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MARGARET ATWOOD LA DONNA DA MANGIARE (The Edible Woman, 1969) La superficie su cui lavorate (meglio se di marmo), gli arnesi, gli ingredienti e le dita dovrebbero essere gelidi per tutta la durata dell'operazione... Ricetta per la sfoglia in La gioia di cucinare di I.S. Rombauer e M.R. Becker PARTE PRIMA 1 Sono certa che stavo bene venerdì, quando mi alzai; caso mai mi sentivo più imperturbabile del solito. Quando andai in cucina per prepararmi la colazione, c'era già Ainsley, tutta abbattuta; disse che la sera prima era andata a un party da far schifo. Giurò che c'erano stati soltanto degli studenti di odontoiatria, una cosa che l'aveva depressa al punto che si era consolata ubriacandosi. «Non hai idea di quanto sia pesante», disse, «dover sopportare una ventina di conversazioni sull'interno della bocca degli altri. La reazione più grande che ho suscitato è stato quando ho descritto un ascesso che ho avuto una volta. Avevano letteralmente la bava alla bocca. E gli uomini, per lo più, guardano a qualcosa oltre ai tuoi denti, santo cielo.» Aveva i postumi della sbornia, una cosa che mi mise di umore allegro mi fece sentire sana come un pesce - e le versai un bicchiere di succo di pomodoro e le preparai un'alka-seltzer corroborante, stando a ascoltarla e emettendo rumori di comprensione mentre continuava a lamentarsi. «Come se non ne avessi abbastanza sul lavoro», disse. Ainsley lavora come collaudatrice di spazzolini difettosi in un'impresa di spazzolini da denti elettrici: un impiego provvisorio. Quello che aspetta è un posto vacante in una di quelle piccole gallerie d'arte, anche se lo stipendio non è ottimo: vuole fare la conoscenza di artisti. L'anno prima, mi disse, andava pazza per gli attori ma poi ne incontrò effettivamente qualcuno. «È proprio una fissazione. Scommetto che tutti quanti si portano dietro, nella tasca della giacca, quegli specchietti ricurvi e si danno una sbirciata in bocca
ogni volta che vanno al cesso per assicurarsi di essere ancora senza carie.» Con aria pensosa si passò una mano fra i capelli che sono lunghi e rossi, o meglio ramati. «Te lo immagini baciarne uno? Direbbe: 'Apra bene', prima di tutto. Sono così maledettamente limitati.» «Deve essere stato terribile», dissi, riempiendole di nuovo il bicchiere. «Non potevi cambiare argomento?» Ainsley alzò le sopracciglia quasi inesistenti, che quella mattina non erano ancora state dipinte. «No, naturalmente», disse. «Facevo finta di essere terribilmente interessata. E naturalmente non ho lasciato capire che mestiere facevo: quei professionisti se ne hanno così a male se uno sa qualcosa del loro argomento. Sai, come Peter.» Ainsley tende a punzecchiare Peter, soprattutto quando non si sente bene. Feci la generosa e non ribattei. «Faresti meglio a mangiare qualcosa prima di andare al lavoro», dissi. «Quando si ha qualcosa nello stomaco si sta meglio.» «Oh dio», fece Ainsley, «non riesco a sopportarne il pensiero. Un altro giorno di macchine e di bocche. È da un mese che non ne passo uno di interessante, da quando quella donna ci rispedì il suo spazzolino perché cadevano le setole. Scoprimmo che aveva adoperato dell'Ajax.» Mi lasciai così prendere dalla mia efficienza per amore di Ainsley, mentre mi congratulavo con me stessa per la mia superiorità morale rispetto a lei, che non mi resi conto di quanto si fosse fatto tardi, finché non fu lei a ricordarmelo. All'impresa degli spazzolini elettrici non badano a che ora si arrivi, ma la mia impresa si considera puntuale. Dovetti lasciar perdere l'uovo, e buttar giù un bicchiere di latte e una tazza di fiocchi d'avena freddi già sapendo che in tal modo la fame mi sarebbe tornata molto prima dell'ora di pranzo. Masticai un pezzo di pane, mentre Ainsley mi osservava in un silenzio nauseato, e afferrai la borsa, lasciando che Ainsley chiudesse la porta dell'appartamento dietro di me. Abitiamo all'ultimo piano di un grande edificio in uno dei quartieri più vecchi e aristocratici, in quelle che suppongo fossero le stanze della servitù. Questo significa che ci sono due rampe di scale fra noi e la porta principale, la rampa superiore stretta e scivolosa, quella inferiore ampia e con la guida ma con le asticelle dei fermi che tendono a sfilarsi. Con i tacchi alti che ci impongono di portare in ufficio, devo scendere di sbieco, tenendomi ben stretta al corrimano. Quella mattina riuscii a oltrepassare sana e salva la serie di scalda-letti di ottone dei pionieri appesi al muro delle nostre scale, evitai di impigliarmi nel filatoio a mano tutto punte del pianerot-
tolo del secondo piano e oltrepassai velocemente scansando la bandiera reggimentale a brandelli tenuta sotto vetro e la serie di ritratti degli antenati racchiusi in cornici ovali che stanno di guardia al primo pianerottolo. Mi sentii sollevata nel vedere che nell'ingresso a pianterreno non c'era nessuno. Su terreno piano avanzai a lunghi passi verso la porta, sterzando per evitare il ficus elastica da una parte e il tavolo dell'ingresso, col sottocoppa di tela greggia e il vassoio di ottone rotondo, dall'altra. Da dietro la tenda di velluto a destra udii la bambina mentre stava eseguendo al piano la sua penitenza mattutina. Pensai di essere in salvo. Ma prima di aver raggiunto la porta, questa ruotò silenziosamente verso l'interno e capii di essere in trappola. Era la signora di sotto. Portava un paio di guanti da giardiniere immacolati e reggeva una paletta. Mi domandai chi fosse andata a seppellire in giardino. «Buon giorno, Miss MacAlpin», disse. «Buon giorno.» Feci un cenno col capo e sorrisi. Non riesco mai a ricordare il suo nome, e neppure Ainsley; immagino che si tratti di quello che chiamano un blocco mentale. Guardai oltre la sua persona, verso la strada, ma lei non si mosse dal vano della porta. «Ieri sera sono stata fuori», disse. «A un convegno.» Ha un modo indiretto di affrontare le cose. Mi appoggiai prima su un piede poi sull'altro e sorrisi di nuovo, sperando che si accorgesse che avevo fretta. «La bambina mi dice che c'è stato un altro incendio.» «Be', non si è trattato esattamente di un incendio», feci io. La bambina aveva approfittato del fatto che fosse stato pronunciato il suo nome per smettere di fare esercizio al piano e ora si trovava in piedi, nel vano delle tende di velluto del salotto, con gli occhi fissi su di me. È una creatura corpulenta e goffa di quindici anni o giù di lì che viene mandata a una scuola speciale per ragazze e deve indossare un grembiule verde con calzini fino al ginocchio dello stesso colore. Sono certa che si tratta di una ragazza del tutto normale, ma c'è qualcosa di cretinesco in quel nastro appollaiato in cima al suo corpo gigantesco. La signora di sotto si tolse un guanto e le batté la mano sullo chignon. «Ah», disse con dolcezza. «La bambina dice che c'era un sacco di fumo.» «Era tutto sotto controllo», dissi io, questa volta senza sorridere. «Erano soltanto le braciole di maiale.» «Oh, capisco», disse lei. «Be', vorrei proprio che dicesse a Miss Tewce di cercare di non fare tanto fumo in futuro. Temo che turbi la bambina.» Considera soltanto Ainsley responsabile del fumo e sembra pensare che lo
emetta dalle narici come un drago. Ma non ferma mai Ainsley nell'ingresso per parlargliene: soltanto me. Ho il sospetto che si sia convinta che Ainsley non è rispettabile, mentre io sì. Probabilmente dipende dal modo in cui ci vestiamo: Ainsley dice che io scelgo i vestiti come se fossero tute mimetiche o una colorazione protettiva, anche se io non ci vedo nulla di male. Lei va pazza per il rosa al neon. Naturalmente persi l'autobus: nell'attraversare il prato lo vidi scomparire di là dal ponte in una nube di pulviscolo. Mentre stavo sotto l'albero - la nostra strada ha molti alberi, tutti quanti enormi - in attesa del prossimo autobus, Ainsley uscì di casa e mi raggiunse. È una vera trasformista; io non riuscirei mai a mettermi in ordine in un tempo così breve. Dall'aspetto sembrava che stesse molto meglio (forse l'effetto del belletto, anche se, con Ainsley, non si può mai dire) e portava i capelli rossi raccolti in cima alla testa, come sempre quando va al lavoro. Negli altri momenti, li porta giù, spettinati. Indossava lo scamiciato arancione e rosa, che mi sembrava troppo stretto alle anche. La giornata si preannunciava calda e umida; avvertivo già un'atmosfera personale condensarsi attorno a me come un sacchetto di plastica. Forse avrei fatto bene anch'io a mettermi uno scamiciato. «Mi ha preso nell'ingresso», dissi. «Per il fumo.» «Vecchia strega», disse Ainsley. «Perché non bada agli affari suoi?» Ainsley non proviene da una piccola cittadina, come me; perciò non è abituata ai ficcanaso; d'altro canto non ne ha neppure paura. Non ha la minima idea delle conseguenze. «Non è tanto vecchia», dissi, rivolgendo un'occhiata alle finestre della casa provviste di tendine; anche se sapevo che non poteva sentirci. «E poi, non è stata lei a notare il fumo, è stata la bambina. Lei era a un convegno.» «Probabilmente il ECTU», disse Ainsley, «o l'IODE. Scommetto che non era per niente a un convegno; se ne stava nascosta dietro quella maledetta tenda di velluto, desiderosa che pensassimo che lei era a un convegno, così avremmo davvero fatto qualcosa. Quel che lei vuole è un'orgia.» «Ora, Ainsley», dissi, «stai facendo la paranoica.» Ainsley è persuasa che la signora di sotto viene di sopra quando noi siamo fuori e dà un'occhiata al nostro appartamento e rimane silenziosamente inorridita, e sospetta persino che indaghi fra la nostra posta, anche se non fino al punto di aprirla. È un fatto che talvolta va a aprire la porta d'ingresso a dei nostri visitatori prima che suonino il campanello. Deve pensare che è suo diritto prendere delle precauzioni: quando all'inizio pensammo seriamente di
prendere in affitto l'appartamento, ci fece capire, con allusioni discrete a affittuari precedenti, che, qualunque cosa succedesse, l'innocenza della bambina non doveva venir corrotta, e che ci si poteva certo fidare molto di più di due signorine che di due giovanotti. «Faccio del mio meglio», aveva detto, sospirando e scuotendo la testa. Aveva fatto intendere che il marito, il cui ritratto a olio era appeso sopra il piano, non le aveva lasciato tanto denaro quanto avrebbe dovuto. «Naturalmente vi rendete conto che il vostro appartamento non ha un'entrata privata?» Aveva sottolineato gli inconvenienti invece dei vantaggi, quasi che non volesse affittarcelo. Dissi che ce ne rendevamo conto; Ainsley non disse niente. Avevamo convenuto che io avrei sbrigato la cosa dal punto di vista verbale, e Ainsley sarebbe rimasta seduta con quell'aria innocente, una cosa che sa fare molto bene quando vuole: ha una faccia ottusa bianca e rosa da bambina, il naso simile a un bernoccolo, e grandi occhi blu che può far diventare rotondi come palle da ping-pong. Per l'occasione ero riuscita persino a farle mettere dei guanti. La signora di sotto scosse di nuovo la testa. «Se non fosse per la bambina», disse, «venderei la casa. Ma voglio che mia figlia cresca in un quartiere perbene.» Dissi che la capivo, e lei disse che naturalmente il quartiere non era più così perbene come una volta: alcuni degli edifici più grandi erano troppo costosi da mantenere e i proprietari erano stati costretti a venderli a degli immigranti (gli angoli della bocca le si storsero lievemente all'ingiù) i quali li avevano divisi e affittati a camere. «Ma nella nostra strada non siamo ancora arrivati a questo», disse. «E io dico alla bambina esattamente quali strade può percorrere e quali no.» Dissi che questa mi sembrava una cosa saggia. Era parsa una persona molto più trattabile prima che avessimo firmato il contratto di affitto. E la pigione era così bassa, e la casa così prossima alla fermata dell'autobus. Per questa città era veramente un bel posto. «Inoltre», aggiunsi, rivolta a Ainsley, «hanno ragione di essere preoccupate per il fumo. Se la casa si fosse incendiata? E non ci ha mai fatto appunti per le altre cose.» «Quali altre cose? Non abbiamo mai fatto nient'altro.» «Be'...» dissi. Avevo il sospetto che la signora di sotto avesse preso nota di tutti gli oggetti a forma di bottiglia che avevamo portato di sopra, sebbene avessi fatto del mio meglio per mascherarli come generi alimentari. Era vero che non ci aveva mai specificamente proibito di fare alcunché - si tratterebbe di una violazione troppo grossolana della sua legge dell'accen-
no sfumato - ma ciò serve soltanto a farmi sentire che mi è effettivamente vietato di fare alcunché. «Nelle notti silenziose», disse Ainsley mentre l'autobus si fermava, «la sento che scava nel legno.» Sull'autobus non parlammo; non mi piace parlare sugli autobus, preferisco guardare gli annunci pubblicitari. Inoltre, Ainsley e io non abbiamo molto in comune tranne che la signora di sotto. La conoscevo solo da poco prima che ci trasferissimo lì: era l'amica di una mia amica, e stava cercando una compagna di stanza contemporaneamente a me, il che è il modo in cui solitamente si fanno queste cose. Forse avrei dovuto rivolgermi a un computer; sebbene, tutto sommato, la cosa abbia avuto abbastanza successo. Andiamo d'accordo per un adattamento simbiotico di abitudini e con un minimo di quell'ostilità malva pallido che spesso si trova fra donne. Il nostro appartamento non è mai esattamente pulito, ma impediamo che accumuli più di un leggero strato di lanugine di polvere grazie a un tacito accordo: se io lavo i piatti della colazione, Ainsley lava quelli della cena; se io spazzo il pavimento del salotto, Ainsley pulisce il tavolo della cucina. È un accordo in equilibrio instabile e tutte e due sappiamo che se si perde un colpo tutta la costruzione crolla. Naturalmente abbiamo ciascuna la nostra stanza da letto e quel che succede lì dentro riguarda esclusivamente la proprietaria. Il pavimento di Ainsley, a esempio, è ricoperto da un pantano infido di abiti usati, con posacenere sparsi qua e là su di esso come pietre di un guado, ma sebbene lo consideri un pericolo d'incendio non gliene parlo mai. Grazie a tali reciproche autolimitazioni - do per scontato che siano reciproche dato che ci dovrà essere qualcosa che io faccio che a lei non va riusciamo a mantenere un equilibrio ragionevolmente privo di attriti. Raggiungemmo la stazione della metropolitana, dove comprai un sacchetto di noccioline. Cominciavo già a sentire fame. Ne offersi a Ainsley, ma lei rifiutò, così le mangiai tutte lungo il tragitto verso il centro. Scendemmo alla penultima fermata a sud e camminammo assieme per un isolato. Gli stabili dei nostri uffici sono nello stesso quartiere. «A proposito», disse Ainsley, mentre stavo per svoltare per la mia strada, «hai tre dollari? Il whisky è finito.» Frugai nel borsellino e glieli diedi, non senza un senso di ingiustizia: dividevamo a metà il costo, ma di rado il contenuto. All'età di dieci anni scrissi un tema sull'astinenza dall'alcool per una gara della scuola domenicale della Chiesa unita, illustrandolo con disegni di incidenti automobilistici, diagrammi di fegati malati, e grafici che mostravano gli effetti dell'alcool sul sistema circolatorio; temo che questa
sia la ragione per cui non riesco mai a prendere da bere per la seconda volta senza essere assillata dall'immagine mentale di un segnale di pericolo tracciato coi pastelli colorati e associato al sapore di tiepido succo dell'uva della comunione. Questo mi mette in svantaggio rispetto a Peter; a lui piace che io mi provi a stargli dietro. Mentre mi affrettavo verso il mio ufficio, mi trovai a invidiare a Ainsley il suo lavoro. Sebbene il mio fosse meglio retribuito e più interessante, il suo era più passeggero: lei sapeva cosa voleva fare dopo. Poteva lavorare in un edificio nuovo fiammante con l'aria condizionata, mentre il mio era di mattoni sporchi con le finestre piccole. Anche il suo lavoro era insolito. Quando incontra gente a dei ricevimenti tutti rimangono sorpresi se lei dice di fare la collaudatrice di spazzolini elettrici difettosi, e aggiunge sempre, «Che cos'altro si può fare con una laurea di questi giorni?» Mentre il mio genere di lavoro è soltanto scontato. Pensavo anche di essere più adatta di lei per il suo lavoro. Da quel che vedo in giro per l'appartamento, sono certa di possedere un'abilità meccanica assai maggiore di Ainsley. Quando finalmente raggiunsi l'ufficio ero in ritardo di tre quarti d'ora. Nessuno espresse un commento ma tutti se ne accorsero. 2 All'interno l'umidità era peggiore. Mi feci largo fra le scrivanie delle donne fino al mio angolo e mi ero a malapena sistemata dietro la macchina per scrivere quando la parte posteriore delle gambe mi rimase appiccicata alla dermoide nera della sedia. Il condizionatore d'aria, me ne resi conto, era di nuovo guasto, anche se, dato che si tratta semplicemente di un ventilatore che gira al centro del soffitto, muovendo l'aria come farebbe un cucchiaio in un piatto di brodo, non fa gran differenza se funzioni o no. Ma evidentemente era nocivo per il morale delle donne vedere le spatole ciondolare immobili lassù: dava l'impressione che non si facesse nulla, spronando la loro inerzia a una stasi ancora maggiore. Stavano rannicchiate alle loro scrivanie, simili a rospi, inerti, sbattendo gli occhi e aprendo e chiudendo la bocca. Il venerdì è sempre un brutto giorno in ufficio. Avevo cominciato a battere languidamente i tasti della mia macchina umidiccia quando Mrs Withers, la dietista, fece il suo ingresso dalla porta posteriore e impettita scrutò la stanza. Aveva la sua solita pettinatura alla Betty Grable e le scarpette di vernice aperte sul davanti, e attorno alle sue spalle aleggiava un'aureola di imbottiture anche con uno scamiciato. «Ah,
Marian», disse, «sei arrivata proprio a tempo. Ho bisogno di un'altra degustatrice pre-test per lo studio sul budino di riso in scatola, e questa mattina nessuna delle donne sembra che abbia molta fame.» Fece dietrofront e si diresse velocemente verso la cucina. Le dietiste hanno qualcosa di indisseccabile. Mi scollai dalla sedia, provando la sensazione di un volontario scelto fra i ranghi; ma mi ricordai che il mio stomaco avrebbe gradito questa colazione extra. Nel cucinino immacolato spiegò qual era il suo problema mentre versava uguali porzioni di budino di riso inscatolato in tre ciotole di vetro. «Tu lavori su dei questionari, Marian, può darsi che ci possa aiutare. Non riusciamo a decidere se dargli tutti e tre i sapori nello stesso pasto, oppure ogni sapore separatamente in pasti successivi. O forse potremmo dargli i sapori a coppie: mettiamo vaniglia e arancio a un pasto e vaniglia e zucchero caramellato a un altro. Naturalmente vogliamo un assaggio il più obiettivo possibile, e tanto dipende dalle altre cose che sono state servite: i colori degli ortaggi a esempio, e la tovaglia.» Assaggiai la vaniglia. «Come giudicheresti il colore di questa?» mi chiese ansiosa, con la matita sospesa in aria. «Naturale, leggermente artificiale o completamente innaturale?» «Avete pensato di metterci dell'uva passa?» dissi, volgendomi verso lo zucchero caramellato. Non volevo offenderla. «L'uva passa è troppo rischiosa», disse. «A molti non piace.» Posai lo zucchero caramellato e assaggiai l'arancio. «Avete intenzione di farla servire calda?» chiesi. «O magari con la panna?» «Be', è destinata innanzitutto al mercato del già pronto», disse. «È naturale che dovrebbero servirla fredda. Possono aggiungere della panna, in seguito, se vogliono, intendo dire che in realtà non abbiamo niente in contrario, sebbene non sia necessario dal punto di vista nutritivo, è già stata integrata con vitamine, ma ora quello che vogliamo è una pura e semplice prova sapore.» «Penso che in pasti successivi sarebbe meglio», dissi. «Se soltanto potessimo farlo a metà del pomeriggio. Ma abbiamo bisogno di una reazione familiare...» Batté pensierosa la matita sul bordo del lavandino di acciaio inossidabile. «Sì, be'», feci, «è meglio che torni al mio posto.» Decidere per loro cosa volessero sapere non era parte del mio lavoro. A volte mi chiedo proprio cosa sia parte del mio lavoro, soprattutto
quando mi trovo a telefonare a dei meccanici per chiedere informazioni su pistoni e guarnizioni o a porgere biscotti croccanti a vecchie sospettose agli angoli delle strade. So per cosa mi hanno assunto le Indagini Seymour: dovrei passare il tempo a rivedere i questionari, trasformando la prosa involuta e eccessivamente ingegnosa degli psicologi che li scrivono in domande semplici che possano essere comprese da chi le fa e da chi risponde. Una domanda come «In quale percentuale porreste il valore dell'impatto visivo?» non è utile. Quando ottenni il posto dopo la laurea mi considerai fortunata, era meglio di molti altri, ma dopo quattro mesi i suoi limiti sono ancora vaghi. A volte sono certa di essere destinata a qualcosa di più alto, ma siccome ho soltanto delle idee nebulose sulla struttura organizzativa delle Indagini Seymour non so immaginare cosa. L'azienda è stratificata come un gelato imbottito, con tre piani: lo strato superiore, quello inferiore e il nostro reparto, lo strato appiccicaticcio, nel mezzo. Al piano superiore ci stanno i dirigenti e gli psicologi - detti gli uomini di sopra, dato che sono tutti uomini - i quali sistemano le cose con i clienti; ho avuto delle visioni fugaci dei loro uffici, che sono forniti di tappeti e di mobili costosi e di riproduzioni su seta di pitture del Gruppo di Sette alle pareti. Sotto di noi ci sono le macchine: fotocopiatrici, macchine IBM per contare e selezionare e classificare le informazioni; sono stata anche là sotto, in quel fragore da fabbrica dove gli operai sembrano logori e affaticati e hanno inchiostro sulle dita. Il nostro reparto serve da trait d'union fra i due: noi dobbiamo occuparci dell'elemento umano, delle intervistatrici stesse. Dato che la ricerca di mercato è una specie di industria della casa, come una compagnia dei calzini fatti a mano, queste sono tutte massaie che lavorano nei ritagli di tempo libero e sono pagate a cottimo. Non guadagnano molto, ma a loro piace uscire dall'ambiente domestico. Coloro che rispondono alle domande non sono pagati per niente: spesso mi chiedo perché lo facciano. Forse è per il depliant invitante in cui si dice loro che possono essere di ausilio per migliorare i prodotti che usano proprio in casa loro, qualcosa come uno scienziato. O magari a loro piace avere qualcuno con cui parlare. Ma suppongo che la maggioranza della gente sia lusingata a sentirsi chiedere le proprie opinioni. Siccome il nostro reparto tratta in primo luogo con le massaie, tutti i componenti, tranne lo sfortunato fattorino, sono donne. Siamo sparse per un'ampia stanza color verde ufficiale con uno stanzino di vetro opaco a un'estremità per Mrs Bogue, la caporeparto, e un certo numero di scrivanie
di legno all'altra estremità per le donne dall'aspetto materno che siedono a decifrare la calligrafia delle intervistatrici e a far croci e segni sui questionari completi con pastelli colorati: con le forbici, la colla e le pile di carta sembrano una classe di asilo nido in pensione. Le restanti componenti del reparto siedono a svariate scrivanie nello spazio intermedio. Abbiamo un'accogliente mensa con tendine di chintz per quelle che si portano il pranzo al sacco e una macchina per il tè e il caffè, sebbene alcune portino le proprie teiere; abbiamo anche un gabinetto rosa con un'avvertenza sugli specchi in cui si chiede di non lasciare capelli o fondi di tè nel lavandino. Allora, cosa avrei potuto aspettarmi di diventare alle Indagini Seymour? Non potevo diventare uno degli uomini di sopra; non potevo diventare un operaio addetto alle macchine o una delle donne che segnano i questionari, in quanto questo sarebbe stato un passo indietro. Sarei potuta forse diventare una Mrs Bogue o la sua assistente, ma per quello che mi constava ci sarebbe voluto molto tempo e comunque non ero certa che mi sarebbe piaciuto. Stavo terminando il questionario sugli strofinacci, un lavoro da fare in fretta, quando Mrs Grot del reparto contabilità oltrepassò la soglia. Le sue faccende se le sbriga con Mrs Bogue, ma uscendo si fermò al mio tavolo. È una donna bassa e asciutta con i capelli del colore di un vassoio frigorifero di metallo. «Bene, Miss MacAlpin», disse con voce stridula, «sono ormai quattro mesi che è con noi, e questo significa che ha i requisiti per entrare a far parte del Sistema pensionistico.» «Sistema pensionistico?» Me ne avevano parlato al momento dell'assunzione ma l'avevo dimenticato. «Non è prematuro che io entri a far parte del Sistema pensionistico? Voglio dire... non crede che sia troppo giovane?» «Be', tanto vale cominciare presto, no?» disse Mrs Grot. Gli occhi dietro gli occhiali senza bordo le brillavano: le sarebbe piaciuto poter detrarre qualcos'altro dalla mia busta paga. «Non credo che mi piacerebbe entrare a far parte del Sistema pensionistico», dissi. «A ogni modo la ringrazio.» «Sì, ma è obbligatorio, capisce», disse con voce naturale. «Obbligatorio? Intende dire, anche se non voglio?» «Sì, capisce, se nessuno facesse i propri versamenti, nessuno potrebbe ricavarne niente, le pare? Ho portato i documenti necessari; tutto quel che deve fare è firmare qui.» Firmai, ma dopo che Mrs Grot se ne fu andata, fui colta immediatamente
da un senso di grande depressione; mi seccava più del necessario. Non era soltanto la sensazione di essere soggetta a regole per cui non avevo alcun interesse e nessuna parte nel renderle operanti: a questo ci si abitua a scuola. Era una specie di panico superstizioso per il fatto che io avevo effettivamente siglato col mio nome, apposto la mia firma a un documento magico che sembrava legarmi a un futuro così remoto che non potevo pensarci. Da qualche parte davanti a me c'era un io in attesa, preformato, un io che aveva lavorato per innumerevoli anni per le Indagini Seymour e ora riceveva la sua ricompensa. Una pensione. Mi prefiguravo una stanza grigia con una stufetta elettrica accesa. Forse avrei avuto un apparecchio acustico come una delle mie prozie che non si era mai sposata. Avrei parlato fra me e me; i bambini mi avrebbero tirato palle di neve. Mi dissi di non fare la stupida, probabilmente prima di quel momento il mondo sarebbe saltato per aria; mi feci presente che avrei potuto andarmene di lì il giorno dopo, e trovarmi un lavoro diverso se volevo, ma questo non servì. Pensai alla mia firma che andava in uno schedario e lo schedario in un mobile e che il mobile sarebbe stato messo sotto chiave in una qualche camera blindata. Salutai con piacere l'intervallo per il caffè alle dieci e mezzo. Sapevo che avrei dovuto saltarlo e rimanere a espiare il mio ritardo della mattina ma avevo bisogno di questa distrazione. Vado a prendere il caffè con le uniche tre persone del reparto che hanno quasi la mia età. A volte Ainsley viene a raggiungerci dal suo ufficio, quando è stanca delle altre collaudatrici di spazzolini. Non che le siano particolarmente simpatiche le tre del mio ufficio, che chiama in blocco le vergini dell'ufficio. Fra di loro non ci sono davvero molte somiglianze, tranne che sono tutte bionde artificiali - Emmy, la dattilografa, dai capelli tinti color paglia e arruffati; Lucy che ha una specie di mansione di pubbliche relazioni, platinata e dall'acconciatura elegante, e Millie, l'assistente australiana di Mrs Bogue, abbronzata dal sole e dai capelli rasati - e, come varie volte hanno confessato, dopo il caffè e sulle croste masticate di pasticci tostati, tutte vergini: Millie per un solido senso pratico da guida per le ragazze («Penso che a lungo andare sia meglio aspettare finché non si è sposate, non credi? Meno seccature»); Lucy per sgomento di fronte alla società («Cosa direbbe la gente?») che sembra radicato nella convinzione che tutte le camere abbiano un microfono, con la società dall'altra parte pronta a sintonizzarsi; Emmy, che è l'ipocondriaca dell'ufficio, per la paura che la farebbe star male, il che probabilmente è vero. A tutte interessa viaggiare: Millie è vissuta in Inghilterra, Lucy è stata per due volte a New
York, Emmy vuole andare in Florida. Dopo aver viaggiato abbastanza vorrebbero sposarsi e sistemarsi. «Hai sentito che l'indagine sul lassativo in Quebec è stata annullata?» disse Millie quando ci fummo sedute al nostro solito tavolo, al miserabile, ma vicinissimo, ristorante di là dalla strada. «Sarebbe stato un gran lavoro, anche: un test del prodotto in casa e trentadue pagine di domande.» Millie è sempre la prima a avere le notizie. «Be', devo dire che è meglio così», disse Emmy tirando su col naso. «Non capisco come si possano chiedere trentadue pagine di roba a chiunque su una cosa del genere.» Tornò a staccarsi lo smalto dall'unghia del pollice. Pare sempre che Emmy venga sdipanandosi. Fili dispersi le pendono dagli orli dei vestiti, il rossetto le viene via in squame secche, sulle spalle e sulla schiena le cadono capelli biondi e scaglie di cuoio capelluto; dovunque vada lascia una scia di brandelli assortiti. Vidi Ainsley entrare e le feci un segno con la mano. Si infilò nello stand, dicendo: «Salve» a tutti, poi si appuntò una ciocca di capelli che era venuta giù. Le vergini dell'ufficio risposero, ma senza particolare entusiasmo. «L'hanno già fatto prima», disse Millie. Fra di noi, è quella che lavora nell'azienda da più tempo. «E funziona. Immaginano che chiunque si riesca a portare oltre la terza pagina diventerebbe una specie di drogato dei lassativi, se capite cosa voglio dire, e andrebbero a gonfie vele.» «Fatto prima cosa?» chiese Ainsley. «Cosa scommettete che non pulisce il tavolo?» disse Lucy, abbastanza a alta voce perché la cameriera potesse sentire. Lucy conduce una lotta continua con la cameriera, la quale porta degli orecchini presi da Woolworth e ha un cipiglio minaccioso e chiaramente non è una vergine dell'ufficio. «Lo studio del lassativo in Quebec», dissi a parte a Ainsley. La cameriera arrivò, pulì il tavolo con fare brutale e prese le nostre ordinazioni. Lucy si impuntò sul pasticcio tostato: questa volta chiaramente ne voleva uno senza uva passa. «L'ultima volta me ne ha portato uno con l'uva passa», ci informò, «e io le ho detto che non la potevo sopportare. Non sono mai stata capace di sopportare l'uva passa. Uffa.» «Perché soltanto in Quebec?» chiese Ainsley, emettendo del fumo dalle narici. «C'è qualche motivo psicologico?» Ainsley si è laureata in psicologia all'università. «Dio, non lo so», fece Millie. «Immagino che la gente di là sia solo più stitica. Non mangiano molte patate?» «Potrebbero essere le patate a provocare una tale stitichezza?» chiese
Emmy, protendendosi attraverso il tavolo. Si scostò dalla fronte diverse ciocche di capelli e una nube di pulviscolo si staccò da lei e aleggiò lievemente nell'aria. «Non possono essere solo le patate», asserì Ainsley. «Deve essere il loro complesso di colpa collettivo. O magari la tensione del problema linguistico; devono essere terribilmente repressi.» Le altre la guardarono con ostilità: potevo intuire che pensavano che lei volesse mettersi in mostra. «Oggi fuori fa un caldo atroce», disse Millie, «l'ufficio sembra un forno.» «È successo qualcosa al tuo ufficio?» chiesi a Ainsley, per alleggerire la tensione. Ainsley spiaccicò il mozzicone della sigaretta. «Oh sì, c'è stato un bel po' di agitazione», disse. «Una certa donna ha tentato di far fuori il marito mandando in corto circuito il suo spazzolino elettrico e uno dei nostri ragazzi deve andare a testimoniare al processo; deve garantire che quell'aggeggio in circostanze normali non può andare in corto circuito. Vuole che lo accompagni, che gli faccia da assistente speciale, una cosa del genere, ma è un tale seccatore. Si capisce subito che a letto sarebbe una frana.» Ebbi il sospetto che Ainsley avesse inventato questa storia, ma aveva gli occhi più azzurri e rotondi che mai. Le vergini dell'ufficio si dimenarono. Ainsley ha un modo sbrigativo di alludere ai vari uomini della sua vita che le mette a disagio. Fortunatamente le ordinazioni arrivarono. «Quella carogna me ne ha portato un altro con l'uva passa», gemette Lucy, e cominciò a tirar fuori i granelli con le lunghe unghie iridescenti perfettamente sagomate e a ammucchiarli su un lato del piatto. Mentre tornavamo in ufficio mi lagnai con Millie del Sistema pensionistico. «Non sapevo che fosse obbligatorio», dissi. «Non capisco perché dovrei versare i miei soldi nel loro Sistema e vedere tutte quelle vecchie mummie come Mrs Grot andare in pensione e mangiare alla greppia del mio salario.» «Oh sì, anche a me è seccato la prima volta», disse Millie senza interesse. «Ti passerà. Dio, spero che abbiano riparato il condizionatore.» 3 Ero tornata dal pranzo e stavo leccando e appiccicando bolli alle buste per lo studio su scala nazionale sugli ingredienti del budino all'istante, in
ritardo perché qualcuno al duplicatore aveva fatto scorrere all'indietro uno dei fogli del questionario, quando Mrs Bogue uscì dal suo stanzino. «Marian», disse con un sospiro di rassegnazione, «mi dispiace, ma Mrs Dodge a Kamloops dovrà venire licenziata. È incinta.» Mrs Bogue si accigliò lievemente: considera la gravidanza un atto di slealtà nei riguardi dell'azienda. «Peccato!» dissi. La grande carta murale del paese, cosparsa di puntine da disegno rosse come il morbillo, è proprio al di sopra della mia scrivania, il che significa che l'aumento e la diminuzione delle intervistatrici sembra sia diventato parte del mio lavoro. Mi issai sulla scrivania, individuai Kamloops, e estrassi la puntina da disegno con la bandierina di carta contrassegnata dal nome DODGE. «Mentre sei lassù», disse Mrs Bogue, «potresti almeno tirar via Mrs Ellis da Blind River? Spero che sia soltanto una cosa passeggera, ha sempre svolto un buon lavoro, ma scrive che qualcuna l'ha scacciata di casa con una mannaia e lei è caduta sugli scalini e si è rotta una gamba. Oh, aggiungi questa nuova, una certa Mrs Gauthier a Charlottetown. Spero davvero che sia meglio dell'ultima in quel posto; Charlottetown è sempre una città così difficile.» Quando fui ridiscesa mi sorrise compiaciuta, il che mi mise in guardia. Mrs Bogue ha un modo di fare amichevole, quasi intimo, che le è di grande utilità per trattare con le intervistatrici, e lei è nella vena migliore quando vuole qualcosa. «Marian», disse, «abbiamo un piccolo problema. La prossima settimana faremo uno studio sulla birra, sai, è quello dell'inserto telefonico, e di sopra hanno deciso che questo weekend ci vuole un test preliminare. Sono preoccupati per via del questionario. Ora, potremmo metterci in contatto con Mrs Pilcher, è un'intervistatrice fidata, ma c'è il pónte di mezzo e non vogliamo chiederlo a lei. Tu rimani, non è vero?» «Proprio questo weekend?» chiesi, piuttosto inutilmente. «Be', dobbiamo assolutamente avere i risultati martedì. Basta che interroghi sei o sette uomini.» Il mio ritardo di quella mattina l'aveva messa in una posizione di forza. «Bene», dissi, «li farò domani.» «Prenderai lo straordinario, naturalmente», disse Mrs Bogue mentre si allontanava, lasciandomi in dubbio se quella fosse stata un'osservazione maliziosa. La sua voce è sempre così melliflua che è difficile dirlo. Terminai di leccare le buste, poi mi procurai da Millie i questionari della birra e passai in rivista le domande una per una, facendo attenzione a indi-
viduare eventuali punti che fossero fonti di guai. Le domande della prima parte erano abbastanza normali. Dopo di che, le domande avevano lo scopo di verificare la reazione dell'intervistato all'ascolto di una filastrocca radiofonica, parte della campagna pubblicitaria per una nuova marca di birra che una delle grandi società stava per lanciare sul mercato. A un certo punto l'intervistatore doveva chiedere all'intervistato di prendere il telefono, fare un dato numero, al che la filastrocca si sarebbe sentita al ricevitore. Poi c'era un certo numero di domande in cui gli si chiedeva se gli era piaciuto l'annuncio pubblicitario, se pensava che avrebbe potuto influire sulle sue abitudini di consumatore, e così via. Formai il numero al telefono. Dato che l'inchiesta non sarebbe effettivamente iniziata fino alla settimana prossima, qualcuno poteva aver dimenticato di inserire il disco e non volevo farci la figura dell'idiota. Dopo un suono, un ronzio e un clic metallico preliminari, una profonda voce di basso, accompagnata da quella che sembrava una chitarra elettrica, cantò: Moose, Moose, Dalla terra del pino e dell'abete, Frizzante, inebriante, energetica... Poi una voce, profonda quasi come quella del cantante, cominciò a dire, intonata in modo suadente con la musica di fondo: «Qualsiasi vero uomo, in vacanza da vero uomo - a caccia, a pesca, o soltanto godendosi un semplice relax all'antica - ha bisogno di una birra dal sapore sano, vigoroso, un profondo gusto virile. La prima lunga fresca sorsata vi dirà che la Birra Moose è proprio quello che avete sempre cercato per gustare veramente la birra. Mettete l'odore del bosco nella VOSTRA vita oggi stesso con un bel bicchiere di forte Birra Moose». Il cantante riprese: Frizzante, inebriante, Energica, Moose, Moose, Moose, Moose, BIRRA!!! e dopo un parossismo di musica il disco si interruppe. Funzionava in modo soddisfacente. Mi ricordai degli abbozzi che avevo visto degli inserti visivi, in pro-
gramma per uscire su riviste e manifesti: l'etichetta doveva avere un paio di corna con un fucile e una canna da pesca incrociati sotto. L'annuncio pubblicitario cantato voleva sottolineare questo tema; non mi pareva molto originale, ma ammiravo l'astuzia di quel «soltanto godendosi un semplice relax all'antica». Questo era perché l'ordinario bevitore di birra, il tipo dalle spalle curve e con la pancetta, potesse identificarsi misticamente con lo sportivo dalla giubba a quadretti mostrato nelle illustrazioni con un piede su un cervo o nell'atto di scodellare una trota nella rete. Ero arrivata all'ultima pagina quando squillò il telefono. Era Peter. Riuscii a capire dal tono della voce che qualcosa non andava. «Ascolta, Marian, questa sera non possiamo uscire a cena.» «Oh?» feci io, in attesa di ulteriori spiegazioni. Ero delusa, avevo aspettato con ansia di cenare con Peter per tirarmi su di morale. E poi avevo di nuovo fame. Avevo smangiucchiato per tutto il giorno e avevo contato su qualcosa di nutriente e sostanzioso. Questo significava un'altra cena preconfezionata che Ainsley e io tenevamo in serbo in caso di emergenza. «È successo qualcosa?» «So che capirai. Trigger...» e la voce gli venne meno, «Trigger si sposa.» «Oh», dissi. Mi passò per là testa di aggiungere: «Che peccato», ma non mi sembrò un'espressione appropriata all'occasione. Era inutile condolersi come se si trattasse di un incidente di secondaria importanza, quando in realtà si trattava di un disastro nazionale. «Avresti piacere che venissi con te?» chiesi, offrendomi di sostenerlo. «Dio, no», disse, «così sarebbe anche peggio. Ti vedo domani, d'accordo?» Quando ebbe riattaccato riflettei sulle conseguenze. Quella più ovvia era che la sera dopo sarebbe stato necessario trattare Peter con le pinze. Trigger era uno dei suoi più vecchi amici; in realtà, era stato l'ultimo del gruppo di vecchi amici di Peter che fosse rimasto ancora scapolo. Era stata come un'epidemia. Proprio prima che facessi la sua conoscenza due avevano capitolato, e nei quattro mesi seguenti altri due erano affondati senza molte parole di preavviso. Peter e Trigger si erano trovati sempre più soli a bere nei loro incontri da scapoli durante l'estate, e quando gli altri si prendevano una sera di libertà dalle mogli per unirsi a loro, capii dai tetri resoconti di Peter che l'atmosfera della serata era un pallido surrogato delle irresponsabili baldorie del passato. Peter e Trigger si erano tenuti avvinghiati l'uno all'altro come uomini sul punto di affogare, cercando ciascuno di
fare dell'altro il riflesso rassicurante di se stesso di cui aveva bisogno. Ora Trigger era affondato e lo specchio sarebbe rimasto vuoto. Naturalmente, c'erano gli altri studenti di legge, ma anche loro in maggioranza erano sposati. Inoltre, appartenevano all'età argentea, postuniversitaria, di Peter più che al suo precedente periodo d'oro. Mi sentii triste per lui, ma sapevo che avrei dovuto stare in guardia. Se gli altri due matrimoni erano serviti a fornire una qualche indicazione, dopo due o tre bevute avrebbe cominciato a vedermi come una versione della sirena astuta che aveva portato via Trigger. Non ebbi il coraggio di chiedere come questa avesse fatto; avrebbe potuto pensare che mi stessero venendo delle idee balzane. Il piano migliore sarebbe stato di distrarlo. Mentre stavo meditando, Lucy venne alla mia scrivania. «Credi che potresti scrivere una lettera a questa donna per me?» chiese. «Ho un mal di testa terribile e non riesco davvero a pensare a niente da dire.» Si premette la fronte con una mano elegante; con l'altra mi porse qualcosa scritto a matita su un pezzo di cartone. Lo lessi: «Caro signore, i nocchi d'avena erano buoni, ma ho trovato questo nell'uva passa. Sinceramente vostra, (Mrs) Ramona Baldwin». Una mosca domestica spiaccicata era attaccata con lo scotch in fondo alla lettera. «Era quello studio sui fiocchi d'avena con l'uva passa», disse Lucy flebilmente. Faceva leva sulla mia simpatia. «Sta bene», dissi, «hai il suo indirizzo?» Feci diversi abbozzi: «Cara Mrs Baldwin, siamo estremamente dispiaciuti per l'oggetto trovato nei suoi fiocchi d'avena, ma questi piccoli errori sono destinati a accadere. Cara Mrs Baldwin, siamo così dispiaciuti di averle provocato questo disturbo, le assicuriamo tuttavia che l'intero contenuto del pacco era assolutamente sterile. Cara Mrs Baldwin, le siamo grati per averci fatto presente la cosa, come siamo sempre lieti di essere informati su qualsiasi errore possiamo aver commesso». La cosa principale, lo sapevo, era di evitare di chiamare la mosca col suo vero nome.
Il telefono squillò ancora; questa volta era una voce inattesa. «Clara!» esclamai, consapevole di averla trascurata. «Come stai?» «In un sacco di merda, grazie», disse Clara. «Ma mi chiedo se puoi venire a cena. Mi piacerebbe davvero vedere la faccia di qualcuno che non sia di casa.» «Mi piacerebbe molto», dissi; il mio entusiasmo era vero solo per metà: sarebbe stato meglio che una cena preconfezionata. «Verso che ora?» «Oh, lo sai», disse Clara. «Quando vieni, vieni. Non siamo quello che si direbbe puntuali da queste parti.» Aveva assunto un tono amaro. Ora che mi ero impegnata pensavo rapidamente a ciò che questo fatto avrebbe comportato: ero invitata in qualità di ospite e di confidente, qualcuno che avrebbe ascoltato la litania dei problemi di Clara, e non me la sentivo. «Credi che potrei portare anche Ainsley?» dissi. «Cioè, se non ha altri impegni.» Mi dissi che avrebbe fatto bene a Ainsley fare un sano pasto (aveva preso soltanto un caffè durante l'intervallo), ma segretamente la volevo presente per togliermi un po' del peso e della tensione. Lei e Clara avrebbero potuto parlare di psicologia infantile. «Certo, perché no?» disse Clara. «Più siamo e più allegri si sta, questo è il nostro motto.» Telefonai a Ainsley all'ufficio, chiedendole con tatto se faceva niente per l'ora di cena e ascoltando il suo resoconto dei due inviti che aveva ricevuto e rifiutato: uno da parte del testimone del processo dell'assassinio con lo spazzolino da denti, l'altro da parte dello studente di odontoiatria della sera prima. Con quest'ultimo era stata assai sgarbata: non sarebbe mai più uscita con lui. Essa sostenne che lui le aveva detto che al ricevimento vi sarebbero stati degli artisti. «Così non fai niente allora», dissi, assodando un dato di fatto. «Be', no», disse Ainsley, «a meno che non intervenga qualcosa di nuovo.» «Allora perché non vieni con me a cena da Clara?» Mi aspettavo un diniego, ma lei accettò con calma. Ci accordammo di incontrarci alla stazione della metropolitana. Lasciai la scrivania alle cinque e mi diressi verso la fresca toilette rosa. Avevo bisogno di stare sola qualche minuto per prepararmi a affrontare la situazione prima di andare da Clara. Ma Emmy, Lucy e Millie erano tutte lì, intente a pettinarsi i capelli gialli e a ritoccarsi il trucco. I loro sei occhi brillavano negli specchi. «Esci stasera, Marian?» mi chiese Lucy, con aria troppo indifferente.
Aveva la mia stessa linea telefonica e naturalmente sapeva di Peter. «Sì», dissi, senza dare spiegazioni. La loro ansiosa curiosità mi rendeva nervosa. 4 Mi incamminai verso la stazione della metropolitana percorrendo il marciapiede nel tardo pomeriggio, attraverso una densa nebbiolina dorata di calore e di polvere. Era quasi come muoversi sott'acqua. Di lontano vidi Ainsley che luccicava accanto a un palo del telefono e quando l'ebbi raggiunta si voltò e ci unimmo alla fila di impiegati che stavano sprofondando nell'imbuto delle scale che portavano giù nelle fresche caverne della metropolitana. Facendoci largo con abilità trovammo da sedere, sebbene ai lati opposti della carrozza, e io rimasi seduta a leggere gli annunci pubblicitari come meglio potei attraverso lo schermo di corpi sobbalzanti. Quando scendemmo di nuovo e uscimmo attraverso i corridoi color pastello l'aria parve meno umida. La casa di Clara era alcuni isolati più a nord. Camminavamo in silenzio; pensai di accennare al Sistema pensionistico, ma decisi di non farlo. Ainsley non avrebbe capito perché lo trovassi seccante: non avrebbe visto nessuna ragione perché non potessi lasciare quel posto e trovarne un altro, e perché questa non sarebbe potuta essere una soluzione definitiva. Poi mi venne da pensare a Peter e a quel che gli era capitato; Ainsley, tuttavia, avrebbe trovato la cosa soltanto divertente se gliel'avessi detta. Alla fine le chiesi se si sentiva meglio. «Non essere così preoccupata, Marian», disse, «mi fai sentire come un'invalida.» Questo mi urtò e non risposi. Procedevamo in salita, a una leggera angolazione. La città si innalza dal lago con una serie di lievi ondulazioni, sebbene in qualsiasi punto sembri piatta. Questo spiegava l'aria più fresca. Inoltre qui era più silenzioso; pensai che Clara era fortunata, soprattutto nelle sue condizioni, a abitare così lontano dal caldo e dal rumore del centro. Per quanto lei lo considerasse una specie di esilio: appena sposati avevano abitato in un appartamento vicino all'università, ma il bisogno di spazio li aveva costretti a spingersi più a nord, sebbene non avessero ancora raggiunto i veri sobborghi di villini moderni e giardinetti. La strada stessa era vecchia, ma non bella come la nostra: le case erano per due famiglie, lunghe e strette, con verande di le-
gno e giardini posteriori lunghi e stretti. «Cristo, che caldo», disse Ainsley mentre imboccavamo il sentiero che portava alla casa di Clara. L'erba del praticello della grandezza di un fazzoletto non era stata tagliata da un po' di tempo. Sui gradini giaceva una bambola semidecapitata e dentro alla carrozzella c'era un grosso orsacchiotto con l'imbottitura che usciva. Bussai e dopo parecchi minuti Joe comparve dietro la porta schermata, preoccupato e spettinato, intento a abbottonarsi la camicia. «Salve Joe», dissi, «eccoci qua. Come sta Clara?» «Salve, venite avanti», disse lui, facendosi da parte per lasciarci passare. «Clara è fuori, nel giardino di dietro.» Attraversammo la casa per tutta la sua lunghezza; era sistemata come solitamente lo sono case di questo tipo: salotto sul davanti, poi la sala da pranzo con le porte scorrevoli, poi la cucina. Scavalcando alcuni degli ostacoli sparsi qua e là e aggirandone altri, raggiungemmo le scale della veranda che dava sul retro, che erano cosparse di bottiglie vuote di ogni genere, bottiglie di birra, bottiglie di latte, bottiglie di vino e di whisky, e biberon e trovammo Clara nel giardino, seduta su una poltrona di vimini rotonda con le gambe di metallo. Teneva i piedi su un'altra sedia e portava l'ultima nata più o meno in prossimità di quello che era stato un tempo il grembo. Il corpo di Clara è così sottile che le sue gravidanze sono sempre delle protuberanze visibilissime e ora, arrivata al settimo mese, assomigliava a un boa constrictor che avesse inghiottito un cocomero. Il capo, con l'aureola di capelli chiari, per contrasto, veniva a sembrare più minuscolo e persino più fragile. «Oh, salve», disse con aria stanca, mentre scendevamo i gradini. «Ciao, Ainsley, mi fa piacere rivederti. Cristo, che caldo.» Assentimmo e ci sedemmo sull'erba vicino a lei, dato che non c'erano sedie. Ainsley e io ci togliemmo le scarpe; Clara era già scalza. Trovammo difficile parlare: l'attenzione di ognuna era necessariamente concentrata sulla piccola che stava frignando e per un po' fu l'unica persona che disse qualcosa. Quando mi aveva telefonato mi era sembrato che Clara mi stesse chiamando per una qualche specie di soccorso, ma ora avvertii che non c'era molto che io potessi fare, e nulla che lei si fosse mai aspettata che io facessi. Dovevo fare soltanto da testimone, o magari da qualche specie di tampone: la mia semplice presenza fisica doveva assorbire un po' del suo senso di noia.
La bambina aveva smesso di piagnucolare e ora stava farfugliando. Ainsley stava staccando dei pezzi d'erba. «Marian», disse Clara alla fine, «potresti tenere Elaine per un po'? Non le va di stare per terra e io ho le braccia a pezzi.» «La prendo io», disse Ainsley, inaspettatamente. Clara si sollevò la bambina di dosso e la passò a Ainsley, dicendo: «Andiamo, piccola mignatta. Ci sono delle volte che penso che sia tutta ricoperta di ventose, come una piovra». Si appoggiò alla spalliera della sedia e chiuse gli occhi: sembrava una strana escrescenza vegetale, un tubero bulboso che avesse messo fuori quattro sottili radici bianche e un minuscolo fiore giallo pallido. Una cicala friniva su un albero vicino, e le sue monotone vibrazioni erano come un raggio ardente di luce solare fra le orecchie. Ainsley reggeva goffamente la bambina, osservandola in faccia piena di curiosità. Pensai quanto si rassomigliavano quelle due facce. La bambina rispondeva al suo sguardo con occhi rotondi e azzurri come quelli di Ainsley; la bocca rosa sbavava leggermente. Clara sollevò la testa e aprì gli occhi. «Volete che vada a prendervi qualcosa?» chiese, ricordando di essere l'ospite. «Oh no, stiamo benissimo», mi affrettai a dire, allarmata dalla sua figura che cercava disperatamente di alzarsi dalla sedia. «Vuoi che vada a prenderti io qualcosa?» Mi sarei sentita meglio a fare qualcosa di concreto. «Joe verrà fuori fra poco», disse, come per spiegare. «Be', parlatemi. Cosa c'è di nuovo?» «Non molto», dissi. Rimasi lì cercando di pensare a cose che l'avrebbero divertita, ma qualsiasi cosa a cui avessi potuto accennare, l'ufficio o i luoghi in cui ero stata o l'arredamento dell'appartamento, avrebbe soltanto ricordato a Clara la sua inerzia, la sua mancanza di spazio e di tempo, i suoi giorni resi claustrofobi da piccoli particolari necessari. «Esci ancora con quel ragazzo simpatico? Quello bello? Come si chiama? Ricordo che è venuto qui una volta a prenderti.» «Vuoi dire Peter?» «Sì», fece Ainsley, con una punta di disapprovazione. «L'ha monopolizzata.» Sedeva con le gambe incrociate, e ora si mise la bambina in grembo per potersi accendere una sigaretta. «Questo fa sperare», disse Clara con aria tetra. «A proposito, immagina chi è tornato in città? Len Slank. Ci ha telefonato l'altro giorno.» «Oh, davvero? Quando è arrivato?» Ero irritata perché non aveva chiamato anche me.
«Circa una settimana fa, ha detto. Ha spiegato che ha cercato di telefonarti ma che non è riuscito a trovare il tuo numero.» «Avrebbe potuto chiedere al Servizio Informazioni», dissi, secca. «Ma mi piacerebbe vederlo. Come sembrava? Per quanto si ferma?» «Chi è?» chiese Ainsley. «Oh, nessuno che ti interessi», dissi pronta. Non potevo immaginare due persone meno adatte l'una all'altra. «È soltanto un nostro vecchio amico di università.» «È andato in Inghilterra e poi è entrato nella televisione», disse Clara. «Non sono certa di quello che faccia. Un tipo simpatico, però, ma è una bestia con le donne, una specie di seduttore di ragazzine. Dice che tutte dopo i diciassette anni sono troppo vecchie.» «Oh, uno di quelli», disse Ainsley. «Sono gente così noiosa.» Spense la sigaretta nell'erba. «Sai, ho l'impressione che sia per questo che è tornato», disse Clara, con qualcosa di simile alla vivacità. «Un qualche pasticcio con una ragazza; come quando dovette andarsene per la prima volta.» «Ah», feci io, senza sorprendermi. Ainsley levò un piccolo strillo e posò la bambina sull'erba. «Il mio vestito è bagnato», disse in tono accusatore. «Be', fanno così, lo sai», disse Clara. La bambina cominciò a urlare, e io la raccolsi con aria indifferente e la passai a Clara. Ero pronta a aiutarla, ma fino a un certo punto. Clara sballottò la bambina. «Be', maledetto idrante», disse con aria consolante. «Hai innaffiato l'amica di mammà, vero? Andrà via, Ainsley. Ma non abbiamo voluto metterle le mutandine di plastica per via di tutto questo caldo, vero, piccolo geyser puzzolente? Non state a credere a quel che vi dicono sull'istinto materno», aggiunse rivolta a noi con aria truce. «Non capisco come una persona possa voler bene ai propri figli finché non cominciano a diventare degli esseri umani.» Joe comparve sul retro con uno strofinaccio infilato nella cinghia dei pantaloni a mo' di grembiule. «Nessuno vuole una birra prima di cenare?» Ainsley e io dicemmo di sì pronte, e Clara disse: «Per me un po' di vermouth, caro. Non riesco a bere nient'altro ora, mi fa rivoltare questo maledetto stomaco. Joe, potresti portare in casa Elaine e cambiarla?» Joe discese i gradini e raccolse la bambina. «A proposito», disse, «non avete visto Arthur in giro da qualche parte, vero?» «Oh dio, adesso dov'è andato a finire quel mascalzone?» chiese Clara
mentre Joe scompariva in casa; sembrava una domanda retorica. «Credo che abbia scoperto come aprire il cancello di dietro. Piccolo bastardo. Arthur! Vieni qui, caro», gridò con voce languida. In fondo allo stretto giardino la distesa del bucato appeso fin quasi a sfiorare il terreno venne aperta da due piccole mani sudice, e il primogenito di Clara si fece avanti. Come la bambina, era nudo, tranne per un paio di mutandine. Esitò, sbirciandoci con aria dubbiosa. «Vieni qui, amore, e fa' vedere a mammà cosa hai fatto», disse Clara. «Togli le mani dai lenzuoli puliti», aggiunse, senza troppa convinzione. Arthur avanzò cauto sull'erba verso di noi, sollevando in alto i piedi nudi a ogni passo. L'erba doveva provocargli il solletico. Le mutandine gli erano lente, come sospese soltanto per forza di volontà sotto la protuberanza dello stomaco con l'ombelico che sporgeva in fuori. Aveva la faccia corrugata in un severo cipiglio. Joe tornò portando un vassoio. «L'ho sbattuta nel cesto della biancheria», disse. «Sta giocando con le mollette del bucato.» Arthur ci aveva raggiunto e stava accanto alla sedia della madre, sempre accigliato, e Clara gli disse: «Perché fai quel muso ridicolo, piccolo demonio?» Allungò la mano dietro di lui e tastò le mutandine. «Avrei dovuto saperlo», sospirò, «stava così zitto. Marito, tuo figlio l'ha mollata di nuovo. Non so dove, non è nelle mutandine.» Joe distribuì le bibite, poi si inginocchiò e disse a Arthur in tono deciso ma gentile: «Mostra a papà dove l'hai messa». Arthur sollevò gli occhi su di lui, incerto se piagnucolare o sorridere. Alla fine avanzò con aria portentosa verso il lato del giardino, dove si rannicchiò accanto a un cespuglio di crisantemi rossi polverosi e appuntò gli occhi con aria concentrata su una parte del terreno. «Bravo bambino», disse Joe, e rientrò in casa. «È un vero figlio della natura, gli piace farla in giardino», ci disse Clara. «Pensa di essere un dio della fertilità. Se non lo ripulissimo, questo posto sarebbe un grande campo di concime. Non so cosa farà quando nevica.» Chiuse gli occhi. «Abbiamo tentato di abituarlo al water, sebbene secondo alcuni libri sia troppo presto, e gli abbiamo preso uno di quei vasi di plastica. Non ha la minima idea a cosa serva; va in giro tenendolo in testa. Immagino che creda sia un casco antiurti.» Stemmo a osservare, sorseggiando la birra, mentre Joe attraversava il giardino e tornava con un pezzo di giornale piegato. «Dopo questo prendo la pillola», disse Clara.
Quando Joe ebbe finalmente terminato di cucinare la cena, entrammo in casa e la consumammo, seduti attorno al pesante tavolo della sala da pranzo. La bambina aveva già mangiato e era stata confinata nella carrozzella nella veranda anteriore, ma Arthur sedeva su un seggiolone, dove evitava con contorcimenti spastici del corpo le cucchiaiate di cibo che Clara gli allungava in direzione della bocca. La cena consistette in polpette secche e pasta, con lattuga. Per dessert mangiammo qualcosa che riconobbi. «Questo è il nuovo budino di riso in scatola; fa risparmiare un sacco di tempo», disse Clara per difendersi. «Con la panna non è male, e a Arthur piace moltissimo.» «Sì», dissi. «Prestissimo ci sarà anche al sapore d'arancio e allo zucchero caramellato.» «Oh?» Clara intercettò abilmente una lunga sbavata di budino che rimise in bocca a Arthur. Ainsley tirò fuori una sigaretta e aspettò che Joe gliel'accendesse. «Dimmi», gli fece, «conosci questo loro amico, Leonard Slank? Ne fanno un tale mistero.» Joe era andato avanti e indietro durante il pasto, portando via piatti e badando alla cucina. Sembrò stordito. «Oh sì, me ne ricordo», disse, «per quanto in realtà sia un amico di Clara.» Terminò in fretta il suo budino e chiese a Clara se aveva bisogno di una mano, ma lei non lo sentì. Arthur aveva appena buttato a terra la sua scodella. «Ma cosa ne pensi tu di lui?» chiese Ainsley, come facendo appello alla sua intelligenza superiore. Joe guardò fisso il muro. Non gli piaceva esprimere dei giudizi negativi, lo sapevo, ma sapevo anche che Len non gli andava a genio. «Non è morale», disse alla fine. Joe è insegnante di filosofia. «Oh, questo non è leale», dissi io. Len non era mai stato immorale nei miei confronti. Joe si voltò accigliato verso di me. Non conosce Ainsley molto bene e tende comunque a pensare che tutte le ragazze nubili siano facilmente abbindolabili e che abbiano bisogno di protezione. Varie volte mi aveva offerto dei consigli paterni e ora sottolineò questo punto. «Non è uno con cui... immischiarsi», disse in tono severo. Ainsley scoppiò in una risatina e emise una boccata di fumo, serena. «Questo mi fa venire in mente», dissi, «che faresti meglio a darmi il suo numero di telefono.» Dopo cena andammo a sederci nel salotto tutto in disordine mentre Joe
sgombrava la tavola. Mi offersi di aiutarlo, ma Joe disse che andava bene così, avrebbe preferito che fossi rimasta a parlare con Clara. Clara si era sistemata sul divano in un fascio di giornali gualciti, con gli occhi chiusi; di nuovo non mi riuscì di pensare a molte cose da dire. Rimasi seduta a guardare il centro del soffitto dove c'era una decorazione di gesso piena di volute elaborate, dove forse una volta aveva trovato posto un lampadario, ricordandomi di Clara alle superiori: una ragazza alta e fragile che veniva sempre esentata dall'educazione fisica. Sedeva sulle linee laterali a osservare il resto di noi con i calzoncini blu delle tute da ginnastica come se una cosa così faticosa e sgraziata le fosse abbastanza estranea da costituire un passatempo lievemente divertente. In quella classe piena di adolescenti ingrassate con patatine oleose rappresentava l'ideale universale della traslucida femminilità della pubblicità dei profumi. All'università era stata un po' più in salute, ma si era fatta crescere i capelli biondi, che la facevano sembrare più medioevale che mai: avevo pensato a lei come a una di quelle dame delle tappezzerie sedute nei giardini delle rose. Naturalmente, nella testa non era così, ma io sono sempre stata influenzata dalle apparenze. Sposò Joe Bates in maggio, alla fine del secondo anno e in un primo tempo pensai che fosse una unione ideale. Joe era allora laureato, più anziano di lei di quasi sette anni, un uomo alto e irsuto, lievemente ricurvo e con un atteggiamento protettivo nei riguardi di Clara. Il culto che ognuno aveva dell'altro, prima del matrimonio, era qualcosa di ridicolmente idealistico; ci si aspettava che Joe stendesse il suo cappotto sulle pozze di fango o cadesse in ginocchio per baciare gli stivali di gomma di Clara. I bambini non erano stati in programma: Clara accolse la prima gravidanza con lo stupore che una cosa simile potesse accadere a lei, e la seconda con sgomento; ora, durante la terza, era caduta in un tetro ma inerte fatalismo. Le metafore da lei impiegate nei riguardi dei figli comprendevano i cirripedi che incrostano le navi e le patelle che si abbarbicano a una roccia. La guardai, con un empito di imbarazzata compassione che mi sopraffaceva; cosa potevo fare? Forse avrei potuto offrirmi di venire qualche giorno a ripulire la casa. Clara era semplicemente priva di senso pratico, non era in grado di tener sotto controllo gli aspetti più ordinari della vita, come il denaro o arrivare in tempo alle lezioni. Quando abitavamo assieme presso l'università era solita di quando in quando impantanarsi disperatamente nella sua stanza, incapace di trovare delle scarpe appaiate o sufficienti capi di vestiario puliti da indossare, e io dovevo estrarla dalla catasta di cianfrusaglie che si era lasciata accumulare attorno. Il suo disordine non era atti-
vamente creativo come quello di Ainsley, che avrebbe potuto mettere a soqquadro una stanza in cinque minuti se si sentiva in vena di fare del caos; era passivo. Lei se ne stava semplicemente con le mani in mano mentre la marea di sudiciume si alzava attorno a lei, incapace di fermarla o di fuggire. Anche con i figli era così; il suo corpo sembrava bene o male al di fuori della sua portata e procedeva per la propria strada senza badare a alcuna direttiva impostagli da lei. Osservai attentamente il disegno a fiori chiari sullo scamiciato da donna incinta che indossava; i petali e i viticci stilizzati si muovevano al suo respiro, come se acquistassero vita. Ce ne andammo presto, dopo che Arthur venne messo a letto urlante per ciò che Joe chiamò un «incidente» dietro la porta del salotto. «Non è stato un incidente», osservò Clara, aprendo gli occhi. «Solo gli piace pisciare dietro le porte. Mi domando che cosa sia. Sarà riservato quando sarà grande, un poliziotto travestito o un diplomatico o qualcosa del genere. Piccolo bastardo furtivo.» Joe ci accompagnò alla porta con una pila di biancheria sporca fra le braccia. «Dovete tornare a trovarci presto», disse. «Clara ha così poche persone con cui può parlare veramente.» 5 Ci avviammo a piedi verso la metropolitana nella semioscurità del crepuscolo, fra lo strepito dei grilli e il rumore smorzato dei televisori (in alcune case si potevano vedere mandare intermittenti sprazzi blu attraverso le finestre aperte) e un odore di catrame caldo. Mi sentivo soffocare nella pelle, come se fossi ricoperta da uno strato di pasta umida. Temevo che Ainsley non si fosse divertita: il suo silenzio era negativo. «La cena non è stata male», dissi, desiderando essere leale verso Clara, la quale dopo tutto era mia amica da più tempo di Ainsley; «Joe sta diventando proprio un buon cuoco.» «Lei come fa a sopportare una cosa simile?» disse Ainsley con maggior veemenza del solito. «Se ne sta lì stesa e quell'uomo fa tutto lui! Si lascia trattare come una cosa!» «Be', è incinta di sette mesi», dissi. «E non è mai stata bene.» «Lei non sta bene!» fece Ainsley indignata. «È fiorente; è lui che non sta bene. È invecchiato da quando lo conosco, e sono meno di quattro mesi. Lei gli sta prosciugando tutte le energie.» «Cosa suggerisci?» feci io. Ero irritata con Ainsley: non riusciva a capi-
re la situazione di Clara. «Be', dovrebbe fare qualcosa; anche soltanto un gesto simbolico. Non ha mai preso la laurea, vero? Questo non sarebbe proprio il momento ideale per occuparsene? Un sacco di donne incinte si laureano.» Ricordai i piani della povera Clara dopo il primo bambino: l'aveva considerata come un'assenza temporanea. Dopo il secondo si era lamentata: «Non so in cosa sbagliamo! Cerco sempre di stare così attenta». Era sempre stata contro la pillola - pensava che potesse cambiarle la personalità ma pian piano era diventata meno inflessibile. Aveva letto un romanzo francese (tradotto) e un libro sulle spedizioni archeologiche nel Perù e aveva parlato di scuole serali. Negli ultimi tempi aveva cominciato a osservare con aria amara di essere «soltanto una casalinga». «Ma Ainsley», dissi, «tu dici sempre che una laurea non sta a dimostrare un bel niente.» «Naturalmente la laurea in sé no», disse Ainsley, «è ciò che rappresenta. Dovrebbe organizzarsi.» Quando fummo di nuovo nel nostro appartamento pensai a Len e decisi che non era troppo tardi per telefonargli. Era in casa, e dopo esserci scambiati i saluti gli dissi che mi sarebbe piaciuto vederlo. «Magnifico», disse lui, «dove e quando? Scegli un qualche posto fresco. Non ricordavo che fosse così maledettamente caldo d'estate quaggiù.» «Allora non saresti dovuto tornare», feci io, insinuando che sapevo perché era tornato e dandogli modo così di aprirsi. «Qui ero più al sicuro», disse, con una punta di compiacimento. «Dagli un dito e loro si prendono il braccio.» Aveva assunto un leggero accento inglese. «A proposito, Clara mi dice che hai una nuova compagna di stanza.» «Non è il tuo tipo», dissi. Ainsley era andata nel salotto e stava seduta sul divano con la schiena rivolta verso di me. «Oh, vuoi dire troppo vecchia, come te, eh?» Dire che ero troppo vecchia era una delle sue battute. Risi. «Facciamo domani sera», dissi. Mi era improvvisamente venuta l'idea che Len sarebbe stato una distrazione ideale per Peter. «Verso le otto e mezzo al Park Plaza. Porterò un amico perché facciate conoscenza.» «Aha», fece Len, «quel tipo di cui Clara mi ha parlato. Non è una cosa seria, vero?» «Oh no, assolutamente», dissi per rassicurarlo. Quando ebbi riattaccato, Ainsley disse: «Era a Len Slank che stavi parlando?»
Dissi di sì. «Che aspetto ha?» chiese con noncuranza. Non potevo rifiutare di dirglielo. «Oh, più o meno comune. Non credo che ti piacerebbe. Ha i capelli biondi e ricci e porta degli occhiali con una montatura di corno. Perché?» «Così, per curiosità.» Si alzò e andò in cucina. «Vuoi da bere?» gridò. «No grazie», dissi, «ma potresti portarmi un bicchier d'acqua.» Passai nel salotto e andai nel posto vicino alla finestra dove c'era un po' di venticello. Tornò con whisky e ghiaccio per lei e mi porse il mio bicchier d'acqua. Poi si sedette sul pavimento. «Marian», disse, «ho bisogno di dirti qualcosa.» Il tono della voce era così serio che fui immediatamente preoccupata. «Cosa c'è che non va?» «Avrò un bambino», disse tranquilla. Bevvi velocemente un sorso d'acqua. Non riuscivo a immaginare che Ainsley avesse fatto un calcolo sbagliato di quel genere. «Non ti credo.» Lei rise. «Oh, non dico che sono già incinta. Intendo dire che voglio avere una gravidanza.» Mi sentii sollevata ma confusa. «Vuoi dire che vuoi sposarti?» chiesi, pensando alla disgrazia di Trigger. Cercai di indovinare in chi di loro Ainsley potesse essere interessata, ma invano. Da quando la conoscevo era decisamente contro il matrimonio. «Sapevo che avresti detto così», fece lei, con un'aria di divertito disprezzo. «No, non mi sposo. Ecco la disgrazia della maggior parte dei bambini, hanno troppi genitori. Non puoi dire che il genere di ménage che Clara e Joe conducono sia la condizione ideale per un bambino. Pensa come saranno confuse le immagini del padre e della madre che avranno; sono già pieni di complessi. E è soprattutto a causa del padre.» «Ma Joe è fantastico!» esclamai. «Fa più o meno tutto per lei! Cosa sarebbe di Clara senza di lui?» «Precisamente», disse Ainsley. «Dovrebbe sbrogliarsela da sé. E ce la farebbe, e la loro educazione globale sarebbe molto più coerente. La rovina delle famiglie oggigiorno sono i mariti. Hai notato che non allatta nemmeno al seno la bambina?» «Ma ha i denti», protestai. «Quasi tutte li svezzano quando mettono i denti.» «Stupidaggini», disse Ainsley tetra. «Scommetto che è stato Joe a con-
vincerla. Nel Sud America li allattano al seno molto più a lungo. L'uomo nordamericano detesta vedere l'unità base madre-figlio funzionare naturalmente, gli dà la sensazione di non essere necessario. In questo modo Joe può dargli il biberon con la stessa facilità. Qualsiasi donna lasciata a se stessa automaticamente allatterebbe al seno il più a lungo possibile: io certo farò così.» Mi sembrava che la discussione fosse andata fuori strada: stavamo parlando di teoria a proposito di una faccenda pratica. Cercai di attaccarla personalmente: «Ainsley, non sai assolutamente niente dei bambini. Non ti piacciono neppure tanto, ti ho sentita dire che sono troppo sudici e rumorosi». «Non amare i bambini degli altri», disse Ainsley, «non equivale a non amare i propri.» Non potevo negare questo. Ero perplessa: non sapevo neppure come giustificare la mia opposizione al suo progetto. Il peggio era che probabilmente l'avrebbe realizzato. È capace di darsi da fare per ottenere quel che vuole con una gran dose di efficienza, sebbene, secondo me, alcune delle cose che vuole - e questo era un caso del genere - siano irragionevoli. Decisi un approccio terra terra. «D'accordo», dissi. «Concesso. Ma perché vuoi un bambino, Ainsley? Cosa hai intenzione di farne?» Mi rivolse un'occhiata disgustata. «Ogni donna dovrebbe avere almeno un bambino.» Sembrava come una voce alla radio che dicesse che ogni donna dovrebbe avere almeno un asciugacapelli elettrico. «È persino più importante del sesso. È la realizzazione della propria più profonda femminilità.» Ainsley va pazza per i paperback di antropologi sulle culture primitive: ce ne sono diversi impantanati fra i vestiti sul suo pavimento. Alla sua università fanno frequentare corsi di questa materia. «Ma perché adesso?» dissi, frugandomi nella mente alla ricerca di obiezioni. «E il lavoro alla galleria d'arte? E gli incontri con gli artisti?» Le sottoponevo queste domande come una carota a un somaro. Ainsley mi spalancò tanto d'occhi. «Il fatto di avere un bambino cosa ha a che fare col trovare da lavorare in una galleria d'arte? Pensi sempre in termini di aut-aut. L'importante è la completezza. Quanto a perché ora, be', è da un po' di tempo che sto considerando la cosa. Non senti di aver bisogno di uno scopo? E non preferiresti avere i tuoi figli quando sei giovane? Quando puoi goderteli. Inoltre, è stato dimostrato che hanno maggiori pro-
babilità di essere sani se si hanno fra i venti e i trent'anni.» «E hai intenzione di tenerlo», dissi. Diedi un'occhiata al salotto, calcolando già quanto tempo, energia e soldi ci sarebbero voluti per far le valige e traslocare. Io avevo procurato la maggior parte dei pezzi più solidi: il pesante tavolino rotondo da caffè proveniente dall'attico di un parente, giù a casa, la ribalta di noce del tavolo che usavamo per gli amici, anche questo un dono, la poltrona imbottita e il divano che avevo trovato all'Esercito della Salvezza e avevo fatto ricoprire. L'enorme poster di Theda Bara e i luminosi fiori di carta erano di Ainsley; come pure i posacenere e i cuscini di plastica gonfiabili a disegni geometrici. Peter diceva che al nostro salotto mancava unità. Non l'avevo mai considerata una sistemazione definitiva, ma ora che era minacciata per me assumeva una stabilità desiderabile. I tavoli poggiavano le loro gambe sul pavimento con maggiore fermezza; era inconcepibile che il tavolino rotondo da caffè potesse mai venire trascinato giù per quelle scale strette, che il poster di Theda Bara potesse venire arrotolato, rivelando così le crepe nell'intonaco, che i cuscini di plastica potessero lasciarsi sgonfiare e riporre in un baule. Mi chiesi se la signora di sotto avrebbe considerato la gravidanza di Ainsley un'infrazione al contratto e se avrebbe fatto dei passi legali. Ainsley stava diventando scontrosa. «Certo che ho intenzione di tenerlo. A che serve avere tutti quei fastidi se non lo tieni?» «Così, il succo di tutto», dissi, finendo la mia acqua, «è che hai deciso di avere un figlio illegittimo a sangue freddo e allevarlo da sola.» «Oh, che seccatura spiegare. Perché usare quell'orribile parola borghese? La nascita è legittima, no? Sei una perbenista, Marian, e qui sta il male di tutta questa società.» «D'accordo, sono una perbenista», dissi, segretamente ferita: credevo di essere più comprensiva della maggior parte della gente. «Ma dato che la società è fatta così, non sei egoista? Il bambino non soffrirà? Come lo sosterrai e come affronterai i pregiudizi degli altri, e così via?» «Come farà mai la società a cambiare», disse Ainsley con la dignità di un crociato, «se qualche membro di essa non aprirà la strada? Dirò semplicemente la verità. So che avrò delle noie qua e là, ma alcuni saranno del tutto tolleranti, ne sono certa, anche qui. Voglio dire, non sarà come se fossi rimasta incinta per disgrazia o altro.» Rimanemmo sedute in silenzio per diversi minuti. Il punto principale sembrava essere stato assodato. «D'accordo», dissi finalmente, «vedo che hai pensato a tutto. Ma che mi dici del padre? Lo so che si tratta di un pic-
colo dettaglio tecnico, ma ne avrai bisogno di uno, sai, anche soltanto per un po'. Non puoi semplicemente metter fuori una gemma.» «Be'», disse, prendendomi sul serio, «effettivamente ci ho pensato. Dovrà avere dei buoni caratteri ereditari e essere abbastanza di bell'aspetto; e mi sarà di aiuto se riuscirò a trovare qualcuno disposto a cooperare il quale capisca e non si metta a insistere per sposarmi.» Mi ricordava più di quanto desiderassi un contadino che discutesse di allevamento di bestiame. «Nessuno in mente? Che ne dici dello studente di odontoiatria?» «Santo cielo no», disse, «ha il mento rientrante.» «O il testimone per l'assassinio con lo spazzolino elettrico?» Corrugò la fronte. «Non credo che sia molto intelligente. Naturalmente preferirei un artista, ma è troppo pericoloso dal punto di vista genetico; a quest'ora devono avere tutti delle tare cromosomiche per l'LSD. Penso che potrei riesumare Freddy dell'anno scorso, non gliene importerebbe minimamente, anche se è troppo grasso e ha una barba terribilmente ispida da cinque del pomeriggio. Non vorrei un figlio grasso.» «E neppure uno con la barba dura», dissi, cercando di aiutarla. Ainsley mi guardò irritata. «Fai la sarcastica», disse. «Ma se soltanto la gente si preoccupasse di più delle caratteristiche che trasmette alla prole forse non farebbe le cose con tanta frettolosa cecità. Sappiamo che la razza umana sta degenerando e tutto questo perché la gente trasmette i propri geni deboli senza pensarci, e la scienza medica porta come conseguenza che non esiste una selezione naturale come c'era una volta.» Cominciavo a sentirmi il cervello sfocato. Sapevo che Ainsley aveva torto, ma pareva così razionale. Pensai che avrei fatto meglio ad andare a letto prima che mi convincesse contro la mia volontà. Nella mia stanza, mi sedetti sul letto con la schiena appoggiata al muro, per pensare. Dapprima cercai di concentrarmi sul modo in cui fermarla, ma poi mi rassegnai. Era decisa, e anche se potevo sperare che questo fosse un capriccio che le sarebbe passato, erano affari miei? Avrei semplicemente dovuto adattarmi alla situazione. Forse quando avremmo dovuto traslocare avrei trovato un'altra compagna di stanza; ma sarebbe stato giusto lasciare Ainsley da sola? Non volevo comportarmi in modo irresponsabile. Mi misi a letto, avvertendo una sensazione di turbamento. 6
La sveglia mi fece destare da un sogno in cui avevo abbassato gli occhi e visto i miei piedi che cominciavano a dissolversi, come gelatina che fondesse, e mi ero messa un paio di stivali di gomma giusto in tempo per accorgermi che la punta delle dita diventava trasparente. Ero balzata verso lo specchio per vedere cosa stava succedendo alla mia faccia, ma a questo punto mi ero destata. Solitamente non ricordo i sogni. Ainsley era ancora addormentata, così mi feci un uovo bollito e bevvi il succo di pomodoro e il caffè da sola. Poi indossai una tenuta adatta per le interviste, una gonna dall'aria ufficiale, una camicetta con le maniche e un paio di scarpe da passeggio con i tacchi bassi. Avevo intenzione di mettermi all'opera presto, ma non potevo essere troppo mattiniera altrimenti gli uomini, che avrebbero voluto dormire fino a tardi il giorno festivo, non sarebbero stati ancora alzati. Tirai fuori la mia mappa della città e la esaminai, escludendo mentalmente le zone che sapevo già prescelte per l'inchiesta vera e propria. Presi qualche fetta di pane tostato e una seconda tazza di caffè, e mi tracciai diversi itinerari possibili. Ciò di cui avevo bisogno erano sette o otto uomini con un tot minimo di consumo medio di birra per settimana, i quali fossero disposti a rispondere alle domande. Individuarli sarebbe potuto essere più difficile del solito a causa del lungo ponte. Sapevo per esperienza che gli uomini erano di solito più ritrosi delle donne davanti al gioco del questionario. Le strade vicine all'appartamento erano escluse: la signora di sotto sarebbe potuta venire a sapere che ero andata a chiedere ai vicini quanta birra bevevano. Inoltre sospettavo che si trattasse di un quartiere dove si beveva whisky più che birra; con un piccolo numero di vedove astemie. Il quartiere delle case affittate a camera, più a ovest, era anch'esso escluso: lo avevo provato una volta per un test di degustazione di patatine e avevo trovato le padrone di casa molto ostili. Sembravano pensare che fossi un funzionario governativo in borghese che cercava di aumentargli le tasse scoprendo che avevano più inquilini di quelli dichiarati. Presi in considerazione le abitazioni delle associazioni studentesche vicine all'università, ma mi ricordai che lo studio richiedeva degli intervistati maggiorenni. Presi l'autobus, scesi alla stazione della metropolitana, mi fermai per prendere nota della spesa del biglietto come «Trasporto» sul mio foglio spese, e attraversai la strada. Poi discesi un pendio che mi portò nel parco piatto e spoglio di alberi che si stende di fronte alla stazione. In un angolo c'era un campo da baseball, ma nessuno stava giocando. Il resto del parco era di semplice erba che era divenuta gialla; sotto i piedi crepitava. La
giornata si preannunciava simile alla precedente, senza vento e afosa. Il cielo era senza nubi, ma non chiaro: l'aria era pesante, come vapore invisibile, cosicché i colori e i profili di oggetti distanti erano sfocati. In fondo al parco c'era un pendio asfaltato che risalii. Portava a una strada residenziale fiancheggiata da casette piuttosto misere, l'una vicina all'altra, del tipo scatola da scarpe, a due piani, con rifiniture di legno attorno alle finestre e ai cornicioni. Alcune case avevano le rifiniture dipinte a nuovo, il che accentuava semplicemente la superficie segnata dalle intemperie delle facciate di assicelle. Il quartiere era del genere che per alcuni decenni era andato peggiorando, ma che era nuovamente migliorato negli ultimi cinque anni. Parecchi rifugiati dei sobborghi avevano comprato queste case di città e le avevano completamente rifinite, dipingendole d'un bianco sofisticato e aggiungendo sentierini di pietra e sempreverdi in contenitori di cemento e lanterne di carrozze accanto alle porte. Le case rimesse a nuovo avevano un aspetto impertinente accanto alle altre, come se avessero preferito voltare le spalle con leggerezza irresponsabile ai problemi del tempo, della povertà e del clima puritano. Decisi di evitare le case rimesse a nuovo quando cominciai le interviste. Non ci avrei trovato il genere di gente adatta: avrebbe fatto parte del giro del martini. C'è qualcosa di minaccioso in una fila di porte chiuse se sapete che dovete andare a bussare a esse e chiedere ciò che corrisponde a un favore. Mi rassettai il vestito, raddrizzai le spalle e assunsi quella che speravo fosse un'espressione ufficiale ma amichevole, e camminai fino all'isolato seguente facendo le prove prima di aver acquistato abbastanza risolutezza per cominciare. In fondo all'isolato scorsi quello che sembrava un condominio abbastanza nuovo. Ne feci il mio punto d'arrivo: dentro avrebbe fatto fresco e mi avrebbe potuto procurare qualsiasi intervista che mi mancasse. Suonai il primo campanello. Qualcuno mi scrutò brevemente attraverso le tendine semitrasparenti della finestra; poi la porta venne aperta da una donna dai lineamenti duri, con un grembiule stampato e fornito di pettorina. La sua faccia non aveva vestigia di trucco, neppure rossetto, e portava quelle scarpe nere con lacci e tacchi grossi che mi fanno pensare alla parola «ortopedico» e che associo ai reparti svendite dei grandi magazzini. «Buon giorno, rappresento le Indagini Seymour», dissi, sorridendo con aria falsa. «Stiamo svolgendo una piccola inchiesta e mi chiedo se suo marito potrebbe essere così gentile da rispondere a alcune domande?» «Vende qualcosa?» chiese, dando un'occhiata alle carte e alla matita.
