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MICHAEL MOORCOCK LA FIGLIA DELLA LADRA DI SOGNI (The Dreamthief's Daughter, 2001) Alla mia figlioccia, Oona von B E a Berry e soci. NOTA DELL'AUTORE Il 10 maggio 1941, qualche mese dopo l'inattesa vittoria britannica nella decisiva Battaglia d'Inghilterra che aveva finalmente arrestato l'espansione nazista, Rudolf Hess, delfino di Hitler e suo più vecchio e ultimo amico all'interno della gerarchia nazista, fuggì in Scozia di propria iniziativa. Sosteneva di avere informazioni cruciali per Churchill. Arrestato, fu interrogato dall'MI5, il servizio segreto militare britannico. Ciò che riferì all'MI5 venne immediatamente secretato. Alcuni dei file relativi sono scomparsi. Altri non sono mai stati resi pubblici. Hitler attaccò l'Unione Sovietica il 24 giugno 1941. Molti ritengono che la decisione di Hitler avesse atterrito Hess, che tentò di fare un accordo finale con Churchill. Churchill, però, non acconsentì mai a incontrare Hess, il quale morì in circostanze misteriose nel 1987. LIBRO PRIMO Dormi, e ruberò il tuo denaro; Sogna, e ruberò la tua anima. Wheldrake, Il Cavaliere dell'Equilibrio SOGNI RUBATI Il mio nome è Ulric, Graf von Bek, e sono l'ultimo della mia stirpe terrena. Bambino di salute cagionevole, segnato dalla maledizione di famiglia, l'albinismo, sono nato e cresciuto a Bek, in Sassonia, nei primi anni del secolo. Mi è stato insegnato a governare la nostra provincia in modo saggio e giusto, a preservare lo status quo, nella migliore tradizione della Chiesa Luterana. Mia madre morì dandomi alla luce. Mio padre perì nello spaventoso incendio che distrusse quasi completamente la nostra vecchia torre. Essendo
tutti i miei fratelli molto più vecchi di me e impegnati principalmente all'estero nella diplomazia militare, si ritenne fosse meglio che della cura della tenuta mi occupassi io. Non era previsto che desiderassi esporre più del necessario alla luce del giorno i miei strani occhi di rubino. Avevo accettato quella sentenza di virtuale prigionia come naturale, dato che già i miei antenati prima di me avevano subito la medesima condanna. Si raccontavano persino cose terribili riguardo alla fine toccata ai due gemelli albini partoriti dalla mia bisnonna. I timori e le apprensioni che quel ruolo mi incuteva vennero ben presto mitigati dal fatto che, negli anni in cui le domande si affollavano nella mia mente più numerose, feci amicizia con il prete cattolico della zona e allo stesso tempo divenni un accanito schermitore. La mattina discutevo di teologia con padre Cornelius, mentre ogni pomeriggio mi esercitavo con la spada. Tutte le mie incertezze e frustrazioni si convertirono nell'apprendimento di quell'arte sottile e pericolosa. Non il genere di sciocca smargiassata e infantile e insensata spacconeria ostentata dai nuovi ricchi e dai borgomastri di recente nobiltà che a Heidelberg, come segno di virilità, compivano ridicoli rituali semi inventati. Nessun vero appassionato di spada costringerebbe la propria arma a tali volgari e rumorose stupidaggini. Con ben poca leziosaggine, mi auguro, divenni un ottimo spadaccino, esperto nell'arte del duello all'ultimo sangue. Perché alla fine, per un esistenzialista come me, soltanto l'entropia si rivela un nemico che vale la pena sfidare, e conquistare l'entropia significa raggiungere un compromesso con la morte, sempre e comunque definitiva vincitrice di tutti i nostri conflitti. Ci sarebbe qualcosa da dire su chi dedica la propria esistenza a una causa impossibile. Forse è la decisione più facile per un solitario aristocratico albino pervaso dall'idealismo dei secoli passati, sgradito ai contemporanei e fonte di imbarazzo per i fittavoli. Uno destinato alla lettura e alla meditazione. Ma non inconsapevole, mai inconsapevole del fatto che al di là delle vecchie, spesse mura di Bek, nella mia ricca e complessa Germania, il mondo stava cominciando a marciare al suono di musiche semplicistiche, in grado di ottenebrare la mente degli uomini al punto di convincerli con l'inganno a farsi di nuovo la guerra. A distruggere di nuovo se stessi. Ancora ragazzo, per istinto e ispirazione, a seguito di una gita scolastica nella valle del Nilo e in altri gloriosi luoghi storici della nostra civiltà, mi tuffai con grande impeto nello studio del passato. L'antico Bek cresceva intorno a me. Un maniero turrito a cui nel corso
dei secoli erano stati aggiunti stanze ed edifici, si ergeva come un grande albero sui campi rigogliosi e sulle colline boscose del Bek, circondato dai cedri, dai pioppi e dai cipressi che i miei avi crociati avevano portato lì dalla Terra Santa, dalle querce sassoni a cui i miei più remoti progenitori avevano legato le proprie anime, in modo da mettere radici nello stesso suolo in cui era radicato il mondo. Quegli antenati avevano prima combattuto contro Carlomagno, poi al suo fianco. Avevano inviato due loro figli a Roncisvalle. Erano stati pirati irlandesi. Avevano servito re Ethelred d'Inghilterra. Mio tutore era il vecchio von Asch, nero, rinsecchito e nodoso, che i miei fratelli chiamavano 'Il Noce', la cui famiglia aveva forgiato fabbri e schermitori fin da quando il primo dei suoi avi aveva impugnato un'arma di bronzo. Mi voleva molto bene. Ero come un vaso pronto a contenere la sua esperienza, pronto ad apprendere ogni cosa, a tentare ogni stratagemma per migliorare le mie capacità. Non c'era sua richiesta o aspettativa che io non mi sforzassi con successo di soddisfare. Ero, così diceva, la testimonianza vivente della sapienza della sua famiglia. Ma la saggezza di von Asch non voleva sbalordire, al contrario i suoi consigli erano sottili e, probabilmente in modo intenzionale, facevano appello al mio estetismo, all'amore che provavo per la complessità e il lato simbolico delle cose. Invece di impormi le proprie idee, le piantava in me come semi, che, se le condizioni fossero state propizie, avrebbero prosperato. Era questo il segreto del suo insegnamento. Riusciva chissà come a farti capire che eri tu ad agire, che se la situazione in cui ti trovavi esigeva precise risposte, lui semplicemente ti aiutava ad avere fiducia nel tuo intuito e a seguirlo. E, ovviamente, c'era la sua conoscenza del canto della spada. «Devi prestare molta attenzione al canto» diceva. «Ogni singola grande spada ha una propria canzone. Una volta che l'avrai scoperta e udita chiaramente, potrai usare la spada per combattere, perché è nella canzone la vera essenza della spada stessa. Le lame non vengono forgiate per decorare le pareti o per essere sollevate in segno di vittoria e predominio, ma per tagliare carni, ossa e tendini, e per uccidere. Una spada non è estensione della propria virilità, né espressione della personalità individuale: è uno strumento di morte. Al massimo, può uccidere per giustizia. Se tu, figliolo, trovi discutibile questo concetto - e non ti sto consigliando di metterlo in pratica, ma semplicemente di riconoscerne la veridicità - allora devi rinunciare per sempre alla spada. Quella dello spadaccino è un'arte raffinata, ma
la si apprezza molto di più quando è anche una questione di vita o di morte.» Combattere per il bene supremo, contro l'oblio, mi pareva fosse proprio il nobile destino a cui la Spada del Corvo, la nostra lama avita, era votata. In pochi, nel corso dei secoli, avevano mostrato reale interesse per quel vecchio spadone realizzato in modo bizzarro e decorato con misteriose iscrizioni runiche. Era stato addirittura considerato quasi fonte di imbarazzo. C'era stato qualche antenato folle che, probabilmente spinto da insana curiosità, ne aveva fatto un uso strano e di certo non esemplare. La stampa di Mirenburg ne aveva dato notizia soltanto nel secolo scorso, quando uno squilibrato che si presentava come una creatura leggendaria chiamata 'Occhi Cremisi' era caduto preda di una furia omicida e aveva passato a fil di spada almeno trenta persone prima di scomparire chissà dove. Per qualche tempo del fatto furono sospettati i von Bek, dato che il nostro albinismo era storia ben nota da quelle parti, ma nessuno era mai stato consegnato alla giustizia. L'assassino entrò così drammaticamente a far parte delle chiacchiere di strada del tempo, come Jack lo Squartatore e Fantomas. Parte del nostro passato volgare e sanguinoso. Tendevamo a voler dimenticare la spada e le leggende a essa legate. Ma c'erano alcune vuote, abbandonate e perdute stanze di Bek, non più animate dalle famiglie che un tempo le abitavano, che potevano ancora ricordare. Alcuni seguaci troppo vecchi per la guerra o la città. E, ovviamente, dei libri. Quando per me venne il tempo di maneggiare la spada ogniqualvolta lo desideravo, von Asch me ne insegnò i canti principali, perché quella era una spada speciale. Comunque voltassi la lama, l'acciaio aveva sonorità straordinarie. Una vibrazione che pareva selvaggia. Come un perfetto strumento musicale, si muoveva al ritmo dei canti e sembrava guidarmi. Il mio tutore mi mostrò come ottenere da lei, con lievi colpetti e movimenti delle dita e dei polsi, musiche di odio e disprezzo, dolci canti di struggimento per l'inesausta brama sanguinaria, malinconiche memorie di battaglie combattute, di concretate vendette. Nessuna canzone d'amore, però. Di rado, mi spiegò von Asch, le spade hanno un cuore. E non è saggio fare affidamento sulla loro lealtà. Quell'arma particolare, che chiamavamo Brandocorvo, era un grande spadone di ferro nero con la lama sottile e dall'insolita forma di foglia. La leggenda di famiglia narrava che fosse stata forgiata da Frate Corvo, l'armaiolo veneziano che scrisse il famoso trattato sull'argomento, ma c'era
anche chi diceva che Corvo - il Fabbro Corvo, o Raven Smith, come lo chiamò Browning - avesse semplicemente trovato la spada, o quantomeno la lama, limitandosi tutt'al più a forgiare l'elsa. Alcuni sostenevano che si trattasse della spada di Satana. Altri che fosse addirittura il Diavolo stesso. Il poema di Browning descrive come Corvo avesse dato la propria anima per riportare in vita la spada. Un giorno sarei andato a Venezia con la nostra Brandocorvo per scoprire di persona quanta parte di verità ci fosse in quella storia. Von Asch lasciò Bek e non vi fece più ritorno. Era alla ricerca di un particolare tipo di metallo che pensava di poter trovare sull'isola di Morn. Poi venne l'agosto del 1914 e per i primi mesi di guerra desiderai di essere abbastanza grande per potervi partecipare. Da come i fatti venivano riportati dai veterani di ritorno dal fronte - giovani uomini di poco più adulti di me - cominciai a chiedermi in quale modo si sarebbe mai potuto porre fine a quel conflitto. I miei fratelli morirono di malattia o vennero fatti a pezzi in qualche trincea senza nome. Ben presto non mi restò nessun parente in vita oltre al mio vecchio nonno, che viveva in un lusso non ostentato nei dintorni di Mirenburg, nel Waldenstein, e che con grandi occhi grigio pallido colmi di delusione fissava me e la fine di tutto ciò per cui aveva lottato. Non doveva passare molto tempo perché mi facesse allontanare con un cenno. Alla fine si rifiutò di avermi al suo capezzale. Venni arruolato nel 1918. Mi unii al vecchio reggimento di fanteria di mio padre e, con il grado di tenente, venni subito inviato al fronte occidentale. La guerra era durata abbastanza a lungo da mostrare senza ombra di dubbio quale crudele follia fosse. Ben di rado riuscivamo a parlare di ciò di cui eravamo stati testimoni. A volte pareva che milioni di voci ci chiamassero dalla terra di nessuno, implorando solo di essere liberate dal dolore. Aiutami, aiutami. Inglesi. Francesi. Tedesche. Russe. Oltre alle voci di una decina di vari altri imperi. Che gridavano alla vista delle proprie viscere e degli arti spezzati. Che pregavano Dio di allontanare quel dolore insopportabile. Di benedirle con il dono della morte. Voci che ben presto avrebbero potuto essere le nostre. Non mi abbandonavano neppure quando dormivo. Erano milioni ad agitarsi e contorcersi, urlanti e gementi in attesa della liberazione per l'intera durata dei miei immutabili sogni. Durante la notte lasciavo un orrore per abitarne un altro, e tra i due sembrava esserci davvero poca differenza. La cosa peggiore era che i miei sogni non si limitavano alla guerra in
corso, ma abbracciavano ogni conflitto fomentato dall'uomo. Con grande chiarezza, dovuta senza dubbio alle mie numerose letture, cominciai ad assistere a grandi battaglie. Alcune le riconoscevo grazie allo studio della storia, ma la maggior parte era comunque una mera ripetizione in abiti diversi delle oscenità di cui per ventiquattro ore al giorno ero stato testimone dalle trincee. Verso la fine, un paio di quei sogni mostravano di avere qualcos'altro in comune: una bella lepre bianca che correva in mezzo agli uomini che combattevano, apparentemente non vista e illesa. In una occasione si voltò e mi fissò con occhi color rubino che erano i miei. Sentii che avrei dovuto seguirla, ma gradatamente l'incubo svaniva: forse la vita reale era già abbastanza dura. Noi, che tecnicamente eravamo stati gli istigatori della guerra e dovemmo sottostare al punto di vista storico dei vincitori, fummo umiliati dal Trattato di Versailles in cui gli europei si disputarono il bottino con spietata avidità, disgustando il presidente Woodrow Wilson e spogliando la Germania di tutto, inclusi i macchinari che sarebbero serviti per la ricostruzione. L'ovvio risultato fu che, come al solito, la gente comune fu costretta a pagare un prezzo troppo alto per la follia di alcuni nobili in esilio. Viviamo, moriamo, conosciamo malattia e salute, benessere e afflizioni a causa dell'ego esagerato di qualche sciocco. Per essere giusti, alcuni di quei nobili, e io fra loro, decisero di restare e adoperarsi per la restaurazione della Federazione tedesca, anche se io personalmente non avevo alcuna simpatia per l'arrogante aggressione dei prussiani sconfitti, che avevano creduto di essere invincibili. Furono tali orgogliosi nazionalisti a portare legna al fuoco della retorica che verso il 1920 accendeva quelli che sarebbero diventati i movimenti nazista e bolscevico, dichiaratamente intesi a fini del tutto diversi. La Germania sconfitta, impoverita, disonorata. La Mano Nera serba aveva colpito il nostro mondo inaridendolo fino a renderlo quasi irriconoscibile. Tutto ciò che Bismarck aveva rafforzato in noi, senso di unità e del dovere, era stato sviato per servire le ambizioni di un pugno di avidi uomini d'affari, industriali e fabbricanti di armi e dei loro degni alleati, una sgradevole eco che molti, per esempio a Berlino, scelsero di ignorare o di tradurre nell'arte di amaro realismo che ci ha dato i Brecht e i Weill. I ritmi sardonici e popolari dell'Opera da tre soldi rappresentarono la colonna sonora della nostra rovina. La Germania rimase sull'orlo della guerra civile, tra destra e sinistra, tra
comunisti combattenti e Freikorps nazionalisti. La guerra civile era il nostro più grande timore: avevamo visto come aveva ridotto la Russia. Non c'è modo più rapido per far precipitare una nazione nel caos del prendere decisioni affrettate dettate dal panico e intese a prevenire proprio quel caos. La Germania si stava riprendendo. Molte persone di buon senso ritengono che se allora le altre grandi potenze avessero aiutato la Germania, non ci sarebbe stato nessun Adolf Hitler. Non è certo insolito che personalità come Hitler emergano a causa di un momento di vuoto: vengono, infatti, evocate e create interamente dallo smanioso nulla per mezzo della nostra negatività, dei nostri appetiti faustiani e della nostra gretta avidità. La guerra aveva grandemente ridotto la mia famiglia e le sue fortune. L'amico prete era andato missionario nell'ex colonia tedesca del Ruanda, e io mi trasformai in un individuo alquanto solitario e triste. Venivo spesso consigliato di vendere Bek. Indaffarati borsaneristi e fascisti in rapida ascesa si offrivano di acquistare la residenza avita, pensando di poter comperare l'autorevolezza di una posizione sociale come avevano fatto con le loro grandi abitazioni e le imponenti automobili. In un certo qual modo, il fatto di dover mandare avanti le tenute con una disperazione che in passato non conoscevo, mi fece comprendere almeno in parte l'incertezza e l'orrore del tedesco medio, che vedeva il suo paese sull'orlo della rovina totale. Era facile incolpare i vincitori. È vero, le tasse che ci imponevano erano punitive, ingiuste, disumane e sciocche: rappresentavano il veleno che a Monaco e in altre parti della Baviera i nazisti cominciavano a usare a proprio vantaggio. Anche quando il sostegno popolare cominciò a scemare, il Partito nazista fu in grado di prendere in mano quasi tutto il potere in Germania. Un potere che inizialmente era stato attribuito agli ebrei. Più di recente però, a differenza della comunità ebraica, i nazisti erano riusciti ad avere il controllo dei mezzi di comunicazione, e attraverso radio, giornali, riviste e film cominciarono a dire alla gente chi doveva amare e chi, invece, odiare. Ma come si fa a uccidere all'incirca un milione di vicini di casa? Be', prima di tutto si inizia col dire che sono diversi. Che non sono come noi. Non sono umani. Ci somigliano solo in apparenza. Fingono di essere uguali a noi. Sotto sotto sono cattivi, a dispetto dell'evidenza quotidiana. Poi li si paragona a esseri immondi e li si accusa di tramare contro di noi. Non ci vorrà molto perché siano gettate le fondamenta di pazzia necessarie a realizzare un olocausto.
E ovviamente non si tratta neppure di un fenomeno nuovo o originale. I puritani americani etichettavano come malvagio, senza dio e probabilmente strega, chiunque dissentisse da loro. Andrew Jackson contribuì a iniziare una guerra immaginaria che poi finse di aver vinto al fine di derubare le nazioni indiane dei propri territori. Britannici e americani andarono in Cina per salvare il paese dall'oppio che inizialmente proprio loro gli avevano venduto. I turchi hanno dovuto affibbiare agli armeni la nomea di mostri senza dio per dare il via alla spaventosa carneficina di cristiani. Ai miei giorni, però, se si esclude il disagio causato dalle invettive di Martin Lutero contro la comunità ebraica, discorsi di quel genere erano del tutto estranei a me che vivevo nel Bek e non potevo credere che in definitiva una nazione civile li avrebbe tollerati. Un paese impaurito, però, è fin troppo pronto a credere alla minaccia della guerra civile e alle promesse di un uomo che afferma di poterla evitare. Hitler evitò la guerra civile perché non serviva ai suoi scopi. L'opposizione gli fu consegnata tra le mani dalle urne elettorali di una nazione che, all'epoca, aveva una delle migliori costituzioni democratiche del mondo, per molti aspetti superiore a quella americana. Gli oppositori di Hitler erano già in suo potere, grazie all'autorità dello Stato di cui si era impadronito. Tutte queste cose erano sotto i nostri occhi, ben visibili a quanti tra noi ne erano inorriditi, ma pareva impossibile convincere gli altri. Erano tanti i tedeschi che avevano un estremo bisogno di stabilità e che per ottenerla erano pronti ad aderire al nazismo. Ed era indubbiamente più semplice dimenticare la sparizione di un vicino ebreo che non le preoccupazioni nei confronti dei propri parenti. Fu così che le persone comuni vennero spinte a rendersi complici del male, tramite le azioni, le parole o quell'orribile silenzio, a prendervi parte, a difendersi dalla propria coscienza, a odiare se stesse e gli altri, a imporre un'ostentata autostima sul rispetto di sé, sminuendo quindi la propria importanza in quanto cittadini. In questo modo le dittature moderne fanno sì che ci teniamo sottomessi da soli nel loro nome. Impariamo a dissimulare il disgusto che proviamo per noi stessi con una retorica grossolana, discorsi sentimentali, pretese di benevolenza, proteste di innocenza e vittimismo. E quelli di noi che si rifiutavano, alla fine venivano uccisi. Nonostante la determinazione a perseguire la causa della pace, non persi la mia capacità di maneggiare la spada. Ormai si trattava di ben più che un passatempo. Suppongo continuasse ad avere un valore ideale, che fosse un
sistema per tenere sotto controllo quel poco che ancora potevo controllare. L'abilità necessaria per maneggiare la Lama del Corvo era davvero notevole perché anche se la mia spada era così perfettamente bilanciata da consentirmi di farla roteare con una sola mano con estrema facilità, era pur sempre stata realizzata con acciaio pesante e flessibile e soprattutto era dotata di vita propria. Persino mentre mi esercitavo, pareva sfuggirmi dalle mani. Per affilarla non si poteva utilizzare una pietra comune. Von Asch mi aveva dato una sorta di mola speciale, che sembrava tempestata di frammenti di diamante. Non che quella lama abbia mai richiesto grandi affilature, comunque. I freudiani, che all'epoca erano molto impegnati a cercare di interpretare il caos che ci circondava, avrebbero saputo cosa pensare della mia tendenza a legarmi strettamente alla spada e della mia riluttanza a separarmene. Tuttavia avevo la sensazione di trarre forza da quell'arma. Non il genere di forza bruta e predatoria tanto amato dai nazisti, ma un sostegno duraturo. Anche se la cosa accadeva di rado, ogniqualvolta compivo un viaggio la spada veniva con me. Un artigiano della zona mi aveva costruito una lunga custodia per fucili in cui Brandocorvo trovava posto senza attirare troppo l'attenzione, in modo che a uno sguardo distratto che mi avesse colto con la custodia in spalla sarei parso una sorta di bucolico campagnolo attrezzato per una giornata di caccia o addirittura di pesca. Avevo l'idea fissa che qualunque cosa fosse accaduta a Bek, la spada e io saremmo sopravvissuti. Quale fosse il significato simbolico della spada, non sono in grado di dirlo, ma so che è stata maneggiata dalla mia famiglia per almeno un migliaio di anni, che si dice fosse stata forgiata per Odino, abbia rovesciato le sorti a Roncisvalle, guidando i mostruosi destrieri della cavalleria carolingia contro gli invasori berberi, abbia difeso la stirpe reale danese a Hastings e servito la causa sassone in esilio a Bisanzio e oltre. Immagino sia stato per superstizione, se non per totale pazzia, che percepivo un legame tra me e la spada. Qualcosa che andava al di là della tradizione o del sentimentalismo. Nel frattempo in Germania la qualità della vita civile continuava a peggiorare. Persino la città di Bek, con i suoi timpani di sogno, i vecchi camini ritorti e i tetti spioventi, le finestre dai vetri verdi, i mercatini settimanali e le antiche usanze, non era immune al passo dell'oca del XX secolo. Negli anni che precedettero il 1933, una piccola divisione di autonomi-
natisi Freikorps, costituita principalmente da ex soldati senza lavoro comandati da ufficiali non autorizzati che si erano attribuiti da soli il grado di capitano o di ufficiale superiore, di quando in quando sfilava in parata lungo le strade. Non erano di stanza a Bek, dove non permettevo tali cose, ma in una città vicina. Immagino che in città avessero troppi rivali con cui competere e si sentissero più importanti mostrando la propria forza a una cittadina di vecchi e bambini, che aveva perso la maggior parte degli uomini. Questi eserciti privati controllavano alcune aree della Germania ed erano costantemente in conflitto con i loro concorrenti, con gruppi comunisti e politici che cercavano di frenarne il potere, ammonendo la gente che la guerra civile sarebbe stata inevitabile se non si fosse riusciti a tenere i Freikorps sotto controllo. Ovviamente, questo fu ciò che i nazisti si offrirono di fare: controllare le stesse forze che stavano utilizzando per piantare il seme di ulteriori incertezze riguardo al futuro della nostra povera, umiliata Germania. Condivido l'opinione che se gli alleati fossero stati più generosi e non avessero tentato di succhiarci anche il midollo dalle ossa, Hitler e i Freikorps non avrebbero avuto nulla di cui lamentarsi. Ma la situazione era manifestamente ingiusta e in un clima simile anche il più moderato dei cittadini può trovarsi a passare sopra ad azioni che prima della guerra avrebbe condannato senza pensarci due volte. Quindi, nel 1933, temendo un conflitto civile in stile russo peggiore della tirannia, molti di noi votarono per un 'uomo forte', nella speranza che avrebbe saputo darci stabilità. Purtroppo, come la maggior parte degli 'uomini forti', Hitler era null'altro che una mera costruzione politica, non più uomo di ferro, come i suoi seguaci affermavano fosse, di qualunque altro abietto e blaterante psicopatico del suo genere. Nelle strade della Germania ce n'erano a migliaia di Hitler, migliaia di irresponsabili nevrotici spodestati, che si contorcevano divorati dall'invidia e da una vana ostilità. A differenza di questi, però, lui si impegnò a fondo per lavorare sulla naturale predisposizione all'oratoria politica di bassa lega, trasse forza dai peggiori elementi del popolo e parlò in termini grossolanamente emotivi del tradimento subito non, come alcuni avevano intuito, dall'avidità dei nostri capi e dalla rapacità di chi ci aveva sconfitti, ma da una forza misteriosa e quasi soprannaturale che chiamava 'Giudaismo internazionale'.
In tempi normali simili evidenti sciocchezze avrebbero attirato soltanto i membri della società più marginali e meno intelligenti, ma dato che a ogni crisi finanziaria ne seguiva un'altra, Hitler e i suoi seguaci riuscirono a convincere un numero sempre maggiore di tedeschi comuni e di imprenditori che il fascismo era l'unica via di salvezza. Guardate Mussolini in Italia, dicevano. Ha salvato la nazione, l'ha rigenerata, l'ha resa nuovamente temibile. Ha mascolinizzato l'Italia. L'ha fatta diventare virile come potrebbe di nuovo essere anche la Germania. È così che pensano persone di quel tipo. Moschetto e stivali, bandiere e forconi. Bianco e nero, giusto e sbagliato... Come disse Weldrake in uno dei rabbiosi versi burleschi che scrisse poco prima di morire, nel 1927. Obiettivi semplici. Risposte semplici. Verità semplici. Intelletto, apprendimento e convenzioni morali erano ridicolizzati e presi di mira come fossero nemici mortali. Gli uomini affermavano la propria vulnerabile virilità insistendo, come spesso accade, che il compito delle donne è occuparsi della casa e fare bambini. Malgrado l'apparente venerazione per queste dèe terrene, le donne venivano trattate con sdolcinato disprezzo e tenute distanti dal vero potere. Siamo lenti a capire le cose. Nessuno degli esperimenti inglesi, francesi o americani relativi al conseguimento dell'ordine sociale con le maniere forti aveva dato buoni frutti, e i tentativi comunisti e fascisti, dalla retorica ugualmente puritana, dimostravano la medesima realtà dei fatti: i comuni esseri umani sono molto più complessi della semplice verità e se la semplice verità è ottima per argomentazioni e chiarimenti, non è però uno strumento di governo, che per avere successo deve rappresentare la complessità. Furono in molti a non stupirsi affatto che nel 1940 in Germania la delinquenza giovanile avesse raggiunto dimensioni epidemiche, benché i nazisti, è ovvio, non potessero ammettere l'esistenza di un problema che si presumeva estraneo al mondo che avevano creato. Entro il 1933, nonostante molti di noi sapessero chi erano in realtà i nazisti, avevano preso il controllo del parlamento. La costituzione non era altro che un pezzo di carta, dato alle fiamme insieme ai grandi testi illuminati di Mann, Heine, Brecht, Zweig e Remarque, che i nazisti ammonticchiarono in pire ardenti agli angoli delle strade e nelle piazze. Un atto che denominarono «pulizia culturale» e che era il trionfo dell'ignoranza e del bigottismo. Stivali, manganelli e frustini divennero gli strumenti dell'azione politica. Non fummo in grado di opporci perché non riuscivamo a credere a ciò che
era accaduto. Avevamo fatto affidamento sulle nostre istituzioni democratiche. Ci trovavamo in uno stato di incredulità e negazione nazionale. La realtà delle cose, però, ci fu ben presto svelata. Per chiunque avesse a cuore le antiche virtù umane dello stile di vita tedesco, la situazione era intollerabile, ma le nostre proteste vennero represse con i sistemi più brutalmente efficienti. Ben presto furono davvero in pochi a continuare a resistere. Man mano che la stretta del nazismo si rafforzava, quelli che dicevano la loro a gran voce o quantomeno brontolavano, diminuivano a vista d'occhio. Le camicie brune erano ovunque. Arrestavano le persone su basi del tutto arbitrarie «tanto per dar loro un assaggio di quello che succederebbe se non stessero in riga». Molti giornalisti di mia conoscenza, che non avevano affiliazione politica, vennero incarcerati per mesi, rilasciati, quindi arrestati di nuovo. Non solo non avrebbero detto nulla una volta rilasciati, erano addirittura terrorizzati all'idea di aprire bocca. La politica nazista intendeva intimidire le classi che protestavano. E ci riusciva piuttosto bene, con la compiacenza della Chiesa e dell'esercito, ma non poté spegnere completamente il fuoco dell'opposizione. Io, per esempio, deciso a entrare a far parte della Società della Rosa Bianca, giurai di distruggere Hitler e di agire contro i suoi interessi in tutti i modi possibili. Sbandierai le mie simpatie come meglio potevo, e alla fine ricevetti la telefonata di una giovane donna. Si presentò come 'Gertie' e mi disse che mi avrebbe contattato non appena fosse stato sicuro farlo. Immaginai che probabilmente stessero controllando le mie credenziali, per accertare che non fossi una spia o un potenziale traditore. Per due volte, nelle strade di Bek, venni additato come un essere immondo, una sorta di lebbroso. Fui fortunato a rientrare a casa senza conseguenze. Dopo quei fatti, cercai di uscire il meno possibile, di solito dopo il tramonto e spesso in compagnia della mia spada. Per quanto stupido possa sembrare, dato che le camicie brune portavano armi da fuoco, la spada mi dava una sensazione di fermezza, una specie di coraggio, una strana sicurezza. Poco dopo il secondo incidente, quando gli stessi ragazzi in divisa nazionalsocialista che avevano aggredito Reiter, il mio anziano domestico, in quanto lacchè di un aristocratico, mi sputarono addosso, riapparvero quei sogni bizzarri e terrificanti. Con persino maggiore intensità. Addirittura quasi wagneriani, pieni di armature e pesanti cavalli da battaglia, stendardi insanguinati, lame assassine e trombe squillanti. Tutti gli aspetti erronea-
mente attraenti e romantici del conflitto, il genere di fantasticherie che dava forza a quello stesso movimento che avevo giurato di combattere. Lentamente i sogni prendevano forma e in essi ero di nuovo tormentato da voci in lingue che non comprendevo, che sciorinavano una litania di nomi improbabili e impronunciabili. Mi pareva di ascoltare la lunga lista di quanti erano già morti di morte violenta fin dall'inizio dei tempi... e di quanti, invece, dovevano ancora morire. Il ripresentarsi degli incubi mi provocò grande angoscia e allarmò i miei vecchi servitori che parlarono di chiamare il dottore o di portarmi a Berlino da qualche specialista. Ma prima che decidessi quale azione intraprendere, riapparve la lepre bianca. Correva lesta sopra i cadaveri, tra i piedi di uomini coperti di metallo, sotto i fucili e le lance di migliaia di nazioni e religioni in guerra. Non capivo se avrebbe voluto che la seguissi. Questa volta non si voltò. Desideravo ardentemente che lo facesse, che mi mostrasse ancora i suoi occhi, per stabilire se si trattasse davvero di una versione di me stesso, un me stesso finalmente liberato da quella lotta eterna. Era come se la sua presenza indicasse la fine degli orrori. Avevo bisogno di capire cosa simboleggiasse. Tentai di gridarle qualcosa, ma ero muto. Poi divenni sordo, quindi cieco. E di colpo il sogno era sparito. Mi svegliavo la mattina con quella strana sensazione di ricordo che si affievolisce rapidamente, di realtà che svanisce, che accompagna la scomparsa dei sogni più vividi e lascia solo la consapevolezza di averla provata davvero. Una sensazione, nel mio caso, di confusione e profondo, disperato terrore. Tutto ciò che riuscivo a ricordare era la visione di una lepre bianca che sfrecciava su un campo ricoperto di carni martoriate. Non certo una percezione particolarmente piacevole, ma che offriva comunque sollievo rispetto ai conflitti notturni. Non mi erano stati rubati soltanto gli incubi, ma anche i miei soliti sogni a occhi aperti, i sogni di una tranquilla vita di studio e di azioni benevole. Una simile esistenza monacale era quanto di meglio una persona con il mio aspetto potesse sperare in quei giorni che rappresentavano semplicemente un inquieto intervallo nel conflitto che cominciammo a chiamare Grande Guerra e che alle guerre avrebbe dovuto porre fine. Ora ripensiamo a quel secolo come a un periodo di scontri continui, in cui a una terribile contesa ne seguiva subito un'altra; alla metà di esse era attribuita la giustificazione di guerra santa, o guerra morale o guerra in aiuto di minoranze in pericolo, ma nella stragrande maggioranza in realtà si trattava di lotte ispi-
rate dai sentimenti più bassi, dai fini a più breve termine, dall'avidità più crudele e da quella terribile e ipocrita certezza di essere nel giusto che senza dubbio avevano i Crociati cristiani quando nel nome di Dio e della giustizia umana portarono sangue e terrore a Gerusalemme. Quanti quieti drammi come il mio vennero rubati da quel secolo. Quanti nobili uomini e donne, anime pure, vennero premiati solo con l'agonia e una morte orrenda. Ben presto, grazie alla compiacenza della Chiesa, avemmo l'onore di vedere nelle strade di Bek immagini di Hitler, Cancelliere della Germania, su un cavallo bianco e con indosso una lucente armatura d'argento, portava lo stendardo di Cristo e del Sacro Graal, richiamandosi a tutti i leggendari salvatori del nostro popolo. Questi filistei fanatici disprezzavano la cristianità e avevano fatto della svastica il simbolo della Germania moderna, ma non disdegnavano certo di corrompere il nostro idealismo più nobile e il più glorioso immaginario storico per favorire le loro cattive azioni. È un tratto caratteristico, a mio parere, dei mascalzoni della politica, di quelli che parlano soprattutto dei diritti e delle speranze della gente e utilizzano il linguaggio più sdolcinato per biasimare tutti tranne se stessi per i problemi del mondo. Sempre una «minaccia straniera», timore degli «estranei». «Infiltrati sconosciuti, forestieri illegali...» Le sento ancora queste voci nella Germania di oggi, in Francia, in America, e in tutte le nazioni che un tempo avevamo ritenuto troppo civili per permettere tali orrori all'interno delle proprie frontiere. Dopo tanti anni, probabilmente ho ancora paura che quel terribile sogno in cui infine sprofondai si ripresenti. Un sogno molto più reale di qualunque realtà avessi conosciuto, un sogno senza fine. Un sogno di eternità. La sperimentazione della complessità del nostro multiverso in tutte le sue vaste e illimitate varianti, con tutte le potenzialità per il male e le opportunità di bene. Forse l'unico sogno che non mi sia stato rubato. PARENTI INDESIDERATI Ero ancora in attesa di una seconda chiamata da parte di 'Gertie' quando, nei primi mesi del 1934, si presentò a Bek un ospite inatteso e preoccupante. La mia famiglia era imparentata per matrimonio e altri legami di con-
sanguineità ai tradizionali governanti di Mirenburg, la capitale del Waldenstein, di cui si sarebbero impossessati i nazisti e, in seguito, i sovietici. Benché prevalentemente di stirpe slava, per centinaia di anni il principato era stato culturalmente legato alla Germania per lingua e interessi comuni. Era abitudine della mia famiglia trascorrere a Mirenburg almeno le feste natalizie. Alcuni, come il mio alquanto ripugnante zio Rudy, in disgrazia in Germania, decisero di trasferirsi là quasi stabilmente. I governanti di Mirenburg non erano riusciti a reggere il passo del secolo. Anch'essi avevano conosciuto la guerra civile, in gran parte fomentata da stranieri che avevano sempre cercato di controllare il Waldenstein per il proprio interesse. Il potere era stato restituito alla famiglia BadehoffKrasny, che però aveva più il ruolo di protetta dell'Austria che di regnante indipendente, e che per matrimonio era entrata a far parte dei von Minct, una delle grandi dinastie mirenburghesi. Ovviamente, anche l'Ungheria aveva delle mire sul minuscolo paese. L'attuale principe di Waldenstein era mio cugino Gaynor, la cui madre non solo era stata una delle più belle donne di Budapest ma era tutt'oggi considerata una mente politica di tutto rispetto. Conoscevo e ammiravo la zia. Per molti anni era stata una donna davvero notevole, che aveva retto le sorti della sua terra di adozione con l'abilità di un Bismarck. Ora, era sofferente. L'ascesa del fascismo l'aveva scossa e svuotata. Ai suoi occhi i successi di Mussolini erano un abominio, e Hitler era incredibilmente vuoto e immorale nella sua retorica politica, nelle sue ambizioni e pretese. Ma, come mi disse l'ultima volta che la vidi, l'anima della Germania era già stata rubata da tempo. Hitler si stava rivolgendo solo alle spoglie della democrazia tedesca. Non aveva ucciso nulla. Era cresciuto traendo linfa da una tomba, continuò. Cresciuto radicandosi in quel cadavere come un'epidemia che aveva rapidamente infettato l'intera nazione. «E dov'è l'anima della Germania?» chiesi io. «Chi l'ha rubata?» «È sufficientemente al sicuro, direi.» Mi aveva fatto l'occhiolino, attribuendomi più arguzia di quanta ne avessi. E questo fu tutto ciò che disse in proposito. Il principe Gaynor Paul St Odhran Badehoff-Krasny von Minct non era dotato della pacata intelligenza di sua madre, ma da lei aveva preso tutta la meravigliosa bellezza ungherese e un fascino che spesso disarmava i suoi oppositori politici. Un tempo aveva condiviso le idee politiche materne, ma in quei giorni pareva seguire le orme di numerosi idealisti frustrati e vedeva il fascismo come la nuova forza che avrebbe rivitalizzato un'Euro-
pa sfiancata, oltre ad attutire il dolore di quanti ancora ne pativano le conseguenze. Gaynor non era razzista. Per tradizione il Waldenstein era filosemita (anche se non si rivelava altrettanto tollerante verso i propri zingari) e il fascismo che aveva instaurato, almeno per come Gaynor me lo aveva presentato, si rifaceva molto più a Mussolini che a Hitler. Continuavo a trovare le sue idee stupide e sgradevoli, un miscuglio di bigottismo da kulak, di certo non in linea con alcuna tradizione politica o filosofica seria, nonostante la seduzione nei confronti di pensatori come Heidegger e l'utilizzo di alcuni slogan nietzschiani peraltro fraintesi. Tuttavia rimasi sboccato vedendolo arrivare a bordo di una Mercedes nera ufficiale ornata di svastiche, con indosso l'uniforme di capitano del gruppo scelto delle SS, ora superiori alle SA di Röhm, le prime frange di freikorps combattenti dure e sempre pronte, che erano diventate di intralcio per Hitler. C'era ancora parecchia neve. Solo a primavera Ernst Röhm e tatti gli altri nazisti rivali che potevano essere d'ostacolo a Hitler sarebbero stati assassinati nel corso della cosiddetta Notte dei Lunghi Coltelli. Il peggior nemico di Röhm, che al momento stava facendo una rapida carriera all'interno del partito, era lo scialbo piccolo moralista ed ex allevatore di polli Heinrich Himmler, capo delle SS, che con i suoi leziosi pince-nez sarebbe presto diventato secondo solo a Hitler. Reiter, il mio maggiordomo, aprì la porta con aria sprezzante e prese il biglietto da visita di mio cugino. Con grande sarcasmo annunciò l'onore della visita del capitano Paul von Minct. Prima che un deciso Reiter li accompagnasse negli alloggi della servitù, sia l'autista sia il tenente Klosterheim, un prussiano dal volto di teschio i cui occhi lanciavano lampi dalle profonde caverne delle orbite, si rivolsero a Gaynor chiamandolo capitano von Minct. Nell'uniforme nera e argento con l'emblema della svastica in rosso e nero, Gaynor aveva un aspetto splendido e sinistro. Era affascinante e divertente come al solito, del tutto a proprio agio anche mentre a bassa voce faceva commenti critici proprio riguardo all'uniforme e seguiva i domestici per le scale. Lo invitai a raggiungermi in terrazza prima di cena, non appena si fosse rinfrescato nelle sue stanze. L'autista e il segretario, Klosterheim, avrebbero cenato nella sala da pranzo della servitù. Klosterheim pareva essersene un po' risentito, ma poi accettò la cosa come chi sia stato insultato troppe volte per preoccuparsene. Ero felice che non mangiasse con noi. Il colorito grigio e malaticcio e la testa quasi priva di tessuto mu-
scolare lo facevano sembrare un morto. La serata era relativamente tiepida e al calare del sole la luna stava già salendo, a trasformare il panorama circostante in un bianco lucente chiazzato di ombre rossastre. Con ogni probabilità sarebbe stata l'ultima neve e quasi mi spiaceva che scomparisse. Mentre accendevo una sigaretta, percepii un movimento nella boscaglia alla mia sinistra e all'improvviso dai cespugli vidi balzare una grossa lepre bianca. Corse fino a una macchia rossa di sole poi esitò, voltandosi a sinistra e a destra, quindi saltellò in avanti di qualche metro. Era identica all'animale che avevo visto in sogno. Stavo quasi per chiamarla ad alta voce ma l'istinto mi spinse a tacere. I nazisti mi avrebbero preso per matto o si sarebbero insospettiti. Eppure avrei voluto raggiungere la lepre e assicurarle che da me non aveva nulla da temere. Mi sentivo protettivo come un padre nei confronti di un figlio. Poi la lepre bianca prese una decisione e si rimise in movimento. La guardai correre, una sottile polvere di neve simile a nebbia intorno alle zampe mentre prendeva rapidamente velocità e si dirigeva verso il buio tra le querce nella zona più lontana. Udii un rumore provenire dalla casa e mi voltai. Quando tomai a cercarla con lo sguardo, la lepre era sparita. Gaynor scese con un impeccabile abito da sera e prese una sigaretta dal portasigarette che gli porgevo. Concordammo sul fatto che il sole che tramonta sulle vecchie querce e sui cipressi, i tetti soffici di neve e i camini pendenti di Bek facevano bene al cuore. Parlammo poco mentre, da veri romantici, assaporavamo un panorama che Goethe avrebbe trasformato in un poema. Gli raccontai di aver visto una lepre delle nevi attraversare il prato correndo, e il suo commento fu molto strano, perché si strinse nelle spalle e disse: «Oh, non ci darà nessun fastidio.» Quando giunse il crepuscolo e l'aria si fece più fresca, continuammo a restare seduti all'aperto sotto la luna, scambiandoci domande e risposte superficiali riguardo a parenti semi sconosciuti e amici comuni. Fece un nome. Dissi che con mio grande stupore era entrato a far parte del Partito nazista. Perché mai una persona di quel genere avrebbe fatto una cosa simile? E lasciai la questione in sospeso. Lui scoppiò a ridere. «No, no, cugino. Non temere! Non mi sono arruolato volontario. Sono un nazista solo di nome, capitano onorario delle SS. Li fa sentire rispettabili. E al giorno d'oggi l'uniforme è molto utile per viaggiare in Germania. Mi hanno offerto il grado dopo una visita che ho fatto a Berlino qualche
settimana fa. Ho accettato. Mi hanno assicurato che non mi chiameranno alle armi in caso di guerra! Ho avuto un colloquio, una lettera. Sai quanto ci tengono a coltivare i rapporti con persone del nostro ceto. Mussolini ha persino dichiarato fascista il re! Contribuisce a convincere i vecchi parrucconi come te che i nazisti non sono più un branco di macellai ignoranti, senza arte né parte.» Gli confessai che rimanevo scettico. Tutto ciò che riuscivo a vedere erano gli stessi criminali che dopo avere depredato il potere e le sostanze di uno stato erano pronti a pagare qualsiasi cifra per coltivare i rapporti con quelle persone che, se associate al loro partito, gli avrebbero dato autorevolezza in un ambito più vasto. «Proprio così,» replicò «ma possiamo usare questi delinquenti per i nostri fini, non ti pare? Per migliorare il mondo. In cuor loro sanno di non avere una vera posizione morale né programmi politici. Sanno come prendere e mantenere il potere, ma non molto altro. Hanno bisogno di persone come me e te, cugino. E più gente come noi si unisce al loro movimento, più saranno loro a diventare come noi.» Gli dissi che secondo la mia esperienza era la maggior parte della gente che stava diventando simile ai nazisti. Lui ribatté che era perché non c'erano ancora abbastanza di 'noi' a gestire le cose. Commentai che quel tipo di ragionamento era pericoloso: non avevo mai sentito parlare di persone che avessero corrotto il potere, ma di individui corrotti da esso ne avevo visti molti. Trovò la mia battuta divertente. Sentenziò che tutto dipendeva dal valore che si dà al termine potere. E a come si usa il suddetto potere una volta che lo si è conquistato. Per attaccare e calunniare onesti cittadini a causa della loro razza o religione, replicai. È a questo che serve il potere, no? Ma certo che no, rispose. La questione ebrea era una sciocchezza. Lo sapevamo tutti. Da sempre i poveri vecchi ebrei fungevano da capro espiatorio, e sarebbero sicuramente sopravvissuti a quel breve periodo di teatrale enfasi politica. Non è mai morto nessuno per aver fatto un po' di ginnastica all'aperto in un ambiente pulito e ordinato. Non avevo visto il filmato relativo ai campi? Avevano ogni comodità. Quando andammo a tavola ebbe il buon gusto di cambiare argomento. Cenammo discutendo della riorganizzazione del sistema legislativo da parte dei nazisti e di cosa ciò significasse per avvocati e giuristi cresciuti in una tradizione assai diversa. All'epoca non avevamo ancora visto come il fascismo avesse causato la rovina di tutti coloro che lo professavano e continuavamo a parlare degli aspetti 'buoni' e 'cattivi' del sistema. Ci sarebbero
voluti un anno o due prima che la gente comune riuscisse a comprendere quanto reale e concreto fosse il male che si era insediato nel nostro paese. Le opinioni di Gaynor erano diffuse e poco originali. Crescendo avevamo fatto l'abitudine alla retorica antisemita e capito che non era altro che un mezzo per raccogliere qualche voto dall'estrema destra. Molti dei nostri amici ebrei si rifiutavano di prenderla sul serio, quindi perché avremmo dovuto farlo noi? Nessuno si era reso conto che i nazisti avevano trasformato quella vuota retorica nella propria realtà. Benché i nazisti avessero costruito i campi di concentramento fin dal primo momento in cui erano giunti al potere, e usato all'inizio del loro dominio esattamente gli stessi metodi che avrebbero utilizzato alla fine, noi non avevamo mai sperimentato crudeltà e orrori tanto spaventosi, e nel desiderio di evitare la follia delle trincee, con i nostri appetiti e timori irrazionali creammo una pazzia molto peggiore. Persino quando ci giunsero voci credibili della brutalità nazista pensammo si trattasse di casi isolati. Persino gli ebrei non compresero appieno cosa stava succedendo, pur essendo proprio loro i principali oggetti di tale ferocia. È così che si dà per scontato il fondamentale contratto sociale della nostra democrazia, le cui profonde libertà storiche furono conquistate per noi dai nostri antenati, nobile passo dopo nobile passo, nel corso dei secoli, ossatura e nerbo del nostro patto comune. Quando tali strutture vengono dimenticate o distrutte, non siamo in grado di pensare in altro modo. Libertà democratiche e diritti erano diventati così familiari ai cittadini, che questi continuavano a domandare «ma cosa ho fatto?» a bruti che avevano capovolto le regole della legalità rimpiazzandole con la violenza e un odio furibondo, con una sessualità ripugnante e immorale. Non si trattava di poliziotti ma di torturatori, ladri, violentatori e assassini che erano stati investiti del potere dalla nostra mancanza di coraggio morale e di amor proprio. E ora ci tenevano tutti sotto controllo! Non c'è nulla di cui aver paura, direbbe il grande Franklin Delano Roosevelt, tranne la paura stessa. In questo caso, la paura aveva vinto. Pur non essendo un tipo superstizioso, avevo la sensazione che sul nostro mondo fosse davvero calato il male. Ironia della sorte, il secolo era iniziato con la generale convinzione che guerra e ingiustizia fossero sul punto di essere sradicate. Che fosse stato il nostro immotivato autocompiacimento a favorire l'attacco? Era come se qualche forza demoniaca fosse stata attirata dal fetore della carneficina della Guerra boera, del Congo di Leopoldo E, del genocidio armeno, della Grande Guerra, dei milioni di
cadaveri che riempivano i fossi, i canali e le trincee del mondo da Parigi a Pechino. Banchettando ingordamente, quella furia divenne abbastanza forte da iniziare a predare anche i vivi. Dopo cena si era fatto troppo freddo per fumare in terrazza, perciò con i nostri sigari ci spostammo accanto al camino del vecchio studio, gustando un brandy con soda e la piacevole intimità dei raffinati comfort vecchio stile. Mi resi conto che mio cugino non era venuto in gita di piacere. A portarlo a Bek era stato qualche genere di affare, e mi chiedevo quando avrebbe sollevato l'argomento. Aveva trascorso la settimana precedente a Berlino, e ne aveva riportato un gran numero di pettegolezzi riguardo alla nuova gerarchia hitleriana. Göring era un grande snob e amava coltivare rapporti con l'aristocrazia, perciò il principe Gaynor - che i tedeschi preferivano chiamare con il nome di Paul von Minct - era ospite personale del Reichsmarshal che, a suo dire, era molto meglio che essere ospite personale di Hitler. Il Führer, mi assicurò, era l'ometto più noioso sulla faccia della terra. L'unica cosa che gli piaceva fare era ripetere con voce monotona e ronzante le proprie teorie che non si reggevano in piedi, mentre un lacchè continuava incessantemente a far suonare sempre gli stessi dischi di Franz Lehar. Una sera con Hitler, mi confidò, era paragonabile alla più lunga serata che si possa immaginare in compagnia di una vecchia zia particolarmente pedante. Si stentava a credere ai suoi amici di gioventù che affermavano che fosse solito farli sbellicare dalle risa con scherzi e battute. Goebbels era troppo introverso per essere una buona compagnia e si limitava a qualche commento malizioso sugli altri nazisti, ma Göring era uno spasso e provava per l'arte una passione sincera che i suoi colleghi fingevano soltanto. Si era assunto il compito di salvare i quadri che la censura nazista minacciava di distruggere. In realtà, la sua abitazione berlinese era diventata un porto sicuro, un ricettacolo per oggetti d'arte di ogni genere, inclusi gli antichi strumenti e le armi della tradizione germanica. Anche se il tono ironico e leggermente sfottente non lo abbandonava mai, non ero convinto che Gaynor stesse collaborando con i nazisti solo per consentire al Waldenstein di rimanere libero dalla loro influenza diretta. Affermava di accettare la realpolitik della situazione, nella speranza che i nuovi padroni della Germania permettessero al suo piccolo paese di restare almeno apparentemente indipendente, ma intuivo che c'era qualcosa di più. Percepivo l'attrazione che provava nei confronti di tutta quella perversa ondata di corrotto romanticismo. Era affascinato dall'enorme potere che
vedeva esercitare da Hitler e soci. Avevo la sensazione che non intendesse conquistarne solo una parte, ma che lo volesse tutto per sé. Che pensasse di insediarsi come nuovo principe della Grande Germania? Scherzò sul fatto che anche se nelle sue vene scorreva tanto sangue ebreo e slavo quanto ariano, i nazisti sembravano chiudere un occhio su qualche antenato scomodo se la persona in questione poteva essere loro sufficientemente utile. Ed era chiaro che al momento il 'capitano von Minct' risultava abbastanza interessante per i nazisti da vedersi fornire un'auto ufficiale, un autista e un segretario. Chiaro come il fatto che, a giudicare dai suoi modi, fosse qui per qualche affare legato alla cosa. Non potevo fare altro che affidarmi ai miei occhi e usare il cervello. Che fosse stato inviato per arruolare anche me? Oppure, pensai, era stato mandato a uccidermi. Poi la logica mi disse che avrebbe avuto sistemi molto migliori per farlo dell'invitarsi a cena. Se c'era una cosa per cui i nazisti mostravano la più totale indifferenza era l'assassinio dei loro oppositori. Non avevano certo bisogno di dissimulare azioni del genere. Di punto in bianco propose che il suo segretario, il tenente Klosterheim, ci raggiungesse. «Si offende un po' a essere trattato come un estraneo, e da quanto ho capito è in ottimi rapporti con la famiglia della moglie di Goebbels. Un'antica stirpe di montagna. Una di quelle che hanno rifiutato tutti gli onori e mantenuto il proprio status come punto d'orgoglio. La famiglia ha avuto una sorta di fortezza nei monti Hartz per un migliaio di anni. Si definiscono marinai di montagna, ma secondo me si sono sempre mantenuti principalmente grazie al banditismo. Ha anche altri parenti nella Chiesa.» A quel punto non mi importava più. Avevo cominciato a trovare irritante la compagnia di Gaynor e mi costava sempre maggior fatica ricordare che era mio ospite. Klosterheim avrebbe potuto ravvivare l'atmosfera. Quella fantasticheria si dissolse nel momento in cui vidi la cadaverica e monacale figura nell'aderente uniforme da SS avventurarsi sulla terrazza, il berretto sotto il braccio e il fiato fumante di un biancore tale da sembrare più gelido dell'aria circostante. Lo raggiunsi per scusarmi della mia maleducazione e lo invitai a entrare a bere qualcosa. Mi agitò sotto il naso un'edizione tascabile di Mein Kampf, dicendo di avere materiale più che sufficiente per tenersi occupato nella propria stanza. Aveva un piglio da fanatico, e per molti aspetti mi ricordò il suo nevrotico Führer. Nei suoi confron-
ti Gaynor aveva un atteggiamento quasi deferente. Infine Klosterheim accettò un bicchierino di Benedectine. Mentre gli porgevo il liquore, si rivolse a Gaynor che mi stava alle spalle. «Gliel'ha già chiesto, capitano von Minct?» Gaynor scoppiò in una risata. Un po' innaturale. Mi voltai per chiedergli spiegazioni, ma lui alzò la mano. «Una cosa da poco, cugino, di cui possiamo parlare in qualsiasi momento. Il tenente Klosterheim è molto diretto ed efficiente, ma a volte gli fanno difetto i modi più garbati.» «Non siamo particolarmente raffinati a Klosterheim» ribatté l'ufficiale con aria severa. «Non abbiamo il tempo di coltivare le buone maniere, perché la vita è dura e costantemente in pericolo. Difendiamo le vostre frontiere sin dall'inizio dei tempi e tutto ciò che abbiamo sono le nostre antiche tradizioni. Le nostre scoscese fortezze. Il nostro orgoglio e il nostro isolamento.» Suggerii che il turismo moderno avrebbe quindi potuto essere gradito alla sua famiglia, portando un po' di sollievo. Un minimo di agiatezza, quantomeno. Un pullman di bavaresi a zonzo nella vecchia roccaforte e si poteva stare in panciolle per una settimana. Avrei fatto lo stesso anch'io, solo che tutto ciò che avevo era una gloriosa casa colonica. Non so cosa mi spinse a tale frivolezza, forse era una reazione alla sua insistita solennità. Dalle cavità dei suoi occhi brillò qualcosa di sgradevole che subito si spense. «Forse ha ragione» disse. «Sì, ci semplificherebbe la vita, vero?» Terminò il Benedictine e tentò goffamente di essere più cortese. «Ma direi che il capitano von Minct è venuto qui per liberarla da uno dei pesi che la affliggono, signor conte.» «Non ne ho alcuno di cui debba liberarmi» replicai. «La responsabilità. I problemi di gestione.» Ora Gaynor si stava esprimendo in modo eccessivamente vivace. Klosterheim non faceva fatica a sembrare minaccioso, ma Gaynor desiderava la mia approvazione, oltre a qualunque altra cosa l'avesse spinto a venire. «Sai che non do molta importanza a ciò che resta dei cimeli del nostro casato,» dissi «tranne quando si tratta di aspetti personali della mia famiglia. C'è qualcosa che desideri avere?» «Ti ricordi la vecchia spada con cui eri solito giocare prima di andare in guerra? Annerita dal tempo? Alla fine deve anche essersi arrugginita. Proprio come lo stesso von Asch, il tuo tutore. Che ne hai fatto poi di quella vecchia lama? L'hai gettata via? L'hai venduta? O per te ha un valore più
sentimentale?» «Probabilmente, cugino, stai parlando della spada Brandocorvo.» «Proprio di quella. Brandocorvo. Mi ero dimenticato che le avevi dato un soprannome.» «Che io sappia, non ha mai avuto altro nome. È antica quanto la nostra famiglia. Ovviamente è legata a tutta una serie di leggendarie sciocchezze, di cui però non c'è alcuna prova. Le solite vecchie storie che si inventano per rendere più interessanti generazioni di agricoltori. Fantasmi e tesori nascosti. Sono popolari quanto improbabili.» Cominciavo a essere un po' preoccupato. Era possibile che fosse giunto fin qui per depredarci dei nostri tesori più antichi, delle nostre responsabilità, del nostro retaggio? «Ma per quanto ne so praticamente non ha valore economico. Una volta zio Rudy tentò di venderla. La portò fino a Mirenburg per farla valutare, ma rimase molto deluso.» «Vale molto di più in coppia. Unita alla sua gemella» si intromise Klosterheim, quasi con umorismo. La bocca gli si contorse in una strana smorfia, forse un sorriso. «Il suo contrappeso.» Avevo cominciato a sospettare che Klosterheim non fosse, come dicevano a Vienna, un 'full pfennig'. I suoi commenti parevano legarsi alla conversazione solo in modo molto marginale, come se la sua mente stesse operando su un piano del tutto diverso e assai più freddo. Era più semplice ignorarlo che chiedergli spiegazioni. Una spada, come diamine poteva essere un «contrappeso»? Con ogni probabilità era uno di quei nazisti che tendevano al misticismo. Si tratta di uno strano fenomeno che ho riscontrato più di una volta: la fascinazione che esercitano l'esoterismo e il soprannaturale su persone con una forte preferenza per le teorie politiche dell'estrema destra. Non ne ho mai compreso la ragione, ma molti nazisti, inclusi Hitler e Hess, si dedicavano a quel genere di cose. Razionali, indubbiamente, quanto il loro razzismo. Oscure astrazioni che, se applicate alla vita reale, producono le più abusate cattiverie. «Non devi minimizzare le imprese della tua famiglia.» Gaynor ricordò le nostre antiche vittorie. «Avete dato alla Germania alcuni famosi uomini d'armi.» «E furfanti. E radicali.» «E qualcuno che era tutte e tre le cose» replicò Gaynor, sempre allegro e a proprio agio come un bandito sul patibolo. Tutta apparenza. «Come il suo omonimo, per esempio» mormorò Klosterheim. Anche il semplice atto di proferire parola sembrava rendere più gelida l'aria della
notte. «Chi?» La voce di Klosterheim parve riecheggiargli in bocca. «Colui che cercò e trovò... il Graal. Colui che diede alla vostra famiglia il suo antico motto.» A quel punto rabbrividii, benché fossimo al coperto. Nel camino ardeva un bel fuoco e io ebbi un improbabile attacco di nostalgia ricordando le grandi feste di Natale della famiglia, che gustavamo come solo i sassoni sanno gustare i giorni del Yuletide, quando i miei familiari erano ancora vivi e dal castello di Auchy in Scozia, da Mirenburg, dalla Francia e dall'America, venivano a farci visita molti amici per godere di quell'incontestata visione fantastica di benessere e buoni sentimenti. La guerra aveva distrutto tutto. E ora me ne stavo in piedi accanto al legno di quercia annerito e all'ardesia a fissare il fumo che saliva da un fuoco che languiva tristemente, facendo del mio meglio per non dimenticare le buone maniere mentre intrattenevo i due uomini in nero e argento che erano venuti, ormai ne ero certo, per portarsi via la mia spada. «Compi l'opera del diavolo.» Klosterheim lesse il blasone che decorava il camino. Io lo trovavo molto volgare e avrei voluto farlo togliere, se la cosa non avesse significato abbattere l'intera parete. Un esempio di assurdità gotica, con quei motivi quasi alchemici e l'oscuro ammonimento che, secondo la mia interpretazione, un tempo aveva avuto un significato molto diverso da quello letterale. «Segue ancora quel motto, signor conte?» «Ci sono più leggende legate a quel motto che alla spada. Purtroppo, come ben sa, non sempre la maledizione dell'albinismo che perseguita la nostra famiglia è stata tollerata, e alcune generazioni l'hanno considerata motivo di vergogna, distruggendo quindi praticamente tutto quanto fosse legato alla storia degli albini come me e, temo, anche qualunque cosa apparisse strana agli occhi di chi credeva che bruciando libri si potessero bruciare verità sgradevoli. Un atteggiamento per cui sembriamo essere portati, in Germania. Quindi resta ben poco di utile a illuminarci riguardo al significato del motto, che peraltro ritengo sia in qualche modo ironico.» «Forse.» Klosterheim sembrava in grado di afferrare solo l'ironia più pesante. «Comunque mi pare di aver capito che abbiate perso il calice. Il Graal.» «Mio caro tenente, non c'è una sola antica famiglia tedesca che non abbia almeno una leggenda legata al Graal e ai propri antenati, oltre a possedere solitamente anche una qualche coppa che si presume rappresenti il Graal. Lo stesso dicasi per l'Inghilterra. Artù aveva più Camelot che Mus-
solini titoli! Sono tutte invenzioni del XIX secolo. Fanno parte del revival gotico. Il movimento romantico. Una nazione che reinventa se stessa. Dovete conoscerne una mezza dozzina di storie di questo genere. Wolfram von Eschenbach sosteneva fosse di granito. Ben pochi di questi racconti possono trovare conferma oltre il 1750. Immagino pure che, avendo asservito Wagner alla causa nazista, il vostro Führer abbia bisogno di simboli del genere, ma le assicuro che anche se mai avessimo avuto un calice antico, ha lasciato queste mura da moltissimo tempo.» «Concordo, queste associazioni sono ridicole.» Gaynor si avvicinò al fuoco. «Ma mio padre ricorda che tuo nonno gli mostrò una coppa dorata che aveva le proprietà del vetro e del metallo assieme. Calda al tatto, mi ha detto, e vibrante.» «Se davvero esiste un tale segreto di famiglia, cugino, a me non è stato rivelato. Il nonno morì poco dopo l'armistizio. Non mi ha mai fatto oggetto delle sue confidenze.» Klosterheim aggrottò le sopracciglia, palesemente in dubbio se credermi o no. Gaynor era apertamente scettico. «Se c'è uno tra tutti i von Bek che dovrebbe esserne al corrente, quello sei tu. Tuo padre è morto proprio a causa dei suoi studi. Hai letto tutto quello che è contenuto nella biblioteca. Von Asch ti ha tramandato il suo sapere. In realtà, cugino, tu stesso sei quasi un pezzo del museo. Indubbiamente una prospettiva migliore del baraccone di un circo.» «Hai proprio ragione» dissi. Lanciai un'occhiata all'orribile vecchio 'orologio del cacciatore' sulla mensola del camino e gli chiesi di scusarmi. Era ora che mi coricassi. Gaynor cominciò a servirsi del proprio fascino per tentare di coprire quello che solo ora comprendeva essere stato un insulto, ma il suo commento al mio riguardo non era certo più offensivo della maggior parte della conversazione sua e di Klosterheim. In lui c'era una certa rozzezza mai notata prima. Evidentemente cominciava ad assumere le caratteristiche del nuovo branco a cui apparteneva, ed era così che intendeva sopravvivere. «Ma ci sono ancora affari di cui parlare» disse Klosterheim. Gaynor si girò verso il fuoco. «Affari? Siete qui per affari?» Finsi di essere sorpreso. Lentamente, senza voltarsi a guardarmi, Gaynor rispose. «Berlino ha preso una decisione. Riguardo a quelle particolari reliquie germaniche.» «Berlino? Intendi Hitler e soci?» «Queste cose li affascinano, cugino.»
«Sono il simbolo del nostro antico potere germanico» intervenne brusco Klosterheim. «Rappresentano ciò che molti aristocratici tedeschi hanno perduto: la linfa vitale di un popolo coraggioso e battagliero.» «E perché vorreste prendervi la mia spada?» «Per custodirla al sicuro, cugino.» Gaynor si fece avanti prima che Klosterheim potesse rispondere. «In modo che non venga sottratta dai bolscevichi, per esempio. O danneggiata in qualche altro modo. È un tesoro di stato, su questo sarai di certo d'accordo. È ovvio che il tuo nome sarà indicato in ogni esposizione al pubblico. E sono sicuro che ci sarà anche un risarcimento economico.» «Del cosiddetto Graal non so proprio nulla, ma che succederebbe se mi rifiutassi di consegnare la spada?» «Ovviamente diventeresti un nemico dello stato.» Gaynor ebbe la decenza di abbassare lo sguardo sui propri stivali ben lucidati. «Di conseguenza un nemico del Partito nazista con tutte le implicazioni del caso.» «Un nemico del Partito nazista?» Parlai con tono meditabondo. «Soltanto uno sciocco si aspetterebbe di sopravvivere dopo essersi opposto a Hitler, vero?» «Verissimo, cugino.» «Bene,» commentai lasciando la stanza «di rado i von Bek si sono comportati da sciocchi. Sarà meglio che ci dorma sopra.» «Sono certo che i sogni ti saranno di ispirazione» disse Gaynor in modo alquanto criptico. Ma Klosterheim fu più diretto. «Nella Germania di oggi ci siamo lasciati il sentimentalismo alle spalle e stiamo creando da soli le nostre tradizioni, signor conte. Quella spada non è più sua che mia. Quella spada è della Germania, un simbolo della nostra antica forza e valore. Del nostro sangue. Lei non può tradire il suo sangue.» Fissai l'istintivo montanaro e lo slavo ariano che avevo di fronte. Fissai la mia mano candida come un osso, le pallide unghie e le vene appena un poco più scure. «Il nostro sangue? Il mio sangue. Chi ha inventato il mito del sangue?» «I miti non sono altro che antiche verità mascherate da leggende» disse Klosterheim. «È questo il segreto del successo di Wagner.» «Non può essere la sua musica. Spade, coppe e anime tormentate. Avete detto che la spada fa parte di una coppia? Non sarà che il proprietario della spada gemella sta cercando di avere l'intera serie?» Gaynor rispose da dietro le spalle di Klosterheim.
«L'ultima volta che si è avuto notizia dell'altra spada, cugino, si trovava a Gerusalemme.» Probabilmente proprio non potei evitare di sorridere, mentre mi dirigevo verso la mia stanza, ma ben presto la sensazione di un brutto presagio si riaffacciò e quando appoggiai la testa sul cuscino mi stavo già chiedendo come avrei potuto salvare la mia spada e me stesso da Hitler. Poi, in uno strano istante ipnagogico tra sonno e veglia, udii una voce che diceva: «Naturalmente accetto il paradosso. Il paradosso è ciò di cui è fatto il multiverso. L'essenza dell'umanità. È il paradosso che ci sostiene.» La voce sembrava la mia, eppure aveva in sé un'autorità, una sicurezza e una forza che io non conoscevo. Inizialmente pensai che ci fosse qualcuno nella stanza, ma poi ricaddi nel sonno e di colpo mi ritrovai con le narici colpite da un forte olezzo. Era pungente, quasi tangibile, ma non proprio sgradevole. Acre, asciutto. Odore di serpenti, forse? O di lucertole? Lucertole enormi, creature che volavano in formazione sotto il controllo di mortali e sputavano una pioggia di veleno ardente sui loro nemici. Un avversario che non era vincolato da alcuna regola che non fosse quella di vincere a ogni costo, con qualunque cosa decidesse di fare o di essere. Arabeschi blu intenso come gigantesche ali di farfalla. Sognavo di volare, ma era un sogno differente da quelli che avevo già sentito raccontare. Sedevo su una grande sella nera che pareva intagliata in un unico pezzo di ebano eppure si adattava perfettamente al mio corpo, e da cui si irradiava una sorta di membrana che si fondeva con l'essere vivente al di sotto. Mi chinai in avanti per appoggiare la mano su una pelle squamosa che risultava molto calda al tatto, presupponendo un metabolismo alquanto insolito, e di fronte a me qualcosa si sollevò, tutta fruscii, sferragliamenti e tintinnio di bardature, disegnando una grande ombra. La testa mostruosa di quello che inizialmente avevo preso per un dinosauro ma poi avevo compreso essere un drago, mi faceva sembrare un nanerottolo. La bocca era adornata da finimenti d'oro con fregi intricati, le cui decorazioni fornite di nappe lunghe quanto il mio corpo minacciarono di colpirmi quando la testa si voltò e un enorme occhio giallo mi fissò con un'intelligenza incredibilmente antica, derivata dall'esperienza di mondi che non avevano mai visto essere umano. Eppure, ero forse folle a leggerci dell'affetto? Verde smeraldo. Il sottile linguaggio dei colori e dei gesti. Zannadifuoco. Era stata la mia voce a pronunciare quel nome?
Il lezzo palpitante mi riempiva i polmoni. C'era una traccia di fumo a inghirlandare le vaste narici dell'animale e qualcosa di simile a dell'acido ribolliva tra i suoi lunghi denti. Il metabolismo di quella bestia era straordinario. Anche in sogno mi rammentai di casi di combustione spontanea e non mi sarei affatto sorpreso se sotto la sella il mio focoso destriero fosse stato in fiamme. C'era un gran movimento, molto sensuale, di ossa possenti, muscoli e tendini, e sfregamento di squame, a cui seguì un rimbombante trambusto quando le ali del drago presero a battere contro la gravità e tutte le leggi del buon senso e quindi, con un'ulteriore spinta che mi fece fremere dalla testa ai piedi, eccoci in volo. Il mondo rimpicciolì. Volare sembrava così naturale. Un'altra spinta e avevamo raggiunto le nuvole. Cavalcare il dorso di un mostro, guidarlo con tutta la scioltezza di un maestro di equitazione viennese, mi pareva stranamente familiare. Un tocco gentile sopra l'orecchio con la bacchetta, un impercettibile movimento delle redini. Mentre con la mano sinistra reggevo il tradizionale pungolo da dragone, con l'altra tenevo stretta Brandocorvo, che pulsava di un'orribile oscurità ed era costantemente coperta di sangue, le rune sulla lama luccicanti di un rosso acceso. E di nuovo udii quella voce. La mia voce. Arioch! Arioch! Anime e sangue per Arioch, il mio signore! Un tale splendore barbarico, una tale meravigliosa ferocia, un tale antico e sofisticato sapere! Ma il tutto offriva un repertorio di immagini, di mondi e di idee assolutamente alieni a quell'illuminato umanista che era Ulric von Bek. C'erano ideali di coraggio e ardimento in battaglia che mi venivano sussurrati all'orecchio come attraenti oscenità, in totale disaccordo con la mia istruzione e le mie tradizioni. Idee crudeli e impensabili date per scontate. C'era un potere più grande di quanto qualunque essere umano moderno possa mai immaginare. Il potere di trasformare la realtà. Il potere della magia in una guerra combattuta senza macchine, eppure ancor più terrificante e generalizzata della grande guerra appena conclusa. Arioch! Arioch! Non avevo modo di sapere chi fosse Arioch, ma nelle ossa percepivo una sensazione di male, sottile e allettante, un male tanto sofisticato da arrivare a credersi virtuoso. Era parte del profumo che avevo sentito su Gaynor e Klosterheim, ma nulla a che vedere con il sano odore animale del mio drago, le cui massicce e sinuose ali multicolori battevano lentamente la rotta che attraversava il cielo. Le sue squame producevano un lieve rumore metallico, mentre le creste acuminate restavano piegate all'indietro lungo la spina dorsale. I miei occhi di uomo moderno si riempivano di
stupore di fronte alla naturale aerodinamicità che permetteva a una creatura simile di esistere. Il calore che emanava era quasi fastidioso, e di quando in quando sulle sue labbra si formava una goccia di veleno che precipitava sulla terra, bruciando pietre e alberi, infiammando per qualche istante persino le acque. Quale strano scherzo del fato ci aveva resi alleati? Perché alleati eravamo. Legati nello stesso modo in cui la gente comune è legata agli animali comuni, quasi telepatico, un profondo ed empatico battito del cuore che rendeva il nostro sangue un solo sangue, il destino delle nostre anime inscindibilmente unito. Quando, all'inizio dei tempi, ci eravamo trovati l'un l'altro per formare questa unione complementare? Ora uomo e animale salivano sempre più in alto nella fredda aria rarefatta, il vapore che si spandeva dalla testa e dal corpo del drago, le cui ali e la coda rallentarono un po' una volta raggiunta l'altezza massima, che ci permetteva di vedere al di sotto un mondo che si estendeva come una mappa. Provavo un indescrivibile misto di orrore e di estasi. Era come immaginavo fossero i sogni dei fumatori di oppio o di hascisc. Senza fine. Senza significato. Un mondo in fiamme. Un mondo bellicoso. Un mondo che avrebbe potuto essere il mio, il XX secolo, ma che sapevo essere altro. Eserciti e bandiere. Eserciti e bandiere. E dietro di loro, mucchi di cadaveri di innocenti. Nel nome dei quali le bandiere sventolavano e gli eserciti venivano mandati a combattere. A lottare fino alla morte per difendere le virtù dei morti. Ora che le nubi erano scomparse del tutto, potevo vedere che il cielo era pieno di draghi. Una grande squadriglia di rettili volanti la cui apertura alare superava i nove metri e faceva apparire minuscoli i rispettivi cavalieri. Una squadriglia che aspettava pigramente, alla deriva nell'atmosfera, che io ne prendessi il comando. In preda a improvviso terrore, mi svegliai. E fissai lo sguardo direttamente nei gelidi occhi del tenente Klosterheim. «Mi scuso, conte von Bek, ma una questione urgente ci chiama a Berlino e dobbiamo andarcene entro un'ora. Pensavo avesse qualcosa da dirci.» Confuso dal sogno e furioso per la sgarbata irruzione di Klosterheim, gli risposi che l'avrei incontrato al piano di sotto entro qualche minuto. Nella sala della prima colazione, dove uno dei miei vecchi domestici, ancora assonnato, stava faticosamente facendo del proprio meglio per accudire i miei ospiti, li trovai che masticavano rumorosamente pane e prosciutto e chiedevano a gran voce uova e caffè. Quando entrai, Gaynor agitò la propria tazza verso di me. «Mio caro,
che gentile da parte tua unirti a noi. Da Berlino ci è stato comunicato che dobbiamo fare immediatamente ritorno. Mi dispiace di essere un ospite così scortese.» Mi chiesi in che modo avessero ricevuto la comunicazione. Forse una radio privata posta nell'auto? «Be',» ribattei «vuol dire che dovremo accontentarci della nostra noiosa tranquillità.» Sapevo cosa stavo facendo. Negli occhi di Klosterheim lessi reazioni contrastanti. Stava quasi sorridendo, mentre faceva scorrere lo sguardo sulla tavola. «Che mi dici della spada, cugino?» Con un gesto impaziente, Gaynor ordinò al domestico di sgusciargli le uova. «Hai deciso di affidarla alle cure dello stato?» «Non credo che per lo stato abbia un grande valore,» replicai «mentre per me il valore sentimentale è enorme.» Gaynor si fece torvo e si alzò dalla sedia. «Caro cugino, io non sto parlando per me stesso, ma se a Berlino dovessero venire a conoscenza delle tue parole, be', non solo non avresti più una spada, ma nemmeno una casa in cui tenerla!» «Sai,» risposi «io sono uno di quei tedeschi all'antica: credo che dovere e onore vengano prima delle comodità personali. Dopo tutto, Hitler è austriaco, e ha quel tipo di natura tollerante e spensierata che di certo non tiene in grande conto cose di questo genere.» Gaynor colse immediatamente la mia ironia, e parve addirittura apprezzarla. Ma Klosterheim si era arrabbiato di nuovo, non avevo dubbi. «Potremmo vedere la spada, cugino?» domandò Gaynor. «Giusto per controllare che sia quella che cercano a Berlino. In fin dei conti potremmo anche scoprire che non è il ferro giusto!» Non ero in vena di far correre rischi a me o alla spada. Per quanto assurdo potesse sembrare, ritenevo sia mio cugino sia il suo luogotenente più che capaci di darmi una botta in testa e rubare la spada, se avessi fatto tanto di mostrargliela. «Sarò felice di farvela vedere» dissi. «Non appena ritorna da Mirenburg, dove l'ho lasciata a un parente di von Asch perché la pulisse e la restaurasse.» «Von Asch? A Mirenburg?» Klosterheim pareva allarmato. «Un parente» rettificai. «A Baudissingaten. Lo conoscete?» «Von Asch è scomparso, vero?» intervenne Gaynor.
«Sì. Proprio all'inizio della guerra. Voleva visitare una certa isoletta irlandese, dove sperava di trovare un metallo dalle proprietà particolari, adatte a una spada che intendeva forgiare, ma probabilmente era troppo anziano per un viaggio del genere. Da quel giorno non abbiamo più avuto sue notizie.» «E lui non ti ha raccontato nulla della spada?» «Alcune leggende, cugino. Ma le ricordo appena: non mi sembravano particolarmente interessanti.» «E non ti ha mai menzionato una spada gemella?» «Assolutamente no. Dubito che la nostra sia la lama che cercate.» «Comincio a pensare che tu abbia ragione. Tenterò di esporre il tuo punto di vista a Berlino nel miglior modo possibile, ma sarà difficile presentarlo sotto una luce favorevole.» «Hanno fatto appello allo spirito dell'antica Germania» dissi. «Sarebbe saggio da parte loro rispettare tale spirito e non involgarirne il significato per adattarlo a programmi brutali.» «E forse sarebbe saggio riferire giudizi tanto infidi prima di esserne in qualche modo contaminati anche noi.» Gli strani, gelidi occhi di Klosterheim lampeggiarono come ghiaccio di fronte a una fiamma improvvisa. Gaynor cercò di alleggerire la minaccia. «È vero, cugino, che il Führer avrebbe un occhio di riguardo per chi concedesse alla nazione un dono tanto importante.» Il tono risultava un po' troppo enfatico, rivelando la sua disperazione. Si schiarì la voce. «Qualunque preconcetto riguardo al fatto che tu e molti del tuo rango siate dei traditori della nuova Germania, verrebbe dissipato.» Quasi senza rendersene conto, parlava già la lingua dell'inganno e della scarsa intelligibilità. Il genere di linguaggio ambiguo che da sempre indica scarsità di contenuti morali e intellettuali. Checché ne dicesse, ormai era un nazista. Li accompagnai fuori della porta e rimasi sui gradini mentre l'autista portava la Mercedes. Era ancora buio, con uno spicchio di luna sul pallido orizzonte. Osservai l'auto nera e cromata spostarsi lentamente lungo il vialetto verso gli antichi cancelli, ai cui lati svettavano due sculture consumate dal tempo. Draghi sputafuoco. Mi fecero tornare alla mente il mio sogno. Mi ricordarono che quel sogno era stato decisamente meno terrificante dell'attuale realtà. Mi chiedevo quando avrei ricevuto un'altra visita da parte dei nazisti e se
sarebbe stato semplice far loro accettare un no come risposta come era stato con Gaynor e Klosterheim. SCONOSCIUTI IN VISITA Quella sera stessa ricevetti una telefonata dalla misteriosa 'Gertie'. Mi suggeriva di recarmi al fiume che delimitava il confine nord della tenuta verso il tramonto. Là sarei stato contattato da qualcuno. L'aria era frizzante, ed ero davvero felice di fare una passeggiata in quel parco dal terreno deliziosamente ondulato per arrivare a un ponticello unito, tramite un cancelletto, al sentiero pubblico che un tempo era stato la via principale per giungere alla città di Bek. I solchi di antiche ruote si erano induriti e parevano catene montuose in miniatura. Ora erano in pochi a usare quel sentiero e ben di rado si vedeva qualcuno, tranne qualche occasionale coppia di amanti o un vecchio signore a passeggio con il cane. Proprio nell'istante in cui l'imbrunire unisce il giorno alla notte, quando una lieve nebbiolina tremolante cominciava a salire dal fiume, sul ponte vidi apparire un'alta figura che rimase pazientemente in attesa che aprissi il cancello. Affrettai il passo, quasi in un gesto di scusa. Non so come, ma non avevo visto l'uomo avvicinarsi. Aprii il cancelletto dandogli il benvenuto sulle mie terre. Lui si fece avanti rapidamente, seguito da presso da una figurina più esile, che di primo acchito pensai essere una specie di guardia del corpo, dato che portava con sé un lungo arco e una faretra colma di frecce. «Siete gli amici di Gertie?» Posi la domanda concordata in precedenza. «La conosciamo benissimo» rispose l'arciere. Una voce femminile, bassa e autorevole. Il viso nascosto da un cappuccio per proteggersi dal freddo, si allontanò dall'ombra dell'uomo alto e mi prese la mano. Una stretta forte, morbida e asciutta. Il tessuto del cappotto e della tunica al di sotto scintillava in modo insolito e anche le tonalità non mi erano familiari. Mi chiesi se non si trattasse di una sorta di abito di scena. Avrebbe potuto rappresentare una semidea germanica in una di quelle interminabili rappresentazioni popolari che i nazisti incoraggiavano ovunque. Li invitai a entrare in casa, ma l'uomo rifiutò. Il suo capo si sollevò da un'oscurità che pareva aleggiargli attorno come un'aura. Era magro, relativamente giovane, e i suoi occhi ciechi sembravano abbaglianti smeraldi che guardassero oltre me, a un futuro tanto mostruoso, angoscioso e crudele da fargli apprezzare qualunque distrazione dalla sua costante presenza.
«Credo che in casa sua siano già stati installati dei microfoni» disse. «E anche se non fosse così, è sempre saggio comportarsi come se i nazisti fossero in ascolto. Resteremo qui fuori per un po', poi, una volta esaurite le questioni d'affari, forse potremmo entrare a bere qualcosa.» «Sarete i benvenuti.» Aveva una voce sorprendentemente lieve e gradevole, con un leggero accento austriaco. Si presentò come Herr El, e anche la sua stretta di mano era rassicurante. Ero certo di trovarmi alla presenza di un gentiluomo. La cappa verde scuro e il cappello erano abiti abbastanza normali in Germania da non suscitare commenti, ma avevano anche il vantaggio di nasconderlo, dato che l'ampio collo poteva essere avvolto attorno al viso e la tesa abbassata a coprire quanto restava scoperto. C'era qualcosa di familiare in lui ed ero sicuro di averlo già incontrato almeno una volta, probabilmente a Mirenburg. «Siete qui per aiutarmi a entrare a far parte della Società della Rosa Bianca, non è vero?» domandai mentre passeggiavamo tra gli arbusti ornamentali. «Per lottare contro Hitler.» «Indubbiamente siamo qui per aiutarla a combattere Hitler,» rispose la giovane donna «perché lei, conte Ulric, è destinato a compiti speciali in questa battaglia.» Anche nel suo caso avevo l'impressione che ci fossimo già incontrati. Quello che mi sorprese fu il suo abbigliamento stravagante, che pensavo avrebbe potuto attirare un'indesiderata attenzione nelle strade di una cittadina tedesca, ma supposi che stesse partecipando a una commemorazione, a una recita. Che da lì avessero poi intenzione di andare a una festa? «Forse sapete già che ieri ho ricevuto la visita di mio cugino Gaynor. Ha germanizzato il proprio nome e si fa chiamare Paul von Minct. È diventato un nazista, anche se lo nega.» «Come moltissimi altri, Gaynor vede in Hitler e soci la possibilità di ampliare il proprio potere. Non riescono a capire fino a che punto Hitler e i suoi sono affascinati dal potere. Hanno sviluppato una vera e propria dipendenza. Ne desiderano di più delle persone normali. Non pensano ad altro. Ordiscono in continuazione trame e contro trame, sempre in anticipo sul gioco, dato che la maggior parte di noi non sa nemmeno che si stia giocando.» L'uomo parlava con la cortesia di un vecchio cosmopolita viennese dell'epoca di Francesco Giuseppe. Per me rappresentava un passato rassicurante, un periodo molto meno cinico. Il viso della giovane donna rimaneva nascosto, dato che portava occhiali
con le lenti affumicate che non mi permettevano di scorgerne gli occhi. Mi stupiva che riuscisse a vedere qualcosa, mentre il crepuscolo diventava notte. Disse che aveva deciso di sedersi su una vecchia panchina in pietra ad ascoltare gli ultimi canti degli uccelli. Nel frattempo Herr El e io procedevamo lentamente tra le aiuole simmetriche e le bordure che cominciavano appena a mostrare i germogli dei primi fiori. Mi pose domande banali, soprattutto riguardo al mio passato, a cui fui felice di rispondere. Sapevo che i membri della Rosa Bianca dovevano essere più che cauti: arruolare solo un informatore, e il meglio che avrebbero potuto aspettarsi era la ghigliottina. Mi chiese cosa speravo di ottenere entrando a far parte della Società, e io spiegai che lo scopo principale era far cadere Hitler. Poi mi domandò se pensavo che quello sarebbe bastato a liberarci definitivamente dei nazisti, e dovetti ammettere che non lo credevo. «E allora, in che modo li potremo sconfiggere?» chiese ancora Herr El, fermandosi sotto una delle vecchie statue decorative, così consumata che era impossibile riconoscerne il volto. «Con le mitragliatrici? Con la retorica? Con la resistenza passiva?» Sembrava quasi volesse dissuadermi dall'entrare nel gruppo, dirmi che in realtà la Società non poteva avere successo. Gli risposi senza pensarci troppo: «Con l'esempio, signore, non crede?» Al che parve compiaciuto e assentì. «È praticamente quasi tutto ciò che la maggior parte di noi può fare» convenne. «E possiamo aiutare la gente a fuggire. Come potrebbe muoversi in proposito, conte Ulric?» «Potrei usare la mia casa. Ci sono molte aree segrete. Potrei nasconderci delle persone. E probabilmente potrei nascondere anche una radio. Ovviamente, possiamo far passare la gente in Polonia e ad Amburgo. Direi che siamo abbastanza ben posizionati come punto di attestamento. Io riesco a pensare soltanto a un utilizzo di questo genere, signore, perché non sono esperto in materia, ma qualunque compito riteniate adatto a me, sarò lieto di svolgerlo.» «Me lo auguro» rispose. «Per prima cosa le dico subito che questa casa non è sicura. Si mostrano troppo interessati a essa. Troppo interessati a lei, conte. E a qualcos'altro qui...» «La mia vecchia spada nera, credo.» «Esattamente. E un calice?» «Mi creda, Herr El, hanno parlato di un calice, ma non so proprio a cosa si riferissero. Non abbiamo alcuna coppa leggendaria, qui a Bek. E se l'a-
vessimo, non terremmo certo nascosto il nostro vanto!» «Già» mormorò Herr El. «Neppure io credo abbiate il calice, ma la spada è importante. Non deve cadere nelle loro mani.» «Ha qualche significato simbolico di cui non sono a conoscenza?» «Conte Ulric, oserei dire che i significati che si possono attribuire a quella spada siano praticamente infiniti.» «È stato detto che la spada ha forza di per sé» commentai. «Verissimo» convenne. «C'è anche chi ritiene abbia addirittura un'anima.» Trovavo quel tono mistico un po' imbarazzante e tentai di cambiare argomento. L'aria si stava facendo di nuovo fredda e avevo cominciato a tremare leggermente. «I miei ospiti di ieri, che se ne sono andati questa mattina, avevano l'aspetto di chi può servirsi di un'anima o due. Le loro le hanno vendute ai nazisti. Pensa che Herr Hitler resisterà a lungo? Per come la vedo io, truppe e gregari lo deporranno. Stanno già borbottando riguardo a un possibile tradimento.» «Non bisogna mai sottovalutare una persona dal carattere debole che ha passato la maggior parte della vita a sognare il potere, a studiare il potere, ad agognare il potere. Che non abbia le capacità necessarie a gestire tale potere è una vera sfortuna, ma è convinto che più riuscirà a conquistarne più gli risulterà facile tenerlo sotto controllo. Abbiamo di fronte una mente, conte Ulric, che è allo stesso tempo estremamente banale e del tutto folle. Dato che cervelli di questo tipo vanno al di là dell'esperienza comune, facciamo del nostro meglio per farli sembrare più ordinari, più accettabili. Diamo loro motivazioni e intenzioni più vicine alle nostre. Le loro ragioni sono rozze, caro conte. Selvagge. Incivili. La nuda e avida materia prima fondamentale dell'esistenza, non digrossata da alcuna traccia di umanità, determinata a sopravvivere a ogni costo o, nel caso fosse l'unica alternativa, a essere l'ultima a morire.» Per la mia educazione in qualche modo puritana, tutto questo era un po' melodrammatico. «Non è forse vero che alcuni dei suoi seguaci lo chiamano 'Adolf il fortunato'?» chiesi. «Non è soltanto uno sgradevole oratore da strada elevato al cancellierato per puro caso? Le banalità che afferma non sono semplicemente quelle che si possono trovare nella testa di qualsiasi normalissimo piccolo borghese austriaco? È proprio questo il motivo della sua popolarità.» «Concordo che le sue idee rispecchiano quelle di qualunque negoziante di una cittadina di provincia, ma vengono poi nobilitate da una visione
psicopatica. Persino le parole di Gesù, conte Ulric, potrebbero essere ridotte a banalità sentimentali. Chi è davvero in grado di descrivere o anche di riconoscere il genio? Possiamo giudicare solo dalle azioni, e da ciò a cui quelle azioni conducono. La forza di Hitler potrebbe derivare proprio dal fatto di essere affrettatamente considerato poco pericoloso dalle persone della nostra classe e del nostro ambiente. E non sarebbe la prima volta. Il piccolo colonnello corso sembrò apparire dal nulla. Di rado i rivoluzionari che hanno successo non si annunciano come campioni delle antiche virtù. I contadini sostennero Lenin perché erano convinti che avrebbe riportato lo zar sul trono.» «Quindi lei non crede agli uomini del destino, Herr El?» «Al contrario. Credo che di tanto in tanto il mondo crei un mostro che rappresenta i suoi desideri migliori o peggiori. E sempre di tanto in tanto, il mostro sfugge al controllo, lasciando ad alcuni di noi, che si definiscono con nomi diversi, il compito di combatterlo e di dimostrare che può essere ferito, quando non distrutto. Non tutti usiamo spade o fucili. Adoperiamo parole e urne elettorali. Ma a volte il risultato è lo stesso. Perché in fin dei conti, è la motivazione dei propri leader che il pubblico deve verificare. E, col tempo, è proprio questo che fa una democrazia matura. Solo che, quando è spaventata e spinta con la forza verso il bigottismo, la democrazia non si comporta più in modo maturo. È proprio allora che si fanno avanti gli Hitler. E anche se ben presto la gente comincia a vedere quanto poco azioni e parole si adattino all'interesse generale e la popolarità elettorale diminuisca al momento in cui sferrano l'ultimo assalto al potere, per fortuna o furbizia all'improvviso si trovano comunque a capo di una grande nazione civile che già una volta ha sbagliato a giudicare la reale brutalità della guerra e desidera non dover affrontare mai più una situazione del genere. Credo che Hitler rappresenti l'aggressione demoniaca di una nazione che affoga nelle proprie ortodossie.» «E chi rappresenterebbe le qualità angeliche di questa nazione, Herr El? I comunisti?» «In primo luogo le persone che non si vedono» replicò in tono serio. «I comuni eroi ed eroine di questi spaventosi conflitti tra un Caos corrotto e una Legge degradata mentre il multiverso diventa sempre più stanco e i suoi abitanti difettano della volontà o dei mezzi per aiutarlo a rinnovarsi.» «Prospettiva deprimente» dissi quasi scherzoso. Comprendevo la posizione filosofica e non vedevo l'ora di discuterne davanti a un paio di bicchieri di punch. Il mio morale si era notevolmente sollevato e suggerii che
forse avremmo potuto scivolare silenziosamente in casa e tirare i tendoni prima che i miei domestici accendessero le lampade. L'uomo lanciò un'occhiata in direzione della pallida giovane 'Diana', che non si era ancora levata gli occhiali scuri e che parve accondiscendere. Feci strada sulle scale che portavano in veranda e da lì, attraverso le porte finestra, raggiungemmo il mio studio, dove tirai i pesanti tendaggi di velluto e accesi la lampada a olio sulla scrivania. I miei ospiti osservarono con curiosità gli scaffali pieni di libri, l'ammasso di documenti, le mappe e i vecchi volumi sparsi ovunque, alla luce della lampada che dava al tutto il calore di un tono dorato e offriva il contrasto delle loro ombre sulla libreria mentre con grazia si spostavano da ripiano a ripiano. Sembrava quasi che fossero stati privati dei libri troppo a lungo. La rapidità con cui si avvicinavano ai titoli che attiravano la loro attenzione rasentava l'ingordigia, e mi sentii quasi un benefattore, come se avessi dato del cibo agli affamati. Ma anche mentre esaminavano i libri, continuarono a pormi domande, a elaborare le risposte come se stessero valutando i limiti delle mie capacità intellettuali. Alla fine, parvero soddisfatti. Poi mi chiesero se potevano vedere Brandocorvo. Ero diventato così protettivo nei confronti dell'oggetto che custodivo, che quasi risposi di no. Ma ero sicuro delle loro credenziali: non mi erano nemici, e non volevano farmi del male. Quindi, vincendo il timore del tradimento, condussi i miei ospiti all'interno della rete di tunnel e sotterranei che correva ben al di sotto delle fondamenta e i cui passaggi portavano, secondo antiche leggende, in regni misteriosi. Il regno più misterioso che avessi trovato era la rocciosa caverna naturale, fredda e stranamente asciutta, in cui avevo sepolto il nostro più antico cimelio, la Spada del Corvo. Mi chinai e scostai alcune pietre che sembravano far parte della parete per raggiungere una cavità da cui estrassi la custodia rigida che avevo commissionato. Appoggiai il contenitore su un vecchio tavolo di legno di pino che si trovava in mezzo alla grotta, quindi tolsi una chiave dalla catena portachiavi e lo aprii. Proprio mentre sollevavo il coperchio per mostrare la spada, per qualche strano gioco dell'aria la lama prese a mormorare e a cantare, come un vecchio rimbambito, e fui temporaneamente accecato non da una luce ma da un'oscurità che sembrò divampare dalla lama per poi sparire. Sbattendo le palpebre per quell'insolito fenomeno, mi parve di vedere un'altra figura in piedi accanto alla parete. Una figura la cui altezza e forma sembravano esattamente uguali alle mie, e il cui viso candido mi fissava intensamente, gli occhi rossi illuminati da un miscuglio di rabbia e, forse, di beffarda
intelligenza. Poi l'apparizione scomparve e io mi apprestai a togliere dalla custodia il grande spadone a due mani che però poteva essere tanto prontamente adoperato con una sola. Offrii l'elsa a Herr El, ma lui rifiutò, quasi avesse paura di toccarla. Anche la donna si mantenne a una certa distanza dalla spada, e dopo qualche minuto richiusi la custodia, riponendola nella parete. «Pare comportarsi in modo un po' diverso in compagnia» commentai. Cercavo di avere un tono scherzoso, pur non essendo del tutto certo di sapere cosa mi avesse turbato. Non volevo credere che la spada avesse proprietà soprannaturali. Era meglio che il soprannaturale e io ci incontrassimo giusto una volta a settimana, insieme ad altri, durante l'ascolto di una buona predica del pastore della nostra parrocchia. Cominciai a chiedermi se quei due non mi stessero giocando qualche tiro mancino, ma non percepivo traccia di frivolezza né di imbroglio. Non si erano voluti avvicinare alla spada. Condividevano il mio timore per la sua stranezza. «È la Spada Nera» disse Herr El alla cacciatrice. «E ben presto scopriremo se ce l'ha ancora, un'anima.» A quelle parole devo avere inarcato un sopracciglio. Penso di avere anche sorriso. «Suppongo di sembrarle eccessivamente ricco di immaginazione, conte Ulric. Le porgo le mie scuse. Sono così abituato a parlare per simboli e metafore che a volte dimentico di usare un linguaggio più normale.» «Ho sentito molte rivendicazioni riguardo alla spada» dissi. «Non ultima quella dell'uomo la cui famiglia quasi certamente l'ha forgiata. Conosce i von Asch?» «So che sono fabbri. La famiglia vive ancora a Bek?» «Il vecchio se ne è andato appena prima dell'inizio della guerra» risposi. «C'era un viaggio importante che doveva compiere da solo.» «Non gli ha fatto domande?» «Non è nel mio stile.» Comprendeva il mio punto di vista. Cominciammo a percorrere la strada a ritroso per uscire dalla caverna, risalendo la stretta e tortuosa scala che ci avrebbe riportati nel corridoio e da lì a una porta e a un altro paio di rampe di scale dove, se fossimo stati fortunati, l'aria sarebbe stata più respirabile. Per i miei gusti, la scena che si era appena svolta somigliava troppo a una sorta di rappresentazione operistica di Wagner e fui felice di ritornare nello studio, dove di nuovo i miei ospiti presero ad aggirarsi tra i libri, pur continuando la nostra strana conversazione. Non erano maleducati, sem-
plicemente molto curiosi. Ed era indubbiamente la curiosità che li aveva portati a trovarsi nella situazione attuale, oltre a un positivo interesse per l'umanità. Herr El era colpito dalla mia prima edizione di Grimmelshausen. L'avventuroso Simplicissimus era uno dei suoi libri preferiti, mi spiegò. Conoscevo bene il periodo? Né più né meno di chiunque altro, risposi. A quanto pareva, durante la Guerra dei Trent'Anni i Bek avevano trasferito la propria fedeltà su fronti opposti, come del resto la maggior parte delle grandi famiglie, combattendo inizialmente per la causa protestante, ma trovandosi con una certa frequenza a fianco dei cattolici. Che fosse quella la vera natura della guerra? L'uomo disse di aver udito delle voci riguardo al fatto che un mio omonimo avesse redatto un resoconto di quei giorni. In un certo monastero erano conservati documenti che vi facevano cenno. Forse ne avevo una copia? Replicai che non ne avevo mai sentito parlare. Le memorie più famose erano state inventate da quello scapestrato del mio antenato Manfred, che pretendeva di avere raggiunto terre lontanissime a bordo di una mongolfiera e di avere vissuto avventure soprannaturali. Era motivo di imbarazzo per tutti noi. Per quanto ne sapevo, il racconto esisteva ancora in una pessima versione inglese che per la pubblicazione aveva subito molteplici correzioni. L'originale, infatti, era troppo grottesco e fantastico per risultare anche lontanamente credibile. Persino gli inglesi, notoriamente amanti del genere, non gli avevano prestato fede. Per essere una famiglia tanto noiosa, a volte generavamo individui davvero originali. Alludevo, ovviamente in tono ironico, al mio strano aspetto. «Proprio vero» commentò Herr El, accettando un bicchiere di cognac. La giovane donna rifiutò. «E viviamo in una società che tenta di soffocare ogni genere di diversità, insistendo sul conformismo contro ogni evidenza. Le menti ordinate creano cattivi governanti. Non crede, conte Ulric, che dovremmo festeggiare e coltivare la varietà, finché è ancora possibile?» Pur non essendo per nulla in contrasto con loro, avevo la sensazione che anche questi ospiti fossero venuti da me per un motivo preciso e fossero stati delusi. Poi, all'improvviso, la ragazza, che ancora portava il cappuccio sul capo e gli occhiali scuri, mormorò qualcosa all'uomo alto, che appoggiò il bicchiere semi pieno e iniziò a muoversi rapidamente, insieme a lei, verso la porta finestra e la veranda. «Uno di noi la contatterà di nuovo, presto. Ma ricordi che è in grande
pericolo. Finché la spada è nascosta, non la uccideranno. Non tema, signor conte, lei servirà la Rosa Bianca.» Li vidi dissolversi nell'oscurità oltre la veranda. Uscii per respirare ancora un po' della limpida aria notturna, e mentre abbassavo lo sguardo verso il ponte mi parve di scorgere la lepre bianca che correva. Per un fugace attimo pensai che stesse seguendo un corvo bianco in volo appena al di sopra della sua testa. Dell'uomo e della ragazza, però, non vidi traccia. Infine, persa la speranza di riuscire a rivedere la lepre o il volatile, rientrai in casa, chiusi le porte e tirai i pesanti tendoni. La notte sognai ancora di volare sulla schiena di un drago. Questa volta la scena era pacifica. Veleggiavo sopra le snelle torri e i minareti di una città fantastica dai rutilanti colori. Conoscevo il nome di quella città. Sapevo che là era casa mia. Ma per quanto fosse casa mia, a quella vista il cuore mi si riempì di desiderio e di angoscia, e alla fine allontanai il drago, per volare dolcemente sulle profonde acque di un oceano scuro e infinito. Per volare verso il grande disco oro e argento della luna, che riempiva l'orizzonte. La mattina venni svegliato presto dal rumore di auto nel vialetto. Quando finalmente fui in grado di trovare la vestaglia e di avvicinarmi a una finestra sul davanti della casa, vidi che i veicoli là fuori erano tre. Tutti ufficiali. Due erano berline Mercedes, mentre il terzo era un camioncino nero della polizia. La scena mi era abbastanza familiare. Non c'era dubbio: qualcuno era venuto ad arrestarmi. O forse intendevano soltanto mettermi paura. Pensai di fuggire dalla porta sul retro, ma poi immaginai l'umiliazione di essere catturato dalle guardie lì appostate. A quel punto si udivano voci nell'ingresso. Nessuno urlava, ma sentii uno dei domestici dire che sarebbe venuto a chiamarmi. Tornai nella mia stanza e quando giunse il maggiordomo, gli dissi che sarei sceso al più presto. Dopo essermi lavato, rasato e pettinato, indossai l'uniforme dell'esercito e quindi cominciai a scendere le scale che portavano all'ingresso, dove mi attendevano due uomini della Gestapo in abiti civili, con il caratteristico, identico cappotto di pelle. Come avevo sospettato, gli occupanti degli altri veicoli dovevano essere stati dislocati intorno alla casa. «Buon giorno, signori.» Mi fermai su uno degli ultimi gradini. «In che modo possiamo aiutarvi?» Parole banali, ma di certo appropriate all'occasione.
