ROBIN COOK LA CAVIA (Seizure, 2003) A Audrey Anche se la sua facoltà di ricordare si è affievolita, la mia non lo è; qui...
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ROBIN COOK LA CAVIA (Seizure, 2003) A Audrey Anche se la sua facoltà di ricordare si è affievolita, la mia non lo è; quindi ti ringrazio di cuore, mamma, per tutto il tuo amore, la tua dedizione e i sacrifici che hai fatto per me, in particolare quando ero piccolo... un riconoscimento ancora più toccante e profondo ora che ho un bambino di tre anni sano, felice e scatenato! Ringraziamenti Come per molti altri miei romanzi, in particolare quelli per cui era necessaria una preparazione che andasse oltre le nozioni di chimica apprese all'università e la specializzazione in chirurgia e oftalmologia, ho tratto enorme beneficio dall'erudiziene, dalla saggezza e dall'esperienza degli amici e di amici degli amici. Questo libro, infatti, si occupa di biotecnologie e di politica. Sono state numerosissime le persone che mi hanno messo a disposizione tempo e idee con generosità. Quelle che vorrei ringraziare in modo particolare sono (in ordine alfabetico): Jean Cook, psicologa con un'elevata preparazione accademica nel campo dell'assistenza sociale, lettrice perspicace, critica coraggiosa e inestimabile cassa di risonanza. Joe Cox, capace avvocato fiscalista e grande lettore di fiction, che ha competenze per quanto riguarda la struttura aziendale, la finanza e le questioni legali internazionali. Gerald Doyle, internista con una professionalità e una carica umana di cui si è perduto lo stampo, uno dei medici clinici più preparati del nostro paese. Orrin Hatch, venerato senatore dello Utah laureato in giurisprudenza, che mi ha graziosamente permesso di sperimentare di prima mano una giornata tipo nella vita di un senatore e mi ha intrattenuto con storielle umoristiche su ex senatori le cui biografie hanno costituito un terreno fertile su cui basarmi per creare il mio Ashley Butler. Robert Lanza, medico che è una vera e propria dinamo umana nel lottare
indefessamente per colmare il gap tra clinica medica e biotecnologie del ventunesimo secolo. Valerio Manfredi, esuberante archeologo italiano, scrittore lui stesso, che si è dato moltissimo da fare nel fornirmi presentazioni e nell'organizzare la mia visita a Torino per la ricerca sulla Sacra Sindone. Prologo Lunedì 22 febbraio 2001 era una di quelle giornate invernali eccezionalmente tiepide che traevano in inganno gli abitanti della costa atlantica con la falsa promessa di una primavera imminente. Il sole splendeva dal Maine all'estremità dei Florida Keys, facendo innalzare la temperatura di circa dodici gradi. Doveva essere una giornata normale, felice, per la maggioranza delle persone che vivevano su quel lungo litorale, ma per due in particolare avrebbe segnato l'inizio di una serie di eventi destinati a far incrociare tragicamente le loro vite. Ore 13.35 - Cambridge, Massachusetts Daniel Lowell sollevò lo sguardo dal foglietto rosa che teneva in mano, su cui era annotato un messaggio telefonico. Due cose lo rendevano unico: a chiamarlo era stato il dottor Heinrich Wortheim, presidente del dipartimento di chimica ad Harvard, dicendo che desiderava vederlo nel suo ufficio, e inoltre il piccolo riquadro che recava la scritta URGENTE era segnalato da una X. Il dottor Wortheim comunicava sempre per lettera e ne aspettava una in risposta. Era considerato uno dei massimi chimici del mondo e occupando una posizione così elevata ad Harvard, poteva permettersi un comportamento eccentrico, da novello Napoleone. Raramente si mescolava con i comuni mortali come Daniel, che pure era a capo del proprio dipartimento sottoposto all'autorità di Wortheim. «Ehi, Stephanie!» chiamò a gran voce Daniel, attraverso il laboratorio. «Lo hai visto questo messaggio sulla mia scrivania? È dell'imperatore. Mi vuole vedere nel suo ufficio.» Stephanie sollevò la testa dallo stereomicroscopio per dissezione e gli lanciò un'occhiata molto scettica. «Questo non mi dice niente di buono.» «Tu non gli hai mai parlato, vero?» «Come avrei potuto? L'ho visto solo due volte durante tutto il dottorato: quando ho discusso la tesi e quando mi ha allungato il diploma.»
«Deve essersi fatto qualche idea sui nostri progetti. Be', non c'è da sorprendersi, considerata tutta la gente che ho avvicinato perché facesse parte del nostro comitato scientifico.» «Hai intenzione di andarci?» «Non me lo perderei per niente al mondo!» Dal laboratorio all'edificio che ospitava gli uffici amministrativi si arrivava con una breve camminata. Daniel sapeva che lo aspettava un confronto, ma non era preoccupato. Anzi, non vedeva l'ora. Nell'attimo stesso in cui entrò, la segretaria del dipartimento gli fece cenno di entrare direttamente nel sancta santorum di Wortheim. Trovò l'anziano premio Nobel seduto alla scrivania, un mobile di antiquariato. I capelli bianchi e il volto affilato lo facevano apparire più vecchio dei suoi settantadue anni. Questo però non sminuiva il forte carisma che emanava come un campo magnetico. «Prego, sieda, dottor Lowell», lo accolse Wortheim, guardandolo al di sopra degli occhiali da lettura con la montatura di metallo. Gli era rimasto un leggero accento tedesco, nonostante avesse vissuto negli Stati Uniti per quasi tutta la vita. Daniel obbedì. Era conscio del lieve sorriso disinvolto che gli aleggiava in viso e che di certo non sarebbe passato inosservato al suo capodipartimento. Nonostante l'età, le capacità intuitive di quell'uomo erano acute come non mai e pronte a captare il minimo sgarbo. Il servilismo che avrebbe dovuto mostrare verso questo «barone» era uno dei motivi che rinfrancavano Daniel nella decisione di lasciare il mondo accademico. Wortheim era brillante e aveva vinto il Nobel, ma rimaneva impantanato nella chimica sintetica inorganica del secolo scorso. Il presente e il futuro erano rappresentati dalla chimica organica, sotto forma di proteine e dei loro rispettivi geni. Fu il vecchio a rompere il silenzio, dopo che i due si furono studiati reciprocamente per qualche secondo. «Dalla sua espressione, immagino che le voci che mi sono arrivate siano attendibili.» «Potrebbe essere più preciso?» Daniel voleva essere sicuro che i suoi sospetti fossero fondati. Aveva pensato di aspettare un altro mese prima di fare l'annuncio ufficiale. «Lei sta organizzando un comitato scientifico.» Wortheim si alzò e iniziò a camminare avanti e indietro. «E un comitato scientifico può significare soltanto una cosa.» Si fermò e lo fissò con astio e disprezzo. «Ha intenzione di rassegnare le dimissioni e ha fondato una società, o sta per far-
lo.» «Riconosco il capo d'accusa», proclamò Daniel. Ma non poté impedire al proprio sorriso di allargarsi smodatamente. Sul viso di Wortheim si era diffuso invece un profondo rossore. Senza dubbio, equiparava quella situazione al tradimento di Benedict Arnold durante la guerra di Indipendenza americana. «Mi sono esposto personalmente quando è stato assunto», sbottò. «Abbiamo perfino costruito il laboratorio che lei voleva.» «Non ho intenzione di portare il laboratorio con me», replicò Daniel. Non riusciva a credere che il vecchio volesse farlo sentire in colpa. «La sua impertinenza è oltraggiosa.» «Potrei porgerle le mie scuse, ma non sarei onesto.» Wortheim tornò alla scrivania. «Il suo abbandono mi metterà in difficoltà con il rettore.» «Mi spiace. Lo dico in tutta sincerità. Tuttavia, sono proprio questi intrallazzi burocratici una delle ragioni per cui non sentirò la mancanza del mondo accademico.» «Che altro?» «Sono stufo di sacrificare all'insegnamento il tempo per la ricerca.» «Il suo carico di ore in aula è il meno oneroso di tutto il dipartimento. Lo abbiamo negoziato così, quando è venuto qui.» «Sì, ma sottrae troppo tempo alla mia ricerca e non è nemmeno la questione principale. Voglio raccogliere i vantaggi di ciò che ha prodotto la mia creatività. Vincere premi e vedere i miei articoli pubblicati su riviste scientifiche non è abbastanza.» «Desidera essere una celebrità.» «Suppongo che questo sia uno dei modi possibili per interpretare la situazione. E, inoltre, il denaro non guasterebbe. Perché no? Si è arricchita anche gente con metà della mia abilità.» «Ha mai letto Il dottor Arrowsmith, di Sinclair Lewis?» «Non ho tante occasioni di leggere romanzi.» «Magari dovrebbe trovare il tempo», suggerì Wortheim, in tono di scherno. «Potrebbe farle riconsiderare la sua decisione, prima che sia irreversibile.» «Ci ho già pensato parecchio. Ritengo sia la cosa giusta per me.» «Vuole sapere la mia opinione?» «Credo di conoscerla già.» «Penso che sarà un disastro per entrambi, ma soprattutto per lei.»
«Grazie per le sue parole di incoraggiamento.» Daniel si alzò. «Ci vediamo in giro.» E uscì. Ore 17.15 - Washington, D.C. «Grazie a tutti voi per aver accettato di incontrarmi», esordì il senatore Ashley Butler, agitando festosamente una mano. Il tipico accento strascicato del Sud trasmetteva un senso di cordialità, accentuato dal sorriso stampato sul volto flaccido. Il nutrito gruppo di uomini e donne dall'espressione entusiasta era balzato in piedi nell'attimo stesso in cui lui aveva fatto irruzione nella propria saletta per le conferenze al Senato, assieme al capo dello staff. I visitatori, provenienti dalla capitale del suo stato, erano raggruppati al centro, attorno alla tavola di quercia. Erano i rappresentanti di una piccola organizzazione di imprese che faceva pressione per uno sgravio fiscale, o forse si trattava di uno sgravio assicurativo. Il senatore non se lo ricordava, e non era annotato sul programma del giorno, come invece avrebbe dovuto essere. Si disse che doveva far notare la mancanza alla dirigente del suo ufficio. «Mi spiace di essere arrivato in ritardo», aggiunse, dopo aver stretto con energia la mano all'ultima persona. «Ero ansioso di incontrarvi, e avrei voluto arrivare prima, ma è stata una di quelle giornate!» Sollevò gli occhi al cielo, con enfasi. «Purtroppo, a causa dell'ora e di altri impegni pressanti, non posso rimanere. Mi spiace, ma c'è qui Mike, e lui è un grande.» Il senatore assestò al membro dello staff che aveva destinato all'incontro con quel gruppo una plateale pacca sulle spalle, spingendo il giovane avanti fino a farlo andare a sbattere contro il tavolo. «Mike è il migliore che ho: ascolterà i vostri problemi e mi riferirà. Sono certo che possiamo esservi d'aiuto, e vogliamo esserlo.» Il senatore elargì un'altra serie di pacche sulle spalle di Mike, assieme a un sorriso ammirato, simile a quello di un padre orgoglioso che assiste alla consegna del diploma al figlio. I visitatori lo ringraziarono in coro per averli ricevuti, soprattutto considerando i suoi impegni pressanti. Su ogni volto spiccavano sorrisi entusiasti. Se qualcuno fu deluso per la brevità dell'incontro e per aver dovuto aspettare quasi mezz'ora non lo diede minimamente a vedere. «Il piacere è tutto mio», dichiarò Ashley. «Siamo qui per servire.» Girò sui tacchi, pronto ad andarsene. Quando raggiunse la porta si voltò per un ultimo saluto con la mano e i visitatori risposero allo stesso modo.
«È stato facile», mormorò Ashley a Carol Manning, da lungo tempo capo dello staff, che lo aveva seguito a ruota dalla sala conferenze. «Temevo che mi avrebbero impastoiato con una litania di storie tristi e richieste irragionevoli.» «Sembravano persone per bene», commentò Carol, rimanendo sul vago. «Pensi che Mike riuscirà a gestirle?» «Non lo so. Non è con noi da abbastanza tempo, ancora non sono riuscito a inquadrarlo.» Il senatore avanzò a grandi falcate per il lungo corridoio che conduceva al suo studio privato. Guardò l'orologio. Erano le cinque e venti del pomeriggio. «Presumo che ti ricordi dove mi devi portare adesso.» «Certo», lo rassicurò Carol. «Torneremo nell'ufficio del dottor Whitman.» Il senatore le lanciò un'occhiata di rimprovero e si premette l'indice sulle labbra. «Non è un'informazione da dare in pasto a chiunque», sbottò irritato. Mentre passava davanti alla scrivania di Dawn Shackelton, la responsabile del suo ufficio, afferrò le carte che lei gli porgeva e senza nemmeno guardarlo, andò a chiudersi nel suo studio. Tra quei fogli c'era il programma del giorno dopo, assieme a un elenco di telefonate arrivate mentre lui si trovava nella capitale per una votazione a chiamata nominale, oltre alla trascrizione di un'importante intervista estemporanea con qualcuno della CNN che lo aveva abbordato nell'atrio. «Meglio che prendo la mia auto», osservò Carol, guardando l'orologio. «Dobbiamo essere nello studio del dottore alle sei e mezzo, e non si sa che razza di traffico dovremo affrontare.» «Buona idea», approvò lui, mentre andava a sedersi alla scrivania e intanto controllava l'elenco delle telefonate. «Devo aspettarla all'angolo della C con la Seconda?» Ashley si limitò a un grugnito affermativo. Un certo numero di chiamate erano importanti, infatti provenivano dai capi di parecchi suoi comitati di azione politica. Per quanto lo riguardava, la raccolta di fondi era la parte più significativa del suo lavoro, considerato che doveva affrontare una campagna di rielezione per il novembre dell'anno successivo. Udì la porta richiudersi alle spalle di Carol. Per la prima volta in quella giornata, il silenzio scese su di lui. Si guardò attorno. Per la prima volta in quella giornata, era solo. Di colpo, l'ansia provata al risveglio, quella mattina, dilagò in lui incon-
trollabile. La sentiva dalla bocca dello stomaco alla punta delle dita. Non gli era mai piaciuto andare dal medico. Quando era bambino, era semplicemente la paura delle punture o di qualche altre esperienza dolorosa o imbarazzante. Ma a mano a mano che gli anni passavano, quella paura si era trasformata, diventando più potente e angosciante. Farsi vedere da un dottore era un modo sgradito per ricordare la propria mortalità e il fatto di non essere più giovane. Adesso era come se il mero atto di andare a farsi visitare aumentasse le sue possibilità di dover affrontare qualche terribile diagnosi, come il cancro o, ancor peggio, la sclerosi laterale amiotrofica, nota anche con la sigla SLA. Qualche anno prima l'avevano diagnostica a uno dei suoi fratelli, in seguito a un vago sintomo neurologico. Dopo la diagnosi, l'uomo robusto e atletico, un vero e proprio ritratto della salute - molto più di Ashley -, era diventato uno storpio, e nel giro di pochi mesi era morto. I medici non avevano potuto fare nulla. Ashley posò distrattamente i fogli sulla scrivania e guardò lontano. Anche lui aveva sofferto di qualche vago sintomo neurologico, un mese prima. Dapprima non li aveva presi in considerazione, attribuendone la colpa allo stress, all'assunzione eccessiva di caffè o all'insonnia. I disturbi subivano alti e bassi, senza però scomparire del tutto. Anzi, sembravano lentamente peggiorare. Quello più inquietante era il tremore intermittente alla mano sinistra. In certe occasioni aveva dovuto tenerla ferma con la destra perché nessuno se ne accorgesse. Poi c'era stata quella strana sensazione di avere della sabbia negli occhi, cosa che li faceva lacrimare in modo imbarazzante. Infine, era comparso di tanto in tanto un senso di rigidità che richiedeva a semplici azioni come l'alzarsi e il mettersi a camminare uno sforzo sia mentale sia fisico. Una settimana prima, il problema lo aveva spinto a rivolgersi al medico, nonostante la sua superstiziosa riluttanza. Non era andato al Walter Reed, il noto centro medico dell'esercito, né al National Naval Medical Center di Bethesda. Temeva la possibile reazione dei media. Ashley faceva volentieri a meno di quel genere di pubblicità. Dopo quasi trent'anni al Senato era diventato una potenza, una forza con cui fare i conti, nonostante la sua reputazione di ostruzionista che regolarmente si opponeva ai dettami della sua fazione politica. In realtà, con il suo appoggio costante a varie posizioni fondamentaliste e populiste, come i diritti dello stato e la preghiera nelle scuole, e le sue prese di posizione contro l'aborto, era riuscito a confondere le linee del partito e a guadagnarsi un crescente numero di sostenitori in
tutto il paese. La rielezione al Senato non sarebbe stato un problema, con la sua macchina politica perfettamente oliata. Ciò che aveva in mente era la corsa alla Casa Bianca per il 2004. Non voleva certo che qualcuno facesse supposizioni o spargesse chiacchiere sulla sua salute. Una volta superata la riluttanza a cercare l'aiuto di un medico, si era rivolto a un internista privato in Virginia che aveva già visto in passato e della cui discrezione poteva fidarsi. Questi lo aveva immediatamente dirottato sul dottor Whitman, un neurologo. Il medico era stato evasivo, anche se, davanti ai timori specifici di Ashley, aveva dichiarato di dubitare che il problema fosse dovuto alla SLA. Dopo averlo visitato scrupolosamente e avergli prescritto alcuni esami, compresa la risonanza magnetica, non aveva azzardato una diagnosi ma gli aveva prescritto una cura che avrebbe dovuto attenuare i sintomi. Poi gli aveva dato appuntamento a quando tutti gli esami sarebbero stati pronti. Era la visita a cui Ashley stava per recarsi. Si passò una mano sulla fronte sudata, nonostante la stanza fosse fresca. Sentiva il polso accelerare. E se avesse avuto davvero la SLA? Se si fosse trattato di un tumore al cervello? Nei primi anni Settanta, quando era senatore dello stato, uno dei suoi colleghi aveva scoperto di avere un tumore al cervello. Cercò invano di rammentare quali sintomi accusasse. Tutto ciò che ricordava era che prima di morire, quell'uomo era divenuto l'ombra di se stesso. La porta di comunicazione con la stanza esterna si socchiuse e Dawn mise dentro la testa, con precauzione. «Ha appena chiamato Carol dal cellulare. Sarà sul luogo dell'appuntamento fra cinque minuti.» Ashley annuì e si alzò. Trovò incoraggiante il fatto di non sentirsi intralciato nei movimenti. A quanto pareva, il farmaco somministratogli dal dottor Whitman faceva miracoli, e questo era l'unico punto positivo dell'intera faccenda. Erano scomparsi tutti i sintomi preoccupanti, tranne un leggero tremore alla mano che ricompariva appena prima di assumere la dose successiva. Se il problema si poteva risolvere così facilmente, forse non doveva preoccuparsi troppo. O almeno così cercava di convincere se stesso. Carol fu puntualissima, come sempre. Lavorava con lui da sedici anni, sui quasi trenta in cui aveva ricoperto l'incarico di senatore, e si era dimostrata sempre affidabile, devota, leale. Mentre si dirigevano in Virginia, cercò perfino di approfittare del viaggio per discutere gli avvenimenti del giorno e fare progetti per l'indomani, ma si rese conto ben presto dell'umore che attanagliava il suo capo e rimase in silenzio, concentrandosi sul traf-
fico infernale. L'ansia di Ashley aumentava a mano a mano che si avvicinavano allo studio del neurologo. Quando scese dall'auto, stava di nuovo sudando. Nel corso degli anni aveva imparato a dare retta all'intuito, e l'intuito aveva messo in atto i campanelli di allarme. C'era qualcosa che non andava nel suo cervello, anche se lui cercava di negarlo. Per venire incontro alle sue esigenze, l'appuntamento era stato fissato dopo il normale orario delle visite, e nella sala d'attesa vuota incombeva una quiete sepolcrale. L'unica illumìnazione proveniva da una piccola lampada da scrivania che creava una fioca pozza di luce sul banco deserto della reception. Ashley e Carol rimasero fermi per un momento, non sapendo che fare. Poi si aprì una porta interna, inondando lo spazio di fredda luce al neon. E, sulla soglia, si stagliò la sagoma nera del dottor Whitman. «Scusate per questa accoglienza inospitale», li salutò il medico. «Sono andati tutti a casa.» Azionò un interruttore. Indossava un camice bianco inamidato e aveva un contegno molto professionale. «Non occorrono scuse», replicò Ashley. «Apprezziamo la sua discrezione.» Lo scrutò in viso, sperando di cogliere nella sua espressione un qualche segno di buon auspicio. Ma non fu così. «Senatore, prego, venga nel mio studio.» Whitman accompagnò le parole con un gesto di invito. «Signora Manning, se vuol esser così cortese da aspettare qui...» L'ordine che regnava in quella stanza sembrava maniacale. Il mobilio consisteva in una scrivania, sul cui ripiano erano perfettamente allineati gli oggetti, e due poltroncine per gli ospiti. I libri erano disposti sugli scaffali rigorosamente secondo la loro altezza. Il neurologo indicò una delle due poltroncine, prima di sedersi lui stesso. Con i gomiti sulla scrivania, congiunse le mani davanti a sé, facendo combaciare i polpastrelli, e fissò il senatore che intanto si era accomodato. Seguì una pausa significativa. Ashley non si era mai sentito così a disagio. L'ansia aveva raggiunto il culmine. Da quando era adulto, aveva impiegato la maggior parte della vita a sgomitare per il potere, riuscendovi oltre ogni sogno più sfrenato. Eppure, in quel preciso momento si sentiva del tutto impotente. «Al telefono mi ha detto che il farmaco ha funzionato», esordì il medico. «A meraviglia», esclamò Ashley, improvvisamente sollevato dal fatto che Whitman fosse partito da una cosa positiva. «Sono scomparsi quasi tutti i sintomi.»
Il neurologo annuì, come se si fosse aspettato quel risultato. La sua espressione rimase imperscrutabile. «Pensavo che questa fosse una buona notizia», azzardò Ashley. «Ci aiuta a fare la diagnosi.» «Ebbene... che cos'è?» chiese il senatore dopo una pausa imbarazzante. «Qual è la diagnosi?» «Il farmaco era una forma di levodopa», spiegò Whitman in tono cattedratico. «Il corpo può convertirla in dopamina, una sostanza coinvolta nella trasmissione neuronaie.» Ashley respirò a fondo. Un'improvvisa ondata di collera minacciò di salire in superficie. Non voleva ascoltare lezioni, come uno studentello qualunque. Voleva la diagnosi. Si sentiva messo alla prova, come quando il gatto gioca con il topo. «Ha perduto alcune cellule coinvolte nella produzione di dopamina», continuò Whitman. «Queste cellule si trovano in una parte del cervello che si chiama substantia nigra.» Ashley sollevò entrambe le mani in segno di resa. Soppresse la voglia di imprecare deglutendo con qualche difficoltà. «Dottore, arriviamo al dunque. Quale pensa che sia la mia diagnosi?» «Sono sicuro al novantacinque per cento che lei ha il morbo di Parkinson.» Detto questo, Whitman si appoggiò allo schienale, facendo cigolare la poltrona. Per un momento, Ashley non parlò. Non ne sapeva tanto sul quel morbo, ma non gli suonava amico, e gli balzò alla mente qualche immagine di persona famosa che lottava contro quella malattia. Allo stesso tempo, si sentì sollevato al'idea di non avere un tumore al cervello o la SLA. Si schiarì la voce. «E si può curare?» si decise a chiedere. «Al momento no. Però, come ha già sperimentato con il farmaco che le ho prescritto, per un certo periodo si può tenere sotto controllo.» «Che cosa significa?» «I disturbi potrebbero anche non ripresentarsi per un po', magari un anno. Purtroppo, a causa della sua anamnesi in cui i sintomi si sono sviluppati rapidamente, il farmaco perderà di efficacia prima che con altri pazienti, almeno per l'esperienza che mi sono fatto. A quel punto, il morbo la debiliterà progressivamente. Tutto quello che potremo fare sarà affrontare ogni circostanza a mano a mano che si presenterà.» «È un disastro», bofonchiò Ashley, sopraffatto dalle implicazioni. I suoi
timori più cupi si stavano dunque avverando. 1 Mercoledì 20 febbraio 2002 - ore 18.30 Un anno dopo A Daniel Lowell parve che il taxi si fosse quasi fermato a metà di un isolato, a Georgetown, Washington D.C., proprio al centro di M Street, un'arteria a quattro corsie. Non gli era mai piaciuto spostarsi in taxi. Gli sembrava il colmo della ridicolaggine affidare la propria vita a un completo estraneo proveniente quasi sempre da qualche lontano paese del Terzo Mondo e interessato più a parlare al cellulare che a stare attento alla guida. Starsene seduto al buio al centro di M Street con il traffico dell'ora di punta che sfrecciava da ambo i lati con il tassista impegnato in una conversazione in una lingua sconosciuta era proprio quello che gli stava succedendo. Daniel scoccò un'occhiata a Stephanie. Appariva rilassata e gli sorrise nella semioscurità, poi gli prese una mano con gesto affettuoso. Solo chinandosi in avanti, Daniel si accorse che c'era un semaforo sospeso per facilitare la svolta a sinistra. Guardando dall'altra parte della strada, vide un vialetto che portava a un edificio di mattoni tozzo e privo di attrattive. «È quello l'albergo?» chiese. «Non ha l'aria per niente ospitale.» «Sospendiamo il giudizio fin quando non avremo ulteriori dati», replicò Stephanie in tono giocoso. Arrivò il verde e il taxi si slanciò in avanti come un cavallo da corsa in uscita dal box. L'autista teneva una sola mano sul volante, mentre accelerava impostando la curva. Daniel puntò i piedi per evitare di essere gettato contro la portiera. Dopo un bel sobbalzo sull'innesto fra la strada e il vialetto dell'hotel e poi un'altra svolta a sinistra piuttosto stretta per arrivare all'ingresso, ci fu una frenata abbastanza brusca da mettere in tensione la cintura di sicurezza. Un attimo dopo, la portiera di Daniel venne spalancata. «Benvenuti al Four Seasons», li accolse con brio un portiere in livrea. Lasciarono il bagaglio nelle sue mani ed entrarono nell'atrio, dirigendosi verso la reception. Oltrepassarono un gruppo scultoreo degno di un museo d'arte moderna. I tappeti erano spessi e lussuosi. Persone vestite con eleganza sedevano in poltrone di velluto imbottite a dismisura. «Come hai fatto a convincermi ad alloggiare qui?» La domanda di Da-
niel era chiaramente retorica. «L'esterno è insignificante, ma l'interno fa pensare che costerà caro.» Stephanie lo prese per un braccio, fermandolo. «Stai cercando di dirmi che hai dimenticato la nostra conversazione di ieri?» «Ieri abbiamo avuto un sacco di conversazioni», borbottò Daniel. Notò che la donna con il barboncino che stava passando loro accanto aveva un anello di fidanzamento con un diamante grosso quanto una pallina da pingpong. «Lo sai di cosa sto parlando!» esclamò Stephanie. Allungò una mano e gli fece voltare il viso verso di lei. «Abbiamo deciso di approfittare al meglio di questo viaggio. Staremo in questo albergo due notti e ci tratteremo bene. Anche vicendevolmente, spero.» Cogliendo la spiritosa licenziosità di Stephanie, Daniel sorrise suo malgrado. «Domani testimonierai davanti alla sottocommissione sulla politica sanitaria presieduta dal senatore Butler, e non sarà una passeggiata nel parco», continuò Stephanie. «Questo è certo. Ma, accada quel che accada al Senato, per lo meno torneremo a Cambridge con il ricordo di un'esperienza gradevole.» «Non potevamo concederci un'esperienza gradevole in un albergo un po' meno costoso?» «Non per i miei gusti. Qui hanno palestra, massaggiatrice, un servizio in camera di ottimo livello... tutte cose di cui approfitteremo. Quindi comincia a rilassarti. Inoltre, il conto lo pagherò io.» «Davvero?» «Sicuro! Con lo stipendio che guadagno, dovrò pur rifarmi un po' con la società.» «Oh, questo è un colpo basso!» osservò Daniel scherzoso, fingendo di barcollare per un presunto ceffone. «Ascolta, lo so che la compagnia non è stata esattamente in grado di pagarci gli stipendi per un po', ma farò in modo che questo viaggetto vada a suo carico. Se domani le cose andranno veramente male, e questo può benissimo essere, la sentenza di bancarotta deciderà quanto il Four Seasons riceverà per i nostri stravizi.» Il sorriso di Daniel si trasformò in una risata aperta. «Stephanie, non manchi mai di stupirmi!» «E non hai visto ancora niente! La questione è: hai intenzione di godertela o che cosa? Anche nel taxi, si capiva che eri teso come una corda di
violino.» «È perché mi chiedevo se saremmo arrivati tutti interi e quanto ci sarebbe costato l'albergo.» «Dai, spendaccione!» Stephanie lo spinse avanti. «La nostra suite ci attende.» «Suite?» chiese Daniel, lasciandosi trascinare al banco della reception. Stephanie non aveva esagerato. La loro ampia camera dava su una parte del Chesapeake e dell'Ohio Canal, con il Potomac sullo sfondo. Sul tavolinetto del soggiorno era posato un secchiello del ghiaccio con una bottiglia di champagne. Vasi con fiori freschi abbellivano il cassettone e il largo ripiano nel vasto bagno ricoperto di marmo. Appena il fattorino scomparve, Stephanie abbracciò Daniel e i suoi occhi scuri fissarono quelli azzurri di lui. Sulle labbra carnose si disegnò un lieve sorriso. «Lo so che sei incredibilmente sotto stress per domattina», sussurrò, «quindi che ne dici di lasciarmi fare la guida del nostro tour? Sappiamo entrambi che la proposta di legge presentata dal senatore Butler, se approvata, getterà nell'illegalità la tua brillante procedura, già brevettata. E questo significherebbe la cancellazione della seconda fase di finanziamenti per la società, con conseguenze chiaramente disastrose. Detto questo, per stasera dimentichiamocene. Pensi di riuscirci?» «Posso provarci», rispose Daniel, pur sapendo che era impossibile. Il fallimento era tra le cose che temeva maggiormente. «È tutto ciò che chiedo.» Stephanie gli diede un bacetto prima di precipitarsi ad aprire lo champagne. «Ecco il programma: un bicchiere di bollicine e poi una bella doccia per rinfrescarci. Dopo di che, abbiamo un tavolo riservato in un ristorante qua vicino, al Citronelle, di cui ho sentito cose fantastiche. Dopo un pasto meraviglioso, torniamo qui e ci scateniamo a far l'amore. Che ne dici?» «Sarei pazzo a opporre resistenza!» Daniel sollevò le mani, in uno scherzoso gesto di resa. Lui e Stephanie vivevano insieme da più di due anni e tra loro si era creata una gradevole familiarità. Si erano notati reciprocamente alla metà degli anni Ottanta, quando Daniel aveva fatto il suo ritorno nel mondo accademico e Stephanie stava per laurearsi in chimica ad Harvard. Nessuno dei due aveva fatto il primo passo, dato che quel tipo di legame non era visto di buon occhio all'interno dell'università. Inoltre, nessuno dei due aveva la minima idea che anche l'altro nutrisse gli stessi sentimenti, per lo meno non fino a quando Stephanie aveva terminato il dottorato di ricerca e aveva
cominciato a lavorare al corso biennale; questo aveva dato loro l'opportunità di interagire su un livello più paritario. Inoltre, le rispettive competenze scientifiche erano complementari. Quando Daniel aveva lasciato l'università per fondare la propria società, era stato naturale per lei compiere lo stesso passo. «Niente male», commentò Stephanie dopo aver scolato la sua coppa di champagne e averla posata sul tavolino. «Ora! Testa o croce per chi si fa la doccia per primo.» «Non occorre.» Daniel posò il proprio bicchiere vuoto accanto al suo. «Prima tu. Io intanto mi faccio la barba.» «Affare fatto!» Daniel non sapeva se era per lo champagne o per il buonumore contagioso di Stephanie, ma si sentiva decisamente meno teso, anche se di certo non meno preoccupato. Spalmò la schiuma sul viso e cominciò a radersi. Ma essendosi concesso un solo bicchiere, sospettò che il merito fosse tutto di Stephanie. Come lei stessa aveva accennato, la mattina dopo avrebbe potuto significare il disastro, timore che gli rammentava in modo inquietante la profezia di Heinrich Wortheim il giorno in cui aveva scoperto la sua decisione di tornare all'industria privata. Ma Daniel avrebbe cercato di far sì che quei pensieri non incombessero sulla serata. Aveva intenzione di seguire il suggerimento di Stephanie e godersela. Nello specchio, al di là del proprio viso ricoperto di schiuma, scorse l'immagine sfocata della donna attraverso il vetro satinato del box doccia. Stava cantando, e la sua voce superava lo scroscio dell'acqua. Aveva trentasei anni ma ne dimostrava dieci di meno. Come le aveva detto più di una volta, nella lotteria genetica a lei era andata di lusso. La figura alta e formosa era soda come se facesse ginnastica regolarmente, cosa che non era, e la pelle olivastra era quasi priva di imperfezioni. Una zazzera di capelli scuri folti e lucidi completava il tutto, assieme agli occhi dello stesso colore. La porta della doccia si aprì e lei ne uscì. Si asciugò i capelli con movimenti rapidi, senza crucciarsi della propria nudità. Si chinò per un attimo in avanti, facendoli ricadere liberi mentre li strofinava freneticamente con l'asciugamano. Poi si rimise diritta, gettandoli all'indietro a mo' di criniera. Quando si voltò per asciugarsi la schiena con un provocante guizzo dei fianchi, colse lo sguardo di Daniel nello specchio. Si fermò. «Ehi!» esclamò. «Che cosa guardi, tu? Dovresti farti la barba!» All'improvviso vergognosa, si avvolse nell'asciugamano come se fosse un minia-
bito senza spalline. Dapprima imbarazzato per essere stato colto in flagrante nel suo inequivocabile atteggiamento da voyeur, Daniel si riprese in fretta. Posò il rasoio e si avvicinò a Stephanie. La prese per le spalle e la fissò negli occhi di onice. «Semplicemente, non potevo fare a meno di notare quanto sei sexy e assolutamente affascinante.» Lei piegò la testa di lato, per guardarlo da una prospettiva leggermente diversa. «Stai bene?» Daniel rise. «Benissimo.» «Sei tornato di soppiatto in soggiorno e ti sei tracannato quella bottiglia di champagne?» «No, sul serio.» «Erano mesi che non pronunciavi simili parole.» «Dire che non ho mai smesso di essere in pensiero sarebbe un eufemismo. Quando mi è venuto in mente di fondare la società, non avevo idea che la raccolta di fondi avrebbe impegnato il centodieci per cento dei miei sforzi. E adesso, per di più, ci mancava la minaccia politica, che rischia di distruggere l'intera operazione.» «Capisco. Davvero. E non me la sono presa a livello personale.» «Veramente è stato per mesi?» «Fidati.» Stephanie annuì, per sottolineare la serietà della sua risposta. «Mi scuso formalmente. E, per dimostrare il mio rimorso, vorrei avanzare una mozione per cambiare il programma della serata. Propongo di anticipare la seduta di sesso, e di mettere in secondo piano i progetti per la cena. Approvi?» Mentre Daniel cercava di chinarsi per darle un bacio scherzoso, lei respinse il suo viso ancora ricoperto di schiuma mettendogli la punta dell'indice sul naso. La sua espressione diceva che stava toccando qualcosa di decisamente disgustoso, e il gesto di pulirsi il dito sulla spalla di lui lo confermò. «Le regole parlamentari non riusciranno a strappare questa signora da un'ottima cena», osservò. «Mi ci è voluto un certo sforzo per ottenere quelle prenotazioni, quindi i piani per stasera rimarranno quelli preventivamente votati e approvati. E adesso, torna a raderti!» Gli diede un allegro spintone verso il lavandino, e lei si avvicinò a quello accanto per asciugarsi i capelli. «Scherzi a parte», gridò Daniel, per superare il frastuono del phon, «hai un aspetto fantastico. A volte mi chiedo che cosa ci trovi in un vecchio come me.» Si picchiettò le guance con la lozione dopobarba.
«Cinquantadue anni non è essere vecchi», gridò a sua volta Stephanie. «In particolare quando si è attivi come te. In verità, anche tu sei parecchio sensuale.» Daniel si guardò nello specchio. Riteneva di non essere male, anche se non si illudeva certo di essere sexy. Tanto tempo prima si era riconciliato con la propria bruttezza e goffaggine, il classico secchione che fin dalla prima media era un prodigio in scienze. Stephanie cercava solo di essere garbata. Il volto era sempre stato scarno, quindi per lo meno non aveva il problema delle guance cadenti o delle rughe, se si tralasciavano le zampe di gallina attorno agli occhi, ma solo quando rideva. Aveva sempre fatto attività fisica, tranne negli ultimi mesi, a causa del tempo dedicato alla raccolta fondi. Come membro di Harvard, aveva approfittato appieno delle attrezzature sportive, praticando regolarmente squash e palla a muro, come pure il canottaggio sul fiume Charles. L'unico vero problema nell'aspetto, secondo lui, erano la stempiatura e un inizio di chierica, oltre al fatto che i capelli castani stavano diventando sale e pepe, ma non c'era molto che potesse fare al riguardo. Una volta pronti, uscirono dall'albergo dopo aver chiesto al portiere le indicazioni per arrivare al ristorante. A braccetto, camminarono per diversi isolati lungo M Street, oltrepassando un miscuglio di gallerie d'arte, librerie e negozi di antiquariato. La notte era frizzante ma non troppo fredda, con una distesa di stelle ben visibili nonostante le luci della città. Al ristorante, il maître li condusse a un tavolo in disparte che permetteva un certo grado di privacy nel locale molto affollato. Ordinarono cibo e una bottiglia di vino, disposti a una cenetta romantica. Una volta serviti gli antipasti, si divertirono a rammentare l'epoca in cui provavano attrazione l'uno per l'altra, prima ancora di essersi mai dati un appuntamento, poi lasciarono spazio a un silenzio piacevole. Purtroppo, Daniel lo infranse. «Probabilmente non dovrei tirare in ballo la questione...» cominciò. «Allora non farlo», lo interruppe Stephanie, che aveva idea di dove volesse andare a parare. «Ma devo. Devo proprio, e questo è un momento migliore di altri. Diversi giorni fa hai detto che avresti indagato sul nostro tormentatore, il senatore Ashley Butler, con l'idea che magari potevi darmi qualche aiuto per l'udienza di domattina. So che lo hai fatto, ma non hai detto niente. Come mai?» «Mi sembra di ricordare che eri d'accordo sul dimenticare l'udienza, per stasera.»
«Ho detto che avrei provato a dimenticarla», precisò Daniel. «Non ci sono riuscito del tutto. Non mi hai riferito niente perché non hai trovato alcunché di utile, o che cosa? Dammi una mano su questo punto e poi accantoneremo l'argomento per il resto della serata.» Stephanie distolse lo sguardo per qualche attimo, come a organizzare i pensieri. «Che cosa vuoi sapere?» Daniel se ne uscì in una breve risata di esasperazione. «Stai rendendo la cosa più difficile di quanto occorra. A dire la verità, non lo so che cosa voglio sapere, dato che non ne so abbastanza per fare domande.» «Non sarà un tipo facile.» «Ne avevamo già avuto sentore.» «È al Senato dal 1972, e la sua anzianità gli dà notevole voce in capitolo.» «Anche questo lo presumevo, dato che è presidente della sottocommissione. Ciò che ho bisogno di sapere è che cosa lo rende tanto ottuso.» «La mia impressione è che sia il tipico demagogo antiquato del Sud.» «Un demagogo, eh?» Daniel si masticò per un momento l'interno della guancia. «Suppongo di dover ammettere la mia ignoranza, a questo punto.» «È un politico che ricorre a pregiudizi e timori popolari per guadagnare e mantenere il potere.» «Intendi, in questo caso, la preoccupazione dell'opinione pubblica riguardo le biotecnologie?» «Esatto. Soprattutto quando queste comprendono le parole 'embrione' e 'clonare'.» «Che fanno pensare a fabbriche di embrioni e a scenari alla Frankenstein.» «Precisamente», confermò Stephanie. «Fa leva sull'ignoranza e sulle peggiori paure della gente. E in Senato è un ostruzionista. È sempre più facile essere contro qualcosa, che a favore. Ne ha fatto la sua carriera, perfino mandando a quel paese in più di un'occasione le direttive del suo stesso partito.» «Tutto ciò non promette niente di buono», si lagnò Daniel. «Esclude la possibilità di provare a convincerlo con argomenti razionali.» «Purtroppo è anche la mia opinione. Ecco perché non ti avevo detto che cosa avevo scoperto su di lui. È deprimente che uno come Butler sia al Senato, tanto più con l'anzianità e il potere che ha. I senatori dovrebbero essere dei leader, non gente che sta lì per amore di potere.»
«La cosa davvero deprimente è che quel bietolone abbia il potere di bloccare il mio modo creativo e promettente di utilizzare la scienza.» «Non mi sembra per niente un bietolone», osservò Stephanie. «Al contrario. Anche lui è molto creativo, nel suo ambito. Direi perfino machiavellico.» «Quali sono le altre sue istanze?» «Quelle solite dei fondamentalisti e dei conservatori. I diritti degli stati, naturalmente. Questa è la maggiore. Ma è anche contro cose come la pornografia, l'omosessualità, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, quel genere di cose. E, ah, sì, è contro l'aborto.» «L'aborto?» Daniel era sorpreso. «È un democratico e non è per la libera scelta da parte delle donne? Comincia a sembrarmi un membro della destra repubblicana.» «Te l'avevo detto che non ha paura di andare contro il suo partito, quando gli fa comodo. È decisamente contro l'aborto, anche se la sua posizione ha richiesto un bel po' di manovre e di cambiamenti di rotta. Allo stesso modo, sta ballando il tip-tap attorno ai diritti civili. È un conservatore scaltro, intrallazzatore, populista, operaista che, a differenza di Strom Thurmond e Jesse Helms, non se n'è andato dal partito democratico.» «Sorprendente!» commentò Daniel. «Viene da pensare che la gente alla fine lo avrebbe visto per ciò che veramente è, assetato di potere e interessato solo al proprio tornaconto e non lo avrebbe più votato. Come mai, secondo te, il partito non ha fatto quadrato contro di lui, se è andato contro la sua linea su questioni chiave come quelle?» «È troppo potente. È una forza, per quanto riguarda la raccolta di fondi, e ha vari collegamenti con comitati di azione politica, fondazioni e perfino con aziende gestite nell'interesse delle sue varie istanze populiste. Altri senatori hanno francamente paura di lui, con il tipo di denaro per le pubbliche relazioni che riesce a maneggiare. Lui non si fa scrupolo di utilizzare valanghe di soldi propri contro chiunque gli abbia pestato i piedi, quando è il momento della rielezione.» «Suona sempre più inquietante», mormorò Daniel. «Ho appreso qualcosa di curioso», aggiunse Stephanie. «Sarà una coincidenza, ma voi due avete delle cose in comune.» «Oh, ti prego!» «Intanto, provenite entrambi da famiglie numerose. Tutti e due da famiglie con nove figli, e siete i terzi, dopo due fratelli maggiori.» «Questa è una coincidenza! Quali sono le probabilità di una cosa simi-
le?» «Scarse. Si direbbe che siate più simili di quanto tu pensi.» Daniel si oscurò in volto. «Dici sul serio?» Stephanie rise. «Certo che no! Ti sto prendendo in giro! Rilassati!» Allungò la mano attraverso la tavola, prese il bicchiere di Daniel e glielo porse. Poi sollevò il proprio. «Basta con il senatore Butler! Brindiamo alla nostra salute e alla nostra relazione: qualsiasi cosa accadrà domani, almeno questo lo abbiamo, e che cosa c'è di più importante?» «Hai ragione. Alla nostra!» Daniel sorrise, ma sentiva un nodo allo stomaco. Per quanto si sforzasse, non riusciva a scacciare lo spettro del fallimento che incombeva su di lui come una nuvola scura. Fecero tintinnare i bicchieri e bevvero, guardandosi al di sopra dell'orlo. «Sei davvero seducente», disse Daniel, cercando di riconquistare il momento in cui Stephanie era uscita dalla doccia. «Bella, intelligente e molto sexy.» «Così va meglio. E lo sei anche tu.» «E sei anche una burlona. Però ti amo.» «Anch'io ti amo.» Una volta terminata la cena, Stephanie non vedeva l'ora di ritornare in albergo. Camminarono in fretta. Dopo il tepore del ristorante, il freddo della notte penetrava attraverso i cappotti. L'ascensore era vuoto e Stephanie ne approfittò per baciare Daniel appassionatamente, spingerlo in un angolo e premersi contro di lui in modo molto erotico. «Ehi, ferma!» la bloccò lui con una risatina nervosa. «Probabilmente c'è una telecamera, qui dentro.» «Oh, santo cielo!» borbottò Stephanie, ricomponendosi. Scrutò il soffitto dell'ascensore. «Non ci avevo pensato.» Una volta nel corridoio, prese Daniel per mano e lo incoraggiò a camminare in fretta, fino alla loro porta. Mentre l'apriva con la carta magnetica, gli sorrise. Dentro, s'impossessò del cartello NON DISTURBARE e lo appese fuori della porta. Poi trascinò Daniel in camera da letto. «Via i cappotti!» ordinò, gettando il proprio su una poltrona. Quindi spinse Daniel all'indietro sul letto, gli si mise sopra a cavalcioni e iniziò ad allentargli la cravatta. All'improvviso si fermò. Aveva notato che la sua fronte luccicava di sudore. «Stai bene?» gli domandò, preoccupata. «Ho una vampata di calore», confessò lui. Stephanie scivolò di lato e lo tirò su a sedere. Gli strofinò la fronte e si
guardò la mano umida. «Sei pallido, anche.» «Lo immagino. Credo di avere una minicrisi del sistema neurovegetativo.» «Questo è gergo medico. Potresti spiegarlo con parole tue?» «Sono troppo teso. Dev'essere stata una specie di scarica adrenalinica del simpatico. Mi spiace, ma non credo che fare sesso in queste condizioni sia consigliabile.» «Non ti devi scusare.» «Penso di sì. Lo so che avevi delle aspettative in proposito, ma mentre tornavamo in albergo ho avuto la sensazione che non fosse possibile.» «Va tutto bene», insisté Stephanie. «Non sarà questo a reggere o a distruggere la serata. Mi interessa di più assicurarmi che starai bene.» Daniel sospirò. «Starò bene dopodomani, quando saprò che cosa succederà. Io e l'incertezza non siamo mai andati a braccetto, soprattutto quando implica qualcosa di negativo.» Lei lo abbracciò. Sentiva il cuore battergli nel petto. Più tardi, dopo essere rimasto immobile a lungo fino a sentire il respiro di Stephanie farsi più profondo, nel sonno, Daniel tirò indietro la coperta e scivolò fuori dal letto. Non era riuscito ad addormentarsi, la mente e il battito cardiaco che andavano all'impazzata. Si infilò un accappatoio e andò nel soggiorno. Guardò la vista che offriva la finestra. Ciò che continuava a tornargli alla mente era la profezia del disastro fattagli da Heinrich Wortheim, e il fatto che stesse per avverarsi. Il problema era che lui si era bruciato i ponti alle spalle, quando se n'era andato da Harvard. Wortheim non lo avrebbe mai ripreso con sé e avrebbe anche potuto cercare di farlo escludere da altre istituzioni. Come se ciò non bastasse, qualche ponte lo aveva bruciato anche quando aveva lasciato la Merck, nel 1985, per accettare il posto ad Harvard. La bottiglia di champagne ancora immersa nel secchiello attirò la sua attenzione. Il ghiaccio si era ormai sciolto. La tirò fuori dall'acqua e la sollevò contro la luce proveniente dalla finestra. Era ancora piena a metà. Se ne versò un bicchiere e lo assaggiò. Non era più frizzante ma era ragionevolmente fresco. Ne sorbì qualche sorso, mentre concentrava di nuovo l'attenzione verso la finestra. Sapeva che il suo timore di dover tornare a Revere Beach, nel Massachusetts, era irrazionale, ma ciò non la rendeva meno reale. Revere Beach era il luogo in cui era cresciuto, in una famiglia capeggiata da un uomo
d'affari di poco conto, che aveva addossato la colpa dei propri fallimenti alla moglie e ai figli, in particolare a quelli che lo avevano deluso. Purtroppo, questa sorte era toccata soprattutto a Daniel, che aveva avuto la sfortuna di venire dopo i due fratelli maggiori. Loro erano stati degli atleti superstar, quando erano alle superiori, fatto che aveva fornito un minimo di sollievo al fragile ego paterno. Daniel invece era un ragazzino ossuto, a cui interessava di più giocare a scacchi o chiudersi in cantina a produrre idrogeno dall'acqua, fogli di alluminio e liquido sturalavandini. L'essere stato preso alla Boston Latin, dove primeggiava, non aveva fatto colpo sul padre, che continuava a usarlo spietatamente come capro espiatorio. Perfino le borse di studio per la Wesleyan University, e poi per la Columbia Medical School, erano servite a ben poco, se non a renderlo ancora più estraneo a fratelli e sorelle per qualche tempo. Daniel finì lo champagne che aveva nel bicchiere e se ne versò dell'altro. Mentre continuava a sorseggiarlo, la mente tornò ad Ashley Butler, la sua attuale bestia nera. Stephanie scherzava, quando aveva suggerito che lui e il senatore erano più simili di quanto pensasse. Ma sì! Era solo una coincidenza che entrambi provenissero da famiglie analoghe. In un angolino del cervello, però, s'era annidato il pensiero che forse qualcosa di vero c'era. Dopotutto, doveva ammettere che invidiava il potere che quell'uomo aveva nel mettere a repentaglio la sua carriera. Posò il bicchiere sul tavolino e si voltò verso la camera. Si muoveva adagio, nell'oscurità di quel luogo che non gli era familiare. Non credeva che sarebbe riuscito ad addormentarsi, nervoso com'era, eppure non voleva rimanere alzato tutta la notte. Pensò che fosse meglio tornare a letto e cercare di rilassarsi; se non fosse riuscito a dormire, per lo meno si sarebbe riposato. 2 Giovedì 21 febbraio 2002 - ore 9.51 La porta dello studio privato di Ashley Butler si spalancò di botto e il senatore ne emerse seguito dal capo del suo staff. Nel passare davanti alla scrivania di Dawn afferrò il documento che lei gli porgeva. «È il suo discorso di apertura per l'udienza della sottocommissione», gli gridò lei, mentre Ashley già svoltava nel corridoio e si dirigeva verso la porta d'ingresso del suo ufficio senatoriale. Dawn era abituata a essere i-
gnorata e non se la prendeva. Dato che era lei a battere al computer il programma giornaliero del senatore, sapeva che era in ritardo. Avrebbe già dovuto essere all'udienza, in modo da farla iniziare alle dieci in punto. Ashley si limitò a grugnire dopo aver letto le prime righe e porse il discorso a Carol perché anche lei gli desse un'occhiata. Le sue funzioni di capo dello staff andavano ben oltre l'assumere e il licenziare il personale. Quando arrivarono alla sala d'aspetto dell'ampio ufficio che lui aveva a disposizione Ashley fu costretto a fermarsi per salutare e stringere la mano alle sei o sette persone che aspettavano di vederlo, così Carol dovette spingerlo verso la porta, affinché non accumulasse ulteriore ritardo. Una volta raggiunto il corridoio di marmo del Senate Office Building, affrettarono il passo. Per Ashley era difficile, a causa della rigidità che gli impacciava di nuovo i movimenti. Nonostante il farmaco prescritto dal dottor Whitman, era come camminare nella melassa. «Come ti sembra questa dichiarazione d'apertura?» chiese. «Buona, per quanto sono riuscita a leggerne», rispose Carol. «Pensa che Rob l'abbia fatta vedere a Phil?» «Spero di sì», sbottò Ashley. Percorsero un breve tratto in silenzio, prima che aggiungesse: «Chi diavolo è Rob?» «È il suo relativamente nuovo capo degli assistenti per la sottocommissione sulla politica sanitaria. Sono certa che se lo ricorda. È uno che spicca in mezzo alla folla: è quello spilungone dai capelli rossi che proviene dallo staff di Kennedy.» Ashley accennò un cenno di assenso. Sebbene si vantasse della propria grande facilità nel ricordare i nomi, non riusciva più a stare al passo, visto che il suo staff si era gonfiato fino a superare le settanta persone, e inoltre c'era un inevitabile avvicendamento. Phil invece gli era familiare, dato che stava con lui più o meno dallo stesso tempo di Carol. Essendo il suo capo analista politico, aveva un ruolo chiave ed era fondamentale che tutti i testi destinati alla trascrizione durante un'udienza e agli archivi del Congresso fossero controllati da lui. «La medicina?» gli chiese Carol. I suoi tacchi sul pavimento di marmo risonavano come spari. «L'ho presa», rispose lui irritato. Per essere sicuro al cento per cento, infilò di nascosto la mano nella tasca laterale della giacca. Come pensava, la pillola non c'era più, il che significava che l'aveva inghiottita appena prima di lasciare il suo studio privato. Voleva avere un livello elevato di principio attivo nel sangue, per l'udienza. L'ultima cosa che desiderava era che
qualcuno della stampa notasse dei sintomi, come il tremore alla mano, proprio adesso che aveva un piano per ovviare al problema. Dietro una svolta del corridoio si imbatté in diversi colleghi particolarmente progressisti che andavano nella direzione opposta. Si fermò e tornò facilmente all'accento strascicato e sciropposo del Sud che era la sua caratteristica, facendo loro i complimenti per il taglio di capelli, gli abiti alla moda e le camicie sgargianti. Mostrando un'ironica disapprovazione per se stesso, confrontò il loro abbigliamento elegante con il proprio abito scuro, completato da una cravatta che passava inosservata e da una comunissima camicia bianca. Era lo stesso tipo di indumenti con cui era arrivato al Senato nel 1972. Ashley era un abitudinario. Non solo continuava a indossare lo stesso genere di abiti, ma insisteva a comperarli nello stesso negozio di abbigliamento della sua città natale, dove avevano tutti articoli di stampo tradizionale. Dopo che lui e Carol si furono allontanati dagli altri, lei fece qualche commento sulla sua cordialità. «Me li tengo buoni», spiegò lui con un ghigno. «Ho bisogno dei loro voti per il mio progetto di legge che sarà presentato la prossima settimana. Lo sai che non sopporto la vanità, soprattutto i trapianti di capelli.» «Nemmeno io. Ecco perché ne sono rimasta sorpresa.» Mentre si avvicinavano all'ingresso laterale dell'aula destinata alle udienze, Ashley rallentò. «Fammi di nuovo un rapido riassunto di quello che tu e il resto dello staff avete scoperto sul primo testimone di stamattina. Ho un piano speciale che sto tenendo in caldo e voglio che funzioni senza fallo.» «Quello che ricordo bene è il suo curriculum professionale.» Carol chiuse gli occhi un momento per aiutare la memoria. «È stato un prodigio nelle materie scientifiche fin dalla scuola media e ha 'bruciato' brillantemente la facoltà di medicina e il dottorato. Sensazionale, direi. Per di più, è diventato rapidamente uno dei più giovani capidipartimento alla Merck, prima di essere assunto ad Harvard, dove gli hanno offerto un posto prestigioso. Quell'uomo deve avere un quoziente di intelligenza stratosferico.» «Il curriculum vitae me lo ricordo. Ma non è questa la cosa importante, adesso. Parlami di quello che ha scoperto Phil sulla sua personalità.» «Secondo Phil è egocentrico e presuntuoso, infatti prende poco in considerazione il lavoro degli altri scienziati che operano nel suo campo. Voglio dire, molti, anche se la pensano in quel modo, lo tengono per sé. Lui lo sbandiera in modo ostentato.»
«Che altro?» Raggiunsero la porta laterale e si fermarono. Un po' più avanti lungo il corridoio, all'altezza della porta principale dell'aula, c'era una piccola folla in perenne movimento e il cicaleccio delle voci giungeva fino a loro. Carol si strinse nelle spalle. «Non ricordo altro, ma ho con me il dossier messo insieme dallo staff, e di certo comprende le impressioni di Phil. Vuole prendersi il tempo di leggerlo di nuovo, prima che inizi l'udienza?» «Speravo che mi parlassi della sua paura di fallire. Ti ricordi?» «Adesso che me lo dice, sì, credo che fosse una delle cose notate da Phil.» «Bene!» esclamò Ashley, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé. «Questo, unito a un ego grande quanto una casa, è una cosa su cui potrei far leva, sei d'accordo?» «Suppongo di sì, ma non sono certa di seguirla. Mi ricordo che secondo Dan quell'uomo ha una paura di fallire sproporzionata rispetto ai risultati raggiunti finora e alla sua ovvia intelligenza. Dopotutto, potrebbe riuscire in qualsiasi cosa voglia fare, ammesso che lo decida. Pensa di usarla come leva, e per cosa?» «Sarà anche in grado di fare qualsiasi cosa gli venga in mente, ma a quanto pare in questo momento l'unica cosa che gli interessa è diventare un imprenditore famoso, cosa che ha ammesso senza ombra di vergogna in un'intervista. E, per riuscirci, ha fatto il passo più lungo della gamba, dal punto di vista della carriera e delle finanze. Vuole che la sua società, creata di recente e basata sul brevetto della procedura da lui inventata, abbia successo per motivi molto personali, se non addirittura superficiali.» «E lei che cosa vorrebbe fare?» chiese Carol. «Phil vuole che faccia mettere a verbale una richiesta di divieto della sua procedura. È semplice.» «Le circostanze rendono la cosa un pochino più complicata. Io voglio che il bravo dottore faccia qualcosa che assolutamente non vorrebbe fare.» Sul largo viso di Carol comparve un'espressione preoccupata. «Phil lo sa?» Ashley scosse la testa. Le fece cenno di restituirgli il testo della dichiarazione d'apertura. «Che cosa vuole far fare al dottore?» chiese lei, porgendoglielo. «Tu e lui lo saprete stasera.» Ashley aveva già cominciato a dare una scorsa al documento. «Sarebbe troppo lungo spiegartelo adesso.» «Lei mi spaventa», ammise Carol. Scrutò nel corridoio, a destra e a sinistra, mentre Ashley rileggeva il proprio discorso, poi spostò il peso del
corpo da un piede all'altro. Il suo scopo ultimo e il motivo per cui aveva sacrificato così tanto la propria vita privata per il lavoro era che voleva correre per il seggio di Ashley quando lui si fosse ritirato, cosa che sarebbe avvenuta piuttosto presto, considerato il morbo di Parkinson da cui era affetto. Carol era più che qualificata, avendo ricoperto il ruolo di senatrice statale prima di venire a Washington a gestire lo show di Ashley, e a quel punto, con il proprio scopo bene in vista, non voleva che lui corresse un grosso rischio, con il risultato di fare a lei ciò che Bill Clinton aveva fatto ad Al Gore. Fin dalla sera della visita dal dottor Whitman, Ashley era stato preoccupato e imprevedibile. Si schiarì la gola per attirare la sua attenzione. «Esattamente, come ha intenzione di far fare al dottor Lowell qualcosa che lui non vuol fare?» «Mettendolo in una situazione difficile e poi tirandogli via il tappeto da sotto i piedi.» Ashley sollevò gli occhi e la guardò, rivolgendole un ghigno cospiratore. «Siamo in battaglia, e voglio vincere. Per farlo, ho intenzione di mettere in pratica uno stratagemma vecchio come il mondo e citato nell'Arte della guerra: indovinare i punti dove avverrà lo scontro e arrivarci con forze schiaccianti! Fammi vedere il rapporto finanziario sulla sua società!» Carol trafficò con la cartelletta piena di fogli prima di estrarre quello che Ashley le aveva chiesto. Glielo porse e lui lo scorse in fretta. Mentre scrutava il viso del suo capo per cogliere qualche indizio, si chiese se doveva chiamare Phil con il cellulare, appena ne aveva l'opportunità, e avvertirlo di tenersi pronto per l'imprevisto. «Bene», borbottò Ashley. «Benissimo. È una fortuna che io abbia quei contatti all'FBI. Da soli non avremmo potuto ottenere tanto.» «Magari dovrebbe consultarsi con Phil, quali che siano le sue intenzioni», suggerì Carol. «Non c'è tempo. A proposito, che ore sono?» Lei guardò l'orologio. «Le dieci passate.» Ashley tese la mano sinistra, sostenendola con la destra, per controllare se tremava. Solo leggermente, si notava appena. «È il massimo che ci si possa aspettare. Mettiamoci al lavoro!» Entrò per la porta laterale a destra della tribuna rialzata a ferro di cavallo. L'aula era piena di una folla disordinata e in perenne movimento, dalla quale si levava un forte brusio. Dovette farsi largo fra i colleghi e i membri dei vari staff per raggiungere il proprio seggio. Immediatamente comparve la chioma rossa di Rob, che aveva una seconda copia della dichiarazione
d'apertura. Ashley si sbracciò verso di lui agitando la copia che già aveva in mano, quindi si sedette e sistemò il braccio del microfono. Dopo aver fatto vagare lo sguardo per tutta l'aula che ormai gli era piacevolmente familiare, con le sue decorazioni neoclassiche, lo puntò sulle due figure sedute al tavolo dei testimoni, sotto di lui. Dapprima la sua attenzione fu catalizzata come una calamita dalla giovane donna attraente, il cui viso era incorniciato da capelli lucidi e folti. Aveva una predilezione per le belle donne, e questa femmina davanti a lui corrispondeva ai suoi gusti. Indossava un sobrio tailleur blu scuro dal colletto bianco che contrastava con la carnagione olivastra, bene abbronzata. Nonostante l'abbigliamento poco appariscente, emanava una sana sensualità. I suoi occhi scuri erano fissi su di lui e Ashley ebbe l'impressione di fissare due canne di fucile. Non aveva idea di chi fosse, o perché si trovasse lì, ma pensò che la sua presenza prometteva di rendere l'udienza più gradevole. Poi spostò con riluttanza la propria attenzione sul dottor Daniel Lowell. I suoi occhi erano più chiari di quelli della sua compagna, però esprimevano lo stesso grado di sfacciataggine, con il loro sguardo fisso. Gli parve che lo scienziato fosse ragionevolmente alto, nonostante stesse stravaccato contro lo schienale della sedia. Aveva una corporatura minuta e un viso sottile, spigoloso, sormontato da un ciuffo scomposto di capelli sale e pepe. L'abbigliamento suggeriva un grado di insolenza pari a quello mostrato dallo sguardo e dalla postura. In contrasto al modo di vestire della donna che era con lui, indossava una giacca sportiva di tweed con le toppe di pelle sui gomiti, una camicia dal collo sbottonato e senza cravatta. Sotto il tavolo si intravedevano i jeans e le scarpe da ginnastica. Ashley sorrise tra sé, mentre impugnava il martelletto. Supponeva che l'atteggiamento strafottente di Daniel e quel suo modo di vestire fossero un debole tentativo di dimostrare che non si sentiva minacciato per essere stato chiamato a testimoniare davanti a una sottocommissione del Senato. Forse credeva di poter usare la carriera studentesca e accademica presso le più prestigiose università del paese contro la provenienza di Ashley da una cittadina di provincia e i suoi studi in un oscuro college battista. Ma non avrebbe funzionato. Lui sapeva che, facendolo venire sul proprio terreno, avrebbe avuto tutti i vantaggi di chi giocava in casa. «La sottocommissione sulla politica sanitaria della commissione sanità, educazione, lavoro e pensioni inizierà le sue procedure», annunciò con un marcato accento del Sud, e battendo il martelletto. Aspettò qualche momento, per dare il tempo a chi era ancora raggruppato nei vari capannelli di
andare a sedersi. Dietro di sé, udì i membri dei vari staff fare lo stesso. Diede un'occhiata in basso, verso Daniel Lowell, e notò che non si era mosso. Guardò a destra e a sinistra. Buona parte dei membri della sottocommissione non erano presenti: ce n'erano solo quattro e stavano leggendo dei promemoria o parlando con i propri assistenti. Non c'era il quorum, ma non importava. Non erano previste votazioni e lui non aveva intenzione di richiederne. «Questa udienza prenderà in esame il disegno di legge del Senato numero 1103», continuò, mentre posava davanti a sé le pagine con il suo discorso, poi incrociò le braccia e si tenne i gomiti con le mani, per evitare possibili tremori. Inclinò leggermente la testa all'indietro, per vedere meglio i caratteri attraverso le lenti bifocali. «Questo disegno di legge accompagna quello già approvato dalla Casa dei rappresentanti per vietare la procedura di clonazione chiamata...» Ashley esitò e si chinò in avanti, scrutando la pagina. «Abbiate pazienza un attimo», disse, evidentemente distaccandosi dal discorso preparato. «Questa procedura non è solo terrificante, ma è anche difficile da pronunciare, e magari il bravo dottore, qui, mi aiuterà se incespico. Si chiama Ricombinazione Omologa Transgenica Segmentale, chiamata anche ROTS. Uau! L'ho detto bene, dottore?» Daniel si tirò su dalla posizione stravaccata e si chinò verso il microfono. «Sì», si limitò a dire, poi si appoggiò di nuovo allo schienale della sedia. Anche lui teneva le braccia conserte. «Perché voi dottori non parlate in maniera comprensibile?» chiese Ahsley, guardando Daniel al di sopra delle lenti. Qualcuno fra i presenti ridacchiò e questo gli fece piacere. Adorava giocare con la folla. Daniel si chinò di nuovo in avanti, ma lui sollevò una mano. «Questa è una domanda che non va a verbale, non occorre rispondere.» La stenografa manovrò la sua macchinetta per cancellare la frase. Poi Ashley guardò a sinistra. «Anche questo non va a verbale, ma ero curioso di sapere se l'illustre senatore del Montana concorda con me sul fatto che i medici hanno messo a punto di proposito un loro linguaggio in modo che per la metà del tempo noi comuni mortali non abbiamo idea di che cosa cavolo stiano parlando.» Dagli spettatori si levarono altre risate, mentre il senatore del Montana sollevava lo sguardo da ciò che stava leggendo e annuiva entusiasticamente.
«Dunque, dov'ero rimasto?» Ashley guardò di nuovo il testo della dichiarazione di apertura. «La necessità di questa nuova legge sta nel problema che, in questo paese, le biotecnologie in generale e la scienza medica in particolare hanno perduto le loro basi etiche. Noi della sottocommissione sentiamo che è nostro dovere, come americani onesti e responsabili, invertire tale tendenza seguendo l'esempio dei colleghi della Casa dei rappresentanti. I fini non giustificano i mezzi, in particolare nella ricerca scientifica, come è stato inequivocabilmente stabilito al processo di Norimberga. Questa ROTS ne è un esempio. Tale procedura minaccia di creare dei poveri embrioni indifesi per poi smembrarli con la dubbia giustificazione che le cellule derivanti da quei minuscoli esseri umani non ancora nati saranno utilizzate per curare un'ampia varietà di pazienti. E non è tutto. Come sentiremo nella testimonianza del suo scopritore, che abbiamo l'onore di avere qui con noi, questa non è una qualunque procedura terapeutica di clonazione e io, come principale autore del disegno di legge, sono scioccato che venga proposta come qualcosa da usare normalmente. Ebbene, io dico: soltanto se passerete sul mio cadavere!» Dallo scarso pubblico presente si levarono dei modesti applausi. Ashley rispose con un cenno della testa e una breve pausa. Poi fece un profondo respiro. «Ora, potrei continuare a parlare di questa nuova tecnica, ma non sono un medico e cedo rispettosamente la parola all'esperto, che si è graziosamente presentato davanti a questa sottocommissione. Lo farei subito, a meno che qualche eminente collega non voglia dire qualcosa.» Ashley guardò il senatore seduto immediatamente alla sua destra, il quale scosse la testa, coprì il microfono con il palmo e si chinò verso di lui. «Ashley», sussurrò. «Spero che ti sbrigherai. Devo essere fuori di qua per le dieci e mezzo.» «Non temere», rispose lui, sottovoce. «Lo colpirò direttamente alla giugulare.» Detto questo, sorbì un sorso d'acqua e abbassò lo sguardo su Daniel. «Il nostro primo testimone è il brillante dottor Daniel Lowell il quale, come ho già accennato, è lo scopritore della ROTS. Vanta credenziali impressionanti, come una laurea in medicina e dottorati di ricerca presso alcune delle istituzioni più illustri del paese. Ha perfino trovato il tempo di fare un internato in medicina interna. Ha ricevuto innumerevoli riconoscimenti per il suo lavoro e ha occupato posti di prestigio alla Merck Farmaceutici e all'università di Harvard. Benvenuto, dottor Lowell.» «Grazie, senatore», rispose Daniel, spostandosi in avanti. «Apprezzo le
gentili osservazioni sul mio curriculum vitae, ma, se posso, vorrei confutare subito un punto della sua dichiarazione di apertura.» «Ma certo!» «La ROTS e la clonazione terapeutica non comportano, ripeto, non comportano lo smembramento di embrioni.» Daniel pronunciò le parole lentamente, scandendole bene una per una. «Le cellule terapeutiche vengono prelevate prima che l'embrione cominci a formarsi, da una struttura chiamata blastocisti.» «Lei nega che queste blastocisti siano delle vite umane nascenti?» «Si tratta di vite umane ma, quando sono disaggregate, queste cellule sono simili a quelle che lei perde dalle gengive passando vigorosamente lo spazzolino sui denti.» «Non credo di pulirli in modo così vigoroso», ribatté Ashley con una breve risata. Qualcuno fra i presenti si associò. «Tutti noi perdiamo cellule epiteliali vive.» «Forse, ma quelle cellule epiteliali non sono destinate a formare embrioni, come le blastocisti.» «Potrebbero. È questo il punto. Se le cellule epiteliali fossero fuse con un ovulo il cui nucleo è stato estratto, e poi la combinazione venisse attivata, potrebbero formare degli embrioni.» «Il che è ciò che si fa con la clonazione.» «Precisamente», confermò Daniel. «Le blastocisti hanno la potenzialità di formare un embrione vivente, ma solo se impiantate in un utero. Nella clonazione terapeutica non vengono mai messe nella possibilità di formare embrioni.» «Penso che ci stiamo arenando nella semantica», sbottò Ashley, impaziente. «Si tratta di semantica», convenne Daniel, «ma è importante. La gente deve capire che nella clonazione terapeutica o nella ROTS non sono coinvolti gli embrioni.» «La sua opinione riguardante la mia dichiarazione di apertura è stata debitamente registrata», disse Ashley. «Mi piacerebbe passare alla procedura vera e propria. La descriverebbe per noi presenti e per la trascrizione ufficiale?» «Sono ben felice di farlo», rispose Daniel. «La Ricombinazione Omologa Transgenica Segmentale è il nome che abbiamo dato a una procedura che comporta, in un individuo, la sostituzione della porzione di DNA responsabile di una particolare malattia con la porzione omologa di DNA
privo dalla malattia. Questo avviene nel nucleo di una cellula del paziente, che poi è usata per la clonazione terapeutica.» «Si fermi un momento», lo interruppe Ashley. «Sono già confuso, e sono certo che lo è anche buona parte del pubblico. Vediamo se ho capito bene: lei sta parlando di prendere una cellula da una persona malata e modificarne il DNA prima di passare alla clonazione terapeutica.» «Esatto», confermò Daniel. «Sostituire la piccola porzione del materiale genetico della cellula che è responsabile della malattia.» «E la clonazione terapeutica è finalizzata per creare un mucchio di quelle cellule per curare il paziente.» «Proprio così! Le cellule vengono incoraggiate con vari ormoni della crescita a diventare il tipo di cellule di cui il paziente ha bisogno. E, grazie alla ROTS, tali cellule non avranno la predisposizione genetica a replicare quella malattia. Quando vengono immesse nel paziente, non solo questi sarà curato, ma non avrà più la tendenza genetica a quella specifica malattia.» «Forse potremmo fare un esempio concreto», suggerì Ashley. «Potrebbe essere più facile da capire, per noi profani. Suppongo, da alcuni articoli da lei pubblicati, che il morbo di Parkinson sia uno di quei mali che lei ritiene curabili con questo trattamento.» «Infatti, come molte altre malattie, dall'Alzheimer al diabete a certe forme di artrite. L'elenco è impressionante, e molte di esse non sono soggette a terapia, tanto meno a guarigione.» «Concentriamoci per un momento sul morbo di Parkinson. Perché lei pensa che questa ROTS funzionerà?» «Perché per il Parkinson abbiamo la fortuna di poter fare esperimenti sui topi», rispose Daniel. «Ci sono topi con il morbo di Parkinson, cioè nei loro cervelli mancano le cellule nervose che producono una sostanza chiamata dopamina, funzionante da neurotrasmettitore, e la loro malattia è la copia esatta di quella umana. Abbiamo preso questi animali, abbiamo praticato la ROTS e sono guariti in modo permanente.» «Impressionante», commentò Ashley. «Lo è ancora di più quando lo si vede avvenire davanti ai propri occhi.» «Le cellule vengono iniettate.» «Sì.» «E questo non crea problemi?» «No. Ormai questa tecnica è stata ampliamente usata sugli umani per altre terapie. L'iniezione deve essere fatta con precauzione, in condizioni
controllate, ma in genere non si verificano reazioni di alcun tipo. Nella nostra esperienza, i topi non hanno avuto effetti collaterali.» «E sono guariti subito dopo l'iniezione?» «Nella nostra esperienza, i sintomi del morbo di Parkinson hanno cominciato a diminuire immediatamente. E sono spariti del tutto in poco tempo. Entro una settimana, i topi curati non erano più distinguibili da quelli del gruppo di controllo.» «Suppongo che lei sia impaziente di provare questa procedura sugli esseri umani», suggerì Ashley. «Sì, molto», ammise Daniel, e annuì ripetutamente. «Dopo aver completato i nostri studi sugli animali, che stanno proseguendo rapidamente, speriamo di avere il via libera dalla Food and Drug Administration per cominciare a trattare gli esseri umani in un ambiente controllato.» Ashley notò che Daniel aveva lanciato un'occhiata alla sua compagna e le aveva perfino preso la mano per un momento. Sorrise fra sé: il suo avversario pensava che l'udienza stesse andando bene. Era il momento di rettificare quella falsa deduzione. «E mi dica, dottor Lowell. Ha mai sentito il detto: 'Se qualcosa sembra troppo bella per essere vera, probabilmente non lo è'?» «Certo.» «Ebbene, io ritengo che la ROTS ne sia un esempio lampante. Mettiamo da parte per il momento la questione semantica sul fatto che gli embrioni siano smembrati oppure no. La ROTS pone un altro grosso problema etico.» Ashley fece una pausa per aumentare l'effetto. Il pubblico era completamente immobile e silenzioso. «Dottore, ha mai letto il romanzo di Mary Shelley intitolato Frankenstein?» «La ROTS non ha niente a che fare con il mito di Frankenstein», replicò Daniel in tono indignato, implicando che sapeva benissimo dove voleva andare a parare il senatore. «Insinuarlo è un tentativo irresponsabile di approfittare dei timori e delle idee errate che circolano nell'opinione pubblica.» «Mi permetto di non essere d'accordo», ribatté Ashley. «Anzi, credo che Mary Shelley avesse un'idea che, prima o poi, si sarebbe arrivati alla ROTS: ecco perché ha scritto il suo romanzo.» Gli spettatori risero di nuovo. Era evidente che pendevano dalle sue labbra e si divertivano.
«Ora, so di non aver ricevuto un'educazione da Ivy League, ma ho letto Frankenstein, il cui titolo intero comprende Il moderno Prometeo, e penso che i parallelismi siano notevoli. Da ciò che ne capisco, il termine transgenico, che fa parte dell'arzigogolato nome della sua procedura, significa prendere dei pezzetti di genoma di varie persone e mescolarli assieme come se si facesse una torta. Al ragazzo di campagna che sono, questo sembra esattamente la stessa cosa che faceva Victor Frankenstein quando creava il suo mostro: prendere pezzi da un cadavere e dall'altro e cucirli insieme. Ha perfino usato un po' di elettricità, proprio come fate voi con le vostre clonazioni.» «Con la ROTS, noi aggiungiamo pezzi relativamente corti di DNA, non interi organi!» Il tono di Daniel era diventato acceso. «Si calmi, dottore! Questa è un'udienza conoscitiva, non una battaglia! Ciò che intendo è che, con la sua procedura, lei prende parti di una persona e le mette dentro un'altra. Non è così?» «A livello molecolare.» «A me non importa a che livello è. Voglio solo stabilire i fatti.» «È da tempo che la scienza medica esegue i trapianti di organi», sbottò Daniel. «L'opinione pubblica non vede in questo un problema morale, al contrario, e il trapianto di organi è di certo un parallelo concettualmente più adatto con la ROTS che un romanzo del diciannovesimo secolo.» «Nell'esempio che lei ci ha fornito a proposito del morbo di Parkinson, ha ammesso che progetta di iniettare questi piccoli Frankenstein molecolari cui sta lavorando in modo da mescolarli e farli finire nel cervello della gente. Mi spiace, dottore, ma non ci sono stati tanti trapianti di cervello nel nostro attuale programma di trapianto d'organi, quindi non credo che il paragone sia valido. Iniettare parti di un'altra persona e farle arrivare nel cervello di qualcuno è inaccettabile, per il mio modo di vedere, e io credo nel modo del buon Dio.» «Le cellule terapeutiche che noi creiamo non sono dei Frankenstein molecolari», puntualizzò Daniel in tono iroso. «Le sue opinioni sono state debitamente registrate. Proseguiamo.» «Questa è una farsa!» Daniel sollevò in aria le mani con enfasi. «Dottore, devo rammentarle che questa è un'udienza di una sottocommissione del Congresso, e ci si aspetta da lei che si comporti con decoro. Qui siamo tutte persone ragionevoli e mostriamo rispetto le une per le altre nel cercare di fare del nostro meglio per raccogliere informazioni.» «Diventa sempre più evidente che questa udienza è stata preparata in
modo ingannevole. Lei non è venuto qui per raccogliere informazioni con la mente aperta sulla ROTS, come vorrebbe magnanimamente far credere. Sta solo usando questa udienza per farsi bello con la sua retorica emotiva preconfezionata.» «Ci tengo a informarla che questo tipo di affermazioni e di accuse è particolarmente malvisto al Congresso.» Il tono di Ashley era condiscendente. «Questo non è Crossfire o qualche altro circo televisivo. Eppure, io non mi riterrò offeso. Anzi, le assicuro una volta ancora che la sua opinione è stata debitamente messa agli atti e, come dicevo, vorrei proseguire. In quanto scopritore della ROTS, ci si potrebbe aspettare che lei non sia del tutto obiettivo sui meriti morali della procedura, ma vorrei farle delle domande al riguardo. Prima, però, devo ammettere che è stato difficile non notare la donna incredibilmente attraente seduta accanto a lei al tavolo dei testimoni. È qui per aiutarla a testimoniare? Se è così, la sua presenza dovrebbe forse essere messa agli atti.» «È la dottoressa Stephanie D'Agostino», sbottò Daniel. «La mia collaboratrice scientifica.» «Un'altra laureata in medicina e addottorata?» chiese Ashley. «Ho fatto il dottorato, ma non la facoltà di medicina», rispose Stephanie nel proprio microfono. «E, signor presidente, vorrei esprimere il mio accordo con l'opinione del dottor Lowell sul modo parziale con cui è stata condotta questa udienza, ma senza le sue parole di fiamma. Ritengo fortemente che le allusioni al mito di Frankenstein in relazione alla ROTS siano inappropriate, poiché smuovono le paure ancestrali della gente.» «Sono desolato», replicò Ashley. «Avevo sempre pensato che voi laureati nelle grandi università aveste l'abitudine di citare i vari capolavori della letteratura, ma ecco che, una volta che ci provo io, mi dicono che non è il caso. È giusto, dato che mi ricordo distintamente che nel mio piccolo college battista mi è stato insegnato che Frankenstein è, fra l'altro, un avvertimento sulle conseguenze morali del materialismo scientifico più sfrenato? Secondo me, questo rende il libro estremamente appropriato. Ma basta con questo argomento! Questa è un'udienza, non un dibattito letterario.» Prima che potesse continuare, Rob gli si avvicinò da dietro e gli batté su una spalla. Ashley coprì il microfono con una mano. «Senatore», gli sussurrò Rob all'orecchio. «Stamattina, appena è arrivata la richiesta perché la dottoressa D'Agostino sedesse al banco dei testimoni con il dottor Lowell, ho fatto un rapido controllo su di lei. Ha studiato ad
Harvard ed è cresciuta nel North End di Boston.» «Dovrebbe significare qualcosa?» Rob alzò le spalle. «Potrebbe essere una coincidenza, ma ne dubito. L'investitore nella compagnia di Lowell che, come ci ha detto il Bureau, è stato incriminato, è un D'Agostino ed è cresciuto nel North End. Probabilmente sono parenti.» «Oh, oh!» commentò Ashley. «Curioso.» Prese il foglio che gli porgeva Rob e lo pose vicino a quello con la situazione finanziaria della compagnia di Daniel. Fece fatica a reprimere un sorriso. «Dottoressa D'Agostino», disse quindi nel microfono, dopo aver tolto la mano. «Ha rapporti di parentela con Anthony D'Agostino, residente al 14 di Acorn Street a Medford, Massachusetts?» «È mio fratello.» «Ed è lo stesso Anthony D'Agostino che è stato indiziato per estorsione?» «Purtroppo sì.» Stephanie lanciò un'occhiata a Daniel, che la stava guardando con l'espressione sbalordita. «Dottor Lowell», continuò Ashley. «Lei era al corrente che uno dei suoi investitori iniziali e più importanti era soggetto a tale accusa?» «No», rispose Daniel. «Comunque non è un investitore importante.» «Uhmmm... Diverse centinaia di migliaia di dollari sono tanti quattrini, a mio avviso. Ma non cavilliamo. Spero che non funga da direttore.» «No.» «Questo è un sollievo. E suppongo possiamo presumere che questo Anthony D'Agostino indiziato per estorsione non faccia parte del comitato etico, che a quanto pare lei ha.» Delle risatine soppresse serpeggiarono fra il pubblico. «Non fa parte del nostro comitato etico», rispose Daniel. «Anche questo è un sollievo. Ora parliamo per un momento della sua società. Si chiama CURE, che immagino sia una sigla.» «Infatti», confermò Daniel con un sospiro, come se si stesse annoiando. «Deriva da Cellular Replacement Enterprises.» «Mi spiace se è affaticato dai rigori di questa udienza, dottore», osservò Ashley. «Cercheremo di accelerare le cose. Ma so che la sua azienda sta tentando di entrare nella seconda fase di finanziamento cercando capitali a cui associarsi, con la ROTS come sua prevalente proprietà intellettuale. Il suo fine ultimo è di farla diventare una società per azioni con un'offerta pubblica iniziale?»
«Sì.» Daniel si appoggiò allo schienale della sedia. «Ora, questo non andrà agli atti», disse Ashley e guardò alla propria sinistra. «Vorrei chiedere all'illustre senatore del grande stato del Montana se pensa che la Security Exchange Commission troverà interessante che uno degli investitori iniziali di un'azienda che ha intenzione di diventare società per azioni è stato indiziato per estorsione. Voglio dire, qui può esserci una questione di decoro morale. Denaro proveniente dall'estorsione e magari perfino dalla prostituzione, per quanto ne sappiamo, che viene riciclato tramite un'impresa biotech.» «Penso che la SEC sarà molto interessata», rispose l'interpellato. «Quello che pensavo anch'io.» Ashley riportò lo sguardo sugli appunti e poi di nuovo su Daniel. «Da quanto ne so, la sua seconda fase di finanziamento è rimasta in sospeso a causa del disegno di legge 1103 e del fatto che la Casa dei rappresentanti l'ha già approvato. È così?» Daniel annuì. «Deve parlare, per la verbalizzazione.» «È così», disse Daniel. «E deduco che la percentuale di perdita, voglio dire i soldi che sta usando attualmente per rimanere a galla, è molto alta, e se non ottiene questo secondo giro di finanziamenti rischia la bancarotta.» «Infatti.» «Peccato», commentò Ashley mostrando comprensione. «Però, ai fini di questa udienza, devo presumere che la sua obiettività rispetto alle implicazioni morali della ROTS è seriamente in questione. Voglio dire, il futuro stesso della sua società dipende dal fatto che la 1103 non passi. Non è vero, dottore?» «La mia opinione è sempre stata e continuerà a essere che è moralmente sbagliato sospendere la ricerca che potrebbe consentire di usare la ROTS per curare innumerevoli esseri umani sofferenti.» «La sua opinione è stata messa a verbale. Ma, per gli atti, vorrei sottolineare che il dottor Daniel Lowell ha scelto di non rispondere alla domanda che gli è stata posta.» Ashley si appoggiò allo schienale e guardò alla propria destra. «Non ho altre domande per questo testimone. Qualcuno dei miei stimati colleghi ha altro da chiedergli?» Fece scorrere lo sguardo sui visi dei senatori seduti sulla piattaforma. «Benissimo. La sottocommissione sulla politica sanitaria ringrazia il dottor Lowell e la dottoressa D'Agostino per la loro gentile partecipazione.
Ora vorremmo chiamare il nostro prossimo testimone: il signor Harold Mendes dell'organizzazione Diritto alla Vita.» 3 Giovedì 21 febbraio 2002 - ore 11.05 Stephanie individuò il taxi in mezzo al fitto gruppo di auto in arrivo e sollevò il braccio fiduciosa. Lei e Daniel avevano seguito il consiglio di un agente della sicurezza del Senato ed erano arrivati a piedi fino a Constitution Avenue, nella speranza di trovare un taxi, ma non avevano avuto tanta fortuna. Dopo la promessa di una bella mattinata di sole, il tempo era peggiorato: pesanti nuvoloni scuri incombevano da est, spinti dal vento, e la temperatura attorno allo zero faceva pensare alla possibilità di una nevicata. Evidentemente, in quelle condizioni la richiesta eccedeva abbondantemente la disponibilità. «Ecco che ne arriva uno», sbottò Daniel, come se Stephanie fosse in qualche modo responsabile di quella penuria. «Non lasciartelo scappare!» «L'ho visto», rispose lei nello stesso tono. Dopo aver lasciato l'edificio del Senato, nessuno dei due aveva aperto bocca, se non per consultarsi sulla strada da seguire. Come le nubi in cielo, anche il loro umore si era rabbuiato, in seguito all'andamento dell'udienza. «Accidenti!» bofonchiò Stephanie mentre l'auto sfrecciava via. Era come se l'autista portasse i paraocchi. Lei aveva fatto di tutto, tranne che gettarsi in mezzo al traffico. «Te lo sei lasciato scappare!» si lagnò Daniel. «Me lo sono lasciato scappare?» gridò Stephanie. «Ho agitato il braccio. Ho fischiato. Mi sono perfino messa a saltellare. Non ho visto te fare tanti sforzi.» «Che cosa diavolo facciamo adesso? Qua fuori fa un freddo boia.» «Be', se hai qualche idea brillante, Einstein, fammelo sapere.» «Che c'è? È colpa mia se non ci sono taxi?» «No, ma nemmeno mia.» Entrambi serrarono le braccia attorno al corpo nel vano tentativo di tenersi caldi ma badarono bene a tenersi a distanza uno dall'altra. Nessuno dei due aveva portato con sé un vero cappotto invernale, pensando di non averne bisogno, dato che erano scesi di circa mille chilometri a sud. «Ecco che ne arriva un altro!»
«Stavolta tocca a te», decise Stephanie. Tenendo la mano sollevata, Daniel si avventurò sulla sede stradale quel tanto che riteneva non pericoloso. Quasi immediatamente dovette tirarsi indietro vedendo un camioncino che gli veniva addosso nella corsia esterna. Gridò e agitò il braccio, ma il taxi proseguì nel groviglio di veicoli senza rallentare. «Ottimo lavoro», commentò Stephanie. «Chiudi il becco!» Proprio quando stavano per rinunciare e mettersi a camminare lungo Constitution Avenue, sentirono il clacson di un taxi. Era rimasto fermo al semaforo tra la Prima e Constitution e l'autista aveva assistito allo sforzo grottesco di Daniel. Quando il semaforo era passato al verde, aveva svoltato a sinistra per fermarsi accanto al marciapiede. Stephanie e Daniel vi si infilarono di corsa. «Dove?» chiese il tassista guardandoli nello specchietto retrovisore. Portava un turbante e aveva la pelle scura come se avesse trascorso una settimana nel Sahara. «Al Four Seasons», rispose Stephanie. Lei e Daniel rimasero in silenzio a guardare fuori dal finestrino. «Direi che l'udienza è andata male più di quanto temevo», si lamentò infine Daniel. «Ancora peggio», replicò Stephanie. «Non c'è dubbio che quel bastardo di Butler riuscirà a far passare il suo disegno di legge alla sottocommissione e, quando questo accadrà, così mi hanno spiegato alla Biotechnology Industry Organization, passerà anche alla commissione e al Senato.» «E allora addio CURE, Inc.» «È una vergogna che in questo paese la ricerca medica sia tenuta in ostaggio da politici demagoghi. Non avrei nemmeno dovuto scomodarmi a venire a Washington.» «Be', forse non avresti dovuto. Magari era meglio se ci venivo da sola. Di certo non sei stato d'aiuto dicendo ad Ashley che vuoò farsi bello e che non ha la mente aperta.» Daniel si voltò di scatto, ma di Stephanie si vedeva soltanto la testa girata. «Puoi ripetere?» «Non dovevi perdere le staffe.» «Non posso crederci! Stai insinuando che questo risultato di merda è colpa mia?»
Stephanie si voltò. «Tenere conto dei sentimenti delle altre persone non è il tuo forte. E questa udienza lo dimostra. Chi sa come potevano mettersi le cose, se tu non avessi perso il controllo. Attaccarlo come hai fatto è stato controproducente, perché ha bloccato anche il minimo dialogo che forse era possibile. Tutto qua.» Da pallido, Daniel divenne paonazzo. «Quell'udienza è stata una stramaledetta farsa!» «Forse, ma questo non giustifica le cose che hai detto in faccia a Butler, perché ha troncato sul nascere qualsiasi possibilità di successo, per quanto piccola. Io credo che il suo scopo fosse farti infuriale in modo da metterti in cattiva luce, e ha funzionato. È stato il suo modo di screditarti come testimone.» «Mi stai facendo incazzare.» «Daniel, sono irritata quanto te per come sono andate le cose.» «Già, ma stai dicendo che è colpa mia.» «No, sto dicendo che il tuo comportamento non è stato d'aiuto. C'è una bella differenza.» «Be', nemmeno il tuo comportamento è stato d'aiuto. Come mai non mi avevi informato che tuo fratello è indiziato per estorsione? Tutto ciò che mi hai detto è stato che è un investitore qualificato. Che qualificazione! Un bel momento per me, per apprendere questa ghiotta notizia!» «È stato dopo che ha fatto l'investimento, ed è uscito sui giornali di Boston. Quindi non era una cosa segreta, ma ho preferito non parlarne, almeno all'epoca. Credevo che tu non accennassi all'argomento per riguardo verso di me, ma avrei dovuto immaginare che non era così.» «Preferivi non parlarne?» Daniel mostrò un esagerato stupore. «Lo sai che io non perdo tempo a leggere quegli stupidi giornali di Boston. Quindi in che altro modo avrei potuto venirne a conoscenza? E invece avevo bisogno di saperlo perché Butler ha ragione. Se avessimo fatto un'offerta pubblica sarebbe venuto alla luce che avevamo un criminale tra gli investitori, e questo avrebbe fermato le cose.» «È stato solo indiziato», gli fece notare Stephanie. «Non lo hanno condannato. Ricorda, nel nostro sistema giuridico sei innocente finché non è dimostrato il contrario.» «Questa è una scusa molto debole per non avermene parlato», sbottò Daniel. «Lo condanneranno?» «Non lo so.» La voce di Stephanie aveva perso il tono tagliente, mentre lei si sentiva un po' in colpa per non essere stata più franca con Daniel a
proposito di suo fratello. Aveva pensato di parlargli dell'imputazione, prima o poi, ma aveva sempre rimandato. «Non ne hai la minima idea? È un po' difficile, per me, crederlo.» «Avevo qualche vago sospetto», ammise Stephanie. «Gli stessi che avevo avuto per mio padre, e Tony ha di fatto rilevato i suoi affari.» «Che genere di affari?» «Proprietà immobiliari e qualche ristorante, più un caffè in Hanover Street.» «Tutto qua?» «È questo che non so di preciso. Come ho detto, avevo dei vaghi sospetti per la gente che andava e veniva in casa nostra a tutte le ore del giorno e della notte, e le donne e i bambini venivano mandati via dalla stanza alla fine dei pasti, in modo che gli uomini potessero parlare. A ripensarci con il senno di poi, mi sembra che fossimo il cliché della famiglia mafiosa italoamericana. Certo, non era su vasta scala, come si vede nei film di gangster, ma il modello era quello. Da noi donne ci si aspettava che fossimo solo casa e chiesa, senza alcun interesse né coinvolgimento negli affari. A dirti la verità, io mi sentivo in imbarazzo, perché noi bambini eravamo trattati in modo diverso nel quartiere. Non vedevo l'ora di andarmene, e sono stata abbastanza sveglia da capire che il modo migliore per farlo era essere un'ottima studentessa.» «Posso capirlo.» Anche nella voce di Daniel l'acrimonia si era attenuata. «Anche mio padre si dedicava a ogni tipo di affari, e alcuni erano quasi truffe. Il problema era che sono stati tutti fallimenti, con la conseguenza che non soltanto lui ma anch'io e i miei fratelli siamo diventati l'argomento delle barzellette in tutta Revere, in particolare a scuola, per lo meno quelli di noi che non appartenevano alla gente 'in', cosa che io non ero di certo. Il soprannome di mio padre era 'Loser Lowell': perdente. E purtroppo l'epiteto aveva la tendenza a passare anche a noi.» «Per me era l'opposto. Eravamo trattati con una sorta di deferenza, e non era gradevole. Lo sai come agli adolescenti piaccia mescolarsi con gli altri. Ebbene, per me era impossibile, e non sapevo nemmeno perché. Una cosa che detestavo.» «Come mai non me ne hai mai parlato?» «Come mai tu non mi hai mai parlato della tua famiglia, tranne per il fatto che hai otto fratelli nessuno dei quali, aggiungo io, ho mai conosciuto? Per lo meno io ti ho chiesto diverse volte dei tuoi parenti.» «Questo è un buon argomento», rispose Daniel, tenendosi sul vago. Spo-
stò lo sguardo fuori, dove qualche solitario fiocco di neve danzava tra le raffiche di vento. Sapeva che la vera risposta a quella domanda era che a lui non era mai importato della famiglia di Stephanie, più di quanto gli importasse della sua. «Forse non abbiamo parlato delle nostre famiglie perché tutti e due ci sentiamo in imbarazzo per la nostra infanzia. O forse è stato un po' questo, un po' la preoccupazione per la ricerca scientifica e l'avvio della società.» «Forse», mormorò lei, senza tanta convinzione. Fissò la strada oltre il parabrezza. «È vero che lo studio è sempre stato la mia via di fuga. Naturalmente mio padre non approvava, ma questo serviva solo ad aumentare la mia determinazione. Diavolo, lui non pensava che dovessi andare al college. Secondo lui era uno spreco di tempo e di denaro, perché io dovevo solo sposarmi e fare figli, come si usava cinquant'anni fa.» «Mio padre era letteralmente in imbarazzo per il fatto che andavo bene nelle materie scientifiche. Diceva a tutti che dovevo aver preso dal mio lato materno, come se fosse una malattia genetica.» «E i tuoi fratelli e sorelle? Era la stessa cosa anche per loro?» «Fino a un certo punto sì, perché mio padre era abbastanza meschino da gettare su di noi la colpa dei suoi fallimenti. Sai, rimediare il capitale che gli serviva per partire con le sue brillanti idee. Ai miei fratelli, che erano dei bravi atleti, andava un po' meglio, perché mio padre era un patito dello sport. Ma, per tornare a tuo fratello Tony, di chi è stata l'idea che investisse nella CURE, tua o sua?» Il tono di Daniel riprese un po' della durezza precedente. «Dobbiamo ricominciare a discutere?» «Rispondi soltanto alla mia domanda!» «Che differenza fa?» «È stato un monumentale errore di valutazione permettere a un possibile, o probabile, mafioso di investire nella nostra compagnia.» «È venuta un po' a tutti e due. A differenza di mio padre, lui si interessava a quello che facevo, e io gli ho detto che le biotecnologie erano un campo redditizio in cui investire i soldi provenienti dai ristoranti.» «Splendido!» esclamò Daniel con sarcasmo. «Spero ti renderai conto che gli investitori in genere non amano perdere il loro denaro, nonostante siano stati adeguatamente avvertiti dei rischi che comportano le aziende appena avviate. Figurarsi un mafioso! Hai mai sentito parlare di certi inconvenienti, tipo rotule fracassate?» «È mio fratello, santo cielo! Non ci sarà nessun fracassamento di ginoc-
chia.» «Sì, ma non è mio fratello.» «È insultante anche solo suggerire una cosa simile», sbottò Stephanie e voltò di nuovo la testa verso il finestrino. In genere, sensibile com'era all'ingegno scientifico di Daniel, aveva una riserva di pazienza per sopportarne il sarcasmo, l'ego smisurato e la negatività antisociale, ma al momento l'aveva esaurita. «Date le circostanze, non m'interessa girellare per Washington un'altra sera», cambiò argomento Daniel. «Secondo me dovremmo mettere insieme le nostre cose, lasciare la stanza e prendere il primo volo per Boston.» «A me sta bene», rispose brusca Stephanie. Mentre Daniel pagava la corsa, lei scese e si diresse subito verso l'atrio dell'albergo, appena vagamente consapevole che lui la seguiva a ruota. Era abbastanza sconvolta da chiedersi che cosa avrebbe fatto quando fossero tornati a Boston. Nello stato d'animo in cui si trovava, l'idea di ritornare nell'appartamento di Daniel a Cambridge, dove ormai viveva anche lei, non l'attirava. L'insinuazione che lui aveva fatto sulla possibilità che la famiglia D'Agostino ricorresse alla violenza fisica era insultante. Lei non sapeva per certo se qualcuno nella sua famiglia si dedicava all'usura o ad altre attività esecrabili, ma era dannatamente sicura che nessuno si era mai fatto male. «Dottoressa D'Agostino, mi scusi!» chiamò a gran voce uno dei portieri. Udire inaspettatamente il proprio nome gridato nell'atrio dell'hotel prese Stephanie alla sprovvista e la fece fermare di botto. Daniel le andò a sbattere addosso, e la cartelletta che aveva in mano cadde a terra. «Santo cielo!» sbraitò, mentre si chinava a raccogliere i fogli che ne erano usciti. Gli diede una mano un fattorino. Erano degli schemi riassuntivi della ROTS. Li aveva portati con sé all'udienza, nel caso si presentasse l'occasione di mostrarli per far comprendere bene la procedura. Purtroppo, tale opportunità non si era verificata. Quando Daniel si rialzò, Stephanie era tornata presso di lui dopo essere stata al banco del portiere. «Potevi avvisarmi che avevi intenzione di fermarti», si lamentò lui. «Chi è Carol Manning?» domandò Stephanie. «Non ne ho la più pallida idea. Perché me lo chiedi?» «Hai un messaggio urgente da parte sua.» Stephanie gli porse il pezzetto di carta. Daniel lo lesse rapidamente. «Dovrei chiamarla. Dice che è un'emergen-
za. Come fa a essere un'emergenza, se non so nemmeno chi è?» «Qual è il prefisso?» Stephanie guardò al di sopra della sua spalla. «Due-zero-due. Dov'è? Lo sai?» «Certo che lo so! È il prefisso di qui.» «Washington! Oh, allora questo sistema la questione.» Daniel accartocciò il foglietto di carta, si avvicinò al banco dei portieri e chiese a uno di loro di gettarlo nel cestino della carta straccia. Stephanie rimase inchiodata dove si trovava, la mente in subbuglio mentre lo guardava dirigersi verso gli ascensori. Prendendo una rapida decisione si avvicinò di corsa al banco, riprese il foglietto dalle mani del portiere, che era intento a parlare con un altro cliente, e corse dietro a Daniel. «Penso che dovresti telefonare», gli disse con un po' di fiatone quando lo raggiunse. «Davvero?» replicò lui in tono altezzoso. «Io non credo.» Arrivò l'ascensore e vi salì. Stephanie lo seguì. «No, io credo che dovresti chiamare. Voglio dire, che cos'hai da perdere?» «Un altro po' della mia autostima.» L'ascensore iniziò a salire. Lo sguardo di Daniel era fisso sull'indicatore dei piani e quello di Stephanie su di lui. Le porte si aprirono e loro imboccarono il corridoio. «Penso di riconoscere il prefisso del numero perché la settimana scorsa ho chiamato l'ufficio di Ashley Butler. Credo che sia due-due-quattro e, se è così, allora è un centralino del Senato.» «Un motivo in più per non chiamare», insisté Daniel e aprì la porta della loro suite. Mentre lui si toglieva il cappotto, Stephanie si infilò nel soggiorno, andò alla scrivania e lisciò il foglietto con il messaggio. «È due-due-quattro», gli comunicò. «La parola 'emergenza' è sottolineata. Forse il vecchiaccio ha cambiato idea.» «Più facile che la luna esca dalla sua orbita.» Daniel l'aveva raggiunta e guardò anche lui il messaggio. «È strano. Che razza di emergenza potrebbe essere? All'inizio pensavo che fosse la stampa, ma non può essere, se è un centralino del Senato. Sai, non mi importa. Essere disponibile con qualcuno che ha a che fare con il Senato degli Stati Uniti non è al primo posto nell'elenco delle mie priorità, al momento.» «Chiama. Rischi di fare come chi si castra per far dispetto alla moglie. Se non lo fai tu, lo faccio io. Fingerò di essere la tua segretaria.»
«Tu, una segretaria? Divertente! Va bene, perdio, chiama!» «Userò il vivavoce, così potrai sentire anche tu.» «Splendido!» esclamò Daniel con sarcasmo. Si stravaccò sul divano con la testa su un bracciolo e i piedi sull'altro. Stephanie compose il numero. Si udì un solo suono elettronico, poi rispose una voce decisamente femminile; il tono di urgenza faceva pensare che la telefonata fosse stata attesa con ansia. «Chiamo da parte del dottor Daniel Lowell.» Mentre parlava, Stephanie non staccava lo sguardo da Daniel. «È Carol Manning?» «Sì. Grazie per aver risposto al mio messaggio. È estremamente importante che parli con il dottore prima che lasci l'albergo. È ancora lì?» «Posso chiedere il motivo?» «Sono il capo dello staff del senatore Ashley Butler. Forse stamattina mi ha vista. Ero seduta dietro di lui.» Daniel fece passare rapidamente l'indice sulla gola, come per tagliarla, affinché lei riattaccasse. Stephanie lo ignorò. «Ho bisogno di parlare con il dottore», continuò Carol. «Come ho detto, è estremamente importante.» Daniel ripeté il gesto di prima, aggiungendo una smorfia che esprimeva tutta la sua collera. Quindi lo ripeté una terza volta, vedendo che Stephanie esitava. Lei gli fece cenno di smetterla. Le era chiaro che non era pronto a parlare con Carol Manning, però non voleva riattaccare. «Il dottore c'è?» chiese Carol. «Sì, è qui, ma al momento è indisposto.» Daniel roteò gli occhi. «Posso chiedere con chi sto parlando?» domandò ancora Carol. Stephanie esitò di nuovo. Pensò che fingere di essere la segretaria di Daniel fosse ridicolo, quindi si decise a rivelare il proprio nome. «Oh, benissimo! Dalla testimonianza del dottor Lowell, so che lei è una sua collaboratrice. Posso chiederle se la collaborazione è molto stretta e magari anche personale?» Sul volto di Stephanie si allargò un sorriso sardonico. Fissò per un attimo il telefono come se potesse rivelarle come mai Carol Manning stava infrangendo la normale etichetta, ponendo una domanda simile. In circostanze più normali, una cosa del genere l'avrebbe fatta imbestialire, adesso invece la incuriosiva ancora di più. «Non intendo comportarmi in modo sconveniente», aggiunse Carol, co-
me se avesse intuito la sua reazione. «È una situazione piuttosto imbarazzante, ma mi hanno detto che è stata registrata nella stessa suite. Spero capisca che non è mia intenzione invadere la sua privacy, ma piuttosto essere il più discreta possibile. Vede, il senatore vorrebbe organizzare un incontro segreto con il dottor Lowell e in questa città non è facile, considerata l'importanza e la notorietà di cui gode.» Nell'ascoltare quella richiesta così insolita, Stephanie era rimasta a bocca aperta. Perfino Daniel aveva rimesso giù i piedi dal divano e si era messo a sedere. «Speravo», continuò Carol, «di poter comunicare questo messaggio direttamente al dottor Lowell, in modo che soltanto lui, il senatore e io sapessimo dell'incontro. Evidentemente, questo non è più possibile. Spero di poter contare sulla sua discrezione, dottoressa D'Agostino.» «Il dottor Lowell e io lavoriamo a strettissimo contatto», si decise a rispondere Stephanie. «Lei può assolutamente contare sulla mia discrezione.» Fece un gesto frenetico per vedere se Daniel avesse voglia di partecipare alla conversazione, ora che aveva preso quella svolta inaspettata, ma lui scosse la testa e le fece cenno di continuare lei. «Noi speriamo che l'incontro si possa fissare per stasera», aggiunse Carol. «Che cosa devo riferire al dottor Lowell, per quanto riguarda l'argomento dell'incontro?» «Questo non glielo posso dire.» «Non dirmelo causerà un problema. So che il dottor Lowell non ha apprezzato ciò che è accaduto all'udienza di stamattina. Non sono sicura che sia disposto a partecipare a un incontro con il senatore, a meno che non abbia un'idea che questo potrà portargli dei vantaggi.» Stephanie guardò Daniel, che le rivolse il segno di pollice alzato, per comunicarle che approvava come stava gestendo la cosa. «Ecco un'altra cosa imbarazzante», si scusò Carol. «Per quanto io sia il capo dello staff del senatore e normalmente sappia tutto ciò che accade in questo ufficio, non ho assolutamente idea del perché vuole incontrare il dottore. Il succo di ciò che ha detto il senatore è che, anche se il dottor Lowell è irritato per gli avvenimenti di stamane, non dovrebbe giungere a una conclusione sulla 1103 finché non si saranno incontrati.» «È piuttosto vago», osservò Stephanie. «È tutto ciò che so. Comunque, consiglio caldamente al dottor Lowell di incontrare il senatore. Sono convinta che andrà a suo vantaggio. Non rie-
sco a immaginare altro motivo per questo incontro. È molto fuori dell'ordinario, lo so per certo. Sono sedici anni che lavoro per il senatore.» «Dove avrebbe luogo l'incontro?» «Il luogo più sicuro sarebbe un'auto in movimento.» «Questo suona molto melodrammatico.» «Il senatore ha insistito sull'assoluta segretezza e, come le ho detto, in questa città non è facile.» «Chi guiderebbe l'auto?» «Io.» «Se l'incontro dovesse aver luogo, insisto per essere presente anch'io.» Daniel roteò di nuovo gli occhi. «Poiché l'ho già messa al corrente dell'incontro, presumo che la sua richiesta sia accettabile, ma per esserne certa al cento per cento devo sentire il senatore.» «Come farete? Passerete a prenderci all'albergo?» «Temo che sarebbe sconsigliabile. Il piano più sicuro è che lei e il dottor Lowell prendiate un taxi fino alla Union Station. Alle nove in punto io arriverò con una Chevrolet Suburban nera dai finestrini scuri e la targa GDF471. Mi fermerò accanto al marciapiede proprio dirimpetto alla stazione. Nel caso ci sia qualche problema, le do il numero del mio cellulare.» Stephanie se lo annotò. «Il senatore può contare sulla presenza del dottor Lowell?» «Gli riferirò la cosa esattamente come lei me l'ha spiegata.» «È tutto ciò che posso chiederle. Comunque, vorrei sottolineare di nuovo come l'incontro sia estremamente importante, sia per il senatore, sia per il dottor Lowell. Il senatore ha usato queste precise parole.» Stephanie ringraziò e disse che avrebbe richiamato entro un quarto d'ora, quindi chiuse la comunicazione. «Questo è uno degli episodi più bizzarri in cui mi sia mai trovata coinvolta», commentò, dopo un breve silenzio. «Che ne pensi?» «Che cosa diavolo ha in mente quel vecchio eccentrico?» «Temo che ci sia un solo modo per saperlo.» «Pensi davvero che ci debba andare?» «Mettiamola in questo modo: penso che saresti uno stupido a non farlo. Dato che l'incontro è segreto, non ti devi nemmeno preoccupare di perdere l'autostima, a meno che non ti importi che cosa pensa di te il senatore Butler. Sapendo che cosa pensi tu di lui, non credo sia così.»