«Oh, no! Non abbiamo niente a che vedere con le vendite. Siamo un'azienda di ricerche di mercato, facciamo semplicemente delle domande. Serve a migliorare i prodotti», aggiunsi, poco convincente. Non credevo che avrei trovato quel che cercavo. «Di cosa si tratta?» chiese, con gli angoli della bocca che si stringevano sospettosi. «Be', in realtà si tratta di birra», dissi con voce artificiosamente vivace, cercando di far suonare la parola quanto più asettica possibile. La sua faccia cambiò espressione. Rifiuterà, pensai. Ma esitò, poi si fece da parte e, con una voce che mi ricordava una pappa d'avena fredda, disse: «Entri». Rimasi nel vestibolo dal pavimento di mattonelle immacolate, respirando il profumo di lucido per mobili e di candeggina, mentre la donna scompariva dietro una porta, in fondo, chiudendosela dietro. Ci fu una conversazione fatta di mormoni; poi la porta si aprì di nuovo e un uomo alto dai capelli grigi e dal cipiglio severo la varcò, seguito dalla donna. L'uomo indossava un cappotto nero nonostante che la giornata fosse così calda. «Ora, signorina», mi disse, «non punirò lei personalmente perché vedo che è una brava ragazza e solo il mezzo innocente di questo fine abominevole. Ma sarà così gentile da consegnare questi libretti ai suoi padroni. Chi può dire che i loro cuori non possano ancora essere inteneriti? La diffusione eccessiva del bere e dell'ubriachezza è un'iniquità, un delitto contro il Signore.» Presi i libretti che mi porse, ma mi sentii abbastanza leale verso le Indagini Seymour da dire: «La nostra azienda non ha niente a che fare con la vendita della birra, sa». «È lo stesso», disse lui severo, «è sempre lo stesso. 'Chi non è con me è contro di me', dice il Signore. Non cerchi di imbiancare i sepolcri di quegli sfruttatori della sofferenza e della degradazione umana.» Stava per voltarsi, ma mi disse, come ripensandoci: «Li potrebbe leggere anche lei, signorina. Naturalmente lei non si insudicia mai le labbra con l'alcool, ma nessuna anima è perfettamente pura e inattaccabile dalla tentazione. Forse il seme non cadrà lungo il sentiero e neppure sulle pietre». Emisi un flebile: «Grazie», e l'uomo allargò i margini della bocca in un sorriso. La moglie, che aveva assistito al sermoncino con soddisfazione frugale, si fece avanti e mi aprì la porta, e io uscii, resistendo all'impulso condizionato di stringere le mani a entrambi come se uscissi da una chiesa. Era un brutto inizio. Guardai i libretti mentre mi incamminavo verso la
casa attigua. ASTINENZA DALL'ALCOOL comandava uno. L'altro, portava il titolo più eccitante IL BERE E IL DIAVOLO. Doveva essere un pastore protestante, pensai, sebbene certamente non anglicano, e probabilmente neppure della Chiesa unita. Una di quelle sette misteriose. Nella casa attigua non c'era nessuno, e in quella dopo la porta venne aperta da una monella sporca di cioccolato la quale mi informò che il suo papà era ancora a letto. A quella seguente però capii subito che ero arrivata in un posto favorevole alla mia caccia di teste. La porta principale era aperta e l'uomo che vidi venire alla mia volta qualche momento dopo aver suonato era di altezza media ma molto atticciato, quasi grasso. Quando aperse la porta schermata mi accorsi che ai piedi non aveva scarpe ma solo i calzini; indossava una maglietta e un paio di bermuda. La faccia era di un rosso mattone. Spiegai la mia commissione e gli mostrai il cartellino con stampato sopra il consumo medio di birra per settimana. Ogni media è numerata e la scala va da 0 a 10. La nostra azienda si comporta così perché alcuni uomini provano vergogna a indicare in tante parole il loro consumo. Quest'uomo indicò il numero 9, il secondo dalla cima. Quasi nessuno sceglie il numero 10: a ciascuno piace credere che esista l'eventualità che qualcun altro beva più di lui. Quando fummo arrivati a questo punto l'uomo disse: «Entri nel salotto e si sieda. Deve essere stanca a andare in giro con questo caldo. Mia moglie è andata proprio adesso a fare la spesa», aggiunse con aria indifferente. Sedetti su una delle poltrone e lui abbassò il volume del televisore. Sul pavimento, accanto alla sua sedia, vidi una bottiglia di uno dei concorrenti della Birra Moose semivuota. Si sedette davanti a me, sorridendo e asciugandosi la fronte col fazzoletto, e rispose alle domande preliminari con l'aria di un esperto che emana un verdetto professionale. Dopo aver ascoltato l'inserzione pubblicitaria al telefono, si grattò pensieroso i peli del petto ed ebbe quel tipo di reazione entusiastica che un intero seminario di agenti pubblicitari si era senza dubbio quotidianamente augurato. Quando, finita l'intervista e scritto il nome e l'indirizzo, di cui la nostra azienda ha bisogno per non reintervistare la stessa gente, mi alzai e cominciai a ringraziarlo, lo vidi alzarsi barcollando dalla poltrona e venirmi incontro con occhi bramosi pieni di birra. «Ora, perché una bella ragazzina come te va in giro a chiedere agli uomini tutto sulla loro birra?» disse in tono viscido. «Dovresti startene a casa con qualche uomo in gamba che si prenda cura di te.» Gli spinsi nella mano umida e tesa verso di me i due libretti sull'Asti-
nenza dall'alcool e fuggii. Riuscii faticosamente a portare a termine altre quattro interviste senza molti incidenti, scoprendo nel contempo che al questionario bisognava aggiungere una casella per «Non ha il telefono... Fine dell'intervista» e un'altra per «Non ascolta la radio», e che uomini che approvavano i sentimenti primitivistici dell'annuncio pubblicitario tendevano a trovare da ridire sulla parola «Frizzante» in quanto «Troppo leggera», oppure, come si espresse uno di loro, «Troppo sdolcinata». La quinta intervista ebbe luogo con un tipo magro come un chiodo con incipiente calvizie il quale aveva talmente paura di esprimere una qualsiasi opinione che tirargli fuori le parole di bocca era come strappargli i denti con una chiave inglese. Ogni volta che gli ponevo una nuova domanda arrossiva, faceva sobbalzare il pomo di Adamo, e storceva la faccia in un sussulto spasmodico. Rimase senza aprir bocca per diversi minuti dopo che ebbe ascoltato l'annuncio pubblicitario e io gli ebbi chiesto: «Quanto le è piaciuto l'annuncio? Moltissimo; Solo Moderatamente; oppure Non Molto?» Alla fine riuscì a sussurrare, flebilmente: «Sì». Ormai dovevo fare soltanto altre due interviste. Decisi di saltare le poche case che restavano e andare nel condominio quadrato. Entrai col solito sistema, premendo tutti i pulsanti in una volta finché qualche anima illusa non aprì la porta interna. La frescura fu un sollievo. Salii per una breve rampa di scale la cui guida stava proprio cominciando a diventare lisa e bussai alla prima porta, che portava il numero Sei. Questo mi parve curioso perché a giudicare dalla posizione avrebbe dovuto recare il numero Uno. Quando bussai non accadde nulla. Bussai di nuovo, più forte, aspettai, e stavo per passare all'appartamento seguente quando la porta girò senza rumore verso l'interno e mi trovai osservata da un ragazzino che giudicai sui quindici anni. Si strofinò un occhio con un dito, come se si fosse appena alzato. Era magro come un cadavere; non aveva addosso la camicia, e le costole gli spuntavano fuori come quelle di una figura emaciata di una silografia medioevale. La pelle stesa su di esse era quasi priva di colore, non bianca, ma più vicina alla sfumatura giallastra della biancheria vecchia. Aveva i piedi nudi; indossava solo un paio di pantaloni kaki. Gli occhi, in parte nascosti da una massa arruffata di capelli neri dritti che scendevano sulla fronte, erano ostinatamente malinconici, come se egli assumesse quell'espressione di proposito.
Ci squadrammo a vicenda. Lui, evidentemente, non avrebbe detto niente, e io non riuscivo propriamente a cominciare. I questionari che mi portavo dietro erano diventati qualcosa di improvvisamente sganciato da tutto, e al contempo, oscuramente minaccioso. Alla fine trovai il modo di dire, sentendomi molto sintetica mentre parlavo: «Salve, è in casa il babbo?» Continuò a fissarmi senza un tremito nell'espressione. «No. È morto», disse. «Oh.» Rimasi lì ondeggiando un po'; il contrasto col caldo che faceva fuori mi aveva fatto venire le vertigini. Il tempo sembrava che si fosse messo a trascorrere al rallentatore; pareva che non ci fosse niente da dire; ma non riuscivo a andarmene o a muovermi. Egli continuò a rimanere nel vano della porta. Poi, dopo un tempo che sembrò un secolo, mi passò per la testa che forse in realtà non era così giovane come sembrava. Aveva dei pesti sotto gli occhi e delle rughe sottili agli angoli esterni. «Hai davvero soltanto quindici anni?» chiesi, come se fosse stato lui a dirmelo. «Ne ho ventisei», disse malinconicamente. Sobbalzai visibilmente, e come se la risposta avesse premuto qualche acceleratore nascosto dentro di me sciorinai una versione a alta velocità della presentazione pubblicitaria: ero delle Indagini Seymour, non vendevo niente, servivo a migliorare i prodotti, volevo porgli alcune semplici domande su quanta birra beveva in una settimana normale; frattanto, pensavo che non sembrava avesse mai bevuto nulla tranne acqua, con la crosta di pane che gli gettavano quando restava incatenato nella segreta. Sembrava tetramente interessato, come uno avrebbe potuto essere interessato (caso mai) a un cane morto, perciò gli sottoposi il cartellino del consumo settimanale medio e gli chiesi di scegliere il suo numero. Lo osservò per un minuto, lo rivoltò e guardò il retro, che era bianco, chiuse gli occhi e disse: «Numero Sei». Era dalle sette alle dieci bottiglie alla settimana, una quantità sufficiente per abilitarlo al questionario e glielo dissi. «Allora entri», disse lui. Avvertii un leggero senso di allarme mentre varcavo la soglia e la porta si chiudeva con rumore legnoso alle mie spalle. Eravamo in un salotto di dimensioni medie, perfettamente quadrato, con un cucinino che dava su di esso da un lato e il corridoio che portava alle stanze da letto dall'altro. Le stecche della veneziana all'unica finestrella esistente erano abbassate, immergendo la stanza in un'oscurità crepuscolare. I muri, da quel che potei giudicare nella semioscurità, erano di un bianco
proprio bianco; non c'erano quadri appesi a essi. Il pavimento era ricoperto da un bellissimo tappeto persiano con un motivo ornamentale di spirali e fiori marrone, verdi e purpurei, persino migliore, pensai, di quello del salotto della signora di sotto che le era stato lasciato dal nonno paterno. Addossata a un muro c'era una libreria che lo ricopriva per tutta la lunghezza, del tipo che la gente si fa da sé con assi e mattoni. Gli unici altri mobili erano tre enormi, vecchie poltrone superimbottite, una di velluto rosso, una di broccato liso blu verdolino, e una di un porpora sbiadito, ciascuna con una lampada a piede accanto. Tutte le superfici visibili della stanza erano cosparse di pezzi di carta sciolti, taccuini, libri aperti a faccia in giù e altri libri irti di matite e di pezzetti di carta strappati infilati in essi come segnalibri. «Vive qui solo?» chiesi. Mi fissò con occhi lugubri. «Dipende da cosa intende», intonò, «per 'solo'.» «Oh, capisco», dissi educatamente. Attraversai la stanza, cercando di mantenere la mia aria di briosa energia e facendomi strada con procedere incerto sopra e attorno agli oggetti sparsi sul pavimento. Mi stavo dirigendo verso la poltrona porpora, l'unica che non avesse sopra un covo di carte. «Non può sedersi lì», mi disse da dietro le spalle in tono di leggero ammonimento, «quella è la poltrona di Trevor. Non avrebbe piacere che lei si sedesse sulla sua poltrona.» «Oh. Allora, quella rossa va bene?» «Be'», disse, «quella è di Fish, e a lui non gliene importerebbe se ci si mettesse a sedere; almeno così penso. Ma lì ci sono le sue carte e lei potrebbe metterle in disordine.» Non riuscivo a capire come avrei potuto creare maggior disordine fra di loro semplicemente sedendomici sopra, ma non lo dissi. Mi stavo chiedendo se Trevor e Fish non fossero due immaginari compagni di gioco che questo ragazzo si era inventato, e anche se avesse mentito sulla sua età. Con quella luce, la sua faccia sarebbe potuta essere quella di uno di dieci anni. Rimase in piedi a guardarmi solennemente, con le spalle arcuate, le braccia conserte sul torso, tenendosi stretti i gomiti. «E suppongo che la verde sia la sua, allora.» «Sì», disse, «ma io stesso sono un paio di settimane che non mi ci siedo. Ci ho sistemato tutto quanto.» Avrei voluto andare a vedere esattamente cos'era questo tutto che ci aveva sistemato, ma mi ricordai che ero lì per lavoro. «Allora dove ci se-
diamo?» «Sul pavimento», disse, «oppure in cucina, o nella mia stanza da letto.» «Oh, la stanza da letto no», mi affrettai a dire. Battei in ritirata attraverso quella distesa di carta e sbirciai oltre l'angolo dentro il cucinino. Mi accolse un odore particolare: sembrava che ci fossero sacchetti d'immondizia in ogni angolo e lo spazio restante era occupato da grandi pentole e cuccume, alcune pulite, altre no. «Non credo che nella cucina ci sia spazio», dissi. Mi chinai e cominciai a togliere le carte dalla superficie del tappeto, quasi come si sarebbero potuti schiumare i rifiuti galleggianti su uno stagno. «Credo che sia meglio che non lo faccia», disse. «Alcune carte non sono mie. Potrebbe mescolarle. È meglio che andiamo nella mia stanza da letto.» Si avviò ciondolando lungo il corridoio e varcò una porta aperta. Per necessità lo seguii. La stanza era una scatola oblunga dai muri bianchi, immersa nell'oscurità come il salotto: anche qui la veneziana era abbassata. Era spoglia di mobilio, tranne un'asse da stiro con un ferro sopra, una scacchiera con alcuni pezzi sparsi in un angolo della stanza, una macchina per scrivere posata sul pavimento, una scatola di cartone che pareva contenesse della biancheria sporca e che lui spinse con un calcio nello sgabuzzino quando entrai io, e un letto a una piazza. Tirò una coperta grigia militare sull'intrico di lenzuola e vi si trascinò sopra, sistemandosi a gambe incrociate con la schiena appoggiata all'angolo formato dai due muri. Accese la lampada sopra il letto, prese una sigaretta da un pacchetto che si infilò di nuovo nella tasca posteriore, l'accese, e rimase seduto tenendo la sigaretta davanti a sé, le mani unite a mo' di coppa, come un budda affamato che bruciasse incenso in proprio onore. «Bene», disse. Mi sedetti sul bordo del letto - non c'erano sedie - e cominciai a discutere il questionario assieme a lui. Dopo ogni domanda piegava indietro la testa contro il muro, chiudeva gli occhi e rispondeva; poi apriva di nuovo gli occhi e mi osservava con segni di concentrazione a malapena percettibili mentre gli ponevo la seguente. Quando arrivammo al momento dell'avviso telefonico, andò al telefono, in cucina, a fare il numero. Ci rimase per un tempo che mi parve lungo. Andai a controllare e lo trovai intento ad ascoltare col ricevitore premuto contro l'orecchio e la bocca contorta in qualcosa che era quasi un sorriso. «Dovrebbe ascoltare solo una volta», dissi rimproverandolo. Posò il ricevitore con riluttanza. «Posso telefonare dopo che lei se ne è
andata e ascoltare un altro po'?» chiese con la voce diffidente ma carezzevole di un bambino piccolo che chiede un altro biscotto. «Sì», dissi, «ma non la settimana prossima, d'accordo?» Non volevo che tenesse bloccata la linea alle intervistatrici. Ritornammo nella stanza da letto e riprendemmo le nostre rispettive posizioni. «Ora le ripeterò alcune frasi dell'inserto pubblicitario, e per ciascuna vorrei che mi dicesse cosa le fa pensare», dissi. Questa era la parte del questionario legata alle associazioni libere, che avevano lo scopo di verificare le reazioni immediate a certe frasi chiave. «Prima, cosa le fa pensare 'Profondo gusto virile'?» Buttò la testa all'indietro e chiuse gli occhi: «Sudore», disse, riflettendo. «Scarpe da ginnastica di tela. Spogliatoi sotterranei e sospensori.» Un intervistatore dovrebbe sempre riportare le parole esatte della risposta, e così feci io. Pensai di infilare furtivamente quest'intervista fra quelle vere, per rompere la monotonia a una delle donne coi pastelli: Mrs Weemers, magari, o Mrs Gundridge. L'avrebbe letta ad alta voce alle altre e avrebbero notato che il mondo era bello perché vario; quest'argomento di conversazione sarebbe stato sfruttato per almeno tre intervalli. «E ora cosa ne dice di 'Lunga fresca sorsata'?» «Non molto. Oh, aspetti un momento. È un uccello, bianco, che cade da una grande altezza. Colpito al cuore, d'inverno; le penne vengono via, sono portate giù dal vento... Questo è proprio come quei test di giochi di parole che fanno gli psichiatri. Mi è sempre piaciuto farli. Sono migliori di quelli con i disegni.» Io dissi: «Credo che si basino sullo stesso principio. Che ne dice di 'Sapore sano, vigoroso'?» Rimase a meditare per alcuni minuti. «Sono bruciori di stomaco», disse. «Oppure no, devo sbagliare.» Corrugò la fronte. «Ora capisco. È una di quelle storie di cannibali.» Per la prima volta sembrava turbato. «Conosco lo schema, ce n'è uno nel Decamerone e un paio nei fratelli Grimm; il marito uccide l'amante della moglie, o viceversa, ne estrae il cuore e con questo cucina un umido o un pasticcio di carne e lo serve in un piatto d'argento, e l'altro lo mangia. Anche se questo non spiega molto bene quel Sano, vero? Shakespeare», disse con voce meno agitata, «anche Shakespeare ha qualcosa di simile. C'è una scena nel Tito Andronico, sebbene si discuta se sia stato veramente Shakespeare a scriverlo, oppure...» «Grazie.» Ero indaffarata a scrivere. A questo punto ero convinta di aver a che fare con un nevrotico compulsivo di un qualche genere e che avrei
fatto meglio a mantenermi calma e a non mostrare alcuna paura. Non ero esattamente impaurita - non aveva l'aspetto del tipo violento - ma queste domande lo mettevano chiaramente in uno stato di tensione. Poteva darsi che fosse sull'orlo di una crisi nervosa, una delle frasi sarebbe bastata a dargli la spinta finale. Questa gente è così, pensai, ricordandomi di certi casi clinici di cui Ainsley mi aveva parlato; delle cose trascurabili come delle parole possono davvero preoccuparla. «Ora, 'Frizzante, inebriante, energica'?» Meditò su questa frase a lungo. «Non mi dice niente», fece, «non sta insieme. La prima parte mi evoca l'immagine di qualcuno con la testa fatta di vetro che viene colpita con un bastone: come dei vetri musicali. Ma energica non mi dice niente. Suppongo», disse triste, «che non le sono di molto aiuto.» «Lei è bravissimo», dissi, pensando a cosa sarebbe accaduto all'IBM se mai avessero tentato di inserirgli dentro questo materiale. «Ora l'ultima: 'L'odore della foresta'.» «Oh», fece lui, con voce quasi entusiasta, «questo è facile; mi ha colpito subito, appena l'ho sentito. È uno di quei film a colori su dei cani o dei cavalli. 'Odore della foresta' è ovviamente un cane, in parte lupo, in parte cane eschimese, che salva il suo padrone per tre volte, una volta da un incendio, una volta da un'inondazione e una volta da degli uomini cattivi, più facilmente dei cacciatori bianchi che degli indiani coi tempi che corrono, e alla fine viene fulminato da un malvagio cacciatore di pelli con una calibro 22 e gli piangono sopra. Sepolto, probabilmente nella neve. Ripresa panoramica di alberi e lago. Tramonto. Dissolvenza.» «Bravo», dissi scrivendo all'impazzata per riportare tutto. Regnava il silenzio, mentre entrambi ascoltavamo lo stridio della mia matita. «Ora, detesto chiederglielo, ma dovrebbe dirmi in che misura pensa che ciascuna di quelle cinque frasi si attagli a una birra: Molto Bene, Abbastanza Bene, o Per Nulla Bene?» «Non saprei», disse, perdendo completamente interesse. «Non bevo mai quella roba. Solo whisky. Nessuna di quelle frasi va bene per il whisky.» «Ma», protestai, stupefatta, «ha scelto il numero Sei sul cartellino. Quello che diceva da sette a dieci bottiglie alla settimana.» «Lei voleva che io scegliessi un numero», disse con aria paziente, «e sei è il mio numero portafortuna. Li ho perfino convinti a cambiare i numeri degli appartamenti; questo è in realtà il numero Uno, lo sa. E poi, ero annoiato; avevo voglia di parlare con qualcuno.»
«Questo vuol dire che non potrò contare la sua intervista», dissi con severità. Avevo dimenticato momentaneamente che non era vera. «Oh, le è piaciuta», disse, rivolgendomi di nuovo quel suo sorriso a metà. «Lei sa che tutte le altre risposte che ha raccolto sono monotone, completamente. Deve ammettere che le ho ravvivato in misura considerevole la giornata.» Avevo una punta di irritazione. Avevo provato compassione per lui credendo che fosse sull'orlo di un collasso nervoso, e ora mi aveva rivelato che si era trattato di una messa in scena consapevole. Potevo o alzarmi e andarmene subito, mostrandomi contrariata, o ammettere che aveva ragione. Lo guardai in cagnesco, cercando di decidere sul da farsi; ma proprio allora sentii aprirsi la porta principale e un rumore di voci. Si protese in avanti ad ascoltare ansiosamente, poi si riappoggiò al muro. «Sono soltanto Fish e Trevor. Sono i miei compagni di stanza», disse, «quelle altre due seccature. Trevor è la seccatura mamma: sarà scandalizzato quando mi troverà in camera senza la camicia assieme a una ragazza con la R maiuscola.» Ci fu un crepitio di carta marrone di sacchetti della spesa che venivano posati in cucina, e una voce profonda disse: «Cristo, che caldo fa fuori!» «Adesso penso che sia meglio che me ne vada», dissi. Se gli altri erano tutti come questo pensavo che non sarei stata in grado di tener loro testa. Raccolsi i miei questionari e mi alzai in piedi, proprio nel momento in cui la stessa voce diceva: «Ehi, Duncan, vuoi una birra?» e una testa lanosa e barbuta compariva nel vano della porta. Rimasi a bocca aperta. «Così la birra la beve, in fondo!» «Sì, temo di sì. Mi scusi. Non volevo terminare, ecco tutto. Il resto sembrava una lagna, e avevo comunque detto tutto quel che avevo da dire sulla birra. Fish», disse alla barba, «questa è Riccidoro.» Sorrisi a denti stretti. Non sono bionda. Ora un'altra testa comparve sulla prima: una faccia dalla pelle bianca, con dei capelli alquanto chiari in incipiente calvizie, occhi azzurro cielo e un naso stupendamente cesellato. Quando mi vide rimase a bocca aperta. Era ora di andare. «Grazie», dissi con freddezza ma anche con grazia a quello nel letto. «Mi è stato molto utile.» Effettivamente ghignò mentre mi dirigevo verso la porta e mentre le teste si ritiravano allarmate per lasciarmi passare, mi gridò dietro: «Ehi, perché deve fare un lavoro schifoso come questo? Io credevo che solo delle casalinghe grasse e sciatte facessero cose di questo genere».
«Oh», dissi, con tutta la dignità a cui mi riuscì di fare appello, e non intendendo giustificarmi spiegando l'alto - be', superiore - livello del mio vero lavoro, «dobbiamo mangiare tutti. E poi, che cos'altro si può fare con una laurea oggi?» Quando fui fuori guardai il questionario. Gli appunti che avevo preso delle sue risposte erano quasi indecifrabili alla luce accecante del sole; tutto quello che potevo vedere sulla pagina erano degli scarabocchi grigi sfocati. 7 Dal punto di vista tecnico mi rimaneva da fare ancora un'intervista e mezzo, ma ne avevo compiute abbastanza per il rapporto necessario e i mutamenti da apportare al questionario. Inoltre volevo fare un bagno e cambiarmi prima di andare da Peter e le interviste erano durate più di quanto mi aspettassi. Tornai all'appartamento e buttai i questionari sul letto. Poi andai in cerca di Ainsley, ma era fuori. Raccolsi l'asciugamano da bagno, il sapone, spazzolino e dentifricio, indossai la vestaglia e scesi di sotto. Il nostro appartamento non ha un bagno proprio, il che può servire a spiegare l'affitto basso. Forse la casa era stata costruita prima che la gente facesse il bagno, o forse era impressione che la servitù non avesse bisogno di stanzini da bagno; comunque sia, dobbiamo servirci del bagno del secondo piano, il che a volte rende difficile la vita. Ainsley lascia sempre degli anelli, cosa che la signora di sotto considera come una violazione del suo santuario. Lei lascia deodoranti e detersivi e spazzole e spugne in posti bene in vista, il che non ha il minimo effetto su Ainsley ma fa sentire me a disagio. A volte vado di sotto dopo che Ainsley ha fatto il bagno e ripulisco la vasca. Mi ero proposta di starmene a bagno per un po', ma mi ero appena tolta lo strato di polvere e di gas di scarico degli autobus quando la signora di sotto cominciò a fare dei fruscii e a schiarirsi la gola fuori della porta. Questo è il suo modo di suggerire che vuole entrare: non bussa e non chiede mai. Mi trascinai nuovamente di sopra, mi vestii, presi una tazza di tè e uscii per andare a casa di Peter. Gli antenati mi guardarono con i loro occhi evanescenti da dagherrotipi mentre scendevo le scale, le bocche esangui sui loro colletti rigidi. Di solito cenavamo fuori, ma in caso contrario la prassi era che io andavo da Peter e compravo qualcosa da cucinare in un negozio lungo la strada:
uno di quei negozietti poco puliti che talvolta si trovano nei più vecchi quartieri residenziali. Naturalmente Peter sarebbe potuto passare a prendermi da casa con la sua Volkswagen, ma le commissioni lo irritano; inoltre non voglio dare alla signora di sotto troppi motivi per ruminare. Non sapevo se saremmo usciti a cenare o no - Peter non ne aveva parlato - perciò feci un salto al negozio per tenermi sul sicuro. Probabilmente avrebbe avuto i postumi della celebrazione della sera precedente e non avrebbe avuto voglia di una cena completa. Il condominio di Peter dista quel tanto che volerci arrivare per mezzo dei trasporti pubblici è più una seccatura che altro. È a sud del nostro quartiere e ad est dell'università, in una zona cadente, quasi uno slum, che secondo i programmi dovrebbe essere trasformato nei prossimi anni in un complesso di grossi condomini. Parecchi sono stati completati, ma quello di Peter è ancora in costruzione. Peter è l'unica persona che ci vive; ci sta in via temporanea, pagando soltanto un terzo dell'affitto che faranno pagare quando l'edificio sarà finito. Questo affare gli è riuscito grazie a una conoscenza fatta durante la manipolazione di un contratto. Peter sta facendo l'anno di tirocinio come avvocato e non ha ancora delle somme enormi - ad esempio non si sarebbe potuto permettere l'appartamento al prezzo di listino - ma la sua è una ditta piuttosto piccola e lui si sta facendo strada come un bolide. Per tutta l'estate ogni volta che andavo all'appartamento dovevo farmi strada attraverso pile di blocchi di cemento vicino all'entrata dell'atrio, attorno a forme ricoperte di copertoni polverosi, e a volte scavalcando mastelli per la malta e scale e cataste di tubi sulla scala in costruzione; gli ascensori non funzionano ancora. Talvolta venivo fermata da operai i quali non sapevano di Peter e che insistevano che non potevo entrare perché nessuno ci viveva. Allora ci mettevamo a discutere sull'esistenza o la non esistenza di Mr Wollander, e una volta dovetti portarmene dietro alcuni fino al settimo piano e mostrargli Peter in carne ed ossa. Sapevo però che alle cinque del sabato non ci sarebbe stato nessun uomo a lavorare; e comunque avevano probabilmente fatto vacanza per tutto il ponte. Generalmente sembra che svolgano il loro lavoro prendendosela comoda, il che va bene a Peter. C'è stato anche uno sciopero o una sospensione che ha interrotto i lavori. Peter spera che continui così: quanto più ci mettono, per tanto più tempo il suo affitto sarà basso. Dal punto di vista strutturale l'edificio era completo, tranne le rifiniture. Avevano già montato tutte le finestre e ci avevano scarabocchiato sopra dei geroglifici col sapone bianco per impedire che la gente le sfondasse. Le
porte di vetro erano state installate varie settimane prima e Peter mi aveva fatto fare un mazzo di chiavi extra: una necessità più che una semplice comodità, dato che i pulsanti per lasciare entrare la gente non erano stati ancora collegati. All'interno, le superfici lucide - pavimenti di ceramica, muri dipinti, specchi, impianti per la luce - che in seguito avrebbero conferito all'edificio la sua costosa lucentezza, il suo duro guscio interno da coleottero, non avevano ancora cominciato a secernersi. La grezza, grigia superficie sottocutanea delle solette dei pavimenti e dei muri privi di intonaco si vedeva ancora, e fili nudi ondeggiavano come nervature sciolte dalla maggior parte delle prese di corrente. Salii le scale facendo attenzione, evitando il corrimano sporco, pensando alla misura in cui ero giunta a associare i weekend a questo odore di assi segate e di polvere di cemento del nuovo edificio. Ai piani davanti a cui passai, le entrate dei futuri appartamenti si spalancavano vuote, con le porte non ancora montate. Fu una lunga scalata; quando raggiunsi il piano di Peter avevo il fiato grosso. Sarei stata felice il giorno che gli ascensori avrebbero funzionato. L'appartamento di Peter, naturalmente, era stato in larga misura terminato; non avrebbe mai abitato in un posto senza i pavimenti a posto e l'elettricità, indipendentemente da quanto potesse esser basso l'affitto. La sua conoscenza se ne serve come modello di come saranno gli altri appartamenti, e lo mostra ali occasionale, eventuale affittuario, sempre telefonando a Peter prima di arrivare. A Peter non dà eccessivo fastidio: è fuori molto tempo e non gli importa che della gente dia un'occhiata a casa sua. Aprii la porta, entrai e portai i generi alimentari dentro al frigorifero, nel cucinino. Dal rumore dell'acqua corrente indovinai che Peter stava facendo, la doccia. Andai ciondoloni nel salotto e guardai fuori della finestra. L'appartamento non è abbastanza in alto per una buona panoramica del lago o della città: si può solo vedere un mosaico di straducole sudice e stretti cortili dietro le case, e non è abbastanza in basso per poter vedere chiaramente cosa ci fa la gente dentro. Peter non ha ancora messo molti mobili nel salotto. Ha un sofà danese moderno e una poltrona compagna e un complesso ad alta fedeltà, ma nient'aitro. Dice che preferisce aspettare e comprare della roba buona piuttosto che ingombrare il posto con cose da quattro soldi che non gli piacciono. Suppongo che abbia ragione, ma comunque quando ne avrà di più sarà meglio. I suoi due mobili sono resi assai affusolati e isolati dall'ampio spazio vuoto che li circonda. Divento irrequieta quando aspetto qualcuno, tendo a andare avanti e indietro. Girovagai fino alla stanza da letto e guardai fuori della finestra,
sebbene la vista sia quasi la stessa. Peter ha la stanza da letto quasi completa, mi ha detto, sebbene per alcuni gusti possa essere leggermente vuota. C'è una pelle di pecora di dimensioni abbastanza grandi sul pavimento, e un letto comune, solido, anch'esso di dimensioni abbastanza grandi, di seconda mano, ma in condizioni perfette, che è sempre accuratamente fatto. Poi un severo tavolo quadrato, di legno scuro, e una di quelle sedie girevoli da ufficio di pelle imbottita, che ha trovato anche questa di seconda mano; dice che è molto comoda per lavorare. Sulla scrivania ci sono una lampada per leggere, un tampone di carta assorbente, penne e matite assortite, e la foto di Peter il giorno della laurea in una cornice con supporto. Sopra, appesa al muro, c'è una piccola libreria: i suoi libri di legge nella scaffalatura inferiore, il suo mucchio di romanzi polizieschi in edizione economica nella scaffalatura superiore, e libri e riviste vari nel mezzo. A un lato della libreria c'è un appiglio con ganci che sostiene la collezione di armi di Peter: due fucili, una pistola e diversi pugnali dall'aspetto sinistro. Lui mi ha detto come si chiamano tutti, ma io non riesco mai a ricordarne il nome. Non ho mai visto Peter usarne nessuno, anche se, com'è naturale, in città non gli sarebbero date molte occasioni. Evidentemente era solito andare molto a caccia con i suoi amici di più antica data. Là sono appese anche le sue macchine fotografiche, con gli occhi di vetro ricoperti di custodie di cuoio. Sulla parte esterna dello sportello dell'armadio c'è uno specchio grande quanto lo sportello stesso e dentro l'armadio ci sono tutti i vestiti di Peter. Doveva avermi sentito mentre mi aggiravo. Chiamò da dentro il bagno: «Marian? Sei tu?» «Sono qui», gli risposi. «Salve.» «Salve. Versati da bere. E anche per me: gin and tonic, d'accordo? Sarò fuori fra un momento.» Sapevo dove era tutto. Peter ha un piano della credenza ben fornito di liquori, e non dimentica mai di riempire i contenitori dei cubetti di ghiaccio. Andai in cucina, e radunai con cura le bevande, ricordandomi di non tralasciare il pezzetto di scorza di limone che a Peter piace. Impiego più tempo del normale per preparare da bere: devo prendere le misure. Sentii la doccia fermarsi e un rumore di piedi e quando mi voltai Peter si ergeva nel vano della porta della cucina, tutto giocciolante, con indosso un raffinato asciugamano blu scuro. «Salve», dissi. «Il tuo bicchiere è sul banco.» Si fece avanti silenziosamente, mi prese il bicchiere di mano, inghiottì
un terzo del contenuto e lo posò sul tavolo dietro di me. Poi mi cinse con tutte e due le braccia. «Mi stai bagnando tutta», dissi dolcemente. Gli misi la mia mano, fredda per aver tenuto il bicchiere gelato, sul fondo della schiena, ma non fece il minimo movimento. La sua carne era calda e elastica dopo la doccia. Mi baciò l'orecchio. «Vieni nel bagno», disse. Alzai gli occhi verso la tenda della doccia di Peter, uno sfondo di plastica argenteo ricoperto da cigni rosa dal collo ricurvo che vogavano in gruppi di tre fra foglie di ninfea albine; non corrispondeva assolutamente al gusto di Peter, l'aveva comprata in fretta e furia perché l'acqua continuava a scorrere sul pavimento quando faceva la doccia, non aveva avuto tempo di guardare accuratamente e questa era stata la meno vistosa. Mi chiedevo perché avesse insistito a farmi entrare assieme a lui nella vasca. Non mi era parsa una buona idea, preferisco molto di più il letto e sapevo che la vasca sarebbe stata troppo piccola e scomodamente dura e incavata, ma non avevo mosso obiezioni: sentivo di dover essere comprensiva a causa di Trigger. Tuttavia mi ero presa il tappeto da bagno che attutiva le ondulazioni. Mi ero aspettata di trovare Peter depresso, ma sebbene non fosse il Peter delle altre volte, certo non era depresso. Non riuscivo proprio a comprendere il perché della vasca da bagno. Ripensai agli altri due matrimoni sfortunati. Dopo il primo, l'avevamo fatto sulla pelle di pecora sul pavimento della sua stanza da letto, e dopo il secondo su una coperta ruvida in un campo che ci avevamo messo quattro ore di macchina per raggiungere, e dove mi sentivo a disagio al pensiero dei contadini e delle mucche. Supposi che questo facesse parte dello stesso schema, quale che fosse. Forse un tentativo di affermare la giovinezza e la spontaneità, una rivolta contro il destino vieto di calze nel lavandino e di grasso di pancetta rappreso nella padella evocatogli dai matrimoni degli amici. La lontananza di Peter in queste occasioni mi dava la sensazione che gli piacesse far così perché aveva letto qualcosa sull'argomento, ma non riuscii mai a individuare la fonte. Il campo era, così immaginai, una storia di caccia ripresa da riviste sulla campagna; ricordavo che aveva indossato una giacca a scacchi. La pelle di pecora la feci risalire ad una delle riviste illustrate per uomini, del tipo di quelle con la lussuria negli attici. Ma la vasca da bagno? Forse uno dei gialli che leggeva come, così la chiamava, «lettura di evasione»; ma non ci sarebbe stato piuttosto qualcuno annegato nella vasca? Una donna.
Questo avrebbe fornito loro un bocconcino prelibato con cui illustrare la copertina: una donna completamente nuda ricoperta da un sottile velo d'acqua e magari un pezzo di sapone o un anatroccolo di gomma o una macchia di sangue per farle passare il visto della censura, galleggiante con i capelli sparsi sull'acqua, la fredda purezza della vasca attorno al corpo, casto come il ghiaccio solo perché morto, gli occhi spalancati fissi su quelli del lettore. La vasca come bara. Ebbi una visione fugace: cosa sarebbe successo se tutti e due ci fossimo addormentati e il rubinetto si fosse aperto accidentalmente, con l'acqua tiepida in modo che non ce ne accorgessimo, e l'acqua fosse salita lentamente, uccidendoci? Sarebbe stata una bella sorpresa per il suo conoscente quando sarebbe venuto a mostrare l'appartamento al prossimo gruppo di affittuari: acqua su tutto il pavimento e due corpi nudi allacciati in un ultimo abbraccio. «Suicidio», avrebbero detto tutti. «Morti per amore.» E nelle notti d'estate si sarebbero visti i nostri fantasmi scivolare lungo le entrate negli Appartamenti Brentview, Scapoli, Con Doppie Stanze Da Letto di Lusso, ricoperti soltanto da asciugamani da bagno... Spostai la testa, stanca dei cigni, e guardai invece l'ugello argenteo ricurvo della doccia. Sentivo l'odore dei capelli di Peter, un odore pulito di sapone. Odorava sempre di sapone, non solo quando aveva fatto la doccia da poco. Era un odore che associavo alle poltrone e ai medicamenti dei gabinetti dentistici, ma su di lui lo trovavo piacevole. Non si dava mai quelle lozioni dopobarba dal nauseante odore dolciastro o gli altri sostituti maschili del profumo. Vedevo il suo braccio appoggiato attraverso il mio corpo, coi peli disposti in fila. Il braccio era come il bagno: pulito, bianco e nuovo, la pelle insolitamente liscia per un uomo. Non gli potevo vedere la faccia, che era appoggiata contro la mia spalla, ma cercai di visualizzarla. Era, come aveva detto Clara, «di bell'aspetto»; questo era forse ciò che da principio mi aveva attratto in lui. La gente lo notava, non perché avesse dei lineamenti duri o particolari, ma perché era la normalità elevata a perfezione, come le facce giovanili ben curate della pubblicità delle sigarette. Ma talvolta sentivo il bisogno di una verruca o di un neo rassicuranti, o uno squarcio di rudezza, qualcosa su cui il tatto si potesse fissare invece di scivolarci sopra. Ci eravamo incontrati a un ricevimento all'aperto dopo la mia laurea; era l'amico di un mio amico, e avevamo mangiato assieme il gelato all'ombra. Si era comportato in modo del tutto convenzionale e mi aveva chiesto qua-
li erano i miei piani per il futuro. Avevo parlato di una carriera, facendo sembrare la cosa molto meno vaga di come me la figuravo, e in seguito mi disse che era stata la mia aureola di indipendenza e il mio buon senso che gli erano piaciuti: vide in me il genere di ragazza che non avrebbe tentato di assumere il controllo della sua vita. Aveva avuto da poco un'esperienza spiacevole con quella che chiamò «quell'altro genere». Questo era stato il presupposto su cui ci eravamo basati, e mi era andato a genio. Ci eravamo presi a vicenda basandoci sul nostro aspetto esteriore, il che significava che eravamo andati molto d'accordo. Naturalmente avevo dovuto adattarmi ai suoi umori, ma questo succede con ogni uomo, e i suoi erano troppo ovvi per causare molte difficoltà. Durante l'estate era divenuto una piacevole abitudine, e siccome ci eravamo visti solo per i weekend questa patina non aveva avuto la possibilità di consumarsi. Tuttavia la prima volta che ero andata nel suo appartamento per poco non era stata l'ultima. Mi aveva lavorata con musica a alta fedeltà e brandy, pensando di essere astuto e dolce, e io mi ero lasciata trasportare nella stanza da letto. Avevamo posato le nostre coppe di brandy sulla scrivania, quando Peter, facendo delle acrobazie, aveva rovesciato sul pavimento uno dei bicchieri che si era infranto. «Oh, lascia perdere quell'accidente», dissi, forse poco diplomaticamente; ma Peter aveva acceso la luce, era andato a prendere scopa e pattumiera e aveva spazzato via tutti i frammenti di vetro, raccogliendo quelli più grossi con la cura e l'attenzione di un piccione che afferra col becco delle briciole. L'atmosfera era stata rovinata. Subito dopo ci eravamo dati la buonanotte, piuttosto bruscamente, e lui non si era fatto vivo per più di una settimana. Naturalmente ora le cose andavano molto meglio. Peter si stirò e sbadigliò accanto a me, schiacciandomi il braccio contro la porcellana. Mi ritrassi e lo tolsi delicatamente da sotto di lui. «Come è andata?» mi chiese con indifferenza, la bocca contro la mia spalla. Me lo chiedeva sempre. «Stupendamente», mormorai; perché non lo capiva? Un giorno o l'altro gli avrei detto: «Pessimamente», soltanto per vedere cosa avrebbe fatto; ma sapevo fin d'ora che non mi avrebbe creduta. Allungai un braccio in alto e gli accarezzai i capelli umidi, grattandogli la nuca; una cosa che gli piaceva, con moderazione. Forse la vasca da bagno secondo le sue intenzioni doveva essere un'espressione della sua personalità. Cercai di pensare in che modo spiegare la cosa. Ascetismo? Una versione moderna delle camicie di peli di cavallo o
dello star seduti sui chiodi? Mortificazione della carne? Ma certamente non c'era nulla in Peter che suggerisse questo; gli piacevano le sue comodità, e inoltre non era la sua carne a venire mortificata: lui era stato di sopra. O forse si era trattato di un gesto sconsiderato da giovanotto, come saltare nella piscina con i vestiti addosso, o mettersi della roba in testa ai ricevimenti. Ma neppure quest'immagine si attagliava a Peter. Ero contenta che del suo gruppo di vecchi amici non ce ne fosse rimasto più nessuno che dovesse sposarsi: la prossima volta avrebbe potuto tentare di infilarci in un armadio o di assumere una posizione esotica nell'acquaio della cucina. O forse - e il pensiero era raggelante - la cosa aveva dovuto essere un'espressione della mia personalità. Un nuovo corridoio di possibilità mi si apriva davanti: mi considerava davvero come un accessorio da gabinetto? Che genere di ragazza pensava che fossi? Si intrecciava le dita fra i miei capelli dietro la nuca. «Scommetto che faresti un figurone con un kimono», sussurrò. Mi morsicò la spalla, e in questo riconobbi un sintomo di allegria irresponsabile: Peter di solito non morde. Gli morsicai la spalla a mia volta, poi, assicuratami che la leva della doccia era ancora abbassata, allungai il piede destro - ho dei piedi agili - e girai il rubinetto dell'acqua fredda. 8 Per le otto e mezzo ci stavamo recando al nostro incontro con Len. L'umore di Peter, quale che fosse stato prima, si era trasformato in un altro che non avevo ancora interpretato, così non tentai di parlargli mentre guidava. Teneva gli occhi sulla strada, abbordando le curve con troppa rapidità e imprecando sottovoce contro gli altri automobilisti. Non si era allacciato la cintura di sicurezza. Di primo acchito non era rimasto contento quando gli avevo parlato dell'appuntamento preso con Len, anche quando dissi: «Sono sicura che lo troverai simpatico». «Chi è?» aveva chiesto con aria sospettosa. Se non si fosse trattato di Peter avrei potuto pensare che fosse geloso. Peter non è il tipo che nutra gelosie. «È un vecchio amico», dissi, «di università. È appena ritornato dall'Inghilterra. Penso che faccia il direttore televisivo o qualcosa del genere.»
Sapevo che Len non era arrivato tanto in alto, ma Peter è impressionato dalla professione della gente. Dato che secondo le mie intenzioni Len avrebbe dovuto servire a distrarre Peter, volevo che quella sera riuscisse piacevole. «Oh», disse Peter, «uno di quei tipi dilettanti. Magari un finocchio.» Eravamo seduti al tavolo della cucina, a mangiare piselli surgelati e carne affumicata, il genere di roba che si fa bollire per tre minuti nel pacchetto di plastica. Peter aveva deciso che non saremmo andati a cena fuori. «Oh no», dissi, desiderosa di difendere Len, «proprio l'opposto.» Peter spinse lontano da sé il piatto. «Perché non cucini mai niente?» disse in tono petulante. Ero offesa: consideravo l'osservazione ingiusta. Mi piace cucinare, ma a casa di Peter mi ero deliberatamente astenuta per timore che si sentisse minacciato. E poi, la carne affumicata gli era sempre piaciuta prima e era un alimento nutritivo al massimo. Stavo per fare un commento aspro, ma mi frenai. Dopo tutto, Peter stava soffrendo. Invece gli chiesi: «Come è andato il matrimonio?» Peter gemette, si appoggiò alla spalliera della sedia, si accese una sigaretta e guardò con aria inscrutabile il muro di fronte. Poi si alzò e si versò un altro gin and tonic. Cercò di passeggiare su e giù per la cucina, ma era troppo stretta, perciò si sedette di nuovo. «Dio», disse, «povero Trigger. Aveva un aspetto terribile. Come ha potuto farsi mettere nel sacco così?» Proseguì con un monologo slegato in cui Trigger fu fatto passare per l'ultimo dei mohicani, nobile e libero, l'ultimo dinosauro, distrutto dal destino e da una razza inferiore, e l'ultimo dei passatisti, troppo stupido per tagliare la corda. Poi attaccò la sposa, accusandola di essere predatrice e maligna e di risucchiare il povero Trigger nel vuoto del mondo domestico (facendomela immaginare come un aspirapolvere) e finalmente in panna con svariate predizioni lugubri sul suo futuro di uomo solo. Con solo intendeva dire senza altri scapoli. Inghiottii l'ultimo pisello surgelato. In precedenza questo discorso, o qualcosa di simile, l'avevo già sentito due volte, e sapevo che non c'era nulla che io potessi dire. Se gli davo ragione questo avrebbe soltanto intensificato la sua depressione, e se dissentivo gli sarebbe venuto il sospetto che parteggiassi per la sposa. La prima volta ero stata allegra e sentenziosa e avevo tentato di consolarlo. «Be', ora è fatta», avevo detto, «e può darsi che alla fine si risolva per il meglio. Dopo tutto, non lo sta portando via dalla culla. Non ha ventisei anni?»
«Io ho ventisei anni», aveva detto Peter scontroso. Così questa volta non dissi niente, osservando fra me e me che era una bella cosa che Peter avesse terminato questo discorso all'inizio della serata. Mi alzai e gli versai un po' di gelato, cosa che prese come un gesto di comprensione, cingendomi col braccio la vita e dandomi una stretta malinconica. «Dio, Marian», disse, «non so cosa farei se tu non mi capissi. La maggior parte delle donne non capirebbe, ma tu sei così ragionevole.» Mi appoggiai a lui, accarezzandogli i capelli mentre mangiava il gelato. Lasciammo l'auto in uno dei soliti posti, in una strada laterale dietro il Park Plaza. Quando cominciammo a camminare presi a braccetto Peter e lui mi sorrise con aria distratta. Gli ricambiai il sorriso - ero lieta che non digrignasse più i denti dal malumore come quando guidava - ed egli prese l'altra mano e la posò sopra la mia. Stavo per prendere a mia volta l'altra mano e posarla sopra la sua, ma pensai che se l'avessi fatto allora la mia sarebbe stata in cima e lui avrebbe dovuto ritirare il suo braccio da sotto per poter aver un'altra mano da mettere in cima al mucchio, come in quei giochi che si fanno a scuola durante l'intervallo. Invece gli strinsi il braccio con affetto. Raggiungemmo il Park Plaza e Peter mi aprì la porta di vetro come fa sempre. Peter bada molto a cose del genere; apre anche le portiere delle macchine. A volte mi aspetto che batta i tacchi. Mentre aspettavamo l'ascensore osservai la nostra doppia immagine nello specchio alto dal pavimento al soffitto accanto alle porte degli ascensori. Peter indossava uno dei suoi vestiti più sobri, un completo estivo verde marrone, il cui taglio sottolineava la magrezza funzionale del suo corpo. Tutti gli accessori erano in tono. «Mi chiedo se Len è già su», gli dissi, tenendomi d'occhio e parlandogli allo specchio. Pensavo di avere proprio l'altezza giusta per lui. L'ascensore arrivò e Peter disse: «Sul tetto, per favore» alla ragazza in guanti bianchi dell'ascensore, e cominciammo a salire in modo scorrevole. Il Park Plaza è in realtà un albergo, ma in cima hanno un bar, uno dei luoghi preferiti da Peter per bere qualcosa in santa pace e questa era la ragione per cui l'avevo suggerito a Len. Stare così in alto dà un senso della verticalità raro in città. Il salone stesso è ben illuminato, non scuro come una fogna come molti altri ed è pulito. Nessuno sembra che vi si ubriachi mai in modo offensivo, e ci si può sentire discorrere: non c'è nessun complesso o cantante. Le sedie sono comode, le decorazioni ricordano il diciottesimo
secolo e tutti i baristi conoscono Peter. Ainsley mi disse una volta che era stata lì quando uno aveva tentato di suicidarsi saltando giù dal muro del giardino di fuori, ma può darsi che si trattasse di una storia inventata da lei. Entrammo; non c'era molta gente, quindi individuai subito Len il quale sedeva ad uno dei tavoli dal piano nero. Andammo verso di lui e gli presentai Peter; si diedero la mano, Peter bruscamente, Len con affabilità. Il cameriere apparve prontamente al nostro tavolo e Peter ordinò altri due gin and tonic. «Marian, che bello vederti!» disse Len, sporgendosi oltre l'angolo del tavolo per baciarmi la guancia; un'abitudine, riflettei, che doveva aver preso in Inghilterra, dato che prima non lo faceva mai. Era cresciuto un po' di peso. «E in Inghilterra come si stava?» gli chiesi. Volevo che parlasse e intrattenesse Peter, che aveva un aspetto scontroso. «Bene, immagino; affollata, però. Ogni volta che ti giri vai a sbattere contro qualcuno di qui. Sta diventando così affollata di quei maledetti turisti che tanto varrebbe non andarci per niente. Però, mi è dispiaciuto», disse, voltandosi verso Peter, «dover partire; avevo un buon lavoro e anche qualche altra cosa che mi andava bene. Ma bisogna stare attenti a queste donne quando cominciano a starti dietro. Ti danno sempre la caccia perché le sposi. Uno deve darci dentro e squagliarsela. Fargliela prima che siano loro a farla a te e poi andarsene.» Sorrise, mostrando i suoi denti bianchi lucidi. Peter si illuminò visibilmente. «Marian mi dice che lavora alla televisione», disse. «Sì», disse Len, esaminandosi le unghie squadrate delle mani sproporzionatamente grandi. «Al momento non faccio niente ma qui dovrei riuscire a trovare qualcosa. Hanno bisogno di gente con la mia esperienza. Notiziari. Mi piacerebbe vedere una bella telecronaca in questo paese, voglio dire veramente buona, anche se dio solo sa attraverso quante trafile burocratiche bisogna passare per riuscire a combinare qualcosa da queste parti.» Peter si rilassò; chiunque interessato in telecronache, stava probabilmente pensando, non poteva essere un finocchio. Sentii una mano toccarmi la spalla e mi girai a guardare. Una ragazza che non avevo mai visto prima era lì in piedi. Aprii la bocca per chiederle cosa voleva, quando Peter disse: «Oh, è Ainsley. Non mi avevi detto che sarebbe venuta». Guardai di nuovo: era Ainsley.
«Dio, Marian», disse lei quasi in un sussurro senza voce, «non mi avevi detto che questo era un bar. Spero proprio che non mi chiedano il certificato di nascita.» Len e Peter si erano alzati. Presentai Ainsley a Len, molto controvoglia, e lei prese posto nella quarta sedia. La faccia di Peter aveva un'espressione sconcertata. Aveva conosciuto Ainsley in precedenza e non gli era piaciuta, sospettandola di sostenere quelle che lui chiamava «insipide opinioni radicali» siccome lei gli aveva largito un discorso teorico sulla liberazione dell'Id. Politicamente Peter è un conservatore. Essa lo aveva anche offeso definendo «convenzionale» una delle sue opinioni e lui si era vendicato definendo «incivile» una delle sue. Ora come ora, pensai, egli capiva che lei aveva qualcosa per la testa ma non si sentiva di romperle le uova nel paniere finché non avesse saputo di cosa si trattava. Voleva delle prove. Comparve il cameriere e Len chiese ad Ainsley cosa voleva prendere. Essa esitò, poi disse timidamente: «Oh, potrei giusto avere una... giusto un bicchiere di gingerale?» Len la guardò raggiante. «Sapevo che avevi una nuova compagna di camera, Marian», disse, «ma non mi avevi detto che era così giovane!» «La tengo per così dire d'occhio», dissi acida, «per papà e mamma rimasti a casa.» Ero furibonda con Ainsley. Mi aveva messo in una posizione molto imbarazzante. Avrei potuto mandare all'aria tutto rivelando che era stata all'università e che aveva molti mesi più di me, oppure avrei potuto tacere e partecipare a quello che si riduceva a un raggiro. Sapevo benissimo perché era venuta: Len era un candidato potenziale, e lei aveva scelto di esaminarlo così perché aveva avvertito che avrebbe incontrato delle difficoltà a indurmi a presentarli in un altro modo. Il cameriere tornò col suo gingerale. Ero stupita perché non le aveva chiesto il certificato di nascita, ma riflettendoci sopra conclusi che qualsiasi cameriere esperto avrebbe dato per scontato che nessuna ragazza dall'aspetto così giovane avrebbe avuto il coraggio di entrare in un bar vestita a quel modo e ordinare del gingerale a meno che non avesse in realtà superato l'età legale. Sono le adolescenti vestite troppo vistosamente che loro sospettano, e Ainsley non era vestita troppo vistosamente. Aveva tirato fuori da chissà dove un abito estivo di cotone che non avevo mai visto prima, una stoffa di percalle a quadri rosa e blu pallido su bianco con una gala attorno al collo. I capelli erano legati dietro la testa con un nastro rosa e a un
polso portava un tintinnante braccialetto portafortuna d'argento. Il trucco era solo accennato, gli occhi erano ombrati con cura ma non vistosamente per renderli doppiamente grandi, rotondi e blu, e aveva sacrificato le sue lunghe unghie ovali, mordendosele quasi fino alla carne così che avevano un aspetto dentellato da scolaretta. Capivo che era decisa. Len le parlava, ponendole delle domande, cercando di farla sbottonare. Lei sorseggiava il suo gingerale, dando risposte brevi e timide. Evidentemente aveva paura di dire troppo, consapevole che Peter era una minaccia per lei. Quando Len le chiese cosa faceva, però, poté dargli una risposta sincera: «Lavoro in una società di spazzolini da denti elettrici», disse, e arrossì di un rosa caldo e dall'aspetto genuino. Per poco non soffocai. «Scusatemi», dissi, «vado soltanto in giardino per prendere una boccata d'aria.» In realtà volevo decidere cosa avrei dovuto fare - certamente era immorale da parte mia lasciare che Len venisse ingannato - ed Ainsley dovette avvertire questo perché, mentre mi alzavo, mi lanciò una rapida occhiata di avvertimento. Fuori, appoggiai il braccio contro la sommità del muro, che mi arrivava quasi alla clavicola, e guardai fuori verso la città. Una linea mobile di luci correva diritta di fronte a me, fino a colpire, a rompersi contro e a scorrere attorno a una macchia di oscurità, il parco; e un'altra linea scorreva ad angolo retto con la precedente scomparendo in lontananza da entrambi i lati. Cosa potevo fare? Erano affari miei? Sapevo che se mi intromettevo avrei infranto un codice tacito, e che Ainsley si sarebbe certamente vendicata con me in qualche modo per mezzo di Peter. Era brava in questo genere di cose. Lontano, all'orizzonte verso est, vidi il bagliore di un lampo. Ci sarebbe stato un temporale. «Bene», dissi a alta voce, «pulirà l'aria.» Se non avevo intenzione di prendere misure deliberate, avrei dovuto essere sicura del mio autocontrollo in modo da non lasciarmi sfuggire qualcosa per sbaglio. Attraversai la terrazza un paio di volte finché mi sentii pronta a ritornare dentro, notando con un po' di sorpresa che stavo lievemente barcollando. Il cameriere doveva essere passato ancora: al mio posto c'era un altro gin and tonic. Peter era immerso nella conversazione con Len e quasi non dette segno di aver visto che ero tornata. Ainsley sedeva muta, con gli occhi bassi, facendo girare il cubetto di ghiaccio nel bicchiere di gingerale Studiai la sua ultima versione, pensando che era simile a una di quelle grandi bambole grassocce che vendono nei negozi a Natale, con la pelle lavabile liscia come la gomma, gli occhi vitrei e i capelli artificiali sgargianti. Rosa
e bianca. Mi sintonizzai sulla voce di Peter; pareva che venisse da una gran lontananza. Stava raccontando a Len una storia che sembrava di caccia. Sapevo che Peter era solito andare a caccia, soprattutto col suo gruppo di vecchi amici, ma non me ne aveva mai parlato molto. Una volta aveva detto che non ammazzavano mai altro che corvi, marmotte e altri piccoli parassiti, «Così scaricai il fucile e bang. Un colpo, proprio attraverso il cuore. Il resto scappò. Lo tirai su e Trigger disse: 'Sai come sbudellarlo, basta tagliargli la pancia e dargli una bella scrollata e tutte le budella escono'. Così tiro fuori il mio coltello, una buona lama, acciaio tedesco, gli taglio la pancia, lo prendo per le gambe posteriori e gli do uno strattone da far paura, come una frustata, capisci, e quello che ricordo dopo è che c'erano sangue e budella dappertutto. Tutto addosso a me, che casino, budella di coniglio che penzolavano dagli alberi, dio, gli alberi erano rossi per metri...» Si fermò per ridere. Len scoperse i denti. La voce di Peter era cambiata; era una voce che non riconoscevo. L'insegna che diceva ASTINENZA DALL'ALCOOL mi balenò in mente: non potevo lasciare che il mio modo di percepire Peter fosse distorto dagli effetti dell'alcool, mi ammonii. «Dio che cosa curiosa. Fortuna che Trigger e io avevamo dietro le vecchie macchine fotografiche, prendemmo qualche bella istantanea di tutto quel casino. Volevo chiederti, nel tuo lavoro devi saperne abbastanza di macchine fotografiche...» e si imbarcarono in una discussione sugli obiettivi giapponesi. La voce di Peter sembrava diventare più alta e spedita: il flusso di parole era impossibile da seguire e la mia mente si ritrasse, concentrandosi invece sulla scena nella foresta. La vedevo come se fosse una diapositiva, proiettata su uno schermo in una camera buia, dai colori luminosi, verde, marrone, blu per il cielo, rosso. Peter si ergeva di spalle a me con una camicia a scacchi, il fucile buttato sulle spalle. Degli amici, quegli amici che io non avevo mai incontrato, erano raccolti in gruppo attorno a lui, i loro volti chiaramente visibili sotto la luce del sole che cadeva irraggiandosi fra gli alberi anonimi, sporchi di sangue, le bocche storte dal ridere. Non vedevo il coniglio. Mi protesi in avanti, con le braccia sul piano nero del tavolino. Volevo che Peter si voltasse e parlasse con me, volevo udire la sua voce normale, ma lui niente; studiai i riflessi degli altri tre mentre erano distesi e si muovevano sotto la superficie nera lucida come in una pozza d'acqua; erano tutto mento e niente occhi, tranne gli occhi di Ainsley, che si posavano do-
cilmente sul suo bicchiere. Dopo un po' mi accorsi con una lieve curiosità che una grossa goccia di qualcosa di umido si era concretata sul tavolo vicino alla mia mano. Ci ficcai dentro un dito e la sparsi un po' intorno prima di rendermi conto con orrore che si trattava di una lacrima. Allora dovevo piangere! Qualcosa dentro di me cominciò a dimenarsi in tremanti labirinti di panico, come se avessi inghiottito un rospo. Stavo per crollare e fare una scenata, e non potevo. Scivolai via dalla sedia, cercando di farmi notare il meno possibile, attraversai la sala evitando con gran cura gli altri tavoli e andai nella toilette delle donne. Dopo aver controllato per assicurarmi che non ci fosse nessuno - non potevo avere dei testimoni - mi chiusi in uno degli stanzini color rosa velluto e piansi per diversi minuti. Non riuscivo a capire cosa stava succedendo, perché facevo così; non avevo mai fatto nulla di simile prima e mi sembrava assurdo. «Controllati», sussurrai. «Non renderti ridicola.» Il rotolo di carta igienica si piegava lì dentro con me, impotente e bianco e patinoso, aspettando passivamente la fine. Ne strappai un po' e mi soffiai il naso. Comparvero delle scarpe. Le osservai attentamente da sotto la porta della mia cella. Erano, conclusi, le scarpe di Ainsley. «Marian!» gridò. «Stai bene?» «Sì», dissi. Mi asciugai gli occhi e uscii. «Be'», dissi, cercando di avere un tono controllato, «stai prendendo bene la mira?» «Vedremo», disse freddamente. «Prima devo saperne di più su di lui. Naturalmente tu non dirai niente.» «Penso di no», dissi, «anche se non mi sembra morale. È come prendere gli uccelli col vischio o arpionare il pesce con la lampada o qualcosa di simile.» «Non ho intenzione di fargli niente», essa protestò. «Non farà male.» Si tolse il nastro rosa e si pettinò. «Ma cosa c'è che non va? Ti ho visto cominciare a piangere al tavolo.» «Niente», dissi. «Sai che non posso bere molto. Probabilmente è l'umidità.» Ormai ero riuscita a dominarmi completamente. Tornammo alle nostre sedie. Peter parlava a tutta velocità con Len sui metodi diversi di farsi un autoritratto: con l'immagine riflessa nello specchio, con l'autoscatto che permette di premere l'otturatore e poi correre a mettersi in posa, e lunghi dispositivi di scatto col grilletto e dispositivi di scatto ad aria con lampade. Len forniva delle informazioni sul modo cor-
retto di mettere a fuoco l'immagine, ma vari minuti dopo che mi ero seduta mi lanciò una strana occhiata rapida, come se fosse deluso di me. Poi tornò alla conversazione. Cosa aveva voluto dire? Guardai prima l'uno poi l'altro. Peter mi sorrise a metà di una delle sue frasi, con tenerezza ma di lontano, e poi credetti di capire. Mi stava trattando come un puntello per il suo spettacolo; muta ma solida, un profilo a due dimensioni. Non mi stava ignorando, come forse mi era parso (era quella la ragione della fuga ridicola?): contava su di me! E Len mi aveva guardato a quel modo perché pensava che mi autoeliminassi di proposito, e che se era così, il rapporto era più serio di quello che avevo detto. Len non augurava mai il matrimonio a nessuno, soprattutto a nessuno per cui nutrisse simpatia. Ma non conosceva la situazione; l'aveva fraintesa. Improvvisamente il panico mi sopraffece di nuovo. Afferrai il bordo del tavolino. L'elegante sala quadrata con le sue tende agganciate, la moquette silenziosa e i lampadari di cristallo, nascondeva qualcosa: l'aria piena di mormorii era densa di una sommessa minaccia. «Tieni duro», mi dissi. «Non muoverti.» Volsi gli occhi alle porte e alla finestre, calcolando le distanze. Dovevo uscire. Le luci si spensero e si riaccesero e uno dei camerieri gridò: «Si chiude, signori». Ci fu un rumore di sedie spinte indietro. Scendemmo con l'ascensore. Len disse mentre uscivamo: «La sera è appena cominciata, perché non venite tutti da me a prendere un altro bicchiere? Puoi dare un'occhiata al mio teleconvertitore», e Peter disse: «Magnifico. Mi fa piacere». Uscimmo per le portiere di vetro. Presi Peter a braccetto e ci mettemmo a camminare davanti. Ainsley aveva tagliato Len fuori dalla mandria e gli stava permettendo di tenerla indietro. Per strada l'aria era più fresca; c'era una leggera brezza. Lasciai andare il braccio di Peter e cominciai a correre. 9 Stavo correndo lungo il marciapiede. Dopo il primo minuto rimasi sorpresa a scoprire che i piedi mi si muovevano, e mi chiesi come avevano cominciato, ma non mi fermai. Gli altri furono così stupiti che per un momento non fecero assolutamente nulla. Poi Peter strillò: «Marian! Dove diavolo credi di andare?»
Sentivo che la sua voce era furibonda: questo era il peccato imperdonabile perché era in pubblico. Non risposi, ma voltai indietro la testa mentre correvo. Peter e Len avevano cominciato a corrermi dietro. Poi entrambi si fermarono e sentii Peter gridare: «Vado a prendere la macchina e le taglio la strada, tu cerca di tenerla lontano dalla strada principale», poi fece dietrofront e scattò via nell'altra direzione. Questo mi turbò: dovevo aver sperato che fosse Peter a inseguirmi, invece era Len a arrancarmi faticosamente dietro. Mi voltai a guardare davanti proprio in tempo per evitare di scontrarmi con un vecchio che usciva con passo strascicato da un ristorante, poi voltai di nuovo la testa indietro. Ainsley aveva esitato non sapendo chi seguire, ma ora si stava lanciando in direzione di Peter. La vidi voltare traballando l'angolo in uno svolazzare di rosa e di bianco. Ero già senza fiato, ma avevo un buon vantaggio su di loro. Potevo permettermi di rallentare. Ogni colonna di lampione superata diventava una pietra miliare lungo la mia corsa: sembrava un'impresa e un qualche risultato lasciarmeli dietro uno dopo l'altro. Dato che era l'ora di chiusura dei bar, c'erano non poche persone per strada. Passando sogghignavo loro e feci segno a qualcuno, quasi ridendo della sorpresa dipinta sui loro volti. Ero esilarata dalla velocità; era come un gioco di acchiappino. «Ehi! Marian! Fermati!» Len mi gridava di tanto in tanto. Poi la macchina di Peter svoltò l'angolo davanti a me, sulla strada principale. Doveva aver girato attorno all'isolato. Bene, pensai, deve arrivare fino all'altro vicolo, non riuscirà a raggiungermi. La macchina era sulla destra della strada e stava venendo verso di me; ma nella linea del traffico c'era un varco, ed essa balzò in avanti e compì una temeraria conversione a U. Ora era parallela a me e stava rallentando. Vedevo la faccia rotonda e inespressiva di Ainsley che mi scrutava dal finestrino posteriore come una luna. Tutt'a un tratto non fu più un gioco. Quella rude forma di carro armato era minacciosa. Era minaccioso che Peter non mi avesse inseguita a piedi ma si fosse rinchiuso nell'armatura della macchina; sebbene, naturalmente, fosse logico fare così. Fra un minuto la macchina si sarebbe fermata, la portiera si sarebbe spalancata... dove potevo andare? Ormai avevo superato i negozi e i ristoranti ed ero giunta ad una fila di grandi, vecchie case che sorgevano assai indietro rispetto alla strada, le quali per lo più, lo sapevo, non erano più abitate ma erano state trasformate in gabinetti dentistici e sartorie. C'era un cancello aperto di ferro battuto. Lo varcai d'un balzo e risalii di corsa il sentiero di ghiaia.
Doveva essere un circolo privato di qualche genere. Sulla porta principale della casa c'era un baldacchino e le finestre erano illuminate. Mentre esitavo, porgendo orecchio ai passi di Len che si avvicinavano di gran carriera lungo il marciapiede, la porta principale cominciò a aprirsi. Non potevo farmi prendere lì. Sapevo che era una proprietà privata. Saltai la siepe bassa che costeggiava il sentiero e percorsi diagonalmente il prato verso la parte in ombra. Mi immaginai Len che filava a più non posso su per il sentiero e si scontrava con le forze oltraggiate della società, che mi figurai come un gruppo di signore di mezza età in vestito da sera e per un attimo fui presa dal rimorso. Era mio amico. Ma si era schierato contro di me e avrebbe dovuto pagarne il fio. Nell'oscurità di fianco alla casa mi fermai a riflettere. Dietro di me c'era Len; da una parte c'era la casa e sugli altri due lati scorsi qualcosa di più solido dell'oscurità che mi sbarrava la strada. Era il muro di mattoni annesso al cancello di ferro sul davanti; sembrava che girasse tutto attorno alla casa. Avrei dovuto scavalcarlo. Mi spinsi attraverso una massa di arbusti spinosi. Il muro mi arrivava soltanto fino alle spalle. Mi tolsi le scarpe e le buttai di là, poi mi arrampicai, usando come appigli per le dita dei piedi i rami e la superficie inuguale di mattoni del muro. Qualcosa si strappò. Il sangue mi batteva nelle orecchie. Chiusi gli occhi, mi inginocchiai per un momento in cima al muro, ondeggiando in preda alle vertigini, e caddi all'indietro. Mi sentii prendere, posare per terra e scuotere. Era Peter, che mi si doveva essere avvicinato di soppiatto, aspettandomi lì, sulla strada laterale, sapendo che avrei scavalcato il muro. «Cosa diavolo ti è preso?» disse: la sua voce era severa. La faccia, alla luce dei lampioni, era in parte adirata, in parte allarmata. «Stai bene?» Mi appoggiai a lui e sollevai le mani per toccargli il collo. Il sollievo di essere stata fermata e trattenuta, di sentire di nuovo la voce normale di Peter e di sapere che egli era reale, fu così grande che cominciai a ridere a più non posso. «Sto bene», dissi, «naturale che sto bene. Non so cosa mi abbia preso.» «Mettiti le scarpe allora», disse Peter, porgendomele. Era irritato ma non avrebbe fatto storie. Len si sollevò sul muro e toccò terra con un tonfo sordo. Respirava affannosamente. «Presa? Bene. Andiamocene di qui prima che quella gente ci mandi dietro la polizia.»