«Conte Ulrich von Bek?» Chi aveva parlato non aveva avuto un grande successo nella rasatura mattutina, dato che aveva il viso coperto di minuscoli taglietti. Il suo compagno dalla carnagione bruna pareva giovane e un po' nervoso. «In persona» risposi. «E voi, signori, siete...» «Sono il tenente Bauer e questo è il sergente Stiftung. Sappiamo che lei è in possesso di un certo bene dello stato. I miei ordini, conte, sono di prendere in consegna il suddetto bene o di ritenerla responsabile di quanto a esso accaduto. Se, per esempio, risultasse scomparso, lei e soltanto lei dovrebbe rendere conto del fatto di aver mancato al dovere di prendersene cura. Mi creda, signore, non desideriamo affatto causarle problemi. Questa faccenda può essere conclusa velocemente con la soddisfazione di entrambi.» «O vi consegno il cimelio di famiglia o mi arrestate?» «Come vede, signor conte, alla fine raggiungeremo il nostro scopo. Preferisce assistere a tale conclusione da dietro il filo spinato di un campo di concentramento o ritiene meglio farlo continuando a godere del comfort della sua bella casa?» Quel minaccioso sarcasmo mi fece spazientire. «Immagino che godrei di migliore compagnia all'interno di un campo» risposi. Così, senza neanche avere fatto colazione, venni arrestato, ammanettato e fatto salire nel camioncino, i cui sedili rigidi rischiavano costantemente di farmi cadere mentre avanzavamo sobbalzando sulla vecchia strada che ci portava lontano da Bek. Nessun grido. Nessuna minaccia di violenza. Nessuna imprecazione. Solo una semplice transizione. Un momento ero libero e padrone del mio futuro e il momento dopo ero un prigioniero, neppure più proprietario del mio corpo. La realtà stava cominciando a emergere molto rapidamente, ben prima che il pullmino si fermasse e mi venisse ordinato, in tono decisamente poco gentile, di uscire nel gelo di una sorta di cortile. Un vecchio castello? Un edificio trasformato in prigione? I muri e l'acciottolato erano in cattive condizioni. Il luogo sembrava essere stato abbandonato per anni. In cima alle mura perimetrali erano stati collocati di recente del filo spinato e alcune postazioni per le mitragliatrici coperte alla meno peggio. Anche se di primo acchito le gambe mi reggevano a stento, venni spinto attraverso un passaggio a volta e una serie di tunnel molto sporchi, per emergere in un'ampia area chiusa in cui trovavano posto numerose baracche simili alle abitazioni temporanee costruite per i rifugiati durante la guerra. Mi resi conto di essere stato condotto in un
campo di concentramento di discrete dimensioni, forse il più vicino a Bek, ma non avrei saputo dirne il nome finché non fui costretto in malo modo a superare un'altra porta che riconduceva nell'edificio principale e a rimanere in piedi di fronte a una specie di funzionario addetto all'ammissione, che pareva evidentemente a disagio. Dopotutto indossavo l'uniforme dell'esercito con relative onorificenze ed era chiaro che non ero un agitatore politico né una spia straniera. Fin dall'inizio avevo deciso di metterli a confronto con questa prova tanto evidente che, almeno secondo me, sbandierava l'assurdità del loro regime. A quanto pareva, ero accusato di attività politiche intese a minacciare i beni e la sicurezza dello Stato, ed ero tenuto in 'custodia cautelare'. Non mi veniva contestato alcun crimine preciso e non mi era consentito di difendermi. Ma sarebbe stato inutile. Tutti gli attori di quell'indegna simulazione sapevano perfettamente che si trattava soltanto di una recita, che i nazisti agivano al di sopra della legge che disprezzavano apertamente, proprio come disprezzavano i principi della religione cristiana e tutti i suoi comandamenti. Mi fu permesso di tenere l'uniforme, ma dovetti rinunciare alle guarnizioni in pelle, quindi venni portato in una zona più interna dell'edificio, in una stanzetta simile alla cella di un monaco. Lì, mi dissero, sarei rimasto finché fosse venuto il mio turno di essere interrogato. Avevo idea che l'interrogatorio sarebbe stato leggermente meno sottile di quello effettuato dal principe Gaynor e dalla Gestapo. VITA DI CAMPO Scrittori migliori di me hanno sperimentato momenti di terrore e di angoscia peggiori di quelli che conobbi in quel campo e la mia situazione era, in un certo qual modo, privilegiata rispetto a quella del povero signor Feldmann, con cui divisi la cella durante un periodo di 'affollamento', quando la Gestapo e i gorilla delle SA erano più indaffarati del solito. Ovviamente persi l'uniforme fin dal primo giorno. Mi venne ordinato di fare la doccia, dopodiché non trovai altro da indossare che la divisa da prigioniero a strisce bianche e nere, decisamente troppo piccola, con il triangolo rosso dei 'politici' cucito sopra, per cui non ebbi alternative. Mentre mi vestivo, un gruppo di SA urlanti mi sfotterono, con commenti osceni che mi fecero pensare alle turpi inclinazioni del loro capo, Röhm. Non avevo certo previsto un tale grado di paura e abiezione, eppure non rim-
piansi la mia decisione, neppure una volta. In qualche modo, era la loro asprezza a sostenermi. Peggio mi trattavano, più sofferenze mi infliggevano, maggiore diventava la consapevolezza dell'importanza che i miei cimeli di famiglia rivestivano per i nazisti. Che un simile potere continuasse comunque a cercare di ottenere ancora più potere, rivelava la fondamentale insicurezza di quella gente. Il loro credo era consistito nell'interpretazione razionale delle aspirazioni del perseguitato, del codardo, dello sconfitto. Non era un credo adatto al comando. Perciò la brutalità aumentava quasi di giorno in giorno, mentre il loro leader e le sue creature arrivavano a temere anche la più lieve opposizione al proprio volere. Anche questo, ovviamente, significava che in definitiva erano vulnerabili. I loro figli ne conoscevano la fragilità. Il primo interrogatorio a cui ero stato sottoposto era stato duro, minaccioso, ma fino a quel momento non avevo patito molta violenza fisica. Penso mi stessero dando un 'assaggio' della vita di campo nel tentativo di ammorbidirmi. In altre parole, avrei anche potuto trovare la via d'uscita da quell'inferno se avessi imparato la lezione. E in realtà, di lezioni ne stavo davvero apprendendo parecchie. I nazisti stavano distruggendo l'infrastruttura della democrazia e della legge istituzionale che avevano utilizzato per impossessarsi del potere. Senza quell'infrastruttura, però, l'unico modo per mantenere tale potere era attraverso una violenza sempre maggiore. Quella violenza che, come sempre accade, alla fine distrugge se stessa. A volte il paradosso è la caratteristica più rassicurante del multiverso. È un pensiero gioioso, per uno con il mio background e la mia esperienza, sapere che in realtà Dio è un paradosso. In qualità di prigioniero relativamente privilegiato del campo di Sachsenburg, potevo condividere una cella all'interno del castello, che durante la Grande Guerra era stato utilizzato per i prigionieri di guerra e ora veniva gestito più o meno allo stesso modo. Noi prigionieri 'interni' godevamo di un trattamento migliore, di cibo leggermente meno cattivo e della possibilità di scrivere qualche lettera, mentre gli 'esterni', nelle baracche, erano irregimentati nei modi più barbari e uccisi quasi con indifferenza per una qualsiasi minima violazione delle numerosissime regole. Per gli 'interni' vigeva costantemente la minaccia di essere spostati tra gli 'esterni' se non ci si fosse comportati in modo corretto. Dai a un tedesco come me terrore quotidiano e miserie di ogni genere, sottoponilo alla minaccia della morte e alla vista di esseri umani rispettabi-
li uccisi e torturati sotto i suoi occhi impotenti, e quello troverà rifugio, ammesso che di rifugio si tratti, nella filosofia. Ci sono esperienze di un livello tale da impedire alle emozioni e alla mente, e forse anche all'anima, di funzionare. In altre parole, non si riesce ad assorbire l'orrore che si ha intorno. E si diventa una sorta di zombi. Eppure anche gli zombi mantengono un certo grado di sentimenti e di comprensione, flebili echi delle loro personalità originarie: un sussurro di generosità, un fugace momento di compassione. Ma la rabbia, che dovrebbe sostenerti in tali occasioni, è la più difficile da conservare. Alcuni zombi riescono ad avere ancora l'aspetto di esseri umani. Parlano. Ricordano. Filosofeggiano. Non mostrano segni di rabbia o disperazione. Sono prigionieri perfetti. Suppongo di essere stato fortunato a dividere la cella prima con un giornalista di cui avevo letto gli articoli sui quotidiani berlinesi, Hans Hellander, poi, quando per qualche intoppo burocratico le celle 'dentro' si stavano riempiendo troppo in fretta rispetto al 'fuori', con Erich Feldmann, che aveva scritto con lo pseudonimo di Henry Grimm ed era stato classificato come politico, invece di ricevere la stella gialla degli ebrei. Tre zombi filosofeggianti. Con solo due brandine, che dividevamo come meglio potevamo, e sostenendoci con la sbobba e di quando in quando con un pacco da parte dei volontari stranieri che ancora avevano il permesso di operare in Germania, riscoprimmo il cameratismo che avevamo già conosciuto in trincea. Da oltre le mura del castello, dalle baracche 'esterne' del complesso, ci capitava spesso di udire grida che facevano gelare il sangue, il crepitio degli spari, e altri suoni meno facilmente riconoscibili ma ancor più inquietanti. Il sonno non accordava sollievo né vie di fuga. Il sogno più sereno che facevo riguardava una lepre bianca che correva sulla neve, lasciando tracce di sangue. E continuavo a sognare draghi, spade ed eserciti possenti. Qualunque freudiano mi avrebbe ritenuto un caso classico. Forse lo ero, ma a me quelle situazioni parevano reali, più vivide della vita stessa. Credetti di cominciare a scorgere anche me in quei sogni. Una figura quasi sempre nell'ombra, il viso celato, che mi fissava con occhi duri e fermi del colore e della profondità del rubino. Occhi cupi che contenevano un sapere più vasto di quanto avrei desiderato. Che stessi guardando il futuro me stesso? Non so perché, ma vedevo quel mio doppio etereo come un alleato, pur continuando ad averne una gran paura.
Quando veniva il mio turno di usare una brandina, dormivo bene, ma anche sul pavimento di solito riuscivo a trovare un po' di riposo. Le guardie erano formate da SA e da membri del corpo carcerario, che facevano del proprio meglio per seguire le vecchie regole e accertarsi che fossimo trattati come si deve. Rispetto ai vecchi standard questo era, ovviamente, impossibile, ma implicava che qualche volta potessimo vedere un medico e che molto di rado uno di noi venisse rimandato a casa. Sapevamo già di essere dei privilegiati. Che ci trovavamo in uno dei campi meno disagevoli del paese. Sebbene fossero trapelate solo vaghe allusioni riguardo alle fabbriche di morte di Auschwitz, Treblinka e Dachau, questi e gli altri cominciavano a essere indicati come campi di sterminio, molto prima, è chiaro, che i nazisti avessero anche solo preso in considerazione l'idea di trasformare in realtà la Soluzione Finale. Non potevo sapere che la mia 'lezione' era appena cominciata. Dopo circa due mesi passati nel modo descritto, un giorno venni convocato fuori dalla mia cella da Herr Hahn, l'Hauptsturnführer delle SA, che avevamo imparato a temere, soprattutto quando, come in quel caso, era accompagnato da due farabutti in uniforme che avevamo soprannominato Fritzi e Franzi, dato che uno era alto e magro e l'altro basso e grasso. Ci ricordavano due famosi personaggi dei fumetti. Nell'aspetto, Hahn somigliava alla maggior parte degli altri ufficiali delle SA, con un viso gonfio, baffetti a spazzola, naso schiacciato simile a un tappo, e due o tre piccoli menti sfuggenti. Le uniche cose che gli mancavano per essere identico al suo capo Röhm erano le ributtanti cicatrici che sfregiavano il volto di quest'ultimo e le tendenze predatorie che facevano sì che gli uomini nascondessero i propri figli ogni volta che lui e la sua cricca entravano in città. Con Fritzi da un lato e Franzi dall'altro, venni condotto a forza su e giù da numerose rampe di scale, attraverso tunnel e corridoi, finché alla fine giunsi nell'ufficio del comandante, dove mi attendeva il maggiore Hausleiter, un vecchio ubriacone corrotto che sarebbe stato espulso con infamia da qualunque esercito degno di questo nome. Dal giorno in cui ero arrivato, quando era sembrato in imbarazzo, l'avevo visto solo da lontano. Ora pareva nervoso. C'era qualcosa nell'aria e avevo la sensazione che Hausleiter sarebbe stato l'ultimo a sapere cosa stava accadendo realmente. Mi disse che venivo rilasciato sulla parola in libertà provvisoria per 'motivi umanitari' sotto tutela di mio cugino, ora maggiore von Minct, per un 'periodo di prova'. Mi consigliò di tenermi fuori dai guai e di collaborare con le persone che avevano a cuore soltanto il mio bene. Se fossi tornato a Sachsen-
burg, non sarebbe stato con gli stessi privilegi. Qualcuno aveva trovato i miei abiti. Indubbiamente Gaynor o uno dei suoi li avevano prelevati a Bek. La camicia e il completo ballavano sul mio corpo tanto più magro del solito, ma mi vestii con cura, annodando i lacci delle scarpe, facendo un bel nodo alla cravatta, deciso ad apparire al meglio di fronte a mio cugino. Scortato nel cortile del castello da Fritzi e Franzi, trovai il principe Gaynor in attesa accanto alla propria auto. Klosterheim non era con lui, ma il torvo autista era sempre lo stesso. Gaynor alzò il braccio in quel ridicolo 'saluto' preso a prestito da una versione cinematografica americana della storia romana e mi augurò buon pomeriggio. Senza una parola, salii in auto, sorridendo tra me. Mentre attraversavamo i cancelli, lasciandoci la prigione alle spalle, Gaynor mi domandò perché stessi sorridendo. «Ero semplicemente divertito dalla lunghezza della commedia che tu e i tuoi amici avete intenzione di portare avanti. E a quanto pare senza il minimo imbarazzo.» Si strinse nelle spalle. «Alcuni di noi trovano più semplice scimmiottare l'assurdo. Dopo tutto, il mondo è ormai di una assurdità totale, non credi?» «Credo che alcuni degli internati del campo facciano un po' fatica a cogliere fino in fondo il lato umoristico della cosa» replicai. In prigione avevo incontrato giornalisti, medici, avvocati, scienziati, musicisti, la maggior parte dei quali era stata brutalizzata, in un modo o nell'altro. «Tutto quello che riusciamo a vedere sono dei violenti degenerati che distruggono una cultura solo perché non sono in grado di capirla. Il bigottismo elevato allo status di legge e di politica. Un declino nella barbarie peggiore di quello conosciuto nel Medio Evo, con gli ideali di quell'epoca trasformati in 'verità'. Alla gente comune vengono raccontate bugie assai palesi: che all'incirca seicentoquarantamila cittadini ebrei riescono chissà come a controllare la maggioranza della popolazione. Eppure ogni tedesco conosce almeno un ebreo 'buono', il che significa che nel paese ci sono sessanta milioni di ebrei 'buoni'. Il che significa che gli ebrei 'cattivi' sono di gran lunga superati numericamente dai 'buoni'. Un problemino che Goebbels non è ancora riuscito a risolvere.» «Oh, dagli tempo, sono sicuro che ci riuscirà.» Gaynor si era tolto il berretto e stava sbottonando la giacca dell'uniforme. «Le bugie migliori sono quelle che hanno in sé la familiarità del vero. E le bugie familiari spesso
suonano proprio come verità, anche ai più smaliziati di noi. Una storia che produce risonanza, mio caro, serve perfettamente allo scopo se fatta circolare nel modo giusto...» Devo ammettere che l'aria primaverile era molto rinfrescante e mi godetti davvero il lungo viaggio fino a Bek. Avrei voluto che non finisse, perché ero assai preoccupato di ciò che avrei potuto trovare in casa mia. Dopo avermi chiesto come era andata al campo, per il resto del viaggio Gaynor mi rivolse raramente la parola. Era meno pieno di sé rispetto all'ultima volta che l'avevo incontrato, e mi domandai se non avesse fatto ai suoi padroni promesse che poi non era stato in grado di mantenere. Cominciò a imbrunire prima che attraversassimo i cancelli di Bek e ci fermassimo nel vialetto davanti all'ingresso principale. La casa era insolitamente buia. Chiesi cosa fosse accaduto ai domestici. Mi fu risposto che si erano licenziati, una volta compreso di aver lavorato per un traditore. Uno era addirittura morto per la vergogna. Ne domandai il nome. «Reiter, mi sembra.» Mi accorsi che provavo di nuovo dei sentimenti: mi sentivo mancare il cuore. Il mio più vecchio e fedele servitore. L'avevano ucciso cercando di farsi dire qualcosa sul mio conto? «Il rapporto del medico legale afferma che è morto di vergogna, eh?» «Ufficialmente è deceduto a causa di un attacco cardiaco, è ovvio.» Gaynor avanzò di un passo nell'oscurità e mi aprì la portiera. «Ma sono certo che due ragazzi pieni di risorse come noi saranno in grado di sentirsi a casa comunque.» «Rimani?» «Naturalmente» rispose. «Dopo tutto sei sotto la mia custodia.» Salimmo i gradini insieme. Sul portone spiccava un rudimentale lucchetto. Gaynor chiamò l'autista perché venisse ad aprirlo. Quindi entrammo in casa, dove stagnava un forte odore di umido, di abbandono e di cose peggiori. Non c'era gas né elettricità, ma l'autista scovò alcune candele e delle lampade a olio, e con l'aiuto della loro luce contemplai lo scempio della mia casa. Era stata saccheggiata. La maggior parte degli oggetti di valore era scomparsa. I quadri erano spariti dai muri. Vasi. Soprammobili. La biblioteca non c'era più. Tutto il resto, disseminato all'intorno in mille pezzi, era rimasto dove l'avevano lasciato quei criminali della cricca di Gaynor. Non una stanza era restata
intatta, e in quelle in cui non c'era nulla di valore, gli uomini avevano urinato e defecato. Pensai che a quel punto soltanto il fuoco avrebbe potuto ripulire quel luogo. «Si direbbe che la polizia sia stata un pochino sciatta nell'effettuare la perquisizione» commentò Gaynor con tono spensierato. Alla luce della lampada a olio il suo viso si contorse in una maschera demoniaca, gli scuri occhi brillanti di insano piacere. Ero troppo esperto nell'autodisciplina e troppo debole fisicamente per prenderlo a pugni, ma l'impulso c'era. E al ritorno della rabbia, corrispose, chissà come, il ritorno alla vita. «Sei stato tu a sovrintendere a questa disgustosa operazione?» domandai. «Purtroppo mentre si svolgeva il grosso della perquisizione ero a Berlino. Quando sono arrivato qui, Klosterheim e i suoi avevano già fatto ciò che vedi. Naturalmente li ho rimproverati.» Non si aspettava che gli credessi. L'aria di presa in giro non lo abbandonò mai. «Senza dubbio cercavate una spada.» «Proprio così, cugino. La tua famosa spada.» «Famosa, apparentemente, tra i nazisti» ribattei «ma non tra gli esseri umani civili. Presumo che non abbiate trovato nulla.» «È ben nascosta.» «O forse non esiste.» «I nostri ordini sono di radere al suolo la casa, pietra dopo pietra e trave dopo trave, finché non restino che macerie, se necessario. Puoi evitare tutto questo, caro cugino. Puoi salvarti. Puoi assicurarti una vita appagante, quale onorato cittadino del Terzo Reich. Non desideri ardentemente queste cose, cugino?» «Per nulla, cugino. Sono in condizioni più agevoli di quando stavo in trincea. Ho una compagnia migliore. Quello che desidero ardentemente è di certo più generale. E forse irraggiungibile. Desidero ardentemente un mondo giusto in cui gli uomini colti come te si rendano conto delle proprie responsabilità verso gli altri, in cui le questioni vengono risolte attraverso un dibattito pubblico informato, non con il bigottismo e la retorica faziosa.» «Come? Sachsenburg non ti ha mostrato la follia del tuo infantile idealismo? Forse è ora che tu visiti Dachau o qualche altro campo dove saresti in condizioni molto meno agevoli di quando stavi in quella dannata trince-
a. Ulric, ma non pensi che tutte quelle trincee significhino qualcosa anche per me?» Di colpo l'aria di scherno era sparita. «Quando ho dovuto vedere uomini su entrambi i fronti morire per nulla, ascoltare menzogne per nulla, subire minacce per nulla. Tutto per nulla. Nulla. Nulla. Nulla. E avendo visto tutto quel nulla, non dovresti stupirti che uno come me diventi cinico e arrivi a pensare che il nulla è tutto quello che ci aspetta nel nostro futuro.» «Altri giungono alle stesse conclusioni ma decidono che abbiamo ancora la capacità di creare una nuova vita sulla terra. Attraverso la tolleranza e la buona volontà, cugino.» A quelle parole scoppiò apertamente a ridere. Agitò una mano guantata a indicare ciò che restava del mio studio. «Bene, bene, cugino. Sei soddisfatto di quanto ti ha portato la buona volontà?» «Mi ha lasciato la dignità e il rispetto di me stesso.» La prosopopea di quelle parole era tale che sapevo che probabilmente non avrei avuto un'altra occasione di pronunciarle. «Oh, caro Ulric, hai ben visto come finiamo, no? Contorcendoci in fosse schifose nel tentativo di rimettere le budella all'interno del corpo. Gridando come ratti terrorizzati. Arrampicandoci sopra i cadaveri degli amici solo per avere una crosta di pane sporco. E anche peggio. Tutti abbiamo visto di peggio, vero?» «E anche di meglio, forse. Alcuni di noi hanno veduto gli angeli. Miracoli. Gli Angeli di Mons, per esempio.» «Illusioni. Illusioni insensate. Non possiamo sfuggire alla realtà. Dobbiamo fare ciò che possiamo del nostro orribile mondo. A dire il vero, cugino, è lecito affermare che oggi in Germania chi governa è Satana. Satana domina ovunque. Non te ne sei accorto? L'America, dove impiccano i neri solo per capriccio e il Ku Klux Klan mette i propri uomini a governare degli stati? L'Inghilterra, che uccide, imprigiona, esilia migliaia di indiani che ingenuamente si aspettano di avere gli stessi diritti degli altri cittadini dell'Impero? La Francia? L'Italia? Tutte queste grandi nazioni civili, che ci hanno dato la nostra meravigliosa musica, la letteratura, la filosofia e la raffinata politica. Cosa è risultato da tutta questa raffinatezza? La guerra con i gas? I carri armati? Le battaglie aeree? Se sembro sprezzante nei tuoi confronti, cugino, è perché tu insisti a cercare l'illusione. Io ho rispetto solo per le persone come me, che vedono la verità delle cose per quella che è e si assicurano che la loro vita non diventi miserabile per colpa della de-
vozione verso qualche inutile principio, qualche nobile ideale, che potrebbe essere proprio quello che ci farà piombare nella prossima guerra, e in quella dopo ancora. I nazisti hanno ragione. La vita è una lotta spietata. Nient'altro è reale. Niente.» Una volta di più, mi mostrai divertito. Trovavo le sue idee sciocche e prive di valore, piene solo di autocommiserazione. La logica di un uomo debole che per arroganza si ritiene più forte di quello che è. Ne avevo visti altri come lui. I loro insuccessi diventavano i fallimenti di intere classi sociali, governi, razze o nazioni. I più originali tendevano a incolpare l'intero universo della propria incapacità di essere gli eroi che immaginavano di poter diventare. L'autocompatimento tradotto in aggressività rappresenta una forza imprevedibile e meschina. «L'aumento della tua autostima sembra direttamente proporzionale al calo del tuo amor proprio» commentai. Come se fosse sua abitudine farlo, si voltò di scatto verso di me sollevando il pugno guantato. In quel momento i nostri occhi si incontrarono e lui abbassò il braccio, allontanandosi. «Oh, cugino, sai così poco della propensione degli esseri umani verso la crudeltà» sibilò. «Ti auguro di non doverla sperimentare ulteriormente. Basta che mi dici dove sono nascosti la spada e il calice.» «Non so niente di spade o di calici» risposi. «Né di lame gemelle.» Non mi ero mai avvicinato tanto a una menzogna, e non volevo andare oltre. Il mio senso dell'onore richiedeva che mi fermassi lì. Gaynor sospirò, tamburellando con il piede sulle antiche assi del parquet. «Dove puoi averla nascosta? Abbiamo trovato la custodia. Di certo l'avevi lasciata là per noi. In quella cantina. Il primo posto dove abbiamo guardato. Immaginavo che saresti stato tanto ingenuo da seppellire i tuoi tesori nel punto più profondo che riuscivi a trovare. Qualche colpetto sul muro e abbiamo scoperto lo spazio vuoto. Ma ti avevamo sottovalutato. Che ne hai fatto della spada, cugino?» Quasi scoppiai a ridere. Qualcun altro aveva rubato Brandocorvo? Qualcuno che non le attribuiva particolare valore? Non c'era da stupirsi se la casa era ridotta a quel modo. Gaynor pareva un lupo. Con lo sguardo continuava a perlustrare muri e fessure, aggirandosi nervosamente per la stanza mentre parlava. «Sappiamo che la spada si trova in questa casa. Non l'hai portata via. Non l'hai consegnata ai tuoi ospiti. Dunque, cugino, dove l'hai messa?» «L'ultima volta che ho visto Brandocorvo era in quella custodia.»
Era disgustato. «Come può un simile idealista essere anche un tale perfetto bugiardo? Chi altri avrebbe potuto togliere la spada dalla custodia, cugino? Abbiamo interrogato tutti i tuoi domestici. Persino il vecchio Reiter non ha confessato finché ciò che confessava era ormai chiaramente privo di significato. Tutto questo ci porta a te, cugino. Non nella cappa dei camini. Non sotto le tavole del parquet. Non in un pannello segreto o in uno stipo. Sappiamo come perquisire queste vecchie case. Non nelle soffitte né nelle grondaie, e neppure nelle travi o nelle pareti, da quanto abbiamo potuto vedere. Sappiamo che tuo padre ha perduto la coppa, questo l'abbiamo estorto a Reiter. Aveva sentito pronunciare un nome: Miggea. Lo conosci? No? Ah, già che siamo in argomento, vorresti vedere Reiter? Ti ci potrebbe volere un po' per riconoscere in lui qualcosa di familiare.» Non avendo nulla da guadagnare dal fatto di controllare la mia rabbia, mi tolsi la soddisfazione di assestargli un bel colpo sull'orecchio, come uno scolaro turbolento. «Calmo, Gaynor. Le tue parole erano banali come quelle del cattivo di un'opera lirica. Qualunque cosa tu abbia fatto a Reiter o faccia a me, sono certo sia la cosa più odiosa che il tuo ripugnante cervello è in grado di inventare.» «Al punto in cui siamo, l'adulazione mi pare un po' inutile.» Bofonchiò tra sé mentre, massaggiandosi l'orecchio, avanzava deciso tra le rovine del mio studio. Era avvezzo alla brutalità del potere. Agiva come una scimmia delusa. Cercava di riprendere il controllo, ma ormai non sapeva quasi più come riuscirci. Infine recuperò una certa padronanza di sé. «Di sopra ci sono un paio di letti ancora in buone condizioni. Dormiremo là. Ti lascerò pensare alla questione durante la notte, poi sarò felice di consegnarti alle cure di Dachau.» E così, nella stanza dove mia madre mi aveva partorito e in cui era infine morta, dormii ammanettato alla testiera, con il mio peggior nemico nel letto accanto. I miei furono sogni di pallidi paesaggi in cui correva la lepre bianca, che mi conduceva da un uomo alto in piedi da solo in una radura. Un uomo che era il mio doppio, i cui occhi cremisi si fissavano nei miei e che con insistenza mormorava parole che io non riuscivo a udire. Provai un terrore profondo come mai prima. Per un attimo pensai di avere intravisto la spada. E mi svegliai urlando. Con grande soddisfazione di Gaynor. «Dunque sei rinsavito» mi disse. Si mise a sedere in un letto coperto da
lenzuola ricamate. Un contrasto stridente. Con indosso solo la biancheria di seta, balzò sul pavimento e suonò un campanello. Qualche istante dopo l'autista si presentò con un'uniforme stirata quasi alla perfezione. Mi tolsero le manette e mi consegnarono gli abiti dentro a una federa. Feci del mio meglio per apparire il più elegante possibile, mentre Gaynor attendeva con impazienza il proprio turno nell'unico bagno rimasto. L'autista ci servì pane e formaggio su dei piatti che aveva evidentemente lavato lui stesso. Notai escrementi di topo sul pavimento e mi ricordai di cosa mi aspettava. Dachau. Mangiai tutto il mio cibo. Avrebbe anche potuto essere l'ultimo. «La spada è da qualche parte nel parco?» domandò Gaynor. I suoi modi erano cambiati, mostrando impazienza. Terminai il formaggio e gli sorrisi allegramente. «Non ho idea di dove si trovi la spada» risposi. Mi sentivo il cuore leggero perché non dovevo mentire. «Si direbbe sia svanita per propria scelta. Avrà seguito il calice.» Alzandosi dalla sedia, mio cugino ringhiava. La mano sfiorò la pistola che portava nella fondina alla cintura, al che io risi ancor più di cuore. «Che ciarlatano sei diventato, Gaynor. Dovresti proprio recitare in qualche film. Herr Pabst non si lascerebbe sfuggire un attore del tuo calibro, se potesse vederti in questo momento. Come puoi sapere se sto dicendo la verità oppure no?» «I miei ordini sono di non offrirti alcun tipo di martirio pubblico.» La sua voce era così bassa e rabbiosa che a stento riuscivo a udirla. «Di assicurarmi che tu muoia in silenzio e ben lontano da occhi indiscreti. È solo questo che mi trattiene dal saggiare io stesso la tua conoscenza della verità. Quindi verrai restituito ai piaceri di Sachsenburg e da lì mandato in un vero campo, dove sanno come trattare la feccia come te.» Poi mi colpì deliberatamente con un calcio all'inguine e mi diede uno schiaffo. Ero di nuovo ammanettato. L'autista di Gaynor mi condusse dalla mia casa all'auto. Questa volta Gaynor mi fece sedere davanti, accanto allo chauffeur, mentre lui, con aria torva, si mise disteso sul sedile posteriore a fumare. Per quanto ne so, non mi ha più guardato dritto in faccia. Senza dubbio i suoi padroni cominciavano a pensare di averlo sopravvalutato. Come lui aveva fatto con me. Probabilmente la spada era stata salvata da Herr El, da 'Diana' e dalla Società della Rosa Bianca, che l'avrebbero utilizzata contro Hitler. La mia morte, il mio silenzio, non sarebbero
stati inutili. Sfruttai al meglio il viaggio, dormendo un po', mangiando tutto quello che avevo a disposizione, sonnecchiando ancora, cosicché prima che me ne rendessi conto ci ritrovammo ad attraversare i cancelli e a entrare nella grande ombra nera del castello di Sachsenburg. Ad attendermi c'erano Fritzi e Franzi. Mentre scendevo dall'auto, si fecero avanti quasi con entusiasmo. Erano chiaramente contenti di vedermi tornare a casa. Infatti, prima che la vettura di Gaynor se ne fosse andata rombando nella notte, mi avevano già buttato a terra a bastonate, intenti a riempire di lividi il mio corpo pelle e ossa. Da una finestra sopra di noi udii una voce, quindi venni trascinato, quasi privo di conoscenza, alla mia vecchia cella, dove Hellander e Feldmann si occuparono come poterono delle ferite più gravi mentre io giacevo su una branda in preda a forti dolori, certo di avere ben più di un osso rotto. La mattina seguente non fu per me che vennero. Vennero per Feldmann. Avevano capito come mettermi alla prova, e io non ero per nulla sicuro di riuscire a non crollare. Quando Feldmann tornò, non aveva più denti. La sua bocca era ridotta a una rossa ferita sanguinante e uno degli occhi pareva chiuso in modo definitivo. «Per l'amor di Dio,» disse con parole indistinte, il dolore dipinto sul volto a ogni movimento «non dire loro dov'è la spada.» «Credimi,» lo rassicurai «io non so dov'è. Ma darei qualunque cosa per averla tra le mani in questo momento.» Non fu un grande conforto per Feldmann. Il mattino dopo tornarono a prenderlo, e lo portarono via mentre gridava che razza di vigliacchi fossero, per riportarlo nel pomeriggio. Costole rotte. Parecchie dita. Un piede. Respirava a fatica, come se qualcosa gli opprimesse i polmoni. Mi disse di non arrendermi, che non ci avrebbero sconfitti, che non ci avrebbero divisi. Mentre facevamo del nostro meglio per alleviargli il dolore, sia Hellander sia io piangevamo. Ma lo portarono via di nuovo, per il terzo giorno consecutivo. E quella notte, con nessuna parte di lui che non fosse stata sottoposta a tortura, dentro e fuori, ci morì tra le braccia. Quando guardai Hellander negli occhi, vidi che era terrorizzato. Sapevamo perfettamente cosa stavano facendo e immaginava che il prossimo sarebbe stato lui. Ma persino mentre Feldmann esalava l'ultimo, flebile soffio di vita,
guardai oltre Hellander e scorsi, distinto eppure vagamente immateriale, il mio doppio. Quello strano albino col mantello i cui occhi erano i miei. E per la prima volta mi parve di cogliere le sue parole. «La spada» diceva. Hellander non mi stava guardando, fissava il punto in cui si era trovato l'albino. Gli chiesi se avesse visto qualcosa, ma scosse il capo. Sdraiammo Feldmann sul pavimento di pietra e cercammo di recitare un pietoso ufficio funebre, ma Hellander era sconvolto e non sapevo come aiutarlo. I miei sogni erano abitati dalla lepre bianca, dal mio doppio con il mantello con cappuccio, dalla spada nera che avevo perduta e dalla ragazza arciere che avevo soprannominato Diana. Nessun drago né città ricche di ornamenti architettonici. Nessun esercito. Nessun mostro. Solo il mio stesso volto che mi fissava, nel disperato tentativo di comunicarmi qualcosa. Poi la spada. Potevo quasi sentirla tra le mani. Nel dormiveglia, udii Hellander agitarsi e gli domandai se stava bene. Mi rispose che era tutto a posto. La mattina mi svegliai per scoprire il suo corpo appeso che ruotava lentamente nell'aria sopra quello di Feldmann. Mentre dormivo, aveva trovato una via di fuga. Passarono oltre ventiquattro ore, prima che le guardie rimuovessero i cadaveri dalla mia cella. MUSICA MARZIALE Fritzi e Franzi vennero da me un paio di giorni dopo. Senza neppure preoccuparsi di trasferirmi, estrassero i manganelli e presero a colpirmi sul posto. Ai due il lavoro piaceva, ed erano ormai diventati dei veri esperti, che commentavano le mie reazioni, la risposta del mio strano corpo pallido ai loro colpi. L'insolito colore delle mie contusioni. Si lamentavano, però, perché era difficile farmi emettere anche un solo suono. Un piccolo problema che ritenevano di riuscire a risolvere, prima o poi. Poco dopo che se ne furono andati, ricevetti la visita di Klosterheim, ora capitano delle SS, che mi offrì qualcosa da una fiaschetta che portava al fianco. Rifiutai. Non avevo nessuna intenzione di aiutarlo a drogarmi. «Una serie davvero sfortunata di incidenti, eh?» Si guardò intorno nella cella. «Deve trovare tutto questo un po' deprimente, signor conte.» «Oh, significa solo che non mi devo mischiare troppo con i nazisti» risposi. «Quindi suppongo che per me sia un vantaggio.»
«Trovo piuttosto difficile comprendere la sua idea di vantaggio,» replicò «dato che a quanto pare l'ha portata a questa spiacevole situazione. Quanto hanno impiegato i nostri ragazzi delle SA a dare il colpo di grazia al suo amico Feldmann? Certo lei può anche essere un po' più in forma, un po' più giovane. Quanto ci è voluto? Tre giorni?» «Per il trionfo di Feldmann?» ribattei «Tre giorni in cui è stata dimostrata ogni parola che aveva scritta su di voi. Avete confermato il suo giudizio in ogni minimo particolare. Avete dato ulteriore autorevolezza a tutto ciò che ha pubblicato. Nessuno scrittore può sentirsi meglio di così.» «Comunque si tratta sempre di vittorie da martiri. Gli uomini intelligenti le definirebbero prive di significato.» «Solo degli stupidi che si ritengono intelligenti le chiamerebbero così» dissi. «E sappiamo tutti quanto siano ridicoli simili palloni gonfiati.» Ero felice della sua presenza. L'odio che provavo per lui mi distoglieva la mente dalle mie miserie. «Ora glielo posso proprio dire capitano, che non ho nessuna coppa e nessuna spada da darle. Qualunque cosa lei creda, si sbaglia. Sarò felice di morire lasciandola nel dubbio, ma non voglio vedere altri che muoiono al posto mio. Assumendo il potere, signore, vi siete assunti anche delle responsabilità, che vi piaccia o no. Non è possibile avere l'uno senza le altre. Quindi le presento le sue colpe.» Gli voltai le spalle e lui se ne andò immediatamente. Qualche ora dopo arrivarono Fritzi e Franzi per continuare con i loro esperimenti. Nel preciso istante in cui svenni, ebbi la visione del mio doppio. Mi parlava con insistenza, ma ancora non riuscivo a sentirlo. Poi scomparve e il suo posto fu preso dalla spada nera, il cui ferro, che ora grondava costantemente sangue, mostrava le solite rune diventate però vive, scarlatte. Quando mi riebbi ero sulla branda, nudo e senza coperta. Compresi subito che avevano intenzione di uccidermi. Il metodo standard consisteva nell'affamare e lasciare al freddo un prigioniero finché diventava troppo debole per resistere alle infezioni, di solito alla polmonite. Era il sistema utilizzato quando ti rifiutavi di morire per un attacco cardiaco. Non ho mai capito con chiarezza il perché di una simile messa in scena. Supponevo che il 'messaggio' fosse un bluff. Se ancora pensavano che potessi condurli alla spada o al calice a cui attribuivano tanta importanza, non mi avrebbero ucciso. Infatti, a un certo punto il maggiore Hausleiter in persona entrò nella mia cella. Con lui c'era Klosterheim. Penso tentasse di ragionare con me, ma
era così incapace di esprimersi che le sue parole parevano prive di senso. Klosterheim mi ricordò che la sua pazienza si era esaurita e prese a profferire nuove minacce, terribili e al tempo stesso ridicole. Con cosa mai si può minacciare un dannato? Ero troppo debole per rispondere per le rime, ma riuscii ad atteggiare la mia bocca rotta e insanguinata a una sorta di sorriso. Mi chinai in avanti, come se volessi sussurrare un segreto, e osservai con soddisfazione il mio sangue che goccia a goccia cadeva sulla sua impeccabile uniforme. Gli ci volle un attimo per capire cosa era accaduto. Con sconcertato disgusto arretrò, spingendomi via e facendomi cadere sul pavimento. La porta sbatté e calò il silenzio. Quella notte non sarebbe stato torturato nessun altro. Quando tentai di rialzarmi, vidi che sulla mia branda era seduta una figura. Il mio doppio fece un gesto, poi parve piegarsi sul materasso spoglio. Strisciai fino al letto. Il mio doppio se ne era andato, ma al suo posto c'era Brandocorvo, la mia spada. La spada che tutti stavano cercando. Mi allungai a toccare quel ferro tanto familiare e mentre lo facevo, anche la spada scomparve. Eppure sapevo di non essermi immaginato nulla. Chissà come, la spada mi avrebbe ritrovato di nuovo. Ma non prima che Fritzi e Franzi tornassero ancora una volta. Anche mentre mi picchiavano, discutevano della mia capacità di resistenza. Pensavano che avrei potuto subire un'ulteriore 'ripassata fisica generale', dopo di che avrebbero dovuto lasciarmi in pace per un giorno o due altrimenti avrebbero rischiato di perdermi. Il maggiore von Minct sarebbe arrivato più tardi, magari con qualche buona idea in proposito. Quando la porta venne richiusa con violenza, lasciandomi nell'oscurità, rividi il mio doppio chiaramente incorniciato dagli stipiti. La sua sagoma era quasi incandescente. Poi si diresse verso la branda. Nonostante il dolore, voltai il capo per guardarlo, ma l'uomo era scomparso. Sapevo che non si trattava di un'allucinazione. Avevo la sensazione che se avessi avuto la forza di tornare al mio letto avrei rivisto la spada. In qualche modo quel pensiero mi permise di trovare dal nulla l'energia sufficiente. Centimetro dopo centimetro, strisciai fino al rozzo giaciglio e questa volta la mia mano toccò un oggetto di metallo. L'elsa della Spada del Corvo. Con infinita lentezza mossi le dita finché riuscirono ad afferrarla. Forse si trattava dell'illusione di un uomo morente, ma quel metallo pa-
reva davvero solido, e quando la mia mano serrò la presa, la spada emise un suono basso e sommesso, un canto di benvenuto, simile alle fusa di un gatto. Ero ben deciso a tenerla stretta, a non lasciarla scomparire di nuovo, anche se non avevo certo la forza per sollevarla. Stranamente il metallo sembrava caldo, e trasferiva energia alle mie mani e ai polsi, dandomi la possibilità di issarmi e quindi sdraiarmi sulla brandina per far scudo alla spada con il corpo in modo che nessuno, sbirciando all'interno della cella, potesse scorgerla. Il metallo era vibrante, quasi la spada fosse realmente viva. Pur se inquietante, quel pensiero non era bizzarro come mi sarebbe parso solo qualche mese prima. Non sono del tutto certo che fosse trascorsa una giornata. Avevo la mente piena di immagini e di racconti. In qualche modo la spada mi aveva contagiato, e quando tornarono Fritzi e Franzi avrebbe potuto essere la stessa notte, solo un po' più tardi. Avevano con sé degli abiti da prigioniero e mi strillarono di alzarmi. Intendevano portarmi dal maggiore von Minct. Avevo raccolto le forze e pregato perché quel momento arrivasse. Tenevo saldamente la spada con entrambe le mani e quando mi voltai sollevai la lama, lanciandomi dietro di essa con tutto il mio peso. La punta colpì il basso e grasso Franzi allo stomaco e lo passò da parte a parte con spaventosa facilità. Cominciò a sentirsi soffocare. Dietro di lui, Fritzi era pietrificato, ancora incerto su ciò che stava accadendo. Franzi urlò. Fu un grido lungo, gelido e angoscioso. Quando finì, io ero in piedi e impedivo a Fritzi di raggiungere la porta. Singhiozzava. Era evidente che qualcosa in me lo terrorizzava. Forse la mia improvvisa energia. Ero invaso da una forza rabbiosa, disumana. Ma ne ero felice. Avevo succhiato la linfa vitale di Franzi, assorbendola nel mio corpo. Per quanto disgustosa possa essere questa idea, ne presi atto senza la minima emozione persino mentre, con consumata abilità, facevo schizzare il randello dalla mano rossa, da contadino, di Fritzi e infilavo con precisione la punta della mia spada direttamente nel suo cuore pulsante. Il sangue zampillò per tutta la stanza, ricoprendo la mia pelle nuda. E fu a quel punto che scoppiai a ridere e sulle mie labbra prese forma una parola sconosciuta, udita solo in sogno. Altre parole si affollarono, ma non le riconobbi. «Arioch!» gridai mentre uccidevo «Arioch!» Ancora nudo, le costole rotte e il viso malconcio, una gamba che a stento riusciva a sostenere il mio peso e braccia che parevano troppo magre per reggere quel grande spadone da battaglia, presi le chiavi di Franzi e mi
spinsi a passi felpati nel buio del corridoio, aprendo le porte delle celle davanti a cui passavo. Non incontrai resistenza finché non raggiunsi la stanza delle guardie al lato estremo del passaggio. Là un paio di grassi appartenenti alle SA se ne stavano seduti a sonnecchiare per smaltire le troppe birre. Si accorsero di morire solo quando sentirono la mia lama entrare nel corpo e andarono ad accrescere la forza che a quel punto mi infuriava nelle vene, facendomi scordare tutto il dolore e le ossa rotte. Gridai quel nome, e in un istante trasformai la stanza in un mattatoio, con ossa e arti sparsi ovunque. Un tempo l'uomo civile avrebbe provato repulsione, ma i nazisti avevano cacciato dal mio corpo quell'uomo civile a furia di percosse e tutto ciò che restava era questo rabbioso mostro semi umano, assetato di sangue e di vendetta. Voleva uccidere. E io lasciai che uccidesse. Penso di aver riso. Penso di aver chiamato a gran voce Gaynor, perché venisse a cercarmi. Avevo la spada che tanto desiderava. E che lo attendeva. Nei corridoi alle mie spalle i prigionieri stavano uscendo dalle celle, ovviamente nel dubbio che si trattasse di qualche macabro trucco. Lanciai loro tutte le chiavi che si trovavano nella stanza delle guardie e mi allontanai nella notte. Mentre raggiungevo il cortile, nel castello cominciarono ad accendersi delle luci. Si erano uditi fastidiosi rumori e insolite grida provenienti dall'ala riservata alle prigioni. Io mi muovevo a balzi, come un vecchio lupo ferito attraverso il campo di concentramento, in direzione della fila di baracche in cui erano rinchiusi i prigionieri meno fortunati. Qualunque cosa mi minacciasse o tentasse di colpirmi, veniva uccisa. La spada era una falce che spazzò via cancelli di legno, filo spinato e uomini tutto in un colpo. Assestai un fendente al treppiede di legno di una mitragliatrice e la vidi crollare, trascinando con sé il filo spinato e rendendo così molto più facile la fuga. In meno di un battito di ciglia ero alle baracche, a troncare di netto i lucchetti e i catenacci che chiudevano le porte. Non so quanti nazisti uccisi prima che ogni baracca fosse aperta e i prigionieri, molti ancora terrorizzati, cominciassero a uscire. In cima alle mura del castello era stata accesa una delle fotoelettriche e udii il crepitio dei colpi indirizzati ai prigionieri e apparentemente sparati a casaccio. Poi vidi un gruppo di compagni di prigionia che nelle uniformi a strisce si arrampicavano sulle mura e raggiungevano la fonte del raggio luminoso. Qualche secondo e il campo era al buio, mentre anche altre luci venivano mandate in frantumi. Udii la voce del maggiore Hausleiter, folle di mille paure diverse, urlare al di sopra della baraonda generale.
Dio solo sa cosa tutto questo fece di me, che reggevo in una mano martoriata un enorme spadone dalla lama a forma di foglia, la pelle bianca come osso coperta di sangue, gli occhi cremisi illuminati dall'estasi della vendetta più sfrenata, mentre gridavo a squarciagola un nome sconosciuto. Arioch! Arioch! Quale che fosse il demone che mi possedeva, di certo non aveva le mie convinzioni riguardo alla sacralità della vita umana. Quel mostro era sempre stato nascosto dentro di me, in attesa di essere risvegliato? O era il mio doppio, che confondevo con la spada stessa, che traeva tale selvaggia soddisfazione da quell'implacabile spargimento di sangue? Il fuoco delle mitragliatrici cominciava a crepitare attorno a me, e insieme agli altri prigionieri mi misi a correre verso la sicurezza delle mura e delle baracche. Alcuni dei detenuti, evidentemente pratici di risse, raccolsero velocemente le armi degli uomini che avevo ucciso. Ben presto i colpi partivano anche dal buio del cortile e almeno una mitragliatrice venne messa a tacere. I prigionieri non avevano bisogno di me. I loro capi erano ben addestrati e in grado di prendere decisioni rapide. Con il campo ormai nella confusione più totale, rientrai nel castello e presi a salire le scale alla ricerca degli alloggi di Gaynor. Avevo a mala pena raggiunto il secondo piano quando davanti a me vidi la stessa cacciatrice incappucciata che avevo già incontrato insieme a Herr El, quella misteriosa 'Diana' che mi era apparsa anche in sogno. Come al solito aveva gli occhi nascosti da lenti affumicate. I capelli pallidi erano sciolti. Anche lei, come me, era albina. «Non c'è tempo per Gaynor» disse. «Dobbiamo allontanarci da qui subito o sarà troppo tardi. Hanno un'intera guarnigione di camicie brune nel villaggio di Sachsenburg, ed è molto probabile che qualcuno abbia inviato un messaggio per telefono. Venga, mi segua. Un'auto ci aspetta.» Come era entrata nella prigione? Era stata lei a portarmi la spada? O era stato il mio doppio? Agivano insieme? Era venuta a salvarmi? Impressionato dalle capacità della Rosa Bianca, obbedii. Mi ero già messo al servizio della Società ed ero pronto a eseguire gli ordini. Parte della brama di battaglia cominciava ad abbandonarmi, ma quella strana e oscura energia restava. Mi sentivo come se avessi inghiottito una droga potentissima che poteva avere effetti collaterali distruttivi. Ma in quel momento non mi importava delle conseguenze. Ero finalmente riuscito a vendicarmi di quei bruti che avevano ucciso tanti innocenti. Non ero
orgoglioso delle nuove sensazioni che si agitavano nel mio corpo, ma allo stesso tempo non le respingevo. Seguii la donna incappucciata attraverso la confusione che regnava nel campo, fino all'ingresso principale. Le guardie erano già morte. La cacciatrice si fermò per estrarre dai corpi le sue frecce, quindi aprì i cancelli e mi fece uscire, proprio mentre il sistema di illuminazione di emergenza cominciava a entrare in funzione tremolando. I prigionieri liberati presero a irrompere attraverso i cancelli e ci superarono, fuggendo nella notte. Almeno alcuni di loro non avrebbero patito una morte oscura, dolorosa e indegna. Quando raggiungemmo la strada carrozzabile, udii un motore prendere vita rombando. I fanali si avvicinarono e il clacson emise tre brevi suoni. La mia cacciatrice mi condusse verso la potente auto. Un bell'uomo di circa quarant'anni, con un'uniforme che non fui in grado di riconoscere, ci salutò da dietro il volante. Quando gli sedemmo accanto, l'automobile era già in marcia. Parlava un ottimo tedesco, con un indubbio accento inglese. A quanto pareva, il servizio segreto britannico si trovava già in Germania. «Onorato di conoscerla, caro conte. Sono il capitano Oswald Bastable, LTA, al suo servizio. La situazione è migliorata ultimamente da queste parti. Sul sedile posteriore ci sono degli abiti per lei, ma potremo fermarci solo tra un po'. Il programma è alquanto fitto al momento.» Si rivolse alla mia compagna. «Ha intenzione di portarli a Motn.» Alcuni colpi di arma da fuoco sollevarono attorno a noi polvere e terriccio, e almeno un proiettile colpì l'automobile. Il furore battagliero mi stava ormai abbandonando e abbassai lo sguardo sul mio corpo martoriato, accorgendomi di essere una massa di sangue e lividi. Completamente nudo. Ma con uno spadone sanguinario stretto tra le dita spezzate della mano destra. Dovevo essere uno spettacolo da incubo. Cercai di ringraziare l'inglese, ma venni spinto all'indietro sul sedile dalla famosa accelerazione della potente Dusenberg che ci portò rapidamente lungo una strada di campagna, dritti verso un gran numero di fanali che sopraggiungevano dalla direzione opposta. Senza dubbio le camicie brune provenienti dalla cittadina di Sachsenburg. Il capitano Bastable pareva imperturbabile, mentre infilava le fasce naziste sulle maniche. «Sarebbe meglio si comportasse come se fosse fuori combattimento» mi disse. Quando la prima camionetta ci passò accanto, rallentò e gesticolò deciso fuori del finestrino. Fece il saluto romano e scambiò due rapide parole con l'autista, consigliandogli di essere prudente.
I prigionieri stavano fuggendo. Avevano preso in ostaggio parecchie guardie, costringendole a indossare le divise a strisce prima di lasciarle libere per la campagna. C'erano molte probabilità che se avessero sparato a un uomo senza prima accertarsi della sua identità, avrebbero potuto uccidere uno dei loro. Quell'assurda storia avrebbe creato un bel po' di confusione e probabilmente salvato la vita a qualche prigioniero. Affermando di avere affari urgenti da svolgere a Berlino, Bastable convinse le camicie brune, a cui di rado appartenevano individui particolarmente brillanti, a lasciarci passare, e queste se ne andarono rombando nella notte. Per diverse ore, Bastable mantenne una velocità di crociera alquanto sostenuta, finché prendemmo una stradina in salita in mezzo a una macchia di pini scuri. Mi ricordava i monti Harz, dove da ragazzo andavo spesso a fare passeggiate. Infine vidi un cartello che indicava Magdeburgo. Trenta chilometri. Ovviamente Sachsenburg si trovava a est di Magdeburgo, che a sua volta era a nord del massiccio degli Harz. A un incrocio, un altro cartello. Halbertstadt, Magdeburgo e Berlino da un lato, Bad Harzburg, Hildesheim e Hannover dall'altro. Prendemmo la strada per Hannover ma, prima di Hildesheim, Bastable si infilò in una serie di stretti viottoli tortuosi, spense i fari e rallentò. Stava guadagnando tempo, o almeno lo sperava. Infine si fermò accanto a un ruscello con le rive ampie e piatte, dove avrei facilmente potuto scendere a lavarmi per bene nell'acqua gelida. Per quanto fosse fredda, mi sentii purificato, e mi asciugai con gli asciugamani portati da Bastable. Esitai un istante quando mi accorsi che gli abiti che mi tendeva erano i miei, quelli, però, che si indossano per andare a caccia, compresi persino gli stivaloni di pelle. Il mio abbigliamento includeva calzoni alla zuava di tweed e berretto da cacciatore con paraorecchi, che mi annodai sotto il mento. Dovevo avere l'aspetto di un clown bianco che finge di essere un gentiluomo di campagna, ma il berretto nascondeva i capelli nivei, rendendomi quindi molto meno rapidamente identificabile da chiunque avesse avuto una nostra descrizione. Infilai il giaccone e mi sentii pronto a tutto. A livello psicologico, gli abiti erano stati un toccasana. Non ero tanto certo che sarebbero sembrati adatti a uno spadone a due mani, come invece lo erano a un più consono fucile calibro dodici, ma forse se avessi avvolto la spada in qualcosa, sarebbe parsa meno incongruente. Bastable aveva modi e aspetto da militare esperto. Quando tornai all'auto stava leggendo una cartina e scuotendo il capo. «Possibile che da queste parti il nome di ogni dannatissima cittadina cominci con 'H'!» si lamentò.
«Faccio una gran confusione. Penso che a Holzminden avrei dovuto voltare a destra. O era Höxter? Comunque, si direbbe che abbia oltrepassato il punto dove dovevo svoltare. Sembra che ci troviamo a metà strada verso Hamm. Albeggerà molto presto e voglio nascondere la macchina. Abbiamo degli amici a Detmold e a Lemgo. Credo che dovremmo farcela a raggiungere Lemgo prima del levar del sole.» «Ci sta portando fuori del paese?» domandai. «È l'unica alternativa?» «Be', probabilmente è proprio questo che dovremo fare.» Il bel volto dai tratti aquilini aveva un'aria pensosa. «Speravo di terminare il viaggio stanotte, avrebbe fatto una grande differenza. Ma se ci rifugiamo a Lemgo, che è abbastanza difficile da raggiungere, avremo comunque la possibilità di liberarci di Gaynor. Certo, se l'auto è stata riconosciuta, è probabile che Klosterheim indovini dove siamo diretti. Ma ho preso strade poco trafficate. Dormiremo a Lemgo e domani sera saremo pronti per la seconda parte del tragitto.» Per la stanchezza mi appisolai, ma venni risvegliato quando la macchina prese a sballottarci, ondeggiando su una stradina ripida, approssimativa e piena di buche che Bastable stava affrontando come meglio poteva. Poi, all'improvviso, stagliata contro le prime luci dell'alba all'orizzonte, vidi una straordinaria serie di tetti, camini e timpani che al confronto faceva apparire Bek davvero futuristica. Davanti agli occhi avevo un'illustrazione tratta da un libro di favole per bambini. Sembrava che a bordo della nostra imponente auto moderna fossimo entrati nel mondo di Hansel e Gretel e ci si fossero spalancate le porte di un fantasy di ambientazione medievale. Ovviamente, eravamo giunti a Lemgo, quella cittadina così stranamente piena di sé da abbellire ogni aspetto della propria immagine fiabesca nel modo più elaborato. La sua singolarità nascondeva una storia oscura e terribile. C'ero già stato un paio di volte durante delle vacanze caratterizzate da molte passeggiate, ma mi ero fermato solo per breve tempo a causa dei troppi turisti. Per arrivare fin qui da Sachsenburg avevamo seguito una via tortuosa che con ogni probabilità aveva fatto perdere la nostre tracce agli eventuali inseguitori. Non feci domande. Ero troppo stanco e mi rendevo conto che la Società della Rosa Bianca doveva essere prudente riguardo ai propri segreti. In quel momento ero felice di essere uscito da quello che era stato un lunghissimo incubo. Mi chiesi se per i miei liberatori Lemgo avesse un significato particolare. Era la quintessenza della pittoresca stravaganza tedesca. Città fortifica-
ta, membro della Lega Anseatica, aveva conosciuto il vero potere, ma ora era quasi deliberatamente un luogo appartato, ancora sotto la protezione dei duchi di Lippe, con i quali eravamo imparentati alla lontana. Le sue strade erano una meraviglia, perché gli abitanti facevano a gara per realizzare facciate elaboratissime, intagliando ogni genere di animale o personaggio tipici del folclore locale, incidendo citazioni dalla Bibbia e versi di Goethe, dipingendo stemmi, blasoni e figure che illustravano la storia mitica della regione. Sull'abitazione del borgomastro spiccava un bassorilievo rappresentante un leone che attacca una madre e il suo bambino mentre due uomini tentano invano di cacciarlo. La casa conosciuta come Vecchia Lemgo era decorata con motivi floreali e disegni di piante di ogni genere, ma la più elaborata di tutte, rammentai, si trovava in Breitestrasse, risaliva al sedicesimo secolo ed era chiamata Hexenbürgermeisterhaus, la casa del Borgomastro delle Streghe. Le diedi un'occhiata mentre l'auto scivolava silenziosa tra le vie ancora addormentate. Con eleganti timpani smerlati, la facciata massiccia saliva verso la nicchia alta in cui Cristo reggeva il mondo tra le mani, mentre più in basso Adamo ed Eva sostenevano un altro timpano. Ogni parte della decorazione in legno era intagliata riccamente e con fantasia. Un perfetto esempio di edificio germanico. La sua dolcezza, però, veniva un po' rovinata quando si scopriva che il nome le derivava da un famoso bruciatore di streghe, il Burgermeisfer Rothmann, che nel 1667, il suo anno migliore, aveva messo al rogo venticinque donne. Il suo predecessore non aveva bruciato solo donne, ma anche uomini, incluso il pastore della chiesa di St. Nicholas. Altri pastori erano fuggiti o erano stati allontanati dalla città. La bella casa del boia in Neuestrasse portava scritte alcune frasi pie. Se l'era passata bene, uccidendo streghe. Non potei non pensare che quel luogo fosse in qualche modo simbolo della nuova Germania, con il suo sentimentalismo, la versione folcloristica della storia, il profondo odio per qualunque cosa mettesse in discussione i suoi stucchevoli sogni di casa e focolare. La città non mi sarebbe mai parsa sinistra, prima del 1933. Quella che avrebbe dovuto essere un'innocente nostalgia si era trasformata, nel contesto attuale, in romanticismo minaccioso e corrotto. Bastable guidò l'auto sotto un passaggio a volta, attraverso un doppio portone e infine in un garage. Qualcuno ci stava aspettando e le porte vennero richiuse immediatamente. Una lampada a olio si accese, ed ecco Herr El che sorrideva per il sollievo. Si fece avanti per abbracciarmi ma lo pregai di non farlo. In me abitava ancora l'energia che parevo avere ricevuto
dalla spada, ma le mie ossa erano comunque rotte e ammaccate. Attraversammo una piccola corte interna quadrangolare e superammo un'altro vecchio portoncino. L'architrave era talmente basso che dovetti chinarmi per passare, ma il luogo era confortevole e aveva un aspetto rilassante, quasi fosse protetto da un incantesimo. Herr El chiese se poteva esaminare le mie ferite. Io acconsentii e ci dirigemmo verso una piccola stanza accanto alla cucina. Pareva attrezzata come una sala operatoria. Forse Herr El fungeva da medico per la Società della Rosa Bianca. Me lo immaginai mentre proprio in quella stanza curava ferite da arma da fuoco. Mentre mi visitava, fece qualche commento sui pestaggi che avevo subito: roba da esperti. «Quei tipi sanno quello che fanno. Suppongo riescano a tenere in vita per parecchio tempo un uomo inizialmente in buone condizioni di salute. E lei, conte von Bek, era sorprendentemente in forma. Si direbbe che tutti quegli allenamenti con la spada abbiano dato i loro frutti. Penso proprio che non le ci vorrà molto per guarire, ma gli uomini che le hanno fatto questo erano degli scienziati!» «Be',» replicai torvo «a quest'ora stanno esponendo il loro sapere ai colleghi scienziati dell'inferno.» Herr El emise un lungo sospiro. Mi medicò le ferite e le fasciò. Era evidente che aveva una preparazione medica. «Dovrà accontentarsi di questo. Teoricamente dovrebbe stare a riposo, ma da domani avrà ben poco tempo per farlo. Sa cosa sta succedendo?» «Ho capito che mi si sta conducendo in un luogo sicuro attraverso qualche segreta via clandestina» risposi. Abbozzò un timido sorriso. «Con un po' di fortuna» commentò. Mi chiese di raccontargli tutto ciò che riuscivo a ricordare. Quando gli feci notare il modo in cui mi ero sentito posseduto, come se qualche diabolico me stesso avesse preso il sopravvento, mi appoggiò una mano compassionevole sul braccio. Ma non poté o non volle rivelarmi il mistero. Mi diede qualcosa per aiutarmi a dormire. Per quanto potei ricordare al risveglio, fu un sonno senza sogni e ininterrotto finché sentii che la giovane donna mi scuoteva con gentilezza e la udii dire che dovevo alzarmi a mangiare qualcosa. Nella sua voce si percepiva una nota di urgenza che mi fece svegliare immediatamente. Una breve doccia, del prosciutto con uova sode, un pezzo di buon pane e burro, che mi ricordarono quanto può essere delizioso il cibo quotidiano, e mi affrettavo già verso il garage, dove Bastable mi aspettava al posto di guida con la ragazza seduta accanto. Ora portava le frecce in un cesto, e l'arco era diventato una specie di bastone.
Si era invecchiata fino a sembrare una settantenne. Bastable indossava l'uniforme stile SS, mentre io avevo di nuovo i miei abiti da campagna, con un berretto a coprire i capelli bianchi e lenti affumicate a nascondere gli occhi rossi. Mentre salivo nella Duesenberg, la giovane si voltò verso di me. «Possiamo ingannare praticamente chiunque tranne von Minct e Klosterheim. Hanno dei sospetti sulla nostra vera identità e non ci sottovalutano. Gaynor, come lo chiama lei, è dotato di un istinto davvero notevole. Come ci abbia individuati così presto è impossibile saperlo, ma la sua auto è già passata da Kassel e non si può dire chi di noi giungerà per primo alla destinazione finale.» Le domandai quale fosse e lei nominò un'altra pittoresca cittadina caratterizzata da un'autentica leggenda. «La città di Hameln, ad appena qualche chilometro da qui. Ci si arriva per una strada orribile.» Qualcuno potrebbe quasi definirla la città più famosa della Germania. Era nota in tutto il mondo, soprattutto in Inghilterra e in America, e ricordata per topi, bambini, e un pifferaio magico. Spesso viaggiavamo ancora a fari spenti, facendo tutto il possibile perché l'auto non venisse identificata. Una macchina meno solida ci avrebbe lasciati a piedi già da un po', ma il veicolo americano era uno dei più affidabili mai prodotti, al pari delle migliori Rolls-Royce o Mercedes e in grado di raggiungere persino velocità maggiori. Il rumore sordo del motore, mentre viaggiava ad almeno settantacinque chilometri l'ora, era simile al battito forte e regolare di un cuore gigantesco. Mentre ne ammiravo lo stile esuberante e romanticamente ottimistico, mi chiedevo se l'America non sarebbe stata il nostro punto di arrivo o se avrei imparato a combattere Hitler da qualche luogo più vicino a casa. Sotto la luce della luna ci scorrevano accanto dirupi e foreste. Monasteri e villaggi, chiese e fattorie. Tutto ciò che di più durevole e tipico c'era in Germania. E tuttavia, quella storia, quel folclore e quella mitologia erano proprio quanto i nazisti avevano cooptato, identificandoli con tutti gli aspetti meno nobili dei tedeschi e della Germania. A volte credo che il reale stato di salute di una nazione si possa misurare dal grado di sentimentalismo di cui ammanta l'esperienza. Finalmente scorgemmo il Weser, una lunga cicatrice d'acqua scura in lontananza, e sulle sue rive la città di Hameln, con i vecchi e solidi palazzi in pietra e legno, la casa del Rattenfänger, l'acchiappatopi, e la Hochzeitshaus, dove si dice che Tilly e i suoi generali avessero trovato alloggio la notte prima della marcia su Magdeburgo. In quell'occasione, un mio stesso
antenato, mio omonimo, aveva combattuto con Tilly, con grande vergogna dell'intera famiglia. Svoltammo a un angolo quasi cieco e senza il minimo preavviso ci trovammo di fronte il nostro primo blocco stradale. Erano delle SA. Bastable sapeva benissimo che se ci avessero perquisiti avrebbero capito subito che non eravamo quelli che sembravamo. Dovevamo tirare dritto. Perciò quando la nostra auto rallentò, alzai il braccio nel saluto romano, strillai una serie di ordini, facendo riferimento a questioni urgenti e traditori alla macchia, mentre Bastable faceva del suo meglio per sembrare un autista delle SS. Le camicie brune, confuse, ci lasciarono passare. Mi augurai che non fossero costantemente in contatto con altri sulla nostra strada. Senza alcuna possibilità di girare attorno a Hameln, e io temevo addirittura che un vecchio ponte non permettesse a un'auto larga quanto la nostra di attraversare il Weser, non avevamo scelta. Bastable diminuì la velocità, indossò il berretto e assunse un'aria solenne. Ero un civile di grande importanza, forse con la propria madre. Raggiungemmo il piccolo traghetto senza incidenti, ma fu subito chiaro che non avrebbe potuto reggere il peso della macchina. Bastable la portò il più vicino possibile al ponte e ci fece strada a piedi. Non avevamo armi, se si escludono l'arco della ragazza e la spada nera che mi portavo in spalla mentre, buon ultimo, avanzavo zoppicando. Attraversato il ponte, Bastable ci condusse verso un sentiero a stento visibile al nebbioso chiaro di luna. Intravidi il fiume, le luci di Hameln, gruppi di alti alberi, pendii boscosi. Forse anche dei fari di automobili in lontananza. Sembravamo inseguiti da un piccolo esercito. Bastable allungò il passo e io faticavo a seguirlo. Sapeva con esattezza dove stava andando ma era anche sempre più preoccupato. Da un punto imprecisato udimmo dei motori rombare, l'urlo di qualche clacson, e capimmo che Gaynor e Klosterheim erano arrivati per primi. C'era forse un modo di raggiungere in auto il luogo dove Bastable ci stava portando? O avrebbero dovuto seguirci a piedi? Ansimando tentai di porre a Bastable alcune di queste domande. Lui rispose in tono pacato. «Dovranno dividersi in due gruppi, secondo me. Uno proveniente da Hildesheim e l'altro da Detmold. Con il fiume non avranno problemi, ma le strade sono piuttosto brutte e non so quanto siano buone le loro auto. Se sono dotati di Dornier-Ford-Yates, per esempio, siamo surclassati. Quei mostri possono viaggiare su qualunque terreno. Siamo quasi alla gola ora. Possiamo solo pregare che non ci abbiano pre-
ceduti, ma non dobbiamo sottovalutare Gaynor.» «Lo conosce?» «Non qui» fu l'enigmatica risposta di Bastable. Camminavamo barcollando in una gola stretta che pareva senza uscita. Cominciavo a essere sospettoso: per un attimo pensai che Bastable ci avesse fatti finire in una trappola, ma poi ci disse di fare silenzio e fece strada lungo il lato di un canyon, mantenendosi nell'oscurità più profonda. Avevamo quasi raggiunto la liscia lastra di granito che ci chiudeva la strada quando all'improvviso dall'alto e dai lati si udirono delle voci. Ci fu una grande confusione. Fari si accesero e si rispensero. Una trappola male organizzata. «La spada!» mi gridò Basatable, gettandosi contro la roccia quando i raggi delle torce si mossero alla nostra ricerca. «Von Bek, deve colpire con la spada.» Non capivo cosa intendesse dire. «Colpire cosa?» «Questa, amico. Questa parete. Questa roccia!» Di nuovo udimmo il rombo dei motori, e all'improvviso dei potenti fari squarciarono l'oscurità. Sentii la voce di Gaynor ordinare all'auto di avanzare. L'autista, però, aveva qualche difficoltà, e solo con una terribile grattata del cambio, uggiolando e tossendo, il veicolo si mosse. «Arrendetevi!» Questo era Klosterheim, dall'alto, che urlava aiutato da un megafono. «Non avete scampo!» «La spada!» sibilò Bastable. La giovane donna si mise la faretra in spalla e incordò l'arco dagli strani intagli. Ma si aspettavano davvero che mi aprissi la strada a fendenti attraverso la roccia? Quell'uomo era pazzo. Forse erano tutti pazzi, e solo perché ero frastornato avevo potuto pensare che fossero i miei salvatori? «Colpisca la roccia» disse la ragazza. «Bisogna farlo. È l'unica cosa che ci può salvare.» Proprio non riuscivo a crederci, ma obbedii e tentai di sollevare lo spadone sopra la testa. Per un attimo fui certo di fallire ma poi, in piedi di fronte a me, ecco ancora il mio doppio etereo. In maniera indistinta ma evidentemente dolorosa, mi fece cenno di seguirlo, quindi si diresse verso la roccia e scomparve. Gridai, e con tutta la forza che avevo in corpo portai la grande lama nera da battaglia a colpire la parete di granito. Si udì un suono insolito, come di ghiaccio che si spezza, ma la roccia resistette. E con mio grande stupore, lo
stesso valse per la spada. Pareva non averne risentito affatto. Da un punto alle mie spalle crepitò una mitragliatrice. Di nuovo brandii la spada, e di nuovo colpii la roccia. Questa volta dalle profondità del granito si udì uno schianto sommesso e lamentoso, e su tutta la lunghezza della lastra apparve una sottilissima crepa. Barcollai all'indietro. Se la spada non fosse stata bilanciata alla perfezione non avrei potuto sferrare un terzo fendente. Ma lo sferrai. E all'improvviso la spada prese a cantare: chissà come, le vibrazioni del metallo si unirono a quelle della roccia, a produrre una stupefacente armonia. Risuonò profondamente in tutto il mio essere, propagandosi sempre più forte finché non riuscii a sentire altro. Cercai di sollevare la spada per la quarta volta, ma il tentativo fallì. Con fragore assordante, la grande lastra si aprì. Si spaccò come un asse di legno, con un acuto scricchiolio, e qualcosa di freddo e di antico sgorgò dalla fenditura, sommergendoci. Bastable aveva il fiato grosso. La ragazza aveva smesso di tirare frecce tra i ranghi nazisti, ma era impossibile vedere se era riuscita a colpire qualcuno. Bastable barcollò in avanti, e noi lo seguimmo, all'interno di una caverna gigantesca il cui pavimento, all'entrata, era liscio come marmo. Udimmo echi remoti. Suoni simili a voci umane. Lontani rintocchi di campana. Il grido di un gatto. Ero terrorizzato. Che mi trovassi davvero alle porte dell'Inferno? Sapevo che se la parete di roccia si fosse richiusa dietro di me, come nella leggenda di Hameln, sarei rimasto sepolto vivo, separato per sempre da tutto ciò che avevo amato o apprezzato. L'enormità di quanto era accaduto, cioè che con la spada avessi chissà come creato una risonanza in grado di aprire una fessura nella roccia grande abbastanza da rivelare la presenza di una caverna, avvalorava una bizzarra leggenda che tutti sapevano essere nata nel tredicesimo secolo. Penso di essere stato sul punto di perdere i sensi, ma poi la ragazza mi prese sottobraccio e ricominciai a camminare arrancando, dato che ogni contusione, ogni frattura e ogni ferita mi causavano un dolore quasi insopportabile. Nel buio. Bastable si era slanciato in avanti e non riuscivamo più a vederlo. Lo chiamai ad alta voce e mi rispose: «Dobbiamo arrivare alla foresta di stalagmiti al più presto. Coraggio, amico. La parete resterà aperta per qualche istante e a Gaynor non manca certo il coraggio di seguirci!» Un forte strido. Un lampo di luce bianca indicò che l'auto di Gaynor aveva davvero raggiunto l'entrata della caverna e si stava addentrando. Pa-
reva un cacciatore impazzito all'inseguimento della preda. La macchina sembrava un focoso destriero, viva. Nessun ostacolo, nessuna considerazione contava, pur di non perdere le nostre tracce. Udii di nuovo il rumore dei fucili. Qualcosa cominciò a suonare come un campanello, poi a tintinnare come vetro. Un proiettile di grosso calibro uscì fischiando dall'oscurità per andare a frantumarsi a poca distanza da me. I frammenti mi impolverarono da capo a piedi. I colpi stavano disturbando le rocce e le formazioni ghiacciate tipiche delle grotte di quel genere. Alla luce dei fari dell'auto di Gaynor, guardai all'insù: qualcosa di nero entrò e uscì dal mio campo visivo. Notai che anche Bastable e la giovane arciera stavano fissando il soffitto, altrettanto preoccupati di quanto le armi da fuoco avrebbero potuto far staccare. Un'altra lancia di roccia precipitò al suolo e alcune schegge mi colpirono al viso e alle mani. Spostai di nuovo lo sguardo verso l'alto, persi l'appoggio di un piede e di colpo mi ritrovai a scivolare in basso su quello che pareva essere un ripido pendio di roccia scistosa. Sopra di me, udii Bastable strillare: «Si aggrappi alla spada, conte Ulric. Se dovessimo perderci, vada a Morn, cerchi gli Off-Moo.» Quei nomi erano per me del tutto privi di significato, quasi ridicoli. Ma non avevo il tempo di pensarci mentre facevo il possibile per frenare la caduta e allo stesso tempo tenermi stretto a Brandocorvo. Non avevo nessuna intenzione di lasciare andare quella spada. Eravamo diventati tutt'uno. Uomo e spada, esistevamo solo in grazia di una qualche empia unione, due parti ognuna dipendente dall'altra. Ero convinto che se una fosse stata distrutta, anche l'altra avrebbe cessato di esistere. Una prospettiva che pareva sempre più realistica, dato che la ripidezza del pendio continuava ad aumentare e la mia velocità raggiunse i limiti di una caduta libera, che mi fece precipitare sempre più giù, a profondità impossibili. PROFONDITÀ DELLA NATURA Stavo piangendo di dolore quando infine il mio corpo si fermò. Non so come ero riuscito ad assicurare la mano all'elsa della spada. L'istinto mi diceva che la lama nera rappresentava la mia unica possibilità di sopravvivenza, anche se in realtà non avevo alcun motivo per restare vivo. Pensavo di non avere neppure un osso che non fosse rotto, ma per fortuna il pesante berretto imbottito aveva protetto almeno la testa da colpi pericolosi. La
visiera mi era calata sugli occhi, ma quando la sollevai mi ritrovai a fissare il buio più totale. Qualche grido e qualche colpo d'arma da fuoco risuonavano molto lontano, a una grande distanza sopra di me. Eppure erano l'unico contatto che avevo con l'umanità. Fui tentato di urlare, di dire dove mi trovavo, pur sapendo che mi avrebbero ucciso e rubato la spada. Non che sarei riuscito, a urlare. Ero fortunato ad avere ancora la vista. Scorsi le loro luci apparire in lontananza, dietro una cresta. Ciò mi diede una vaga idea dell'altezza del precipizio. Non potevo essere certo di avere raggiunto il fondo. Per quanto ne sapevo, avrei potuto fare un paio di passi e poi cadere in un abisso gelido e senza fine e precipitare per sempre nel limbo, mantenuto in eterno tra la vita e la morte, tra la consapevolezza e il cupo oblio. Un destino a cui avevano alluso tutti quei terribili sogni. Sogni che ora sembravano presaghi di questa avventura attimo dopo attimo più grottesca. Con un certo sollievo, però, ormai riuscivo a vederne la fine. Qui, nessuno mi avrebbe trovato. Ben presto mi sarei addormentato e sarei morto. Avrei fatto quanto potevo contro i nazisti, e dato la mia vita per una giusta causa. Per di più, sarei morto con la mia spada, mio dovere e mia difesa, senza aver capitolato, come avevo sempre sperato di morire, se morire dovevo. Ben pochi possono augurarsi di meglio, di questi tempi. Poi qualcosa mi sfiorò il viso. Una farfalla notturna? Udii la voce della ragazza. Un sussurro accanto all'orecchio: «Resti in silenzio finché non se ne saranno andati.» La sua mano trovò la mia. Fui sorpreso da quanto mi fu di conforto quel gesto. Respiravo a fatica, tremando. Non c'era un centimetro del mio corpo che non fosse ferito, ma quel tocco annullò la sensazione di dolore. Mi sentii immediatamente rincuorato. Per quella ragazza, ancora quasi una bambina, provavo sentimenti che mi era difficile identificare, di cameratismo, probabilmente. L'attrazione sessuale verso di lei era molto lieve, e la cosa mi sorprese perché aveva una sensualità e una grazia che avrebbero attirato la maggior parte degli uomini. Forse ero al di là della passione e della lussuria. In condizioni come le mie, esigenze come quelle diventavano nevrotiche e autodistruttive, o almeno così mi era sempre parso osservando gli erotomani della famiglia. Per loro l'odore della polvere da sparo aveva un qualcosa di delizioso. Le domandai se, date le circostanze, non potesse rivelarmi il proprio nome. Era davvero 'Gertie'? La udii ridere. «Non sono mai stata Gertie. Il nome Oona le suona familiare?»
«Solo a causa di Spenser. La Signora della Verità.» «Be', forse. E mia madre? Non la ricorda?» «Sua madre? Dovrei conoscerla? Dove l'ho incontrata? A Bek? A Berlino? Mirenburg?» Può sembrare ridicolo, ma mi sentivo come se avessi fatto una gaffe in società. «Mi scusi...» «A Quarzasaat» rispose, arrotando le vocali esotiche in un modo che mostrava qualche familiarità con l'arabo. Non conoscevo quel luogo e glielo confessai. Ebbi la sensazione che non mi credesse del tutto. «Be', grazie Fräulein Oona» dissi, con tutta la mia vecchia e alquanto rigida cortesia. «Lei è stata una vera benedizione.» «Lo spero.» Nel buio la sua voce aveva assunto un tono un po' distaccato, come se stesse prestando attenzione a qualcos'altro. «Mi chiedo cosa sia accaduto a Bastable» continuai. «Oh, non è un problema. Sa badare a se stesso. Anche se dovessero catturarlo, saprebbe liberarsi, in un modo o nell'altro. Almeno per un po' il suo ruolo in tutto questo è finito. Ma ho soltanto le sue indicazioni per trovare il fiume che, assicura lui, ci porterà alla città di Mu Ooria.» Il nome suonava vagamente familiare. Mi ricordai di un volume nella mia biblioteca. Uno di quegli improbabili memoriali che intraprendenti scribacchini avevano prodotto sull'onda del successo del Simplicissimus di Grimmelshausen e del Barone di Munchausen di Raspe. L'autore, forse lo pseudonimo di un antenato, pretendeva di avere visitato un regno sotterraneo, un rifugio per gli esiliati, i cui indigeni erano più pietra che carne. Da ragazzo la storia mi era piaciuta, ma era diventata ripetitiva e piena di autoriferimenti, come la maggior parte dei racconti fantastici di quel genere, e me ne ero stancato. Puntualizzai che non ero certo nella forma migliore per affrontare una lunga camminata. Trovavo la vastità di quel sistema di caverne davvero stupefacente e le domandai se ne conosceva l'estensione. La domanda parve divertirla. «Alcuni pensano sia infinito,» rispose «ma non è mai stata tracciata una mappa attendibile.» Mi disse di aspettare e si allontanò nella fredda oscurità. Ero stupito dalla facilità con cui sembrava trovare la strada. Quando tornò, sentii che stava lavorando a qualcosa, e quando ebbe terminato mi prese sotto le ascelle e mi trascinò per qualche metro finché mi ritrovai sdraiato su un panno. Accanto mi pose la spada. «Ringraziamo i nazisti per averle fatto soffrire la fame,» commentò «altrimenti non avrei avuto abbastanza forza.» Sentii che sotto di me il telo si sollevava e si tendeva. Potevo toccare i bordi, simili ad alberelli lunghi e
lisci, non di legno però. Quindi cominciammo a muoverci: Oona, la ragazza dell'arco, mi stava trascinando su una sorta di rudimentale toboga, simile a quelli utilizzati dagli indiani d'America. Con un certo sgomento mi accorsi che stavamo proseguendo verso il basso, invece di tornare sui nostri passi in direzione della fenditura che avevo creato con l'armonia della spada. Pur non essendone mai stato davvero consapevole, neppure nelle trincee coperte nelle Fiandre, la mia tendenza alla claustrofobia stava aumentando. Però sapevo anche che Oona non avrebbe mai avuto la forza necessaria a riportarmi in superficie. Sembrava avere idea di cosa ci aspettasse. Cercava di raggiungere un luogo in cui saremmo stati in salvo, e lo conosceva o per esperienza diretta o per quanto le aveva detto Bastable. Mi auguravo che il suddetto Bastable non fosse stato catturato, dato che nessun uomo civile può immaginare le torture che quei bruti erano stati in grado di inventare. Al pensiero che Gaynor mi trovasse in quelle condizioni fui scosso da un brivido. Cercai di parlare con Oona ma anche quel piccolo sforzo mi diede le vertigini. Presto nulla ebbe più importanza per me, perché finalmente svenni. Mi risvegliai con la sensazione che qualcosa fosse cambiato. Il silenzio che mi circondava era diventato pacifico, non più così sinistro. Udivo un sussurro, come di vento tra le fronde, e mi accorsi che potevo intravedere una fievole striscia di luce in lontananza, come se avessimo davanti un orizzonte. Riuscivo a malapena a scorgere Oona, una figura scura che si stagliava contro uno sfondo ancora più scuro. Aveva preparato da mangiare. Qualcosa che aveva il profumo delle rape, il sapore della radice di zenzero e una sgradevole consistenza viscida, ma che riuscì a ridarmi un po' di vigore. Mi spiegò che la colazione era fatta con cibo locale. Era solita approvvigionarsi quaggiù. Le domandai se quel sistema di caverne fosse simile alle famose catacombe che si trovano a Roma e altrove, dove si nascondevano le vittime delle persecuzioni religiose, arrivando a volte a sviluppare intere comunità. «Suppongo capiti che chi è perseguitato ingiustamente arrivi fino a qui» rispose «e trovi asilo sicuro. Ma c'è una razza indigena che non si avventura mai vicino alla superficie e che è la popolazione dominante.» «Intende dire che in questo sistema di caverne risiede un'intera civiltà?» «Mi creda, conte Ulric, qui di civiltà ne troverà ben più di una.» Razionalmente mi rifiutavo di accettare quella fantastica affermazione. Persino le grotte di Carlsbad, esplorate di recente, non erano tanto vaste.
