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JOHN KATZENBACH LA GIUSTA CAUSA (Just Cause, 1995) Colui che combatte i mostri dovrebbe fare attenzione a non farsi egli stesso mostro. E quando rivolgi a lungo lo sguardo nell'abisso, anche l'abisso ti sta guardando. FRIEDRICH WILHELM NIETZSCHE Al di là del bene e del male L'inferno è lastricato di buone intenzioni, non di cattive. GEORGE BERNARD SHAW Massime per i rivoluzionari Ringrazio in modo particolare per il loro aiuto i miei amici Joe Oglesby del Miami Herald, e Athelia Knight del Washington Post. I loro saggi suggerimenti hanno incommensurabilmente contribuito alla stesura di questo manoscritto. I! quale, naturalmente, sarebbe stato impossibile da completare senza l'aiuto e la tolleranza di mia moglie, Madeleine Blais, e dei miei figli. Parte prima Prigionieri Quando vinci il premio ti fanno una battuta: ora conosci la prima frase del tuo stesso necrologio. 1 Un uomo che fa opinione Il mattino in cui arrivò la lettera, Matthew Cowart, solo in casa, si risvegliò credendo di assistere all'arrivo di un falso inverno. Un vento forte dal nord aveva iniziato a soffiare dopo la mezzanotte e sembrava allontanare l'oscurità, macchiando il cielo mattutino di un grigio sporco che smentiva l'immagine stessa della città. Uscendo dal suo appar-
tamento e raggiungendo la strada di fronte, Matthew poteva sentire il vento scuotere e aggredire le palme, facendone cozzare insieme le fronde come spade. Si strinse forte nelle spalle, rimpiangendo di non avere indossato un maglione sotto la giacca dell'abito. Ogni anno succedeva che qualche mattino nascesse così, pieno della promessa di un cielo cupo e di un vento mugghiante. Era la natura che faceva un piccolo scherzo, provocando i brontolii degli abitanti di Miami Beach, che camminavano infagottati nei maglioni lungo le spiagge. A Little Havana le anziane donne cubane avrebbero indossato pesanti soprabiti di lana e avrebbero maledetto il vento, dimentiche che in estate si dovevano riparare sotto un parasole, maledicendo il caldo. A Liberty City, i covi sventrati e infestati dai topi e dagli spacciatori di crack avrebbero fischiato sotto le raffiche di vento. I drogati sarebbero rabbrividiti e avrebbero armeggiato con le loro pipette. Ma presto la città sarebbe tornata alla sua sudaticcia, appiccicosa normalità. Un giorno, pensò lui camminando veloce, forse due. Quindi l'aria calda si rinforzerà da sud, e tutti ci dimenticheremo presto del freddo. Matthew Cowart era un uomo che procedeva leggero nella vita. Le circostanze e la sfortuna gli avevano negato gran parte dell'armamentario dell'incombente mezz'età; un semplice divorzio aveva tagliato fuori sua moglie e sua figlia, una brutta morte si era occupata dei suoi genitori; i suoi amici erano scivolati in esistenze separate, confinate dalle rispettive carriere, da squadroni di bambini, dalle rate delle automobili, dai mutui. Per qualche tempo qualcuno aveva tentato di includerlo nei programmi di uscita e nelle feste, ma con il crescere della sua solitudine, e del suo apparente starci bene, tali inviti erano diminuiti, fino a scomparire del tutto. La sua vita sociale era racchiusa entro i confini di qualche occasionale festa in ufficio e di qualche chiacchiera di lavoro. Non aveva un'amante, e sentiva una vaga confusione rispetto ai perché di tale mancanza. Il suo appartamento era modesto, parte di un alto e massiccio edificio con vista sulla baia, costruito negli anni cinquanta. Lui lo aveva riempito di mobili vecchi, di librerie imbottite di gialli e di volumi di cronaca nera, di stoviglie sbeccate ma funzionali, di qualche stampa di poco valore incorniciata e appesa alle pareti. A volte Cowart pensava che dal giorno in cui la moglie gli aveva portato via sua figlia, tutto il colore fosse scomparso dalla sua vita. Tutte le sue esigenze venivano soddisfatte dall'attività fisica - i dieci chilometri che si imponeva ogni giorno, una corsa attraverso un parco del centro, un'occa-
sionale partita di basket all'ostello della gioventù - e dal lavoro al giornale. Si sentiva in possesso di una considerevole libertà, sebbene di tanto in tanto si preoccupasse di avere fin troppo pochi debiti riconoscibili. Il vento soffiava ancora forte, tirando e strattonando con energia un terzetto di bandiere all'entrata del Miami Journal. Lui si fermò un istante, sollevando lo sguardo verso il regolare, impassibile edificio dai muri gialli. La testata del giornale era magnificata nelle enormi lettere rosse di un'insegna elettrica situata su una parete. Era un luogo famoso, ben noto per la sua aggressività e per la sua potenza. Sull'altro lato, la sede del quotidiano fronteggiava la baia. Cowart poté scorgere le acque agitate frangersi contro il pontile sul quale venivano scaricati i grossi rotoli di carta da giornale. Una volta, seduto da solo nel caffè davanti a un panino, aveva scorto una famiglia di manali mentre si esibiva in una serie di capriole subacquee nella trasparente acqua azzurra, a non più di dieci metri dal molo di scarico. Le loro schiene marroni erano all'improvviso emerse in superficie, per poi nuovamente scomparire fra le onde. Lui si era guardato in giro in cerca di qualcuno cui raccontarlo, ma non aveva visto nessuno, e aveva passato i giorni seguenti, a pranzo, a fissare la distesa cangiante d'acqua verdeazzurra, aspettando di rivedere gli animali. Era questo che gli piaceva della Rorida; lo Stato intero pareva fosse stato ricavato tagliando via un pezzo di giungla, la quale minacciava costantemente di sopraffare tutta l'area sviluppata, restituendola a qualcosa di primordiale. Il giornale riportava in continuazione storie relative ad alligatori di più di tre metri che rimanevano intrappolati sulle rampe d'accesso della statale, bloccando il traffico. Lui adorava quel genere di storie: una bestia antica che ne fronteggiava una moderna. Cowart attraversò rapido la doppia porta che si apriva sulla redazione del Journal, rivolgendo un cenno di saluto alla centralinista, seduta seminascosta dal quadro-telefoni. Accanto all'ingresso vi era una parete destinata all'esposizione di targhe, citazioni e premi: una sfilata di Pulitzer, di Kennedy, di Cabot, di Pyles, e di altri nomi più terreni. Si fermò davanti a una schiera di cassette delle lettere per ritirare la sua posta, passò rapidamente in rassegna i soliti materiali promozionali e le dozzine di comunicati stampa, di dichiarazioni programmatiche, di proposte che ogni giorno giungevano dalle delegazioni del congresso, dall'ufficio del sindaco, da quello del responsabile della contea, e da diverse centrali di polizia, tutti tesi a renderlo partecipe di un qualche sviluppo che a loro pareva degno di attenzione editoriale. Sospirò, pensando a quanto denaro venisse sprecato in quei
tentativi senza alcuna speranza. Ma una busta attirò la sua attenzione. La separò dalla pila delle altre. Era una busta bianca e sottile, sulla quale il suo nome e il suo indirizzo erano stati scritti in un vigoroso stampatello. Sull'angolo era segnato l'indirizzo del mittente, una casella postale di Starke, Florida, a nord dello Stato. La prigione di Stato, pensò lui all'istante. La mise in cima alle altre lettere e si diresse verso il suo ufficio, destreggiandosi tra il locale pieno di scrivanie, rivolgendo qualche cenno di saluto ai pochi giornalisti che erano arrivati presto e stavano già lavorando al telefono. Agitò la mano salutando il caporedattore della cronaca, il quale stava leggendo l'ultima edizione, i piedi sulla scrivania. Quindi attraversò una serie di porte sul retro della redazione, segnate dalla scritta EDITORIALI. Era a metà strada del suo cubicolo di ufficio quando udì una voce provenire dalla stanzetta accanto. «Ah, il giovane rivoluzionario è in ufficio presto. Cosa ti potrebbe portare qui prima delle orde? Agitato per i fatti di Beirut? Insonne a causa del programma di ripresa economica del presidente?» Cowart sporse il capo dal divisorio. «'Giorno, Will. Veramente volevo solo usare il telefono del giornale per chiamare mia figlia. Le profonde e inutili preoccupazioni le lascio tutte a te.» Will Martin scoppiò a ridere e si scostò un ciuffo di bianchi capelli dagli occhi, un gesto più adeguato a un bambino che non a un uomo anziano. «Fai pure. Approfitta dell'abbondante generosità finanziaria del nostro amato giornale. E quando finisci, dai un'occhiata alla storia sulla pagina locale. Pare che uno dei nostri dispensatori di giustizia in tonaca nera abbia raggiunto un accordo per un vecchio amico beccato a guidare in stato di ubriachezza. Potrebbe essere giunto il momento per una delle tue popolari crociate sui delitti e sui castighi.» «Ci darò un'occhiata» rispose Cowart. «Fa un freddo del diavolo, stamane» proseguì Martin. «Che senso ha vivere quaggiù se poi devi comunque rabbrividire andando in ufficio? Tanto vale essere in Alaska.» «Perché non pubblichiamo un editoriale contro il tempo? Cerchiamo sempre di influenzare l'aldilà, in ogni caso. Magari è la volta che ci ascolta.» «Non hai tutti i torti.» Martin sorrise. «E tu sei l'uomo giusto per questo genere di cose» insistette Cowart. «Vero» convenne Martin. «Non imbevuto nel peccato, come te, ho un
rapporto migliore con l'Onnipotente. È molto utile in questo lavoro.» «È perché sei molto più vicino di me al momento in cui ti unirai a Lui.» Il suo vicino d'ufficio scoppiò in una fragorosa risata. «Sei un anzionista» disse in segno di protesta, agitando un dito. «E probabilmente anche un sessista, un razzista, un pacifista - e tutti gli altri isti.» Ridendo, Cowart raggiunse la sua scrivania, facendo cadere il mucchio della posta nel mezzo e lasciando la busta in cima. Allungò una mano per prenderla, mentre con l'altra iniziava a comporre il numero di telefono della sua ex moglie. Con un po' di fortuna, pensò, potrei trovarle mentre fanno colazione. Mentre il telefono iniziava a squillare aprì la busta e ne estrasse un foglio di carta gialla a righe. Gentile signor Cowart, sono nel braccio della morte e attendo l'esecuzione per un crimine che NON HO COMMESSO. «Pronto?» Ripose la lettera sulla scrivania. «Ciao, Sandy. Sono Matt. Volevo solo parlare un minuto con Becky. Spero di non avervi disturbato.» «Ciao, Matt.» Lui poté sentire un'esitazione nella voce di lei. «No, è solo che stavamo per uscire. Tom deve essere in aula presto, così l'accompagna lui a scuola, e...» Fece una pausa, poi riprese. «No, va bene. Ci sono un paio di cose di cui ti dovevo parlare, comunque. Ma loro devono andare, quindi potresti fare in fretta?» Lui chiuse gli occhi e pensò a quanto doloroso fosse non essere coinvolto nella vita quotidiana di sua figlia. Si figurò lei che rovesciava qualche goccia di latte al mattino, lei che leggeva un libro alla sera, lui che le teneva la mano quando era malata, lui che ammirava i suoi disegni fatti a scuola. Ricacciò via la sua frustrazione. «Certo. Volevo solo salutarla.» «Vado a chiamarla.» Il ricevitore del telefono picchiò contro la superficie del tavolo, e nel silenzio che seguì Matthew Cowart osservò ancora quelle parole: NON HO COMMESSO. Si ricordava di sua moglie il giorno in cui si erano conosciuti, nell'ufficio del giornale dell'Università del Michigan. Lei non era alta, ma la sua intensità pareva contraddire le sue dimensioni. Era una studentessa di arti grafiche, e lavorava a mezza giornata realizzando bozzetti e titoli, scrutando intensa le bozze, scostandosi dal viso gli ondulati capelli scuri, tanto
concentrata da non udire squillare il telefono e da non mostrare alcuna reazione alle battute sporche che aleggiavano nell'atmosfera scatenata della redazione. Si era rivelata una persona ordinata e precisa, con l'approccio alle cose della vita tipico di un correttore di bozze. Figlia di un capitano dei vigili del fuoco di una città del Midwest che era morto nel corso di una missione e di una maestra elementare, ambiva a possedere qualcosa e desiderava stare bene. Lui la vedeva bellissima ed era intimidito dal suo desiderio. Era rimasto sorpreso quando lei aveva accettato di uscire con lui; e ancora più sorpreso quando, dopo una dozzina di uscite, lei ci era andata a letto. Lui era il caporedattore della pagina sportiva, cosa che lei considerava una stupida perdita di tempo. "Uomini troppo muscolosi vestiti in modo strano che combattono per il possesso di palle di forme diverse", diceva. Lui aveva cercato di educarla al contenuto romantico degli incontri, ma lei si era rivelata intransigente. Dopo un po' lui era passato alle vere e proprie notizie, gettandosi con tenacia all'inseguimento delle storie, mentre il loro rapporto si faceva sempre più solido. Lui amava le ore infinite, la caccia all'intreccio, la seduzione della scrittura. Lei pensava che lui sarebbe diventato famoso, o, se non proprio famoso, importante. L'aveva seguito quando lui aveva ricevuto la sua prima offerta di lavoro da un piccolo quotidiano del Midwest. Mezza dozzina di anni più tardi, erano ancora insieme. Lo stesso giorno in cui lei gli aveva detto di essere incinta, lui aveva ricevuto l'offerta del Miami Journal. Lui avrebbe scritto di cronaca nera. Lei avrebbe avuto Becky. «Papà?» «Ciao, tesoro.» «Ciao, papà. La mamma dice che possiamo parlare solo un minuto. Devo andare a scuola.» «Fa freddo lì, tesoro? Dovresti metterti un cappotto.» «Lo metto. Tom mi ha preso una giacca con su un pirata tutto arancione, una giacca dei Bucs. Metterò quella. Ho anche conosciuto dei giocatori. Erano a un picnic per raccogliere soldi per la carità.» «Che bello» replicò Matthew. "Dannazione" pensò. «I giocatori di rugby sono uomini importanti, papà?» Lui rise. «Più o meno.» «Papà, c'è qualcosa che non va?» «No, tesoro, perché?» «Be', è che di solito non chiami al mattino.»
«Mi sono solo svegliato sentendo la tua mancanza, e volevo sentire la tua voce.» «Anche tu mi manchi, papà. Mi riporterai a Disney World?» «In primavera. Promesso.» «Papà, ora devo andare. Tom mi sta facendo cenno. Ah papà, indovina: abbiamo un club speciale in seconda, si chiama il club dei cento libri. Ci sono appena entrata!» «Fantastico! Cosa ti danno in premio?» «Una targa speciale e una festa alla fine dell'anno.» «Ma è magnifico. E qual è stato il tuo libro preferito?» «Ah, è facile. Quello che mi hai mandato tu: Il drago riluttante.» Si mise a ridere. «Mi ricorda te.» Lui rise con lei. «Devo andare» ripeté lei. «D'accordo. Ti voglio bene, mi manchi davvero.» «Anch'io. Ciao.» «Ciao» rispose lui, ma lei si era già allontanata. Vi fu un altro momento di vuoto, finché la sua ex moglie non riprese il ricevitore. Lui parlò per primo. «Un picnic di beneficenza con dei giocatori di rugby?» Aveva sempre desiderato di odiare l'uomo che lo aveva rimpiazzato, voleva odiarlo per quello che faceva, il rappresentante legale di grandi società, per il suo aspetto esteriore massiccio e pettoruto, con la costituzione fisica di un uomo che passava l'ora del pranzo sollevando pesi in una palestra di lusso, voleva pensare che fosse crudele, un amante egoista, un cattivo patrigno, un capofamiglia inadeguato, ma Tom non era niente di tutto questo. Poco dopo che la sua ex moglie gli aveva annunciato le sue imminenti seconde nozze, Tom era giunto in aereo a Miami (senza dirle nulla) per incontrarsi con lui. Avevano bevuto qualcosa ed erano usciti a cena. Il proposito di partenza era torbido, ma dopo la seconda bottiglia di vino l'avvocato gli aveva confidato con brasca onestà che non avrebbe mai cercato di rimpiazzare Matthew agli occhi della figlia, ma che poiché le sarebbe stato vicino, avrebbe tentato in tutti i dannati modi di far sì che lei lo amasse. Cowart gli aveva creduto, aveva provato una strana sorta di sollievo e di soddisfazione, aveva ordinato un'altra bottiglia di vino e aveva deciso che quasi quasi il suo successore gli piaceva. «È lo studio legale. Aiutano a sponsorizzare qualcuna delle iniziative della United Way, a Tampa. E così i giocatori di rugby vengono coinvolti.
Becky era piuttosto impressionata, ma naturalmente Tom non le ha detto quante partite hanno vinto i Bucs l'anno scorso.» «Logico.» «Suppongo che lo sia. Di certo sono gli uomini più grossi che abbia mai visto in vita mia» disse Sandy con una risata. Vi fu qualche istante di silenzio prima che lei continuasse. «Come stai? Come va a Miami?» Lui si mise a ridere. «A Miami fa freddo, il che sta esasperando un po' tutti. Sai com'è, nessuno ha abiti invernali, nessuno ha il riscaldamento in casa. Tutti rabbrividiscono e diventano matti, finché non torna il caldo. Io sto bene. Mi ci trovo alla perfezione.» «Hai ancora gli incubi?» «Non troppi. Ogni tanto. È tutto sotto controllo.» Era una menzogna di poco conto, qualcosa a cui, lo sapeva, lei non avrebbe creduto, ma che avrebbe accettato senza fare ulteriori domande. Fu scosso da un brivido violento, pensando a quanto detestava la notte. «Potresti farti aiutare da qualcuno. Il giornale pagherebbe le spese.» «Spreco di tempo. Sono mesi che non ne ho» mentì in modo più palese. La sentì tirare il fiato. «Che c'è?» chiese. «Be'» rispose lei «suppongo che dovrei proprio dirtelo.» «E allora dimmelo.» «Tom e io avremo un figlio. Becky non sarà più sola.» Lui fu preso da una lieve vertigine e una dozzina di diversi pensieri e sensazioni gli rimbalzarono nel profondo. «Bene, bene, bene. Congratulazioni.» «Grazie» rispose la sua ex moglie. «Ma forse non hai capito.» «Capito cosa?» «Becky farà parte di una famiglia. Anche più di prima.» «Sì...?» «Non lo vedi, vero, quello che succederà? Succederà che sarai tu quello che sarà lasciato fuori. O almeno, è di questo che ho paura. È già così difficile per lei, con te che sei dall'altra parte dello Stato.» Lui provò la sensazione che qualcuno lo avesse appena schiaffeggiato. «Non sono io quello dall'altra parte dello Stato. Sei tu. Sei tu quella che se n'è andata.» «Questa è storia antica» replicò Sandy. «Comunque, le cose cambieranno.»
«Non vedo perché...» balbettò lui. «Credimi» insistette lei. Il suo tono dimostrava che aveva scelto quelle parole con grande attenzione, e con molto anticipo. «Ci sarà meno tempo per te. Ne sono sicura. Ci ho pensato tanto.» «Ma non era questo l'accordo.» «L'accordo può cambiare. Lo sapevamo entrambi.» «Non credo proprio» rispose lui, una prima ombra di rabbia nel tono di voce. «Insomma» esclamò lei brusca. «Non voglio farmi il sangue amaro parlandone adesso. Vedremo.» «Ma...» «Matt. Devo andare. Volevo soltanto che tu sapessi.» «Splendido» commentò lui. «Grazie mille.» «Ne potremo discutere più avanti, se ci sarà qualcosa da discutere.» "Certo" pensò lui "dopo che avrai parlato con gli avvocati e con gli assistenti sociali e che mi avrai completamente tagliato fuori." Sapeva che quel pensiero non rispondeva alla verità, ma nondimeno pareva rifiutarsi di essere scacciato. «Non è la tua vita quella di cui stiamo parlando» aggiunse lei. «Non più. È la mia.» E riappese. "Ti sbagli" pensò lui. Si guardò in giro nel suo piccolo ufficio. Attraverso una piccola finestra poteva vedere il cielo allungare la sua ombra color ardesia sul centro della città. Poi posò lo sguardo sulle parole che gli stavano davanti: NON HO COMMESSO. "Siamo tutti innocenti" pensò. "È il provarlo che è la cosa più difficile." Quindi, nel tentativo di allontanare il ricordo della conversazione, prese in mano la lettera e continuò a leggere: Il 4 maggio del 1987 ero appena tornato a casa nell'abitazione di mia nonna, nella cittadina di Pachoula, nella contea di Escambia. A quei tempi ero studente alla Rutgers University di New Brunswick, nel New Jersey, stavo finendo il mio primo anno. Ero già da mia nonna da diversi giorni, quando fui convocato nell'ufficio dello sceriffo per essere interrogato su un caso di violenza carnale e omicidio che era stato commesso a qualche chilometro da casa di mia nonna. La vittima era bianca. Io sono nero. Un testimone aveva visto una berlina Ford verde simile a quella di mia
proprietà mentre abbandonava l'area in cui la bambina era sparita. Fui tenuto senza cibo e acqua, mi fu impedito di prendere sonno e di parlare con un avvocato per trentasei ore filate. Fui picchiato diverse volte dagli investigatori. Usarono le guide del telefono arrotolate per pestarmi, poiché in quel modo non avrebbero lasciato alcun segno. Mi dissero che mi avrebbero ucciso e uno di loro mi puntò una rivoltella alla testa e prese a tirare il grilletto. Ogni volta il cane colpiva un tamburo vuoto. Alla fine mi dissero che se avessi confessato, ogni cosa sarebbe andata a posto. Ero spaventato ed esausto e allora lo feci. Non essendo a conoscenza dei dettagli, ma lasciando che loro mi conducessero attraverso i fatti, confessai. Dopo tutto quello che mi avevano fatto passare, avrei confessato qualsiasi cosa. MA NON L'HO FATTO! Cercai di ritrattare la confessione dopo qualche ora, ma non ebbi successo. Il mio difensore d'ufficio si fece vedere soltanto tre volte prima del processo. Non fece alcuna indagine, non chiamò alcun testimone che mi avrebbe localizzato in un luogo diverso al momento del delitto, e non riuscì a far annullare la confessione ottenuta illegalmente. Una giuria di soli bianchi ascoltò le prove e mi condannò dopo un'ora di dibattito. Impiegò soltanto un'altra ora per invocare la pena di morte. Il giudice, un bianco, approvò la sentenza. Mi definì un animale che avrebbe dovuto essere condotto fuori e ucciso a rivoltellate. A questo punto sono tre anni che mi trovo nel braccio della morte. Continuo a sperare con tutte le mie forze che qualche corte ribalti la mia condanna, ma è qualcosa che potrebbe impiegarci ancora molti anni a succedere. Mi potrebbe aiutare? Ho saputo da altri prigionieri che lei ha pubblicato diversi editoriali di condanna della pena di morte. Sono un uomo innocente e sto per affrontare la pena suprema soltanto a causa di un sistema razzista che mi si è messo contro. Pregiudizi, ignoranza e cattiveria mi hanno messo in questa situazione. La prego, mi aiuti. Più sotto le ho scritto i nomi del mio avvocato e dei miei testimoni. Ho segnato il suo nome sul mio elenco di visite autorizzate, nel caso decidesse di venire a parlarmi. C'è un'altra cosa. Io non sono solo innocente. Sono anche a conoscenza del nome dell'uomo che ha commesso il delitto. Speran-
do che mi aiuti, Robert Earl Ferguson, n. 212009 Florida State Prison, Starke, Florida Ci vollero diversi secondi prima che Cowart digerisse la lettera. La rilesse varie volte, cercando di passare in rassegna le sue diverse impressioni. Quell'uomo si esprimeva con chiarezza, era decisamente istruito e raffinato, ma i prigionieri che si dichiaravano innocenti, e specialmente i prigionieri del braccio della morte, erano la norma non l'eccezione. Si era sempre chiesto perché la maggioranza degli uomini, perfino al momento di fronteggiare la propria morte, si aggrappavano a un'immagine d'innocenza. Era vero anche per i peggiori psicopatici, gli assassini seriali per i quali la vita umana contava così poco che uccidere qualcuno equivaleva a parlargli, ma che, se fronteggiati, mantenevano quella certa aura, a patto di non essere persuasi che una confessione li avrebbe in qualche modo aiutati. Era come se quella parola significasse per loro qualcosa di diverso, come se l'elenco di orrori che avevano sofferto avesse in qualche modo pulito loro la coscienza. Quel pensiero gli fece tornare in mente gli occhi del ragazzo. Gli occhi che avevano fatto da protagonisti in molti dei suoi incubi. Era tardi, e tutto stava strisciando, nel caldo spesso di una notte d'estate di Miami, verso le prime ore del mattino, quando aveva ricevuto la telefonata che lo aveva destato dal sonno, e che lo aveva guidato verso una casa a soli dieci o dodici isolati di distanza dalla sua. Un caporedattore della cronaca cittadina, rabbioso per l'ora, nauseato del suo lavoro, che lo mandava ad assistere a uno spettacolo dell'orrore. Era ai tempi in cui ancora lavorava alla cronaca, incarichi generici, il che significava per la maggior parte omicidi. Era giunto sul luogo e aveva passato un'ora a camminare avanti e indietro lungo il nastro giallo piazzato dalla polizia, nell'attesa che succedesse qualcosa, scrutando nel buio verso una linda casetta a un piano in stile rurale, con un prato ben curato e una BMW nuova parcheggiata sul vialetto d'accesso. Era l'abitazione medioborghese di un giovane dirigente e di sua moglie. Poteva vedere i tecnici, gli investigatori e il personale dell'ufficio di medicina legale aggirarsi all'interno della casa, ma non riusciva a capire cosa fosse successo. L'intera area era illuminata dalle luci pulsanti delle auto di pattuglia, che gettavano sulla scena rapidi sprazzi azzurri e rossi. Le luci sembravano farsi più
spesse nell'aria umida. I pochi vicini che si erano avventurati fuori di casa erano stati concordi nelle loro descrizioni della coppia che viveva in quella casa: erano gentili, cordiali ma riservati. Si trattava di una litania nota a tutti i giornalisti. Chiunque venisse assassinato era sempre considerato una persona riservata, che lo fosse o meno. Era come se i vicini sentissero la necessità di dissociarsi rapidamente da qualsiasi forma di terrore fosse caduta dal cielo. Finalmente aveva visto Vernon Hawkins che usciva dalla casa da una porta scorrevole. L'anziano investigatore era riuscito a evitare le luci stroboscopiche della polizia e le telecamere della televisione, e si era spinto fino a un albero, al quale si era appoggiato, sfinito. Conosceva Hawkins ormai da anni, e insieme erano passati attraverso dozzine di storie. All'esperto investigatore Cowart era sempre piaciuto in modo speciale; spesso gli aveva fornito informazioni, gli aveva mostrato dettagli confidenziali, gli aveva spiegato risvolti segreti, aveva introdotto il giornalista alla vita inesorabilmente spiacevole dell'investigatore della squadra omicidi. Cowart si era furtivamente introdotto al di là del nastro giallo, e si era avvicinato all'investigatore. L'uomo aveva aggrottato la fronte, quindi aveva scrollato le spalle e gli aveva fatto segno di sedersi. L'investigatore si era acceso una sigaretta. Poi ne aveva fissato per qualche istante la brace luccicante. «Ti uccidono, questi affari» aveva detto infine con una mesta risata. «Mi stanno uccidendo. Un tempo lo facevano lentamente, ma sto invecchiando e ora è tutto più veloce.» «E allora perché non smetti?» aveva chiesto Cowart. «Perché è l'unica cosa al mondo che mi allontani dalle narici l'odore della morte.» L'investigatore aveva aspirato una lunga boccata e il rosso scintillio ne aveva illuminato i lineamenti del volto. Dopo un attimo di silenzio, l'investigatore si era voltato verso Cowart. «Allora, Marty, che ci fai fuori in una notte come questa? Dovresti essere a casa con quella splendida mogliettina che ti ritrovi.» «Andiamo, Vernon.» L'investigatore aveva sorriso in silenzio e aveva dolcemente appoggiato il capo all'albero. «Finirai come me, niente di meglio da fare di notte che andare sulle scene dei delitti.» «Piantala, Vernon. Cosa mi puoi dire dell'interno?» L'investigatore aveva liberato una breve risata. «Un uomo nudo e morto. Una donna nuda e morta. Gola tagliata mentre era ancora a letto. Sangue
dappertutto.» «E...?» «Sospetto colpevole in stato d'arresto.» «Chi?» «Un ragazzo. Scappato di casa da Des Moines, lo hanno tirato su stasera. Sono andati fino al viale di Fort Lauderdale per trovarlo. Erano appassionati di strani giochetti a tre. L'unico problema è che, dopo che i due si sono divertiti con il ragazzo, lui ha deciso che poteva avere molto di più dei loro cento dollari. Vede l'auto, vede il quartiere di lusso e tutto il resto. Si sono messi a discutere. Lui ha tirato fuori un vecchio rasoio da barbiere. Quegli aggeggi sono ancora un accidente di arma. Al primo colpo ha tagliato in due la giugulare dell'uomo...» L'investigatore aveva sottolineato le sue parole con una dimostrazione nell'aria notturna, menando un improvviso fendente nell'oscurità con un rapido movimento di taglio. «...L'uomo crolla come se fosse stato colpito da una pallottola. Un paio di gorgoglii ed è tutto finito. Resta vivo giusto il tempo di accorgersi che sta per morire. Brutto modo di andarsene. La moglie prende a gridare, naturalmente, e cerca di scappare. Allora il ragazzo la prende per i capelli, le tira la testa indietro, e tombola. Velocissimo, lei ha fatto in tempo a gridare un'altra volta ancora. Che sfortuna, però. È bastata per destare l'attenzione di un vicino, che ci ha chiamato. Un tipo sofferente di insonnia che era fuori col cane. Abbiamo beccato il ragazzo mentre usciva dalla porta principale. Stava caricando l'auto con lo stereo, la televisione, i vestiti, qualsiasi cosa sulla quale era stato in grado di mettere le mani. Tutto coperto di sangue.» Hawkins aveva quindi rivolto lo sguardo in lontananza attraverso il prato. «Matty» aveva detto in tono assente «qual è la Prima Legge di Vita di Hawkins?» Cowart aveva sorriso nel buio. Ad Hawkins piaceva parlare per massime. «La prima legge, Vernon, è non andare a cercarti dei problemi, perché i problemi quando vogliono ti trovano dovunque.» L'investigatore aveva annuito con un cenno del capo. «Un ragazzino proprio dolce. Un dolce giovane psicopatico. Sostiene che non c'entra niente.» «Cristo.» «Non è così strano» aveva continuato l'investigatore. «Voglio dire, il ragazzo probabilmente dà la colpa di quello che è successo al signor Giova-
ne Dirigente e a sua moglie. Se non cercavano di fregarlo, sai di che sto parlando.» «Ma...» «Nessun rimorso. Nemmeno un brandello di compassione, o qualsiasi altra traccia di umanità. È solo un ragazzo. Mi racconta tutto quello che è successo. E poi mi dice: "Non ho fatto niente. Sono innocente. Voglio un avvocato". Siamo lì dentro e c'è sangue dappertutto e lui dice di non aver fatto niente. Suppongo che sia perché non voleva dire niente per lui. Suppongo. Cristo...» Si era appoggiato sulla schiena, sconfitto ed esausto. «Lo sai quanti anni ha quel ragazzo? Quindici. Quindici anni un mese fa. Dovrebbe essere a casa a pensare ai brufoli, agli appuntamenti con le ragazze, ai compiti. Farà un bel po' di carcere minorile. Ci scommetterei la casa.» L'investigatore aveva chiuso gli occhi e aveva liberato un sospiro. "Non ho fatto niente. Non ho fatto niente. Gesù." Aveva allungato una mano. «Guarda là. Ho cinquantanove anni del cazzo, e sto per ritirarmi, e pensavo di aver visto tutto.» La mano gli tremava. Cowart l'aveva vista muoversi nella luce intermittente proiettata dai fari della polizia. «Sai una cosa» Hawkins aveva proseguito fissando la sua mano «sto giungendo al punto in cui non voglio sentirne più. Preferirei finirla a rivoltellate con qualche pazzo bastardo, piuttosto che stare ad ascoltare qualcun altro parlare di qualcosa di terribile come se significasse poco più di niente. Come se non fossero delle vite quelle che ha appena spento, come se si trattasse della cartina di una caramella che ha accartocciato e gettato via. Come se avesse gettato dei rifiuti per strada, invece di avere appena compiuto un omicidio di primo grado.» Si era poi voltato verso Cowart. «Vuoi vedere?» «Certo. Andiamo» aveva risposto lui, troppo in fretta. Hawkins lo aveva guardato attentamente. «Non esserne così sicuro. Sei sempre così dannatamente veloce a dire di voler vedere. Non è un bello spettacolo. Prendimi in parola, stavolta.» «No» aveva insistito Cowart. «È anche il mio, di lavoro. L'investigatore aveva scrollato le spalle.» Se ti porto dentro, mi devi promettere una cosa. «Di cosa si tratta?» «Tu guarda quello che ha fatto, e poi io te lo faccio vedere di persona. Nessuna domanda, gli dai solo un'occhiata, è in cucina... ma mi prometti che scriverai che non si tratta del ragazzo della porta accanto. Capito? Che
non è un povero ragazzo svantaggiato. È quello che il suo avvocato inizierà a dire non appena arriverà qui. Voglio una storia diversa. Devi dire a tutti che si tratta di un assassino freddo come la pietra, capito? Freddo come la pietra. Non voglio che qualcuno prenda su il giornale e guardi la sua foto e pensi: "Come può un bravo ragazzo come questo aver fatto una cosa del genere?".» «Lo posso fare» aveva risposto Cowart. «D'accordo.» L'investigatore si era stretto nelle spalle, si era alzato, e si era incamminato verso la porta d'ingresso. Quando furono sul punto di entrare, si era voltato verso Cowart. «Sei sicuro?» gli aveva chiesto. «Questa era gente come me e te. Non te ne dimenticherai, di quello che stai per vedere. Mai.» «Andiamo.» «Marty, lascia che un vecchio si preoccupi per te, per una volta.» «Smettila, Vernon.» «È il tuo incubo, allora» lo aveva avvertito l'investigatore. Ed aveva avuto perfettamente ragione. Cowart si ricordò di aver fissato il dirigente e sua moglie. Vi era così tanto sangue che pareva quasi fossero vestiti. Ogni volta che il flash del fotografo della polizia brillava, i corpi scintillavano per un istante. Ammutolito, aveva seguito l'investigatore in cucina. Il ragazzo, lì seduto, indossava jeans e scarpe da ginnastica, l'esile torso nudo, un braccio ammanettato a una sedia. Strisce di sangue gli segnavano il corpo, ma lui sembrava ignorarle, usando la mano libera per fumare una sigaretta con aria indifferente. Lo faceva sembrare ancora più giovane, come un bambino che volesse dare l'impressione di essere più grande di quello che era, più sicuro di sé, che volesse colpire i poliziotti nella stanza, ma che riusciva soltanto ad apparire leggermente sciocco. Cowart aveva notato che una traccia di sangue fra i capelli biondi del ragazzo gli aveva raccolto insieme qualche ciocca ricciuta, mentre un'altra ombra marrone di sangue raggrumato gli sporcava la guancia. Non aveva ancora neppure bisogno di radersi. Il ragazzo aveva alzato lo sguardo quando Cowart e l'investigatore avevano fatto il loro ingresso in cucina. «Chi è quello?» aveva chiesto, accennando con il capo a Cowart. Per un attimo Cowart aveva incrociato lo sguardo con quello del ragazzo. I suoi occhi erano di un azzurro antico, e di una cattiveria senza fine, e guardarli era stato come fissare il filo d'acciaio della lama di un boia.
«È un giornalista del Miami Journal» aveva risposto Hawkins. «Ehi, giornalista!» aveva esclamato il ragazzo, subito aprendosi in un sorriso. Quindi era scoppiato a ridere, una risata stridula e ansimante che era riecheggiata alle spalle di Cowart e si era inchiodata per sempre nella sua memoria, mentre Hawkins lo conduceva fuori dalla stanza, di nuovo fuori nell'alba impaziente. Era andato al giornale e aveva scritto la storia del giovane dirigente, della moglie e del ragazzo. Aveva descritto le lenzuola bianche stropicciate e inzuppate di rosso, gli schizzi di sangue che segnavano le pareti come in un incubo di Dalì. Aveva descritto il quartiere e la casa ordinata e l'attestato incorniciato e appeso alla parete a testimonianza dell'appartenenza della vittima all'élite degli affari. Aveva descritto i tipici sogni della periferia ricca, e le lusinghe del sesso proibito. Aveva descritto il viale di Fort Lauderdale lungo il quale ogni notte i ragazzini si prostituivano, diventando ogni minuto che passava molto più vecchi della loro vera età. E aveva descritto gli occhi del ragazzo, imprimendoli a fuoco nel racconto, proprio come il suo amico gli aveva chiesto di fare. E aveva chiuso l'articolo con le parole del ragazzo. Quando aveva fatto ritorno a casa, quella sera, una copia della prima edizione sotto il braccio, la sua storia in prima pagina, aveva sentito una spossatezza che andava ben al di là della mancanza di ore di sonno. Aveva raggiunto il letto, stringendosi alla moglie, pur sapendo che lei stava per lasciarlo, e rabbrividendo, come in preda all'influenza, incapace di trovare un minimo di calore al mondo. Cowart scosse il capo per fare svanire il mattino, e si guardò in giro nel cubicolo del suo ufficio. Hawkins ora era morto. Si era ritirato con una piccola cerimonia, gli era stata data una pensione ed era stato lasciato libero di tossire finché l'enfisema non aveva scritto la parola fine. Cowart era andato alla sua cerimonia di addio, e aveva applaudito quando il capo della polizia aveva citato i meriti dell'investigatore. Era andato a fargli visita nel suo piccolo appartamento di Miami Beach tutte le volte che aveva potuto. Era un luogo spoglio, decorato soltanto con i ritagli degli articoli che Cowart e altri avevano scritto. "Ricordati delle regole" gli diceva Hawkins al termine di ogni visita "e se non riesci a ricordarti di quanto ti ho detto sulla vita là fuori, allora datti delle regole da solo e vivi seguendo quelle." Ridevano. Poi lui era andato all'ospedale il più spesso possibile, fuggendo via presto e di nascosto dal giornale per recarsi da Hawkins a scambiar-
si i rispettivi racconti, fino all'ultima volta, quando arrivando aveva trovato Hawkins in stato d'incoscienza sotto la tenda a ossigeno, e non era stato in grado di capire se l'investigatore l'avesse sentito sussurrare il suo nome, o se si fosse accorto di quando gli aveva preso la mano. Era rimasto seduto a fianco del letto per una lunga notte, non riuscendo nemmeno a rendersi conto del momento esatto in cui la vita dell'investigatore era scivolata via nel buio. Quindi era andato al suo funerale, in compagnia di uno sparuto gruppo di vecchi poliziotti. C'era una bandiera, una bara, qualche parola pronunciata da un prete. Nessuna moglie. Nessun figlio. Occhi asciutti. Soltanto dei ricordi, buoni per riempire un incubo, che venivano lentamente calati sottoterra. Si era chiesto se sarebbe stato lo stesso alla sua morte. Chissà che ne è stato del ragazzo, si domandò. Probabilmente sarà uscito dall'aula del tribunale minorile e sarà tornato direttamente sulla strada. O forse nel braccio della morte, a fianco di chi gli aveva scritto quella lettera. O morto. Guardò la lettera. Dovrebbe essere più adatta a un articolo di attualità, si disse, che a un editoriale. Dovrei passarlo a qualcuno delle pagine cittadine, e lasciare che ci pensino loro a controllarlo. Io non faccio più quel genere di cose. Sono un uomo che fa opinione. Scrivo da una certa distanza, membro di un gruppo che vota e decide e adotta posizioni, non passioni. Ho rinunciato al mio nome. Accennò ad alzarsi dalla sedia per fare ciò che aveva pensato, ma si fermò a metà strada. Un uomo innocente. Cercò di ricordarsi, fra tutti i delitti e i processi sui quali aveva scritto, se avesse mai visto un uomo veramente innocente. Aveva assistito a un gran numero di verdetti di non colpevolezza, sentenze di non luogo a procedere per mancanza di prove, cause perse per pura eloquenza della difesa o per un'accusa incespicante. Ma non si ricordava di nessuno che fosse autenticamente innocente. Una volta aveva chiesto a Hawkins se avesse mai arrestato qualcuno del genere, e l'altro si era messo a ridere. "Un uomo che davvero non aveva fatto niente? Ah, fai un sacco di casini, questo è certo. Un sacco di gente che non dovrebbe se ne va in giro come se niente fosse. Ma incastrare qualcuno che è veramente innocente? È la peggior cosa che ti possa succedere. Non so se potrei vivere con quel tipo di consapevolezza. Nossignore. È l'unica cosa sulla quale davvero perderei il sonno." Prese la lettera in mano, NON HO COMMESSO. "C'è qualcuno che sta
perdendo il sonno a causa di Robert Earl Ferguson?" si chiese. Sentì una calda vampata di eccitazione. "Se è vero" pensò... Non terminò il pensiero, ma deglutì repentinamente, mettendo a freno un improvviso lampo di ambizione. Cowart si rammentò che, anni prima, aveva letto un'intervista con un elegante ma invecchiato giocatore di basket, il quale aveva finalmente deciso di appendere le scarpe al chiodo dopo una lunga carriera. Quell'uomo aveva parlato dei suoi successi e delle sue delusioni con il medesimo tono di voce, come se considerasse ciascun episodio con una sorta di misurata ed equa dignità. Gli era stato chiesto perché avesse finalmente deciso di smettere e lui aveva preso a parlare della sua famiglia e dei suoi figli, e della necessità di mettere finalmente da parte il gioco della sua gioventù e proseguire con la propria vita. Quindi aveva iniziato a parlare delle sue gambe, non come se fossero una parte del suo corpo, ma come se fossero buone, vecchie amiche. Aveva detto che non era più in grado di saltare come in passato, che ora, quando si raccoglieva per scattare verso il canestro, i muscoli che prima sembravano lanciarlo con così grande facilità gridavano la loro vecchiaia e il loro dolore, insistendo che lui smettesse. E aveva detto che senza l'aiuto delle sue gambe, continuare sarebbe stato inutile. Quindi era andato in campo per l'ultima volta e aveva segnato trentotto punti senza alcuno sforzo apparente - muovendosi, girandosi e saltando più in alto del canestro come faceva anni prima. Era come se il suo corpo gli avesse dato la possibilità di imprimere un ricordo indelebile nei suoi spettatori. Cowart pensava che lo stesso fosse vero del giornalismo; era necessaria una certa dose di giovinezza ignara della stanchezza, un trasporto che accantonasse il sonno, la fame, l'amore, tutto sacrificato alla singola ricerca di una storia. I giornalisti migliori avevano gambe che li portavano più in alto e più lontano, mentre gli altri si ritiravano per riposarsi. Involontariamente fletté i muscoli delle gambe. "Un tempo le avevo" pensò. "Prima che mi ritirassi quaggiù per cercare di sfuggire agli incubi, per indossare abiti da ufficio e sembrare responsabile ed invecchiare in modo elegante. Ora sono divorziato e mia moglie sta per rubarmi l'unica cosa che abbia mai amato senza riserve, e me ne sto quaggiù, nascondendomi dalla realtà, pubblicando opinioni su fatti che non influenzano nessuno." Serrò la mano sulla lettera. "Innocente" pensò. "Vediamo."
La biblioteca del Journal era una strana combinazione di vecchio e di nuovo. Si trovava appena dopo la redazione, al di là delle scrivanie sulle quali sedevano gli articolisti delle notizie di costume. Sul retro della biblioteca vi erano file di classificatori metallici che raccoglievano ritagli vecchi di decenni. Nel passato, ogni giorno il giornale veniva sezionato per nomi, argomenti, luoghi e fatti e ogni ritaglio veniva classificato nella categoria di appartenenza. Ora tutto ciò veniva fatto con l'ausilio di modernissimi computer, voluminose centrali di lavoro con schermi di grandi proporzioni. I bibliotecari si limitavano semplicemente a scorrere ogni articolo, evidenziando i personaggi e le parole-chiave, per poi trasmetterle in altrettanti documenti elettronici. Cowart preferiva l'antico sistema. Gli piaceva essere in grado di scartabellare fra un mucchio di ritagli neri di inchiostro, individuando e scegliendo quello che gli serviva. Era come riuscire a stringere in mano una parte della Storia. Ora, tutto era efficiente, veloce e senz'anima. Non si dimenticava mai di prendere in giro i bibliotecari per questo, ogni volta che doveva usare lo schedario. Non appena ebbe varcato la soglia, fu adocchiato da una giovane donna. Era bionda, con una gran massa di capelli, alta e con una bella figura. Portava occhiali dalla sottile montatura metallica, e di tanto in tanto lo fissava da sopra le lenti. «Non dirlo, Matt.» «Non dire cosa?» «Non dire quello che dici sempre. Che preferivi i vecchi tempi.» «Non lo dirò.» «Bravo.» «Visto che l'hai già detto tu.» «Non conta» rispose ridendo la giovane donna. Si alzò in piedi e lo raggiunse al banco. «Allora, che posso fare per te?» «Laura la bibliotecaria. Ti ha mai detto nessuno che ti distruggerai gli occhi guardando quello schermo di computer tutto il giorno?» «Me lo dicono tutti.» «Diciamo che ti do un nome...» «...E io ti farò la vecchia magia del computer.» «Robert Earl Ferguson.» «Che altro?» «Braccio della morte. Condannato circa tre anni fa, nella contea di Escambia.» «D'accordo. Vediamo...» Sedette sussiegosa di fronte a un computer, di-
gitò il nome e premette il tasto d'invio. Cowart poté vedere lo schermo farsi bianco a eccezione di una singola parola, che continuò a lampeggiare in un angolo: Searching. Poi la macchina sembrò singhiozzare, e sullo schermo si formò qualche parola. «Che dice?» domandò lui. «Un paio di voci. Fammi controllare.» La bibliotecaria premette altri tasti e una seconda serie di parole comparve sullo schermo. Lei prese a leggere i titoli: - Ex studente universitario accusato dell'omicidio di una bambina, condannato alla pena di morte. Appello respinto in caso di omicidio nelle campagne. La corte suprema della Florida si appresta a esaminare casi di pena di morte. È tutto. Tre articoli. E tutti dall'edizione del Golfo. Niente che sia stato pubblicato sulla parte nazionale, tranne l'ultimo pezzo, che è probabilmente un articolo di riepilogo. «Non è tanto, trattandosi di omicidio e di una pena di morte» considerò Cowart. «Sai, un tempo coprivamo tutti i processi per omicidio...» «Non una parola di più.» «La vita significava di più, allora.» La bibliotecaria si strinse nelle spalle. «Le morti violente facevano più sensazione di adesso e tu comunque sei troppo giovane per parlare dei vecchi tempi. Ti riferisci forse agli anni settanta...» Sorrise, e Cowart rise con lei. «In ogni caso, oggigiorno qui in Florida la pena di morte è storia vecchia. Abbiamo...» Esitò un istante, piegando indietro il capo e mettendosi a esaminare il soffitto. «... Più di duecento detenuti nel braccio della morte. Il governatore firma un paio di sentenze di morte al mese. Il che non vuol dire che poi succeda veramente, ma...» Lo guardò e sorrise. «Ma Matt, sono tutte cose che sai. Hai scritto quegli editoriali, l'anno scorso. Quelli in cui chiedevi che ci comportassimo come una nazione civile. Giusto?» gli chiese conferma con un cenno del capo. «Giusto. Ricordo che la stoccata principale era più o meno questa: non dovremmo autorizzare l'assassinio di stato. Tre editoriali, per un totale di forse sei colonne di giornale. E come risposta, abbiamo pubblicato più di cinquanta lettere che erano, come potrei dire?, piuttosto contrarie alla mia posizione. Cinquanta, ma ne abbiamo ricevute forse cinque quadrilioni. Le più gentili si limitavano a suggerire che fossi decapitato sulla pubblica piazza. Quelle cattive dimostravano un po' più di fantasia.» La bibliotecaria sorrise. «La popolarità non è la tua specialità, vero? Vorresti che ti stampassi questi articoli?» «Ti ringrazio. Ma preferirei che tu mi amassi...»
Lei si aprì in un gran sorriso e subito si voltò verso il computer. Fece scorrere nuovamente le dita sulla tastiera, e una stampante ad alta velocità, posta in un angolo del locale, iniziò a ronzare e a vibrare mentre stampava i documenti. «Eccoti servito. Sei su qualcosa di particolare?» «Forse» rispose Cowart. Estrasse i fogli di carta dal computer. «Il tizio sostiene di non averlo fatto.» La giovane donna scoppiò a ridere. «Ah, questo sì che è interessante. E soprattutto originale.» Quindi tornò a fronteggiare lo schermo del computer e Cowart fece ritorno al suo ufficio. Mentre Cowart passava in rassegna gli articoli, gli eventi che avevano portato Robert Earl Ferguson nel braccio della morte iniziarono ad assumere una forma e una sostanza sempre più precise. Il contributo fornito dalla biblioteca era minimo, ma era sufficiente per tracciare un ritratto nella sua immaginazione. Scoprì che la vittima era una ragazzina di undici anni e che il suo corpo era stato scoperto al limitare di una palude, nascosto sotto la sterpaglia. Gli fu facile immaginare il fitto fogliame verde e marrone con cui era stato coperto il cadavere. Aveva di certo in sé una dimensione di risucchiante, trasudante malessere; un luogo appropriato per morire. Proseguì a leggere. La vittima era la figlia di un membro del consiglio della cittadina, e l'ultima volta che era stata vista stava tornando a casa a piedi da scuola. Cowart vide un grande edificio di mattoni di cemento a un piano, che da solo si stagliava nel mezzo di un campo polveroso. Era probabilmente dipinto di rosa chiaro o del classico verde, colori che venivano a malapena vivacizzati dalle voci dei bambini che accoglievano eccitate la fine delle lezioni. Era allora che una delle insegnanti elementari l'aveva vista salire su una Ford verde con una targa di un altro Stato. Perché? Cosa poteva averla spinta a salire sull'auto di uno sconosciuto? Quel pensiero lo fece rabbrividire; provò una subitanea ondata di paura per sua figlia. Ma lei non lo avrebbe fatto, si disse bruscamente. Quando la ragazzina non era giunta a casa, era stato dato l'allarme. Cowart sapeva che le stazioni televisive locali, quella sera, dovevano aver trasmesso la sua fotografia nei telegiornali. Si trattava probabilmente del ritratto di una ragazzina con la coda di cavallo, sorridente, i ferri dell'apparecchio fra i denti. Una foto di famiglia, scattata nella speranza e nell'aspettativa del futuro, oscenamente usata per riempire di disperazione le onde TV. Più di ventiquattro ore dopo, gli agenti che perlustravano la zona aveva-
no portato alla luce i suoi resti. L'articolo era pieno di eufemismi: "brutale violenza", "selvaggia aggressione", "corpo lacerato e straziato", che Cowart riconobbe come pura stenografia giornalistica; non volendo descrivere in dettaglio il concreto orrore che la ragazzina aveva fronteggiato, l'articolista aveva fatto ricorso a una comoda serie di luoghi comuni. "Deve essere stata una morte terribile" pensò. "La gente avrà voluto sapere cos'era accaduto, ma non fino in fondo, perché se l'avessero saputo, neppure loro avrebbero più dormito." Proseguì a leggere. A quanto capiva, Ferguson era stato il primo e unico sospetto. La polizia lo aveva preso poco dopo che il corpo della vittima era stato ritrovato, a causa della somiglianza della sua auto con quella indicata dalla testimone. Era stato interrogato - non si diceva nulla, in alcuno di quegli articoli, del fatto che fosse stato tenuto in isolamento, o che fosse stato malmenato - e aveva confessato. La confessione, insieme alla corrispondenza dei gruppi sanguigni e all'identificazione del veicolo, pareva l'unica prova a suo sfavore, ma Cowart si impose prudenza. I processi portano in sé un ritmo particolare, come il grande teatro. Un dettaglio che poteva sembrare insignificante o discutibile in un articolo, poteva farsi immenso agli occhi di un giurato. Ferguson era stato preciso circa la sentenza del giudice. La citazione "...un animale che dovrebbe essere condotto fuori e ucciso a rivoltellate" aveva una posizione di spicco nell'articolo. Probabilmente quel giudice era in campagna elettorale. Gli altri documenti della biblioteca avevano fornito qualche informazione addizionale: soprattutto il fatto che l'appello iniziale di Ferguson, basato sull'insufficienza di prove, era stato respinto dalla corte d'appello del primo distretto. Era prevedibile. L'appello era tuttora in corso presso la corte suprema della Florida. Era chiaro per Cowart che Ferguson non aveva ancora veramente iniziato a tormentare le diverse corti. Aveva diverse strade per appellarsi e doveva ancora mettersi in cammino. Cowart si appoggiò sulla schiena e cercò di immaginare cosa fosse successo. Vide una contea rurale, nel mezzo delle più remote zone della Florida. Sapeva che si trattava di una parte dello Stato che non aveva assolutamente nulla in comune con le immagini popolari della Florida; non con i visi perfettamente ripuliti della classe media che sciamavano verso Orlando e Disney World, né con gli studenti universitari pieni di birra che puntavano verso le spiagge ad ogni vacanza primaverile, né con i turisti che guidava-
no i loro enormi camper fino a Cape Canaveral per assistere ai lanci spaziali. Di certo, quella Florida non aveva nulla a che fare con l'immagine cosmopolita e rilassata di Miami, che si dava la patina di una sorta di Casablanca americana. A Pachoula, pensò, perfino negli anni ottanta, quando una ragazzina bianca viene violentata e uccisa, e a farlo sembra essere stato un nero, un'America più primitiva prende il sopravvento. Un'America che la gente preferirebbe non ricordare. È questo che è accaduto a Ferguson? Certo era possibile. Cowart prese il telefono per chiamare l'avvocato che aveva in mano la pratica d'appello di Ferguson. Ci volle quasi tutto il resto della mattinata perché riuscisse a mettersi in comunicazione con l'avvocato. Quando finalmente riuscì a parlargli, Cowart fu immediatamente colpito dal suo accento meridionale, dolce come liquirizia. «Signor Cowart, parla Roy Black. Cosa mai potrebbe avere interessato un giornalista di Miami alle faccende della contea di Escambia?» La sua pronuncia era rotonda e svogliata. «Grazie per avermi richiamato, signor Black. Sono incuriosito da uno dei suoi clienti. Un certo Robert Earl Ferguson.» L'avvocato diede una breve risatina. «Be', come dire, avevo immaginato che si dovesse trattare del caso di Ferguson, quando la mia ragazza qui mi ha dato il suo numero di telefono. Cosa vorrebbe sapere?» «Prima di tutto mi parli del caso.» «Le dirò, il malloppo a questo punto è nelle mani della corte suprema dello Stato. Noi sosteniamo che le prove ai danni del signor Ferguson fossero a malapena sufficienti per metterlo agli arresti. E diciamo a chiare lettere che il giudice al processo avrebbe dovuto annullare quella sua confessione. Dovrebbe leggerla. Probabilmente il più opportuno documento di quel genere che io abbia mai visto. Come se la polizia si fosse messa a scriverlo di proprio pugno, quassù nell'ufficio dello sceriffo. E, senza quella confessione, l'accusa non regge. Se Robert Earl Ferguson non avesse detto quello che loro volevano che dicesse, non sarebbero durati nemmeno due minuti, in aula. Nemmeno con la corte più razzista e retrograda del mondo.» «E che mi dice del gruppo sanguigno?» «Il laboratorio di criminologia della contea di Escambia è piuttosto pri-
mitivo, non certo come quelli a cui siete abituati laggiù a Miami. Sono arrivati solo a determinare il gruppo sanguigno. Tipo 0 positivo. Era lo stesso del seme trovato sulla defunta, ed è lo stesso di Robert Earl. Naturalmente, questo sarebbe vero per circa un paio di migliaia di uomini nella stessa contea. Ma il suo avvocato al processo non si è preoccupato di controinterrogare il personale medico sull'argomento.» «E l'auto?» «Una Ford verde con targa di un altro Stato. Nessuno ha identificato Robert Earl, e nessuno ha detto di essere sicuro che quella in cui salì la piccola fosse la sua auto. Non era quella che si definisce una prova circostanziata, diavolo, era pura coincidenza. Il processo avrebbe dovuto concludersi con una bella risata.» «Non era lei a rappresentarlo, vero?» «Nossignore. Qualcun altro ha avuto l'onore.» «Avete messo in dubbio la competenza del legale?» «Non ancora. Ma lo faremo. Uno studente di giurisprudenza al terzo anno avrebbe potuto fare di meglio. Uno all'ultimo anno del liceo avrebbe fatto di più. Mi fa arrabbiare. Non vedo l'ora di buttare giù quella comunicazione. Ma non voglio sparare tutti i colpi all'inizio.» «Che intende dire?» «Signor Cowart» spiegò lentamente l'avvocato «lei conosce la natura degli appelli nei casi di pena di morte? L'idea è quella di continuare a dare piccoli morsetti alla mela. In quel modo si può trascinare la faccenda per anni e anni. Far sì che la gente dimentichi. Dare al tempo la possibilità di fare del bene. Non si spara il miglior colpo per primo, perché non farebbe altro che far sedere il ragazzo sulla vecchia poltrona bollente, non so se mi spiego.» «Capisco» rispose Cowart. «Ma supponiamo che a sedere laggiù sia un uomo innocente.» «È questo che le ha detto Robert Earl?» «Sì.» «Lo ha detto anche a me.» «Be', signor Black lei gli crede?» «Hmm, forse. Forse più stavolta di tutte le altre volte in cui ho sentito la stessa frase pronunciata da qualcuno che sta godendo dell'ospitalità dello Stato della Florida. Ma cerchi di capirmi, signor Cowart, non mi permetto di cedere al lusso di consentire a me stesso di sottoscrivere l'innocenza o la colpevolezza dei miei clienti. Devo preoccuparmi del semplice fatto che
siano stati condannati in un'aula di tribunale, e devo riuscire ad ovviare a ciò in un'altra aula di tribunale. Se posso evitare un torto, bene, vorrà dire che quando morirò e andrò in paradiso gli angeli mi accoglieranno con un gran suonare di trombe. Naturalmente, forse certe volte vanifico anche qualcosa di giusto e la rimpiazzo con un torto, e quindi c'è la concreta possibilità che un giorno io venga accolto in quell'altro posticino da gente con forconi e piccole code a punta. È la natura della legge, caro il mio signore. Ma lei lavora per un giornale. I giornali sono terribilmente più preoccupati dall'impressione che il mondo ha del giusto e dello sbagliato, della verità e della giustizia, di quanto non possa essere io. I giornali sono anche terribilmente più influenti nei confronti di un giudice che potrebbe ordinare un altro processo, o del governatore e del consiglio per la concessione delle amnistie, non so se mi spiego. Magari potrebbe fare qualcosina per Robert Earl.» «Potrei.» «Perché non va a visitarlo? È molto intelligente, e parla bene.» Black scoppiò a ridere. «Parla molto meglio di me. E probabilmente è abbastanza intelligente per poter essere un avvocato. Di sicuro è terribilmente più sveglio dell'avvocato che gli hanno assegnato al processo, che deve aver dormito per tutto il tempo che quelli hanno impiegato a spedire il suo cliente sulla sedia elettrica.» «Mi racconti di quell'avvocato.» «Un vecchio. Saranno forse cento, duecent'anni che opera lassù in quella zona. È un piccolo posto, Pachoula. Si conoscono tutti. Vengono giù al tribunale della contea di Escambia, ed è come se andassero a una festa. Una festa per un omicidio. Non mi amano molto.» «No, ne sono convinto.» «Naturalmente, non amavano molto nemmeno Robert Earl. Il fatto che se ne fosse andato all'università, e che fosse tornato a casa con un gran macchinone. La gente probabilmente era piuttosto contenta quando l'hanno arrestato. Non era quello a cui erano abituati. D'altra parte, naturale, non sono nemmeno abituati agli omicidi a sfondo sessuale.» «Com'è il posto?» domandò Cowart. «Proprio come si aspetterebbe un ragazzo di città come lei. È un po' come quello che i giornali e la camera di commercio hanno preso a chiamare il Nuovo Sud. Il che significa che hanno qualche idea nuova e qualche idea vecchia. Ma d'altra parte non è nemmeno così male. Stanno arrivando mucchi di dollari per lo sviluppo, laggiù.»
«Credo di sapere di che sta parlando.» «Faccia un salto e dia un'occhiata di persona» disse l'avvocato. «Ma si lasci dare un consiglio: solo per il fatto che certa gente parla come parlo io e sembri direttamente uscita dalle pagine di William Faulkner o di Flannery O'Connor, non giunga alla conclusione che sia stupida. Perché non lo è affatto.» «Annotato.» L'avvocato rise di nuovo. «Scommetto che non pensava avessi letto quegli autori.» «Non mi ero posto il problema.» «Se lo porrà prima di aver finito con Robert Earl. E cerchi di ricordarsi un'altra cosa. La gente lassù è probabilmente molto soddisfatta di quanto è successo a Robert Earl. Quindi non vada con l'idea di farsi un sacco di amici. O fonti, come a voi dei giornali piace chiamarle.» «C'è soltanto un'altra cosa che mi preoccupa» disse Cowart. «Sostiene di sapere il nome del vero assassino.» «Mah, io non ne so niente. Potrebbe. Diavolo, probabile sia vero. È un piccolo posto, Pachoula. Ma una cosa so...» Il tono di voce dell'avvocato cambiò, facendosi meno faceto e assumendo una franchezza che colse Cowart di sorpresa. «...So che quell'uomo è stato condannato ingiustamente, e intendo tirarlo fuori dal braccio della morte, colpevole o no. Magari non quest'anno, davanti a questa corte, ma prima o poi ci riuscirò. Sono cresciuto e ho passato tutta la mia vita in mezzo ai cosiddetti bravi ragazzi, ai contadini e poveracci bianchi, e questa occasione non la perderò. E non mi interessa che l'abbia fatto o meno.» «Ma se non l'ha fatto...» «Be', qualcuno la piccola l'ha fatta fuori. Suppongo che qualcuno dovrà pagare.» «Avrei un sacco di domande» disse Cowart. «Lo immagino. Questo è un caso pieno di domande. A volte succede, sa. Il processo dovrebbe chiarire ogni cosa, e invece rende tutto ancora più confuso. E a quanto pare è proprio quanto è successo al vecchio Robert Earl.» «Quindi pensa che dovrei dargli un'occhiata?» «Sicuro» rispose l'avvocato. Cowart credette di vedere il suo sorriso, dall'altra parte del filo. «Penso proprio di sì. Non so cosa potrà trovare, tranne che un bel po' di pregiudizi e di ragionamenti da poveri diavoli. Ma potrebbe anche aiutare a ridare la libertà a un uomo innocente.»