L'auto era proprio lì. Peter mi aprì la portiera anteriore e io scivolai dentro; Len si sedette sul sedile posteriore con Ainsley. Tutto quello che mi disse fu: «Non credevo che fossi una di quelle isteriche». Ainsley non disse nulla. Ci allontanammo dal marciapiede e svoltammo l'angolo: Len dava le indicazioni. Avrei preferito andare a casa, ma per quella sera non volevo dare più seccature a Peter. Mi sedetti col busto eretto e intrecciai le mani in grembo. Parcheggiammo accanto al caseggiato dell'appartamento di Len, che, da quel che potei vedere di sera, era uno di quegli edifici sgangherati e cadenti di mattoni marrone, con scale antincendio all'esterno. Non c'era ascensore; soltanto scale cigolanti con corrimano di legno scuro. Salimmo educatamente a coppie. L'appartamento era piccolo: soltanto una stanza principale, con il bagno da un lato e la cucina dall'altro. Era alquanto in disordine, con valige sul pavimento e libri e vestiti sparsi qua e là: evidentemente Len non aveva ancora terminato di traslocare. Il letto era subito alla sinistra della porta, e si ripiegava come un divano; scalciai via le scarpe e mi adagiai su di esso. I muscoli si erano messi in pari con me e stavano cominciando a dolermi per la fatica. Len versò a tutti e tre abbondanti bicchieri di cognac, frugò in cucina e riuscì a trovare un po' di coca cola per Ainsley, e mise su un disco. Poi lui e Peter cominciarono a gingillarsi con un paio di macchine fotografiche, inserendovi vari obiettivi, scrutando attraverso di essi e scambiandosi informazioni sui tempi di esposizione. Mi sentii sgonfiata. Ero in preda al rimorso, ma non potevo sfogarmi. Se avessi potuto essere sola con Peter, sarebbe stato diverso, pensai: lui avrebbe potuto perdonarmi. Ainsley non mi era di nessun aiuto. Vidi che continuava a sostenere la parte della bambina che si fa vedere ma non sentire, come il comportamento più sicuro da seguire. Si era seduta su una sedia rotonda di vimini, come quella nel giardino di Clara, tranne che questa aveva un rivestimento imbottito di fustagno color giallo uovo. Avevo provato quei rivestimenti in precedenza. Sono trattenuti da elastici e tendono a scivolare dai margini della sedia se ci si dimena troppo e a arrotolarsi attorno a chi siede. Ainsley però sedeva completamente immobile, tenendo il bicchiere di coca cola in grembo e contemplando il proprio riflesso sulla superficie marrone dentro di esso. Non dimostrava né piacere né noia; la sua pazienza inerte era quella di una pianta carnivora in una palude con le sue foglie cave a forma di bulbo semicolme di acqua, in attesa che qualche insetto venga at-
tratto, annegato e digerito. Ero appoggiata al muro, e sorseggiavo il mio cognac, mentre i rumori delle voci e della musica si infrangevano su di me come ondate. Suppongo che la spinta del mio corpo avesse allontanato un po' il letto dal muro; comunque, senza darmi molto pensiero di alcunché voltai le spalle alla stanza e guardai giù. Cominciai a trovare qualcosa di assai affascinante nello spazio fresco e scuro fra il letto e il muro. Laggiù si sarebbe potuto stare tranquilli, pensai; e sarebbe stato meno umido. Posai il bicchiere sul tavolino del telefono accanto al letto e rivolsi uno sguardo rapido alla stanza. Erano tutti occupati: nessuno se ne sarebbe accorto. Un minuto dopo ero incastrata di fianco fra il letto e il muro, fuori della loro vista ma non del tutto comoda. Così non va, pensai; dovrò andare proprio sotto. Sarà come una tenda. Non mi passò per la testa di arrampicarmi di nuovo sul letto, allontanai il letto dal muro con il minimo rumore possibile, facendo leva col mio corpo, sollevai il margine orlato del copriletto, e mi lasciai sgusciare dentro come una lettera attraverso una buca della posta. Era una sistemazione stretta: le stecche erano insolitamente basse per un letto e ero obbligata a stare completamente stesa contro il pavimento. Risospinsi lentamente il letto contro il muro. Era davvero stretto. Inoltre il pavimento era fittamente cosparso di grossi ciuffi e batuffoli di polvere simili a mozziconi di pane ammuffito (pensai indignata: Che sudicione è Len! Non spazza sotto il letto, poi riflettei: non abitava lì da molto e poteva darsi che un po' di quella polvere fosse stata lasciata lì da chi ci aveva abitato prima). Ma la semioscurità color arancione, per il filtro del copriletto che mi ricopriva da tutti e quattro i lati, e il fresco e la solitudine erano piacevoli. La musica rauca, le risate «staccato» e le voci confuse mi giungevano attuti te dal materasso. Nonostante lo spazio ristretto e la polvere ero contenta di non dover sedere lassù sotto il caldo riverbero della luce abbagliante della stanza. Nonostante che fossi più in basso soltanto di due o tre piedi rispetto agli altri, consideravo la stanza come qualcosa di «lassù». Io ero sottoterra, mi ero scavata una tana tutta mia. Mi sentivo soddisfatta. Una voce maschile, di Peter credo, disse sonora: «Ehi, dov'è Marian?» e l'altra rispose: «Oh, probabilmente al cesso». Sorrisi fra me e me. Ero felice di essere l'unica persona che sapeva dov'ero veramente. Quella posizione, tuttavia, diventava sempre più uno sforzo. I muscoli del collo mi dolevano; volevo stirarmi; stavo per starnutire. Cominciai a
augurarmi che si sbrigassero a accorgersi che ero scomparsa, in modo che potessero cercarmi. Non ricordavo più quali fossero i buoni motivi che mi avevano spinto da principio a cacciarmi sotto il letto di Len. Era ridicolo: sarei stata tutta ricoperta di lanugine quando sarei uscita. Ma fatto quel passo non volevo più tirarmi indietro. Non sarebbe stato per nulla dignitoso strisciare fuori da sotto il copriletto, trascinandomi dietro la polvere, come un tonchio che esce da un barile di farina. Sarebbe equivalso a ammettere che avevo sbagliato. Lì ero, e lì sarei rimasta fino a quando non mi avrebbero fatta uscire a forza. Il mio risentimento nei riguardi di Peter perché mi lasciava schiacciata sotto il letto mentre lui si muoveva lassù all'aperto, all'aria aperta, parlottando di tempi di esposizione, mi fece cominciare a pensare agli ultimi quattro mesi. Per tutta l'estate ci eravamo mossi in una certa direzione, sebbene non avessi avuto l'impressione del movimento: ci eravamo illusi di credere di essere statici. Ainsley mi aveva messa in guardia dicendomi che Peter mi stava monopolizzando; non vedeva nessun motivo per cui io non dovessi, come diceva lei, «ramificare il mio giro d'affari». Tutto questo andava bene per lei, ma io non riuscivo a superare la sensazione soggettiva che più di uno per volta fosse non etico. Tuttavia questo fatto mi aveva lasciato in una sorta di vuoto. Peter e io avevamo evitato di parlare del futuro perché sapevamo che non importava: non eravamo veramente coinvolti. Ora, però, qualcosa dentro di me aveva concluso che eravamo coinvolti: senz'altro quella era la spiegazione del collasso nella toilette e della fuga. Stavo evadendo dalla realtà. Ora, in quel preciso istante, avrei dovuto affrontarla. Avrei dovuto decidere cosa volevo fare. Qualcuno si sedette pesantemente sul letto, schiacciandomi contro il pavimento. Diedi in uno stridio roco e polveroso. «Cosa diavolo!» esclamò chiunque fosse e si alzò. «Qualcuno è sotto il letto.» Li sentii confabulare a bassa voce, e poi Peter gridò, a voce molto più alta del necessario: «Marian, sei sotto il letto?» «Sì», risposi con voce neutra. Avevo deciso di non pronunciarmi sull'intera faccenda. «Be', faresti meglio a uscire ora», disse sollecito. «Penso che sia ora che andiamo a casa.» Mi stavano trattando come un bambino scontroso che si sia chiuso nell'armadio e che debba essere blandito. Ero divertita e indignata. Mi venne in mente di dire: «Non voglio», ma conclusi che per Peter sarebbe potuta
essere l'ultima goccia, e Len era capacissimo di dire: «Oh, che stia là sotto tutta la notte, Cristo, a me non importa. È l'unico modo di trattarle. Qualunque cosa la stia rodendo, questo le farà passare i bollori». Perciò dissi, invece: «Non posso, sono incastrata!» Cercai di muovermi: ero incastrata. Di sopra, fecero un altro conciliabolo. «Alziamo il letto», gridò Peter, «e allora tu vieni fuori, capito?» Li sentii darsi ordini a vicenda. Stava per diventare un'impresa di alta ingegneria. Ci fu uno stropiccio di scarpe mentre prendevano posizione e facevano leva. Poi Peter disse: «Issa!» e il letto si sollevò a mezz'aria e io me la squagliai all'indietro come un gambero quando gli è stata rivoltata la pietra. Peter mi sollevò in piedi. Il mio vestito era tutto coperto e impennacchiato di polvere. Entrambi cominciarono a spolverarmi ridendo. «Cosa diavolo stavi combinando là sotto?» chiese Peter. Dal modo in cui mi staccavano i fiocchi più grossi di polvere, lentamente e facendo uno sforzo per concentrarsi, capii che si erano scolati un bel po' di brandy mentre io ero sottoterra. «Si stava più tranquilli», dissi imbronciata. «Avresti dovuto dirmi che eri incastrata!» fece con galante magnanimità. «Allora ti avrei tirata fuori. Sei davvero un bello spettacolo.» Era superiore e divertito. «Oh», dissi, «non volevo interrompervi.» A questo punto mi ero resa conto di quale fosse il mio sentimento prevalente: era l'ira. La punta rovente di rabbia nella mia voce doveva aver penetrato la cuticola dell'euforia di Peter. Indietreggiò di un passo; parve misurarmi freddamente con gli occhi. Mi afferrò per la parte superiore del braccio come se arrestasse un pedone disattento e si rivolse a Len. «Penso davvero che ora sia meglio che filiamo», disse. «È stato un gran piacere. Spero che ci incontriamo di nuovo presto. Mi piacerebbe proprio sapere cosa ne pensi del mio cavalletto.» Dall'altra parte della stanza Ainsley si districò dal coprisedia di fustagno e si alzò. Liberai il braccio dalla mano di Peter. Dissi freddamente: «Non ci torno con te. Vado a casa a piedi» e schizzai fuori della porta. «Fa' il diavolo che vuoi», disse Peter; ma cominciò a venirmi dietro a grandi passi, abbandonando Ainsley al suo destino. Mentre mi precipitavo giù per le scale strette sentii Len che diceva: «Perché non beviamo qualcos'altro, Ainsley? Ci penserò io a portarti a casa sana e salva; è meglio lasciare che i due piccioncini se la sbroglino da soli» e Ainsley che protesta-
va allarmata: «Oh, non credo che dovrei...» Una volta fuori mi sentii notevolmente meglio. Ero fuggita; da cosa, o verso cosa, non lo sapevo. Sebbene non fossi del tutto certa del motivo per cui avevo agito così, per lo meno avevo agito. Una decisione di qualche genere era stata presa, era stato posto termine a qualcosa. Dopo quella violenza, quella palese dimostrazione, per me improvvisa e imbarazzante, non poteva esserci riconciliazione; sebbene ora che me ne stavo andando non avvertissi assolutamente nessuna irritazione nei riguardi di Peter. Mi passò per la testa, assurdamente, che era stato un rapporto così tranquillo: fino a quel giorno non avevamo mai litigato. Non c'era stato nulla per cui litigare. Mi guardai dietro: Peter non si vedeva da nessuna parte. Camminai per le strade deserte, davanti alle file di vecchie case d'appartamenti, in direzione della via principale più vicina per prendere un autobus. A quest'ora, però (che ore erano?), avrei dovuto aspettare un bel po'. Questo pensiero mi mise a disagio: adesso il vento soffiava più forte e più freddo, e i lampi sembravano avvicinarsi di minuto in minuto. In lontananza cominciava a tuonare. Indossavo soltanto un leggero abito estivo. Mi chiesi se avessi abbastanza soldi per prendere un tassi, mi fermai per contarli e mi resi conto di non averne. Camminavo verso nord da circa dieci minuti, davanti ai negozi chiusi freddamente illuminati, quando vidi l'auto di Peter fermarsi accanto al marciapiede cento metri davanti a me. Egli uscì e rimase sul marciapiede deserto, in attesa. Continuai a camminare regolarmente, senza rallentare il passo né cambiare direzione. Certamente non c'era più alcuna ragione per correre. Non ero più coinvolta. Quando fui alla sua altezza mi sbarrò il passo. «Saresti così gentile», disse con una cortesia corazzata, «da lasciare che ti porti a casa? Non vorrei vederti inzuppata fino alle ossa.» Mentre parlava, le prime pesanti gocce stavano già cominciando a cadere. Esitai. Perché faceva questo? Poteva essere soltanto per lo stesso motivo formale che lo spingeva a aprire le portiere delle macchine - quasi un riflesso automatico - nel qual caso avrei potuto accettare il favore in modo altrettanto formale, senza alcun pericolo; ma cosa avrebbe in realtà comportato se fossi salita sulla macchina? Lo studiai: aveva chiaramente bevuto troppo, sebbene fosse altrettanto chiaro che era quasi perfettamente padrone di sé. Aveva gli occhi un po' velati, era vero, ma teneva il corpo rigidamente diritto. «Be'», dissi dubbiosa, «a dire la verità preferirei camminare. Però grazie
lo stesso.» «Oh, andiamo, Marian, non fare la bambina», disse brusco, e mi prese per il braccio. Mi lasciai condurre all'auto e sistemare sul sedile anteriore. Ero riluttante, credo; ma non avevo alcun desiderio particolare di bagnarmi. Salì, sbatté la sua portiera e mise in moto. «Ora mi dirai il perché di tutte quelle stupidaggini», disse adirato. Svoltammo e la pioggia batté, scagliata contro il parabrezza da aspre folate di vento. Da un momento all'altro avremmo avuto, come era solita dire una delle mie prozie, un ciclone e un temporale. «Non ti avevo chiesto di portarmi a casa», dissi nicchiando. Ero convinta che non fossero state stupidaggini, ma ero anche acutamente consapevole che sarebbero sembrate stupidaggini a un qualsiasi osservatore esterno. Non volevo discuterne; in quella direzione potevamo trovare soltanto un vicolo cieco. Mi sedetti eretta sul sedile anteriore, guardando da un finestrino fuori del quale si poteva vedere poco o niente. «Perché diavolo hai dovuto rovinare una serata perfettamente riuscita non lo saprò mai», disse, ignorando la mia osservazione. Ci fu lo schianto di un tuono. «Non mi sembra di avertela rovinata molto», dissi. «Tu te la stavi spassando abbastanza.» «Ah, dunque è così. Non ti divertivamo abbastanza. La nostra conversazione ti annoiava, non ti degnavamo abbastanza della nostra attenzione. Bene, la prossima volta ne sapremo quanto basta per evitarti il disturbo di venire con noi.» Questo mi sembrò davvero ingiusto. Dopo tutto, Len era mio amico. «Len è mio amico, lo sai», dissi. La voce cominciava a diventarmi tremula. «Non capisco perché non dovrei voler parlare un po' con lui anch'io dato che è appena tornato dall'Inghilterra.» Proprio nel dirlo mi resi conto che Len non c'entrava assolutamente. «Ainsley si è comportata educatamente, perché tu no? Il tuo guaio è», disse in tono selvaggio, «che semplicemente rifiuti la tua femminilità.» La sua approvazione della condotta di Ainsley fu una stoccata maligna. «Oh, me ne FOTTO della mia femminilità», urlai. «La femminilità non c'entra. Tu sei stato semplicemente un normale, semplice maleducato!» La sgarbatezza involontaria era una cosa di cui Peter non poteva sopportare di essere accusato, e io lo sapevo. Lo metteva fra quelli degli avvisi pubblicitari dei deodoranti.
Mi squadrò rapidamente, gli occhi gli si restrinsero come se stesse prendendo la mira. Poi digrignò i denti e pigiò brutalmente l'acceleratore. Ormai la pioggia cadeva a scrosci: la strada davanti, quando la si poteva vedere, sembrava una superficie solida d'acqua. Quando avevo fatto il mio affondo stavamo discendendo una collina, e all'improvviso aumento di velocità l'auto slittò, fece due giravolte e un quarto, scivolò all'indietro sul prato in declivio di qualcuno, e si arrestò repentinamente. Sentii qualcosa spezzarsi. «Fanatico!» gemetti, quando fui rimbalzata dal cruscotto e mi resi conto di non esser morta. «Ci farai ammazzare tutti!» Dovevo aver pensato a me al plurale. Peter abbassò il finestrino e mise la testa fuori. Poi cominciò a ridere. «Gli ho potato un po' la siepe», disse. Pigiò sull'acceleratore. Le ruote girarono a vuoto per un attimo, sommuovendo il fango del prato e lasciando (come vidi in seguito) due solchi profondi, e con un digrignare di marce risalimmo il margine del prato e tornammo sulla carreggiata. Ora stavo tremando per un misto di paura, freddo e rabbia. «Prima mi trascini nella tua macchina», balbettai, «e mi minacci per i tuoi sensi di colpa, e poi cerchi di ammazzarmi!» Peter rideva ancora. Aveva la testa fradicia, anche se l'esposizione alla pioggia era stata così breve, e i capelli gli si erano appiccicati alla fronte, mentre l'acqua gli stillava giù per la faccia. «Quando si alzeranno domattina vedranno un'alterazione nel loro giardino», ridacchiò. Sembrava trovare un immenso divertimento nel rovinare intenzionalmente la proprietà altrui. «Sembri trovare un immenso divertimento nel rovinare intenzionalmente la proprietà altrui», dissi, sarcastica. «Oh, non fare la guastafeste così», ribatté con aria amabile. La sua soddisfazione per quella che considerava un'energica dimostrazione di muscoli era evidente. Mi irritava che facesse suo il credito dovuto alle ruote posteriori della sua macchina. «Peter, perché non riesci ad essere serio? Sei soltanto un adolescente cresciuto troppo in fretta.» Quest'osservazione preferì ignorarla. L'auto si fermò con un sobbalzo. «Eccoci arrivati», disse. Afferrai la maniglia, con l'intenzione, credo, di fare un'osservazione finale a cui non avrebbe potuto rispondere e lanciarmi poi verso la casa; ma mi mise la mano sul braccio. «Meglio aspettare che spiova un po'.» Girò la chiave dell'accensione e i battiti cardiaci dei tergicristallo cessa-
rono. Rimanemmo seduti in silenzio ascoltando il temporale. Dovevamo averlo proprio sulla testa; i lampi erano accecanti e continui, e ogni penetrante forcella frastagliata era seguita quasi immediatamente da un frastuono lacerante, come se gli alberi di un'intera foresta si spaccassero e cadessero. Negli intervalli di oscurità udivamo la pioggia battere contro la macchina; l'acqua filtrava, con spruzzi leggeri, attorno ai bordi dei finestrini chiusi. «Ho fatto bene a non lasciarti andare a casa a piedi», disse Peter, nel tono di uno che ha preso una decisione ferma e giusta. Non potevo che essere d'accordo. Durante un lungo attimo di luce balenante mi voltai e vidi che mi osservava, il volto stranamente in ombra, gli occhi luccicanti come quelli di un animale nel fascio di luce dei fari di una macchina. Il suo sguardo era risoluto, leggermente sinistro. Poi si piegò verso di me e disse: «Hai un po' di peluria. Sta' ferma». Mi rovistava in testa con le mani: stava, goffamente ma con tenerezza, sbrogliando un batuffolo di polvere che mi si era impigliato nei capelli. Mi sentii improvvisamente cascante come un kleenex umido. Appoggiai la fronte contro la sua e chiusi gli occhi. Aveva la pelle fredda e umida e l'alito che sapeva di cognac. «Apri gli occhi», disse. Li aprii: avevamo ancora le fronti premute l'una contro l'altra, e al bagliore istantaneo che seguì mi trovai a guardare in una moltitudine di occhi. «Hai otto occhi», dissi piano. Ci mettemmo entrambi a ridere ed egli mi attirò a sé e mi baciò. Gli misi le braccia attorno alla schiena. Rimanemmo quietamente così per un po' in mezzo alla tempesta. Ero soltanto consapevole di essere assai stanca e che il mio corpo non avrebbe smesso di rabbrividire. «Non so cosa stessi facendo questa sera», mormorai. Mi carezzò i capelli, perdonandomi, comprensivo, con una leggera aria di condiscendenza. «Marian.» Lo sentii deglutire dal collo. Ora non sapevo se era il suo corpo o il mio a rabbrividire. Mi strinse ancora più tenacemente a sé. «Come credi che ce la caveremmo da... come credi che saremmo, sposati?» Mi ritrassi da lui. Un tremendo bagliore elettrico blu, vicinissimo, illuminò l'interno della macchina. Mentre ci guardavamo l'un l'altro in quel breve attimo di luce mi vidi, piccola e ovale, rispecchiata nei suoi occhi.
10 Quando mi svegliai la domenica mattina - più verso il pomeriggio - in principio mi sentii la testa vuota come se qualcuno mi avesse raschiato l'interno del cranio come un melone e mi avesse lasciato soltanto la scorza con cui pensare. Mi guardai attorno faticando a riconoscere nella stanza un luogo in cui ero stata in precedenza. I miei vestiti erano sparsi sul pavimento e drappeggiavano, gualciti, la spalliera della sedia come i frammenti superstiti dell'esplosione di un qualche spaventapasseri femmina di grandezza naturale, e l'interno della bocca mi dava l'impressione di un pezzo di imbottitura di bambagia. Mi alzai e andai in cucina barcollando. Sole chiaro e aria fresca entravano scintillanti dalla finestra aperta della cucina. Ainsley si era alzata prima di me. Era protesa in avanti, concentrata su qualcosa squadernato davanti a lei, con le gambe tirate su e piegate sotto di sé sulla sedia e i capelli che le ricadevano a cascata sulle spalle. Di spalle sembrava una sirena appollaiata su una roccia: una sirena con una sudicia veste da camera di spugna verde. Attorno a lei, su un tavolo cosparso di briciole c'erano i resti della sua colazione: la stella marina flaccida di una buccia di banana, alcuni frammenti di guscio d'uovo, e croste marrone di pane tostato arenate qua e là, a casaccio, come cumuli di legname sulla spiaggia. Andai al frigorifero e tirai fuori il succo di pomodoro. «Salve», dissi alle spalle di Ainsley. Mi chiesi se avrei avuto la forza di sopportare la vista di un uovo. Si voltò. «Bene», disse. «Sei arrivata a casa sana e salva?» chiesi. «È stato un bel temporale.» Mi versai un gran bicchiere di succo di pomodoro e lo bevvi avidamente. «Naturale», disse lei. «Gli ho fatto chiamare un tassi. Sono arrivata a casa proprio prima che scoppiasse il temporale, ho fumato una sigaretta, mi sono bevuto un doppio whisky e sono andata difilato a letto; dio, ero completamente esausta. È snervante star seduti così fermi, e dopo che tu te ne sei andata non sapevo come fare a liberarmi. Era come sfuggire a una piovra gigante, ma ci sono riuscita, soprattutto facendo la tonta e dando a vedere di essere impaurita. È assolutamente necessario fare così a questo stadio, capisci.» Guardai nella casseruola che era posata, ancora bollente, su uno dei bruciatori. «Non hai più bisogno dell'acqua dell'uovo?» Accesi il gas.
«Allora, e tu? Ero molto preoccupata, pensavo che forse eri davvero ubriaca o qualcosa del genere; se non te ne hai a male che te lo dica ti sei comportata da vera idiota.» «Ci siamo fidanzati», dissi, un po' riluttante. Sapevo che mi avrebbe disapprovata. Riuscii a ficcare l'uovo nella casseruola; si spaccò subito. L'avevo appena tolto dal frigorifero e era troppo freddo. Ainsley sollevò le sopracciglia appena accennate; non parve sorpresa. «Allora, se fossi in te mi sposerei negli Stati Uniti, sarà tanto più facile ottenere il divorzio quando ne avrai bisogno. Voglio dire, tu non lo conosci veramente, no? Ma per lo meno», continuò in tono più allegro, «Peter guadagnerà presto abbastanza soldi, così potrete vivere separati quando tu avrai un bambino, anche se non divorzi. Ma spero che non ti sposi subito. Non credo che sappia cosa stai facendo.» «Nel mio subconscio», dissi, «probabilmente ho sempre voluto sposare Peter.» Questo la mise a tacere. Era come invocare una divinità. Esaminai il mio uovo che stava allungando un tentacolo bianco semicoagulato come un'ostrica indagatrice. Probabilmente è cotto, pensai, e lo tirai fuori. Accesi sotto la cuccuma del caffè e mi feci un po' di spazio sulla tovaglia di tela cerata. Ora riuscii a vedere con cosa stava armeggiando Ainsley. Aveva staccato il calendario dal muro della cucina - c'era riprodotta una ragazzina vestita all'antica seduta su un'altalena con un cestino di ciliege e un cagnolino bianco, me ne manda uno ogni anno una terza cugina che dirige una stazione di servizio al mio paese - e ci stava facendo sopra dei segni misteriosi con una matita. «Cosa stai facendo?» chiesi. Sbattei il mio uovo contro il bordo del piatto e ci rimasi infilata dentro col pollice. Dopo tutto non era cotto. Lo versai nel piatto e lo mescolai. «Sto approntando la mia strategia», disse in tono prosaico. «Veramente, Ainsley, non capisco come tu possa pensarci così a sangue freddo», dissi, sbirciando i numeri neri nelle loro righe ordinate. «Ma io ho bisogno di un padre per mio figlio!» Il suo tono dava a intendere che io stavo cercando di strappare il pane di bocca a tutte le vedove e gli orfani di questo mondo, per il momento incarnati in lei. «D'accordo, concesso, ma perché Len? Voglio dire che con lui potrebbero esserci delle complicazioni, dopo tutto è mio amico e ultimamente ha avuto delle disavventure; non vorrei vederlo turbato. Non ce ne sono degli altri a bizzeffe in giro?»
«Non al momento; o per lo meno nessuno che sia un esemplare così notevole», disse con aria ragionevole, «e a me in un certo senso piacerebbe avere il bambino in primavera. Mi piacerebbe un bambino di primavera; o all'inizio dell'estate. Questo significa che potrà tenere le feste di compleanno fuori, nel cortile di dietro invece che in casa, ci sarà meno fracasso...» «Hai fatto delle ricerche sui suoi antenati?» le chiesi acida, raccogliendo l'ultima cucchiaiata di uovo. «Oh sì», disse Ainsley con entusiasmo, «abbiamo avuto una conversazione prima che mi facesse le sue proposte importune. Ho scoperto che suo padre è andato all'università. Almeno non sembra che ci siano dei cretini in famiglia, e lui non ha neanche delle allergie. Avrei voluto scoprire se era un Rh negativo, ma questo sarebbe stato un po' indiscreto, non credi? E lavora alla televisione, il che significa che deve avere un certo temperamento artistico in qualche modo. Non sono riuscita a sapere molto sui suoi nonni, ma non si può essere troppo selettivi in tema di ereditarietà, altrimenti si dovrebbe aspettare in eterno. La genetica comunque è ingannevole», proseguì; «dei veri geni hanno dei figli che non sono per nulla intelligenti.» Appose un segno dall'aspetto decisivo sul calendario e lo guardò aggrottando le ciglia. Rassomigliava paurosamente a un generale intento a progettare una campagna importante. «Ainsley, quello che ti serve veramente è una cianografia della tua stanza da letto», dissi, «o meglio, una carta topografica con le curve di livello. O una fotografia aerea. Poi potresti disegnare delle piccole frecce e delle linee tratteggiate su di essa, e una x al punto di congiunzione.» «Ti prego, non fare la frivola», disse. Ora stava contando sottovoce. «Quando sarà? Domani?» «Aspetta un attimo», disse e contò ancora un po'. «No. Non potrà essere per un po' di tempo. Comunque almeno per un mese. Capisci, devo essere sicura che la prima volta sia quella buona; o la seconda.» «La prima volta?» «Sì», disse, «ho calcolato tutto. Però sarà un problema, capisci che dipende tutto dalla sua psicologia. Mi rendo conto che è il tipo di uomo che scappa spaventato se agisco con troppa impazienza. Gli devo dare molta corda. Perché appena riesce a combinare qualcosa, mi pare proprio di sentirlo, si lascerà andare alla vecchia tiritera che forse sarebbe meglio che non ci vedessimo più, non vorrebbe che la cosa prendesse una piega troppo seria, nessuno dei due dovrebbe lasciarsi legare e così via. E si volatilizze-
rà. Non riuscirò a chiamarlo quando è veramente essenziale, mi accuserebbe di cercare di monopolizzare il suo tempo o di avanzare delle pretese su di lui o qualcosa del genere. Ma finché non mi ha acchiappato», disse, «posso averlo ogniqualvolta ho bisogno di lui.» Ci rimuginammo sopra assieme per un po'. «Anche il luogo sarà un problema», disse. «Tutto deve sembrare casuale. Un momento di passione. La mia resistenza vinta, trasportata dall'emozione e così via.» Fece un sorrisino. «Qualsiasi cosa preordinata, incontrarlo al motel per esempio, non andrebbe assolutamente. Perciò sarà a casa sua o qui.» «Qui?» «Se necessario», disse con fermezza, scivolando via dalla sedia. Non parlavo: il pensiero che Leonard Slank sarebbe stato vinto sotto lo stesso tetto che riparava anche la signora di sotto e i ritratti incorniciati dei suoi antenati mi turbava; sarebbe stato quasi un sacrilegio. Ainsley entrò nella sua stanza da letto, canticchiando indaffarata tra sé e sé, prendendosi dietro il calendario. Rimasi seduta a pensare a Len. Ero di nuovo presa da dei rimorsi di coscienza per permettere che venisse condotto alla rovina incoronato di fiori senza neppure una parola di preavviso. Naturalmente se l'era cercata lui, in un certo modo, supponevo, e Ainsley sembrava decisa a non reclamare nient'altro da chiunque avesse scelto per questo alquanto dubbio, perché anonimo, onore. Se Leonard fosse semplicemente stato il donnaiolo tipico non mi sarei preoccupata. Ma egli era certamente, così riflettei mentre sorseggiavo il caffè, una persona più complessa e dalla struttura più delicata. Era un cacciatore di sottane consapevolmente impudico, ammettiamo pure; ma non era vero, come aveva detto Joe, che fosse privo di senso morale. Alla sua maniera distorta, era una specie di moralista a rovescio. Gli piaceva parlare come se tutti non cercassero altro che sesso e soldi, ma quando uno gli forniva la dimostrazione nella vita concreta delle sue teorie, egli reagiva con roventi invettive di critica. Il suo misto di cinismo e di idealismo aveva molto a che fare con la sua inclinazione a «corrompere», come diceva lui, ragazze ancora immature, in quanto opposte al genere più stagionato. Ciò che era ritenuto puro, l'irraggiungibile, esercitava un'attrazione sull'idealista che era in lui; ma appena era stato raggiunto, il cinico lo considerava guasto e lo buttava. «Si è rivelata proprio della stessa pasta di tutte le altre», era solito osservare amareggiato. Le donne che considerava veramente come fuori della propria portata, come le mogli degli amici, le trattava con devozione. Si fidava
di loro in misura irragionevole, semplicemente perché non sarebbe mai stato spinto dal suo cinismo a metterle alla prova: erano non soltanto inattaccabili ma anche, comunque, troppo vecchie per lui. Giara, a esempio, la idolatrava. A volte dimostrava una particolare tenerezza, quasi un sentimentalismo sdolcinato, nei confronti di coloro che gli piacevano, che erano pochi di numero; ma a dispetto di ciò era costantemente accusato dalle donne di essere un misogino, e dagli uomini di essere un misantropo, e forse era l'uno e l'altro. Comunque, non riuscivo a pensare in quale modo specifico lo sfruttamento architettato da Ainsley per lui avrebbe potuto danneggiarlo irreparabilmente, o addirittura soltanto in una certa misura, perciò lo affidai alla custodia di quell'angelo custode brutale e dagli occhiali con la montatura di corno che egli potesse avere, finii di inghiottire le scorie granulose del caffè e andai a vestirmi. Dopo di che telefonai a Clara per informarla della novità; la reazione di Ainsley non mi aveva soddisfatta gran che. Clara sembrò contenta, ma la sua risposta fu ambigua. «Oh, bene», disse, «Joe ne sarà contentissimo. Ultimamente ha detto che era ormai ora che tu ti sistemassi.» Fui lievemente irritata: dopo tutto non ero una trentacinquenne disperata. Parlava come se stessi semplicemente prendendo una misura prudenziale. Ma riflettei che da coloro che sono estranei a una relazione non ci si può aspettare che la capiscano. Il resto della conversazione trattò dei suoi disturbi digestivi. Mentre stavo lavando i piatti della colazione sentii un rumore di passi su per le scale. Quella era un'altra variazione della mossa dell'apertura della porta impiegata dalla signora di sotto: lasciava entrare tranquillamente la gente senza annunciarla, di solito in momenti di disintegrazione, come le domeniche pomeriggio, sperando senza dubbio che venissimo sorprese in qualche situazione imbarazzante, con i capelli tutti giù arruffati o con i bigodini, o scomposte con l'accappatoio addosso. «Salve!» disse una voce, a metà della scala. Era la voce di Peter. Aveva già assunto il privilegio delle improvvisate. «Oh, salve», risposi, rendendo il tono della mia voce indifferente ma accogliente. «Stavo proprio lavando i piatti», aggiunsi vacuamente mentre la sua testa emergeva dal pozzo delle scale. Lasciai gli altri piatti nell'acquaio e mi asciugai le mani nel grembiule. Entrò in cucina. «Perbacco», disse, «a giudicare dai postumi di quando mi sono svegliato, devo essermi sbronzato ieri sera. Credo di essere proprio andato in balla. Questa mattina la mia bocca aveva il sapore dell'inter-
no di una scarpa da tennis.» Il suo tono era a metà orgoglioso e a metà contrito. Ci squadrammo l'un l'altra con diffidenza. Se ci doveva essere una ritrattazione da una parte o dall'altra, questo era il momento adatto; si sarebbe potuto dare la colpa di tutto alla chimica organica. Ma nessuno dei due fece marcia indietro. Infine Peter mi rivolse un sogghigno, compiaciuto anche se nervoso. Dissi, sollecita: «Oh, che brutto. Hai bevuto proprio molto. Una tazza di caffè?» «Una mi va», disse, mi si avvicinò e mi diede un bacetto sulla guancia, poi crollò su una delle sedie della cucina. «A proposito, scusa se non ho telefonato prima. Avevo semplicemente voglia di vederti.» «Va bene così», dissi. Sembrava davvero indisposto. Era vestito in maniera trasandata, ma è impossibile che Peter si vesta in maniera veramente trasandata. Quella era una trasandatezza voluta; aveva un'accurata barba lunga, e i calzini erano dello stesso colore degli scacchi della sua camicia sportiva. Accesi sotto il caffè. «Bene!» disse, proprio come Ainsley, ma con enfasi diversa. Sembrava come se avesse comprato un'auto nuova fiammante. Gli rivolsi un tenero sorriso cromato; vale a dire, volevo che il sorriso esprimesse tenerezza, ma mi sentii la bocca rigida e luminosa e alquanto costosa. Versai due tazze di caffè, tirai fuori il latte e mi sedetti sull'altra sedia della cucina. Posò una mano sulla mia. «Sai», disse, «non pensavo di volere... quello che è successo ieri sera... per niente.» Feci un cenno di assenso: neppure io avevo pensato di volerlo. «Credo di averlo sempre sfuggito.» Anch'io. «Ma credo che tu avessi ragione a proposito di Trigger. E può darsi che io lo volessi senza saperlo. Un uomo deve sistemarsi prima o poi, e io ho ventisei anni.» Lo vedevo sotto una luce nuova: nella cucina cambiava di forma, trasformandosi da uno scapestrato giovane scapolo in un salvatore dal caos, un fornitore di stabilità. Da qualche parte, nella stanza blindata delle Indagini Seymour una mano invisibile stava cancellando la mia firma. «E ora che le cose sono stabilite penso che mi sentirò molto più felice. Uno non può continuare a scorrazzare di qua e di là all'infinito. A lungo andare sarà molto meglio anche per il mio lavoro, ai clienti piace sapere che sei sposato; diventano sospettosi di uno scapolo dopo una certa età,
cominciano a pensare che sei un finocchio o qualcosa del genere.» Si interruppe poi continuò: «E c'è una cosa che riguarda te, Marian, so che potrò sempre fidarmi di te. Le donne per lo più sono delle graziose sventate, ma tu sei una ragazza così sensata. Può darsi che tu non lo sapessi ma io ho sempre pensato che questa è la prima cosa da cercare quando viene il momento di prendere moglie». Non mi sentivo molto sensata. Abbassai gli occhi per modestia e li fissai su una briciola di pane tostato che mi era sfuggita quando avevo pulito il tavolo. Non sapevo esattamente cosa dire: «Anche tu sei molto sensato» non mi sembrava adatto. «Anch'io sono molto felice», dissi. «Portiamo il caffè nel salotto.» Mi seguì; posammo le tazze sul tavolino rotondo e ci sedemmo sul divano. «Mi piace questa stanza», disse, rivolgendole un'occhiata. «È così intima.» Mi mise il braccio attorno alle spalle e rimanemmo seduti in quello che io speravo fosse un silenzio di beatitudine. Eravamo imbarazzati l'uno con l'altro. Non avevamo più le ipotesi, le tracce e i sentieri della nostra precedente relazione a guidarci. Finché non avessimo stabilito le nuove ipotesi non avremmo quasi saputo cosa fare o dire. Peter ridacchiò fra sé e sé. «Cosa c'è da ridere?» chiesi. «Oh, non molto. Quando sono uscito a prendere l'auto ho trovato tre arbusti impigliati sotto; così sono passato davanti al prato. Abbiamo fatto un bel buchetto nella loro siepe.» Era ancora compiaciuto di sé per la cosa. «Grande, stupido idiota», dissi teneramente. Sentivo il rimescolio dell'istinto di proprietà. Così questo oggetto, allora, apparteneva a me. Gli appoggiai la testa contro la spalla. «Quando vuoi sposarti?» chiese, in tono quasi aspro. Il mio impulso fu di rispondere, con l'elusiva impertinenza a cui ero sempre ricorsa quando mi aveva rivolto delle domande serie su di me: «Che ne diresti del giorno della Candelora?» Invece sentii una voce dolce e calda che stentai a riconoscere che diceva: «Preferirei che fossi tu a deciderlo. Preferirei che fossi tu a prendere le decisioni importanti». Ero sbalordita di me stessa. Non gli avevo mai detto nulla di lontanamente simile prima. La cosa ridicola era che dicevo proprio sul serio. 11
Peter se ne andò presto. Disse che aveva bisogno di dormire un altro po' e mi consigliò di fare lo stesso. Tuttavia non ero per niente stanca. Ero piena di un'energia nervosa che non voleva svanire nelle irrequiete evoluzioni per l'appartamento. Questo pomeriggio possedeva quella speciale caratteristica di vuota tristezza che ho associato fin dall'infanzia al tardo pomeriggio delle domeniche: il senso di non aver niente da fare. Finii di lavare i piatti, smistai coltelli, forchette e cucchiai nei relativi scomparti del cassetto della cucina, sebbene sapessi che non sarebbero rimasti a posto per molto, scorsi per la settima volta le riviste che erano nel salotto, mentre la mia attenzione venne attratta per breve tempo, ma con un nuovo significato, da titoli quali ADOZIONE: SÌ O NO? SIETE INNAMORATA... È AMORE VERO? QUIZ CON VENTI DOMANDE e TENSIONI DELLA LUNA DI MIELE e mi gingillai con i comandi del tostapane che aveva bruciato della roba. Quando il telefono squillò mi lanciai bramosa su di esso: era uno sbaglio. Forse avrei potuto parlare con Ainsley, che era ancora nella sua stanza da letto; ma per qualche motivo non credetti che mi sarebbe stato di molto aiuto. Volevo fare qualcosa che si potesse finire, concludere, ma non sapevo cosa. Finalmente decisi di passare la sera alla lavagettone. Naturalmente non ci serviamo dell'attrezzatura per lavare la biancheria della signora di sotto. Se ne ha. Non permette mai a nulla di così plebeo come il bucato di sconsacrare la distesa ben tenuta del prato dietro casa. Forse né lei né la bambina sporcano mai i vestiti; forse hanno un invisibile rivestimento di plastica. Nessuna di noi due è stata nella sua cantina o magari l'ha sentita ammettere l'esistenza di una. È possibile che il bucato sia, secondo la sua gerarchia delle convenienze, una di quelle cose di cui tutti sono a conoscenza ma di cui nessuna persona rispettabile parla. Così, quando i mucchi di panni che non si possono più indossare divengono intollerabili e i cassetti di quelli che si possono indossare sono completamente vuoti, andiamo alla lavagettone. Oppure, di solito, ci vado da sola: non riesco a resistere quanto Ainsley. La sera della domenica è il momento migliore del weekend per andarci. Ci sono meno signori anziani che legano e disinfettano dagli afidi le loro piante di rose, e meno signore anziane con cappellini infiorati e guanti bianchi che spingono o vengono spinte a casa di altre signore anziane a prendere il tè. La lavagettone più prossima è a una fermala della metropolitana, e i sabati non sono giorni adatti a causa di chi va a far compere sull'autobus, ancora signore anziane in guanti e cappellino, sebbene non così immacolate; e i sabati sera escono
i giovani diretti al cinema. Preferisco le domeniche sera; sono più vuote. Non mi piace essere osservata, e il mio sacchetto del bucato è troppo palesemente un sacchetto del bucato. Quella sera non vedevo l'ora di fare quella sortita. Ero impaziente di uscire dall'appartamento. Riscaldai e mangiai una cena di surgelati, poi indossai i miei vestiti da lavandaia - pantaloni di cotone ritorto, camiciotto felpato e un paio di scarpette da ginnastica a scacchi che una volta mi era venuto voglia di comprare e che non portavo mai in nessun'altra occasione - e controllai se nel mio borsellino c'erano dei quarti di dollaro. Stavo ficcando i capi di vestiario appropriati nel sacchetto della biancheria quando Ainsley fece una capatina in salotto. Era rimasta chiusa nella sua stanza da letto per quasi tutto il giorno, impegnata in dio sa quali pratiche di magia nera: distillando un afrodisiaco, senza dubbio, o modellando figurine di cera di Leonard e trafiggendole con spilli nei punti adatti. Ora una qualche intuizione l'aveva messa sul chi vive. «Salve, vai alla lavagettone?» mi disse con calcolata noncuranza. «No», dissi, «ho tagliato Peter a pezzettini. Lo sto mimetizzando come biancheria e lo porto giù per seppellirlo nella forra.» Dovette considerare questa osservazione di cattivo gusto. Non sorrise. «Senti, ti spiacerebbe buttar dentro un po' della mia roba mentre sei lì? Soltanto le cose essenziali.» «Bene», dissi rassegnata. «Portale qui.» Questa è una prassi normale. È una delle ragioni per cui Ainsley non deve mai andare alla lavagettone. Sparì, e ritornò dopo pochi minuti con un enorme mucchio di biancheria intima fra le braccia. «Ainsley, soltanto le cose essenziali.» «Sono tutte cose essenziali», disse scontrosa; ma quando ebbi insistito che non potevo far entrare tutto nel sacchetto, divise il mucchio a metà. «Mille grazie, sei una vera salvatrice», disse. «Arrivederci a più tardi.» Mi trascinai dietro il sacchetto giù per le scale, lo sollevai, me lo buttai sulle spalle e uscii barcollando dalla porta, notando incidentalmente un'occhiata gelida da parte della signora di sotto che stava scivolando silenziosamente da dietro una delle tende di velluto appese all'entrata del salotto. Essa intendeva, lo sapevo, esprimere la sua disapprovazione per questa flagrante ostentazione di sudiciume. Siamo tutti, fu la mia muta citazione di rimando, completamente sporchi. Una volta seduta sull'autobus mi appoggiai il sacchetto accanto sul sedile, sperando che di lontano sembrasse abbastanza simile a un bambino per
parare la giusta indignazione di coloro che avrebbero potuto trovare da ridire sul fatto che lavorassi nel giorno del Signore. Mi ricordavo di un incidente avvenuto un'altra volta, quando una vecchia vestita di seta nera con un cappellino color malva mi aveva afferrata mentre scendevo dall'autobus. Era indispettita non soltanto perché infrangevo il quarto comandamento, ma anche a causa del modo empio in cui mi ero vestita per commettere quell'infrazione: Gesù, voleva dire, non mi avrebbe mai perdonato quelle scarpette da ginnastica a scacchi. Poi mi concentrai su uno dei manifesti sopra i finestrini, un manifesto a colori di una ragazza con tre paia di gambe che saltellava con una guaina. Devo ammettere di essere stata lievemente scandalizzata, contro la mia volontà, da quei cartelloni pubblicitari. Sono così esposti al pubblico. Per i primi isolati rimasi a chiedermi che genere di persone sarebbero state abbastanza sensibili a quella pubblicità da andare a comprare l'oggetto in questione, e se avevano mai fatto un'inchiesta su di esso. La forma femminile, pensai, dovrebbe attirare gli uomini, non le donne, e gli uomini di solito non comprano guaine. Però poteva darsi che la ragazzina fosse un'immagine dell'io; forse le compratrici pensavano di riacquistare la giovinezza e la snellezza col pacchetto. Per qualche altro isolato pensai al detto che avevo letto da qualche parte, che nessuna donna ben vestita è mai senza guaina. Riflettei sulle possibilità suggerite dalla parola «mai». Per il resto del tragitto pensai alla rotondità della mezza età: quando mi sarebbe venuta? Magari l'avevo già. Bisogna stare attenti a questo genere di cose, riflettei; hanno un modo tutto loro di insinuartisi addosso prima che te ne renda conto. La lavagettone era proprio lungo la strada dell'entrata della metropolitana. Quando mi trovai concretamente davanti a una di quelle grosse macchine mi accorsi di aver dimenticato il sapone. «Oh, porca miseria!» dissi a alta voce. La persona che stava ficcando dei vestiti nella macchina accanto alla mia si voltò verso di me. Mi rivolse uno sguardo senza espressione. «Può prendere un po' del mio», disse, porgendomi la scatola. «Grazie. Se ci mettessero un distributore a gettone, dovrebbero avere il buon senso di farlo.» Poi lo riconobbi: era il giovanotto dell'intervista della birra. Rimasi lì con la scatola in mano. Come aveva fatto a sapere che avevo dimenticato il sapone? Non l'avevo detto a alta voce. Mi stava scrutando più da vicino. «Oh», disse, «ora mi ricordo chi è. A prima vista non l'avevo riconosciuta. Senza quel guscio ufficiale sembra
per così dire... esposta.» Si piegò di nuovo sulla sua macchina. Esposta. Era un bene o un male? Controllai in fretta per assicurarmi che non ci fossero delle scuciture o delle lampo aperte; poi cominciai a ficcare svelta la roba nelle macchine, mettendo gli indumenti chiari da una parte e quelli scuri dall'altra. Non volevo che lui finisse prima di me in modo che potesse osservarmi, ma finì in tempo per notare che buttavo attraverso lo sportello vari indumenti frivoli di Ainsley pieni di merletti. «Sono suoi quelli?» chiese interessato. «No», dissi, arrossendo. «Mi pareva. Non è roba fatta per lei.» Era stato un complimento o un insulto? A giudicare dalla sua voce priva di modulazione, era stato un semplice commento; e come commento era stato abbastanza accurato, pensai facendo una smorfia. Chiusi i due sportelli di vetro grosso e misi i quarti di dollaro nelle aperture, mi fermai finché lo sciacquio familiare mi disse che tutto andava bene e poi mi diressi verso la fila di sedie fornite dalla direzione e mi sedetti in una di loro. Mi resi conto che avrei dovuto aspettare fino alla fine; di domenica da quelle parti non c'era nient'altro da fare. Sarei potuta andare al cinema, ma non avevo abbastanza soldi dietro. Avevo persino dimenticato di portarmi un paperback da leggere. A cosa stavo pensando quando avevo lasciato l'appartamento? Di solito non dimentico nulla. Si sedette accanto a me. «L'unico inconveniente delle lavagettoni», disse, «è che nelle lavatrici si trova sempre la peluria del pube di altri. Non che la cosa mi secchi particolarmente. Non sono schizzinoso in fatto di germi o altro. È soltanto una cosa piuttosto volgare. Un po' di cioccolato?» Mi guardai attorno per vedere se qualcuno aveva sentito, ma eravamo soli. «No, grazie», dissi. «Neppure a me piace molto, ma sto cercando di smettere di fumare.» Scartò la stecca di cioccolato e lentamente la divorò. Entrambi stavamo con gli occhi fissi sulla lunga teoria di scintillanti macchine bianche, e soprattutto su quei tre sportelli di vetro, simili a oblò o acquari, dove i nostri indumenti ruotavano sempre in tondo, mentre forme e colori diversi apparivano, si mescolavano, scomparivano, comparivano di nuovo da una nebbia di acqua saponata. Finì la sua stecca di cioccolato, si leccò le dita, lisciò e piegò accuratamente l'involucro argentato e se lo mise in tasca, e tirò fuori una sigaretta. «In un certo senso mi piace guardarle», disse. «Guardo le lavatrici della lavagettone come gli altri guardano la televisione, è consolante perché si sa
sempre cosa aspettarsi e non si ha da pensarci. Tranne che posso variare un po' i miei programmi; se mi stanco di vedere la stessa roba posso sempre metterci dentro un paio di calzini verdi o qualcosa di colorato come quello.» Parlava in un tono di voce monotono, seduto ripiegato in avanti, i gomiti sulle ginocchia, la testa rintanata nel collo del pullover scuro come quella di una tartaruga nel guscio. «Vengo qui molto spesso; ci sono delle volte che devo semplicemente uscire da quell'appartamento. Finché ho qualcosa da stirare va tutto bene; mi piace appiattire le cose, togliere le pieghe, mi dà modo di tenere le mani occupate, ma quando esaurisco la scorta di roba da stirare, be', devo venir qui. Per procurarmene dell'altra.» Non mi guardava neppure. Avrebbe potuto parlare fra sé e sé. Anch'io mi protesi in avanti, per poterlo guardare in faccia. Sotto l'illuminazione fluorescente colorata leggermente di blu, una luce che sembra non lasciar posto a toni e ad ombre, la sua pelle era ancora più spettrale. «Devo uscire, è quell'appartamento. D'estate è come un forno scuro, bollente, e quando fa così caldo non si ha neppure voglia di attaccare il ferro. Non c'è comunque spazio sufficiente, ma il caldo lo fa rimpicciolire, gli altri sono troppo vicini. Li sento persino quando io sono nella mia stanza con la porta chiusa; indovino cosa stanno facendo. Fish si barrica in quella poltrona e quasi non si muove anche quando sta scrivendo, e poi strappa tutto e dice che non va e rimane lì seduto per giorni a guardare i pezzi di carta sul pavimento; una volta scese carponi cercò di riappiccicarli con lo scotch, e naturalmente non ci riuscì, e fece una vera scenata e ci accusò tutti e due di cercare di usare le sue idee per pubblicarle per primi e di avergli rubato alcuni dei pezzi. E Trevor, quando non è via ai corsi estivi o riscalda l'appartamento cucinando pranzi da dodici portate, per me andrebbe bene anche salmone in scatola, si esercita nella sua calligrafia italiana del quindicesimo secolo, volute ornamentali e ghirigori, e va avanti sempre così sul quattrocento. Possiede una memoria sorprendente per i particolari. Immagino che sia interessante ma, non so perché, non è la risposta, almeno per me, e credo che non lo sia neppure per lui. Il fatto è che continuano a ripetersi ma non arrivano mai a alcuna conclusione, sembra che non portino a termine mai nulla. Naturalmente io non sono meglio di loro, sono esattamente lo stesso, sono impantanato in quella maledetta composizione trimestrale. Una volta sono andato allo zoo e c'era una gabbia con un armadillo impazzito dentro che girava intorno tracciando una figura a forma di otto, solo intorno seguendo sempre lo stesso tracciato. Ricordo ancora il ridicolo suono metallico che facevano i suoi piedi sul fondo della gabbia. Dicono
che tutti gli animali in gabbia diventano così quando sono in gabbia, è una forma di psicosi, e anche se dopo si liberano vanno avanti così, girano semplicemente in tondo seguendo lo stesso schema. Si legge e si legge il materiale e dopo aver letto il ventesimo articolo non si riesce più a ricavarne alcun senso, e allora si comincia a pensare al numero di libri pubblicati in qualsiasi dato anno, in qualsiasi dato mese, in qualsiasi data settimana, e questo è proprio troppo. Le parole», disse, guardando finalmente verso di me, ma con gli occhi stranamente sfocati, come se stesse in realtà osservando un punto sotto alla mia pelle di diversi pollici, «cominciano a perdere di significato.» Le macchine stavano passando a uno dei cicli di risciacquo, facendo roteare gli indumenti sempre più velocemente; poi arrivò dell'altra acqua corrente e ci furono altri sommovimenti e sciacquii. Accese un'altra sigaretta. «Mi par di capire che siete tutti studenti, allora», dissi. «Naturalmente», disse in tono lugubre, «non si vedeva? Siamo tutti studenti di corsi postuniversitari. Di inglese. Tutti quanti. Pensavo che tutti in città lo fossero; lo siamo in maniera così totale che non vediamo mai nessun altro. È stato davvero strano quando è entrata l'altro giorno e si è scoperto che lei non lo era.» «Io ho sempre pensato che fosse in certo qual modo emozionante.» Non era vero, stavo cercando di essere pronta a simpatizzare, ma, appena chiusa la bocca, mi resi conto del trasporto da scolaretta dell'osservazione. «Emozionante.» Ridacchiò brevemente. «Lo credevo. Sembra emozionante quando si è uno studente universitario brillante e impaziente. Dicono tutti: Fa' gli studi postuniversitari e ti daranno un bel gruzzolo; e così fai e pensi: ora scoprirò proprio la verità. Ma non la scopri e le cose diventano sempre più brigose e sempre più stantie, e tutto crolla in una confusione di virgole e di brandelli di note a piè di pagina, e dopo un po' è come qualsiasi altra cosa: ci sei impantanato e non riesci a uscirne e ti chiedi come ci sei arrivato la prima volta. Se fossimo negli Stati Uniti potrei scusarmi dicendo che schivo la naia, ma, stando così le cose, non esiste nessuna buona ragione. E a parte questo, tutto è stato fatto, è stato già fatto, scoperto, e tu ti rotoli nella feccia in fondo alla botte, uno di quegli studenti postuniversitari del nono anno, poveri diavoli, che raspano in mezzo ai manoscritti alla ricerca di nuovo materiale o che sgobbano sull'edizione definitiva dei biglietti di invito a pranzo di Ruskin o delle matrici dei suoi biglietti di teatro, o che cercano di spremere l'ultima pustola di verità da qualche nullità letteraria fasulla che hanno tirato fuori da qualche parte. Il povero vecchio
Fischer sta scrivendo ora la tesi, voleva farla sui Simboli del Grembo in D.H. Lawrence ma tutti gli hanno detto che è già stato fatto. Così ora si è costruito una qualche incredibile teoria che diventa sempre più incoerente quanto più va avanti.» Si fermò. «Oh, di cosa si tratta?» dissi, per toglierlo da quel mutismo. «In realtà non lo so. Lui non vuole nemmeno più parlarne, tranne quando è sbronzo, e allora nessuno riesce a capirlo. Ecco perché continua a stracciarla: la rilegge e neppure lui riesce a capirci un accidente.» «E lei su che cosa la sta facendo?» Non riuscivo proprio a immaginarmelo. «Non sono ancora arrivato a quel punto. Non so quando ci arriverò, o cosa succederà allora. Cerco di non pensarci. Ora come ora dovrei scrivere una composizione trimestrale scaduta dell'altr'anno. Scrivo una frase al giorno. Nei giorni che va bene, voglio dire.» Le macchine passarono con un clic al ciclo di rotazione per l'asciugatura. Egli le guardò con aria tetra. «Ebbene, allora su che cos'è la sua composizione trimestrale?» Ero incuriosita, conclusi, dai contorni mutevoli del suo volto e da quel che stava dicendo. A ogni modo non volevo che smettesse di parlare. «Lei non vuole davvero saperlo», disse. «La Pornografia dei Preraffaelliti. Sto cercando di fare qualcosa anche su Beardsley.» «Oh.» Entrambi stemmo a riflettere in silenzio sulla possibile natura disperata di questo lavoro. «Forse», suggerii con aria alquanto esitante, «ha scelto la strada sbagliata. Forse potrebbe essere più felice facendo qualcos'altro.» Ridacchiò di nuovo e poi tossì. «Dovrei smettere di fumare», disse. «Che altro posso fare? Una volta arrivato a questo punto, uno non è adatto per nient'altro. Ti succede qualcosa nella testa. Sei superqualificato, superspecializzato, e tutti lo sanno. Nessuno in qualsiasi altra attività sarebbe pazzo ai punto di ingaggiarmi. Non sarei nemmeno un bravo zappatore, comincerei a buttare all'aria il sistema fognario, cercando di picconare e dissotterrare tutti quei simboli ctonii: tubi, valvole, condotti cloacali... No, no. Dovrò fare lo schiavo per tutta la vita nelle miniere di carta.» Non seppi cosa rispondere. Lo guardai e cercai di immaginarmelo a lavorare in un posto come le Indagini Seymour; persino al piano di sopra con i cervelloni; ma inutilmente. Non ci entrava assolutamente. «Viene da fuori?» gli chiesi finalmente. L'argomento degli studi postuniversitari sembrava esaurito. «Naturalmente, tutti veniamo da fuori; nessuno è veramente di qui, no?
Ecco perché abbiamo quell'appartamento, dio sa che non possiamo permettercelo, ma non ci sono alloggi per studenti postuniversitari. A meno che non conti quel nuovo posto pseudoinglese con lo stemma e il muro da monastero. Ma a me non mi ci lascerebbero mai entrare e comunque ci starei così male come ad abitare con Trevor. Trevor è di Montreal, la famiglia è per così dire di Westmount e benestante; ma dopo la guerra hanno dovuto mettersi nel commercio. Possiedono una fabbrica di biscotti di cocco ma l'intesa è che non se ne parli nell'appartamento; però è imbarazzante, questi mucchi di biscotti di cocco continuano a saltare fuori e uno deve mangiarli facendo finta di non sapere da dove vengono. Il cocco non mi piace. Fish era di Vancouver, continua a sentire la nostalgia del mare. Scende in riva al lago e sguazza attraverso l'acqua inquinata e cerca di eccitarsi con i gabbiani e le bucce di pompelmo galleggianti, ma non funziona. Tutti e due avevano il loro accento ma ora ascoltandoli non si indovina niente; dopo che uno è stato per un po' in quel macinacervelli parla come se fosse caduto dal cielo.» «Lei di dov'è?» «Non ne ha mai sentito parlare», disse secco. Le macchine si interruppero con un clic. Prendemmo tutti e due dei carrelli per il bucato e passammo i nostri indumenti nelle asciugatrici. Poi ci sedemmo di nuovo. Ora non c'era niente da guardare; si poteva soltanto porgere orecchio al ronzio e ai tonfi delle asciugatrici. Accese un'altra sigaretta. Un vecchio male in arnese varcò la porta con passo strascicato, ci vide e uscì di nuovo con passo strascicato. Probabilmente cercava un posto dove dormire. «Il guaio è», disse alla fine, «è l'inerzia. Non si ha mai la sensazione di arrivare a un qualche risultato; ci si impantana nelle cose, zuppi. La settimana scorsa ho dato fuoco all'appartamento, in parte a bella posta. Credo che volessi vedere cosa avrebbero fatto. Forse volevo vedere cosa avrei fatto io. Per lo più però mi sono soltanto interessato a vedere qualche fiamma e un po' di fumo, tanto per cambiare. Ma loro l'hanno semplicemente spento e poi si sono messi a correre in tondo, frenetici, come una coppia di armadilli, parlando di quanto io fossi 'ammalato' e perché l'avevo fatto, e forse le mie tensioni interne stavano diventando insopportabili per me e avrei fatto meglio ad andare da uno psichiatra. Non servirebbe a niente. Di quella materia so quasi tutto e non c'è niente che serva a qualcosa. Quei tipi non mi convincono più, so troppe cose sulla materia, ho già fatto
la trafila, sono immune. Dar fuoco all'appartamento non ha cambiato niente, tranne che ora non posso contrarre le narici senza che Trevor non si metta a strillare e a fare salti di un metro e Fischer non vada a sfogliare il suo testo di psicologia di quando era matricola. Pensano che sia matto.» Lasciò cadere il mozzicone della sigaretta sul pavimento e lo schiacciò sotto le scarpe. «Io penso che siano matti loro», aggiunse. «Forse», dissi cauta, «lei dovrebbe lasciare l'appartamento.» Mi rivolse il suo sorriso contorto. «Dove potrei andare? Non potrei permettermelo. Sono incastrato. Inoltre loro per così dire si prendono cura di me, capisce.» Inarcò le spalle ancora di più attorno al collo. Osservai il lato del suo volto sottile, il dorso alto e rigido dello zigomo, l'oscura cavità dell'occhio, meravigliata: tutto questo parlare, questa confessione piuttosto liquida, era qualcosa che pensavo che non sarei mai riuscita a fare. Mi sembrava avventato, come un uovo crudo che decidesse di uscire dal proprio guscio: ci sarebbe stato il rischio di diffondersi troppo, di trasformarsi in una pozza informe. Ma seduto lì con il tappo di una nuova sigaretta che gli turava la bocca sembrava che non avvertisse alcun pericolo di quel genere. Pensandoci dopo, sono sorpresa del mio distacco. L'irrequietezza del pomeriggio era svanita; mi sentivo calma, serena come una luna di pietra, padrona dell'intero spazio bianco della lavagettone. Avrei potuto allungare senza sforzo le braccia e metterle attorno a quel corpo infagottato e goffo, consolarlo, cullarlo dolcemente. Eppure c'era qualcosa di assai poco infantile in lui, qualcosa che suggeriva piuttosto un uomo innaturalmente vecchio, troppo vecchio per poterlo consolare. Pensai anche, ricordando la sua finzione a proposito dell'intervista sulla birra, che fosse senza dubbio capace di inventarsi tutto. Poteva darsi che fosse abbastanza vero; ma poi, di nuovo, poteva essere stato un calcolo per evocare proprio una simile reazione materna, cosicché egli avrebbe potuto sorridere astutamente del gesto e ritirarsi ancora di più al rifugio del suo maglione, rifiutandosi di essere raggiunto o toccato. Doveva esser fornito di una specie di sesto senso fantascientifico, un terzo occhio o un'antenna. Sebbene avesse la faccia rivolta altrove in modo da non poter scorgere la mia, disse con voce secca e sommessa: «Indovino che lei sta ammirando il mio spirito febbrile. So che attira, mi ci esercito; qualsiasi donna ama un invalido. Faccio mettere in luce la Florence Nightingale che è in loro. Ma stia attenta». Ora mi stava guardando, astuta-
mente, di sbieco. «Potrebbe commettere qualcosa di distruttivo: la fame è più fondamentale dell'amore. Florence Nightingale era una cannibale, lo sa.» La mia calma era infranta. Avvertii le zampe di topo dell'apprensione corrermi velocemente sulla pelle. Di cosa ero esattamente accusata? Ero smascherata? Non riuscivo a pensare a nulla da poter dire. Le asciugatrici si fermarono ronzando. Mi alzai. «Grazie per il sapone», dissi con garbo tutto formale. Anche lui si alzò. Parve di nuovo del tutto indifferente alla mia presenza. «Di niente», rispose. Rimanemmo a fianco a fianco senza parlare, tirando fuori gli indumenti dalle asciugatrici e cacciandoli dentro i sacchetti. Ci buttammo sulle spalle il bucato e ci dirigemmo verso la porta assieme; io ero un po' in testa. Mi fermai per un attimo davanti all'uscita, ma lui non fece alcuna mossa per aprirmi la porta e così me l'apersi da sola. Quando fummo fuori della lavagettone ci voltammo, tutti e due contemporaneamente, cosicché quasi ci scontrammo. Rimanemmo uno di fronte all'altra, incerti, per un minuto; cominciammo entrambi a dire qualcosa ed entrambi ci fermammo. Poi, come se qualcuno avesse girato un interruttore, lasciammo cadere i sacchetti sul marciapiede e avanzammo di un passo. Mi trovai che lo baciavo, o che lui baciava me, non lo so bene ancora. La sua bocca sapeva di sigarette. A parte quel sapore, e un'impressione di sottigliezza e di secco, come se il corpo attorno a cui avevo le braccia e la faccia che toccava la mia fossero davvero di carta velina o di pergamena stirata su un telaio di attaccapanni di fil di ferro, non ricordo assolutamente nessuna sensazione. Smettemmo di baciarci tutti e due contemporaneamente e facemmo un passo indietro. Rimanemmo a guardarci per un altro minuto. Poi raccogliemmo i nostri sacchetti, ce li buttammo in spalla, ci voltammo e ci allontanammo in direzioni opposte. L'intero episodio era stato ridicolmente simile alle attrazioni e repulsioni spasmodiche di quei cani di plastica con le calamite in fondo che ricordavo di aver vinto come premio alle feste di compleanno. Del tragitto di ritorno all'appartamento non ricordo niente, tranne che sull'autobus fissai a lungo un cartellone pubblicitario con la figura di un'infermiera con un vestito e una cuffia bianca. Aveva una faccia sana, competente, e reggeva una bottiglia e sorrideva. La scritta diceva: DATE IL
DONO DELLA VITA. 12 Così eccomi qui. Sono seduta sul mio letto, nella mia stanza, con la porta chiusa e la finestra aperta. È la Festa del Lavoro, un bel giorno fresco pieno di sole come ieri. Aveva un che di strano non dovere andare in ufficio questa mattina. Le statali fuori città si staranno coagulando con il traffico anche così presto, la gente starà già cominciando a ritornare dal weekend nelle villette estive, cercando di evitare le ore di punta. Alle cinque tutto sarà rallentato fino a diventare uno stillicidio là fuori e l'aria sarà piena dello scintillio del sole su chilometri di metallo e del rumore lamentoso di motori in folle e dei gemiti di bambini annoiati. Ma qui, come al solito, è tranquillo. Ainsley è in cucina. Oggi non l'ho quasi vista. La sento camminare avanti e indietro dall'altra parte della porta, mentre canticchia ad intervalli. Esito a aprire la porta. I nostri rapporti sono mutati in un qualche modo che non ho ancora valutato, e so che mi sarebbe difficile parlarle. Venerdì sembra sia stato tanto tempo fa, tante sono le cose accadute da allora, ma ora che ho ripensato a tutto capisco che le mie azioni sono state davvero più sensate di quanto pensassi al momento. Si trattava del mio subconscio che passava davanti al mio io cosciente, e il subconscio possiede la propria logica. Il modo in cui ho compiuto le cose può darsi che sia stato un po' incompatibile con la mia vera personalità, ma i risultati sono così incompatibili? La decisione è stata un po' improvvisa, ma ora che ho avuto tempo di pensarci mi rendo conto che è stato un ottimo passo da fare. Naturalmente avevo sempre dato per scontato alle superiori e all'università che alla fine avrei sposato qualcuno e avrei avuto dei bambini, tutti la pensano così. O due o quattro, tre è un brutto numero e i figli unici non li approvo, vengono viziati troppo facilmente. Non ho mai avuto delle idee stupide sul matrimonio, come Ainsley. Lei è contraria al matrimonio per principio, e la vita non è governata da princìpi ma da adattamenti. Come dice Peter, non si può continuare a scorrazzare di qua e di là all'infinito; chi non è sposato, verso la mezza età diventa ridicolo, amareggiato o svanito, o qualcosa del genere, ne ho viste abbastanza in giro per l'ufficio per rendermene conto. Ma sebbene sia sicura di averci sempre pensato nel mio intimo, non mi ero coscientemente aspettata che accadesse così presto o proprio nel modo in cui è accaduto. Naturalmente sono sempre stata attac-
cata a Peter più di quanto volessi ammetterlo. E non c'è nessuna ragione per cui il nostro matrimonio dovrebbe diventare come quello di Clara. Quei due non hanno abbastanza senso pratico, non sanno assolutamente come cavarsela, come mandare avanti un matrimonio ben organizzato. Gran parte di esso è questione di elementari particolari meccanici, quali i mobili e i pasti e tenere le cose in ordine. Ma noi dovremmo riuscire a raggiungere una sistemazione molto ragionevole. Anche se, com'è naturale, abbiamo ancora un sacco di particolari da elaborare. Peter è un partito ideale se si pensa a questo. È attraente e destinato a aver successo, è anche ordinato, il che è una dote delle più importanti quando si deve convivere con qualcuno. Mi immagino l'espressione sulle facce di quelle dell'ufficio quando lo sapranno. Ma non posso ancora dirglielo, dovrò conservare il mio impiego ancora per un po'. Finché Peter non avrà finito il periodo di tirocinio avremo bisogno dei soldi. Probabilmente in principio dovremo vivere in un appartamento, ma in seguito potremo avere una vera casa, un'abitazione stabile; che valga la pena tenere pulita. Frattanto io dovrei fare qualcosa di costruttivo invece di starmene seduta così. Prima dovrei rivedere il questionario della birra e stendere un rapporto su quello che ho scoperto, in modo da poterlo battere a macchina domattina subito e farla finita. Poi forse mi laverò i capelli. E la mia stanza ha bisogno di una pulizia generale. Dovrei guardare nei cassetti e gettar via tutto quello che vi si è accumulato, e nell'armadio ci sono appesi alcuni vestiti che non indosso abbastanza spesso per conservarli. Li darò all'Esercito della Salvezza. C'è anche un sacco di bigiotteria, quella roba che i parenti ti regalano a Natale: spille in similoro a forma di barboni e mazzi di fiori con frammenti di vetro per petali e gemme. C'è una scatola di cartone piena di libri, per lo più libri di testo, e lettere da casa che so che non riguarderò più e un paio di vecchie bambole che ho conservato per motivi sentimentali. La bambola più vecchia ha il corpo di panno imbottito di segatura (lo so perché una volta ho eseguito su di essa un'operazione con un paio di forbici da unghie) e mani, piedi e testa di legno resistente. Le dita delle mani e dei piedi sono state quasi completamente consumate a forza di masticarle; i capelli sono neri e corti, qualche riccio crespo attaccato a un pezzo di reticella che si sta scollando dal cranio. La faccia è quasi erosa ma ha ancora la bocca aperta con dentro la lingua di feltro rosso e due denti di porcellana, il suo fascino principale, a quanto ricordo. È vestita con il lembo di un vecchio lenzuolo.