Eppure qualcosa in me era pronto a crederle. Percepivo l'eco di una verità misteriosa, di qualcosa che forse un tempo conoscevo, o che un antenato aveva vissuto e che si era tramandata nella memoria della mia razza. Sapevo della fascinazione di moda tra i bohémien tedeschi che parlavano di un mondo dentro al mondo, il cui ingresso si trovava al polo Nord, ed ero anche a conoscenza del fatto che ad alcune di queste stupidaggini avevano dato credito nazisti come l'eccentrico vegetariano Hess, ma non avrei mai sospettato che quel mondo sotterraneo esistesse anche al di fuori della fantasia. E probabilmente non era così. Questo sistema, per quanto vasto, doveva per forza essere finito e fino a quel momento non avevo visto traccia che indicasse il suo popolamento da qualche tipo di insediamento umano. Forse anche Oona era una di quelli che credevano al mito. Non potevo fare altro che fidarmi del suo giudizio: dopo tutto, mi aveva salvato la vita più di una volta. Ero convinto che Gaynor e Klosterheim ci stessero ancora dando la caccia, che la mia spada significasse troppo per loro. Se fosse stato necessario l'avrebbero seguita fino all'inferno. Come la luce divenne meno flebile, potei cominciare a farmi un'idea del luogo dove mi trovavo. Gli echi mi dicevano che il soffitto della caverna era molto distante e iniziai a chiedermi per quanto ancora saremmo potuti scendere prima che la gravità ci schiacciasse. Vedevo soprattutto una specie di luminosità riflessa dai ghiaccioli e dalle stalagmiti. Sembrava stessimo seguendo un Uscio sentiero di roccia eruttiva, probabilmente un'antica via scavata dalla lava, che scendeva sinuoso verso l'orizzonte illuminato. Proseguendo il cammino, ci accorgemmo di un rumore come di fluido che scorre rapido, che diventava sempre più forte fino a essere un ruggito lontano. Non avrei saputo dire cosa producesse quel suono, così come non avevo idea di quale fosse la fonte della luce. Dovevamo fermarci molto spesso, per far riposare Oona. La ragazza cominciava a essere stanca, e il rombo era talmente forte, talmente continuo che riuscivamo a stento a udire le parole l'uno dell'altra. Tuttavia era ben decisa a continuare. Quindici minuti ed era di nuovo in piedi, a trascinare me e il telo che fungeva da toboga giù per la discesa lucente, finché il terreno divenne pianeggiante e ci ritrovammo su una sorta di collinetta a osservare una pallida striscia di luce color peltro che continuava a danzarci davanti. Avevo provato a chiederle che cosa fosse, ma non mi aveva udito. Era esausta quasi quanto me. Lo capivo da come si spostava i pali sulle spalle,
si avvolgeva con i finimenti improvvisati e continuava arrancando. Non avevo ancora recuperato le forze, e se non avessi visto un medico al più presto parecchie delle mie ossa rotte non si sarebbero rinsaldate correttamente e una costola fratturata avrebbe potuto perforare qualche organo interno. Non era tanto che temessi per me, più che altro prendevo atto della realtà delle cose. Mi ero già riconciliato con la morte e il sapere che io e la spada eravamo persi per sempre per i miei nemici mi avrebbe procurato una grande soddisfazione. Continuavamo ad andare avanti, metro dopo doloroso metro, verso la fonte della luce e del suono. Adesso Oona doveva fermarsi all'incirca dopo ogni ora, e bere qualche sorso dalla fiaschetta che portava con sé. Quindi costringeva anche me a inghiottire un po' di quel liquido puzzolente. Intruglio da strega, le dissi. Se crede, ribatté lei. Non avevo idea di quanto a lungo avessimo viaggiato e di dove fossimo arrivati. Il rumore crebbe d'intensità fino a martellarmi nelle orecchie come sangue che pulsa. Il mio cranio pareva essere diventato un vasto uditorio. Non riuscivo a rendermi conto di altro. E per quanto ancora tenue rispetto ai normali livelli a cui ero abituato, la luce stava diventando così vivace da farmi dolere gli occhi. Facevo fatica a voltare il capo, ma quando ci riuscii notai che la striscia luminosa era molto aumentata e si innalzava nell'oscurità a illuminare forme dall'aspetto grottesco. Vidi rocce ghiacciate che parevano vive e assumevano le fattezze di animali favolosi e di costruzioni, di persone e di piante. Dirupi eziolati. Una luce argentea contrastava la totale oscurità dei recessi più remoti. Un luogo di ombre profonde e allarmanti. Un mondo monocromatico negli estremi del bianco e del nero. Uno spettacolo misterioso. Non riuscivo a credere che non fosse mai stato scoperto prima e nessuno ne avesse scritto. Non avevo idea di quale fosse la sua storia o la sua geografia. Pareva in qualche modo osceno che i nazisti potessero essere ossessionati dall'idea di esplorare e senza dubbio conquistare quel territorio magico e intatto. Immagino avessero una naturale affinità per ciò che è oscuro. Lo perseguivano. Per quanto mi riguarda, pur se scoprire che quel mondo esisteva davvero rappresentava una meravigliosa rivelazione, non vedevo l'ora di lasciarlo. Mezzo morto com'ero, quei luoghi avevano troppi aspetti in comune con una tomba. Comunque era evidente che stavo un po' meglio. Quale che fosse la medicina che Oona mi aveva costretto a bere, mi aveva rinvigorito in un modo impossibile alla spada. Anche il dolore per le ossa rotte e i muscoli la-
cerati si era ridotto a un unico sordo indolenzimento del tutto sopportabile. Mi sentivo più fresco e pulito, la stessa sensazione che provavo quando, a casa, facevo una nuotata nel fiume la mattina presto. Mi chiesi se ce l'avevo ancora una casa. Che il cugino Gaynor avesse mantenuto la promessa di raderla al suolo? Forse a quel punto pensava fossi in possesso sia del calice sia della spada e non avrebbe avuto motivo di recare ulteriori danni a Bek e ai suoi abitanti. Ma ciò significava che doveva essere anche lui lì da qualche parte, deciso a reclamare la spada per sé, certo nella sua follia che conoscessi il luogo dove era nascosto un mitico e probabilmente inesistente Sacro Graal. L'assordante ruggito pareva assorbirci. Ne diventammo parte, attirati sempre più vicino alla sua fonte come fossimo ipnotizzati. Non opponemmo resistenza, dato che quella era l'unica destinazione possibile. Appoggiandomi ai pali del toboga, con la spada appesa sulla schiena grazie a un pezzo di filo incredibilmente resistente che mi aveva dato Oona, ero in grado di camminarle accanto barcollando. La luce aveva la brillantezza della polvere per i flash usati dai fotografi. Accecava e abbagliava, perciò Oona inforcò di nuovo le lenti affumicate e io mi abbassai sugli occhi la visiera del berretto. In effetti eravamo del tutto ciechi e sordi, quindi ci muovevamo con ancor maggiore lentezza e circospezione. La fosforescenza si incurvò a formare un largo nastro che si estendeva lungo tutto l'orizzonte e precipitava, quasi come un arcobaleno, fino a fondersi con una sfavillante oscurità. Più oltre si poteva appena intravedere un'altra zona fiammeggiante, molto più vasta della grande striscia di luce che perforava il buio dell'immensa caverna. Nessuna delle due luci evidenziava un soffitto. Solo la profondità dell'eco forniva qualche indicazione riguardo all'altezza. Poteva essere di due o tre chilometri. Naturalmente il ruggito proveniva dallo stesso punto da cui si irradiava la luce e, come cominciavo a notare, il calore. Se sotto la superficie terrestre esisteva davvero una vita complessa, ora almeno sapevo come riusciva a sopravvivere senza sole. Dal tasso di umidità immaginai che ci stessimo avvicinando al fiume menzionato da Bastable, ma non ero preparato al primo segno di tale vicinanza. Inizialmente simili a lucciole lampeggianti, ben presto le rocce presero vita, illuminandosi dello stesso bagliore che avevamo di fronte. Piccole stelle fiorirono e appassirono nell'aria, per precipitare poi su di noi. Liquide. A prima vista avrei detto che fosse mercurio, ma mi accorsi che
si trattava di normalissima acqua, caratterizzata però da un'intensa fosforescenza, indubbiamente derivatale da una fonte più vicina alla superficie, forse sotto il mare. Oona aveva molta familiarità con il liquido in questione, e quando trovò una pozza vi tuffò le mani a coppa e me ne porse un po'. L'acqua era fresca. Adesso anche le sue mani brillavano, facendola somigliare a una vistosa immagine di santa su una Bibbia da quattro soldi. Quando spinse all'indietro i capelli, per un attimo la sua testa fu circondata da un'aureola. Ovunque venissimo bagnati da quell'acqua, ci ritrovavamo ingioiellati di peltro e lucente mercurio. Mi fece segno di bere, se volevo, quindi si chinò sulle mani e sorseggiò con grazia. Per un attimo, le sue labbra splendettero d'argento e gli occhi di rubino mi fissarono con allegro entusiasmo. Il mio stupore la divertiva. Per qualche secondo, l'acqua che le scendeva nella gola illuminò vene e organi, facendola apparire traslucida. Quegli effetti mi incantavano. Desideravo ardentemente saperne di più, ma il rumore era ancora assordante ed era sempre difficile fissare l'orizzonte. Con l'acqua fosforescente che ricadeva sulle nostre teste e sui nostri corpi ricoprendoci di minuscoli frammenti di stelle, iniziammo a salire le rocce lisce e scivolose fino al punto in cui la grande muraglia di luce iniziava la morbida curva verso il basso. Finalmente potemmo vedere cosa causava il ruggito: una visione che sfidava ogni altra cosa da me osservata durante i molti viaggi. Una meraviglia più grande delle sette che continuavano a stupire gli abitanti della superficie. Mi è capitato spesso di affermare che le meraviglie del mondo sono state definite in modo appropriato. Infatti, non è possibile fotografarle, filmarle o riprodurle in alcun modo che dia la sensazione di grandiosità avvertita da chi ha la fortuna di osservarle dal vivo, che si tratti delle piramidi d'Egitto o del Gran Canyon. Quelle cascate sconosciute e senza nome parevano qualcosa che si può scoprire in paradiso, non sul nostro pianeta. Tale vista mi rafforzava e indeboliva allo stesso tempo. Descriverla supera le mie capacità, ma provate a immaginare un grande fiume rilucente che si espande lungo cascate più ampie delle Vittoria o di quelle del Niagara. Sotto il tetto di una caverna dall'altezza inimmaginabile, il cui perimetro scompariva nella completa oscurità. L'immensa portata di quell'acqua misteriosa si infrangeva e tuonava, scuotendo il terreno su cui ci trovavamo, precipitando giù, giù, giù, una possente massa di luce urlante e armonie selvagge che parevano musica umana. Creando ovunque ombre mostruose. Svelando gallerie, torri, strade
e foreste di roccia, che a loro volta gettavano all'intorno delicati fili argentei che illuminavano l'aria come raggi di luna. Trasportando implacabilmente le acque del mondo fino al cuore della creazione, perché rinnovino e vengano rinnovate. Qualcosa in quella visione confermava le mie convinzioni riguardo all'esistenza del soprannaturale. Mi sentivo un privilegiato per il fatto di stare sull'orlo di quell'imponente cataratta, a osservare la focosa massa d'acqua farsi strada dibattendosi, turbinando, sfavillando e schiumando lungo un precipizio alla cui base invisibile tornava però a diventare fiume. Potevamo scorgerlo, molto più in basso, curvare lento per una vallata piatta fino a formare quello che ora capivo essere un vasto mare sotterraneo. Perlomeno la geografia seguiva i principi della superficie. Su entrambi i lati del fiume, sulle rive ascendenti della valle, si trovavano snelle torri di luce bianca e grigia così diverse l'una dall'altra che avrebbero potuto essere gli alti palazzi che caratterizzano il profilo dei tetti di New York. Quelle formazioni erano le più strane che avessi mai visto. Mio fratello geologo, che era morto a Ypres, sarebbe rimasto stupito e affascinato da ciò che ci circondava. Avrei proprio voluto essere in grado di prendere nota di quanto vedevo. Era facile capire perché nessun esploratore avesse riportato delle immagini, perché l'unica testimonianza dell'esistenza di quei luoghi si trovasse nelle pagine di un libro scritto da un noto sognatore, perché panorami di quel genere risultassero incredibili, finché non si aveva l'occasione di vederli di persona. Nell'urlante turbolenza generale e nella pioggerella di bruma argentata, non avevo neppure pensato a cosa avremmo dovuto fare in seguito e mi preoccupai molto quando Oona iniziò a puntare l'indice verso il basso e a informarsi, per mezzo di segni, se mi sentivo abbastanza in forze per cominciare la discesa. O avrei forse preferito passare la notte in cima alla cascata? Per quanto debole, facevo il possibile per muovermi secondo i miei desideri. Pensavo ancora che Gaynor avesse la possibilità di acciuffarci. Sapevo che mi sarei sentito molto più sicuro mettendo altri chilometri tra noi e lui. D'altra parte, ero a disagio in quel mondo e avrei tanto voluto risalire in superficie e raggiungere un luogo da cui continuare la lotta comune contro Adolf Hitler e i suoi teppisti psicopatici. Non avrei voluto continuare a scendere, ma se quella era l'unica via, ero pronto a tentare. Attraverso la foschia luccicante, Oona mi indicò un punto a metà strada lungo la gola dove scorsi la sagoma di un grande ponte natu-
rale di pietra che si piegava sopra le acque, in apparenza da riva a riva. Evidentemente quella era la nostra destinazione. Annuii e mi preparai a seguirla mentre con molta cautela cominciava a scendere per un sentiero impervio che pareva ricoperto di goccioline di mercurio. Le rombanti vibrazioni, le lunghe dita di roccia che scendevano dal tetto e salivano dal terreno, la luce, la grandiosa portata d'acqua, ogni cosa concertava quasi a ipnotizzarmi. Sentivo di avere ormai del tutto abbandonato il mondo reale e di trovarmi nel bel mezzo di un'avventura fantastica che avrebbe annichilito l'immaginazione di uno Schiller. In ogni direzione la roccia fluiva in pietrificate cascate organiche. Ogni essere vivente sulla terra pareva essere sceso qui per fondersi in una fremente chimera, per cui gli alberi si erano trasmutati in schiere di alfieri e gli alfieri in gnomi sorridenti. Antiche teste di tartaruga spuntavano tra nidiate di astici e i loro occhi erano quelli del basilisco. Si aveva la sensazione che potessero raggiungerci. Dèi e dèe simili a quelli degli intricati intagli sulle colonne dei templi indù o delle pagode birmane. In alcuni momenti non riuscivo a credere che non sì trattasse dell'opera di una qualche forma di intelligenza. Riproduceva ogni aspetto della superficie, ogni tipo umano e ogni animale, pianta o insetto, a volte con una prospettiva grottesca oppure ingranditi venti volte. Quasi parte del Caos, non ancora completamente formato, tutto ciò era come congelato al momento della concezione. Come se una mente avesse dato inizio al processo creativo di un intero mondo in tutte le sue varianti, ma fosse stata interrotta. Quella visione di un mondo ancora non del tutto nato mi fece desiderare di tornare all'oscurità che me l'aveva nascosto. Stavo cominciando a impazzire. Iniziavo a rendermi conto di non avere il carattere adatto per un'esperienza di quel genere, ma qualcosa dentro di me mi spingeva avanti, mi sfidava a continuare. Era questo che avevano tentato di riprodurre in Egitto e in Messico. Era questo di cui parlavano nei Libri dei Morti. Qui si trovavano gli dèi dalla testa di animale, gli eroi, le eroine, gli angeli, i demoni e tutte le storie del mondo. Non c'era apparentemente limite a quelle statue né ai fregi o alla distesa di cristallo che incombeva sopra di noi, nessun muro lontano che potesse aiutarci a individuare la nostra posizione. Avevo ormai compreso che avevamo ampiamente superato ogni luogo in cui la bussola avrebbe potuto esserci utile. Non c'erano coordinate convenzionali, lì, solo il fiume. Forse quegli pseudo scienziati nazisti erano nel giusto: il nostro mondo era una sfera convessa intrappolata in una roccia infinita, e quelle che rite-
nevamo stelle non erano che punti luminosi che lampeggiavano fino a noi dai fuochi freddi che ardevano proprio all'interno della roccia. Il fatto che quanto stavo sperimentando in quel momento avvalorasse le loro teorie non mi era di alcun conforto. Non c'era dubbio che avessimo esplorato una roccia infinita, ma un tempo quella stessa roccia era stata viva? O semplicemente scimmiottava una parvenza di vita? Era stata creata con organismi viventi come noi? Stava forse lottando per darsi la forma della vita sulla superficie come, in modo meno complesso, un fiore o un albero possono battersi per attraversare il terreno e raggiungere la luce? Trovavo più semplice credere a una cosa del genere. Chiunque non abbia fatto la mia esperienza deve solo trovare una fotografia delle grotte di Carlsbad per capire con esattezza cosa intendo. Le colonne parevano scolpite da pazzi talentuosi intenzionati a mostrare ogni possibile forma, volto o mostro e ogni creazione rocciosa fluiva nella successiva, propagandosi all'infinito in infinite varianti, in marcia verso il buio più profondo, le sagome tremolanti mutate in appuntiti rilievi e ombre scure dal fuoco bianco emesso da quell'enorme fiume fosforescente che a sua volta avanzava senza sosta verso il cuore del mondo. Come il Niagara trasformato in un regno di elfi alla luce della luna, come il sogno di un mangiatore di oppio, una visione gloriosa degli inferi. Che fossi testimone del panorama e delle comodità dei dannati? Cominciavo ad avere la sensazione che da un momento all'altro quelle rocce sinuose avrebbero preso vita e mi avrebbero toccato, facendomi diventare una di loro, immobile ancora per un migliaio di anni, fino a un nuovo movimento predatorio provocato solo dalla percezione dell'occasionale corsa precipitosa di creature come noi, cieche, sorde e perdute per sempre. L'incanto illuminato dal fiume ispirava meraviglia e terrore. Molto sopra di noi, simili a delicate canne di organi fatati, pendevano migliaia e migliaia di candelieri di cristallo, tutti ardenti di una gelida luce argentata. Di quando in quando, uno dei cristalli coglieva un riflesso e cangiava di colore, producendo un vivido baluginio che pareva viaggiare con l'acqua, tremolando attraverso la nebbiolina, seguendo la corrente di quell'immenso fiume roboante, che lanciava la propria voce verso gli archi e le cupole tanto più alte anche mentre, precipitando, si allontanava. Non riuscivo a credere che quel sistema potesse andare tanto in profondità o essere tanto vasto. Pareva infinito. Che ci fossero dei mostri in agguato? Ripensai a un'incisione ispirata a Verne. Grandi serpenti? Coccodrilli giganti? Discendenti dei dinosauri?
Mi ricordai che i veri bruti erano ancora da qualche parte dietro di noi. Persino Verne, e addirittura Wells, non erano stati in grado di prevedere l'avvento del Partito nazista e la sua orrendamente complessa malvagità. Senza dubbio Gaynor e il suo alleato Klosterheim avevano motivi ben più ambiziosi dell'aiutare la causa nazista. Secondo me, una volta che il nazismo non fosse più stato loro utile, i due avrebbero smesso di essere nazisti. Ovviamente, ciò li rendeva una minaccia ancora maggiore per noi. Non credevano in alcuna causa tranne la loro e quindi potevano sembrare seguaci di tutte le cause. Gaynor mi aveva già mostrato sia il suo lato affascinante sia quello maligno. Sospettavo ci fossero molte gradazioni di fascino e di malignità che altri avevano veduto. Un uomo dalle molte facce. In questo, rispecchiava alcune delle caratteristiche di Hitler. Non so come riuscii a proseguire, pur con il costante aiuto di Oona, su quel lungo e sdrucciolevole sentiero, sempre consapevole di avere un piede rotto ma, grazie alla pozione, senza patire troppo dolore. Sapevo, però, che il mio corpo martoriato non mi avrebbe sostenuto molto a lungo. Infine raggiungemmo quello straordinario ponte. Si ergeva dalla roccia circostante con la stessa sinuosa dinamicità di un qualcosa di vivo pietrificato appena qualche istante prima. Davanti a noi, le sue colonne rocciose si stagliavano in tutta la loro bellezza da cattedrale, pallide contro gli spruzzi lucenti. Mi fece tornare alla mente una fantasia di Gaudi, l'estroso architetto catalano, o del nostro Ludwig di Baviera, ma molto meno elaborata, più delicata. Fiancheggiato su ambo i lati da alti pinnacoli e guglie, tutti formati dall'azione naturale della grotta, e una volta di più caratterizzato da quella particolare organicità, la base non si era consumata naturalmente ma era stata lisciata per permettere il passaggio di piedi umani. Le esili torri argentee avanzavano con decisione lungo la gola attraverso cui il fiume lucente correva verso caverne «smisurate per l'uomo, giù fino a un mare senza sole». Che i poeti dell'oppio dell'Illuminismo inglese avessero veduto quanto stavo vedendo io? Che fosse stata la loro immaginazione a creare quel luogo? Quell'allarmante pensiero si presentò più di una volta. La mia mente non era in grado di comprendere appieno l'esatta natura di ciò di cui erano testimoni i miei occhi, quindi, al pari di un pazzo qualunque, tendevo a inventarmi una sorta di logica che mi sostenesse, che mi impedisse di fare semplicemente un passo oltre il bordo privo di protezione del grande ponte per lanciarmi verso una morte inevitabile. Ma per natura non avevo tendenze suicide, e conservavo ancora qualche flebile speranza di ricevere cure mediche e trovare una guida che mi ripor-
tasse in superficie, dove avrei potuto fare qualcosa di utile. Il ruggito dell'acqua nell'abisso sotto di noi mi rendeva impossibile porre delle domande a Oona e non potevo quindi che essere paziente. Dopo una sosta, riprendemmo faticosamente a camminare sul ponte, utilizzando come grucce improvvisate io la spada e Oona l'arco intarsiato. La schiuma del torrente immergeva il ponte in una bruma luminosa. Piano piano mi accorsi di una figura, approssimativamente della mia stessa statura, che mi si parava davanti. L'individuo aveva un aspetto un po' strano e anch'egli pareva appoggiarsi a un bastone. Oona, che evidentemente si aspettava che qualcuno ci venisse incontro, si fece avanti. Quando mi avvicinai, però, mi accorsi che la figura in attesa di darci il benvenuto era una gigantesca volpe rossa, in piedi sulle zampe posteriori, che si appoggiava a un lungo e decorativo bastone da passeggio da dandy e indossava abiti molto elaborati, secondo lo stile di un nobile francese del XVII secolo, tutti pizzi e splendidi merletti. Togliendosi con un po' di goffaggine il cappello piumato a tesa larga con una zampa, la volpe mormorò alcune parole di benvenuto e fece un inchino. Con notevole sollievo, come fossi sfuggito a un incubo, persi conoscenza e caddi a corpo morto sulla vibrante strada lastricata. IL POPOLO DELLE PROFONDITÀ Incapace di sopportare ulteriori assalti alla mia educazione ed esperienza, la mente fece l'unica cosa che poteva per proteggersi. Mi ero rifugiato in sogni fantastici quanto la realtà, su cui però sembravo avere almeno un po' di controllo. Di nuovo provai l'esultanza di condurre non un solo sinuoso rettile volante, ma un'intera squadriglia. Sfrecciavo nei freddi cieli invernali con una persona vicino, stretta a me sulla mia sella, a condividere la mia gioia. Una persona che amavo. Ed ecco di nuovo il mio doppio, che si tendeva verso di me. La donna era scomparsa e non stavo più cavalcando il drago. Il doppio etereo mi si avvicinò e vidi che il suo viso era contratto per il dolore. Gli occhi rossi piangevano pallide lacrime di sangue. Da quel momento non lo temetti più, anzi provai compassione per lui. Non era una minaccia. Che avesse sempre solo tentato di mettermi in guardia? Lentamente la visione si affievolì e fui invaso da una straordinaria, fluttuante sensazione di benessere. Come se stessi rinascendo senza dolore dal grembo materno. E mentre mi rilassavo, la mente razionale piano piano si
risvegliò. Potevo accettare l'esistenza di un regno sotterraneo tanto vasto da parere infinito. Potevo accettare e comprendere gli effetti delle sue strane formazioni rocciose sulla mia immaginazione. Ma una volpe tolta pari pari da una fiaba per bambini era davvero troppo! Nel febbricitante tentativo di assorbire tutte quelle visioni aliene, era più che possibile che mi fossi immaginato quell'individuo. Oppure mi ero abituato al fantastico a tal punto da non riconoscere un attore truccato per una rappresentazione del Volpone. Certo era che la volpe non era visibile quando riaprii gli occhi. Al suo posto, china su di me, c'era la figura di un gigante, la cui testa ricordava una versione raffinata di una divinità dell'isola di Pasqua. Mi fissava con preoccupazione quasi esagerata. La sua uniforme mi mise in allarme, finché non mi accorsi che non era tedesca. Quasi non trovai straordinario che indossasse la livrea accuratamente rattoppata di un ufficiale della Legione Straniera francese. Che fosse un medico dell'esercito? Forse il nostro viaggio ci aveva portati in Francia? O in Marocco? Il mio prosaico cervello saltava alle conclusioni più banali come un gatto su un uccellino. L'immenso legionario mi stava aiutando ad alzarmi dal letto. «Si sente bene, ora?» Gli avevo già risposto, un po' esitante, nella sua stessa lingua, prima di accorgermi che stavamo parlando in greco antico. «Non parla francese?» domandai. «Certo, amico mio. Ma la lingua comunemente usata qui è il greco ed è considerato scortese parlarne altre, anche se i nostri ospiti hanno dimestichezza con quasi tutti gli idiomi terrestri.» «È cosa sarebbero i nostri ospiti? Grandi volpi vestite con eccessiva eleganza?» Il legionario rise. Era come se si fosse aperta una crepa nel granito. «Ovviamente avete incontrato milord Renyard. Era ansioso di essere il primo a darle il benvenuto. Pensava l'avrebbe riconosciuto perché da quanto ho capito era amico di un suo antenato. Lui e la sua compagna, mademoiselle Oona, hanno proseguito in tutta fretta per Mu Ooria, dove dovevano consultarsi con gli abitanti del luogo. Se non erro, amico mio, ho l'onore di rivolgermi al conte Ulric von Bek. Umilmente vostro J.L. Fromental, tenente della Legione Straniera francese.» «È come è arrivato qui?» «Pura fatalità, senza dubbio. Lo stesso vale per m'sieur le comte, eh?»
Fromental mi aiutò a mettermi seduto sul lungo e stretto lettino, i cui bordi bassi stringevano saldamente persino un corpo denutrito come il mio. «Nel mio caso, fuggivo da un Rif poco amichevole. Ero alla ricerca del sito dell'antica Ton-al-Oorn. Il mio compagno morì. Ormai anch'io vicino alla morte, trovai un vecchio tempio, che si inoltrava molto più in profondità di quanto avrei mai immaginato. Arrivava fin qui.» Tutto in quella stanza pareva privo di colore per la mancanza di luce solare. Quel luogo era simile ad alcune tombe egizie che avevo visitato durante una felice gita scolastica nel mondo antico e in Terra Santa. Mi sarei quasi aspettato di vedere mandorle dipinte sui muri pallidi. Ero vestito con un abito lungo, non troppo ampio, abbastanza simile a una camicia da notte, quello che in Egitto chiamavano djellaba. La stanza era lunga e stretta, come un corridoio, illuminata da sottili bicchieri colmi di acqua luminescente. Tutto era stretto e affusolato, quasi allungato come un pezzo di vetro liquido. Mi sentivo come in una di quelle 'Gallerie degli Specchi' tanto di moda a Vienna qualche anno prima. Persino l'imponente francese pareva vagamente basso e tozzo in un ambiente simile. Eppure, per quanto strano fosse tutto ciò che mi circondava, avevo cominciato a rendermi conto che mi sentivo davvero bene. Non mi ero sentito tanto in forma e in armonia con me stesso dai giorni delle lezioni di scherma con il vecchio von Asch. Il silenzio aumentava il benessere. Il rumore dell'acqua era abbastanza lontano da risultare rilassante. Non avrei voluto parlare, ma la curiosità era troppa. «Se questa non è Mu Ooria, dove siamo?» chiesi. «A rigor di termini, questa non è una città vera e propria, ma un'università, benché funzioni in modo molto più vario rispetto alla gran parte degli atenei. È costruita su entrambi i lati del torrente luminoso, cosicché gli scienziati possono studiare le acque e comprenderne il linguaggio.» «Linguaggio?» Era la traduzione che più si avvicinava al termine originale. «Queste persone non ritengono che l'acqua sia senziente come possono esserlo gli animali. Credono piuttosto che ogni cosa abbia una propria natura specifica che, se compresa, consente di vivere in maggiore armonia con l'ambiente circostante. È questo lo scopo dei loro studi. Non hanno un'impostazione mentale molto meccanicistica, ma usano a proprio vantaggio qualunque forza scoprano.»
Immaginai una qualche sperduta terra orientale, simile al Tibet, i cui abitanti passano la vita in contemplazione spirituale. Con ogni probabilità erano giunti qui più o meno come noi, inseguiti da qualche nemico, dopodiché erano diventati sempre più decadenti, almeno secondo i miei standard alquanto puritani. «Sono state le persone che vivono qui a curarla» mi spiegò Fromental. «Pensavano che al risveglio avrebbe preferito trovarsi davanti un tipo di viso più familiare, ma le incontrerà presto.» Indovinò il mio pensiero. «I loro studi portano anche dei vantaggi pratici: lei ha dormito negli stagni terapeutici per un bel po' di tempo, perché è là che operano principalmente gli aggiustaossa e gli scioglimuscoli.» Notando l'espressione sul mio volto, sorrise e aggiunse qualche dettaglio. «Hanno creato delle pozze di acqua di fiume, a cui hanno aggiunto altre proprietà speciali. Quale che sia il malanno, un osso rotto o un organo canceroso, può venire curato negli stagni terapeutici, con l'impiego di certi altri procedimenti specifici per il disturbo in questione. La musica, per esempio. E i colori. Di conseguenza, atemporale com'è questo luogo, siamo ancora meno consci della familiare azione del tempo come lo conosciamo sulla superficie.» «Non si invecchia?» «Non lo so.» Non ero pronto per ulteriori misteri. «Perché Oona ha proseguito senza di me?» «Una questione molto urgente, da quanto ho capito. Si aspetta che la segua. Alcuni di noi stanno per partire verso la capitale, che si trova in riva all'oceano sotterraneo che ha veduto dall'alto.» «Viaggiate in gruppo per sicurezza?» «Per il piacere di chiacchierare, nient'altro. Non si aspetti orribili terrori soprannaturali qui, amico mio. Benché possa pensare di essere caduto in una gigantesca tana di coniglio, non si trova nel paese delle Meraviglie. Come in superficie, siamo l'ultimo anello della catena alimentare, ma qui non ci sono bollenti passioni. Nessun conflitto, tranne quello intellettuale e formale. Non esistono armi vere e proprie. Nulla di paragonabile alla sua spada. Qui tutto ha la quieta dignità della tomba.» Lo fissai apertamente, in cerca di una traccia di ironia, ma si limitò a sorridere con dolcezza. Pareva felice. «Be',» ammisi «per quanto bizzarra possa essere la loro medicina, si direbbe che funzioni.» Fromental mi versò del liquido incolore. «Ho imparato, amico mio, che
tutti noi abbiamo modi leggermente diversi di vedere la medicina. I francesi si stupiscono dei metodi praticati dai dottori inglesi o americani quanto i tedeschi di quelli italiani, e gli italiani degli svedesi. Per non parlare della medicina cinese. O del vudù. Oserei dire che l'efficacia della terapia ha a che vedere con la diagnosi e la cura quanto con la maniera in cui consideriamo il nostro corpo. Inoltre, so che se il cobra morde la mia mano, sono morto in pochi minuti. Se morde il collo del mio gatto, questo può giusto provare un po' di sonnolenza. Eppure il cianuro ucciderebbe entrambi. Perciò, cosa è veleno e cosa medicina?» Lasciai la questione in sospeso e ne affrontai un'altra. «Dov'è la mia spada? L'ha presa con sé Oona?» «L'hanno tenuta qui gli studiosi. Sono certo che intendono restituirgliela, ora che si è rimesso. A quanto pare la considerano un manufatto davvero pregevole. Erano tutti molto interessati.» Gli domandai se quella che chiamava 'università' fosse l'insieme di colonne affusolate che avevo scorto in lontananza e lui mi spiegò che benché gli Off-Moo non erigessero città nel senso che intendiamo normalmente, quei due gruppi di pilastri erano stati adattati ad alloggi, uffici e tutti i luoghi solitamente deputati alle attività di un insediamento vitale, anche se il commercio in quanto tale non veniva molto praticato. «Quindi chi sono questi utopisti? Antichi greci che hanno perso la strada? Discendenti di qualche Orfeo? La tribù perduta di Israele?» «Niente di tutto questo, anche se avrebbero potuto aggiungere qualcosa alle mitologie del mondo. Non provengono affatto dalla superficie. Sono nativi di questa regione cavernosa. Hanno scarso interesse concreto in ciò che si trova oltre il loro mondo, ma sono profondamente curiosi, cosa che, abbinata alla tradizionale cautela, li rende degli studiosi del nostro mondo istintivamente poco inclini a instaurare rapporti con esso. Quando avrà vissuto qui per un po', comprenderà ciò che accade. Conoscenza e immaginazione sono sufficienti. Qualcosa in questa sfera oscura spinge la gente al sogno. Poiché morte e afflizioni sono rare, poiché c'è poco da temere dall'ambiente circostante, è possibile coltivare il sogno come un'arte. Gli Off-Moo stessi hanno ben poco desiderio di andarsene ed è quasi unico il caso di un visitatore che aneli a tornare al mondo di sopra. Questo ambiente fa di tutti noi degli intellettuali e dei sognatori.» «Parla di queste persone come fossero dei monaci. Come se ritenessero che i loro sogni abbiano uno scopo. Come se i loro insediamenti fossero grandi monasteri.»
«In un certo qual modo è così.» «Nessun bambino?» «Dipende da cosa intende. Gli Off-Moo sono partenogenetici. Pur formando spesso unioni durature, non hanno bisogno di sposarsi per riprodursi. La loro morte è anche la loro nascita. Una specie decisamente più efficiente della nostra, amico mio.» Si interruppe e mi posò una mano gentile sulla spalla. «È meglio che si prepari a molte sorprese. A meno che decida di gettarsi nel fiume o allontanarsi tanto da raggiungere le terre che i MuOoriani chiamano Uria-Ne. Probabilmente noi le chiameremmo Terre oltre la Luce. O forse solo Mondo Oscuro. Queste persone non temono tale mondo quanto noi, ma soltanto il desiderio di una morte dolorosa potrebbe condurla laggiù.» «Ma non è il nostro mondo quello che descrivono?» «Potrebbe essere, amico mio. Questo mondo in apparenza bianco e nero non è semplice come sembra. Lei e io non abbiamo gli occhi per vedere la bellezza che loro riescono a cogliere, né le sottigliezze di toni e sfumature che percepiscono vivide come sulla superficie una rosa o un tramonto. Ben presto potrebbe scoprirsi ossessionato quanto me dal desiderio di comprendere la sensibilità di questa gente complessa e gentile.» «Forse,» replicai «quando per me verrà il momento di desiderare la pace. Ma ora nel mio paese c'è un nemico crudele che deve essere combattuto ed è mio dovere farlo.» «Be', ogni uomo deve poter guardare negli occhi il suo migliore amico,» disse Fromental «quindi non tenterò di dissuaderla. Riesce a camminare? Venga, andremo a chiedere consiglio a Erudito Fi, che si è preso molto a cuore il suo benessere.» Scoprii di provare una profonda sensazione di energia che mi permise di camminare con facilità. Seguii Fromental, che dovette farsi piccolo per attraversare alcune porte, scendere un sinuoso sentiero a spirale e infine giungere in strada. Quando emersi nella fresca e umida aria esterna, stavo quasi correndo, poi la natura di quella città sognante, in apparenza costantemente immersa nel chiaro di luna, con pinnacoli così sottili che si sarebbe detto che anche il suono più impercettibile potesse mandarli in frantumi, con viottoli di basalto e intricati giardini di pallidi funghi le cui forme imitavano quelle delle rocce, mi indusse a rallentare il passo in segno di rispetto. Come ci lasciammo alle spalle il portale gotico, sentii decine di deliziosi profumi, caldi e delicati, forse di cibi ormai cotti. E le piante avevano l'odore di muschio che a volte si trova sopra la terra. Il soave aroma
che si associa ad alcuni tartufi. Le torri stesse erano di basalto fuso con altri tipi di roccia, a produrre l'effetto di creature intrappolate dietro uno spesso vetro che ci osservano in continuazione. Questa architettura naturale, che esseri intelligenti avevano adattato a proprio uso e consumo, era di una bellezza e di una raffinatezza straordinarie, e a volte, quando un lieve fremito del fiume scuoteva il terreno, oscillava e mormorava. Le costruzioni prendevano vita di colpo. Tutta quella pallida meraviglia era incorniciata dalla mutevole lucentezza del fiume ardente e dalla più distante luce del lago. All'improvviso considerai quel fiume come una versione locale del Nilo, madre di ogni civiltà. Era forse per quel motivo che avevo istintivamente messo in relazione quel luogo con i costruttori delle piramidi? Mentre camminavamo chiesi a Fromental se conoscesse Bastable. Fromental l'aveva incontrato una volta proprio in quella università. Per quanto ne sapeva, Bastable faceva regolarmente visita alla città grande di Mu Ooria. «Quindi è possibile andare e venire?» Fromental era divertito. «Ma certo, amico mio. Se si è Bastable. Quell'inglese appartiene a un gruppo di persone molto esclusivo, in grado di viaggiare su quelle che alcuni definiscono strade dei raggi di luna. È un talento che a me è negato. Può spostarsi da una sfera all'altra a piacimento. Da quanto ho capito la ritiene una persona molto importante.» «E lei come fa a saperlo?» «Me l'ha detto ma'm'selle Oona, chi altri?» «Credo tenga in maggior conto la mia spada di me.» «Erudito Gou lo conosce. Ho sentito che parlava della spada e penso proprio che Bastable apprezzi entrambi.» Quindi passammo sotto a un altro varco a volta ed entrammo in una casa che pareva fatta di carne e sangue, benché al tatto risultasse essere di freddo marmo. Ci trovavamo in un salone dal soffitto altissimo illuminato da un candeliere che reggeva decine e decine di quelle bottigliette luminose lunghe e sottili che avevo già veduto in precedenza. Attorno alle pareti del salone c'erano carte geografiche, diagrammi e illustrazioni in molte lingue. Lo scritto dominante mi ricordava l'arabo più bello, con la sua fluente ed elaborata purezza. Ovviamente si trattava della lingua scritta degli Off-Moo. Il tutto ai miei occhi pareva monocromatico, come fossi andato sul set di un film e quindi fossi rimasto intrappolato in una folle serie avventurosa a
episodi. La voce di Fromental pareva persino più profonda e sonora. «Conte von Bek, posso presentarle il mio buon amico e mentore Erudito Fi, che ha diretto l'equipe che l'ha guarita?» La mia, di voce, suonò rauca e sgraziata anche alle mie orecchie. A mala pena riuscii a parlare senza restare a bocca aperta: a prima vista avevo creduto di essermi imbattuto nel mio doppio, ma la figura che mi stava di fronte era decisamente più alta e magra, anche se i lunghi e scarni lineamenti triangolari erano una versione enfatizzata dei miei. Pure quell'individuo era albino, ma il suo cranio doveva essere lungo almeno due volte il mio e largo all'incirca la metà, incorniciato da un copricapo conico che terminava a punta e replicava specularmente la lunghezza e la forma del viso. Il cappello si apriva poi a ventaglio sulle spalle, incrociandosi su un abito identico al mio, con lunghe maniche ampie, 'alla cinese' e un bordo che sfiorava il pavimento. Non ero in grado di valutare forma e dimensioni dei piedi. La veste, però, era realizzata con la stessa seta sottile di quella che portavo io. Gli obliqui occhi color rubino, le lunghe orecchie e le sopracciglia dalla forma insolita contribuivano a rendere il suo volto una parodia del mio. Che i miei antenati fossero esseri simili a quello? Che fossero i geni degli Off-Moo a rendermi un reietto della società terrestre? Avevo forse trovato la mia gente? L'improvviso senso di appartenenza mi sopraffece e quasi piansi. Tornai padrone di me e lo ringraziai solennemente dell'ospitalità. E di avermi riportato in vita. «Lei è più che benvenuto.» Non appena la creatura si espresse nello splendido, liquido formalismo del greco, compresi che i miei preconcetti erano assurdi. «Soltanto di rado ho il privilegio di servire qualcuno con la sua particolare fisionomia, che ha molto in comune con la nostra.» Aveva una voce gentile, precisa, ritmata... quasi un canto. Se possibile, la sua pelle era più pallida della mia e molto più sottile. Gli occhi parevano di ambra rosata e le orecchie si inclinavano all'indietro, terminando a punta. Anche le mie, benché non altrettanto palesi nel disegno, erano simili. Nella parte del mondo dove vivevo, erano chiamate 'orecchie del diavolo'. Erudito Fi si rivelò un ospite entusiasta. Mi domandò come mi sentissi e si offrì di rispondere come meglio poteva a qualunque domanda avessi voluto porgli. Avevo la sensazione che Fi parlasse con la modestia di un genio. Per prima cosa mi condusse verso una nicchia dove riposava la mia spada. Fromental, forse per discrezione, disse di avere alcune faccende da sbrigare ai confini della città e che ci avrebbe raggiunti più tardi.
Erudito Fi propose di fare due passi nella foresta dai fiori ombrosi, che, affermò, era rilassante e aromatica. Con dolcezza mi condusse dalla sua abitazione attraverso strade tortuose dove ordinate file naturali di gigantesche stalagmiti a pagoda marciavano in lontananza, tutte illuminate dall'incandescenza del fiume. Osservando da vicino, mi resi conto che gli ampi pilastri erano completamente occupati. Un'architettura tanto magnifica avrebbe toccato il cuore di qualunque romantico, che avrebbe provato quell'autentico brivido che i poeti ci pregavano di ricercare. Che cosa avrebbe fatto Goethe, per esempio, davanti a quella straordinaria pallida bellezza? Ne sarebbe stato sopraffatto anch'egli come me, sia dal punto di vista estetico sia da quello intellettuale? Attraverso una serie di stretti vicoli, Erudito Fi mi portò fino a un muro e a un ingresso. Entrammo in un mondo organico di pallido grigio e argento, uno spettacolo stupefacente di enormi piante che crescevano da un unico fusto massiccio e si aprivano poi a ombrello per formare una sorta di volta caratterizzata da membrane dalle sfumature delicate. Anche quegli alberi giganteschi somigliavano a organi di un essere vivente, quasi sezioni o spaccati tratti da un libro di medicina. Emettevano un profumo intenso e narcotizzante, che però pareva eccitare più che sedare. La mia vista sembrò migliorata. Coglievo maggiori dettagli, più sfumature. Fi mi spiegò che a Mu Ooria c'erano giardini come quello estesi quanto nazioni terrestri. I fiori e gli steli rappresentavano importanti fonti nutritive e medicamentose, oltre a essere il materiale con cui venivano costruiti mobili e altri oggetti. Crescevano nel ricco limo che il fiume trasportava dalla superficie. «Il fiume ci porta tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Cibo, calore, luce. In origine vivevamo in torri e gallerie già scavate dall'azione dell'acqua, poi pian piano, essendo cresciuti di numero, dato che a volte diamo vita a dei gemelli, abbiamo imparato a creare abitazioni dall'interno, utilizzando principalmente metodi naturali.» Pur non comprendendo del tutto alcune delle sue risposte, gli domandai a quando risalisse la loro civiltà. Non potevo credere che nessun viaggiatore umano avesse mai visitato quei luoghi per tornare poi da dove era venuto con una storia meravigliosa. Erudito Fi era dispiaciuto. Non era un esperto del tempo, mi disse, ma avrebbe cercato qualcuno in grado di tradurre per me. Riteneva che con ogni probabilità la sua gente esistesse da tanto quanto la nostra. Il viaggio da un mondo all'altro era questione di fortuna, dato che implicava l'attraversamento delle Terre oltre la Luce e i sistemi utilizzati sulla superficie per misurare lo spazio, lì erano pratica-
mente inutili. Ecco perché non provavano mai sufficiente curiosità da decidere di visitare quello che Erudito Fi definì «lato del Caos» e che presumevo essere la superficie. Le loro nozioni riguardo all'universo naturale mi erano estranee quanto le idee sulla medicina, e non potevo fare altro che rispettarle. Cominciavo ad avere una vaga consapevolezza della logica imperante, a comprendere il modo in cui gli Off-Moo percepivano la realtà. Potevo capire la fascinazione di Fromental. Proseguendo avvolto da quella foschia narcotizzante, con le ampie vene e i tendini delle piante a cima piatta che vibravano sopra le nostre teste, valutai distaccato la possibilità di scordarmi di Hitler e rimanere là, dove la vita era tutto ciò che dovrebbe essere. «Quando la corrente varierà sulla quarta armonia, Fromental e un piccolo gruppo partiranno per Mu Ooria. Vorrebbe unirsi a loro? Può udire le armonie, conte Ulric? Ha dimestichezza con il nostro... tempo uditivo?» mi domandò con uno sprazzo di caustico umorismo. «Temo di no» risposi. Dalla manica estrasse un pezzetto di metallo e lo tenne tra quelle dita incredibilmente lunghe che parevano troppo delicate anche per afferrare una piuma. Quindi ci soffiò sopra, producendo una vibrazione dolcissima. «Il suono è questo» mi spiegò. Penso si aspettasse che me lo sarei ricordato pur avendolo udito una sola volta. Decisi che la cosa migliore era restare sempre insieme a Fromental e affidarmi alla sua esperienza e alla sua saggezza. «Spero che a Mu Ooria troverò aiuto» dissi. «Ho bisogno di tornare nel mio mondo. C'è un dovere che mi attende.» «Là incontrerà i più saggi tra noi, che se potranno l'aiuteranno.» Mi ricordai di chiedergli delucidazioni riguardo alla creatura che ci aveva accolti sul ponte. Lord Renyard era un esploratore e un filosofo, mi disse Erudito Fi. La sua vecchia casa era stata distrutta durante una battaglia soprannaturale e l'attuale dimora era nuovamente a rischio, ma era comunque un visitatore abituale. «Non ha mai incontrato altri della sua specie. Penso possa ritenersi fortunato del fatto che Lord Renyard non abbia avuto modo di farle un terzo grado riguardo a ciò che sa dei pensatori e degli studiosi che ammira tanto. È un estimatore entusiasta soprattutto di un vostro filosofo. Conosce Voltaire?» «Solo quanto qualsiasi altro uomo con una cultura media.» «Allora probabilmente le è andata bene!» Non mi sarei certo aspettato simile sarcastico umorismo da un essere
come Erudito Fi, e questo mi affascinò ancora di più. I motivi perché rimanessi là continuavano ad aumentare. «Voleva tanto darle il benvenuto.» Erudito Fi mi condusse attorno a un'enorme radice bulbosa che pareva andare su e giù come una creatura che respiri. «A quanto pare era amico di uno dei suoi antenati, un omonimo, conosciuto prima che il suo feudo fosse distrutto dalla guerra. Tesse continuamente le lodi di quel conte Manfred.» «Manfredi» La famiglia l'aveva sempre considerato fonte di imbarazzo. Un mentitore del livello di Munchausen. Uno scapestrato voltagabbana. Una spia. Un giacobino. Un servitore di re stranieri. Un donnaiolo impenitente. «Il suo nome non viene mai pronunciato.» «Be', Lord Renyard sembra ritenere che fosse un discreto studioso dell'Illuminismo francese, a cui lui attribuisce grande importanza.» «Il mio antenato Manfred era studioso solo di canzonacce, boccali di birra e prostitute dal cuore d'oro.» Aveva portato tale e tanta vergogna alla famiglia che un mio successivo avo aveva distrutto molti dei suoi diari e occultato gli altri. Manfred era stato l'eroe di una famosa opera buffa: Manfred, o il gentiluomo uri. C'erano stati dei tentativi da parte di suoi contemporanei di farlo dichiarare pazzo, ma dopo essere fuggito dall'Assemblea francese di cui aveva fatto parte per breve tempo, molto intelligentemente era scomparso in Svizzera. L'ultima volta che fu visto, era a Mirenburg in compagnia di un ingegnere aeronautico scozzese di nome St. Odhran. Avevano vantato diritti che non potevano comprovare su un'aeronave, e avevano finito per sfuggire a investitori furibondi a bordo del suddetto mezzo. A quanto pareva, in seguito avevano fatto una nuova apparizione a Parigi, seguendo uno schema simile. A quel punto però, con grande sollievo della mia famiglia, il nome von Bek non veniva più utilizzato. Era infatti noto anche come conte di Creta, e ci giunsero voci che fosse stato impiccato come ladro di cavalli nella città inglese di York. Altri racconti affermavano che avesse trascorso il resto della sua esistenza in panni femminili nei pressi di Bristol, domato dall'amore. Un altro racconto sosteneva invece che avesse seguito le orme di un pifferaio e una volta uscito da Hameln si fossero perse le sue tracce. Cominciai a preoccuparmi. Che stessi percorrendo la medesima strada di avi leggendari la cui vita era stata tanto segreta che neppure quelli a loro più vicini avevano mai saputo chi fossero in realtà? E che il mio destino fosse di venire distrutto dal sapere che quasi certamente aveva distrutto loro? Erudito Fi era sconcertato dalla mia opinione su Manfred. «Ma apprendo
sempre di più riguardo alle sue percezioni.» Cercai di spiegargli che non credevamo più ai vecchi miti e alle leggende popolari dei nostri antenati e lui si dimostrò ulteriormente perplesso. Perché, si domandava, un'idea doveva essere scartata a favore di un'altra? Nelle nostre menti avevamo forse spazio solo per un'idea alla volta? Erudito Fi era in preda a un forte tremito causato dalle risa. Si era divertito moltissimo per la sua stessa spiritosaggine. Tutto questo era assolutamente delizioso e mi trovai a ridere con lui. Anche quando si muoveva, il Mu (Doriano manteneva un atteggiamento che lo faceva sembrare una delicata figurina di pietra che avesse preso vita. D'improvviso il mio ospite piegò il capo da un lato. Il suo udito era molto più fino del mio. Cominciò a voltarsi. Giusto in tempo per vedere Fromental che si dirigeva verso di noi a grandi passi. «Erudito Fi, conte Ulric. Alcuni cittadini ne hanno riferito l'avvicinamento. Sono andato a verificare. Ora posso dirvi che un gruppo di circa cento uomini armati, equipaggiati con i più recenti mezzi tecnici, ha superato il ponte e ora attende al limitare della città. Chiedono di parlare al nostro 'leader'.» Non avevo tempo di spiegare il significato della parola allo stupefatto studioso. Fromental si rivolse a me. «Credo che uno sia la sua nemesi personale, amico mio. Si chiama maggiore von Minct e sembra ritenerla una sorta di criminale. Ha rubato un tesoro nazionale, è vero?» «Gli crede?» «Sembra un uomo abituato al potere. E alle menzogne, eh?» «L'ha minacciata?» «Ha usato un linguaggio relativamente diplomatico, ma le minacce erano implicite. È abituato ad averla vinta comportandosi così. Vuole parlare con lei. Persuaderla a compiere il suo dovere e a passare dalla parte della legge e dell'ordine. Dice di non avere molto tempo e che userà la violenza solo per dimostrare la propria forza.» Era evidente che Fromental non aveva creduto a una sola parola della storia del cugino Gaynor. Ma un centinaio di tracotanti camicie brune avrebbero potuto arrecare danni considerevoli a creature che non conoscevano affatto la guerra né altre forme di aggressione. Temevo per la gente di Erudito Fi più che per me stesso. «Desidera parlare con quell'uomo?» mi domandò Erudito Fi. Feci del mio meglio per spiegargli cos'era accaduto e alla fine alzò una mano dalle lunghe dita. Mi dispiaceva, chiese, se fosse venuto con me a
incontrare Gaynor? Anche se titubante, acconsentii. Gaynor e il suo esercito di ruffiani in uniforme stavano bighellonando ai piedi del ponte. Qui il rumore dell'acqua era più forte, ma la voce di Erudito Fi riuscì a sovrastarlo. Fece un breve discorso di benvenuto, quindi chiese a Gaynor il motivo della visita. Questi bofonchiò le stesse insensate pretese riferite da Fromental. Al che Erudito Fi gli rise in faccia. Immediatamente, Klosterheim, che si trovava accanto a Gaynor, estrasse la Werther PPK dalla fondina e la puntò contro Erudito Fi. «Questo essere farebbe meglio a mostrare maggiore rispetto per un ufficiale del Terzo Reich. Gli dica di fare attenzione o sarà di esempio agli altri. Per citare il Führer: 'Nulla è persuasivo quanto l'improvvisa, schiacciante paura dell'estinzione'.» «Sono serissimo riguardo alla spada.» I terribili occhi di Gaynor si fissarono dritti nei miei. Il poco buonsenso che aveva prima di entrare nella grotta era stato scacciato da quanto aveva visto e sopportato qui. «Ucciderò chiunque tenti di impedirmi di possederla. Dove l'hai nascosta, cugino? Mio amore. Mio desiderio. Dov'è la mia Brandocorvo?» «È lei stessa a nascondersi» risposi. «Qui non la troverai e io non ti dirò mai dov'è.» «Allora è responsabile della morte di questo mostro» replicò Klosterheim. Puntò la pistola contro la fronte prominente del cortese studioso e premette il grilletto. LIBRO SECONDO Precipitati nel mondo al di là del mondo, Precipitati nel mare al di là del mare. Orfeo e i suoi fratelli Cercano moglie tra i morti. Lobkowitz, Orfeo ad Auschwitz, 1949 LE BRACCIA DI MORFEO In quell'attimo, mentre Klosterheim premeva il grilletto della sua automatica, compresi quanto mi fossi ormai lasciato alle spalle il mondo che mi era familiare, per entrare nel regno del soprannaturale. L'arma di Klosterheim latrò per un brevissimo istante e non produsse eco. Il rumore era stato come assorbito dall'atmosfera circostante. Quindi
restai a guardare la pallottola fermarsi a pochi centimetri dalla canna e scomparire nell'aria. Con sul volto un'espressione stranamente fatalistica, Klosterheim abbassò il braccio e ripose nella fondina la sua inutile pistola. Lanciò un'occhiata eloquente al suo padrone. Gaynor bestemmiò. «Che sia dannato Iddio... siamo in pieno Mittelmark!» Klosterheim comprese il significato di quelle parole, e io pure: un ricordo antico e misterioso quanto il sangue della mia famiglia. Il paesaggio circostante, per quanto inconsueto, pareva troppo solido perché potessi credere di stare sognando. L'unica altra conclusione possibile si era affacciata nella mia mente da qualche tempo, ed era del tutto logica pur essendo altrettanto completamente assurda. Come Gaynor aveva intuito, eravamo entrati nel mitico, nel Mittelnark, nelle Terre di Mezzo, cioè la zona di confine che delimita il mondo umano dal regno delle fate. Secondo le antiche leggende, i miei stessi avi avevano occasionalmente visitato questo luogo. Avevo sempre pensato che fosse reale come il mondo delle favole dei Grimm, ma ora cominciavo a chiedermi se quella dei Grimm non fosse altro che una descrizione della mia realtà contingente. E lo stesso dicasi dell'Ade e di tutte le numerose storie relative a mondi sotterranei e mondi altri? Che Mu Ooria fosse la vera Elfenheim? O Trollenheim, i regni di elfi e troll? Oppure ero nelle caverne in cui i nani forgiano le proprie spade magiche? Mentre davanti ai miei occhi si svolgeva quella strana scena, nella mente mi passarono tutte le immagini e i pensieri appena descritti. Era indiscutibile che il tempo paresse avere caratteristiche indescrivibilmente diverse in questo regno crepuscolare. Una struttura sconosciuta, un senso di ricchezza, addirittura una lieve instabilità. Percepivo la possibilità di vivere simultaneamente a velocità differenti, alcune delle quali era possibile azionare a proprio piacimento. Avevo già provato una sensazione simile nei miei ultimi sogni, ma in quel momento ero certo di essere più sveglio di quanto fossi mai stato. Cominciavo a intuire il multiverso in tutta la sua ricca complessità. Ora che aveva un'idea della propria configurazione, Klosterheim pareva più a proprio agio di chiunque altro. «Ho sempre preferito la notte» mormorò. «È il mio elemento naturale. Qui sono al meglio come predatore.» Una lunga lingua asciutta sfiorò delle labbra sottili. Erudito Fi rivolse a Klosterheim un sorriso ombroso. «Può tentare di uc-
cidermi in altro modo, ma so difendermi. Non sarebbe saggio portare avanti la vostra attuale aggressione. Nella nostra storia è già accaduto che neutralizzassimo la violenza. Abbiamo imparato a rispettare tutti quelli che rispettano la vita. Non mostriamo il medesimo rispetto per quanti la vita vogliono distruggerla, per trascinare ogni cosa con sé nell'oblio che tanto bramano. E tale brama siamo in grado di soddisfarla, benché si tratti di un viaggio che si può compiere soltanto da soli.» Puntai lo sguardo sulle truppe naziste per vedere se qualcuno degli uomini oltre ai comandanti avesse compreso il greco dello studioso, ma era chiaro che tutto ciò che avevano udito erano suoni sconosciuti di tono minaccioso. La mia attenzione venne attirata da una figura in fondo al gruppo sulla destra, in piedi accanto a un'alta stalagmite, che pareva una pila di piatti giganteschi posti uno sull'altro. Il viso di quella persona era nascosto da un raffinato cimiero, mentre il corpo era rivestito da quella che pareva un'armatura di argento ramato, che nella penombra splendeva come oro cupo. L'armatura barocca era quasi artificiosa, simile a qualcosa di progettato da Bakst per una fantastica produzione teatrale di Diaghilev. Avevo la sensazione di avere intravisto Oberon nel Regno degli Elfi. Mi voltai per chiedere a Fromental se anche lui avesse scorto quella figura, ma l'attenzione del francese era di nuovo rivolta a Gaynor. Mio cugino non aveva neppure ascoltato le parole di Erudito Fi, infatti estrasse il pugnale di ordinanza dal fodero che portava alla cintura. Di pallido acciaio e lucido ebano, l'elsa rifletteva la danzante e nebulosa luminosità che ci circondava. Il luccichio della lama parve penetrare l'atmosfera, sfidando l'intero mondo organico all'intorno. Tenendo in equilibrio il pugnale sul palmo della mano, Gaynor stese lateralmente il braccio. I suoi occhi invitavano i miei alla lotta. Senza voltare il capo, gridò qualche parola a una persona alle sue spalle: «Tenente Lukenbach, per favore.» Orgoglioso per la considerazione del padrone, un alto bruto con la divisa nera delle SS si fece avanti e chiuse la mano attorno all'impugnatura del pugnale con un gesto quasi di voluttà. Simile a un volenteroso cane da caccia, aspettava gli ordini. «Lei ha la temerarietà di parlare di aggressione.» Gaynor tolse una sigaretta dal portasigarette. «Deve sapere che sta sfidando l'autorità del Reich. Che se ne renda conto oppure no, mio caro e denutrito amico, voi ora siete cittadini della Grande Germania e tenuti a rispettare le leggi della nostra Madrepatria.» Il discorso fu rovinato dall'incapacità di accendere la siga-
retta, che scagliò a terra assieme all'accendino. «E anche alcune delle vostre, a quanto pare...» Si stava mettendo in ridicolo. Ammirai la sua freddezza, se non la follia, mentre con un cenno ordinava al tenente Lukenbach di farsi avanti. «Mostri a questo signore quanto può essere tagliente il nostro antiquato acciaio della Ruhr.» Ero sempre più in ansia per Erudito Fi, che non aveva certo la forza fisica sufficiente per difendersi dai nazisti. Anche Fromental pareva un po' preoccupato, ma mi fece cenno di indietreggiare. Era pronto a fidarsi dell'istinto di autoconservazione dell'Off-Moo. Né l'espressione né la postura di Erudito Fi erano minimamente cambiate davanti a quella minacciosa pantomima. Pareva del tutto impassibile mentre, all'avvicinarsi dell'uomo delle SS, mormorava qualcosa in greco. Già quello che vedevo negli occhi di Lukenbach sarebbe bastato a terrorizzarmi. Avevano quella familiare patina di follia che avevo notato tante volte negli ultimi mesi: lo sguardo del sadico, di un mostro a cui è concesso soddisfare i desideri più perversi nel nome di un'autorità superiore. Cosa mai aveva risvegliato il nazismo nel mondo? Tra relativismo e bigottismo, non c'è spazio per la coscienza umana. Forse senza coscienza, pensavo, potevano restare solo avidità e completo oblio: un'eternità di Caos informe o di Legge impietrita, che trovavano eccellenti espressioni nella follia del comunismo e del fascismo e le cui alternative capitaliste imperniate sul laissez-faire in definitiva portavano alla medesima conclusione. Solo quando le forze erano in equilibrio la vita poteva fiorire al meglio. L'ordine nazista, tuttavia, era un finto equilibrio, un'imposizione semplificata su un mondo complesso, il genere di azione che si rivela sempre maggiormente distruttiva. La logica fondamentale della reazione. Mentre l'ufficiale delle SS si avvicinava con lentezza, stavo per essere testimone di un ulteriore esempio di quella forza devastante. Lo sguardo di Lukenbach era avido di massacro. Portò il braccio all'indietro e cominciò a fare gli ultimi passi verso di noi, sogghignando al pensiero della morte di Erudito Fi. Incapace di trattenermi vedendo che la vita dell'Off-Moo era minacciata, balzai in avanti, ignorando Fromental e lo studioso. Ma prima che potessi raggiungere Lukenbach, apparve un altro uomo che si interpose tra noi. Anch'egli era coperto da capo a piedi da un'armatura barocca quanto quella che avevo visto in precedenza, però di colore nero. Per quanto non avessi familiarità con l'abbigliamento, il suo volto mi era anche troppo noto. Ma-
gro, bianco, con occhi lucenti duri come rubini. Il mio doppio. Era l'essere che avevo già veduto in sogno e in seguito nel campo di concentramento. Il fatto mi scosse al punto che la mia azione si arrestò e fu troppo tardi per venire alle prese con il nazista. «Chi sei?» domandai. Il mio doppio era disposto a rispondermi e articolò qualche parola, anche se io non udii nulla. Quindi si spostò di lato. Cercai di vedere dove andasse, ma era sparito. Lukenbach aveva quasi raggiunto la sua vittima e io non sarei arrivato in tempo. Con infinita lentezza, Erudito Fi alzò un braccio lungo e sottile, forse in segno di avvertimento. Lukenbach continuava ad avanzare, come in trance. La presa sul pugnale si serrò mentre si preparava a sferrare il primo colpo. Questa volta Fromental e io ci muovemmo istintivamente in difesa del saggio, ma egli ci fece cenno di stare lontani. Come Lukenbach giunse alla distanza giusta per colpire, l'Off-Moo spalancò la bocca molto più di quanto potrebbe fare un essere umano, quasi riuscisse a sbloccare le mascelle come un serpente, e strillò. Il suono era al tempo stesso orribile e armonico. Un ululato che pareva farsi strada zigzagando tra le vibranti stalattiti, minacciando di farle precipitare tutte sulle nostre teste. Eppure avevo l'impressione che il grido fosse indirizzato con precisione e modulato in modo specifico. Dal soffitto il cristallo cominciò a tintinnare e a mormorare con una vibrazione sincronica. Ma non si staccò nulla. L'urlo pareva non avere fine, tanto era controllato oltre che melodioso. In alto, i cristalli continuavano a frusciare e a risuonare finché piano piano andarono a creare un'unica dolce armonia la cui nota, sorprendentemente aspra, terminò con uno schianto improvviso. Un'unica lancia acuminata si era staccata dal resto delle compagne, come se l'Off-Moo l'avesse scelta, e stava precipitando dritta verso il minaccioso nazista, il cui ghigno si andava allargando nell'anticipazione del piacere. Senza dubbio pensava che Erudito Fi stesse gridando di paura. Il dardo di ghiaccio si arrestò a breve distanza dalla testa di Lukenbach. L'Off-Moo lo stava controllando soltanto con il suono. Il grido ebbe fine. Erudito Fi mosse impercettibilmente le labbra. In risposta a quell'ordine sussurrato, la lancia di cristallo cambiò angolo e velocità di caduta. Poi lo studioso fece un gesto molto misurato e la stalattite descrisse un morbido arco quindi, con un impatto quasi elegante, si conficcò a fondo e con precisione nel cuore del nazista.
L'urlo continuava a riecheggiare nelle caverne infinite mentre gli spasimi di morte di Lukenbach andavano esaurendosi. Giaceva immobile sulla superficie rocciosa, il sangue che zampillava intorno alla lancia di cristallo che gli sporgeva dal petto. Fromental e io eravamo sconvolti e allo stesso tempo sollevati per la sua morte. Gaynor, invece, stava rivedendo la propria strategia. Mio cugino si chinò e tolse il pugnale dalle dita di Lukenbach che cominciavano a irrigidirsi. Con un certo disgusto fece un passo indietro, si raddrizzò e mi fissò dritto negli occhi. «Sto imparando a non sottovalutarti, cugino. E neppure i tuoi compagni. Sei certo di non volerti mettere con noi? O altrimenti, dammi la Spada del Corvo e prometto che non ti perseguiterò più.» A quella deliberata sfacciataggine mi concessi un sorriso, mentre Fromental ribatté: «Amico mio, al momento si trova in una posizione alquanto debole per poter contrattare.» «Ho l'abitudine di rafforzarla, la mia posizione.» Gaynor continuava a tenere lo sguardo su di me. «Che ne dici, cugino? Tu resta qui con i tuoi nuovi amici e io riporterò la spada nel mondo reale, per continuare la lotta contro le forze del Caos.» «Ma non siete voi le forze del Caos?» Ero sempre più divertito. «Sono proprio loro ciò che combatto. Ed è per questo che devo avere la Spada Nera. Se torni insieme a me, avrai onori, potere... il potere di realizzare il tipo di giustizia che il mondo esige! Hitler non è che un mezzo verso questo fine, credimi.» «Gaynor,» dissi «ti sei messo al servizio della Bestia. Al mondo non porterai altro che caos.» A quelle parole fu mio cugino a ridermi in faccia. «Stupido. Non hai idea di quanto ti sbagli! T'inganni se credi che io serva il Caos. La Legge è mia padrona e lo sarà sempre! Ciò che faccio, lo faccio per un futuro migliore, più stabile e prevedibile. Ulric, se anche tu credi in un futuro del genere, passa dalla nostra parte finché puoi. Sei tu che servi la causa del Caos, credimi.» «Questo sofisma non è degno di un mirenburghese» replicai. «Hai ampiamente dimostrato la tua lealtà al male. Sei un egoista in piena regola, ho visto la tua crudeltà e udito la tua insensibilità troppo spesso per poter credere alla franchezza che proclami. Di sincero in te c'è solo il desiderio di distruggerci tutti. Il tuo amore per la Legge non è altro che l'ossessione di un pazzo per la pulizia, Gaynor. Questa non è armonia. Non è vero ordi-
ne.» Al ricordo di tempi migliori, il bel viso di Gaynor fu attraversato da una strana espressione. «Eh già, cugino. Eh già.» «Sono dei babbei, signore» si intromise di colpo Klosterheim. Pareva preoccupato. «Non c'è modo di convincerli.» «E lei, Herr Klosterheim, si considera un nobile servitore della Legge?» domandò Fromental. Klosterheim spostò il proprio sguardo arido sul francese, e gli rivolse un sorriso tetro e privo di trasporto. «Io servo il mio padrone. E servo il Graal, di cui ben presto tornerò a essere il guardiano. Ci incontreremo ancora, signori. Come vi ho detto, finalmente sono nel mio elemento. Non temo affatto questi luoghi e alla fine li conquisterò.» Si interruppe e si guardò attorno beato. «Quanto spesso ho anelato la notte e patito per l'interruzione del giorno. L'aurora è mia nemica. Qui posso essere me stesso. Non mi vedrete sconfitto.» Gaynor pareva stupito da tale uscita. «Una visione un po' vecchio stile» replicai. «Si direbbe che abbia letto troppa poesia romantica, maggiore.» Puntò su di me gli occhi fiammeggianti e ribatté in tono piatto: «Io sono un uomo vecchio stile. Un uomo crudele e vendicativo.» Per un istante la voce gli si ammantò di veleno. «Dovete andarvene ora» disse di punto in bianco Erudito Fi. «Se verrete trovati nella luce, le nostre guardie vi uccideranno.» «Andare? Andare dove? E quali guardie?» «Andate nell'oscurità. Oltre la luce. Le nostre guardie sono molte.» A un gesto di Erudito Fi le rocce appuntite che ci circondavano parvero muoversi lentamente. In ognuna di esse vidi il volto di un Off-Moo. «Il tempo non è padrone nostro quanto vostro, principe Gaynor.» Gaynor e Klosterheim ci avevano sottovalutati. Non credo che noi avessimo fatto lo stesso errore. Gaynor von Minct era diventato un fascinoso e guardingo serpente. «Se risaliamo in superficie, possiamo ritornare con un esercito.» «Più di un esercito si è perso quaggiù» commentò lo studioso con noncuranza. «Inoltre dubito che possiate tornare nel luogo che avete lasciato ed è altrettanto improbabile che troviate un'altra volta un ingresso per il nostro mondo. No, viaggerete nell'oscurità, oltre il fiume, e là imparerete a sopravvivere o perirete, come deciderà il fato. Ce ne sono molti altri come voi là fuori. Superstiti di quegli stessi eserciti. Ci sono intere tribù e nazio-
ni. Senza dubbio uomini pieni di risorse come voi dovrebbero riuscire a sopravvivere e persino a scoprire qualche modo per prosperare.» Gaynor era sprezzante, incredulo. «Intere nazioni? E di cosa vivono?» Erudito Fi cominciò a dirigersi verso la propria comunità. Aveva esaurito la pazienza. «Da quanto posso arguire, sono principalmente cannibali.» Quando lo affiancammo si fermò e si voltò di nuovo a guardarli. Gaynor e i nazisti non si erano mossi. «Andate!» Fece un gesto con la mano. Gaynor continuava a sfidarlo. Di nuovo Erudito Fi mosse le labbra, questa volta a creare una sorta di echeggiante sussurro. Furono all'incirca una decina le lance di cristallo che si infransero a meno di un metro dai nazisti. Restammo là in piedi a vedere Gaynor che dava l'ordine di ritirata. Lentamente, il gruppo si disperse nell'ombra. «È improbabile che li rivedremo» disse l'Off-Moo. «Dovranno passare il tempo a difendersi, invece che ad attaccare noi.» Lo sguardo di Fromental incrociò il mio. Come me, anche lui non condivideva l'ottimismo del sapiente. «Forse è meglio che ci mettiamo in viaggio per Mu Ooria» disse. «Dobbiamo quantomeno fare un resoconto di ciò che è accaduto.» «Sono d'accordo» disse lo studioso. «E date le circostanze vi suggerisco di prendere il voluk, invece di andare a piedi. Non abbiamo un'idea chiara di quanto esattamente coincidano i flussi temporali, in questa stagione, perciò è meglio essere cauti.» Non stava mostrando preoccupazione ma buon senso. Fromental annuì piegando il grosso testone. «Sarà interessante» commentò. «Cos'è il voluk?» gli chiesi dopo che ci fummo separati da Erudito Fi. «Non l'ho mai visto» rispose. Quando mi riaccompagnò al mio alloggio, trovai ad attendermi Brandocorvo. I miei ospiti mi stavano dicendo di prepararmi al peggio. Dormii in modo discontinuo per quelle che mi parvero alcune ore, ma i miei sogni erano confusi. Vidi una lepre bianca correre attraverso il paesaggio sotterraneo, slanciarsi lungo ripide balze e incombenti colonne capovolte, affrettarsi verso le torri di Mu Ooria, inseguita da una pantera nera dalla lingua rossa. Vidi due cavalieri cavalcare su un lago ghiacciato. Uno indossava un'armatura di rame argenteo, corrusco nella luce del pallido
cielo blu. L'altro, che lo sfidava, portava un'armatura di ferro nero, foggiata in forme fantastiche, con il cimiero che pareva un drago sul punto di spiccare il volo. Il viso del cavaliere nero era mio gemello. Non potevo scorgere il volto dell'altro, ma immaginai che fosse Gaynor, forse perché l'avevo appena incontrato. Mentre entravo e uscivo da quei sogni, pensai al mio doppio, a come era chiaramente intervenuto perché non interferissi nell'azione difensiva dell'Off-Moo. Che fosse un'illusione? Che soltanto io potessi vederlo? C'era forse qualche spiegazione freudiana dei miei sogni e delle mie visioni? E se ciò che vedevo era reale, come era possibile? Mi consolai pensando che a Mu Ooria avrei potuto approfondire la conoscenza della verità. Oona, per esempio, sarebbe stata felice di darmi spiegazioni. E là, decisi, avrei chiesto aiuto per tornare nella mia Germania, dove mi sarei unito alla lotta contro un male che di certo avrebbe presto sommerso l'intera Europa e forse il mondo. Ero sveglio da pochissimo quando Fromental mi chiamò. Mi stupì vedere che sul fianco portava una spada, e sulla schiena un arco e una faretra piena di frecce. «Si aspetta un attacco?» domandai. «Non vedo perché non dovrei essere pronto ad affrontare eventuali guai, ma credo che con ogni probabilità l'ottimismo di Erudito Fi sia ben fondato. Suo cugino e i suoi scagnozzi avranno di che tenersi occupati nelle Terre oltre la Luce.» «Come mai è diretto anche lei a Mu Ooria?» chiesi ancora. «Spero di incontrare alcuni amici di lord Renyard» rispose. E non si lasciò andare a ulteriori confidenze. Avvolsi la mia spada in un telo e la legai in modo da poterla portare anch'io appesa sulla schiena. Avevo dei viveri e qualche cambio d'abito, e al momento indossavo l'abbigliamento che ormai mi era familiare, completo di berretto da caccia che pareva ancora meno adatto alla situazione del képi di Fromental. Dopo avere fatto colazione con del brodo piuttosto leggero, mi guidò attraverso strade tortuose fino a che ci trovammo sulla riva del fiume, in una sorta di ansa dove le acque erano più calme. Erudito Fi e un gruppo di OffMoo si trovavano già al porto, apparentemente in allegra conversazione. La mia stupefatta attenzione fu attirata da ciò che vidi ormeggiato. All'inizio pensai che la cosa fosse viva, poi immaginai fosse stata abilmente realizzata utilizzando qualche genere di roccia cristallina, i cui colori preponderanti erano marrone rossiccio scuro e cremisi. Il possente vascello
pareva essere stato intagliato in un unico gigantesco rubino, tuttavia la pietra era leggera come vetro e l'acqua la sosteneva senza difficoltà. Il voluk aveva l'aspetto di un mitico animale marino scovato in profondità dove da tempo si era pietrificato. Mentre ne osservavo l'inespressivo muso da rettile, tutto narici allargate, mascelle e scaglie serpeggianti, mi parve che mi fissasse. Era vivo? Avevo come un fastidioso ricordo... Sulla schiena del voluk c'era un'ampia zona piatta, creata da una sorta di enorme sella, che dava origine a una piattaforma, una chiatta larga abbastanza da portare quindici o venti passeggeri e governata da due remi massicci, uno su ogni lato. Ero colpito non solo dalle dimensioni ma anche dalla complessità degli intagli e feci qualche commento in proposito con Fromental, mentre seguivamo l'equipaggio di Off-Moo sulla passerella fino al punto in cui prese posto ai remi. Il francese trovò il mio stupore divertente. «È la mano della natura, non quelle degli Off-Moo, che deve incolpare per aver creato questo mostro. Una volta presi questi superstiti dal lago, hanno scoperto che con minime modifiche possono essere utilizzati come zattere. Ovviamente vengono usati poco, perché per fare il percorso contro corrente devono essere trascinati. È chiaro che mettendoci a disposizione un voluk i nostri ospiti dimostrano di ritenere la situazione alquanto seria.» «Si aspettano un attacco da parte di Gaynor quando sanno difendersi con tanta facilità? Hanno qualche modo per vedere nel futuro?» «Possono vedere un milione di futuri. Il che in un certo senso equivale a non vederne alcuno. Si fidano del proprio istinto, immagino, e conoscono bene i tipi come Gaynor. Sanno che non riuscirà quasi a dormire finché non si sarà vendicato di quanto è accaduto qui. Sono sopravvissuti tanto a lungo, amico mio, perché anticipano il pericolo e sono pronti ad affrontarlo. Non sottovaluterebbero mai un uomo come Gaynor. Da quanto ho sentito, qualunque cosa abiti là fuori nelle Terre oltre la Luce si direbbe abbastanza temibile. Ma gli Off-Moo sono consapevoli del fatto che di quando in quando uno di quegli esseri riunisce gli altri con un armistizio sufficientemente lungo da consentire un attacco a Mu Ooria. Vedono benissimo che Gaynor e Klosterheim hanno l'intelligenza e il movente per riuscire a creare una sorta di alleanza delle tribù delle terre oscure. Tutti odiano Mu Ooria perché per un certo periodo li aveva ospitati e poi li ha banditi nell'oscurità più estrema.» «Alla fine veniamo tutti messi al bando laggiù?»
«No di certo. Aspetti di vedere Mu Ooria con i suoi occhi!» Fromental mi assestò una pacca sulla schiena, evidentemente pregustando le meraviglie che ben presto mi avrebbe mostrato. Erudito Fi ci si avvicinò mentre prendevamo posto sui bassi sedili al centro della chiatta. Era davvero cortese. Sperava avremmo fatto ritorno, disse, e raccontato a tutti loro come erano andate le cose. Quindi ridiscese sulla riva, la passerella venne ritirata, e gli snelli Off-Moo, con i copricapi conici che parevano annuire e le pallide vesti dalla linea morbida, concentrarono forza ed esperienza sui remi, guidandoci fuori dalle acque tranquille verso il canale nero e tempestato di stelle del fiume principale. Fummo immediatamente afferrati dalla corrente. L'equipaggio non poteva fare molto altro che mantenere la rotta del mostruoso scafo. Ci muovevamo a velocità allarmante, a volte superando delle rapide quando il fiume si stringeva tra le alte rive e pareva riversarsi ancora più in fondo, nel centro del pianeta. Non che, ovviamente, fossimo ancora sul pianeta, almeno nei termini che si intendono di solito. Quelle erano le Terre di Mezzo, che obbedivano alle leggi del Regno degli Elfi. Le acque scure erano sorprendentemente trasparenti ed era spesso possibile vedere il fondo, dove la roccia era stata lisciata fino a raggiungere una levigatezza innaturale. Non mi avrebbe stupito scoprire che in realtà ci stavamo spostando lungo un canale realizzato dall'uomo. La luce crebbe d'intensità mentre ci avvicinavamo al lago e anche la temperatura si alzò, a indicare che proprio quel mare interno era la fonte della civiltà Off-Moo. Era per essa ciò che il sole e il Nilo erano per l'Egitto. Benché per la maggior parte del tempo fossero visibili entrambe le rive, le ombre e le strane forme delle rocce, oltre al modo in cui la luce proveniente dall'acqua variava, facevano apparire il corso del fiume popolato da mostri di ogni tipo. Piano piano mi abituai alla natura fantasmagorica del paesaggio che scorreva rapido davanti ai miei occhi. Poi, però, mentre ammiravo un boschetto di esili stalagmiti che crescevano proprio in riva al fiume, simili a canne terrestri, fui certo di vedere un animale. Non si trattava di una bestia di piccole dimensioni. La luce aveva colpito gli occhi, cangianti dal giallo al verde smeraldo, che mi fissavano con intenzione. Mi voltai verso Fromental per chiedergli se sapeva di che creatura si trattasse. Lui si mostrò sorpreso, dicendo che di solito nei dintorni non c'erano animali più grandi degli Off-Moo. Poi, in un tratto di argine dove il baluginio della luce era più intenso, lo vidi di nuovo.
L'avevo già visto una volta. In sogno. Un felino gigantesco, molto più grande della più maestosa tigre, nero, la lingua rossa che penzolava da una bocca piena di zanne candide e acuminate, con due enormi incisivi ricurvi. Una pantera dai denti a sciabola, la cui lunga coda sferzava l'aria nella corsa, procedeva di pari passo con noi. Un mostro dei miei sogni. E si slanciava a fianco della chiatta mentre la corrente ci trasportava verso la capitale degli Off-Moo! Ora anche Fromental poteva vedere la bestia. Sapeva cos'era. «Di norma quei felini non si avvicinano così tanto al fiume, perché provano avversione e paura. Il loro terreno di caccia sono le Terre oltre la Luce. I cannibali sono la loro preda naturale. Sono molto temuti perché possono vedere al buio, anche se non in senso convenzionale. Benché i loro occhi sembrino guardarci, in realtà quelle bestie sono completamente cieche.» «E come fanno a cacciare? Come può quell'animale riuscire a seguirci?» «Gli Off-Moo mi hanno spiegato che è per via del calore. Chissà come gli occhi percepiscono il calore invece della luce. E il loro olfatto è straordinario. Possono annusare alcuni odori fino a chilometri di distanza. Gli abitanti delle terre oscure sono terrorizzati. Gli Off-Moo ritengono che i felini siano la migliore protezione di cui dispongono contro la minaccia dei cannibali.» «I cannibali non cacciano le pantere?» «Riescono a stento a proteggersi da esse. Superstizione e fuoco sono tutto ciò che hanno per difendersi, dato che in massima parte anche loro sono ciechi. Provano una paura istintiva per quelle creature, di cui sono prede relativamente facili.» Ora che vedevano il felino, però, anche gli Off-Moo si dimostravano preoccupati. Il tono delle voci che parlavano in greco era alto e accelerato, cosa che mi rendeva incomprensibili le parole. Fromental mi disse che quel segno aumentava la loro ansia, la loro sensazione di pericolo. Perché la pantera si era avvicinata tanto al fiume? «Forse solo per curiosità» suggerì il mio amico. Fece un cenno a Erudito Brem, un conoscente, e andò a parlargli. Quando tornò sembrava allarmato. «Temono che qualche forza dominante allontani i felini dai normali territori di caccia. Ma è ovvio che potrebbe anche trattarsi di un giovane maschio isolato alla ricerca di una compagna.» Non riuscii più a scorgere la grande e nera denti a sciabola. Intanto l'imbarcazione stava già rallentando, perché la spinta del fiume veniva abbracciata dal lago luminoso, le cui sponde più lontane erano perse nella totale
oscurità che le circondava. Piano piano, come accadrebbe da una nave o da un treno che si inoltri nella periferia di una grande città, cominciammo a notare che le formazioni attorno a noi avevano lasciato il posto alle snelle torri viventi degli OffMoo. Spesso quelle torri riflettevano morbide ombreggiature, lievi pennellate di colore, che contribuivano ad aumentare la loro misteriosa bellezza. Off-Moo curiosi iniziavano ad apparire sulle rive o sui propri balconi, mentre i nostri timonieri si affannavano sui remi per seguire la corrente che con dolcezza ci conduceva verso un porto, dove erano ancorati numerosi mostri marini pietrificati come il nostro. Dimostrando notevole abilità, i rematori diressero l'imbarcazione lungo un molo di roccia finemente scolpita. Su di esso vi era una piccola folla in attesa di darci il benvenuto. In massima parte si trattava di Off-Moo, solo impercettibilmente diversi l'uno dall'altro così seminascosti dai copricapi corrici, ma poi riconobbi una figurina più minuta che si teneva di lato, e provai un tale piacere, un così intenso sollievo che mi stupii della forza delle mie emozioni. Avevo cominciato ad affezionarmi a Oona. La sua pallida bellezza albina le dava un aspetto ancor più etereo qui che nel mio mondo. Ma non era questo a rallegrarmi il cuore. Era una sensazione molto più intensa. Un senso di appartenenza, forse? Mi affrettai a scendere da quella bizzarra chiatta e a saltare sul molo, per correre ad abbracciarla, a sentirne il calore, la realtà, la profonda familiarità. «Sono felice che tu sia qui» mormorò. Poi abbracciò Fromental. «È arrivato in tempo per incontrare gli amici di Lord Renyard. Portano notizie terribili. Come sospettavamo, i nostri nemici stanno attaccando almeno tre reami, tutti strategici. Il vostro stesso mondo corre un pericolo mortale. Tanelorn è di nuovo sotto stretto assedio, questa volta da parte della Legge, e potrebbe cadere in qualsiasi momento. E ora si direbbe che persino Mu Ooria debba affrontare la più seria minaccia. Non si tratta certo di una coincidenza, signori. Abbiamo un avversario molto forte.» Mentre parlava, ci condusse lontano dall'imbarcazione ormeggiata, lungo strade strette e tortuose. «Ma Tanelorn non può essere conquistata» disse Fromental. «Tanelorn è eterna.» Oona alzò due occhi seri verso il viso di lui, tanto più in alto rispetto al suo. «L'eternità come l'abbiamo sempre concepita è in pericolo. Tutto ciò che abbiamo sempre dato per scontato. Tutto ciò che è permanente e inviolabile sta subendo un attacco. Le ambizioni di Gaynor possono portare alla
distruzione della coscienza. Alla fine della consapevolezza. Alla nostra estinzione. E probabilmente anche all'estinzione del multiverso stesso.» «Forse avremmo dovuto ucciderlo la prima volta che ci ha minacciati» commentò Fromental. La giovane cacciatrice si strinse nelle spalle, mentre ci faceva entrare in uno dei delicati edifici. «Non avreste potuto ucciderlo allora» replicò. «Sarebbe stato moralmente impossibile.» «E come mai?» chiesi io. Il suo tono era piatto, come se non avessi colto la risposta più ovvia del mondo. «Perché» rispose «a quel punto delle vostre storie congiunte non aveva ancora commesso il suo grande crimine.» CONVERGENZA DI SFERE Avevo qualche problema con la nozione di tempo delle Terre di Mezzo. Sembrava fossimo tutti destinati a vivere esistenze identiche in miliardi di contro realtà, solo raramente in grado di cambiare la nostra storia eppure sempre in lotta per farlo. Di quando in quando, qualcuno aveva successo, ed era lo sforzo di cambiare quella storia che in qualche modo aiutava a mantenere l'equilibrio dell'universo, o piuttosto della moltitudine di universi alternativi che Oona chiamava 'multiverso', dove tutte le nostre storie venivano recitate fino in fondo in forme diverse. Con me Oona era molto paziente, ma avevo un atteggiamento alquanto prosaico e concetti di quel tipo non si accordavano facilmente con la mia idea di buon senso. Pian piano cominciai ad avere una visione più ampia delle cose, fatto che mi aiutò a capire che i miei sogni erano semplicemente brevi finestre su altre vite, spesso nei loro momenti più drammatici, e in che modo era possibile per alcuni di noi passare da un sogno all'altro, da una vita all'altra, riuscendo a volte anche a cambiarne l'andamento. Mi parlò di queste cose solo dopo avermi accompagnato nel mio alloggio e avermi dato il tempo di rinfrescarmi. Quindi, una volta pronto, mi portò fuori nelle sinuose stradine di Mu Ooria, una città vivace e affollata, molto più cosmopolita di quanto mi sarei mai aspettato. Era evidente che non tutti gli umani erano stati banditi nell'oscurità. Interi quartieri erano abitati da persone di razze e credo diversi, testimonianza di una grande mescolanza di culture, inclusa quella degli Off-Moo. Passammo in mezzo a mercatini all'aperto che non avrebbero fatto cattiva figura nelle vie della
moderna Colonia, tra case che non sarebbero state fuori luogo nella Francia del Medio Evo. Era evidente che gli Off-Moo avevano una lunga tradizione di ospitalità verso profughi dalla superficie, e che quelle persone avevano mantenuto usi e costumi, gioiosamente armonizzati con quelli altrui. Oltre agli aspetti familiari, c'erano quelli esotici. Oona mi mostrò terrazze di nero basalto specchiante adorne di licheni pallidi e di funghi, sinuose balconate calcaree i cui occupanti a volte erano indistinguibili dalla roccia. Quell'eterna notte scintillante aveva un suo fascino. Potevo capire perché tanti avessero deciso di stabilirsi lì. Pur non potendo mai vedere il sole e i campi fioriti della primavera, non si vedeva neppure il genere di conflitti che poteva privare di entrambi in un solo istante. Comprendevo e solidarizzavo con quanti avevano stabilito là la loro residenza, ma desideravo fortemente rivedere le familiari e paffute gote rosse degli onesti contadini di Bek. Nessuno degli abitanti di quel luogo pareva del tutto vivo, anche se era evidente che fossero felici della vita che conducevano, apprezzando l'alto livello di civiltà, nonostante il senso di oppressione dato dalla roccia sopra la testa, la consapevolezza dell'esistenza delle terre oscure proprio ai confini della città, la riservatezza che sembrava aleggiare ovunque, la cortesia leggermente esagerata che non ci si aspetterebbe di trovare in una metropoli tanto attiva. Provavo grande ammirazione per tutto questo, ma non avrei mai scelto quel luogo per stabilirmici. Avrei mai ritrovato la strada per la terra dei miei padri? Mi sentii di nuovo preda di una disperata frustrazione. Amavo il mio paese e il mio mondo. Tutto quello che volevo era l'opportunità di combattere per ciò che in entrambi era giusto e onesto. Dovevo riprendere il mio posto tra coloro che si opponevano a un terrore codardo, e si scontravano con forze crudeli e filistee che desideravano solo distruggere tutto quanto aveva un valore nella nostra cultura. È questo che spiegai a Oona mentre continuavamo a passeggiare lungo i canyon serpeggianti della città, ammirando i giardini e l'architettura, scambiando saluti e battute scherzose con i passanti. «Mi creda, conte Ulric,» mi rassicurò «se avremo successo avrà tutte le opportunità di combattere di nuovo contro il nazismo. Ma c'è molto da fare. Le stesse linee di battaglia sono state disegnate su almeno altri tre livelli, e in questo momento si direbbe che i nostri nemici siano più forti.» «Vuole lasciarmi intendere che prendendo parte alla vostra lotta combatto per la medesima causa?»