«Te la sei bevuta che questa Carol Manning non sa su cosa verterà l'incontro?» «Sì, credo che sia vero. Ho intuito in lei dei sentimenti feriti mentre mi parlava. Secondo me, il senatore ha in serbo nella manica qualcosa di decisamente poco ortodosso che non vuole far sapere nemmeno alla sua più stretta collaboratrice.» «Va bene», concluse Daniel con una vena di riluttanza. «Richiamala e dille che sarò alla Union Station alle nove.» «Saremo alla Union Station. Intendevo davvero ciò che ho detto alla signora Manning. Insisto per venire anch'io.» «Perché no? Potremmo perfino divertirci.» 4 Giovedì 21 febbraio 2002 - ore 20.15 Mentre svoltava nel vialetto d'accesso e fermava l'auto, a Carol parve che nella modesta casa del senatore ad Arlington, in Virginia, tutte le luci fossero accese. Guardò l'orologio. Con i capricci del traffico di Washington, non era la cosa più facile del mondo arrivare alla Union Station alle nove in punto. Sperava di aver calcolato bene i tempi, altrimenti le cose non sarebbero iniziate sotto un buon auspicio. Aveva impiegato dieci minuti più del previsto ad arrivare dal suo appartamento in Foggy Bottom alla casa di Ashley. Per fortuna si era concessa un margine di un quarto d'ora. Lasciò il motore acceso, tirò il freno a mano e si preparò a scendere dall'auto, ma scoprì che non sarebbe stato necessario esporsi alla gelida acquerugiola: la porta d'ingresso si era spalancata ed era comparso il senatore. Dietro di lui si intravedeva la corpulenta moglie quarantenne, che sembrava la personificazione della solidità domestica: sopra l'abito da casa in cachemire portava un grembiule bianco orlato di pizzi. Al riparo della veranda e seguendo gli evidenti ordini di lei, Ashley aprì l'ombrello. Le folate di neve comparse durante la giornata si erano trasformate in una pioggerellina costante. Con il volto nascosto dalla cupola capovolta dell'ombrello nero, cominciò a scendere gli scalini. Si muoveva adagio e con precauzione e questo diede il tempo a Carol di esaminare l'uomo massiccio, leggermente curvo, che in un'altra vita sarebbe potuto essere un agricoltore o un metalmecca-
nico. Per lei non era una visione particolarmente gaia vedere avvicinarsi il suo capo. In quella scena c'era qualcosa di assai deprimente e patetico, immersa com'era in un color seppia reso ancora più sfocato dall'umidità dell'aria, e scandita dal monotono clic-clac dei tergicristalli che tracciavano implacabili i loro archi sul parabrezza. Ma, per Carol, ciò che sapeva contava più di ciò che vedeva. Ecco un uomo che lei aveva rispettato quasi al punto della venerazione, per il quale aveva fatto innumerevoli sacrifici per più di un decennio e che ora si era trasformato, diventando imprevedibile e perfino meschino. Nonostante tutti gli sforzi fatti durante l'intera giornata, non aveva ancora un'idea del perché volesse quell'incontro clandestino e politicamente rischioso con il dottor Lowell. Considerata inoltre l'insistenza sull'assoluta segretezza, non aveva nemmeno potuto chiederlo a qualcun altro. A rendere le cose peggiori, non riusciva a scacciare la sensazione che Ashley non le rivelava il motivo dell'incontro solamente per farle un dispetto, poiché sapeva per istinto che lei desiderava tanto conoscerlo. Durante l'ultimo anno, una sequela di commenti sarcastici del tutto immeritati le aveva fatto capire che lui le invidiava la relativa giovinezza e la buona salute. Lo guardò fermarsi alla base degli scalini e aggiustare la postura. Per un attimo sembrò immobilizzarsi: una metafora della sua testardaggine, qualità che un tempo Carol aveva ammirato ma che ora la irritava. In passato, lui aveva lottato per il potere, per mandare avanti i suoi obiettivi conservatori, ma ora sembrava che brigasse solo per il potere fine a se stesso, quasi se ne fosse drogato. Carol aveva sempre pensato a lui come a un grande uomo che avrebbe saputo quando farsi da parte, ma ora non nutriva più tale fiducia. Ashley cominciò a camminare lentamente. Con il cappotto nero, le spalle cadenti e i passettini brevi e strascicati le fece pensare a un grosso pinguino. A mano a mano che si muoveva, acquistava velocità. Carol si aspettava che si avvicinasse alla portiera del passeggero, invece aprì direttamente quella dietro di lei. Sentì l'auto oscillare mentre lui saliva. Lo sportello si richiuse sbattendo. Si udì l'ombrello cadere sul fondo. «Sei in ritardo», si lamentò Ashley, senza alcuna traccia del suo accento del Sud. «Mi spiace», replicò lei automaticamente. Stava sempre a scusarsi di qualcosa. «Ma penso che saremo in orario. Dobbiamo parlare, prima di tornare in città?» «Parti!» le ordinò lui.
Carol si sentì sommergere da un'ondata di collera, ma si morse la lingua, sapendo bene quali sarebbero state le conseguenze se avesse dato voce ai propri sentimenti. Ashley aveva la memoria di un elefante per qualsiasi cosa percepisse come uno sgarbo e la malvagità delle sue vendette era leggendaria. Carol ingranò la retromarcia e uscì dal vialetto. Il percorso era semplice, quasi tutto su strade a senso unico. Arrivò facilmente alla superstrada 395, trovando tutti i semafori verdi. Su quella grande arteria ebbe la bella sorpresa di trovare molto meno traffico di quanto ce n'era un quarto d'ora prima, e accelerò. Sapendo di non essere in ritardo si rilassò un po', ma quando si avvicinarono al Potomac, un aereo di linea che decollava dal Reagan International Airport tuonò proprio sulle loro teste. Sembrava che fosse solo pochi metri sopra di loro e quel frastuono improvviso e rimbombante la spaventò, tanto che fece sbandare l'auto. «Se non sapessi che non è così», commentò Ashley, tornato al suo tipico accento del Sud e parlando per la prima volta da quando aveva impartito il suo rude comando, «avrei giurato sulla memoria di mia madre che la turbolenza di quell'aereo si è propagata fin qua, sulla superstrada. Hai il controllo del veicolo, mia cara?» «Va tutto bene», gli assicurò Carol. Al momento, trovò irritante quell'accento teatrale, sapendo come lui riuscisse facilmente a usarlo o a evitarlo. «Ho ripassato il dossier messo assieme da te e dallo staff sul bravo dottore», aggiunse Ashley dopo una breve pausa. «Anzi, me lo sono quasi imparato a memoria. Devo complimentarmi con te e con gli altri. Avete fatto tutti un ottimo lavoro. Credo di saperne di più su quel ragazzo di quanto non ne sappia lui stesso.» Carol annuì ma non replicò. Il silenzio regnò fin quando entrarono nella galleria che correva sotto la distesa erbosa del Washington Mall. «Lo so che sei contrariata e arrabbiata con me», dichiarò Ashley all'improvviso. «E so perché.» Carol lo guardò nello specchietto retrovisore. Sprazzi di luce che si riflettevano sulle piastrelle di ceramica della galleria gli illuminavano il viso a intermittenza, dandogli un aspetto più spettrale che mai. «Ce l'hai con me perché non ti ho parlato dei motivi dell'imminente incontro.» Lei lo guardò di nuovo. Era stata colta alla sprovvista. Una tale ammissione era completamente insolita, per lui. Non aveva mai dato a vedere che
sapesse o gli importasse dei sentimenti della sua più stretta collaboratrice. Anche questa era una prova della sua attuale imprevedibilità, e lei non sapeva che cosa dire. «Mi rammenta una volta in cui mia mamma era arrabbiata con me», continuò Ashley, aggiungendo al suo accento il tono aneddotico a cui ricorreva spesso. Carol gemette fra sé. Anche questo manierismo lo trovava irritante. «È stato quando ero alto come un soldo di cacio. Mi ero messo in testa di andare a pesca da solo in un fiume distante quasi due chilometri da casa, dove si diceva che ci fossero pescegatti più grossi di armadilli. Partii prima dell'alba, prima che chiunque altro si fosse alzato, e provocai a mia madre una gran bella preoccupazione. Quando tornai a casa, lei era imbestialita; mi afferrò per la collottola e mi chiese come mai non le avevo domandato il permesso di fare un viaggio così azzardato alla mia tenera età. Io le dissi che non glielo avevo chiesto perché sapevo che mi avrebbe detto di no. Ebbene, mia cara Carol, è la stessa situazione di questo imminente incontro con il dottore. Ti conosco abbastanza da sapere che cercheresti di farmi cambiare idea, e io ho già deciso.» «Cercherei di farle cambiare idea solo se fosse nel suo interesse», rispose lei. «Certe volte il tuo desiderio di competere è così trasparente, mia cara! Pochi capirebbero le tue vere motivazioni, considerata la tua apparente disinteressata devozione, ma io so come stanno veramente le cose.» Carol deglutì per il nervosismo. Non sapeva esattamente come reagire al pomposo commento di Ashley, ma non voleva andare nella direzione che esso comportava, dato che evidentemente lui intuiva le tacite ambizioni di lei. Chiese invece: «Per lo meno ha discusso di questo incontro con Phil, per essere certo delle sue potenziali ramificazioni politiche?» «Santo cielo, no! Non ne ho parlato con nessuno, nemmeno con mia moglie, povera anima. Tu, Lowell, la dottoressa e io siamo le uniche persone a sapere che avrà luogo.» Carol uscì dalla superstrada e si diresse verso Massachusetts Avenue. Era contenta che fossero ormai vicini alla Union Station, in modo che non ci fosse la possibilità di riportare la conversazione sull'argomento dei suoi scopi reconditi. Guardò l'orologio. Erano le nove meno un quarto. «Saremo un po' in anticipo», annunciò. «Allora fa' qualche giro», le suggerì Ashley. «Preferirei essere esattamente in orario. Darà il tono giusto all'appuntamento.» Carol svoltò a destra su North Capital e poi a sinistra sulla D. Era una
zona familiare, data la vicinanza al Senate Office Building. Puntò di nuovo verso la Union Station alle nove meno tre minuti e quando si fermò esattamente di fronte alla stazione erano le nove in punto. «Eccoli», disse Ashley, indicando oltre la spalla di Carol. Daniel e Stephanie si tenevano stretti sotto un ombrello del Four Seasons. Spiccavano tra la folla per la loro immobilità. Chiunque altro lì attorno andava di fretta per cercare riparo dalla pioggia, o all'interno della stazione o in uno dei taxi in attesa. Carol fece lampeggiare gli abbaglianti per attirare l'attenzione. «Non c'è motivo di farsi notare così tanto», ringhiò Ashley. «Ci hanno visti.» Daniel, che stava controllando il proprio orologio, si affrettò verso la Suburban, con Stephanie attaccata al suo braccio sinistro. Si avvicinarono al finestrino del guidatore e Carol abbassò il vetro. «La signora Manning?» domandò Daniel in modo sbrigativo. «Sono sul sedile posteriore, dottore!» chiamò Ashley prima che lei potesse rispondere. «Che ne dice di raggiungermi qua dietro e lasciare che la sua squisita collaboratrice si sieda accanto a Carol?» Daniel alzò le spalle, poi lui e Stephanie girarono davanti al muso della grossa auto. Tenne aperto l'ombrello per Stephanie, mentre lei si accomodava, poi prese posto anche lui. «Benvenuto!» esclamò raggiante Ashley, tendendogli la mano dalle dita tozze e larghe. «Grazie per aver accettato di incontrarmi in una serata tremenda come questa.» Daniel guardò la mano tesa ma non fece cenno di stringerla. «Che cosa ha in mente, senatore?» «Ecco un vero uomo del Nord!» commentò Ashley con allegria mentre ritirava la mano, apparentemente senza essersi offeso. «Sempre pronti ad andare al sodo, a non dilungarsi sulle inutili formalità. Ebbene, così sia. Ci sarà tempo in seguito per le strette di mano. Intanto, è mia intenzione che ci conosciamo meglio. Vede, io nutro molto interesse per le sue capacità nell'arte di Esculapio.» «Dove andiamo, senatore?» domandò Carol scrutando Ashley nello specchietto retrovisore. «Perché non portiamo il bravo dottore in giro per la nostra bella città?» propose lui. «Dirigiti verso il Tidal Basin, in modo che possano godersi pienamente l'elegante sacrario della nostra città.» Carol mise in moto e si diresse a sud lungo la Prima Strada. Lei e Ste-
phanie si scambiarono una rapida occhiata, soppesandosi reciprocamente. «Qui a destra c'è il Campidoglio», spiegò Ashley, indicandolo. «E alla nostra sinistra la Corte Suprema della quale adoro l'architettura, e la Biblioteca del Congresso.» «Senatore», lo interruppe Daniel, «con il dovuto rispetto, che temo non sia tanto, a me non interessa fare il giro turistico della città, e nemmeno conoscere meglio lei, soprattutto dopo l'udienza-farsa di stamattina.» «Mio caro, caro amico...» cominciò Ashley, dopo un breve silenzio. «Che ne dice di tagliar corto con queste ampollosità del Sud?» Il tono di Daniel era sdegnoso. «E, per la cronaca, io non sono un suo caro amico. Non sono affatto suo amico.» «Dottore, con il dovuto rispetto, e lo dico sinceramente, lei rende un pessimo servizio a se stesso indulgendo in tale sfacciataggine. Se mi permette di offrirle un piccolo consiglio: lei fa del male alla sua stessa causa quando permette alle emozioni di sopraffare il suo notevole intelletto, come è accaduto stamattina. Nonostante la sua animosità abbondantemente espressa nei miei confronti, io vorrei negoziare con lei da uomo a uomo, e preferibilmente da gentiluomo a gentiluomo, su una questione assai importante ma delicata. Entrambi abbiamo qualcosa che l'altro desidera, e per realizzare tali desideri dobbiamo tutti e due fare qualcosa che preferiremmo non fare.» «Lei parla per indovinelli», bofonchiò Daniel. «Forse sì. Ho attirato il suo interesse? Non continuerò finché non ne sarò sicuro.» Ashley udì Daniel espirare con impazienza e immaginò anche che avesse alzato gli occhi al cielo, ma non poteva saperlo con certezza a causa dell'oscurità. Attese finché il suo ospite ebbe guardato fuori dal finestrino verso gli edifici dello Smithsonian. «Ammettere semplicemente il suo interesse non comporterà per lei assumersi degli obblighi o correre un rischio», aggiunse il senatore. «Nessun altro, a parte le persone presenti in questo veicolo, sanno che stiamo facendo quattro chiacchiere, a meno che, naturalmente, lei non abbia informato qualcuno.» «Mi avrebbe messo in imbarazzo farlo.» «Decido di essere immune alla sua rozzezza, dottore, come lo sono stato stamattina alla sua mancanza di cortesia esternata dall'abbigliamento, dal linguaggio del corpo e dagli attacchi verbali nei miei confronti. Come gentiluomo avrei potuto sentirmi insultato, ma non è stato così. Quindi ri-
sparmi il fiato! Ciò che voglio sapere è se lei è interessato a negoziare.» «E che cosa dovrei negoziare, esattamente?» «La vitalità della sua azienda appena avviata, la sua attuale carriera, la possibilità di diventare famoso e forse, cosa più importante, un'opportunità di evitare il fallimento. Ho ragione di credere che il fallimento sia per lei una maledizione particolare.» Daniel fissò il senatore alla scarsissima luce che filtrava nell'auto. Ashley percepiva l'intensità del suo sguardo, pur non potendo discernere i particolari del volto. Questo gli confermò che stava davvero colpendo assai vicino allo strato più profondo di quell'uomo. «Lei crede che io tema particolarmente i fallimenti?» chiese Daniel con un tono meno sarcastico di prima. «Assolutamente. Lei è una persona altamente competitiva il che, combinato con il suo intelletto, è stata la forza trainante del suo successo. Ma alla gente altamente competitiva non piace fallire, soprattutto quando parte delle loro motivazioni è sfuggire al passato. Lei ha avuto successo e ha fatto molta strada da Revere nel Massachusetts, eppure il suo incubo peggiore comporta una rovina che la costringerebbe a tornare alle radici della sua infanzia. Non è una preoccupazione razionale, considerate le sue credenziali, eppure la perseguita.» Daniel se ne uscì in una risata breve e tetra. «Come ha fatto a mettere in piedi questa teoria ridicolmente bizzarra?» «Io so tante cose di lei, amico mio. Mio padre mi ha sempre detto che la conoscenza è potere. E dato che potremmo negoziare mi sono premunito di trarre vantaggio dalle mie considerevoli risorse, che comprendono dei contatti all'FBI, per apprendere quanto più possibile su di lei e sulla sua società. Infatti non so soltanto delle cose su di lei, ma anche sulla sua famiglia, andando all'indietro per diverse generazioni.» «Ha chiesto all'FBI di fare delle indagini su di me?» chiese Daniel. «Non sono certo di crederle.» «Ma dovrebbe! Lasci che le riferisca i punti salienti di quella che è risultata una storia interessantissima. Intanto, lei è imparentato con la famosa famiglia Lowell del New England, citata nella celebre descrizione della società bostoniana, dove i Lowell parlavano solo con i Cabot e i Cabot parlavano solo con Dio. O era nell'altro verso? Carol, puoi aiutarmi?» «Ha ragione, senatore», confermò lei. «Sono sollevato. Non voglio danneggiare la mia credibilità così presto. Purtroppo, dottore, essere imparentati con i famosi Lowell non le è stato di
grande aiuto. Sembra che il suo nonno alcolizzato sia stato ripudiato e, più importante, diseredato dopo aver sfidato i desideri della famiglia dapprima abbandonando la scuola privata che stava frequentando per arruolarsi come soldato di fanteria durante la prima guerra mondiale, poi sposando una popolana di Medford dopo il congedo. Sembra che durante il suo servizio in Europa abbia avuto esperienze talmente devastanti che non fu più in grado di reintegrarsi nella società altolocata. Questo in contrasto con i suoi fratelli e sorelle che non erano stati in guerra e si godevano gli eccessi degli Anni Ruggenti e che, sebbene anche loro rischiavano di diventare alcolizzati, per lo meno avevano finito la scuola e sposavano consorti socialmente accettabili.» «Senatore, non lo trovo divertente. Possiamo arrivare al dunque?» «Pazienza, amico mio. Mi lasci arrivare al presente. Sembra che questo suo nonno alcolizzato non fosse un padre particolarmente valido né un modello per i suoi dieci figli, uno dei quali era suo padre. Tale padre, tale figlio è un adagio sicuramente applicabile a suo padre, che soffrì durante il servizio attivo nella seconda guerra mondiale. Anche se lui evitò l'alcolismo per quasi tutta la vita, non era certo un buon padre o un modello per i suoi nove figli, e sono certo che lei concorderà. Per fortuna lei, con la sua competitività, il suo intelletto e l'opportunità di evitare un'esperienza bellica in Vietnam, ha rotto questa spirale generazionale verso il basso, ma non senza alcune cicatrici.» «Senatore, per l'ultima volta: a meno che non mi dica chiaro e tondo che cosa ha in mente insisto che ci riportiate al nostro albergo.» «Ma gliel'ho detto. Appena è salito in macchina.» «Farà bene a ripetermelo», ringhiò Daniel. «A quanto pare, è stato talmente elusivo da non farsi capire.» «Le ho detto che mi interessano le sue capacità nell'arte di Esculapio.» «Evocare il dio romano della medicina continua a sembrarmi un indovinello per il quale non ho pazienza. Venga al sodo, soprattutto visto che ha parlato di negoziazione.» «E veniamo al sodo, dunque: desidero scambiare i suoi poteri di medico con i miei poteri di politico.» «Io sono un ricercatore, non un medico che esercita.» «Ma è comunque un medico, e la ricerca che fa è destinata a curare le persone.» «Continui.» «Ciò che sto per dirle è la ragione principale per cui adesso ci troviamo
qui. Ma devo avere la sua parola di gentiluomo che rimarrà confidenziale, indipendentemente dall'esito di questo incontro.» «Se è davvero una cosa personale, non ho problemi a tenere un segreto.» «Eccellente! Dottoressa D'Agostino, posso contare anche sulla sua discrezione?» «Certamente», quasi balbettò Stephanie, sorpresa nel vedersi improvvisamente rivolgere la parola. Si era voltata indietro dal suo sedile e guardava i due uomini. Era in quella posizione da quando il senatore aveva cominciato a parlare della paura del fallimento insita in Daniel. Carol era impegnata nella guida e aveva rallentato considerevolmente. Ipnotizzata dalla conversazione che si svolgeva sul sedile posteriore, teneva gli occhi più sull'immagine di Ashley nello specchietto retrovisore che sulla strada. Era certa di sapere che cosa il suo capo stava per dire e cominciava a farsi anche un'idea del suo possibile piano. Era sbigottita. Ashley si schiarì la gola. «Purtroppo, mi hanno diagnosticato il morbo di Parkinson. Per peggiorare le cose, il mio neurologo è convinto che la mia sia una variante che progredisce in tempi molto rapidi, e sembra proprio così. Nella mia ultima visita ha perfino sollevato lo spauracchio che la malattia possa presto iniziare a colpire le mie capacità cognitive» Per qualche momento nell'auto regnò un silenzio assoluto. «Da quanto tempo lo sa?» domandò Daniel. «Non ho notato alcun tremore.» «Circa un anno. Il farmaco mi è stato d'aiuto. Tuttavia, come aveva previsto il mio neurologo, sta perdendo piuttosto in fretta la sua efficacia. Così, la mia infermità diverrà ben presto di dominio pubblico, a meno che non si faccia qualcosa, e subito. Temo che sia a rischio la mia carriera politica.» «Spero che questa sciarada non vada a finire dove penso.» «Immagino di sì», ammise Ashley. «Dottore, voglio essere la sua cavia, il suo surrogato di topo. Sta avendo una tale fortuna con quelle bestiacce, come ha fieramente riferito stamattina!» Daniel scosse la testa. «È assurdo! Lei vuole che la curi come ho curato i nostri topi!» «Precisamente. Ora, so bene che non vorrà farlo per una varietà di motivi, ed ecco perché questa conversazione è una trattativa.» «Sarebbe contro la legge», intervenne Stephanie. «La Food and Drugs Administration non lo permetterebbe mai.» «E infatti non avevo alcuna intenzione di informare la FDA», replicò
Ashley con calma. «So quanto possano essere impiccioni.» «Andrebbe fatto in ospedale», insisté Stephanie. «E, senza approvazione della FDA, nessun ospedale lo permetterebbe.» «Nessun ospedale in questo paese. In realtà, pensavo alle Bahamas. È la stagione ideale per andarci. Inoltre, laggiù c'è una clinica che servirebbe benissimo ai nostri scopi. Sei mesi fa, la mia sottocommissione ha dibattuto in una serie di udienze della esecrabile mancanza di regolamentazione, nel nostro paese, delle cliniche che curano l'infertilità. Il nome della Wingate è stato portato a esempio di come alcune di queste cliniche ignorino perfino i minimi standard pur di fare profitti enormi. La Wingate Clinic si è trasferita di recente nell'isola di New Providence per evitare le poche leggi applicabili alla sua attività, che include iniziative assai discutibili. Ma ciò che in particolare ha colpito la mia attenzione è stato che stavano costruendo un avveniristico centro di ricerca con annesso ospedale.» «Senatore, ci sono dei motivi per cui le ricerche mediche partono con gli animali prima di passare agli umani. Fare diversamente come minimo non sarebbe etico, per non dire stupido. Io non posso partecipare a una simile impresa.» «Lo sapevo che all'inizio non sarebbe stato eccitato dall'idea», convenne Ashley. «Di nuovo, ecco perché è una trattativa. Vede, sono disposto a prometterle da gentiluomo che il mio disegno di legge non lascerà mai la mia sottocommissione se lei accetta di curarmi in tutta segretezza con la sua ROTS. Ciò significa che la sua seconda fase di finanziamenti andrà in porto, e che la sua società andrà avanti e lei diventerà il celebre e ricco imprenditore biotech che desidera essere. Quanto a me, il mio potere politico è ancora in ascesa e tale rimarrà, ammesso che scompaia la minaccia del morbo di Parkinson. Quindi... entrambi faremo una cosa che preferiremmo non fare, ma la conseguenza sarà che vinceremo tutti e due.» «E quale sarebbe questa cosa che lei ha intenzione di fare, ma che non vorrebbe?» domandò Daniel. «Accetto il rischio di fare da cavia. Sono il primo ad ammettere che vorrei che i nostri ruoli fossero invertiti, ma così è la vita. Rischio anche delle conseguenze politiche, a causa dei miei elettori conservatori che si aspettano l'approvazione della 1103.» Daniel scosse la testa sbalordito. «È assurdo.» «Ma c'è dell'altro», aggiunse Ashley. «Sapendo il livello di rischio che mi assumo con questa nuova terapia, non ritengo che il nostro scambio sia alla pari. Per rettificare questo squilibrio, pretendo qualche intervento di-
vino.» «Ho persino paura di chiederle che cosa intende per 'intervento divino'.» «Da quanto ho capito, se lei mi curasse con la ROTS, avrebbe bisogno di un segmento di DNA appartenente a qualcuno che non ha il morbo di Parkinson.» «Giusto, ma non importa chi sia questa persona. Non c'è il problema dell'eventuale rigetto, come con il trapianto di organi.» «A me invece importa», dichiarò Ashley. «Questo piccolo segmento si può prendere dal sangue, vero?» «Non dai globuli rossi, che non hanno nucleo. Però dai globuli bianchi si può. Quindi la risposta è sì: si può prelevare dal sangue.» «Grazie al Signore per i globuli bianchi. Ora, la fonte del sangue è ciò che ha catturato il mio interesse. Mio padre era un ministro battista, però mia madre, pace all'anima sua, era cattolica. Mi ha insegnato alcune cose che mi sono portato dietro per tutta la vita. Lasci che le faccia una domanda: sa che cos'è la Sacra Sindone?» Daniel scoccò un'occhiata a Stephanie, mentre sul viso gli compariva un sorriso di incredulità. «Sono stata allevata in una famiglia cattolica», intervenne lei. «So che cos'è.» «Anch'io lo so», dichiarò Daniel. «È una reliquia che si suppone sia il sudario con il quale è stato sepolto Gesù Cristo, ed è risultata falsa circa cinque anni fa.» «Vero», confermò Stephanie. «Ma è stato più di dieci anni fa. La datazione al carbonio ha rivelato che risale alla metà del tredicesimo secolo.» «A me non interessano i risultati della datazione al carbonio», asserì Ashley. «Oltretutto è stata smentita da diversi scienziati eminenti. Anche se il rapporto non fosse stato messo in dubbio, il mio interesse rimarrebbe invariato. La Sindone aveva un posto speciale nel cuore di mia madre, e parte della sua devozione si è trasmessa a me quando mi ha portato, assieme ai miei due fratelli maggiori, a Torino perché fossimo alla sua presenza, quando non ero altro che un pupetto impressionabile. Che sia autentica o no, è incontrovertibile che sulla stoffa ci siano macchie di sangue. Su questo quasi tutti concordano. Io voglio che la piccola sezione di DNA necessaria per la ROTS provenga dalla Sacra Sindone. Queste sono la mia richiesta e la mia offerta.» Daniel rise con scherno. «Questo è più che assurdo. È folle. E come farei, secondo lei, a ottenere un campione di sangue dalla Sindone?»
«Questa è responsabilità sua, dottore. Ma io sono disposto ad aiutarla, e ne ho le possibilità. Sono certo di riuscire a sapere i dettagli su come si accede alla Sindone dagli arcivescovi che conosco, sempre pronti a scambiare favori in cambio di una speciale considerazione politica. So che alcuni campioni del sacro cimelio contenenti sangue sono stati presi, dati all'esterno e poi ripresi dalla chiesa. Forse uno di quelli è ancora disponibile, ma lei dovrà andare a prenderlo.» «Sono senza parole», ammise Daniel, cercando di nascondere il proprio divertimento. «È comprensibile», convenne Ashley. «Sono certo che l'opportunità che le ho proposto l'ha colta di sorpresa. Non mi aspetto che mi risponda immediatamente. Avevo previsto che lei volesse rimuginarci sopra. Ma vorrei dirle che, se non si farà vivo entro le dieci di domattina, io presumerò che ha deciso di non approfittare della mia offerta. E alla stessa ora, ordinerò al mio staff di mettere ai voti quanto prima la 1103, in modo che possa arrivare alla commissione plenaria e poi al Senato. E so già che la lobby biotech l'ha informata che passerà facilmente.» 5 Giovedì 21 febbraio 2002 - ore 22.05 I fanalini di coda della Suburban di Carol Manning divennero sempre meno distinguibili, mentre il veicolo si allontanava lungo Louisiana Avenue e si mescolava con il traffico, prima di scomparire nell'oscurità della notte. Stephanie e Daniel, dopo averli fissati fino all'ultimo, si guardarono in faccia. Essendo premuti uno contro l'altra sotto l'ombrello, avevano i nasi che quasi si toccavano. Si trovavano di nuovo sul marciapiede davanti alla Union Station, immobili come quando aspettavano che passassero a prenderli. E se prima erano curiosi, adesso erano allibiti. Fu Stephanie a rompere il silenzio. «Domattina giurerò che tutto questo è stato un'allucinazione», disse scuotendo la testa. «Effettivamente sembra tutto così irreale, onirico», ammise Daniel. «Bizzarro sarebbe un aggettivo più adeguato.» Daniel abbassò lo sguardo sul biglietto da visita che stringeva in pugno. Lo rigirò: annotato con la scrittura irregolare del senatore c'era il numero di un cellulare, da usare per contattarlo direttamente nelle successive dodi-
ci ore. Fissò il numero come per impararlo a memoria. Una raffica di vento improvvisa trasformò momentaneamente la sottile pioggia da verticale a orizzontale. Stephanie rabbrividì nel sentirsi bagnare il volto. «Fa freddo. Torniamo in albergo. Non ha senso rimanere qui a inzupparci.» Come risvegliandosi da una trance, Daniel si scusò e si guardò attorno per il piazzale alla ricerca di un taxi. C'era un posteggio proprio in un angolo, con diverse auto in attesa. Tenendo l'ombrello ad angolo contro il vento, spronò Stephanie ad andare in quella direzione. Finalmente, riuscirono a salire su un'auto. «Al Four Seasons», disse all'autista che lo guardava nello specchietto. «Strana serata, questa. Ironia della sorte», osservò Stephanie di punto in bianco, mentre l'auto partiva. «Lo stesso giorno in cui ho sentito qualcosina sulla tua famiglia, ho anche appreso l'intera storia dal senatore Butler.» «Più che di ironia, parlerei di gran seccatura», ribatté Daniel. «Diamine, è stata un'evidente violazione della mia privacy prendere informazioni su di me dall'FBI. Ed è altrettanto spaventoso che loro abbiano accettato di farlo. Voglio dire, sono un privato cittadino che non è sospettato di alcun crimine. Un simile abuso ricorda i tempi di J. Edgar Hoover.» «Allora, tutto quello che ha detto su di te è vero?» «Essenzialmente, suppongo», rispose Daniel tenendosi sul vago. «Ascolta, parliamo della sua offerta.» «Ti dirò la mia reazione a caldo: puzza!» «Non ci vedi nessun aspetto positivo?» «L'unico aspetto positivo che riesco a vedere è che conferma le nostre impressioni su di lui come un demagogo all'ennesima potenza. È anche un detestabile ipocrita. È contrario alla ROTS per ragioni puramente politiche ed è disposto a bandirne l'applicazione e le ricerche collegate, nonostante possa salvare vite e alleviare le sofferenze. Allo stesso tempo, la vuole per sé. Questo è osceno e ingiustificabile, e di certo noi non accetteremo.» Stephanie emise una breve risata derisoria. «Mi spiace di aver dato la mia parola di tenere segreta la sua malattia. La stampa morirebbe per questa storia, e mi piacerebbe tanto fargliela sapere.» «Di certo non possiamo rivolgerci ai media.» Daniel fu categorico. «E non credo che dobbiamo affrettarci a scartare l'offerta di Butler. Secondo me, merita di essere presa in considerazione.» Stephanie si voltò sorpresa e cercò di scrutare il suo viso nella semioscurità. «Non stai dicendo sul serio, vero?»
«Elenchiamo le cose certe. Sappiamo bene come far crescere i neuroni dopaminergici dalle cellule staminali, quindi non è come se brancolassimo nel buio.» «Lo abbiamo fatto con cellule staminali di topi, non con cellule umane.» «Il processo è identico. Alcuni colleghi lo hanno già fatto con cellule staminali umane, usando la stessa metodologia. Produrre cellule non sarà un problema. Una volta che avremo quelle, possiamo seguire l'esatto protocollo che abbiamo usato per le cavie. Non c'è motivo che non funzioni con un essere umano. Dopotutto, ogni singolo esemplare che abbiamo curato ha reagito benissimo.» «Tranne quello che è morto.» «Ma sappiamo perché è morto. È stato prima che perfezionassimo la tecnica di iniezione. Tutti i topi sui quali è stata praticata nel modo corretto sono sopravvissuti e guariti. Con un volontario umano, potremmo ricorrere a un dispositivo stereotassico che non esiste per i roditori. Questo renderà l'iniezione più esatta, infinitamente più facile e quindi più sicura. Inoltre, non la faremmo noi. Troveremo un neurochirurgo che sia disposto a darci una mano.» «Non credo alle mie orecchie», esclamò Stephanie. «Sembra che ti sia già convinto a intraprendere questo esperimento folle e non etico. Questo, sarebbe: un esperimento rischioso, incontrollato, su un soggetto umano. Non importa quale sarà il risultato, sarebbe privo di valore, tranne forse per Butler.» «Non sono d'accordo. Eseguendo questa procedura, salveremo la CURE e la ROTS, e questo significa che alla fine milioni di persone ne beneficeranno. Secondo me, un compromesso piuttosto piccolo, dal punto di vista etico, è un piccolo prezzo da pagare per un enorme risultato finale.» «Ma faremo esattamente ciò di cui Butler ha accusato l'industria biotech nella dichiarazione di stamattina: usare i fini per giustificare i mezzi. Non sarebbe etico fare esperimenti su di lui, è chiaro e semplice.» «Sì, be', magari a un certo livello, ma chi metteremmo a rischio? Quel mascalzone! È lui che lo vuole. Ancor peggio, è stato lui a brigare: ci ha ricattati con informazioni ottenute costringendo non si sa come l'FBI a compiere un'indagine illegale.» «Tutto questo può anche essere vero, ma due cose sbagliate non ne fanno una giusta, e non ci assolve dalla nostra complicità.» «Io penso di sì. Gli faremo firmare una dichiarazione e ci metteremo dentro tutto, compreso il fatto che eravamo pienamente consapevoli che
praticare la procedura non sarebbe stato considerato etico da qualsiasi comitato di gestione del nostro paese, perché eseguita senza un protocollo approvato secondo i canoni. La dichiarazione affermerà inequivocabilmente che è stata sua l'idea di mettere in atto la procedura, e di farlo al di fuori del paese. E affermerà anche che ha usato l'estorsione per farci partecipare.» «Pensi che firmerà un documento simile?» «Non gli daremo scelta. O firma, o non avrà i benefici della ROTS. Mi fa piacere sapere che agiremo nelle Bahamas, così non violeremo nessuna legge della FDA, e avremo una dichiarazione solida come una roccia nel caso in cui ne avessimo bisogno. Le responsabilità ricadranno tutte sulle spalle di Butler.» «Fammici pensare per qualche minuto.» «Tutto il tempo che vuoi, ma io ritengo davvero che dal punto di vista morale dovremmo farlo. Sarebbe diverso se lo costringessimo in qualche modo, ma non è così. Anzi, è il contrario.» «Ma si potrebbe arguire che lui non è informato. È un politico, non un medico. Non conosce veramente i rischi. Potrebbe morire.» «Non morirà», ribatté Daniel con enfasi. «Ci manterremo sul sicuro, voglio dire, la cosa peggiore che potrà succedergli sarà che non gli daremo cellule a sufficienza per alzare il suo livello di dopamina abbastanza da cancellare tutti i sintomi. Se succederà, lui ci implorerà di rifarlo, il che sarà facile, dato che manterremo in coltura le cellule.» «Lasciami riflettere.» «Certo.» Fecero il resto del tragitto in silenzio. Solo quando furono nell'ascensore dell'albergo Stephanie parlò. «Pensi onestamente che riusciremo a trovare un posto adatto per eseguire la procedura?» «Butler ha fatto un bel po' di sforzi in questo senso. Non ha lasciato nulla al caso. Francamente, rimarrei scioccato se non avesse fatto controllare la clinica di cui ha parlato per appurarne l'idoneità, allo stesso modo in cui ha fatto indagare su di me.» «Suppongo che sia possibile. Sai, mi ricordo di aver letto qualcosa sulla Wingate Clinic, circa un anno fa. Era una clinica privata per la cura dell'infertilità che si trovava a Bookford, nel Massachusetts, prima che si spostasse nelle Bahamas dopo uno scandalo.» «Me lo ricordo anch'io. Era gestita da un paio di scienziati non legati al mondo accademico che lavoravano nel campo dell'infertilità, dei classici
cani sciolti. Il loro reparto ricerche eseguiva esperimenti non etici sulla clonazione riproduttiva.» «'Privi di scrupoli' sarebbe una descrizione migliore, come cercare di ottenere feti umani da impiantare nei maiali. Mi ricordo che sono stati implicati anche nella sparizione di due donatrici di organi di Harvard. I capi hanno dovuto fuggire dal paese e hanno evitato per un pelo l'estradizione negli Stati Uniti. Tutto sommato, mi sembrano l'esatto opposto del luogo e delle persone con cui dovremmo mescolarci.» «Noi non ci mescoleremo affatto con loro. Eseguiremo la procedura, ci laveremo le mani e ce ne andremo.» «E il neurochirurgo?» chiese ancora Stephanie, mentre uscivano dall'ascensore e si dirigevano verso la loro suite. «Credi onestamente che riusciremo a trovarne uno che partecipi a questo intrallazzo? Chiunque sia, capirà che c'è qualcosa che puzza.» «Con l'incentivo adeguato, non dovrebbe costituire un problema. Stessa cosa per la clinica.» «Intendi soldi.» «Certo! Il motore universale.» «E la richiesta di segretezza fattaci da Butler?» «Alla segretezza ci tiene più lui di noi. Non useremo il suo vero nome. Senza quegli occhiali e il completo scuro, immagino che passi del tutto inosservato. Con una camicia sgargiante a maniche corte e un paio di occhiali da sole, nessuno dovrebbe riconoscerlo.» Stephanie usò la propria carta magnetica per aprire la porta. Si tolsero i cappotti ed entrarono nel soggiorno. «Ti va qualcosa dal minibar?» domandò Daniel. «Ho voglia di festeggiare. Un paio d'ore fa pensavo che ci sovrastasse un nuvolone nero. Adesso c'è un raggio di sole.» «Mi andrebbe un po' di vino», rispose Stephanie e si strofinò le mani per scaldarsele, prima di acciambellarsi nell'angolo del divano. Daniel stappò una bottiglia piccola di Cabernet e ne versò una dose abbondante in un calice a balloon. Glielo porse, prima di versarsi uno scotch puro. Si sedette nell'angolo opposto del divano, da dove fece tintinnare il proprio bicchiere contro il suo, poi bevvero. «Allora, vuoi andare avanti con questo folle piano?» domandò Stephanie. «Sì, a meno che tu non trovi qualche motivo validissimo per non farlo.» «Che ne dici di quella sciocchezza della Sacra Sindone? Voglio dire, in-
tervento divino! Che idea assurda, e presuntuosa!» «Non sono d'accordo. Credo sia un tocco geniale.» «Stai scherzando!» «Assolutamente no! Sarebbe un placebo essenziale, e noi sappiamo quanto contino i placebo. Se vuole credere che avrà un po' di DNA di Gesù Cristo, a me va bene. Gli darà un potente incentivo a credere nella cura. Credo sia un'idea brillante. Non dico che dovremmo veramente prendere il DNA da quel lenzuolo, basta dirgli che lo abbiamo fatto, il risultato sarà lo stesso. Però possiamo anche vedere di farlo. Se sul sudario c'è del sangue, come lui dice, e possiamo arrivarci facilmente, la cosa è fattibile.» «Anche se la macchia di sangue risale al tredicesimo secolo?» «L'età non dovrebbe fare differenza. Il DNA sarà in frammenti, ma questo non costituisce un problema. Useremo la stessa sonda che utilizzeremmo per un campione di DNA fresco, così formeremo il segmento che ci serve, e poi lo duplicheremo con la reazione a catena della polimerasi. Per tanti versi, aggiungerà un pizzico di sfida e di eccitazione. La parte più difficile sarà resistere alla tentazione di scrivere un articolo al proposito su Nature o su Science. Ti immagini il titolo? 'La ROTS e la Sacra Sindone unite producono la prima cura per il morbo di Parkinson negli esseri umani'.» «Non potremo pubblicare un bel niente.» «Lo so! È tanto per divertirmi. Sarà comunque un avvenimento precursore di futuri sviluppi. Il passo successivo sarà un esperimento controllato, e di certo quello potremo pubblicarlo. A quel punto, la CURE sarà sotto le luci della ribalta, e i nostri problemi di finanziamento saranno belli e dimenticati.» «Vorrei poter condividere il tuo entusiasmo.» «Penso che lo farai, una volta che le cose cominceranno a ingranare. Anche se stasera non si è parlato dei tempi, presumo che il senatore voglia farlo al più presto. Ciò significa che dovremo iniziare con i preliminari domani stesso, appena tornati a Boston. Io mi occuperò di contattare la Wingate Clinic e di trovare il neurochirurgo. A te potrebbe spettare la parte riguardante la Sindone.» «Questo dovrebbe per lo meno essere interessante.» Stephanie cercava di risvegliare in se stessa un po' di entusiasmo al pensiero di curare Butler, nonostante l'intuito la sconsigliasse. «Sono curiosa di scoprire come mai la chiesa continua a considerarla una reliquia anche dopo la prova che è un falso.»
«Il senatore, evidentemente, ritiene che sia autentica.» «Da quanto mi ricordo, la datazione al carbonio è stata confermata da tre laboratori indipendenti. Sarebbe stato difficile smontarla.» «Be', vedremo quello che scoprirai. Nel frattempo, sarà meglio pianificare i nostri viaggi.» «Intendi Nassau?» «Nassau e probabilmente Torino, dipende da ciò che scoprirai.» «Dove troveremo i soldi?» «Da Ashley Butler.» Stephanie inarcò le sopracciglia. «Magari questa bravata non sarà tanto male, dopotutto.» «Allora ci stai?» «Sì, suppongo.» «Non sembri tanto entusiasta.» «È il massimo che posso fare, al momento. Ma immagino che mi ci appassionerò a mano a mano che le cose procedono, come hai suggerito tu.» «Mi accontenterò», annunciò Daniel. Si alzò e intanto le strinse una spalla. «Mi faccio un altro scotch. Dammi il tuo bicchiere, che te lo riempio.» Tornato a sedersi, diede un'occhiata all'orologio, mise davanti a sé il biglietto da visita di Butler e sollevò il telefono dal tavolinetto. «Comunichiamo la notizia al senatore. Sono certo che ne sarà compiaciuto in modo irritante, ma, prendendo a prestito la sua frase, così è la vita!» Premette il tasto vivavoce e compose il numero. Dopo un solo squillo la voce baritonale di Ashley Butler inondò la stanza. «Senatore», vociò Daniel, interrompendo il suo verboso saluto. «Non intendo essere sgarbato, ma è tardi e volevo solo farle sapere che ho deciso di accettare la sua offerta.» «Alleluja!» declamò Ashley. «E così presto! Temevo che si lasciasse rovinare il sonno dall'ansia e che non avrebbe chiamato fino a domattina. Ebbene, sono contento come una pasqua! Posso sperare che la dottoressa D'Agostino abbia acconsentito a partecipare?» «Sì, sono d'accordo», disse Stephanie, cercando di avere un tono convinto. «Ottimo, ottimo! Non che ne sia sorpreso, dato che questo affare porterà vantaggi a tutti noi. E sono sinceramente convinto che avere la stessa idea e unanimità di intenti sia la chiave del successo. Che è quello cui aspiriamo in questa impresa.»
«Presumiamo che voglia farlo al più presto», tagliò corto Daniel. «Questo è certo, miei cari amici. Fuor di dubbio. Ho i giorni contati, si può dire, nel nascondere la mia infermità», spiegò Ashley. «Non c'è tempo da perdere. Cade a proposito una pausa imminente nei lavori del Senato. Comincerà tra un mese, il 22 marzo, e durerà fino all'8 aprile. Di solito me ne torno a casa a brigare politicamente, ma questa volta dedicherò questo periodo alla mia cura. Un mese è un tempo sufficiente per voi scienziati per approntare le cellule necessarie?» Daniel scoccò un'occhiata a Stephanie e le parlò sottovoce. «È prima di quanto pensassi. Che cosa ne pensi? Possiamo farcela?» «È un azzardo», sussurrò Stephanie alzando le spalle. «Come prima cosa, abbiamo bisogno di qualche giorno per la coltura dei suoi fibroblasti. Poi, presumendo un trasferimento cellulare riuscito per creare un preembrione vitale, ci occorreranno cinque o sei giorni perché si formi la blastocisti. Dopo di che devono passare un paio di settimane di coltura in vitro prima di raccogliere le cellule staminali.» «C'è qualche problema?» si informò Ashley. «Non riesco a sentire un accidente di quello che dite.» «Solo un secondo, senatore!» Daniel si riavvicinò al microfono. «Sto valutando i tempi con la dottoressa D'Agostino. Sarà lei a svolgere buona parte del lavoro effettivo.» «Poi dovremo farle differenziare nelle cellule nervose adeguate», continuò Stephanie. «Questo richiederà un altro paio di settimane, forse un po' meno. Le cellule di topo erano pronte dopo soli dieci giorni.» «Allora che cosa prevedi, se tutto fila liscio? Un mese basterà?» «Teoricamente è possibile. Ma dovremmo iniziare quasi immediatamente a lavorare sulle cellule, anche domani! Il problema, però, è che dovremmo avere a disposizione ovuli umani, e non ne abbiamo.» «Oh, Cristo!» borbottò Daniel. Si morse il labbro inferiore e aggrottò la fronte. «Sono talmente abituato a lavorare con un'abbondanza di cellule bovine che mi dimenticavo del problema di rifornimento con gli oociti umani.» «Questo è un ostacolo bello grosso. Anche nel migliore dei casi in cui ci fosse già una donatrice a disposizione, ci vorrebbe un mese circa per stimolarla e raccogliere le cellule.» «Be', forse i nostri colleghi 'cani sciolti' della Wingate potrebbero darci una mano anche in questo. Se gestiscono un centro per l'infertilità, di sicuro avranno un po' di ovuli extra a disposizione. Considerando la loro catti-
va reputazione, ci scommetto che con l'incoraggiamento giusto li convinceremo a fornirci ciò di cui abbiamo bisogno.» «È possibile, suppongo, ma allora saremmo ancora più legati a loro. Più cose fanno per noi, meno sarà facile lavarci le mani e andarcene come tu avevi superficialmente suggerito poco fa.» «Ma non abbiamo tanta scelta. L'alternativa è rinunciare alla CURE, alla ROTS e a tutto il nostro lacrime, sudore e sangue.» «Sta a te decidere. Ma, per la cronaca, mi mette a disagio essere obbligata nei confronti della Wingate in qualsiasi forma, conoscendo la loro storia.» Daniel annuì varie volte, mentre ci rimuginava sopra, sospirò e poi parlò di nuovo nel microfono. «Senatore, c'è la possibilità che possiamo avere delle cellule idonee entro un mese. Ma devo avvertirla che richiederà parecchi sforzi e un po' di fortuna, e dobbiamo cominciare immediatamente. Lei dovrà collaborare.» «Farò quello che mi dirà, come un cagnolino. Ho già iniziato i preparativi un mese fa, predisponendo dei piani per arrivare a Nassau il 23 di marzo e rimanere sull'isola tutto il tempo della pausa parlamentare. Ho fatto una prenotazione anche per lei. Vede quanto ero sicuro della sua partecipazione? È importante averlo fatto per tempo, perché in quel periodo dell'anno alle Bahamas sarà alta stagione. Staremo all'Atlantis, dove ho avuto il piacere di soggiornare l'anno scorso, già con questo piano in mente. È un complesso alberghiero abbastanza grande da permettere di andare e venire senza far nascere sospetti. Ha anche un casinò e, come lei può immaginare, a me piace giocare d'azzardo, quando mi ritrovo in tasca qualche dollaro in più.» Daniel scambiò un'occhiata con Stephanie. Da una parte, per la buona riuscita del progetto era contento che Ashley avesse fatto per tempo quelle prenotazioni, ma dall'altra era irritato perché la sua adesione era stata data per scontata. «Lei si registrerà con il suo vero nome?» gli chiese. «Sì, certo. Ma ne userò uno di fantasia per la mia gita alla Wingate Clinic.» «E che mi dice di quella clinica? Spero che lei l'abbia esaminata con la stessa attenzione che ha dedicato al mio passato.» «La sua fiducia è ben riposta. Penso che troverà la clinica adatta al nostro scopo, anche se il personale è meno all'altezza. Il presunto capo è il dottor Spencer Wingate, che è un fanfarone, anche se in apparenza è ben
qualificato nel campo dell'infertilità. Sembra che gli interessi di più appartenere all'alta società dell'isola e fare viaggi sul continente per accaparrarsi gli affari nelle corti d'Europa. Subito dopo viene Paul Saunders, ed è lui a gestire la baracca quotidianamente. È un individuo complicato che si considera un ricercatore di livello mondiale nonostante la mancanza di preparazione adeguata al di là dell'infertilità clinica. Sono sicuro che entrambi saranno accomodanti, basta che lei faccia appello alla loro vanità. Per loro, la prospettiva di lavorare con qualcuno che ha le sue credenziali e la sua statura professionale è un'opportunità che capita una sola volta nella vita.» «Lei mi lusinga, senatore.» Stephanie sorrise alla battuta sarcastica di Daniel. «Solo perché è ben meritato», replicò Ashley. «Inoltre, bisogna avere fiducia nel proprio dottore.» «Comunque, suppongo che Wingate e Saunders si interesseranno di più ai soldi che al mio curriculum», ipotizzò Daniel. «Secondo me, il suo curriculum li interesserà per guadagnare prestigio e fare più soldi. Ma la loro natura venale e la mancanza di addestramento nella ricerca non ci riguardano, se non per esserne al corrente e trarne vantaggio. A noi interessano le strutture e le attrezzature che ci metteranno a disposizione.» «Spero lei si renda conto che eseguire la procedura in queste circostanze non sarà affatto economico.» «Io non voglio che sia economico», replicò Ashley. «Io voglio la versione cara, di alta qualità, di prima classe. Stia sicuro, ho accesso a fondi più che sufficienti per coprire qualsiasi spesa che si ripercuota sulla mia carriera politica. Però mi aspetto che i suoi servigi personali siano gratuiti. Dopotutto, ci stiamo scambiando dei favori.» «Su questo sono d'accordo. Ma prima di renderle qualsiasi servigio, la dottoressa D'Agostino e io le chiediamo di firmare una speciale dichiarazione che stenderemo per lei. Sarà descritto il modo esatto in cui ha avuto origine questa faccenda, come pure i rischi connessi, compreso il fatto che io non ho mai praticato questa procedura su un essere umano.» «Se ho la certezza che tale dichiarazione rimarrà confidenziale, non ho dubbi a firmarla. Capisco che la esigete a vostra protezione. Sono assolutamente certo che anch'io vorrei la stessa cosa, se fossi al vostro posto, quindi non dovrebbero esserci problemi, ammesso che non comprenda nulla di irragionevole o inappropriato.» «Le assicuro che sarà ragionevole. Inoltre, vorrei incoraggiarla a usare le
sue risorse, come lei stesso aveva suggerito, per scoprire come accedere alla Sacra Sindone per ottenerne un campione.» «Ho già dato istruzioni alla signora Manning di dare inizio agli incontri necessari con i vari prelati con i quali ho avuto rapporti di lavoro. Presumo che avverrà nei prossimi giorni. Quanto dovrà essere grande il campione?» «Può essere estremamente piccolo», rispose Daniel. «Anche solo poche fibre saranno sufficienti, purché provengano dalla porzione del sudario contenente le macchie di sangue.» Ashley rise. «Questo lo immaginerebbe perfino un ignorante di scienza come me. Il fatto che basterà un campione piccolo sarà enormemente di aiuto. Come le ho accennato poche ore fa, so che dei campioni sono già stati dati e poi ripresi dalla chiesa.» «Ci serviranno il più presto possibile.» «Capisco assolutamente la necessità della rapidità. C'è qualche altra cosa di cui avete bisogno da parte mia?» «Sì», rispose Stephanie. «Domattina dovrà farsi fare una biopsia della pelle. Se c'è la possibilità di produrre le cellule terapeutiche in un mese, domani, nel tornare a Boston, dovremo portare con noi la sua biopsia. Il suo medico privato può organizzare la cosa con un dermatologo, che potrebbe mandarcela qui in albergo tramite corriere. Servirà come fonte dei fibroblasti che faremo crescere nel terreno di coltura.» «Sarà la prima cosa che farò domattina.» «Credo che per ora sia tutto», concluse Daniel guardando Stephanie, che annuì. «Ho da farvi una richiesta di importanza vitale», aggiunse ancora Ashley. «Credo che dovremmo scambiarci degli speciali indirizzi e-mail e che dovremmo usare Internet per tutte le nostre comunicazioni, che saranno brevi e generiche.» Dettò l'indirizzo e-mail a cui inviargli i messaggi. «La prossima volta che parleremo direttamente sarà alla Wingate Clinic, sull'isola di New Providence. Ci tengo che questa faccenda rimanga rigorosamente segreta e meno contatti avremo, meglio sarà. È accettabile?» «Assolutamente», concordò Daniel. «Quanto alle spese, vi farò sapere per e-mail il numero di un conto segreto in una banca di Nassau, aperto da uno dei miei comitati politici, dal quale potrete ritirare dei fondi. Naturalmente, mi aspetto un rendiconto. È accettabile?» «Purché ci sia abbastanza denaro. Una delle spese maggiori sarà ottenere gli ovuli umani necessari.»
«Ripeto: i fondi disponibili saranno più che adeguati. Ne sia certo!» Dopo un prolisso saluto finale da parte di Ashley, Daniel chiuse la comunicazione. Riportò il telefono sul tavolo e si voltò a guardare Stephanie. «Mi è venuto da ridere quando ha chiamato fanfarone il capo della Wingate Clinic. Il bue che dice cornuto all'asino.» «Avevi ragione sul fatto che ci ha pensato molto a questa faccenda. Sono rimasta scioccata quando ha detto che ha prenotato l'albergo un mese fa. Non c'è dubbio che ha fatto svolgere delle indagini sulla Wingate Clinic.» «Adesso ti senti un po' più tranquilla?» «In parte», ammise Stephanie. «Soprattutto sentendo che non ha problemi a firmare quella dichiarazione. Per lo meno avrò la sensazione che ha considerato la natura sperimentale di ciò a cui si sottopone, con i rischi connessi. Prima non ne ero tanto sicura.» Daniel le si avvicinò sul divano e la strinse a sé. Sentiva il cuore batterle nel petto. Si allontanò per guardarla in viso e fissò i suoi profondi occhi scuri. «Adesso che a quanto pare abbiamo tutto sotto controllo, sul piano politico, affaristico e della ricerca, che ne dici di riprendere da dove eravamo rimasti ieri sera?» Stephanie sostenne il suo sguardo. «È una proposta?» «Certo che lo è!» «Il tuo sistema neurovegetativo collaborerà?» «Molto meglio di eri sera, te lo assicuro.» Daniel si alzò e aiutò Stephanie a fare altrettanto, poi la trascinò verso la camera da letto. «Ci siamo dimenticati il cartello 'non disturbare'», gli fece notare lei. «Viviamo pericolosamente», propose Daniel con uno scintillio negli occhi. 6 Venerdì 22 febbraio 2002 - ore 14.35 Stephanie si svegliò piuttosto di buon'ora e si immerse subito nei dettagli del progetto Butler. La sensazione negativa nei confronti di quell'impresa non l'aveva abbandonata, ma aveva troppo da fare per lasciarsene ossessionare. Ancor prima di farsi la doccia, usò il portatile per inviare al senatore una serie di messaggi e-mail su come procedere con la biopsia. Non solo insisté perché fosse eseguita quella mattina stessa, il più presto
possibile, ma si raccomandò che il prelievo interessasse tutti gli strati della pelle, perché le servivano le cellule provenienti dall'epidermide più profonda. Inoltre, era importante che il campione fosse messo semplicemente in un matraccio contenente tessuto di coltura liquido e non congelato o messo sotto ghiaccio. Era sicura che il campione si sarebbe mantenuto bene a temperatura ambiente fino a quando lei fosse ritornata in laboratorio a Cambridge, dove lo avrebbe trattato nel modo appropriato. Il suo scopo era mettere a coltura i fibroblasti del senatore, di cui avrebbe alla fine usato i nuclei per creare le cellule terapeutiche. Le era sempre riuscito meglio usare cellule fresche piuttosto che congelate quando eseguiva la ROTS seguita dal trasferimento di nucleo, o clonazione terapeutica, come alcuni insistevano a chiamarlo. Con sua grande sorpresa, e nonostante fosse ancora molto presto, il senatore le inviò subito una e-mail di risposta. Questo indicava che non solo era un tipo mattiniero, ma che era pronto a collaborare attivamente al progetto, come aveva assicurato la sera prima. Nel suo messaggio, la informava che aveva già telefonato al proprio medico e, quando questi lo avesse richiamato, gli avrebbe trasmesso le richieste di Stephanie, insistendo che vi si attenesse. Daniel si mostrò pieno di vita dal momento in cui gettò via le coperte. Anche lui si mise subito al portatile, inviando messaggi e-mail prima di dedicarsi a qualsiasi altra cosa. Con addosso soltanto l'accappatoio di spugna dell'albergo, scrisse un messaggio al grosso gruppo finanziario della West Coast che aveva mostrato interesse a investire nella CURE, ma anche riluttanza a versare fondi fin quando non si fosse conosciuto il destino della 1103. Daniel voleva far loro sapere che non sarebbe mai diventata una legge, destinata com'era a languire nella sottocommissione, e quindi non costituiva più una minaccia. Gli sarebbe piaciuto spiegare come faceva a saperlo, ma evidentemente non poteva. Non si aspettava un messaggio di risposta per parecchie ore, poiché in quel momento sulla West Coast erano le quattro del mattino. Comunque, aveva fiducia che gli avrebbero dato un segno di vita. Si concessero lo sfizio di ordinare la colazione in camera. Daniel insisté perché fosse accompagnata da un mazzo di mimose. Scherzosamente disse a Stephanie che doveva abituarsi a quel tenore di vita, poiché sarebbe diventata ordinaria amministrazione dal momento in cui la CURE si fosse trasformata in società per azioni. «Ne ho abbastanza della bohème accademica», dichiarò. «Faremo parte dell'élite, e interpreteremo bene il nostro
ruolo!» Alle nove e un quarto rimasero sorpresi nel ricevere una telefonata dal portiere: un corriere aveva lasciato un pacchetto per loro da parte di una certa dottoressa Claire Schneider, con scritto URGENTE. Volevano che fosse recapitato loro in camera? Risposero di sì, sicuri che contenesse il campione di pelle di Butler. Erano entrambi assai colpiti dall'efficienza del senatore. Si aspettavano che il campione arrivasse parecchie ore dopo. Riuscirono così a prendere il volo delle dieci e un quarto per Boston, che li fece atterrare all'aeroporto Logan appena dopo mezzogiorno. Sperimentarono una corsa in taxi ancora più terrificante di quella di Washington, almeno per Daniel, con un autista pakistano che guidava un catorcio, e arrivarono al suo appartamento di Appleton Street, dove si cambiarono e consumarono un rapido pasto. Con la Ford Focus di Daniel si recarono quindi alla sede temporanea della CURE in East Cambridge, su Athenaeum Street. Appena fondata, la società aveva in affitto quasi tutto il piano terreno di un edificio del diciannovesimo secolo, in mattoni, ristrutturato di recente a uso uffici. Quando la mancanza di denaro si era fatta più grave, però, lo spazio era stato il primo a essere sacrificato, riducendosi a un decimo di quello originale: ora la CURE occupava solo una suite, immediatamente a destra dell'ingresso. C'erano un unico laboratorio, due piccoli uffici e una zona che fungeva come reception. La seconda cosa a essere eliminata era stato il personale non indispensabile. I dipendenti erano Daniel e Stephanie, che da quattro mesi non ricevevano lo stipendio, un altro scienziato di nome Peter Conway, la segretaria-centralinista-receptionist Vicky McGowan, e tre tecnici di laboratorio che ben presto sarebbero stati ridotti a due o anche a uno, Daniel non aveva ancora deciso. Ciò che non aveva cambiato era il consiglio direttivo, il comitato scientifico e il comitato etico, tutti organi che intendeva lasciare all'oscuro dell'affare Butler. «Sono soltanto le due e trentacinque», annunciò Stephanie, dopo essersi chiusa la porta alle spalle. «Direi che è presto, considerato che ci siamo svegliati a Washington.» Daniel si limitò a grugnire. La sua attenzione era diretta a Vicky, che gli stava porgendo una pila di messaggi telefonici, alcuni dei quali richiedevano delle spiegazioni. In particolare, i potenziali finanziatori della West Coast avevano telefonato anziché rispondere con un messaggio e-mail a quello ricevuto da lui. Secondo Vicky, non si accontentavano delle informazioni ricevute e ne esigevano di più.
Lasciando Daniel a sbrigarsela con le questioni finanziarie, Stephanie entrò nel laboratorio. Salutò Peter, seduto davanti a un microscopio per dissezione, che durante il loro viaggio a Washington era rimasto in sede per mandare avanti gli esperimenti già avviati. Stephanie depositò il portatile sulla superficie in steatite del banco che usava come scrivania; il suo ufficio privato era scomparso con il ridimensionamento della sede. Tenendo in mano il campione di pelle di Butler, si spostò verso la zona operativa del laboratorio. Estrasse asetticamente il pezzetto di pelle dal suo recipiente, lo triturò, quindi pose i minuscoli frammenti così ottenuti in un terreno di coltura fresco, assieme agli antibiotici. Dopo averlo riposto al sicuro in una incubatrice, dentro un matraccio a T, tornò al proprio banco. «Come sono andate le cose a Washington?» chiese Peter. Pur avendo più anni di lei, il corpo esile lo faceva sembrare un adolescente. Le sue caratteristiche più evidenti erano gli abiti malmessi e i folti capelli biondi legati a coda di cavallo. Stephanie aveva sempre pensato che poteva fungere da testimonial degli anni Sessanta. «È andata bene.» Stephanie si tenne nel vago, infatti lei e Daniel avevano deciso di non dire niente agli altri del senatore Butler, se non a fatto avvenuto. «Allora siamo ancora in affari?» «A quanto pare.» Stephanie attaccò il portatile a una presa e lo accese. Un attimo dopo era già collegata a Internet. «E il denaro da San Francisco arriverà?» insisté Peter. «Devi chiederlo a Daniel. Io cerco di stare alla larga dalle questioni economiche.» Peter colse il messaggio implicito e tornò al proprio lavoro. Stephanie era impaziente di indagare sulla Sindone; lo era stata fin dal momento in cui Daniel aveva suggerito che fosse lei a occuparsene. In un primo momento aveva pensato di cominciare le ricerche quella mattina, subito dopo la doccia, ma aveva cambiato idea perché connettersi a Internet con il modem era di una lentezza esasperante, adesso che era stata viziata dalla connessione a banda larga alla CURE. Inoltre, aveva pensato che le sarebbe toccato smettere poco dopo aver incominciato. Invece ora aveva il resto del pomeriggio a disposizione. Lanciò un motore di ricerca e scrisse SINDONE. Cliccò sul tasto CERCA. Non aveva idea di che cosa aspettarsi. Anche se ricordava qualche riferimento alla Sindone quando era più giovane e ancora cattolica pratican-
te, come il fatto che l'avevano dichiarata un falso grazie alla datazione al carbonio, erano anni che non ci aveva più pensato e credeva che anche per gli altri fosse lo stesso. Dopotutto, che cosa c'era di eccitante in un oggetto contraffatto risalente al tredicesimo secolo? Ma qualche attimo dopo, quando la ricerca fu completata, le bastò un colpo d'occhio per scoprire che si sbagliava. Sbalordita, fissò il numero di siti avuto come risultato: più di 28.000! Cliccò sul primo, che si proponeva come il sito web della Sacra Sindone, e per l'ora seguente si ritrovò completamente assorbita dall'enorme quantità di informazioni. Sulla pagina introduttiva lesse che quel sudario era «il manufatto più studiato della storia umana»! Avendo poca familiarità con l'argomento, la trovò un'affermazione sorprendente, considerato il proprio interesse per la storia. Infatti si era laureata in chimica, ma la disciplina complementare era stata la storia. Inoltre lesse che molti esperti erano convinti che la datazione al carbonio non avesse detto la parola definitiva sull'autenticità o meno della Sindone come manufatto risalente al primo secolo. Essendo una donna di scienza e sapendo quanto fosse precisa la datazione al carbonio, non capiva come mai si potesse avere una simile opinione, e non vedeva l'ora di scoprirlo. Prima, però, approfittò di quel sito web per esaminare le foto del sudario che erano presentate anche nei negativi. Apprese che la prima persona ad aver fotografato la reliquia nel 1898 era rimasta sconcertata dalle immagini che erano più evidenti nei negativi, e questo accadde anche a lei. L'immagine in positivo era debole e, nel tentativo di scorgerla, si rammentò di un passatempo estivo di quando era giovane: cercare di individuare volti o sagome di persone e animali nell'infinito variare delle nuvole. Ma al negativo l'immagine era impressionante! Era chiaramente quella di un uomo che era stato percosso, torturato, crocefisso, il che poneva la questione di come avesse potuto un imbroglione medievale anticipare l'invenzione della fotografia. Ciò che in positivo era apparso come un insieme di macchie, adesso appariva come rivoli reali di sangue. Guardò di nuovo la foto al positivo e si sorprese che il sangue avesse perfino mantenuto il colore. Sul menu principale di quel sito web, Stephanie cliccò su un tasto chiamato DOMANDE CHIESTE DI FREQUENTE. Una di esse era se fosse stato compiuto il test del DNA. Eccitata, vi cliccò sopra e apprese che dei ricercatori del Texas avevano trovato il DNA nelle macchie di sangue, ma c'erano un po' di dubbi sulla provenienza dei campioni. Qualcun altro si
era chiesto invece quanto il DNA potesse essere stato contaminato da tutte le persone che nel corso dei secoli avevano toccato il sudario. Il sito comprendeva anche una bibliografia che la stupì per la sua estensione, vi si dedicò con impazienza. La sua curiosità era al massimo, anche perché lei era un'amante dei libri, e scorse un certo numero di titoli. Lasciò il sito ed entrò in quello di una libreria on line dove trovò un centinaio di titoli, molti dei quali erano gli stessi contenuti nella bibliografia appena consultata. Dopo aver letto qualche recensione, ne scelse alcuni che desiderava avere immediatamente. L'attirava particolarmente quello di Ian Wilson, un erudito che si era formato a Oxford: la recensione diceva che presentava entrambe le posizioni sulla controversia riguardante l'autenticità della Sindone, anche se lui era convinto che fosse veramente non solo un manufatto del primo secolo, ma proprio il sudario di Gesù! Stephanie prese il telefono e chiamò la libreria locale. Le sue fatiche furono ricompensate, infatti quel negozio aveva uno dei libri che le interessavano. Era The Turin Shroud: The Illustrated Evidence, di Ian Wilson e Barrie Schwortz, un fotografo professionista membro dell'équipe americana che aveva studiato approfonditamente il sudario nel 1978. Stephanie diede il proprio nome e chiese che le mettessero da parte il volume. Tornando al sito della libreria on line, ordinò altri libri che le sarebbero stati consegnati il giorno dopo. Fatto questo, si alzò e riprese il giaccone che aveva appeso allo schienale della sedia. «Esco, vado in libreria», avvertì Peter. «Vado a comperare un libro sulla Sindone di Torino. Tanto per curiosità, che cosa ne sai?» «Uhmmm», bofonchiò lui, corrugando il viso come se fosse immerso in pensieri profondi. «Conosco il nome della città dove è conservata.» «Dico sul serio», si lamentò Stephanie. «Be', mettiamola in questo modo. Ne ho sentito parlare, ma non è che l'argomento compaia troppo spesso nelle conversazioni fra me e i miei amici. Se fossi costretto a pronunciarmi, direi che è uno di quegli oggetti medievali che la chiesa usava per alimentare gli ardori religiosi, così da tenere piene le cassette delle offerte, come i pezzi della vera croce e le unghie dei santi.» «Tu pensi che sia autentica?» «Vuoi dire che sia il vero sudario di Gesù?» «Sì.» «Santo cielo, no! Dieci anni fa hanno dimostrato che era un falso.» «E se ti dicessi che è il manufatto più studiato della storia umana?»
«Ti chiederei che cosa hai fumato ultimamente.» Stephanie rise. «Grazie, Peter.» «Di che cosa mi ringrazi?» Era evidentemente confuso. «Temevo che la mia mancanza di familiarità con la Sindone fosse in qualche modo unica. È rassicurante sapere che non lo è.» Stephanie prese il giaccone e si diresse alla porta. «Come mai questo improvviso interesse per la Sindone?» le gridò dietro Peter. «Lo saprai presto», gridò a sua volta Stephanie, mentre si allontanava. Attraversò diagonalmente la reception e ficcò la testa nell'ufficio di Daniel. Si stupì nel trovarlo accasciato sulla scrivania, la testa fra le mani. «Ehi!» lo chiamò. «Stai bene?» Daniel sollevò lo sguardo e sbatté le palpebre. Aveva gli occhi arrossati, come se li avesse strofinati, e il viso era più pallido del solito. «Sì, sto bene», rispose, esausto. La vivacità di poco prima era scomparsa. «Che cosa succede?» Daniel scosse la testa e lo sguardo vagò sulla scrivania ingombra. Sospirò. «Gestire questa organizzazione è come tenere a galla una barca piena di falle aggottando con un secchiello. Quelli di San Francisco si rifiutano di dare la seconda franche di finanziamenti a meno che non gli dica come faccio a essere così sicuro che il disegno di legge Butler non uscirà dalla sottocommissione. Ma io non glielo posso rivelare perché, se lo facessi, la notizia si spargerebbe e Butler negherebbe di tenere fermo il disegno di legge. E i nostri accordi sarebbero annullati.» «Quanti soldi ci rimangono?» «Quasi niente», gemette Daniel. «Esattamente fra un mese dovremo ricorrere alla nostra linea di credito per poter pagare i dipendenti.» «Questo ci dà il mese necessario per curare Butler.» «Che fortuna!» esclamò Daniel con sarcasmo. «Mi irrita a molte che dobbiamo interrompere la nostra ricerca per avere a che fare con gente come Butler, e magari anche con quei pagliacci della clinica a Nassau. È un maledetto crimine che la ricerca in questo paese sia al traino della politica. I nostri padri fondatori che insistevano sulla separazione fra stato e chiesa probabilmente si staranno rivoltando nella tomba a causa di quei politici, relativamente pochi, che usano le loro convinzioni religiose per impedire ciò che sarà indubbiamente il più grosso passo avanti nelle terapie mediche.» «Be', tutti noi sappiamo che cosa c'è davvero dietro questo movimento
luddista che ostacola le bioscienze.» «Di cosa stai parlando?» «In realtà è una politica antiabortista mascherata. La questione vera è che quei demagoghi vogliono che uno zigote sia dichiarato un essere umano con tanto di pieni poteri costituzionali, non importa come sia stato formato e non importa quale sarà il suo futuro. È un atteggiamento ridicolo, ma quanto meno se è accaduto, vuol dire che è stata gettata alle ortiche la sentenza 'Roe contro Wade', che ha dichiarato legittima l'interruzione di gravidanza.» «Probabilmente hai ragione», ammise Daniel e sbuffò rumorosamente. «Che situazione assurda! La storia si chiederà che tipo di gente eravamo, per permettere che una questione personale come l'aborto ostacolasse una società per anni e anni. Abbiamo mutuato dall'Inghilterra tante delle nostre idee sui diritti individuali, il governo e di certo il diritto basato sulla giurisprudenza. Perché non potevamo seguire il loro esempio anche sull'etica delle bioscienze in ambito riproduttivo?» «Bella domanda, ma non ci servirà stare a rimuginare sulla risposta, al momento. Dove è andato a finire il tuo entusiasmo per l'affare Butler? Facciamolo! Una volta che sarà curato, non rinnegherà il nostro patto nemmeno se ci fosse qualche fuga di notizie nei media, perché noi avremo la sua dichiarazione. Voglio dire, una volta curato, lui può negare qualsiasi accusa, sostenendo che sono motivate politicamente. Ciò che non potrà negare sarà una dichiarazione firmata.» «Hai ragione», ammise Daniel. «E il suo denaro? Secondo me è la questione chiave al momento. C'è stata qualche comunicazione al riguardo?» «Non ho nemmeno pensato di controllare.» Daniel si voltò verso il computer e, dopo qualche colpetto con il mouse guardò la sua casella nominativa di posta elettronica. «C'è un messaggio che deve essere di Butler. Ha un allegato codificato, il che è incoraggiante.» Daniel aprì l'allegato e Stephanie si avvicinò alla scrivania per guardare da dietro le sue spalle. «Direi che sembra molto incoraggiante», commentò. «Ci ha dato un numero di conto per una banca delle Bahamas, e a quanto pare possiamo prelevare tutti e due.» «C'è un link con il sito web della banca. Vediamo se possiamo scoprire il saldo del conto. Questo ci dirà quanto è serio Butler riguardo a tutta la faccenda.»
Dopo qualche altro clic, Daniel sobbalzò sulla sedia. Sollevò la testa verso Stephanie, che gli restituì lo sguardo. Entrambi erano sbalorditi. «Direi che è serissimo!» commentò lei. «E avido!» «Sono sbalordito. Mi aspettavo dieci o ventimila al massimo. Non mi sarei mai aspettato centomila. Dove ha pescato tutti quei soldi in così poco tempo?» «Te l'ho detto, ha una serie di comitati politici che sgobbano come cavalli da soma a raccogliere fondi. Ciò che mi chiedo è se qualcuna delle persone che contribuiscono con il loro denaro abbia un'idea di come viene speso. È molto ironico se sono tutti conservatori, come immagino che siano.» «Questo non deve preoccuparci. Inoltre, non spenderemo mai centomila dollari. Ma è bello sapere che ci sono, per ogni evenienza. Mettiamoci al lavoro!» «Io ho già cominciato con la coltura dei fibroblasti.» «Ottimo.» L'esuberanza che aveva tenuto su di giri Daniel quella mattina stava ritornando. Migliorò perfino il suo colorito. «Io cercherò di scoprire qualcosa sulla Wingate Clinic, provando a entrare nei loro file.» «Mi sembra una buona idea!» approvò Stephanie e si diresse alla porta. «Sarò di ritorno fra un'oretta.» «Dove vai?» «Alla libreria in centro.» Stephanie era già sulla soglia, ma esitò. «Hanno messo da parte un libro per me. Dopo aver iniziato la coltura dei tessuti, ho cominciato a indagare sulla faccenda della Sindone. Devo dire che, nella nostra divisione dei compiti, ho avuto fortuna: quel lenzuolo si sta rivelando molto più interessante di quanto immaginassi.» «Che cosa hai scoperto?» «Abbastanza per farmi incuriosire, ma ti riferirò più compiutamente fra circa ventiquattr'ore.» Daniel sorrise, le rivolse il pollice alzato e tornò a fissare il monitor del computer. Aveva usato un motore di ricerca per ottenere un elenco di cliniche per la cura dell'infertilità e trovò il sito web della Wingate. Vi si collegò subito. Scorse rapidamente le prime pagine. Come si aspettava, contenevano materiale autoincensatorio che serviva ad attirare i clienti. Si soffermò un attimo alla sezione intitolata FATE LA CONOSCENZA CON IL NOSTRO STAFF per leggere i curricula del personale direttivo, che comprendeva il fondatore e direttore generale della clinica, dottor Spencer
Wingate, il capo delle ricerche e dei servizi di laboratorio, dottor Paul Saunders e il capo dei servizi clinici, dottoressa Sheila Donaldson. I curricula erano delle sviolinate simili alla descrizione della clinica, anche se, secondo lui, tutti e tre avevano seguito studi e programmi di specializzazione di secondo o addirittura di terz'ordine. In fondo alla pagina trovò quello che cercava: un numero di telefono. C'erano anche degli indirizzi e-mail, ma lui preferiva parlare direttamente con Wingate o Saunders. Compose il numero e rispose immediatamente una voce gradevole che si lanciò in un breve panegirico della clinica, prima di chiedere con chi volesse parlare. «Con il dottor Wingate», rispose Daniel. Meglio cominciare dall'alto. Dopo una breve pausa, udì un'altra gradevole voce femminile che gli chiese garbatamente il nome, prima di sbilanciarsi a dire se Wingate era disponibile. Quando Daniel rispose, la reazione fu immediata. «Il dottor Daniel Lowell di Harvard?» Daniel rimase un istante in silenzio, mentre decideva che cosa rispondere. «Sono stato ad Harvard, anche se al momento ho una ditta mia.» «La metterò in collegamento con il dottor Wingate. So che attendeva di parlare con lei.» Sbattendo le palpebre incredulo, Daniel staccò il ricevitore dall'orecchio e lo guardò come se potesse spiegargli la reazione inattesa della segretaria. Come mai il dottor Wingate aspettava di parlare con lui? Scosse la testa. «Buon giorno, dottor Lowell!» rispose una voce con un deciso accento del New England, un'ottava più alta di quanto lui si aspettasse. «Sono Spencer Wingate e mi fa piacere sentirla. Ci aspettavamo la sua telefonata la settimana scorsa, ma non importa. Le spiace aspettare un momento, mentre chiamo in linea il dottor Saunders? Ci vorrà un minuto, e potremo trasformare questa conversazione in una piccola teleconferenza. So che il dottore è ansioso di parlare con lei quanto lo sono io.» «Va bene», rispose Daniel, il cui sbalordimento aumentava sempre di più. Si appoggiò allo schienale della poltroncina, mise i piedi sulla scrivania, passò il ricevitore nella sinistra, e si mise a tamburellare con una matita sul ripiano ingombro. La reazione di Spencer Wingate lo aveva preso completamente alla sprovvista e gli aveva messo addosso una punta di ansia. Continuava a udire gli ammonimenti di Stephanie sul coinvolgimento con quegli sperimentatori di bassa lega. Invece di un minuto ne passarono cinque e, proprio quando Daniel si era abbastanza ripreso da chiedere se inavvertitamente fosse stato scollegato,
Spencer tornò in linea. Aveva un po' di fiatone. «Va bene, ci sono! E tu, Paul? Ci sei?» «Eccomi!» Evidentemente, Paul stava usando un apparecchio in un'altra stanza. In contrasto con quella di Spencer, la sua voce era alquanto profonda, con uno spiccato accento nasale del Midwest. «Mi fa piacere parlare con lei, Daniel, se possiamo chiamarci per nome.» «Se vuole», rispose Daniel. «Come crede meglio.» «Grazie. Tra amici e colleghi non occorrono formalità. Mi lasci dire subito quanto sono ansioso di lavorare con lei.» «È quello che provo anch'io», dichiarò Spencer. «Diamine! Tutta la clinica non vede l'ora. Per quando possiamo contare sulla sua presenza?» «Ecco, è uno dei motivi per cui ho telefonato», rispose Daniel tenendosi sul vago; si sforzava di essere diplomatico, ma era curiosissimo. «Ma in primo luogo mi piacerebbe sapere come mai aspettavate la mia telefonata.» «Dal suo ricognitore, o quale che sia il nome della sua mansione», rispose Spencer. «Come si chiamava, Paul?» «Marlowe.» «Giusto! Bob Marlowe. Dopo che ha finito di informarsi sulla nostra struttura, ha detto che lei ci avrebbe contattato la settimana seguente. Non occorre dire che eravamo delusi di non aver saputo più nulla. Ma adesso che ha chiamato è acqua passata.» «Siamo compiaciuti che vuole usare la nostra clinica», intervenne Paul. «Sarà un onore lavorare con lei. Ora, spero che non le spiaccia se cerco di immaginare che cos'ha in mente, dato che Bob Marlowe si è tenuto sul vago, ma presumo che voglia provare la sua geniale ROTS su un paziente. Voglio dire, per quale altro motivo non userebbe il suo laboratorio o quei grandi ospedali che avete a Boston? La mia supposizione è giusta?» «Come fate a sapere della ROTS?» Daniel non era sicuro di voler rivelare i suoi propositi così presto. «Abbiamo letto il suo eccezionale articolo su Nature», rispose Paul. «È brillante, semplicemente brillante. La sua importanza per le bioscienze mi ricorda il mio articolo, Maturazione in vitro di oociti umani. Lo ha letto?» «Non ancora.» Daniel continuava a sforzarsi di essere diplomatico. «Su quale rivista è uscito?» «The Journal of Twenty-first Century Reproductive Technology.» «Non la conosco. Chi la pubblica?» «Noi!» Dalla voce di Paul trapelava fierezza. «Proprio qui alla Wingate Clinic. Ci impegniamo nella ricerca tanto quanto nei servizi clinici.»
Daniel alzò gli occhi al cielo. In assenza di un comitato scientifico, l'autopubblicazione di articoli scientifici era una contraddizione in termini. Lo colpì l'accuratezza con cui Butler aveva descritto quei due. «La ROTS non è mai stata eseguita su esseri umani», spiegò, continuando a evitare di rispondere alla domanda di Paul. «Questo lo capiamo», riprese la parola Spencer. «Ed è uno dei molti motivi per cui saremmo eccitati se la prima volta venisse praticata qui. Essere all'avanguardia è proprio il tipo di reputazione che la Wingate Clinic cerca di conquistare.» «La FDA avrebbe da ridire se una procedura sperimentale venisse eseguita su esseri umani, al di fuori di un protocollo approvato», gli ricordò Daniel. «Non darebbero mai l'approvazione.» «Certo che non approverebbero, e noi lo sappiamo!» Rise, e Paul si unì a lui. «Ma qui nelle Bahamas non c'è bisogno che la FDA lo sappia, dato che non è la loro giurisdizione.» «Se dovessi eseguire la ROTS su un essere umano, dovrebbe avvenire in assoluta segretezza», lo avvertì Daniel, ammettendo indirettamente i propri piani. «Non può essere divulgato e ovviamente non può essere utilizzato per i vostri scopi promozionali.» «Ce ne rendiamo conto», gli assicurò Paul. «Spencer non voleva dire che lo useremmo subito.» «Cielo, no!» tubò Spencer. «Pensavo di utilizzarlo solo dopo che la procedura sarà diventata comune.» «Vorrei mantenere il diritto di decidere io quando questo sarà possibile», dichiarò Daniel. «Io stesso non userò questo episodio per promuovere la ROTS.» «No?» si stupì Paul. «E come mai?» «Per motivi puramente personali. Sono sicuro che la ROTS funzionerà bene con gli umani come con i topi, ma devo provarlo a me stesso con un paziente, per avere la forza d'animo di affrontare la reazione eccessiva della destra politica. Non so se ne siete consapevoli, ma sto lottando contro un potenziale divieto del Congresso alla mia procedura.» Nella conversazione seguì una pausa imbarazzata. Esigendo la segretezza e sottraendo qualsiasi sfruttamento pubblicitario nell'immediato futuro, Daniel era sicuro di aver negato alla Wingate Clinic uno dei motivi per cui intendeva collaborare. Cercò freneticamente un modo per addolcire la delusione e appena un attimo prima che lui parlasse, e magari peggiorasse le cose, Spencer ruppe il silenzio. «Penso che possiamo rispettare la sua esi-
genza di segretezza. Ma, se dalla collaborazione con lei non ricaveremo un vantaggio pubblicitario a breve termine, che tipo di compensazione ha in mente per usare le nostre strutture e i nostri servizi?» «Pensavamo di pagare.» Ci fu un altro silenzio. Daniel provò una punta di panico all'idea che le negoziazioni non stessero andando bene, e potesse perdere l'opportunità di utilizzare la Wingate Clinic. Considerando i limiti di tempo, una simile eventualità avrebbe significato l'affossamento dell'affare. Intuì di dover offrire di più. Si ricordò dei commenti di Butler sulla vanità di Spencer e di Paul e aggiunse stringendo i denti: «Poi, in seguito, dopo che la FDA avrà approvato la ROTS, potremmo pubblicare insieme un articolo». Già mentre lo diceva trasalì. L'idea di firmare un articolo assieme a quei due idioti era dolorosa, anche se si disse che poteva rimandarlo indefinitamente. Ma, nonostante l'offerta, il silenzio si prolungò e il suo panico crebbe. Si rammentò della propria reazione alla richiesta di Butler di usare il sangue della Sindone e aggiunse anche quella informazione, e suggerì perfino lo stesso titolo che aveva proposto scherzosamente a Stephanie. «Questo sì che sarebbe un articolo con i fiocchi!» esclamò a questo punto Paul. «Mi piace! Dove lo pubblicheremmo?» «Dove vogliamo», rispose Daniel, restando sul vago. «Science, o Nature. Dove preferite. Non credo che sarà difficile piazzarlo.» «La ROTS funzionerebbe con il sangue preso dalla Sindone?» si informò Spencer. «Da quanto mi ricordo, credo che abbia circa cinquecento anni.» «Duemila, per l'esattezza», lo corresse Paul. «Non hanno provato che si tratta di un falso fatto nel Medioevo?» «Noi non ci addentreremo nelle discussioni sulla sua autenticità», tagliò corto Daniel. «Per i nostri scopi, non importa. Se il paziente vuol credere che è reale, a noi va bene.» «Ma funzionerebbe, sul lato pratico?» insisté Spencer. «Il DNA sarebbe frammentato, che risalga a cinquecento o a duemila anni fa. Ma questo non dovrebbe essere un problema. A noi bastano dei frammenti, che le nostre sonde ROTS troveranno dopo la duplicazione dovuta alla polimerasi. Rappezzeremo assieme enzimaticamente ciò di cui abbiamo bisogno per avere i geni interi. Funzionerà bene.» «Che ne dice del The New England Journal of Medicine?» suggerì Paul. «Sarebbe un bel colpo per la clinica! Mi piacerebbe avere qualcosa di pubblicato su quella rivista pomposa.»
«Certo», approvò Daniel, rabbrividendo all'idea. «Perché no?» «La cosa comincia a piacermi», dichiarò Spencer. «È il tipo di articolo che sarebbe ripreso dai media come oro colato! Andrebbe su tutti i giornali. Diavolo, già mi immagino i servizi che gli dedicherebbero nei telegiornali della sera.» «Sono certo che ha ragione. Ma ricordi, finché non uscirà l'articolo, dovremo mantenere il segreto più assoluto sull'intera vicenda.» «Sì, lo capiamo», gli assicurò Spencer. «Come farete a ottenere un campione dalla Sindone?» domandò Paul. «So che la chiesa cattolica l'ha chiusa in una specie di cripta avveniristica, in Italia.» «Ce ne stiamo occupando già in questo momento», spiegò Daniel. «Ci è stata promessa assistenza dalle alte sfere del clero.» «Accidenti, deve conoscere il papa!» scherzò Paul. «Forse dovremmo parlare dei costi», propose Daniel, contento di cambiare argomento. «Non vogliamo incomprensioni di alcun tipo.» «A che tipo di servizi state pensando?» «Il paziente verrà curato per il morbo di Parkinson», spiegò Daniel. «Avremo bisogno di una sala operatoria e del suo staff, oltre che di un'attrezzatura stereotassica per l'impianto.» «La sala operatoria l'abbiamo, ma non l'attrezzatura stereotassica», lo informò Paul. «Non è un problema», lo tranquillizzò Spencer. «Potremo prenderla in prestito dal Princess Margaret. Il governo delle Bahamas e anche la comunità medica locale ci sono stati di aiuto quando ci siamo trasferiti lì. Sono sicuro che ci daranno volentieri una mano. Però non gli diremo che cosa abbiamo intenzione di fare.» «Poi ci servirà un neurochirurgo», aggiunse Daniel. «Uno che sia capace di discrezione.» «Nemmeno questo sarà un problema», gli assicurò Spencer. «Sull'isola ce ne sono molti che secondo me rimangono sottoutilizzati. Sono certo che potremo metterci d'accordo con uno di loro. Non so esattamente quanto chiederà, ma vi posso assicurare che sarà meno che negli States. Suppongo che si aggirerà sui due o trecento dollari.» «Non crede che il fattore riservatezza possa rivelarsi problematico?» «No. Hanno tutti fame di lavoro. Con meno turisti che noleggiano motorini, i traumi cranici sono diminuiti precipitosamente. Lo so, perché due chirurghi sono passati dalla clinica a lasciare i loro biglietti da visita.»
«Una bella fortuna», commentò Daniel. «A parte questo, tutto ciò che ci serve è dello spazio nel vostro laboratorio. Presumo che abbiate un laboratorio dove svolgete il vostro lavoro di riproduzione.» «Rimarrà esterrefatto quando lo vedrà», si vantò Paul. «È all'avanguardia, molto più che un semplice laboratorio per la cura dell'infertilità. E oltretutto metteremo a sua disposizione parecchi tecnici dotati, esperti in nucleo-transfer, che saranno ansiosi di imparare la ROTS.» «Non ci servirà l'assistenza del personale. Eseguiremo noi il lavoro cellulare. Ciò di cui abbiamo bisogno sono degli oociti umani. È possibile per voi fornirceli?» «Ma certo!» esclamò Paul. «Gli oociti sono la nostra specialità, diventeranno ben presto la nostra fonte principale di guadagno. Abbiamo intenzione di fornirli a tutto il Nord America, in futuro. Per quando vi servono?» «Il più presto possibile. Potrà sembrarvi troppo ottimistico, ma vorremmo essere pronti all'impianto tra un mese. Abbiamo dei limiti di tempo, con una finestra ristretta imposta dal nostro paziente.» «Nessun problema su questo fronte», gli assicurò Paul. «Possiamo fornirvi gli oociti domani!» «Davvero?» Sembrava troppo bello per essere vero. «Possiamo fornirvi oociti in qualsiasi momento.» Paul fece una risata, aggiungendo: «Anche durante le vacanze». «Sono colpito», disse Daniel, sincero. «E sollevato. Temevo che procurarci gli oociti ci avrebbe fatto perdere tempo. Ma questo ci riporta ai costi.» «Tranne per gli oociti, non abbiamo esperienza su quanto chiedere», intervenne Spencer. «A dirle la verità, non abbiamo mai previsto di lasciar usare la nostra clinica ad altri. Facciamo così: che ne dice di ventimila per l'uso della sala operatoria, compreso lo staff, e di ventimila per l'affitto del laboratorio?» «Bene. E gli oociti?» «Cinquecento a colpo», rispose Paul. «E vi garantiamo almeno cinque divisioni per ognuno, o lo sostituiamo.» «Mi sembra equo. Ma devono essere freschi!» «Saranno freschi come rose. Quando ci sentiremo di nuovo?» «Mi rifarò vivo più tardi in giornata, oppure stasera. O, al massimo, domani. Dobbiamo davvero sbrigarci.» «Saremo qua», gli assicurò Spencer.
Daniel riabbassò lentamente il ricevitore, poi emise un urlo di gioia. Aveva la forte sensazione, nonostante le recenti difficoltà, che la CURE, la ROTS e il suo destino personale si fossero rimessi in carreggiata! Spencer Wingate non aveva tolto la mano abbronzata dal ricevitore, dopo aver riattaccato, mentre riandava con un vortice di pensieri alla conversazione appena avuta con il dottor Lowell. Non era andata come aveva immaginato e sperato, ed era deluso. Quando due settimane prima era saltata fuori inaspettatamente l'idea che il famoso ricercatore voleva usare la Wingate Clinic, lui l'aveva ritenuta provvidenziale, visto che avevano appena aperto i battenti dopo otto mesi di costruzione e confusione. Nella sua mente, associarsi professionalmente con un uomo che secondo Paul poteva vincere il premio Nobel sarebbe stato un modo eccellente di annunciare al mondo che la Wingate era di nuovo sulla cresta dell'onda, dopo la deplorevole baraonda accaduta nel Massachusetts il maggio precedente. Ma, a quanto pareva, non ci sarebbe stato alcun annuncio. Quarantamila dollari facevano gola, ma erano un'inezia in confronto al denaro appena speso per costruire e attrezzare la clinica. La porta del suo ufficio, che lui aveva lasciata appena accostata, fu spalancata completamente e nel vano si stagliò la sagoma bassa e squadrata di Paul Saunders. Un ampio sorriso lasciava vedere i denti larghi e distanziati. Evidentemente lui non era rimasto deluso. «Te lo immagini?» esordì. «Avremo un articolo pubblicato sul New England Journal of Medicine!» Si gettò baldanzosamente su una poltroncina davanti alla scrivania di Spencer e agitò i pugni in aria, come se avesse appena vinto una tappa del Tour de France. «E che articolo! 'La Wingate Clinic, la Sindone e la ROTS combinati insieme per la prima guarigione dal morbo di Parkinson'. Sarà fantastico! La gente farà la fila per bussare alla nostra porta.» Spencer si appoggiò allo schienale e intrecciò le mani dietro la testa. Guardò il capo delle ricerche, titolo sul quale Paul aveva insistito, con un certo grado di condiscendenza. Paul lavorava sodo e con avvedutezza, ma poteva lasciarsi trasportare troppo dall'entusiasmo, e gli mancava il senso pratico necessario a gestire gli affari adeguatamente. Nella precedente vita della clinica, in Massachusetts, l'aveva portata quasi sul lastrico. Se Spencer non l'avesse ipotecata per il suo intero valore e non avesse dato fondo a buona parte dei beni all'estero, non sarebbero sopravvissuti. «Che cosa ti fa essere tanto sicuro che ci sarà un articolo?» gli chiese.
Paul si oscurò involto. «Di cosa stai parlando? Ne abbiamo appena parlato con Daniel al telefono, titolo e tutto. È stato lui a suggerirlo.» «Lo ha suggerito, ma come facciamo a essere sicuri che succederà? Sono d'accordo, sarebbe grandioso se accadesse, ma lui potrebbe rimandare all'infinito.» «Perché diavolo dovrebbe farlo?» «Non lo so, ma per qualche motivo la segretezza è in cima ai suoi pensieri, e un articolo la distruggerebbe. Lui non è disposto a scrivere un articolo, per lo meno non entro poco tempo, e se noi lo facciamo senza di lui, probabilmente negherà qualsiasi coinvolgimento nel caso. Se questo accadrà, nessuno lo vorrà pubblicare.» «Hai ragione», convenne Paul. Si guardarono attraverso la scrivania. Sopra di loro tuonò un jet in avvicinamento al Nassau International Airport. La clinica era situata proprio a ovest dell'aeroporto, su un terreno arido e ricoperto di arbusti bassi e stenti. Era l'unico posto doveva avevano potuto acquistare un'estensione adeguata e recintarla per bene. «Pensi che ci ha detto la verità riguardo al fatto che vuole usare la Sindone?» chiese Paul. «Non so nemmeno questo. Mi puzza un po', se capisci ciò che intendo.» «Al contrario: a me l'idea attira parecchio.» «Non fraintendermi. L'idea è interessante e di certo darebbe un tocco in più all'articolo scientifico e alla storia che comparirà sui media internazionali. Però, se si mette tutto assieme, compresa la questione della segretezza, c'è decisamente qualcosa di dubbio. Voglio dire, te la sei bevuta la spiegazione che ha dato quando gli hai chiesto perché aveva intenzione di sobbarcarsi queste complicazioni?» «Intendi rispetto al voler provare la ROTS da solo?» «Precisamente.» «Non del tutto, anche se è vero che il Congresso degli Stati Uniti pensa di non autorizzare la ROTS. E adesso che mi ci fai pensare, ha accettato le tariffe che gli hai proposto un po' troppo in fretta, come se il prezzo non gli importasse.» «Non potrei essere più d'accordo», confermò Spencer. «Non avevo idea di quanto chiedere, e ho tirato fuori delle cifre un po' a caso: mi aspettavo che lui facesse una controproposta. Diamine, avrei dovuto chiedergli il doppio, per quanto ha accettato in fretta.» «Allora, che cosa ne pensi?»
«Penso che la questione sia l'identità del paziente. È l'unica cosa a venirmi in mente che possa avere senso.» «Chi, per esempio?» «Non lo so. Ma, se fossi costretto a fare una supposizione, il mio primo pensiero sarebbe un membro della famiglia. Il secondo pensiero sarebbe qualcuno ricco, ricchissimo, probabilmente ricco e famoso, e su questo sarei pronto a scommettere!» «Ricco!» ripeté Paul, mentre un leggero sorriso gli compariva sul volto. «Una cura potrebbe valere milioni.» «Esatto, ecco perché penso che dovremo procedere con l'ipotesi del ricco e famoso. Dopotutto, perché Daniel Lowell dovrebbe fare potenzialmente i milioni e noi avere quarantamila miseri dollari?» «Il che significa che dobbiamo scoprire l'identità di questo paziente.» «Speravo che avresti visto la questione dalla mia prospettiva. Temevo pensassi che valeva la pena di aderire solo per lavorare con questo rinomato ricercatore.» «Diavolo, no!» sbottò Paul. «Non se non possiamo ottenere i benefici pubblicitari che speravamo. È implicito che non otterremo istruzioni pratiche sulla ROTS, quando ha detto che farà da sé il lavoro sulle cellule. All'inizio, credevo che fosse scontato. Però voglio lo stesso imparare la procedura, quindi quando richiama digli che questo deve far parte del pacchetto.» «Sarò felice di dirglielo», gli assicurò Spencer. «E anche che vogliamo metà dei soldi in anticipo.» «Digli anche che vogliamo un occhio di riguardo per la licenza della sua procedura, in futuro.» «Buona idea. Vedrò cosa posso fare per rinegoziare il nostro accordo senza chiedere più soldi. Non voglio spaventarlo al punto da farlo rinunciare. Nel frattempo, che ne dici di cercar di scoprire l'identità del paziente? È un tipo di attività nella quale sei più versato di me.» «Lo prenderò per un complimento.» «Ma è un complimento!» Paul si alzò. «Ci farò lavorare Kurt Hermann, il nostro capo della sicurezza. Lui adora questo tipo di incombenze.» «Di' a quel Berretto Verde congedato con disonore, o quel cavolo che era, di uccidere meno persone possibile. Dopo tutti gli investimenti e gli sforzi fatti, non facciamo in modo che la buona accoglienza che ci hanno riservato su quest'isola si logori in fretta.»
Paul rise. «È molto attento e prudente.» «Non è quello che pare a me», lo contraddisse Spencer, sollevando le mani come a dire che non voleva imbarcarsi in una discussione. «Non credo che le puttane di Okinawa che ha fatto fuori lo definirebbero prudente, e su nel Massachusetts, quando era nostro dipendente, ha avuto un po' la mano pesante, ma queste cose le abbiamo superate. Ammetto che è un elemento valido, altrimenti non farebbe ancora parte del nostro personale. Solo, fammi un favore, raccomandagli di essere discreto. È tutto ciò che chiedo.» «Sarò felice di dirglielo.» Paul si alzò. «Ma ricorda: dato che nessuno di noi, Kurt compreso, può rimettere piede negli Stati Uniti, probabilmente non potrà scoprire gran che fin quando Lowell, la sua équipe e il paziente non saranno qua.» «Non mi aspetto miracoli», sentenziò Spencer. 7 Venerdì 22 febbraio 2002 - ore 16.45 La linea dell'orizzonte di Manhattan si stagliava seghettata contro il cielo invernale che si andava incupendo, mentre il volo Washington-New York si abbassava nel suo avvicinamento finale all'aeroporto La Guardia. Le luci della città caotica e pulsante brillavano come tanti gioielli nell'oscurità che si addensava. Quelle dei molti ponti sospesi sembravano fili di perle appesi agli altissimi puntali. Una nave da crociera allegramente decorata che scivolava verso l'ormeggio sull'Hudson faceva pensare a una preziosa spilla appuntata sul velluto nero. Carol Manning distolse lo sguardo dal finestrino e lo portò all'interno dell'aereo. Non c'era conversazione. Senza badare alla vista maestosa, i pendolari erano tutti assorti dai giornali, dai documenti di lavoro o dai computer portatili. Scrutò il senatore, seduto nella sua stessa fila, un posto più in là. Come gli altri passeggeri, era assorto nella lettura. Le mani grassocce serravano la pila di promemoria riguardanti i programmi del giorno dopo che aveva preso al volo da Dawn Shackelton mentre, assieme a Carol, si precipitava fuori dall'ufficio nella speranza di prendere lo shuttle delle quindici e trenta. Ce l'avevano fatta per il rotto della cuffia. Dietro insistenza di Ashley, quella mattina Carol aveva telefonato a uno dei segretari personali del cardinale per fissare un incontro all'ultimo mo-
mento per quel pomeriggio. Aveva ricevuto l'imbeccata di dire che si trattava di una questione urgente ma che avrebbe richiesto al massimo un quarto d'ora. Padre Maloney aveva assicurato che avrebbe fatto ciò che poteva, dato che l'agenda del cardinale era strapiena, ma nel giro di un'ora aveva richiamato per dire che era possibile un incontro con il senatore fra le cinque e mezzo e le sei e mezzo, dopo la visita di un cardinale italiano e prima di una cena con il sindaco. Carol gli aveva assicurato che ci sarebbero stati. Mentre correva per non perdere l'aereo e si preoccupava per il probabile traffico di New York, Carol era rimasta colpita dall'apparente serenità di Ashley. Naturalmente, lui faceva in modo che fosse lei a preoccuparsi al posto suo, ma se i loro ruoli fossero stati invertiti e lei avesse dovuto affrontare ciò che lui stava per affrontare, sarebbe stata incredibilmente in ansia, al punto da trovare difficile la concentrazione. Ma certo non lui! Nonostante un leggero tremore, ogni singola pagina del suo promemoria veniva rapidamente scorsa e voltata in rapida successione, facendo pensare che la sua leggendaria rapidità di lettura non avesse affatto sofferto per la malattia né per gli avvenimenti accaduti nelle ventiquattro ore precedenti. Carol si schiarì la gola. «Senatore, più penso a tutta questa faccenda, più mi stupisco che non abbia chiesto la mia opinione. La chiede su quasi tutto.» Ashley voltò la testa e la fissò al di sopra degli occhiali dalla montatura pesante, che gli erano scivolati fin sulla punta del naso. L'ampia fronte era corrugata in un'espressione condiscendente. «Carol, carissima», iniziò. «Non c'è bisogno che mi dica la tua opinione. Come ho dimostrato ieri sera, io sono ben consapevole.» «Allora spero comprenda che secondo me lei sta correndo un rischio troppo grande, con questa presunta terapia.» «Apprezzo la tua sollecitudine, non importa quale ne sia la motivazione, ma sono fermamente deciso nella mia scelta.» «Lei lascia che la usino per fare esperimenti. Lei non ha idea di quale sarà il risultato.» «Può essere vero che non so quale sarà il risultato certo, ma, se non facessi nulla di fronte alla mia malattia degenerativa, progressiva e altrimenti incurabile, so esattamente quale sarà il risultato. Mio padre diceva sempre: aiutati che il ciel ti aiuta. Per tutta la mia vita sono stato uno che non si da per vinto e sicuramente non mi fermerò adesso. Non me ne andrò piagnu-
colando. Scalcerò e sbraiterò come un animale selvatico messo in un sacco.» «E se il cardinale le dicesse che il suo piano è sconsigliabile?» «Difficile che abbia questa reazione, dato che non ho la minima intenzione di informarlo sui miei progetti.» «Allora perché stiamo andando da lui?» chiese Carol in un tono vicino alla collera. «Io speravo che sua eminenza riuscisse a convincerla.» «Non stiamo facendo questo pellegrinaggio alla sede del potere cattolico del Nord America per chiedere un consiglio, ma per fare in modo di ottenere un pezzetto della Sindone come possibile protezione contro le incertezze della mia terapia.» «Ma come intende avere accesso alla Sindone senza spiegare il perché?» Ashley sollevò una mano come un oratore che plachi una folla turbolenta. «Basta, mia cara Carol, a meno che la tua presenza non sia più un fardello che un aiuto.» Mentre l'aereo si disponeva all'atterraggio, riportò l'attenzione sui fogli che aveva davanti. Nel vedersi congedata in modo così sbrigativo, Carol sentì un'ondata di calore salirle al viso. Un simile atteggiamento umiliante stava diventando fin troppo frequente, come pure l'irritazione che scatenava in lei. Preoccupata di non mostrare i propri sentimenti, tornò a guardare dal finestrino. Vista da vicino, New York non faceva più pensare a un gioiello, a causa dei rifiuti sparsi e ai cumuli disordinati di neve sporca che costellavano i bordi della pista di rullaggio. In sintonia con la scena scura e desolata, Carol era in preda a emozioni contrastanti rispetto al progetto di Ashley. Da una parte, ne temeva la natura sperimentale, dall'altra pensava che la terapia poteva funzionare. Anche se la sua prima reazione alla tremenda diagnosi era stata di compassione, nel corso dell'anno aveva cominciato a considerarla un'opportunità. Ora il timore di un risultato negativo competeva alla pari con il timore di uno positivo, anche se lei esitava ad ammetterlo con se stessa. In un certo senso, si sentiva come un Bruto nei confronti del Cesare che era Ashley. Il passaggio dall'aereo alla limousine, che Carol aveva prenotato, filò liscio. Tre quarti d'ora dopo, però, erano imbottigliati in mezzo a un mare di veicoli sulla FDR, dove il traffico si era fermato. Irritato per il ritardo, Ashley gettò da parte le pagine che stava esaminando e spense la luce che gli era servita per leggere. L'interno dell'auto piombò nell'oscurità. «Perderemo l'opportunità di farci ricevere», ringhiò. «Mi spiace», mormorò Carol, come se fosse colpa sua.
Miracolosamente, dopo cinque minuti di immobilità e una serie di colorite imprecazioni di Ashley, il traffico ricominciò a muoversi. «Grazie al buon Dio per i piccoli favori!» salmodiò lui. Il tassista uscì sulla Novantaseiesima e, con mossa astuta, si infilò in una strada secondaria che portava in centro. Riuscì a depositare il senatore e la sua assistente davanti all'arcivescovado, all'angolo tra Madison e la Cinquantesima, quattro minuti prima dell'intervallo fissato per l'incontro. Ricevette istruzioni di mantenersi in zona, girando attorno all'isolato, dato che avrebbe dovuto riportarli all'aeroporto entro un'ora. Carol non aveva mai messo piede nell'arcivescovado. Osservò la casa a tre piani di pietra grigia e dal tetto di ardesia che, con la sua mole insignificante, sembrava rannicchiata all'ombra dei grattacieli. Si ergeva direttamente dal bordo del marciapiede, senza nemmeno una striscia d'erba a mitigarne la severità. Le prese per l'aria condizionata che sbucavano da qualche finestra ne imbnittivano la facciata, come pure le pesanti sbarre di ferro al piano terreno. Queste davano all'edificio l'aspetto di una piccola prigione, piuttosto che di una residenza. Unico tocco che ne ammorbidiva l'austerità era la fuggevole visione di una tendina di pizzo a una finestra. Ashley salì i gradini di pietra e suonò il campanello di ottone lucidato. Non dovettero aspettare a lungo. La pesante porta fu aperta da un prete alto, dal naso accentuatamente aquilino e dai capelli rossi tagliati corti. Indossava un clergyman e la collarina bianca. «Buona sera, senatore.» «Buona sera, padre Maloney», rispose Ashley, entrando nell'ingresso. «Spero che siamo arrivati al momento giusto.» «Proprio così», rispose il prete. «Accompagnerò lei e la sua assistente nello studio privato di sua eminenza. Vi raggiungerà a momenti.» Lo studio era una stanza al piano terreno, ammobiliata in modo spartano. Unici ornamenti, una foto incorniciata di papa Giovanni Paolo II e una piccola statua della Madonna scolpita nel marmo bianco di Carrara. Il pavimento di legno non era ricoperto da tappeti e i tacchi di Carol ticchettarono rumorosamente sulla superficie tirata a lucido. Padre Maloney si ritirò silenziosamente e chiuse la porta. «Piuttosto austero», osservò Carol. Il mobilio era costituito soltanto da un divano e una poltrona di pelle che dimostravano tutti i loro anni, un inginocchiatoio e una piccola scrivania con una sedia di legno. «Al cardinale piace far credere ai suoi visitatori che il mondo materiale non gli interessa», spiegò Ashley, mentre prendeva posto nella poltrona.
«Ma io so che non è così.» Carol si sedette con il busto eretto sull'orlo del divano, tenendo le gambe unite, invece Ashley si appoggiò comodamente allo schienale, come se fosse a casa di un parente. Accavallò le gambe, rivelando un calzino nero e qualche centimetro di polpaccio bianchissimo. Un attimo dopo la porta si riaprì ed entrò il cardinale James O'Rourke seguito da padre Maloney, che richiuse la porta dietro di loro. Il cardinale indossava tutte le insegne del suo rango. Sopra i pantaloni neri e la camicia bianca con la collarina, portava una veste talare nera su cui spiccavano le guarnizioni e i bottoni rossi. La veste era sormontata da una mantellina scarlatta aperta e stretta in vita da un'ampia fascia pure scarlatta. In testa aveva una papalina rosso cardinale. Dal collo pendeva una croce d'argento in cui erano incastonate pietre preziose. Carol e Ashley si alzarono prontamente. Carol era rimasta colpita dal sontuoso abbigliamento, accentuato dall'austerità della stanza. Ma, una volta in piedi, si accorse che il potente prelato era più basso di lei e, perfino accanto ad Ashley che non era affatto alto, appariva decisamente basso e grassoccio. Il viso paffuto che sorrideva con benevolenza, la pelle turgida, priva di rughe, e le guance rosse e lucide facevano pensare a un prete qualsiasi. Lo sguardo penetrante, però, raccontava una storia diversa, più consona a ciò che Carol sapeva di lui. Era uno sguardo che rifletteva un'intelligenza formidabile, venata di astuzia. «Senatore», disse il cardinale con una voce che ben si adattava all'atteggiamento gentile, e tese la mano tenendo il polso morbido. «Eminenza», replicò Ashley, ricorrendo al suo più cordiale accento del Sud, e afferrò, più che stringere, la mano del prelato, evitando di proposito di baciare l'anello. «È un piacere, davvero. Sapendo quanto è occupato, apprezzo tantissimo che abbia trovato del tempo da dedicare a questo ragazzo di campagna, con un preavviso così breve.» «Oh, la smetta, senatore», lo rimproverò il cardinale. «Rivederla è una gioia, come sempre. La prego, sieda.» Ashley si riadagiò nella stessa posizione di prima. Carol arrossì di nuovo. Essere ignorata la imbarazzava quanto essere zittita. Si era aspettata che Ashley la presentasse, anche perché gli occhi del cardinale l'avevano scrutata in viso e le sopracciglia si erano leggermente inarcate, in un'espressione interrogativa. Tornò anche lei a sedersi, mentre il cardinale avvicinava la sedia che stava dietro la scrivania. Padre Maloney rimase in piedi accanto alla porta.
«Per rispetto ai suoi molti impegni», cominciò Ashley, «credo che dovrei arrivare subito al dunque.» Sentendosi stranamente invisibile, Carol guardò i due uomini seduti vicino a lei. All'improvviso si accorse di quanto fossero simili nel carattere, nonostante le differenze nell'aspetto e al di là della comune attitudine al lavoro indefesso. Entrambi trovavano che confondere la linea di demarcazione fra stato e chiesa andasse a loro vantaggio; entrambi erano abili nelle lusinghe e coltivavano rapporti personali con le persone con le quali scambiavano favori nei loro rispettivi campi; entrambi nascondevano personalità dure, calcolatrici e dalla volontà ferrea dietro maschere esteriori (l'umile prete, l'ingenuo ragazzo di campagna); entrambi proteggevano alacremente la propria autorità ed erano infatuati dall'esercizio del potere. «È sempre meglio essere diretti», approvò il cardinale. Sedeva ben eretto, con le mani paffute attorno alla papalina che si era tolta, rivelando una testa quasi completamente calva. A Carol parve di vedere due schermidori che girano in tondo, guardinghi. «Mi è dispiaciuto enormemente vedere la chiesa cattolica assediata a questo modo», continuò Ashley. «L'attuale scandalo sessuale ha richiesto il suo pedaggio, in particolare per la divisione fra i suoi ranghi e una guida anziana e sofferente a Roma. Sono rimasto sveglio la notte, tormentandomi per trovare un modo in cui essere d'aiuto.» Carol dovette trattenersi dal roteare gli occhi. Conosceva fin troppo bene i veri sentimenti del senatore nei confronti della chiesa cattolica. Congregazionalista e fondamentalista com'era, nutriva ben poco rispetto per qualsiasi religione gerarchica, e secondo lui la chiesa cattolica era la più gerarchica. «Apprezzo la sua solidarietà», rispose il prelato, «e provo un simile dispiacere per il Congresso, in seguito alla tragedia dell'11 settembre. Anch'io mi sono tormentato su come aiutare al meglio.» «La sua guida spirituale è un aiuto costante.» «Vorrei fare di più.» «Il mio cruccio per la chiesa è che un numero relativamente piccolo di preti con un arresto nello sviluppo psicosessuale abbia potuto mettere a rischio l'intera organizzazione filantropica. Ciò che proporrei, in cambio di un piccolo favore, è di introdurre una legge per limitare la responsabilità legale degli enti benefici, dei quali la chiesa cattolica è un fulgido esempio.»