Ero solita lasciarle davanti del cibo alla sera ed ero sempre delusa quando al mattino non era sparito. L'altra bambola è più nuova e ha dei lunghi capelli lavabili e una pelle gommosa. La chiesi in regalo un Natale perché le si poteva fare il bagno. Nessuna delle due mi piace più; tanto vale che le getti via col resto della cianfrusaglia. Non riesco ancora a trovar posto per l'uomo della lavagettone o a spiegare il mio comportamento. Può darsi che sia stato una specie di errore involontario, un vuoto dell'io, come un'amnesia. Ma è assai poco probabile che mi imbatta di nuovo in lui - non so nemmeno come si chiama - e comunque non ha nulla a che fare con Peter. Dopo aver pulito la mia stanza dovrei scrivere una lettera a casa. Saranno contenti, è una cosa che certamente aspettano. Vorranno che andiamo a trovarli per il weekend il più presto possibile. Neanch'io ho mai visto i genitori di Peter. Fra un minuto uscirò dal letto e camminerò attraverso la pozza di sole sul pavimento. Non posso lasciar passare l'intero pomeriggio nell'ozio, per quanto possa essere rilassante stare seduta in questa stanza tranqviilla a guardare il soffitto vuoto, con la schiena contro il muro freddo, dondolando i piedi oltre il bordo del letto. Sembra quasi di essere su una zattera di gomma, alla deriva, con gli occhi rivolti in alto a un cielo sereno. Devo organizzarmi. Ho un sacco di cose da fare. PARTE SECONDA 13 Marian sedeva svogliata alla sua scrivania. Stava scarabocchiando sul blocchetto dei messaggi telefonici. Tracciò una freccia con molte piume intricate, poi un tratteggio di linee incrociate. Avrebbe dovuto lavorare a un questionario, qualcosa su delle lame da barba d'acciaio inossidabile; era arrivata fino alla domanda che ingiungeva all'intervistatrice di chiedere alla vittima la lama usata che al momento si trovava nel suo rasoio e di offrirgliene in cambio una nuova. Questa l'aveva bloccata. Ora stava pensando che doveva trattarsi di una trama complicata: il presidente della fabbrica di lame aveva avuto una lama miracolosa che era stata possesso della sua famiglia per generazioni e che non solo si riaffilava ogni volta che veniva usata, ma inoltre concedeva a chi si sbarbava qualsiasi cosa desiderasse ogni tredici rasature... il presidente però non aveva custodito il proprio te-
soro con sufficiente cura. Un giorno si era dimenticato di riporla nella scatolina rivestita di velluto e l'aveva lasciata in giro per il bagno, e una delle domestiche, cercando di rendersi utile, aveva... (a questo punto la storia era confusa, ma assai complicata. La lama in qualche modo era riuscita a arrivare in un negozio, in un negozio di rigattiere, dove era stata acquistata da un cliente ignaro e...) Il presidente quello stesso giorno aveva avuto bisogno urgente di soldi. Si era sbarbato freneticamente ogni tre ore per arrivare alla tredicesima volta, fino a scorticarsi la faccia; quali furono la sua sorpresa e la costernazione quando... Così aveva scoperto cos'era accaduto, aveva ordinato che la domestica colpevole fosse gettata in un pozzo zeppo di lame usate e aveva fatto setacciare la città da un esercito di poliziotte private di mezza età che si facevano passare per intervistatrici delle Indagini Seymour, i loro occhi d'aquila addestrati a scoprire chiunque, maschio o femmina, con la minima traccia di barba, le quali gridavano «Lame Nuove in Cambio di Vecchie», nel tentativo disperato di recuperare l'impagabile perduta... Marian sospirò, disegnò un piccolo ragno in un angolo dell'intrico di linee, e si volse alla macchina per scrivere. Trascrisse intatto il brano dal questionario così com'era: «Vorremmo esaminare le condizioni della sua lama. Vorrebbe darmi la lama che ora si trova nel suo rasoio? Eccone una nuova in cambio», aggiungendo un «per favore» davanti a «darmi». Non si poteva riformulare la domanda in alcun modo che la facesse sembrare meno eccentrica, ma almeno la si poteva rendere più educata. Attorno a lei l'ufficio era in subbuglio. Era sempre o in subbuglio o mortalmente calmo e tutto sommato preferiva i subbugli. Poteva cavarsela lavorando di meno, tutti gli altri erano in un tale stato, correvano di qua e di là e strillavano, che non avevano il tempo di bighellonare e sbirciarle da dietro le spalle e chiedersi incuriositi che cosa la impegnasse per tanto tempo o comunque cosa stesse facendo. Era solita sentirsi partecipe di quei subbugli; un paio di volte si era persino lasciata trascinare da quella frenesia per simpatia, ed era rimasta sorpresa dello spasso che era; ma da quando si era fidanzata e aveva saputo che non sarebbe rimasta lì per sempre (ne avevano parlato, Peter aveva detto che naturalmente lei poteva continuare a lavorare dopo il matrimonio, se voleva, almeno per un po', sebbene non ce ne fosse la necessità dal punto di vista finanziario... considerava disonesto sposarsi, disse, se non ci si poteva permettere di mantenere la propria moglie, ma lei aveva deciso altrimenti), era riuscita a appoggiarsi alla spalliera della sedia e osservarle tutte con distacco. In effetti, si rese conto
di non riuscire a prendervi parte anche quando voleva. Negli ultimi tempi avevano preso a complimentarsi con lei per la sua calma nei momenti di emergenza. «Be', sia lodata Marian», dicevano, mentre si consolavano con tazze di tè e si picchiettavano sulla fronte esausta dei pezzi di kleenex, respirando affannosamente. «Lei non perde mai la bussola. Vero, cara?» Al momento stavano correndo in tondo, pensò, come un esercito di armadilli allo zoo. Gli armadilli le fecero ricordare per breve tempo l'uomo della lavagettone, che non si era più fatto vivo, sebbene lei da allora fosse andata varie volte alla lavagettone e si fosse sempre un po' aspettata di vederlo là. Ma la cosa non doveva stupire, era ovviamente un tipo emotivamente instabile; probabilmente era svanito in una qualche fogna molto tempo prima... Osservò Emmy mentre scattava verso il casellario e rovistava febbrilmente fra lo schedario. Questa volta si trattava dell'inchiesta nazionale sugli assorbenti igienici: un qualche errore imbarazzante era avvenuto negli Stati dell'Ovest. Avrebbe dovuto essere quella che chiamavano un'inchiesta a «tre ondate»: la prima ondata doveva fluire attraverso la posta, individuando e riportando sulla scia del riflusso una schiera di candidate adatte e disposte alle interviste, e la seconda e la terza ondata dovevano seguire con interviste più approfondite, compiute di persona. E, Marian sperava, a porte chiuse. L'intera faccenda, e soprattutto alcune delle domande, avevano piuttosto urtato il suo senso delle convenienze, sebbene Lucy avesse fatto notare durante un intervallo, che era estremamente appropriata oggigiorno, dopo tutto si trattava di un prodotto rispettabile, lo si poteva comprare al supermercato e in alcune delle migliori riviste veniva reclamizzato su pagine intere, e non era forse bello farlo uscire all'aperto e non essere così «vittoriani» e repressi parlando di esso? Millie aveva detto che naturalmente quello era il parere illuminato ma che queste inchieste erano sempre una sofferenza, che non soltanto si avevano dei guai con la gente alla porta ma che comunque non si riusciva a indurre le intervistatrici a farle, molte di loro erano del tutto all'antica, soprattutto quelle delle piccole città, alcune di esse davano persino le dimissioni se si chiedeva loro di farlo (quello era il peggior guaio di servirsi delle casalinghe, non avevano veramente bisogno dei soldi, erano sempre annoiate o stufe del lavoro o incinte e si dimettevano e allora bisognava trovarne delle nuove e addestrarle partendo da zero), la cosa migliore era di inviare loro una circolare dicendo che dovevano tutte adoprarsi al massimo per migliorare il destino delle Donne: un tentativo di fare appello, rifletté Marian, a quell'embrionale in-
fermiera generosa che si suppone nascosta, efficiente e altruista, nel cuore di ogni vera donna. Questa volta era accaduto qualcosa di peggio. All'Ovest, chiunque fosse stata incaricata di scegliere dalle guide telefoniche locali i nomi delle donne che dovevano venir colpite dalla prima ondata (chi era stata incaricata laggiù? Mrs Lietch di Foam River? Mrs Hatcher di Watrous? Nessuno se ne ricordava e Emmy disse che pareva che avessero messo la scheda in un posto sbagliato) non era stata eccessivamente meticolosa. Invece dell'atteso diluvio di risposte, la posta aveva portato un semplice rivolo di questionari riempiti. Millie e Lucy ora li stavano esaminando alla scrivania di fronte a quella di Marian, cercando di scoprire cosa non aveva funzionato. «Be', alcuni ovviamente sono andati a degli uomini», disse Millie sbuffando. «Eccone uno con 'ah, ah' scritto sopra, da parte di un Mr Leslie Andrewes.» «Quel che non capisco sono quelli rispediti da donne con un NO segnato in tutte le caselle. Di cosa diavolo si servono, allora?» disse Lucy stizzosa. «Be', questa ha più di ottant'anni.» «Eccone una che dice di essere continuamente incinta da sette anni.» «Oh no, poveretta», disse boccheggiando Emmy, che stava ascoltando. «Ma si rovinerà la salute.» «Scommetto che quell'oca di Mrs Lietch - o di Mrs Hatcher, quale che sia - li ha mandati di nuovo alle riserve indiane. Le avevo specificamente detto di no. Dio sa cosa usano loro», disse con ripugnanza Lucy. «Muschio», disse Millie decisa. Questa non era la prima volta che qualcosa non aveva funzionato all'Ovest. Contò di nuovo la pila dei questionari. «Dovremo ricominciare daccapo e il cliente sarà furibondo. Tutte le nostre quote sono gettate al vento e tremo a pensare a cosa succederà alle nostre date di scadenza.» Marian guardò l'orologio. Era quasi ora di colazione. Disegnò una fila di lune attraverso la pagina: falci di luna, lune piene, poi falci di luna voltate dall'altra parte, e poi niente: una luna nera. Per misura precauzionale disegnò una stella dentro una delle falci di luna. Regolò l'orologio, quello che Peter le aveva regalato per il suo compleanno, sebbene fosse soltanto in anticipo di due minuti sull'orologio dell'ufficio e lo caricò. Batté a macchina un'altra domanda. Si rendeva conto di aver fame e si chiese se la fame fosse stata prodotta dalla conoscenza che aveva dell'ora. Si alzò dalla sedia, la fece ruotare un paio di volte per alzarla, si sedette di nuovo e batté un'altra domanda; era stanca, stanca, stanca di fare la manipolatrice di pa-
role. Alla fine, incapace di rimanere ancora per un attimo seduta alla scrivania davanti alla macchina per scrivere, disse: «Ora andiamo a fare colazione». «Be'...» Millie esitò e guardò l'orologio. Aveva ancora una mezza illusione di poter fare qualcosa per mettere ordine in quel caos. «Sì, andiamo», disse Lucy, «questa storia mi sta facendo impazzire, devo proprio uscire di qui.» Si diresse verso l'attaccapanni e Emmy la seguì. Quando Millie vide le altre indossare i cappotti lasciò perdere con riluttanza i questionari. Per strada il vento era freddo. Si rialzarono i baveri, tenendo il davanti dei cappotti uniti vicino al collo con le mani inguantate, sfilando a due per volta fra le altre che si affrettavano a andare a fare colazione; i loro tacchi scattavano e sfregavano sul marciapiede spoglio: non era ancora nevicato. Dovevano camminare più del solito. Lucy aveva proposto di andare a un ristorante più costoso di quelli che frequentavano normalmente, e nello stato di accresciuto metabolismo creato dal subbuglio degli assorbenti igienici avevano assentito. «OOoo», gemette Emmy mentre si piegavano contro il vento aspro. «Con questo tempo secco non so proprio cosa farò. La pelle mi si sta seccando tutta e mi si squama.» Quando pioveva aveva terribili dolori ai piedi e quando c'era il sole aveva gli occhi tesi, l'emicrania, le lentiggini e dei giramenti di capo. Quando il tempo era indifferente, grigio e tiepido, le venivano dei rossori e la tosse. «La crema emolliente è la cosa migliore», disse Millie. «Mia nonna aveva la pelle secca e usava quella.» «Ma ho sentito dire che dà i brufoli», disse Emmy con aria dubbiosa. Il ristorante era uno di quelli con delle pretese all'inglese tipo vecchio continente e aveva delle poltrone di pelle imbottite e delle travi in stile Tudor. Dopo aver atteso un po' vennero condotte a un tavolo da una capocameriera in seta nera; si sistemarono e si tolsero i cappotti. Marian notò che Lucy indossava un nuovo vestito, un maestoso jersey laminato color malva scuro con una casta spilla d'argento al collo. Così, ecco perché oggi voleva venir qui, pensò Marian. Gli occhi dalle lunghe sopracciglia di Lucy scivolavano sugli altri commensali: per lo più impassibili uomini d'affari che trangugiavano il loro cibo e tracannavano qualche bicchiere per farla finita con l'interruzione del pranzo al più presto e il più torpidamente possibile in modo da poter ritornare in ufficio a fare un po' di soldi e staccare il più presto possibile e far
ritorno nel traffico dell'ora di punta alle loro case, alle mogli e alla cena e farla finita anche con queste il più presto possibile. Lucy aveva un ombretto color malva che si accompagnava al vestito, e del rossetto con una punta di malva pallido. Era, come sempre, elegante. Negli ultimi due mesi si era concessa sempre più spesso dei pranzi costosi (sebbene Marian si chiedesse come potesse permetterselo), trascinandosi come un'esca piumata con perline di vetro e tre cucchiaini e diciassette ami per i posti dall'aspetto promettente, ristoranti e bar di lusso con le loro aiole lussureggianti di vasi di filodendri, dove ci si poteva aspettare che il genere di uomini adatti fossero in agguato, rapaci come lucci, sebbene con maggiori propensioni matrimoniali. Ma quegli uomini, il genere adatto, non abboccavano, o erano partiti per altre profondità, o si attaccavano a un genere di esca diverso: qualche pesciolino poco appariscente di plastica marrone o un cucchiaino opaco di semplice bronzo, o qualcosa con ancora più penne e ami di quanti Lucy potesse esibirne. E in questo ristorante, e in altri simili, invano Lucy metteva in bella mostra i suoi stupendi vestiti e gli occhi dolcissimi davanti alle miriadi di tozzi lebisti che non avevano tempo per il color malva. Arrivò la cameriera. Millie ordinò un pasticcio di manzo e rognone, una bella colazione sostanziosa. Emmy scelse un'insalata col formaggio che si accompagnasse con i suoi tre tipi di pillole, quella rosa, quella bianca e quella arancione, allineate sul tavolo accanto al bicchier d'acqua. Lucy si agitò e si irritò e cambiò scelta diverse volte e finalmente si decise per una frittata. Marian rimase sorpresa di sé. Prima quasi veniva meno per la voglia di far colazione, stava morendo di fame, e ora non aveva neppure appetito. Prese un sandwich col formaggio. «Come sta Peter?» chiese Lucy dopo aver cincischiato con la frittata e essersi lamentata che fosse coriacea. Nutriva un interesse per Peter. Lui aveva preso l'abitudine di telefonare a Marian in ufficio per informarla di quel che aveva fatto durante il giorno e di cosa avrebbe fatto quella sera, e quando Marian non c'era lasciava dei messaggi a Lucy che aveva lo stesso telefono di Marian. Lucy lo considerava molto educato, e trovava la sua voce interessante. Marian stava osservando Millie mentre questa faceva sparire il suo pasticcio di manzo e rognone, metodicamente, come se riponesse delle cose in un baule. «Là», disse, o avrebbe dovuto dire, quando ebbe finito: «Tutto riposto ordinatamente via». E la bocca le si chiuse come un coperchio. «Bene», disse Marian. Lei e Peter avevano deciso che non ne avrebbe doyuto ancora parlare in ufficio. Perciò aveva resistito, giorno dopo gior-
no, ma ora la domanda le attizzò il desiderio di dare l'annuncio alla sprovvista, e non riuscì a trattenersi. Sarebbe bene che sapessero che al mondo si può ancora sperare, ragionò. «Ho qualcosa da annunciare a tutte», disse, «ma per ora non deve andare al di là di voi.» Attese finché le tre paia d'occhi ebbero trasferito la loro attenzione dai piatti a lei, poi disse: «Siamo fidanzati». Rivolse loro un sorriso smagliante, osservando che l'espressione dei loro occhi passava dall'attesa allo sgomento. Lucy lasciò cadere la forchetta e boccheggiò: «No!» aggiungendo «che meraviglia!» Millie disse: «Oh. Benissimo». Emmy si affrettò a prendere un'altra pillola. Poi vennero delle domande concitate, a cui Marian rispose con calma, dispensando le informazioni come canditi a dei bambini: una alla volta e non troppo esaurienti; le avrebbero potute fa'r star male. L'esultanza trionfante che aveva supposto sarebbe seguita all'annuncio, almeno per lei, fu soltanto passeggera. Appena l'effetto sorpresa fu passato, la conversazione divenne remota e impersonale, per entrambe le parti, come i questionari sulle lame da barba: domande sul matrimonio, il futuro appartamento, i possibili oggetti di porcellana e di vetro, cosa avrebbe comperato e indossato. Lucy infine chiese: «Avevo sempre pensato che fosse il tipo di scapolo impenitente, quello che avevi detto tu. Come diavolo sei riuscita a accalappiarlo?» Marian distolse lo sguardo dai volti, improvvisamente patetici e esageratamente bramosi, sospesi per cogliere la sua risposta, e lo posò sulle posate nei piatti. «Per essere sincera, non lo so», disse, cercando di esprimere una confacente modestia da sposina. Non lo sapeva davvero. Ora le dispiaceva di avere parlato, di aver fatto loro balenare la vista dell'effetto così, senza essere in grado di rivelare loro una causa riproducibile. Peter telefonò quasi appena furono rientrate in ufficio. Lucy porse il telefono a Marian sussurrando: «È lui!» un po' intimorita dalla presenza di un vero futuro sposo all'altro capo del filo. Marian avvertì nell'aria il tendersi di tre paia di muscoli auricolari, il roteare di tre teste bionde, mentre parlava al telefono. La voce di Peter era chiara: «Ciao cara, come stai? Ascolta, questa sera proprio non posso. È sopraggiunta improvvisamente una causa, qualcosa di grosso, e devo lavorarci un po' sopra». Parlava come se stesse accusandola di interferire col suo lavoro, e questo la offese. Non si era nemmeno aspettata di vederlo così, a metà settimana,
finché non le aveva telefonato il giorno prima e le aveva chiesto di cenare assieme; da allora aveva aspettato quella serata con impazienza. Disse piuttosto aspra: «Non fa niente, caro. Ma sarebbe bene se potessimo aggiustare queste cose prima dell'ultimo minuto». «Te l'ho detto che è successo improvvisamente», disse lui irritato. «Be', non c'è bisogno che mi mangi la faccia.» «Non l'ho fatto», disse lui, esasperato. «Sai che preferirei molto di più stare con te, naturalmente, ma devi capire...» Il resto della conversazione fu un misto di espressioni di ritrattazione e di rappacificazione. Bene, dobbiamo imparare a venire a un compromesso, pensò Marian, e tanto vale metterci al lavoro ora. Concluse: «Domani allora?» «Senti cara», disse lui, «proprio non lo so. Tutto dipende, sai come sono queste cose, te lo farò sapere, d'accordo?» Quando Marian lo ebbe salutato con dolcezza, per amore delle sue ascoltatrici, ed ebbe posato il ricevitore si sentì esausta. Doveva stare attenta a come parlava con Peter, avrebbe dovuto fare maggiore attenzione a come lo trattava, evidentemente all'ufficio era sottoposto a uno sforzo non indifferente... «Non starò diventando anemica?» si disse voltandosi di nuovo verso la macchina per scrivere. Dopo aver finito il questionario delle lame da barba, ed aver cominciato a lavorare a un questionario diverso, le istruzioni per il test di un nuovo cibo disidratato per cani, il telefono squillò di nuovo. Era Joe Bates. Quella telefonata se l'era mezza aspettata. Salutò Joe con finto entusiasmo: sapeva di essersi sottratta alle sue responsabilità negli ultimi tempi, evitando gli inviti a cena dei Bates anche se Giara aveva nutrito il desiderio di vederla. La gravidanza si era protratta prima per una settimana, poi per due settimane più a lungo di quanto avrebbe dovuto e al telefono era sembrato come se Clara stessa fosse trascinata lentamente giù, in quell'escrescenza simile a una zucca gigantesca che le avvolgeva il corpo. «Non riesco quasi più a reggermi», aveva detto gemendo. Ma Marian non era riuscita a affrontare la prospettiva di un'altra sera in contemplazione del ventre di Clara, speculando con lei sul misterioso comportamento del suo contenuto. L'ultima volta aveva risposto soltanto con osservazioni allegre ma segnatamente poco rallegranti intese a sollevare l'atmosfera, quali «Forse ha tre teste» e «Forse non è per niente un bambino, ma un'escrescenza parassitaria, come le galle degli alberi, o l'elefantiasi dell'ombelico, o un grosso callo...» Dopo quella sera si era spiegata che avrebbe fatto più male a Clara andando a trovarla che standole lontana. In uno scatto di sollecitudine pro-
vocata dal senso di colpa, però, aveva fatto promettere a Joe, nell'andarsene, di informarla appena accadesse qualcosa, offrendosi persino eroicamente di fare la babysitter per gli altri bambini se fosse stato assolutamente necessario; e ora la sua voce diceva: «Be', grazie a dio è finita. È un'altra femmina, dieci libbre e sette once, e lei è andata in ospedale solo alle due di ieri notte. Avevamo paura che partorisse in tassi». «Bene, è meraviglioso», esclamò Marian, ed aggiunse varie domande e congratulazioni. Si fece dare da Joe l'orario delle visite e il numero della stanza e li annotò sul blocchetto dei messaggi telefonici. «Dille che andrò a trovarla domani», fece. Pensava che ora che Clara si stava sgonfiando per riassumere le sue dimensioni normali sarebbe stata in grado di parlarle con maggiore libertà: non le sarebbe più parso di rivolgersi a una massa rigonfia di carne con una minuscola capocchia, una forma che le aveva fatto pensare a una formica regina, resa protuberante dal fardello di un'intera società, una semipersona... o talvolta, pensava, diverse persone, un ammasso di personalità celate, che essa non conosceva assolutamente. Decise d'impulso di comprarle delle rose: un dono per dare il bentornato alla vera Clara, ancora una volta in insoddisfatto possesso del proprio fragile corpo. Posò il ricevitore nella sua culla nera e si appoggiò alla spalliera della sedia. La lancetta dei secondi dell'orologio ruotava, accompagnata dal ticchettio delle macchine per scrivere e dal clic-clac delle scarpe a tacco alto sul pavimento duro. Avvertiva il tempo mulinare e ripiegarlesi quasi visibilmente attorno ai piedi, sollevarsi attorno a lei, innalzare il suo corpo sulla poltrona dell'ufficio e trasportarla, lentamente e tortuosamente ma con l'inevitabilità dell'acqua che scende a valle, verso il giorno lontano, non più tanto lontano, su cui si erano accordati - verso la fine di marzo? - che avrebbe posto termine a questa fase e ne avrebbe iniziata un'altra. Da qualche altra parte si facevano gradualmente dei preparativi; i parenti stavano cominciando a organizzare le loro forze e le loro energie, di tutto si prendevano cura, non c'era niente che dovesse fare lei. Stava fluttuando, lasciava che la corrente la sostenesse, fiduciosa che l'avrebbe portata dove stava andando. Ora c'era questa giornata da far trascorrere: una pietra miliare da essere sorpassata lungo la riva, un albero, non molto diverso da qualsiasi altro, che si poteva distinguere dal resto soltanto per il fatto di essere qui piuttosto che più indietro o più avanti, con nessun altro scopo che quello di misurare la distanza coperta. Voleva lasciarselo dietro. Per dare una spinta alla lancetta dei minuti che avanzava finì di battere a macchina il resto del questionario sul cibo per i cani. Verso la fine del pomeriggio Mrs Bogue
fece due passi fuori del suo stanzino. Le rughe della sua fronte tese verso l'alto esprimevano costernazione, ma i suoi occhi erano orizzontali come sempre. «Dio mio», disse all'ufficio in generale - faceva parte della sua politica di relazioni pubbliche metterle al corrente di crisi minori della direzione «che giornata. Non solo quello scompiglio all'Ovest, ma c'è stata di nuovo qualche noia con quell'orribile Uomo delle Sottovesti.» «No, quello sporcaccione!» esclamò Lucy, arricciando disgustata il naso incipriato color opale. «Sì», disse Mrs Bogue, «è una cosa così sconvolgente.» Si torse le mani in un accesso di disperazione femminile. Evidentemente non era per nulla sconvolta. «Sembra che abbia spostato il suo campo di operazioni nei sobborghi, a Etobicoke per essere esatti. Ci sono state due signore di Etobicoke che hanno telefonato oggi pomeriggio per lamentarsi. Naturalmente, magari si tratta di qualche uomo comune, gentile, perfettamente innocuo, ma è così brutto per il buon nome dell'azienda.» «Cosa fa?» chiese Marian. Non aveva mai sentito parlare in precedenza dell'Uomo delle Sottovesti. «Oh», fece Lucy, «è uno di quei sudicioni che telefonano alle donne e dicono loro delle porcherie. Lo faceva anche l'anno scorso.» «Il guaio è», si lagnò Mrs Bogue, torcendosi ancora le mani di fronte a lei, «che dice loro di appartenere alla nostra azienda. Evidentemente ha una voce molto convincente. Un tono assai ufficiale. Dice di stare facendo un'inchiesta sulle sottovesti e immagino che le prime domande debbano sembrare sincere. Marche, e tipi e misure e cose del genere. Poi comincia a rivolgere delle domande sempre più intime finché le donne si irritano e riattaccano. Naturalmente dopo telefonano all'azienda per protestare, e delle volte ci hanno accusato di ogni genere di cose indecenti prima che io potessi spiegare che non è uno dei nostri intervistatori e che la nostra azienda non rivolgerebbe mai delle domande simili. Mi auguro che lo prendano e gli impongano di smettere, è una tale seccatura, ma naturalmente è quasi impossibile rintracciarlo.» «Chissà perché lo fa?» meditò Marian. «Oh, probabilmente è uno di quei fanatici del sesso», disse Lucy con un garbato brivido malva. Mrs Bogue aggrottò le sopracciglia di nuovo e scosse la testa. «Ma tutte dicono che ha una voce così gentile. Così normale e persino intelligente. Assolutamente diversa da quella di quegli uomini terrificanti che ti telefo-
nano e ti parlano col fiato grosso.» «Può darsi che tutto questo sia la dimostrazione che alcuni fanatici del sesso sono persone normali assai gentili», Marian disse a Lucy quando Mrs Bogue fu rientrata nel suo stanzino. Mentre indossava il cappotto e scivolava fuori dell'ufficio e percorreva l'atrio e si lasciava trasportare giù nella camera di decompressione dell'ascensore, stava ancora pensando all'Uomo delle Sottovesti. Si figurò la sua faccia intelligente, i suoi modi educati e riguardosi, qualcosa di simile a quelli di un agente dell'assicurazione; o di un impresario di pompe funebri. Si chiese che genere di domande intime ponesse, e cosa avrebbe detto se avesse mai telefonato a lei. (Oh, lei deve essere l'Uomo delle Sottovesti. Ho tanto sentito parlare di lei... Penso che dobbiamo avere degli amici in comune.) Lo vedeva con indosso un vestito da uomo d'affari e una cravatta piuttosto tradizionale, righe diagonali ocra e marrone; scarpe ben lucidate. Forse la sua mente, per altri versi normale, era stata stravolta fino alla frenesia dai cartelli pubblicitari delle guaine sugli autobus: era una vittima della società. La società sfoggiava davanti ai suoi occhi queste snelle, sorridenti donne ingommate, stimolandolo, praticamente imponendogli le loro flessuose delizie, e poi si rifiutava di offrirgliene una. Si era accorto, quando aveva cercato di comprare l'indumento in questione ai banchi dei negozi, che veniva fornito vuoto del contenuto promesso. Ma, invece di infuriarsi e di smaniare senza ottenere nulla, aveva sopportato la delusione con calma e da persona matura, e aveva deciso, da quella persona sensata che era, di mettersi sistematicamente alla ricerca dell'immagine rivestita dalla sottoveste che egli desiderava con tanto ardore, servendosi per il proprio scopo della comoda rete telefonica fornitagli dalla società. Uno scambio equo: era una cosa che gli era dovuta. Giunta in strada fu presa da un nuovo pensiero. Forse era davvero Peter. Scivolava fuori del suo ufficio legale e si infilava nella più vicina cabina telefonica per fare il numero delle massaie di Etobicoke. Era la sua protesta contro un qualcosa - le inchieste? le massaie di Etobicoke? la vulcanizzazione? - oppure il suo unico modo di ribattere a un mondo crudele che gli appioppava schiaccianti oneri legali e gli impediva di portarla a cena. E, naturalmente, aveva appreso il nome dell'azienda e la prassi delle interviste ufficiali da lei! Forse questo era il suo vero io, il nucleo della sua personalità, il Peter principale che negli ultimi tempi era stato sempre più oggetto dei pensieri di lei. Forse questo era ciò che stava nascosto sotto la facciata, sotto le altre facciate, quell'identità segreta che a dispetto delle
sue molte congetture e tentativi e successi a metà era consapevole di non avere ancora scoperto: era davvero l'Uomo delle Sottovesti. 14 La prima cosa su cui gli occhi di Marian si posarono, mentre la sua testa emergeva come un periscopio dal pozzo della scala, fu un paio di gambe nude. In cima a esse c'era Ainsley, la quale si trovava semivestita nel piccolo vestibolo, lo sguardo fisso su di lei, la solita aria assente del suo volto mista qua e là in maniera impercettibile a una punta di sorpresa e di irritazione. «Salve», disse. «Pensavo che questa sera andassi a cena fuori.» Appuntò lo sguardo accusatore sulla piccola sporta di generi alimentari che Marian stava portando. Le gambe di Marian spinsero il resto del corpo su per i restanti gradini prima che venisse la risposta. «Dovevo, ma non vado, è sopraggiunto qualcosa di inaspettato. All'ufficio di Peter.» Andò in cucina e posò sul tavolo la sporta di carta. Ainsley la seguì e si sedette su una sedia. «Marian», disse con aria drammatica, «deve essere questa sera!» «Cosa?» chiese Marian in tono assente, mentre riponeva il cartone del latte nel frigorifero. Non stava veramente ascoltando. «Quella. Leonard. Lo sai.» Marian era stata talmente presa dai propri pensieri che ci volle un momento prima che ricordasse di che cosa stava parlando Ainsley. «Oh. Quella», disse. Si tolse il cappotto pensosa. Durante gli ultimi due mesi non aveva prestato molta attenzione ai progressi della campagna di Ainsley (o di Leonard?) - aveva voluto lavarsi le mani dell'intera faccenda - ma era stata costretta ad ascoltare i resoconti, le analisi e le lamentele di Ainsley quanto bastava per essere in grado di dedurre cosa era accaduto; dopo tutto, per quanto uno volesse lavarsene le mani, le orecchie erano necessariamente aperte. Le cose non erano andate secondo i programmi. Sembrava che Ainsley avesse esagerato. Al primo incontro aveva dato di sé un'immagine di una purezza talmente immacolata che Len aveva concluso, dopo il rifiuto strategico di lei quella sera, che essa richiedeva un assedio prolungato e attento. Qualsiasi cosa troppo improvvisa, troppo materiale, l'avrebbe fatta fuggire impaurita; avrebbe dovuto essere presa in trappola con garbo e cautela. Di conseguenza aveva cominciato col chiederle di pranzare assieme varie volte, e era avanzato, a
intervalli di tempo di lunghezza media, fino a arrivare a portarla a cena fuori e infine a portarla a vedere dei film stranieri, durante uno dei quali si era avventurato fino a prenderle la mano. L'aveva persino invitata al suo appartamento una volta, per il tè del pomeriggio. Ainsley disse poi, con varie imprecazioni violente, che in questa occasione era stato un modello di gentiluomo. Dato che, per sua stessa ammissione, lei non beveva, non poteva neppure fingere di lasciarsi ubriacare da lui. Conversando la trattava come se fosse una ragazzina, spiegandole con pazienza le cose, impressionandola con delle storie sulla televisione e assicurandola che l'interesse che egli nutriva per lei era in senso stretto quello di un amico più anziano che le voleva bene, fino al punto che lei avrebbe voluto urlare. E non poteva neppure rispondergli: era necessario che la sua mente apparisse vuota come la sua faccia. Aveva le mani legate. Si era costruita la propria immagine e ora doveva conservarla. Fare delle avances lei stessa, o lasciarsi sfuggire un barlume di qualcosa di simile all'intelligenza, sarebbe stato così poco appropriato da svelare irreparabilmente la sua pantomima. Così aveva sofferto e se l'era presa in segreto, sopportando le manovre esageratamente ingegnose di Len con impazienza soffocata e osservando gli importantissimi giorni del calendario trascorrere senza un nulla di fatto. «Se non è questa sera», disse Ainsley, «non so cosa farò. Non lo sopporto molto più a lungo... dovrò trovarmene un altro. Ma ho sciupato tanto tempo.» Corrugò la fronte quel tanto che poté con i suoi embrioni di sopracciglia. «E dove...?» chiese Marian, cominciando a capire perché Ainsley si era irritata al suo ritorno inaspettato. «Be', ovviamente non mi chiederà di andare da lui a vedere i suoi obiettivi fotografici», disse Ainsley in tono petulante. «E comunque se dicessi di sì diventerebbe terribilmente sospettoso. Però andiamo a cena fuori, e pensavo che forse se lo invitavo qui a prendere il caffè dopo...» «Così preferiresti che io uscissi», disse Marian, con la voce carica di disapprovazione. «Be', sarebbe un aiuto grandissimo. Di solito, non me ne importerebbe un accidente se nella stanza accanto ci fosse accampato un intero reggimento, o anche sotto il letto, per quello che me ne importa, e scommetto che non importerebbe nemmeno a lui, ma capisci, lui penserà che io dovrei tenerci. Devo lasciarmi spingere lentamente nella stanza da letto. Un centimetro alla volta.» «Sì, capisco», sospirò Marian. Biasimare, a questo punto, non era affar
suo. «Mi sto chiedendo soltanto dove posso andare.» La faccia di Ainsley si rischiarò. L'obiettivo principale l'aveva raggiunto; gli altri particolari erano cose secondarie. «Be', non pensi che potresti telefonare a Peter e dirgli che vai da lui? Non gli dovrebbe importare, è il tuo fidanzato.» Marian rifletté. In precedenza, in qualche periodo che al momento non riusciva a ricordare chiaramente, l'avrebbe fatto; non avrebbe avuto importanza se si fosse irritato. Ma di questi giorni, e soprattutto dopo la loro conversazione pomeridiana, non sarebbe stata una buona idea. Per quanto discreta si fosse resa mettendosi nel salotto con un libro, egli l'avrebbe mutamente accusata di essere troppo possessiva, oppure di essere gelosa e di interferire col suo lavoro. Anche se gli avesse spiegato la vera situazione. E questo non voleva farlo: sebbene Peter non avesse visto Len quasi per niente dopo quella prima serata, avendo sostituito l'immagine dello scapolo libero con quella del fidanzato maturo, e adattato a questa nuova condizione reazioni e conoscenze, gli sarebbe ancora restata una specie di lealtà di clan che poteva provocare dei guai, se non a Ainsley, almeno a lei stessa. Gli avrebbe fornito munizioni. «Non credo che farei bene», disse. «Sta lavorando molto sodo.» Non c'era davvero nessun posto dove potesse andare. Da Clara era escluso. Si stava facendo troppo freddo per sedere nei parchi o per fare una lunga passeggiata. Avrebbe potuto chiamare una delle vergini dell'ufficio... «Andrò al cinema», disse alla fine. Ainsley sorrise di sollievo. «Fantastico», disse, e andò nella sua stanza da letto per finire di vestirsi. Qualche minuto dopo cacciò fuori la testa per chiedere: «Posso servirmi della bottiglia di whisky se ne ho bisogno? Dirò che è tuo, ma questo non ti seccherà». «Certo, fa' pure», disse Marian. Il whisky era di proprietà comune. Ainsley, lo sapeva, l'avrebbe ripagata con la prossima bottiglia. Anche ammettendo che se ne fosse dimenticata, una mezza bottiglia di whisky sarebbe stato un sacrificio abbastanza modesto per farla finita una volta per tutte con quella faccenda. Questi ritardi e incertezze esasperanti in vece altrui erano durati troppo. Rimase in cucina, appoggiata contro la mensola, a guardare con pensoso interesse nell'acquaio che conteneva quattro bicchieri parzialmente colmi di un'acqua opaca, un pezzo di guscio d'uovo e un tegame che era stato usato recentemente per cucinare dei maccheroni col formaggio. Decise di non lavare i piatti, ma come gesto simbolico di pulizia raccolse il guscio d'uovo e lo mise nell'immondizia. Detestava gli avanzi.
Quando Ainsley ricomparve, con una camicetta e un golfino messi in risalto da degli orecchini a forma di minuscole margherite e da un trucco agli occhi estremamente raffinato, Marian le disse: «Quel film non dura tutta la notte, lo sai. Dovrò tornare verso la mezza». Anche se si aspetta che dorma per strada, pensò. «Credo di essere ben padrona della situazione per quell'ora», disse Ainsley decisa. «In caso contrario nessuno dei due sarà qui comunque: lo avrò scaraventato fuori della finestra. E anch'io sarò saltata fuori. Ma, non si sa mai, non buttarti su qualsiasi porta chiusa senza bussare.» Marian colse mentalmente la parola più sinistra. Qualsiasi porta chiusa. «Ascolta», disse, «metto un limite alla mia stanza da letto.» «Ma è più in ordine», disse Ainsley in tono ragionevole, «e se sono sopraffatta in un momento di passione e travolta dall'emozione, non posso interromperlo e dire: 'Hai preso la camera sbagliata', ti pare?» «No, penso di no», disse Marian. Cominciava a sentirsi senza casa e spodestata. «Soltanto che non mi va l'idea di buttarmi nel mio letto e di scoprire che c'è già dell'altra gente.» «Sai cosa ti dico», fece Ainsley, «se proprio ci capita di finire nella tua stanza, appenderò una cravatta alla maniglia, d'accordo?» «La cravatta di chi?» chiese Marian. Sapeva che Ainsley faceva incetta di varie cose - fra gli oggetti che ricoprivano il pavimento della sua stanza c'erano diverse fotografie, alcune lettere e una mezza dozzina di fiori secchi - ma non sapeva che avesse raccolto alcuna cravatta. «Ma la sua, naturalmente», fece Ainsley. Marian ebbe una visione inquietante di una sala dei trofei con teste imbalsamate e ramificate inchiodate sul muro. «Perché non usare semplicemente il suo scalpo?» chiese. Leonard, dopo tutto, sarebbe dovuto essere suo amico. Rifletté sulla situazione mentre consumava la sua cena preconfezionata e beveva il tè tutta sola, siccome Ainsley era partita, e mentre ciondolava per l'appartamento in attesa che si facesse l'ora per l'ultimo spettacolo. Lungo tutta la strada fino alla zona dei cinema ci rifletté ancora. Da un po' di tempo avvertiva, in uno dei recessi più oscuri e più piccoli della propria mente, che avrebbe dovuto fare qualcosa per mettere Len in guardia, ma non sapeva cosa o, più importante, perché. Sapeva che egli non avrebbe creduto facilmente che Ainsley, la quale sembrava giovane e inesperta come un agnellino, fosse in realtà una superfemmina astuta intenta a portare a termine una losca macchinazione ai suoi danni, servendosi di lui in effetti
come di un surrogato poco costoso della fecondazione artificiale, con un'atroce mancanza di riguardo per la sua individualità. E finora non c'erano prove convincenti; Ainsley era stata estremamente discreta. Marian aveva pensato parecchie volte di chiamarlo nel cuor della notte con una calza di nailon sul microfono del telefono e di sussurrargli «Attento!» ma non sarebbe servito a niente. Non avrebbe mai immaginato a cosa avrebbe dovuto fare attenzione. Lettere anonime... avrebbe pensato che si fosse trattato di qualche pazzoide; o di una precedente amica gelosa che tentasse di sventare i suoi piani diabolici, il che lo avrebbe reso ancor più famelico. Inoltre, da quando si era fidanzata, c'era stato un tacito accordo con Ainsley: nessuna doveva interferire con la strategia dell'altra, sebbene fosse evidente che ciascuna disapprovava, per ragioni morali, la strada imboccata dall'altra. Se avesse detto qualcosa a Len, sapeva che Ainsley sarebbe stata perfettamente capace di contrattaccare con successo o per lo meno in maniera importuna. No, Len doveva essere abbandonato al suo destino, che avrebbe senza dubbio accolto con giubilo. Marian era per di più confusa per il fatto che non sapeva esattamente se era uno dei primi cristiani a essere gettato in pasto ai leoni, o uno dei primi leoni in pasto ai cristiani. Era, come Ainsley le aveva chiesto durante una delle loro discussioni domenicali, dalla parte della Forza Vitale Creativa o no? Bisognava considerare anche la signora di sotto. Anche se non sbirciava da una finestra o stava nascosta dietro una delle tende di velluto quando fosse arrivato Leonard, si sarebbe quasi certamente accorta che un paio di piedi maschili aveva salito le scale; e, nella sua testa, quell'impero dispotico dove le convenienze avevano la rigidezza e la forza della legge di gravità, ciò che saliva doveva scendere, preferibilmente prima delle undici e mezzo di sera. Anche se non lo aveva mai detto: si trattava semplicemente di qualcosa di cui uno teneva conto. Marian sperava che Ainsley avesse il buon senso di cavarselo di torno e farlo uscire prima di mezzanotte al massimo, o, nella peggiore delle ipotesi, di tenerlo lì, zitto e buono, per tutta la notte; in questo caso, cosa avrebbero fatto di lui il mattino seguente non lo sapeva. Probabilmente sarebbe stato necessario contrabbandarlo fuori nascosto nel sacchetto della biancheria. Anche se era in condizione di camminare da solo. Oh, diavolo; potevano sempre trovare un altro appartamento. Ma detestava le scenate. Marian uscì dalla metropolitana alla stazione vicina alla lavagettone. Vicino c'erano due cinema, uno di fronte all'altro di là dalla strada. Li esaminò. Uno offriva un film straniero con le didascalie, presentato all'esterno
da riproduzioni sfocate in bianco e nero di estatiche recensioni giornalistiche e un grande uso delle espressioni «adulto» e «maturo». Aveva vinto vari premi. L'altro aveva un western americano di basso costo e dei cartelloni a colori di cavalieri e indiani moribondi. Nello stato d'animo attuale non se la sentiva di sopportare momenti di intensità e pause e lunghi primi piani artistici di pori espressivamente contratti. Cercava soltanto calore, riparo e qualcosa di simile all'oblio, perciò scelse il western. Quando si fece strada a tentoni fino a un posto a sedere nel cinema semivuoto il film era già cominciato. Si stravaccò giù, appoggiando la testa alla spalliera della poltrona e le ginocchia alla poltrona di fronte e tenendo gli occhi semichiusi. Non era una posizione da signora, ma nessuno poteva vederla al buio e le poltrone ai due lati di lei erano vuote. Si era assicurata di questo: non voleva noie di alcun genere con dei vecchi maneggioni. Ricordava simili episodi fin dai primi giorni di scuola, prima che avesse imparato l'esistenza del cinema. Mani premute contro le ginocchia e simili espressioni di sentimentalismo evasivo, sebbene non la impaurissero (doveva semplicemente spostarsi in silenzio), le provocavano un penoso imbarazzo unicamente perché erano sincere. Il tentativo di un contatto, un contatto anche minimo, era cruciale per chi armeggiava al buio. Davanti a lei le scene a colori si succedevano l'una all'altra: uomini giganteschi dai cappelli a larghe falde si stendevano attraverso lo schermo sui loro cavalli ancora più giganteschi, alberi e piante di cactus apparivano in primo piano o svanivano nello sfondo con lo scorrere del paesaggio; fumo e polvere e cavalcate. Non tentò di decifrare i discorsi ermetici o di seguire la trama. Sapeva che ci dovevano essere dei cattivi che tentavano di fare qualcosa di male e dei buoni che cercavano di fermarli, probabilmente impadronendosi per primi dei soldi (come pure degli indiani che erano numerosi come i bisonti e la cui caccia era aperta a tutti), ma non le importava quale di queste qualità morali fosse impersonata da qualsiasi dato personaggio che le veniva presentato. Almeno non era uno dei nuovi western in cui c'erano personaggi con delle psicosi. Si divertiva concentrandosi sugli attori secondari, quelli delle parti minori, chiedendosi cosa facessero durante il loro senza dubbio abbondante tempo libero e se qualcuno di loro nutriva ancora delle illusioni di celebrità futura. Era notte, la notte trasparente blu porpora che scende soltanto sugli schermi a colori. Qualcuno stava scivolando furtivamente attraverso un campo in direzione di qualcun altro; tutto era silenzio tranne per il fruscio
dell'erba e il canto di vari grilli meccanici. Vicino, accanto a lei, udì un piccolo schiocco, poi il rumore di qualcosa di duro che colpiva il pavimento. Un fucile sparò, ci fu una lotta, e fu giorno. Sentì di nuovo lo schiocco. Voltò la testa verso sinistra. Al debole riflesso del bagliore della luce del sole sullo schermo riuscì a distinguere a malapena chi le sedeva accanto, due poltrone dopo. Era l'uomo della lavagettone. Era abbandonato sulla poltrona e guardava fisso con occhi vitrei davanti a sé. A ogni mezzo minuto o giù di lì, si portava la mano alla bocca da un sacchetto che reggeva nell'altra mano, e allora si sentiva il piccolo schiocco e poi il rumore sul pavimento. Doveva mangiare qualcosa col guscio, ma non erano arachidi. Avrebbero fatto un rumore più debole. Essa studiò il suo profilo incerto, il naso e un occhio e la gobba in ombra di una spalla. Voltò di nuovo la testa davanti a sé e cercò di concentrare tutta la propria attenzione sullo schermo. Sebbene si sentisse felice che si fosse improvvisamente materializzato in quella poltrona, si trattava di una felicità irrazionale: non aveva intenzione di parlargli, in effetti sperava moltissimo che non l'avesse vista, che non la vedesse seduta da sola lì nel cinema. Sembrava ammaliato dallo schermo, quasi totalmente assorto in esso e in ciò che mangiava - che cosa poteva fare quell'esasperante lieve schiocco? e non avrebbe potuto notarla se rimaneva completamente ferma. Ma essa aveva la sensazione inquietante che egli sapesse perfettamente chi era e che fosse stato consapevole della sua presenza da un po' di tempo prima che lei si fosse accorta di quella di lui. Osservò la grande distesa informe della prateria davanti a lei. Accanto, gli schiocchi continuavano, irritanti, a ritmo regolare. Stavano guadando un fiume, uomini e cavalli assieme e una bionda con un vestito scompigliato, allorché avvertì una sensazione particolare alla mano sinistra. Voleva allungarsi e toccarlo sulla spalla. La sua volontà sembrava indipendente dalla propria: certo lei non voleva nulla del genere. Costrinse le dita a afferrare i braccioli della poltrona. «Non andrebbe bene in nessun caso», l'ammonì silenziosamente, «potrebbe strillare.» Ma temeva anche, ora che non lo guardava più, che se gli avesse allungato la mano, avrebbe trovato soltanto oscurità e vuoto, o la superficie vellutata della tappezzeria del cinema. La colonna sonora esplose, spargendo per l'aria urla e grida di guerra mentre una tribù di indiani balzava fuori del nascondiglio lanciandosi all'attacco. Dopo che gli indiani furono annientati e fu di nuovo possibile porgere l'orecchio non riuscì più a cogliere il lieve rumore simile a quello
di un orologio che egli aveva fatto. Volse la testa di fianco: nessuno. Bene, allora se ne era andato, o forse non c'era mai stato; o forse era stato qualcun altro. Sullo schermo un cowboy smisurato premeva castamente le sue labbra contro quelle della bionda. «Hank, questo vuol dire...?» essa stava sussurrando. Tra poco ci sarebbe stato un tramonto. Poi, così vicina all'orecchio che poté sentire il fiato scuoterle i capelli, una voce parlò. «Semi di zucca», disse. La sua mente accettò l'informazione con calma. «Semi di zucca», rispose in silenzio, «certo, perché no?» Ma il suo corpo trasalì e si raggelò momentaneamente. Quando ebbe superato la sua sorpresa puramente muscolare quanto bastava per potersi voltare, dietro di lei non c'era nessuno. Rimase seduta per tutta la scena finale del film, cominciando ad essere convinta di essere vittima di una complicata allucinazione. «Così finalmente impazzisco», pensò, «come tutti gli altri. Che seccatura. Però suppongo che così la vita cambierà un po'.» Ma quando si accesero le luci dopo una breve scena con una bandiera che sventolava accompagnata da una musica metallica, si prese la briga di esaminare il pavimento sotto la poltrona dove (forse) egli era stato seduto. Trovò un mucchietto di gusci bianchi. Erano come un qualche segnale primitivo, un mucchio di rocce oppure un segno fatto con dei bastoni o delle tacche incise in un albero, per contrassegnare un sentiero o per indicare qualcosa più avanti, ma sebbene li guardasse fissa per diversi minuti mentre i pochi spettatori se ne andavano alla spicciolata davanti a lei lungo la corsia, essa non riuscì ad interpretarli. Ad ogni modo, essa pensò mentre usciva dal cinema, questa volta aveva lasciato una traccia visibile. Impiegò quanto più tempo poté per arrivare a casa; non desiderava fare l'ingresso a metà di niente. La casa, da quello che le riuscì di vedere dal di fuori, era immersa nell'oscurità, ma quando varcò la porta ed accese la luce dell'ingresso, una forma uscì dalla sala da pranzo e le sbarrò il passo. Era la signora di sotto, che cercava ancora di mostrare un aspetto dignitoso persino con le mollette in testa e una vestaglia di flanella. «Miss MacAlpin», disse, severamente accigliata, «sono stata tanto agitata. Sono certa di aver sentito un... un uomo è salito di sopra con Miss Tewce questa sera, e sono sicura di non averlo ancora sentito scendere. Naturalmente, non voglio insinuare che... so che siete tutte e due delle ragazze molto brave, ma tuttavia la bambina...» Marian guardò l'orologio. «Be', non lo so», disse con aria dubbiosa,
«non credo che potrebbe accadere nulla del genere. Forse lei ha sbagliato. Dopo tutto è l'una passata, e quando non è fuori da qualche parte Ainsley di solito va a letto prima di quest'ora.» «Be', è proprio quello che pensavo, voglio dire che non ho sentito nessuna conversazione di sopra... non che intenda dire...» La vecchia sporca spiona è davvero bramosa, pensò Marian. «Allora deve essere andata a letto», disse allegramente. «E, chiunque fosse, probabilmente è sceso molto silenziosamente per non disturbarla. Ma domattina le parlerò io da parte sua.» Le rivolse quello che doveva essere un sorriso di efficienza rassicurante e fuggì su per le scale. Ainsley è un sepolcro imbiancato, pensò mentre saliva, e io le ho soltanto dato un'altra mano di bianco. Ma ricordati della pagliuzza nell'occhio del prossimo e della trave nel tuo, e così via. Come diavolo faremo a trasportar giù quel che è rimasto di lui, davanti a quel vecchio avvoltoio, domattina? Sul tavolo della cucina trovò la bottiglia di whisky per tre quarti vuota. Una cravatta a strisce verdi e blu penzolava vittoriosa dalla porta chiusa della sua stanza. Questo significava che avrebbe dovuto sgomberare un po' di posto in cui poter più o meno dormire, nell'intrico di lenzuola, indumenti, coperte e libri che era il letto di Ainsley. «Oh accidenti!» disse tra sé e sé buttando via il cappotto. 15 Il giorno seguente alle quattro e mezzo del pomeriggio Marian stava percorrendo il corridoio di un ospedale alla ricerca della stanza giusta. Aveva saltato l'ora del pranzo, sostituendo a del vero cibo un sandwich di formaggio e insalata - una fetta di formaggio di plastica fra due pezzi di schiuma da bagno solidificata con diversi lembi di verdura pallida, portati su un vassoio di cartone dal cameriere del ristorante addetto alle ordinazioni esterne - in modo da poter lasciare l'ufficio un'ora prima e aveva già perso mezz'ora per comprare le rose e arrivare all'ospedale. Ora le erano restati soltanto trenta minuti del tempo concesso per le visite per parlare con Clara; si chiese se sarebbero state capaci, fra loro, di produrre trenta minuti di conversazione. Le porte delle stanze erano spalancate e per leggere i numeri doveva fermarsi di fronte a esse e quasi entrare nei camerini. Dall'interno di cia-
scuno giungeva l'acuto parlottio di donne che parlavano contemporaneamente. Finalmente raggiunse il numero giusto, quasi in fondo al corridoio. Clara giaceva diafana su un alto letto bianco da ospedale, con la spalliera sollevata che la reggeva tenendola in posizione semiseduta. Indossava una camicia da notte da ospedale, di cotone. Il suo corpo sotto il lenzuolo parve a Marian innaturalmente sottile; i capelli chiari le ricadevano sparsi sulle spalle. «Ehi, salve», disse. «Sei venuta a trovare la vecchia mamma finalmente, eh?» Marian buttò avanti i fiori invece delle colpevoli frasi di scusa che avrebbe dovuto pronunciare. Le fragili dita di Clara scartarono la cornucopia di carta verde da attorno a essi. «Sono bellissimi», disse. «Dovrò farli mettere in un po' d'acqua decente da quella maledetta infermiera. Te li può anche infilare nel pappagallo se non stai attenta.» Nello sceglierle, Marian era stata incerta se prenderle rosso scuro, rosa salmone o bianche; ora era un po' dispiaciuta di avere scelto le bianche. Per un certo verso, erano quasi troppo in tono con Clara; per un altro, assolutamente no. «Tira un po' le tende», disse Clara a bassa voce. Nella stanza c'erano altre tre donne e conversare a due era ovviamente difficile. Quando Marian ebbe tirato le pesanti tende di tela che erano attaccate con anelli a un'asta di metallo ricurva sospesa al di sopra del letto come un grande alone ovale e ebbe preso posto sulla sedia dei visitatori, chiese: «Ebbene, come ti senti?» «Oh stupendamente, proprio stupendamente. Ho visto tutto, è una porcheria con tutto quel sangue e i rifiuti, ma devo ammettere che in un certo senso è affascinante. Soprattutto quando quel piccolo rompiscatole mette fuori la testa e finalmente, dopo aver portato in giro quel maledetto coso per tanto tempo, sai che faccia ha; divento così eccitata mentre aspetto di vederlo, è come quando eri piccola e aspettavi e aspettavi e finalmente arrivavi a aprire i regali di Natale. Delle volte quando ero incinta mi auguravo da morire che li potessimo semplicemente far uscire da uova, come gli uccelli e così via; ma bisogna veramente dire che questo metodo ha i suoi lati positivi.» Raccolse una delle rose bianche e l'annusò. «Una volta o l'altra dovresti davvero provare.» Marian si chiese come mai poteva parlarne con tanta indifferenza, come se stesse raccomandando un comodo artificio per fare una sfogliata più soffice o un nuovo detersivo. Naturalmente era una cosa che si era sempre
riproposta di fare, alla fine; e Peter aveva cominciato a fare delle osservazioni con dei sottintesi paterni. Ma in questa stanza con queste donne distese ricoperte di un lenzuolo bianco la possibilità diventava improvvisamente troppo prossima. E poi c'era Ainsley. «Non farmi fretta», disse sorridendo. «Naturalmente fa un male del diavolo», disse Clara compiaciuta, «e loro non ti danno niente finché non sei molto avanti, a causa del bambino; ma questa è la cosa buffa del dolore. Dopo non riesci mai a ricordartene. Adesso mi sento proprio benissimo... continuo a pensare che mi verrà la depressione post-parto, come succede a un sacco di donne, ma sembra che non mi venga mai; la conservo per quando dovrò alzarmi e andare a casa. È così bello stare semplicemente qui stesa; mi sento davvero magnificamente.» Si sollevò un po' contro il cuscino. Marian stava seduta e le sorrideva. Non le riusciva di pensare a nulla da risponderle. Ogni volta di più, la vita di Clara le sembrava tagliata fuori da lei, separata, qualcosa a cui poteva soltanto guardare da una finestra. «Come la chiamerete?» chiese, soffocando un desiderio di urlare, non del tutto certa che Clara sarebbe riuscita a udirla attraverso il vetro. «Ancora non lo sappiamo. In un certo senso stiamo pensando a Vivian Lynn, i nomi di mia nonna e della nonna di Joe. Joe voleva chiamarla come me ma il mio nome non mi è mai piaciuto molto. È davvero meraviglioso, però, avere un uomo a cui un maschio o una femmina fanno ugualmente piacere, tanti uomini non sono così, lo sai, anche se forse neppure Joe lo sarebbe se non avesse già un figlio.» Marian fissò il muro al di sopra della testa di Clara, pensando che era dipinto dello stesso colore dell'ufficio. Si aspettava quasi di sentire il rumore delle macchine per scrivere da dietro le tende, ma invece c'erano soltanto le parole sussurrate delle altre tre donne e dei loro visitatori. Quando era entrata aveva notato che una di loro, quella giovane con una liseuse di merletti rosa, era seduta e lavorava a un quadro coi colori segnati da numeri. Forse avrebbe dovuto portare a Clara qualcosa da fare, invece di semplici fiori: doveva essere assai noioso stare stesa così per tutto il giorno. «Vorresti che ti portassi qualcosa da leggere?» chiese, e così facendo le venne di pensare quanto assomigliava a una di quelle donne membri di club per signore che fanno una carriera a mezza giornata visitando gli ammalati. «È un pensiero gentile. Ma veramente non credo che potrei concentrarmi abbastanza, almeno per un po'. O dormirò, oppure», disse a voce più bassa,
«ascolterò le altre donne. Forse è l'atmosfera dell'ospedale, ma tutto ciò di cui parlano sempre sono i loro aborti e le loro malattie. Dopo un po' ti fa sentire molto malata: cominci a chiederti quando verrà il tuo turno di contrarre il cancro alla mammella o di avere una tuba rotta o di abortire quattro gemelli ad intervalli di mezza settimana l'uno dall'altro; non scherzo, è successo a Mrs Moase, quella grossa laggiù nell'angolo. E, Cristo, sono così calme, e sembra che pensino che ciascuno dei loro spaventosi piccoli incidenti sia un qualche genere di medaglia al valore: li tirano fuori e li paragonano, e ammucchiano i particolari sanguinosi, ne sono davvero orgogliose. È una vera esultazione del dolore. Mi trovo anch'io a parlare di alcuni dei miei mancamenti, come se dovessi fare a gara. Chissà perché le donne sono così morbose?» «Oh, certi uomini sono morbosi anche loro, immagino», disse Marian. Clara parlava molto di più e molto più rapidamente del consueto e Marian si sentì stupita. Durante l'ultimo stadio, quello più vegetativo, della gravidanza di Clara, era stata incline a dimenticare che Clara avesse una mente o una qualsiasi facoltà percettiva oltre a quelle semplicemente senzienti e passive, dato che aveva trascorso la maggior parte del suo tempo assorta o assorbita nel suo addome protuberante. Sentirla fare osservazioni e commenti del genere era un lieve shock. Magari era una specie di reazione, ma certamente non era isterismo: sembrava completamente padrona di sé. Qualcosa che dipendeva dagli ormoni, forse. «Be', Joe certo non lo è», disse Clara con aria felice. «Se non fosse così privo di morbosità non so come farei a cavarmela. È così bravo con i bambini e il bucato e tutto il resto, che non mi sento per niente a disagio a lasciargli da fare tutto in un momento come questo. So che se la cava come farei io se ci fossi, anche se il povero Arthur ci fa passare qualche guaio. Adesso è educato benissimo a fare i suoi bisogni, usa il vasino di plastica quasi ogni volta, ma ha cominciato a ammassarla. Con la cacca fa delle palline e le nasconde in luoghi svariati... come armadi e cassetti in basso. Devi starci attenta come un falco. Una volta ne ho trovate alcune nel frigorifero e Joe mi dice che ne ha appena scoperta una fila intera che stava indurendo sul davanzale della finestra del bagno, dietro la tendina. Se ne ha molto a male quando le gettiamo via. Non riesco a immaginare perché lo faccia; forse da grande diventerà un banchiere.» «Pensi che la cosa sia in qualche modo in rapporto col nuovo bambino?» disse Marian. «Gelosia, forse?» «Oh, probabilmente», disse Clara sorridendo serena. Stava facendo ruo-
tare fra le dita una delle rose bianche. «Ma qui parlo continuamente di me», disse, voltandosi sul letto in modo da guardare più direttamente Marian. «Non ho proprio avuto la possibilità di parlarti del tuo fidanzamento. Tutti e due pensiamo che sia una cosa stupenda, naturalmente, anche se non conosciamo davvero Peter.» Marian disse: «Dobbiamo trovarci tutti un giorno o l'altro, dopo che sei tornata di nuovo a casa e ti sei riorganizzata. Sono sicura che ti piacerà». «Be', sembra gentilissimo. Naturalmente non conosci mai sul serio nessuno finché non ci sei stata sposata per un po' e scopri qualcuna delle sue abitudini peggiori. Ricordo come rimasi male quando mi resi conto per la prima volta che Joe dopo tutto non era Gesù Cristo. Non so di che cosa si trattasse, probabilmente qualche stupidaggine come la scoperta che va pazzo per Audrey Hepburn. O che di nascosto fa il filatelico.» «Il cosa?» chiese Marian. Non sapeva cosa fosse ma aveva l'aria di una perversione. «Collezionista di francobolli. Non vero e proprio, naturalmente, li strappa dalle buste. Comunque ci vogliono delle capacità di adattamento. Ora», disse, «penso soltanto che sia uno dei santi minori.» Marian non sapeva cosa dire. Trovava l'atteggiamento di Clara nei riguardi di Joe compiaciuto e imbarazzante allo stesso tempo: era sentimentale, come le storie d'amore nei vecchi numeri delle riviste femminili. Inoltre avvertiva che Clara stava cercando indirettamente di darle dei consigli di qualche genere, e ciò era persino più imbarazzante. Povera Clara, era l'ultima persona i cui consigli valessero qualcosa. Bastava guardare al pasticcio in cui si era andata a cacciare: tre figli alla sua età. Peter e lei affrontavano la cosa con assai meno illusioni. Se Clara fosse andata a letto con Joe prima di sposarsi, sarebbe stata assai più in grado di cavarsela dopo. «Penso che Joe sia un marito meraviglioso», disse con generosità. Clara sbottò in uno sbuffo di risata, poi fremette. «Oh. Vatti a far fottere. Mi fai sentir male dove non si dovrebbe dire. Non è vero: tu pensi che siamo tutti e due inetti e disorganizzati e ti salterebbe il cervello se vivessi in mezzo a tutto quel caos; non riesci a capire come abbiamo fatto a sopravvivere senza odiarci a vicenda.» Il tono della sua voce era perfettamente bonario. Marian cominciò a protestare, pensando che fosse ingiusto da parte di Clara voler parlare così a carte scoperte; ma un'infermiera fece capolino dalla porta per annunciare che l'ora delle visite era finita.
«Se vuoi vedere la mia bambina», disse Clara mentre Marian stava andandosene, «probabilmente puoi farti dire da qualcuno dove l'hanno ficcata. Puoi vederli attraverso una vetrata da qualche parte; sembrano tutti uguali, ma se glielo chiedi ti indicheranno la mia. Se fossi in te però non mi disturberei, a questo stadio non sono molto interessanti. Sembrano prugne secche.» «Allora forse aspetterò», disse Marian. Mentre usciva dalla porta fu colpita dal pensiero che nel modo di fare di Clara, soprattutto nella piega lievemente turbata delle sopracciglia un paio di volte, c'era stato qualcosa che aveva espresso preoccupazione; ma preoccupazione per cosa esattamente non lo sapeva, e non le riuscì di smettere di scervellarcisi sopra. Aveva la sensazione di essere fuggita, come da una fogna o da una grotta. Era felice di non essere Clara. Ora c'era da sbrogliare il resto della giornata. Avrebbe mangiato in fretta al ristorante più vicino che avrebbe trovato e per l'ora in cui avrebbe finito, il traffico si sarebbe alquanto diradato e avrebbe potuto correre a casa a prendere un po' di bucato. Cosa diavolo aveva che si potesse prendere? Forse un paio di camicette. Si chiese se una sottana pieghettata avrebbe fatto al caso, l'avrebbe tenuto occupato e lei ne aveva una che aveva bisogno di essere stirata, ma ripensandoci si trattava dell'articolo sbagliato, e comunque era certo troppo complicata. Le ore che l'aspettavano sarebbero state, lo sentiva, così contorte come quell'ora del pomeriggio in cui Peter l'aveva chiamata per mettersi d'accordo sulla cena, e avevano discusso a lungo - troppo a lungo, temeva - dove avrebbero mangiato; e poi, dopo tutto, lei aveva dovuto richiamarlo e dire: «Mi dispiace terribilmente, caro, ma è sopravvenuta una cosa davvero indilazionabile; possiamo rimandare? Magari a domani?» Lui era stato stizzoso, ma non aveva potuto insistere molto perché le aveva appena fatto lo stesso scherzo il giorno prima. Naturalmente, c'era stata una differenza in ciò che era sopravvenuto. Nel caso di lei si era trattato di un'altra telefonata. La voce all'altro capo aveva detto: «Sono Duncan». «Chi?» «Quello della lavagettone.» «Oh. Si.» Ora riconosceva la voce, sebbene suonasse più nervosa del solito. «Mi spiace di averla spaventata al cinema, ma sapevo che moriva dalla voglia di sapere cosa stavo mangiando.»
«Sì, è vero», disse lei, dando un'occhiata al telefono e poi alla porta aperta della stanzetta di Mrs Bogue. Quel pomeriggio aveva già trascorso troppo tempo al telefono. «Erano semi di zucca. Sto cercando di smettere di fumare, lo sa, e trovo che mi sono di grande aiuto. Si prova una gran soddisfazione orale nello sgranocchiarli. Li prendo al negozio degli animali, dovrebbero essere per gli uccelli in realtà.» «Sì», disse lei, per colmare la pausa che seguì. «Era un film schifoso.» Marian si domandò se la ragazza del centralino, dabbasso, stesse ascoltando la conversazione, come si era saputo che faceva, e, in tal caso, cosa ne pensasse; ormai doveva essersi accorta che non si trattava di una conversazione d'affari. «Mr... Duncan», disse, col tono di voce più ufficiale, «sono per così dire in ufficio, e non dovremmo dedicare molto tempo alle chiamate esterne; voglio dire amici e così via.» «Oh», fece lui. Aveva un tono scoraggiato, ma non fece alcun tentativo per chiarire la situazione. Se lo immaginò all'altro capo del filo, immusonito, con gli occhi infossati, in attesa del suono della sua voce. Essa non aveva idea del perché l'avesse chiamata. Forse aveva bisogno di lei, aveva bisogno di parlarle. «Ma io vorrei parlarle», disse lei in tono incoraggiante. «Un momento più adatto?» «Be'», egli disse, «per dirla schietta io per così dire ho bisogno di lei; in questo preciso momento. Voglio dire che ho bisogno... ciò di cui ho bisogno è qualcosa da stirare. Devo semplicemente stirare qualcosa, e ho già stirato tutto quello che c'è in casa, anche gli strofinacci dei piatti, e per così dire mi chiedevo se forse potevo venire a casa sua e magari stirarle un po' della sua roba.» Gli occhi di Mrs Bogue ora erano appuntati chiaramente su di lei. «Ma naturalmente», disse lei con vivacità. Poi improvvisamente concluse che, per qualche motivo finora oscuro, sarebbe stato un disastro se quest'uomo si fosse incontrato con Peter o con Ainsley. Per di più, chi poteva dire che specie di baraonda si fosse scatenata dopo che quella mattina se n'era andata di casa in punta di piedi, lasciando Len ancora preso nella rete del vizio, di là dalla porta adorna della sua stessa cravatta? Ainsley non si era fatta viva per tutta la giornata, e questo poteva essere un segno buono o cattivo. E anche se Len era riuscito a evadere sano e salvo, la furia della signora di sotto, privata del proprio oggetto, poteva benissimo discendere sul capo
dell'innocuo stiratore in quanto rappresentante di tutta la specie maschile. «Forse è meglio che le porti io qualcosa a casa sua», disse. «Effettivamente lo preferirei. Vuol dire che posso usare il mio ferro; ci sono abituato. Mi sento a disagio a stirare con i ferri degli altri. Ma la prego, faccia presto, ne ho veramente bisogno. Disperatamente.» «Sì, appena posso dopo che ho finito di lavorare», disse, cercando di rassicurarlo e di dar quasi a sentire, di fronte a tutto l'ufficio, di prendere un appuntamento col dentista. «Verso le sette.» Si rese conto appena ebbe riattaccato che questo avrebbe significato rimandare di nuovo la cena con Peter; ma poi avrebbe potuto vederlo ogni sera. L'altro era un caso di emergenza. Quando ebbe sistemato la faccenda con Peter si era sentita come se avesse cercato di districarsi da tutte le linee telefoniche della città. Erano prensili, erano simili a serpenti, riuscivano a riavvolgersi attorno a una persona e a avvilupparla tutta. Un'infermiera stava venendo verso di lei, spingendo un carrello dalle ruote di gomma carico di vassoi di cibo. Sebbene avesse la mente presa da altre cose, gli occhi di Marian colsero la forma bianca e la trovarono fuori posto. Si fermò e si guardò attorno. Dovunque fosse diretta, non era verso l'uscita principale. Era stata così presa dal filo dei suoi progetti e delle sue riflessioni che doveva essere uscita dall'ascensore al piano sbagliato. Si trovava in un corridoio esattamente simile a quello da cui proveniva, senonché tutte le porte delle stanze erano chiuse. Cercò un numero: 273. Be', la cosa era semplice: era uscita un piano prima. Si voltò e tornò indietro, cercando di rammentare dove avrebbe dovuto trovarsi l'ascensore; sembrò ricordarsi di avere scantonato varie volte. L'infermiera era scomparsa. Ora dal fondo del corridoio le veniva incontro una figura, un uomo che indossava un camice verde con una mascherina bianca sulla parte inferiore della faccia. Notò per la prima volta l'odore dell'ospedale, antisettico, severo. Doveva essere uno dei medici. Ora riuscì a vedere che attorno al collo aveva una cosa nera e sottile, uno stetoscopio. Quando fu più vicino lo guardò più attentamente. Nonostante la mascherina c'era qualcosa di familiare in lui; le seccava il non riuscire a dire di cosa si trattava. Ma egli le passò davanti, guardando diritto, gli occhi privi di espressione, aprì una porta a destra e entrò. Quando egli si voltò essa vide che aveva un cerchio calvo sulla nuca. «Be', comunque nessuno che io conosca sta diventando calvo», si disse.
Si sentì sollevata. 16 Ricordava perfettamente la strada che portava al suo appartamento, anche se non le venivano in mente né il numero né il nome della strada. Non era stata in quel quartiere da molto tempo, in effetti dal giorno delle interviste sulla birra. Prese la strada giusta e girò al punto giusto, come se fosse stata sulle orme di qualcuno, con un istinto che non era in rapporto con la vista o con l'olfatto, ma con un senso più vago che aveva a che fare con i luoghi. Ma non era un itinerario complicato: proprio attraverso il campo da baseball, su per la salita asfaltata e lungo un paio di isolati; sebbene la strada sembrasse più lunga ora che camminava in un'oscurità illuminata solo dai lampioni fiochi invece che dalla luce bruciante del sole della volta precedente. Camminava rapida: aveva già le gambe fredde. L'erba sul campo di baseball era grigia per il gelo. Le poche volte che aveva pensato all'appartamento, in momenti d'ozio all'ufficio, quando non aveva nulla davanti a sé tranne un foglio di carta bianca o altre volte quando si piegava a raccogliere un pezzo di carta straccia dal pavimento, non lo aveva mai collocato in alcun luogo specifico della città. Aveva in mente un'immagine dell'interno, l'aspetto delle stanze, ma non dell'edificio vero e proprio. Ora era sconcertante vederselo presentare dalla strada, squadrato, ordinario e anonimo, più o meno esattamente dove era stato prima. Premette il campanello del numero Sei e sgusciò all'interno della porta di vetro appena il meccanismo cominciò a emettere il suo rumore di sega a nastro. Duncan aprì la porta parzialmente. La guardò con aria sospettosa; nella semioscurità gli occhi gli brillavano dietro i capelli. Aveva in bocca un mozzicone di sigaretta che gli bruciava pericolosamente vicino alle labbra. «Ha la roba?» chiese. Senza dire parola sollevò verso di lui il piccolo fagotto di panni che aveva portato sotto il braccio, e egli si spostò per lasciarla entrare. «Non è molta», disse, srotolando gli indumenti. C'erano soltanto due camicette bianche di cotone, lavate da poco, una federa e alcuni asciugamani per gli ospiti, ricamati a fiori, dono di una prozia, che erano sgualciti per essere stati sotto ogni altra cosa sullo scaffale della biancheria. «Mi spiace», disse lei, «è proprio tutto quello che avevo.»
«Be', è meglio che niente», disse lui a malincuore. Si voltò e si diresse verso la stanza da letto. Marian non era sicura se doveva seguirlo o se egli si aspettava che lei se ne andasse ora che gli aveva consegnato la roba. «Posso guardare?» chiese, sperando che non considerasse la cosa un'intrusione nella sua privacy. Non se la sentiva di ritornare immediatamente al suo appartamento. Non ci sarebbe stato niente da fare e, dopo tutto, aveva sacrificato una sera con Peter. «Certo, se vuole; anche se non c'è molto da vedere.» Si fece strada verso l'ingresso. Il salotto non aveva subito alterazioni dal tempo della sua visita precedente, tranne per il fatto che caso mai c'erano più carte sparse in giro. Le tre poltrone erano ancora nella stessa posizione; un'asse era appoggiata a un bracciolo di quella di velluto rosso. Solo una lampada, quella accanto alla poltrona blu, era accesa. Marian ne dedusse che entrambi i compagni di stanza erano fuori. Anche la stanza di Duncan era più o meno come la ricordava. L'asse da stiro era più vicino al centro della stanza e i pezzi degli scacchi erano stati disposti sulle due file contrapposte; la scacchiera a quadretti bianchi e neri ora era posata in cima a una pila di libri. Sul letto c'erano diverse camicie bianche stirate da poco infilate a degli attaccapanni. Duncan le appese nello sgabuzzino prima di andare a attaccare la spina del ferro. Marian si tolse il cappotto e si sedette sul letto. Egli gettò la sigaretta in uno dei portacenere ricolmi, sul pavimento, aspettò che il ferro si scaldasse, provandolo ogni tanto sull'asse, e poi cominciò a stirare una delle camicette con lenta concentrazione e sistematica attenzione alle punte del colletto. Marian lo osservava in silenzio; era ovvio che non voleva essere interrotto. Le fece un'impressione strana vedere un altro stirare i suoi indumenti. Ainsley le aveva rivolto un'occhiata curiosa quando era uscita dalla sua stanza da letto col cappotto indosso e il fagotto sottobraccio. «Dove vai con quella roba?» le aveva chiesto. Era troppo poca per la lavagettone. «Oh, semplicemente fuori.» «Cosa devo dire se Peter telefona?» «Non telefonerà. Ma digli soltanto che sono andata fuori.» Poi si era tuffata giù per le scale, non desiderando spiegare assolutamente nulla di Duncan, neppure rivelarne l'esistenza. Aveva l'impressione che avrebbe potuto turbare l'equilibrio delle forze. Ma Ainsley al momento non aveva tempo per altro che una tenue curiosità: era troppo su di giri per il probabile suc-
cesso della sua campagna, e anche per quello che aveva chiamato «un colpo di fortuna». Marian le aveva chiesto, quando era giunta nell'appartamento e aveva trovato Ainsley nel salotto con un paperback sulla puericultura del neonato e del bambino: «Ebbene, in che modo hai fatto uscire di qui quel povero disgraziato stamattina?» Ainsley rise. «Un gran colpo di fortuna», disse. «Ero sicura che quella vecchia fossile di sotto fosse nascosta in attesa di noi in fondo alle scale. Non sapevo proprio cosa avrei fatto. Stavo cercando di pensare a qualche stratagemma, come dirle che era l'uomo del telefono...» «Ieri sera ha tentato di inchiodarmi per questa faccenda», la interruppe Marian. «Sapeva perfettamente che lui era quassù.» «Be', per chissà quale ragione è effettivamente uscita. L'ho vista andarsene, dalla finestra del salotto; veramente per caso. Te lo immagini? Pensavo che non uscisse mai, non di mattina. Oggi naturalmente non sono andata a lavorare e stavo proprio girando su e giù fumando una sigaretta. Ma quando l'ho vista andarsene, ho fatto alzare Len, gli ho ficcato addosso i vestiti e l'ho scaraventato giù per le scale e fuori di casa prima che fosse del tutto sveglio. Stava anche molto male per i postumi di ieri sera, si è quasi scolato tutta la bottiglia. Tutta da solo. Non credo che sia ancora molto sicuro di cosa sia successo esattamente.» Sorrise con la sua piccola bocca rosa. «Ainsley, sei immorale.» «Perché? Sembra che si sia divertito. Però questa mattina quando abbiamo fatto colazione fuori si vergognava come un infame e era ansioso, e poi per così dire dolce, come se cercasse di consolarmi o qualcosa del genere. È stato davvero imbarazzante. E poi, sai, quanto più si svegliava e gli passava la sbornia, non vedeva l'ora di squagliarsela da me. Ma adesso», disse, stringendosi con tutte e due le braccia, «dovremo aspettare e vedere. Se è valsa proprio la pena.» «Sì, bene», disse Marian, «ti dispiacerebbe rimettere in ordine il letto?» Ripensandoci, trovava qualcosa di sinistro nel fatto che la signora di sotto fosse uscita. Non era assolutamente da lei. Le sarebbe stato assai più confacente stare in agguato dietro il piano o le tende di velluto mentre scivolavano giù per le scale e balzare loro addosso proprio quando avevano raggiunto la soglia della salvezza. Stava attaccando la seconda camicetta. Sembrava ignorare tutto tranne la stoffa bianca gualcita distesa sull'asse davanti a sé, studiandola attentamen-
te come se si fosse trattato di un manoscritto antico e fragilissimo che non riusciva a tradurre completamente. In precedenza essa aveva pensato a lui come se fosse stato di bassa statura, forse a causa del volto infantile rinsecchito, o perché l'aveva visto per lo più seduto; ma ora pensò che sarebbe stato in realtà assai alto se non avesse camminato ciondolando. Mentre sedeva intenta a guardarlo, scoprì in sé il desiderio di dirgli qualcosa, di intromettersi, di irrompere attraverso la superficie di panno bianco del suo interesse: non le piaceva essere esclusa in modo così totale. Per evitare l'emozione raccolse la borsetta e andò nel bagno, con l'intenzione di pettinarsi, non perché ne avesse bisogno, ma per compiere quella che Ainsley chiamava attività sostitutiva; come uno scoiattolo che si gratta quando si trova davanti delle briciole di pane pericolose o irraggiungibili. Voleva parlargli, ma parlargli ora, pensò, avrebbe potuto annullare qualsiasi effetto terapeutico che lo stirare poteva produrre. Il bagno era abbastanza comune. Asciugamani umidi erano ammucchiati sui portasciugamani e un sacco di aggeggi per radersi e cosmetici per uomo ricoprivano i vari ripiani e superfici di porcellana. Ma lo specchio sopra il lavabo era stato rotto. C'erano soltanto alcuni frammenti dentellati di vetro che spuntavano dai margini della cornice di legno. Cercò di sbirciare in uno di essi ma non era abbastanza grande per esserle in alcun modo utile. Quando tornò nella stanza stava stirando la federa. Sembrava più rilassato: stirava con movimenti lunghi, disinvolti e larghi, invece dei colpi secchi e precisi che aveva usato per la camicetta. Alzò gli occhi su di lei quando essa entrò. «Suppongo che si stia chiedendo cos'è successo allo specchio», disse. «Be'...» «L'ho spaccato io. La settimana scorsa. Con la padella.» «Oh», fece lei. «Mi ero stancato di aver paura di entrare là dentro una mattina e non riuscire a vedere la mia immagine riflessa. Perciò sono andato in cucina, ho afferrato la padella e ci ho dato una botta. Loro due si sono molto turbati», disse con aria meditativa, «soprattutto Trevor, al momento stava friggendo una frittata e immagino di avergliela in un certo senso rovinata. Gliel'ho riempita tutta di frammenti di vetro. Ma davvero non capisco perché la cosa li dovesse turbare, era un gesto simbolico di narcisismo perfettamente comprensibile, e comunque non era uno specchio buono. Ma da allora sono diventati nervosi. Soprattutto Trevor, inconsciamente pensa di essere
mia madre; è assai duro per lui. Ma non mi preoccupa tanto, ci sono abituato, è da quando ho la memoria che sto scappando da sostitute di mia madre, ce n'è un intero branco alle mie spalle che cerca di raggiungermi e salvarmi, dio sa da cosa, e di darmi calore e conforto e nutrimento e farmi smettere di fumare, ecco che cosa capita a uno per essere orfano. E mi propongono delle citazioni: in questi giorni Trevor cita T.S. Eliot e Fish l'Oxford English Dictionary.» «Allora come fa a radersi?» chiese Marian. Non riusciva proprio a immaginare la vita senza uno specchio nel bagno. Essa si chiese, mentre parlava, se lui addirittura si radesse. Non gli aveva mai guardato in faccia per vedere se aveva un po' di barba. «Cosa?» «Voglio dire senza specchio.» «Oh», disse lui, sorridendo. «Ho il mio specchio personale. Uno di cui mi posso fidare, so cosa c'è dentro. Sono soltanto quelli pubblici che non mi vanno a genio.» Parve perdere interesse per l'argomento e stirò in silenzio per un minuto. «Che roba orrenda», disse infine; stava stirando uno degli asciugamani. «Non posso sopportare le cose con dei fiori ricamati.» «Lo so. Non le usiamo mai.» Piegò l'asciugamano, poi le rivolse uno sguardo tetro. «Immagino che abbia creduto a tutto.» «Be'... tutto cosa?» chiese lei cauta. «Il motivo per cui ho rotto lo specchio e la mia immagine riflessa e giù di lì. A dirla schietta l'ho rotto perché mi sentivo di rompere qualcosa. Ecco il mio guaio con gli altri, mi credono sempre. È un incoraggiamento troppo grosso, non riesco mai a resistere alla tentazione. E quanto a quelle brillanti intuizioni su Trevor, come faccio io a sapere se sono vere? Forse la verità è che voglio credere che lui voglia credere di essere mia madre. In realtà, comunque, non sono un orfano, ho qualche genitore da qualche parte. Ci crede?» «Dovrei?» Non le riusciva di capire se parlava sul serio o no; la sua espressione non lasciava trapelare nulla. Forse questo era un altro labirinto di parole, e se lei diceva la cosa sbagliata, imboccava la svolta sbagliata, si sarebbe trovata improvvisamente a faccia a faccia con qualcosa a cui non sarebbe riuscita a far fronte. «Se vuole. Ma la verità è, naturalmente» - agitò in aria il ferro per maggiore enfasi, osservando, così facendo, il movimento della propria mano «sono stato scambiato da bambino. Mi hanno sostituito a un bambino vero
quand'ero giovane e i miei genitori non hanno mai scoperto l'inganno, sebbene debba ammettere che qualcosa l'abbiano subodorato.» Chiuse gli occhi sorridendo debolmente. «Continuavano a dirmi che avevo le orecchie troppo grandi; ma in realtà io non sono assolutamente un essere umano, provengo dal sottosuolo...» Aprì gli occhi e cominciò a stirare di nuovo, ma la sua attenzione si era distratta dall'asse da stiro. Portò il ferro troppo vicino all'altra mano, e diede in un urlo di dolore. «Maledizione», disse. Posò il ferro e si ficcò il dito in bocca. Il primo impulso di Marian fu di andare da lui e vedere se era una brutta bruciatura, e suggerire dei rimedi, burro, o bicarbonato di sodio; ma decise di non farlo. Rimase invece seduta immobile e non disse niente. Ora lui la stava guardando, con un'aria di attesa ma con una punta di ostilità. «Non vuole confortarmi?» chiese. «Non credo», disse lei, «che ce ne sia veramente bisogno.» «Ha ragione; però, mi piace», egli disse triste. «E mi fa davvero male.» Prese di nuovo il ferro in mano. Quando ebbe piegato l'ultimo asciugamano e tolta la spina dalla presa disse: «È stata una bella tirata, grazie per gli indumenti, ma non è stata proprio sufficiente. Dovrò pensare a scaricare il resto della tensione in qualche altro modo. Non sono uno stiratore cronico, lo sa, per me non è una droga, non è una delle abitudini di cui dovrei liberarmi, ma mi do ogni tanto alla pazza gioia». Venne verso di lei, le si sedette accanto sul letto, con fare cauto, e accese una sigaretta. «È cominciato l'altro ieri, quando ho lasciato cadere la composizione trimestrale in una pozza d'acqua sul pavimento della cucina e ho dovuto asciugarla e stirarla. Era tutta battuta a macchina e non mi sentivo proprio di ribatterla, ricopiare faticosamente tutti quegli sproloqui, avrei cominciato a voler cambiare tutto. È riuscita molto bene, nessuna sbavatura, ma si indovinava che era stata stirata, avevo strinato una pagina. Ma non possono ragionevolmente obiettare, suonerebbe davvero stupido dire: 'Non possiamo accettare una composizione trimestrale che è stata stirata'. Così l'ho consegnata e poi naturalmente dovevo liberarmi di tutta quella frenesia, perciò ho stirato ogni cosa pulita che c'era in casa. Poi sono dovuto andare alla lavagettone a lavare dei panni sporchi, ecco perché ero seduto in quel cinema schifoso, aspettavo che si lavasse la roba. Mi ero stufato di vederla girare in tondo là dentro, brutto segno se mi stufo anche della lavagettone, cosa diavolo farò quando mi sarò stufato di ogni altra cosa? Poi ho stirato tutta la roba che avevo lavato, e poi ho esaurito anche quella.»
«E allora ha telefonato a me», disse Marian. La irritava lievemente il fatto che continuasse a parlare fra sé e sé, di sé, senza dar molto a vedere di rendersi almeno conto che lei era lì. «Oh. Lei. Sì. Allora ho telefonato a lei. Per lo meno, ho telefonato alla sua azienda. Ne ricordavo il nome, immagino che sia stata la ragazza del centralino a rispondermi, e io per un po' l'ho descritta a quella lì, chiunque fosse, ho detto che non assomigliava al tipo normale di intervistatrice; e allora hanno indovinato chi era. Non mi ha mai detto il suo nome.» Non era passato per la testa a Marian di non avergli detto il proprio nome. Aveva dato per scontato che l'avesse sempre saputo. Il suo passaggio a un nuovo argomento sembrò averlo portato a un punto morto. Guardava fisso il pavimento, aspirando dal mozzicone della sigaretta. Quel silenzio le parve sconcertante. «Perché le piace tanto stirare?» chiese. «Voglio dire, oltre a scaricarle la tensione e tutto il resto; ma perché proprio stirare? Invece del bowling, per esempio?» Egli sollevò le gambe sottili e si abbracciò le ginocchia. «Stirare è bello e semplice», disse. «Vengo preso tutto nell'intrico delle parole quando metto insieme quelle composizioni interminabili, a proposito ne ho per le mani un'altra, 'Modelli sadomasochistici in Trollope', e stirare... be', si spianano le cose e le si appiattiscono. Dio mi è testimone che non è perché io sia pulito e ordinato; ma c'è qualcosa in una superficie piatta...» Aveva cambiato posizione e ora la stava guardando. «Perché non mi lascia dare un colpetto alla sua camicetta mentre il ferro è ancora caldo?» disse. «Solo alle maniche e al collo. Mi pare che si sia lasciata scappare qualche piega.» «Vuole dire quella che ho indosso?» «Proprio quella», disse lui. Si tolse le braccia da attorno alle ginocchia e si alzò. «Ecco, può mettersi la mia vestaglia. Non si preoccupi, non sbircerò.» Tirò fuori dallo sgabuzzino un oggetto grigio, glielo porse, e le voltò le spalle. Marian rimase lì per un attimo, col fagotto grigio fra le mani, incerta sul da farsi. Eseguire quello che lui le aveva suggerito, lo sapeva, l'avrebbe fatta sentire stupida e a disagio; ma dire, a questo punto: «No grazie, preferirei di no», quando la richiesta era ovviamente innocua, l'avrebbe fatta sentire persino più stupida. Dopo un minuto si trovò intenta a sbottonarsi, poi a infilarsi la vestaglia. Era di gran lunga troppo grande per lei: le maniche le ricoprivano le mani e il bordo inferiore spazzava il pavimento. «Eccola accontentata», disse.
Lo osservò con una punta d'ansia mentre maneggiava il ferro. Questa volta l'attività sembrava più critica, era come una mano pericolosa che si muovesse avanti e indietro, lentamente, a un pollice da lei; l'indumento era stato così da poco vicino alla sua pelle. Se però la brucia o ci fa qualcosa del genere, pensò, posso sempre mettermene una delle altre. «Ecco», egli disse, «tutto fatto.» Disinserì di nuovo il ferro e appese la camicetta all'estremità più stretta dell'asse. Sembrava si fosse dimenticato che lei avrebbe dovuto indossarla. Poi, inaspettatamente, venne verso il letto, si trascinò su di esso accanto a lei e si stese di schiena con gli occhi chiusi e le braccia dietro la testa. «Dio», disse, «tutte queste distrazioni. Come si fa a andare avanti? Sono come le composizioni trimestrali, si produce tutta quella roba e non serve mai a niente, si prende semplicemente un voto e la si getta nell'immondizia, si sa che qualche altro disgraziato contatore di virgole si farà vivo l'anno dopo e dovrà rifare daccapo la stessa roba, è una noia, persino stirare, si stira quella maledetta roba e poi la si indossa e si gualcisce di nuovo.» «Bene, e allora lei può stirarla di nuovo, no?» disse Marian per consolarlo. «Se rimanesse in ordine non avrebbe niente da fare.» «Forse farei qualcosa di utile, tanto per cambiare», disse. Teneva ancora gli occhi chiusi. «Produzione-consumo. Uno comincia a chiedersi se non si tratti semplicemente di trasformare un genere di porcheria in un altro genere. La mente umana è stata l'ultima cosa a venir commercializzata, ma adesso se la cavano bene; che differenza c'è fra gli scaffali di una biblioteca e uno di quei cimiteri di auto usate? Quel che mi preoccupa, però, è che niente è mai definitivo; non si può mai finire niente. Ho questo grandioso piano delle foglie permanenti sugli alberi, è uno spreco che ne abbiano da produrre di nuove ogni anno; e se ci pensa, non c'è assolutamente nessuna ragione neppure perché debbano essere verdi; io le farei bianche. Tronchi neri e foglie bianche. Non vedo l'ora che nevichi, in questa città d'estate c'è davvero troppa vegetazione, è soffocante, e poi cade e rimane lì per terra. Quello che mi piace del posto da cui provengo, è una città mineraria, è che là non c'è gran che di niente ma almeno non esiste vegetazione. A un sacco di gente non piacerebbe. È tutta colpa delle fonderie, ciminiere alte quanto il cielo, e i bagliori rossi del fumo di notte, e le esalazioni chimiche hanno bruciato gli alberi per miglia tutt'intorno, è arido, niente tranne roccia arida, persino l'erba non cresce sulla maggior parte di essa, e ci sono anche i mucchi di scorie; dove l'acqua si raccoglie sulla roccia è d'un colore giallastro a causa degli agenti chimici. Niente ci crescerebbe, anche se uno ce lo
piantasse; io ero solito uscire di città e sedermi sulle rocce, verso questa stagione, aspettando la neve...» Marian era seduta sul bordo del letto, piegata leggermente verso la sua faccia che parlava, ascoltando soltanto a metà quella voce monotona. Studiava il contorno del suo cranio sotto la pelle cartacea, meravigliandosi che qualcuno potesse essere così sottile e rimanere ancora in vita. Ora non aveva il desiderio di toccarlo, era persino leggermente disgustata dalla cavità delle occhiaie, dal perno angolare della mascella che si muoveva su e giù davanti all'orecchio. Improvvisamente aprì gli occhi. La stette a fissare per un minuto come se non si ricordasse chi era e come era capitata nella sua stanza da letto. «Ehi», disse finalmente con un tono di voce diverso, «con quella addosso assomiglia quasi a me.» Allungò la mano e tirò la spalla della vestaglia, trascinando Marian giù. Essa si lasciò cadere. Il passaggio da quella monotona voce ipnotica, e poi la constatazione che egli aveva della vera carne, un corpo come la maggior parte dell'altra gente, dapprima la fece trasalire. Sentì il proprio corpo irrigidirsi in segno di resistenza, cominciare ad allontanarsi; ma ora egli la cingeva con entrambe le braccia. Era più forte di quanto avesse creduto. Non era certa di quel che stava accadendo: in qualche parte della sua mente c'era il penoso sospetto che ciò che egli stava in realtà accarezzando era la propria vestaglia, e che lei c'era dentro semplicemente per caso. Allontanò il volto e lo guardò. Aveva gli occhi chiusi. Gli baciò la punta del naso. «Penso che sarebbe bene che ti dicessi una cosa», essa fece con dolcezza, «sono fidanzata.» In quel momento non le riusciva di ricordare con esattezza le sembianze di Peter, ma il ricordo del suo nome l'accusava. I suoi occhi scuri si aprirono e la guardarono con aria assente. «È un problema che riguarda te, allora», disse. «Sarebbe come se io ti venissi a dire che ho preso trenta nella mia composizione sulla Pornografia dei Preraffaelliti... interessante, ma non ha molto a che fare con niente. Ti pare?» «Be', ma ce l'ha», lei disse. La situazione si stava rapidamente trasformando in un caso di coscienza. «Mi devo sposare, sai. Non dovrei essere qui.» «Ma ci sei.» Sorrise. «In realtà sono contento che tu me l'abbia detto. Mi fa sentire molto più al sicuro. Perché, davvero», disse con aria sincera, «non voglio che tu pensi che tutto questo possa significare qualcosa. Non significa per così dire mai niente, per me. In realtà succede tutto a qualcun altro.» Le baciò la punta del naso. «Sei soltanto un altro surrogato della la-
vagettone.» Marian si chiese se i suoi sentimenti dovessero sentirsi feriti, ma concluse che non lo erano: invece, era un po' sollevata. «Allora vorrei sapere di cosa sei il surrogato tu», disse. «Questo è il bello di me. Sono molto flessibile, sono il surrogato universale.» Allungò la mano al di sopra della testa di lei e spense la luce. Non molto tempo dopo la porta d'ingresso fu aperta e richiusa, lasciando entrare il rumore di un certo numero di passi pesanti. «Oh, merda», disse lui, da qualche parte dentro la vestaglia. «Sono tornati.» La spinse a sedere, riaccese la luce, le richiuse la vestaglia addosso con uno strattone e sgusciò via dal letto, appiattendosi i capelli sulla fronte con entrambe le mani e poi aggiustandosi il pullover. Rimase per un attimo in mezzo alla stanza, guardando furibondo il vano della porta, poi attraversò d'un balzo la stanza, afferrò la scacchiera, la buttò sul letto e si sedette di fronte a lei. Svelto, cominciò a rimettere in piedi i pezzi ribaltati. «Salve», disse calmo un momento dopo a qualcuno che presumibilmente era comparso nel vano della porta. Marian si sentiva troppo in disordine per guardarsi attorno. «Stavamo soltanto facendo una partita a scacchi.» «Oh, bravi», disse una voce in tono dubbioso. «Perché tanto agitato per questo?» disse Marian, quando, chiunque fosse, il tipo se ne fu andato nel bagno e ebbe chiuso la porta. «Non c'è nessun motivo per essere sconvolti, è tutto perfettamente naturale, sai. Caso mai, è colpa loro per essere piombati dentro così.» Lei stessa si sentiva terribilmente colpevole. «Be', te l'ho detto», fece lui, guardando allo schema ordinato dei pezzi sulla scacchiera. «Loro pensano di essere i miei genitori. Lo sai che i genitori non le capiscono mai queste cose. Penserebbero che mi stai corrompendo. Bisogna proteggerli dalla realtà dei fatti.» Allungò il braccio al di là della scacchiera e le afferrò la mano. Le dita di lui erano secche e piuttosto fredde. 17 Marian abbassò gli occhi sulla piccola immagine argentea riflessa nella conca del cucchiaio: lei stessa rovesciata, con un torso enorme che si assottigliava fino a diventare una capocchia di spillo all'estremità del manico. Inclinò il cucchiaio e la sua fronte si gonfiò per poi recedere. Si sentiva serena.