«Allora lei pensa che sia innocente?» «Ho forse detto questo? Naah... voglio solo dire che dovrebbe essere giudicato non colpevole in un'aula di tribunale. C'è una gran differenza, sa.» 2 Un uomo nel braccio della morte Cowart fermò l'auto a noleggio sulla strada di accesso alla Rorida State Prison e scrutò attraverso i campi l'impassibile complesso di edifici scuri che rinchiudevano al loro interno la gran parte dei detenuti di massima sicurezza dello Stato. Vi erano due prigioni, a dire il vero, separate da un fiumiciattolo; la Union Correctional Institution da una parte, e la Raiford Prison dall'altra. In lontananza poté scorgere del bestiame pascolare nei campi verdi, e la polvere alzarsi in piccole nubi laddove le squadre di detenuti lavoravano in mezzo alle aree coltivate. Agli angoli si ergevano le torrette di sentinella, e lui credette di vedere il riflesso delle armi imbracciate dalle guardie. Non sapeva quale dei due edifici ospitasse il braccio della morte, né in quale locale si trovasse la sedia elettrica, ma gli era stato detto che era separata dalla prigione principale. Poteva vedere la doppia recinzione, alta più di tre metri e mezzo e percorsa in cima dall'intreccio del filo spinato. Il filo di ferro scintillava nel sole del mattino. Scese dal posto di guida e rimase in piedi a fianco dell'auto. Un boschetto di pini sorgeva lineare e verdissimo sul lato della strada, quasi a puntare un dito accusatore verso il cielo azzurro. Un fresco venticello fece frusciare i rami, quindi scivolò sulla fronte di Cowart, facendosi strada nell'umidità incipiente. Non aveva avuto alcuna difficoltà a persuadere Will Martin e gli altri membri del comitato editoriale a lasciarlo libero di andare a indagare sulle circostanze che avevano portato alla condanna di Robert Earl Ferguson, sebbene Martin avesse espresso un certo sbuffante scetticismo, che Cowart aveva puntualmente ignorato. «Non ti ricordi di Pitts e di Lee?» aveva replicato Cowart. Freddie Pitts e Wilbert Lee erano stati condannati a morte per l'omicidio di un benzinaio commesso nella Florida del nord. Entrambi avevano confessato un crimine che non avevano commesso. Ci erano voluti anni di indagini da parte di uno dei giornalisti più celebri del Journal per riuscire a liberarli. Lui aveva vinto il premio Pulitzer. Nella redazione del Journal, era quella la prima
storia che veniva raccontata ai novellini. «Era diverso.» «Perché?» «Era il millenovecentosessantatré. E poteva anche essere l'ottocentosessantatré. Le cose sono molto cambiate.» «Veramente? E che mi dici di quel tizio in Texas, quello che un documentarista è riuscito a tirar fuori dal braccio della morte?» «Era diverso.» «E quanto?» Martin si era messo a ridere. «Ecco una buona domanda. Vai. Con la mia benedizione. Rispondi a quella domanda. E ricorda, quando avrai finito di giocare al giornalista d'assalto, potrai sempre tornare a casa, nella tua bella torre d'avorio.» Quindi aveva scherzosamente fatto fretta a Cowart perché partisse per la sua missione. La direzione della cronaca ne era stata informata, e aveva promesso assistenza, se ne avesse avuto bisogno. Lui aveva notato una sfumatura di gelosia, dovuta al fatto che la storia fosse giunta nelle sue mani. Riconosceva di avere dei grossi vantaggi rispetto al personale della cronaca cittadina. In primo luogo, sarebbe stato in grado di lavorare da solo, mentre la direzione della cronaca avrebbe assegnato una squadra a quel tipo di lavoro. Anche il Journal, come la maggior parte dei quotidiani e delle stazioni televisive, era dotato di una squadra investigativa a tempo pieno, realtà che di solito portavano nomi aggressivi come "Squadra Riflettore" o "Squadra I". Tale struttura avrebbe affrontato la materia con la delicatezza di una forza d'invasione. E in secondo luogo, Cowart si rendeva conto che, al contrario di un inviato qualsiasi, lui non aveva alcun termine ultimo di consegna, nessun vice-caporedattore a fargli sentire il suo respiro sul collo, chiedendogli ogni giorno dove fosse la storia. Poteva scoprire quello che c'era da scoprire, strutturare il servizio come meglio credeva, scriverlo come voleva. O metterlo da parte se si rivelava falso. Cercò di aggrapparsi a quell'ultimo pensiero, per porsi al riparo da una possibile delusione, ma rimettendosi in moto sulla strada e entrando nella prigione si sentì aumentare il battito cardiaco. Lungo la strada di accesso era stata affissa una serie di cartelli, per chiarire ai visitatori che entrando nell'edificio avrebbero automaticamente autorizzato una perquisizione, e che qualsiasi violazione delle leggi sulle armi da fuoco e sui narcotici sarebbe stata punita con la detenzione. A un cancello, una guardia in giacchetta grigia controllò i suoi documenti di identità passando in rassegna
una lista, e, serissimo, gli fece cenno di passare; parcheggiò nella zona contrassegnata dalla scritta VISITATORI e fece ingresso nell'edificio dell'amministrazione. Vi fu un attimo di confusione quando si rivolse a una segretaria. A quanto pareva, lei aveva perso la sua richiesta d'ingresso. Attese pazientemente di fronte alla scrivania, mentre lei sfogliava rapidamente i documenti mormorando rapide frasi di scusa, finché la richiesta non fu ritrovata. Gli fu quindi chiesto di attendere nell'ufficio accanto, da dove un ufficiale di guardia l'avrebbe accompagnato da Robert Earl Ferguson. Dopo qualche minuto, un uomo più anziano degli altri, con un taglio alla marine spruzzato di grigio e un portamento altrettanto militaresco, fece il suo ingresso nell'ufficio. Aveva una mano enorme e nodosa, che subito allungò verso Cowart. «Sergente Rogers. Oggi sono di guardia diurna al braccio.» «Piacere di conoscerla.» «Ci sarebbe qualche formalità, signor Cowart, se non le dispiace.» «Di che genere?» «Avrei bisogno di perquisirla e dare un'occhiata al suo registratore e alla sua cartella. Ho una dichiarazione che lei dovrebbe firmare sull'eventualità di essere preso in ostaggio...» «Di cosa si tratta?» «Lei dichiara di entrare nella Florida State Prison a suo rischio e pericolo, e garantisce che, se preso in ostaggio durante la sua permanenza all'interno, non farà causa allo Stato della Florida, né si aspetterà uno sforzo straordinario per assicurare la sua libertà.» «Sforzo straordinario?» L'uomo scoppiò a ridere e si passò la mano sui capelli a spazzola. «Significa non aspettarsi che noi rischiamo di bruciarci il culo per salvare il suo.» Cowart sorrise e fece una smorfia. «Mi suona tanto come un pessimo affare.» Il sergente Rogers si aprì in un gran sorriso. «È proprio così. D'altra parte, la galera è un pessimo affare per chiunque, eccetto che per quelli fra noi che ogni sera se ne possono tornare a casa.» Cowart prese il foglio che il sergente gli aveva allungato e lo firmò con uno svolazzo ironico. «Insomma» commentò, sempre sorridendo «non posso proprio dire che voi ragazzi mi diate una gran fiducia, come primo passo.»
«Oh, non ha niente di cui preoccuparsi, visitando Robert Earl. È un gentiluomo e non è pazzo.» Mentre parlava, il sergente passava metodicamente in rassegna la cartella di Cowart. Quindi aprì il registratore per ispezionarne l'interno, facendo scattare la custodia delle pile per vedere se fosse piena. «Insomma, non è come se fosse venuto a trovare Willie Arthur o Specs Wilson... quei due motociclisti di Fort Lauderdale che si sono fatti prendere un po' la mano con quella ragazza che avevano tirato su mentre faceva l'autostop... o Joe Salazar... ha presente, quello che ha ucciso due sbirri. Due agenti in incognito in una trattativa per una partita di droga. Sa cosa gli ha fatto fare prima di ucciderli? Uno all'altro? Dovrebbe farselo dire. Le chiarirà le idee su quanto la gente possa essere cattiva quando si concentra. O qualcun altro degli amabili tipetti che abbiamo qui con noi. I peggiori vengono dalla parte meridionale dello Stato, dalla sua città. Ma cosa state combinando laggiù, che fa sì che tanta gente si uccida a vicenda in modi così tremendi?» «Sergente, se potessi rispondere a una domanda del genere...» Sorrisero entrambi. Il sergente Rogers ripose la cartella di Cowart e gli fece cenno di sollevare le braccia. «Certo che avere il senso dell'umorismo aiuta, quaggiù» spiegò mentre faceva scivolare le mani lungo il corpo di Cowart, picchiettandolo con veloci colpetti. «Bene» disse quindi il sergente. «Lasci che la metta al corrente delle regole. Sarete soltanto voi due. Io sarò lì solo per sicurezza. Appena fuori dalla porta. Se ha bisogno di aiuto, basta che urli. Ma non succederà, perché stiamo parlando di uno dei non-matti del braccio. Ehi, stiamo perfino per usare la suite padronale...» «La cosa?» «La suite padronale. È così che tutti chiamiamo la sala colloqui per i detenuti modello. Intendiamoci, è soltanto un tavolo e un paio di sedie, niente di speciale. Abbiamo altre strutture che sono più sicure. E Robert Earl non avrà alcun impedimento. Nemmeno i ceppi alle caviglie. Ma niente contatti manuali. Voglio dire, potrà offrirgli da fuma re...» «Non fumo.» «Bene. Lei è un uomo intelligente. Potrà prendere fogli di carta da lui, se lui avesse intenzione di passarle qualche cosa di scritto. Ma se lei volesse dargli qualcosa a sua volta, dovrebbe passare da me.» «Qualcosa di che genere?» «Oh, non so, del genere di una lima, di un seghetto e di qualche mappa stradale.»
Cowart fece un'espressione sorpresa. «Ehi, stavo scherzando» lo rassicurò il sergente. «Chiaro che qui non scherziamo troppo su quell'argomento. Fuga. Non è divertente, ha presente. Ma ci sono un sacco di modi diversi per fuggire da una prigione. Perfino dal braccio della morte. E un sacco di detenuti pensa che parlare con i giornalisti sia uno dei modi.» «Li aiuteremmo a scappare?» «Li aiutereste a venirne fuori. Chiunque vorrebbe che la stampa si mettesse in agitazione sul suo caso. I detenuti non pensano mai di essere stati trattati correttamente. Sono convinti che magari, se faranno abbastanza casino, potranno ottenere un nuovo processo. E succede. Ecco perché la gente che, come me, ha a che fare con le prigioni detesta vedersi intorno i giornalisti. Detesta vedere quei blocchetti per gli appunti, quelle troupe e quelle luci. Mette solo in agitazione tutti, li fa eccitare su niente di speciale. La gente pensa che sia la mancanza di libertà che provoca i problemi nelle prigioni. Errore. La peggior cosa, di gran lunga, è l'aumento delle aspettative e poi il loro crollo. Per voi è soltanto un'altra storia. Ma per i ragazzi qui dentro, si sta parlando delle loro vite. Pensano che se verrà fuori una storia, la storia giusta, potranno andarsene di qui. Lei e io sappiamo che non è necessariamente così. Delusioni. Grosse, rabbiose, frustranti delusioni. Causano più problemi di quanti non si possa pensare. Quello che qui dentro funziona è la routine. Nessuna folle speranza, nessun sogno. Solo ogni giorno esattamente come il precedente. Non suona molto eccitante, ma d'altra parte, nessuno vorrebbe trovarsi nei dintorni di una prigione quando le cose si fanno eccitanti.» «Insomma, mi dispiace. Ma sono qui soltanto per controllare alcuni fatti.» «Per quanto ne so io, signor Cowart, i fatti non esistono, tranne forse due, uno quando si nasce, l'altro quando si muore. Ma non c'è problema. Non sono così intransigente come altri qui dentro. Mi piace ogni tanto un certo cambio di ritmo, se rimane entro lìmiti ragionevoli. Ma mi raccomando, non gli passi niente. Si limiterebbe a peggiorare le cose per lui.» «Peggio del braccio della morte?» «Deve capire, perfino nel braccio ci sono un sacco di modi di passarsela. Si può rendere tutto molto difficile, oppure non così pesante. Ora come ora, Robert Earl non se la passa male. Oh, certo, la sua cella viene ancora messa sottosopra ogni giorno, e tuttora si deve beccare una perquisizione dettagliata dopo un piccolo incontro come quello di oggi, ma ora ha anche
dei privilegi per l'ora d'aria, e libri, e cose del genere. Non lo immaginerebbe mai, ma anche in prigione ci sono tantissime piccole cose che potremmo togliergli, e che renderebbero la sua vita molto peggiore.» «Non ho niente da dargli. Ma lui potrebbe avere dei documenti o qualcosa...» «Per quello non c'è problema. Non siamo preoccupati della roba che viene fatta scivolare fuori dalla prigione...» Il sergente scoppiò nuovamente a ridere. La sua rimbombante risata si intonava alle sue schiette parole. Rogers era ovviamente il tipo d'uomo che poteva dirti tanto oppure renderti la vita difficile, a seconda della sua disposizione d'animo. «Dovrebbe anche dirmi quanto ci metterà.» «Non lo so.» «Be', che diavolo, ho tutta la mattinata a disposizione, quindi faccia pure con comodo. Dopo le farò fare un giretto. Non ha mai visto la Vecchia Sprizzascintille?» «No.» «È una visione educativa.» Il sergente si alzò in piedi. Era un uomo grosso e potente, con il tipo di atteggiamento che implicava il fatto che la vita lo avesse messo di fronte a situazioni difficili, e che fosse sempre riuscito a superarle con successo. «Diciamo che mette tutto in prospettiva, non so se mi spiego.» Cowart lo seguì attraverso la porta, sentendosi rimpicciolito dalla sua schiena possente. Fu condotto attraverso una serie di porte chiuse a chiave e un "metal detector" presidiato da una guardia, la quale rivolse un gran sorriso al sergente che lo precedeva. Giunsero a un centro comandi in cui confluivano i numerosi raggi della prigione, che era costruita come un'immensa ruota. In quel preciso momento Cowart si rese conto del suono della prigione, una cacofonia costante di voci alterate e dello sbattere delle porte che venivano aperte, per poi subito venire violentemente richiuse e serrate. Da qualche parte una radio trasmetteva musica country. Un televisore era sintonizzato su una soap opera; fu in grado di sentirne le voci, seguite dall'onnipresente musichetta della pubblicità. Ebbe la sensazione di un movimento costante intorno a lui, quasi fosse stato catturato dalla potente corrente di un fiume, ma, fatta eccezione per il sergente e per un paio di altre guardie che presidiavano una piccola cabina al centro del locale, vi era ben poca gente in giro. Poté dare un'occhiata all'interno della cabina, e notò il quadro comandi elettronico che indicava quale porta fosse aperta e quale chiusa. Le teleca-
mere montate agli angoli del soffitto e gli schermi video trasmettevano le stesse grigie immagini tremolanti, riprese dai diversi ordini di celle. Cowart notò che il pavimento era ricoperto di un linoleum giallo immacolato, reso lucido dalla marea di gente e dagli eterni sforzi dei custodi della prigione. Vide un uomo, vestito con una tuta blu, ramazzare diligentemente un angolo con una lurida spazzola grigia, passando e ripassando all'infinito su un punto già pulito. «Sono le ali Q, R e S» lo informò il sergente. «Braccio della morte. A dire il vero, suppongo si dovrebbe dire braccia della morte. Che diavolo, perfino qui nel braccio abbiamo problemi di sovrappopolazione. Il che dimostra qualcosa, non crede? La sedia è laggiù. Sembra uguale alle altre aree, ma non è lo stesso. Nossignore.» Cowart scrutò lungo gli stretti e altissimi corridoi. Le celle erano sulla sinistra, e si alzavano per tre piani, con una rampa di scale a ogni estremità. Sulla parete di fronte alle celle vi erano tre file di sporche finestre che si aprivano girando su un perno per fare entrare un po' d'aria. Vi era uno spazio vuoto tra la passerella appena fuori della fila di celle e le finestre. Si rese conto che in quel modo gli uomini potevano, dalle loro piccole celle, guardare fuori verso il cielo, a una distanza di neanche dieci metri che avrebbe potuto anche essere un milione di chilometri. Il pensiero lo fece rabbrividire. «Ecco Robert Earl, laggiù» disse il sergente. Cowart si voltò e vide il sergente indicare una piccola cella sbarrata in un angolo lontano del fondo del corridoio. All'interno vi erano quattro uomini, seduti su una panca di ferro; lo stavano fissando. Tre degli uomini indossavano tute blu, come l'inserviente che aveva visto poco prima. Uno era vestito di arancione brillante. Era parzialmente nascosto dai corpi degli altri tre. «Non è piacevole indossare l'arancione» mormorò il sergente con un filo di voce. «Significa che il tuo orologio sta battendo gli ultimi colpi.» Cowart s'incamminò verso la cella, ma fu fermato dalla mano del sergente, che all'improvviso gli si serrò sulla spalla. Poté sentire la forza delle sue dita. «Sta sbagliando strada. La stanza dei colloqui è di là. Quando qualcuno viene in visita, perquisiamo i detenuti e compiliamo una Usta di tutto quello che hanno: documenti, libri di legge, qualsiasi cosa. Poi vengono messi in isolamento, laggiù. Noi glielo portiamo nella stanza. Poi, a cose concluse, processo inverso. Ci si mette una dannata eternità, ma è un fatto di si-
curezza, ha presente. Ci piace essere sicuri.» Cowart annuì, e fu condotto in una stanza per i colloqui. Era un ufficio semplice e bianco, con un solo tavolo al centro e un paio di vecchie sedie marroni tutte sfregiate. A una parete era appeso uno specchio. Un posacenere al centro del tavolo. E niente altro. Indicò lo specchio. «È doppio, vero?» «Certo che sì» rispose il sergente. «È un problema?» «Niente affatto. Ehi, siamo sicuri che questa sia la suite padronale?» Si voltò sorridendo verso il sergente. «Noi ragazzi di città siamo abituati a qualcosa di più in termini di comodità materiali.» Il sergente Rogers scoppiò a ridere. «Ci avrei scommesso, chissà perché. Spiacente, questo è quanto.» «Andrà bene» disse Cowart. «Grazie.» Quindi si sedette e attese l'arrivo di Ferguson. La sua prima impressione del prigioniero fu quella di un giovane uomo sui venticinque anni, appena più basso di un metro e ottanta, con la fragile costituzione fisica di un ragazzino, ma in possesso di un'apparente, elettrica forza evidenziata dalla sua stretta di mano. Robert Earl Ferguson si era tirato su le maniche della camicia, rivelando i nodosi muscoli delle braccia. Era magro, aveva fianchi stretti e spalle come quelle di un maratoneta e una grazia leggera da atleta nel modo in cui camminava. I suoi capelli erano corti, la sua pelle era scura. Gli occhi erano attenti, rapidi, penetranti. Matthew Cowart ebbe l'impressione di essere misurato dal prigioniero nello spazio di un istante, valutato, letto e memorizzato. «Grazie per essere venuto» disse Ferguson. «Non è stato un grosso problema.» «Lo sarà» replicò con sicurezza il prigioniero. Aveva portato una pila di documenti legali, che stese sul tavolo di fronte a sé. Cowart lo vide lanciare un'occhiata al sergente Rogers, il quale annuì, si voltò e uscì dalla porta, facendola sbattere dietro di sé. Cowart si sedette, estrasse il blocchetto per gli appunti e la penna, e posizionò il registratore al centro del tavolo. «Le spiace?» domandò. «No» rispose Ferguson. «È logico.» «Perché mi ha scritto?» chiese Cowart. «Sono curioso. Per esempio, chi le ha fatto il mio nome?» Il prigioniero sorrise e si dondolò sulla sedia. Sembrava stranamente rilassato per quello che avrebbe dovuto essere un momento critico.
«L'anno scorso lei ha vinto un premio dell'Associazione degli Avvocati della Florida per una serie di editoriali contro la pena di morte. Il suo nome era sul giornale di Tallahassee. Mi è stato passato da un altro detenuto del braccio. E non nuoce il fatto che lei lavori per il maggiore e il più influente giornale di tutto lo Stato.» «Perché ha aspettato prima di contattarmi?» «Onestamente, ero convinto che il mio ricorso in appello avrebbe annullato la mia condanna. Quando non è successo, ho assunto un altro avvocato. Be', assunto non è proprio la parola giusta: mi sono procurato un nuovo avvocato e ho iniziato ad essere un po' più aggressivo riguardo alla mia situazione. Vede, signor Cowart, perfino quando sono stato condannato a morte non sono riuscito a convincermi che questo stava succedendo a me. Mi sembrava fosse tutto un sogno o qualcosa del genere. Prima o poi mi sarei risvegliato, e mi sarei di nuovo ritrovato a scuola. O magari qualcuno si sarebbe presentato dicendo "Ehi, fermi un attimo. È stato commesso un terribile errore in questa storia..." E dunque non stavo andando nella giusta direzione. Non mi ero reso conto che devi combattere duramente per salvarti la vita. Non puoi credere che il sistema lo faccia al posto tuo.» "Ecco la prima citazione per il mio articolo" pensò Cowart. Il prigioniero si chinò in avanti, appoggiando le mani sul tavolo; quindi, con uguale rapidità, si tirò indietro, muovendole con gesti brevi e precisi per sottolineare quello che diceva. Aveva una voce delicata ma decisa, che pareva reggere facilmente il peso delle sue parole. Parlando curvava le spalle in avanti, come sospinto dalla forza delle sue convinzioni. L'effetto fu immediato: restrinse la piccola stanza al puro e semplice spazio che separava il prigioniero e il giornalista, riempiendo l'ambiente di una sorta di energia al calor bianco. «Vede, pensavo che bastasse essere innocenti. Pensavo che funzionasse in questo modo. Pensavo di non dover far nulla di speciale. Ma poi, giunto qui, sono stato istruito. Nel vero senso della parola.» «Cosa intende dire?» «Be', gli uomini del braccio della morte hanno un modo informale di passarsi le informazioni sugli avvocati, sulle amnistie, su qualsiasi cosa. Vede, laggiù...» disse facendo un cenno rivolto all'edificio principale della prigione «i detenuti pensano a cosa faranno quando saranno fuori. O magari pensano alla fuga. Pensano a come passare il tempo in galera, e pensano a costruirsi una vita qui dentro. Hanno il lusso di poter sognare qualcosa, un futuro, anche se si tratta di un futuro dietro le sbarre. Possono sempre
sognare la libertà. E hanno il dono più grande di tutti, il dono dell'indeterminatezza. Non hanno idea di ciò che la vita riserverà loro.» "Ma noi no. Noi sappiamo come finiremo. Sappiamo che arriverà il giorno in cui lo Stato ci scaricherà nel cervello duemilacinquecento volts di energia elettrica. Sappiamo che ci rimangono cinque, forse dieci anni. È come avere un peso terribile stretto al collo, un peso che devi lottare per tenere sollevato. Ogni minuto che passa, pensi: l'ho sprecato? Ogni notte, pensi: ecco che un altro giorno se n'è andato. E ogni nuovo giorno, ti rendi conto che hai perso un'altra notte. Quel peso al collo è l'accumulo di tutti quei momenti appena passati. Tutte quelle speranze appena dissolte. Dunque, le nostre preoccupazioni non possono essere le stesse". Rimasero entrambi in silenzio per qualche istante. Cowart poté sentire il proprio respiro scivolare dentro e fuori, quasi avesse appena fatto un piano di scale di corsa. «Sono parole da filosofo.» «Tutti gli uomini nel braccio della morte lo sono. Perfino i pazzi che non fanno altro che gridare e ululare. O i ritardati che a malapena si rendono conto di cosa gli sta succedendo. Ma sentono il peso. Quelli di noi che hanno avuto una certa educazione parlano meglio. Ma siamo tutti uguali.» «È cambiato da quando è qui dentro?» «E chi non lo sarebbe?» Cowart annuì. «Quando il mio primo appello è fallito, qualcuno degli altri, qualcuno degli uomini che si trovavano nel braccio già da cinque, da otto, magari da dieci anni, ha iniziato a parlarmi di un futuro che mi sarei potuto costruire. Sono giovane, signor Cowart, e non voglio che finisca tutto qui. Così mi sono procurato un avvocato migliore, e le ho scritto quella lettera. Ho bisogno del suo aiuto.» «Ci arriveremo tra un minuto.» Cowart era indeciso su che ruolo giocare nel corso dell'intervista. Sapeva di voler mantenere una qualche sorta di distanza professionale, ma non sapeva fino a che punto. Aveva passato molto tempo a chiedersi come si sarebbe dovuto comportare davanti al prigioniero, ma senza successo. Si sentiva un po' folle, seduto di fronte a un uomo condannato per omicidio, nel bel mezzo di una prigione che nascondeva personaggi colpevoli degli atti più impensabili, a cercare di passare per un duro. «Perché non inizia raccontandomi un po' di lei? Per esempio, come fa uno di Pachoula a non avere un accento?» Ferguson rise di nuovo. «Ce l'ho, se proprio lo vuole sentire. Digo, se è
guesto che il badrone biango vuole zendire, bosso barlare gon il biù glassigo aggendo da zabbadore negro ghe badrone biango abbia mai sendido...» Ferguson si appoggiò sulla schiena, come se stesse sprofondando nella sedia, mimando un uomo su una sedia a dondolo. La lenta cadenza delle sue parole sembrò raddolcire l'aria immobile della stanzetta. Quindi scattò in avanti all'improvviso e l'accento cambiò. «Ehi, certo, amico, posso anche parlare come un ragazzo del quartiere, amico, perché quella merda la conosco altrettanto bene, cazzo. E vai così.» E altrettanto velocemente anche il secondo accento scomparve, e l'uomo serio e duro seduto con i gomiti sul tavolo ritornò, ricominciando a parlare con la sua voce regolare e piana. «E posso anche parlare precisamente come prima, come una persona che ha frequentato l'università, che si stava avvicinando a una laurea e magari anche a un futuro nel lavoro. Perché io ero anche questa persona.» Cowart era rimasto sconcertato dai repentini cambiamenti. Parevano più che semplici alterazioni di accenti e di toni. I mutamenti di inflessione erano ribaditi da sottili alterazioni del linguaggio corporeo e dell'atteggiamento, in modo da far sì che Ferguson si trasformasse nell'immagine che stava proiettando con la voce. «Notevole» commentò Cowart. «Si vede che ha buon orecchio.» Ferguson annuì. «Vede, i tre accenti rispecchiano i miei tre lati. Sono nato a Newark, nel New Jersey. Mia madre faceva la cameriera. Andava in autobus nei quartieri dei bianchi ogni giorno alle sei del mattino, per fare le pulizie nelle case dei bianchi, e alla sera tornava, senza un attimo di tregua. Mio padre era nell'esercito, ed era sparito già ai tempi in cui avevo tre o quattro anni. Non erano mai stati veramente sposati, in ogni caso. Poi, quando avevo sette anni, mia madre è morta. Problemi di cuore, ci hanno detto, ma non ho mai saputo la storia fino in fondo. Un bel giorno ha cominciato ad avere dei problemi a respirare, è andata a piedi fino alla clinica, e quella è stata l'ultima volta che l'abbiamo vista. Mi hanno mandato giù a Pachoula, da mia nonna. Non ha idea di cosa potesse significare per un ragazzino. Andarsene via da quel ghetto per un posto pieno di alberi e fiumi e aria pulita. Pensavo di essere in paradiso, anche se in casa non avevamo i sanitari. Sono stati gli anni migliori della mia vita. Andavo a scuola a piedi. Di sera leggevo a lume di candela. Mangiavamo i pesci che io pescavo nei fiumi. Era come vivere in un altro secolo. Pensavo che non me ne sarei mai andato. Poi mia nonna si è ammalata. Aveva paura di non potere prendersi cura di me, e dunque hanno deciso che sarei tornato a Newark a vivere con mia zia e il suo nuovo marito. È lì che ho terminato il
liceo, è lì che ho iniziato L'università. Ma adoravo tornare giù a visitare mia nonna. Appena arrivavano le vacanze, prendevo il pullman notturno da Newark ad Atlanta, là cambiavo per Mobile, poi per il locale diretto a Pachoula. Non sapevo che farmene della città. Mi consideravo un ragazzo di campagna, suppongo. Newark non mi piaceva molto.» Ferguson scosse il capo, e un leggero sorriso gli increspò il volto. «Quei maledetti viaggi in pullman» mormorò dolcemente. «Sono stati l'inizio di tutti i miei problemi.» «Che vuol dire?» Ferguson continuò a scuotere il capo, ma rispose. «Alla fine del viaggio avevi passato più o meno trenta ore, fra un pullman e l'altro. Ore di ronzio sull'autostrada, poi di attraversamento di ogni paesino di campagna, di ogni strada secondaria. Ore di sballottamenti continui, di mal d'auto, di bisogno di andare in bagno, circondato da gente che aveva bisogno di lavarsi. Povera gente che non poteva permettersi il biglietto aereo. Non mi piaceva molto. Ecco perché ho acquistato l'auto, capisce. Una Ford Granada di seconda mano. Verde scura. L'ho pagata milleduecento verdoni a un altro studente. Aveva fatto soltanto centocinquemila chilometri. Come una verginella. Cazzo! Adoravo girare con quella macchina...» Il tono di voce di Ferguson era piano e distante. «Ma...» «Ma se non avessi avuto quell'auto, non sarei mai stato preso dagli agenti che indagavano sul delitto.» «Mi racconti.» «In realtà non c'è molto da dire. Il pomeriggio dell'omicidio, ero a casa con mia nonna. Avrebbe testimoniato, se solo qualcuno avesse avuto il buonsenso di chiederglielo...» «Non l'ha vista nessun altro? Intendo qualcuno che non sia un parente?» «Oh, uhmm, no, non mi ricordo nessuno. Solo lei e io. Se andrà mai a trovarla, capirà perché. Casa sua è una vecchia baracca quasi un chilometro più in là delle altre vecchie baracche. Strade sterrate, povertà.» «Prosegua.» «Bene, non molto dopo il ritrovamento del corpo della piccola, due investigatori sono venuti a casa per parlare con me. Io ero lì davanti, stavo lavando la macchina. Ragazzi, come mi piaceva vedere brillare quel catorcio! Ero lì, a mezzogiorno, e questi arrivano e iniziano a farmi domande su cosa avessi fatto un paio di giorni prima. E si mettono a guardare la macchina e poi me, senza veramente ascoltare quello che dico.»
«Chi erano gli investigatori?» «Brown e Wilcox. Li conoscevo entrambi, quei bastardi. Sapevo che mi odiavano a morte. Non avrei dovuto fidarmi di loro.» «Come faceva a saperlo? Come mai la odiavano?» «Pachoula è un posto piccolo. Certa gente vorrebbe vederlo tirare avanti come ha sempre fatto. Voglio dire, sapevano che io avrei avuto un futuro. Sapevano che sarei diventato qualcuno. E non gli piaceva. Non gradivano il mio atteggiamento, suppongo.» «Vada avanti.» «Dopo che gli rispondo, questi mi dicono che hanno bisogno che vada con loro in paese, a rilasciare una dichiarazione firmata, e dunque li seguo, nessuna lamentela. Cristo! Se allora avessi saputo quello che so ora... Ma vede, signor Cowart, non sapevo di dover temere qualcosa. Che diavolo, a malapena conoscevo l'argomento sul quale volevano la mia dichiarazione. Mi hanno detto che si trattava di una persona scomparsa. Non di un omicidio.» «E...» «Come le ho scritto nella lettera, quella è stata l'ultima volta che ho visto la luce del giorno per le seguenti trentasei ore. Mi hanno portato in una stanzetta come questa, mi hanno fatto sedere e mi hanno chiesto se volevo un avvocato. Ancora non sapevo cosa stesse succedendo, dunque ho risposto di no. Mi hanno dato un modulo per i diritti costituzionali e mi hanno chiesto di firmarlo. Dannazione, che stupido sono stato! Avrei dovuto saperlo che quando un negraccio viene fatto sedere in una di quelle stanzette, l'unico modo che ha di alzarsi di nuovo è dir loro quello che vogliono sentire, non importa che l'abbia fatto o meno.» Ogni accento di scherzosità era scomparso dalla voce di Ferguson, rimpiazzato da un'ombra di rabbia metallica, forzata da un'enorme pressione. Cowart si sentiva trascinare dalla storia che stava udendo, come sommerso da un'onda sismica di parole. «Brown faceva lo sbirro buono. Wilcox il cattivo. Il copione più vecchio del mondo.» Ferguson sembrò così disgustato da essere sul punto di sputare. «E?» «Mi siedo, e loro iniziano a chiedermi questo e quello, mi domandano della ragazzina scomparsa. Io continuo a rispondere che non ne so niente. E loro insistono. Tutto il giorno. Fino a notte fonda. Martellano. Le stesse domande a ripetizione, come se quando rispondo "no", questo non signifi-
chi niente. Proseguono. Niente bagno. Niente cibo. Niente acqua. Solo domande, sempre le stesse. E alla fine, dopo non so quante ore, perdono la pazienza. Mi gridano in faccia qualcosa di terribile, e prima che me ne renda conto, Wilcox mi molla una sberla. Poi mi caccia il suo muso a pochi centimetri dalla mia faccia e mi chiede: "Ho la tua attenzione adesso, ragazzo?".» Ferguson guardò Cowart, come per misurare l'impatto delle sue parole, e proseguì con voce piatta, colma di amarezza. «Certo che ce l'aveva. Continuava a urlarmi in faccia. Mi ricordo di aver pensato che avrebbe avuto un attacco di cuore o un colpo o qualcosa del genere, da tanto era rosso in faccia. Era come posseduto o qualcosa del genere. "Voglio sapere cos'hai fatto alla bambina!" grida. "Dimmi cosa le hai fatto!" Urla sempre, e Brown se ne va dalla stanza, così sono solo con questo pazzo scatenato. "Dimmi, l'hai sbattuta e poi l'hai ammazzata, o è successo il contrario?" Ragazzi, ha continuato su quel tono per ore. Io continuavo a rispondere no, no, no, cosa sta dicendo, di cosa sta parlando. Mi mostra le fotografie della bambina e continua a chiedere: "È stato bello? Ti piaceva mentre lei ti si dimenava sotto? Ti piaceva mentre gridava? Ti piaceva mentre la tagliavi per la prima volta? E mentre la tagliavi per la ventesima, com'era, era bello?" E continua e continua, ora dopo ora.» Ferguson fece un profondo respiro. «Ogni tanto faceva una pausa, mi lasciava solo nella stanzetta, ammanettato alla sedia. Forse andava fuori, schiacciava un pisolino, prendeva qualcosa da mangiare. Una volta mi ha lasciato lì per un paio d'ore. Sono rimasto lì, capisce, troppo spaventato e troppo stupido per fare qualsiasi cosa per me stesso.» "Suppongo che alla fine, esasperato dal mio rifiuto di confessare, mi ha messo le mani addosso. Ha iniziato a schiaffeggiarmi sulla testa e sulle spalle, sempre più di frequente. Una volta mi ha tirato su e mi ha scaricato un pugno allo stomaco. Tremavo. Non mi avevano nemmeno lasciato andare in bagno, e mi sono bagnato. Non sapevo cosa avrebbe fatto quando ha preso la guida del telefono e l'ha arrotolata. Ragazzi, era come essere colpiti con una mazza da baseball. Sono crollato a terra." Cowart annuì. Aveva sentito parlare di quella tecnica. Hawkins gliel'aveva spiegata, una notte. La guida del telefono aveva lo stesso impatto di uno sfollagente, ma la carta non tagliava la pelle e non lasciava delle vere e proprie ferite. «Ma ancora non dicevo niente, dunque alla fine se ne va. E arriva Brown. Sono ore che non lo vedo. Sto tremando e gemendo, e penso che
finirò per morire in quella stanza. Brown mi guarda. Mi aiuta ad alzarmi da terra. Tutto paroline dolci. "Amico" dice "mi dispiace per quanto ha fatto Wilcox. "Amico" dice "lo so quanto faccia male." Ma lui mi aiuterà. Mi porterà qualcosa da mangiare. Mi farà bere una Coca. Mi darà qualche vestito pulito, mi lascerà andare in bagno. Tutto quello che devo fare è fidarmi di lui. Fidarmi di lui e dirgli cosa ho fatto a quella bambina. Io rispondo niente, ma lui continua. Dice: "Bobby Earl, penso tu sia conciato male. Credo che piscerai sangue. Penso che tu abbia un gran bisogno di un dottore. Dimmi solo quello che hai fatto, e ti portiamo subito in infermeria". Io gli rispondo che non ho fatto niente e lui perde la pazienza. Mi grida: "Lo sappiamo cos'hai fatto, ce lo devi dire!". Quindi estrae la pistola. Non era quella d'ordinanza, quella che porta al fianco, ma una piccola trentotto a canna corta che teneva nascosta in una fondina allacciata alla caviglia. A quel punto Wilcox rientra nella stanza e mi ammanetta con le braccia dietro la schiena, mi afferra per i capelli e mi tiene in modo che possa guardare dritto nella canna della pistola. Brown dice: "Adesso parla". Io rispondo: "Non ho fatto niente!" e lui preme il grilletto. Posso ancora vedere il dito che si stringe attorno al grilletto e che lo tira indietro, lentamente. Avevo paura che il mio cuore smettesse di battere. E il cane scatta su un colpo non carico. Sto piangendo come un bambino, frigno proprio. Lui dice: "Bobby Earl, sei stato molto fortunato con quel colpo. Pensi che oggi sia il tuo giorno fortunato? Quanti colpi vuoti pensi che abbia?". Preme il grilletto, e la pistola scatta di nuovo a vuoto. "Dannazione!" dice. "Penso che abbia fatto cilecca." E poi apre la pistola, fa venir fuori il caricatore e ne estrae una pallottola. La guarda con grande attenzione e dice: "Ragazzi, avete visto? Ha fatto proprio cilecca. Magari stavolta funziona". E lo vedo rimettere la pallottola nella pistola. Poi me la punta addosso e dice: "Ultima possibilità, negro". E stavolta gli credo, così dico: "Sono stato io, sono stato io, come volete, sono stato io". La confessione.» Matthew Cowart trasse un respiro profondo e cercò di digerire il racconto. All'improvviso ebbe la sensazione che nella stanza dei colloqui non vi fosse aria, come se i muri fossero diventati caldi e asfissianti, quasi lui stesse cuocendo nell'improvvisa calura. «E?» domandò. «Ed eccomi qui» rispose Ferguson. «L'aveva raccontato al suo avvocato, tutto questo?» «Naturalmente. E lui mi aveva fatto notare l'ovvio: che gli investigatori della polizia erano in due, mentre io ero da solo. E che era morta una piccola, bella bambina bianca. A chi pensa avrebbero creduto?»
Cowart annuì. «E perché dovrei crederle io, ora?» «Non so» replicò rabbiosamente Ferguson. Per un attimo rivolse a Cowart un'occhiata bruciante. «Magari perché sto dicendo la verità.» «Farebbe un test al poligrafo?» «L'ho fatto per il mio avvocato. Ho qui i risultati. Il maledetto affare se n'è uscito con un "inconcludente". Penso di essere stato troppo nervoso quando mi hanno allacciato tutti quei fili addosso. Non mi ha aiutato per niente. Ne potrei fare un altro, se desidera. Non so se potrebbe essere utile. Non lo si può usare in aula.» «Naturale. Ma ho bisogno di qualche elemento corroborante.» «Giusto. Lo so. Ma che diavolo, è successo tutto come le ho detto.» «Come posso provarlo, in modo da poter pubblicare la storia sul giornale?» Ferguson ci pensò sopra per un istante, mentre i suoi occhi continuavano a scavare in quelli di Cowart. Dopo qualche secondo, l'ombra di un sorriso si aprì un varco nell'intensità del suo volto. «La pistola» disse. «Con quella ci riuscirebbe.» «E come mai?» «Ricordo che prima di condurmi nella stanzetta, hanno fatto una gran scena consegnando le armi all'entrata. Ricordo che Brown aveva quel maledetto affare nascosto sotto i pantaloni. Scommetto che le mentirebbe su quella pistola, se lei trovasse il modo di farlo cadere nel tranello.» Cowart annuì. «Probabile.» I due uomini si fecero di nuovo silenziosi. Cowart guardò il registratore e vide il nastro girare sul piccolo perno. «Ma perché hanno preso proprio lei?» domandò. «Ero comodo. Ero proprio lì. Ero un nero. Avevano l'indizio dell'auto verde. Il gruppo sanguigno era lo stesso. Chiaro, questo l'hanno scoperto più tardi. Ma io ero lì, e la comunità stava per perdere la testa. Voglio dire, la comunità bianca. Volevano qualcuno e mi avevano per le mani. E chi meglio di me?» «Suona come un ragionamento incredibilmente comodo.» Gli occhi di Ferguson fiammeggiarono, un subitaneo istante di rabbia, e Cowart lo vide stringere la mano in un pugno. Vide il prigioniero lottare e recuperare il controllo. «Mi hanno sempre odiato, laggiù. Perché non ero uno sciabattante negraccio di campagna come loro. Odiavano il fatto che andassi all'università. Non sopportavano che io conoscessi la grande città. Mi conoscevano e
non mi potevano vedere. Per quello che ero e per quello che sarei diventato.» Cowart fu sul punto di fare un'altra domanda, ma Ferguson proiettò in avanti entrambe le mani, afferrando l'orlo del tavolo per calmarsi. Il suo tono di voce era a stento trattenuto, e Cowart sentì la rabbia di quell'uomo riversarglisi addosso. Poteva vedere i tendini del collo mentre s'irrigidivano. Il volto avvampò, la voce perdette la calma e vibrò di emozione. Cowart vide Ferguson combattere una dura battaglia con se stesso, quasi fosse sul punto di crollare sotto la tensione del ricordo. In quell'istante, Cowart si chiese cos'avrebbe significato trovarsi nel raggio d'azione di una tale furia. «Ci vada. Dia un'occhiata a Pachoula. La contea di Escambia. Appena a sud dell'Alabama, non più di trenta, quaranta chilometri. Cinquant'anni orsono, non avrebbero fatto altro che impiccarmi all'albero più vicino. Avrebbero indossato tuniche bianche con piccoli cappucci a punta, avrebbero portato croci in fiamme. I tempi sono cambiati» aggiunse amaramente «ma non così tanto, dannazione. Ora si sono attaccati a tutti i benefici e le trappole della civilizzazione. Ho avuto un processo, sissignore. Ho avuto un avvocato, sissignore. Una giuria popolare, sissignore. Ho potuto godere di tutti i miei diritti costituzionali, sissignore. Certo, si è trattato di un maledetto linciaggio legalizzato.» La voce di Ferguson tremava dall'emozione. «Ci vada, laggiù, caro il mio Giornalista Bianco, e provi a fare qualche domanda, e vedrà. Lei pensa che siamo negli anni novanta? Scoprirà che le cose non sono andate avanti con la stessa velocità. Vedrà.» Tornò a sedersi, inchiodando Cowart con lo sguardo. I rumori della prigione suonavano lontani, quasi fossero distanti chilometri dalle pareti, dai corridoi, dalle celle. Cowart si rese improvvisamente conto di quanto piccola fosse quella stanza. "Questa è una storia di piccole stanze" pensò. Poteva sentire l'odio straripare dal prigioniero a grosse ondate, un flusso senza fine di frustrazione e disperazione, e da esso si sentì trascinare via. Ferguson continuò a fissarlo dall'altro lato del tavolo, come se stesse valutando le sue prossime parole. «Andiamo, signor Cowart. Pensa che a Pachoula le cose vadano nella stessa maniera che a Miami?» «No.» «Ha proprio ragione, non lo fanno. Diavolo, lo sa qual è l'aspetto più divertente? Se avessi commesso questo delitto... cosa che non ho fatto... ma se l'avessi commesso a Miami, bene, lo sa cosa sarebbe successo con le
miserabili prove che hanno raccolto contro di me? Mi avrebbero offerto un accordo per omicidio di secondo grado, e sarei stato condannato a cinque anni. Avrei magari fatto quattro anni. E questo solo nel caso che il mio difensore d'ufficio non fosse riuscito a fare annullare il tutto. E ci sarebbe riuscito. Non avevo precedenti. Ero uno studente universitario. Avevo un futuro. Non avevano prove. Che ne pensa, signor Cowart. A Miami.» «A Miami sarebbe andata probabilmente così. Un accordo. Nessun dubbio.» «A Pachoula, morte. Nessun dubbio.» «È il sistema.» «Che sia maledetto, il sistema. Che vada all'inferno. E ancora una cosa: non l'ho fatto. Dannazione, non ho commesso quel delitto. Ehi, posso anche non essere perfetto. Diavolo, su a Newark mi sono cacciato in un paio di casini quando ero ragazzo. E lo stesso a Pachoula. Sono cose che può controllare. Ma dannazione, non ho ucciso quella ragazzina.» Fece una pausa. «Ma so chi l'ha uccisa.» Rimasero entrambi in silenzio per qualche istante. «Parliamo di questo. Chi e come?» Ferguson si dondolò indietro sulla sedia. Cowart scorse un singolo sorriso, non di allegria, non qualcosa che poteva precedere una risata, ma una crudele ferita sul volto dell'uomo. Si rese conto che qualcosa era fuoriuscito da quella stanza, una parte dell'intensità, della rabbia dell'altro. In quel breve spazio di pochi secondi Ferguson cambiò, con la stessa efficacia con la quale precedentemente era passato da un accento all'altro. «Non glielo posso ancora dire» rispose il prigioniero. «Balle» esclamò Cowart, lasciando che un accenno di malcontento trasparisse dal suo tono di voce. «Non tenti di fare il riservato.» Ferguson scosse il capo. «Glielo dirò» promise «ma soltanto quando lei mi crederà.» «A che gioco sta giocando?» Ferguson si chinò in avanti, restringendo lo spazio fra loro. Fissò Cowart con uno sguardo fermo, spaventoso. «Questo non è un gioco del cazzo» disse lentamente. «Questa è la mia cazzo di vita. Me la vogliono togliere e questa è la carta migliore in mio possesso. Non mi chieda di giocarla prima che sia pronto.» Cowart non rispose. «Vada a controllare quello che le ho detto. E poi, quando si sarà convinto della mia innocenza, quando vedrà come quegli stronzi mi hanno man-
dato in galera ingiustamente, solo allora glielo dirò.» "Quando un uomo disperato ti chiede di giocare" Hawkins gli aveva detto una volta "è meglio seguire le sue regole". Cowart annuì. Entrambi rimasero in silenzio. Ferguson fissò i suoi occhi in quelli di Cowart, in attesa di un segno di risposta. Nessuno dei due si mosse, quasi fossero legati uno all'altro. Cowart si rese conto che non aveva più scelta, era di nuovo di fronte al dilemma del giornalista. Un uomo gli aveva raccontato una storia di torti e ingiustizie. E lui era costretto a scoprire la verità. Non avrebbe potuto voltare le spalle a quella storia più di quanto avrebbe potuto volare. «Dunque, signor Cowart» disse Ferguson «questo è tutto. Mi aiuterà?» Cowart pensò alle migliaia di parole che aveva scritto sulla morte e sul morire, a tutte le vicende di dolore e di agonia che si erano riversate su di lui, lasciandosi dietro soltanto le più piccole cicatrici che si erano trasformate in innumerevoli incubi notturni. In tutti gli articoli che aveva scritto, non aveva mai salvato nessuno nemmeno dalla più piccola puntura della disperazione. E certo non aveva mai salvato una vita. «Farò quel che posso» rispose. 3 Pachoula La contea di Escambia è nascosta nel lontano angolo nord-occidentale della Florida, toccata su due confini dallo Stato dell'Alabama. Ha una grossa affinità culturale con gli Stati appena a nord. Un tempo era principalmente una zona rurale, piena di piccole fattorie che estendevano i loro verdi campi coltivati lungo le colline, separate da densi boschetti di gracili pini e dai viticci intrecciati e inanellati dei grandi salici e delle viti. Ma in anni recenti, come il resto del Sud, è stata protagonista di un'esplosione urbanistica, con la costruzione di piccoli centri in quelle che un tempo erano le sue campagne, mentre il suo centro più importante, la città portuale di Pensacola, si è allargata, facendo sorgere centri commerciali e grandi condomini dove un tempo vi era soltanto spazio aperto. Ma nello stesso tempo essa ha mantenuto una paludosa comunanza con Mobile, non troppo lontana lungo l'autostrada, e con le località costiere del Golfo. Come molte zone del Sud, mantiene un'aria contraddittoria, caratterizzata dal ricordo della povertà e dalla recente scoperta dell'orgoglio, un senso di rigida apparte-
nenza alimentato da generazioni che hanno trovato la vita su questa terra se non necessariamente facile, almeno migliore che altrove. Il volo serale, diretto al piccolo aeroporto, fu vessato da una spaventosa serie di scossoni e vuoti d'aria da voltastomaco, mentre il velivolo sfiorava le grosse nuvole grigie di tempesta, apparentemente irritate per l'intrusione del bimotore. La cabina passeggeri si riempiva di lampi di luce per poi improvvisamente penetrare nel buio, mentre l'aeroplano entrava e usciva dalle nubi scure e dalle rosse spade di luce solare che progressivamente si affievolivano sul Golfo del Messico. Cowart si mise in ascolto del rumore dei motori che forzavano contro il vento, con un suono la cui intensità saliva e scendeva come il respiro di un corridore. Traballando raggiunse il punto più sicuro dell'aereo, pensando all'uomo nel braccio della morte e a ciò che l'avrebbe aspettato a Pachoula. Ferguson aveva scatenato una battaglia dentro di lui. Era venuto via dall'incontro con il prigioniero insistendo con se stesso per mantenere l'obiettività, per ascoltare tutto e pesare ogni parola nel modo giusto. Ma allo stesso tempo, si disse scrutando attraverso i rivoli d'acqua che colavano lungo gli oblò dell'aereo, sapeva che non si sarebbe ritrovato sulla strada per Pachoula se si fosse aspettato di essere deluso da quella vicenda. Mentre il piccolo aeroplano sbandava nel cielo, strinse i pugni sulle ginocchia, ripensando alla voce di Ferguson, sentendo ancora la sua rabbia glaciale. Quindi pensò alla bambina. Undici anni. Non è il momento giusto per morire. Ricordati anche questo. L'aeroplano atterrò nel bel mezzo della furiosa tempesta, inclinandosi pericolosamente sulla pista. Attraverso il finestrino, Cowart scorse un filare di alberi verdi sul limitare dell'aeroporto, nere sagome stagliate contro il cielo. Condusse la sua auto a noleggio attraverso l'oscurità avvolgente fino all'Admiral Benbow Inn, appena fuori dalla strada statale, alla periferia di Pachoula. Dopo avere velocemente ispezionato la modesta stanza dall'opprimente nitore, scese al bar del motel, s'insinuò tra due commessi viaggiatori e ordinò una birra alla giovane donna. Aveva capelli color topo che le si muovevano a scatti sul volto, tendendole i lineamenti in modo da dare l'impressione, quando si accigliava, che l'intero suo viso si corrugasse insieme alle labbra, una nervosa durezza che raccontava di troppi bicchieri riempiti a troppi commessi viaggiatori, e di rifiuti a troppe proposte di compagnia pronunciate con mani tremanti strette attorno a bicchieri di scotch e ginger ale. Riempì il boccale di birra alla spina, non togliendo per
un attimo gli occhi di dosso a Cowart, capendo d'istinto il momento in cui la schiuma della birra stava per uscire dal boccale. «Non è di queste parti, vero?» Lui scosse il capo. «Non me lo dica» proseguì lei. «Mi piace indovinare. Faccia così: mi reciti lo scioglilingua della Spagna e della lavagna.» Lui rise e l'accontentò. Lei gli sorrise, abbandonando dalla distanza una piccola parte della sua diffidenza. «Non viene da Mobile, né da Montgomery, poco ma sicuro. E nemmeno da Tallahassee, o New Orleans. Può essere solo di due posti: Miami o Atlanta; ma se si tratta di Atlanta, allora lei non è originario di lì, ma di qualche altro posto, come New York, per esempio, e definisce Atlanta casa sua soltanto in via del tutto temporanea.» «Non male» si complimentò lui. «Miami.» Lei gli rivolse un'occhiata attenta, soddisfatta di sé. «Vediamo» insistette. «Vedo un abito piuttosto bello, ma molto all'antica, come quello che potrebbe portare un avvocato...» Si chinò sul bancone e sfregò il pollice e l'indice sul risvolto della giacca di lui. «Bello. Non come i principi del poliestere che vediamo qui per la maggior parte del tempo, i venditori di vitamine per il bestiame. Ma i capelli sono un po' arruffati sulle orecchie, e posso vedere un paio di striature grigie appena accennate. Dunque lei è un po' troppo avanti con gli anni... quanto, più o meno trentacinque, vero?... per essere in giro per lavoro. Se era un avvocato di quell'età, avrebbe certo avuto qualche assistente dalle guance rosee appena uscito da scuola da mandare qui, invece di dover venire di persona. Ora, non mi sembra uno sbirro, perché proprio non ne ha l'aspetto, e nemmeno un agente immobiliare o un uomo d'affari. Non ha l'aspetto di un commesso viaggiatore, come quei due tizi. Allora, cosa potrebbe portare un tipo come lei fin quassù addirittura da Miami? Rimane solo una cosa a cui posso pensare, quindi credo che lei sia un giornalista e che sia qui per un articolo.» Lui rise di nuovo. «Tombola. E ne ho trentasette.» Lei si voltò per riempire un altro boccale di birra, che servì a un altro cliente, quindi tornò da Cowart. «Solo di passaggio? Non riesco a immaginare che tipo di storia potrebbe averla portata fin quassù. Non succede molto qui attorno, nel caso non l'abbia già notato.» Cowart esitò, chiedendosi se avrebbe dovuto tenere la bocca chiusa o meno. Quindi scrollò le spalle e pensò: se questa ha capito chi ero nel giro dei primi due minuti, non rimarrà un gran segreto quando inizierò a parlare
con i poliziotti e gli avvocati. «Una storia di omicidio» rispose. Lei annuì. «Ero sicura che si trattasse di qualcosa del genere. Adesso mi ha incuriosito. Diavolo, non riesco a ricordarmi dell'ultimo assassinio che abbiamo avuto in questo posto. Ora, non posso proprio dire lo stesso per Mobile o Pensacola. È sulle tracce di quegli spacciatori di droga? Gesù, dicono che ci sia la cocaina che va su e giù per il Golfo, a tonnellate, ogni notte. A volte qui arriva della gente che parla spagnolo. La scorsa settimana ci sono stati tre tizi, tutti vestiti in modo vistoso, e con quei cicalini allacciati alla cintura. Si sono seduti come se fossero i padroni del locale e hanno ordinato una bottiglia di champagne prima di cena. Ho dovuto mandare il ragazzo in bottiglieria per comprarlo. Non era così difficile capire cosa stessero festeggiando.» «No, niente droga» rispose Cowart. «Da quanti anni è qui?» «Un paio. Sono venuta a Pensacola con mio marito, che era un aviatore. Adesso lui vola ancora, ma non è più mio marito e io sono bloccata qui a terra.» «Si ricorda di un caso, circa tre anni fa, di una bambina chiamata Joanie Shriver? A quanto pare uccisa da un uomo chiamato Robert Earl Ferguson?» «La bambina che hanno trovato a Miller's Swamp?» «Proprio lei.» «Me lo ricordo eccome. È successo proprio quando io e mio marito, che il diavolo gli strappi gli occhi, siamo arrivati qui. Proprio durante la mia prima settimana dietro questo bancone.» Liberò una breve risata. «Diavolo, pensavo che questo dannato lavoro sarebbe stato sempre così eccitante. C'erano giornalisti da Tallahassee e la televisione, venuta fin da Atlanta. Ecco perché ho riconosciuto subito un tipo come lei. Stavano più o meno tutti qui. Chiaro, non c'è molto altro, veramente. C'è stata una bella baruffa per un paio di giorni, finché non hanno annunciato che avevano preso il ragazzo che l'aveva uccisa. Ma questo era tanto tempo fa. Non è un po' in ritardo, a questo punto?» «Ne ho sentito parlare da poco.» «Ma il ragazzo è in galera. Braccio della morte.» «C'è qualche interrogativo sul modo in cui ci è arrivato. Qualche incongruenza.» La donna gettò indietro il capo e scoppiò a ridere. «Ragazzi» disse «non scommetterei sul fatto che possa cambiare qualcosa. Buona fortuna, Mia-
mi.» Quindi si voltò per servire un altro cliente, lasciando Cowart solo con la sua birra. Non tornò più. Il mattino irruppe chiaro e veloce. Il primo sole pareva determinato a cancellare le tracce delle pozzanghere sulle strade, ricordo della pioggia del giorno prima. La calura in giornata aumentò con regolarità, mischiandosi con un'insistente umidità. Cowart sentì la camicia appiccicarglisi alla schiena mentre si dirigeva dal motel alla sua auto a noleggio, e poi al volante attraversava Pachoula. La cittadina sembrava essersi insediata grazie alla sua tenacia, posizionandosi su una distesa di terra piana non lontana dalla strada statale, circondata dai campi coltivati, e fungendo come una sorta di collegamento fra le due realtà. Cowart sapeva di essere leggermente troppo a nord per trovare degli aranceti di buona qualità, ma notò diversi terreni pieni di ordinati filari di alberi, e altri che fungevano da pascolo per il bestiame. Si disse che probabilmente stava passando attraverso la zona più ricca della cittadina; le case erano edifici a un piano di mattoni, gli onnipresenti ranch che segnalavano il raggiungimento di una sorta di status sociale. Tutte erano dotate di grandi antenne televisive. Alcune avevano perfino l'antenna parabolica in giardino. Vicino a Pachoula, sul ciglio della strada iniziarono a succedersi i negozi dei grossisti e le stazioni di servizio. Superò un piccolo centro commerciale con un grande supermercato, un negozio di cartoleria, una pizzeria al trancio, e un ristorante attaccati l'uno a fianco dell'altro. Notò che vi erano numerose altre costruzioni che si allungavano ai lati della strada principale verso il centro della cittadina: altre case unifamiliari, ordinate, ben tenute, che parlavano di solidità e di modesti successi. Il centro si rivelò limitato a un'area quadrata di tre isolati, con un cinema, qualche ufficio, ancora negozi, un paio di semafori. Le strade erano pulite e Cowart si domandò se ciò fosse dovuto alla tempesta della notte prima oppure alla diligenza della comunità. Proseguì, allontanandosi dai negozi di utensileria, dai punti vendita di ricambi per auto, dai fast-food lungo una stretta strada a due corsie. Ebbe l'impressione che vi fosse stato un leggero cambiamento nella terra che lo circondava, un'irregolarità incolta e bruna che contraddiceva il verde rigoglioso che aveva visto soltanto qualche attimo prima. La strada si fece sconnessa, e le case che ora scorgeva ai lati erano di legno, consumate dall'età, tutte dipinte dello stesso pallido, sbiadito colore biancastro. La strada
statale scivolò in un boschetto d'alberi, che lo inghiottirono nelle loro ombre. La luce screziata che penetrava attraverso le fronde dei salici e dei pini gli rese difficile distinguere la strada. Fu quasi sul punto di non scorgere la stradina di terra battuta che svoltava alla sua sinistra. Le gomme slittarono per qualche istante nel fango prima di fare presa, portandolo infine sul sentiero, che seguiva una siepe di arbusti. Di quando in quando, al di là della siepe, poteva scorgere delle piccole fattorie. Rallentò e superò tre baracche di legno ammucchiate in disordine sul limitare della distesa di terra. Un vecchio di colore lo fissò mentre passava. Controllò il contachilometri e procedette per quasi un altro chilometro, fino a raggiungere un'altra baracca appollaiata a fianco della strada. Vi si fermò davanti e uscì dall'auto. La baracca aveva un portico, sul quale vi era soltanto una sedia a dondolo. Su un lato vi era una piccola stia, e le galline beccavano nel fango. La strada terminava nel cortile. Una vecchia Chevy familiare era 'parcheggiata con il cofano aperto su un lato della casa. Un caldo deciso e massiccio lo circondò con la sua stretta. Udì un cane abbaiare lontano. La fertile terra marrone che fungeva da cortile era solida sotto i piedi, abbastanza da essere sopravvissuta al temporale della notte precedente. Si voltò e vide che la casa guardava verso i campi aperti, fiancheggiati dalla scura foresta. Cowart esitò, quindi si avvicinò alla veranda. Aveva appena posato il piede sul primo gradino quando udì una voce gridare dall'interno: «La tengo d'occhio. Cosa diavolo vuole?» Si fermò. «Sto cercando la signora Emma Mae Ferguson» rispose. «Che cosa vuole da lei?» «Vorrei parlarle.» «Non mi dice niente. Che cosa vuole da lei?» «Vorrei parlarle di suo nipote.» La porta d'ingresso, costituita per metà da una reticella antizanzare che si stava staccando dal legno crepato, si aprì leggermente. Una vecchia donna di colore coi capelli grigi raccolti severamente sulla nuca uscì sulla veranda. Era di corporatura esile ma nerboruta, e si muoveva lentamente, ma con una fermezza di portamento che pareva implicare che l'età e la fragilità delle ossa fossero per lei poco più che degli inconvenienti. «È uno sbirro?» «No. Mi chiamo Matthew Cowart. Del Miami Journal. Sono un giornalista.» «Chi l'ha mandata?»
«Nessuno mi ha mandato. Sono venuto. È lei la signora Ferguson?» «Può darsi.» «La prego, signora Ferguson, vorrei parlare di Robert Earl.» «È un bravo ragazzo e loro me l'hanno portato via.» «Sì, lo so. Sono qui per aiutarlo.» «E come può aiutarlo? È un avvocato? Gli avvocati gli hanno già fatto fin troppo male, al mio ragazzo.» «Nossignora. La prego, potremmo sederci e parlare per qualche minuto? Non ho intenzione di fare niente se non dare una mano a suo nipote. È stato lui a dirmi di venire a trovarla.» «Ha visto il mio ragazzo?» «Sì.» «Come lo trattano?» «Mi sembrava stesse bene. Frustrato, ma in buona salute.» «Bobby Earl era un bravo ragazzo. Davvero un bravo ragazzo.» «Lo so. La prego.» «D'accordo, signor giornalista. Siederò e l'ascolterò. Mi dica cosa vuole sapere.» L'anziana donna accennò con il capo alla sedia a dondolo e vi si diresse, guardinga. Indicò il gradino in cima alla scaletta della veranda e Matthew Cowart si sedette, quasi ai suoi piedi. «Bene, signora, quello che ho bisogno di sapere riguarda tre giorni di quasi tre anni fa. Devo sapere cosa stava facendo Robert Earl il giorno in cui la ragazzina è scomparsa, il giorno dopo e quello seguente, quando è stato arrestato. Si ricorda?» La donna sbuffò. «Signor giornalista, sarò anche vecchia, ma non sono stupida. La mia vista potrebbe anche non essere buona come una volta, ma la memoria funziona bene. E come farei, nel nome del Signore, a dimenticarmi di quei giorni, dopo tutto quello che è successo?» «Bene, sono qui per questo.» Lei strizzò gli occhi, guardandolo attraverso l'ombra della veranda. «Sicuro che è qui per aiutare Bobby Earl?» «Sissignore. Farò tutto quello che posso.» «E come lo aiuterà? Cosa può fare lei che un avvocato dalla lingua tagliente non possa avere già fatto?» «Posso scrivere un articolo per il giornale.» «I giornali hanno già scritto un sacco di storie su Bobby Earl. Nella maggior parte dei casi hanno dato una mano a cacciarlo nel braccio della
morte, per quanto ne so io.» «Non penso che sarebbe la stessa cosa.» «E perché no?» Non aveva una risposta pronta a una domanda del genere. Dopo qualche istante, rispose: «Ascolti, signora Ferguson, è difficile che io possa peggiorare le cose. E se voglio aiutare, ho bisogno di avere qualche risposta.» L'anziana donna gli sorrise di nuovo. «Questo è vero. D'accordo, signor giornalista. Faccia le sue domande.» «Il giorno dell'assassinio della bambina...» «È stato proprio qui con me. Tutto il giorno. Non è mai uscito, tranne che al mattino per pescare. Persico. Me lo ricordo perché li abbiamo fritti per cena, quella sera.» «È sicura?» «Certo che sono sicura. Dove sarebbe dovuto andare?» «Be', aveva l'auto.» «E io lo sentivo, se l'accendeva e se ne andava. Non sono sorda. Quel giorno non è andato da nessuna parte.» «L'ha detto alla polizia?» «Sicuro.» «E?» «Non mi hanno creduto. Hanno detto: "Emma Mae, sicura che non sia sgattaiolato via quel pomeriggio? Sicura che non l'hai mai perso di vista? Magari hai schiacciato un pisolino, o cose del genere". Ma non è andata così, e io gliel'ho detto. E allora mi hanno detto che mi sbagliavo, e si sono arrabbiati e se ne sono andati. Non li ho mai più visti.» «Che mi dice dell'avvocato di Robert Earl?» «Ha fatto le stesse maledette domande. E io gli ho dato le stesse maledette risposte. Neanche lui mi ha creduto. Ha detto che avevo troppe ragioni per mentire, per coprire il mio ragazzo. Ed era vero. Era il ragazzo della mia bambina e io lo amavo molto. Perfino quando se ne era andato su nel New Jersey e mi era tornato che parlava come un delinquente da strada e faceva il duro, lo amavo anche allora. E badi, stava anche andando bene. Era il mio universitario. Lo può immaginare, signor giornalista bianco? Si guardi un po' attorno. Pensa che molti di noi vadano all'università? Quanti crede che ci riescano?» Sbuffò ancora e attese una risposta, che lui non le diede. Dopo qualche istante, proseguì. «Era vero. Il mio ragazzo. Il mio ragazzo migliore. Il mio orgoglio. Certo che avrei mentito per lui. Ma non l'ho fatto. Credo in Gesù,
ma pur di salvare il mio ragazzo saltavo anche in groppa al diavolo per sputargli in un occhio. Ma non ne ho mai avuto l'occasione, perché non mi hanno creduto, nossignore.» «Ma la verità è...?» «Che era qui con me.» «E il giorno dopo?» «Qui con me.» «E quando è arrivata la polizia?» «Era qui davanti, stava lavando quella sua vecchia macchina. Non gli ha detto niente di insolente. Nessun problema. Solo sissignore, nossignore, e poi li ha seguiti, tranquillo. E ha visto che bene gli ha fatto?» «Mi sembra arrabbiata.» La piccola donna si chinò in avanti sulla sedia, l'intero suo corpo irrigidito dall'emozione. Schiaffeggiò con violenza entrambi i braccioli della sedia a dondolo, producendo il suono secco di un doppio colpo di rivoltella, che riecheggiò nell'aria trasparente del mattino. «Arrabbiata? Mi chiede se sono arrabbiata? Mi hanno tolto il mio ragazzo e l'hanno mandato via per ucciderlo. Non ho parole abbastanza per dirle quanto sono arrabbiata. Non ho abbastanza cattiveria dentro di me per farle capire cosa sento dentro.» Si alzò dalla sedia e s'incamminò verso l'interno della casa. «Non ho niente dentro se non odio e amarezza, signor giornalista. Lo scriva, questo.» E scomparve nelle ombre della baracca, sbattendo con forza la porta alle sue spalle, lasciando Matthew Cowart a scribacchiare le sue parole sul taccuino degli appunti. Era circa mezzogiorno quando giunse alla scuola. Era molto simile a come se l'era immaginata, una massiccia, banale costruzione di cemento con una bandiera americana penzolante nell'aria umida e ferma. Su un lato erano parcheggiati i piccoli autobus gialli del servizio scolastico, sul retro si trovava un piccolo campo da gioco con qualche altalena e canestri da basket e una leggera patina di polvere a coprire tutto. Parcheggiò e si avvicinò alla scuola, sempre più chiaramente conscio della marea montante di voci infantili, che sembrò farlo procedere con la sua spinta. Era l'ora di pranzo, e dietro le doppie porte covava una sorta di caos trattenuto. I bambini procedevano a passo cadenzato, stringendo in mano i loro sacchetti e i loro cestini, mentre l'aria ronzava delle loro conversazioni. I muri della
scuola erano tappezzati con i loro disegni, macchie di colori e forme sistemate in esposizioni, con piccoli cartelli a spiegazione di ciò che significavano. Fissò i disegni per qualche istante, ricordandosi di tutti i dipinti e la carta colorata e i montaggi realizzati con la colla che continuava a ricevere via posta da parte di sua figlia, e che ora decoravano il suo piccolo ufficio. Si spinse oltre, diretto, attraverso un vestibolo, a una porta segnata dalla scritta AMMINISTRAZIONE. Mentre si avvicinava la vide aprirsi: ne uscirono ridendo due ragazzine, in preda a qualche grande, segreto entusiasmo. Una era nera, l'altra bianca. Le vide scomparire lungo un corridoio. I suoi occhi individuarono una piccola fotografia incorniciata appesa a una parete. Si avvicinò per guardare meglio. Era la fotografia di una ragazzina. Aveva capelli biondi, lentiggini, e un ampio sorriso, che rivelava una dentatura ricoperta dal metallo dell'apparecchio. Indossava una camicetta bianca, immacolata, con una catenina d'oro attorno al collo. Cowart poté leggere il nome "Joanie" inciso a lettere sottili al centro della catenina. Vi era una piccola targa sotto la fotografia. Diceva: JOANIE SHRIVER 1976-1987 NOSTRA AMICA E AMATA COMPAGNA DI CLASSE CI MANCHERÀ. Aggiunse la fotografia a tutte le osservazioni mentali che stava accumulando. Quindi si voltò ed entrò nell'ufficio della scuola. Una donna di mezz'età dall'aria leggermente tormentata sollevò lo sguardo da dietro il banco. «Posso aiutarla?» «Sì. Sto cercando Amy Kaplan.» «Era qui un attimo fa. La stava aspettando?» «Le ho parlato al telefono l'altro giorno. Mi chiamo Cowart. Vengo da Miami.» «È lei il giornalista?» Lui annuì. «Mi aveva detto che sarebbe passato di qui. Vediamo se riesco a trovargliela.» Vi era una nota di risentimento nella voce della donna. Cowart notò che non gli stava sorridendo. Lei si alzò e attraversò l'ufficio, sparendo per un istante nella sala professori, per subito riemergere in compagnia di una giovane donna. Cowart
notò che era attraente, con una massa di capelli castano chiari, pettinati all'indietro a rivelare un volto aperto, sorridente. «Sono Amy Kaplan, signor Cowart.» Si strinsero la mano. «Mi spiace interromperle il pranzo.» Lei scrollò le spalle. «È probabilmente il momento migliore. Ma in ogni caso, come le ho detto al telefono, non sono sicura di poter fare qualcosa per lei.» «L'auto» rispose lui. «E quello che ha visto.» «Forse la cosa migliore è che le faccia vedere dov'ero. Così le posso spiegare.» Uscirono senza dire una parola. La giovane maestra si fermò di fronte alla scuola e si voltò, indicando un punto lunga la strada. «Vede» disse «abbiamo sempre una maestra là in quel punto, per controllare i bambini all'uscita della scuola. Un tempo era soprattutto per controllare che i ragazzini non attaccassero briga e che le ragazzine andassero dritte a casa, invece di starsene in giro a spettegolare. I bambini fanno quel genere di cose, sa, a quanto pare più di tutti. Ora, naturalmente, c'è un'altra ragione per essere qua fuori.» Lo volle controllare, squadrandolo per un istante. Quindi proseguì. «...Comunque, il pomeriggio in cui Joanie è sparita, più o meno tutti se ne erano andati e io ero sul punto di tornarmene dentro, quando l'ho vista, laggiù all'altezza del grande salice...» Indicò un punto a circa cinquanta metri di distanza, lungo la strada. Poi si portò una mano alla bocca, esitando. «Oddio» mormorò. «Mi dispiace» si scusò Cowart. Osservò la giovane donna mentre fissava lo sguardo su quel punto della strada, come se potesse vedere tutto ancora una volta, nella sua memoria, in quel preciso istante. Vide il suo labbro accusare un tremore appena accennato, ma subito lei scosse il capo, assicurandogli di star bene. «Va tutto bene. Ero giovane. Era il mio primo anno. Ricordo che lei mi ha visto e si è voltata e mi ha salutato agitando la mano, per questo ho saputo che si trattava di lei.» Una parte della fermezza della sua voce era scivolata via nel caldo. «E?» «Lei ha raggiunto camminando la zona d'ombra laggiù, appena dopo l'auto verde. L'ho vista voltarsi, suppongo perché qualcuno le aveva detto
qualcosa, poi la portiera si è aperta, e lei è entrata nell'auto. L'auto è partita.» La giovane donna fece un profondo respiro. «Era salita così. Dannazione.» Sussurrò l'imprecazione sottovoce. «Era salita così, signor Cowart, come se non avesse una preoccupazione al mondo. A volte la vedo, nei miei sogni. Mi saluta. Odio quel sogno.» Cowart pensò ai propri incubi e desiderò di voltarsi verso la giovane donna e dirle che nemmeno lui, di notte, dormiva. Ma non lo fece. «È quello che mi ha sempre dato fastidio» proseguì Amy Kaplan. «Voglio dire, in un certo senso, se fosse stata afferrata e avesse lottato o chiesto aiuto o qualcosa...» La voce della giovane donna era ora rotta dal ricordo di quelle emozioni. «...Avrei potuto fare qualcosa. Avrei gridato e magari mi sarei messa a correre. Magari avrei potuto lottare, o fare qualcosa. Non lo so. Qualcosa. Ma era soltanto un normale pomeriggio di maggio. E faceva così caldo che volevo soltanto tornarmene dentro, e così non ho prestato attenzione.» Cowart fissò lungo la strada, misurando le distanze. «Era all'ombra?» «Sì.» «Ma è sicura che fosse verde. Verde scuro?» «Sì.» «E non nera?» «Sembra uno degli investigatori e degli avvocati. Certo, avrebbe potuto anche essere nera. Ma il mio cuore e la mia memoria dicono verde scura.» «Non ha visto la mano che apriva la portiera dall'interno?» Lei esitò. «È una buona domanda. Non me l'avevano mai fatta. Mi hanno chiesto se avevo visto chi era al posto di guida. Credo si fosse piegato per aprire la portiera. Non lo potevo vedere...» Si sforzò di ricordare. «No. Niente mano. Solo la portiera che si apriva.» «E la targa?» «Be', ha presente, la targa della Florida ha quella linea arancione che incornicia il fondo bianco. Tutto quello che ho notato è che questa era più scura, e che veniva da qualche altro Stato.» «Quando le è stata mostrata l'auto di Robert Earl Ferguson?» «Mi hanno fatto vedere soltanto una fotografia, un paio di giorni più tardi.» «E non ha mai visto l'auto vera e propria?» «Non che mi ricordi. Tranne il giorno in cui lei è sparita.» «Mi parli della foto.»