«Sto dicendo che la causa è la stessa. Decidere come servirla, alla fine, spetta solo a lei. Ma sarà una decisione simultanea a molte altre.» Mi sorrise e mi prese dolcemente per mano, per condurmi infine a un grande spiazzo naturale, leggermente concavo, vicino al centro della città. Lì non c'erano stalagmiti, e le stalattiti del soffitto erano nascoste dalle lunghe ombre create dai bagliori del lago. Inizialmente pensai si trattasse di un anfiteatro, ma nulla indicava che il pubblico potesse trovare posto. Da lì partiva una via piuttosto ampia che pareva portare direttamente al lago. Se gli Off-Moo fossero stati una razza diversa, avrei potuto pensare che fosse stata progettata per parate militari: un'imponente sfilata della marina e delle forze vittoriose che potevano così presentarsi alla popolazione festante radunata nella grande spianata concava. Oona era molto divertita dalle mie elucubrazioni, dalle considerazioni sul terreno che pareva consumato dal passaggio di migliaia di piedi, dal fatto che in quel luogo percepivo un odore lieve ma familiare. «Non avrà altre occasioni di venire qui» mi disse. «Supponendo che torni il suo occupante.» «Occupante?» «Sì. Vive con gli Off-Moo fin dall'inizio della loro storia. Alcuni pensano siano giunti qui assieme. Ci sono persino delle prove che dimostrano come la città si sia sviluppata attorno a lui. È vecchissimo e dorme molto. Di quando in quando, se ha fame, lascia questo luogo e se ne va laggiù» indicò la grande strada «fino al lago. La durata delle sue assenze varia, ma è sempre tornato.» Mi guardai attorno alla ricerca di un'abitazione. «E vive qui senza mobili né protezioni?» La mia confusione la divertiva. «È un serpente gigante» spiegò. «All'apparenza non è molto diverso da un voluk ma è molto più grande. Dorme qui e non reca alcun danno agli Off-Moo. È risaputo che li ha anche protetti in passato. Credono che al lago vada per cacciare. È un animale strano, con delle lunghe pinne laterali che somigliano quasi alle ali di un pesce razza, pur essendo decisamente un rettile. Alcuni credono che abbia dei monconi di arti nascosti all'interno del corpo e che in realtà sia quindi più lucertola che serpente. Non tanto diverso da quei gusci che hanno recuperato e trasformato in chiatte, anche se decisamente più grande, è ovvio.» «Il Serpente in fondo al Mondo?» Un po' divertito e un po' timoroso, fa-
cevo riferimento al mitico Verme Oroboro, che i nostri antenati ritenevano stesse a guardia delle radici dell'Albero del Mondo. Con mia grande sorpresa, il tono della sua risposta fu grave. «Forse» disse. Poi, deliberatamente, diventò più allegra e mi prese di nuovo la mano. Mi resi improvvisamente conto di avere sconfinato nella proprietà altrui e fui felice che Oona, ridendo, mi conducesse per un'altra serie di tortuosi vicoletti e mi mostrasse le meraviglie color pastello dei giardini di piante acquatiche, realizzati con pietra naturale e muffe fungiformi. I baluginanti punti luce delle nebbiose cascate in miniatura riflettevano tutti i tenui colori della bizzarra fauna sotterranea. La mia guida era deliziata dal mio stupore, ed esibiva l'orgoglio di un proprietario, rispetto alle meraviglie di Mu Ooria. «Come potrebbe non amare un luogo del genere?» mi domandò, prendendomi sottobraccio. Nei suoi confronti provavo un'amichevolezza, una piacevole affinità che mai avevo sperimentato con altre donne. Trovavo la cosa decisamente rilassante. «Ma io lo amo già» le dissi. «E penso che gli Off-Moo siano una razza civile e colta. Persone esemplari. Potrei fermarmi qui per un anno senza riuscire a scoprire tutto ciò che offre la città. Ma non è nella mia natura, Fräulein Oona, prendermi vacanze esotiche mentre la mia nazione, è minacciata da un mostro ben più pericoloso del serpente adottato da Mu Ooria!» Lei mormorò che comprendeva la mia preoccupazione e che avrebbe fatto quanto poteva per aiutarmi. Quando le chiesi notizie del capitano Bastable, il misterioso inglese, scosse il capo: «Credo sia impegnato altrove.» «Quindi lei, che chiaramente può andare e venire a piacimento, sarebbe in grado di portarmi fuori di qui?» «Ci sono le vie dei sogni» mi disse. «Trovarle non è difficile, ma tornare da dove si è venuti a volte può essere impossibile.» Alzò una mano per prevenire la mia ira. «Le ho promesso che avrà modo di combattere i suoi nemici. Immagino che voglia avere il maggior successo possibile.» «Mi sta dicendo di essere paziente. Che altro potrei fare?» Sapevo che era sincera, e le strinsi il braccio con affetto. Era come se la conoscessi da sempre. Avrebbe potuto essere una dei miei parenti di maggior fascino, una nipote magari. Mi ricordai che, stranamente per me, si era aspettata che la riconoscessi. Ora capivo che nei contrastanti flussi temporali del multiverso era possibile che qualcosa fosse contemporaneamente misterio-
sa e familiare. Di certo mi aveva scambiato per qualcun altro, forse persino per uno della miriade di miei 'altri sé' che, volendo credere a lei e agli OffMoo, proliferavano in un multiverso che si diramava in continuazione. La sua certezza che non avessi un doppio etereo ma un infinito numero di altri me stesso, non mi rassicurava affatto. E questa sensazione mi ricordò di chiederle delle due strane figure che avevo scorto in precedenza. Una delle quali era il mio doppio. Trovò il mio racconto preoccupante, invece che sorprendente. Mi pose domande precise e io feci del mio meglio per rispondere. Scosse il capo. «Non sapevo che stessero agendo forze di questo tipo» commentò. «Non forze così potenti. Prego solo che qualcuna di esse decida di unire la propria causa alla nostra. Potrei avere usato o interpretato male i poteri di mia madre.» «Chi erano quegli uomini in armi?» «Gaynor, se indossava l'armatura che mi ha descritto. L'altro è il suo mortale nemico, uno dei più grandi tra i suoi avatara, conte Ulric, il cui destino è cambiare la natura stessa del multiverso.» «Non un mio antenato, quindi, ma un alter ego?» «Se crede. Mi dice che le domandava qualcosa?» «Così mi è parso.» «È disperato.» Parlava con affetto, come di un caro e vecchio amico. «E Fromental cosa ha visto?» «Nulla. Si è trattato solo di visioni repentine. Ma non erano illusioni. Almeno, non nel senso che si intende di solito.» «No, non erano illusioni» confermò. «Venga, conferiremo con Fromental e i suoi amici. Sono stati soli più che abbastanza.» Attraversammo una serie di canali molto simili a quelli di Venezia, uno stretto ponte dopo l'altro, seguendo fossi di scolo naturali e fenditure utilizzati come parte del sistema idrico della città. Ero colpito da come gli Off-Moo si erano adattati alle formazioni naturali della terra. Goethe, per esempio, sarebbe rimasto impressionato dall'evidente rispetto per l'ambiente. Ironia della sorte, proprio quell'ambiente, se fosse stato descritto agli abitanti del mio mondo, sarebbe stato ritenuto una fantasia di un qualche oppio-dipendente come Coleridge o Poe. Un tributo alla capacità della maggioranza di negare ogni verità, per quanto colossale, che metta in discussione la sua limitata conoscenza della realtà. Infine entrammo in una piazzetta e Oona mi guidò oltre una porta e su una scala serpeggiante e asimmetrica finché giungemmo in un'ampia sala,
sorprendentemente vasta per un appartamento di Off-Moo. Il posto era arredato con gusto umano, con grandi divani e comode sedie, un lungo tavolo ricoperto di cibo e vino. Evidentemente, mentre parlavano, Fromental, lord Renyard e i tre sconosciuti che si alzarono per darci il benvenuto, avevano anche pranzato. Mai, fuori dal palco di un'opera buffa, avevo visto un simile gruppo di eccentrici elegantoni. Lord Renyard indossava i pizzi e i merletti di un damerino della metà del XVII secolo, che si teneva in equilibrio alquanto instabile con l'aiuto di un decorativo e decorato bastone da passeggio. Una sciarpa di seta scarlatta posta sulla spalla tratteneva il fodero di una spada sottile. Vedendoci, strinse gli occhi per il piacere. «Miei cari amici, siete più che benvenuti.» S'inchinò con grazia un po' goffa. «Posso presentarvi i miei amici e concittadini di Tanelorn? Il barone Blare, lord Bragg e il duca Bray. Cercano di unire le forze contro il nemico comune.» I tre indossavano tutti le vistose uniformi degli ufficiali della cavalleria napoleonica. Il barone Blare aveva imponenti basettoni e un sorriso aperto ed equino che mostrava denti larghi e irregolari. Lord Bragg era un presuntuoso galletto dallo sguardo torvo, tutto cresta e bargigli fiammanti, mentre il lungo viso del duca Bray aveva l'aria austera e testarda di un mulo. Pur non decisamente di aspetto animale come lord Renyard, tutti e tre avevano un certo non so che di fattoria, ma risultarono abbastanza cordiali. «Questi gentiluomini hanno percorso una via impervia e tortuosa per poter essere qui con noi» spiegò Fromental. «Hanno camminato sulle strade dei raggi di luna tra i mondi.» «Camminato?» credetti di avere capito male. «È una capacità negata ai più.» La voce di lord Renyard ricordava un abbaiare acuto e stridulo. Si esprimeva in perfetto francese classico, ma per articolare alcuni suoni doveva torcere la bocca e le corde vocali. «Quanti di noi l'hanno appresa, però, non viaggerebbero in altro modo. Questi sono miei buoni amici. Quando abbiamo compreso la gravità del pericolo, abbiamo lasciato Tanelorn insieme. La nostra Tanelorn, ovviamente. Siamo stati separati un po' di tempo fa, durante una rischiosa avventura. Ma infine sono riusciti a giungere qui portando notizie fresche sulla situazione a Tanelorn.» «La città è sotto assedio» spiegò Fromental. «Gaynor, in altre vesti, la sta attaccando. Ha i Mondi Superiori dalla sua parte. Temiamo che presto la città cada.» «Se Tanelorn cade, allora tutto cade.» Oona misurava la stanza a grandi
passi. Non si aspettava notizie tanto drammatiche. «Sarebbe la rovina del multiverso.» «Non c'è dubbio che senza aiuto Tanelorn sarà perduta» disse lord Bragg. Nella sua voce piatta e gelida, poche speranze. «Il resto del nostro mondo è già stato conquistato. Ora vi regna Gaynor in nome della Legge. La sua padrona è Lady Miggea la Folle. Ed egli attinge alla forza di più di un avatara.» «Siamo venuti qui» si intromise il duca Bray «proprio alla ricerca di quegli avatara, nella speranza di riuscire a farli smettere di unire le proprie forze. Nel nostro mondo è già accaduto. Qui, Gaynor ha appena iniziato a dimostrare il suo potere.» Dato che non capivo, Oona mi spiegò: «A volte è possibile, con un aiuto immortale, che due o più avatara di una persona si uniscano. Questo dà un potere molto maggiore, ma in cambio si perdono equilibrio e ragionevolezza. Un'unione così innaturale minaccia davvero la stabilità dell'intero multiverso! Colui che attinge alle anime dei propri avatara in questo modo corre rischi terribili e può pagare un prezzo molto alto per le sue azioni.» Qualcosa nel modo in cui mi fissava mi fece rabbrividire. Il gelo mi penetrò fin nelle ossa e non mi abbandonò più. «Non possiamo permettere che Mu Ooria venga attaccata per colpa nostra» dissi. «Perché non ci mettiamo a capo di una spedizione diretta nelle terre oscure e li colpiamo per primi? Ci vorranno mesi perché Gaynor possa schierare una truppa.» Oona fece un sorriso triste. «Non siamo in grado di prevedere la velocità con cui passa il tempo per lui.» «Ma sappiamo di poterlo sconfiggere.» «Questo dipende» disse lord Renyard, scusandosi per avere interrotto. «Da cosa?» «Dal tipo di aiuto che riusciremo a trovare. Vorrei ricordarle, caro conte von Bek, che nel nostro mondo solo Tanelorn non è ancora stata conquistata. Gaynor gode di protezioni molto potenti. Si avvale dell'aiuto di almeno una dea.» «E come ha fatto Tanelorn a resistere fino a ora?» domandai. «Tanelorn è Tanelorn. La città dell'asilo eterno, dell'immunità. Di solito né il Caos né la Legge osano sferrare attacchi contro di essa. È la concretizzazione dei Feudi Grigi.» Oona si lanciò al salvataggio: «I Feudi Grigi sono l'essenza del multiverso - si potrebbero definire tendini, muscoli, ossa e linfa vitale del multiver-
so - la materia primaria da cui deriva tutto il resto. La sede iniziale del Sacro Graal. Benché gli esseri possano incontrarsi nei Feudi Grigi, persino dimorare là, se lo vogliono, qualunque tipo di attacco contro di essi, qualunque lotta che si svolga all'interno dei Feudi sarebbe un vero e proprio affronto alle basi dell'esistenza. Qualcuno lo definirebbe un affronto a Dio. C'è chi crede che i Feudi Grigi siano Dio, se il multiverso stesso non lo è. Io preferisco avere una visione più prosaica. Se il multiverso fosse un grande albero, che non smette mai di crescere, di produrre rami, di estendere radici e fronde in tutte le direzioni, ogni radice e ogni fronda una nuova realtà, una nuova storia che si racconta, allora i Feudi sarebbero come l'anima di quell'entità. Per quanto cruciale sia la lotta, non attacchiamo mai i Feudi Grigi.» «E attaccare Tanelorn equivale ad attaccare i Feudi Grigi?» domandai. «Lo definirei piuttosto un precedente allarmante» disse lord Bray, mostrando più ironia di quanto l'avessi ritenuto capace a prima vista. «Quindi Gaynor minaccia la componente fondamentale dell'esistenza. E se ha successo?» «È l'oblio. La fine della coscienza.» «In che modo potrebbe riuscire nel suo intento?» La mia vecchia abitudine alla logica e alla strategia stava riaffiorando. Il vecchio von Asch mi aveva insegnato a usare il cervello. «Ricorrendo all'aiuto di un potente duca della Legge o del Caos. Su ambo i fronti ci sono elementi che ritengono che se avessero in mano il controllo del tutto, il multiverso si accorderebbe meglio al loro modo di vedere e al loro temperamento. Nell'esistenza degli dèi sono presenti cicli durante i quali senilità e bigottismo prendono il posto di buon senso e responsabilità. Ed è questo il caso dell'alleato di Gaynor nel nostro reame.» «Un dio, avete detto?» «Una dea, in realtà.» Lord Blare scoppiò in una tempestosa risata. «La famosa duchessa Miggea di Dolwic. Una tra i più anziani aristocratici della Legge.» «Della Legge? Ma la Legge si opporrà a tale ingiustizia, non credete?» «Una senilità aggressiva non è tipica soltanto del Caos nel momento del declino. Entrambe le forze obbediscono alle leggi del multiverso. Crescono forti e vigorose, quindi si avviano al declino e muoiono. E nel morire, spesso si dimostrano disperatamente attaccate alla vita. A qualunque prezzo. Tutte le passate propensioni per la lealtà e le intese scompaiono, trasformandosi in veri appetiti che spingono a far prede tra i viventi al fine di
sostentare il proprio animo corrotto. Anche i più nobili signori e signore della Legge possono essere vittime di tale corruzione, spesso proprio quando il Caos ha raggiunto i massimi livelli di vigore e dinamismo.» «Non commetta il mio stesso errore» mormorò Fromental rivolto a me. «Non confonda Legge e Caos con Bene e Male. Entrambi hanno vizi e virtù, eroi e malfattori. Quando le caratteristiche positive di ambo le parti si combinano in un singolo individuo, rappresentano lo spirito guerriero dell'umanità e allo stesso tempo tutto ciò che di meglio essa può diventare.» «Ed esistono individui simili?» «Pochi» rispose lord Bray. «Tendono a presentarsi quando la situazione lo richiede.» «Gaynor è uno di essi?» «È l'opposto!» abbaiò indignato lord Renyard. «Lui riunisce in sé i vizi delle due parti. Si sta dannando all'odio eterno e alla disperazione. Ma è nella sua natura credere di agire per una reale necessità.» «E gode di aiuti soprannaturali?» «Nel nostro mondo, sì.» Per un attimo il lungo volto di lord Bragg si animò. «Al suo fianco cavalca lady Miggea. La duchessa della Legge ha a disposizione tutta la potenza dei suoi grandi sostenitori. Potrebbe distruggere pianeti interi, se volesse. La mano della Legge è letale quando serve la distruzione insensata invece che la giustizia e la creatività. Avevamo sperato che lord Elric...» Lord Blare aveva cominciato a misurare la stanza a grandi falcate. Era tutto insistenti occhi azzurri, speroni sferraglianti e tintinnio di bardature. «Per quanto apprezzi una bella chiacchierata tra amici, vorrei rammentarvi, signori, che corriamo tutti un pericolo immediato e che lo scopo del nostro viaggio qui era di chiedere aiuto ai Lord Grigi, che da quanto ho capito sono questi Off-Moo.» «Ma suppongo non possano offrire molto all'atto pratico, dato che Gaynor minaccia anche questo mondo.» Lord Bragg giocherellava con i suoi favoriti. «Quindi per salvarci dobbiamo rivolgerci altrove.» «Dove andrete?» chiese Fromental. «Ovunque ci conducano le strade dei raggi di luna. Sono l'unico modo che conosciamo per viaggiare da un reame all'altro.» Lord Bray pareva quasi scusarsi. «Con Elric ingannato e vittima di un incantesimo...» «Mi insegnereste a camminare su quelle strade se venissi con voi?» domandò pacato Fromental.
«Ma certo, amico mio!» Lord Renyard rispose con un energico guaito e un'amichevole pacca sull'imponente braccio di Fromental. «Sarei davvero orgoglioso di godere della compagnia di un connazionale francese!» «Allora sono il vostro uomo, monsieur!» Il legionario si sistemò il berretto e fece il saluto militare. Poi si rivolse a me. «Spero, amico mio, che non pensi la stia abbandonando. La mia ricerca è sempre stata volta a Tanelorn. Forse durante la spedizione apprenderò qualcosa che aiuti tutti noi a combattere Gaynor. Sia certo, mio caro, che se mai si troverà in pericolo, farò tutto ciò che è in mio potere per aiutarla.» Ricambiai quasi con le stesse parole. Ci stringemmo la mano. «Verrei con voi,» dissi «ma ho giurato di tornare a casa il più presto possibile. C'è così tanto in gioco in questo momento.» «Abbiamo destini separati» disse lord Renyard, quasi a consolarci. «Sono tutti fili dello stesso arazzo. Ho la sensazione che ci incontreremo di nuovo. Magari in circostanze migliori.» «Gli Off-Moo sono molto numerosi e pieni di risorse, anche quando contro di loro si scatenano forze soprannaturali.» Oona fece un passo avanti tra gli alti militi dandy dall'aspetto animalesco, per salutarli. «Ognuno di noi servirà al meglio l'Equilibrio servendo il proprio reame.» Anche lei strinse la mano a Fromental. «Ritiene che Gaynor attaccherà la città?» domandò il gigantesco legionario. «Questa è la sua storia,» rispose lei un po' misteriosa «il suo sogno. Non sarei affatto sorpresa se avesse già iniziato la grande campagna. Questa è l'avventura che gli farà guadagnare il suo soprannome più noto.» «Che sarebbe?» domandò Fromental tentando di sorridere. «Il Dannato» rispose Oona. Quando ci separammo dai tanelorniani (a cui non potevo fare a meno di pensare come a 'i Tre Ussari'), domandai a Oona come avesse fatto a capire tante cose. Lei sorrise e si appoggiò di nuovo graziosamente a me mentre attraversavamo i canyon crepuscolari nei quali senza dubbio si stavano svolgendo moltissime attività ordinarie. «Sono figlia di una ladra di sogni» disse. «Mia madre era famosa. Ha rubato dei sogni straordinari.» «Ma come si rubano i sogni?» «Solo un ladro di sogni sa come fare. E solo un ladro di sogni può portare un sogno nell'altro senza correre rischi. Usare un sogno contro l'altro.
Ma è così che ottiene le proprie ricchezze.» «Potrebbe rubare un sogno in cui sono un imperatore e collocarmi in uno dove sono povero?» «Direi che è un po' più complicato di così, ma io non ho ricevuto l'istruzione di mia madre. La grande scuola del Cairo era chiusa nel periodo in cui ero là. E comunque non avrei avuto la pazienza necessaria.» Smise di camminare e fece fermare anche me. Non disse nulla, si limitò a fissarmi. Occhi di rubino incontrarono i miei. Le sorrisi e lei fece altrettanto, ma pareva un po' delusa. «Quindi non è la ladra che era sua madre?» «Direi che non sono per niente una ladra. Ho ereditato alcune delle sue capacità, non la vocazione.» «E suo padre?» «Ah!» disse, cominciando a ridere tra sé mentre guardava la strada color verde giada che rifletteva le nostre figure in modo indistinto. «Ah, mio padre!» Non avrebbe aggiunto altro sull'argomento, perciò le domandai dei viaggi che compiva in altri mondi. «Ho viaggiato molto poco in confronto a mamma» rispose. «Ho passato un po' di tempo in Inghilterra e in Germania, ma non nella sua storia. Devo confessare che i mondi che dovrebbero esserle più familiari esercitano un grande fascino su di me, forse perché mia madre vi era molto affezionata. E lei, conte von Bek, sente la mancanza della sua famiglia?» «Mia madre è morta dandomi alla luce. Aveva già avuto altri figli, ma quell'ultimo parto fu il più difficile.» «E suo padre?» «Uno studioso. Seguace di Kierkegaard. Penso mi incolpasse della morte di mia madre. Trascorreva la maggior parte del tempo nella vecchia torre della nostra casa. Aveva una biblioteca enorme ed è morto nell'incendio che l'ha distrutta. Oscure tracce di pazzia e anche peggio. Io ero in collegio, ma si raccontavano strane storie riguardo a quella notte e a ciò che gli abitanti di Bek credevano di avere visto. Una particolarmente grottesca e sensazionalistica parlava del fatto che mio padre si sarebbe rifiutato di onorare una sorta di 'patto col diavolo' di famiglia e avesse perduto un cimelio che gli era stato affidato.» Risi, ma senza la spontaneità della mia compagna. Facevo fatica a piangere un uomo così lontano da me e che sospettavo non avrebbe pianto affatto se in quell'incendio fossi morto io. Trovava il mio albinismo ripu-
gnante. O quantomeno fastidioso. Eppure i miei tentativi di distaccarmi dai miei genitori e dai loro problemi non erano mai stati del tutto coronati dal successo. Lui si aspettava che facessi il mio dovere all'interno della famiglia, ma non riusciva a volermi lo stesso bene che provava per i miei fratelli. Oona non mi fece ulteriori domande. Ero stupito dalla forza delle emozioni portate a galla da quei ricordi. «Abbiamo in comune una vita familiare decisamente complicata» mormorò in tono comprensivo. «Nonostante tutto» insistei «intendo sempre tornare a Bek. Non c'è modo di farmi andare a casa presto?» Era dispiaciuta. «Io viaggio tra i sogni. Dicono che abito le storie che assicurano la crescita e la rigenerazione del multiverso. Alcuni ritengono che ci sogniamo nella realtà. Che siamo la concretizzazione di desideri, struggimenti, ideali e brame. Un'altra teoria sostiene che sia il multiverso a sognarci. Un'altra ancora che siamo noi a sognare lui. E lei, conte von Bek, ha una teoria?» «Temo di essere troppo nuovo a queste idee. Ho qualche problema a credere ai concetti di fondo che ne stanno alla base.» Le misi un braccio attorno alle spalle perché percepii in lei una sorta di disperazione. «Se ho fede in qualcosa, è nel genere umano. Nella nostra fondamentale capacità di tirarci fuori dal fango delle brame smodate e della crudeltà inconsulta. In un positivo desiderio di bontà che ricrei l'armonia distrutta senza alcuna fatica dai bruti.» Oona si strinse nelle spalle. «I cani ingordi tendono a mangiare troppo» disse. «Dopo di che, di solito vomitano.» «È una cinica?» «No. Ma noi Cavalieri dell'Equilibrio dovremo combattere una lunga battaglia prima di ottenere tale armonia.» Avevo già udito quella definizione, e le domandai cosa significasse. «È un termine che alcuni usano per descrivere quanti di noi operano per la giustizia e l'equità nel mondo» mi spiegò. «E io sarei uno di quei cavalieri?» chiesi. «Credo che lo sappia» rispose. Poi cambiò argomento, indicando le cascate fluenti di quelli che chiamava fiori di luna e che scendevano dalle esili terrazze delle guglie di Mu Ooria. Nonostante tutti i misteri e i pericoli che avevo affrontato, era un privilegio osservare tanta bellezza. Non era paragonabile a nulla che potessi immaginare. Aveva un'intensità, una consistenza tattile e ambientale che
nessun fumatore di oppio avrebbe mai potuto sperimentare. Una certa consapevolezza del fatto che si stia sognando deve esistere. Qui non era possibile negare l'assoluta realtà di quel tenebroso mondo di roccia. Era evidente che Oona non desiderava rispondere ad altre domande, quindi passammo i minuti successivi in silenzio, ammirando l'abilità degli architetti Off-Moo che erano riusciti a inserire perfettamente le loro creazioni nell'ambiente naturale, dando alla città una completezza organica che mai avevo riscontrato in un luogo di tali dimensioni. Mentre ci voltavamo dopo aver contemplato una cortina di roccia trasparente e scanalata che alla luce proveniente dal lago pareva ondeggiare, a non più di un metro da me scorsi un uomo. La vista mi provocò uno shock: mi sentivo male e non riuscivo a profferire parola. Ecco di nuovo il mio doppio, che indossava ancora la nera armatura barocca, il viso di un'esagerata rassomiglianza con il mio, con zigomi alti, sopracciglia leggermente oblique e fulgidi occhi rossi, la pelle d'avorio. Gridava. Gridava al mio indirizzo e comprendeva che non riuscivo a udire una parola. Anche Oona lo vide, e lo riconobbe. Cominciò ad avvicinarglisi, ma lui si allontanò verso un vicolo e mi fece cenno di seguirlo. Procedeva sempre più svelto e per tenergli dietro fummo costretti a correre. Girando, svoltando, scendendo in stretti tunnel, salendo scale, attraversando ponti, seguimmo l'uomo con l'armatura oltre i confini della città, fino a inoltrarci nel territorio circostante. Rimaneva davanti a noi, muovendosi con passi regolari lungo la riva del fiume, entrando e uscendo dalle ombre in costante mutazione, nella baluginante luce argentata. Ogni tanto si voltava e l'elmo di metallo nero incorniciava un viso che indicava l'urgenza della questione. Ero certo volesse che lo seguissimo. Accecato per un attimo, ne persi le tracce. Oona mi superò correndo. Probabilmente riusciva ancora a vederlo, quindi mi affrettai a seguirla. Poi, davanti a me, udii un improvviso grido di dolore, un gemito che combinava in sé terrore e sofferenza. Accorsi e trovai la giovane donna in ginocchio sul terreno accanto a quello che inizialmente pensai essere il corpo dello sconosciuto con l'armatura nera.. L'uomo era scomparso. La carcassa era quella della grande pantera dai denti a sciabola che aveva seguito la nostra chiatta mentre navigavamo verso la città. Oona mi fissò con gli occhi colmi di lacrime. «Può essere stato solo Gaynor» disse «a uccidere per il piacere di farlo.» Alzai lo sguardo sperando di vedere lo sconosciuto, chiedendomi se non
fosse stato lui a uccidere il felino. Mi parve di cogliere un lampo di argento ramato, di udire una nota di derisione nel rumore del fiume, ma del mio doppio etereo, nessuna traccia. «Conosceva questa bestia?» domandai a Oona, chinandomi accanto a lei mentre abbracciava il grande corpo immobile. «Conoscerla?» La sagoma minuta di Oona tremava per un'emozione insostenibile. «Oh, sì, conte von Bek, la conosco.» Esitò, cercando di controllare il dolore. «Siamo più che sorelle.» A quel punto le lacrime cominciarono a scorrere, un rivolo argenteo sulla sua pelle candida come la neve. Pensai di avere capito male. «Soltanto Gaynor» bisbigliò, alzandosi e guardandosi attorno. «Soltanto lui avrebbe il crudele coraggio e l'intelligenza di attaccare per primi i nostri felini. Sono fondamentali per la difesa di Mu Ooria.» «Ha detto che la pantera è sua sorella?» Lanciai un'occhiata dubbiosa al massiccio felino nero, alle zanne ricurve lunghe come spade. «Questo animale?» «Be',» rispose con aria distratta, ancora intenta a riacquistare il controllo, «dopo tutto sono la figlia di una ladra di sogni. Ho una certa possibilità di scelta in proposito.» Quindi Gaynor, con ancora indosso la divisa da SS, uscì da dietro una colonna. In una mano teneva un apparentemente assurdo piccolo arco di osso, con l'altra tendeva la corda: c'era una sottile freccia d'argento incoccata, ed era puntata direttamente al cuore di Oona. La ragazza fece per raggiungere la propria arma ma si fermò, conscia del fatto che il vantaggio di Gaynor era incolmabile. «Ho avuto degli incontri e delle avventure interessanti, cugino» disse Gaynor. «Ho imparato delle lezioni molto utili. Il tempo è semplicemente volato. E a te come è andata?» INCRESPATURE DEL TEMPO La mia Lama del Corvo era dove l'avevo lasciata all'interno del mio nuovo alloggio. Oona non poteva usare l'arco e non aveva altre armi. Gaynor stava decidendo a quale dei due tirare. Per un attimo parve esitare, ma era comunque troppo lontano perché potessi tentare di attaccarlo. Poi la ragione mi disse che non poteva permettersi di ucciderci. Voleva la mia spada. Sembrava anche aver dimenticato le silenziose sentinelle Off-Moo.
«Rammenterai, cugino, che non tutti quelli che stanno a guardia di questi luoghi sono immediatamente individuabili» dissi. Il suo sorriso era sdegnoso. «Non sono un pericolo per me. Dall'ultima volta che ci siamo visti ho superato ardue prove e avuto numerosi incontri e avventure. Ora ho un aiuto molto più potente. Aiuto soprannaturale. Abbiamo già cinto d'assedio Tanelorn. Le difese degli Off-Moo sono ingenue al confronto. Questo è un reame meraviglioso, una volta che scopri come girarlo in lungo e in largo. Ho imparato parecchie cose che mi saranno utili quando avrò il Graal.» «Pensi che per te sarà facile tornare?» «Per me, cugino, sì. Vedi, mi sono fatto degli ottimi nuovi amici da quando ci siamo lasciati in così malo modo. Quando li incontrerai, sarai immediatamente pronto a porgermi le tue scuse più entusiaste. E anche troppo contento di correre a casa a prendere la Spada del Corvo mentre io faccio compagnia alla tua bella e giovane amica, eh?» Notavo in lui un'aria da spaccone, un lampo di incertezza negli occhi. Ribattei sprezzante: «Se avessi con me la spada, cugino, suppongo saresti un po' più cortese. Abbassa l'arco. Hai ucciso tu la pantera?» «Per il momento preferisco tenere la freccia incoccata e conservare l'equilibrio attuale, cugino. Allora quel grosso gatto è morto? Una malattia infettiva, senza dubbio. Una di quelle terribili epidemie che a volte colpiscono il mondo felino...» La freccia era puntata sul mio cuore, ma l'attacco verbale era diretto a Oona. Lei, però, non reagì. Ciò che era inteso a pungolarla, la rese solo maggiormente padrona di sé. «Le sue pretese sono illegittime, principe Gaynor. Sarà il suo stesso cinismo a sconfiggerla. Tutto quello che il futuro ha in serbo per lei è un'eternità di disperazione.» Gaynor si divertiva sempre di più. Poi, di colpo, aggrottò le sopracciglia, come se avesse riportato l'attenzione sugli affari. «È vero, speravo di trovarti qui con la spada, Ulric. Perciò ti riproporrò il mio patto: portami quella lama e in cambio risparmierò la vita della ragazza.» «La spada è affidata a me» risposi. «Non posso darla via. Il mio onore dipende dalla fedeltà al dovere...» «Bah! Anche l'onore di tuo padre dipendeva dalla fedeltà al dovere, e sappiamo tutti con quanta decisione ha mantenuto il proprio impegno!» Adesso era lui a mostrarsi sprezzante. «Impegno?» «Sciocco! I von Bek possedevano la più potente combinazione di manu-
fatti soprannaturali del multiverso. Quello smidollato di tuo padre, abbassandosi a biascicare incantesimi vudù e altre stregonerie, ha fatto sì che ne perdeste uno. Perché temeva potesse venire rubato! La tua famiglia non merita il proprio destino! D'ora in avanti io e la mia congiungeremo di nuovo quegli oggetti di potere e li terremo uniti. Per sempre.» Ero sconcertato. Che fosse impazzito? Anche se lui pareva pensare che avessi compreso le sue parole, in realtà per me avevano ben poco senso. «Basta ora.» Tese ulteriormente la corda dell'arco. «Chi dei due va a prendere la spada e chi resta qui come ostaggio?» All'improvviso Oona si prese la testa tra le mani e cominciò a barcollare. Gaynor puntò la freccia verso di lei. Ai piedi di Oona, il lustro corpo nero ebbe un fremito. Possenti muscoli si contrassero. Una coda sferzò l'aria. I lunghi baffi si contorsero. Gli occhi gialli si illuminarono. Un grande naso nero emise un unico sbuffo di controllo. Oona era incredula, ma Gaynor imprecava, mentre la denti a sciabola si rimetteva lentamente in piedi, gli occhi lucenti che si muovevano alla ricerca del nemico, le enormi zanne d'avorio fulgide alla luce del fiume. E in quel momento, spalla a spalla con il gigantesco felino, vidi un'altra figura umana. Il mio doppio. Era stato lui a riportare in vita la pantera? Gaynor non riusciva a dissimulare il terrore. Oona ebbe il buon senso di trascinarmi con sé dietro una stalagmite lì vicina in modo che potessimo osservare la scena al riparo. Sembrava che l'altro albino stesse parlando a Gaynor. Gesticolava. All'improvviso lui e il felino scomparvero. Gaynor tolse la freccia dall'arco, se lo infilò in vita e fuggì nell'oscurità. Io ero assolutamente sconcertato da quanto era successo e provai a chiedere a Oona se per caso avesse capito qualcosa di più, ma lei, scura in volto, aveva già iniziato a correre verso la città. «Dobbiamo avvisarli di quanto sta accadendo. Ci sarà bisogno di tutte le loro risorse.» «Ma cosa significa tutto questo? Chi è quella bizzarra versione di me stesso?» «Sarebbe meglio dire che lei è una versione di quell'uomo» rispose Oona. «Si chiama Elric di Melniboné e il fardello che porta è il più pesante di tutti.» «E proviene da un'altra... un'altra cosa? Una di quelle realtà alternative alla nostra?»
«Alcuni le definiscono 'ramificazioni' o 'strati'. Oppure 'i reami', 'i regni', o anche 'le gamme', ma sono comunque tutte varianti del nostro universo.» Era ancora intenta a superare le stradine tortuose di Mu Ooria, addentrandosi sempre più nella città. «E come lei, Oona, anche quel mio doppio etereo viaggia tra questi mondi? E la conosce?» «Soltanto in sogno» rispose. Eravamo tutti e due senza fiato. Non avevo idea di dove stessimo andando, ma la ragazza non pareva intenzionata a fermarsi. Anche se il pericolo immediato era al primo posto nei miei pensieri, continuavo a essere in fermento a causa di migliaia di domande a cui non avevo ancora trovato risposta. Domande così misteriosamente spirituali che non riuscivo neppure a tradurle in parole. Mi aveva condotto attraverso un alto portone, lungo un corridoio che pareva non finire mai, quindi su per una breve rampa di scale a chiocciola finché eravamo giunti in un salone dal soffitto basso pieno di lunghe panche intagliate nella roccia e disposte attorno a un'ampia e lucida area circolare. Mi ricordò le sale comuni dei monasteri. L'illuminazione era data dagli alti bicchieri d'acqua. Nel luogo aleggiava un'aria di serena tranquillità. Le ombre erano vaghe, delicate. Di quando in quando nell'area circolare al centro si percepiva un lieve movimento, e la tonalità passava dal nero inchiostro al grigio scuro. Oona mi portò dietro all'ultima fila di panche, e mentre ci spostavamo cominciarono ad arrivare i pruni Off-Moo, i lunghi volti seri, gli strani occhi interrogativi. Alcuni avevano l'aria di essere stati interrotti durante lo svolgimento di compiti molto importanti. Era chiaro che pensavano che il problema fosse grave. Come aveva fatto la ragazza a convocarli? Non mi ero accorto che avesse inviato qualche segnale. Che fosse in comunicazione telepatica con la loro intelligenza di gruppo? Evidentemente la nostra presenza nella stanza bastava a far radunare subito là gli anziani della comunità Off-Moo. Mentre comunicava con loro, il viso di Oona appariva bellissimo e aperto. La graziosa non umanità di quelle creature mi fece provare la sensazione di essere in compagnia di angeli. Con un mormorio di ringraziamento nei nostri confronti, si radunarono attorno al cerchio di ossidiana e ascoltarono con preoccupata attenzione ciò che Oona riferiva di avere visto e appreso. «Potrebbe già esserci un esercito in marcia contro Mu Ooria.» Pronunciò
quelle parole con tono esitante. Di nuovo, venne ringraziata, ma gli Off-Moo cominciarono a focalizzare la propria attenzione sul cerchio di lucida roccia riflettente attorno a cui si erano riuniti. Mi domandai cosa ci vedessero, se si trattasse della versione locale della sfera di cristallo. Forse un mezzo per focalizzare la coscienza di gruppo? Poi caddi all'indietro, abbacinato, le mani sul viso a proteggere gli occhi. Pensavo che anche gli Off-Moo avrebbero avuto la medesima reazione, ma essi rimasero tranquilli al proprio posto. Sempre schermandomi gli occhi, scorsi Oona. Teneva le mani davanti al volto. «Cosa succede?» chiesi. «Penso abbiano la capacità di far curvare la luce» fu tutto ciò che poté dirmi. A quel punto la massima intensità di quel bagliore bianco dorato era scomparsa e i miei occhi si erano abituati alla luminosità residua. Potevo vedere la fonte d'irradiazione: al centro del cerchio, tridimensionale e del tutto reale, si trovava un comune blocco di pietra sospeso nell'aria che emetteva una debole vibrazione dal suono dolcissimo e riportava alla mente strani ricordi, ricomponeva momenti di purezza. Quando pensiero, azione e idea erano in totale armonia. Mi sarei quasi aspettato che sir Parsifal, il cavaliere senza macchia, apparisse inginocchiato davanti a essa. Perché di fronte ai miei occhi, la pietra era mutata. In preda al più riverente timore stavo osservando quella che avevo sempre ritenuto fosse solo una bella leggenda. Una grande coppa d'oro, tempestata di cristalli e gemme preziose, colma di un vino denso e color cremisi che colava dall'orlo e veniva assorbito dalla luce, la quale, inscurendosi, assumeva un'intensa e vorticosa tonalità dorata che donava all'intera sala riunioni degli Off-Moo drammatici e vitali contrasti. I miei sensi quasi non riuscivano a registrare tanti stimoli contemporaneamente. Provavo un'insolita debolezza e mi accorsi di agognare il ricongiungimento con la mia Spada del Corvo, pur non capendo perché. Avevo solo la sensazione che se avessi potuto impugnare l'elsa sarei stato in grado di trarre forza dalla lama nera. Ma la spada si trovava ancora nella mia stanza e non sopportavo l'idea di allontanarmi da quel vaso straordinario. Le dimensioni del calice, di quel Graal, aumentarono. Dappertutto, nella sala, i lunghi copricapi conici degli Off-Moo ondeggiavano e annuivano, come se quella vista non fosse, almeno per loro, inconsueta. Ombre spigolose si ammorbidivano per la rotondità della roccia su cui si posavano. Le voci degli Off-Moo si unirono in un'unica nota che divenne una cantilena, una parola, un mantra che minacciava di far vibrare il mondo intero.
Luce e oscurità vennero scosse, mescolate, fuse. La coppa appena riformatasi ruotò su se stessa fino a trasformarsi in una verga d'oro con pietre preziose incastonate, che volteggiava lentamente nell'aria sopra al disco di ossidiana. Il salmodiare degli Off-Moo cambiò e il bastone cominciò a espandersi, a crescere. Per un attimo appena assunse l'aspetto di un infante dal viso tondo e beato. Poi tornò verga, e piano piano mutò di nuovo forma fino a diventare una freccia. L'emblema della Legge. Quindi divenne un gruppo di frecce, che si aprirono a ventaglio e verso l'alto al di sopra del cerchio vetroso. Otto frecce ingemmate che roteavano lente nell'aria. Il Caos. Gli Off-Moo erano concentrati sul lucente disco di ossidiana. Ben presto cominciò a formarsi un'immagine tridimensionale. Dalla roccia parvero emergere dei cavalieri che galoppavano verso di noi. L'illusione non era molto diversa da quella che si prova guardando un film particolarmente realistico, ma era anche una spaventosa realtà. Gaynor, nella sua bizzarra armatura, montava un grande stallone bianco i cui occhi ciechi erano fissi verso l'alto ma il cui passo era inconsapevolmente sicuro. Alle sue spalle, pure su pallidi cavalli ciechi e con ancora indosso le uniformi nere e argento, veniva la maggior parte dei suoi seguaci SS, Klosterheim in testa. Portavano tutti il mantello ed erano muniti di ogni sorta di armamenti antichi. Dietro di essi procedeva la più stravagante collezione di mostri ed esseri grotteschi che potesse uscire saltellando e strisciando da un quadro di Bosch. Forse, dopo tutto, il pittore era stato ispirato dall'esperienza invece che dall'immaginazione? Avevano arti lunghi, teste lunghe con enormi occhi miopi. Avevano musi esagerati sempre in movimento, a indicare che si servivano più dell'olfatto che della vista. Quelle caricature sgraziate erano molto più grandi degli uomini che cavalcavano davanti a loro, come soldatini giocattolo realizzati in scala diversa. Era ovvio che fossero selvaggi, armati di mazze ferrate e asce. Tra quelle schiere militavano anche arcieri e spadaccini. Una moltitudine disordinata, più che un esercito disciplinato, ma erano migliaia. «Troogs» disse Oona. Capivo perché gli Off-Moo non avessero mai avuto molto da temere da parte di quei loro confinanti. I giganti non avevano né l'intelligenza né l'ambizione per attaccare Mu Ooria di propria iniziativa. Uno degli Off-Moo mormorò qualcosa e Oona annuì. «Le pantere sono tutte sparite» mi disse. «Non controllano più i troogs. Non sappiamo se i felini sono stati uccisi, stregati o se sono semplicemente svaniti.»
«E come potrebbero svanire?» «A causa di un incantesimo molto potente.» «Incantesimo?» Ero davvero scettico. «Incantesimo, Fräulein? Siamo disperati al punto di fare affidamento sulla stregoneria?» Lei mostrò un po' di insofferenza. «La chiami come vuole, conte von Bek, ma questa è di certo la definizione migliore. Percepiscono una Chiamata. Un essere molto più potente di quelli che di solito attraversano queste caverne. Forse un Signore dei Mondi Superiori. Il che significa che in qualche modo Gaynor è riuscito a farli uscire dal loro mondo e a offrire la sua fedeltà. Se possono portare con sé tutto il potere di cui dispongono, è quasi impossibile sconfiggerli. Alcuni però hanno bisogno della mediazione di una creatura umana come Gaynor e del suo esercito.» «Certo che quei troogs sono enormi.» «Solo qui» replicò. «In alcune configurazioni delle gamme, sono minuscoli. Si tratta semplicemente degli esseri che abitano le terre di confine tra Mu Ooria e i Feudi Grigi. Non appartengono ai Mondi Superiori ma sono proprio quello che vede, creature delle profondità inferiori. Sono la carne da cannone di Gaynor. Se l'incantesimo che ha fatto contro di noi avrà successo, saranno loro a compiere il massacro di routine.» «Si direbbe che abbia già affrontato un'invasione del genere» commentai. «Oh, più di una volta» ribatté. «La lotta è continua, mi creda. Non può immaginare cosa sta cominciando ad accadere nel suo mondo.» Sentivo sempre più la necessità di avere Brandocorvo al mio fianco. Mentre Oona continuava a parlare con gli Off-Moo, spiegai che sarei tornato subito. Corsi per strade tortuose, attraverso la mutevole luce, trovando la via giusta sia grazie alle modificazioni dei colori sia alla forma degli edifici, e infine giunsi al mio alloggio. Andai dove avevo lasciato la spada, e con grande sollievo la trovai ancora nella nicchia accanto al letto. Levai il telo che la avvolgeva, tanto per essere sicuro che si trattasse della mia amata lama, e lo scuro e vibrante acciaio emise un mormorio di riconoscimento. Reinfilata Brandocorvo nel fodero improvvisato, lasciai la stanza con l'arma in spalla e ripercorsi a ritroso il cammino lungo le stradine serpeggianti, riconoscendo un raggio di luce argenea che cadeva proprio qui, un movimento di ombre poco oltre, il modo in cui i colori mutavano in un particolare angolo di muro, il contenuto di quegli strani giardini. Avevo appena attraversato di nuovo la piazza centrale e mi stavo avvici-
nando alla strada sul lato opposto quando dietro di me udii un suono di scherno. Mi voltai e mi ritrovai a fissare gli occhi trionfanti di mio cugino Gaynor. Che puntava una freccia dritto contro di me. Non mi era neppure passato per la mente che potesse avere l'audacia di seguirci fin nel cuore di Mu Ooria. Non mi ero ancora abituato a vedere due versioni della stessa persona: una alla testa di un esercito volto all'attacco di una città e l'altra già all'interno di quella medesima città. In Gaynor si notava una gioiosa crudeltà. «Sorpreso, a quanto pare, cugino. Ho un alter ego che si occupa di un fronte mentre io sono libero di attaccare su un altro. Il più grande desiderio di ogni generale, eh?» Stava sbavando e non toglieva gli occhi dalla spada. Ne era affascinato, quasi rapito. Senza pensarci su, cambiai la presa sull'elsa e la tenni verso il basso, contro il contrappeso del pomo, in modo da poter sollevare la spada rapidamente e quasi senza sforzo per far saltare di mano a Gaynor l'arco di osso. Dovevo solo farlo avvicinare un po'. Ma lui era cauto. Rimase a distanza di sicurezza, la freccia sempre incoccata. Era chiaro che si cimentava come arciere solo da poco, ma pareva avere imparato piuttosto bene. Non c'era altro da fare. Dovevo ingaggiare un corpo a corpo con lui. Cominciai a muovermi, con estrema lentezza, continuando a parlare mentre tentavo di accorciare la distanza che ci separava. Ma Gaynor stava sorridendo e scuoteva la testa. «Cosa mai ti fa pensare che io abbia ancora qualche ragione per tenerti in vita, cugino? Hai quello che mi serve. Tutto ciò che devo fare è ucciderti e prendermelo.» «Ti sarebbe bastato colpirmi alla schiena, allora» dissi, mentre lasciava partire una freccia che mi colpì nella parte alta del braccio sinistro. Ero stupito di non provare dolore, poi compresi che il pesante giaccone di tweed aveva fermato il dardo. Non ero ferito. Lesto, prima che potesse incoccare un'altra freccia, feci qualche passo verso di lui e gli puntai alla gola la spada tagliente come un rasoio. «Getta la tua arma, cugino» ordinai. Provai un dolore acuto al fianco, abbassai lo sguardo e vidi la lama di un pugnale nazista premuta contro la mia gabbia toracica. Alzando gli occhi, incontrai quelli senza vita del macilento Klosterheim. «Allora anche lei ha un gemello.» Rabbrividii. «Siamo tutti uguali» mormorò Klosterheim. «Tutti noi. Milioni di noi.» Sembrava febbricitante, assorto. Addirittura nervoso.
Eravamo a un punto morto, con la mia spada alla gola di Gaynor e il pugnale di Klosterheim alle mie costole. «Abbassi la spada, signore» disse. «E la appoggi sul terreno davanti a sé.» Gli risi in faccia. «Ho giurato di morire prima di consegnare ad altri Brandocorvo.» Gaynor era impaziente. «Anche tuo padre aveva giurato di morire per proteggere l'eredità di famiglia. Ed è morto, Ulric, caro cugino. Dammi la Spada Nera e ti garantisco che ti sarà permesso di continuare a vivere a Bek, con tutti i tuoi paesani, il tuo castello e ogni cosa che eri abituato ad avere. Nessuno ti darà fastidio. Credimi, cugino, ci sono alcuni tra noi, idealisti quasi quanto te, che sono pronti a sporcarsi le mani per poter piantare i semi del paradiso. Se decidi di conservare le mani pulite, è una tua scelta. Io, però, non faccio altrettanto. Io sono pronto ad accettare la necessità di stabilire un ordine nel multiverso. Capisci?» «Capisco che sei pazzo» risposi. A quelle parole scoppiò in una sonora risata. «Pazzo? Lo siamo tutti, cugino. Il multiverso è pazzo. Ma lo renderemo di nuovo savio. Lo renderemo quello che vogliamo che sia. Non senti di stare già cambiando? È l'unico modo in cui puoi sopravvivere. È come sono sopravvissuto io. Nessuna mente umana è in grado di accettare un tale sovraccarico intellettuale e sensoriale senza un radicale adattamento. Credi davvero di essere la stessa persona che poco tempo fa è fuggita da un campo di concentramento?» Diceva la verità. Non sarei stato mai più lo stesso. Eppure stava ancora cercando di confondermi. «Herr Klosterheim dovrà uccidermi» dissi «perché non ho intenzione di offrirti i miei servigi né la mia spada.» Avevamo raggiunto una sbrigativa situazione di stallo. Fissai lo sguardo oltre Gaynor. Alle sue spalle una figura familiare accorreva verso di me attraverso la levigata pavimentazione della piazza. Indossava un'armatura nera tutta lavorata e un cimiero di foggia complessa. Gli occhi rossi sfavillavano nel momento in cui allungò le pallide mani. Corse dritto attraverso l'inconsapevole Gaynor. Un fantasma speculare. Irradiava una terribile e disperata sensazione di urgenza. L'istinto mi spingeva a farmi indietro ma l'intelletto mi disse di restare dov'ero. La figura caricava a una velocità spaventosa. Di certo mi avrebbe gettato a terra. Ma non si fermò. E neppure mi passò attraverso. Quello che fece fu precipitarsi direttamente dentro di me. Corpo avvolto dall'armatura, testa
coperta dall'elmo, tutto passò nella mia persona del XX secolo vestita in modo normale e venne assorbito! Un attimo prima ero stato un individuo. Ora eravamo due. Ero due uomini in un unico corpo. Di questo non dubitai neppure per un secondo. Ma com'era possibile? All'improvviso mi ritrovai dotato di due serie di ricordi. Due identità, ognuna ben distinta. Due futuri. Due serie di emozioni. Ma erano molte anche le cose che condividevo con il mio doppio etereo: un odio viscerale per Gaynor, per la sua cricca brutale e per tutto quello che rappresentava lì e nel mio mondo. La determinazione del mio doppio contribuiva ad accrescere la mia, a completare una rabbia crescente. Seppi subito quali erano le sue intenzioni. Aveva deliberatamente fatto in modo di unire le nostre forze. E dato che per molti aspetti era me, non potevo che fidarmi di lui. Non poteva mentire a me. Solo a se stesso. In quel momento la Spada Nera cominciò a pulsare e a mormorare, le rune rosse che scorrevano su e giù per la sua intera palpitante lunghezza come fossero vene. La sentii fremere nelle mie mani. Per volontà propria si sollevò, si alzò trascinando con sé il mio polso finché la ebbi all'altezza della spalla. Lanciai un selvaggio grido di battaglia perché la spada mi infondeva forza e allo stesso tempo migliaia di pensieri e sensazioni contrastanti, mi instillava una crudele e sconosciuta brama di morte. Potevo gustare il dolce sangue e le amare anime che presto la mia spada avrebbe divorato. Mi umettai le labbra. Stavo prendendo vita! La bestia tornerà all'ovile, il passero al fienile. Spade da accoppiare, anime da purificare. Parlavo. Stavo pronunciando un mantra. La parte finale di una più lunga cantilena? Un incantesimo. In una lingua che metà di me non comprendeva per nulla ma che l'altra conosceva alla perfezione. Non era il linguaggio abitualmente usato da alcuno di noi. Riuscivo a comprendere i miei pensieri in entrambi gli idiomi ed erano praticamente gli stessi, se non che la parlata più antica era piena di consonanti esplosive e suoni gutturali, consonanti avulsive e sibili. Questa altra lingua era molto più liquida, incommensurabilmente più arcaica. Per nulla umana. Un qualcosa che andava imparato, suono per suono, significato per significato. Un qualcosa che avevo acquisito dopo molti anni di studio. Due coppe per la giustizia. Due spade per l'armonia. Anime gemelle per la vittoria. Signore e signori camminano sui raggi di luna. I gemelli co-
mandano la serpentina. Scorre il sangue e scorre il vino. Scorre il fiume sera e mattino. I gemelli si alleano per un tiro mancino. Il mio alter ego si stava concentrando sul mantra. Gli avevo consentito di eseguire quella stupefacente magia. Ovviamente compresi subito tutto, dato che eravamo diventati un'unica creatura. Ed essendo due identità in un solo corpo, vidi come era possibile essere molte persone. Essere sano di mente e allo stesso tempo consapevole dell'esistenza di molte altre identità. Così tante decisioni, scelte, ostacoli. Capire che, in ogni istante, un milione di altri sé stava tracciando un milione di sentieri lievemente o completamente diversi. Essere in grado di vedere il multiverso intero, senza mondi nascosti, senza che sia negata alcuna possibilità! Un dono magnifico. Tutto ciò che si doveva fare era trovare le strade. Ora capivo il richiamo esercitato da una simile vita e perché Oona e sua madre e la madre di sua madre l'avessero inevitabilmente scelta. L'immediatezza del momento non era in alcun modo ridotta da questa esperienza di infinito. Ero in grado di difendermi, anzi di portare l'attacco che tanto agognavo, poiché in me si erano fuse la preparazione mia e quella di Elric. Sapevo come agire in battaglia e concentrarmi su un incantesimo allo stesso tempo, perché in me scorreva il puro e antico sangue dei melniboneani che alimentava i nostri talenti congiunti. Le nostre antiche genti avevano stretto molti patti con gli elementi del multiverso. Con le forze della terra, dell'aria, dell'acqua e del fuoco. E molti di quegli accordi rimanevano validi. Quindi potevo chiedere aiuto alle forze della natura, anche se non a tutta la forza naturale. Percepire il proprio controllo sul vento, sul fuoco, sulla forma stessa della terra e sul fluire delle acque, avere conversato con le grandi divinità animali, quegli archetipi da cui derivano tutte le bestie e che possono comandare legioni se solo lo vogliono: tutto questo era incredibilmente meraviglioso. Pochi tra tali alleati avevano più di un sano appetito animale per quanto necessario alla propria sussistenza, quindi non avevano molte ambizioni negli affari di uomini e dèi, anche se i Signori dei Mondi Superiori avevano nei loro confronti molto rispetto. Solo quando veniva loro esplicitamente richiesto, gli elementi, a volte, accettavano di interessarsi dei conflitti mortali. E ora ero io ad avere con me tutte queste forze, e capivo che il prezzo da pagare per utilizzarle e il bisogno di sostegno fisico e psichico erano molto maggiori di qualunque cosa avessi mai affrontato a Bek. La realtà era più intensa, la posta più alta di quanto avrei mai creduto possibile. Ma avevo bisogno di carburante per i miei muscoli pronti a scattare, per
i polmoni ansanti, di combustibile per dare forza al mio corpo di guerriero e alla mia saggezza di stregone. Soltanto due erano le fonti da cui ottenere un simile propellente: la prima era un miscuglio di erbe e altri ingredienti che mi consentiva di vivere una vita attiva, la seconda era la spada. Comprendendo ciò che la spada faceva, il mio normale io umano provava un profondo disgusto, eppure capivo anche che la sopravvivenza dipendeva dal modo in cui avrei usato quella lama e che la spada stessa non mi avrebbe permesso di agire contro il mio interesse. Al solito affetto per Brandocorvo si accompagnava ora un nuovo rispetto. Era chiaro che quella spada sceglieva in modo autonomo chi doveva maneggiarla. Mentre mi preparavo a dare battaglia mi tornarono alla mente tutte le lezioni di von Asch. Non ero riluttante a combattere. Anelavo allo scontro, agognavo di spargere sangue. «Principe Gaynor» la nobile formalità di Elric faceva sembrare arditi i miei modi Sassoni. «L'ora della vostra morte è quindi già arrivata tanto prematuramente?» Sul volto ferito dell'ungherese, un'aria da pazzo. «Cosa sei tu? Come controlli questo umano?» «Siete impertinente, principe Gaynor. Le vostre domande sono offensive e rivolte in modo grossolano. Io appartengo alla Stirpe Reale di Melniboné e sono quindi vostro superiore. Gettate a terra quell'arco, o la mia spada berrà la vostra anima.» Gaynor era spaventato dal cambiamento avvenuto in me, benché ne immaginasse la ragione. Non si aspettava una cosa del genere. Il pugnale di Klosterheim non premeva più contro il mio costato, e il cadaverico socio di Gaynor mi fissava mostrando un inizio di comprensione. Aveva visto Elric attraversare correndo il corpo del suo padrone ed essere assorbito dal mio. Sapeva cos'ero diventato e ne aveva paura. La spada era affamata di anime. Ne percepivo la necessità propagarsi rapida dall'elsa alle mie mani. Feci tutto ciò che potevo per resistere, ma la richiesta era sempre più pressante. «Arioch!» Il nome si formò sulle mie labbra. «Arioch!» Aveva il gusto del più squisito dei vini. Ero tutt'uno con un essere per cui le parole avevano ognuna un sapore e la musica era anche colore. «Non ti conferirà alcun potere qui.» Gaynor stava riprendendo il controllo di sé. Sfilò la freccia. «Non a Mu Ooria. Ora qui regna la Legge.» Mi occupai della spada fremente, riponendola nella sua rudimentale custodia. Gaynor mi aveva svelato qualcosa. Forse un punto debole. Che
anche i suoi alleati soprannaturali non fossero in grado di entrare a Mu Ooria? Che la città avesse sistemi di difesa più sofisticati? «Solo quando la città sarà caduta» dissi, seguendo quel vago sospetto. In quel momento si rese conto di ciò che mi aveva rivelato e accusò il colpo rivolgendomi un sorriso sarcastico. Ora sapevo che era sgattaiolato in città con pochi uomini e non poteva attingere forza dai suoi alleati. Era una dimostrazione di grande audacia essere giunto là con soltanto Klosterheim ad aiutarlo a rubare la Spada del Corvo. «Sai parecchio del multiverso, cugino» commentò Gaynor. «Solo per studio e in sogno» ribattei. «Sono qui su richiesta di un consanguineo. Altrimenti non avrei parte alcuna in questa faccenda.» «Consanguineo?» Divenni cauto. Ora sapevo cosa Ulric in precedenza non sapeva. Potevo sentire profumi antichi e familiari, tracce di odori muschiati. Cominciai a interessarmi all'ambiente che mi circondava. Notando che avevo distolto l'attenzione da lui, Gaynor arretrò lesto di qualche passo, ritenendosi fuori dalla portata della mia spada. Prese a urlare e a gesticolare. Klosterheim sguainò la propria spada e corse a raggiungerlo. Sorrisi. Si preannunciava un'azione saporita. La mia mano sinistra si strinse attorno al fodero e lo tenne fermo in modo da permettermi di liberare la spada con grande rapidità, se fosse stato necessario. Brandocorvo stava di nuovo fremendo e mormorando. Faceva eco ai miei stati d'animo in rapida evoluzione. Il mio udito era molto più sensibile di quando apparteneva solo a von Bek. Dalle ombre percepivo movimenti repentini e striscianti. Mentre gli alleati più potenti di Gaynor non potevano aiutarlo in quel luogo, la presenza delle sue truppe di bassa lega era anche troppo evidente. Allora, dopo tutto, non si era coraggiosamente avventurato in città con il solo Klosterheim a coprirgli le spalle. Potevo vederli avvicinarsi da ogni lato. Scomparsa la paura dei grossi felini, erano riusciti a trovare abbastanza coraggio da obbedire a Gaynor e seguirlo. I grotteschi giganti che Oona aveva chiamato troogs, annusavano rumorosamente e grugnivano, pregustando un festino a base di carne umana. Ricordai che l'Off-Moo li aveva definiti cannibali. Cominciai a ridere. «Eccovi del ferro, signori» dissi. Un movimento fluido e la mia spada era di nuovo libera. Le rune cremisi scorrevano per l'intera lunghezza. La lama pulsava e cantilenava in tono sommesso. A passi felpati, mi diressi verso Gaynor e Klosterheim. Mentre mi avvicina-
vo, i passi divennero più rapidi, riducendo la distanza che ci separava. Il ferro nero si levò più in alto. Tutt'uno con la mia spada e il mio doppio, provavo una sensazione di immensa potenza, e la mia risata riempì quelle caverne infinite! Gaynor strillò ai suoi seguaci di attaccare, e io mi difesi da una tempesta di ferro. Mazze ferrate e spade mulinavano contro di me da tutte le direzioni. Le schivai grazie a istinto e riflessi soprannaturali. Ben presto mi feci spazio attorno, ma i giganti non mi temevano. Notavo le narici dilatarsi mentre annusavano. Sospettai che riuscissero a stento a vedermi e comunque, anche lì, non avevano bisogno degli occhi. Avevano il vantaggio della superiorità numerica. Sentivano il mio odore. Aspettavano solo il segnale di Gaynor per farsi di nuovo avanti. Questa volta pareva proprio dovessero schiacciarmi. Ora la lama nera stava ululando. La spada che io chiamavo Brandocorvo e il mio alter ego Tempestosa, non avrebbe permesso che la riponessi nel fodero finché non fosse stata intrisa di sangue. Il suo canto si unì al delicato tintinnio dei cristalli del soffitto. Era un canto di avidità. A suo tempo, aveva trucidato interi eserciti. Richiedeva il proprio festino. Aveva lamentato e desiderato tanto a lungo quell'appagamento. Infine poteva cogliere il proprio piacere. Infine poteva nutrirsi. E dare a me l'energia necessaria per la mia prossima Chiamata. IL POTERE DEL DUO Gaynor gridò un ordine e i mostri mi furono addosso. Pochi secondi dopo ero io a sferrare l'attacco. La spada era viva. Possedeva un'intelligenza propria. Squarciava l'aria all'intorno lasciando rosse tracce grondanti, penetrava senza sforzo nelle carni, nelle ossa, nei tendini, e succhiò fino in fondo quelle rozze esistenze, le anime di quanti uccideva. Ogni anima andava a soddisfare la mia debole essenza. Dimostravo attitudine al lavoro. Mi aprii la strada a fendenti e giunsi fino al margine della piazza dove si trovavano Gaynor e Klosterheim, che incitavano i troog e i selvaggi a uccidermi. Mi feci spazio verso i due capi come altri avrebbero potuto fare in mezzo all'erba alta. A quel punto, cominciavano ad aver paura di me. Ero abituato a quella paura. Non mi aspettavo altro. Tutti gli umani la provavano, e li disprezzavo per questo. Non era consentito che simili debolezze infettassero il sangue di un melniboneano. La mia gente aveva governato il mondo per diecimila anni. Aveva determinato la storia dei
Regni Giovani, le nazioni abitate dal genere umano. La mia razza era più antica, più saggia e infinitamente più crudele degli uomini. Non sapevamo nulla dei modi indulgenti, dei sistemi grossolani di creature che consideravamo di poco superiori alle scimmie. Nelle ossa, nutrivo solo sdegno per loro. Ero un nobile melniboneano. Avevo conosciuto maggior terrore nell'apprendimento delle mie capacità stregonesche di quanto quelle creature sarebbero mai state in grado di provare nella vita intera. Mi ero conquistato le alleanze con gli elementi e i Signori del Caos di rango inferiore. Potevo risuscitare i morti. Potevo imporre il mio volere su qualunque creatura vivente e distruggere un nemico con null'altro che la mia lama nera istoriata di rune. Ero Elric di Melniboné, Ultimo degli Imperatori-Stregoni, Principe delle Rovine, Signore del Perduto Impero. Chiamato 'traditore' e 'uccisore di donne'. Ovunque andassi ero temuto e blandito, anche da quanti mi odiavano, perché avevo un potere che nessun essere umano era neppure in grado di tentare di controllare. Persino tra la mia gente ho avuto un solo rivale vivente. La mia famiglia aveva conservato il potere nel corso dei millenni coltivando il sapere tradizionale e stringendo di continuo nuove alleanze con il Caos. I nostri numi tutelari erano i Duchi degli Inferi. Il nostro protettore Lord Arioch del Caos, il cui feudo includeva un milione di reami soprannaturali. Il cui potere era abbastanza grande da distruggerli tutti. Quelli del mio sangue potevano a volte chiedere aiuto a tali forze. Un pugno di noi ha controllato il mondo per diecimila anni. Avremmo potuto continuare a farlo, se io non avessi tradito quel sangue e non mi fossi reso così un esule ovunque andassi. «Arioch!» Di nuovo quel nome mi salì alle labbra con grande prontezza. Arioch era il mio protettore e Signore del Caos, il cui potere era condiviso dalla Spada Nera, e che si nutriva delle stesse anime che pascevano me e la spada. Che fossimo un'unica creatura - spada, dio e mortale - davvero potente solo quando tutte le parti erano riunite? Si trattava di pensieri normali, naturali per un melniboneano. A essere meno familiari erano i concetti di moralità, di giusto e sbagliato, che ora contaminavano la mia mente, come avevano fatto, a quanto pareva, fin dall'infanzia. Un fardello di cui ancora non ero riuscito a liberarmi. Mio padre mi aveva odiato per questo. I miei stessi parenti ne erano stati imbarazzati. Molti sostennero mio cugino Yyrkoon nel tentativo di prendere il mio posto. «Arioch!»
Non poteva o non voleva manifestarsi in quel luogo. In un angolo del cervello udii un mormorio, come se il grande Duca degli Inferi tentasse di parlarmi, ma anche quel suono si affievolì e scomparve. La baldanza di Gaynor cresceva. Continuava a gridare alle forze rimastegli di attaccarmi. C'erano ampie possibilità che venissi sconfitto dal peso della superiorità numerica. Anche la spada, che pareva avere vita propria, non avrebbe potuto ucciderli tutti. Con lucida disperazione la mia mente cominciò a proiettare pensieri di tipo diverso, simili a viticci dalla rapidissima crescita, che si allungavano nei reami soprannaturali circostanti, in quegli infiniti mondi che gli Off-Moo definivano multiverso. Non ero certo che la mia richiesta avrebbe ottenuto risposta. Sapevo che il Duca Arioch non poteva aiutarmi. Ma avevo preso in considerazione tutti i possibili pericoli che avrei dovuto affrontare quando avevo accettato l'aiuto della ladra di sogni. E anche se questo cervello umano difettava di alcune delle sottigliezze che caratterizzavano il mio, era comunque buono. C'erano tutte le premesse perché avessi successo. Cominciai a mormorare quel mantra apparentemente semplice che aiutava la mia mente a seguire determinati sentieri, a entrare in contatto con la sostanza del soprannaturale, a parlare un linguaggio che nessun essere vivente sulla Terra era in grado di comprendere. I versi erano poco complicati, ma mi connettevano alla complessità delle sfere elementari, dove, se avessi avuto la fortuna dalla mia, avrei trovato il modo di sfuggire a un fato che si faceva di attimo in attimo più probabile. Continuai a combattere, respingendo prima un vero e proprio muro di carne da battaglia, poi un altro. Eppure non riuscivo a guadagnare terreno, rischiavo sempre di perdere gli ultimi metri conquistati. I corpi divennero una barriera che avrei potuto usare a mio vantaggio. Non persi mai quella particolare concentrazione che seguitava a inviare tentacoli di pensiero attraverso tutti i piani del multiverso finché, solo per una frazione di secondo, mi parve di aver raggiunto una mente aliena. Una che mi riconobbe. Una che anch'io riconobbi. Percepii un mondo di acqua. Universo su universo di acqua. Acqua abitata. Acqua che fluiva da un livello esistenziale all'altro. Acqua antica. Acqua appena nata. Vorticosa e ferma, violenta e cheta. Dell'acqua mi lambì il viso, persino mentre una decina di mostri cadeva sotto i colpi della
mia spada affamata. Cominciai a cantare: Re degli oceani tutti; re di tutte le acque dei mondi; Re dell'oscurità, re delle perle, re dei silenzi profondi; Re delle ossa dilavate, re di tutti i nostri annegati; Re di tristezza, delle anime di affogati mai ritrovati; Rinnova la nostra vecchia amicizia, i nostri nemici confondi. Mentre le tue antiche maree di correnti creano spirali, Rammenta i nostri accordi. Ricorda le morti sacrificali. Fa' onore a quei patti e rivestili di nuovi significati, Stringi ancor più i nodi bianchi e i rossi dei nostri legami passati, Due regni e due ferite. Una comune vittoria. Un modo di unire il nostro duplice fato grazie alla memoria. All'improvviso fui avvolto da una vorticosa ondata di marea, che passò e scomparve. Cercai l'acqua ma vidi solo il lago che brillava in lontananza, la lunga strada che si dipartiva verso di esso dallo spiazzo che Oona aveva detto essere la tana del grande Serpente del Mondo. Tutto questo lo davo per scontato, avendo veduto più miracoli e mostri della maggior parte dei mortali, ma quando i cannibali formarono un cerchio attorno a me e ricominciarono a farsi avanti, seppi che sarei stato perduto se re Straasha, mio antico alleato, avatara di tutte le divinità di tutti gli oceani del multiverso, non mi avesse udito, o non avesse voluto udirmi. Gaynor fu il primo a vedere la cosa. Mio cugino si voltò di scatto puntando il dito, mentre faceva cenno a Klosterheim di fuggire. Non che Gaynor non avesse rispetto per le mie capacità di stregone, semplicemente non pensava avrei potuto servirmene in quel luogo. Oltre i moli e le imbarcazioni alla catena, l'acqua stava salendo. Formò una muraglia torreggiante, che non si muoveva come un'onda di marea ma restava ferma sul posto, fremendo minacciosa. Il muro divenne ancora più alto. Se fosse precipitato, avrebbe annientato l'intera città. L'aiuto che avevo richiesto rischiava di uccidere i miei amici insieme ai nemici. Una situazione beffarda. Che pareva fare costantemente parte del mio destino. E tuttavia ero certo che gli Off-Moo non fossero vulnerabili come sembravano. A quel punto dovevano sapere che in quella piazza stavo combattendo contro Gaynor e i suoi scagnozzi. Che fossero già fuggiti? O stavano
forse preparando le proprie difese? Il muro d'acqua cominciò a muoversi. Si ammassò ulteriormente e iniziò a prendere forma. Ben presto, in un profilo corrusco, potei distinguere l'imponente sagoma di un gigante. Era tutto mutevole e vorticosa acqua verde pallido, mai stabile, mai del tutto immobile, con occhi azzurro chiaro che perlustrarono la città e, infine, incontrarono i miei. I seguaci di Gaynor si ritirarono urlando e chiedendo nuovi ordini. Gaynor sapeva di non poter in alcun modo sferrare un attacco a re Straasha. Un intenso movimento acquoso ci bagnò i piedi. Re Straasha venne a riva. Il suo immenso corpo si spostava nella nostra direzione, liquido passo dopo liquido passo, lungo il viale. Se quell'ammasso d'acqua avesse perso la propria forma, ci avrebbe sommersi tutti. Mentre Gaynor studiava la via di fuga più rapida, al lato estremo della piazza apparve un'altra figura umana che si mise a correre verso di me. Oona, la figlia della ladra di sogni. «Avverta gli Off-Moo» le dissi. «Sono in pericolo.» «Ne sono consapevoli» rispose. «Allora si metta in salvo lei.» «Sono sufficientemente al sicuro, lord Elirc.» Si rivolse a me usando quel nome con estrema scioltezza, come lo conoscesse da sempre. «Sei tu che devi andare. Hai raggiunto il tuo scopo, qui. Il resto del lavoro spetta a me e agli altri. Almeno per ora.» Stavo cominciando a suggerirle di rimanere con me per sicurezza, quando Klosterheim mi lanciò contro un pugnale. Venni distratto dal rumore che produsse cadendo sul terreno a pochi metri di distanza, e quando alzai di nuovo lo sguardo, Oona se ne era andata. Re Straasha continuava a farsi faticosamente strada nella mia direzione. Si vedeva che quel movimento era doloroso per lui, ma si mostrò ugualmente piuttosto affabile. «Bene, piccolo mortale, sono qui perché non ho mai rotto un patto e nutro un certo affetto per la tua stirpe. Cosa vuoi che faccia? Questa città deve forse essere distrutta?» «Ho bisogno del vostro aiuto, sire. Devo spostarmi tra i reami d'acqua. Devo trovare il regno che ho lasciato: quello dove ancora resta la mia forma mortale.» Comprese. «Acqua all'acqua» disse «e fuoco al fuoco. Per il rispetto che i tuoi antenati hanno mostrato alla mia gente, farò, principe Elric, ciò che desideri.» Un'enorme mano d'acqua discese su di me. Boccheggiavo, mi sentivo af-
fogare mentre mi agitavo nella stretta di re Straasha. Temevo potesse uccidermi per errore. Poi sprofondai in una bolla d'aria, sorretta da una mano gigantesca. Di colpo fui pervaso da una sensazione di pace e di totale sicurezza. Ero protetto dal re delle acque. Passammo fluendo sopra le balze e le guglie di Mu Ooria, finché non riuscii a scorgere altro che il lago luminoso circondato da una possente oscurità. La parte di me che era von Bek sarebbe stata scettica, se l'altra metà che era Elric non avesse avuto tale familiarità con il soprannaturale. Dentro di me, anche mentre sperimentavo l'impossibile, potevo comunque percepire che von Bek credeva in un mondo dove tutto era Legge, tranne qualche occasionale sovvertimento del Caos, mentre io intendevo il multiverso come tutto Caos, da cui la Legge a volte veniva intagliata e mantenuta dal volere dei mortali e dai disegni dei Signori dei Mondi Superiori. Senza dubbio il Caos era la forza dominante in tutti i reami, naturali e soprannaturali. Due visioni dell'esistenza fondamentalmente opposte, e tuttavia in equilibrio all'interno di un singolo corpo, dell'unica mente. L'armonia degli opposti, pura e semplice! Von Bek non metteva in dubbio né contestava ciò che io come Elric decidevo. Perché quello era un mondo a me conosciuto e che per lui rappresentava un mistero totale. Ovviamente aveva tutti i miei ricordi, e io i suoi. Per il momento l'io dominante era il re stregone, che aveva chiamato in aiuto la possente manifestazione di un elemento che non serviva né la Legge né il Caos, né altre cose, ma viveva per esistere e perpetuare all'infinito quell'esistenza. La città era scomparsa alla vista. Re Straasha esitò, valutando ciò che avrebbe dovuto fare ora. Tra lui e me era già avvenuta una comunicazione che non poteva essere rappresentata dal linguaggio parlato. A differenza della maggior parte delle stirpi di stregoni, i melniboneani avevano deliberatamente coltivato alleanze con gli elementi. Con quei grandi, antichi esseri che erano l'incarnazione di animali familiari e sconosciuti, con Meerclar dei Felini e persino Apyss-Alara, regina dei Suini, che si dice rifiuti qualunque proposta dei mortali e intenda continuare così finché anche uno solo di essi mangerà maiale. Dato che le caste melniboneane più elevate non mangiano carne di maiale, la mia gente è stata la prima a trovare un accordo con la regina. In me la febbre sanguinaria si stava ormai spegnendo. Per il momento Tempestosa era sazia. L'energia che avevamo acquisito era primitiva, e non sarebbe durata a lungo, ma mi avrebbe permesso di fare ciò che dove-
vo. Felice al pensiero di poter contrastare Gaynor non su un solo piano ma su due o anche più. Ci arrestammo al centro del lago. Per un istante osservai una placida distesa di acqua sfavillante: la luce della luna illuminava un'idilliaca scena mediterranea. Poi re Straasha fece un gesto con l'altra mano acquosa. Stava ridendo. Un attimo, e mi ritrovai a fissare dall'alto le ampie fauci di un furioso malstrom, che inviava spumosi viticci pronti a ghermirmi. Che ruggiva e bramava la mia vita e la mia anima. Che turbinava e mulinava, sussurrandomi di lasciare la protettiva mano di re Straasha per saltare nella sublime beatitudine del suo cuore. Quel suono ipnotico, allo stesso tempo strido e mormorio, mi attirava inesorabilmente verso di sé. Il mio istinto animale mi spingeva a resistere, ma sapevo di non dovere. La bolla attorno a me era scoppiata, e io me ne stavo là sul palmo del re del mare. Senza pensarci oltre, mi legai saldamente in vita la spada con le rune e mi tuffai nel vortice rombante. Venni afferrato come un pulviscolo e attirato sempre più giù, verso l'infinito. Sapevo che stavo turbinando verso la morte, ma non avevo timore. Sapevo cosa stavo facendo e dove stavo andando, proprio come re Straasha. Esisteva ancora una possibilità che perdessi la strada e venissi ucciso dai miei nemici. Nell'attuale battaglia, sia il Caos sia la Legge avevano molto in gioco e potevano essere impietosi nella propria autodifesa. Udii la roboante voce del re del mare dissolversi nell'urlo del grande malstrom e raccolsi tutte le mie forze nel tentativo di continuare ad avanzare, di trovare il sentiero che mi serviva. Respirare stava diventando quasi impossibile. L'acqua cominciò a riempirmi i polmoni. Mi chiedevo quanto avrei potuto resistere prima di annegare, ma poi la spada che avevo assicurato alla cintura prese ad agitarsi. L'istinto mi fece allungare alla cieca una mano per afferrarla, la liberai dalla custodia e lasciai che mi tirasse fuori da quell'onda selvaggia. La rotta che scelse mi condusse dapprima verso l'alto, poi in basso, quindi dritto all'interno delle mura d'acqua. Intere città, continenti, razze mi turbinavano attorno. Tutti gli oceani del mondo si erano combinati in uno. Attraversai universi d'acqua. Il cieco istinto mi guidava, mentre la spada puntava come una calamita, trascinandomi sempre più al centro e al fondo del malstrom. I miei piedi sfiorarono qualcosa di solido. Riuscivo a stare in posizione eretta, anche se l'acqua continuava a scorrere. Ne sentivo la pressione sulle gambe e sul busto. Il grande oceano sotterraneo cessò di agitarsi. Sopra di
me l'oscurità, al di sotto altra acqua. Ci stavo immerso fino alla cintola. Con circospezione rinfoderai la spada. Iniziai ad avanzare, aspettandomi da un momento all'altro di trovarmi del terreno asciutto sotto i piedi. Infine calpestai della ghiaia sottile. Sulle guance sentivo una brezza fresca e tesa. Da qualche parte, lontano, una volpe abbaiò. Non ero più a Mu Ooria ma non sapevo se avevo raggiunto la mia destinazione. Mentre emergevo del tutto dall'acqua, alzai lo sguardo su un cielo familiare, su stelle conosciute. Accanto all'orizzonte c'era la lama sottile di una falce di luna. Una volta abituatomi alla fioca luce, intravidi i tetti spioventi e le guglie di una città che riconobbi. Un posto tranquillo, con poche costruzioni monumentali e nessuna architettura grandiosa. Simile a una delle più normali cittadine tedesche medioevali che avevo visto mentre correvamo verso Hameln. Speravo di essere tornato nel tempo giusto, oltre che nel luogo giusto. L'isola su cui era stata costruita la città era circondata da un ampio fossato. Quell'isola, però, non era sempre stata là. Ero stato io a creare il fossato in uno dei miei primi tentativi di difendere la città, che non si trovava più esattamente nella stessa posizione di quando vi ero giunto la prima volta. Avevo usato tutte le forme di stregoneria che conoscevo per evitare che venisse conquistata, ma ogni incantesimo era stato neutralizzato. E lui mi aveva sconfitto. Ora la personalità di Elric aveva la supremazia. Mentre camminavo a fatica sulla riva, mi augurai che nessuno avesse indovinato la mia strategia, anche se Gaynor si era dimostrato in grado di manifestarsi in modo simultaneo su almeno tre livelli diversi, senza dubbio con l'aiuto della sua padrona soprannaturale. Miggea, duchessa della Legge. Lady Miggea. A Mu Ooria non era stata in grado di aprirsi un varco, ma qui dominava il mondo. Solo oltre il fossato era possibile trovare salvezza dalle regole fredde e spietate di Miggea, e anche quella salvezza era già minacciata. Ero fradicio e tremante. Gli abiti mi rendevano difficili i movimenti. Mi levai il berretto e strizzai l'acqua dai miei lunghi capelli. Con molta cautela mi spostai sull'argine, i sensi all'erta, la mano pronta a sfoderare la spada in un istante. Solo in quel momento mi resi conto di quanto fossi debole. Trovavo difficile mettere un piede davanti all'altro, poiché erano pesanti come macigni. Ancora non sapevo se avevo raggiunto la destinazione desiderata. Mi sembrava che fosse tutto come doveva essere, ma nell'arte dell'illusionismo è fondamentale che tutto sembri come deve essere...
Mi ero abituato alle illusioni. Per quanto ne sapevo ero del tutto solo in un mondo privo di uomini e dèi. O forse proprio in quel momento un migliaio di occhi mi fissavano dall'oscurità? Mi parve di udire il rumore di un passo. Esitai. Vedevo molto poco. Appena il contorno di alberi e cespugli, il profilo della città davanti a me. Automaticamente presi la spada. Tutta l'energia che insieme avevamo rubato, tutte le anime che avevamo divorato, erano state dissipate in quel viaggio attraverso il vortice. Mi sentii di nuovo debole. Avevo le vertigini. Voci. Mi preparai alla battaglia. Penso di essere caduto all'indietro. Riuscivo ancora a controllare almeno in parte i miei sensi. Ero consapevole dei volti che mi fissavano dall'alto. Udii pronunciare il mio nome. «Non può essere lui. Ci avevano detto che nulla poteva spezzare l'incantesimo. Guardate che bizzarri indumenti. Questo è un demone, un mutante. Dovremmo ucciderlo.» Tentai di unirmi alla conversazione, di rassicurarli che a dispetto dell'abbigliamento ero realmente Elric di Melniboné. Ma i sensi mi abbandonarono del tutto. Caddi nel sogno, ombre preoccupate. Lottai per riprendermi, ma fu inutile. Ero troppo debole per resistere o fuggire. Mi parve di udire una risata di scherno. La risata dei miei nemici. Che fossi stato catturato? Dopo tutti gli sforzi, ero condannato a non raggiungere mai più la mia città? Il buio mi attanagliava la mente. Udii il bisbigliare di chi mi aveva fatto prigioniero. La coscienza cominciò ad affievolirsi. Sapevo di avere fallito. Tentai di sollevare la spada. Poi venni inghiottito. Sogni fuggirono lontano da me. Sogni importanti. Sogni che avrebbero potuto salvarmi. Una lepre bianca su una strada bianca. Cercai di seguirla. Mi svegliai in un letto pulito, e posai lo sguardo su una stanza familiare. Davanti a me stava un uomo tarchiato dai capelli rossi, con una grande bocca e la pelle puntinata di efelidi, vestito in modo semplice ma con un certo stile, in verde e marrone. «Maldiluna?» L'uomo dai capelli rossi sorrise. «Allora, principe Elric, sai chi sono?» «Sarebbe strano il contrario.» Stavo piangendo di sollievo. Ero riuscito a tornare. E Maldiluna, che mi aveva accompagnato in più di una recente avventura, mi stava aspettando. Per quanto sciocco potesse sembrare, pro-
vavo più che un sentimento cameratesco per il fedele uomo d'arme. «Vero, mio signore.» Sorrise ancora e avanzò barcollando, un po' stupito. «Ma mi domando a quale esotica creatura tu abbia rubato i vestiti.» «Sono normali» disse von Bek «nel mio tempo. Il suo tempo.» Sapevo esattamente dove mi trovavo. Nella Torre della Mano a Tanelorn. Una Tanelorn la cui rovina era quasi certa. E se fosse caduta, anche tutto ciò che rappresentava sarebbe scomparso. Era per questa città che avevo rischiato tanto e accettato l'aiuto della ladra di sogni. Non che, a quanto lei stessa diceva, Oona fosse una ladra di sogni. Era soltanto figlia di una ladra di sogni. «E il mio corpo?» domandai alzandomi. Il viso dell'uomo si oscurò e gli occhi assunsero un'espressione che conoscevo e che sapevo usava quando riteneva fosse coinvolta la stregoneria. «Ancora al proprio posto» rispose. Fece un ghigno, ma si rifiutò di incrociare il mio sguardo. «Sta ancora dormendo. Sta ancora respirando.» Fece una pausa. «Dove, se posso permettermi di chiederlo, mio signore, hai acquisito questo nuovo corpo? È qualcosa di creato con la negromanzia?» «Solo con i sogni» risposi, promettendo di spiegargli meglio i dettagli quando anch'io avessi avuto le risposte che cercavo. Mi accompagnò da quella semplice stanza da letto a un'altra. Là, nelle tenebre, giaceva un uomo dormiente. Non ero preparato alla vista del mio corpo disteso là davanti a me, le mani incrociate sul petto, che si alzava e si riabbassava con lenta regolarità. Avevo gli occhi aperti. Due rubini gemelli che fissavano il vuoto. Dormivo. Non ero morto. Ma neppure potevo essere svegliato. Stavo, dopo tutto, sognando questo sogno. Allungai la mano per chiudermi gli occhi. Gaynor aveva usato un grande potere contro di me. Conoscevo quell'incantesimo. L'avevo utilizzato anch'io, con effetti terribili. Era una minaccia per tutto ciò che amavo. Ora raccoglieva le forze per finirci. E se dava il colpo di grazia a Tanelorn, allora tutti i mondi di tutti i reami sarebbero stati in pericolo. Alzai lo sguardo dal mio sé dormiente. Oltre la finestra il sole iniziava a sorgere. Il suo primo raggio dorato scivolò sopra l'orizzonte. Sollevai la mano alla debole luce per paragonarla a quella dell'uomo addormentato. Sembravamo essere essenzialmemte la stessa creatura. C'era voluta una potente stregoneria e l'opera di una ladra di sogni per ottenere questo, ma ora sia il mio corpo sia la mia spada mi erano stati restituiti. Forse c'era ancora tempo per salvare Tanelorn.