Rivolse uno sguardo amorevole al di là della tovaglia bianca, dei piatti e del cestino dei panini, a Peter, il quale le sorrise di rimando. Gli angoli e le curve del suo volto erano messi in rilievo dal bagliore arancione della candela col paralume, a lato del tavolo; in ombra il suo mento era più forte, i suoi lineamenti non così dolci. Veramente, essa pensò, chiunque, a vederlo, lo troverebbe eccezionalmente bello. Indossava uno dei suoi bei completi invernali - vestito scuro, cravatta oscuramente fastosa - non così elegante come qualcuno dei suoi vestiti da giovanotto mondano, ma più quietamente solenne. Ainsley una volta lo aveva definito «ben impacchettato», ma ora Marian concluse di trovare attraente questa qualità. Sapeva come confondersi e mettersi in vista nello stesso tempo. Certi uomini non riuscivano mai a indossare dei vestiti scuri nella maniera dovuta, si riempivano di forfora sulle spalle e facevano la schiena lucida, ma Peter non aveva mai forfora e non era mai lucido nel posto sbagliato. Il senso di orgogliosa proprietà che essa provò nel sentirsi con lui lì, in quella guisa più o meno pubblica, la indusse a allungare il braccio al di là del tavolo e a prendergli la mano. Per tutta risposta egli posò la sua sopra quella di lei. Comparve il cameriere col vino e Peter lo assaggiò e assentì. Il cameriere versò e si ritirò nell'oscurità. Questo era un altro lato piacevole di Peter. Riusciva a prendere quel tipo di decisione con tale facilità. Essa aveva preso l'abitudine, da un mese o giù di lì, di lasciarlo scegliere per lei. Questo l'aveva liberata dall'incertezza che si era accorta di mostrare davanti a un menù: non sapeva mai cosa prendere. Ma Peter riusciva a decidere subito per tutti e due. Le sue preferenze andavano alla bistecca e al roast beef: non gli andavano cose strane come le animelle, e il pesce non gli piaceva assolutamente. Questa sera avevano preso del Filet Mignon. Era già piuttosto tardi, avevano trascorso le prime ore della serata nell'appartamento di Peter e tutti e due erano, come si erano detti l'un l'altra, famelici. In attesa del cibo ripresero la conversazione iniziata in precedenza, mentre si stavano rivestendo, sulla giusta educazione dei figli. Peter parlava in via teorica, dei bambini come categoria, evitando con cura qualsiasi accenno concreto. Ma essa sapeva perfettamente che era dei loro futuri figli che in realtà stavano discutendo: ecco perché era così importante. Peter pensava che tutti i bambini dovessero venir puniti per le infrazioni alla disciplina, anche con punizioni fisiche. Naturalmente nessuno avrebbe mai dovuto picchiare un bambino con ira; la cosa importante era essere coerenti. Marian temeva di guastare la loro vita emotiva.
«Cara, tu non capisci queste cose», disse Peter; «tu hai avuto una vita ritirata.» Le premette la mano. «Ma io ho visto i risultati, i tribunali ne sono pieni, delinquenti minorenni, e un sacco di loro anche di buona famiglia. È un problema complesso.» Si compresse le labbra. Marian era segretamente convinta di aver ragione e si risentì perché le aveva detto che aveva condotto una vita ritirata. «Ma non bisognerebbe dargli comprensione invece di...?» Egli sorrise con indulgenza. «Cerca di dare della comprensione a qualcuno di quei piccoli teppisti: i ragazzi delle moto, i drogati e i renitenti alla leva che vengono dagli Stati Uniti. Non ne hai mai visto uno da vicino, scommetto; alcuni hanno le cimici. Tu pensi di poter risolvere tutto con la buona volontà, Marian, ma non funziona; non hanno il minimo senso di responsabilità, scorrazzano fracassando la roba solo perché si sentono di fare così. Ecco come sono stati tirati su, nessuno li ha menati severamente quando lo meritavano. Pensano che il mondo debba dar loro di che vivere.» «Forse», disse Marian compita, «qualcuno li ha picchiati a dovere quando non lo meritavano. I bambini sono molto sensibili alle ingiustizie, lo sai.» «Oh, io sono tutto in favore della giustizia», disse Peter. «Che ne dici della giustizia per quelle persone di cui distruggono la proprietà?» «Gli insegneresti a non guidare abbattendo le siepi degli altri, suppongo.» Peter ridacchiò di cuore. La disapprovazione di lei per quell'episodio e il modo in cui lui la irrideva erano divenuti uno dei punti di riferimento del loro nuovo rapporto. Ma la serenità di Marian era svanita con l'osservazione che essa aveva fatto. Guardò attentamente Peter, cercando di vedere i suoi occhi, ma lui stava osservando il suo bicchiere, magari ammirando la liquida vivacità del rosso contro il bianco della tovaglia. Si era un po' appoggiato alla spalliera e ora il suo volto era in ombra. Essa si chiese perché dei ristoranti come quello venivano tenuti così al buio. Probabilmente per impedire alla gente di vedersi chiaramente mentre stava mangiando. Dopo tutto, masticare e deglutire sono azioni più piacevoli per coloro che le compiono che per chi sta a guardare, pensò, e osservare il proprio compagno troppo da vicino avrebbe potuto dissipare l'alone di romanticismo che il ristorante cercava di conservare. O di creare. Esaminò la lama del suo coltello. Il cameriere si fece avanti da un qualche recesso, sommesso e destro
come un gatto sul pavimento ricoperto di tappeti, e le mise davanti la sua ordinazione: la bistecca su un piatto di legno, che trasudava sugo entro il suo orlo di pancetta. A entrambi piaceva poco cotta: sincronizzare i tempi di cottura non sarebbe comunque mai stato un problema. Marian era così affamata che avrebbe voluto divorare la bistecca in un solo boccone. Cominciò a affettare e a masticare, portando il cibo allo stomaco grato. Stava riflettendo sulla conversazione, cercando di raggiungere un'idea più chiara di ciò che aveva inteso con la parola «giustizia». Pensò che dovesse significare essere equi, ma anche l'idea di questo diventava confusa nei contorni se la analizzava. Voleva dire occhio per occhio? E a cosa serviva comunque distruggere l'occhio di qualcun altro se si era perso il proprio? Che dire del risarcimento? Sembrava fosse una faccenda di soldi, come negli incidenti stradali; uno poteva ricevere dei soldi persino per essere stato angosciato. Una volta su un tram aveva visto una madre mordere un bambino perché questo aveva morso lei. Rosicchiò pensosa un pezzo di carne dura e lo inghiottì. Peter, essa concluse, oggi non era lui. Aveva avuto una causa difficile, che comportava un sacco di ricerche complicate; aveva preso in esame un precedente dopo l'altro soltanto per scoprire che tutti favorivano l'avversario. Questo era il motivo per cui si pronunciava con tanta durezza: era frustrato dalle complicazioni, voleva la semplicità. Avrebbe dovuto rendersi conto però che se le leggi non fossero state complesse non avrebbe mai guadagnato soldi. Allungò la mano verso il bicchiere del vino e alzò gli occhi. Peter la stava osservando. Lui aveva quasi finito e lei non era neanche a metà. «Pensierosa?» egli disse con voce dolce. «Non esattamente. Soltanto distratta.» Gli sorrise e rivolse di nuovo l'attenzione al piatto. Negli ultimi tempi l'aveva guardata sempre di più. Prima, durante l'estate, essa pensava che non la guardasse spesso, che non la vedesse veramente spesso; a letto, dopo, si stendeva accanto a lei e premeva la propria faccia contro la sua spalla, e delle volte si addormentava. Adesso tuttavia le appuntava gli occhi in faccia, concentrandosi su di lei come se, guardandola con sufficiente intensità, potesse scorgere, attraverso la carne e il cranio di lei, il lavorio del suo cervello. Essa non capiva cosa cercasse quando la guardava così. La metteva a disagio. Spesso, quando giacevano a fianco a fianco esausti, sul letto, essa apriva gli occhi e si accorgeva che la stava guardando così, forse nella speranza di cogliere
un'espressione segreta su quel volto. Poi le passava dolcemente la mano sulla pelle, senza passione, quasi con aria clinica, come se potesse imparare col tatto cos'era quel qualcosa di indefinito che era sfuggito alla sonda dei suoi occhi. Oppure come se stesse cercando di impararla a memoria. Era quando essa cominciava a avere la sensazione di essere sul lettino di un medico che gli afferrava la mano per farlo smettere. Spilluzzicò l'insalata, rivoltando con la forchetta le varie cose contenute nella ciotola di legno: voleva un pezzo di pomodoro. Forse egli aveva messo le mani su uno di quei manuali per il matrimonio; forse questo era il motivo. Sarebbe stato proprio da Peter, pensò con tenerezza. Se uno aveva qualcosa di nuovo andava a comprare un libro che gli diceva come farlo funzionare. Pensò ai libri e alle riviste sulle macchine fotografiche che facevano parte della collezione nello scaffale di mezzo della sua stanza, fra i libri di legge e i romanzi polizieschi. E teneva sempre il manuale dell'automobile nel cassetto ripostiglio della macchina. Così sarebbe stato in armonia col suo tipo di logica andare a comprare un libro sul matrimonio, ora che stava per sposarsi; uno di quelli con dei diagrammi facili da seguire. Era divertita. Infilzò e divorò un'oliva nera dell'insalata. Doveva essere così. La giudicava come avrebbe fatto con una nuova macchina fotografica, cercando di trovare il complesso centrale di rotelle e minuscoli meccanismi, i possibili punti deboli, il tipo di prestazione futura da aspettarsi: le molle della macchina. Voleva sapere cosa la faceva funzionare. Se era questo che stava cercando... Sorrise fra sé e sé. Ora sto lavorando di fantasia, pensò. Egli aveva quasi finito. Essa osservò le mani capaci che tenevano il coltello e la forchetta, che affettavano con precisione, con un'esatta determinazione delle pressioni. Con quanta abilità lo faceva: non strappava nulla, non c'erano margini sfilacciati. E tuttavia era un'azione violenta, tagliare; e la violenza, riferita a Peter, le sembrava un'assurdità. Come la pubblicità della Birra Moose, che aveva cominciato a apparire dovunque, sulle carrozze della metropolitana, sulle staccionate, sulle riviste. Siccome essa aveva lavorato all'inchiesta precedente al lancio si sentiva in parte responsabile per quei manifesti; non che le dessero alcun fastidio. Il pescatore in mezzo al torrente, che metteva la trota nella rete, era troppo azzimato: pareva che si fosse appena pettinato, alcune ciocche incollate bellamente alla fronte per mostrare che tirava il vento. E anche il pesce era irreale; non aveva fango, né denti né odore; era un bel giocattolo di metallo smaltato. Il
cacciatore che aveva ucciso un cervo era in posa e civile, nessun rametto fra i capelli, le mani senza una macchia di sangue. Naturalmente bisognava che un manifesto pubblicitario non fosse brutto o sconvolgente; non sarebbe stato bene, a esempio, che ci fosse stato un cervo con la lingua fuori. Le venne in mente il giornale di quella mattina, la storia in prima pagina a cui aveva dato una scorsa senza prestare molta attenzione. Il ragazzino impazzito che aveva preso un fucile e aveva ucciso nove persone prima di essere messo con le spalle al muro dalla polizia. Aveva sparato dalla finestra di un piano superiore. Ora se ne ricordava, era grigio e bianco, afferrato da due poliziotti più scuri, gli occhi lontani, circospetti. Non era il tipo che avrebbe colpito qualcuno con un pugno o magari usato il coltello. Quando sceglieva la violenza, era una violenza a distanza, una manipolazione di strumenti specializzati, il dito che guida ma non tocca mai, lui stesso che osserva l'esplosione di lontano; l'esplosione della carne e del sangue. Era una violenza della mente, quasi come una magia: si pensava a qualcosa e accadeva. Guardarlo all'opera sulla bistecca in quel modo (prima tagliava una fetta diritta e poi la divideva in bei cubetti), le fece pensare al diagramma della Mucca Programmata sulla copertina di uno dei suoi libri di cucina: la mucca ricoperta di linee e di etichette per mostrare da quale parte della mucca erano presi tutti i diversi tagli. Quel che ora stavano mangiando, essa pensò, veniva da qualche parte posteriore: tagliata lungo la linea tratteggiata. Vedeva file di macellai da qualche parte in un'ampia stanza, una scuola di macelleria, seduti a dei tavoli, vestiti di un bianco immacolato, ciascuno con un paio di forbici spuntate, che tagliavano bistecche, coste e pezzi per l'arrosto dalle pile di figurine di mucche di carta marrone poste davanti a loro. La mucca del libro, le venne in mente, era disegnata con gli occhi, le corna e una mammella. Stava lì in posa del tutto naturale, assolutamente incurante degli strani segni tracciati sulla sua pelle. Forse con molte e attente ricerche avrebbero finito col riuscire a allevarle, pensò, in modo che nascessero già con le linee e le misure. Abbassò gli occhi sulla sua bistecca mangiata a metà e improvvisamente la vide come un pezzo di muscolo. Rosso sangue. La parte di una vera mucca che una volta si muoveva e mangiava e era stata uccisa, colpita al capo mentre era in una fila, come uno che aspetta il tram. Naturalmente tutti lo sapevano. Ma per lo più non ci pensavano mai. Nel supermercato l'avevano tutta preventivamente impacchettata nel cellofan, con le etichette del nome e del prezzo appiccicate sopra, e era proprio come comprare un
vasetto di crema di arachidi, o un barattolo di piselli, e anche quando si andava da un macellaio la incartavano con una tale rapidità e efficienza che veniva resa pulita, ufficiale. Ma ora era improvvisamente lì di fronte a lei, senza nessun diaframma di carta, era carne e sangue, cruda, e l'aveva divorata. Se ne era ingozzata. Posò coltello e forchetta. Avvertì di essere alquanto impallidita, e sperava che Peter non se ne accorgesse. «È ridicolo», si ammonì. «Tutti mangiano carne di mucca, è naturale; bisogna mangiare per sopravvivere, la carne fa bene, contiene un sacco di proteine e di minerali.» Raccolse la forchetta, infilzò un pezzo di carne, lo sollevò e lo posò di nuovo. Peter alzò la testa, sorridente. «Cristo, avevo fame», disse, «sono stato proprio contento di mettermi nello stomaco quella bistecca. Un buon pasto ti fa sempre sentire un po' più umano.» Essa assentì e ricambiò debolmente il suo sorriso. Egli posò lo sguardo sul piatto di lei. «Cosa c'è, cara? Non hai finito.» «No», disse lei, «mi sembra di non aver più fame. Credo di essere piena.» Intendeva dire, col suo tono di voce, che il suo stomaco era troppo piccolo e debole per affrontare quella gran quantità di cibo. Peter sorrise e masticò, piacevolmente consapevole della propria maggiore capienza. «Dio», essa pensò tra sé, «spero che non duri; morirò di fame!» Rimase seduta, torcendosi tristemente il tovagliolo fra le dita, a osservare l'ultimo pezzo della bistecca di Peter scomparirgli in bocca. 18 Marian era seduta al tavolo della cucina, intenta a mangiare sconsolata della crema di arachidi e a rivoltare le pagine del suo libro più grosso di ricette. Il giorno dopo l'episodio della bistecca non era riuscita a mangiare una braciola di maiale, e da allora, per varie settimane, aveva fatto esperimenti. Aveva scoperto che non soltanto la carne troppo palesemente tagliata dalla Mucca Programmata era immangiabile per lei, ma che anche il Maiale Programmato e la Pecora Programmata le erano similmente proibiti. Quale che fosse la parte di lei che aveva preso queste decisioni, la sua mente no di certo, rifiutava qualsiasi cosa che mostrasse tracce di osso, o tendine o muscolo. La carne che era stata tritata e rimodellata, gli hot dog e gli hamburger, per esempio, o le polpette di agnello o le salsicce di maiale andavano bene purché non li guardasse troppo da vicino, e il pesce le era
ancora accessibile. Aveva avuto paura di assaggiare il pollo: una volta ne era stata ghiotta, ma si presentava con una struttura scheletrica spiacevolmente completa, e la pelle, così prevedeva, sarebbe stata troppo simile a un braccio con la pelle d'oca. Per ingerire le varie proteine aveva mangiato frittate, arachidi e una gran quantità di formaggio. Il suo tranquillo timore, che veniva maggiormente a galla ora che scorreva le pagine - era al capitolo delle «Insalate» - era che questo fenomeno, questo rifiuto della sua bocca di mangiare, fosse qualcosa di maligno; che si sarebbe sparso; che lentamente il circolo che ora divideva il commestibile dal non commestibile si sarebbe rimpicciolito sempre di più, che i cibi alla sua portata sarebbero stati esclusi uno alla volta. «Sto diventando vegetariana», pensava tristemente, «uno di quegli svitati; dovrò cominciare a pranzare nei Ristoranti della Salute.» Lesse, con disgusto, una rubrica intitolata Suggerimenti per servire lo yogurt. «Per insaporirlo spargetevi sopra delle noci tritate!» proponeva la redattrice giuliva. Squillò il telefono. Prima di alzarsi e di rispondere lo lasciò suonare un paio di volte. Non si sentiva di parlare con nessuno e dovette fare uno sforzo per distogliersi dal dolce regno della lattuga, del crescione e delle salse di erbe piccanti. «Marian?» Era la voce di Leonard Slank. «Sei tu?» «Sì, salve Len», disse. «Come stai?» Era da molto che non lo vedeva e non gli parlava. Aveva un tono pressante. «Sei sola? Voglio dire, Ainsley è lì?» «No, non è ancora tornata dal lavoro. Ha detto che sarebbe andata a fare delle compere.» Era il periodo natalizio; lo era, così sembrava, da diversi mesi; e i negozi rimanevano aperti fino alle nove. «Ma ti posso far chiamare quando rientra.» «No no», si affrettò a dire lui. «È con te che voglio parlare. Posso venire?» Peter quella sera era occupato con una causa, perciò tecnicamente essa non era impegnata; e il cervello non le fornì nessuna scusa. «Certo, naturalmente Len», disse. Così gliene ha parlato, pensò mentre metteva giù il telefono. Quell'idiota. Vorrei sapere perché l'ha fatto. Ainsley nelle ultime settimane era stata del massimo buon umore. Era stata sicura fin dall'inizio di essere incinta e con la mente si era soffermata sulle attività del proprio corpo con l'attenta sollecitudine di uno scienziato verso una provetta decisiva, in attesa del mutamento definitivo. Trascorreva più tempo del solito in cucina, cercando di stabilire se aveva strane
voglie oppure no e assaggiando una gran quantità di cibi per vedere se avevano un sapore per nulla diverso, riferendo le sue scoperte a Marian: il tè, diceva, era più amaro, le uova sapevano di zolfo. Saliva sul letto di Marian per esaminarsi il profilo della pancia alla specchiera del cassettone di Marian, che era più grande della sua. Quando girovagava per l'appartamento canticchiava fra sé e sé, costantemente, in maniera insopportabile; e finalmente una mattina aveva vomitato nell'acquaio della cucina, con sua immensa soddisfazione. Alla fine era arrivato il momento di andare da un ginecologo e proprio il giorno prima si era lanciata su per le scale, il volto raggiante, sventolando una busta: il risultato era positivo. Marian si congratulò con lei, ma non con l'aria arcigna che avrebbe mostrato se fosse accaduto vari mesi prima. Allora, avrebbe dovuto affrontare i problemi che ne sarebbero derivati, quali dove sarebbe andata a vivere Ainsley - la signora di sotto non l'avrebbe certamente tollerata una volta che si fosse ingrossata - e se lei a sua volta si sarebbe trovata un'altra compagna di stanza e, in tal caso, se si sarebbe sentita colpevole per aver abbandonato Ainsley, e sennò, se era in grado di affrontare tutte le complicazioni e le tensioni che sarebbero derivate dal convivere con una ragazza madre e un neonato. Ma ora non erano affari suoi, e si poteva permettere di apparire sinceramente contenta per Ainsley. Dopo tutto, lei stessa era alla vigilia di sposarsi; aveva rotto i vincoli con lei. Era perché non voleva venir coinvolta che la telefonata di Len la irritò. Dal tono della sua voce aveva dedotto che Ainsley gli aveva detto qualcosa, ma dalla conversazione non si era capito bene cosa sapesse esattamente. Era già decisa ad essere il più possibile passiva. Avrebbe ascoltato, naturalmente - aveva orecchie, non poteva negarlo - qualsiasi cosa avesse da dire (cosa poteva dire, comunque? La sua funzione, quale era stata, era terminata); ma oltre a questo, non c'era nulla che essa potesse fare. Si sentiva incapace di risolvere la situazione, e anche irritata. Se Len voleva parlare con qualcuno, avrebbe dovuto farlo con Ainsley. Era lei quella che aveva le risposte. Marian mangiò un'altra cucchiaiata di crema di arachidi, detestando il modo in cui si appiccicava al palato, e per ingannare il tempo si rivolse al capitolo sui crostacei e lesse la parte che trattava del modo di sgusciare i gamberetti (chi, si chiese, comprava ancora dei veri gamberetti?) e poi le istruzioni per le tartarughe, che negli ultimi tempi aveva cominciato a trovare interessanti: che genere di interesse fosse di preciso, non lo sapeva. Avrebbe dovuto tener viva la sua tartaruga in una scatola di cartone o in
un'altra gabbia per circa una settimana, volendole bene e nutrendola di hamburger per liberarla dalle impurità. Poi, proprio quando cominciava a fidarsi di lei e magari a seguirla per la cucina come un lento ma devoto spaniel dal guscio duro, un giorno la metteva in un paiolo di acqua fredda (dove, in principio, si sarebbe messa senza dubbio a nuotare e a tuffarsi felice) che poi portava lentamente a bollore. L'intero procedimento ricordava la morte dei primi martiri cristiani. Che cose diaboliche avvenivano nelle cucine di tutto il paese, sotto il pretesto di fornire cibo! Ma l'unica alternativa sembravano essere i surrogati avvolti in cellofan, rivestiti di plastica e inscatolati nel cartone. Surrogati, o semplici travestimenti? A ogni modo, qualsiasi uccisione fosse avvenuta, era stata compiuta con efficienza, da qualcun altro, in precedenza. Di sotto suonò il campanello. Marian si irrigidì, ascoltando: non voleva correre giù per le scale se non ce n'era bisogno. Sentì un parlottare di voci e il rimbombo della porta che si chiudeva. La signora di sotto era stata all'erta. Sospirò, chiuse il libro delle ricette, gettò il cucchiaio nel lavandino dopo averlo leccato un'ultima volta, e avvitò il coperchio del vasetto della crema di arachidi. «Salve», disse a Len mentre questi emergeva, bianco in faccia e senza fiato, dal pozzo delle scale. Aveva un aspetto malato. «Vieni avanti e siediti.» Poi, siccome erano soltanto le sei e mezzo, gli chiese: «Hai cenato? Posso darti qualcosa?» Voleva preparargli qualcosa, magari soltanto un panino con pancetta e pomodori. Da quando i suoi rapporti col cibo erano divenuti ambigui si era accorta di provare un piacere perverso nel guardare gli altri mangiare. «No grazie», disse lui, «non ho fame. Ma potrei bere qualcosa se ne hai.» Entrò nel salotto e sprofondò nel divano come se il suo corpo fosse un sacco che egli era troppo stanco per tirarsi ancora dietro. «Ho soltanto della birra... ti va?» Andò in cucina, aprì due bottiglie e le portò nel salotto. Con un amico intimo come Len non badò alla formalità dei bicchieri. «Grazie», disse lui. Rivoltò la tozza bottiglia marrone. La sua bocca, increspata come un bocciolo attorno al collo della bottiglia, fu per un attimo stranamente infantile. «Cristo, se ne avevo bisogno!» disse, posando la bottiglia sul tavolinetto. «Immagino che te lo debba aver detto.» Marian sorseggiò la birra prima di rispondere. Era Birra Moose; ne aveva comprato qualche bottiglia per curiosità. Aveva esattamente lo stesso sapore di tutte le altre marche.
«Vuoi dire che è incinta», disse in un neutro tono discorsivo. «Sì, naturale.» Len gemette. Si tolse gli occhiali dalla montatura di corno e si premette una mano sugli occhi. «Dio, mi sento male soltanto a pensarci», disse. «Sono rimasto così stravolto quando me l'ha detto, dio l'avevo soltanto chiamata per sentire se veniva a prendere un caffè con me, mi ha come evitato fin da quella notte, immagino che tutta la faccenda l'abbia sconvolta, e poi sentirselo dire direttamente al telefono. Non sono riuscito a lavorare per tutto il pomeriggio. Ho riattaccato proprio a metà della conversazione, non so cosa abbia pensato lei ma non ne ho potuto fare a meno. È così una ragazzina, Marian, voglio dire che le donne, per lo più, diresti, diavolo, probabilmente se lo sono meritato, sporche sgualdrine comunque, non che una cosa del genere mi sia mai capitata prima. Ma lei è così giovane. Quel che mi manda in bestia è che non riesco davvero a ricordarmi cosa sia successo quella sera. Siamo tornati qui a prendere il caffè, e io mi sentivo così giù e quella bottiglia di whisky era sul tavolo e mi ci sono attaccato. Naturalmente non nego che le stavo facendo il filo da un po', ma, be', non me l'aspettavo, voglio dire che non ero pronto, cioè sarei stato molto più attento. Che casino. Cosa farò?» Marian sedeva guardandolo in silenzio. Ainsley, allora, non aveva avuto la possibilità di spiegargli le sue ragioni. Si chiese se avrebbe dovuto tentare di sbrogliare, per fare un favore a Len, quel garbuglio piuttosto improbabile, oppure aspettare e lasciare che Ainsley lo facesse da sé, come di diritto avrebbe dovuto. «Voglio dire che non posso sposarla», disse Len sconsolato. «Fare il marito sarebbe già brutto, sono troppo giovane per sposarmi, ma riesci a immaginarmi come marito e padre?» Emise un piccolo gorgoglio e si attaccò di nuovo alla bottiglia della birra. «La nascita», disse, con voce più alta e più stravolta, «la nascita mi terrorizza. È rivoltante. Non riesco a sopportare il pensiero di avere» - fremette - «un bambino.» «Be', non sei tu che lo devi avere, lo sai», disse Marian in tono ragionevole. Len si volse verso di lei col volto contorto, implorante. Il contrasto fra quest'uomo con gli occhi esposti e deboli, privi del loro consueto recinto di vetro e tartaruga, e il facondo, intelligente, leggermente malizioso Len che aveva sempre conosciuto, era penoso. «Marian», disse, «ti prego, non puoi tentare di ragionare con lei? Se soltanto decidesse di abortire, naturalmente pagherò io.» Deglutì; essa osservò il suo pomo di Adamo alzarsi e abbas-
sarsi. Non aveva immaginato che qualcosa potesse renderlo così infelice. «Temo di no», essa disse con dolcezza. «Vedi, tutto sta nel fatto che lei voleva essere messa incinta.» «Lei cosa?» «L'ha fatto di proposito. Voleva essere messa incinta.» «Questo è ridicolo! Nessuna vuole essere messa incinta. Nessuna farebbe deliberatamente una cosa simile!» Marian sorrise; ora era ingenuo, un tratto che lei trovava amabile, in un modo quasi appiccicoso. Ebbe la sensazione che avrebbe dovuto prenderlo sulle ginocchia e dirgli: «Ora, Leonard, è arrivato proprio il momento che ti parli del Sesso». «Ti sorprenderesti», disse, «sono molte a farlo. Di questi tempi è di moda, lo sai; e Ainsley legge un sacco; all'università era particolarmente amante dell'antropologia, ed è convinta che nessuna donna abbia realizzato la propria femminilità se non ha avuto un figlio. Ma non ti preoccupare, non sarai coinvolto oltre. Lei non vuole un marito, soltanto un figlio. Perciò tu hai fatto già la tua piccola parte.» Len incontrava difficoltà a crederle. Si mise gli occhiali, la fissò attraverso di essi e se li tolse di nuovo. Ci fu un momento di silenzio mentre beveva altra birra. «Così è stata anche all'università. Avrei dovuto saperlo. Ecco che cosa ci ricaviamo», disse in tono cattivo, «a dare un'istruzione alle donne. Si mettono in testa ogni genere di idee ridicole.» «Oh, non lo so», disse Marian con una punta di asprezza, «c'è anche qualche uomo a cui non fa molto bene.» Len sobbalzò. «Cioè a me, suppongo. Ma come potevo saperlo? Tu certo non me l'hai detto. Che amica.» «Be', io non avrei mai la presunzione di cercare di dirti come regolare la tua vita», disse Marian indignata. «Ma perché dovresti essere sconvolto ora che lo sai. Non devi fare niente. Si occuperà lei di tutta la faccenda. Credimi, Ainsley è del tutto in grado di badare a se stessa.» L'umore di Leonard sembrò passare rapidamente dalla disperazione all'ira. «Quella sgualdrinella», borbottò. «Cacciarmi in una faccenda simile...» Ci fu un rumore di passi sulle scale. «Ssst», fece Marian, «eccola. Ora sta calmo.» Uscì nel piccolo ingresso a salutare Ainsley. «Salve, aspetta soltanto un momento che ti mostro cosa ho preso», gridò Ainsley, salendo tutta grazia le scale. Si precipitò in cucina, posando i pacchi sulla tavola, togliendosi il cappotto e parlando a perdifiato. «C'era un
tale pigia pigia laggiù ma oltre ai generi alimentari... devo mangiare per due ora, lo sai... oh, e ho preso le pillole di vitamina... e mi sono procurata i modellini più graziosi, aspetta soltanto a vedere.» Esibì un libro di lavori a maglia e poi della lana blu. «Così sarà un maschio», disse Marian. Ainsley spalancò gli occhi. «Ma certo. Cioè, pensavo che potesse esser meglio...» «Be', forse ne avresti dovuto parlare col futuro padre prima di fare i passi necessari. È nel salotto e sembra piuttosto irritato per non essere stato consultato. Capisci», disse Marian con malignità, «può darsi che lui volesse una femmina.» Ainsley spinse indietro una ciocca di capelli biondo rame che le era caduta sulla fronte. «Oh, Len è qui allora?» disse con freddezza pronunciata. «Sì. Sembrava un po' sconvolto al telefono.» Entrò in salotto. Marian non sapeva chi dei due aveva maggior bisogno del suo appoggio o a chi lo avrebbe dato se costretta a scegliere. Seguì Ainsley, consapevole che avrebbe dovuto tirarsene fuori prima che la faccenda si ingarbugliasse molto di più, ma non sapendo come. «Salve, Len», disse Ainsley in tono gaio. «Hai riattaccato prima che avessi la possibilità di spiegarti.» Len non la guardava. «Marian mi ha già spiegato, grazie.» Ainsley sporse le labbra in segno di rimprovero. Evidentemente aveva desiderato farlo lei stessa. «Be', qualcuno aveva il dovere di dirglielo», fece Marian, comprimendosi le labbra con una leggera aria da presbiteriana. «Lui soffriva.» «Forse non avrei dovuto parlartene per niente», disse Ainsley, «ma non sono proprio riuscita a tenermelo dentro. Soltanto pensa, sarò madre! Sono davvero così felice!» Len si era andato gradatamente adirando e gonfiando. «Be', io non ne sono così maledettamente felice», sbottò. «Per tutto il tempo ti sei soltanto servita di me. Che idiota sono stato a credere che fossi dolce e innocente, quando si scopre che in realtà sei stata all'università! Oh, sono tutte uguali. Per me non avevi il minimo interesse. L'unica cosa che volevi da me era il mio corpo!» «Cosa pretendevi da me?» gli chiese con dolcezza Ainsley. «Comunque è tutto quello che ho preso. Tu puoi tenerti il resto. E puoi conservare la tua pace interiore, non ti minaccio con una causa per il riconoscimento della paternità.»
Len si era alzato e misurava il pavimento a lunghi passi, a prudente distanza da Ainsley. «Pace interiore. Ah. Oh no, mi hai coinvolto. Mi hai coinvolto psicologicamente. Dovrai considerarmi padre ora, è un'indecenza, e tutto perché tu» - boccheggiò: l'idea era nuova per lui - «tu hai sedotto me!» Agitò la bottiglia della birra verso di lei. «Ora sarò tutto invischiato mentalmente nella Nascita. La Fecondità. La Gestazione. Non ti rendi conto di cosa si tratterà per me? È osceno, quell'orribile melmoso...» «Non fare l'idiota», disse Ainsley. «È una cosa perfettamente naturale e stupenda. Il rapporto fra madre e figlio in gestazione è il più bello e il più intimo del mondo.» Si stava sporgendo nel vano della porta, guardando verso la finestra. «Il più reciprocamente equilibrato...» «Nauseante!» la interruppe Len. Ainsley si volse verso di lui furiosa. «Stai mostrando i sintomi classici dell'invidia dell'utero. Comunque, da dove diavolo pensi di essere venuto tu? Non da Marte, sai, e la cosa può suonarti nuova ma tua madre non ti ha neppure trovato sotto una pianta di cavolo nell'orto. Tu sei stato tutto raggomitolato dentro il ventre di qualcuna per nove mesi, proprio come chiunque altro e...» La faccia di Len si fece piccola. «Smettila!» gridò. «Non ricordarmelo. Non riesco proprio a sopportarlo, mi farai star male. Non venirmi vicino!» guaì, mentre Ainsley muoveva un passo verso di lui. «Sei impura!» Marian concluse che stava diventando isterico. Si sedette sul bracciolo del divano e si coprì la faccia con le mani. «È stata lei a costringermi», mormorò. «Proprio mia madre. C'erano delle uova per colazione e io aprii il mio e c'era, lo giuro, c'era un piccolo pulcino dentro, non era ancora nato, io non volevo toccarlo, ma lei non vedeva, non vedeva cosa c'era in realtà, disse: 'Non fare lo stupido, a me sembra un uovo normale', ma non lo era, non lo era e me lo fece mangiare. E io lo so, lo so che c'era un piccolo becco e delle piccole zampe e tutto quanto...» Rabbrividì con violenza. «Orribile. Orribile, non posso sopportarlo», gemette, e le sue spalle cominciarono ad essere scosse da un fremito convulso. Marian arrossì per l'imbarazzo, ma Ainsley emise un materno pigolio di sollecitudine e corse verso il divano. Si sedette accanto a Len e lo cinse con le braccia, tirandolo giù in modo che era steso a metà attraverso il suo grembo col capo contro la spalla di lei. «Su, su», essa lo consolava. I suoi capelli ricadevano attorno alle loro due facce come un velo o, così Marian pensò, una ragnatela. Essa dondolava dolcemente il proprio corpo. «Su, su. Non sarà comunque un pulcino, sarà uno stupendo fantolino. Stupendo
fantolino.» Marian se ne andò in cucina. Avvertiva una fredda ripugnanza: si comportavano come due bambini. Sull'animo di Ainsley si stava già formando uno strato di grasso, pensò; che cosa stupenda sono gli ormoni. Fra poco sarebbe stata tutta grassa. E Len aveva mostrato qualcosa di nascosto, qualcosa che non gli aveva mai visto prima. Si era comportato come una larva dissotterrata improvvisamente dalla propria tana e esposta alla luce del giorno. Un ributtante cieco contorcimento. Però la stupiva che ci fosse voluto così poco, in realtà, per ridurlo in quello stato. La sua crosta non era stata così spessa e indurita come si era figurata. Era come quello scherzo da salotto che erano soliti fare con le uova: si metteva l'uovo per il lungo fra le mani intrecciate e lo si premeva con tutta la propria forza, e l'uovo non si rompeva; era così ben equilibrato che si rivolgeva la propria forza contro se stessi. Ma bastava soltanto un leggero spostamento, un angolo, una correzione della pressione e l'uovo si spiaccicava, e splaf, ci si ritrovava con le scarpe piene di albume. Ora il delicato equilibrio di Len era stato sconvolto e egli era annientato. Era curiosa di sapere come era riuscito a evitare per tanto tempo il problema, a persuadersi che le proprie tanto decantate attività sessuali non potessero avere assolutamente nulla a che vedere con la produzione dei bambini. Cosa avrebbe fatto, allora, se la situazione fosse stata come egli l'aveva dapprima immaginata, e avesse messo incinta Ainsley per disgrazia? Sarebbe stato capace di opporre alla colpa una irreprensibilità basata sul Nessun Intento di Far Male, di cancellare l'una con l'altra e di uscirne indenne? Ainsley non avrebbe potuto prevedere la sua reazione. Ma era stata la decisione di lei a provocare questa crisi. Cosa aveva intenzione di fare di lui ora? Cosa avrebbe dovuto fare? Oh, be', pensò, è un problema che riguarda loro, che siano loro a sbrogliarsela; io a ogni modo non c'entro proprio. Andò nella stanza da letto e chiuse la porta. Il mattino seguente, però, quando aprì l'uovo alla coque e vide il tuorlo fissarla col suo unico occhio giallo significativo e accusatore, sentì la bocca richiudersi come un anemone marino impaurito. È vivo; è vivo, dissero i muscoli della gola e si irrigidirono. Spinse via il piatto. Ormai la sua mente consapevole era abituata alla prassi. Sospirò rassegnata e cancellò un altro piatto dal suo menù. 19
«C'è gelatina, salmone, crema di arachidi e miele, e insalata d'uova», disse Mrs Grot, spingendo il piatto fin quasi sotto il naso di Marian: non per maleducazione ma perché Marian era seduta sul divano e Mrs Grot era in piedi e l'insieme di vertebre, di corsetteria inflessibile e di muscolatura abituata alla scrivania che conferivano a Mrs Grot la sua struttura verticale non le permetteva di piegarsi molto. Marian si tirò indietro nei soffici cuscini di chintz. «Gelatina, grazie», disse, prendendone uno. Era il party natalizio dell'ufficio, nella sala da pranzo delle donne, dove si poteva stare, secondo le parole di Mrs Gundridge, «più agiate». Finora il loro agio, per quanto fosse onnipresente in questa stanza ristretta, era stato temperato da una certa quantità di risentimento represso. Quest'anno il Natale cadeva di mercoledì, il che significava che tutte dovevano tornare al lavoro venerdì, perdendo per un unico giorno la possibilità di fare un ponte splendidamente lungo. Era la consapevolezza di questo fatto, tuttavia, che aveva messo, Marian ne era certa, lo sfavillio negli occhiali di Mrs Grot e le aveva infuso sufficiente vivacità per sostenere questo giro di sandwich con una socievolezza senza precedenti. È perché vuole godersi da vicino lo spettacolo delle nostre sofferenze, pensò Marian, osservando la figura rigida mentre procedeva nel suo giro della stanza. Il party dell'ufficio sembrava consistere in larga misura nel consumo di cibo e nella discussione di acciacchi e compere. Il cibo era stato tutto portato dalle donne stesse: ciascuna aveva acconsentito a fornire una particolare vivanda. Persino Marian era stata spinta a promettere delle fette di torta di cioccolato con la mandorla, che in realtà aveva comprato in un forno e passato in un sacchetto diverso. Negli ultimi tempi non si era sentita molto in vena di cucinare. Il cibo era ammucchiato sul tavolo a un'estremità della sala da pranzo: molto più cibo di quanto fosse effettivamente necessario, insalate e sandwich e pasticcini assortiti e dolci e biscotti e focacce. Ma dato che ciascuna aveva portato qualcosa, ciascuna doveva mangiare almeno un po' di tutto altrimenti la fornitrice si sarebbe sentita offesa. Di tanto in tanto questa o quell'altra donna strillava: «Oh, Dorothy, devo proprio sentire un po' della tua Delizia all'Arancio e Ananasso!» oppure: «Lena, la tua Dolce Pasta Margherita alla Frutta sembra proprio squisita!» e si alzava e si trascinava al tavolo a riempire di nuovo il proprio piatto di carta. Marian desumeva che non era sempre stato così. Alcune delle impiegate più anziane serbavano il ricordo, che svaniva rapidamente nella leggenda,
di un tempo in cui il party dell'ufficio era stato un avvenimento a cui partecipava tutta l'azienda; questo accadeva quando l'azienda era stata molto più piccola. In quei giorni lontani, diceva Mrs Bogue vagamente, gli uomini di sopra erano scesi da basso, e avevano persino roba da bere. Ma l'azienda si era ingrandita, infine le cose avevano raggiunto uno stadio in cui nessuno conosceva più tutti e i party avevano cominciato a degenerare. Piccole ragazze sporche d'inchiostro del reparto Ciclostile erano inseguite da executive vagabondi, avvenivano intempestive rivelazioni di desideri repressi e di risentimenti nascosti, e le signore anziane bevevano un bicchiere di troppo e avevano attacchi isterici. Ora, nell'interesse del morale generale dell'ufficio, ogni reparto teneva il proprio party; e in precedenza, quel pomeriggio, Mrs Gundridge aveva ammesso che comunque così ci si sentiva molto più a proprio agio, soltanto noi tutte ragazze qui assieme, un commento che aveva provocato vischiosi mormorii di assenso. Marian era seduta incastrata fra due delle vergini dell'ufficio; la terza era appollaiata sul bracciolo del divano. In situazioni simili, le tre donne si stringevano insieme per autoprotezione: non avevano figli di cui potessero paragonare la grazia, case il cui arredamento fosse molto importante, e mariti su cui potersi scambiare particolari di eccentricità e brutte abitudini. Le loro preoccupazioni erano altre, sebbene Emmy di tanto in tanto fornisse alla conversazione comune il contributo di un aneddoto su una delle sue malattie. Marian era consapevole che la sua condizione in mezzo a loro era ambigua - esse sapevano che era alla vigilia del matrimonio e perciò non la consideravano più veramente nubile, capace di partecipare ai loro problemi - ma a dispetto della loro leggera freddezza nei suoi confronti essa preferiva la loro compagnia a quella di qualsiasi altro gruppo. Nella stanza c'era poco movimento. A parte chi passava i piatti, le donne per lo più rimanevano sedute, in vari gruppi e semicerchi, formando nuovi crocchi di quando in quando grazie a uno scambio di sedie. Soltanto Mrs Bogue andava in giro dispensando un sorriso socievole qui, un segno di attenzione o un biscottino là. Era il suo dovere. Si stava dando da fare tanto più assiduamente a causa del cataclisma che aveva avuto luogo in precedenza quel giorno stesso. La gigantesca prova sapore del succo di pomodoro istantaneo, prevista sin da ottobre ma continuamente rimandata per ulteriori perfezionamenti, era stata programmata per quella mattina. Un numero record di intervistatrici, quasi tutta la truppa disponibile, sarebbero dovute discendere nelle ignare verande delle casalinghe con vassoi di cartone attaccati attorno al collo con cordoni, come
venditrici di sigarette (in confidenza Marian aveva suggerito a Lucy di farle diventare bionde e agghindarle con piume e calze di rete), reggendo piccoli bicchieri di carta pieni di vero succo di pomodoro in scatola e piccoli bicchieri di carta pieni di polvere di succo di pomodoro istantaneo e piccole brocche d'acqua. La casalinga doveva bere un sorso del vero succo, osservare l'intervistatrice mescolare quello istantaneo davanti ai suoi occhi sbigottiti, e poi assaggiare il risultato, possibilmente impressionata dalla rapidità e dalla facilità: «Una mescolata e siete sicure!» dicevano gli abbozzi sperimentali della pubblicità. Se l'avessero fatto in ottobre avrebbe potuto avere successo. Disgraziatamente la neve, che aveva indugiato per cinque giornate grige dal cielo uniformemente coperto, aveva scelto le dieci di quella mattina per cominciare a cadere, non in teneri fiocchi fluttuanti, o magari folate intermittenti, ma in una vera tormenta tumultuosa. Mrs Bogue aveva tentato di indurre i superiori a rimandare il test, ma invano. «Lavoriamo con degli esseri umani, non con delle macchine», aveva detto al telefono, a voce abbastanza alta perché potessero sentirla attraverso la porta chiusa del suo stanzino. «Là fuori è assolutamente impossibile!» Ma c'era un termine di scadenza. La cosa era già stata rimandata per tanto tempo che non la si poteva più differire, e inoltre un ritardo di un giorno a questo punto avrebbe significato un effettivo ritardo di tre a causa del grosso inconveniente del Natale. Così il gregge di Mrs Bogue era stato spinto, tra deboli belati, fuori nella tormenta. Per il resto della mattinata l'ufficio era somigliato alla base di una missione di salvataggio in un'area disastrata. Le disgraziate intervistatrici lo sommergevano di telefonate. Le loro auto, senza antigelo e pneumatici da neve, si arrestavano e si bloccavano, si arenavano in cumuli di neve, e sbattevano gli sportelli sulle mani e i coperchi delle bagagliere sulle teste. Le tazzine di carta erano di gran lunga troppo leggere per opporsi alla forza della bufera, e turbinarono via su vialetti e siepi, svuotando il loro contenuto rosso sangue sulla neve, sulle intervistatrici e, se le intervistatrici erano effettivamente riuscite a arrivare fino a una porta principale, sulla casalinga stessa. A un'intervistatrice l'intero vassoio fu strappato dal collo e sollevato in aria come un aquilone; un'altra aveva tentato di ripararlo sotto il cappotto, solo per farselo rovesciare e scolare addosso dal vento. Dalle undici in poi, le intervistatrici stesse erano rientrate alla spicciolata, scarmigliate e inzaccherate di rosso, per dare le dimissioni o spiegazioni o farsi restituire la fiducia in se stesse di misuratrici scientifiche e efficienti
dell'opinione pubblica, secondo il temperamento; e Mrs Bogue aveva dovuto per di più affrontare gli ululati di rabbia dei grandiosi Olimpi di sopra i quali si rifiutavano di riconoscere l'esistenza di qualsiasi bufera che non fosse opera loro. Le tracce della lotta erano ancora palesi sul suo volto mentre si muoveva fra le donne che mangiavano. Quando fingeva di essere agitata e sconvolta, era in realtà serena; ma ora, cercando di mostrare serenità, ricordava a Marian una signora di un club, con un cappellino a fiori, intenta a fare un bel discorso di ringraziamento, la quale abbia appena sentito un animaletto con tante zampe arrampicarlesi veloce su per le gambe. Marian rinunciò a orecchiare varie conversazioni in una volta e lasciò che il rumore delle voci che riempivano la stanza le attraversasse le orecchie in un confuso mormorio di sillabe senza significato. Terminò di mangiare il sandwich di gelatina e andò a prendersi un pezzo di torta. La tavola colma la faceva sentire ghiotta: tutta quell'abbondanza, tutte quelle meringhe e glasse, quei coaguli di grassi e dolci, quella proliferazione di lucido cibo nutriente. Quando tornò con un pezzo di pasta Margherita, Lucy che aveva parlato con Emmy si era voltata e stava parlando con Millie, cosicché dopo che ebbe ripreso il suo posto Marian si trovò in mezzo alla loro conversazione. «Be', naturalmente non sapevano cosa fare», stava dicendo Lucy. «Non si chiede a qualcuno se per favore fa un bagno. Voglio dire, non è molto educato.» «E poi Londra è così sporca», disse Millie comprensiva. «Vedi gli uomini alla sera, i colletti delle loro camicie bianche sono neri, semplicemente neri. È tutta la fuliggine.» «Sì be', e la cosa continuò e diventò sempre peggio, andava così male che si vergognavano persino di invitare i loro amici...» «Di chi si tratta?» chiese Marian. «Oh, di questa ragazza che viveva con alcuni miei amici in Inghilterra e che smise di lavarsi. Non aveva altri difetti, semplicemente non si lavava, neanche i capelli e non si cambiava i vestiti o altro, per moltissimo tempo, e loro non volevano dire niente perché sembrava perfettamente normale sotto ogni altro aspetto, ma ovviamente sotto sotto doveva essere veramente malata.» La stretta faccia affilata di Emmy, alla parola «malata» si voltò e la storia venne ripetuta anche a lei. «E così cos'è successo, dopo?» chiese Millie, leccandosi della glassa di cioccolato dalle dita.
«Be'», disse Lucy, mordicchiando con finezza un pezzo di pasta frolla, «è diventata una cosa abbastanza terribile. Cioè, lei portava gli stessi vestiti, puoi immaginartelo. E suppongo che sia durato per tre o quattro mesi.» Ci fu un mormorio di «Oh no» e lei disse: «Be', almeno due. E loro stavano proprio per chiederle che per amor del cielo facesse un bagno o se ne andasse. Voglio dire, tu non l'avresti fatto? Ma un giorno arrivò a casa, si tolse quei vestiti e li bruciò e fece un bagno e tutto il resto, e da allora è stata sempre perfettamente normale. Così.» «Mah, questo è proprio strano!» disse Emmy in tono deluso. Si era aspettata una malattia grave, o forse addirittura un'operazione. «Naturalmente laggiù sono molto più sporchi, lo sai», disse Millie con un tono da donna di mondo. «Ma lei era di qui!» esclamò Lucy. «Voglio dire che è stata allevata come si deve, proveniva da una buona famiglia e così via; non si può dire che non avessero un bagno, loro erano sempre perfettamente puliti!» «Può darsi che fosse una di quelle cose che per così dire capitano a tutti», disse Millie con aria filosofica. «Forse era soltanto immatura, e stare lontano da casa così e tutto...» «Io penso che fosse malata», disse Lucy. Stava togliendo l'uva passa da un pezzo di panettone, prima di mangiarlo. La mente di Marian afferrò la parola «immatura», rivoltandola come una strana pietra trovata su una spiaggia. Le suggeriva l'idea di una spiga di grano ancor verde, e altre cose di natura vegetale o di frutta. Si era verdi e poi si maturava: si diventava maturi. Vestiti per la figura matura. In altre parole, grassa. Volse lo sguardo in giro per la stanza, osservando tutte le donne che c'erano, le bocche che si aprivano e si chiudevano, per parlare o per mangiare. Qui, sedute come un qualsiasi altro gruppo di donne a un festino pomeridiano, non avevano più quella patina di ufficialità che le differenziava, durante le normali ore di ufficio, dal vasto oceano anonimo delle casalinghe, di cui avevano la mansione di esplorare la mente. Avrebbero potuto indossare sopravvesti e portare i bigodini. In realtà, indossavano tutte vestiti per persone mature. Erano mature, alcune stavano rapidamente diventando troppo mature, altre cominciavano già ad avvizzire; pensò a esse come se fossero appese con dei piccioli in cima alla testa a una vite invisibile, in vari stadi di sviluppo e di disfacimento... in questo caso, l'esile, elegante Lucy, seduta accanto a lei, si trovava semplicemente a uno stadio precedente e un verde bozzo o nodulo primaverile si stava formando sotto
l'accurato, dorato calice dei suoi capelli. Esaminò i corpi delle donne con interesse, criticamente, come se non li avesse mai visti prima. E in un certo senso non li aveva visti, erano semplicemente stati lì come ogni altra cosa, scrivanie, telefoni, poltrone, nello spazio dell'ufficio: oggetti considerati soltanto dal punto di vista del profilo e della superficie. Ma ora vedeva il rotolo di grasso attraverso la schiena di Mrs Gundridge spinto in su dalla cima del busto, la protuberanza prosciuttesca della coscia, le grinze attorno al collo, le grandi guance porose; la grossa macchia di vene varicose colta di sfuggita dietro una grassa gamba incrociata, il modo in cui le mandibole oscillavano come gelatina nel masticare, il suo maglione un copriteiera di lana su quelle spalle arrotondate; e anche le altre, dalla struttura simile, ma con proporzioni e disposizioni variabili di permanenti bitorzolute e i contorni simili a dune del seno, della vita e dell'anca; la loro fluidità sorretta all'interno da ossa, all'esterno da un carapace di indumenti e di belletto. Che strane creature erano; e il flusso continuo fra l'esterno e l'interno, l'ingerire, l'espellere, masticare, parole, patatine, rutti, grasso, peli, figli, latte, escrementi, biscotti, vomito, caffè, succo di pomodoro, sangue, tè, sudore, liquore, lacrime e pattume... Per un attimo sentì loro, le loro identità, quasi la loro sostanza, passarle sul capo come un'ondata. Un giorno o l'altro essa sarebbe stata... oppure no, era già anche lei così; era una di loro, il suo corpo lo stesso, identico, si fondeva con quell'altra carne che appestava l'aria nella stanza a fiori col suo dolce odore organico; si sentì soffocare da questo denso mar dei Sargassi di femminilità. Trasse un profondo respiro, restringendosi col corpo e la mente nel suo io come un tattile animale marino che ritrae i suoi tentacoli; voleva qualcosa di solido, di chiaro: un uomo, voleva che ci fosse Peter nella stanza così da poter allungare la mano e tenersi aggrappata a lui, per non venire risucchiata. Lucy aveva un braccialetto d'oro al polso. Marian appuntò gli occhi su di esso, concentrandovisi, come se si circondasse del suo duro cerchio d'oro, una barriera fissa fra se stessa e quel liquido, amorfo altro. Si accorse che nella stanza c'era silenzio. Il chiacchiericcio da pollaio era finito. Sollevò la testa: Mrs Bogue era in fondo alla stanza accanto al tavolo, con una mano alzata. «Ora che siamo tutte riunite qui così alla buona», disse, sorridendo benignamente, «desidererei cogliere quest'occasione per fare un annuncio assai gradito. Ho appreso di recente, da varie dicerie, che una delle nostre ragazze si sposerà fra poco. Sono certa che augureremo tutte a Marian MacAl-
pin ogni felicità nella sua nuova vita.» Ci furono anzitutto squittii e strida e gorgogli di eccitazione; poi l'intera massa si alzò e calò su di lei, sommergendola di umide congratulazioni e di domande al cioccolato e di bacetti iniziatori incipriati. Marian si alzò e venne immediatamente spinta contro il più che ampio seno di Mrs Gundridge. Si staccò e rivolse la schiena al muro; arrossiva ma più per la rabbia che per modestia. Qualcuna se l'era lasciato sfuggire; una di loro aveva fatto la spia; Millie, doveva essere stata lei. Disse: «Grazie» e: «Settembre» e: «Marzo», le uniche tre parole necessarie per le domande che le rivolgevano. «Fantastico!» e: «Meraviglioso!» gridava il coro. Le vergini dell'ufficio rimanevano in disparte, sorridendo assorte. Anche Mrs Bogue se ne stava in disparte. Col tono del suo discorso, e per il semplice fatto di questo annuncio pubblico avvenuto senza preavviso o una precedente consultazione, aveva fatto capire a Marian che si aspettava che lasciasse il lavoro, volente o nolente. Marian sapeva, da voci che correvano e dal licenziamento di una dattilografa proprio dopo che aveva cominciato a lavorare nell'ufficio, che Mrs Bogue preferiva che le sue ragazze fossero o non sposate o veterane stagionate, con la probabilità di imprevedibili gravidanze ormai relegata nel passato. Le sposine recenti, l'avevano sentita dire, erano inclini a essere instabili. Mrs Grot del reparto Contabilità si teneva anch'essa al margine del cerchio, con un sorriso stirato e acido. Scommetto che il suo umore gaio ora è completamente rovinato, pensò Marian; il Sistema pensionistico mi ha perduta per sempre. Emergere dall'edificio e camminare per la strada, all'aria fredda, fu come aprire la finestra di una stanza surriscaldata e soffocante. Il vento si era calmato. Era già buio, ma la luce aspra delle vetrine e delle decorazioni natalizie in alto, festoni e stelle, faceva balenare la neve, che ora stava cadendo dolcemente, come gli spruzzi di una cascata gigantesca e illuminata artificialmente. Per terra c'era meno neve di quanto si era aspettata. Era umida, calpestata dai pedoni fino a essere ridotta a una fanghiglia marrone. Quella mattina la tormenta era cominciata solo dopo che Marian era uscita per andare al lavoro, e essa non aveva gli stivali. Quando ebbe raggiunto la stazione della metropolitana le sue scarpe erano ormai fradice. Ma nonostante i piedi bagnati uscì dalla metropolitana a una fermata prima di quella giusta. Dopo quel party non se la sentiva ancora, assolutamente, di rinchiudersi nell'appartamento. Ainsley avrebbe fatto il suo ingresso e avrebbe ripreso il suo infernale sferruzzare; e c'era l'albero di Natale, un modello da tavolo di plastica, argenteo e azzurro. C'erano ancora i
regali da impacchettare, sparsi sul suo letto; e la valigia da fare: il mattino seguente di buon'ora doveva prendere la corriera per andare a fare una visita di due giorni ai suoi, alla loro città e ai loro parenti. Le rare volte che pensava a loro, non le sembrava che le appartenessero più. La città e la gente l'aspettavano in fondo a un qualche orizzonte, da qualche parte, immutabili, monolitici e grigi, come le rovine di pietra consunte di una qualche civiltà estinta. Aveva comprato tutti i regali l'ultimo weekend, facendosi largo fra la folla schiamazzante e urlante davanti ai banchi dei negozi, ma non sentiva più nessuna voglia di regalare alcunché a nessuno. Se la sentiva ancora meno di ricevere regali, dovendo ringraziarli tutti per cose di cui non aveva bisogno e che non avrebbe mai usato; e era inutile dirsi, come si era detta per tutta la vita, che era lo spirito del donatore e non il valore del dono ciò che contava. Era peggio: tutti i cartellini con la parola Amore scritta sopra. Il genere d'amore con cui venivano donati era anch'esso qualcosa di cui ormai non aveva bisogno e che non avrebbe mai usato. Era arcaico, tristemente adorno, conservato per qualche oscuro motivo nostalgico, come la fotografia di un morto. Aveva camminato verso ovest, ma quasi senza badare alla direzione, per una strada fiancheggiata da negozi e con eleganti manichini in posa nelle loro luminose gabbie di vetro. Ora aveva sorpassato l'ultimo negozio e stava camminando in un luogo più buio. Nell'avvicinarsi all'angolo si rese conto di essersi diretta verso il parco. Attraversò la strada e voltò verso sud, seguendo il flusso delle macchine. Il museo era alla sua sinistra, col fregio di figure di pietra messo in rilievo dagli abbaglianti riflettori arancione che pareva venissero usati con sempre maggior frequenza per l'illuminazione notturna. Peter era stato un problema. Non aveva saputo cosa avrebbe dovuto comprargli. Degli indumenti erano fuori discussione, essa aveva concluso: lui avrebbe sempre voluto sceglierseli da solo. Che altro c'era? Qualcosa per l'appartamento, qualche oggetto per la casa, sarebbe stato come fare un regalo a se stessa. Aveva finalmente optato per un bello e costoso libro tecnico sulle macchine fotografiche. Lei non sapeva nulla sull'argomento ma si era fidata della parola del commesso, sperando che il libro non fosse uno di quelli che aveva già. Era contenta che avesse degli hobby: c'erano meno probabilità che gli venisse un attacco di cuore dopo essere andato in pensione. Stava passando sotto i rami arcuati degli alberi che crescevano all'interno di queste staccionate vicine ai luoghi isolati dell'università. Il marcia-
piede qui era meno calpestato, e la neve era più alta, in alcuni punti superava la caviglia. I piedi le dolevano dal freddo. Proprio mentre cominciava a chiedersi perché continuava a camminare, aveva attraversato di nuovo la strada e si era trovata nel parco. Era un'enorme isola bianco tenue nell'oscurità della notte. Le macchine vi scorrevano intorno in senso antiorario; sul lato opposto a lei sorgevano gli edifici dell'università, quei luoghi che aveva pensato di conoscere così bene soltanto sei mesi prima ma che ora irradiavano verso di lei una debole ostilità, nell'aria fredda, un'ostilità che essa riconobbe come proveniente da lei stessa: in qualche modo misterioso era gelosa di essi. Le sarebbe piaciuto che fossero svaniti quando lei se ne era andata, ma essi erano rimasti lì, avevano continuato a esserci, indifferenti alla sua assenza come lo erano in realtà stati, essa supponeva, alla sua presenza. Si inoltrò nel parco attraverso la neve soffice alta fino alle caviglie. Qua e là era intersecata da orme vagabonde, che già si andavano ricoprendo, ma per lo più era liscia, intatta, e i tronchi degli alberi spogli spuntavano direttamente fuori della neve come se fosse stata profonda due o tre metri e gli alberi fossero stati conficcati lì come candele sulla glassa di un dolce. Candele nere. Era vicina alla vasca di cemento rotonda che d'estate aveva una fontana ma che ora sarebbe stata vuota d'acqua, colmandosi invece gradatamente di neve. Si fermò per porgere orecchio ai suoni distanti della città che sembravano muoversi in cerchio attorno a lei; si sentì completamente al sicuro. «Devi starci attenta», si disse: «non devi ridurti a non fare il bagno». Nella sala da pranzo dell'ufficio si era sentita per un momento pericolosamente prossima a qualche margine; ora trovava le sue reazioni piuttosto stupide. Il party di un ufficio era semplicemente il party di un ufficio. C'erano certe cose attraverso cui bisognava passare fra ora e allora, questo era tutto: particolari, persone, avvenimenti necessari. Dopo di che tutto sarebbe andato bene. Era quasi pronta a ritornare e a impacchettare i regali; era persino tanto affamata, ora, da divorare mezza mucca, linee tratteggiate e tutto. Ma voleva rimanere ancora per un altro minuto con la neve che cadeva fina in quest'isola, questo calmo occhio aperto di silenzio... «Salve», disse una voce. Marian non fu sorpresa. Si voltò: c'era una figura seduta all'estremità di una panchina, nell'ombra più fitta di alcuni sempreverdi. Si diresse verso di essa. Era Duncan, seduto ripiegato su se stesso, con una sigaretta che gli arde-
va fra le dita. Doveva esser lì da un po' di tempo. La neve gli si era posata sui capelli e sulle spalle del cappotto. La sua mano, quando essa si tolse il guanto per toccarla, era fredda e umida. Si sedette accanto a lui sulla panchina ricoperta di neve. Egli scagliò via la sigaretta e si voltò verso di lei, e lei gli sbottonò il cappotto e ci si rannicchiò dentro, in uno spazio che odorava di panno umido e di sigarette vecchie. Egli le cinse la schiena con le braccia. Indossava un maglione peloso. Lei lo accarezzò con una mano come se fosse una pelliccia. Sotto di esso poteva sentire il suo corpo smilzo, la forma scarna di animale affamato in tempo di carestia. Sotto la sciarpa e i capelli e il bavero del cappotto di lei, egli le strofinò la sua faccia umida contro il collo. Rimasero seduti senza muoversi. La città, il tempo al di fuori del bianco cerchio del parco erano quasi svaniti. Marian sentì la propria carne intorpidirsi gradualmente; i piedi avevano persino cessato di dolerle. Si sprofondò ancora di più nella superficie pelosa; fuori, la neve stava cadendo. Non riusciva a dare inizio allo sforzo di alzarsi... «Ci hai messo molto», egli disse alla fine, tranquillo. «Ti aspettavo.» Il corpo le cominciava a rabbrividire. «Ora devo andare», essa disse. Contro il proprio collo sentì un movimento convulso dei muscoli sotto la faccia di lui. 20 Marian stava percorrendo lentamente la corsia, stando al passo con la musica moderata che si gonfiava e si increspava attorno a lei. «Fagioli», disse. Trovò il tipo contrassegnato «Per Vegetariani» e gettò due barattoli nel carrello. La musica si trasformò in un valzer tintinnante; avanzò lungo la corsia cercando di concentrarsi sul suo elenco. La musica la infastidiva perché sapeva il motivo per cui c'era: doveva attirare il compratore in un momento di trance euforico, abbassare il suo livello di resistenza agli acquisti fino al punto in cui tutte le cose sono desiderabili. Ogni volta che entrava nel supermercato e udiva i suoni cadenzati provenienti dagli altoparlanti nascosti si ricordava di un articolo che aveva letto sulle mucche le quali davano più latte quando veniva loro suonata della musica melodiosa. Ma soltanto il fatto che sapesse il perché di quella musica non significava che essa ne fosse immune. In quei giorni, se non faceva attenzione, si trovava a spin-
gere il carrello come una sonnambula, con gli occhi fissi, ondeggiando lievemente, e con le mani che le prudevano per l'impulso di tendersi e afferrare qualsiasi cosa che avesse un'etichetta vistosa. Aveva cominciato a difendersi per mezzo di elenchi, che scriveva in lettere maiuscole prima di mettersi all'opera, imponendosi di non comprare nulla, per quanto il prezzo fosse ingannevole o la confezione invitante, tranne ciò che c'era scritto. Quando si sentiva insolitamente influenzabile spuntava le cose dalla lista con una matita come scongiuro supplementare. Ma in un modo o nell'altro avevano sempre successo: non potevano fallire il colpo. Prima o poi bisognava comprare qualcosa. Ne sapeva abbastanza dal lavoro svolto in ufficio per rendersi conto che la scelta, per esempio, fra due marche di sapone o due barattoli di succo di pomodoro non era quello che si potrebbe dire razionale. Nei prodotti, le cose in sé, non c'era alcuna reale differenza. Allora in che modo si sceglieva? Ci si poteva soltanto abbandonare alla musica carica di lusinghe e si afferrava a casaccio. Si lasciava che quella parte di una persona che avrebbe dovuto reagire alle etichette semplicemente reagisse, quale che essa fosse; forse aveva qualcosa a che fare con la ghiandola pituitaria. Quale detersivo aveva il miglior simbolo di potere? Quale barattolo di succo di pomodoro portava sull'etichetta il pomodoro dall'aspetto più erotico, e a lei importava? Qualcosa a lei doveva importare; dopo tutto, alla fine sceglieva, facendo precisamente ciò che qualche ideatore in un ufficio ampio aveva sperato e predetto che lei avrebbe fatto. Ultimamente si era sorpresa a osservarsi con una curiosità astratta, per vedere cosa avrebbe fatto. «Tagliatelle», disse. Alzò gli occhi dall'elenco proprio a tempo per evitare di scontrarsi con una signora paffuta che indossava una pelliccia spelacchiata di topo muschiato. «Oh no, hanno introdotto un'altra marca sul mercato.» Conosceva bene il mercato della pasta: aveva trascorso vari pomeriggi in negozi nel reparto italiano, contando le infinite varietà e marche di pasta. Guardò torva le tagliatelle, pile di tagliatelle, identiche nei loro pacchi di cellofan, poi chiuse gli occhi, cacciò fuori la mano e chiuse le dita su un pacco. Un pacco qualsiasi. «Lattuga, ravanelli, carote, cipolle, pomodori, prezzemolo», lesse dall'elenco. Questo sarebbe stato facile: almeno si potevano distinguere guardandoli, sebbene alcuni prodotti fossero confezionati in sacchetti o mazzi tenuti insieme da un elastico con un po' di roba buona e un po' di roba cattiva in ciascuno, e i pomodori, di un color rosa da serra e insipidi in questa stagione, fossero confezionati in scatole di cartone e cellofan di quattro.