«Ce n'erano un paio, di quelle scattate con un'istantanea.» «Che inquadratura?» «Mi scusi?» «Da che angolazione avevano scattato le fotografie?» «Ah, ho capito. Be', erano della fiancata.» «Ma lei aveva visto l'auto da dietro.» «Esatto. Ma il colore era giusto. E la forma era la stessa. E...» «E cosa?» «Niente.» «Avrà visto le luci degli stop mentre l'auto partiva. Mentre il conducente inseriva la marcia, gli stop si saranno illuminati. Si ricorda che forma avessero?» «Non so. Non me l'hanno mai chiesto.» «Cosa le hanno chiesto?» «Non molte domande. Non da parte della polizia. Non durante il processo. Ero così nervosa quando mi sono presentata per testimoniare, ma tutto è finito in pochi secondi.» «E il controinterrogatorio?» «Mi hanno domandato soltanto se ero sicura circa il colore, come ha fatto lei. E io ho detto che potevo anche sbagliarmi, ma che non pensavo. E tutto è finito.» Cowart guardò ancora la strada, quindi spostò lo sguardo sulla giovane donna. Sembrava concentrata nel ricordo, i suoi occhi fissi su qualcosa di distante da lui. «Pensa che sia stato lui?» Lei trattenne il respiro e ci pensò per un istante. «È stato condannato.» «Ma lei che ne pensa?» Fece un altro profondo respiro. «Quello che mi ha sempre insospettito è il fatto che lei sia salita così velocemente sull'auto. Non ha esitato nemmeno per un attimo. Se non l'avesse conosciuto, insomma, non posso immaginare perché avrebbe dovuto agire così. Cerchiamo di insegnare ai bambini a evitare i pericoli e a comportarsi con intelligenza, signor Cowart. Abbiamo dei corsi sulla sicurezza. Sul fatto che non bisogna mai fidarsi di uno sconosciuto. Perfino qui a Pachoula, sebbene lei possa anche non crederci. Non siamo così arretrati e selvaggi come si potrebbe pensare. Un sacco di gente arriva qui dalla città, come ho fatto io. C'è gente, qui, professionisti che ogni giorno vanno fino a Pensacola o a Mobile, e vivono qui perché questo è un luogo tranquillo e sicuro. Ma ai bambini insegnia-
mo la sicurezza. E loro imparano. Dunque non sono mai riuscita a capire fino in fondo. Non aveva senso, per me, il fatto che lei fosse entrata così in fretta in quell'auto.» Lui annuì. «È una domanda che mi faccio anch'io» disse. Lei si voltò, stizzita. «Be', la prima maledetta persona a cui la farei sarebbe Robert Earl Ferguson.» Lui non rispose, e subito lei si raddolcì. «Mi perdoni per lo scatto. Tutti noi ci addossiamo la colpa di quanto è accaduto. Chiunque, a scuola. Lei non ha idea di quale fosse la situazione con gli altri bambini. Avevano paura di venire a scuola. E quando ci venivano, erano troppo spaventati per ascoltare. A casa non riuscivano a dormire. E quando dormivano, avevano gli incubi. Facevano i capricci. Bagnavano i letti. Scoppiavano improvvisamente in lacrime, oppure avevano crisi di rabbia. I bambini con problemi disciplinari peggioravano. I bambini introversi o volubili anche. I bambini normali, quelli ordinari, di tutti i giorni, iniziavano ad avere dei problemi. Abbiamo organizzato degli incontri scolastici. Dall'università sono arrivati degli psicologi per aiutare i bambini. È stato terribile. E sarà sempre terribile.» Si guardò attorno. «Non so, è stato come se qualcosa quel giorno si fosse rotto, quaggiù, e nessuno sa veramente se potrà mai essere riparato.» Rimasero in silenzio per qualche istante. Infine lei domandò: «Le sono stata d'aiuto?» «Certo. Le spiace se le faccio solo un'altra domanda?» rispose lui. «E forse sarò costretto a disturbarla ancora dopo che avrò parlato con altri coinvolti nella faccenda. Come la polizia.» «Non c'è problema» disse lei. «Sa dove trovarmi. Spari, forza.» Lui sorrise. «Mi dica soltanto cosa le era venuto in mente un paio di minuti fa, mentre parlavamo delle fotografie dell'auto e si è bloccata.» Lei si fermò, scura in volto. «Niente» rispose. Lui la guardò. «Be', insomma, c'è stato qualcosa.» «Sì?» «Quando la polizia mi ha mostrato le fotografie, mi ha detto che avevano catturato l'assassino. Che aveva confessato e tutto. La mia identificazione dell'auto era soltanto una formalità, mi hanno detto. Non mi sono resa conto che invece era così importante fino a qualche mese più tardi, appena prima del processo. Mi ha sempre dato fastidio, capisce. Mi fanno vedere delle fotografie, mi dicono "Questa è l'auto dell'assassino, vero?". Io le guardo e dico "Certo". Non so, mi ha dato così fastidio, il fatto che abbiano
agito in quel modo.» Cowart non disse nulla, ma pensò: "Dà fastidio anche a me". Un articolo di giornale è una compilazione di momenti, accumulati in citazioni, nel muoversi dello sguardo di qualcuno, nel modo in cui i suoi abiti sono tagliati. Nelle parole assomma le più piccole osservazioni del giornalista, ciò che vede, come sente. È rafforzato dal passato, dalle vigorose fondamenta dei dettagli. Cowart sapeva di aver bisogno di acquisire più sostanza, e passò l'intero pomeriggio a leggere ritagli di giornale nella biblioteca del Pensacola News. Lo aiutò a comprendere la speciale frenesia che si era impadronita della piccola città dal momento in cui la madre della ragazzina aveva telefonato alla polizia per dire che la figlia non era ancora tornata dalla scuola. Vi era stata un'esplosione di preoccupazione tipica del piccolo centro. A Miami, i poliziotti le avrebbero risposto che non potevano fare niente per ventiquattro ore. E avrebbero pensato che la ragazzina fosse scappata di casa, in fuga dalle percosse dei genitori, dalle proposte sessuali del patrigno, o proiettata tra le braccia del ragazzo, davanti alla sua scuola nell'abitacolo di una Pontiac Firebird nera nuova di zecca. Ma non a Pachoula. La polizia locale aveva immediatamente iniziato a perlustrare le strade, alla ricerca della ragazzina. Si erano aggirati con i megafoni, gridando il suo nome, fino alle stradine secondane che circondavano il paese. I vigili del fuoco avevano dato una mano, e le sirene avevano attaccato il loro lamento nella quiete di quella sera di maggio. I telefoni avevano iniziato a squillare in tutti i quartieri residenziali. La notizia si era sparsa con allarmante rapidità lungo tutte le strade laterali. Piccoli gruppi di genitori si erano riuniti e avevano preso a perlustrare i cortili, alla ricerca della piccola Joanie Shriver. Erano stati mobilitati i boy-scout. La gente era uscita prima dagli uffici per aiutare nella ricerca. Mentre la lunga notte d'inizio estate aveva iniziato a scivolarsene via, la cittadina doveva aver dato l'impressione di essere totalmente mobilitata alla caccia della ragazzina. "Naturalmente" pensò Cowart "allora lei era già morta." Era già morta nello stesso momento in cui era salita su quell'auto. La ricerca era proseguita con i riflettori e con un elicottero fatto giungere la notte stessa dalla caserma della polizia dello Stato di Pensacola. Aveva ronzato fino a dopo mezzanotte: le sue eliche battevano veloci, il suo faro sondava l'oscurità. Con la prima luce del mattino, erano stati fatti arrivare i cani poliziotto, e la caccia si era allargata. A mezzogiorno la cittadina si
era riunita come un accampamento militare, preparandosi per un lungo cammino, e tutto era stato documentato dai giornalisti e dalle telecamere. Il corpo della ragazzina era stato" scoperto nel tardo pomeriggio da due vigili del fuoco in perlustrazione ai limiti di una palude; camminavano con gli stivaloni impermeabili nel melmoso acquitrino, scacciando le zanzare a manate, gridando il nome della ragazzina, quando uno dei due aveva intravisto un lampo di capelli biondi a filo d'acqua, a malapena catturato dalla luce morente. Cowart si figurò che la notizia avesse selvaggiamente ferito la piccola città, allo stesso modo del corpo della ragazzina. Si rese conto di due cose: che essere preso per un interrogatorio per la morte di Joanie Shriver equivaleva a ritrovarsi nel bel mezzo di una tromba d'aria; e che la pressione esercitata sui due investigatori per scovare l'assassino doveva essere stata immensa. "Forse" pensò "tanto immensa da essere insopportabile." Hamilton Burns era un piccolo, florido ometto dai capelli grigi. La sua voce, come quella di tanti altri a Pachoula, era plasmata dalle ritmiche locuzioni tipiche del Sud. Era tardi nel pomeriggio, e mentre con un cenno invitava Matthew Cowart ad accomodarsi su una poltrona di pelle troppo imbottita, disse qualcosa come "il sole ha superato l'estremità del pennone", e dopo aver magicamente fatto comparire una bottiglia dal primo cassetto della sua scrivania, si versò un bicchiere di bourbon. Quando la bottiglia venne allungata nella sua direzione, Cowart rifiutò con un cenno del capo. «Un pizzico di ghiaccio» disse Burns, e si diresse verso un angolo del piccolo ufficio, dove un minifrigorifero, dominato da pile di documenti legali, occupava dello spazio prezioso. Cowart notò che l'uomo zoppicava. Si guardò attorno nell'ufficio. Le pareti erano ricoperte da pannelli di legno e i volumi di legge occupavano tutta una parete. Vi erano numerosi diplomi incorniciati e una menzione della sede locale dei Cavalieri di Colombo. Vi era anche qualche ritratto fotografico di un sorridente Hamilton Burns a braccetto del governatore e altre personalità politiche. L'avvocato prese un lungo sorso dal suo bicchiere e si appoggiò allo schienale, ruotando la poltrona dietro la scrivania. «Dunque lei vuole sapere di Robert Earl Ferguson» disse. «Che le posso dire? Penso che abbia un'opportunità di appello per un nuovo processo, specie ora che quel vecchio figlio di puttana di Roy Black si sta occupando del suo caso.» «Su quali basi?» «Diavolo, per quella dannata confessione, e che altro? Il giudice avrebbe
dovuto escludere quella merda dal processo.» «Ci arriveremo. Potrebbe iniziare raccontandomi come è stato coinvolto nel caso?» «Ah, nominato dalla corte. Il giudice mi chiama, mi chiede se posso occuparmene. I normali difensori d'ufficio avevano troppi impegni, come sempre. E poi credo che fosse un po' troppo scottante per loro, in ogni caso. La gente strillava per mettere le mani su quel ragazzo. Non penso proprio che volessero avere niente a che fare con Ferguson. Nossignore, proprio no.» «E lei ha accettato?» «Quando ti chiama il giudice, tu rispondi. Che diavolo, nella maggior parte dei miei casi sono stato nominato dalla corte. Non potevo proprio rifiutarmi.» «Lei ha presentato alla corte un conto di ventimila dollari, alla fine.» «Ci vuole molto tempo per difendere un assassino.» «A cento dollari l'ora?» «Che diavolo, ci ho perso dei bei soldoni, sull'affare. Per tutte le campane dell'inferno, sono passate settimane prima che qualcuno si decidesse a rivolgermi di nuovo la parola, in città. La gente si comportava come se fossi una specie di paria. Un Giuda. Tutto perché avevo rappresentato quel ragazzo. Cammini per strada, e niente più "Buongiorno, signor Burns", "Buona giornata, signor Burns". La gente attraversava la strada pur di evitare di parlare con il sottoscritto. Questa è una piccola città. Faccia lei il conto di quanto ho perso in casi che sono stati assegnati ad altri avvocati solo perché avevo rappresentato Bobby Earl. Si faccia un'idea prima di criticarmi per quanto ho guadagnato.» L'avvocato pareva contrariato. Cowart si chiese se per caso non fosse convinto di essere stato lui la vera vittima di una condanna e non Ferguson. «Si era mai occupato di un caso di omicidio prima di allora?» «Un paio di volte.» «Casi da sedia elettrica?» «No. Per la maggior parte litigi domestici. Ha presente, marito e moglie prendono a litigare e uno dei due decide di sottolineare quello che ha appena detto con una pistola...» Scoppiò a ridere. «Omicidio colposo, secondo grado al massimo. Mi occupo di un sacco di omicidi veicolari, e cose del genere. Il figlio di un consigliere comunale si ubriaca e distrugge una macchina. Ma diavolo, a lungo andare difendere qualcuno che ha attraver-
sato la strada col rosso e difendere un accusato di omicidio è la stessa cosa. Devi fare quel che devi fare.» «Capisco» commentò Cowart, prendendo veloci appunti sul taccuino e per il momento evitando lo sguardo dell'avvocato. «Mi parli della linea di difesa.» «Non c'è molto da dire. Ho chiesto il rinvio della causa a un'altra corte. Mi è stato negato. Ho chiesto di escludere la confessione dagli atti del processo. Negato. Allora sono andato da Bobby Earl e gli ho detto: "Ragazzo mio, dobbiamo dichiararci colpevoli. Omicidio di primo grado. Vai dentro, prenditi i tuoi venticinque anni, senza condizionale. Salvati la vita". In quel modo, avrebbe ancora avuto qualcosa da vivere quando se ne sarebbe uscito. "Neanche per sogno" risponde il ragazzo. Testone. Con quell'aria da vai-a-fare-in-culo. Insiste nel dire "Io non ho fatto niente". Allora che mi rimane? Cerco di scegliere una giuria senza pregiudizi. E buona fortuna. E così il processo va avanti. Mi aggrappo al ragionevole dubbio finché non divento blu in faccia. E perdiamo. Che altro c'è da dire?» «Come mai non ha chiamato a testimoniare la nonna, che poteva fornirgli un alibi?» «Nessuno le avrebbe creduto. Ha conosciuto quella piccola vecchia scatenata? Tutto quello che dice è che il suo caro nipotino è praticamente perfetto, e non farebbe male a una mosca. Chiaro, è l'unica a crederlo. Se viene a deporre e inizia a raccontare balle, le cose non fanno altro che peggiorare. E di brutto.» «Non vedo come potrebbero essere andate peggio di come sono andate.» «Il suo è il senno di poi, signor Cowart. E lei lo sa.» «Ma supponiamo che lei stesse dicendo la verità.» «Può essere. Si trattava di scegliere.» «E l'auto?» «Quella dannata maestra ha ammesso perfino che avrebbe potuto essere di un colore diverso. Merda. Lo ha detto proprio al banco dei testimoni. Non riesco a capire come abbia fatto la giuria a non crederle.» «Lo sapeva che la polizia le aveva mostrato una fotografia dell'auto di Ferguson dopo averle detto della sua confessione?» «Cosa? No. Non me lo ha detto quando ho raccolto la sua testimonianza.» «L'ha detto a me.» «Be', che io sia dannato.» L'avvocato si versò un altro bicchierino e vi diede una bella sorsata. "No
che non lo sarà" pensò Cowart. Ma Ferguson sì. «Che mi dice della prova del gruppo sanguigno?» «0 positivo. Come quello di metà dei maschi della nazione, scommetto. Ho controinterrogato i tecnici del laboratorio, chiedendo come mai non si fossero spinti fino a determinarne la base enzimatica, o perché non avessero fatto un controllo genetico o qualche altra strana stronzata. Chiaro, già sapevo la risposta: avevano raggiunto un risultato e non volevano fare niente che potesse rischiare di vanificarlo. E poi c'era Robert Earl, seduto al banco degli imputati, che si rivoltava nella sedia con l'aria di chi è colpevole come il peccato. Non ha aiutato di certo.» «La confessione?» «Avrebbe dovuto essere esclusa dagli atti. Credo che gliel'avessero strappata a suon di botte. Certo che sì. Altroché. Ma che diavolo, una volta accettata, la frittata era fatta, non so se mi spiego. Quale giurato avrebbe messo in dubbio le parole stesse del ragazzo? Tutte le volte che gli avevano domandato "Sei stato tu a fare questo", "Sei stato tu a fare quello", lui aveva risposto "Sissignore". "Sissignore". "Sissignore". Tutti quei sissignori. Non ci si poteva far molto. Tutto qui. Ho provato, certo, ho fatto del mio meglio. Mi sono aggrappato al ragionevole dubbio. E poi alla mancanza di prove inimpugnabili. Ho chiesto ai giurati, dov'è l'arma del delitto? Qualcosa che di sicuro puntasse a Bobby Earl. Ho detto loro che non si può uccidere qualcuno e non portarne addosso alcuna traccia. Il che era il suo caso. Sono andato su e giù, a destra e a sinistra, sopra, sotto, attorno, e attraverso. Glielo giuro, l'ho fatto. Solo che non è servito a niente, dannazione. Continuavo a guardare quella gente seduta dietro al bancone della giuria, e già da allora sapevo che, qualsiasi cosa avessi detto, non avrebbe fatto alcuna differenza. Tutto ciò che sentivano era quella maledetta confessione. Le sue stesse parole che lo guardavano in faccia, uscendo dalle pagine degli atti. Sissignore. Sissignore. Sissignore. Ci si è messo da solo su quella sedia elettrica, certo che lo ha fatto, proprio come se si stesse sistemando una sedia al tavolo da pranzo. La gente quaggiù era terribilmente sconvolta da quanto era successo alla ragazzina, e tutti volevano che la storia finisse, volevano sbarazzarsene, lasciarsela indietro il più velocemente possibile, in modo da poter andare avanti a vivere nel modo in cui erano abituati. E non si potevano trovare due persone in tutta la città che si alzassero in piedi e dicessero qualcosa di carino su quel ragazzo. C'è qualcosa in lui, ha presente, atteggiamento e tutto il resto. Nossignore, non piaceva a nessuno. Nemmeno alla gente di colore. Ora, non sto dicendo che non ci
fosse del pregiudizio...» «Una giuria completamente bianca Non è riuscito a trovare un nero che andasse bene?» «Ci ho provato. Ci ho provato. L'accusa ha esercitato il diritto a escludere i giurati e li ha eliminati dalla lista.» «E lei non ha obiettato?» «Obiezione respinta. Agli atti. Magari funzionerà in appello.» «Ma non le dà fastidio?» «E perché dovrebbe?» «Insomma, mi sta dicendo che Ferguson non ha subito un processo equo e che potrebbe essere innocente E ora è chiuso nel braccio della morte.» L'avvocato scrollò le spalle. «Non so» disse lentamente. «Certo, il processo, be', su questo ha ragione. Ma innocente. Che diavolo, sono le sue parole. Quella dannata confessione.» «Ma se ha appena detto che crede che l'abbiano ottenuta con la forza.» «Lo credo, certo. Ma...» «Ma cosa?» «Io sono un tipo all'antica. Mi piace pensare che se non hai fatto niente, nulla al mondo potrebbe farti dire che l'hai fatto. Ecco cosa mi dà fastidio.» «Ma è noto» replicò freddamente Cowart «che la storia della giustizia è piena di esempi di confessioni forzate e manipolate, vero?» «Questo è giusto.» «Centinaia. Migliaia.» «Questo è giusto.» L'avvocato distolse lo sguardo, rosso in volto. «Suppongo. Chiaro, ora che Roy Black ha in mano il caso, e ora che lei è qui, e magari scriverà qualcosina che sveglierà il giudice o forse che il governatore non potrà far finta di non vedere... be', le cose hanno un loro modo speciale di risolversi.» «Ma si risolveranno?» «Tutto si risolve. Perfino la giustizia. Ci vuole tempo.» «Sembra che Ferguson non abbia avuto poi così tante possibilità di risolverle, le cose, la prima volta.» «Mi sta chiedendo la mia opinione?» «Sì.» «Nossignore. Nessuna possibilità.» "Specialmente con te a difenderlo" pensò Cowart. "Più preoccupato dal-
la tua posizione a Pachoula che dal destino di un condannato al braccio della morte." L'avvocato si appoggiò allo schienale della poltrona e agitò il bicchiere con un nervoso moto circolare, facendo tintinnare i cubetti di ghiaccio. La notte scese sulla cittadina come una massa impenetrabile di acqua nera. Cowart si aggirò lento per le strade, attraversando gli strani aloni di luce proiettati dalle lampade stradali e dalle vetrine che erano rimaste illuminate. Ma tali momenti di debole luce erano rari; pareva quasi che, con il calare del sole, Pachoula si fosse consegnata totalmente all'oscurità. Nell'aria vi era una frescura tipica della campagna, una quiete palpabile. Cowart poteva udire i suoi stessi passi risuonare secchi sul marciapiede. Quella notte ebbe difficoltà a prendere sonno. I suoni tipici dei motel - la voce alta di un ubriaco, un letto scricchiolante nella camera a fianco, una porta sbattuta, i distributori automatici di ghiaccio e di bevande - tutto s'intrometteva nella sua immaginazione, interrompendo il riepilogo mentale di quanto era riuscito a sapere e di quanto aveva visto. Era mezzanotte passata quando il sonno finalmente ebbe la meglio su di lui, ma si trattò di un sonno terribilmente agitato. Nel sogno guidava lentamente un'auto attraverso le strade di Miami illuminate dalle luci violente della rivolta. Il chiarore proveniente dagli edifici in fiamme accarezzava l'auto, proiettando le sue ombre sulla parte anteriore. Guidava lentamente, sterzando con attenzione per evitare i vetri rotti e le macerie disseminate sulla strada, conscio per tutto il tempo di essere sempre più vicino al centro dei disordini, ma consapevole che proprio quello fosse il suo lavoro, vedere e riportare. Mentre con l'auto svoltava a un incrocio, scorse la folla intenta a ballare, a saccheggiare, in corsa verso di lui attraverso le luci guizzanti delle fiamme. Poteva vederli gridare, e gli parve che urlassero il suo nome. Improvvisamente, dal sedile di fianco al suo, provenne una voce di lacerante intensità, in preda al panico. Lui si voltò e vide che si trattava della ragazzina assassinata. Prima che fosse in grado di chiederle cosa ci facesse lì, l'auto venne circondata. Scorse il volto di Robert Earl Ferguson, e all'improvviso sentì dozzine di mani che lo tiravano fuori dall'abitacolo, mentre l'auto veniva violentemente scossa, e ondeggiava come una nave persa in mare aperto, nell'occhio di un tifone. Vide che anche la ragazzina veniva tirata fuori dall'auto, ma proprio mentre scivolava via dalla stretta disperata delle sue mani protese, il suo volto cambiò orribilmente, e lui la sentì gridare: "Papà, salvami!" Si svegliò boccheggiando. Barcollò fuori dal letto, si versò un bicchiere
d'acqua, e prese a fissare la sua immagine riflessa nello specchio della stanza da bagno, come alla ricerca di una qualche ferita visibile, ma vide soltanto la patina di sudore che gli appiccicava i capelli sulla fronte. Ritornò nella stanza e sedette alla finestra, ricordando. All'incirca una mezza dozzina di anni prima, era stato testimone della furia parossistica di un gruppo di dimostranti che tirava fuori due ragazzi da un furgoncino. I ragazzi erano bianchi, la folla era nera. I due si erano stupidamente addentrati nella zona degli incidenti, si erano persi, avevano cercato di scappare, con l'unico risultato di ritrovarsi ancora più invischiati nella confusione. "Vorrei tanto che fosse un sogno" pensò Cowart. "Vorrei tanto non essere stato presente". La folla aveva accerchiato i due ragazzi urlanti, tirandoli e spingendoli, lanciandoli di qua e di là, finché non erano entrambi scomparsi sotto un assedio di piedi scalcianti e di pugni mulinanti, schiacciati dalle pietre, colpiti dagli spari. Lui si trovava a un isolato di distanza, non abbastanza vicino da potersi rivelare un testimone decisivo per la polizia, ma abbastanza vicino per non potersi mai dimenticare di ciò che aveva visto. Si era nascosto al riparo di un edificio in fiamme, a fianco di un fotografo che continuava a scattare, imprecando al fatto di non avere un teleobiettivo. Avevano atteso finché il massacro non era finito, e alla fine avevano visto i due poveri corpi straziati, abbandonati in mezzo alla strada. Allora, non appena la folla aveva terminato e si era riversata in un'altra direzione, si era messo a correre, era tornato all'auto, cercando di sfuggire allo stesso destino, ma conscio che non sarebbe mai più sfuggito a quella visione. Quella notte erano morti in tanti. Si ricordò di quando aveva scritto l'articolo in redazione, con la sensazione di essere tanto indifeso quanto i due giovani che aveva visto morire, intrappolato dalle immagini che dalla sua coscienza scivolavano sulla pagina. "Ma almeno non sono morto" pensò. "È morta soltanto una piccola parte di me." Di nuovo rabbrividì, quindi trasformò il brivido in una scrollata di spalle e si alzò in piedi, stirandosi e flettendo i muscoli, come per rinvigorirsi. Doveva stare attento, si disse. Oggi avrebbe intervistato i due investigatori. Si chiese cosa avrebbero detto. E se lui avrebbe potuto credere anche soltanto a una parola. Quindi si mise sotto la doccia, come se l'acqua, scorrendogli addosso, potesse ripulire a fondo anche i suoi ricordi.
4 Gli investigatori Una segretaria dell'ufficio reati gravi del dipartimento di polizia della contea di Escambia fece sedere Cowart su uno sconnesso divano in finta pelle e lo pregò di attendere mentre si metteva in contatto con i due investigatori. Era una giovane donna, probabilmente attraente ma con un viso deturpato da una noia arcigna, i capelli severamente tirati indietro, le spalle rigidamente diritte sotto il marrone spento della sua uniforme da poliziotta. Lui la ringraziò e si sedette. La donna compose un numero e parlò a voce bassa, tanto che Cowart non fu in grado di capire cose stesse dicendo. «Qualcuno sarà qui in un paio di minuti» gli disse poi riappendendo la cornetta. Quindi gli diede le spalle e si mise a esaminare qualche documento sulla sua scrivania, ignorandolo deliberatamente. "Dunque" pensò lui "sanno tutti perché sono qui." La sezione omicidi si trovava in un edificio di recente costruzione, a fianco del carcere della contea. Possedeva una certa moderna tranquillità, in cui il rumore scompariva nella spessa moquette marrone e veniva deviato dalle spoglie pareti divisorie bianche che separavano le scrivanie degli investigatori dalla sala d'attesa nella quale Cowart stava aspettando. Cercò di concentrarsi sull'ormai prossima intervista, ma si accorse che la mente vagava per conto suo. Il silenzio era sconcertante. Si ritrovò a pensare alla sua vecchia casa. Suo padre era il direttore responsabile del piccolo quotidiano locale di una cittadina di media grandezza del New England, un piccolo centro industriale che aveva assunto una certa importanza grazie ai fortunati investimenti di alcune grandi imprese, che avevano portato denaro e sangue nuovo e una certa innegabile particolarità nell'architettura locale. Suo padre era un uomo altero che lavorava duro, uscendo di casa prima che facesse giorno e ritornandoci quando era già sceso il buio. Indossava semplici abiti blu o grigi, che sembravano penzolare su un corpo della magrezza di un asceta; un uomo spigoloso e severo, dal sorriso infrequente, dai polpastrelli macchiati di nicotina e di inchiostro. Suo padre era posseduto, per lo più dai continui andirivieni, dai dettagli e dal classico repertorio del giornalismo quotidiano. Era elettrizzato dalla raccolta delle notizie, dalla storia, in particolare quella che esplodeva in prima pagina, richiamando a gran voce l'attenzione su di sé. Un'aberrazione, una malvagità, qualche infrazione: solo allora la rigidità lo abbandona-
va, e lui iniziava a muoversi con una sorta di gioia eccitata e stancante, come un ballerino finalmente in grado, dopo anni di silenzio, di ascoltare della musica. In quei momenti, suo padre era come un terrier, pronto ad afferrare qualcosa e a mordere con forza, continuando a dilaniarla fino alla fine di tutto. "Sono diverso?" si chiese. Non proprio. La sua ex moglie un tempo lo definiva un romantico, come se fosse un insulto. "Un cavaliere errante" pensò sollevando lo sguardo e vedendo un uomo fare il suo ingresso nella sala d'attesa "ma con il cuore di un bulldog." «Cowart?» domandò l'uomo in tono decisamente non ostile. Cowart si alzò in piedi. «In persona.» «Sono Bruce Wilcox.» L'uomo allungò la mano. «Venga, ci vorrà qualche minuto prima che il tenente Brown ritorni. Possiamo parlare di là.» L'investigatore condusse Cowart attraverso un intrico di scrivanie fino a un ufficio dalle pareti di vetro, che da un angolo dominava l'area di lavoro. Alla porta vi era una scritta: TENENTE T.A. BROWN, SQUADRA OMICIDI. Wilcox richiuse la porta e si sedette dietro a una grande scrivania grigia, facendo cenno a Cowart di accomodarsi di fronte. «Abbiamo avuto un piccolo incidente aereo stamattina» si giustificò mentre sistemava qualche documento sulla scrivania. «Un piccolo Piper da turismo è caduto durante un volo di addestramento. Tanny è dovuto andare sul luogo e supervisionare il recupero dei corpi del pilota e dell'altro. Sono caduti sul limitare di una palude. Un casino. Prima di tutto devi guadare tutta quella melmaccia per arrivare all'aereo. Poi devi tirar fuori quei due. Ho sentito che c'è anche stato un incendio. Non ha mai provato a maneggiare un corpo ustionato? Dio, è un casino. Un gran casino.» L'investigatore scosse il capo, chiaramente sollevato dall'essere riuscito a evitare quell'incarico. Cowart lo guardò. Era un uomo piccolo e compatto, con capelli lunghi ma lisciati all'indietro e un modo di fare bonario, probabilmente sotto i trent'anni. Wilcox si era tolto la giacca sportiva, un chiassoso modello a quadretti rossi, e l'aveva appesa allo schienale della sedia. Si dondolò sulla schiena, come se avesse intenzione di mettere i piedi sulla scrivania. Cowart vide due spalle possenti e due braccia muscolose, più adatte a un uomo di stazza maggiore. «...Comunque» proseguì l'investigatore «il recupero dei corpi è uno degli inconvenienti di questo lavoro. E di solito sono io quello incaricato di farlo...» Sollevò un braccio e contrasse il bicipite. «Ho fatto lotta libera al li-
ceo, e non sono grosso, così posso inserirmi in posti grandi la metà di quelli che possono raggiungere gli altri. Suppongo che giù a Miami siano i tecnici e le squadre di soccorso e gente del genere a fottere con i cadaveri. Quassù, più o meno tocca a noi. Chiunque muoia rientra nel nostro raggio d'azione. Prima di tutto stabiliamo se si tratta di omicidio o no. Chiaro, non è così difficile quando c'è un aereo che ti si sta incenerendo davanti. Poi li mandiamo all'obitorio.» «Dunque, come vanno gli affari?» domandò Cowart. «La morte è sempre una garanzia di lavoro costante» rispose l'investigatore. Quindi liberò una breve risatina. «Niente cassa integrazione. Niente vacanze. Niente periodi morti. Solo lavoro, tanto, regolare. Diavolo, dovrebbero fondare un sindacato soltanto per gli investigatori della omicidi. C'è sempre qualcuno che muore.» «Che mi dice degli omicidi? Quassù...» «Be', probabilmente sarà al corrente del problema droga comune a tutta la costa. Non è un bel modo di dire? Il problema droga. Lo fa quasi sembrare carino. Lo definirei più l'uragano droga, se vuole la mia opinione. Comunque, certo è che ti fa fare un po' di straordinari.» «È un fatto recente.» «Esatto. Gli ultimi due anni.» «Ma prima dello spaccio di droga?» «Litigi domestici. Omicidi veicolari. Di tanto in tanto, un paio di gentiluomini del posto si sparano o si accoltellano a causa di una partita a carte, o di una donna, o di una rissa fra cani. Più o meno è la norma per quanto riguarda la contea. A Pensacola abbiamo qualche problema da grande città, ogni tanto. Specialmente con i militari. Risse da bar, ha presente. C'è un gran giro di prostituzione che prospera attorno alla base, e anche questo porta a qualche taglio e a qualche colpo di pistola. Coltellini e piccole calibro trentadue con il manico di madreperla. Più o meno quello che ci si aspetta, come le dicevo. Niente di particolarmente strano.» «Ma Joanie Shriver?» L'investigatore rimase in silenzio, pensieroso. «Lei è stato qualcosa di diverso» rispose infine. «In che senso?» «Proprio qualcosa di diverso. Proprio...» Esitò, stringendo improvvisamente la mano in un pugno e agitandola davanti al volto. «Tutti se ne erano resi conto. È stato...» Di nuovo s'interruppe, inspirando profondamente. «Ma dovremmo aspettare Tanny. Era il suo caso, veramente.»
«Credevo si chiamasse Theodore.» «È così. Tanny è il soprannome. E di suo padre prima di lui. Il padre era proprietario di una piccola conceria11 , che teneva come secondo lavoro. Le mani e le braccia erano sempre di quel colore rossiccio provocato dalla tinta. Tanny ha lavorato con il padre fino al liceo, e tutte le estati che passava a casa, in vacanza dall'università. E allo stesso tempo ha ereditato il soprannome. Non penso che nessuno, tranne sua madre, l'abbia mai chiamato Theodore.» «Siete entrambi del posto? Voglio dire...» «So cosa intende. Sicuro, ma Tanny ha dieci anni più di me. È cresciuto a Pachoula. È andato al liceo. Era un buon atleta, a quei tempi. Poi si è iscritto alla Florida State per giocare a rugby, ma ha finito per arrancare nella giungla con il Primo Cavalleria Aerea. È tornato con un paio di medaglie, ha terminato la scuola e ha trovato lavoro nella polizia. Io, io ero un marmocchio della marina. Mio padre è stato per anni il sovrintendente della guardia costiera alla base. Io sono solo rimasto dov'ero dopo il liceo. Ho fatto un po' di università. Poi mi sono presentato all'esame per l'accademia di polizia e ci sono rimasto. È stato mio padre a indirizzarmi verso il lavoro di polizia.» «Da quanto tempo lavora nella squadra omicidi?» «Io? Saranno tre anni. Tanny ci è dentro da più tempo.» «Le piace?» «È diverso da tutto il resto. Molto più interessante che guidare un'auto di pattuglia. Hai la possibilità di usare la testa.» Con l'indice si diede qualche colpetto sulla fronte. «E Joanie Shriver?» L'investigatore incurvò le spalle, come per ritirarsi in se stesso. «È stato il mio primo vero e proprio caso. Voglio dire, la maggior parte degli omicidi, insomma, si tratta di casi semplici. Arrivi sul luogo del delitto e ci trovi l'assassino, in piedi di fianco alla vittima...» Era vero. Cowart si ricordava che Vernon Hawkins gli aveva spiegato che, ogni volta si recasse sulla scena di un delitto, il primo che cercava non era chi stava piangendo, ma chi era in piedi, ad occhi spalancati, in stato di shock, confuso. L'assassino. «...O sennò, ha presente, le tipiche storie di droga. Ma in entrambi i casi, per la maggior parte del tempo si tratta soltanto di recuperare i cadaveri. Sa come li definiscono giù all'ufficio del procuratore? Delitti-spazzatura. Non 1
Tanning = conciatura.
ti aspetti mai veramente che salti fuori un caso di omicidio da un cadavere trovato nell'acqua, a mollo da tre giorni, senza alcuna identificazione, e con pochi lineamenti facciali dopo che i pesci ci hanno lavorato sopra. Un colpo di pistola alla nuca. Jeans firmati e catene d'oro al collo. No, quelli ti limiti a segnarli con una bella targhetta e a ficcarli nei sacchi, sissignore. Ma la piccola Joanie, ragazzi, lei sì che aveva un volto. Non era un qualsiasi, anonimo corriere della droga colombiano. Lei era diversa.» Si fermò, pensieroso. «Era come la sorellina minore di tutti» aggiunse quindi. L'investigatore Wilcox parve sul punto di dire qualcos'altro quando il telefono sulla scrivania prese a squillare. Afferrò la cornetta, grugnì qualche parola di saluto, ascoltò, e infine l'allungò a Cowart. «È il capo. Le vuole parlare.» «Sì?» «Signor Cowart?» Udì una voce profonda, regolare, distante, dalla cadenza lenta, una voce che non tradiva alcuna concessione ai modi espressivi del Sud, ormai così familiari a Cowart. «Sono il tenente Brown. Farò un po' tardi, sono ancora qui sul luogo dell'incidente aereo.» «C'è qualche problema?» L'uomo scoppiò a ridere, una breve, amara esplosione. «Suppongo dipenda dai punti di vista. Ma non c'è niente che uno non si possa aspettare, visto che si parla di un aereo in fiamme, di un pilota e un passeggero sul fondo di una palude di tre metri di profondità, di due mogli che hanno perso la testa, di un proprietario di scuola di volo piuttosto alterato e di un paio di guardie forestali incazzate perché questo particolare atterraggio è avvenuto nel mezzo di una riserva naturale.» «Be', sarei felice di attendere...» L'investigatore lo interruppe. «Penso che sarebbe una buona idea se l'investigatore Wilcox l'accompagnasse sul luogo in cui è stato trovato il corpo di Joanie Shriver. Ci sono anche altri punti di estremo interesse, che credo l'aiuteranno a scrivere il suo articolo. Quando voi due avrete terminato, io me la sarò sbrigata con lo sgombero di questo disastro e potremo parlare di Robert Earl Ferguson e dell'omicidio finché vorremo.» Cowart ascoltò quella voce regolare e tranquilla. Il tenente era il tipo d'uomo in grado di trasformare un suggerimento in una richiesta con il semplice abbassamento del suo tono di voce. «D'accordo.» Ripassò la cornetta all'investigatore Wilcox, che ascoltò per qualche istante. «Sei sicuro che lo stiano aspettando?» disse poi. «Non
vorrei che...» aggiunse, per poi subito iniziare a muovere il capo in cenno di assenso, come se l'altro potesse vederlo. Infine riappese. «Bene» annunciò. «È giunto il momento della visita guidata. Ha dei jeans e un paio di stivali in albergo? Il posto dove la sto per portare non è troppo carino.» Cowart annuì e seguì il piccolo investigatore, che percorse il corridoio saltellando con una sorta di malizioso entusiasmo. Nell'auto-civetta dell'investigatore, attraversarono la luce brillante del sole mattutino. Wilcox abbassò il suo finestrino, lasciando che l'aria calda invadesse l'abitacolo. Tra sé e sé canticchiava in continuazione i motivi di diverse canzoni country e western. Di tanto in tanto si lanciava nel canto di qualche lamentoso verso, "Mamma non lasciare che tuo figlio diventi un investigatore...", rivolgendo a Cowart un gran sorriso. Il giornalista guardava in lontananza alla campagna, turbato. Si sarebbe aspettato, da parte dell'investigatore, una reazione rabbiosa, un'esplosione di animosità e di frustrazione. Sapevano la ragione della sua presenza. Sapevano cos'aveva intenzione di fare. Il fatto che lui fosse lì non poteva significare altro che un problema per loro; specialmente nel momento in cui avrebbe scritto che avevano torturato Ferguson per ottenere la confessione. E invece, quello stava canticchiando. «Allora, mi dica» domandò finalmente Wilcox svoltando in una strada ombreggiata. «Che ne pensa di Bobby Earl? È andato su a Starke, giusto?» «Mi ha raccontato una storia interessante.» «Ci credo. Ma che impressione le ha fatto?» «Non lo so. Non ancora.» Era una menzogna, si rese conto Cowart, ma non sapeva quanto grave. «Be', io l'ho inquadrato in cinque secondi. Appena l'ho visto.» «È più o meno quello che dice anche lui.» L'investigatore scoppiò in una singola, fulminea risata. «Naturalmente, scommetto che lui non pensa che io avessi ragione, vero?» «Vero.» «Lo immaginavo. Comunque, come se la passa?» «Abbastanza bene, a quanto pare. Ha il dente avvelenato» rispose Cowart. «È comprensibile. Ma che aspetto ha?» «Non è pazzo, se è questo che vuole sapere.» L'investigatore rise di nuovo. «No, non me lo vedo Robert Earl che di-
venta matto. Nemmeno nel braccio. È sempre stato un freddo figlio di, puttana. È rimasto glaciale fino all'ultimo, fino a quando il giudice gli ha detto dove sarebbe finito.» Wilcox sembrò pensieroso per un istante, quindi scosse il capo per scacciare un ricordo improvviso. «Sa, signor Cowart, è stato così fin dal primo istante in cui l'abbiamo preso. Non un battito di ciglia, non una parola su quanto era successo, fino al momento in cui finalmente ci ha detto tutto. E anche mentre confessava, era sicuro di sé. Solo i fatti, Cristo. Era come se stesse parlando di qualcosa di non troppo diverso dallo schiacciare un insetto. Quella notte sono tornato a casa e mi sono preso una tale sbronza, che Tanny è stato costretto a passare da me a mettermi a letto. Mi aveva spaventato.» «Quella confessione mi interessa molto» disse Cowart. «Me lo aspettavo. Non è tutta lì la faccenda?» Scoppiò a ridere. «Be', dovrà aspettare Tanny. Poi le racconteremo tutta la storia.» "Ci credo che lo farete" pensò Cowart. «Dunque ne è stato spaventato» domandò a voce alta. «Non si trattava tanto di lui, quanto di quello che sarebbe stato capace di fare.» L'investigatore non aggiunse particolari a quanto aveva affermato. Prese una svolta, e Cowart notò che si erano avvicinati alla scuola, nel punto in cui era avvenuto il rapimento. «Inizieremo qui» dichiarò Wilcox. Arrestò l'auto sotto un salice scuro. «Qui è il punto in cui lei sale a bordo. Ora faccia attenzione.» Prontamente fece ripartire l'auto, svoltò veloce a destra, quindi subito a sinistra, immettendosi in una lunga strada percorsa sul lato da case a un piano, situate a distanza, fra i pini e i boschetti di arbusti. «Vede, stiamo ancora procedendo verso la casa di Joanie, dunque non c'è ancora niente per cui la piccola si debba spaventare. Ma siamo già al riparo dagli sguardi di chiunque sia rimasto a scuola. Ora stia attento.» Fermò l'auto a uno stop in corrispondenza di un incrocio a Y. Lungo una strada vi erano altre case, situate a maggiore distanza l'una dall'altra. Lungo l'altro ramo della biforcazione si trovava soltanto qualche decrepita baracca, affacciata su un campo di grano abbandonato di colore gialloverde e un granaio marrone il cui tetto aveva ceduto nel mezzo, sul limitare di un buio tunnel formato dall'invasione di una foresta e di una palude inarrestabili e impazzite. «Lei avrebbe voluto andare da quella parte» spiegò l'investigatore, indicando le case. «Ma lui è andato dall'altra parte. Penso che sia
proprio qui che lui l'ha stesa per la prima volta...» L'investigatore strinse la mano a pugno e fece finta di colpire Cowart. «Lui è forte, forte come un maledetto cavallo. Non sarà grande e grosso, ma è abbastanza grande per occuparsi di una ragazzina di undici anni. L'avrà presa di sorpresa. La tira giù, poi schiaccia a manetta...» In quell'istante, tutta la bonaria allegria che aveva caratterizzato il comportamento dell'investigatore svanì. Con un singolo gesto feroce, Wilcox allungò improvvisamente il braccio e afferrò Cowart per la spalla. Allo stesso tempo pigiò a fondo l'acceleratore, e l'auto partì di scatto, sbandando brevemente nel terriccio e nel fango umido. Mentre le sue dita stringevano Cowart in una morsa tenace, trascinandolo giù dal sedile e facendogli perdere l'equilibrio, Wilcox fece svoltare l'auto lungo il ramo sinistro della biforcazione. Cowart gridò, un misto grugnente di sorpresa e di paura, mentre combatteva per aggrapparsi al bracciolo dell'auto impazzita. L'auto deviò, slittando a una svolta, e Cowart fu proiettato contro la portiera. La stretta dell'investigatore si fece più ferma. Stava gridando anche lui, ruggiva frasi senza senso, rosso in volto per lo sforzo. Nello spazio di pochi secondi superarono le baracche, lanciati su una strada tanto sconnessa da sembrare un'asse per lavare, e scomparvero nelle ombre fredde proiettate dalla foresta avvolgente. Gli alberi scuri parevano balzare loro addosso, mentre si proiettavano in avanti. La velocità era vertiginosa. Il motore saliva di giri e ululava, e Cowart si bloccò, sicuro di essere sul punto di morire sfracellato. «Gridi!» ordinò brusco l'investigatore. «Cosa?» «Avanti, gridi!» urlò. «Chiami aiuto, maledizione!» Cowart fissò il volto arrossato e lo sguardo folle dell'investigatore. Entrambe le loro voci erano alterate nel tentativo di farsi sentire sopra il rimbombante baccano del motore e il raschiare delle gomme sulla strada. «Mi lasci!» gridò Cowart. «Cosa diavolo sta facendo?» Ombre e rami gli si precipitavano contro, balzando dai lati della strada come un branco di bestie feroci. «Si fermi, dannazione, si fermi!» Improvvisamente, Wilcox mollò la presa, afferrò il volante con entrambe le mani e contemporaneamente pigiò con forza sui freni. Cowart allungò il braccio davanti a sé per evitare di essere proiettato contro il parabrezza, mentre l'auto strideva e sbandava fino a fermarsi. «Fatto» annunciò l'investigatore. Respirava con affanno. Le mail) gli
tremavano. «Che diavolo...?» gridò Cowart. «Stava cercando di ucciderci entrambi?» L'investigatore non rispose. Si limitò a tirare indietro il capo, inspirando rapidamente, nel tentativo di riacquistare il controllo che gli era sfuggito in quella corsa selvaggia; quindi si voltò verso Cowart, fissandolo con i piccoli occhi ridotti a due fessure. «Si rilassi, caro il mio signor giornalista» disse in tono fermo. «Dia un po' un'occhiata in giro.» «Gesù, ma cosa significava quella messa in scena?» «Stavo soltanto mostrandole un po' di realtà.» Cowart inspirò profondamente. «Guidando come un pazzo e cercando di ammazzarci?» «No» rispose lentamente l'investigatore. Quindi si aprì in un gran sorriso, facendo scintillare la bianca e regolare dentatura. «Volevo solo farle vedere quanto facile sia stato per Ferguson portare la piccola dalla civiltà a questa giungla del cazzo. Si guardi intorno. Pensa ci sia qualcuno che la possa udire mentre chiama aiuto? Guardi dove siamo, Cowart. Cosa vede?» Cowart scrutò fuori dal finestrino e vide la palude scura, e tutt'intorno la foresta che pareva calare su di lui come un sudario. «Vede qualcuno in grado di aiutarla?» «No.» «Vede qualcuno in grado di aiutare una ragazzina di undici anni?» «No.» «Lo vede dove si trova? Lei è all'inferno. Ci vogliono solo cinque minuti. Tutto qui. E la civiltà è sparita. Questa è la giungla del cazzo. Capito?» «Capito.» «Volevo solo che la vedesse con gli occhi di Joanie Shriver.» «Capito.» «Bene» disse l'investigatore, sorridendo di nuovo. «È successo così in fretta. E poi lui l'ha portata ancora più in là. Andiamo.» Wilcox scese dall'auto e si diresse verso il bagagliaio. Lì giunto, ne tirò fuori due paia di ingombranti stivaloni di gomma e ne lanciò un paio a Cowart. «Le serviranno.» Cowart iniziò la complicata manovra di vestizione. A un certo punto guardò in basso. All'improvviso si piegò e tastò il terreno. Quindi si avvicinò al retro dell'auto della polizia e si fermò accanto all'investigatore. Inalò un profondo respiro, sorridendo tra sé e sé. "D'accordo" pensò "siamo in
due a giocare". «Tracce di gomme» disse di colpo, indicando il terreno con il dito. «Cosa dice?» «Tracce di gomme, cazzo. Guardi il fango. Se l'ha portata fin qui con l'auto, avrebbe lasciato delle tracce. E avreste potuto compararle con quelle delle sue gomme. O voi cowboy non conoscete questo genere di cose?» Wilcox sorrise, rifiutandosi di abboccare. «Era maggio. Il fango diventa polvere.» «Non qua sotto.» L'investigatore fece una pausa, fissando il giornalista. Quindi scoppiò a ridere, il volto attraversato da una smorfia ironica. «Mica stupido, eh?» Cowart non rispose. «I giornalisti locali non sono così brillanti. Nossignore.» «Non cerchi di adularmi. Come mai non avete trovato tracce di gomme?» «Perché l'area era stata battuta in lungo e in largo dal personale di soccorso e dalle maledette squadre di ricerca. È stato uno dei più grossi problemi che abbiamo avuto fin dall'inizio. Non appena si è sparsa la voce che era stata ritrovata, tutti si sono gettati a pesce in questo posto. E dico tutti. E hanno calpestato la scena del delitto fino a renderla una poltiglia. Prima che io e Tanny arrivassimo, era un casino dannato. Pompieri, conducenti di ambulanza, boy-scout, Cristo, chiunque. Non c'è stato il minimo controllo. Nessuno ha lasciato le cose come stavano. Quindi supponiamo che avessimo trovato una traccia di gomme. L'orma di una scarpa. Un pezzo di tessuto lacerato impigliato in un rovo, qualcosa. Non avevamo alcun modo di confrontarlo. Quando siamo arrivati qui, questo posto era pieno di gente. Diavolo, avevano perfino spostato il corpo dal posto in cui l'avevano trovato, l'avevano tirata a riva.» L'investigatore ci pensò sopra per un istante. «Non posso nemmeno fargliene una colpa» proseguì. «La gente era impazzita per quella ragazzina. Non sarebbe stato un gesto cristiano lasciarla nella palude, in pasto alle tartarughe.» "La cristianità non ha nulla a che vedere con un caso come questo" pensò Cowart. "C'è solo il male". «E così hanno mandato tutto a puttane?» chiese invece a voce alta. «Sì.» L'investigatore lo guardò. «Non lo voglio vedere scritto sul giornale. Voglio dire, può scrivere che la scena era un disastro. Ma non voglio leggere "L'investigatore Wilcox ha dichiarato che la scena era un casino..."
ma sì, è esatto, era proprio così.» Cowart osservò l'investigatore scivolare negli stivaloni. Si ricordò di un'altra massima di Hawkins: "se guardi attentamente, la scena del delitto ti dice tutto". Ma Wilcox e Brown non avevano avuto alcuna scena del delitto. Non avevano avuto alcuna prova che non fosse ormai contaminata. E dunque avevano dovuto ottenere l'unica altra cosa che li avrebbe potuti condurre davanti a una giuria: una confessione. L'investigatore si strinse i lacci e rivolse un cenno a Cowart. «Avanti, ragazzo di città. Lasci che le mostri un bel posto per morire.» S'incamminò verso la macchia, facendo frusciare a ogni passo gli stivaloni contro i cespugli. Il luogo in cui Joanie Shriver aveva incontrato la morte era buio e racchiuso da sterpi e rampicanti aggrovigliati, da rami incombenti che impedivano l'accesso ai raggi del sole, come una caverna scavata dalla natura. Era una piccola radura a circa tre metri dalla riva della palude, la quale era sempre in agguato con le sue acque nere e il suo fango, e si allontanava sempre più dalla foresta. Nel tentativo di farsi strada tra i rovi, Cowart si era riempito le mani e il volto di graffi. Avevano percorso a malapena cinquanta metri dall'auto, ma era stato un percorso difficile. Cowart sudava copiosamente, e il sudore gli colava negli occhi, facendoli bruciare. Ebbe l'impressione che la minuscola radura emanasse, in qualche strano modo, un senso di malattia. Per un terribile istante si figurò sua figlia in quel luogo, e trattenne il respiro. "Fagli una domanda difficile" si disse guardando l'investigatore. Qualcosa per rompere la viscida stretta con cui la sua immaginazione l'aveva imprigionato. «Come ha fatto a trasportare fin qui una ragazzina scalciante e sbraitante?» domandò Cowart lentamente. «Secondo noi lei era in stato d'incoscienza. Un peso morto.» «E come mai?» «Nessun segno di ferite difensive sulle mani e sulle braccia...» L'investigatore portò le braccia davanti al volto, incrociandole a mo' di dimostrazione. «Come se stesse lottando contro il coltello. Nessun segno di lotta, come dei frammenti di pelle sotto le unghie. C'era solo una contusione piuttosto grossa sul lato del cranio. Il patologo ha concluso che lei fosse stata colpita molto presto. Meglio così in un certo senso. Almeno non si è resa conto di quanto le stava succedendo.» Wilcox si portò a fianco di un tronco d'albero e indicò verso il basso.
«Qui abbiamo trovato i suoi vestiti. La cosa incredibile è che erano tutti belli in ordine, ripiegati.» Si allontanò di qualche passo, giunse di nuovo al centro della radura. Sollevò lo sguardo, quasi nel tentativo di scorgere un po' di cielo attraverso i rami incombenti, scosse il capo, quindi rivolse un cenno a Cowart. «Qui è dove abbiamo trovato i maggiori residui di sangue. L'ha uccisa proprio qui.» «Come mai l'arma del delitto non è mai stata trovata?» L'investigatore si strinse nelle spalle. «Si guardi attorno. Abbiamo setacciato tutta la zona. Abbiamo usato un metal detector. Niente. O l'ha gettata via in un altro posto, oppure non ne ho idea. Vede, lei potrebbe benissimo camminare fino alla riva della palude, prendere un coltello, ficcarlo nel fango a trenta, quaranta centimetri di profondità. Non lo troveremmo mai. A patto di non inciamparci sopra.» L'investigatore fece qualche passo attraverso la radura. «Qui c'era una piccola traccia di sangue. L'autopsia ha stabilito che lo stupro è stato perpetrato prima che morisse. E anche la metà delle ferite. Ma un bel po' furono fatte dopo. Come se fosse impazzito vedendo che era morta, ha continuato a tagliarla e a sfregiarla. Comunque, quando ha finito l'ha trascinata quaggiù e l'ha scaricata in acqua.» Indicò la riva della palude. «L'ha spinta sotto, l'ha sistemata al riparo di quelle radici laggiù. Non la si poteva vedere se non esattamente da sopra. Ci ha sistemato anche qualche ramo tagliato. Siamo stati fortunati a ritrovarla così in fretta. Diavolo, una vera fortuna ritrovarla, punto e basta. Quei ragazzi se la sarebbero lasciata dietro come niente, se a uno dei due un ramo non avesse fatto cadere il cappello per terra. Quando si è piegato per recuperarlo, l'ha vista laggiù. Pura e semplice, stupidissima fortuna, davvero.» «E i vestiti di Ferguson? Non avrebbe dovuto esserci qualche traccia? Sangue o capelli o qualcosa del genere?» «Dopo la confessione, abbiamo messo sottosopra casa sua, senza trovare nulla.» «E lo stesso per l'auto. Avrebbe dovuto esserci qualcosa.» «Quando lo abbiamo preso, il figlio di puttana ci stava proprio dando gli ultimi colpi di spazzola. L'aveva strofinata ben bene. C'era anche un pezzo del tappetino del passeggero che era stato tagliato via. Sparito. Comunque, tutta la macchina brillava come nuova. Non abbiamo trovato niente.» L'investigatore si passò la mano sulla fronte, quindi esaminò il sudore sui pol-
pastrelli. «Qui non abbiamo la stessa dimestichezza con la medicina legale che avete voi gente delle grandi città, in ogni caso. Voglio dire, non che siamo nel Medioevo o qualcosa del genere, ma le analisi di laboratorio quassù sono lente e non del tutto affidabili. Potrebbe esserci stato qualcosa che un vero professionista avrebbe potuto rintracciare con quegli spettrografi dell'FBI. Ma noi non siamo in grado. Abbiamo cercato in tutti i modi, ma niente.» Fece una pausa. «Be', veramente qualcosa abbiamo trovato, ma non ci ha aiutato affatto.» «Di che si trattava?» «Un pelo pubico. Il problema era che non corrispondeva con quelli di Joanie Shriver. E non era nemmeno di Ferguson.» Cowart scosse il capo. Poteva sentire il caldo, la densità dell'aria giungere quasi a soffocarlo. «Ma avendo confessato, come mai non vi ha detto dove si trovavano i vestiti? Perché non vi ha indicato dove aveva nascosto il coltello? Che senso c'è nello strappare una confessione se non quello di ottenere tutti i dettagli?» Wilcox, rosso in volto, fulminò Cowart con lo sguardo. Iniziò a dire qualcosa, ma subito si bloccò, trattenendosi, lasciando che le domande aleggiassero nell'aria calda e immobile della radura. «Muoviamoci» disse. Si voltò e s'incamminò, non curandosi nemmeno di controllare se Cowart lo stesse seguendo. «C'è un altro posto dove dobbiamo andare.» Cowart lanciò un'ultima occhiata al luogo del delitto. Voleva marchiarlo a fuoco nella propria memoria. Con un misto di eccitazione e di disgusto si incamminò sulle tracce dell'investigatore. L'investigatore parcheggiò l'auto di fronte a una casetta non molto diversa dalle altre di quell'isolato. Era bianca, a un piano, con un cortile ben curato e un garage a fianco. Un piccolo sentiero di mattoni rossi si allungava fino al marciapiede. Cowart poteva vedere una veranda sul retro, e sul lato una griglia per il barbecue. Un alto pino riparava la casa dalla calura del giorno, proiettando sulla facciata la sua grande ombra. Non sapendo dove si trovassero, né perché si fossero fermati, diede le spalle alla casa e fronteggiò l'investigatore. «La sua prossima intervista» dichiarò Wilcox. Era rimasto in silenzio fin da quando avevano abbandonato la scena del delitto, e ora una sfumatura di durezza si era fatta strada nel suo tono di voce. «Se se la sente.» «Di chi è questa casa?» domandò Cowart a disagio.