IL MONDO DELLA LEGGE Qualche settimana prima, Maldiluna e io eravamo scesi dalle colline sull'altro lato di Cesh, seguendo tutte le mulattiere che avevamo trovato, avendo lasciato le dipendenze del Cesh di Cesh in pessimi rapporti. In cambio della distruzione di un piccolo esercito soprannaturale ci era stato promesso un grande tesoro. Una volta distrutto l'esercito, il tesoro si era rivelato essere costituito da due monete, una delle quali falsa. Avevo esposto Cesh alle porte della città, come avvertimento ad altri di non farci sprecare tempo ed energie. Prima di andarmene da quel luogo mi ero sentito molto debole e non in condizioni di affrontare il gruppo armato che i parenti di sangue di Cesh avevano inviato al nostro inseguimento, con l'incarico di ucciderci. A causa di mappe incomplete ci perdemmo nel territorio roccioso, ma allo stesso tempo ci liberammo anche degli inseguitori. Non ci eravamo certo aspettati di imbatterci tanto presto in Tanelorn, dopo aver trovato la strada che ci permise di scendere dalle colline. Avevamo previsto di dover attraversare un deserto prima di trovare una qualsiasi forma di civiltà. Sapevamo che era nella natura di quella città manifestarsi a volte in luoghi diversi, quindi non sfidammo la sorte. Senza esitare, conducemmo i nostri destrieri esausti verso le imponenti mura. Quant'era piacevole la vista degli antichi e ospitali edifici, di giardini con alti alberi, di mattoni rossi, travi nere e tetti di paglia, frutteti e fontane, dei legni ritorti e intagliati dei timpani. Io, da parte mia, avevo in uggia il fantastico e desideravo ardentemente tornare alle comuni comodità umane che avevo imparato ad apprezzare. Quando i nostri viaggi ci conducevano là, Maldiluna e io solevamo fermarci a riposare finché eravamo di nuovo pronti a riprendere il cammino, cercando nuovi incarichi e nuovi padroni. La nostra era una vita da mercenari e, anche se a volte mal retribuiti, non eravamo mai a corto di lavoro. Ci consolammo pensando che Tanelorn ci avrebbe comunque accolti bene. Avevamo conoscenze in città. Di quando in quando avevamo anche incontrato dei nemici, ma non c'erano mai stati conflitti. Tanelorn era il porto sicuro a cui potevano approdare tutti coloro che erano affaticati, per riposare, per allontanarsi dalle guerre di uomini e dèi. Qui, con l'aiuto delle indispensabili droghe, potevo godere di una certa tranquillità. Avevo sperato di alloggiare presso il mio vecchio amico Rackhir di
Phum, l'Arciere Rosso, ma era partito per qualche avventura, lasciando nella propria casa qualcuno che non voleva fosse disturbato. Un mio conoscente, Brut di Lashmar, che era stato un soldato di professione, fu il primo volto familiare a darci il benvenuto. Era alto, con i capelli a spazzola e bei lineamenti segnati da alcune cicatrici. Era vestito di lana e lino neri, apparendo così più simile a un monaco che a un soldato, a simboleggiare il proprio ritiro dall'attività bellica. Sembrava preoccupato. Non era noto per l'eloquenza e gli era difficile trovare le parole giuste per esprimere ciò che provava. Ci condusse alla sua ampia e irregolare abitazione, offrendoci alloggio, un'intera ala, e dimostrando grande cordialità. Mentre mangiavamo, ci avvisò che nell'aria si avvertivano correnti magiche. «C'è grande agitazione. Stregoneria dappertutto. Una magia strana e potente, amici miei. Una magia pericolosa.» Gli chiesi di essere più preciso, ma non fu in grado di farlo. Gli dissi che fiutavo sempre la presenza del Caos, e gli assicurai che là se ne rilevava l'odore soltanto sulla mia persona. Non era contento, mi spiegò, che la città si fosse spostata. Di solito si trasferiva solo al fine di salvarsi da un tremendo pericolo. Affermai che era diventato timoroso dopo essersi ritirato e che Tanelorn era salva. Avevamo già combattuto e vinto per ottenerle tale sicurezza. Forse in seguito avremmo dovuto farlo di nuovo poiché Tanelorn, come tutte le idee effimere, doveva essere costantemente difesa. Tuttavia, era assai improbabile che il Caos la attaccasse di nuovo. In verità, non ne ero convinto come volevo far sembrare. Dissi a Brut che nessun essere nell'intero creato sarebbe stato tanto pazzo da rischiare la distruzione dell'Equilibrio stesso. In fondo al cuore, però, sapevo che creature del genere esistono eccome. Già una volta avevamo difeso la città da loro. Ma sarebbe stata follia presumere che il Caos avrebbe sferrato un nuovo attacco, dopo una sconfitta tanto recente. Mi rifiutavo di preoccuparmi. Intendevo sfruttare al massimo il periodo che avrei trascorso là, spiegai, e rimettermi il più possibile in salute. Parlammo soprattutto di ricordi. Era tipico di quell'ambiente. Rievocammo vecchi combattimenti, antiche minacce, leggendarie battaglie del passato, e facemmo congetture sulla natura del luogo che ci offriva rifugio. Eravamo a Tanelorn da meno di una settimana, quando la città si trovò a subire una minaccia diretta. E, ovviamente, non avevo fiutato il Caos. Non avevo previsto che la Legge avrebbe a sua volta potuto diventare un aggressore. Il mio mondo aveva ben poca stabilità. Che fosse tornato a quel
terribile momento del mio passato, quando avevo ucciso l'unica donna che avessi amato davvero? Che fossi stato io a dare origine a quegli eventi, tanto, tanto tempo prima? Nel frattempo, Tanelorn era ancora in pericolo. E a insidiarla era una Legge impazzita. Che quelle forze assedianti dovessero essere state corrotte e manipolate in modo specifico da una creatura le cui ambizioni erano insolitamente determinate, non era di alcun conforto. Una tale irrazionalità era sempre distruttiva al massimo. Non aveva nulla da perdere tranne il proprio minacciato oblio. Seppi che avevamo di fronte una magia inconsueta quando, un pomeriggio, l'intero paesaggio circostante si dissolse proprio mentre eravamo in osservazione dai merli delle antiche mura. Il terreno si trasformò in una spianata di cenere abbagliante, costellata di scoscese rupi calcaree scolpite dal vento: un mondo di cristallino candore. Gli abitanti di Tanelorn erano stupiti e preoccupati. Quella era opera degli dèi. O di demoni. Persino io non sarei stato in grado di realizzare una stregoneria simile. Che nuovo interesse potevano avere in Tanelorn i Signori dei Mondi Superiori? Eccettuata Tanelorn, tutto aveva assunto il colore di un osso levigato dal vento. I dolci alberi e le case eleganti parevano volgari paragonate a tanto assoluto rigore. È così che deve essere la luna, commentai. Una zona di dilavamento ed erosione. Che ci trovassimo davvero là? I saggi di Tanelorn ritenevano fossimo semplicemente stati trasferiti su un mondo alternativo al nostro e già conquistato in precedenza. Ero in grado di eseguire un'altra Chiamata. Pregai gli elementi della terra di scavare un fossato difensivo attorno alle mura della città. Era il massimo che potessi fare, e lo sforzo mi prostrò. Non riuscivamo a immaginare la follia di una creatura capace di ridurre il mondo a un tale desolato orrore. A Tanelorn c'erano studiosi di ogni genere, e domandai il loro illuminato parere. Chi ci aveva portati in quel mondo? «Quasi certamente lady Miggea della Legge» mi fu risposto. «Ha già ridotto svariati altri reami a un simile nulla.» Aveva in sé immense risorse soprannaturali e ne comandava altre. Conoscevo i miei dèi e le mie dèe. Sapevo che aveva un proprio ciclo di miti e leggende che la rendevano potente sulla terra, ma doveva avere anche agenti mortali, altrimenti non avrebbe potuto aprirsi un varco in quelle sfere. Di certo almeno un mortale era al suo servizio là. Il mio signore, lord
Arioch del Caos, era altrettanto impotente senza collaborazione mortale. Il mio patrono, per quanto impulsivo, aveva imparato a non tentare mai di conquistare Tanelorn. I primi ad attaccarci furono in massima parte soldati di fanteria con mezza corazza, stranamente identici. Uscirono marciando dal nulla e non si fermarono, marciarono fino a raggiungere il fossato, dove continuarono a marciare sulla schiena di commilitoni che stavano affogando, fino a che furono sotto le mura. Ne venivano quotidianamente inviati contro di noi migliaia e migliaia, e si dimostravano talmente incapaci di prendere decisioni individuali che li uccidevamo senza sforzo e con pochissime perdite tra i nostri. I soldati attaccavano ancora. Noi difendevamo Tanelorn. Discutevamo sui piani per la salvezza, ma non sapevamo da chi stessimo proteggendo la città, chi fosse realmente il nostro nemico. Nessuno sapeva quanto si estendesse il deserto di cenere. Qualcuno aveva visto e riconosciuto una manifestazione di lady Miggea, a conferma del fatto che si trovasse davvero in quel reame e che stesse osservando da lontano. Almeno, è quanto mi fu detto. Alcuni dei più recenti abitanti di Tanelorn erano fuggiti da regni a lei sottomessi ed erano giunti qui proprio per dimenticare il terrore che si erano lasciati alle spalle. Ancora, però, non conoscevamo il nome del mortale al servizio di lady Miggea. E ci chiedevamo perché la città non si spostasse, allontanandosi dal pericolo, come ritenevamo potesse fare. Era abbastanza facile sconfiggere gli scagnozzi della Legge che marciavano contro di noi. Non avevano una volontà vera e propria e sembravano quasi drogati. Erano meccanicamente prevedibili. Ogni volta che tentavano di prendere la città, usavano la medesima tattica. Farne scempio mentre a centinaia sciamavano avanti o tentavano di superare il fossato, era del tutto agevole. Cominciai a credere che la loro unica funzione fosse distrarci mentre venivano tessute trame più intricate. Il massimo del tedio guerresco. Poi la stessa lady Miggea venne a dare un'occhiata a Tanelorn. All'inizio neppure compresi il significato della visita. Una mattina, mentre facevo il solito giro delle mura, con grande stupore notai che l'orizzonte circostante era gremito dei vessilli e delle lance di un imponente esercito a cavallo. Ovunque la loro sagoma significava annientamento. Non si trattava più della carne da cannone della Legge, quelli erano i suoi cavalieri migliori, giunti là da tutto il multiverso. Sollevai una mano per schermarmi gli occhi e vidi, quasi emergesse da
un lucente miraggio, una massiccia lupa delle dimensioni di una grossa cavalla, tutta bardata di splendida seta e cuoio ornato di perle, con una sella pure in cuoio dipinto, e finimenti in ottone, argento e splendidi diamanti. C'era un'aria di mistero nei suoi occhi infossati, mentre alla testa di una schiera di cavalieri umani correva verso la città. Il bianco muso munito di zanne fremeva, come avesse fiutato una preda. Forse quella lupa era stata catturata a Melniboné, pensai, dato che anch'essa era albina. Gli occhi rossi risplendevano in mezzo alla pelliccia candida, che ondeggiava al vento. Ancor più bizzarro era il suo cavaliere. Un uomo a cui l'elmo d'argento lucido nascondeva del tutto il viso. La lancia scintillante aveva il colore del peltro, e l'armatura era adornata di sete fluttuanti, con mantello e sciarpe di mille colori. Lo vidi voltarsi, sollevarsi sulle staffe e portare qualcosa all'altezza della celata. Udii il suono del suo corno. Continuavano ad avanzare. Migliaia di cavalli bianchi con i relativi cavalieri dall'armatura d'argento. Di certo volevano mettere Tanelorn sotto i loro zoccoli. Poi scorsi ciò che la lupa stava inseguendo. Una lepre, bianca come l'inverno, correva sulla cenere pallida proprio davanti a quel fragoroso esercito. Correva per raggiungere le nostre mura. Un migliaio di lance vennero bilanciate per trafiggerla. Troppo tardi. La lepre raggiunse il fossato e si tuffò in acqua. Nuotò fino alle porte della città e si infilò attraverso uno stretto passaggio della saracinesca, scomparendo subito nelle strade. Non appena il piccolo animale ebbe trovato riparo, la comitiva di cacciatori si disperse con rapidità, aprendosi a ventaglio su ambo i lati per circondare l'ampio fossato di Tanelorn. Avevano perduto la preda. Da lungi, un corno li richiamò indietro. Con quelle armature, erano comunque riusciti a impressionarci. Quelle armature lucenti. Quegli enigmatici cimieri senza volto. Oltre all'imponente numero. Sapevo chi erano. I Cavalieri della Legge servivano una santa causa. Chiamati a seguire l'esempio della loro signora, lady Miggea, sapevo che per lei avrebbero combattuto fino alla morte. Non le avevano e non le avrebbero fatto domande. Non potevano. Era nella loro natura svolgere il proprio incarico, a prescindere da quanto distorto fosse diventato. Al pari di lei, seguivano un'unica idea, incapaci di immaginare più di una cosa, più
di un futuro da creare. Mascheravano da ricerca dell'Ordine la naturale rapacità. Ma era la lepre che avevano avuto intenzione di distruggere quel mattino, non noi. Gli zoccoli dei loro cavalli smuovevano il deserto di cenere e dall'immensa pallida gola della lupa salì un grido di frustrazione per aver perso la preda. Un ringhio raggelante. Di nuovo il corno risuonò. I cavalieri riordinarono le fila, voltandosi per tornare verso l'orizzonte. Maldiluna mi giunse accanto. Aveva comandato un gruppo di combattenti lungo le mura. «Di che si tratta?» Annusò e si strofinò una manica, come per togliere una macchia. «Erano usciti semplicemente per farsi una galoppata? Hai veduto la preda che inseguivano, mio signore? La piccola lepre?» L'avevo vista, e mi ero chiesto perché fosse tanto importante per una duchessa della Legge. Cosa li aveva trattenuti dall'inseguirla fin dentro la città? La consapevolezza che entrando in Tanelorn l'eterna avrebbero messo in pericolo l'ordine fondamentale di tutti i nostri reami? Ciò di cui ero stato testimone era la follia. L'avevo vista più di una volta, quando la Legge diventava decadente e corrotta. Bastava quello a far preferire alla mia gente le incertezze e la turbolenza del Caos. Una Legge degenerata rappresentava una prospettiva molto più preoccupante. Et Caos non pretendeva di avere una logica, tranne quella del temperamento, dei sentimenti. La lupa aveva fatto dietro front e stava procedendo a lunghi balzi nella nostra direzione, con il suo arrogante cavaliere che, ormai apparentemente rilassato, teneva con scioltezza la lancia nell'apposita staffa. Da sotto l'elmo percepii un rumore. Udii una voce. Udii il mio nome. «Principe Elric, detto Il Traditore. Siete voi?» «Sono in svantaggio, non sapendo chi siete, signore.» «Oh, ben presto vi sarà familiare l'uno o l'altro dei miei nomi, signore.» «Perché» domandai «attaccate Tanelorn? Cosa volete da questa città?» «E voi, mio signore, cosa state difendendo? Lo sapete? Avete mai messo in discussione le vostre azioni? Non difendete nulla. Difendete un'idea ingenua, non una realtà.» «Ho visto moltissime idee trasformate in realtà» replicai. «Difenderò Tanelorn o la saccheggerò, se dovessi sentirne l'impulso. Non ho niente di meglio da fare, signore. E mi piacerebbe avere l'occasione di uccidervi.» Scoppiò a ridere dentro l'elmo. Una risata spontanea. Una risata familia-
re. Ignorò la mia provocazione. «Principe Elric, ho da proporvi un baratto. Tutto a Tanelorn verrà salvato se soltanto mi consegnerete la vostra spada. Sulla mia parola, allora vi lascerò in pace. Tutti voi. Ci sono medicine sufficienti in città per mantenervi vivo e in buona salute. È un patto onesto, principe Elirc. Voi salvate tutti i vostri compagni e non perdete altro che un'inutile spada.» «Ho miglior cura della mia spada che della maggior parte dei miei compagni, signore. Perciò l'offerta non ha per me alcuna attrattiva. Siete i benvenuti in città. Avrò l'immenso piacere di uccidervi in gran numero prima che la conquistiate. Se mi conoscete bene, signore, saprete che un massacro non fa che rendermi più forte. Signore, scusate se mi ripeto, avete il coraggio di accettare la sfida? Sarei davvero felice di uccidervi. Voi e lo sproporzionato animale che montate.» A queste parole la belva alzò la testa e i suoi occhi rossi incrociarono i miei. C'era una sorta di minaccioso dileggio nella sua espressione. «Avresti parecchie difficoltà a uccidere una duchessa della Legge, principe Elric» disse. Digrignò i denti in un ghigno, la pallida lingua penzoloni tra le zanne gialle e taglienti. Restituii lo sguardo e replicai: «Ma un lupo può uccidere un lupo.» Lei non rispose, ma parve allontanarsi prima che il suo cavaliere fosse pronto. Mi divertiva il fatto che avesse scelto quel particolare aspetto e fingesse che l'uomo che portava in groppa fosse il suo padrone. Un altro segno della sua mostruosa illusione. Mi ero avventurato in reami soprannaturali dove regnava una logica di quel tipo. Non c'era nulla di più esecrabile. Persino un melniboneano non poteva trarre piacere dallo squallore che creavano Miggea e i suoi simili. La sua mente semi sognante era a malapena consapevole delle conseguenze delle sue azioni. Riteneva di ordinare e proteggere, di sacrificare se stessa per il bene comune. I suoi cavalieri, è ovvio, le avrebbero obbedito senza fare domande. Dovere e lealtà erano tutto. Rettitudine nei confronti di se stessi. Erano pazzi quanto lei. Cominciai a chiedermi se in realtà l'oggetto del loro assalto non fosse la città. E se avessero voluto soltanto la mia spada? Se avessero diretto una tale potente stregoneria su Tanelorn solo per poter effettuare un baratto con me? Uno scambio che avevo rifiutato. E avrei continuato a rifiutare. Non mi avrebbero mai compromesso. Sarei rimasto saldo sulle mie posizioni. Contro di loro. E alla fine avrei avuto la meglio. Nei giorni appena successivi, l'intero esercito assediante si ritirò oltre l'orizzonte. La vita a Tanelorn tornò quasi alla normalità. Non un solo cit-
tadino tentò di lasciarci, dato che non c'era alcun posto dove andare. Le armate della Legge si erano allontanate, ma il paesaggio circostante non era tornato allo stato naturale. Fin dove l'occhio poteva guardare non si vedeva altro che una tetra pianura di cenere intervallata da grottesche colonne di calcare e lava indurita. Se Mu Ooria aveva l'aspetto di vita pietrificata, quel paesaggio rappresentava la morte pietrificata. Mi sentivo sempre più infelice non potendo godere di altra vista oltre all'accecante deserto. Cominciai a prendere in considerazione l'ipotesi di uscire a cavallo a esplorare quel mondo. La notte ripresi a sognare alta mondi. Mondi a malapena distinguibili dal mio. Mondi orrendamente, meravigliosamente o lievemente diversi. Sognai Bek, anche se non lo riconobbi. Sognai uomini in uniforme che mi rubavano la spada e mi sottoponevano a tortura. Sognai di battaglie vinte e di perduti amori, di conquiste amorose e sconfitte guerresche. Sognai paesaggi terrificanti e panorami naturali da togliere il fiato. Sognai futuri impossibili e possibili passati. Sognai Cymoril, la mia promessa sposa uccisa, che mi supplicava mentre la sua anima si riversava nella mia. Mi svegliai singhiozzando. Maldiluna, nella stanza accanto, dovette avvolgersi le lenzuola attorno alle orecchie. Ovviamente sognavo il mio passato oltre al mio prossimo futuro. Sognavo il mondo che avrei trovato. Il mondo dei miei incubi diventato realtà. Con ogni probabilità, questa nuova strategia della Legge era una semplice pausa che permetteva ai nostri nemici di raccogliere le forze per schiacciarci. Discutemmo della natura della situazione in cui ci trovavamo ma non riuscimmo a trovare precedenti. I miei tentativi di fare appello a ulteriori aiuti soprannaturali fallirono. Era chiaro che lady Miggea controllava praticamente ogni cosa in questo reame. Eravamo quasi ammutoliti per lo stupore. Non sapevamo neppure come contrastare la Legge. Più di una volta il Caos aveva tentato di prendere Tanelorn, mai però, per quanto ne sapevamo, ci avevano provato le forze dell'Ordine. Per qualche ragione nessuno di noi pensava che saremmo morti tutti. Forse Tanelorn aveva già dimostrato la propria invulnerabilità, quando i Cacciatori Bianchi si erano divisi attorno alla città. Magari non potevano entrare. Qualche forza più potente lo impediva. O era forse che, come molti dèi ed elementi, avevano bisogno di essere invitati da agenti mortali nei reami mortali? E, a rigor di termini, Tanelorn non apparteneva a questo
reame. Le nostre speculazioni erano di scarsa utilità. Era impossibile prevedere la successiva mossa della Legge. Impossibile comprenderne le intenzioni. Facemmo qualche tentativo per trovare la lepre bianca, ma a quanto pareva aveva aspettato che il clamore cessasse per tornarsene nel proprio territorio. Confidai a Maldiluna di essere sempre più annoiato. Se non avessero sferrato un attacco al più presto, avevo in mente di andarmene a cavallo. Non si offrì di unirsi a me. Penso credesse che avevo intenzione di tradire Tanelorn. Poi un pomeriggio, quando il sole macchiava di scarlatto la pianura di cenere, un cavaliere in armatura in groppa a una lupa bianca scese verso Tanelorn e si sedette urlando davanti alle nostre porte, chiedendo che io fossi chiamato. Il tracotante cavaliere d'argento si era avvolto in sete ancor più sgargianti, quasi a sfidare l'algido gusto della Legge. Sedeva con arroganza sulla propria sella. L'acqua del fossato rifletteva l'armatura. Pareva fatto di mercurio. Ancora non conoscevo il suo nome. Mi riconobbe non appena apparvi sul maschio a est e salii alla merlatura. Fece un gesto elaborato. Una qualche sconosciuta forma di saluto. «Buon giorno, principe Elric.» «Buon giorno, signore Senza Nome.» Dall'elmo uscì una risata spontanea, neanche avessi fatto una battuta particolarmente spiritosa. Quella creatura usava ogni arma del proprio arsenale, inclusi fascino e sottile adulazione. Quel mattino si era presentato con un atteggiamento improntato all'inganno e allo stesso tempo al buonsenso. «Non vi farò perdere tempo, mio signore,» disse «ma in quanto Cavaliere dell'Equilibrio e servitore della Legge, sono giunto qui per accettare la vostra sfida. Un combattimento corpo a corpo, come avevate detto, E inoltre vi propongo anche un accordo.» Aveva il tono semi bellicoso che si ode spesso tra i mercanti e coloro che offrono servigi, che tentano sempre di vendere qualcosa che non si vuole o di cui non si ha bisogno. «Trovo i due ruoli contraddittori» dissi con gentilezza. Mentre da un lato esultavo per la possibilità di lottare contro di lui, dall'altro ero ovviamente sospettoso riguardo ai motivi che lo spingevano. «Un Cavaliere dell'Equilibrio è a servizio dell'Equilibrio soltanto.»
«Già,» ribatté lui quasi con aria stizzita «questo è il vecchio modo di pensare. Ma il Caos ci minaccia e ci sommergerà tutti se non stiamo in guardia.» «Be',» replicai «in quanto servitore del Caos, posso parlare solo per me stesso: non ho in progetto di sommergere niente e nessuno.» «Allora siete un bugiardo o un babbeo, signore» disse il cavaliere argenteo. «Ho avuto spesso anch'io il medesimo dubbio» ammisi con disinvoltura. Sapevo che stava tentando di pungolarmi, ma erano davvero pochi quelli che potevano competere con la crudele arguzia di un qualsiasi nobile melniboneano. «Cosa vorrebbe vendermi oggi, signore?» «Se mi offrite un po' di ospitalità, ve lo dirò a colazione. Non è da me discutere di affari privati tanto pubblicamente.» «Qui a Tanelorn non esistono affari privati, signore. Tutto è in comune. Non ci interessano né i segreti né le autopsie. Fa parte del nostro stile di vita.» «Non intendo certo disturbare il vostro stile di vita, signore.» La lupa si era mossa di scatto, come se non fosse stata del tutto d'accordo con il proprio cavaliere. «E potete facilmente assicurare che la tranquillità continui. Dopo tutto, sono venuto per accettare la vostra sfida. Un duello. Uno contro uno. Per decidere la questione. O, se non desideraste più sistemare la cosa come punto d'onore, prenderò un tributo simbolico. Tutto ciò che vedo è quella vecchia spada che portate. Datemi la lama con le rune e allontanerò i miei uomini. Avete visto la potenza d'armi che possiamo schierare contro di voi. Sapete che verreste schiacciati in un'ora. Spazzati via dal mondo dei vivi. Qualche dimenticato sussurro in un antico vento. Datemi la spada e diverrete tutti immortali. Tanelorn resterà ben più che un ricordo.» «Minacce metafisiche» replicai. «Le ho sentite riecheggiare da elmi d'acciaio per tutta la vita, signore. Hanno sempre il medesimo tono apocalittico. E sono estremamente difficili da mettere in pratica...» «Non c'è nulla di vago nelle mie minacce, signore» disse il Cavaliere dell'Equilibrio, muovendosi con impazienza e lisciando quasi con pignoleria la seta che l'avvolgeva. «Nulla di infondato. Sono sostenute da centomila lance.» «Nessuna delle quali è in grado di entrare in questa città, suppongo.» Gli voltai le spalle per allontanarmi. «Senza essere invitata. Non avete nulla da offrirmi, signore, tranne la noia che cerco di fuggire. Persino la vostra ri-
pugnante e ormai senile padrona Miggea non può fare un passo a Tanelorn senza invito. Quei soldati mortali contro cui abbiamo combattuto erano stati reclutati qui. La maggior parte è morta. Qualunque essere soprannaturale deve implorare il permesso di entrare. E voi, signore, avete già dimostrato la vostra belligeranza. Non credo abbiate intenzione di comportarvi correttamente in duello.» «Avete frainteso le mie parole, principe Elric, ve lo garantisco. Ma oggi mi troverete un più ragionevole Campione della Legge. Desideroso di battersi da uomo a uomo. Ecco la mia offerta: duellerò correttamente con voi per la spada. Se mi sconfiggerete, l'intera Legge si ritirerà da Tanelorn e tornerete alle vostre normali condizioni, la città intatta. Se sarò io a sconfiggere voi, avrò la spada. E vi lascerò a difendervi come meglio potrete.» «La mia spada e io siamo legati,» risposi con semplicità «siamo tutt'uno. Se reggeste la spada, potrebbe distruggervi. E alla fine tornerebbe da me. Credetemi, messer Segreto, non vorrei che le cose stessero così, ma tant'è. E in questo momento siamo pieni di energia. Ci siamo pasciuti con abbondanza grazie al vostro antagonismo. Ci avete resi più forti.» «E allora mettiamo alla prova questa forza. Non avete nulla da perdere. Lasciatemi entrare e combatteremo dove tutti ci possono vedere: nella pubblica piazza.» «A Tanelorn i combattimenti sono proibiti.» Dissi solo quanto già sapeva. La sua voce era tutta sdolcinato dileggio: «Quali forze minacciano il vostro diritto a combattere?» Il tono del cavaliere era diventato di aperta sfida. «Quale potere fa da bambinaia a un'intera metropoli? Di certo non accetterete l'imposizione di consuetudini prive di valore. A nessun uomo libero dovrebbe essere negato il diritto di difendere la propria vita. Di portare con orgoglio le proprie armi e di usarle alla bisogna. È così che la pensiamo ora, noi della Legge. Abbiamo ricusato il grande peso della ritualità e guardiamo a un futuro più semplice, gioioso e privo di orpelli. I vostri rituali e le vostre abitudini hanno perso significato. Non sono più connessi alle dure realtà della sopravvivenza. Oggi la battaglia è dei forti. Degli scaltri. Quanti non si oppongono al Caos sono condannati a esserne distrutti.» «Ma se distruggeste il Caos,» domandai «che accadrebbe?» «La Legge avrebbe tutto sotto controllo. L'imprevisto sarebbe bandito. Il misterioso non esisterebbe più. Creeremmo un mondo ordinato, con ogni cosa al suo posto e un posto per ciascuno. Finalmente sapremmo cosa ci
riserverà il futuro. È il destino dell'uomo portare a termine l'opera degli dèi e completare la sinfonia divina in cui tutti suoniamo uno strumento.» Tra me stavo considerando di avere udito molto di rado una pazzia tanto pietosa espressa in modo così perfetto. Forse la mia eccessiva passione per la lettura fin da bambino mi aveva reso anche troppo familiari tutti i vecchi argomenti portati a giustificazione della brama di potere dei mortali. Nel momento in cui veniva invocata l'autorità morale del soprannaturale, era chiaro che ci trovavamo in conflitto con il più straordinario autoinganno, per cui non ci si poteva fidare in alcun modo. «Il destino dell'uomo? Il vostro destino, credo intendiate!» Mi appoggiai ai merli come un padrone di casa che scambia quattro chiacchiere con il vicino oltre lo steccato. «Avete un forte senso di ciò che è giusto, dunque? Sapete che c'è una sola strada che conduce alla virtù? Una strada sgombra e dritta verso l'infinito? Noi del Caos abbiamo una visione decisamente meno ordinata dell'esistenza.» «Vi prendete gioco di me, signore. Io, però, ho i mezzi per rendere reale la mia visione. Sospetto che per voi non sia lo stesso.» «Non ho né i mezzi né il desiderio di farlo, signore. Giro come gira il mondo. Non abbiamo altra scelta. Non metto in dubbio il vostro potere, signore. La Legge ha allontanato da questo reame tutti i miei alleati. Tutto ciò che sta tra voi e la conquista totale sono la mia spada e questa città. E in qualche modo so che possiamo sconfiggervi. È nella natura di noi che serviamo il Caos fare maggiore affidamento sulla fortuna rispetto a voi. Fortuna che spesso può non essere altro che l'umore di una moltitudine disordinata che corre in tuo aiuto. Sia quel che sia, noi ci contiamo. E nel contare sulla fortuna, fidiamo in noi stessi.» «Non intendo certo discutere con le sofisticherie melniboneane» disse il Cavaliere Argenteo, occupandosi allo stesso tempo delle sciarpe e delle bandiere fluttuanti. «Le ambizioni del vostro protettore, il duca Arioch, sono ben note. Si divorerebbe i mondi, se potesse.» Una fresca brezza mattutina agitò il deserto circostante. Il nostro visitatore pareva quasi impedito da tutte quelle lunghe sciarpe. Ostacolato, eppure non desideroso di liberarsene, quasi non sopportasse l'idea di indossare dell'acciaio non decorato. Come se avesse un profondo desiderio di colore. Come se gli fosse stato negato per un'eternità. Come se ci si aggrappasse per salvarsi la vita. A volte, quando il sole colpiva l'armatura e la seta che garriva, egli pareva in fiamme. Sapevo di poterlo sconfiggere in un duello leale, ma se lady Miggea l'a-
vesse aiutato sarebbe stato molto più difficile, forse impossibile. Aveva ancora poteri enormi, molti dei quali non ero neppure in grado di prevedere. Ripensando a quella mattina, non c'era dubbio che i miei nemici mi conoscessero in un certo senso meglio di quanto mi conoscessi io stesso, perché avevano giocato sulla mia irrequietudine, sulla mia naturale tendenza ad annoiarmi. Avevo ben poco da perdere. Tanelorn era stanca. Non pensavo potesse venire sconfitta da quel cavaliere adorno di nastri, e neppure da Miggea della Legge. Ero ansioso di porre fine all'assedio, in modo da poter continuare con i miei inquieti e, ammettiamolo, mutili affari. Non facevo che pensare alla mia amata cugina Cymoril, morta accidentalmente mentre Yyrkoon e io lottavamo. Cymoril era tutto ciò che avevo sempre voluto. Il resto ero pronto a cederlo a mio cugino. Ma proprio perché Cymoril mi amava, Yyrkoon voleva possedere anche lei. E a causa del mio orgoglio, della mia follia e della mia passione, oltre che della smisurata cupidigia di Yyrkoon, era morta. An che Yyrkoon era morto, come meritava. Lei, invece, mai si era meritata tale orribile violenza. Il mio istinto era di proteggerla. Ma avevo perso il controllo della spada. Avevo giurato che non sarebbe mai più accaduto. A volte la volontà della spada pareva potente quanto la mia. Anche in quel momento, non ero del tutto certo che l'energia che sentivo scorrere dentro di me fosse mia e non della lama. Dolore, rabbia e una disperata tristezza minacciavano di avere la meglio su di me. Ogni tendenza all'autodisciplina era forzata, innaturale. Il mio volere lottava contro quello della spada e vinse, eppure decisi di battermi con quello sconosciuto. Forse il mio stato d'animo era stato incoraggiato da un nemico astuto, ma era parso che gli offrissi un duello secondo le mie condizioni. «La lupa deve andarsene» dissi. «Il reame...» «Non può lasciare il reame.» «Non deve avere parte in questo. Dovete darmi la parola, la sacra parola della Legge che la lupa non combatterà contro di me.» «Accordato» rispose il cavaliere. «La lupa non parteciperà al nostro scontro.» Guardai la belva, che abbassò gli occhi in riluttante accettazione. «Cosa mi garantisce che voi e lei manterrete la promessa?» «La salda parola della Legge non può essere ritrattata» rispose. «La nostra intera filosofia si basa su questo concetto. Non cambierò i termini del-
l'accordo. Se mi sconfiggerete, ce ne andremo tutti da questo reame. Se sarò io a sconfiggervi, mi darete la spada.» «Siete fiducioso di riuscire a vincermi.» «Tempestosa sarà mia prima del tramonto. Duelleremo qui? Dove mi trovo ora?» Indicò un punto alle sue spalle. «Oppure là, sull'altro lato?» A quelle parole scoppiai a ridere. L'antica follia sanguinaria si stava riappropriando di me. Maldiluna la riconobbe e si precipitò a salire i gradini. «Mio signore... deve essere un trucco. Puzza di imbroglio. La Legge è divenuta indegna di fiducia. Tutto decade. Sei troppo saggio per lasciare che ti ingannino...» Ero serissimo quando gli appoggiai la mano sulla spalla. «La Legge è rigida e aggressiva. L'ortodossia agli stadi finali della degenerazione. Si aggrappa ai suoi vecchi sistemi, pur rigettando ciò che non le è più utile. Manterrà la parola, ne sono certo.» «Mio signore, non c'è ragione per questo duello.» «Potrebbe salvarti la vita, amico mio. E la tua è l'unica vita di cui mi importa.» «Ma potrebbe anche portarmi tormento, e lo stesso dicasi per tutti gli altri qui a Tanelorn.» Scossi il capo. «Se non tengono fede alla parola data, non possono più considerarsi rappresentanti della Legge.» «E anche ora, che tipo di Legge rappresentano? Una Legge pronta a sacrificare la giustizia per l'ambizione.» Maldiluna mi prese per il braccio mentre cominciavo a scendere i gradini per tornare sul terreno. «È questo che mi fa dubitare delle loro promesse. Diffida di loro, mio signore.» Rinunciò a convincermi e si fece indietro. «Starò attento a individuare qualunque indizio della loro slealtà e farò ciò che posso per garantire un duello corretto. Ma te lo ripeto, amico mio, è pura follia. Il tuo vecchio, pazzo sangue si è di nuovo impadronito del tuo cervello.» Ero divertito. «Quel sangue pazzo ci ha spesso tratti d'impaccio, amico Maldiluna. A volte mi fido più di lui che della ragione.» Ma non riuscii a sollevargli il morale. Una decina di altri, incluso Brut di Lashmar, mi implorarono di essere cauto, ma qualcosa in me era decisa a interrompere quella situazione di stallo, a lasciarmi guidare dal cieco istinto e a seguire una storia che non era inevitabile, che prendeva una direzione del tutto nuova. Volevo provare che non si trattava dello sviluppo di un qualche prefigurato destino. Come avevo detto a Maldiluna, non era certo la prima occasione in cui
permettevo al mio antico sangue di incendiarmi le vene, di cantarmi la sua canzone e di ricolmare il mio essere di gioia selvaggia. Giurai che se fossi sopravvissuto, non sarebbe stata l'ultima volta che provavo quell'eccitazione. Ero di nuovo completamente vivo. Stavo correndo dei rischi. Erano in gioco la mia vita e la mia anima. Scesi dalla prima cinta a passo di marcia e gridai che si sollevasse la saracinesca. Richiesi che la lupa se ne andasse. Che il cavaliere senza volto mi affrontasse da solo. Una volta che mi fui lasciato le mura di Tanelorn alle spalle ed ebbi superato il ponte levatoio ritrovandomi in quel mondo desolato, la lupa era scomparsa. Guardai in uno specchio. Vidi i miei lineamenti fiammeggianti, i lucenti occhi di rubino, i sottili capelli bianchi che mi sferzavano le spalle mentre il vento continuava a soffiare implacabile sul deserto di cenere. L'elmo e la corazza del cavaliere privo di destriero riflettevano tutto ciò che si trovavano di fronte. Pareva un vantaggio in battaglia, dato che si avrebbe avuto l'impressione di combattere contro se stessi! Tra le mani guantate di ferro il cavaliere teneva uno spadone di acciaio argenteo. La vista" di quell'oggetto mi disturbava. Non l'aveva mai portato con sé in precedenza. La spada era una perfetta replica di Tempestosa in tutto tranne che nel colore. Un'immagine in negativo. Riconoscevo facilmente i simboli della stregoneria, e quella lama d'argento non aveva proprietà magiche di rilievo. Le avrei fiutate. Piuttosto emanava una sorta di inanimatezza, di negatività. Nessuna stregoneria. O una stregoneria tanto sottile che neppure io ero in grado di percepirla? Una sensazione di gelo mi attraversò piano, lasciandomi diffidente e un poco più debole. Sentii il brivido del déjà vu. All'interno dell'elmo qualcosa sogghignò. Una nota diversa, quasi un sussurro. «Riviviamo le nostre storie molte volte, principe Elric. E di quando in quando ci vengono dati i mezzi per cambiarle. Comprenderete, spero, che in alcune di quelle storie, in alcune di quelle incarnazioni, si perde. In altre, si muore. In altre ancora si patiscono sofferenze peggiori della morte.» Di nuovo quel misterioso soffio gelido. «Penso che questa sarà una di quelle altre storie, mio signore.» Quindi la corrusca spada si abbatté su di me. A stento riuscii a bloccarla in tempo. Cozzando contro quell'acciaio
bianco, Tempestosa ringhiava. Esprimeva odio. O forse paura? Non era un suono che le avessi mai udito prima. Sentii che l'energia fluiva fuori di me. A ogni colpo ricambiato trovavo maggiore difficoltà nel sollevare la mia spada. Durante il combattimento sbirciai nel cimiero d'argento ma non riuscii a scorgere i lineamenti celati all'interno. Ero atterrito. Confidavo nella forza della spada per sostenere la mia, e invece Tempestosa stava fiaccando il mio vigore. Cosa stava aiutando quel misterioso guerriero? Perché non avevo fiutato la stregoneria? Ero chiaramente vittima di un potere soprannaturale. Il cavaliere non era uno spadaccino esperto, come mi ero aspettato. In realtà era alquanto impacciato, eppure parava ogni colpo che gli sferravo. Solo di rado tentava un attacco e pareva mantenere un atteggiamento del tutto difensivo. Anche questo mi rese sospettoso. Se non avessi formalmente accettato un duello, avrei posto fine al combattimento in quel preciso momento, e fatto ritorno alla città. Mentre combattevo, ero abituato a udire la selvaggia canzone della mia spada, ma in quell'occasione Tempestosa si limitava a vibrare per la forza dei colpi. E quelle vibrazioni parevano divenire ogni istante più deboli. Maldiluna aveva ragione. Ero caduto in una trappola, ma non potevo fare altro che continuare a combattere. Ad altri due miei colpi il cavaliere rispose con altrettanti, che mi fecero barcollare. Le ginocchia cedettero. Riuscivo a mala pena a sollevare la spada, che diventava sempre più un peso morto tra le mie mani. Ero sconcertato. L'urgente necessità di agire mi affaticava ulteriormente. Ero stato superato in strategia. Di nuovo quel ghigno che non mi era familiare proveniente dalle profondità dell'elmo. Chiamai a raccolta tutte le mie forze e le mie possibilità. Tentai di chiedere aiuto ad Arioch, ma ero sopraffatto dalla stanchezza. Una stanchezza innaturale. Usai le mie tecniche di stregone per riportare il corpo sotto il controllo della mente, ma senza risultato. Il pesante drappo del maleficio avvolse tutto il mio essere. A pochi minuti dall'inizio del combattimento, persi l'appoggio del piede e caddi all'indietro sull'aspro terreno bianco. Vidi il cavaliere in armatura chinarsi e prendere Tempestosa. Ero terrorizzato. Non avevo modo di oppormi. Tentai di rimettermi in piedi ma non ci riuscii. Pochi potevano maneggiare quella spada senza patire terribili conseguenze, eppure il mio av-
versario fu in grado di sollevarla da terra con grande scioltezza. Tutte le mie certezze mi stavano precipitando addosso. Temetti di essere sul punto di impazzire. Mentre la vista mi si annebbiava, mi resi conto che la figura in armi mi guardava dall'alto in basso, ridendo. «Bene, principe Elric. Il patto e il duello sono conclusi e ora sei libero di tornare a Tanelorn. Non colpiremo la città, non temere. Ho già quello per cui sono venuta.» Per la prima volta il cavaliere sollevò la celata. Era una donna quella che mi fissava. Una donna dai lineamenti pallidi e luminosi, con i capelli biondi e abbaglianti occhi neri. Una donna dai denti aguzzi e le labbra di fuoco. Seppi subito in che modo ero stato ingannato. «Lady Miggea, immagino.» Riuscivo a stento a bisbigliare. «Avete dato la vostra parola. La parola della Legge.» «Non hai ascoltato con sufficiente attenzione. È stata la lupa a giurare di non combattere. Il tuo sangue è saggio» disse dolcemente «ma informa il tuo cuore, non la tua mente. Sono tempi in cui bisogna agire con prontezza. C'è molto in gioco. A volte le vecchie regole non sostengono più la realtà.» «Dunque non manterrete la parola? Avete detto che avreste lasciato in pace la città!» «Ma certo che lo farò. La lascerò morire di cause naturali.» «Cosa intendete?» Le mie parole erano un rantolo. Cominciavo a rendermi conto della follia della decisione che avevo preso. Maldiluna aveva detto il vero. Avevo causato un indicibile disastro a me e al mio mondo. E tutto perché avevo seguito il selvaggio 'istinto' invece della ragione. Accade a volte che le proprie convinzioni portino solo a ulteriori catastrofi. «In questo reame non c'è più acqua. C'è solo quello che vedi. Niente per mantenere i vostri giardini. Niente da bere per voi.» Sorrideva tra sé mentre sollevava Tempestosa reggendola per la lama, tenendola stretta in un pugno che sembrava aumentare di grandezza mentre parlava. «Nulla vi può aiutare. Nessun ausilio soprannaturale. Non puoi tornare nel tuo reame. C'è voluto il mio potere per portarti qui e tenertici. Ben pochi sono potenti quanto Miggea della Legge. Nessun sostegno umano ti salverà. Col tempo vi indebolirete e avvizzirete tutti, e questa sarà la fine tua e delle tue storie. Ma sono stata clemente. Tu non vedrai nulla di tutto ciò, principe Elric, perché sarai addormentato.» Mentre la vista mi abbandonava e le ultime forze lasciavano il mio cor-
po, feci un disperato tentativo di rialzarmi. «Dormire?» Il suo orribile volto impazzito si avvicinò al mio. Increspò le labbra e mi soffiò sugli occhi. E io precipitai nell'oscurità del sogno. LA FIGLIA DELLA LADRA DEI SOGNI Mi rendevo vagamente conto che i miei amici della città mi stavano riportando indietro. Ero del tutto incapace di muovermi, riuscivo soltanto a entrare e uscire da un sonno incantato, solo genericamente consapevole del mondo che mi circondava, in qualche momento del tutto immemore. Sapevo che i miei amici, e in particolar modo Maldiluna, erano preoccupati. Tentai di scuotermi, di parlare, ma ogni sforzo mi riportava più a fondo nel mio mondo di sogno. Non volevo precipitare oltre. Temevo qualcosa laggiù. Qualcosa che Miggea aveva preparato per me. L'unica strada che potevo prendere era interiore. Incapace di muovermi e di comunicare, e tuttavia cosciente delle mie condizioni, mi lasciai infine scivolare, pur temendo di poter non riemergere più dai meandri della mia complessa psiche. Di affogare nei miei stessi oscuri sogni. L'ultimo desiderio non mi fu accordato. Cominciai a precipitare. Lontano da Tanelorn. Lontano da tutti i nuovi pericoli del futuro. Pericoli che non avrei saputo affrontare senza la mia spada. E come sarebbe stata usata, poi, proprio quella spada? Per distruggere l'Equilibrio stesso? La mia mente era in subbuglio. Cadere infine nell'oblio fu un sollievo. Rimasi privo di conoscenza per alcuni secondi, poi iniziai a sognare. Nel sogno vidi un uomo vestito di stracci che stava in piedi con il viso rivolto lontano dalla propria casa, un libro in mano e un grande fagotto sulle spalle. Volevo chiedergli quale fosse il suo nome, ma aveva gli occhi colmi di lacrime e non riusciva a vedermi. Quando si voltò verso di me, per un attimo pensai che il suo volto sarebbe stato il mio, ma si trattava di una normale testa umana tondeggiante. Esitò, poi cominciò a tornare verso casa, dove sua moglie e i suoi figli lo aspettavano, felici che non li avesse abbandonati. Non avevano visto quanto era sconvolto. Per uno della mia razza provare compassione per anime tanto ordinarie era quasi disgustoso, eppure avevo il desiderio di aiutare quelle persone in difficoltà. Passò del tempo. Infine vidi l'uomo lasciare la casa con il fardello sulle spalle e allontanarsi fino a sparire alla vista. Presi a seguirlo, ma quando
giunsi in cima alla collina, era scomparso. Vidi una valle, e in quella valle si stavano combattendo numerose differenti battaglie. Uomini davano fuoco a castelli, villaggi e città. Facevano strage di donne e bambini. Uccidevano tutto ciò che di vivente esisteva, poi si rivolgevano l'uno contro l'altro per ricominciare la carneficina. L'unica strada visibile mi conduceva in quella vallata. Rassegnato, iniziai a scendere. Non ero andato molto avanti, però, quando una figurina caratterizzata da una gobba assai pronunciata saltò da una roccia sul sentiero davanti a me e, sorridendo, si esibì in un compito ed elegante inchino. L'ometto mi parlava, ma non riuscivo a sentirlo. Deluso, provò con gesti e segni, ma continuavo a non comprendere ciò che voleva dirmi. Infine mi prese per mano e mi condusse dietro una roccia. Là davanti c'era quello che pareva un oceano, che si innalzava in verticale a formare un muro di fronte a me. Attraverso l'oceano passava una lucida strada di luce screziata, come se un raggio di sole fosse caduto sull'acqua. La prospettiva era talmente insolita che quasi mi sentivo male. Tuttavia l'omino deforme continuò a camminare finché posammo il piede sulla strada screziata e ci ritrovammo a salire la superficie scoscesa. Nelle nari percepivo il forte odore dell'ozono. A quel punto la strada si raddrizzò e divenne un argenteo raggio di luna in un complesso reticolo di raggi simili alle vie che attraversavano i reami. La mia guida era scomparsa. Ero preoccupato, ma allo stesso tempo mi rendevo conto di sentire un profondo benessere fisico. Non mi era mai accaduto. Avevo sempre provato soltanto dolore o sollievo dal dolore, mai la sensazione di possedere un corpo che non conosceva sofferenza alcuna. Per tutta la vita avevo dovuto affrontare qualche debolezza, fisica o morale che fosse. Ora cominciavo a sentirmi fresco, euforico, addirittura rilassato. Eppure sapevo che in realtà non avevo corpo fisico, che era solo la mia anima sognante a vagare per quei mondi stregati. Le contrapposte emozioni che provavo non aiutavano certo a migliorare la situazione. Non sapevo se anche questo faceva parte della trappola di Miggea. Non sapevo quale via scegliere. Alzai lo sguardo su tutta quella vasta complessità e vidi un milione di strade, ognuna simile a un raggio di luce, su cui camminavano creature di ogni tipo. Sapevo che non esisteva un vuoto multiversale, che ogni spazio apparentemente sgombro era in realtà popolato. Contemplai le strade, rami di un immenso albero d'argento le cui radici chissà come affondavano nella mia mente. Sapevo che quella era la struttura fondamentale del multiverso e decisi, a dispetto della recen-
te esperienza, di fidarmi dell'istinto e seguire una piccola diramazione che partiva da un ramo molto più consistente. Poggiai il piede sulla pallida stradina, che cedette lievemente, adeguandosi al mio passo. Camminare là sopra era un vero piacere. In men che non si dica avevo superato una decina di rami e mi dirigevo verso il sentiero prescelto. Mentre lo facevo, però, mi resi conto che l'intreccio era più complicato di quanto avessi inizialmente creduto. Mi ritrovai in un intrico di rovi secondari che mi bloccavano la strada e che non riuscivo a spostare. Sentivo il mio corpo così inconsistente che non c'era pericolo che i rami si spezzassero. Mi pareva che figure minuscole si spostassero sugli altri rami, proprio come io mi muovevo sul mio. Infine trovai il sistema di avanzare in modo da arrecare il minimo disturbo. Avevo l'impressione che da qualche parte lassù potesse trovarsi un altro essere, molto più grande di me, forse una versione di me stesso, che stava accuratamente evitando di farmi cadere. A un certo punto mi fermai. Non indossavo più i soliti abiti ma una completa armatura da guerra melniboneana. Non l'elaborato barocco di una piastra da cerimonia, ma l'efficace protezione in grado di piegare una lama di cui aveva bisogno un uomo in battaglia. Non percepivo il peso dell'armatura, così come non ne attribuivo al mio corpo. Pensavo quasi di essere morto e di essermi trasformato ormai in una sorta di fantasma vagante. Se fossi rimasto là abbastanza a lungo sarei gradualmente diventato amorfo e mi sarei fuso con l'atmosfera, per essere respirato come polvere dai vivi. Avendo smarrito la mia direzione originale, mi ritrovai a vagare per rami sempre più stretti e tortuosi. Pensavo che ben presto avrei messo piede sull'ultima fronda ai più remoti confini dell'albero multiversale. Cominciavo a perdere le speranze quando mi accorsi che il viottolo conduceva a un tunnel formato da tralci di salice. All'altro lato della galleria si trovava una casetta dall'aspetto insolito, il tetto coperto dalla paglia dei secoli, i mattoni apparentemente raccattati in ogni dove, le finestre di misure diverse e con le più strane angolazioni, la porta lunga e stretta, i camini ritorti in forme fantastiche. Dalla tettoia del piccolo portico pendevano svariati cesti di piante in piena fioritura e una gabbietta per uccelli. Sotto la gabbia sedeva un cane da pastore bianco e nero, la lingua penzoloni come fosse appena rientrato dopo una giornata di lavoro. La gradevole scena bucolica mi rese stranamente cauto. Avevo fatto l'abitudine a trappole e inganni. I miei nemici sembravano divertirsi molto nel fare promesse che non intendevano mantenere, quasi avessero da poco
scoperto il potere della menzogna. Se quell'immagine era falsa, era davvero ben costruita. Pareva perfetta in ogni dettaglio, non ultimi il pennacchio di fumo che usciva dal camino, il profumo di pane e dolci appena sfornati, l'acciottolio domestico proveniente dall'interno. Mi guardai le spalle. Dietro di me, a rimpicciolire ogni cosa, il multiverso. Il grandioso reticolo riempiva tutta la miriade di dimensioni, i rami estesi nell'infinito. E la sua brillantezza illuminava la piccola casa che si trovava proprio sull'orlo dell'abisso, un grande legno scuro dietro di essa. L'armatura era pesante. Il mio corpo, che pure si sentiva in forma, era stanco. In un attimo ero tornato a essere pienamente corporeo! Aprii il cancello del villino e mi trascinai sul sentiero di ardesia per bussare alla porta. Mi ricordai di togliere l'elmo. Era un oggetto scomodo da portare sotto il braccio, tutto spigoli e filigrana. «Entrate, principe Elric» disse una ridente voce di giovane. «A quanto pare il vostro istinto è davvero affidabile.» «A volte, signora.» Attraversai la stretta soglia e mi ritrovai in una stanza dal soffitto basso con travi nere e intonaco bianco. Sul pavimento c'era uno splendido tappeto e alle pareti facevano bella mostra di sé degli arazzi, veri e propri capolavori che mostravano ogni aspetto delle esperienze umane. Tanta opulenza, apparentemente in contrasto con l'atmosfera domestica, mi stupì. Dalla stanza accanto, senza dubbio la cucina, giunse una giovane donna che si toglieva la farina dalle mani e dalle braccia. Come una pioggia d'argento, la polvere cadde sul folto tappeto marrone. Arricciò il naso e starnutì, scusandosi. «Vi ho atteso per quella che mi è parsa un'eternità, mio signore.» Non riuscivo a parlare. Stavo fissando una della mia razza. Aveva una straordinaria bellezza aquilina, occhi obliqui e piccole, delicate orecchie lievemente appuntite. Gli occhi erano rossi come fragole appena colte in una pelle color avorio sbiancato. I lunghi capelli nivei le scendevano sulle spalle in morbide onde. Indossava una semplice camicia e calzoni alla zuava, su cui aveva annodato un ruvido grembiule di lino. E stava ridendo di me. «A quanto vedo il mio amico Jermays vi ha messo sulla strada giusta.» «Chi era quell'omino?» «Può darsi che lo incontriate di nuovo.» «Può darsi.» «Capita a tutti. Spesso quando le nostre storie cominciano a mutare. Ac-
cade anche che il destino di qualcuno cambi radicalmente. Così nasce un nuovo racconto. Un nuovo mito da intrecciare al vecchio. Un nuovo sogno.» «Tutto questo io lo sto sognando. Sto sognando voi. Quindi sto sognando anche questa conversazione. Ciò significa che sono pazzo? Il maleficio che mi relega al sonno ha forse intaccato anche il mio cervello?» «Oh, in qualche modo tutti ci sogniamo l'un l'altro, principe Elric. Sono i nostri sogni e le nostre aspettative rispetto a essi che ci hanno resi tanto vari e in disaccordo con così tanto e così tanti!» Anche la gestualità della ragazza aveva un che di familiare. «Mi fareste l'onore, signora, di dirmi il vostro nome?» «I ladri di sogni e i mutanti in mezzo a cui sono cresciuta mi chiamano Sorella Lepre Bianca. Mia madre, però, mi chiama Oona, secondo l'uso della sua gente.» «E il nome di vostra madre è Oone?» «Oone la Ladra di Sogni. E io sono Oona, la figlia della ladra di sogni. E Oonagh sarà il nome di mia figlia.» «La figlia di Oone?» Esitai. «E mia?» Mentre mi si avvicinava rideva apertamente. «Mi sembra alquanto verosimile, non ti pare?» «Non sapevo ci fosse stata... prole.» «E una 'prole' alquanto straordinaria, te lo assicuro, padre!» Quella parola mi colpì con la forza di un'ondata di marea. Padre! Un colpo emozionale peggiore di qualsiasi fendente. Avrei voluto negarlo, dire qualunque cosa potesse provare che stavo sognando. Cancellare la rivelazione. Ma gli occhi non potevano ingannarmi. Tutto in lei dimostrava che era figlia mia e di Oone. Avevo amato Oone per breve tempo. Insieme avevamo cercato la Fortezza della Perla. Ma mentre ricordavo quei fatti, un altro pensiero si affacciò nella mia mente. Un altro inganno! «Non è trascorso abbastanza tempo» dissi. «Sei troppo grande per poter essere mia figlia.» «Sul tuo livello, forse, mio signore, ma non su questo. Il tempo non è una strada. È un oceano. Credo che tu e mia madre abbiate celebrato la vostra amicizia qui, in questo reame.» Mi piaceva la sua ironia. «Tua madre...?» cominciai. «I suoi interessi non sono più in questi mondi, benché occasionalmente visiti la Fine del Tempo, per quanto ne so.»
«Ti ha partorita qui?» «Facevo parte di una coppia, mi disse.» «Un parto gemellare?» «Così mi ha raccontato.» «E chi nacque con te morì?» «Nessuno morì al momento del parto, ma poi accadde qualcosa che mamma non seppe spiegarmi e ben presto avvenne la separazione. Via lontano. Via lontano. Le uniche parole di mia madre. Non so altro.» «Sembri del tutto indifferente al proposito.» «Rassegnata, mio signore. Fino a poco tempo fa pensavo fosse con te, che te ne fossi occupato tu, ma ora so che, ovviamente, mi sbagliavo.» Si voltò di fretta e scomparve di nuovo in cucina. Il profumo della crostata di mirtilli verdi mi avvolse in un'unica, deliziosa folata. Avevo scordato i semplici piaceri della vita umana. Dato che si trattava di un sogno, non trovavo nulla di strano nell'essere invitato a sedere a un tavolo di cucina e a gustarmi un pasto a base di ottimo pane appena fatto, burro da poco tolto dalla zangola, del diandra e una bottiglia di salsa di pesciolini rossi, con la prospettiva della crostata e forse di una boccata di glas a completare il mio diletto. Nonostante tutti i trucchi di cui sapevo capace la Legge, neppure una volta sospettai più della giovane donna. E neppure della sensazione di sicurezza che emanava la sua casetta. Era impossibile. Sapevo che era sangue del mio sangue. Se fosse stata un inganno, una creatura mutante del Caos, l'avrei immaginato subito. Eppure una vocina in un angolo del cervello mi ripeteva che non avevo fiutato la stregoneria quando la Legge mi aveva sconfitto con tanta astuzia e sostanzialmente condannato al mio attuale destino. Che avessi perduto i miei poteri? Che me ne stessi accorgendo soltanto ora? Che si trattasse di un'altra chimera intesa a rubare quanto della mia anima era rimasto? Per temperamento non riuscivo a essere cauto. Con la cautela non si ottiene nulla. Avevo poche alternative in quella straordinaria casetta al centro della matrice argentata dei raggi di luna. «Dunque non hai idea di cosa sia accaduto a tua sorella?» «Mia sorella?» sorrise. «Oh, no, mio caro padre. Non mia sorella. È mio fratello quello che è stato perduto.» «Fratello?» Qualcosa in me ebbe un fremito. Qualcos'altro esultò. «Mio figlio?» «Pensavo fosse meglio che tu non lo sapessi, mio signore. Perché se è
morto, come temo, avresti sofferto di più.» Riflettei sul fatto che avevo saputo di avere un figlio solo per qualche secondo. Ero sotto shock. Ci sarebbe voluto un attimo o due prima che raggiungessi lo stadio della sofferenza! Guardai mia figlia con stupore. Provavo sentimenti diretti ma anche complessi. Con un impulso che avrebbe sconcertato e disgustato un melniboneano, feci un passo avanti e l'abbracciai. Rispose all'abbraccio con goffaggine, come se neppure lei fosse abituata a simili gesti, ma ne parve compiaciuta. «Allora sei una ladra di sogni» dissi. Lei scosse il capo con forza. Vidi decine di emozioni sincere e diverse passare sul suo viso. «No. Sono figlia di una ladra di sogni. Ne ho l'esperienza e alcune capacità, ma non la vocazione. In realtà, padre, a essere sincera sono in un certo qual modo divisa. Parte del mio carattere non si accorda del tutto con la moralità della professione di mia madre.» «Be', tua madre mi è stata di grande aiuto quando insieme siamo andati alla ricerca della Fortezza della Perla.» Io stesso avevo anche troppa familiarità con le questioni morali e di dicotomia emotiva. «È una delle poche avventure che raccontava. Ti era insolitamente legata, se si considera il numero di amanti che ha avuto nel corso dei secoli e nell'intero arco del tempo dei tempi. Suppongo tu sia l'unico da cui ha avuto figli.» «Un affetto particolare o un particolare risentimento?» «Non ti ha mai voluto male, signore. Tutt'altro. Ha sempre parlato di te con grande piacere. Diceva che eri un grande guerriero. Un cavaliere coraggioso e cortese. Secondo lei saresti potuto diventare il più meraviglioso ladro di sogni che si fosse mai visto. Credo fosse questo il suo sogno speciale. Quale pensi sia il sogno più grande dei ladri di sogni, padre?» «Forse un sonno senza sogni» risposi. Ero ancora stupito dall'aver scoperto mia figlia. Una figlia la cui bellezza era sbalorditiva e il cui carattere, per quanto potevo vedere, pareva complesso e illuminato da una notevole intelligenza. Una figlia che mi aveva condotto là nella sua piccola Terra sul limitare del tempo. Il luogo dove era nata, mi aveva detto mentre pranzavamo. Mi assicurò che la foresta, che a me sembrava minacciosa, era invece piena di piacevoli meraviglie. Aveva trascorso un'infanzia perfetta, mi disse. Al pari di Tanelorn, la foresta e la casa erano in qualche modo protette dalla rapacità sia della Legge sia del Caos. Il luogo non era affatto
solitario. Come lei, molti degli amici di sua madre viaggiavano tra i mondi, e non c'era nulla che amassero di più di una bella serata intorno al camino a raccontare le storie udite e vissute in quei viaggi. A quindici anni era andata insieme a sua madre nei mondi dove Oone intendeva ritirarsi, ma non le erano piaciuti. Aveva deciso di trovare la propria vocazione, e nel frattempo di vagare per un po' nella miriade di reami del multiverso. Per dare uno scopo ai propri viaggi aveva cercato di scoprire se suo fratello fosse ancora vivo, ma l'unico albino di cui aveva sentito parlare era suo padre, il temuto e odiato Elric di Melniboné. Non aveva mai avuto un gran desiderio di incontrarlo. In seguito, però, ne aveva trovati altri. Una sorta di discendenza che stava ancora tentando di rintracciare. Sperava che questo le avrebbe fornito strumenti migliori per trovare il fratello. Riteneva che si fosse stabilito in un unico reame, simile a quelli amati dalla madre. E che non solo si fosse insediato là, ma avesse assorbito la cultura del luogo, si fosse sposato e avesse avuto degli eredi. In quell'attimo mi sentii invecchiato. Anche se riuscivo ad afferrare l'idea che il tempo passasse in modo diverso nei diversi reami, facevo fatica a considerarmi, ancora relativamente giovane, il patriarca di nuove generazioni. La sola responsabilità mi faceva sentire a disagio. Mi accorsi che su di me stava calando la stanchezza e mi chiesi se anche questo non facesse parte del complesso inganno della Legge, parte di una ben più vasta trama cosmica in cui giocavo un ruolo minore. Di nuovo mi sentii un pedone in una partita a scacchi. Una partita che gli dèi giocavano solo per scacciare la noia. Il pensiero mi accese di una rabbia sommessa. Se le cose stavano così, avrei fatto tutto ciò che potevo per mandare all'aria i loro piani. «Ti ho fatto venire qui, padre, non per curiosità ma per necessità. So come sei stato ingannato e perché.» Sembrava percepire il mio stato d'animo. «Miggea e i suoi tirapiedi minacciano Tanelorn e molti altri reami, incluso quello abitato dai tuoi discendenti.» «Una razza simile a quella di Melniboné?» «Simile al loro ultimo imperatore, quantomeno. In lotta contro le stesse forze che combattiamo noi, signore. Sono nostri alleati naturali. E ce n'è uno che può aiutarci a sconfiggere la Legge.» «Mia cara,» dissi con il tono più gentile che conoscessi «saprai forse che al di là di questo reame non ho una reale forma fisica. Sono un'ombra, un fantasma. Fuori da questo ambiente sono uno spirito. Sono, mia dolce si-
gnora, come morto. Non sarei in grado di sollevare un calice se non grazie alla temporanea fisicità che tu o questo luogo mi avete conferito. Il mio corpo giace in un profondo torpore da cui non può essere ridestato nell'ormai condannata città di Tanelorn, mentre Miggea, duchessa della Legge, è entrata in possesso della Spada Nera e può farne ciò che vuole. Sono sconfitto, mia cara. Ho fallito in ogni impresa. Sono un sogno all'interno di un sogno. Tutto questo non può essere altro che un sogno. Un inutile, ozioso sogno.» «Be',» disse raccogliendo i piatti «il sogno di una persona è la realtà di un'altra.» «Banalità, signora.» «Ma anche verità» replicò. Una sorta di fiduciosa rigidezza si era appropriata di lei mentre slacciava il grembiule e lo appendeva a un gancio. «Bene, padre, sei contento di vedermi?» I suoi occhi, ridenti e indagatori, fissarono con franchezza i miei. Cominciai a sorridere. «Credo di doverlo essere» risposi. «Anche se nessun melniboneano di stirpe reale lo ammetterebbe.» «Allora sono felice di non essere una melniboneana di stirpe reale» ribatté. «Sono l'ultimo della serie» spiegai «o almeno così mi è dato di capire.» «Già,» commentò «pare proprio che sia questa la verità. Melniboné cade, ma il sangue continua. Sangue antico. Antiche memorie.» «Perdonami se ti sembro brusco» dissi «ma se non ho compreso male, lady Oona, avevi detto di avermi fatto venire qui per una questione urgente.» Facevo fatica a rivolgermi a lei in modo informale. «Con le mie capacità posso aiutarti, padre» annunciò. «Posso aiutarti a riprendere la spada e probabilmente anche a vendicarti di chi te l'ha rubata.» Dì nuovo avrei dovuto temere un trucco, ma mia figlia fu molto convincente. Sapevo che l'intero episodio poteva essere uno sviluppo dello stesso incantesimo di cui ero vittima da parte della Legge, ma pareva non potessi fare altro. Dovevo fidarmi di lei o rimanere bloccato su quel giaciglio a Tanelorn, incapace di recuperare la spada o reclamare vendetta su chi se ne era appropriato. «Conosci il futuro?» domandai con aria di sfida. Lei rispose pacata: «Ne conosco più di uno.» Mi spiegò come il multiverso sia formato da milioni di mondi, ognuno differente dal nostro solo per una lieve gradazione, una sfumatura. In tutti
questi mondi alcuni conducono un'eterna lotta per la giustizia. A volte per la Legge. A volte per il Caos. A volte semplicemente per la stabilità. La maggior parte delle persone non sa che anche altre versioni di sé stanno combattendo. Ogni storia è leggermente diversa. E solo molto di rado è possibile che nella storia si verifichi un cambiamento davvero notevole. A volte le forze possono venire combinate, ed era proprio quello che speravamo di ottenere grazie alla straordinaria strategia di mia figlia. Riteneva possibile che due o anche più avatara occupassero il medesimo corpo, se il corpo in questione era dello stesso sangue. Mi servivano un corpo fisico e una spada fisica. Lei pensava di avere trovato entrambi. Mi disse di von Bek, della sua spada e della battaglia che conduceva contro un'autorità corrotta. Spiegò che pensava che i nostri destini fossero intrecciati in questa particolare configurazione dei reami cosmici. Lui e io eravamo entrambi avatara dello stesso essere. Io potevo aiutare lui e lui poteva aiutare me, prestandomi il proprio corpo e la spada. Risposi che dovevo pensarci. Senza sognare, forse perché in quel momento vivevo in un sogno, rimasi a riposare nella casetta di Oona ai confini del tempo, nel cosiddetto Mittelmark. Mentre riposavo, mia figlia mi insegnò alcuni altri segreti dei ladri di sogni. Come viaggiare sulle strade tra i reami. Reami che ritenevamo soprannaturali ma che erano del tutto mondani e materiali per i loro abitanti. Possedeva la biblioteca di sua madre e fu in grado di mostrarmi antichi racconti, moderne idee scientifiche e teorie di filosofi, che definivano tutte i sogni come finestre su altri tempi e luoghi. Alcuni di quei filosofi avevano compreso ciò che Oona sapeva: che i mondi dei nostri sogni hanno una realtà fisica e non possono essere manipolati facilmente, che ognuno di noi ha una versione di sé in tutti quei miliardi di mondi alternativi e che in qualche modo le nostre azioni sono concatenate a creare una più vasta unità cosmica la cui grandezza è inconcepibile, uno schema ordinato che sosteniamo o minacciamo, a seconda delle nostre attitudini e ambizioni. Un mattino, sfogliando un album di acquarelli realizzati da un antenato di Oona, chiesi a mia figlia se davvero credeva che in qualche modo potessimo sognarci l'un l'altro. Esistevamo davvero solo in quanto esito della nostra propria volontà? Trasportavamo noi stessi e il nostro mondo nella realtà grazie a un qualche possente desiderio, più forte dell'universo fisico? O era forse ipotizzabile che fossimo già stati noi a creare l'universo? O addirittura il multiverso? Che il grande albero fosse qualcosa che i mortali avevano coltivato finché era sfuggito al loro controllo?
E se le cose stavano così, eravamo stati noi a creare anche gli dèi, l'Equilibrio Cosmico, gli elementi? Non riuscivo a convincermi di ciò. Avrebbe significato che ci eravamo forgiati da soli le nostre catene, oltre a esserci creati gli strumenti per la salvezza! Avrebbe significato che gli dèi non erano che simboli dei nostri punti di forza, delle debolezze e dei desideri! Proposi queste considerazioni a mia figlia, ma le respinse. Le aveva ascoltate anche troppo spesso. Servivano a ben poco, pareva dire. Siamo qui. Quale che sia la causa o la ragione, ora esistiamo e dobbiamo sfruttare al meglio il tempo di cui disponiamo. Mi ricordò il motivo per cui mi aveva fatto giungere nella sua casa. «Quando sarai libero» disse «sarai in grado di fare tutto ciò che potevi fare prima. A Mu Ooria non ti sarà impedito il contatto con i tuoi alleati elementari. Von Bek possiede una delle materializzazioni di Tempestosa. L'unico modo per recuperare la tua spada è attraverso di lui. Con l'aiuto di von Bek potrai riavere la tua lama e salvare Tanelorn. Io ti aiuterò come posso, ma i miei poteri sono limitari. Ho le capacità di mia madre ma non il suo temperamento.» La mattina successiva ero accanto a lei mentre chiudeva la porta e dava le ultime istruzioni al cane e all'uccellino, che l'ascoltavano con espressione intelligente. Poi si rivolse a me come se stessimo andando a fare una gita di famiglia in campagna: «Prenderemo le strade dei raggi di luna che portano al cuore del multiverso. Ai Feudi Grigi. E da lì a Mu Ooria, mio caro padre, e al tuo successivo destino.» I Feudi Grigi? Non tenterò di descrivere quel luogo, che secondo molti è l'origine di tutte le cose, la materia fondamentale del multiverso, campi nebbiosi dove si scorgono strisce di sostanza essenziale che creano criptici arabeschi, che si contorcono e pulsano in continuazione, formandosi e riformandosi, divenendo interi mondi che poi di nuovo svaniscono, e, cosa forse più bizzarra, sono abitati da avventurieri folli che non devono lealtà né alla Legge né al Caos, ma solo ai propri eccentrici calcoli. Tipi abbastanza amabili e splendidamente intelligenti, in grado di raggiungere ogni punto del multiverso grazie a 'navi delle gamme', ma storpiati dall'ambiente in cui vivevano in una forma di corpo e mente. Se appena era possibile, cercavamo di evitare quei signori e signore del Sublime Disordine. Anche loro sapevano che un grave disastro minacciava tutti noi. Che la Legge era impazzita. Gli Ingegneri del Caos ci avevano guidati attraverso gli sconcertanti
Feudi Grigi fino al terribile mondo dei nazisti. Da quel momento, ero rimasto con von Bek per la maggior parte del tempo, anche se di rado lui riusciva a vedermi. Divenni il suo angelo custode: la sua vita era molto importante per me. Seguendo le istruzioni di Oona ero stato in grado di aiutare il mio doppio nel campo di prigionia e in seguito nelle caverne di Mu Ooria, dove scoprii che ciò che mia figlia mi aveva raccontato era vero: mi era possibile fondermi con von Bek. Avevo continuato a mantenere qualche traccia di potere anche prima della fusione, ma con il contributo di von Bek avevo completamente recuperato le mie facoltà. Eravamo più della somma di due parti. Insieme eravamo più forti, anche se non era facile ottenere quel legame né mantenerlo. Più di una volta avevo già tentato di unirmi a lui, ma o aveva resistito o il momento non si era rivelato propizio. In due occasioni ero quasi riuscito, ma poi l'avevo perso di nuovo. Infine, quando aveva avuto maggiormente bisogno del mio aiuto ed era stato pronto ad accettare quanto avevo da offrirgli, ero entrato nel suo corpo, proprio come mi aveva spiegato Oona, e subito eravamo diventati un'unica creatura, l'essere che ho già descritto. Mi ero fuso con lui, avevo unito le sue capacità e la sua personalità alle mie. E ora potevo beneficiare della saggezza e dell'abilità nel maneggiare la spada di von Bek. Così ero riuscito a tornare a Tanelorn. Quello era runico modo in cui avrei potuto tentare di spezzare il maleficio di cui ero vittima. Il tempo era poco. Anche se eravamo tornati presto, lady Miggea e i suoi cavalieri potevano aver già lasciato quel mondo e, con l'aiuto di Tempestosa, essersi lanciati alla conquista di Mu Ooria. Brut ci diede i suoi cavalli migliori. Maldiluna e io uscimmo da Tanelorn verso quelle inesorabili pianure di cenere, le cui sentinelle di calcare ci ricordavano costantemente la nostra mortalità. Seguendo il consiglio di Oona e il mio stesso impulso, deciso a ottenere l'impossibile, stavamo andando a caccia. A caccia di una dea. RECENTI TRADIMENTI Un gelo intenso era sceso su quel mondo. Non c'era nulla di vivo. Quando la brezza faceva turbinare la cenere o sfaldava le rocce creando quella che pareva una nevicata, la mancanza di vita era più che evidente. Quello di Miggea non era un deserto qualunque. Era formato dai resti di
un mondo distrutto dalla Legge. Sterile. I falchi non si libravano nel cielo azzurro. Non c'era traccia di vita animale. Non un insetto. Non un rettile. Niente acqua. Niente licheni. Nessuna pianta di nessun genere. Solo lunghi spuntoni di cenere cristallizzata e calcare, che il vento erodeva e foggiava in forme assurde, simili a tante grottesche pietre tombali. La fredda mano della Legge era piombata su ogni cosa. La Legge aveva ottenuto tale desolazione agendo al peggio di sé. Quella compostezza di morte. Anche l'umanità giunge inevitabilmente allo stesso risultato quando tenta di tenere troppe cose sotto il proprio controllo. Maldiluna aveva insistito per accompagnarmi e io non avevo rifiutato. Fatto insolito, sentivo il bisogno di non essere solo. Il cameratismo di Maldiluna era una cosa che apprezzavo molto. Si accorgeva sempre quando ero negativo al massimo, quando mi autocommiseravo in modo eccessivo, e diceva qualcosa di ironico per farmi notare la mia stupidità. Era anche un valente schermitore, che aveva combattuto stregoni oltre che soldati, l'uomo più fidato da avere al proprio fianco in qualunque tipo di contesa. Mentre cavalcavamo, tentai di spiegare al mio in qualche modo riluttante amico che ero diventato due persone, due entità del tutto diverse con però lo stesso sangue, racchiuse insieme in un corpo quasi identico. Grazie a quell'unione avevamo rotto l'incantesimo di lady Miggea. Grazie al fatto che ero entrato nel mondo dei sogni e avevo trovato una versione alternativa di me stesso. Tutto ciò mise parecchio a disagio l'elwheriano. «Due persone in conflitto dentro di te?» Rabbrividì. «Essere uniti fisicamente, un unico corpo con due teste, è una cosa, ma essere uniti nella mente! Sempre in lotta...» «Non siamo in conflitto» spiegai. «Siamo uno. Come uno scrittore, per esempio, che inventa un personaggio, il quale vive tranquillamente dentro di lui, senza problemi. Per me e von Bek è lo stesso. In un mondo più familiare a lui, prenderà il sopravvento, ma qui, in un ambiente che io posso comprendere meglio, ho assunto il comando. Condividiamo anche dei ricordi: l'intero essere dalla nascita a oggi. E credimi, amico mio, ci sono meno contrasti tra von Bek e me che tra me e me stesso!» «Ah, questo non è difficile da credere, mio signore» commentò Maldiluna, che fissava a occhi socchiusi la foresta di pietra. Senza acqua non potevamo spingerci troppo lontano. Avevamo grandi borracce, sufficienti per parecchi giorni, ma nessuna certezza che qualcuno dei nostri nemici si trovasse ancora là. Di sicuro lady Miggea intendeva
usare la spada in un modo ben preciso, che faceva senza dubbio parte dei suoi piani di ulteriori conquiste. Tutto ciò che potevamo fare era seguire le deboli tracce lasciate dal suo esercito, sperando di trovare qualche indizio che ci portasse a scoprire dove era andata con la mia lama. Il cielo era di un blu semi opaco assoluto. Non avevamo modo di conoscere la direzione se non facendo caso alla forma delle varie rocce che superavamo, sperando di riconoscerle al ritorno. A meno di una giornata dalla città cominciammo a scendere in un'ampia vallata poco profonda, che si estendeva per molti chilometri da ogni lato. Quando fummo all'incirca nel mezzo, mentre ci accingevamo a girare attorno a un grosso blocco di roccia erosa dal vento, lontano davanti a noi scorgemmo una costruzione grottesca, chiaramente opera di esseri intelligenti, ma che rivelava una folle crudeltà. Il vento secco sibilava attraverso un palazzo fatto di ossa. Molte di quelle ossa avevano ancora attaccati brandelli di carne in putrefazione. Ossa di cavalli. Ossa di uomini. A quanto pareva erano le ossa di tutti quei Cavalieri della Legge che poco tempo prima ci avevano minacciati. Che si erano mossi con fragore e vigore, che si erano precipitati all'inseguimento della piccola lepre bianca. Le armature argentee erano sparse attorno alla costruzione, migliaia di corazze, elmi, gambiere, cosciali e manopole. Lance e spade giacevano semi sepolte sotto la pallida cenere. Miggea si era attesa il sacrificio supremo dai suoi leali seguaci, e l'aveva ottenuto. Ma contro cosa aveva costruito quella fortezza? E si trattava davvero di una fortezza? Non aveva forse funzione di prigione? Mentre ci avvicinavamo il vento cominciò a sospirare più triste che mai attraverso quelle ossa non del tutto scarnificate, trasformandosi in un luttuoso ululato che riempì il mondo di disperazione. Rallentammo i cavalli e ci muovemmo con maggiore cautela, passando in rassegna le basse colline circostanti per avvistare i lupi. Non ce ne erano. Ci accostammo al torreggiante palazzo di ossa. Maschi e volte, merlature e contrafforti, tutto era stato realizzato utilizzando i corpi, vivi fino a poco prima, di uomini e cavalli, da cui strisce di carne, di pelo e di stoffa garrivano come bandiere al soffio irregolare del vento. E il terribile ululato non cessava. Era tutto il dolore di tutti i reami del multiverso. Tutta la frustrazione. Tutta la disperazione. Tutte le ambizioni ferite. Le ossa accatastate a formare le mura del palazzo erano così fitte che non riuscivamo a vedere all'interno, ma dietro di esse ci parve di scorgere
un movimento. Una figura solitaria. Forse un'illusione. «L'ululato viene da dentro, mio signore.» Maldiluna piegò il capo di lato. «Da un punto molto all'interno di quella casa di ossa. Ascolta.» Era più bravo di me a individuare la fonte dei suoni, anche se il mio udito era più acuto. Non avevo motivo di non credergli. Qualunque cosa fosse a ululare, o era intrappolata nel palazzo di ossa oppure ne era stata posta a difesa. Che Miggea fosse rimasta lì, ancora con l'aspetto di una lupa? Questo avrebbe potuto spiegare i lamenti e la frustrazione. Ma cosa aveva rovinato i suoi piani? Di nuovo avemmo l'impressione di scorgere un movimento, questa volta dall'interno del palazzo, come se qualcosa lo percorresse nervosamente avanti e indietro. Ci portammo ancora più vicini, fino a quando la costruzione torreggiò su di noi. E a quel punto potevamo sentirne l'odore. Dolciastro, nauseabondo, orribile. Il puzzo della carne in putrefazione. Ci fermammo davanti al grande ingresso centrale. Nessuno dei due desiderava affrontare ciò che stava all'interno. Poi, quando ormai eravamo quasi riusciti ad autoconvincerci a smontare da cavallo e a entrare, da dietro un contrafforte apparve un'altra figura umana. Portava ancora addosso degli stracci colorati e reggeva una spada in ogni mano. Spadoni dalla lama a forma di foglia. Una aveva il colore dell'avorio antico, con rune nere per l'intera lunghezza, l'altra era Tempestosa, tutta ferro nero pulsante e rune scarlatte. L'uomo che le portava era il principe Gaynor di Mirenburg. Indossava una mezza corazza a specchio sopra i frusti resti dell'uniforme da ss. Rideva di cuore. Finché estrassi la mia Brandocorvo. Il fiato gli uscì di bocca con un sibilo. Si guardò attorno, come alla ricerca di alleati o di nemici, poi tornò a fissarmi. Si sforzò di sorridere. «Non sapevo ci fosse una terza spada» disse. Comprendevo dal suo sguardo che stava cercando di organizzare una nuova strategia. «Non c'è nessuna terza spada» gli spiegai «e neppure una seconda. Sei in malafede, cugino. La spada è una sola. E tu l'hai rubata. Alla tua padrona, vero?» Si guardò le mani. «Si direbbe che di spade ne abbia due, cugino.» «Una, come ben sai, è un farun, una spada falsa, forgiata per attirare le proprietà dell'originale e assorbirle. Può rubare le anime degli uomini oltre che delle spade. È una sorta di specchio, che fa propria l'essenza delle cose a cui più somiglia. Di certo è stata Miggea a creartela. Solo un nobile dei
Mondi Superiori è in grado di realizzare un oggetto del genere. Stupidamente non avevo previsto una congiura e un piano tanto elaborati. «È stato così che avete ingannato Elric. E siete riusciti dapprima a impossessarvi della mia energia, poi della forza della mia lama, quindi della spada stessa. Alla tua seconda spada metto il nome di 'Ingannatrice' e ti chiedo di restituire i poteri che ha rubato. Mi hai battuto con un trucco, cugino, con parole e illusioni.» «Hai sempre avuto il sangue troppo caldo. Contavo sul fatto che non avresti saputo resistere a una sfida.» «Non mi comporterò più da sciocco» replicai. «Vedremo, cugino. Vedremo.» Continuava a lanciare occhiate a Brandocorvo, quindi passava a guardare Tempestosa, come preoccupato di cosa sarebbe potuto accadere se le due si fossero affrontate in combattimento. «Affermi che esiste un'unica spada, eppure...» «Una soltanto» confermai. Comprese le implicazioni delle mie parole. Benché non avesse studiato quanto me e non possedesse le mie capacità né la mia istruzione, i suoi padroni avevano una conoscenza intrinseca che superava di molto tutto il mio sapere. Tuttavia era colpito. Il ghigno di risposta fu quasi degno di ammirazione. «Una potente stregoneria» commentò. «E una strategia intelligente. Hai avuto un aiuto inaspettato, eh?» «Se lo dici tu, cugino.» Ero riluttante a usare la spada. Non avevo idea di quali sarebbero potute essere le conseguenze. Avevo la sensazione che attorno a me si stesse verificando uno straordinario movimento di forze soprannaturali, invisibili e ancora inespresse. Percepivo l'imminenza della stregoneria. Era facile, in una simile atmosfera, sentirsi poco più che una disperata pedina nell'immensa partita giocata dai signori dei Mondi Superiori, che alcuni affermavano essere sempre noi stessi al massimo della potenza e al minimo dell'assennatezza. Ripresi il controllo di me stesso. Piano piano, con tutta la pratica della disciplina appresa sia a Bek sia a Melniboné, allargai la mente fino a comprendere il maggior numero possibile di reami soprannaturali, percependo la presenza di amici insospettati e di potenti nemici. La risposta di Gaynor affogò in un profondo e luttuoso ululato proveniente dall'interno del palazzo di ossa. Lui reagì con una sonora risata. «Oh, è proprio una dea infelice!» esclamò allegro. «Una lupa così vecchia e triste. Una prigioniera delle proprie forze. Simpatica ironia, eh, cugino?» «Sei stato tu a farle questo?»
«Ho provveduto a che venisse fatto. Neppure io sono in grado di controllare una duchessa della Distanza, un'abitante dei Mondi Superiori.» Fece una pausa, come per modestia. «Io ho soltanto aiutato. Nel mio piccolo.» «Aiutato cosa? Chi?» «Il suo vecchio nemico» rispose. «Arioch, il duca del Caos.» «Ma tu servi la Legge! Arioch è il mio protettore!» «A volte alleanze di questo genere sono convenienti» disse facendo spallucce. «Il duca Arioch è un tipo ragionevole, per essere un signore degli Inferi. Quando è stato chiaro che la mia patrona non era più in possesso delle proprie facoltà mentali, ho semplicemente fatto un patto con quel maestro dell'Entropia per mettere la mia padrona di un tempo sotto la sua custodia. Cosa che accadrà non appena gliela consegnerò. Ingannare lei, principe Elric, è stato persino più semplice che ingannare te. La povera creatura è ormai senile. Ha perduto il senno. Non portava più onore alla propria causa, solo rovina. Dovevo salvare il buon nome della Legge. Era tempo che si ritirasse in un luogo adatto. I suoi seguaci non le erano più di alcuna utilità, quindi sono divenuti la sua casa. Pensava di andare sull'isola di Morn...» «Non sembra apprezzare molto la sistemazione» disse Maldiluna. «In realtà si comporta come se l'aveste imprigionata.» «È per il suo bene» spiegò Gaynor. «Stava diventando un pericolo per sé e per gli altri.» «Uno scopo così altamente morale» commentai. «E intanto tu le rubi la spada per ottenere la quale ha combattuta contro di me.» «Il piano era mio, dunque è mia anche la spada» replicò. «Soltanto la magia era opera sua.» Reggendo la spada bianca per l'elsa si tolse le ultime sciarpe colorate, come se non gli servissero più. «Le sue ambizioni non erano realistiche. Io, invece, sono realista all'ennesima potenza. E ben presto avrò tutto ciò che cercavo. Tutti gli antichi, mistici tesori dei nostri antenati. Tutti i maggiori oggetti di potere. Tutti i leggendari simboli della nostra razza. Ogni cosa che ci garantisca vittorie e sicurezza per i prossimi mille anni. Il tempo di Herr Hitler finirà presto. Verrà ricordato come il cavaliere imperfetto, il mio predecessore.» Mi lanciò una folle occhiata d'intesa, come se io fossi l'unico essere in grado di apprezzare la sua intelligenza e la logica delle sue ambizioni. «Mi dimostrerò il loro Parsifal. Il loro vero Führer. Perché per allora a-
vrò la spada e il calice e sarò in grado di mostrare al mondo che regnare e governare è il mio indiscutibile destino. Tutta la cristianità, a est e a ovest, si radunerà sotto la mia bandiera. Arioch me l'ha promesso. Non avrò oppositori, perché il mio potere sarà sia temporale sia spirituale. Diventerò il vero principe del sangue, capo delle genti teutoniche, e ripulirò il mondo nel nome della nostra santa disciplina. E allora inizierà l'Età dell'Oro. L'Età del Supremo Reich.» Simili sciocchezze mi suonavano familiari. Ne avevo sentite a centinaia negli anni prima e dopo che Hitler salisse al cancellierato. Nonostante tutta quella pomposità, sembrava stesse giocando una partita da novellino. Giochi del genere spesso procedono a grande velocità, che di mezzo ci sia una scacchiera o l'intero mondo, proprio per la mancanza di senso logico a monte delle strategie attuate. Non è possibile prevederle o controbatterle razionalmente. Alla fine, però, si condannano da sé e vengono sempre sconfitte. Mi interessava molto di più quello che aveva detto prima. «E come» domandai «hai stretto un patto con il mio patrono, Arioch del Caos?» «Miggea non era più affidabile e quindi neppure utile ai miei scopi. Per un'eternità Arioch ha desiderato ardentemente vendicarsi della sua vecchia nemica. L'ho scovato e mi sono offerto di aiutarlo a raggiungere questo livello. Poteva farlo solo con il concorso di un essere umano. È stato più che felice di effettuare ciò che gli proponevo e l'ha intrappolata qui. Non se ne può andare, perché non le resta nessuno che possa aiutarla. Se tu dovessi tentare di liberarla, tradiresti il tuo giuramento, non curandoti del volere del tuo demone protettore.» Aveva alzato la voce con una gioia malevola, per essere udito anche dalla prigioniera. Una volta di più l'aria si riempì di quel terribile ululato. Furibondo, levai alta la mia spada nera e diedi di sprone al cavallo contro mio cugino. Lui ricominciò a ridere, restando fermo dov'era anche mentre cavalcavo nella sua direzione. «C'è un'altra cosa che ho scordato di menzionare, cugino.» Incrociò le due spade davanti a sé, come a proteggersi dal mio attacco. «Non faccio più parte del tuo sogno.» Quando le spade formarono una X, una strana luce gialla e nera prese a pulsare e a espandersi da esse, riuscendo quasi ad accecarmi e impedendomi quindi di vedere Gaynor con chiarezza. Sollevai una mano per schermarmi gli occhi, la spada era pronta. Lui però si era trasformato in
un'ombra che si spostava lesta e si allontanava da me a gran velocità, circondata da una luce violenta e guizzante. Passò tra due rupi scoscese e scomparve. Lo inseguii a cavallo, girando attorno al grande palazzo di ossa mentre la lupa continuava il suo perpetuo lamento, e quasi lo afferrai. Di nuovo incrociò le due spade e di nuovo esse pulsarono di quella disorientante luce gialla e nera. Accecato dalla luce, assordato dall'ululato, persi di nuovo di vista Gaynor. Udii Maldiluna gridare qualcosa. Mi guardai attorno alla ricerca del mio amico ma non riuscii a vederlo. Altre ombre correvano avanti e indietro di fronte a me. Il cavallo si arrestò, s'impennò e prese a nitrire. A stento riuscii a trattenerlo e a calmarlo. Era ancora nervoso, spostava il peso da un piede all'altro e sbuffava. Poi ci fu un'esplosione d'argento, una polvere morbida, narcotica, che sommerse tutto. Quindi, di colpo, il silenzio. Sapevo che Gaynor se ne era andato. Dopo un po', la lupa riprese a ululare. Maldiluna suggerì di chiamare Arioch. «È l'unica mossa che ci permetterebbe di inseguire Gaynor. Ora Arioch può andare e venire a piacimento in questo reame. Il potere di Miggea non gli è più di ostacolo.» Quando gli feci notare che di solito Arioch richiedeva un sacrificio cruento in cambio della sua venuta e che lui, Maldiluna, era l'unica altra anima mortale vivente nelle vicinanze, il mio amico si mise a pensare a soluzioni alternative. Proposi che invece di restare là ad ascoltare l'eterno lamento di Miggea tornassimo a Tanelorn a chiedere consiglio ai cittadini. Se un sacrificio umano fosse stato davvero necessario, perlomeno avrei potuto uccidere un avvocato-stregone in esilio e guadagnarmi facile popolarità presso la maggioranza degli abitanti. Quindi voltammo i cavalli, nella speranza di raggiungere la città prima che facesse buio. Quando scese la notte, però, ci accorgemmo di esserci miseramente persi. Come avevamo temuto, distinguere una colonna di cenere dall'altra si era rivelato impossibile. Il vento le riscolpiva in continuazione. Fu con grande sollievo, quindi, che qualche ora dopo, con le stelle come unica fonte di luce, udimmo qualcuno chiamare il nostro nome. Riconobbi la voce immediatamente. Era quella di mia figlia. Oona ci aveva trovati. Mi congratulai con me stesso per l'intelligenza dei miei parenti.
Poi ci ripensai. Poteva trattarsi di un altro inganno. Avvertii Maldiluna di procedere con molta cautela, in caso fosse una trappola. Alla luce delle stelle, che si riflettevano sul deserto luccicante, vidi la silhouette di una donna a piedi con arco e frecce in spalla. Cominciavo a credere che Oona avesse dei mezzi di trasporto più soprannaturali di un cavallo. Di nuovo mi scoprii a guardarla con attenzione. La pelle candida aveva una tonalità calda sconosciuta alla mia. I capelli soffici erano lucenti. Aveva in sé molto di sua madre, una naturale vitalità di cui non avevo mai goduto. Avevo ammirato, rispettato e amato Oone la Ladra di Sogni per un breve periodo, quando le nostre strade si erano incrociate. Avevamo rischiato la vita e l'anima per una causa comune. E alla fine eravamo arrivati ad amarci e a desiderarci. Il sentimento che provavo per mia figlia, però, era del tutto diverso, un'emozione decisamente più profonda. Mi sentivo molto orgoglioso di Oona, ero felice che somigliasse tanto alla madre. Mi auguravo che i caratteri umani fossero meno pesanti di quelli dei suoi antenati melniboneani. Speravo che avesse meno conflitti interiori di me. Suppongo di averla persino invidiata. Era anche possibile che tutti noi fossimo condannati in eterno al conflitto, ma forse il Fato garantiva ad alcuni un po' più di tranquillità che ad altri. Il sentimento più forte che provavo, anche in circostanze tanto pericolose, era un sereno affetto, la sensazione che se avevo qualche virtù, grazie al mio sangue era stata trasmessa da un'anima all'altra. E che forse i miei vizi si erano atrofizzati al punto di non essere riscontrabili in quello stesso sangue. Dai più remoti meandri degli antichi insegnamenti ricevuti emerse una reazione tutta melniboneana di fronte ai propri figli, la spinta a respingere ogni sentimento affettuoso che avrebbe indebolito entrambi, ad allontanarmi da lei. Resistetti a quegli impulsi. La mia autodisciplina era costantemente messa alla prova, continuamente temprata e fortificata. «Pensavo foste di nuovo caduti preda di Gaynor.» Pareva sollevata. «So che fino a poco fa era ancora qui.» Le raccontai cos'era accaduto a Miggea. Descrissi torvo il trucco di Gaynor con le spade, la sua fuga. Lo maledii dandogli del traditore perché aveva voltato le spalle alla propria padrona per rivolgersi al mio protettore, il duca Arioch. E avrebbe tradito anche lui, se gli avesse fatto comodo. Al che Oona si mise a ridere di cuore. «Si comporta proprio seguendo lo stereotipo dei soggetti di quel genere» disse. «Non c'è speranza per quella
povera anima. Nessuna redenzione. Sta correndo a testa bassa verso la dannazione. Ci si è convertito. Il tradimento per lui sta diventando un'abitudine, ma ben presto si trasformerà in una forma di assuefazione, in necessità, e allora sarà inesorabilmente perduto. Affermando che si tratta di semplice buon senso, tradisce la Legge in nome dell'Equilibrio e tradisce l'Equilibrio in nome dell'Entropia. È inevitabile che tradisca Arioch. E allora sarà un ben triste rinnegato. Per il momento è però vero che sta ottenendo un certo potere.» «Dunque non c'è modo di sconfiggerlo» commentai. «Distruggerà Mu Ooria e quindi anche il suo stesso mondo.» Mentre smontavo da cavallo Oona mi tenne le redini. La abbracciai un po' goffamente. Pareva di buon umore. «Oh,» disse «penso che abbiamo ancora una buona opportunità di contrastare le ambizioni di Gaynor.» Maldiluna fece un sorrisetto. «Sei proprio un'ottimista, mia signora, lasciatelo dire. Devi avere una gran fiducia nel potere della fortuna.» «Questo è vero,» assentì «ma credo che per il momento sarebbe più saggio affidarsi al potere dei sogni. Mentre vi affrettate a raggiungere Tanelorn, farò visita alla dea imprigionata. Sei libero di abitare il tuo corpo, ora, padre, e lasciare al povero conte von Bek l'intimità e l'inviolabilità del suo, che ha faticato anche troppo ultimamente.» Detto questo fece un balzo nella direzione da cui provenivamo noi e ben presto scomparve alla vista. Il sole iniziò a riversare luce scarlatta su quel desolato orizzonte, rivelando in lontananza i tetti e le torrette dell'amata Tanelorn. Uscito a cavallo per darci il bentornato, c'era il più strano gruppo di guerrieri che avessi mai visto. In testa si notava Fromental, con la solita uniforme della Legione Straniera. Dietro di lui cavalcavano i tre nobili dall'aspetto animalesco, Bragg, Blare e Bray, mentre a quattro zampe e decisamente bizzarro con tutti i suoi pizzi e merletti, trotterellava lord Renyard. Fu il primo a salutarci. Avevano saputo della nostra ricerca e ci erano venuti in aiuto. Raccontai loro delle nostre avventure e suggerii di tornare tutti a Tanelorn per rifocillarci e riposare un po', ma quell'eterogenea comitiva fu irremovibile. Erano arrivati direttamente dalle Pietre di Morn per saldare i conti con Gaynor. Volevano trovare il modo di seguirlo, e forse Miggea li avrebbe aiutati. Rassegnato, diedi loro le indicazioni necessarie, augurando buona fortuna. Il mio scopo era salvare Tanelorn, non inseguire Gaynor, ma non ave-
vo obiezioni sul fatto che volessero vendicarsi di lui. I miei pensieri erano altrove. Ben presto sarebbe giunto per me il momento di rientrare nel mio corpo e lasciare che von Bek facesse ciò che poteva del proprio destino, nella lotta contro il nemico comune. LIBRO TERZO Due lunghi canti per la prole del pallido signore, Due brevi menzogne a camuffar fattezze, Cantate vero, vero, vero per l'uccello candido come neve. Il mio eburneo figlio ora giace morto, Gli occhi profanati, svuotato da ogni sconforto; Cantate falso, falso, falso per l'eburneo figliolo. La lepre bianca si muove lesta contro il sole calante. Ad abbracciare va due ombre scure; Una cenciosa, l'altra pizzi e bordature. Si affretta lungo il corso del vecchio fiume, Lesta contro il sole calante, La dolce bestiola corre elegante Dove le devastate terre cineree si dibattono, Fin dove la cenere inonda il terreno devastato. Selvaggia e libera contro il sole ormai calato. Wheldrake, La lepre selvatica DOVE INIZIA IL MULTIVERSO Tanelorn era una trionfante macchia di calore vitale su quell'infinita distesa di cenere. Mi chiedevo quanto a lungo sarebbe rimasta intrappolata in questo reame di morte, conquistato dalla Legge, ogni traccia del Caos interamente cancellata. Prima o poi l'incantesimo di Miggea si sarebbe affievolito e la città avrebbe fatto ritorno alla sua collocazione naturale. Provavo sensazioni contrastanti mentre, insieme a Maldiluna, cavalcavo sotto il basso portale per essere accolto dai nostri amici. Dicemmo loro che pensavamo Tanelorn non fosse più in pericolo, ma i pericoli corsi da altri luoghi in cui avevamo riposto affetto e fedeltà erano gravissimi. Mu Ooria era
ancora minacciata, sempre ammesso che a quel punto non fosse già caduta. E la mia Germania era ancora nelle grinfie di un tiranno pazzo. Era difficile mantenere la concentrazione quando così tante questioni restavano irrisolte. Fu con profonda ansia che smontai da cavallo davanti alla casa di Brut di Lashmar e porsi le redini allo stalliere. Mi auguravo che Fromental e la sua insolita brigata avessero successo, anche se ne dubitavo. La partita che stava giocando Gaynor era molto più ambiziosa di quanto avessi creduto. Come noi di Melniboné avevamo scoperto a nostre spese, non era mai saggio mettere la Legge contro il Caos nella speranza di raggiungere i propri obiettivi mortali. Nessun essere, umano o melniboneano che fosse, avrebbe mai potuto comandare o contenere quel tipo di potere dominato dagli dèi. Essere coinvolti in tal modo nelle loro lotte significava distruzione sicura. A una parte di me importava ben poco che quegli esseri inferiori vivessero o morissero, ma un'altra parte comprendeva l'esistenza di un legame comune, di una minaccia comune e che il mio destino era strettamente legato a quello della razza che aveva fondato i Regni Giovani. Capivo anche che il senso di comunità non era dato dall'appartenenza a un'unica stirpe, ma era una questione di intelletto e inclinazione, e che se la mia cultura era del tutto aliena a quegli umani, tuttavia come individuo intrattenevo rapporti di amicizia più profondi con loro che con gli appartenenti alla mia etnia. L'isolamento e l'arroganza di Melniboné avevano creato in me un eterno conflitto. Come il multiverso, anche la mia mente ben di rado era ferma e tranquilla. Mi sentivo costantemente diviso tra le opposte forze che vincolavano la realtà, i sempiterni paradossi della vita e della morte, della guerra e della pace. E tuttavia, se era la pace che cercavo, perché non mi ero mai stabilito nell'amena Tanelorn, dove avrei trovato amici, libri, musica e ricordi? Perché a volte bramavo il conflitto, e poi il successivo e quello dopo ancora? Per la cieca violenza, l'amaro oblio del campo di battaglia? Fummo accolti da Brut, a disagio ma felice di vederci. «Per quanto ancora dovremo patire questo dannato maleficio?» «Il potere di Miggea è stato sconfitto. O quantomeno ridotto. Non dovrebbe volerci molto perché possiate rivedere il panorama che vi è familiare.» Ma l'interrogativo di Brut sembrava un problema secondario, considerando il crescente potere di Gaynor. Restammo da Brut il tempo necessario a rinfrescarci, poi arrivò anche Oona, di poche parole, lo sguardo duro. «Dobbiamo iniziare subito» fu
tutto ciò che disse. In balia di una tempesta di sentimenti contrastanti ci recammo alla Torre della Mano, l'insolita costruzione rossa le cui merlature erano simili alle dita di una mano stesa in avanti in un gesto di pace. Dove il mio corpo giaceva ancora in un torpore stregato. Riconosciuti dalla guardia, entrammo dal basso portone e iniziammo a salire la ripida scaletta che portava a un labirinto di corridoi. Era Oona a fare strada, il passo lieve e sicuro. Io le stavo dietro, un po' più lento, e Maldiluna rimaneva in retroguardia. Aveva l'aria di un uomo che aveva visto troppe stregonerie e non desiderava affatto essere testimone di altre. Farfugliava che avremmo dovuto andarcene da Tanelorn al più presto, per tornare al normale corso delle cose, lasciarci alle spalle tutto l'accaduto e fare ritorno alle solide realtà dei Regni Giovani, dove la magia, tutto sommato, era di proporzioni umane. Oona era scura in volto. «Ci saranno ben poche solide realtà se Gaynor conduce Arioch alle Pietre di Morn.» Di nuovo piombò in un inscalfibile silenzio. L'avevo già sentita parlare delle Pietre di Morn con Fromental, ma non avevo idea di dove fossero. Alla fine di uno stretto passaggio trovammo un'altra porta con davanti una guardia. Io mi fermai a riprendere fiato mentre Maldiluna scambiava quattro chiacchiere con l'uomo in servizio. Fingendo di avere problemi con la serratura, continuavo a temporeggiare. Poi sentii la mano di Maldiluna sul braccio e Oona con un sorriso mi fece un timido cenno di incoraggiamento. Spinsi l'uscio. Davanti a me giaceva il lungo corpo di un nobile melniboneano. Se non fosse stato per la pelle priva di colore, avrebbe potuto essere uno qualunque delle mie centinaia di antenati. I fini lineamenti contrastavano con la volgarità dell'abbigliamento. Le mani erano più lunghe e sottili di quelle di von Bek, l'ossatura del viso più marcata, le orecchie lievemente appuntite, la bocca sensibile, ironica. Gli abiti erano quelli di un barbaro del sud e sarebbero bastati a identificare quel corpo come mio. Per un certo tempo avevo deciso di non indossare il mio costume tradizionale. Persino i capelli lattei, legati sulla nuca, erano in stile barbaro. Il corpo giaceva abbigliato come nel momento in cui era caduto. Oona disse che nessuno aveva voluto cambiare nulla, nel caso mi fossi svegliato all'improvviso. Stivali al ginocchio in pelle di daino, barocca corazza d'argento, giustacuore a scacchi bianchi e blu, brache scarlatte, un pesante mantello verde. Accanto a me persino la custodia vuota. Una custodia molto migliore della guaina im-
provvisata che avevo realizzato per Brandocorvo. Benché quella figura fosse mia e familiare alla metà di me che era Elric, la osservavo con un certo distacco finché fui colto da un subitaneo moto emotivo e, facendomi avanti, mi inginocchiai accanto al letto e senza dire una parola afferrai la floscia mano simile a quella di una cadavere, incapace di esprimere l'intensa sensazione di empatia che mi consumava. Stavo piangendo per la mia anima tormentata. Cercai di riprendere il controllo, imbarazzato da quella sconveniente reazione. Presi Brandocorvo e la posi nella mano gelida. Stavo cominciando ad alzarmi, a dire qualcosa ai miei amici, quando all'improvviso l'altra mano dell'uomo addormentato afferrò la mia, tenendomi fermo dov'ero. Era immobile, immerso in un torpore profondo, stregato. Eppure non si poteva negare la forza della sua stretta. Mentre tentavo di divincolarmi, sentii le palpebre diventare sempre più pesanti e ciò che restava della mia energia dileguarsi. Desideravo soltanto dormire. Era una sensazione innaturale. Non potevo permettermi di addormentarmi. Che tipo di incantesimo si era mai lasciato alle spalle Gaynor, appositamente per me? Non ero in grado di sapere se in quel momento fosse importante che continuassi o che mi fermassi a riposare. Date le circostanze sembrava del tutto logico che mi sdraiassi sul pavimento accanto al letto e mi unissi al mio altro sé in un sonno di cui avevo quanto mai bisogno. Udii la voce preoccupata di Maldiluna farsi lontana. Udii Oona dire qualcosa a proposito della nostra salvezza e delle Pietre di Morn. Poi mi addormentai. Ero nudo. Me ne stavo con i piedi immersi nell'oscurità. A riempire l'orizzonte davanti a me c'era un alto albero d'argento, le radici avvolte su se stesse, l'apice delle fronde perso in lontananza. Non avevo mai visto nulla di tanto delicato, di tanto elaborato. Me ne stavo fuori dall'esistenza e osservavo tutte le diramazioni di tutti i rami del multiverso, in continua crescita, in continua estinzione. Come un esempio della più complessa filigrana, l'intrico formato da quell'albero d'argento era tale da rendere impossibile la visione e la comprensione del tutto. Sapevo che ciò che stavo guardando era incommensurabile, infinito. E se fosse stato soltanto uno di molti alberi simili? Iniziai ad avvicinarmi, finché non riuscii più a vedere la pianta nella sua interezza ma solo i rami più vicini, su cui delle figure si spostavano avanti e indietro, camminando tra i mondi.
