrata da New York per il week-end, e constatai che il padre le aveva trasmesso il viso allungato, il fascino discreto e la capacità naturale e misteriosa di vedere e tirare fuori il meglio dalle persone. È una dote rara e invidiabile. Io e Dana siamo usciti un paio di volte da quando sono tornato a Brooklyn, dove mi sono rifugiato nella camera della mia infanzia. Dalla finestra vedo lo stesso panorama di asfalto ed erba ispida e lo stesso angolo di Grand Army Plaza dove sono cresciuto. Steso sul letto con la testa nella giusta angolazione, scorgo la sommità dell'arco, proprio come zio Sean quando occupava questa stanza. Io e mia madre siamo regrediti quasi subito ai ruoli che sostenevamo quando avevo sedici anni (lei mi domanda dove vado, e io grugnisco; io le domando quando è pronta la cena, e lei brontola), sia perché è la cosa più facile sia perché, chissà come, ci conforta. Ogni volta che vado a casa, potrebbe infatti essere l'ultima volta che vado davvero «a casa». Anna, mia cognata, sembra ossessionata dall'idea che trasformi mio nipote in un ex giornalista lavativo e buono a nulla soltanto giocando con lui nel modo sbagliato. Se quel ragazzino arriva a diciotto anni senza esaurimenti nervosi o gravi dipendenze da sostanze chimiche sarà del tutto insopportabile. Io e Art abbiamo parlato di dove dovrei andare, anche se non ho nessuna fretta. Forse queste saranno le mie ultime vacanze natalizie lunghe. Alla Wickenden, la pausa invernale durava più di sei settimane (un'ostinata eredità della crisi energetica dei tardi anni Settanta, quando i dormitoli erano rimasti vuoti e gelidi per tutta la brutta stagione), e quel periodo assomigliava sempre a un letargo, come se mi rintanassi e recuperassi le forze per il semestre successivo. Forse mi capitava perché non facevo
abbastanza. Comunque, ho appuntamento con alcuni redattori di Hartford, Wickenden, Manchester e Concord dopo Capodanno. Staremo a vedere che cosa succede. Qualche giorno dopo essere partito da Lincoln, chiamai Joe Jadid per sapere che cosa gli fosse accaduto. Era proceduto tutto come annunciato da Tonu: quest'ultimo aveva fotografato Joe mentre si intrufolava in casa di Jaan, aveva spedito le foto a Sickle, e Sickle le aveva spedite a Joe, insieme con un biglietto che lo invitava a interrompere le indagini se non voleva perdere il lavoro. Lui aveva obbedito. Aveva ordinato a Sal di non rispondere alle telefonate dei suoi amici federali e aveva scontato il resto della sospensione quasi incatenato alla scrivania, deciso a stare fuori dai guai. Considerando che tutti i suoi problemi erano imputabili direttamente a me, fu molto cortese al telefono. Quando gli spiegai che stavo cercando lavoro, replicò: «Meglio a te che a me» aggiungendo che si augurava non finissi in un giornale di Wickenden, perché non mi avrebbe mai più rivolto la parola. Raccontò a suo zio delle fotografie, e Anton accettò subito di non dire nient'altro a nessun altro riguardo a Jaan e ai suoi stravaganti passatempi. Fece rimuovere di nascosto le modifiche apportate da Pühapäev al suo ufficio (le serrature, la cassaforte e le finestre di plexiglas) durante un fine settimana, preparando il locale per un nuovo occupante entro l'inizio del semestre primaverile. I libri, naturalmente, li consegnò alla biblioteca della facoltà, dopo averne scelto qualcuno da portare a casa. Giurò di restituirli tutti se fosse comparso un parente prossimo. Parlammo una volta, per breve tempo, al telefono, e ci scambiammo la solita promessa di risentirci presto. Magari questa volta la manterremo (anzi, la manterrò). Una quindicina di giorni fa, non avrei visto l'ora di andarmene da Lincoln. Ma adesso, dopo qualche settimana di lavoro solitario nella mia cameretta, con New York 1 e Law & Order come unico contatto umano (be', a eccezione di Vic, Anna, Dana e mia madre), verso le quattro di ogni pomeriggio darei qualsiasi cosa per tornare indietro. Ma quella sensazione passa presto. È solo una sensazione, e io lascio che passi.