Per qualche minuto, nella stanza regnò il silenzio. Carol colse, per la prima volta da quando vi era entrata, il ticchettio di un orologio sulla scrivania e i rumori attutiti del traffico su Madison Avenue. Osservò il volto del cardinale, la cui espressione era rimasta immutata. «Una tale legge sarebbe di grande aiuto nell'attuale crisi», osservò infine il prelato. «Per quanto ogni episodio di abuso sessuale sia grave per la vittima, non dovremmo togliere il sostegno a tutte quelle anime che dipendono dalla chiesa per la loro salute, i loro bisogni educativi e spirituali. Come diceva mia madre: 'Non dovremmo gettar via il bambino con l'acqua sporca del bagno'.» «Che probabilità ci sono che un simile disegno di legge passi?» «Con il mio appoggio, che sicuramente darò, direi più del cinquanta per cento. Quanto al presidente, penso che sarebbe felice di trasformarlo in legge. È un uomo di grande fede, fortemente convinto della necessità di istituzioni benefiche religiose.» «Sono certo che il Santo Padre sarebbe grato del suo appoggio.» «Sono un servitore della gente. Di tutte le razze e tutte le religioni.» «Lei ha accennato a un piccolo favore. È qualcosa di cui dovrei essere al corrente adesso?» «Oh, è una piccola cosa. Ha a che fare più che altro con la memoria di mia madre. Era cattolica. Glielo avevo mai detto?» «Non penso.» Carol evocò di nuovo l'immagine dei due schermidori che parano e rispondono. «Cattolica fino al midollo», aggiunse Ashley. «Proveniva dalla campagna, appena fuori Dublino, ed era una donna davvero molto religiosa.» «Presumo, da come ne parla, che è stata chiamata a sé dal Creatore.» «Purtroppo sì», confermò Ashley. Esitò un attimo, come se l'emozione lo soffocasse. «Parecchi anni fa, pace all'anima sua, quando io non ero più alto di un soldo di cacio.» Era una storia che Carol conosceva. Una notte, dopo una lunga seduta al Senato, era andata con lui in un bar del Campidoglio. Dopo qualche bourbon, il senatore era diventato particolarmente loquace e le aveva raccontato la triste storia. Sua madre era morta quando lui aveva nove anni, in conseguenza di un aborto clandestino a cui si era sottoposta per non avere il decimo figlio. Ironia della sorte, uno dei motivi che l'aveva spinta a quella decisione era la paura di morire durante il parto, dato che nel dare alla luce
il nono figlio aveva avuto delle complicazioni. Il padre di Ashley aveva fatto fuoco e fiamme, dicendo alla famiglia e alla congregazione che quella donna era stata dannata all'inferno per l'eternità. «Vuole che dica una messa per la sua anima?» domandò il cardinale. «Sarebbe molto generoso», rispose Ashley, «ma non era questo che avevo in mente. Ancora oggi, mi ricordo di quando sedevo sulle sue ginocchia ad ascoltare tutte le cose meravigliose che mi raccontava sulla chiesa cattolica. E, in particolare, mi ricordo di ciò che diceva sulla miracolosa Sacra Sindone, che lei aveva tanto a cuore.» Per la prima volta, sul viso paffuto l'espressione cambiò. Fu un mutamento quasi impercettibile, ma Carol capì che era dovuto alla sorpresa. «La Sindone è ritenuta una reliquia oltremodo sacra», affermò il cardinale. «Non posso essere più d'accordo», convenne Ashley. «Lo stesso Santo Padre ha dichiarato in via ufficiosa la propria convinzione che sia il sudario di Cristo.» «Mi fa piacere sentire che le convinzioni di mia madre sono confermate. Per tutti questi anni, per devozione al ruolo fondamentale che ha avuto per me, ho fatto studi sulla Sindone, seppure in modo dilettantesco. Ho appreso che da esso sono stati prelevati parecchi campioni, alcuni usati per eseguire dei test, altri no. So anche che la chiesa si è fatta restituire quelli che non sono stati usati, dopo i risultati della datazione al carbonio. Ciò che mi piacerebbe avere sarebbe un campione minuscolo...» Ashley avvicinò pollice e indice per sottolineare le sue parole «...di fibra intrisa di sangue fra quelli che sono stati restituiti alla chiesa.» Il cardinale si appoggiò al rigido schienale della sedia e scambiò una rapida occhiata con padre Maloney. «È una richiesta molto insolita», commentò. «Comunque, la chiesa è stata chiarissima al riguardo: non ci devono essere altri test sulla Sindone, se non per assicurarne la conservazione.» «A me non interessa sottoporla a test», affermò Ashley categoricamente. «Allora perché ne vuole un campione?» «Per mia mamma. In tutta sincerità, vorrei deporlo nell'urna che contiene le sue ceneri, la prossima volta che torno a casa, in modo che l'Ostia Divina si mescoli con i suoi resti. L'urna sta vicino a quella di mio padre, sulla mensola del camino nella vecchia casa di campagna.» Carol dovette reprimere una risata di scherno per come il senatore sapeva mentire con facilità e in modo convincente. La notte in cui le aveva narrato la storia della sua povera mamma, le aveva anche detto che suo padre
non aveva voluto che fosse sepolta nel cimitero della chiesa, e la sepoltura era avvenuta in terreno sconsacrato. «Credo», aggiunse Ashley, «che, se avesse potuto esprimere un desiderio, sarebbe stato questo, perché la sua anima immortale fosse aiutata a entrare nell'eterno paradiso.» Il cardinale sollevò lo sguardo su padre Maloney. «Io non ne so niente di questi campioni restituiti. E lei?» «Nemmeno io, eminenza, ma potrei scoprire qualcosa. L'arcivescovo Manfredi, che lei conosce molto bene, è stato insediato a Torino. E lì c'è anche monsignor Garibaldi, che è una mia buona conoscenza.» Il cardinale riportò lo sguardo su Ashley. «Si accontenterebbe solo di poche fibre?» «È tutto ciò che chiedo. Anche se devo aggiungere che le vorrei prima possibile, dato che intendo fare una visita a casa nell'immediato futuro.» «Se questo frammento si rendesse disponibile, come glielo faremmo avere?» «Invierei immediatamente un incaricato a Torino», rispose prontamente Ashley. «Non è il tipo di cosa che affiderei alla posta o a un corriere commerciale.» «Vedremo ciò che posso fare», gli assicurò il cardinale, alzandosi. «E presumo che lei presenterà presto il disegno di legge a cui ha accennato.» Si alzò anche Ashley. «Lunedì mattina, eminenza, se per allora avrò notizie da parte sua.» Le scale richiedevano uno sforzo notevole e il cardinale le affrontò lentamente, fermandosi spesso per riprendere fiato. Il problema principale era che, bardato com'era, tutti quegli strati di stoffa gli gravavano addosso surriscaldandolo, soprattutto quando saliva per recarsi nei suoi appartamenti privati. Era seguito a ruota da padre Maloney, che si fermava ogni volta assieme a lui. Tenendosi alla balaustra, buttò fuori l'aria e si passò la mano libera sulla fronte. C'era un ascensore, ma lo evitava: era una specie di penitenza. «C'è qualcosa che posso prendere per lei, eminenza?» si offrì padre Maloney. «Potrei portargliela giù per evitarle di salire questi scalini così ripidi. È stato un pomeriggio stancante.» «Grazie, Michael», rispose lui, «ma devo rinfrescarmi un po', se voglio reggere fino alla fine della cena con il sindaco e il cardinale in visita.» «Quando vuole che contatti Torino?» domandò ancora padre Maloney,
approfittando della pausa. «Stasera, dopo mezzanotte», rispose il cardinale, un po' ansante. «Saranno le sei, ora locale, e potrà trovarli prima della messa.» «È una richiesta sorprendente, se posso dirlo, eminenza.» «Davvero! Sorprendente e curiosa! Se le informazioni del senatore sui campioni sono esatte, e mi sorprenderebbe se non lo fossero, conoscendo il tipo, dovrebbe essere una richiesta facile da accontentare, dato che non occorrerebbe toccare la Sindone. Ma, nella sua conversazione con Torino, sia certo di sottolineare che tutto deve restare assolutamente segreto. Niente documentazione, di nessun genere. Sono stato chiaro?» «Perfettamente. Lei, eminenza, ha dei dubbi sull'uso del campione che dice di voler fare il senatore?» «Questa è la mia unica preoccupazione», ammise il cardinale, e trasse un profondo respiro, dopo di che ricominciò la faticosa salita. «Il senatore è un maestro del mercanteggiamento. Sono sicuro che non vuole il campione per eseguire qualche test non autorizzato, ma potrebbe scambiare dei favori con qualcuno che invece lo farebbe. Il Santo Padre ha decretato ex cathedra che la Sindone non deve essere più sottoposta a ulteriori indegnità scientifiche, e io sono completamente d'accordo. Ma, oltre a ciò, credo che sia una nobile causa scambiare qualche fibra sacra con la possibilità di assicurare la vitalità economica della chiesa. Lei è d'accordo, padre?» «In tutto e per tutto.» Raggiunsero la sommità delle scale e fu necessaria una nuova pausa, per riprendere fiato. «Pensa che il senatore farà ciò che ha promesso, riguardo al disegno di legge, eminenza?» «Assolutamente sì!» Non c'era stato un attimo di esitazione. «Il senatore adempie sempre la sua parte del patto. Per esempio, è stato determinante nel programma per i buoni scolastici che salverà le nostre scuole parrocchiali. In cambio, ho visto che ha ottenuto il voto dei cattolici nella sua ultima rielezione. È, come si dice, un'evidente situazione dove tutti vincono. Ma quest'ultimo scambio non è del tutto chiaro. Di conseguenza, se andrà in porto voglio che lei si rechi a Torino per sapere chi prenderà il campione e poi lo segua per vedere a chi verrà consegnato. In questo modo, potremo anticipare qualsiasi effetto negativo.» «Eminenza! Non posso pensare a un incarico più gradevole!» «Padre Maloney! Questa è una commissione seria, non è destinata al suo divertimento. Mi aspetto impegno e discrezione assoluti.»
«Naturale, eminenza! Non intendevo alludere a niente di meno.» 8 Venerdì 22 febbraio 2002 - ore 19.25 «Oh, accidenti!» borbottò Stephanie, dopo aver dato un'occhiata all'orologio. Erano quasi le sette e mezzo! Si stupiva sempre per come il tempo volava, quando era concentrata. E quel pomeriggio lo era stata senza interruzione. Dapprima, in libreria, si era lasciata assorbire dai libri sulla Sindone e poi, in ufficio, per l'ultima mezz'ora, era rimasta ipnotizzata davanti al computer. Era rientrata in sede poco prima delle sei e non vi aveva trovato nessuno. Presumendo che Daniel fosse andato a casa, si era seduta alla sua scrivania improvvisata e con l'aiuto di Internet era approdata a un paio di archivi di giornali, impegnandosi a scoprire che cosa era accaduto alla Wingate Clinic poco meno di un anno prima. Era stata una lettura interessante, anche se inquietante. Infilò il portatile nella morbida custodia, afferrò il sacchetto di plastica della libreria e si infilò il giaccone. Sulla porta del laboratorio spense le luci e dovette procedere alla cieca attraverso la reception, già al buio. Una volta in strada, si diresse verso Kendall Square. Camminava tenendo la testa piegata contro il vento tagliente. Come era tipico del New England, c'era stato un repentino cambiamento climatico rispetto al primo pomeriggio. Con il vento che ora spirava da nord anziché da ovest, la temperatura era scesa precipitosamente sotto lo zero, dai cinque-sei gradi di prima. Assieme al vento arrivavano raffiche di neve che avevano rivestito la città come se fosse cosparsa di zucchero a velo. A Kendall Square prese la Linea Rossa sotterranea e scese ad Harvard Square, zona a lei familiare dagli anni dell'università. Come al solito e nonostante il freddo, la piazza era ravvivata dalla presenza degli studenti e da chi gravitava attorno a quell'ambiente. C'era perfino qualche musicista di strada che sfidava i rigori del clima. Con le dita blu facevano serenate ai passanti. Stephanie provò compassione per loro, tanto da lasciare un po' di dollari nei loro cappelli capovolti, mentre si dirigeva in Eliot Square. Quando prese per Brattle Street si lasciò alle spalle le luci e il trambusto. Rasentò una sezione del Radcliff College e la famosa Longfellow House, ma non provò alcuna emozione per ciò che la circondava, impegnata co-
m'era a rimuginare su ciò che aveva appreso nelle precedenti tre ore e mezzo e non vedeva l'ora di condividerlo con Daniel. Le interessava anche sapere che cosa aveva scoperto lui. Erano le otto passate quando salì i gradini di ingresso dell'edificio tardo vittoriano il cui secondo e ultimo piano era occupato completamente dall'appartamento di Daniel. Lo aveva comperato nel 1985, quando era tornato ad Harvard. Era stato un anno importante per lui: non solo aveva lasciato il lavoro alla Merck, ma anche la moglie, dopo cinque anni di matrimonio. A Stephanie aveva spiegato che si sentiva soffocare da entrambi. Sua moglie era un'infermiera che aveva conosciuto nel periodo in cui lavorava come interno e contemporaneamente faceva il dottorato, impresa che secondo Stephanie era come correre una maratona dopo l'altra. La sua ex moglie, le aveva detto, era una sgobbona ed essere sposato con lei lo aveva fatto sentire come Sisifo, sempre a spingere una pietra su per la collina. Inoltre aveva aggiunto che era troppo pignola e si aspettava che lo fosse anche lui. Stephanie non sapeva che cosa pensare di entrambe le spiegazioni, ma non aveva indagato oltre. Era grata al destino che non avessero figli, cosa che la ex moglie aveva desiderato disperatamente. «Sono a casa!» gridò, dopo aver spinto la porta con il sedere. Intanto appoggiò il portatile e il sacchetto della libreria sulla minuscola mensola dell'ingresso e poté togliersi il giaccone, per appenderlo. «C'è nessuno?» Era entrata nel guardaroba, e la sua voce rimaneva attutita. Finito di appendere il giaccone, si voltò e ricominciò a chiamare, ma la sagoma di Daniel che riempiva il vano della porta la spaventò. Il suono che le uscì dalle labbra fu poco più di un pigolio. «Dove diavolo sei stata?» le chiese. «Lo sai che ore sono?» «Circa le otto», riuscì a rispondere Stephanie. Si mise una mano sul petto. «Non avvicinarti di soppiatto in questo modo!» «Perché non hai telefonato? Stavo per chiamare la polizia.» «Oh, dai! Lo sai come sono, quando mi trovo in una libreria. Sono entrata anche in un'altra. In tutte e due mi sono ritrovata stravaccata nella corsia, a leggere e cercare di decidere che cosa comperare. Poi, quando sono rientrata in ufficio, volevo approfittare della connessione in banda larga.» «Come mai non avevi il cellulare acceso? Ho provato a chiamarti una dozzina di volte.» «Perché ero in libreria, e poi, quando sono tornata in ufficio, non mi è venuto in mente. Ehi! Mi spiace se eri preoccupato per me, d'accordo? Ma adesso sono a casa, sana e salva. Che cosa hai preparato per cena?»
«Molto divertente», ringhiò Daniel. «Rilassati!» esclamò Stephanie, dandogli uno scherzoso strattone alla giacca. «Apprezzo il tuo interesse, davvero, ma sto morendo di fame e probabilmente anche tu. Che ne dici se torniamo alla piazza? Potresti chiamare il Rialto, mentre io faccio una doccia lampo. È venerdì sera, ma ora che arriviamo lì non dovremmo avere problemi.» «Va bene», disse Daniel con riluttanza, come se acconsentisse a qualche impresa gravosa. Fu solo alle nove e mezzo che entrarono al Rialto e trovarono un tavolo pronto ad aspettarli. Vista la fame, guardarono subito il menu e ordinarono rapidamente. Dietro loro richiesta, il cameriere portò subito il vino e l'acqua frizzante e del pane per tenere a freno la fame. «Bene, chi vuole parlare per primo?» chiese Stephanie appoggiandosi allo schienale della sedia. «Potrei farlo io, dato che non ho tanto da riferire, ma quel poco che ho è incoraggiante. Ho telefonato alla Wingate Clinic, che mi sembra ben attrezzata per il nostro scopo, e ci lasceranno usare le loro strutture. Ci siamo già messi d'accordo sul prezzo: quarantamila.» «Uau!» esclamò Stephanie. «Sì, lo so, è un po' caro, ma non volevo mercanteggiare. All'inizio, dopo averli informati che non avrebbero tratto vantaggio dalla nostra collaborazione a scopi pubblicitari, temevo che la cosa non andasse in porto. Per fortuna, hanno accettato.» «Be', non sono soldi nostri, e di certo ne abbiamo abbastanza. E per la questione degli oociti?» «Questa è la parte migliore. Mi hanno detto che possono fornirci oociti umani senza alcun problema.» «Quando?» «Loro dicono quando vogliamo noi.» «Mio Dio! Questo scatena un po' di curiosità.» «A caval donato non si guarda in bocca.» «E per il neurochirurgo?» «Nessun problema nemmeno per quello. Sull'isola ce ne sono diversi in cerca di lavoro. L'ospedale locale possiede l'attrezzatura stereotassica.» «Incoraggiante.» «Infatti.» «Le mie notizie sono buone e cattive. Quali vuoi sapere prima?» «Quanto sono cattive quelle cattive?»
«Tutto è relativo. Non abbastanza cattive da precludere quello che stiamo progettando, ma abbastanza da consigliarci di essere prudenti.» «Sentiamole, allora, così poi potremo andare avanti.» «I dirigenti della Wingate Clinic sono peggio di come ricordavo. A proposito, con chi hai parlato quando hai telefonato alla clinica?» «Con due di loro: Spencer Wingate in persona e il suo maggiordomo, Paul Saunders. E devo dirti che sono un paio di pagliacci. Figurati che si scrivono e si pubblicano da soli la loro presunta rivista scientifica.» «Intendi che non c'è un comitato scientifico?» «Questa è la mia impressione.» «È ridicolo, a meno che qualcuno si abboni alla rivista e prenda per vangelo tutto quello che contiene.» «Proprio quello che penso anch'io.» «Be', sono molto peggio che dei pagliacci», spiegò Stephanie. «E i loro crimini sono ben peggiori che aver eseguito esperimenti non etici di clonazione riproduttiva. Ho consultato gli archivi dei giornali, in particolare quello del Boston Globe, per informarmi su ciò che è accaduto lo scorso maggio, quando la clinica è stata improvvisamente traslocata all'estero, alle Bahamas. Ti ricordi che ieri sera, a Washington, ti avevo accennato che erano stati implicati nella sparizione di due studentesse di Harvard? Ebbene, è stato ben più che un semplice coinvolgimento, stando a un paio di testimoni che a loro volta erano candidate al dottorato ad Harvard. Erano riuscite a farsi assumere nella clinica per indagare sul destino degli ovuli che avevano donato. Durante le loro indagini, hanno scoperto molto di più di quanto si aspettavano. A un'udienza del gran giurì hanno dichiarato di aver visto le ovaie delle donne sparite in ciò che hanno chiamato la 'sala organi' della clinica.» «Buon Dio!» esclamò Daniel. «Come mai quelli della Wingate non sono stati indiziati, con una testimonianza simile?» «Mancanza di prove, e un'équipe di difesa costosissima. A quanto pare, i dirigenti avevano pronto un piano di evacuazione che comprendeva l'immediata distruzione della clinica e dei suoi contenuti, in particolare i laboratori di ricerca. Tutto è scomparso in un vortice di fiamme, mentre i dirigenti fuggivano in elicottero. Quindi non c'è stata un'accusa formale. Per ironia della sorte, senza un'accusa hanno potuto ottenere il risarcimento dell'assicurazione per l'incendio.» «Allora, che cosa ne pensi di tutto questo?» «Semplicemente che non sono delle brave persone e che dovremmo li-
mitare i nostri contatti con loro. Dopo quello che ho letto, mi piacerebbe sapere l'origine degli ovuli che ci forniranno, tanto per essere sicura che non favoriamo qualcosa di illecito.» «Non credo che sarebbe una buona idea. Abbiamo già deciso che imboccare la strada dell'etica sarebbe un lusso che non ci possiamo permettere, se vogliamo salvare la CURE e la ROTS. Fare domande su questo argomento potrebbe causare problemi, e non voglio rischiare di non avere a disposizione le loro attrezzature. Come ho detto, non erano tanto entusiasti, dopo che ho negato l'utilizzo del nostro coinvolgimento a scopi pubblicitari.» Stephanie giocherellò con il tovagliolo mentre soppesava le parole di Daniel. Non le piaceva per niente avere a che fare con la Wingate Clinic, ma era vero che loro due non avevano altra scelta, con i limiti di tempo a cui erano soggetti. Come era anche vero che stavano già violando l'etica, accettando di curare Butler. «Allora, che cosa ne dici?» la spronò Daniel. «Ce la fai a sopportarlo?» «Suppongo di sì», rispose lei senza entusiasmo. «Eseguiremo la procedura e ce la batteremo in tutta fretta.» «Il piano è questo. Adesso forza! Quali sono le buone notizie?» «Riguardano la Sindone.» «Sono tutt'orecchi.» «Questo pomeriggio, prima di andare in libreria, ti ho detto che la storia riguardante la sacra reliquia era molto più interessante di quanto immaginassi. Ebbene, è stato l'understatement dell'anno.» «Come mai?» «Ciò che penso, al momento, è che Butler potrebbe non essere così folle, dopotutto, perché quel sudario potrebbe benissimo essere autentico. È un cambiamento di rotta sorprendente, considerato quanto sono scettica.» Daniel annuì. «Quasi quanto lo sono io.» Stephanie lo scrutò nella speranza che quelle parole fossero accompagnate da qualche parvenza di umorismo, come un sorriso sarcastico, ma non era così. Provò una punta di irritazione davanti al fatto che Daniel dovesse essere sempre un po' 'di più' rispetto a lei, quale che fosse l'argomento. Sorbì un sorso di vino per scrollarsi di dosso il disagio. «Comunque», continuò, «ho cominciato a leggere il materiale in libreria e ho avuto difficoltà a fermarmi: non vedo l'ora di immergermi nel libro che ho comperato. Lo ha scritto uno studioso di Oxford che si chiama Ian Wilson. Inoltre, domani dovrebbero arrivarmi i libri che ho ordinato on line.»
Si interruppe quando arrivò il cameriere con le ordinazioni. Lei e Daniel lo guardarono impazienti mentre li serviva. Quando finalmente si fu allontanato, Daniel ammise: «Va bene, hai stimolato la mia curiosità. Raccontami della tua incredibile scoperta». «Ho iniziato a leggere basandomi sul fatto che la Sindone era stata datata al carbonio da tre diversi laboratori e il responso era il tredicesimo secolo, lo stesso secolo in cui ha fatto la sua comparsa. Conoscendo la precisione della tecnologia usata, non credevo che la mia convinzione potesse venir messa in dubbio, cosa che è avvenuta quasi immediatamente. Il motivo è semplice. Se quel sudario risale al tredicesimo secolo, allora chi lo ha fatto doveva essere incredibilmente molto più ingegnoso di Leonardo da Vinci.» «Dovrai spiegarmi», bofonchiò Daniel tra un boccone e l'altro. Stephanie si era interrotta per iniziare a mangiare. «Cominciamo con qualche motivo più sottile per cui il falsario doveva essere superumano per quel periodo, e poi passeremo a quelli più convincenti. Come prima cosa, avrebbe dovuto conoscere l'uso della prospettiva nell'arte, cosa che non era ancora stata scoperta. L'immagine dell'uomo sul lenzuolo aveva le gambe piegate e la testa china in avanti, probabilmente nel rigor mortis.» «Questo non è tremendamente convincente», osservò Daniel. «Senti qua: il falsario avrebbe dovuto conoscere il vero metodo di crocifissione usato dai romani nei tempi antichi. Era in contrasto con tutte le descrizioni artistiche che sono arrivate a noi dal tredicesimo secolo, e ce n'erano centinaia di migliaia. In realtà, erano i polsi del condannato a essere inchiodati alle braccia della croce, non i palmi, che non avrebbero retto il suo peso. Inoltre, la corona di spine non aveva la forma ad anello, ma più a calotta.» Daniel annuì varie volte. «E pensa: le macchie di sangue bloccano l'immagine sul tessuto, significando che questo scaltro artista ha cominciato con quelle chiazze e poi ha fatto l'immagine, che è il processo inverso di come lavorano tutti gli artisti. Come prima cosa si disegna l'immagine, o per lo meno il contorno, quindi i dettagli come il sangue verrebbero aggiunti dopo, per essere sicuri di collocarli al posto giusto.» «Interessante, ma anche questo lo metterei nella stessa categoria della prospettiva.» «Andiamo avanti. Nel 1979, quando il sudario è stato sottoposto per
cinque giorni all'esame scientifico da parte di scienziati provenienti da Stati Uniti, Svizzera e Italia, è stato stabilito inequivocabilmente che l'effigie non era stata dipinta. Non c'erano tracce di pennellate, c'era un'infinita gradazione di intensità e l'immagine era un fenomeno solo superficiale, senza assorbimento, e questo significa che non sono stati usati liquidi di alcun tipo. L'unica spiegazione che hanno trovato è stata che l'origine di quell'effigie fosse dovuta a qualche tipo di ossidazione sulla superficie delle fibre di lino, come se fossero state esposte, in presenza di ossigeno, a un improvviso fascio di luce intensa o ad altre forti radiazioni elettromagnetiche. Ovviamente, tutto ciò era vago e puramente speculativo.» «Va bene», convenne Daniel. «Devo ammettere che ti stai avvicinando all'area delle prove convincenti.» «C'è dell'altro», aggiunse Stephanie. «Alcuni degli scienziati statunitensi che hanno esaminato il sudario nel 1979 erano della NASA e lo hanno analizzato con le tecnologie più sofisticate allora disponibili, compresa un'attrezzatura conosciuta come analizzatore di immagini VP-8. Era un dispositivo analogico messo a punto per convenire le immagini digitali registrate sulla superficie della Luna e di Marte in riproduzioni tridimensionali. Con grande sorpresa di chiunque, l'effigie sul sudario contiene questo tipo di informazione, cioè la densità dell'immagine in ogni punto è direttamente proporzionale alla distanza dall'individuo crocifisso che aveva avvolto. Tutto sommato, avrebbe dovuto essere un falsario eccezionale per anticipare tutto questo, nel tredicesimo secolo.» «Puoi ben dirlo!» Daniel scosse la testa sbalordito. «Lasciami aggiungere un'altra cosa. I biologi specializzati in pollini hanno determinato che il sudario contiene biocellule provenienti solo da Israele e dalla Turchia, e questo significa che il nostro signor falsario avrebbe dovuto essere intraprendente, oltre che scaltro.» «Ma allora come mai i risultati della datazione al carbonio sono risultati errati?» «Domanda interessante.» Stephanie si concesse un altro boccone e masticò in fretta. «Nessuno lo sa per certo. C'è chi ha suggerito che il lino antico tende a sostenere la continua crescita di batteri e questi si lasciano dietro una patina trasparente simile a vernice che distorcerebbe i risultati. Sembra che ci sia stato un problema simile con la datazione al carbonio di alcune mummie egiziane, la cui antichità si conosce con esattezza grazie ad altre fonti. «Un'altra idea suggerita da uno scienziato russo è che a distorcere i risul-
tati sia stato l'incendio che ha bruciacchiato il sudario nel sedicesimo secolo, anche se mi è difficile capire come abbia potuto causare un errore di ben mille anni.» «E l'aspetto storico?» domandò Daniel. «Se il sudario è vero, come mai la sua storia risale soltanto fino al tredicesimo secolo, quando è comparso in Francia?» «Anche questa è una bella domanda. Quando mi sono messa a leggere il materiale al riguardo, mi sono mantenuta sugli aspetti scientifici e ho appena cominciato con quelli storici. Ian Wilson ha messo in relazione la Sindone con un'altra reliquia molto nota e venerata: è bizantina ed è chiamata il Mandylion di Edessa. È rimasto a Costantinopoli per più di trecento anni e, cosa alquanto interessante, è sparito quando la città è stata saccheggiata dai crociati nel 1204.» «C'è qualche prova documentaria che la Sindone e il Mandylion siano la stessa cosa?» «È dove ho interrotto la lettura. Ma sembra probabile che una tale prova esista. Wilson cita un testimone oculare francese che aveva visto la reliquia bizantina prima della sua sparizione e l'aveva descritta nelle sue memorie come un lenzuolo funebre con la doppia impronta del corpo di Gesù, il che fa pensare proprio alla Sindone. Se le due reliquie sono la stessa cosa, allora la storia la porta all'indietro, almeno fino al nono secolo.» «Capisco come mai tutto ciò ha catturato il tuo interesse. È affascinante. E, tornando alla scienza, se l'effigie non è stata dipinta, quali sono le teorie sulla sua origine?» «Questa è probabilmente la questione più intrigante. Non esistono teorie.» «Dopo l'esame del 1979, sono stati eseguiti altri studi scientifici sul sudario?» «Tantissimi», rispose Stephanie. «E non ci sono teorie?» «Nessuna che abbia resistito a ulteriori esami. Naturalmente, c'è sempre la vaga idea di qualche tipo di bagliore dovuto a strane radiazioni...» Stephanie lasciò la frase in sospeso. «Aspetta un momento!» esclamò Daniel. «Non vorrai propinarmi qualche sciocchezza divina o soprannaturale, eh?» Lei allargò le mani con i palmi in alto, mentre si stringeva nelle spalle e sorrideva. «Adesso ho la sensazione che stai giocando con me.» Daniel ridacchiò.
«Ti do l'opportunità di tirare fuori una teoria.» «Io?» Stephanie annuì. «Non posso fare ipotesi senza avere accesso a tutti i dati. Presumo che gli scienziati che hanno esaminato il sudario abbiano usato cose come il microscopio elettronico, lo spettroscopio, la fluorescenza ultravioletta, come pure appropriate analisi chi miche.» «Tutto questo e di più», confermò Stephanie e si mise più comoda sulla sedia, con un sorriso provocatorio. «Eppure, non è stata ancora formulata una teoria accettabile su come si sia riprodotta l'effigie. È un rebus. Ma su, da bravo! Non ti viene in mente niente, con i dettagli che ti ho fornito?» «Sei tu quella che ha fatto le letture. Credo che dovresti essere tu a tirar fuori un suggerimento.» «L'ho fatto.» «Non oso chiedere qual è.» «Mi sono ritrovata a propendere verso la direzione del divino. Ecco il mio ragionamento: se la Sindone è il sudario con il quale hanno sepolto Gesù Cristo, e se lui è risorto, intendendo con questo che è passato dal materiale al non materiale, presumibilmente in un istante, allora il sudario dovrebbe essere stato soggetto all'energia della dematerializzazione. È stato il lampo di energia che ha creato l'immagine.» «Che cosa diavolo è l'energia della dematerializzazione?» chiese Daniel, esasperato. «Non ne sono sicura», ammise Stephanie con un sorriso. «Ma esisterebbe un rilascio di energia con una dematerializzazione. Guarda l'energia rilasciata con il decadimento rapido degli elementi. Crea una bomba atomica.» «Suppongo di non doverti rammentare che stai utilizzando un ragionamento molto poco scientifico. Usi l'immagine del sudario per presumere la dematerializzazione, in modo da poter usare la dematerializzazione per spiegare il sudario.» «Non è scientifico, ma per me ha senso.» Stephanie rise. «E ha senso anche per Ian Wilson, che descrive l'effigie sul sudario come un'istantanea della resurrezione.» «Be', se non altro, mi hai convinto a dare un'occhiata a quel tuo libro.» «Non fin quando non l'avrò finito!» «Queste informazioni sulla Sindone hanno influito in qualche modo sulla tua reazione a usare le macchie di sangue per curare Butler?»
«Ho cambiato posizione di centottanta gradi», ammise Stephanie. «A questo punto, sono d'accordo. Voglio dire, perché non arruolare il potenzialmente divino perché vada bene a tutti quanti? E, come hai detto quando eravamo a Washington, usare il sangue della Sindone aggiungerà un po' di sfida e di eccitazione, oltre a fungere da magnifico placebo.» Daniel sollevò la mano e lui e Stephanie si diedero il cinque attraverso la tavola. «Che ne dici di un dessert?» le chiese. «No, per me no. Ma se tu lo vuoi, io prenderò un espresso decaffeinato.» Daniel scosse la testa. «No, non va neanche a me. Andiamo a casa. Voglio vedere se c'è qualche messaggio e-mail dalla società di investimento.» Fece cenno al cameriere di portare il conto. «E io voglio vedere se c'è qualche messaggio di Butler. L'altra cosa che ho appreso a proposito della Sindone è che avremo decisamente bisogno del suo aiuto per ottenerne un campione. Da soli non ci riusciremmo. La chiesa l'ha sigillata sotto stretta sorveglianza, dentro una teca avveniristica in atmosfera di argon. Inoltre ha dichiarato categoricamente che non ci saranno altri esami. Dopo il fiasco con la datazione al carbonio, si capisce che non ne vogliano altri.» «Hanno mai fatto un'analisi del sangue?» «Sì. È risultato di tipo AB, che era molto più comune di ora nel Medio Oriente dell'antichità.» «E del DNA?» «Anche quella. Hanno isolato diversi frammenti specifici di geni, compresa una betaglobulina dal cromosoma 11 e anche un'amelogenina Y dal cromosoma Y.» «Bene, siamo a cavallo!» esclamò Daniel. «Se mettiamo le mani su un campione, sarà una passeggiata ricavarne i segmenti che ci servono.» «Sarà bene che le cose accadano in fretta», lo avvertì Stephanie. «Altrimenti non avremo le cellule in tempo per la pausa al Senato.» «Questo lo so.» Daniel riprese la carta di credito dal cameriere e firmò la ricevuta. «Se ci sarà di mezzo la Sindone, ci toccherà andare a Torino nei prossimi giorni. Quindi Butler farà meglio a darsi da fare! Una volta ottenuto il campione, potremo volare direttamente a Nassau da Londra con la British Airway. Ho controllato i voli stasera, prima che tu arrivassi a casa.» «Il lavoro sulle cellule non lo faremo nel nostro laboratorio?» «Purtroppo no. Gli ovuli sono laggiù, non qua, e non voglio correre il ri-
schio di farmeli spedire, e inoltre li voglio freschi. Speriamo che il laboratorio della Wingate sia bene attrezzato come dicono, perché faremo tutto là.» «Questo significa che partiremo fra pochi giorni e staremo via un mese o più.» «Infatti. C'è qualche problema?» «Suppongo di no. Non è un brutto periodo per trascorrere un mese alle Bahamas. Peter può mandare avanti le cose al laboratorio. Però dovrò andare a casa domani o domenica a trovare mia madre. Sta poco bene, lo sai.» «Farai meglio ad andarci al più presto. Se da Butler arriva l'okay per il campione della Sindone, dovremo partire.» 9 Sabato 23 febbraio 2002 - ore 14.45 Durante un'altra deludente telefonata ai potenziali finanziatori della CURE, Daniel pensò di capire vagamente che cosa significasse soffrire di psicosi maniaco-depressiva. Appena prima della chiamata si sentiva al settimo cielo, davanti al taccuino su cui aveva annotato il programma per il mese seguente. Con Stephanie, che ora si era entusiasmata all'idea di curare Butler e di usare il sangue della Sindone, le cose cominciavano ad andare a posto. Quella mattina insieme avevano buttato giù una dichiarazione per Butler e gliel'avevano spedita per e-mail con le istruzioni di firmarla, con Carol Manning come testimone, e di restituirla per fax. Quando Stephanie era sparita nel laboratorio per controllare la coltura di fibroblasti di Butler, Daniel si era convinto che le cose stavano filando lisce ed era quindi ragionevole chiamare direttamente il dirigente della finanziaria che si occupava del suo caso, nella speranza di fargli cambiare idea. Ma quello, seccato, gli aveva detto di non richiamare a meno che non potesse fornirgli una prova scritta che la ROTS non sarebbe stata messa fuori legge. Aveva anche aggiunto che, se tale documentazione non fosse arrivata nell'immediato futuro, i soldi destinati alla CURE sarebbero stati trasferiti a un'altra promettente ditta operante nel settore biotech, la cui proprietà intellettuale non era politicamente a rischio. Daniel si accasciò sulla poltroncina, facendo scivolare i fianchi fin sull'orlo in modo precario, e appoggiò la testa all'indietro sullo schienale. L'i-
dea di tornare all'università, dove avrebbe avuto un posto stabile malpagato e dove tutto procedeva a un passo lento e noiosamente prevedibile, lo attirava sempre di più. Cominciava a detestare i precipitosi alti e bassi nei suoi tentativi di raggiungere lo status di persona ricca e famosa che si meritava. Era offensivo che le star del cinema dovessero solo imparare qualche frase a memoria e gli atleti famosi mostrare un'abilità tutta muscoli con una mazza o una palla per ottenere ricchezza e attenzione a iosa. Con le sue credenziali e con la brillante scoperta che aveva fatto, era paradossale che dovesse subire quegli sforzi penosi, con tutta l'ansia che vi era associata. Stephanie si affacciò alla porta. «Indovina?» cinguettò con vivacità. «Le cose stanno andando alla grande con la coltura dei fibroblasti. Grazie all'atmosfera al cinque per cento di biossido di carbonio e aria, comincia già a formarsi un monostrato. Le cellule saranno pronte prima di quanto sperassi.» «Splendido!» commentò Daniel in tono depresso. «Che cosa c'è, adesso?» Stephanie entrò nella stanza e si sedette. «Hai l'aria di cadere a terra da un momento all'altro. Come mai quel muso lungo?» «Non chiederlo! È sempre la stessa storia sui soldi, o meglio, sulla mancanza di soldi.» «Suppongo che tu abbia telefonato di nuovo a quelli della società finanziaria.» «Come sei perspicace!» Adesso il tono era sarcastico. «Santo cielo! Perché vuoi torturarti?» «Così, adesso pensi che me le vado a cercare!» «Sì, se continui a chiamarli. Da quanto avevi detto ieri, le loro intenzioni sono piuttosto chiare.» «Ma il progetto Butler sta andando avanti. La situazione si evolve.» Stephanie chiuse per un attimo gli occhi e respirò a fondo. «Daniel», cominciò, chiedendosi quali parole usare per non irritarlo, «non ti puoi aspettare che gli altri vedano il mondo nello stesso modo in cui lo vedi tu. Sei un uomo brillante, forse fin troppo intelligente. Gli altri non vedono il mondo come te perché non sono capaci di pensare come te.» «Vuoi fare la condiscendente con me?» Daniel guardò la sua amante, collaboratrice scientifica e socia in affari. Ultimamente, con lo stress degli eventi più recenti, era più le ultime due cose che la prima. «Santo cielo, no!» esclamò lei con enfasi. Prima che potesse continuare,
squillò il telefono. Il suono rauco nell'ufficio silenzioso fece trasalire entrambi. Daniel allungò una mano, ma non sollevò il ricevitore. Guardò Stephanie. «Aspetti una telefonata?» Lei scosse la testa. «Chi è che telefona in ufficio di sabato?» si stupì Daniel. Lui aveva chiamato il dirigente della finanziaria, ma l'aveva considerata una specie di emergenza. «Forse è Peter. È in laboratorio.» Daniel sollevò il ricevitore e rispose con l'intero nome della loro ditta, invece di usare la sigla. «Cellular Replacement Enterprises», annunciò con tono ufficiale. «Parla il dottor Spencer Wingate, della Wingate Clinic. Chiamo da Nassau e vorrei parlare con il dottor Daniel Lowell.» David fece cenno a Stephanie di andare alla reception e mettersi al telefono di Vicky, poi disse chi era. «Non mi aspettavo che rispondesse lei, dottore», commentò Spencer. «La nostra centralinista non viene di sabato.» «Oh, accipicchia!» Spencer rise. «Non mi ero accorto che fossimo nel weekend. Dato che abbiamo aperto le nostre strutture di recente, lavoriamo tutti ventiquattr'ore al giorno, sette giorni alla settimana. Molte scuse se la disturbo.» «Non mi disturba assolutamente.» Daniel sentì un leggero clic, quando Stephanie si inserì sulla linea. «C'è qualche problema riguardo la nostra chiacchierata di ieri?» «Al contrario», lo rassicurò Spencer. «Temevo semmai che ci fosse qualche ripensamento da parte sua. Aveva detto che avrebbe richiamato ieri sera o oggi, al più tardi.» «Ha ragione. Mi spiace. Aspettavo di sapere qualcosa sul versante Sindone, per cominciare a mettere tutto in moto. Mi scuso per non averla richiamata.» «Non occorre scusarsi. Comunque, l'ho chiamata anche per dirle che ho già parlato con un neurochirurgo, il dottor Rashid Nawaz, che ha uno studio a Nassau. È pakistano e si è formato a Londra, dove mi hanno assicurato che è molto dotato. Ha anche avuto un po' di esperienza con gli impianti di cellule fetali come assistente, durante la sua formazione, e non vede l'ora di collaborare. È anche disposto a occuparsi lui dell'attrezzatura stereotassica da chiedere in prestito al Princess Margaret Hospital.»
«Gli ha accennato all'importanza della discrezione?» «Certamente, ed è d'accordo.» «Meraviglioso. Ha parlato anche del suo onorario?» «Sì. Sembra che i suoi servigi costeranno un po' più di quanto pensavo, forse a causa della discrezione richiesta. Vorrebbe mille dollari.» Daniel restò per un attimo in dubbio se dovesse fare uno sforzo per mercanteggiare. Mille dollari erano decisamente più dei due o trecento che avevano calcolato inizialmente. Ma il denaro non era suo, e alla fine disse di stringere l'accordo. «Si sa per quando potremo aspettarvi?» gli domandò Spencer. «Al momento no. Ve lo farò sapere appena potrò.» «Perfetto. Già che ci siamo sentiti, ci sarebbe qualche dettaglio di cui mi piacerebbe discutere.» «Ma certo.» «Come prima cosa, vorremmo un acconto per la metà del compenso pattuito. Potrei mandarle le istruzioni per fax.» «Vuole il denaro immediatamente?» «Ci piacerebbe averlo non appena sapremo la data precisa del vostro arrivo. Ci renderà possibile cominciare a mettere insieme il personale necessario. Sarà un problema?» «Suppongo di no.» «Bene. L'altra cosa è che gradiremmo avere istruzioni sulla ROTS per il nostro personale, in particolare per il dottor Paul Saunders, come pure l'opportunità di discutere con lei un futuro accordo di brevetto per la ROTS e le tariffe per le sonde e gli enzimi richiesti.» Daniel esitò. Il suo intuito gli diceva che volevano sfruttarlo perché il giorno prima aveva acconsentito troppo in fretta al compenso richiesto. Si schiarì la gola. «Non ho problemi se il dottor Saunders vuole assistere, ma quanto al brevetto temo di non avere la libertà di soddisfare tale richiesta. La CURE ha un consiglio direttivo che dovrebbe essere d'accordo su trattative di questo tipo, tenendo pienamente conto di chi possiede le quote. Ma, essendone l'attuale direttore generale, posso prometterle che in futuro affronteremo l'argomento, e il vostro aiuto nell'attuale situazione verrà preso in considerazione.» «Forse chiedevo un po' troppo», ammise amabilmente Spencer. Ridacchiò. «Ma, come dice il proverbio: chiedere non costa nulla.» Daniel sollevò gli occhi al cielo, dovendo sopportare tali affronti.
«Un'ultima cosa», aggiunse Spencer. «Ci piacerebbe sapere il nome del o della paziente, in modo da poter avviare le procedure di ricovero e la cartella clinica. Vorremmo essere pronti per il suo arrivo.» «Non ci dovrà essere cartella clinica.» Il tono di Daniel era categorico. «Ieri ho spiegato chiaramente che questa cura dovrà rimanere nell'assoluta segretezza.» «Ma dobbiamo identificare il paziente per le analisi di laboratorio e cose simili.» «Chiamatelo 'paziente X', oppure John Smith. Non importa. Rimarrà nella vostra clinica solo ventiquattr'ore al massimo. Noi saremo con lui per tutto il tempo e saremo noi a eseguire le analisi di laboratorio.» «E se le autorità locali facessero domande sul suo ricovero?» «È probabile?» «No, suppongo di no. Ma se lo facessero, non sono sicuro di ciò che dovremmo dire.» «Confido che, dopo l'esperienza che vi siete fatti nel trattare con le autorità durante la costruzione della clinica, saprete essere creativi. Questo è compreso nel lauto compenso di quarantamila dollari. Assicuratevi che non facciano domande.» «Avremo bisogno di corrompere qualcuno. Magari se aumentaste di cinquemila potremmo garantire che non ci saranno problemi con le autorità.» Daniel non rispose immediatamente, tutto preso com'era a controllare la collera. Detestava essere manipolato, soprattutto da un pagliaccio del calibro di Wingate. «Va bene», acconsentì infine, senza mascherare la propria irritazione. «Ve ne manderemo ventiduemila e cinquecento. Ma esigo la sua assicurazione personale che questa operazione d'ora in poi andrà avanti liscia e che non ci saranno altre richieste.» «Ha la mia assicurazione in quanto fondatore della Wingate Clinic che faremo ogni sforzo affinché la nostra collaborazione con voi sia all'altezza delle vostre aspettative e di completa soddisfazione.» «Mi rifarò vivo entro breve.» «Ci saremo!» L'urlo del jet fece tremare le pareti dell'ufficio di Spencer, mentre il Boeing intercontinentale 767 passava sulla Wingate Clinic a un'altezza di circa millecinquecento metri, preparandosi all'atterraggio. Grazie al pesante isolamento acustico, più che udire il rumore si percepiva la vibrazione, sufficiente a far traballare l'esposizione di diplomi incorniciati che aveva
appeso al muro. Lui si era ormai abituato a quel tremore e non vi faceva più caso, tranne che per raddrizzare distrattamente i diplomi. «Come me la sono cavata?» vociò attraverso la porta spalancata. Paul Saunders comparve sulla soglia, dopo aver ascoltato la conversazione dal proprio ufficio. «Be', cerchiamo di vedere gli aspetti positivi. Non sei riuscito a scoprire il nome del paziente, ma hai eliminato metà dei ricchi e famosi del mondo: adesso sappiamo che è un uomo.» «Molto divertente. Non ci aspettavamo che ci fornisse il nome su un vassoio d'argento. Ma gli ho fatto alzare l'offerta di altri cinquemila e gli ho strappato il consenso a lasciarti assistere all'operazione. Non è male.» «Ma non lo hai forzato abbastanza sulla questione del brevetto. Era una cosa che poteva farci risparmiare un sacco di soldi, nella nostra terapia con le cellule staminali.» «Già, però aveva un argomento valido. Gestisce una società.» «Una società privata, e scommetterei mille a uno che è lui ad avere la maggior parte delle quote.» «Be', abbiamo un po' vinto e un po' perso. Non volevo spaventarlo troppo. Ricordati che era uno dei nostri timori: che si sentisse con il fiato sul collo e andasse da qualche altra parte.» «Ci ho ripensato un po' a questa nostra preoccupazione, ammesso che dica la verità sulla fretta che hanno. Probabilmente il nostro è l'unico posto che può fornirgli da un giorno all'altro un laboratorio di prim'ordine, le strutture ospedaliere e gli oociti umani senza fare domande. Ma non importa. Lo scopriremo lo stesso il nome del paziente, ne sono convinto. E prima lo scopriremo, meglio sarà.» «Non posso essere più d'accordo. E, a questo scopo, ho scoperto che Lowell oggi è in ufficio, il che era il vero motivo della telefonata.» «Vero! E devo darti credito per questo. Appena hai riattaccato, ho chiamato Kurt Hermann per farglielo sapere. Ha detto che riferirà immediatamente l'informazione al suo compatriota a Boston, in attesa di penetrare nell'appartamento di Lowell.» «Spero che quel compatriota, come lo hai chiamato tu, sia capace di muoversi con tatto. Se Lowell si spaventa o, peggio ancora, si fa male, tutta la cosa potrebbe andare in fumo.» «Mi sono raccomandato con Kurt in modo particolare.» «E lui che cosa ha detto?» «Lo sai che Kurt non dice molto. Ma capisce.» «Spero che tu abbia ragione, perché ci farebbe davvero comodo un gua-
dagno inatteso. Con quello che abbiamo speso per mettere in piedi questo posto e cominciare a farlo funzionare, abbiamo raschiato il fondo del barile e, a parte il nostro lavoro sulle cellule staminali, nel futuro immediato ci sono pochi affari basati sulla cura contro l'infertilità.» «Il dottor Wingate sembra proprio l'intrallazzatore che temevo», commentò Stephanie quando rientrò nell'ufficio di Daniel, dopo aver ascoltato la conversazione. «Parla di corruzione come se fosse una cosa che capita tutti i giorni.» «Forse alle Bahamas funziona così.» «Spero che sia basso, grasso e con un bitorzolo sul naso.» Daniel scoccò alla sua compagna uno sguardo confuso. «Magari fuma una sigaretta dopo l'altra e ha l'alito cattivo», aggiunse lei. «Di cosa diavolo stai parlando?» «Se l'aspetto esteriore di Spencer Wingate corrisponde all'idea che dà di se stesso, forse non perderò del tutto la fede nella professione medica. So che è irrazionale, ma non voglio che assomigli alla mia immagine mentale di un medico. Mi spaventa pensare che esercita. E questo vale anche per i suoi soci.» «Oh, suvvia, Stephanie! Non essere così ingenua. La professione medica, come qualunque altra, è ben lungi dall'essere perfetta. Ci sono quelli bravi e quelli cattivi, con la maggioranza che sta più o meno a metà strada.» «Io pensavo che l'autoregolamentazione fosse insita in questa professione. Comunque, vorrei tanto che il mio intuito non mi dicesse che lavorare con quei tipi è una cattiva idea.» «Per l'ultima volta», precisò Daniel, frustrato, «noi non lavoreremo con quei pagliacci. Dio ce ne scampi! Useremo le loro strutture e questo è quanto. Fine della storia.» «Speriamo che sia così semplice.» Daniel la fissò. Ormai la conosceva abbastanza da capire che non condivideva la sua valutazione, e lo irritava che non mostrasse maggiore entusiasmo. Il problema era che i presentimenti di lei davano voce ai suoi, mentre invece lui cercava di ignorarli. Voleva credere che tutto sarebbe andato liscio e sarebbe presto finito, ma la negatività di Stephanie continuava a indebolire le sue speranze. Dalla reception si udì entrare in azione il fax. «Vado a vedere che cos'è», si offrì Stephanie, e uscì dalla stanza.
Daniel provò sollievo nel sottrarsi al suo sguardo. La gente aveva un modo di irritarlo... anche Stephanie, a volte. Si chiese se non sarebbe stato meglio da solo. «È già la dichiarazione di Butler», annunciò lei attraverso la porta aperta. «Firmata anche dalla testimone, e un appunto dice che l'originale arriverà per posta.» «Grandioso!» esclamò Daniel. Almeno la collaborazione di Butler era incoraggiante. «La copertina chiede se questo pomeriggio abbiamo controllato la posta elettronica.» Stephanie comparve sulla porta con un'espressione interrogativa. «Io no, e tu?» Daniel scosse la testa e si collegò immediatamente a Internet. Al nuovo indirizzo e-mail allestito appositamente per il progetto Butler c'era un messaggio del senatore. Stephanie girò attorno alla scrivania e si chinò a leggerlo assieme a lui. Miei cari dottori, spero che questo messaggio vi trovi indaffarati con i vostri preparativi per la mia imminente terapia. Anch'io sono stato occupato in modo molto produttivo, e sono felice di riferirvi che i custodi della Sacra Sindone sono stati di grande aiuto, grazie all'intercessione di un collega influente. Dovete recarvi a Torino appena potete. All'arrivo chiamerete la cancelleria dell'arcivescovo per parlare con monsignor Mansoni. Lo informerete che siete i miei rappresentanti. A quel punto mi risulta che lui organizzerà un incontro in un luogo appropriato per darvi il campione richiesto. Vi prego di capire che tutto ciò dovrà essere fatto con la massima discrezione e segretezza, così da non mettere a repentaglio il mio stimato collega. Nel frattempo vi rinnovo tutta la mia amicizia A.B. Daniel impiegò un istante a cancellare il messaggio, così come avevano fatto con tutti gli altri provenienti dal senatore. Per decisione comune, di tutta la faccenda doveva rimanere la minore quantità di prove possibile. Quando ebbe fatto, sollevò lo sguardo su Stephanie. «Certo, il senatore sta facendo la sua parte.» Lei annuì. «Ne sono impressionata. E comincio anche a eccitarmi. Questa storia sta acquistando il tocco di un intrigo internazionale.» «Quando puoi essere pronta a partire? L'Alitalia ha voli giornalieri per
Roma che partono la sera e hanno la coincidenza per Torino. Ricorda, dovrai fare i bagagli per stare via un mese.» «Fare i bagagli non sarà un problema. I miei due problemi sono mia madre, a cui voglio dedicare un po' di tempo, e la coltura dei tessuti di Butler, che vorrei lasciare a un punto in cui può pensarci Peter.» «Quanto tempo ti ci vorrà, per la coltura?» «Non tanto. A giudicare da com'era stamattina, probabilmente domani potrei essere soddisfatta. Voglio solo essere sicura che si stia formando un vero monostrato. Poi Peter può mantenerlo, fargli compiere il passaggio e crioconservarlo. Il mio piano è che ce ne mandi una parte a Nassau in un contenitore all'azoto liquido quando saremo pronti. Il resto della coltura rimarrà qui, nel caso ne avessimo bisogno in futuro.» «Non essere pessimista», la esortò Daniel. «E tua madre?» «Domani le farò visita e starò con lei qualche ora durante il giorno. La domenica sta sempre in casa a cucinare.» «Allora potresti essere pronta a partire domani sera?» «Penso di sì, se faccio i bagagli stasera.» «Allora torniamo a casa il più presto possibile. Farò da lì le telefonate necessarie.» Stephanie andò nel laboratorio a prendere il portatile e il giaccone. Dopo essersi assicurata che Peter sarebbe stato presente la mattina dopo, così da lasciargli istruzioni per la coltura di Butler, tornò verso la reception e trovò Daniel che teneva aperta con impazienza la porta del corridoio. «Ehi, come sei di fretta!» commentò. Di solito era lei a doverlo aspettare. Ogni volta che stavano per andare da qualche parte, lui trovava sempre un'ultima cosa da fare. «Sono già quasi le quattro e non voglio che tu abbia scuse per non essere pronta domani sera. Mi ricordo quanto ti ci è voluto a preparare i bagagli per Washington, solo per due notti, e adesso si tratta di un mese. Sono certo che ci impiegherai più di quanto pensi.» Stephanie sorrise. Era vero, anche perché, tra l'altro, aveva da stirare un po' di cose. Si rese anche conto che doveva passare a fare qualche spesa per il viaggio. Quando furono in macchina, si stupì per la velocità a cui andava Daniel. Azzardò un'occhiata al tachimetro mentre filavano lungo il Memorial Drive. Stavano andando a ottanta all'ora in una zona dove il limite di velocità era di quarantacique. «Ehi, rallenta! Stai guidando come uno di quei tassisti di cui ti lamenti tanto.»
«Scusa!» Daniel rallentò leggermente. «Prometto che sarò pronta, quindi non c'è bisogno di rischiare la vita.» Stephanie lo guardò di nuovo, per vedere se aveva capito che stava cercando di essere spiritosa, ma la sua espressione risoluta non cambiò. «Ora sento che stiamo cominciando per davvero, e non vedo l'ora di portare a termine tutto questo deplorevole affare», disse lui, senza staccare gli occhi dalla strada. «Mi è venuta in mente una cosa. Farò in modo che ogni futuro messaggio e-mail di Butler vada anche alla casella del mio cellulare. In questo modo sapremo immediatamente quando ne arriva uno.» «Ottima idea.» Quando Daniel fermò l'auto di fronte al caseggiato dove viveva, balzò giù immediatamente. Mentre Stephanie stava ancora prendendo il portatile dal sedile posteriore, lui era già a metà strada verso l'ingresso. Stephanie alzò le spalle. Quando aveva in mente un obiettivo, poteva ignorarla completamente, proprio come stava facendo in quel momento. Ma lei non se la sarebbe presa. Lo conosceva troppo bene. Daniel salì le scale due gradini alla volta, concentrato sui preparativi per il viaggio: appena in casa avrebbe telefonato alle linee aeree per prenotare i voli, prevedendo un solo pernottamento a Torino; poi avrebbe chiamato la Wingate e doveva ricordarsi di farsi dare da Spencer le istruzioni su come inviare il denaro a Nassau. Raggiunse il pianerottolo del secondo piano e si fermò ad armeggiare con le chiavi. In quel momento si accorse che la porta del suo appartamento era leggermente socchiusa. Per la frazione di un secondo cercò di ricordare chi fosse uscito per ultimo quella mattina, se lui o Stephanie. Poi si ricordò di essere stato lui, infatti era dovuto tornare indietro a prendere il portafogli, ed era sicurissimo di aver chiuso a chiave, usando quella di sicurezza. Il suono del portoncino di ingresso che si apriva e si richiudeva salì per il pozzo delle scale, assieme ai passi di Stephanie su per gli scalini vecchi e scricchiolanti. Per il resto, la casa era silenziosa. Gli inquilini del piano terra erano in vacanza ai Caraibi e quello del primo piano non era mai a casa durante il giorno. Era un matematico che praticamente viveva al centro di calcolo del MIT e tornava a casa solo a dormire. Daniel aprì con cautela la porta, per avere una visione progressivamente più ampia dell'ingresso. Adesso riusciva a vedere lungo il corridoio, fin nel soggiorno. Con il sole che aveva quasi raggiunto l'orizzonte, l'appartamen-
to era immerso nell'ombra. All'improvviso vide il raggio di una torcia elettrica guizzare un attimo sulla parete del soggiorno. Contemporaneamente, udì chiudersi con un tonfo un cassetto dello schedario. «Chi diavolo c'è?» gridò con quanto fiato aveva in gola. Era indignato che un intruso fosse penetrato a casa sua, ma non era avventato. Anche se era evidente che lo sconosciuto era entrato dalla porta, Danel era sicuro che avesse ispezionato l'appartamento e sapesse dell'uscita posteriore che dallo studio dava sulla scala antincendio. Mentre estraeva di tasca il cellulare per chiamare il 911, si aspettava che lo scassinatore corresse in quella direzione. Rimase invece scioccato nel vederselo davanti, che lo accecava con il fascio di luce. Daniel cercò di ripararsi gli occhi con la mano e, pur non riuscendoci del tutto, poté scorgere un uomo venirgli incontro a una velocità mozzafiato. Prima di poter reagire, fu spinto malamente da una parte da una mano guantata, con tale forza da farlo letteralmente rimbalzare contro la parete. Gli risonarono le orecchie per il colpo. Prima di riprendere l'equilibrio, notò che l'uomo era di corporatura robusta ed era tutto vestito di nero, con abiti aderenti, compreso un passamontagna. In un attimo era fuori e scendeva le scale con passi silenziosi. Dopo un grido di Stephanie, si udì il portone aprirsi di botto e poi richiudersi sbattendo forte. Daniel si precipitò alla balaustra e guardò giù. Sul pianerottolo inferiore, Stephanie era addossata alla porta del matematico, il portatile tenuto stretto contro il petto con entrambe le mani. Era pallidissima. «Stai bene?» le domandò. «Chi diavolo era?» «Un maledetto scassinatore.» Daniel si voltò ed esaminò la porta, mentre Stephanie saliva l'ultima rampa di scale e gli arrivava accanto. «Per lo meno non ha rotto la porta», commentò Daniel. «Deve aver avuto una chiave.» «Sei sicuro che era chiusa?» «Assolutamente. Mi ricordo di aver chiuso dopo che ero tornato a prendere il portafogli.» «Chi altri ha una chiave?» «Nessuno. Ce ne sono solo due. Sono quelle che ho fatto quando ho comperato questo posto e ho cambiato la serratura.» «Deve aver scassinato la serratura.» «Se l'ha fatto, dev'essere un professionista. Ma per quale astrusa ragione uno scassinatore professionista avrebbe dovuto fare irruzione nel mio ap-
partamento? Non ho niente di prezioso.» «Oh, no!» esclamò Stephanie. «Ho lasciato tutti i miei gioielli in cima al cassettone, compreso l'orologio di diamanti di mia madre.» Passò davanti a Daniel e si diresse in camera da letto. Lui la seguì per il corridoio. «Questo mi ricorda che sono stato talmente stupido da lasciare sulla scrivania tutti i soldi prelevati ieri sera al bancomat.» Si affacciò nello studio e fu sorpreso nel vedere che i soldi erano esattamente dove li aveva lasciati, al centro del tampone di carta assorbente. Li prese e, nel farlo, si accorse che tutto il resto sulla scrivania era stato spostato. Sapeva di non essere la persona più ordinata del mondo, ma era molto bene organizzato. Poteva tenere sul ripiano pile di corrispondenza, bollette e riviste scientifiche, ma sapeva la loro esatta posizione, se non l'ordine all'interno di ogni mucchio. Spostò lo sguardo sullo schedario a quattro cassetti. Anche le fotocopie degli articoli che vi aveva appoggiato sopra in attesa di archiviarle erano state spostate. Non di tanto, ma la loro posizione non era più la stessa. Sulla soglia comparve Stephanie. Sospirò di sollievo. «Dobbiamo essere arrivati appena in tempo. A quanto pare, non era ancora entrato in camera da letto. Tutta la mia roba è ancora dove l'ho lasciata ieri sera.» Daniel sollevò la pila di bollette. «Non ha preso nemmeno i soldi, e qua dentro c'è stato di sicuro.» Stephanie emise una risata forzata. «Che razza di ladro era?» «Io non lo trovo affatto divertente», osservò Daniel, e cominciò ad aprire a uno a uno i cassetti della scrivania e dello schedario per controllarne il contenuto. «Non sto dicendo che io lo trovo divertente», ribatté Stephanie. «Sto cercando di fare dell'umorismo per mitigare i miei veri sentimenti.» Daniel sollevò lo sguardo. «Di cosa stai parlando?» Lei scosse la testa e buttò fuori l'aria con forza. Doveva lottare per non piangere. Stava tremando. «Sono sconvolta. Ciò che è accaduto mi turba. Mi sento violata nella nostra privacy. Questo sottolinea la realtà che viviamo sempre in pericolo, anche quando non lo sappiamo.» «Anch'io sono turbato. Ma non in senso filosofico. Sono turbato perché c'è qualcosa che non capisco. Mi sembra chiaro che questo non era un ladro qualsiasi. Cercava qualcosa di specifico e non ho idea di cosa possa essere. È inquietante.» «Non pensi semplicemente che siamo rientrati prima che avesse la pos-
sibilità di prendere qualcosa?» «È stato qui per un po', sicuramente abbastanza a lungo da prendere qualcosa di valore, se fosse stato ciò che voleva. Ha avuto il tempo di passare in rassegna la scrivania e forse anche lo schedario.» «Come fai a dirlo?» «Lo so grazie al mio modo abitudinario di mettere via le cose. Questo era un professionista, e cercava qualcosa di specifico.» «Intendi qualcosa come la proprietà intellettuale, magari associata alla ROTS?» «Possibile, ma ne dubito. È tutto coperto da brevetto. Inoltre, avrebbe cercato in ufficio, non qui.» «Allora che altro?» Daniel si strinse nelle spalle. «Non lo so.» «Hai chiamato la polizia?» «Stavo chiamandola, ma è stato quando mi è venuto addosso. Adesso non sono sicuro che dovremmo farlo.» «Perché?» Stephanie era sorpresa. «Che cosa potrebbero fare? Il tizio se n'è andato da un bel po'. Non sembra che ci manchi niente, quindi non ci sono questioni di assicurazione e poi non sono certo di aver voglia che mi sparino un sacco di domande su che cosa stiamo facendo ultimamente. Per di più, domani sera partiamo e non voglio mandare all'aria niente.» «Aspetta un momento!» esclamò Stephanie all'improvviso. «E se questo episodio avesse a che fare con Butler?» Daniel la fissò. «Come e perché dovrebbe c'entrare con Butler?» Stephanie restituì il suo sguardo. Il compressore del frigorifero si mise in moto e il suo ronzio ruppe il silenzio. «Non lo so», mormorò infine. «Pensavo solo ai suoi legami con l'FBI e al fatto che ha svolto indagini su di te, in un modo o nell'altro. Forse non sono finite.» Daniel annuì, prendendo in considerazione quell'ipotesi e rendendosi conto che non era da scartare, nonostante fosse strampalata. Dopotutto, anche l'incontro clandestino con Butler, due sere prima, era stato altrettanto bizzarro. «Cerchiamo di dimenticare questo incidente, per il momento», propose. «Abbiamo un sacco di preparativi da fare. Cominciamo!» «D'accordo.» Stephanie cercò di essere forte. «Magari concentrarmi sui bagagli mi rilasserà. Ma prima penso che dovremmo chiamare Peter nel
caso che il ladro abbia intenzione di penetrare anche nell'ufficio.» «Buona idea», approvò Daniel. «Però non gli diremo di Butler. Voglio dire, tu non gli hai detto niente, vero?» «No, assolutamente.» «Bene!» disse Daniel, e prese il telefono. 10 Domenica 24 febbraio 2002 - ore 11.45 Per quanto Stephanie fosse abituata al clima mutevole del New England, era sorpresa per come quella domenica si era annunciata mite e bellissima. Nonostante il sole invernale fosse pallido, l'aria era tiepida e gli uccelli cinguettavano ovunque, come se la primavera fosse appena dietro l'angolo. Una bella differenza dalla sera di venerdì, quando era tornata a casa a piedi infreddolita e la neve aveva lasciato una spolverata sul terreno. Aveva parcheggiato l'auto di Daniel a Government Square e si era diretta a piedi verso il North End, uno dei quartieri più pittoreschi di Boston. Era un dedalo di viuzze fiancheggiate da case di mattoni non più alte di tre o quattro piani. Gli immigranti provenienti dall'Italia meridionale avevano adottato quella zona nel diciannovesimo secolo, trasformandola in una specie di Little Italy, completa delle scenette e degli odori tipici. Sulla strada c'era sempre gente impegnata in animate conversazioni e l'aroma dei ragù che cuocevano lentamente permeava l'aria. Quando non era tempo di scuola, c'erano bambini ovunque. Tutto le era familiare, mentre scendeva lungo Hanover Street, la strada commerciale che divideva in due il quartiere. Nell'insieme, quella comunità era stata per lei un ambiente gradevole in cui crescere, dove i rapporti sociali erano facili e si sentiva protetta. Gli unici problemi erano quelli che aveva ammesso di recente con Daniel. Quella conversazione aveva rinnovato in lei sentimenti e pensieri che aveva scacciato da tempo, come pure l'imputazione di Anthony. Si fermò davanti al Caffè Posillipo. Faceva parte delle proprietà della sua famiglia e offriva pasticceria e gelati italiani, oltre all'espresso e al cappuccino. Dalla porta aperta usciva un miscuglio di conversazioni e risate, accompagnate dal sìbilo della macchina per fare l'espresso, e fluiva anche l'aroma del caffè macinato di fresco. In quel locale con una parete completamente ricoperta da un murale molto kitsch, riproducente il Vesu-
vio e la Baia di Napoli, aveva trascorso molte ore piacevoli a godersi i cannoli, il gelato e la compagnia dei suoi amici. Ora, però, le sembrava che fosse passato un secolo. Mentre rimaneva sul marciapiede e guardava dentro, si rese conto di quanto si sentisse ormai separata dall'infanzia e dalla famiglia, tranne forse dalla madre a cui telefonava di frequente. Se si escludeva Carlo, il fratello minore, che aveva scelto il sacerdozio (scelta che non riusciva a capire), lei era stata l'unico membro della famiglia ad andare al college e addirittura a prendere il dottorato. E quasi tutte le sue compagne di scuola delle elementari e delle medie, anche quelle che avevano fatto le superiori, al momento vivevano in quello stesso quartiere oppure nei sobborghi di Boston, dove avevano una casa, un marito, dei figli, un fuoristrada. Stephanie invece conviveva con un uomo che aveva sedici anni più di lei, assieme al quale stava lottando per tenere a galla una società biotech, curando segretamente un senatore con una terapia sperimentale, non ancora approvata dalle autorità competenti, ma molto promettente. Riprendendo a camminare, rimuginò su quanto fosse lontana dalla vita di prima e su come tale distanza non la disturbasse. Probabilmente era una reazione naturale al disagio causato dagli affari di suo padre e dal conseguente ruolo di tutta la famiglia nella comunità. Si chiese se la sua vita avrebbe preso una strada diversa, nel caso suo padre si fosse reso emotivamente più disponibile. Da bambina aveva cercato di infrangere la barriera di egocentrico sciovinismo maschile che lui aveva eretto, ma inutilmente. Quello sforzo vano, reso ancora più arduo dall'impegno con cui lui si immergeva nei propri affari, quali che fossero, aveva finito con il far nascere in Stephanie una forte propensione all'indipendenza, che l'aveva portata dove si trovava ora. Si fermò, assalita da un pensiero curioso: suo padre e Daniel avevano alcune cose in comune, nonostante le enormi e ovvie differenze. Entrambi erano egocentrici, entrambi in certe situazioni erano sfrontati fino al punto da essere considerati asociali ed entrambi erano molto competitivi. Per di più, Daniel era egualmente sciovinista, anche se non nei confronti delle donne ma piuttosto verso chi esprimeva idee diverse dalle sue. Stephanie rise fra sé e si chiese come mai quell'idea non le era mai balenata prima, dato che anche Daniel, quando era assorbito dalle sue preoccupazioni, diventava emotivamente poco disponibile. Ultimamente era accaduto spesso, con le difficoltà finanziarie della CURE. Anche se la psicologia non era il suo forte, si chiese se quelle somiglianze avessero qualcosa a che fare con
l'attrazione che aveva provato fin dall'inizio per lui. Ricominciando a camminare, si ripromise di approfondire la questione quando avesse avuto più tempo. Adesso era troppo impegnata con la partenza per Torino, programmata per quella sera. Si era alzata all'alba per finire di fare i bagagli, poi aveva trascorso buona parte della mattinata al laboratorio, con Peter, descrivendogli esattamente che cosa doveva fare con la coltura di Butler. Per fortuna, le cellule si stavano comportando in modo encomiabile. Aveva dato alla coltura il nome di John Smith, prendendo spunto dalla conversazione di Daniel con Spencer Wingate. Se Peter si poneva qualche domanda sul lungo soggiorno a Nassau e sul perché avrebbe dovuto spedire laggiù un po' di cellule di John Smith, non ne aveva parlato. Stephanie svoltò a sinistra su Prince Street e accelerò il passo. Quella zona le era ancora più familiare, soprattutto quando passò davanti alla sua vecchia scuola. La casa dove aveva trascorso l'infanzia, e dove ancora vivevano i suoi genitori, era a mezzo isolato oltre la scuola, sulla destra. Il North End era una comunità sicura, grazie alla informale «guardia del quartiere». C'erano sempre in vista sei o sette persone che avevano la passione di sapere ciò che facevano tutti gli altri. Il lato negativo, per un bambino, era che non si poteva mai passarla liscia, ma al momento Stephanie apprezzava il senso di sicurezza che ne derivava. Daniel sembrava essersi ripreso dall'incursione del ladro e aveva liquidato l'episodio come non importante, ma lei non lo aveva superato, per lo meno non del tutto, e tornare nel vecchio ambiente era rassicurante. Fermandosi di fronte alla sua vecchia casa, osservò la finta pietra grigia che ricopriva i mattoni al piano terreno, la tettoia in alluminio rosso con il bordo festonato che riparava la porta d'ingresso e la nicchia che ospitava la statua in gesso di un santo dai colori sgargianti. Sorrise pensando a quanto ci aveva messo a rendersi conto che quelle decorazioni erano pacchiane. Prima non le notava nemmeno. Anche se aveva la chiave, bussò e attese. Aveva telefonato dall'ufficio per avvertire che sarebbe passata, quindi per i suoi non sarebbe stata una sorpresa. Un attimo dopo la porta si aprì e comparve la figura minuta di sua madre, Thea, che l'accolse a braccia aperte. Il nonno di Thea era greco e questo aveva influito nel corso degli anni sulla scelta dei nomi femminili, compreso quello di Stephanie. «Devi aver fame», disse subito Thea, tirandosi indietro per guardare la figlia. Con lei, il cibo era sempre argomento di discussione.
«Potrei mangiare un sandwich», rispose Stephanie, sapendo che sarebbe stato impossibile rifiutare del tutto. Seguì la madre in cucina, odorosa di cibi in preparazione. «Che profumino!» «Sto facendo l'arrosto, è il piatto preferito di tuo padre. Perché non rimani a pranzo? Mangeremo verso le due.» «Non posso, mamma.» «Va' a salutare papà.» Stephanie si affacciò obbediente nel soggiorno, adiacente alla cucina. La stanza non era cambiata di una virgola rispetto ai suoi ricordi della prima infanzia. Come al solito, prima del pranzo domenicale, suo padre scompariva dietro il giornale che teneva stretto nelle mani grassocce. Un portacenere colmo fino all'orlo era posato su un bracciolo della poltrona. «Ciao, papà!» salutò in tono allegro. Anthony D'Agostino Sr abbassò il quotidiano e scrutò la figlia al di sopra delle lenti da lettura, gli occhi leggermente acquosi. Gli gravava attorno un alone di fumo, come fitto smog. In gioventù era stato un tipo atletico, ma adesso era l'immagine dell'immobilità. Nell'ultima decina d'anni era aumentato di peso, nonostante gli avvertimenti dei medici e l'attacco di cuore di tre anni prima. Mentre Thea dimagriva costantemente, a lui accadeva il contrario. «Non voglio che metti in agitazione tua madre, mi hai sentito? Negli ultimi giorni è stata bene.» «Farò del mio meglio», assicurò lei. Anthony sollevò di nuovo il giornale. Una lunga conversazione, pensò Stephanie, mentre alzava le spalle e levava gli occhi al cielo. Tornò in cucina, dove Thea aveva tirato fuori formaggio, pane, prosciutto di Parma e frutta. La osservò mentre si indaffarava per lei. Dall'ultima volta che l'aveva vista era dimagrita ancora, e non era un buon segno. Le ossa delle mani e del viso erano quasi visibili. Due anni prima le avevano diagnosticato un cancro al seno. In seguito all'asportazione chirurgica e alla chemioterapia era stata bene fino a tre mesi prima, quando le avevano trovato un tumore ai polmoni. La prognosi non era buona. Stephanie si sedette e si preparò un panino. Intanto sua madre fece il tè, poi si sedette dirimpetto a lei. «Perché non puoi rimanere a pranzo?» le chiese. «Viene tuo fratello maggiore.» «Con moglie e figli o senza?» «Senza. Lui e tuo padre devono parlare di affari.»
«Questo mi suona familiare.» «Perché non rimani? Non ti vediamo quasi mai.» «Vorrei, ma non posso. Stasera vado via per un mese circa, ecco perché ci tenevo a vederti. Ho ancora un sacco di preparativi da sbrigare.» «Vai con quell'uomo?» «Si chiama Daniel. Sì, andiamo insieme.» «Non dovresti vivere con lui. Non va bene. E poi è troppo vecchio. Dovresti sposarti con un bravo ragazzo che non abbia tutta quella differenza d'età. Non sei più tanto giovane.» «Mamma, ne abbiamo già parlato.» «Ascolta tua madre», tuonò Anthony dal soggiorno. «Lei sa di cosa sta parlando.» Stephanie si trattenne dal rispondere. «Dove andate?» «Soprattutto a Nassau, nelle Bahamas. Prima dovremo passare da un'altra parte, ma solo per un giorno o due.» «È una vacanza?» «No.» Stephanie si limitò a spiegare che il viaggio aveva a che fare con il lavoro, ma non entrò nei dettagli, né sua madre glieli chiese, anche perché lei riuscì abilmente a portare la conversazione sui nipoti. Erano l'argomento favorito di Thea. Un'ora dopo, proprio mentre Stephanie stava per andarsene, arrivò Anthony Jr. «Le meraviglie non finiranno mai, dunque!» esclamò Tony con finta sorpresa, nel vedere la sorella. Aveva uno spiccato accento da classe operaia, che sembrava enfatizzare consapevolmente. «L'altezzosa dottoressa di Harvard che ha deciso di far visita a noi, povere nullità.» Stephanie lo guardò sorridendo e si trattenne dal replicare, come aveva fatto poco prima con il padre. Aveva imparato da tempo a non accettare le sue provocazioni. Tony aveva sempre deriso la sua istruzione, come il padre, ma non proprio per lo stesso motivo. Con Tony, Stephanie sospettava che ci fosse di mezzo l'invidia, dato che lui era riuscito a finire le superiori con difficoltà. Il problema di suo fratello da adolescente non era stato la mancanza di intelligenza, ma di motivazione. Da adulto gli piaceva fingere che non gli importava di non aver fatto il college, ma lei sapeva che non era così. «La mamma dice che tuo figlio si sta rivelando un bravo giocatore di
hockey», disse, per cercare di sviare la conversazione da quell'argomento insidioso. Tony aveva un maschio di dodici anni e una femmina di dieci. «Sì, buon sangue non mente.» Tony aveva la stessa carnagione di Stephanie e più o meno la stessa altezza, ma la sua struttura era più tozza, con il collo taurino e le mani larghe, come il padre. E, come lui, secondo Stephanie aveva lo stesso atteggiamento sciovinista e maschilista che la faceva sentire dispiaciuta per la cognata e in pena per la nipote. Tony baciò la madre su tutte e due le guance, prima di entrare nel soggiorno. Stephanie udì il fruscio del giornale che veniva messo da parte, il suono delle mani che sbattevano fra loro in quella che doveva essere una vigorosa stretta di mano, e uno scambio di «Come stai? Benissimo, e tu?» Quando la conversazione si spostò sullo sport, toccando le varie squadre di Boston, smise di ascoltare. «Devo andare, mamma», annunciò. «Perché non rimani? Il pranzo sarà in tavola in un minuto.» «Non posso.» «Papà e Tony sentiranno la tua mancanza.» «Oh, sì, certo!» «Ti vogliono bene, a modo loro.» «Ne sono certa», replicò Stephanie con un sorriso. Il fatto era che ci credeva davvero. Allungò una mano a stringere il polso di Thea. Lo sentì tanto fragile quasi che, se avesse premuto troppo forte, l'osso si potesse spezzare. Spinse indietro la sedia e si alzò. Sua madre fece altrettanto e si abbracciarono. «Chiamerò dalle Bahamas appena mi sarò sistemata e ti darò i dettagli di dove stiamo e il numero di telefono.» Le diede un bacetto sulla guance, prima di affacciarsi di nuovo nel soggiorno. Il fumo di sigarette era più fitto di prima, dato che i due uomini fumavano entrambi. «Arrivederci, sto andando via.» Tony la guardò. «Come? Te ne vai già?» «Parte per un viaggio di un mese», spiegò Thea, affacciandosi anche lei nella stanza. «Deve prepararsi.» «No!» esclamò Tony. «Non puoi andar via! Non ancora. Devo parlarti. Stavo per telefonarti, ma dato che sei qui, di persona è meglio.» «Allora è meglio che vieni qua subito», disse lei. «Devo veramente andar via.» «Aspetterai finché abbiamo finito», intervenne Anthony. «Tony e io
stiamo parlando di affari.» «Va bene così, papà.» Tony strinse un ginocchio al padre e si alzò. «Quello che devo dire a Steph non richiederà tanto tempo.» Anthony brontolò e riprese in mano il giornale. Tony tornò in cucina, si stravaccò su una sedia e fece segno alla sorella di sedersi anche lei. Stephanie esitò un attimo. Tony aveva assunto atteggiamenti sempre più perentori, identificandosi con il padre, ed era una cosa irritante. Per evitare di farne una questione, Stephanie sedette, ma gli disse di sbrigarsi. Gli chiese anche di spegnere la sigaretta, cosa che lui fece malvolentieri. «Il motivo per cui ti volevo telefonare», cominciò Tony, «è che Mikey Gualario, il mio contabile, mi ha riferito che la CURE sta per affondare. Io gli ho detto che è impossibile, perché la mia sorellina mi avrebbe informato. Ma lui dice che lo ha letto sul Globe. È vero?» «Abbiamo delle difficoltà economiche», ammise Stephanie. «Un problema politico sta ostacolando la seconda fase di finanziamenti.» «Allora il Globe non se lo è inventato?» «Io non ho letto l'articolo, ma come dicevo siamo in una situazione difficile.» Tony corrugò il viso come se fosse immerso nei pensieri. Annuì diverse volte. «Be', non è una gran bella notizia. Immagino capirai che mi preoccupo per il prestito di duecentomila dollari.» «Correzione! Non era un prestito. Era un investimento.» «Aspetta un minuto! Sei venuta da me a piangere che avevate bisogno di soldi.» «Altra correzione! Ho detto che dovevamo raccogliere denaro e di certo non stavo piangendo.» «Già, be', dicevi che era una cosa sicura.» «Ho detto che lo ritenevo un buon investimento, poiché si basava su una brillante procedura scoperta di recente e già brevettata, che promette di essere una manna per la medicina. Ma ti ho avvertito che non era esente da rischi e ti ho dato il prospetto. Lo hai letto?» «No che non l'ho letto. Io non la capisco quella merda. Ma se l'investimento era tanto buono, qual è il problema?» «È accaduta una cosa che nessuno si aspettava: c'è la possibilità che il Congresso approvi una legge contro la procedura. Ma ti posso assicurare che ci stiamo lavorando e penso che abbiamo le cose sotto controllo. Tutta la faccenda è stata un fulmine a ciel sereno per noi, e la prova è che sia io
sia Daniel abbiamo investito ogni centesimo che avevamo nella società, e Daniel ha ipotecato casa sua. Mi spiace che al momento l'investimento non sembri tanto solido. E mi spiace che abbiamo preso il tuo denaro.» «Spiace anche a me!» «Che cosa succederà per la denuncia contro di te?» Tony agitò una mano per aria, come per scacciare una mosca. «Niente. Sono un mucchio di sciocchezze. Il procuratore distrettuale sta solo cercando di farsi pubblicità per essere rieletto. Ma non cambiamo argomento. Hai detto che pensate di avere sotto controllo questo problema politico.» «Riteniamo di sì.» «E questo ha qualcosa a che fare con il viaggio di un mese che stai per fare?» «Sì, ma non posso rivelarti i dettagli.» «Oh, davvero?» Chiese Tony con sarcasmo. «Ci ho messo dentro duecento bigliettoni e tu non puoi rivelarmi i dettagli. C'è qualcosa che non quadra.» «Se divulgassi ciò che stiamo facendo, potrebbe metterne a rischio l'efficacia.» «Divulgare, mettere a rischio, efficacia!» Tony accompagnò le parole con una mimica dispregiativa. «Dammi un'idea! Spero non crederai che mi accontenterò di una manciata di parole. Assolutamente no! Allora, dove vai, a Washington?» «Va a Nassau», intervenne Thea all'improvviso dall'angolo vicino ai fornelli dov'era rimasta fino allora. «E non essere cattivo con tua sorella, hai capito?» Tony si raddrizzò sulla sedia, lasciando penzolare le mani ai due lati, come fossero prive di vita. Era rimasto a bocca aperta. «Nassau!» gridò. «La cosa si fa sempre più folle. Se la CURE sta per affondare a causa di un siluro politico, non pensi che dovreste rimanere nei paraggi e fare qualcosa?» «È per questo che andiamo a Nassau», rispose Stephanie. «Ah! Quello che pare a me è che questo tuo cosiddetto boyfriend ha in mente di fare un imbroglio.» «Questo non potrebbe essere più lontano dalla verità. Tony, vorrei poterti dire di più, ma non posso. Spero che fra un mese tutto sarà tornato in carreggiata e allora saremo felici di considerare il tuo denaro un prestito e te lo restituiremo con gli interessi.» «Cercherò di ricordare di non trattenere il fiato», ringhiò Tony. «Tu non
puoi dirmi di più, ma io posso dirti una cosa. Quei duecentomila non erano tutti miei.» «No?» Stephanie intuì che quella sgradevole conversazione stava per peggiorare ancora di più. «Lo avevi dipinto come un affare talmente facile che ho pensato di condividerlo con qualcun altro. Metà dei soldi è dei fratelli Castigliano.» «Non me lo avevi mai detto!» «Te lo dico adesso.» «Chi sono i fratelli Castigliano?» «Soci d'affari. E ti dirò qualche altra cosa. Non gli piacerà sentire che il loro prestito taglia la corda. Non ci sono abituati. In qualità di fratello, ti devo dire che non è una buona idea andare alle Bahamas.» «Ma dobbiamo farlo!» «Lo hai già detto, però non mi hai spiegato il perché. E questo mi costringe a ripetermi: tu e il tuo boyfriend di Harvard fareste meglio a rimanere qua a badare alla bottega, perché sembra che avete l'intenzione di crogiolarvi al sole con i nostri soldi, mentre noi ci geliamo il culo qui a Boston.» «Tony», replicò Stephanie con il tono più calmo e più rassicurante che le riuscì. «Noi andremo a Nassau, e affronteremo questo deplorevole problema.» Tony sollevò le mani per aria, i palmi in su. «Io ci ho provato! Lo sa Dio che ci ho provato!» Grazie al servosterzo, a Tony bastava l'indice destro per far girare il volante della sua Cadillac DeVille nera. Con una sera così mite, teneva il finestrino abbassato e la mano sinistra ciondoloni fuori, con una sigaretta fra le dita. Il tipico scricchiolio delle ruote sulla ghiaia coprì quasi il suono della radio, mentre entrava nel parcheggio della ditta Forniture Idrauliche Fratelli Castigliano. L'edificio grigio in blocchetti di cemento era a un solo piano e aveva il tetto piatto; si stagliava contro il tratto di costa fangosa che durante l'alta marea veniva ricoperta completamente dal mare. Tony si fermò vicino a tre veicoli simili al suo, tutti e tre Cadillac nere. Gettò la sigaretta su una pila di lavelli arrugginiti e spense il motore. Mentre scendeva dall'auto, fu assalito dall'odore penetrante dell'acquitrino salato. Non era gradevole. Con l'avvicinarsi della sera, il vento era cambiato e spirava verso est. La facciata dell'edificio aveva bisogno di essere ridipinta. Oltre al nome
della ditta, scritto a lettere maiuscole, sul muro c'era una profusione di graffiti. La porta non era chiusa a chiave e Tony entrò senza bussare, com'era sua abitudine. In mezzo alla stanza c'era un bancone, dietro il quale si innalzavano fino al soffitto scaffali contenenti materiale idraulico. Non si vedeva nessuno. Da una radio appoggiata sul bancone si diffondeva musica degli anni Cinquanta. Girò attorno al bancone e percorse la corsia centrale, in fondo alla quale aprì un'altra porta. Dava in un ufficio che, in contrasto con il magazzino, era relativamente lussuoso, con un divano in pelle, due scrivanie e un tappeto orientale, per quanto logoro. Attraverso i riquadri delle piccole finestre si vedeva il terreno fangoso circondato da piante simili a canne e cosparso di copertoni e detriti. Nella stanza c'erano tre uomini. Due erano seduti alle scrivanie, e fu a loro che Tony strinse la mano per primi, un terzo stava sul divano. Dopo aver salutato, si sedette anche lui. I due uomini alle scrivanie erano i fratelli Castigliano. Erano gemelli e si chiamavano Sal e Lou. Tony li conosceva fin dalla terza elementare, ma solo di nome e non erano amici. Alle superiori, ragazzotti allampanati e brufolosi, venivano canzonati senza pietà e adesso che erano adulti non erano migliorati affatto, con quelle guance incavate, da cadavere, e gli occhi infossati. L'uomo sul divano, accanto al quale si era accomodato Tony, era Gaetano Barrese. Aveva la sua stessa corporatura, ma era un po' più largo e con i lineamenti più marcati. Normalmente era lui a stare al banco. Come lavoro collaterale faceva lo scagnozzo dei gemelli. Molti pensavano che se lo tenevano vicino per compensare tutti gli affronti ricevuti a scuola, ma Tony sapeva che non era così. La presenza intimidatoria di Gaetano era necessaria di tanto in tanto per le altre attività dei gemelli, alcune legali, altre un po' meno: proprio le attività grazie alle quali Tony aveva approfondito la conoscenza con loro. «Come prima cosa», esordì lui, «vi ringrazio per essere venuti di domenica.» «Non c'è problema», gli assicurò Sal. «Spero che non ti spiace se abbiamo invitato Gaetano.» «Quando hai telefonato dicendo che c'erano dei guai, abbiamo pensato che doveva esserci anche lui», spiegò Lou. «Nessun problema. Vorrei solo che avessimo potuto fare prima questo incontro.» «Abbiamo fatto meglio che abbiamo potuto», dichiarò Sal.
«La batteria del mio cellulare era scarica», si scusò Gateano. «Ero a casa di mia cognata a giocare a biliardo. Hanno fatto fatica a trovarmi.» Tony si accese una sigaretta e passò il pacchetto agli altri. Tutti si servirono. Dopo aver dato qualche tiro, mise giù la sigaretta. Aveva bisogno di tenere le mani libere, per gesticolare. A questo punto raccontò ai fratelli Castigliano parola per parola, così come se la ricordava, la conversazione con Stephanie. Non lasciò fuori niente e parlò senza mezzi termini. La sua opinione e quella del suo contabile, disse, era che la società di Stephanie stava andando gambe all'aria. A mano a mano che parlava, i gemelli si agitavano sempre di più. Sal, che giocherellava con un fermaglio per fogli di carta, aprendolo e richiudendolo, finì per spezzarlo in due. Lou schiacciò incollerito la sigaretta fumata solo a metà. «Non posso crederci!» esclamò Sal quando Tony ebbe concluso. «Tua sorella è sposata con 'sto deficiente?» volle sapere Lou. «No, vivono insieme.» «Be', ti dirò: non ce ne staremo seduti a far niente mentre 'sto bastardo si diverte al sole», sbraitò Sal. «Manco per niente!» «Dobbiamo fargli sapere che la cosa non ci piace», rincarò la dose Sal. «O smuove il culo e ritorna qui a sistemare le cose, oppure... Capito, Gaetano?» «Sì, certo. Quando?» Lou guardò Sal. Sal guardò Tony. «Oggi è troppo tardi», disse lui. «È per questo che avrei voluto vedervi prima. Sono in viaggio da qualche parte, prima di andare a Nassau. Ma mia sorella chiamerà nostra madre quando si sarà sistemata alle Bahamas.» «Ce lo farai sapere?» domandò Sal. «Sì, certo, ma il patto è: lasciate fuori mia sorella.» «Lo scazzo non è con lei», gli assicurò Lou. «Almeno, non penso.» «No, fidati! Non voglio che ci si faccia cattivo sangue tra noi.» «Lo scazzo è con lui», decretò Sal. Lou guardò Gaetano. «Mi sa che andrai a Nassau.» Gaetano fece crocchiare con la sinistra le nocche della destra. «A me va bene!» 11
Lunedì 25 febbraio 2002 - ore 7.00 «Stephanie!» chiamò a bassa voce Daniel, scuotendola delicatamente. «Stanno per servire la colazione. La vuoi, o preferisci dormire fin quando atterriamo?» Lei si sforzò di aprire gli occhi, poi se li strofinò e sbadigliò allo stesso tempo. Dovette sbattere diverse volte le palpebre prima di vedere qualcosa. Gli occhi risentivano della mancanza di umidità all'interno dell'aereo. «Dove siamo?» domandò con la voce rauca. Anche la gola era secca. Si tirò su a sedere e si stirò, poi si chinò a guardare dal finestrino. Lungo la linea dell'orizzonte si notava un accenno dell'alba, ma sotto di loro c'era soltanto l'oscurità, costellata qua e là dalle luci di città e paesi. «Dovremmo essere da qualche parte sopra la Francia», rispose Daniel. Nonostante avessero cercato di non ritrovarsi trafelati all'ultimo minuto, la sera prima era stata tutta una corsa ansiosa per uscire dall'appartamento di Daniel, arrivare al Logan e passare i controlli della sicurezza. Si erano presentati al cancello pochi minuti prima del volo. Grazie al denaro di Butler, stavano viaggiando con l'Alitalia in classe Magnifica, seduti nei primi due posti sul lato sinistro del Boeing 767. Stephanie sollevò lo schienale, che era reclinato. «Come mai sei così sveglio? Non hai dormito?» «Nemmeno un po'», ammise Daniel. «Mi sono messo a leggere quei tuoi libri sulla Sindone, in particolare quello di Ian Wilson. Capisco perché ti sei lasciata ammaliare. È materiale affascinante.» «Devi essere esausto.» «No. Leggere quella roba mi ha dato energia. Adesso sono ancora più deciso a curare Butler usando i frammenti di DNA della Sindone. Anzi, mi è anche venuto in mente, che, dopo aver finito con Butler, potremmo continuare e curare qualche altra persona famosa con la stessa fonte di DNA, all'estero però, qualcuno che non tema la pubblicità. Una volta che la storia della cura arriverà ai media, nessun politico oserebbe interferire, e ancor meglio, la FDA sarebbe costretta a cambiare il suo protocollo di approvazione della cura.» «Ehi! Non mettiamo il carro davanti ai buoi! Per il momento dobbiamo concentrarci su Butler. La sua cura non è una cosa scontata.» «Non pensi che sia una buona idea curare un'altra celebrità?» «Dovrei pensarci, per dare una risposta intelligente.» Stephanie cercava di essere diplomatica. «Adesso ho la mente un po' confusa. Dovrei andare
alla toletta, e poi voglio far colazione. Muoio di fame. Quando la mia mente funzionerà a pieno ritmo, voglio sentire che cosa hai letto sulla Sindone, in particolare se hai un'ipotesi di come si sia formata l'impronta.» Meno di un'ora dopo atterrarono a Fiumicino. Assieme a una folla di passeggeri in arrivo nello stesso momento da altri scali internazionali, passarono attraverso il controllo passaporti e arrivarono al cancello della coincidenza per Torino. Nel bar lì accanto Daniel si concesse un vero espresso italiano. Su quel tragitto non c'era la classe Magnifica e si ritrovarono in un abitacolo stretto, pieno di uomini d'affari. Stephanie era nel sedile di mezzo e Daniel verso il corridoio, a metà dell'aereo. «Comodo!» si lagnò Daniel, le cui ginocchia erano premute contro il sedile davanti. «Come ti senti, adesso? Sei stanco?» «No, soprattutto non dopo che mi sono sparato quel caffè concentrato.» «Allora parlami del sudario! Sono tutt'orecchi.» A causa della lunga coda per la toletta, sull'aereo precedente, non avevano ancora avuto il tempo di parlarne. «Be', come prima cosa, non ho teorie su come si sia formata l'effigie. È decisamente un mistero intrigante, su questo concordo, e sono rimasto colpito in particolare dal modo poetico in cui Wilson l'ha descritta, come 'un negativo fotografico che rimane latente come una capsula del tempo fino al momento dell'invenzione della fotografia'. Ma l'idea che l'impronta sia una prova della resurrezione, come suggerisci anche tu, non me la bevo. Manca di ragionamento scientifico. Non puoi presupporre un processo di dematerializzazione ignoto e non verificabile per spiegare un fenomeno sconosciuto.» «E i buchi neri?» «Di cosa stai parlando?» «I buchi neri sono stati ipotizzati per spiegare un fenomeno sconosciuto, e i buchi neri non sono certo verificabili dalla nostra esperienza scientifica.» Ci fu una pausa di silenzio, in cui si udiva il ronzio soffocato dei motori, il fruscio dei giornali e il ticchettio dei computer portatili. «Un punto a tuo favore», ammise infine Daniel. «Andiamo avanti! Che altro ha colpito il tuo interesse?» «Diverse cose. La prima che mi viene in mente è il risultato della riflettanza spettroscopica che mostra la polvere sui piedi. A me non sembrava una scoperta sensazionale, fino a che ho appreso che alcuni granuli sono
stati identificati dalla cristallografia ottica come aragonite di travertino, che ha uno spettro corrispondente ai campioni di calcare presi dalle antiche tombe di Gerusalemme.» Stephanie rise. «Lascio a te essere impressionato da uno dei dettagli scientifici più arcani. Io questo non me lo ricordavo nemmeno.» «Mette a dura prova le convinzioni, che un falsario francese del tredicesimo secolo si sia spinto fino a ottenere tali detriti e a spargerli sulla propria creazione.» «Non potrei essere più d'accordo.» «Un altro fatto che mi ha colpito è stato che, se si guarda l'intersezione degli habitat delle tre piante mediorientali i cui pollini sono più prevalenti sul sudario, si restringe l'origine di quel tessuto ai trenta chilometri fra Hebron e Gerusalemme.» «Curioso, vero?» «Più che curioso. Che quel lenzuolo sia il sudario di Gesù Cristo non viene provato, né potrà mai esserlo, aggiungo io, ma secondo me proviene da Gerusalemme e ha avvolto un uomo che è stato flagellato nel modo in cui usavano fare gli antichi romani, il cui naso è stato fratturato, che aveva ferite di spine sulla testa e che è stato crocifisso e ferito nel costato con una lancia.» «Che cosa ne pensi dell'aspetto storico?» «È ben presentato e accattivante», riconobbe Daniel. «Dopo questa lettura, sono disposto ad accettare l'idea che la Sacra Sindone e il Mandylion di Edessa siano la stessa cosa. Mi ha colpito in particolare che i segni delle pieghe spieghino perché a Costantinopoli sia stato esposto come impronta della sola testa di Gesù, com'era generalmente descritto il Mandylion, o dell'intero corpo, davanti e di dietro, come descritto dal crociato Robert de Clari. È stato lui a vederlo appena prima della sparizione, durante il saccheggio di Costantinopoli nel 1204.» «Il che significa che la datazione al carbonio è errata.» «Per quanto seccante risulti per uno scienziato come me, sembra che sia così.» Avevano appena finito di sorbire la loro aranciata, quando si accese di nuovo il segnale di allacciare le cinture di sicurezza e gli altoparlanti annunciarono che l'aereo si stava avvicinando all'aeroporto di Caselle. Un quarto d'ora dopo atterrarono. Dato che l'aereo era pieno, per scendere, arrivare alla zona ritiro-bagagli e trovare il nastro trasportatore giusto impiegarono quasi quanto la durata del volo da Roma.
Mentre Daniel aspettava di veder comparire le loro valigie, Stephanie notò una concessione di cellulari e si avvicinò per noleggiarne uno. Prima di lasciare Boston aveva scoperto che il suo cellulare non avrebbe funzionato in Europa, mentre poteva usarlo a Nassau. Per essere sicura di non perdere eventuali messaggi e-mail da parte di Butler mentre era a Torino, aveva bisogno di un numero europeo. Aveva intenzione di fare in modo che le e-mail del senatore arrivassero su entrambi i numeri. Uscirono dal terminal tirandosi dietro i bagagli e con i cappotti addosso e si misero in fila per un taxi. Mentre aspettavano, si guardarono attorno e colsero le prime immagini del Piemonte. A nord e a ovest vedevano montagne incappucciate di neve. A sud, una foschia densa gravava sopra la parte industriale della città. Il clima era freddo, non molto dissimile da quello che avevano lasciato a Boston. «Spero che non rimpiangeremo di non aver prenotato un'auto», commentò Daniel, guardando i taxi pieni sfrecciare via. «La guida dice che parcheggiare in città è impossibile», gli ricordò Stephanie. «L'aspetto positivo è che i tassisti italiani dovrebbero essere bravi, anche se filano veloci.» Una volta per strada, Daniel si tenne al sostegno, facendo diventare bianche le nocche, mentre il tassista si rivelava all'altezza della descrizione di Stephanie. L'auto era una Fiat Multipla, che gli pareva avere uno stile postmoderno, un incrocio tra un fuoristrada e una monovolume. Purtroppo per lui, rispondeva benissimo all'acceleratore. Stephanie, che era già stata in Italia svariate volte, inizialmente rimase delusa: Torino non aveva il fascino medievale o rinascimentale che lei associava a luoghi come Siena o Firenze. Sembrava invece una città moderna, assediata dall'estensione dei sobborghi e, al momento, presa nella morsa dell'ora di punta. Il traffico era intensissimo e il tragitto si rivelò esasperante, specialmente per Daniel. Stephanie cercò di iniziare una conversazione, ma lui era troppo impegnato a guardare davanti a sé. Daniel aveva prenotato per una notte in quello che la guida definiva l'albergo migliore della città, il Grand Hotel Belvedere. Si trovava nel centro storico e, a mano a mano che si addentravano nel quartiere, l'opinione di Stephanie cominciò a mutare. Non vedeva il tipo di architettura che si aspettava, ma la città cominciava a mostrare il suo fascino singolare, con ampi viali, piazze con i portici ed eleganti edifici barocchi. Quando si fermarono davanti al loro albergo, la sua delusione si era trasformata in un inizio di apprezzamento.
Il Grand Hotel Belvedere esibiva senza parsimonia il lusso del tardo diciannovesimo secolo. L'atrio era decorato da una profusione di putti e cherubini dorati, quanti Stephanie non ne aveva mai visti concentrati in un unico posto. Le colonne di marmo si elevavano a sostenere le arcate, mentre pilastri scanalati si allineavano lungo le pareti. Portieri in livrea si affrettarono a portare dentro il loro bagaglio che era piuttosto consistente, dato che dovevano rimanere un mese a Nassau. La loro stanza era meno decorata dell'atrio, ma altrettanto sfavillante; aveva il soffitto alto, con una pesante cornice interrotta ai quattro angoli da cherubini dorati, e al centro pendeva un lampadario di Murano. Le alte finestre, che davano su piazza Carlo Alberto, avevano pesanti tende di broccato rosso scuro con centinaia di nappe. Il mobilio, letto compreso, era tutto di legno scuro intagliato. Il pavimento era coperto da un folto tappeto orientale. Dopo aver dato la mancia al fattorino e all'impiegato della reception in giacca a coda di rondine che li aveva accompagnati fin lì, Daniel si guardò attorno con espressione soddisfatta. «Niente male! Proprio niente male!» osservò. Guardò la stanza da bagno rivestita di marmo, poi si volse verso Stephanie. «Finalmente vivo nel modo che mi merito.» «Sei incredibile!» lo rimbrottò lei. Intanto aprì la propria borsa per estrarre gli articoli da toletta. «Davvero!» Daniel rise. «Non so come mai ho accettato di rimanere un bohémien accademico tanto a lungo.» «Mettiamoci al lavoro, re Mida! Come pensi di fare per telefonare alla cancelleria dell'arcidiocesi e arrivare a monsignor Mansoni?» Stephanie andò in bagno. Più di qualsiasi altra cosa, desiderava lavarsi i denti. Daniel si avvicinò invece alla scrivania e cominciò ad aprire i cassetti alla ricerca di un elenco telefonico della città. Non lo trovò e guardò anche negli armadietti. «Penso che dovremmo scendere e farlo fare al portiere», suggerì Stephanie dal bagno. «Potremmo anche farci fare una prenotazione per la cena.» «Buona idea», approvò lui. Come Stephanie aveva previsto, il portiere fu felice di aiutarli. Fece comparire una guida del telefono in pochi secondi ed ebbe in linea monsignor Mansoni prima che loro due avessero deciso chi gli avrebbe parlato. Dopo qualche attimo di confusione, fu Daniel a prendere il ricevitore. Seguendo le istruzioni di Butler, si identificò come un suo rappresentante venuto a Torino a prelevare il campione. Per mantenere la discrezione, non
aggiunse altri dettagli. «Aspettavo la sua chiamata», disse il monsignore, con uno spiccato accento italiano. «Sono pronto a incontrarla questa mattina, se a lei va bene.» «Prima è, meglio è, per quanto ci riguarda», acconsentì Daniel. «'Ci'?» chiese il prelato. «Io e la mia partner siamo qui insieme», spiegò Daniel. Pensava che il termine fosse sufficientemente vago. Si sentiva stranamente imbarazzato nel parlare con un prete cattolico che poteva offendersi per il loro stile di vita. Guardò Stephanie per assicurarsi che il termine 'partner' le andasse bene. Non lo aveva mai usato prima per descrivere la loro relazione, nonostante fosse appropriato. Lei sorrise nel vederlo titubante. «Verrà anche lei al nostro incontro?» «Sì, certo. Dove le farebbe comodo?» «Forse il Caffè Torino, in piazza San Carlo, andrebbe bene. Lei e la sua partner state in un albergo all'interno della città?» «Credo che siamo proprio in centro.» «Ottimo. Il caffè allora sarà vicino al vostro albergo. Il portiere vi dirà come arrivarci.» «Bene. Quando dobbiamo essere lì?» «Diciamo fra un'ora?» «Ci saremo. Come la riconosceremo?» «Non dovrebbero esserci tanti preti in giro, ma, se ce ne fossero, io sarò il più corpulento. Temo che la mia attuale posizione sedentaria mi abbia fatto guadagnare troppo peso.» Daniel guardò Stephanie. Gli sembrava che riuscisse a seguire la conversazione anche dall'altra parte del filo. «Probabilmente anche noi saremo facili da individuare. Temo che avremo un'aria molto americana, con il nostro abbigliamento. Inoltre, la mia partner è una bellezza dai capelli corvini.» «In questo caso, credo che ci riconosceremo facilmente. Ci vediamo alle undici e un quarto.» «Siamo impazienti di incontrarla», concluse Daniel e restituì il telefono al portiere. «Una bellezza dai capelli corvini?» chiese Stephanie con un sussurro irritato, dopo che ebbero ottenuto le indicazioni e si furono allontanati dal bancone. Era imbarazzata. «Non mi avevi mai descritta usando un simile cliché. Ancor peggio, è paternalistico e sessista.» «Mi spiace», si scusò Daniel. «Ero un po' disorientato, dovendo fissare
un incontro segreto con un prete.» Luigi Mansoni aprì un cassetto della scrivania, ne estrasse una sottile custodia d'argento e se la infilò in tasca. Si raccolse la tonaca sul davanti per non inciampare nell'orlo, si alzò e uscì in fretta dal proprio studio. Alla fine del corridoio bussò alla porta di monsignor Valerio Garibaldi. Gli mancava il fiato. Cosa imbarazzante, visto che aveva percorso soltanto una trentina di metri. Diede un'occhiata all'orologio e si chiese se non avesse dovuto fissare l'appuntamento un po' più tardi. La voce di Valerio tuonò di entrare. Luigi riferì al suo amico e superiore della conversazione telefonica appena terminata. «Oh no!» esclamò Valerio. «Sono certo che è prima di quanto padre Maloney si aspettasse. Speriamo che sia nella sua stanza.» Telefonò al prete americano e si rassicurò sentendolo rispondere. Gli riferì gli ultimi sviluppi e gli chiese di raggiungere lui e monsignor Mansoni. «È tutto molto curioso», osservò, dopo aver riattaccato. «Davvero», concordò Luigi. «Mi viene da chiedermi se non sarebbe meglio allertare il segretario dell'arcivescovo in modo che, se dovesse saltar fuori un problema, sarebbe sua la colpa se sua eminenza non è stato avvertito. Dopotutto, sua eminenza è il custode ufficiale della Sindone.» «Hai ragione. Credo che seguirò il tuo suggerimento.» Un colpo alla porta annunciò l'arrivo di padre Maloney. Valerio gli fece cenno di sedersi. Anche se lui e Luigi gli erano superiori di grado nella gerarchia ecclesiastica, Michael in quell'occasione rappresentava ufficialmente il cardinale O'Rourke, il più potente prelato cattolico dell'America del Nord nonché amico personale del loro arcivescovo, cardinale Manfredi, e quindi lo trattavano con particolare deferenza. Michael sedette. A differenza dei due corpulenti monsignori, indossava il suo solito completo nero con la collarina bianca. Anche nel fisico era diverso da loro, infatti era inagrissimo e aveva il naso aquilino. Inoltre i capelli rossi spiccavano rispetto alle due chiome grigie. Luigi riferì ancora una volta la sua conversazione con Daniel, sottolineando che c'erano implicate due persone, e una di esse era una donna. «Sorprendente», commentò Michael. «E io non amo particolarmente le sorprese. Ma dovremo affrontare le cose così come sono. Immagino che il campione sia pronto.» «Certo», confermò Luigi in inglese, a beneficio di Michael, anche se
questi parlava un italiano passabile avendo frequentato teologia a Roma. Luigi affondò una mano nei recessi della tonaca ed estrasse la custodia d'argento che faceva pensare a un portasigarette degli anni Cinquanta. «Eccolo qua. Il professor Ballasari ha eseguito lui stesso la selezione delle fibre per assicurarsi che provengano da un punto in cui ci sono le macchie di sangue.» «Posso?» chiese Michael, tendendo la mano. «Naturalmente», rispose Luigi e gli porse la scatoletta. Michael la prese con entrambe le mani. Era emozionatissimo. Da tanto tempo era convinto che la Sindone fosse autentica e tenere fra le mani una custodia che conteneva il vero sangue del Salvatore, anziché il vino sottoposto a transustanziazione, era sconvolgente. Luigi riprese il piccolo oggetto e lo fece sparire di nuovo tra le pieghe della tonaca. «Ci sono istruzioni particolari?» «Sicuramente», rispose Michael. «Ho bisogno che lei scopra quanto più possibile su queste persone: nomi, indirizzi, tutto quanto. Si faccia mostrare i passaporti e annoti i numeri. Con quell'informazione e i vostri contatti con le autorità civili, dovremmo essere in grado di scoprire parecchio sulla loro identità.» «Che cosa cercate?» domandò Valerio. «Non ne sono sicuro», ammise Michael. «Sua eminenza il cardinale O'Rourke scambia questo minuscolo campione con un grosso favore politico alla chiesa. Allo stesso tempo, vuole essere sicuro al cento per cento che il pronunciamento del Santo Padre contro le indagini scientifiche sulla Sindone non sia violato.» Valerio annuì, anche se non capiva. Cedere pezzi di una reliquia in cambio di favori politici andava al di là della sua esperienza, soprattutto con la mancanza di documentazione ufficiale. Era inquietante. Allo stesso tempo, sapeva che le poche fibre contenute nella scatolina d'argento provenivano da un campione raccolto molti anni prima, e che quindi la Sindone non era stata toccata di recente. La principale preoccupazione del Santo Padre al riguardo era la conservazione. Luigi si alzò. «Devo arrivare in orario all'appuntamento, quindi dovrei andare.» Si alzò anche Michael. «Andremo insieme, se non le spiace. Io assisterò alla consegna da lontano. Dopo che avranno preso il campione, ho intenzione di seguire quelle due persone. Voglio sapere dove si trovano, nel caso le loro identità ci mettano in allarme.»