Infine mi trovai su un ramo anch'io, e provai il conforto del riconoscimento. Anche se di quelle strade non avevo memoria, né come Elric né come Ulric, provavo un senso di connessione con un infinito numero di altri sé, con immenso dolore, con indescrivibile gioia, e sentii che stavo camminando verso casa. Un ramo ne intersecava un altro più grande, e poi un altro ancora più grande, e incontrai sempre più persone che come me procedevano sulle strade tra i mondi, anch'esse alla ricerca di qualche fine disperato, di qualche realtà perduta. I saluti che ci scambiavamo erano brevi. Ben poche amicizie durature venivano strette sulle strade d'argento. Dopo un po' che camminavo, cominciai a notare una certa familiarità in quelli che mi passavano accanto. In alcuni era notevole, in altri lieve. Ognuno di quelle donne e quegli uomini solitari ero io. Migliaia e migliaia di versioni di me stesso. Come se fossi stato inglobato nella vasta singola personalità che era la somma delle nostre parti, e stessi perdendo rapidamente la mia identità rispetto al più grande insieme, intento a eseguire qualche misteriosa danza o rituale, realizzando schemi che alla fine avrebbero determinato il destino di tutti. In questo secondo viaggio, la mia ricerca nel sogno non mi condusse alla casetta di Oona ai confini del tempo, ma mi portò invece passo dopo passo verso un gran numero di rami circolari che curvavano l'uno sull'altro, in uno stato di evidente agitazione. Usando le pratiche apprese nell'arte della stregoneria, mi feci avanti. I filamenti argentei si ampliavano fino a diventare nastri, quindi vaste strade dal disegno così complicato che era impossibile indovinare quale direzione avrebbero preso. Tutto pareva infine tornare al punto in cui mi accadeva di fermarmi. Fui quindi felice di trovare un compagno di viaggio, pur essendo inizialmente un po' stupito nell'osservare un volto che non somigliava per nulla al mio eppure mi era noto. Come accade nei sogni, non era il fatto di incontrare il principe Lobkowitz in quel luogo a sorprendermi. Il distinto signore, più anziano di me, che usava il nome di battaglia di Herr El, mi diede la mano con grande serietà, come se ci fossimo incontrati su un qualunque viottolo di campagna. Sembrava a proprio agio, nel suo ambiente naturale. Ricordo il calore e la fermezza della sua stretta, la presenza rassicurante. «Mio caro conte!» Lobkowitz pareva disinvoltamente contento di vedermi. «Mi avevano detto che avrei potuto incontrarla qua fuori. È pratico di queste strade?»
«Assolutamente no, principe Lobkowitz. E devo ammettere che non sono neppure molto interessato a che mi diventino familiari. Sto solo tentando di far ritorno a casa. Come sono certo capirà benissimo, ho parecchi motivi per voler rientrare in Germania.» «Ma senza spada non ci può tornare, vero?» «Ora la spada è in mani migliori delle mie. Non credo ne avrò un particolare bisogno nella lotta contro Hitler e il nazismo, che è la ragione per cui desidero tornare.» Gli occhi tristi e saggi di Lobkowitz ebbero un guizzo ironico. «Penso sia quello che desideriamo tutti, amico mio. Qui, sulle strade dei raggi di luna, a volte notiamo questo fenomeno, per il quale i rami paiono piegarsi su se stessi, scomparire e riprodursi in strane maniere, diventando sempre più complessi e disfunzionali. La teoria afferma che luoghi del genere sono una sorta di cancro, dove la Legge e il Caos non sono più in equilibrio ma mantengono la propria forma nel conflitto reciprocamente distruttivo. Per noi possono rappresentare un pericolo, dato che i loro paradossi sono perversi, innaturali e invecchiano senza crescere in saggezza. Portano solo a ulteriore confusione.» «Ma è là che conduce il mio sentiero. Come posso evitarlo?» «Non può. Io, però, la posso aiutare, se crede.» Con grande spontaneità accettai l'offerta e lui si mise al mio fianco, osservando il reticolo di vie argentate tutto attorno a noi e facendo commenti sulla sua magnificenza. Gli domandai se fossero quelli i Feudi Grigi, ma scosse il capo. «Queste sono strade che noi stessi realizziamo tra i reami. Proprio come le generazioni tracciano sentieri per la campagna che infine diventano strade asfaltate, così i nostri desideri e le nostre invenzioni creano vie familiari nel multiverso. Si potrebbe dire che creiamo un sistema lineare per viaggiare attraverso la non linearità, che le nostre strade sono del tutto immaginarie, che ogni forma che crediamo di intravedere è in realtà una semplice illusione o una visione parziale del tutto. La psiche umana, per esempio, organizza il Tempo per renderlo percorribile linearmente. Si dice che l'intelligenza umana e i sogni siano i veri realizzatori di ciò che vediamo. Io ho grande fiducia nel potere benigno dei sogni e sono ben disposto verso questa teoria: che in effetti siamo noi a creare noi stessi e quanto ci circonda. Un altro dei paradossi che ci avvicina alla comprensione delle nostre condizioni.» All'intorno il labirinto di strade si era vieppiù aggrovigliato e la cosa mi
mise leggermente in allarme. «Allora cosa rappresenta questo intrico di fili d'argento?» «La linearità ripiegata su se stessa? La Legge impazzita? Il Caos incontrollato? A questo punto ha ben poca importanza. O forse queste forme sono simili a fiori su un albero, che di volta in volta creano dimensioni interamente nuove. Mi pare che alcuni chiamino questo punto di congiunzione 'Il Crisantemo' e lo evitino.» «Come mai?» «Perché ci si perde davvero, si è realmente tagliati fuori da qualunque realtà conosciuta. O se fossero tipi di cancro...?» «E nessuno ne sa la vera origine o la reale funzione?» «E chi ne avrebbe la possibilità? Potrebbero essere tutte queste cose o nessuna di esse.» «Dunque potremmo essere intrappolati. È questo che mi sta dicendo?» «Non insisto a definirla una certezza. Qui la teoria filosofica può rivelarsi una concreta realtà e viceversa...» Lobkowitz fece un timido sorriso. «A questo punto è meglio avere solo teorie informate: realtà e certezze sono a dir poco inaffidabili. È difficile essere traditi da una teoria. Si dice che se si comprendesse il multiverso si dovrebbe slittare dallo stato concettuale a quello percettivo: dalla manipolazione alla comprensione e dalla comprensione all'azione.» Quando ero un giovane studente di stregoneria mi era stato insegnato qualcosa di simile. Eppure avevo paura di farmi assorbire da quell'argenteo intrico di strade. L'austriaco pareva quasi divertito. «Cosa spera di trovare qui?» Mi misi a ridere. «Me stesso, mi auguro.» «Guardi.» Lobkowitz indicò una piccola diramazione dritta che si dipartiva dal groviglio e spariva nella lucente oscurità. «È quella la strada che vuole prendere?» «Dove porta?» «Dove ha la voglia e il coraggio di andare. A qualunque cosa abbia la voglia e il coraggio di fare.» Avevo sperato in un consiglio più preciso, ma comprendevo perché non fosse possibile in un multiverso tanto malleabile, tanto suscettibile alle richieste umane e così pericolosamente instabile. Comunque avevo la sgradevole sensazione di essere rimasto intrappolato in qualche strana parabola.
Quei sogni li sognavo sia come von Bek sia come Elric. Si trattava di sogni oscuri, difficili da rammentare. I sogni di Elric erano i più profondi e arrivava a ricordarli solo come incubi tra altri incubi, altrettanto preoccupanti. Il genere che lo faceva svegliare urlando nel cuore della notte. Che lo spingeva ad avventure sempre più disperate nel tentativo di sfuggirne anche il minimo ricordo. Ora, tuttavia, il legame con von Bek pareva sempre più tenue, mentre mettevo piede sulla nuova e diritta via. «In definitiva è all'Isola di Morn che dovrà andare.» Il principe Lobkowitz mi salutò e tornò verso il folto intrico di sentieri. Mi allontanai di qualche passo, poi mi voltai dubbioso. «Morn?» Ma non riuscii più a scorgere il misterioso principe Lobkowitz, Herr El. Ora il grande complesso pareva un crisantemo d'avorio intagliato in modo impeccabile, così perfetto che era possibile immaginare fosse stato realizzato da un abile artigiano mortale, e compresi perché gli era stato dato quel nome. Esistevano persone che avessero realmente tracciato delle mappe? Chi poteva rifare più e più volte lo stesso identico percorso? Perché Lobkowitz mi aveva portato su questo sentiero pieno dei pericoli che aveva descritto? Perché anche lui aveva menzionato Morn? Per un attimo mi colse il dubbio che mi avesse ingannato, ma allontanai il pensiero. Dovevo dar credito ai pochi di cui avevo imparato a fidarmi o sarei stato davvero perduto. La mia strada si univa a un'altra e a un'altra ancora, finché mi ritrovai di nuovo sul ramo principale del multiverso, vicino a un punto in cui una fronda d'argento si era sollevata per poi ricadere a formare un rozzo arco. Non avevo scelta, non potevo fare altro che passarci sotto e ritrovarmi a fissare, proprio sopra di me, un calderone incandescente di fuoco bianco, che all'improvviso prese a rovesciarmi addosso una pioggia di fiamme colore delle ossa e del peltro, che mi assorbivano anche mentre cadevano e io cadevo con loro, precipitando per un migliaio di anni, giù giù per un migliaio di anni. Quando guardai in basso vidi un vasto campo d'avorio e fiori d'argento rose e crisantemi, tageti e magnolie - ognuno a rappresentare un differente universo. Temetti di venire attirato in uno di quegli universi fittamente intrecciati, ma pian piano cominciarono a formare un semplice campo bianco in cui brillavano due punti rosso rubino, finché mi resi conto che stavo fissando una gigantesca immagine di me stesso e l'istante successivo stavo invece guardando il viso preoccupato di Maldiluna e di mia figlia Oona. Voltai il
capo. Sul pavimento accanto a me c'era il corpo addormentato di Ulric von Bek, ma si era anche verificato un cambiamento fondamentale. Le cose non erano decisamente più quelle di prima... Come von Bek, per quanto fossi separato da Elric e benché lui a mala pena si ricordasse di me una volta finito il sogno, non riuscivo a liberarmi della sua presenza. Continuavo a essere entrambi. La sua storia procedeva dentro di me. Non mi sarei mai liberato di lui. Non avevo motivo di credere di essere stato coscientemente scelto per un tale destino e avevo invece ogni ragione di ritenere che si trattasse di un semplice incidente, perché se ho imparato qualcosa dalle mie esperienze è che il caso ha molto più a che fare con la propria buona sorte di qualunque tipo di giudizio e che pensare di avere il controllo del multiverso significa patire la più grande delle delusioni. Da allora ho sentito parlare di altri che portano in sé l'identità di migliaia di anime, ma in quel momento l'idea mi terrorizzava. Semplice proprietario terriero della Sassonia, ero però unito con legami soprannaturali all'anima di una creatura non umana, lontana da me un'indicibile distanza nel tempo e nello spazio. Anche mentre guardavo il suo volto, vedevo il mio che mi fissava. Per un attimo mi sentii come se fossi davanti a un interminabile corridoio di specchi, in cui migliaia di migliaia di me stesso si riflettevano e mi osservavano. Con qualche difficoltà mi alzai dal pavimento su cui mi ero adagiato. Avevo l'impressione che tutto fosse accaduto simultaneamente. Maldiluna era felicissimo di vedere che l'amico si era ristabilito, e Oona prese la mano del padre che guardava con aria incredula la scena che aveva davanti. Soltanto io mantenevo un ricordo cosciente del viaggio sulle strade dei raggi di luna. Elric si rivolse a me. «Suppongo sia voi che devo ringraziare, signore, per essermi risvegliato dall'incantesimo?» «Io penso invece che entrambi dobbiamo ringraziare lady Oona» replicai. «Ha le capacità di sua madre, anche se non l'inclinazione.» Lui aggrottò le sopracciglia. «Ah, sì. Qualcosa ricordo.» Poi fu scosso da un fremito. «La mia spada...?» «Gaynor ha ancora Tempestosa» rispose lesto Maldiluna. «Ma il tuo... questo gentiluomo, te ne ha portata un'altra.» «Ricordo.» Elric aveva un'espressione corrucciata. Abbassò lo sguardo su Brandocorvo, che gli avevo messo nella mano. «Frammenti. Gaynor ha vinto la mia spada, poi sono caduto addormentato, quindi ho sognato di
aver ritrovato Gaynor per perderlo di nuovo.» Cominciò ad agitarsi. «E minaccia... minaccia... No, Tanelorn è salva. Miggea è imprigionata. Le Pietre di Morn! Altri amici sono in pericolo. Arioch, Arioch, dov'è il mio signore Arioch?» «Il tuo duca degli Inferi era qui» disse Maldiluna. «In questo reame. Ma noi non lo sapevamo. Forse Gaynor è andato con lui.» Elric gli afferrò la mano, gemendo. «Quella stregoneria è troppo anche per me. Nessun mortale può mantenere la sanità mentale o la vita, se esposto a essa troppo a lungo. Oh! Ora ricordo! Il sogno! La casetta! Quei volti pallidi. Caverne. La giovane donna...» «Ricordi abbastanza, padre» disse pacata Oona. Lui alzò di nuovo lo sguardo su di lei. Stupito. Confuso. Preoccupato. «Con ogni probabilità anche più che abbastanza» mi intromisi. Cominciavo a desiderare fortemente un sonno naturale, tranquillo e senza sogni. Oona riprese il discorso. «Non abbiamo ancora finito. Non finché non saremo riusciti a liberarci di Gaynor. La sua strategia non è chiara. Continua ad attaccare su due fronti e diventa sempre più imprudente, incurante di ogni tipo di vita, inclusa la propria.» «Dove possiamo cercarlo?» Elric ispezionò con cura la spada con le rune. Pareva sospettoso, e tuttavia la lama era di certo quella con cui aveva tanta familiarità. «Oh, non c'è dubbio» rispose Oona «riguardo al luogo dove lo possiamo trovare. Questo Gaynor? Sceglierà uno dei due luoghi del potere: Bek o Morn. Il problema è come contrastarlo. Se sei pronto, padre, faremo bene a tornare al più presto a Mu Ooria, dove abbiamo ancora molto lavoro da fare.» «E come suggerisce di arrivarci?» le domandai. «Dubito che si possa convincere re Straasha ad aiutarmi una seconda volta.» La ragazza sorrise. «Ci sono modi di viaggiare molto meno teatrali. Inoltre credo che ormai l'incantesimo di Miggea sia stato tolto. Per di più è anche rimasta intrappolata nell'arido mondo che si è creata da sé. Senza intervento umano, è là che dovrà restare. Ma se noi possiamo viaggiare abbastanza facilmente tra i mondi, non si può dire lo stesso per mastro Maldiluna. Tu dovrai attendere qui a Tanelorn il ritorno di Elric, Maldiluna.» La notizia parve quasi un sollievo per il fido compagno di tante avventure, che tuttavia se ne lagnò. «Da tempo ho deciso di venire con te, Elric, anche all'inferno, se necessario.»
Elric tese la lunga mano pallida e la poggiò sulla spalla di Maldiluna. «Non è ancora necessario, vecchio mio.» Maldiluna la prese bene, pur essendo chiaramente rattristato per la nuova separazione. «Aspetterò qualche settimana» disse «e se per allora non sarai tornato potrei anche decidere di dirigermi verso Elwher. Anch'io ho delle questioni in sospeso. Se al tuo ritorno non fossi qui, sai dove trovarmi.» Lasciammo il piccolo elwheriano dai capelli rossi in quella stanza. Ci disse che preferiva restare là finché non ce ne fossimo andati. Ci augurò buona fortuna. Era certo che le nostre strade si sarebbero incrociate ancora. Oona ci condusse fuori dalla Torre della Mano nelle vie allegre baciate da un sole gentile. Tutto intorno alle mura della città vi erano di nuovo le familiari dolci colline verdeggianti. Tanelorn aveva ripreso la consueta posizione nel multiverso. Oona ci fece attraversare rapidamente i vicoli e le viuzze dei quartieri più antichi della città finché entrammo in una casa bassa che a giudicare dalle condizioni sembrava essere stata abbandonata da parecchi anni. I piani superiori erano in rovina ma il pianterreno era in buono stato, la stanza principale difesa da una porta cerchiata di ferro che Oona, dopo aver controllato che non fossimo osservali, aprì con una chiave sorprendentemente piccola. Dall'altra parte dell'uscio non pareva esserci nulla di particolare valore. La camera era arredata con un letto, attrezzature da lavoro e per la cucina, una scrivania, una sedia e parecchi scaffali colmi di libri e rotoli di pergamena. Aveva l'aspetto ordinato e ben organizzato della cella di una monaca. Non feci domande. Dopo tutto si trattava di una delle piccole sorprese di Oona. Soltanto quando Elric mi era fisicamente vicino non ne percepivo tanto profondamente i pensieri. L'albino pareva essere quello meno a proprio agio, e non avevo una chiara idea del perché. Probabilmente l'avevo considerato troppo raffinato. Dopo tutto la mia esperienza dell'inventiva del XX secolo non gli apparteneva. A dire il vero, spesso in mia presenza pareva un po' impacciato, evitava il mio sguardo e di rado mi rivolgeva direttamente la parola. Era palese che lo mettevo a disagio e se avessi potuto l'avrei lasciato. Aveva quasi un'aria da sonnambulo. Cominciai a chiedermi se pensasse di sognare tutto ciò che stava accadendo. Che sognasse davvero? Che stesse sognando tutti noi? Oona attraversò la stanza, raggiunse il muro più lontano e scostò un a-
razzo rivelando un'altra porta. «E questa dove conduce?» domandai. «Dipende.» Il sorriso della ragazza era velato di ansia. «Da cosa?» «Dal fatto che sia la Legge oppure il Caos ad avere il controllo di determinati reami.» «E come si fa a saperlo?» «Lo scoprirà» rispose «entrando.» Elric era irrequieto. «E allora entriamo» sbottò. «Ho in mente di confrontarmi con il cugino Gaynor su un bel po' di questioni.» Teneva la mano sull'elsa di Brandocorvo. Ammiravo il suo selvaggio ardore. Potevamo anche avere lo stesso sangue e alcuni dilemmi in comune, ma per temperamento eravamo di certo molto diversi. Lui cercava l'oblio nell'azione, mentre io speravo di trovarlo nella filosofia. Io ero riluttante a prendere decisioni, mentre per Elric decidere era tutto. Per lui era normale scegliere e rischiare. Se avesse vissuto una vita prosaica, con considerazioni prosaiche, sarebbero state principalmente cose prosaiche ad accadergli. Lui, però, era tutt'altro, quel volto pallido e vorace, che per il proprio sostentamento fidava nella negromanzia. Sarei stato anch'io come lui, nelle medesime circostanze? Ne dubitavo, ma non avevo conosciuto un'infanzia di insegnamenti stregoneschi e tradizioni opprimenti. Da giovane, non avevo dovuto fissare lo sguardo sull'orrore più profondo e padroneggiare le tecniche dei signori dei draghi, apprendere come manipolare il mondo con la magia. Ovviamente sapevo tutto del suo passato, dato che i suoi ricordi erano rimasti miei, anche se lui di me non rammentava nulla. In un certo senso gli invidiavo quella mancanza di consapevolezza. Con aria impaziente, Elric si precipitò ad attraversare la porta e io lo seguii. Oona si richiuse l'uscio alle spalle. Ci trovammo tutti e tre in un piacevole giardino, il tipo di luogo dove si andrebbe a cercare riposo e contemplazione, non certo ciò che ci si sarebbe aspettati di trovare oltre quella porta. Una rassicurante atmosfera domestica. Il giardino era circondato da un alto muro, a sua volta attorniato da edifici torreggianti che lo facevano apparire più piccolo di quanto fosse in realtà. Erbe e fiori, tutti dal dolce profumo, erano disposti ordinatamente in aiuole simmetriche. Tra gli arbusti avanzavano impettiti pavoni e galletti dal vistoso piumaggio. Al centro si trovava una fontana, decorata e realiz-
zata con una roccia scura e luccicante, il cui suono contribuiva ad aumentare il senso di pace. Per quanto amena, quella scena era una doccia fredda. Ci saremmo aspettati qualcosa di più drammatico. Elric esitava. Si guardava attorno sospettoso. Penso cercasse qualcosa da uccidere. Oona era sollevata. Evidentemente pensava ci saremmo trovati in un luogo molto meno gradevole. Il giardino non aveva un cancello verso l'esterno. L'unico modo per entrare e uscire era dalla porta che avevamo utilizzato noi. «E adesso?» Elric si guardava nervosamente attorno. «Dove andiamo?» «Da Tanelorn a Mu Ooria e da Mu Ooria a Tanelorn» rispose la ragazza. «Si tratta sempre di una via d'acqua.» Elric affondò la mano nella vasca ornamentale. «Acqua? E come? Qui non c'è spazio sufficiente per una barca.» Fissò con interesse gli insoliti pesci che nuotavano nella fontana, quasi sperasse di scoprire qualche segreto sotto il pelo dell'acqua. Sorridendo, Oona si chinò e allungò il proprio arco, descrivendo con esso un cerchio sulla superficie trasparente. Il cerchio rimase visibile. All'interno di esso l'acqua prese ad agitarsi, diventando piena di colori e increspature cadenzate. Di colpo cominciò a innalzarsi in una sorta di stretto imbuto, rosso e scintillante, come una ferita recente, una colonna di pulsante luce color rubino. Il colore si rifletteva sui nostri tre volti pallidi, dando alla pelle l'aspetto di un osso macchiato da sangue rappreso. Elric digrignò i denti nel suo sorriso da lupo, la luce rossa che gli danzava negli occhi. «È questa la strada?» domandò a Oona. Lei annuì. Senza ulteriori parole o esitazioni, il melniboneano si appiattì contro la colonna liquida. Per un attimo si contrasse e sobbalzò, come una rana su un recinto elettrificato, quindi fu assorbito dal cilindro luminoso. Io non mi mossi certo con altrettanta rapidità e Oona rise della mia titubanza, mi prese la mano e avanzammo insieme nella cedevole luce di fuoco. Sentii qualcosa che mi strattonava, allontanandomi da lei. Cercai di resistere ma persi la presa della sua mano. Stavo nuotando in mezzo a roboanti fiamme in movimento, giù in un abisso scarlatto che minacciava di farmi affogare in tutto il sangue versato nel multiverso. Fuoco che non bruciava, ma lambiva i recessi più segreti dell'anima. Fuoco che rivelava volti farfuglianti, simili ai visi dei dannati all'inferno. Corpi orrendamente torturati,
un vorticoso balletto di tormento. Ma non mi ustionai. Il fuoco aveva le caratteristiche dell'acqua, e potevo nuotare al suo interno con grande facilità. Non avevo respirato neppure una volta e non avevo sentito il bisogno di aria. Mi ricordai delle acque dense e stagnanti del Mare Pesante che si trovava oltre Melniboné. Mentre nuotavo, mi guardavo attorno per cercare gli altri, ma erano scomparsi. Che si fosse trattato di un piano ordito da Elric e Oona per liberarsi di me ora che non ero più utile? Alle mie spalle percepivo una presenza maligna e mostruosa. Nuotai più veloce che potevo, mentre anche la creatura aumentava la velocità. Quando mi voltai, per dare un'occhiata a ciò che mi inseguiva, tutto quello che riuscii a scorgere fu una forma bianca, immensa e simile a un'ombra, quasi il corpo indistinto di uno squalo visto attraverso l'oceano. Pareva portare il peso degli anni. Si muoveva come fosse in preda a un forte dolore. Lo udii emettere uno strano gemito. Percepii qualcosa sfiorarmi e poi precipitare di nuovo nelle profondità, quasi avesse tentato di attaccarmi e avesse fallito. Continuai a nuotare, attraversando foreste di identiche colonne di rubino. Nuotai tra sponde di fuoco blu e sopra campi di perle e smeraldi. E ancora non sentivo la necessità di respirare, di difendermi. Nuotai attraverso città in fiamme. Nuotai sopra battaglie che interessavano interi popoli e sopra la distruzione dei mondi. Nuotai tra boschi pieni di pace e campi fioriti poi, del tutto inaspettatamente, mi trovai a inspirare liquido. Tossendo, mi lanciai verso l'alto ed emersi in una fulgida oscurità. Da un imprecisato punto nel buio, udii una voce esultante. Oona si stava rivolgendo al mio doppio. «Benvenuto, padre» disse. «Benvenuto a Mu Ooria. Benvenuto al tuo destino.» IL SACRILEGIO PIÙ GRANDE Gli altri due rimasero ad aspettarmi mentre sguazzavo fino alla riva. C'era un freddo pungente. Nella misteriosa luminosità fosforescente che veniva dal lago scorsi l'ormai familiare profilo di Mu Ooria, che però mi parve in condizioni peggiori dell'ultima volta che l'avevo vista. Di tanto in tanto una colonna di fumo pallido si innalzava per un istante, si divideva in frammenti tremolanti e scompariva. Pur non avendo idea di quale ne fosse la causa, in quel fuoco c'era un che di sinistro che mi fece temere il peggio. Udii suoni lontani, come i flebili battiti di un orologio tin, tin, tin, un rom-
bo simile a una frana, poi una risata nel buio. Uno schianto. Un ansimare somigliante alla foga di cani che si accoppiano. L'eco di quello che avrebbe potuto essere un grido. La sensazione che stesse accadendo qualcosa di terribile, qualcosa di turpe. Feci il possibile per tenere per me quelle paure. «Sembrerebbe che qui Gaynor e le sue ambizioni abbiano trionfato» dissi. Come era sua inconscia abitudine quando era preoccupato, Elric mise la mano sul pomo di Brandocorvo. «Allora faremo meglio a incontrarlo subito.» Cominciavo a rendermi conto che il mio quasi gemello era imprudente di natura. Quella che a un uomo normale sarebbe parsa una pazzia, era per Elric il modo più logico di agire. A quelle parole Oona sorrise. «Forse dovremmo prima scoprire qual è la sua forza. Ricorda, padre, che qui la tua stregoneria potrebbe essere limitata. Persino la spada potrebbe non avere i suoi soliti poteri.» Elric fece spallucce ma parve comunque intenzionato a fidarsi del giudizio della ragazza. Dopo tutto ci trovavamo in quel luogo soprattutto per volontà sua e di quel mondo sapeva molto più di noi. Senza fare il minimo tentativo di nascondersi, Elric cominciò a dirigersi a grandi passi verso la città, procedendo lungo la curva del litorale. Non potevamo che seguirlo. Ben presto le tracce dell'ambizione di Gaynor furono visibili ovunque in quell'oscurità irregolare e tormentata. Più di una volta inciampammo sul corpo immobile di uno dei giganteschi felini neri che prima avevano cacciato in quel territorio. In due occasioni trovammo dei resti di Off-Moo: cadaveri accartocciati, cartilagini spezzate, ma niente ossa. Che gli OffMoo non avessero ossa nel senso convenzionale del termine? Trovammo uno dei loro lunghi copricapi conici e tuttavia non fui ancora in grado di capire se si adattavano alla forma della testa o la accentuavano. Trovammo tracce di fuochi accesi con manufatti Off-Moo. Incontrammo corpi di troog e di selvaggi praticamente ovunque. A quanto pareva dovevano aver combattuto tra loro per qualunque tesoro avessero scovato a Mu Ooria. Supposi che ben poco là avesse valore per loro, fatto che avrebbe reso la smania distruttiva ancora più frenetica. In che modo erano riusciti a sconfiggere gli Off-Moo, che sembravano difendersi con grande abilità e intelligenza? Era evidente che gli Off-Moo dormienti, quelli che avevo creduto statue e che erano a guardia dei confini, erano stati colti di sorpresa. Non avevano neppure avuto la possibilità
di svegliarsi. A quanto pareva la capacità degli Off-Moo di dirigere stalattiti mortali contro i nemici si era chissà come indebolita. Anche se all'inizio non sapeva nulla degli Off-Moo, Gaynor doveva avere imparato molto al riguardo dall'ultima volta che ero stato in città. I segni di una distruzione selvaggia e crudele erano ovunque. Che ne era stato degli Off-Moo? Se ne erano andati? Si stavano nascondendo? Erano stati uccisi tutti? Oppure catturati? Era duro per me ricordare che Gaynor aveva trovato nuovi alleati soprannaturali da quando avevo visitato questo reame. Tra le rovine vedemmo muoversi alcune figure. Avevano l'andatura dinoccolata dei troog o l'aria tracotante dei selvaggi semi ciechi che avevano combattuto al loro fianco. Mentre ci avvicinavamo, Elric cominciò a restare nell'ombra, per osservare cosa stessero facendo. Era però chiaro che facevano ben poco, tranne setacciare le rovine alla ricerca del bottino che avevano sperato di trovare. Non riuscivo a immaginare alcuno dei beni degli Off-Moo che potesse interessare quei bruti. Ma dov'era la parte migliore dell'esercito di Gaynor? Ci stavamo avvicinando alla grande piazza della città. Ovunque le misteriose torri degli Off-Moo ardevano di quello strano fuoco bianco e tremolante. Quello che avevo erroneamente scambiato per un grido era il rumore delle torri che bruciavano. Il suono di una voce di morte. Accanto alle torri in fiamme non si scorgevano né vincitori né vinti. Decidemmo di catturare uno dei selvaggi per interrogarlo. Oona piegò il capo, in ascolto. Si diresse rapida verso una torre e sbirciò all'interno. Qualche secondo dopo, sulla porta apparve una sagoma scura. L'abito che indossava variava di colore alla luce del fuoco e i suoi occhi brillavano. Non ci lessi alcun segno di benvenuto. Oona scambiò alcune parole con la figura sulla soglia, che con molta circospezione lasciò la torre e si mosse silenziosa verso di noi. Dal lungo viso di pietra era difficile dire se ci avesse riconosciuti. L'Off-Moo parlò con lentezza, in greco: «È stato Gaynor a farci questo. Temeva che avremmo tentato di ostacolare le sue ambizioni. E aveva ragione. Ma ha stretto eccezionali alleanze con alcuni tra i Signori dei Mondi Superiori, venendo così a sapere come e con cosa sconfiggerci.» «Quanti di voi ha ucciso?» Elric parlò con la franchezza un po' rude del soldato di professione. «Questo è ancora da vedere, signore. Io sono Erudito Crina. Non ero qui quando Gaynor ha attaccato. Quando sono tornato ho trovato la nostra città
più o meno nelle condizioni in cui la vedete ora. Prima di andarsene, i miei colleghi riuscirono a informarmi del fatto che il peso dei barbari li aveva schiacciati. Ma in precedenza era accaduto qualcos'altro.» «E dove sono ora i barbari?» domandai. Ancora bagnato fradicio, stavo tremando. «Lo sa?» «Se ne sono andati a passo di marcia» fu tutto ciò che ci disse. «E dov'è questo Gaynor?» chiese brusco Elric. «Presumo che le sue intenzioni siano ancora le stesse.» «Qui ha fatto quello che doveva fare.» «E sarebbe?» «Ha rubato la nostra Grande Verga e ora si dirige verso i Feudi Grigi.» «Ma è impossibile» intervenne Oona. «La Verga è inutile nelle sue mani che grondano sangue. Potrebbe facilmente distruggerlo invece che aiutarlo. Nessuno correrebbe un tale pericolo. Nessuno sarebbe tanto folle da rischiare una distruzione simile.» «Nessuno tranne Gaynor» commentò Elric. «Cosa spera di ottenere invadendo i Feudi Grigi?» domandai. Fu Erudito Crina a rispondermi. «Un potere enorme. Un potere che lo metterebbe al di sopra delle forze stesse della creazione. È quanto inizialmente ha offerto anche a noi se l'avessimo aiutato. Ovviamente gli abbiamo opposto un netto rifiuto.» «Gli dèi non permetteranno mai una cosa del genere.» Erudito Crina sembrava divertito. «Nessun essere sano di mente lo farebbe. Ma c'è chi sostiene che persino i Signori dei Mondi Superiori non siano più del tutto equilibrati, dato che nell'intero multiverso si stanno verificando cambiamenti preoccupanti. Sta per realizzarsi una congiunzione. Tutti i reami si riallineeranno all'interno del grande campo del Tempo. Verranno decisi nuovi destini. Nuove realtà. La vostra non è l'unica storia. Ce ne sono altre. Altre vite. Altri sogni. Tutto conduce al medesimo grande momento soprannaturale. Nulla più è certo come lo era. Persino la lealtà alla Legge o al Caos non è più fissa. Guardate Gaynor. Nel tentativo di diventare il dominatore dei mondi usa sia la Legge sia il Caos. Una volta cose simili erano impossibili per i mortali. Ora, però, pare che anche il potere mortale cresca e diventi meno stabile.» «Gaynor non intende autodistruggersi» commentò Oona. «Senza dubbio si ritiene invulnerabile ora che è in possesso della vostra Grande Verga.» «Rivendica il titolo di re del mondo. Ed è ovvio che il fatto di possedere la nostra Grande Verga gli dia la baldanza necessaria a marciare sui Feudi
Grigi. Ma a quale fine? Cosa può sperare di ottenere, tranne la totale distruzione del multiverso?» «Mi fa venire in mente un certo dittatore del mio paese» replicai pacato. «A spingerlo sembrano essere la follia e la scarsa comprensione della realtà. La sua assuefazione al potere è tale che è pronto a distruggere interi reami per soddisfare le proprie brame.» Erudito Crina abbassò lo sguardo. «Non ha un normale senso dell'egoismo e dell'interesse personale. Persone di questo genere sono le più pericolose se hanno il controllo di una civiltà.» «Echi» disse pensosa tra sé Oona. «Su quanti piani, secondo voi, si sta svolgendo una versione di questa storia? Noi crediamo di avere volontà decisionale, ma possiamo fare ben poco per cambiare le conseguenze o la direzione delle nostre azioni, perché quelle conseguenze e quelle azioni avvengono su innumerevoli livelli del multiverso, con differenze che possono essere infinitesimali o macroscopiche.» Elric non si dimostrava affatto interessato alle sue dissertazioni filosofiche. «Se Gaynor può essere fermato su questo livello,» disse «con ogni probabilità la sua sconfitta riecheggerà sugli altri, come hanno fatto le sue vittorie. Giusto?» La giovane donna gli sorrise. «Be', padre, se c'è qualcuno bene attrezzato per poter cambiare il proprio destino, quello sei tu.» Né Elric né io comprendemmo l'esatto significato delle sue parole, ma condividevo la determinazione del mio doppio. «Il potere di Gaynor era troppo grande per noi» disse Erudito Crina. «Ma la vostra Verga!» sbottò Oona. «Come ha potuto portarvela via?» «Sembrerebbe sia stata la Verga stessa a consentirlo» rispose Erudito Crina con grande semplicità. «Abbiamo sempre saputo che aveva una volontà propria. È così che è arrivata a noi.» Stavano parlando del malleabile oggetto - coppa, bambino, bastone - che avevo visto manipolato dagli Off-Moo durante la prima cerimonia a cui avevo assistito. Ma erano davvero loro a manipolarlo? O non erano piuttosto i manipolati? Mi ricordavo il modo in cui aveva cambiato forma. Per volontà di chi? «Assume sempre la forma di una verga?» domandai, rammentando anche tutti gli altri aspetti che aveva acquisito. «Noi la conosciamo con il nome di Verga di Rune,» rispose Crina «ma può avere molte forme. È un bastone, un calice, una pietra, ed è uno dei grandi regolatori delle nostre realtà.»
«È ciò che la mia gente chiama Graal?» Mi rammentai di von Eschenbach e di alcune nostre leggende di famiglia. «Ne eravate voi i guardiani?» «In questo reame» spiegò. «E in questo reame abbiamo fallito.» «Intende dire che in altri reami si trovano svariate versioni del Graal?» Erudito Crina era pieno di rammarico. «Esiste un'unica Grande Verga» disse. «Rappresenta l'Equilibrio stesso. C'è chi afferma sia l'Equilibrio incarnato. La sua influenza si estende ben oltre i limiti di qualunque reame in cui venga ospitata.» «Si dice che un tempo la mia famiglia avesse avuto il compito di custodire il Graal» gli raccontai. «Ma fu tolto dalla nostra custodia. Probabilmente anche noi abbiamo fallito nel nostro incarico.» «La Verga di Rune ha il potere di mutare forma e spostarsi a piacimento» aggiunse Erudito Crina. «Alcuni sostengono che possa assumere l'aspetto di un bambino. E in fondo perché non dovrebbe essere vero, dato che con ogni probabilità può acquisire qualunque forma desideri? In questo modo protegge e difende se stessa. E così facendo protegge coloro che la rispettano e la difendono. La configurazione che assume non è sempre ovvia.» «E Gaynor in quale forma la possiede?» volle sapere Oona. «In forma di calice» rispose Erudito Crina. «Di un pregevole recipiente per bere. Con quello e le due spade che ora porta con sé, ha maggiori possibilità di cambiare il destino dei mondi di qualunque altro mortale prima di lui. E poiché gli dèi stessi stentano a comprendere cosa stia accadendo, potrebbe avere successo. Perché è noto che alla fine sarà un mortale a causare la distruzione degli dèi.» Non diedi molta importanza a queste ultime parole. Avevano il sapore della leggenda e della superstizione, eppure mentre venivano pronunciate il mio corpo aveva avuto un fremito di riconoscimento. Cercai di ricordare dove avessi già udito una storia simile, inserita nella mitologia del mio tempo e della mia gente, la storia del Sacro Graal e la sua capacità di guarire i mali dell'umanità. Anche in quella leggenda era presente un mortale che cambiava il destino del proprio mondo. Esitai. Mi sentivo come se avessi ricevuto un'overdose di Wagner. I miei gusti musicali propendevano per le più limpide arie di Mozart e Liszt, che facevano appello sia all'intelletto sia alle emozioni. Era questo che avevo riconosciuto? Mi ero forse ritrovato in una qualche complicatissima opera wagneriana? Rabbrividii al solo pensiero. Eppure persino i notevoli eventi del Ciclo dell'Anello erano nulla a paragone di quanto avevo già veduto.
Mi rivolsi a Oona: «Aveva detto qualcosa riguardo a un mio particolare rapporto con il Graal. Cosa intendeva?» «Non tutti hanno il privilegio di servirlo» rispose. I suoi modi erano seri. Non pareva per nulla ottimista. Penso non avesse previsto che Gaynor arrivasse a tanto. Nell'aria aleggiava una strana puzza. Un insieme di migliaia di odori diversi, nessuno dei quali gradevole. L'olezzo del male. Continuavo a non capire come Gaynor avesse potuto infliggere una sconfitta tanto grave agli Off-Moo e lo dissi al sapiente. «Ma lei ancora non sa» mi rispose «se Gaynor ci ha sconfitti. Dopo tutto, la partita è ancora aperta.» Tenni per me ogni commento, ma da quanto potevo vedere sembrava che i giochi fossero ormai fatti. Elric voleva sapere dove si trovasse Gaynor e se era possibile raggiungerlo a piedi. «Sta procedendo verso i Feudi Grigi con il suo esercito. Crede di poter prendere su di sé l'intero potere del multiverso. Si illude. Ma la sua illusione ci distruggerà tutti, a meno che qualcuno giunga a sfidarlo.» Erudito Crina sembrava fissarmi con aria interrogativa. Ma fu il principe Elric a rispondere. «Sono stato insultato e umiliato da quella creatura. Sono stato ingannato. Non importa quale potere possa avere ora, non sfuggirà alla mia vendetta!» «Ne sei sicuro?» Oona si chinò ad accarezzare la lustra pelliccia di uno dei grandi felini, ma allontanò in fretta la mano, quasi non volesse vedere ciò che era accaduto all'animale. Era morto o sotto un incantesimo? «Sogno o non sogno,» disse pacato Elric «sarà punito per ciò che ha fatto.» Non avrei creduto a nessun altro, ma Elric stava riuscendo a convincermi che chissà come avremmo potuto sconfiggere un'entità che era probabilmente diventata la più grande singola forza del male di tutto il multiverso. Come spesso accadeva tra noi, Elric rispose alle domande e ai dubbi che mi passavano per la mente senza che li esponessi ad alta voce. «I melniboneani ritengono che il fato non possa subire alterazioni. Che ognuno di noi abbia un destino già scritto. Che liberarsene - o tentare di farlo - significhi agire in modo blasfemo. Si tratta di un sacrilegio che sono pronto a commettere, per evitarne, forse, uno più grande.» Aveva l'aria dell'uomo che combatte con la propria anima, oltre che con la coscienza e l'esperienza. Avevo l'impressione che avrebbe potuto dire di
più, se fosse stato in grado di esprimere a parole l'immenso conflitto che si stava svolgendo dentro di lui. Restammo poco a Mu Ooria. Le fiamme si stavano ormai spegnendo e i danni erano ingenti. Non incontrammo altri Off-Moo. Nessuna traccia. Nessuno scritto. Nessun indizio. Sconfitti, erano fuggiti. Mi avevano molto deluso. Senza dubbio erano ormai divenuti decadenti, troppo fiduciosi nelle proprie capacità di resistere a eventuali attacchi, facendo assegnamento, come per decenni aveva fatto Bisanzio, sulla propria antica fama. Avevo creduto che fossero coraggiosi e allo stesso tempo pieni di risorse. E forse un tempo lo erano stati, ma a quanto pareva attualmente non avevano la capacità di opporsi a Gaynor o a chiunque altro avesse deciso di appropriarsi delle loro ricchezze e dei loro segreti. «C'è un'unica possibile linea di condotta» disse il principe Elric. «Inseguire Gaynor?» domandai. «Sperando di sconfiggerlo prima che raggiunga i Feudi Grigi.» «Ci è già quasi arrivato» intervenne Erudito Crina. «Proprio in questo momento lui e il suo esercito devono essere vicini al confine.» Per la prima volta pareva mostrare qualche traccia di emozione. «Sarà la fine per noi» aggiunse, chinando il capo incappucciato. «La fine per tutti. La fine di tutto.» A quelle parole Oona ebbe un moto di impazienza. «Bene, signori, a meno che siate desiderosi di vedere la fine quanto Erudito Crina, che pare trarre dall'attuale situazione una sorta di cupo piacere, suggerirei di riposare, nutrirci in modo adeguato e quindi continuare l'inseguimento.» «Non c'è tempo» replicò Elric quasi parlando tra sé. «Dobbiamo mangiare mentre andiamo. E dobbiamo metterci in marcia subito, perché non avendo destrieri dovremo inseguire Gaynor a piedi.» «E quando lo raggiungiamo?» chiesi. «Che facciamo?» «Lo puniamo» rispose con grande semplicità Elric. «E ci riprendiamo la spada che ha rubato.» Sfiorò l'elsa. L'accarezzò con le lunghe dita candide. Stava cominciando a sorridere. Trovavo il suo senso dell'umorismo alquanto allarmante. «Useremo contro di lui i suoi stessi metodi. Lo uccideremo.» Nel melniboneano covava una sorta di bramosia. Desiderava ardentemente uno spargimento di sangue e non aveva molta importanza il modo in cui l'avrebbe ottenuto. Cominciai a temere per la sicurezza mia e di sua figlia. Anche Erudito Crina percepiva quell'istinto sanguinario. Quando mi voltai di nuovo verso di lui stava rientrando silenziosamente nell'edificio in
fiamme. Pareva che il fuoco non lo disturbasse affatto. Stringendomi addosso gli abiti bagnati e sentendo il bisogno di muovermi, arrancai verso le zone periferiche della città, seguito dai miei compagni. Ero convinto che avrei finito per morire nel corso di quella avventura, ma mi consolai pensando che se Elric e Oona non mi avessero aiutato a fuggire dal campo di concentramento a quel punto sarei stato morto comunque. Per lo meno avevo avuto l'opportunità di osservare la super-realtà che costituiva la concatenazione di mondi del multiverso. Ci eravamo ritirati ai confini estremi della città quando all'improvviso cominciò a tremarci il terreno sotto i piedi. Blocchi di roccia precipitavano fischiando dal soffitto al pavimento della caverna. Che un terremoto stesse colpendo Mu Ooria? Il roboante staccato che seguì la scossa più che un suono casuale pareva un riso di scherno. Con un'occhiata domandai spiegazioni a Oona, che però scrollò il capo. Anche Elric era perplesso. Un'altra scossa. Altra caduta di pietre. Come se un gigante ci stesse seguendo a grandi passi. Se non avessi saputo che era impossibile, avrei pensato si trattasse di esplosivi ad alto potenziale. Avevo provato sensazioni simili e udito rumori affini quando avevo visitato il luogo in cui si stava realizzando una nuova galleria ferroviaria insieme a mio fratello ingegnere, quello che sarebbe morto scavando una trincea tre giorni dopo l'inizio della guerra. Scrutai in lontananza, tra le enormi colonne di roccia. Era impossibile vedere molto distante nella grotta o immaginarne le dimensioni. Ora, però, lontano, colsi i lampi di un furioso incendio. Combinandosi, il fosforo del lago creava vortici di vento. Numerosi sottili tornado stavano venendo verso di noi. Mulinelli urlanti formati da una luce bianca che sibilava ininterrottamente toccarono le rovine della città, modellandole secondo schemi nuovi e persino più folli. Qualcosa in quei turbini suggeriva che fossero senzienti, o che quantomeno fossero controllati da un essere pensante. Ne sapevamo abbastanza da metterci a correre, alla ricerca di un fossato o di una fenditura in cui trovare rifugio nella speranza che i tornado ci passassero sopra come avrebbero fatto i loro equivalenti terreni, ma si trattava di una probabilità davvero poco realistica. Era chiaro ora quali fossero le forze che Gaynor aveva usato contro i nostri amici. Senza dubbio qualche nuova alleanza soprannaturale gli aveva conferito potere sugli ishass, i demoni del vento. Persino la mia mitologia
terrestre ne parlava. Erano spesso presenti nelle leggende dei popoli del deserto, di solito con il nome di ifrits. «Possono venire imbrigliati da esseri come Gaynor?» Oona stava chiedendo a Elric. «Ovviamente» rispose laconico l'albino senza smettere di correre. Io stavo in retroguardia, respirando con affanno e incapace di dare voce alle mille domande che mi si affollavano nella mente. Oona ci fece un cenno. Si fermò per indicarci qualcosa: appena più avanti si trovava l'ancor più buia entrata di una piccola grotta. Sentendo che gli ishass avanzavano e non osando voltarci a guardare, senza un attimo di esitazione ci stringemmo l'uno accanto all'altro nel minuscolo anfratto, a mala pena in grado di contenere tutti e tre. La vicinanza dei nostri corpi mi era di conforto. Avevo quasi la sensazione che fossimo ritornati a un sicuro e difendibile grembo materno. Fuori della grotta gli stridi e gli schianti crescevano d'intensità, mentre i vortici d'aria passavano dritti sopra le nostre teste. Quindi ci fu un momento di calma. In lontananza si udivano altri tornado, ma il rumore era molto distante. «Si tratta di una forza davvero potentissima» commentò meditabondo Elric. «È necessaria un'incredibile abilità per chiamarla ed evocarla. Accordi impegnativi. Credo che neppure tuo cugino, conte Ulric, con tutta la sua intelligenza, sia fisicamente in grado di dominarla. Questi demoni sono famosi nell'aldilà. Vengono chiamati i Dieci Figli, gli ishass. Ciò significa che è sempre alleato del Caos, poiché gli ishass non servirebbero la Legge e la Legge, a meno che non fosse al culmine dell'instabilità, non se ne servirebbe mai.» Mi sentii in colpa per come avevo giudicato gli Off-Moo. Nessuna creatura mortale avrebbe potuto tenere testa a un simile potere. Sarebbe stato come affrontare uno dei tornado che flagellano gli stati americani avendo come uniche armi il coraggio e l'integrità morale. E gli Off-Moo, nonostante la loro raffinatezza, non possedevano nulla in grado di difenderli da quegli ishass. I demoni del vento ci erano passati accanto. Guaendo, stridendo e uggiolando come cani selvatici, mandando in briciole pietre antichissime, sradicando colonne che avevano impiegato milioni di anni a raggiungere la forma attuale. La paura lasciò il posto al risentimento. A che scopo perpetrare una simile distruzione? E per quale motivo Gaynor si era preso la briga di liberare i Dieci Figli su una città chiaramente sconfitta? Cos'era insito in alcuni mortali perché provassero soddisfazione nel distruggere?
Quale terribile bisogno dovevano soddisfare con la rovina delle opere e della bellezza dei secoli? Pensavano forse di ripulire il mondo da qualcosa? Solo parecchio tempo dopo che se ne furono andati e noi ci inerpicammo fuori della piccola e stretta grotta, mi passò per la mente che forse non era Gaynor a comandare i Dieci Figli. Che fossero sfuggiti al suo controllo e ora cercassero appagamento nell'arrecare volontariamente danni irreparabili a un mondo un tempo pacifico? O era quello il premio per averlo aiutato? Devastavano ogni cosa in modo indiscriminato, senza risparmiare neppure i pochi selvaggi che, rimasti a rovistare tra le rovine, si erano trovati sul loro percorso. Venivano afferrati, braccia e gambe che si agitavano disperatamente, inghiottiti, spogliati degli abiti e delle carni che volavano in tutte le direzioni, le ossa sparse ovunque. Ossa che cadevano come pioggia su un tetto. I Dieci Figli erano ormai davanti a noi e formavano una linea frastagliata che era facile individuare. Seguimmo la loro scia, incespicando lungo l'ampio sentiero che avevano creato, chiedendoci cosa potesse aspettarci di più terribile di quanto avevamo appena visto. Oona aggrottò le sopracciglia. Le era venuta un'idea, ci disse. «Forse corrono a unirsi all'esercito di Gaynor. Forse ha già raggiunto i Feudi Grigi e li chiama di nuovo al proprio servizio. Che ritenga di poter conquistare la Creazione con qualche demone del vento?» «Suppongo che abbia fatto dei piani più accurati» commentai. «Credo che l'unica cosa di cui possiamo essere certi è che il potere di cui gode è il più grande che un essere umano abbia mai ottenuto.» «Penso che sarà difficile sconfiggerlo» mormorò il signore di Melniboné. «Per fortuna siamo in tre. Non sono sicuro che potrei farcela da solo.» Ci allontanammo ulteriormente dalla città per immergerci nel buio profondo, che illuminammo con i tizzoni caduti ai barbari. Non avevamo molte probabilità di raggiungere in fretta l'esercito di Gaynor, ma almeno eravamo al sicuro dai Dieci Figli, che sussultavano in lontananza, minuscoli ora, visibili solo di quando in quando tra le imponenti rocce che in questa zona formavano una serie di archi, simili a enormi pergole per rose rampicanti. Eravamo loro grati perché ci svelavano quell'infinita distanza, ci davano qualche indizio riguardo al luogo in cui si trovava Gaynor. Ma ci sarebbe voluto tempo prima di riuscire ad avvicinarlo. E quando l'avessimo fatto, non ero per nulla certo che non saremmo stati uccisi all'istante. Avevo ogni motivo per sospettare che il deciso ottimismo
di Elric fosse dovuto soprattutto alle sue conoscenze della stregoneria ma non tenesse sufficientemente in conto il numero di soldati di cui disponeva Gaynor, per non parlare dei suoi alleati soprannaturali. Fummo tanto fortunati da incappare nel cadavere martoriato di un troog. Il gigantesco essere semi umano aveva ancora alla cintura la rozza sacca che conteneva un vario e per la maggior parte inutile insieme di oggetti razziati a Mu Ooria. Ma c'era anche del cibo. Due filoni di pane, un paio di vasi contenenti carne conservata e barattoli di sottaceti. Era persino riuscito a scovare chissà dove una borraccia in pelle piena di vino. Dovemmo strapparla a forza dalla sua manona ricoperta di croste. Un compito sgradevole che però si rivelò proficuo, dato che il vino era di ottima qualità. Avevo idea che un tempo fosse appartenuto a uno dei compagni di Fromental, forse addirittura al suo amico, la volpe parlante. Questo pensiero mi portò a chiedermi che ne fosse stato del francese. Mi auguravo che lui suoi fossero riusciti a trovare la Tanelorn che cercavano. Ci muovemmo rapidamente e infine scorgemmo il terribile esercito di Gaynor. In lontananza, una striscia grigia formava una sorta di orizzonte. Che ci stessimo avvicinando al punto dove avevano inizio i misteriosi Feudi? Rivolsi la domanda a Oona. «Le Frontiere Proibite» confermò la ragazza. «E più oltre, i Feudi Grigi.» ANGELI INCAUTI «Alcuni credono» disse Oona con tono discorsivo «che ognuno di noi abbia un angelo custode che con discrezione cura i nostri interessi, un po' come quando ci occupiamo di un animale da compagnia e lo proteggiamo. L'animale non è in realtà consapevole di tutto ciò che facciamo per lui, proprio come noi a stento ci rendiamo conto della presenza dell'angelo custode. E così come alcune bestiole hanno padroni coscienziosi mentre altre si ritrovano proprietari cattivi, lo stesso dicasi per gli angeli: a tutti ne viene assegnato uno, ma i più sfortunati hanno angeli incauti e poco premurosi.» Ci trovavamo su un ampio terrazzamento che guardava su una vallata che con ogni probabilità mai prima aveva visto la luce. In quel momento era illuminata dall'avanzata dei tornado, i Dieci Figli, che formavano una linea non compatta di chiarore vorticoso e stridente. Da come seguivano le
fiaccole dei cannibali ciechi che facevano parte della schiera di Gaynor, era evidente che fossero ordinati da qualcosa. Le torce non erano certo per loro, ma per Gaynor e i nazisti, i cui cavalli erano pure ciechi. Di quando in quando sulla parete di roccia antica e carnosa si proiettava un'ombra immensa: i giganteschi troog, i selvaggi non vedenti, i nazisti in ciò che restava delle loro uniformi nere e argento. Un'alleanza davvero ripugnante. Uomini e bestie. Mezzi uomini e mezze bestie. Andature dinoccolate e ballonzolanti, arrancanti e danzanti, a piedi e a cavallo. Alcuni inciampavano. Ironia della sorte, avendo imparato ad adattarsi all'oscurità, restavano spesso accecati dalla luce. Un esercito sbrindellato. Un esercito infame. Un esercito mostruoso, che marciava inesorabile verso i Feudi Grigi. «È possibile» commentai «che i nostri angeli custodi ci abbiano già abbandonato. Avevate mai visto qualcosa di altrettanto grottesco?» Indicai l'armata di Gaynor. «Di rado» rispose Oona. Il suo viso dolce e bellissimo, incorniciato dai lunghi capelli bianchi, si voltò verso di me con un'espressione di sarcastica intelligenza. Per un attimo, mentre allontanava lo sguardo, provai una sensazione insolita e straordinaria. Me ne stavo innamorando, e ovviamente gli aspetti morali della faccenda costituivano già motivo di riflessione. Oona non era mia figlia. Era figlia di Elric. Ma fino a che punto un essere consapevole del proprio ruolo nel multiverso decide di ignorare i legami e le relazioni che ha in comune con milioni di altri esseri? Quella piena consapevolezza aveva degli svantaggi anche troppo evidenti. Forse, anni prima, durante l'iniziale avviamento alla stregoneria, a Elric era stata data la possibilità di scegliere tra sapere e non sapere e lui aveva deciso di non voler essere al corrente della realtà del multiverso. Altrimenti era molto probabile che non sarebbe stato in grado di agire come, invece, aveva fatto. Cosa provocherebbe l'essere consapevoli che ogni azione che si compie causa conseguenze nel tempo e nello spazio? Si diventerebbe estremamente cauti riguardo alle compagnie che si frequentano. Alle cose che si dicono o si fanno. Si potrebbe addirittura arrivare alla totale inattività. O essere riportati a uno stato di assoluta ignoranza per il rifiuto della mente di incamerare qualunque tipo di informazione. Oppure si potrebbe diventare del tutto imprudenti, pronti, come Elric, a rischiare ogni cosa. Perché se si rischia e si perde, il premio, dopo tutto, è il completo oblio. Ed è proprio all'oblio che quella povera anima torturata aspirava tanto spesso. Questa caratteristica lo rendeva un alleato inaffidabile. Non tutti cerchiamo o troviamo l'oblio in battaglia. Una parte di me
sperava ancora di ripristinare la tranquillità della mia antica dimora, di ritornare ai sereni piaceri della vita di campagna. Anche se al momento quella prospettiva non sembrava certo facilmente o rapidamente realizzabile. Elric aggrottò le sopracciglia per un pensiero che gli attraversò la mente. Pareva stesse calcolando qualcosa. Lo guardai con un certo nervosismo, augurandomi che non decidesse per una delle sue mosse avventate. Noi tre da soli non potevamo affrontare quelle strane forze. Con grande cautela, utilizzando tutti i possibili ripari, piano piano ci avvicinammo al terribile esercito di Gaynor. I demoni del vento sembravano posizionati a protezione dei fianchi e della retroguardia. Non riuscivo neppure a immaginare in che modo mio cugino riuscisse a comandarli. «Come fai a conoscere quei tornado senzienti?» bisbigliai. «Li avevi già incontrati?» «Non tutti e dieci» rispose Elric. La mia interruzione l'aveva reso più impaziente. «Una volta ho evocato loro padre. Dominano tutti aspetti diversi degli elementi, quegli esseri del vento. Sono molto protettivi verso i loro singoli regni. Sono capaci di grandi rivalità. E possono essere mutevoli. Questo non è lavoro per gli sharnah, artefici di burrasche, ma per gli H'Haarshann, creatori di tornado.» Mi zittii di nuovo. L'istinto mi suggeriva di voltarmi, ripercorrere la strada a ritroso, trovare le cascate e la via per tornare a Hameln. Avrei preferito rischiare di ripiombare tra gli orrori di un campo di concentramento nazista piuttosto che affrontare nuove minacce soprannaturali. L'esercito in marcia si fermò. Piantarono un accampamento. Che a Gaynor servisse un po' di tempo per ponderare l'azione successiva? I Dieci Figli si misero a guardia di quell'immensa orda formando un cerchio all'intorno. Studiai l'abbacinante candore meglio che potei, cercando di capire da cosa fossero realmente costituiti i Dieci Figli, ma la vista cominciò subito a farsi confusa. Mi era impossibile fissare i demoni del vento per più di qualche secondo. Mi chiesi se proteggendomi il viso con della stoffa un po' rada avrei fatto meno fatica a scoprire la forma di base che fungeva da nucleo dei tornado. Forse, però, mi stavo solo ingannando. Forse non esisteva alcuna forma di base. Elric mormorò: «Dieci Figli ora vengo da voi, dalla mia lady M. andrò poi.» Parlava in rima. A dire il vero, anche il suo respiro aveva una certa rit-
micità che in precedenza non avevo notato. I suoi movimenti assunsero la connotazione di una danza. Aveva praticamente dimenticato la presenza mia e di Oona. Lo sguardo era fisso su qualcosa di molto lontano. Preoccupato, mi mossi verso di lui per toccargli la spalla e domandargli se si sentisse bene, ma Oona si portò un dito alle labbra e mi spinse via. Osservava il padre con aria di attesa, e quando riportò lo sguardo su di me, negli occhi pareva avere un lampo di orgoglio, di possesso, quasi a dire: «Aspetta. Mio padre è un genio. Vedrai.» Lo conoscevo intimamente quanto è possibile conoscere un altro essere umano, nel profondo, anima verso anima. Per lui provavo un notevole rispetto e grande comprensione, ma mai prima di allora avevo pensato che potesse essere un genio. Elric ci ammonì di parlare a bassa voce, se proprio dovevamo farlo. I Dieci Figli avevano un udito molto acuto. E tutto a un tratto Elric era in movimento, scendeva le rocce più vicine e, forse in risposta alla mia domanda inespressa, mormorava: «Anticopadre. Ad Anticopadre serve un po' di sangue fresco.» Per un attimo scomparve. Udii un suono musicale. Dolce, minaccioso. Lo vidi più in basso che si avvicinava cauto all'accampamento di Gaynor. Aveva sguainato Brandocorvo e la reggeva con la mano destra. Il tempo passava. L'accampamento era addormentato. Io continuavo a stare di guardia e a osservare, in attesa del ritorno di Elric. Oona, invece, mi si accoccolò accanto, dicendomi di svegliarla nel caso mi fosse venuto sonno. Finalmente udii un rumore sotto di noi e scorsi una sagoma familiare. Elric si stava trascinando dietro qualcosa. Un qualcosa che brontolava e gemeva a ogni urto sul terreno roccioso. Poi lo rividi sull'altro lato, sempre al di sotto rispetto a me. Là le rocce formavano un piccolo anfiteatro naturale al centro del quale Elric scaricò il suo trofeo. L'essere si dimenò per qualche istante, finché lui gli sferrò una pedata. A quel punto scorsi il suo viso. Gli occhi erano due rubini vitrei e fiammeggianti. Fissavano un mondo che ancora neppure riuscivo a immaginare. Fissavano l'Inferno stesso. Le labbra si muovevano, la spada descriveva nell'aria complicate geometrie, tutto il corpo cominciava a ruotare seguendo movimenti rituali, in una sorta di danza spettrale. Oona si svegliò e mi si sdraiò accanto, a osservare Elric che tagliava i legacci che immobilizzavano la sua vittima. Riconobbi quell'essere umano terrorizzato: era uno dei nazisti giunto là insieme a Gaynor. Ringhiava
come un cane in trappola, ma nei suoi occhi trionfava un orrore assoluto e non riusciva a controllare un forte tremito. Cercò di colpire Elric. Brandocorvo lo sfiorò, e lui ritirò la mano ferita. Brandocorvo lo sfiorò di nuovo. Sul suo volto si delineò una sottile striscia di sangue. E poi ancora. La cenciosa camicia che gli copriva il petto ricadde a scoprire un'altra linea rossa che andava dal collo all'ombelico. Il nazista cominciò a frignare, tentò di trovare una via di fuga, alleati, Dio, qualunque cosa. La spada lo assaggiò. Lo gustò. Ne assaporò il sangue goccia a goccia. E mentre si dilettava con quel miserabile piagnucoloso, Elric canticchiava in tono sommesso e ossessivo un canto privo di parole. La cadenza saliva e scendeva. Ero stupito che simili modulazioni provenissero da una gola mortale. L'intensità cresceva gradatamente, e un poco alla volta il nazista moriva, con brandelli di carne che si staccavano sotto i suoi occhi. La spada continuava la propria opera raffinata e terribile. Oona allungava il collo per vedere meglio, affascinata, in questo degna figlia di suo padre. Aveva lo sguardo di un felino. Io, invece, più di una volta fui costretto a guardare altrove. Costretto dal suono di quella voce, che saliva e scendeva, diventando sempre più forte, dalla vista dello stesso Elric, i selvaggi occhi cremisi rivolti verso l'oscurità superiore, le labbra socchiuse a creare qualcosa che stava tra una melodia e un grido, la pelle bianca rilucente e la grande spada nera ricoperta di rune che riduceva in pezzi un essere umano proprio davanti ai suoi occhi. L'abilità di Elric era stupefacente al punto che il nazista non aveva mai perso conoscenza. L'uomo indossava ancora gli stivali neri da SS. Si inginocchiò davanti al mio doppio e le lacrime si mescolarono al sangue mentre la lama di Elric gli cavava gli occhi dalle orbite, lasciandoli appesi a sottili filamenti muscolari, spenzolanti sulle guance rigate. La maggior parte del tempo la stentorea voce di Elric sovrastava le orrende grida del nazista, che lo implorava di risparmiarlo o ucciderlo, e la cosa era un sollievo per me. Spada e uomo agivano all'unisono: due intelligenze legate da un patto terribile. Mai prima di allora avevo percepito tale istinto in Brandocorvo. Il fatto che fosse Elric a usarla pareva avere risvegliato il male insito in quel ferro. Le rune rosse scivolavano lungo l'intera lunghezza della lama, pulsando come vene. L'arma sembrava gradire le sottili, disgustose ferite che infliggeva alle carni sanguinolente del nazista. Era senza dubbio lo spettacolo più nauseante a cui avessi mai assistito. Di nuovo distolsi lo sguardo. Poi udii Oona trattenere il fiato e tornai a
guardare. Vicino al corpo straziato del nazista si era creata un'altra sagoma. Gli si avvolgeva attorno, dentro e fuori, crescendo come qualcosa di organico. Piano piano, simile a un serpente, inghiottì la vittima di Elric, quindi prese ad agitarsi e sputò ciò che di non commestibile rimaneva del corpo. Proruppe verso il soffitto della caverna, turbinando in alto come una nube. Una nube in cui minuscoli filamenti luminosi sembravano lampeggiare e fremere, assumendo il colore del sangue del nazista mentre l'uomo squittiva come un maiale squartato, consapevole ormai che esistevano destini peggiori di quello che aveva appena patito. Infine si abbandonò alla nuvola. Al di sopra di ogni altro rumore udii la voce di Elric. «Padre dei Venti. Padre della Polvere. Padre dell'Aria. Padre del Tuono. H'Haarshann Anticopadre. Il più antico dei padri. H'Haarshann Anticopadre, padre del primo.» Comprendevo le parole che stava pronunciando, perché ormai conoscevo quelle cose,'e sapevo che stava consegnando il martoriato mortale a colui che aveva invocato. «Anticopadre! Anticopadre! Vi porto ciò che il signore di H'Haarshann richiede. Porto a voi l'esotica carne che bramate.» La nube grugnì. Era soddisfatta, ed emise una sorta di sibilo sommesso. A quel punto la luce scarlatta riprese a danzare e a saltellare, formando una figura. Credetti di vedere il viso avvizzito di un vecchio dall'aria vendicativa, con lunghi fili di capelli lisci e flosci sulle spalle rattrappite. Una bocca sdentata le cui labbra schioccarono quando anche l'ultimo brandello della vittima sacrificale fu assorbito. Dopo di che quella stessa bocca si stirò in un ghigno. «Sai come nutrire un vecchio amico, principe Elric.» La voce era una brezza sussurrata, uno zefiro, un alito di vento. «Come è già accaduto, H'Haarshann Anticopadre.» Il mio quasi gemello aveva rinfoderato la sanguinaria spada nera e stava a braccia tese, in atteggiamento di rispetto. «E come accadrà ancora, finché vivo. Questo è il nostro patto. Stipulato dai miei avi milioni di anni fa.» «Ahaaaa...» Un profondo sospiro. «Sono così in pochi a ricordare. Ho intenzione di garantirti il mio aiuto per ricambiare questo squisito momento. Cosa desideri da me?» «Qualcuno ha chiamato i vostri figli su questo livello. Si sono comportati molto male. Hanno fatto seri danni.» «È nella loro natura. È questo che devono fare. Sono tanto giovani, i
miei dieci figli. Sono i dieci grandi H'Haarshann che si spostano nei mondi.» «Proprio così, Anticopadre.» Elric lanciò un'occhiata ai resti del nazista. Come un'aquila prende ogni parte dell'uccellino tranne le penne, così Anticopadre aveva preso il mortale, lasciando null'altro che brandelli insanguinati della divisa da SS. «Sono stati condotti qui dai miei nemici, strappati alla loro zona tra i mondi. Per minacciare la vita mia e dei miei.» Anticopadre ebbe un fremito. «Ma senza di te non potrei assaporare la squisita fragranza della carne umana. E i miei Dieci Figli hanno altro da fare, soffiare il mio volere sui mondi.» «Proprio così, grande Anticopadre.» «Non è rimasto nessun altro oltre a te, dolce mortale. Nessuno che sappia cosa Anticopadre ama gustare.» In quell'istante Elric alzò lo sguardo e i suoi occhi incontrarono i miei. Lo scherno beffardo nella sua espressione mi fece volgere il capo per il disgusto. Sapevo che Elric di Melniboné somigliava soltanto a un uomo, che il suo sangue era di un genere molto più vecchio e crudele del mio. Nel mio mondo un sacrificio tanto selvaggio e sadico poteva essere perpetrato solo da un folle. Per Elric e quelli come lui, simili pratiche rappresentavano uno stile di vita, venivano perfezionate come un'arte e ammirate come uno spettacolo. A Melniboné veniva lodato chi moriva con classe e chi meglio intratteneva il pubblico con la propria morte. Ciò che Elric aveva appena fatto non gli procurava alcuno scrupolo di coscienza. Quelle azioni si erano rese necessarie e per lui erano del tutto naturali. Anticopadre sembrava soppesare il valore del sacrificio. «Vorrete godere ancora di simili festini, nobile Anticopadre?» La voce di Elric era dolce, suadente. Non c'era minaccia nelle sue parole, ma Anticopadre sentiva ancora il sapore della carne mortale e già ne desiderava altra. «Mi occuperò dei miei figli» disse l'apparizione. «Anche loro hanno mangiato bene.» Il turbinoso fuoco scarlatto si dilatò fino a somigliare a una nube volteggiante che sì diresse rapida verso il lontano soffitto della caverna, per poi sprofondare nell'oscurità e sparire, lasciando solo una debolissima luce rosea che ben presto si dissolse. Guardai verso l'accampamento di Gaynor. Si erano accorti di qualcosa. Vidi dei troog scrutare nella nostra direzione. Uno addirittura corse al centro del campo dove Gaynor aveva piantato una tenda molto appariscente, i
cui tiranti di fissaggio erano fermati da picchetti piantati nella roccia viva. Pensai che dopo tutto la morte del nazista era stata inutile. Anticopadre se ne era andato. I coni capovolti dei dieci tornado formati da luce fosforescente erano ancora a guardia dell'accampamento. Il ripugnante rituale di Elric era servito solo ad attirare l'attenzione dell'orda di Gaynor. Un gruppo di troog si mosse goffamente verso di noi. Non ci avevano visti, ma non ci sarebbe voluto molto perché scoprissero dove ci trovavamo. Mi guardai attorno alla ricerca di una via di fuga. Solo Oona era armata. La mia spada era in mano al mio doppio. Non ero certo che in futuro avrei provato lo stesso sentimento di un tempo nei confronti di quella lama. Sempre ammesso di averlo, un futuro. I troog stavano cominciando a scalare la roccia. Sentivano il nostro odore. Cercai qualcosa da lanciare contro di essi. I sassi erano l'unica arma a mia disposizione. Con un rapido sguardo mi accorsi che Elric era caduto in ginocchio, esausto. Mi chiesi se sarei riuscito a raggiungere la spada prima che fossero i troog a raggiungere noi. Se avrei mai potuto maneggiare ancora quel ferro. Oona incoccò una freccia e prese la mira. Si guardò dietro le spalle un paio di volte, incredula del fatto che Elric avesse fallito, che Anticopadre avesse preso quanto gli veniva offerto per poi lasciarci senza l'aiuto che sembrava avere promesso. Non lontano dal grigio orizzonte colsi un movimento che non riuscii a decifrare. Un lampo scarlatto che cominciò a prendere velocità nella nostra direzione, rapido, sempre più rapido, e che produceva un rumore possente, come se qualcuno pizzicasse le corde di una chitarra gigantesca il cui suono veniva amplificato nell'intero creato. Inerpicandosi, Elric si affrettò a raggiungerci. Stava sogghignando. Ansimava come un lupo e gli occhi rilucevano di selvaggio piacere. Era uno sguardo trionfante, famelico. Non disse nulla ma fissò la nube scarlatta che si avvicinava. Al luogo dove i Dieci Figli danzavano, sul limitare dell'accampamento di Gaynor. Poi alzò la testa, levò alta la nera spada di rune in un gesto di vittoria e iniziò a cantare. Conoscevo quel canto. Conoscevo Elric. Ero stato Elric. Sapevo cosa significava. Sapevo cosa diceva. Ma quello che non potevo sapere erano gli effetti che provocava. Credo che mai, nella mia vita di frequentatore di
concerti, mi fosse capitato di udire tanta straordinaria bellezza. Anche se c'era una minaccia sottintesa, se c'era trionfo, se c'era una crudele esultanza, era comunque bellissimo. Ebbi la sensazione di sentir cantare un angelo. Quella strana voce convogliava più di una melodia, molte armonie. Faceva salire le lacrime agli occhi. Faceva provare dolore e compianto. Mi stavo dolendo per la morte di un uomo che avevo visto uccidere. Ascoltavo la voce di una sofferenza che mai prima aveva invaso il mondo. Per un attimo il canto di Elric fermò i troog. Guardai Oona. Piangeva. Aveva compreso qualcosa di suo padre che mi sconcertava e, quindi, probabilmente confondeva anche lui stesso. Il canto divenne più pieno e mi accorsi che Brandocorvo si era unita a Elric. Un suono quasi tangibile. Lo sentii avvolgermi. Ne percepii la complessità, un migliaio di sensazioni diverse che mi attraversavano il sangue e i nervi tutte allo stesso tempo. Quella canzone aveva rafforzato una parte di me, pur avendomi indebolito fisicamente al punto che quasi non mi reggevo in piedi. Poi si aggiunse un altro canto, da molto lontano, nei pressi del grigio orizzonte. Vidi filamenti di luce scarlatta irradiarsi da una fonte nascosta. Dita scarlatte, simili a funi, serpeggiavano attorno alle colonne di roccia e raggiungevano le truppe di quell'immenso esercito. Una mano gigantesca si stava allungando nella caverna. La mano di Dio. O la mano di Satana. La mano fiammeggiante si chiuse in un pugno che si immerse in ognuno dei Dieci Figli, i quali turbinarono e ronzarono in preda a un'improvvisa furia, nel tentativo di opporsi alla disciplina di Anticopadre. Il fuoco bianco si disperse e si slanciò lontano, ma la mano si estese fino ad avvolgerlo. Nel frattempo l'accampamento di Gaynor era in subbuglio. Vidi una figura uscire dalla propria tenda e montare su uno dei cavalli ciechi. Udii suono di trombe, rullar di tamburi. La confusione regnava sovrana, mentre uomini vestiti solo in parte cercavano di controllare i rispettivi destrieri. I cannibali privi della vista giravano disordinatamente in tondo raccogliendo le armi. Solo i troog erano del tutto svegli. Molti stavano tornando indietro, correvano nell'oscurità per allontanarsi dai Feudi Grigi, mentre la rossa mano di Anticopadre radunava i propri figli selvaggi che protestavano rumorosamente. La distruzione che causavano nel tentativo di sfuggirgli fece precipitare altri massi sul fondo della caverna e piroettare nell'aria altre pietre. Un mare di torce ardenti si muoveva caotico in tutte le direzioni, seguendo la richiesta di Gaynor di avere più luce.
Ora riuscivamo a vederlo, sul grande cavallo albino i cui rossi occhi ciechi ruotavano mentre sbuffava e annusava, le orecchie alla frenetica ricerca della fonte dei rumori. Tuttavia Gaynor riusciva a controllare lo stallone con le ginocchia e una sola mano, dato che nell'altra reggeva la spada d'avorio, quella che la stregoneria di Miggea aveva creato per lui. Diede di sprone nella nostra direzione, anche se dubitavo che potesse avere un'idea chiara di ciò che stava accadendo. Il suo obiettivo principale era far tornare all'accampamento i troog e i selvaggi in fuga. I suoi uomini lo seguivano, anch'essi a cavallo, e davano colpi di frusta ai soldati a piedi, urlando e provocando ulteriore panico. Due dei nazisti cavalcavano dietro ai troog che si apprestavano ad attaccarci. Non avevano una lingua comune. Alle grida dei nazisti i troog rispondevano gridando a loro volta. All'improvviso Elric uscì dal riparo e si mise a correre a una velocità incredibile lungo la discesa che portava verso i nazisti. Brandocorvo era ancora nella sua mano destra. La spada ululò con trionfante gaiezza mentre tagliava il collo del primo SS. Elric fece cadere di sella il cadavere e prese il suo posto, spronando il destriero cieco direttamente contro l'altro nazista, che stava già tentando di fuggire per la strada da cui era venuto. Troppo tardi. Elric fece roteare Brandocorvo di lato, sfruttando l'eccezionale bilanciamento della spada per sferrare un colpo così pesante da staccare di netto la testa del nazista dal collo, come fosse stata una verza sul proprio fusto. Si allungò a prendere le redini del cavallo e tornò indietro da noi, disperdendo troog al suo passaggio. «Ecco la cavalcatura per uno di voi» disse. «L'altro deve procurarsela da sé.» Trattenni il cavallo perché Oona ci potesse salire, ma lei scosse il capo sorridendo. «Non so montare» spiegò. «Non ho mai dovuto imparare.» Ripose la freccia nella faretra. I troog avevano abbandonato l'idea di attaccarci. Mi misi in sella. Era un ottimo cavallo, che rispondeva bene. Dissi a Oona di montare dietro di me, ma si mise a ridere. «Ho i miei sistemi per viaggiare» disse. «Ma la ringrazio comunque per la gentilezza.» Gaynor aveva visto qualcosa perché ci stava caricando, gli uomini alle sue spalle, Klosterheim al suo fianco. Non vedevo l'ora di potermi finalmente confrontare con lui faccia a faccia.
Elric voltò il cavallo, segnalando che avremmo dovuto dirigerci verso il luogo da cui eravamo giunti. Si piegò sulla sella e raccolse una torcia gocciolante. Me la diede e ne cercò un'altra per sé. I cavalli erano eccitati. Volevano galoppare. Sapevo che in quel buio avrebbe potuto essere pericoloso, ma mio cugino stava guadagnando terreno. In quello scenario bizzarro era diventato un cavaliere molto più abile di quanto io potessi mai sperare di essere. Mi guardai attorno alla ricerca di Oona. Era scomparsa. Elric mi gridò di seguirlo. Non avevo scelta. A mia volta gli urlai di fermarsi, di aspettare sua figlia, ma quando udì le mie parole si mise a ridere e mi fece cenno di affrettarmi. Non era affatto preoccupato per la ragazza. Non potevo che fidarmi di lui. Ci tuffammo nella risonante oscurità mentre alle nostre spalle i Dieci Figli si esibivano in un ultimo mulinello. Erano stati afferrati tutti da quell'unica grande mano rossa stretta a pugno e stavano ronzando e rombando mentre le dita modellavano, plasmavano, foggiavano la possente luce candida in qualcosa che somigliava a una sfera e la scagliavano verso l'alto, su su, fino ad avere una luna sopra le nostre teste. Poi diventò una stella. Un punto luminoso. Quindi si dissolse. Un ringhioso brontolio della nuvola rossa e anche Anticopadre era svanito. Rimanevamo soltanto Elric e io, che spingevamo i cavalli a tutta velocità nel buio in direzione di Mu Ooria, mentre Gaynor e i suoi, latrando per il desiderio di sangue, il nostro, ci inseguivano con fragor di tuono. Seguimmo la via creata dai Dieci Figli, sfiorando colonne spezzate, muovendoci a zigzag tra cumuli di macerie. Se non avessi saputo come stavano realmente le cose, avrei giurato che i cavalli vedessero perfettamente, tanto il loro passo era sicuro. Forse avevano sviluppato alcune delle caratteristiche dei pipistrelli. In un raptus di umorismo provai il desiderio che avessero anche le ali. Fui distratto da qualcosa di bianco che si muoveva davanti a me, lungo l'ampia strada. La lepre bianca correva veloce come più non si poteva. Verso le lontane torri di Mu Ooria. Mi rifiutai di credere a ciò che pareva maggiormente ovvio. Mi dissi che la lepre bianca ci aveva ritrovati, che ci aveva seguiti da Tanelorn, quando inseguita da Miggea si era spinta nel nostro territorio. Ma mentre l'inseguiva, Elric sorrideva. Per un attimo pensai le stesse dando la caccia, ma si tenne alle sue spalle. Stava seguendo la bestiola.