Guidò il suo carrello verso il reparto della verdura, dove un'insegna rustica di legno abilmente rifinita pendeva dal muro: «L'orto». Scelse con indifferenza la verdura. Prima le piaceva una buona insalata ma ora ne doveva mangiare tanta che cominciava a trovarla noiosa. Si sentiva come un coniglio, sempre a masticare montagne di foglie di verdura. Come desiderava diventare di nuovo carnivora, rodere un buon osso! Il pranzo di Natale era stato difficile. «Ma Marian, non mangi!» si era affannata a dire sua madre quando aveva lasciato intatto il tacchino nei piatto. Lei aveva detto di non aver fame e aveva mangiato enormi quantità di salsa di mirtilli e di purè di patate e tortine di frutta secca quando nessuno la guardava. La madre aveva attribuito la sua strana mancanza di appetito alla troppa agitazione. Lei aveva pensato di dire che aveva abbracciato una nuova religione che le vietava di mangiare carne, lo yoga o quella dei Dukhobor o qualcosa del genere, ma non sarebbe stata una buona idea: erano pateticamente ansiosi di celebrare il matrimonio nella chiesa di famiglia. La loro reazione però, per quel tanto che era in grado di valutare le reazioni di persone che ora sentiva così lontane, fu, più che una gioia esultante, una tranquilla, compiaciuta, soddisfazione, come se i loro timori degli effetti della sua istruzione universitaria, mai espressi ma sempre evidenti, fossero stati finalmente placati. Avevano probabilmente nutrito la preoccupazione che diventasse un'insegnante delle superiori o una zia nubile o una drogata o una dirigente, o che subisse una qualche disgustosa trasformazione fisica, come sviluppare dei muscoli o una voce di basso o ricoprirsi di muschio. Riusciva a immaginare gli ansiosi conciliaboli mentre prendevano il tè. Ma ora, dicevano i loro occhi soddisfatti, dopo tutto si dimostrava una persona normale. Non avevano fatto la conoscenza di Peter, ma per loro egli sembrava essere semplicemente il necessario fattore x. Però erano curiosi: continuavano a insistere con lei perché lo portasse a casa per il weekend, al più presto. Mentre aveva girato per la città durante quelle due fredde giornate, visitando parenti, rispondendo a domande, non era riuscita a convincersi di esserci davvero ritornata. «Kleenex», disse. Osservò con disgusto i colori e le marche diversi offerti - che differenza faceva per la cosa con cui ci si soffiava il naso? - e la carta igienica fantasia: fiori, arabeschi e pallini. Tra non molto l'avrebbero fatta d'oro, come se volessero far finta che servisse per qualcosa del tutto diverso, come dei pacchetti per i regali di Natale. Non c'era davvero un solo fenomeno umano spiacevole che non fossero riusciti a sfruttare. Cosa diavolo c'era che non andava nel semplice bianco? Almeno sembrava puli-
to. La madre e le zie naturalmente si erano interessate al vestito nuziale e agli inviti e cose simili. Al momento, ascoltando i violini elettrici e incerta fra due sapori di budino di riso in scatola - per mangiare quello non aveva dubbi, aveva un gusto tale da roba sintetica - non le riusciva di ricordare cosa avevano deciso tutti. Guardò l'orologio: non le era rimasto molto tempo. Fortunatamente stavano suonando un tango. Si diresse rapidamente verso il reparto delle minestre in scatola, cercando di togliersi dagli occhi quello sguardo vitreo. Era pericoloso rimanere per troppo tempo nel supermercato. Un giorno o l'altro ci sarebbe cascata. Sarebbe rimasta in trappola dopo l'orario di chiusura e la mattina dopo l'avrebbero trovata appoggiata a uno degli scaffali in un coma profondo, attorniata da tutti i carrelli del negozio strapieni di merce... Si diresse verso le casse. Era in atto un'altra delle loro campagne speciali per la promozione delle vendite, una specie di gara che avrebbe spedito il vincitore in un viaggio di tre giorni alle Hawaii. Sulla vetrina c'era un grande manifesto, una ragazza seminuda con una sottana d'erba e fiori, e accanto a esso una piccola indicazione: ANANASSI, tre barattoli G5 cents. La cassiera dietro il banco portava una ghirlanda di carta attorno al collo; la sua bocca arancione stava masticando gomma. Marian osservò la bocca, i movimenti ipnotici delle mascelle, la carne irregolare delle guance con la loro superficie di trucco rosa scuro, le labbra che si squamavano attraverso cui brillavano vari denti gialli da roditore mossi come da una vita loro propria. Il registratore di cassa fece il totale delle sue compere. La bocca arancione si aprì. «Cinque e ventinove», disse. «Scriva soltanto nome e indirizzo sulla ricevuta.» «No grazie», disse Marian, «non desidero andare.» La ragazza scosse le spalle e si voltò da un'altra parte. «Mi scusi, ha dimenticato di darmi i miei bollini», disse Marian. Quella era una cosa diversa, pensò mentre sollevava il sacco dei generi alimentari e varcava la porta azionata a cellula fotoelettrica per uscire nel crepuscolo fangoso e grigio. Per un certo tempo li aveva rifiutati: era un'altra trovata che avevano architettato per far soldi. Ma i soldi li facevano comunque, anche di più; così aveva cominciato a accettarli e a nasconderli nei cassetti della cucina. Ora tuttavia Ainsley stava mettendo dei soldi da parte per una carrozzina, così lei attribuiva grande importanza a prenderli. Era il minimo che potesse fare per Ainsley. L'hawaiana fiorita di cartone le
sorrise mentre lei si trascinava verso la stazione della metropolitana. Fiori. Avevano tutti voluto sapere che genere di fiori avrebbe portato. Marian aveva una preferenza per i gigli; Lucy le aveva suggerito una cascata di rose indiche e garofani. Ainsley era stata beffarda. «Be', suppongo che dovrai fare una cerimonia tradizionale, dato che si tratta di Peter», aveva detto. «Ma la gente è così ipocrita in tema di fiori ai matrimoni. Nessuno vuole ammettere che in realtà sono simboli di fertilità. Che ne diresti di un girasole gigante o di un mannello di grano? Oppure una cascata di funghi e cactus, sarebbe davvero appropriata a uno stadio genitale, non trovi?» Peter non voleva immischiarsi in queste decisioni. «Per questo genere di cose lascio fare a te», era solito dire con dolcezza quando era interrogato seriamente. Negli ultimi tempi aveva visto Peter sempre più spesso, ma sempre meno Peter da solo. Ora che le aveva dato l'anello era fiero di metterla in mostra. Disse che voleva che facesse veramente la conoscenza di alcuni suoi amici e l'aveva portata a dei cocktail party con quelli più ufficiali e a cene e a riunioni serali con quelli intimi. Era stata persino a dei pranzi con alcuni avvocati, durante i quali era rimasta seduta per tutto il tempo muta e sorridente. Gli amici in generale erano tutti ben vestiti e alla vigilia del successo e avevano tutti delle mogli anch'esse ben vestite e alla vigilia del successo. Erano tutti ansiosi; con lei erano tutti cortesi. Marian trovava difficile associare questi uomini untuosi ai felici cacciatori e campioni bevitori di birra che vivevano nei ricordi di Peter, ma alcuni di loro erano le stesse persone. Ainsley li chiamava i «venditori di sapone», perché una volta, quando Peter era venuto a prendere Marian, aveva portato con sé un amico che lavorava per una fabbrica di sapone. Il maggiore timore di Marian era di confondere i loro nomi. Essa voleva essere gentile verso di loro per amore di Peter; tuttavia se ne era sentita alquanto bombardata e aveva deciso che era tempo che Peter cominciasse veramente a conoscere alcuni degli amici di lei. Questo era il motivo per cui aveva invitato Clara e Joe a cena. Aveva comunque la colpa di averli trascurati; sebbene fosse curioso, pensò, il modo in cui le persone sposate presumevano sempre di venire trascurate quando non gli si telefonava, persino quando esse stesse erano state troppo impegnate per pensare almeno di darti un colpo di telefono. Peter aveva recalcitrato; aveva visto l'interno del salotto di Clara una volta. Appena diramato l'invito essa si rese conto che il menù sarebbe stato uno dei problemi più grossi. Non poteva offrir loro latte e crema di arachidi e
pillole di vitamina, o un'insalata col formaggio, non poteva fare del pesce perché a Peter non piaceva, ma non poteva neppure servire della carne: perché, cosa avrebbero pensato tutti al vedere che lei non ne mangiava? Le era impossibile poter dare una spiegazione; se lei stessa non lo capiva, come poteva aspettarsi che lo capissero loro? Negli ultimi mesi certi cibi che le erano stati accessibili si erano esclusi dalla sua dieta: gli hamburger dopo una storia divertente di Peter a proposito di un amico che ne aveva fatti analizzare alcuni soltanto per scherzo e aveva scoperto che contenevano peli di topo tritati; il maiale perché Emmy durante un intervallo le aveva intrattenute con un racconto sulla trichinosi e una signora di sua conoscenza che l'aveva contratta - pronunciò il nome con un timore quasi religioso - («L'ha mangiata troppo rosa in un ristorante, io non oserei mai mangiare nulla in un ristorante, pensate, tutti quegli animaletti raggomitolati nei suoi muscoli e non possono più toglierglieli»); e castrato e agnello perché Duncan le aveva spiegato l'etimologia della parola «giddy» (stordito); proveniva, così le aveva detto, da «gid» che era una perdita d'equilibrio nelle pecore causata da grossi vermi bianchi nel loro cervello. Anche gli hot dog erano stati banditi; dopo tutto, il suo stomaco ragionò, potevano tritare qualsiasi roba vecchia e ficcarcela dentro. Nei ristoranti poteva sempre correre ai ripari ordinando un'insalata, ma questo non sarebbe andato bene per degli ospiti, per una cena. E non poteva servir loro dei Fagioli Cotti per Vegetariani. Aveva ripiegato su una specie di umido, un piatto di funghi e polpette di sua madre che avrebbe mascherato con efficacia le cose. «Spegnerò le luci e metterò delle candele», pensò, «e prima li farò ubriacare di sherry così non se ne accorgeranno.» Lei avrebbe potuto prendere una porzione molto piccola, avrebbe mangiato i funghi e fatto rotolare le polpette sotto una foglia di lattuga dell'insalata del contorno. Non era una soluzione brillante ma era quanto di meglio poteva fare. Ora, affettando in fretta i ravanelli per l'insalata, era contenta per diversi motivi: di aver preparato l'umido la sera prima così tutto quello che le restava da fare era di infilarlo nel forno; perché Clara e Joe sarebbero venuti tardi, dopo aver messo a letto i bambini; e perché poteva ancora mangiare l'insalata. Stava diventando sempre più irritata per la decisione presa dal suo corpo di rifiutare certi cibi. Aveva tentato di ragionare con esso, lo aveva accusato di avere dei capricci frivoli, lo aveva lusingato e tentato, ma esso era irremovibile; e se lei ricorreva alla forza si ribellava. Un incidente del genere in un ristorante era bastato. Peter si era mostrato terribilmente
comprensivo, naturalmente: l'aveva portata difilato a casa e l'aveva aiutata a salire le scale come se fosse un'invalida e aveva insistito a dirle che doveva avere l'influenza allo stomaco; ma èra stato anche imbarazzato e (comprensibilmente) irritato. Da allora aveva deciso di assecondare il proprio corpo. Aveva fatto tutto quel che voleva e aveva persino comprato pillole di vitamine per fornirgli la giusta dose di proteine e minerali. Lasciarsi prendere dalla denutrizione non aveva senso. «Quello che devo fare», si era detta, «è di mantenermi calma.» A volte dopo aver meditato sulla faccenda aveva concluso che la posizione assunta dal suo corpo era di natura etica: si rifiutava semplicemente di mangiare qualsiasi cosa che fosse stata oppure (come le ostriche nel guscio) fosse ancora viva. Ma affrontava ogni giorno con la sconsolata speranza che il suo corpo cambiasse idea. Sfregò la ciotola di legno con un mezzo spicchio d'aglio e vi gettò dentro le cipolle tagliate, i ravanelli affettati e i pomodori e strappò la lattuga. All'ultimo momento pensò di aggiungere una carota grattugiata per dare più colore all'insalata. Ne prese una dal frigorifero, individuò finalmente lo sbucciatore nel portapane e cominciò a togliere la buccia tenendo la carota per le foglie in cima. Stava osservando le proprie mani e lo sbucciatore e il ricciolo di buccia arancione friabile. Si rese conto della carota. È una radice, pensò, cresce per terra e manda fuori delle foglie. Poi vengono e la dissotterrano, forse fa persino un rumore, un grido troppo impercettibile perché lo sentiamo, ma non muore subito, continua a vivere, adesso come adesso è viva... Le parve di sentirsela contorcersi fra le mani. La lasciò cadere sul tavolo. «Oh no», disse, quasi piangendo, «anche questo, no!» Quando se ne furono finalmente andati, anche Peter, che l'aveva baciata sulla guancia e aveva detto con fare scherzoso: «Cara, noi non saremo mai così», Marian andò in cucina e raschiò i piatti nel cesto dell'immondizia e li ammucchiò nell'acquaio. La cena non era stata una buona idea. Clara e Joe non erano riusciti a trovare una babysitter e perciò avevano portato i bambini, trascinandoseli su per le scale e mettendoli a letto, due nella stanza di Marian e uno in quella di Ainsley. I bambini avevano pianto e defecato e il fatto che per andare in bagno bisognasse scendere una rampa di scale non era stato di aiuto. Clara li trasportò nel salotto per rassicurarli e cambiarli; non ebbe esitazioni. La conversazione era cessata. Marian si aggirava porgendo spilli da balia e facendo finta di dare una mano, ma chiedendosi segretamente se sarebbe stato di cattivo gusto scendere e prendere
dal bagno della signora di sotto uno dei tanti aggeggi contro i cattivi odori. Joe girava indaffarato, fischiettando e portando nuovi pannolini; Clara rivolse espressioni di scusa alla volta di Peter. «I bambini piccoli sono così, è solo merda. Perfettamente naturale, la facciamo tutti. Solo che», disse, facendo sobbalzare la più piccola sul ginocchio, «qualcuno ha il senso del momento giusto. Vero, piccola stronza?» Peter per l'occasione aveva aperto una finestra; la stanza divenne gelida. Marian servì lo sherry, disperata. Peter non ricavava l'impressione giusta ma lei non sapeva cosa si potesse fare. Si trovò a augurarsi che Clara avesse qualche altra inibizione. Clara non negava che i suoi bambini puzzassero, ma non si curava neanche di nasconderlo. Lo ammetteva, quasi lo affermava; era come se volesse che la cosa venisse apprezzata. Quando i bambini furono fasciati e tranquillizzati e disposti due sul divano e uno nella cesta sul pavimento, si sedettero per cenare. Ora, Marian sperava, tutti si metteranno a conversare. Stava riflettendo sul modo di nascondere le sue polpette e non voleva fare la parte dell'arbitro: non le riusciva proprio di scovare alcuna brillante osservazione d'attualità. «Clara mi dice che sei un filatelico», si era azzardata a dire, ma per qualche motivo Joe non l'aveva sentita; per lo meno non rispose. Peter le rivolse un rapido sguardo interrogativo. Si sedette giocherellando con un pezzo di panino, e si sentì come se avesse raccontato una barzelletta sporca e nessuno avesse riso. Peter e Joe avevano cominciato a parlare della situazione internazionale, ma Peter aveva accortamente cambiato argomento quando era divenuto palese che avrebbero dissentito. Disse che una volta all'università aveva dovuto frequentare un corso di filosofia e non era mai riuscito a capire Piatone; forse Joe poteva spiegarglielo? Joe disse di temere di no, in quanto si specializzava su Kant e rivolse a Peter una domanda di carattere tecnico sulle tasse di successione. Lui e Clara, aggiunse, appartenevano a una cooperativa di pompe funebri per l'inumazione. «Non lo sapevo», disse Marian sottovoce a Clara mentre questa si versava una seconda porzione di tagliatelle. Ebbe come la sensazione che il suo piatto fosse esposto, con tutti gli occhi fissi su di esso mentre le polpette nascoste trasparivano da sotto le foglie di lattuga come le ossa in una radiografia; si rimproverò di aver messo due candele invece di una. «Oh sì», disse Clara vivace, «Joe non crede nell'imbalsamazione.» Marian temeva che Peter trovasse anche questo un po' troppo radicale. Il guaio consisteva nel fatto, sospirò dentro di sé, che Joe era un idealista e
Peter un pragmatista. Lo si poteva capire dalle loro cravatte: quella di Peter aveva un motivo paisley e era verde scuro, elegante, funzionale; mentre quella di Joe era... be', non era più esattamente una cravatta; era l'idea astratta di una cravatta. Loro stessi dovevano essersi resi conto della differenza: li colse in momenti diversi intenti a sbirciarsi a vicenda la cravatta, ciascuno probabilmente pensando che non avrebbe mai portato una cravatta del genere. Cominciò a mettere i bicchieri nell'acquaio. Le seccava che le cose non fossero andate bene; la faceva sentire responsabile, come fare la parte di quello che sta sotto in un gioco di acchiappino durante l'intervallo. «Oh, be'», si ricordò, «si è trovato bene con Len.» Comunque la cosa non aveva in realtà importanza: Clara e Joe facevano parte del suo passato e non ci si doveva aspettare che Peter si adattasse al suo passato; era il futuro che importava. Ebbe un leggero brivido; la casa era ancora fredda da quando Peter aveva aperto la finestra. Avrebbe sentito l'odore del velluto marrone e di lucido per mobili, dietro di lei ci sarebbero stati fruscii e colpi di tosse, poi si sarebbe voltata e ci sarebbe stata una folla di facce con gli occhi su di lei, loro sarebbero venuti avanti e avrebbero oltrepassato una porta e ci sarebbe stato uno scroscio di bianco, e i pezzetti di carta sarebbero stati spinti dal vento contro le loro facce e si sarebbero posati sui loro capelli e le spalle come neve. Prese una pillola di vitamina e aperse lo sportello del frigorifero per prendersi un bicchiere di latte. O lei o Ainsley avrebbero davvero dovuto dare una passata al frigorifero. Nelle ultime due settimane il loro ciclo di pulizie interdipendenti aveva cominciato a andare all'aria. Per quella sera lei aveva messo in ordine il salotto, ma sapeva che avrebbe lasciato i piatti nell'acquaio senza lavarli, il che significava che Ainsley avrebbe fatto altrettanto coi suoi, e sarebbero andate avanti così fino a sporcare tutti i piatti. Allora avrebbero cominciato a lavare il piatto in cima alla pila quando ne avevano bisogno di uno e gli altri sarebbero rimasti lì indisturbati. E il frigorifero: non solo aveva bisogno di essere sbrinato, ma i ripiani stavano diventando ingombri di un po' di tutto, rimasugli di cibo in piccoli vasetti, cose avvolte in stagnola e contenute in sacchetti di carta marrone... Ben presto avrebbe cominciato a mandare cattivi odori. Sperava che qualunque cosa accadesse lì dentro non si propagasse troppo rapidamente al resto della casa, per lo meno non al piano di sotto. Forse prima che diventasse un'epidemia si sarebbe sposata. Ainsley non era stata presente alla cena; era andata alla clinica prenatale,
come ogni venerdì sera. Mentre Marian stava ripiegando la tovaglia, la sentì salire ed entrare nella sua stanza, e poco dopo la sua tremula voce chiamò: «Marian? Potresti venire qui, per favore?» Entrò nella stanza di Ainsley, facendosi strada sul pantano di abiti che ricoprivano il pavimento verso il letto su cui Ainsley si era gettata. «Cosa c'è che non va?» chiese. Ainsley aveva un viso sgomento. «Oh Marian», disse con voce tremula, «è troppo terribile. Questa sera sono andata alla clinica. E ero così felice e stavo facendo i miei lavori a maglia e tutto il resto mentre c'era il primo oratore... parlava dei Vantaggi dell'Allattamento al Seno. Ora c'è persino un'associazione per questo. Ma poi è venuto questo psi-psi-psicologo e ha parlato dell'Immagine Paterna.» Era sul punto di scoppiare in lacrime, e Marian si alzò e frugò sul cassettone finché non dissotterrò un pezzo di kleenex sudicio; non si poteva mai sapere. Era preoccupata: non era da Ainsley piangere. «Dice che dovrebbero crescere con una forte Immagine Paterna in casa», disse quando si fu ricomposta. «Gli fa bene, li rende normali, soprattutto se sono dei maschi.» «Be', ma in un certo modo lo sapevi anche prima, no?» chiese Marian. «Oh no, Marian, si tratta proprio di una cosa molto più drastica. Ha statistiche di ogni genere e tutto il resto. L'hanno dimostrato scientificamente.» Deglutì. «Se ho un bambino, è assolutamente sicuro che diventerà un o-oo-omosessuale!» Al menzionare l'unica categoria di uomini che non aveva mai dimostrato il minimo interesse per lei i grandi occhi blu di Ainsley si colmarono di lacrime. Marian le porse il kleenex, ma Ainsley lo respinse con un gesto della mano. Si mise a sedere e si spinse indietro i capelli. «Ci deve essere una via d'uscita», disse; il suo mento si alzò, pieno di coraggio. 21 Si tenevano per mano mentre salivano l'ampio scalone di pietra e varcavano le pesanti porte, ma dovettero staccarsi per passare attraverso il cancelletto ruotante. Una volta entrati non parve giusto riprendersi per mano. L'atmosfera da chiesa prodotta dall'alta cupola rivestita di mosaici d'oro sotto la quale si trovavano scoraggiava qualsiasi approccio carnale del genere, anche se vi erano implicate solo delle dita, e il guardiano canuto in uniforme blu li aveva guardati in cagnesco mentre prendeva i soldi da lei. Marian ricollegò quel cipiglio a oscuri ricordi di due precedenti visite du-
rante delle gite giornaliere d'istruzione in torpedone alla città quando era alle elementari: forse faceva parte del biglietto d'ingresso. «Vieni», disse Duncan, quasi in un sussurro. «Ti mostrerò le mie cose preferite.» Salirono la scala a chiocciola, tutt'attorno all'incongruo palo da totem, verso il soffitto geometrico ricurvo. Marian non era stata in questa parte del museo da tanto tempo che sembrava come qualche cosa che si ricorda dopo un sogno non del tutto piacevole, un sogno del genere che si fa quando ci si risveglia dall'anestesia dopo essere stati operati alle tonsille. Quando era all'università aveva frequentato una lezione al piano interrato (geologia; era stato l'unico modo per evitare la lezione di religione, e fin da allora aveva provato avversione per gli esemplari di rocce), e in qualche rara occasione era andata al caffè del museo, al piano terra. Ma non aveva risalito queste scale di marmo, verso lo spazio concavo d'aria che ora sembrava quasi solido, irraggiato di granelli di polvere ogni volta che il debole sole invernale si faceva abbastanza visibile attraverso le strette finestre là in alto. Si fermarono per un minuto a guardare di là dalla balaustrata. Di sotto un gruppo di scolari stava sfilando attraverso il cancelletto ruotante e andava a prendere delle sedie pieghevoli di tela dalla catasta su un lato della rotonda. La prospettiva scorciava i loro corpi. La stridula spigolosità delle loro voci era smussata dal denso spazio circostante, cosicché sembravano persino più lontani di quanto lo foscero in realtà. «Spero che non vengano quassù», disse Duncan scostandosi dalla balaustrata di marmo. La tirò per la manica, voltandosi e trascinandola con sé in una delle gallerie che si diramavano di lì. Camminarono lentamente sul pavimento di legno scricchiolante passando davanti alle file di bacheche di vetro. Nelle ultime tre settimane lo aveva visto di frequente, per segreto accordo più che per caso, come era avvenuto prima. Egli stava scrivendo un'altra composizione trimestrale, le aveva detto, intitolata «I monosillabi in Milton», che doveva essere un'analisi stilistica particolareggiata fatta da un punto di vista radicale. Era incagliato nella frase iniziale: «È in effetti altamente significativo che...» da due settimane e mezzo, e, esaurite le possibilità della lavagettone, aveva sentito il bisogno di frequenti evasioni. «Perché non ti trovi una studentessa postuniversitaria di inglese?» essa gli aveva chiesto una volta quando le loro due facce, riflesse in una vetrina, l'avevano colpita come particolarmente male assortite. Essa sembrava una
persona assunta per portarlo fuori a passeggiare. «Quella non sarebbe una evasione», disse, «anche loro stanno scrivendo tutte composizioni trimestrali; dovremmo discuterle. E poi», aggiunse imbronciato, «non hanno abbastanza petto. Oppure», si corresse dopo una pausa, «qualcuna ne ha troppo.» Marian supponeva di venire, come si dice, «sfruttata», ma non le importava argutamente di essere sfruttata, finché sapeva per quale motivo: voleva che queste cose avessero luogo a un livello il più cosciente possibile. Naturalmente Duncan avanzava, come si diceva, delle «pretese», se non altro sul suo tempo e la sua attenzione; ma per lo meno non la minacciava con qualche intangibile dono in cambio. Il suo completo egotismo era rassicurante in modo particolare. Così, quando le mormorava, le labbra a contatto delle sue guance: «Lo sai, non mi piaci veramente neppure molto», la cosa non la disturbava assolutamente perché non doveva rispondere. Ma quando Peter, con la bocca più o meno nella stessa posizione, le sussurrava «Ti amo» e aspettava l'eco, lei doveva fare uno sforzo. Pensò che anche lei stesse sfruttando Duncan, sebbene le sue ragioni le sfuggissero; come tutte le sue ragioni tendevano a fare adesso. Il lungo periodo attraverso cui era passata (ed era strano accorgersi che dopo tutto si era mossa: doveva partire per il suo paese fra altre due settimane, il giorno dopo un ricevimento che avrebbe dato Peter, e due, o forse tre settimane dopo si sarebbe sposata) era stato unicamente di attesa, lasciandosi trasportare dalla corrente, tempo sopportato senza essere contrassegnato da alcun vero avvenimento; attesa di un avvenimento futuro provocato da un avvenimento passato; mentre quando era con Duncan era presa nel vortice del presente: non avevano virtualmente alcun passato e certo nessun futuro. Duncan era indifferente al suo matrimonio, in maniera irritante. Ascoltava le poche cose che essa aveva da dire a proposito di esso, sorrideva un po' quando lei affermava di credere che fosse una buona idea, poi scrollava le spalle e le diceva, con un tono di voce neutro, che a lui sembrava male ma che lei sembrava cavarsela perfettamente e che comunque era un problema suo. Poi indirizzava la conversazione verso l'argomento complesso e sempre affascinante di se stesso. Non sembrava preoccuparsi di ciò che sarebbe accaduto a lei dopo che avesse oltrepassato la portata del proprio perpetuo presente: nell'unico commento a cui si era abbandonato a proposito del tempo dopo il suo matrimonio era implicita l'idea che egli supponeva di dover trovarsi un altro surrogato. Essa trovava conforto nella sua mancanza di interesse, sebbene non volesse sapere perché.
Stavano attraversando il reparto orientale. C'erano molti vasi sbiaditi e piatti smaltati e laccati. Marian gettò uno sguardo a un immenso paravento ricoperto di piccole immagini dorate degli dèi e delle dee disposti attorno a una gigantesca figura centrale: una creatura obesa simile a Budda, sorridente come Mrs Bogue che controllava per volontà divina il suo vasto esercito di massaie rimpicciolite, serena, inscrutabile. Però, quali che fossero le ragioni, essa era sempre felice quando lui telefonava, pressante e confuso, e le chiedeva di incontrarlo. Dovevano accordarsi su dei luoghi fuori mano - parchi innevati, gallerie d'arte, il bar occasionale (ma mai il Park Plaza) - il che significava che i loro abbracci erano stati non premeditati, furtivi, gelidi e intralciati da strati di protezione di indumenti invernali. Quella mattina le aveva telefonato in ufficio e aveva suggerito, o piuttosto insistito, per il museo: «Muoio dalla voglia di vedere il museo», aveva detto. Lei era scappata presto dall'ufficio, adducendo un appuntamento dal dentista. Comunque non importava, finalmente se ne sarebbe andata fra una settimana e la ragazza destinata a succederle si stava già addestrando per il lavoro. Il museo era un posto indovinato: Peter non ci sarebbe mai andato. Tremava al pensiero che Peter e Duncan si incontrassero. Era un timore irrazionale perché, da un lato non c'era alcuna ragione, essa si diceva, per cui Peter dovesse essere turbato - era una cosa che non aveva niente a che fare con lui, la rivalità, o altre stupidaggini simili, erano ovviamente fuori discussione - e, d'altro lato, anche se si fossero scontrati avrebbe potuto sempre spiegare che Duncan era un vecchio compagno di università, o qualcosa del genere. Essa sarebbe stata al sicuro; ma ciò che sembrava realmente farle paura era la distruzione, non di qualcosa del suo rapporto con Peter, ma di uno dei due da parte dell'altro; per quanto, chi ne sarebbe uscito distrutto, o perché, essa non sapeva dirlo, e molte volte si sorprendeva di sé per avere tali vaghi presentimenti. Comunque era per questa ragione che non poteva lasciarlo venire nel suo appartamento. Sarebbe stato un rischio troppo grosso. Lei era andata a casa sua varie volte, ma c'era sempre stato uno dei suoi compagni di stanza o tutti e due, sospettoso e goffamente risentito. Questo fatto rendeva Duncan più nervoso che mai e se ne andavano svelti. «Perché non gli sono simpatica?» essa chiese. Si erano fermati per guardare un'armatura cinese lavorata con rilievi intricati. «A chi?» «A loro. Si comportano sempre come se pensassero che sto cercando di
fagocitarti.» «Be', in effetti non è che tu non gli sia simpatica. In realtà hanno detto che sembri una brava ragazza e mi hanno chiesto perché qualche volta non ti invito a casa a cena, in modo che loro possano realmente arrivare a conoscerti. Non gli ho detto», fece, soffocando un sorriso, «che devi sposarti. Così loro vogliono darti un'occhiata più da vicino per vedere se puoi essere accettata in famiglia. Stanno cercando di proteggermi. Sono preoccupati per me, è il loro modo di prendere le vitamine emotive, non vogliono che mi corrompa. Pensano che sia troppo giovane.» «Ma perché io sarei una tale minaccia? Da cosa ti proteggono?» «Be', capisci, non stai frequentando un corso per laureati. E sei una ragazza.» «Ma non hanno mai visto una ragazza prima?» essa chiese indignata. Duncan rifletté. «Non credo. Non esattamente. Oh, non lo so, che cosa si riesce mai a sapere dei propri genitori? Si pensa sempre che vivano in una specie di innocenza primordiale. Ma ho l'impressione che Trevor creda in una versione della Castitade Medioevale, qualcosa di spenseriano, capisci. Quanto a Fish, be', immagino che pensi che in teoria non ci sia nulla da ridire, ne parla sempre e dovresti sentire l'argomento della sua tesi, è tutto sul sesso, ma pensa che si debba aspettare la persona giusta e allora sarà come una scossa elettrica. Credo che abbia trovato quest'idea in Qualche Sera Incantata o in D.H. Lawrence o qualcosa di simile. Dio, ha aspettato abbastanza, ha quasi trent'anni...» Marian provò compassione; si mise a compilare mentalmente un elenco di ragazze nubili un po' avanti con gli anni che avrebbero potuto essere adatte a Fish. Millie? Lucy? Continuarono a camminare, voltarono un altro angolo e si trovarono ancora in un'altra stanza piena di bacheche di vetro. Ormai era completamente perduta. Il labirinto di corridoi e le ampie sale e le svolte le avevano confuso il senso dell'orientamento. Sembrava che in questa parte del museo non ci fosse nessun altro. «Sai dove siamo?» essa chiese, un po' ansiosa. «Sì», disse lui, «siamo arrivati.» Passarono sotto un altro arco. In contrasto con le stanze stracolme e dorate che avevano attraversato, questa era, a paragone, grigia e vuota. Marian si rese conto, dai dipinti murali appesi alle pareti, di trovarsi nel reparto dell'antico Egitto.
«Di quando in quando salgo fin qua», disse Duncan, quasi parlando fra sé e sé, «per meditare sull'immortalità. Questa è la mia cassa da mummia preferita.» Marian guardò, attraverso il vetro, alla faccia dorata dipinta. Gli occhi stilizzati, orlati di righe blu scuro, erano spalancati. Erano fissi su di lei con un'espressione di vuota serenità. Attraverso il davanti della figura, a livello del petto, era dipinto un uccello con le ali spiegate, ogni penna definita e separata dalle altre; un uccello simile era dipinto attraverso le cosce, e un altro ai piedi. Le restanti decorazioni erano più piccole: vari soli arancione, figure dorate con corone sulla testa, sedute su troni o trasportate su barche; e un disegno ripetuto di strani simboli simili a occhi. «È stupenda», disse Marian. Si chiese se lo pensasse davvero. Sotto la superficie del vetro la forma aveva uno strano aspetto di annegato fluttuante; la pelle dorata si stava increspando... «Penso che sia un uomo», disse Duncan. Si era avvicinato alla cassa vicina. «Delle volte penso che mi piacerebbe vivere per sempre. Allora non ci si dovrebbe più preoccupare del tempo. Ah, mutabilità; mi chiedo perché cercando di trascendere il tempo non si riesce mai neppure a fermarlo...» Essa andò a vedere quello che stava guardando. Era la cassa di un'altra mummia, aperta in modo che si poteva vedere la figura raggrinzita all'interno di essa. Le fasce di lino ingiallite erano state tolte dalla testa e erano visibili il cranio con la sua pelle grigia disseccata, riccioli di capelli neri e una dentatura stranamente perfetta. «Molto ben conservata», commentò Duncan, in un tono che sottintendeva che egli se ne intendeva un po' dell'argomento. «Oggi non riuscirebbero mai a fare un lavoro del genere, sebbene un sacco di quei dissotterratori di cadaveri pretendano di poterlo fare.» Marian ebbe un fremito e si voltò da un'altra parte. Era incuriosita, non dalla mummia in sé - non le piaceva guardare cose del genere - ma dal fascino palese che esercitava su Duncan. Le passò per la testa il pensiero, spuntato da chissà dove, che se avesse allungato la mano e l'avesse toccato in quel momento avrebbe cominciato a sbriciolarsi. «Sei morboso», disse. «Nella morte che cos'è che non va?» disse Duncan, la sua voce improvvisamente sonora nella stanza vuota. «Non c'è niente di morboso in essa; tutti moriamo, lo sai, è una cosa perfettamente naturale.» «Non è naturale trovarla piacevole», essa protestò, voltandosi verso di lui.
Egli le stava sorridendo. «Non prendermi sul serio», disse. «Ti avevo avvertita. Ora vieni che ti mostro il mio simbolo di fertilità. Ho intenzione di mostrarlo a Fish tra poco. Minaccia di scrivere una breve monografia per Studi vittoriani intitolata 'Simboli di fertilità in Beatrix Potter'. Bisogna fermarlo.» La condusse verso l'angolo opposto della stanza. Di primo acchito, alla luce che veniva rapidamente meno, essa non riuscì a distinguere cosa ci fosse dentro la bacheca. Sembrava un mucchio di macerie. Poi vide che si trattava di uno scheletro, ancora ricoperto qua e là di pelle, disteso su un fianco con le ginocchia tirate su. Accanto a esso c'erano dei vasi d'argilla e una collana. Il corpo era così piccolo che assomigliava a quello di un bambino. «È per così dire anteriore alle piramidi», disse Duncan. «Conservato dalle sabbie del deserto. Quando mi sarò veramente stufato di questo posto ho intenzione di andarmi a seppellire. Forse la biblioteca servirebbe altrettanto bene allo scopo; tranne che questa città è per così dire umida. La roba marcirebbe.» Marian si protese ancora di più sulla bacheca di vetro. Trovò patetica quella figura rachitica: con le costole sporgenti e le gambe fragili e le scapole scarnite assomigliava alle fotografie di gente dei paesi sottosviluppati o dei campi di concentramento. Non desiderava esattamente prenderla fra le braccia, ma si sentiva tristemente impotente per essa. Quando si spostò e lanciò un'occhiata a Duncan si rese conto con un impercettibile brivido d'orrore che egli stava allungando la mano verso di lei. Date le circostanze, la sua magrezza non era rassicurante ed essa si ritrasse leggermente. «Non aver paura», egli disse, «non ritornerò dalla tomba.» Le passò la mano sulla guancia, sorridendole tristemente. «Il guaio è che, soprattutto con le persone e quando le tocco e così via, non mi riesce di concentrarmi sulla superficie. Finché si pensa soltanto alla superficie immagino che tutto vada bene e sia abbastanza reale; ma una volta che si comincia a pensare a quello che c'è dentro...» Si piegò per baciarla. Essa si scansò, appoggiò la testa alla sua spalla ricoperta da un cappotto invernale e chiuse gli occhi. Egli dava l'impressione di essere più fragile del solito contro il suo corpo: essa temeva di stringerlo troppo forte. Udì uno scricchiolio del pavimento di legno, aprì gli occhi, e si trovò davanti un paio di occhi grigi austeri e scrutatori. Appartenevano a un cu-
stode in uniforme blu, il quale era sopraggiunto dietro di loro. Questi batté leggermente Duncan sulla spalla. «Mi spiace, signore», disse, in tono educato anche se fermo, «ma... ehm... è proibito baciarsi nella stanza delle mummie.» «Oh», fece Duncan, «mi scusi.» Ripercorsero a ritroso il labirinto di stanze e raggiunsero la scala principale. Una marea di scolari con delle sedie pieghevoli stava uscendo dalla galleria opposta e essi furono travolti dalla corrente di piccoli piedi in movimento e trascinati giù dalle scale di marmo in una cascata di risate stridule. Duncan aveva suggerito di andare a prendere un caffè, e così erano seduti a un tavolo quadrato dal piano sudicio al caffè del museo, circondati da gruppi di studenti timidamente sconsolati. Marian associava da tanto tempo il prendere il caffè in un ristorante all'ufficio e agli intervalli del mattino che continuava a aspettarsi che le tre vergini spuntassero al di là del tavolo, accanto a Duncan. Duncan mescolò il suo caffè. «Panna?» chiese. «No grazie», essa rispose, ma cambiò idea e ne prese un po', dopo aver riflettuto che era nutriente. «Lo sai. penso che potrebbe essere una buona idea se andassimo a letto», disse Duncan in tono discorsivo, posando il cucchiaino sul tavolo. Marian dentro di sé ebbe un moto di repulsione. Essa aveva giustificato tutto quello che era accaduto con Duncan (cosa era accaduto?) con la scusa che era, secondo i suoi princìpi, perfettamente innocente. Negli ultimi tempi le era sembrato che l'innocenza avesse qualche rapporto imperfettamente definito col vestiario: i limiti erano dati dai colletti e dalle maniche lunghe. Le sue giustificazioni prendevano sempre la forma di una conversazione immaginaria con Peter. Peter diceva, geloso: «Cos'è questa faccenda di cui ho sentito parlare, che tu vedi un sacco di volte un certo tipo accademico tutto pelle e ossa?» E lei rispondeva: «Non fare lo stupido, Peter, è una cosa del tutto innocente. Dopo tutto, ci sposeremo fra due mesi». Oppure un mese e mezzo. O un mese. «Non fare lo stupido, Duncan», disse, «è impossibile. Dopo tutto mi sposo fra un mese.» «Quello è un problema che riguarda te», disse lui, «non ha niente a che fare con me. E è per me che pensavo che sarebbe stata una buona idea.» «Perché?» essa chiese, sorridendo involontariamente. La misura in cui
egli era capace di ignorare il punto di vista di lei era sorprendente. «Be', naturalmente non è per te. È la cosa in sé. Voglio dire che tu personalmente non susciti proprio una voglia violenta in me o qualcosa del genere. Ma pensavo che tu avresti saputo come fare, e saresti stata competente e sensata, per così dire calma. A differenza di certe ragazze. Credo che sarebbe bello se io riuscissi a superare questa cosa che ho per il sesso.» Versò un po' di zucchero sul tavolo e cominciò a tracciarvi dei disegni con l'indice. «Di cosa si tratta?» «Be', può darsi che io sia un omosessuale latente.» Rifletté sulla cosa un attimo. «O magari un eterosessuale latente. Comunque sono piuttosto latente. Il perché non lo so, proprio. Naturalmente ho fatto un certo numero di tentativi, ma poi comincio a pensare alla futilità di tutto e ci rinuncio. Forse è perché ci si aspetta che uno faccia qualcosa e dopo un certo punto tutto quello che voglio è starmene sdraiato lì a guardare il soffitto. Quando dovrei scrivere le composizioni trimestrali penso al sesso ma quando finalmente riesco a mettere con le spalle al muro qualche bellezza ben disposta o ci dibattiamo sotto le siepi e così via e tutti si suppone siano preparati per il coup de grace, io comincio a pensare alle composizioni trimestrali. So che si tratta di un'alternanza di distrazioni, tutte e due le cose sono fondamentalmente delle distrazioni, lo sai, ma da che cosa sono in realtà distratto? Comunque sono tutte troppo letterarie, è perché non hanno letto abbastanza libri. Se ne avessero letti di più si renderebbero conto che tutte quelle scenate sono già state fatte. Voglio dire ad nauseam. Come possono essere così trite? Diventano per così dire flaccide e sinuose e appassionate, ci danno dentro così sodo, e io comincio a pensare: oh dio è ancora un'altra brutta imitazione di chiunque si dà che sia una brutta imitazione, e ci perdo interesse. O peggio, comincio a ridere. Allora diventano isteriche.» Si leccò lo zucchero dalle dita, con aria pensierosa. «Che cosa ti fa pensare che sarebbe diverso con me?» Cominciava a sentirsi molto esperta e professionista: quasi matronale. La situazione, pensò, richiedeva scarpe robuste e polsini inamidati e una borsa di pelle piena di aghi ipodermici. «Be'», disse lui, «forse non lo sarebbe. Ma ora che te l'ho detto almeno non diventeresti isterica.» Rimasero seduti in silenzio. Marian stava pensando a quello che egli aveva detto. Essa supponeva che l'impersonalità della sua richiesta fosse assolutamente insultante. Allora, perché non si sentiva insultata? Invece sen-
tiva che avrebbe dovuto fare qualcosa di utile e clinico, come tastargli il polso. «Be'...» disse, riflettendo. Poi si chiese se qualcuno aveva ascoltato. Diede un'occhiata in giro e i suoi occhi si imbatterono in quelli di un uomo di grossa corporatura, con la barba, seduto a un tavolo vicino alla porta, che guardavano in direzione di lei. Pensò che fosse un professore di antropologia. Ci volle un attimo perché riconoscesse in lui uno dei compagni di stanza di Duncan. Il biondo assieme a lui, seduto con la schiena rivolta verso di lei, doveva essere l'altro. «C'è uno dei tuoi genitori laggiù», disse. Duncan ruotò su se stesso. «Oh», disse, «è meglio che vada a salutarlo.» Si alzò, andò al loro tavolo e si sedette. Ci fu un confabulare, e poi si alzò e ritornò. «Trevor vuole sapere se vorresti venire a cena», disse, col tono di un bambino che espone un messaggio imparato a memoria. «E tu vuoi?» essa chiese. «Io? Oh, certo. Penso di sì. Perché no?» «Allora riferiscigli», essa disse, «che mi farebbe molto piacere.» Peter era occupato con una causa e per Ainsley era la sera della clinica. Egli andò a dire che aveva accettato. Dopo un minuto i due compagni di stanza si alzarono e uscirono e Duncan tornò camminando dinoccolato e si sedette. «Trevor ha detto che è emozionante», riferì, «e scappa subito a mettere qualcosa nel forno. Niente di straordinario, dice lui. Ci aspettano fra un'ora.» Marian cominciò a sorridere, poi si mise la mano sulla bocca: si era improvvisamente ricordata di tutte le cose che non poteva mangiare. «Cosa pensi che preparerà?» chiese flebilmente. Duncan scosse le spalle. «Oh, non lo so. Gli piace mettere della roba allo spiedo e darci fuoco. Perché?» «Be'», essa disse, «ci sono un sacco di cose che non posso mangiare; cioè, non le ho mangiate negli ultimi tempi. La carne, per esempio, e le uova e certa verdura.» Duncan non parve minimamente sorpreso. «Be', va bene», disse, «ma Trevor è molto orgoglioso della sua cucina. Voglio dire che a me non importa, mi andrebbe bene mangiare hamburger ogni giorno, ma lui si sentirebbe insultato se non mangiassi almeno un po' di quel che c'è nel piatto.» «Si sentirebbe ancora più insultato se lo vomitassi tutto», disse lei con aria tetra. «Forse è meglio che non venga.» «Oh, andiamo, troveremo una soluzione.» La sua voce aveva una punta
di maligna curiosità. «Mi dispiace, non so perché mi succede, ma mi sembra di non poterne fare a meno.» Pensava, magari posso dire di essere a dieta. «Oh», fece Duncan, «probabilmente sei un esempio tipico della gioventù moderna, che si ribella contro il sistema; anche se non sia considerato ortodosso cominciare dal sistema digestivo. Ma perché no?» rifletté. «Ho sempre pensato che mangiare fosse un'attività ridicola, comunque. Ne farei a meno anch'io se potessi, anche se è necessario per rimanere al mondo, mi dicono.» Si alzarono e indossarono il cappotto. «Personalmente», disse lui mentre uscivano, «preferirei essere nutrito per l'arteria principale. Se soltanto conoscessi la gente adatta sono sicuro che si potrebbe trovare il modo...» 22 Entrando nell'ingresso del condominio Marian, che si era tolta i guanti, infilò la mano nella tasca del cappotto e girò verso l'interno del dito l'anello di fidanzamento. Pensava che non sarebbe stato educato verso i compagni di stanza di Duncan, i quali erano caduti in un abbaglio con sollecitudine così toccante, fare sfoggio del diamante rivelatore in modo troppo ostentato. Poi si sfilò addirittura l'anello. Poi pensò: «Cosa sto facendo? Fra un mese mi sposo. Perché non dovrebbero saperlo?» e se lo rimise. Poi pensò: «Ma non li rivedrò più. Perché complicare le cose a questo punto?» e se lo sfilò per la seconda volta e lo ripose per sicurezza nel borsellino degli spiccioli. Ormai avevano salito le scale ed erano alla porta dell'appartamento che, prima che Duncan avesse toccato la maniglia, venne aperta da Trevor. Portava un grembiule e gli aleggiava attorno un delicato aroma di spezie. «Mi pareva di aver sentito voi due là fuori», disse. «Avanti, entrate. Ho paura che prima che la cena sia pronta ci voglia ancora qualche altro minuto. Sono così contento che sia potuta venire, hem...» Fissò gli occhi azzurro chiaro su Marian, con aria interrogativa. «Marian», disse Duncan. «Oh sì», disse Trevor, «non mi pare che ci siamo veramente incontrati... in modo formale.» Sorrise e su ogni guancia comparve una fossetta. «Troverai soltanto un piatto alla buona questa sera... niente di eccezionale.» Aggrottò le sopracciglia, fiutò l'aria, lanciò un grido di allarme e corse nel
cucinino muovendosi di sbieco. Marian lasciò gli stivali sui giornali fuori della porta e Duncan le portò il cappotto nella stanza da letto. Essa entrò nel salotto cercando un posto dove sedersi. Non voleva sedersi nella poltrona porpora di Trevor e neppure in quella verde di Duncan - ciò avrebbe creato un problema a Duncan quando sarebbe uscito dalla stanza da letto - e neppure sul pavimento fra le carte: avrebbe potuto scompigliare la tesi di qualcuno: e Fish era barricato nella poltrona rossa, con l'asse appoggiata sui braccioli, davanti a sé, intento a scrivere con grande concentrazione su un altro pezzo di carta. Accanto al suo gomito c'era un bicchiere quasi vuoto. Alla fine essa si mise in equilibrio su un bracciolo della poltrona di Duncan, congiungendo le mani in grembo. Trevor uscì gorgheggiando dal cucinino reggendo un vassoio con dei bicchieri di cristallo pieni di sherry. «Grazie, molto gentile», disse Marian educatamente mentre egli le porgeva il suo. «Che bicchiere stupendo!» «Sì, non è fine? Sono anni che lo abbiamo in famiglia. È rimasta così poca finezza», disse, guardandole l'orecchio destro come se dentro vi scorgesse il panorama di una storia dall'antichità immemorabile ma che svaniva rapidamente. «Soprattutto in questo paese. Penso che dovremmo fare tutti il nostro piccolo sforzo per conservarne un po', non credi?» Con l'arrivo dello sherry Fish aveva posato la penna. Ora guardava fisso Marian, non in faccia ma all'addome, più o meno in prossimità dell'ombelico. Essa trovò la cosa sconcertante e disse, per distrarlo: «Duncan mi dice che stai facendo qualcosa su Beatrix Potter. La cosa mi sembra emozionante». «Eh? Oh sì. Ne avevo l'intenzione, ma mi sono dato a Lewis Carroll, questo è davvero più profondo. Il diciannovesimo secolo oggigiorno è roba molto scottante, capisci.» Gettò la testa indietro contro la spalliera della poltrona e chiuse gli occhi; le parole gli scaturivano in una salmodia monotona dalla selva nera della barba. «Naturalmente tutti sanno che Alice è un libro sulla crisi dell'identità sessuale, questa è una storia vecchia, è da tanto che circola, io vorrei però andare un po' più a fondo. Quello che abbiamo qui, se soltanto guardiamo con attenzione, è la ragazzina che discende nell'assai allusiva tana del coniglio, diventando per così dire prenatale, cercando di individuare il proprio ruolo», si leccò le labbra, «il suo ruolo in quanto Donna. Sì, be' questo è abbastanza chiaro. Questi schemi sono manifesti. Schemi manifesti. Le viene presentato un ruolo sessuale dopo l'altro, ma essa sembra incapace di accettarne uno qualsiasi, voglio
dire che è davvero bloccata. Rifiuta la Maternità quando il bambino che ha allattato si trasforma in un maiale, e neppure reagisce positivamente al ruolo femminile dominatore della Regina e alle sue grida di castrazione 'Tagliategli la testa!' E quando la Duchessa le fa delle avances da lesbiche, intelligentemente velate, a volte ci si chiede quanto ne fosse consapevole il vecchio Lewis, comunque lei non se ne accorge e non se ne cura; e subito dopo ricorderai che va a parlare con la Tartaruga Finta, racchiusa nel suo guscio e nella sua autocommiserazione, un personaggio chiaramente preadolescente; poi ci sono quelle scene assai allusive, assai allusive, quella in cui il collo le diventa lungo e è accusata di essere un serpente, ostile alle uova, ricorderai, un'identificazione col fallo di tipo alquanto distruttivo che essa rifiuta indignata; e la sua reazione al Bruco imperioso, alto appena sei pollici, pomposamente appollaiato sul fungo esageratamente femminile che è perfettamente rotondo ma che possiede la facoltà di far diventare o più grandi o più piccoli del normale, questo lo trovo particolarmente interessante. E naturalmente c'è l'ossessione del tempo, un'ossessione chiaramente ciclica più che lineare. Così a ogni modo compie un sacco di tentativi ma rifiuta di impegnarsi, alla fine del libro non si può dire che abbia raggiunto qualcosa che si possa chiamare maturità in modo definitivo. Però le cose vanno molto meglio in Attraverso lo specchio, dove, come ricorderai...» Ci fu una risatina soffocata ma percettibile. Marian sobbalzò. Doveva essere un po' di tempo che Duncan stava nel vano della porta: essa non si era accorta che era entrato. Fish aprì gli occhi, sbatté le palpebre e guardò Duncan in cagnesco, ma prima che potesse fare alcun commento Trevor entrò indaffarato nella stanza. «Si è rimesso a parlare di quegli orribili simboli e altre cose simili? Io, per me, non approvo quel tipo di critica, penso che lo stile sia ben più importante, e Fischer diventa troppo viennese, soprattutto quando beve. È molto cattivo. E poi, è così antiquato», disse con aria maligna. «L'ultimissimo tipo di approccio a Alice consiste semplicemente nel liquidarlo come un libro per bambini piuttosto delizioso. Sono quasi pronto, Duncan, potresti darmi una mano ad apparecchiare?» Fischer rimase seduto a guardarli, immerso nelle profondità della sua poltrona. Stavano aprendo due tavolini pieghevoli, facevano attenzione a posare le gambe nei vuoti fra le pile di carte, spostando le carte quando era necessario. Poi Trevor stese una tovaglia bianca sui due tavoli e Duncan
cominciò a disporre le posate e i piatti. Fish afferrò il suo bicchiere di sherry dall'asse e ne inghiottì il contenuto d'un fiato. Si accorse dell'altro bicchiere e vuotò anche quello. «Ecco fatto!» esclamò Trevor. «La cena è pronta per essere servita!» Marian si alzò. Gli occhi di Trevor brillavano e una rotonda macchia rossa di eccitazione gli era spuntata al centro di ciascuna guancia bianca come la farina. Una ciocca di capelli biondi si era spostata e gli ricadeva floscia sulla fronte alta. Accese le candele sul tavolo e fece il giro del salotto spegnendo le lampade a piede. Da ultimo tolse l'asse davanti a Fish. «Tu siediti qui, ah, Marian», disse, e scomparve in cucina. Essa si sedette sulla sedia indicata. Non riuscì a avvicinarsi al tavolo quanto avrebbe voluto, a causa delle gambe. Esaminò rapidamente le portate, controllando: dovevano cominciare con un antipasto di gamberetti. Questo andava bene. Si chiese con apprensione cos'altro sarebbe stato tirato fuori per il suo corpo. Evidentemente ci sarebbero stati molti altri piatti: il tavolo era irto di posate. Notò con curiosità la saliera vittoriana d'argento adorna di ghirlande e l'apparato floreale di buon gusto fra le due candele. Erano anche fiori veri, crisantemi in un piatto d'argento oblungo. Trevor tornò e si sedette sulla sedia più prossima alla cucina e cominciarono a mangiare. Duncan era seduto di fronte, e Fish alla sinistra di lei, a quella che sarebbe dovuta essere l'estremità del tavolo, o forse a capotavola. Essa era contenta che cenassero al lume di candela: sarebbe stato più facile liberarsi della roba da mangiare se necessario. Finora non aveva la minima idea di come se la sarebbe cavata, se sarebbe stato necessario cavarsela, e non pareva che Duncan le sarebbe stato di molto aiuto. Sembrava essersi ritirato in se stesso; mangiava meccanicamente e mentre masticava fissava lo sguardo sulle fiammelle delle candele, cosa che gli faceva apparire gli occhi leggermente strabici. «Le tue posate sono bellissime», essa disse a Trevor. «Sì, vero», egli disse sorridendo. «Le abbiamo in famiglia da chissà quanto. Anche la porcellana, penso che sia davvero squisita, tanto più fine di quella roba danese spoglia che tutti usano oggi.» Marian esaminò il motivo. Era un disegno floreale ricco, pieno di smerli, scanalature e arabeschi. «Bella», disse. «Temo che tu ti sia preso troppo disturbo.» Trevor sorrise raggiante. Essa ovviamente stava dicendo le cose giuste. «Oh, assolutamente nessun disturbo. Penso che mangiare bene sia tremendamente importante, perché mangiare soltanto per rimanere al mondo co-
me fa la maggior parte della gente? La salsa è mia, ti piace?» Senza attendere una risposta proseguì: «Non posso sopportare quella roba in bottiglia, è così standardizzata; riesco a procurarmi del vero barbaforte giù al mercato, vicino al lungomare, ma naturalmente è così difficile trovare dei gamberetti freschi in questa città...» Chinò la testa da un lato come se stesse ascoltando, poi balzò su dalla sedia e svicolò nel cucinino. Fischer, che non aveva detto niente da quando si erano seduti ora aperse la bocca e prese a parlare. Dato che contemporaneamente continuava a mangiare, l'assorbimento di cibo e la produzione di parole creavano un ritmo, Marian commentò fra sé e sé, molto simile alla respirazione, e egli sembrava in grado di occuparsi di quell'alternanza in modo altrettanto automatico; il che era un bene perché essa era certa che se egli si fosse fermato per pensarci su qualcosa sarebbe sceso per la via sbagliata. Sarebbe stato più che doloroso se un gamberetto si fosse bloccato nella trachea; soprattutto se con salsa di barbaforte. Essa lo osservava, affascinata. Poté sbarrare palesemente gli occhi perché egli teneva i suoi chiusi quasi sempre. La forchetta trovava la strada della bocca grazie a qualche meccanismo o senso tutto suo, essa non sapeva immaginare in che modo: forse delle onde radar supersoniche come quelle dei pipistrelli rimbalzavano dalla forchetta; oppure le sue basette funzionavano da antenne. Non interruppe questo ritmo neppure quando Trevor, che aveva velocemente tolto i piatti dell'antipasto di gamberetti, gli mise davanti il piatto della minestra, sebbene aprisse gli occhi quanto bastava per prendere il cucchiaio, dopo un tentativo preliminare con la forchetta. «Ora l'argomento della tesi che mi sono proposto», aveva cominciato. «Può darsi che non l'approvino, da queste parti sono molto conservatori, ma anche se me lo rifiutano posso sempre elaborarlo per una rivista, nessun pensiero umano è mai sprecato; ad ogni modo oggigiorno o si pubblica o si perisce, se non lo posso fare qui, posso sempre farlo negli Stati Uniti. Quello che ho in mente è qualcosa di assolutamente rivoluzionario, 'Malthus e la metafora creativa', dove Malthus è meramente un simbolo di ciò a cui voglio arrivare, vale a dire il rapporto inevitabile fra l'aumento dell'indice di natalità nei tempi moderni, diciamo negli ultimi due o tre secoli, soprattutto dal diciottesimo alla metà del diciannovesimo, e il mutamento del modo in cui i critici hanno considerato la poesia, col conseguente mutamento del modo in cui i poeti l'hanno scritta, e oh potrei senza paura estendere il concetto fino a comprendere tutte le arti creative. Sarà uno studio interdisciplinare, uno scavalcare i confini attualmente troppo rigidi dei
campi d'indagine, un misto diciamo di economia, biologia e critica letteraria. La gente diventa troppo limitata, troppo limitata, si specializza troppo, e questo fa perdere di vista un sacco di cose. Naturalmente dovrò procurarmi delle statistiche e tracciare qualche grafico; finora sono semplicemente arrivato al concetto basilare, ho compiuto le ricerche fondamentali, il necessario esame delle opere di autori antichi e moderni...» Bevevano sherry con la minestra. Fish cercò a tentoni il suo bicchiere di sherry, quasi rovesciandolo. Marian ora era sotto un fuoco incrociato, dato che appena Trevor si era seduto di nuovo aveva cominciato a parlarle dall'altro lato, dicendole della minestra, che era chiara e sottilmente insaporita: come ne aveva distillato le essenze, laboriosamente, momento per momento, a fuoco molto lento; e dato che era l'unico di quelli seduti a tavola che più o meno la guardasse essa si sentì obbligata a guardarlo a sua volta. Duncan non badava a nessuno e né Fish né Trevor sembravano minimamente sconcertati dal fatto che entrambi parlassero contemporaneamente. Era evidente che ci erano abituati. Essa tuttavia scoprì di potersi trarre d'impaccio facendo cenni di assenso e sorridendo di tanto in tanto e tenendo gli occhi inchiodati su Trevor e le orecchie su Fish, il quale stava continuando: «Si vede che finché la popolazione, soprattutto per miglio quadrato, era poca e l'indice della mortalità infantile e l'indice della mortalità in generale erano alti, la nascita era incoraggiata. L'uomo era in armonia con gli scopi, i ritmi ciclici della Natura, e la terra diceva: Producete, producete. Siate fecondi e moltiplicatevi, se ricordi...» Trevor balzò su e fece velocemente il giro del tavolo, portando via i piatti della minestra. La sua voce e i suoi gesti stavano diventando sempre più accelerati; sbucava dalla cucina e vi rientrava come l'uccellino di un orologio a cuccù. Marian lanciò un'occhiata a Fish. Evidentemente aveva sbagliato centro varie volte con la minestra: la barba gli stava diventando appiccicosa per il cibo versato. Sembrava un bambino barbuto su un seggiolone; Marian avrebbe desiderato che qualcuno gli legasse un bavaglino al collo. Trevor fece un'apparizione con dei piatti puliti e uscì di nuovo. Essa lo sentiva armeggiare in cucina, sullo sfondo della voce di Fish: «E così allora di conseguenza anche il poeta si considerava un produttore naturale dello stesso tipo; la sua poesia era qualcosa generato per così dire in lui dalle Muse, o magari diciamo Apollo, da cui il termine 'ispirazione', quasi l'immissione del respiro; il poeta era gravido della sua opera, la poesia passava
attraverso un periodo di gestazione, spesso lungo, e quando finalmente era pronta a vedere la luce il poeta se ne sgravava spesso con doglie dolorose. In tal modo lo stesso processo della creazione artistica era in sé un'imitazione della Natura, della cosa che nella natura era la più importante per la sopravvivenza dell'Umanità. Voglio dire la nascita; la nascita. Ma oggi cosa abbiamo?» Ci fu uno sfrigolare, e Trevor apparve drammaticamente nel vano della porta con una fiammeggiante spada azzurra in ogni mano. Marian fu l'unica persona che almeno si volgesse a guardarlo. «Oh dio mio», essa disse in tono elogiativo. «Fa' proprio effetto!» «Sì, vero? È che sono innamorato delle cose flambé. Non è proprio sciskebab, naturalmente, è un po' più francese, non così chiassoso come la varietà greca...» Quando fece scivolare destramente nel piatto di lei tutto ciò che era infilzato negli spiedi, essa vide che per lo più si trattava di carne. Bene, ora era con le spalle al muro. Avrebbe dovuto pensare a qualche scappatoia. Trevor versò il vino, spiegando come fosse difficile trovare dell'aceto aromatico veramente fresco in città. «Quella che abbiamo adesso, dico io, è una società in cui tutti i valori sono contro la nascita. Il controllo delle nascite, dicono tutti, e: È dell'esplosione demografica e non dell'esplosione atomica che dobbiamo preoccuparci tutti. Malthus, capisci, tranne il fatto che la guerra non esiste più come mezzo per diminuire seriamente la popolazione. È facile vedere in questo contesto che il sorgere del Romanticismo...» Gli altri piatti contenevano del riso con qualcosa dentro, una salsa aromatica che si accompagnava alla carne e una verdura non identificabile. Trevor li distribuì. Marian si mise in bocca un po' di quella sostanza vegetale verde scuro, per prova, come si sarebbe fatta un'offerta a un dio forse adirato. Venne accettata. «... coincide in modo assai istruttivo con l'aumento della popolazione che naturalmente era iniziato un po' di tempo prima ma che stava raggiungendo proporzioni quasi epidemiche. Il poeta non poteva più considerarsi, con alcuna vanità, come un surrogato della figura materna, che dà alla luce le sue opere, che dà per così dire un altro figlio alla società. Egli doveva diventare un qualcos'altro, e che cos'è in realtà quest'importanza data all'espressione individuale, nota che è espressione, un premere fuori, quest'importanza data alla spontaneità, alla creazione istantanea? Non soltanto il ventesimo secolo ha...»
Trevor era di nuovo in cucina. Marian esaminò i pezzi di carne nel suo piatto con crescente disperazione. Pensò di farli scivolare sotto la tovaglia: ma sarebbero stati scoperti. Sarebbe riuscita a metterli nella borsetta se non l'avesse lasciata accanto alla poltrona. Forse poteva infilarseli giù per la camicetta e su per le maniche... «... pittori che impiastricciano di pittura tutta la tela praticamente in un orgasmo di energia ma abbiamo scrittori che la pensano allo stesso modo su se stessi...» Essa allungò il piede sotto il tavolo e diede un colpetto a Duncan nello stinco. Egli sobbalzò e la guardò. Per un attimo i suoi occhi non mostrarono alcun segno di riconoscerla; ma poi la osservò, curioso. Essa tolse la maggior parte della salsa da un pezzo di carne, lo raccolse fra il pollice e l'indice e glielo gettò al di sopra delle candele. Egli lo afferrò, se lo mise nel piatto e cominciò a tagliarlo. Essa cominciò a pulirne un altro pezzo. «... non più come se procreassero tuttavia; no, la lunga meditazione e il parto sono cose del passato. L'atto della Natura che ora l'Arte preferisce imitare, sì, è costretta a imitare, è l'atto stesso della copula...» Marian lanciò il secondo pezzo che venne anch'esso afferrato con precisione. Forse avrebbero dovuto scambiarsi i piatti rapidamente, pensò; ma no, la cosa sarebbe stata notata, egli aveva vuotato il suo prima che Trevor lasciasse la stanza. «Ciò di cui abbiamo bisogno è un cataclisma», Fish stava dicendo. La sua voce era divenuta quasi una salmodia e stava crescendo di volume; sembrava stesse elaborando un qualche genere di crescendo. «Un cataclisma. Un'altra Peste Nera, un'enorme esplosione, milioni di uomini spazzati via dalla faccia della terra, la civiltà come la conosciamo completamente cancellata, la nascita sarebbe di nuovo essenziale, allora potremmo far ritorno alla tribù, ai vecchi dèi, gli oscuri dèi della terra, la dea della terra, la dea delle acque, la dea della nascita, dello sviluppo e della morte. Abbiamo bisogno di una nuova Venere, una fiorente Venere del calore e della vegetazione e della generazione, una nuova Venere, panciuta, brulicante di vita, piena di potenzialità, sul punto di dare alla luce un nuovo mondo in tutta la sua pienezza, una nuova Venere che sorge dal mare...» Fischer decise di alzarsi, forse per conferire enfasi retorica alle sue ultime parole. Per sollevarsi appoggiò le mani sul tavolino pieghevole, due gambe del quale si chiusero facendogli scivolare il piatto in grembo. In quel momento il pezzo di carne che Marian aveva appena lanciato era a
mezz'aria; colpì Duncan proprio alla tempia, poi deviò, rimbalzò per il pavimento e andò a finire su una pila di composizioni trimestrali. Trevor, con un piattino di insalata in ciascuna mano, aveva varcato la soglia proprio a tempo per assistere a entrambi gli episodi. Rimase a bocca aperta. «Finalmente so cosa voglio davvero essere», disse Duncan nella stanza improvvisamente silenziosa. Guardava sereno il soffitto, con una traccia di salsa grigio bianchiccia nei capelli. «Un'ameba.» Duncan aveva detto che l'avrebbe accompagnata per un po' verso casa: aveva bisogno di una boccata d'aria fresca. Fortunatamente nessun piatto di Trevor era stato rotto, anche se varie cose erano state rovesciate; e quando il tavolo fu rimesso a posto e Fischer si fu seduto, mugugnando fra sé e sé, Trevor aveva garbatamente lasciato perdere l'intero incidente, sebbene per il resto della cena, durante l'insalata e le pèches flambées e i biscotti di cocco e il caffè e i liquori, si fosse comportato verso Marian con maggiore freddezza. Ora, camminando sulla neve della strada che scricchiolava sotto i loro piedi, stavano discutendo sul fatto che Fischer avesse mangiato la fetta di limone dalla sua ciotola per lavarsi le dita. «A Trevor non va, naturalmente», disse Duncan, «e una volta gli ho detto che se non gli va che Fish la mangi non dovrebbe mettercela dentro. Ma lui insiste a fare queste cose come si deve, sebbene, come dice lui, nessuno apprezzi molto i suoi sforzi. Anch'io di solito mangio la mia, ma oggi non l'ho fatto: c'erano ospiti.» «È stato tutto molto... interessante», disse Marian. Stava riflettendo sull'assenza totale per tutta la serata di qualsiasi riferimento o domanda che avessero per oggetto lei, sebbene avesse supposto di essere stata invitata perché i due compagni di camera volevano conoscerla meglio. Ora, tuttavia, essa pensò che fosse più che probabile che fossero semplicemente alla ricerca disperata di nuovi ascoltatori. Duncan la guardò con un sorriso sardonico. «Be', ora sai che vita è la mia a casa.» «Potresti traslocare», essa suggerì. «Oh no. In effetti in certo modo mi piace. Inoltre chi altro si prenderebbe tanta cura di me? E si preoccuperebbe tanto per me? Loro lo fanno, capisci, quando non sono immersi nei loro hobby o se la filano per qualche altra tangente. Passano tanto di quel tempo a discutere sulla mia identità che io non dovrei proprio preoccuparmene assolutamente. A lungo andare do-
vrebbero rendermi un sacco più facile la mia trasformazione in un'ameba.» «Perché ti interessano tanto le amebe?» «Oh, sono immortali», disse lui, «e per così dire informi e flessibili. Essere una persona sta diventando troppo complicato.» Avevano raggiunto la cima della rampa asfaltata che scendeva fino al campo di baseball. Duncan si sedette sul cumulo di neve a lato della strada e si accese una sigaretta; sembrava che non si curasse mai del freddo. Dopo un attimo essa si sedette accanto a lui. Dato che lui non fece nessun tentativo di cingerla col braccio, fu lei a mettere il suo attorno a lui. «Il fatto è», egli disse dopo un po', «che vorrei che qualcosa fosse reale. Non tutto, questo è impossibile, ma forse un paio di cose. Voglio dire, il dottor Johnson confutò la teoria dell'irrealtà della materia dando un calcio a una pietra, ma io non posso andare in giro prendendo a calci i miei compagni di stanza. O i miei professori. E poi, può darsi che il mio piede sia comunque irreale.» Buttò il mozzicone della sigaretta nella neve e ne accese un'altra. «Pensavo che magari tu lo saresti. Voglio dire se andassimo a letto, solo dio sa che ora sei abbastanza irreale, tutto quello a cui posso pensare sono quegli strati sopra strati di indumenti di lana che porti, il cappotto e i maglioni e avanti così. A volte mi chiedo se la cosa continui sempre, forse sei di lana fino in fondo. Sarebbe per così dire piacevole se non lo fossi...» Marian non poté resistere a questo richiamo. Sapeva di non essere di lana. «E va bene, mettiamo che lo facessimo», disse, riflettendo. «Però non possiamo andare a casa mia.» «E non possiamo andare da me», disse Duncan, senza mostrare né sorpresa né contentezza per la sua accettazione implicita. «Immagino che dovremmo andare in un albergo», essa disse, «facendo finta di essere sposati.» «Non ci crederebbero mai», disse lui con aria triste. «Non ho l'aspetto di uno sposato. Ai bar mi chiedono ancora se ho sedici anni.» «Non hai un certificato di nascita?» «Una volta lo avevo, ma l'ho perduto.» Voltò la testa e la baciò sul naso. «Suppongo che potremmo andare nel genere di albergo dove non è necessario essere sposati.» «Vuoi dire... vorresti che mi facessi passare per una... una specie di prostituta?» «Ebbene? Perché no?» «No», disse lei, con aria un po' indignata. «Questo non potrei farlo.»
«Probabilmente neppure io», egli disse con voce tetra. «E i motel sono esclusi, non so guidare. Be', immagino che non ci sia niente da fare.» Accese un'altra sigaretta. «Oh be', comunque è vero: senza dubbio mi corromperesti. Ma poi, ancora», disse con lieve amarezza, «può darsi che io sia incorruttibile.» Marian stava guardando al di là del campo di baseball. La notte era chiara e frizzante, e le stelle nel cielo nero brillavano fredde. Prima era nevicato, una neve fine e polverulenta, e il campo era un vuoto spazio bianco, senza segui di orme. All'improvviso le venne il desiderio di scendere e correre e saltarci dentro, tracciandovi orme e grovigli e sentieri irregolari. Ma sapeva che fra un minuto l'avrebbe attraversato calma come sempre diretta alla stazione. Si alzò, scrollandosi la neve dal cappotto. «Vieni più avanti?» chiese. Pure Duncan si alzò e mise le mani in tasca. Il suo volto era in ombra in alcuni punti e reso giallo dalla luce del fioco lampione stradale. «No, no», disse. «Arrivederci, forse.» Si voltò e andò via, e la sua figura che retrocedeva si fece indistinta quasi senza rumore nell'oscurità blu. Quando ebbe raggiunto il rettangolo color pastello chiaro della stazione della metropolitana, Marian estrasse il borsellino degli spiccioli e ricuperò l'anello di fidanzamento fra le monetine da uno, da cinque e da dieci centesimi. 23 Marian stava sdraiata sullo stomaco, ad occhi chiusi, un posacenere in bilico nel cavo della schiena nuda dove Peter l'aveva posato. Egli le giaceva accanto, fumando una sigaretta e finendo il suo doppio whisky. Nel salotto l'impianto ad alta fedeltà stava suonando musica da sottofondo. Sebbene mantenesse di proposito la fronte spianata, si stava preoccupando. Quella mattina il suo corpo si era finalmente impuntato davanti al budino di riso in scatola, dopo averlo accettato senza quasi battere ciglio per settimane. Le era stato di tale conforto sapere di poterci contare: era nutriente e, come Mrs Withers, la dietista, aveva detto, era integrato con vitamine. Ma tutt'a un tratto mentre vi versava sopra la panna i suoi occhi lo avevano visto come un insieme di piccoli bozzoli. Dei bozzoli con dentro delle bestioline vive in miniatura. Da quando questa faccenda era cominciata aveva cercato di far finta di non avere in realtà niente, che si trattasse di un disturbo superficiale, come
un'eruzione cutanea: se ne sarebbe andata. Ma ora doveva affrontarla; si era chiesta se avrebbe dovuto parlarne con qualcuno. L'aveva già detto a Duncan, ma era stato inutile; egli sembrava trovare normale la cosa e ciò che essenzialmente la seccava era il pensiero della possibilità di non essere normale. Questo era il motivo per cui aveva paura di parlarne a Peter: avrebbe potuto pensare che essa fosse una specie di scherzo di natura, o una nevrotica. Naturalmente ci avrebbe pensato due volte prima di sposarla; avrebbe potuto dire che avrebbero dovuto rimandare il matrimonio fino a quando essa non ne fosse guarita. Anche lei avrebbe detto così, se fosse stata in lui. Cosa avrebbe fatto dopo che si fossero sposati e lei non avrebbe più potuto nasconderglielo, non riusciva a immaginarlo. Forse avrebbero potuto mangiare ognuno per conto proprio. Stava bevendo il caffè e fissando il suo budino di riso che non aveva mangiato quando entrò Ainsley, con indosso la sua vestaglia verde sbiadito. Adesso non canticchiava e non lavorava più a maglia; leggeva invece un sacco di libri, cercando, come diceva, di risolvere il problema in germe. Radunò sul tavolo il lievito arricchito di ferro, i germogli di grano, il suo succo d'arancio, il suo lassativo speciale e i suoi fiocchi d'avena vitaminizzati, prima di sedersi. «Ainsley», disse Marian, «credi che io sia normale?» «Normale non è come dire medio», disse Ainsley in tono ermetico. «Nessuno è normale.» Aprì un paperback e cominciò a leggere, sottolineando con una penna rossa. Ainsley non le sarebbe stata molto di aiuto comunque. Un paio di mesi prima avrebbe affermato che si trattava di qualcosa che non andava nella vita sessuale di Marian, cosa che sarebbe stata ridicola. Oppure qualche esperienza traumatica dell'infanzia, come trovare un centopiedi nell'insalata, o come Len e il pulcino in embrione; ma, per quello che ne sapeva Marian, non c'era nulla di simile nel suo passato. Non era mai stata una mangiatrice schizzinosa, l'avevano abituata a mangiare qualsiasi cosa ci fosse nel piatto; non aveva recalcitrato neppure davanti a cose quali le olive e gli asparagi e le vongole, che la gente dice che si deve imparare a apprezzare. Negli ultimi tempi però Ainsley aveva parlato un sacco del «comportamentismo». I comportamentisti, essa diceva, potevano curare malattie come l'alcoolismo e l'omosessualità, se i pazienti desideravano veramente guarire, mostrando loro immagini associate alla loro malattia e poi somministrando loro una medicina che bloccava il respiro. «Dicono che, qualunque sia la causa del comportamento, è il comporta-
mento stesso a diventare il problema», l'aveva informata Ainsley. «Naturalmente ci sono ancora alcuni ostacoli. Se la causa è radicata profondamente, loro cambiano semplicemente tipo di assuefazione, come dall'alcool alla droga; oppure si suicidano. E quel di cui ho bisogno non è una cura ma una prevenzione. Anche se possono curarlo... se lui vuole venir curato», essa disse con aria tetra, «continuerà comunque a biasimarmi per essere stata la causa prima.» Ma il comportamentismo, pensò Marian, non sarebbe stato di molta utilità nel suo caso. Come poteva aver successo in una qualsiasi condizione talmente negativa? Se lei fosse stata una golosa sarebbe stato diverso; ma non avevano molte possibilità di successo mostrandole immagini di nonmangiare e poi fermandole il respiro. Aveva preso mentalmente in esame le altre persone a cui avrebbe potuto parlare. Le vergini dell'ufficio sarebbero state incuriosite e avrebbero voluto sapere tutto della cosa, ma essa non credeva che avrebbero potuto darle alcun consiglio costruttivo. Per di più, se lo diceva a una l'avrebbero saputo tutte e ben presto tutti quelli che conoscevano l'avrebbero saputo: non si poteva mai dire, ma sarebbe potuto arrivare all'orecchio di Peter. Gli altri amici erano altrove, in altre cittadine, altre città, altri paesi, e scriverlo in una lettera l'avrebbe reso troppo definitivo. La signora di sotto... era l'ultima; sarebbe stato come con i parenti, si sarebbe sgomentata senza comprendere. Avrebbero pensato tutti che fosse di cattivo gusto da parte di Marian avere delle noie con quelle che avrebbero chiamato le funzioni naturali. Decise di andare a trovare Clara. Era una debole speranza - certamente Clara non sarebbe riuscita a offrire alcun suggerimento concreto - ma almeno avrebbe ascoltato. Marian le telefonò per assicurarsi che fosse in casa, e lasciò l'ufficio presto. Trovò Clara nel recinto dei giochi con la seconda figlia. L'ultima era addormentata nella sua cestina sul tavolo della sala da pranzo e Arthur era introvabile. «Sono così contenta che tu sia venuta», disse. «Joe è all'università. Esco di qui fra un attimo e faccio il tè. A Elaine non piace il recinto», spiegò, «e io l'aiuto a abituarcisi.» «Lo faccio io il tè», disse Marian; considerava Clara un'invalida perpetua e l'associava a dei pasti portati su un vassoio. «Tu rimani dove sei.» Le ci volle un po' di tempo per trovare tutto ma alla fine riuscì a preparare il vassoio, con tè e limone e qualche biscotto digestivo che aveva scova-
to nel cesto della biancheria, lo portò e lo posò sul pavimento. Porse a Clara la sua tazza al di sopra delle sbarre. «Bene», disse Clara quando Marian si fu sistemata sul tappetino in modo di trovarsi allo stesso livello, «come va? Scommetto che sei occupata questi giorni, a prepararti e a fare tutto il resto.» Guardandola seduta lì dentro, con la bambina che le masticava i bottoni della camicetta, Marian si trovò a essere invidiosa di Clara per la prima volta in tre anni. Tutto quello che doveva succedere a Clara era già successo: si era trasformata in quello che sarebbe stata. Non era che volesse mettersi al posto di Clara; voleva soltanto sapere cosa stava diventando, che direzione stava prendendo, in modo da poter essere preparata. Ciò che temeva era di svegliarsi una mattina e scoprire di essere già cambiata senza accorgersene. «Clara», disse, «pensi che io sia normale?» Clara la conosceva da molto tempo; la sua opinione avrebbe avuto un certo peso. Clara rifletté. «Sì, direi che sei normale», fece, togliendo un bottone dalla bocca di Elaine. «Direi che sei normale quasi in modo anormale, se capisci cosa intendo dire. Perché?» Marian si sentì rassicurata. Era ciò che lei stessa avrebbe detto. Ma se era così normale, perché questa cosa aveva voluto prendere di mira lei? «Ultimamente mi sta capitando qualcosa», disse. «Non so come rimediare.» «Oh, di cosa si tratta? No, porcellina, quello è di mammà.» «Non riesco a mangiare certe cose; mi viene questa terribile sensazione.» Si chiese se Clara le stesse badando quanto avrebbe dovuto. «So cosa intendi dire», fece Clara, «mi sono sempre sentita così col fegato.» «Ma queste sono cose che di solito riuscivo a mangiare. Non è che non mi piaccia il sapore; è l'intero...» Era difficile spiegarsi. «Immagino che si tratti del nervosismo per le nozze», disse Clara. «Io ho vomitato ogni mattina per una settimana prima del matrimonio. E anche Joe», aggiunse. «Ti passerà. Volevi sapere qualcosa sul... sesso?» chiese, con un tatto che Marian trovò comico venendo da Clara. «No, proprio no, grazie», aveva detto. Sebbene fosse certa che la spiegazione di Clara non fosse quella giusta, si era sentita meglio. Il disco aveva ricominciato a suonare da metà. Aperse gli occhi; da dove era sdraiata vedeva una portaerei di plastica verde galleggiare nel cerchio di luce della lampada da tavolo di Peter. Peter aveva un nuovo hobby, la
costruzione di modellini di navi da scatole corredate dei pezzi dei modellini. Diceva che lo trovava rilassante. Lei stessa lo aveva aiutato a costruire quella, leggendo le istruzioni a alta voce e porgendogli i pezzi. Voltò la testa sul cuscino e sorrise a Peter. Egli ricambiò il sorriso, gli occhi splendenti nella semioscurità. «Peter», disse, «sono normale?» Egli rise e le batté la mano sul sedere. «Dalla mia esperienza limitata direi che sei meravigliosamente normale, cara.» Essa sospirò; non intendeva alludere a quello. «Berrei un altro bicchiere», disse Peter; era il suo modo di chiederle di andargliene a prendere uno. Il posacenere le venne tolto da sopra la schiena. Essa si rigirò e si sedette, tirando via dal letto il lenzuolo di sopra e avvolgendoselo attorno. «E intanto che sei alzata, volta il disco, da brava.» Marian rivoltò il disco, sentendosi nuda nello spazio aperto del salotto, nonostante il lenzuolo e la veneziana; poi andò in cucina e dosò il liquore di Peter. Aveva fame - non aveva mangiato molto a cena - e perciò tolse dalla scatola la torta che aveva comprato quel pomeriggio tornando da casa di Clara. Il giorno prima era stato san Valentino e Peter le aveva mandato una dozzina di rose. Essa si era sentita in colpa, pensando che avrebbe dovuto regalargli qualcosa, ma senza sapere cosa. La torta non era un vero regalo, solo un pegno. Era un cuore con della glassa rosa e probabilmente stantio, ma era la forma che importava. Tirò fuori due piatti di Peter, due forchette e due tovaglioli di carta; poi affondò il coltello nella torta. Rimase sorpresa nello scoprire che era rosa anche dentro. Se ne mise in bocca una forchettata e la masticò lentamente; la sua lingua avvertì la sensazione di qualcosa di spugnoso e cellulare, come lo scoppio di migliaia di minuscoli polmoni. Ebbe un fremito, sputò la torta nel suo tovagliolo e vuotò il piatto nell'immondizia; dopo di che si pulì la bocca col bordo del lenzuolo. Entrò in camera da letto reggendo il bicchiere e il piatto di Peter. «Ti ho portato un po' di torta», disse. Sarebbe stata una prova, non per Peter ma per lei. Se neppure lui riusciva a mangiare la sua porzione allora lei era normale. «Come sei gentile.» Prese il piatto e il bicchiere e li posò sul pavimento. «Non la mangi?» Per un attimo fu piena di speranza. «Dopo», disse lui, «dopo.» La stava districando dal lenzuolo. «Sei un po' infreddolita, cara; vieni qui e scaldati.» La sua bocca sapeva di whisky e di sigarette. L'attirò giù sopra di sé; il lenzuolo li avvolse con un bianco fru-
scio, il suo profumo di sapone, pulito e familiare, l'avvolgeva; nelle orecchie il suono della musica leggera continuava sempre. Dopo, Marian era stesa sullo stomaco con un posacenere in bilico nel cavo della schiena; questa volta i suoi occhi erano aperti. Stava osservando Peter che mangiava. «Mi era venuto proprio un bell'appetito», aveva detto, rivolgendole un largo sorriso. Non parve notare alcunché di strano nella torta: non aveva avuto neppure un fremito. 24 Tutt'a un tratto venne il giorno del party finale di Peter. Marian aveva trascorso il pomeriggio dal parrucchiere: Peter aveva suggerito che avrebbe potuto farsi qualcosa ai capelli. Aveva anche insinuato che forse avrebbe dovuto comprare un vestito che fosse, come si era espresso, «non proprio così insignificante» come tutti quelli che già possedeva, e lei, ubbidiente, ne aveva comprato uno. Era corto, rosso e coi lustrini. Essa non pensava che fosse davvero adatto a lei, ma la commessa sì. «È fatto per lei, cara», aveva detto con voce sicura. Era stato necessario apportargli una modifica, perciò era passata a prenderlo quando era tornata dal parrucchiere e ora lo stava portando nella sua scatola di cartone rosa e argentato mentre camminava verso casa attraverso la strada scivolosa, tenendo in equilibrio la testa sul collo come se fosse un giocoliere con una fragile bolla dorata. Persino fuori, nell'aria fredda del tardo pomeriggio, percepiva il profumo dolce e artificiale del fissatore che egli aveva usato per incollare ogni ricciolo al suo posto. Anche se lei lo aveva pregato di non mettercene troppo; ma non facevano mai quello che uno voleva. Trattavano la testa di uno come una torta: qualcosa da glassare e da ornare con cura. Di solito si acconciava i capelli da sola, così si era fatta dare il nome del negozio da Lucy, pensando che essa sarebbe stata a conoscenza di simili posti; ma forse era stato uno sbaglio. Lucy aveva una faccia e una forma che quasi richiedevano l'artificialità: smalto per unghie, trucco e acconciature elaborate si armonizzavano in lei, diventavano parte di lei. Certo, sarebbe sembrata spellata e amputata senza di essi; mentre Marian aveva sempre pensato che sul suo corpo queste cose sembravano un di più, appiccicate alla sua superficie come rattoppi o manifesti. Appena era entrata nella grande stanza rosa - tutto era stato rosa e malva, era sorprendente come simili decorazioni frivolmente femminili potessero
sembrare allo stesso tempo così funzionali - si era sentita passiva come se fosse stata ammessa in un ospedale per subire un'operazione. Aveva controllato l'appuntamento con una ragazza dai capelli color malva che nonostante le ciglia finte e gli artigli iridescenti era efficiente e infermieristica in modo conturbante; poi era stata affidata al personale in attesa. La ragazza dello shampoo indossava un camice rosa e aveva le ascelle sudate e vigorose mani esperte. Marian aveva chiuso gli occhi, appoggiandosi alla spalliera del tavolo operatorio, mentre il suo scalpo veniva insaponato, sfregato e risciacquato. Pensò che sarebbe stata una buona idea se avessero somministrato degli anestetici ai pazienti, se li avessero semplicemente addormentati mentre venivano curati tutti questi necessari particolari rìsici; non ci provava gusto a sentirsi come un pezzo di carne, un oggetto. Poi l'avevano legata alla sedia - non propriamente con una cinghia, ma non poteva alzarsi e uscire di corsa in strada d'inverno con i capelli bagnati e un panno chirurgico attorno al collo - e il dottore si era messo all'opera. Un giovanotto in camice bianco che odorava di colonia e aveva abili dita affusolate e scarpe a punta. Essa era rimasta seduta immobile, porgendogli i morsetti, affascinata dalla figura drappeggiata imprigionata nell'ovale d'oro filigranato dello specchio e dallo scaffale di luccicanti strumenti e boccette di medicine davanti a lei. Non riusciva a vedere cosa stesse facendo dietro di lei. Tutto il suo corpo si sentiva stranamente paralizzato. Quando finalmente tutte le pinze e i bigodini e le mollette e le forcine furono a posto, e la sua testa assomigliò a un porcospino mutante ricoperto di appendici pelose arrotondate invece di spini, venne condotta via e installata sotto un casco; poi venne acceso l'interruttore. Guardò di sbieco la catena di montaggio di donne sedute in poltrone identiche color malva, sotto identiche macchine ronzanti fungiformi. Tutto ciò che si poteva vedere era una fila di strane creature con gambe di varia forma e mani che reggevano delle riviste e teste che erano delle cupole di metallo. Inerti; totalmente inerti. Era ciò verso cui veniva sospinta, questo composto del semplice vegetale e del semplice meccanico? Un fungo elettrico. Si rassegnò alla necessità di portare pazienza e raccolse una rivista sui divi del cinema dalla pila di fianco a lei. Una bionda con un seno enorme le parlò dall'ultima pagina di copertina: «Ragazze! Abbiate successo! Se volete davvero Farvi Strada, Sviluppate il Vostro Seno...» Dopo che un'infermiera l'ebbe dichiarata asciutta fu rimandata alla sedia del dottore per farsi togliere i punti; trovò piuttosto assurdo che non la ri-
portassero indietro su una barella a rotelle. Passò davanti alla fila che friggeva a fuoco lento di quelle che non erano ancora asciutte, e ben presto la testa le venne srotolata, spazzolata e pettinata; poi il dottore stava sorridendo e teneva uno specchio angolato in modo che essa potesse vedersi la parte posteriore della testa. Guardò. Egli aveva dato ai suoi capelli di solito stirati una forma strana abbellita da molti intricati riccioli curvi e rigidi, e aveva confezionato due cernecchi simili a zanne che si proiettavano in avanti, uno su ciascuna guancia. «Be'», essa disse con aria dubbiosa, aggrottando le ciglia davanti allo specchio, «è un po'... ehm... esagerato per me.» Pensò che la faceva sembrare una ragazza squillo. «Ah, ma dovrebbe portarli così più spesso», disse lui con entusiasmo italianato, la sua espressione rapita svanendo nondimeno un po'. «Dovrebbe provare cose nuove. Dovrebbe essere audace, eh?» Rise maliziosamente alla volta di lei, mettendo in mostra un numero innaturale di denti bianchi regolari e due d'oro; il suo fiato era aromatizzato da sciacqui di menta peperita. Essa pensò di chiedergli di toglierle alcuni dei suoi effetti speciali, ma decise di non farlo, in parte perché era intimidita dal contorno ufficiale e dagli arnesi da specialista e dalla sua sicumera da dentista - lui doveva sapere ciò che andava bene, era il suo mestiere - ma in parte perché si trovò mentalmente a far di spallucce. Dopo tutto, aveva spiccato il salto, aveva varcato quella porta dorata da scatola di cioccolatini di sua spontanea volontà e questa era la conseguenza e avrebbe fatto meglio a accettarla. «A Peter probabilmente piacerà. Comunque», rifletté, «si accompagnerà al vestito.» Ancora semianestetizzata, si era tuffata in uno dei grandi magazzini lì vicino, con l'intenzione di prendere una scorciatoia attraverso l'interrato fino alla stazione della metropolitana. Aveva attraversato rapidamente il reparto degli Articoli per la Casa, passando davanti ai banchi che reggevano padelle e tegamini di terracotta, e ai modelli da esposizione degli aspirapolvere e delle lavatrici automatiche. Le ricordarono, con un senso di disagio, sia il party a sorpresa che le ragazze dell'ufficio avevano organizzato per lei il giorno prima, l'ultimo giorno di lavoro, che aveva comportato il dono di salviette e mestole e grembiuli con nastri e consigli, sia le varie lettere ansiose che di recente aveva ricevuto dalla madre, che la sollecitava a scegliere i suoi modelli - porcellana e cristalli e posateria - perché la gente voleva sapere cosa comprarle come regalo di nozze. Si era recata in vari
negozi allo scopo di fare la scelta, ma finora era stata assolutamente incapace di decidersi. E il giorno seguente sarebbe partita in corriera per andare a casa. Be', l'avrebbe fatto in seguito. Girò intorno a un banco ridondante di fiori finti di plastica e percorse quella che sembrava una corsia principale che portava da qualche parte. Di fronte a lei un ometto frenetico stava ritto su un piedistallo, illustrando un nuovo tipo di grattugia con un accessorio per togliere il torsolo alle mele. Parlava in fretta e grattugiava simultaneamente, senza fermarsi, mostrando una manciata di carote tagliuzzate e poi una mela con un netto buco rotondo al centro. Un assembramento di donne con sporte osservava in silenzio, i pesanti cappotti grigi e le soprascarpe squallidi sotto la luce dell'interrato, gli occhi scaltri e scettici. Marian si fermò per un minuto al margine esterno del gruppo. L'ometto pelò un ravanello ancora con un altro accessorio. Varie donne si voltarono e la guardarono con aria estimativa, giudicandola. Chiunque con una simile acconciatura, dovevano pensare, sarebbe stata troppo frivola per interessarsi seriamente di grattuge. Quanto tempo ci voleva per acquisire quella patina domestica da reddito medio-basso, quella superficie logora di pelliccia un po' squallida, panno liso ai margini dei polsi e attorno ai bottoni, pelle consunta di borsette; la stretta piega della bocca, gli occhi calcolatori; e soprattutto quell'invisibile colore che era simile a un odore, il sottofondo di tappezzeria ammuffita e linoleum logoro che, in questo negozio interrato, le rendevano autentiche in un modo in cui lei non lo era? Bene o male il reddito futuro di Peter cancellava l'eventualità di grattuge. La fecero sentire come una dilettante. L'ometto cominciò svelto a ridurre una patata in poltiglia. A Marian venne meno l'interesse e continuò nella ricerca della gialla indicazione della metropolitana. Quando aprì la porta principale fu accolta da un chiacchiericcio di voci femminili. Si tolse gli stivali nell'ingresso e li posò sui giornali che erano lì appositamente. Una quantità di altre paia era stata depositata lì, molte con suole grosse e alcune col bordo superiore di pelliccia nera. Mentre passava davanti al vano della porta del salotto, intravide vestiti e cappellini e collane. La signora di sotto stava dando un tè; doveva trattarsi delle Figlie dell'Impero, o magari erano Le Donne Cristiane Astemie. La bambina, con un vestito di velluto marrone dal bavero di merletti, stava distribuendo dei dolci. Marian salì le scale facendo meno rumore che poté. Per qualche motivo
non aveva ancora comunicato alla signora di sotto che disdiceva l'appartamento. Avrebbe dovuto farlo settimane prima. Il ritardo avrebbe potuto comportare il pagamento dell'affitto di un altro mese per preavviso insufficiente. Forse Ainsley avrebbe voluto tenerlo con un'altra compagna di stanza; ma lei ne dubitava. Fra qualche altro mese ciò sarebbe stato impossibile. Quando ebbe fatto la seconda rampa di scale sentì Ainsley che parlava in salotto. La voce era più dura, più insistente, più irosa di quanto avesse mai sentito in precedenza: Ainsley di solito non perdeva le staffe. Un'altra voce la stava interrompendo, rispondendo. Era quella di Leonard Slank. «Oh no», pensò Marian. Sembrava che stessero litigando. Essa non voleva assolutamente venir coinvolta. Aveva intenzione di scivolare silenziosamente nella sua stanza e chiudere la porta, ma Ainsley doveva averla sentita salire le scale: la sua testa comparve all'improvviso dal salotto, seguita da una quantità di capelli rossi sciolti e poi dal resto del suo corpo. Era scarmigliata e aveva pianto. «Marian!» disse un po' gemebonda e un po' imperiosa. «Devi venire qui e parlare a Len. Devi indurlo ad ascoltare la voce della ragione! Belli i tuoi capelli», aggiunse meccanicamente. Marian le andò dietro in salotto, sentendosi come un giocattolo di legno con le ruote trascinato avanti con un cordone, ma non sapeva su quali ragioni, morali o altro, poter basare un rifiuto. Len era in piedi in mezzo alla stanza e aveva un aspetto perfino più turbato di Ainsley. Marian si sedette su una sedia, tenendo indosso il cappotto come ammortizzatore. Gli altri due la guardavano adirati e imploranti a un tempo, in silenzio. Poi: «Mio dio!» Len quasi gridò. «Dopo tutto quello che è successo, adesso vuole che la sposi!» «Be', cosa c'è di male, comunque! Non vorrai un figlio omosessuale, vero?» chiese Ainsley. «Maledizione, io non voglio un figlio per niente! Io non lo volevo, sei stata tu a farlo, dovresti fartelo togliere, ci deve essere una qualche specie di pillola...» «Il punto non è questo, non essere ridicolo, il fatto è che naturalmente io avrò il bambino; ma dovrebbe avere le condizioni migliori e sta a te fornirgli un padre. Un'immagine paterna.» Ainsley ora tentava un approccio lievemente più paziente e calmo. Len misurò il pavimento a larghi passi. «Quanto costano? Te ne compre-
rò uno. Qualsiasi cosa. Ma non ho intenzione di sposarti, accidenti. E non farmi bere neppure quel discorso sulla responsabilità, io non sono responsabile comunque. È stata tutta opera tua, tu hai deliberatamente lasciato che mi ubriacassi, tu mi hai sedotto, tu praticamente mi hai trascinato nella...» «Questo non corrisponde proprio a come lo ricordo io», disse Ainsley, «e io ero in condizione di ricordarlo molto più chiaramente di te. Comunque», essa continuò con logica inesorabile, «tu credevi di starmi seducendo. E dopo tutto, anche questo è importante, no: i tuoi motivi. Supponiamo che tu mi avessi realmente sedotto e io fossi rimasta incinta per caso. Allora cosa faresti? Saresti certamente responsabile allora, no? Perciò la responsabilità è tua.» Len storse la faccia, il suo sorriso fu una parodia anemica di cinismo sarcastico. «Sei come tutte le altre, sei una sofista», disse con voce selvaggiamente tremula. «Stai distorcendo la verità. Atteniamoci ai fatti, vuoi cara? Io non ti ho sedotto realmente, è stato...» «Questo non importa», disse Ainsley, alzando la voce. «Tu credevi di...» «Per amor di dio, non puoi essere realistica?» strillò Leonard. Marian era rimasta seduta in silenzio, guardando prima uno e poi l'altra, pensando a come si stavano comportando stranamente; a come avevano perso ogni controllo. Ora essa disse: «Potreste fare meno rumore, per favore? La signora di sotto potrebbe sentire». «Oh, me ne FOTTO della signora di sotto!» ruggì Len. Questa nuova idea era così blasfema e al contempo così ridicola che tanto Ainsley che Marian scoppiarono in risolini inorriditi e felici. Len le guardò furibondo. Questo era l'oltraggio finale, l'insolenza femminile finale: dopo avergliene fatte passare di tutti i colori, rideva di lui! Afferrò il cappotto dalla spalliera del divano e si diresse verso le scale. «Tu e il tuo dannato culto della fertilità potete andare diritti all'inferno!» imprecò, tuffandosi giù. Ainsley, al vedere fuggire l'immagine del padre, ricompose i lineamenti in un'espressione implorante e gli corse dietro. «Oh Len, torna indietro e parliamone seriamente», lo pregò. Marian li seguì giù per le scale, spinta meno dalla consapevolezza di poter fare qualcosa di concreto o di utile che da qualche oscuro istinto del gregge o del lemming. Tutti gli altri si tuffavano dallo scoglio, tanto valeva che lo facesse anche lei. La discesa di Len fu fermata dal filatoio sul pianerottolo. Vi rimase temporaneamente impigliato, diede degli strattoni e bestemmiò ad alta voce.