«Di Joanie Shriver.» Cowart inspirò profondamente. «Questo è...» «Stava tornando qui. Non ci è mai arrivata.» Controllò il suo orologio. «Tanny li ha avvisati che saremmo stati qui alle undici e siamo un po' in ritardo, dunque ci conviene darci una mossa. A meno che...» «A meno che?» «A meno che l'intervista non le interessi.» Cowart guardò l'investigatore, quindi la casa, infine nuovamente il poliziotto. «Ho capito» disse. «Volete vedere quanta compassione provo per loro, vero? Avete già concluso che avrò la mano leggera con Robert Earl Ferguson, e quindi questo fa parte di un esame, vero?» L'investigatore evitò di guardarlo in faccia. «Vero?» Wilcox si voltò di scatto sul sedile e fissò il suo sguardo su di lui. «Quello che non ha ancora capito, signor Cowart, è che quel figlio di puttana ha ucciso la ragazzina. Ora, vuole rendersi conto di cosa questo significhi, oppure no?» «Generalmente pianifico io le mie interviste» rispose Cowart, molto più pomposamente di quanto avrebbe voluto. «Allora vuole andarsene? E tornare magari quando le risulterà più comodo?» Si rese conto che era quello che l'investigatore voleva. Wilcox desiderava con tutte le forze avere ogni ragione al mondo per odiarlo, e questa avrebbe rappresentato un inizio perfetto. «No» rispose, aprendo la portiera. «Andiamo a parlarci.» Sbatté la portiera alle sue spalle e camminò a rapidi passi sul sentiero di mattoni, quindi suonò il campanello mentre Wilcox correva per raggiungerlo. Per qualche istante udì dei suoni strascicati provenire da dietro la porta, quindi questa si aprì. Si ritrovò a fissare in volto una donna di mezz'età dall'inconfondibile aria da casalinga. Era poco truccata, ma quella mattina aveva evidentemente speso del tempo a mettersi in ordine i chiari capelli castani. Le circondavano il volto come un'aureola. Indossava una semplice veste da casa marrone rossiccia e un paio di sandali. I suoi occhi erano azzurri chiari, e per un istante Cowart riconobbe il mento, le gote, il naso della ragazzina nel volto della madre, che lo guardava in attesa. Allontanò la visione e si presentò. «Signora Shriver? Sono Matthew Cowart, del Miami Journal. Il tenente Brown dovrebbe averla informata...» Lei annuì, interrompendolo. «Sì, sì, si accomodi, la prego, signor Co-
wart. Per favore, mi chiami Betty. Tanny ha detto che l'investigatore Wilcox l'avrebbe accompagnata qui stamattina. Sta scrivendo un articolo su Ferguson, lo sappiamo. Mio marito è a casa, la prego, vorremmo parlarle.» La sua voce possedeva un'affabile piacevolezza che non riusciva a nascondere l'ansietà. "Si tiene strette le parole" pensò Cowart "perché non vuole ancora perderle nel mare dell'emozione. Ma le perderà" concluse seguendo la donna in casa. La madre della ragazzina assassinata condusse Cowart lungo un piccolo corridoio fino al salotto. Lui si rese conto che Wilcox lo stava seguendo, ma lo ignorò. Quando fecero il loro ingresso nel locale, da una poltrona reclinabile si alzò un uomo corpulento, panciuto, semicalvo. Lottò per qualche istante per sollevarsi, quindi fece un passo avanti e strinse la mano di Cowart. «Sono George Shriver» disse. «Sono felice che ci abbia dato questa opportunità.» Cowart annuì e diede una veloce occhiata intorno, cercando di fissare i dettagli nella memoria. Anche l'interno della casa era ordinato e moderno. I mobili erano di semplice fattura, e stampe colorate decoravano le pareti. Tutto possedeva una certa intima casualità, come se ogni singolo elemento dell'arredamento fosse stato acquistato indipendentemente dagli altri, ed esclusivamente perché era piaciuto, non necessariamente perché potesse accostarsi agli altri. L'impressione generale era leggermente sconnessa, ma particolarmente confortevole. Una parete era dedicata alle fotografie di famiglia, e lo sguardo di Cowart si fissò su queste ultime. La stessa immagine di Joanie che aveva visto alla scuola era appesa al centro della parete, circondata da altre fotografie. Notò la presenza di un fratello e di una sorella maggiori, oltre ai soliti ritratti di famiglia. George Shriver aveva seguito il suo sguardo. «I nostri due altri ragazzi, George junior e Anne, sono al college. Tutt'e due frequentano la University of Florida. Probabilmente avrebbero voluto essere qui» spiegò. «Joanie era la più piccola» intervenne Betty Shriver. «A questo punto starebbe per iniziare il liceo.» All'improvviso la donna trattenne il respiro e le sue labbra iniziarono a tremare. Cowart la vide combattere, spostando lo sguardo dalle fotografie. Il marito allungò una mano grossa e carnosa e la guidò gentilmente fino al divano, facendola sedere. Ma lei si rialzò immediatamente. «Signor Cowart, mi perdoni» disse. «Che fine hanno fatto le mie buone maniere? Posso offrirle qualcosa da bere?» «Dell'acqua ghiacciata sarebbe perfetta» rispose Cowart, dando le spalle alla parete dei ritratti e fermandosi di fianco a una poltrona. La donna sparì
per qualche istante. Cowart rivolse a George Shriver una domanda innocua, qualcosa che servisse a dissipare la cappa di angoscia che era calata sulla stanza. «Lei è un membro del consiglio comunale?» «Ex» rispose lui. «Ora passo il mio tempo giù al negozio. Sono proprietario di un paio di negozi di ferramenta, uno qui a Pachoula, l'altro sulla strada per Pensacola. Mi tengono occupato. Specialmente in questo periodo, in attesa della primavera.» Fece una pausa, poi proseguì. «Ex consigliere. Un tempo ero interessato a quelle faccende, ma tutto è finito quando Joanie ci è stata strappata via, e noi abbiamo dovuto passare tutto quel tempo al processo e tutto il resto, e la cosa in un certo senso è come se mi fosse scivolata via da sotto i piedi, e non mi ci sono più rimesso. È successo così per tante cose. Se non avessimo avuto gli altri due, George junior e Anne, credo che non saremmo andati avanti. Non so cosa sarebbe potuto succederci.» La signora Shriver rientrò in salotto e porse a Cowart un bicchiere di acqua ghiacciata. Lui notò che aveva approfittato per rimettersi in ordine. «Mi dispiace di crearvi delle difficoltà» disse. «No. Meglio esprimere quello che sentiamo che nasconderlo» rispose George Shriver. Si sedette sul divano a fianco della moglie, cingendola con un braccio attorno alle spalle. «Il dolore non scompare mai» continuò. «Forse si fa più sordo, capisce, come se non fosse più così tagliente da tormentarti tutto il tempo. Ma le piccole cose lo riportano in superficie. Magari sono seduto sulla poltrona, e sento la voce di una bambina dei vicini, lontana, e per un attimo penso che possa essere lei. E questo fa male, signor Cowart. Questo è il vero dolore. O magari vengo qui al mattino per farmi un po' di caffè, e mi siedo a fissare quelle fotografie, come ha appena fatto lei. E tutto quello a cui riesco a pensare è che non sia successo, nossignore, che prima o poi lei uscirà saltellando dalla sua stanza, proprio come faceva sempre, solare e felice e pronta a gettarsi nel giorno, perché è così che lei era. Preziosa.» Mentre parlava, gli occhi di quell'uomo gigantesco si velarono di lacrime; la voce, al contrario, rimase ferma. «Vado in chiesa un po' più di frequente di quanto non facessi prima; mi è di conforto. E le cose più stupide, signor Cowart, sono quelle che mi fanno più soffrire. Ho visto un servizio speciale in televisione, l'anno scorso, parlavano dei bambini che muoiono di fame in Etiopia. Insomma, è esattamente dall'altra parte del mondo, e diavolo, per quanto mi riguarda io
non sono mai andato più in là della Florida del nord, a parte il servizio militare. Ma ora, ogni mese mando dei soldi alle organizzazioni di aiuto. Cento qui, cento là. Non potevo sopportarlo, capisce, il pensiero che dei bambini sarebbero morti soltanto perché non avevano abbastanza cibo. Odiavo l'idea. Pensavo a quanto amassi la mia bambina, e al fatto che lei mi fosse stata portata via. E dunque suppongo di farlo per lei. Devo essere pazzo. Magari sono al negozio, sto lavorando sulle fatture, e comincia a farsi tardi, e mi ricordo di quelle volte che stavo al lavoro fino a tardi e non tornavo a casa per cenare coi ragazzi, arrivavo tardi e loro erano già addormentati, specialmente la mia bambina, e io entravo in camera sua e la vedevo dormire. È un ricordo che odio, perché mi fa pensare di aver perso una sua risata, o uno dei suoi sorrisi, e ce ne sono stati così pochi da renderli preziosi, sa. Come piccoli diamanti.» George Shriver portò indietro il capo, fissando il soffitto. Respirava a fatica e sudava copiosamente; la sua camicia bianca si sollevava e si riabbassava, mentre lui lottava per riacquistare il fiato e combatteva con i ricordi. La moglie si era fatta silenziosa, ma gli occhi le si erano arrossati, e le mani le tremavano in grembo. «Non siamo gente particolare, signor Cowart» disse lentamente. «George ha lavorato sodo e ha messo su qualcosa di suo, in modo che i ragazzi abbiano meno difficoltà. George junior farà l'ingegnere. Anne è una meraviglia in chimica e in tutte le materie scientifiche. Ha la possibilità di proseguire con medicina.» Lo sguardo della donna brillò di un orgoglio improvviso. «Riesce a immaginarlo? Un dottore che esce da questa famiglia. Ci siamo soltanto limitati a lavorare sodo per dare loro la possibilità di essere qualcosa di meglio, capisce.» «Mi dica» domandò con delicatezza Cowart «cosa pensa di Robert Earl Ferguson?» Vi fu un silenzio spesso e fragoroso mentre i due coniugi raccoglievano i pensieri. Cowart vide Betty Shriver fare un profondo respiro prima di rispondere. «È un odio che va molto al di là dell'odio» disse. «È un'orribile rabbia anticristiana, signor Cowart. È solo una nera, terribile, profonda rabbia che non scompare mai.» George Shriver scosse il capo. «C'è stato un momento in cui l'avrei ucciso io stesso, così facile, non ci avrei pensato sopra più di quanto lei non faccia quando si schiaccia una zanzara sul braccio. Ma non so se è ancora così. Capisce, signor Cowart, qui viviamo in una comunità conservatrice. La gente va in chiesa. Fa il saluto alla bandiera. Prega prima di iniziare a
mangiare e vota repubblicano, ora che i democratici sembrano aver dimenticato perché esistano. Penso che se prendesse dieci persone dalla strada, le direbbero tutti, no, non date la sedia elettrica a quel ragazzo, consegnatecelo e lasciate che ce ne occupiamo noi. Cinquant'anni fa, sarebbe stato linciato. Diavolo, anche meno di cinquanta. Le cose sono cambiate, penso. Ma più vado avanti, più mi convinco che siamo stati noi a essere condannati, non lui. I mesi passano. Gli anni passano. Lui ha tutti questi avvocati al suo servizio, e noi veniamo informati di un altro appello, di un'altra udienza, o qualcos'altro ancora e tutto ci ritorna in mente. Non abbiamo mai la possibilità di lasciarcelo alle spalle. Non che si possa, mi creda. Ma almeno dovremmo avere la possibilità di metterlo da parte e proseguire con quanto ci rimane della nostra vita, anche se è diventato tutto così malato e sbagliato.» Sospirò e scosse il capo. «È come se stessimo vivendo in una specie di prigione, proprio di fianco a lui.» Cowart attese qualche secondo. «Ma' sapete quello che sto facendo?» domandò infine. «Sissignore» risposero all'unisono marito e moglie. «Ditemi quello che sapete» insistette Cowart. Betty Shriver si chinò in avanti. «Sappiamo che sta esaminando il caso. Per vedere se c'è stata qualche ingiustizia. È così?» «Non poteva andarci più vicina.» «Che tipo di ingiustizia pensa che vi sia stata?» domandò George Shriver. La frase fu pronunciata con dolcezza, con curiosità, senza rabbia. «Be', era questa la domanda che avevo intenzione di farvi. Che ne pensate del processo e di come si è svolto?» «Penso che quel figlio di puttana è stato condannato, ecco cosa...» rispose l'uomo, il tono di voce improvvisamente alterato. Ma sua moglie gli posò la mano su una gamba, e subito lui sembrò calmarsi. «Abbiamo seguito tutto il processo, signor Cowart» intervenne Betty Shriver. «Ogni minuto. Lo abbiamo visto seduto lì. Si vedeva una specie di terrore nei suoi occhi, una sorta di disperata rabbia rivolta a tutti, mentre il processo andava avanti. Mi hanno detto che lui odiava Pachoula, e che odiava tutta la gente di qui, neri e bianchi, tutti. E quell'odio lo si poteva vedere ogni volta che si contorceva su quella sedia. E suppongo che se ne sia accorta anche la giuria.» «E le prove?» «Gli hanno domandato se l'aveva fatto, e lui ha risposto di sì. Ora, chi
avrebbe detto una cosa del genere, se non fosse stata vera? Ha detto che era stato lui. Parole sue. Che il diavolo gli strappi gli occhi. Parole sue.» Vi un altro silenzio, prima che George Shriver proseguisse: «Insomma, è chiaro che il fatto che non avessero scoperto niente altro su di lui mi abbia dato fastidio. Per ore e ore ne abbiamo parlato con Tanny e con l'investigatore Wilcox. Tanny si sedeva lì dove ora è seduto lei, una notte dopo l'altra. Ci hanno spiegato cos'era successo. Ci hanno fatto capire che il caso stava in piedi a fatica, fin dall'inizio. Soltanto dei colpi di fortuna hanno consentito di portarlo sotto processo. Diavolo, avrebbero perfino potuto non trovare mai il corpo di Joanie, anche quella è stata una fortuna. Ho sperato che avessero più prove, sissignore. Ho sperato. Ma ne avevano abbastanza. Avevano le parole del ragazzo, e per quanto mi riguarda erano sufficienti.» "Certo" pensò Cowart. «Scriverà un articolo?» domandò in tono sommesso Betty Shriver dopo qualche secondo. Coward annuì. «Non sono ancora sicuro di che tipo di articolo si tratterà» rispose. «Che succederà?» «Non lo so.» Lei si accigliò. «Lo aiuterà, vero?» insistette. «Non posso dirlo con sicurezza» rispose lui. «Ma è difficile che peggiori la sua situazione, giusto?» Lui annuì di nuovo. «È vero. Dopotutto, si trova nel braccio della morte. Cos'ha da perdere?» «Vorrei che ci stesse» disse lei. Quindi si alzò in piedi e gli fece cenno di seguirla. Percorsero un corridoio, raggiungendo un lato della casa. Lei si fermò davanti a una porta chiusa, appoggiando la mano sulla maniglia senza aprirla. «Spero che rimanga laggiù fino al momento in cui incontrerà il Creatore. È in quel momento che dovrà veramente rendere conto di tutto l'odio che ci ha strappato la nostra bambina. Non vorrei vivere la sua vita, nossignore, niente affatto. Ma ancora meno vorrei provare la sua morte. Ma lei faccia quello che deve fare, signor Cowart. Solo si ricordi di questo.» E aprì la porta. Lui guardò all'interno e vide la camera di una ragazzina. La carta da parati era rosa e bianca, e un morbido merletto percorreva gli orli del letto. Vi erano animali di pelouche dai grandi occhi tristi, e due grandi decora-
zioni dai colori brillanti pendevano dal soffitto. Alle pareti erano appesi dei ritratti di ballerine e un grosso manifesto di Mary Lou Retton, la ginnasta. Vi era una libreria piena di libri. Ne scorse qualche titolo: Misty di Chincoteague, Bellezza nera, Piccole donne. Appoggiata sulla cassettiera, una fotografia ritraeva Joanie Shriver truccata e vestita come una tipica maschietta degli anni venti. Di fianco vi era una scatola riempita all'inverosimile di coloratissimi gioielli finti. In un angolo della stanza era stata sistemata una grande casa delle bambole, piena di piccole figure; un piumoso boa rosa pendeva dall'orlo del letto. «Era così, la mattina in cui ci ha lasciati per sempre. E sarà sempre così» disse la madre della ragazzina assassinata. Poi si voltò all'improvviso, gli occhi pieni di lacrime, i singhiozzi evocati dal cuore. Per qualche istante rimase a fissare la parete di fronte, le spalle rese tremanti dal pianto. Infine si allontanò barcollando, e sparì dietro un'altra porta, che si richiuse alle spalle, ma non abbastanza da coprire il pianto di dolore che invase la casa. Cowart rivolse lo sguardo al salotto e vide il padre della ragazzina assassinata, seduto, lo sguardo fisso nel vuoto, incapace di muoversi, mentre le lacrime gli rigavano il volto. Desiderò chiudere gli occhi, ma si trovò suo malgrado a fissare la stanzetta della ragazzina, affascinato e terrorizzato al tempo stesso. Gli oggetti, le cianfrusaglie, gli addobbi tipici di quell'età parevano aggredirlo, e per un attimo pensò di non poter più respirare. Ciascuno dei singhiozzi della madre pareva esercitare una pressione sul suo petto. Credette di svenire, ma riuscì a dare le spalle alla camera, conscio che non l'avrebbe mai più dimenticata, e voltò di scatto il capo verso l'investigatore Wilcox. Per un attimo cercò di scusarsi e di ringraziare George Shriver, ma si rese conto che le sue parole sarebbero state tanto vuote quanto il loro stesso dolore. Silenziosamente, in punta di piedi come uno ladro d'anime, si portò invece fuori dalla porta. Senza parole, Cowart sedeva nell'ufficio del tenente Brown. L'investigatore Wilcox era tornato dietro la scrivania, e rovistava in un voluminoso contenitore di documenti contrassegnato con il nome SHRIVER, ignorando il giornalista. Non si erano detti una parola da quando avevano lasciato la casa. Cowart guardò fuori dalla finestra e vide una grande quercia muoversi al soffio improvviso della brezza, i suoi rami ricoperti di foglie agitarsi come a disagio, per poi tornare nella posizione di partenza. Il suo sogno a occhi aperti venne interrotto quando Wilcox trovò quello che stava cercando, e gettò una busta gialla sulla scrivania di fronte a lui.
«Ecco qui. L'ho vista mentre guardava quella bella fotografia di Joanie Shriver sulla parete di casa sua. Pensavo che magari le sarebbe piaciuto vedere il suo aspetto dopo il trattamento di Ferguson.» Nel tono di voce dell'investigatore non vi era più alcuna finzione. Ogni parola pareva trattenuta da una forza appena sufficiente a impedirne l'esplosione. Lui prese la busta senza dire nulla, e fece scivolare fuori le fotografie. La prima era la peggiore: Joanie Shriver era distesa sul tavolo dell'obitorio, prima dell'autopsia. La sporcizia e il sangue ne deturpavano ancora i lineamenti. Era nuda, e il suo corpo di fanciulla iniziava appena a mostrare i primi segni dell'età adulta. Cowart vide gli sfregi e le pugnalate sul petto, concentrate attorno ai piccoli seni. Anche lo stomaco e il pube erano perforati in almeno una dozzina di punti. Non smise di fissare, chiedendosi se sarebbe stato male, concentrando lo sguardo sul volto della ragazzina. Pareva gonfio, e la pelle sembrava allentata, a causa delle ore passate sotto la superficie della palude. Per un istante pensò a quanti cadaveri avesse visto nelle dozzine di scene del delitto, nelle centinaia di fotografie d'autopsia dei processi che aveva seguito. Guardò nuovamente i resti di Joanie Shriver e vide che nonostante tutto il male che le era stato fatto, aveva conservato la sua identità di ragazzina. Perfino nella morte, le rimaneva dipinta in volto. Ciò sembrò arrecargli un dolore ancora più profondo. Iniziò a dare una scorsa alle altre fotografie, per la maggior parte immagini della scena dell'omicidio, che mostravano come la ragazzina fosse apparsa al momento del suo ritrovamento. Allo stesso tempo confermò a se stesso la verità di quanto aveva detto Bruce Wilcox. Attorno al piccolo corpo vi erano dozzine di impronte fangose. Proseguì a guardare le immagini, trovandovi sempre nuovi segni della contaminazione della scena del delitto, e alzò lo sguardo soltanto quando udì la porta aprirsi alle sue spalle, e Wilcox accogliere il nuovo arrivato: «Cristo, Tanny, come mai ci hai messo così tanto?» Cowart si alzò in piedi, voltandosi, e il suo sguardo incontrò quello del tenente Theodore Brown. «Piacere di conoscerla, signor Cowart» disse il poliziotto porgendogli la mano. Cowart la strinse, senza sapere che dire. In pochi secondi assimilò l'aspetto del poliziotto: Tanny Brown era immenso, della stazza di un difensore di rugby, decisamente al di sopra del metro e ottanta, aveva spalle larghe e braccia lunghe e muscolose. I capelli erano cortissimi e sul volto ri-
saltavano un paio di occhiali. Ma più che altro era nero, del colore scuro, profondo, risonante dell'onice. «Qualcosa non va?» domandò Tanny Brown. «No» rispose Cowart, riprendendosi. «Non sapevo che fosse di colore.» «Dico, voi ragazzi di città pensate che quassù siamo tutti poveracci bianchi come Wilcox?» «No. Mi ha solo colto di sorpresa. Mi spiace.» «Nessun problema. A dire la verità» proseguì il poliziotto nel suo tono di voce regolare, privo di inflessioni «sono abituato all'effetto-sorpresa. Ma se va a Mobile, a Montgomery o ad Atlanta, incontra molti più visi scuri che indossano un'uniforme di quanto possa aspettarsi. Le cose cambiano. Perfino nella polizia, sebbene dubiti che lei mi creda.» «Perché?» «Perché» rispose Brown, parlando con semplicità e chiarezza «lei è qui per un'unica ragione: ha creduto a tutte le stronzate che le hanno raccontato quel bastardo assassino e i suoi avvocati.» Cowart non rispose. Si limitò a riprendere posto sulla sedia, seguendo il tenente mentre si sedeva sulla poltrona in precedenza occupata da Wilcox. L'investigatore afferrò una sedia pieghevole e si sistemò a fianco del tenente. «Ci crede?» domandò bruscamente Brown. «Perché? È così importante per lei sapere cosa io creda?» «Be', potrebbe semplificare le cose. Potrebbe dirmi sì, credo che voi abbiate strappato la confessione al ragazzo a suon di botte, e non avremmo veramente molto di cui parlare. Io le risponderei che no, non l'abbiamo fatto, è una cosa assurda, e lei lo annoterebbe sul suo taccuino e tutto finirebbe lì. Lei scriverebbe il suo articolo e succederebbe quello che deve succedere.» «Allora non semplifichiamo» rispose Cowart. «Come immaginavo» commentò Brown. «Allora, cosa vuole sapere?» «Voglio sapere tutto. Dall'inizio. E specialmente voglio sapere cosa vi ha fatto pensare a Ferguson, e voglio sapere di quella confessione. E non tralasci nulla. Non è così che si esprimerebbe con qualcuno di cui sta per registrare la confessione?» Tanny Brown sistemò il suo possente corpo sulla poltrona e sorrise, ma non certo di soddisfazione. «Sì, sarebbe proprio così» rispose. Fece ruotare la poltrona, pensieroso, ma mai staccando lo sguardo da Cowart. «Robert Earl Ferguson era in cima alla lista dei sospetti fin dall'istante in
cui il corpo della ragazzina è stato ritrovato.» «Per quale ragione?» «Era sospettato di aver perpetrato altre violenze.» «Cosa? Non ne ero a conoscenza. Di che violenze si tratta?» «Violenze sessuali. Una dozzina nella contea di Santa Rosa e oltre, al confine con l'Alabama, vicino ad Atmore e a Bay Minette.» «Avete delle prove del suo coinvolgimento in questi casi di violenza?» Brown scosse il capo. «Nessuna prova. Fisicamente corrispondeva alla descrizione più dettagliata che siamo riusciti a mettere insieme, collaborando con gli investigatori di quelle cittadine. E tutte le violenze erano avvenute nei momenti in cui non era a scuola, o quando era quaggiù in vacanza a visitare sua nonna.» «Sì, e poi?» «E poi è tutto.» Cowart rimase in silenzio per qualche istante. «È tutto? Nessuna prova legale con la quale collegarlo a quelle violenze? Suppongo che abbiate mostrato la sua fotografia alle vittime.» «Sì. Nessuna è stata in grado di identificarlo.» «E il pelo trovato nella sua auto, il pelo che non corrispondeva con quelli di Joanie Shriver... l'avete confrontato con quelli delle vittime degli altri casi?» «Sì.» «E...?» «Non corrispondeva.» «Il modus operandi delle altre violenze è stato lo stesso del rapimento della piccola Shriver?» «No. Tutti avevano qualche somiglianza tra loro, ma anche aspetti che li differenziavano. In un paio di casi, per minacciare le vittime era stata usata una pistola, in altri un coltello. Un paio di donne erano state seguite fino a casa. Una stava facendo jogging. Nessuno schema comportamentale fisso.» «Le vittime erano bianche?» domandò Cowart. «Sì.» «Erano giovani come Joanie Shriver?» «No. Erano tutte adulte.» Prima di continuare con le domande, Cowart fece una pausa, valutando quanto aveva sentito. «Lo sa, tenente Brown, cosa indicano le statistiche dell'FBI sui casi di
violenza sessuale perpetrati da uomini neri su donne bianche?» «So che me lo dirà lei.» Cowart incalzò. «Meno del quattro per cento dei casi registrati a livello nazionale. È una rarità, nonostante gli stereotipi e la paranoia. Quanti casi del genere avete avuto a Pachoula prima di Robert Earl Ferguson?» «Nessuno che mi ricordi. E non mi faccia la lezioncina sugli stereotipi.» Brown rivolse a Cowart un'occhiata severa. Wilcox si agitò rabbiosamente sulla sedia. «Le statistiche non significano niente» aggiunse a voce bassa il tenente. «No?» domandò Cowart. «D'accordo. Ma lui era a casa in vacanza.» «Giusto.» «E nessuno lo amava particolarmente. Questo mi sembra di averlo capito.» «Giusto anche questo. Era un bastardo di un topo di fogna. Guardava tutti dall'alto in basso.» Cowart fissò il poliziotto. «Ha presente di quanto suoni stupido quello che ha appena detto? Una persona non molto popolare viene a far visita alla nonna e voi lo volete incastrare con l'accusa di reati sessuali. Ci credo che questo posto non gli piacesse.» Tanny Brown fu sul punto di rispondere con rabbia, ma si fermò. Per qualche secondo si limitò a guardare Cowart, come stesse cercando di penetrarlo con gli occhi. Infine rispose, scandendo le parole. «Sì. Ho presente quanto suoni stupido. Si vede che siamo gente stupida.» Gli occhi si erano trasformati in due taglienti fessure. Cowart si chinò sulla sedia, assumendo il suo tono più tranquillo e distaccato. "Non mi rendi nervoso" pensò. «Ma è per questo che come prima cosa siete andati a casa di sua nonna a cercarlo?» «Esatto.» Brown fu sul punto di aggiungere qualcosa, ma all'improvviso chiuse la bocca. Cowart sentiva la tensione che si era stabilita tra loro, e sapeva quello che il tenente stava per dire. Decise di dirlo per lui. «Perché se lo sentiva, vero? Il vecchio sesto senso del poliziotto. Un sospetto che si sentì in dovere di seguire. Era questo forse che voleva dire, vero?» Brown lo fulminò con lo sguardo. «Esatto. Sì. Esattamente.» Si fermò e spostò lo sguardo su Wilcox, infine nuovamente su Cowart. «Bruce mi aveva detto che lei era furbo» disse calmo «ma suppongo dovessi toccare con mano.»
Cowart rivolse al tenente la stessa occhiata che sentiva su di sé. «Non sono furbo. Sto solo facendo quello che farebbe anche lei.» «No, non è esatto» Brown rispose acido. «Io non cercherei di dare una mano a un bastardo assassino a uscire dal braccio della morte.» Il giornalista e il poliziotto rimasero in silenzio. «Non sta andando come dovrebbe andare» disse Brown dopo qualche istante. «Ha ragione, se il suo scopo è persuadermi che Ferguson mi ha mentito.» Brown si alzò in piedi e prese a percorrere a grandi passi l'ufficio, ovviamente concentrato. Si muoveva con una ruvida intensità, come uno scattista ai blocchi di partenza in attesa del colpo di pistola dell'inizio; i muscoli del suo corpo in continuo movimento fecero capire a Cowart quanto quell'uomo non gradisse la sensazione di essere imprigionato, né in una stanzetta, né da qualche dettaglio. «Aveva qualcosa che non andava» disse il poliziotto. «L'ho saputo fin dal primo momento che l'ho visto, molto prima che Joanie venisse uccisa. So che non è una prova, ma l'avevo capito.» «E quando è successo?» «Un anno prima dell'omicidio. L'ho sorpreso all'uscita della scuola. Stava seduto nell'auto e guardava le ragazzine che stavano uscendo.» «E lei che ci faceva laggiù?» «Andavo a prendere mia figlia. È stato allora che l'ho visto. E l'ho visto un altro paio di volte in altri posti, dopo quel giorno. E ogni volta, faceva qualcosa di strano. Come stare nel posto sbagliato al momento sbagliato. O procedere lentissimo in auto, seguendo una ragazza. Non sono il solo ad averlo notato. Due agenti di pattuglia di Pachoula sono venuti a raccontarmi le stesse storie. Una volta è stato preso, intorno a mezzanotte, dietro un piccolo condominio: se ne stava lì, in piedi. Aveva cercato di nascondersi quando la volante gli era passata di fianco. Le accuse sono cadute subito. Ma comunque...» «Ancora non ho sentito nulla che assomigli a una prova.» «Dannazione!» Il tono di voce del tenente si alterò per la prima volta. «Ma non sta ascoltando? Non ne avevamo. Tutto quello che avevamo erano impressioni. Come l'impressione che hai quando arrivi a casa di Ferguson, e lui è là fuori che strofina quella macchina e si è già sbarazzato di un pezzo di tappetino. Come quella che hai quando senti che la prima cosa che gli esce dalla bocca è "Non ho fatto fuori io la ragazzina", prima che
gli venga fatta anche solo una domanda. O quando vedi come si siede nella stanzetta degli interrogatori e ride perché sa che non hai nessuna prova. Ma tutte queste impressioni si assommano e diventano qualcosa che è più che istinto, perché alla fine lui parla. E sissignore, tutte queste impressioni si rivelano assolutamente giuste, perché lui confessa di avere ucciso la ragazzina.» «Allora dov'è il coltello? Dove sono i suoi abiti sporchi di sangue?» «Non ce l'ha voluto dire.» «Vi ha detto in che modo sorvegliava la scuola? In che modo l'ha convinta a salire sull'auto? Cosa le ha detto? Vi ha detto se lei ha lottato?» «Ecco, dannazione, se la legga!» Il tenente Brown afferrò dei fogli di carta dal raccoglitore sulla scrivania e li gettò a Cowart. Il giornalista li guardò e vide che si trattava della trascrizione della confessione, realizzata dallo stenografo del processo. Era corta, soltanto tre pagine. I due investigatori gli avevano letto i suoi diritti, con particolare evidenza per quello relativo alla nomina di un avvocato. La lettura dei diritti occupava più di una pagina della confessione. Gli avevano chiesto se avesse capito tutto e lui aveva risposto di sì. La prima domanda era stata formulata in perfetto poliziottese: "Dunque, intorno alle ore quindici del 4 maggio 1987, ebbe occasione di trovarsi all'angolo di Grant Street e Spring Street, nei pressi della King Elementary School?". Ferguson aveva risposto con un semplice "Sì". Gli investigatori gli avevano quindi domandato se avesse visto la giovane donna più tardi da lui identificata come Joanie Shriver, e di nuovo la sua risposta si era limitata al semplice monosillabo affermativo. Lo avevano poi accuratamente guidato attraverso l'intero scenario, ogni volta concludendo il loro racconto con una domanda, ogni volta ricevendo una risposta affermativa, ma mai elaborata nel seppur minimo dettaglio. Quando erano passati a chiedergli dell'arma del delitto e degli altri aspetti cruciali dell'assassinio, lui aveva risposto che non se ne ricordava. La domanda finale era destinata a stabilire se ci fosse stata premeditazione. Era quella che aveva portato Ferguson nel braccio della morte: "Quel giorno si recò sul posto con l'intento di rapire e uccidere una giovane donna?", al che lui aveva risposto nuovamente con un semplice, terribile "Sì". Cowart scosse il capo. Ferguson non aveva offerto nulla se non una sola breve parola, "Sì", ripetuta all'infinito. Sollevò lo sguardo verso Brown e Wilcox. «Non è esattamente quella che si definirebbe una confessione modello, no?»
Wilcox, che se ne era rimasto seduto a disagio, agitandosi nella sedia in preda a un'evidente, montante frustrazione, finalmente balzò in piedi, rosso in volto dalla rabbia, agitando i pugni in faccia al giornalista. «Cosa diavolo vuole? Dannazione, ha fatto fuori quella ragazzina, sicuro come il fatto che sto qui davanti a lei. Non vuole proprio sentire la verità, maledetto lei.» «Verità?» replicò Cowart scuotendo il capo. Wilcox sembrò esplodere. Schizzò via da dietro la scrivania, afferrò il bavero della giacca di Cowart, costringendolo ad alzarsi in piedi. «Mi sta facendo incazzare, stronzo! E non le conviene!» Tanny Brown proiettò la sua enorme mole oltre la scrivania, afferrando l'investigatore con una mano e strattonandolo all'indietro, riuscendo facilmente a controllare il nervoso collega, tanto più piccolo di lui. Non disse nulla, specialmente quando Wilcox si voltò verso di lui, suo superiore, farfugliando confuse parole di rabbia a malapena controllata. L'investigatore tentò di dirgli qualcosa, quindi si voltò verso Cowart. Infine, il respiro mozzato, le mani strette a pugno, si precipitò fuori dell'ufficio. Cowart si sistemò la giacca e si lasciò cadere sulla sedia. Respirava con affanno, sentendo l'adrenalina che gli pulsava nelle orecchie. Dopo qualche minuto di silenzio, volse lo sguardo verso Brown. «E adesso mi dirà che quello non ha picchiato Ferguson? Che non ha perso mai la pazienza nel corso di un interrogatorio di trentasei ore?» Il tenente fece una pausa, pensieroso, quasi stesse cercando di valutare il danno provocato dall'esplosione prima di rispondere. Quindi scosse il capo. «No, la verità è che lo ha fatto. All'inizio, un paio di volte, prima che riuscissi a fermarlo. Un paio di schiaffi.» «Nessun pugno nello stomaco?» «Che io sappia, no.» «E le guide del telefono?» «Una vecchia tecnica» rispose Brown con tristezza, in un tono di voce sempre più pacato. «No. Nonostante quello che sostiene Ferguson.» Per la prima volta il tenente gli volse le spalle, mettendosi a guardare fuori dalla finestra. Dopo un secondo o due, proseguì: «Signor Cowart, non credo di essere in grado di farle capire. La morte di quella ragazzina ci è entrata dentro e ci è rimasta. E per noi è stato ancora peggio. Siamo stati costretti a tirar fuori un caso, da tutta quella confusione di emozioni. Ci ha messo tutti sotto pressione. Non è stata la cattiveria a spingerci. Volevamo
che l'assassino venisse preso. Io non ho dormito per tre giorni filati. Nessuno di noi ha dormito. Ma c'era lui, qui, e sorrideva come se non fosse successo niente. Non posso farne una colpa a Bruce Wilcox. Credo che tutti fossimo sull'orlo del crollo. E anche allora, con la confessione... lei ha ragione, non è certo una confessione da manuale, ma è stato il meglio che potessimo tirar fuori da quel riservatissimo figlio di puttana... anche allora era tutto così fragile. È stata una condanna motivata dal più sottile dei fili conduttori. Lo sappiamo tutti. E ora, arriva lei a fare domande, e ciascuna di quelle domande fa a brandelli un pezzettino di quel filo, e noi perdiamo la pazienza. Ecco. Mi scuso per il comportamento del mio collega. E per averla mandata dagli Shriver. Ma non voglio che questa condanna finisca in niente. Non voglio essere sconfitto in questa storia, più di ogni altra cosa al mondo. Non potrei guardare più in faccia quei poveretti. Non potrei più guardare in faccia la mia famiglia. Non potrei più guardare in faccia me stesso. Voglio che quell'uomo muoia per quello che ha fatto.» Il tenente terminò la sua confessione e attese la risposta di Cowart. Il giornalista sentì l'improvvisa eccitazione della vittoria, e decise di affondare il colpo fatale. «Qual è la politica del vostro dipartimento circa l'uso delle armi durante gli interrogatori?» «È semplice: non è permesso. Bisogna consegnarle al sergente di servizio. Ogni poliziotto conosce la regola. Perché me lo chiede?» «Le spiacerebbe alzarsi in piedi per un attimo?» Brown scrollò le spalle e si alzò. «Ora mi faccia vedere le caviglie.» Il tenente sembrò sorpreso. «Non capisco» disse esitando. «Mi accontenti, tenente.» Brown gli rivolse un'occhiata rabbiosa. «È questa che voleva vedere?» Sollevò il piede, appoggiandolo sulla scrivania, e allo stesso tempo alzandosi la gamba dei pantaloni. Al polpaccio aveva allacciata una piccola fondina di pelle marrone, la quale reggeva una calibro 38 a canna corta. Il tenente riabbassò la gamba. «Ora, non ha puntato quell'arma contro Ferguson, minacciandolo di ucciderlo se non avesse confessato?» «No, assolutamente no.» La voce dell'investigatore aveva assunto un tono di fredda indignazione. «E non ha mai sparato un colpo a vuoto?» «No.»
«E allora come fa lui a sapere della pistola, se non gliel'ha mai fatta vedere?» Brown fissò Cowart attraverso la scrivania, gli occhi pieni di una rabbia glaciale. «L'intervista è finita» dichiarò. Indicò la porta. «Si sbaglia» rispose Cowart, alzandosi in piedi. «È appena iniziata.» 5 Ancora nel braccio della morte Vi è un'area che i giornalisti sanno trovare, uno spazio simile a quello fissato dai tiratori in procinto di sparare, oltre il mirino, direttamente al centro del bersaglio, laddove ogni altra considerazione della vita si dilegua, ed essi iniziano a scorgere la loro storia prendere forma nel profondo della loro immaginazione. Le incongruità della narrazione, i buchi della prosa che necessitano di più informazioni si fanno evidenti; come un becchino che getta palate di terra sopra una bara, il giornalista tappa le falle della sua storia. Matthew Cowart era giunto a quel punto. Tamburellò nervosamente con le dita sul tavolo ricoperto di linoleum, in attesa che il sergente Rogers scortasse Ferguson nella stanza dei colloqui. Il viaggio a Pachoula lo aveva lasciato eccitato e pieno di domande, e al tempo stesso dolcemente preso d'assedio dalle risposte. La storia gli era quasi del tutto chiara, lo era stata dal momento in cui Tanny Brown aveva rabbiosamente ammesso che Ferguson fosse stato schiaffeggiato da Wilcox. Quella piccola ammissione aveva rivelato un intero panorama di menzogne. Matthew Cowart non sapeva con esattezza cosa fosse accaduto tra gli investigatori e la loro preda, ma sapeva che vi erano abbastanza interrogativi da autorizzarlo a scrivere l'articolo, e probabilmente da riaprire il caso. Ciò che ora bramava era il secondo elemento. Se Ferguson non aveva ucciso la ragazzina, allora chi era stato? Quando Ferguson comparve sulla soglia, una sigaretta spenta penzolante dalle labbra, le braccia a reggere una gran pila di cartelle legali, Cowart si trovò costretto a scattare in piedi. I due si strinsero la mano e Cowart seguì Ferguson con lo sguardo mentre questi si sedeva sulla sedia di fronte alla sua. «Sarò qui fuori» annunciò il sergente, richiudendo la porta della stanzetta che ospitava il giornalista e il prigioniero. Vi fu lo scatto perfettamente udibile della serratura di sicurezza. Il prigioniero sorrideva, non di gioia ma di compiacimento, e per un breve istante, mentre collegava il sorriso che si trovava di fronte alla fred-
da rabbia degli occhi di Tanny Brown, Cowart sentì qualcosa tentennare dentro di lui. Ma subito la sensazione scomparve e Ferguson fece cadere i suoi documenti sul tavolo, producendo un sordo rumore attutito. «Sapevo che sarebbe tornato» disse Ferguson. «Sapevo quello che avrebbe scoperto laggiù.» «E cosa pensa che sia?» «Che dicevo la verità.» Cowart esitò, quindi decise di mettere un poco in crisi la sicurezza del prigioniero. «Ho scoperto che diceva qualche verità.» Ferguson montò immediatamente in collera. «Che diavolo significa? Non ha parlato con quei poliziotti? Non ha dato un'occhiata a quel paese di contadini razzisti? Non si è reso conto di che razza di posto sia?» «Uno di quei poliziotti razzisti è di colore. Non me l'aveva detto.» «E pensa che soltanto il fatto che abbia il mio stesso colore lo renda automaticamente un alleato? Pensa che sia mio fratello? Che non sia tanto razzista quanto quel piccolo verme del suo collega? Ma dov'è stato, signor giornalista? Tanny Brown è peggiore del peggiore sceriffo razzista che si possa immaginare. Fa sembrare tutti quegli altri sbirri del profondo Sud come una banda di signorine dell'associazione per le libertà civili. Quello è bianco fino nel profondo dell'anima e l'unica cosa che odi più di se stesso è la gente del suo colore. Lo chieda in giro. Scopra chi è il più crudele picchiatore di Pachoula. La gente le risponderà che si tratta di quel maiale. Giuro.» Ferguson era balzato in piedi. Andava su e giù per la stanzetta, picchiandosi il pugno sul palmo della mano, usando il suono secco come una punteggiatura per le sue parole. «Non ha parlato con quel vecchio ubriacone d'un avvocato, quello che mi ha venduto?» «Ci ho parlato, sì.» «E con mia nonna?» «Sì.» «Ha dato un'occhiata alla pratica?» «Ho visto che non avevano molto.» «Ha visto perché sono stati costretti ad avere quella confessione?» «Sì.» «Non ha visto la pistola?» «L'ho vista.» «Non ha letto la confessione?» «L'ho letta.»
«Mi hanno picchiato, i bastardi.» «Hanno ammesso di averla colpita una o due volte...» «Una o due volte! Cristo! Carino. E magari hanno anche detto che si trattava di un paio di amorevoli colpetti o qualcosa del genere, eh? Più un piccolo errore che un pestaggio vero e proprio, giusto?» «È più o meno quello che hanno lasciato capire.» «Bastardi!» «Si calmi...» «Mi devo calmare! Me lo dica lei, come dovrei fare a calmarmi? Quei bugiardi figli di puttana se ne possono stare là fuori a dire tutto quello che vogliono, dannazione. Io, tutto quello che ho sono le pareti della cella e la sedia che aspetta.» Il tono di voce di Ferguson era alterato; il prigioniero aprì la bocca, ma rimase in silenzio, fermandosi improvvisamente nel mezzo del locale. Lanciò un'occhiata a Cowart, come se cercasse di recuperare parte di quella sicurezza che così rapidamente si era dissipata. Prima di parlare di nuovo, sembrò volersi concentrare su quello che avrebbe detto. «Lo sapeva, signor Cowart, che fino a stamane eravamo tutti in isolamento? Lo sa cosa significa, vero?» domandò Ferguson cercando palesemente di controllarsi. «Me lo dica.» «Il governatore ha firmato un ordine di esecuzione. Quando succede, noi restiamo rinchiusi nelle nostre celle per ventiquattro ore al giorno, finché l'ordine non scade o l'esecuzione non viene effettuata.» «E stavolta cos'è successo?» «Il condannato ha ottenuto la sospensione della sentenza dalla quinta circoscrizione.» Ferguson scosse il capo. «Ma ci si sta avvicinando. Sa come funziona. Prima si cerca di appellarsi a tutto quello che spunta fuori dal processo. Poi ci si attacca ai grandi temi, tipo la costituzionalità della pena di morte. O magari la composizione razziale della giuria, uno dei soggetti preferiti quaggiù. E si continua a fare obiezioni. Si cerca di venire fuori con qualcosa di nuovo. Qualcosa a cui quei cervelloni della legge non abbiano ancora pensato. E durante tutto questo, tic-tac, tic-tac. Il tempo passa.» Ferguson fece ritorno alla sua sedia e vi si calò lentamente, incrociando le braccia sul tavolo davanti a sé. «Lo sa che combina un fatto del genere nel profondo dell'anima di tutti? Fa ghiacciare tutto. Sei in trappola e senti ogni battito di quel maledetto orologio come se stesse scattandoti diretta-
mente nel cuore. Senti come se fossi tu quello destinato a morire, perché sai perfettamente che un giorno arriveranno e metteranno in isolamento tutto il braccio, perché quell'ordine avrà scritto sopra il tuo nome. È come se ti stessero lentamente uccidendo, lasciando che il sangue coli goccia dopo goccia e che tu muoia dissanguato. È allora che il braccio impazzisce. Lo chieda al sergente Rogers, glielo dirà lui. Dapprima ci sono un sacco di urla e grida di rabbia, ma questo dura soltanto per qualche minuto. Poi sul braccio scende il silenzio. È come se potesse sentire tutti mentre sudano fuori i loro peggiori incubi. Poi succede qualcosa, qualche piccolo rumore rompe il silenzio, e questo scompare del tutto, perché qualcuno inizia a gridare di nuovo, seguito subito da altri. Una volta un tizio ha continuato a urlare per dodici ore consecutive prima di svenire. Una cosa del genere ti spreme fuori tutta la tua normalità, ti lascia dentro soltanto odio e follia. È tutto quello che rimane. E poi ti portano via.» Ferguson pronunciò l'ultima frase sommessamente, quindi si alzò in piedi e ricominciò ad andare avanti e indietro. «Sa cosa odiavo di Pachoula? Il suo autocompiacimento. È così carino, quel posto. Così maledettamente carino e tranquillo.» Ferguson strinse la mano a pugno. «Detestavo il fatto che ognuno avesse un suo posto e che tutto funzionasse. Laggiù tutti conoscono tutti, tutti credono di sapere come va la vita. Ti alzi al mattino. Vai al lavoro. Sissignore, nossignore. Torni a casa. Bevi un bicchierino. Mangi. Accendi la televisione. Vai a letto. E il giorno dopo ripeti tutto. Venerdì sera, la partita della squadra liceale. Sabato, picnic. Domenica, in chiesa. Non fa nessuna differenza se sei bianco o nero, tranne che i bianchi sono i proprietari e i neri sono quelli che sollevano e trasportano, come dovunque nel Sud. E quello che detestavo era il fatto che piaceva a tutti. Cristo, come amavano quel copione. Dentro e fuori da ogni nuovo giorno, identico al precedente, identico al giorno dopo. Anno dopo anno.» «E lei?» «Esatto. Non c'entravo nulla. Perché volevo qualcosa di diverso. Sarei diventato qualcuno. Mia nonna, lei era lo stesso. La gente di colore laggiù diceva che era una dura vecchiaccia che si dava un sacco di arie, sebbene vivesse in una piccola baracca senza servizi idraulici e con una stia sul retro. Quelli che ce l'avevano fatta, come il suo maledetto Tanny Brown, non potevano sopportare l'idea che avesse dell'orgoglio. Non potevano sopportare che non piegasse il capo nei confronti di nessuno. Lei l'ha conosciuta. Le è parsa il tipo di donna che scende dal marciapiede per far passare qual-
cun altro?» «No, proprio no.» «È sempre stata battagliera. E quando sono arrivato io, e nemmeno io mi sono rivelato quel buontempone che tutti volevano che fossi, hanno iniziato anche con me.» Parve pronto a proseguire, ma Cowart lo interruppe. «D'accordo, Ferguson, d'accordo. Diciamo che è tutto vero. E diciamo che io scriverò l'articolo. Prove inconsistenti. Identificazione discutibile. Avvocato negligente. Confessione ottenuta con la forza. È solo la metà di quanto mi aveva promesso.» Vide che aveva catturato l'attenzione di Ferguson. «Voglio quel nome. Il vero assassino, ha detto. Non prendiamoci più per il culo.» «Che garanzie ho...» «Nessuna. Il mio articolo, parola per parola.» «Sì, ma si tratta della mia vita. E forse della mia morte.» «Nessuna garanzia.» Ferguson si risedette e fissò Cowart. «Cosa sa veramente su di me?» La domanda colse Cowart di sorpresa. Cosa sapeva? «Quello che mi ha detto lei. Quello che di lei mi hanno detto gli altri.» «Ma lei pensa di conoscermi?» «Un poco, forse.» Ferguson sbuffò. «Si sbaglia.» Parve esitare, come se stesse ripensando a quanto aveva appena detto. «Io sono quello che vede. Potrò anche non essere perfetto e magari ho anche detto e fatto cose che non avrei dovuto dire o fare. Probabilmente non avrei dovuto fare incazzare gli abitanti di quella cittadina a tal punto da spingerli, quando il pericolo è passato per le loro strade, a venire a cercare solo me, lasciandosi passare il vero pericolo alle spalle, senza nemmeno saperlo.» «Non capisco.» «Capirà.» Ferguson chiuse gli occhi. «So che a volte vado giù pesante, ma uno deve essere sempre se stesso, giusto?» «Suppongo di sì.» «È quello che è successo a Pachoula, capisce. Il pericolo arriva in città. Si ferma un paio di minuti e mi lascia lì, pronto a essere raccolto insieme a tutti gli altri pezzetti di vite spezzate.» Vide l'espressione di Cowart e scoppiò a ridere. «Mi lasci riprovare. Immagini un uomo... un uomo molto malvagio... alla guida di un'auto diretta a sud. Quest'uomo esce dall'autostrada a Pachoula. Si ferma, magari per mangiare un hamburger e delle patatine, all'ombra di un albero, proprio all'uscita di una scuola. Adocchia
una ragazzina. La convince a salire in macchina, perché sembra un uomo gentile. Ha visto quel posto. Non è difficile ritrovarsi nel bel mezzo della palude in un paio di minuti, in completa tranquillità e solitudine. La fa fuori laggiù e subito si rimette in cammino. Lascia quel posto per sempre, non ripensando a quello che ha fatto per più di uno o due minuti e quando lo fa è soltanto per ricordarsi di quanto bene si sia sentito uccidendo quella ragazzina.» «Vada avanti.» «Quest'uomo procede a zigzag lungo tutto lo Stato. Combina qualcosa a Bay City. Qualcosa a Tallahassee. A Orlando. A Lakeland. A Tampa. Giù fino a Miami. Una ragazzina. Una coppia di turisti. Una cameriera. Il problema è che quando arriva nella grande città non sta attento e viene beccato. Beccato di brutto, con le mani nel sacco. Omicidio di primo grado. Le suona familiare?» «Sta iniziando. Prosegua.» «Dopo un paio di anni di processo, quest'uomo finisce proprio qui nel braccio. E cosa scopre quando ci arriva? Una barzelletta. La barzelletta più esilarante che potesse immaginare. L'uomo della cella a fianco della sua aspetta l'esecuzione per un delitto che lui ha commesso, e di cui si è quasi dimenticato, maledizione, poiché ha ucciso così tanta gente che i ricordi si sono come mischiati tutti insieme. E lui si sbudella dalle risate. Solo che tutto questo non è così divertente per l'altro, lei mi capisce?» «Mi sta dicendo che...» «Esatto, signor Cowart. L'assassino di Joanie Shriver è proprio qui nel braccio della morte. Conosce un uomo chiamato Blair Sullivan?» Cowart liberò un respiro affannoso. Il nome di quell'uomo esplose come una granata nella sua testa. «Lo conosco.» «Tutti conoscono Blair Sullivan, giusto, signor giornalista?» «Esatto.» «Be', è lui che l'ha fatta fuori.» Cowart si sentiva il volto in fiamme. Avrebbe voluto slacciarsi il nodo della cravatta, mettere la testa fuori da qualche finestra, prendere un po' d'aria, qualsiasi cosa pur di respirare. «Come fa a saperlo?» «Me l'ha detto lui. Come se fosse la cosa più maledettamente divertente del mondo.» «Mi racconti esattamente cos'ha detto.» «Non molto dopo che sono stato mandato qui, lo hanno spostato nella cella a fianco della mia. Non ci sta del tutto con la testa, lei mi capisce. Ri-
de quando nessuno ha fatto una battuta. Piange senza ragione. Parla da solo. Parla con Dio. Merda, quell'uomo ha una voce terribile, dolce, una specie di suono sibilato, come un serpente o qualcosa del genere. È il più pazzo figlio di puttana che abbia mai conosciuto. Ma pazzo allo stesso modo di quanto può esserlo una maledetta volpe, ha presente? Comunque, dopo una settimana o due iniziamo a parlare e naturalmente mi chiede cosa ci faccio nel braccio della morte. E io gli dico la verità: "aspetto il boia per un crimine che non ho commesso". Questo lo fa sorridere e ridacchiare; mi domanda di che crimine si tratta. Glielo dico: "una ragazzina a Pachoula". "Una biondina" fa lui "con l'apparecchio per i denti"? "Sì" faccio io. E allora inizia a ridere e ridere. "Primi di maggio"? domanda. "Giusto" rispondo io. "Una ragazzina sventrata a colpi di coltello e poi gettata nella palude?" insiste lui. "Certo" rispondo ancora io "ma come fai a saperne così tanto su questa storia?" E lui continua a ridacchiare e a grugnire, e si rotola per terra, quasi, da tanto pensa che è divertente. "Diavolo" dice "lo so che non sei stato tu a far fuori la ragazzina, perché sono stato io. Ed era anche una delizia. Amico" dice "sei quello che l'ha preso peggio nel didietro, in questo braccio" e continua a ridere e ridere. Io sono pronto a ucciderlo, lì, capisce, proprio lì, e inizio a gridare e sbraitare, e cerco di passare tra le sbarre della cella. E dal corridoio arriva la squadraccia di picchiatori, tutta bardata, giubbotti antiproiettile e manganelli e caschi con quella merda di visiera davanti. Mi fanno il culo per un po' e mi portano in isolamento. Ha presente? È una piccola stanzetta senza finestra, con solo un secchio e un giaciglio di cemento. Ti ci mettono dentro completamente nudo, finché non ti sei calmato a sufficienza.» "Quando sono tornato dall'isolamento, l'avevano già spostato in un altro livello. Non facciamo ginnastica negli stessi orari, e dunque non lo vedo più. In giro si dice che sia completamente andato, ormai. Di notte ogni tanto lo sento gridare il mio nome. "Bobby Earl" urla, con un tono di voce alto e cattivo. "Bobbbbby Earrrrrll! Perché non mi parli piùùùùù?" E poi scoppia a ridere, non sentendomi rispondere. Ride e ride e ride. Cowart rabbrividì. Avrebbe voluto avere un momento per tirarsi indietro e valutare la storia che aveva appena sentito, ma non c'era tempo. Era imprigionato, legato a filo doppio dalle parole che erano appena uscite dalle labbra di Robert Earl Ferguson. «Come posso provarlo?» «Non lo so, amico! Non è il mio lavoro!» «Come posso confermarlo?»
«Dannazione! Il sergente le confermerà il fatto che abbiano dovuto spostare Sullivan lontano da me. Ma lui non sa il perché. Nessuno sa il perché, tranne noi tre.» «Ma io non posso...» «Non voglio stare a sentire quello che può e non può fare, signor giornalista. È tutta la vita che la gente mi dice "non si può". Non puoi essere questo, non puoi fare quest'altro, non puoi avere questo, non puoi nemmeno volere quest'altro. È la storia della mia vita, amico, in una parola. Non la voglio sentire mai più.» Cowart rimase in silenzio. «Be'» disse poi «controllerò...» Ferguson si voltò di scatto, portando il volto a pochi centimetri da quello del giornalista, gli occhi resi elettrici dalla furia. «Giusto. Vada a controllare» sibilò. «Vada a chiederlo a quel bastardo. Vedrà, dannazione, vedrà.» Detto questo si alzò all'improvviso, allontanandosi dal tavolo. «Ora sa tutto. Cosa farà? Cosa potrà fare? Vada in giro a fare altre maledette domande, ma si assicuri che io non sia morto prima che lei abbia finito, maledizione.» Il prigioniero si avvicinò alla porta e prese a vibrarvi dei gran pugni. Riecheggiando nella stanzetta, producevano lo stesso rumore di una serie di colpi di pistola. «Abbiamo finito qua dentro!» gridò. «Sergente Rogers! Dannazione!» La porta tremava sotto la violenza dei suoi colpi. Quando la guardia aprì, Ferguson lanciò a Cowart un'altra occhiata. «Voglio tornare nella mia cella» disse poi. «Voglio stare da solo. Non ho bisogno di altre chiacchiere. Nossignore.» Allungò le mani per farsele ammanettare. Mentre le manette gli scattavano ai polsi, guardò Cowart per un'ultima volta. Il suo sguardo era penetrante, duro, esigente; uno sguardo di sfida. Infine si volse e scomparve oltre la porta, lasciando Cowart seduto in silenzio, con la sensazione di procedere a tentoni nella realtà che lo circondava, come se le sue gambe penzolassero sull'orlo di un gorgo che minacciava di inghiottirlo. Mentre veniva condotto fuori dal penitenziario, Cowart si rivolse al sergente. «Dov'è Blair Sullivan?» Il sergente Rogers sbuffò. «Sully? È nell'ala Q. Sta chiuso in cella tutto il giorno, a leggere la Bibbia e a scrivere lettere. Scrive a un mucchio di psichiatri, e alle famiglie delle sue vittime. Riempie le lettere di descrizioni oscene di tutto quello che ha fatto loro mentre le uccideva. Quelle non gliele spediamo. Lui non lo sa, ma penso che lo sospetti.» Il sergente scos-
se il capo. «Non ha tutte le rotelle a posto, quel tipo. E ha anche qualcosa di serio contro Robert Earl. Lo chiama per nome, con quest'aria da presa in giro, a volte anche nel mezzo della notte. Le ha detto Robert Earl che ha cercato di uccidere Sullivan quando ancora erano in due celle adiacenti? È stato piuttosto strano, a dir la verità. All'inizio andavano d'accordo, chiacchieravano attraverso le sbarre. E a un certo punto Robert Earl dà fuori di matto, grida, si agita e cerca di mettergli le mani addosso. È più o meno l'unico problema serio che ci abbia mai causato. È finito nel buco per una breve vacanza. Ora sono nella lista dei separati.» «Cosa sarebbe?» «Lo dice il nome. Nessun contatto per nessuna ragione. È una lista che teniamo per evitare che qualcuno dei ragazzi faccia fuori un altro prima che lo Stato abbia la possibilità di sbrigare la faccenda in modo legale.» «Supponiamo che voglia parlare con Sullivan?» Il sergente scosse il capo. «Quell'uomo è veramente malvagio, signor Cowart. Diavolo, spaventa anche me, e io ho visto più o meno tutti i tipi di folli assassini che questo mondaccio ci abbia proposto.» «E come mai?» «Be', lo sa anche lei, abbiamo della gente qui dentro che la ucciderebbe subito, senza nemmeno pensarci, gente per cui strappare una vita non significa nulla. Abbiamo folli e maniaci sessuali e psicopatici e amanti del brivido e killer a contratto e cecchini, faccia lei. Ma Sullivan, insomma, lui è malato in un modo diverso. Non posso esattamente dire perché. È come se c'entrasse con ciascuna delle categorie che abbiamo, quasi come uno di quei maledetti lucertoloni che cambiano continuamente colore...» «Un camaleonte?» «Sì. Esatto. È quasi come se fosse di tutto un po', un concentrato e dunque non è affatto specifico.» Il sergente Rogers esitò. «Quell'uomo mi spaventa proprio. Non posso dire di essere mai veramente contento che qualcuno vada sulla sedia elettrica, ma quando vi allaccerò quel delinquente non credo ci penserò due volte. E succederà anche abbastanza presto.» «Come mai? È nel braccio soltanto da un anno, giusto?» «Esatto. Ma ha licenziato tutti i suoi avvocati, come quel tizio lassù in Utah qualche anno fa. Ha soltanto in sospeso il suo appello automatico alla Corte Suprema e dice che quando quello sarà finito, sarà la fine della corsa. Dice che non vede l'ora di arrivare all'inferno, perché per lui metteranno giù il tappeto rosso.» «E pensa che manterrà questa linea?»
«Gliel'ho detto. Non è come gli altri. Neppure come gli altri assassini. Penso che sarà inflessibile. Vivere, morire, a lui sembra tutto uguale. Io credo che si limiterà a ridere, come ride per tutto e si lascerà cadere sulla sedia come se non fosse niente di speciale.» «Ho bisogno di parlargli.» «Nessuno ha bisogno di parlare a quell'uomo.» «Nessuno tranne me. Può organizzarmi un colloquio?» Rogers si fermò e lo fissò. «Ha qualcosa a che fare con Bobby Earl?» «Potrebbe.» Il sergente scrollò le spalle. «Be', il massimo che posso fare è chiederlo a lui. Se dice di sì, ci penso io. Ma se dice di no, è finita lì.» «Mi sembra corretto.» «Non sarà come chiacchierare con Bobby Earl nella suite padronale. Saremo costretti a usare la gabbia.» «Qualsiasi cosa. Solo, ci provi.» «D'accordo, signor Cowart. Mi chiami domattina e cercherò di darle una risposta.» Camminarono in silenzio attraverso il portello di uscita del penitenziario. Per qualche istante rimasero fermi nel vestibolo, dietro alle porte. Quindi Rogers si mise al fianco di Cowart e raggiunse con lui la luce del sole. Il giornalista vide la guardia di sicurezza farsi schermo con le mani e scrutare nel cielo azzurro pallido alla ricerca della sfera abbagliante del sole. Il sergente rimase così, in piedi, inspirando l'aria pulita, gli occhi chiusi per qualche secondo, quasi cercasse di allontanare da sé l'umidore della reclusione. Infine scosse il capo e senza dire nulla fece ritorno nella prigione. "Ferguson aveva ragione" pensò Cowart. "Tutti conoscevano Blair Sullivan." La Florida ha un modo tutto speciale di dar luce ai peggiori assassini, come se, allo stesso modo in cui le nodose mangrovie crescono nella terra sabbiosa bagnata dall'acqua salata dell'oceano, il male affondi le sue radici nello Stato e combatta la sua silenziosa battaglia per giungere in superficie. E quelli che non vi sono nati sembrano gravitarvi attorno con una frequenza sempre più allarmante, quasi stiano seguendo una qualche strana oscillazione gravitazionale del pianeta, spinti dalle maree e dai terribili desideri degli uomini. Tutto ciò conferisce allo Stato della Florida una sorta di quotidiana familiarità con il male; che si manifesta nella scrollata di spalle con la quale si accetta il paranoico che apre il fuoco con un'arma automatica
nel fast-food, o i gonfi cadaveri dei corrieri della droga che, nelle Everglades, diventano ricettacoli di larve di insetti. Sbandati, pazzi, sicari, assassini spinti dalla follia, dalla passione o vuoti di ogni emozione e ragione: tutti, a quanto pare, trovano la strada per giungere in Florida. Blair Sullivan aveva confessato di avere ucciso, sulla strada per il sud, una dozzina di persone prima di giungere a Miami. I delitti erano stati tutti occasionali, a dire la verità; tutta gente a cui era capitato di incrociarlo e che era finita morta ammazzata. Il responsabile notturno di un piccolo motel lungo la strada, la cameriera dì un caffè, il cassiere di un minimarket, la coppia di anziani turisti fermi a lato della strada per cambiare una gomma. Ciò che rendeva questa esplosione di omicidi particolarmente agghiacciante era la sua assoluta casualità di applicazione. Alcune delle vittime erano state rapinate. Altre erano state violentate. Altre ancora semplicemente ammazzate, per nessuna ragione apparente o per ragioni impenetrabili, come il benzinaio cui Sullivan aveva sparato attraverso il vetro protettivo della cassa, non perché volesse derubarlo, ma semplicemente perché questi non era stato abbastanza veloce a dargli il resto del suo biglietto da venti dollari. Sullivan era stato arrestato a Miami qualche minuto dopo che aveva finito di occuparsi di una giovane coppia che aveva sorpreso a baciarsi su una strada deserta. Aveva fatto con calma quella volta, legando il ragazzo e facendolo assistere mentre violentava la ragazza, e quindi lasciando che la ragazza vedesse mentre tagliava la gola a lui. Quando un poliziotto di pattuglia lo aveva visto, Sullivan era ancora concentrato sul povero corpo della ragazza. «Pura sfortuna» aveva detto l'arrogante, impenitente Sullivan al giudice al momento della lettura della sentenza. «Fossi stato solo un po' più veloce, avrei beccato anche il poliziotto.» Nella camera d'albergo, Cowart prese il telefono, e in pochi minuti riuscì a mettersi in collegamento con la redazione del Miami Journal. Chiese di Edna McGee, la giornalista che aveva seguito il processo e la condanna di Sullivan. La linea telefonica diffuse la solita musicaccia prima che la donna rispondesse. «Ciao, Edna.» «Matty? Ma dove sei?» «Sono a Starke, rinchiuso in un motel da venti dollari a notte. Sto cercando di capirci qualcosa.» «Nel caso fammelo sapere, eh? Allora, come va l'articolo? Qui in redazione si bisbiglia che tu sia su qualcosa di grosso.» «Sta procedendo.»
«Quel tizio ha veramente ucciso la ragazzina, secondo te?» «Non so. Ci sono un paio di grossi interrogativi. Gli sbirri hanno perfino ammesso di averlo picchiato prima della confessione. Non così forte come dice lui, chiaro, ma comunque, hai presente...» «Scherzi? Pare interessante. Lo sai, perfino la più piccola traccia di coercizione dovrebbe far sì che un giudice escluda dagli atti una confessione. E se gli sbirri hanno ammesso di avere mentito, anche solo un poco, be', facci attenzione.» «È quello che non mi convince fino in fondo, Edna. Perché ammettere di averlo picchiato? Non li aiuta di certo.» «Matty, sai meglio di me che gli sbirri non sanno mentire. Ci provano e vanno nei casini. Vanno tutti sottosopra. Non è proprio nella loro natura. Alla fine, arrivano sempre a dire la verità. Devi solo stargli attorno e continuare a fare domande. Prima o poi ci arrivano. Ora, cosa posso fare per te?» «Blair Sullivan.» «Sully? Ragazzi, ecco una cosa interessante. Che c'entra lui con tutta questa storia?» «Be', il suo nome è venuto fuori in un contesto piuttosto strano. Non posso parlarne, davvero.» «Dai. Dimmelo.» «Ti prego, Edna. Appena avrò la certezza, sarai la prima.» «Prometti?» «Certo.» «Giuri?» «Edna. Dai.» «D'accordo. D'accordo. Blair Sullivan. Sully. Gesù. Lo sai, sono una di sinistra, ma quel tizio, non lo so. Sai cosa aveva fatto fare a quella ragazza, prima di ucciderla? Non l'ho scritto mai negli articoli. Non potevo. Quando i giurati lo hanno sentito, uno di loro è stato male, proprio lì in aula. Hanno dovuto fare un intervallo per pulire tutto. Dopo che aveva assistito alla morte per dissanguamento del suo ragazzo, Sully l'ha fatta piegare e...» «Non voglio saperlo» la interruppe Cowart. La donna all'altro capo del filo cadde in un silenzio improvviso. «Allora, che vuoi sapere?» domandò dopo qualche istante. «Puoi dirmi qualcosa del suo percorso verso sud?» «Certo. I giornali scandalistici lo avevano definito "Il viaggio della morte". Be', era documentato in modo piuttosto preciso. Ha iniziato ammaz-
zando la sua padrona di casa in Louisiana, alle porte di New Orleans, a cui è seguita una prostituta a Mobile, nell'Alabama. Poi dice di avere accoltellato un marinaio a Pensacola, un tizio che ha abbordato in un bar di omosessuali e che ha abbandonato in un mucchio di spazzatura, e poi...» «Di che periodo stiamo parlando?» «È tutto segnato nei miei appunti. Resta in linea, sono nell'ultimo cassetto.» Matthew Cowart udì la cornetta del telefono che veniva appoggiata alla scrivania, e in lontananza distinse il suono dei cassetti aperti e subito richiusi. «Trovato. Aspetta. Eccolo. Credo fosse fine aprile, al più tardi inizio di maggio. È stato allora che è entrato nel nostro caro Stato Solatio.» «E poi?» «Ancora lentamente diretto a sud. Incredibile, davvero. Comunicazioni ufficiali provenienti da tre Stati, segnalazioni, volantini dell'FBI con la sua fotografia, dispacci via computer. E nessuno riesce a rintracciarlo. O almeno nessuno che poi rimane vivo per raccontarlo. Solo alla fine di giugno raggiunge Miami. Ci avrà messo un sacco a lavarsi i vestiti da tutto quel sangue.» «Sai qualcosa delle auto?» «Ne ha usate tre, tutte rubate. Una Chevrolet, una Mercury e una Oldsmobile. A un certo punto le mollava e ne prendeva una nuova. E continuava a rubare targhe, hai presente il sistema. Sceglieva sempre macchine di sene, veramente banali, non certo il tipo di auto che grida guardaquanto-sono-bella. Ha dichiarato di non avere mai nemmeno superato il limite di velocità.» «Quando è entrato in Florida, che auto stava guidando?» «Aspetta. Sto controllando nel taccuino. Sai che c'è un tizio al Tampa Tribune che sta cercando di scrivere un libro su di lui? Ha tentato di andare a parlargli, ma Sully l'ha fatto cacciare via. Non ci ha voluto parlare, me l'hanno detto quelli dell'accusa. Aspetta, sto ancora cercando. Ha licenziato tutti i suoi avvocati, lo sapevi? Penso che leverà il disturbo entro la fine dell'anno. Il governatore sarà così ansioso di firmare l'ordine di esecuzione per Sully che avrà il crampo dello scrittore. Eccola: una Mercury Monarch marrone.» «Niente Ford?» «No. Ma hai presente, la Mercury è più o meno lo stesso genere d'auto. Stessa carrozzeria, stessa linea. Sono facili da confondere.» «Marrone chiaro?» «No, scuro.»