Dietro di noi giungeva Gaynor, che urlava come uno scimmione arrabbiato e la cui voce echeggiava in quel misterioso cimiero, mentre il mantello gli turbinava attorno come un oceano agitato. I rossi occhi ciechi del suo destriero puntavano in avanti. Reggeva la spada d'avorio come fosse una bandiera. Gli sbrindellati resti della sua guardia di SS lo seguivano da presso. Solo Klosterheim, scarno e con gli occhi infossati come sempre, non lasciava trasparire alcuna emozione. Per un attimo, anche a quella distanza, colsi il suo sguardo torvo e sardonico. Nel modo oscuro che gli era proprio, stava godendo delle difficoltà del suo padrone. «C'è ancora molto da fare» disse Elric. Si voltò a guardare il furioso Gaynor e scoppiò a ridere. Per la prima volta cominciai a credere che forse non era pazzo. Almeno non come avevo pensato. Sua figlia lo considerava un genio. Probabilmente lo riteneva più potente della maggior parte degli stregoni. In un altro quel suo coraggio imprudente avrebbe potuto essere pazzia, ma non in lui. Era in grado di dominare forze che nessun essere mortale poteva comandare. E soprattutto, come avevo visto, le sue alleanze risalivano a generazioni su generazioni precedenti, sangue su sangue, quando i suoi stessi avi erano stati giovani e il mondo non era ancora del tutto formato. Nonostante l'abilità predatoria che sapeva sfoggiare, per natura Elric non era un predatore. Era questo a differenziarlo dalla sua stessa gente. E forse era proprio quello il legame che univa noi tre. «Sciocco!» gridò Elric, facendo un piccolo dietro front per permettere a mio cugino di avvicinarglisi. «Pensavi davvero che avrei lasciato che uno stregone dilettante invadesse i Feudi Grigi? Io sono Elric, ultimo imperatore di Melniboné, e non accetto di venire insultato da un mero uomo-bestia. Tutto ciò che credi di avere conquistato, io te lo toglierò. Tutto ciò che credi di avere distrutto sarà ricostruito. Ogni tua vittoria si trasformerà in sconfitta.» «E io sono Gaynor, colui che ha sottomesso i signori della Legge e del Caos! Non mi puoi sconfiggere!» «Sei un illuso» urlò il mio doppio, quasi con allegria. «Non mi importa di come un uomo-bestia definisca se stesso. Hai conosciuto un momento fortunato. Avresti dovuto farne un uso migliore finché potevi.» Elric voltò di nuovo le spalle a Gaynor e spinse il cavallo a una velocità maggiore. Io riuscivo a stento a stargli dietro, ma mi stupivo comunque dell'agilità della mia cavalcatura. Percepiva ogni ostacolo sulla nostra strada. Per una corrente improvvisa le fiaccole presero a sgocciolare e la
fiamma si agitò minacciando di spegnersi, ma i cavalli continuarono a correre. Gaynor non ci avrebbe messo molto a raggiungerci, seguendo la nostra luce. Quando le torce ripresero vita, scorsi Oona. La figlia della ladra di sogni era in piedi a lato della strada e ci faceva dei cenni. Elric spense la fiaccola e mi indicò di fare lo stesso. Udimmo Gaynor e i suoi galoppare alle nostre spalle. Vedemmo la livida luce delle loro torce. Ci erano quasi addosso e non ero certo che Elric avesse ancora energie sufficienti per ingaggiare battaglia con tutti quegli uomini. Senza la spada, io sarei stato subito ucciso o catturato. Davanti a me scorsi un flebile chiarore. Potevo ancora sentire Gaynor e la sua banda di nazisti. Si avvicinavano. Poi, quasi all'improvviso, il rumore si spense diventando lontano, debole, mentre la luminosità di fronte pareva un pochino più vivace. Stavamo cavalcando all'interno di una sorta di tunnel naturale, seguendo la lepre bianca dal piede lesto. Il soffitto della galleria rifletteva la luce. Era screziato, cangiante, come la marezzatura di un libro, come la madreperla. I suoni dell'esercito di Gaynor si erano spenti del tutto. Non aveva scelto quella via. Mi resi conto che Elric - o forse la lepre bianca - non intendeva fare ritorno a Mu Ooria, almeno non subito. Dopo un po', il principe di Melniboné riaccese la torcia e io seguii il suo esempio. Stavamo arrivando alla fine del tunnel. La galleria conduceva in basso e si apriva su una grande grotta circolare che un tempo era evidentemente stata abitata da esseri umani. Resti consunti di abiti e antichi utensili facevano pensare che gli occupanti fossero stati uccisi mentre erano lontani da casa. Pareva che ci avesse vissuto un'intera tribù. Tutto raccontava di un disastro improvviso. Elric però non era interessato ai precedenti proprietari. Sollevò la torcia per ispezionare la grotta, sembrò abbastanza soddisfatto e scese da cavallo. Udii un movimento alle mie spalle e mi voltai. Oona era là, appoggiata al suo arco. Non le domandai quale magia l'avesse condotta in quel luogo. O quale sortilegio avesse usato per condurre lì noi. Non credevo di aver bisogno di chiedere né di sapere. Lasciando ardere le fiaccole in fori nella parete chiaramente realizzati per quello scopo, Elric mi fece cenno di smontare da cavallo e di seguirlo all'ingresso del tunnel. Voleva essere certo che Gaynor non ci avesse scoperti. Avanzammo con cautela, aspettandoci di scorgere i nostri inseguitori, ma a quanto pareva li avevamo seminati. Fuori della galleria era buio pesto. Udii Elric fiutare. Sentii la sua mano che mi strattonava per farmi
andare con lui. Ci muovevamo nell'oscurità più totale, ma Elric aveva il passo sicuro e utilizzava sia le orecchie sia il naso per orientarsi. Una volta di più mi colpirono le differenze tra noi. Era un melniboneano. I suoi sensi erano molto più acuti dei miei. Quando fu assolutamente convinto che Gaynor e i suoi uomini avessero proseguito la cavalcata, senza avere la minima idea di dove ci fossimo nascosti, mi ricondusse al tunnel e nella vasta grotta dove Oona era già affaccendata con un fuoco e il cibo che avevamo preso al troog. Fu un pasto frugale. Elric sedeva a una certa distanza da noi. Era accigliato, feroce. Evidentemente immerso nei suoi pensieri, non desiderava essere disturbato. Oona e io scambiammo poche parole. Mi rassicurò dicendo che non ci stavamo nascondendo soltanto. Avevamo bisogno di un luogo come quello in cui ci trovavamo perché era necessario ricorrere di nuovo alla stregoneria. Non sapeva per quanto ancora suo padre avrebbe potuto trovare l'energia per continuare, da qualunque fonte provenisse. C'era ancora così tanto da fare, mormorò. Stava molto attenta a far sì che il padre non ci udisse. Quando avemmo terminato, Elric ci fece cenno di alzarci e uscire. Una volta certo che Gaynor non era più in zona, mi disse di portare i cavalli, e tutti e tre ci mettemmo in viaggio nell'oscurità, seguendo una piccola e sottile candela a combustione lenta che Elric teneva in mano per guidarci. Cavalcammo per chilometri sul fondo roccioso della caverna finché ci arrestammo. Un'altra sosta di controllo, poi Elric estrasse una delle torce e la accese. Quell'area di mondo sotterraneo non recava traccia del passaggio dell'esercito di Gaynor. Sembrava immota e inviolata da sempre. Ma dove un gruppo di stalagmiti formava quello che somigliava a un cerchio di OffMoo con la testa china in preghiera, vidi un corpo. Uno dei grandi felini che i troog temevano tanto e che Gaynor aveva in qualche modo stregato. Era una forma enorme. Elric si avvicinò tentando di sollevarla, quindi arrivò anche Oona e poi io. Riuscimmo appena ad alzare l'animale dal pavimento della caverna. «Dobbiamo riportarla indietro con noi» disse il melniboneano. «Useremo i cavalli.» I suddetti cavalli non erano affatto contenti di stare vicini alla pantera, figuriamoci di essere utilizzati per trasportarla. Riuscimmo a realizzare un'imbracatura e, superando altri piccoli problemi, fummo infine in grado
di portare il grande corpo fino al nostro nascondiglio. Oona e io eravamo esausti, ma Elric era animato da una nervosa eccitazione. Pregustava quanto avrebbe dovuto fare con evidente piacere. «Perché abbiamo portato qui questo animale?» osai domandare. La sua risposta fu sdegnosa. «Un'ulteriore Chiamata» disse. «Prima, però, avremo bisogno di un sacrificio adeguato.» Guardai Oona. Che avesse intenzione di uccidere uno di noi? VECCHI DEBITI E NUOVI SOGNI Oona fece un rapido cenno con il capo e corse fuori della grotta. Elric la lasciò andare. A me non prestava attenzione. Mi chiedevo se fosse perché non desiderava approfondire il rapporto con un uomo che presto avrebbe potuto dover uccidere. Che ironia, pensai, se fosse la mia stessa spada a bermi l'anima. Dopo un po' il mio doppio si alzò, prese un cavallo e si rimise in marcia verso l'ingresso del tunnel. «Vuoi che rimanga qui?» gli domandai. «Fa' come desideri» rispose. Lo seguii. La curiosità era molto più forte del timore che potesse scagliarsi contro di me. Era montato in sella e spingeva avanti il cavallo nell'oscurità. Per fortuna il mio destriero tendeva a seguire il suo, e in questo modo riuscii a procedere di pari passo con il melniboneano. Infine scorgemmo di nuovo le luci dell'accampamento di Gaynor. C'era ancora grande confusione. Udimmo grida e maledizioni. Elric smontò, mi porse le redini e mi disse di aspettare. Quindi avanzò cauto verso il campo. I fuochi si erano spenti e non era più facile vedere all'intorno. Ben presto però cominciai a udire urla e strilli selvaggi, pianti e implorazioni, e seppi che Elric stava reintegrando le energie. Dopo qualche tempo, il suo viso candido apparve all'improvviso dall'oscurità. I lucenti occhi di rubino avevano un che di caldo e soddisfatto, e mentre ansimava come un lupo ben nutrito teneva le labbra socchiuse. Su di esse potevo scorgere il sangue. E anche sulla lama nera che reggeva nella mano destra si stava rapprendendo del sangue. Sapevo che c'era voluta almeno una decina di anime per
soddisfare sia la carne sia il ferro. Cavalcammo in silenzio, tornando da dove eravamo venuti, e nessuno ci seguì. Avevo l'impressione che Gaynor e i suoi uomini stessero ancora galoppando per le vaste caverne di Mu Ooria, pensando forse che l'ultimo signore di Melniboné avesse fatto ritorno alla città devastata. Durante il tragitto nell'oscurità, Elric non disse nulla. Stava chino sulla sella e continuava a respirare piano, un predatore sazio. Per quanto fossimo affini, nella mente e nel sangue, mi ritrovai a rabbrividire di fronte a quella oscenità. Troppa parte del rosso fluido che mi scorreva nelle vene era umana, non abbastanza melniboneana, per apprezzare la vista del mio congiunto, antenato o quello che fosse, che assorbiva le anime che aveva rubato. Ma che anime nere erano! Mi sentii dire. Non servivano forse uno scopo più alto, ora? Non avevano meritato di morire in quel modo perverso e terribile, dati i crimini che avevano già commesso, i sacrilegi che avevano compiuto? Non era proprio della mia anima di cristiano civilizzato rallegrarsi. Potevo soltanto dispiacermi per la distruzione di così tanti per una causa tanto empia. Per un attimo credetti di aver perso Elric e accesi la mia piccola candela, ma poi scorsi il suo volto demoniaco, i fiammeggianti occhi rossi, e la sua bocca indignata mi ordinò di spegnere quella fonte di luce. Era irritato con me come un uomo può esserlo con un cane male addestrato. In quel viso non scorsi nulla di umano. Comunque, mi ero comportato da stupido. A quel punto Gaynor doveva essere sulla via del ritorno dalla città, dato che non ci aveva trovati, e in quel buio anche una minuscola luce poteva essere individuata a distanza di chilometri. Solo quando fummo di nuovo nel tunnel Elric mi permise di illuminare il nostro cammino. Era chiaro che Oona aveva dormito mentre eravamo fuori. Lanciò un'occhiata misteriosa e preoccupata al padre, poi a me. Non potevo spiegarle nulla. Non potevo raccontarle nulla. Tra uomo e spada esisteva una simbiosi vampiresca. Chi poteva dire quale dei due nutriva l'altro? Supposi che avesse familiarità con quel genere di cose. Sua madre doveva avergliene parlato, e anche in caso contrario ormai aveva visto con i propri occhi. Elric camminò barcollando fino al centro della grotta dove avevamo posto l'enorme massa del felino nero. Appoggiò il capo contro quel corpo lustro, contro il gigantesco cranio dell'animale. Mormorando qualcosa, si
mise al lavoro. Oona non era in grado di rispondere alla domanda che non avevo formulato. Affascinata, osservava suo padre girare attorno alla grande belva, bisbigliando, gesticolando nell'aria, come cercasse di rammentare un incantesimo. Forse era proprio quello che stava facendo. Dopo un po' alzò lo sguardo e lo fissò dritto su di noi. «Avrò bisogno del vostro aiuto in questo.» Aveva parlato quasi con rabbia, come disgustato di se stesso. Doveva essere sorpreso della propria persistente debolezza. Forse il tipo di stregoneria che aveva eseguito l'aveva svuotato più di quanto avesse preventivato. Sapevo di non avere scelta in proposito. «Cosa devo fare?» «Niente, per ora. Te lo dirò quando sarà il momento.» La sua espressione, quando guardò la figlia, era quasi pietosa. Non sono certo di non averlo immaginato, ma mi parve che la ragazza mi si fosse avvicinata, per ottenere un po' di conforto. Elric sembrava soffrire. Per un istante, ogni muscolo del suo corpo sembrò avere vita propria, poi precipitò in una stillante immobilità. I suoi occhi abbaglianti fissavano mondi e creature ben al di là della mia comprensione. Non riuscivo a dare un senso compiuto alle frasi che pronunciava, eppure una parte di me ne conosceva il significato anche troppo bene. Una parola, in particolare, aveva una risonanza speciale e lui la ripeté più e più volte: Meerclar... Meerclar... Meerclar... Un nome. Significava più di quello. Significava amicizia. Un legame. Qualcosa di simile all'affetto. Antico sangue. Vecchi vincoli... E altro. Significava accordi. Accordi conclusi per durare per l'eternità. Patti scritti con sangue e anime. Patti tra una creatura non umana e un'altra. Meerclar! La parola diventava più acuta, tagliente. MEERCLAR! Il suo volto risplendeva come avorio in fiamme. Gli occhi erano tizzoni ardenti. I lunghi capelli scompigliati gli si agitavano attorno come fossero vivi. Una mano reggeva Brandocorvo, puntata verso l'alto, mentre l'altra afferrava l'aria, descrivendo geometrie che esistevano in migliaia di dimensioni. MEERCLAR! GRANDE SIGNORE DELLA ZANNA E DELL'ARTIGLIO! MEERCLAR! I TUOI FIGLI SOFFRONO, AIUTALI, MEERCLAR! AIUTALI IN NOME DEL NOSTRO ANTICO PATTO! MEERCLAR! Le corde vocali si tendevano e si torcevano per pronunciare quel nome. Il corpo di Elric beccheggiava e vibrava come una nave in balia di un tifone. Ne aveva quasi perso il controllo, ma nonostante ciò
continuava a parlare e a stringere l'elsa della Spada Nera. Un ruggito da un punto imprecisato. Un forte odore di animale. Il tambureggiare di un respiro. Una sferzata, come di una coda di felino. MEERCLAR! FIGLIO PREFERITO DI SEKHMET! NATO DALLA NOSTRA UNIONE, NATO DALLA SIMULTANEITÀ DI VITA E MORTE. MEERCLAR! SIGNORE DEI FELINI, ONORA LA NOSTRA ALLEANZA! Il corpo dell'enorme pantera al centro della grotta si contrasse e si stiracchiò. Dal suo petto fuoriuscì un possente sbuffo. Le vibrisse si tesero. Gli occhi però non si aprirono e ben presto il felino giaceva di nuovo immobile, come se qualcosa avesse tentato di rianimarlo ma avesse fallito. MEERCLAR! Stava chiamando la più cauta e conservatrice delle creature, il meno arrendevole degli elementi, Meerclar, figlio di Sekhmet, l'archetipo di tutti i felini. Il mio doppio ululava come una burrasca. La sua voce saliva e scendeva in una serie di stridi e di gemiti che scossero le pareti della nostra grotta e dovevano senz'altro risultare udibili anche all'esterno, dove Gaynor ci stava cercando. Mi accorsi che Oona era scomparsa. Che Elric avesse preso la propria figlia come vittima sacrificale? In quel momento avrei potuto credere a qualunque cosa. I cavalli, già impauriti, cominciarono a recalcitrare e a nitrire, allontanandosi più che potevano dalla sagoma scura che si stava formando accanto alla parete più in fondo. Un'ombra che si muoveva avanti e indietro, come una fiera in gabbia. Un'ombra che sollevò una grande testa ed emise un suono che era la quintessenza della felinità, cominciando ad armonizzarsi con la voce di Elric. Una grossa sagoma nera, alta e possente, ritta su due gambe, ci guardava dall'alto in basso mentre si materializzava, quindi esalò un roboante ringhio simile a fusa e si appoggiò su tutte e quattro le zampe. Gli occhi contenevano un'intelligenza più antica di quella di Elric. La bella testa cuneiforme aveva un aspetto feroce, con vibrisse protese, zanne e splendenti occhi gialli e neri. La mostruosa coda sfiorava e minacciava di distruggere ciò che restava di quell'alloggio abbandonato da tempo. Gli immensi artigli vennero mostrati e retratti, mostrati e retratti. Mi chiesi se quel poderoso gatto soprannaturale avesse mangiato. A dispetto della mia naturale affinità con quella specie, ero nervoso. Sapevo che i felini hanno uno scarso
senso del rimorso o delle conseguenze, e questo in particolare avrebbe potuto mangiarci con noncuranza, senza malizia e neppure per fame. Questo era Meerclar, signore dei Felini. La sua immagine tremolava leggermente, dentro e fuori dalle varie realtà in cui abitava. Cominciavo a essere avvezzo a quel fenomeno che si verificava con creature che vivevano in più di una dimensione temporale. Temevo per Oona. Non riuscivo a vederla. Lord Meerclar aveva l'aria del gatto che si è mangiato da poco il topolino. Oona non mi aveva detto che una delle grandi pantere era il suo avatara in questo mondo? Ma allora cos'era la lepre bianca? Quanti avatara poteva avere una ladra di sogni? E quante vite? Elric si rivolse a lord Meerclar, la cui voce profonda rombò in risposta alle parole del mio doppio che gli raccontava cos'era accaduto. Come i membri della stessa stirpe di lord Meerclar erano caduti sotto un maleficio e costretti a un torpore che alla fine li avrebbe portati alla morte per fame. A quel punto l'immenso felino cominciò a mostrare dell'agitazione. Camminava a grandi passi su tutte e quattro le zampe, la coda che sferzava l'aria, il respiro ringhioso. Quindi si mise a sedere, meditabondo, gli artigli in bella mostra. Nell'angolo più distante i cavalli terrorizzati non sbuffavano e non sbarravano nemmeno più gli occhi. Erano agghiacciati, probabilmente certi che prima o poi sarebbero stati preda di lord Meerclar. Io ero ben poco più dinamico. Osservai Elric rivolgere la spada verso il basso. Posò entrambe le mani sull'elsa e se ne stette a gambe larghe a fissare l'enorme muso di quel felino primordiale, continuando a parlare con inflessioni insolite. Rimasi scosso, quindi, quando sentii qualcosa di caldo e umido contro il collo. Voltandomi, mi trovai davanti il muso della pantera che avevo creduto morta. Il grande felino strinse gli occhi ed emise delle fusa che gli fecero vibrare il petto. Ne sentii la saliva sul viso, ne percepii il calore contro il mio corpo. Con uno straordinario atto di sottomissione, la grande pantera si diresse verso Meerclar ed Elric, mise la testa tra le zampe e alzò lo sguardo su Meerclar. Anche il signore dei Felini prese a fare le fusa per la profonda soddisfazione, quindi la pantera si alzò, si stiracchiò e voltandosi uscì trotterellando dalla grotta. Si sarebbe detto che l'animale si fosse appena svegliato da
un sonnellino. Ancora non riuscivo a vedere Oona. Ebbi l'impulso di seguire la pantera. A quel punto Meerclar allungò i muscoli possenti, socchiuse gli occhi e disse qualcosa nella sua lingua che non riuscii a udire. Elric mostrava i segni di una notevole tensione. Gli tremavano le gambe e riusciva a stento a restare in piedi. Gli occhi avevano cominciato ad assumere un aspetto vitreo. Il viso era tormentato. Mi mossi verso di lui per aiutarlo, ma quando mi vide mi fece cenno di tornare indietro. I grandi occhi gialli si fissarono su di me. Mi guardavano con fredda curiosità. Compresi cosa significava essere un topo in una situazione del genere. Tutto ciò che potevo fare era eseguire un cortese inchino e battere in ritirata. Ciò parve soddisfare lord Meerclar, che tornò a rivolgere la propria attenzione su Elric. Stava di nuovo facendo le fusa, e il suo piacere derivava da ciò che aveva fatto Elric, di qualunque cosa si trattasse. Lodò il mio doppio. Espresse una sorta di gratitudine. Qualcosa parve abbracciare il melniboneano, poi il signore dei Felini si trasformò in fumo. E scomparve. «Dov'è Oona?» Volevo saperlo. Elric tentò di parlare. Gli occhi non erano più a fuoco. Lo afferrai mentre cadeva, la grande spada di ferro che precipitava al suolo con un forte clang. Pensai che nel realizzare quell'incantesimo avesse dato troppo. Pensai che lo sforzo l'avesse ucciso. Ma trovai il polso. Controllai le pupille. Era svenuto, forse era in una trance soprannaturale causata dal contatto con gli elementi primordiali. Aveva il respiro pesante, come fosse drogato. Avevo visto uomini storditi dall'alcol e altri che avevano esagerato con cocktail di superalcolici e stupefacenti che parevano più vispi di lui. Tuttavia, ero certo che non fosse in un immediato pericolo di vita. Pensai di uscire di nuovo dalla grotta a cercare Oona, ma il buon senso mi disse che era capacissima di badare a se stessa. E se, come sospettavo, poteva mutare forma - assumendo in particolare l'aspetto di una lepre bianca - era di certo là fuori da qualche parte. A meno che fosse davvero stata data in pegno a Meerclar. Dopo tutto, probabilmente la considerava una della sua razza, e avrebbe potuto chiedere che tornasse a casa con lui. Dal tunnel giunse un rumore. All'inizio supposi fosse stato causato dalla pantera, poi lo identificai meglio: il suono di zoccoli di cavalli, lo sferragliare di armi e finimenti, di metallo e cuoio. Guerrieri che cavalcavano verso di noi. Che fossero gli abitanti originari, giunti a reclamare la loro
proprietà? Non sembrava probabile. Non c'era altra via d'uscita dalla grotta e l'uomo che avrebbe potuto salvarci giaceva sfinito sulla nuda roccia, immerso in un sonno profondo. Oona, che avrebbe potuto difenderci con il suo arco, era sparita. Io non avevo armi. Mi inginocchiai accanto a Elric e tentai di svegliarlo, ma senza successo. Aveva il respiro lento di un animale in letargo e non riuscivo a scorgere i suoi occhi. Era del tutto privo di conoscenza. Riluttante, mi allungai verso la Lama del Corvo, ancora vicina alla sua mano destra. Non appena le mie dita sfiorarono quello strano ferro vivente, la grotta si illuminò. Un uomo a cavallo con una torcia. Un altro dietro di lui. E un altro ancora. Avendo riconosciuto i compagni, i nostri cavalli nitrirono e si impennarono. Gli altri destrieri sbuffarono e scalpitarono, pestando con forza gli zoccoli sulla roccia. Una voce rude disse qualcosa in tedesco. La mia mano si strinse sulla familiare elsa della spada. La luce della torcia quasi mi accecava, ma riuscii a mettermi in piedi, usando la spada come un bastone. Alzai lo sguardo e riconobbi il profilo di un uomo in armatura: Gaynor. Che, ovviamente, ci aveva trovati. Senza dubbio lui o uno dei suoi uomini avevano visto la mia stupida luce o la pantera che usciva dall'entrata della grotta ed erano venuti a investigare. La triste risata di Gaynor eruttò dall'elmo. «Questa sarà una splendida tomba per voi due. Un peccato che restiate qui sepolti e dimenticati per il resto dell'eternità.» Era una figura splendida, con quell'armatura d'argento, una spada nera sul fianco sinistro e la misteriosa lama d'avorio sul destro. Emanava una lucentezza che non potevo che ritenere soprannaturale. L'incarnato indicava uno stato di salute esageratamente buono. La situazione lo riempiva di gioia, e lo dimostrava facendo lo spaccone e prendendosi gioco di quel debole essere che ero. O ero stato. La rabbia ebbe la meglio sulla paura. Mi portai Brandocorvo più vicina al corpo. Reggevo la mia vecchia spada con due mani. Ne saggiai il familiare bilanciamento, unito però a una forza inconsueta. Ringhiai contro Gaynor. Afferrando la spada, parte di quella sordida vitalità rubata mi scorse nelle vene, riempiendole di oscura energia. Colmandole di forza maligna. Adesso anch'io ridevo. Restituivo la risata sardonica a mio cugino Paul Gaynor von Minct e godevo del suo avverso destino.
Una parte di me era sconcertata da un simile comportamento, ma ormai avevo assorbito qualcosa di Elric ed era proprio a quello che rispondeva la spada. «I miei ossequi, Gaynor» mi trovai a dire. «Ti ringrazio di avermi evitato il disturbo di venirti a cercare. Così ora posso ucciderti.» Vedendo il melniboneano sdraiato a terra, Gaynor rise a sua volta. Dovevo avere un aspetto alquanto strano, vestito com'ero dei miei laceri abiti del XX secolo ma con tra le mani il grande spadone da battaglia. La sua risata, però, non fu baldanzosa come avrebbe dovuto e Klosterheim, che gli stava al fianco, non era affatto divertito. Non si era aspettato che fossimo in due. «Bene, cugino,» disse Gaynor, chinandosi sul pomello della sella «a quanto vedo cominci a preferire l'oscurità alla luce. L'ignoranza selettiva è sempre stata un tratto caratteristico della tua famiglia, non è vero?» Ignorai il commento. «Ti sei dedicato alle uccisioni con grande impegno, dall'ultima volta che ci siamo incontrati, principe Gaynor. Sembrerebbe che tu abbia massacrato un'intera razza.» «Oh, gli Off-Moo! Chi può dirlo, cugino? Chi può dirlo? Erano vittime dell'illusione tipica di tutte le comunità isolate. Poiché non erano mai stati conquistati, credevano di essere invulnerabili. Nel tuo mondo sono gli inglesi a illudersi in quel senso, non è forse vero?» Non ero là per discutere di illusioni imperialistiche o della filosofia dell'isolazionismo. Ero là per ucciderlo. Dentro di me cresceva una brama di sangue del tutto inusitata. Sentivo che mi aveva afferrato tra le sue spire. Non era una sensazione piacevole per una persona con un'indole come la mia. Si trattava di una reazione alla minaccia di Gaynor? O era la spada che trasferiva in me ciò che in precedenza aveva trasferito in Elric? Tremavo, per l'eccesso di energia che mi pulsava dentro. Inaspettati desideri di ogni tipo si affollavano nella mia mente, fino a formare un'unica direttiva: uccidere Gaynor e tutti quelli che cavalcavano con lui. Pregustavo i dolci fendenti della spada che penetra nelle carni, l'impatto con le ossa che si frantumano sotto l'acciaio affilato che scivola attraverso muscoli e tendini con la stessa facilità di un cucchiaio che si insinua nella zuppa, lasciando dietro di sé una rossa rovina. Assaporavo in anticipo il grande piacere che avrei provato quando una vita umana sarebbe stata presa per nutrire la mia avida anima. Mi umettai le labbra. Consideravo i seguaci di Gaynor come nient'altro che cibo e Gaynor stesso come il piatto più invitante. Sentivo il mio respiro caldo ansimarmi in gola, la saliva, il sangue
come sale sulla lingua, e cominciai a fiutare gli uomini e gli animali che avevo di fronte, riconoscendo ogni individuo dal proprio particolare odore. Potevo sentire l'odore del sangue, della carne, del sudore. Potei persino fiutare le lacrime, quando uccisi il primo nazista, che pianse brevemente per la sua anima mortale proprio mentre gliela succhiavo via. Nella grotta le grida, i passi dei cavalli e il clangore del metallo echeggiavano ovunque. Era impossibile dire dove fossero i nemici. Ne uccisi due senza neanche rendermene conto, e le loro anime vennero a darmi forza, cosicché potei muovermi con maggiore rapidità, la spada che si dibatteva e ruotava nelle mie mani come una creatura vivente, per uccidere, uccidere, uccidere. Uccidere mentre io ridevo con ghigno da lupo e consacravo le mie vittime all'eterno servizio di Arioch, duca del Caos. Come tipico del suo carattere, Gaynor aveva lanciato avanti i suoi uomini. Entro gli stretti confini della grotta, facevo fatica a raggiungere lui o Klosterheim. Dovevo aprirmi la strada tra uomini e cavalli. Scorsi mio cugino che toglieva qualcosa di sotto l'armatura: una verga d'oro, che ardeva di una luce fiammeggiante, come se tutta la vita di tutti i mondi fosse contenuta in essa. La tenne davanti a sé come avrebbe potuto fare con un'arma, poi dal fodero estrasse Tempestosa, la lama che aveva rubato al mio doppio, sorella della Spada del Corvo che avevo in mano io. La cosa non mi preoccupò affatto. Continuai ad avanzare e a tirare fendenti, ed ero quasi addosso a mio cugino quando egli sciolse le redini, lanciandomi maledizioni, la Verga di Rune riposta di nuovo sotto la cotta, la lama nera che ululava. Sapevo che la spada non poteva essere rinfoderata finché non si fosse presa qualche anima. Era quello il patto sempre valido con un'arma del genere. Spingendo avanti i suoi, il Cavaliere dell'Equilibrio diresse di nuovo il suo pallido destriero verso il tunnel e gridò a Klosterheim di seguirlo. Ma tra lui e Klosterheim, che si aggrappava alle redini del proprio cavallo, c'ero io. Feci roteare la spada verso l'alto, cercando di superare la guardia di Gaynor. Ogni volta che sferravo un colpo, la Lama del Corvo veniva contratta da Tempestosa. A quel punto entrambe le spade ululavano come lupi e stridevano, quando cozzavano rumorosamente, le rune rosse che fluttuavano lungo il ferro nero simili a scariche di elettricità statica. E quella esecrabile forza continuava a scorrermi nelle vene. Gaynor non stava più né ridendo né lanciando improperi: ora urlava. Ogni volta che le due spade si incrociavano, gli accadeva qualcosa. Cominciò ad avvampare di un misterioso fuoco cremisi. Le fiamme ar-
sero solo per un attimo, ma quando si spensero Gaynor parve ancora più teso. Metallo incontrava metallo con terribile clangore, e ogni volta dentro Gaynor ardeva quello stesso fuoco. Non capivo cosa stesse accadendo ma lo incalzai per aumentare il vantaggio. Poi, con mio grande stupore, mio cugino abbandonò la Spada Nera e con la mano sinistra afferrò la lama d'avorio che gli stava sul fianco opposto. Per qualche motivo quell'azione mi divertì. Col ferro disegnai nell'aria un nuovo arco e lui si piegò all'indietro, riuscendo a stento a schivare il fendente. La spada bianca incontrò la nera, e per un attimo fu come se avessi sbattuto contro un muro a cento all'ora. Mi fermai all'istante. La Spada Nera continuava a mugolare e la sua residua energia a trasferirsi in me, ma la spada d'avorio le si era opposta. La feci roteare di nuovo. Gaynor, non trionfante ma di certo contento di essere ancora vivo, spronò il cavallo verso il buio della galleria, con Klosterheim e quel che restava dei loro accoliti subito dietro. Di colpo mi sentii troppo debole per inseguirli. Mi si piegarono le ginocchia. Stavo pagando il prezzo per tutto quell'inaspettato potere. Cercai di non perdere i sensi, conscio del fatto che Gaynor ne avrebbe subito approfittato se avesse saputo che anch'io, come Elric, ero crollato. Non avrei potuto fare nulla per salvarmi. Avanzai a fatica all'interno della grotta, che a quel punto era una sorta di ossario, un intrico di cavalli morti e cadaveri, e cercai di raggiungere Elric per risvegliarlo, per avvertirlo di ciò che stava accadendo. La mia mano pallida si allungò verso il suo volto candido e insensibile, ma venni assorbito dall'oscurità, vulnerabile nei confronti di qualunque cosa desiderasse togliermi la vita. Udii pronunciare il mio nome e immaginai fosse Gaynor, tornato per prendersi la rivincita. Afferrai meglio la spada ma l'energia mi aveva abbandonato. Avevo pagato il prezzo per ciò che mi aveva dato e anch'essa aveva ripagato me. Ricordo di aver pensato, ironicamente, che ormai i conti erano stati saldati. Ma il viso verso cui alzai lo sguardo era quello di Oona, non di Gaynor. Era passato del tempo? Sentivo ancora l'odore del sangue e delle carni straziate, l'osceno olezzo del selvaggio combattimento. Percepivo il freddo del ferro contro il palmo della mano, ma ero troppo debole per alzarmi. Fu
Oona ad aiutarmi. Mi diede dell'acqua e non so quale droga che mi fece tremare le vene prima che riuscissi a prendere un profondo respiro e a rimettermi in piedi. «Gaynor?» «È già stato testimone della distruzione del suo esercito» rispose. Aveva un'aria soddisfatta. Ebbi l'impressione che sulle sue labbra ci fosse del sangue, ma lei le umettò, come avrebbe fatto un gatto, e non ce ne fu più traccia. «E chi è stato? Gli Off-Moo?» «I figli di Meerclar» spiegò. «Tutte le pantere sono tornate in vita e non hanno perso tempo prima di riprendere a cacciare le loro prede preferite. I troog sono morti o fuggiti e la maggior parte dei selvaggi ha fatto ritorno ai territori abituali. Gaynor non è più in grado di proteggerli dai loro tradizionali nemici. Se l'avessero seguito nei Feudi Grigi avrebbero affrontato subito un fato terribile.» «Perciò non può conquistare i Feudi Grigi?» «Lui crede di poterlo fare comunque, anche senza esercito. Perché ha la spada bianca e il calice. Secondo lui in essi è contenuto il potere della Legge e ritiene che il potere della Legge gli darà i Feudi Grigi.» «Persino io so che è una follia!» Con passo incerto mi diressi verso il luogo in cui giaceva il melniboneano. Ora, però, aveva l'aria di un uomo che sta semplicemente dormendo. «Cosa possiamo fare per fermarlo?» «C'è anche la possibilità» rispose pacata Oona «che non possa essere fermato. Per il solo fatto di introdurre quei due grandi oggetti di potere nei Feudi Grigi potrebbe turbare l'equilibrio dell'intero multiverso e mandarlo a tutta velocità verso la distruzione eterna, e con esso tutte le creature viventi e senzienti.» «Un uomo solo?» replicai. «Un mortale?» «Qualunque cosa accada» ribatté «è stato predetto che il destino del multiverso dipenderà dalle azioni di un uomo. Ciò incoraggia Gaynor. Pensa di essere lui il mortale predestinato a tale onore.» «E perché non dovrebbe esserlo?» «Perché la scelta è caduta su un altro» rispose. «E lei sa chi è?» «Sì.» Attesi, ma non aggiunse verbo. Si chinò su suo padre, sentendo il polso, controllando le pupille, proprio come avevo fatto io in precedenza. Scosse il capo. «È stremato» commentò. «Niente di più. Troppa stregoneria, per-
sino per lui.» Arrotolò un mantello e glielo mise sotto la testa. Fu un gesto strano, quasi toccante. Tutto intorno era morte e distruzione. C'era sangue ovunque, eppure la figlia di Elric si comportò quasi come stesse dando il bacio della buona notte a un bimbo nel suo lettino. Prese Tempestosa e la rinfoderò per lui. Solo allora mi resi conto che stringevo ancora in mano Brandocorvo. Oona aveva trovato la spada di Elric dove Gaynor l'aveva scagliata quando gli si era rivoltata contro e invece di dargli forza bruciava l'energia che gli era rimasta. «Bene,» commentai «perlomeno abbiamo riavuto la spada rubata.» Pensierosa, Oona annuì. «Sì,» disse «Gaynor dovrà cambiare i suoi piani.» «Come mai Tempestosa non gli aveva tolto il sostegno già prima?» «Tradendo Miggea ha perduto anche il suo appoggio. Evidentemente pensava che avrebbe continuato ad averlo anche se lei era prigioniera. Per aiutarlo Miggea deve essere il grado di esercitare il proprio volere, ma lui glielo ha impedito.» Udii un mormorio e mi voltai verso Elric. Si stava muovendo. Sulle labbra si formarono parole, brevi suoni. Suoni preoccupati. I suoni di un incubo lontano. Oona gli appoggiò la mano fresca sulla fronte e subito il melniboneano prese a respirare con maggiore regolarità e il suo corpo smise di agitarsi e di tremare. Quando, infine, aprì gli occhi, li vidi colmi di saggia intelligenza. «Finalmente» disse «la marea può essere rovesciata.» Portò la mano all'impugnatura della sua spada di rune e l'accarezzò. Avevo la sensazione che in qualche modo la ragazza gli avesse comunicato telepaticamente tutto ciò che era successo. O era da me che l'aveva saputo? «Forse sì, padre.» Oona si guardò attorno, quasi vedesse le tracce della battaglia per la prima volta. «Ma temo saranno necessarie risorse maggiori di quelle di cui possiamo disporre ora.» Il principe di Melniboné cominciò ad alzarsi. Gli offrii il braccio. Esitò, poi accettò l'aiuto con dipinta sul volto un'espressione profondamente ironica. «Allora siamo tornati a essere due uomini completi» disse. A quelle parole mi spazientii. «Devo sapere quali qualità uniche hanno quella verga, coppa o qualunque cosa sia e quella spada bianca. Perché combattiamo per il loro possesso? Cosa rappresentano per Gaynor?» Elric e Oona mi fissavano stupiti. Non mi avevano tenuto nascosto qual-
cosa di proposito. Semplicemente non avevano pensato di dovermelo dire. «Esistono nelle leggende del suo paese» disse Oona. «Sul vostro livello è stata la sua famiglia a proteggerle. Si tratta di un dovere vostro per tradizione. Secondo quelle leggende, il Graal è un calice con proprietà magiche, in grado di restituire la vita e che può essere osservato nella sua forma vera e pura soltanto da un cavaliere con un'anima altrettanto pura e sincera. La spada è una spada tradizionale che conferisce grande nobiltà a chi la maneggia, a patto che venga usata per una nobile causa. Ha molti e svariati nomi. Era perduta e Gaynor l'ha cercata. Klosterheim l'ha presa a Bek. Miggea gli aveva detto che se avesse portato nei Feudi Grigi entrambe le spade, la bianca e la nera, insieme al Graal, avrebbe potuto applicare il proprio volere all'esistenza. Avrebbe potuto ricreare il multiverso.» Trovavo la cosa assurda. «E ha creduto a queste stupidaggini?» Oona esitò un attimo prima di rispondermi, poi disse: «Ci ha creduto.» Ci pensai su, da uomo del XX secolo. Come era possibile dar credito a simili corbellerie mitiche e leggendarie? Forse stavo semplicemente facendo uno strano sogno dopo avere ascoltato qualche roboante pezzo tipico dello Sturm und Drang. Che fossi intrappolato nelle vicende di Parsifal, dell'Olandese Volante e della Caduta degli Dèi tutto in una volta? Di certo era impossibile seguire una logica simile. Non solo ero stato reso partecipe del passato di Elric, delle sue esperienze nei reami della stregoneria, ma ricordavo anche tutto ciò che avevo visto dal momento in cui ero fuggito dal campo di concentramento nazista. Dall'attimo in cui la mia spada aveva aperto un varco nella rupe di Hameln, avevo accettato le leggi della stregoneria. Cominciai a ridere. Non il folle riso con cui avevo affrontato Gaynor, ma una risata naturale, con cui prendevo simpaticamente in giro me stesso. «E perché non avrebbe dovuto farlo?» dissi. «Perché non dovrebbe credere ciò che vuole?» AL DI LÀ DEI FEUDI GRIGI «Dobbiamo inseguire Gaynor» disse Oona. «In un modo o nell'altro dobbiamo fermarlo.» «I suoi soldati sono dispersi o annientati» replicai. «Che male può fare?» «Un male enorme» ribatté. «Ha ancora la spada e il Graal.» Anche Elric confermò. «Se siamo veloci, possiamo impedirgli di raggiungere i Feudi Grigi. Se ci riusciamo, saremo tutti liberi dalle sue ambi-
zioni. Ma i Feudi sono malleabili, si dice siano soggetti al volere degli uomini. Se quel volere è complementare alle sue nuove potenti...» Oona si stava dirigendo a grandi passi verso il tunnel. Scomparve nel buio. «Seguitemi» ci disse. «Lo troverò.» Elric e io montammo stancamente a cavallo. Entrambi portavamo al fianco una spada di rune nera. Per la prima volta da quando era cominciata tutta quella faccenda avevamo una reale speranza di catturare Gaynor prima che facesse altri danni. Forse ero uno sciocco a credere che il fatto di possedere una spada mi conferisse un maggiore rispetto per me stesso, ma in quel momento mi sentivo all'altezza di Elric. Non era solo la spada ma anche ciò che con essa avevo compiuto a rendermi orgoglioso di cavalcare a fianco del tenebroso principe della Rovina all'inseguimento di un consanguineo ancora in grado di distruggere la sostanza fondamentale dell'esistenza. Che provassi rispetto per me stesso a seguito dell'uccisione di quasi una decina di miei simili era indice di ciò che ero diventato dopo essere stato catturato dai nazisti. Io che, come la maggior parte dei membri della mia famiglia, aborrivo la guerra ed ero disgustato dalla capacità degli esseri umani di uccidere propri simili con tanta disinvoltura, in tale numero e con tale trasporto, ora ero sporco di sangue quanto i nazisti contro cui combattevamo qui nel mondo di Mu Ooria. E la sensazione più forte che provavo era di appagamento. Non vedevo l'ora di uccidere quelli che erano scampati. In un certo senso era stato il rifiuto dell'umanesimo tradizionale da parte dei nazisti a condurli verso il loro orribile destino. Una cosa è prendersi gioco delle sottili infrastrutture di una società civile, affermare che non hanno scopo, tutt'altro demolirle completamente. Solo quando furono scomparse ci rendemmo conto di quanto sicurezza, buonsenso e benessere civico dipendevano da esse. L'uomo, però, sembra non aver mai imparato del tutto questa lezione fascista che continua a ripetersi nel tempo, anche al giorno d'oggi. Emergendo dalla galleria con le nostre torce gocciolanti, scorgemmo di fronte a noi una delle pantere risvegliate dalla stregoneria di Elric. L'animale ci fissò con i luminosi occhi gialli, uno sguardo d'intesa. Ci avrebbe condotti attraverso le caverne, alla ricerca, ne ero certo, di mio cugino Gaynor. Quella pantera era forse Oona? O l'animale era controllato telepaticamente dalla figlia del mio doppio? Sconcertati, non potevamo fare altro
che fidarci del grosso felino che ci faceva strada, voltandosi di quando in quando a controllare che lo stessimo seguendo. Quasi mi sarei aspettato un'altra imboscata da parte dell'ormai furioso Gaynor. Di certo mio cugino aveva già preso in considerazione l'ipotesi di vendicarsi di noi, ma ben presto mi resi conto che non avrebbe più potuto mandare il proprio esercito all'attacco dei Feudi Grigi. La sua armata era stata distrutta. Come a voler mostrare tale distruzione, la pantera ci condusse dritti attraverso l'accampamento di Gaynor. I grandi felini avevano fatto il loro lavoro in modo rapido ed efficiente. Corpi straziati di troog giacevano ovunque, la maggior parte con la gola squarciata. Anche i selvaggi avevano subito un attacco, ma a quanto pareva molti erano riusciti a fuggire e a rifugiarsi nei propri territori. Dubitavo che Gaynor sarebbe stato in grado di radunare un altro esercito tra le loro fila. Da un punto alle nostre spalle si udì un misterioso ululato, come di sciacalli che piangano la morte della propria specie, poi da dietro a un'enorme stalagmite apparve Gaynor a cavallo. Klosterheim e i pochi uomini ancora vivi lo seguivano, ma senza grande entusiasmo. Gaynor fece roteare sopra la testa la grande spada di rune color avorio, e si slanciò contro di noi con un odio monomaniacale. Non avrei saputo dire se i suoni provenissero da lui o dalla lama. Elric e io ci muovemmo come un sol uomo. In un attimo avevamo le spade in mano, e il loro mormorio divenne un uggiolio stridulo che si trasformò in un ululato a piena gola che fece sembrare debolissimo il suono della spada bianca. Gaynor si era abituato ad avere un potere incontestato e nonostante la recente esperienza parve sorpreso da quella reazione. Diede una strattonata alle redini che fece slittare lateralmente il suo cavallo e lanciò contro di noi gli uomini che lo seguivano. Una volta di più fui preso dalla frenesia della battaglia. La sentivo scorrere nelle vene e temetti potesse prendere il controllo di tutto il mio essere. Accanto a me Elric rideva, mentre dava di sprone verso il primo cavaliere. Il tono dell'ululato della sua spada si mutò dapprima in trionfo, quando trapassò il petto della sua prima vittima, poi in un mormorio appagato quando bevve l'anima di quell'uomo. Il mio nero spadone da battaglia mi si contorceva tra le mani e si protese in avanti prima che potessi reagire, andando a colpire il secondo cavaliere alla testa e staccandogli di netto metà del cranio. E di nuovo la spada bev-
ve, emettendo un'assetata cantilena mentre l'essenza vitale del nazista si riversava dentro di essa e si univa alla mia. Quelli che vivevano della propria spada, pensai... L'idea assumeva un significato del tutto nuovo. Vidi Klosterheim e spinsi il cavallo verso di lui. Elric e Gaynor stavano combattendo, lama contro lama. Fui attaccato da altri due uomini di Gaynor. Feci roteare la pesante spada che si muoveva come un pendolo e colpii il primo cavaliere di lato, poi il secondo alla coscia, mentre la spada oscillava all'indietro. Mentre il primo moriva, finii il secondo. I loro resti privi di anima si accasciarono sulla sella simili a carne macellata. A quella vista mi trovai a ridere. Mi voltai ancora e incrociai il folle bagliore di rubino degli occhi di Elric, i miei occhi, che mi fissavano fiammeggianti. Gaynor fece saltare il cavallo su un cumulo di cadaveri e si voltò, la Verga di Rune stretta nella mano guantata d'argento. «Non potete uccidermi se possiedo questa. Siete pazzi a tentare. E mentre possiedo questa, possiedo la chiave di tutto il Creato!» Elric e io non avevamo destrieri in grado di saltare tanto in alto e fummo costretti a girare attorno all'ammasso di corpi mentre Klosterheim e i tre nazisti rimasti si frapponevano tra noi e la nostra preda. «Non sono più un Cavaliere dell'Equilibrio,» farneticava Gaynor «sono il Creatore di Tutta l'Esistenza!» Alzando la spada bianca e la Verga di Rune sopra la testa, spronò il cavallo e si allontanò al galoppo nella nebbiosa oscurità, lasciando i suoi seguaci a rallentarci il passo. Non trassi piacere da quelle morti. Soltanto Klosterheim ci sfuggì, scomparendo senza alcun rumore tra le grandi colonne. Feci per inseguirlo ma Elric mi fermò. «Il nostro unico obiettivo deve essere Gaynor.» Puntò l'indice: «Lasciamo sia lei a guidarci, può seguire il suo odore.» La pantera si muoveva a passi felpati, senza fermarsi mai, e i nostri instancabili destrieri ciechi le trottavano dietro. Una volta mi parve di udire la risata di Gaynor, il rumore di zoccoli al galoppo, poi scorsi un lampo di luce dorata, quasi il Graal stesse segnalando il proprio rapimento. Il grigio perla dell'orizzonte diventava più ampio e più vasto davanti a noi finché la sua luce si espanse come una sorta di dolce coltre nebbiosa sopra l'intera, immensa foresta di pietra. L'aria era diventata decisamente più fresca e aveva una purezza che non ero in grado di definire. Per un attimo quel monotono campo grigio mi riempì di indicibile terrore. Stavo osservando il nulla infinito. La fine del multiverso. Il limbo. Era la calma totale a spaventarmi, ma ben presto la paura cominciò a sparire lasciando il posto a un'altrettanto intensa sensazione di armonia, di
pace. Ero già stato in quel luogo, dopo tutto. Nessuna di quelle emozioni, però, frenò il corso della nostra azione, dato che i cavalli ciechi continuavano inesorabili a condurci avanti. La pantera seguitava a farci strada e piano piano, senza un crescendo drammatico, ci ritrovammo immersi nella delicata bruma grigia. Quella nebbiolina aveva una certa consistenza. Non riuscivo a liberarmi del pensiero che Gaynor e Klosterheim avrebbero potuto saltarci addosso all'improvviso e tenderci un'imboscata. Anche quando, per qualche breve istante, l'aria davanti a noi si tinse del rosso brillante e del verde di enormi e splendidi amarillis in fiore e di gigli color crema, non abbassai la guardia. «Cos'era?» domandai a Elric. Il negromante mi regalò un sorrisetto sornione. «Non so. Un'idea improvvisa di qualcuno?» Che quelle conformazioni fossero state create spontaneamente dalla strana, densa nebbia? Ebbi la sensazione che potesse dar vita a forme riconoscibili in qualunque momento. Benché mi fossi aspettato qualcosa di più spettacolare dai leggendari Feudi Grigi, ero sollevato dal fatto che non ci fossero i fastidiosi filamenti aggrovigliati del Caos, come alcuni mi avevano spinto a credere che avrei trovato. Avevo idea che mi sarebbe bastato concentrarmi per vedere concretizzate le mie fantasie più bizzarre. Quasi non osavo pensare a Gaynor e a Klosterheim per paura di evocarli! Il rumore dei cavalli, dei finimenti e persino del nostro respiro, pareva amplificato dalla nebbia. La sagoma della pantera ne era semi nascosta, pur rimanendo comunque visibile, un'ombra. Era impossibile dire se in quel momento stavamo cavalcando sulla roccia o su un terreno duro, dato che la bruma color peltro avvolgeva i cavalli fino al ventre e scivolava intorno a essi come mercurio. All'improvviso il terreno sotto gli zoccoli si fece più morbido, un tappeto erboso, e i suoni vennero attutiti. Gradatamente, fu il silenzio a dominare la scena. La tensione era ancora forte. Dissi qualche parola a Elric. La mia voce pareva frammentata, affievolita. «L'abbiamo perduto, eh? È fuggito nei Feudi. E questo, da quanto ho capito, è un disastro.» Quando rispose, non fui certo se lo fece a parole o se gli lessi il pensiero. «Rende semplicemente il nostro compito più difficile.» Ogni cosa diveniva meno certa, meno definita, senza dubbio una caratteristica dei Feudi Grigi. Dopo tutto si supponeva si trattasse della sostanza
fondamentale del multiverso non ancora formata. A dispetto della vaghezza del luogo, la pantera continuava a essere visibile. Il nostro sentiero continuava a essere costante. Gaynor continuava a essere una minaccia. Senza preavviso la pantera si fermò. Sollevò il bel muso, annusò l'aria, in ascolto, una zampa alzata. La coda sferzò la bruma. Gli occhi si strinsero. Qualcosa infastidiva il grande felino nero. Esitava. Elric smontò da cavallo e, con la nebbia fino al petto, si diresse verso la pantera. La foschia si infittì e per un attimo lo persi di vista. Quando lo rividi, stava parlando con un essere umano. Inizialmente pensai avessimo trovato Gaynor. La figura si voltò e tornò assieme a lui verso di me. Oona portava in spalla arco e faretra e pareva fosse semplicemente in giro per una passeggiata. Il suo sorriso era di sfida e mi indicò che era meglio non facessi domande. Ancora non sapevo se fosse una strega, un'illusionista, o se semplicemente potesse controllare i movimenti della pantera e della lepre. Non sapevo esattamente di che tipo di magia si trattasse, ma ero del tutto pronto ad accettare il fatto che ciò di cui ero stato testimone fosse dovuto proprio alla stregoneria. Quelle persone manipolavano il multiverso in modi che per loro erano normali ma che a me risultavano sconcertanti. Una volta compreso che il mio familiare XX secolo agli altri doveva sembrare un mondo di bizzarre e caotiche invenzioni meccaniche, misterioso quanto il loro per me, che rappresentava ancora un terrificante enigma per semidei in grado di modificare i mondi con i propri poteri mentali, cominciai ad accettare tutto ciò che mi accadeva per quello che era. Non tentai neppure, come qualche cartografo pazzo avrebbe probabilmente provato a fare, di imporre il limitato reticolo della mia esperienza e della mia immaginazione su tale complessità. Non desideravo lasciare nessun segno. Preferivo decisamente esplorare, osservare e percepire. L'unico modo per comprendere era sperimentare. La nebbia perlacea continuava a turbinarci attorno, mentre raggiungevo Oona ed Elric. I Feudi Grigi che avevo attraversato in precedenza erano molto più popolosi. La ragazza aggrottò le sopracciglia, perplessa. «Questo non è» spiegò quasi con disapprovazione «il mio elemento naturale.» «Da che parte sono andati?» domandai. «Ne sente ancora l'odore, lady Oona?» «Anche troppo» rispose. Si piegò su un ginocchio e fece un gesto come se stesse pulendo una finestra. Il gesto rivelò una scena piena di sole e di
luce. «Guardate!» Una scena che riconobbi immediatamente. Trattenendo il fiato, mi feci avanti, allungandomi verso l'apertura nella nebbia. Mi sentivo come se mi avessero ridato l'infanzia. Ma la ragazza mi fermò. «Lo so» disse. «È Bek. Ma non credo rappresenti la sua salvezza, conte Ulric.» «Cosa intende?» Si voltò verso destra e liberò dalla nebbia un altro spazio. Tutto era trambusto e parapiglia. Uomini dalla testa di animale e animali dalla testa umana in conflitto selvaggio. Fango ribollente quasi fino a dove arrivava lo sguardo. All'orizzonte, il profilo irregolare di una città turrita. Verso di essa, trionfante, cavalcava la sagoma del principe Gaynor von Minct, quello che in seguito sarebbe stato chiamato Gaynor il Dannato. Questa volta Elric allungò il collo per vedere meglio. Riconobbe la città. Gli era familiare quanto Bek a me. Anch'io, però, la conoscevo, ora che le nostre menti e i nostri ricordi si erano uniti. Imrryr, la Città Sognante, capitale di Melniboné, l'isola dei Signori del Drago. Dalle finestre superiori delle sue torri si agitavano alte fiammate simili a bandiere al vento. Mi voltai. Bek era ancora là. Le dolci, verdi colline, i boschi fitti e accoglienti, le pietre antiche della residenza di campagna fortificata. Ma in quel momento mi accorsi che sopra il muro di recinzione c'era del filo spinato. Postazioni per mitragliatrici ai cancelli. Cani da guardia si aggiravano furtivi nel parco. Uniformi da SS ovunque. Una grande Mercedes di ordinanza entrò nel mio campo visivo e si diresse rapida verso quella che era stata la mia casa. Alla guida c'era Klosterheim. «Ma come...» cominciai. «Proprio così» commentò Oona. «Troppe tracce, come avevo detto. Ha seguito due sentieri differenti e ora eccolo qui in due mondi diversi. Ha imparato più di quanto la maggior parte di noi scoprirà mai sul modo di esistere nell'infinito senza tempo del multiverso. Continua a combattere su almeno due fronti. Fatto che potrebbe rivelarsi il suo punto debole...» «Sembrerebbe piuttosto essere il suo punto di forza» ribatté Elric con la solita fredda ironia. «Sta infrangendo ogni regola. È il segreto del suo potere. Ma se quelle regole non hanno più significato...» «Dunque ha già vinto?» «Non dappertutto» rispose Oona. Ma era chiaro che non aveva idea di quale sarebbe dovuta essere la nostra prossima mossa. Fu Elric a prendere l'iniziativa.
«È in due luoghi, ma anche noi possiamo essere in due posti diversi. Abbiamo due spade ora, e spada può chiamare spada. Devo seguire Gaynor a Melniboné e tu lo seguirai a Bek.» «Ma lei, Oona, come può vedere quei luoghi?» domandai. «Come li sceglie?» «Perché lo desidero?» abbassò gli occhi. «Non ci viene spiegato» disse. «Che accadrebbe se i Feudi Grigi fossero creati dal volere e dall'immaginazione di mortali e immortali? Ciò che maggiormente desiderano e temono verrebbe quindi creato qui. Creato e ricreato in continuazione. Attraverso lo straordinario potere della memoria e del desiderio umano.» «Creato e ricreato per l'eternità» rimuginò ad alta voce Elric. Appoggiò la mano guantata d'argento sul pomo della sua spada di rune. «Sempre un poco diverso. A volte terribilmente diverso. Memoria e desiderio. Ricordi alterati. Desideri mutevoli. Il multiverso prolifera, crescendo come le venature di una foglia, i rami di un albero.» «Quello che non dobbiamo dimenticare» disse Oona «è che Gaynor ha tra le mani il potere di creare praticamente qualsiasi realtà desideri. Il potere del Graal, che sarebbe legittimamente suo, conte Ulric, perché lo protegga ma non lo usi mai direttamente.» A dispetto delle bizzarre circostanze in cui ci trovavamo, mi misi a ridere. «Legittimamente mio? Avrei detto che un potere del genere fosse legittimamente di Cristo o di Dio. Sempre che Dio esista. O è Lui l'Equilibrio, il grande mediatore della nostra creatività?» «Questo è motivo di innumerevoli discussioni teologiche» spiegò Oona «soprattutto tra i ladri di sogni. Dopo tutto vivono di sogni rubati. Nei Feudi Grigi, a quanto si dice, tutti i sogni diventano realtà. E anche tutti gli incubi.» Mi sentii impotente. Fissavo il vuoto attorno a me e tornavo costantemente con gli occhi su quelle due scene. Non facevano che ricordarmi il nostro dilemma. Anch'esse potevano essere illusioni, magari create dalla stessa Oona, utilizzando le arti apprese dalla madre. Non avevo motivo di fidarmi di lei né di credere che agisse per altruismo, ma non avevo neppure ragioni per pensare dirimenti. Dentro di me sentivo crescere la cieca rabbia della frustrazione. Avrei voluto estrarre la spada e fendere la nebbia, ritagliarmi la strada verso Bek, la mia casa, il ben più sereno passato. Ma su Bek garriva una bandiera con la svastica. Sapevo che quell'immagine non era menzognera.
Elric mostrò il suo antico sorriso esangue. «Difficile» commentò «seguire un uomo che viaggia in due direzioni allo stesso tempo. Per quanto sia riluttante ad ammetterlo, non credo potremo continuare assieme questa avventura, miei cari. Voi due dovete seguirlo da una parte, io cercherò di fermarlo dall'altra.» «Ma di certo questo indebolirà il nostro potere, vero?» Sapevo che stavamo combattendo contro i signori dei Mondi Superiori, oltre che contro Gaynor e Klosterheim. «Le nostre forze si indeboliranno in modo significativo,» ammise Elric «forse addirittura troppo per risultare vincenti. Ma non abbiamo scelta. Io tornerò a Imrryr e là mi opporrò a Gaynor, tu devi andare nel tuo reame e fare lo stesso. Non può tenere il Graal in due luoghi contemporaneamente. Di certo questo è impossibile, quindi lo terrà dove maggiormente gli serve. Chi di noi lo trova per primo deve in qualche modo avvisare gli altri.» «E dove potrebbe essere il posto che ha scelto?» chiesi. Elric scosse il capo. «Ovunque» rispose. Oona era meno dubbiosa. «Questa è una delle molte cose che non conosciamo» disse. «Sono però due i luoghi dove potrebbe andare: Morn, le cui pietre gli sono necessarie per imbrigliare il potere del Caos, oppure Bek.» Elric rimontò sul cavallo cieco. L'animale nitrì e sbuffò, pestando gli zoccoli contro la nebbia. Il mio doppio lo spronò in avanti, verso la scena del tumulto che si aprì per assorbirlo. Si voltò, estrasse lo spadone dal fodero e mi salutò. Era un addio. Era una promessa. Quindi, la spada nera rilucente nella mano destra, diede di sprone al proprio destriero verso Imrryr. Con un lieve tocco del bastone, Oona fece allontanare il mio cavallo nella nebbia. L'animale non avrebbe avuto alcun problema a trovare la via di casa. Prendendomi sotto braccio, Oona mi mostrò la strada finché non ci ritrovammo a odorare i prati estivi di Bek, a osservare la mia antica magione notando, per la prima volta, che era stata trasformata in una vera fortezza. Un qualche importante centro operativo delle SS, supposi. Ci lasciammo cadere sul terreno. Pregai che non ci avessero visti. C'erano SS ovunque. Non si trattava di un luogo qualunque: c'erano molte guardie, postazioni per mitragliatrici e recinzioni di filo spinato. Due rozzi barbacani di filo spinato circondavano il fossato. Con estrema lentezza scendemmo la collina, allontanandoci dalle torri di Bek. Mi era facile guidare Oona attraverso il fitto sottobosco della nostra foresta. Conoscevo i sentieri almeno quanto le volpi e i conigli che già
abitavano quelle zone quando i Bek avevano disboscato una parte di territorio per costruire la loro prima dimora. Avevamo quasi sempre vissuto in armonia durante tutti quei secoli. La mia casa era diventata un'oscenità, un vergognoso oltraggio. Un tempo aveva rappresentato tutto ciò a cui i tedeschi attribuivano valore - un prudente progresso sociale, tradizione, cultura, gentilezza, sapere, amore per la terra - e ora era un monumento a tutto quello che da sempre avevamo detestato: intolleranza, mancanza di rispetto, potere intemperante e fredda crudeltà. Mi sentri come se tutta la mia famiglia fosse stata violata. Sapevo anche troppo bene come la Germania era già stata violata. Conoscevo la natura di quel male e sapevo che non era stato generato unicamente dal suolo germanico, ma anche dal terreno di ogni nazione in guerra, dall'avidità e dalla paura di tutti quei meschini politicanti al servizio di se stessi che avevano ignorato i reali desideri dei propri elettori, di tutti quanti opponevano ricette politiche, di tutti i comuni cittadini che non avevano posto sotto esame della ragione ciò che i capi dicevano loro, che si erano lasciati portare alla guerra e alla dannazione finale ma continuavano a seguire dei leader le cui politiche non potevano che condurre alla distruzione. Cos'era quella volontà di morte che sembrava avere avvolto l'Europa? Una colpa universale? Il definitivo fallimento del tentativo di vivere seguendo gli ideali cristiani? Una sorta di pazzia in cui il sentimento veniva ogni volta contrastato dall'azione? Finalmente scese la notte. Nessuno ci dava la caccia. In un fosso Oona trovò dei vecchi giornali. Qualcuno ci aveva dormito sopra. Erano gialli e infangati. Li lesse con molta attenzione e, quando ebbe terminato, aveva pronto un piano. «Dobbiamo trovare Herr El» disse. «Il principe Lobkowitz. Se ho ragione sta vivendo tranquillamente a Hensau sotto falso nome. Qui il tempo è trascorso. Sono passati diversi anni da quando lei ha lasciato la Germania. Sarà a Hensau. O almeno c'era, l'ultima volta che sono stata nel 1940.» «Cosa intende? È anche una viaggiatrice nel tempo?» «Una volta lo credevo, poi ho capito che il tempo è un campo e che all'interno di quel campo lo stesso fatto sì verifica più e più volte, tutte contemporaneamente. Il modo in cui scegliamo un evento da quel campo ci dà la sensazione della mortalità del multiverso. Non si viaggia davvero nel tempo ma piuttosto si scivola da una realtà all'altra. «Il tempo è relativo. Il tempo è soggettivo. Il tempo altera le proprie ca-
ratteristiche. Può essere instabile, ma può anche essere stabile. Il tempo cambia da reame a reame. Possiamo abbandonare questo reame e ritrovarci in uno simile semplicemente separato dai secoli. È proprio a causa di questo processo che a volte la gente pensa di aver scoperto il modo di viaggiare nel tempo. Se non ricordo male, siamo fuggiti da Hameln nel 1935, cinque anni fa. Ora siamo nell'estate del 1940 e la sua nazione è in guerra. Si direbbe abbia conquistato quasi tutta l'Europa.» I vecchi giornali non indicavano quali eventi avessero portato alla situazione attuale, ma la 'coraggiosa piccola Germania' stava ora combattendo da sola contro una decina di nazioni molto aggressive intenzionate a riprendersi quel poco che non era ancora stato saccheggiato. Secondo la stampa nazista, da parte sua la Germania stava semplicemente chiedendo la terra di cui la propria gente aveva bisogno per espandersi: una regione definita Grande Germania. Un bastione contro il Golia comunista. Alcune nazioni europee venivano già indicate come 'province' della Germania, mentre altre erano incluse nella 'famiglia' tedesca. La Francia aveva negoziato un compromesso, mentre l'Italia di Mussolini era un'alleata. Polonia, Danimarca, Belgio, Olanda, tutte sconfitte. Ero sconvolto. Hitler era salito al potere promettendo la pace al popolo tedesco. L'avevamo desiderata tanto intensamente. Persone oneste e tolleranti avrebbero votato per chiunque intendesse ripristinare l'ordine civile e allontanare il rischio di una guerra. Adolf Hitler ci aveva invece portati a un conflitto peggiore di qualunque altro in precedenza. Mi chiedevo se i suoi ammiratori continuassero ad acclamarlo con tanto entusiasmo anche ora. A dispetto di tutta la nostra autodistruttiva retorica prussiana, fondamentalmente eravamo gente pacifica. Quale folle sogno aveva inventato Hitler per indurre i miei connazionali a riprendere la marcia bellica? Infine mi addormentai. Subito la mia mente fu colma di sogni. Di violente battaglie e bizzarre apparizioni. Stavo sperimentando tutto ciò che sperimentava il mio doppio. Solo da sveglio riuscivo a tenerlo fuori dalla mia testa, ed era difficile anche allora. Non avevo idea di cosa stesse facendo, tranne che era tornato a Imrryr e da là era sceso sottoterra. Odore di rettili... Di nuovo sveglio, continuai a leggere quanto potevo. La maggior parte di quegli scritti dava vita a nuovi dubbi. Non riuscivo a credere che Hitler avesse potuto arrivare al potere tanto facilmente né a capire perché un numero maggiore di persone non si fosse opposto, nonostante il fatto che la tela di menzogne tessuta dai giornali avesse impedito a molti bravi cittadi-
ni di avere un'idea chiara su come affrontare la stretta mortale del nazismo. Per il resto, dovetti mettere assieme da solo i pezzi del puzzle. Che mi lasciava con molte domande. La maggior parte delle risposte l'ottenni quando infine trovammo la via per l'appartamento di Lobkowitz a Hensau, viaggiando di notte per quasi una settimana, avventurandoci di rado sui viottoli, per non parlare delle strade maggiori. Ero felice di dormire durante le ore del giorno. Rendeva i miei sogni un po' più sopportabili. I fogli di giornale, una volta letti, vennero utilizzati per avvolgere Brandocorvo. Le nostre armi parevano ben poco adatte a sfidare gli armamenti del Terzo Reich. Ovunque vedevamo i segni di una nazione in guerra. Lunghi treni che trasportavano munizioni, fucili, soldati. Convogli di camionette. Ronzanti squadriglie di bombardieri. Il sibilo dei caccia. Imponenti spostamenti di uomini in marcia. A volte scorgevamo cose ancora più sinistre. Camion bestiame pieni di esseri umani che gemevano. All'epoca non avevamo idea delle dimensioni della carneficina che Hitler perpetrava sulla propria gente e sui popoli europei conquistati. Ci muovevamo con estrema cautela, attenti a non attirare l'attenzione di nessuno, ma Oona corse il rischio di rubare un vestito steso su una corda da bucato. «Immagino che verranno incolpati gli zingari.» Non avendo una stazione ferroviaria e non trovandosi su una strada importante, Hensau era relativamente tranquilla. I soliti stendardi nazisti garrivano in ogni dove e le SS avevano una caserma nelle vicinanze, ma in città quasi non si vedevano militari. Ci era chiaro perché Lobkowitz l'avesse scelta. Quando finalmente ci trovammo davanti a lui, Oona nel suo vestitino rubato alquanto sottile, dovevamo avere un aspetto davvero miserevole. Eravamo mezzi morti di fame. I miei abiti erano stracciati. Portavamo armi del tutto incongrue. Non mi cambiavo da giorni ed ero stanchissimo. Mentre ci offriva da bere e ci diceva di accomodarci nelle sue confortevoli poltrone, scoppiò a ridere. «Posso farvi uscire dalla Germania» disse. «Probabilmente potreste andare in Svezia. Ma al momento questo è tutto l'aiuto che posso darvi.» Capimmo che gestiva una sorta di 'rete sotterranea' per coloro che avevano dato dei dispiaceri ai nazisti. La maggior parte andava in Svezia e qualcuno si dirigeva verso la Spagna. Si doleva di non avere poteri magici. Nessun modo per aprire le strade dei raggi di luna a quanti cercavano la libertà. «Il massimo che posso promettere loro è l'America o l'Inghilterra»
disse. «Persino l'Impero Britannico non potrà resistere a lungo contro la Luftwaffe. Ho degli amici tra i soldati. Ancora pochi mesi e la Gran Bretagna farà in modo di negoziare un armistizio. Sospetto che cadrà. E con la capitolazione dell'Impero i tedeschi non dovranno temere un coinvolgimento americano. È il trionfo del male, miei cari.» Si scusò per tali affermazioni melodrammatiche. «Ma questi sono tempi melodrammatici.» «L'ironia» continuò «è che ciò che cercate si trova già a Bek.» «Ma Bek è troppo ben protetta perché possiamo attaccarla» commentò Oona. «E cos'è che stiamo cercando?» domandai stancamente. «Una verga? Una coppa? Non ce n'è un'altra che serva ugualmente allo scopo?» «Quelli sono oggetti unici» replicò il principe Lobkowitz. «Prendono forme diverse. Hanno una sorta di volontà propria, benché non si tratti di una consapevolezza simile alla nostra. Lei chiama uno di quegli oggetti Sacro Graal. La sua custodia era affidata alla sua famiglia. Wolfram von Eschenbach parla di tale compito. Suo padre, un eccentrico, non aveva accettato con serenità questa storia. Quando perse il Graal si sentì obbligato a recuperarlo e nel tentativo si uccise.» «Si è ucciso? Ma allora le accuse di Gaynor erano vere! Non avevo idea...» «Ovviamente la famiglia desiderava evitare lo scandalo» continuò il principe Lobkowitz. «Dissero che era morto nell'incendio che si sviluppò in seguito, ma la verità è, conte von Bek, che suo padre era distrutto dal senso di colpa, di ogni genere di colpa: per la morte di sua madre, per il proprio fallimento, per l'incapacità di sostenere le responsabilità della famiglia. In realtà, come sa meglio di me, trovava difficile anche comunicare con i propri figli. Ma non era un codardo né uno che fugge davanti all'inevitabile. Fece del proprio meglio e morì nel tentativo.» «Perché dava tanta importanza al Graal?» domandai. «Oggetti del genere hanno un grande potere anche nella mitologia teutonica, ed è per questo che Hitler e i suoi discepoli sono così desiderosi di entrarne in possesso. Credono che con il Graal e la spada di Carlomagno avranno a disposizione i mezzi soprannaturali, oltre a quelli militari, per sconfiggere la Gran Bretagna, che è ciò che ancora sbarra la strada del trionfo all'Impero Tedesco. In questo caso il calice è più importante della spada. La spada è un'arma. Non ha vita indipendente. In realtà, dovrebbero esserci due spade a ogni lato della coppa perché la magia si compia com-
pletamente. O almeno così mi è stato detto. Ciò che Gaynor spera di ottenere non mi è del tutto chiaro, ma Hitler e i suoi amici sono convinti che accadrà qualcosa di grandioso. Ho udito voci riguardo a un rituale chiamato Sangue-nella-Coppa. Sembrerebbe una favola, vero? Giovani vergini e spade magiche.» «Dobbiamo cercare di recuperare il Graal» dissi. «È per questo che siamo qui.» Lobkowitz parlò con dolcezza, quasi a conferma delle mie parole. «Suo padre temeva che Bek sarebbe andata in rovina una volta che il Graal non fosse più stato custodito dalla vostra famiglia. Temeva che l'intero casato sarebbe scomparso. Lei, ovviamente, è il suo ultimo figlio ancora in vita.» Non era una cosa che mi dovesse venire ricordata. Lo spreco della vita dei miei fratelli nella Grande Guerra mi faceva ancora sprofondare nella disperazione. «Fu mio padre ad avviare l'incendio in cui è morto?» «No. L'incendio fu causato dal demone che si era prestato ad assistere la vostra famiglia perché mantenesse l'impegno. Un'idea logica, immagino, date le circostanze. Ma suo padre era al massimo uno stregone dilettante e la creatura non era adeguatamente trattenuta all'interno del pentacolo. Invece di difendere il Graal, lo rubò!» «Il demone era Arioch?» «Il 'demone' era il nostro amico Klosterheim, allora al servizio di Miggea della Legge. Lei sbavava dal desiderio di possedere il Graal, ma sentiva che il suo potere stava scemando. Klosterheim era stato al servizio di Satana finché lo stesso Satana si era dimostrato non abbastanza dedito alla causa del male e aveva cercato di riconciliarsi con Dio usando come tramite i suoi antenati di Bek. Il suo omonimo, in realtà. Il suo avo era stato incaricato da Satana di trovare il Graal e custodirlo, fino al momento in cui Dio e Satana si fossero riconciliati.» «Vecchie storie fantastiche» replicai «che non hanno neppure l'autenticità del mito!» «Storie che i suoi immediati antecessori hanno preferito dimenticare» ribatté con tono pacato l'austriaco. «Ma c'è più di una leggenda oscura legata al nome della sua famiglia, persino in tempi recenti: pensi alla leggenda di Occhi Cremisi di Mirenburg.» «Un'altra storiella paesana da raccontare accanto al fuoco» commentai. «L'invenzione di gente ignorante. Sa benissimo che ora zio Bertie ha un lavoro del tutto rispettabile a Washington.» «A dire il vero, al momento si trova in Australia, ma accetto il suo punto
di vista. Comunque deve ammettere, mio caro conte, che la storia della vostra famiglia non è mai stata tranquilla come si sarebbe voluto far credere. Più di un suo consanguineo o antenato avrebbe ottime ragioni per essere d'accordo con me.» Mi strinsi nelle spalle. «Se crede, principe Lobkowitz. Ma quella storia ha poco a che vedere con i nostri attuali problemi. Dobbiamo trovare il Graal e la Spada ma abbiamo bisogno dei suoi consigli su come riprenderceli.» «E dove vorreste cercare?» esclamò. «Ve l'ho già detto. Il Graal si trova dove è stato per tutti questi secoli: a Bek. Per questo il luogo è così fortificato e controllato, per questo Klosterheim tiene in permanenza delle sentinelle a guardia di quella che chiama 'camera del Graal'. Lei la conosce come sua antica sala d'armi.» Quel luogo aveva sempre avuto un'atmosfera particolare. Mi maledii. «Abbiamo visto Klosterheim che faceva ritorno a Bek. Siamo arrivati troppo tardi? Ha già trasferito il Graal?» «Dubito che voglia fare una cosa del genere. Una fonte bene informata mi ha comunicato che Hitler in persona, insieme a Hess, Göring, Goebbels, Himmler e compagnia stanno progettando di incontrarsi a Bek. Suppongo non riescano a credere alla propria fortuna. Ma vogliono renderla più sicura! La Francia è caduta, e solo l'Inghilterra, benché semi sconfitta, sta sulla loro strada. Gli aerei tedeschi hanno attaccato le navi britanniche, attirato i caccia in strenui combattimenti e indebolito la già debole RAF. Prima di dare il via all'invasione per terra e per mare, intendono distruggere tutte le principali città, inclusa Londra. Proprio in questo momento stanno preparando un'imponente armata aerea. Per quanto ne so è già in viaggio. C'è davvero poco tempo. Questo incontro a Bek concerne dei rituali che ritengono rafforzeranno ancora di più il loro potere, assicurando che l'invasione della Gran Bretagna sia un completo successo.» Ero incredulo. «Ma sono pazzi!» Lui annuì. «Oh, sì. Senza dubbio. E qualcosa dentro di loro deve esserne consapevole. Ma fino a ora hanno sempre avuto risultati positivi e forse credono che il merito vada agli incantesimi. È ovvio che l'aiuto soprannaturale a cui hanno fatto ricorso, quale che sia, non li ha delusi. E tuttavia si tratta di magia instabile in mani instabili. Il risultato finale potrebbe essere la morte di tutto. Come per Gaynor e il resto dei suoi simili, l'ignoranza e il disprezzo della realtà alla fine li porterà alla distruzione. Provano una grande attrazione per l'idea del Crepuscolo degli Dèi. Quella gente cerca
l'oblio con ogni mezzo. Sono la peggior specie di codardi: ingannano se stessi e tutto ciò che riescono a costruire sono mistificazioni e traballanti menzogne. Hanno il pessimo gusto dei peggiori produttori di Hollywood ed ego grandi come quelli dei peggiori attori della California. Ci troviamo in un periodo alquanto ironico della storia, secondo me, in cui attori e intrattenitori determinano il destino del mondo reale. Può ben vedere quanto rapidamente si ampli il divario tra azione ed emozione... Ovviamente sono degli illusionisti molto esperti, come Mussolini, per esempio, ma l'illusione è tutto ciò che possono offrire, quella e una grande quantità di potere che non sì sono guadagnati. Il potere di falsificare la realtà, il potere di ingannare il mondo e distruggerlo sotto il peso di tale immensa falsificazione. Meno il mondo reagisce alle loro bugie e fantasie, più rigorosamente le fanno rispettare.» Cominciavo a rendermi conto che il principe Lobkowitz, con tutta la sua concretezza, era però un appassionato dissertatore. Infine lo interruppi. «Cosa devo fare quando avrò il Graal?» «Molto poco» rispose. «Dopo tutto spetta a lei perché lo difenda. E le circostanze cambieranno. Forse lo riporterà alla sua antica dimora in quelli che i franconi dell'est chiamavano Fondi del Graal. Lei li conosce con il nome storpiato di Feudi del Grigio o Feudi Grigi. Sì, certo, ne abbiamo sentito parlare anche in Germania! A essi fa riferimento Wolfram von Eschenbach, che cita Kyot de Provenzal. Ma le probabilità che lei torni un'altra volta ai Graalfelder sono davvero scarse.» Dissi che avevo il vantaggio di conoscere Bek. La vecchia sala d'armi, dove era tenuto il Graal, era il luogo in cui avevo ricevuto le mie prime lezioni da parte di von Asch. «Probabilmente è protetto da tutti quegli uomini delle SS» commentai. «Quindi non credo che potrò bighellonare da quelle parti dicendo 'Salve, sono tornato' e spiegando che volevo giusto fare un salto nella sala d'armi, per poi mettermi il Sacro Graal sotto la giacca e uscire fischiettando.» La reazione del mio ospite mi stupì non poco. «Be',» disse con evidente imbarazzo «in realtà era proprio una cosa del genere che avevo in mente.» VALORI TRADIZIONALI Ed è così che fui costretto a indossare l'uniforme completa di uno Standartenführer, un colonnello delle SS, inclusi degli occhiali con lenti affu-
micate non proprio regolamentari, e mi ritrovai seduto sul sedile posteriore di una Mercedes scoperta d'ordinanza guidata da un'autista nell'azzimata divisa delle Donne Ausiliarie NSDAP (Prima Classe) che, messi arco e faretra nel bagagliaio, ai primi chiarori dell'alba portò l'auto fuori da un garage nascosto e la lanciò per le strade di Hensau e attraverso alcuni dei panorami più belli di tutta la Germania: ondulate colline boscose e lontane montagne, la pallida doratura del cielo, il sole un lampo scarlatto all'orizzonte. Provavo un'intensa nostalgia per quei tempi passati e perduti, gli anni della mia infanzia quando avevo cavalcato da solo in quello splendido paesaggio. L'amore per la mia terra mi scorreva profondamente nelle vene. Chissà come erano bastati pochi anni sanguinosi per passare da quell'idillio precedente al 1914 agli orrori attuali. E ora invece che a cavallo attraversavo quei luoghi a bordo di una vettura troppo imponente per le stradine tortuose, per di più indossando l'uniforme che simboleggiava tutto ciò che avevo imparato a detestare. Brandocorvo era stata posta nella custodia modificata di un fucile e si trovava ai miei piedi sul fondo dell'auto. Non potevo non riflettere su quell'ironia. Ero testimone di un futuro che nel 1917 pochi avrebbero saputo predire, ma ora, nel 1940, mi ricordavo di tutti gli avvertimenti che erano stati dati fin dal 1920. Anni di film contro la guerra, canzoni, romanzi e commedie, anni di analisi e di pronunciamenti profetici. Che fossero stati troppi? Che in realtà quelle predizioni avessero creato la situazione che maggiormente speravano di evitare? Era così terribile l'anarchia, paragonata alla disciplina mortale del fascismo? Erano emerse altrettanta democrazia e giustizia sociale dal caos che dalla tirannia. Chi era stato in grado di predire la totale follia che sarebbe calata sul nostro mondo in nome dell'ordine? Per un po' seguimmo la strada principale per Amburgo. Ci accorgemmo di quanto fossero diventate trafficate le strade, le ferrovie e le vie d'acqua. Per un breve tratto viaggiammo su un'eccellente nuova Autobahn con svariate corsie su ambo i sensi di marcia, ma ben presto Oona riprese le stradine minori che portavano a Bek. Eravamo a soli cinquanta chilometri da casa mia quando svoltammo in un viale alberato eseguendo una curva molto stretta e Oona dovette fare una brusca frenata per evitare che tamponassimo un'altra auto, appariscente quasi quanto la nostra, abbondantemente decorata con bandiere e simboli nazisti. Un veicolo decisamente pacchiano, pensai. Immaginai appartenesse a qualche tracotante dignitario locale. Ci rimettemmo lentamente in moto, ma un alto ufficiale nell'uniforme marrone delle SA uscì dall'altro lato dell'auto e ci fece cenno di attendere.
Non avevamo alternative. Dovemmo rallentare fino a fermarci. Scambiammo il saluto di rito, preso a prestito, suppongo, dal film Quo Vadis?, che si immaginava fosse quello con cui i romani salutavano gli amici. Una volta di più Hollywood aveva aggiunto una vernice di volgarità alla politica. Paragonando la mia uniforme e il suo grado, l'uomo delle SA si dimostrò servile e spiacente. «Mi scusi, Herr Standartenführer, purtroppo si tratta di un'emergenza.» Dall'auto chiusa emerse una figura goffa e alquanto allampanata, vestita della tipica uniforme nazista molto apprezzata dai ranghi superiori che sembrava uscita da un'opera buffa. A suo favore devo dire che pareva starci scomodo, perché mentre si dirigeva verso di noi mostrava di avere qualche problema con gli alamari e continuava a tirare i lembi della giacca per assestarla meglio. Ci fece un saluto rigido e sciocco a cui rispondemmo immediatamente. Ci era davvero grato. «Oh, che Dio sia lodato! Ha visto, capitano Kirch! Il mio istinto non sbaglia. Secondo lei da questo viottolo non sarebbe mai passata una vettura adatta che ci portasse a Bek in tempo, e invece... voilà! All'improvviso si materializza questo angelo.» Le sue sopracciglia parevano vive. Anche gli occhi erano molto mobili, e sul paffuto viso quadrato dominava un risolino intenso e divertito. Se non fosse stato per l'uniforme, avrei potuto scambiarlo per un tipico cliente del Bar Jenny di Berlino. Mi fece un gran sorriso. Pazzo furioso ma relativamente benevolo. «Sono Hess, luogotenente del Führer» mi disse. «Sarà di certo ricordato per questo, colonnello.» Mi rammentai che Rudolf Hess era uno dei più vecchi seguaci di Hitler. In accordo con i documenti che portavo in tasca, mi presentai come colonnello Ulric von Minct, aggiungendo di essere al suo servizio. Sarebbe stato un privilegio offrirgli la mia auto. «Un angelo, un angelo» continuava a ripetere mentre saliva a bordo e si sedeva accanto a me. «Sono i von Minct, colonnello, che salveranno la Germania.» Neppure notò la custodia ai miei piedi. Era troppo impegnato a urlare ordini al suo autista. «I fiaschi! I fiaschi! Sarebbe un disastro se non li avessi con me!» L'uomo delle SA aprì il bagagliaio della sua auto e con grande cautela ne trasse un grande cesto di vimini che trasferì nella nostra vettura. Hess parve molto sollevato. «Sono un vegetalista» spiegò. «Ovunque vada devo portarmi il mio cibo. Alf... voglio dire il nostro Führer...» Mi lanciò un'oc-
chiata di sottecchi, come un ragazzino colto a fare qualcosa di proibito. Evidentemente era già stato ripreso per essersi riferito al leader nazista con il vecchio soprannome. «Il Führer è vegetariano, ma temo che la sua dieta non sia sufficientemente rigorosa per me. Dal mio punto di vista le sue cucine sono alquanto trascurate, perciò ho preso l'abitudine di portare sempre con me il mio cibo, quando viaggio.» Il vice del Führer salutò il proprio autista. «Attenda qui con l'auto» ordinò. «Le manderemo aiuti dalla prima cittadina che incontreremo. O da Bek, se non troviamo nulla di utile.» Si appoggiò allo schienale accanto a me e fece cenno a Oona di mettere in moto la Mercedes e proseguire il viaggio. Era un incredibile insieme di tic e strani movimenti delle mani. «Von Minct ha detto? Deve essere parente del nostro grande Paul von Minct, che ha fatto tanto per il Reich.» «Sono suo cugino» risposi. Facevo molta fatica a provare paura per quell'uomo. Hess insisté per stringermi la mano. «Un grande onore, signore» commentai. «Oh,» disse, togliendosi l'elaborato berretto «sono solo uno dei vecchi combattenti. Ancora uno dei coscritti.» Mi stava rassicurando. Con tono sentimentale, continuò il racconto. «Ero con Hitler a Monaco. A Stadelheim, e in tutti gli altri posti... lui e io siamo fratelli. Sono l'unico di cui si fida veramente e con cui si confida. È sempre stato così. Per molti versi sono il suo consulente spirituale. Se non fosse stato per me, colonnello von Minct, dubito che qualcuno di voi avrebbe mai sentito parlare del Graal... o compreso cosa potrebbe fare per noi!» Si chinò verso di me con tono confidenziale: «Dicono che Hitler conosca il cuore della Germania. Ma io ne conosco l'anima. È questo che ho studiato.» Mentre la grossa Mercedes ondeggiava lungo le familiari stradine di campagna, continuai a discorrere con l'uomo che molti ritenevano il più potente in Germania dopo il grande dittatore. Se Hitler fosse stato ucciso in quel momento, sarebbe stato Hess ad assumere il comando. La maggior parte della sua conversazione era banale come quella di quasi tutti i nazisti, ma inframmezzata da un miscuglio di credenze soprannaturali e idee sui regimi dietetici che lo classificavano come un pazzo qualunque. Avendo compreso che avevo una certa affinità con il Graal e tutto il misticismo che lo circondava, si dimostrò più affabile, parlando di come avesse letto delle leggende relative a Bek, ai libri che affermavano che il
Graal era la Santa Reliquia perduta dell'Ordine Teutonico. E di come la spada di Bek fosse la lama scomparsa di Rolando, Campione del Sacro Romano Impero nella figura di Carlomagno il Franco. Erano stati i franchi e i goti a fondare l'Europa, mi disse. I popoli nordici erano severi legislatori, che non avevano considerazione per le superstizioni del Vecchio Mondo. Ovunque fosse arrivata la loro influenza, le popolazioni diventavano forti, virili, vitali e produttive. Era stata la cristianità latina a indebolirle. Secondo lui, il destino della nazione tedesca era di riportare alla gloria i propri fratelli, di liberare il mondo da quella stirpe terribilmente negativa, rimpiazzandola con una razza di superuomini - supersani, superintelligenti, superforti, supercolti -, il genere di schiatta che avrebbe popolato il pianeta con i migliori esemplari possibili di esseri umani, invece che con i peggiori. Più ascoltavo le parole di Hess, più diventavo scettico, convinto che fosse un pazzoide di bassa lega con sogni monotoni e cupi e un'incapacità patologica di prendere in considerazione qualunque 'verità' che non fosse quella che si inventava da sé. E tuttavia, dato che si dimostrava amabile e del tutto fiducioso nei miei confronti, colsi l'occasione per scoprire cosa sapesse di mio padre. Aveva mai incontrato il conte von Bek? domandai. Quello che era impazzito ed era bruciato vivo. Si era suicidato, non è vero? «Suicidato? Forse.» Hess rabbrividì. «Un crimine terribile, il suicidio. Un tradimento verso noi tutti. Sullo stesso piano dell'aborto, a mio parere. Ogni forma di vita dovrebbe venire rispettata.» Non ci avevo impiegato molto a scoprire il sistema per riportarlo con gentilezza al soggetto iniziale. «Il conte von Bek?» «Ha perduto il Graal, capisce? Gli era stato affidato perché lo custodisse. Di padre in figlio - o figlia - nel corso dei secoli. 'Compi l'opera del diavolo!' è l'antico motto della famiglia. Hanno partecipato alle crociate. Il sangue più antico della Germania... contaminato però dalla decadenza, dalla follia, da matrimoni con latini... «La leggenda afferma che i von Bek proteggessero il Graal da sempre, e che avrebbero dovuto continuare a custodirlo finché Satana non si fosse riconciliato con Dio. Tutte sciocche assurdità cristiane, senza dubbio, alterazioni dei nostri antichi e vigorosi miti nordici. Quei miti ci hanno resi conquistatori di successo. Conquistare è da sempre il nostro destino. Portare ordine nel mondo intero. Il mito mantiene ancora il proprio potere.» Ora i suoi occhi mi fissavano, mi bruciavano dentro. «Il potere del mito è il
potere della vita e della morte, come ben sappiamo, dato che abbiamo restaurato il potere del mito nordico. E di nuovo siamo dei conquistatori di successo. Dobbiamo sfidare l'altra razza nordica, i nostri alleati naturali, gli inglesi, finché anch'essi si uniranno a noi contro il male che proviene dall'est per sconfiggere la tirannia del comunismo. Insieme, porteremo la civiltà sull'intero pianeta!» Un tipico esempio delle sue deliranti corbellerie pseudo filosofiche. Questo spiegava perché i capi del nazismo, nella loro follia, davano tanto valore al Graal e alla Spada. Quegli oggetti rappresentavano un'autorità mistica. Soltanto avendoli a disposizione del loro potere politico erano certi di assicurarsi la vittoria. Il trionfo sull'ammirato Impero Britannico sarebbe stato una sorta di epifania. Raggiunto l'armistizio, uniti avrebbero restituito alla purezza del sangue e al mito il posto loro spettante nell'ordine delle cose. «Dobbiamo soltanto completare la distruzione dell'aviazione, dopo di che chiederanno una sospensione delle ostilità.» «Sono davvero colpito dalla sua logica, signore.» «La logica non ha nulla a che fare con tutto questo, colonnello. La logica e il cosiddetto Illuminismo sono invenzioni giudeo-cristiane, molto sospette per tutti gli ariani che pensano in modo corretto. Quei nazisti che restano legati ai credo pro-cristiani operano a favore della cospirazione culturale giudaico-bolscevica. Gli inglesi comprendono questa situazione bene quanto noi. Anche i migliori tra gli americani sono dalla nostra parte...» Penso di avere dimostrato vero coraggio e autodisciplina una volta soltanto in tutte le mie avventure: quando mi trattenni dal buttare l'affascinante vice Führer fuori dalla mia auto. «E in che modo» domandai «il vecchio von Bek perse il possesso del Graal?» «Come lei senza dubbio sa, era uno scienziato dilettante. Uno di quei preistorici studiosi gentiluomini. Era a conoscenza dell'impegno della famiglia di custodire il Graal finché noi, i veri eredi di quell'oggetto, fossimo andati a reclamarlo. Ma era curioso. Voleva esaminare le proprietà del Graal. Cosa che significava innanzitutto imparare a dominare le leggi della stregoneria. Della negromanzia. Quegli studi lo fecero impazzire, ma continuò ad analizzare il Graal, e così facendo evocò un certo rinnegato Capitano degli Inferi...» «Klosterheim?» «Proprio così. Che a sua volta chiese aiuto a un altro traditore. Uno della
compagnia della Legge: l'immortale ed estremamente instabile Miggea, Duchessa dei Mondi Superiori.» Hess sogghignò. Era bene informato. Si inorgoglì, tronfio per tutti i segreti che conosceva. I suoi tic trasudavano un'intelligenza soprannaturale. «Alf - il nostro Führer - mi disse di trovare Gaynor, che era già un adepto, e di offrirgli di unire la nostra forza alla sua. Gaynor fu d'accordo e, decisamente più tardi di quando aveva promesso, ha riportato a Bek l'oggetto del potere. Con esso controlleremo la storia: la guerra contro la Gran Bretagna è già vinta.» Nonostante avessi avuto un'esperienza diretta di realtà di cui lui aveva solo sentito parlare, facevo comunque fatica a seguire il discorso, dato che l'uomo risultava pedante come spesso sono i pazzi. Fui quindi molto sollevato quando l'auto imboccò l'ultimo tratto di strada verso i cancelli di Bek. Dato che viaggiavamo con il vice Führer, i nostri documenti non vennero mai controllati. Dovevo solo sperare che Gaynor non mi riconoscesse. I capelli erano nascosti dal berretto militare e portavo gli occhiali scuri, che rappresentavano un particolare non regolamentare della divisa, per celare il mio albinismo. Chiacchierando disinvoltamente con Hess, estrassi dall'auto la spada imballata. «Per la cerimonia» gli spiegai. Hess era senza dubbio la mia copertura migliore ed ero deciso a restare con lui il più a lungo possibile. Spostandomi all'interno della mia vecchia casa, però, dovetti fare uno sforzo per non lanciare esclamazioni vedendo come l'avevano ridotta. Avrei preferito che Gaynor l'avesse rasa al suolo come aveva minacciato di fare. La casa era stata violata in ogni parte. Era stata ridecorata come fosse un set cinematografico di Fairbanks, con grande pompa nazista: stendardi guarniti d'oro, arazzi teutonici, placche nordiche e grandi specchi, nuovi vetri di cattedrali alle antiche finestre gotiche, uno dei quali mostrava un ritratto idealizzato di Hitler nelle vesti di nobile cavaliere errante, con Göring come una sorta di valchiria maschile. Forse un Rheinejunge? Svastiche ovunque. Era come se Walt Disney, che tanto ammirava la disciplina fascista e aveva le sue idee riguardo a uno stato ideale, fosse stato assunto come arredatore degli interni di Bek. La passione della cricca di Hitler per le decorazioni vistose e appariscenti da palcoscenico di operetta erano state espresse al massimo. Per molti versi, Hitler era davvero un tipico austriaco. Ovviamente non feci parola di questo con Hess, che pareva alquanto colpito dalla casa e si godeva la propria gloria riflessa quando ogni ufficiale si fermava per battere i tacchi e onorarlo con il saluto romano. Io, a mia
volta, ero fortunatamente all'ombra della sua fama e Oona della mia, perciò superammo le difese nemiche come grazie a un incantesimo mentre il vice Führer parlava con calore di Re Artù, Parsifal, Carlomagno e tutti gli altri eroi delle leggende teutoniche che avevano impugnato spade magiche. Quando raggiungemmo la sala d'armi, all'interno del più antico maschio del castello, cominciavo a sperare che Hess riprendesse il primo argomento con cui mi aveva intrattenuto, cioè il vegetalismo nordico. Tutto per la paura repressa di venire scoperto e annientato a breve! Il vice Führer mi domandò di reggergli la cesta con il cibo mentre dalla tasca della giacca estraeva una grossa chiave. «Il Führer mi ha fatto l'onore di custodire questa chiave» spiegò. «È un privilegio essere il primo a entrare e a dargli il benvenuto quando arriverà!» Inserì la chiave nella toppa e la girò con qualche difficoltà. Pensai che era saggio da parte di Hitler farsi precedere a quel modo da un amico. Dopo tutto, il Führer non poteva essere assolutamente certo che non si trattasse di un piano elaborato inteso a porre fine alla sua vita. Dunque, in quanto membri dell'entourage di Rudolf Hess, entrammo nella sala d'armi dall'alto soffitto a cui era stato risparmiato l'affronto di una nuova decorazione e che era illuminata da una grande finestra circolare. Un raggio di sole tagliava la polvere e cadeva dritto su una sorta di altare, un pezzo di granito squadrato con intagliata la croce celtica rappresentante l'astro luminoso, che era stato collocato là di recente. Con un gesto meccanico mi mossi verso quel nuovo oggetto. Come diamine erano riusciti a trasportare un simile peso lungo gli stretti corridoi della casa? Allungai una mano per toccarlo, ma Hess mi trattenne. Senza dubbio pensava fossi impaziente per tutt'altre ragioni. «Non ancora» mi disse. Quando i suoi occhi si abituarono alla luce fioca, si guardò intorno con improvviso stupore. «Ma che significa? Cosa ci fate voi qui, dato che ho appena messo piede oltre la soglia? Non sapete chi sono e perché dovrei essere qui io per primo?» Il gruppo nell'ombra non parve per nulla impressionato. «Questo è un sacrilegio» disse Hess. «Un'infamia. Non è un luogo adatto a soldati qualunque. La magia è accurata e richiede menti accurate, mani accurate.» Klosterheim, automatica in pugno, si diresse sogghignando verso il riquadro illuminato dal sole. «Le assicuro, signore, che siamo accuratissimi. Le spiegherò tutto appena possibile, ma ora se non le dispiace, vice Führer,
continuerò ad agire per salvarle la vita...» «Salvarmi la...?» Klosterheim mi puntò contro la pistola. «Questa volta le mie pallottole funzioneranno» disse. «Buon pomeriggio, conte Ulric. Avevo proprio idea che ci avrebbe raggiunti qui. Lo vede? Il suo destino si sta compiendo, che lei lo voglia o no.» Hess continuava a mostrarsi offeso. «Sta commettendo molti errori, capitano. Il Führer stesso è coinvolto in questo progetto e arriverà tra poco. Cosa penserà di un subordinato che punta l'arma contro il suo luogotenente e uno dei suoi ufficiali superiori?» «Saprà ciò che il principe Gaynor gli racconterà» ribatté Klosterheim. Non gli importava nulla delle parole di Hess. Non lo ascoltava quasi. «Mi creda, vice Führer Hess, stiamo agendo nel solo interesse del Terzo Reich. Sin da quando è stato denunciato come traditore e ha subito la confisca delle sue proprietà ci aspettavamo che questo folle attentasse alla vita del Führer...» «Questo è assurdo!» sbottai. «Sa benissimo che è una menzogna!» «Ma anche il resto è una menzogna, conte?» La sua voce era diventata più dolce, intima. «Pensava credessimo che avrebbe rinunciato a inseguirci? Non era ovvio che avrebbe tentato di raggiungere questo luogo? Tutto quello che dovevamo fare era attendere che ci riportasse la Spada Nera. E noto con piacere che lo ha gentilmente fatto.» Hess tendeva a fidarsi del grado. Era la mia unica possibilità per guadagnare tempo. Quando si voltò verso di me per chiedere conferma mi misi ad abbaiare urli nel migliore stile nazista che riuscii a esibire: «Capitano Klosterheim, lei sta veramente passando il segno. Se da un lato plaudiamo alla sua scrupolosità nel proteggere il Führer, possiamo però assicurarle che in questa stanza non c'è nulla che possa rappresentare un pericolo per lui.» «Proprio il contrario» convenne un po' incerto Hess. Il suo sguardo, che non era fermo neppure nei momenti migliori, si spostava rapidamente da me a Klosterheim. Era colpito dalla scelta accurata effettuata da Klosterheim tra i membri delle squadre d'azione. «Ma forse, date le circostanze, dovremmo uscire tutti da questa sala e chiarire la questione.» «Molto bene» ribatté Klosterheim. «Se vuole farci strada, conte von Bek...» E fece un gesto inequivocabile con la sua Walther. «Von Bek?» Hess era stupefatto. Mi fissò con aria indagatrice e cominciò a pensare.