Valerio si alzò assieme agli altri. Aveva l'espressione confusa. «Che cosa farai se, come hai detto, le loro identità ti metteranno in allarme?» «Sarò costretto a improvvisare. Su questo punto le istruzioni del cardinale sono vaghe.» «Questa città ha il suo fascino», commentò Daniel, mentre lui e Stephanie percorrevano strade su cui si affacciavano maestose residenze ducali. «All'inizio non mi aveva colpito, ma ora sì.» «Anche per me è lo stesso», confermò Stephanie. Spostandosi verso ovest, dopo qualche isolato raggiunsero piazza San Carlo, grande quanto un campo di football e contornata da begli edifici barocchi color crema, le cui facciate erano ornate da una profusione di forme decorative. Al centro della piazza si ergeva un'imponente statua equestre in bronzo. Il Caffè Torino si trovava sul lato ovest della piazza. Al suo interno furono avvolti da un forte aroma di caffè appena macinato. Diversi grandi lampadari di cristallo che pendevano dal soffitto affrescato inondavano l'interno di una luce calda. Non dovettero cercare a lungo monsignor Mansoni. Il prete si alzò nell'attimo in cui loro entravano e fece un ampio gesto per invitarli a raggiungerlo al suo tavolino, vicino alla parete più lontana. Mentre gli si avvicinavano, Stephanie si guardò attorno e constatò che lo strano commento del monsignore sul fatto che non ci sarebbero stati tanti preti era giusto: ne scorse solo un altro. Era seduto per conto suo e, per un brevissimo momento, lei ebbe l'inquietante sensazione che la stesse fissando. «Benvenuti a Torino», li accolse il monsignore. Strinse la mano a entrambi e li invitò a sedersi. Intanto con lo sguardo soppesò Stephanie abbastanza a lungo da metterla un po' a disagio, anche a causa della descrizione fatta da Daniel. Appena il prelato schioccò le dita comparve un cameriere per prendere le ordinazioni dei nuovi arrivati. Daniel ordinò un caffè, mentre Stephanie si accontentò di acqua minerale frizzante. Daniel scrutò il prelato. La descrizione che questi aveva fatto di sé non era esagerata. Un ampio doppio mento copriva quasi completamente la collarina bianca. Daniel si chiese che livello di colesterolo avesse. «Credo, tanto per cominciare, che dovremmo presentarci. Io sono Luigi Mansoni, di Verona, ma adesso vivo a Torino.» Daniel e Stephanie dissero come si chiamavano e dove vivevano. A quel punto arrivarono l'acqua e l'espresso.
Daniel sorbì un piccolo sorso di caffè, poi appoggiò la tazzina sul minuscolo piattino. «Non intendo essere sgarbato, ma vorrei passare agli affari. Suppongo che abbia portato con sé il campione.» «Naturalmente.» «Dobbiamo essere sicuri che provenga da una zona del sudario con una macchia di sangue.» «Le posso assicurare che è così. Lo ha selezionato il professore a cui è stata affidata la conservazione della Sacra Sindone dall'arcivescovo di Torino, il cardinale Manfredi, che ne è l'attuale custode.» «Allora? Possiamo averlo?» «Fra un attimo.» Luigi infilò la mano nella tonaca e ne estrasse una penna e un piccolo blocco per gli appunti. «Prima di consegnarlo, ho avuto istruzioni di farmi dare alcuni particolari sulle vostre identità. Con la controversia ancora in corso e i media che gravitano frenetici attorno alla Sindone come avvoltoi, la chiesa insiste nel sapere chi possiede ogni singolo campione.» «Il destinatario è il senatore Ashley Butler», dichiarò Daniel. «Così mi è stato detto. Comunque, ci servono prove della vostra identità. Mi spiace, ma queste sono le istruzioni.» Daniel guardò Stephanie, che alzò le spalle. «Che tipo di prove volete?» «I passaporti e i vostri attuali indirizzi.» «Per me non c'è problema», disse Stephanie. «E quello sul passaporto è il mio indirizzo attuale.» «Anche per me», le fece eco Daniel. Esibirono i documenti e li fecero scivolare attraverso il tavolino. Luigi li aprì uno alla volta e copiò le informazioni, poi li restituì. Fece scomparire penna e taccuino ed estrasse la custodia d'argento. Con evidente deferenza, la fece scivolare verso Daniel. «Posso?» chiese lui. «Certo.» Daniel la prese. Su un lato aveva un piccolo fermaglio che fece scattare, prima di sollevare il coperchio con precauzione. Stephanie si chinò in avanti per vedere anche lei. All'interno c'era una piccola busta sigillata semitrasparente che conteneva un viluppo minuscolo ma sufficiente di fibre dal colore indefinito. «Sembra che vada bene», decretò Daniel. Riabbassò il coperchio e chiuse il fermaglio, quindi porse la custodia a Stephanie, che la infilò nella propria tracolla, assieme ai passaporti.
Un quarto d'ora dopo uscirono nel pallido sole invernale. Attraversarono diagonalmente la piazza, dirigendosi verso il loro albergo. Nonostante il jet lag, sembrava che avessero le ali ai piedi. Tutti e due si sentivano leggermente euforici. «Be', non poteva essere più facile», commentò Daniel. «Sono d'accordo», convenne Stephanie. «Non ti rammenterò il tuo pessimismo iniziale», la stuzzicò lui. «Non lo farò di certo.» «Aspetta un momento. Il campione del sudario lo abbiamo avuto facilmente, ma ci rimane ancora molto da fare per curare Butler. Le mie preoccupazioni riguardano l'intera faccenda.» «Io penso che questo piccolo episodio sia un preludio alle cose che verranno.» «Spero proprio che tu abbia ragione.» «Che cosa pensi che dovremmo fare per il resto della giornata? Il nostro volo per Londra parte solo alle sette di domattina.» «Io ho bisogno di un breve pisolino. E anche tu dovresti averne bisogno. Perché non rientriamo in albergo, mangiamo un boccone, seguito da un riposino di mezz'ora, e poi usciamo? Ci sono un po' di cose che vorrei vedere, visto che siamo qui, in particolare la chiesa dove è custodita la Sindone.» «Mi sembra un buon programma», approvò Daniel. Michael Maloney aspettò che i due americani si allontanassero, ma senza correre il rischio di perdere le loro tracce. Uscito dal caffè, si sorprese per quanto camminavano in fretta, infatti avevano già attraversato quasi tutta la piazza e dovette muoversi di buon passo anche lui. Subito dopo che i due avevano lasciato il locale, Michael aveva raccomandato a Luigi di trasmettere immediatamente le loro generalità alle autorità civili e di chiamarlo al cellulare per riferirgli ciò che avrebbe saputo. Aveva intenzione di tenerli sempre d'occhio, o per lo meno di sapere dove si trovavano, fino a che non fosse soddisfatto delle informazioni ricevute. Quando li vide sparire dietro un angolo si mise a correre. Non aveva intenzione di perderli di vista. Come gli aveva raccomandato il suo capo e mentore, il cardinale O'Rourke, Michael aveva intenzione di dedicarsi a quell'incarico con grande serietà. La sua aspirazione era di salire la scala gerarchica della chiesa, e fino a quel momento le cose erano andate come aveva sperato. Come prima cosa, aveva avuto l'opportunità di studiare a
Roma. Poi aveva visto riconosciute le proprie qualità dall'invito a raggiungere lo staff dell'allora vescovo O'Rourke, che poi era diventato arcivescovo. A quel punto della carriera, Michael sapeva che il successo dipendeva solo dal l'accontentare il suo potente superiore, e sapeva per intuito che l'incarico riguardante la Sindone era un'opportunità d'oro: gli offriva una circostanza unica per dimostrare la sua incrollabile lealtà e anche la capacità di improvvisare, data la mancanza di indicazioni specifiche. Arrivato in piazza Carlo Alberto, suppose che i due fossero diretti al Grand Hotel Belvedere. Affrettò il passo fin quasi a trotterellare per essere proprio dietro di loro mentre entravano nella hall. Una volta dentro, si tenne in disparte mentre salivano in ascensore e osservò l'indicazione del piano: il quarto. Soddisfatto, andò a sedersi su un divano di velluto, prese un giornale e lo leggiucchiò tenendo d'occhio le porte degli ascensori. Fin qua tutto bene, pensò. Non dovette aspettare a lungo. La coppia riemerse poco dopo e si diresse in sala da pranzo. Michael si spostò su un altro divano che offriva una vista migliore in quella direzione. Era sicuro che nessuno si fosse accorto di lui. Sapeva che in Italia andare in giro vestiti da prete dava l'opportunità di entrare praticamente ovunque senza farsi notare. Mezz'ora dopo, quando vide i due uscire dalla sala da pranzo, gli venne da sorridere: era tipicamente americano dedicare a un pasto solo mezz'ora. Sapeva che gli avventori italiani sarebbero rimasti a tavola almeno per due ore. La coppia salì di nuovo al quarto piano e questa volta lui dovette aspettare un po' di più. Finì il giornale e si guardò attorno alla ricerca di qualche altra cosa da leggere. Non trovando niente e non volendo rischiare di andare all'edicola, cominciò a pensare a che cosa avrebbe fatto se le informazioni che aspettava non fossero state positive. Non era nemmeno sicuro di che cosa non considerare positivo. Ciò che si aspettava di sapere era che almeno uno dei due lavorasse in un modo o nell'altro per il senatore Butler, o comunque per un'organizzazione a lui legata. Si ricordava che il senatore aveva detto che avrebbe mandato un suo incaricato a prendere il campione. Che cosa intendesse esattamente per «incaricato» era da vedere. Si stiracchiò e guardò l'orologio. Erano le tre e il suo stomaco cominciava a brontolare. Non aveva mangiato niente, tranne una pasta al Caffè Torino. Mentre si lasciava andare a immagini delle sue pastasciutte preferite, vibrò il cellulare che aveva in tasca. Aveva spento di proposito la suoneria. Ebbe un attimo di panico, temendo di non riuscire a rispondere in tempo.
Era monsignor Mansoni. «Ho appena ricevuto il rapporto dai miei contatti con la questura», gli annunciò. «Non credo le piacerà quello che ho appreso.» «Oh!» esclamò Michael. Cercò di rimanere calmo. Purtroppo, proprio in quel momento i due americani stavano uscendo dall'ascensore con addosso i cappotti e con le guide turistiche in mano: evidentemente avevano intenzione di andare a fare un giro. Temendo che prendessero un taxi, cosa che avrebbe creato qualche difficoltà, Michael si affrettò a infilarsi anche lui il cappotto, mentre teneva il cellulare premuto contro l'orecchio. La coppia si muoveva in fretta, come prima. «Aspetti, monsignore!» sussurrò Michael, interrompendo il suo interlocutore. «Mi devo muovere.» Aveva infilato un braccio in una manica, ma quella vuota si era impigliata nella porta girevole. Dovette indietreggiare per liberarla. «Prego!» esclamò il portiere, aiutandolo. «Mi scusi», replicò lui in italiano. Liberata la manica, uscì finalmente all'aperto e fu ricompensato nel vedere che i due superavano il posteggio dei taxi e si dirigevano verso l'angolo nordorientale della piazza. Rallentò, mantenendo però un passo abbastanza sostenuto. «Scusi, monsignore», disse nel telefono, «ma stavano lasciando l'albergo proprio mentre lei ha chiamato. Che cosa stava dicendo?» «Che sono tutti e due degli scienziati.» Michael sentì il polso accelerare. «Questa non è una buona notizia!» «Lo penso anch'io. I loro nomi corrispondono al vero, lo hanno appurato le autorità italiane contattando le loro controparti americane. Sotto tutti e due specializzati nel campo biomolecolare, il dottor Lowell più sul versante della chimica e la dottoressa D'Agostino più su quello della biologia. A quanto pare sono conosciuti nel loro ambiente, lui più di lei. Dato che hanno lo stesso indirizzo, a quanto pare convivono.» «Mio Dio!» «Di certo, non sembrano dei normali corrieri.» «Questa è la situazione peggiore che potesse capitare.» «Sono d'accordo. Con le loro capacità, potrebbero progettare qualche tipo di analisi. Che cosa ha intenzione di fare?» «Ancora non lo so», ammise Michael. «Ci devo pensare.» «Mi faccia sapere se posso essere d'aiuto.» «Mi terrò in contatto.» Non era del tutto vero che Michael non sapeva che cosa fare: aveva intenzione di rientrare in possesso del campione, anche se non aveva idea
come. La cosa certa era che voleva farlo di persona, in modo che, quando avesse riferito al cardinale O'Rourke, avrebbe potuto prendersi tutto il merito per aver risparmiato al sangue del Salvatore ulteriori indegnità scientifiche. I due americani raggiunsero l'ampia piazza Castello ma non rallentarono il passo. Dapprima Michael pensò che volessero visitare il Palazzo Reale, l'ex residenza dei Savoia, ma vide che ne oltrepassavano l'ingresso e si dirigevano verso piazza San Giovanni. «Ma certo!» esclamò ad alta voce. Sapeva che il Duomo di San Giovanni si trovava in quella piazza e la chiesa al momento ospitava la Sindone, dopo l'incendio del 1997 della cappella dov'era collocata. Li seguì finché li vide salire i gradini del sagrato, poi si voltò e tornò sui suoi passi. Presumendo che sarebbero rimasti abbastanza a lungo lontani dall'albergo, pensò di approfittare dell'opportunità. Se voleva riprendere il campione, quello era il momento migliore. Anche se aveva già un po' di fiatone, accelerò il passo: voleva arrivare al Grand Hotel Belvedere prima possibile. Nonostante la sua ovvia inesperienza con l'intrigo in generale e con il furto in particolare, doveva scoprire qual era la camera dei due scienziati, penetrarvi e trovare la custodia d'argento, il tutto nel giro di un paio d'ore. «È proprio questa la vera Sindone?» sussurrò Daniel. Nella cattedrale c'erano altre persone, ma erano inginocchiate in preghiera sulle panche oppure accendevano le candele davanti alle statue dei santi. Gli unici suoni erano di tanto in tanto i passi che echeggiavano sul pavimento di marmo. «No, è una copia fotografica a grandezza naturale», rispose Stephanie, che teneva la guida aperta alla pagina in questione. Erano davanti a una nicchia chiusa da un vetro che occupava tutta l'altezza del piano terreno, nel transetto settentrionale della chiesa. Sul piano superiore c'era il palco chiuso da tende dal quale nei secoli passati i Savoia assistevano alla messa. La fotografia dell'uomo che era stato crocefisso era panoramica. L'impronta frontale della testa (che era a sinistra) e quella posteriore quasi si toccavano al centro, il che si spiegava con il fatto che avevano disteso l'uomo supino sul telo, che poi era stato piegato per coprirlo. La grande riproduzione era appoggiata su un tavolo lungo più di quattro metri e largo forse uno e mezzo, ricoperto di una stoffa blu che scendeva a piegoline fino al pavimento. «La fotografia è posta sulla nuova teca che ospita il sudario», spiegò
Stephanie. «Ha un sistema idraulico, in modo che quando la Sindone viene mostrata la parte superiore ruota verso l'alto e la reliquia è visibile attraverso il vetro a prova di proiettile.» «Sì, mi ricordo di averlo letto», commentò Daniel. «Sembra un'installazione impressionante. Per la prima volta nella sua lunga vita, il sudario sta completamente orizzontale, in atmosfera controllata.» «È sorprendente che l'impronta sia durata così a lungo, considerate tutte le traversie che ha passato.» «Guardando questa foto a grandezza naturale, trovo l'immagine più difficile da discernere di quanto avessi pensato. Se è così che appare il vero sudario, credo che sia un po' una delusione. Lo si vede e lo si apprezza meglio nel libro che hai tu.» «E ancor meglio nei negativi.» «A quanto pare, l'immagine non si è sbiadita. È lo sfondo a essere ingiallito, e così il contrasto è minore.» «Spero che la nuova teca impedisca che questo continui ad avvenire», osservò Stephanie. «Be', credo che con la Sindone abbiamo finito.» Si voltò, abbracciando con lo sguardo l'interno della cattedrale. «Pensavo che potevamo girellare un po' qua dentro, ma per una chiesa rinascimentale non è un gran che.» «Lo penso anch'io. Andiamocene. Che ne dici di visitare il Palazzo Reale? L'interno è la quintessenza del rococò.» Stephanie gli scoccò un'occhiata di traverso. «Da quando in qua sei diventato un esperto di architettura e di design di interni?» Daniel rise. «L'ho letto nella guida, prima di uscire.» «Piacerebbe anche a me visitare il Palazzo Reale, ma temo di avere un problema.» «Che problema?» Stephanie si guardò i piedi. «Mi sono dimenticata di mettermi delle scarpe adatte a camminare, invece di quelle che avevo durante il pranzo. Se ci cammino sopra tutto il pomeriggio, mi uccideranno. Mi spiace, ma ci resteresti molto male se passassimo dall'albergo?» «Per quanto mi riguarda, adesso che abbiamo il campione della Sindone, stiamo solo ammazzando il tempo. Non mi importa quello che facciamo.» «Grazie.» Stephanie era sollevata. Daniel a volte si mostrava impaziente per piccole mancanze del genere. «Mi spiace davvero. Avrei dovuto pensarci. E, mentre saremo lì, mi farò un'altra doccia. Fuori fa più freddo di quanto pensassi.»
Tranne per qualche innocuo scherzo goliardico, ai tempi del college, padre Michael Maloney non aveva mai infranto una legge civile, per lo meno non gli risultava. Ora stava per farlo, e questo gli causava più ansia di quanto pensasse. Non solo tremava e sudava, ma aveva anche dei disturbi allo stomaco che gli facevano desiderare di mandar giù un antiacido. Inoltre c'era il problema tempo. Non voleva certo essere colto sul fatto. Era quasi certo che gli americani sarebbero stati fuori per due o tre ore nel loro giro della città, ma aveva deciso di concedersi soltanto un'ora, per andare sul sicuro. Soltanto il pensiero che lo sorprendessero gli faceva piegare le ginocchia. Mentre si avvicinava al Grand Hotel Belvedere non aveva idea di come avrebbe portato a termine il suo compito, ma poi era passato davanti a un fioraio che si trovava nella stessa piazza. Affacciandosi all'interno, aveva chiesto se c'era una composizione floreale già pronta da inviare immediatamente all'albergo. Ricevuta risposta positiva e sceltane una a caso, aveva scritto sulla busta i nomi dei due americani e sul biglietto: «Benvenuti al Grand Hotel Belvedere, la direzione». E ora, cinque minuti dopo, mentre se ne stava seduto nella hall dell'albergo, sullo stesso divano occupato poco prima, vide i fiori arrivare attraverso la porta girevole. Sollevò il giornale per nascondere il viso e osservò la stessa donna a cui prima aveva fatto l'ordinazione portarli fino al banco dei fattorini. Uno di loro firmò e la donna se ne andò. Purtroppo, per i dieci minuti seguenti non accadde nulla. I fiori rimasero sul banco, mentre i fattorini proseguivano l'accesa conversazione in cui erano impegnati. «Dai!» mormorò fra sé Michael a denti stretti. Avrebbe voluto andare da loro a reclamare, ma non osava, per non attirare l'attenzione su di sé. Il suo piano faceva affidamento sull'innocuità, se non addirittura l'invisibilità, assicurata dal clergyman. Finalmente, uno dei fattorini controllò la busta e girò dietro il banco. Dal riflesso della luce sul viso, si capiva che stava usando il computer. Un attimo dopo tornò davanti al banco, prese i fiori e si diresse verso gli ascensori. Michael mise via il giornale e gli fu alle costole. Il fattorino gli rivolse un sorriso mentre, saliti in ascensore, le porte si richiudevano. Michael glielo restituì. Al quarto piano lo seguì lungo il corridoio, tenendosi un po' indietro; lo vide fermarsi davanti alla porta 408 e bussare. Lui passò oltre e, di nuovo, si scambiarono un sorriso.
Svoltò un angolo e si fermò. Con molta precauzione si sporse a guardare indietro. Il fattorino bussò di nuovo, poi prese un grosso mazzo di chiavi appese a una catena, aprì la porta e scomparve un momento. Quando ricomparve non aveva più i fiori e fischiettava piano. Richiuse la porta e si incamminò verso gli ascensori. Michael aspettò che fosse scomparso del tutto e tornò davanti alla porta della 408. Tanto per provare saggiò la maniglia ma, come si aspettava, la porta era chiusa a chiave. Guardando lungo il corridoio vide un carrello delle pulizie. Inspirò a fondo e gonfiò le guance, tanto per darsi coraggio, poi si avvicinò al carrello. Stava vicino a una porta tenuta spalancata da un fermaporte. Provò a bussare e chiamò: «Scusi!» Udì il suono in sottofondo del televisore. Entrò nella stanza e vide due donne di mezza età con addosso grembiuli marroncini intente a rifare il letto. «Scusate!» Questa volta chiamò più forte. Le donne reagirono come se fossero scioccate. Entrambe impallidirono visibilmente. Una si riprese abbastanza da correre a spegnere il televisore. Sforzandosi di parlare nel suo italiano migliore, Michael chiese se potevano aiutarlo. Aveva dimenticato la propria chiave nella stanza 408 e aveva bisogno di fare al più presto una telefonata. Voleva sapere se erano così gentili da aprirgli la porta, per evitargli di scendere dal portiere. Le donne si scambiarono un'occhiata confusa e lui impiegò qualche momento a capire che la loro conoscenza dell'italiano era molto scarsa. Ripeté tutta la pappardella più lentamente e scandendo bene le parole. Questa volta, una delle due capì il messaggio e sollevò il passepartout. Lui annuì. Come per compensare le difficoltà di comunicazione, la donna uscì dalla stanza e corse lungo il corridoio fino alla 408. Michael le tenne dietro e la vide aprire la porta e tenerla spalancata per lui. Ringraziò e oltrepassò la soglia. La porta si chiuse alle sue spalle. Fece un profondo respiro, accorgendosi che fino a quel momento aveva trattenuto il fiato. Con un passo indietro si appoggiò alla porta, quindi diede un'occhiata alla stanza. Le tende erano aperte ed entrava molta luce. C'era più bagaglio di quanto si aspettasse, anche se era evidente che non era stato disfatto, tranne due valigie. Purtroppo non c'era traccia della custodia d'argento sul cassettone, sulla scrivania o sui comodini. Sudava copiosamente e sentiva il polso battere all'impazzata. «Non sono bravo a fare queste cose», mormorò. Desiderava disperatamente trovare la custodia e andarsene. Per rimanere in quella stanza doveva ricorrere a tutta
la sua forza di volontà. Si staccò dalla porta e come prima cosa si avvicinò alla scrivania. Appoggiata al centro del tampone assorbente c'era una chiave della stanza. Dopo un attimo di esitazione, la prese e se la mise in tasca. Rapidamente frugò nelle custodie dei portatili: niente. Per passare in rassegna i cassetti della scrivania gli occorse solo un momento: tranne per gli articoli di cancelleria dell'albergo, erano vuoti. Poi si occupò del cassettone: vuoto anche quello, tranne per i sacchetti destinati alla biancheria da lavare, e i relativi moduli. Anche i piccoli cassetti dei comodini erano vuoti. Controllò perfino in bagno, senza risultato. Nell'armadio trovò una cassaforte, ma era socchiusa e vuota anche quella. Frugò nelle tasche di una giacca da uomo appesa all'attaccapanni: niente. Si volse verso l'interno della stanza e guardò le due valigie che erano state aperte. Erano appoggiate orizzontalmente sugli appositi sostegni, ai piedi del letto. Si avvicinò prima a una poi all'altra, ne sollevò la parte superiore e infilò dentro la mano, facendola scorrere lungo il perimetro. Incontrò gli oggetti più disparati, ma nessuna custodia d'argento. Poi sollevò i vestiti per cercare più a fondo. All'improvviso udì delle voci e si accorse terrorizzato che sembravano parlare inglese con accento americano. Si rialzò e rimase immobilizzato. L'istante successivo udì il suono peggiore che potesse immaginare: quello di una chiave che veniva infilata nella serratura. 12 Lunedì 25 febbraio 2002 - ore 15.45 «Che cosa diavolo?...» esclamò Stephanie, ferma sulla soglia della loro stanza. Daniel sbirciò da sopra la sua spalla. «Che cosa succede?» le chiese. «Ci sono dei fiori sul cassettone. Chi può averci mandato dei fiori?» «Butler?» «Non sa che siamo già a Torino, a meno che lo abbia avvisato tu con una mail.» «No, non gli ho mandato nessuna mail», ribatté lui, come se la cosa fosse al di fuori di ogni possibilità. «Ma, dati i suoi rapporti con i servizi segreti, forse lo sa. Per uno che ha fatto investigare su di me, non sarebbe una cosa improbabile. O forse monsignor Mansoni gli ha comunicato che
il campione è stato consegnato.» Stephanie si avvicinò alla composizione floreale e aprì la busta. «Oh, santo cielo! È soltanto la direzione dell'albergo.» «Carino da parte loro», commentò Daniel con indifferenza, poi andò in bagno. Stephanie si avvicinò alla sua valigia appoggiata sul sostegno, nella quale aveva infilato contro il lato sinistro un paio di scarpe adatte a camminare. Sollevò la parte superiore ed esitò. Una camicia di lino che a Boston aveva riposto meticolosamente era un po' in disordine, con un lembo piegato. Lo rimise a posto con l'indice e constatò che, come temeva, si era formata una piega che non andò via nemmeno lisciandola con il palmo della mano. Borbottando un'imprecazione rivolta a se stessa, fece per prendere le scarpe, quando si accorse che anche un capo di biancheria intima a cui nel fare i bagagli aveva dedicato la stessa cura era leggermente fuori posto. Si raddrizzò e fissò la valigia aperta. «Daniel! Vieni!» Mentre si udiva il rumore dello sciacquone, Daniel comparve sulla soglia del bagno. Aveva in mano una salvietta. «Che cosa c'è?» chiese, inarcando le sopracciglia. Dal tono della voce, aveva capito che Stephanie era turbata. «Qualcuno è entrato nella nostra stanza!» «Lo sapevamo già, essendoci i fiori.» «Vieni qua!» Daniel si gettò la salvietta su una spalla, si avvicinò e seguì il dito puntato di Stephanie che indicava la valigia aperta. «Qualcuno ha messo le mani nella mia valigia!» asserì lei. «Come fai a dirlo?» Stephanie glielo spiegò. «Sono cambiamenti minimi», commentò lui, dandole una paternalistica pacca sulla schiena. «Ce le hai messe tu le mani nella valigia, prima che uscissimo. Sei sicura di non avere un piccolo attacco di paranoia, in seguito all'effrazione a Cambridge?» «Qualcuno ha messo le mani nella mia valigia!» ripeté lei, accalorandosi, e gli spinse via la mano. A causa del jet lag e dell'eccessiva stanchezza, si sentiva frustrata dalla reazione di Daniel. «Guarda nella tua!» Sollevando gli occhi al cielo, lui obbedì. «Ecco, sto guardando!» «Non c'è niente di strano?» Daniel alzò le spalle. Non era di certo la persona più ordinata del mondo,
quando si trattava di fare i bagagli, e prima di uscire aveva frugato lui stesso lì dentro, alla ricerca di biancheria pulita. All'improvviso si immobilizzò, poi sollevò lentamente lo sguardo verso Stephanie. «Mio Dio! Manca una cosa!» «Che cosa?» lei gli strinse un braccio, mentre si chinava a sua volta a guardare. «Qualcuno ha preso la mia fiala di plutonio!» Stephanie gli mollò un pugno sulla spalla. Lui reagì sollevando le braccia nel mimare un'esagerata mossa difensiva contro altri colpi che però non arrivarono. «Io dico sul serio!» si lamentò Stephanie con voce quasi stridente. Tornò alla propria valigia, prese la spazzola per i capelli e la brandì. «E poi c'è un'altra cosa! Quando siamo usciti per la nostra visita della città, questa spazzola era esattamente in cima ai miei vestiti, non nell'angolo. Me lo ricordo, perché avevo pensato di riportarla nel bagno. Te lo ripeto: qualcuno ha messo le mani nella mia valigia!» «Va bene, va bene! Sta' calma!» Stephanie prese dalla tasca laterale della valigia una borsina di velluto chiusa da una cerniera lampo. L'aprì e guardò dentro. «Almeno i gioielli sono a posto, e anche quel po' di denaro in contanti che tengo qua dentro. Meno male che non ho portato niente di veramente prezioso.» «Forse per fare le pulizie hanno dovuto spostare le valigie?» «Per favore!» esclamò Stephanie come se quel suggerimento fosse assurdo. Fece vagare lo sguardo per la stanza, fino a posarlo sulla scrivania. «Non c'è più la mia chiave! L'avevo lasciata sul tampone di carta assorbente!» «Sei sicura?» «Non ti ricordi che prima di uscire ci siamo chiesti se dovevamo portare con noi tutte e due le chiavi?» «Vagamente.» Mentre Stephanie andava a grandi falcate fino in bagno, Daniel scrutò la stanza. Non riusciva a decidere se valeva la pena darle retta, dato che sapeva quanto fosse rimasta sconvolta dall'episodio di Cambridge. Sapeva che nelle stanze d'albergo c'era sempre gente che entrava e usciva: quelli delle pulizie, chi riforniva il minibar, il personale del servizio in camera, i fattorini... Forse qualcuno di loro aveva frugato nelle valigie. Capiva che poteva essere una tentazione enorme. «Qualcuno ha frugato anche nel mio beauty case», annunciò Stephanie.
Daniel si affacciò nel bagno. «Manca qualcosa?» «No, non manca niente!» rispose lei in tono irritato. «Ehi, non prendertela con me!» Stephanie chiuse gli occhi e respirò a fondo, quindi annuì varie volte. «Hai ragione. Scusa, non ce l'ho con te, sono solo frustrata perché tu non sei sconvolto come me.» «Se mancasse qualcosa, sarebbe diverso.» Stephanie richiuse il beauty case, poi si avvicinò a Daniel e lo abbracciò. Lui fece altrettanto. «Mi sconvolge, quando qualcuno fruga fra le mie cose, soprattutto dopo ciò che è accaduto il giorno prima della partenza.» «Questo è del tutto comprensibile.» «È curioso che non manchi niente, per esempio i contanti. La cosa rende questo episodio esattamente simile a quello di Cambridge, anche se qui confonde ancora di più le idee. Per lo meno, a casa potevamo ipotizzare lo spionaggio industriale, anche se non era probabile. Qui che cosa potrebbero cercare, se non oggetti preziosi e denaro in contanti?» «L'unica cosa che mi viene in mente è il campione della Sindone.» Stephanie si staccò da Daniel per poterlo guardare in faccia. «Perché qualcuno dovrebbe volerlo?» «E che ne so? Però, è la sola cosa in nostro possesso che è unica.» «Ma si presume che la sola persona a sapere che l'abbiamo è chi ce l'ha data.» Stephanie aggrottò la fronte, rimuginando su questa nuova idea. «Calmati! In realtà, non credo che qualcuno stia cercando il campione della Sindone. Stavo solo pensando ad alta voce. Ma, a proposito, dov'è?» «È ancora nella mia tracolla.» «Prendilo! Diamogli un'altra occhiata!» Daniel pensava che fosse meglio parlare di quello, che di un possibile intruso. Tornarono al centro della stanza e Stephanie prese la borsetta dal letto, dove l'aveva gettata. Ne estrasse la custodia d'argento e l'aprì. Daniel sollevò con precauzione la piccola busta semitrasparente e la tenne contro la luce diffusa proveniente dalle finestre. Illuminato da dietro, il groviglio di fibre di lino si stagliava nitido, anche se il suo colore rimaneva indeterminato. «Mio Dio!» esclamò scuotendo la testa. «È sbalorditivo che ci sia anche la minima possibilità che questo sangue appartenga alla persona indiscutibilmente più famosa che ha calpestato il suolo terrestre, e questo anche senza prendere in considerazione l'aspetto divino.» Stephanie depose la custodia d'argento sulla scrivania e prese la bustina.
Si avvicinò alla finestra e la sollevò controluce, riparando gli occhi dai raggi obliqui del sole con la mano libera. Ora si distingueva anche il rosso ocra delle fibre. «Sembra sangue», osservò. «Lo so, dev'essere la mia estrazione cattolica che si impone, perché ho la forte intuizione che questo è veramente il sangue di Gesù Cristo.» Anche se padre Maloney non vedeva Stephanie D'Agostino, le era talmente vicino da sentirla respirare. Era terrorizzato che il battito del proprio cuore potesse tradirlo, oppure il rumore delle gocce di sudore che cadevano sul pavimento. La donna era solo a pochi centimetri da lui. In preda alla disperazione nei sentir infilare la chiave nella toppa, si era precipitato a nascondersi dietro le tende. L'aveva fatto automaticamente. A ripensarci adesso, era stato un gesto imbarazzante in sé e per sé, come se fosse un comune ladro. Avrebbe dovuto restare dov'era e assumersi la piena responsabilità delle sue azioni. Capiva che la miglior difesa era l'attacco e, nell'attuale situazione, per giustificare le sue azioni avrebbe dovuto ricorrere all'indignazione per la vera identità di quelle persone e le indagini scientifiche non autorizzate che evidentemente stavano architettando. Purtroppo, la sua reazione istintiva aveva preso il sopravvento e quando si era riavuto era già acquattato dietro le tende: troppo tardi per giocare la carta dell'indignazione! Adesso tutto ciò che poteva sperare era di non essere scoperto. All'inizio, nell'udire l'esclamazione di Stephanie appena entrata nella stanza, aveva creduto che tutto fosse perduto. Credeva che lo avesse visto, oppure che avesse notato le tende muoversi. Era stato un incredibile sollievo rendersi conto che la sorpresa veniva dalla composizione floreale sul cassettone. Poi aveva dovuto sopportare la scoperta della propria inettitudine nel frugare all'interno delle valigie e nel prendere la chiave dalla scrivania. Era stato allora che le pulsazioni avevano ricominciato ad accelerare, dopo aver rallentato un po'. Temeva che avrebbero cominciato a perquisire la stanza. Era orribile pensare all'imbarazzo e alle conseguenze, se lo avessero scoperto. Ciò che inizialmente aveva considerato un modo di assicurarsi la carriera minacciava ora di sortire esattamente l'effetto opposto. «Non è importante ciò che noi pensiamo della Sindone», disse Daniel. «Importa solo quello che pensa Butler.» «Io non credo di essere d'accordo con te», replicò Stephanie. «Ma rimandiamo questa discussione a un'altra occasione.»
Michael si irrigidì, sentendola sfiorare le tende. Per fortuna erano di un pesante broccato italiano e lei non si era accorta di aver toccato, attraverso la stoffa, anche il suo braccio. Fu attraversato da un'altra scarica di adrenalina. Gli sembrava che le gocce di sudore che si spiaccicavano sul pavimento provocassero lo stesso rumore di sassi tirati contro un tamburo. Non avrebbe mai pensato di poter sudare in modo così abbondante, soprattutto in un ambiente nemmeno tanto surriscaldato. «Che cosa devo farne del campione?» chiese Stephanie, allontanandosi. «Dallo a me», rispose Daniel da qualche punto della stanza. Michael si concesse un profondo respiro e si rilassò un po'. Stava premuto più che poteva contro la parete, per ridurre al minimo l'ingombro del corpo dietro la tenda. Udì altri suoni che non riuscì a identificare, assieme a quello prodotto sicuramente dalla custodia d'argento che veniva richiusa. «Sai, potremmo cambiare stanza», suggerì Daniel. «O addirittura albergo, se vuoi.» «Che cosa pensi che dovremmo fare?» «Secondo me dovremmo rimanere qui. Per ogni stanza in ogni albergo esistono più copie di chiavi. Stanotte, quando andremo a letto, metteremo il catenaccio.» Michael udì lo scatto stentoreo del catenaccio. «Ha un giro e mezzo. Che cosa ne dici? Non voglio che ti senta nervosa. Non ce n'è motivo.» Michael udì scuotere la porta. «Penso che il catenaccio sia una buona idea», replicò Stephanie. «Sembra sicuro.» «Con quello, nessuno riuscirebbe a entrare senza che noi ce ne accorgiamo. Dovrebbe usare un ariete.» «Va bene», acconsentì Stephanie. «Restiamo qui. È solo una notte e anche corta, dato che il volo per Londra parte alle sette e cinque. Che ora impossibile! A proposito: come mai dobbiamo passare da Parigi?» «Non c'era scelta. A quanto pare, la British Airways non serve Torino. C'è l'Air France, transitando per Parigi, oppure la Lufthansa, con scalo a Francoforte. Ho pensato che fosse meglio non allungare il percorso.» «Mi sembra ridicolo che non ci sia un volo diretto proprio per Londra: Torino è una delle maggiori città industriali d'Italia!» «Che posso dire? Ma ora, su, mettiti le scarpe comode e prendi qualsiasi cosa ti serva, così torniamo al nostro giro turistico.» «Oh, sì, fallo!» implorò silenziosamente Michael. «Non sono più dell'umore», rispose Stephanie. «Che ne dici di restare
qua fino all'ora di cena? Sono già le quattro passate e tra poco farà buio. Hai dormito talmente poco, la notte scorsa, che sarai esausto.» «Sono stanco, sì», ammise Daniel. «Spogliamoci e infiliamoci a letto. Ti farò anche un massaggio alla schiena. E vediamo che altro succede, a seconda di quanto sei stanco. Che ne dici?» Daniel rise. «Non ho mai sentito un'idea migliore in vita mia. A essere onesto, il giro turistico non mi interessava poi tanto. Lo avrei fatto per te.» «Ebbene, non è più necessario, amor mio!» Michael si fece piccolo piccolo mentre udiva i suoni inconfondibili della coppia che si spogliava, ridacchiava e si scambiava affettuosità. Temeva che uno di loro sarebbe andato a tirare le tende, ma questo non avvenne. Il letto cigolò debolmente, quando vi si distesero, poi giunse lo sbuffo della crema spremuta da un tubetto e lo strofinio delle mani contro la pelle scivolosa. Si levò un mormorio appagato, a mano a mano che il massaggio proseguiva. «Va bene», decise Daniel infine. «Adesso tocca a te.» Il letto si lamentò mentre i corpi si cambiavano di posto. Il tempo si trascinava. A Michael cominciarono a far male i muscoli, in particolare quelli delle gambe. Temendo un crampo che lo avrebbe tradito, spostò il peso del corpo, poi trattenne il respiro, nel caso il suo movimento fosse stato notato. Per fortuna non fu così, ma nel giro di pochi minuti il dolore ritornò. Ancora peggio della scomodità, era la tortura di udire i due emettere i sospiri inequivocabili dell'intimità fisica, fino ai gemiti ritmici del vero e proprio rapporto sessuale. Michael era costretto dalle circostanze al ruolo di voyeur, anche se solo uditivo, e nonostante il voto di castità e i tentativi di recitare brani tratti dal breviario, si accorse di eccitarsi. Dopo gli ultimi gemiti di piacere, la stanza rimase silenziosa per qualche minuto. Poi si udirono sussurri indistinguibili, seguiti da risatine o da veri e propri scoppi di risa. Finalmente, la coppia andò in bagno. Michael distingueva le loro voci al disopra dell'acqua scrosciante. Si concesse di roteare la testa, flettere le spalle irrigidite, sollevare le braccia e perfino compiere qualche passo da fermo. Dopo meno di un minuto tornò a immobilizzarsi, non essendo sicuro di quando uno dei due sarebbe ritornato nella stanza. Non dovette aspettare a lungo, infatti poco dopo sentì qualcuno muoversi accanto alle valigie. Purtroppo per lui, Stephanie e Daniel impiegarono altri tre quarti d'ora per vestirsi, infilarsi i cappotti e trovare l'unica chiave che era loro rimasta
prima di uscire finalmente per la cena. Dapprima il silenzio gli parve assordante, mentre si sforzava di cogliere suoni che lo avvertissero di un eventuale ritorno improvviso della coppia, magari per prendere qualcosa dimenticato nell'uscire. Trascorsero cinque minuti. Finalmente allungò guardingo la mano fino all'estremità della tenda e la tirò lentamente, rivelando una porzione sempre maggiore della stanza in cui ormai era scesa l'oscurità. Era rimasta accesa la lampada del bagno e formava una pozza di luce ai piedi del letto. Fissò la porta d'ingresso e cercò di calcolare quanto tempo ci avrebbe messo ad aprirla, oltrepassarla e richiudersela alle spalle. Non tanto, ma lo rendeva nervoso sapere che sarebbe rimasto esposto completamente, prima di allontanarsi dalla 408. A quel punto, essere scoperto sarebbe stato molto più problematico che se fosse accaduto appena i legittimi occupanti erano entrati nella stanza. Mentre cercava di raccogliere tutto il suo coraggio per lasciare la relativa sicurezza delle tende, fece vagare lo sguardo attorno. Colpì la sua attenzione il luccichio di un oggetto posato sul cassettone accanto alla composizione floreale. Sbatté le palpebre, non riuscendo a credere ai suoi occhi. «Sia lodato il Signore!» sussurrò. Era la custodia d'argento. Meravigliandosi per la fortuna che alla fine gli aveva arriso, fece un profondo respiro e uscì dal nascondiglio. Esitò un altro secondo, rimanendo in ascolto prima di correre al cassettone, afferrare la custodia, farsela scivolare in tasca e precipitarsi fuori dalla porta. Ebbe la fortuna di trovare il corridoio vuoto. Si allontanò in fretta dalla 408, terrorizzato all'idea che, se si fosse voltato indietro, avrebbe visto qualcuno che poteva chiedergli conto della sua presenza. Solo quando raggiunse gli ascensori si concesse di girare la testa e guardare lungo il corridoio appena percorso: era ancora vuoto. Qualche minuto dopo, passò attraverso la porta girevole dell'atrio e uscì all'aperto. Il freddo di una serata invernale non gli era mai parso così gradevole sul volto accaldato. Si allontanò rapidamente, ogni passo più baldanzoso di quello precedente. Con la mano destra ficcata in tasca a stringere la custodia d'argento, come a ricordare a se stesso l'impresa appena compiuta, sentì l'euforia invaderlo, simile a quella dell'assoluzione che aveva provato di tanto in tanto dopo qualche visita particolarmente difficile al confessionale. Era come se tutte le prove e le tribolazioni sopportate per recuperare il campione di sangue del Salvatore avessero reso l'esperienza più pregnante. Prese un taxi al parcheggio dell'albergo e diede l'indirizzo della cancelle-
ria dell'arcidiocesi. Sprofondò nel sedile e cercò di rilassarsi. Guardò l'orologio. Erano quasi le sei e mezzo. Era rimasto dietro quella tenda per più di due ore! Ma era stato un incubo a lieto fine, come provava la presenza della piccola custodia nella sua tasca. Chiuse gli occhi e gongolò all'idea della telefonata che avrebbe fatto al cardinale O'Rourke per ragguagliarlo sulle identità dei cosiddetti corrieri e sulla soluzione del problema. Adesso che era in salvo, si ritrovò a sorridere al pensiero di ciò che aveva dovuto sopportare. Stare nascosto dietro le tende in una camera d'albergo mentre una coppia faceva l'amore era talmente assurdo da sfidare la credibilità. Per certi versi, gli sarebbe piaciuto raccontarlo al cardinale, ma sapeva di non potere. L'unica persona a cui lo avrebbe detto sarebbe stato il confessore, e anche allora non sarebbe stato facile. Sapendo come organizzava le proprie giornate il cardinale, pensò che l'ora più adatta per chiamarlo sarebbe stata poco prima del pranzo, cioè alle dieci e mezzo di sera, ora italiana. La cosa di cui avrebbe goduto di più, di quella telefonata, sarebbe stata in particolare il far capire, piuttosto che dire esplicitamente, che era stato lui, da solo, con la sua ingegnosità, a salvare una situazione che avrebbe costituito imbarazzo per la chiesa in generale e per il cardinale in particolare. Quando il taxi si fermò davanti al portone della cancelleria, Michael si sentiva quasi normale: non sudava più e la respirazione era tornata regolare; unico indizio dell'avventura appena vissuta erano le pulsazioni rapide. Inoltre, camicia e biancheria erano fastidiosamente zuppe di sudore che gli si era raffreddato addosso, provocandogli dei brividi. Come prima cosa avrebbe voluto passare da Valerio Garibaldi, con il quale aveva fatto amicizia ai tempi in cui frequentava il North American College, a Roma, ma lo informarono che aveva lasciato l'edificio per una commissione ufficiale. Allora arrivò fino allo studio di Luigi Mansoni. Bussò sull'uscio aperto e il monsignore, che era al telefono, gli fece cenno di entrare e sedersi. Terminata rapidamente la telefonata, gli rivolse la sua completa attenzione. Gli domandò in inglese come se l'era cavata ed era evidente il suo sincero interesse. «Piuttosto bene, tutto considerato», rispose Michael evasivamente. «Considerato che cosa?» «Considerato ciò che ho dovuto passare.» Trionfante, Michael infilò la mano in tasca e ne estrasse la custodia d'argento che pose con ogni precauzione sulla scrivania e poi spinse verso di lui. Quindi si appoggiò allo
schienale, sul viso un sorriso di autocompiacimento. Il monsignore inarcò le sopracciglia, allungò una mano e, sollevata la scatoletta piatta, la tenne fra i palmi. «Mi sorprende che siano stati disposti a rinunciare», commentò. «Sembravano due persone molto appassionate.» «Il suo giudizio è più accurato di quanto non sappia», replicò Michael. «Ma non sanno di aver restituito il campione alla chiesa. E, per essere onesto, con loro non ho nemmeno parlato.» Sul viso paffuto si allargò un leggero sorriso. «Forse non dovrei chiedere com'è riuscito a riaverla.» «Infatti.» «Bene, allora procederemo così: da parte mia, mi limiterò a restituire il campione al professor Ballasari, e la cosa finisce qui.» Monsignor Mansoni fece scattare il fermo e sollevò il coperchio. E trasalì nel vedere l'interno completamente vuoto. Dopo aver spostato qualche volta lo sguardo fra il piccolo oggetto e Michael, mormorò: «Sono confuso. Il campione non c'è!» «No! Non dica così!» Michael si tirò su di botto e guardò a sua volta dentro la custodia. «Oh, no!» Si afferrò la testa con tutte e due le mani e si lasciò cadere in avanti, fino a che i gomiti poggiarono sulle ginocchia. «Non posso crederci!» «Devono averlo tolto.» «È evidente.» Michael aveva un tono depresso. «Lei è sconvolto.» «Più di quanto si immagina.» «Di certo, non tutto è perduto. Forse adesso dovrebbe avvicinare direttamente i due americani e chiedere la restituzione del campione.» Michael si strofinò forte il viso, poi sospirò. «Non credo che sia una scelta consigliabile, non dopo ciò che ho fatto per riprendere la custodia vuota. E, se anche provassi, il giudizio che lei ha dato del loro carattere è molto probabilmente corretto. Rifiuterebbero. Il mio intuito mi dice che hanno un piano preciso per quel campione, nel quale sono molto coinvolti.» «Sa quando partono?» «Domattina alle sette e cinque con l'Air France. Andranno a Londra via Parigi.» «Be', allora abbiamo un'altra possibilità. C'è un modo sicuro per riavere indietro il campione. Si dà il caso che io sia imparentato per parte di madre con un signore che si chiama Carlo Ricciardi. È un cugino di primo grado.
È il soprintendente archeologico del Piemonte e può attivare il Nucleo per la Tutela del Patrimonio Artistico e Archeologico.» «Non ne ho mai sentito parlare.» «Non c'è da sorprendersi, dato che le loro attività sono svolte per lo più in modo discreto. È un corpo speciale dei carabinieri che vigila sulla sicurezza del vasto tesoro dei monumenti e degli oggetti storici che si trovano in Italia, e questi comprendono senza dubbio la Sacra Sindone, nonostante il proprietario legittimo sia la Santa Sede. Se mi rivolgessi a Carlo, lui non avrebbe problemi a far recuperare il campione.» «Che cosa gli dirà? Voglio dire, lo ha dato lei il campione agli americani, non è che lo hanno rubato. Anzi, glielo ha addirittura dato in un luogo pubblico, e un avvocato italiano un po' intraprendente sarebbe perfino capace di esibire un testimone.» «Non direi che è stato rubato. Mi limiterei a dire che è stato ottenuto con l'inganno, cosa che risponde a verità. Ma, cosa più importante, direi che non è stata rilasciata alcuna autorizzazione per farlo uscire dall'Italia, il che è assolutamente proibito, mentre loro hanno intenzione di partire domattina.» «E quella polizia archeologica avrebbe l'autorità di confiscarlo?» «Certo! È un corpo potente, che ha molta libertà d'azione. Opera alle dipendenze del ministero per i Beni e le Attività Culturali, ma è diretto e coordinato da un generale dei carabinieri.» «E suo cugino può mettere in moto una simile operazione? I soprintendenti archeologici, allora, sono persone che contano parecchio!» «In questo campo, sì. Per farle un esempio, un po' di anni fa il vostro presidente Reagan chiese all'allora presidente italiano se i famosi Bronzi di Riace, estratti poco tempo prima dal mare nei pressi di Reggio Calabria, potessero essere trasportati alle Olimpiadi di Los Angeles come icone di quella importante manifestazione sportiva. Il presidente italiano si dichiarò d'accordo, ma il soprintendente archeologico regionale disse di no e le statue rimasero in Italia.» «D'accordo, sono rimasto impressionato», ammise Michael. «E mi dica: questo corpo speciale ha una sua divisione in uniforme?» «Hanno i loro ispettori in abiti civili, ma per le operazioni utilizzano o i carabinieri in divisa o gli agenti di altri corpi di polizia. All'aeroporto credo che sarà la Guardia di Finanza a intervenire, ma potrebbero partecipare anche i carabinieri.» «Se fa questa telefonata, che cosa accadrà agli americani?»
«Domattina, quando faranno il check-in per il volo internazionale, saranno arrestati, messi in prigione e processati. In Italia, le imputazioni di questa natura sono considerate molto serie. Ma non sarebbero processati immediatamente. I casi di questa natura hanno delle procedure lente. Però il campione ci verrebbe restituito subito e il problema sarebbe risolto.» «Faccia la telefonata!» Michael era deluso, ma non tutto era perduto. Evidentemente, non avrebbe potuto vantare il merito di aver risolto il problema tutto da solo. D'altra parte, poteva far sapere al cardinale che la sua partecipazione era stata indispensabile per il buon esito di tutta la vicenda. Un rutto soddisfatto salì dallo stomaco di Daniel, che portò una mano al viso nel timido tentativo di nascondere un sorriso birichino. Stephanie gli scoccò ciò che considerava una delle sue occhiate più sdegnose. Non trovava divertente quando lui dava la stura al suo lato sbarazzino. Daniel rise. «Ehi, rilassati. Ci siamo goduti una cena coi fiocchi e una bottiglia di Barolo con gli strafiocchi. Non rovinare tutto!» «Mi rilasserò dopo che avremo lasciato l'albergo. Penso di avere il diritto di sentirmi sulle spine, dopo che qualcuno ha frugato fra le mie cose.» Daniel infilò la chiave nella toppa e aprì la porta della loro stanza. Stephanie varcò la soglia e diede un'occhiata tutt'attorno. Lui fece per oltrepassarla, ma fu trattenuto per un braccio. «Devo andare in bagno!» si lamentò. «Abbiamo avuto visite!» «Oh, e come fai a saperlo?» Stephanie puntò l'indice verso il cassettone. «La custodia d'argento è sparita.» «È sparita davvero. Immagino che avessi ragione.» «Certo che avevo ragione», replicò lei. Si avvicinò al cassettone e mise la mano nel punto in cui in precedenza c'era il piccolo oggetto d'argento, come se non credesse del tutto alla sparizione. «Ma anche tu. Vogliono il campione.» «Be', devo concederti tutto il merito dell'idea di portarlo con noi e lasciare qui la custodia.» «Grazie. Ma prima controlliamo che non l'abbiano presa solo perché è qualcosa di prezioso.» Stephanie si avvicinò alla sua valigia e controllò di nuovo la pochette con i gioielli. C'erano tutti, e anche il denaro in contanti. Daniel fece la stessa cosa. Gioielli, contanti e traveler's check non erano
stati toccati. Si raddrizzò e chiese: «Che cosa vuoi fare?» «Andiamocene dall'Italia. Non mi sono mai sentita così, mai, in un milione di anni.» Stephanie si lasciò andare all'indietro sul letto, con ancora indosso il cappotto, e fissò il lampadario di vetro multicolore. «Sto parlando di stanotte.» «Cioè, se cambiare stanza o albergo?» «Sì.» «Stiamo qui e usiamo il catenaccio.» «Speravo che dicessi proprio così», commentò Daniel, mentre si toglieva i pantaloni e poi li sistemava in modo che non perdessero la piega. «Non vedo l'ora di mettermi a letto», aggiunse, guardando Stephanie che rimaneva sdraiata con addosso il cappotto. Poi andò all'armadio e appese i pantaloni. Appoggiandosi all'anta chiusa si tolse i mocassini. «Sarebbe una fatica immane spostarci, e sono sfinita.» Stephanie fece uno sforzo per alzarsi dal letto e togliersi il cappotto, poi andò ad appenderlo. «Inoltre, non sono sicura che la persona che ci sta perseguitando non riesca a scoprire i nostri movimenti. Basta che non lasciamo questa stanza fin quando non ce ne andremo dall'albergo.» «A me sta bene», approvò Daniel e cominciò a sbottonarsi la camicia. «Domattina potremmo perfino evitare di fare colazione qui. Potremmo mangiare qualcosa in uno di quei caffè dell'aeroporto. Mi sembrava avessero tutti una bella scelta di paste. Il portiere ha detto che dovremmo essere là per le sei, il che significa che dovremo alzarci dannatamente presto, pur non facendo la colazione.» «Ottima idea. Non so dirti quanto sono impaziente di arrivare all'aeroporto, fare il check-in e salire su quell'aereo.» 13 Martedì 26 febbraio 2002 - ore 4.45 Nonostante il robusto catenaccio, Stephanie aveva dormito pochissimo. Ogni rumore proveniente dall'interno o dall'esterno dell'albergo le aveva provocato una piccola reazione di panico, e di rumori ce n'erano stati tanti. A un certo punto, dopo ia mezzanotte, quando qualcuno aveva girato la chiave nella toppa della porta vicina, lei si era tirata su a sedere, pronta per la battaglia, convinta com'era che sarebbe penetrato nella loro camera. Era scattata così in fretta da scoprire Daniel, il quale aveva tirato le coperte
verso di sé, incollerito. Dopo le due era riuscita finalmente ad addormentarsi, ma non di un sonno profondo e ristoratore. Fu un sollievo quando Daniel la scosse per una spalla dopo quello che a lei era parso soltanto un quarto d'ora. «Che ore sono?» gli chiese con la voce impastata e si appoggiò su un gomito. «Le cinque. Alzati e datti da fare! Dovremmo essere in un taxi nel giro di mezz'ora.» «Alzati e datti da fare» era una frase usata spesso da sua madre per svegliarla, quando Stephanie era adolescente. Poiché era una dormigliona olimpionica che detestava svegliarsi, quell'espressione l'aveva sempre seccata. Daniel era al corrente della storia e usò la frase deliberatamente, per provocarla, un modo davvero efficace per strapparla al sonno. «Sono sveglia», borbottò lei irritata, quando la scosse un'altra volta. Guardò il suo tormentatore ma lui si limitò a sorridere e a scompigliarle i capelli. Quel gesto era un'altra cosa che Stephanie trovava irritante, anche quando aveva i capelli già in disordine, com'erano di sicuro in quel momento. Si sentiva sminuita, e lo aveva già detto diverse volte a Daniel. Si sentiva come se la considerasse una bambina o, ancor peggio, un animale da compagnia. Lo guardò dirigersi verso il bagno, poi si lasciò ricadere supina e trasalì alla luce del lampadario che risplendeva proprio sopra di lei. Fuori era ancora buio pesto. Sospirò. L'unica cosa al mondo che desiderava in quel momento era rimettersi a dormire. Ma poi le ragnatele che si sentiva nella testa cominciarono a diradarsi e pensò a quanto desiderava salire su quell'aereo e andarsene dall'Italia con le fibre della Sindone. «Sei in piedi?» gridò Daniel dal bagno. «Sì», rispose lei. Non si faceva scrupoli a raccontar frottole, dopo che lui era stato tanto spietato svegliandola. Si stiracchiò, sbadigliò, si tirò su a sedere. Dopo aver scacciato una sensazione simile alla nausea, si alzò. La doccia fece meraviglie per entrambi. Anche Daniel, nonostante avesse fatto mostra di vivacità, si era alzato a fatica, ma quando uscirono dal bagno erano tutti e due su di morale e non vedevano l'ora di arrivare all'aeroporto. Si vestirono rapidamente e rimisero in valigia le poche cose che avevano usato. Alle cinque e un quarto Daniel telefonò al portiere perché chiamasse un taxi e mandasse qualcuno a prendere i bagagli. «È difficile credere che oggi stesso, nel tardo pomeriggio, saremo a Nassau», osservò. Da Londra, un volo British Airways li avrebbe portati direttamente a New Providence, una delle Bahamas.
«Non mi sembra vero che passeremo dall'inverno all'estate in un giorno solo», commentò Stephanie. «È come se fossero passati secoli dall'ultima volta che ho indossato un paio di short. Mi sento supereccitata.» Arrivò il fattorino e portò il loro bagaglio nella hall con un carrello, con le istruzioni di caricarlo direttamente sul taxi. Mentre Stephanie si asciugava i capelli, Daniel rimase sulla soglia del bagno. «Penso che dovremmo dire al direttore dell'intruso», propose lei, al di sopra del frastuono del phon. «A cosa servirebbe?» «A non molto, credo, ma secondo me dovrebbero saperlo.» Daniel guardò l'orologio. «Credo che sia una discussione accademica. Non abbiamo tempo. Sono quasi le cinque e mezzo. Dobbiamo metterci in marcia.» «Perché non vai giù a saldare il conto? Arriverò fra due minuti.» «Nassau, eccoci che arriviamo!» esclamò Daniel uscendo dalla stanza. Lo squillo insistente del telefono strappò padre Maloney da un sonno profondo. Si portò il ricevitore all'orecchio ancor prima di essere del tutto sveglio. Era padre Peter Fleck, l'altro segretario personale del cardinale O'Rourke. «Sei sveglio?» gli chiese Peter. «Scusa se ti chiamo a un'ora simile.» «Che ore sono?» chiese Michael, mentre intanto cercava tentoni la lampada sul comodino, poi cercò di distinguere le lancette dell'orologio che aveva al polso. «Qui a New York è mezzanotte meno venti. E lì in Italia?» «Le cinque e trentacinque del mattino.» «Mi spiace, ma oggi pomeriggio, quando mi hai chiamato, avevi detto che era urgentissimo parlare con il cardinale, e sua eminenza è appena rientrato. Te lo passo.» Michael si strofinò il viso e si diede qualche colpetto sulle guance per svegliarsi. Un attimo dopo, la voce gentile del cardinale risonava nel suo orecchio. Anche lui si scusò per l'ora e spiegò che era stato costretto a rimanere a una funzione interminabile con il governatore, iniziata quel pomeriggio. «Mi spiace dover aggiungere un altro fardello», esordì Michael, con un po' di trepidazione. Non lo ingannavano i modi benevoli del cardinale: celavano la capacità di essere spietato, soprattutto con un sottoposto che fosse tanto stupido o tanto sfortunato da contrariarlo. Allo stesso modo, con
coloro che lo compiacevano sapeva essere straordinariamente generoso. «Sta dicendo che a Torino c'è un problema?» «Purtroppo sì. Le due persone mandate dal senatore Butler per ricevere il campione della Sindone sono entrambi scienziati biomolecolari.» «Capisco.» «Sono il dottor Daniel Lowell e la dottoressa Stephanie D'Agostino.» «Capisco», ripeté il cardinale. «Considerate le istruzioni che lei mi ha dato, sapevo che sarebbe rimasto sgomento per questo, a causa delle implicazioni relative ad analisi non autorizzate. La buona notizia è che, lavorando tempestivamente in collaborazione con monsignor Mansoni, sono riuscito a fare in modo che il campione venga subito restituito.» «Oh!» Dopo questa semplice esclamazione, ci fu una pausa che mise Michael a disagio: non era certo la reazione che si aspettava. Dopo il resoconto che gli aveva appena fatto, aveva sperato che il cardinale esprimesse apprezzamento per il suo operato. «Ovviamente, lo scopo è di evitare qualsiasi ulteriore affronto alla Sacra Sindone», si affrettò ad aggiungere, mentre già sentiva un brivido corrergli su per la spina dorsale. Il suo intuito gli diceva che la conversazione stava per avere una svolta inattesa. «Il dottor Lowell e la dottoressa D'Agostino hanno acconsentito volontariamente a riconsegnare il campione?» «Non esattamente», ammise Michael. «Verrà loro confiscato dalle autorità italiane quando stamattina si presenteranno al check-in per il volo Torino-Parigi-Londra.» «E che cosa accadrà ai due scienziati?» «Credo che verranno trattenuti.» «È vero che la Sindone non è stata toccata per ottenere quel campione, come aveva suggerito il senatore Butler?» «Sì, è vero. Il campione in oggetto è un frammento minuscolo preso da un pezzo del sudario che era stato tagliato via molti anni fa.» «Ed è stato consegnato ai due americani in modo strettamente confidenziale, senza documentazione ufficiale?» «Per quanto ne so, è così. Ho comunicato che questo era il suo desiderio specifico.» Michael cominciò a sudare, certo non con l'abbondanza di quando era nascosto dietro la tenda, il giorno prima, ma per lo stesso motivo: la paura. Aveva un nodo allo stomaco provocato dall'ansia, e i muscoli tesissimi. Il tono del cardinale nel rivolgergli quelle domande aveva un ac-
cenno di asprezza appena percettibile, di cui molti non si sarebbero nemmeno accorti, ma lui lo colse immediatamente. Sapeva che sua eminenza stava andando sempre più in collera. «Padre Maloney! Per sua informazione, il senatore ha già avanzato il disegno di legge promesso, che limita la responsabilità degli enti di beneficenza negli illeciti, e ora è ancora più convinto, rispetto a quando ne avevamo parlato venerdì scorso, che avrà buone probabilità di passare, con il suo sostegno. Non occorre le spieghi il valore che avrebbe questa legge per la chiesa. Per quanto riguarda il campione della Sindone, privo di qualsiasi documentazione ufficiale, se anche venisse usato per avventate indagini scientifiche, i risultati non potrebbero essere autenticati e quindi sarebbe facile respingerli.» «Mi spiace», bofonchiò Michael, poco convinto. «Pensavo che sua eminenza volesse la restituzione del campione.» «Padre Maloney, le mie istruzioni erano chiare. Non l'ho mandata a Torino per pensare. L'ho mandata perché scoprisse chi aveva preso il campione e lo seguisse per sapere a chi veniva consegnato. Non doveva organizzarne la restituzione e di conseguenza mettere a rischio un iter legislativo estremamente importante.» «Non so che cosa dire...» «Non dica niente Le consiglio invece di bloccare ciò che ha già messo in moto, se non è già diventato un fatto compiuto; questo, naturalmente, a meno che le sue aspirazioni non siano di essere assegnato a una piccola parrocchia da qualche parte nelle Catskill Mountains. Non voglio che il campione sia confiscato né che gli scienziati americani siano arrestati, il che è un termine più preciso rispetto all'eufemismo usato da lei. Cosa più importante di tutte, non voglio che il senatore Butler mi telefoni avvisandomi che ha ritirato il suo progetto di legge, cosa che sicuramente farà se accadrà ciò che lei mi ha descritto. Sono stato chiaro, padre?» «Perfettamente», balbettò Michael, e si accorse che il telefono era muto: il cardinale aveva riattaccato. Mentre rimetteva a posto il ricevitore, deglutì a fatica. Essere spedito in una piccola parrocchia sperduta fra i monti nello stato di New York era l'equivalente, nella chiesa, di essere mandato in Siberia. Afferrò di nuovo il ricevitore, quasi strappandolo via. L'aereo degli americani non sarebbe partito che dopo le sette. Questo significava che c'era la possibilità di evitare il disastro della propria carriera. Come prima cosa, telefonò al Grand Hotel Belvedere, solo per scoprire che i due se n'erano già
andati. Poi tentò con monsignor Mansoni, ma il prelato aveva lasciato la sua residenza mezz'ora prima per l'aeroporto. Galvanizzato da queste rivelazioni, Michael si infilò i vestiti con la rapidità di un fulmine e uscì dalla sua stanza senza radersi né fare la doccia e senza nemmeno usare il bagno. Non volendo aspettare l'ascensore, si precipitò giù per le scale e dopo pochi minuti, ansante, armeggiava con le chiavi e saliva a bordo della Fiat presa a nolo. Mise in moto, partì con una sgommata e uscì dal parcheggio. Un'occhiata all'orologio gli permise di calcolare che poteva arrivare all'aeroporto poco dopo le sei. Il problema era che non aveva la minima idea di cosa avrebbe fatto una volta arrivato lì. «Hai intenzione di dargli una grossa mancia?» chiese Stephanie in tono provocatorio, mentre il taxi saliva la rampa che portava alle partenze. La fobia di Daniel riguardo ai taxi cominciava a darle sui nervi, anche se doveva riconoscere che quella volta lui non aveva tutti i torti: l'autista aveva completamente ignorato le sue ripetute richieste di andare più piano. Ogni volta che Daniel diceva qualcosa, l'uomo rispondeva: «No English!» Comunque, non era andato più forte di qualsiasi altro veicolo sulla superstrada. «Sarà già tanto se gli pagherò la corsa!» sbottò Daniel. L'auto si fermò in mezzo a un mare di altri taxi e auto private che scaricavano i passeggeri. A differenza che nel centro cittadino, nell'aeroporto c'era un gran via vai di gente. Con l'aiuto del tassista, Stephanie e Daniel deposero rapidamente i bagagli sul marciapiede, poi Daniel lo pagò controvoglia e quello se ne andò. «Come faremo adesso?» chiese Stephanie. Avevano più valigie di quante sarebbero riusciti a portare. Si guardò attorno. «Non mi piace l'idea di lasciarle incustodite», disse Daniel. «Sono d'accordo. Che ne dici se uno va a cercare un carrello e l'altro rimane qua?» «Mi sembra una buona idea. Tu che cosa preferisci?» «Dato che i biglietti e i passaporti li hai tu, preparali, intanto io cerco il carrello.» Stephanie si fece largo tra la folla, tenendo gli occhi puntati per scorgere un carrello, ma tutti quelli che vedeva erano già in possesso di qualcuno. Ebbe più fortuna all'interno del terminal, soprattutto dopo aver oltrepassato i banchi del check-in ed essersi avvicinata alla zona dei controlli di sicu-
rezza, infatti i viaggiatori che si sottoponevano ai controlli dovevano abbandonare i carrelli. Ne prese uno abbandonato e tornò sui propri passi. Trovò Daniel seduto sulla valigia più grossa, che batteva un piede con impazienza. «Ce ne hai messo di tempo!» si lamentò. «Mi spiace, ho fatto il meglio che ho potuto. Questo posto è strapieno. Devono esserci parecchi voli che partono più o meno alla stessa ora.» Si diedero da fare a caricare tutto, tranne i portatili che si misero a tracolla, e formarono una pila piuttosto precaria. Daniel cominciò a spingere e Stephanie camminò di fianco al carrello, per impedire alle valigie di cadere. «Ho notato un sacco di polizia in giro», gli disse, mentre entravano nel terminal. «Più di quanta se ne veda normalmente negli aeroporti. Certo, i carabinieri si notano di più, con quelle strisce rosse sui pantaloni.» Superata la porta di qualche metro si fermarono. La folla turbinò loro attorno, come un fiume che incontri un ostacolo. «Da che parte andiamo?» chiese Daniel, mentre veniva spintonato in qua e in là. «Non vedo nessun display dell'Air France.» «I voli sono elencati sui monitor vicino a ogni banco del check-in. Aspettami qua! Vado a cercare il nostro.» Le occorsero solo pochi minuti per trovare il banco giusto. Quando tornò indietro vide che Daniel si era spostato da una parte, per evitare la fiumana di gente che entrava dalla porta. Indicò nella direzione verso la quale dovevano andare e ripartirono. «Adesso capisco che cosa intendevi, parlando della polizia», commentò Daniel. «Me ne sono passati vicino sei o sette. La cosa che mi ha colpito sono state le mitragliette.» «Ce n'è perfino un gruppo dietro il banco dove dovremo andare noi.» Si accodarono alla fila piuttosto lunga per il volo Torino-Parigi. Dopo cinque minuti erano avanzati pochissimo. «Che cosa diavolo stanno facendo laggiù?» chiese Daniel. Si sollevò sulla punta dei piedi per cercare di vedere come mai le cose andavano per le lunghe. «Non riesco a capire come mai ci mettono così tanto. Mi chiedo se magari è la polizia a rallentare le operazioni.» «Se non perderemo tanto tempo anche nel passare attraverso la sicurezza, credo che ce la faremo.» Stephanie guardò l'orologio. Erano le sei e venti. «Dato che questo banco è solo per il nostro volo, siamo tutti sulla stessa
barca.» Daniel stava ancora fissando l'inizio della fila. «Non ci avevo pensato, ma credo che tu abbia ragione.» «Accidenti!» esclamò Daniel. «Che cosa c'è adesso?» Dall'esclamazione e soprattutto dal tono, Stephanie si accorse di quanto era teso. Cercò di seguire il suo sguardo ma aveva davanti troppa gente. «Monsignor Mansoni, il prete che ci ha dato il campione della Sindone, è là dietro il banco, assieme ai carabinieri.» «Sei sicuro?» A Stephanie sembrava una coincidenza eccessiva. Provò di nuovo a guardare, senza riuscirci. Daniel alzò le spalle. Allungò di nuovo il collo per vedere il banco, poi le rispose: «Sembra proprio lui, e non credo che ci siano tanti preti obesi a quel modo». «Credi che abbia a che fare con noi?» «Non lo so, ma mettendo insieme la sua presenza qui e il fatto che qualcuno ha cercato di sottrarci il campione quando eravamo in albergo mi sento a disagio.» «Questa cosa non mi piace. Non mi piace per niente.» La fila avanzò un altro po', portandoli al quarto posto. Daniel esitò, non essendo sicuro sul da farsi, ma l'uomo dietro di lui gli diede un colpetto impaziente per farlo andare avanti. Spinse il carrello, ma si tenne nascosto dietro la torre di valigie. Stephanie invece si spostò di lato e guardò senza farsi notare verso l'inizio della fila. Si riavvicinò immediatamente per mettersi anche lei al riparo dei bagagli. «È sicuramente monsignor Mansoni», confermò. Lei e Daniel rimasero qualche momento a fissarsi, poi lui chiese con impeto: «Che cosa diavolo facciamo?» «Non lo so. È la polizia a preoccuparmi, non il prete.» «Evidentemente», replicò Daniel in tono collerico. «Dov'è il campione?» «Te l'ho già detto: nella custodia del mio portatile.» «Ehi, non parlarmi con questo tono!» La fila si mosse ancora. Sentendosi il fiato sul collo del viaggiatore alle sue spalle, Daniel dovette spingere il carrello. A mano a mano che si avvicinavano al banco, lui e Stephanie diventavano sempre più nervosi. «Forse lavoriamo troppo di immaginazione», provò a dire lei, speranzosa. «È una coincidenza troppo grande per liquidarla come semplice para-
noia. Se ci fosse soltanto il prete, o soltanto la polizia, sarebbe diverso, ma tutti e due proprio a questo banco, è un'altra cosa. Il problema è che dobbiamo prendere una decisione. Voglio dire, non fare niente è già una decisione, perché fra un paio di minuti toccherà a noi e qualsiasi cosa dovrà accadere accadrà.» «A questo punto che cosa possiamo fare? Siamo inchiodati qui dalla folla, e per giunta con una vagonata di valigie. Nel peggiore dei casi gli restituiamo il campione, se è questo che vogliono.» «Non ci sarebbe così tanta polizia in uniforme se avessero semplicemente intenzione di confiscarci il campione.» «Scusate!» chiamò in inglese alle loro spalle una voce affannata e con una vena di panico. L'accento era inequivocabilmente americano. Tesi com'erano, Stephanie e Daniel voltarono la testa di scatto e si trovarono davanti un prete evidentemente stravolto, con gli occhi che sembravano uscirgli dalle orbite. Il petto gli andava su e giù, probabilmente per lo sforzo della corsa, e la fronte era imperlata di sudore. Inoltre era evidente che non si era rasato e nemmeno pettinato: l'ombra sulle guance e la scompigliata chioma rossa contrastavano con il clergymen perfettamente in ordine e ben stirato. Doveva averli raggiunti facendosi largo attraverso i viaggiatori in coda dietro di loro, a giudicare da com'erano irritati. «Il dottor Lowell e la dottoressa d'Agostino?» chiese ansante il prete. «È imperativo che vi parli.» «Scusi!» abbaiò il viaggiatore dietro Daniel e gli mimò di spostarsi in avanti. Lui si accorse che la fila era avanzata ancora. A quel punto invitò a gesti l'uomo a prendere il suo posto, cosa che quello fece volentieri. Michael lanciò una rapida occhiata oltre il carrello di Daniel e Stephanie. Nel vedere il monsignore e la polizia, si accucciò, addossandosi a Daniel. «Abbiamo solo pochi secondi», sussurrò. «Non dovete fare il chek-in del volo per Parigi!» «Come fa a sapere i nostri nomi?» chiese Daniel. «Non c'è tempo per le spiegazioni.» «Chi è lei?» chiese Stephanie. C'era qualcosa di familiare in lui. ma non riusciva a ricordare dove lo avesse visto. «Non importa chi sono. Ciò che importa è che stanno per arrestarvi e vi confischeranno il campione della Sindone.» «Adesso mi ricordo!» esclamò Stephanie. «Era nel caffè quando ci hanno dato il campione, ieri.» «Vi prego!» implorò Michael. «Dovete allontanarvi da qui. Ho un'auto.
Vi porterò fuori dall'Italia.» «In macchina?» chiese Daniel, come se fosse un'idea ridicola. «È l'unico modo. Treni, aerei, tutti i transiti di massa saranno tenuti d'occhio, ma soprattutto gli aerei, e in particolare il volo per Parigi. Dico sul serio: state per essere arrestati e messi in prigione. Credetemi!» Daniel e Stephanie si guardarono, pensando entrambi la stessa cosa: l'arrivo di quel prete trafelato e il suo avvertimento erano una vera fortuna. Non avrebbero fatto il check-in del volo per Parigi. Daniel manovrò il carrello per fargli fare dietrofront, ma Michael gli afferrò un braccio. «Non c'è tempo per tutto il bagaglio.» «Che cosa sta dicendo?» Per tutta risposta, Michael allungò il collo per guardare verso il banco, a circa sei-sette metri di distanza, ma tirò subito indietro la testa, insaccandola nelle spalle come fosse una tartaruga. «Accidenti! Adesso mi hanno visto, il che significa che mancano pochi secondi al disastro. A meno che non vogliate trascorrere del tempo al fresco, conviene correre. Dovete lasciare quasi tutto il bagaglio! Dovete decidere che cosa è più importante per voi: la libertà o le valigie.» «Ci sono tutti i miei indumenti estivi!» esclamò Stephanie, sbigottita. «Signore!» L'uomo dietro Daniel, irritatissimo, gli fece cenno di spostarsi in avanti. «Andate avanti!» cominciarono a gridare i viaggiatori in fila dietro di loro, vedendo che bloccavano la fila. «Dov'è il campione?» chiese Michael. «E i passaporti?» «Nella mia tracolla», rispose Daniel. «Bene! Tenete il bagaglio a mano, ma lasciate il resto! In seguito farò in modo che il consolato statunitense provi a recuperare le vostre cose e a spedirvele dove vi troverete. Andiamo!» Michael tirò Daniel per una manica, indicando la direzione opposta al banco del check-in. Daniel guardò oltre la pila di valigie sul carrello appena in tempo per vedere monsignor Mansoni afferrare per il braccio un carabiniere e indicare verso di loro. A quel punto si rese veramente conto dell'urgenza e sibilò a Stephanie: «Credo sia meglio fare come dice lui». «E va bene!» replicò lei, sollevando le braccia in gesto di resa. «Seguitemi!» abbaiò Michael, e li condusse più rapidamente che poté lontano dal loro carrello. I viaggiatori ammassati nelle varie code si fecero da parte riluttanti, con una lentezza che per i fuggitivi era esasperante. Continuando a ripetere «scusi» un'infinità di volte, Michael fu costretto a spingere da parte le persone e a scavalcare i bagagli appoggiati a terra. Da-
niel e Stephanie lo seguivano a ruota, come se lui aprisse un varco in mezzo a una giungla di essere umani. Procedevano molto lentamente e quella situazione rammentò a Stephanie un incubo in cui era immersa quando Daniel l'aveva svegliata, circa un'ora e mezzo prima. Vane grida di «alt!» risonarono alle loro spalle e li spinsero ad accelerare ancora di più la corsa. Allontanatisi dalla zona affollatissima del checkin, procedevano ora più speditamente, ma Michael li consigliò di rallentare. «Se corressimo verso il terminal non ci farebbe caso nessuno, ma correre uscendone attirerebbe troppo l'attenzione. Limitiamoci a camminare in fretta!» All'improvviso, si materializzarono due giovani carabinieri che correvano proprio verso di loro con le mitragliette in mano. «Oh, no!» gemette Daniel e rallentò il passo. «Continui a camminare!» lo esortò Michael, parlando tra i denti. Dietro di loro si udiva adesso un grande trambusto, con grida incomprensibili. Continuarono a procedere in rotta di collisione con i due carabinieri. Daniel e Stephanie erano entrambi sicuri che stavano puntando su di loro e li avrebbero arrestati e solo all'ultimo momento si resero conto che non era così: arrivati alla loro altezza, i due giovani non li degnarono di uno sguardo e continuarono a correre, probabilmente verso la zona del check-in. Vari viaggiatori si fermarono a guardarli, l'apprensione dipinta sul volto. Dopo l'11 settembre i disordini negli aeroporti in qualsiasi parte del mondo, indipendentemente dalla causa, mettevano la gente sul chi vive. «Ho la macchina agli arrivi, al livello inferiore», spiegò Michael. indicando le scale. «Non ho potuto lasciarla al livello delle partenze nemmeno per pochi minuti.» Scesero più rapidamente che poterono. Al piano inferiore il terminal era relativamente deserto, poiché i voli attesi dovevano ancora arrivare. Le uniche persone in vista erano un gruppetto di dipendenti dell'aeroporto che si preparavano per l'assalto dei passeggeri, e qualche impiegato delle agenzie di autonoleggio vicino ai loro chioschi. «Adesso non correre è ancora più importante», avvertì Michael sottovoce. Qualcuno guardò nella loro direzione, ma solo per un momento, prima di tornare ai rispettivi compiti. Quando arrivarono davanti alle porte principali, queste si aprirono automaticamente e loro uscirono in fretta, ma a quel punto Michael si fermò e, allargando le braccia, bloccò anche i suoi due compagni di fuga.
«Questa non è una bella vista», si lagnò. «Purtroppo, quella lì è la mia macchina a nolo.» A una quindicina di metri da loro era parcheggiata una Fiat marrone chiaro, accostata al marciapiede con le luci d'emergenza accese. Immediatamente dietro c'era un'auto della polizia con la luce blu lampeggiante. Sul sedile anteriore si vedevano le teste di due agenti. «Che cosa dovremmo fare?» chiese Daniel, agitatissimo. «Che ne dite di noleggiarne un'altra?» «Non credo che le agenzie di autonoleggio abbiano già aperto, e comunque ci vorrebbe troppo tempo», rispose Michael. «E un taxi?» propose Stephanie. «Dobbiamo allontanarci dall'aeroporto. Potremmo noleggiare un'auto in città.» «È un'idea», approvò Michael, ma vide che il posteggio dei taxi era vuoto. «Il problema è che quaggiù non ci saranno taxi fino all'arrivo del primo volo, e non so quando sarà. Per trovarne uno dovremmo tornare al livello superiore, e non mi sembra certo una buona idea. Penso che dobbiamo rischiare con la mia auto. Quelli sono vigili urbani, cioè la polizia municipale che si occupa del traffico. Non credo che stiano cercando noi, per lo meno non ancora. Probabilmente stanno aspettando un'autogru per portare via la macchina.» «Che cosa gli dirà?» «Non so. Non c'è tempo per essere particolarmente creativi. Cercherò di trarre vantaggio dal mio status ecclesiastico.» Michael respirò a fondo per farsi coraggio. «Andiamo! Quando arriviamo alla macchina voi salite. Penserò io a parlare.» «Non mi piace», ribatté Stephanie. «Neanche a me», ammise Michael, mentre li spingeva avanti. «Ma credo che sia la nostra migliore opportunità. Nel giro di pochi minuti, ogni persona addetta alla sicurezza di questo aeroporto si metterà a cercarci dappertutto. Monsignor Mansoni mi ha visto.» «Voi due vi conoscete?» «Diciamo di sì, ma solo superficialmente.» Mentre il gruppetto si avvicinava rapidamente alla Fiat Ulysse, cessò ogni conversazione. Michael girò dietro l'auto dei vigili urbani per raggiungere la portiera dal lato del guidatore. Quando arrivò, l'aprì e si sedette al volante, come se non li avesse notati. Stephanie e Daniel si avvicinarono dal lato opposto e si sistemarono sul sedile posteriore. «Padre!» gridò uno dei due vigili, e scese rapidamente dall'auto, mentre
il compagno rimaneva a bordo. Quando si sentì chiamare, Michael non aveva ancora richiuso la portiera. A quel punto, scese dall'auto. Daniel e Stephanie rimasero a guardare dall'interno. Il vigile si avvicinò al prete. Indossava una divisa con due tonalità di blu, la cintura e la fondina bianche. Era un tipo magro che parlava rapidamente, come pure Michael. La conversazione era accompagnata da un gran gesticolare, che culminò quando il vigile puntò l'indice davanti a sé e poi fece degli ampi gesti con la mano. A quel punto Michael risalì in macchina e mise in moto. Un attimo dopo la Fiat emergeva sotto la rampa delle partenze e si dirigeva verso l'uscita dell'aeroporto. «Che cosa è successo?» domandò Stephanie, nervosa, e guardò attraverso il lunotto posteriore per assicurarsi che non li seguissero. «Per fortuna, è rimasto intimidito dalla mia veste.» «Che cosa gli ha detto?» «Mi sono scusato e ho detto che si trattava di un'emergenza. Poi ho chiesto dove fosse l'ospedale più vicino, e sembra che se la siano bevuta. Mi ha dato un sacco di indicazioni.» «Lei parla fluentemente l'italiano?» chiese Stephanie. «Me la cavo. Ho fatto il seminario a Roma.» Appena poté, Michael abbandonò la superstrada e imboccò una strada di campagna. Dopo poco si ritrovarono in un ambiente agricolo. «Dove stiamo andando?» si informò Daniel, guardando dal finestrino con espressione crucciata. «Staremo lontani dalla superstrada», spiegò Michael. «Sarà più sicuro. A dirle la verità, non ho idea di quanto hanno intenzione di cercare voi due, ma non voglio rischiare di trovare posti di blocco.» Quando se ne presentò l'opportunità, Michael accostò e fermò la macchina. Lasciò il motore acceso, scese e scomparve per qualche minuto fra i cespugli. Doveva ancora sorgere il sole, ma faceva già chiaro. «Che cosa succede?» chiese Stephanie. «Non ne ho la minima idea», rispose Daniel, «ma immagino che stia facendo i suoi bisogni.» Michael ricomparve e salì di nuovo in macchina. «Scusate», disse, ma non aggiunse spiegazioni. Si chinò ed estrasse dal portaoggetti del cruscotto diverse cartine stradali. «Mi servirà un navigatore», annunciò. «Uno di voi sa leggere una cartina?»
Daniel e Stephanie si scambiarono un'occhiata. «Lei probabilmente è più brava di me», ammise Daniel. Michael ne aprì una, poi girò la testa verso il sedile posteriore. «Che ne dice di venire davanti? Ho davvero bisogno d'aiuto, se vogliamo oltrepassare Cuneo.» Stephanie fece spallucce, scese di macchina e risalì davanti. «Noi siamo qui», spiegò Michael, dopo aver acceso la luce dell'abitacolo, indicando un punto a nordest di Torino. «E stiamo andando qui.» Spostò il dito verso il basso fino alla base della cartina, dove lo puntò sulla costa del Mediterraneo. «A Nizza?» domandò Stephanie. «Sì. Secondo me è consigliabile dirigerci a sud, perché in questo modo sarà più facile viaggiare su strade secondarie, e a sud l'aeroporto internazionale più vicino fuori d'Italia è quello di Nizza. Potremmo puntare verso Ginevra, a nord, ma dovremmo usare le strade principali e passare la frontiera in un punto più controllato. Io credo che sia più sicuro andare a Nizza. Siete d'accordo?» Daniel e Stephanie si limitarono a stringersi nelle spalle. «Penso di sì», rispose Daniel. «Va bene. La strada è questa.» Michael usò di nuovo il dito mentre parlava. «Attraverseremo Torino diretti a Cuneo, poi passeremo il Colle di Tenda. Dal momento in cui varcheremo il confine, che in quel punto non è sorvegliato, rimarremo sempre in Francia, anche se la via più diretta verso sud passa dall'Italia. A Mentone, sulla costa, potremo prendere l'autostrada a pedaggio che ci porterà rapidamente a Nizza. Quella sarà la parte più rapida. Direi che l'intero viaggio richiederà cinque o sei ore, ma è solo una supposizione. Pensate che sia accettabile?» Daniel e Stephanie si strinsero nuovamente nelle spalle, dopo essersi scambiati un'occhiata. Erano entrambi talmente sconcertati dagli eventi che non sapevano che cosa dire. Era difficile perfino pensare, non solo parlare. Michael guardò prima uno poi l'altra. «Prenderò il silenzio per un sì. Capisco la vostra confusione. È stata una mattinata inattesa, a dir poco. Allora, come prima cosa attraverseremo Torino. Mi sembra il percorso più sicuro, perché all'interno della città i controlli sono molto più difficili. Spero che faremo in tempo a evitare l'ora di punta.» Aprì la seconda cartina: era quella di Torino e dintorni. Mostrò a Stephanie dov'erano e dove volevano andare. Lei annuì.
«Non dovrebbe essere difficile», continuò Michael. «Una cosa in cui gli italiani sono bravi sono i cartelli stradali. Prima seguiamo le indicazioni per il centro città, poi quelle per la statale 20, diretta a sud. Va bene?» Stephanie annuì di nuovo. «Andiamo!» Michael si sistemò al volante e ingranò la marcia. Inizialmente il traffico non era male ma, più si avvicinavano alla città, più peggiorava e più il traffico peggiorava più tempo impiegavano e più tempo impiegavano più il traffico peggiorava, in una spirale senza fine. Poco prima che raggiungessero il centro si fece giorno; il cielo era sereno, di un celeste pallido. Proseguirono in silenzio, tranne per le indicazioni date di tanto in tanto da Stephanie, che seguiva attentamente il loro procedere sulla mappa della città e lo confrontava con i cartelli stradali che incontravano. Daniel non diceva una parola. Per lo meno era contento che Michael fosse un guidatore prudente e guardingo. Erano quasi le nove quando si lasciarono alle spalle Torino e il suo traffico da ora di punta per seguire la statale 20 verso sud. A quel punto, Stephanie e Daniel erano riusciti a rilassarsi un po' e a raccogliere le idee, che si concentravano soprattutto sul loro autista e sui bagagli abbandonati. Stephanie ripiegò con cura le due cartine e le appoggiò sul cruscotto. Da quel punto la strada era facile da trovare. Guardò il profilo adunco di Michael, le guance incavate e scurite dalla barba non rasata, la rossa chioma scomposta. «Forse questo è il momento buono per chiederle chi è», gli disse. «Sono un semplice prete», rispose Michael e sorrise debolmente. Sapeva che le domande sarebbero arrivate, e non era sicuro di quanto volesse dire. «Penso che ci meritiamo di più», insisté Stephanie. «Mi chiamo Michael Maloney e lavoro per l'arcivescovo di New York, ma al momento mi trovo in Italia per affari collegati alla chiesa.» «Come mai sapeva i nostri nomi?» domandò Daniel. «Sono certo che entrambi siete estremamente curiosi, e ne avete ben donde. Però preferirei non entrare nei dettagli della mia partecipazione. Sarebbe meglio per tutti. Potreste accettare di sapere soltanto che vi ho salvati da un sicuro arresto e non interrogarmi? Ve lo chiedo per favore. Forse potreste attribuire il mio aiuto all'intervento divino, per il quale sono stato semplicemente il servo di Dio.» Stephanie scoccò un'occhiata a Daniel, prima di concentrarsi nuovamente su Michael. «È interessante che lei abbia usato l'espressione 'intervento divino'. È una coincidenza, dato che abbiamo udito questa specifica formu-
la in associazione a ciò che ci ha portati in Italia, e precisamente a ritirare il campione della Sindone.» «Oh?» Michael cercò un modo per spostare la conversazione su argomenti meno delicati, ma non gliene venne in mente nessuno. «Perché stavano per arrestarci?» volle sapere Daniel. «Non dovrebbe avere niente a che fare con la nostra partecipazione.» «Perché si è scoperto che siete scienziati biomedici. È statla una brutta sorpresa. Attualmente, la chiesa non desidera che si svolgano altre indagini scientifiche riguardo all'autenticità della Sindone; considerata la vostra preparazione, c'era il legittimo timore che invece fosse proprio ciò che voi intendete fare. All'inizio, la chiesa voleva semplicemente riavere il campione, ma quando questo non è sembrato fattibile, hanno deciso di confiscarlo.» «Questo spiega un po' di cose», osservò Stephanie, «ma non come mai lei ha deciso di aiutarci. Si fida che noi non sottoporremo il campione a indagini scientifiche?» «Preferirei non toccare questo argomento. La prego!» «Come faceva a sapere che eravamo diretti a Londra, mentre eravamo in fila al check-in del volo per Parigi?» Daniel si sporse in avanti in attesa della risposta. La voce di Michael non arrivava bene ai sedili posteriori. «Rispondere a questa domanda mi metterebbe in imbarazzo.» Michael arrossì, ricordando il suo nascondiglio dietro la tenda. «Vi prego. Possiamo lasciar perdere? Accettate ciò che ho fatto come un piacere: semplicemente un amico che aiuta una coppia di compatrioti in difficoltà.» Proseguirono in silenzio per qualche chilometro, dopo di che Stephanie si decise a parlare. «Be' grazie per averci aiutati. E, per quello che vale, sappia che non ci interessa affatto verificare l'autenticità della Sindone.» «Lo farò sapere alle autorità ecclesiastiche. Sono certo che saranno sollevate nel saperlo.» «E il nostro bagaglio? C'è la possibilità che lei riesca a recuperarlo?» «Sarò felice di fare del mio meglio, e sono ottimista al riguardo, soprattutto sapendo che non avete intenzione di sottoporre il campione a indagini scientifiche. Se tutto va bene, ve lo farò spedire a casa vostra, nel Massachusetts.» «Non torneremo a casa che fra un mese», replicò Daniel. «Vi lascerò il mio biglietto da visita. Non appena avrete un indirizzo, potrete chiamarmi.» «Lo abbiamo già l'indirizzo.»
«Avrei una domanda», intervenne Stephanie. «D'ora in poi, saremo persona non grata in Italia?» «Come per la questione del bagaglio, spero di riuscire a far cancellare il passato, come si suol dire. Non avrete alcun problema a visitare l'Italia in futuro, se è questo che la preoccupa.» Stephanie si voltò verso Daniel. «Io penso di poter sopravvivere senza conoscere i dettagli truci. E tu?» «Suppongo di sì», rispose lui. «Però mi piacerebbe sapere chi è riuscito a penetrare nella nostra camera d'albergo.» «Io di certo non voglio parlarne», si affrettò a rispondere Michael, «il che non significa che sappia qualcosa in particolare.» «Allora ci dica solo questo: era un membro della chiesa o un professionista assoldato ad hoc, o era un dipendente dell'albergo?» «Non posso dirlo, mi spiace.» Una volta rassegnati al fatto che Michael non avrebbe spiegato i come e i perché del suo prezioso intervento e rassicurati che le autorità italiane erano state eluse, Stephanie e Daniel si rilassarono e si godettero perfino il viaggio. Salendo su per le Alpi ricoperte di neve e attraversando la stazione sciistica di Limone Piemonte videro un panorama spettacolare. Sul lato francese del passo scesero per la scoscesa Gorge de Saorge, lungo una strada tagliata letteralmente nelle pareti rocciose della stretta gola. Si fermarono a mangiare un boccone a Sospel e quando arrivarono all'aeroporto di Nizza erano le due del pomeriggio. Michael diede loro il proprio biglietto da visita e prese l'indirizzo dell'Ocean Club di Nassau, dove Daniel aveva fatto la prenotazione. Poi li salutò con una stretta di mano, promettendo di nuovo di provvedere al loro bagaglio appena fosse rientrato a Torino, quindi ripartì. Daniel e Stephanie fissarono la Fiat finché scomparve alla vista, poi si guardarono. Stephanie scosse la testa e commentò: «Che strana esperienza!» Daniel annuì. «Questo è dir poco!» Stephanie si lasciò sfuggire una risata derisoria. «Non voglio infierire, ma non posso fare a meno di ricordare come gongolavi ieri mattina per quanto era stato facile ottenere quel campione e per come questa facilità fosse foriera del successo nel curare Butìer. Te lo vuoi rimangiare?» «Forse è stata una considerazione prematura», ammise Daniel. «Però le cose sono andate a finire bene. Magari perderemo un giorno o due, ma tut-
to filerà liscio, a partire da adesso.» «Speriamo», mormorò Stephanie, sistemandosi la tracolla sulla spalla. «Entriamo a informarci sui voli per Londra. Questo sarà il primo test.» Entrarono nel terminal e guardarono gli orari su un'enorme tabella elettronica. Individuarono quasi simultaneamente un volo non stop della British Airways per le 15.45. «Vedi che cosa intendo?» si vantò Daniel. «Più comodo di così!» 14 Giovedì 28 febbraio 2002 - ore 15.55 «Per la miseria», sbottò Daniel con il tassista. «Che cosa fa? Ci farà ammazzare!» Era tutto teso contro la cintura di sicurezza, una mano appoggiata alla spalliera del sedile davanti. Erano appena arrivati nell'isola di New Providence. Il controllo passaporti e la dogana erano stati una pura formalità, dato che non avevano bagaglio. Quel po' di vestiario e di articoli da toletta acquistati durante il soggiorno di trentasei ore a Londra erano infilati nella borsa del bagaglio a mano. Erano stati i primi a sbarcare dall'aereo e avevano preso il primo taxi della fila, una Cadillac d'epoca nera. «Mio Dio!» gemette Daniel mentre un'auto che veniva in senso contrario passò alla loro destra. Girò la testa e la vide allontanarsi dietro di loro. Allarmato dalle esclamazioni del suo viaggiatore, il tassista lo guardò nello specchietto retrovisore. «Ehi, amico! Che cosa c'è?» Daniel, che era impallidito, si voltò di nuovo in avanti, temendo altro traffico in arrivo. L'auto appena passata era la prima che avevano incrociato sulla stretta strada a due corsie proveniente dall'aeroporto. Come al solito, lui teneva lo sguardo fisso sul parabrezza e l'aveva vista avvicinarsi. Si era irrigidito sempre di più, mentre l'autista, che era nel pieno di un monologo di benvenuto come se fosse un membro della camera di commercio locale, cominciava a spostarsi a sinistra. Daniel pensava che si sarebbe accorto dell'errore e si sarebbe buttato a destra. Ma non lo aveva fatto. Quando credeva che fosse troppo tardi per evitare un incidente, aveva gridato per la disperazione. «Daniel, calmati!» cercò di tranquillizzarlo Stephanie e gli mise una mano sulla coscia dai muscoli tesissimi. «Va tutto bene. È evidente che qui tengono la sinistra.»
«Perché diavolo non me lo avevi detto?» «Non lo sapevo, almeno fin quando non abbiamo incrociato quell'auto. Ma ha senso: questa è stata per secoli una colonia inglese.» «Allora come mai il volante è a sinistra, come nelle macchine normali?» Stephanie capì che l'umore di Daniel non gli avrebbe permesso di calmarsi e cambiò argomento. «Non riesco a scordare il colore dell'oceano dall'alto dell'aereo, mentre arrivavamo. Dev'essere perché è poco profondo. Non avevo mai visto un acquamarina così luminoso né un color zaffiro così intenso.» Daniel grugnì. Era preoccupato per un'altra auto che si avvicinava. Stephanie guardò fuori e abbassò il finestrino, nonostante la Cadillac avesse l'aria condizionata. Per lei che arrivava dal bel mezzo dell'inverno, la serica aria tropicale e la flora lussureggiante erano sensazionali, soprattutto il rosso scarlatto e il viola luminoso della buganvillea che sembrava prosperare su ogni muro dell'isola. I paesi e gli edifici che passavano facevano pensare al New England, tranne per le vibranti tinte tropicali, messe in risalto dall'implacabile sole delle Bahamas. Le persone che superavano, il cui colore della pelle andava dal bianco al mogano, sembravano rilassate e i loro sorrisi si notavano perfino da lontano. Stephanie sentiva che quello era un luogo felice e sperò che fosse un segno di buon auspicio per ciò che lei e Daniel stavano per intraprendere. Per quanto riguardava la loro sistemazione, non aveva idea di cosa li aspettava, poiché non ne avevano parlato. Era stato Daniel a occuparsene, prima di lasciare l'Italia. Il 22 marzo, esattamente tre settimane dopo, sapeva dove si sarebbero trovati. Quel giorno sarebbe arrivato Butler e loro due lo avrebbero raggiunto all'enorme Atlantis Hotel, sfruttando la prenotazione fatta dallo stesso senatore. Stephanie scosse impercettibilmente la testa pensando a tutto ciò che dovevano fare prima del suo arrivo. Sperava che la coltura del tessuto proseguisse bene, a Cambridge. Se così non fosse stato, non c'era modo di rispettare il termine tassativo di tre settimane per l'impianto. Dopo una mezz'oretta di viaggio, cominciarono a vedere alcuni alberghi alla loro sinistra, su quella che l'autista chiamò Cable Beach. Erano per la maggior parte dei grossi grattacieli e come tali non particolarmente invitanti per lei. Poi attraversarono la città di Nassau, molto più affollata di quanto lei pensasse, con una profusione di auto, camion, autobus, scooter, motorini e pedoni. Eppure, nonostante tutto quel traffico e quel formicolio di gente, le banche imponenti ed eleganti, gli edifici in stile coloniale, co-
lorati ma dall'aspetto ufficiale, c'era lo stesso senso diffuso di felicità che aveva già notato. Perfino rimanere imbottigliati nel traffico era una cosa che la gente sembrava non solo tollerare ma considerare un motivo di divertimento. Il taxi imboccò un alto ponte ad archi che portava a Paradise Island. L'autista spiegò che ai tempi coloniali era chiamata Hog Island, l'Isola dei Maiali, ma poi Huntington Harford, il progettista che l'aveva trasformata, aveva pensato che quel nome non fosse attraente. Stephanie e Daniel erano d'accordo. Arrivati all'estremità del ponte, l'uomo indicò un moderno centro commerciale sulla destra e il gigantesco complesso dell'Atlantis sulla sinistra. «Nel centro commerciale ci sono negozi di abbigliamento?» domandò Stephanie e si voltò a guardare in quella direzione. I negozi sembravano inaspettatamente esclusivi. «Sì, signora, ma sono carissimi. Se quello che cerca è qualcosa da portare sull'isola, le consiglio Bay Street, in città.» Dopo una breve corsa in direzione est, il taxi svoltò a nord in quello che si rivelò un lungo viale d'accesso che si insinuava serpeggiando in un tratto di vegetazione particolarmente folta e lussureggiante. All'ingresso un cartello proclamava: PRIVATO, OCEAN CLUB, RISERVATO AI CLIENTI. Stephanie rimase colpita in particolare dal fatto che l'albergo rimaneva invisibile fino a dopo l'ultima curva. «Sembra un posto paradisiaco», commentò mentre il taxi si fermava e veniva accolto da portieri in bermuda e impeccabili camicie bianche. «È considerato uno dei migliori alberghi», le annunciò Daniel. «Giusto, amico», commentò il tassista. Quel posto si rivelò ancora meglio di quanto Stephanie avesse sperato. Comprendeva basse costruzioni a due piani, sparpagliate lungo una meravigliosa striscia di spiaggia concava e quasi nascosta dagli alberi fioriti. Daniel era riuscito a prenotare una suite al piano terreno, a pochi passi dalla spiaggia di sabbia bianca da cui la separava una distesa di prato perfettamente curato. Dopo che ebbero riposto nell'armadio i pochi indumenti e sistemato gli articoli da toletta nel bagno rivestito di marmo, chiese a Stephanie: «Sono le cinque e mezzo. Che cosa facciamo?» «Non tanto. In base al fuso orario che abbiamo appena lasciato è mezzanotte, e io sono stanchissima.» «Dovremmo chiamare la Wingate Clinic e avvertire che siamo arrivati?» «Suppongo che non guasterebbe, anche se non credo che servirebbe a
molto, dato che sicuramente domattina ci andremo di persona. Sarebbe forse più utile se tu tornassi nella hall e facessi in modo di noleggiare un'auto. Per me la cosa più importante è chiamare Peter e sentire se è pronto a spedirci un po' di fibroblasti di Butler. Finché non arrivano, c'è poco che possiamo fare. Dopo Peter, telefonerò a mia madre. Le ho promesso di tenermi in contatto con lei e di darle il nostro indirizzo, non appena fossimo arrivati a Nassau.» «Avremo bisogno di altri vestiti», le fece notare Daniel. «Che ne dici? Io vado a noleggiare un'auto, tu fai le tue telefonate e poi torniamo al centro commerciale vicino al ponte e vediamo se c'è qualche negozio decente.» «Perché non ti limiti a noleggiare la macchina? Io sono pronta per farmi una doccia, mangiare qualcosa e infilarmi a letto. Ci sarà tempo domani per comperarci i vestiti.» «Hai ragione. La mia impazienza di arrivare finalmente a Nassau mi tiene su di giri, ma in realtà sono distrutto anch'io.» Appena Daniel lasciò la stanza, Stephanie si sedette alla scrivania e fu sorpresa e compiaciuta nel vedere che il suo cellulare aveva un segnale decente. Telefonò come prima cosa a Peter. Come aveva previsto, era ancora al laboratorio. «La coltura di John Smith sta andando bene», le riferì. «Ne avevo già preparata una parte da mandarti. Mi aspettavo di avere tue notizie martedì.» «C'è stato un piccolo contrattempo», spiegò Stephanie, tenendosi sul vago, e sorrise pensando a quanto quella spiegazione minimizzasse ciò che era accaduto. «Sei pronta per riceverla?» «Assolutamente. Confezionala con i reagenti ROTS usuali e aggiungi la raccolta di sonde genetiche dopaminergiche e i fattori di crescita che ho messo assieme. E mi è venuta in mente un'altra cosa: includi il preparato di ecdisone con il promotor della tirosina idrossilasi che abbiamo usato negli ultimi esperimenti con i topi.» «Accidenti! A cosa diavolo state lavorando, laggiù?» «È meglio se non te lo spiego. C'è qualche possibilità che mi spedisca tutto stasera?» «Non vedo perché no. Nel peggiore dei casi, dovrei portarlo io in macchina fino al Logan, ma non è un problema. Dove vuoi che te lo spedisca?» Stephanie ci pensò un attimo. La prima cosa che le venne in mente fu di
dargli l'indirizzo dell'albergo, ma pensò che fosse meglio limitare al massimo il viaggio e disporre di un freezer all'azoto liquido, che sicuramente la Wingate possedeva. Chiese a Peter di rimanere in attesa e usò il telefono fisso per contattare il portiere e farsi dare l'indirizzo della clinica. Era 1200 Windsor Field Road. Lo dettò a Peter, assieme al numero di telefono. «Lo spedirò stasera con la Federal Express», le assicurò lui. «Quando tornerete?» «Direi fra un mese, magari un po' prima.» «Buona fortuna, qualsiasi diavoleria state facendo!» «Grazie, ne abbiamo bisogno.» Stephanie rimase a guardare l'oceano con le sue sfumature rosa e argento e le onde delicate. Lungo l'orizzonte si era allineata una serie di cumuli che, nella parte rivolta verso il sole al tramonto, erano di un intenso rosa violaceo. La porta scorrevole di vetro era aperta e una brezza lieve, che recava il profumo di qualche fiore esotico, le carezzava il volto. La vista e l'ambiente erano piacevoli e rilassanti, dopo i frenetici giorni di viaggio e di intrighi. L'atmosfera serena cominciò a farle effetto e già si sentiva meno tesa; inoltre erano confortanti anche le notizie sulla coltura dei fibroblasti di Butler. Il cruccio che per qualche motivo non fosse riuscita bene era rimasto in agguato nella sua mente fin dal momento della partenza. Tutto sommato, si disse, l'ottimismo di Daniel sul progetto Butler poteva essere ragionevole, nonostante il proprio intuito le dicesse il contrario e nonostante i problemi avuti a Torino. Una volta tramontato il sole, la notte calò con molta rapidità. Lungo il contorno della spiaggia furono accese delle torce che tremolavano alla brezza. Stephanie riprese il cellulare e chiamò la casa dei genitori. Voleva che sua madre avesse il nome dell'albergo, il numero della stanza e di telefono, nel caso la sua salute peggiorasse improvvisamente. Si ritrovò a sperare che non rispondesse suo padre. Era sempre difficoltoso cercare di fare conversazione con lui. Fu contenta di udire la voce sommessa di Thea. Anche se Tony non aveva motivo di pensare che la sua testarda sorella non avrebbe messo in atto la minaccia di crogiolarsi alle Bahamas mentre la sua ditta affondava, sperava però che avesse visto la luce dopo ciò che le aveva detto, annullando il viaggio e facendo ciò che poteva per sistemare le cose. Ma non era andata così, come dimostrava la telefonata alla loro madre. La mignotta e quel suo boyfriend del cazzo se ne stavano a Nassau, in un albergo elegante davanti al mare, in una suite, niente meno, con vista
sulla spiaggia. Quanto gli rodeva! Scosse la testa pensando alla faccia tosta di Stephanie. Fin da quando era andata ad Harvard si era presa gioco di lui ogni volta che lo vedeva, cosa che aveva tollerato perché era la sorella minore. Ma adesso si era spinta troppo in là, per non parlare dell'idiota saccente con cui si era legata a doppio filo. Centomila erano un sacco di quattrini, da qualsiasi parte li si guardasse, e anche senza considerare la quota dei Castigliano. L'intera situazione non era per la quale, di questo era dannatamente sicuro, però lei era pur sempre la sua sorellina, quindi le cose non erano chiare come avrebbero potuto. La grossa Cadillac fece scricchiolare la ghiaia e si fermò davanti al magazzino dei fratelli Castigliano. Tony spense i fari e il motore, però non scese immediatamente dall'auto. Rimase seduto ancora un po', per calmarsi. Avrebbe potuto semplicemente telefonare e passare l'informazione a Sal o a Lou. Ma c'era di mezzo sua sorella e doveva sapere che cosa avevano in mente. Sapeva che anche loro erano incazzati come lui, ma senza la complicazione di avere un membro della famiglia coinvolto. A lui non importava che cosa avrebbero fatto al boyfriend. Per la miseria, non gli sarebbe importato strapazzarlo, ma sua sorella era tutta un'altra cosa. Se doveva essere strapazzata anche lei, allora Tony voleva farlo di persona. Aprì la portiera e fu assalito dal fetore dell'acqua salmastra ristagnante. Non capiva come qualcuno potesse stare in un posto dove, ogni volta che il vento cambiava, si sentiva puzza di uova marce. Era una notte senza luna e Tony si mosse con precauzione. Non voleva inciampare in qualche vecchio lavello o in qualche altro rifiuto. Essendo passato l'orario di lavoro il magazzino era chiuso, come annunciava un cartello, ma la porta si apriva semplicemente con la maniglia. Gaetano stava dietro il registratore di cassa a fare i conti della giornata. Aveva un mozzicone di matita gialla infilata dietro l'orecchio sorprendentemente piccolo, che sembrava ancora più minuscolo in confronto al capoccione enorme. «Sal e Lou?» chiese Tony. Gaetano indicò con la testa il retro, senza interrompere ciò che stava facendo. Tony trovò i gemelli alle loro rispettive scrivanie. Dopo una vigorosa stretta di mano e il solito breve saluto, si sedette sul divano. I gemelli lo scrutarono con grande aspettativa. Le due piccole lampade da tavolo posate sulle scrivanie ne enfatizzavano l'aspetto cadaverico, anche perché erano
le uniche fonti di luce in tutta la stanza. Da dove si trovava Tony, le loro orbite sembravano buchi neri. «Be', sono a Nassau», cominciò. «Speravo di venire qui a dirvi qualcosa di diverso, ma non è così. Sono appena scesi in un albergo lussuoso chiamato Ocean Club. Hanno la suite 108. Ho perfino il numero di telefono.» Tony si chinò in avanti e posò un pezzetto di carta sulla scrivania di Lou, che era la più vicina al divano. Si aprì la porta e Gaetano sbirciò dentro. «Mi volete o che cosa?» «Sì», rispose Lou, mentre prendeva il foglietto con il numero di telefono e gli dava un'occhiata. Gaetano entrò e chiuse la porta. «Nessun cambiamento nelle prospettive della società?» chiese Sal. «Non che io sappia», rispose Tony. «Se ci fosse, il mio contabile mi avrebbe avvertito. «È come se 'sto fessacchiotto ci mandasse a fare in culo», commentò Lou ed emise una risata cattiva. «Nassau! Non ci posso credere! È come se ci chiedesse di fargli uscire la merda a furia di botte.» «È questo che avete intenzione di fare?» Lou guardò Sal. «Noi vogliamo che riporti le chiappe qua e salvi la sua società e il nostro investimento. Dico bene, fratello?» «Altroché! Vogliamo fargli sapere chi è coinvolto in questa faccenda e chiarirgli bene che rivogliamo indietro i nostri soldi, a tutti i costi. Non solo deve riportare qua le chiappe, ma deve avere un'idea chiara di quali saranno le conseguenze se ci ignora o se pensa di potersi nascondere dietro una dichiarazione di bancarotta o qualche altro trucchetto legale. Ha bisogno di essere menato per bene!» «E mia sorella?» volle sapere Tony. «Lei non è senza colpa, in questo casino, ma se bisogna darle una ripassata, allora voglio essere io la persona che lo farà.» «Nessun problema», gli assicurò Lou e gettò sulla scrivania il pezzetto di carta con il numero di telefono. «Come ho detto lunedì, lo scazzo non è con lei.» «Sei pronto per andare a Nassau, Gaetano?» chiese Sal. «Posso partire domattina. Ma che cosa faccio dopo che ho consegnato il messaggio? Devo rimanere lì attorno o che cosa? Voglio dire, e se quello non capisce il messaggio?» «Farai meglio ad assicurarti che lo capisca, dannazione! Non farti l'idea sbagliata che questa è una specie di vacanza pagata. E poi, abbiamo biso-
gno di te, qua. Dopo che gli hai riferito il messaggio, riporti il culo a Boston.» «Gaetano ha ragione», intervenne Tony. «Che cosa farete se quel somaro ignorerà il messaggio?» Sal guardò il fratello. Mentre annuivano, fu evidente che avevano pensato la stessa cosa. Sal riportò lo sguardo su Tony. «Se questo idiota non c'è, tua sorella sarebbe capace di gestire la società?» Tony si strinse nelle spalle. «E come faccio a saperlo?» «È tua sorella. Non ha una laurea?» «Ha una laurea e anche un dottorato, ad Harvard. Bella roba! Tutto quello a cui è servito è che adesso è impossibile andare d'accordo con lei, da quanto si crede superiore. Per quello che ne so io, significa solo che sa una tonnellata di roba sui germi, i geni e merda simile, non che sa gestire un'azienda.» «Be', è un dottore anche l'idiota», osservò Lou. «Quindi mi pare che la società non andrebbe tanto peggio se fosse tua sorella a gestirla. E, se fosse lei, tu avresti un sacco di influenza in più su come devono andare le cose.» «Allora che cosa vorresti dire?» «Ehi, in che lingua parlo?» «Parli nella nostra lingua!» aggiunse Sal. «Senti», spiegò Lou. «Se il capo della società non capisce il messaggio, ma io conto su Gaetano che glielo canterà ben chiaro, allora lo facciamo fuori. Semplice. Fine della storia per il professore. Se non altro, questo dovrebbe mandare un messaggio molto specifico a tua sorella, che è meglio se mette giudizio.» «Hai ragione», approvò Tony. «Ti sta bene, Gaetano?» chiese Sal. «Sì, certo. Ma sono confuso. Vuoi o non vuoi che rimango là fin quando siamo sicuri di quale sarà la sua reazione dopo che l'avrò strapazzato?» «Per l'ultima volta!» Il tono di Sal era minaccioso. «Devi consegnare il messaggio e tornare qua. Se le cose vanno lisce e se gli orari dei voli combinano, potresti farcela in una giornata. Altrimenti ci passerai la notte, ma ti vogliamo qui al più presto, perché ci sono un sacco di cose in ballo, qua. Se dovrà essere eliminato, tornerai laggiù, capito?» Gaetano annuì, ma era deluso. Quando domenica si era parlato della sua missione, aveva sperato di farsi una settimana al sole. «Ho un suggerimento», propose Tony. «Non penso che Gaetano dovrebbe fare quel che deve fare nel loro albergo. Se il professore non vuole
collaborare, noi non vogliamo che tagli la corda, cosa che potrebbe fare se pensa che l'albergo non è sicuro. Nelle Bahamas ci sono letteralmente centinaia di isole.» «Hai ragione», approvò Sal. «Non vogliamo che sparisca, non con i nostri soldi.» «Allora magari dovrei rimanere là e tenerlo d'occhio», propose Gaetano, speranzoso. «Come devo fartela capire, deficiente?» sbottò Sal, guardandolo torvo. «Per l'ultima volta, non vai a fare una vacanza. Svolgerai il tuo compito e tornerai subito qua. Questo problema con il professore non è l'unico che abbiamo.» «Va bene, va bene!» esclamò Gaetano, facendo un segno di resa. «Il tizio non lo incontrerò all'albergo. Andrò lì solo per individuarlo, il che significa che mi serviranno delle foto.» «Ci ho pensato», disse Tony. Si mise una mano in tasca e tirò fuori diverse istantanee. «Ecco i piccioncini, lo scorso Natale.» Le porse a Gaetano, che era ancora in piedi vicino alla porta, e lui le guardò. «Vanno bene?» domandò Lou. «Non sono male», rispose Gaetano, poi, guardando Tony, aggiunse: «Devo dire che tua sorella è una gran bella ragazza». «Già, be', scordatela. È off-limits», lo avvertì Tony. «Peccato», commentò Gaetano con un sorriso sghembo. «Un'altra cosa. Con tutte queste scemenze della sicurezza negli aeroporti, non credo che sia consigliabile portarsi dietro una pistola. Se Gaetano ne ha bisogno, sarebbe meglio organizzarsi per fargliene avere una sull'isola attraverso i contatti a Miami. Ne avete di contatti a Miami, vero?» «Certo», rispose Sal. «Anche questa è una buona idea. Nient'altro?» «Penso di no.» Tony spense il mozzicone di sigaretta e si alzò. 15 Venerdì 1° marzo 2002 - ore 9.15 Era stata una mattinata lunga e deliziosa, che li aveva rinvigoriti. A causa dei ritmi scombussolati dal loro breve viaggio in Europa, Stephanie e Daniel si erano svegliati molto prima che il sole schiarisse l'orizzonte orientale. Incapaci di riaddormentarsi, si erano alzati, avevano fatto la doccia e si erano incamminati per una lunga passeggiata attorno al terreno del-
l'albergo e lungo la deserta Cabbage Beach, mentre spuntava un'alba tropicale priva di nubi. Di ritorno in albergo, erano stati i primi clienti a far colazione e avevano indugiato al tavolino, bevendo caffè e addentrandosi nei progetti per la cura di Butler. Mancavano solo tre settimane al suo arrivo, quindi avevano i giorni contati e non vedevano l'ora di cominciare, pur sapendo che potevano fare ben poco finché non fosse arrivato il pacco da Peter. Alle otto avevano chiamato la Wingate Clinic per dire alla receptionist che erano a Nassau e che sarebbero arrivati alla clinica verso le nove e un quarto. Lei aveva assicurato che lo avrebbe riferito ai dottori. «La parte occidentale dell'isola ha un aspetto diverso da quella orientale», osservò Daniel, mentre percorrevano in auto la Windsor Field Road. «È molto più piatta.» «È anche meno sviluppata e molto più arida», notò Stephanie. Stavano attraversando lunghe distese di vegetazione semiarida, poco estesa in altezza, dove prevalevano i pini inframmezzati dalle palme nane. Il cielo era di un azzurro intenso, appena macchiato da qualche candida nube sottile. Daniel aveva insistito per mettersi lui al volante, cosa che Stephanie aveva accettato senza problemi, fino al momento in cui gli aveva sentito dire che lei avrebbe potuto avere più problemi con la guida a sinistra. La sua reazione iniziale era stata di sfidare ciò che le sembrava un'immotivata affermazione sciovinista, ma poi aveva lasciato perdere. Non valeva la pena di mettersi a litigare per quello. Così, si era seduta al posto del passeggero e aveva tirato fuori la cartina. Com'era accaduto quando erano fuggiti dall'Italia, aveva fatto da navigatore. Daniel guidava adagio, il che le andava bene, considerando l'impulso di stare sulla destra alle svolte e sulle rotatorie. Avevano percorso la costa settentrionale dell'isola, notando ancora una volta gli alberghi-grattacielo allineati come soldati sull'attenti lungo Cable Beach. Dopo aver superato una serie di cave di calcare scolpite da mari preistorici, avevano svoltato verso l'interno. Tenendosi sulla destra all'incrocio con Windsor Field Road, avevano intravisto da lontano l'aeroporto. Continuando verso ovest, non fu difficile trovare sulla sinistra la strada laterale che portava alla Wingate Clinic, indicata da un enorme cartello. Stephanie si curvò in avanti per guardare meglio attraverso il parabrezza. «Accipicchia! Lo hai visto il cartello?» «Sarebbe difficile non vederlo. È grosso quanto un cartellone pubblicitario.» Daniel svoltò, imboccando il viale d'accesso bordato di alberi, asfaltato
di recente. «Devono avere un sacco di terra», osservò Stephanie, rimettendosi comoda. «Da qui non si vede la clinica.» Dopo diverse svolte attraverso una folta vegetazione di sempreverdi, il viale era bloccato da un enorme cancello. Una robusta recinzione di rete metallica sormontata da filo spinato spariva in entrambe le direzioni nel folto della foresta. Sul lato dove si trovava Stephanie c'era una piccola cabina dalla quale uscì un uomo in uniforme, completa di fondina, berretto in stile militare e occhiali da sole da aviatore. Reggeva un portablocco. Daniel si fermò, mentre Stephanie abbassò il finestrino. La guardia si chinò e, ignorandola, si rivolse a Daniel. «Posso esserle d'aiuto, signore?» chiese con tono efficiente, privo di qualsiasi emozione. «Siamo la dottoressa D'Agostino e il dottor Lowell», rispose Stephanie. «Siamo qui per incontrare il dottor Wingate.» La guardia controllò sul portablocco, poi si toccò la visiera del berretto e rientrò nella guardiola. Un attimo dopo, il cancello si apriva. Daniel diede un colpo d'acceleratore e proseguì. Ci volle qualche altro minuto prima di arrivare in vista della clinica. Era un complesso a due piani, postmoderno, annidato in mezzo a una distesa di arbusti e alberi fioriti modellata ad arte dall'intervento dell'uomo. Gli edifici erano tre, disposti a ferro di cavallo e collegati da passaggi coperti dalla forma arcuata, e ognuno era rivestito da pietre di calcare bianco e aveva il tetto di piastrelle bianche di cemento. Il frontespizio era sormontato da eleganti ornamenti a forma di conchiglia che rammentavano gli antichi templi greci. Lungo i fianchi di ogni struttura le finestre dai molti riquadri erano alternate a graticci, alla base dei quali crescevano giovani buganvillee che cominciavano ad arrampicarsi verso l'alto. «Accipicchia!» esclamò Stephanie. «Non me l'aspettavo. È bella. Fa pensare più a una località termale che a una clinica per la cura dell'infertilità.» Il viale d'accesso portava a un parcheggio dirimpetto all'edificio centrale, il cui ingresso era ornato da un portico a colonne. Le colonne erano tozze, con entasi esagerate, e sormontate da semplici capitelli dorici. «Spero che abbiano tenuto da parte un po' di soldi per le attrezzature del laboratorio», commentò Daniel. Parcheggiò la Mercury Marquis fra le numerose BMW decappottabili nuove di zecca. Qualche spazio più in là c'erano due limousine, i cui autisti in livrea fumavano e chiacchieravano tra loro appoggiati ai paraurti anteriori.