La valigia
Benedetto è Colui che è apparso alla razza umana mediante una simile molteplicità di metafore. Sant'Efrem il Siriano
Quando al-Idrisi lasciò la Sicilia, la sua biblioteca conteneva quindici oggetti. Poiché voglio parlare brevemente in mia difesa, me ne serve tuttavia un sedicesimo. Diciamo che era il sacco di Omar Iblis; e diciamo che, a parte rarissime eccezioni conservate con estrema cura, nessun tessuto può durare per mille anni. Diciamo dunque che il sacco rappresentava l'idea della partenza, la necessità della fuga; invece di un pezzo di iuta, trasformiamo il sedicesimo oggetto nella valigia Samsonite in cui io e Tonu infilammo tutti e quindici i reperti riuniti a casa di Jaan. E facciamo in modo che il più importante di quegli oggetti sia quello che Tonu mi aveva appena mostrato quando Paul bussò alla porta: un biglietto aereo. Sola andata, prima classe, con una busta contenente abbastanza soldi da condurre me e la mia valigia fin qui senza interferenze indesiderate da parte dei doganieri. Per me è più facile parlare al passivo: per quanto possa valere, credo infatti che Paul sia stato usato senza ritegno dalla sottoscritta. Era, e spero vivamente che sia ancora, un ragazzo dolce. Ma era solo un ragazzo, poco più che ventenne, nell'età in cui quasi tutte le vite non sono ancora diventate interessanti e quasi tutte le personalità hanno appena cominciato a sbocciare e definirsi. Quando ci conoscemmo, avevo appena aiutato un uomo a ucciderne un altro. Avevo aiutato un estraneo persuasivo ad ammazzare un individuo di cui mi occupavo, sotto ogni aspetto materiale, da quasi un anno. Mi sentivo vile, spaventata, piena di rimorso e di vergogna, e questo giovanotto sbucò letteralmente dal nulla sulla mia soglia, ansioso di parlarmi, di rivolgermi le sue attenzioni. Fu lusinghiero. Mi giudicò molto più attraente di quanto io abbia mai giudicato me stessa, e anche questo fu lusinghiero. E avevo bisogno di quelle attenzioni. Avevo bisogno di convincermi che non ero orribile o spregevole. Volevo la certezza spirituale che le mie azioni non mi avevano resa indegna del consorzio
umano, ma desideravo anche essere abbracciata e rassicurata. Ecco, dunque, che cosa fu Paul per me: una stampella temporanea. Vorrei tanto potermi scusare con lui, ma dal tono della sua lettera, dubito che mi ascolterebbe. Comunque, lo supererà senz'altro. Come dice il poeta, tante persone sono morte e i vermi le hanno mangiate, ma mai per amore. Per avidità, sì, però: quel peccato ha molti cadaveri al suo attivo. Dissi a Paul che Jaan conduceva un'esistenza semplice, ed era vero, nel senso in cui l'avrebbe inteso il Paul Tomm di una settimana fa. Indossava vestiti frusti, guidava un ammasso di ruggine, possedeva una casetta zeppa di libri, polvere e poco altro. Oltre a me, l'unica persona con cui avesse un rapporto era un barista di una città vicina, un barista la cui avidità non solo uguagliava ma, secondo Tonu, alimentava quella di Jaan. Tonu mi raccontò che questo Edouard aveva fatto il contrabbandiere in Russia quando quest'ultima era parte dell'Unione Sovietica e che era stato mandato in Connecticut per aiutare Jaan a far entrare gli oggetti della biblioteca nel Paese. Naturalmente, dopo essersi reso conto che il contrabbando era molto più facile in una cittadina del Connecticut che a Mosca, Edouard aveva ampliato la sua attività, cominciando a lavorare in proprio per clienti agiati e continuando a blaterare di tutti i soldi che possedeva e di tutte le possibilità che gli offrivano. Questo aveva indotto Jaan a riflettere. E a parlare. E a bere con Edouard mentre rifletteva e parlava. Si erano sparse alcune voci: la Tavola di smeraldo era riemersa, e i suoi poteri erano in vendita. I colleghi di Tonu avevano effettuato qualche indagine sotto falso nome, pensando che fosse l'inizio di una nuova ondata di popolarità per la Tavola (l'ennesimo ciarlatano che spillava quattrini a qualche credulone), ma avevano scoperto con stupore che era stato Jaan a mettere in giro quelle dicerie. Quanto Tonu mi disse riguardo a Jaan e alle sue intenzioni era vero, dunque, ma lo disse al condizionale, e fu così efficiente nel fare quanto andava fatto che non vi fu l'opportunità di dimostrare la fondatezza delle sue affermazioni. Non a Paul, in ogni caso. Ma Jaan non aveva mai palpeggiato Paul. Non aveva mai spogliato Paul con gli occhi per ringraziarlo di avergli preparato la cena. Non aveva mai interrogato Paul sui film pornografici; Paul non aveva mai dovuto sopportare per un'intera serata una conversazione composta solo di doppi sensi osceni e domande volgari sul denaro e sulla prostituzione. Naturalmente, nulla di tutto questo giustifica il suo omicidio. E con il senno di poi, forse avrei dovuto essere meno indulgente con Jaan. Ma dalla prima volta che lo vidi, quando bussai