Cowart inspirò pesantemente. "Quadra" pensò. «Allora, Matty, mi dici di che si tratta?» «Lasciami controllare un paio di elementi e te lo farò sapere.» «Dai, Matty. Detesto essere tenuta all'oscuro.» «Ti richiamo io.» «Promesso?» «Certo.» «Lo sai che le voci aumenteranno quaggiù, vero?» «Lo so.» Lei riappese, lasciando Matthew Cowart da solo. La stanza attorno a lui si riempì rapidamente di terrificanti pensieri e di spaventose spiegazioni: una Ford diventava una Mercury. Il verde trascolorava nel marrone. Il nero si faceva bianco. Un uomo si trasformava in un altro. «Non riesco proprio a capire il perché, ma lei ha fortuna, ragazzo mio» dichiarò giovialmente il sergente Rogers, senza che il suo tono di voce tradisse alcun segno dell'orario mattiniero. «In che senso?» «Sullivan ha detto che la incontrerà. Di sicuro farà incazzare quel tizio di Tampa che è venuto fin qui la settimana scorsa. Non l'ha voluto vedere. E certo farà incazzare anche tutti i maledetti avvocati che hanno cercato di parlare con Sully. Nemmeno loro ha voluto vedere. Diavolo, gli unici che vede sono due strizzacervelli che l'FBI ha mandato giù dalla Sezione Scienze Comportamentali. Ha presente, i ragazzi che studiano gli assassini seriali. E penso che l'unica ragione per cui li incontri sia che in questo modo nessun avvocato potrebbe impugnare la sua incapacità di intendere e di volere e ottenere un ordine della corte per andare in appello. Le avevo detto che Sullivan è un tipo speciale, no?» «Che io sia dannato» rispose Cowart. «Lei no, ma lui sì che lo sarà, senza dubbio. Ma non è questa la nostra preoccupazione per il momento, vero?» «Sarò lì al più presto possibile.» «Faccia con calma. Non facciamo muovere Sullivan senza prima aver preso qualche precauzione, sa. Almeno da nove mesi a questa parte, quando è saltato addosso a una delle guardie del braccio appena fuori dalle docce, e gli ha sbranato via un orecchio. Ha detto che aveva un buon sapore, che gli avrebbe mangiato tutta la testa se non l'avessimo bloccato. Questo è Sully.»
«Perché lo ha fatto?» «Quel tizio gli aveva dato del pazzo. Sa come si dice, niente di speciale. Proprio come lei avrebbe potuto dire a sua moglie, ehi, sei pazza a comprarti quel vestito. O come se avesse detto fra sé e sé, sono pazzo a voler pagare le tasse alla data stabilita. Niente di grave, no? Ma di sicuro è stata la maledetta parola sbagliata da dire a Sullivan, altroché. E così, zac! È saltato addosso a quel poveraccio, e ha preso ad azzannarlo come un cane bastardo. E quello doveva essere almeno il doppio di. lui. L'attimo seguente erano per terra a rotolarsi, e il sangue sprizzava dappertutto, e quell'uomo che gridava, lasciami andare, pazzo figlio di puttana. Chiaro che questo non ha fatto altro che spingere Sully a combattere con ancora più ferocia. Siamo stati costretti a strapparlo a furia di manganellate, e lo abbiamo cacciato nel buco a rinfrescarsi le idee per un paio di mesi. Penso sia stata quella parola, comunque, che lo ha scatenato. È stato come tirare un grilletto interno. Mi ha insegnato una cosa. A tutti, nel braccio, ha insegnato una cosa. A fare più attenzione alle parole che usiamo. Sully, be', ne deduco che dia molta importanza all'uso dei giusti vocaboli.» Rogers esitò, lasciando che qualche istante di silenzio penetrasse fra loro. «Cosa che adesso fa anche l'altro» aggiunse infine. Cowart fu scortato da una giovane guardia in divisa grigia, che non disse una parola, comportandosi come se stesse accompagnando un organismo portatore di malattia lungo un corridoio imbiancato invaso dal bagliore che la luce del sole produceva penetrando da una schiera di alte finestre, posizionate al sicuro da tutti. La luce faceva sembrare tutto sfocato e confuso. Camminando, il giornalista cercò di chiarirsi le idee. Ascoltò il risuonare dei loro stessi passi sul pavimento lucidato da poco. Era una tecnica che lui usava spesso, un azzeramento con cui cercava di non pensare più a nulla, di non immaginare l'intervista che sarebbe seguita, di non ricordare gli altri articoli che aveva scritto né la gente che aveva conosciuto, niente di niente; desiderava escludere ogni dettaglio e divenire un foglio di carta assorbente, pronto a ritenere ogni rumore e ogni visione di quanto stava per succedere. Contò i secchi passi della guardia mentre percorrevano il corridoio e superavano un doppio sbarramento di porte. Quando il conteggio si era ormai avvicinato a cento, giunsero a una zona aperta, sorvegliata da una coppia di guardie in una stanzetta dalla quale una serie di passerelle e di scale conduceva alle schiere di celle. Nel punto in cui tutti i passaggi convergevano vi era una gabbia di metallo. Al centro della cella erano situati un ta-
volo grigio acciaio e due panche. Erano fissati al pavimento. Su un lato del tavolo era stato saldato un grosso anello metallico. Cowart fu condotto attraverso l'unica apertura della cella; quindi gli venne fatto cenno di sedersi sul lato opposto del tavolo al quale era stato fissato l'anello. «Il figlio di puttana sarà qui fra un momento. Lei aspetti» disse la guardia. Quindi si volse e si allontanò rapidamente dalla gabbia, sparendo dopo essere salito su una rampa di scale e aver percorso una passerella. Un paio di secondi più tardi alcuni colpi furono battuti su una delle porte che si apriva sull'area. Una voce gridò nell'interfono: «Distaccamento di sicurezza! Cinque uomini in entrata!» Vi fu il suono stridulo della serratura elettronica che veniva aperta e Cowart sollevò lo sguardo verso il sergente Rogers, che indossava casco e giubbotto antiproiettili e comandava la squadra. La tuta arancione del prigioniero era nascosta dai due uomini che lo scortavano stringendolo da entrambi i lati e da un terzo che lo seguiva a ruota. Il gruppo entrò a passo cadenzato nella gabbia. Blair Sullivan aveva mani e piedi incatenati tra loro. Gli uomini intorno a lui marciavano con precisione militare, pestando i piedi all'unisono, mentre lui salterellava nel mezzo, come un bambino che cercasse disperatamente di seguire una parata per il 4 di luglio. Era un uomo di una magrezza cadaverica, non alto, con tatuaggi violacei che si arrampicavano lungo la pelle scolorita degli avambracci e una grande onda di capelli neri venati di grigio. Aveva occhi scuri che faceva guizzare attorno a gran velocità, esaminando la gabbia, le guardie, e Matthew Cowart. Una palpebra pareva vibrare leggermente, quasi i suoi occhi lavorassero indipendentemente l'uno dall'altro. Vi era una traboccante rilassatezza nel modo in cui sorrideva, nel modo languido in cui attendeva in piedi che il sergente liberasse con cautela la catena che dalle manette conduceva alle caviglie; pareva quasi in grado di dimenticarsi dell'esistenza dei ceppi. Le guardie che lo avevano fiancheggiato rimasero nelle posizioni di portat'arm, brandendo i manganelli. Il prigioniero rivolse loro una grottesca imitazione di un sorriso amichevole. Quindi il sergente fece scorrere la catena attraverso l'anello metallico sul tavolo, assicurandola a una grossa cintura di pelle stretta attorno al busto del prigioniero. «Bene. Seduto» ordinò Rogers in tono brusco. Le tre guardie arretrarono rapidamente dal prigioniero, il quale si sistemò sulla panca d'acciaio. Teneva fisso il suo sguardo su quello di Cowart. Il leggero sorriso serpeggiava ancora lungo le labbra del prigioniero, ma i
suoi occhi erano ridotti a due fessure indagatrici. «Bene» disse ancora il sergente. «Procedete.» Guidò le guardie fuori dalla gabbia, fermandosi per chiuderne la serratura di sicurezza. «Non mi amano» mormorò Sullivan con un sospiro. «Come mai?» «Ragioni dietetiche» rispose, scoppiando improvvisamente a ridere. Nel giro di pochi secondi la risata degenerò in un sibilo, subito seguito da una secca tosse. Sullivan estrasse un pacchetto di sigarette e una scatola di fiammiferi dalla tasca della camicia. Dovette chinarsi verso il tavolo per portare a termine la semplice operazione, e poi raccogliersi sulla sedia mentre si accendeva la sigaretta: i movimenti delle braccia erano costretti dalla catena che assicurava i polsi al tavolo. «Chiaro, non è necessario che mi amino per uccidermi. Le spiace se fumo?» domandò a Cowart. «No, faccia pure.» «È curioso, non trova?» «Cosa?» «Che un condannato a morte fumi. Mentre tutto il resto del mondo sta facendo di tutto per smettere di fumare, la gente qui nel braccio fuma una sigaretta dopo l'altra senza nessun problema. Diavolo, siamo forse i migliori clienti di R.J. Reynolds. Ho idea che indulgeremmo in qualsiasi vizio malvagio o pericoloso, se soltanto ce ne dessero la possibilità. Così come vanno le cose, ci limitiamo a fumare. Non credo proprio che nessuno di noi sia terribilmente preoccupato dall'eventualità di beccarsi il cancro ai polmoni, anche se ho il sospetto che se uno riuscisse ad ammalarsi in modo abbastanza grave, voglio dire maledettamente malato, in punto di morte, lo Stato si dimostrerebbe riluttante a fargli posare le chiappe sulla sedia elettrica. Lo Stato diventa schizzinoso su certe cose, Cowart. Non vogliono giustiziare qualcuno che sia malato di mente o di corpo. Nossignore. Vogliono che gli uomini che friggono siano fisicamente in forma e mentalmente a posto. C'è stato un grosso casino in Texas, un paio d'anni fa, quando lo Stato ha cercato di giustiziare un povero diavolo che aveva avuto un infarto quando aveva saputo che il suo ordine di esecuzione era stato firmato. L'esecuzione è stata rinviata fino a quando quel tizio non è stato in grado di camminare verso la sua morte. Non lo volevano portare nella stanzetta su una sedia a rotelle da ospedale, assolutamente no. Avrebbe offeso la sensibilità degli umanitari e dei cuori teneri. E c'è una storia fanta-
stica, degli anni trenta, su questo gangster di New York. Ragazzi, non appena questo arriva al braccio della morte, prende a mangiare e a mangiare. Era già grosso, e diventa sempre più grosso, ha presente. Ingrassa e ingrassa e ingrassa e ingrassa e ingrassa. Mangia pane e patate e spaghetti finché non gli escono dalle orecchie. Carboidrati, capisce. Sa cos'aveva pensato? Aveva pensato di poter sconfiggere la sedia diventando così grasso che non sarebbero riusciti a farcelo sedere! Stupendo. Il problema fu che non ci è riuscito. Hanno dovuto spingere e premere, ma dannazione, ce l'hanno fatta. Lo scherzo gli si era ritorto contro, non crede? Avrà avuto l'aspetto di un maiale arrostito alla fine della cerimonia. Mi dice dov'è la logica in tutto questo? Eh?» Scoppiò a ridere di nuovo. «Non c'è al mondo un luogo migliore del braccio della morte per farti scoprire tutte le piccole ironie della vita.» Spostò lo sguardo su Cowart; la palpebra continuava a vibrare di vita propria. «Mi dica, Cowart, anche lei è un assassino?» «Cosa?» «Voglio dire, non ha mai preso una vita? Nell'esercito, magari? È abbastanza avanti con gli anni per avere fatto il Vietnam, c'è andato? No, probabilmente no. Non ha quello sguardo assente che assumono i veterani quando iniziano a ricordare. Ma magari ha distrutto una macchina quando era ragazzo, o qualcosa del genere. Magari ha ucciso il suo migliore amico o la sua ragazza, un sabato sera qualsiasi? O forse un giorno ha detto ai dottori di qualche dannato ospedale di staccare la spina alla sua vecchia mamma o a suo padre, che erano diventati così decrepiti che ci voleva un respiratore per tenerli in vita. Ha mai fatto una cosa del genere, Cowart? Ha mai detto a sua moglie o alla sua compagna di abortire? Non voleva che nessun piccoletto potesse gattonare e tagliarle la strada per il successo? O magari lei è un tipo più raffinato, eh, Cowart? Forse si sarà fatto un tiro o due di cocaina a una di quelle feste di Miami, no? Ha idea di quante vite sia costata quella partita di droga? Sto solo cercando di indovinare, sa. Avanti, Cowart, mi dica, è anche lei un assassino?» «No, non penso.» Blair Sullivan sbuffò. «Si sbaglia. Siamo tutti assassini. Basta fare attenzione quando ci si guarda. O considerare la parola in un'accezione abbastanza allargata. Non è mai stato in un centro commerciale, non ha mai visto una di quelle mamme cattive e spettinate dare addosso al figlio, iniziando a sculacciarlo proprio lì, in mezzo a tutti? Cosa pensa stia succe-
dendo in quel momento? Dia un'occhiata allo sguardo di quel bambino, e lo vedrà farsi di ghiaccio. Un assassino in via di formazione. Allora, si guardi dentro anche lei. Anche lei ha quello sguardo di ghiaccio, Cowart. Ce l'ha dentro. Lo so. Posso dirlo anche soltanto guardandola.» «Un bel gioco di prestigio.» «Non è un gioco di prestigio. È un'abilità speciale, suppongo. Ha presente, ci si riconosce fra simili. Quando diventi così intimo con la morte e con il morire, Cowart, puoi riconoscerne i segni.» «Be', stavolta si è sbagliato.» «Dice? Vedremo. Vedremo se mi sono sbagliato.» Sullivan si distese sulla sedia di duro metallo, ostentando una posa rilassata ma scavando sempre più a fondo con lo sguardo nel cuore di Cowart. «Diventa facile, sa.» «Cosa.» «Uccidere.» «In che senso.» «Familiarità. Si impara molto velocemente come muore la gente. Qualcuno muore con violenza, qualcun altro con dolcezza. Alcuni lottano come dei diavoli, altri si lasciano andare, tranquilli. Ci sono quelli che ti pregano di lasciarli in vita, e ci sono quelli che ti sputano in un occhio. Qualcuno piange, qualcuno ride. C'è chi chiama la mamma, c'è chi ti dà appuntamento all'inferno. Alcuni si aggrappano stretti alla vita, altri la lasciano andare subito. Ma alla fine dei giochi, tutti sono uguali. Tutti diventano rigidi e freddi. Lei. Io. Siamo tutti uguali, alla fine.» «Forse alla fine. Ma la gente ci arriva in un sacco di modi diversi.» Sullivan rise. «È proprio vero. Ecco una vera osservazione da braccio della morte, Cowart. È esattamente ciò che direbbero alcuni quaggiù al braccio, dopo qualcosa come otto anni e cento appelli e il tempo che gli sfugge veloce da tutte le parti. Un sacco di modi diversi.» Aspirò con forza dalla sigaretta e soffiò il fumo, facendolo salire nell'aria immobile. Per qualche istante gli occhi di Blair Sullivan seguirono la traccia di fumo mentre lentamente si dileguava. «Siamo fatti di fumo, vero? Quando si arriva al dunque. È quello che ho detto a quegli strizzacervelli, ma non credo che fossero troppo disposti a sentirlo.» «Chi sarebbero?» «Quelli dell'FBI. Hanno questa sezione speciale di Scienza del Comportamento che sta cercando disperatamente di trovare la ragione dell'esistenza degli assassini seriali, in modo da poter fare qualcosa circa questo parti-
colare passatempo americano...» Si aprì in un gran sorriso. «Naturalmente, non stanno avendo un gran successo, perché ognuno di noi ha le sue piccole ragioni. Sono due personcine a modo, comunque. Gli piace venire fin quaggiù e farmi il test multifasico della personalità, l'esame della percezione tematica, il test proiettivo di Rorschach, misurarmi il quoziente intellettivo, e, lo sa Cristo, la prossima volta mi faranno probabilmente fare gli esami della commissione universitaria. Gli piace quando parlo a lungo della mia mammina, e quando gli dico quanto ho odiato quella vecchia pazza, e specialmente il mio patrigno. Mi picchiava, sa. Mi picchiava forte ogni volta che aprivo la bocca. Usava i pugni, usava la cintura, usava il cazzo. Mi picchiava e mi sbatteva, mi sbatteva e mi picchiava. Giorno dopo giorno, regolare come le domeniche. Ragazzi, come lo odiavo. Certo che lo odiavo. Lo odio ancora, sissignore. Sono sulla settantina ormai, e ancora vivono in un piccolo bungalow di mattoni di cemento nelle Keys settentrionali, un crocifisso appeso alla parete e un ritratto a colori di Gesù, e ancora pensano che il loro salvatore arriverà un giorno dalla porta e li farà salire in paradiso. Quando sentono nominare il mio nome si fanno il segno della croce e dicono cose come "Quel ragazzo è sempre stato prigioniero del demonio", e compagnia bella. I ragazzi dell'FBI sono molto interessati a storie del genere. Anche a lei interessa tutto questo, Cowart? O vuole soltanto sapere perché ho ucciso quella gente, compreso qualcuno che quasi non conoscevo?» «Sì.» Scoppiò in una risata stridula. «Be', è una domanda cui è abbastanza facile rispondere: ero di ritorno verso casa, e sono stato in qualche modo deviato. Mi sono distratto, si potrebbe anche dire. Non sono riuscito a giungere a destinazione. Ha capito?» «Non esattamente.» Sullivan sorrise, alzando gli occhi al cielo. «La vita è un gran mistero, vero?» «Se lo dice lei.» «Giusto. Se lo dico io. Ma naturalmente lei è un po' più interessato a un altro piccolo mistero, vero, Cowart? Non le importa veramente di altra gente, no? Non è quella la ragione della sua presenza qui.» «No.» «Mi dica, perché ha voluto parlare con un vecchio cattivone come me?» «Robert Earl Ferguson e Pachoula.» Per quanto gli fu concesso dalle catene, Blair Sullivan gettò indietro il
capo e lanciò una singola, secca risata che riecheggiò fra le mura della prigione. Cowart vide le guardie voltarsi, controllare per qualche istante, quindi fare ritorno ai loro compiti originari. «Bene bene, questo sì che è un soggetto interessante, Cowart. Molto interessante. Ma ci arriveremo in un minuto.» «D'accordo. Ma per quale ragione?» Blair Sullivan si piegò in avanti attraverso il tavolo, portando il volto il più vicino possibile a quello di Cowart. La catena che lo legava al tavolo si scosse e si tese sotto l'improvviso sforzo. Una vena si gonfiò sul collo del prigioniero, e il volto gli si fece rosso di rabbia. «Perché ancora non mi conosce abbastanza.» Quindi si sedette all'improvviso, mettendosi la mano in tasca per prendere un'altra sigaretta, che accese con il mozzicone della precedente. «Mi dica qualcosa di lei, Cowart, e forse allora potremo parlare. Mi piace sapere con chi ho a che fare.» «Cosa vuole sapere?» «Ha una moglie?» «Ex moglie.» Il prigioniero rise sguaiatamente. «Figli?» Matthew Cowart esitò prima di rispondere. «Nessuno.» «Bugiardo. Vive da solo o ha una compagna?» «Solo.» «Appartamento o casa?» «Appartamentino.» «Amici intimi?» Lui esitò di nuovo. «Certo.» «Bugiardo. Siamo già a due e sto contando. Cosa fa di sera?» «Sto tranquillo. Leggo. Guardo una partita.» «Da solo per la maggior parte del tempo, eh?» «Esatto.» La palpebra vibrò. «Sonni agitati?» «No.» «Bugiardo. E fa tre. Dovrebbe vergognarsi, mentire a un condannato a morte. Lo stesso fece Pietro con Gesù prima che il gallo cantasse. Dunque, lei sogna?» «Cosa diavolo...» «Stia al gioco, Cowart» sibilò bruscamente Blair Sullivan «oppure me ne andrò via di qui senza aver risposto a nessuna delle sue domande del
cavolo.» «Certo. Sogno. Tutti sognano.» «E cosa sogna?» «Gente come lei» rispose con rabbia Cowart. Sullivan rise per l'ennesima volta. «Un punto per lei.» Si appoggiò allo schienale della sedia e scrutò Cowart. «Incubi, eh? Perché è quello che siamo, vero? Incubi.» «Esatto» replicò Cowart. «È quello che ho cercato di far capire ai ragazzi dell'FBI, ma non mi ascoltavano. È tutto quello che siamo, incubi e fumo. Camminiamo e parliamo e portiamo un po' di oscurità e dì paura sulla terra. Il Vangelo secondo Giovanni: "Tu sei di tuo padre il demonio, e del demonio possiederai le brame. Egli era un assassino fin dal principio, e non abitava nella verità, poiché in lui non vi è verità." Capito? Ottavo verso. Ora, ci potrebbero anche essere un mucchio di strani termini da strizzacervelli per descrivere il tutto, ma diavolo, si tratta soltanto di un mucchio di termini medici in codice, giusto?» «Suppongo di sì.» «Sa che cosa? Soltanto un uomo libero può essere un buon assassino. Libero, Cowart. Non incastrato da tutte le stupide stronzate che impantanano le vite ordinarie. Un uomo libero.» Cowart non rispose. «E lasci che le dica un'altra cosa: non è difficile uccidere la gente. Ecco cosa ho detto ai ragazzi. E nemmeno dopo averlo fatto ci si pensa su troppo. Voglio dire, ci sono già fin troppe cose a cui pensare, come sbarazzarsi dei corpi e delle armi e lavarsi via le macchie di sangue dalle mani, cose del genere. Diavolo, dopo un omicidio sei proprio occupatissimo. Soltanto a pensare alla prossima mossa e a come diavolo svignarsela.» «Ma se uccidere è così facile, cos'è stato difficile, per lei?» Sullivan sorrise. «Ottima domanda. Nessuno me l'aveva mai fatta.» Rifletté per qualche istante, sollevando lo sguardo verso il soffitto. «Penso che la cosa più difficile sia stata arrivare quaggiù nel braccio e rendermi conto che non ero riuscito ad ammazzare le persone che più avrei voluto ammazzare, capisce.» «Cosa significa?» «Non è sempre quella la cosa più difficile da accettare nella vita, Cowart? Opportunità mancate. Sono quelle che rimpiangiamo con più forza. Sono quelle che ci tengono svegli di notte.»
«Ancora non capisco.» Sullivan si agitò sulla sedia, nuovamente avvicinandosi a Cowart, e prese a sussurrare in tono cospiratorio: «Deve capire. Se non oggi, un giorno o l'altro. E dovrà ricordarsene, anche, perché un giorno si rivelerà importante. Un giorno, quando meno se l'aspetta, lei ricorderà: chi è che Blair Sullivan odia di più al mondo? Per quali persone perde la testa al solo pensiero che siano ancora vive e vegete e si stiano godendo le loro giornate? Sarà importante che lei se ne ricordi, Cowart.» «Lei non me lo dirà?» «Nossignore.» «Gesù Cristo...» «Non nomini il suo nome invano! Sono particolarmente sensibile a questo genere di cose.» «Volevo solo dire...» Blair Sullivan si scagliò di nuovo in avanti. «Pensa veramente che queste catene potrebbero trattenermi se volessi sbranarle la faccia? Pensa che queste rachitiche piccole sbarre potrebbero impedirmelo? Pensa che non potrei sollevarmi e liberarmi e aprirla in due e bere il suo sangue come se fosse la fontana della giovinezza, e tutto nel giro di qualche secondo?» Cowart arretrò di scatto. «Io posso. Perciò non mi faccia infuriare, Cowart.» Lo fissò da dietro il tavolo. «Non sono pazzo e credo in Cristo, sebbene con tutta probabilità lui vorrebbe vedere il mio culo preso a calcioni dritto fino all'inferno. Ma non mi dà fastidio, nossignore, perché la mia vita è stata un inferno, e così dovrà essere la mia morte.» Blair Sullivan rimase in silenzio. Quindi si appoggiò nuovamente sullo schienale metallico della sedia e riprese ad adottare quel suo tono pigro, quasi offensivo. «Vede, Cowart, ciò che mi separa da lei non sono le catene e le sbarre e tutta questa merda. È un semplice, piccolo dettaglio. Io non ho paura di morire. Morte, dov'è il tuo pungiglione, io non lo temo. Mettetemi sulla sedia, iniettatemi una droga letale, mollatemi di fronte a un plotone di esecuzione, tiratemi il collo. Diavolo, potreste anche gettarmi ai leoni, io proseguirò a recitare le mie preghiere e a guardare con fiducia all'aldilà, dove, sospetto, solleverò lo stesso polverone che ho sollevato nell'aldiquà. Sa cos'è strano, Cowart?» «Cosa?» «Ho molta più paura di vivere qui come una specie di maledetta bestia
che di morire. Non voglio essere messo alla prova e pungolato dagli strizzacervelli, non voglio che gli avvocati discutano e litighino su di me. Diavolo, non voglio che voi giornalisti scriviate su di me. Voglio solo andare avanti, capisce. Andare avanti.» «È per questo che ha licenziato gli avvocati? È per questo che non sta impugnando la sua condanna?» Il prigioniero abbaiò una risata di risposta. «Certo. Diavolo, Cowart, mi guardi. Cosa vede?» «Un assassino.» «Esatto.» Sullivan sorrise. «Esatto. Ho ucciso quella gente. E ne avrei uccisi altri, se non mi avessero fermato. Avrei ammazzato quell'agente... ragazzi, quel figlio di puttana è stato proprio fortunato. Avevo soltanto il mio coltello, ed ero occupato a usarlo su quella tipetta per divertirmi un po'. Avevo lasciato la mia maledetta pistola nei pantaloni, e lui è riuscito a sopraffarmi. Non ho ancora capito perché non mi abbia sparato subito: avrebbe risparmiato un sacco di dannati fastidi a un sacco di gente. Ma che diavolo, mi ha beccato proprio sul fatto. E non posso nemmeno lamentarmi. Mi ha letto persino i miei diritti, mentre mi ammanettava. La sua voce era spezzata e le mani gli tremavano, ed era molto più sconvolto di quanto non fossi io. E comunque, ho sentito che l'avermi arrestato ha dato una bella spinta alla sua carriera, e ne sono alquanto orgoglioso, sissignore. Dunque, per quale ragione dovrei appellarmi? Solo per far lavorare altri avvocati del cazzo. Fanculo a loro. Non è che la vita sia così stupenda da farmi sentire la necessità di stare ancora in giro, non so se mi spiego.» Entrambi rimasero in silenzio, ripensando alle parole che ancora sembravano sospese nell'aria della cella. «Allora, Cowart, aveva una domanda da farmi?» «Sì. Pachoula.» «Bella cittadina. Ci sono stato. Davvero amichevole. Ma questa non è una domanda.» «Cosa è successo a Pachoula?» «Ha parlato con Robert Earl Ferguson. Scriverà un articolo su di lui? Sul mio vecchio vicino di cella?» «Cosa è successo fra voi due?» «Abbiamo iniziato a parlare. Tutto qui.» Blair Sullivan si rilassò e prese a giocare con le sue risposte, mentre l'accenno d'un sorriso gli attraversava il volto. Cowart provò l'impulso di scuoterlo fino a fargli uscire a forza la verità. Ma continuò invece a fare
domande. «Di che avete parlato?» «La sua condanna ingiusta. Lo sa che quei poliziotti lo hanno picchiato per ottenerne la confessione? Diavolo, a me è bastato che mi offrissero una Coca-Cola per farmi parlare fino a consumargli le orecchie.» «Che altro?» «Parlammo di automobili. A quanto pare ci piacevano le stesse macchine.» «E...?» «Coincidenze. Abbiamo parlato di trovarsi nello stesso posto all'incirca nello stesso momento. Un fatto sorprendente, non trova?» «Sì.» «Abbiamo parlato di quella cittadina, e di quello che è successo e che le ha fatto perdere la verginità, in un certo senso.» Sullivan si aprì nuovamente in un sorriso soddisfatto. «Mi piace. Perdere la verginità. È proprio quello che è successo, no? A quella ragazzina e a quella cittadina.» «Ha ucciso lei quella ragazza? Joanie Shriver. L'ha uccisa lei?» «L'ho fatto?» Blair Sullivan roteò gli occhi e sorrise. «Dunque, mi lasci vedere se riesco a ricordare. Sa, Cowart, stanno iniziando un po' tutti a confondersi nella mia memoria...» «L'ha uccisa lei?» «Diavolo, Cowart. Sta iniziando a fare il frenetico e il nervoso, proprio come Bobby Earl. Si è infuriato così tanto a causa del mio naturale processo mnemonico che ha cercato di uccidermi. Quello sì che è stato un fatto inusuale, persino per il braccio della morte, non trova?» «L'ha uccisa lei?» Blair Sullivan scattò in avanti di nuovo, abbandonando il tono scherzoso e provocatorio. «Le piacerebbe saperlo, eh?» sibilò rauco. Quindi si appoggiò di nuovo alla sedia, dondolandosi all'indietro e fissando il giornalista. «Mi dica qualcosa, Cowart, d'accordo?» «Cosa.» «Non ha mai sentito nelle sue mani un potere di vita e di morte? Non ha mai conosciuto la dolce sensazione della forza, la consapevolezza di controllare la vita e la morte di un'altra persona? Completamente. Assolutamente. Fino in fondo. Proprio lì nelle sue mani. Non ha mai provato qualcosa del genere, Cowart?» «No.» «È la droga più potente che esista. È come iniettarsi una scarica elettrica direttamente nell'anima. Non c'è niente come sapere che la vita di qualcun
altro ti appartiene...» Sollevò un pugno nell'aria, come se stesse tenendovi un frutto. Lo strinse nel vuoto. La catena delle manette sferragliò nella staffa di metallo. «Lasci che le dica un paio di cose, Cowart.» Fece una pausa, fissando il giornalista. «Uno: sono pieno di forza. Lei potrà anche pensare che io sia un prigioniero impotente, ammanettato e incatenato e rinchiuso giorno e notte in una cella di due metri per tre, ma io sono pieno di una forza che va molto al di là di queste sbarre. Molto al di là. Posso toccare tutte le anime che voglio, con la stessa facilità con la quale compongo un numero di telefono. Nessuno può sfuggire al mio tocco, Cowart. Nessuno.» Si fermò. «Capito?» domandò infine. Cowart annuì. «Due: non le dirò se ho ucciso o meno quella ragazzina. Diavolo, se le dicessi la verità renderei tutto troppo semplice. E come potrebbe credermi, comunque? Specialmente dopo tutto quello che i giornali hanno scritto su di me. Che credibilità potrei mai avere? Se uccidere è così facile per me, quanto pensa sia difficile mentire?» Cowart fu sul punto di dire qualcosa, ma una singola occhiata di Sullivan lo bloccò a bocca aperta. «Vuole sapere una cosa, Cowart? Ho abbandonato la scuola alle medie, ma non ho mai smesso di imparare. Scommetto di essere più colto e più istruito di lei. Cosa legge lei? Time e Newsweek. Forse la New York Times Book Review? Probabilmente Sports Illustrated quando è seduto sul cesso. Ma io ho Ietto Freud e Jung, e quasi quasi preferisco l'allievo al maestro. Ho letto Shakespeare, i poeti elisabettiani, la storia americana con una particolare attenzione alla Guerra Civile. Mi piacciono anche i romanzieri, in special modo quelli permeati dalla politica dell'ironia, come James Joyce, Faulkner, Conrad e Orwell. Mi piace leggere i classici. Qualcosa di Dickens e Proust. Amo Tucidide, amo leggere dell'arroganza degli ateniesi, e Sofocle perché parla di ognuno di noi. La prigione è un gran posto per leggere, Cowart. Nessuno ti viene a dire cosa leggere e cosa no. E hai tutto il tempo del mondo. Sospetto sia dannatamente meglio che la maggior parte delle università. Chiaro, stavolta non ho esattamente tutto questo tempo, dopotutto, e dunque mi dedico esclusivamente al Libro Sacro.» «E non le ha insegnato niente circa la verità e la chiarezza?» Blair Sullivan liberò una risata stridente, che riecheggiò nella cella. «Lei mi piace, Cowart. È un uomo spiritoso. Lo sa di cosa parla la Bibbia? Parla di inganni e di uccisioni e di menzogne e di assassinii e di furti e di idola-
tria, e di un sacco di piccole altre cose che sono proprio la mia specialità, per così dire.» Il prigioniero piantò i suoi occhi su Cowart. «D'accordo, Cowart» disse con un sorriso malvagio. «Divertiamoci un po'.» «Divertiamoci?» «Sì.» Ridacchiò affannosamente. «All'incirca a dieci chilometri dal posto in cui è stata uccisa la piccola Joanie Shriver, c'è un incrocio tra la County Route 50 e la State Route 120. Meno di cento metri prima di quell'incrocio c'è uno scarico della fogna che passa sotto la strada, proprio a fianco di un vecchio boschetto di salici che sembra si affloscino su se stessi, e che in estate gettano un po' d'ombra sulla strada. Se fermasse la macchina in quel punto e scendesse nella parte destra della fogna, e mettesse la mano sotto il bordo dal quale esce il condotto, e la affondasse nell'acqua vecchia e oleosa che ci scorre, potrebbe forse trovare qualcosa. Qualcosa di importante. Qualcosa di molto interessante.» «Cosa?» «Andiamo, Cowart. Crede che le rovinerei la sorpresa?» «Supponiamo che ci vada e che trovi qualcosa. A quel punto che succede?» «A quel punto avrà una domanda molto intrigante da proporre ai suoi lettori, Cowart.» «Di che domanda si tratterebbe?» «Come faceva Blair Sullivan a sapere che l'oggetto in questione si trovava in quel luogo?» «Io...» «Ecco la domanda da fare, no? È sempre la stessa. Come fa qualcuno a sapere qualcosa? Lo deve scoprire da sé, Cowart, perché io e lei non ci parleremo più. Almeno finché non sentirò il fiato caldo della Signora Morte sul collo.» Blair Sullivan si alzò in piedi. «Sergente!» ruggì con rabbia. «Ho finito con questo maiale! Me lo tolga dalla vista prima che gli stacchi la testa a morsi!» Quindi rivolse a Cowart un gran sorriso, facendo vibrare le catene che lo imprigionavano, mentre nell'aria della cella si spandeva l'eco delle sue parole, delle parole dell'assassino e mentre all'esterno si avvicinava il suono dei passi affrettati delle guardie. 6
La fogna Una leggera brezza proveniente da sud giocava con il caldo crescente del mattino, facendo scivolare nubi grigio-bianche nell'azzurro intenso del cielo del Golfo e facendo turbinare l'aria umida attorno a Cowart, intento ad attraversare il parcheggio del motel. Portava una borsa con un paio di guanti da giardinaggio e una grossa torcia acquistata la sera prima in un magazzino di articoli all'ingrosso. Si affrettò verso la sua auto, preoccupato da quanto aveva sentito dai due condannati del braccio della morte, fiducioso nel fatto che stesse avvicinandosi a un elemento del mistero che avrebbe completato l'immagine che di esso si era ricreato. Non si accorse dell'investigatore fino a quando non gli giunse quasi addosso. Tanny Brown era appoggiato all'auto del giornalista, e si faceva schermo con la mano sugli occhi, guardandolo mentre si stava avvicinando. «Fretta di andare da qualche parte?» domandò. Cowart si fermò sui suoi passi. «Ha degli ottimi informatori. Sono qui soltanto dalla notte scorsa.» Tanny Brown annuì. «Lo considero un complimento. Non ne arrivano poi tante, di cose, in un piccolo posto come Pachoula.» «Ne è sicuro?» L'investigatore si rifiutò di abboccare. «Forse farei meglio a non considerarlo un complimento» disse lentamente. «Per quanto ha intenzione di fermarsi?» domandò poi. Cowart esitò prima di rispondere. «Sembra il dialogo di un film di serie B.» L'investigatore si accigliò. «Mi lasci ritentare. Ieri sera ho sentito che si era registrato in questo motel. Ovviamente ha altre domande da fare, altrimenti non sarebbe qui.» «Esatto.» «Di che domande si tratta?» Cowart non rispose. Si limitò a osservare l'investigatore, che a sua volta pareva irrequieto. Fu assalito da uno strano pensiero. Sebbene fosse pieno giorno, quel poliziotto aveva un modo speciale di restringere il mondo, di comprimerlo allo stesso modo della notte. Poteva sentire il suo nervosismo e un'accennata, sconcertante vulnerabilità. «Credevo che avesse già raggiunto le sue conclusioni su Ferguson e su di noi.» «Si sbagliava.»
L'investigatore sorrise, scuotendo lentamente il capo, lasciando che Cowart si rendesse conto che aveva capito che stava mentendo. «Lei è un tipo duro, vero, signor Cowart?» Non formulò la domanda in tono aggressivo o rabbioso, ma dolcemente, quasi fosse spinto da una divertita curiosità. «Non so cosa intenda, tenente.» «Voglio dire, si è fatta un'idea e non ha alcuna intenzione di abbandonarla, vero?» «Se intende dire che ho dei seri dubbi sulla colpevolezza di Robert Earl Ferguson, allora sì, è vero.» «Posso farle una domanda, signor Cowart?» «Prego.» L'investigatore inspirò profondamente, quindi si avvicinò, la sua voce poco più che un sospiro. «Lo ha visto. Gli ha parlato. È stato a fianco di quell'uomo, ne ha sentito l'odore. Lo ha sentito. Cosa pensa che sia?» «Non lo so.» «Non mi può venire a dire che la pelle non le si sia aggrinzita, che non abbia sentito formarsi una leggera patina di sudore mentre parlava con Ferguson, vero? È quello che si aspetterebbe da un colloquio con un uomo innocente?» «Sta parlando di impressioni, non di prove.» «Esatto. E non mi dica che lei non si occupa di impressioni. Dunque, cosa pensa che sia?» «Non lo so.» «All'inferno. Lei lo sa benissimo.» In quel preciso istante, Cowart ricordò i tatuaggi sulla candida pelle delle braccia di Blair Sullivan. Qualche coscienzioso artista aveva disegnato una coppia di decoratissimi draghi orientali; uno per ogni avambraccio, parevano strisciare discendendo sulla pelle, ondeggiando a ogni minimo movimento dei tendini dell'uomo. I draghi erano di un rosso e di un blu stinti, decorati con squame verdi. Gli artigli erano aperti e le fauci erano minacciosamente spalancate, cosicché, quando Sullivan allungava di scatto le braccia per afferrare qualcosa o qualcuno, i draghi ne seguivano il movimento. In quel preciso istante Cowart fu quasi sul punto di gridare il nome di Sullivan e di stare a vedere la reazione sul volto dell'investigatore, ma si trattava di un indizio troppo importante per sprecarlo in quel modo. L'investigatore fissò il giornalista, spostando tutto il suo peso in avanti e parlando in tono sommesso. «Ha mai visto un paio di vecchi cani arrabbia-
ti, signor Cowart? Ha presente il modo in cui si annusano, continuando a girare in cerchio, e si prendono le misure a vicenda? La cosa che mi ha sempre fatto pensare è come quei vecchi cani decidano di combattere. A volte, ha presente, colgono l'odore e fanno marcia indietro, magari agitano un po' la loro vecchia coda, e tornano a preoccuparsi di fare i cani, qualsiasi cosa voglia dire. Ma altre volte, così all'improvviso, uno dei due si mette a ringhiare e tira fuori i canini, e in men che non si dica iniziano a sbranarsi, come le loro maledette vite dipendessero dal riuscire a saltare alla gola dell'altro.» Fece una pausa. «Mi dica, signor Cowart. Perché quegli stessi cani talvolta si allontanano? E perché altre volte si saltano addosso?» «Non lo so.» «Non crede che possano odorare qualcosa?» «Suppongo di sì.» Tanny Brown si appoggiò di nuovo all'auto, sollevando lo sguardo verso il sole, seguendo le nubi che scivolavano nel cielo. Sembrò rivolgere le sue parole alla distesa di pallido azzurro. «Sa, quando ero un ragazzino, pensavo che tutti i bianchi fossero in qualche modo speciali. Era molto facile convincersene. Bastava vedere come avessero sempre i lavori migliori e le auto più grandi e le case più belle. E così, per tanto tempo, ho odiato la gente bianca. Sono andato militare, ho combattuto a fianco dei bianchi. Sono tornato, mi sono laureato all'università in mezzo ai bianchi. Sono diventato un poliziotto, uno dei primi poliziotti di colore in un corpo formato solo da bianchi. Ora siamo il venti per cento e aumentiamo. Ho messo in galera gente bianca, a fianco di gente di colore. E ho imparato qualcosa a ogni piccolo passo che compivo. E sa cos'ho imparato? Che il male non ha colore. Non fa alcuna differenza il colore della pelle. Se sei un tipo sbagliato, sei sbagliato, che tu sia nero, o bianco, o verde, o giallo, o rosso.» Abbassò lo sguardo dal cielo. «Ora, è un concetto semplice, vero, signor Cowart?» «Troppo semplice.» «Sarà perché in fondo al cuore sono pur sempre un campagnolo» rispose Tanny Brown. «Ma sono un vecchio cane. E ho colto un certo odore.» I due uomini rimasero fermi, in piedi davanti all'auto, a fissarsi. Quindi Brown parve sospirare, e si passò la grossa mano sui capelli cortissimi. «Dovrei ridere di tutta questa storia, lo sa.» «Cosa vuol dire?» «Se ne accorgerà. Dove stava andando?» «A una caccia al tesoro.»
L'investigatore sorrise. «Posso unirmi? Sembra divertente, e di sicuro un po' di divertimento mi farebbe bene, non trova? Non ci si fanno troppe risate a buon mercato quando si fa il poliziotto, solo un sacco di macabro umorismo. O preferisce che la segua?» Cowart si rese conto che, per quanto lo desiderasse, non sarebbe stato in grado di sfuggirgli. Prese la decisione più semplice. «Salga» disse, indicando il sedile del passeggero. I due procedettero in silenzio per qualche chilometro. Cowart vide l'autostrada scorrere attraverso il parabrezza, mentre l'investigatore scrutava la campagna che sfilava loro di fianco. Il silenzio creava un'atmosfera sgradevole, e Cowart si agitò sul sedile di guida, cercando di tendere le braccia sul volante. Era abituato a rapide valutazioni di personalità e carattere, ma fino a quel momento Tanny Brown aveva eluso ogni suo sforzo. Lanciò un'occhiata all'investigatore, che pareva altrettanto assorto nei suoi pensieri. Cowart cercò di fare una stima di quell'uomo, come un banditore prima dell'inizio di un'asta. Nonostante la sua muscolatura e le sue imponenti dimensioni, il modesto abito marrone-rossiccio di Brown gli cadeva mollemente sulle spalle e sulle braccia, come se di proposito l'avesse fatto tagliare di due misure più grande, sminuendo di proposito il proprio fisico. Sebbene la giornata si stesse scaldando, portava la cravatta allacciata stretta sul colletto di una camicia azzurra. Sottraendo qualche altra occhiata al percorso della strada, Cowart vide l'investigatore pulire un paio di occhiali dalla montatura dorata e infilarseli, contraddicendo ancora una volta, con una certa aria da studioso, la sua stazza fisica. Quindi Brown estrasse da una tasca una piccola penna e un taccuino, e stese qualche veloce annotazione, con un gesto non dissimile da quello di un giornalista. Quando ebbe finito di scrivere, l'investigatore ripose penna, taccuino e occhiali, e riprese a guardare fuori dal finestrino. Quindi sollevò leggermente una mano, quasi stesse cercando di sospingere nell'aria un'idea, e indicò la campagna che scorreva loro di fianco. «Era completamente diversa dieci anni or sono. E venti anni fa, ancora più diversa.» «Come mai?» «Vede quella stazione di servizio? Il self-service della Exxon completo di minimarket e di pompe regolate dal computer?» Ci stavano proprio sfrecciando accanto. «Certo. Che ha di speciale?»
«Cinque anni fa, era una vecchia stazione della Dixie Gas, di proprietà di un tizio che probabilmente negli anni cinquanta faceva parte del Klan. Un paio di vecchie pompe, una bandiera confederata appesa alla finestra, un'insegna che diceva ESCHE E MUNIZIONI. Diavolo, quel tipo poteva dirsi fortunato a saper scrivere quelle due parole, e cara grazia che non aveva sentito il bisogno di abbreviarle. Ma aveva una posizione privilegiata. E così ha venduto. Ci ha fatto un sacco di soldi. Si sarà ritirato in una di quelle piccole casette che si vedono nascere tutto intorno a qui con nomi tipo "Fox Run" o "Bass Creek" o "Elysian Fields", a quanto credo.» L'investigatore ridacchiò fra sé e sé. «Mi piace. Quando mi ritirerò, sarà in un posto chiamato "Elysian Fields". O magari "Valhalla", decisamente più appropriato per uno sbirro, no? I guerrieri della società moderna. Chiaro che dovrei morire con la mia arma in pugno, giusto?» «Esatto» replicò Cowart. Era teso. L'investigatore sembrava riempire di sé il piccolo abitacolo dell'auto, quasi ci fosse, in lui, molto più di quanto Cowart fosse in grado di vedere. «Sono cambiate tante cose?» «Si guardi in giro. La strada è buona, e ciò significa dollari. Niente più conduzioni familiari. Se vuoi fare il cambio dell'olio alla macchina, devi rivolgerti a una grande azienda. Se devi andare dal dentista, devi interpellare un'associazione professionale. Vuoi acquistare qualcosa? Vai in un centro commerciale. Diavolo, il mediano della squadra di rugby del liceo è il figlio di un insegnante, ed è nero, mentre il miglior ricevitore laterale, bianco, è il ragazzo di un meccanico. Rendo l'idea?» «Le cose non mi sono sembrate così diverse da un tempo nella zona in cui vive la nonna di Ferguson.» «No, giusto. Vecchio Sud. Fango e miseria. Caldo in estate. Freddo in inverno. Stufa a legna e servizi esterni e piedi nudi nella polvere. Non tutto è cambiato, e quello è il tipo di posto che esiste per ricordarci di quanti altri cambiamenti dobbiamo fare.» «Le stazioni di servizio sono una cosa» commentò Cowart. «E cosa mi dice delle mentalità?» Brown scoppiò a ridere. «Quelle cambiano molto più lentamente, vero? Tutti esultano quando il figlio dell'insegnante lancia il pallone e quando il figlio del meccanico lo riceve e corre verso il touchdown. Ma se entrambi quei ragazzi volessero uscire con la sorella dell'altro, be', credo che l'esultanza smetterebbe dannatamente in fretta. D'altra parte, di questo genere di cose dovrebbe essere un esperto, visto il lavoro che fa, no?» Il giornalista annuì, non riuscendo a capire se fosse stato provocato, in-
sultato o complimentato. Superarono un campo trasformato in un'area in costruzione. Una ruspa gialla stava aprendosi un varco nel prato, scavando un solco di terra rossiccia. Il suono sforzato degli ingranaggi e della pala invase per qualche secondo l'auto di passaggio. A breve distanza, una squadra di lavoratori, gli elmetti calati sul capo e le camicie bagnate di sudore, stava accatastando il legname da costruzione e i mattoni di cemento. All'interno dell'auto i due rimasero in silenzio finché non ebbero superato il cantiere. Fu Cowart il primo a parlare. «Allora, dov'è oggi Wilcox?» «Bruce? Oh, abbiamo avuto un paio di morti in incidenti stradali, la notte scorsa. L'ho mandato ad assistere ufficialmente alle autopsie. Ti insegna un rispetto diverso per le cinture di sicurezza e per le norme contro la guida in stato di ubriachezza, e ti fa capire cosa succede quando i lavoratori come quelli che abbiamo appena visto vengono pagati ogni giovedì sera.» «Ha bisogno di lezioni del genere?» «Tutti ne abbiamo bisogno. Fa parte di una crescita sul lavoro.» «Si riferisce al suo carattere?» «Quello è qualcosa che imparerà a controllare. Nonostante i suoi modi, è un osservatore molto coscienzioso, e astuto. Si sorprenderebbe nel vedere com'è bravo nella ricerca delle prove e con la gente. Non succede spesso che perda la pazienza ed esploda come quella volta.» «Avrebbe dovuto controllarsi, con Ferguson.» «Non credo lei abbia ancora capito quanto fossimo tesi per quello che era successo a quella ragazzina.» «Non è questo il punto e lei lo sa benissimo.» «No, invece, il punto è proprio questo. Solo che lei non vuole rendersene conto.» Cowart fu azzittito dal rimprovero dell'investigatore. Dopo un istante, tuttavia, decise di insistere. «Sa cosa succederà quando scriverò che Wilcox ha picchiato Ferguson?» «So cosa lei pensa che succederà.» «Otterrà un altro processo.» «Forse. Suppongo, è probabile.» «Parla come uno che sa qualcosa e che non vuole parlarne.» «No, signor Cowart, parlo come uno che conosce il sistema.» «Bene: il sistema dice che non si può picchiare un sospettato per ottenerne una confessione.» «Sarebbe quello che abbiamo fatto? Mi sembrava di averle detto che Wilcox ha dato a Ferguson solo un paio di schiaffi. Schiaffi. A mano aper-
ta. Poco più di un espediente per ottenere la sua attenzione. Pensa che ottenere una confessione da un assassino sia come bere un tè, una cerimonia carina ed educata fino alla fine? Cristo. E comunque, erano passate almeno ventiquattro ore prima che si decidesse a confessare. Dov'è il rapporto tra causa ed effetto?» «Non è quanto sostiene Ferguson.» «Suppongo sostenga che lo abbiamo torturato per tutto il tempo.» «Sì.» «Niente cibo. Niente acqua. Niente sonno. Abuso fisico costante, accompagnato da privazioni e paura. Vecchia scuola e di gran successo. È sempre esistita, fin dall'età della pietra. È questo che dice?» «Più o meno. Lo nega?» Tanny Brown sorrise annuendo. «Naturale. Non è andata in quel modo. Se fosse andata così, avremmo tirato fuori una confessione maledettamente migliore, da quell'abbottonatissimo figlio di puttana. Avremmo scoperto come aveva fatto a convincere Joanie a salire sull'auto, e dove aveva nascosto i suoi vestiti e quel pezzo di tappetino e tutto il resto della merda che non ci ha voluto raccontare.» Cowart sentì nuovamente sopraggiungere il dubbio. Il poliziotto aveva ragione. Brown esitò, pensieroso. «Ecco» disse poi. «Questo potrebbe dare una mano al suo articolo, vero? Una smentita ufficiale.» «Sì.» «Ma non la fermerà?» «No.» «Ah, insomma, suppongo che le convenga molto di più credere a lui.» «Non ho detto questo.» «No? E allora cosa rende la sua versione più plausibile della mia?» «Non ho mai dato un giudizio del genere.» «Col cavolo che non l'ha mai dato.» Brown si spostò sul suo sedile e fulminò Cowart con lo sguardo. «La solita, tipica scusa del giornalista, vero? Il classico "Ehi, io mi limito a riportare tutte le versioni e lascio che siano i lettori a giudicare...", giusto?» Cowart, a disagio, annuì. L'investigatore annuì di rimando e riprese a scrutare fuori dal finestrino. Procedendo lentamente con l'auto lungo la strada, Cowart fu inghiottito dal silenzio. Vide che stava superando l'incrocio descritto da Blair Sullivan. Scrutò nella direzione indicata, alla ricerca del boschetto di salici.
«Cosa sta cercando?» domandò Brown. «Dei salici e uno scarico di fogna sotto la strada.» L'investigatore si accigliò e rimase qualche istante in silenzio prima di rispondere. «È poco più in là. Rallenti, glielo mostro.» Indicò un punto davanti a loro e Matthew Cowart vide degli alberi e un piccolo slargo di terra battuta nel quale fu in grado di accostare. Fermò l'auto e ne scese. «D'accordo» disse l'investigatore «abbiamo trovato i salici. Ora cosa stiamo cercando?» «Non ne sono sicuro.» «Signor Cowart, magari se fosse un po' più collaborativo...» «Sotto lo scarico. Mi è stato detto di cercare sotto lo scarico della fogna.» «Chi le ha detto di cercare sotto lo scarico, e che cosa?» Il giornalista scosse il capo. «Non ancora. Prima diamo un'occhiata.» L'investigatore sbuffò, ma lo seguì. Matthew Cowart s'incamminò verso il ciglio della strada; lì giunto, vide l'estremità arrugginita del condotto grigio-ardesia sporgere in un groviglio di arbusti, di roccia e di muschio. Era circondata dall'inevitabile assortimento di spazzatura: lattine di birra, bottigliette di plastica, irriconoscibili confezioni di prodotti alimentari, una vecchia scarpa da basket e un puzzolente cestino mezzo consumato di pollo fritto. Un ruscelletto di acqua nera dalla sporcizia fuoriusciva dalla bocca del cilindro di metallo. Cowart esitò, quindi scese arrancando nell'umido, cespuglioso sottobosco. Gli arbusti gli si impigliavano agli abiti, e poteva sentire i piedi sprofondare nella melma. L'investigatore lo seguì senza alcuna esitazione, e subito si strappò e sporcò di terra il suo abito. Non vi prestò attenzione. «Mi dica» chiese il giornalista «questo posto è sempre così, oppure...» «No. Quando piove di brutto, l'intera zona si allaga, diventa tutta palude e fango. Ci mette un giorno o giù di lì per asciugarsi di nuovo. E questo succede di continuo.» Cowart si infilò i guanti. «Regga la torcia» disse. Si inginocchiò facendo attenzione a ogni suo movimento, e, mentre l'investigatore in bilico al suo fianco proiettava la luce della torcia oltre l'orlo dello scarico, prese a grattare via con le mani la sporcizia accumulata dal tempo e i detriti che ostruivano l'ingresso. «Signor Cowart, ha idea di quello che sta facendo?» Lui non rispose, insistendo a spostare i detriti, gettandoseli alle spalle.
«Magari se mi dicesse...» Scorse un bagliore nel raggio, di luce proiettata dalla torcia. Prese a scavare con più forza. L'investigatore si rese conto che aveva visto qualcosa e cercò di scrutare sotto l'orlo dello scarico, per rendersi conto di cosa fosse. Matthew Cowart spazzò via un mucchio di foglie bagnate e di fango. Vide un'impugnatura e l'afferrò. Tirò con forza. Per un attimo incontrò una certa resistenza, quasi la terra non volesse cedere senza lottare; ma infine riuscì nell'operazione. Si tirò in piedi di scatto, voltandosi verso l'investigatore, allungando la mano. Un'eccitazione selvaggia si impadronì di lui. Era molto soddisfatto di sé. «Un coltello» mormorò lentamente. L'investigatore fissò l'oggetto a lungo. «L'arma del delitto, sospetto.» I dieci centimetri della lama e dell'impugnatura del coltello erano coperti di ruggine e di sporco. Era annerito dall'età e dagli elementi, e per un attimo Cowart temette che gli si potesse disintegrare in mano. Tanny Brown rivolse a Cowart una dura occhiata, estrasse da una tasca un panno pulito e prese il coltello dalla punta, avvolgendolo con delicatezza. «Questo lo prendo io» disse con fermezza. Quindi si mise il coltello in tasca. «Non ne è rimasto molto» disse lentamente, con disappunto. «Faremo i test di laboratorio, ma non ci conterei troppo.» Guardò lo scarico della fogna, quindi sollevò lo sguardo sul cielo. «Si allontani» proseguì in un filo di voce. «Non tocchi nient'altro. Potrebbe esserci qualche prova, e non voglio che venga rovinata più di quanto lo sia già.» Fissò Cowart con uno sguardo fermo, severo. «Se questo posto è in relazione con un crimine, voglio che sia preservato.» «Lo sa benissimo con quale crimine è in relazione» rispose Cowart. Brown si allontanò per un istante, scuotendo il capo. «Figlio di puttana» disse in un sussurro, voltandosi all'improvviso e arrancando per risalire il pendio verso l'auto del giornalista. Per un secondo rimase in piedi sulla strada, la mano stretta a pugno, il volto attraversato da un'espressione risoluta. Quindi, improvvisamente, con una rapidità che parve spezzare l'immobilità del mattino, scaricò un violento calcio contro la portiera dell'auto ancora aperta. Il rumore del piede che colpiva il metallo riecheggiò a lungo nel caldo e nel sole, spegnendosi lentamente come uno sparo lontano. Cowart sedeva da solo nell'ufficio del poliziotto, in attesa. Alla finestra guardò la notte scivolare sulla cittadina, un improvviso insorgere di un'o-
scurità che pareva estendersi aggressivamente dagli angoli più bui e dalle ombre degli alberi fino a impadronirsi dell'intera atmosfera. Lo faceva con la rapidità dell'inverno, senza un accenno dell'indugiante luce dei giorni d'estate. Aveva passato quella giornata sul filo di un rasoio. Aveva assistito mentre una squadra di esperti aveva perquisito lo scarico della fogna alla ricerca di altre prove. Aveva seguito le operazioni di raccolta e di catalogazione dei detriti, dei campioni di fango, di qualche irriconoscibile pezzo di spazzatura. Sapeva che non avrebbero trovato nulla, ma aveva atteso pazientemente per tutta la giornata di ricerche. Nel tardo pomeriggio, Cowart e Tanny Brown avevano fatto ritorno al quartier generale della polizia, dove l'investigatore lo aveva sistemato nell'ufficio, in attesa dei risultati degli esami di laboratorio eseguiti sul coltello. I due uomini avevano diviso poco più del silenzio. Cowart si volse verso la parete dell'ufficio e prese a fissare una fotografia incorniciata dell'investigatore e della sua famiglia, scattata di fronte a una chiesetta dipinta di bianco. Una moglie e due figlie; una pareva tutta treccine e ferri in bocca, con una spensieratezza che penetrava perfino l'austerità dell'abito domenicale, l'altra aveva tutta l'aria della futura bomba sexy, con una pelle vellutata e una figura che spingeva con forza sotto il bianco inamidato della camiciola. L'investigatore e la moglie rivolgevano un tranquillo sorriso alla macchina fotografica, nel tentativo di sembrare a proprio agio. Cowart fu colpito da un improvviso rimorso di coscienza. Dopo il divorzio, aveva gettato via tutte le fotografie che lo ritraevano con la moglie e la figlia. Ora si domandava perché lo avesse fatto. Lasciò che lo sguardo vagasse sulle altre decorazioni appese alle pareti. Vi era una serie di targhe attestanti l'abilità di tiratore, aggiudicate a Brown alla gara annuale di tiro a segno. Una menzione del sindaco e del consiglio cittadino, incorniciata, testimoniava del suo eroismo in un'oscura occasione. Una medaglia, anch'essa incorniciata, una stella di bronzo, accostata a un'altra menzione. Accanto a quest'ultima, l'immagine di un Tanny Brown più giovane e molto più magro, in divisa, nel Sud-Est asiatico. La porta si aprì alle sue spalle, e Cowart si voltò. L'investigatore era impassibile, la solita espressione decisa dipinta sul volto. «Ehi» disse Cowart «per cosa ha preso la medaglia?» «Come?» Cowart indicò la parete.
«Ah. Quella. Il plotone era caduto preso in un'imboscata e quattro uomini erano stati lasciati indietro in una risaia. Io sono andato fuori e li ho recuperati, uno dopo l'altro. Niente di speciale, tranne che con noi quel giorno c'era un giornalista del Washington Post. Il mio tenente si era reso conto di aver combinato una cazzata enorme a farci cadere nell'imboscata, e ha capito che avrebbe dovuto fare qualcosa. Così si è sincerato che venissi citato per una medaglia. In qualche modo sviava l'attenzione del giornalista dalla brutta impressione che aveva avuto quando era stato costretto a passare quattro ore sotto il fuoco nemico, con il muso in una palude piena di sanguisughe. Lei ci è andato?» «No» rispose Cowart. «Il mio numero di chiamata era trecentoventi. Non sono mai uscito.» L'investigatore annuì, indicando una sedia. Si lasciò cadere sulla poltrona dietro la scrivania. «Nulla» annunciò infine. «Impronte digitali? Sangue? Niente?» «Non ancora. Lo manderemo al laboratorio dell'irci, e vedremo cosa potranno fare. Hanno attrezzature molto più avanzate delle nostre.» «Ma proprio nulla?» «Be', il medico legale dice che le dimensioni del coltello indicano che potrebbe essere stata l'arma del delitto. La ferita più profonda aveva la stessa estensione della lama del coltello. È già qualcosa.» Cowart prese il taccuino e iniziò ad annotare. «È possibile stabilire da dove venga il coltello?» «È un modello a buon mercato, di quelli che si vendono a diciannove dollari e novantacinque, e che si trovano in ogni negozio di articoli sportivi. Proveremo, ma non esiste alcun numero di serie che possa identificarlo, né alcun marchio.» Esitò, rivolgendo a Cowart un'occhiata severa. «Ma cosa significa?» «Come?» «Mi ha sentito. È ora di piantarla di fare giochetti. Chi le ha detto del coltello? È l'assassino di Joanie Shriver? Me lo dica.» Cowart esitò. «Ha intenzione di farmelo leggere sui giornali? O che?» Una dura insistenza si era insinuata nel suo tono di voce, vincendone la stanchezza. «Le dirò solo una cosa: non è stato Robert Earl Ferguson a dirmi dove cercare quel coltello.» «Mi sta dicendo che è stato qualcun altro a dirle dove cercare il coltello
che potrebbe essere stato usato nell'assassinio di Joanie Shriver?» «Esatto.» «Le spiacerebbe mettermi al corrente di questa informazione?» Matthew Cowart sollevò lo sguardo dalle sue note. «Prima mi dica una cosa, tenente. Se le dico il nome di chi mi ha informato del coltello, lei riaprirà l'inchiesta sull'omicidio? Si presenterà nell'ufficio del procuratore? Si alzerà in piedi davanti al giudice e sosterrà che il caso deve essere riaperto?» L'investigatore aggrottò la fronte. «Non posso fare una promessa del genere se prima non so nulla. Avanti, Cowart. Parli.» Cowart scosse il capo. «Non so proprio se posso fidarmi di lei, tenente. Si tratta semplicemente di questo.» In quel preciso istante, Tanny Brown parve sul punto di esplodere. «Credevo che avesse capito una cosa» disse, quasi in un sussurro. «Cosa.» «Che in questa cittadina, finché quell'uomo non pagherà, l'omicidio di Joanie Shriver non sarà mai chiuso.» «È questo il problema, vero? Chi paga.» «Stiamo pagando tutti. Tutti noi. Sempre.» Scaricò con forza il pugno sulla scrivania. Il rumore riecheggiò nella stanzetta. «Se ha qualcosa da dire, la dica!» Matthew Cowart pensò bene a quello che sapeva e a quello che non sapeva. «Blair Sullivan. È stato lui a dirmi dove cercare quel coltello» dichiarò infine. Il nome ebbe sul poliziotto l'impatto previsto. Dapprima parve sorpreso, quindi sconvolto, come un battitore di baseball che, aspettandosi una palla veloce, assista al passaggio sulla base di un tiro a effetto. «Sullivan? E cosa c'entra lui con questa storia?» «Dovrebbe saperlo. È passato proprio accanto a Pachoula nel maggio del millenovecentoottantasette, occupato ad ammazzare un po' tutti.» «Lo so, ma...» «E sapeva dove si trovava quel coltello.» Brown lo fissò. Il silenzio invase il locale per una manciata di interminabili secondi. «Sullivan ha detto di avere ucciso Joanie Shriver?» «No.» «Ha detto che Ferguson non l'ha uccisa?» «Non esattamente, ma...» «Ha detto qualcosa che contraddicesse esattamente il processo origina-
le?» «Sapeva del coltello.» «Sapeva di un coltello. Non siamo ancora sicuri che sia quel coltello, e senza alcuna prova, è poco più che un pezzo di metallo arrugginito. Andiamo, Cowart, lo sa benissimo che Sullivan è matto come un cavallo. Le ha fornito qualcosa che possa anche lontanamente avvicinarsi a una prova?» Gli occhi di Brown si erano ridotti a due fessure. Cowart poté vederlo mentre rapidamente passava in rassegna le informazioni, mentre ragionava, assorbiva e scartava. In quel preciso momento pensò: "È troppo difficile per lui. Non vorrà considerare l'eventualità di avere sbagliato. Ha il suo assassino, ed è contento così". «Niente altro.» «Allora non basta per riaprire un'inchiesta che ha portato a una condanna.» «No? D'accordo. Allora si prepari a leggerne sul giornale. Vedremo se non basterà, a quel punto.» Il poliziotto fulminò Cowart con lo sguardo, e subito indicò la porta. «Se ne vada, signor Cowart. Se ne vada immediatamente. Salga sulla sua auto a noleggio e torni al motel. Faccia i bagagli. Vada all'aeroporto. Salga sul primo aereo e torni alla sua città. E non si faccia più vedere. Capito?» Cowart sentì montare la collera. Fu in grado di distinguere l'ondata della sua stessa rabbia frustrata che in lui spingeva per uscire. «Mi sta minacciando?» L'investigatore scosse il capo. «No. Le sto dando un consiglio.» «E...?» «Lo accetti.» Matthew Cowart si alzò dalla sedia e rivolse un'insistente occhiata all'investigatore. Gli sguardi dei due uomini si incontrarono a mezz'aria, in una sorta di braccio di ferro. Quando alla fine l'investigatore scostò lo sguardo, dandogli le spalle, Cowart si volse e raggiunse la porta, se la richiuse violentemente alle spalle, e s'incamminò a passi veloci nella luce fluorescente degli uffici di polizia, quasi stesse spingendo un'onda davanti a lui, guardando gli ufficiali in uniforme e gli altri investigatori che si facevano da parte. Poteva sentire la pressione dei loro sguardi sulla schiena mentre percorreva i corridoi, interrompendo al suo passaggio almeno una dozzina di conversazioni. Udì qualche parola mormorata alle sue spalle, sentì il suo nome pronunciato diverse volte con antipatia. Non si guardò in
giro, non cambiò il passo. Scese da solo in ascensore e varcò la porta a vetri, e infine fu di nuovo in strada. Qui giunto si volse e sollevò lo sguardo verso l'ufficio dell'investigatore. Per un attimo poté scorgere Tanny Brown in piedi alla finestra: lo stava guardando. E nuovamente i loro sguardi si incontrarono. Matthew Cowart scosse leggermente il capo, con un movimento appena accennato. Vide l'investigatore girarsi di scatto e sparire dalla finestra. Cowart rimase fermo per un istante, lasciando che la notte lo avvolgesse. Quindi si allontanò, dapprima a passi lenti, quindi rapidamente acquistando una velocità e un ritmo sempre maggiori, finché non si ritrovò a procedere veloce attraverso la cittadina, finché le parole che presto avrebbero formato la sua storia non presero a raccogliersi nel profondo della sua coscienza, e a marciare come un esercito nella distesa della sua immaginazione. 7 Parole Sulla via del ritorno verso casa, un'invadente spossatezza forzò i vivi a scomparire fra le righe dei suoi appunti, e fece sì che i morti si impadronissero della sua immaginazione. Era tardi, molto dopo la mezzanotte; la notte di Miami era trasparente, e il cielo pareva di un nero senza fine dipinto a grandi pennellate fra un'infinità di stelle tremolanti. Avrebbe voluto che ci fosse qualcuno, con lui, a condividere il suo imminente trionfo, ma si rese conto che non vi era nessuno. Tutti se ne erano andati, sottratti dal tempo, dal divorzio, da troppe morti. Avrebbe voluto in special modo i suoi genitori, ma loro se ne erano andati da tempo. Sua madre era morta quando lui era ancora giovane. Era una donna timida e silenziosa, di una magrezza atletica e ossuta che rendeva il suo abbraccio fragile e secco, cosa che lei riusciva a compensare con una voce dolce e ricca, messa a frutto nel raccontare le storie. Tipico prodotto dei tempi che avevano fatto di lei una moglie e così facendo l'avevano imprigionata, si era dedicata a lui e ai suoi fratelli e alle sue sorelle in un interminabile ciclo di pannolini, di medicine, di denti spuntati e caduti che a loro volta si erano trasformati in ginocchia sbucciate e mali immaginari, in compiti a casa, in allenamenti di basket, e negli occasionali, inevitabili cuori spezzati dell'adolescenza.