Non c'era più tempo. Tolsi il telo protettivo che copriva la mia spada: a quel punto Brandocorvo era l'unica in grado di salvarmi. La pistola di Klosterheim schioccò. Due colpi distinti. Aveva avuto la capacità di sapere quando fermarmi. La spada era ancora per metà nella custodia quando provai un forte dolore in due punti sul fianco sinistro e cominciai a barcollare all'indietro per l'impatto dei proiettili. Lottai strenuamente per restare in piedi. Avrei voluto vomitare ma non potevo. Caddi pesantemente contro il misterioso altare di granito e scivolai sul pavimento di pietra. Tentai di rialzarmi. Persi gli occhiali scuri, e il berretto mi fu tolto con un calcio rivelando i capelli bianchi. Alzai gli occhi. Klosterheim stava a gambe larghe sopra di me, la PPK 38 fumante ancora nella mano destra. Non credo di aver mai visto una simile espressione di gioia maligna su un volto umano. «Dio del Cielo!» potei udire Hess rantolare. Abbassò lo sguardo su di me, spalancando gli occhi per la sorpresa. «Impossibile! È il mostro di Bek! La creatura priva di sangue che si diceva tenessero rinchiusa nella torre. È morto?» «No, non è morto, eccellenza. Non ancora.» Klosterheim fece un passo indietro. «Ci serve per dopo. Dobbiamo eseguire un esperimento. Una dimostrazione richiesta dal Führer.» «Il Führer» cominciò Hess «di certo me ne avrebbe parlato se...» La punta aguzza di uno stivale mi colpì alla tempia con grande professionalità e persi conoscenza. In modo indistinto, come ormai era consueto per me, avevo continuato a percepire ciò che accadeva al mio alter ego. Di colpo le mie narici furono investite da un pungente olezzo di rettile e alzando lo sguardo fissai gli occhi familiari di un immenso drago. In quegli occhi riluceva tutta la saggezza del mondo. Mi rivolsi al drago con un tono basso e affettuoso, con una voce che non esprimeva parole di senso compiuto, che era più una musica che un linguaggio, e il drago rispondeva allo stesso modo. Da quella gola mostruosa emerse un suono caldo, come le fusa di un gatto gigantesco, e dalle sue nari uscirono lievi fili di fumo. Conoscevo il nome della creatura e lei si ricordava di me. Ero cambiato molto dai tempi dell'infanzia, ma il drago si rammentava comunque di me e mi riconobbe, anche se il mio corpo era coperto di tagli e dei legacci mi rendevano impotente. Sorrisi. Cominciai a pronunciare un nome. Poi il dolore al fianco prese a espandersi come un'ondata implacabile e quasi mi tolse il respiro, facendomi precipitare di
nuovo in un'oscurità che mi avvolse come una benedizione. Era stato il principe Lobkowitz a organizzare quella trappola? Era forse in combutta con Klosterheim, Gaynor e quel branco di iene naziste? E Elric? Che il suo fato, nel suo mondo, rispecchiasse il mio? Stava forse morendo anche lui tra le rovine del suo antico castello? Ero consapevole del dolore, di mani brutali, ma non riuscivo a liberarmi dal sonno. Infine mi svegliai per un odore di fumo oleoso. Aprii gli occhi, pensando inizialmente che la sala d'armi avesse preso fuoco, ma mi resi conto che in ogni supporto nel muro ardeva una vecchia torcia che creava lunghe ombre sfuggenti. Sulla bocca avevo un bavaglio di stoffa pesante, avevo le mani legate davanti e i piedi liberi. Ero sollevato dal fatto che gran parte dell'uniforme nazista mi fosse stata strappata di dosso. Portavo soltanto camicia e pantaloni. I piedi erano nudi. Ero stato preparato per qualche trattamento speciale. Provai a muovermi e il dolore mi attraversò tutto il corpo. Sulle ferite sentivo la pressione di un bendaggio approssimativo. I miei carcerieri non erano famosi per somministrare antidolorifici alle proprie vittime. Al momento non erano interessati a me e fui in grado di osservare ciò che stava accadendo. Vidi Hitler, un uomo piuttosto basso con indosso un pesante cappotto militare, in piedi accanto al grassoccio e accigliato Göring. Nelle vicinanze, Himmler, il comandante delle SS, con la leziosa severità di un depravato ispettore delle tasse, stava confabulando con Klosterheim. I due erano accomunati da un qualcosa che non riuscii subito a identificare. Membri dell'eccellente corpo di guardia di Hitler formato da SS si trovavano nei punti chiave della sala, le mitragliette in posizione di tiro. Parevano i robot di Metropolis. Gaynor non si vedeva. Hess non smetteva di parlare a un generale delle SS dall'aria piuttosto annoiata, la cui attenzione era rivolta ovunque tranne che sull'importuno oratore. Oona non era là. Poteva significare che si era accorta in tempo del pericolo. Chissà se le sue armi si trovavano ancora nell'auto? Sarebbe stata in grado perlomeno di togliere il Graal dalle grinfie di Hitler? All'improvviso mi resi conto che stavo morendo. Non avevo speranza di ristabilirmi se non mi avesse salvato lei. Anche se non fossi stato legato non avrei potuto raggiungere la mia spada, che era stata posta sull'altare come una sorta di trofeo. Benché i nazisti stessero bene attenti a non toccarla, la tenevano costantemente sotto controllo, quasi fosse un pericoloso serpente addormentato, che in qualsiasi momento avrebbe potuto sollevarsi
e colpire. Immaginai che la spada rappresentasse la mia unica speranza di sopravvivenza, ed era ben poca cosa. Dopo tutto non ero Elric di Melniboné, ma un povero essere umano travolto da eventi naturali e soprannaturali ben al di là della sua comprensione. E che stava per morire. Dall'umidità della pesante fasciatura al fianco, capivo che stavo perdendo molto sangue. Non sapevo se fossero stati colpiti organi vitali, ma aveva poca importanza. I nazisti non avevano certo intenzione di chiamare un medico. Non riuscivo a immaginare la natura dell'esperimento che Klosterheim aveva in mente di eseguire su di me. Il gruppo aveva l'aria di aspettare qualcosa. Hitler, che pareva nervoso quasi quanto Hess, dava l'impressione di un venditore ambulante assai impaziente, sempre timoroso di guai. Parlava in quel tedesco affettato che di solito si associa alla piccola borghesia austriaca, e anche se in quel momento era l'uomo più potente del mondo in lui si notava un senso di debolezza. Mi chiedevo se fosse quella la banalità del male di cui era solito parlare il mio amico gesuita, padre Cornelius, prima di partire per l'Africa. Riuscivo a sentire molto poco di ciò che veniva detto e si trattava comunque in massima parte di stupidaggini. Hitler rideva e si percuoteva le gambe con i guanti. L'unica cosa che gli udii dire in modo chiaro fu che «presto gli inglesi ci chiederanno pietà. E noi saremo generosi, signori. Permetteremo che mantengano le proprie istituzioni. Sono perfette per i nostri scopi. Prima, però, dobbiamo distruggere Londra, non è vero?» Mi sorprendeva che fosse quello l'argomento dell'incontro. Pensavo avesse a che fare con gli 'oggetti del potere' che Gaynor aveva portato con sé dai Feudi Grigi. La porta si aprì e apparve Gaynor. Era tutto vestito di nero, con un grande manto nero sull'armatura che gli avvolgeva il corpo. Aveva l'aspetto di uno dei cavalieri degli interminabili film storici che i nazisti amavano tanto. La corazza era impreziosita da una svastica di rame, e un'altra abbelliva l'elmo. Sembrava un Sigfrido demoniaco. Teneva le mani strette attorno all'elsa del grande spadone d'avorio istoriato di rune. Con un gesto drammatico si spostò di lato mostrando due dei suoi uomini che trascinavano una ragazza recalcitrante. Un tuffo al cuore, la nostra ultima speranza svanita: avevano preso Oona. Non indossava più l'uniforme nazista ma una sorta di abito pesante color corda che la copriva dalla testa ai piedi. Anche quello aveva un aspetto
vagamente medievale. Collo e polsi erano decorati con croci uncinate rosse e nere. I suoi splendidi capelli bianchi erano trattenuti da un filo d'argento e gli occhi fiammeggiavano come granati scurissimi nella pallida bellezza del viso. Era del tutto impotente, con mani e piedi legati. Il suo volto era privo di espressione, le labbra tirate. Quando mi vide, negli occhi furenti passò un'ombra di orrore. Aprì la bocca in un grido silenzioso. Quindi la richiuse con più forza di prima. Solo gli occhi si muovevano. Avrei voluto consolarla, ma non c'era consolazione possibile. Era chiaro che intendevano ucciderci. Dopo aver salutato gli altri, con aria di trionfo Gaynor annunciò: «Ora il gioco che ho preparato giunge alla conclusione. Entrambe queste infide creature sono state assicurate alla giustizia. Entrambe sono colpevoli di numerosi crimini contro il Reich. Il loro destino sarà comunque nobile. Più nobile di quanto meritino. Il Graal e la Spada Nera sono di nuovo in nostro possesso. E abbiamo il sacrificio che ci serve per iniziare l'ultima stregoneria.» Con un baluginio di scherno negli occhi, sorrise a Oona. Il suo disgustoso appetito stava per essere soddisfatto. «Per concludere il nostro patto con i Mondi Superiori.» Intendevano ucciderci entrambi, e tutto per perseguire quelle oscene e folli stupidaggini soprannaturali. La luce del fuoco si rifletteva sui volti famelici di Hitler e dei suoi camerati mentre ammiravano la fanciulla che si dimenava. Hitler si voltò verso Göring e fece qualche commento lascivo a cui il suo lacchè rispose con una risata untuosa. Solo Hess pareva a disagio. Avevo la sensazione che preferisse i fantasiosi sogni a occhi aperti alla realtà di quello che evidentemente doveva essere un rituale di sangue. Goebbels e Himmler, ai due lati del Führer, sfoggiavano entrambi un sorriso gelido e tirato. Gli occhialini tondi di Himmler luccicarono di un'allegrezza infernale. Tenendo la spada in una mano, Gaynor si chinò e afferrò Oona per i capelli color di luna. La trascinò verso l'altare. «L'unione chimica e spirituale degli opposti» annunciò come uno showman sul palco. «Mio Führer, signori, vi avevo promesso di ritornare con il Graal e con le Spade. Qui c'è la spada bianca di Carlomagno, e là, involontariamente riconsegnata al suo luogo di appartenenza da parte di questo miserabile uomo mezzo morto» indicò me - «c'è la spada di Ildebrando, seguace di Teodorico. La spada chiamata Trucida Figli, con cui uccise Adubrando, il suo primogenito. La spada del bene» - sollevò la lama color avorio e la puntò verso l'altare - «e
quella del male. Insieme, purificheranno il Graal con il sangue. Bene e male si uniranno e diventeranno una cosa sola. Il sangue riporterà il Graal alla vita e conferirà a noi il suo potere. La morte sarà bandita. Il nostro grande patto con lord Arioch sarà concluso. Saremo immortali tra gli immortali. Tutto questo era stato predetto dal goto re Clodoveo mentre dal letto di morte affidava il Graal alle cure del suo castaido, Dietrich von Bern, che a sua volta lo diede in consegna al cognato Ermanerik, mio antenato. Quando finalmente il Graal sarà lavato con sangue innocente, il sangue di una vergine, i popoli nordici saranno legati da un vincolo comune e uniti come una sola stirpe per assumere il ruolo di dominatori del mondo che spetta loro.» Folli sciocchezze, un guazzabuglio di miti e leggende popolari tipico dei razionalizzatori nazisti ma con scarsi se non nulli fondamenti storici. Hitler e i suoi accoliti, però, erano affascinati da quei racconti. Dopo tutto la loro esistenza dipendeva proprio dai miti e dalle leggende popolari. La loro piattaforma politica avrebbe potuto essere stata scritta dai fratelli Grimm. Era del tutto possibile che Gaynor si fosse inventato di sana pianta la maggior parte di quel rituale solo per impressionarli, dato che mi aveva confessato che per lui Hitler era solo un mezzo per raggiungere un fine più alto. Se le cose stavano così, la sua strategia si stava dimostrando efficace. Stava utilizzando tutto il loro potere per evocare Arioch. Nemmeno il più credulone dei nazisti sarebbe stato in grado di sospettare la realtà dei fatti. Questa consapevolezza non mi era di grande conforto. Che fossero illusorie o meno, quelle idee non mi avrebbero aiutato ad accettare il destino che mi attendeva, né a evitare la sanguinosa fine di Oona! Göring, volgarmente grasso, emise una sorda risata nervosa. «Non potremo dominare il mondo, colonnello von Minct, finché non sconfiggeremo la Royal Air Force britannica. Abbiamo i numeri. Abbiamo l'artiglieria. Ciò che ci serve ora è la fortuna. E un po' di magia potrebbe essere d'aiuto.» «La fortuna non ci ha voltato le spalle. Perché non si tratta di mera fortuna ma dell'opera del fato.» Era stato Hitler a mormorare quelle parole. «Ma non c'è nulla di male nell'assicurarci la vittoria.» «È sempre utile» ribatté piccato Göring «avere una divinità o due dalla propria parte ma le assicuro, colonnello, che tra una settimana oggi ceneremo con il re a Buckingham Palace, con o senza il vostro contributo soprannaturale.» Hitler parve rincuorato dalla sicurezza del proprio Reichsmarschall. «Sa-
remo il primo governo dei tempi moderni a reintrodurre l'uso scientifico delle antiche leggi naturali» disse. «Quelle che alcuni insistono denigratoriamente a definire 'magia'. È nostro destino reintegrare queste discipline e queste capacità marginalizzate nella tradizionale vita germanica.» «Esattamente, mio Führer!» Hess sorrise come un bravo studente. «La vecchia scienza. La vera scienza. La scienza teutonica precristiana, non contaminata da alcuna traccia di decadenza meridionale. Una scienza basata sui nostri credo e che può essere manipolata dalla volontà umana soltanto!» Tutto questo mi sembrava provenire da sempre più lontano, dato che la mia vita cominciava a venire meno. «Niente mi convincerà, colonnello von Minct» sbottò Hitler con improvvisa freddezza, come assumendo il controllo della situazione, «finché non mi dimostra il potere del Graal. Devo essere certo che lei lo custodisca realmente. Se si tratta del vero Graal Possiederà il potere di cui narrano tutte le leggende.» «Ma certo, mio Führer. Il sangue della vergine darà vita al calice. Von Bek sta già morendo e tra breve sarà stecchito. Grazie al Graal lo riporterò in vita. Cosicché lei possa ucciderlo di nuovo a suo piacimento.» Con un gesto Hitler respinse quest'ultimo commento. Una sgradevole necessità. «Dobbiamo scoprire se ha il potere di ridare la vita ai morti. Quando quell'uomo sarà morto, lo esporremo all'influsso del Graal. Se si tratta dell'oggetto autentico, rivivrà. Forse sarà persino immortale. Se allora la sua forza potrà essere incanalata al fine di aiutare la nostra flotta aerea a sconfiggere gli inglesi, tanto meglio. Ma ci crederò solo se la sua proprietà più nota sarà dimostrata. E lei deve ancora mostrarcelo il Graal, colonnello.» Gaynor posò la spada bianca accanto alla nera, punta a punta, sull'altare di pietra. «E la coppa?» domandò Göring, facendosi grande dell'autorità del suo leader. «Il Graal può assumere svariate forme» gli spiegò Gaynor. «Non sempre è un calice o una coppa. A volte è una verga.» Il Reichsmarschall Göring, nell'uniforme azzurra della Luftwaffe piena di decorazioni, brandì la propria elaborata mazza da cerimonia. Era tempestata di pietre preziose e al pari della divisa sembrava essere stata realizzata da un costumista teatrale. «Come questa?» «Molto simile, eccellenza.»
Persi conoscenza per qualche istante. Pezzo a pezzo il mio spirito stava abbandonando il corpo. Compii ogni sforzo possibile per restare aggrappato alla vita, nella speranza di trovare il modo di salvare Oona. Sapevo che mi restavano soltanto pochi minuti. Tentai di parlare, di comunicare con Gaynor per chiedergli di risparmiare la ragazza, per affermare che quel rito sacrificale della vergine era selvaggio, bestiale, ma non avrei fatto che rivolgermi a un uomo selvaggio e bestiale, che aveva abbracciato una causa mostruosa. La morte mi chiamava. Pareva l'unica via di fuga da tutto quell'orrore. Fino a quel momento non avevo mai compreso con quanta facilità si potesse arrivare a desiderare la morte. «Deve ancora mostrarci il Graal, colonnello von Minct.» Göring scandiva le parole con precisione beffarda. Era evidente che considerava l'intera faccenda una stupidaggine. E tuttavia né lui né alcun altro membro della gerarchia osava esprimere a Hitler il proprio scetticismo, dato che egli, altrettanto evidentemente, ci credeva. A Hitler serviva la riprova del proprio destino. Si era già presentato come il nuovo Federico il Grande, il nuovo Barbarossa, il nuovo Carlomagno, ma tutto il suo successo era fondato sulla minaccia, la menzogna e la manipolazione. Lui stesso non aveva più consapevolezza della propria realtà, del proprio scopo. Ma se quegli antichi oggetti del potere teutonico gli avessero risposto, sarebbe stato dimostrato che era davvero lui il salvatore mistico ed effettivo della Germania. Una cosa a cui egli stesso non sempre credeva. In quel momento tutte le sue azioni erano determinate da quel bisogno di conferma. Di colpo, quasi si fosse accorto che lo stavo guardando, Hitler voltò il capo. Per un istante i suoi occhi incrociarono i miei. Occhi fissi, come ipnotizzati. Spaventosamente deboli. Li avevo già visti in più di un pazzo nevrotico. Abbassò lo sguardo, come se si vergognasse. In quel momento compresi che era un uomo che si ritrovava a compiere azioni molto al di sopra delle proprie capacità, affascinato dalla propria fortuna, dalle luci della ribalta che l'avevano strappato all'anonimato, dal riuscito amoreggiare con l'oblio. Sapevo che avrebbe potuto distruggere il mondo. Attraverso il velo della morte li vidi gettare Oona sull'altare. Gaynor sollevò una spada in ogni mano. Le spade cominciarono a calare. Lei lottava, si dimenava, cercando di allontanarsi dal blocco di granito. Mentre perdevo di nuovo conoscenza, ricordo di aver pensato: dov'è il Sacro Calice?
Il tumulto che regnava nella mia mente non era certo migliorato dalla consapevolezza che quella scena, o una variante di essa, si stava svolgendo su ogni livello dell'esistenza. Un miliardo di versioni di me stesso, un miliardo di versioni di Oona, tutte a morire di un'orrenda morte violenta nello stesso istante. A morire affinché un pazzo potesse distruggere il multiverso. VIRTÙ NASCOSTE Non mi sarei aspettato di riprendere i sensi. Ero vagamente conscio del fatto che in me si agitavano altre forze, che accanto all'altare c'era un certo scompiglio. Per un istante ebbi l'illusione di trovarmi in piedi sulla soglia della sala d'armi, la Spada Nera in mano. Gridavo il nome di Gaynor. Una sfida. «Gaynor! Tu uccideresti mia figlia! Senza dubbio comprendi quanto ciò mi abbia fatto adirare.» Mi sforzai di sollevare la testa. Piano piano aprii gli occhi. Brandocorvo stava ululando. Emanava il suo arcano, nero fulgore. Sulla lama le rune rosse formavano inquiete geometrie. Ondeggiò al di sopra di Oona e si rifiutò di portare a termine l'azione di Gaynor. La spada di rune si agitava e si dimenava nelle sue mani, tentando di liberarsi con uno strattone. Tempestosa desiderava ardentemente uccidere, ma c'erano persone che Brandocorvo non poteva portare alla tomba. L'idea di fare del male a Oona era ripugnante. La materia semi senziente che costituiva la spada non permetteva di nuocere a un innocente. In questo differiva da Tempestosa di Elric, che maggiormente si adattava all'atteggiamento dei melniboneani. Gaynor ringhiò. La luce delle spade e delle torce trasformava i volti degli astanti in grottesche figure di Bosch. Quei visi si voltarono stupiti a osservare l'uomo che stava sulla porta semi distrutta, un'identica spada nera nella mano destra, dietro di sé una massa disordinata di cadaveri di camicie brune. La spada nera grondava rosso. Elric indossava un'armatura squarciata e le sete erano inzuppate del suo stesso sangue. Negli occhi da lupo un'irruenza di morte. Doveva avere combattuto parecchie battaglie da solo, ma teneva ancora stretta Tempestosa in un pugno insanguinato, mentre il suo volto tradiva la memoria di un milione di morti. «Gaynor!» La voce era la mia. «Corri come uno sciacallo e ti nascondi come un serpente. Mi affronterai finalmente qui, in questo santo luogo di potere? O come al solito te la darai a gambe cercando rifugio tra le om-
bre?» Passi lenti, la stanchezza di secoli. Il mio doppio entrò nella sala d'armi. Nonostante la spossatezza, irradiava attorno a sé una forza, un fascino, che gli elementi più carismatici dell'elite nazista non potevano neppure sperare di eguagliare. Ecco un vero semidio. Ecco quello che fingevano di essere. Ed era anche tutto ciò che rivendicavano, poiché lui da solo aveva pagato un prezzo che nessuno di loro avrebbe mai nemmeno potuto immaginare di dover pagare. Aveva affrontato tali orrori, mantenuto la propria posizione contro tale terrore che nulla poteva scalfirlo. Quasi nulla. Soltanto il pericolo per qualcuno a cui, con tutte le sue complesse e contraddittorie emozioni, aveva dato il suo amore. Un amore che la maggior parte dei melniboneani non avrebbe mai compreso. A passi pesanti e misurati si diresse verso l'altare. Di nuovo Gaynor tentò di trafiggere il cuore di Oona. Brandocorvo gli si oppose con addirittura maggior vigore. Gaynor imprecò, lanciò la stridente spada nera contro di me e prese la lama d'avorio con entrambe le mani. Questa volta avrebbe finito Oona. La spada nera non colpì il bersaglio, in verità quasi non si mosse. Si librò nell'aria abbastanza a lungo da permettere a Oona di alzare verso di essa i legacci che le bloccavano le mani, tagliarli e allontanarsi carponi dalle grinfie di Gaynor. Ero stupito dall'apparente consapevolezza della spada. Con grandi urla e un fuggi fuggi generale, Hitler e i suoi avevano già battuto in ritirata nascondendosi dietro alle guardie delle squadre d'azione, che mentre Elric si faceva largo verso l'altare gli puntarono contro una decina di moderne ed efficaci mitragliette. Lui ignorò ogni pericolo. Era dimentico dei nazisti, come avrebbe potuto essere in un sogno. Sui suoi bei lineamenti alieni spiccava un sogghigno duro e selvaggio. Una volta certo che Oona non corresse un pericolo immediato, rivolse la propria attenzione su Gaynor. La spada d'avorio mugolava e s'impuntava come se anch'essa si rifiutasse di uccidere. Mi domandai se le spade fossero davvero senzienti o se qualcuno le governasse. Gaynor, che mostrava comunque maggiore controllo sulla cosiddetta Spada di Carlomagno, colpì. Colpì ripetutamente la traballante Oona che non si era ancora liberata dei legacci alle caviglie, ma la spada semplicemente non fece ciò che lui avrebbe voluto. Dalle sue labbra contorte co-
minciò a riversarsi un idioma mistico e selvaggio, mentre invocava l'aiuto del Caos. Ma non giunse alcun sostegno. Non aveva avuto il tempo di portare a compimento il suo patto. Fu in quell'istante che Elric si slanciò, rapido come un serpente. La spada nera bloccò la bianca. «Non c'è piacere nell'uccidere un codardo» disse a Gaynor. «Ma se sarò obbligato lo farò come un dovere.» Un arco di nero e rosso. Una mezzaluna d'argento. La spada di Elric incontrò la lama d'avorio. Le due armi gridarono all'unisono ogni tipo di angoscia. Di nuovo la Spada Nera disegnò un arco. Quando si scontrò con la lama di Gaynor si udì un suono sordo e piatto. La spada d'avorio cominciò a incrinarsi e a sfaldarsi come legno marcio, disintegrandosi tra le mani di Gaynor. Gaynor inveì e la lanciò lontano. Quell'oggetto era sempre stato una sorta di falso, di provenienza incerta. Allontanandosi dall'altare con un balzo, tentò di afferrare una delle armi appese alla parete, ma erano rimaste là per troppi anni e arrugginendo si erano praticamente fuse l'una assieme all'altra. Gridò alle squadre d'azione di uccidere Elric, ma le guardie non potevano aprire il fuoco senza rischiare di colpire Gaynor o Klosterheim, il quale aveva già puntato la pistola contro il mio doppio. Il demoniaco spadaccino mormorò un'unica, sorridente parola. Brandocorvo si precipitò contro l'ex servitore di Satana. Klosterheim trattenne il respiro. Sapeva anche troppo bene quale sarebbe stato il suo destino se la spada l'avesse raggiunto. Lanciò un grido in latino. Eravamo in grado di capirlo in pochi, e di certo non la spada, che lo mancò per un soffio. Klosterheim si gettò sul pavimento e lo stesso fece Gaynor. Subito le mitragliette cominciarono la loro folle cacofonia, con pallottole e bossoli che rimbalzavano ovunque nell'enorme salone di pietra. Elric rise, la sua ormai familiare risata selvaggia, schivando i colpi come per incanto, poi si chinò dietro l'altare per accertarsi che sua figlia non fosse stata colpita. Lei gli sorrise per rassicurarlo quindi lasciò il nascondiglio per precipitarsi verso di me, che giacevo appoggiato al muro. Aveva in mano il pugnale di Gaynor, affilato come un rasoio. Si allungò rapida e tagliò le corde che mi imprigionavano.
All'improvviso Brandocorvo si posò nella mia mano, respingendo le pallottole delle guardie che avevano rivolto su di me la propria attenzione pur continuando a circondare i loro preziosi leader. Hitler e i suoi si stavano affrettando verso la porta d'ingresso fracassata da Elric. Fui travolto da un'ondata di forza. A quel punto ridevo anch'io. Con divertita assenza di timore avanzai verso Klosterheim, mentre Elric aveva già ingaggiato battaglia con Gaynor. Oona era armata soltanto del pugnale di Gaynor ma si acquattò dietro l'altare per proteggersi dalle pallottole che ci rimbalzavano attorno. Colpirono soltanto uno dei soldati, provocando così un guaito di terrore tra le fila dell'elite nazista. Hitler aveva confidato nella buona sorte. Ora, però, la fortuna era con noi. Attraversarono incespicando l'apertura che Elric aveva intagliato nella porta. Cercarono di coprire l'enorme buco ammassandovi contro pesanti mobili. Non sapevano cosa avremmo fatto dopo, quindi guadagnavano tempo per organizzare un piano. Feci per seguirli, ma Elric mi fermò. Mi indicò un angolo un po' buio della sala. Gaynor e Klosterheim erano ancora lì. «Siamo sempre in possesso del Graal» gridò Gaynor. Nell'armatura nera, quasi una parodia di quella di Elric, pareva un imponente e coriaceo uccello che saltellava rabbioso mentre la luce delle fiamme si espandeva e si affievoliva e le sue ombre si univano alla danza. «E possiamo ancora contare sull'aiuto dei Signori dei Mondi Superiori. State attenti, cugini miei. Non saranno contenti se il loro alleato su questo livello non sarà in grado di portarli al successo.» Elric grugnì. «Credi davvero che io tema la disapprovazione di dèi e semidei? Io sono Elric di Melniboné e la mia razza è pari agli dèi!» Non era però pari all'automatica di Klosterheim che abbaiò due volte e lo colse del tutto di sorpresa. «Cos'è questo?» fece in tempo a chiedere aggrottando le sopracciglia, dopo di che cadde all'indietro. Feci un balzo verso i due assalitori, ma il pugnale di Oona aveva già centrato Klosterheim al cuore. Pareva sul punto di dare di stomaco, piegato in due e intento a cercare di estrarsi la lama dal corpo. Gaynor spinse da una parte il proprio alleato morente e si diresse alla bassa porta di quercia che conduceva alle stanze che erano state di von Ash. Klosterheim non si mosse. Senza dubbio era morto. Ero troppo debole per agguantare Gaynor, e quando raggiunsi la porta se
l'era già richiusa e sbarrata alle spalle. Tentai di sfondarla ma provai soltanto una fitta molto dolorosa. Mi guardai il fianco, aspettandomi di vedere altro sangue, ma restava solo una brutta cicatrice. Quanto tempo era passato in realtà? O forse il tempo si era disgregato a causa dell'egoistica interferenza di Gaynor? Che il multiverso si stesse già disintegrando attorno a noi? «Miei cari,» udii Elric mormorare a fatica «su. Dobbiamo andare...» Oona stava cercando di realizzare una barriera davanti alla porta d'ingresso semi distrutta, ma i nazisti avevano già fatto la maggior parte del lavoro dal proprio lato! Non avevamo vie di fuga. A quel punto Gaynor poteva essere molto lontano, intento a riportare il Graal nei Feudi Grigi. Io continuavo a spingere contro la porticina, ma senza successo. L'ammasso di mobili contro la porta principale cominciò a muoversi. Sembrava che i nazisti si fossero fatti coraggio e stessero tornando. Dalla soglia sì udì uno schianto, ed ecco Hess che ci spingeva contro i suoi uomini armati di mitraglietta. Si era dimostrato l'unico con il fegato di affrontarci. Ora non avevamo più alcuna possibilità di fuggire. Tentai di nuovo di dare una spallata alla porta piccola, ma ero sempre troppo debole. Gridai a Oona di aiutarmi. Stava sostenendo Elric, chino sull'altare di Gaynor. Dalle ferite fuoriusciva molto sangue, che chiazzava il granito scuro. Con gesto impaziente il melniboneano si raddrizzò e afferrò la sua spada, dicendomi di farmi da parte. «Questo sta diventando il mio modo abituale di aprire le porte» commentò. Benché velata di spacconeria, la sua voce era debole. Radunò le forze e lasciò che la spada sferrasse il colpo, calandola sull'uscio e tagliando in due l'antico legno di quercia. I pezzi caddero ai lati per farci passare. Superammo la soglia e ci inerpicammo per la scala sulle orme di Gaynor. Alle nostre spalle udii Hess urlare istericamente ordini ai propri uomini. La torre non veniva usata da anni. Mentre aiutavamo Elric a proseguire, notammo che molti degli oggetti di von Ash erano ancora dove li aveva lasciati. Bauli, armadi, tavoli e sedie, tutto era ricoperto di polvere. Libri e carte geografiche erano stati ignorati da tempo. Aveva portato con sé le spade e qualche abito, ma poco altro. Dalle impronte sulla polvere potemmo capire da che parte era andato Gaynor. Mentre Elric, stanchissimo, si appoggiava alla parete, Oona e io spingemmo alcuni mobili pesanti fuori delle stanze, in modo da bloccare la stretta scala. Oona passò rapidamente
in rassegna libri e carte, trovò qualcosa che le interessava e se la mise in tasca. Sempre trasportando Elric a braccia, continuammo a salire finché un breve corridoio ci portò a un'ampia corte quadrangolare interna circondata da strette merlature intervallate da comignoli. Per qualche miracolo, Gaynor era ancora là. Aveva sperato di trovare aiuto o una facile via di scampo, ma c'erano ripide pareti a strapiombo su tutti i lati. Mi lanciai verso la sagoma scura che scorgevo davanti a me. Mi sfuggì girando attorno a un contrafforte, alla bocca di un camino, ma non lo persi di vista. Poi, all'improvviso, Gaynor si voltò. Soffriva orribilmente. Tutto il suo corpo vibrava e tremava in preda a una furiosa luce argentea. Le sue dimensioni stavano aumentando, ma mentre cresceva, allo stesso tempo svaniva. Come cerchi sull'acqua, ogni immagine era lievemente più ampia della precedente, e Gaynor cresceva e cresceva, pulsando ed espandendosi come un grande accordo musicale, in alto nel cielo, nella struttura del multiverso. Si stava frammentando e unificando allo stesso tempo! Continuai ad avanzare barcollando, nel tentativo di mettere le mani su di lui. Lo raggiunsi, provai ad afferrarlo. Nelle dita avvertii un formicolio come da scossa elettrica, per un attimo rimasi accecato, poi Gaynor scomparve. Silenzio. «Abbiamo perso entrambi i Gaynor» dissi. Ero scosso da una violenta rabbia mista a paura. Elric inspirò a fatica e scosse il capo. «Li abbiamo persi tutti, per il momento. È fuggito in migliaia di direzioni, giocando la carta più pericolosa. Frammentandosi in una moltitudine di versioni, ognuna lievemente più grande della precedente, ha disseminato la propria essenza in tutto il multiverso, in modo da non poter essere seguito. È al massimo grado di instabilità. Di pericolosità. Forse anche di potenza e di forza. Esiste ovunque e in nessun luogo. Il rischio è che può essere chiunque e nessuno. Così estesa, la sua essenza è molto rarefatta. Ma una cosa di lui la sappiamo: ha fallito, non ha mantenuto il patto con Arioch. Stava cercando di portare il duca degli Inferi in questo reame. «Se Gaynor non è impazzito del tutto, farà una di queste due cose: cercherà di sfuggire al duca degli Inferi, impresa folle e probabilmente impossibile, oppure proverà a fare con lui un compromesso. E questo significa che deve individuare un punto di convergenza. Bek non gli è concessa, quindi deve trovare un altro luogo che dia accesso al suo protettore. Non possono essercene molti in questo mondo.»
«Morn» disse Oona. «Sarà a Morn.» Mostrò le carte che aveva preso nello studio di von Ash. «Un punto di convergenza?» domandai. «Di cosa si tratta?» «È un luogo dove si uniscono molte possibilità» rispose la ragazza. «Dove si incrociano le strade dei raggi di luna. Conosco bene questo reame. Andrà alle Pietre di Morn e cercherà di riunire tutti i propri sé in una singola entità.» Fu tutto ciò che poté dirmi prima che udissimo un forte martellare proveniente dall'interno della torre. «Come facciamo a seguirlo?» chiesi. «Ho portato degli amici» borbottò Elric. «Gaynor pensava di utilizzarli per i propri fini, ma non ha il nostro sangue. È così che l'ho seguito da Melniboné. Spada chiama spada. Ali chiamano ali.» Hess e i suoi stavano irrompendo dalla porta. Guardai oltre la merlatura: il salto ci avrebbe uccisi. Non potevamo andare da nessuna parte. Non avevamo altra scelta, dovevamo prendere posizione. Elric tornò barcollando verso la torre, trascinando la spada con ambo le mani. Come la porta cadde, fece roteare lo spadone da battaglia, che colse di sorpresa i primi tre SA. Caddero immediatamente e la lama stridette di gioia. Il respiro di Elric si era fatto un sibilo mentre assorbiva la forza della spada. L'energia rubata lo stava risanando con grande rapidità. Benché riluttante mi unii a lui, e insieme uccidemmo altri cinque o sei uomini prima che battessero in ritirata nella torre e iniziassero a spararci contro da una distanza di sicurezza. Lo stretto passaggio impediva loro di vederci e di colpirci, quindi fu solo un inutile spreco di munizioni. Elric ci disse di tenere occupate le squadre d'azione, e intanto zoppicò fino alle merlature per fissare un cielo notturno ribollente di nuvole scure chiazzate da una luna arancione. Levò in alto la spada, che cominciò di nuovo a risplendere di un fuoco nero. Elric, l'armatura ammaccata e le sete stracciate, ardeva della stessa fiamma mentre rivolgeva il viso pallido come un teschio ai cieli turbolenti e cominciava a cantare di una runa così antica che le sue parole erano la voce degli elementi, il vento e la terra. Ancora qualche sparo dalla torre. Un SA fece cautamente capolino dalla porta. Lo uccisi. Errabonde sagome scure vagavano nel cielo. Forme sinuose scivolavano tra le nubi. Elric aveva tratto forza dalle sue vittime. Si stagliava ritto contro le merlature, la spada in mano, gridando al cielo.
Che gli urlò di rimando. Simile a un tuono improvviso, si udì uno scoppio, e la volta celeste iniziò a gorgogliare e a incrinarsi. In lontananza emersero delle sagome immense. Mostruose creature volanti. Rettili dalle code lunghe e arricciate, colli e musi allungati, ali ampie e coriacee. Li riconobbi: abitavano i miei incubi. I draghi di Melniboné, condotti nel mio reame dalla potente stregoneria di Elric. Sapevo che Gaynor aveva sperato di ingaggiarli per la propria causa. Sapevo che aveva quasi sconfitto Elric sulle rovine di Imrryr. Sapevo che aveva scovato le grotte nascoste e tentato di risvegliare i draghi consanguinei di Elric. C'era riuscito, ma non aveva ipotizzato che i draghi si sarebbero rifiutati di servirlo. Sangue per sangue; fratello per fratello. Servivano solo il sangue reale di Melniboné. E per uno scherzo della storia, anche Oona e io condividevamo quel sangue. Due enormi animali volteggiarono attorno alla torre nella luce aranciata della luna. Giovani draghi Phoorn, con ancora gli anelli bianchi e neri attorno al muso e alla coda, con ancora le estremità delle ali piumate, non avevano raggiunto le dimensioni degli esemplari più vecchi, la cui aspettativa di vita era quasi infinita, dato che i draghi passano buona parte del tempo dormendo. L'incantesimo aveva indebolito Elric, ma il suo spirito era molto sollevato. «Ero preparato a questo. Ma mi aspettavo di avere con me anche il Graal quando avrei chiamato i miei fratelli.» I melniboneani rivendicavano una consanguineità diretta con i draghi Phoorn. In un altro tempo avevano persino condiviso lo stesso nome, la stessa abitazione, lo stesso potere. Si dice che nella storia antica i draghi avessero regnato su Melniboné. Quale che fosse la verità, Elric e la sua stirpe potevano bere il veleno dei draghi, mortale per la maggior parte delle altre creature. Quel veleno era così potente che si incendiava nell'aria non appena veniva sputato dalla bocca dei draghi. Ovviamente tutte queste cose le sapevo perché le sapeva Elric. Conoscevo il linguaggio dei draghi. Quando quei grandi animali atterrarono dolcemente sulla torre, demmo loro un affettuoso benvenuto. Stavano fumando e tremando per il tumultuoso viaggio attraverso il multiverso. Spalancarono le grandi fauci rosse per respirare l'aria sottile di questo mondo. Gli immensi occhi si fissarono su di noi. Attenti, benigni, i mostruosi artigli che afferravano i merli della torre mentre restavano appoggiati là, in equilibrio. Gli arabeschi delle loro squame, dalle sfumature lievi e intense del rosso e del porpora, dell'oro e del verde scuro, rilucevano al chiarore della luna. Di aspetto erano molto simili, distinguibili l'uno per un
tocco di bianco proprio sopra il naso e l'altro per una pennellata di nero. I grandi denti bianchi cozzavano rumorosamente quando chiudevano la bocca, e agli angoli delle labbra era un continuo ribollire di veleno. Erano quelli gli animali della leggenda di Sigfrido, molto più intelligenti, però, e anche più numerosi. I melniboneani avevano compiuto molti studi sui draghi, elencando tutti i diversi generi, dall'Erkaniano dal naso camuso, soprannominato ali di pipistrello, a quei Phoorn dal muso affusolato che andavano in letargo e il cui rapporto con noi era curiosamente telepatico. Elric si avvicinò al primo drago e gli parlò dolcemente. Entrambi gli animali erano già sellati con la pulsante skeffla'a Phoorn, una sorta di membrana assicurata al di sopra delle scapole del drago che gli permetteva di volare tra i reami. La skeffla'a era una delle più strane realizzazioni della scienza alchemica melniboneana e anche delle più antiche. Avevano nomi semplici, come la maggior parte di quelli scelti dagli uomini per i propri animali: Musobianco e Musonero. I nomi che invece si davano tra loro erano lunghi, complicati e praticamente impronunciabili, e specificavano dettagliatamente la genealogia e i viaggi compiuti. Elric si voltò verso di me. «I draghi ci porteranno da Gaynor. Sai come si cavalca?» Lo sapevo. Così come sapevo la maggior parte delle cose legate al mio doppio. «Si trova ancora in questo mondo. O almeno sono qui alcuni suoi aspetti. Potrebbe essersi affaticato troppo e non avere più la forza e i poteri per viaggiare sulle strade dei raggi di luna. Comunque, quali che siano i motivi, i draghi ci condurranno da lui.» «A Morn» intervenne Oona. «Deve essere a Morn. Ha ancora il Graal?» «Questo non lo sapremo finché non lo raggiungeremo...» La voce di Elric si affievolì, mentre veniva sopraffatto dal dolore. Eppure sembrava leggermente più in forze di qualche minuto prima. Gli chiesi quanto fosse grave la ferita e quando mi rispose, nei suoi occhi lessi un grande stupore. «Klosterheim ha sparato per uccidere. E io non sono morto.» «Anch'io avrei dovuto morire per i colpi di Klosterheim» replicai. «Le ferite erano molto evidenti e ho perso tantissimo sangue. Ma ora le cicatrici sono addirittura quasi scomparse!» «Il Graal» disse Elric. «Siamo stati esposti al Graal senza saperlo. Quindi deve trovarsi addosso a Gaynor oppure nascosto da qualche parte là dentro.» Dal vano della porta emerse il volto di Hess. Ordinò ai suoi uomini di
cessare il fuoco. Sul suo viso un'espressione di sincerità, di urgenza. «Devo parlarvi» disse. «Devo sapere cosa significa tutto questo. Che genere di eroi siete? Gli eroi dell'Elfenheim? Abbiamo forse evocato qui il nostro antico e leggendario mondo teutonico in tutta la sua potenza e gloria? Thor? Odino? Siete voi...?» La sua attenzione fu attirata dai draghi. «Sono spiacente di comunicarle, eccellenza,» intervenni «che questi sono draghi di origini orientali. Sono draghi levantini. Della sponda sbagliata del Mediterraneo.» Spalancò gli occhi. «Impossibile.» Oona aiutò Elric a sistemare la skeffla'a sulla groppa di Musonero, poi montò dietro di lui, facendomi cenno di prendere l'altro drago, Musobianco. «Lasciatemi venire con voi!» Hess stava esprimendo il suo forte desiderio in tono supplichevole. «Il Graal... non sono vostro nemico.» «Addio, eccellenza!» Elric rinfoderò Tempestosa e si avvolse le redini del drago attorno alle mani. A ogni momento che passava, sembrava riacquistare forza. Montai in sella al drago con tutta la familiarità di un discendente di stirpe reale. Ero pervaso da una gioia selvaggia e inumana. Aliena. Magica. Se fino a non molto tempo prima mi sarei fatto beffe di una simile idea, ormai accettavo ogni cosa. Non c'è felicità maggiore del cavalcare nella notte in groppa a un drago. Le ali massicce presero a battere. Hess venne spinto indietro, come da un uragano. Lo vidi muovere le labbra, implorarmi. Quasi mi faceva compassione. Di tutti i nazisti, sembrava il meno disgustoso. Poi vidi Göring e le camicie brune precipitarsi sul tetto. Di nuovo l'aria prese vita per lo scoppiettio di pallottole. Non rappresentavano un pericolo per noi. Avremmo potuto distruggere la torre e tutti quelli che stavano al suo interno semplicemente lanciando qualche goccia di veleno, ma non ci passò per la mente di farlo. Eravamo convinti che Gaynor possedesse il Graal e che se l'avessimo raggiunto in tempo il calice sarebbe presto stato nostro. Il volo fu straordinariamente eccitante! Elric faceva strada nel cielo in groppa a Musonero, mentre Musobianco seguiva. Non avevo bisogno di guidare il mio drago, anche se per intuito avrei saputo come agire. Mi ero lasciato ogni preoccupazione alle spalle, su quella torre, mentre le possenti ali sbattevano contro le nuvole, portandoci sempre più in alto, sempre più a ovest. Dove? In Irlanda? Non in Inghilterra, pensai.
L'Inghilterra era nemica del mio paese. Che sarebbe accaduto se fossi stato catturato con ancora indosso quel che restava della mia uniforme da SS? Sarebbe stato impossibile convincere i britannici del vero motivo per cui mi trovavo là! Non avevo scelta. Musonero, con Elric e Oona, volava con lunghi e lenti movimenti delle ali, librandosi sulle nubi sopra di me, a volte proiettando una lieve ombra. Volava con risoluta tranquillità e Musobianco, più giovane di un anno o due, aveva lasciato che prendesse il comando. Con l'aumento di intensità della luce, i motivi sulle ali dei draghi si fecero più evidenti. Parevano gigantesche farfalle, con arabeschi rossi, neri, arancio e verde veronese cangiante, ben diversi dai rettili gialloverdi dei libri illustrati. I draghi Phoorn erano creature dotate di una grazia e una bellezza straordinarie, e un qualcosa che dava la sensazione che fossero molto più saggi degli uomini. Ogni volta che si apriva uno spiraglio tra le nuvole potevo scorgere i campi geometrici e le cittadine accoccolate della Germania rurale. Per oltre un secolo non avevano visto conflitti e avevano avuto l'assicurazione di Hitler che a nessun bombardiere straniero sarebbe stato concesso di entrare nello spazio aereo tedesco. Mi chiedevo se Hitler sarebbe stato in grado di mantenere le proprie promesse. Secondo me avrebbe cominciato a fare affidamento sulla magia, se fossero venuti a mancare i mezzi politici e militari. Sembrava un uomo che cavalca una tigre, terrorizzato da ciò che lo trasporta eppure incapace di saltare giù a causa della velocità a cui sta correndo. O un uomo che cavalca un drago? Che avessi giudicato Hitler travolto dagli eventi perché io stesso ero trascinato da realtà iperboliche? Ben presto, però, simili speculazioni abbandonarono la mia mente e mi gustai la bellezza del cielo. L'odore dell'aria serena. Ero così estasiato che quasi non udii il sordo ronzio alle mie spalle. Guardai dietro e in basso. Vidi un tappeto di aeroplani, così compatti, così vicini che all'inizio mi parvero un solo immenso uccello. Il ronzio era causato dal costante rumore dei motori. Erano leggermente più veloci di noi, ma andavano nella medesima direzione. Non potevo pensare come una nazione, specialmente se impoverita e stanca come la Gran Bretagna, avrebbe potuto resistere a un'armata aerea tanto imponente. Mai nella storia del mondo era stata riunita una forza del genere. L'unica flotta navale equivalente era stata quella spagnola, radunata per attaccare l'Inghilterra durante il regno di Elisabetta. Inghilterra che
in quell'occasione era stata salvata da uno scherzo del tempo atmosferico. Ora non poteva aspettarsi certo altrettanta fortuna. Da quando quell'avventura era cominciata avevo visto distrutte intere civiltà. Sapevo che l'impossibile era più che possibile, che genti e costruzioni potevano sparire dalla faccia della terra come se non fossero mai esistite. Forse, per qualche orribile coincidenza, stavo per vedere la fine dell'Inghilterra, la caduta dell'Impero Britannico? Per il momento avevo visto una squadriglia di Junkers 87, il famoso Stuka da bombardamento in picchiata, che per tradizione la Luftwaffe usava nei primi attacchi ad altre nazioni. Ma mentre continuavamo il volo, nascosti dalla nube che ci separava dalla flottiglia sotto di noi, scorsi ondate di caccia Messerschmitt, squadriglie di Junkers e Heinkel che si dirigevano implacabili verso una già malconcia Gran Bretagna che non poteva assolutamente produrre aviogetti in grado di respingere quell'invasione né per quantità né per qualità. Era per quel motivo che Gaynor ci stava conducendo a ovest? In modo che potessimo essere testimoni dell'inizio della fine? La battaglia finale i cui vincitori avrebbero stabilito la legge dei Signori dei Mondi Superiori sulla terra? E quegli stessi signori, avrebbero poi mantenuto la pace? O avrebbero piuttosto iniziato subito ad attaccarsi l'un l'altro? Eravamo forse in vista del crepuscolo degli dèi? Gli aerei ci superarono e il cielo fu ricolmo di uno strano silenzio. Come se l'intero mondo stesse aspettando. E aspettando. In lontananza cominciammo a udire il tuono incessante e meccanico dei fucili e delle bombe, lo strido dei caccia e dei proiettili traccianti. A est rispetto a noi vedemmo un denso fumo oleoso che saliva eruttando tra lingue di fuoco color arancio, vedemmo fiammate improvvise ed esplosioni di granate. Musonero si inclinò in una lunga e aggraziata virata in direzione del sole del mattino e ben presto ci lasciammo alle spalle il rumore dei combattimenti. L'Inghilterra avrebbe anche potuto non avere un domani. La guerra contro l'Europa era praticamente vinta. La prossima volta, a chi avrebbe rivolto Hitler le proprie attenzioni? Alla Russia? Piangevo la fine dell'Inghilterra con sentimenti contrastanti. La sua arroganza, la sua noncurante potenza, il facile disprezzo per tutte le altre razze e nazioni, stavano tutti per vedere la fine. Ed erano state quelle caratteristiche a far sì che sottovalutasse la Germania. Ma c'erano anche il coraggio,
la tenacia, la pigra bonomia, l'inventiva, la freddezza nei momenti difficili, anche queste prerogative erano state investite nella creazione delle sue grandi navi da guerra, quelle mini isole da combattimento, ognuna una piccola nazione a sé. Quegli uomini battaglieri avevano governato il mondo e sconfitto Napoleone sul mare, mentre insieme l'avevamo battuto sulla terraferma. Poteva anche essere una nazione sanguinaria, di pirati, pronta a vantarsi della propria rudezza e brutalità, ma i suoi eroi si erano guadagnati il potere grazie alla determinazione, rischiando la propria vita e le proprie fortune. E non pochi di quei grandi uomini erano stati grandi poeti o storici. Se era diventata decadente era perché non aveva più uomini di tale integrità e ampiezza di vedute. Era il giorno della resa dei conti. Il giorno a cui prima o poi giungono tutte le grandi nazioni imperiali: Bisanzio e Cartagine, Gerusalemme e Roma. Incapaci di concepire la propria mortalità, conoscono la doppia amarezza della sconfitta e della schiavitù. Attraverso il suo impero, Hitler aveva reintrodotto la schiavitù. L'Inghilterra, che aveva portato il mondo all'abolizione di quell'orrenda pratica, avrebbe di nuovo conosciuto l'umiliazione e la profonda miseria dei lavori forzati. Pur avendo messo da parte i vizi e fatto ricorso alle virtù, l'ultimo suono di tromba della ritirata era rivolto alla sua libertà e alla sua gloria. Sarebbe andata verso la sconfitta dimostrando che la virtù è più forte del vizio, che il coraggio è maggiormente diffuso della codardia e che le due cose possono coesistere in momenti che ad anni di distanza possiamo indicare come esempi del meglio, e non del peggio, dell'uomo. E che mostrano come la virtù ci renda più forti e sicuri di quanto mai potrà qualunque forma di cinismo. Perché quella lezione doveva essere ripetuta in continuazione senza mai venire imparata? Tutte queste elucubrazioni filosofiche mentre sperimentavo l'esaltazione fisica di una cavalcata su drago! Davvero tipico da parte mia! Ma non potevo non essere addolorato per quel grande paese che molti tedeschi consideravano loro partner naturale, il meglio che loro stessi potevano essere. Acqua ora. Un'acqua calma, blu e lucente. Verdi colline. Spiagge gialle. Altra acqua. Un sole pigro, come se il mondo non fosse mai stato altro che un paradiso. Piccole cittadine che sembravano scaturite dalla terra stessa. Fiumi, boschi, vallate. La caratteristica bellezza delle contee inglesi. Che ne sarebbe stato di tutto quello una volta che i tedeschi avessero schiacciato l'aviazione britannica e 'germanizzato' il mondo in una versione da operetta del proprio retaggio? Le squallide, nere città che tutti detestavano, ovviamente, stavano difendendo questa tranquillità, questo ideale, contro
la tirannia che, affermando di volerlo preservare, avrebbe distrutto per sempre il loro modo di vivere. I miei sentimenti erano talmente forti che avrei voluto affrontare di nuovo i pericoli di Mu Ooria. Sarebbe stato più facile. Davvero Gaynor aveva distrutto quella razza gentile, lasciando solo pochi sopravvissuti? Di nuovo sopra il mare, dolce per la brezza del sud, verso un minuscolo puntino verde poco più grande di una collinetta, che emergeva dai flutti ed era lambito da onde schiumose. Il primo drago virò di nuovo e fece un giro attorno all'isola, che aveva un diametro di meno di un chilometro. Vidi una casa in stile Tudor, un'abbazia in rovina, una penisola bianca simile alla coda di un topolino, che serviva da molo naturale. Non c'erano persone riunite a darci il benvenuto; tutto suggeriva che il posto non fosse abitato da molto tempo. Il centro dell'isola era occupato da una collina erbosa con un cerchio di pietre di granito parzialmente erose, che lo contrassegnavano come spazio rimale. In un tempo molto lontano, quelle pietre stavano dritte in piedi a formare quello che era un osservatorio, una chiesa e un luogo di studi contemplativi. E così eravamo giunti all'Isola di Morn, al Monte di Marag, «donde tanto tempo fa vennero tutte le più pure virtù della razza inglese» per citare Wheldrake, il loro epico esploratore poeta. Uno dei grandi luoghi santi occidentali, con una storia ancora più antica di quella di Glastonbury e Tintagel. Quando i draghi atterrarono con grazia sull'incontaminata spiaggia di sabbia candida di Morn, e il mare colpì le rocce come un tamburo di avvertimento, seppi che Gaynor era là. Morn era uno degli importanti luoghi del potere, riconosciuto persino dai nazisti, benché i suoi fondatori fossero Celti e non Sassoni. L'Isola di Morn, dove tutte le antiche razze del mondo inviavano i propri studiosi per scambiarsi le idee e discutere della natura dell'esistenza, le differenze e le analogie tra religioni, in quell'età dell'argento precedente all'esplosione teutonica. Precedente all'inizio della violenza e della conquista. A Morn si erano recati vescovi, rabbini e dotti musulmani, buddisti, indù, gnostici, filosofi e scienziati, e tutti per condividere le proprie conoscenze. Si erano incontrati regolarmente nell'abbazia ai piedi della collina. Un'università internazionale, un monumento alla buona volontà. Poi arrivarono i nordici con le loro imbarcazioni a forma di drago e tutto finì. Scesi dal mio drago, gli diedi una grattatina sul collo sotto le scaglie e lo ringraziai per la cortesia. Tolsi la skeffla'a, la ripiegai e me la ficcai sotto la camicia. Oona venne verso di me con passo malfermo, ma nella sabbia
soffice e bianca ritrovò presto l'equilibrio dopo il lungo volo. Mi indicò il promontorio. Là, all'ancora, c'era un U-boat tedesco con due sentinelle di guardia sui ponti bassi e bagnati dalle onde. Una coincidenza? I ricognitori per l'incursione della flotta? O era stato Gaynor a fare in modo che si trovasse lì per garantirsi la fuga in caso di necessità? Ma perché? Non sapeva che avremmo potuto seguirlo. Pareva una precauzione eccessiva per la semplice possibilità di essere trovato in quel luogo. Quale che fosse la ragione della sua presenza, l'U-boat nazista non rappresentava un pericolo immediato. E comunque dubitavo che quegli uomini avrebbero creduto alla realtà: è raro che dei draghi vengano a riva su isolette nel bel mezzo del mar d'Irlanda! Una parola di Elric e i grandi animali erano di nuovo in volo e sfrecciavano in direzione delle zone superiori del cielo dove avrebbero potuto restare in attesa lontano da occhi indiscreti. Dopo aver sostato solo per qualche istante, puntammo verso il centro dell'isola attraverso le stradine coperte di ciottoli del villaggio deserto, superando il grande palazzo dove il duca indipendente di Morn aveva governato fino al 1918 e che ora era sbarrato con delle assi, passando davanti a una o due fattorie sopravvissute al tempo e che senza dubbio erano state evacuate allo scoppio di questa guerra, per prendere poi il tortuoso viottolo che portava in cima alla collina erbosa e all'anello di pietre. Fino a quel momento non avevamo notato nulla di insolito. Litigiosi gabbiani solcavano le onde e si libravano in aria. Merli cantavano su alberi sferzati dal vento, passeri andavano all'esplorazione di siepi d'arbusti troppo cresciute, e in lontananza la risacca tambureggiava i suoi ritmi rassicuranti. Con un certo sforzo salimmo fino in cima alla collina, dove le pietre di granito giacevano l'una accanto all'altra, simili a vecchi silenziosi. Il cerchio era ancora intatto. Ci stavamo avvicinando alle pietre quando mi accorsi di una strana luce lattiginosa che tremolava debolmente dall'interno del cerchio. Esitai. Non avevo alcuna voglia di fare ulteriori incontri soprannaturali. Ma Oona ci disse di affrettarci. «Sapevo che sarebbe dovuto venire qui se l'avessimo sconfitto a Bek» spiegò la ragazza. «Spera di contattare Arioch, ma credo di avere una sorpresa per lui.» Oona ci precedette al centro dell'anello di pietre. Più in là, il mare era
molto calmo. Tempo perfetto per un'invasione, pensai. Cercai con lo sguardo l'U-boat, ma non era visibile da quel punto. La luce traslucida si infrangeva contro le nostre gambe e i nostri piedi, avvolgendoli come spuma. «Sfoderate le vostre spade, signori» disse Oona. «Mi servirà la loro energia.» Le obbedimmo. Quella bella giovane donna e la fiducia che irradiava ci affascinavano. Levò in alto il proprio arco-bastone, poi lo tuffò nella sostanza opalescente, per sollevarlo quindi di nuovo utilizzandolo come un pennello per descrivere nell'aria straordinari arabeschi geometrici, legando una pietra all'altra finché, come in una sorta di retino, furono intersecate da una forza in forma di fili luminosi e perlescenti. Intanto, Oona parlava. Mormorava e cantava, creando incantesimi. C'era un che di impellente nei movimenti e nella voce. Luci cominciarono a zigzagare in modo sfrenato e mi ritrovai confuso e quasi cieco. Oona mi tolse di mano Brandocorvo e con essa descrisse un ampio ovale. La figura ondeggiò e andò a creare un tunnel nella luce. E in quel tunnel luminoso vidi una sagoma che camminava verso di noi. Fromental! Il francese girellò all'interno del cerchio di pietre come se stesse cercando un buon posto per un picnic. A confermare quell'intenzione, reggeva in mano un cesto coperto. Non fu per nulla sorpreso di vederci e ci fece un allegro cenno di saluto. Entrando nel cerchio di pietre, era stato circondato da una luce cremisi, che l'aveva avvolto come un manto insanguinato. Sfolgorò e scomparve. Anche la rete lattiginosa era sparita. Restava la puzza di qualcosa di molto vecchio e molto caldo. Riconobbi l'odore senza sapere dove l'avessi già sentito. «Sono arrivato in tempo?» domandò a Oona. «Me lo auguro» rispose. «L'ha portata?» Fromental sollevò il cesto. «Eccola qui, lady Oona. La tiro fuori?» «Non ancora. Dobbiamo essere certi che venga. In qualche modo arriverà. E lo stesso farà Arioch. Gaynor si aspetta di incontrare Arioch alle Pietre di Morn. Sono già stati qui in precedenza.» «Il mio signore Arioch è con noi ora» disse pacato Elric. L'atteggiamento di Elric era mutato radicalmente. Percepiva la presenza del suo padrone all'interno del cerchio. Parlò in fretta, con tono pressante. «Lord Arioch, mio signore. Perdonateci per l'intrusione. Accordateci la vostra benevolenza, ve ne prego, per i nostri antichi patti. Sono Elric di Melniboné e il nostro sangue è legato dallo stesso destino.»
Una voce, dolce come l'infanzia, parlò dall'aria. «Tu sei il mio discendente mortale. Tu rappresenti i miei interessi in altri reami, ma non in questo. Perché sei qui, Elric?» «Cerco rivalsa su un nemico, mio signore. Uno che è al vostro servizio. Che vi ha offerto questo accesso.» «Un mio servitore non può essere tuo nemico.» «Chi serve due padroni non è amico di alcuno» ribatté Elric. La voce, il cui calore abbracciava e confortava come un vecchio e amorevole parente, ridacchiò. «Ah, più coraggioso tra i miei schiavi, più dolce tra tutti i miei succulenti figli. Ora ricordo perché ti amo!» La gola mi si era riempita di bile. Trovarsi alla presenza di quella creatura invisibile risultava quasi fisicamente insopportabile. Persino Oona pareva non sentirsi bene. Elric, invece, se possibile era più rilassato del solito, addirittura sereno. «Sono destinato a servirvi, grande Duca degli Inferi. L'antico patto è tra il mio sangue e il vostro. Colui che si è autonominato Cavaliere dell'Equilibrio ha già tradito uno dei Signori dei Mondi Superiori e so che ne tradirebbe un altro.» «Non posso venire tradito. È impossibile. Non mi fido di nulla. Non mi fido di nessuno. Per lui ho imprigionato Miggea. E questo doveva essere il mio contraccambio. Questo è un reame ricco e delizioso. C'è molto con cui alleviare la mia noia. Gaynor ha giurato fedeltà a me. Non oserebbe mettere ulteriormente alla prova la mia pazienza.» «La lealtà di Gaynor è andata alla Legge prima che al Caos» sentii me stesso affermare. La mia voce era una sorta di eco che mi rimbombava nel cranio e pareva quella di Elric. «E le assicuro, duca Arioch, che io a lei non devo alcuna fedeltà. Non è mio interesse permetterle di entrare nel mio reame. Le sue forze hanno già distrutto anche troppo. Però le posso offrire il modo di reclamare da Gaynor ciò che le spetta.» Arioch era divertito. Per un attimo scorsi il profilo di un volto dorato, il più bel volto del multiverso, e lo amai. «Quelle non sono forze mie, piccolo mortale. Sono le forze di lady Miggea. Sono le forze della Legge che è in guerra contro il tuo mondo.» «E Gaynor desidera che lei le contrasti?» «Non mi interessano i suoi desideri, solo le sue azioni. Mi ha semplicemente offerto un'opportunità. È nella mia natura contrastare la Legge.» «Dunque i nostri interessi sono gli stessi» convenni. «Ma noi non possiamo stringere con lei il medesimo accordo di Gaynor.»
«Gaynor mi ha promesso di entrare nel vostro reame. Per mezzo della sua magia e della sua sapienza. Voi non farete lo stesso per me?» «No, padrone» rispose Elric. «Non ne abbiamo i mezzi. Il grande oggetto del potere ci è negato.» «Gaynor lo porterà qui.» «Può darsi» replicò Elric. Parlava con rispetto ma anche con la fermezza di chi in realtà si considera pari agli dèi. «Padrone, voi non avete diritti su questo reame.» «Io ho diritti su tutti i reami, piccolo schiavo. Comunque, ormai questo gioco mi sta stancando. Si direbbe che io stia agendo contro i miei stessi interessi. Non appena Gaynor porterà la chiave, io e i miei eserciti attraverseremo il passaggio e porteremo un Caos senza freni in un piccolo mondo annoiato. Le forze di Miggea sono prive della guida di una mente vitale. Non impiegheremo molto a sconfiggerle. I vostri timori sono superflui.» «E se Gaynor non portasse la chiave, vostra eccellenza?» domandò Oona alzando lo sguardo verso la testa dorata. «Allora Gaynor sarà mio. Mio da mangiare. Mio da rigurgitare se la cosa mi dovesse far piacere. Mio da bere. Mio da pisciare. Mio da pizzicare. Mio da baciare. Mio da defecare e mio da espellere con afrore. Mio da strappargli il cuore. Mio da vestire con scarpe di ferro battuto. Mio da danzare. Mio da ammaccare con gesto forzuto. Mio da consumare.» Le belle labbra arcuate schioccarono come quelle di un troll di una favola. Cominciavo a chiedermi se tra i Signori dei Mondi Superiori soltanto Miggea fosse diventata senile. Che l'intera stirpe degli dèi fosse invecchiata troppo per avere le idee chiare riguardo ai propri desideri e interessi? Davvero il multiverso era in mano a simili creature? Era la nostra condizione che si rifletteva in loro? Nel frattempo Fromental non aveva compreso una sola parola. Parlavamo una lingua a lui del tutto sconosciuta. Il suo sguardo passava da Oona a me, le sopracciglia sollevate in una muta domanda. Elric scorse qualcosa e ce la indicò. Senza pensarci due volte portò entrambe le mani sull'elsa di Tempestosa. Gaynor, ancora con l'armatura che però pareva consunta dall'uso, apparve sulla spiaggia candida. Era stato l'U-boat a portarlo a Morn? Evidentemente non riusciva a vedere nulla all'interno del cerchio di pietre e quindi pensò di essere solo. Era privo di spada, in apparenza senza arma alcuna. E non aveva con sé neppure la coppa.
Vederlo avanzare ci diede un certo piacere. Esitò prima di entrare nel cerchio. Scrutò attentamente all'interno ma continuavamo a risultargli invisibili. Una luce ocra riempì gli spazi tra le pietre. «Padrone? Lord Arioch?» La voce di Arioch era un gentile invito. «Entra.» Gaynor fece un passo avanti. E trovò ad aspettarlo i suoi nemici. Si voltò in preda a una furia sbigottita. Cercò di tornare indietro e uscire dal cerchio, ma era in trappola. «Mi hai portato la chiave, piccolo mortale?» Di nuovo Arioch parlò con una delicatezza che lasciava intendere gustasse ogni sillaba prima di liberarla nell'aria. «Non ho potuto, maestà.» La sua attenzione era rivolta più a noi che al Signore dei Mondi Superiori. «Quell'oggetto ha una volontà propria...» «Ma è tuo dovere controllarla.» «Non può essere controllata, mio signore. Ha determinazione, ve lo giuro, se non intelligenza.» «Ma tutto questo te l'avevo detto, piccolo mortale. E tu mi avevi assicurato di avere i mezzi per ottenerne il controllo. È per questo che ti ho aiutato. È per questo che ho imprigionato lady Miggea per te.» Mentre la sfrontatezza di Gaynor scemava, Elric rideva. «Sono qui per chiedervi altro aiuto» disse il nostro nemico in modo quasi patetico. «Ancora un po'. Ma perché? Come...? Questi sono vostri nemici, mio signore. Quelli che vi contrasterebbero.» «Oh, penso mi abbiano mostrato maggiore rispetto, principe Gaynor, di quanto abbia ricevuto da te. Tu sembri credere che sia possibile mentire a un Signore dei Mondi Superiori. Tu sembri pensare che io sia una sorta di genio della lampada pronto a realizzare tutti i tuoi desideri. Non è così! Io sono un duca degli Inferi! Ho ambizioni che vanno molto al di là della tua immaginazione. E la mia pazienza si è esaurita. Come devo punirti, piccolo principe?» «Posso farvi entrare, mio signore, lo giuro. Devo soltanto tornare a Bek. Anche in questo momento forze poderose si levano per dominare questo reame. Ora dopo ora guadagnano più terreno, più potere. Solo voi, mio signore, attraverso me, potete sconfiggerle.» «Non mi interessa salvare questo reame» replicò Arioch con regale stupore. «Desideravo soltanto dilettarmici un po'. Ora, piccolo Gaynor, il mio
unico piacere sarà dilettarmi con te.» Oona si voltò verso Fromental e gli tolse di mano il cesto. Lo aprì e ne estrasse il contenuto. Sembrava un modellino in miniatura. Un'intricata gabbia d'avorio costruita con migliaia di minuscole ossa e da cui si levò furiosa una minuscola voce. Miggea, ancora intrappolata, era furente. «Come ci è riuscita?» domandai stupefatto a Oona. «Non è difficile. Le dimensioni sono l'unica cosa che varia da reame a reame. In quello successivo o appena precedente, come le ho spiegato, le misure divergono di pochissimo, ed è per questo che siamo in grado di navigare da un reame all'altro senza notare immediatamente la differenza. «Ho fatto in modo che il tenente Fromental la portasse qui. Miggea è molto potente, ma così rinchiusa non può agire. Potendo fare di propria volontà, adeguerebbe subito le dimensioni al reame in cui si trova. Io non ho la facoltà di liberarla. Solo chi l'ha imprigionata può farlo.» «E ha portato un'altra di queste creature nel mio mondo?» Mi pareva il massimo dell'irresponsabilità. «A combattere contro quella che già ci si trova? A trasformare l'intero pianeta in un campo di battaglia?» «Vedrà» replicò Oona. «Ma dovete uscire tutti dal cerchio, ora. Per prima cosa, mi dia la sua spada.» Contro ogni logica, le passai Brandocorvo. Poi Elric, Fromental e io uscimmo dalle Pietre di Morn. Il poco che riuscivamo a vedere divenne una sorta di teatro delle ombre. L'oscura, avvolgente presenza del duca Arioch, la svelta ed elegante figura di Oona che appoggiava sul terreno la gabbia di ossa. Gaynor pietrificato. Allora Oona sfiorò la gabbia con la punta della mia spada. Udii la voce di Arioch, un lieve rombare. «Bene, mia signora, sembra non sia più mio interesse tenerti prigioniera.» Un rumore come di sassi che si infrangono. Un terribile crack. All'interno del cerchio, qualcosa cominciò a ribollire, a dimenarsi, a crescere. Qualcosa che chiocciava e squittiva con risatine idiote e premeva contro qualunque forza fosse trattenuta dal cerchio di pietre. Miggea, uscita dalla gabbia, cercava ora di uscire dal cerchio. Le pietre vibravano. Sarebbe potuta essere una danza. Poi erano di nuovo immobili, diritte, in attesa. Mi apparvero come dovevano essere apparse quando i primi druidi le eressero. Alte, di granito bianco, lucenti sotto i
raggi del sole. All'improvviso davanti a noi si parò una mutevole figura di fuoco, presa nel cerchio, che si contorceva selvaggiamente e gridava in silenzio al nostro indirizzo. Il viso di Gaynor stava bruciando. L'intero suo corpo era in fiamme. Ardeva dei milioni di conflitti generati dal suo cuore egoista. Ed eccolo di nuovo, in piedi accanto a se stesso, sempre in fiamme, sempre urlante. Ci stava implorando perché gli dessimo qualcosa. Poteva trattarsi del perdono? O di una mera liberazione? Un'altra figura danzante, in balia del fuoco, e un'altra, finché crearono un cerchio all'interno del cerchio. Da sopra, l'evanescente volto dorato di Arioch sorrideva e fischiava, come guardasse uno spettacolo di marionette, e la senile, sbavante, schiamazzante creatura che un tempo era stata una dei grandi aristocratici della Legge sferrava colpì al corpo di Gaynor, che si contorceva, cambiava forma e dimensioni, diventava molte diverse versioni di sé, poi una, quindi si frammentava di nuovo. Lo sentivo urlare. Quelle grida non erano paragonabili ad alcuna cosa che avessi mai udito in vita mia. Arioch e Miggea lo strattonavano, strappando nella lotta pezzi delle sue svariate identità. Giocavano con lui come dei gatti possono giocare con un grillo. C'era ben poca animosità tra loro: tutto l'odio era diretto a Gaynor, lo stupido Gaynor, che aveva pensato di poterli mettere uno contro l'altro a proprio vantaggio. Li implorava di smettere. Ero sul punto di implorare anch'io la stessa cosa! Un migliaio di Gaynor riempivano il cerchio. Un migliaio di tipi di dolore diversi. Oona osservava tutto questo con quieta soddisfazione, più o meno come avrebbe potuto fare con un ricamo, congratulandosi con se stessa. «Non è in grado di riportarsi al proprio archetipo» spiegò. «È l'unico modo in cui possiamo sopravvivere. Tutto ciò che abbiamo è un senso di identità. E in questo momento le molte identità di Gaynor sono in conflitto. Sta per essere disseminato in tutto il multiverso. La convergenza che Gaynor aveva cercato di sfruttare per i propri scopi egoistici ha finito invece per essere la sua rovina.» «Troppi!» Arioch imprecò. «Mi avevi promesso il potere della Legge. Io già possiedo il potere del Caos. Dove, frammentato Gaynor, si trova il Graal?» Le risposte furono varie, molteplici, sconvolgenti. «Ce l'ha lei!» fu l'unica frase coerente che udimmo. Poi Gaynor scomparve.
Miggea scomparve. La voce di Arioch era un sussurro appagato, voluttuoso. «Il Graal è ancora qui. Nel mio punto d'ingresso, dove aveva promesso di farmi entrare.» Labbra mostruose schioccarono. E anche Arioch sparì. I due, lui e Miggea, avevano spezzettato Gaynor in un milione di brandelli psichici. Un fruscio, come un vento d'autunno, e la stregoneria aveva lasciato quel reame. Le antiche pietre svettavano tra erba comune. In cielo splendeva il sole. Il rumore delle onde che si infrangevano sulla spiaggia bianca era il più forte che avessimo mai sentito. Mi rivolsi a Fromental. «Si era accordato con Oona quando vi siete incontrati alla prigione di Miggea?» «Non sapevamo esattamente come avremmo potuto utilizzare Miggea, ma era utile e pratico averla in formato tascabile.» Fromental mi fece l'occhiolino. «Ora devo tornare dai miei compagni. Tanelorn è salva, ma vorranno conoscere il resto della storia. Sono certo che ci incontreremo ancora, amico mio.» «E gli Off-Moo? Sa cosa è accaduto loro?» «Hanno una nuova città. È tutto quello che so. Sull'altra riva del lago. Si erano rifugiati là. Solo pochi sono stati uccisi.» Con l'aria di un uomo con affari urgenti da sbrigare, mi diede la mano e si incamminò verso la spiaggia. Uno skiff lo stava aspettando, e i due marinai a bordo lo accolsero con il saluto militare. Avevo tratto le conclusioni sbagliate riguardo alla presenza dell'U-boat. Era stato Fromental a mandarlo come avanguardia. Di nuovo ci salutò con la mano, mentre con rapide palate veniva condotto all'U-boat. Con ogni probabilità non avrei mai saputo come fosse riuscito a portarci una dea imprigionata a bordo di un sottomarino! Mentre guardavo la torre di comando sparire tra le onde, la mente tornò alla deprimente realtà del mio reame. Dove una flotta aerea vittoriosa stava facendo sì che presto Adolf Hitler avesse il controllo del mondo. Rammentai a Elric che il mio compito non era finito. Se il Graal si trovava ancora a Bek, forse avrei potuto trovare il modo di usarlo contro i nazisti. Per lo meno avrebbe potuto essere definitivamente riportato a Mu Ooria. La figlia della ladra di sogni mi sorrise con un'aria da innocentina. «E se il Graal fosse sempre appartenuto a Bek?» disse. «Se fosse stato perduto e in realtà gli Off-Moo fossero stati solo dei guardiani temporanei? Se aves-
se deciso di tornare a casa?» Quasi non compresi le sue parole perché nella mia mente cominciava a chiarirsi qualcos'altro. Guardai Elric. «Klosterheim!» gridai. «Entrambi siamo sopravvissuti alle sue pallottole perché eravamo in presenza del Graal e non lo sapevamo! Il Graal agisce contro la dissipatezza. Gaynor non avrebbe potuto fare le sue magie se l'avesse avuto addosso. Il Graal è ancora là. Ma questo significa che chiunque fosse alla sua presenza è sopravvissuto. Significa che già ora Klosterheim potrebbe essere in possesso del calice.» Elric esitò. Sentivo che era riluttante a rimanere in questo sogno. Voleva raggiungere Maldiluna e continuare le sue avventure nel mondo che conosceva meglio. Infine disse: «Anche Klosterheim si è guadagnato la mia vendetta. Torneremo a Bek.» Indugiò un istante, posandomi una mano dalle lunghe dita sulla spalla. Per un momento fu un fratello. Quando tornammo alla spiaggia, i draghi ci stavano già aspettando, come sapessero che avevamo bisogno di loro. Stavano sbatacchiando gli aculei e saltellavano impazienti prima su un'enorme zampa e poi sull'altra. Il sole rendeva abbaglianti i colori da farfalla. Erano Phoorn giovani, capaci di fare il giro di mezzo mondo volando senza stancarsi. Desideravano fortemente essere di nuovo in aria. Srotolammo le nostre skeffla'a e sellammo i draghi. Montando sulle possenti groppe, ci posizionammo negli incavi naturali che permettevano a un Phoorn di portare fino a tre cavalieri. Con un mormorio di Elric, sempre il grande padrone dei draghi, vivaci ali di rettile fendettero e mossero l'aria pesante, poi con un ulteriore spinta ci portarono alti nel cielo del pomeriggio con i colpi regolari di rematori su un lago. A ogni possente battito aumentavano la velocità, le code che sferzavano e si incurvavano per guidarci tra le impetuose correnti d'aria. Il collo teso e i grandi occhi fiammeggianti, scrutavano le nuvole davanti a noi. Antichi draghi sputafuoco. Sfiorammo la superficie del mare, poi scivolammo con grazia verso l'alto finché ci dirigemmo a est, di nuovo sopra le dolci colline alberate e le valli. Di nuovo verso la Germania. Questa volta Elric scelse una rotta leggermente diversa, spingendosi più a sud di quanto mi sarei aspettato, forse per rendersi conto della devastazione dell'orgoglioso cuore dell'Impero allo sbando. Anche lui comprendeva la peculiare ambivalenza del fatto di dovere lealtà a un impero morente. Ora però si era aggiunta una nuova motivazione al volo di Elric, che ci
portava più in basso tra le nuvole, nella luce del crepuscolo, dove si stava svolgendo un combattimento aereo ravvicinato. Due Spitfire roteavano e si impennavano mentre le loro armi facevano ripetutamente fuoco contro uno schiacciante numero di Stuka. Gli aerei tedeschi erano stati appositamente dotati di sirene urlanti per farli apparire più letali. L'aria risuonava dei terribili suoni ma gli Spitfire, dando prova di straordinaria leggerezza e manovrabilità, rispondevano al meglio. Elric gridava mentre spingeva il suo drago verso il basso. Mentre lo seguivo, udii debolmente la sua voce dispersa dal vento. Dopo l'incredibile eccitazione del volo in picchiata, Musonero voltò la lunga testa, strinse i grandi occhi gialli e sbuffò. Uno sbuffo di fuoco acido. Il fuoco colpì prima uno Stuka, poi un altro. Aereo dopo aereo, non appena il drago inondò la squadriglia con il suo terribile respiro, precipitavano in un istante. Vidi uno sguardo stupefatto sui volti grati dei piloti degli Spitfire mentre viravano in alto e fuggivano tra le nubi alla massima velocità. I pochi Stuka rimasti ripiegarono a più alta quota alla ricerca di una relativa sicurezza, ma Elric li ignorò. Proseguimmo il volo. Dieci minuti dopo ci imbattemmo in un immenso mare di bombardieri Junkers. Mi venne in mente che i loro equipaggi erano formati da miei connazionali. Alcuni potevano essere cugini o lontani parenti. Normali, rispettabili ragazzi tedeschi travolti dall'assurdità del militarismo e del sogno nazista. Era giusto uccidere persone così, quale che fosse il motivo? Non c'erano alternative? Musobianco seguì Musonero lungo le invisibili vie dell'aria. Le code schioccarono come fruste gigantesche, il veleno schiumava e ribolliva nelle bocche e nelle narici. I nostri draghi piombarono sulle loro prede con tutta la giocosa allegria di due giovani tigri che si ritrovano in mezzo a un branco di gazzelle. Le armi ci spararono contro, ma non un singolo colpo si conficcò nel bersaglio. Le scaglie dure come acciaio dei draghi deviavano qualunque cosa le colpisse. Per i mitraglieri di bordo tutto quello era impossibile: dovevano aver pensato di sognare. Continuammo a scendere e tutto ciò che riuscivo a vedere erano croci uncinate naziste, il simbolo che riassumeva in sé ogni infamia, ogni disonore, ogni cinica crudeltà che il mondo aveva conosciuto. Erano quelle croci che attaccai. Non mi importava più degli equipaggi che volavano
sotto simili bandiere. Che non si vergognavano di volare sotto simili bandiere. Mi tuffai. Nella bocca di Musobianco ardeva il veleno, eruttato dall'aria bollente prodotta in uno dei molti suoi stomaci. Il veleno fiammeggiante colpiva bombardiere dopo bombardiere, tutti con il loro carico. Esplodevano in mille frammenti davanti ai nostri occhi. Alcuni dei velivoli tentarono di staccarsi dalla formazione. Altri lasciarono cadere le bombe a casaccio. Ma di nuovo i draghi li accerchiarono. Di nuovo gli aeroplani furono distrutti. I pochi rimasti voltarono le code e sfrecciarono verso la Germania. Che storia avrebbero raccontato al ritorno? Che storia avrebbero osato raccontare? Avevano fallito, comunque spiegassero la cosa. E fu così che demmo vita a una famosa leggenda. Una leggenda che attribuì alla RAF il merito della vittoria sulla Luftwaffe. La leggenda che molti ritengono abbia cambiato il corso della guerra e fatto perdere a Hitler ogni capacità di giudizio e forse anche quel poco di sanità mentale che gli restava. Una leggenda che alla fine si dimostrò forte come il mito nazista liberato senza controllo sulle genti d'Europa. La nostra era la leggenda dei Draghi del Wessex che andarono in aiuto degli inglesi nell'ora del bisogno. Una leggenda che sollevò il morale britannico tanto quanto abbatté quello tedesco. Persino la storia degli Angeli di Mons, risalente alla Prima guerra mondiale, a suo tempo non fu convincente come la leggenda dei Draghi del Wessex. Re Artù, Ginevra e sir Lancillotto, si disse, erano riapparsi tutti assieme. Volando sulle bestie fantastiche dei giorni antichi, erano giunti in aiuto della loro nazione proprio al momento giusto. Alla fine, come Hess avrebbe scoperto, la Storia sarebbe stata messa a tacere, perché la leggenda era così forte che la propaganda di entrambe le nazioni era impegnatissima a pubblicizzarla o a negarla. Quando infine ci dirigemmo verso la Germania, avevamo distrutto parecchie squadriglie di bombardieri e innumerevoli caccia. L'esito della Battaglia d'Inghilterra era stato decisamente capovolto, e da quel momento Hitler agì con crescente follia, dato che le sue previsioni avevano perso credibilità. Da quel momento la sua famosa fortuna lo abbandonò. Mentre gli instancabili draghi mi riportavano a Bek, mi rammaricai molto. Pativo le sofferenze del rimorso di coscienza. Benché la causa fosse stata giusta, avevo comunque fatto guerra alla mia stessa gente. Comprendevo tutte le ragioni per cui era stato doveroso farlo, ma mai, per il resto della vita, avrei potuto liberare il mio spirito dal peso di quella colpa. Se
fossi sopravvissuto e la pace avesse regnato di nuovo, sapevo che avrei incontrato qualche madre che non avrei avuto il coraggio di guardare negli occhi. La gioia della vittoria, il brivido del volo, erano attenuati da una strana malinconia che da quel giorno non mi ha più abbandonato. Quando giungemmo a Bek, era chiaro che il luogo fosse deserto. Non si vedevano sentinelle. Hitler e i suoi se ne erano andati pieni di disgusto e tutti gli altri si erano affrettati a dissociarsi da quel castello. Non c'era più nulla a cui fare la guardia. Il posto era stranamente silenzioso quando atterrammo sulle merlature e con grande cautela ci dirigemmo all'interno, verso la sala d'armi. Ovunque segni di danni intenzionali. Ovunque sangue. Ma nessun cadavere. E nessuna coppa. Dov'era il Graal? Tutte le prove indicavano che non era mai stato spostato da Bek. Ma che Klosterheim in qualche modo fosse riuscito a prenderlo? Oona mi fece cenno di aspettarla mentre si avventurava nel castello abbandonato. Una volta di più sentii la mano di Elric sulla spalla, un affettuoso gesto fraterno. «Dobbiamo trovare Klosterheim.» Mi voltai e iniziai a prendere di nuovo la via delle scale. «No!» Elric era deciso. «Cosa? È mio dovere inseguirlo» dissi. «Seguirò io Klosterheim» replicò Elric. «Se avrò successo non lo vedrai più. Tornerò a Melniboné. Quei giovani draghi hanno fatto un buon lavoro e devono essere ricompensati.» «E Oona? E tua figlia?» «La figlia della ladra di sogni resta qui.» Con un gelido crepitio del mantello mi voltò le spalle e si diresse a grandi passi verso gli scalini che portavano fuori del salone. Volevo chiedergli di ritornare. Gli dovevo molto. Ma, ovviamente, anch'io gli ero servito. Ci eravamo stati di reciproco aiuto. Io l'avevo salvato dal torpore eterno e lui aveva cambiato le sorti della guerra. La Luftwaffe era annientata. Grazie al coraggio di pochi e con l'aiuto di una grande leggenda. La Gran Bretagna avrebbe ripreso forza. L'America l'avrebbe sostenuta. Alla fine i fascisti sarebbero stati espropriati del potere e la democrazia sarebbe rinata.
Ma prima che venisse quel momento, sarebbe stato versato il sangue di milioni di persone. Era difficile trovare qualcuno che guadagnasse qualcosa da quel terribile conflitto. Disorientato, mi guardai attorno nella nostra antica sala d'armi. Era stata teatro di tali violenze! Come avrei potuto sentirla di nuovo casa mia? Quanto avevo perduto da quella prima visita di Gaynor a Bek! Quando aveva tentato di ottenere da me la Spada del Corvo al fine di uccidere la figlia del mio doppio! Di sicuro avevo perduto un tipo di innocenza. Avevo anche perso amici, servitori. E una certa dose di rispetto per me stesso. Cosa avevo guadagnato? La consapevolezza dell'esistenza di altri mondi? Saggezza? Colpa? La possibilità di cambiare il corso della storia, di fermare l'espansione della tirannia nazista? Molti desideravano ardentemente poter fare una cosa del genere. Le circostanze relative al sangue e al tempo mi avevano messo in condizione di cambiare l'andamento del conflitto a favore del nemico del mio paese. Il senso di colpa crebbe ulteriormente quando i bombardamenti degli Alleati aumentarono. Colonia. Dresda. Monaco. Tutte belle città antiche, simboli di un passato dorato, ridotte a macerie e amari ricordi. Proprio come noi avevamo ridotto in frantumi la memoria e l'orgoglio di altre nazioni e disonorato i loro morti. Ma per cosa? E se tutto questo dolore, questo dolore del mondo intero, potesse essere fermato? Dall'influenza di un oggetto? Da quella cosa che chiamavano Verga di Rune, Graal, Calderone di Finn: l'oggetto che attorno a sé creava un campo di serenità e di equilibrio. A sostegno della propria sopravvivenza e di quella del multiverso. Dov'era, quella panacea per la sofferenza delle nazioni? Dov'era, se non nei nostri cuori? Nella nostra immaginazione? Nei nostri sogni? Che tutto ciò che avevo sperimentato a Mu Ooria non fosse stato altro che un complesso ma irreale incubo in cui la figlia della ladra di sogni mi aveva attirato? Un'illusione di magia, del Graal, di una vita senza fine? Un tempo non avevo dubbi riguardo alle proprietà del Graal, alla sua forza rivolta al bene. Ma ora mi chiedevo se quell'oggetto avesse davvero una forza rivolta al bene, o non fosse piuttosto a sostegno solo di se stesso e per nulla interessato alle questioni dell'umana moralità. Aveva ragione Gaynor? Il Graal richiedeva il sangue degli innocenti per agire? Era quella l'ironia finale? Niente vita senza morte?
Dalla porta semidistrutta giunse Oona, alle sue spalle un raggio di sole. Aveva trovato l'arco e le frecce dove li aveva nascosti. Mi guardò e si rese conto che Elric se ne era andato. Corse verso la vecchia scala. «Padre!» Scomparve alla mia vista prima che raggiungessi la porta. La chiamai ma mi ignorò, o non mi udì. Cominciai a salire anch'io gli scalini rapidamente, ma quando giunsi in cima alla torre e allo stretto corridoio che portava al tetto qualcosa mi fece rallentare il passo. Mi muovevo con riluttanza e fuori, sulle merlature, scorsi Elric che stringeva la figlia in un tenero abbraccio. Dietro di lui i draghi borbottavano e pestavano i piedi, ansiosi di prendere di nuovo il volo. Lui, però, era lento ad andarsene. Quando alzò il viso, i suoi occhi inquieti erano colmi di lacrime. Lo osservai apporre un bacio gentile sulla fronte della figlia. Poi con un sol passo si affiancò all'impaziente Musonero e gli diede una grattatina sotto le scaglie. Con un movimento rapido e aggraziato montò in sella e con la sua voce musicale richiamò anche l'altro drago. Un rumoroso e possente batter d'ali e i due grandi rettili salirono nell'aria della sera. Osservai le sagome scure volteggiare in cerchio, stagliate contro l'immenso disco rosso del sole al tramonto. Con lenta grazia virarono in un'ombra scura e d'improvviso sparirono. Oona si voltò, gli occhi asciutti, la voce innaturalmente bassa. «Posso vederlo ogni volta che voglio» mi disse. Aveva qualcosa in mano. Un piccolo talismano. «Nei suoi sogni?» domandai. Mi fissò per un istante. Poi la seguii all'interno del castello. EPILOGO Il resto della storia è di pubblico dominio. Ovviamente né Oona né io rimanemmo in Germania. Altrimenti, il nostro arresto sarebbe stato più che certo. E, se fossimo stati arrestati, avevamo un'idea ben precisa di quello che sarebbe stato il nostro destino. Quindi il principe Lobkowitz ci aiutò a raggiungere la Svezia e poi Londra. Avendo contribuito alla distruzione della flotta aerea del mio paese e iniziato il processo della sconfitta di Hitler, continuai la lotta contro i nazisti. Per un po' lavorai alla BBC come
annunciatore, quindi come interprete con l'unità psichiatrica della Croce Rossa quando gli Alleati cominciarono a spostarsi in Germania e in Austria. Persino io, con tutta la mia esperienza della brutalità nazista, non riuscivo a sopportare le scene che ogni nuovo giorno svelava ai nostri occhi. Vidi Lobkowitz solo in poche altre occasioni, dato che era impegnato con quelli che si occupavano dei criminali di guerra, e non seppi nulla di Bastable. Quando gli Stati Uniti entrarono nel conflitto, Oona andò a Washington e fece parte di un'unità per operazioni speciali. Vidi Bek ancora una volta prima che i russi ne prendessero possesso. L'Armata Rossa vi aveva acquartierato gli ufficiali. Anche loro notarono il senso di pace che si percepiva in quel luogo. Non potevo che dirmi d'accordo. Benché la storia recente fosse stata tutto fuorché tranquilla, la tranquillità era ciò che quella casa irradiava per un raggio di uno o due chilometri nelle antiche proprietà dei Bek. Seppi poi che le autorità locali avevano trasformato Bek in una casa di cura per malati di mente, e ne fui contento. Quando finalmente il Muro cadde e io reclamai la mia casa, permisi che il suo più recente utilizzo continuasse, chiedendo di avere solo alcune stanze nell'ala vecchia oltre alla sala d'armi e alla torre. Qui studio serenamente, nell'assoluta certezza che da qualche parte scoverò un indizio riguardo all'attuale materializzazione del Graal. Che si trovi a Bek, non c'è dubbio. Qui tutte le ferite sembrano infine guarire. Questo è tutto ciò che abbiamo salvato dai nazisti. Nel maggio 1941 fu chiaro che la Luftwaffe non era più in grado di conquistare la Gran Bretagna. Disturbato dal fatto che Hitler stesse attaccando l'Unione Sovietica senza prima essersi assicurato l'alleanza con i suoi 'naturali fratelli in armi', Rudolf Hess volò da solo in Scozia. Si paracadutò fuori del suo Messerschmitt e atterrò sano e salvo. Trascorse alcune ore a Castle Auchy, dimora tradizionale del clan McBegg, che da quelle parti aveva una pessima reputazione. Dopo di che si mise alla ricerca del marchese di Clydesdale, che erroneamente riteneva un simpatizzante del nazismo. Ciò che Hess disse al marchese e a coloro che furono inviati ad arrestarlo fu che conosceva il segreto dei Draghi del Wessex, che emersero dalle proprie caverne segrete nascoste sotto le più belle colline d'Inghilterra per servire la nazione nel momento del bisogno. Affermò di sapere come contattare Re Artù, sir Lancillotto e la regina Ginevra, e di conoscere anche il luogo dove si trovava il Sacro Graal. Suggerì che il Graal fosse il
catalizzatore atto a riunire i popoli nordici contro la comune minaccia bolscevica e asiatica. Più volte chiese di poter parlare con Churchill, ma documenti di pubblico dominio mostrano che l'MI5 era fermamente convinto che Hess avesse perso del tutto la ragione. Tutti i rapporti confermano questa opinione. Con grande fermezza, Churchill rifiutò di incontrarlo. A Norimberga, Hess venne condannato come criminale di guerra e divenne l'unico prigioniero sopravvissuto della prigione di Spandau. E secondo quanto si dice, proprio a Spandau, nel 1987, si impiccò nella sua cella. Aveva novantuno anni. Durante tutto quel tempo gli è stato proibito di dare alle stampe alcunché e praticamente non concesse mai interviste, benché continuasse a insistere di avere informazioni di importanza cruciale per le autorità. Una teoria sostiene che sia stato assassinato dal Servizio segreto britannico, che temeva ciò che avrebbe potuto rivelare una volta rilasciato. Comunque Hess non avrebbe più avuto alcun ruolo nella mia storia. Lo stesso, invece, non si può dire di Elric. L'ho sempre nell'anima. Condivide ancora la mia mente. La notte, quando sogno, sogno la vita di Elric come se fosse la mia. Ho la sensazione di vivere non solo il destino di Elric, ma quello di centinaia di altri come noi. Non sono mai del tutto libero dalla sua presenza. La sua storia continua, e io continuo a farne parte, così come Oona, la figlia della ladra di sogni, che è diventata mia moglie. Abbiamo deciso di non avere figli naturali ma abbiamo adottato tre ragazze e due ragazzi. Vogliamo che il nostro sangue si estingua. Come il Graal sia stato trovato e cosa accadde a noi è una storia che, come quella di Rudolf Hess, deve ancora essere scritta. Nel frattempo, ci stiamo godendo un periodo di tranquillità, felici di assaporare una tregua nella grande lotta, in quella partita in cui tutti noi giochiamo un ruolo importante: la sfida infinita tra la vita e la morte. FINE