Daniel e Stephanie scesero dalla macchina e si fermarono a osservare il complesso, che luccicava nel sole abbagliante delle Bahamas. «Avevo sentito dire che la cura dell'infertilità è redditizia», commentò Daniel, «ma non immaginavo che lo fosse fino a questo punto.» «Nemmeno io», replicò Stephanie. «Non importa da dove sia venuto il denaro: con i costi della sanità, opulenza e medicina sono compagni di letto inconsueti. C'è qualcosa che non va in tutto questo, e i miei dubbi sul lasciarmi coinvolgere con questa gente mi stanno tornando alla grande.» «Non lasciamo che i nostri pregiudizi e l'eccessiva sicurezza nelle nostre convinzioni abbiano la meglio. Non siamo qui per una crociata sociale. Siamo qui per curare Butler, e questo è quanto.» Il largo portone bronzeo si aprì e comparve un uomo alto e molto abbronzato, dai capelli argentei, che portava un camice bianco da medico. Agitò il braccio e chiamò: «Benvenuti!» Aveva una voce alta ma melodiosa. «Almeno riceviamo un'accoglienza personalizzata», osservò Daniel. «Andiamo, e tieni le tue opinioni per te!» Mentre si avviavano verso l'ingresso, Stephanie sussurrò. «Speriamo che non sia Spencer Wingate!» «Perché?» «Perché è abbastanza bello da sembrare il medico di una soap opera.» «Oh, dimenticavo! Tu lo volevi basso, grasso e con un bitorzolo sul naso.» «Già.» «Be', possiamo sempre sperare che sia un fumatore accanito e abbia l'alito cattivo.» «Oh, taci!» Salirono i tre gradini che conducevano al portico. Spencer tese la mano, mentre teneva la porta aperta con il piede. Si presentò con una grande abbondanza di sorrisi e strette di mano, poi fece un gesto esageratamente elegante, invitandoli a precederlo nell'atrio. Anche l'interno aveva uno stile semplice e classico, con pilastri lisci, modanature dentellate e colonne doriche. Il pavimento era di calcare levigato, ammorbidito da tappeti orientali sparsi un po' ovunque. Le pareti erano di un delicato color lavanda, che a prima vista sembrava grigio pallido. Anche il mobilio in legno laccato aveva un tono classico e le imbottiture erano rivestite di pelle verde. Nell'atrio, rinfrescato dall'aria condizionata, si coglieva un vago sentore di vernice fresca, a ricordare il recente
completamento della clinica. Per Daniel e Stephanie, l'asciutta frescura che li avvolse fu un piacevole contrasto con il calore umido dell'esterno, che era aumentato progressivamente dall'inizio della giornata. «Questa è la nostra sala d'attesa principale.» Spencer abbracciò con un gesto la grande sala. Due coppie di una certa età, ben vestite, erano sedute su due diversi divanetti. Sfogliavano nervosamente delle riviste e sollevarono lo sguardo per un attimo. L'unica altra persona presente era una receptionist dalle unghie di un rosa acceso che occupava un banco semicircolare a pochi passi dalla porta d'ingresso. «Questo edificio svolge la funzione di accettazione per i nuovi pazienti», spiegò ancora Spencer. «Ospita anche gli uffici amministrativi. Siamo molto fieri della clinica, siamo ansiosi di mostrarvela completamente, anche se sospettiamo che a voi interessino soprattutto i laboratori.» «E la sala operatoria», precisò Daniel. «Sì, certo, la sala operatoria. Ma, come prima cosa, venite nel mio ufficio per un caffè e per conoscere gli altri.» Spencer fece strada verso uno spazioso ascensore, anche se dovevano spostarsi di un solo piano. Durante la breve salita, si informò come un padrone di casa bene educato se il viaggio era stato gradevole. Stephanie gli assicurò di sì. Al primo piano passarono davanti a una segretaria che interruppe il suo lavoro al computer per sorridere con allegria. Il vasto ufficio di Spencer si trovava nell'angolo nordorientale dell'edificio. Da lì si vedevano l'aeroporto a est e la linea azzurra dell'oceano a nord. «Servitevi», li invitò lui, indicando il vassoio con il caffè poggiato su un basso tavolino di marmo davanti a un divano a L. «Vado a chiamare i due capodipartimento.» Per qualche momento Daniel e Stephanie rimasero soli. «Questo sembra l'ufficio del direttore generale di una società megagalattica», osservò Stephanie. «Devo dire che tutta questa opulenza la trovo oscena.» «Sospendiamo il giudizio finché non avremo visto il laboratorio.» «Pensi che quelle due coppie al piano di sotto, intente a guardare le riviste, sono dei pazienti?» «Non ne ho la più pallida idea, e non m'importa.» «Sembrano un po' attempati per la cura contro l'infertilità.» «Non ci riguarda.» «Pensi che la Wingate Clinic fa restare gravide le donne avanti negli anni, come quello specialista privato, in Italia?»
Irritato ed esasperato, Daniel lanciò a Stephanie un'occhiataccia, mentre riappariva Spencer. Il fondatore della clinica aveva al seguito un uomo e una donna che indossavano entrambi, come lui, il camice bianco da medico. Prima presentò Paul Saunders, basso e tracagnotto, la cui silhouette ricordò a Stephanie le colonne del portico. In sintonia con il corpo, anche il viso era paffuto, con la carnagione pallida e smorta. Nell'insieme, sembrava l'antitesi di Spencer. Completava il tutto una chioma di capelli scuri e scarmigliati, in cui spiccava un ciuffo bianco, che accentuava il pallore del viso. Mentre stringeva la mano a Daniel, Paul sorrise e rivelò denti squadrati e giallognoli, distanziati fra loro. «Benvenuti alla Wingate, dottori», disse. «Siamo onorati di avervi qui. Non so dirvi quanto sono eccitato per la nostra collaborazione.» Stephanie gli rivolse un debole sorriso mentre lui si avvicinava e stringeva vigorosamente la mano anche a lei. Rimase ipnotizzata dagli occhi: con il naso dalla base molto larga, apparivano più ravvicinati del normale. Inoltre, non aveva mai visto una persona con le iridi di due colori diversi. «Paul è il nostro capo della ricerca», annunciò Spencer, dandogli una pacca sulla schiena. «Non vede l'ora di avervi nel suo laboratorio ed è ansioso di assistervi e, aggiungerei, di imparare un po' di cosette.» Poi mise il braccio sulle spalle della donna, che era alta quasi quanto lui. «E questa è la dottoressa Sheila Donaldson, capo dei servizi clinici. Sarà lei a provvedere affinché possiate usare una delle nostre due camere operatorie, come pure le strutture destinate ai degenti, di cui presumiamo avrete bisogno.» «Non sapevo che aveste anche un reparto degenze», osservò Daniel. «Noi siamo una struttura autonoma, che offre un servizio completo», spiegò Spencer con fierezza. «Per le lungodegenze, che da noi non sono previste, mandiamo i pazienti al Doctors Hospital, in città, ma siamo in grado di ospitare, in modo limitato e le poche volte che occorre, i pazienti che devono fermarsi per una notte. Credo che questo venga perfettamente incontro alle vostre necessità.» Stephanie distolse l'attenzione da Paul Sanders e guardò Sheila Donaldson. Aveva un viso stretto, incorniciato da lisci capelli castani. In confronto agli uomini, tutti e due esuberanti, sembrava riservata, quasi timida. Mentre si stringevano la mano, Stephanie ebbe la sensazione che fosse riluttante a guardarla negli occhi. «Non volete un po' di caffè?» chiese Spencer, rivolto agli ospiti. Stephanie e Daniel scossero la testa. «Penso che abbiamo fatto tutti e
due il pieno di caffè», rispose Daniel. «Siamo ancora sintonizzati sul fuso orario europeo e siamo in piedi dalle prime luci dell'alba.» «Siete stati in Europa?» si entusiasmò Paul. «Ha qualcosa a che fare con la Sacra Sindone?» «Sì, infatti.» «Spero che il viaggio sia andato bene.» Paul strizzò un occhio con espressione da cospiratore. «Massacrante, ma è andato bene, sì. Noi...» Daniel fece una pausa, come se cercasse di decidere che cosa dire. Stephanie trattenne il respiro. Sperava che non raccontasse la loro esperienza torinese. Voleva mantenere una certa distanza da quella gente. Se Daniel avesse rivelato ciò che era accaduto nel loro viaggio, sarebbe stata una cosa troppo personale: avrebbe oltrepassato dei confini che lei non voleva varcare. «Siamo riusciti a ottenere un campione con delle macchie di sangue», spiegò Daniel. «Ce l'ho con me, al momento. Avrei bisogno di metterlo in una soluzione salina tamponata per stabilizzare i frammenti di DNA, e preferirei farlo quanto prima.» «Per me va bene», intervenne Paul. «Andiamo direttamente in laboratorio.» «Non c'è motivo per cui il giro non possa iniziare da lì», approvò amabilmente Spencer. Sollevata perché la distanza personale era stata mantenuta, Stephanie lasciò andare il respiro e si rilassò un po', mentre il gruppetto usciva dalla stanza. All'ascensore, Sheila disse di avere delle pazienti in attesa e voleva essere certa che tutto andasse bene. Si staccò quindi dagli altri e scese per le scale. Il laboratorio si trovava alla sinistra dell'edificio centrale e lo si raggiungeva attraverso uno dei corridoi coperti, che formavano una curva aggraziata. «Abbiamo progettato la clinica suddivisa in tre edifici separati per costringerci a uscire, anche se lavoriamo in continuazione», spiegò Paul. «Fa bene all'anima.» «lo esco un po' più spesso di Paul», aggiunse Spencer con una risata. «Lo avrete capito dall'abbronzatura. Io non sono uno stakanovista come lui.» «Questo edificio è tutto destinato al laboratorio?» s'informò Daniel, mentre oltrepassava la porta che Spencer teneva aperta.
«Non tutto», rispose Paul, che li aveva preceduti e si era fermato davanti a un espositore per periodici. Si chinò e prese da un'alta pila una rivista dalla copertina patinata. Il gruppetto era entrato in una stanza che sembrava unire insieme salotto e biblioteca, con le sue pareti ricoperte di scaffali. «Questa è la stanza delle riviste, e ho qui per voi l'ultimo numero del Journal of Twenty-first Century Reproductive Technology.» Porse la pubblicazione a Daniel con espressione molto fiera. «C'è qualche articolo che magari troverà interessante.» «Molto gentile da parte sua», si destreggiò Daniel. Diede una scorsa al sommario stampato in copertina e la passò a Stephanie. «Questo edificio, oltre al laboratorio, ha degli appartamenti», spiegò Paul. «Alcuni sono destinati agli ospiti: niente di lussuoso, ma certamente funzionali. Vorremmo offrirveli, se vi fa piacere abitare vicino al lavoro. Abbiamo anche una mensa che serve tre pasti al giorno, nell'edificio dall'altra parte del giardino, così non dovrete uscire dalla clinica a meno che non ne abbiate voglia. Vedete, molti dei nostri dipendenti vivono qui nel complesso e anche i loro appartamenti si trovano in questo edificio.» «Grazie dell'offerta», si affrettò a rispondere Stephanie. «È molto ospitale da parte vostra, ma ci siamo già sistemati comodamente in città.» «Dove, se posso chiederlo?» «All'Ocean Club.» «Ottima scelta», approvò Paul. «Be', l'offerta rimane valida, se cambierete idea.» «Non penso.» «Torniamo al nostro giro», propose Spencer. «Oh, certo!» Paul fece cenno di spostarsi verso una porta a doppio battente che conduceva verso la parte più interna del fabbricato. «Questo edificio ospita anche degli strumenti diagnostici come lo scanner per la tomografia a emissione di positroni. Lo abbiamo installato qui perché pensiamo che lo useremo più per la ricerca che per il lavoro clinico.» «Non sapevo che lo aveste», commentò Daniel. Guardò Stephanie sollevando le sopracciglia per comunicarle quanto fosse sorpreso e contento, sperando di placare la sua evidente negatività. Sapeva che uno scanner per la tomografia a emissione di positroni usava i raggi gamma per studiare la funzione fisiologica e poteva rivelarsi utile se fosse sorto qualche problema con Butler, dopo la terapia. «Abbiamo progettato la Wingate perché avesse tutto quello che occorre, per la ricerca e per il lavoro clinico», replicò Spencer, con il solito tono di
fierezza. «Visto che ci attrezzavamo con la TAC e con la risonanza magnetica nucleare, abbiamo pensato di aggiungere anche questo.» «Sono molto colpito», ammise Daniel. «Mi aspettavo che lo fosse», intervenne Paul. «E, in quanto scopritore della ROTS, le interesserà sicuramente sapere che abbiamo intenzione di inserirci alla grande nella terapia con le cellule staminali, oltre che nel campo dell'infertilità.» «È una combinazione interessante», commentò Daniel tenendosi sul vago; non era sicuro di come valutare quella notizia inaspettata. Come tante altre cose riguardanti la Wingate Clinic, l'idea che intendessero praticare la terapia con le cellule staminali era una sorpresa. «Abbiamo pensato che fosse un'estensione naturale del nostro lavoro», spiegò Paul, «considerando il nostro accesso agli ovociti umani e la nostra vasta esperienza con il nucleo-transfer. L'ironia è che la consideravamo un'attività secondaria, ma da quando abbiamo aperto i battenti abbiamo praticato più questa che la cura per l'infertilità.» «Vero», confermò Spencer. «Infatti i pazienti che prima avete visto nella sala d'aspetto sono qui per questo tipo di terapia. A quanto pare, si sta spargendo rapidamente la voce sui servizi che offriamo. Non abbiamo dovuto nemmeno fare pubblicità.» I volti di Daniel e di Stephanie rifletterono entrambi una sorpresa sgomenta. «Che tipo di malattie curate?» chiese Daniel. Paul rise. «Di tutto un po'! Un sacco di gente capisce che le cellule staminali sono una promessa per una grande quantità di mali, dal cancro terminale alle malattie degenerative ai problemi dell'invecchiamento. Dato che negli Stati Uniti non possono farsi curare con le cellule staminali, vengono da noi.» «Ma è assurdo!» esclamò Stephanie, sbigottita. «Non ci sono protocolli stabiliti per trattare nessuna malattia con le cellule staminali.» «Siamo i primi ad ammettere che siamo dei pionieri», rispose Spencer. «È sperimentale, come ciò che voi avete intenzione di fare con il vostro paziente.» «Essenzialmente, noi utilizziamo la richiesta pubblica per finanziare la ricerca necessaria», spiegò Paul. «Diavolo, è ragionevole, dato che il governo degli Stati Uniti è così tirchio al riguardo e rende le cose difficili a voi ricercatori che siete rimasti in patria.» «Che tipo di cellule usate?» volle sapere Daniel.
«Cellule staminali multipotenti.» «Non differenziate le cellule?» Daniel era sempre più stupito, dato che le cellule staminali indifferenziate non curavano niente. «No, affatto. Naturalmente, ci proveremo, in futuro, ma per adesso facciamo il nucleo-transfer, ricaviamo le cellule staminali e le iniettiamo. Lasciamo che il corpo dei pazienti le usi come meglio crede. Abbiamo avuto alcuni risultati interessanti, anche se non con tutti, ma è questa la natura della ricerca.» «Come può dire che fate ricerca?» sbottò Stephanie. «E mi permetto di dissentire da lei: non c'è confronto tra ciò che noi abbiamo intenzione di fare e ciò che voi state facendo.» Daniel le afferrò un braccio e l'allontanò da Paul. «Ciò che vuol dire la dottoressa D'Agostino è semplicemente che noi intraprenderemo la terapia con cellule differenziate.» Stephanie cercò di liberarsi dalla stretta. «Ciò che voglio dire è dannatamente molto più di questo», replicò. «Ciò che voi dite di fare con le cellule staminali non è altro che pura ciarlataneria!» Daniel le strinse il braccio ancora di più. «Scusateci per un momento», disse a Paul e Spencer, che si erano scuriti in volto, poi tirò in disparte Stephanie e le sussurrò, adiratissimo: «Che cosa diavolo stai facendo? Cerchi di sabotare il nostro progetto e farci buttare fuori di qui?» «Mi chiedi cosa sto facendo?» Stephanie sussurrò con eguale veemenza. «Come fai a non sentirti offeso? Più di qualsiasi altra cosa, questi sono dei ciarlatani da baraccone.» «Zitta!» sibilò Daniel, e le diede uno strattone. «Devo continuare a ricordarti che siamo qui per una cosa e una soltanto: curare Butler? Non riesci a trattenerti, perdio? Sono in gioco il futuro della CURE e della ROTS. Questi non sono certo dei santi. Lo sapevamo fin dall'inizio. Ecco perché sono qui alle Bahamas e non nel Massachusetts. Quindi non incasiniamo tutto con la nostra giusta indignazione!» Per un momento si fissarono con occhi fiammeggianti. Infine, Stephanie distolse lo sguardo e abbassò la testa. «Mi fai male al braccio», disse. «Scusa!» Daniel glielo lasciò andare e lei cominciò immediatamente a massaggiarselo. Dopo aver inalato a fondo per tenere la collera sotto controllo, Daniel guardò verso Spencer e Paul, che li stavano osservando con curiosità. Quindi riportò la sua attenzione su Stephanie e le chiese: «Possiamo concentrarci sulla nostra missione? Possiamo accettare il fatto che questi qua sono degli imbecilli venali e privi di etica?»
«Suppongo che l'aforisma 'chi sta in case di vetro non dovrebbe tirare sassi' sia adeguato, considerando ciò che abbiamo intenzione di fare. Forse è per questo che le loro vanterie mi seccano così tanto.» «E magari hai ragione. Ma tieni a mente che siamo costretti a superare i confini etici. Accettato questo, posso contare che terrai per te le tue reazioni alla Wingate Clinic e alla sua missione, almeno fin quando non saremo da soli?» «Farò del mio meglio.» «Bene.» Daniel fece un altro respiro profondo, prima di tornare dagli altri. Stephanie lo seguì, tenendosi qualche passo indietro. «Penso che il jet lag ci abbia ridotti male», si scusò Daniel. «Siamo tutti e due un po' emotivi, e la dottoressa D'Agostino tende a esagerare quando vuole sottolineare un suo punto di vista. Intellettualmente, ritiene che le cellule differenziate sarebbero un modo più efficace di trarre vantaggio dalla promessa delle cellule staminali.» «Abbiamo avuto dei risultati dannatamente buoni», insisté Paul. «Forse, dottoressa D'Agostino, le piacerebbe esaminarli prima di dare un giudizio alla cieca.» «Lo troverò molto istruttivo», riuscì a rispondere Stephanie. «Andiamo», propose Spencer. «Vogliamo mostrarvi il re sto della clinica prima della pausa pranzo, e c'è ancora tanto da vedere.» Daniel e Stephanie varcarono in silenzio la porta a due battenti che dava nell'ampio laboratorio. Ancora una volta, rimasero sbalorditi. Anche soltanto le sue dimensioni, senza contare lo spiegamento di attrezzature, dai sequenziatori del DNA alle comuni incubatrici per le colture di tessuti, erano molto maggiori di quanto si aspettavano. L'unica cosa che mancava era il personale. Si vedeva in lontananza un'unica tecnica china su un microscopio per dissezione. «Al momento siamo a corto di personale», spiegò Spencer, come se avesse letto nei pensieri dei suoi ospiti. «Ma questo cambierà presto, a mano a mano che aumenterà la richiesta dei pazienti.» «Chiamo la direttrice del laboratorio», disse Paul, prima di sparire in un ufficio laterale. «Progettiamo di essere a pieno regime entro sei mesi circa», annunciò Spencer. «Quanti tecnici progettate di avere?» chiese Stephanie. «Una trentina. Per lo meno, è quello che ci suggeriscono le attuali proiezioni. Ma se la domanda di terapia con le cellule staminali continuerà ad
aumentare al ritmo attuale, potremmo avere bisogno di più persone.» Paul ricomparve, tenendo per mano una donna magrissima, addirittura emaciata, con le ossa che le sporgevano ben visibili, in particolare agli zigomi. Aveva i capelli color topo striati di grigio, il naso stretto e appuntito come un coltello e la bocca piccola, dalle labbra serrate. Indossava un camice corto con le maniche arrotolate, sopra un tailleur pantalone. Paul la presentò: si chiamava Megan Finnigan, come si apprendeva anche dal tesserino d'identificazione applicato al taschino del camice. «Siamo tutti a vostra disposizione», dichiarò, dopo le presentazioni. Parlava con voce sommessa e con l'accento di Boston. Indicò un banco nelle vicinanze. «Abbiamo preparato questa parte del laboratorio, con tutto quello che pensavamo potesse servirvi. Se vi occorre qualche altra cosa, non avete che da chiedere. La porta del mio ufficio è sempre aperta.» «Il dottor Lowell ha bisogno di un piccolo matraccio di soluzione salina tamponata», le comunicò Paul. «Ha un campione di tessuto che contiene delle macchie di sangue di cui vuole conservare il DNA.» «Non è affatto un problema», gli assicurò Megan e chiamò l'unica tecnica di laboratorio presente perché provvedesse. La donna abbandonò il microscopio e si diede da fare per accontentarla. «Quando vorreste iniziare il vostro lavoro?» si informò Megan, mentre Daniel e Stephanie ispezionavano la parte di laboratorio messa loro a disposizione. «Quanto prima», rispose Daniel. «E gli ovociti umani? Saranno disponibili quando ne avremo bisogno?» «Assolutamente», gli assicurò Paul. «Tutto ciò che ci serve è un preavviso di dodici ore.» «Sorprendente. Com'è possibile?» Paul sorrise. «Questo è un segreto industriale. Magari, dopo che avremo lavorato insieme, potremo scambiarci simili segreti. Allo stesso modo, a me interessa la vostra ROTS.» «Significa che volete cominciare oggi?» chiese ancora Megan. «Purtroppo non è possibile», rispose Daniel. «Dobbiamo aspettare un pacco che arriverà con la Federal Express.» Rivolgendosi a Spencer aggiunse: «Non credo che sia già arrivato». «Quando è stato spedito?» «Ieri sera da Boston», rispose Stephanie. «Quanto pesava? Questo fa una differenza, all'arrivo. Nassau è una destinazione internazionale, per le spedizioni da Boston. Se fosse una busta o
un pacchetto piuttosto piccolo, potrebbe essere qui nel pomeriggio.» «Non è una busta. Sarà abbastanza grosso, perché occorre un contenitore termico per tenere i tessuti in coltura crioconservati, e poi c'è una serie di reagenti.» «Allora arriverà al più presto domani. Deve passare la dogana, e questo richiede un giorno in più.» «L'importante è che mettiamo i tessuti nel freezer, prima che si scongelino.» «Posso chiamare la dogana per far accelerare le cose. È più o meno un anno che abbiamo a che fare con loro quasi quotidianamente, per la costruzione e l'avvio della clinica.» La tecnica di laboratorio arrivò con un matraccio chiuso da un tappo. Era un'afroamericana dalla pelle piuttosto chiara, sui ventidue-ventitré anni, che teneva i capelli raccolti in una stretta coda di cavallo. La sommità del naso era cosparsa di lentiggini e le orecchie erano ornate da una quantità incredibile di piercing. «Questa è Maureen Jefferson», la presentò Paul. «Il suo soprannome è Mare. Non intendo metterla in imbarazzo, ma ha le mani di fata quando si tratta di usare le micropipette ed eseguire il nucleo-transfer. Quindi, se avete bisogno di un aiuto, lei sarà qui. Giusto, Mare?» La ragazza sorrise pudica, mentre porgeva il matraccio a Daniel. «Molto generoso da parte vostra», rispose Stephanie, «ma credo che ce la caveremo da soli.» Mentre gli altri osservavano, Daniel prese la bustina semitrasparente dalla tasca. Con un paio di forbici che gli porgeva Megan ne tagliò un'estremità, poi compresse la bustina ai lati, facendola aprire. Quindi versò con prudenza, senza toccarlo, il piccolo campione di lino antichissimo nella soluzione, dove galleggiò sulla superficie del liquido. Poi rimise il tappo di gomma, premendolo perché chiudesse bene. Con un pennarello, anche quello procurato da Megan, scrisse all'esterno del matraccio le iniziali ss. «C'è un posto sicuro dove riporlo, mentre le componenti del sangue fluiscono?» «L'intero laboratorio è sicuro», si vantò Paul. «Non c'è da preoccuparsi. Abbiamo il nostro reparto sicurezza.» «Consideri la clinica come il Fort Knox di Nassau», aggiunse Spencer. «Posso chiuderlo a chiave nel mio ufficio», si offrì Megan. «Posso perfino metterlo in una piccola cassaforte che ho lì.» «Lo apprezzerei molto», accettò Daniel. «È insostituibile.»
«Non tema, sarà al sicuro. Mi creda!» esclamò Paul. «Le spiace se lo tengo in mano per un momento?» «Certo che no.» Daniel gli porse il matraccio. Paul sollevò il contenitore di vetro in modo che fosse investito dalla luce di una lampada. «Ma ci pensate?» esclamò, chiudendo un occhio per guardare meglio il minuscolo frammento di tessuto che galleggiava sulla superficie. «Abbiamo un po' del DNA di Gesù Cristo! Solo pensarlo mi dà i brividi.» «Non siamo eccessivamente teatrali», lo rimproverò Spencer. «Come avete fatto ad averlo?» chiese Paul, ignorando il rimbrotto del suo capo. «Abbiamo goduto di assistenza clericale ad alto livello», rispose genericamente Daniel. «E come avete organizzato la cosa?» insisté Paul. Intanto continuava a fissare il matraccio, facendolo girare lentamente. «In realtà, non siamo stati noi. Ci ha pensato il nostro paziente.» «Oh!» Paul abbassò il piccolo contenitore e scoccò un'occhiata a Spencer. «Il vostro paziente ha legami con la chiesa cattolica?» «Non che sappiamo.» «Per lo meno, deve avere una certa influenza», osservò Spencer. «Forse. Non saprei.» «Adesso che siete stati in Italia, che idea vi siete fatti sulla questione dell'autenticità della Sindone?» «Gliel'ho già detto al telefono.» Daniel riuscì a malapena a dominare l'esasperazione. «Noi non siamo coinvolti nella controversia sulla Sindone. La usiamo dietro insistenza del nostro paziente come fonte del DNA che ci occorre per la ROTS.» L'ultima cosa che voleva era impegolarsi in una discussione intellettuale con quei due idioti. «Be', non vedo l'ora di conoscere questo suo paziente», dichiarò Paul. «Lui e io abbiamo qualcosa in comune: entrambi crediamo che la Sacra Sindone sia vera.» Porse il matraccio a Megan. «Siamo più prudenti che mai, adesso! Ho la sensazione che questa cosina farà la storia.» Megan prese il recipiente e lo tenne con tutte e due le mani. Rivolgendosi a Daniel domandò: «Che progetti ha per questa sospensione? Non si aspetta che il lino si dissolva, vero?» «Certo che no. Voglio solo che rimanga nella soluzione salina in modo che questa trattenga il DNA linfocitario presente. Tra ventiquattr'ore circa ne sottoporrò una parte alla reazione a catena della polimerasi. L'elettrofo-
resi con alcuni controlli dovrebbe darci un'idea di cosa abbiamo. Se scopriamo di avere abbastanza frammenti di DNA, come sono ragionevolmente sicuro che accadrà, lo duplicheremo e poi vedremo se le nostre sonde preleveranno ciò di cui abbiamo bisogno per la ROTS. Naturalmente, potremmo dover ripetere l'intero esercizio diverse volte per sequenziare l'intero gene. Comunque, il campione rimarrà nella soluzione salina fino a che avremo ciò di cui abbiamo bisogno.» «Benissimo. Lo metterò nella cassaforte. Domani mi faccia sapere quando lo vuole.» «Perfetto.» «Se qui abbiamo finito, perché non ci spostiamo nell'edificio che ospita la clinica?» propose Spencer e guardò l'orologio. «Vogliamo mostrarvi le nostre sale operatorie e anche il reparto degenze. Lì potrete fare conoscenza con il personale e poi andremo in mensa, dove ho organizzato un pranzo per voi a cui ho invitato anche il dottor Rashid Nawaz, il neurochirurgo. Abbiamo pensato che vi farebbe piacere conoscerlo.» «Sì, certo», affermò Daniel. Sembrava averci messo un'eternità, ma alla fine Gaetano si ritrovò quasi in cima alla coda davanti all'agenzia di autonoleggio, nell'aeroporto di Nassau. Si chiedeva come mai a quelli davanti a lui c'era voluto così tanto per noleggiare una dannata macchina, visto che dovevano solo firmare un fottuto modulo. Guardò l'orologio. Erano le dodici e mezzo ed era arrivato da venti minuti, anche se aveva lasciato il Logan alle sei. ancora prima che fosse sorto il sole. Il problema era stato che non c'erano voli non stop o diretti e aveva dovuto cambiare aereo a Orlando. Spostò il peso del corpo massiccio da una gamba all'altra, nervoso. Sal e Lou gliel'avevano cantato chiaro che doveva svolgere la sua missione in una sola giornata e riportare le chiappe a Boston. Lo avevano avvertito che non si sarebbero bevuti nessuna scusa, pur ammettendo allo stesso tempo che intercettare subito il dottor Lowell non era scontato, infatti avevano graziosamente ammesso che c'erano delle variabili. Gaetano aveva promesso che avrebbe fatto del proprio meglio, ma non avrebbe potuto svolgere il lavoro se non fosse riuscito ad arrivare al più presto a quel cazzo di Ocean Club. Il piano era semplice. Sarebbe andato all'albergo, avrebbe individuato il bersaglio, che secondo i gemelli sarebbe stato stravaccato sulla spiaggia, considerato il clima, e lo avrebbe attirato lontano da lì con qualche ingan-
no astuto. Dopo di che avrebbe fatto ciò che doveva fare, e cioè riferire il messaggio dei capi e picchiarlo di santa ragione, in modo che le sue parole fossero prese sul serio. Poi sarebbe tornato di corsa all'aeroporto e avrebbe preso uno di quegli aerei che facevano avanti e indietro fra lì e Miami, in tempo per saltare sull'ultimo volo per Boston. Se per qualche motivo questo non si fosse avverato, allora avrebbe portato a termine la sua missione quella sera, ammesso che il professore lasciasse l'hotel, e poi avrebbe trascorso la notte in qualche stamberga pulciosa, per fare il viaggio di ritorno il giorno dopo. L'unico problema con il piano B era che non poteva sapere per certo se la vittima avrebbe lasciato l'albergo e questo avrebbe significato rinviare tutto al giorno dopo. In quel caso Lou e Sal sarebbero andati in bestia, indipendentemente da quello che lui avrebbe detto, quindi sentiva di essere tra l'incudine e il martello. Tutto il problema si riduceva al fatto che la sua presenza era necessaria a Boston. Come i suoi capi gli avevano ricordato, c'erano un po' di cosette in ballo in quei giorni, con l'economia in tilt e la gente che si lamentava di non avere i contanti per far fronte ai debiti e alle giocate. Gaetano si sfregò via il sudore che si era formato lungo l'attaccatura dei corti capelli scuri, sulla fronte molto larga. Indossava ampi pantaloni marrone chiaro, che erano stati stirati alla perfezione, una camicia floreale a maniche corte e una giacca sportiva blu. L'idea era di avere un'aria altolocata, in modo da non farsi notare troppo in mezzo ai clienti dell'Ocean Club. Al momento teneva la giacca buttata su una spalla e i pantaloni mostravano delle belle stropicciature bagnate di sudore dietro ogni ginocchio. Con la sua mole massiccia, era sensibile all'umida calura dei tropici. Un quarto d'ora dopo si ritrovò in un parcheggio rovente come l'inferno a cercare una Cherokee bianca. Se prima aveva caldo adesso bolliva, con due triangoli di sudore ben visibili sotto le ascelle. Teneva nella destra la ventiquattr'ore e nella sinistra i documenti dell'auto e una cartina che gli avevano fornito all'agenzia. L'idea di guidare tenendo la sinistra, come gli avevano spiegato di fare, all'inizio lo aveva impensierito, ma adesso pensava che avrebbe potuto farcela, se avesse continuato a ricordarselo. Gli sembrava il massimo della ridicolaggine che gli abitanti delle Bahamas guidassero dalla parte sbagliata. Trovò l'auto. Senza perdere tempo vi salì e la mise in moto. La prima cosa che fece fu mettere al massimo l'aria condizionata e indirizzare verso di sé tutti i condotti. Dopo aver controllato la cartina e averla allargata sul sedile del passeggero, uscì dal parcheggio.
Si era parlato di una pistola, ma poi l'idea era stata scartata. Come prima cosa, avrebbe richiesto del tempo, e poi non ne avrebbe avuto bisogno per affrontare un fottuto professore. Controllò di nuovo la cartina. Il percorso era semplice, dato che quasi tutte le strade portavano alla città di Nassau. Da lì avrebbe preso il ponte per Paradise Island, dove presumeva che l'Ocean Club sarebbe stato facile da trovare. Sorrise pensando al destino. Qualche anno prima, chi avrebbe immaginato che sarebbe andato in giro per le Bahamas tutto acchittato, sentendosi in forma e in attesa di agire? Un brivido di eccitazione gli fece drizzare i capelli sulla nuca. A lui piaceva la violenza, in qualsiasi forma. Era una specie di assuefazione che in passato lo aveva messo nei guai, a cominciare dalla scuola media, ma in particolare alle superiori. Gli piacevano i film di azione e i videogiochi violenti, ma soprattutto gli piaceva la violenza vera. Grazie alla mole che aveva fin da quando era giovane e alla prestanza fisica, era sempre riuscito a cavarsela in tutte le zuffe. Il problema più grosso lo aveva avuto nel 2000. Lui e suo fratello Vito erano stati ingaggiati per lo stesso tipo di attività che Gaetano svolgeva adesso, ma nel Queens, a New York, per una delle maggiori famiglie criminali. Era saltato fuori un incarico da affidare a entrambi: dovevano dare una lezione a uno sbirro corrotto che però non rispettava i patti. Doveva essere una cosa facile facile, e invece era andata storta. Lo sbirro aveva tirato fuori una pistola nascosta e aveva ferito seriamente Vito. Purtroppo, Gaetano aveva visto rosso. Dopo essere riuscito a disarmarlo, aveva fatto secco non solo il poliziotto, ma anche la moglie e il figlio adolescente che avevano cercato stupidamente di intervenire, lei con un'altra pistola, il ragazzino con una mazza da baseball. Erano tutti furibondi. Quelle cose non dovevano succedere, e c'era stata una reazione spropositata da parte della polizia di New York, come se quello sbirro fosse stato un eroe. Gaetano aveva pensato che lo avrebbero sacrificato, o eliminandolo addirittura o servendolo alla polizia su un piatto d'argento. Ma poi era spuntata dal nulla l'opportunità di scomparire andando a Boston a lavorare per i fratelli Castigliano, imparentati alla lontana con la famiglia per cui i Barrese avevano lavorato. All'inizio cambiare aria non gli era piaciuto proprio per niente. Detestava Boston, che considerava una città moscia rispetto a New York, e detestava lavorare per la ditta di rifornimenti idraulici perché si sentiva sminuito. Ma un po' alla volta ci si era abituato. «Porca miseria!» esclamò ad alta voce guardando l'oceano delle Baha-
mas per la prima volta. Un azzurro e un acquamarina così intensi non li aveva mai visti. A mano a mano che il traffico aumentava, rallentò e si godette il panorama. Si era abituato meglio di quanto pensava alla guida a sinistra, così poteva permettersi di spostare lo sguardo di qua e di là, e di cose da vedere ce n'erano tante. Cominciò a nutrire un certo ottimismo per come si sarebbe svolto il pomeriggio, fino a che arrivò a Nassau città. Si ritrovò completamente imbottigliato e per un bel po' rimase completamente fermo dietro un autobus. Guardò l'orologio. Era già l'una. Scosse la testa, mentre il suo ottimismo svaniva rapidamente. Non poteva fare a meno di dirsi che gli sarebbe stato impossibile fare quello che doveva entro le quattro e mezzo, ora in cui avrebbe dovuto muoversi, se voleva riuscire a prendere il volo per Miami e Boston. «'Fanculo!» sbottò con veemenza. All'improvviso decise di non lasciare che il fattore tempo gli rovinasse la giornata. Respirò a fondo e guardò fuori dal finestrino. Sorrise a una bellezza nera che gli restituì il sorriso, dandogli la sensazione che passare la notte lì sarebbe stato piuttosto divertente. Abbassò il finestrino, ma la donna era già sparita. Un attimo dopo l'autobus davanti a lui cominciò a muoversi. Finalmente arrivò al ponte che collegava New Providence Island a Paradise Island e ben presto si ritrovò nel parcheggio dell'Ocean Club che, a giudicare dall'aspetto dei veicoli, era più per i dipendenti che per i clienti. Lasciò la borsa e la giacca nella Cherokee e procedette per un vialetto fiancheggiato da alberi e piante fiorite che prima puntava a ovest per poi svoltare verso nord, tra due costruzioni che facevano parte dell'albergo. Arrivò in questo modo al prato che separava l'intero complesso ricettivo dalla spiaggia. A quel punto voltò a est e tornò verso gli edifici centrali che comprendevano gli spazi pubblici e i ristoranti. Rimase impressionato da tutto ciò che vedeva: quello era un posto davvero fico! Collocato alla sommità di una ripida salita al margine della spiaggia, dominava la vista nelle due direzioni un bar-ristorante all'aperto, riparato da un tetto di paglia. All'una e trenta era pieno zeppo e c'era perfino una coda di persone in attesa che si liberasse un tavolo o uno sgabello del bar. Gaetano si fermò e guardò le foto che aveva per rinfrescarsi la memoria sull'aspetto del professore e della sorella di Tony. Si soffermò con lo sguardo sulla donna, desiderando che fosse lei la vittima. Il pensiero dei vari modi violenti in cui avrebbe potuto trasmetterle il messaggio gli fece spuntare un sorriso sulle labbra.
Sentendosi pronto per riconoscere il professore, cominciò a camminare lentamente passando in rassegna tutti i tavoli, che erano disposti lungo il perimetro, e i sedili del bar, collocato al centro. Di avventori ce n'erano tantissimi, di tutte le forme e le età, vestiti per lo più solo con costumi da bagno e copricostumi. Si ritrovò al punto da cui era partito, senza aver notato nessuno che assomigliasse al tizio o alla ragazza. Lasciò il ristorante e scese una rampa di scale che portava a un terrazzino con una serie di docce all'aperto, da cui un'altra rampa arrivava fino alla spiaggia. A destra, alla base delle scale, c'era la spiaggia in concessione all'albergo, con teli da mare, ombrelloni e sedie sdraio. Gaetano si tolse scarpe e calzini, si arrotolò i pantaloni fino ai polpacci e arrancò fino alla battigia, dove le onde lambivano delicatamente la riva. Quanto la punta dei piedi toccò l'acqua, si pentì di non avere addosso il costume da bagno. L'acqua era tersa come il cristallo, bassa e deliziosamente tiepida. Camminando sulla sabbia umida e molto compressa, si diresse dapprima verso est, scrutando i volti di tutte le persone sulla spiaggia. Non era particolarmente affollata, dato che quasi tutti stavano pranzando. Quando arrivò a un punto in cui non c'era più nessuno, fece dietrofront e andò verso ovest. Anche da quella parte ebbe lo stesso risultato, quindi decise che il professore e la sorella di Tony non erano ad abbrustolirsi sulla spiaggia. Addio a quest'idea, pensò scoraggiato. Si allontanò dalla riva e riprese le scarpe, poi salì fino alle docce e si sciacquò i piedi. Rimessosi calzini e scarpe, attraversò il prato rigoglioso che si stendeva davanti all'edificio principale, la cui architettura faceva pensare alla casa padronale di una piantagione. Un piccolo bar in un angolo con sei sgabelli gli ricordò che, dopotutto, era un albergo. In quel momento non c'erano clienti e il barista era intento a pulire i bicchieri. Gaetano usò un telefono a disposizione dei clienti, su una scrivanìa fornita di carta da lettere intestata, e chiamò il centralino. Chiese se potevano metterlo in comunicazione con la camera 108 e la centralinista disse che sarebbe stata felice di accontentarlo. Mentre il telefono suonava, Gaetano si servì da una fruttiera appoggiata sulla scrivania. Lo lasciò squillare diverse volte, finché la centralinista si informò se desiderava lasciare un messaggio. Le disse che avrebbe riprovato più tardi e riattaccò. A quel punto, si chiese se l'albergo avesse una piscina. Non l'aveva vista dove secondo lui era più probabile che fosse, e cioè in mezzo al vasto pra-
to, ma dato che la proprietà dell'albergo era molto ampia, si disse che poteva essere da un'altra parte. Attraversò la zona soggiorno e arrivò alla reception, dove chiese informazioni e gli indicarono da che parte andare. Scoprì che la piscina era a est, ben distanziata dal mare, alla base di un giardino simmetrico che si elevava a terrazze successive, dominato da un chiostro in stile medievale. Fu ammaliato dalla bellezza del luogo, ma deluso per non aver avuto fortuna nemmeno questa volta. Il professore e la sorella di Tony non erano né alla piscina né al bar lì vicino. E non erano neanche in una palestra poco distante o in uno dei numerosi campi da tennis. «Merda!» bofonchiò. A quel punto gli fu chiaro che non si trovavano in albergo. Guardò l'orologio. Erano passate da poco le due. Scosse la testa. Invece di chiedersi se avrebbe dovuto passare la notte lì, cominciò a pensare quante notti sarebbe dovuto rimanere, se le cose fossero andate avanti di quel passo. Ritornò alla reception e trovò un morbido divano e un'altra fruttiera, assieme a una pila di riviste eleganti. Da lì, attraverso un arco, aveva una vista privilegiata sull'ingresso anteriore dell'albergo. Rassegnato ad aspettare, si mise comodo. 16 Venerdì 1° marzo 2002 - ore 14.07 Mrntre Spencer tornava nel suo spazioso ufficio, Paul scese le scale che portavano nel seminterrato dell'edificio centrale, dopo che entrambi avevano salutato i loro ospiti. Si chiedeva spesso che cosa facesse il suo capo tutto il giorno, a cincischiare in quella stanza enorme, quattro volte più grande dell'ufficio contiguo che aveva ottenuto lui. Ma non covava invidia per quello. Era stata l'unica pretesa di Spencer, quando avevano costruito la clinica. A parte insistere per avere uno spazio personale ridicolmente enorme, gli aveva lasciato quasi carta bianca, in particolare riguardo al laboratorio e alle attrezzature di cui fornirlo. Inoltre, Paul aveva un secondo ufficio, anche se minuscolo, nel laboratorio, ed era quello che usava prevalentemente. Aprì fischiettando la porta antincendio del seminterrato. Aveva validi motivi per essere di buonumore. Non solo si aspettava che venisse riconosciuta la legittimità della sua attività di ricercatore nel campo delle cellule
staminali, grazie alla collaborazione con un potenziale premio Nobel, ma soprattutto intravedeva la prospettiva di un significativo e necessario guadagno economico per la clinica. Come la mitica fenice, Paul era nuovamente risorto dalle proprie ceneri e questa volta erano state reali. Meno di un anno prima, lui e gli altri dirigenti della Wingate avevano dovuto fuggire dal Massachusetts, avendo i barbari alla porta, nella forma di agenti federali. Per fortuna, lui aveva previsto i problemi che poteva causare la sua attività pionieristica nel campo della ricerca, anche se credeva che tali problemi potessero arrivare dalla Food and Drug Administration, non direttamente dal dipartimento della Giustizia, e aveva fatto piani dettagliati per fuggire all'estero senza subire danni. Per quasi un anno, aveva dirottato fondi alle spalle di Spencer ed era stato facile, dato che il proprietario della Wingate si era praticamente ritirato in Florida. Lui aveva usato il denaro per comperare la terra nelle Bahamas, progettare una nuova clinica e cominciare la costruzione. Il raid inaspettato da parte della legge, per colpa di un paio di guastafeste impiccioni, aveva semplicemente significato che la partenza sua e di tutto lo staff era stata un po' più precipitosa del previsto ed era avvenuta prima che la nuova clinica fosse ultimata. Inoltre, lo aveva costretto ad attivare un piano preparato in anticipo per dare alle fiamme la vecchia sede, così da eliminare tutte le prove. Questa recente rinascita dalle ceneri era stata la sua seconda ripresa meravigliosa. Soltanto sette anni prima le sue prospettive apparivano disastrose. Gli avevano revocato il contratto con l'ospedale in cui lavorava e aveva rischiato di essere espulso dall'Albo della professione medica dell'Illinois, solo due anni dopo aver terminato l'internato in ostetricia-ginecologia. Tutto a causa di una stupida truffa sulle parcelle emesse per anziani, disabili e non abbienti, pagate dal servizio sanitario pubblico. L'aveva copiata da alcuni colleghi, perfezionandola, e per una cosa banale come quella era stato costretto a cambiare stato. Una serie di circostanze fortunate lo aveva portato nel Massachusetts, dove si era specializzato in infertilità. Aveva ritenuto prudente cambiare specializzazione per evitare che la commissione medica di quello stato scoprisse i problemi che aveva avuto in Illinois. La sua fortuna era continuata quando aveva approfondito la conoscenza con Spencer Wingate, uno dei suoi professori, che meditava di ritirarsi dall'insegnamento. Il resto era storia. «Ah, se i miei amici potessero vedermi in questo momento!» mormorò fra sé, tutto contento, mentre percorreva il corridoio centrale del seminterrato. Tali pensieri erano il suo passatempo preferito. Certo, usava il termi-
ne amici in senso lato, dato che in realtà non ne aveva molti, infatti era rimasto un solitario per quasi tutta la vita, dopo essere stato lo zimbello di tutti, durante i suoi anni formativi. Era sempre stato uno sgobbone, eppure era destinato a non essere mai all'altezza dei comuni standard della società, tranne nel laurearsi in medicina. Ma ora, con un laboratorio superbamente attrezzato a sua disposizione, senza nemmeno la minaccia di un sopralluogo della FDA, sapeva che aveva tutte le carte in regola per diventare il ricercatore biomedico dell'anno, magari del decennio... magari addirittura del secolo, considerando che la Wingate aveva potenzialmente il monopolio della clonazione riproduttiva e terapeutica. Certo, per lui l'idea che sarebbe diventato un ricercatore famoso era la più grande ironia della sorte. Non l'aveva prevista, non godeva della preparazione appropriata e aveva il dubbio onore di essere stato l'ultimo del suo corso alla facoltà di medicina. Rise in silenzio, sapendo che in realtà doveva la sua attuale posizione non solo alla fortuna, ma anche alla continua preoccupazione dei politici americani per la questione dell'aborto, che aveva distratto la vigilanza dai redditizi affari che ruotavano attorno alle cure per l'infertilità e aveva ostacolato la ricerca sulle cellule staminali. Se non fosse stato così, i ricercatori in patria sarebbero già arrivati al punto in cui si trovava lui ora. Bussò alla porta di Kurt Hermann. Kurt era il capo della sicurezza e uno dei primi mercenari che aveva assoldato. Subito dopo essere arrivato alla Wingate Clinic, Paul aveva intuito l'enorme potenziale di profitti nel settore dell'infertilità, soprattutto per chi fosse disposto a spingere i limiti e approfittare pienamente della mancanza di sorveglianza. Aveva quindi capito che la sicurezza sarebbe stata una questione importante e voleva trovare la persona giusta che se ne occupasse, qualcuno senza troppi scrupoli nel caso si rendessero necessari metodi draconiani, qualcuno disposto a tutto, qualcuno che avesse un'esperienza consolidata. Aveva trovato tutti questi requisiti in Kurt Hermann. Il fatto che il prescelto fosse stato congedato dalle Forze Speciali dell'esercito in circostanze men che onorevoli, in seguito a diversi omicidi di prostitute sull'isola di Okinawa, non turbava minimamente Paul, anzi lo aveva considerato un punto a favore. Sentendo «avanti», Paul aprì la porta. Kurt aveva progettato da sé il complesso di uffici che aveva a disposizione. La stanza principale era un incrocio tra studio e palestra, con due scrivanie, un paio di poltroncine e diverse attrezzature per fare ginnastica. C'era anche una stuoia da tae kwon do. La sala video aveva un'intera parete coperta da monitor collegati alle telecamere sparse per tutto il complesso. Alla fine di un breve corridoio
c'erano una camera da letto e un bagno. Kurt aveva un altro appartamento, più grande, nell'edificio del laboratorio, ma capitava spesso che non si spostasse dal seminterrato per diversi giorni di seguito. Di fronte alla camera da letto c'era una cella, completa di lavandino, latrina e di una branda di ferro. Il rumore metallico dei pesi attirò lo sguardo di Paul verso la parte della stanza adibita a palestra. Kurt si tirò su a sedere dalla panca attrezzata. Indossava, come al solito, una maglietta nera aderente, pantaloni neri e scarpe nere, il tutto in forte contrasto con i capelli biondi tagliati cortissimi. Una volta Paul aveva provato a chiedergli come mai vestisse sempre di nero, considerato il sole implacabile delle Bahamas, ma lui si era limitato ad alzare leggermente le spalle e a inarcare le sopracciglia. Era per lo più un uomo di poche parole. «Dobbiamo parlare», esordì Paul. Kurt non rispose. Si tolse le cinghie di velcro, si passò una salvietta sulla fronte, sedette alla scrivania e rimase immobile. I pettorali e i tricipiti tendevano il tessuto della maglietta. Faceva pensare a un gatto in attesa di spiccare un balzo. Paul prese una delle poltroncine laterali, la mise di fronte alla scrivania e si sedette. «Il dottore e la sua ragazza sono arrivati sull'isola», annunciò. «Lo so», replicò Kurt, sbrigativo. Voltò verso Paul il monitor che aveva sulla scrivania e comparvero Daniel e Stephanie, immobilizzati, ripresi mentre si avvicinavano all'ingresso principale dell'edificio amministrativo. Si vedevano bene i loro volti, mentre socchiudevano gli occhi contro il sole del mattino. «Una buona immagine», commentò Paul. «Di certo, mette bene in evidenza che la donna è attraente.» Kurt girò di nuovo il monitor verso di sé ma non rispose. «Qualche informazione sull'identità del paziente, dall'ultima volta che abbiamo parlato?» Kurt scosse la testa. «Allora, un'altra visita al loro appartamento e una allo studio non hanno rivelato niente?» Kurt scosse la testa. «Niente.» «Mi secca insistere, ma abbiamo bisogno di sapere quanto prima chi è quella persona. Più dobbiamo aspettare, minori possibilità abbiamo di massimizzare il nostro compenso. E abbiamo bisogno di soldi.»
«Le cose saranno più facili, adesso che sono qui a Nassau.» «Qual è la sua strategia?» «Quando cominceranno il loro lavoro qui alla clinica?» «Domani, ammesso che arrivi un pacco che stanno aspettando.» «Devo venire in possesso per qualche minuto dei loro computer portatili e dei cellulari. Per questo potrebbe essere necessaria la collaborazione da parte del personale del laboratorio.» «Sì?» Paul era stupito: era raro che Kurt chiedesse l'aiuto di qualcuno. «Ma certo! Chiederò una mano alla signora Finnigan. Che cosa vuole che faccia?» «Avrò bisogno di sapere dove tengono i computer e, sperando che non se li portino dietro, anche i cellulari, mentre sono in mensa.» «Be', questo sarà facile. Megan fornirà loro qualche posto da chiudere a chiave per i loro effetti personali. Come mai vuole i loro cellulari? Voglio dire, i computer lo capisco, ma perché anche i telefoni?» «Per controllare l'identità di chi li chiama. Non che mi aspetti di scoprire qualcosa, per come sono stati guardinghi finora. Nemmeno dai portatili mi aspetto tanto: persone come quelle non sono certo stupide. Ciò che voglio fare, in realtà, è inserire una cimice nei loro cellulari per controllare le telefonate. Sarà questo a darci ciò che vogliamo. Lo svantaggio è che andranno controllati da vicino, entro una trentina di metri, a causa delle limitazioni di potenza. Una volta messe le cimici, io o Bruno dovremo tenerci nelle vicinanze.» «Sarà un bell'impegno!» esclamò Paul. «Spero vi ricordiate che la discrezione è fondamentale. Non devono accadere scenate, altrimenti al dottor Wingate verrà un attacco.» Kurt fece un'altra delle sue insondabili scrollate di spalle. «Abbiamo saputo che stanno all'Ocean Club.» L'informò Paul. Lui annuì impercettibilmente. «Oggi abbiamo anche scoperto una cosa che potrebbe rivelarsi utile. Questo paziente misterioso potrebbe essere qualcuno in alto nella chiesa cattolica, il che ci avvantaggerebbe ancora di più, considerando la posizione della chiesa sulle cellule staminali. Mantenere il segreto potrebbe valere un sacco di soldi.» Kurt non diede alcun cenno di risposta. «Bene, è tutto», concluse Paul. Si diede una pacca su un ginocchio, prima di alzarsi. «Lasci che glielo ripeta: ci serve quel nome.» «Lo avremo», gli assicurò Kurt. «Si fidi!»
«Che cosa c'è?» chiese Daniel in tono irritato. «Mi stai rifilando la punizione del silenzio, o che cosa? Non hai detto 'ba' da quando abbiamo lasciato la clinica, venti minuti fa.» «Anche tu non hai parlato gran che», ribatté Stephanie senza curarsi di spostare su di lui lo sguardo che teneva fisso sul parabrezza. «Quando siamo saliti in macchina ho detto che era una bella giornata.» «Oh, strabiliante!» commentò Stephanie con evidente derisione. «Questo sì che è un modo stimolante per avviare una conversazione, considerato quel che abbiamo sperimentato stamattina.» Daniel le scoccò un'occhiata insofferente, prima di riportare l'attenzione alla strada. Stavano percorrendo la costa settentrionale dell'isola per ritornare in albergo. «Sei ingiusta. Davanti ai nostri anfitrioni ti comporti come un'ossessa, cosa che ti proibisco di fare ancora, e adesso che siamo soli te ne stai muta come un pesce. Ti comporti come se io avessi fatto qualcosa di sbagliato.» «Be', sì, non riesco a capire come mai non ti indigni per ciò che succede alla Wingate Clinic.» «Intendi rispetto alla loro presunta terapia con le cellule staminali?» «Terapia è una denominazione impropria. Quella è una pura e semplice truffa. Non solo spillano quattrini a gente disperata, distogliendola da cure adeguate per offrirgli solo un placebo, ma fanno sì che la vera cura con le cellule staminali abbia una cattiva fama.» «Sono sì indignato. Chiunque lo sarebbe, però mi indigno anche per i politici che rendono possibile tutto ciò, costringendoci allo stesso tempo a scendere a patti con gente simile.» «E che ne dici del presunto segreto industriale che permette loro di fornire ovociti umani con un preavviso di ventiquattro ore?» «Anche quello è eticamente preoccupante, devo ammetterlo.» «Preoccupante!» gli fece eco Stephanie, sprezzante. «È molto più che preoccupante. Ci hai fatto caso che c'è un articolo sugli ovociti, nella pubblicazione che ci hanno dato?» Srotolò la rivista che teneva stretta in mano e indicò il titolo del terzo articolo annunciato sulla copertina: «'La nostra vasta esperienza con la maturazione in vitro di ovociti fetali umani': a cosa ti fa pensare?» «Credi che se li procurino da feti abortiti?» «Per quanto ne sappiamo, non sarebbe una supposizione troppo stravagante. E hai notato tutte quelle donne locali incinte che lavorano nella
mensa? E che ne dici della vanteria di Paul sul fatto che la clinica ha una grande esperienza di nucleo-transfer? Quella gente probabilmente si occupa di clonazione riproduttiva più di qualsiasi altra cosa.» Stephanie sbuffò con forza, scuotendo la testa. Invece di guardare Daniel, girò la testa verso il proprio finestrino. Teneva le braccia conserte. «Anche solo essere lì e parlare con loro mi fa sentire complice.» Proseguirono senza parlare per qualche minuto. Quando raggiunsero la periferia della città e dovettero rallentare, Daniel interruppe il silenzio. «Tutto quello che dici è vero. Ma avevamo già un'idea di che razza di gente fossero ancor prima di venire qui. Sei tu che hai fatto dei controlli su Internet e, per citare le tue parole, hai detto: 'non sono delle brave persone e dovremmo limitare i nostri contatti con loro'. Te ne ricordi?» «Certo», sbottò Stephanie. «Eravamo al Rialto, a Cambridge, nemmeno una settimana fa.» Sospirò. «Mio Dio! Quante cose sono accadute in sei giorni! Sembra trascorso un anno.» «Ma hai capito che cosa volevo dire?» «Suppongo di sì, ma avevo anche detto di voler essere sicura che lavorando alla loro clinica non avremmo favorito qualcosa di illecito.» «A costo di ripetermi eccessivamente, siamo qui per curare Butler, nient'altro. Eravamo d'accordo, ed è questo che faremo. Non faremo una crociata contro la Wingate, né adesso né quando avremo finito il nostro compito, perché se la FDA scopre ciò che abbiamo fatto potremmo avere dei guai.» Stephanie si voltò per guardare bene in faccia il suo compagno. «Quando mi sono dichiarata d'accordo di curare Butler, pensavo che l'unico compromesso sarebbe stato quello di praticare su un essere umano una cura sperimentale. Purtroppo, sembra che ora abbiamo preso una brutta strada. Sono in pensiero per dove ci porterà, e parlo della nostra coscienza.» «Puoi sempre tornartene a casa. Tu sei più brava nel lavoro con le cellule, ma credo di potermela cavare.» «Dici sul serio?» «Sì. Tu hai una tecnica molto migliore della mia nel nucleo-transfer.» «No, intendo se non ti spiacerebbe nel caso me ne andassi.» «Se i compromessi etici che dovremo accettare ti fanno sentire troppo male e ti deprimono, allora no, non mi spiace se te ne vai.» «Sentiresti la mia mancanza?» «Che cos'è, una domanda trabocchetto? Ti ho già fatto capire che preferirei che restassi. Rispetto a te, io sono maldestro quando lavoro con gli
ovociti e le blastocisti sotto un microscopio.» «Intendevo emozionalmente.» «Ma certo! Questo è scontato.» «Non è mai scontato, anche perché tu non lo hai mai detto. Ma non capire male: apprezzo che adesso lo dici e apprezzo la tua comprensione se me ne vado. Per me significa tanto.» Stephanie sospirò. «Ma, per quanto mi senta in conflitto nel lavorare con questi idioti, non credo che potrei lasciarti qua da solo. Ci penserò. Sapere che è una scelta possibile mi fa sentire meglio. Dopotutto, fin dal primo giorno tutta questa faccenda è andata avanti contro il mio intuito e il buon senso, e l'esperienza di stamani non è stata d'aiuto.» «Sono consapevole delle tue riserve, e proprio per questo apprezzo ancora di più il tuo sostegno. Ma basta! Sappiamo che sono persone poco affidabili e ciò che abbiamo visto stamattina lo conferma. Cambiamo argomento! Che ne pensi del neurochirurgo pakistano?» «Che cosa posso dire? Mi è piaciuto il suo accento inglese, ma è un po' bassino. D'altra parte, è carino.» «Sto cercando di essere serio.» Nella voce di Daniel ricomparve il tono risentito. «E io cerco di fare dello spirito. Voglio dire, come si fa a valutare un professionista solo per averlo incontrato a pranzo? Per lo meno ha una buona preparazione, acquisita in centri accademici londinesi di fama, ma se lui è un bravo chirurgo come si fa a saperlo? Per lo meno si presenta bene.» Stephanie alzò le spalle. «E tu che cosa ne pensi?» «Penso che è straordinario e penso che siamo fortunati ad averlo a bordo. Il fatto che abbia fatto esperienza da interno nell'eseguire impianti di cellule fetali per il morbo di Parkinson è un eccezionale valore aggiunto. Voglio dire, ripeterà la stessa procedura per noi. Impiantare le nostre cellule dopaminergiche naturali clonate sarà per lui come un ripasso, con l'eccezione che funzionerà. Ho percepito una vera esasperazione da parte sua quando ha detto che i risultati dello studio sulle cellule fetali in cui era coinvolto sono stati così scarsi.» «Oh, sì, è entusiasta», concordò Stephanie. «Devo dargli credito di questo, ma non ero del tutto convinta che non fosse perché ha bisogno di lavorare. Mi ha sorpresa sapere che secondo lui basterà solo un'ora o poco più.» «A me no. L'unico passo che richiede tempo è collocare il casco stereotassico. La trapanatura e l'iniezione saranno rapide.»
«Credo che dovremmo essere contenti di averlo trovato così facilmente.» Daniel annuì. «So che c'è un altro motivo per cui stamattina eri così sconvolta», disse all'improvviso, dopo una breve pausa nella conversazione. «Davvero?» Stephanie si sentì di nuovo in tensione, dopo che si era rilassata un po'. L'ultima cosa che desiderava ascoltare era qualche altro dettaglio sconvolgente. «La tua fede nella professione medica adesso deve aver toccato il fondo.» «Di cosa stai parlando?» «Spencer Wingate non è di certo il tipo basso, grasso e con i bitorzoli sul naso che speravi anche se, come ho già detto, potrebbe essere un fumatore incallito e avere l'alito cattivo.» Stephanie mollò a Daniel diversi pugni scherzosi sulla spalla. «Dopo tutte le cose che ho detto ultimamente, è proprio da te ricordare questa.» In modo altrettanto scherzoso, Daniel finse di essere terrorizzato e si spostò tutto contro il proprio finestrino per sottrarsi ai colpi. In quel momento erano fermi a un semaforo poco prima del ponte per Paradise Island. «Paul Sanders, invece, è un'altra storia», riprese il discorso dopo essersi rimesso dritto. «Quindi forse la tua fede non ha subito un colpo irreversibile, dato che il suo aspetto compensa quello da divo sciupafemmine che ha il suo capo.» «Paul non è poi tanto brutto. Certo, ha dei capelli interessanti, con quel ciuffo bianco così evidente.» «Lo so che hai difficoltà a dire qualcosa di male sul fisico di qualcuno. Non che io lo capisca, particolarmente in questo caso, considerato ciò che pensi di questa gente, ma ammettiamo almeno che quell'uomo è un tipo dall'aspetto stranissimo.» «La gente nasce con la faccia e il corpo che gli capita, non se li sceglie. Direi che Paul Saunders è unico. Non ho mai visto nessuno con le iridi di due colori diversi.» «Ha una sindrome genetica eponima», spiegò Daniel. «È piuttosto rara, se rammento bene, ma non mi ricordo il nome. Era una di quelle malattie strane che di tanto in tanto vengono tirate fuori durante i giri di visite di medicina interna.» «Una malattia ereditaria! Vedi perché non mi piace criticare l'aspetto fi-
sico delle persone? Questa sindrome ha qualche seria conseguenza sulla salute?» «Non ricordo.» Il semaforo divenne verde e imboccarono il ponte. La vista del porto di Nassau era affascinante e nessuno dei due parlò finché non arrivarono dall'altra parte. «Ehi!» esclamò Daniel di botto. Sterzò in una corsia che permetteva di svoltare a destra e fermò l'auto. «Che ne dici di andare in quel centro commerciale per comperarci degli altri vestiti? Come minimo, abbiamo bisogno di costumi da bagno, per andare sulla spiaggia. Dopo che sarà arrivato il pacco di Peter, non avremo tante opportunità di darci ai piaceri di Nassau.» «Andiamo prima in albergo. È il momento di chiamare padre Maloney. Ormai dovrebbe essere tornato a New York e forse ha qualche informazione sui nostri bagagli. Sapendo se ci arriveranno oppure no, potremo decidere quali e quanti vestiti comperare.» «Hai ragione!» approvò Daniel e si immise nuovamente nel traffico diretto a est. Qualche minuto dopo, oltrepassò il parcheggio dell'albergo e fermò l'auto direttamente davanti alla reception. Due portieri in divisa si precipitarono ad aprire entrambe le portiere. «Non la parcheggiamo?» domandò Stephanie. «Lasciamola ai portieri. Sia che troviamo padre Maloney, sia che non lo troviamo, voglio andare subito a comperare i costumi da bagno.» «Per me va bene», approvò lei, scendendo dall'auto. Dopo lo stress di quella mattina, un po' di shopping e una puntatina alla spiaggia le sembravano una prospettiva stupenda. Come se si fosse fatto di amfetamina, Gaetano sentì accelerare le pulsazioni e drizzarsi i capelli sulla nuca. Finalmente, dopo un sacco di falsi allarmi, le due persone che stavano entrando dalla porta principale sembravano la coppia che lui cercava. Estrasse rapidamente la foto dal taschino della camicia a fiori e, mentre i due erano ancora ben visibili, confrontò i loro volti con quelli stampati sulla carta. «Tombola!» esclamò tra sé. Ripose la foto e guardò l'orologio. Erano le tre meno un quarto. Fece spallucce. Se il professore collaborava andando a fare una lunga passeggiata o, ancor meglio, ritornando in città, da dove probabilmente la coppia era appena rientrata, forse lui ce l'avrebbe fatta a prendere il volo di quella sera per
Boston. I due sparirono a destra, apparentemente attraversando l'atrio, oltre i banchi della registrazione. Senza affrettarsi troppo per non farsi notare, Gaetano rimise a posto la rivista che stava sfogliando, raccolse la giacca che aveva appoggiato sulla spalliera del divano, sorrise al barista, che era stato abbastanza gentile da fare due chiacchiere con lui, evitando che quelli della sicurezza si insospettissero, e si incamminò. Ora che uscì, la coppia era sparita. Gaetano imboccò il sinuoso vialetto d'accesso che si allungava in mezzo ad alberi fioriti e ad alti cespugli. Non era preoccupato per aver perso di vista il professore e la ragazza, convinto com'era che si stessero dirigendo verso la loro stanza, e sapeva esattamente dov'era la 108. Mentre camminava, pensò che gli seccava di aver ricevuto istruzioni di non affrontare il professore in albergo. Sarebbe stato tanto più facile, invece di dover aspettare che andasse via di nuovo. Rivide la propria preda mentre entrava nell'edificio in cui era la stanza 108. Allora si spostò dalla parte del mare e trovò un'amaca appesa tra due palme in un punto strategico. Depose la giacca sulla corda e si accomodò con precauzione, data la propria mole. Da dove si trovava avrebbe potuto accorgersi se i due si fossero diretti alla spiaggia, alla piscina o verso una qualsiasi delle attrazioni che offriva l'albergo. Mentre i minuti passavano il battito cardiaco gli ritornò normale, anche se pensare all'imminente azione fisica lo eccitava. Si era messo proprio comodo, con la testa adagiata a un piccolo cuscino di tela attaccato all'amaca e un piede poggiato a terra, per dare la spinta e farla dondolare leggermente. Dalle fronde delle palme filtrava solo un po' di sole, e questa era una vera benedizione. Se si fosse trovato sotto il sole diretto, sarebbe andato arrosto. Gli passò vicino una donna con un bikini ridottissimo e un copricostume trasparente, e gli sorrise. Lui rispose con un gesto del braccio che rischiò di farlo capovolgere. Non si era mai disteso su un'amaca prima di allora e si accorse che quella non era stabile quanto sembrava. Per sentirsi più sicuro si afferrò a entrambi i lati. Stava per rischiare di staccare una mano per guardare l'orologio, quando notò la coppia. Invece di scendere alla spiaggia avevano imboccato il vialetto, tornando verso la zona della reception. Cosa più importante, erano vestiti come prima. Gaetano non voleva dirselo per scaramanzia, ma vestiti com'erano non stavano sicuramente andando alla piscina e forse avevano
intenzione di uscire dall'albergo. Nel tentativo di scendere in fretta dall'amaca, la fece rivoltare completamente e cadde ignominiosamente, finendo con la faccia a terra. Si mise prima carponi e infine si alzò e si sentì ancora più in imbarazzo accorgendosi che due bambini piccoli e la loro madre avevano assistito alla caduta. Si strofinò via l'erba che si era appiccicata sui pantaloni e raccolse gli occhiali da sole. Lo irritava che entrambi i mocciosi lo guardassero con un ghigno derisorio e per un attimo pensò di dar loro una lezione. Per fortuna, la famigliola si allontanò, anche se uno dei due si voltò a guardarlo con un sorriso da presa in giro ancora stampato in faccia. Gaetano gli mostrò il medio, poi raccolse la giacca e partì all'inseguimento della coppia. Questa volta si mise a correre, dato che era importante non perderla di vista. La raggiunse prima dell'edificio principale, allora rallentò il passo. Aveva il fiatone. Quando i due entrarono nell'atrio, era proprio alle loro spalle, abbastanza vicino da udire le loro parole. E da apprezzare Stephanie ancora di più che in fotografia. «Perché non vai a farti ridare la macchina?» stava dicendo la bella mora. «Io uscirò tra un attimo. Voglio chiedere al portiere se occorre prenotare, nel caso stasera volessimo cenare in cortile.» «Va bene», rispose il professore. Sopprimendo un sorriso di contentezza, Gaetano tornò sui propri passi e uscì dall'atrio dalla stessa porta da cui era entrato. Si precipitò al parcheggio e saltò nella Cherokee. La mise in moto e la portò sul davanti dell'albergo, in un punto da cui poteva vedere le auto in uscita. Notò una Mercury Marquis con il motore acceso. Subito dopo comparve la sorella di Tony, che salì al posto del passeggero. «Centro!» esclamò ad alta voce Gaetano. Guardò l'orologio. Erano le tre e un quarto. All'improvviso, le cose sembravano andare a posto. La Mercury Marquis partì e gli passò davanti. Lui la seguì, dapprima abbastanza vicino da imparare a memoria il numero di targa. Poi rimase un po' indietro. «Che cosa ne pensi della mia conversazione con padre Maloney?» chiese Stephanie. «Quel prete mi confonde come il giorno in cui siamo scappati da Torino.» «Stessa cosa per me. Quando eravamo in Italia speravo che fosse un po' più disponibile sull'argomento dell'intervento divino e del suo essere un
semplice servitore del buon Dio. Ma almeno sembra che sia riuscito a sistemare la faccenda dei bagagli. Con il fatto che siamo dei fuggitivi e con quanto ne so sulle valigie smarrite, questa dev'essere davvero una prova dell'intervento divino.» «Sarà così, ma non avendo idea di quando arriveranno, non ci è tanto d'aiuto nell'immediato.» «Be', io voglio essere ottimista e pensare che arriveranno presto, quindi le mie compere si limiteranno al costume da bagno e a poche cose fondamentali.» Daniel entrò nel parcheggio del centro commerciale e costeggiò la sfilata di vetrine, fermandosi davanti a due negozi contigui, uno di abbigliamento femminile, l'altro maschile. Entrambe le vetrine erano allestite con gusto e gli abiti sembravano provenire dall'Europa. «Più comodo di così!» osservò Daniel, mentre parcheggiava. Guardò l'orologio. «Incontriamoci qui all'auto fra mezz'ora.» «A me sta bene», approvò Stephanie, mentre scendeva dal veicolo. Con il cuore di nuovo a mille, Gaetano occupò uno spazio nel parcheggio che permetteva di tornare direttamente sulla strada e di lì subito sul ponte per Nassau. Nel suo tipo di lavoro era sempre importante predisporre una rapida via di fuga. Spense il motore e guardò dietro di sé, in tempo per vedere la coppia separarsi: il professore si dirigeva verso un negozio di abbigliamento maschile, la sorella di Tony verso quello vicino, di moda per signore. Non riuscì a credere alla propria fortuna. La questione di come occuparsi della donna mentre faceva il suo lavoro con il professore lo aveva assillato fin dalla partenza, dato che gli era stato raccomandato di lasciarla fuori della storia. A questo punto non sarebbe stato un problema, purché lui avesse colto l'opportunità di beccare l'uomo finché era da solo. Già, ma per quanto tempo sarebbe rimasto da solo? Balzò giù dalla Cherokee e, camminando sempre più svelto fin quasi a correre, sentì il fervore dell'aspettativa che aumentava a dismisura. Per lui, le manovre indispensabili per avvicinarsi alla vittima erano come i preliminari nel ciclo dell'eccitamento, mentre la violenza che ne derivava era molto simile all'orgasmo. Anzi, per lui l'intera esperienza era simile al sesso, però molto meglio. Fu un sollievo per Daniel rimanere da solo, anche se soltanto per mezz'ora. La lagna di Stephanie sulla coscienza gli dava sui nervi. Scoprire che
Spencer Wingate e i suoi amici svolgevano attività sospette non era certo una sorpresa, soprattutto dopo quello che proprio lei gli aveva riferito dalla navigazione su Internet. Sperava che quel seccante atteggiamento moralistico non le facesse perdere di vista l'immagine d'insieme, intralciandone le azioni. Poteva farcela anche da solo, ma era stato sincero quando aveva ammesso che lei era più brava in fatto di manipolazione cellulare. A Daniel non piaceva fare acquisti e quando entrò nel negozio di abbigliamento aveva intenzione di sbrigarsi, in modo da tornare subito all'auto, sedersi e rilassarsi. Tutto ciò che voleva comeprare era qualche paio di mutande, un costume da bagno e qualche vestito adatto per lavorare, come dei comodi pantaloni color cachi e delle camicie a maniche corte. A Londra, Stephanie lo aveva convinto a comperarsi dei pantaloni casual, una giacca di tweed e due camicie da abbinarvi, quindi in quel settore era a posto. L'interno del negozio era sorprendentemente vasto, nonostante la facciata fosse modesta, perché si espandeva in profondità. Appena entrati c'era un reparto ben fornito dedicato al golf e uno un po' più piccolo per il tennis, mentre l'abbigliamento per tutti i giorni si trovava più verso il fondo. La temperatura era gradevolmente fresca e l'aria profumava di colonia, mista all'odore dei tessuti nuovi. La musica classica si diffondeva da numerose casse appese alle pareti. L'arredamento era decisamente esclusivo, con profusione di mogano rosso scuro, stampe di cavalli e moquette verde scura. C'erano altri cinque o sei clienti, quasi tutti nel reparto golf, e ognuno era servito da un commesso. Nessuno si fece avanti a salutare Daniel, cosa di cui fu contento. I negozi di quel tipo non lo avevano mai attirato, con quei modi condiscendenti, come se fossero il non plus ultra del buon gusto. Quando si trattava di vestiti, Daniel era un conservatore da Ivy League: indossava essenzialmente il tipo di cose che aveva portato quando era all'università. Senza che nessuno gli si avvicinasse e lo accompagnasse, attraversò il reparto sportivo e si inoltrò verso la parte del negozio più lontana dalle vetrine. Cominciò con il cercare il costume da bagno, che gli sembrava la cosa più facile. Trovò il reparto giusto e anche la propria taglia. Dopo averne passati in rassegna diversi, scelse un robusto costume blu scuro a calzoncino. Nelle immediate vicinanze c'era la biancheria intima, e anche lì trovò subito la propria taglia. Aveva impiegato pochissimi minuti dei trenta a disposizione e si diresse verso il reparto camicie. Ce n'erano una grande quantità a fiori, con vivaci colori tropicali, ma lui non le prese in considerazione e puntò dritto verso
le oxford a maniche corte con i bottoni sulla punta del colletto. Trovò facilmente la sua taglia e ne prese due azzurre. Tenendo con un braccio tutti gli indumenti già scelti, si diresse al reparto pantaloni. Anche qui fu relativamente difficile trovarne di semplici, ma ci riuscì e ne scovò una serie color cachi, proprio come voleva lui. Però non era sicuro della taglia, quindi ne prese qualche paio di lunghezze diverse e si guardò attorno alla ricerca dei camerini di prova. Li trovò proprio all'estremità del negozio, oltre i reparti deserti dei completi e delle giacche. C'erano quattro cubicoli per cambiarsi, allineati sul fondo di una sala per le prove che si raggiungeva spingendo i doppi battenti di una porta a vento. Era rivestita di mogano ed era fornita di specchi a tre ante. Tutti i cubicoli erano liberi, ma il primo a destra era il doppio degli altri, e Daniel scelse quello. Conteneva una sedia, diversi ganci per appendere i vestiti e uno specchio a tutta parete. Daniel chiuse la porta, appese le varie paia pantaloni ai ganci e appoggiò sulla sedia gli altri articoli scelti. Scalciò via le scarpe, slacciò la cintura e si tolse i pantaloni. Prese il primo paio di quelli che voleva provare e stava per infilarselo quando il rimbombo di un forte colpo precedette l'improvviso spalancarsi della porta. Tale fu la violenza del calcio che l'uscio andò a sbattere contro la parete talmente forte da far incastrare la maniglia nell'intonaco. Daniel senti il cuore balzargli in gola, mentre dalle labbra gli sfuggiva un flebile gemito. Colto letteralmente in mutande, si limitò a fissare il massiccio intruso che si chiuse la porta alle spalle, nonostante l'avesse quasi divelta. L'uomo si avvicinò a Daniel, immobilizzato dallo spavento, quando si vide scrutato da due occhi scuri, metallici. Sembravano quasi piccoli, considerate le dimensioni enormi della testa sormontata dai capelli neri. Prima che potesse reagire, i pantaloni che teneva in mano gli furono strappati via e gettati da parte. Proprio nel momento in cui stava per ritrovare la voce e protestare, un pugno che pareva arrivare dal nulla gli colpì il viso, rompendogli i capillari del naso e della palpebra inferiore destra. Spinto all'indietro, andò a sbattere contro lo specchio, prima di accasciarsi a terra con le gambe sotto di sé. L'immagine dell'aggressore gli ondeggiò davanti. Solo parzialmente cosciente di ciò che gli stava accadendo e senza offrire la minima resistenza, fu afferrato, tirato su e sbattuto sulla sedia, dove atterrò scompostamente sopra i vestiti che vi aveva appoggiato poco prima. Sentì il sangue colargli dal naso e si accorse che con l'occhio destro ci vedeva a malapena.
«Ascolta, testa di cazzo», ringhiò l'uomo, avvicinando il viso al suo. «Non la farò tanto lunga. I miei capi, i fratelli Castigliano, in nome di tutti quelli che hanno messo soldi nella tua strampalata società, vogliono che riporti le chiappe su al nord e la rimetti in sesto. Mi hai sentito?» Daniel cercò di parlare, ma le corde vocali non rispondevano. Annuì. «Non è un messaggio complicato. Loro sentono che è una mancanza di rispetto da parte tua darti alla pazza gioia quaggiù al sole mentre l'investimento di cento cocuzze che hanno fatto con te è in pericolo.» «Stiamo cercando...» La voce di Daniel era solo uno squittio stridulo. «Già, sicuro, state cercando», lo schernì il suo aggressore. «Tu e quella figona della tua ragazza. Ma i miei capi non la vedono così, loro preferiscono che te ne ritorni a Boston. E, che la società vada a fondo o no, si aspettano di riavere indietro i quattrini, non importano gli avvocati di grido che potresti sbandierare. Capito?» «Sì, ma...» «Niente ma. Comunque, tanto per andare sul sicuro, ho un'altra cosa su cui vorrei che meditassi.» Senza avvertimento, Daniel fu colpito di nuovo, questa volta sul lato sinistro della testa e a mano aperta, non con un pugno. La violenza fu però tale da farlo cadere dalla sedia come una bambola di pezza. Daniel sentì quel lato del viso bruciare e l'orecchio sinistro ronzare. Si accorse che l'uomo lo scuoteva con la punta di una scarpa, prima di afferrarlo per i capelli e sollevargli la testa dal tappeto. Attraverso gli occhi socchiusi guardò la sua sagoma in controluce incombere sopra di lui. «Posso essere sicuro che hai ricevuto il messaggio?» gli chiese il suo aggressore. «Perché devi sapere che avrei potuto farti più male. Spero che lo capisca. Ma, al momento, non vogliamo sciuparti tanto da non permetterti di rimettere in piedi la tua azienda. Certo, questo potrebbe cambiare se mi toccasse ritornare qui da Boston. Capito cosa intendo, eh?» «Sì, ho capito», squittì Daniel. L'altro mollò la presa sui suoi capelli e lui ricadde con la testa sul tappeto. Tenne gli occhi chiusi. «È tutto, per adesso. Spero di non dover tornare a farti visita.» Un attimo dopo, la porta cigolò nell'aprirsi e poi fu richiusa con un tonfo. Tutto tornò tranquillo. 17
Venerdì 1° marzo 2002 - ore 15.20 Daniel riaprì gli occhi dopo essere rimasto perfettamente immobile per qualche minuto. Era solo, ma udiva delle voci attutite oltre la porta, come se un commesso accompagnasse un cliente in uno degli altri cubicoli. Si tirò su a sedere e si guardò allo specchio. La parte sinistra del viso era violacea e dal naso scendeva un rivoletto di sangue che gli arrivava all'angolo della bocca, prima di scendere verso la mandibola. L'occhio destro si stava gonfiando tanto da non potersi aprire e aveva un alone bluastro tutt'attorno. Se lo toccò piano con la punta dell'indice, poi si sfiorò anche lo zigomo destro. Facevano male, ma non era un dolore acuto, né si evidenziavano protuberanze sospette che facessero pensare a qualche frattura. Si mise in piedi e, dopo un momento di vertigini, si sentì relativamente bene, tranne un mal di testa sordo, le gambe malferme e un diffuso senso di nervosismo, come se avesse appena bevuto cinque tazze di caffè. Tese una mano davanti a sé: gli tremava alla grande. Quell'episodio lo aveva terrorizzato; in tutta la vita non si era mai sentito tanto vulnerabile. Nonostante l'equilibrio precario, riuscì a rimettersi i pantaloni, poi si strofinò via il sangue dal viso con il dorso della mano. Nel farlo, si accorse che l'interno della guancia si era lacerato. Lo tastò cauto con la lingua e valutò che per fortuna la lesione non era tanto grande da richiedere dei punti. Come ultima cosa, si lisciò i capelli radi con le dita, quindi aprì la porta del cubicolo. «Buon giorno!» lo accolse un elegante commesso di origine africana. Indossava un completo gessato, ravvivato da un fazzoletto da taschino talmente colorato che sembrava essergli esploso fuori dal petto. Stava appoggiato alla parete, in attesa che il cliente emergesse dal proprio cubicolo. Rivolse a Daniel un'occhiata perplessa, sollevando le sopracciglia, ma non disse nulla. Temendo il suono che avrebbe avuto la propria voce, lui si limitò a rispondere al saluto con un cenno della testa, riuscendo perfino a sorridere. Si incamminò sulle gambe instabili, ben consapevole di tremare. Temeva di passare per un drogato. Più camminava, però, più facile diventava. Fu contento che il commesso non gli chiedesse nulla. Voleva evitare qualsiasi conversazione e uscire al più presto dal negozio. Arrivato alla porta che dava sulla strada, si sentiva ormai in grado di camminare normalmente. L'aprì, si affacciò nel calore pomeridiano e diede un rapido sguardo attorno, anche verso il parcheggio, accertandosi che il
suo aggressore non fosse nei paraggi. Sbirciò attraverso la vetrina del negozio di moda femminile e intravide Stephanie che faceva allegramente i suoi acquisti. Assicuratosi che almeno lei stesse bene, andò direttamente alla Mercury Marquis. Una volta in macchina, abbassò i finestrini per creare un po' di corrente che dissipasse il caldo infernale. Sospirò; era una cosa positiva starsene seduto nell'ambiente ormai familiare dell'auto presa a nolo. Piegò lo specchietto retrovisore verso di sé e si esaminò più attentamente. A preoccuparlo di più era l'occhio destro, che adesso era praticamente chiuso. Però poteva dire per certo che la cornea era pulita e che non c'era sangue nella camera anteriore, anche se la sclera mostrava qualche emorragia petecchiale. Avendo prestato servizio al pronto soccorso nel periodo dell'internato, ne sapeva qualcosa di traumi facciali, e temeva in particolare la frattura dell'orbita. Per escluderla con sicurezza, controllò se ci vedeva doppio, soprattutto quando alzava e abbassava lo sguardo. Per fortuna non era così. Rimise a posto lo specchietto e si appoggiò allo schienale, disponendosi ad aspettare Stephanie. Circa un quarto d'ora dopo, la vide emergere dal negozio reggendo diversi sacchetti, ripararsi gli occhi dal sole e guardare nella sua direzione. Cacciò fuori una mano dal finestrino aperto e l'agitò e lei rispose allo stesso modo. La guardò avvicinarsi. Adesso che aveva avuto qualche minuto per pensare all'aggressione e ai probabili mandanti, il suo stato mentale era passato dall'ansia alla collera, una cui parte significativa era rivolta verso Stephanie e la sua incasinata famiglia. Anche se non gli avevano spaccato le ginocchia, il modus operandi puzzava tremendamente di mafia, e questo gli aveva fatto pensare al fratello di Stephanie, che era pure indiziato per qualcosa di losco. Chi fossero i fratelli Castigliano non lo sapeva, ma lo avrebbe scoperto. Stephanie si accostò prima alla portiera posteriore dalla parte del passeggero, l'aprì e gettò i sacchetti sul sedile. «Hai trovato qualcosa?» chiese in tono gioioso. «Devo dire che per me è andata meglio di quanto aspettassi.» Richiuse con un tonfo la portiera e salì davanti, continuando a parlare dei propri acquisti. Solo dopo aver preso in mano la cintura di sicurezza si voltò verso Daniel e rimase a metà di una frase. «Mio Dio! Che cosa hai fatto all'occhio?» quasi gridò. «Mi fa piacere che te ne sia accorta», replicò lui in tono di scherno. «È evidente che mi hanno picchiato. Ma prima di entrare nei dettagli sgradevoli, ho una domanda da farti: chi sono i fratelli Castigliano?»
Stephanie lo fissò, notando non solo l'occhio tumefatto ma anche la guancia arrossata e un po' gonfia e il sangue rappreso attorno alle narici. Voleva allungare una mano in un gesto consolatorio, ma si trattenne, avendo colto la rabbia nell'unico occhio aperto e nel tono di voce. Inoltre, il nome Castigliano e ciò che poteva significare la paralizzarono. Abbassò lo sguardo sulle mani che teneva abbandonate in grembo. «C'è qualche altra sciocchezzuola che hai ritenuto di non dovermi dire?» continuò Daniel, con eguale sarcasmo. «Cioè, oltre al fatto che tuo fratello è stato indiziato per estorsione dopo essere diventato nostro finanziatore. Ripeto: chi diavolo sono i fratelli Castigliano?» La mente di Stephanie correva. Era vero: non gli aveva riferito che Tony aveva appaltato metà dell'investimento. Non aveva scuse, anche perché saperlo l'aveva turbata e questa seconda mancanza la fece sentire come un ladro colto due volte sul fatto. «Speravo che avremmo almeno potuto avere una conversazione», aggiunse Daniel, vedendo che lei non parlava. «Possiamo averla e l'avremo», disse Stephanie all'improvviso. Lo guardò. Non si era mai sentita così colpevole in vita sua. Gli avevano fatto del male, e lei doveva ammettere che gran parte della responsabilità era sua. «Ma prima, dimmi se stai bene.» «Date le circostanze, sì.» Daniel accese il motore e fece manovra. «Dovremmo andare all'ospedale o da un medico?» «No! Non ce n'è bisogno. Sopravviverò» «Alla polizia?» «Tanto meno! Andare alla polizia, che potrebbe svolgere delle indagini vere, rischierebbe di mandare a monte il progetto Butler.» Stavano uscendo dal parcheggio. «Forse questo è un altro segno di malaugurio per l'intera faccenda. Sei sicuro di non voler rinunciare a questa impresa faustiana?» Daniel le scoccò un'occhiata adirata e sprezzante. «Non riesco a credere che tu possa suggerire una cosa simile! Assolutamente no! Non ho intenzione di rinunciare a tutto ciò per cui abbiamo sgobbato perché un paio di delinquenti hanno mandato qui il loro uomo di Neanderthal a riferirmi un messaggio.» «Ti ha parlato?» «Fra un colpo e l'altro.» «Qual era esattamente il messaggio?» «Per citare mister Muscolo, dovrei riportare le chiappe a Boston e rimet-
tere in sesto la società.» Immessosi nel traffico, Daniel accelerò. «Alcuni dei nostri finanziatori, avendo saputo che siamo a Nassau, credono che siamo qua in vacanza.» «Stiamo tornando in albergo?» «Visto che ho perduto l'entusiasmo per lo shopping, vorrei mettermi un po' di ghiaccio sull'occhio.» «Sei sicuro che non dovremmo andare da un medico? Gli occhi hanno proprio un brutto aspetto.» «Forse per te è una sorpresa, se ti ricordo che sono medico anch'io?» «Intendevo un vero medico, che esercita.» «Molto divertente, ma scusa se non rido.» Rimasero in silenzio fino all'arrivo in albergo, dove Daniel fermò l'auto nel parcheggio. Scesero e Stephanie riprese i sacchetti dal sedile posteriore. Non sapeva che cosa dire. «I fratelli Castigliano sono delle conoscenze di mio fratello Tony», ammise infine, mentre si incamminavano verso il loro edificio. «Come mai non ne sono sorpreso?» «Oltre a questo, non so altro di loro, né li ho mai incontrati.» Quando entrarono nella suite, Stephanie gettò i sacchetti da una parte. Si sentiva talmente in colpa che non sapeva come gestire la giusta collera di Daniel. «Siediti, ti vado a prendere il ghiaccio», si offrì in tono premuroso. Daniel si distese sul divano del soggiorno, ma immediatamente si tirò su: stare supino gli faceva pulsare la testa. Stephanie arrivò con una salvietta e vi mise dentro un po' di cubetti di ghiaccio presi dal secchiello sopra il minibar, poi la porse a Daniel, che la posò con precauzione contro l'occhio gonfio. «Che ne dici di un po' di ibuprofene?» gli chiese. Daniel annuì e lei gli procurò qualche pastiglia e un bicchier d'acqua, poi si sedette sul divano piegando le gambe sotto di sé e gli riferì i dettagli della sua conversazione con Tony, il pomeriggio del giorno che erano partiti per Torino. Concluse scusandosi in tono contrito per non avergliene parlato. Spiegò che, con tutto quello che stava accadendo all'epoca, le era parso di poca importanza. «Avevo intenzione di dirtelo quando fossimo ritornati da Nassau, al momento della seconda fase di finanziamenti, perché vorrei considerare i duecentomila dollari di mio fratello come un prestito e restituirli con gli interessi. Non voglio che lui né suoi eventuali soci siano coinvolti con la CURE, in futuro.» «Be', almeno su una cosa siamo d'accordo.»
«Accetti le mie scuse?» «Suppongo», rispose Daniel senza molto entusiasmo. «Allora tuo fratello ti aveva avvertita di non venire qua?» «Sì», ammise Stephanie, «perché non potevo dirgli cosa venivamo a fare. Ma è stato solo un avvertimento generico, e di certo senza minacce. Devo dire che mi è ancora difficile credere che c'entri qualcosa con la tua aggressione.» «Oh, davvero?» Daniel era tornato al tono sarcastico. «Comincia a crederlo, perché è coinvolto senza ombra di dubbio. Voglio dire, oltre a lui, chi potrebbe aver detto a quei Castigliano che siamo qui a Nassau? Non può essere una coincidenza che quel picchiatore si sia fatto vivo proprio il giorno in cui siamo arrivati. Evidentemente, dopo che hai telefonato a tua madre, ieri sera, lei ha chiamato tuo fratello e lui i suoi amici. E suppongo di non doverti ricordare com'eri andata in bestia quando ho accennato che era possibile la violenza, avendo a che fare con gente coinvolta con la mafia.» Stephanie arrossì al ricordo. Era vero: era diventata furibonda. Con improvvisa determinazione, prese il proprio cellulare, lo aprì e cominciò a comporre un numero. Daniel le afferrò il braccio. «Chi chiami?» «Mio fratello», rispose con veemenza. Si appoggiò allo schienale del divano tenendo il telefonino contro l'orecchio, le labbra premute per la collera. Lui si chinò e glielo prese di mano. Nonostante l'apparente risolutezza, Stephanie non oppose resistenza. Daniel lo chiuse e lo gettò sul tavolinetto. «Al momento, chiamare tuo fratello è l'ultima cosa che dovremmo fare.» Si rimise dritto, premendo l'improvvisata borsa del ghiaccio contro l'occhio. «Ma voglio confrontarmi con lui. Se è davvero coinvolto, non gliela farò passare liscia. Mi sento tradita dalla mia stessa famiglia.» «Sei in collera?» «Certo che lo sono!» «Anch'io», sbottò Daniel. «E sono io quello che è stato picchiato, non tu.» Lei abbassò gli occhi. «Hai ragione. È giusto che tu sia più sconvolto di me.» «Devo farti una domanda.» Daniel sistemò meglio il ghiaccio. «Circa un'ora fa hai detto che pensavi alla possibilità di tornartene a casa per metterti a posto la coscienza riguardo al fatto di lavorare con gente come
Saunders e Wingate. Con la svolta che hanno preso le cose, devo sapere se intendi farlo oppure no.» Stephanie sollevò di nuovo lo sguardo su di lui. Scosse la testa e fece una breve risata imbarazzata. «Dopo ciò che è accaduto e considerato come mi sento in colpa, non c'è nemmeno da pensare che ti lascerei da solo.» «Bene, questo è un sollievo. Magari c'è qualcosa di positivo in tutto, perfino nell'essere pestati di santa ragione.» «Mi spiace davvero che ti abbiano fatto del male. Davvero. Più di quanto non credi.» «Va bene, va bene.» Daniel le diede una stretta al ginocchio, per rassicurarla. «Adesso che so per certo che rimarrai, ecco che cosa dovremmo fare, secondo me. Dobbiamo fingere che questo piccolo pestaggio di cui sono stato vittima non sia mai accaduto, e ciò significa niente partacce telefoniche a tuo fratello, e nemmeno lamentele con tua madre. Le future telefonate che le farai sottolineeranno che noi due non siamo qua in vacanza, ma anzi lavoriamo sodo per salvare la CURE. Dille che ci staremo tre settimane e poi torneremo a casa.» «E quel picchiatore che ti ha aggredito? Non dobbiamo preoccuparci che ritorni?» «Sì, ma è un rischio che dobbiamo correre. Non è di qua, e io credo che sia già in viaggio per tornarsene a casa. Ha detto che se avesse dovuto ritornare qua da Boston mi avrebbe fatto male per davvero, il che mi porta a dedurre che normalmente stia nel New England. Allo stesso tempo, ha detto che non mi voleva fare tanto male da rendermi impossibile rimettere in piedi l'azienda. Ma, e questo è più importante di tutto, spero che le conversazioni con tua madre, che verranno riferite senza dubbio a tuo fratello, convincano i Castigliano che vale la pena aspettare tre settimane.» «Dovremmo cambiare hotel, dato che ho detto a mia madre dove stiamo?» «Ci ho pensato, mentre ti aspettavo in macchina. E ho preso in considerazione l'offerta di Paul di stare alla Wingate Clinic.» «Oh, santo cielo! Sarebbe come cadere dalla padella nella brace.» «Neanche a me piacerebbe stare lì. Già sarà dura avere a che fare con quei ciarlatani durante il giorno. Quindi penso che dovremmo semplicemente rimanere qui, a meno che la cosa non ti sconvolga troppo. Non voglio una ripetizione della nostra notte a Torino. Secondo me, ci conviene rimanere qui e non lasciare l'albergo tranne che per andare alla Wingate Clinic che, da domani, sarà comunque il posto dove staremo la maggior
parte del tempo. D'accordo?» Stephanie annuì diverse volte. «Allora, sei d'accordo o che cosa?» chiese Daniel. «Non dici niente.» Lei sollevò all'improvviso le mani, in preda alla frustrazione. «Accidenti, non so che cosa pensare. La tua aggressione ha fatto aumentare ancora di più il mio disagio riguardo all'intero progetto Butler. Fin dal primo giorno, siamo stati costretti a fare ipotesi su persone di cui sapevamo poco o niente.» «Aspetta un secondo!» ringhiò Daniel. Il suo viso, già rosso, divenne paonazzo e la voce cominciò ad aumentare progressivamente di volume. «Non ricominciamo un'altra volta il dibattito se cureremo o no Butler. Questo è già stato deciso. La nostra attuale conversazione è su dove stare d'ora in poi, punto!» «D'accordo, d'accordo!» Stephanie gli mise una mano sul braccio. «Calmati! Rimaniamo qui e speriamo che le cose vadano per il meglio.» Daniel respirò più volte a fondo, prima di replicare: «Penso anche che dovremmo cercare di stare insieme». «Di cosa stai parlando?» «Non credo sia stato un caso che quel gorilla mi abbia aggredito quando ero solo. Evidentemente tuo fratello non vuole che ti facciano del male, altrimenti saremmo stati malmenati tutti e due, oppure tu avresti dovuto assistere. Io credo che quello abbia aspettato che fossi solo; quindi, credo che stare insieme tutte le volte che siamo fuori dalla nostra stanza fornirebbe una certa dose di sicurezza.» «Forse hai ragione», borbottò Stephanie in modo evasivo. Aveva la mente in subbuglio. Da una parte, era sollevata che Daniel non si riferisse al loro rapporto, quando aveva parlato dello stare insieme, dall'altra, ancora non riusciva ad ammettere con se stessa che suo fratello avesse qualcosa a che fare con la violenza appena consumata. «Puoi portarmi dell'altro ghiaccio?» le domandò Daniel. «Quello che ho si è quasi sciolto.» «Certo!» Era contenta di avere qualcosa da fare. Prese la salvietta inzuppata e la portò in bagno, dove ne prese una asciutta, poi prelevò altro ghiaccio dal secchiello. Stava porgendo il tutto a Daniel, quando il telefono squillò. Per qualche momento, il suo trillo ripetitivo inondò la stanza altrimenti silenziosa. Rimasero entrambi immobili a fissarlo. «E adesso, chi diavolo sarà?» chiese Daniel, dopo il quarto squillo, e si mise il ghiaccio sull'occhio.