Era morta rapidamente e in silenzio, all'inizio della sua vecchiaia. Cancro al colon. Inoperabile. Cinque settimane, una progressione magica e decisa dalla salute alla morte, segnata quotidianamente dall'ingiallirsi della sua pelle e dalla sempre maggiore debolezza della sua voce e del suo passo. Suo padre era morto quasi insieme a lei, il che era strano. Crescendo, Cowart era giunto a conoscenza delle tempestose infedeltà di suo padre. Erano sempre state brevi e maldestramente nascoste. Con il senno di poi gli erano parse molto meno dannose della lunga storia d'amore con il giornale, che lo aveva derubato del suo tempo e aveva minato il piacere di stare con la sua famiglia. Quando il padre aveva fatto seguire il funerale della moglie da sei mesi ossessivamente, totalmente dedicati al lavoro, per poi alla fine annunciare che sarebbe andato in pensione prima del termine, i figli erano rimasti sorpresi. Avevano avuto lunghe conversazioni telefoniche, facendosi continue domande sul suo gesto, chiedendosi cosa avrebbe fatto, ora, da solo in una grande e a quel punto deserta, riecheggiante casa di periferia, circondato da giovani famiglie che avrebbero trovato la sua presenza strana e probabilmente inquietante. Matthew Cowart era il minore di sei fratelli e sorelle; fra loro vi erano insegnanti, un avvocato, un dottore, un artista, e per finire lui. Erano tutti sparsi per il paese, nessuno abbastanza vicino per poter aiutare il padre, improvvisamente vecchio. E nessuno era stato in grado di accorgersi dell'ovvio. Il padre si era sparato il giorno dell'anniversario del suo matrimonio. "Avrei dovuto saperlo", pensò. Avrei dovuto vedere ciò che stava arrivando. Suo padre gli aveva telefonato due notti prima. Avevano parlato circospetti, distanti, di giornalismo e di articoli. Suo padre aveva detto: "Ricorda, non sono i fatti che vogliono. È la verità". Raramente aveva detto qualcosa del genere a suo figlio prima d'allora, e quando Cowart aveva cercato di farlo continuare, lui aveva bruscamente chiuso l'argomento. La polizia l'aveva ritrovato seduto alla sua scrivania, una piccola rivoltella stretta in mano, un foro di proiettile in fronte, in grembo la fotografia di lei. Cowart aveva parlato con gli investigatori, giornalista anche in quell'occasione, e li aveva costretti a descrivere la scena con tutti quei piccoli dettagli che, una volta sentiti, non possono più essere dimenticati, e che spogliano la morte di tutto il suo dramma: il fatto che suo padre indossasse un paio di vecchie pantofole rosse e un abito blu da ufficio e una cravatta a fiori che lei gli aveva regalato in occasione di una dimenticata Festa del Papà di tanto tempo prima; il fatto che di fronte a lui, sulla scrivania, a
fianco di una bibita dietetica e di un panino al formaggio mangiato a metà, giacesse aperta una copia del giornale di quel giorno, riempita di appunti a matita rossa. Si era ricordato di fare un assegno per la donna delle pulizie, e lo aveva attaccato con del nastro adesivo alla sua antica lampada da tavolo da banchiere, quella con il paralume verde. Attorno alla sua sedia erano sparpagliati sei fogli di carta appallottolati, gettati a casaccio, su ognuno di loro un messaggio iniziato e mai concluso, indirizzato a ciascuno dei suoi figli. Le stelle tremolarono sopra di lui. "Ero il più giovane" pensò. "L'unico che aveva intrapreso la sua stessa strada. Credevo che ciò ci potesse avvicinare. Pensavo di poterlo fare meglio. Pensavo che ne sarebbe stato orgoglioso. O geloso. E invece, fu soltanto ancora più lontano." Ripensò al sorriso di sua madre. Quello di sua figlia glielo ricordava. "E ho lasciato che mia moglie me la portasse via, senza nemmeno un lamento." A quel pensiero sentì un'improvvisa, buia sensazione di vuoto, subito sostituita dal terribile ricordo del corpo straziato della piccola Joanie Shriver. Abbassò lo sguardo e scrutò la strada. In lontananza poté vedere il viale brillare delle luci gialle dei lampioni e dei fari sfreccianti delle auto che lo percorrevano. Si volse, sentendo il lamento di una sirena alzarsi a qualche strada di distanza, ed entrò nel suo condominio. Salì in ascensore, attraversò il corridoio e aprì la porta del suo appartamento. Per qualche istante esitò sulla soglia, accendendo le luci e scrutando ciò che gli si parava davanti. Vide il tipico disordine di una casa da scapolo, libri accatastati sulle mensole, manifesti incorniciati appesi alle pareti, una scrivania invasa dalle carte, dalle riviste, dagli articoli ritagliati. Si guardò in giro alla ricerca di qualcosa di familiare, qualcosa che lo potesse convincere di essere a casa. Poi sospirò, richiudendosi la porta alle spalle, e si dedicò a disfare la valigia e ad andare a letto. Cowart passò una lunga settimana lavorando al telefono, cercando di costruire una base concreta per la storia. Vi furono brusche conversazioni con gli avvocati dell'accusa che avevano fatto condannare Ferguson, e che si rifiutavano di parlare con i giornalisti. Vi furono telefonate più lunghe con gli uomini che si erano occupati del caso di Blair Sullivan. Un investigatore di Pensacola confermò la presenza di Blair Sullivan nella contea di Escambia negli stessi giorni della morte di Joanie Shriver; una ricevuta di
carta di credito relativa a un rifornimento di benzina effettuato nei pressi di Pachoula datava al giorno precedente l'assassinio della ragazzina. Gli avvocati dell'accusa a Miami mostrarono a Cowart il coltello che Sullivan stava usando quando era stato arrestato; era un'arma di bassa qualità, di marca indeterminata, con una lama di circa dieci centimetri, simile ma non identica a quella che aveva trovato sotto la fogna. Reggendo il coltello in mano, Cowart pensò: "Tutto quadra". Altri dettagli trovarono una loro sistemazione. Parlò a lungo con i responsabili della Rutgers University, venendo a conoscenza della media modesta degli esami di Ferguson. Era stato uno studente regolare e tenacemente indifferente, e aveva sempre mostrato uno scarso interesse in qualsiasi cosa andasse al di là del completamento dei suoi studi, che aveva affrontato con regolarità, sebbene senza straordinari risultati. Un sorvegliante del dormitorio lo ricordava come uno studente riservato e poco amichevole, non portato per le feste, né per qualsiasi altro tipo di socializzazione. Un solitario, aveva detto, che stava soprattutto per conto suo e che si era trasferito in un appartamento poco dopo il completamento del primo anno di università. Cowart parlò di Ferguson con il suo consulente per gli studi del liceo, il quale gli disse più o meno le stesse cose, pur facendogli notare che a Newark i voti del ragazzo erano stati molto più alti. Nessuno dei due uomini era stato in grado di fornirgli il nome di un singolo vero amico del prigioniero. Iniziò a vedere Ferguson come un uomo che aveva galleggiato ai margini della vita, insicuro di sé, insicuro di quello che sarebbe potuto essere o di dove avrebbe potuto andare, un uomo in attesa che qualcosa gli succedesse, finché la cosa peggiore di tutte l'aveva travolto. Non lo vide più come innocente, ma come la vittima della propria stessa passività. Un uomo da sfruttare. Questa considerazione lo aiutò a comprendere quanto fosse successo a Pachoula. Pensò al contrasto tra i due uomini di colore che sarebbe stato al centro del suo servizio: uno che non gradiva rollare e beccheggiare sul retro di un pullman, l'altro che si lanciava sotto il fuoco nemico per salvare delle vite. Uno che si era lasciato trasportare dalla corrente della vita fino all'università, l'altro che era diventato un poliziotto. "Ferguson non aveva avuto alcuna possibilità" pensò Cowart "nel momento in cui si era trovato a fronteggiare la forza della personalità di Tanny Brown." Alla fine della settimana un fotografo, inviato dal Journal nella Florida del nord, fece ritorno al giornale. Sparpagliò le fotografie sul tavolo illu-
minato davanti a Cowart. Vi era un'immagine a colori di Ferguson nella sua cella, intento a fissare l'obiettivo da dietro le sbarre. Vi era un'immagine della fogna, alcune vedute di Pachoula, la casa degli Shriver, la scuola. Vi era la stessa fotografia che Cowart aveva vista appesa nel corridoio dell'istituto elementare. E vi era uno scatto su Tanny Brown e Bruce Wilcox mentre uscivano a passo spedito dagli uffici della Sezione Omicidi della contea di Escambia. «Come hai fatto a fare questa foto?» domandò Cowart. «Ho passato tutto il giorno nascosto, ad aspettarli. E non posso dire che questo gli abbia fatto piacere.» Cowart annuì, felice di non essere stato presente. «E Sully?» «Non ha voluto che lo fotografassi» rispose il fotografo. «Ma c'è una bella immagine del suo processo. Ecco qui.» Allungò la fotografia a Cowart. Mostrava Blair Sullivan mentre procedeva lungo un corridoio del tribunale, incatenato mani e piedi, trattenuto da due corpulenti investigatori. Sogghignava rivolto all'obiettivo, con un'espressione a metà tra la risata e la minaccia. «C'è una cosa che non riesco a capire» disse il fotografo. «E sarebbe?» «Insomma, se tu vedi un uomo come quello che ti viene incontro per la strada, sicuro come l'inferno che ti metti a correre nell'altra direzione. E di certo non sali in macchina con lui. Ma Ferguson, diavolo, perfino quando ti guarda e fa la faccia cattiva, nemmeno allora ha un bratto aspetto. Voglio dire, posso capire che mi convinca a salire in macchina con lui.» «Non ti rendi conto» replicò Cowart. Prese in mano la fotografia di Sullivan. «Quest'uomo è un assassino psicopatico. Può convincerti di qualsiasi cosa. Non si tratta soltanto di quella ragazzina. Pensa a tutta quella gente che ha ucciso. Che mi dici di quella coppia di anziani, quelli che ha fatto fuori dopo averli aiutati a cambiare una gomma? Probabile che i vecchietti l'abbiano anche ringraziato, prima di morire. O la cameriera. È andata con lui, ricordi? Solo per divertirsi un pochino. Pensava di spassarsela. Non l'aveva visto come un assassino. E il ragazzo nel grande magazzino? Aveva uno di quei pulsanti di allarme proprio sotto la cassa. Ma non lo ha premuto.» «Non ne ha avuto il tempo, suppongo.» Cowart scrollò le spalle. «Be'» concluse il fotografo «per quanto mi riguarda, io di certo in mac-
china con lui non ci salirei.» «Giusto. Sarebbe la tua morte.» Requisì la sua vecchia scrivania in un angolo della redazione, sistemando gli appunti tutt'intorno a sé, fissando lo schermo del computer. Vi fu un attimo, quando vide lo schermo vuoto di fronte a lui, in cui provò un subitaneo insorgere di nervosismo. Era passato del tempo dall'ultima volta che aveva scritto un servizio, e si chiese se la sua antica abilità l'avesse abbandonato. Poi pensò: è tutta qui, e lasciò che l'eccitazione avesse il sopravvento sui dubbi. Si ritrovò a descrivere i due uomini nelle rispettive celle, il modo in cui gli erano apparsi, il modo in cui avevano parlato. Descrisse a rapidi tocchi ciò che aveva visto a Pachoula, mise in risalto l'incombente intensità di uno degli investigatori e la rabbia esplosiva dell'altro. Le parole gli vennero con facilità, con regolarità. Non si trovò a pensare a nient'altro. Ci vollero tre giorni perché completasse il primo servizio, e altri due giorni per impostare il seguito. Passò un giorno intero a ripulire, e un altro a scrivere i trafiletti secondari. Due giorni furono dedicati alla revisione riga per riga a fianco del caporedattore della cronaca. Un altro giorno passò con gli avvocati, con una frustrante analisi parola per parola di quanto aveva scritto. E infine, proteso sopra al tavolo illuminato, vide la prima pagina pianificata per l'edizione della domenica. Il titolo diceva: UN CASO PIENO DI DOMANDE. Gli piaceva. Il sottotitolo andava più a fondo: DUE UOMINI, UN CRIMINE E UN ASSASSINIO CHE NESSUNO PUÒ DIMENTICARE. Anche quello gli piaceva. Quella notte rimase disteso sul letto senza prendere sonno. "Ecco" pensò. "Ce l'ho fatta. Ce l'ho fatta davvero." Sabato, il giorno prima che il servizio fosse pubblicato, telefonò a Tanny Brown. L'investigatore era a casa e gli uffici della omicidi non vollero dare a Cowart il suo numero di telefono, che non era riportato negli elenchi. Pregò una segretaria di farlo richiamare dall'investigatore, cosa che egli fece un'ora più tardi. «Cowart? Sono Tanny Brown. Pensavo che ci fossimo detti tutto, per il momento.» «Volevo solo darle una possibilità di replicare a quanto sarà riportato nel servizio.» «La stessa possibilità che ci ha dato il vostro maledetto fotografo?» «Sono spiacente per quella faccenda.» «Ci ha teso un'imboscata.»
«Mi spiace.» Brown fece una pausa. «Be', almeno mi dica che la foto non è poi così male. Abbiamo anche noi la nostra vanità, sa.» Cowart non fu in grado di capire se l'investigatore stesse scherzando o meno. «Non è male» rispose. «Dunque, cosa voleva?» «Desidera replicare al servizio che pubblicheremo domani?» «Domani? Che io sia dannato. Suppongo che dovrò alzarmi presto e correre dal giornalaio. Solleverete un gran polverone?» «Esatto.» «Prima pagina, eh? Farà di lei una stella, giusto, Cowart? La renderà famoso?» «Non lo so.» L'investigatore rise in tono di scherno. «È la grande occasione di Robert Earl, giusto? Pensa che gli riuscirà il trucchetto? Pensa che riuscirà a farlo uscire dal braccio?» «Non ne ho idea. È una storia molto interessante.» «Ci scommetto.» «Volevo solo darle l'opportunità di dire la sua.» «Mi dirà che cosa racconta, ora?» «Esatto. A questo punto è scritto.» La voce di Tanny Brown s'interruppe all'altro capo del filo. «Suppongo che ci avrà messo dentro tutte quelle balle sul pestaggio e compagnia bella, vero? Il numero della pistola, no?» «Riporta quello che lui sostiene. E anche quello che ha detto lei.» «Solo non con la stessa evidenza, no?» «Al contrario. Hanno lo stesso peso.» Brown scoppiò a ridere. «Altroché» commentò. «Allora, desidera fare un commento diretto?» «Mi piace quella parola. "Commento". La dice lunga, no? Carina e senza problemi. Vuole che faccia un commento sul servizio?» Un aspro sarcasmo venava il tono della sua voce. «Esatto. Volevo che avesse questa opportunità.» «Capito. L'opportunità di scavarmi con le mie mani una fossa ancora più profonda» rispose l'investigatore. «Di mettermi nei guai ancora di più di quanto non sia a questo punto, soltanto perché non le ho raccontato balle. Certo.» Inspirò profondamente e proseguì, quasi con tristezza. «Avrei po-
tuto fare dell'ostruzionismo su tutta la faccenda, ma non l'ho fatto. L'ha scritto questo nel servizio?» «Naturalmente.» Tanny Brown liberò una breve, ironica risata. «Senta, so che lei si è fatto un'idea di cosa succederà a causa di questa storia. Ma le dirò una cosa. Si sbaglia. Si sbaglia di grosso.» «È tutto quello che desidera aggiungere?» «Le cose non vanno mai regolarmente e semplicemente come può pensare la gente. C'è sempre confusione. Ci sono sempre domande. Sempre dubbi.» «È questo, allora, quello che vuol dire?» «Si sta sbagliando. Di brutto.» «D'accordo. Se questo è tutto quanto desidera aggiungere.» «No, è quanto voglio che lei capisca.» L'investigatore scoppiò in una risata improvvisa. «Fa ancora il duro, eh, Cowart? No, non deve rispondermi. So già la risposta.» Lasciò che passasse un istante di silenzio, e un altro ancora. Cowart sentì il profondo, infuriato respiro attraverso la linea telefonica prima che Tanny Brown riprendesse a parlare, facendo rimbombare le sue parole come una tempesta all'orizzonte. «D'accordo, ecco un commento. Vada a farsi fottere.» E riappese. 8 Un'altra lettera dal braccio della morte Non vide Ferguson né gli parlò fino al processo. Lo stesso accadde con gli investigatori, i quali si rifiutarono di rispondere alle sue telefonate nelle settimane successive alla pubblicazione del servizio. Le sue richieste di informazioni furono trattate con sufficienza dall'accusa della contea di Escambia, che si stava accapigliando alla ricerca di una strategia. Al contrario, gli avvocati difensori di Ferguson furono estremamente calorosi, telefonandogli quasi ogni giorno per informarlo degli sviluppi, e presentando una serie ininterrotta di mozioni nei confronti del giudice che aveva presieduto al processo per omicidio di Ferguson. Quando il suo servizio era stato pubblicato, Cowart era stato catturato dal ritmo naturale creato dalle accuse che aveva formulato, come se fosse stato trascinato lungo una strada in discesa da un impetuoso diluvio. La te-
levisione e i giornali si erano gettati a corpo morto sul caso, aggredendo con rapacità le persone coinvolte, i fatti, i luoghi che erano al centro della sua storia, raccontandola da capo, riformulandola in dozzine di modi diversi ma fra loro sostanzialmente simili. Per tutti si era rivelata una vicenda caratterizzata da diversi motivi di fascino: la confessione inquinata dalla violenza, l'inquieta cittadina tuttora ossessionata dalla morte della piccola, gli investigatori duri come l'acciaio, e infine l'estrema ironia del fatto che il vero assassino avrebbe potuto vedere l'altro finire sulla sedia elettrica semplicemente tenendo la bocca chiusa. Cosa che, naturalmente, Blair Sullivan aveva fatto, rifiutandosi decisamente di parlare con i giornalisti, con gli avvocati, con la polizia, perfino con una troupe televisiva. Fece solo una telefonata, a Matthew Cowart, più o meno dieci giorni dopo la pubblicazione dei primi servizi. La telefonata era a carico del destinatario. Cowart si trovava alla sua scrivania, di nuovo nel reparto editoriale, e stava leggendo la versione del suo servizio riportata dal New York Times (DOMANDE INSOLUTE IN UN CASO DI OMICIDIO NEL PANHANDLE DELLA FLORIDA), quando il telefono si mise a squillare e la voce metallica dell'operatore per le chiamate interurbane gli domandò se accettasse una telefonata da un certo signor Sullivan di Starke, Florida. La cosa lo confuse per un stante, ma subito dopo lo elettrizzò. Si sporse sulla scrivania e udì la cadenza ormai familiare della voce del sergente Rogers che chiamava dal penitenziario. «Cowart? È lì, ragazzo mio?» «Pronto, sergente. Sì?» «Stiamo portando Sully. Vuole parlare con lei.» «Come vanno le cose lassù?» Il sergente scoppiò a ridere. «Diavolo, avrei dovuto capire che non dovevo farla entrare qua dentro. Questo posto sta ronzando come un'ape, da quando ha pubblicato i suoi servizi. Improvvisamente, tutti gli inquilini del braccio della morte si sono messi a convocare ogni dannato giornalista della Florida. E ogni dannato giornalista si presenta quassù a chiedere interviste e visite guidate e cose del genere.» La risata del sergente proseguì a risuonare dall'altro capo del filo. «È riuscito a eccitare questo posto ancor più di quella volta che tutti i generatori smisero di funzionare, e i prigionieri pensarono che la mano del Fato gli avesse spalancato le porte.» «Mi dispiace di averle causato dei problemi.» «Oh, che diavolo, non importa. Gratta via un po' della monotonia, ha presente. Chiaro, quando le cose si calmeranno la situazione quassù si farà
un pochino più complicata. E le cose prima o poi si calmeranno di sicuro.» «Che mi dice di Ferguson?» «Bobby Earl? È così indaffarato a rilasciare interviste che penso dovranno dargli il suo talk-show in tarda serata, come Johnny Carson e quel David Letterman.» Cowart sorrise. «E Sully?» Vi fu un silenzio. Poi il sergente proseguì a bassa voce. «Non dice niente a nessuno, nossignore. E non intendo soltanto giornalisti e psicologi. L'avvocato di Bobby Earl ha tentato cinque, forse sei volte. Sono venuti anche quei due investigatori di Pachoula, ma lui gli ha riso in faccia e gli ha sputato addosso. Citazioni, minacce, promesse, niente, non c'è nulla che funzioni. Non vuole parlare, e specialmente di quella ragazzina di Pachoula. Canticchia sottovoce i suoi inni, scrive delle gran lettere, studia attentamente la Bibbia. Continua a chiedermi cosa sta succedendo, cosicché io possa informarlo nel miglior modo possibile. Gli porto i giornali e le riviste e il resto. Ogni sera guarda la televisione, e vede quei due investigatori che le tirano dietro tutte le bestemmie del mondo. E se la ride di tutto.» «E lei che ne pensa?» «Penso che si stia divertendo. La sua idea di divertimento.» «Spaventoso.» «L'avevo avvisata sul conto di quell'uomo.» «E allora, come mai vuole parlarmi?» «Non ne ho idea. Stamattina, all'improvviso salta su e mi chiede se posso inoltrare la chiamata.» «Lo metta in linea, allora.» Il sergente tossicchiò preoccupato. «Non è così facile. Ricorda, prendiamo qualche precauzione quando facciamo muovere il signor Sullivan.» «Naturale. Che aspetto ha?» «Non molto diverso da quello che aveva quando lo ha incontrato lei, salvo forse un accenno di eccitazione che gli aleggia intorno. È come se avesse un'aura, come se fosse un po' ingrassato, cosa che non può essere, visto che mangia pochissimo. Come le ho detto, penso si stia divertendo. È pieno di vita.» «Capisco. Ah, sergente, non mi ha mai detto che ne pensa della faccenda.» «No? Be', penso che sia molto interessante.» «E...?» «Insomma, signor Cowart, le dirò, quando uno passa abbastanza del suo
tempo attorno alle prigioni, e specialmente qui nel braccio della morte, si aspetta di sentire le storie più incredibili al mondo.» Prima che Cowart fosse in grado di fare un'altra domanda, udì delle voci provenire dal corridoio e il suono di passi strascicati avvicinarsi al telefono. «Sta arrivando» annunciò il sergente. «È una conversazione privata?» si informò Cowart. «Intende dire se il telefono è sorvegliato? Al diavolo se lo so. È la linea che usiamo principalmente per gli avvocati, quindi ne dubito, perché se così fosse farebbero un gran casino. Comunque eccolo, solo un attimo, dobbiamo ammanettarlo.» Vi fu un istante di silenzio. Cowart poté udire le parole del sergente in sottofondo. «Troppo stretto, Sully?» E udì la risposta del prigioniero: «Va bene così.» Quindi vi fu qualche suono indistinto, e il rumore di una porta che veniva chiusa, e finalmente la voce di Blair Sullivan. «Bene bene bene, signor Cowart. Il famoso giornalista. Come le va?» «Non male, signor Sullivan.» «Bene. Bene. Allora, che ne pensa, Cowart? Il nostro ragazzo Bobby Earl camminerà nel vento della libertà? Pensa che il dio della buona sorte lo pescherà da dietro queste sbarre e lo porterà via dall'ombra della morte? Pensa che la ruota della giustizia inizierà a girare in suo favore, ora?» Sullivan scoppiò in una rauca risata. «Non lo so. Il suo avvocato ha presentato una richiesta per un nuovo processo di fronte alla corte che lo aveva condannato in prima istanza...» «Pensa che funzionerà?» «Vedremo.» Sullivan tossì. «Giusto, lei ha ragione.» Rimasero entrambi in silenzio per qualche secondo. «Allora, a cosa devo questa telefonata?» domandò quindi Cowart. «Stia in linea» rispose Sullivan. «Sto cercando di accendermi questa maledetta cicca. Non è facile. Devo mettere giù la cornetta.» Vi fu un rumore sordo, quindi Cowart risentì la voce del prigioniero. «Ah, eccoci qui. Cosa stava dicendo?» «Perché mi ha chiamato?» «Volevo solo sapere quanto famoso stava diventando.» «Cosa?» «Diavolo, Cowart, vedo i suoi servizi dappertutto. Di sicuro ha attirato l'attenzione di tutti, no? Solo per aver cacciato la mano in una vecchia fogna, giusto?»
«A quanto pare.» «È un modo semplice per diventare famosi, eh?» «Non è per questo che l'ho fatto.» Sullivan sputò fuori un'altra delle sue risate. «Suppongo di no. Ma di certo aveva un bell'aspetto mentre rispondeva a tutte quelle domande a Nightline. Molto tranquillo e sicuro di sé.» «Lei non ci voleva parlare.» «No. Ho pensato di lasciar fare a lei e a Bobby Earl.» Sullivan esitò, quindi sottolineò con un fischio quanto stava per dire. «Naturalmente, ho anche potuto notare che nemmeno quei due poliziotti di Pachoula volevano tanto parlare. Penso che non credano a Bobby Earl. E che non credano nemmeno a lei. E sicuro come l'inferno non credono in me.» Sullivan esplose in un raglio canzonatorio. «Insomma, quando si parla di testoni! Ti fa vedere come certa gente ha le pezze sugli occhi, eh?» Cowart non rispose. «Non le ho fatto una domanda, Cowart? Non le ho chiesto qualcosa?» sibilò aspramente Sullivan. «Sì» rispose sollecito Cowart. «Certa gente ha proprio le pezze sugli occhi.» Il prigioniero fece una pausa. «Be', dovremmo proprio aiutarli a scostarsele dagli occhi, no, signor famoso giornalista? Guidarli sul sentiero dell'illuminazione, che ne dice?» «Come?» Cowart si fece avanti appoggiandosi sulla sua scrivania. Poteva sentire il sudore colargli sotto le braccia e solleticargli le costole. «Dunque, supponiamo che le dica qualcos'altro. Qualcosa di veramente interessante.» La mano di Cowart afferrò una matita e una pila di fogli bianchi per gli appunti. «Per esempio?» «Sto pensando. Non mi faccia fretta.» «D'accordo. Faccia pure con calma.» "Ci siamo" pensò. «Sarebbe interessante sapere, credo, come la ragazzina sia salita sull'auto, no? Una cosetta del genere stimolerebbe il suo interesse, vero, signor Cowart?» «Sì. Come?» «Non così in fretta. Sto ancora pensando. Di questi tempi bisogna stare attenti a quello che si dice. Non vorrei venire frainteso, non so se rendo l'idea. Dunque, lo sa, vero, Cowart, che era una giornata deliziosa quella in cui la ragazzina è morta? Le hanno detto che faceva caldo, ma che era an-
che secco, con un lieve alito di vento che raffreddava un po' tutto e con un bel cielo grande e azzurro lassù, e con un mucchio di fiori che sbocciavano tutt'intorno? Davvero un bel giorno per morire. E pensi a quanto fresco e confortevole doveva essere laggiù nella palude, sotto tutta quell'ombra. Pensa che l'uomo che ha ucciso la piccola Joanie - non è un nome dolce? pensa che forse si sia sdraiato subito dopo e per qualche minuto abbia goduto di quella giornata così bella? E abbia permesso all'ombra fresca di calmarlo un pochettino?» «Quanto fresco faceva?» Blair Sullivan scoppiò in una secca risata. «E come potrei saperlo, Cowart? Davvero.» Inspirò sibilando, facendo giungere il suono all'altro capo del filo. «Pensi quante cose quei due porci di sbirri morirebbero dalla voglia di sapere. Cose come vestiti e macchie di sangue e come mai non vi erano impronte digitali e capelli e tracce di terra e tutto quel genere di cose.» «Perché?» «Be'» replicò Sullivan in tono allegro «sospetto che l'assassino della piccola Joanie fosse abbastanza furbo da avere con sé un cambio d'abiti. In modo da potersi togliere i vestiti, quelli tutti coperti di sangue e di tutto il resto, e cacciarli da qualche parte. Probabilmente è stato abbastanza furbo da tenere in macchina un paio di grossi sacchi della spazzatura, in modo da poter far su i vestiti insanguinati cosicché nessuno potesse notarli.» Cowart sentì lo stomaco stringersi in una morsa. Si rammentò di un investigatore di Miami che gli aveva detto di aver trovato degli abiti di ricambio e una confezione di sacchi della spazzatura nel bagagliaio dell'auto di Blair Sullivan, la notte stessa in cui era stato arrestato. Chiuse gli occhi per un istante. «E dove avrebbe scaricato la roba?» chiese. «Oh, in qualche posto tipo un deposito dell'Esercito della Salvezza. Ha presente, ce n'è uno al centro commerciale proprio alle porte di Pensacola. Ma questo soltanto nel caso che non fossero troppo sporchi. Oppure, se avesse voluto essere veramente accorto, li avrebbe forse gettati in un vecchio grosso bidone della spazzatura, di quelli che si trovano nelle aree di parcheggio lungo la statale. Come quello di Willow Creek. Quello enorme. Viene svuotato ogni settimana, e tutta quella roba viene gettata in una discarica. Nessuno dà mai un'occhiata a quello che sta buttando via. Le cose finiscono sotterrate in tonnellate di spazzatura, sissignore. E non saltano fuori mai più.» «È andata così?»
Sullivan non rispose. Proseguì invece nel suo monologo. «Ma scommetto che quegli sbirri, e anche lei, Cowart, e magari anche gli addolorati genitori della piccola vorrebbero sapere come mai la ragazzina è salita su quell'auto, eh? Quello sì che è un fatto, no? Come succede?» «Me lo dica.» «La volontà del Signore, Cowart» sibilò al telefono. Vi fu un istante di silenzio. «O magari quella del demonio. Ci pensa, Cowart? Magari il Signore quel giorno stava passando una brutta giornata, e dunque ha lasciato che il suo ex secondo in comando ne combinasse una delle sue.» Cowart non rispose. Si limitò ad ascoltare le parole sussurrate che, scivolando attraverso la linea telefonica, approdavano pesanti alle sue orecchie. «Insomma, Cowart, scommetto che chiunque abbia convinto quella ragazzina a salire sulla sua auto le abbia detto qualcosa sul genere "Tesoro, potresti per cortesia indicarmi la strada? Mi sono perso e devo affrettarmi." E non si tratta proprio della verità del Signore, Cowart? Quell'uomo laggiù in quell'auto, lo posso vedere con la stessa chiarezza con cui vedo la mano che ho di fronte. Perché si era perduto, Cowart. Perduto in così tanti sensi. Ma quel giorno si è ritrovato, non è vero?» Sullivan inspirò bruscamente prima di proseguire. «E una volta che ha attirato l'attenzione della ragazzina, cosa dice? Forse dice "Tesoro, ti do un passaggio fino all'angolo, vuoi?" Facile e naturale come non mai.» Sullivan esitò di nuovo. «Facile e naturale, sissignore. Proprio come un incubo. Niente affatto diverso da quello che la brava gente dice ai bambini di riconoscere ed evitare.» Fece una pausa. «Tranne che lei non lo ha fatto, no?» aggiunse quindi in tono allegro. «È così che le ha parlato?» domandò Cowart con voce rotta. «Ho per caso detto una cosa del genere? L'ho detta, per caso? No, ho soltanto detto che queste sono probabilmente state le parole con cui qualcuno l'ha fatta salire in auto. Qualcuno che si sentiva un po' cattivo e che quel giorno aveva voglia di uccidere, e che è stato abbastanza fortunato da adocchiare quella ragazzina.» Scoppiò di nuovo a ridere. Poi sternuti. «Perché lo ha fatto?» domandò bruscamente Cowart. «Ho per caso detto che l'ho fatto io?» replicò Sullivan ridacchiando. «No. Si limita a provocarmi con...» «Be', mi perdoni se mi diverto.»
«Perché non si decide a dirmi la verità? Perché non si fa avanti e dice la verità?» «Cosa, solo per rovinarmi il divertimento? Cowart, lei non sa come si diverte la gente qui al braccio della morte.» «Il fatto di lasciare che un innocente frigga sulla sedia...» «Sto per caso facendo una cosa del genere? Insomma, non siamo per caso dotati dì un potente sistema giudiziario che si preoccupa di faccende come queste? Che si rende dannatamente sicuro che nessun innocente si bruci il culetto?» «Ha capito perfettamente cosa stavo dicendo.» «Sì che l'ho capito» rispose a voce bassa Sullivan, in tono minaccioso. «E non me ne frega niente.» «E allora perché mi ha chiamato?» Sullivan fece una pausa. Quando la sua voce tornò a invadere la linea, era tranquilla e implacabile. «Perché volevo che sapesse quanto fossi interessato alla sua carriera, Cowart.» «Questo è...» «Non mi interrompa!» Sullivan sembrò mordere le sue stesse parole. «Gliel'ho già detto una volta! Quando parlo, lei ascolta, signor giornalista. Capito?» «Sì.» «Perché le volevo dire qualcosa.» «E sarebbe?» «Volevo dirle che non è finita. Che è solo cominciata.» «Cosa vuol dire?» «Lo scopra da sé.» Cowart attese. Dopo un istante, Sullivan proseguì. «Penso che un giorno parleremo di nuovo. Mi piacciono, le nostre quattro chiacchiere. Sembra che facciano succedere di tutto. Oh, ancora una cosa.» «Cosa.» «Ha sentito, la corte suprema della Florida ha messo all'ordine del giorno della sessione autunnale il mio appello automatico. Certo che gli piace fare aspettare, a quella gente. Suppongo si immaginino che cambierò idea o qualcosa del genere. Che mi decida a giocare i miei appelli e tutto il resto. Magari ad assumere una stella come ha fatto Bobby Earl, e a iniziare a fare appelli sulla costituzionalità del fatto che mi si frigga quella vecchia coda che mi ritrovo. Mi piace. Mi piace che si preoccupino del vecchio Sully.» Fece una pausa. «Ma noi sappiamo qualcosa, vero, signor giornali-
sta?» «E sarebbe?» «Che si sbagliano di grosso. Non cambierei idea su niente nemmeno se Gesù Cristo in persona venisse giù e me lo chiedesse a quattr'occhi e con parole gentili.» E all'improvviso riagganciò. Cowart si alzò dalla sedia. Decise di andare in bagno, dove passò diversi minuti con i polsi immersi sotto un getto di acqua ghiacciata, nel tentativo di controllare l'improvviso calore che si era impadronito di lui, e di rallentare il battito impazzito del suo cuore. Anche la sua ex moglie lo chiamò, una sera mentre si stava preparando a uscire dall'ufficio, il giorno dopo la sua partecipazione a Nightline. «Matty?» chiese Sandy. «Ti abbiamo visto in tivù.» Il suo tono di voce metteva in evidenza una sorta di infantile eccitazione, che gli ricordò tempi migliori, quelli in cui erano ancora giovani, quelli in cui il loro rapporto non era ancora stato oppresso dal resto. Fu sorpreso nell'udire la sua voce, e nello stesso tempo soddisfatto. Provò una sorta di piacere pieno di falsa modestia. «Ciao, Sally. Come stai?» «Oh, bene Ingrasso. Sempre stanca. Ti ricordi com'era.» "Non esattamente" pensò lui. Si ricordava di aver passato la maggior parte della gravidanza di sua moglie chino per quattordici ore al giorno sulle pagine della cronaca. «Che ne pensi?» «Dev'essere stato eccitante per te. Era una gran bella storia.» «Lo è ancora.» «Cosa succederà a quei due?» «Non lo so. Penso che Ferguson otterrà un nuovo processo. L'altro...» Lei lo interruppe. «Mi ha spaventato.» «È un uomo decisamente malato.» «Che gli accadrà?» «Se non inizia a fare appello, il governatore firmerà un ordine di esecuzione non appena la corte suprema confermerà la sua condanna. E non ci sono molti dubbi che lo farà.» «E quando succederà?» «Non lo so. Di solito la corte annuncia le sue decisioni in diverse occasioni, fino a Capodanno. Si tratterà soltanto di una breve riga in mezzo agli
altri pronunciamenti. Oggetto: lo Stato della Florida contro Blair Sullivan. Il giudizio e la sentenza della corte è confermata. È tutto abbastanza tranquillo finché l'ordine del governatore non arriva in prigione. Hai presente, un sacco di documenti e di firme e di timbri ufficiali e quel genere di cose, finché alla fine qualcuno si deve occupare proprio di far sedere il condannato sulla sedia. Le guardie laggiù la chiamano la morte al lavoro.» «Non penso che il mondo sarà peggiore dopo la sua scomparsa» disse Sandy con un brivido nel tono di voce. Cowart non rispose. «Ma se alla fine confesserà, che succederà a Ferguson?» «Non lo so. Lo Stato potrebbe processarlo di nuovo. Potrebbe venire graziato. Potrebbe continuare a starsene seduto nel braccio della morte. Un sacco di strane cose possono accadere.» «Se giustizieranno Sullivan, ci sarà qualcuno che veramente potrà sapere la verità?» «Sapere la verità? Diavolo, penso che noi tutti, a questo punto, sappiamo la verità. La verità è che Ferguson non dovrebbe essere nel braccio della morte. Ma provare la verità? È tutta un'altra cosa. Molto difficile.» «E a te, che succederà ora?» «Lo stesso di sempre. Seguirò la storia fino alla fine. Poi scriverò qualche altro editoriale finché non sarò vecchio e i miei denti non cadranno tutti e qualcuno non decida di trasformarmi in colla. È quello che fanno ai vecchi cavalli da corsa e agli opinionisti, lo sai.» Lei rise. «Dai. Stai per vincere un Pulitzer.» Lui sorrise di rimando. «Ne dubito» mentì. «Sì che lo vincerai. Me lo sento. E a quel punto ti useranno per fare razza.» «Chissà se sarò così fortunato.» «Lo sarai. Lo vincerai. Te lo meriti. Era un magnifico servizio. Proprio come quello su Pitts e Lee.» "Anche lei si ricorda di quella vicenda" si disse Cowart. «Sì. Sai cosa è successo a quei due dopo aver convinto il giudice a ordinare un nuovo processo? Sono stati condannati di nuovo, da una giuria razzista tanto maledettamente stupida quanto la prima. Non sono riusciti a uscire dal braccio della morte finché il governatore non ha concesso la grazia. La gente se ne dimentica. Dodici anni, ci hanno impiegato.» «Ma alla fine ne sono usciti, e quel tizio ha vinto il Pulitzer.» Lui scoppiò a ridere. «Su questo hai ragione.»
«Anche tu lo vincerai. E non ci metterai dodici anni.» «Be', vedremo.» «Starai al Journal?» «Non ho alcuna ragione di andarmene.» «Oh, andiamo. E se chiama il Times, o il Pos?» «Staremo a vedere.» Risero entrambi. Dopo un istante di silenzio, lei riprese. «Ho sempre saputo che un giorno o l'altro avresti trovato la storia giusta. L'ho sempre saputo che ce l'avresti fatta.» «Che dovrei dire?» «Nulla. Ma lo sapevo.» «E Becky? È rimasta alzata anche lei per vedermi a Nighline? Sandy esitò.» Be', no. È molto più tardi dell'ora in cui va a letto... «Avresti potuto registrarla.» «E cosa avrebbe sentito dire dal suo papà? La storia dell'assassinio di una ragazzina? Una ragazzina violentata e pugnalata, quante volte, trentasei? E poi gettata in una palude? Ho pensato che non fosse un'idea troppo brillante.» Aveva ragione, si rese conto Cowart, sebbene detestasse il pensiero. «Comunque, mi sarebbe piaciuto se mi avesse visto.» «È un posto sicuro, qui» disse Sandy. «Come?» «Questo è un posto sicuro. Tampa non è una grande città. Voglio dire, è grossa, ma non in quel senso. Sembra che si muova un po' più lentamente del resto. E non è per niente come Miami. Non è tutta droghe e rivolte e stranezze, come Miami. Becky può anche non saperne nulla di ragazzine rapite e violentate e pugnalate a morte. Non ancora, almeno. Può avere la possibilità di crescere un po', di essere una ragazzina senza stare a preoccuparsi tutto il tempo.» «Vuoi dire che tu non vuoi stare a preoccuparti tutto il tempo.» «Be', è forse sbagliato?» «No.» «Sai cosa non riuscirò mai a capire? Perché la gente che lavora nei giornali pensa che le cose brutte succedano soltanto agli altri.» «Non la pensiamo così.» «L'impressione è questa.» Lui non voleva discutere. «Be', forse.» Lei diede una risata forzata. «Mi dispiace di averti rovinato la festa.
Davvero, ti avevo chiamato per congratularmi con te e dirti che sono veramente orgogliosa.» «Orgogliosa ma divorziata.» Lei esitò. «Sì. Ma amichevolmente, pensavo.» «Scusa. Non volevo dirlo.» «Va bene.» Vi fu un altro silenzio. «Quando possiamo metterci d'accordo sulla prossima visita di Becky?» «Non so. Sarò preso da questa faccenda finché non vi sarà una qualche soluzione. Ma quando questo succederà, non ne ho idea.» «Ti chiamo io.» «D'accordo.» «E ancora congratulazioni.» «Grazie.» Riappese e si rese conto di quanto fosse stupido, di come fosse incapace di dire quello che desiderava, di esprimere ciò di cui aveva bisogno. In un accesso di frustrazione scaricò un pugno sulla scrivania. Quindi si portò alla finestra del suo piccolo ufficio e guardò la città in lontananza. Il traffico del pomeriggio era un flusso continuo in direzione dell'autostrada, come un fascio di nervi pulsanti dal desiderio di giungere a casa, in famiglia. Si sentì circondato dalla sua solitudine. La città pareva cuocere sotto il cielo caldo e azzurro, gli edifici dai colori delicati riflettevano la forza del sole. Osservò un gruppo di automobili a un incrocio muoversi come una miriade di insetti aggressivi sul terreno. "È pericoloso" pensò. "Non è sicuro." Due automobilisti si erano sparati, un paio di giorni prima, subito dopo un tamponamento, facendo fuoco come pazzi nel bel mezzo del traffico dell'ora di punta, entrambi armati di nove millimetri semiautomatiche, due armi praticamente identiche. Nessuno dei due era rimasto ferito, ma un ragazzo che passava in auto era stato raggiunto al polmone da una pallottola vagante, e si trovava tuttora in condizioni critiche in un ospedale locale. Si trattava di una tipica vicenda quotidiana di Miami, un sottoprodotto del caldo e dell'incontro di culture conflittuali e di una popolazione che pareva considerare le armi da fuoco come parte integrante del proprio abbigliamento. Rammentò di avere scritto più o meno la stessa storia una mezza dozzina di anni prima. Rammentò un'altra dozzina di occasioni in cui la medesima storia era stata scritta, tanto frequente da restringersi da un servizio di prima pagina a sei paragrafi in una pagina interna. Pensò a sua figlia e si chiese: perché dovrebbe sapere? Perché dovrebbe
sapere qualcosa del male e dei terribili desideri di certi uomini? Era una domanda alla quale non riusciva a dare una risposta. I grossi cavi neri delle televisioni serpeggiavano fuori dall'ingresso dell'aula del tribunale. Nell'atrio, diversi operatori stavano sistemando i videoregistratori, ricevendo le immagini dall'unica telecamera autorizzata all'interno dell'aula. In corridoio si aggirava un miscuglio di giornalisti della carta stampata e della televisione; il personale televisivo vestito in modo leggermente più alla moda, pettinato meglio, e apparentemente più pulito dei concorrenti dei giornali, i quali, per distinguersi e darsi una maggiore dignità, affettavano un portamento lievemente arruffato. «Che spiegamento di forze» commentò il fotografo accostandosi a Cowart e giocherellando con la lente della sua Leica. «Nessuno vuole perdersi questo ballo.» Erano passate dieci settimane dal giorno in cui i suoi servizi erano stati pubblicati per la prima volta. Ricorsi e manovre varie avevano rimandato l'udienza per ben due volte. All'esterno del tribunale della contea di Escambia il possente sole della Rorida stava cuocendo la terra. Nel moderno edificio faceva invece fresco. Le voci percorrevano gli alti soffitti e riecheggiavano, così da costringere tutti a parlare sottovoce, perfino quando non era necessario. Una piccola insegna in lettere dorate, posta a fianco degli ampi portali dell'aula, diceva: GIUDICE DELLA CORTE CIRCOSCRIZIONALE HARLEY TRENCH. «È il tizio che l'ha definito un animale selvaggio?» domandò il fotografo. «Proprio lui.» «Immagino non sarà troppo piacevolmente sorpreso nel vedere tutta questa sarabanda.» Il fotografo indicò con un cenno la folla di giornalisti e di tecnici delle riprese televisive. «No, sbagli. Siamo in periodo elettorale. Adorerà la pubblicità.» «Ma solo se farà la cosa giusta.» «La cosa popolare.» «Dubito che combacino.» Cowart annuì. «Anch'io. Ma non si può mai dire. Scommetto che ora è nel suo gabinetto, là dietro, e sta chiamando tutti i politici tra qui e il confine con l'Alabama per sapere che fare.» Il fotografo scoppiò a ridere. «E quelli a loro volta staranno telefonando in giro per sapere cosa rispondergli. Che ne pensi, Matty? Credi che lo la-
scerà andare o no?» «Non ne ho idea.» Lanciò un'occhiata lungo il corridoio e scorse un gruppo di giovani vestiti in jeans raccolti attorno a un uomo di colore di bassa statura in giacca e cravatta. «Fagli uno scatto» disse al fotografo. «Sono del movimento contro la pena di morte, e sono qui per farsi sentire.» «Dove sarà il Klan?» «Da qualche parte di sicuro. Non sono più così organizzati. Probabilmente arriveranno in ritardo. O magari si sono presentati nel posto sbagliato.» «Hanno sbagliato giorno, forse. Sono arrivati qui ieri, hanno avuto tempo di annoiarsi, e tutti confusi se ne sono andati.» Risero entrambi della battuta. «Sarà un vero serraglio» annunciò Cowart. Il fotografo si fermò un istante sui suoi passi. «Già. Ed ecco le tigri, pronte a sbranarti la coda.» Fece un cenno e Cowart scorse Tanny Brown e Bruce Wilcox addossati a una parete, nel tentativo di starsene alla larga dagli operatori televisivi. Esitò. «Be', tanto vale vedere cosa c'è nella tana delle tigri» disse infine. E si incamminò a passi spediti verso i due investigatori. Bruce Wilcox girò su se stesso, rivolgendo a Cowart la schiena della sua giacca sportiva. Ma Tanny Brown si allontanò dal muro e accennò a un rapido saluto. «Bene, signor Cowart. Certo che ha sollevato un bel polverone.» «Succede, tenente.» «Ne è soddisfatto?» «Sto soltanto facendo il mio lavoro. Come lei. Come Wilcox.» Brown lanciò un'occhiata alle spalle di Cowart e si rivolse al fotografo. «Ehi, tu! La prossima volta cerca di prendermi il profilo destro. Mi fa sembrare più giovane di dieci anni e rende le mie ragazze molto più contente nel vedermi sul giornale. Pensano che stia diventando vecchio per queste faccende. In altre parole, ehi, potrei anche fare a meno di questi fastidi.» Brown sorrise e si voltò appena per sottolineare quanto aveva appena detto, puntandosi il dito sulla guancia. «Vedi?» insistette. «Molto meglio di quell'espressione torva che mi hai fatto venir fuori con quel tuo scatto da paparazzo.» «Mi dispiace.» Il poliziotto scrollò le spalle. «Ognuno ha il suo lavoro, suppongo.»
«Come mai non mi ha più richiamato?» s'intromise Cowart. «Non avevamo più niente da dirci.» Cowart scosse il capo. «E Blair Sullivan?» «Non è stato lui» rispose Brown. «Come può esserne così sicuro?» «Non posso esserlo. Non ancora. Ma non me lo sento. Tutto qui.» «Si sbaglia» rispose calmo Cowart. «Motivo. Opportunità. Una predilezione di cui tutti sono a conoscenza. Lei sa di chi sto parlando. Non può vederselo mentre commette il crimine? E che mi dice del coltello nella fogna?» Il tenente scrollò nuovamente le spalle. «Lo posso vedere mentre lo fa. Sicuro. Ma non significa un cazzo.» «Di nuovo l'istinto, tenente?» Tanny Brown rise prima di rispondere. «Non parlerò più con lei dei fatti riguardanti il caso in questione» proclamò, rifugiandosi dietro i toni esperti di un uomo che aveva testimoniato centinaia dì volte di fronte a centinaia di giudici. «Vedremo cosa succederà là dentro.» Indicò l'aula. «Dopodiché, forse potremo parlare.» In quell'istante l'investigatore Wilcox si voltò, fissando Tanny Brown. «Potremo parlare! Potremo parlare! Non posso credere che tu sia disposto a perdere il tuo tempo con questo bastardo dopo che ci ha stesi ad asciugare nel mezzo della piazza. Ci ha fatto fare la figura degli...» Il tenente alzò la mano. «Non dire che figura ci ha fatto fare. Sono stufo di sentirlo.» Si voltò verso Cowart. «Quando questa baracconata sarà finita, si faccia vedere. Parleremo ancora. Ma una cosa.» «E sarebbe?» «Si ricorda dell'ultima cosa che le ho detto?» «Sicuro» rispose Cowart. «Mi ha detto di andare a farmi fottere.» Tanny Brown sorrise. «Be'» disse con calma «non smetta.» Il corpulento investigatore fece una pausa. «Ci è cascato secco, signor Cowart» aggiunse infine. Wilcox grugnì una risata e diede una manata sulle spalle del grosso collega. Portò l'indice e il pollice a forma di pistola e li puntò su Cowart, mimando uno sparo al rallentatore. «Bang!» esclamò. Quindi i due investigatori si allontanarono verso l'aula, lasciando Cowart e il fotografo in mezzo al corridoio. Robert Earl Ferguson avanzò a grandi passi nell'aula, fiancheggiato da
una coppia di guardie carcerarie in uniforme grigia, vestito in un impeccabile abito blu gessato, un blocco per appunti di carta gialla sotto il braccio. Cowart sentì un altro giornalista mormorare: "Sembra pronto per la facoltà di legge" e osservò Ferguson stringere la mano di Roy Black e del suo giovane assistente, lanciare una torva occhiata a Brown e a Wilcox, rivolgergli un cenno di saluto e voltarsi, in attesa dell'arrivo del giudice. Nel giro di pochi secondi, i presenti si alzarono in piedi. Il giudice Harley Trench era un uomo basso e rotondo dai capelli argentei, con una calvizie circoscritta alla cima del capo che gli conferiva una certa aria monacale. Ostentò un immediato zelo, una trattenuta metodicità mentre sistemava velocemente i documenti sul suo seggio; quindi sollevò lo sguardo verso gli avvocati, lentamente estraendo da sotto la toga un paio di occhiali dalla sottile montatura metallica e sistemandoseli sul naso, assumendo la posa e l'aspetto di una grassa cornacchia appesa a un filo. «D'accordo. Vogliamo iniziare?» disse rapidamente, rivolgendo un cenno a Roy Black. L'avvocato della difesa si alzò in piedi. Era alto e magro, e i capelli ricci gli ricadevano ben oltre il colletto della camicia. Si mosse lentamente, con movimenti esagerati e teatrali, gesticolando con le braccia mentre illustrava le sue richieste. Cowart pensò che non avrebbe avuto vita troppo facile con l'ometto sul seggio, il quale pareva imbronciarsi più a fondo a ogni nuova parola dell'avvocato. «Siamo qui riuniti, vostro onore, per richiedere un nuovo processo. Tale richiesta ha diverse articolazioni: affermiamo che il caso presenti alcune nuove prove a discolpa dell'accusato; affermiamo che se queste prove venissero presentate a una giuria, tale giuria non avrebbe altra scelta se non quella di emettere un verdetto di non colpevolezza, trovando un ragionevole dubbio nel fatto che il signor Ferguson abbia veramente ucciso Joanie Shriver. Asseriamo inoltre che la corte ha sbagliato nell'accettare agli atti la confessione presumibilmente rilasciata dal signor Ferguson.» Quando pronunciò la parola "presumibilmente", l'avvocato fece un giro su se stesso fronteggiando i due investigatori, e parve quasi cavarsela a forza dalle labbra, caricandola di sarcasmo. «Non è un problema che riguarda la corte d'appello?» domandò il giudice in tono pungente. «Nossignore. Cito Rivkind, 320 Florida dodici, del 1978, e lo Stato della Florida contro Stark, 211 Florida tredici, del 1982, e altri; in tali casi, signore, facciamo rispettosamente notare che a vostro onore è stato impedito
di ottenere tutte le prove per emettere una sentenza...» «Obiezione!» Cowart vide che l'assistente del procuratore era schizzato in piedi. Era un giovane, di poco meno di trent'anni, probabilmente uscito da pochi anni dalla facoltà di legge. Indossava un completo marrone-rossiccio con gilè e parlava a frasi spezzate e brusche. Erano state fatte diverse congetture e illazioni sul fatto che proprio lui fosse stato assegnato a quel caso. Visto il vasto interesse e la pubblicità che l'aveva circondato, si era creduto che il procuratore distrettuale della contea di Escambia se ne sarebbe occupato personalmente, allo scopo di dare peso, con il suo prestigio, alla posizione dello Stato. Quando il giovane avvocatino si era presentato da solo, i giornalisti più esperti si erano scambiati cenni di consapevolezza. Si chiamava Boylan, e si era rifiutato di informare Cowart persino dell'ora in cui l'udienza sarebbe iniziata. «L'avvocato Black insinua che lo Stato abbia nascosto informazioni. Ciò è categoricamente falso. Vostro onore, questa è una decisione della corte di appello.» «Vostro onore, potrei terminare?» «Prosegua pure, avvocato Black. Obiezione respinta.» Boylan si sedette e Black continuò. «Affermiamo, signore, che il risultato di quell'udienza sarebbe stato diverso, e che lo Stato, senza la presunta confessione del signor Ferguson, non sarebbe stato in grado di proseguire con le accuse. Nella peggiore delle ipotesi, signore, se la verità fosse stata presentata al cospetto della giuria, l'avvocato difensore del signor Ferguson sarebbe stato in grado di presentare a quella gente una solida obiezione alle accuse.» «Capisco» replicò il giudice, sollevando una mano per bloccare l'avvocato difensore. «Avvocato Boylan?» «Vostro onore, lo Stato afferma che questa è materia per la corte d'appello. Per quanto riguarda le nuove prove, signore, le dichiarazioni rilasciate alla stampa non costituiscono prove valide di cui la corte possa tenere conto.» «Perché no?» chiese brusco il giudice, rivolgendo al pubblico ministero un'occhiata imbronciata. «Cosa rende quelle dichiarazioni meno importanti, sempre nel caso che la difesa possa provare che siano state veramente rilasciate? Non ho idea di come riuscirà a farlo, naturalmente, ma perché non dovrebbe averne la possibilità?» «L'accusa afferma si tratti di sentito dire, vostro onore, e che tali dichia-
razioni dovrebbero essere escluse dagli atti del processo.» Il giudice scosse il capo. «Esistono innumerevoli eccezioni alla regola del sentito dire, avvocato Boylan. Lo sa benissimo. Lei stesso una settimana fa era davanti a questa corte e sosteneva il contrario di quanto dice adesso.» Il giudice rivolse un'occhiata verso il pubblico. «Si proceda» disse all'improvviso. «Si chiami il primo testimone.» «È fatta» sussurrò Cowart all'orecchio del fotografo. «Come?» «Se ha deciso di procedere, vuol dire che ha deciso anche il resto.» Il fotografo scrollò le spalle. L'ufficiale giudiziario si alzò in piedi e intonò: «L'investigatore Bruce Wilcox.» Mentre Wilcox giurava, l'assistente del procuratore si alzò in piedi. «Vostro onore» disse «vedo diversi testimoni presenti in aula. Credo che dovrebbe essere invocata la legge per i testimoni.» Il giudice annuì. «Tutti i testimoni escano dall'aula» ordinò. Cowart vide Tanny Brown alzarsi e uscire. I suoi occhi seguirono il lento cammino dell'investigatore lungo il corridoio dell'aula. Era seguito da un uomo di statura più bassa, che Cowart riconobbe come un assistente dell'ufficio di medicina legale. Scorse, con una certa sorpresa, anche una guardia della prigione di Stato, un uomo che aveva visto nel corso delle sue visite nel braccio della morte. Quando si volse di nuovo, vide che il pubblico ministero lo stava indicando con un dito. «Il signor Cowart non è un testimone?» «Non per il momento» rispose Roy Black con un sorriso appena accennato. Il pubblico ministero fu sul punto di dire qualcosa, ma poi ci ripensò. Il giudice si piegò in avanti. «Non intende chiamare a testimoniare il signor Cowart?» domandò in tono spiccio e vagamente incredulo. «Non per il momento, vostro onore. E nemmeno intendiamo chiamare il signore e la signora Shriver.» Rivolse un cenno verso la prima fila, dove i genitori della ragazzina assassinata sedevano stoicamente, tentando di tenere gli sguardi fissi, tentando di ignorare le telecamere della televisione che si erano improvvisamente puntate su di loro, assieme agli sguardi di tutti gli spettatori. Il giudice scrollò le spalle. «Proceda pure» disse. L'avvocato della difesa raggiunse un podio e fece una pausa prima di rivolgersi all'investigatore Wilcox, il quale, al banco dei testimoni, era seduto leggermente piegato in avanti, le mani strette sulla barriera di legno,
come in attesa della partenza di una corsa sulla quale aveva puntato. In un primo momento, l'avvocato si limitò a introdurre la scena. Fece ricostruire all'investigatore le circostanze relative all'arresto di Ferguson. Fece ammettere all'investigatore il fatto che Ferguson li avesse seguiti senza un lamento, e che inizialmente l'unico anello che li aveva collegati a Ferguson era rappresentato dalla somiglianza dell'automobile a quella descritta. «Dunque è stato arrestato a causa dell'auto?» domandò infine. «Nossignore. Non è stato veramente arrestato fino a quando non ha confessato il delitto.» «Ma questo è successo diverso tempo dopo che era stato fermato, no? Più di ventiquattro ore dopo, giusto?» «Esatto.» «E crede che gli fosse venuto in mente di potersene andare, durante l'interrogatorio?» «Non ha mai chiesto di andarsene.» «Ma lei crede che lui pensasse di potere?» «Non lo so cosa pensava.» «Parliamo dell'interrogatorio. Rammenta di aver testimoniato su tale soggetto davanti a questa corte, in un'udienza simile a questa, tre anni or sono?» «Sì.» «Si ricorda della domanda dell'avvocato Burns? Domanda: "Ha colpito il signor Ferguson nel corso della confessione?". Risposta: "Non l'ho fatto". Dunque, è una dichiarazione che risponde a verità, signor Wilcox?» «Sì.» «È a conoscenza di una serie dì articoli pubblicati dal Miami Journal alcune settimane fa, e relativi al caso in questione?» «Sissignore.» «Lasci che gliene legga un paragrafo. Cito: "Gli investigatori negano che Ferguson venne picchiato ai fini di ottenere una confessione. Ma ammettono che fu 'schiaffeggiato' dall'investigatore Wilcox all'inizio dell'interrogatorio". È a conoscenza di una dichiarazione del genere, signor Wilcox, riportata sul giornale?» «Sissignore.» «E corrisponde a verità?» «Sì.» Roy Black si agitò dietro al suo podio in un accesso di nervosismo. «Insomma, qual è la verità?»
L'investigatore si appoggiò allo schienale della sedia, lasciando che il più sottile dei sorrisi gli increspasse le labbra. «Entrambe le dichiarazioni corrispondono al vero, signore. È vero che all'inizio dell'interrogatorio ho schiaffeggiato due volte il signor Ferguson. A mano aperta. Non forte. Mi aveva pesantemente insultato, e in quel momento non ero in grado di controllare la mia reazione, signore. Ma sono passate ore prima che confessasse, signore. Praticamente un giorno intero. E durante quel periodo di tempo abbiamo parlato in tono amichevole. Gli abbiamo dato del cibo e lo abbiamo fatto riposare. Non ha richiesto mai la presenza di un avvocato, né ha domandato di andarsene. Ho avuto l'impressione, signore, che confessare lo avesse fatto sentire molto meglio con se stesso rispetto a quanto aveva fatto.» L'investigatore lanciò un'occhiata verso Ferguson, il quale stava scuotendo il capo, accigliato, mentre prendeva appunti sul suo blocco giallo. Quindi incrociò per un istante lo sguardo con quello di Cowart, e sorrise. Roy Black lasciò che la rabbia penetrasse nel tono delle sue domande. «Allora, dopo che lo ha schiaffeggiato, investigatore Wilcox, cosa crede abbia pensato il signor Ferguson? Crede che abbia pensato di non essere in arresto? Di essere libero di andarsene? O crede che abbia pensato che lei fosse in procinto di picchiarlo ancora?» «Non lo so.» «Insomma, come si è comportato dopo che lei l'aveva schiaffeggiato?» «Si è fatto più rispettoso. Non sembrava avergli dato una grande importanza.» «E?» «E io ho chiesto scusa, dietro richiesta del mio superiore.» «Be', sono sicuro che, viste a distanza dal braccio della morte, quelle scuse hanno fatto una bella differenza» commentò sarcastico l'avvocato. «Obiezione!» protestò Boylan alzandosi lentamente in piedi. «Ritiro l'osservazione» replicò Black. «Esatto» intervenne il giudice. «Precisamente.» Fulminò con lo sguardo l'avvocato difensore. «Nessun'altra domanda.» «Lo Stato?» «Sì, vostro onore. Solo una o due. Investigatore Wilcox, ha mai avuto occasione di raccogliere altre dichiarazioni di rei confessi?» «Sì. Diverse volte.» «Quante di esse sono state escluse in sede processuale?»
«Nessuna.» «Obiezione! È irrilevante!» «Obiezione accolta. Prosegua, la prego.» «Ora, glielo chiedo ancora solo per esserne sicuro, lei sostiene che il signor Ferguson ha confessato circa ventiquattro ore dopo che gli era stato chiesto di farlo?» «Esatto.» «E i presunti schiaffi, quando...» «All'incirca nei primi cinque minuti.» «E ci sono state altre minacce di carattere fisico dirette nei confronti del signor Ferguson?» «Nessuna.» «Minacce verbali?» «Nessuna.» «Di qualsiasi altro genere?» «Nessuna.» «Grazie.» Il pubblico ministero si sedette. Wilcox si alzò in piedi e attraversò l'aula, mantenendo un'espressione truce dipinta sul volto finché non ebbe superato la telecamera, e quindi aprendosi in un gran sorriso. Tanny Brown fu il secondo a essere chiamato a testimoniare. Prese posto con calma, rilassato, con l'aspetto tranquillo di chi aveva già occupato quella stessa posizione in diverse occasioni. Cowart ascoltò attentamente mentre il tenente spiegava le difficoltà che avevano da subito caratterizzato le indagini, mentre diceva al giudice che l'auto era stata la prima, e a dire il vero l'unica, prova sulla quale erano stati in grado di procedere. Descrisse Ferguson come nervoso, ansioso, evasivo nel momento in cui erano giunti alla capanna della nonna. Disse che i gesti di Ferguson erano stati bruschi, furtivi, e che si era rifiutato di spiegare perché stesse lavando l'auto, e di dire dove si trovasse il pezzo di tappetino mancante. Affermò che questo suo nervosismo lo aveva portato a sospettare che Ferguson stesse nascondendo delle informazioni. Ammise che Ferguson era stato schiaffeggiato due volte. Nulla di più. Le sue parole riecheggiarono quelle del collega. «L'investigatore Wilcox ha colpito il soggetto due volte, a mano aperta. Non forte. Il sospettato è diventato più rispettoso. Ma io mi sono personalmente scusato con lui, e ho insistito affinché l'investigatore Wilcox facesse lo stesso.» «E quale è stato l'effetto di queste scuse?»
«Si è rilassato. Il signor Ferguson non aveva dato troppa importanza al fatto di essere stato schiaffeggiato, almeno così pareva.» «Sicuro. Ma ora è una faccenda più seria, vero, tenente?» Tanny Brown fece una pausa prima di rispondere alla domanda che l'avvocato gli aveva rivolto con accenti esasperati. «Esatto, avvocato. Ora è una faccenda molto più seria.» «E naturalmente, lei non ha mai estratto una pistola durante l'interrogatorio, né l'ha mai puntata sul mio cliente?» «Nossignore.» «Non ha mai minacciato di ucciderlo?» «Nossignore.» «Per quanto la riguarda, la dichiarazione rilasciata dal mio cliente è stata interamente volontaria?» «Esatto.» «Si alzi, la prego, tenente.» «Signore?» «Si alzi e scenda dal banco.» Tanny Brown fece come richiesto. L'avvocato difensore gli si avvicinò, afferrando una sedia da dietro la sua scrivania. Il pubblico ministero si alzò in piedi. «Vostro onore, non vedo il punto di questa dimostrazione.» Il giudice si sporse in avanti. «Avvocato Black?» «Se vostro onore mi permette...» Il giudice lanciò un'occhiata verso la telecamera, puntata direttamente sull'investigatore. «D'accordo. Ma si sbrighi.» «Si metta in piedi là, tenente.» Tanny Brown si portò docilmente nel mezzo dell'aula, le mani intrecciate dietro la schiena, in attesa. Black si volse verso Ferguson e gli rivolse un cenno con il capo. Il prigioniero si alzò allora in piedi e a rapidi passi si scostò dal banco della difesa. Per un istante rimase in piedi a fianco del tenente, il tempo sufficiente perché la differenza di stazza fra lui e il poliziotto risultasse evidente a tutti. Quindi si sedette sulla sedia. L'effetto fu immediato: Tanny Brown giganteggiava sul prigioniero. «Ora, seduto su quella sedia, ammanettato e solo, non crede che potesse temere per la sua vita?» «No.» «No? Grazie. Prego, faccia pure ritorno al banco.»