Quando fu in grado di buttarsi sulla seguente rampa di scale Ainsley lo aveva raggiunto e lo tirava per la manica e tutte le signore, attente ai sintomi della malvagità come un ragno alle vibrazioni della sua tela, erano uscite allarmate dal salotto e erano radunate ai piedi delle scale, intente a guardare in su con una certa gongolante ansietà. La bambina era in mezzo a loro, ancora con un piatto di dolci in mano, la bocca fiaccamente spalancata, gli occhi sgranati. La signora di sotto, in abito di seta nera e collana di perle, stava nello sfondo con aria solenne. Len guardò dietro, poi giù per le scale. La ritirata era impossibile. Era circondato dal nemico; non c'era altra scelta che andare coraggiosamente avanti. Non soltanto, aveva un pubblico. Gli occhi gli rotearono nella testa come quelli di uno spaniel impazzito. «Tutte quante grifagne squamose maledette predatrici streghe puttane fottute potete andare dritte all'inferno! Tutte quante. Sotto siete tutte uguali!» gridò, con, così Marian pensò, pronuncia abbastanza buona. Strappò la manica dalla presa di Ainsley. «Non mi prenderai mai!» urlò, andando alla carica giù per le scale, il cappotto che gli ondeggiava dietro come una cappa, disperdendo le signore radunate davanti a lui in uno svolazzare di vestiti da pomeriggio e fiori di velluto, e raggiunse la porta principale che si chiuse alle sue spalle con uno schianto fragoroso. Al muro gli antenati ingialliti tintinnarono nelle loro cornici. Ainsley e Marian si ritirarono di sopra, al suono di piagnucolii e pigolii eccitati delle signore del salotto. La voce della signora di sotto sovrastava le altre, calma e consolatrice: «Il giovanotto era ovviamente ubriaco». «Bene», disse Ainsley con un tono di voce brusco e pratico quando furono ancora una volta nel salotto, «immagino che sia finita.» Marian non sapeva se alludesse a Leonard o alla signora di sotto. «Cosa è finito?» chiese. Ainsley si tirò i capelli indietro sulle spalle e si rassettò la camicetta. «Non credo che cambierà idea. Fa lo stesso: dubito che possa essere un ottimo marito comunque. Dovrò semplicemente cercarmene un altro, ecco tutto.» «Sì; credo di si», disse Marian in tono vago. Ainsley andò nella sua stanza da letto, l'incedere fermo che esprimeva decisione, e chiuse la porta. La faccenda sembrava sinistramente risolta. Pareva che avesse già deciso un altro piano, ma Marian non desiderava neppure pensare a cosa potesse essere. Pensare non sarebbe servito a nulla comunque. Qualsiasi direzione
prendesse, non ci sarebbe stato nulla che lei avrebbe potuto fare per prevenirlo. 25 Andò in cucina e si tolse il cappotto. Poi prese una pillola di vitamine, ricordandosi, mentre così faceva, che quel giorno non aveva pranzato. Avrebbe dovuto mettere qualcosa nello stomaco. Aprì il frigorifero per vedere cosa c'era che si potesse mangiare. Il congelatore era talmente incrostato di ghiaccio che lo sportello non voleva star chiuso. Conteneva due vaschette di cubetti di ghiaccio e tre pacchetti di cartone dall'aspetto dubbio. Gli altri ripiani erano stipati di vari oggetti, in vasetti, in piatti ricoperti da terrine rovesciate, in pacchetti di carta cerata e sacchetti di carta marrone. Quelli verso il fondo erano lì da più di quanto gradisse ricordare. Alcuni stavano chiaramente cominciando a puzzare. L'unica cosa che vide che in qualche modo la interessasse fu un pezzo di formaggio giallo. Lo tolse dal ripiano: sotto aveva un sottile strato di muffa verde. Lo ripose e chiuse lo sportello. Concluse che comunque non aveva fame. «Forse prenderò una tazza di tè», si disse. Guardò dentro la credenza dove tenevano i piatti: era vuota. Questo significava che avrebbe dovuto lavare una tazza, erano state tutte usate. Andò all'acquaio e diede un'occhiata dentro. Era colmo di piatti non lavati: pile di piatti, bicchieri semipieni di acqua dall'aspetto di materia organica, ciotole con vestigia di cose che avevano cessato di essere riconoscibili. C'era una casseruola che una volta aveva contenuto maccheroni e formaggio; la superficie interna era punteggiata di muffa bluastra. Un piatto da dessert di vetro immerso nella pozza d'acqua in fondo alla pentola era ricoperto dal velo di un'escrescenza dall'aspetto viscido che faceva venire in mente le alghe degli stagni. Pure le tazze erano lì dentro, tutte quante, una dentro l'altra, cerchiate di fondi di tè e di caffè e schiuma di panna. Persino la bianca superficie di porcellana dell'acquaio si era ricoperta di una pellicola marrone. Essa non voleva muovere nulla per paura di scoprire cosa succedeva dove non giungeva lo sguardo: solo dio sapeva quali altre fermentazioni stavano suppurando sotto. «Che vergogna», disse. Fu colta da un impulso improvviso di fare piazza pulita, aprire completamente i rubinetti e spruzzare del detersivo liquido su tutto; la sua mano
addirittura si mosse in avanti; ma poi si fermò. Forse la muffa aveva altrettanto diritto di vivere quanto lei. Il pensiero non era rassicurante. Andò a finire in stanza da letto. Era troppo presto per cominciare a vestirsi per il party, ma non riuscì a pensare a nient'altro da poter fare per riempire il tempo. Tirò fuori il suo vestito dalla scatola di cartone e lo appese; poi indossò la vestaglia e raccolse il necessario per il bagno. Sarebbe discesa nel territorio della signora di sotto e forse avrebbe dovuto affrontare un incontro; ma, pensò, negherò semplicemente qualsiasi relazione con tutto quel pasticcio e lascerò che se la sbrogli con Ainsley. Mentre la vasca si stava riempiendo si lavò i denti, esaminandoseli allo specchio sul lavabo per assicurarsi di non aver lasciato nulla, un'abitudine radicata, lo faceva persino quando non aveva mangiato; era sorprendente, pensò, quanto tempo si passa, con uno spazzolino in mano e la bocca piena di schiuma, a guardarsi in gola. Notò che un brufoletto le era comparso a destra di un sopracciglio. È perché non mangio come si deve, concluse: il mio metabolismo o l'equilibrio chimico o qualcosa del genere è stato turbato. Mentre lo guardava il puntino rosso sembrò cambiare posizione di una frazione di pollice. Avrebbe dovuto farsi vedere gli occhi, le cose cominciavano a diventare sfocate; deve essere un astigmatismo, pensò mentre sputava nel lavandino. Si tolse l'anello di fidanzamento e lo ripose nel portasapone. Le stava un po' troppo largo - Peter aveva detto che avrebbero dovuto farlo tagliare su misura, sebbene Clara avesse detto di no, che sarebbe stato meglio lasciarlo così, dato che le dita si ingrossavano invecchiando, soprattutto durante le gravidanze - e le era nata la paura di vederlo scomparire giù per il tubo di scarico. Peter sarebbe stato furioso: ci teneva molto. Poi entrò nella vasca da bagno scavalcando il bordo alto e di foggia antiquata e si calò dentro l'acqua calda. Si diede a insaponarsi. L'acqua la cullava, la rilassava. Aveva un sacco di tempo; poteva indulgere al desiderio di sdraiarsi con i capelli smaltati appoggiati per sicurezza contro il bordo inclinato della vasca, di galleggiare con l'acqua che sciabordava dolcemente sopra il suo corpo semisommerso. Dalla loro posizione elevata i suoi occhi godevano la vista di un lungo panorama di bianchi muri concavi tutt'intorno, e di acqua semitrasparente, del suo corpo come un'isola che si estendeva con una serie di curve e depressioni giù verso la penisola terminale di gambe e gli scogli di dita dei piedi; e più in là una reticella col piattino portasapone e poi i rubinetti.
C'erano due rubinetti, uno per l'acqua calda e uno per quella fredda. Ciascuno aveva una base rotonda bulbiforme e c'era un terzo bulbo nel mezzo col becco da cui usciva l'acqua. Guardò più attentamente: in ciascuno dei tre globi argentei ora vedeva che c'era una cosa rosea stranamente scomposta. Si alzò a sedere, sommovendo l'acqua in piccole onde di marea, per vedere cosa fossero. Le ci volle un attimo per riconoscere, in quelle forme rigonfie e distorte, il proprio corpo zuppo d'acqua. Essa si mosse, e anche tutte e tre le immagini si mossero. Non erano del tutto identiche: le due all'esterno erano inclinate verso l'interno in direzione della terza. Che strano, vedere contemporaneamente tre immagini riflesse di se stessa, pensò; si dondolò avanti e indietro, osservando in che modo le diverse parti argentee luminose del suo corpo improvvisamente si gonfiavano o si rimpicciolivano. Aveva quasi dimenticato che avrebbe dovuto fare il bagno. Allungò una mano verso i rubinetti, desiderando vederla crescere. Fuori della porta ci fu un rumore di passi. Avrebbe fatto meglio a uscire: doveva essere la signora di sotto che cercava di entrare. Cominciò a togliersi le tracce restanti di sapone. Guardando in basso, si rese conto dell'acqua, che era coperta da una pellicola di particelle calcaree di acqua dura di sporcizia e sapone, e del corpo che era immerso in essa, in certo modo non più suo. All'improvviso ebbe paura di stare sciogliendosi, di scollarsi uno strato dopo l'altro come un pezzo di cartone in una pozzanghera della strada. Si affrettò a tirare il tappo e uscì dalla vasca. Era più al sicuro sulla riva secca del pavimento freddo a piastrelle. Si infilò di nuovo al dito l'anello di fidanzamento, vedendo per un attimo nel cerchietto duro un talismano protettivo che l'avrebbe aiutata a rimanere unita. Ma il panico era ancora in lei mentre saliva le scale. Non poteva affrontare il party, tutta quella gente, gli amici di Peter erano abbastanza simpatici ma non la conoscevano veramente, con i loro occhi che non comprendevano appuntati su di lei, temeva di perdere la propria forma, di sparpagliarsi, di non riuscire più a contenersi, di cominciare (questa sarebbe stata la cosa peggiore di tutte) a parlare un sacco, a raccontare a tutti, a piangere. Contemplò desolata il rosso vestito festoso appeso nell'armadio. Cosa posso fare? la sua mente continuava a pensare. Si sedette sul letto. Rimase seduta sul letto, mordendo oziosamente l'estremità di uno dei lacci a frangia della vestaglia, chiusa in un'infelicità istupidita e informe che ora sembrava averle ostruito la mente da lungo tempo, da quanto non
lo ricordava. Con quel peso che l'opprimeva era assai improbabile che riuscisse a alzarsi dal letto. Che ora sarà? si disse. Devo prepararmi. Le due bambole che nonostante tutto non aveva mai gettato la guardavano senza espressione dalla cima del cassettone. Mentre essa le guardava i loro volti si sfocarono, poi ripresero forma, con una punta di malevolenza. Era irritata con loro perché sedevano lì inerti ai due lati dello specchio, intente soltanto a guardarla, senza offrirle alcun suggerimento pratico. Ma ora che esaminò i loro volti più attentamente vide che era solo quella scura, quella con la pittura che si staccava, che la osservava in modo definito. Forse quella bionda non la vedeva neppure, i rotondi occhi blu nella faccia gommosa guardavano fissi dritto attraverso di lei. Sostituì un dito al laccio della vestaglia, mordendo il lato dell'unghia. O forse era un gioco, una cosa concordata. Si vide nello specchio fra di loro per un attimo come se fosse dentro di loro, dentro a tutte e due contemporaneamente, guardando fuori: lei stessa, una vaga forma umida con una vestaglia stazzonata addosso, non completamente a fuoco, mentre gli occhi della bionda notavano l'acconciatura dei suoi capelli, le sue unghie mangiate, e quella scura guardava più in profondità, qualcosa che non poteva vedere bene, e le due immagini sovrapposte si allontanavano sempre di più l'una dall'altra; il centro, quale che fosse nello specchio, la cosa che le teneva unite, ben presto sarebbe stato completamente vuoto. Con la forza delle loro immagini separate stavano cercando di squarciarla. Non poté rimanere lì più a lungo. Si spinse fuori del letto nell'entrata, dove si trovò acquattata sul telefono e intenta a fare un numero. Ci fu uno squillare, poi un clic. Trattenne il respiro. «Pronto?» disse una voce tetra. «Duncan?» si azzardò a chiedere. «Sono io.» «Oh.» Ci fu una pausa. «Duncan, potresti venire a un party questa sera? A casa di Peter? So che è tardi per chiedertelo, ma...» «Be', dovremmo andare a un party inglese di studenti per racimolare qualche idea», disse lui. «Tutta la famiglia.» «Be', magari potresti venire dopo. E potresti anche portarli con te.» «Ma, non lo so...» «Ti prego, Duncan, non conosco davvero nessuno là, ho bisogno che tu venga», essa disse con un fervore che non le era abituale. «No non è vero», disse lui. «Ma forse verremo però. Quest'altra cosa sembra piuttosto noiosa, tutto quello che fanno è parlare dei loro orali e sa-
rebbe una specie di piacere vedere cosa ti sposi.» «Oh grazie», essa disse grata, e gli diede le indicazioni. Quando ebbe posato il ricevitore si sentì molto meglio. Così quella era la soluzione, allora: assicurarsi che al party ci fosse della gente che la conoscesse sul serio. Ciò avrebbe tenuto tutto nella prospettiva giusta, essa sarebbe stata in grado di affrontare la situazione... Fece un altro numero. Passò mezz'ora al telefono; in quel periodo di tempo aveva racimolato un numero sufficiente di persone. Clara e Joe sarebbero venuti se fossero riusciti a trovare una babysitter, e con loro facevano cinque contando gli altri tre; e le tre vergini dell'ufficio. Dopo le loro esitazioni iniziali, provocate come supponeva dal ritardo nell'invitarle, aveva agganciato fermamente le tre dicendo che non gliel'aveva chiesto prima perché pensava che dovesse esserci per lo più gente sposata, ma che diversi scapoli senza compagnia sarebbero venuti, e anche loro potevano farle il favore di venire? Gli scapoli si annoiavano tanto ai party per coppie, aveva aggiunto. Con queste facevano otto in tutto. Dopo un ripensamento aveva invitato Ainsley - le avrebbe fatto bene uscire - e essa accettò, inaspettatamente: non era il suo tipo di party. Sebbene avesse preso, incidentalmente, in considerazione la cosa, Marian pensò che non fosse assennato invitare Leonard Slank. Ora che stava bene poteva cominciare a vestirsi. Strisciò dentro la nuova guaina che aveva comprato assieme al vestito, notando che non era molto calata di peso: aveva mangiato un sacco di tagliatelle. Non era stata assolutamente sua intenzione comprarne una, ma la commessa che le stava vendendo il vestito e che era essa stessa completamente fornita di busto disse che avrebbe dovuto, e le mostrò un modello appropriato con una striscia di raso e un nastro sul davanti. «Naturalmente lei è molto magra, cara, non ne ha davvero bisogno, ma a ogni modo quello è un vestito aderente e non le piacerebbe che si vedesse che non ne ha una, le pare?» Aveva alzato le ciglia segnate a matita. In quel momento era sembrato un problema morale. «No, no, naturalmente», si era affrettata a dire Marian, «la prendo.» Quando fu scivolata nel vestito rosso, si accorse di non riuscire ad allungare la mano di dietro quanto bastava per tirare su la lampo. Bussò alla porta di Ainsley. «Mi tiri su la lampo, per favore?» chiese. Ainsley era in sottoveste. Aveva cominciato a mettersi il trucco, ma finora solo un occhio aveva acquistato il suo contorno di nero, e le sopracciglia non erano per nulla comparse, il che faceva sembrare il suo volto sbilenco. Dopo aver tirato su la lampo a Marian e averla assicurata al gancetto
in cima, si fece indietro e la esaminò con occhio critico. «È un bel vestito», disse, «ma con che cosa lo accompagni?» «Lo accompagno?» «Sì, è molto vistoso; ti ci vogliono dei begli orecchini pesanti o qualcos'altro per dargli risalto. Ne hai?» «Non lo so», disse Marian. Andò nella sua stanza e ne tornò con il cassetto che conteneva gli oggetti di bigiotteria dono dei parenti. Erano tutti variazioni di grappoli di perle finte e aggeggi pastello di conchiglie e fiori di metallo e vetro e graziosi animali. Ainsley rovistò in mezzo a quella roba. «No», disse, con la decisione di chi sapeva davvero il fatto suo. «Questi non vanno. Però ne ho un paio che faranno al caso.» Dopo una ricerca che comportò un gran frugare nei cassetti e rovesciare roba sul cassettone, tirò fuori un paio di grossi oggetti ciondolanti d'oro che avvitò alle orecchie di Marian. «Così va meglio», disse. «Ora sorridi.» Marian sorrise, stentatamente. Ainsley scosse il capo. «I capelli vanno bene», disse, «ma, davvero, faresti meglio a lasciarti truccare da me. Non ci riuscirai mai da sola. Tu lo faresti soltanto alla tua solita maniera stentata e alla fine sembreresti come una ragazzina che gioca a mettersi in ghingheri con i vestiti della mamma.» Spinse Marian nella sua poltrona, su cui erano ammucchiati indumenti in strati progressivi di sporcizia, e le cacciò un asciugamano attorno al collo. «Prima ti faccio le unghie così si possono asciugare», disse, aggiungendo, mentre cominciava a limarle, «pare che te le sia rosicchiate.» Quando le unghie furono dipinte di un luccicante color biancastro e Marian teneva con cura le mani in aria, passò a lavorare sul volto di Marian, usando misture e strumenti presi dal mucchio di cosmetici che ricopriva la sua toeletta. Durante il resto dell'operazione, mentre strane cose venivano fatte alia sua pelle, poi a ogni occhio e ogni sopracciglio, Marian rimase seduta passivamente, meravigliandosi della perizia professionale con cui Ainsley le manipolava i lineamenti. Ciò le ricordava le madri dietro le quinte, alle commedie delle scuole pubbliche, che truccavano le figlie precoci. Ebbe solo un pensiero fugace di germi. Alla fine Ainsley prese uno spazzolino per il rossetto e le dipinse la bocca con diversi strati di ritocco lucido. «Ecco», disse, reggendo uno specchio in modo che Marian potesse vedersi. «Così va meglio. Ma stai attenta
fino a quando la colla delle palpebre non si sia asciugata.» Marian si trovò a fissare gli occhi dalle palpebre egiziane, sagomati e foltamente orlati di una persona che non aveva mai visto prima. Aveva paura persino di sbattere le palpebre, per timore che questa faccia posticcia si spaccasse e si squamasse tendendola. «Grazie», disse con voce dubbiosa. «Ora sorridi», disse Ainsley. Marian sorrise. Ainsley aggrottò le ciglia. «Non così», disse. «Devi abbandonarti di più. Come per abbassare le palpebre.» Marian era imbarazzata: non sapeva come fare. Stava facendo delle prove, guardandosi nello specchio, cercando di scoprire quale particolare fascio di muscoli avrebbe prodotto l'effetto desiderato, e era appena riuscita a ottenere un abbassamento approssimativo che aveva tuttavia ancora una punta di strabismo, quando udirono dei passi su per le scale; e un attimo dopo la signora di sotto apparve nel vano della porta, ansimante. Marian si tolse l'asciugamano e si alzò. Ora che era giunta a abbassare le palpebre non poteva rialzarle immediatamente, riportarle alla loro ampiezza consueta, spianate e lunghe. Sarebbe stato impossibile con quel vestito rosso e quella faccia comportarsi con l'ordinario, pratico garbo che la situazione avrebbe richiesto. La signora di sotto rimase un po' a bocca aperta al vedere la nuova versione di Marian - braccia nude, vestito abbastanza scarso e faccia ben ricoperta - ma il suo vero obiettivo era Ainsley, che era scalza, in vestaglia, con un occhio cerchiato di nero e i capelli biondo rame che le scendevano avviticchiati sulle spalle. «Miss Tewce», cominciò la signora di sotto. Indossava ancora il vestito da pomeriggio e la collana di perle: voleva tentare di mantenere un aspetto dignitoso. «Ho aspettato di essere perfettamente calma per parlarle. Non voglio nessun litigio, ho sempre cercato di evitare le scenate e i litigi, ma ora temo che lei se ne dovrà andare.» Non era calma per niente: la voce le tremava. Marian notò che in una mano stringeva forte un fazzoletto di merletti. «Il bere era già una cosa grave, so che tutte quelle bottiglie erano sue, sono sicura che Miss MacAlpin non beveva mai, non più di quanto era lecito» - lanciò ancora un'occhiata al vestito di Marian; la sua fiducia era alquanto scossa, ma tralasciò di fare commenti - «anche se almeno è stata abbastanza discreta con tutto quel liquore che ha portato in questa casa; e non potevo dir nulla della sporcizia e del disordine, sono una persona tolle-
rante e quello che uno fa nel suo appartamento è sempre stato affar suo per quello che mi riguarda. E ho chiuso gli occhi quando quel giovanotto, come ne sono perfettamente al corrente, non cerchi di mentirmi, è rimasto qui la notte, son persino uscita la mattina dopo per evitare un litigio. Per lo meno la bambina non lo sapeva. Ma comportarsi così pubblicamente» - ora stava strillando, con vibrante voce accusatrice - «trascinare all'aperto i suoi amici indecorosi e ubriachi, dove la gente può vederli... e è un così brutto esempio per la bambina...» Ainsley la guardò furiosa; l'occhio cerchiato di nero lampeggiò. «Così», disse in tono ugualmente accusatore, buttando indietro i capelli e piantando i piedi nudi ancor più divaricati sul pavimento, «ho sempre sospettato che lei fosse un'ipocrita e ora lo so. È una borghese imbrogliona, non ha assolutamente alcuna convinzione, si preoccupa soltanto di quello che diranno i vicini. La sua bella reputazione. Bene, io considero una cosa del genere immorale. Vorrei che sapesse anche che avrò un bambino, e certamente non vorrei allevarlo in questa casa... lei gli insegnerebbe la disonestà. Sarebbe di cattivo esempio e lasci che le dica che lei è di gran lunga la persona più contraria alla Forza Vitale Creativa che io abbia mai conosciuto. Sarò assai lieta di andarmene di qui e quanto prima tanto meglio; non voglio che lei eserciti alcun influsso negativo prenatale.» La signora di sotto era diventata pallidissima. «Oh», disse con voce flebile, stringendo la collana. «Un bambino! Oh, oh, oh!» Si voltò emettendo dei gridolini di affronto e sgomento, e scese le scale barcollando. «Immagino che dovrai andartene», disse Marian. Si sentiva felicemente lontana da questa nuova complicazione. Partiva per andare a casa il giorno seguente comunque; e ora che la signora di sotto aveva finalmente voluto uno scontro non riusciva a immaginare perché mai aveva avuto anche il minimo timore di lei. Era stato così facile sgonfiarla. «Sì, naturale», disse Ainsley calma, e si sedette e cominciò a disegnarsi il contorno dell'altro occhio. Di sotto squillò il campanello. «Deve essere Peter», disse Marian, «già a quest'ora.» Non aveva idea che fosse così tardi. «Dovrei andar via con lui e aiutarlo a preparare la roba... vorrei poterti dare un passaggio, ma non credo che potremo aspettare.» «Non importa», disse Ainsley, disegnandosi a arte un lungo sopracciglio elegantemente ricurvo sulla fronte al posto in cui avrebbe dovuto esserci il
suo. «Verrò più tardi. Ho alcune cose da sbrigare comunque. Se fa troppo freddo per il bambino posso sempre prendere un tassi, non è così lontano.» Marian andò in cucina dove aveva lasciato il cappotto. Avrei proprio dovuto mangiare qualcosa, si disse, fa male bere a stomaco vuoto. Sentiva Peter salire le scale. Prese un'altra pillola di vitamine. Erano d'un colore marrone, ovali, appuntite alle estremità: come dei semi marrone dal guscio duro. Chissà cosa ci tritano dentro queste cose, pensò mentre l'inghiottiva. 26 Peter aprì con la chiave la porta di vetro e sistemò la serratura in modo che la porta rimanesse aperta per gli ospiti. Poi entrarono nell'atrio e attraversarono l'ampio pavimento piastrellato dirigendosi verso la scala. L'ascensore non era ancora funzionante, sebbene Peter dicesse che lo sarebbe stato entro la fine della settimana seguente. L'ascensore di servizio andava ma gli operai lo tenevano chiuso a chiave. Il condominio era quasi finito. Ogni volta che Marian ci era venuta aveva potuto notare una piccola alterazione. A poco a poco il caos di materiali grezzi, tubi, assi non lavorate e blocchi di cemento, era scomparso, trasformato da un processo invisibile di digestione e assimilazione nelle superfici brillanti che racchiudevano lo spazio attraverso cui si stavano muovendo. I muri e la fila di colonne quadrate di supporto erano stati dipinti di un colore rosa-arancione intenso; l'illuminazione era stata installata e ora risplendeva in tutta la sua forza fredda, dato che Peter aveva girato tutti gli interruttori dell'atrio per il suo party. Gli specchi delle colonne lunghi fino al pavimento erano nuovi dall'ultima volta che essa ci era venuta; facevano sembrare l'atrio più ampio, più lungo di quanto fosse in realtà. Ma i tappeti, l'arredamento (sofà in similpelle, essa prevedeva) e gli inevitabili filodendri dalle foglie larghe avviticchiati attorno a asticelle non erano ancora arrivati. Avrebbero costituito il lussuoso strato finale e avrebbero aggiunto un tocco di morbidezza, per quanto sintetica, a quel corridoio di luce dura e superfici fragili. Salirono la scala insieme, Marian appoggiata al braccio di Peter. Nei pianerottoli di ciascun piano davanti a cui passarono salendo Marian scorse gigantesche casse di legno e forme oblunghe ricoperte di teloni fuori delle porte degli appartamenti: dovevano star installando le attrezzature per le cucine, stufe e frigoriferi. Fra poco Peter non sarebbe stato più l'unico abitante dell'edificio. Allora avrebbero fatto funzionare il riscaldamento al
massimo; al momento, tutto l'edificio, tranne l'appartamento di Peter, veniva mantenuto freddo quasi come a temperatura esterna. «Caro», essa disse con aria indifferente, quando ebbero raggiunto il quinto piano e erano fermi un momento per riprendere fiato, «è successa una cosa e ho invitato qualche altra persona. Spero che non ti dispiaccia.» Per tutto il tragitto in macchina era rimasta a rimuginare sul modo di dirglielo. Non sarebbe stato bello che quella gente arrivasse senza che Peter ne sapesse niente, sebbene fosse stata una grande tentazione non dir niente, fidarsi della propria capacità di affrontare la situazione al momento opportuno. In mezzo alla confusione non avrebbe dovuto spiegare come era arrivata a invitarli, non voleva spiegare, non poteva spiegare e aveva paura delle domande di Peter sull'argomento. Improvvisamente si sentì totalmente priva della sua consueta capacità di prevedere in anticipo le sue reazioni. Era diventato una incognita; subito dopo che essa ebbe parlato, una rabbia cieca e un cieco trasporto da parte di lui sembrarono ugualmente possibili. Si allontanò da lui di un passo e afferrò la ringhiera con la mano libera: era impossibile dire cosa avrebbe potuto fare. Ma le sorrise soltanto, mentre una lieve piega di irritazione celata gli compariva fra le sopracciglia. «Davvero, cara? Bene, più saremo e più ci divertiremo. Ma spero che tu non ne abbia invitato troppi: non avremo abbastanza liquori da distribuire e se c'è una cosa che detesto è un party che resta all'asciutto.» Marian fu sollevata. Ora che aveva parlato essa si accorse che era esattamente quello che egli avrebbe detto. Fu tale il suo piacere che avesse risposto in modo prevedibile che gli strinse il braccio. Egli glielo fece scivolare attorno alla vita e cominciarono a salire di nuovo. «No», disse lei, «soltanto circa sei.» In effetti erano nove, ma dato che egli era stato così garbato essa compì il gesto cortese di minimizzare. «Nessuno che io conosca?» egli chiese con amabilità. «Be'... Clara e Joe», essa disse, mentre il suo entusiasmo momentaneo cominciava a svanire. «E Ainsley. Ma non gli altri: non proprio...» «Senti, senti», disse lui, con aria scherzosa, «non sapevo che avessi tanti amici che non ho mai conosciuto. Hai dei segretucci, eh? Dovrò darmi particolarmente da fare per conoscerli così potrò scoprire tutto della tua vita privata.» Le baciò l'orecchio con giovialità. «Sì», disse Marian, appena allegra. «Sono sicura che ti saranno simpatici.» Idiota, disse furibonda fra sé e sé. Idiota, idiota. Come poteva essere stata così stupida? Prevedeva quello che sarebbe successo. Le vergini del-
l'ufficio andavano bene: Peter le avrebbe guardate un po' di traverso, soprattutto Emmy; e Clara e Joe sarebbero stati tollerati. Ma gli altri? Duncan non l'avrebbe tradita: oppure sì? Avrebbe potuto pensare che fosse divertente lasciarsi sfuggire un'insinuazione; o avrebbe potuto farlo per curiosità. Avrebbe potuto prenderlo in disparte quando sarebbe arrivato, però, e chiedergli di non farlo. Ma i suoi compagni di stanza erano un problema insolubile. Essa non credeva che nessuno dei due sapesse ancora che era fidanzata, e poteva immaginarsi lo strillo di Trevor quando l'avrebbe scoperto, e come l'avrebbe guardato Duncan dicendogli: «Ma mio caro, noi pensavamo...» e come sarebbe sprofondato lentamente in un silenzio carico di allusioni che sarebbe stato più pericoloso persino della verità. Peter sarebbe stato furioso, avrebbe pensato che qualcuno avesse violato i diritti della sua proprietà privata, non avrebbe assolutamente capito, e allora cosa sarebbe successo? Perché mai in nome del cielo li aveva invitati? Che sbaglio madornale; come impedire loro di venire? Raggiunsero il settimo piano e percorsero il corridoio verso la porta dell'appartamento di Peter. Egli aveva sparso diversi giornali fuori della porta perché la gente ci mettesse sopra le soprascarpe e gli stivali. Marian si tolse i propri stivali e li posò accuratamente accanto alle soprascarpe di Peter. «Spero che seguano il nostro esempio», disse Peter. «Ho appena fatto lucidare i pavimenti, non voglio che lascino impronte dappertutto.» Senza ancora nessun'altra calzatura accanto a esse, le due paia sembravano una nera esca coriacea in una grande trappola vuota di giornali. Dentro, Peter le tolse il cappotto. Le posò le mani sulle spalle nude e la baciò leggermente sulla nuca. «Uhm Uhm», disse, «un nuovo profumo.» In realtà era di Ainsley, una miscela esotica che aveva scelto perché si accompagnasse agli orecchini. Egli si tolse il cappotto e lo appese nello stanzino proprio accanto alla porta d'ingresso. «Porta il tuo cappotto nella stanza da letto, cara», disse, «e poi vieni in cucina a darmi una mano a preparare la roba. Le donne sono tanto più brave a disporre le cose nei piatti.» Essa attraversò il pavimento del salotto. L'unica aggiunta che Peter aveva fatto ai mobili di recente era un'altra poltrona danese moderna che si intonava con le altre; la maggior parte dello spazio era ancora vuoto. Almeno ciò significava che gli ospiti avrebbero dovuto circolare: non c'era da sedere per tutti. Gli amici di Peter, di regola, non si sedevano sui pavimenti fino a serata inoltrata. Però Duncan poteva. Se lo immaginò a gambe incrociate al centro della stanza spoglia, una sigaretta ficcata in bocca, a guarda-
re con tetra incredulità forse uno dei venditori di sapone o una gamba del sofà danese moderno mentre gli altri ospiti gli giravano attorno, senza badargli molto ma facendo attenzione a non calpestarlo, come se fosse un tavolino da caffè o un qualche genere di oggetto di conversazione: una scultura di legno e pergamena. Forse non era troppo tardi per telefonare pregandoli di non venire. Ma il telefono era in cucina, e così pure Peter. La stanza da letto era meticolosamente in ordine come sempre. I libri e le armi da fuoco erano al solito posto; quattro modellini di navi di Peter ora servivano da fermalibri. Due macchine fotografiche erano state tolte dalle loro custodie e erano posate sulla scrivania. Una aveva un supporto per il flash con una lampadina blu già infilata dentro il riflettore argenteo a forma di piattino. Altre lampadine blu erano disposte vicino a una rivista aperta. Marian posò il cappotto sul letto; Peter le aveva detto che l'armadio accanto alla porta non sarebbe stato abbastanza grande per tutti i cappotti e che le donne dovevano mettere i loro nella sua stanza da letto. Il suo cappotto quindi, con le maniche lungo i fianchi, era più funzionale di quanto sembrava: fungeva da richiamo per così dire per gli altri cappotti. Grazie a esso avrebbero visto dove sarebbero dovuti andare. Si voltò, e si vide riflessa nello specchio grande dello sportello dell'armadio. Peter era rimasto così sorpreso e soddisfatto. «Cara, hai un aspetto assolutamente stupendo», aveva detto appena era sbucato dal pozzo delle scale. Il sottinteso era che sarebbe stato assai piacevole se fosse riuscita a fare in modo di apparire sempre così. L'aveva fatta girare per poterle vedere la schiena e anche quella gli era piaciuta. Ora essa si chiedeva se aveva o no davvero un aspetto stupendo. Meditò mentalmente sulla frase: non aveva alcuna forma o gusto particolari. Che sensazione avrebbe dovuto darle? Sorrise di se stessa. No, così non andava. Fece un sorriso diverso, abbassando le palpebre; neppure così andava del tutto bene. Voltò il capo ed esaminò il proprio profilo con la coda dell'occhio. Il guaio era che non poteva afferrare l'effetto nel suo complesso: la sua attenzione coglieva i vari particolari, le cose a cui non era abituata: le unghie, i pesanti orecchini, i capelli, le varie parti della faccia che Ainsley aveva aggiunto o alterato. Riusciva a vedere soltanto una cosa alla volta. Cos'era che stava sotto la superficie su cui galleggiavano questi pezzi, tenendoli tutti insieme? Allungò entrambe le braccia nude verso lo specchio. Erano l'unica parte della sua carne che era priva di un rivestimento di panno, o di nailon o di pelle o di lacca, ma allo specchio anche loro sembravano contraffazioni, come gomma o plastica molle e biancorosa, senza ossa, flessibile...
Irritata verso se stessa per il fatto di scivolare di nuovo verso il panico di prima, aprì lo sportello dell'armadio per voltare lo specchio verso il muro e si trovò a guardare i vestiti di Peter. Li aveva visti abbastanza spesso in precedenza, perciò non c'era alcun motivo particolare perché se ne stesse lì, una mano sul bordo dello sportello, a guardare dentro l'oscuro armadio... I vestiti pendevano ordinatamente in fila. Riconobbe tutti gli indumenti che aveva sempre visto indosso a Peter, tranne naturalmente il completo scuro da inverno che portava al momento: c'era la sua versione da mezza estate, accanto a essa la giacca sportiva di tweed che si accompagnava con i pantaloni di flanella grigia, e poi la serie delle altre fasi dall'estate avanzata fino all'autunno compreso. Le scarpe erano allineate sul pavimento, ciascuna con la sua forma personale dentro. Si rese conto di star osservando i vestiti con un'emozione affine a qualcosa di simile al risentimento. Come potevano stare lì appesi rivendicando compiaciuti una tale invisibile, silenziosa autorità? Ma ripensandoci, era più simile alla paura. Allungò una mano per toccarli e la ritrasse: temeva quasi che fossero caldi. «Cara, dove sei?» chiamò Peter dalla cucina. «Sto venendo, caro», essa rispose. Chiuse lo sportello dell'armadio in fretta, lanciò un'occhiata allo specchio, si rimise a posto una fronda con un colpetto, e andò a raggiungerlo, camminando attentamente dentro la sua impiallacciatura ben aggiustata. Il tavolo della cucina era ricoperto di recipienti di vetro. Alcuni erano nuovi: li doveva avere comprati espressamente per il party. Be', avrebbero sempre potuto usarli dopo sposati. Le mensole sorreggevano sfilze di bottiglie di colore e forma diverse: whisky, whisky di segale, gin. Peter sembrava essere completamente padrone della situazione. Stava dando una lustrata finale ai bicchieri con una salvietta pulita. «Posso fare qualcosa per aiutarti?» essa chiese. «Sì cara, perché non sistemi un po' di queste cose in qualche piatto? Tieni, ti ho versato da bere, whisky e acqua, sarebbe bene che cominciassimo per primi.» Anche lui non aveva perso tempo; il suo bicchiere stava sulla mensola semivuoto. Essa sorseggiò il whisky, sorridendogli al di sopra dell'orlo del bicchiere. Era troppo forte per lei; scendendole giù per la gola le bruciava. «Credo che tu stia cercando di ubriacarmi», disse. «Potrei avere un altro cubetto di ghiaccio?» Notò con ripugnanza che la bocca aveva lasciato un'impronta untuosa sull'orlo del bicchiere. «C'è un sacco di ghiaccio nel frigorifero», disse lui, con voce compiaciu-
ta perché essa sentiva il bisogno di diluire il suo whisky. Il ghiaccio era in una grande coppa. Ce n'era dell'altro in riserva, due sacchetti di polietilene. Lo spazio restante era occupato da bottiglie, bottiglie di birra ammucchiate sul ripiano inferiore, bottiglie alte di gingerale e basse bottiglie incolori di acqua tonica e acqua minerale sui ripiani accanto al congelatore. Il suo frigorifero era così bianco e immacolato e ordinato; essa pensò con un senso di colpa al proprio. Si occupò delle patatine, delle noccioline americane, delle olive e dei funghetti, riempiendo le coppe e i piatti che Peter le aveva indicato, toccando il cibo addirittura con la punta delle dita in modo da non sporcarsi lo smalto. Quando ebbe quasi finito Peter le si avvicinò dal di dietro. Le cinse la vita con un braccio. Con l'altra mano le aprì a metà la lampo del vestito; poi la ritirò su. Essa lo sentiva respirare giù per la nuca. «Peccato che non abbiamo tempo di fare un salto nel letto», disse, «ma non vorrei scompigliarti. Oh be', per questo abbiamo un sacco di tempo dopo.» Le mise l'altro braccio attorno alla vita. «Peter», disse lei, «mi ami?» Gliel'aveva chiesto prima come una specie di scherzo, senza dubitare della risposta. Ma questa volta essa aspettò, immobile, per sentire cosa avrebbe detto. Egli la baciò lievemente sull'orecchio. «Naturale che ti amo, non fare la stupida», disse lui in un tono affettuoso che stava a indicare che egli pensava di starla assecondando. «Ti sposo, no? E ti amo soprattutto con quel vestito rosso. Dovresti vestirti di rosso più spesso.» La lasciò andare, e essa passò l'ultimo funghetto in salamoia dal vaso al piatto. «Vieni qui un attimo cara», chiamò la voce di lui. Era nella stanza da letto. Essa si sciacquò le mani, se le asciugò, e andò a raggiungerlo. Egli aveva acceso la lampada da tavolo e era seduto alla scrivania intento a mettere a punto una delle sue macchine fotografiche. Alzò gli occhi verso di lei, sorridendo. «Ho pensato di fare qualche fotografia del party», disse. «Ci sarà da divertirsi in seguito, a riguardarle. Questo è il nostro primo vero party assieme, capisci; un grande avvenimento. A proposito, hai già trovato un fotografo per il matrimonio?» «Non lo so», disse lei, «credo che l'abbiano già trovato loro.» «Vorrei farlo io stesso, ma naturalmente questo è impossibile», disse lui ridendo. Cominciò a armeggiare col suo esposimetro. Gli si appoggiò affettuosamente alla spalla, guardando al di sopra di essa gli oggetti sulla scrivania, le lampade azzurre del flash, il concavo piatto azzurro del riflettore. Egli stava consultando la rivista aperta; aveva con-
trassegnato l'articolo intitolato «Illuminazione del flash per gli interni». Accanto alla colonna a stampa c'era un inserto pubblicitario: una ragazzina con due treccine, su una spiaggia, che stringeva uno spaniel. «Abbiatelo caro per sempre», dicevano le parole. Andò verso la finestra e guardò giù. Sotto c'era la città bianca con le sue strade strette e le sue fredde luci invernali. In una mano sorreggeva il bicchiere col whisky; lo sorseggiò. Il ghiaccio tintinnò contro il vetro. «Cara», disse Peter, «è quasi l'ora zero, ma prima che vengano vorrei farti due o tre fotografie da sola, se non ti dispiace. Ci sono rimaste soltanto alcune pose su questo rotolo e voglio metterne su uno nuovo per il party. Quel rosso dovrebbe fare un bell'effetto in una diapositiva, e intanto che ci sono ne farò anche qualcuna in bianco e nero.» «Peter», disse lei esitante, «non credo...» Quell'idea le aveva suscitato un'ansia irragionevole. «Ora non fare la modesta», disse lui. «Potresti soltanto rimanere lì vicino ai fucili e appoggiarti un po' contro il muro?» Rigirò la lampada da tavolo in modo che le illuminasse la faccia e tenne il piccolo esposimetro nero rivolto verso di lei. Essa indietreggiò contro il muro. Egli sollevò la macchina fotografica e sbirciò attraverso il piccolo mirino in cima; stava aggiustando l'obiettivo, mettendola a fuoco. «Potresti stare un po' meno rigida? Rilassati. E non stringerti nelle spalle così, andiamo, butta il petto in fuori, e non fare quella faccia preoccupata, cara, sii naturale, andiamo, sorridi...» Il corpo di lei si era gelato, irrigidito. Non riusciva a muoversi, non riusciva neppure a muovere i muscoli della faccia mentre stava lì eretta a guardare nel rotondo obiettivo di vetro puntato verso di lei, voleva dirgli di non toccare il tasto dell'otturatore ma non poteva muoversi... Si sentì bussare alla porta. «Oh, maledizione», disse Peter. Posò la macchina sulla scrivania. «Eccoli che arrivano. Be', dopo allora, cara.» Uscì dalla stanza. Marian si allontanò lentamente dall'angolo. Respirava in modo rapido. Allungò una mano imponendosi di toccarla. «Cosa mi succede?» si disse. «È soltanto una macchina fotografica.» 27 Le prime a arrivare furono le tre vergini dell'ufficio, Lucy da sola, Emmy e Millie quasi contemporaneamente cinque minuti dopo. Evidente-
mente non si aspettavano di trovarsi tutte e tre lì: ciascuna sembrava irritata perché le altre erano state invitate. Marian fece le presentazioni e le condusse nella stanza da letto, dove i loro cappotti si aggiunsero al suo sul letto. Ciascuna disse, in un particolare tono di voce, che Marian avrebbe dovuto vestirsi di rosso più spesso. Ciascuna si guardò nello specchio, azzimandosi e assettandosi, prima di andare nel salotto. Lucy si impiastrò di nuovo la bocca e Emmy si grattò in fretta il cuoio capellino. Si calarono cautamente nell'arredamento danese moderno e Peter portò loro da bere. Lucy aveva un abito di velluto porpora, con palpebre argentee e ciglia finte; Emmy era vestita di chiffon rosa, una cosa che ricordava vagamente i balli tradizionali delle scuole superiori. I capelli erano tutti a ciocche irrigidite col fissatore e le si vedeva la sottoveste. Millie era ricoperta da un raso blu chiaro che era rigonfio in strane parti; aveva una minuscola borsetta da sera di lustrini e sembrava la più nervosa delle tre. «Sono così contenta che siate potute venire tutte», disse Marian. In quel momento non era per niente contenta. Loro erano così eccitate. Ciascuna si aspettava che una versione di Peter varcasse miracolosamente la porta, si inginocchiasse e chiedesse la loro mano. Cosa avrebbero fatto quando si sarebbero trovate davanti a Fish e a Trevor, per non parlare di Duncan? Inoltre, cosa avrebbero fatto Fish e Trevor, per non parlare di Duncan, quando si sarebbero trovati davanti a loro? Essa si prefigurava due triadi di grida e un esodo in massa, un gruppo attraverso la porta e uno attraverso la finestra. Cosa ho fatto adesso? pensò. Ma aveva quasi finito di credere nell'esistenza dei tre studenti; diventavano sempre più improbabili col passare della sera e del whisky. Forse non si sarebbero mai fatti vivi. I venditori di sapone e le loro mogli stavano arrivando alla spicciolata. Peter aveva messo un disco sul grammofono a alta fedeltà e la stanza era rumorosa e stipata. Ogni volta che si sentiva bussare alla porta le tre vergini dell'ufficio ruotavano la testa verso l'entrata; e ogni volta che vedevano un'altra moglie felice e scintillante entrare nella stanza col proprio marito lustro, tornavano, un po' più frenetiche, ai loro bicchieri e al loro scambio di commenti sgradevoli. Emmy giocherellava con uno dei suoi orecchini di strass. Millie cincischiava con un lustrino lento della sua borsetta da sera. Marian, sorridente e efficiente, conduceva ogni moglie nella stanza da letto. La pila di cappotti diventava più alta. Peter portava da bere a tutti e lui stesso aveva scolato un certo numero di bicchieri. Le arachidi e le patatine e altre cose passavano da una mano all'altra, dalla mano alla bocca. Il gruppo raccolto in salotto stava già cominciando a dividersi in due territori
regolari, le mogli sul lato del divano, gli uomini su quello del grammofono, e in mezzo un'invisibile terra di nessuno. Le vergini dell'ufficio erano rimaste inchiodate dalla parte sbagliata: ascoltavano sconfortate le mogli. Marian provò un'altra punta di rimorso. Ma proprio adesso non poteva badare a loro, pensò: stava passando i funghetti in salamoia. Si chiese che cosa trattenesse Ainsley. La porta si aprì di nuovo e Clara e Joe entrarono nella stanza. Dietro di loro c'era Leonard Slank. I nervi di Marian si contrassero e un funghetto cadde dal piatto che essa reggeva, rimbalzò sul pavimento e scomparve sotto il mobile del grammofono. Peter li stava già salutando e stringeva la mano a Len con espansività. La sua voce diventava più alta a ogni bicchiere che beveva. «Come diavolo stai, che piacere vederti qui, dio volevo darti un colpo di telefono», stava dicendo. Len rispose con un sobbalzo e uno sguardo vitreo. Marian strinse saldamente con la mano la manica del cappotto di Clara e la spinse nella stanza da letto. «Cosa ci fa lui qui?» chiese, con alquanta malagrazia. Clara si tolse il cappotto. «Spero che non te ne abbia a male se lo abbiamo portato, pensavo che non ti sarebbe dispiaciuto perché dopo tutto siete vecchi amici, ma in realtà ho pensato che avremmo fatto meglio, non volevamo che se ne andasse via da qualche parte da solo. Come puoi vedere è in condizioni da farsela addosso. È arrivato da noi proprio subito dopo la babysitter e aveva davvero un aspetto da far paura, è ovvio che è stato molto provato. Ci ha raccontato una storia incomprensibile di una donna con cui ha avuto delle noie, sembrava una cosa molto seria, e ha detto che aveva paura di tornare all'appartamento, non so perché, chi potrebbe fargli qualcosa? Così, poveraccio, lo teniamo noi in quella stanza sul retro, al secondo piano. In realtà è la stanza di Arthur, ma sono certa che non gli spiacerà dividerla con lui. Ci sentiamo tutti e due così dispiaciuti per lui, quello di cui ha bisogno è una brava ragazza amante della casa che si prenda cura di lui, non sembra assolutamente capace di affrontare la realtà...» «Ha detto chi era lei?» chiese lesta Marian. «Ma, no», fece Clara, alzando le sopracciglia, «di solito lui non dice i nomi.» «Lascia che ti porti un bicchiere», disse Marian. Anche lei ne aveva voglia di un altro. Naturalmente Clara e Joe non avrebbero potuto sapere chi era la donna, altrimenti non avrebbero mai portato Len con loro. Essa era sorpresa che addirittura lui fosse venuto; doveva sapere che era assai pro-
babile che Ainsley fosse al party, ma probabilmente a questo punto era troppo ubriaco per curarsene. Ciò che la preoccupava maggiormente era l'effetto che la sua presenza avrebbe potuto avere su Ainsley. Avrebbe potuto sconvolgerla quanto bastava per spingerla a fare qualche sciocchezza. Quando tornarono in salotto, Marian vide che Leonard era stato riconosciuto immediatamente dalle vergini dell'ufficio come scapolo e disponibile. Ora l'avevano fatto indietreggiare fino al muro, nella zona neutrale: due di esse ai fianchi gli impedivano di fuggire lateralmente e la terza gli stava davanti. Egli teneva una mano premuta contro il muro per sostenersi; con l'altra reggeva un boccale di vetro colmo di birra. Mentre parlavano egli spostava continuamente gli occhi da una faccia all'altra come se non volesse rimanere a guardare troppo a lungo una qualsiasi di loro. La sua stessa faccia, che era del colore grigio biancastro uniforme di una crosta di focaccia cruda e stranamente gonfia, esprimeva un misto di ottusa incredulità, noia e allarme. Ma sembrava che fossero riuscite a strappargli alcune parole, perché Marian sentì Lucy esclamare: «La televisione! Che emozione!» mentre le altre ridacchiavano ansiose. Leonard inghiottì disperatamente una boccata di birra. Marian stava passando le olive mature quando vide Joe venirle incontro dal territorio degli uomini. «Salve», le disse. «Sono molto contento che tu ci abbia invitato qui stasera. Clara ha così poche possibilità di uscire di casa.» Entrambi rivolsero gli occhi verso Clara, che era di là, dalla parte del divano, intenta a parlare con la moglie di un venditore di sapone. «Sono molto preoccupato per lei, sai», continuò Joe. «Penso che per lei sia un sacco più difficile che per la maggioranza delle altre donne; penso che sia più difficile per qualsiasi donna che abbia frequentato l'università. Si mette in testa di avere una mente, i suoi professori prestano attenzione a quel che ha da dire, la trattano come un essere umano pensante; quando si sposa, il suo nucleo viene invaso...» «Il suo cosa?» chiese Marian. «Il suo nucleo. Il centro della sua personalità, quello che lei si è costruita; la sua immagine di se stessa se vuoi.» «Oh. Sì», disse Marian. «Il suo ruolo femminile e il suo nucleo sono davvero in contrasto, il suo ruolo femminile richiede passività da parte sua...» Marian ebbe una visione fugace di una grande sfoglia circolare, decorata con panna montata e ciliege col maraschino, fluttuante in aria sulla testa di
Joe. «Così lascia che il marito si impossessi del suo nucleo. E quando arrivano i bambini, lei si sveglia una mattina e scopre che dentro non le è rimasto niente, che è vuota, non sa più chi è; il suo nucleo è stato distrutto.» Scosse lievemente la testa e bevve un sorso. «Lo vedo succedere alle mie studentesse. Ma sarebbe inutile metterle in guardia.» Marian si voltò a guardare Clara dove stava parlando, vestita di un semplice abito di lana beige, i lunghi capelli di un delicato giallo pera chiaro. Chissà se Joe aveva mai detto a Clara che il suo nucleo era stato distrutto; le venne di pensare a delle mele e a dei bachi. Mentre la guardava, Clara fece un gesto teatrale con una mano e la moglie di un venditore di sapone fece un passo indietro mostrandosi scandalizzata. «Naturalmente non serve rendersi conto di tutto questo», stava dicendo Joe. «Succede, che tu te ne renda conto oppure no. Forse alle donne non si dovrebbe assolutamente permettere di andare all'università; allora non avrebbero sempre la sensazione in seguito di non aver partecipato alla vita intellettuale. Per esempio, quando suggerisco a Clara di togliersi di casa e di trovare un qualche rimedio alla cosa, come seguire un corso serale, lei mi rivolge semplicemente uno sguardo strano.» Marian alzò gli occhi su Joe con un'affettuosità il cui preciso gusto era annebbiato dai bicchieri che essa aveva bevuto. Pensò a lui che correva su e giù per la casa in maglietta, intento a meditare sulla vita intellettuale e a lavare i piatti e a strappare malamente i francobolli dalle buste; si chiese cosa ci facesse dopo con i francobolli. Ebbe voglia di allungare la mano e toccarlo, rassicurarlo, dirgli che il nucleo centrale di Clara non era veramente stato distrutto e che tutto si sarebbe sistemato; ebbe voglia di dargli qualcosa. Mise avanti il piatto che reggeva. «Prendi un'oliva», disse. Alle spalle di Joe la porta si aprì e Ainsley la varcò. «Scusami», disse Marian a Joe. Posò le olive sul mobile del fonografo e andò avanti per intercettare Ainsley; doveva metterla in guardia. «Salve», disse Ainsley ansante. «Mi dispiace di essere più in ritardo di quello che pensavo ma ho avuto questo stimolo di cominciare a far le valige...» Marian la spinse in fretta nella stanza da letto, nella speranza che Len non l'avesse vista. Notò di sfuggita che era ancora completamente circondato. «Ainsley», disse quando furono sole fra i cappotti, «Len è qui e temo che sia ubriaco.»
Ainsley uscì dal suo bozzolo. Aveva un aspetto stupendo. Indossava un abito di una tonalità di verde che si avvicinava al turchese, con le palpebre e le scarpe dello stesso colore; i capelli formavano volute e brillavano, girandole attorno alla testa. La pelle le ardeva, irradiata di molti ormoni; lo stomaco non era ancora rigonfio in misura che si potesse notare. Si studiò allo specchio prima di rispondere. «Ebbene?» disse calma, allargando gli occhi. «Davvero Marian, non me ne importa minimamente. Dopo quel colloquio di questo pomeriggio sono sicura che sappiamo qual è il nostro punto di vista e possiamo comportarci tutti e due da adulti maturi. Adesso non potrebbe dirmi nulla capace di turbarmi.» «Ma», disse Marian, «sembra completamente sconvolto; così dice Clara. A quanto pare è andato a abitare a casa loro. L'ho visto quando è entrato, ha un aspetto terribile; perciò spero che tu non dica niente che possa turbare lui.» «Non c'è assolutamente nessun motivo», disse Ainsley con leggerezza, «perché gli debba anche solo parlare.» Nel salotto i venditori di sapone dalla loro parte dell'invisibile steccato stavano diventando assai turbolenti. Scoppiavano in risate: uno di loro stava raccontando barzellette oscene. Anche le voci delle donne aumentavano di intensità e di volume, librandosi in striduli accompagnamenti agonistici al di sopra del baritono e del basso. Quando comparve Ainsley, ci fu un riflusso generale verso di lei: alcuni dei venditori di sapone, prevedibilmente, abbandonarono il loro angolo e vennero per farsi presentare e le relative mogli, sempre all'erta, si alzarono dal divano e avanzarono con passi rapidi per intercettarli nel loro tentativo. Ainsley sorrise con aria assente. Marian andò in cucina a prendere un bicchiere per Ainsley e un altro per sé. L'ordine precedente della cucina, le belle file di bicchieri e di bottiglie, si era disintegrato durante la serata. L'acquaio era colmo di cubetti di ghiaccio e mozziconi di cibo, la gente sembrava non saper mai dove mettere i noccioli delle olive e i frammenti di un bicchiere infranto; delle bottiglie, vuote e semivuote, erano posate sulle mensole, la tavola e il frigorifero; e qualcosa di indefinibile era stato sparso sul pavimento. Ma c'erano ancora alcuni bicchieri puliti. Marian ne riempì uno per Ainsley. Mentre stava uscendo dalla cucina udì delle voci nella stanza da letto. «Lei è persino più bello di quanto sembra al telefono.» Era la voce di Lucy. Marian diede un'occhiata alla stanza da letto. C'era Lucy che stava guardando Peter da sotto le sue palpebre argentee. Lui era lì con una macchina
fotografica in mano e le stava sorridendo con aria infantile anche se alquanto stupida. Così Lucy aveva abbandonato l'assedio di Leonard. Doveva essersi accorta che era inutile, per queste cose era stata sempre più astuta delle altre due. Ma com'era toccante da parte sua tentare invece con Peter; patetico, in effetti... Dopo tutto Peter era fuori commercio quasi definitivamente come se fosse già sposato. Marian sorrise fra sé e sé e si ritirò, ma non prima che Peter l'avesse notata e chiamata agitando la macchina fotografica, la faccia esageratamente gioiosa per un senso di colpa. «Salve amore, il party è davvero lanciato! È quasi il momento delle fotografie!» Lucy voltò la testa verso il vano della porta, sorridendo, mentre le palpebre le si alzavano come tapparelle. «Ecco il tuo bicchiere, Ainsley», disse Marian, facendosi largo in mezzo alla cerchia di venditori di sapone per porgerglielo. «Grazie», disse Ainsley. Lo prese con una certa aria distratta che Marian avvertì come un segnale di pericolo. Seguì la direzione dello sguardo di Ainsley. Len la fissava dall'altra parte della stanza, con la bocca leggermente aperta. Millie e Emmy lo stavano ancora tenendo tenacemente a bada. Millie si era spostata sul davanti, bloccando con la sottana quanto più spazio possibile e Emmy si muoveva di fianco avanti e indietro come un difensore nel basket; ma uno dei fianchi restava scoperto. Marian si voltò indietro in tempo per vedere Ainsley sorridere: un sorriso invitante. Si sentì bussare alla porta. È meglio che vada io, pensò Marian, Peter è occupato nella camera da letto. Aprì la porta e si trovò davanti la faccia perplessa di Trevor. Gli altri due erano dietro di lui, assieme a una figura sconosciuta, probabilmente donna, con un cappotto di tweed che faceva le borse, occhiali da sole e lunghe calze nere. «È questo il numero giusto?» chiese Trevor. «Un certo Mr Peter Wollander?» Evidentemente non la riconosceva. Marian si sentì venir meno dentro; si era dimenticata completamente di loro. Oh, be', c'erano un rumore e un caos tale lì dentro che forse Peter non si sarebbe nemmeno accorto di loro. «Sono così contenta che siate potuti venire», disse. «Vi prego, entrate. A proposito, io sono Marian.» «Oh, ahahah, naturalmente», strillò Trevor. «Come sono stupido! Non ti avevo riconosciuta, mia cara hai un aspetto elegante, dovresti vestirti di rosso più spesso.» Trevor e Fish e l'altra entrarono passandole accanto, ma Duncan rimase fuori. Le afferrò il braccio, la tirò nell'andito e le chiuse la porta alle spalle.
Rimase per un momento a scrutarla muto da sotto i capelli, esaminando ogni nuovo particolare. «Non mi avevi detto che era una festa in maschera», disse alla fine. «Chi diavolo dovresti essere?» Marian si insaccò dalla disperazione. Così tutto sommato non aveva un aspetto assolutamente stupendo. «Non mi hai semplicemente mai vista vestita a festa prima», disse flebilmente. Duncan cominciò a ridacchiare. «Più di tutto mi piacciono gli orecchini», disse, «dove li hai pescati?» «Oh smettila», disse lei con una punta di petulanza, «e vieni dentro a bere qualcosa.» Egli era molto irritante. Cosa si aspettava che indossasse, un vestito di sacco e cenere? Essa aprì la porta. Il rumore della conversazione e della musica e delle risate invase il corridoio. Poi ci fu un lampo abbagliante di luce, e una voce sonora esclamò trionfante: «Aha! Preso in flagrante!» «Questo è Peter», disse Marian, «deve star facendo delle fotografie.» Duncan fece un passo indietro. «Non credo di voler venir lì dentro», disse. «Ma devi. Devi conoscere Peter, vorrei davvero che lo conoscessi.» Improvvisamente era diventato assai importante che egli venisse con lei. «No, no», disse lui. Essa stava allungando la mano per prenderlo per il braccio, ma egli si stava già voltando, quasi ripercorrendo il corridoio di corsa. «Dove vai?» essa gli gridò dietro querula. «Alla lavagettone!» le rispose lui. «Addio, fa un bel matrimonio», aggiunse. Essa intravide per l'ultima volta il suo sorriso contorto mentre svoltava l'angolo. Udì i suoi passi allontanarsi giù per le scale. Per un attimo ebbe voglia di corrergli dietro, andare con lui: certo non si sentiva di affrontare di nuovo la stanza affollata. Ma: «Devo», si disse. Varcò il vano della porta indietreggiando. La prima cosa che incontrò fu la larga schiena lanosa di Fischer Smythe. Indossava un maglione a collo alto a strisce aggressivamente sportivo. Trevor, accanto a lui, portava un vestito, una camicia e una cravatta immacolati. Stavano entrambi parlando alla creatura in calze nere: qualcosa sui simboli di morte. Essa eluse abilmente il gruppo, non desiderando esser costretta a dare spiegazioni sulla scomparsa di Duncan. Scoprì di essere dietro a Ainsley e dopo un minuto si accorse che Leonard Slank era dall'altra parte di quella forma rotonda in verdeazzurro. Non riusciva a vederlo in faccia, c'erano di mezzo i capelli di Ainsley, ma rico-
nobbe il suo braccio e la mano che reggeva il boccale di birra: di nuovo pieno, essa notò. Ainsley gli stava dicendo qualcosa a voce bassa, pressante. Essa udì la risposta male articolata di lui: «No, accidenti! Non mi prenderai mai...» «Benissimo allora.» Prima che Marian si rendesse conto di ciò che Ainsley stava facendo, questa aveva alzato la mano e l'aveva lasciata ricadere con violenza, fracassando il bicchiere contro il pavimento. Marian fece un balzo indietro. Al rumore del vetro in frantumi la conversazione si fermò come se avessero tolto la spina e Ainsley disse nel silenzio che era rotto, assurdamente, soltanto dal delicato sospirare di violini: «Len e io abbiamo da annunciarvi una cosa meravigliosa». Esitò per fare effetto, gli occhi risplendenti. «Avremo un bambino.» La sua voce era mite. Oh dio, pensò Marian, sta cercando di forzargli la mano. Si udirono alcuni boccheggiamenti dal lato del sofà. Qualcuno ridacchiò, e uno dei venditori di sapone disse: «È bravo il nostro Len». Marian ora poté vedere Len in faccia. Sulla superficie bianca erano apparse qua e là delle macchie rosse; il labbro inferiore stava tremando. «Sporca puttana!» disse lui con voce rauca. Ci fu un momento di silenzio. La moglie di un venditore di sapone cominciò a conversare rapidamente di qualcos'altro ma ben presto ammutolì. Marian osservò Len: pensò che stesse per colpire Ainsley, ma invece sorrise, mostrando i denti. Si rivolse alle moltitudini in ascolto. «È vero, gente», disse, «e faremo il battesimo immediatamente, a metà di questa piccola riunione amichevole. Battesimo in utero. Con il presente atto gli do il mio nome.» Allungò una mano e afferrò Ainsley per le spalle, sollevò il boccale di birra e le versò lentamente il contenuto completo sul capo. Le mogli dei venditori di sapone diedero tutte in grida di piacere; i venditori di sapone urlarono «Evviva!» Mentre le ultime gocce di schiuma stavano colando giù, Peter arrivò di corsa dalla stanza da letto, infilando una lampadina nella macchina fotografica. «Fermo!» gridò e schiacciò. «Stupenda! Questa sarà una fotografia stupenda! Ehi, il party sta proprio prendendo quota!» Molti gli lanciarono degli sguardi irritati, ma la maggioranza non gli rivolse la minima attenzione. Tutti stavano muovendosi e parlando contemporaneamente; nello sfondo i violini suonavano ancora, melensi come sac-
carina. Ainsley era lì in piedi, fradicia, mentre una pozza di schiuma e di birra si stava formando ai suoi piedi sul pavimento di legno. La faccia le si contorceva: fra un minuto avrebbe deciso se sarebbe valsa la pena di piangere. Len l'aveva mollata. La sua testa si piegò; farfugliò qualcosa che non si sentì. Pareva che avesse soltanto un'idea approssimativa di quello che aveva appena fatto e assolutamente nessuna idea di quello che avrebbe fatto dopo. Ainsley si voltò e prese ad avviarsi verso il bagno. Varie mogli dei venditori di sapone avanzarono in frotta, emettendo tubanti rumori gutturali, bramose di condividere il centro dell'attenzione aiutandola; ma qualcuno era arrivato prima di loro. Era Fischer Smythe. Si stava sfilando dalla testa il suo maglione di lana a collo alto, esibendo un torso muscoloso ricoperto di una gran quantità di ciuffi di peli neri. «Lasci fare a me», le disse, «non vorremmo che prendesse un raffreddore, le pare? Non nelle sue condizioni.» Cominciò a asciugarla col maglione. Aveva gli occhi umidi per la sollecitudine. I capelli di Ainsley erano venuti giù e le ricadevano in frange gocciolanti sulle spalle. Essa gli sorrise attraverso la birra o le lacrime che le imperlavano le sopracciglia. «Non credo che ci conosciamo», essa disse. «Io credo di sapere già chi è lei», disse lui, dandole dei teneri colpetti sulla pancia con una delle maniche a strisce, la voce carica di un significato simbolico. Accadde più tardi. Il party, miracolosamente, procedeva ancora, dopo essersi in qualche modo richiuso tranquillamente sullo squarcio fatto in esso da Ainsley e da Len. Qualcuno aveva ripulito il pavimento dei frammenti di vetro e della birra, e nel salotto ora i rivoli di conversazione, di musica e di bevande stavano di nuovo scorrendo come se nulla fosse successo. La cucina tuttavia offriva uno spettacolo di devastazione. Sembrava che fosse stata colpita da una fulminea inondazione. Marian raspava in mezzo ai detriti, cercando di individuare un bicchiere pulito; aveva posato il suo là fuori da qualche parte, non ricordava dove e voleva bere qualcos'altro. Non c'erano più bicchieri puliti. Ne prese uno già usato, lo passò sotto il rubinetto aperto, lentamente e attentamente si versò un altro goccio di whisky. Si sentiva serena, aveva la sensazione di galleggiare, come se giacesse supina su uno stagno. Andò verso il vano della porta e vi si appoggiò, passando in rivista la stanza.
«Ce la faccio! Ce la faccio!» disse fra sé e sé. Il fatto la sorprendeva alquanto, ma la soddisfece immensamente. Erano tutti lì, tutti quanti (tranne, come notò, scrutando, Ainsley e Fischer, e oh sì Len: chissà dove erano andati), e facevano tutto quello che la gente fa ai party; e anche lei lo faceva. Essi la stavano sostenendo, poteva galleggiare completamente stagna, tenuta a galla dalla sensazione di essere una di loro. Provava un caldo affetto per tutti quanti, per le loro forme e facce distinte che ora riusciva a vedere tanto più chiaramente del consueto, come se fossero illuminate da un proiettore nascosto. Amava persino le mogli dei venditori di sapone e Trevor che gesticolava con una mano; e quelle dell'ufficio, Millie che rideva laggiù nel suo brillante vestito blu chiaro, persino Emmy, che si muoveva inconsapevole del bordo sfilacciato della sottoveste... Anche Peter era in mezzo a loro; portava ancora la sua macchina fotografica e di quando in quando la sollevava per scattare una fotografia. Le ricordò la pubblicità dei film fatti in casa, il padre che consuma rotoli su rotoli di pellicola soltanto per riprendere normali cose quotidiane, quali soggetti potrebbero essere migliori: gente che ride, solleva bicchieri, bambini a party per il loro compleanno... E così ecco cosa c'è stato sempre lì dentro, essa pensò felice: questo è ciò che egli sta diventando. Il vero Peter, quello sotto, non era nulla di sorprendente o di pauroso, solo questo uomo da bungalow e da letto matrimoniale, quest'uomo che cuoce nel cortile di dietro con la carbonella. Quest'uomo del cinema fatto in casa. E io l'ho fatto uscire, essa pensò, l'ho evocato. Inghiottì un po' di whisky. Era stata una ricerca lunga. Ripercorse a ritroso nel tempo i corridoi e le stanze, lunghi corridoi, ampie stanze. Tutto sembrava diminuire di velocità. Se questo è ciò che è realmente Peter, pensò, percorrendo uno dei corridoi, avrà la pancetta a quarantacinque anni? Si vestirà in modo trasandato i sabati, con dei blue jeans stazzonati per il suo laboratorio in cantina? L'immagine era rassicurante: avrebbe avuto degli hobby, sarebbe stato sereno, sarebbe stato normale. Aprì una porta a destra e entrò. C'era Peter, a quarantacinque anni e con una calvizie incipiente, ma ancora riconoscibile come Peter, alla chiara luce del sole accanto a uno spiedo con una lunga forchetta in mano. Indossava un bianco grembiule da capocuoco. Cercò accuratamente se stessa nel giardino, ma non c'era e la scoperta la gelò. No, pensò, questa deve essere la stanza sbagliata. Non può essere l'ulti-
ma. E ora vide che c'era un'altra porta, nella siepe dall'altra parte del giardino. Attraversò il prato, passando dietro una figura immobile, che, così vide, ora reggeva una grande mannaia nell'altra mano, aprì la porta con una spinta e la varcò. Era ritornata nel salotto di Peter con la gente e il rumore, appoggiata contro l'intelaiatura della porta e col bicchiere in mano. Senonché la gente ora sembrava addirittura più distinta, più aspramente a fuoco, più lontana, e si muoveva sempre più velocemente, andava tutta a casa, una fila di mogli di venditori di sapone emerse dalla stanza da letto, coi cappotti indosso, uscì barcollando a balzelloni dalla porta tirandosi dietro i mariti, trillando buonanotte, e chi era quella figuretta a due dimensioni con un vestito rosso, in posa come una donna di carta in un catalogo di acquisti per posta, che si voltava e sorrideva, ondeggiante nel bianco spazio vuoto... Non poteva essere questo; ci doveva essere qualcos'altro. Si diresse di corsa verso la porta seguente, l'aprì con uno strattone. Peter era lì, col suo scuro elegante vestito invernale. Aveva una macchina fotografica in mano; ma ora essa vedeva cos'era realmente. Non c'erano più porte e quando si tastò di dietro per sentire la maniglia, temendo di togliergli gli occhi di dosso, egli sollevò la macchina e la puntò verso di lei; la sua bocca si aprì in un groviglio di denti. Ci fu un lampo accecante di luce. «No!» essa urlò. Si coprì la faccia col braccio. «Cosa c'è, cara?» Essa alzò gli occhi. Peter era accanto a lei. Era reale. Essa sollevò la mano e gli toccò la faccia. «Mi ha spaventato», essa disse. «Non riesci proprio a tenere il liquore, vero cara», disse lui, con un misto di amorevolezza e di irritazione nella voce. «Dovresti esserci abituata, è tutta la sera che faccio fotografie.» «Quella era per me?» essa chiese. Gli sorrise per riconciliarselo. Ebbe la sensazione che la propria faccia si stendesse ampia, e fosse cartacea e leggermente cadente: un enorme sorriso da manifesto, che si sfaldava e si scrostava, e la superficie metallica traspariva al di sotto di esso... «No, in realtà era di Trigger laggiù in fondo alla stanza. Non importa, te la farò dopo. Ma faresti meglio a non bere più, cara, stai dondolando.» Le diede un colpetto sulla spalla e si allontanò. Era ancora al sicuro allora. Doveva uscire prima che fosse troppo tardi. Si voltò e posò il bicchiere sul tavolo della cucina, la sua mente resa improvvisamente astuta dalla disperazione. Tutto dipendeva dall'arrivare fino
a Duncan: egli avrebbe saputo cosa fare. Rivolse un'occhiata in giro per la cucina, poi raccolse il suo bicchiere e ne rovesciò il contenuto nell'acquaio. Avrebbe fatto attenzione, non avrebbe lasciato tracce. Poi prese il telefono e fece il numero di Duncan. Il telefono squillò varie volte: nessuna risposta. Riattaccò. Dal salotto giunse un altro lampo di luce e il suono della risata di Peter. Non avrebbe mai dovuto vestirsi di rosso. La rendeva un bersaglio perfetto. Si introdusse alla chetichella nella stanza da letto. Devo essere sicura di non dimenticare niente, si disse; non posso tornare indietro. Prima si era chiesta come sarebbe stata la loro stanza dopo che si fossero sposati, sperimentando varie disposizioni e colori. Ora lo sapeva. Sarebbe sempre stata esattamente così. Scavò fra i cappotti, cercando il suo, e per un attimo non riuscì a ricordare come fosse, ma alla fine lo riconobbe e se lo infilò. Evitò lo specchio. Non aveva idea di che ora fosse. Si guardò il polso: era vuoto. Naturale: si era tolta l'orologio e lo aveva lasciato a casa perché Ainsley aveva detto che faceva contrasto con l'effetto generale. Nel salotto Peter stava gridando, sovrastando il rumore. «Andiamo ora, facciamo una foto di gruppo. Tutti quanti assieme.» Doveva affrettarsi. Ora c'era il salotto da attraversare. Avrebbe dovuto diventare meno visibile. Si ritolse il cappotto e se lo mise nel cavo del braccio sinistro come un fagotto, sperando che il suo vestito fungesse da mascheramento protettivo che l'avrebbe armonizzata con lo scenario. Restando vicino al muro si diresse verso la porta attraverso il folto di persone, tenendosi dietro i tronchi e i cespugli occultatori di schiene e sottane. Peter era dall'altra parte della stanza, stava cercando di metterli a posto. Aprì la porta e scivolò fuori; fermandosi soltanto per rimettersi il cappotto e per raccogliere i suoi stivali dall'intrico di piedi intrappolati sul giornale, corse più veloce che poté lungo il corridoio verso le scale. Questa volta non poteva farsi prendere. Una volta premuto il grilletto essa sarebbe stata fermata, fissata irrevocabilmente in quel gesto, quell'unica posizione, incapace di muoversi o di cambiare. Si fermò al pianerottolo del sesto piano per infilarsi gli stivali, poi continuò a scendere, tenendosi al corrimano per rimanere in equilibrio. Sotto il panno e le stecche di metallo e l'elastico, sentiva la carne intorpidita e compressa; era difficile camminare, ci voleva concentrazione... Probabilmente sono ubriaca, pensò. Buffo che non mi sento ubriaca; idiota, sai perfettamente cosa succede ai capillari degli ubriachi quando escono al freddo. Ma era persino più importante scappare.