«Non sono in tanti a sapere che siamo qui», osservò Stephanie. «Devo rispondere?» «Suppongo di sì. Se sono tua madre o tuo fratello, ricordati che cosa ti ho detto prima.» «E se fosse la persona che ti ha aggredito?» «Non mi sembra probabile. Rispondi, ma con disinvoltura. Se è quel delinquente, riattacca. Non cercare di coinvolgerlo in nessun tipo di conversazione.» Stephanie andò al telefono, sollevò il ricevitore e cercò di dire «pronto» in tono normale, mentre intanto guardava Daniel. Lui vide che sollevava leggermente le sopracciglia mentre ascoltava. Dopo qualche momento mosse le labbra formando le parole: «chi è?» ma lei sollevò la mano per dirgli di aspettare. Infine fu lei a parlare. «Meraviglioso! Mille grazie!» Quindi rimase ancora in ascolto, attorcigliando distrattamente il filo attorno a un dito, per poi affermare: «È molto gentile da parte sua, ma stasera non è possibile. Anzi, non sarà mai possibile». Infine salutò in modo conciso e ripose il ricevitore. A quel punto guardò di nuovo Daniel ma non parlò. «Allora? Chi era?» chiese lui, divorato dalla curiosità. «Spencer Wingate.» Stephanie scosse la testa per lo stupore. «Che cosa voleva?» «Farci sapere che ha individuato il pacco destinato a noi e ha fatto in modo che sia consegnato domani mattina, come prima cosa.» «Grazie per i piccoli favori! Questo significa che potremo cominciare a creare le cellule per la terapia di Butler. Ma è stata una conversazione piuttosto lunga per un messaggio così breve. Che altro voleva?» Stephanie se ne uscì in una risata sardonica. «Voleva sapere se mi andava di raggiungerlo a casa sua, al porticciolo di Lyford Cay, per cenare insieme. Cosa strana, ha precisato che l'invito era solo per me e non per noi due come coppia. Non ci posso credere! Era come se cercasse di fare pressione su di me.» «Be', guardiamo il lato positivo: per lo meno ha buon gusto!» «Io non ci trovo niente di divertente», ribatté Stephanie. «Lo vedo. Ma teniamo a mente il quadro d'insieme.» 18 Lunedì 11 marzo 2002 - ore 11.30
Quando c'era da riconoscere un merito, Daniel lo faceva. E non c'era dubbio che Stephanie fosse molto più brava di lui nella manipolazione delle cellule, com'era evidente anche in quel preciso momento. Avevano sistemato sul banco del laboratorio uno stereomicroscopio per dissezione a due oculari e in questo modo Daniel poteva seguire le varie fasi del lavoro. Adesso Stephanie stava per iniziare il processo di trasferimento del nucleo, conosciuto come clonazione terapeutica, estraendo il nucleo di un ovocita maturo il cui DNA era stato marcato con una tinta fluorescente. Aveva già intrappolato la cellula dell'ovocita umano con una suzione esercitata dall'estremità smussata di una pipetta. «A vedere te, sembra tanto facile», commentò Daniel. «Lo è», replicò lei, mentre guidava una seconda pipetta nel campo visivo del microscopio con un micromanipolatore. Diversamente dalla prima, questa pipetta aveva l'estremità acuminata come quella di uno spillo e il suo diametro era solo di venticinque milionesimi di metro. «Forse è facile per te, ma non per me.» «Il trucco è non avere fretta. Tutto deve essere fatto lentamente e con movimenti fluidi, non a scatti.» Come a dimostrazione delle parole di Stephanie, la pipetta acuminata si mosse lentamente ma con decisione verso l'ovocita intrappolato per spingere contro lo strato esterno della cellula, senza penetrarla. «Questa è la parte dove invariabilmente faccio casino», si lamentò Daniel. «La metà delle volte, attraverso tutta la cellula ed esco dall'altra parte.» «Forse perché sei troppo impaziente e quindi hai la mano un po' pesante. Una volta che la cellula è adeguatamente intaccata, basta appena un leggero colpetto con l'indice sulla sommità del micromanipolatore.» «Tu non usi direttamente il micromanipolatore per fare l'iniezione?» «Mai.» Stephanie continuò la manovra con l'indice e nel campo visivo si vide la pipetta entrare nitidamente nel citoplasma del malcapitato ovocita. «Be', si vive per imparare!» commentò Daniel. «Ciò dimostra che io sono solo un dilettante, in questo campo.» Stephanie si staccò dall'oculare per guardarlo. Non era da lui mostrare una così bassa opinione di sé. «Non essere così duro con te stesso. Questo è lavoro manuale, per il quale avrai sempre a disposizione tecnici esperti. Io ho imparato a svolgerlo quando ero una semplice assistente non specia-
lizzata, dopo la laurea.» «Sì, forse è così», replicò lui, senza sollevare lo sguardo. Stephanie alzò le spalle e guardò di nuovo nel microscopio. «Adesso uso il micromanipolatore per accostarmi al DNA fluorescente», spiegò. La punta acuminata si avvicinò al suo bersaglio e bastò aumentare di pochissimo la suzione per far scomparire il DNA su per il lume della pipetta, come se questa fosse un aspirapolvere in miniatura. «Io non sono bravo nemmeno in questo», ammise nuovamente Daniel. «Credo che aspirerei troppo citoplasma.» «È importante prelevare solo il DNA», gli ricordò Stephanie. «Ogni volta che osservo questa tecnica mi stupisco sempre di più che funzioni. Con la mente immagino la struttura submicroscopica interna di una cellula vivente come una casa di vetro in miniatura. Com'è possibile strappare il nucleo dalle sue radici, essenzialmente buttarci dentro un altro nucleo da una cellula adulta differenziata e far sì che il tutto funzioni? È strabiliante!» «Non solo funziona, ma fa sì che il nucleo adulto che inseriamo ridiventi giovane.» «Già, anche questo. Io dico che il processo del nucleo-transfer sfida ogni immaginazione.» «Non potrei essere più d'accordo», convenne Stephanie. «Per me, l'improbabilità del suo funzionamento è una prova che Dio è coinvolto nel processo, il che stuzzica il mio agnosticismo ancora più di quanto ho appreso sulla Sacra Sindone.» Mentre parlava, guidò una terza pipetta nel campo visivo del microscopio. Questa aveva nel lume una singola cellula proveniente dalla coltura dei fibroblasti di Butler: una cellula il cui nucleo ancestrale era stato manipolato meticolosamente da Daniel, dapprima con la ROTS, per sostituire i geni responsabili del morbo di Parkinson con quelli derivati dal sangue della Sindone, in secondo luogo con un gene aggiunto dietro suggerimento di Stephanie per uno speciale antigene di superficie. Questo DNA nucleare del fibroblasto avrebbe sostituito il DNA rimosso da Stephanie dall'ovocita. Mentre la guardava svolgere con abilità il suo lavoro, Daniel si meravigliò di ciò che era riuscita a realizzare nella settimana e mezzo da quando lui era stato aggredito. Per fortuna le ferite fisiche erano guarite ed erano per lo più un semplice ricordo, tranne per una sensibilità residua allo zigomo destro e la chiazza giallo-verde dell'occhio pesto che stava guarendo. Si era inventato una scusa per i curiosi che facevano domande. Però il
danno psicologico non era superato del tutto. Impressa nella retina della sua mente, un'immagine incombeva su di lui negli incubi ricorrenti: la testa enorme, le orecchie piccole, i lineamenti a patata. Ancora più inquietanti erano il sorriso sbilenco e gli occhi come spilli, crudeli. Anche dopo undici giorni, Daniel continuava ad avere quegli incubi e soffriva nel sentirsi vulnerabile e indifeso. Di giorno le cose andavano decisamente meglio. Come si erano messi d'accordo immediatamente dopo l'episodio, lui e Stephanie facevano in modo di stare insieme praticamente come gemelli siamesi e di non lasciare l'albergo se non per recarsi alla Wingate Clinic. In realtà, era una scelta obbligata, infatti rimanevano in laboratorio dall'alba al tramonto di ogni singolo giorno. Megan Finnigan si era rivelata molto utile, fornendo loro un piccolo ufficio, oltre al tavolo nel laboratorio vero e proprio. Avere dello spazio in cui disporre i documenti di lavoro e i fogli sparsi era una benedizione del cielo e aumentava la loro efficienza. Anche Paul Saunders era stato d'aiuto, mantenendo la parola nel fornire dieci ovociti umani freschi dodici ore dopo che erano stati richiesti. All'inizio c'era stata una pratica divisione del lavoro tra Daniel e Stephanie. Lei si era dedicata alla coltara dei fibroblasti mandata da Peter. L'aveva scongelata e le aveva fatto continuare la crescita quasi senza inconvenienti. Daniel, intanto, si era occupato della soluzione tamponata che conteneva il campione della Sindone. Dopo un singolo passaggio attraverso la macchina della polimerasi per duplicare il DNA presente nel liquido, aveva determinato che il DNA in questione era di un primate e probabilmente di un essere umano, anche se decisamente frammentato, come si era aspettato. Utilizzando microscopiche perline di vetro come espediente per purificarli, Daniel era ricorso nuovamente alla reazione a catena della polimerasi, sottoponendovi più volte i frammenti del DNA, quindi aveva usato le sonde genetiche dopaminergiche. Era riuscito nell'intento, ma solo con parte dei geni richiesti, e quindi aveva dovuto ricorrere alla sequenziazione. Dopo diverse giornate di lavoro di sedici ore, era riuscito ad attaccare i frammenti appropriati con le sintetasi dei nucleotidi per formare i geni. A quel punto era pronto per i fibroblasti di Ashley Butler, che nel frattempo Stephanie aveva reso disponibili. Il passo successivo era la ROTS, ed era filata liscia come l'olio. Essendo l'ideatore della procedura, Daniel ne conosceva intimamente le sottigliezze e le insidie; sotto la sua mano sicura gli enzimi e i virus-vettori avevano
funzionato perfettamente e ben presto era pronto un certo numero di fibroblasti. L'unico problema era stato Paul Saunders, che aveva insistito nel seguirlo passo passo e spesso gli stava tra i piedi. Aveva ammesso senza il minimo imbarazzo che pensava di aggiungere quella tecnica alle altre offerte dalla Wingate nel campo della terapia con le cellule staminali, facendo pagare ai clienti molto di più. Daniel cercava di ignorarlo e di tenere a freno la lingua per impedirsi di mandarlo a quel paese, ma era difficile. Una volta completata la ROTS, Daniel pensava che fossero pronti per il nucleo-transfer, ma Stephanie lo aveva sorpreso con il suggerimento che incorporassero nella cellula alterata dalla ROTS anche un preparato di ecdisone (il che significava parecchi geni combinati) capace di creare un unico antigene di superficie non umano sulle cellule da usare per la terapia. Stephanie aveva sostenuto che, nel caso si fossero verificati la necessità o l'interesse di visualizzare tali cellule dentro il cervello di Butler dopo l'impianto, sarebbe stato facile farlo, poiché le cellule terapeutiche avrebbero avuto un antigene che nessuno degli altri trilioni di cellule aveva. Daniel era rimasto colpito dall'idea e si era dichiarato d'accordo per quel passo addizionale, soprattutto dopo che lei gli aveva spiegato di essersi fatta inviare da Peter il preparato e il virus-vettore dal loro laboratorio di Cambridge, assieme al tessuto di coltura di Butler. Era una tecnica che aveva già utilizzato nel curare i topi affetti dal morbo di Parkinson, e si era dimostrata un'aggiunta preziosa al protocollo. «Per questa fase uso sempre il micromanipolatore», spiegò Stephanie, strappandolo alle sue riflessioni. La pipetta contenente il fibroblasto di Butler alterato forò l'involucro dell'ovocita senza intaccare la membrana sottostante. «Io ho dei problemi anche a far questo», ammise nuovamente Daniel e la osservò iniettare il minuscolo fibroblasto nello spazio tra la membrana dell'ovulo e il suo rivestimento esterno, relativamente spesso. Poi la pipetta scomparve alla vista. «Il trucco sta nell'avvicinarsi all'involucro tangenzialmente. Se non si fa così, il rischio è di penetrare nella cellula.» «Ah ecco! È logico.» «Bene, direi che sta a meraviglia», commentò Stephanie, dopo aver rimirato la propria opera. L'ovulo enucleato, appropriatamente granuloso, e il relativamente minuscolo fibroblasto erano avvinghiati in un abbraccio serrato entro l'involucro dell'ovocita. «Si può passare al processo di fusione e poi all'attivazione.»
Si staccò dagli oculari ed estrasse la capsula di Petri da sotto l'obiettivo del microscopio. Scivolò giù dallo sgabello e si diresse verso la camera di fusione, dove avrebbe sottoposto le due cellule appaiate a un breve choc elettrico per fonderle. Daniel la guardò allontanarsi. Oltre agli incubi ricorrenti, il pestaggio aveva avuto altre conseguenze di tipo psicologico. Nei primi giorni era sempre stato in ansia, temendo che il gorilla dei Castigliano facesse di nuovo la sua comparsa, nonostante ciò che lui stesso aveva detto a Stephanie per rassicurarla. Inoltre, dopo essere stata informata dell'accaduto, la direzione dell'albergo aveva temporaneamente dislocato per un'intera settimana una guardia di sicurezza nel loro edificio. Era un uomo robusto e dall'aspetto intimidatorio che ogni sera li aveva accompagnati nella loro stanza al termine della cena al ristorante nel cortile, per poi rimanere nell'atrio fino a che, la mattina dopo, partivano per la Wingate Clinic. A mano a mano che la paura di Daniel si affievoliva, con il passare dei giorni, la collera verso l'avvenimento in sé diminuiva, per indirizzarsi verso Stephanie. Anche se si era scusata e aveva mostrato una sincera sollecitudine, lui andava in bestia nel vederla dubitare sul ruolo avuto in quell'episodio dalla famiglia D'Agostino. Lei non lo diceva esplicitamente, ma Daniel lo aveva intuito da certi commenti indiretti. Con familiari come quelli e con la mancanza di giudizio dimostrata nel trattare con loro, non poteva fare a meno di chiedersi se Stephanie sarebbe stata una zavorra troppo pesante nel lungo periodo. Anche il suo moralismo costituiva un problema. Sebbene avesse promesso di non sollevare questioni con quelli della Wingate, di fatto continuava a fare commenti inappropriati sulla loro pretesa terapia con le cellule staminali e a cercare di saperne di più sulle donne gravide che lavoravano nella clinica, argomento estremamente delicato per Paul Saunders. Per di più, aveva un atteggiamento scostante nei confronti di Spencer Wingate. Daniel riconosceva che questi esagerava nell'esprimere il suo interesse per lei, fatto che poteva essere influenzato dalla propria passività di fronte ai suoi commenti, però c'erano modi meno rudi per tenere a bada la situazione, rispetto a quelli scelti da Stephanie. Gli seccava a dismisura che lei non si rendesse conto di come quel comportamento poteva mettere a rischio il loro progetto. Se li avessero buttati fuori dalla Wingate, sarebbe andato tutto a monte. Daniel sospirò, guardandola lavorare. Anche se aveva dei dubbi sul lungo termine, non ne aveva assolutamente sul fatto che adesso gli serviva.
Mancavano solo undici giorni all'arrivo di Butler sull'isola e, per allora, avrebbero dovuto sviluppare i neuroni produttori di dopamina dai suoi fibroblasti, per curarlo. Stavano progredendo bene, avendo già praticato la ROTS e il nucleo-transfer, ma c'era ancora molto da fare. La perizia di Stephanie nella manipolazione delle cellule era indispensabile, e non c'era il tempo di sostituirla con qualcun altro. Stephanie percepiva lo sguardo di Daniel su di sé Riconosceva che il senso di colpa e la confusione riguardo al ruolo della propria famiglia nell'aggressione la rendevano particolarmente sensibile, ma era evidente che lui non si comportava come al solito. Poteva solo immaginare che cosa doveva essere stato subire il pestaggio, ma si era aspettata di vederlo riprendersi più rapidamente. Invece, continuava a tenersi lontano da lei in tanti modi sottili, e anche se dormivano nello stesso letto non c'era più stato alcun tipo di intimità. Un tale comportamento sollevava un cruccio che lei covava da tempo, e cioè il dubbio che Daniel fosse incapace o non motivato a offrirle il tipo di sostegno emotivo di cui lei aveva bisogno, in particolare nei periodi di stress, indipendentemente dalla causa. Aveva seguito le sue indicazioni alla lettera: nonostante l'impulso di telefonare a Tony e avere un confronto con lui, non lo aveva fatto; nelle conversazioni quasi quotidiane con sua madre aveva badato bene a sottolineare che lei e Daniel si trovavano a Nassau per lavoro e sgobbavano sodo, il che era decisamente vero, e che non erano andati a fare il bagno alla spiaggia nemmeno una volta, vero anche questo. Inoltre aveva ripetuto più volte che avrebbero finito presto e sarebbero tornati a casa attorno al 25 marzo, ritrovando un'azienda finanziariamente stabile. Aveva evitato di parlare del fratello, anche se nella telefonata del giorno prima aveva finito con il cedere alla tentazione. Con il tono più disinvolto possibile aveva buttato là: «Tony ha chiesto di me?» «Certo, cara», aveva risposto Thea. «Tuo fratello si preoccupa per te e chiede ogni volta tue notizie.» «Che parole usa, esattamente?» «Non mi ricordo le parole esatte. Gli manchi. Vuole soltanto sapere quando tornerai.» «E tu che cosa gli rispondi?» «Quello che mi dici tu. Perché? Dovrei dirgli qualcosa di diverso?» «Naturalmente no. Assicuragli che saremo a casa fra meno di due settimane, e che non vedo l'ora di rivederlo. E digli che il nostro lavoro proce-
de estremamente bene.» Per molti aspetti, Stephanie era contenta di quanto fossero indaffarati, lei e Daniel. Questo riduceva le occasioni di angosciarsi per le questioni sentimentali e di chiedersi se fosse giusto o no curare Butler. I cattivi presentimenti rispetto a quella faccenda erano aumentati ancora di più, per l'aggressione a Daniel e per la necessità di chiudere un occhio su quanto fossero depravati i dirigenti della Wingate. Paul Saunders era di gran lunga il peggiore. L'intuito le diceva che era assolutamente privo di coscienza e dei principi etici più rudimentali, e inoltre era stupido. Il resoconto dei risultati del programma adottato alla Wingate per la terapia con le cellule staminali, di cui tanto si vantava, era una barzelletta. Era semplicemente la descrizione di vari casi individuali con gli esiti relativi. Non si accennava minimamente a un metodo scientifico e la cosa più disturbante era che Paul non sembrava nemmeno rendersene conto o preoccuparsene. Spencer Wingate era un'altra storia, ma provocava più noia che paura, rispetto al folle presunto scienziato che era Paul. Comunque, a lei non sarebbe piaciuto ritrovarsi da sola in casa sua, come proponevano i suoi insistenti inviti. Il problema era che la sua lussuria era sostenuta da un ego smisurato: non si immaginava nemmeno che le sue avance potessero venire rifiutate. All'inizio, lei aveva cercato di essere ragionevolmente gentile, inventando varie scuse, ma alla fine aveva dovuto rifiutare senza peli sulla lingua, soprattutto vedendo che Daniel sembrava indifferente. Alcuni degli inviti più esplicitamente libidinosi Spencer li aveva fatti in sua presenza, senza che lui reagisse in alcun modo. Come se già non bastassero la personalità e il comportamento di quei ciarlatani a farle dubitare che fosse opportuno lavorare alla clinica, c'era la questione degli ovociti umani. Lei aveva cercato di indagare con discrezione sulla loro origine, ma nessuno le aveva dato corda, tranne la tecnica di laboratorio, Mare. Anche lei non era il massimo dell'apertura, ma per lo meno le aveva rivelato che provenivano dalla sala organi gestita da Cindy Drexler, situata nel seminterrato. Quando Stephanie aveva chiesto che cosa fosse la sala organi, Mare si era chiusa a riccio e le aveva detto di rivolgersi a Megan Finnigan, la direttrice del laboratorio. Purtroppo Megan aveva già dichiarato, come Paul, che la fonte degli ovuli era un segreto industriale, quindi a Stephanie non rimaneva che tentare con Cindy Drexler, ricevendo la cortese risposta che tutte le domande riguardanti gli ovuli andavano rivolte al dottor Saunders. Cambiando tattica, aveva allora cercato di parlare con alcune delle gio-
vani donne impiegate nella mensa. Si erano mostrate amichevoli ed estroverse fino al momento in cui lei aveva cercato di spostare la conversazione sul loro stato civile, quando erano diventate timide ed evasive. Al tentativo di parlare della loro gravidanza, poi, si erano chiuse in se stesse, diventando reticenti, e questo non aveva fatto che aumentare ancora di più la sua curiosità. Per quanto la riguardava, non occorreva essere un premio Nobel per la scienza per immaginare che cosa accadeva e, nonostante il divieto di Daniel, lei intendeva provarlo. La sua idea era che, armata di una simile informazione, avrebbe avvertito anonimamente le autorità locali dopo che lei, Daniel e Butler se ne fossero andati da un bel pezzo. Ciò di cui aveva bisogno era entrare nella sala organi. Purtroppo non ne aveva avuto l'opportunità, indaffarata com'era, ma nelle prossime ore le cose sarebbero cambiate. L'ovulo che al momento stava fondendosi con un fibroblasto di Butler modificato per mezzo della ROTS rimpiazzava uno dei dieci forniti originariamente da Paul Saunders. Dopo il nucleo-transfer non si era diviso e Paul, onorando i suoi impegni, ne aveva procurato un undicesimo. Gli altri nove si stavano dividendo senza problemi, dopo aver ricevuto i loro nuovi nuclei. Alcuni erano adesso al quinto giorno e cominciavano a formare le blastocisti. L'idea di Stephanie e Daniel era di creare dieci linee separate di cellule staminali, ognuna comprendente i cloni cellulari di Ashley Butler. Tutte e dieci avrebbero fornito cellule che si sarebbero differenziate in cellule nervose dopaminergiche. Questa ripetizione per dieci doveva servire come rete di sicurezza, dato che per curare il senatore avrebbero usato una sola linea cellulare. Forse più tardi nel pomeriggio o più probabilmente in mattinata, Stephanie avrebbe iniziato il processo di raccolta delle cellule staminali multipotenti dalle blastocisti in formazione, ma fino ad allora avrebbe avuto un po' di tempo libero. L'unico problema sarebbe stato allontanarsi da Daniel, ma grazie alla distanza emotiva che lui mostrava non doveva essere un problema insormontabile, finché godevano della sicurezza che offriva il luogo di lavoro; all'esterno della clinica, invece, si rifiutava di perderla di vista. «Come è andata la fusione?» le domandò Daniel, dal banco al quale era rimasto seduto. «Bene, sembra», rispose lei, sbirciando il preparato attraverso le lenti di un microscopio. Adesso l'ovocita aveva un nuovo nucleo con una serie completa di cromosomi. Seguendo un processo che per il momento nessuno capiva, ora l'ovulo avrebbe cominciato misteriosamente a riprogramma-
re il nucleo dai suoi compiti di controllore di una cellula epiteliale adulta, riportandolo al suo stadio primordiale. Nel giro di ore, il preparato avrebbe imitato un ovulo fecondato di recente. Per iniziare la conversione, Stephanie trasferì con ogni cura l'ovocita alterato artificialmente nel primo medium attivante. «Hai fame quanto me?» chiese Daniel. «Probabilmente», rispose lei e guardò l'orologio. Non c'era da stupirsi: era quasi mezzogiorno. L'ultima volta che aveva mangiato qualcosa erano le sei ed era solo una colazione continentale, con caffè e pane tostato. «Possiamo andare in mensa, una volta messo quest'ovulo nell'incubatrice. Deve rimanere solo altri quattro minuti in questo medium.» «Sta bene.» Daniel scivolò giù dallo sgabello e scomparve nel loro ufficio per togliersi il camice. Mentre preparava il prossimo medium attivante per l'ovulo ricostruito, Stephanie provò a pensare a qualche scusa per tornare da sola in laboratorio durante la pausa pranzo. Sarebbe stato un momento adatto a indagare, dato che quasi tutti interrompevano il lavoro tra mezzogiorno e l'una, compresa la tecnica della sala organi, Cindy Drexler. La pausa pranzo era un importante momento di socializzazione per il personale della clinica. Stephanie pensò di dire che doveva controllare il processo di attivazione dell'undicesimo ovulo, ma scartò l'idea: Daniel si sarebbe insospettito, infatti sapeva che, una volta nel secondo medium attivante, l'ovulo sarebbe rimasto indisturbato nell'incubatrice per sei ore. Doveva trovare qualche altra scusa, e non gliene veniva in mente nessuna, finché non pensò al cellulare. In particolare dopo il pestaggio di Daniel, aveva sempre la mania di tenerselo addosso e lui lo sapeva. C'erano vari motivi per questa sua mania, tra i quali l'aver detto a sua madre di chiamarla a quel numero, anziché al telefono dell'albergo. Ma, avendo appena parlato con Thea quella mattina ed essendo quindi tranquilla che non ci sarebbe stata un'emergenza imminente, non la preoccupava staccarsi dal cellulare nella prossima mezz'ora. Dopo aver guardato verso il loro minuscolo ufficio per assicurarsi che Daniel non stesse guardando, si sfilò di tasca il Motorola, lo spense e lo pose sullo scaffale dei reagenti, sopra il banco. Soddisfatta di quel piano, riportò l'attenzione al processo di attivazione. Fra altri trenta secondi sarebbe stato il momento di spostare l'ovulo dal primo medium al seguente. «Che ne dici? Sei pronta?» le chiese Daniel, quando ricomparve senza
camice. «Dammi un altro paio di minuti. Sto per trasferire l'ovulo e metterlo nell'incubatrice, e poi possiamo andare.» «Va bene.» Mentre aspettava, Daniel si avvicinò all'incubatrice e guardò gli altri contenitori, alcuni dei quali erano lì da cinque giorni. «Qualcuno di questi sarà pronto per raccogliere le cellule staminali oggi pomeriggio.» «Stavo pensando proprio la stessa cosa.» Con molta precauzione, Stephanie portò il nuovo ovulo ricostruito fino all'incubatrice, per metterlo assieme agli altri. Kurt Hermann lasciò cadere i piedi a terra con un movimento improvviso, incontrollato, che non gli era abituale. Li aveva tenuti appoggiati sul ripiano della sala video. Quasi con un unico movimento balzò in piedi, facendo rovesciare la poltroncina su cui era seduto. Riguadagnando la compostezza acquisita in molti anni di addestramento nelle arti marziali, si spostò in avanti con gesti lenti, misurati, per avvicinarsi al monitor che aveva controllato nell'ultima mezz'ora. Non credeva ai suoi occhi! Era accaduto così rapidamente, ma sembrava proprio che Stephanie D'Agostino avesse appena tirato fuori di tasca il cellulare su cui lui cercava di mettere le mani da una settimana e mezzo e lo avesse deliberatamente posto sopra alcuni flaconi su uno scaffale del laboratorio. Sembrava che volesse nasconderlo. Con il tasto collocato alla sommità del joystick che comandava la minicamera interessata, Kurt zumò sull'oggetto che gli sembrava il cellulare. Lo era! La punta sagomata di plastica nera che sporgeva dietro un flacone di acido idrocloridrico era appena visibile. Confuso per il piccolo colpo di scena inatteso ma promettente, riportò l'inquadratura a dimensioni normali e si accorse che Stephanie era scomparsa dal campo visivo. Usando nuovamente il joystick, perlustrò tutta la stanza e trovò rapidamente lei e Daniel davanti a un'incubatrice. Aumentando il volume, cercò di ascoltare nel caso lei menzionasse il telefono, ma non sentì niente al riguardo. Continuavano a parlare di andare a pranzo e nel giro di pochi minuti lasciarono il laboratorio. Kurt sollevò lo sguardo al monitor immediatamente superiore e vide la coppia uscire dall'edificio numero uno e attraversare il cortile centrale, diretta verso il numero tre. Durante la costruzione della clinica, Paul Saunders gli aveva dato carta bianca in fatto di sicurezza, per evitare la catastrofe verificatasi nel Massa-
chusetts, quando un paio di ficcanaso erano penetrati nel database della clinica. Per evitare che si ripetessero accessi non autorizzati alla stanza del server ed escludere altri motivi di apprensione, aveva chiesto che tutto il complesso fosse dotato di microfoni e telecamere. Aveva scelto i modelli più sofisticati, praticamente invisibili e molto affidabili, integrati da computer. Senza che Paul lo sapesse, li aveva fatti installare anche nei servizi, negli appartamenti degli ospiti e in quasi tutti gli alloggi del personale, dov'erano mimetizzati nelle parti visibili dell'impianto elettrico. Tutto poteva essere visto nella sala video accanto all'ufficio di Kurt e certe sere riusciva a divertirsi, anche se non era necessariamente questione di sicurezza. Certo, lui poteva sostenere il contrario, infatti in una organizzazione come la Wingate Clinic era importante sapere chi andava a letto con chi. Continuò a osservare la coppia fin quando entrò nell'edificio numero tre, anche se gli occhi erano puntati soprattutto su Stephanie. Nell'ultima decina di giorni si era assuefatto a osservarla, nonostante l'ambivalenza che evocava in lui. Era attratto e respinto dalla sua innata sensualità. Come gli accadeva in genere con le donne, apprezzava la sua bellezza eppure allo stesso tempo ne riconosceva le caratteristiche quasi diaboliche, da tentatrice. Kurt l'aveva osservata fare e ricevere telefonate al cellulare, quando era in laboratorio, ma seguendo solo il suo lato della conversazione e non riuscendo a capire chi fossero gli interlocutori. Di conseguenza non aveva potuto fornire a Paul Saunders il nome del paziente, come invece gli aveva promesso, e a lui piaceva mantenere le promesse. L'atteggiamento di Kurt verso le donne si era incancrenito a causa della traditrice suprema, sua madre. Loro due avevano una relazione molto profonda, alimentata dalle lunghe assenze del padre, despota che imponeva una disciplina rigidissima e che esigeva la perfezione da moglie e figlio, dando peso solo ai loro fallimenti. Suo padre aveva fatto parte delle Forze Speciali dell'esercito e, come in seguito Kurt, che ne aveva seguito le orme, era stato addestrato per diventare un killer da usare nelle operazioni segrete. Quando lui aveva tredici anni, il padre era morto durante un'azione in Cambogia, nelle ultime settimane della guerra del Vietnam. La reazione di sua madre era stata come quella di un pappagallino liberato dalla gabbia. Ignorando il conflitto emotivo che sconvolgeva il figlio, lacerato tra il dolore e il sollievo, si era lanciata in una sequela di brevi relazioni e lui era costretto a udire le sue effusioni amorose attraverso le sottili pareti dell'alloggio militare. Nel giro di pochi mesi, sua madre aveva posto fine a quell'orgia di appuntamenti sposando un damerino che vendeva polizze assicu-
rative e che lui disprezzava. Kurt sentiva che tutte le donne, in particolare quelle attraenti, erano come la madre a cui in gioventù aveva attribuito un ruolo preciso nella mitologia personale: attirarlo con la seduzione, succhiargli via la forza e infine abbandonarlo. Appena Daniel e Stephanie scomparvero all'interno dell'edificio numero tre, spostò automaticamente lo sguardo al monitor dodici e attese che comparissero nella mensa. Quando raggiunsero la fila, si alzò e si diresse nel proprio ufficio. Dalla spalliera della poltroncina prese il giubbotto di leggera seta nera e lo infilò sulla maglietta nera. Lo indossava per nascondere la pistola che portava sempre con sé nella fondina allacciata in vita, sul dietro. Si tirò su le maniche oltre il gomito poi prese da un angolo della scrivania la scatoletta contenente la minuscola cimice che intendeva applicare al cellulare di Stephanie, il dispositivo per controllarla e l'attrezzatura da gioielliere, che comprendeva un saldatore delicatissimo e una lente binoculare da orologiaio. Muovendosi come un gatto, emerse dalla porta del seminterrato nell'edificio numero due e si diresse verso l'uno. Dopo pochi minuti era nel laboratorio, davanti al banco assegnato a Stephanie e Daniel. Diede un'occhiata in tutte le direzioni, per accertarsi di essere solo, quindi prese il cellulare, si applicò la lente da orologiaio e si mise al lavoro. In meno di cinque minuti aveva collocato la cimice e ne aveva verificato il funzionamento. Stava rimettendo il fodero di plastica al cellulare quando udì aprirsi in lontananza la porta del laboratorio. Aspettandosi di vedere qualcuno del personale, o magari Paul Saunders, si chinò e guardò da sotto lo scaffale dei reagenti verso l'ingresso, a oltre venti metri di distanza. Con sua grande sorpresa, vide invece che era Stephanie: si stava avvicinando con passo rapido e deciso. Per un breve secondo, Kurt si lasciò prendere dal panico, chiedendosi che cosa dovesse fare. Ma prevalse il lui l'ottimo addestramento e si ricompose in fretta. Sistemò il telefonino, infilandogli la custodia con movimenti scattanti, poi lo rimise dove lo aveva trovato, dietro il flacone di acido cloridrico. Quindi dedicò la propria attenzione agli attrezzi da gioielliere, alla lente e al dispositivo di controllo della cimice. Più silenziosamente che poté, li mise in un cassetto che richiuse appoggiandovisi contro con un fianco. Stephanie D'Agostino si trovava adesso a soli sei metri da lui e si avvicinava rapidamente. Kurt indietreggiò, in modo da mettere il banco e la scaffalatura tra sé e la ricercatrice in arrivo. Non sarebbero bastati a nasconderlo, ma non c'erano altre scelte.
In realtà, Tony era parecchio incazzato di dover rinunciare a un bel pranzo, che era uno dei punti forti della sua giornata, per fare ancora un'altra visita ai fratelli Castigliano in quel loro squallido magazzino di materiali idraulici. Il puzzo di uovo marcio che saliva dalla costa fangosa non aiutava, anche se, con il freddo che faceva, si sentiva di meno rispetto all'ultima volta che c'era stato, una decina di giorni prima. Per lo meno, in quel buco puzzolente era meglio arrivarci di giorno che di notte, così non doveva preoccuparsi di inciampare in qualche merdoso rifiuto sparso lì davanti. Di buono c'era che aveva ragione di credere che quella fosse l'ultima visita, per lo meno riguardo al problema con la CURE. Entrò e si diresse verso l'ufficio sul retro. Gaetano era al banco e stava servendo un paio di clienti, ma sollevò lo sguardo e accennò un saluto con la testa. Tony lo ignorò. Se lo scagnozzo dei gemelli avesse fatto bene il suo lavoro, adesso lui non avrebbe dovuto trovarsi lì in quel momento, a camminare tra le scaffalature dei rifornimenti idraulici, con la puzza di uovo marcio nelle narici. Sarebbe stato seduto al suo tavolo preferito al Grotta Azzurra, il ristorante di Hanover Street, a sorbire un bicchiere di Chianti del '97 cercando di decidere quale pastasciutta ordinare. Lo irritava a morte quando i sottoposti mandavano le cose a puttane, dato che questo gli incasinava la vita. A mano a mano che invecchiava, credeva sempre di più nel vecchio detto: «Se vuoi che una cosa sia fatta bene, fattela da solo». Aprì la porta dell'ufficio, entrò e se la chiuse sonoramente alle spalle. Lou e Sal erano alle loro rispettive scrivanie e mangiavano la pizza. Questo gli provocò un'ondata di nausea, che si ripercosse in un brivido lungo la spina dorsale: detestava l'odore di acciuga, soprattutto se si accompagnava a quello di uova marce. «Avete un problema», annunciò, premendo le labbra in un'espressione di disgusto e muovendo la testa avanti e indietro come i pupazzi a forma di cane che certi tengono sul dietro dell'automobile. Però, per mettere in chiaro che non intendeva assolutamente mancare di rispetto ai gemelli, si avvicinò prima a uno poi all'altro per una rapida stretta di mano, quindi indietreggiò verso il divano e vi si accomodò. Si sbottonò il cappotto, senza toglierselo: intendeva fermarsi solo un paio di minuti. Non c'era niente di complicato in quello che doveva dire. «Che cosa c'è che non va?» domandò Lou con il boccone in bocca. «Gaetano ha fatto casino. Qualunque cosa abbia fatto giù a Nassau non è servita a niente.»
«Stai scherzando.» «Ho l'aria di uno che scherza?» Tony aggrottò la fronte e allargò le braccia. «Ci stai dicendo che il professore e tua sorella non sono tornati?» «Peggio. Non solo non sono tornati, ma quel che ha fatto Gaetano, qualunque cosa fosse, non è valso nemmeno una singola parola a mia madre, e sì che lei e mia sorella si telefonano tutti i giorni!» «Aspetta un momento!» esclamò Sal. «Stai dicendo che tua sorella non ha detto che hanno avuto un problema, tipo che il suo ganzo è stato picchiato? Proprio niente?» «Assolutamente niente. Zero! Tutto quello che sento è che ogni cosa fila a meraviglia.» «Questo non corrisponde a quanto ha detto Gaetano», osservò Lou, «e trovo difficile crederlo, dato che di solito tende a strafare, quando ha un incarico come questo.» «Be', stavolta non ha certo strafatto. I piccioncini sono ancora laggiù a crogiolarsi al sole e insistono, secondo mia madre, che ci staranno tre settimane o un mese o quanto hanno programmato. Intanto, il mio contabile dice che non è cambiato niente nella spirale discendente della loro società. Lui insiste nel dire che tra un mese sarà in bancarotta, quindi addio ai nostri duecentomila.» Sal e Lou si scambiarono sguardi di incredulità, confusione e irritazione. «Gaetano che cosa ha detto di aver fatto?» chiese Tony. «Gli ha dato una pacca sul polso e ha detto che aveva fatto il cattivo? Oppure non è nemmeno andato a Nassau e invece ha detto che ci è andato?» Incrociò le braccia sul petto e si adagiò meglio nel divano. «C'è qualcosa di strano in tutto questo!» dichiarò Lou. «Niente torna!» Mise giù il suo trancio di pizza alle acciughe, passò la lingua all'interno delle labbra per togliersi i rimasugli dai denti, deglutì e si chinò in avanti per premere un tasto che sporgeva dal ripiano della scrivania. Un ronzio soffocato risonò attraverso la porta di comunicazione con il magazzino. «Gaetano ci è andato a Nassau!» esclamò Sal. «Lo sappiamo per certo.» Tony annuì, incredulo. Sapeva che stava tirando un po' la corda con i gemelli, dato che a loro piaceva credere di gestire una squadra affiatata e affidabile, ma voleva metterli in agitazione e stava funzionando. Ora che Gaetano cacciò la testa attraverso la porta, i gemelli erano pronti a staccargliela. «Entra, per la miseria, e chiudi la porta!» sbraitò Sal.
«Ho dei clienti al banco», si lamentò Gaetano, facendo un cenno con la mano per indicare dietro le proprie spalle. «Non mi importa nemmeno se hai il presidente degli Stati Uniti, babbeo! Sposta il culo e vieni qua!» Per essere più convincente, Sal estrasse dal cassetto centrale della scrivania una calibro 38 a canna corta e la gettò sulle carte che aveva davanti. Gaetano obbedì, ma titubante. Aveva visto la pistola un sacco di altre volte e non se ne preoccupava, dato che metterla in mostra era uno dei capricci di Sal. Allo stesso tempo, sapeva che il suo capo era incazzato per qualcosa, e l'altro gemello non era tanto più allegro. Gaetano diede un'occhiata al divano ma, dato che Tony si era sistemato proprio nel mezzo, decise di rimanere in piedi. «Che cosa c'è?» domandò. «Vogliamo sapere esattamente che cosa diavolo hai fatto a Nassau», abbaiò Sal. «Ve l'ho detto. Ho fatto esattamente quello che mi avete chiesto di fare. Sono perfino riuscito a farlo in un giorno solo, che è stata una faticaccia, a essere onesti.» «Be', magari avresti dovuto starci un giorno in più», commentò Sal in tono sprezzante. «A quanto pare, il professore non ha capito il messaggio.» «Che cosa hai detto di preciso a quel bastardo?» intervenne Lou, con eguale astio. «Di riportare qua le chiappe e salvare la sua società. Diavolo, non era una cosa complicata. Mica potevo sbagliarmi o che altro.» «Lo hai strapazzato?» chiese Sal. «Ho fatto molto di più che strapazzarlo. Tanto per cominciare gliene ho mollato uno che lo ha trasformato in una bambola di pezza, che poi mi è toccato tirarlo su da terra. Potrei avergli rotto il naso, ma non so di sicuro. So che gli ho fatto un occhio nero. Poi, per finire, gli ho dato una manata che l'ha sbattuto giù dalla sedia, dopo la nostra chiacchierata.» «E gli hai dato un avvertimento? Gli hai detto che saresti tornato se non avesse riportato il culo qui a Boston per rimettere in sesto la società?» «Certo! Gli ho detto che gli avrei fatto tanto male, se avessi dovuto ritornare, e non c'è dubbio che ha ricevuto il messaggio.» Sal e Lou guardarono Tony e si strinsero nelle spalle simultaneamente. «Gaetano non mente su queste cose», decretò Sal. Lou annuì. «Be', allora è solo un altro modo di quel professore di mandarci affanculo», commentò Tony. «Di certo non lo ha preso sul serio e di certo non
gliene frega un cazzo dei nostri duecentomila.» Per qualche minuto nella stanza regnò il silenzio. I quattro uomini si guardarono tra loro. Era evidente che stavano pensando tutti la stessa cosa. Tony aspettava che fosse qualcun altro a tirarla fuori e alla fine fu Sal a dire: «Se la sta cercando. Voglio dire, abbiamo già deciso che se non rigava diritto lo avremmo eliminato e avrebbe preso le redini la sorella di Tony». «Gaetano», disse Lou. «Sembra che tu debba tornare alle Bahamas.» «Quando?» chiese lo scagnozzo. «Non dimenticare che domani notte dovrei dare una strapazzata a quell'oculista di Newton che non paga i debiti.» «Non l'ho dimenticato.» Lou guardò l'orologio. «Sono solo le dodici e mezzo. Puoi andare oggi pomeriggio via Miami, sbarazzarti del professore e tornare domani.» Gaetano sollevò gli occhi al cielo. «Che cosa c'è? Hai altre cose da fare?» Il tono di Lou era canzonatorio. «Certe volte non è facile eliminare qualcuno. Diavolo, prima devo trovarlo.» Lou guardò Tony. «Tu lo sai dove stanno tua sorella e il suo tipo?» «Sì, nello stesso albergo», rispose lui con una risata sprezzante. «Ecco come prendono sul serio il messaggio poco convincente di Gaetano.» «Vi sto dicendo che non era poco convincente», si lagnò Gaetano. «L'ho menato per bene, diverse volte.» «Come fai a sapere che sono nello stesso albergo?» domandò Lou. «Da mia madre», spiegò Tony. «Chiama mia sorella soprattutto al cellulare, ma mi ha detto che una volta ha provato anche all'albergo. I piccioncini sono non soltanto nello stesso albergo, ma anche nella stessa stanza.» «Be', allora vai lì», ordinò Lou a Gaetano. «Posso farlo all'hotel?» gli chiese lui. «Renderebbe le cose dannatamente più facili.» Lou guardò Sal. Sal guardò Tony. «Non vedo perché no», rispose lui facendo spallucce. «Voglio dire, basta che mia sorella non venga coinvolta, che sia fatto in modo tranquillo, senza fare scene.» «Non occorre nemmeno dirlo», gli assicurò Gaetano. L'idea lo allettava. Farsi tutto quel viaggio fino a Nassau stando via solo una notte non era certo una vacanza, ma poteva essere divertente. «Che ne dite di una pistola? Dovrebbe avere il silenziatore.» «Sono sicuro che possono provvedere gli amici colombiani di Miami»,
rispose Lou. «Con tutta la roba che vendiamo per loro qui nel New England, ce lo devono.» «Come farò ad averla?» «Immagino che qualcuno verrà da te quando atterrerai a Nassau. Organizzerò io la cosa. Appena sai il numero del volo che prenderai, fammelo sapere.» «E se c'è qualche problema e non ho la pistola? Se vuoi che ritorni qui domani sera, tutto deve filare liscio.» «Se quando arrivi non sarai avvicinato da nessuno, telefonami.» «Va bene.» Gaetano adesso aveva un tono soddisfatto. «Farò meglio a muovere le chiappe.» 19 Lunedì il marzo 2002 - ore 12,11 Il messaggio sul cartello era chiaro: VIETATO ENTRARE - INGRESSO CONSENTITO SOLO AL PERSONALE AUTORIZZATO DIVIETO SEVERAMENTE APPLICATO. Stephanie si fermò un momento, fissando il cartello incorniciato e vetrificato. Era attaccato a una porta vicino a un montacarichi. Era la stessa porta da cui aveva visto emergere Cindy Drexler ogni volta che aveva portato gli ovociti a lei e a Daniel. Aveva notato il cartello da lontano, ma adesso era la prima volta che lo leggeva. Si chiese che cosa volesse dire che il divieto era severamente applicato, considerando la tendenza mostrata dai dirigenti della Wingate a esagerare nel settore sicurezza. Ma era arrivata fin lì e non aveva intenzione di girare i tacchi e arrendersi a causa di un generico avvertimento stampato. Spinse la porta, che si aprì facilmente. Dava su una rampa di scale che scendeva al piano inferiore. Stephanie si rassicurò dicendosi che, se fossero stati davvero preoccupati per eventuali intrusi, l'avrebbero chiusa a chiave. Dopo essersi data un'ultima occhiata alle spalle per assicurarsi che nel laboratorio non ci fosse nessun altro, varcò la soglia. Quando la porta si chiuse dietro di lei, percepì immediatamente un contrasto rispetto al laboratorio, che l'aria condizionata rendeva fresco e asciutto. Nella tromba delle scale l'aria era caldo-umida. Cominciò a scendere rapidamente, aiutata dalle scarpe senza tacco. Si affrettava più che poteva perché aveva deciso di stare lontana da Da-
niel solo un quarto d'ora, venti minuti al massimo. Mentre scendeva controllò l'orologio; cinque minuti se n'erano già andati per arrivare fin lì dalla mensa. L'unica deviazione, d'altronde minima, l'aveva fatta per prendere il cellulare. Non voleva dimenticarlo e tornare in mensa senza, visto che lo aveva usato come pretesto per allontanarsi. Daniel le aveva scoccato una strana occhiata quando lei era saltata su dicendo che lo aveva dimenticato, appena dopo essersi seduta con il proprio pasto nel vassoio. Alla base delle scale si fermò. Era in un corridoio corto e scarsamente illuminato. In una parete si apriva l'accesso al montacarichi e all'estremità si vedeva una porta d'acciaio inossidabile completamente priva di maniglia, serratura e cardini. Le si avvicinò e vi pose sopra la mano per spingere. Era tiepida al tocco ma completamente immobile. Vi pose contro un orecchio e le parve di cogliere un leggero ronzio proveniente dall'interno. Si tirò indietro ed esaminò tutto il contorno della porta. Era sigillata contro gli stipiti di metallo con una precisione più che millimetrica. Si mise carponi e vide che anche in basso era la stessa cosa. La cura con cui era stata progettata aumentò ancora di più la sua curiosità. Si rimise in piedi e vi picchiò contro con la mano stretta a pugno, tenendola di taglio. Cercava di valutarne lo spessore e pensò che fosse considerevole, dato che era solida come una roccia. «Be', questo è quanto, per le mie indagini», borbottò. Scosse la testa per la frustrazione e diede un'altra occhiata lungo tutto il contorno della porta. Era stupita che non ci fosse un campanello o un citofono, per comunicare con l'interno, né alcun modo evidente di aprirla. Con un sospiro e una smorfia di esasperazione si voltò verso le scale, riconoscendo di dover escogitare un'altra strategia se voleva continuare le sue indagini clandestine. Dopo aver compiuto un solo passo, però, si bloccò, accorgendosi di una cosa che prima le era sfuggita. Sporgente di poco dalla parete di fronte al montacarichi e quasi invisibile nella semioscurità del corridoio, c'era un minuscolo lettore per carte magnetiche. Prima non l'aveva notato perché la sua attenzione era concentrata sulla lucente superficie di acciaio. Inoltre, il lettore aveva lo stesso colore neutro della parete e si trovava a circa due metri dalla porta. Megan Finnigan aveva provveduto a fornire a lei e a Daniel i tesserini di identificazione della Wingate Clinic. Ognuno mostrava un'orrenda istantanea Polaroid, tipo foto segnaletica, ed era laminato sul davanti e con una striscia magnetica sul retro. Megan aveva detto che quei tesserini sarebbero stati importanti ai fini della sicurezza quando la clinica avesse funziona-
to a pieno ritmo, con il massimo di personale, e ognuno avrebbe avuto un codice specifico in funzione delle necessità legate alle mansioni. Nel frattempo, aveva spiegato Megan, erano necessari per entrare nel magazzino del laboratorio per i rifornimenti di base. Stephanie decise di provare se per caso, in quella fase ancora di rodaggio della clinica, il proprio tesserino funzionasse anche per entrare nella sala organi. Fu immediatamente ricompensata nel vedere che la superficie di acciaio inossidabile si spostava di lato con uno sbuffo di aria compressa. Allo stesso tempo, si accorse di essere avvolta da una strana luminescenza che emanava dall'ambiente oltre l'apertura; doveva essere un misto di luce al neon e ultravioletta. Percepì anche una folata di aria umida e tiepida, mentre il ronzio che prima le giungeva attutito adesso era ben definito. Contenta per questa svolta improvvisa, oltrepassò la soglia e si ritrovò in quella che sembrava una gigantesca incubatrice. La temperatura simile a quella corporea e l'umidità vicina al cento per cento le provocarono un'immediata traspirazione per tutto il corpo. Sopra una camicetta a mezze maniche indossava un camice corto, da laboratorio, che lì dentro era come un cappotto. Adesso capiva perché Cindy portava abitualmente una speciale tuta di cotone leggero. Delle scaffalature di alluminio contenenti capsule con colture di tessuti formavano una specie di reticolato per tutta la stanza, come in una biblioteca. Ognuna era lunga circa tre metri e si elevava fino al soffitto, che non era tanto alto. Lo spazio tra gli scaffali era regolabile. Tutte le capsule nelle immediate vicinanze di Stephanie erano vuote. Davanti a lei c'era una corsia talmente lunga che sembrava restringersi nella distanza, per un gioco di prospettiva; quasi non se ne scorgeva la fine, avvolta com'era da una foschia opaca. Dalle dimensioni di quel locale, era evidente che la Wingate si stava preparando per una produzione significativa. Stephanie si incamminò rapida, guardando da una parte e dall'altra. Dopo aver percorso una trentina di passi si fermò scorgendo su uno scaffale parecchie colture di tessuti in crescita, come si capiva dai livelli del liquido visibile attraverso il vetro. Ne sollevò uno. Sul coperchio era scritto a pennarello COLTURA DI OOGONI, assieme a una data recente e a un codice alfanumerico. Rimise a posto la capsula e ne controllò delle altre sullo stesso scaffale. Avevano date e codici diversi. Apprendere che la Wingate coltivava con successo cellule germinali primitive era interessante ma anche inquietante, per vari motivi, comunque non era quello lo scopo per cui era scesa lì sot-
to. Ciò che sperava era scoprire l'origine degli oogoni e degli ovociti. Pensava di sapere quale fosse, ma voleva una prova definitiva da trasmettere alle autorità delle Bahamas dopo aver curato Butler e dopo che lei, il senatore e Daniel fossero rientrati in patria. Guardò l'orologio. Se n'erano già andati otto minuti, ed era a metà del tempo che si era concesso. Con ansia crescente si spinse ancora più avanti, affrettando il passo mentre sbirciava lungo i corridoi laterali e intanto lanciava occhiate fugaci a ogni scaffalatura che superava. Il problema era che non sapeva che cosa cercare. A rendere le cose peggiori, cominciò a notare una vaga sensazione, come se le mancasse l'aria. Le venne allora in mente che forse l'atmosfera della sala organi aveva un elevato livello di anidride carbonica, che era utile alle colture di tessuti. Dopo un'altra ventina di passi si fermò di nuovo. Era arrivata a uno scaffale con singolari capsule, probabilmente fatte su misura. Non ne aveva mai vedute di simili. Non solo erano più larghe e più profonde del solito, ma avevano una matrice interna sulla quale potevano crescere le cellule in coltura. Inoltre erano poste su basi motorizzate che le tenevano in continuo movimento rotatorio orizzontale, presumibilmente per far circolare il medium di coltura. Senza perdere tempo, allungò una mano e ne sollevò una. Sul coperchio era scritto OVAIA FETALE TRITURATA. VENTUNO SETTIMANE DI GESTAZIONE; OVOCITI ARRESTATI ALLO STADIO DI DIPLOTENE DELLA PROFASE. Anche qui c'erano una data e un codice. Stephanie controllò le altre capsule di quello scaffale. Come per le colture di oogoni, avevano tutte date e codici diversi. Gli scaffali successivi erano ancora più interessanti. Ospitavano anche quelli capsule con colture di tessuti, ancora più larghe e più profonde. Per la maggior parte erano vuote. Quelle che non lo erano contenevano un medium di coltura liquido che veniva fatto circolare da un complesso di tubi attaccati a macchine centrali: facevano pensare a una minuscola attrezzatura per dialisi. Era da lì che proveniva il ronzio. Stephanie si chinò e osservò bene una capsula. Sommerso nel liquido c'era un pezzo di tessuto ovoidale e frastagliato che per forma e dimensioni faceva pensare a una vongola. Dai vasi che ne uscivano spuntavano tubicini di plastica che portavano a un'altra macchina, ancora più piccola. Il minuscolo organo era sottoposto internamente a perfusione ed era sommerso dal medium di coltura che circolava continuamente. Stephanie ficcò la testa nella scaffalatura, in modo da guardare la som-
mità del recipiente senza doverlo spostare. In rosso era scritto OVAIA FETALE, VENTI SETTIMANE DI GESTAZIONE, oltre alla data e al codice. Considerando le implicazioni di quella scoperta, non poté fare a meno di restarne impressionata. A quanto pareva, Saunders e la sua équipe tenevano in vita le ovaie fetali almeno per qualche giorno. Mentre si raddrizzava pensò che quella e le altre cose trovate nella sala organi non erano certo una prova definitiva, però collimavano con i suoi sospetti che la Wingate pagasse le giovani donne locali per rimanere incinte e poi abortire a circa venti settimane, in modo da prelevare le ovaie fetali. Con i suoi studi di embriologia, sapeva molte cose che i non addetti ai lavori ignoravano, in particolare che la minuscola ovaia appartenente a un feto di venti settimane contiene circa sette milioni di cellule germinali capaci di diventare ovociti maturi. Per la maggior parte, quegli ovuli scompaiono inesplicabilmente prima della nascita e durante l'infanzia, in modo che quando una giovane donna entra nell'età riproduttiva la sua popolazione di cellule germinali viene ridotta ad approssimativamente trecentomila. Se lo scopo è ottenere ovociti, allora l'ovaia fetale è una miniera d'oro. Purtroppo, sembrava che lo sapesse anche Paul Saunders. I suoi timori erano parzialmente suffragati e Stephanie scosse la testa sgomenta, davanti all'immoralità di provocare aborti per procurarsi ovuli umani. Per lei era ancor peggio della clonazione riproduttiva, che pure sospettava facesse parte dei progetti di Saunders. Riconosceva che erano proprio le organizzazioni slegate dalle strutture pubbliche, come la Wingate Clinic, che avevano il potere di gettare il discredito sulle biotecnologie e le loro promesse, impegnandosi in attività prive di scrupoli. Le venne anche in mente che la disponibilità di Daniel a chiudere un occhio su tale realtà lo metteva in una luce nuova. Questo, unito alla distanza emotiva da lui mostrata in quel periodo, la spingeva a mettere in discussione il futuro della loro relazione, più di quanto avesse fatto in passato. Decise d'impulso che, al loro ritorno a Cambridge, sarebbe per lo meno tornata a stare per contro proprio. Ma fino ad allora c'era tantissimo da fare. Controllò di nuovo l'orologio. Erano passati undici minuti. Il tempo stava per finire, infatti poteva concedersi solo altri quattro minuti al massimo. Aveva bisogno di trovare una prova schiacciante, in modo che Saunders non potesse dichiarare che quegli aborti erano terapeutici. Anche se in teoria avrebbe potuto ritornare nella sala organi un altro giorno, sapeva intuitivamente che sarebbe stato difficile, in particolare perché avrebbe dovuto trovare un'altra scusa credibile
per allontanarsi da Daniel. Quattro minuti non erano tanti. Spinta dalla disperazione, decise di fare una corsa fino all'estremità della sala, spostarsi di lato e poi ritornare verso la porta di acciaio percorrendo una delle numerose corsie laterali. Ma, dopo aver fatto solo pochi metri, si fermò all'improvviso, attratta da una vivida luce fluorescente che arrivava dalla sua sinistra. A pochi metri da lei, oltre una vetrata che andava dal soffitto al pavimento, notò una stanza separata che doveva fungere da laboratorio o da ufficio. Era dal suo interno che emanava la luce, aumentando l'illuminazione della zona circostante. Cambiò direzione e si affrettò da quella parte. Avvicinandosi vide che la sua intuizione iniziale era confermata. Molto probabilmente era l'ufficio-laboratorio di Cindy, collocato in posizione strategica a metà lunghezza della sala, incuneato contro le fondamenta dell'edificio. Era una stanza rettangolare lunga e poco profonda, approssimativamente di tre metri per nove. Contro la parete posteriore correva un ripiano di laminato collocato sopra file compatte di cassetti che si interrompevano solo al centro, in corrispondenza di un vuoto davanti al quale stava una poltroncina da ufficio. All'estremità sinistra c'era un lavello con il tipico rubinetto da laboratorio. Sopra il ripiano era appesa una fila di pensili. Erano i tubi al neon applicati sotto di essi a dare alla stanza l'arcana illuminazione azzurrognola. Il ripiano era ingombro di capsule con colture di tessuti, centrifughe e ogni genere di attrezzature da laboratorio, nessuna delle quali le parve interessante. Poi notò ciò che sembrava un grosso libro mastro, appoggiato nella zona usata come scrivania. Era aperto e parzialmente nascosto alla vista dall'alto schienale della poltroncina. Sapendo che il tempo scorreva inesorabile, Stephanie fece saettare lo sguardo in qua e in là lungo la vetrata, alla ricerca di una porta. Si sorprese nel trovarla proprio di fronte a sé. Era quasi indistinguibile dagli altri pannelli di vetro perché i cardini non si vedevano, essendo sul lato interno, e la maniglia era nascosta in una rientranza. La presenza di un buco della serratura faceva pensare che forse era chiusa a chiave, ma quando Stephanie sollevò la maniglia dalla cavità sagomata e provò a farla girare vide con sollievo che la porta si apriva senza sforzo verso l'interno. Mentre entrava percepì una ventata di aria seguirla dalla sala organi, e questo faceva pensare che fosse leggermente pressurizzata, probabilmente per tenere fuori i microbi a diffusione aerea. L'interno dell'ufficio era climatizzato a temperatura e umidità normali. Stephanie ab-
bandonò la maniglia e lasciò la porta socchiusa, andando dritta verso il grosso volume: sentiva di aver trovato ciò che cercava. Spinse da parte la poltroncina per avvicinarsi di più ed esaminare le annotazioni scritte a mano. Si trattava davvero di un libro mastro, ma non per la contabilità. Era un elenco di tutte le donne che erano state ingravidate e poi fatte abortire, con la data dei due interventi e altre informazioni. Tornando indietro di qualche pagina, Stephanie si accorse che il programma era cominciato ben prima che la clinica avesse aperto i battenti. Paul Saunders aveva pianificato con molto anticipo il suo rifornimento di ovuli. Scelse alcuni casi individuali e, facendo scorrere il dito lungo le annotazioni che li riguardavano, apprese che le donne avevano subito la fecondazione in vitro. Aveva senso, dato che erano richiesti solo feti femminili e soltanto con la fecondazione in vitro era possibile garantire tale esito. Notò che, nei casi esaminati, gli spermatozoi provenivano tutti da Paul Saunders e questo testimoniava una spregiudicata megalomania. Era senza parole. Tutto era debitamente annotato con una scrittura nitida, perfino il tipo di coltura dei tessuti praticata in ogni singoio caso e il rispettivo stato attuale delle colture nella sala organi. In alcuni casi si estraevano le ovaie dai feti per mantenerle intere, in altri casi erano sminuzzate e messe a coltura, in altri ancora i feti provvedevano semplicemente linee disaggregate di cellule germinali. Tornando alla pagina che aveva trovato aperta entrando nell'ufficio, cominciò a contare quante donne erano gravide al momento attuale. Non poté fare a meno di scuotere la testa nel vedere come Saunders e soci non solo avevano la temerarietà di svolgere un programma simile, ma anche l'audacia di metterne nero su bianco tutti i sordidi dettagli. Con una tale scoperta, tutto ciò che lei avrebbe dovuto fare era informare le autorità locali dell'esistenza del libro mastro e lasciare che fossero loro a confiscarlo. Non aveva finito di verificare quante fossero le donne gravide, quando il cuore le balzò nel petto. Si immobilizzò, trafitta dalla paura. Un cerchio di gelido metallo si era insinuato tra i suoi capelli, premendo contro il collo sudato. Capì all'istante che era una pistola! «Non muoverti e metti le mani sul tavolo!» le ordinò una voce maschile. Si sentì cedere le ginocchia e rimase paralizzata, china sul libro, con una mano poggiata sul ripiano e l'altra sollevata in aria, bloccata nel gesto di contare aiutandosi con le dita. «Metti le mani con i palmi sul tavolo!» ripeté l'uomo, con una collera così evidente da fargli vibrare la voce.
La canna dell'arma le premette ancora di più contro il collo, fino a farle quasi male. Trovando la forza di muoversi, Stephanie poggiò anche la mano destra sul ripiano. In questo modo, se non altro, si sarebbe mantenuta in piedi. Tremava dalla paura, al punto che i muscoli delle gambe le sembravano di gelatina. Grazie al cielo, la pistola fu tirata indietro e lei respirò a fondo. Si rese vagamente conto di mani che frugavano nelle tasche del camice. Il cellulare e il groviglio di penne e fogli di carta venivano tolti e poi rimessi. Stava cominciando a riprendersi un po', quando sentì le mani risalire sotto il camice e palparle il seno. «Che cosa diavolo sta facendo?» riuscì a dire. «Zitta!» ringhiò l'uomo e scese con le mani sui lati del torace, poi sui fianchi, dove indugiò. Stephanie trattenne il respiro. Era mortificata e umiliata. Poi si sentì palpare il sedere. «Questo è un oltraggio!» bofonchiò. La collera stava scacciando la paura. Cominciò a raddrizzarsi, con l'intenzione di voltarsi verso il suo tormentatore. «Zitta!» ripeté lui e si addossò contro la sua schiena, tanto da farla chinare sul tavolo con le mani allargate ai due lati. La pistola era di nuovo premuta contro il collo, e questa volta faceva male. «Non dubitare per un solo secondo che non ti sparerei all'istante.» «Sono la dottoressa D'Agostino», riuscì a dire Stephanie, nonostante il peso che le gravava sulla schiena. «Lavoro qui.» «Lo so chi sei», ringhiò lui. «E so che non lavori nella sala organi. È offlimits.» Stephanie sentiva il fiato caldo dello sconosciuto che stava chino sopra di lei e la spingeva contro il tavolo, rendendole difficile respirare. «Se ti muovi ancora ti sparo.» «D'accordo», squittì lei e immediatamente non sentì più il peso soffocante gravarle addosso. Tirò un profondo respiro di sollievo, ma subito dopo sentì una mano infilarsi fra le sue gambe per palparla ulteriormente. Strinse i denti per l'oltraggio. Poi due mani picchiettarono dall'alto verso il basso prima una gamba, poi l'altra, ma non prima di averle nuovamente strofinato l'inguine. Di nuovo, il peso dell'uomo le gravò addosso, anche se non con la forza di prima. Allo stesso tempo sentì il suo alito bollente sul collo mentre si sfregava in modo lascivo contro di lei e le sussurrava nell'orecchio: «Le donne come te si meritano quello che gli capita!» Stephanie resistette all'impulso di lottare o di gridare. Quello doveva es-
sere uno squilibrato, e il suo intuito le gridava di rimanere passiva, per il momento. Dopotutto, si trovava in una clinica e non in qualche luogo isolato. Entro poco tempo sarebbe comparsa Cindy Drexler e forse anche altre persone. «Vedi, troia», continuò lo sconosciuto, «dovevo assicurarmi che non avessi portato un'arma o una macchina fotografica. Gli intrusi tendono a farlo, e non potevo sapere dove te le eri nascoste addosso.» Stephanie rimase zitta e immobile. Lo sentì raddrizzarsi. «Metti le mani dietro la schiena!» Obbedì. Poi, prima di sapere che cosa le stava accadendo, si ritrovò con le manette ai polsi. Era avvenuto così in fretta che non lo capì fin quando non udì il secondo clic. La situazione stava complicandosi. Le manette le tagliavano i polsi e, cosa peggiore, la facevano sentire ancora più vulnerabile di prima. Poi fu tirata su per la collottola e fatta voltare. Vide il suo assalitore, che in quel momento tendeva le labbra sottili in un sorriso crudele, sarcastico, come se ostentasse il fatto che era lui ad avere in pugno la situazione. Lo riconobbe immediatamente: lo aveva visto nel complesso della clinica e in mensa. Sapeva anche come si chiamava e che era il capo della sicurezza. Era nel suo ufficio che lei e Daniel, dopo essere stati fotografati, avevano ricevuto i tesserini di riconoscimento. Lui era alla scrivania ma non aveva detto nemmeno una parola, e lei ne aveva evitato lo sguardo fisso e penetrante. Kurt Hermann fece un passo indietro e le indicò la porta aperta dell'ufficio. La pistola era scomparsa. Stephanie era fin troppo contenta di uscire di lì, ma quando cominciò a camminare nella direzione dalla quale era arrivata, lui le afferrò un braccio. «Non è la strada giusta», sbottò e le indicò la parte opposta. «Voglio tornare nel laboratorio», disse Stephanie. Cercava di dare autorità alla propria voce, ma era difficile in quelle circostanze. «Non me ne può importare di meno di quello che vuoi. Muoviti!» Ricevette una spinta poderosa che la fece quasi cadere, dato che non poteva rimettersi in equilibrio con le mani. Per fortuna riuscì a tenersi in piedi, ma strusciò con la spalla contro una scaffalatura. Un'altra spinta la mandò a barcollare nella direzione indicata. «Non so perché ne fa un affare di stato», cercò di reagire. «Stavo solo guardando un po' intorno. Ero semplicemente curiosa di sapere da dove provengono gli ovociti che ci ha fornito il dottor Saunders.» La mente le
turbinava, impegnata nel dibattito interiore se fosse meglio seguire gli ordini oppure lasciarsi cadere a terra e rifiutarsi di muoversi. Se la loro meta non era il laboratorio, allora preferiva stare nell'ufficio di Cindy, dove per lo meno aveva il conforto di sapere che la donna sarebbe ritornata. Non avere idea di dove fossero diretti la terrorizzava, però non si fermò. A tenerla in movimento era la minaccia di spararle fattale dal capo della sicurezza. Folle e teso come sembrava, era meglio prenderlo sul serio. «Entrare senza autorizzazione nella sala organi è una faccenda grossa», replicò lui in tono di scherno, come se leggesse nei suoi pensieri. Alla fine della stanza voltarono di novanta gradi e continuarono verso una porta simile a quella da cui era entrata, ma dalla parte opposta della sala organi. Kurt Hermann premette un tasto su uno stipite e il pesante pannello d'acciaio scivolò da un lato con uno sbuffo. A quel punto le diede una rude spinta che la proiettò in avanti e lei, per non cadere, dovette forzatamente compiere dei passi. Si ritrovò in un corridoio stretto e lungo, ricoperto di nudo intonaco, che curvava a sinistra. Era scarsamente illuminato da tubi al neon poco frequenti. Lì non c'era l'aria condizionata ed era mal ventilato. Stephanie si fermò. Cercò di voltarsi, ma una spinta particolarmente rude la spedì a terra. Non potendo frenare la caduta con le mani, atterrò su una spalla, sfregando una guancia sul pavimento di cemento. Un attimo dopo si sentì sollevare come una bambola di pezza da una mano che le afferrava insieme camice e camicetta sulla schiena. Rimessa in piedi, ricevette un'altra spinta. A quel punto decise di camminare, capendo che fare resistenza avrebbe portato a un immediato disastro. «Esigo di parlare con il dottor Wingate e il dottor Saunders», dichiarò, in un secondo tentativo di far sentire la propria autorità. I suoi timori aumentavano, mentre si chiedeva dove la stesse portando quel maniaco. «Al momento debito», fu la laconica risposta, accompagnata da una risata lasciva che le diede i brividi. Non le occorse molto per immaginare che stavano procedendo nella stessa direzione del passaggio a forma di arco che collegava l'edificio del laboratorio con quello dell'amministrazione. Solo che erano sottoterra. Dopo pochi minuti arrivarono a una porta antincendio. Erano nel seminterrato dell'edificio amministrativo. Stephanie se lo ricordava, da quando lei e Daniel avevano ottenuto i loro tesserini di riconoscimento. Provando un minimo di sollievo, capì che si stavano dirigendo verso l'ufficio della sicurezza.
«Giù per il corridoio!» ordinò Kurt Hermann quando entrarono nel suo ufficio. Le rimase alle spalle mentre passavano davanti a una porta parzialmente aperta oltre la quale si intravedeva una parete ricoperta da monitor. «Noterai che abbiamo una cella a sinistra e una camera da letto a destra», le disse in tono derisorio quando arrivarono alla fine del corridoio. «La scelta sta a te.» Stephanie non rispose ed entrò nella cella aperta. Lui accostò la porta a sbarre e la chiuse con un clic che echeggiò tra le pareti di cemento. «E le manette?» chiese Stephanie. «È meglio se le tieni.» Sulle labbra sottili si allargò di nuovo un sorriso crudele. «È per sicurezza. La direzione non vede di buon occhio i prigionieri che si fanno fuori.» Il suo aguzzino rise di nuovo. Era evidente che si divertiva. Fece per ritornare in corridoio ma esitò, si voltò e si riavvicinò a lei, fissandola negli occhi. «Hai una latrina, lì, quindi sentiti libera di usarla. Fa' come se io non ci fossi.» Stephanie si voltò a guardare il wc. Non solo era completamente esposto, ma non ci si poteva nemmeno sedere. «Voglio vedere immediatamente il dottor Wingate e il dottor Saunders!» esclamò adirata. «Temo che non sei nella posizione di dare ordini», la schernì lui. Le lanciò un'occhiata torva, poi si voltò e sparì lungo il corridoio. Stephanie espirò e si rilassò un po', adesso che quell'esaltato non era più nei paraggi. Da dove si trovava, vedeva solo una parte del corridoio. Non potendo guardare l'orologio, non sapeva che ora fosse. Daniel avrebbe cominciato a chiedersi dov'era finita, forse già se lo stava chiedendo. In quel momento un nuovo timore le penetrò nella mente: e se fosse andato talmente in collera con lei per ciò che aveva fatto da non importargli se era stata rinchiusa? Kurt Hermann si sedette alla scrivania e tese gli avambracci davanti a sé. Tremava per il desiderio non consumato. Stephanie D'Agostino lo aveva eccitato oltre ogni dire. Purtroppo, il piacere di avere posto le mani sul suo corpo sodo ma femminilmente morbido era stato troppo fuggevole, e avrebbe voluto replicarlo. Lei si era comportata come se non le fosse piaciuto, ma lui sapeva che non era così. Le donne fanno a quel modo: un minuto sono provocanti e il minuto dopo fingono di non apprezzare le conseguenze. Era tutta una recita, una finzione, un gioco. C'era stato un momento, quando l'aveva fatta chinare sulla scrivania di Cindy, in cui aveva avuto voglia di picchiarla forte sulla testa con il calcio della pistola, per punirla
di essere così provocante, oltre ad avere avuto il fegato di entrare nella sala organi. Cercò di escogitare qualcosa per evitare di chiamare Saunders. Gli sarebbe piaciuto non chiamarlo affatto. La dottoressa D'Agostino poteva semplicemente scomparire. Diavolo, era ciò che si meritava. Ma non avrebbe funzionato. Saunders lo avrebbe scoperto, perché sapeva che lui era al corrente di tutto quello che accadeva nel complesso della clinica, di chi entrava e di chi usciva. Se la dottoressa fosse scomparsa, Saunders avrebbe saputo che lui ne era responsabile, o per lo meno che sapeva che cosa le era accaduto. Grazie alla disciplina appresa con le arti marziali, si calmò. Nel giro di pochi minuti i muscoli cominciarono a rilassarsi e il tremore cessò. Anche il battito cardiaco rallentò, scendendo a meno di cinquanta pulsazioni al minuto. Lo sapeva, perché se lo controllava spesso. Quando ebbe ripreso del tutto il controllo andò nella sala video. L'orologio alla parete segnava le 12.41. Questo significava che Spencer Wingate e Paul Saunders sarebbero stati nella mensa. Si sedette davanti ai monitor e guardò il numero dodici. Usando la tastiera, collegò il joystick alla minicamera dodici e cominciò a fare una panoramica per tutto il locale. Prima di trovare i propri capi, individuò Daniel Lowell. Zumò. L'uomo, mangiando, leggeva una rivista scientifica, completamente distaccato dall'ambiente che lo circondava. Dirimpetto a lui c'era il vassoio di Stephanie, intatto. Sul viso di Kurt si allargò un ghigno: aveva rinchiuso la sua ragazza nella propria cella privata, dopo averla palpata per bene, e quello manco lo sapeva. Che coglione! Riportò l'immagine a distanza normale e continuò a cercare Spencer e Paul. Li trovò al loro solito tavolo con la solita corte di dipendenti femmine. Anche quei due erano dei coglioni, dato che lui sapeva con chi scopavano, più Paul, veramente, che viveva nel complesso della clinica. Per Kurt, quasi tutti gli uomini del mondo erano coglioni, compresa buona parte dei suoi superiori, quando era nell'esercito. Era stato un fardello duro da sopportare. Telefonò alla direttrice della mensa e le chiese di riferire a Spencer e Paul che c'era un'emergenza nel settore sicurezza e richiedeva la loro immediata presenza nel suo ufficio. Le disse esplicitamente che si trattava di «un grosso problema». Pochi secondi dopo aver riattaccato, vide la donna comparire nel monitor, muovendosi in modo frenetico, battere sulla spalla a Spencer e a Paul e chinarsi a sussurrare qualcosa nell'orecchio prima al-
l'uno e poi all'altro. Osservò entrambi balzare in piedi con espressione preoccupata e filare verso l'uscita. Con qualche clic sulla tastiera, portò sul monitor proprio di fronte a sé l'immagine della cella e vi dedicò la propria attenzione. Stephanie camminava su e giù come un gatto in gabbia. Era come se lo provocasse di proposito con il proprio corpo. Incapace di continuare a guardare, anche solo per un altro secondo, Kurt si alzò all'improvviso e tornò alla propria scrivania per ripetere lo sforzo di concentrazione necessario a calmarsi. Quando Spencer e Paul arrivarono con il fiatone, lui era di nuovo, stoicamente, in sé. «Qual è questo grosso problema?» chiese subito Spencer. Avevano entrambi il viso un po' arrossato, essendo arrivati di corsa, e quello era un esercizio fisico a cui non erano abituati. Entrambi erano in preda al panico, perché il messaggio di Kurt era stato lo stesso di quando gli agenti federali avevano assediato la Wingate Clinic nel Massachusetts. Kurt si godette la loro ansia, rifacendosi per lo scarso riconoscimento di cui lo gratificavano, e sì che ne aveva fatti di sforzi per garantire la sicurezza nel nuovo insediamento! Si portò l'indice alle labbra, perché rimanessero in silenzio, e li condusse nella sala video. Una volta entrati tutti e tre, chiuse la porta e indicò loro le due uniche poltroncine disponibili. Li osservò crogiolarsi nell'ansia, mentre concentravano su di lui tutta la loro attenzione. «Che diavolo di emergenza è?» chiese Spencer, perdendo la pazienza. «Sputi il rospo!» «C'è stata un'intrusione nella sala organi», annunciò Kurt. «Un'evidente situazione di spionaggio che ha compromesso il programma di approvvigionamento degli ovuli.» «No!» esclamò Paul, piegando il busto in avanti. Il programma di approvvigionamento degli ovuli era il fulcro dei suoi progetti per il futuro della clinica e della propria reputazione. Kurt annuì, godendo nel tirare le cose per le lunghe. «Chi è?» volle sapere Paul. «Una persona interna?» «Sì e no», rispose lui, senza aggiungere altro. «Forza!» lo spronò Spencer. «Questo non è un maledetto gioco a indovinelli.» «Questa persona è stata colta sul fatto mentre passava in rassegna il registro degli ovociti e arrestata.» «Santo cielo!» farfugliò Paul. «Questa persona stava proprio guardando
il registro?» Kurt indicò il monitor centrale proprio sopra il banco. Stephanie si era portata sul fondo della cella e sedeva sulla branda di ferro. Senza saperlo, stava guardando quasi direttamente nella minicamera. Era evidentemente stravolta. Per qualche minuto, nella sala video regnò il silenzio. Tutti gli sguardi erano puntati sulla prigioniera. «Come mai non si muove?» chiese Spencer. «Sta bene, vero?» «Sì, sta bene», gli assicurò Kurt. «Come mai ha una guancia che sanguina?» «È caduta mentre la portavo in cella.» «Che cosa le ha fatto?» insisté Spencer. «Non collaborava. Aveva bisogno di un po' di incoraggiamento.» «Dio santo!» Tutto sommato, era un'emergenza meno pericolosa di quanto il capo della Wingate aveva temuto, ma non era comunque una bella situazione. «Come mai ha le braccia dietro la schiena?» «L'ho ammanettata.» «Ammanettata? Non ci è andato un po' pesante? Anche se, con i precedenti che si ritrova, dobbiamo essere contenti che non le abbia sparato lì per lì.» «Spencer», intervenne Paul, «dovremmo essere grati a Kurt per la sua vigilanza, non critici.» «È una procedura standard ammanettare un individuo quando viene arrestato», sbottò Kurt. «Sì, già, ma adesso è dentro una cella, santo cielo!» ribatté Spencer. «Avrebbe potuto toglierle le manette.» «Dimentichiamo le manette, per il momento», suggerì Paul. «Preoccupiamoci delle implicazioni del suo comportamento. Non mi piace il fatto che sia entrata nella sala organi, né, tanto meno, che abbia guardato il registro. Ha sempre mostrato avversione per la nostra attività, in particolare riguardo la terapia con le cellule staminali.» «È un po' altezzosa», ammise Spencer. «Non voglio che mandi all'aria il nostro programma, anche se non è che possa fare tanto, qui alle Bahamas. Non è come se fossimo ancora negli Stati Uniti. Ma potrebbe piantare grane e farci della cattiva pubblicità, il che potrebbe avere conseguenze sui nostri sforzi di reclutamento per trovare uteri in affitto, e quindi sui nostri profitti. Dobbiamo assicurarci che ciò non avvenga.»
«Forse è per questo che lei e Lowell sono qua», suggerì Spencer. «Magari questa storia della cura è tutta una macchinazione architettata. Potrebbero essere spie industriali che vogliono appropriarsi della nostra idea.» «Sono quello che dicono di essere», affermò Paul. «Come fai a esserne sicuro?» gli chiese Spencer, distogliendo lo sguardo dall'immagine di Stephanie sul monitor e dirigendolo verso di lui. «Diventi credulone quando si tratta di avere a che fare con veri ricercatori.» «Prego?» sbottò Paul. «Oh, non essere permaloso. Lo sai che cosa intendo. Questi qua hanno fatto davvero il dottorato di ricerca.» «Il che può spiegare la loro mancanza di creatività. Non c'è bisogno di un dottorato per fare della scienza innovativa. Comunque, ti posso assicurare che non fingono in quello che stanno facendo. Ho visto con i miei occhi che questa loro ROTS è davvero impressionante.» «Potrebbero comunque ingannarti. È questo che dico. Loro sono ricercatori professionisti, tu no.» Paul distolse un momento lo sguardo per cercare di non infuriarsi. Spencer era l'ultima persona al mondo che avrebbe dovuto atteggiarsi a giudice su chi era e chi non era un ricercatore. Non ne sapeva un tubo di ricerca. Era semplicemente un uomo d'affari vestito da medico... e nemmeno tanto bravo, come uomo d'affari. Dopo un bel respiro che gli servì a calmarsi, Paul guardò il suo capo e disse: «So che stanno facendo delle vere, genuine manipolazioni cellulari, e che hanno un obiettivo preciso, perché ho preso alcune cellule in cui hanno inserito il DNA di Cristo: sono sorprendentemente ed estremamente vitali. Le ho usate io stesso per vedere se funzionano, e funzionano». «Aspetta un secondo! Non vorrai dire che hai provato che quelle cellule hanno il DNA di Gesù Cristo?» «Certo che no.» Paul si sforzò di mantenersi calmo. A volte, discutere di scienza biomolecolare con Spencer era come parlare con un bambino di cinque anni. «Non esiste un test per dire che appartengono veramente a Gesù Cristo. Quello che sto cercando di dirti è che quelli hanno portato con loro una coltura di fibroblasti della persona affetta da morbo di Parkinson che intendono curare. Hanno tolto da quelle cellule i geni difettosi, sostituendoli con i geni che sono riusciti a ricostruire dal DNA estratto da quel loro campione della Sindone. Tutto questo lo hanno già fatto e adesso stanno per creare le cellule terapeutiche vere e proprie. È vero. Non c'è assolutamente alcun dubbio che lo stanno veramente facendo. Ne sono sicu-
ro al cento per cento. Fidati!» «Va bene, va bene. Dato che sei stato nel laboratorio con loro, suppongo di dover fidarmi di quanto dici, che sono qua per una legittima missione terapeutica. Ma, accettato questo, rimane la questione dell'identità di questo paziente, per la quale ho pure creduto alla tua parola. Avevi detto che avresti scoperto chi è. Eccoci qua, a poco più di una settimana dalla cura del nostro ospite sconosciuto, e siamo ancora nell'oscurità.» «Be', questo è un altro problema.» «Sì, ma è collegato. Se non avremo presto quel nome, non potremo trarre un vantaggio economico da questa faccenda, questo è certo. Che problema c'è nello scoprire la sua identità? Non è chiedere troppo.» Paul guardò Kurt. «Glielo dica!» Il capo della sicurezza si schiarì la gola. «È stato un incarico più difficile di quanto pensassi. Abbiamo perquisito il loro appartamento di Cambridge e il laboratorio, prima che partissero per Nassau. Dopo che sono arrivati qua, ci siamo impossessati dei loro portatili e abbiamo fatto controllare gli hard disk ai nostro fanatico di computer: niente. Di positivo c'è che proprio oggi ho messo una cimice nel cellulare della donna. Era fin dal primo giorno che cercavo di metterci sopra le mani, ma lei non collaborava: non lo abbandonava mai.» «Ha messo la cimice mentre era sotto la sua custodia?» chiese Spencer. «Non si preoccupa che possa insospettirsi?» «No. L'ho messa prima di arrestarla. Oggi, per la prima volta, ha lasciato il cellulare in laboratorio mentre andava in mensa. Avevo appena finito, quando è tornata all'improvviso per introdursi nella sala organi. La stavo seguendo, quando è entrata.» «Allora perché non l'ha fermata prima che entrasse?» volle sapere Spencer. «Volevo coglierla in flagrante», rispose Kurt, mentre agli angoli della bocca si formò un sorriso lascivo. «Suppongo che non spiacerebbe nemmeno a me coglierla in flagrante», commentò Spencer con un sorriso simile. «Con la cimice nel cellulare, dovremmo essere a posto», osservò Paul. «Fin dall'inizio, Kurt ha sempre pensato che controllare il telefono ci avrebbe fornito l'identità del paziente.» «È vero?» «Sì», rispose Kurt semplicemente. «Ma abbiamo un'altra scelta. Avendola in nostra custodia, potremmo pretendere che ci dica il nome del pa-
ziente in cambio del rilascio.» I due dirigenti della Wingate si guardarono, mentre meditavano su quel suggerimento. Fu Spencer a rispondere per primo, scuotendo la testa. «L'idea non mi piace.» «Perché?» chiese Paul. «Soprattutto perché non credo che ce lo direbbero, e poi gli farebbe capire quanto ci teniamo a sapere quel nome. Ovviamente, tenere segreto il nome del paziente è di massima importanza per loro, altrimenti lo sapremmo già. A questo punto, con i progressi che tu dici che hanno già fatto nel laboratorio, potrebbero fare i bagagli e andare a curarlo da un'altra parte. Non voglio mettere a rischio il secondo versamento: sono più di ventimila dollari. Non sono un colpo grosso, ma sono pur sempre qualcosa. Inoltre, sapranno che bluffiamo. Non possiamo tenerla in cella a meno che non ci mettiamo anche lui, cosa che non possiamo fare, e lui darà in escandescenze appena scoprirà dove si trova lei e come è stata trattata.» «I tuoi argomenti sono giusti», convenne Paul. «Concordo con te e preferisco che le condizioni del suo rilascio siano centrate su una promessa di riservatezza, che è ragionevole, date le circostanze. Lei può avere le sue opinioni, ma dovrebbe tenersele per sé. Sono convinto che il dottor Lowell ci sosterrà. Mi sembra che stia già cercando di tenere a bada l'arroganza di quella donna.» Spencer guardò Kurt. «Allora, lei pensa di scoprire chi è il paziente misterioso grazie al cellulare?» Kurt annuì. «Credo che dovremmo seguire questa linea. E insisteremo sulla questione riservatezza.» «D'accordo», approvò Paul. «E, a proposito del dottor Lowell, dov'è?» «In mensa», rispose Kurt, sollevando lo sguardo al monitor dodici. «Per lo meno, c'era fino a pochi minuti fa.» «Secondo me, è significativo che la dottoressa D'Agostino fosse da sola quando è entrata nella sala organi», osservò Paul. «Come mai?» chiese Spencer. «Suppongo che il dottor Lowell non avesse idea che lei era lì.» «Potresti avere ragione.» «Il dottor Lowell sta andando in laboratorio», avvertì Kurt, e indicò il monitor corrispondente, dove si puntarono anche gli sguardi dei due dirigenti. Daniel si stava spostando dall'edificio tre all'edificio uno con andatura sostenuta, una mano stretta attorno al gruppo di penne e matite che te-
neva nel taschino del camice. Raggiunse l'edificio uno e scomparve oltre la porta. «Dov'è il monitor del laboratorio?» domandò Paul e Kurt glielo indicò. Osservarono Daniel comparire a sinistra dell'inquadratura e Spencer commentò che sembrava in cerca di Stephanie. Kurt utilizzò il joystick per seguirlo. Dopo aver controllato la zona attorno al banco che usavano, Daniel guardò nell'ufficio che era stato loro assegnato. Cacciò perfino la testa nei servizi delle donne. Poi si diresse verso l'ufficio di Megan Finnigan. «Credo che sarebbe sceso direttamente nella sala organi, se avesse saputo che lei era lì», osservò Paul. «Sì, scommetto che hai ragione», convenne Spencer. Paul usò il telefono sul banco e chiamò l'interno di Megan. «Dirò alla direttrice del laboratorio dove il dottor Lowell può trovare la sua collaboratrice.» «O quale che sia il loro tipo di relazione», aggiunse Spencer, in tono sprezzante. «Non riesco a immaginarmelo. A proposito, Kurt, come ha fatto a entrare nella sala organi?» «Ha usato il tesserino di identificazione della Wingate. L'accesso deve ancora essere limitato, anche se era sull'elenco delle priorità riguardo la sicurezza che avevo presentato all'amministrazione un mese fa.» «È colpa mia», ammise Paul, dopo aver chiuso la conversazione con Megan Finnigan. «Mi è sfuggito di mente, preso com'ero a mettere in funzione la clinica. E poi non avevamo in progetto di far usare il laboratorio a degli estranei, e quando sono venuti qua il dottor Lowell e la dottoressa D'Agostino non ci ho pensato.» Spencer si alzò. «Andiamo a fare due chiacchiere con l'affascinante dottoressa D'Agostino, prima che arrivi il dottor Lowell. Potrebbe servire a rendere più facili i negoziati. Kurt, per il momento voglio che lei si tenga lontano.» I due dirigenti uscirono in corridoio e si incamminarono verso la cella. «Sono successe cose strane», sussurrò Spencer, «ma certo è molto meglio di ciò che temevo quando siamo arrivati qua di corsa.» 20 Lunedì 11 marzo 2002 - ore 19.56 Quando il gioco si faceva duro, Gaetano era un pragmatico. Per quanto
non vedesse l'ora di tornare a Nassau a completare ciò che aveva iniziato, era nervoso. Soprattutto per la pistola: doveva essere decente, perché senza un ferro come si deve i guai sono inevitabili. Non c'era modo di far fuori il tizio a randellate, o di annegarlo nella vasca da bagno, o di garrotarlo, come si vede certe volte nei film. Far fuori qualcuno non è semplice come lo si dipinge. Richiede pianificazione. Il luogo deve essere moderatamente remoto per permettere una rapida fuga e il metodo deve essere deciso e rapido. E, se si vuole essere veloci, niente è meglio di una pistola. Un bel ferro silenzioso. Per Gaetano, nell'attuale situazione, il problema era dover dipendere da gente che lui non conosceva e che non conosceva lui. Doveva essere avvicinato da qualcuno, all'atterraggio sull'isola, ma non c'erano garanzie che sarebbe accaduto. Dato che il viaggio era stato organizzato in fretta e furia, non c'era un piano B e non c'erano nemmeno contatti da chiamare, escluso Lou. a Boston, e Lou poteva essere difficile da rintracciare, in ore inconsuete. Anche se l'uomo misterioso si fosse fatto vivo all'aeroporto, c'era sempre la possibilità che non riuscisse a contattarlo, nell'inevitabile confusione, dato che nessuno dei due sapeva che aspetto aveva l'altro. A rendere le cose peggiori, lui avrebbe dovuto essere di ritorno a Boston il giorno dopo, quindi non aveva tanto tempo a disposizione. L'altro motivo per cui era nervoso era che non gli piacevano gli aerei piccoli. Quelli grossi andavano bene, perché poteva convincersi di non essere sospeso nel cielo. Quelli piccoli erano tutta un'altra storia, e in quel momento si trovava nell'aereo più piccolo che gli fosse mai capitato. A rendere le cose peggiori, vibrava come uno spazzolino elettrico e andava su e giù come una palla da biliardo. Gaetano non aveva niente a cui reggersi, tranne lo schienale del sedile davanti al naso. Non c'era tanto spazio. Con la sua mole, era letteralmente incastrato contro il finestrino. Aveva cambiato aereo a Miami, da dove era decollato al tramonto, e adesso fuori del finestrino era buio pesto. Cercò di non pensare a quello che c'era sotto il velivolo sobbalzante, ma ogni volta che i motori gracchiavano come se perdessero colpi, gli balzava alla mente l'immagine di un vasto oceano nero. Gaetano aveva un segreto: non sapeva nuotare, e spesso aveva incubi ricorrenti in cui annegava. Guardò gli altri passeggeri. Per lo più, tenevano lo sguardo fisso davanti a sé. Qualcuno leggeva, usando le piccole luci individuali che formavano raggi isolati nella semioscurità. L'assistente di volo stava seduta di fronte ai passeggeri, in seguito alla direttiva dei piloti sulle turbolenze. La sua e-
spressione annoiata serviva a tranquillizzarlo un po', nonostante si fosse legata una cintura di sicurezza completa di spallacci, come se si aspettasse il peggio. Un tonfo particolarmente forte, seguito dalla vibrazione di tutto l'aereo, lo fece sobbalzare. Era come se avessero sbattuto contro qualche ostacolo. Per un minuto non respirò nemmeno, ma non accadde nulla. Deglutì per alleviare il secco improvviso in gola. Rassegnandosi al proprio fato, chiuse gli occhi e si abbandonò contro il poggiatesta. In quel momento la voce del pilota annunciò che stavano per atterrare. Con un'ondata di ottimismo, Gaetano premette il naso contro il finestrino e guardò giù. Invece del nero più assoluto, vide varie luci tremolanti. Fece un bel sospiro di sollievo. Dopotutto, pareva che ce l'avrebbe fatta. L'aereo atterrò con il caratteristico tonfo e un attimo dopo il gemito dei motori aumentò, accompagnato dalla sensazione di una rapida frenata. Gaetano si tenne con la mano allo schienale che aveva davanti. Era così contento di essere atterrato che sorrise al passeggero seduto di fianco a lui. L'uomo contraccambiò il sorriso. Lo sbarco fu rapido, dato lo scarso numero di passeggeri, e Gaetano fu tra i primi a scendere. Inspirò la tiepida aria tropicale e si crogiolò nella sensazione di essere ben saldo a terra. Una volta entrato nel terminal, si fermò appena dietro la porta. Non sapeva che cosa fare. Pensò che la sua mole lo avrebbe reso ben distinguibile, ma non gli si avvicinò nessuno. Come la volta precedente, indossava la camicia hawaiana a maniche corte, i pantaloni marroncini e la giacca blu scuro. Sentendosi spingere da chi veniva dietro di lui, dovette proseguire. Arrivò al controllo passaporti come se fosse stato trasportato da un fiume. Quando fu il suo turno, porse il proprio documento. L'agente stava per imprimervi il timbro, quando notò quello della visita precedente: non solo risaliva a poco tempo prima, ma rivelava che il soggiorno era durato una sola giornata. Guardò Gaetano con espressione interrogativa. «La prima volta volevo solo vedere com'era il posto», spiegò lui. «Mi è piaciuto, così adesso sono tornato per una vacanza.» L'uomo non rispose. Stampigliò il passaporto, glielo restituì e prese quello del passeggero seguente. Gaetano superò la folla al ritiro bagagli e si avvicinò alla dogana. Vedendo il suo passaporto americano e il piccolo bagaglio a mano, gli agenti gli fecero cenno di passare. Oltrepassò una porta a doppio battente che si aprì da sola e vide una folla di gente dietro una traballante transenna di
metallo. Tutti scrutavano con attenzione i passeggeri che sbucavano dalla porta, ansiosi di individuare familiari e amici. Nessuno dimostrò alcun interesse per lui. Non sapendo che cosa fare, continuò a camminare. All'inizio dovette spostarsi lateralmente per oltrepassare la transenna, prima di mescolarsi alla folla chiassosa. Dopo aver percorso una decina di metri si fermò e si guardò in giro, sperando di incrociare lo sguardo di qualcuno. Nessuno gli prestò la minima attenzione. Si grattò la testa, chiedendosi di nuovo che cosa dovesse fare. In mancanza di un piano migliore, si mise in fila davanti all'agenzia dell'autonoleggio. Un quarto d'ora dopo aveva in mano le chiavi di un'altra Cherokee, anche se questa volta doveva essere verde. Ritornò nella zona degli arrivi internazionali e stava per provare a chiamare Lou quando qualcuno gli batté su una spalla. Per un riflesso condizionato piroettò su se stesso, pronto a lottare. Si ritrovò a guardare gli occhi scuri dell'uomo più nero e più calvo che avesse mai visto. Attorno al collo c'erano più catenine d'oro che nella vetrina di un gioielliere e il cuoio capelluto era talmente lucido da fargli socchiudere gli occhi. L'uomo reagì al suo gesto facendo un passo indietro e sollevando le mani come a parare un colpo. In una delle due reggeva un sacchetto di carta marrone tutta cincischiata. «Calma, amico!» esclamò. Parlava con il colorito accento locale che Gaetano ricordava dalla prima visita. «Non ho intenzione di farti male.» Gaetano si sentì in imbarazzo per l'aggressività mostrata e cercò di scusarsi. «Nessun problema, amico.» La voce aveva una cadenza ritmata. «Sei Gaetano Barrese, di Boston?» «In persona!» rispose lui, con un sorriso di sollievo. Per un attimo, gii venne voglia di abbracciarlo, come se fosse un parente che non vedeva da tempo. «Hai qualcosa per me?» «Se sei Gaetano Barrese, sì. Io mi chiamo Robert. Adesso ti mostro quello che ho portato.» L'uomo srotolò la sommità del sacchetto e infilò dentro una mano, con l'intenzione di sollevare il contenuto. «Ehi, non tirarla fuori qua!» sussurrò Gaetano. Era inorridito. «Sei pazzo?» Girò nervosamente lo sguardo per il terminal. Lì attorno c'erano diversi poliziotti armati ma dall'aria annoiata. Per fortuna, non prestavano attenzione. «La vuoi vedere, vero?» chiese Robert.
«Sì, ma non qua in mezzo. Sei venuto con una macchina?» «Certo, sono in macchina.» «Andiamo.» Con un'alzata di spalle, Robert si incamminò verso l'uscita del terminal. Qualche minuto dopo salivano su una Cadillac d'annata color pastello dalle code enormi. Robert accese la luce dell'abitacolo e porse il sacchetto. Gaetano si aspettava qualcosa di piccolo calibro, e si sorprese considerevolmente nell'estrarre una SW99 da nove millimetri equipaggiata con un LaserMax e un silenziatore Bowers CAC9. «Va bene?» chiese Robert. «Sei contento?» «Più che contento!» Gaetano ammirò le finiture nere in melanite, talmente intatte da far pensare che l'arma fosse nuova fiammante. Era notevole. Anche se la canna era lunga solo dieci centi metri, il silenziatore la faceva sembrare di venticinque. Dopo essersi assicurato che lì attorno non ci fosse nessuno, Gaetano mirò verso un'auto parcheggiata nelle vicinanze e azionò il laser. A una quindicina di metri, vide il puntolino rosso sul parafango posteriore del veicolo. Era piacevolmente eccitato per quell'arma, ma poi si accorse che mancava qualcosa. «Dov'è il caricatore?» chiese. Senza quello e senza le munizioni, la pistola era inservibile. Robert sorrise nella semioscurità dell'abitacolo. In contrasto con la pelle color ebano, i denti sembravano perle bianche. Si diede una pacca sulla tasca sinistra dei pantaloni. «Ce l'ho qua al sicuro, amico, carico e pronto a funzionare. Ce n'è anche uno in più, per sicurezza.» «Bene», disse Gaetano e tese la mano, sollevato. «Non così in fretta. Mi sembra di meritare anch'io qualcosa. Voglio dire, mi sono fatto tutta questa strada fino a qua, invece di starmene seduto a casa con una birra fredda. Capito il succo?» Per un momento, Gaetano si limitò a fissare l'uomo negli occhi. Nell'oscurità sembravano due fori di proiettile in una camicia bianco-sporco. Sapeva che era un'improvvisazione, probabilmente venuta in mente a Robert lì per lì. La prima reazione sarebbe stata di afferrargli la testa e mandarla a rimbalzare sul volante, tanto per fargli capire esattamente con chi aveva a che fare, ma prevalsero pensieri più moderati. Il tizio poteva avere un'altra pistola, e questo avrebbe potuto rendere le cose pericolose, il che non era certo l'ideale per il suo incarico. Cosa ancora più importante, Gaetano non aveva idea di quali rapporti avesse Robert con i colombiani di Miami con-
tattati da Lou per procurargli la pistola. L'ultima cosa che voleva, mentre si trovava a Nassau per lavoro, era ritrovarsi un gruppo di uomini armati alle costole, specialmente se colombiani. Si schiarì la gola. Aveva con sé una significativa quantità di denaro, infatti in viaggi di quel tipo faceva tutto con i contanti. «Robert, suppongo che ti meriti un piccolo segno di apprezzamento. Che cosa hai in mente?» «Un centone andrebbe bene.» Senza aggiungere una sola parola, Gaetano si chinò in avanti per infilare la mano libera nella tasca destra dei pantaloni. Nel farlo, però, non staccò gli occhi da Robert. Sfilò una banconota dal rotolo e gliela porse. Come per magia comparvero i caricatori. Ne infilò subito uno nel calcio della pistola, spingendolo fino sentire il clic. Accantonando una fuggevole fantasia di provare l'arma su Zucca Lucida, scese dall'auto e mise nella tasca della giacca il caricatore di riserva. «Ehi, amico, vuoi un passaggio in città?» Gaetano si chinò, ficcando la testa nel finestrino. «Grazie, ma ho la mia carretta.» Raddrizzandosi, infilò la pistola nella tasca sinistra dei pantaloni che in fondo aveva un'apertura fatta su misura per farci stare il silenziatore. Era un trucco imparato da uno che gli aveva fatto da maestro, quando aveva iniziato a lavorare per la famiglia di New York. L'unico aspetto negativo di avere un buco permanente era che bisognava ricordarsi di non usare quella tasca per altre cose, come monete o chiavi, che sarebbero cadute giù per la gamba dei pantaloni. Mentre camminava verso il parcheggio dell'autonoleggio, sentiva il freddo dell'acciaio contro la coscia nuda. La considerava una carezza. Venti minuti dopo entrava con la Cherokee nel parcheggio dell'Ocean Club. Il breve tragitto gli aveva dato il tempo di calmarsi dopo la miniestorsione subita. Lo scricchiolio della ghiaia sotto le ruote era particolarmente forte, con i finestrini completamente abbassati. Aveva preferito non usare il climatizzatore per godersi la tiepida aria serale. Una volta nel parcheggio, fece un giro completo. Voleva un posto che non solo fosse vicino all'albergo ma che offrisse la possibilità di tornare rapidamente sul viale d'accesso. Una volta fatto fuori il professore, voleva telare alla grande. Accese la luce dell'abitacolo e si controllò nello specchietto retrovisore. Voleva assicurarsi di essere presentabile, in un albergo elegante come quello. Si lisciò le sopracciglia cespugliose e sistemò i risvolti della giacca. Quando ritenne di avere l'aspetto migliore possibile, scese dall'auto. Mise le chiavi nella tasca destra dei pantaloni e poi le tastò attraverso la stoffa,
tanto per essere sicuro. L'ultima cosa che voleva, scappando, era di dover cercare le chiavi. Sentendosi pronto, si avviò. Seguendo lo stesso approccio della volta precedente, si diresse verso l'edificio che ospitava la suite 108. Erano le otto e mezzo di sera, quindi si aspettava che il professore e la sua ragazza fossero a cena, ma voleva prima controllare in camera. Badò ad avere un passo tranquillo, mentre incrociava diverse persone che andavano nella direzione opposta. Arrivato al punto giusto, tagliò per raggiungere il prato dalla parte del mare. Continuò quasi fino alla ripida pendenza ricoperta di uva di mare che portava alla spiaggia. Lì deviò per mantenersi parallelo alla costruzione che voleva controllare. Era abbastanza vicino all'acqua da udire il delicato sciacquio delle onde, alla sua destra. Il clima era splendido, con nuvolette che correvano veloci nel cielo cosparso di stelle, parzialmente nascoste da una falce di luna luminosissima. Una brezza leggera faceva frusciare le foglie delle palme. Non era difficile per lui capire come mai alla gente piaceva l'Ocean Club. Mentre arrivava all'altezza della suite 108, di cui poteva vedere l'interno, provò un brivido di eccitazione che gli fece rizzare i capelli sulla nuca. Non soltanto le luci erano accese e ie tende aperte, ma si vedeva chiaramente che c'erano due persone! Non riusciva a credere alla sua fortuna sfacciata: quella missione sarebbe stata facile e rapida. Rimase per un momento a osservare, mentre il polso accelerava, nell'aspettativa della violenza imminente. Ma poi cominciò a chiedersi che cosa stava vedendo. Sbatté varie volte le palpebre per assicurarsi che i suoi occhi non lo tradissero. C'era qualcosa di strano nel professore e nella sorella di Tony: si affrettavano di qua e di là come due galline e sbattevano un lenzuolo per aria. La porta che dava sul corridoio era spalancata e la TV era accesa. Attratto irresistibilmente da quello spettacolo, Gaetano avanzò attraverso il prato. La mano si era infilata istintivamente nella tasca sinistra dei pantaloni, per afferrare la pistola. All'improvviso si fermò, deluso. Le persone che stava guardando non erano le sue prede, ma delle cameriere che sistemavano la stanza per la notte. «Merda!» gemette, poi sospirò e scosse la testa scoraggiato. Rimase nell'oscurità per qualche minuto e si rese conto che era meglio così. Se avesse potuto arrivare tranquillamente fino alla camera, fare secco il professore e poi darsela a gambe, non ci sarebbe stata abbastanza soddisfazione. Sarebbe stato troppo facile e troppo rapido. Molto meglio un inseguimento prolungato, con un po' di pericolo, per il quale ricorrere all'e-
sperienza e alla perizia che di certo non gli mancavano. Era allora che la cosa dava veramente soddisfazione. Abbandonò la presa sulla pistola, smosse la gamba in modo da far scendere bene il silenziatore e si risistemò la giacca. Poi si voltò e si diresse verso gli spazi comuni dell'albergo: se la coppia non era andata a cena da qualche altre parte, era lì che li avrebbe trovati. Il primo ristorante era collocato molto più vicino alla spiaggia rispetto agli edifici che ospitavano gli appartamenti, e questo lo obbligò a camminare lungo il margine del pendio coperto dall'uva di mare, con la riva alla sua sinistra. Le portefmestre della sala da pranzo si aprivano direttamente sull'oceano e lui era abbastanza vicino da udire le conversazioni. Affrettò il passo per portarsi oltre la traiettoria di sguardo dei commensali. Temeva che il professore lo riconoscesse. Era questo il vero pericolo: se lo avesse riconosciuto, avrebbe avvertito la sicurezza e probabilmente la polizia. Una volta superate le portefinestre, entrò nel ristorante dall'ingresso principale, scrutandosi attorno. Superò il banco della hostess, dove diverse coppie erano in attesa di un posto a sedere, e si fermò all'ingresso della sala da pranzo, passando in rassegna meticolosamente tutto il locale. Quando fu certo che la sua vittima non c'era, se ne andò rapido com'era arrivato. Poi c'era il ristorante più alla buona con il bar al centro, dov'era già stato durante la prima visita a Nassau. Sorgeva proprio al limitare della spiaggia, con un tetto di paglia che lo faceva assomigliare a un'enorme capanna. Era affollatissimo, soprattutto il bar. Ancora una volta, stando molto attento, fece un giro completo, camminando tra il bar e i tavoli che erano disposti lungo il perimetro. Niente. Rassegnandosi al fatto che la coppia fosse andata a cena fuori dall'albergo, seguì il viottolo che attraversava il prato in direzione dell'edificio principale. Il suo intento era di occupare lo stesso divano su cui si era seduto l'altra volta, da cui si vedeva bene l'ingresso dell'albergo. Sperava che ci fossero ancora le ciotole con la frutta. Gli aromi deliziosi annusati nei due ristoranti gli facevano brontolare lo stomaco. Nel salotto principale c'era un po' di gente. Purtroppo, il «suo» divano era occupato da una coppia impegnata in una conversazione con altri due clienti, seduti su due sedie dirimpetto. Gaetano si avvicinò al piccolo bar e alla ciotola di noccioline americane. Per coincidenza, il barista era lo stesso dell'altra volta, quello con cui aveva scambiato due chiacchiere. Da lì vedeva lo stesso l'ingresso, anche se non bene come dal divano. «Ehi!» esclamò il barista e tese la mano. «È tanto che non ci si vede!»
Gaetano fu un po' seccato che l'avesse riconosciuto, con tutta la gente che sicuramente vedeva ogni giorno. Sorrise, gli strinse la mano e prese una manciata di noccioline. Il barista si era trasferito lì da New York, era stato quello l'argomento di conversazione, una settimana e mezzo prima. «Posso servirle qualcosa?» gli chiese l'uomo. Gaetano vide una corpacciuta guardia di sicurezza dell'albergo comparire sotto l'arco che dava sulla reception. Con le mani sui fianchi, scrutava la sala come se niente fosse. Indossava un completo scuro che passava inosservato e si capiva che faceva parte della sicurezza perché portava un auricolare nell'orecchio sinistro, con il filo che scendeva a nascondersi sotto la giacca. «Una Coca-Cola andrebbe bene», rispose Gaetano. Era meglio avere l'aria rilassata e fare qualcosa, in modo da non dare l'idea di non essere un cliente dell'albergo. Si appoggiò a uno sgabello del bar tenendo diritta la gamba sinistra, per non far sbattere la pistola. «Un po' di ghiaccio e di limone sarebbero l'ideale.» «Subito, amico», rispose il barista. Si diede da fare ad aprire una CocaCola e a riempire un bicchiere di ghiaccio, poi sistemò la scorza di limone sull'orlo del bicchiere, che pose davanti a Gaetano. «I suoi amici stanno ancora qui?» Lui annuì. «Dovevamo vederci stasera qui in albergo, ma non sono nella loro stanza e nemmeno in uno dei due ristoranti.» «Ha provato al Courtyard?» «Che cos'è?» Con la coda dell'occhio, Gaetano si accorse che la guardia di sicurezza scompariva nella reception. «È il nostro ristorante migliore. Apre solo per la cena.» «Dov'è?» «Lei va nella reception, poi svolta a sinistra. Oltrepassa la porta ed è arrivato. Si trova letteralmente nel cortile della parte più vecchia dell'albergo, per questo si chiama così.» «Proverò.» Buttò giù la coca e fece una smorfia per la sua effervescenza, poi mise un biglietto da dieci dollari sul banco e vi batté sopra. «Grazie, amico!» «È un piacere!» rispose il barista, intascando la banconota. Gaetano salì i due gradini che portavano alla reception, tenendo gli occhi aperti per individuare la guardia di sicurezza. Era impegnata in una conversazione con il portiere. Seguendo le indicazioni del barista, svoltò a sinistra, oltrepassò una porta che delimitava la zona con l'aria condizionata e
si ritrovò nel cortile-ristorante. Era uno spazio lungo, rettangolare, pieno di palme e di fiori esotici e con una fontana centrale. Lo circondava un edificio a due piani con una balconata che correva lungo tutto il piano superiore, delimitata da una ringhiera in ferro battuto. La musica dal vivo che allietava l'atmosfera sembrava nascere dal nulla, infatti non si vedeva dov'erano collocati i musicisti. «Posso esserle d'aiuto?» chiese una donna dai capelli neri da dietro il banco della hostess. Indossava un abito superaderente che le arrivava alle caviglie, dai disegni tropicali e con le spalline sottilissime. Gaetano si chiese se riusciva a camminare senza doverselo tirare su fino alla vita. «Sto solo guardando», le rispose e sorrise. «È un bel posto.» Anche se arrivava un po' di luce dall'interno, l'illuminazione era data per lo più dalla luna e dalle candele sui tavoli. «Avrà bisogno di una prenotazione se vuole venirci a trovare, una di queste sere», gli spiegò la hostess. «Oggi siamo al completo.» «Lo terrò a mente. Va bene se do un'occhiata in giro?» «Certo», rispose la donna, facendo cenno di accomodarsi. Gaetano vide una scala che portava al primo piano. Pensando che da lassù avrebbe goduto di una vista migliore, la salì e vide i musicisti. Erano sistemati proprio sopra il banco della hostess e avevano spinto da parte sedie e tavolini per avere più spazio. Percorse la balconata verso destra, facendo scorrere la mano sulla ringhiera. Da lassù, senza farsi notare, vedeva benissimo i commensali seduti al piano di sotto perché le candele li illuminavano bene in viso. Alcuni erano nascosti dalla vegetazione, ma gli bastava spostarsi per guardarli da angolazioni diverse. Decise quindi di percorrere l'intero perimetro della balconata. All'improvviso si fermò e, come gli era già accaduto davanti alle finestre della stanza 108, sentì i capelli rizzarglisi sulla nuca. A non più di una quindicina di metri da lui, seduto a una tavola oltre un oleandro in fiore, c'era il professore. Era impegnato in quella che sembrava un'accalorata conversazione: muoveva la testa avanti e indietro mentre parlava e teneva l'indice sollevato, come per rafforzare ciò che stava dicendo. Da lì non si vedeva in viso la sorella di Tony, che era voltata nell'altra direzione. Gaetano si tirò rapidamente indietro, in modo che l'oleandro lo nascondesse alla vista del professore. Adesso veniva la parte divertente. Se avesse avuto un fucile con il telescopio, avrebbe potuto farlo fuori da dove si trovava, ma non lo aveva e inoltre non sarebbe stato sportivo. Sapeva fin troppo
bene che con una pistola, anche se fornita di un mirino laser, bisognava stare praticamente addosso alla vittima per essere sicuri di farla fuori. Quindi, avrebbe dovuto aspettare l'occasione propizia. Si guardò attorno. Adesso che aveva trovato i piccioncini, si chiedeva dove poteva mettersi ad aspettare che finissero la loro cenetta romantica. Sicuramente sarebbero ritornati in camera percorrendo uno dei numerosi viottoli scuri e isolati: una pacchia, per lui. Nel peggiore dei casi avrebbero fatto una passeggiata fino alla spiaggia, e anche questo andava bene. Sentendo crescere l'eccitazione, Gaetano sorrise soddisfatto. Finalmente tutto girava per il verso giusto. Davanti a lui c'era una scala che scendeva alle terme, almeno stando al cartello. Lì, tra la scala e i musicisti, sarebbe stato il posto ideale per aspettare. Anche se probabilmente non avrebbe potuto vedere la coppietta a causa dell'oleandro vicino al tavolo, l'avrebbe però vista alzarsi per andarsene, ed era quella la cosa importante. Egualmente importante era il fatto che avrebbe avuto l'aria di stare lì seduto ad ascoltare la musica, casomai si fosse avvicinato qualcuno della sicurezza. Daniel si strofinò gli occhi per cercare di non perdere la pazienza. Sbatté le palpebre qualche volta, prima di guardare nuovamente Stephanie, la cui espressione era di collera esasperata, proprio come la sua. «Tutto quello che sto dicendo è che l'uomo della sicurezza, comunque si chiami, ha detto che ti ha perquisita avendoti trovata in luogo non autorizzato, e non è una cosa tanto strana.» «Si chiama Kurt Hermann», sbottò Stephanie. «E ti sto dicendo che mi ha palpata in modo disgustoso. Ero umiliata e terrorizzata, e non so quale delle due sia peggio.» «Va bene, ti ha palpata mentre ti perquisiva. Non so di certo dove finisce una cosa e comincia l'altra. Ma, come che sia, tu non dovevi essere in quella maledetta sala organi, tanto per cominciare! È come se te la fossi andata a cercare.» Stephanie rimase a bocca aperta. Era incredibile! Era la cosa più inopportuna che Daniel avesse mai detto, e durante la loro relazione ne aveva dette, di cose inopportune! Furibonda, spinse indietro la sedia in ferro battuto, che raschiò rumorosamente contro il pavimento di cemento, e si alzò di scatto. Daniel reagì quasi altrettanto rapidamente, chinandosi in avanti e afferrandola per il polso. «Dove pensi di andare?» le chiese.