Cowart sorrise. "Un po' di teatro in esclusiva per la stampa" pensò. Quella era la ripresa che avrebbe fatto il giro di tutti i telegiornali della sera, il gigantesco investigatore che incombeva sull'esile, piccolo uomo. Non avrebbe avuto alcun impatto sulla decisione del giudice, ma si rese conto che Roy Black stava recitando per diverse platee, non soltanto per una. «Passiamo ad altro, tenente.» «D'accordo.» «Rammenta un'occasione in cui le è stato presentato un coltello trovato sotto lo scarico di una fogna a circa cinque o sei chilometri dalla scena del delitto?» «Sì.» «Come è giunto in possesso di quel coltello?» «È stato recuperato dal signor Cowart del Miami Journal.» «E cos'ha rivelato l'esame del coltello?» «La lunghezza della lama corrispondeva ad alcune delle ferite profonde sul corpo della vittima.» «Niente altro?» «Sì. Un'analisi al microscopio della lama e dell'impugnatura ha rivelato particelle di residui sanguigni.» Cowart si rizzò sulla sedia. Era una novità. «E quali sono stati i risultati di tali esami?» «Il gruppo sanguigno corrisponde a quello della vittima.» «Chi ha fatto le analisi?» «I laboratori dell'FBI.» «E a quale conclusione siete giunti?» «Che il coltello in questione potrebbe essere stato l'arma del delitto.» Cowart scribacchiò freneticamente. Lo stesso fecero gli altri giornalisti. «E a chi apparteneva il coltello, tenente?» «Non si può dire. Non vi erano impronte digitali sull'impugnatura, né alcun altro segno di identificazione.» «Be', come faceva il giornalista a sapere dove si trovasse?» «Non ne ho idea.» «Lei conosce un uomo chiamato Blair Sullivan?» «Sì. È un omicida seriale.» «È stato mai un sospetto, in questo caso?» «No.» «E lo è adesso?» «No.»
«Ma si trovava nella contea di Escambia, al momento dell'assassinio di Joanie Shriver?» Tanny Brown esitò. «Sì» rispose infine. «Lo sapeva che è stato il signor Sullivan a dire al signor Cowart dove avrebbe potuto trovare quel coltello?» «L'ho letto in un articolo di giornale. Ma non lo so. Non ho alcun controllo su quanto viene pubblicato dalla stampa.» «Certamente. Ha per caso tentato di interrogare il signor Sullivan, in relazione al nostro caso?» «Sì. Si è rifiutato di collaborare.» «E come, esattamente, si è rifiutato di collaborare?» «Si è messo a riderci in faccia, e si è rifiutato di fare dichiarazioni.» «Bene, ma cosa vi ha detto di preciso nel momento in cui si è rifiutato di fare dichiarazioni? E come è successo?» Tanny Brown digrignò i denti, fulminando l'avvocato con lo sguardo. «Mi pareva di averle rivolto una domanda, tenente.» «Lo abbiamo incontrato nella sua cella nella prigione di Stato di Starke. Il "noi" sta a significare l'investigatore Wilcox e il sottoscritto. L'abbiamo informato delle ragioni della nostra presenza e gli abbiamo Ietto i suoi diritti. Lui ci ha mostrato il deretano e ha dichiarato: "Mi rifiuto dì rispondere alle vostre domande, poiché le mie risposte potrebbero condurre a una mia incriminazione."» «Il quinto emendamento della Costituzione.» «Sissignore.» «Quante volte l'ha ripetuto?» «Non so. Almeno una dozzina.» «E quelle parole, le ha pronunciate in un tono di voce normale?» Tanny Brown si agitò sulla sedia, lasciando per la prima volta trapelare un certo disagio. Matthew Cowart lo osservò con attenzione. Si rese conto che l'investigatore stava combattendo una dura lotta per mantenere il controllo. «Nossignore. Non in un tono normale di voce.» «E allora come, se non le dispiace, tenente?» Tanny Brown si accigliò. «Cantava. Dapprima una cantilena simile a una ninna-nanna. Poi, mentre uscivamo dal penitenziario, si è messo a cantare a squarciagola.» «Cantava?» «Esatto» Brown confermò lentamente, con rabbia. «E rideva.»
«Grazie, tenente.» Quando il corpulento poliziotto scese dal banco dei testimoni, teneva le mani chiuse a pugno. Tutti, nell'aula, furono in grado di scorgere i muscoli del collo contratti dalla rabbia. Ma l'immagine che continuò ad aleggiare nella tesa atmosfera dell'aula fu quella dell'assassino nella cella, intento a cantare il suo rifiuto come un tordo beffeggiatore chiuso in gabbia. L'assistente dell'ufficio di medicina legale fornì una rapida testimonianza, specificando i dettagli relativi al coltello che Brown aveva già indicato a grandi linee. Fu quindi il turno di Ferguson. Cowart notò il modo sicuro con cui il condannato attraversava l'aula, raggiungeva il banco dei testimoni e si sedeva leggermente ingobbito in avanti, teso verso le domande che il suo avvocato stava per rivolgergli. Ferguson mantenne un tono di voce flebile, rispondendo deciso ma tranquillo, quasi cercasse di sminuire la sua presenza dietro al banco. Fu calmo ed eloquente. "Addestrato alla perfezione" pensò Cowart. Si rammentò della descrizione di Ferguson al suo processo, del suo sguardo che vagava intorno, alla ricerca di un nascondiglio che potesse ripararlo dai fatti che esplodevano dalle labbra dei testimoni. Non stavolta, si rese conto Cowart. Prese nota sul suo taccuino di ricordarsi, più tardi, di tracciare quella distinzione. Ascoltò Black condurre con grande efficienza Ferguson attraverso l'ormai familiare racconto della confessione forzata. Ferguson ribadì di essere stato malmenato, di essere stato minacciato con la rivoltella. Quindi descrisse l'arrivo alla sua cella nel braccio della morte, e il successivo incontro con Blair Sullivan, chiuso nella cella a fianco della sua. «E cosa le ha detto il signor Sullivan?» «Obiezione. Sentito dire.» Il tono di voce del pubblico ministero era fermo e compiaciuto. «Può soltanto testimoniare su quanto ha detto o fatto personalmente.» «Accolta.» «D'accordo» rispose Black in tono mellifluo. «Ha avuto una conversazione con il signor Sullivan?» «Sì.» «E quale è stato il risultato di tale conversazione?» «Sono diventato una furia e ho cercato di aggredirlo. Siamo stati trasferiti in diverse sezioni del penitenziario.» «E quale azione ha intrapreso a causa di quella conversazione?»
«Ho scritto al signor Cowart del Miami Journal.» «E cosa gli ha detto, in definitiva?» «Che era stato Blair Sullivan a uccidere Joanie Shriver.» «Obiezione!» «Su che basi?» Il giudice alzò la mano. «Voglio sentire. È la ragione per cui siamo qui.» Rivolse un cenno all'avvocato della difesa. Black fece una pausa, le labbra appena aperte, come se stesse valutando le correnti d'aria nell'aula, come se potesse sentire, odorare il modo in cui le cose stavano procedendo per lui. «Non ho altre domande, per il momento.» Il giovane pubblico ministero saltò su da dietro il suo banco, palesemente alterato. «Che prove può presentare rispetto a questa conversazione?» «Nessuna. So soltanto che il signor Cowart ha parlato con il signor Sullivan e che subito dopo ha ritrovato il coltello.» «Si aspetta che questa corte creda al fatto che un uomo possa averle confessato un omicidio in una cella di prigione?» «È successo diverse volte.» «Questa non è una risposta.» «Non mi aspetto nulla.» «Quando ha confessato l'assassinio di Joanie Shriver, stava dicendo la verità, vero?» «No.» «Ma era sotto giuramento, esatto?» «Sì.» «E per quel delitto rischia la pena di morte, giusto?» «Sì.» «E mentirebbe per salvarsi la pelle, vero?» Quando l'ultima domanda vibrò nell'aria, Cowart vide Ferguson rivolgere una rapida occhiata verso Black. Fu appena in grado di scorgere il volto dell'avvocato difensore raggrinzarsi in un sottile, esperto sorriso; lo vide rivolgere un impercettibile cenno del capo all'uomo dietro al banco dei testimoni. "Sapevano che sarebbe arrivata" pensò. Ferguson inspirò profondamente. «Mentirebbe per salvarsi la vita, vero, signor Ferguson?» insistette l'avvocato dell'accusa, in tono secco. «Sì» rispose lentamente Ferguson. «Lo farei.»
«Grazie» disse Boylan, afferrando una pila di fogli di carta. «Ma non lo sto facendo» aggiunse Ferguson proprio mentre il pubblico ministero era sul punto di fare ritorno al suo posto, costringendolo a fermarsi all'improvviso. «Non sta mentendo ora?» «Esatto.» «Anche se da questo dipende la sua vita?» «La mia vita dipende dalla verità, signor Boylan» rispose Ferguson. Il pubblico ministero ebbe uno scatto, quasi volesse lanciarsi sul prigioniero, ma si fermò all'ultimo istante. «Sicuro» commentò in tono sarcastico. «Non ho altre domande.» Vi fu una momentanea pausa mentre Ferguson riguadagnava il suo posto dietro il banco della difesa. «C'è altro, avvocato Black?» domandò il giudice. «Sissignore. Un ultimo testimone. Vorremmo chiamare il signor Norman Sims al banco dei testimoni.» Nel giro di qualche istante un ometto dai capelli biondo-rossi, occhialuto e vestito con un abito marrone che non gli donava affatto attraversò l'aula e raggiunse il banco. Black parve quasi balzare verso il suo podio. «Signor Sims, vorrebbe identificarsi di fronte alla corte, per cortesia?» «Mi chiamo Norman Sims. Sono assistente di custodia al penitenziario di Stato di Starke.» «E quali sono i suoi compiti?» L'uomo esitò. Aveva una cadenza lenta, leggermente accentata. «Vuole che le dica tutto quello che faccio?» Black scosse il capo. «Mi perdoni, signor Sims. Mettiamola così: il suo lavoro include passare in rassegna e censurare la posta in entrata e in uscita dal braccio della morte?» «Non mi piace quel termine...» «Censura?» «Esatto. Io ispeziono la posta, signore. Occasionalmente, abbiamo motivo di intercettare qualcosa. Di solito si tratta di contrabbando. Non impedisco a nessuno di scrivere quello che vuole.» «Ma nel caso di Blair Sullivan...» «Quello è un caso speciale, signore.» «Per quale ragione?» «Perché scrive lettere oscene alle famiglie delle sue vittime.» «E che ne fate di queste lettere?»
«Be', in ogni singolo caso, signore, ho cercato di mettermi in contatto con i membri delle famiglie alle quali sono indirizzate. Li metto a conoscenza delle lettere, e gli chiedo se vogliono vederle o no. Cerco di fargli capire quello che c'è scritto. Molti non ne vogliono sapere.» «Molto bene. Perfino ammirevole. Lo sa il signor Sullivan che lei intercetta la sua posta?» «Non so. Probabilmente sì. Sembra che sappia ogni dannata cosa che succede in prigione. Mi scusi, vostro onore.» Il giudice annuì, e Black proseguì. «Ora, ha avuto occasione di intercettare una lettera nelle scorse tre settimane?» «Sissignore.» «E a chi era indirizzata tale lettera?» «Al signore e alla signora Shriver, qui a Pachoula.» Con un balzo Black attraversò l'aula e allungò un foglio di carta verso il testimone. «È questa la lettera?» Il custode della prigione lo fissò per qualche istante. «Sissignore. Ha le mie iniziali in cima, e un timbro. Ci ho scritto una nota, anche, relativa alla conversazione che ho avuto con gli Shriver. Non ne hanno voluto sapere nulla, signore, dopo che gli avevo detto, a livello generale, quello che diceva la lettera.» Black riprese il foglio di carta, lo consegnò al cancelliere affinché lo registrasse come prova, quindi lo riconsegnò al testimone. Accennò a fare una domanda, ma si fermò. Diede le spalle al giudice e al testimone e si portò alla barra, dietro alla quale erano seduti gli Shriver. Cowart lo sentì bisbigliare. «Amici, devo fargli leggere la lettera. Potrebbe essere dura. Mi dispiace. Ma se volete lasciare l'aula, adesso è il momento di farlo. Vedrò di farvi riavere i vostri posti quando desidererete.» Il tono cordiale della sua voce, così alieno alle controllate parole delle sue domande, prese Cowart di sorpresa. Vide il signore e la signora Shriver annuire e chinare il capo all'unisono. Vide l'uomo grande e grosso alzarsi in piedi e prendere per mano la moglie. L'aula piombò nel silenzio mentre i due ne uscivano. I loro passi riecheggiarono appena, le porte cigolarono richiudendosi alle loro spalle. Black fece una pausa, seguendoli, quindi lasciò passare un altro secondo o due mentre le porte si fermavano. Annuì con un leggero cenno del capo. «Signor Sims, sarebbe così gentile da leggerci la lettera?» Il testimone tossicchiò e si volse verso il giudice. «È un po' scabrosa, vostro onore. Non so se...»
Il giudice lo interruppe. «Legga la lettera.» Il testimone abbassò leggermente il capo e scrutò da dietro le lenti degli occhiali. Lesse con un tono veloce, frettoloso, colmo di imbarazzo, incespicando sulle oscenità. «... "Carissimi signore e signora Shriver: ho sbagliato a non scrivervi prima d'ora, ma sono stato molto occupato a prepararmi per morire.» Volevo soltanto che sapeste che gran bella dolce scopata è stata la vostra piccola. Affondare il cazzo e farlo andare su e giù nella sua fessurina è stato come raccogliere ciliegine in una mattina d'estate. Era proprio il più saporito e fresco pezzo di fichetta che si potesse immaginare. Ma ancora più bello che scoparla è stato ucciderla. Affondare il coltello nella sua carne matura è stato come tagliare un melone. Ecco quello che era. Era come un frutto. Che peccato che ora sia tutta marcia e sbattuta. Sarebbe una brutta scopata, a questo punto, tutta fredda e sporca, giusto? Tutta verdina e piena di vermi. Che peccato. Ma certo che era saporita, finché è durato..." «Il testimone sollevò lo sguardo verso l'avvocato difensore.» "Firmata: il vostro buon amico, Blair Sullivan." Black fissò lo sguardo sul soffitto, lasciando che l'impatto della lettera permeasse l'atmosfera. «Ha scritto alle famiglie di altre vittime?» domandò infine. «Sissignore. Più o meno a tutta la gente che aveva confessato di avere ucciso.» «Scrive con regolarità?» «Nossignore. Soltanto quando sembra sentirne la necessità. Molte delle lettere sono anche peggio di questa. A volte diventa anche più dettagliato.» «Immagino.» «Sissignore.» «Non ho altre domande.» Il pubblico ministero si alzò lentamente in piedi. Scuoteva il capo. «Dunque, signor Sims, nella lettera Sullivan non ammette apertamente di avere ucciso Joanie Shriver.» «Nossignore. Dice quello che ho letto. Dice che era gustosa, signore. Ma non dice di averla uccisa, nossignore, anche se di certo sembra proprio che lo dica.» Il pubblico ministero sembrava sgonfiato di ogni energia. Fu sul punto di fare un'altra domanda, ma ci ripensò. «Niente altro» dichiarò. Sims si allontanò dal banco dei testimoni e uscì a passi veloci dall'aula. Passò un paio di minuti prima che gli Shriver facessero ritorno ai loro po-
sti. Cowart vide che i loro occhi erano rossi di pianto. «A questo punto sentirò le argomentazioni» annunciò il giudice Trench. I due avvocati furono miracolosamente brevi, il che sorprese Cowart. Furono anche prevedibili. Cercò di prendere nota delle loro parole, ma si ritrovò invece a fissare l'uomo e la donna che, in prima fila, cercavano di combattere le lacrime. Vide che evitavano di voltarsi e di guardare Ferguson. I loro occhi fissavano avanti, concentrati sul giudice; le loro schiene erano rigide, le spalle contratte, leggermente puntate verso di lui, come se stessero lottando contro un forte vento di tempesta. Quando gli avvocati ebbero finito, il giudice parlò con accenti bruschi. «Voglio vedere una citazione per ciascuna delle posizioni. Deciderò dopo che avrò esaminato la legge. L'udienza è aggiornata a una settimana da oggi.» Quindi si alzò di scatto e sparì dietro una porta. Vi fu qualche istante di confusione mentre il pubblico abbandonava i posti a sedere. Cowart vide Ferguson stringere la mano del suo avvocato e seguire le guardie attraverso una porta che, sul retro dell'aula, si apriva sulla cella di attesa. Quindi si voltò, e scorse gli Shriver, circondati dai giornalisti, lottare per districarsi nello stretto corridoio e uscire. In quel momento vide Roy Black fare un cenno al pubblico ministero, segnalando i problemi della coppia. La signora Shriver teneva il braccio sollevato, quasi potesse in quel modo ripararsi dalle domande che le piovevano addosso come gocce dal cielo. Vide George Shriver circondare la moglie con un braccio, il volto arrossato nella lotta per sfuggire all'assalto. Boylan li raggiunse in un attimo e riuscì a farli deviare, come una nave che cambi rotta in mare aperto, e li condusse nell'altra direzione, verso il gabinetto del giudice. Cowart udì il fotografo al suo fianco dire: «Ho scattato, non ti preoccupare.» Black incrociò il suo sguardo, e gli rivolse un furtivo cenno di vittoria, sollevando entrambi i pollici. Ma Cowart provò dapprima una strana sensazione di vuoto, subito seguita da un senso di nervosismo che contraddiceva la gioia del momento. Udì voci attorno a lui: Black veniva intervistato da una troupe televisiva, circondato dal bagliore dei riflettori. «... Naturalmente pensiamo di aver chiarito la nostra posizione» stava dicendo. «Non si può evitare di notare che ci sono tuttora un sacco di domande che aleggiano nell'aria di questo caso. Non so come lo Stato potrà ignorare questa considerazione...» Nello stesso istante, a qualche metro di distanza, Boylan stava rispondendo, inquadrato da un'altra telecamera, illuminato dalla medesima inten-
sità di espressione, nella stessa luce. «Nostra convinzione è che a essere nel braccio della morte per quel terribile delitto sia l'uomo giusto. E intendiamo mantenere questa posizione. Anche nel caso in cui il giudice autorizzasse un nuovo processo al signor Ferguson, crediamo ci siano prove più che sufficienti a condannarlo di nuovo.» «Anche senza una confessione?» domandò un giornalista. «Assolutamente» rispose il pubblico ministero. Qualcuno si lasciò sfuggire una risata, ma si bloccò non appena Boylan si girò su se stesso, volgendo intorno un'occhiata torva. «Come mai il suo capo non si è scomodato per questo caso? Come mai hanno mandato lei? Non era nel gruppo originario. Perché proprio lei?» «È capitato a me» spiegò senza veramente spiegare. Roy Black rispose alla medesima domanda, a tre metri di distanza. «Perché i funzionari eletti non gradiscono entrare in aula e venire bastonati. Si erano resi conto fin dall'inizio che avrebbero perso. E ragazzi, potete pure citare le mie precise parole.» All'improvviso una telecamera puntò la sua inesorabile luce su Cowart, e lui sentì una domanda lanciata nella sua direzione. «Cowart? È la tua storia. Che ne pensi dell'udienza? E di quella lettera?» Arrancò alla ricerca di qualcosa di brillante e di rilassato da dire, limitandosi alla fine a scuotere il capo. «Andiamo, Matt» gridò qualcuno. «Non fare il sostenuto.» Ma lui proseguì senza dire una parola. «Irascibile» commentò qualcuno. Cowart percorse veloce il corridoio e prese le scale mobili fino all'atrio. Si affrettò a uscire dal tribunale e si ritrovò sulla scalinata. Poteva sentire il caldo mentre l'avvolgeva nella sua stretta. Soffiava un venticello deciso, e sopra di lui il trittico di bandiere - della contea, della Florida e degli Stati Uniti - veniva strattonato in continuazione, producendo un rumore secco, come di colpi di rivoltella sparati a ogni nuova raffica di vento. Vide Tanny Brown, in piedi sull'altro lato della strada. Lo fissava. Quindi si limitò ad aggrottare la fronte, e scivolò dietro il volante di un'auto. Cowart lo seguì mentre si immetteva nel traffico e scompariva. Una settimana più tardi, il giudice emise una dichiarazione scritta che ordinava un nuovo processo per Robert Earl Ferguson. Questa volta il prigioniero non fu descritto come un "animale selvaggio". Né venne fatto, nella dichiarazione, alcun riferimento alle dozzine di editoriali giornalistici che avevano invocato un nuovo processo per Ferguson, perfino sui quoti-
diani distribuiti nella contea di Escambia. Il giudice ordinò inoltre che la confessione rilasciata da Ferguson ai due investigatori venisse cancellata. Con una mozione speciale, Roy Black richiese il rilascio di Ferguson su cauzione. Fu concesso. Il denaro fu raccolto da una coalizione di organizzazioni contro la pena di morte. Cowart venne in seguito a sapere che l'intervento era stato loro proposto da un produttore cinematografico, il quale si era già assicurato i diritti di sfruttamento della biografia di Robert Earl Ferguson. 9 Ordine di esecuzione Nei tempi che seguirono, l'agitazione s'impadronì di lui. Si sentiva come se la sua vita fosse stata divisa in compartimenti, in una serie di istanti costantemente in attesa di fare ritorno a una regolare continuità. Provava un irritante senso di anticipazione, una sorta di nervosa aspettativa, ma relativa a cosa non sapeva ben dire. Lo stesso giorno in cui Robert Earl Ferguson venne rilasciato dal braccio della morte, in attesa del nuovo processo rinviato dal giudice a dicembre, si recò al penitenziario. Era la prima settimana di luglio, e la strada che conduceva alla prigione era costellata di improvvisati baracchini per la vendita di fuochi d'artificio, di petardi, di bandiere e di pavesi rossi, bianchi e blu, che pendevano flosci dalle pareti di assi imbiancate. La primavera della Florida si era rabbiosamente fusa nell'estate, e il caldo martellava la terra con furia costante e paziente, asciugandola fino a trasformarla, sotto i suoi piedi, in una sorta di cemento duro e screpolato. Il calore ondeggiava solido nell'aria come un'allucinazione, circondandolo di una presenza tanto forte quanto quella di una tempesta invernale nel New England, e altrettanto difficile da attraversare; il caldo pareva succhiare via energie, ambizioni, desideri. Sembrava quasi che l'altissima temperatura fosse riuscita a rallentare la rotazione stessa del globo terrestre. Una massa agitata di giornalisti attendeva Ferguson all'uscita del penitenziario. Il numero dei convenuti era incrementato dalla presenza dei gruppi di attivisti contro la pena di morte, alcuni dei quali alzavano manifesti di benvenuto nei confronti del prigioniero, cantilenando lo slogan "Uno, due, tre, mai più pena di morte! Quattro, cinque, sei, mai più ritornerai!" e continuando finché il prigioniero fece capolino dalla porta della prigione. Quando varcò la soglia, venne accolto da grida di entusiasmo e da
un accenno di applauso. Prima di fermarsi, Ferguson sollevò lo sguardo verso il pallido cielo azzurro. Rimase così, fiancheggiato dal suo allampanato avvocato e dalla fragile, canuta nonna. L'anziana donna rivolse una torva occhiata ai giornalisti e agli operatori che si erano avvicinati, e si aggrappò con entrambe le mani al gomito del nipote. Ferguson fece un breve discorso, appollaiato sui gradini del penitenziario in modo da poter guardare alla piccola folla dall'alto in basso; disse di credere che il suo caso avesse dimostrato quanto il sistema non funzionasse, ma allo stesso tempo anche quanto funzionasse. Dichiarò di essere felice di aver raggiunto la libertà. Disse che per prima cosa si sarebbe permesso un vero pasto, pollo fritto e verdure assortite e un gelato misto con doppia razione di cioccolato. Garantì di non provare rancore, cosa che nessuno credette. Terminò il suo discorso con queste parole: «Ringrazio il Signore per avermi mostrato la via, e ringrazio il mio avvocato, e il Miami Journal e il signor Cowart, poiché mi ha voluto ascoltare nel momento in cui nessun altro lo stava facendo. Se non fosse per lui, oggi non sarei qui fra voi.» Cowart dubitava che questa parte finale della dichiarazione di Ferguson sarebbe arrivata intatta ai telegiornali della sera, o sarebbe stata pubblicata negli articoli degli altri quotidiani. Sorrise. I giornalisti iniziarono a sparare le loro domande nel caldo. «Farà ritorno a Pachoula?» «Sì. È la mia sola, vera casa.» «Che piani ha?» «Voglio finire l'università. Magari specializzarmi, o studiare criminologia. A questo punto mi sembra di avere capito per bene i meccanismi del diritto penale.» Vi fu una risata. «E il processo?» «Cosa posso dire? Dicono che vogliono processarmi di nuovo, ma non ho idea di come possano. Penso che verrò prosciolto da ogni accusa. Voglio soltanto andare avanti con la mia vita, uscire dal centro dell'attenzione, capite. Diventare di nuovo un tipo anonimo. Non che non mi piacciate, ragazzi, ma...» Vi fu un'altra risata. La massa di giornalisti pareva in procinto di inghiottire l'esile uomo, che voltava il capo a ogni domanda, in modo da rivolgere la risposta direttamente all'interessato. Cowart notò quanto sicuro apparisse Ferguson mentre affrontava le domande dell'improvvisata conferenza stampa con spirito e destrezza, con un certo evidente godimento.
«Perché pensa che la processeranno di nuovo?» «Per salvare la faccia. Penso sia l'unico modo grazie al quale potranno evitare di ammettere che avevano cercato di giustiziare un innocente. Un innocente di colore. Preferiscono aggrapparsi a una menzogna piuttosto che affrontare la verità.» «Vai così, fratello!» gridò una voce proveniente dal gruppo di dimostranti. «Fagliela vedere!» Un altro giornalista aveva detto a Cowart che le stesse persone si presentavano a ogni esecuzione, organizzando veglie a lume di candela e cantando We Shall Overcome e I Shall Be Released fino al momento in cui il direttore del carcere non si presentava annunciando che il verdetto e il giudizio della corte erano stati eseguiti. Di solito vi era anche un gruppo delle stesse dimensioni, composto dai soliti sbandieranti esponenti del partito del "friggeteli tutti"; gente vestita con jeans e magliette bianche e stivali da cowboy a punta, gente che gridava e sbraitava e ingaggiava estemporanee risse a base di spintoni con il gruppo dei contrari alla pena di morte. Ma quel giorno non erano presenti. La stampa faceva il possibile per ignorarli tutti. «E Blair Sullivan?» chiese gridando un giornalista televisivo, allungando un microfono in direzione di Ferguson. «Che vi devo dire? Penso sia un individuo dannoso e malato.» «Lo odia?» «No. Il Signore misericordioso insegna di porgere l'altra guancia. Ma devo ammetterlo, a volte è difficile.» «Pensa che confesserà e le eviterà il processo?» «No. Credo che l'unica confessione che preveda di fare è quella rivolta al suo Creatore.» «Gli ha parlato dell'omicidio?» «Non parla con nessuno. Specialmente riguardo a quanto ha fatto a Pachoula.» «Che ne pensa dei due investigatori?» Esitò. «Nessun commento» rispose. Quindi si aprì in un gran sorriso. «Il mio avvocato mi ha detto che se non potevo dire qualcosa di carino, o qualcosa di neutrale, era meglio che me ne uscissi con un "nessun commento". Mi sono spiegato?» I giornalisti risposero con un altro scoppio di ilarità. Ferguson rivolse loro un sorriso gentile. Vi fu qualche istante di confusione finale mentre gli operatori predisponevano l'inquadratura conclusiva
e i tecnici del suono lottavano con i microfoni ad asta e i registratori. I fotografi della carta stampata saltellavano e serpeggiavano attorno a Ferguson, e i motori delle loro macchine fotografiche producevano un suono simile a quello di una miriade di insetti in una serata silenziosa. La stampa ondeggiò un'ultima volta verso il prigioniero, e lui sollevò una mano, aprendo due dita a V, in segno di vittoria. Venne fatto sedere sul retro di un'auto, e per l'ultima volta, dietro al finestrino, agitò la mano in segno di saluto, rivolto agli ultimi fotografi intenti a scattare le immagini finali del loro servizio. Quindi l'auto partì, allontanandosi lungo la lunga strada di accesso al carcere, mentre le piccole nuvolette di polvere sollevate dalle ruote aleggiavano nell'aria appena sopra alla nera striscia di asfalto della strada. L'auto sfrecciò oltre a un gruppo di detenuti intenti a marciare lentamente in fila indiana nel caldo, il sudore scintillante sulla pelle scura delle loro braccia. La luce del sole si rifletteva sulle pale e sui picconi che tenevano appoggiati sulle spalle, diretti verso i loro pranzi. Intonavano un canto di lavoro. Cowart non fu in grado di comprenderne le parole, ma si sentì sommergere dal suo ritmo regolare. Il mese seguente condusse sua figlia a Disney World. Occuparono una stanza in uno dei piani alti del Contemporary Hotel, proprio sopra al parco divertimenti. Becky aveva maturato una perizia tutta infantile nei confronti di quel luogo, pianificando gli assalti giornalieri alle giostre con l'eccitazione di un generale vittorioso particolarmente ansioso di finire un nemico già sconfitto. Lui era contento di lasciarle governare il flusso delle giornate. Se desiderava tornare sulla Space Mountain o sul Mister Toad's Wild Ride per cinque volte consecutive, per lui andava benissimo. Quando chiedeva di mangiare, lui non ricorreva ad alcuna pretesa regola alimentare, lasciandole scegliere una vertiginosa varietà di hot-dog, di patatine fritte, di zucchero filato. Nel pomeriggio faceva troppo caldo per mettersi in coda per le giostre, e i due passarono quindi ore e ore alla piscina dell'albergo, giocando nell'acqua. Lui la faceva tuffare in continuazione nell'acqua opaca, la portava sulle spalle, la faceva passare a nuoto fra le gambe aperte. Quindi, non appena il primo accenno di fresco scivolava nell'aria al tramontare del sole, si vestivano e facevano ritorno al parco per assistere ai fuochi d'artificio e ai giochi di luce. Ogni sera lui finiva per portarla in braccio, stanchissima e addormentata, a bordo della monorotaia diretta all'albergo, e su fino in camera dove con
delicatezza la adagiava sul letto e le rincalzava le coperte, mettendosi in ascolto del suo respiro rilassato e regolare, un suono infantile che riusciva a scacciare i pensieri dalla sua mente e a regalargli una sorta di pace. Fece un solo brutto sogno durante quella breve vacanza: un'improvvisa visione di Ferguson e di Sullivan che lo costringevano a salire su un ottovolante, strappandogli la figlia dalle braccia. Si svegliò boccheggiando e udì Becky chiamarlo: «Papà?» «Sto bene, tesoro. Tutto bene.» Lei sospirò e si voltò, ripiombando nel sonno. Lui rimase disteso nel letto, imprigionato dalle lenzuola fradice d'umidità. La settimana passò così, con un'urgenza infantile, tutta concentrata in un'attività senza tregua. Quando venne il momento di riportarla a casa, lui lo affrontò con lentezza, fermandosi a Water World per un giro sullo scivolo acquatico, quindi uscendo dalla superstrada per mangiare un hamburger. Fece un'altra fermata per un gelato, e una quarta, la finale, alla ricerca di un negozio di giocattoli, dove le acquistò un ennesimo regalo. Quando giunsero nella ricca zona alle porte di Tampa dove vivevano la sua ex moglie e il nuovo marito, Cowart si ritrovò a procedere al minimo con l'auto, la sua riluttanza a separarsi dalla figlia persa nel fuoco di fila della sconfinata eccitazione di Becky, che lungo la strada gli indicava le abitazioni di tutte le sue amichette. Di fronte alla casa di sua figlia vi era un lungo vialetto circolare. Un anziano uomo di colore stava spingendo un tosaerba sulla distesa di erba verde brillante. Il suo furgone, di un rosso ormai scolorito in un marrone rugginoso, era parcheggiato a lato. Sulla fiancata, scritta a mano in vernice bianca, vide la dicitura NED - SERVIZIO COMPLETO GIARDINI. L'uomo si fermò giusto il tempo di asciugarsi la fronte dal sudore e di rivolgere un cenno a Becky, che rispose con un saluto entusiasta. Cowart vide il vecchietto ingobbirsi, nuovamente concentrato sul compito di tagliare l'erba in modo uniforme. Il colletto della sua camicia era macchiato di un colore ancora più scuro della sua pelle. Cowart sollevò lo sguardo sulla porta d'ingresso. Era a due battenti, di legno intagliato. La casa a un piano era stata realizzata in stile "ranch", e si stagliava alla base di una lieve altura. Proprio sopra alla linea del tetto, sul terreno alle spalle della casa, poté scorgere il riquadro scuro di una piscina. Di fronte vi era un filare di piante, meticolosamente curate, come un volto truccato da mani esperte. Becky balzò via dall'auto e scattò oltre la porta di
casa. Lui attese per qualche istante la comparsa di Sandy. Era resa gonfia dalla gravidanza, e si muoveva circospetta a causa del caldo e del disagio. Teneva un braccio attorno alle spalle della figlia. «Allora, è stato un successo?» «Abbiamo fatto di tutto.» «Ci credo. Stanco?» «Un po'.» «Come va per il resto?» «Benino.» «Sai, ancora mi preoccupo per te.» «Be', ti ringrazio, ma va benino. Non devi.» «Vorrei tanto parlare. Non vuoi entrare? Una tazza di caffè? Qualcosa da bere?» Sorrise. «Vorrei sapere tutto. Ci sono un sacco di cose da dire.» «Becky ti può raccontare tutto.» «Non intendevo quello» rispose lei. Lui scosse il capo. «Devo andare. È già fin troppo tardi.» «Tom sarà a casa nel giro di mezz'ora. Gli piacerebbe salutarti. Trova che tu abbia fatto un gran lavoro con quegli articoli.» Lui continuò a scuotere il capo. «Ringrazialo. Ma devo veramente mettermi in marcia. Sarà circa mezzanotte quando arriverò a Miami.» «Vorrei...» accennò lei. Poi si fermò. «D'accordo» disse infine. «Parleremo più avanti.» Lui annuì. «Dammi un bell'abbraccio, tesoro.» Si accucciò sulle ginocchia e strinse la figlia fra le braccia. Per un istante fu in grado di sentire la sua energia penetrare in lui, un infinito entusiasmo. Poi lei si scostò. «Ciao, papà» disse. La sua voce uscì leggermente spezzata. Lui allungò la mano, le accarezzò la guancia e disse: «Ora, non dire alla mamma tutto quello che hai mangiato...» Abbassò la voce in un teatrale sussurro. «...E non dirle nemmeno di tutti i regali che hai ricevuto. Potrebbe esserne gelosa.» Becky sorrise e annuì con un vigoroso cenno del capo. Prima di sedersi al volante, si volse e agitò la mano con finta allegria, rivolto ad entrambe. "La fai bene la parte del padre divorziato" si disse. "Hai mandato tutte le mosse a memoria." La rabbia che provava verso se stesso non lo abbandonò per ore. Al giornale, Will Martin cercò di coinvolgerlo in diverse crociate editoriali, con scarso successo. Si ritrovò a fantasticare a occhi aperti, antici-
pando i risultati del prossimo processo contro Ferguson, sebbene non credesse che si sarebbe mai tenuto. Mentre l'estate della Rorida si trascinava implacabile verso l'autunno senza dare segni di mutamenti di clima o di temperatura, decise di fare ritorno a Pachoula e di scrivere qualcosa su come la cittadina stesse reagendo alla liberazione di Ferguson. La prima telefonata che fece dalla sua camera del motel fu per Tanny Brown. «Tenente? Parla Matthew Cowart. Volevo soltanto risparmiarle il disturbo di dipendere dalle sue spie e dagli informatori. Sono in città per un paio di giorni.» «Le posso chiedere il perché?» «Solo per un aggiornamento sul caso Ferguson. State ancora pensando di rinnovare le accuse?» L'investigatore scoppiò a ridere. «È una decisione del procuratore, non mia.» «Certo, ma lui prende le sue decisioni sulla base delle informazioni che gli fornite voi. È venuto fuori qualcosa di nuovo?» «E se anche fosse, si aspetta che glielo dica?» «Glielo sto chiedendo.» «Be', visto che Roy Black la informerebbe comunque... no, niente di nuovo.» «Mi dica di Ferguson. Che sta facendo?» «Perché non glielo chiede lei?» «Lo farò.» «Allora, faccia un salto da lui e poi mi dia un colpo di telefono.» Cowart riappese, con la vaga impressione che l'investigatore lo stesse prendendo in giro. Guidò attraverso i pini e le ombre, percorrendo la strada sterrata che portava alla casa della nonna di Ferguson, fermandosi tra le sparute galline e restando per qualche istante fermo, in piedi sulla terra battuta. Non vedendo alcun segno di vita, salì i gradini e bussò con decisione sullo stipite di legno della porta. Dopo qualche istante udì dei passi strascicati, e subito la porta si aprì di qualche centimetro. «Signora Ferguson? Sono io, Matthew Cowart, del Miami Journal.» La porta si aprì un poco di più. «Che vuole adesso?» «Dov'è Bobby Earl? Vorrei parlargli.» «È andato su al nord.» «Cosa?»
«È tornato a scuola, nel New Jersey.» «Quando è partito?» «L'altra settimana. Non c'era niente quaggiù per lui, ragazzo bianco. Lo sa meglio di me.» «Ma il suo processo?» «Non sembrava troppo preoccupato.» «Come posso rintracciarlo?» «Ha detto che avrebbe scritto una volta sistemato. Non l'ha ancora fatto.» «È successo qualcosa qui, a Pachoula? Prima che partisse?» «Niente che mi abbia raccontato. Ha altre domande, signor giornalista?» «No.» Cowart si allontanò dalla veranda, voltandosi a guardare la casa. Quel pomeriggio telefonò a Roy Black. «Dov'è Ferguson?» domandò. «Nel New Jersey. Ho indirizzo e numero di telefono, se li vuole.» «Ma come ha fatto a uscire dallo Stato? E il processo, e la cauzione?» «Il giudice l'ha autorizzato. Nessun problema. Gli ho detto che sarebbe stato meglio che proseguisse con la sua vita di prima, e lui voleva andare su e terminare la scuola. Che c'è di strano? Lo Stato deve fornirci prove nuove, e finora non hanno mandato niente. Non so cosa faranno, ma non mi aspetto grandi cose.» «Pensa che scivolerà nel dimenticatoio?» «Probabile. Lo chieda agli investigatori.» «Lo farò.» «Deve capire, signor Cowart, quanto poco questi pubblici ministeri desiderino saltar su e farsi massacrare davanti a una corte. L'umiliazione pubblica non è in cima alla lista dei desideri dei funzionari pubblici, lei mi capisce. Credo che troveranno molto più facile lasciar passare un po' di tempo, in modo che la memoria della gente si faccia un po' più confusa su tutto. Poi si sveglieranno e rinunceranno alle accuse nel corso di una comoda, piccola riunione nel gabinetto del giudice. E daranno la colpa a lui per aver cancellato la confessione dagli atti. E lui si rivolterà e dirà che è stata colpa dello Stato. E più che altro l'intera faccenda ricadrà sulle spalle di quei due poliziotti. Semplice. Fine della storia. Non è così sorprendente, no? Non ha mai visto questo genere di cose galleggiare fino a scomparire all'orizzonte del sistema giudiziario senza nemmeno un lamento?» «Dal braccio della morte allo zero assoluto?»
«Esattamente. Succede. Non troppo di frequente, chiaro, ma succede. Niente che non abbia già visto o sentito.» «E uno riprende a vivere dopo una pausa di tre anni.» «Esatto. E tutto torna bello e tranquillo, normale. Eccetto una cosa, chiaramente.» «E sarebbe?» «La ragazzina rimane morta.» Richiamò Tanny Brown. «Ferguson è tornato nel New Jersey. Lo sapeva?» «Non è mai stato un gran segreto. Il giornale locale ha pubblicato un articolo sulla sua partenza. Ha detto che voleva completare la sua istruzione. Ha dichiarato al giornale che non pensava di poter trovare lavoro qui a Pachoula, a causa del modo in cui la gente lo guardava. Non ne so nulla. Non ho idea se abbia nemmeno tentato. In ogni caso, è andato. Penso che volesse levare le tende prima che qualcuno gli facesse qualcosa.» «Di chi parla?» «Non lo so, a dir la verità. Ma c'è gente che non ha molto gradito il fatto che fosse stato rilasciato. Naturalmente, altri la pensano diversamente. Piccola città, ha presente. La gente è divisa. Per la maggior parte è confusa.» «Ma chi non ha gradito?» Tanny Brown fece una pausa prima di rispondere. «Io non ho gradito. Basta e avanza.» «Dunque ora che succede?» «Cosa si aspetta che succeda?» Cowart non fu in grado di rispondere. Non scrisse la stona che aveva in mente. Fece ritorno in redazione e si concentrò sulle prossime elezioni locali. Passò ore a intervistare candidati, a leggere linee politiche, a discutere con gli altri membri della direzione su quale avrebbe dovuto essere la posizione del giornale. L'atmosfera era inebriante, e tutti vi si sentivano coinvolti. Le splendide perversità della politica locale della Florida del Sud, dove argomenti come la conferma dell'inglese come lingua ufficiale della contea, la democrazia a Cuba, il controllo della diffusione delle armi da fuoco provvedevano infinite distrazioni. Dopo le elezioni lanciò una campagna di diversi editoriali sull'amministrazione delle riserve d'acqua nelle Keys. Ciò lo costrinse a dedicare il suo tempo alle proiezioni economiche e ai rendiconti ecologici. La sua scrivania divenne ingombra di fogli e documenti, ricoperta di infinite tabelle e di
grafici. A un certo punto ebbe uno strano pensiero: i numeri danno sicurezza. La prima settimana di dicembre, in un'udienza presieduta dal giudice Trench, lo Stato rinunciò all'accusa di omicidio di primo grado contro Robert Earl Ferguson. Di fronte a uno sparuto gruppo di giornalisti, i legali si lamentarono del fatto che, cancellata la confessione, vi fossero ben poche prove concrete per proseguire. Furono fatte frequenti fumose affermazioni, da parte sia dell'accusa sia della difesa, su quanto importante fosse il sistema, e sul fatto che nessun singolo caso poteva considerarsi più importante delle regole stesse della legge che tutti governava. Durante l'udienza, Tanny Brown e Bruce Wilcox non si fecero vedere. «Non ne voglio parlare per il momento, veramente» dichiarò Brown quando Cowart gli recò visita. «Gesù» mormorò Wilcox. «L'ho a malapena toccato. Gesù. Se l'avessi veramente picchiato, pensa che non ne avrebbe portato i segni? Pensa che avrebbe potuto stare in piedi? Diavolo, gli avrei staccato la testa. Dannazione.» Guidò attraverso l'umida sera, superando la scuola, lasciandosi alle spalle il salice vicino al quale Joanie Shriver era scomparsa da questo mondo. Si fermò alla biforcazione della strada, fissando per un istante il percorso compiuto dall'assassino, quindi ripartì in direzione della casa degli Shriver. Parcheggiò e scorse George Shriver mentre potava una siepe con un attrezzo a motore. Quando Cowart gli si avvicinò, vide che il corpo dell'uomo era ricoperto di sudore. Si fermò, spense il motore, respirando a fatica mentre guardava il giornalista fermo a pochi passi da lui, penna e taccuino pronti a scattare. «Abbiamo saputo» disse in tono sommesso. «Tanny Brown ci ha chiamati, ha detto che a questo punto era ufficiale. Non che ci abbia sorpreso, naturalmente. Sissignore, sapevamo che sarebbe successo. Tanny Brown ci aveva già detto che era tutto così fragile. È una parola che non potrò mai dimenticare. Suppongo che non poteva resistere più a lungo, non dopo che lei ha iniziato a guardarsi in giro.» Cowart, in piedi di fronte a quell'uomo dal volto paonazzo, si sentiva a disagio. «Pensate ancora che Ferguson abbia ucciso vostra figlia? E Sullivan? E la lettera che vi ha scritto?» «Non so più niente di niente. E suppongo che per mia moglie e per me sia altrettanto confuso di quanto sia per tutti gli altri. Ma dentro di me, capisce, dentro di me sono ancora convinto che sia stato lui. Non potrò mai
cancellare la sua espressione durante il processo, sa. Non riesco proprio a dimenticarla.» La signora Shriver portò fuori un bicchiere di acqua ghiacciata per suo marito. Sollevò lo sguardo verso Cowart; i suoi occhi erano colmi di una sorta di rabbiosa curiosità. «Quello che non riesco a comprendere» disse «è perché siamo stati costretti a sopportare di nuovo tutto questo. Prima lei, poi la televisione e gli altri della stampa. È stato come se la mia bambina fosse stata uccisa un'altra volta. E un'altra e un'altra ancora. A un certo punto non potevo più accendere la televisione per paura di rivedere ancora la sua fotografia. Non è che la gente ci abbia impedito di dimenticare. Noi non volevamo dimenticare. Ma tutto si è trasformato in qualcosa che non ho ben capito. Come se all'improvviso tutto ciò che importasse fosse quello che aveva detto Ferguson, e quello che aveva detto quell'altro, Sullivan, e quello che avevano fatto e tutto il resto. E non il fatto che la mia piccola mi sia stata strappata via. È stato doloroso, capisce, signor Cowart? Ci ha fatto del male, e continua a farcelo, e tanto.» Parlando, la donna piangeva, ma le lacrime non riuscirono a deturpare la trasparenza della sua voce. George Shriver inspirò profondamente, quindi bevve un lungo sorso d'acqua. «Naturalmente non la accusiamo di nulla, signor Cowart.» Si fermò. «Be', che diavolo, magari un poco sì. Non possiamo fare a meno di pensare che da qualche parte sia successo qualcosa di sbagliato. Ma non è colpa sua, suppongo. Neanche un po'. Fragile, come le ho detto. Fragile. E così è crollato tutto.» Il grosso uomo prese la mano della moglie fra le sue; insieme, abbandonando il tosaerba e Matthew Cowart in mezzo del prato, si ritirarono nell'oscurità della loro dimora. Quando parlò con Ferguson, fu sopraffatto dall'euforia del suo tono di voce. Il giornalista ebbe quasi l'impressione che gli stesse parlando di persona, e non da un telefono in interurbana. «Non la potrò mai ringraziare abbastanza, signor Cowart. Senza il suo aiuto non sarebbe successo.» «Certo che sarebbe successo, prima o poi.» «Nossignore. È stato a causa sua se la faccenda ha iniziato a muoversi. Non fosse per lei, sarei ancora nel braccio.» «Che farà ora?»
«Ho qualche programma, signor Cowart. Programmi per fare qualcosa della mia vita. Finire la scuola. Fare carriera. Sissignore.» Ferguson fece una pausa. «Mi sento come se fossi libero di fare qualsiasi cosa, a questo punto» aggiunse poi. Cowart ebbe l'impressione di aver già sentito quella frase da qualche parte, ma non fu in grado di localizzarla. «Come vanno gli studi?» domandò invece. «Ho imparato molto» rispose Ferguson. Quindi liberò una breve risata. «Mi sento di sapere un sacco di cose in più di quelle che sapevo prima. Sissignore. È tutto diverso, adesso. È stato istruttivo.» «Rimarrà su a Newark?» «Non ne sono ancora sicuro. Questo posto è perfino più freddo di come me lo ricordavo, signor Cowart. Penso che dovrei puntare di nuovo verso sud.» «Pachoula?» Ferguson esitò prima di rispondere. «Ne dubito. Quel posto non mi ha dato una buona accoglienza dopo che sono uscito dal braccio. La gente mi fissava. Li potevo sentire mentre parlavano alle mie spalle. E un sacco di dita puntate. Non potevo andare al supermercato senza che ci fosse un'auto di pattuglia ad aspettarmi all'uscita. Era come se mi stessero sorvegliando, come se sapessero che avrei fatto qualcosa. La domenica accompagnavo mia nonna alla messa, e tutte le teste si voltavano non appena entravamo. Mi ero messo alla ricerca di un lavoro, ma sembrava che ogni posto a cui mi rivolgessi avesse appena trovato qualcuno proprio un paio di minuti prima che ci arrivassi io, che il padrone fosse bianco o nero. Mi guardavano tutti come se fossi questa specie di forza malvagia che camminava in mezzo a loro, e contro la quale non potevano far niente. Era sbagliato, signor Cowart. Veramente sbagliato. E non c'era nulla che nemmeno io potessi farci. Ma la Florida è grande, signor Cowart. Si figuri, proprio l'altro giorno una chiesa di Ocala mi ha chiesto di andare a parlare delle mie esperienze. E non sono stati i primi. Dunque ci sono ancora un sacco di posti dove non mi considerano una specie di cane rabbioso. Forse così c'è soltanto Pachoula. E la cosa non cambierà, finché laggiù ci rimarrà quel Tanny Brown.» «Si terrà in contatto?» «Certo, ci mancherebbe» rispose Ferguson. Alla fine di gennaio, quasi un anno dopo aver ricevuto la lettera di Ro-
bert Earl Ferguson, Matthew Cowart vinse il premio della Florida Press Association per la sua serie di articoli. Il riconoscimento fu presto seguito da quello della Penney-Missouri School of Journalism e da un premio Ernie Pyle conferitogli dalla Scripps-Howard. Allo stesso tempo la corte suprema della Florida decretò la colpevolezza e la condanna di Blair Sullivan. Fu a questo punto che Cowart ricevette un'altra telefonata a carico del destinatario. «Cowart? È lì?» «Sono qui, signor Sullivan.» «Ha sentito della decisione della corte.» «Sì. Cosa farà? Tutto quello che deve fare è parlare con un avvocato. Perché non chiamare Roy Black, eh?» «Signor Cowart, crede che il sottoscritto non sia anche lui prigioniero delle proprie convinzioni?» Scoppiò a ridere. «Piccolo gioco di parole. Un uomo di poca coscienza? Altro scherzetto. Insomma, cosa le fa pensare che non voglia mantenere la parola?» «Non so. Forse credo che la vita valga la pena di essere vissuta.» «Lei non ha avuto la mia vita.» «Vero.» «E non ha il mio futuro. Lei probabilmente penserà che non sia un gran futuro. Ma rimarrà sorpreso.» «Sto aspettando.» «Vuole sapere una cosa, signor Cowart? La cosa più carina di tutte è che mi sto divertendo.» «Lieto di saperlo.» «E sa un'altra cosa, signor Cowart? Parleremo ancora. Quando il momento sarà vicino.» «Le hanno detto qualcosa su quando dovrebbe succedere?» «No. Ma non posso credere che il governatore ci metta molto.» «Vuole veramente morire, signor Sullivan?» «Ho dei programmi, signor Cowart. Dei gran programmi. E la morte ne è soltanto una piccola parte. La chiamerò di nuovo.» Riappese e Matthew Cowart represse un brivido. Si sentiva come se avesse appena finito di parlare con un cadavere. Il primo di aprile, Matthew Cowart vinse il premio Pulitzer per il giornalismo di cronaca. Ai vecchi tempi delle linee telegrafiche, quando le macchine sferra-
gliando e cigolando sputavano fuori notizie in un interminabile fiume di parole, il giorno dell'annuncio dei vincitori si formava una sorta di rituale assembramento, in attesa che dalle macchine uscissero i nomi. L'Associated Press e la United Press International solitamente gareggiavano a chi riuscisse a trasmettere per prima i comunicati ufficiali della giuria e a mettere in moto più velocemente le notizie che li seguivano. Le vecchie macchine telegrafiche erano dotate di una campana che scoccava all'arrivo di una notizia importante, cosicché i nomi dei vincitori erano sempre accompagnati da uno scampanio quasi religioso. Vi era una sorta di romanticismo nell'assistere al formarsi dei nomi sulle stampanti telegrafiche, mentre i direttori e i giornalisti riuniti brontolavano o esultavano. Ora tutto era stato rimpiazzato dalla trasmissione istantanea dei dati via computer. Ora i nomi apparivano sugli onnipresenti schermi verdi che punteggiavano i locali della redazione. Ma nonostante tutto, i borbottii e le grida di esultanza non erano cambiate. Quel pomeriggio Cowart si era recato a una conferenza sulla gestione delle riserve d'acqua. Quando fece il suo ingresso in redazione, tutto lo staff si alzò in piedi, applaudendo. Un fotografo gli scattò una fotografia mentre qualcuno gli cacciava in mano una coppa di champagne, spingendolo contemporaneamente verso uno schermo di computer, sul quale fu in grado di leggere di persona il proprio nome. Il caporedattore e il responsabile della cronaca gli diedero pacche sulle spalle, e Will Martin dichiarò: «L'ho sempre saputo.» Fu sommerso dalle telefonate di congratulazioni. Roy Black chiamò, e così fece Robert Earl Ferguson, che parlò soltanto per pochi istanti. Quindi fu il turno di Tanny Brown. «Bene, sono contento di vedere che qualcuno ci abbia guadagnato qualcosa, da questa storia» disse sibillino. Sua moglie chiamò, in lacrime. «Sapevo che ce l'avresti fatta» disse. Lui poté sentire un neonato piangere. Sua figlia, parlandogli, strillò di piacere, senza aver completamente compreso quanto fosse successo, ma comunque deliziata. Venne intervistato da tre stazioni televisive locali e ricevette una telefonata da un agente letterario, che si chiedeva se sarebbe stato interessato a scrivere un libro. Si fece sentire anche il produttore che si era assicurato i diritti della biografia di Robert Earl Ferguson, e gli suggerì di concludere lo stesso tipo di accordo. L'uomo insistette con la centralinista incaricata di selezionare le telefonate in arrivo finché questa non lo mise in comunicazione con Cowart. «Il signor Cowart? Parla Jeffrey Maynard. Instacom Productions. Non
vediamo l'ora di fare un film basato sul suo lavoro.» Il produttore parlava con voce agitata, quasi senza respiro, come se ogni secondo che passava significasse un'occasione sprecata e un mucchio di denaro gettato al vento. «Mi dispiace, signor Maynard» rispose lentamente Cowart. «Ma...» «Non rifiuti la mia offerta, signor Cowart. Che ne direbbe se prendessi il primo aereo per Miami e facessi quattro chiacchiere con lei? O ancora meglio, lei potrebbe venire qui, a nostre spese, naturalmente.» «Non credo proprio...» «Lasci che le dica una cosa, signor Cowart. Ho parlato con tutti i pezzi grossi quaggiù, e siamo tutti molto interessati a ottenere i diritti e le autorizzazioni. Stiamo parlando di somme importanti, e magari, per lei, dell'opportunità di lasciare il giornalismo.» «Ma io non voglio lasciare il giornalismo.» «Pensavo che tutti i giornalisti volessero fare qualcos'altro.» «Si sbaglia.» «In ogni caso, mi piacerebbe incontrarla. Abbiamo già conosciuto gli altri, e abbiamo avuto una gran collaborazione da parte loro, e...» «Ci penserò, Maynard.» «Mi richiamerà?» «Sicuro.» Cowart riappese senza la minima intenzione di fare ciò che aveva promesso. Fece ritorno all'atmosfera di eccitazione che aveva invaso la redazione, trincando champagne dai bicchieri di plastica, crogiolandosi al centro dell'attenzione, nella confusione delle domande schiacciate sotto il peso delle pacche sulle spalle e delle congratulazioni. Ma quando, quella notte, fece ritorno a casa, si ritrovò di nuovo solo. Entrò nell'appartamento e ripensò a Vernon Hawkins, che aveva vissuto i suoi giorni solitari con la sola compagnia dei suoi ricordi e della sua tosse. L'investigatore pareva onnipresente nella sua immaginazione. Insistette nel cercare di forzare l'immagine dell'amico in un qualche atteggiamento di congratulazione, ripetendosi con insistenza che Hawkins sarebbe stato il primo a chiamare, il primo a stappare una costosa bottiglia di champagne. Ma l'immagine non resisteva. Riusciva soltanto a ricordarsi il vecchio investigatore sdraiato sul suo letto d'ospedale, mentre, sotto l'effetto delle droghe e da dietro la maschera ad ossigeno, mormorava: «Qual è la decima regola della strada, Matty?» E la sua risposta: «Cristo, Vernon, non lo so. Riposati.»
«La decima regola è: le cose non sono mai quello che sembrano.» «Vernon, cosa diavolo significa?» «Significa che sto perdendo la testa. Chiama l'infermiera del cazzo, non la vecchia, la giovane, quella con il bel paio di tette. Dille che ho bisogno di un buco. Qualsiasi cosa, non fa differenza, basta che mi massaggi il culetto con il cotone per un paio di minuti prima di iniettarmi la roba.» Si ricordò di aver chiamato l'infermiera, e di essere rimasto a guardare il vecchio amico ricevere l'iniezione, aprirsi in un gran sorriso e scivolare nelle nebbie del sonno. "Ma ho vinto, Vernon. Ce l'ho fatta" si disse. Diede un'occhiata alla copia della prima edizione che aveva sottobraccio. La sua fotografia e l'articolo che lo riguardava erano sopra la piega: UN NOSTRO GIORNALISTA PORTA IL PULITZER NEL BRACCIO DELLA MORTE. Passò la maggior parte della notte a scrutare l'ampio cielo nero, lasciando che l'euforia giocasse con il dubbio, finché l'eccitazione per il premio vinto non sopraffece tutte le ansietà, e lui si addormentò, drogato dalla sua personale iniezione di successo. Due settimane più tardi, mentre Matthew Cowart era ancora nel pieno dell'euforia, un'altra notizia si fece strada tra i cavi elettronici. Il governatore aveva firmato un ordine di esecuzione per Blair Sullivan. La sentenza sarebbe stata eseguita sulla sedia elettrica, alla mezzanotte del settimo giorno dalla firma dell'ordine. Fu avanzata l'ipotesi che Sullivan avrebbe potuto evitare la sedia in qualsiasi momento, se soltanto avesse scelto di ricorrere in appello. Il governatore l'aveva ammesso al momento di firmare. Ma non vi fu alcuna risposta immediata da parte del prigioniero. Passò un giorno. Poi un secondo, e un terzo, e un quarto. La mattina del quinto giorno, mentre Cowart era seduto alla sua scrivania, il telefono prese a squillare. Afferrò di scatto la cornetta. Era il sergente Rogers, dal penitenziario. «Cowart? È lì, amico mio?» «Sì, sergente. Mi aspettavo la sua telefonata.» «Be', il momento si sta avvicinando, vero?» Era una domanda che non aveva bisogno di alcuna risposta. «Che combina Sullivan?» «Ragazzi... è mai stato allo zoo, alla casa dei rettili? Ha presente quei serpenti dietro i vetri? Non si muovono, eccetto che per gli occhi, che fan-
no scattare di qua e di là, osservando tutto. Ecco, Sully è così. Noi dovremmo tenerlo d'occhio, ma in realtà è lui che ci sorveglia, come se si stesse aspettando qualcosa. È diverso da tutto quanto abbia visto finora.» «Di solito cosa succede?» «In termini generali, tutto il posto inizia a riempirsi di avvocati, di preti, di dimostranti. Tutti sono agitati, tutti corrono di qua e di là dai vari giudici e dalle varie corti, si incontrano con questo, parlano di quello. E poi, improvvisamente, ti accorgi che è arrivato il momento. Una cosa devo dire di quando lo Stato ti frigge: non ti lascia solo. C'è la tua famiglia, e quelli che ti fanno gli auguri, e quelli che parlano di Dio e della giustizia e del resto, finché le orecchie non ti cascano. Questa è la norma. Ma in questo caso niente è normale. Non c'è nessuno, dentro o fuori, per Sully. È solo. Continuo ad aspettarmi che esploda, da quanto è teso.» «Si appellerà?» «Dice di no.» «Che ne pensa?» «È un uomo di parola.» «Ma che ne pensano gli altri?» «Be', l'opinione diffusa qui dentro è che cederà, magari l'ultimo giorno, e chiederà a qualcuno di inoltrare un appello e si deciderà a rimanere e a godersi i prossimi dieci anni di appelli. Le ultime quote lo danno a cinque sulla sedia. Ci ho scommesso anch'io. E comunque è quello che pensa il portavoce dell'ufficio del governatore. Ha detto che hanno voluto scoprire il suo bluff. Ma lui ci sta andando vicino, sa. Proprio vicino.» «Gesù.» «Già. Sta anche ricevendo un sacco di messaggi da Lui, negli ultimi tempi.» «E i preparativi?» «Be', la sedia funziona, l'abbiamo provata stamane. Ti uccide in quattro e quattr'otto, nessun dubbio. Per il resto, Sully verrà fatto spostare in una cella d'isolamento ventiquattro ore prima. Potrà ordinare un pasto completo, come da tradizione. Non gli taglieremo i capelli e non faremo nessun'altra delle ultime preparazioni fino a due ore prima. Fino ad allora, le cose rimarranno le più regolari possibile. Gli altri ragazzi del braccio sono terribilmente agitati. Non gli piace vedere che qualcuno rinunci a combattere, capisce. Quando Ferguson se ne è andato, è stato d'ispirazione a tutti, ha dato a tutti una carica di speranza. Ora Sully li ha fatti ritornare alquanto incazzati e nervosi. Non so che succederà.»
«Sta parlando come se fosse difficile anche per lei.» «Certo. Ma alla fine della fiera non è niente più che una parte del nostro lavoro.» «Sully ha parlato con qualcuno?» «No. Ma è la ragione per cui la sto chiamando.» «Cosa?» «La vuole vedere. A quattr'occhi. Al più presto possibile.» «Vuole vedere me?» «Ha capito bene. Vorrà dividere il suo incubo, credo. L'ha messa sulla sua lista dei testimoni.» «Di che si tratta?» «Cosa pensa? Gli invitati dello Stato e di Blair Sullivan alla sua piccola festa d'addio.» «Gesù. Vuole che assista all'esecuzione?» «Sì.» «Cristo! Non so se...» «Perché non gliene parla lei? Deve capire, signor Cowart, che in questa faccenda non c'è più molto tempo. Noi stiamo facendo una piacevole chiacchierata qui al telefono, ma penso che le convenga chiamare le linee aeree per prenotare un posto. Cerchi di arrivare entro questo pomeriggio.» «D'accordo. D'accordo. Ci sarò. Gesù.» «È la sua storia, signor Cowart. A quanto pare il vecchio Sully vuole vederla scriverne l'ultimo capitolo. E non posso dire che mi sorprenda.» Matthew Cowart non rispose. Riappese. Cacciò la testa nell'ufficio di Will Martin e spiegò brevemente la strana convocazione. «Vai» disse l'anziano giornalista. «Vai, subito. È una storia del diavolo. Vai.» Vi fu una frettolosa conversazione con il caporedattore, e una rapida puntata al suo appartamento, dove prese lo spazzolino da denti e un cambio di abiti. Trovò un posto sul volo di mezzogiorno, pieno di gente che si spostava per lavoro. Era il tardo pomeriggio quando giunse al penitenziario, dopo che ebbe attraversato di slancio, nell'auto a noleggio, il giorno grigio e screziato di pioggia. Il battere regolare dei tergicristalli aveva aggiunto urgenza alla sua andatura. Il sergente Rogers lo accolse negli uffici amministrativi. Si strinsero la mano come due vecchi compagni di squadra a un raduno. «Ha fatto presto» si congratulò il sergente. «Sa, posso sentire la follia di tutto questo. Stavo guidando, e nel frat-
tempo pensavo a ogni minuto, Gesù, a ogni secondo, e a tutto quello che all'improvviso significano.» «Ha ragione» annuì il sergente. «Non c'è niente come avere una data di uscita precisa per rendere importanti i piccoli momenti.» «Mi spaventa.» «Lo è, spaventoso. Come le ho detto, signor Cowart, il braccio della morte ti dà una prospettiva totalmente diversa sulla vita.» «Nessun dimostrante all'esterno?» «Non ancora. Deve veramente odiare la pena di morte, se è disposto a marciare sotto il diluvio per il vecchio Sully. Mi aspetto che si facciano vedere entro un giorno o due. Il tempo dovrebbe migliorare stanotte.» «Qualcun altro che gli ha fatto visita?» «Ci sono gli avvocati con le richieste già pronte per essere inoltrate, ma lui non ha chiamato nessuno, eccetto lei. C'è stato qualche investigatore. Ieri sono venuti quei due di Pachoula. Non ci ha voluto parlare. Poi un paio di uomini dell'FBI e qualche tizio di Orlando e di Gainesville. Tutti vogliono fare domande su un sacco di omicidi che ancora galleggiano fra le loro inchieste. E nemmeno con loro ci vuole parlare. Solo con lei. Magari a lei dirà qualcosa. Di certo darebbe una mano a molta gente, così facendo. È quello che ha fatto il vecchio Ted Bundy, appena prima di sedersi sulla sedia. Ha chiarito un bel po' di misteri che stavano perseguitando un sacco di gente. Non so se ha contato qualcosa al suo arrivo dall'altra parte, ma che diavolo, chi può dirlo?» «Andiamo.» «D'accordo.» Il sergente Rogers effettuò un superficiale controllo del taccuino e della borsa di lavoro di Matthew Cowart e quindi lo scortò, attraverso le porte blindate e i metal detector, nelle viscere della prigione. Sullivan era in attesa nella sua cella. Il sergente accostò una sedia davanti alle sbarre e fece cenno a Cowart di sedervisi. «Ho bisogno di privacy» tossì Sullivan. Cowart lo trovò alquanto impallidito. I suoi capelli lisciati all'indietro luccicavano alla luce di una singola lampadina. Ingobbito, torcendosi le mani, Sullivan percorreva a grandi passi la cella, da parete a parete. «Ho bisogno di privacy» ripeté. «Sully, lo sai che non c'è nessuno né nella cella di destra né in quella di sinistra. Puoi parlare qui» rispose pazientemente il sergente. Il prigioniero lasciò che un sorriso gli si facesse strada sul volto.