alla sua porta per presentarmi e incappai in questo vecchio distratto e sbrindellato che fumava la pipa su un divano malconcio in una casa puzzolente di polvere e trascuratezza, provai pena per lui. Più diventava sgarbato e invadente, più provavo pena per lui. Suppongo mi ricordasse mio padre, un uomo violento e mellifluo, esiliato dai suoi familiari perché sgradevole, condannato a vivere da solo con un cuore che gli pompava vetro frantumato nelle vene ogni volta che pensava a loro. A noi. Quale che fosse il motivo, consideravo la lascivia e la dissolutezza di Jaan un fardello che dovevo sopportare. Grazie a Tonu mi resi conto che, in realtà, quei tratti scaturivano dalla propensione di Jaan alla malvagità e ne erano una dimostrazione. Imparai così tanto da Tonu; mi insegnò così tanto sul mondo e sulla gente. Cose utili e inutili, scontate e oscure. Capii che anch'io gli piacevo. Non gli interessavo sul piano sessuale (sembrava non avere appetiti da quel punto di vista), ma mi ammirava per la mia fede e la mia intelligenza. Così, un giorno, dopo aver fatto la spesa per Jaan, mi trattenni per preparargli un po' di minestra e la mangiai con lui mentre parlava dei bastardi che aveva conosciuto, persone che avevano ottenuto più di lui senza meritarselo, e affermava di essere l'unico a comprendere il mondo. Avevo portato una bottiglia di brandy, e lo bevemmo. Lui se ne scolò la maggior parte. Quando si assopì, versai il resto della minestra nel cortile, lavai i piatti e me ne andai. Avrei solo dovuto lasciare la porta aperta, e così feci. Ma presumo di aver provato un enorme senso di colpa, perché quella notte non riuscii a dormire. Provai a dimenticare, provai a pregare, ma quel pensiero continuava a divorarmi. Così raggiunsi la cabina telefonica davanti alla drogheria Arliss e chiamai la polizia di New Kendal per denunciare la morte di Jaan. Quindi rincasai, mi infilai a letto e mi addormentai, il mondo che si chiudeva su di me come una palpebra. Non so che cosa sarebbe accaduto se non avessi fiatato. Quella notte, dopo aver concluso a Lincoln, Tonu andò a Wickenden, pensando che Jaan custodisse la Tavola nel suo ufficio. Quando tornò, era già quasi l'alba, e voleva aspettare il calare delle tenebre (le prime ore del mattino) per intrufolarsi ancora nell'abitazione di Jaan. Purtroppo, ormai avevo denunciato la scomparsa, e i poliziotti di Lincoln erano già arrivati. L'ipotesi di Joseph Jadid, secondo cui gli agenti non passavano mai di lì sul tardi, era sbagliata: Allen passava, e anche a orari imprevedibili. Talvolta fermava l'auto e puntava una torcia contro le finestre. Tonu
avrebbe atteso finché si fosse stancato, ma Paul cominciò a immischiarsi, coinvolgendo altri poliziotti, e divenne evidente (ironico e lampante, commentò Tonu) che aspettare ancora era fuori questione. Così appiccammo il fuoco a un angolo del mio appartamento, avvertimmo la polizia locale, e quando li vedemmo entrare in casa mia, andammo da Jaan per portare a termine il lavoro. L'unica cosa inattesa che mi capitò nel bel mezzo di tutto questo: Tonu intuì che ero ancora dibattuta e angosciata. Mi propose di sostituire Jaan diventando uno dei guardiani della Tavola. Comprendevo la sacralità di ogni vita sulla terra, mi disse, ma comprendevo anche che a volte è necessario interrompere una vita. Aggiunse che il mio dolore era un segno della mia bontà. Mi diede l'opportunità di appartenere a qualcosa che fosse più grande di me, l'opportunità di dedicare la mia esistenza a qualcosa che fosse più importante di qualunque cosa avessi mai sognato. Ecco come mi sono ritrovata qui. E «qui» è una città che probabilmente tu, lettore, non hai mai visitato, ma non vedo il motivo per rivelarne il nome. Potrebbe essere ovunque. E qui è dove attenderò Tonu. E qui è dove io, dove Hannah Rowe, scomparirà. Sarà giunta qui dopo una settimana turbolenta. Sarà venuta alla ricerca di pace e introspezione: ci sono molti sentieri nei monti boscosi appena fuori dell'abitato. Forse sarà vittima di un incidente durante un'escursione su un sentiero tortuoso a picco su un fiume. Forse uscirà da un bar con uno sconosciuto e non farà mai ritorno in hotel. Forse si limiterà a svanire, come fanno talvolta le persone. Invidio a Huck Finn il piacere di aver assistito al proprio funerale, ma un taglio netto è la scelta migliore. Ogni tanto mi domando se ho fatto la cosa giusta, e per un attimo il dubbio e il rimorso mi invadono. Ma passano presto. Sono solo sentimenti, e io lascio che passino.