«Non lo so!» La risposta fu come una frustata. «Al momento, voglio solo andarmene.» Per qualche secondo rimasero a fissarsi attraverso il tavolino. Daniel non mollò la presa e lei non cercò di lottare. La gente attorno era rimasta in silenzio e gli occhi di tutti erano puntati su di loro. Perfino alcuni camerieri si erano fermati a osservarli. Stephanie si risedette, nonostante il suo stato d'animo non fosse cambiato. Daniel continuò a stringerle il polso, anche se la presa si allentò in modo significativo. «Non volevo dire quell'ultima frase», borbottò. «Sono in collera e sconvolto, e mi è sfuggita. Lo so che essere molestata non era certo la cosa che volevi.» Gli occhi di Stephanie fiammeggiavano. «Sembri una di quelle persone secondo le quali le vittime degli stupri si mettono consapevolmente a rischio per quello che indossano o per come si comportano.» «Assolutamente no. È stato un lapsus. Sono solo adiratissimo perché sei entrata in quella sala organi, causando questo scompiglio. Avevi promesso che non avresti creato problemi.» «Non l'ho promesso.» La voce di Stephanie aveva perso un po' di mordente. «Ho detto che avrei fatto del mio meglio. Ma la mia coscienza mi perseguita. Sono entrata in quella stanza per cercare le prove di ciò che temevo, e le ho trovate. Oltre alle altre cose che già sappiamo di loro, adesso è sicuro che ingravidano le donne e poi le fanno abortire per ottenere le ovaie fetali.» «Come fai a esserne così sicura?» «Ho visto la prova decisiva.» «Va bene, possiamo parlarne senza urlarci addosso a vicenda?» Daniel gettò qualche occhiata in giro, verso i tavoli vicini. La gente era tornata alle proprie conversazioni e i camerieri si erano immersi nuovamente nel lavoro. «No, se non eviti di dire cose come quella che hai detto poco fa.» «Farò del mio meglio.» Stephanie scrutò Daniel, cercando di decidere se quell'ultima affermazione fosse un segno deliberato di aggressività passiva, o se era un modo per prendersi gioco di lei, scimmiottandola. Dalla sua prospettiva, doveva essere una o l'altra cosa, e non era un buon segno, che si aggiungeva a tutto il resto. «E dai, dimmi qual è questa prova decisiva!» la esortò lui.
Stephanie continuò a fissarlo. Adesso cercava di decidere se fosse cambiato negli ultimi sei mesi o se era sempre stato così privo di passione per tutto ciò che non fosse il suo lavoro. Distolse un momento lo sguardo per dare sollievo alle proprie emozioni e cercare di avere almeno la parvenza del controllo. Non sarebbe servito a niente se fosse andata via o se avessero continuato a bisticciare. Riportando lo sguardo su Daniel, fece un respiro profondo e riferì tutto ciò che aveva visto, in particolare i dettagli del libro mastro su cui era annotata ogni cosa, nero su bianco. Quando ebbe finito, si fissarono attraverso il tavolino su cui il pasto era rimasto a metà. «Be', avevi ragione», ammise Daniel, rompendo per primo il silenzio. «Avere ragione ti dà almeno un po' di soddisfazione?» «No di certo!» A Stephanie sfuggì una risata sarcastica. «La questione è: possiamo continuare, a questo punto, sapendo ciò che sappiamo?» Daniel abbassò lo sguardo sul piatto e giocherellò distrattamente con le posate. «Il modo in cui vedo la cosa è che abbiamo accettato gli ovociti prima di conoscere i dettagli sulla loro origine.» «Ah!» esclamò Stephanie in tono di scherno. «Questa è una scusa molto conveniente e un esempio raffinato di etica opportunistica.» Daniel la fissò negli occhi. «Ci manca così poco», replicò, scandendo bene ogni parola. «Domani cominceremo a differenziare le cellule. Io non ho intenzione di fermarmi adesso, a causa di ciò che accade nella Wingate Clinic. Mi spiace che tu sia stata maltrattata e molestata. Mi spiace anche di essere stato picchiato. Questo non è stato un picnic, ma sapevamo che curare Butler non sarebbe stato facile. Sapevamo fin dall'inizio che i dirigenti della Wingate erano degli idioti venali e privi di etica, eppure avevamo deciso di procedere. La questione è: sei ancora con me oppure no?» «Lascia che sia io a farti una domanda», ribatté Stephanie, chinandosi versi di lui e abbassando la voce. «Dopo che Butler sarà stato curato e noi saremo tornati a casa e la CURE sarà in salvo, e tutto andrà a meraviglia, potremo avvertire in qualche modo, anonimamente, le autorità delle Bahamas di ciò che fanno alla Wingate?» «Questo sarebbe problematico. Per farti uscire immediatamente dalla cella privata di Kurt Hermann, cosa che ritenevo di primaria importanza, ho firmato un accordo di riservatezza che preclude di fare proprio ciò che tu suggerisci. Le persone con cui abbiamo a che fare possono essere folli, ma non sono stupide. Nell'accordo è anche scritto quello che stiamo facendo noi nella Wingate, il che significa che, se riveliamo il loro segreto, loro riveleranno il nostro, e questo potrebbe mandare all'aria tutto quello che
stiamo cercando di ottenere curando Butler.» Stephanie fece girare distrattamente il bicchiere del vino, che non aveva nemmeno toccato. «Che ne dici di questa idea?» chiese all'improvviso. «Magari, una volta che Butler sarà curato, non sarà più così categorico sulla segretezza.» «Suppongo che sia una possibilità.» «Allora possiamo dire che per lo meno lasciamo la questione aperta alla discussione, strada facendo?» «Suppongo», ripeté Daniel. «Voglio dire, chi lo sa? Possono accadere cose che non abbiamo previsto.» «Questa sembra una descrizione corretta di tutta la faccenda, finora.» «Molto divertente!» «Be', niente è accaduto esattamente come avevamo progettato.» «Non è del tutto vero. Grazie a te, il lavoro sulle cellule è proseguito esattamente come avevamo previsto. Quando Butler arriverà qui, avremo disponibili dieci linee di cellule, ognuna delle quali potrebbe curarlo. Ciò che ho bisogno di sapere è se tu sei con me, in modo che possiamo completare la nostra opera e andarcene da Nassau.» «Ho un'altra richiesta.» «Oh?» «Voglio che tu metta in chiaro con Spencer Wingate che non sei contento quando mi fa delle avance inappropriate. E, già che siamo in argomento, come mai hai un atteggiamento così passivo al riguardo? È umiliante. Non ne hai mai nemmeno parlato con me.» «Sto solo cercando di non creare problemi.» «Questo è creare problemi! Non capisco! Se Sheila Donaldson facesse le stesse avance verso di te, io di certo ti sosterrei in qualsiasi modo tu volessi.» «Spencer Wingate è un fanfarone egocentrico che crede di essere un dono per il gentil sesso. Pensavo che tu fossi in grado di gestirlo senza che la situazione diventasse angosciante.» «È già diventata angosciante. Si è fatto sempre più insistente, al punto da essere offensivo, da toccarmi addirittura, anche se dopo l'allarme di oggi forse si calmerà. Comunque, voglio del sostegno da parte tua. D'accordo?» «Va bene, d'accordo! È tutto? Possiamo continuare e portare a termine tutta la faccenda Butler?» Stephanie annuì. «Suppongo», rispose, senza grande entusiasmo. Daniel si passò diverse volte le dita fra i capelli, gonfiò le guance e la-
sciò uscire il fiato, come una palla che si sgonfi. Sorrise debolmente. «Mi spiace ancora per quello che ho detto prima. Ero fuori di me da quando avevo saputo che ti avevano rinchiusa in quella cella. Pensavo che ci avrebbero cacciati via dalla Wingate a causa del tuo curiosare in giro, proprio quando eravamo in vista del successo.» Stephanie si chiese se Daniel si rendesse conto di quanto era egocentrico. «Spero di non sentirti dire che non avrei dovuto entrare nella sala organi.» «No, affatto! Capisco che hai fatto quello che sentivi di dover fare. Solo, sono contento che in definitiva il nostro progetto non ne abbia sofferto. Ma questo episodio mi ha fatto accorgere di un'altra cosa. Eravamo così indaffarati e preoccupati che non ci siamo mai presi un momento per noi, tranne che per mangiare.» Daniel piegò la testa all'indietro e guardò, attraverso le fronde delle palme, il cielo stellato. «Voglio dire, siamo qui alle Bahamas nel bel mezzo dell'inverno e non ne abbiamo approfittato in nessun modo.» «Stai suggerendo qualcosa di particolare?» chiese Stephanie. Di tanto in tanto, Daniel la sorprendeva. «Sì», rispose lui. Si tolse il tovagliolo dal grembo e lo gettò sul tavolo. «Non sembra che abbiamo particolarmente fame, e siamo tutti e due stressati. Perché non facciamo una passeggiata sotto la luna per il giardino dell'albergo, arrivando a quel chiostro medievale che abbiamo visto da lontano, la prima mattina che eravamo qui? Ci aveva incuriosito. E cascherebbe a fagiolo: nel Medio Evo i chiostri erano dei ripari dal caos del mondo esterno.» Anche Stephanie depose il tovagliolo. Nonostante l'irritazione che provava per Daniel e le ulteriori questioni rispetto al futuro del loro rapporto, non poté fare a meno di sorridere alla scaltrezza e all'acuto intelletto che dimostrava, qualità che avevano avuto un ruolo importante nella sua iniziale attrazione per lui. Si alzò. «Potrebbe essere il suggerimento migliore che hai dato da sei mesi a questa parte.» Le cose si mettono bene! esclamò Gaetano tra sé vedendo la testa della ragazza e poi quella del professore comparire al di sopra dell'oleandro che impediva la vista del loro tavolo. Poco prima c'era stato un falso allarme, ma ora sembrava che avessero veramente intenzione di andarsene e lui si appiattì nella propria sedia, nel caso l'uomo alzasse lo sguardo verso la balconata. Si aspettava che la coppia si spostasse nella sua direzione e passasse davanti al banco della hostess, immediatamente sotto i musicisti, per
andare in camera. Invece si incamminò nella direzione opposta, senza guardare indietro. «Merda!» borbottò. Ogni volta che pensava di avere le cose sotto controllo, succedeva qualcosa di inaspettato. Guardò il musicista che guidava il complesso, con il quale aveva scambiato qualche sguardo mentre aspettava. L'uomo sembrava apprezzare la sua attenzione e lui pensò bene di sorridergli e rivolgergli un saluto con la mano mentre si alzava. Dapprima si avviò a passo normale, per non dare l'impressione di avere fretta, ma quando si fu allontanato abbastanza dai musicisti accelerò, e intanto infilò una mano in tasca per tener ferma la pistola, in modo che non gli sbattesse contro la gamba. Le sue prede non erano già più nel cortile, infatti erano sparite nelle terme che occupavano il piano terreno, sul lato orientale dell'edificio. Arrivato all'estremità opposta della balconata, Gaetano imboccò le scale e le scese in fretta, sempre stringendo la pistola attraverso il tessuto dei pantaloni. Quando arrivò alla porta delle terme si fermò, si ricompose, si assicurò che nessuno lo stesse osservando e l'aprì lentamente. Non sapeva che cosa aspettarsi. Se i due erano lì dentro, a iscriversi per un trattamento, si sarebbe tirato indietro e avrebbe pensato a cosa fare. Ma le terme erano chiuse per la notte, come si capiva da un cartello sul tavolo della reception, illuminata da una candela votiva. All'improvviso si ricordò di essere passato di lì quando aveva cercato la piscina, durante la sua prima visita. Immaginando che fosse proprio la piscina la meta della coppia, attraversò di corsa la stanza vuota e uscì dalla parte opposta. Adesso si trovava nella parte del complesso alberghiero costituita da villini individuali. Pozze di luce soffusa delineavano l'ingresso di ognuna, ma per il resto era tutto buio, sotto il fitto fogliame delle palme. Si mise a camminare in fretta, ricordando la strada. Era compiaciuto. Immaginando che anche la piscina e il piccolo bar-tavola calda fossero chiusi e deserti, avrebbe avuto la scelta del luogo adatto per svolgere il suo compito. Mentre seguiva una curva decisa a destra lungo il viottolo, vide per un attimo il professore e la sorella di Tony prima che scomparissero giù per una breve rampa di scale, oltre una balaustra barocca in pietra. Affrettò di nuovo il passo. Raggiunta la balaustra, guardò verso la piscina. Come si era aspettato, era chiusa per la notte e tutti gli edifici attorno erano al buio. La piscina, invece, era illuminata da luci subacquee e sembrava un enorme smeraldo appiattito. «Non ci posso credere», mormorò Gaetano fra sé. «È perfetto!» La sua
eccitazione era palpabile. I due erano girati attorno al bordo della piscina e ora si dirigevano verso l'ampio giardino dalla forma simmetrica che si stendeva buio e deserto oltre di essa. Nell'oscurità, non riusciva a scorgere tanti dettagli, a parte farsi l'idea che ci dovevano essere statue e siepi. Ma ciò che vedeva benissimo era il chiostro medievale illuminato. Si ergeva luccicante in lontananza, sotto il chiarore lunare, come una corona che sormontava la serie di giardini a terrazze immersi nell'oscurità. Fece scivolare la mano nella tasca sinistra dei pantaloni e la strinse attorno alla pistola automatica. Rabbrividì per la sensazione data dall'acciaio freddo e, con gli occhi della mente, già vedeva il puntolino rosso del laser sulla fronte del professore, poco prima di premere il grilletto. 21 Lunedì 11 marzo 2002 - ore 21.37 «Questa statua l'ho già vista da qualche parte. Sai se è famosa?» chiese Daniel a Stephanie. Si trovavano del giardino dell'Ocean Club, che si ispirava esplicitamente a quello di Versailles, a fissare un nudo di donna scolpito nel marmo in posizione semisdraiata. Riluceva nella penombra e l'umidità dell'aria le creava attorno un alone di foschia. La distesa erbosa simmetrica era illuminata da una luce azzurro-argentata che contrastava con le profonde ombre violacee. «Penso che sia una copia del Canova», rispose Stephanie. «Quindi sì, è ragionevolmente famosa. Se è quella che penso, l'originale si trova nel Museo Borghese, a Roma.» Daniel le scoccò un'occhiata reverente, che lei non colse. Stava toccando delicatamente la coscia della donna. «È sorprendente quanto il marmo assomigli alla pelle, sotto il chiaro di luna.» «Ma come cavolo facevi a sapere che è una copia di questo Canova, chiunque egli sia?» «Antonio Canova era uno scultore italiano neoclassico del diciottesimo secolo.» «Sono impressionato!» Daniel continuava a guardarla con ammirata incredulità. «Come mai sai a menadito cose tanto arcane? Oppure mi stai imbrogliando, e hai letto di questo giardino nel pieghevole che abbiamo in camera?»
«Io no, ma ho visto che tu lo leggevi, quindi forse potresti fare da guida.» «Per carità! L'unica cosa che ho letto attentamente è stata la parte sul chiostro. Davvero, come fai a sapere del Canova?» «Al college ho scelto storia come materia complementare, ed era compreso un corso sommario di storia dell'arte, che mi è rimasto in mente più delle altre materie.» «A volte mi sorprendi!» Seguendo l'esempio di Stephanie, Daniel toccò il cuscino di marmo su cui la donna stava appoggiata. «È inspiegabile come questi tizi fossero capaci di far sembrare il marmo così soffice. Guarda come il corpo preme sul tessuto.» «Daniel!» esclamò all'improvviso Stephanie. Lui si raddrizzò e cercò di capire che espressione aveva, nonostante l'oscurità. La vide fissare la zona in cui si trovava la piscina. Seguì il suo sguardo ma non vide nulla di strano nel paesaggio su cui il chiarore lunare creava dense ombre. «Che cosa c'è? Hai visto qualcosa?» «Sì. Ho colto un movimento con la coda dell'occhio. Credo che ci sia qualcuno laggiù, dietro quella balaustra.» «E allora? Ci sarà sicuramente qualcuno che passeggia all'aperto: è un posto così bello! Non possiamo aspettarci di avere questo immenso giardino tutto per noi.» «Vero, però mi è sembrato che quella persona si sia chinata appena ho girato la testa. Era come se non volesse farsi vedere.» «Che cosa stai cercando di dire? Che qualcuno ci sta spiando?» «Be', sì, una cosa del genere.» «Oh, dai! Non lo dicevo sul serio!» «Be', io invece sono seria. Penso davvero di aver visto qualcuno.» Stephanie si sollevò sulla punta dei piedi, sforzandosi di vedere nell'oscurità. «E c'è qualcun altro!» aggiunse tutta agitata. «Dove? Io non vedo nessuno.» «Vicino alla piscina. Qualcuno si è appena nascosto, spostandosi dalla zona illuminata alle ombre dello snack-bar.» Daniel prese Stephanie per le spalle e la fece girare verso di lui, anche se lei inizialmente oppose resistenza. «Ehi! Dai! Siamo qua per rilassarci. Abbiamo avuto tutti e due una giornataccia, soprattutto tu.» «Forse dovremmo tornare indietro e fare una passeggiata sulla spiaggia, dove c'è sempre gente. Questo giardino mi sembra troppo grande, troppo buio e troppo isolato, per i miei gusti attuali.»
«Saliamo fino al chiostro», replicò Daniel in tono autoritario. «Ci ha incuriosito tutti e due e, come dicevo prima, sarebbe una visita adatta al momento che stiamo vivendo. Abbiamo bisogno di alleviare la nostra agitazione. E la notte è il momento migliore per visitare le rovine. Quindi rimettiti in sesto e andiamo!» «E se avessi visto davvero qualcuno nascondersi dietro quella balaustra?» insisté Stephanie, e allungò di nuovo il collo per vedere al di sopra delle buganvillee. «Vuoi che torni là a controllare? Se vuoi, sarò contento di farlo, così ti metti tranquilla. È comprensibile che tu sia paranoica, ma comunque paranoica lo sei. Siamo nella proprietà dell'albergo, Cristo! Hanno guardie di sicurezza sparse dappertutto, ti ricordi?» «Suppongo», ammise riluttante Stephanie. Le passò per la mente una fugace immagine di Kurt Hermann che le rivolgeva le sue occhiate lascive. Aveva un sacco di motivi per essere nervosa. «Che cosa ne dici? Vuoi che torni là a controllare?» «No, voglio che tu stia qua.» «Bene, allora andiamo! Saliamo al chiostro.» Daniel la prese per mano e la guidò verso il viale centrale che attraversava una serie di terrazze e, tramite una rampa di gradini molto distanziati, portava sulla cresta della collina dove sorgeva il chiostro. Dei fari posti a livello del terreno lo illuminavano dal basso, mettendo in risalto gli archi gotici. A mano a mano che salivano le terrazze, girando attorno alla fontana o alla statua che ne occupava il centro, notarono altre sculture poste sui lati, al riparo di pergole ombrose. Alcune erano di marmo, altre di pietra o di bronzo. Anche se erano tentati di vederle più da vicino, evitarono ulteriori deviazioni. «Non avevo idea che qui ci fosse tanta arte», commentò Stephanie. «Prima di diventare un albergo era una proprietà privata», le spiegò Daniel. «Per lo meno, stando all'opuscolo.» «Che cosa diceva del chiostro?» «Tutto ciò che mi ricordo è che è stato costruito nel dodicesimo secolo in Francia.» Stephanie fischiò per la meraviglia. «Sono pochi i chiostri che hanno lasciato la Francia. Sapevo solo di un altro, ma non è così antico.» Salirono l'ultima rampa di scalini e quando raggiunsero la sommità trovarono una strada asfaltata che tagliava il loro sentiero e isolava il chiostro dal giardino. Guardando dal basso era impossibile vederla a meno che ci
passasse qualche veicolo, e non ne erano passati. «Questa è una sorpresa!» Daniel guardò nelle due direzioni della strada: andava da est a ovest lungo la spina dorsale di Paradise Island. «Il prezzo del progresso», commentò Stephanie. «Scommetto che arriva al campo da golf.» Attraversarono la strada, la cui superficie nera irradiava ancora il calore trattenuto durante il giorno, e salirono qualche altro scalino fino a raggiungere la sommità della collina, incoronata dal chiostro. L'antica struttura consisteva semplicemente in un quadrato senza tetto, formato da una doppia fila di archi gotici sostenuti da colonne. La fila interna era decorata da un archetto all'interno di ogni arco. Si avvicinarono, ma dovevano stare attenti a dove mettevano i piedi, perché lì attorno il terreno era irregolare e cosparso di pietre e di conchiglie schiacciate. «Ho la sensazione che sarà una di quelle cose che sono più belle da lontano che da vicino», predisse Stephanie. «Questo è uno dei motivi per cui è meglio vedere le rovine di notte anziché di giorno.» Raggiunsero la struttura e si infilarono nello spazio tra le due file di colonne. Essendo abituati al buio, strizzarono gli occhi contro il chiarore dell'illuminazione. «Questa parte aveva il tetto, in origine», notò Stephanie. Daniel guardò in su e annuì. Evitando i detriti per terra, si avvicinarono alla balaustra interna. Si appoggiarono all'antico corrimano in calcare e guardarono nel cortile centrale. Aveva i lati lunghi circa una quindicina di metri ed era cosparso di monticelli formati da pietre e conchiglie rotte sui quali si disegnavano le ombre intricate proiettate dai fari attraverso gli archi e le colonne. «È triste», osservò Stephanie e scosse la testa. «Quando questa struttura era un chiostro funzionante, il cortile doveva avere un pozzo o magari una fontana, e ci sarà stato un giardino.» Daniel lo abbracciò con lo sguardo. «Ciò che trovo triste è che, dopo essere durato quasi mille anni in Francia, adesso qui non durerà tanto a lungo, esposto com'è al sole tropicale e all'aria salmastra.» Si guardarono. «È un po' deludente. Andiamo a fare quella passeggiata sulla spiaggia che proponevi.» «Buona idea. Ma prima tributiamo a questa struttura il beneficio del dubbio e un po' di rispetto. Facciamo almeno un giro dell'ambulacro.»
Mano nella mano, si aiutarono l'un l'altro a evitare gli ostacoli sparsi per terra. Con il bagliore dei fari puntati dall'esterno, era difficile vedere i dettagli. Sul lato opposto all'albergo si fermarono ad ammirare la vista del porto di Nassau, ma anche questo era reso difficile dalla luce intensa che colpiva gli occhi, e ben presto presero la strada del ritorno. Gaetano era estasiato. Se anche fosse stato lui a programmare la passeggiata dei due piccioncini, non avrebbe potuto fare di meglio. Adesso stavano in un quadrato di luce che gli permetteva di avvicinarsi tantissimo senza essere visto. Avrebbe potuto farlo anche prima, nel buio del giardino, ma aveva immaginato dov'erano diretti e sapeva che sarebbe stato perfetto. Aveva deciso che sarebbe stato meglio se la sorella di Tony avesse saputo senza ombra di dubbio chi aveva deciso l'eliminazione, in modo da non credere che si trattasse di un atto casuale di violenza. Gaetano lo riteneva importante, dato che sarebbe toccato a lei portare avanti la società. Secondo lui era fondamentale che sapesse esattamente come la pensavano i fratelli Castigliano a proposito del loro prestito e su come doveva essere gestita l'azienda. In quel momento, i due stavano facendo un lento giro del chiostro. Lui si era messo appena all'esterno della pozza di luce sul lato occidentale. Era sua intenzione aspettare che fossero a non più di sei metri di distanza, prima di entrare in quella specie di corridoio tra le colonne e affrontarli. Mentre li guardava svoltare l'ultimo angolo, sentì le pulsazioni accelerare. Sempre più eccitato, estrasse la pistola e si assicurò che ci fosse una pallottola nella camera. Tenendola in alto, di fianco alla testa, si preparò per ciò che adorava: l'azione! «Non credo che dovremmo toccare un'altra volta questo argomento», disse Stephanie. «Non adesso e magari mai più.» «Mi sono scusato per quello che ho detto al ristorante. Ciò che intendevo adesso è che preferirei essere palpato che picchiato. Non sto dicendo che essere palpati non è spiacevole, è solo più facile da sopportare che essere picchiati e feriti fisicamente.» «Che cos'è, una gara?» chiese Stephanie in tono derisorio. «Non rispondere! Non voglio parlarne più!» Daniel stava per controbattere, quando rimase a bocca aperta, si fermò di botto e le strinse la mano spasmodicamente. Lei stava guardando a terra,
per non inciampare in un grosso pezzo di pietra, quando quella reazione le fece sollevare lo sguardo. A quel punto, anche lei rimase a bocca aperta. Una figura imponente era balzata nell'ambulacro, reggendo un'enorme pistola che teneva puntata contro di loro a braccio teso. Daniel si accorse anche di un punto rosso appena sotto la canna. Né lui né Stephanie riuscirono a muoversi, mentre l'uomo si avvicinava lentamente. Un'espressione ghignante era diffusa sul viso largo e dai lineamenti piatti, che Daniel riconobbe con un brivido. L'uomo si avvicinò fino ad arrivare a tre metri da loro. A quel punto, fu evidente che l'arma era puntata direttamente alla fronte di Daniel. «Mi hai fatto tornare indietro, somaro!» grugnì il sicario. «Una decisione sbagliata! I fratelli Castigliano sono rimasti molto delusi vedendo che non sei tornato a Boston a preoccuparti del loro prestito. Pensavo che avessi capito il mio messaggio, ma a quanto pare non è così, e mi hai messo in cattiva luce. Quindi addio!» Il suono dello sparo echeggiò rumoroso nell'umida immobilità della notte. Il braccio che reggeva la pistola ricadde lungo il fianco, mentre Daniel barcollava all'indietro, trascinando Stephanie con sé. Lei urlò nel vedere il corpo cadere pesantemente, a faccia avanti, con le braccia aperte. Ci fu qualche spasmo muscolare poi tutto rimase immobile. Da una larga ferita dietro la testa, da dove era uscita la pallottola, colava del sangue misto a materia cerebrale. 22 Lunedì 11 marzo 2002 - ore 21.48 Daniel e Stephanie rimasero qualche attimo senza muoversi, lo sguardo fisso sul cadavere disteso scompostamente ai loro piedi. Poi girarono la testa e si guardarono. In preda allo sgomento, non osavano nemmeno respirare e ognuno sperava invano che l'altro fosse in grado di spiegare la scena a cui avevano appena assistito. Entrambi avevano la bocca aperta e il volto che rifletteva un misto di paura, orrore e confusione, ma fu la paura ad avere rapidamente il sopravvento. Senza dire una parola e non sapendo bene chi guidava chi, fuggirono scavalcando il basso muretto alla loro sinistra e corsero a capofitto nella direzione da cui erano arrivati, verso l'albergo. Dapprima la loro fuga fu relativamente disciplinata, grazie ai fasci di luce dei fari che illuminavano il chiosco dal basso. Ben presto però, adden-
trandosi nella zona buia, trovarono qualche difficoltà. Con gli occhi che ormai si erano abituati alla luce, erano come due ciechi che correvano su un terreno diseguale, pieno di ostacoli. Daniel fu il primo a inciampare in un basso arbusto e a cadere. Stephanie lo aiutò, ma poi cadde anche lei. Tutti e due si fecero qualche abrasione, ma nemmeno se ne accorsero. Facendo ricorso a tutta la forza di volontà di cui disponevano, si costrinsero a camminare quasi lentamente, per evitare ulteriori cadute, anche se la mente terrorizzata gridava loro di correre. Entro pochi minuti raggiunsero i gradini che portavano alla strada. A quel punto si stavano riabituando all'oscurità e cominciavano a distinguere alcuni dettagli al chiarore della luna, così da poter affrettare il passo. «Da che parte?» chiese Stephanie con un sussurro ansante, quando raggiunsero l'asfalto della strada. «Rifacciamo il percorso che conosciamo», suggerì Daniel, anche lui a bassa voce. Mano nella mano, attraversarono di corsa la strada e scesero la prima rampa di scalini alla velocità permessa dalle scarpe che portavano, comode ma non adatte per correre su terreni accidentati. L'irregolarità dei bordi di pietra aumentava la difficoltà, anche se negli spazi erbosi andavano a tutta birra. Più si allontanavano dal chiostro più era buio, ma gli occhi si erano adattati progressivamente e la luce lunare era più che sufficiente per aiutarli a evitare di sbattere contro qualche statua. Dopo la terza rampa la stanchezza fece diminuire la velocità. Era Daniel ad avere di più il fiatone. Quando finalmente arrivarono alla zona illuminata attorno alla piscina e si sentirono relativamente al sicuro, dovette fermarsi. Si piegò in avanti, con le mani sulle ginocchia, e ansimò. Per qualche attimo non riuscì nemmeno a parlare. Con il petto che si alzava e si abbassava a un ritmo frenetico, Stephanie si voltò riluttante a guardare la distesa buia dalla quale erano arrivati. Dopo lo choc di ciò che era accaduto, nella sua immaginazione scorgeva ogni sorta di demoni che li inseguivano, ma la vista del giardino illuminato dalla luna era idilliaca e pacifica come lo era stata poco prima. Un po' sollevata, riportò l'attenzione su Daniel. «Stai bene?» riuscì a chiedergli, tra un respiro affannoso e l'altro. Lui annuì, ancora incapace di parlare. «Entriamo in albergo.» Daniel annuì ancora, si raddrizzò e, dopo aver dato anche lui una breve occhiata indietro, prese la mano tesa di Stephanie.
A questo punto proseguirono camminando, anche se a passo sostenuto. Girarono attorno alla piscina e salirono le scale di pietra calcarea che conducevano alla balaustra barocca. «Era lo stesso uomo che ti aveva aggredito nel negozio di abbigliamento?» chiese Stephanie, ancora con il fiatone. «Sì!» rispose Daniel, ritrovando la voce. Oltrepassarono la zona delle villette individuali ed entrarono nella deserta reception delle terme, ancora illuminata da quell'unica candela, che funzionava anche come passaggio per rientrare in albergo provenendo dalla piscina. Dopo la scioccante uccisione a cui avevano assistito tra le rovine del chiostro e il terrore che avevano provato, l'atmosfera serena, orientale, delle terme sembrava appartenere a un altro mondo, in un modo quasi schizofrenico. Ora che arrivarono al ristorante nel cortile, con gli avventori ben vestiti, la musica dal vivo e i camerieri in smoking, si sentirono ancora più frastornati. Senza parlare con nessuno, entrarono direttamente nel complesso principale dell'albergo. Sotto gli alti archi della reception, dove i ventilatori giravano pigri, Stephanie trattenne Daniel, facendolo fermare. Alla loro destra c'era il soggiorno, con gli ospiti che chiacchieravano tranquilli, inframmezzando di tanto in tanto le conversazioni con qualche risata. Alla sinistra si apriva l'ingresso principale dell'albergo, raggiungibile dal vialetto dove si arrivava in macchina, e vi stazionavano portieri in livrea. Davanti a loro si allungavano i vari banchi della reception, di cui solo uno era occupato. «A chi dovremmo parlare?» chiese Stephanie. «Non lo so. Lasciami pensare!» «Che ne dici del direttore?» Prima che Daniel potesse rispondere, si avvicinò uno dei portieri. «Scusi», disse a Stephanie. «Sta bene?» «Penso di sì», rispose lei. «Lo sa che le sanguina la gamba sinistra?» L'uomo puntò l'indice verso il basso. Stephanie abbassò lo sguardo e per la prima volta si accorse di quanto fosse malridotta. Cadendo si era sporcata il vestito e ne aveva strappato l'orlo. I collant stavano ancora peggio, in particolare sotto il ginocchio sinistro, dov'erano lacerati. Le smagliature arrivavano fino alla caviglia, assieme a un rivolo di sangue che scendeva dal ginocchio. Si rese conto che anche il palmo destro aveva un'abrasione, e vi erano rimasti appiccicati minuscoli frammenti di conchiglia.
A Daniel non era andata tanto meglio. Sotto il ginocchio destro i pantaloni erano strappati e macchiati di sangue e la giacca era cosparsa di frammenti di conchiglia e aveva quasi perduto la tasca destra. «Non è niente», assicurò Stephanie al portiere. «Non mi ero nemmeno accorta di essermi fatta male. Abbiamo inciampato vicino alla piscina.» «Abbiamo un carrello da golf qua fuori», propose lui. «Posso darvi un passaggio fino alla vostra stanza?» «Penso che non occorra», rispose Daniel, «ma grazie per la sua premura.» Prese Stephanie per un braccio e la spinse avanti, verso la porta che si apriva in direzione del loro edificio. Lei si lasciò condurre, ma poco prima di arrivare alla porta liberò il braccio. «Aspetta un momento! Non parliamo con nessuno?» «Abbassa la voce! Suvvia! Andiamo nella nostra stanza e ripuliamoci. Lì potremo parlare con calma.» Confusa per il comportamento di Daniel, Stephanie si lasciò guidare fuori, sul vialetto, ma dopo pochi passi si fermò, liberò nuovamente il braccio e scosse la testa. «Non capisco. Abbiamo visto un uomo ricevere un colpo d'arma da fuoco, ed è gravemente ferito. Bisognerebbe chiamare un'ambulanza e la polizia.» «Tieni la voce bassa!» la esortò lui. Si guardò attorno: grazie al cielo, non c'era nessuno che avrebbe potuto udirli. «Quel delinquente è morto. Hai visto il buco nella testa, no? Non si guarisce da quel tipo di ferite.» «Un motivo di più per chiamare la polizia. Abbiamo assistito a un omicidio, Cristo! Proprio sotto i nostri occhi.» «Vero, ma di certo non abbiamo visto chi è stato, né ne abbiamo la minima idea. C'è stato uno sparo, e il tizio è caduto. Non abbiamo visto niente, tranne la vittima che cadeva: nessuna persona e nessun veicolo! Siamo testimoni solo del fatto che hanno sparato a quell'uomo, cosa che certamente sarà chiara alla polizia anche senza il nostro aiuto.» «Ma comunque siamo testimoni di un omicidio.» «Però non potremmo aggiungere niente, a parte averlo visto cadere. Pensaci!» «Ehi, un momento!» Stephanie cercava di organizzare i suoi pensieri caotici. «Quello che dici può essere vero, ma, da quanto ne so, è un reato non riferire di aver assistito a un crimine, e quello è stato un crimine.» «Non lo so se stare zitti è un reato qui alle Bahamas. Ma, anche se lo fosse, dovremmo correre il rischio di commetterlo perché in questo momento non voglio essere coinvolto con la polizia. Per di più, non ho certo
simpatia per la vittima, e sospetto che questo valga anche per te. Non solo era quello che mi ha picchiato, ma stava minacciando di uccidermi, Cristo santo, e magari anche te. Temo che, se andiamo alla polizia e ci facciamo coinvolgere in un'indagine per omicidio, che comunque non potremmo aiutare in alcun modo, rischiamo di mettere a repentaglio il progetto Butler, e siamo così vicini alla conclusione. La cosa essenziale è che rischieremmo tutto per niente. Semplice.» Stephanie annuì varie volte e si passò nervosamente la mano fra i capelli. «Suppongo di capire il tuo punto di vista», disse riluttante. «Ma lascia che ti chieda questo: quando ti hanno picchiato hai pensato che fosse coinvolto mio fratello. Pensi che lo sia anche questa volta?» «In quel caso lo era sicuramente. Ma stavolta ho i miei dubbi, infatti quel criminale non ti ha lasciata fuori, a differenza di allora. Ma chi lo sa di sicuro?» Stephanie fissò lo sguardo nel vuoto. Pensieri ed emozioni erano tremendamente aggrovigliati. Ancora una volta, un forte senso di colpa la faceva sentire in conflitto rispetto al da farsi. In definitiva, si sentiva responsabile per aver tirato dentro suo fratello, che aveva coinvolto i Castigliano, i quali avevano sicuramente provato di essere dei mafiosi. «Dai!» la spronò nuovamente Daniel. «Andiamo in camera e ripuliamoci. Possiamo parlarne di più, se vuoi, ma ti avverto che io ho già deciso.» Stephanie si lasciò guidare lungo il vialetto che portava alla loro suite. Si sentiva inebetita. Anche se non era di certo una santa, non aveva mai infranto consapevolmente la legge. Era una strana sensazione pensare di essere una specie di canaglia perché non denunciava un crimine. Egualmente strano era il pensiero che suo fratello fosse coinvolto con gente capace di uccidere, anche perché metteva in una luce tutta nuova il fatto che fosse indiziato per estorsione. Oltre a questi motivi di agitazione, c'erano i residui effetti psicologici di aver assistito a un atto di violenza. Tremava e aveva lo stomaco in subbuglio. Non aveva mai visto un morto, tanto meno uno ucciso davanti a suoi occhi, in modo così spettacolare. Scacciò un'ondata di nausea provocata dall'immagine orrenda che ormai era scolpita per sempre nella sua memoria. Desiderava essere ovunque, tranne dove si trovava. Dal momento in cui Daniel aveva proposto di curare segretamente Butler, aveva pensato che fosse una cattiva idea, però mai, nemmeno nell'immaginazione più sfrenata, avrebbe pensato che potesse rivelarsi cattiva fino a quel punto. Eppure si sentiva invischiata, come se quella storia fosse una palude di sabbie mobili dove affondava sempre di
più, incapace di tirarsene fuori. Daniel si sentiva sempre più fiducioso riguardo alla decisione presa. Dapprima non ne era stato tanto sicuro, ma poi si era ricordato della profezia di disastro fattagli dal professor Heinrich Wortheim. Aveva giurato a se stesso che non avrebbe fallito e, per evitare il fallimento, Butler doveva essere curato, quindi un eventuale coinvolgimento con la polizia era da escludere. Dato che lui e Stephanie sarebbero stati gli unici collegamenti con l'omicidio, se non addirittura i sospettati, anche un'indagine superficiale avrebbe portato a verificare ciò che stavano facendo a Nassau. A quel punto, bisognava avvertire Butler della situazione, dato che dopo il suo arrivo l'indagine avrebbe appurato il suo coinvolgimento e questo avrebbe scatenato una tempesta di fuoco mediatica. Con la minaccia di uno scenario simile, Daniel dubitava che Butler sarebbe venuto sull'isola. Quando arrivarono alla suite, trovarono l'immagine della tranquillità. Le tende erano tirate, la musica classica usciva sommessa dalla radio e i letti erano stati preparati per la notte, con qualche caramella sui cuscini. Daniel richiuse la porta e la sprangò usando tutte e tre le serrature. Stephanie sollevò il vestito per guardarsi il ginocchio. Per fortuna la ferita non era grande quanto faceva pensare la quantità di sangue, che ora le scorreva fin dentro la scarpa. Daniel calò i pantaloni per controllare la propria ferita. Era simile a quella di Stephanie: un'abrasione larga quanto una palla da golf. In entrambe si erano incastrati frammenti di conchiglia che andavano tolti, per evitare un'infezione. «Mi sento tremendamente agitato», confessò Daniel. Lasciò a terra i pantaloni e li scavalcò, poi tese una mano davanti a sé: tremava. «Dev'essere la scarica di adrenalina. Apriamo una bottiglia di vino mentre riempiamo la vasca. Nell'acqua le abrasioni si ammorbidiranno e la combinazione del vino e di un bel bagno ci calmerà tutti e due.» «D'accordo!» approvò Stephanie. Un bagno poteva aiutarla a pensare con maggiore chiarezza. «Io penso alla vasca, tu prendi il vino!» Aprì completamente il rubinetto dell'acqua calda, dopo aver versato dei sali. La stanza si riempì rapidamente di vapore. Entro pochi minuti, il profumo dei sali e il suono gradevole dell'acqua ebbero su di lei un effetto calmante. Quando uscì dalla sala da bagno con addosso un accappatoio per avvertire Daniel che la vasca era pronta, si sentiva già meglio. Lo trovò seduto sul divano, con le pagine gialle aperte sulle ginocchia. Sul tavolinetto c'erano due bicchieri di vino rosso. Lei ne prese uno e sorbì un sorso. «Mi è venuta un'altra idea», annunciò Daniel. «È evidente che questi
Castigliano non sono rimasti impressionati come speravo dalle conversazioni rassicuranti che hai avuto con tua madre.» «Non possiamo essere sicuri che mio fratello abbia detto ai Castigliano ciò che noi volevamo.» «Comunque sia», tagliò corto Daniel, con un gesto della mano. «Il punto è che hanno mandato qui il loro sicario per far fuori me e forse anche te. È gente truce, a dir poco. Non sappiamo quanto ci metteranno a scoprire che lo scagnozzo non tornerà a casa. E non possiamo immaginare che reazione avranno quando lo scopriranno. Per quanto ne sappiamo, penseranno che lo abbiamo ammazzato noi.» «Che cosa proponi?» «Useremo il denaro di Butler per ingaggiare un servizio di guardie del corpo ventiquattr'ore su ventiquattro. Per quanto mi riguarda, è una spesa legittima, ed è solo per una settimana e mezzo, due al massimo.» Stephanie sospirò rassegnata. «Sono nella guida del telefono?» «Sì, ce ne sono diverse. Che ne dici?» «Non so che cosa pensare.» «Io credo che ci serva una protezione professionale.» «Va bene, se lo dici tu. Ma potrebbe essere ancora più importante che cominciamo a essere più prudenti di quanto lo siamo stati finora. Basta con le passeggiate al buio. Voglio dire, che cosa avevamo in mente?» «Sì, con il senno di poi è stata una cosa stupida, considerando il pestaggio e l'avvertimento che avevo ricevuto.» «Che ne dici del bagno? Vuoi entrare per primo? È pronto.» «No, va' prima tu. Farò qualche telefonata a queste agenzie. Prima avremo qualcuno, meglio mi sentirò.» Dieci minuti dopo, Daniel entrò nella stanza da bagno e si sedette sul bordo della vasca. Stava ancora sorseggiando il vino. Stephanie era immersa fino al collo nell'acqua ricoperta di schiuma e il suo bicchiere era vuoto. «Ti senti meglio?» le chiese lui. «Molto meglio. Com'è andata con le telefonate?» «Bene. Tra mezz'ora arriverà qualcuno per un colloquio. È una ditta che si chiama First Security. Me l'ha raccomandata l'albergo.» «Ho cercato di pensare a chi può aver sparato a quel tizio. Non ne abbiamo parlato, ma ci ha salvato la vita.» Stephanie si alzò, si avvolse in un asciugamano e uscì dalla vasca. «Doveva essere qualcuno con una mira eccellente. E come mai si trovava lì proprio quando noi ne avevamo biso-
gno? È stato come con padre Maloney all'aeroporto di Torino, ma la situazione era dieci volte più critica.» «Hai qualche idea?» «Solo una, ma è improbabile.» «Ascolto.» Daniel saggiò l'acqua e ne aggiunse di calda. «Butler. Forse ha chiesto all'FBI di tenerci d'occhio per proteggerci.» Daniel rise, entrando nella vasca. «Sarebbe ironico.» «Hai qualche idea migliore?» «No. A meno che non abbia a che fare con tuo fratello. Forse ha mandato qui qualcuno per vegliare su di te.» Questa volta fu Stephanie a ridere, suo malgrado. «Questa è ancora più improbabile della mia idea!» Essendo il responsabile della sicurezza per il turno di notte, Bruno Debianco era abituato a ricevere telefonate dal suo superiore, Kurt Hermann. Kurt non aveva una vita propria, oltre a essere il capo della sicurezza alla Wingate e, dato che viveva pure lì, seccava sempre Bruno con ogni tipo di richieste e di ordini. Alcuni erano veramente ridicoli, ma quella notte aveva superato se stesso. Poco dopo le dieci lo aveva chiamato al cellulare per dirgli di prendere uno dei furgoni neri della Wingate e arrivare a Paradise Island, precisamente al chiostro di Huntington Hartford. Avrebbe dovuto fermarsi solo se per la strada non passava nessuno; in quel caso doveva spegnere i fari prima di rallentare. Una volta fermo, doveva arrivare a piedi fino al chiostro ma evitare di entrare nella zona illuminata. A quel punto, gli si sarebbe avvicinato Kurt. Bruno aspettò che il semaforo diventasse verde prima di accelerare salendo sul ponte che portava a Paradise Island. Non gli avevano mai ordinato di lasciare la clinica per una missione misteriosa e la cosa che la rendeva ancora più strana era la richiesta di portare un sacco di plastica per cadaveri. Cercò di pensare che cosa poteva essere accaduto, ma non gli venne in mente niente, oltre al guaio combinato da Kurt a Okinawa. Bruno aveva servito con Kurt nelle Forze Speciali dell'esercito e sapeva che lui aveva una reazione di amore-odio verso le puttane. Era stata un'ossessione che all'improvviso era scoppiata in una vendetta personale mentre era di stanza sull'isola giapponese. Bruno non l'aveva mai capita veramente e ora sperava che quel problema non si fosse presentato un'altra volta. Lui e Kurt avevano buoni rapporti con Spencer Wingate e Paul Saunders, e non voleva che si rovinassero. Se Kurt avesse ricominciato con la sua vecchia crociata,
sarebbe stato un problema. La strada principale che correva da est a ovest lungo Paradise Island aveva un traffico moderato che diminuì moltissimo superato il centro commerciale. Dopo i primi alberghi diminuì ulteriormente e più avanti, oltre la svolta per l'Ocean Club, la strada era deserta. Seguendo gli ordini, Bruno spense i fari e si avvicinò al chiostro. Con il chiarore lunare e la striscia bianca in mezzo alla carreggiata, non ebbe problemi a guidare al buio. Superato l'ultimo gruppo di alberi sulla destra, vide il chiostro illuminato. Fermò il furgone dall'altro lato della strada, in una stretta piazzola, spense il motore e balzò a terra. Alla sua sinistra vedeva, alla base della collina, la piscina illuminata dell'Ocean Club. Andò ad aprire il portellone posteriore, prese il sacco di plastica ripiegato e se lo mise sotto il braccio, poi salì i gradini che portavano al chiostro. Si fermò prima di entrare nella zona illuminata. Il chiostro era deserto. Volse lo sguardo tutt'attorno, cercando di scrutare tra gli alberi immersi nell'oscurità. Stava per chiamare Kurt, quando lo vide sbucare dalle tenebre, alla propria destra. Come lui, era vestito completamente di nero ed era quasi invisibile. Ordinandogli: «Muoviti!» gli fece cenno di seguirlo. Finché furono alla luce della luna, era facile per Bruno camminare, ma fra gli alberi fu tutta un'altra faccenda. Dopo qualche passo si fermò «Non vedo un accidente», si lamentò. «Non ce n'è bisogno», replicò Kurt. «Ci siamo. Hai portato il sacco?» «Sì.» «Aprì la cerniera e aiutami a riempirlo!» Bruno obbedì. A poco a poco gli occhi si abituarono al buio e riuscì a distinguere la sagoma del suo capo. Scorse anche il vago contorno del corpo a terra. Tese l'estremità del sacco verso Kurt, che lo prese e lo portò verso i piedi del cadavere. Insieme lo tesero e lo sistemarono a terra, aprendolo completamente. «Al tre», ordinò Kurt. «Ma sta' attento alla testa. È un po' pasticciata.» Bruno mise le mani sotto le ascelle del cadavere e al momento giusto lui ne sollevò il torso, Kurt le gambe. «Accidenti!» grugnì, mentre finivano di sistemarlo nel sacco. «Chi è questo qua, un ex guardalinee dei Chicago Bears?» Kurt non rispose e chiuse la cerniera. «Non mi dire che dobbiamo portare questo tizio da due tonnellate fino al furgone!» esclamò Bruno. Era un'idea sconfortante. «Non lo lasceremo certo qua. Va' giù e apri il portellone posteriore.
Quando arriveremo sulla strada, non voglio che ci siano ritardi nel caricarlo.» Qualche minuto dopo infilarono la parte anteriore del corpo nel furgone. Per far entrare anche il resto, Bruno dovette salire dentro e tirare, mentre Kurt spingeva. Quando ebbero terminato erano entrambi sfiniti. «Fin qua tutto bene», commentò Kurt, chiudendo il portellone. «Andiamocene prima che la fortuna ci volti le spalle e arrivi qualcuno.» Bruno salì al posto di guida e accese il motore. «Dove andiamo?» chiese, quando Kurt gli si sedette accanto dopo aver deposto il proprio zaino nero sul sedile posteriore. «Al parcheggio dell'Ocean Club. Il tizio aveva in tasca le chiavi di un'auto a noleggio. Voglio trovarla.» Bruno fece un'inversione a U prima di accendere i fari. Moriva dalla voglia di chiedere chi diavolo fosse il morto, ma sapeva che era meglio non farlo. Kurt aveva l'abitudine di dirgli soltanto ciò che pensava dovesse sapere e si incazzava ogni volta che lui gli faceva domande. Da quando lo conosceva, era sempre stato uno di poche parole. Uno teso e con i nervi a fior di pelle, come se fosse costantemente arrabbiato per qualcosa. Ci vollero solo pochi minuti per arrivare al parcheggio e altrettanto per trovare l'auto. Era l'unica jeep presente ed era parcheggiata vicino all'uscita, senza niente che la bloccasse. Kurt scese dal furgone per verificare che le chiavi andassero bene, quindi aprì la portiera. I documenti dell'auto erano nel cruscotto e sul sedile c'era una borsa con il cartellino del bagaglio a mano. «Voglio che tu mi segua all'aeroporto», ordinò, avvicinandosi al finestrino di Bruno. «Non occorre dirti di guidare con prudenza. Non ti andrebbe che ti fermassero e scoprissero il cadavere.» «Sarebbe imbarazzante», concordò Bruno. «Soprattutto dato che non so un accidente.» Gli parve di cogliere un'occhiataccia da parte di Kurt, prima che tornasse verso la Cherokee. Scrollò le spalle e mise in moto il furgone. Mentre guidava la jeep verso l'uscita del parcheggio, Kurt pensò che detestava le sorprese, e quella giornata ne era stata piena. Grazie al suo addestramento nelle Forze Speciali, si vantava di pianificare tutto scrupolosamente, come era necessario per le missioni militari. Di conseguenza, aveva tenuto d'occhio i due dottori per più di una settimana e aveva creduto di capire il loro modo di pensare e di agire. Poi la donna era penetrata nella sala organi: questo non se lo era aspettato e lo aveva colto impreparato.
Ancor peggio, c'era stato l'episodio di quella notte. Appena uscirono dalla città, Kurt prese il cellulare e premette il numero memorizzato di Paul Saunders. Anche se il titolare della clinica era Spencer Wingate. lui preferiva avere a che fare con Paul. Era stato lui ad assumerlo, quando erano ancora nel Massachusetts. Inoltre, Paul era sempre in clinica, come lui, diversamente da Spencer che se ne andava in giro in cerca di donnine facili. Come al solito, Paul rispose dopo pochi squilli. «Sono al cellulare», avvertì Kurt, prima di dire qualsiasi altra cosa. «Oh? Non mi dica che c'è un altro problema.» «Temo di sì.» «È in relazione ai nostri ospiti?» «Decisamente.» «Ha a che fare con ciò che è accaduto oggi?» «È peggio.» «La cosa non mi piace. Mi può dare un'idea?» «Penso che è meglio se ci vediamo.» «Dove e quando?» «Fra tre quarti d'ora nel mio ufficio. Diciamo alle ventitré zero zero.» Per forza dell'abitudine, Kurt usava la terminologia militare. «Dovremmo coinvolgere Spencer?» «Sta a lei decidere.» «Allora ci vediamo.» Kurt rimise il telefonino nella custodia infilata alla cintura. Guardò nello specchietto retrovisore. Bruno lo seguiva a opportuna distanza. Le cose sembravano tornate sotto controllo. L'aeroporto era quasi deserto, tranne per gli addetti alle pulizie. Le agenzie di autonoleggio erano tutte chiuse, ma Kurt parcheggiò la Cherokee in uno dei posti riservati alle auto a nolo, la chiuse e portò le chiavi e i documenti alle cassette di deposito. Un attimo dopo saliva sul furgone di Bruno, che aveva tenuto il motore acceso. «E adesso?» chiese Bruno. «Mi riporti all'Ocean Club, dove riprenderò il mio furgone. Poi andremo tutti e due fino al porticciolo di Lyford Cay. Farai una crociera al chiaro di luna con lo yacht della ditta.» «Ah! Comincio a farmi un'idea. Immagino che ben presto ci sarà sul mercato un nuovo tipo di ancora. Giusto?» «Guida.»
Tenendo fede alla sua parola, Kurt aprì la porta del proprio ufficio quasi nel secondo in cui scoccavano le undici. Spencer e Paul erano già lì, abituati alla sua puntualità. Kurt poggiò lo zaino sulla scrivania. Si udì un tonfo contro la superficie metallica. I due dirigenti della Wingate erano seduti sulle due sedie davanti alla scrivania e avevano seguito Kurt con lo sguardo da quando era entrato nella stanza. Aspettavano che dicesse qualcosa, ma lui si concesse del tempo. Si tolse il giubbotto di seta nera e lo appese sulla spalliera della poltroncina, poi estrasse la pistola dalla fondina e pose anche quella sulla scrivania. Con evidente esasperazione, Spencer sbuffò e roteò gli occhi. «Signor Hermann, sono costretto a ricordarle che è lei a lavorare per noi e non viceversa. Che cosa diavolo sta succedendo? E sarà meglio che sia una cosa davvero importante, per averci trascinati qui nel pieno della notte. Si dà il caso che fossi piacevolmente occupato.» Kurt si tolse i guanti aderentissimi e li pose vicino all'automatica. Soltanto allora si sedette. Allungò una mano e sollevò il monitor del computer, che spinse da parte per vedere bene i suoi visitatori. «Stanotte, nello svolgimento del mio servizio, sono stato costretto a uccidere una persona.» Spencer e Paul aprirono lentamente la bocca e fissarono costernati il loro capo della sicurezza che li guardava con calma. Per un attimo, nessuno si mosse o parlò. Fu Paul il primo a ritrovare la voce. Parlò con esitazione, come se temesse di udire la risposta. «Potrebbe dirci chi ha ucciso?» Kurt aprì lo zaino e ne estrasse un portafogli che spinse verso i suoi capi. «Si chiama Gaetano Barrese.» Paul allungò la mano per prendere il portafogli, ma prima che lui lo aprisse, Spencer diede una grande manata sul ripiano di metallo, che risonò come fosse un timpano. Paul sobbalzò e lasciò andare il portafogli. Kurt non si mosse, ma tutti i suoi muscoli si tesero. Poi Spencer balzò in piedi e cominciò ad andare avanti e indietro con le mani serrate sopra la testa. «Non ci posso credere!» gemette. «Prima che lo sappiamo, si ripeterà quello che è accaduto in Massachusetts, solo che a bussare alla nostra porta saranno le autorità delle Bahamas invece dei federali USA.» «Non penso», replicò semplicemente Kurt. «Ah no?» gli chiese Spencer in tono sarcastico, interrompendo il suo andirivieni. «Come fa a esserne tanto sicuro?»
«Non c'è il cadavere.» «Come può essere?» chiese Paul, piegandosi per riprendere il portafogli. «In questo momento, Bruno sta gettando il morto e i suoi effetti personali in alto mare. Ho riportato la macchina a nolo dell'uomo all'aeroporto, come se avesse lasciato l'isola. Sparirà e basta. Punto! Fine della storia.» «Questo mi suona incoraggiante», commentò Paul. Intanto estrasse dal portafogli la patente, che esaminò. «Incoraggiante un corno!» gridò Spencer. «Mi avevi promesso che questo...» Indicò Kurt mentre cercava la parola giusta per descriverlo. «... questo Berretto Verde di mezza tacca non avrebbe ucciso nessuno, ed eccoci qua, abbiamo appena aperto bottega e già ha fatto secco qualcuno. È un potenziale disastro. Non possiamo permetterci di trasferire di nuovo la clinica!» «Spencer, siediti!» L'esclamazione decisa di Paul risonò come un ordine. «Mi metterò a sedere quando avrò voglia di farlo! Sono io il capo di questa fottuta clinica!» «Come vuoi, ma sentiamo i dettagli, prima di perdere le staffe e immaginare situazioni catastrofiche.» Paul guardò Kurt. «Ci deve una spiegazione. Come mai ha dovuto uccidere questo Gaetano Barrese di Somerville, Massachusetts?» Rimise sulla scrivania il portafogli e la patente. «Vi ho detto che ho messo la cimice al cellulare della dottoressa D'Agostino. Per controllarla dovevo stare nelle vicinanze. Dopo cena hanno fatto una passeggiata nel giardino dell'albergo. Li ho seguiti da lontano e mi sono accorto che li seguiva anche Gaetano Barrese, ma più da vicino. Quindi mi sono avvicinato anch'io. Ben presto è stato chiaro che questo Barrese era un killer professionista e stava per fare secchi i dottori. Ho dovuto prendere una decisione immediata. Ho pensato che volete i dottori vivi.» Paul si voltò verso Spencer con le sopracciglia sollevate, come a chiedergli che reazione gli provocava quella spiegazione. Spencer prese in mano la patente e fissò la foto per un attimo, prima di rimetterla sulla scrivania. Spostò la sedia un po' indietro e si sedette leggermente scostato dagli altri. «Come fa a essere così sicuro che questo Barrese era un killer professionista?» domandò. La sua voce aveva perso buona parte del furore dimostrato poco prima. Kurt aprì di nuovo lo zaino e ne estrasse l'automatica di Gaetano. Spinse anche quella verso i suoi due capi. «Questa non è una pistola di piccolo calibro, e ha il mirino al laser e il silenziatore.»
Paul la prese in mano con precauzione, la guardò e la porse a Spencer, che però fece un gesto per dire che non voleva toccarla, allora la rimise sulla scrivania. «Con i contatti che ho in patria, potrei saperne di più su quest'uomo», disse Kurt. «Ma fino ad allora per me non c'è dubbio che questo qui era un professionista. E con un'arma come questa, che deve aver avuto fin da quando è arrivato, alle otto di stasera, è collegato.» «Parli come si deve!» ordinò Spencer. «Sto parlando del crimine organizzato», spiegò Kurt. «Era senza dubbio collegato al crimine organizzato, probabilmente legato alla droga.» «E pensa che i nostri ospiti siano nel traffico della droga?» Spencer aveva un tono incredulo. «No», rispose semplicemente Kurt. Fissò i suoi capi, sfidandoli a mettere insieme le cose come aveva fatto lui mentre aspettava che Bruno arrivasse al chiostro. «Aspetti un minuto!» esclamò Spencer. «Come mai un boss della droga manderebbe un killer professionista qui alle Bahamas a far fuori una coppia di ricercatori, se quei ricercatori non sono implicati nella droga?» Kurt rimase in silenzio e fissò Paul. All'improvviso, Paul annuì diverse volte. «Penso di cogliere il pensiero di Kurt. Sta suggerendo che il paziente misterioso non è collegato con la chiesa cattolica?» «Io penso che sia un signore della droga. O per lo meno una specie di boss mafioso. In un modo o nell'altro, i suoi rivali non vogliono che guarisca.» «Per la miseria!» esclamò Paul. «Ha senso. Di certo spiegherebbe la segretezza.» «A me sembra improbabile», obiettò Spencer. «Perché un paio di ricercatori di prima classe dovrebbero essere disponibili a curare un boss della mafia?» «Il crimine organizzato ha tanti modi per mettere la gente sotto pressione», spiegò Paul. «Chi lo sa? Magari qualche cartello della droga ha riciclato i soldi investendo nella società di Lowell. Penso che Kurt abbia intuito qualcosa di giusto. Voglio dire, un boss della droga malato del Sudamerica o del Nordest sarebbe probabilmente cattolico, il che spiega la faccenda della Sindone.» «Be', ti dirò una cosa: tutto questo voler scoprire l'identità del paziente non mi piace per niente, e non solo per l'episodio di stanotte. Non c'è modo
di fare pressione su qualcuno del crimine organizzato. Ci daremmo la zappa sui piedi.» «E il nostro coinvolgimento nella cura? Dobbiamo riconsiderare la nostra disponibilità all'uso della clinica?» «Voglio il secondo pagamento. Ne abbiamo bisogno. Dobbiamo solo rimanere passivi, in modo da non far arrabbiare nessuno.» Paul si rivolse a Kurt. «Il dottor Lowell si è accorto di essere in pericolo?» «Decisamente. Barrese gli si è parato davanti e gli ha puntato la pistola alla testa. L'ho tolto di mezzo all'ultimo momento.» «Perché glielo hai chiesto?» volle sapere Spencer. «Spero che Lowell si preoccuperà della propria sicurezza. Chiunque ha mandato questo Gaetano potrebbe mandare qualcun altro, quando scoprirà che non torna più.» «Nessuno lo scoprirà per un bel pezzo», assicurò Kurt. «Mi sono dato da fare perché scomparisse, proprio per questo motivo. E, per quanto riguarda il dottor Lowell, vi posso assicurare che era spaventato a morte. Tutti e due lo erano.» 23 Sabato 23 marzo 2002 - ore 14.50 Il gruppetto di persone uscì dall'ascensore dell'Imperial Club dell'Atlantis, nell'ala ovest al secondo piano delle Royal Towers, e si avviò lungo il corridoio ricoperto di moquette. Lo guidava Grant Halpern, il direttore dell'albergo, seguito da Connie Corey, caporeception del turno di giorno, e da Harold Beardslee, direttore dell'Imperial Club. Ashley Butler e Carol Manning stavano qualche passo indietro, rallentati dall'andatura strascicata del senatore, molto più pronunciata ora che un mese prima. In fondo al gruppo c'erano due fattorini: uno spingeva un carrello dell'albergo carico di valigie che avevano passato il check-in all'aeroporto, l'altro trasportava il loro bagaglio a mano e i portabiti. Era come un safari in miniatura. «Ebbene, mia cara Carol, qual è la tua prima impressione di questo modesto albergo?» chiese Ashley con il suo solito accento del Sud, ma con un tono uniforme di recente acquisizione. «Modesto è l'ultimo aggettivo al mondo che potrebbe venirmi in mente», rispose lei. Sapeva che Ashley stava recitando a beneficio del personale
presente. «Allora, quale aggettivo riterresti più adatto?» «Eccentrico ma impressionante. Non ero pronta a una grandeur talmente teatrale. Il foyer, giù al piano terreno, è davvero creativo, in particolare per le colonne decorate in rilievo e la cupola dorata con le impronte delle conchiglie. Sarebbe difficile indovinare quanto è alta.» «Supera i venti metri», rispose il signor Halpern, voltando la testa senza fermarsi. «Grazie, signor Halpern», quasi gridò Ashley. «Lei è tanto gentile e ammirevolmente bene informato.» «Al suo servizio, senatore», rispose quello, continuando a camminare. «Mi fa piacere che la sistemazione ti abbia colpito.» Nel rivolgersi a Carol, Ashley abbassò la voce e chinò la testa verso di lei. «Sono certo che ti piacerà egualmente il clima, soprattutto se lo confronti con quello di Washington. Spero che tu sia contenta di essere qui. Per la verità, mi spiace che non mi abbia accompagnato qua l'anno scorso, quando ho fatto il mio sopralluogo mentre organizzavo tutta questa faccenda.» Carol scoccò un'occhiata sorpresa al suo capo: non aveva mai espresso alcun tipo di rammarico per lei in alcuna occasione, tanto meno per un viaggio ai tropici. Ecco un altro piccolo ma curioso esempio della imprevedibilità dimostrata nell'ultimo anno. «Non deve sentirsi in colpa, signore», rispose lei. «Sono deliziata di essere qui a Nassau. E lei? È contento di essere qui?» «Assolutamente.» Era sparita ogni traccia di accento. «Non ha un po' paura?» «Io, aver paura?» Ashley riprese a parlare ad alta voce, tornando improvvisamente al suo atteggiamento istrionico. «Mio padre mi ha detto che il modo giusto di affrontare le avversità è di svolgere il lavoro necessario per prepararsi e fare tutto ciò che si ha il potere di fare, e poi mettersi nelle mani del Signore. Ed è ciò che ho fatto io, semplicemente. Sono qua per divertirmi!» Carol annuì ma non disse nulla. Le spiaceva di aver posto quella domanda. Se c'era qualcuno che si sentiva in colpa era lei, dato che provava speranze contraddittorie rispetto ai risultati di quel viaggio alle Bahamas. Per il bene di Ashley, cercava di convincere se stessa che desiderava una cura miracolosa, mentre per il proprio tornaconto sperava in qualcosa di meno mirabolante. Halpern e gli altri si fermarono davanti a una larga porta di mogano a
doppio battente, con intagli a bassorilievo raffiguranti delle sirene. Mentre lui si frugava in tasca alla ricerca della carta magnetica per aprire, arrivarono Ashley e Carol. «Un momento!» esclamò Ashley, tendendo una mano tremante come se stesse intervenendo a una seduta del Senato. «Questa non è la stanza che ho occupato nel mio ultimo soggiorno qui all'Atlantis. Avevo richiesto specificamente la stessa sistemazione.» L'espressione affabile di Halpern si incrinò. «Senatore, forse prima non mi ha sentito. Quando la signora Corey l'ha portata nel mio ufficio, le ho detto che le avremmo assegnato una stanza di livello superiore. Questa è una delle poche suite a tema. È la suite Poseidone.» Ashley guardò Carol. «Effettivamente aveva detto che ci avrebbe dato una stanza migliore», confermò lei. Per un momento, Ashley apparve confuso dietro i pesanti occhiali dalla montatura spessa. Era vestito come al solito, con un completo scuro, una comune camicia bianca e una cravatta tradizionale. L'attaccatura dei capelli era sottolineata da una linea di sudore. Il suo incarnato pastoso sembrava ancora più pallido, vicino al personale dell'albergo. «Questa suite è più larga, ha una vista migliore ed è molto più elegante di quella che ha occupato l'anno scorso», spiegò Halpern. «È una delle migliori che abbiamo. Vorrebbe vederla?» Ahsley si strinse nelle spalle. «Suppongo di essere solo un ragazzo di campagna, non abituato a tante sofisticherie. Va bene! Vediamo la suite Poseidone!» La signora Corey, che si era avvicinata alla porta, infilò una carta magnetica nel lettore e la aprì. Poi si mise da parte e Halpern rivolse un gesto di invito ad Ashley: «Dopo di lei, senatore». Da un piccolo ingresso si passava in una stanza ampia, sulle cui pareti affrescate prendeva vita un'antica città sottomarina, presumibilmente la mitica Atlantide. Il mobilio consisteva in una tavola da pranzo per otto, una scrivania, un armadietto basso e lungo, due basse poltrone dallo schienale che formava una linea unica con i braccioli e due divani di dimensioni notevoli posti uno di fronte all'altro. Tutte le parti in legno a vista erano intagliate a formare creature marine, compresi i braccioli dei divani, raffiguranti dei delfini. I disegni e i colori dei tessuti e dei tappeti riprendevano il tema marino. «Perbacco!» esclamò Ashley, nel rimirare la stanza.
La signora Corey si avvicinò all'armadietto per controllare il minibar, mentre Beardslee sprimacciò i cuscini dei divani. «La camera da letto principale è alla sua sinistra, senatore.» Halpern indicò con un gesto garbato una porta aperta. «E, signora Manning, come ha richiesto c'è una bella camera da letto per lei, a sinistra.» I fattorini cominciarono immediatamente a distribuire i bagagli tra le due camere. «E ora, il pezzo forte!» annunciò Halpern. Era girato attorno alla figura massiccia e curva di Ashley, avvicinandosi a una serie di interruttori. Azionò il primo e, con un ronzio elettrico, le tende che coprivano l'intera parete esterna della stanza cominciarono ad aprirsi, rivelando progressivamente un panorama stupefacente, con il mare color zaffiro e smeraldo oltre un ampio balcone piastrellato a mosaico e delimitato da una balaustra. «Oh!» esclamò Carol, portandosi una mano al petto. Dal trentaduesimo piano, era una vista che toglieva il respiro. Halpern premette un altro interruttore e la porta a vetro scorrevole si aprì, rientrando nella parete da una parte e dall'altra, in modo che la stanza e il balcone formarono un unico spazio. «Se avete la cortesia di uscire», li invitò con un gesto molto fiero, «vi potrò indicare alcune delle nostre molte attrazioni all'aperto.» Ashley e Carol seguirono il suo suggerimento. Ashley andò subito alla balaustra di pietra marrone-rossiccia, alta fino alla vita, vi appoggiò le mani e guardò giù. Avendo un po' di paura dell'altezza, Carol si avvicinò più lentamente, toccò con prudenza la sommità della balaustra, come se temesse di cadere, e guardò giù anche lei. La vista spaziava sull'ampia spiaggia dell'Atlantis e sul parco contiguo, dominati dalla Paradise Lagoon. Halpern le si avvicinò e cominciò a indicare i punti di riferimento, compresa la piscina dei Bagni Reali, quasi dirimpetto a loro. «Che cos'è quello sulla sinistra?» domandò Carol, puntando il dito. Le sembrava un monumento archeologico ricostruito. «È il nostro Tempio Maya. Se si sente coraggiosa, c'è uno scivolo da far rimanere senza fiato che attraverso un tubo di plexiglas porta dalla sommità, a sei piani di altezza, fino sott'acqua, nella Predator Lagoon, piena di squali.» «Carol, mia cara», intervenne Ashley, «mi sembra l'attività perfetta per una come te, che pensa seriamente di intraprendere la carriera politica a Washington.» Carol lo guardò, temendo che quel commento fosse qualcosa di più di
una battuta di spirito, ma lui stava fissando il panorama con espressione assente, come se già pensasse ad altro. «Signor Halpern», chiamò la signora Corey dall'interno. «Tutto sembra in ordine, e le chiavi elettroniche del senatore sono sulla scrivania. Dovrei tornare al banco della reception.» «Me ne andrò anch'io», disse Beardslee. «Senatore, se c'è qualcosa di cui ha bisogno, basta che lo faccia sapere al mio personale.» «Vorrei ringraziare tutti voi per essere stati così gentili», dichiarò Ashley. «Siete una testimonianza di quanto sia efficiente questa organizzazione.» «Anch'io dovrei andare, in modo che possiate sistemarvi.» Halpern fece per seguire gli altri. Ashley lo fermò stringendogli appena il braccio. «Le sarei molto grato se potesse fermarsi ancora un momento.» «Ma certo!» Ashley rivolse un ultimo saluto, agitando la mano, agli altri che si stavano allontanando, poi riportò lo sguardo verso l'oceano. «Signor Halpern, il fatto che io sia qui a Nassau non è un segreto, né potrebbe esserlo, essendo arrivato con un volo di linea. Questo però non significa che non mi prema il rispetto della mia privacy. Preferirei che la suite sia registrata soltanto sotto il nome della signora Manning.» «Come desidera, signore.» «Grazie. Conto sulla sua discrezione per evitare la pubblicità. Mi piacerebbe approfittare del vostro casinò senza offendere i miei elettori più moralisti.» «Ha la mia parola che faremo ogni sforzo al riguardo. Ma, come l'anno scorso, non possiamo impedire che mentre sarà nel casinò sia avvicinato da qualcuno dei suoi numerosi ammiratori.» «Il mio timore è che la mia presenza sia riportata sui giornali, o che qualcuno chiami l'albergo per verificare se sono qua.» «Le assicuro che faremo tutto ciò che è in nostro potere per proteggere la sua privacy. Ora vi lascerò, in modo che possiate disfare i bagagli e rilassarvi. Dovrebbe essere in arrivo lo champagne offerto dalla direzione, con i nostri auguri per un soggiorno gradito.» «Un'ultima domanda: abbiamo fatto delle prenotazioni anche per dei nostri amici. Avete notizia del dottor Lowell e della dottoressa D'Agostino?» «Certo! Sono già qui. Si sono registrati circa un'ora fa. Sono nella 3208, una delle nostre suite di livello superiore, su questo stesso corridoio.»
«Oh, perfetto! Mi sembra che vi siate presi cura in modo ammirevole di ogni nostra necessità.» «Facciamo del nostro meglio!» Halpern eseguì un breve inchino, prima di rientrare nella stanza e poi andarsene. Ashley spostò l'attenzione su Carol, che si era abituata gradatamente all'altezza ed era ipnotizzata dalla vista. «Carol, cara! Potresti essere così gentile da vedere se i dottori sono nella loro stanza e, in questo caso, se possono raggiungerci?» Lei si voltò e sbatté le palpebre, come se si risvegliasse da una trance. «Certo», rispose in fretta, ricordando il proprio ruolo. «Magari dovresti entrare solo tu», propose Stephanie, mentre Daniel aveva già la mano sul campanello. Erano davanti alla porta intagliata della suite Poseidone. Daniel sbuffò, lasciando ricadere il braccio lungo il fianco. «Che cosa c'è, adesso?» «Non ho voglia di vedere Butler. Non sono stata entusiasta di questa faccenda fin dal primo giorno e, dopotutto ciò che è accaduto, adesso lo sono ancor meno.» «Ma siamo così prossimi alla fine! Le cellule per la terapia sono pronte. Tutto quello che resta da fare è l'impianto, che è la parte più facile.» «Così credi, e spero che tu abbia ragione. Ma fin dall'inizio non ho condiviso il tuo ottimismo, e non credo che adesso la mia negatività serva a qualche scopo costruttivo.» «Non pensavi che in un mese saremmo riusciti ad avere le cellule pronte, e invece le abbiamo.» «Vero, ma il lavoro con le cellule è stato l'unica cosa che è andata liscia.» Daniel roteò la testa e gli occhi per alleviare l'improvvisa tensione. Era esasperato. «Perché adesso fai così?» Respirò a fondo e guardò Stephanie. «Cerchi di sabotare la cosa all'ultimo momento?» Lei se ne uscì in una falsa risata, mentre le guance si imporporavano. «Al contrario! Dopo tutti questi sforzi, non voglio rovinare le cose. Ecco perché propongo che tu lo incontri da solo!» «Carol Manning ha specificato espressamente che Butler vuole vedere tutti e due, e io ho accettato immediatamente. Santo cielo! Se tu non vieni, penserà che qualcosa non funziona. Ti prego! Non devi dire o fare niente. Sii solo affascinante come al solito e sorridi. Di certo, non è chiedere trop-
po!» Stephanie si mosse nervosamente, si guardò la punta delle scarpe, poi la guardia del corpo che se ne stava appoggiata alla parete fuori della loro stanza, dove preferivano che rimanesse. Per lei, la sua presenza era un ricordo vivente di tutto ciò che era andato storto, e i cattivi presentimenti continuavano ad angustiarla. D'altra parte, Daniel aveva ragione riguardo l'impianto. Negli esperimenti con i topi, la fase che stavano per affrontare era filata liscia. «Va bene!» acconsentì rassegnata. «Però sarai tu a parlare.» «Brava ragazza», mormorò Daniel, e suonò il campanello. Aprì Carol Manning, che sorrise e si mostrò cordiale, anche se Stephanie intuiva in lei un nervosismo simile al proprio. Butler stava seduto su un divano dai braccioli a forma di delfino, ma loro due non lo riconobbero subito. Erano spariti il vestito scuro, la camicia bianca, la cravatta classica e perfino i caratteristici occhiali dalla montatura scura. Indossava una camicia a maniche corte di un verde brillante a motivi floreali, pantaloni gialli e una cintura bianca, assortita alle scarpe da passeggio. Le braccia che spuntavano flaccide, bianche e pelose dalle mezze maniche, dando l'idea che non avessero mai visto la luce del giorno, tanto meno il sole, lo rendevano la caricatura di un turista. Gli occhiali da sole alla moda, dalle lenti azzurrine, gli giravano sui fianchi del viso come quelli dei ciclisti professionisti. L'espressione del viso aveva una fissità che Daniel e Stephanie non gli avevano mai visto prima. «Benvenuti, miei cari amici!» esclamò con il solito accento ma con una voce che non gli era abituale, meno modulata. «Siete una benedizione per gli occhi, come la carica della cavalleria che arriva al momento opportuno. Non so descrivervi la gioia che provo nel vedere i vostri visi belli e intelligenti. Scusatemi se non balzo in piedi a ricevervi in modo più appropriato, come mi spingerebbero a fare le emozioni che provo. Purtroppo, i benefici che traggo dai farmaci si esauriscono decisamente più in fretta, dall'ultima volta che ci siamo visti.» «Rimanga dov'è», replicò Daniel. «Anche noi siamo felici di rivederla.» Si avvicinò e gli strinse la mano, prima di sedersi sul divano di fronte a lui. Dopo un attimo di indecisione, Stephanie prese posto accanto a Daniel e cercò di sorridere. Carol Manning preferì sedersi in disparte, sulla poltroncina della scrivania che aveva girato in modo da rivolgerla verso il centro della stanza. «Dopo una comunicazione così limitata durante l'ultimo mese, la mia
convinzione di vedervi apparire qui si basava in gran parte sulla fede», ammise Butler. «L'unico indizio incoraggiante che il progetto faceva progressi era la considerevole e costante diminuzione dei fondi che ho messo a vostra disposizione.» «È stato uno sforzo erculeo, ben più di quanto sia il caso di spiegarle», rispose Daniel. «Spero sia sottinteso che siete pronti a procedere.» «Assolutamente. Abbiamo provveduto affinché l'impianto avvenga domani mattina alle dieci alla Wingate Clinic. Speriamo che sia pronto a spostarsi così rapidamente.» «Non sarà mai troppo presto, per quanto concerne questo ragazzo di campagna», gli assicurò Butler, con appena un vago accenno del suo solito accento, assumendo un tono più serio. «Temo che mi resti pochissimo tempo, prima che i mezzi di informazione sappiano della mia infermità.» «Allora è nel nostro mutuo interesse procedere al più presto all'impianto.» «Presumo che siate riusciti a completare l'arduo processo di creare le cellule per la terapia, come mi avevate spiegato un mese fa.» «Sì, infatti, grazie soprattutto alla dottoressa D'Agostino.» Daniel strinse il ginocchio a Stephanie e lei si sforzò di fare un sorriso più ampio. «Nell'ultima settimana abbiamo creato quattro linee separate di cellule di neuroni dopaminergici che sono cloni delle sue cellule.» «Quattro?» chiese Ashley, completamente senza accento. Stava fissando Daniel senza muovere le palpebre. «Come mai così tante?» «La ridondanza è semplicemente una rete di sicurezza. Volevamo essere assolutamente sicuri di averne almeno una. Adesso possiamo scegliere, dato che sarebbero tutte egualmente efficaci per curarla.» «C'è qualcosa che dovrei sapere, sull'intervento di domani, oltre che portare il mio triste corpo alla Wingate Clinic?» «Soltanto le solite restrizioni preoperatorie, come niente cibi solidi dopo mezzanotte. Preferiremmo anche che domattina non prendesse alcuno dei suoi farmaci, se è possibile. Con gli esperimenti sui topi abbiamo assistito a rapidi effetti terapeutici, e prevediamo che con lei sarà lo stesso. I farmaci maschererebbero l'effetto.» «A me va bene. L'ultima cosa che vorrei è complicare le cose. Naturalmente toccherà a Carol il fardello di farmi vestire e portarmi alla limousine.» «Sono certa che l'hotel ha una sedia a rotelle che potrebbe fornirci», in-
tervenne lei. «Dal divieto di assumere cibo dopo la mezzanotte, presumo che subirò un'anestesia?» chiese Butler, ignorandola. «Mi hanno detto che l'anestesia sarà locale, con un sedativo forte», spiegò Daniel. «Sarà sempre presente un anestesista, nel caso occorra somministrarne una più profonda. La informo che ricorreremo ai servigi di un neurochirurgo locale che ha esperienza in questo tipo di impianto, anche se certamente non con cellule clonate. È il dottor Rashid Nawaz. Per lui, come per la Wingate Clinic, lei è John Smith, e anche lui è stato avvertito di quanto sia necessaria la discrezione.» «A quanto pare, avete provveduto in modo ammirevole a tutti i dettagli.» «Questa è stata la nostra intenzione. Subito dopo l'intervento, le raccomandiamo di rimanere alla Wingate Clinic, nel settore degenze, in modo che possiamo tenerla debitamente sotto controllo.» «Oh?» Butler sembrava sorpreso. «Per quanto?» «Almeno la prima notte. Dopo, si vedrà dal decorso clinico.» «Contavo di ritornare qui all'Atlantis. È per questo che ho prenotato qui anche per voi. Potreste controllarmi quanto volete. Siete appena in fondo al corridoio.» «Ma nell'albergo non ci sono attrezzature diagnostiche.» «Per esempio?» «Tutto quello che c'è normalmente in un ospedale, come i servizi di laboratorio e i raggi X.» «Raggi X? Perché i raggi X? Vi aspettate complicazioni?» «Assolutamente no, ma è meglio essere prudenti. Ricordate, ciò che faremo domani è, in mancanza di una parola migliore, sperimentale.» Daniel lanciò una breve occhiata a Stephanie, per vedere se voleva aggiungere qualcosa, ma lei roteò gli occhi. Era stato un movimento rapidissimo, ma Butler se ne accorse. «Ha un termine più appropriato, dottoressa D'Agostino?» Lei esitò un attimo. «No, penso che 'sperimentale' vada bene», rispose, anche se in realtà pensava che «azzardato» fosse più vicino alla verità. «Spero di non cogliere una sfumatura sottilmente negativa», insisté il senatore, spostando lo sguardo fra lei e Daniel. «Per me è importante sentire che voi ricercatori avete un atteggiamento positivo verso questa procedura, come quando vi trovavate nella sala delle udienze.» «Ma certo!» si affrettò a dichiarare Daniel. «La nostra esperienza con le
cavie animali è stata non meno che sorprendente. Non potremmo essere più eccitati e più impazienti di allargare questa benedizione divina agli essere umani. Non vediamo l'ora di curarla, domani mattina.» «Bene.» Lo sguardo penetrante di Butler si spostò su Stephanie. «E lei, dottoressa D'Agostino, la pensa allo stesso modo? Mi sembra taciturna.» Nella stanza ci fu un breve silenzio, interrotto solo dai lontani strilli di contentezza dei bambini che giocavano nelle piscine e sugli scivoli acquatici, trentadue piani più in basso. «Sì», rispose infine Stephanie, poi fece un bel respiro per concedersi il tempo di scegliere bene le parole. «Mi spiace se le sembro taciturna. Penso di essere un po' stanca, dopotutto quello che abbiamo passato per creare le sue cellule terapeutiche. Ma, per rispondere alla sua domanda, sì, la penso anch'io allo stesso modo: posso dire senza riserve che sono eccitata all'idea di portare a termine il progetto.» «Sono sollevato nel sentirla parlare così», osservò Ashley. «Questo significa che è contenta di quelle quattro linee di cellule che ha clonato dalla mie cellule epiteliali?» «Infatti. Sono neuroni che producono dopamina, e sono...» Stephanie si interruppe, alla ricerca della parola giusta, «...vigorose.» «Vigorose? Uhm... Presumo che sia una bella cosa, anche se a un non addetto ai lavori come me sembra un termine vago. Ma ditemi: contengono tutte i geni della Sacra Sindone?» «Assolutamente!» confermò Daniel. «È stato solo con considerevoli sforzi da parte nostra che abbiamo ottenuto il campione del sudario, estratto il DNA e ricostruito i geni necessari dai frammenti, però ce l'abbiamo fatta.» «Di questo voglio essere sicuro. Lo so che non ho modo di controllare, ma voglio esserne sicuro. Per me è importante.» «I geni che abbiamo usato per la ROTS provengono dal sangue essiccato che si trova sulla Sacra Sindone. Glielo giuro solennemente.» «Credo alla sua parola di gentiluomo», dichiarò il senatore, ricorrendo di nuovo al suo accento caratteristico. Con grande sforzo, si sollevò dal divano fino a mettersi in piedi. Tese la mano verso Daniel che pure si era alzato e che gliela strinse. «Per il resto della mia vita, mi sentirò in obbligo verso i suoi sforzi e la sua creatività scientifica.» «E io lo sarò verso il suo genio politico, per cui non ha bandito la ROTS», rispose Daniel. Sul viso altrimenti inespressivo di Butler si allargò lentamente un sorriso
sardonico. «Mi piacciono gli uomini che hanno il senso dell'umorismo.» A quel punto tese la mano verso Stephanie, che si era alzata assieme a Daniel. Lei la guardò per un attimo, come per decidere se stringerla o no. Lo fece, e la sentì avvolta da una presa sorprendentemente forte. Dopo una stretta di mano vigorosa e prolungata, mentre il suo sguardo incrociava quello risoluto del senatore, cercò di divincolare la mano, ma non ci riuscì. Butler continuava a tenerla saldamente. Anche se poteva pensare che fosse dovuto semplicemente a una conseguenza del morbo di Parkinson, Stephanie provò la paura irrazionale di essere presa in trappola permanentemente da quell'uomo, come una metafora del proprio coinvolgimento in quella faccenda avventata. «La mia sentita riconoscenza va anche ai suoi sforzi, dottoressa D'Agostino», le disse lui solennemente. «E, da gentiluomo, devo anche confessare di essere rimasto incantato dalla sua notevole bellezza fin dal primo momento che l'ho vista.» Soltanto allora le dita a forma di salsiccia lasciarono lentamente la presa sulla sua mano. Stephanie se la portò al petto, stretta a pugno, nel timore che lui gliel'afferrasse di nuovo. Sapeva che continuava a essere irrazionale, ma non poteva farne a meno. Riuscì comunque a rispondere con un cenno di assenso della testa e un mezzo sorriso per ringraziare il senatore del complimento e della gratitudine espressa. «E adesso», aggiunse Butler, «esigo che voi dottori vi concediate una bella notte di riposo. Vi voglio ben riposati per l'intervento di domani che, a quanto ho capito, non dovrebbe essere lungo. È così?» «Penso che dovrebbe concludersi entro un'ora, forse un pochino di più», rispose Daniel. «Alleluia! Poco più di un'ora è tutto ciò di cui hanno bisogno le moderne biotecnologie per riportare indietro questo ragazzo dal precipizio e dal disastro della carriera. Sono impressionato. Sia lode al Signore!» «La maggior parte del tempo sarà impiegata per sistemare su di lei il casco stereotassico», spiegò Daniel. «L'impianto vero e proprio richiederà solo pochi minuti.» «Ecco, di nuovo il gergo incomprensibile dei dottori», si lagnò il senatore. «Santo cielo, che cos'è il casco stereotassico?» «È una struttura che viene messa attorno alla testa, come una corona. Permetterà al dottor Nawaz di iniettare le cellule terapeutiche nel punto esatto in cui lei ha perduto le cellule che producono la dopamina.»
«Non sono certo che dovrei chiederlo», aggiunse Butler, esitante. «Mi par di capire che inietterete le cellule direttamente nel cervello, e non in una vena. È così?» «Giusto», confermò Daniel e fece per spiegare, ma Butler lo interruppe. «Si fermi qua! A questo punto temo che, meno ne saprò, meglio sarà. Ammetto di essere un paziente facilmente impressionabile, soprattutto se non ho l'anestesia totale. Io e il dolore non siamo mai andati d'accordo.» «Non ci sarà dolore», gli assicurò Daniel. «Il cervello, di per sé, non ha sensazioni.» «Ma ci entrerà dentro un ago?» «Un ago smussato, per evitare danni.» «Come diavolo fate a infilare un ago nel cervello di qualcuno?» «Sarà praticato un piccolo foro attraverso l'osso. Nel suo caso, l'approccio sarà prefrontale.» «Prefrontale? Ancora un linguaggio incomprensibile.» «Significa attraverso la fronte», spiegò Daniel, puntandosi un dito appena sopra un sopracciglio. «Ricordi, non ci sarà dolore. Mentre verrà praticato il foro, lei sentirà delle vibrazioni, qualcosa tipo un trapano da dentista d'altri tempi, ammesso che non si sia addormentato con il sedativo, il che potrebbe facilmente avvenire.» «Perché non mi fate una totale?» «Il neurochirurgo vuole che lei sia sveglio durante l'impianto vero e proprio.» Butler sospirò. «Direi che basta così!» decise, sollevando una mano come per proteggersi da un colpo. «Mi sentivo meglio quando mi illudevo che le cellule terapeutiche venissero messe in vena, come per un trapianto di midollo osseo.» «Con i neuroni non funzionerebbe.» «Peccato, ma mi adatterò. Per favore, mi dica di nuovo il mio nome fittizio.» «John Smith.» «Ma certo! Come ho fatto a dimenticarlo? E lei, dottoressa D'Agostino, sarà la mia Pocahontas.» Stephanie ce la mise tutta per rivolgergli un altro sorriso. «Bene!» esclamò Butler, con un guizzo di entusiasmo. «Per questo vecchio ragazzo di campagna è ora di mettere da parte i crucci per la malattia e andare giù al casinò. Ho un appuntamento importante con un gruppo di macchinette mangiasoldi.»
Qualche minuto dopo, Daniel e Stephanie erano di nuovo in corridoio, diretti alla loro suite. Lei rivolse un cenno della testa alla guardia del corpo, nel passarle davanti, ma Daniel no. Era evidentemente irritato, come dimostrò sbattendo la porta dopo che furono entrati. La loro suite era la metà di quella del senatore e aveva la stessa vista, ma senza il balcone. «Vigorose! E piantala!» sbottò Daniel, fermandosi appena oltre la porta, le mani sui fianchi. «Non potevi pensare a una descrizione migliore delle nostre cellule terapeutiche, che non 'vigorose'? Che cosa volevi? Che si tirasse indietro? Per di più, ti sei comportata come se non volessi stringergli la mano.» «Infatti non volevo», confermò lei. Si avvicinò al divano e si sedette. «E perché? Dio mio!» «Non lo rispetto e, come ho detto fino alla nausea, non ho dei buoni presentimenti su tutta questa storia.» «Era come se usassi la resistenza passiva, là dentro, restando in silenzio prima di rispondere a domande semplici.» «Senti! Ho fatto del mio meglio. Non volevo mentire. Ricorda che non volevo nemmeno entrare. Sei stato tu a insistere.» Daniel sbuffò rumorosamente e la fissò. «Certe volte sai essere irritante.» «Mi spiace. Mi è difficile fingere. E, a proposito di irritazione, anche tu non sei male. La prossima volta che sarai tentato di dirmi 'brava ragazza', trattieniti.» 24 Domenica 24 marzo 2002 - ore 10.22 Se, nel corso degli anni, per Ashley Butler andare da un medico era divenuto emotivamente difficile perché gli rammentava la sua natura mortale, andare in ospedale era ancora peggio e il suo arrivo alla Wingate Clinic non aveva costituito un'eccezione. Anche se durante il viaggio in limousine aveva scherzato con Carol sul nome fittizio che gli avevano appioppato e poi, durante l'ammissione, aveva fatto ricorso al suo fascino di uomo del Sud con le infermiere, era terrorizzato. La parvenza di spensieratezza era stata messa a dura prova in particolare dall'incontro con il neurochirurgo, il dottor Rashid Nawaz. Non era come lui se lo immaginava, anche se il nome avrebbe dovuto fargli capire la sua origine etnica. Il pregiudizio aveva
sempre svolto un grande ruolo nel pensiero di Ashley, e ora non faceva eccezione. Per lui, un neurochirurgo doveva essere alto, serio e dall'aspetto autoritario, meglio se con un'eredità genetica nordica. Invece si trovava davanti un uomo basso, mingherlino, dalla pelle scura, con labbra e occhi ancora più scuri. Una cosa positiva era l'accento ritmico che rivelava il suo soggiorno a Oxford, durante la specializzazione. Un altro aspetto positivo era che la sua aura di professionalità e sicurezza di sé era mitigata da un atteggiamento empatico. Il medico si mostrava comprensivo per la situazione difficile in cui lui si trovava, dovendo affrontare una cura non ortodossa, e lo trattava con affabilità, assicurandogli che la procedura a cui si sarebbe sottoposto non era affatto difficile. Il dottor Carl Newhouse, l'anestesista, era più in linea con le sue aspettative: era un inglese leggermente sovrappeso dalle guance rubizze. Indossava un completo da sala operatoria, con tanto di cuffia, e aveva una mascherina legata al collo che gli penzolava sul petto assieme allo stetoscopio. Dal taschino gli uscivano le punte di varie penne e attorno alla cintola dei pantaloni era avvolto un laccio emostatico di gomma marrone. Il dottor Newhouse aveva fatto un'anamnesi scrupolosa, in particolare per quanto riguardava le allergie, le reazioni ai farmaci e gli episodi di anestesia. Mentre lo auscultava e gli picchiettava il petto, gli inserì un ago da fleboclisi con una tale perizia che lui non se ne accorse nemmeno. Una volta che il liquido cominciò a scorrere con il giusto deflusso, gli spiegò che gli stava somministrando un cocktail che lo avrebbe fatto sentire calmo, soddisfatto, probabilmente euforico e decisamente sonnolento. «Prima è, meglio è», pensò Ashley. Era più che pronto a farsi calmare. Con i timori per l'incipiente operazione, la notte prima aveva fatto fatica ad addormentarsi. E anche la mattina non era stata facile. Seguendo il consiglio di Daniel, non aveva preso i farmaci per il morbo di Parkinson, con conseguenze più gravi di quanto si aspettava. Fino ad allora non si era reso veramente conto di quanto quelle medicine tenessero i sintomi sotto controllo. Non era riuscito a tener ferme le dita che compivano dei movimenti ritmici involontari, come se cercasse di far rotolare dei piccoli oggetti nei palmi delle mani. Anche peggiore era stata la rigidità: gli sembrava di muoversi immerso completamente nella gelatina. Carol aveva dovuto richiedere una sedia a rotelle per portarlo alla macchina. L'arrivo alla Wingate era stato altrettanto difficile e umiliante. Per fortuna, sembrava che nessuno lo avesse riconosciuto, grazie alla sua mascherata da turista. Il «cocktail» endovenoso rivelò di essere tutto quello che il dottor Ne-
whouse aveva promesso e anche di più. Ashley si sentiva considerevolmente più calmo e soddisfatto che se avesse mandato giù diversi bicchierini del suo bourbon preferito, e questo nonostante fosse in una sala operatoria, sistemato in posizione seduta su un tavolo operatorio, con le braccia allargate e legate a sostegni appositi. Anche il tremore andava meglio, o forse no, ma per lo meno non se ne accorgeva. Indossava una risicata camicia da ospedale legata sulla schiena, da cui spuntavano le gambe robuste e bianchissime. I piedi nudi deformati dalla borsite, con le gialle unghie ricurve e la pelle arida, puntavano verso il soffitto. Attorno al braccio libero dalla fleboclisi c'era un manicotto per misurare la pressione. Al petto aveva gli elettrodi dell'elettrocardiogramma e nella stanza echeggiava il bip del visore elettronico. Nawaz era indaffarato con un metro a nastro, un pennarello e un rasoio, dovendo preparare il paziente per il casco stereotassico, visibile accanto a una serie di strumenti sterili su un tavolo lì vicino. Nonostante il casco sembrasse uno strumento di tortura, Ashley non se ne crucciava, preda com'era del sedativo. Né si preoccupò nel vedere il dottor Lowell e la dottoressa D'Agostino, apparsi assieme al dottor Spencer Wingate e al dottor Paul Saunders a una finestra che dava sul corridoio del complesso operatorio. Tutti e quattro indossavano gli indumenti sterili e avevano l'aria di assistere a quei preparativi come se fosse un divertimento. Ashley avrebbe voluto salutarli agitando un braccio, ma non poteva: non solo gli avevano legato le mani, ma sentiva che era difficile tenere gli occhi aperti, figurarsi sollevare le braccia. «Ora raderò e preparerò piccole zone sui lati della testa e sulla parte posteriore», annunciò Nawaz, mentre porgeva il pennarello e il metro a nastro a Marjorie Hickam, l'infermiera di sala. «Questi saranno i punti dove il casco verrà assicurato alla testa, come le ho spiegato prima. Capisce, signor Smith?» Ad Ashley occorse qualche momento per ricordare che il suo nome fittizio era Smith e che si stavano rivolgendo a lui. «Credo di sì», rispose con la voce impastata. «Forse potrebbe anche farmi la barba, già che c'è. Non avendo preso i miei farmaci, credo di aver fatto un pasticcio, stamattina.» Nawaz rise a questa inattesa battuta di spirito, come pure gli altri occupanti della sala operatoria, tra cui la ferrista che si chiamava Constance Bartolo. Era già pronta, con gli indumenti sterili e i guanti, e stava vicino alla tavola su cui erano posati il casco e gli strumenti, come se montasse la guardia.
Qualche minuto dopo, il neurochirurgo fece un passo indietro e rimirò il proprio lavoro. «Direi che va bene. Faccio un salto fuori a lavarmi, poi metteremo il telo e potremo cominciare.» Ashley avrebbe dovuto essere terrorizzato all'idea di farsi trapanare il cranio, invece si crogiolava in un torpore tranquillo, privo di sogni. Ben presto una parte di lui si risvegliò, quando gli stesero sopra i teli sterili, ma ricadde ben presto nel dormiveglia. A risvegliarlo di botto, qualche minuto dopo, fu un dolore improvviso, bruciante, nel cuoio capelluto, sulla parte destra della testa. Con grande sforzo sollevò le palpebre, che sentiva particolarmente pesanti. Cercò perfino di sollevare il braccio destro, nonostante fosse legato. «Calma!» si raccomandò il dottor Newhouse, che stava dietro di lui, leggermente a destra, e gli pose una mano sul braccio che aveva cercato di muovere. «Va tutto bene.» «Sto solo iniettando un po' di anestesia locale», spiegò Nawaz. «Potrebbe sentire la sensazione come di una puntura. Gliela farò in quattro punti diversi.» «Una puntura!» esclamò Ashley dentro di sé. Era tipico dei medici sottostimare le sensazioni, infatti il dolore faceva pensare di più a un coltello incandescente che gli entrava nel cranio. Eppure, era stranamente distaccato, come se fosse qualcun altro a provare dolore e lui fosse un semplice osservatore. Un altro motivo per cui riusciva a sopportarlo era che si trattava di fitte brevissime, dopo di che la zona tornava a essere assolutamente priva di sensazioni. Quando gli misero il casco stereotassico se ne accorse vagamente. Dopo, per la mezz'ora circa di manipolazioni e aggiustamenti necessari ad ancorare il casco alla testa con vari spinotti, fluttuò senza sforzo dentro e fuori la consapevolezza di ciò che gli accadeva. Non si rendeva conto del passato, del futuro o del tempo che trascorreva. «Dovrebbe andare», annunciò Nawaz. Allungò una mano e afferrò i bracci calibrati semicircolari che formavano un arco sopra la testa di Ashley e saggiò delicatamente la stabilità del casco, provando a muoverlo nelle varie direzioni. Reggeva saldamente, con le quattro viti di fissaggio affondate nel cranio. Compiaciuto del risultato, il neurochirurgo fece un passo indietro, si strinse al petto le mani inguantate e si schiarì la gola. «Signorina Hickam, sarebbe così gentile da far sapere che siamo pronti per le radiografie?» L'infermiera si fermò di botto, mentre stava andando a prendere un altro
flacone di liquido per la fleboclisi. Gli occhi grigio-azzurri si rivolsero alla collega Constance in cerca di sostegno, prima di incrociare lo sguardo del dottor Nawaz. Al momento, era a corto di parole, perché durante il suo tirocinio aveva sperimentato il carattere irascibile e gli scatti di nervi dei neurochirurghi, e si aspettava il peggio. «Non cincischiamo. È il momento delle radiografie», ripeté Nawaz con un tono un po' alterato. «Ma noi non abbiamo i raggi X», replicò Marjorie, esitante. Spostò la sua attenzione sul dottor Newhouse, perché desse una conferma, non volendo sostenere tutto il peso della responsabilità per quel problema. «Che cosa intende, che non avete i raggi X? Farete meglio ad averli, altrimenti smontiamo baracca e burattini e ce ne andiamo a casa! Non posso eseguire un impianto intracranico senza le radiografie!» «Ciò che intende Marjorie è che queste due sale operatorie non sono state attrezzate per i raggi X», spiegò Newhouse. «Sono state progettate soprattutto per procedure atte a curare l'infertilità, quindi hanno a disposizione apparecchi per l'ecografia modernissimi. Potrebbero fare al caso?» «Assolutamente no!» sbottò il neurochirurgo. «Gli ultrasuoni non servirebbero a niente. Ho bisogno di radiografie a grandezza naturale per ottenere misurazioni accurate. La griglia di riferimento tridimensionale dev'essere messa in rapporto al cervello del paziente. Altrimenti sarebbe come sparare al buio. Ho bisogno dei maledetti raggi X! Non mi direte che non avete una macchina portatile?» «Purtroppo no», rispose Newhouse e fece un cenno a Paul Saunders perché entrasse in sala operatoria. Paul socchiuse la porta e infilò dentro la testa, tenendo una mascherina sul viso. «C'è qualche problema?» «Certo che c'è un dannato problema!» si lamentò incollerito Nawaz. «Sono stato informato in ritardo che qui non ci sono i raggi X!» «Ma sì che li abbiamo! Abbiamo anche la risonanza magnetica.» «Allora portateli qua!» ordinò il neurochirurgo con impazienza. Paul entrò e guardò attraverso la finestra i tre che erano rimasti in corridoio, facendo cenno che lo seguissero. Loro si affrettarono, ponendosi la mascherina sul viso come aveva fatto lui. «C'è un problema a cui nessuno aveva pensato», spiegò Paul. «Rashid ha bisogno dei raggi X, ma la sala operatoria non ne è fornita, e non abbiamo un'unità mobile.» «Oh, Cristo! Dopo tutti questi sforzi, ci si riduce a questo?»
Daniel era inviperito. Rivolgendosi al neurochirurgo chiese: «Come mai non ha detto che aveva bisogno dei raggi X?» «Come mai non mi avete detto che non c'erano?» ribatté lui. «Non ho mai avuto il dubbio onore di lavorare in una sala operatoria che non avesse i raggi X.» «Pensiamoci un momento e cerchiamo di non surriscaldarci», li esortò Paul. «Ci dev'essere una soluzione.» «Non c'è niente a cui pensare!» sbottò Nawaz. «Non posso localizzare un'iniezione nel cervello senza raggi X. Semplice!» Tranne che per il bip regolare del monitor cardiaco, la stanza si immerse in un silenzio teso. Ognuno evitava di muoversi e di incrociare lo sguardo degli altri. «Perché non portiamo il paziente nella stanza delle radiografie?» propose Spencer. «Non è poi tanto lontana.» Gli altri ci avevano pensato, ma avevano escluso l'idea. Adesso la riconsiderarono. Portare un paziente dalla sala operatoria alla stanza delle radiografie nel bel mezzo di un intervento non era certo una cosa ortodossa, ma nelle circostanze attuali non era da escludere. La stanza era nuovissima e praticamente vuota, quindi la contaminazione non era un problema, come lo sarebbe stato normalmente, anche perché la craniotomia non era ancora stata eseguita. «Secondo me è ragionevole», si pronunciò Daniel, in tono ottimistico. «Siamo in parecchi, e tutti possono dare una mano.» «Che cosa ne pensi, Rashid?» chiese Paul. Nawaz si strinse nelle spalle. «Suppongo che possa andar bene, purché teniamo il paziente sul tavolo operatorio. Nella posizione seduta in cui sta e con il casco già a posto, sarebbe sconsigliabile spostarlo e metterlo su una lettiga.» «Il tavolo operatorio ha le ruote», ricordò agli altri l'anestesista. «Facciamolo!» decise Paul. «Marjorie, avverti la nostra tecnica radiologa che stiamo per andare nella stanza delle radiografie!» Occorsero pochi minuti per staccare Ashley dal monitor cardiaco e liberargli le braccia che, disposte com'erano, non sarebbero passate dalla porta. Quando tutto fu pronto e gli misero le mani in grembo, fu tolto il freno al tavolo operatorio che, spinto da Newhouse e tirato da Marjorie e Paul, fu portato in corridoio. Tranne la ferrista, che rimase nella sala operatoria, tutti gli altri si accodarono dietro. Ashley continuava a dormire, inconsapevole di tutto quel trambusto, nonostante fosse seduto e sballottato in qua
e in là. Con la testa racchiusa nel futuristico casco stereotassico, sembrava l'attore di un film di fantascienza. Una volta che il tavolo operatorio fu nel corridoio, tutti tranne Nawaz diedero una mano a spingere, anche se non era necessario: il tavolo rotolava facilmente sul pavimento liscio, con un rombo attutito causato dal notevole peso. Quando il gruppo arrivò a destinazione, nacque una discussione se fosse meglio spostare Ashley dal tavolo operatorio a quello dei raggi X. Dopo aver soppesato i pro e i contro, fu deciso che era meglio lasciarlo dov'era. Nawaz indossò un pesante grembiule di piombo, dato che insisteva a sostenere personalmente la testa del paziente, tenendola nella posizione corretta, mentre venivano eseguite le radiografie. Tutti gli altri uscirono in corridoio. Ashley, intanto, continuava a dormire. «Voglio che le radiografie siano sviluppate prima di riportarlo indietro», disse Nawaz alla tecnica radiologa, quando venne a prendere le lastre. «Voglio essere assolutamente certo che sono venute bene.» «Basterà un attimo», gli assicurò la donna con vivacità. Newhouse si riavvicinò ad Ashley per controllarne i segni vitali, mentre Spencer e Paul accompagnavano la tecnica radiologa ad aspettare che uscissero la radiografie sviluppate. Daniel e Stephanie si ritrovarono momentaneamente soli. «È come una commedia degli errori, ma non è affatto divertente», sussurrò Stephanie, scuotendo la testa con espressione disgustata. «Non è giusto», ribatté Daniel. «Il fraintendimento sulla questione dei raggi X non è stato colpa di nessuno. Posso capire entrambi i punti di vista, e comunque è acqua passata. Adesso le radiografie sono state fatte, quindi l'impianto è in dirittura d'arrivo.» «Non importa se è colpa di qualcuno oppure no. È comunque un pasticcio, ed è sempre stato così, fin da quella fatidica notte di pioggia a Washington. Continuo a chiedermi che cos'altro può andare storto.» «Cerchiamo di essere un po' più ottimisti. La fine è a portata di mano.» Paul e Spencer tornarono in corridoio, seguiti dalla tecnica. Paul teneva in mano le radiografie sviluppate. «Mi sembra che vadano bene», annunciò e passò davanti a Daniel e Stephanie per rientrare nella stanza delle radiografie. Gli altri li seguirono. Paul sistemò le radiografie sul visore, accese la luce e si fece da parte. Le immagini mostravano il cranio di Ashley, sormontato dall'immagine opaca del casco stereotassico.
Nawaz si avvicinò e, con il naso vicino alle radiografie, le esaminò attentamente una dopo l'altra, orientandosi soprattutto grazie alle ombre indistinte dei ventricoli pieni di liquidi nel cervello di Ashley. Per un momento, nessuno parlò. L'unico suono era la respirazione profonda del paziente, a cui si sovrappose quello del manicotto per misurare la pressione che veniva gonfiato da Newhouse. «Allora?» Paul era impaziente. Nawaz annuì riluttante. «Sembrano buone. Dovrebbero andar bene.» Prese un pennarello, un goniometro e un righello di precisione in metallo. Con grande cura, localizzò un punto specifico su ogni radiografia e lo segnò con una piccola X. «Questo è il nostro bersaglio: la pars compacta della substantia nigra nella parte destra del mesencefalo. Adesso devo trovare le coordinate x, y e z.» Si mise al lavoro, tracciando delle linee sulle radiografie e misurando gli angoli. «Lo farà qui?» domandò Paul. «È un buon visore», rispose Nawaz, assorto in quel lavoro di precisione. «Dovremmo riportare il paziente in sala operatoria», intervenne. «Mi sentirò più tranquillo se lo riattacchiamo al monitor cardiaco.» «Buona idea», approvò Paul e si mise immediatamente dalla parte dei piedi per dare una mano. Newhouse, intanto, toglieva il freno alle ruote. Daniel e Stephanie sbirciarono oltre la spalla di Nawaz e osservarono mentre tracciava le coordinate per l'ago, la cui guida sarebbe stata saldamente fissata al casco. Il tavolo operatorio uscì dalla stanza delle radiografie spinto da Paul e tirato da Newhouse, che si premurò di tenere una mano sulla spalla di Ashley per stabilizzarlo durante il trasporto. Probabilmente non era necessario, perché gli aveva legato il petto alla parte sollevata del tavolo, ma voleva essere sicuro. Una volta nel corridoio, Paul si girò in modo da camminare in avanti, tirandosi dietro il tavolo: era più facile che procedere all'indietro. Continuò a tirare, ma il suo contributo serviva più che altro per dare la direzione, dato che il tavolo tendeva a sbandare a causa delle quattro rotelle. Marjorie camminava di fianco, tenendo in alto il flacone della fleboclisi, ma anche pronta a sostenere Ashley se ce ne fosse stato bisogno. Spencer chiudeva il piccolo corteo, dando di tanto in tanto degli ordini che tutti ignoravano. «Non ha un gran bel colore», commentò l'anestesista, osservando il paziente sotto la vivida luce al neon del corridoio. «Sbrighiamoci!» Tutti affrettarono il passo.