Raggiunse l'atrio vuoto. Sebbene non ci fosse nessuno che la seguisse, pensò di udire un rumore; era il rumore sottile che faceva il vetro, gelido come il tintinnio di un lampadario, era l'alta vibrazione elettrica di questo spazio luccicante... Era fuori in mezzo alla neve. Correndo lungo la strada, con la neve che le scricchiolava sotto i piedi, con la velocità che le gambe legate le consentivano, tenendosi in bilico con gli occhi sul marciapiede, d'inverno perfino le superfici piane erano malsicure, non si poteva permettere di cadere. Dietro di lei anche ora Peter poteva essere sulle sue tracce, seguendola, avvicinandosi di soppiatto per le fresche strade vuote come si era avvicinato furtivamente ai suoi ospiti nel salotto, in attesa del momento appropriato. Quell'oscuro deciso tiratore col suo occhio puntato era stato sempre lì, celato dagli altri strati, attendendola al punto morto: un maniaco omicida con un'arma mortale nelle mani. Scivolò su una crosta di ghiaccio e quasi cadde. Quando ebbe ricuperato l'equilibrio si guardò dietro. Niente. «Prenditela comoda», disse, «stai calma.» Il respiro le veniva in aspri aneliti, cristallizzandosi nell'aria gelida quasi prima che le fosse uscito dalla gola. Proseguì più lentamente. Dapprima aveva corso alla cieca; ora tuttavia sapeva esattamente dove stava andando. «Andrà tutto bene», si disse, «basta che riesca a raggiungere la lavagettone.» 28 Non le era passato per la testa che Duncan poteva non essere alla lavagettone. Quando finalmente ci arrivò e aprì la porta di vetro, senza fiato ma sollevata per essere effettivamente arrivata così lontano, fu un vero shock trovarla vuota. Non poteva crederci. Rimase lì, di fronte soltanto alla lunga fila bianca di lavatrici, senza sapere dove dirigersi. Non aveva pensato al tempo dopo a quell'incontro immaginato. Poi vide un filo di fumo alzarsi da una sedia in fondo alla sala. Sarebbe dovuto essere lui. Venne avanti. Egli sedeva stravaccato così in basso che soltanto la sommità della testa era visibile al di sopra della spalliera della sedia, gli occhi fissi sull'oblò rotondo della macchina proprio davanti a lui. Dentro non c'era niente. Non alzò gli occhi come lei si sedette nella sedia accanto alla sua.
«Duncan», disse. Egli non rispose. Si tolse i guanti e allungò una mano, toccandogli il polso. Egli sobbalzò. «Sono qui», gli disse. Egli la guardò. I suoi occhi erano persino più ottenebrati del solito, più sprofondati nelle occhiaie, la pelle della faccia esangue sotto la luce fluorescente. «Oh, così dunque. La Donna Scarlatta in persona. Che ore sono?» «Non lo so», disse, «non ho l'orologio.» «Cosa fai qui? Dovresti essere al party.» «Non sono potuta rimanerci più a lungo», disse lei. «Sono dovuta venire a cercarti.» «Perché?» Essa non riuscì a escogitare un motivo che non sembrasse assurdo. «Perché volevo semplicemente stare con te.» Egli la guardò con aria sospettosa e diede un'altra tirata alla sigaretta. «Ora stammi a sentire, dovresti tornare là. È il tuo dovere, coso ha bisogno di te.» «No, tu hai bisogno di me più di lui.» Appena l'ebbe detta, la cosa suonò vera. Immediatamente si sentì nobile. Egli sorrise. «No, io no. Credi che io abbia bisogno di essere salvato ma non è vero. A ogni modo non mi va di essere una cavia per assistenti sociali dilettanti.» Spostò di nuovo gli occhi verso la lavatrice. Marian giocherellò col dito di pelle di uno dei suoi guanti. «Ma io non sto cercando di salvarti», disse. Si rese conto che egli l'aveva attirata in una contraddizione. «Allora forse vuoi che sia io a salvare te? Da cosa? Credevo che lo avessi tutto calcolato. E sai che comunque io sono totalmente inetto.» Sembrava un po' compiaciuto della propria inettitudine. «Oh, non parliamo di salvare», disse Marian con voce disperata. «Non possiamo almeno andare da qualche parte?» Voleva uscire. Persino parlare era impossibile in quella stanza bianca con le sue file di oblò e l'odore onnipresente di sapone e candeggina. «Cosa c'è che non va qui?» disse lui. «A me qui in certo qual modo mi piace.» Marian ebbe voglia di scuoterlo. «Non è quel che intendevo», disse. «Oh», fece lui. «Oh, quella faccenda. Vuoi dire che questa è la notte buona, ora o mai più.» Tirò fuori un'altra sigaretta e l'accese. «Be', a casa mia non ci possiamo andare, lo sai.»
«Nemmeno a casa mia possiamo andare.» Per un momento si chiese perché no, tanto doveva traslocare. Ma Ainsley poteva farsi viva, o Peter... «Potremmo rimanere qui, è un posto che suggerisce delle possibilità interessanti. Magari dentro una lavatrice, potremmo appendere il tuo vestito rosso davanti all'oblò per tener lontani i vecchi sporcaccioni...» «Oh, via», essa disse, alzandosi. Anche lui si alzò. «D'accordo, io sono malleabile. Credo che sia arrivato il momento di scoprire la verità. Dove andiamo?» «Suppongo», disse lei, «che dovremo trovare un qualche genere di albergo.» Era incerta sul modo in cui compiere la cosa, ma tenacemente sicura del fatto che doveva essere fatta. Era l'unica via. Duncan sorrise con aria cattiva. «Vuoi dire che dovrò dare a intendere che sei mia moglie?» disse. «Con quegli orecchini? Non ci crederanno mai. Ti accuseranno di corrompere un minorenne.» «Non me ne importa», disse. Alzò il braccio e cominciò a svitare un orecchino. «Oh, tienli per ora», disse Duncan. «Non vorrai rovinare l'effetto.» Quando furono in strada essa fu colta improvvisamente da un pensiero orribile. «Oh no», disse, immobile. «Cosa c'è?» «Non ho soldi!» Naturalmente non aveva pensato di averne bisogno per il party. Aveva soltanto la borsetta da sera con sé, infilata in una tasca del cappotto. Sentì venirle meno l'energia che l'aveva spinta per le strade e durante questa conversazione. Era impotente, paralizzata. Voleva piangere. «Credo di aver qualcosa io, forse», disse Duncan. «Di solito me ne porto dietro un po'. Per i casi di emergenza.» Cominciò a frugare nelle tasche. «Tieni questa roba.» Nelle mani di lei unite a coppa ammucchiò una stecca di cioccolato, poi diversi involucri argentati di stecche di cioccolato accuratamente ripiegati, alcuni gusci bianchi di semi di zucca, un pacchetto vuoto di sigarette, un pezzo di cordone sudicio pieno di nodi, un portachiavi con due chiavi, un mozzicone di gomma da masticare incartata, e una stringa da scarpe. «Tasca sbagliata», disse. Dall'altra tasca estrasse, in mezzo a una cascata di spiccioli che si sparsero per il marciapiede, alcune banconote sgualcite. Raccolse gli spiccioli e contò tutto il denaro. «Be', non sarà il King Eddie», disse, «ma ci caveremo fuori qualcosa. Non da queste parti, però, questa è una zona da conto spese; bisognerà che sia più verso il centro. Pare che questo debba essere un film underground più che un colossal in technicolor.» Si rimise in tasca il denaro e le manciate di
cianfrusaglia. La metropolitana era chiusa, il cancello di ferro a graticcio sbarrava l'entrata. «Immagino che potremmo prendere un autobus», disse Marian. «No; è troppo freddo per rimanere a aspettare.» Alla strada seguente girarono l'angolo e camminarono verso sud lungo l'ampia strada deserta, davanti alle facciate illuminate dei negozi. C'erano poche macchine e ancor meno gente. Doveva essere proprio tardi, essa pensò. Cercò di immaginare cosa succedeva al party - era terminato? Peter si era ora accorto che lei non c'era più? - ma tutto quello che riuscì a figurarsi fu una confusione di rumori e voci e frammenti di facce e lampi di luce violenta. Prese la mano di Duncan. Egli non portava guanti, così infilò nella sua tasca la mano di Duncan e la propria. Egli abbassò gli occhi su di lei con un'espressione quasi ostile, ma non tolse via la mano. Nessuno dei due parlò. Si stava facendo sempre più freddo: le dita dei piedi cominciavano a dolerle. Camminarono per un tempo che sembrò durare ore, scendendo dolcemente verso il lago gelato sebbene non ci fossero vicini, passando davanti a isolati dopo isolati, che non contenevano nulla tranne alti edifici adibiti a uffici e i vuoti spazi orizzontali di commercianti di automobili, con le loro sfilze di luci colorate e bandierine; proprio per niente quel che stavano cercando. «Penso che siamo nella strada sbagliata», disse Duncan dopo un certo tempo. «Dovremmo essere più oltre.» Percorsero una strada laterale scura e stretta i cui marciapiedi erano infidi per la neve pigiata e finalmente sbucarono in una strada più larga fastosamente illuminata da insegne al neon. «Questa sembra che vada meglio», fece Duncan. «Cosa facciamo adesso?» essa chiese, consapevole del tono piagnucoloso della propria voce. Si sentiva incapace di decidere. Lui era più o meno il responsabile. Dopo tutto, era lui quello coi soldi. «Diavolo, io non lo so come si sbrigano queste cose», disse lui. «Non l'ho mai fatto prima.» «Neppure io», essa disse in tono difensivo. «Voglio dire, non così.» «Ci deve essere una formula standard», egli disse, «ma credo che dovremo inventarcela procedendo. Li passeremo in ordine, da nord a sud.» Scrutò la strada. «Pare che diventino più scalcinati scendendo.» «Oh, spero che non sia proprio una topaia», essa gemette, «con le cimi-
ci!» «Oh, non lo so, le cimici potrebbero renderlo come più interessante. Comunque dovremo accontentarci di quello che possiamo prendere.» Si fermò di fronte a uno stretto edificio di mattoni rossi chiuso in mezzo fra un negozio di noleggio di vestiti da cerimonia, con una brava sposina in vetrina, e un negozio di fiorista dall'aspetto polveroso. «Royal Massey Hotel» diceva l'oscillante insegna al neon; sotto la scritta c'era uno stemma. «Tu aspetta qui», disse Duncan. Egli salì i gradini. Ridiscese i gradini. «La porta è chiusa», disse. Ripresero a camminare. Il seguente aveva un aspetto più promettente. Era più tetro, e gli architravi di pietra con volute greche al di sopra delle finestre erano grigio scuro per la fuliggine. «The Ontario Towers», diceva, in un insegna rossa da cui la prima «O» era scomparsa. «Prezzi modici.» Era aperto. «Vengo dentro e rimango nell'ingresso», essa disse. I piedi le si stavano gelando. Inoltre, sentiva il bisogno di essere coraggiosa: Duncan se la cavava così bene che lei avrebbe dovuto offrirgli almeno un sostegno morale. Rimase in piedi sulla stuoia logora, cercando di assumere un aspetto rispettabile, consapevole dei suoi orecchini e del probabile insuccesso del tentativo. Duncan si diresse verso il portiere di notte, uno straccio d'uomo grinzoso che la guardò con aria sospettosa attraverso le sue rughe. Questi e Duncan conversarono a bassa voce; poi Duncan tornò indietro, la prese per il braccio e uscirono. «Cosa ha detto?» chiese lei quando furono fuori. «Ha detto che quello non era un posto del genere.» «Che presunzione», disse lei. Era offesa, e si sentiva del tutto giustificata. Duncan ridacchiò. «Andiamo», disse, «niente virtù oltraggiata. Tutto quello che significa è che dobbiamo trovarne uno che sia un posto del genere.» Voltarono un angolo e si diressero a est lungo una strada dall'aspetto promettente. Oltrepassarono qualche altro locale pretenzioso ma scalcinato prima di arrivare davanti a uno che era persino più scalcinato, ma chiaramente non pretenzioso. Invece della facciata di mattoni sgretolati degli altri, aveva dello stucco rosa con delle grandi scritte dipinte sopra: LETTI 4 $ PER NOTTE. TV IN OGNI STANZA. VICTORIA AND ALBERT HOTEL. IL POSTO PIÙ CONVENIENTE DELLA CITTÀ. Era un edificio lungo. Più avanti poterono vedere la scritta UOMINI e SIGNORE E
ACCOMPAGNATORI che indicava una birreria, e sembrava che ci fosse anche una locanda; però tutte e due dovevano essere chiuse a quell'ora. «Credo che sia quello che cerchiamo», disse Duncan. Entrarono. Il portiere di notte sbadigliò mentre prendeva la chiave. «Un po' tardi, amico, vero?» disse. «Fanno quattro dollari.» «Meglio tardi», fece Duncan, «che mai.» Estrasse una manciata di banconote dalla tasca, spargendo sul pavimento degli spiccioli vari. Mentre si piegava a raccoglierli, il portiere di notte lanciò a Marian una chiara occhiata maliziosa, anche se lievemente spossata. Essa abbassò le palpebre alla sua volta. Dopo tutto, pensò torva, se sono vestita come una di quelle e mi comporto come una di quelle, perché mai non dovrebbe credere che sono davvero una di quelle? Salirono in silenzio le scale ricoperte di radi tappeti. La stanza, quando finalmente la scovarono, era delle dimensioni di un grande armadio, arredata con un letto di ferro, una poltrona dalla spalliera diritta e un cassettone la cui lucidatura si stava staccando. In un angolo c'era un apparecchio televisivo in miniatura, a contatore, imbullonato nel muro. Sul cassettone c'erano un paio di asciugamani lisi piegati, di color celeste e rosa. La finestra angusta di fronte al letto aveva un'insegna blu al neon appesa fuori; l'insegna si accendeva a sprazzi, emettendo un sinistro ronzio. Dietro la porta d'entrata c'era un'altra porta che immetteva in un angolino di bagno. Duncan chiuse col catenaccio la porta dopo che furono entrati. «Bene, cosa facciamo ora?» disse. «Tu devi saperlo.» Marian si tolse le soprascarpe, poi le scarpe. Le dita dei piedi le formicolavano per il dolore scongelandosi. Guardò la faccia smunta che la sbirciava fra un bavero di cappotto voltato all'insù e una massa di capelli scomposti dal vento; la faccia era di un bianco mortale, tranne il naso che era rosso per il freddo. Mentre essa guardava egli tirò fuori da qualche recesso dei suoi indumenti un pezzo grigio a brandelli di kleenex e se lo asciugò. Dio, pensò lei, cosa sto facendo qui? Comunque, come ci sono arrivata? Cosa direbbe Peter? Attraversò la stanza e rimase di fronte alla finestra, guardando fuori a nulla in particolare. «Accipicchia», disse Duncan dietro di lei, in tono entusiasta. Essa si voltò. Aveva scoperto qualcosa di nuovo, un grande posacenere che era stato sul cassettone dietro gli asciugamani. «È genuino.» Il posacenere aveva la forma di una conchiglia, porcellana rosa con i bordi smerlati. «Sopra c'è scritto Regalo da Burk's Fall», le disse con gioia. Lo rivoltò per guardare il
fondo e un po' di cenere cadde sul pavimento. «Made in Japan», annunciò. Marian provò un accesso di disperazione. Bisognava fare qualcosa. «Senti», disse, «per amor del cielo metti giù quel maledetto posacenere e svestiti e entra nel letto!» Duncan abbassò la testa come un bambino rimproverato. «Oh, d'accordo», disse. Si tolse i vestiti con una tale velocità che parve come avesse delle lampo nascoste da qualche parte, o una sola lunga lampo in modo che i vestiti gli vennero via tutti assieme come un'unica pelle. Li buttò in un mucchio sulla poltrona e sgattaiolò nel letto con alacrità e rimase disteso con le lenzuola tirate su attorno al mento, intento a osservarla con una curiosità malcelata e solo lievemente benevola. Con tacita determinazione essa cominciò a spogliarsi. Era un pochino difficile sfilarsi le calze con incurante abbandono o magari un ragionevole facsimile di esso con quegli occhi che la fissavano stralunati così a mo' di rana da sopra il lenzuolo. Allungò le dita per afferrare la lampo dietro il vestito. Non riuscì a raggiungerla bene. «Tirami giù la lampo», disse secca. Egli ubbidì. Essa gettò il vestito sulla spalliera della poltrona e uscì faticosamente dalla guaina. «Ehi!» disse lui. «Una vera! Le ho viste nei manifesti pubblicitari ma non ero mai arrivato concretamente così lontano, mi sono sempre chiesto come funzionavano. Posso darci un'occhiata?» Essa gliela porse. Egli si mise a sedere sul letto per esaminarla, stirandola da tutti e tre i lati e piegando le stecche. «Dio, che roba medioevale», disse. «Come fai a sopportarla? Devi portarne sempre una?» Ne parlava come se si trattasse di un qualche genere di aggeggio chirurgico spiacevole ma necessario: un busto ortopedico o un cinto per l'ernia. «No», disse lei. Era in sottoveste, e si stava chiedendo cosa fare dopo. Si rifiutava, per un certo falso pudore, supponeva, di togliersi gli altri indumenti con le luci accese; ma egli sembrava divertirsi tanto al momento che essa non voleva interromperlo. D'altra parte la stanza era fredda e lei cominciava ad avere dei brividi. Si diresse verso il letto con ostinazione, digrignando i denti. Era un compito che avrebbe richiesto un sacco di perseveranza. Se avesse avuto delle maniche se le sarebbe arrotolate. «Fatti in là», disse. Duncan buttò via la guaina e si ritirò nelle coperte come una tartaruga nel suo guscio. «Oh no», disse, «non ti lascio entrare in questo letto finché
non vai di là a toglierti quella porcheria dalla faccia. Fornicare può essere una bellissima cosa in sé, ma se io devo uscirne con la faccia simile a un pezzo di carta da parati a fiori, mi rifiuto.» Essa capì le sue ragioni. Quando fece ritorno, più o meno pulita a forza di raschiarsi, spense la luce e scivolò nel letto accanto a lui. Ci fu un attimo di silenzio. «Immagino che ora dovrei schiacciarti fra le mia braccia virili», disse Duncan nell'oscurità. Essa fece scivolare la mano sotto la sua schiena fredda. Egli cercò a tentoni la testa di lei, respirando rumorosamente contro il suo collo. «Hai un profumo buffo», disse. Mezz'ora dopo Duncan disse: «È inutile. Devo essere incorruttibile. Fumo una sigaretta». Si alzò, percorse barcollando nell'oscurità i pochi passi per attraversare la stanza, individuò i propri indumenti, frugò in mezzo a essi finché non ebbe trovato il pacchetto, e tornò. Ora essa riusciva a vedere alcune parti della sua faccia e la conchiglia di porcellana che mandava un tenue bagliore alla luce della sigaretta accesa. Egli se ne stava seduto, appoggiato alle volute di ferro della testiera del letto. «Non so esattamente cosa ci sia che non va», disse. «In parte non mi piace non poterti vedere in faccia; ma probabilmente sarebbe peggio se potessi. Ma non è soltanto questo, mi sento come una specie di creaturina rachitica sulla superficie di un'enorme massa di carne. Non che tu sia grassa», aggiunse, «non lo sei. Soltanto c'è proprio troppa carne qui attorno. È soffocante.» Gettò indietro le coperte dalla sua parte del letto. «Così va meglio», disse. Si appoggiò il braccio con la sigaretta sulla faccia. Marian si inginocchiò accanto a lui nel letto, avvolgendosi nel lenzuolo come in uno scialle. Riusciva a stento a intravedere il profilo del suo lungo corpo bianco, di un bianco carne contro il bianco del letto, debolmente illuminato dalla luce blu della strada. Qualcuno nella stanza attigua tirò l'acqua di un water; il gorgoglio dell'acqua nei tubi passò turbinando attraverso l'atmosfera della stanza e si smorzò con un rumore a metà fra un sospiro e un sibilo. Essa strinse le mani sul lenzuolo. Aveva i nervi tesi dall'impazienza e da un'altra emozione in cui riconobbe la fredda energia del terrore. In quel momento suscitare qualcosa, qualche reazione, anche se non poteva prevedere cosa sarebbe potuto emergere da quella superficie apparentemente passiva, la cosa bianca, vacua, informe che giaceva priva di solidità davan-
ti a lei, e che si spostava mentre essa spostava gli occhi cercando di vedere, che sembrava non avere alcuna temperatura, alcun odore, alcuno spessore e alcun suono, quella era la cosa più importante che avrebbe mai potuto fare, potesse mai fare, e non riusciva a farla. Quella consapevolezza era una gelida desolazione peggiore della paura. Nessuno sforzo di volontà poteva valere alcunché lì. Essa non riusciva a indursi a allungare la mano e toccarlo di nuovo. Non riusciva a indursi a allontanarsi. Il bagliore della sigaretta si spense; si sentì il duro rumore del posacenere di porcellana posato sul pavimento. Essa avvertì che egli stava sorridendo nell'oscurità, ma con quale espressione, sarcasmo, malevolenza, o persino gentilezza, non poteva immaginarlo. «Stenditi», disse lui. Essa sprofondò all'indietro, sempre col lenzuolo stretto attorno e le ginocchia tirate su. Egli l'abbracciò. «No», disse, «devi distenderti. Assumere la posizione fetale non servirà assolutamente a niente, solo dio sa quante volte ci ho provato.» L'accarezzò dolcemente, raddrizzandola, come se la stesse stirando. «Non è qualcosa di cui si possa fare a meno, capisci», disse. «Devi lasciare che me la prenda comoda.» Si mosse di fianco, più vicino a lei, ora. Essa sentiva il suo alito, aspro e freddo, contro il lato del proprio collo, e poi la sua faccia premere contro la propria, affondarsi fredda nella propria carne; come il muso di un animale, curioso e solo lievemente benevolo. 29 Erano seduti in un sordido caffè dietro l'angolo dell'albergo. Duncan stava contando i soldi che gli erano rimasti per vedere cosa si potevano permettere per la colazione. Marian si era sbottonata il cappotto, ma se lo teneva stretto al collo. Non voleva che nessuna delle altre persone vedesse il suo vestito rosso: apparteneva troppo palesemente alla sera prima. Si era messa in tasca gli orecchini di Ainsley. Fra di loro, sul tavolino dal piano di formica verde, c'era una gran quantità di piatti e tazze sporchi, briciole, schizzi e macchie di grasso, avanzi dei coraggiosi consumatori di colazione che si erano avventurati in precedenza nel mattino quando la superficie di laminato plastico era vuota come un deserto, non toccata dal coltello e dalla forchetta dell'uomo, e si erano
lasciati dietro il disordine casuale di oggetti rifiutati o abbandonati, tipico di tali viaggiatori spensierati. Sapevano che non sarebbero mai ripassati di lì. Marian guardò le loro tracce cosparse di rifiuti con disgusto, ma stava cercando di fare l'indifferente a proposito della colazione. Non voleva che lo stomaco le facesse una scenata. Prenderò un caffè e un toast, forse alla gelatina; certo non avrà nulla da obiettare a questo, pensò. Una cameriera scarmigliata comparve e cominciò a pulire il tavolino. Sbatté di fronte a ciascuno di loro un menù piegato agli angoli. Marian aprì il suo e guardò la colonna dei «Suggerimenti per la colazione». La notte prima tutto era sembrato risolto, persino la faccia immaginata di Peter con i suoi occhi da cacciatore era stata assorbita in una qualche bianca rivelazione. Si era trattato più di semplice chiarezza che di gioia, ma il sonno l'aveva sommersa; e ridestandosi al rumore dell'acqua che sospirava nei tubi e alle voci sonore del corridoio, non ricordò cosa fosse. Era rimasta stesa, in silenzio, cercando di concentrarsi su ciò, su cosa poteva essere forse stato, guardando il soffitto imbrattato da macchie d'acqua che la confondevano; ma era inutile. Poi la testa di Duncan era emersa da sotto il cuscino dove l'aveva messa durante la notte per sicurezza. La fissò per un attimo come se non avesse la minima idea di chi fosse lei o di cosa egli stesse facendo in quella stanza. Poi: «Usciamo di qui», disse. Essa si era piegata e lo aveva baciato sulla bocca, ma dopo che si fu tirata indietro egli si era semplicemente leccato le labbra, e come se quell'azione gliel'avesse ricordato, disse: «Ho fame. Andiamo a far colazione. Hai un aspetto che fa spavento», aveva aggiunto. «Anche tu non sei proprio l'immagine della salute», essa ribatté. Gli occhi di Duncan erano profondamente cerchiati e i capelli sembravano il nido di un corvo. Scesero dal letto e essa si esaminò un po' la faccia allo specchio ingiallito e ondulato del bagno. Aveva la pelle tirata e bianca e stranamente secca. Era vero: aveva proprio un aspetto da far spavento. Non avrebbe voluto rimettersi quei particolari vestiti ma non aveva scelta. Si vestirono in silenzio, imbarazzati nello spazio ristretto della stanza il cui misero stato era ancora più visibile alla luce grigia del giorno e scesero furtivamente le scale. Ora essa lo guardò mentre egli sedeva tutto ricurvo dall'altra parte del tavolino, imbacuccato di nuovo nei suoi vestiti. Aveva acceso una sigaretta e i suoi occhi stavano osservando il fumo. Quegli occhi erano chiusi a lei, remoti. L'impronta lasciata nella mente di lei dal lungo corpo affamato che nell'oscurità era sembrato consistere di null'altro che di aspri angoli e spun-
toni, il ricordo della sua cassa toracica penosamente nitida, quasi scheletrica, un succedersi di creste come un'asse da bucato, stava svanendo rapidamente come qualsiasi altra impressione fugace lasciata su una superficie morbida. Quale che fosse la decisione che aveva preso, era stata dimenticata, se in realtà aveva mai deciso qualcosa. Poteva esser stata un'illusione, come la luce azzurra sulla loro pelle. Qualcosa era stato portato a compimento nella vita di lui, però, essa pensò con una sensazione di stanca competenza; era una lieve consolazione; ma per lei nulla era permanente o finito. Peter era là, non era svanito; era reale come le briciole sul tavolo, e essa avrebbe dovuto agire in conformità. Sarebbe dovuta ritornare. Aveva perso la corriera della mattina ma poteva prendere quella del pomeriggio, dopo aver parlato a Peter, dopo avergli spiegato. O piuttosto aver evitato le spiegazioni. Non vi era alcuna ragione concreta da spiegare perché le spiegazioni comportavano cause e effetti, e questo caso non era stato niente di tutto questo. Era venuto dal nulla e non portava a nulla, era al di fuori della catena. Tutt'a un tratto si ricordò che non aveva cominciato a fare le valige. Abbassò gli occhi sul menù. «Uova e Pancetta, In Qualsiasi Maniera», lesse. «Le Nostre Grosse Salsicce Tenere.» Pensò a maiali e a pulcini. Passò in fretta ai «Toast». Qualcosa le si mosse in gola. Chiuse il menù. «Cosa vuoi?» chiese Duncan. «Niente, non riesco a mangiare niente», essa disse, «non riesco a mangiare assolutamente niente. Neppure un bicchiere di succo d'arancio.» Finalmente era accaduto, allora. Il suo corpo si era tagliato fuori. Il cerchio del cibo si era ristretto fino a diventare un punto, un puntino nero, escludendo tutto... Guardò alla macchia di grasso sulla copertina del menù, quasi piagnucolando di autocommiserazione. «Ne sei sicura? Oh, bene allora», disse Duncan con una punta di animazione, «questo significa che posso spenderlo tutto per me.» Quando la cameriera tornò ordinò uova e prosciutto, che passò a mangiare con voracità, e senza scuse o commenti, davanti agli occhi di lei. Essa lo guardò disperata. Quando egli ruppe le uova con la forchetta e i tuorli gialli si sparsero vischiosi per il piatto essa voltò la testa da un'altra parte. Pensò che le venisse male. «Bene», disse lui quando ebbe pagato il conto e furono fuori nella strada, «grazie di tutto. Devo andare a casa e mettermi a lavorare alla mia composizione trimestrale.» Marian pensò all'odore di carburante freddo e di sigaro stantio che ci sarebbe stato nella corriera. Poi pensò ai piatti nell'acquaio della cucina. La
corriera si sarebbe riscaldata e avrebbe assunto odore di chiuso mentre lei viaggiava all'interno di essa lungo la statale, mentre gli pneumatici avrebbero emesso il loro acuto rumore di sfregamento. Che cosa viveva, nascosto e disgustoso, laggiù fra i piatti e i bicchieri sporchi? Non ce la faceva a tornare. «Duncan», disse, «ti prego, non andare.» «Perché? C'è dell'altro?» «Non ce la faccio a tornare.» Egli la guardò aggrottando le sopracciglia. «Cosa ti aspetti da me?» chiese. «Non dovresti aspettarti che facessi niente. Voglio tornare al mio guscio. Ho avuto abbastanza cosiddetta realtà per ora.» «Tu non devi far niente, non potresti soltanto...» «No», disse lui, «non voglio. Non sei più un'evasione, sei troppo reale. Qualcosa ti preoccupa e vorresti parlarne; io dovrei cominciare a preoccuparmi per te e tutto il resto, non ne ho il tempo.» Essa abbassò gli occhi sui loro quattro piedi, in mezzo alla fanghiglia calpestata del marciapiede. «Non ce la faccio proprio a tornare.» Egli l'osservò più attentamente. «Stai per sentirti male?» chiese. «Non farlo.» Essa rimase muta di fronte a lui. Non sapeva suggerirgli nessuna buona ragione per rimanere con lei. Non c'era nessuna ragione: a cosa sarebbe servito? «Be'», disse lui, esitante, «d'accordo. Ma non per molto, okey?» Essa accennò di sì col capo, grata. Camminarono verso nord. «Non possiamo andare a casa mia, capisci», egli disse. «Farebbero delle storie.» «Lo so.» «Allora dove vuoi andare?» chiese lui. Lei non ci aveva pensato. Tutto era impossibile. Si mise le mani sulle orecchie. «Non lo so», essa disse, con una voce che stava assumendo dei toni isterici, «non lo so, potrei anche tornare indietro...» «Oh, andiamo ora», disse lui con cordialità, «niente istrionismi. Faremo una passeggiata.» Essa si tolse le mani dalle orecchie. «D'accordo», disse, lasciandosi assecondare. Mentre camminavano Duncan faceva dondolare avanti e indietro le loro mani intrecciate. Il suo umore sembrava essere passato dal broncio della colazione a una certa gaiezza assente. Stavano salendo la collina, allontanandosi dal lago; i marciapiedi erano affollati di signore impellicciate del
sabato che avanzavano inesorabili come rompighiaccio in mezzo alla fanghiglia, con la fronte corrugata in un cipiglio deciso, gli occhi scintillanti, sporte della spesa penzoloni da entrambi i lati per mantenere l'equilibrio. Marian e Duncan le scansavano sorpassandole e aggirandole, staccando le mani quando una particolarmente minacciosa si lanciava su di loro. Per le strade le auto fumavano e passavano lanciando spruzzi. Particelle di caligine cadevano dal cielo grigio, pesanti e umide come fiocchi di neve. «Ho bisogno di un po' d'aria pulita», disse Duncan dopo che ebbero camminato senza dir parola per venti minuti o giù di lì. «Qui e come essere in un vaso per pesci pieno di girini moribondi. Te la senti di affrontare una breve scarrozzata in metropolitana?» Marian fece cenno di sì. Quanto più andavano lontano, pensò, tanto meglio. Scesero per la prima china dalle piastrelle pastello e dopo un intervallo pieno di odore di lana umida e di naftalina si lasciarono portar su dall'ascensore di nuovo fuori alla luce del giorno. «Ora prendiamo il tram», disse Duncan. Sembrava sapere dove stava andando, perciò Marian poteva essergli solo grata. Egli la stava conducendo. Era padrone della situazione. Sul tram dovettero rimanere in piedi. Marian si tenne stretta a una delle sbarre di metallo e si piegò per guardare fuori del finestrino. Al di sopra di un cappello di lana rosa e verde a forma di copriteiera con grandi lustrini dorati cuciti a esso sfilava sobbalzando un paesaggio sconosciuto: prima negozi, poi case, poi un ponte, poi altre case. Non aveva idea in quale parte della città si trovassero. Duncan allungò la mano al di sopra della testa di lei e tirò la cordicella. Il tram si fermò sferragliando e essi si aprirono un varco verso la parte posteriore e balzarono giù. «Adesso camminiamo», disse Duncan. Svoltò per una strada laterale. Le case erano più piccole e un po' più nuove di quelle del quartiere di Marian, ma erano ancora tetre e alte, molte con verande di legno quadrate e fornite di colonne, pitturate di grigio o di un bianco sporco. La neve sui prati qui era più recente. Sorpassarono un vecchio che apriva un sentiero col badile, e lo stridore del badile sembrava stranamente sonoro nell'aria silenziosa. C'era un numero esagerato di gatti. Marian pensò all'odore che avrebbe avuto la strada in primavera quando si sarebbe sciolta la neve: terra, tuberi che spuntavano, legna umida, foglie dell'anno scorso in putrefazione, mucchi di sterco dei gatti che avevano creduto di essere così puliti e furtivi
scavandosi buchi nella neve. Vecchi che uscivano dalle porte grige con badili, camminavano sui prati scricchiolanti, seppellivano le varie cose. Pulizie di primavera: un senso di finalità. Attraversarono una strada e cominciarono a scendere per una collina ripida. Tutt'a un tratto Duncan cominciò a correre, tirandosi dietro Marian come se fosse un toboga. «Fermati», essa gridò, allarmata dalla sonorità della propria voce. «Non ce la faccio a correre!» Avvertì le tendine di tutte le finestre ondeggiare pericolosamente mentre passavano davanti a esse, come se ciascuna casa contenesse un arcigno osservatore. «No!» le urlò di rimando Duncan. «Stiamo scappando! Vieni!» Sotto il braccio una cucitura si aprì. Ebbe la visione del vestito rosso che si disintegrava a mezz'aria e ricadeva in minuscoli brandelli dietro di lei sulla neve, come tante penne. Ora avevano lasciato il marciapiede, stavano sgusciando giù per la strada verso un recinto; c'era un cartello giallo e nero a scacchi che diceva: «Pericolo». Essa temeva che andassero a infrangersi contro la palizzata di legno sfondandola e precipitassero al di là d'un margine invisibile, quasi al rallentatore, come i film di automobili che precipitano da una scogliera, ma all'ultimo momento Duncan deviò girando attorno all'estremità del recinto e si trovarono su un angusto sentiero di cenere, fra alte sponde. La passerella in fondo alla collina venne rapidamente loro incontro; egli si fermò improvvisamente e essa scivolò scontrandosi con lui. I polmoni le dolevano: la testa le girava per la troppa aria. Erano appoggiati a un muro di cemento, uno dei lati della passerella. Marian mise le braccia sulla sommità e si riposò. Allo stesso livello dei suoi occhi c'erano cime di alberi, un intrico di rami, le estremità già di un giallo pallido, di un rosso pallido, nodose di gemme. «Non ci siamo ancora», disse Duncan. La tirò per il braccio. «Scendiamo.» La condusse in fondo alla passerella. Da un lato c'era un sentiero improvvisato: le impronte di piedi, un percorso fangoso. Scesero pian piano, con i piedi di traverso come dei bambini che imparano a scendere le scale, uno scalino alla volta. Dell'acqua stava gocciolando su di loro dai ghiaccioli appesi alla parte inferiore della passerella. Quando ebbero raggiunto il fondo e si trovarono su terreno piano Marian chiese: «Non ci siamo ancora?» «Non ancora», disse Duncan. Cominciò ad allontanarsi dalla passerella. Marian sperava che fossero diretti a un posto dove potessero sedersi.
Si trovavano in una delle forre che fendevano la città, ma quale non lo sapeva. Era andata a far passeggiate vicino a quella visibile dalla finestra del loro salotto, ma nulla di ciò che si vedeva intorno le era familiare. Qui la forra era stretta e profonda, circondata da alberi che sembrava inchiodassero il manto di neve ai fianchi ripidi. Lontano, sopra di loro, verso il ciglio, alcuni bambini stavano giocando. Marian vedeva le loro giacche vivide, rosse e blu, e udiva le loro flebili risate. Procedevano in fila indiana lungo un sentiero nella neve indurita. Qualcun altro ci aveva camminato, ma non molti. Di tanto in tanto essa notava quelle che pensava fossero le impronte di zoccoli di cavalli. Tutto quello che riusciva a vedere di Duncan era la schiena dinoccolata e i piedi che si alzavano e si abbassavano. Avrebbe voluto che si voltasse in modo da poterlo vedere in faccia; il suo cappotto senza espressione la metteva a disagio. «Fra un minuto ci sediamo», disse, come per risponderle. Essa non vide alcun posto dove si sarebbero potuti sedere. Ora stavano camminando attraverso un campo di alti gambi di erbacce i cui rami secchi e rigidi li sfregavano mentre passavano: verghe d'oro, cardi, lappole, gli scheletri di anonime piante grige. Le lappole avevano dei grappoli di ricci marrone e i cardi le loro argentee cime appuntite a spiovente ma, tranne questi, nulla interrompeva la sottile monotonia di rami su rami del campo. Al di là di esso su entrambi i lati si ergevano le pareti della forra. Lungo la cima ora c'erano delle case; una fila di queste era abbarbicata sul ciglio, incurante dei canali di erosione che sfregiavano la superficie della forra a intervalli irregolari. Il torrente era scomparso in una conduttura sotterranea. Marian si guardò dietro. La forra aveva fatto una curva; essa vi aveva camminato attorno senza accorgersene; di fronte a loro c'era un'altra passerella, più ampia. Continuarono a camminare. «Mi piace quaggiù d'inverno», disse la voce di Duncan dopo un po'. «Prima sono stato quaggiù solo d'estate. Tutto cresce, è così fitto di foglie verdi e altra roba che non si riesce a vedere un metro più avanti, c'è anche dell'edera del Canada. E è un posto popolato. I vecchi ubriachi vengono quaggiù e dormono sotto le passerelle e anche i bambini ci giocano. C'è una scuderia quaggiù da qualche parte, penso che quello su cui stiamo camminando sia una mulattiera. Ero solito venire perché era più fresco. Ma sta meglio ricoperto di neve. Stanno cominciando a riempire anche questo posto di robaccia, sai, a cominciare dal torrente, chissà perché vogliono sparpagliare roba per tutto il paesaggio... vecchi pneumatici, barattoli di
latta...» La voce proveniva da una bocca che essa non vedeva, come dal nulla; era scorciata, brusca, come se venisse assorbita, risucchiata dalla neve. La forra si era allargata attorno a loro e in quel punto c'erano meno erbacce. Duncan deviò dal sentiero, rompendo la neve indurita; essa lo seguì. Arrancarono su per il fianco di una collinetta. «Eccoci arrivati», disse Duncan. Si fermò, si voltò e allungò una mano per tirarla su accanto a lui. Marian boccheggiò e fece un involontario passo indietro: si trovavano proprio sul ciglio di un burrone. Il terreno terminava improvvisamente sotto i loro piedi. Sotto di loro c'era un'enorme buca più o meno circolare, con un sentiero o strada a spirale scavato tutt'attorno ai lati che portava alla distesa piana ricoperta di neve, in fondo. Esattamente di fronte a dove si trovavano, separato da loro all'incirca da un quarto di miglio di vuoto, c'era un lungo edificio nero simile a un capannone. Tutto sembrava chiuso, deserto. «Cos'è?» essa chiese. «È soltanto la fabbrica di mattoni», disse Duncan. «È argilla pura quella che è laggiù. Loro scendono per quella strada con delle scavatrici a vapore e la estraggono.» «Non sapevo che ci fosse nulla di simile nelle forre», essa disse. Sembrava sconveniente avere questa cavità nella città: la forra stessa avrebbe dovuto essere il più in basso possibile. Ciò le fece considerare con sospetto anche il fondo bianco della cava; non sembrava solido, sembrava magari vuoto, pericoloso, un sottile strato di ghiaccio, come se, camminandoci sopra, si potesse precipitare attraverso di esso. «Oh hanno un sacco di belle cose. C'è anche una prigione quaggiù, da qualche parte.» Duncan si sedette sul bordo, dondolando le gambe con indifferenza, e tirò fuori una sigaretta. Dopo un momento essa si sedette accanto a lui, anche se non si fidava del terreno. Era del tipo che franava. Affondarono entrambi gli occhi nella buca gigantesca scavata nella terra. «Chissà che ore sono», disse Marian. Mentre parlava ascoltò: lo spazio aperto aveva inghiottito la sua voce. Duncan non rispose. Finì la sigaretta in silenzio; poi si alzò, camminò per un breve tratto lungo il ciglione finché giunse a uno spiazzo dove non c'erano erbacce, e si sdraiò nella neve. Era così tranquillo, là disteso a guardare il cielo, che Marian andò a raggiungerlo dove stava sdraiato.
«Prenderai freddo», egli disse, «ma fa pure se vuoi.» Essa si distese distante da lui. Non sembrava giusto, qui, stare troppo vicini. Sopra, il cielo era di un grigio chiaro uniforme, reso luminoso in maniera diffusa da un sole celato da qualche parte dietro di esso. Duncan parlò nel silenzio. «E così, perché non puoi tornare? Voglio dire, ti stai per sposare e così via. Pensavo che tu fossi il tipo capace di farlo.» «Lo sono», disse lei triste. «Lo ero. Non lo so.» Non voleva discuterne. «Certuni naturalmente direbbero che è tutta un'idea tua.» «Questo lo so», essa disse impaziente: non era ancora completamente idiota. «Ma come faccio a togliermela?» «Dovrebbe essere ovvio», disse la voce di Duncan, «che io sono l'ultima persona a cui chiederlo. Mi dicono che vivo in un mondo di fantasticherie. Ma almeno le mie appartengono più o meno a me, le scelgo e in un certo senso mi piacciono, per un po' di tempo. Ma tu non sembri troppo felice con le tue.» «Forse dovrei andare da uno psichiatra», essa disse con aria cupa. «Oh no, questo non farlo. Vorranno soltanto integrarti.» «Ma io voglio essere integrata, questo è il fatto. Non vedo alcuna ragione per rimanere disadattata.» Le passò per la testa anche che non vedeva alcuna ragione per morire di fame. Ciò che cercava, se ne rese conto, si era ridotto alla semplice sicurezza. Credeva di essere avanzata in direzione di essa per tutti quei mesi ma in realtà non era approdata a niente. E non aveva realizzato niente. In quel momento la sua unica realizzazione concreta sembrava essere Duncan. Questo era qualcosa a cui poteva tenersi stretta. All'improvviso essa sentì il bisogno di sincerarsi che egli fosse ancora lì, che non era svanito o sprofondato al di sotto della superficie bianca. Voleva una verifica. «Come è andata la notte scorsa?» chiese. Egli non aveva ancora detto nulla in proposito. «Come è andata cosa? Oh, quella.» Rimase silenzioso per vari minuti. Essa ascoltava attenta, in attesa della sua voce come di un oracolo. Ma quando finalmente egli parlò, disse: «Mi piace questo posto. Soprattutto ora, d'inverno, è così vicino allo zero assoluto. Mi fa sentire umano. A paragone. Non mi piacerebbero assolutamente le isole tropicali, sarebbero troppo carnose, starei sempre a chiedermi se sono un vegetale ambulante o un anfibio gigante. Ma in mezzo alla neve si è il più vicino possibile al nulla».
Marian era sconcertata. Cosa c'entrava questo? «Vuoi che dica che è stato stupendo, vero?» egli chiese. «Che mi ha tirato fuori dal mio guscio. Fatto nascere alla virilità. Risolto tutti i miei problemi.» «Be'...» «Certo che lo vuoi, e ho sempre capito che lo volevi. Mi piace la gente che partecipa alla mia vita di fantasticherie e di solito sono disposto a partecipare alla loro, fino a un certo punto. È stato bello; piacevole come al solito.» L'implicazione si fece strada in lei facilmente come un coltello nel burro. Essa allora non era la prima. L'immagine di se stessa in veste di infermiera inamidata, che aveva cercato di conservare come ultimo rifugio, si accartocciò come carta umida; l'altra parte di lei non riuscì neppure a suscitare l'energia per adirarsi. Era stata completamente truffata. Avrebbe dovuto saperlo. Ma dopo averci pensato sopra per alcuni minuti, guardando al cielo vuoto, la cosa non fece una gran differenza. Esisteva anche la possibilità che questa rivelazione fosse falsa allo stesso modo in cui molte altre lo erano state. Si alzò a sedere, ripulendosi le maniche dalla neve. Era il momento di agire. «D'accordo, è stato uno scherzo tuo», essa disse. Lo avrebbe lasciato lì a chiedersi se essa gli credeva oppure no. «Ora devo decidere cosa fare.» Egli le rivolse un largo sorriso. «Non chiederlo a me, quello è un problema tuo. Pare proprio che dovresti fare qualcosa: l'autolacerazione nel vuoto alla fine diventa piuttosto noiosa. Ma è il tuo vicolo cieco personale, tu l'hai inventato, tu dovrai escogitare il modo di uscirne.» Si alzò in piedi. Anche Marian si alzò. Era stata calma, ma ora sentiva ritornarle la disperazione, diffondersi per la sua carne come gli effetti di una droga. «Duncan», disse, «potresti magari tornare indietro con me e parlare a Peter? Io non credo di poterlo fare, non so cosa dire, lui non capirà...» «Oh no», egli disse, «questo non puoi farlo. Io non ne faccio parte. Sarebbe un disastro, non capisci? Voglio dire per me.» Si avvolse le braccia attorno al torso e si afferrò ai propri gomiti. «Ti prego», disse lei. Sapeva che egli avrebbe rifiutato. «No», lui disse, «non sarebbe giusto.» Si voltò e guardò giù alle due impronte che i loro due corpi avevano lasciato sulla neve. Poi ci camminò sopra, prima sulla sua e poi su quella di lei, insudiciando la neve col proprio piede. «Vieni qui», disse, «ti mostrerò come tornare.» La condusse ancora più avanti. Giunsero a una strada che saliva e poi scendeva. Sotto
c'era un'autostrada gigante, in salita, e in lontananza un altro ponte, un ponte familiare, con delle vetture della metropolitana che correvano su di esso. Ora essa sapeva dove si trovava. «Non vuoi venire con me almeno fino là?» essa chiese. «No. Resto qui per un po'. Ma tu devi andare ora.» Il tono della sua voce la liquidò. Egli si voltò e prese a allontanarsi. Le macchine passavano velocissime. Essa si voltò indietro una volta a guardare quando ebbe percorso faticosamente metà dell'erta della collina diretta verso il ponte. Si aspettava quasi che fosse evaporato nella bianca distesa della forra, ma era ancora là, forma scura contro la neve, accoccolato sul ciglio e intento a guardare dentro la cava vuota. 30 Marian era appena arrivata a casa e si stava dibattendo nel suo vestito stazzonato, cercando di tirare giù la lampo, quando il telefono squillò. Sapeva chi doveva essere. «Pronto?» disse. La voce di Peter era gelida per la rabbia. «Marian, dove diavolo sei stata? Ho telefonato dappertutto.» Si sentiva che soffriva dei postumi della serata. «Oh», disse lei con gaia noncuranza, «sono stata da un'altra parte. Fuori.» Egli perse le staffe. «Perché diavolo hai lasciato il party? Mi hai proprio mandato a monte la serata. Ti stavo cercando per metterti nella fotografia del gruppo e tu te ne eri andata, naturalmente non potevo fare una scenata con tutta quella gente lì, ma dopo che se ne sono andati a casa ti ho cercata dappertutto, la tua amica Lucy e io abbiamo preso la macchina e abbiamo percorso le strade avanti e indietro e abbiamo telefonato a casa tua una mezza dozzina di volte, eravamo tutti e due così preoccupati. È stato molto gentile da parte sua prendersi la briga, è bello sapere che ci sono rimaste delle donne premurose...» Ci scommetto, pensò Marian, con una momentanea punta di gelosia, ricordando le palpebre argentee di Lucy; ma a alta voce disse: «Peter, ti prego, non ti agitare. Sono semplicemente uscita fuori per una boccata di aria fresca e è intervenuto qualcos'altro, è tutto. Non c'è assolutamente nulla per cui agitarsi. Non c'è stata nessuna catastrofe». «Cosa vuoi dire, agitato!» disse lui. «Non dovresti andare a zonzo per le
strade di notte, potresti venire violentata, se hai intenzione di fare queste cose e dio sa che non è la prima volta, perché diavolo non puoi pensare agli altri una volta tanto? Avresti almeno potuto dirmi dov'eri, i tuoi genitori mi hanno chiamato con un'interurbana, sono furiosi perché non eri sulla corriera e cosa avrei dovuto dirgli?» Oh sì, essa pensò; se ne era dimenticata. «Be', sto perfettamente», disse. «Ma dov'eri? Quando ci siamo accorti che te ne eri andata e io ho cominciato con calma a chiedere alla gente se ti avevano visto sono venuto a sapere una storia abbastanza divertente da quel principe azzurro del tuo amico, Trevor o come diavolo si chiama. Comunque, chi è questo tipo di cui mi ha parlato?» «Ti prego, Peter», essa disse, «detesto proprio parlare di cose del genere al telefono.» Provò un desiderio improvviso di raccontargli tutta la storia, ma a cosa sarebbe servito dal momento che nulla era stato dimostrato o compiuto? Disse invece: «Che ore sono?» «Le due e mezzo», disse lui, la sua voce resa impersonale dalla sorpresa per questo richiamo a una constatazione pura e semplice. «Bene, perché non vieni qui da me un po' più tardi. Magari verso le cinque e mezzo. A prendere il tè. E poi ne possiamo parlare.» Fece una voce dolce, conciliante. Era consapevole della propria astuzia. Sebbene non avesse preso alcuna decisione avvertiva di essere sul punto di prenderne una e aveva bisogno di tempo. «Va bene, d'accordo», disse lui in tono stizzoso, «ma è meglio che ti spieghi bene.» Riattaccarono insieme. Marian andò nella stanza da letto e si svestì; poi scese di sotto e fece il bagno in fretta. Le regioni inferiori erano silenziose; la signora di sotto stava probabilmente rimuginando nella sua tana scura o pregando per il rapido annientamento di Ainsley per mezzo di un fulmine celeste. In uno spirito quasi di allegra ribellione Mariàn dimenticò di raschiar via il cerchio di sporco nella vasca. Ciò di cui aveva bisogno era qualcosa che evitasse le parole, non voleva essere coinvolta in una discussione. Un qualche modo in cui potesse venire a sapere cosa era reale: un test, semplice e diretto come una cartina di tornasole. Terminò di vestirsi - un vestito semplice di lana grigia sarebbe stato adatto - e indossò il cappotto, poi individuò il borsellino e contò i soldi. Andò in cucina e si sedette al tavolo per stendere un elenco, ma buttò giù la matita dopo aver scritto diverse parole. Sapeva cosa doveva procurarsi.
Nel supermarket andò metodicamente su e giù per le corsie, vincendo inesorabilmente in abilità le signore con pellicce di topo muschiato, spingendosi di traverso fra i bambini del sabato sul margine rialzato, scegliendo la roba dagli scaffali. La sua immagine stava prendendo forma. Uova. Farina. Limoni per insaporire. Zucchero, zucchero per glassa, vaniglia; sale, coloranti per cibi. Voleva che ogni cosa fosse nuova, non voleva usare nulla che fosse già in casa. Cioccolato: no, cacao, sarebbe stato migliore. Un tubo di vetro pieno di palline argentate per decorazioni. Tre ciotole di plastica l'una dentro l'altra, cucchiaini, una siringa di alluminio per decorare i dolci e un barattolo di torta. Che fortuna, pensò, vendono quasi di tutto nei supermercati oggi. Si incamminò di nuovo verso l'appartamento con la sua sporta di carta. Pasta Margherita o savoiardi? si chiese. Optò per la pasta Margherita. Era più adatta. Accese il forno. Questa era una parte della cucina che non era stata invasa dal dilagante strato di sporcizia da provocare malattie alla pelle, soprattutto perché non l'avevano usata molto negli ultimi tempi. Si legò un grembiule e risciacquò sotto il rubinetto le ciotole nuove e gli altri utensili nuovi, ma non toccò nessun piatto sporco. Ci avrebbe pensato più tardi. Ora non aveva tempo. Asciugò la roba e cominciò a spaccare e a separare le uova, quasi senza pensare, concentrando tutta la propria attenzione sui movimenti delle mani, e poi, quando stava sbattendo, setacciando e piegando, sui tempi e le composizioni. La pasta Margherita richiedeva una mano leggera. Versò la pastetta nel barattolo e passò con una forchetta attraverso di essa per rompere le grandi bolle d'aria. Nel far scivolare il barattolo nel forno canticchiò quasi dal piacere. Era da tanto tempo che non faceva una torta. Mentre la torta era nel forno a cuocere lavò nuovamente le ciotole e mescolò la glassa. Una normale glassa di burro, questa sarebbe stata la cosa migliore. Poi divise la glassa in tre parti nelle tre ciotole. La porzione più grande la lasciò bianca, l'altra la colorò di un rosa acceso, quasi rosso, col colorante rosso per cibi che aveva portato, e l'ultima la fece marrone scuro mescolandovi dentro del cacao. Dove la metto sopra? pensò quando ebbe finito. Dovrò lavare un piatto. Dissotterrò un piatto lungo proprio dal fondo della pila di piatti nell'acquaio e lo strofinò ben bene sotto il rubinetto. Ci volle un bel po' di detersivo per staccare lo sporco.
Sentì la torta: era cotta. La estrasse dal forno e la rivoltò per farla raffreddare. Era contenta che Ainsley non fosse in casa: non voleva che nessuno interferisse con quello che avrebbe fatto. In realtà pareva che Ainsley non fosse venuta a casa per niente. Non c'era alcuna traccia del suo vestito verde. Nella sua stanza una valigia stava aperta sul letto, dove doveva averla lasciata la sera prima. Alcuni dei relitti sparsi in superficie stavano ingorgandosi dentro di essa, come attratti da un vortice. Marian si chiese di sfuggita come avrebbe fatto Ainsley a stipare il contenuto sparso qua e là per la stanza in qualcosa di così limitato e rettilineo come una serie di valige. Mentre la torta si stava raffreddando andò in stanza da letto e si rassettò i capelli, spingendoli indietro e puntandoseli per liberarsi di ciò che restava degli attorcigliamenti del parrucchiere. Si sentiva la testa leggera, quasi le vertigini: doveva essere la mancanza di sonno e di cibo. Fece un sogghigno allo specchio, mostrando i denti. La torta non si stava raffreddando abbastanza in fretta. Però si rifiutò di metterla nel frigorifero. Avrebbe assorbito gli odori. La estrasse dal barattolo e la mise nel piatto pulito, aprì la finestra della cucina e la cacciò fuori, sul davanzale coperto di neve. Sapeva cosa succedeva alle torte che venivano raffreddate ancora calde: tutto si scioglieva. Si chiese che ora fosse. Il suo orologio era ancora sopra il cassettone dove l'aveva lasciato il giorno prima ma si era scaricato. Non voleva accendere la radio a transistor di Ainsley, l'avrebbe distratta troppo. Si stava già innervosendo. C'era un numero a cui si poteva telefonare... ma comunque avrebbe dovuto affrettarsi. Tolse la torta dal davanzale, la sentì per vedere se era abbastanza fredda e la mise sul tavolo di cucina. Poi cominciò a operare. Con le due forchette la divise a metà attraverso il mezzo. Una metà la posò distesa sul piatto. Ne scavò una parte e con quella fece una testa. Poi le infilò un torso ai lati. L'altra metà la divise in strisce per le braccia e le gambe. La torta spugnosa era malleabile, facile da modellare. Attaccò assieme tutte le membra separate con glassa bianca. In certi punti era irregolare e sulla pelle aveva troppe briciole, ma sarebbe servita al caso. Rinforzò i piedi e le caviglie con degli stuzzicadenti. Ora aveva un corpo bianco vuoto. Aveva un aspetto lievemente osceno, stesa lì sul piatto, soffice e zuccherosa e priva di lineamenti. Si mise a vestirla, riempiendo la siringa di glassa rosa vivo. Prima le fece un bikini, ma
questo era troppo poco. Colmò il diaframma. Ora aveva un normale costume da bagno, ma anche questo non era esattamente quello che voleva. Continuò a schizzare glassa, aggiungendone di sopra e di sotto, finché ebbe un vestito da cerimonia. In uno scoppio di esuberanza le aggiunse una fila di volants al collo, e altri volants al bordo del vestito. Le fece una sorridente bocca rosa dalle labbra carnose e scarpe rosa intonate. Infine mise cinque unghie rosa su ciascuna mano amorfa. La torta, soltanto con la bocca e senza capelli e occhi, aveva un aspetto strano. Risciacquò la siringa e la riempì di glassa al cioccolato. Tracciò un naso e due grandi occhi, a cui attaccò molte ciglia e due sopracciglia, sopra ciascun occhio. Per darle maggior rilievo tracciò una linea che separava una gamba dall'altra e linee simili per separare le braccia dal corpo. Per i capelli ci volle più tempo. Richiesero masse di volute e riccioli intricati e barocchi, ammucchiati sulla testa e ricadenti sulle spalle. Gli occhi erano ancora vuoti. Optò per il verde - le uniche altre alternative erano il rosso e il giallo, dato che erano gli unici altri colori che aveva e con uno stuzzicadenti applicò due iridi di colorante verde. Ora c'erano da aggiungere soltanto le decorazioni sferiche argentate. Una per ciascun occhio, per fare da pupille. Con le altre fece un disegno floreale sul vestito rosa e ne appiccicò alcune nei capelli. Ora la donna sembrava un'elegante statuetta di porcellana antica. Per un attimo rimpianse di non aver comprato delle candeline; ma dove si sarebbero potute mettere? Per esse non c'era proprio spazio. La figura era completa. La sua creazione alzava lo sguardo verso di lei, la faccia imbambolata e assente tranne per il piccolo barlume argenteo di intelligenza in ogni occhio verde. Mentre la stava facendo era stata quasi giuliva, ma ora, nel contemplarla, era pensierosa. La signorina aveva richiesto tutto quel lavoro e ora cosa le sarebbe successo? «Hai un aspetto delizioso», le disse. «Molto appetitoso. E ecco quello che ti capiterà; ecco cosa ottieni per essere cibo.» Al pensiero del cibo lo stomaco le si contrasse. Provò una certa pietà per la sua creatura ma ora era incapace di fare qualcosa per lei. Il suo destino era stato deciso. Già il rumore dei passi di Peter saliva dalle scale. Marian ebbe una fugace visione della propria abissale stupidità, di quanto infantile e poco dignitosa sarebbe apparsa agli occhi di qualsiasi osservatore razionale. A che genere di gioco credeva di stare giocando? Ma il punto non era questo, si disse nervosamente, spingendo indietro un ciuffo di capelli.
Però se Peter la trovava stupida essa lo avrebbe creduto, avrebbe accettato la sua versione di lei, egli avrebbe riso, poi loro si sarebbero seduti e avrebbero preso con calma una tazza di tè. Essa sorrise con aria grave quando egli sbucò dal pozzo delle scale. L'espressione sul volto di lui, uno sguardo corrucciato combinato a un mento sporgente, significava che era ancora adirato. Indossava un completo adatto per sentircisi adirati dentro: il vestito era severo, confezionato su misura, remoto, ma la cravatta aveva un motivo paisley con dei tratti di tetro marrone. «Ora cos'è tutto questo...» cominciò. «Peter, perché non vai nel salotto e ti siedi? Ho una sorpresa per te. Poi possiamo parlare se vuoi.» Gli sorrise di nuovo. Egli era sconcertato, e dimenticò di sostenere lo sguardo corrucciato; doveva essersi aspettato delle scuse imbarazzate. Ma fece come lei gli aveva suggerito. Essa rimase nel vano della porta per un po', a guardargli quasi con tenerezza la nuca appoggiata al divano. Ora che lo aveva rivisto, il vero Peter, solido come sempre, le paure della sera precedente si erano ridotte a uno sciocco attacco di isterismo e la fuga con Duncan era diventata una stupidaggine, un'evasione; non riusciva neppure a ricordare la sua faccia. Peter, dopo tutto, non era il nemico, era semplicemente un normale essere umano simile alla maggioranza dell'altra gente. Voleva toccargli il collo, dirgli che non avrebbe dovuto agitarsi, che tutto sarebbe andato per il meglio. Era Duncan a essere il mutante. Ma nelle sue spalle c'era qualcosa. Doveva essere stato seduto con le braccia incrociate. La faccia dall'altra parte di quella testa avrebbe potuto appartenere a chiunque. E tutti portavano vestiti di panno vero e avevano corpi reali: quelli sui giornali, quelli ancora sconosciuti, in attesa che arrivasse l'occasione buona per prendere la mira dalla finestra del piano di sopra; si passava davanti a loro per strada ogni giorno. Era facile vederlo come normale e degno di fede al pomeriggio, ma questo non cambiava le cose. Il prezzo di questa versione della realtà era di mettere alla prova l'altra. Entrò in cucina e ritornò, reggendo il piatto davanti a sé, con attenzione e reverenza, come se trasportasse qualcosa di sacro in una processione, un'icona o la corona su un cuscino in una commedia. Si inginocchiò, posando il piatto sul tavolino da caffè di fronte a Peter. «Hai cercato di distruggermi, vero», disse. «Hai tentato di assimilarmi. Ma io ti ho fatto un sostituto, qualcosa che ti piacerà molto di più. Questo
è ciò che hai in realtà voluto sempre, vero? Ti prendo una forchetta», aggiunse in tono alquanto prosaico. Peter alzò gli occhi dalla torta su di lei e poi li riabbassò di nuovo. Essa non stava sorridendo. Egli spalancò gli occhi allarmato. Evidentemente non la trovava stupida. Quando se ne fu andato - e se ne andò assai rapidamente, non ebbero molto da dirsi in fondo, egli sembrava imbarazzato e desideroso di andarsene e rifiutò persino una tazza di tè - essa rimase a guardare la figura. Così Peter, dopo tutto, non l'aveva divorata. Come simbolo aveva chiaramente fatto fiasco. Alzava su di lei i suoi occhi argentei, enigmatici, beffardi, succulenti. All'improvviso sentì fame. Una fame enorme. La torta in fondo era solo una torta. Raccolse il piatto, lo portò sul tavolo della cucina e scovò una forchetta. «Comincerò dai piedi», decise. Rifletté sul primo boccone. Sembrava strano ma assai piacevole trovarsi di nuovo a gustare e masticare e inghiottire effettivamente. Abbastanza buono, pensò con aria critica; ci vuole un altro pizzico di limone però. La parte di lei non occupata a mangiare era già sommersa da un'ondata di nostalgia per Peter, come per uno stile che era andato fuori moda e cominciava a spuntare sui tristi attaccapanni dell'Esercito della Salvezza. Lo vedeva mentalmente, in posa spavalda, in primo piano, in un salotto elegante con lampadari e drappeggi, vestito impeccabilmente, un bicchiere di whisky in una mano; teneva un piede sulla testa di un leone impagliato e aveva una benda su'un occhio. Sotto un braccio un revolver era fissato con una cinghia. Attorno al margine c'era un bordo di volute ornamentali dorate e poco più in alto dell'orecchio sinistro di Peter c'era una puntina da disegno. Leccò la forchetta con aria meditativa. Avrebbe senz'altro avuto successo. Era a metà delle gambe quando udì un rumore di passi, due paia di scarpe, che salivano le scale. Poi Ainsley comparve nel vano della porta della cucina con la testa irsuta di Fischer Smythe dietro di lei. Aveva ancora il vestito verdeazzurro indosso, in condizioni assai peggiori per l'uso continuo. Così era lei: la sua faccia era smunta e soltanto nelle ultime ventiquattro ore la sua pancia sembrava essersi fatta notevolmente più rotonda. «Salve», disse Marian, agitando verso di loro la forchetta. Infilzò un pezzo di coscia rosa e se lo portò alla bocca.
Fischer si era appoggiato contro il muro e aveva chiuso gli occhi appena raggiunta la cima delle scale, ma Ainsley si concentrò su di lei. «Marian, cos'hai lì?» Andò verso di lei per vedere. «È una donna... una donna di torta!» Rivolse a Marian una strana occhiata. Marian masticò e inghiottì. «Prendine un po'», disse, «è proprio buona. L'ho fatta oggi pomeriggio.» La bocca di Ainsley si aprì e si richiuse, come quella di un pesce, come se stesse cercando di mandar giù il pieno significato sottinteso di quel che vedeva. «Marian!» esclamò alla fine con orrore. «Tu stai rifiutando la tua femminilità!» Marian smise di masticare e guardò fissa Ainsley, la quale la stava osservando attraverso i capelli che le pendevano a festoni sugli occhi, con sollecitudine ferita, quasi con durezza. Come ce la faceva a assumere quell'atteggiamento di persona colpita, di profonda serietà? Era quasi moralmente convinta come la signora di sotto. Marian tornò con gli occhi al suo piatto. La donna era lì stesa, ancora sorridente con aria vitrea, senza gambe. «Sciocchezze», disse. «È soltanto una torta.» Affondò la forchetta nella carcassa, staccando di netto il corpo dalla testa. PARTE TERZA 31 Stavo facendo le pulizie dell'appartamento. Mi ci erano voluti due giorni per trovare la forza di affrontare la cosa, ma avevo finalmente cominciato. Dovevo occuparmi di uno strato dopo l'altro. Prima c'erano i detriti superficiali. Cominciai dalla stanza di Ainsley, ficcando tutto quello che si era lasciata dietro in scatole di cartone: i flaconi di cosmetici semivuoti e i rossetti usati, gli strati di giornali e riviste vecchi sul pavimento, la buccia di banana secca che trovai sotto al letto, i vestiti che aveva scartato. Tutte le mie cose che volevo gettar via andarono a finire negli stessi scatoloni. Quando i pavimenti e i mobili furono sgombrati, spolverai tutto ciò che si vedeva, comprese le modanature e le sommità delle porte e i davanzali. Poi pulii i pavimenti, spazzando e quindi sfregando e dando la cera. La quantità di sporcizia che venne via fu stupefacente: era come scoprire un altro pavimento. Poi lavai i piatti e dopo le tendine della finestra della cucina. Poi mi fermai per il pranzo. Dopo aver pranzato mi misi dietro al fri-
gorifero. Non esaminai attentamente gli orrori che si erano accumulati all'interno di esso. Potei vedere abbastanza bene, tenendo i vasetti controluce, che era meglio non aprirli. I vari oggetti che c'erano dentro avevano laboriosamente fatto germinare peluria, lanugine o piume, ciascuno secondo quanto la sua natura dettava, e potei figurarmi che odore avrebbero mandato. Li calai con cura nel sacchetto dell'immondizia. Il congelatore l'affrontai con il coltello da ghiaccio, ma scoprii che il grosso strato di ghiaccio, per quanto ricoperto di muschiq e spugnoso di fuori, sotto era duro come una roccia, e lo lasciai sciogliere un po' prima di tentare di scheggiarlo o di fargli allentare la presa con una leva. Avevo appena cominciato la pulizia delle finestre quando squillò il telefono. Era Duncan. Fui sorpresa; mi ero più o meno dimenticata di lui. «Ebbene?» chiese. «Cos'è successo?» «È tutto andato a monte», dissi. «Mi sono resa conto che Peter stava tentando di distruggermi. Così adesso sto cercandomi un altro lavoro.» «Oh», fece Duncan. «In realtà non intendevo quello. Ero più curioso di sapere di Fischer.» «Oh», dissi io. Avrei dovuto immaginarmelo. «Voglio dire, credo di sapere cosa sia successo, ma non sono sicuro del perché. Ha abbandonato le sue responsabilità, capisci.» «Le sue responsabilità? Vuoi dire gli studi postuniversitari?» «No», disse Duncan. «Voglio dire me. Cosa farò?» «Non ne ho la più pallida idea», dissi. Ero irritata con lui per non voler discutere cosa avrei fatto io a mia volta. Ora che pensavo di nuovo a me stessa alla prima persona singolare trovavo la mia situazione molto più interessante della sua. «Andiamo, andiamo», disse Duncan, «non possiamo essere tutti e due così. Uno di noi deve fare l'ascoltatore comprensivo e l'altro viene torturato e confuso. Tu eri torturata e confusa l'ultima volta.» Renditene conto, pensai, non puoi averla vinta. «Oh, d'accordo. Perché allora non vieni da me a prendere un po' di tè più tardi? L'appartamento è un caos», aggiunsi per scusarmi. Quando arrivò stavo finendo le finestre, ritta su una sedia, intenta a togliere il pulivetro bianco che vi avevo sparso sopra. Era da molto che non le pulivamo e si erano completamente ricoperte di polvere e stavo pensando che sarebbe stato curioso poter vedere fuori di nuovo. Mi seccava che ci fosse ancora un po' di sporcizia all'esterno che non riuscivo a raggiungere: caligine e righe di pioggia. Non sentii Duncan entrare. Probabilmente era
rimasto nella stanza per diversi minuti a guardarmi prima di annunciare la sua presenza dicendo: «Eccomi qui». Sobbalzai. «Oh, salve», dissi, «sono subito da te appena finita questa finestra.» Si allontanò in direzione della cucina. Dopo aver dato alla finestra un'ultima lucidata con una manica strappata da una delle camicette lasciate da Ainsley scesi dalla sedia, con una certa riluttanza - mi piace finire le cose una volta cominciate e c'erano rimaste ancora diverse finestre sporche; inoltre, la prospettiva di discutere della vita amorosa di Fischer Smythe non era proprio così affascinante - e andai in cucina. Trovai Duncan seduto su una sedia, intento a osservare lo sportello del frigorifero aperto con un misto di disgusto e di ansia. «Cosa c'è che fa odore qui?» chiese, fiutando l'aria. «Oh, varie cose», risposi con noncuranza. «Lucido per pavimenti e detersivo per le finestre e qualche altra cosa.» Andai a aprire la finestra della cucina. «Tè o caffè?» «Non importa», disse. «Be', qual è la verità?» «Devi saperlo che sono sposati.» Il tè sarebbe stato più facile ma una rapida perquisizione alle credenze non ne rivelò la presenza di un briciolo. Dosai il caffè nella macchinetta. «Be', sì, per così dire. Fish ci ha lasciato un messaggio piuttosto ambiguo. Ma come è successo?» «Come succedono mai queste cose? Si sono incontrati al party», dissi. Accesi sotto alla macchinetta del caffè e mi sedetti. Avevo una mezza idea di tenerlo sulle spine ma stava cominciando a sembrare offeso. «Naturalmente ci sono alcune complicazioni, ma penso che funzionerà.» Ainsley era venuta il giorno prima dopo un'altra assenza prolungata e aveva fatto le valige mentre Fischer aspettava nel salotto, la testa buttata all'indietro contro i cuscini del divano, la barba irta per la consapevolezza della propria vitalità, gli occhi chiusi. Essa mi aveva fatto capire nelle poche parole che ebbe tempo di rivolgermi che andavano alle cascate del Niagara per la luna di miele e che lei credeva che Fischer sarebbe stato, come si espresse, «uno molto bravo». Spiegai tutto questo a Duncan come meglio potei. Egli non parve né sgomento né compiaciuto, o addirittura sorpreso di nulla. «Bene», disse, «immagino che sia un bene per Fischer, l'umanità non può sopportare troppo l'irrealtà. Trevor però è rimasto assai turbato. È andato a letto con un'emicrania nervosa e rifiuta di alzarsi persino per cucinare. Quello che tutto ciò significa è che dovrò traslocare. Hai sentito dire
che effetti catastrofici può avere una casa infranta e non vorrei che la mia personalità ne uscisse deformata.» «Spero che tutto si sistemi per Ainsley.» Lo speravo davvero. Ero soddisfatta di lei per aver giustificato la mia credenza superstiziosa nella sua capacità di badare a se stessa: per un momento avevo cominciato a perdere la fiducia. «Almeno», dissi, «ha ottenuto quello che crede di volere, e suppongo che questo sia qualcosa.» «Scaraventato di nuovo nel mondo», disse Duncan riflettendo. Si stava mordendo il pollice. «Chissà cosa sarà di me.» Non sembrava eccessivamente interessato alla domanda. A parlare di Ainsley mi venne in mente Leonard. Avevo telefonato a Clara poco dopo esser venuta a conoscenza del matrimonio di Ainsley, perché dicesse a Len che poteva uscire sicuro dal suo nascondiglio. Più tardi mi aveva ritelefonato. «Sono davvero preoccupata», disse, «non è sembrato per nulla sollevato come avrebbe dovuto essere. Pensavo che sarebbe ritornato subito al suo appartamento, ma ha detto che non voleva. Ha paura di uscire di casa, anche se sembra completamente felice finché rimane nella stanza di Arthur. I bambini lo adorano la maggior parte del tempo e devo dirti che è piuttosto carino avere qualcuno che me li toglie un po' d'attorno, ma il guaio è che gioca con tutti i giocattoli di Arthur e delle volte litigano. E non è andato al lavoro per niente, non ha neppure telefonato per dire dove si trova. Se soltanto si lascia andare così ancora per molto non so come me la caverò.» Comunque era sembrata più all'altezza della situazione del solito. Si sentì un sonoro tonfo metallico dall'interno del frigorifero. Duncan ebbe un sobbalzo e si tolse il pollice dalla bocca. «Cos'è stato?» «Oh, soltanto del ghiaccio che cadeva, immagino», dissi. «Sto sbrinando il frigorifero.» Dall'odore il caffè sembrava fatto. Posai due tazze sul tavolo e lo versai. «Ebbene, mangi di nuovo?» chiese Duncan dopo un attimo di silenzio. «A dirla schietta, sì», feci. «Ho mangiato una bistecca a pranzo.» Quest'ultima osservazione era stata suggerita dall'orgoglio. Aveva ancora del miracoloso per me aver tentato una cosa così audace e esserci riuscita. «Be', così è più sano», disse Duncan. Mi guardò direttamente negli occhi per la prima volta da quando era entrato. «Hai anche un aspetto migliore. Sembri briosa e piena di cose buone. Come hai fatto?» «Te l'ho detto», dissi. «Al telefono.» «Intendi quella storia su Peter che cercava di distruggerti?»
Assentii. «È ridicolo», disse lui con aria grave. «Peter non stava cercando di distruggerti. È soltanto qualcosa che ti sei inventata. In realtà tu cercavi di distruggere lui.» Mi sentii mancare. «È vero?» chiesi. «Indaga nella tua anima», disse lui, guardandomi con occhi ipnotici da dietro i capelli. Bevve un po' di caffè e si fermò per darmi tempo, poi aggiunse: «La verità è che non era per niente Peter. Ero io. Io cercavo di distruggere te». Scoppiai in una risata nervosa. «Non dirlo.» «D'accordo», fece lui, «sempre desideroso di soddisfarti. Forse Peter stava cercando di distruggere me, o forse io cercavo di distruggere lui o entrambi cercavamo di distruggerci a vicenda, chissà? Cosa importa, tu sei tornata alla cosiddetta realtà, sei una consumatrice.» «Incidentalmente», dissi, ricordandomene, «vorresti un po' di torta?» Mi erano rimasti metà del torso e la testa. Assentì. Gli diedi una forchetta e presi i resti del cadavere dal ripiano dove l'avevo messo. Le tolsi il sudario di cellofan. «È più che altro la testa», dissi. «Non sapevo che sapessi cucinare delle torte», disse dopo la prima forchettata. «È buona quasi come quella di Trevor.» «Grazie», dissi con modestia. «Mi piace cucinare quando ne ho il tempo.» Mi sedetti a guardare la torta scomparire, prima la bocca rosa sorridente, poi il naso e poi un occhio. Per un attimo della faccia non rimase niente tranne l'ultimo occhio verde; poi anche quello scomparve, in un attimo. Cominciò a divorare i capelli. Mi diede un particolare senso di soddisfazione vederlo mangiare come se il mio lavoro non fosse in fondo andato sprecato: sebbene la torta venisse assorbita senza esclamazioni di piacere, addirittura senza un'espressione degna di nota. Gli sorrisi con aria serena. Lui non mi ricambiò il sorriso; si stava concentrando sull'operazione imminente. Racimolò l'ultimo ricciolo di cioccolato con la forchetta e spinse via il piatto. «Grazie», disse, leccandosi le labbra. «Era squisita.» FINE