«Era pallido anche quando è arrivato», obiettò Spencer. «Non credo che sia cambiato qualcosa.» «Lo rivoglio sul monitor», insisté Newhouse. «Ci siamo!» esclamò Paul, mentre apriva i battenti della sala operatoria ed entrava senza voltarsi a guardare il tavolo. Nella fretta, non lo allineò rispetto al vano della porta, con il risultato che un angolo anteriore sbatté contro lo stipite di metallo. L'urto fu tale da far rimbalzare in avanti il corpo di Ashley, contro il nastro adesivo che gli teneva legato il petto alla parte sollevata del tavolo operatorio. Per la forza di inerzia, il casco stereotassico fece cadere la testa in avanti, un po' di sbieco. Newhouse e Marjorie reagirono prontamente, prendendo il paziente per le braccia che si erano sollevate per il colpo. «Santo cielo!» sbottò l'anestesista. «Mi spiace!» si scusò Paul, in tono colpevole. Essendo lui a dare la direzione al tavolo operatorio, era stata colpa sua più di tutti gli altri. «Il casco ha colpito lo stipite?» chiese Newhouse, mentre rimetteva a posto la mano di Ashley, posandogliela in grembo. «No, non lo ha toccato», rispose Marjorie, che stava dalla parte della collisione e avrebbe potuto evitarla, se si fosse accorta che era imminente, ma tutto era accaduto troppo in fretta. Lasciò andare il braccio di Ashley per spingere via dallo stipite la parte anteriore del tavolo operatorio. «Grazie al cielo per i piccoli favori», declamò Newhouse. «Almeno non lo abbiamo contaminato. Altrimenti avremmo dovuto ricominciare dall'inizio.» Constance corse loro incontro dalla sua postazione vicino al tavolo con gli strumenti sterili. Dato che era rimasta nella sala operatoria, con gli indumenti appropriati e i guanti, poté prendere il casco senza minacciarne la sterilità, lo raddrizzò, assieme alla testa del paziente, e lo sostenne. «Ho già finito?» chiese Ashley con una voce come se fosse ubriaco. Il colpo lo aveva strappato dal suo riposo artificiale. Provò ad aprire gli occhi, ma le palpebre si sollevarono solo a metà. Sentendo lo strano peso che aveva sulla testa, cercò di sollevare la mano per capire al tatto di cosa si trattasse, ma Newhouse gli afferrò il braccio, mentre Marjorie gli teneva fermo l'altro. «Mettete il tavolo in posizione», ordinò Newhouse. Paul trascinò il tavolo al centro della stanza e aiutò l'anestesista a rimettere a posto i sostegni per le braccia. Un momento dopo, Ashley si ritrovò nuovamente con le braccia legate ma non fece resistenza, infatti si riad-
dormentò. Newhouse porse a Marjorie gli elettrodi dell'elettrocardiogramma e lei li collegò all'apparecchiatura elettronica. Ben presto i bip regolari e rassicuranti del monitor cardiaco riempirono il silenzio della stanza. Newhouse tolse lo stetoscopio dalle orecchie dopo aver controllato nuovamente la pressione arteriosa. «Va tutto bene», annunciò. «Avrei dovuto stare più attento», mormorò Paul. «Non c'è stato danno», lo tranquillizzò Newhouse. «Il casco non è stato compromesso. Comunque, lo diremo al dottor Nawaz, in modo che controlli. Ti sembra stabile, Constance?» «Come una roccia», rispose lei, che ancora lo stava sostenendo. «Bene. Penso che adesso puoi lasciarlo andare. Grazie per l'aiuto.» La ferrista lasciò la presa un poco alla volta. Visto che la posizione del casco non cambiava, tornò al proprio posto. «Penso che avesse ragione, riguardo al colore del paziente», disse Newhouse a Spencer. «Non si sono verificati cambiamenti nelle sue condizioni cardiovascolari. Allo stesso tempo, penso che allestirò un ossimetro. Marjorie, potresti prendermene uno dalla stanza dell'anestesia?» «Certo», rispose lei, prima di sparire nel vano adiacente. Alla finestra che dava sul corridoio comparve una figura che attirò l'attenzione di Paul. Anche se portava gli indumenti da sala operatoria e la maschera, lo riconobbe immediatamente: era Kurt Hermann. Vederlo lì gli fece accelerare il battito cardiaco, poco dopo essersi ripreso dal piccolo incidente con il tavolo operatorio. Era nervoso, perché era veramente insolito che Kurt si facesse vivo nella parte della clinica destinata alle terapie. Doveva esserci qualcosa che non andava e qualcosa di molto grave, per giunta, dal modo in cui il capo della sicurezza gli stava facendo segno di uscire in corridoio. Paul lo raggiunse immediatamente. «Che cosa c'è?» gli chiese con ansia. «Ho bisogno di parlare con lei e con il dottor Wingate in privato.» «A proposito di cosa?» «Dell'identità del paziente. Non ha legami con la mafia.» «Davvero?» Paul si sentì sollevato. L'ultima cosa che si aspettava era una buona notizia. «Chi è?» «Perché non chiama il dottor Wingate?» «D'accordo. Solo un attimo.» Paul rientrò nella sala operatoria e sussurrò nell'orecchio a Spencer. Questi guardò Kurt, oltre la finestra, come se non credesse alla notizia appena appresa, quindi seguì in fretta Paul nel corridoio. Kurt rivolse loro un
gesto perché lo seguissero fino alla dispensa della sala operatoria. Una volta lì, chiuse la porta e si voltò a fissare i suoi capi. Non aveva una grande stima di nessuno dei due, anche perché non sapeva mai con certezza chi di loro comandasse veramente. «Allora?» chiese Spencer. Lui non aveva la pazienza di Paul. «Ha intenzione di dircelo o che cosa? Chi è?» «Prima, un po' di antecedenti», rispose Kurt con il suo stile sbrigativo, militaresco. «Ho saputo dall'autista della limousine che aveva preso il paziente e la sua accompagnatrice all'Atlantis. Tramite contatti con i dipendenti dell'albergo che mi sono stati forniti dalla polizia locale, ho scoperto che stanno nella suite Poseidone, registrata a nome di Carol Manning, di Washington, D.C.» «Carroll Manning?» chiese Spencer. «Non l'ho mai sentito nominare. Chi è costui?» «Carol Manning è una lei. Ho fatto indagare a un amico in patria: è il capo dello staff del senatore Ashley Butler. Ho controllato presso l'ufficio immigrazione qui alle Bahamas: il senatore Butler è arrivato nell'isola ieri. Sono convinto che il paziente è lui.» «Il senatore Butler! Ma certo!» esclamò Spencer, dandosi una manata sulla fronte. «Sapete, mi sembrava di averlo già visto, ma non riuscivo a mettere assieme la faccia e il nome, per lo meno non vedendolo conciato con quei ridicoli vestiti da turista!» «Merda!» imprecò Paul. Si sbatté una mano sul fianco e andò avanti e indietro per quanto glielo permetteva lo spazio esiguo della dispensa. «Ci siamo dati tanto da fare per scoprire chi è, e adesso salta fuori che è un fottuto politico. Alla faccia del grande guadagno che volevamo farci!» «Non andiamo troppo di fretta», lo avvertì Spencer. «E perché?» Paul si voltò a guardarlo. «Contavamo sul fatto che l'uomo del mistero fosse ricco e famoso. Questo significa una celebrità, come un divo del cinema, una rock star, un eroe dello sport, o per lo meno il direttore generale di una società importante. Di certo, non un politico!» «Ci sono politici e politici. Tieni conto che si parla di Butler come del possibile candidato democratico alle prossime elezioni.» «Ma i politici non hanno soldi. Per lo meno, non di tasca loro.» «Ma hanno accesso a gente che ne ha un sacco. È questo che conta, quando si corre seriamente per la Casa Bianca. Quando il campo dei candidati democratici si restringerà, ci saranno valanghe di soldi. Se Butler è in lizza, e se parte bene, potremmo metterci le mani sopra.»
«Ci sono un sacco di 'se'», osservò Paul, senza abbandonare l'espressione seccata. «Comunque, mi accontento di ciò che abbiamo. Grosso guadagno o no, ho visto abbastanza della ROTS da poterne approfittare, e poi abbiamo i quarantacinquemila che non sono da buttar via. Quindi sono contento, soprattutto avendo fatto firmare a Lowell quella dichiarazione. Non potrà negare quello che ha fatto qui e io insisterò per quell'articolo sulla Sacra Sindone di cui abbiamo parlato. Sarà la pubblicità il nostro guadagno a lungo termine, e per questa un politico vale quanto qualsiasi altra persona famosa.» «Io torno ai miei normali compiti di sicurezza», annunciò Kurt. Non aveva intenzione di rimanere lì ad ascoltare le fesserie di quei due buffoni. Si avvicinò alla porta e l'aprì. «Grazie per aver trovato il nome», gli disse Paul. «Già, grazie», aggiunse Spencer. «Cercheremo di dimenticare che le ci è voluto un mese e che per farlo ha dovuto ammazzare una persona.» Kurt lo fulminò con un'occhiata torva, poi se ne andò. La porta si richiuse da sola, spinta dalla molla. «L'ultimo commento non è stato leale», si lamentò Paul. «Lo so», replicò Spencer con un gesto della mano come a liquidare la questione. «Cercavo di fare dello spirito.» «Tu non apprezzi il suo contributo qua dentro.» «Penso di no.» «Lo farai, quando lavoreremo a pieno ritmo. La sicurezza sarà una questione grossa, fidati!» «Sì, forse, ma adesso torniamo all'impianto, e speriamo che vada meglio di come è andata finora.» Spencer aprì la porta e fece per uscire. «Aspetta!» lo fermò Paul, prendendolo per un braccio. «Mi è appena venuta in mente una cosa: Ashley Butler è il senatore che aveva guidato il movimento per non autorizzare la ROTS di Lowell. Lo trovo ironico, dato che ne sarà il primo beneficiario!» «È più ipocrita che ironico, se vuoi sapere il mio parere. Lui e Lowell devono aver fatto qualche tipo di patto clandestino.» «Dev'essere così, e in questo caso tornerebbe a nostro vantaggio, perché a tutti e due interesserà mantenere il segreto.» «Credo che abbiamo il coltello dalla parte del manico», approvò Spencer annuendo. «Ma adesso torniamo in sala operatoria per assicurarci che non ci siano altri problemi, in modo che l'impianto abbia luogo veramente. È caduto a proposito che ci trovassimo lì quando è scoppiato il casino dei
raggi X.» «Dovremo procurarci un'attrezzatura portatile per radiografie.» «Aspettiamo fin quando avremo un po' di contanti, se non ti spiace.» Arrivati davanti alla porta della sala operatoria, Spencer si fermò e si voltò verso Paul. «Penso sia importante non tradirci, sul fatto che sappiamo la vera identità del senatore.» «Certo, non occorre nemmeno dirlo!» 25 Domenica 24 marzo 2002 - ore 11.45 A Tony D'Agostino sembrava di essere intrappolato in un brutto sogno, senza riuscire a svegliarsi, quando si ritrovò ancora una volta a fermare la macchina davanti al magazzino di rifornimenti idraulici dei fratelli Castigliano. A rendere le cose peggiori, era una domenica mattina fredda e piovosa e c'erano almeno mille altre cose che avrebbe preferito fare, come per esempio gustare cannoli e cappuccino al Caffè Posillipo di Hanover Street. Prima di scendere dall'auto aprì l'ombrello, ma i suoi tentativi di non bagnarsi furono inutili. Il vento faceva piovere di traverso e l'acqua arrivava da tutte le parti. Era difficile perfino tenere fermo l'ombrello, che rischiava di essere rovesciato e di volare via. Appena dentro il magazzino, Tony batté i piedi per far sgocciolare via l'acqua, si asciugò la fronte con il dorso della mano e appoggiò l'ombrello alla parete. Mentre oltrepassava il banco dietro il quale stava solitamente Gaetano, imprecò tra sé. Non aveva dubbi che era stato nuovamente lui a incasinare le cose e sperava di trovarlo lì, per dirgliene quattro. Come al solito, la porta che dava sull'ufficio non era chiusa a chiave e Tony entrò dopo aver bussato frettolosamente, senza aspettare risposta. I Castigliano stavano dietro le rispettive scrivanie, i cui ripiani ingombri erano illuminati da due lampade uguali, dal paralume di vetro verde. Dall'esterno entrava pochissima luce, per via del cielo nuvoloso e del sudiciume sui vetri delle finestre. I due sollevarono la testa contemporaneamente. Sal era occupato a scrivere in un libro mastro dall'aspetto antiquato, copiando da cincischiati foglietti di appunti, e Lou era impegnato in un solitario. Purtroppo, Gaetano non era nemmeno lì. Seguendo il solito rituale, Tony strinse la mano ai gemelli, sbattendo il
palmo com'era suo solito, e si sedette sul divano. Non si appoggiò allo schienale e non si sbottonò nemmeno il cappotto: aveva intenzione di starci il meno possibile. Si schiarì la gola. Nessuno aveva detto niente, il che era strano, dato che era lui a essere irritato. «Mia madre ha parlato con mia sorella ieri sera», cominciò. «Voglio che sappiate che sono confuso.» «Ah, davvero?» replicò Lou con un accenno di derisione. «Benvenuto nel club!» Tony spostò lo sguardo dall'uno all'altro dei fratelli: era evidente che anche loro erano di cattivo umore, tanto più che Lou mostrò mancanza di rispetto tornando a occuparsi delle carte, che gettava sulla scrivania con gesti rapidi come frustate. Guardò Sal, che gli restituì uno sguardo truce. Appariva più sinistro del solito, con il viso scarno illuminato dal basso dalla luce verdognola. Poteva essere un cadavere. «Perché non ci racconti come mai sei confuso?» gli chiese in tono altezzoso. «Già, ci piacerebbe saperlo», aggiunse il fratello, senza interrompere il solitario. «Soprattutto dato che sei stato tu che ci hai forzato a tirare fuori i cento bigliettoni per quell'imbroglio di tua sorella.» Lievemente allarmato per quell'inattesa accoglienza particolarmente fredda, Tony si appoggiò allo schienale. All'improvviso gli era venuto caldo e si sbottonò il cappotto. «Non ho forzato nessuno», replicò in tono indignato, ma già mentre quelie parole gli uscivano dalle labbra si sentì avvolto da una sgradevole sensazione di vulnerabilità. Si chiese, ormai troppo tardi, se fosse stato saggio a venire in quel posto isolato senza alcuna protezione e senza rinforzi. Non aveva un'arma con sé, ma non era insolito. Non la portava quasi mai, cosa che i gemelli sapevano. Però aveva degli scagnozzi che facevano parte della sua organizzazione, proprio come li avevano i Castigliano, e avrebbe dovuto portarne uno con sé. «Non ci stai dicendo perché sei confuso», insisté Sal, ignorando la sua obiezione. Tony si schiarì di nuovo la gola. Sentendosi sempre più a disagio, decise che era meglio attenuare la collera. «Sono un po' confuso su ciò che ha fatto Gaetano nel suo secondo viaggio a Nassau. Una settimana fa, mia madre mi ha detto che ha avuto difficoltà a trovare mia sorella. Ha detto che quando poi è riuscita a parlarci, Stephanie sembrava strana, come se le fosse successo qualcosa di brutto di cui non voleva parlare fino al suo ritorno a casa, che sarà tra poco. Ovviamente, pensavo che Gaetano avesse fatto il
suo lavoro e il professore fosse acqua passata. Be', ieri sera mia madre è riuscita a contattare di nuovo mia sorella, dato che lei non si era fatta viva. Questa volta, stando alle parole di mia madre, era 'di nuovo lei' e le ha detto che è ancora a Nassau, con il professore, ma che rientreranno a casa tra pochissimi giorni. Che cosa succede?» Per qualche minuto gravido di tensione nessuno parlò. L'unico rumore era quello delle carte che Lou sbatteva sulla scrivania, mescolato alle strida dei gabbiani che volteggiavano sul terreno salmastro. Tony badò bene di guardare in giro per la stanza, che era quasi tutta in ombra, nonostante l'ora. «A proposito di Gaetano, dov'è?» L'ultima cosa che voleva era una sorpresa da parte di quel gorilla. «Proprio la domanda che volevamo farti noi», replicò Sal. «Che diavolo vuoi dire?» «Gaetano non è ancora tornato da Nassau. È assente ingiustificato. Non lo abbiamo sentito da quando è partito, l'ultima volta che sei stato qui, e non ne sanno niente nemmeno suo fratello e sua cognata, con cui ha rapporti stretti. Nessuno ne sa un cazzo. Niente.» Se prima Tony era confuso, adesso era strabiliato. Anche se ultimamente si era lamentato di Gaetano, lo rispettava: era un professionista pieno di esperienza e sulla cui lealtà si stava tranquilli. La sua sparizione non aveva senso. «Inutile dire che anche noi siamo un po' sorpresi», aggiunse Sal. «Avete fatto qualche indagine?» «Indagini?» chiese Lou con sarcasmo, sollevando lo sguardo dalle carte. «Perché dovremmo fare una cosa tanto stupida? Diavolo, no! Ce ne siamo stati qui, giorno dopo giorno, a rosicchiarci le unghie e ad aspettare che squilli il telefono.» «Abbiamo chiamato la famiglia Spriano a New York», spiegò Sal, ignorando il sarcasmo di suo fratello. «Nel caso non lo sapessi, sono imparentati alla lontana. Controlleranno per noi. Intanto, stanno per mandarci un altro assistente che sarà qui fra un giorno o due. Erano stati loro a mandarci Gaetano.» Tony fu scosso da un brivido di paura. Sapeva che gli Spriano erano una delle famiglie più potenti e spietate della East Coast. Non aveva idea che i gemelli avessero dei collegamenti con loro, cosa che rendeva tutto più serio e più preoccupante. «E i colombiani di Miami che dovevano fornirgli la pistola?» domandò, tanto per cambiare argomento. «Abbiamo chiamato anche loro. Non sono mai tanto disposti a collabo-
rare, come sai, ma hanno detto che controlleranno. Così, abbiamo chi tasta il terreno, laggiù. Ovviamente, vogliamo sapere dove si rintana quel cretino e perché.» «Vi mancano dei soldi?» si informò ancora Tony. «Niente che possa aver preso Gaetano», rispose Sal in modo enigmatico. «Strano», osservò Tony, non sapendo che altro dire. Non voleva chiedergli che cosa intendeva. «Mi spiace che abbiate questo problema.» Si spinse in avanti sul divano, come se volesse alzarsi. «È più che strano», ringhiò Lou. «E 'mi spiace' non è abbastanza. Ne abbiamo parlato, in questi ultimi giorni, e pensiamo che devi sapere come la pensiamo. Ti riteniamo responsabile per questo casino con Gaetano, comunque vada a finire, e anche per i nostri centomila dollari, che vogliamo indietro con gli interessi. Gli interessi saranno al nostro solito tasso, dal giorno in cui li abbiamo dati, e non sono negoziabili. E un'ultima cosa: adesso consideriamo il prestito scaduto.» Tony si alzò di botto. La sua ansia crescente aveva raggiunto un punto critico, dopo aver ascoltato Lou e aver colto la minaccia insita nelle sue parole. «Fatemi sapere se scoprite qualcosa», disse, dirigendosi alla porta. «Intanto, svolgerò un po' di indagini anch'io.» «Farai meglio a svolgere indagini su come metterai insieme i cento bigliettoni», gli consigliò Sal, «perché non abbiamo intenzione di essere tanto pazienti.» Tony corse fuori dal magazzino senza badare alla pioggia. Era tutto sudato, nonostante il freddo. Solo quando era già in macchina si ricordò dell'ombrello. «'fanculo!» esclamò ad alta voce. Mise in moto la Cadillac e, con il braccio appoggiato allo schienale, guardò dal lunotto posteriore mentre faceva una rapida manovra a marcia indietro. Con una pioggia di sassolini, l'auto balzò sulla strada e un attimo dopo andava a quasi ottanta all'ora, diretta in città. Tony si rilassò un po' e si asciugò prima un palmo poi l'altro sui pantaloni. Aveva scampato la minaccia immediata, ma sapeva che ne incombeva una più a lungo termine, soprattutto se venivano coinvolti gli Spriano, anche di poco. Era tutto molto scoraggiante, se non spaventoso. Proprio mentre stava mettendo insieme le sue risorse per lottare contro l'incriminazione, si trovava a dover fronteggiare una possibile guerra di bande. «John! Mi sente?» chiamò il dottor Nawaz. Si era chinato e intanto teneva sollevato l'orlo dei teli sterili che coprivano il volto del paziente. Era
coperto quasi completamente anche il casco stereotassico e l'unica zona libera dai teli era la parte destra della fronte. Lì Nawaz aveva praticato una piccola incisione nella pelle che ora era tenuta aperta da un divaricatore. Dopo aver esposto l'osso, Nawaz aveva usato uno speciale trapano per praticare un piccolo foro nel cranio che portasse allo scoperto la fascia bianco-grigiastra che ricopriva il cervello. Direttamente allineato con il foro e saldamente attaccato a uno degli archi che componevano il casco stereotassico c'era l'ago. Con l'aiuto delle radiografie erano stati determinati gli angoli esatti e l'ago era già stato inserito nella parte esterna del cervello. A quel punto bastava far avanzare l'ago fino alla profondità esatta, predeterminata, per raggiungere la substantia nigra. «Dottor Newhouse, forse potrebbe scuotere un po' il paziente», suggerì Nawaz, nel suo melodioso accento anglopakistano. «A questo punto, preferirei che fosse sveglio.» «Ma certo!» Newhouse balzò in piedi e mise da parte una rivista che stava leggendo. Infilò una mano sotto i teli fino a raggiungere una spalla e la scosse. Le pesanti palpebre di Ashley si aprirono a fatica. «Adesso mi sente, John?» chiese Nawaz. «Abbiamo bisogno del suo aiuto.» «Certo che vi sento», rispose Ashley, la voce impastata dal sonno. «Voglio che mi dica qualsiasi sensazione avrà nei prossimi minuti. Può farlo?» «Che cosa intende per 'sensazione'?» «Immagini, suoni, pensieri, odori, o senso del movimento: tutto quello che noterà.» «Ho molto sonno.» «Sì, capisco, ma cerchi di rimanere sveglio appena per pochi minuti. Come ho detto, abbiamo bisogno del suo aiuto.» «Ci proverò.» «È tutto quello che chiediamo.» Nawaz riabbassò il telo sul viso di Ashley, poi si voltò e rivolse il segno di pollice alzato al gruppetto oltre la finestra. Quindi, dopo aver piegato le dita inguantate, usò la rotella del micromanipolatore sulla guida che reggeva l'ago. Lentamente, millimetro dopo millimetro, fece avanzare la punta smussata dell'ago nelle profondità del cervello. Quando fu a metà strada, sollevò di nuovo il telo e fu contento nel vedere che il paziente teneva ancora gli occhi aperti, anche se a malapena. «Sta bene?» gli chiese.
«Benissimo», rispose Ashley, con una traccia di accento del Sud. «Felice come una Pasqua.» «Procede tutto bene. Non ci vorrà ancora molto.» «Fate con calma. La cosa importante è che il risultato sia quello giusto.» «Su questo non ci sono dubbi», gli assicurò Nawaz. Il neurochirurgo sorrise sotto la maschera, mentre riabbassava il telo per ricominciare a far avanzare l'ago. Era colpito dal coraggio e dal buonumore di quell'uomo. Qualche minuto dopo, con un giro finale del micromanipolatore, si fermò alla profondità esatta, così com'era stata calcolata. Dopo aver controllato di nuovo lo stato di salute del paziente, disse a Marjorie di far venire il dottor Lowell. Nel frattempo, preparò la siringa che avrebbe dovuto somministrare le cellule terapeutiche. «Va tutto bene?» chiese Daniel. Prima di entrare si era messo la mascherina. Tenendo le mani dietro la schiena, si chinò a guardare il foro con l'ago già inserito. «Benissimo», rispose Nawaz. «Ma c'è un problema che ammetto essermi sfuggito dalla mente, con la confusione di prima. A questo punto, d'abitudine si fa un'altra radiografia, per essere certi al cento per cento di dove è posizionata la punta dell'ago. Però, senza la possibilità di usare i raggi X qui nella sala operatoria, non è possibile. Con la craniotomia praticata e l'ago inserito, non possiamo spostare il paziente senza rischi.» «Sta chiedendo la mia opinione se è il caso di procedere?» «Precisamente. In definitiva, è vostro paziente. In questa situazione particolare io sto solo mettendo a disposizione la mia specializzazione.» «Quanto si sente sicuro della posizione dell'ago?» «Tantissimo. In tutta la mia esperienza con il casco stereotassico, non ho mai mancato il punto che mi ero prefissato. In questo caso, poi, c'è un altro fattore rassicurante: aggiungeremo delle cellule, non praticheremo un intervento di chirurgia ablativa, cosa che faccio in genere quando utilizzo questa procedura e che causerebbe molti più problemi, nel caso l'ago non fosse perfettamente allineato.» «È difficile non restare colpiti da una percentuale di successo del cento per cento! Confido di essere in buone mani. Procediamo!» «Ha ragione!» Nawaz prese la siringa, che era stata riempita con la quantità predeterminata di cellule terapeutiche. Dopo aver tolto i trequarti dal lumen dell'ago già conficcato, attaccò la siringa. «Dottor Newhouse, sono pronto a cominciare l'impianto.» «Grazie», rispose l'anestesista. Riteneva importante essere avvertito nel-
le fasi critiche di un intervento, e controllò di nuovo i segni vitali. Quando ebbe finito e si tolse lo stetoscopio dalle orecchie, fece cenno a Nawaz che poteva procedere. Dopo aver sollevato nuovamente il telo e aver fatto svegliare il paziente da Newhouse, il neurochirurgo ripeté le istruzioni che aveva già dato prima di inserire l'ago. Soltanto allora iniziò l'impianto vero e proprio, utilizzando un altro strumento meccanico manuale per spingere lo stantuffo della siringa lentamente e uniformemente. Daniel provò un brivido di eccitazione. In quel momento i neuroni clonati produttori di dopamina, potenziati dai geni del sangue proveniente dalla Sacra Sindone, si stavano lentamente depositando nel cervello di Butler: era un evento che avrebbe fatto la storia della medicina. In un colpo solo si realizzavano la promessa delle cellule staminali, la clonazione terapeutica e la ROTS, nel curare per la prima volta in un essere umano una grave malattia degenerativa. Con un senso crescente di euforia, si voltò verso Stephanie e le rivolse il segno della vittoria, sollevando l'indice e il medio. Lei rispose con lo stesso gesto, ma non con la stessa alacrità. Daniel pensò che fosse a disagio, dovendo stare assieme a Paul Saunders e Spencer Wingate, con i quali doveva fare un minimo di conversazione. A metà dell'impianto, Nawaz si fermò, come aveva fatto durante l'inserimento dell'ago. Quando sollevò il telo, si accorse che il paziente si era nuovamente addormentato. «Vuole che lo svegli?» chiese Newhouse. «Sì, per favore. E magari potrebbe cercare di tenerlo sveglio nei prossimi minuti.» Ashley aprì gli occhi, sentendosi scuotere. La mano del dottor Newhouse gli stringeva la spalla. «Sta bene, signor Smith?» chiese Nawaz. «Deliziosamente», borbottò lui. «Abbiamo finito?» «Quasi. Ancora un attimo.» Nawaz lasciò ricadere il telo e guardò l'anestesista. «È tutto stabile?» gli chiese. «Solido come una roccia.» Nawaz riprese a far scendere lo stantuffo della siringa, allo stesso ritmo lento e misurato di prima. Nel momento in cui stava per dare il giro finale, che avrebbe rilasciato le ultime cellule terapeutiche, da sotto il telo il paziente borbottò qualcosa di incomprensibile. Nawaz si fermò e scoccò un'occhiata a Newhouse, chiedendogli se avesse capito che cosa diceva. «Non l'ho nemmeno sentito», ammise l'anestesista.
«È tutto ancora stabile?» «Non ci sono cambiamenti.» Newhouse usò nuovamente lo stetoscopio per controllare la pressione del sangue. Nel frattempo, Nawaz sollevò il telo e scrutò il viso del paziente. L'espressione del volto, che a causa del casco era visibile solo fino all'altezza delle sopracciglia, era cambiata considerevolmente. Gli angoli della bocca erano tirati in giù e il naso era arricciato, come per esprimere disgusto. Questo era tanto più sorprendente in quanto fino a poco prima il viso era inespressivo, un sintomo della sua malattia. «C'è qualcosa che la disturba?» domandò Nawaz. «Che cos'è questa puzza tremenda?» chiese Ashley. Aveva ancora la voce impastata, come se fosse ubriaco. «Ce lo dica lei», propose Nawaz, provando una punta di apprensione. «A cosa le fa pensare questo odore?» «Alla merda di maiale, se devo tirare a indovinare. Cosa diavolo state facendo?» L'intuizione di un potenziale disastro pervase Nawaz come una leggera ma sgradevole scossa elettrica, lasciandogli nello stomaco una sensazione che solo i chirurghi esperti conoscono. Guardò Daniel in cerca di appoggio, ma lui si limitò ad alzare le spalle: aveva una scarsa esperienza personale in fatto di chirurgia, ed era solo confuso. «Sterco di maiale? Che cosa significa?» «Dato che qua dentro non ci sono maiali, temo che abbia un'allucinazione olfattiva», spiegò Nawaz, con un tono come se fosse in collera. «C'è qualche problema?» gli chiese Daniel. «Mettiamola così: mi preoccupa. Possiamo sperare che non sia niente, ma consiglio di non terminare l'impianto. È d'accordo? Gli abbiamo comunque impiantato più del novantanove per cento di cellule.» «Se c'è qualche rischio, sì certo.» A Daniel non importava che si arrivasse assolutamente alla fine. Aveva deciso la quantità di cellule in base a un calcolo puramente ipotetico, basato sugli esperimenti con i topi. Ciò che lo preoccupava era la reazione di Nawaz: capiva che era preoccupato, ma non aveva idea del perché un cattivo odore fosse tanto allarmante. L'ultima cosa di cui aveva bisogno era una complicazione di qualsiasi tipo, adesso che era così vicino al successo. «Sto per ritirare l'ago», annunciò Nawaz a Newhouse, anche se non c'era da somministrare l'anestesia per inalazione. Con la stessa precauzione e lentezza con cui aveva inserito l'ago, compì l'operazione inversa. Una volta
che la punta fu uscita dal cervello, controllò se ci fossero segni di emorragia. Per fortuna, non ce n'erano. «L'ago è fuori!» annunciò e lo porse a Constance. Fece un respiro profondo e sollevò il telo per esaminare il paziente. Sentiva lo sguardo di Daniel alle proprie spalle. L'espressione di repulsione che prima era evidente sul volto di Ashley si era trasformata in irritazione. La bocca adesso era stretta, con le labbra premute insieme, a formare una linea. Gli occhi erano spalancati e le narici allargate. «Sta bene, signor Smith?» chiese Nawaz. «Voglio andarmene fuori di qua al più presto!» sbottò Ashley. «Lo sente ancora quell'odore?» «Quale odore?» «Poco fa si lamentava che c'era un cattivo odore.» «Non so di che diavolo sta parlando. Tutto quello che so è che me ne voglio andare!» Facendo all'improvviso la mossa di alzarsi, Ashley spinse contro il nastro adesivo che gli teneva il torso legato alla parte verticale del tavolo operatorio e divincolò le mani. Allo stesso tempo, tirò su le gambe, portandosi le ginocchia al petto. «Tenetelo giù!» gridò Nawaz. Si chinò su di lui, cercando di riportare giù le gambe con il proprio peso. Intanto continuava a tenere sollevato il telo e osservava il volto del paziente diventare rosso per lo sforzo. Daniel si precipitò ai piedi del tavolo operatorio e allungò le mani sotto i teli per afferrare le caviglie. Cercò di tirarle giù e fu sorpreso dalla forza del senatore nell'opporre resistenza. Newhouse aveva lasciato andare la spalla per afferrargli il polso che si era liberato dal nastro adesivo. Marjorie girò attorno al tavolo per afferrare l'altro braccio, che pure stava per liberarsi. «Signor Smith, si calmi!» gridò Nawaz. «Va tutto bene!» «Non toccatemi, fottuti animali!» urlò a sua volta Ashley. Sembrava un ubriaco bellicoso che resisteva a tutti gli sforzi per tenerlo fermo. Stephanie, Spencer e Paul entrarono di corsa in sala operatoria, infilandosi le mascherine. Diedero una mano anche loro, in modo che Marjorie avesse l'opportunità di rafforzare la presa sul polso e aiutasse Daniel e rimettere giù le gambe dell'irrequieto paziente. Adesso che aveva le mani libere. Newhouse ricontrollò la pressione arteriosa. Il bip del monitor cardiaco, intanto, era accelerato considerevolmente. Marjorie uscì dalla stanza per andare a prendere un paio di cinghie di cuoio per le caviglie. «Va tutto bene», ripeté Nawaz ad Ashley, una volta che lo ebbero nuo-
vamente sotto controllo. Fissò il volto che era diventato rosso porpora per lo sforzo e che aveva un'espressione provocatoria e rabbiosa. «Deve calmarsi! Dobbiamo richiudere la piccola incisione e poi abbiamo finito. Dopo potrà alzarsi. Ha capito?» «Siete tutti un branco di pervertiti. Lasciatemi andare, cazzo!» L'uso di quel linguaggio osceno colpì tutti, quanto la violenta reazione fisica. Per un attimo, nessuno si mosse né disse nulla. Nawaz fu il primo a riprendersi. Adesso che il paziente era saldamente legato, si sollevò da lui e tutti notarono l'erezione del pene, che si notava sotto i teli. «Vi prego, lasciatemi liberi le mani e i piedi!» chiese Ashley in tono lamentoso, mentre si metteva a piangere. «Sanguinano.» Gli occhi di tutti andarono immediatamente alle estremità di Ashley, in particolare quelli di Daniel, che continuava a tenergli le caviglie mentre Marjorie stava ancora lottando per fissarle con le cinghie di cuoio. «Non c'è sangue», replicò Paul. «Di cosa sta parlando?» «John, mi ascolti!» intervenne di nuovo Nawaz. Gli teneva ancora sollevato il telo sopra il volto. «Le sue mani e i suoi piedi non sanguinano. Sta bene. Deve solo rilassarsi per qualche altro minuto, in modo che io possa finire.» «Non mi chiamo John», disse Ashley a bassa voce. Le lacrime erano sparite rapidamente com'erano comparse. Anche se dalla voce sembrava ancora ubriaco, si era calmato improvvisamente. «Se non si chiama John, come si chiama, allora?» Daniel scoccò un'occhiata preoccupata a Stephanie, che aveva fatto un passo indietro dopo aver aiutato a tenere ferme le mani di Ashley. Oltre a tutte le altre preoccupazioni adesso ce n'era un'altra: che il senatore rivelasse la sua vera identità, sotto l'effetto del sedativo. Quali sarebbero state le conseguenze finali del progetto non sapeva, ma di certo non ne sarebbe uscito niente di buono, non con l'esigenza di segretezza mostrata fino ad allora. «Mi chiamo Gesù», rispose Ashley a bassa voce, mentre chiudeva gli occhi con espressione beata. Quasi tutti rimasero nuovamente sbalorditi e si scambiarono sguardi confusi, ma non Nawaz. La sua reazione fu di chiedere a Newhouse che cosa avesse somministrato al paziente come sedativo prima dell'intervento. «Diazepam e fentanile per via endovenosa», rispose l'anestesista. «Pensa che si potrebbe dargliene senza problemi un'altra dose?»
«Certo. Vuole che lo faccia?» «Prego!» Newhouse si affrettò a preparare una siringa con cui aspirò il miscuglio di farmaci che iniettò poi nella fleboclisi. «Perdonali, padre», mormorò Ashley senza aprire gli occhi, «perché non sanno quello che fanno.» «Che cosa sta succedendo?» sussurrò Paul. «Questo tizio pensa di essere Gesù Cristo crocefisso?» «È qualche strana reazione ai farmaci?» si informò Spencer. «Ne dubito», rispose Nawaz. «Ma, quale ne sia la causa, è di certo un attacco epilettico.» «Cosa?» Paul era incredulo. «Non è come gli attacchi che ho visto.» «È una crisi epilettica del lobo temporale.» «Che cosa l'ha provocata, se non i farmaci? Infilargli l'ago nel cervello?» «Se fosse stato l'ago, sarebbe accaduta prima. Dato che si è verificata verso la fine dell'impianto, dobbiamo presumere che sia legata a quello.» Nawaz guardò l'anestesista. «Può controllare se si è addormentato?» Newhouse infilò una mano sotto il telo e scosse delicatamente la spalla del paziente. «Nessuna reazione?» chiese a Nawaz. Il neurochirurgo scosse la testa e abbassò il telo sul viso di Ashley, poi sospirò e si voltò a guardare Daniel, incrociando sul petto le mani ancora infilate nei guanti. Daniel sentì le gambe diventare di gelatina, mentre incrociava il suo sguardo fisso. Capiva che il medico pakistano era molto preoccupato, e questo indeboliva la compostezza che lui cercava di mantenere. Il timore di una complicazione, che gli era fluttuato nella mente fin dal momento in cui Butler si era lamentato di sentire un odore, ritornò con la forza dirompente del mare che travolge una diga. «Credo che gli possa lasciar andare le caviglie», gli disse Nawaz. Daniel abbandonò la presa che aveva mantenuto distrattamente, anche dopo che Marjorie aveva fissato le cinghie di cuoio. «Questo attacco mi preoccupa», aggiunse Nawaz. «Non solo sono convinto che non è provocato dai farmaci, ma il fatto che sia avvenuto mentre erano ancora attivi fa pensare che ci sia un violento disturbo centrale del cervello.» «Perché non potrebbe essere collegato ai farmaci?» chiese Daniel, spinto più dalla speranza che dalla ragione. «Non si potrebbe trattare di un sogno indotto dai sedativi? Voglio dire, il diazepam e il fentanile per endovena
sono una mistura potente. Combinata con la forte suggestione legata alla Sacra Sindone, potrebbe scatenare sfrenati voli di fantasia.» «Che cosa c'entra la Sacra Sindone?» «Ha a che fare con le cellule terapeutiche. È una lunga storia: prima di iniziare la clonazione, un po' di geni del paziente sono stati sostituiti da quelli ottenuti dal sangue che si trova sulla Sindone. Era stata una richiesta specifica del paziente, che crede nell'autenticità di quella reliquia. Ha perfino detto che sperava nell'intervento divino.» «Suppongo che questo potrebbe svolgere un ruolo nel tipo di illusione che vive il paziente, ma il fatto che l'attacco abbia avuto luogo con l'impianto non può essere negato.» «Ma come fa a esserne così sicuro?» insisté Daniel. «Per il momento in cui è iniziato e per l'allucinazione olfattiva», spiegò Nawaz. «L'odore di cui parlava era un'aura, e una caratteristica della crisi epilettica del lobo temporale è che inizia con un'aura. Altre caratteristiche sono l'iperreligiosità, profondi cambiamenti dell'umore, intensi impulsi della libido e atteggiamento aggressivo, e sono comparsi tutti, nel breve tempo in cui il paziente è rimasto sveglio. È stato un esempio classico.» «Che cosa dovremmo fare?» domandò Daniel, che temeva la risposta. «Pregare che si sia trattato di un fenomeno momentaneo. Purtroppo, data l'intensità con cui si è mostrato, mi sorprenderei se nel paziente non insorgesse un'epilessia del lobo temporale conclamata.» «Non c'è niente che si possa fare, come trattamento profilattico?» chiese Stephanie. «Ciò che vorrei fare ma non posso è visualizzare le cellule terapeutiche», rispose Nawaz. «Mi piacerebbe vedere dove sono finite. Allora magari potremmo fare qualcosa.» «Che cosa intende con 'dove sono finite'?» chiese Daniel. «Mi ha detto che, con la sua esperienza nell'uso del casco stereotassico per le iniezioni, non aveva mai avuto il problema di non essere dove avrebbe dovuto.» «Vero, ma non ho mai avuto un paziente che è stato colpito da attacco epilettico durante una procedura come questa. C'è qualcosa che non va.» «Vorrebbe dire che le cellule potrebbero non essere nella substantia nigra?» protestò Daniel. «Se è così, non voglio sentirlo!» «Senta!» sbottò Nawaz. «E stato lei a incoraggiarmi ad andare avanti pur non avendo la necessaria attrezzatura radiologica.» «Non litighiamo», intervenne Stephanie. «Le cellule terapeutiche possono essere visualizzate.»
Tutti gli sguardi si puntarono su di lei. «Abbiamo incorporato in quelle cellule un antigene di superficie proveniente da un insetto», spiegò Stephanie. «Avevamo fatto la stessa cosa negli esperimenti con i topi, proprio per poter visualizzare in seguito le cellule impiantate. Abbiamo un anticorpo monoclonale contenente un metallo pesante radioopaco, messo a punto da un radiologo che ha collaborato con noi. È sterile e pronto all'uso. Deve solo essere iniettato nel liquido cerebrospinale nello spazio subaracnoideo. Con i topi ha funzionato perfettamente.» «Dov'è?» chiese Nawaz. «Nel laboratorio, nell'edificio numero uno. È sulla scrivania dell'ufficio che ci hanno assegnato.» «Marjorie!» chiamò Paul, perentorio. «Telefona a Megan Finnigan, in laboratorio! Dille di prendere l'anticorpo e di portarlo qua immediatamente.» 26 Domenica 24 marzo 2002 - ore 14.15 Il dottor Jeffrey Marcus era un radiologo che lavorava al Doctors Hospital in Shirley Street, a Nassau. Spencer aveva stretto un accordo con lui affinché coprisse di volta in volta le necessità della Wingate Clinic, fin quando non avessero avuto un radiologo a tempo pieno. Appena fu deciso di sottoporre Butler alla TAC, Spencer lo fece chiamare e, essendo domenica pomeriggio, il dottor Marcus poté arrivare immediatamente. Nawaz era contento che fosse lui il radiologo, infatti lo conosceva fin dai tempi di Oxford e sapeva che aveva molta esperienza nel campo neuroradiologico. Anche Marcus, come Newhouse, era un inglese che aveva deciso di espatriare per sfuggire al clima inclemente e aveva scelto le Bahamas. «Queste sono sezioni trasversali del cervello, a partire dalla calotta del ponte», spiegò puntando verso il monitor del computer la gomma con cui terminava la matita gialla che teneva in mano. «Procederemo in avanti un centimetro alla volta e dovremmo arrivare al livello della substantia nigra tra una o due inquadrature al massimo.» Sedeva davanti al computer, con Daniel alla sua sinistra. Sempre a sinistra, ma in piedi e un po' chinato per vedere meglio, c'era Nawaz. Vicino alla finestra che dava sulla stanza della TAC stavano Paul, Spencer e Ne-
whouse, che reggeva una siringa pronta con un'altra dose di sedativo, ma non era stato necessario iniettarla. Ashley non si era svegliato da quando gli avevano somministrato la seconda dose e aveva dormito mentre gli richiudevano con i punti il foro della craniotomia, gli toglievano il casco stereotassico e lo trasferivano sul tavolo della TAC. In quel momento giaceva supino con la testa dentro l'apertura della gigantesca macchina a forma di ciambella e sembrava l'immagine della serenità. Gli avevano incrociato le mani sul petto, lasciando le cinghie di cuoio ai polsi senza però fissarle. Il liquido della fleboclisi continuava a scorrere. Stephanie si teneva un po' indietro rispetto agli altri e stava appoggiata al ripiano di un banco, le braccia incrociate. Senza farsene accorgere da nessuno, stava lottando per non piangere. Sperava che nessuno si rivolgesse a lei, perché temeva che in quel caso avrebbe perso il controllo. Aveva anche pensato di uscire dalla stanza, ma questo avrebbe attirato ancora di più l'attenzione, quindi rimase dov'era e continuò a soffrire in silenzio. Senza nemmeno guardare la schermata della TAC che stava per essere visualizzata, sapeva che durante l'impianto si era verificata una grave complicanza e questo aveva distrutto il suo controllo emotivo, già messo a dura prova da tutto ciò che era accaduto nell'ultimo mese. Si rimproverò per non aver dato retta al proprio intuito, all'inizio di quella vicenda farsesca che ora si stava trasformando in una potenziale tragedia. «Ecco, ci siamo!» esclamò il radiologo, indicando di nuovo l'immagine sul monitor. «Questo è il mesencefalo, e questa è la zona della substantia nigra, e purtroppo non vedo la radiotrasparenza che ci si aspetterebbe da un anticorpo monoclonale evidenziato da metalli pesanti.» «Forse l'anticorpo deve ancora diffondersi dal liquido neurospinale nel cervello», suggerì Nawaz. «O forse non c'è un unico antigene di superficie sulle cellule usate per la terapia. Siete sicuri che il gene inserito fosse manifesto?» «Ne sono certo», rispose Daniel. «Lo ha verificato la dottoressa D'Agostino.» «Magari dovremmo ripetere la TAC tra qualche ora.» «Con i topi, lo vedevamo entro mezz'ora, al massimo quarantacinque minuti», obiettò Daniel e guardò l'orologio. «Il cervello umano è più grosso, ma abbiamo usato una maggiore quantità di anticorpo, ed è passata un'ora. Dovremmo vederlo. Deve esserci!» «Aspettate!» esclamò il dottor Marcus. «Lateralmente c'è della radiotrasparenza diffusa.» Spostò la gomma della matita a destra, di circa un cen-
timetro. I punti luminosi erano appena accennati, come fiocchi di neve contro un vetro smerigliato. «Oh, mio Dio!» gridò Nawaz. «È nella parte mediana del lobo temporale. Non c'è da stupirsi che abbia avuto un attacco epilettico.» «Guardiamo la prossima immagine.» Già la si vedeva apparire, occupando gradatamente tutto lo schermo, come se si srotolasse. «Adesso si vede ancora meglio.» Marcus picchiettò la gomma contro il monitor. «Direi che è nella zona dell'ippocampo, ma per localizzarla in modo più preciso dovremmo insufflare dell'aria nel corno temporale del ventricolo laterale. Vuoi che lo faccia?» «No!» rispose con enfasi Nawaz. Si raddrizzò, afferrandosi la testa con le mani. «Come diavolo è potuto accadere che l'ago entrasse così lontano? Non posso crederci. Sono perfino tornato a guardare le radiografie, ho ripreso le misure, e poi ho controllato la posizione sulla guida. Era tutto assolutamente preciso.» Sollevò le mani dalla testa e le allargò per aria, come a implorare perché qualcuno gli spiegasse che cos'era accaduto. «Forse il casco si è spostato un po', quando abbiamo colpito lo stipite della porta con il tavolo operatorio?» chiese Newhouse. «Che cosa sta dicendo? Mi avevate detto che il tavolo aveva strusciato contro lo stipite. Che cosa intende esattamente per 'colpito'?» «Quando è successo?» chiese Daniel. Era la prima volta che ne sentiva parlare. «E di quale stipite state parlando?» «È stato il dottor Saunders a dire che lo aveva strusciato, non io», rispose Newhouse, ignorando Daniel. Nawaz rivolse a Paul uno sguardo interrogativo e lui annuì con riluttanza. «Suppongo che sia stato più un colpo che una strusciata, ma non importa. Constance ha detto che il casco era ancorato solidamente quando lo ha afferrato.» «Afferrato?» urlò Nawaz. «Perché lo ha afferrato?» Ci fu un silenzio imbarazzato, mentre Paul scambiava uno sguardo con Newhouse. «Che cos'è, una cospirazione?» insisté Nawaz. «Qualcuno mi risponda!» «C'è stato una specie di colpo di frusta», spiegò l'anestesista. «Io volevo riattaccare al più presto il paziente al monitor, quindi spingevamo il tavolo in fretta. Purtroppo non era allineato con la porta della sala operatoria. Dopo la botta, Constance ha sostenuto il casco. Lei aveva ancora gli indumenti sterili e i guanti. A quel punto eravamo preoccupati per la contaminazione, dato che il paziente si era svegliato e le mani non erano legate.»
«Perché non mi avete riferito tutto questo, quando è accaduto?» «Glielo abbiamo detto», rispose Paul. «Mi avete detto che il tavolo ha sfregato contro lo stipite. È tutta un'altra cosa che sbatterci talmente forte da causare un colpo di frusta.» «Be', forse 'colpo di frusta' è un po' esagerato», si corresse Newhouse. «La testa del paziente è caduta in avanti. Non ha avuto un contraccolpo all'indietro, o simili.» «Dio santo!» bofonchiò Nawaz, in preda allo scoramento. Si lasciò cadere pesantemente in una poltroncina, si tolse la cuffia e scosse la testa per la frustrazione. Non riusciva a credere di essersi lasciato intrappolare in una vicenda così burlesca. Adesso gli era chiaro che il casco stereotassico doveva aver ruotato leggermente ed essersi anche spostato in avanti, o a causa dell'impatto o quando la ferrista lo aveva bloccato. «Dobbiamo fare qualcosa!» intervenne Daniel, dopo essersi ripreso dalla rivelazione sull'incidente e sulle sue tragiche conseguenze. «E che cosa propone?» gli chiese Nawaz in tono derisorio. «Abbiamo erroneamente impiantato una caterva di scellerate cellule che producono dopamina nel lobo temporale del paziente. Non possiamo certo tornare lì e succhiarle via.» «No, ma potremmo distruggerle prima che si diramino diffusamente.» Nella mente di Daniel, una scintilla di speranza cominciava a divampare come un falò. «Abbiamo l'anticorpo monoclonale all'antigene di superficie specifico della cellula. Invece di legare l'anticorpo a un metallo pesante, come abbiamo fatto per la visualizzazione ai raggi X, lo leghiamo a un agente citotossico. Una volta iniettata questa combinazione nel liquido cerebrospinale, bam! i neuroni messi al posto sbagliato vengono annientati. Poi basta che facciamo un altro impianto, questa volta alla parte sinistra del paziente, e siamo a posto.» Nawaz si lisciò all'indietro i lucenti capelli neri e prese per un momento in considerazione l'idea di Daniel. Anche se con un metodo poco ortodosso, si poteva effettivamente ovviare a un disastro per il quale lui era in parte responsabile, ma l'intuito gli diceva di non lasciarsi trascinare ulteriormente in qualche altra procedura sperimentale. «Questa combinazione di anticorpi citotossici l'ha a portata di mano?» Chiedere non faceva danni, pensò Nawaz nel rivolgere a Daniel questa domanda. «No, ma sono certo che potremmo farcela preparare rapidamente dalla stessa ditta che ci ha fornito l'anticorpo e averla nel giro di un giorno.»
«Be', se e quando la riceverà, me lo faccia sapere.» Nawaz si alzò. «Un secondo fa ho detto che non possiamo tornare ad aspirare via le cellule messe nel posto sbagliato. La sfortunata ironia della situazione è che, se non si fa nulla e il paziente finirà con l'essere colpito in modo permanente dall'epilessia del lobo temporale, come avverrà quasi sicuramente, è probabile che dovrà essere sottoposto a qualcosa del genere in futuro. Ma si tratterà di un grosso intervento di neurochirurgia ablativa, che richiederà l'asportazione di molto tessuto cerebrale, con alti rischi connessi.» «Motivo in più per fare ciò che ho proposto», replicò Daniel, che si stava affezionando sempre di più all'idea. All'improvviso, Stephanie si staccò dal banco a cui stava appoggiata e si diresse alla porta. Nonostante il timore di attirare l'attenzione degli altri su di sé, non poteva sopportare di ascoltare una parola di più di quella conversazione. Era come se parlassero di un oggetto inanimato, invece che di un essere umano colpito da una malattia iatrogena. A colpirla in modo particolare era l'atteggiamento di Daniel che, nonostante la tremenda complicanza, continuava a manovrare come un Machiavelli della medicina, ciecamente alla ricerca di propri interessi imprenditoriali, quali che fossero le conseguenze morali. «Stephanie!» la chiamò Daniel. «Stephanie, perché non telefoni a Peter, a Cambridge, per dirgli...» La porta le si chiuse alle spalle, e non udì più la sua voce. Corse lungo il corridoio e si diresse verso i servizi delle donne, dove sperava di poter piangere in pace. Era sconvolta da tantissime cose, ma soprattutto perché sapeva che anche lei era responsabile quanto chiunque altro di ciò che era accaduto. 27 Domenica 24 marzo 2002 - ore 19.42 «Ora, non è che voglio essere una seccatura per voi gente di talento», dichiarò Ashley, ricorrendo al suo tipico accento strascicato, «e non intendo sembrare ingrato per tutti i vostri sforzi. Mi scuso dal profondo del cuore, ma non c'è modo che io rimanga qui stanotte.» Era seduto in un letto che aveva la parte posteriore sollevata al massimo. Non indossava più la camicia da ospedale, ma i chiassosi abiti da turista, e l'unica traccia del recente intervento chirurgico era una fasciatura sulla
fronte. Si trovava nel reparto degenti della Wingate, in quella che sembrava più una camera d'albergo che una stanza d'ospedale. Le tinte avevano tonalità vivaci, tropicali, con le pareti color pesca e le tende dove si mescolavano il verde-mare e il rosa shocking. Daniel stava alla sua destra e faceva di tutto per dissuaderlo dal lasciare la clinica. Stephanie si teneva ai piedi del letto, mentre Carol Manning era rannicchiata su una bassa poltrona vicino alla finestra, con le scarpe sul pavimento e ì piedi infilati sotto di sé. Dopo la TAC, Ashley era stato portato in quella stanza e messo a letto per smaltire il sedativo continuando a dormire. Nawaz e Newhouse se n'erano andati dopo essersi accertati che le sue condizioni fossero stabili. Entrambi avevano dato a Daniel il numero dei loro cellulari per essere chiamati se si fosse presentato qualche problema, in particolare un altro attacco epilettico. Newhouse aveva anche lasciato una fiala con la mistura di fentanile e diazepam che si era mostrata così efficace, con l'indicazione di somministrarne due cc. per via intramuscolare o endovenosa, in caso di necessità. Tecnicamente, Ashley era sotto le cure di un'infermiera dall'aspetto impeccabile, Myron Hanna, che quando la Wingate si trovava nel Massachusetts era responsabile della sala di rianimazione postoperatoria. Daniel e Stephanie, però, erano rimasti assieme a Carol Manning al capezzale di Ashley per le quattro ore trascorse prima che si svegliasse. Per un po' erano rimasti anche Paul Saunders e Spencer Wingate, ma poi se n'erano andati, assicurando che sarebbero stati raggiungibili, se ci fosse stato bisogno di loro. «Senatore, dimentica ciò che le avevo detto», insisté Daniel, con tutta la pazienza di cui era capace. A volte gli sembrava di avere a che fare con un bambino di tre anni. «No. Capisco che c'è stato un piccolo problema durante l'intervento», replicò Ashley, mettendogli una mano sulle braccia conserte, per placarlo. «Adesso però mi sento bene. Anzi, mi sento come quel giovincello che so di non essere, il che è tutto merito delle sue facoltà di Esculapio. Prima dell'impianto mi aveva detto che avrei potuto non accorgermi di grandi cambiamenti per qualche giorno, e che comunque sarebbero stati graduali, ma chiaramente non è così. In confronto a come mi sentivo stamattina, sono già guarito. Il mio tremore è quasi scomparso e mi muovo decisamente con più facilità.» «Sono contento che si senta così», replicò Daniel scuotendo la testa,
«ma probabilmente dipende più che altro dal suo atteggiamento positivo o dai forti sedativi che le hanno somministrato. Senatore, noi riteniamo che abbia bisogno di un'ulteriore terapia e, come le ho detto, sarà più al sicuro se rimarrà qui in clinica, con tutte le risorse mediche a portata di mano. Ricordi, durante l'intervento ha avuto un attacco epilettico e in quel frangente si comportava come se fosse una persona completamente diversa.» «Come potrei comportarmi come qualcun altro? Ho già dei problemi a essere me stesso!» Ashley rise, ma nessuno gli fece eco. Si guardò attorno. «Che cos'avete che non va, gente? Vi comportate tutti come se fosse un funerale, invece di una festa. È davvero difficile per voi credere che mi sento bene?» Daniel aveva spiegato a Carol che le cellule usate per la terapia erano state impiantate inavvertitamente in una zona un po' spostata rispetto a quella prescelta. Anche se aveva minimizzato la gravità della complicanza, l'aveva messa al corrente della crisi epilettica e del rischio che potevano verificarsene altre, ammettendo la necessità di intervenire ancora. Per spiegare come mai i polsi e le caviglie del senatore fossero legati, aveva anche dovuto ammettere quanto tutti si preoccupassero di cosa poteva succedere al suo risveglio. Per fortuna, però, Ashley si era svegliato con la sua solita personalità istrionica, come se nulla fosse accaduto. Come prima cosa aveva insistito che lo liberassero, in modo da alzarsi dal letto. Ci era riuscito e, passato un leggero giramento di testa, aveva chiesto di rimettersi i vestiti con cui era arrivato. A quel punto, era pronto a tornare in albergo. Intuendo che non riusciva a imporsi, Daniel guardò le due donne, ma nessuna di loro venne in suo aiuto. A quel punto guardò di nuovo Ashley. «Che ne dice di negoziare?» gli propose. «Rimane qua in clinica per ventiquattr'ore, e dopo ne riparliamo.» «È evidente che ha scarsa esperienza di negoziazioni», commentò Ashley con un'altra risata. «Ma non ne approfitterò. La questione è che non potete tenermi qui contro la mia volontà. È mio desiderio tornare in albergo, come l'ho informata ieri. Portate con voi qualsiasi tipo di farmaco che volete, e se c'è bisogno possiamo sempre ritornare qua. Ricordi, lei e l'incantevole dottoressa D'Agostino sarete poco più in là, nel mio stesso corridoio.» Daniel sollevò gli occhi verso il soffitto e borbottò: «Io ci ho provato!» Sospirò e si strinse nelle spalle. «Sì, lo ha fatto, dottore. Carol, cara, spero che l'autista della limousine sia sempre lì fuori ad aspettarci.»
«Per quanto ne so», rispose Carol. «C'era, quando ho controllato un'ora fa, e gli ho detto di rimanere fino a contrordine.» «Perfetto!» Ashley gettò i piedi a terra con uno slancio che sorprese tutti, compreso lui. «Alleluia! Non pensavo che avrei potuto farlo, stamattina.» Si mise in piedi. «Bene, allora. Questo ragazzo di campagna è pronto a tornare ai piaceri dell'Atlantis e agli splendori della suite Poseidone.» Un quarto d'ora dopo, nel parcheggio davanti alla Wingate Clinic nacque una discussione su come distribuirsi tra le due auto. Alla fine fu deciso che Daniel e Carol sarebbero andati con Ashley sulla limousine, mentre Stephanie avrebbe guidato l'auto a noleggio. Carol si era offerta di farle compagnia, ma lei le aveva assicurato che andava bene così e in realtà preferiva restare da sola. Daniel aveva con sé la fiala del sedativo, diverse siringhe, una manciata di compresse imbevute d'alcool sigillate individualmente e un laccio emostatico, il tutto sistemato in una piccola trousse nera chiusa da una cerniera, omaggio di Myron. Sentiva che era imperativo per lui rimanere accanto al senatore, almeno fin quando non fosse stato al sicuro nella sua suite. Daniel sedeva dando le spalle al divisorio di vetro che li separava dall'autista. Dirimpetto a lui stavano Carol e Ashley, i cui visi erano illuminati a intermittenza dai fari dei veicoli che incrociavano. Ashley faceva gran mostra di sentirsi euforico e si era immerso in un'animata conversazione con Carol sugli impegni politici che lo aspettavano dopo la pausa del Congresso. In realtà, più che una conversazione era un monologo, dato che lei si limitava ad annuire o a dire di sì a intervalli poco frequenti. Mentre Ashley parlava, Daniel cominciò a rilassarsi dalla tensione per il timore di un'altra crisi epilettica e la conseguente preoccupazione di dovergli somministrare il sedativo. Se la crisi fosse stata simile a quella verificatasi in sala operatoria, sapeva che era praticamente impossibile tentare un'iniezione endovenosa e avrebbe dovuto ripiegare su una intramuscolare. Il problema in questo caso era che il farmaco avrebbe impiegato più tempo a fare effetto e un ritardo poteva essere problematico se la crisi avesse assunto un carattere aggressivo, come aveva avvertito il dottor Nawaz. Considerando la mole del senatore e la sua forza sorprendente, Daniel sapeva che lottare con lui nello spazio limitato dell'auto sarebbe stato un incubo. Più si rilassava, più la sua mente riusciva ad andare oltre la preoccupazione per gli attacchi epilettici. Si sorprese sempre di più per il grado di mobilità mostrato da Ashley, la normalità delle espressioni facciali e la facilità con cui modulava la voce. Era di gran lunga un altro, rispetto all'in-
dividuo semiparalizzato che aveva visto quella mattina. Ne rimase sconcertato, dato che le cellule terapeutiche non si trovavano nel posto giusto, come aveva mostrato fin troppo chiaramente la TAC. Ma gli effetti che aveva davanti non erano dovuti al sedativo o all'autosuggestione, come aveva suggerito poco prima. Ci doveva essere qualche altra spiegazione. Come tutti gli scienziati, Daniel era consapevole che la scienza di tanto in tanto faceva grandi balzi in avanti non solo grazie al duro lavoro, ma anche per pura fortuna. Cominciò a chiedersi se il posto sbagliato che occupavano ora le cellule terapeutiche fosse magari particolarmente adatto per i neuroni produttori di dopamina. Non aveva senso, infatti sapeva che la zona del sistema limbico in cui ora si trovavano non era un modulatore del movimento, ma aveva piuttosto a che fare con l'olfatto, con i comportamenti involontari come il sesso e con le emozioni. Però, molto ancora del cervello umano e delle sue funzioni restava un mistero e al momento Daniel era contento di vedere un risultato così positivo scaturire dai suoi sforzi. Quando arrivarono all'Atlantis, Ashley mise in chiaro che per scendere dall'auto non aveva bisogno di assistenza da parte dei portieri. Quando si mise in piedi ebbe un'altra piccola vertigine e dovette appoggiarsi un attimo a Carol, ma gli passò in fretta, permettendogli di camminare quasi normalmente nell'attraversare l'atrio e nel dirigersi verso gli ascensori. «Dov'è la splendida dottoressa D'Agostino?» chiese mentre aspettavano. Daniel si strinse nelle spalle. «O è arrivata prima di noi, oppure sarà qui tra breve. Non sono preoccupato. È una ragazza adulta.» «Già! È sveglia come un furetto.» Nel corridoio del trentaduesimo piano Ashley camminò davanti agli altri, come se volesse mostrare le sue nuove capacità. Anche se stava ancora un po' ingobbito, si muoveva in modo quasi normale e faceva oscillare le braccia, mentre quella mattina le aveva tenute penzoloni. Carol aprì la porta con la carta magnetica e si fece da parte per lasciarlo passare. Entrando, Ashley accese le luci. «Ogni volta che fanno le pulizie, chiudono tutto come se volessero far sembrare questo posto una cantina per le patate», si lamentò. Si avvicinò agli interruttori inseriti nella parete e attivò contemporaneamente le tende e i pannelli mobili di vetro. Di notte, la vista dall'interno della suite non era teatrale come di giorno, infatti l'oceano era una vasta distesa nera. Dal balcone però era diverso, e fu lì che andò Ashley. Appoggiò le mani alla fredda balaustra di pietra, si sporse e osservò il vasto parco acquatico semicircolare dell'Atlantis che si
allargava davanti a lui. Con la sua profusione di piscine, cascate, passerelle, acquari, tutti illuminati in modo fantasioso, era una festa per gli occhi, dopo lo stress di quella giornata. Carol sparì nella propria stanza, mentre Daniel si avvicinò alla soglia del balcone. Rimase per un attimo a guardare il senatore che chiudeva gli occhi e sollevava il viso per esporlo alla fresca brezza tropicale che spirava dall'oceano. Il vento gli muoveva i capelli e le mezze maniche della camicia a fiori; per il resto, era immobile. Daniel si chiese se stesse pregando o comunicando in qualche suo modo personale con il proprio Dio, adesso che pensava di avere i geni di Gesù inseriti nel cervello. Guardandolo, gli venne da sorridere. All'improvviso si sentiva più ottimista sulla riuscita della cura, rispetto ai frenetici momenti dopo la fine dell'intervento, e decisamente più ottimista di quando aveva visto le immagini della TAC. Cominciò a chiedersi se ci fosse di mezzo un miracolo. «Senatore!» chiamò dopo cinque minuti in cui non lo aveva visto muovere un muscolo. «Non voglio disturbarla, ma credo che andrò nella mia stanza.» Ashley si voltò e sembrò sorpreso di vederlo lì. «Oh, dottor Lowell!» lo chiamò. «Che bello vederla!» Si staccò dalla balaustra e gli andò incontro. Prima di sapere che cosa stava accadendo, Daniel si ritrovò stretto in un abbraccio da orso che lo costrinse a tenere le braccia strette contro i fianchi. Imbarazzato, si lasciò abbracciare, ma forse non aveva scelta. Era una dimostrazione di quanto il robusto senatore fosse più grosso e più pesante di lui. L'abbraccio continuò per un tempo che lui ritenne irragionevole e, proprio quando stava per esprimere a voce la propria impazienza, Ashley lo lasciò andare e fece un passo indietro, tenendogli però una mano arpionata sulla spalla. «Mio caro, caro amico!» esclamò. «Voglio ringraziarla dal profondo del cuore per tutto ciò che ha fatto. Lei è un tributo alla sua professione.» «Be', grazie per le sue parole», mormorò Daniel. Si accorse di arrossire e fu ancora più imbarazzato. Carol riapparve dalla sua stanza e questo gli diede l'opportunità di sottrarsi alla stretta. «Sto andando in camera mia», le annunciò. «Si conceda un buon riposo!» gli ordinò Ashley, come se il medico fosse lui, poi gli assestò una pacca sulla schiena che lo costrinse a fare un passo in avanti, per non perdere l'equilibrio. Quindi si voltò e tornò vicino alla balaustra, dove assunse di nuovo la stessa posa meditabonda di poco pri-
ma. Carol accompagnò Daniel alla porta. «C'è qualcosa che dovrei sapere, o fare?» gli domandò. «Le ho già detto tutto. Sembra star bene. Di certo, meglio di quanto mi aspettassi.» «Dev'essere molto fiero.» «Be', sì, suppongo», balbettò Daniel. Non era sicuro se si riferisse a come stava il senatore al momento oppure se fosse un'allusione sarcastica alla complicanza insorta durante l'intervento. Il tono di quella donna, come pure il largo viso privo di espressione, era difficile da decifrare. «A cosa devo stare attenta, in particolare?» «A qualsiasi cambiamento nel suo stato di salute o nel comportamento. So che lei non ha una preparazione medica, quindi faccia del suo meglio. Avrei preferito che stanotte rimanesse in clinica, così da monitorare i suoi segni vitali, ma non ha voluto. È una persona caparbia.» «Questa è una definizione riduttiva», commentò Carol. «Baderò a lui come faccio di solito. Dovrei vegliarlo durante la notte? Qualcosa del genere?» «No, non credo che sia necessario, visto che sta bene. Ma, nel caso si presentasse qualche problema o se le vengono dei dubbi, mi chiami, a qualsiasi ora.» Carol aprì la porta per farlo uscire e gliela richiuse alle spalle, senza aggiungere altro. Lui rimase per un momento a fissare le sirene intagliate. La sua era una preparazione da scienziato puro e sapeva che la psicologia non era il suo forte. Carol Manning lo confermava. Quella donna lo confondeva. Un attimo sembrava l'assistente perfetta, devota, l'attimo dopo sembrava furibonda per il ruolo subordinato in cui era confinata. Daniel sospirò. Be', non era un problema suo, purché lei badasse al senatore durante la notte. Durante il breve tragitto lungo il corridoio, riportò l'attenzione agli sconvolgenti miglioramenti notati in Butler. Era sorpreso, ma enormemente compiaciuto, e non vedeva l'ora di condividere la bella notizia con Stephanie. Quando entrò nella loro suite si stupì di non vederla. Non era nemmeno in camera da letto. Poi udì lo scroscio della doccia. Nel bagno si ritrovò avvolto dal vapore, come se l'acqua calda scorresse da almeno mezz'ora. Abbassò il coperchio del wc e si sedette. Attraverso il vetro smerigliato e appannato del box doccia scorse la sagoma di Stephanie. Sembrava immobile sotto il potente getto.
«Ehi, stai bene?» chiamò. «Sto meglio», rispose lei. Meglio? Si chiese Daniel. Non aveva idea di che cosa intendesse, anche se gli venne in mente che per tutto il pomeriggio era stata alquanto silenziosa. Si ricordò anche della sua risposta priva di tatto all'offerta di Carol di farle compagnia in macchina, però ammise che anche lui avrebbe risposto allo stesso modo, se fosse stato al suo posto. Solo che Stephanie, a differenza di lui, in genere si preoccupava per i sentimenti delle persone. Daniel non si considerava scortese o rozzo, semplicemente non si poteva preoccupare di quelle cose. La gente doveva capire che lui aveva troppe cose importanti da fare per badare alle finezze dei rapporti sociali. Si chiese se fosse il caso di tornare in soggiorno e prendersi qualcosa dal minibar. Era stata una delle giornate più stressanti della sua vita. Decise però di rimanere lì. Era impaziente di riferire a Stephanie come stava Butler. Il drink poteva aspettare. Ma lei non si muoveva. «Ehi, là dentro!» chiamò dopo un po'. «Vieni fuori o che cosa?» Stephanie socchiuse la porta e ne uscirono volute di vapore. «Mi spiace. Stai aspettando per farti la doccia anche tu?» Daniel scacciò via il vapore dal viso agitando una mano. Sembrava di essere in un bagno turco. «No, sto aspettando di parlare con te.» «Be', forse allora non dovresti aspettare. Non sono sicura di essere in vena di parlare.» Non era ciò che Daniel si aspettava di sentire e lo invase un'ondata di irritazione. Con tutto quello che era accaduto nelle ore precedenti, aveva bisogno di un po' di sostegno e se lo meritava, anche: non gli pareva di chiedere troppo. All'improvviso si alzò, uscì dal bagno e sbatté la porta. Mentre si versava una birra fredda, ci rimuginò sopra. Non aveva bisogno di altri motivi per irritarsi. Si stravaccò sul divano e si concentrò sulla birra che cominciò a sorbire a piccoli sorsi. Quando comparve Stephanie, avvolta in un telo da bagno, si era ripreso. «Da come hai sbattuto la porta, direi che sei infuriato», osservò lei con voce calma. Si era fermata sulla soglia della camera da letto. «Volevo solo farti sapere che sono fisicamente ed emotivamente esausta. Ho bisogno di dormire. Ci siamo svegliati alle cinque, stamattina, per accertarci che tutto fosse a posto.» «Anch'io sono stanco. Volevo solo dirti che Ashley sta andando incredibilmente bene. Quasi tutti i sintomi del morbo di Parkinson sono misteriosamente migliorati.»
«Bene. Purtroppo, però, questo non cambia il fatto che l'impianto è andato storto.» «Forse non è andato storto! Ti sto dicendo che resterai sorpresa. È un altro uomo.» «È di sicuro un altro uomo. Abbiamo inavvertitamente inserito un'orda di cellule produttrici di dopamina da qualche parte nel suo lobo temporale. Un neurochirurgo ricco di esperienza è fermamente convinto che soffrirà di crisi epilettiche del lobo temporale. Per Ashley, sarà ancor peggio del Parkinson.» «Ma non ha più avuto un attacco da quando era in sala operatoria! Ti sto dicendo che va a meraviglia.» «Non ha ancora avuto un attacco.» «Se ha qualche problema, possiamo affrontarlo nel modo che ho suggerito al dottor Nawaz.» «Intendi con l'agente citotossico attaccato all'anticorpo monoclonale?» «Esattamente.» «Puoi farlo, se proprio sei deciso, e se riuscirai a convincere Ashley a sottoporsi a un esperimento così azzardato, ma non sarà 'noi'. Io non ci sto. Non lo abbiamo nemmeno provato nella coltura delle cellule, tanto meno negli animali, e quindi sarebbe ancora meno etico di ciò che abbiamo già fatto.» Daniel fissò Stephanie. Sentiva l'irritazione sommergerlo un'altra volta. «Da che parte stai?» le chiese. «Abbiamo deciso di curare Ashley per salvare la ROTS e la CURE, e, perdio, ci riusciremo!» «Mi piace pensare che sto scegliendo la parte meno motivata dall'interesse egoistico. Oggi, quando ci siamo accorti che la sala operatoria non era attrezzata con i raggi X, avremmo dovuto interrompere l'intervento. Stavamo giocando d'azzardo con la vita di qualcun altro, per il nostro tornaconto personale.» Stephanie sollevò le mani, mentre Daniel, rosso in volto, apriva la bocca per rispondere. «Se non ti spiace, finiamola qua», aggiunse. «Mi dispiace, ma questo è diventato esattamente il tipo di discussione che non mi sento in grado di sostenere stasera. Te l'ho detto che sono esausta. Magari mi sentirò diversa dopo una notte di sonno. Chissà?» «Bene!» esclamò lui con sarcasmo. «Va' a dormire!» «Tu non vieni?» «Sì, forse.» Adirato, Daniel si alzò e si avvicinò al minibar. Aveva bisogno di un'altra birra.
Daniel non era sicuro di quante volte avesse squillato il telefono, prima che la sua mente esausta incorporasse il suono nell'incubo in cui era immerso. Nel sogno, era di nuovo uno studente di medicina e il telefono era qualcosa da temere. A quei tempi, si trattava spesso di una chiamata per un'emergenza che lui non era preparato ad affrontare. Quando aprì gli occhi, gli squilli erano cessati. Si tirò su a sedere e fissò il telefono ormai silenzioso, chiedendosi se avesse suonato davvero o se lo aveva sognato. Poi lo sguardo vagò per la stanza e si accorse di essere ancora nel soggiorno, vestito, e che le luci erano tutte accese. Dopo due birre, era crollato. Si aprì la porta della camera da letto e comparve Stephanie nel suo pigiama estivo di seta, che strizzava gli occhi e sbatteva le palpebre per la luce. «C'è al telefono Carol Manning», annunciò, con la voce impastata di sonno. «È sconvolta e ti vuole parlare.» «Oh, no!» Daniel tirò giù le gambe dal tavolinetto. Aveva ancora le scarpe addosso. Senza alzarsi, si allungò verso l'estremità del divano e sollevò il ricevitore. Stephanie rimase dove si trovava, per ascoltare. «Ashley si comporta in modo strano», annunciò Carol con voce ansiosa. «Che cosa fa?» Daniel si sentì assalire dal vecchio timore di essere incompetente di fronte a un'emergenza, questa volta non perché non aveva ancora completato la sua preparazione, ma perché da tanti anni era rimasto lontano dalla ciinica medica. «Non è tanto ciò che fa, ma ciò di cui si lamenta. Scusi il linguaggio, ma dice che sente odore di merda di maiale. Lei mi ha detto che se sente qualche odore strano, potrebbe essere importante.» Daniel sentì il cuore saltare un battito e l'ottimismo a cui si era abbandonato svanì immediatamente. Senza dubbio, Ashley aveva un'aura che annunciava l'insorgere di un'altra crisi epilettica del lobo temporale e lui avrebbe dovuto tenerlo a bada, sapendo che quell'episodio sarebbe stato peggiore del primo, come aveva predetto Nawaz. «È aggressivo o dà in escandescenze in qualche modo?» chiese. Si guardò attorno per la stanza, frenetico, alla ricerca della trousse nera contenente le fiale e le siringhe. Per fortuna l'individuò subito, sul tavolo dell'ingresso. «Dare in escandescenze è un po' forte, ma è irritabile. Comunque, è stato irritabile per tutto l'ultimo anno.» «Va bene, stia calma!» Daniel lo disse più per sé che per Carol. «Arrivo immediatamente.» Guardò l'orologio: erano le due del mattino. «Non siamo nella stanza», lo avvertì Carol.
«Dove diavolo siete?» «Nel casinò. Ashley ha insistito. Non c'era niente che potessi fare, ma ci ho provato. Non l'ho chiamata perché sapevo che anche lei non avrebbe potuto farci niente. Quando lui decide di fare una cosa, dev'essere così. Voglio dire, è un senatore.» «Mio Dio!» Daniel si sbatté una mano sulla fronte. «Ha cercato di convincerlo a rientrare nella suite, quando ha detto che sentiva il puzzo di maiale?» «Sì, ma lui mi ha detto di saltare nella vasca degli squali.» «D'accordo! Dove vi trovate, nel casinò?» «Alle slot machine dalla parte dell'oceano, oltre i tavoli della roulette.» «Arrivo immediatamente. Dobbiamo farlo rientrare nella suite!» Daniel balzò in piedi e cercò Stephanie con lo sguardo, ma lei era sparita nella camera da letto. Quando si affacciò alla porta, vide che si era tolta il pigiama e si stava vestendo. «Aspetta!» gridò lei. «Vengo con te! Se avrà un attacco come quello che ha avuto in sala operatoria, avrai bisogno di tutto l'aiuto che potrai ricevere.» «Va bene. Dov'è il cellulare?» Stephanie indicò con la testa verso il cassettone, mentre intanto si abbottonava la camicetta. «Prendilo! Dove sono i numeri di Nawaz e di Newhouse?» «Li ho già in tasca», rispose Stephanie, infilandosi i pantaloni. Daniel corse a prendere la trousse nera. Tanto per sicurezza, l'aprì. La fiala e le siringhe erano al loro posto e solo a vederle si sentì rassicurato. Il trucco era riuscire a somministrare il liquido ad Ashley prima che si scatenasse l'inferno. Stephanie comparve sulla soglia della camera da letto, mentre finiva di infilarsi la camicetta nei pantaloni e con un calcagno ancora fuori dal mocassino. Quando lo raggiunse, lui aveva già aperto la porta della suite. Assieme, corsero verso gli ascensori. Dopo aver premuto il tasto della discesa, Daniel prese il cellulare dalle mani di Stephanie, le fece tenere la trousse e compose il numero di Nawaz. «Dai!» esclamò mentre il telefono continuava a squillare. Proprio mentre arrivava l'ascensore, gli rispose una voce assonnata. «Sono il dottor Lowell. Potrebbe cadere la linea: sto salendo su un ascensore.» Stephanie premette il tasto del piano terreno e le porte si chiusero. «Mi sente ancora?»
«A malapena. C'è qualche problema?» «Ashley ha un'aura olfattiva», annunciò Daniel. Teneva d'occhio l'indicatore dei piani. Nonostante quello fosse un ascensore a elevata velocità, gli sembrava che i numeri decrescessero a una lentezza estenuante. «Chi è Ashley?» chiese Nawaz. «Volevo dire il signor Smith.» Daniel guardò Stephanie, che sollevò gli occhi al cielo. Per lei, era un altro piccolo episodio di tutta quella farsa poco divertente che sembrava non finire mai. «Mi occorreranno circa venti minuti per arrivare alla clinica. Vi consiglio di chiamare il dottor Newhouse. Come le ho già detto, temo che l'attacco sarà peggiore del primo, considerando dove sono collocate quelle cellule. Potremmo avere la stessa squadra.» «Chiamerò il dottor Newhouse, ma non siamo in clinica.» «Dove siete?» «All'Atlantis, su Paradise Island. Al momento, il paziente si trova nel casinò, ma cercheremo di farlo tornare nella camera, che è registrata sotto il nome di Carol Manning. Si chiama suite Poseidone.» Ci fu un silenzio che durò per parecchi piani. «È ancora lì?» chiese Daniel. «Non sono certo di credere a ciò che sento. Quell'uomo ha subito una craniotomia poche ore fa. Che cosa diavolo ci fa al casinò?» «Sarebbe troppo lungo da spiegare.» «Che ore sono?» «Le due e trentacinque. Lo so che è una scusa poco valida, ma non avevamo idea che il signor Smith sarebbe andato al casinò, quando lo abbiamo riportato qua. È tremendamente ostinato, vuol fare sempre di testa sua.» «C'è qualche altra manifestazione, oltre l'aura?» «Non l'ho ancora visto, ma non penso.» «Farà meglio a portarlo via da quel casinò, altrimenti potrebbe esserci una scenata infernale.» «Ci stiamo proprio andando, in questo momento.» «Sarò lì al più presto. Prima guarderò nel casinò. Se non sarete lì, presumerò che siate nella stanza.» Finita la telefonata, Daniel compose il numero di Newhouse. Anche in questo caso il telefono squillò parecchie volte ma. a differenza di Nawaz, l'anestesista aveva una voce vivace, come se fosse già sveglio. «Mi spiace disturbarla», disse Daniel mentre le porte dell'ascensore si
aprivano. «Nessun disturbo. Essendo spesso reperibile, sono abituato alle telefonate nel pieno della notte. Che problema c'è?» Daniel spiegò la situazione, mentre correva lungo il corridoio principale per raggiungere il casinò, collocato al centro dell'enorme complesso. La reazione di Newhouse rispecchiò quella di Nawaz. e anche lui assicurò che sarebbe arrivato immediatamente. Daniel consegnò il telefono a Stephanie e riprese la trousse nera. Arrivati al casinò smisero di correre, però mantennero un passo sostenuto. Il luogo era in piena attività e decisamente più affollato di quanto entrambi si aspettassero, nonostante l'ora. Era un turbinio di colori, con la folta moquette rossa e nera, gli enormi lampadari di cristallo e i croupier vestiti in modo sgargiante. Fendettero la folla puntando direttamente verso i tavoli della roulette raggruppati al centro della vasta sala. Non ci misero molto a individuare le slot machine e, una volta lì, a trovare Ashley. Carol stava proprio dietro di lui e apparve molto contenta nel vederli arrivare. Il senatore era seduto davanti a una slot machine con una considerevole pila di monete sul banco. Continuava a indossare quei ridicoli abiti da turista. La fasciatura era ancora a posto sulla fronte e il suo pallore non era evidente, a causa della luce che si tingeva di rosso per il riflesso della moquette. Alle slot machine immediatamente accanto alla sua non c'era nessuno. Ashley era intento a infilare monete con una rapidità di cui il giorno prima non sarebbe stato capace. Nell'istante in cui si fermavano gli ingranaggi interni, un'altra moneta entrava nella fessura e la leva veniva abbassata. Le immagini della frutta, rese sfocate dalla velocità, sembravano ipnotizzarlo. Senza un attimo di esitazione, Daniel gli si avvicinò e lo fece voltare ponendogli una mano sulla spalla sinistra. «Senatore! Che piacere vederla!» Ahsley alzò la testa e lo fissò. Aveva le pupille dilatate e non sbatté le ciglia nemmeno una volta. I capelli normalmente ben pettinati erano scomposti come se qualcuno glieli avesse arruffati di proposito e gli davano un aspetto stravolto. «Toglimi le mani di dosso, rachitico pezzo di merda», ringhiò Ahsley, senza la minima traccia del suo accento abituale. Daniel obbedì all'istante, scioccato e terrorizzato dall'insolito linguaggio che gli ricordò le oscenità dette in sala operatoria. L'ultima cosa che voleva era provocarlo e quindi incitare una progressione più rapida dei sintomi.
Lo fissò negli occhi, che riflettevano una specie di disorientamento, infatti era evidente che non lo aveva riconosciuto. Per un istante nessuno dei due si mosse. Daniel, intanto, si stava chiedendo se provare a somministrargli il sedativo sul posto. Decise che era meglio di no, perché se non ci fosse riuscito avrebbe peggiorato le cose. «Carol mi ha detto che sente un cattivo odore», provò a tastare il terreno. Ashley fece un gesto della mano come per liquidare l'argomento, mentre annuiva. «Penso che sia quella zoccola laggiù, con quel vestito rosso tutto sexy. Ecco perché mi sono spostato a questa macchina.» Daniel guardò verso la fine della fila e vide una giovane donna vestita di rosso con una scollatura abbondante che si notava in particolare quando manovrava la leva. Riportò l'attenzione su Ashley, che aveva ricominciato a mettere monete nella fessura. «Allora non sente più quell'odore?» «Solo un pochino, adesso che mi sono allontanato da quella troia.» «Bene, bene!» Daniel si concesse un raggio di speranza che l'aura si potesse risolvere senza progressione. Comunque voleva riportarlo nella suite. Se ci fosse stata una scenata nel casinò, tutta la faccenda sarebbe diventata di dominio pubblico. «Senatore, ho una cosa che vorrei mostrarle, nella sua stanza.» «Togliti dai coglioni, ho da fare.» Daniel deglutì nervoso. Il raggio di speranza morì sul nascere, vedendo che l'umore e il comportamento di Ashley erano decisamente anormali. Cercò freneticamente di escogitare qualcosa che lo convincesse a salire in camera, ma non gli veniva in mente nulla. All'improvviso, Carol lo tirò per la manica e gli sussurrò qualcosa all'orecchio. Daniel alzò le spalle. Era disposto a provare di tutto, per quanto fosse ridicolo. «Senatore, in camera sua c'è una cassa di bourbon piena.» Con incoraggiante rapidità, Ashley abbandonò la leva della slot machine, si girò e sollevò lo sguardo su di lui. «Oh, dottore, che bello vederla qui!» esclamò, tornando al suo solito accento. «Anche per me è bello rivederla. Sono sceso a dirle della cassa di bourbon che è arrivata nella sua suite. Deve venire su a firmare la ricevuta.» Ashley si alzò immediatamente dallo sgabello. Probabilmente gli girò la testa, perché vacillò un attimo prima di afferrare il bordo del banco. Daniel lo prese per il braccio, appena sopra il gomito. Ahsley sbatté le palpebre, lo guardò e, per la prima volta, sorrise. «Andiamo, giovanotto! Firmare la ricevuta di una cassa di bourbon mi
sembra una causa degna, per questo ragazzo di campagna. Carol, cara, bada tu al mio bottino, per piacere!» Continuando a tenerlo per il braccio, Daniel lo guidò via dalle slot machine. Per mostrare il suo apprezzamento verso Carol, che gli aveva suggerito un'idea alla quale da solo non avrebbe mai pensato, le strizzò un occhio e, mentre lei raccoglieva rapidamente le monete rimaste sul banco, aiutato da Stephanie accompagnò il senatore attraverso la folla di giocatori. Tutto andò bene fin quando arrivarono agli ascensori, dove dovettero aspettare un po'. Come se una nuvola fosse passata davanti al sole, il sorriso di Ashley si trasformò in un cipiglio scontento. Daniel se ne accorse, e gli venne la tentazione di chiedergli che cosa gli stesse succedendo, ma non lo fece, temendo di compromettere il relativo equilibrio. Intuiva che la sua mente era collegata alla realtà solo da un filo esilissimo. Purtroppo, salirono in ascensore con loro due coppie e una di esse premette il tasto del trentesimo piano. Daniel imprecò fra sé: aveva sperato che rimanessero da soli e la preoccupazione che Ashley combinasse qualcosa di strano alla loro presenza gli fece accelerare il battito cardiaco e comparire gocce di sudore sulla fronte. Per la frazione di un secondo guardò Stephanie, che appariva terrorizzata quando lui. Adesso Ashley stava guardando male le coppie, che erano alticce e ostentavano un comportamento chiassoso e provocatorio. Daniel aprì la trousse nera e vi guardò dentro, chiedendosi se dovesse preparare una siringa. Il problema era che quegli estranei avrebbero visto e si sarebbero allarmati. «Che cosa c'è, paparino?» chiese scherzando una delle donne, dopo aver notato lo sguardo fisso e truculento puntato su di lei. «Sei geloso, vecchio? Hai bisogno di un po' di movimento?» «Va' a farti fottere, troia!» replicò Ashley. «Ehi, non è il modo di parlare a una signora», sbottò il compagno della donna. La spinse da parte e fece un passo avanti per affrontarlo. Senza pensare alle conseguenze, Daniel si interpose fra i due. Sentiva il fiato dell'uomo che sapeva di aglio e alcool e lo sguardo di Ashley sulla propria nuca. «Mi scuso per il mio paziente», disse. «Sono un medico e il signore, qua, è ammalato.» «Si ammalerà ancora di più, se non si scusa con mia moglie», minacciò l'uomo. «E di cosa è ammalato? Gli manca qualche rotella?» «Una cosa del genere.»
«Puttana!» gridò Ashley, mentre rivolgeva un gestaccio alla donna. «Oh, basta!» esclamò il marito e allungò una mano in avanti, cercando di spostare Daniel di lato, mentre stringeva l'altra mano a pugno. Stephanie lo afferrò per un braccio. «Il dottore le sta dicendo la verità», intervenne. «Il signore non si sta comportando come il suo solito. Lo stiamo portando in camera per somministrargli un farmaco.» L'ascensore si fermò al trentesimo piano e le porte si aprirono. «Magari dovreste dargli un cervello nuovo», disse l'uomo, mentre i suoi compagni lo trascinarono ridendo fuori dall'ascensore. Lui si liberò con uno strattone e rimase a fissare Ashley fin quando le porte si richiusero. Daniel scambiò un'occhiata nervosa con Stephanie. Avevano appena evitato un potenziale disastro. Poi guardò Ashley, che schioccava le labbra come se sentisse un sapore sgradevole. L'ascensore si fermò al trentaduesimo piano. Carol e Daniel presero sottobraccio Ashley e riuscirono a fargli percorrere il corridoio. Non opponeva resistenza, anzi camminava come un automa. Davanti alla porta con le sirene, Carol dovette lasciarlo per prendere la carta magnetica e passarla a Stephanie, che aprì. A quel punto, Ashley rifiutò qualsiasi aiuto ed entrò nella suite per conto suo. «Grazie al cielo!» mormorò Stephanie, e richiuse la porta alle spalle del gruppetto. Il lampadario dell'ingresso era acceso, e anche una lampada sulla scrivania della stanza principale. Per il resto, la suite era immersa nelle tenebre. Le tende erano aperte, come pure i pannelli di vetro. Oltre il balcone, il cielo stellato si curvava sul mare scuro. I fiori freschi sul tavolinetto erano smossi dalla brezza. Ashley continuò a camminare fino a superare di qualche passo il tavolinetto, poi si fermò e rimase immobile a fissare il balcone. Carol accese altre luci, poi gli si avvicinò per vedere se riusciva a farlo sedere. Daniel gettò il contenuto della trousse nera su una consolle nell'ingresso e cincischiò l'involucro di una siringa per cercare di aprirlo. Stephanie, intanto, toglieva il cappuccio che copriva il tappo di gomma sulla fiala del farmaco parenterale. «Come pensi di fare, se oppone resistenza?» gli chiese sussurrando. «Non ne ho la più pallida idea», ammise lui. «Speriamo che Nawaz e Newhouse arrivino a dare una mano.» Dovette usare i denti per lacerare il cellophane. «Il senatore fa le smorfie come quando sentiva odore di maiale», avvertì
Carol dall'altra stanza. «Cerchi di farlo sedere», gridò Daniel. Finalmente estrasse la siringa. «Ci ho già provato. Si rifiuta.» Un fracasso improvviso fece voltare la testa a Daniel e Stephanie. Carol si stava rialzando da terra, dopo essere stata scagliata contro un tavolo e aver gettato a terra la lampada che vi era posata sopra. La lampada di ceramica era andata in mille pezzi. Ashley si stava togliendo di dosso i vestiti e li gettava in giro per la stanza. «Oh, Signore!» esclamò Daniel. «Il senatore sta dando fuori di matto.» Afferrò un tampone imbevuto di alcool e ne aprì l'involucro, ma quando lo estrasse lo fece cadere. Dovette prenderne un altro. «Posso aiutarti?» chiese Stephanie. «Sono maldestro», ammise lui. Estrasse un altro tampone e strofinò il tappo di gomma della fiala. Ma prima che potesse inserirvi l'ago, Ashley emise un grido stridulo. In preda al panico, Daniel affidò fiala e siringa a Stephanie e corse a vedere che cosa era accaduto. Carol era in piedi dietro un divano e si teneva le mani sulla faccia. Ashley era ancora nello stesso posto ma tutto nudo, tranne per i calzini neri che gli arrivavano al polpaccio. Stava leggermente chino in avanti e si fissava le mani, che teneva accostate tra loro e con i palmi in su vicino al viso. «Che cosa succede?» chiese Daniel e gli si avvicinò. «Mi sanguinano le mani», rispose Ashley inorridito. Tremava. Abbassò lentamente le mani, continuando a tenerle con i palmi in su ma allargando al massimo le dita. «Le sue mani sono a posto, senatore», gli assicurò Daniel. «Deve calmarsi. Andrà tutto bene. Perché non si mette a sedere? Abbiamo una medicina per lei, che la farà rilassare.» «Mi spiace che non vediate le ferite alle mie mani», sbottò Ashley. «Forse vedete quelle che ho ai piedi.» «Indossa i calzini, ma i suoi piedi sembrano a posto. Si sieda sul divano.» Daniel allungò una mano, cercando di prenderlo per un braccio, ma Ashley gli diede una violenta manata al petto e lo spinse da parte. Colto completamente di sorpresa, Daniel inciampò all'indietro nel tavolinetto, cadendovi sopra e mandando in frantumi il vaso. Acqua e fiori si sparsero sul folto tappeto, mentre lui rotolava faccia a terra fra il tavolino e un divano. Carol gridò. Incurante del trambusto che aveva provocato, Ashley girò attorno al tavolinetto e corse verso il balcone. Si fermò di botto appena oltre la soglia e
sollevò le mani orizzontalmente tenendo i palmi in avanti. La brezza gli scompigliò i capelli. «Santo cielo, è sul balcone!» gridò Stephanie. Stringeva al petto siringa, fiala e tampone. Trasalendo per il dolore alla schiena dovuto all'impatto con il vaso da fiori, Daniel si rialzò e corse sul balcone, mettendosi fra Ashley e la balaustra. «Senatore!» gridò, sollevando le mani. «Torni dentro!» Ashley non si mosse. Teneva gli occhi chiusi e un'espressione serena era comparsa al posto di quella terrorizzata di poco prima. Daniel schioccò le dita per attirare l'attenzione di Stephanie, che si era fermata appena prima della soglia e guardava sgomenta la scena. «La siringa è piena?» le chiese. «No.» «Riempila! In fretta!» «Quanto?» «Due cc. Svelta!» Stephanie aspirò il liquido, mise la fiala in tasca e picchiettò la siringa con l'unghia dell'indice per far svanire eventuali bolle d'aria. Poi corse sul balcone e la porse a Daniel. Guardò il viso placido di Ashley. Il senatore sembrava una statua. Non si muoveva e non sembrava nemmeno respirare. «È come se fosse impietrito», osservò «Non so se cercare di fargli un'endovenosa o semplicemente rifilargli un'intramuscolare», disse Daniel. Fece un passo avanti, ancora indeciso, e Ashley spalancò di colpo gli occhi. Senza il minimo avvertimento balzò in avanti. Daniel reagì stringendogli le braccia attorno al petto e cercando di tenersi saldo contro le piastrelle del balcone. Ma era come cercare di tener fermo un toro che caricava. Le scarpe gli scivolavano sul rivestimento di ceramica e, quando entrambi sbatterono contro la balaustra, l'impeto di Ashley li fece sbalzare oltre la sommità e svanire nella notte. «No!» gridò Stephanie, correndo ad affacciarsi. Colma di orrore, vide Ashley e Daniel precipitare nell'abisso avvinghiati come due amanti. Sembrava che cadessero al rallentatore, piroettando nel vuoto. L'attimo dopo distolse lo sguardo e, in preda a un accesso di nausea, si accasciò con la schiena contro la balaustra. Epilogo
Lunedì 25 marzo 2002 - ore 6.15 Il debole chiarore del cielo, fino a mezz'ora prima quasi impercettibile, adesso era ben evidente. Le stelle erano scomparse e al loro posto si diffondeva un lucore rosato che preannunciava l'imminente sorgere del sole. La brezza notturna si era placata. Adesso si udiva l'incessante cinguettio degli uccellini, anche a trentadue piani di distanza da terra. Stephanie e Carol erano sedute su due divani uno dirimpetto all'altro, in una suite grande quanto la Poseidone ma non egualmente lussuosa. Stavano sedute lì da ore, senza muoversi né parlare, quasi catatoniche. Carol era stata la prima a reagire allo choc, dopo il tragico volo di Ashley e Daniel. Si era precipitata al telefono per avvertire la centralinista che due persone erano cadute dal balcone della suite Poseidone. Udendo la sua voce colma di panico, Stephanie si era riscossa e, evitando di guardare verso la balaustra, si era rimessa in piedi per correre immediatamente fino agli ascensori, dove Carol l'aveva raggiunta. Durante il tragitto per il piano terreno, nessuna delle due aveva parlato: si limitavano a fissarsi, ancora incredule di ciò a cui avevano assistito. Entrambe si attaccavano a un filo di speranza in qualche miracolo. Era avvenuto tutto talmente in fretta da essere avvolto in un senso di irrealtà. Scese al livello chiamato «lo Scavo», erano dovute passare davanti a enormi acquari illuminati colmi di ogni tipo di creature marine, come pure di fantasiose rovine della mitica città di Atlantide, per raggiungere lo spazio esterno davanti al complesso dell'albergo. Entrambe immaginavano che ci fosse una strada più breve, ma questa era l'unica che Carol conosceva e non volevano perdere tempo. Emergendo nella notte, avevano preso a sinistra, evitando la piscina dei Bagni Reali rischiarata dalle luci subacquee, e raggiunto un passaggio stretto e non bene illuminato dove avevano rallentato. Oltre un ponte sopra la Stingray Lagoon erano arrivate trafelate alla zona priva di luci sull'ala ovest delle Royal Towers. Un contingente della sicurezza aveva reagito rapidamente all'allarme lanciato da Carol ed era già sul posto. Diversi si davano da fare a circoscrivere la zona con un nastro giallo teso da una palma all'altra. Un uomo corpulento di origine africana, in completo scuro, nel vederle era sbucato dall'ombra e le aveva fermate, bloccando loro la strada e anche la vista. «Mi spiace. C'è stato un incidente.» «Noi eravamo con le vittime», era sbottata Stephanie, cercando di guar-
dare oltre la sua mole imponente. «Mi spiace, ma è comunque meglio se rimanete qui. Stanno arrivando le ambulanze.» «Ambulanze?» Stephanie si attaccava disperatamente alla sua esile speranza. «E la polizia.» «Stanno bene?» aveva chiesto esitante Stephanie. «Sono ancora vivi? Dobbiamo vederli!» «Signora», aveva replicato l'uomo con gentilezza. «Sono caduti dal trentaduesimo piano. Non è un bello spettacolo.» Erano venute le ambulanze a rimuovere le salme e la polizia a condurre un'indagine preliminare. Avevano trovato la siringa, e questo aveva causato inizialmente un po' di agitazione, ma Stephanie aveva spiegato che si trattava di un farmaco prescritto da un medico locale. Nawaz e Newhouse, arrivati subito dopo la tragedia, lo avevano confermato. La polizia aveva accompagnato le due donne e i medici nella suite Poseidone, a controllare il balcone e la balaustra. L'ispettore capo aveva confiscato i passaporti a Carol e Stephanie, spiegando che dovevano rimanere alle Bahamas fin quando non fosse stata svolta un'inchiesta. Aveva anche messo sotto sigilli la suite Poseidone e quella di Stephanie. Il direttore di notte dell'albergo era stato di una compostezza, efficienza ed empatia encomiabili. Senza che nessuno glielo chiedesse, aveva immediatamente trasferito le due ospiti nell'ala est delle Royal Towers, dove ora si trovavano. Aveva anche fornito ogni tipo di prodotti per la toletta di cui potevano avere bisogno, nell'impossibilità di usare i propri. I due medici erano rimasti un po' in loro compagnia e Newhouse aveva procurato un sedativo, nel caso decidessero di usarlo. Nessuna delle due lo aveva fatto. Il piccolo contenitore di plastica era appoggiato intatto sul tavolino. Stephanie aveva rimuginato in continuazione, ripercorrendo con la mente tutta la vicenda, dalla piovosa serata a Washington fino alla tragedia di quella notte. Con il senno di poi, non riusciva a capire come lei e Daniel si fossero lasciati trascinare in quell'impresa avventata. Era stata strana anche la loro incapacità di riconoscere la propria follia, nonostante gli innumerevoli ostacoli che avrebbero dovuto farli riflettere sulla scelta intrapresa. Avevano davvero confuso i fini con i mezzi. Il fatto che lei avesse di tanto in tanto esternato i suoi dubbi non era certo di conforto, perché non aveva mai agito in base alle proprie intuizioni. Finalmente, mise a terra i piedi che teneva appoggiati sul tavolinetto e si
tirò su a sedere. Aveva esaurito la propria capacità di introspezione. Intrecciò le dita e si stirò, per ovviare alla rigidezza causatale dall'essere rimasta ferma troppo a lungo. Dopo aver passato le dita fra i capelli e aver fatto un profondo respiro, guardò Carol. «Dev'essere esausta», le disse. «Io almeno ho dormito qualche ora.» «Per quanto possa sembrare strano, non lo sono.» Anche Carol si stirò. «Mi sento come se avessi bevuto dieci tazze di caffè. Non riesco a smettere di pensare a quanto sia stato ridicolo questo episodio, dalla notte di quel fatidico incontro nella mia auto, fino all'attuale catastrofe.» «Lei era contraria?» si stupì Stephanie. «Naturalmente! Ho cercato di dissuadere il senatore fin dall'inizio.» «Ne sono sorpresa.» «Come mai?» Stephanie si strinse nelle spalle. «Non lo so di preciso, ma immagino che sia perché lei e io la pensavamo allo stesso modo. Anch'io ero contraria, e ho cercato di dissuadere Daniel, ma purtroppo non ci sono riuscita.» «A quanto pare, siamo state tutte e due una sorta di Cassandra. Suppongo che cada a proposito, visto che tutta la faccenda si è risolta in una tragedia greca.» «Come mai?» Carol emise una breve risata spossata. «Non ci faccia caso. Mi sono laureata in letteratura e a volte mi lascio trasportare dalle metafore.» «Mi interessa. Come mai una tragedia greca?» Carol rimase in silenzio per un momento, organizzando i propri pensieri. «Per i caratteri dei protagonisti», spiegò. «È la storia di due titani, ognuno nel proprio campo ma stranamente simili nella loro presunzione, che hanno raggiunto la grandezza ma avevano gravi pecche. Quella del senatore Butler era l'amore per il potere, che si è trasformato da un mezzo per raggiungere dei fini in un fine di per se stesso. Quella del dottor Lowell, immagino, era il desiderio di un riconoscimento economico e di status appropriato al suo intelletto e al contributo da lui dato alla scienza. Quando questi due uomini sono venuti in contatto e ognuno dei due ha voluto usare l'altro per raggiungere i propri scopi, le loro tragiche pecche li hanno letteralmente trascinati nel baratro.» Stephanie fissò Carol. L'aveva sempre considerata una donna scialba, quasi insignificante, la quintessenza della subordinazione. All'improvviso capì che non era così e si sentì, in confronto a lei, meno intelligente e meno colta di quanto pensava. «Che cosa significa essere una Cassandra?»
«Nella mitologia greca, Cassandra aveva il dono della profezia ma era destinata a non essere creduta.» «Interessante», commentò Stephanie. «Una volta ho punzecchiato Daniel, dicendogli che era come il senatore.» «Per certi aspetti era vero, per lo meno per quanto riguardava il loro ego. Ma, mi dica, qual è stata la reazione del dottor Lowell a questa sua boutade?» «La collera.» «Non mi sorprende. La reazione del senatore Butler sarebbe stata la stessa, se io avessi osato dire qualcosa di simile. In realtà, credo che si ammirassero, si disprezzassero e fossero invidiosi uno dell'altro. Competevano tra loro, in un modo distorto, tutto maschile.» «Forse», mormorò Stephanie, ponderando l'idea. Non le sembrava che Daniel avesse ammirato poi tanto il senatore, ma riconosceva che la propria capacità di analisi non era al massimo. «Ha fame?» domandò, tanto per cambiare argomento. Carol scosse la testa. «Per niente.» «Nemmeno io.» Stephanie era esausta, ma sapeva che non sarebbe riuscita a dormire. Ciò che desiderava era avere vicino qualcuno con cui parlare, per evitare di rimuginare in continuazione sulle stesse cose. «Che cosa farà quando finalmente potremo lasciare le Bahamas, dopo l'inchiesta?» «Non sono sicura che ci sarà un'inchiesta e comunque, se anche ci sarà, sarà rapida, pro forma e a porte chiuse.» «Davvero? Come fa a dirlo?» «Ashley Butler era un importante senatore degli Stati Uniti in un Congresso con una maggioranza esile. Il nostro governo sarà coinvolto immediatamente, ad alto livello. Credo che ogni cosa sarà risolta rapidissimamente, perché è nell'interesse di tutti. Credo perfino che terranno la cosa lontana dai media, se sarà possibile.» «Accidenti!» borbottò Stephanie. Non ci aveva pensato. Anzi, con gli occhi della mente aveva già visto i titoli del Boston Globe dare il colpo di grazia finale alla CURE. Non aveva preso in considerazione le implicazioni politiche dovute alla notorietà di Butler. «Quanto a me», aggiunse Carol, «tornerò a casa e farò in modo di vedere il governatore. Farà una nomina per il seggio del senatore Butler rimasto vacante, e io sosterrò di essere la persona più qualificata. Se verrò scelta, ma anche nel caso contrario, comincerò a organizzarmi per correre per quel seggio, alle prossime elezioni.»
«Che cosa pensa che accadrà al disegno di legge 1103?» «Senza il senatore Butler, probabilmente non andrà avanti. D'ora in poi, sarà dall'altro emiciclo che verranno dei problemi alla ROTS: l'estrema destra repubblicana raccoglierà la bandiera.» «Era ciò che temevamo fin dall'inizio. Ci siamo sorpresi quando siamo stati attaccati inaspettatamente dal suo capo.» «Non avreste dovuto. Era il tipo di causa populista che aveva sempre sostenuto. Era il suo modo di mantenere la sua base di potere. Suppongo che l'ipocrisia mostrata verso la procedura inventata dal dottor Lowell non le sia sfuggita.» «No di certo.» «E lei? Che cosa farà dopo aver lasciato Nassau?» Stephanie ci pensò un momento. «Come prima cosa, devo risolvere un problema con mio fratello. È una lunga storia, ma il nostro rapporto è un'altra vittima di questa incresciosa faccenda. Poi credo che cercherò di raccogliere i cocci della CURE. Non lo credevo possibile, finché lei non ha suggerito che la stampa potrebbe restare fuori da questa storia e la 1103 languire nella commissione. Non sono tanto portata per gli affari, ma suppongo che ci dovrò provare. Penso che sia ciò che vorrebbe Daniel, soprattutto se servirà a mettere la ROTS a disposizione della gente.» «Ebbene, devo dire che sono diventata una sostenitrice della ROTS, come pure della clonazione terapeutica. So che nel corso dell'impianto sul senatore Butler c'è stata una complicazione, ma non ci sono dubbi che i sintomi del morbo di Parkinson sono miracolosamente spariti quasi tutti.» «Un effetto positivo così immediato ci ha sorpresi», ammise Stephanie. «Nei topi non lo avevamo mai riscontrato. Perché si sia verificato con il senatore non so spiegarlo, ma secondo me non c'è dubbio che, se l'intervento fosse stato eseguito in un appropriato centro medico in patria, sarebbe riuscito perfettamente.» «Io sono rimasta veramente colpita.» «Nonostante la tragedia, è chiaro quanto sia promettente questa tecnologia. Sono convinta che è il futuro della medicina per tantissime malattie, purché una manciata di politici non riesca a privarne il popolo americano per motivi di potere.» «Ebbene, spero di avere l'opportunità di impedire che ciò avvenga», disse Carol. «Se occuperò il seggio di Ashley Butler, la farò diventare la mia crociata.»
Nota dell'autore Penso ai miei romanzi come a faction, una parola inventata per dire che i fatti e la fiction sono talmente mescolati che la linea tra i due è spesso difficile da distinguere. Che cosa significa per questo libro? Certo, i personaggi sono tutti inventati, come pure la storia. Anche la ROTS, purtroppo, non appartiene ancora ai metodi della biomedicina. Tutto il resto però è reale. Comprese le parti sulla Sacra Sindone, dalle cui macchie di sangue sono stati isolati geni specifici. Devo ammettere che, come Daniel e Stephanie, sono rimasto affascinato dalla Sindone. Anche i testi citati da Stephanie esistono veramente e li consiglio a chi volesse approfondire l'argomento. È anche un fatto che un gruppo di politici statunitensi si sia interessato al dibattito sulle bioscienze, settore dove il ritmo a cui avvengono le scoperte ha una progressione geometrica. Sembra davvero che il ventunesimo secolo apparterrà alla biologia, così come il ventesimo è appartenuto alla fisica e il diciannovesimo alla chimica. Ritengo purtroppo che alcuni politici, come il senatore Ashley Butler nato dalla mia penna, siano entrati in tale dibattito con scopi puramente demagogici e non come veri leader che hanno a cuore il bene del pubblico. E anche i politici che tentano di estromettere dagli Stati Uniti la ricerca su tali tecnologie terapeutiche per quelle che ritengono legittime ragioni morali, credo che non esiterebbero a trasferirsi in un altro paese dove queste cure sono autorizzate se essi stessi o un loro membro della famiglia fossero colpiti da una malattia che ne trarrebbe giovamento. Nella scena dell'udienza al Senato (capitolo 2), il senatore Ashley Butler mostra la sua vera faccia sfruttando le paure del pubblico sulle fabbriche di embrioni e su ataviche mitologie alla Frankenstein. Il senatore, inoltre, si rifiuta di distinguere fra la clonazione riproduttiva (clonare una persona, cosa che suscita una generale ripugnanza) e la clonazione terapeutica (clonare le cellule di un individuo allo scopo di curarlo). Il senatore Butler, come altri che si oppongono alla ricerca sulle cellule staminali e sulla clonazione terapeutica, suggerisce che la procedura comporti lo smembramento degli embrioni. Come Daniel sottolinea, è falso. Nella clonazione terapeutica, le cellule clonate sono raccolte durante la fase della blastocisti, ben prima che si formi l'embrione. Il fatto è che nella clonazione terapeutica non si lascia mai che si formi un embrione e non viene impiantato mai niente in un utero.
Moltissimi miei lettori si rendono conto che i miei medical thriller hanno alla base importanti questioni sociologiche. Questo non fa eccezione, ed è evidente che qui la questione è il deplorevole scontro fra la politica e le bioscienze. Ma una cosa è usare un racconto per delineare un problema, altra cosa è suggerire una soluzione. Comunque, Daniel ne prospetta una che io personalmente vorrei fosse adottata dal nostro paese. Nel capitolo 6 dice, riferendosi agli Stati Uniti: «Abbiamo mutuato dall'Inghilterra tante delle nostre idee sui diritti individuali, il governo e di certo il diritto basato sulla giurisprudenza. Perché non potevamo seguire l'esempio dell'Inghilterra riguardo all'etica delle bioscienze in ambito riproduttivo?» In risposta alle difficili e inquietanti questioni etiche sorte con la genetica molecolare e con la ricerca sulla riproduzione umana, sottolineate dalla nascita del primo neonato al mondo a essere stato concepito in provetta nel 1978, il parlamento inglese nella sua saggezza creò la Human Fertilisation and Embryology Authority (HFEA), divenuta operativa dal 1991. Questo ente, tra l'altro, abilita e controlla le cliniche per la cura dell'infertilità (cosa che negli Stati Uniti non si fa), oltre a dibattere e raccomandare al parlamento le linee di condotta per quanto riguarda le tecnologie riproduttive e la ricerca nel settore. La cosa interessante è che, per statuto, il presidente, il vicepresidente e almeno metà dei membri non sono medici o scienziati coinvolti nelle tecnologie riproduttive. Il punto è che gli inglesi sono riusciti a formare un organismo veramente rappresentativo i cui membri riflettono un'ampia gamma di interessi del pubblico e possono discutere le questioni in un ambiente apolitico. È significativo che nel 1998 la HFEA ha pubblicato una relazione in cui si distingueva chiaramente fra la clonazione riproduttiva, che raccomandava di non autorizzare, e la clonazione terapeutica, che raccomandava come futura promessa per la terapia di gravi malattie. Il fatto che le bioscienze in generale e la bioscienza riproduttiva in particolare avanzino così rapidamente richiede che questo settore sia sottoposto a qualche forma di controllo. Non c'è dubbio che, non sottoposto a limiti, potrebbe diventare una minaccia alla dignità umana, se non alla nostra identità, come ha suggerito il dottor Leon Kass, che presiede attualmente il Consiglio di Bioetica del presidente. Ma la politica parmigiana non è l'arena appropriata in cui affrontare il problema, perché qualsiasi commissione venisse formata rimarrebbe invariabilmente manipolata dai membri di una particolare tendenza. È mia convinzione che, se il Congresso degli Stati Uniti dovesse creare
una commissione non partigiana, come la HFEA in Inghilterra, il pubblico riceverebbe un ottimo servizio. Non solo l'attuale dibattito sulla clonazione terapeutica verrebbe risolto in modo intelligente, apolitico e democratico (esistono già i gruppi di opinione contrari alla clonazione riproduttiva), ma le cliniche per la cura dell'infertilità verrebbero controllate nel modo appropriato. È perfino pensabile che la connessa questione dell'aborto verrebbe sottratta alla politica, per il nostro beneficio collettivo. FINE