«Cercano di trasformarla in una tomba» disse a Matthew Cowart mentre il sergente si allontanava. «La rendono tranquilla e immobile, cosicché tu possa abituarti all'idea di vivere in una bara.» Si avvicinò alle sbarre e diede loro una scossa. «Come in una bara» disse. «Inchiodato dentro.» Blair Sullivan scoppiò in una travolgente risata, finché il suono non si assottigliò in un sibilo. «Allora, Cowart, ha proprio un bell'aspetto.» «Sto benino. Che posso fare per lei?» «Ci arriveremo, ci arriveremo. Mi lasci qualche istante di piacere. Ehi, ha avuto notizie del nostro ragazzo, di Bobby Earl?» «Quando ho vinto il premio, mi ha chiamato per congratularsi. Ma non abbiamo veramente parlato. A quanto so è di nuovo a scuola.» «Davvero? Chissà perché, non mi è mai sembrato il vero tipo dello studioso. Ma chissà, magari l'università ha qualche speciale attrazione per Bobby Earl. Qualche vera, speciale attrazione.» «Che sta dicendo?» «Nulla. Nulla. Niente che non avrà bisogno di ricordarsi, un giorno o l'altro.» Blair Sullivan cacciò indietro il capo e lasciò che un brivido gli percorresse le membra. «Trova che faccia freddo qui dentro, Cowart?» Cowart poteva sentire il sudore colargli sul petto. «No. Fa caldo.» Sullivan fece un gran sorriso e tossì un'altra risata. «Non è divertente, Cowart? Non riesco più a capire. Non so più se ho caldo o freddo. Giorno o notte. Proprio come un bambino, penso. Suppongo faccia parte del gioco. La morte. Si va automaticamente indietro nel tempo.» Si alzò in piedi e si diresse verso un piccolo lavabo situato in un angolo della cella. Per qualche istante fece scorrere l'acqua dall'unico rubinetto, abbassandosi e bevendo a grandi sorsate. «E assetato, anche. Ho sempre la bocca secca. Come se qualcosa continuasse a succhiarmi fuori i liquidi.» Cowart non disse nulla. «Naturalmente, suppongo che quando ti scaricano addosso per la prima volta quei duemilacinquecento volts, altro che sete.» Matthew Cowart sentì che un nodo gli si stringeva in gola. «Farà appello?» Sullivan aggrottò la fronte. «Lei cosa pensa?» «Non penso.» Il prigioniero fissò Cowart. «Deve capire, Cowart, che non mi sono mai sentito vivo come in questo momento.»
«Perché ha voluto vedermi?» «Le ultime volontà e il testamento. La dichiarazione in punto di morte. Le ultime parole famose. Come le suona?» «Dipende da lei.» Sullivan scaricò un pugno nell'aria immobile della cella. «Ricorda quando le ho detto di quanto lontano potessi arrivare? Ricorda quando le ho detto di quanto fossero patetiche queste pareti e queste sbarre, Cowart? Si ricorda di quando le ho detto che non temevo la morte, ma che l'accoglievo come una benvenuta? Credo che all'inferno ci sarà un posticino tutto speciale per me, Cowart. E lei mi aiuterà ad arrivarci.» «Come?» «Farà qualcosa per me.» «E se non accettassi?» «Accetterà. Non può farci nulla, Cowart. C'è dentro fino al collo, vero?» Cowart annuì, chiedendosi a cosa mai stesse acconsentendo. «D'accordo, Cowart. Il signor famoso giornalista. Voglio che faccia qualcosa per me, che faccia uno dei suoi servizi speciali. È una casetta. Voglio che lei bussi alla porta. Se non avrà risposta, voglio che lei ci entri comunque. Non si preoccupi se la porta sarà chiusa a chiave. Non lasci che niente le impedisca di entrare in quella casa. Siamo d'accordo? Non m'interessa come, ma lei entrerà in quella casa. E tenga gli occhi aperti. Una volta dentro, prenda nota di tutti i dettagli, chiaro? Intervisti tutti i presenti...» Blair Sullivan caricò la parola di sarcasmo. Quindi si mise a ridere. «E poi torni da me e mi racconti cos'ha visto e io le dirò qualcosa di molto interessante. L'eredità di Blair Sullivan.» L'assassino si coprì il volto con le mani; poi le fece scorrere sulla fronte e fra i capelli, aprendosi in un sorriso selvaggio. «E sarà, lo prometto, una storia degna di essere ascoltata.» Cowart esitò. Si sentiva inghiottito da un'improvvisa oscurità. «D'accordo, signor Cowart» riprese Sullivan. «È pronto? Voglio che vada al numero tredici... proprio un bel numero, non trova?... di Tarpon Drive, a Islamorada.» «Sono le Keys. Sono appena tornato da...» «Ci vada e basta! E poi torni e mi dica cos'ha trovato. E non tralasci nulla.» Cowart guardò il prigioniero, insicuro per qualche istante. Quindi il dubbio scomparve. Si alzò in piedi. «Corra, Cowart. Corra forte. Corra veloce. Non c'è molto tempo.»
Sullivan si risedette sul suo lettino. Scostò lo sguardo da Cowart e allo stesso tempo ruggì: «Sergente Rogers! Faccia sparire quest'uomo dalla mia vista!» I suoi occhi scattarono un'ultima volta verso Cowart. «Fino a domani. Il sesto giorno.» Cowart annuì e si allontanò in fretta. Riuscì a prendere l'ultimo volo per Miami. Era mezzanotte passata quando si trascinò nel suo appartamento e si gettò, ancora vestito, sul letto. Si sentiva a disagio, in preda a una sorta di strana paura da palcoscenico. Vide se stesso come un attore gettato in scena di fronte al pubblico senza sapere le proprie battute, il nome del personaggio, il titolo della commedia che avrebbe dovuto recitare. Allontanò da sé il maggior numero di pensieri che poté e si aggrappò a qualche ora di sonno agitato. Ma alle otto dell'indomani mattina era già diretto a sud verso le Keys Superiori, attraverso il primo, trasparente calore del mattino. Alcune pigre nuvole bianche, riflettendo i raggi del primo sole, parevano perdute nel cielo. Procedendo in senso inverso rispetto alla gente diretta al lavoro nel centro di Miami, Cowart superò indenne il traffico sulla South Dixie Highway. Miami si distendeva al suo passaggio, trasformandosi da una città in una serie di viali disseminati di centri commerciali dalle insegne appariscenti e dai parcheggi sempre vuoti. Il numero delle auto diminuì mano a mano che percorreva i sobborghi, finché non si trovò a sfrecciare accanto a una serie interminabile di concessionarie d'auto decorate con centinaia di bandiere americane e con enormi striscioni che annunciavano vendite rateali a prezzi speciali, le flotte di veicoli lucidati che brillavano al sole, tutti allineati in attesa di essere acquistati. Poté scorgere una coppia di caccia argentei mentre viravano nell'aria cristallina, compiendo acrobazie per atterrare alla base aerea di Homestead, ruggendo e riempiendo l'atmosfera del loro rumore, ma librandosi come ballerini mentre, uno accanto all'altro, scivolavano verso terra. Qualche miglio più in là attraversò il Card Sound Bridge, diretto a gran velocità verso le Keys. La strada penetrava attraverso boschi di mangrovie e distese paludose. Scorse un nido di cicogna su un palo del telefono; quando lo superò sfrecciando, un bianco uccello si alzò in volo e batté le ali nel cielo. Per i primi pochi chilometri fu circondato da un mondo ampio, piatto e verde. Poi la terra alla sua sinistra cedette il passo alle insenature, e finalmente alla baia della Florida. Una leggera maretta increspava la
superficie dell'acqua azzurra. Continuò a guidare. La strada che conduce alle Keys serpeggia tra acque e paludi, di quando in quando sollevandosi di qualche metro in modo da consentire che la civiltà possa attecchire. La dura terra circondata dalla barriera corallina ospita porticcioli e condomini non appena abbia acquisito una solidità sufficiente a sopportarne l'edificazione. In alcuni punti sembra che gli edifici quadrati di mattoni di cemento si siano riprodotti da soli. Una stazione di servizio dà luce a un grande magazzino. Un negozio di magliette dipinto di un rosa brillante mette radici e sboccia in un fast-food. Un pontile fa nascere un ristorante, il quale a sua volta mette le basi per un motel sull'altro lato della strada. Ovunque ci sia abbastanza terra, si trovano scuole e ospedali e campeggi per roulotte aggrappati con forza al suolo di ghiaia, di polvere e di conchiglie polverizzate e schiarite dal sole. Il mare non è mai distante, e brilla di luce riflessa, mentre la sua distesa ride dei patetici, volgari sforzi della civilizzazione. Cowart superò Marathon e l'ingresso del Pennekamp State Park. Nel porticciolo di Whale Harbor vide un enorme marlin di plastica, più grande di qualsiasi pesce che mai avesse attraversato il Golfo, posto a insegna del pontile delle barche da pesca sportiva. Superò una distesa di negozietti e di supermercati, la cui tintura bianca ai muri sbiadiva sotto l'inesorabile, bollente sole delle Keys. Quando trovò Tarpon Drive, metà del mattino se ne era già andata. La stradina si trovava sulla punta meridionale della Key, a circa un chilometro dal punto in cui il mare si faceva sotto con più decisione, rendendo impossibile ogni tipo di costruzione. La strada deviava a sinistra, una corsia singola di conchiglie scricchiolanti che passava attraverso qualche roulotte e alcune piccole case a un piano. Aveva una sua particolare casualità, quasi i terreni fossero stati divisi a seconda delle specifiche esigenze di ognuno. Un arrugginito furgone Volkswagen, dipinto nell'antico e ormai sbiadito stile psichedelico degli hippie, sedeva appoggiato su quattro grossi mattoni di cemento nel prato di una casa. Lì accanto, due bambini vestiti dei soli pannolini giocavano in una sorta di piccolo recinto pieno di sabbia. Una donna, vestita con un paio di attillati pantaloncini jeans e un prendisole, li teneva d'occhio fumando, seduta su una scatola di esche capovolta. Rivolse a Matthew Cowart un'occhiata di consumata durezza. Di fronte a un'altra casa, su due cavalletti, vi era una barca; proprio sotto la frisata si apriva una falla dai bordi frastagliati. Davanti a una roulotte, una coppia di anziani era seduta sotto un ombrellone rosa, su un paio di verdi sdraio da quattro soldi. Non si voltarono al suo passaggio. Cowart abbassò il fine-
strino e sentì una radio sintonizzata su qualche dibattito. Voci senza corpo riempivano l'aria con i loro accenti alterati, mentre discutevano di temi senza alcuna importanza. Il cielo era spruzzato dalle antenne della televisione, che si alzavano dai tetti ritorte e piegate. Cowart sentì che stava penetrando in un mondo cotto dal sole, un mondo di speranze perdute e di povertà disperate. A metà strada, alle spalle di un recinto di filo di ferro arrugginito, si trovava una chiesetta di assicelle bianche. Di fronte, in mezzo al praticello, vi era un grosso cartello scritto a mano: PRIMA CHIESA BATTISTA DELLE KEYS. ENTRATE E RAGGIUNGETE LA SALVEZZA. Vide che il cancelletto sulla strada era scardinato, e che gli scalini di legno che portavano alla porta della chiesa erano ridotti in schegge. Le porte erano lucchettate. Proseguì, alla ricerca del numero tredici. La casa era a una trentina di metri di distanza dalla strada, alle spalle di una contorta mangrovia, che gettava sulla facciata una luce cangiante. Era di mattoni di cemento, con vecchie imposte in corrispondenza delle finestre, i cui vetri opachi erano aperti nel tentativo di lasciar entrare quel poco di brezza che poteva filtrare attraverso l'intreccio di alberi e cespugli. Le imposte dipinte di nero erano tutte scrostate, e un grosso crocifisso era appeso alla porta d'ingresso. Era una casa piccola; un paio di serbatoi di propano si ergevano contro una parete; il cortile era ricoperto di sabbia e ghiaia, e la polvere si sollevava a ogni passo mentre Cowart si dirigeva verso la porta d'ingresso. Incise sul legno della porta vi erano le parole GESÙ VIVE IN OGNUNO DI NOI. Poté udire un cane abbaiare in lontananza. La mangrovia si mosse leggermente, accalappiando un leggero soffio di vento messo in fuga dal caldo. Ma lui non sentì nulla. Bussò con energia. Una volta, due volte, e ancora una terza. Nessuna risposta. Fece un passo indietro e gridò: «Buongiorno! C'è nessuno in casa?» Attese una risposta e fu accolto dal silenzio. Bussò di nuovo. "Merda!" si disse. Fece qualche passo indietro, guardandosi in giro. Non vide né auto, né alcun segno di vita. Chiamò ancora a voce alta: «C'è qualcuno?» Ma di nuovo non ebbe risposta. Non aveva un piano, nessuna idea di cosa fare. Ritornò sui suoi passi verso la strada, quindi si volse e diede un'altra oc-
chiata alla casa. "Cosa diavolo ci faccio quaggiù?" si chiese. "Che storia è questa?" Udì un leggero scricchiolio provenire dalla strada e vide un postino scendere da una jeep bianca. Osservò l'uomo inserire alcune circolari e lettere in una, poi in diverse cassette delle lettere. Lo vide dirigersi al numero tredici, lungo la strada di ghiaia. «Come va?» domandò Cowart mentre il postino si avvicinava. Era un uomo di mezz'età. Indossava i pantaloni corti grigio-azzurri e la camicia azzurro pallido della divisa del servizio postale. I capelli erano raccolti in una lunga coda di cavallo, allacciata con cura sulla nuca; sfoggiava un paio di sinistri baffi spioventi. Gli occhiali da sole ne nascondevano gli occhi. «Ho passato di meglio. Ma anche di peggio.» Prese a scartabellare nella borsa della posta. «Chi vive qui?» domandò Cowart. «Chi lo vuole sapere?» «Sono un giornalista del Miami Journal. Mi chiamo Cowart.» «Lo leggo, il suo giornale» rispose il postino. «Più o meno solo le pagine sportive, però.» «Potrebbe aiutarmi? Sto cercando di rintracciare la gente che abita qui. Ma alla porta non risponde nessuno.» «Nessuno, eh? Non li ho mai visti andare da nessuna parte.» «Chi?» «I Calhoun. La vecchia Dot e Fred. Di solito stanno lì seduti a leggere la Bibbia e ad aspettare che arrivi il giorno del giudizio o l'ultimo catalogo di Sears. In linea di massima Sears sembra più puntuale.» «È da molto che abitano qui?» «Sei, forse sette anni. Magari un po' di più. Io sono qui soltanto da allora.» Cowart era ancora confuso, ma aveva un'altra domanda da fare. «Ricevono mai della posta da Starke? Dalla prigione di Stato?» Il postino lasciò cadere la borsa, sospirando. «Sicuro. All'incirca una volta al mese.» «Sa chi è Blair Sullivan?» «Certo che lo so» rispose il postino. «Sta per essere fulminato sulla sedia. L'ho letto sul suo giornale l'altro giorno. C'entra qualcosa con questi?» «Forse. Non lo so» replicò Cowart. Mentre il postino estraeva dalla borsa una piccola pila di circolari e apriva la cassetta delle lettere, si volse
nuovamente verso la casa. «Oh-oh» esclamò il postino. «Che succede?» «La posta non è stata ritirata.» Il postino scrutò la casa, al di là del cortile polveroso. «Come odio 'ste storie. La gente anziana ritira sempre la posta, sempre, a meno che non ci sia qualche problema. Una volta consegnavo a Miami Beach, sa, quand'ero più giovane. E sapevi sempre quello che avresti trovato, quando la posta non era stata ritirata.» «Quanti giorni?» «Un paio, a quanto sembra. Merda. Che odio» brontolò il postino. Cowart s'incamminò di nuovo verso la casa. Si avvicinò a una finestra e scrutò all'interno. Tutto ciò che fu in grado di vedere furono dei mobili a buon mercato sistemati in una sorta di salottino. Alla parete era affisso un ritratto a colori di Gesù, completo del tipico raggio di luce irradiante dal capo. «Riesce a vedere qualcosa, di là?» domandò al postino, il quale lo aveva raggiunto davanti alla facciata della casa e stava sbirciando da un'altra finestra, facendosi schermo con le mani per evitare il riflesso del sole. «Solo una camera vuota.» Si scostarono entrambi dalla casa. «Signori Calhoun!» chiamò Cowart. «Siete in casa?» Nessuna risposta. Cowart si avvicinò alla porta d'ingresso ed afferrò la maniglia. La ruotò. Rivolse un'occhiata al postino, che annuì. Aprì la porta ed entrò. L'odore lo colpì all'istante. Il postino gemette e mise una mano sulla spalla di Cowart. «So di che si tratta» disse. «La prima volta che l'ho sentito è stato in Vietnam. Non l'ho mai dimenticato.» Fece una pausa. «Ascolti» aggiunse poi. Cowart sentì che l'odore gli toglieva il respiro; sentiva il bisogno di tossire, come se fosse stato circondato dal fumo. Quindi udì un ronzio proveniente dal retro della casa. Il postino fece un passo indietro. «Chiamo la polizia.» «Vado a controllare» disse Cowart. «Non lo faccia» lo pregò il postino. «Non ce n'è alcun bisogno.» Cowart scosse il capo. Fece un passo avanti, e l'odore e il ronzio parvero trascinarlo, sempre più vicino. Si rese conto che il postino se n'era andato, e guardandosi alle spalle scorse l'uomo mentre si affrettava verso la casa
accanto. Cowart si addentrò nell'abitazione. I suoi occhi percorsero il luogo, afferrandosi ai dettagli, raccogliendo visioni che avrebbe potuto, più tardi, descrivere; registrò in sé la mobilia consumata dal tempo, i manufatti religiosi, la spessa, concreta sensazione che stesse visitando l'ultimo luogo sulla terra. Il caldo gli cresceva attorno inesorabile, unendosi all'odore che permeava di sé gli abiti e le narici, che gli scivolava tra i pori, che dentro di lui avvicinava l'orlo del precipizio della nausea. Proseguì verso la cucina. Fu lì che trovò la coppia di anziani. Erano stati legati a due sedie, alle estremità di un tavolo da pranzo ricoperto di linoleum. Le braccia erano state strettamente allacciate agli schienali. La donna era nuda, l'uomo vestito. Erano seduti l'uno di fronte all'altra, come se fossero stati in procinto di mangiare. Le loro gole erano state tagliate. Il sangue nero formava una pozza alla base di ognuna delle sedie. Le mosche ricoprivano i loro volti, fra le ciocche di capelli grigi. Le loro teste erano piegate all'indietro, i loro occhi fissavano il soffitto. Al centro del tavolo, una Bibbia giaceva aperta. Cowart tossì, combattendo contro i sensi che l'abbandonavano, contro la paura, lottando perché il suo stomaco non si rivoltasse. Il calore nella stanza sembrò aumentare, calando su di lui in spesse, nauseanti ondate. Il rumore delle mosche gli invase le orecchie. Fece un passo avanti e si sporse per leggere le parole sulla pagina. Una macchia di sangue evidenziava un particolare passaggio. Ci sono coloro che lasciano un nome al loro passaggio, cosicché la loro gloria sarà conosciuta. E ci sono coloro che non lasciano memoria di sé; che muoiono come se non fossero mai stati; e che divengono come se non fossero mai nati; e i loro figli con loro. Fece un passo indietro, mentre con gli occhi perlustrava ansiosamente il locale. Vide una porta in un angolo, verso il cortile sul retro, la cui chiusura a catena era stata forzata. Il lucchetto pendeva, ormai inutile, dal vecchio legno scheggiato. Lo sguardo dardeggiò di nuovo sulla coppia di anziani di fronte a lui. I flaccidi seni della donna erano striati di sangue scuro. Cowart arretrò veloce, prima un passo, poi un altro, e finalmente si volse,
lanciandosi fuori dalla porta d'ingresso. Trattenne il respiro, piegato, le mani sulle ginocchia, e vide che il postino stava ritornando dall'altro lato della strada. Ebbe una vertigine che rischiò di farlo crollare a terra. Cowart si lasciò pesantemente cadere su uno dei gradini dell'ingresso. «Sono...?» gridò il postino affrettandosi verso Cowart. Cowart annuì. «Gesù» mormorò l'uomo. «È brutto?» Cowart annuì di nuovo. «La polizia sta arrivando.» «Sono stati uccisi» disse Cowart con un filo di voce. «Assassinati? Sul serio?» Fece ancora un cenno di assenso. «Gesù» ripeté il postino. «E perché?» Lui non rispose, limitandosi a scuotere il capo. Ma dentro di lui, il suo cervello stava turbinando. "Lo so" pensò. "Lo so. So chi sono, so perché sono morti." Erano coloro che Blair Sullivan avrebbe voluto uccidere da sempre. Da sempre. E finalmente ce l'aveva fatta, raggiungendoli da dietro le sbarre, oltre le porte blindate e i recinti, oltre le mura e il filo spinato, proprio come aveva promesso. Matthew Cowart non aveva davvero idea di come avesse fatto. 10 Un accordo raggiunto lungo la strada per l'inferno Cowart non riuscì a fare ritorno al carcere prima della tarda mattinata del settimo giorno. Il tempo rimase intrappolato fra le maglie delle indagini per l'omicidio dell'anziana coppia. Lui e il postino attesero diligentemente, seduti sulla piccola gradinata dell'ingresso, che giungesse un'auto di pattuglia. «Che diavolo di storia» disse il postino. «Dannazione, io che volevo beccare la marea del pomeriggio e pescare qualcosa per cena. A questo punto non riuscirò più a uscire in barca.» Scosse il capo. Poco dopo udirono un'auto giungere scricchiolando lungo Tarpon Drive, e quando alzarono gli occhi videro un solo poliziotto. Parcheggiò davanti alla casa, uscì lentamente dall'auto verde e bianca, si avvicinò. «Chi ha chiamato?» Era giovane, con muscoli da sollevatore di pesi e un paio di occhiali da sole da aviatore a nascondergli gli occhi.
«Io» rispose il postino. «Ma è stato lui ad andare dentro» aggiunse indicando Cowart. «Lei chi è?» «Un giornalista del Miami Journal» replicò mesto Cowart. «Ah. Allora, che abbiamo?» «Due morti. Assassinati.» La voce del poliziotto tradì una nota nervosa. «Come fa a saperlo?» «Vada a dare un'occhiata.» «Che nessuno si muova.» Il poliziotto li scavalcò. «E dove pensa che andremmo?» domandò rassegnato il postino. «Diavolo, ci sono passato molte più volte di quanto non sia successo a lui. Ehi!» gridò rivolto al poliziotto. «È come nei maledetti film. Non tocchi niente.» «Lo so, lo so» rispose il giovane poliziotto. «Cristo.» Lo seguirono con lo sguardo mentre cautamente entrava nella casa. «Sta per avere il primo colpo basso della sua giovane carriera» commentò Cowart. Il postino si aprì in un gran sorriso. «Probabilmente pensava che il suo lavoro fosse dare la caccia ai pirati della strada diretti a Key West.» Prima che Cowart potesse rispondere, giunse il grido del poliziotto: «Santa merda!» Vi fu, nell'esclamazione, un improvviso tono stridulo, come il verso di un gabbiano sorpreso che si impenna nel cielo. Dopo un attimo di silenzio, il poliziotto ricomparve, e a passi pesanti attraversò in fretta la casa. Riuscì a superare Cowart e il postino e a giungere in giardino prima di vomitare. «Ehi» disse il postino in tono pacifico. «Che io sia dannato.» Si tirò leggermente la coda di cavallo e sorrise. «Aveva detto che era un brutto spettacolo. Suppongo che sappia il fatto suo.» «Dev'essere stato l'odore» commentò Cowart osservando il giovane poliziotto mentre vomitava. Dopo qualche istante, il poliziotto si raddrizzò. I capelli erano leggermente fuori posto, il viso era pallido. Cowart gli lanciò un fazzoletto. Il poliziotto lo ringraziò con un cenno del capo. «Ma chi, perché, Gesù...» «Chi, si tratta della madre e del patrigno di Blair Sullivan» disse Cowart. «Perché, be', è tutta un'altra questione. Allora, non pensa sia meglio fare una chiamata?» «Sul serio?» domandò il postino. «Non mi prende per il culo? Ma non sta per sedersi sulla friggitrice?» «Altroché.»
«Cristo. E come mai lei è qui?» "Ecco una buona domanda" pensò Cowart. «Ero solo alla ricerca di materiale per un servizio» rispose a voce alta. «A quanto pare ne ha trovato» mormorò il postino. Cowart si fece da parte mentre la scena del delitto veniva esaminata, osservando i tecnici al lavoro, consapevole che il tempo gli stava scivolando da sotto i piedi. Era riuscito a chiamare la redazione della cronaca, informando il caporedattore su quanto era successo. Pur essendo un uomo uso alle stranezze tipiche della Florida del sud, il caporedattore era parso sorpreso. «Cosa pensi farà il governatore?» aveva chiesto. «Credi che confermerà l'esecuzione?» «Non lo so. Tu che faresti?» «Cristo, e che ne so? Quando ce la farai a tornar su a chiedere a quel pazzo figlio di puttana cosa sta succedendo?» «Appena riesco ad andarmene di qui. Ma fu costretto ad aspettare.» Durante l'ispezione di una scena del delitto, la pazienza diventa un attributo necessario. Piccoli dettagli assumono proporzioni ingigantite. La minima cosa può avere importanza. È un lavoro impegnativo, svolto da professionisti che provano piacere ad applicare coscienziosamente i principi della scienza alla violenza più bruta. Cowart bolliva e si rodeva, pensando a Blair Sullivan che, nella sua cella, aspettava solo lui. Continuava a controllare l'orologio. Ma soltanto nel tardo pomeriggio fu avvicinato da due investigatori della contea di Monroe. Il primo era un uomo di mezz'età; indossava un abito marrone rossiccio bagnato di sudore. L'altra era una donna molto più giovane dai capelli biondo sporco pettinati con decisione all'indietro. Indossava un ampio abito maschile, giacca e pantaloni leggeri, che parevano pendere dalla sua slanciata figura. Cowart adocchiò la pistola semiautomatica nella fondina ascellare, sotto la giacca. Entrambi portavano occhiali scuri, ma la donna se li tolse quando si avvicinò a Cowart, rivelando un paio di occhi grigi che si fissarono su di lui ancora prima che lei iniziasse a parlare. «Signor Cowart? Mi chiamo Andrea Shaeffer. Sono un'investigatrice della squadra omicidi. Questo è il mio collega, Michael Weiss. Siamo incaricati delle indagini. Vorremmo raccogliere la sua deposizione.» Estrasse di tasca un piccolo taccuino e una penna. Cowart annuì. Prese a sua volta il suo taccuino, e la donna sorrise. «Il
suo è più grande del mio» commentò. «Cosa mi può dire della scena del delitto?» domandò. «Lo sta chiedendo in quanto giornalista?» «Naturalmente.» «Allora che ne dice di rispondere alle nostre domande, prima? Poi noi risponderemo alle sue.» «Signor Cowart» intervenne l'investigatore Weiss «si tratta di un'indagine su un omicidio. Non siamo abituati ad avere intorno esponenti della stampa che ci informano dei delitti prima ancora che li abbiamo scoperti. Di solito succede il contrario. Dunque, perché non ci spiega subito come e perché è arrivato qui giusto in tempo per scoprire due cadaveri?» «Morti da un paio di giorni» disse Cowart. L'investigatrice Shaeffer annuì. «A quanto pare. Ma lei si è presentato stamattina. Come mai?» «Mi ha mandato Blair Sullivan. Ieri. Dalla sua cella, nel braccio della morte.» Lei prese nota, ma facendolo scosse il capo. «Non capisco. Lui sapeva...?» «Non so cosa sapesse. Si è limitato a insistere che venissi qui.» «E come si è espresso?» «Mi ha detto di venire a intervistare gli abitanti di questa casa. Solo dopo ho capito chi fossero. Dovrei fare ritorno al carcere il più presto possibile.» Si sentiva aggredito dal bruciore dei minuti perduti. «Sa chi ha ucciso questa gente?» domandò lei. Cowart esitò. «No.» "Non ancora" pensò. «Insomma, crede che Blair Sullivan sappia chi li ha uccisi?» «Potrebbe.» Lei sospirò. «Signor Cowart, si rende conto di quanto strano sia tutto questo? Sarebbe d'aiuto se lei fosse un poco più collaborativo.» Cowart sentì gli occhi dell'investigatrice Shaeffer penetrare in lui, come se, con la semplice forza del suo sguardo, lei fosse in grado di scandagliare la sua memoria alla ricerca di risposte. A disagio, cambiò posizione. «Devo tornare a Starke» ripeté. «Forse allora potrò aiutarvi.» Lei annuì. «Credo che uno di noi debba accompagnarla. Magari tutti e due.» «Non parlerà con voi» disse Cowart. «Davvero? E perché no?» «Non gradisce i poliziotti.» Ma sapeva che era soltanto una scusa.
Quando giunse al penitenziario, il giorno era sorto con decisione attorno a lui, e già stava strisciando verso il pomeriggio. Era stato trattenuto nella casa di Tarpon Drive fino alla sera, quando gli investigatori avevano finalmente fatto sgomberare l'area. Aveva guidato a gran velocità fino alla redazione del Journal, sentendo la morsa del tempo farsi sempre più stretta attorno a lui mentre gettava una scelta di dettagli nell'articolo, un'affrettata antologia di particolari ammantati di sensazionalismo, con i due investigatori ad attenderlo nell'ufficio del redattore capo. Non lo avevano voluto lasciare, ma non erano riusciti a prendere l'ultimo volo della notte precedente. Si erano rifugiati in un motel non lontano dal suo appartamento, incontrandosi nuovamente con lui poco dopo l'alba. In silenzio avevano preso il volo del mattino diretto a nord. Ora i due investigatori della contea di Monroe erano a bordo della loro auto a noleggio, e lo stavano seguendo a breve distanza. L'ingresso del carcere aveva subito una profonda trasformazione nelle ventiquattro ore appena passate. Nel parcheggio vi erano almeno due dozzine di furgoncini delle televisioni, le loro sigle riportate a grandi lettere sulle fiancate. La maggior parte era dotata di attrezzatura portatile per la trasmissione via satellite di riprese in diretta e a distanza. Le troupe bighellonavano chiacchierando, scambiandosi storie, armeggiando con le loro attrezzature come soldati pronti alla battaglia. I giornalisti e i fotografi si erano raccolti in egual numero. Come promesso, la strada di accesso era invasa dai dimostranti di entrambe le parti, che strillavano e starnazzavano, scambiandosi insulti. Cowart parcheggiò e cercò di scivolare inosservato verso l'ingresso del penitenziario. Fu adocchiato quasi subito, e venne immediatamente circondato dalle telecamere. I due investigatori si fecero strada verso il carcere, costeggiando la piccola folla che si era riunita attorno a lui. Cowart alzò il braccio. «Non ora. Non ora, vi prego.» «Matt» gridò una voce che lui riconobbe come quella di un inviato televisivo di Miami. «Sullivan accetterà di vederti? Ti dirà cosa diavolo sta succedendo?» Le luci artificiali si univano ai rabbiosi raggi del sole. Cowart cercò di farsi schermo con le mani. «Ancora non lo so, Tom. Lasciate che vada a vedere.» «Ci sono dei sospetti?» insistette l'uomo della televisione. «Non lo so.»
«Pensi che Sullivan dirà tutto, a questo punto?» «Non lo so. Non lo so.» «Cosa ti ha detto?» «Nulla. Non ancora. Niente.» «Ce lo dirai quando avrai parlato con lui?» gridò un'altra voce. «Sicuro» mentì lui, facendo di tutto per liberarsi. Stava lottando con la folla, diretto al portone principale. Poteva vedere il sergente Rogers che lo stava aspettando. «Ehi, Matty» gridò l'inviato televisivo. «Hai sentito del governatore?» «Cosa, Tom? No, non ho sentito niente.» «Ha appena tenuto una conferenza stampa. Dice niente sospensione se Sullivan non ricorre in appello.» Cowart annuì e fece un ultimo passo verso l'ingresso del carcere, scivolando sotto la protezione del braccio muscoloso del sergente Rogers. I due investigatori erano riusciti a penetrare prima di lui, e si stavano allontanando a grandi passi dalle luci impietose dei riflettori. Mentre gli passava accanto, Rogers gli si rivolse in un sussurro, canticchiando: «Devi sapere quando reggerli, e quando chiudere, e quando voltargli le spalle...» «Grazie» rispose sarcasticamente Cowart. «Certo che le cose si stanno facendo interessanti» disse il sergente. «Magari per lei» replicò Cowart sottovoce. «Per me, la cosa si sta facendo un po' difficile.» Il sergente scoppiò a ridere. Quindi si rivolse ai due investigatori. «Voi dovete essere Weiss e Shaeffer.» Si strinsero la mano. «Potete attendere in quell'ufficio.» «Attendere?» disse Weiss bruscamente. «Siamo venuti per vedere Sullivan. E subito.» Il sergente si mosse con lentezza, afferrando Cowart per il gomito e conducendolo verso una porta blindata. Scuoteva il capo. «Non vi vuole vedere.» «Ma sergente» intervenne Andrea Shaeffer in tono gentile «si tratta di un'indagine su un omicidio.» «Lo so» rispose il sergente. «Senta, dannazione, vogliamo vedere Sullivan, senza perdere un minuto» sbottò Weiss. «Non funziona in questo modo, investigatore Weiss. Quell'uomo ha ufficialmente soltanto...» scuotendo il capo, lanciò un'occhiata verso l'orolo-
gio a muro «... nove ore e quarantadue minuti da vivere. Se non desidera vedere qualcuno, diavolo, di certo non sarò io a costringerlo. Sono stato chiaro?» «Ma...» «Niente ma.» «Ma parlerà con Cowart?» domandò la Shaeffer. «Esatto. Mi deve scusare, signorina, ma io non ho intenzione di far finta di capire cosa abbia in mente di fare il signor Sullivan. Ma se ha delle lamentele da fare o pensa che magari potrebbe cambiare idea, bene, deve rivolgersi all'ufficio del governatore. Magari vi daranno una proroga. Per quanto ci riguarda, dobbiamo lavorare con quello che abbiamo. E ciò significa con il signor Cowart, con il suo taccuino e con il suo registratore. E basta.» La donna annuì. Quindi si volse verso il collega. «Mettiti in comunicazione con l'ufficio del governatore. Vedi cosa diavolo dicono di questa faccenda.» Infine si rivolse a Cowart. «Signor Cowart, lei deve fare il suo lavoro, lo so, ma la prego, potrebbe chiedergli di parlare con noi?» «Posso farlo» rispose Cowart. «Un'altra cosa» proseguì l'investigatrice. «È probabile che lei abbia un'idea abbastanza chiara di cosa gli domanderei. Provi a registrare il tutto.» Aprì una valigetta e gli lanciò una dozzina di nastri di riserva. «Io non me ne andrò. Non finché non avremo parlato di nuovo.» Il giornalista fece un cenno d'assenso. «Capisco.» L'investigatrice lanciò un'occhiata al sergente. «È sempre così strano, qua dentro?» domandò con un sorriso. Roger fece una pausa, poi le restituì il sorriso. «Nossignora.» Sollevò per l'ultima volta lo sguardo verso l'orologio. «Qui si fa un gran parlare, ma il tempo scorre.» Cowart indicò la porta blindata e seguì il sergente all'interno del carcere. I due si affrettarono lungo un interminabile corridoio; il rumore dei loro passi risuonava sul lucido pavimenti di linoleum. Il sergente scuoteva il capo. «Cosa?» «È solo che non mi piace tutta questa confusione» spiegò Rogers. «Prima di morire, bisognerebbe mettere ordine alle cose. Non mi piacciono le questioni in sospeso, nossignore.» «Penso che stia andando come lui ha sempre voluto che andasse.» «Penso che abbia proprio ragione, signor Cowart.»
«E noi dove stiamo andando?» La guardia lo stava conducendo verso una diversa ala del penitenziario. «Sully è in cella di isolamento. È a due passi dalla sedia. Accanto a un ufficio con telefoni e tutto, di modo che, nel caso ci sia una sospensione, lo porremo sapere subito.» «Lui come sta?» «Guardi con i suoi occhi.» Indicò a Cowart una cella isolata. Di fronte alle sbarre, all'esterno, era stata sistemata una sedia. Cowart si avvicinò da solo e vide Sullivan sdraiato su una branda di acciaio, lo sguardo fisso su un televisore. I suoi capelli erano stati rasati, conferendogli l'aspetto di una maschera mortuaria. Era circondato da piccole scatole di cartone traboccanti di vestiti, di libri, di fogli di carta: i suoi effetti personali trasferiti dalla sua vecchia cella. Il prigioniero si volse all'improvviso nel giaciglio, fece un ampio gesto in direzione della sedia, e posò i piedi a terra, stirandosi come in segno di spossatezza. In mano stringeva una Bibbia. «Bene bene bene, Cowart. Se l'è presa bella comoda per tornare alla mia festa, a quanto vedo.» Si accese una sigaretta e tossì. «Ci sono due investigatori della contea di Monroe, signor Sullivan. Vogliono vederla.» «Fanculo a loro.» «Vogliono farle qualche domanda sulla morte di sua madre e del suo patrigno.» «Ah sì? Fanculo a loro.» «Vogliono che le chieda di incontrarli.» Scoppiò a ridere. «Ah be', questo rende la cosa completamente diversa, vero? Ancora una volta, fanculo a loro.» Sullivan si alzò di scatto. Per qualche istante si scrutò attorno, quindi si avvicinò alle sbarre e le afferrò, stringendole, appoggiandovi il viso. «Ehi!» gridò. «Che diavolo di ore sono? Devo saperlo, che ore sono? Ehi, qualcuno mi risponda! Ehi!» «C'è tempo» disse Cowart lentamente. Sullivan fece un passo indietro, fissandolo con sguardo rabbioso. «Sicuro. Sicuro.» Poi rabbrividì, chiuse gli occhi e fece un profondo respiro. «Vuole sapere una cosa, Cowart? Si arriva al punto in cui si riescono veramente a sentire tutti i muscoli attorno al cuore indurirsi sempre di più, ogni secondo che passa.»
«Potrebbe convocare un avvocato.» «Fanculo a loro. Bisogna giocare con le carte che si hanno in mano.» «Non ha intenzione di...» «No. Stabiliamolo una volta per tutte. Posso anche essere un po' spaventato e un po' nervoso, ma che cazzo. So cosa significhi morire. Sissignore, è una cosa di cui ho conoscenza diretta.» Blair Sullivan si aggirò nella cella, per poi finalmente sedersi sull'orlo della branda e piegarsi in avanti. Improvvisamente parve rilassarsi, aprendosi in un sorriso da cospiratore, fregandosi entusiasticamente le mani. «Mi dica delle sue interviste» disse ridacchiando. «Voglio sapere tutto.» Sullivan indicò il televisore con un gesto. «La maledetta televisione e i giornali non riportano i veri dettagli. Solo un mucchio di generica spazzatura. Voglio che me li racconti lei.» Cowart sentì il freddo impadronirsi di lui. «Dettagli?» «Esatto. Non tralasci nulla. Usi tutte le parole con le quali lei è così bravo e mi faccia un bel ritratto, d'accordo?» Cowart fece un respiro profondo, pensando: sono pazzo tanto quanto lui. Ma proseguì a parlare. «Erano in cucina. Erano stati legati...» «Bene. Bene. Legati stretti, come incaprettati, o che?» «No. Avevano solo le braccia tirate indietro, così...» Gli fece una dimostrazione. Sullivan annuì. «Bene. Vada avanti.» «C'era sangue dappertutto. Sua madre era nuda. Le teste erano piegate all'indietro, così...» «Prosegua. Violentati?» «Non si poteva capire. C'erano un sacco di mosche.» «Mi piace. Ronzavano tutt'intorno, un gran rumore?» «Esatto.» Cowart udiva le parole precipitargli dalle labbra, sentiva la loro eco appena accennata. Pensò che una parte di lui, una parte che non aveva mai saputo esistesse, aveva preso il sopravvento. «Avevano sofferto?» chiese il condannato. «Come faccio a saperlo?» «Avanti, Cowart. Le hanno dato l'idea di avere avuto il tempo di contemplare le loro morti?» «Sì. Erano legati alle sedie. Si saranno guardati in faccia, proprio fino al momento in cui venivano uccisi. Uno sarà stato costretto a vedere l'altra morire, suppongo, a patto che non ci fosse più di un assassino.» «No, soltanto uno» disse tranquillamente Sullivan. Si massaggiò le brac-
cia per un istante. «Erano sulle sedie?» «Esatto. Legati.» «Come me.» «Cosa?» «Legato a una sedia. E giustiziato.» Scoppiò a ridere. Cowart sentì il freddo trasformarsi all'improvviso in bollore. «C'era una Bibbia.» «... "E ci sono coloro che non lasciano memoria di sé; che muoiono come se non fossero mai stati..."» «Esatto.» «Perfetto. Proprio come avrebbe dovuto essere.» Sullivan si alzò in piedi all'improvviso, stringendosi le braccia attorno al busto, abbracciandosi come per contenere tutte le sensazioni che gli riecheggiavano dentro. I muscoli delle braccia si gonfiarono. Una vena sulla fronte prese a pulsare. Il pallido volto si arrossò. Esalò un lungo respiro. «Posso vederli» mormorò. «Posso vederli.» Quindi sollevò le braccia verso il soffitto della cella, stirandosi. Infine le riportò bruscamente in posizione. «Benissimo!» disse. «È fatta.» Per qualche istante respirò a fatica, come uno scattista senza fiato al termine di una corsa; poi si osservò le mani, fissandole mentre, torcendole, le trasformava in due artigli. I draghi tatuati sulle sue braccia si agitarono, improvvisamente vivi. Rise fra sé, e infine si volse verso Cowart. «Ma ora parliamo del piccolo supplemento. L'aggiunta che rende tutto così degno.» «Di cosa sta parlando?» Sullivan scosse il capo. «Tiri fuori il taccuino. Tiri fuori il registratore. È giunto il momento di imparare qualcosa della morte. Come le dicevo. Eredità. Le ultime volontà e il testamento del vecchio Sully.» Mentre Cowart si approntava, Sullivan riguadagnò il suo posto sull'orlo della cuccetta. Fumava con lentezza, gustandosi ogni lunga boccata. «Pronto, Cowart?» Cowart annuì. «D'accordo. D'accordo. Da cosa iniziamo? Be', inizierei con la cosa più ovvia. Cowart, quante morti mi hanno attribuito?» «Dodici. Ufficialmente.» «Esatto. Ma dobbiamo essere più tecnici. Sono stato imprigionato e condannato a morte per quei due bravi ragazzi di Miami, la fanciulla carina e il suo compagno. Questa è la versione ufficiale. Poi ho confessato per gli
altri dieci, solo per fare l'educato, suppongo. Gli investigatori hanno raccolto tutti gli elementi, giusto, e dunque non mi addentrerò di nuovo in quel genere di dettagli. E poi c'è la ragazzina di Pachoula... la numero tredici, giusto?» «Esatto.» «Ma lasciamola un attimo da parte. Torniamo al dodici come numero di partenza, va bene?» «Va bene. Dodici.» Liberò una lunga, torpida risata. «Be', non è neanche lontanamente esatto. Nossignore. Neanche lontanamente esatto.» «Quanti?» Si aprì in un gran sorriso. «Sono rimasto qui seduto a lungo, Cowart, cercando di fare un totale. Aggiungendo e aggiungendo, cercando di uscirmene con una cifra la più precisa possibile. Non vorrei lasciarmi dietro delle discussioni, lei capisce.» «Quanti?» «Che ne dice di trentanove, Cowart?» Il condannato si lasciò andare sulla schiena, in un accenno di dondolio. Quindi sollevò le gambe, piegandole e circondandole con le braccia, continuando a dondolare. «Chiaro, potrei averne tralasciato uno o due. Succede, sa com'è. A volte gli omicidi sembrano tutti uguali, non hanno quella piccola scintilla che te li fa ricordare.» Cowart non rispose. «Iniziamo con una vecchietta appena fuori da New Orleans. Viveva sola in un condominio di piccoli appartamenti, in una cittadina chiamata Jefferson. L'ho vista un pomeriggio, mentre tornava a casa tutta sola, così carina e tranquilla e pronta ad archiviare la giornata, manco fosse sua. Così l'ho seguita. Viveva in una strada chiamata Lowell Place. Penso si chiamasse Eugenia Mae Phillips. Mi sforzo molto di ricordare questo tipo di dettagli, Cowart, perché quando andrà a controllarli, avrà bisogno di qualcosa per procedere. Questo succedeva all'incirca cinque anni fa, in settembre. Quando è scesa l'oscurità, ho scassinato la porta a scorrimento sul retro. Era uno di quegli appartamenti con giardino. Non aveva nemmeno una serratura di sicurezza. Non una luce davanti, niente. Ora, perché mai un maledetto pazzo vorrebbe vivere in una di quelle trappole? Probabile che si finisca morti ammazzati, sissignore. Non esiste al mondo un violentatore, un rapinatore, un assassino degno di questo nome che, alla vista di uno di
quegli appartamenti, non faccia un salto di gioia, perché proprio non danno alcun problema. Avrebbe dovuto almeno avere un vecchio grosso cane nero rabbioso. E invece no. Aveva un pappagallino. Giallo, in una gabbietta. Ho ucciso anche lui. E così, è andata proprio in questo modo. Naturalmente, prima mi sono divertito un po' con la vecchietta. Era così spaventata che quasi non ha fatto alcun rumore quando le ho premuto quel cuscino sulla faccia. Ho fatto fuori lei e poi mi sono occupato di altri cinque in quella zona. Violenze sessuali e rapine, principalmente. Lei è stata l'unica che ho ucciso. E poi sono ripartito. Sa com'è, se ci si continua a muovere, si evitano brutte sorprese.» Sullivan fece una pausa. «Lo tenga bene a mente, Cowart. Continuare a muoversi. Mai fermarsi e lasciare che le radici attecchiscano. Se uno non si ferma, non fa prendere la mira alla polizia. Diavolo, mi hanno beccato per vagabondaggio, sconfinamento in proprietà privata, sospetto di furto con scasso, un po' di tutto. Ma per tutte le volte che mi hanno preso, nessuno è riuscito mai a scoprirmi. Passavo soltanto un paio di notti in prigione. Una volta sono rimasto per un mese nella galera di contea a Dothan, nell'Alabama. Gran posto, Cowart. Scarafaggi e ratti e puzza di merda. Ma nessuno si è mai accorto di chi fossi veramente. Come avrebbero potuto? Non ero nessuno di importante...» Sorrise. «Almeno, così pensavano.» Esitò, guardando attraverso le sbarre di acciaio. «Naturalmente la situazione è diversa, ora, non è così? Ora Blair Sullivan è un po' più importante, vero?» Puntò il suo sguardo tagliente sul giornalista. «Vero, dannazione?» «Sì.» «E allora lo dica!» «Molto più importante.» Sullivan parve rilassarsi. La sua voce si fece più calma. «Esatto. Esatto.» Per un attimo chiuse gli occhi; quando li riaprì, un'agghiacciante indifferenza vi guizzava in profondità. «Dico, sono forse il personaggio più dannatamente importante di tutta la Florida a questo punto, non trova, Cowart?» «Forse.» «Dico, tutti vogliono sapere quello che sa il vecchio Sully, non è vero?» «È vero.» «Comincia a capire ora, Cowart?» «Penso di sì.» «Esatto, dannazione. E oserei dire che ci sarà un sacco di gente molto in-
teressata...» allungò la parola pronunciandola, facendosela passare sulla lingua come una caramella «...a quello che il vecchio Sully dirà.» Cowart annuì. «Bene. Molto bene. Dunque, quando mi sono spostato a Mobile, ho ammazzato un ragazzo in un negozio. Rapina a mano armata, niente di importante. Ha idea di quanto difficile sia per gli sbirri beccarti per una cosa del genere? Nessuno ti ha visto entrare, nessuno ti ha visto uscire, è proprio come se questo piccolo pezzettino di malvagità atterri proprio lì e tombola! Qualcuno ci lascia la pelle. Era anche un bravo ragazzo. Mi ha pregato, una volta o due. "Prenda i soldi. Prenda i soldi" diceva. "Non mi ammazzi. Sto solo lavorando per andare a scuola. Non mi ammazzi, la prego." Naturalmente gli ho sparato un colpo di rivoltella alla nuca, bello tranquillo e veloce. Mi sono presi un paio di centinaia di dollari. Un paio di Twinkies e una Coca o due e qualche patatina, e l'ho lasciato lì dietro al bancone...» Fece una pausa. Cowart scorse un rivolo di sudore scorrere sulla fronte del prigioniero. La voce vibrava di intensità. «Se ha qualche domanda, non esiti a farmelo sapere.» «Ha un riferimento temporale, una data, un indirizzo?» chiese Cowart con voce strozzata. «Giusto, giusto. Ci penso. Deve sapere i dettagli.» Sullivan si rilassò, pensieroso, quindi esplose in una breve risata. «Diavolo. Avrei dovuto avere un taccuino, come lei. Devo fidarmi della mia memoria.» Si portò di nuovo indietro, oscillando sulla schiena; sottolineò dettagli, luoghi, nomi, lentamente, con regolarità, saccheggiando la sua storia personale. Cowart ascoltò con attenzione, qua e là interrompendo con una domanda, cercando di afferrare con sempre maggior decisione le storie che gli venivano offerte. Dopo le prime, riuscì a superare lo shock. Assunsero una sorta di terrore costante, nel quale tutti gli orrori di quanto era un giorno capitato a persone reali si riducevano ai meri ricordi di un condannato. Andò alla ricerca dei particolari nei racconti dell'assassino, sentendo che l'accumulo delle parole prosciugava ogni accadimento della sua propria passione. Non avevano più alcuna sostanza, spogliati di ogni rapporto col mondo. L'idea che gli eventi di cui Blair Sullivan parlava avessero riempito gli ultimi istanti di vita di esseri umani un tempo veri e vivi si era smarrita da qualche parte, fra i fatti che il prigioniero riferiva con una inalterata,
regolare, ferma, prosaica, e assolutamente normale malvagità. Le ore scivolarono nel modo più orribile. Il sergente Rogers portò loro del cibo. Sullivan lo cacciò via con un gesto. La tradizionale ultima cena - una bistecca fatta in padella con purè di patate e torta di mele - rimase sul vassoio a raffreddarsi. Cowart si limitò ad ascoltare. Erano da poco passate le 11 di sera quando Sullivan terminò, il volto attraversato da un pallido sorriso. «Sono tutti, trentanove» disse. «Che storia, eh? Potrebbe non essere un dannato record, ma certo che ci sono andato vicino, giusto?» Fece un profondo sospiro. «Mi sarebbe piaciuto, capisce. Il record. Cosa diavolo è un record per uno come me, Cowart? Ce l'ha presente questo piccolo dato, Cowart? Sono io il numero uno, o l'onore va a qualcun altro?» Scoppiò in una secca risata. «Naturalmente, anche se non sono il numero uno in termini numerici, di sicuro ho lasciato indietro la maggior parte di quegli altri brocchi dal punto di vista della, come la vogliamo chiamare, Cowart? Originalità?» «Signor Sullivan, non ci rimane molto tempo. Se vuole...» Sullivan si alzò in piedi, spalancando gli occhi all'improvviso. «Non è stato attento, ragazzo?» Cowart alzò la mano. «Volevo soltanto...» «Non è importante quello che vuole lei! È quello che voglio io, che è importante!» «D'accordo.» Sullivan scrutò attraverso le sbarre. Respirò a fondo e abbassò la voce. «È arrivato il momento dell'ultima storia, Cowart. Prima che me ne vada da questo mondo. Prima che parta per quel bel breve viaggetto sul razzo dello Stato.» Cowart sentì una tremenda arsura impadronirsi di lui, come se il calore delle parole di quell'uomo lo avesse prosciugato di tutto. «Ora le dirò la verità sulla piccola Joanie Shriver. Una dichiarazione in punto di morte, così la chiamano in aula. Le ultime parole. S'immaginano che nessuno andrebbe nell'aldilà con una menzogna a macchiargli le labbra.» Liberò una sonora risata. «Ciò significa che dovrò dire la verità...» Fece una pausa. «...Se lei sarà in grado di crederla» aggiunse. Fissò il suo sguardo su Cowart. «La piccola, bellissima Joanie Shriver. La piccola, per-
fetta Joanie Shriver.» «La numero quaranta» disse Cowart. Blair Sullivan scosse il capo. «No.» Sorrise. «Non l'ho uccisa io.» Cowart sentì che lo stomaco gli si serrava; sulla fronte gli calò una cappa di fredda umidità. «Cosa?» «Non l'ho uccisa io. Ho ucciso tutti quegli altri. Ma non ho ucciso lei. Certo, sono passato dalla contea di Escambia. E certo, se l'avessi vista, sarei stato proprio tentato di farlo. Non ho alcun dubbio, se avessi parcheggiato di fronte alla scuola, avrei fatto esattamente quello che le è stato fatto. Avrei abbassato il finestrino dicendo "Vieni qui, scolaretta..." Questo glielo assicuro. Ma non l'ho fatto. Nossignore. Sono innocente per quell'omicidio.» Fece una pausa. «Innocente» ripeté infine. «Ma la lettera...» «Chiunque può scrivere una lettera.» «E il coltello...» «Ecco, su questo ha ragione. Quello è il coltello con il quale è stata uccisa quella povera piccola fanciulla.» «Ma non capisco...» Blair Sullivan si strinse le mani sui fianchi. La sua risata si trasformò in una tosse spessa e tagliente, che riecheggiò nel corridoio del carcere. «Ho aspettato tanto questo momento» disse. «Ero così impaziente di vedere l'espressione del suo volto.» «Io...» «È unica, Cowart. Ha l'aria un po' malata e distorta. Come se fosse lei in procinto di sedersi sulla sedia. Non io. Cosa sta succedendo laggiù?» «domandò Sullivan dandosi qualche ironico colpetto sulla fronte.» Cowart chiuse la bocca e fissò l'assassino. «Pensava di sapere tutto, vero Cowart? Pensava di essere così dannatamente intelligente. E ora, caro il mio signor giornalista premio Pulitzer, lasci che le dica una cosa: non è poi così intelligente.» Continuò a ridere e a tossire. «Mi dica tutto» mormorò Cowart. Sullivan sollevò lo sguardo. «C'è tempo?» «C'è tempo» rispose Cowart a denti stretti. Quindi osservò il prigioniero alzarsi in piedi e iniziare ad andare su e giù per la cella.
«Ho freddo» disse Sullivan. «Chi ha ucciso Joanie Shriver?» Blair Sullivan si fermò. Sorrise. «Lo sa benissimo» rispose. Cowart sentì il terreno mancargli improvvisamente sotto i piedi. Si aggrappò alla sedia, afferrò il suo taccuino e la penna, cercò di riacquistare un equilibrio. Vide la cassetta che girava, registrando l'improvviso silenzio. «Mi dica tutto» sibilò. Sullivan rise di nuovo. «Lo vuole veramente sapere?» «Me lo dica!» «D'accordo, Cowart. Immagini due uomini chiusi in due celle adiacenti, nel braccio della morte. Uno dei due vuole uscire perché è stato incastrato dalle prove più scarse che un investigatore abbia mai messo insieme, ed è stato condannato da una giuria di contadini bianchi, probabilmente convinti che si trattasse del negraccio assassino più pazzo che avessero mai visto. Naturalmente, avevano fatto bene a condannarlo. Ma l'avevano fatto per le ragioni sbagliate. Quest'uomo è traboccante di impazienza e di rabbia. Ora, l'altro uomo sa che non riuscirà mai a sfuggire all'appuntamento con la sedia elettrica. Lo potrà anche rinviare di un po', ma sa perfettamente che il suo giorno prima o poi arriverà. Non ci sono dubbi. E la cosa che lo disturba più di tutte è un avanzo di odio non risolto. C'è ancora qualcosa che vorrebbe portare a termine. Perfino se, per farlo, fosse costretto ad allungare le braccia strappandosi all'abbraccio della morte. Qualcosa di molto importante per lui. Qualcosa di così malvagio e sbagliato che c'è soltanto una persona, al mondo, a cui potrebbe chiedere di farlo.» «E chi sarebbe?» «Qualcuno come lui.» Sullivan fissò Cowart, inchiodandolo sulla sedia. «Qualcuno esattamente come lui.» Cowart non disse nulla. «A questo punto i due uomini scoprono alcune coincidenze. Come il fatto che si trovassero nello stesso posto allo stesso momento, e che guidassero lo stesso tipo di automobile. E gli viene un'idea. Un'idea davvero brillante. Il tipo di piano che neppure il braccio destro del diavolo potrebbe escogitare, scommetto. L'uomo che non uscirà mai dal braccio della morte si addosserà il crimine dell'altro. E quest'uomo, quando sarà fuori, farà quel qualcosina che gli ha chiesto il suo compare. Inizia a capire?» Cowart non si mosse. «Ha capito, stupido figlio di puttana? Non l'avrebbe mai bevuta se non
fosse stata messa nel modo in cui è stata messa. Il povero, innocente uomo nero ingiustamente condannato. La grande vittima del razzismo e dei pregiudizi. E il bianco terribile e cattivo. Non avrebbe nemmeno funzionato nell'altro senso. E non era così difficile da capire. L'importante era che le dicessi del coltello e scrivessi quella lettera proprio nel momento giusto, di modo che potesse essere letta nel corso dell'udienza. E la parte migliore è stata che ho continuato a negare di aver commesso l'omicidio. Ho continuato a dire che non ci avevo niente a che fare. Il che era la verità. Il modo migliore per far sì che una menzogna funzioni, Cowart. Basta metterci dentro un po' di verità. Vede, sapevo che se mi fossi limitato a confessare, avreste trovato il modo per dimostrare che non l'avevo fatto. Ma tutto quello che ho dovuto fare è stato dare l'impressione, a lei e a tutti i suoi amichetti della televisione e degli altri giornali, che ero stato io. Soltanto dare l'impressione. E lasciare che la natura facesse il suo corso. Ho dovuto soltanto aprire la porta di quel tanto che bastava...» Scoppiò di nuovo a ridere. «E Bobby Earl se n'è uscito proprio da quello spiraglio. Appena lei l'ha aperto abbastanza.» «Come potrei credere a una cosa del genere...» «Perché ci sono due persone morte sedute nella contea di Monroe. Sono i numeri quaranta e quarantuno.» «Ma perché dirmelo?» «Ecco» disse Sullivan sorridendo per l'ennesima volta. «Questo non fa esattamente parte dell'affare che ho concluso con Bobby Earl. Lui pensa che tutto sia finito con la sua visitina dell'altro giorno a Tarpon Drive e con la missione portata a termine per me. Io gli ho dato la vita. Lui mi ha dato la morte. Puro e semplice. Una stretta di mani e via. Questo è quello che pensa lui. Ma come le ho detto, il vecchio Sully può arrivare lontano...» Liberò un'aspra risata. La luce proiettata dalla lampadina appesa al soffitto si rifletté sul suo cranio rasato. «E lei lo sa, Cowart, io non sono proprio l'uomo più di parola che esista.» Sullivan si alzò in piedi, allargando le braccia. «E in questo modo, magari lo posso portare con me sulla strada dell'inferno. Il numero quarantadue. Uno scherzaccio ai suoi danni. Sarebbe un buon compagno di viaggio, per così dire. In cammino diretti verso l'inferno, a passo cadenzato e a ritmo di marcia.» All'improvviso, Sullivan smise di ridere. «Non è un bello scherzetto finale? Non avrebbe mai immaginato che ci aggiungessi questa trovatina.» «Supponiamo che non le creda.»
Sullivan ridacchiò. «Qualcuno come me, Cowart. Giusto.» Spostò lo sguardo sul giornalista. «Vorrà una prova della mia affermazione, no? E cosa pensa che Bobby Earl abbia fatto in tutto questo tempo, dal momento in cui lei l'ha fatto liberare?» «È stato a scuola, a studiare. Ha fatto qualche discorso in qualche chiesa...» «Cowart» scattò Sullivan interrompendolo «lo sa quant'è stupido quello che sta dicendo? Non crede che Bobby Earl abbia imparato qualcosa dalla sua piccola esperienza con il nostro grande sistema giudiziario? Pensa che il ragazzo non capisca proprio niente?» «Non so...» «Esatto. Lei non sa. Ma è meglio che lo scopra. Perché scommetterei che siano state versate un bel po' di lacrime attorno a quanto sta combinando Bobby Earl negli ultimi tempi. Deve soltanto andare a vedere di persona.» Cowart barcollava sotto l'assalto delle parole. Lottò, combattendo contro innominabili orrori. «Ho bisogno di prove» ripeté debolmente. Sullivan fece un fischio e alzò gli occhi al cielo. «Lo sa, Cowart, lei è come uno di quei vecchi pazzi monaci medievali, seduto tutto il giorno a cercare le prove dell'esistenza di Dio. Non riconosce la verità quando la sente, ragazzo mio?» Cowart scosse il capo. Sullivan sorrise. «Proprio come pensavo.» Fece una pausa di qualche istante, assaporando il momento, prima di continuare. «Be', vede, io non sono uno stupido, e dunque mentre si metteva a punto il nostro piccolo affare, io e Bobby Earl, ho scoperto altre cose, oltre a quelle che già sapevo. Ho dovuto pretendere un piccolo supplemento, a garanzia che Bobby Earl avrebbe portato a termine la sua parte dell'accordo. E anche perché in questo modo avrei potuto guidarla lungo il sentiero dell'illuminazione.» «Cosa?» «Allora, trasformiamola in una piccola avventura, Cowart. Lei ascolti attentamente. Non è stato soltanto quel coltello a essere nascosto. Altre cose sono state nascoste...» Rifletté per un attimo, prima di rivolgere al giornalista un gran sorriso. «Be', supponiamo che quelle altre cose siano in un posto davvero fetente, sissignore. Ma le può vedere, Cowart. Se ha gli occhi sul culo.» Esplose in una rauca risata. «Non capisco.» «Si limiti a ricordare con esattezza le mie parole quando farà ritorno a
Pachoula. La via verso la conoscenza può essere davvero sporca.» Il suono stridulo della voce del prigioniero riecheggiò attorno a Matthew Cowart. Lui rimase immobile, senza parole. «Che ne dice, Cowart? Sono riuscito ad ammazzare anche Bobby Earl?» Si sporse in avanti. «E lei, Cowart? Ho ucciso anche lei?» Con uno scatto, Blair Sullivan si raddrizzò sulla schiena. «È tutto» dichiarò. «Fine della storia. Fine della chiacchierata. Addio, Cowart. È tempo di morire, ci rivedremo all'inferno.» Il condannato si alzò in piedi e lentamente diede le spalle al giornalista, incrociando le braccia e fissando la parete della cella, mentre le spalle gli tremavano in un miscuglio di ilarità e terrore. Matthew Cowart rimase immobilizzato per qualche istante, incapace di ordinare alle sue membra di muoversi. All'improvviso si sentì come un vecchio, quasi il peso di quanto aveva udito gli premesse sulle spalle. La testa gli pulsava. Aveva la gola secca. Allungando una mano per recuperare il taccuino e il registratore, la vide tremare. Alzandosi in piedi barcollò. Fece un passo, e un altro, e finalmente si allontanò con passo malfermo dal prigioniero che, ormai solo, continuava a fissare la parete. Al termine del corridoio si fermò, nel tentativo di prendere fiato. Si sentiva febbricitante, in preda alla nausea; lottò per trattenersi, sollevando il capo non appena udì dei passi avvicinarsi. Scorse la lugubre espressione del sergente Rogers, e una squadra di corpulenti uomini in fondo al corridoio. Con loro vi era un prete, sulla cui fronte si era formata una traccia di sudore, e numerose guardie del penitenziario che nervosamente controllavano i loro orologi da polso. Sollevò lo sguardo e vide un grosso orologio elettrico appeso in alto sulla parete. Seguì la lancetta dei secondi avanzare inesorabile. Mancavano dieci minuti alla mezzanotte. 11 Panico Si sentiva precipitare. Rotolava, a gambe all'aria, senza alcun controllo, in un grande buco nero. «Signor Cowart?» Ispirò a fatica. «Signor Cowart, tutto bene, ragazzo mio?» Rovinò a terra, e il suo corpo si ruppe in mille pezzi. «Ehi, signor Cowart, mi sente?»
Aprì gli occhi e vide il volto pallido e risoluto del sergente Rogers. «Deve prendere posto adesso, signor Cowart. Non possiamo aspettare nessuno, tutti i testimoni ufficiali devono aver preso posto entro mezzanotte.» Il sergente fece una pausa, passandosi la grossa mano fra i capelli tagliati a spazzola, un gesto dettato dalla stanchezza e dalla tensione. «Non è come andare a vedere un film ed entrare quando è già iniziato. Sicuro di star bene?» «Ce la farò» gracchiò Cowart. «Non è così terribile» disse la corpulenta guardia. Ma subito dopo scosse il capo. «No, non è vero. È proprio orrendo. Se non ti fa rivoltare lo stomaco, allora vuol dire che non sei una persona. Ma lei lo supererà. Vero?» Cowart deglutì. «Sto bene.» La guardia lo osservò con attenzione. «Sully deve averle scaricato addosso qualcosa di tremendo. Che le ha detto per tutto quel tempo? Ha l'aria di qualcuno che abbia appena visto un fantasma.» "L'ho visto" pensò Cowart. «Mi ha parlato di morte» rispose invece. Il sergente sbuffò. «Lui sì che ne sa qualcosa. E ora se ne renderà conto di persona. Ma lei deve andare avanti, signor Cowart. La morte non aspetta nessuno.» Cowart sapeva cosa volesse dire il sergente e scosse il capo. «Sì che lo fa» rispose. «Aspetta l'occasione migliore.» Il sergente Rogers guardò attentamente il giornalista. «Be', non è lei che sta per fare l'ultima passeggiata. Sicuro di star bene? Non voglio nessuno che svenga, là dentro, o che faccia una scena. Dobbiamo mantenere un certo decoro quando friggiamo qualcuno.» La guardia cercò di sorridere della sua stessa ironia. Cowart fece un passo traballante verso la camera di esecuzione, quindi si voltò. «Starò bene» promise. Avrebbe voluto mettersi a ridere della gravità della menzogna che aveva appena detto. "Bene" si disse. "Starò bene." Era come se una qualche voce sconosciuta stesse parlando dentro di lui. "Sicuro, nessun problema. Niente di grave. Ho soltanto liberato un assassino." Ebbe un'improvvisa, orrenda visione di Robert Earl Ferguson, in piedi all'esterno della casetta sulle Keys; rideva di lui, prima di entrare e portare a termine la sua parte dell'affare. Il suono della voce dell'assassino gli riecheggiò nel capo. Poi rivide le fotografie del corpo di Joanie Shriver appena ritrovato nella palude. Si rammentò di quanto scivolose erano sembrate
alla stretta sudata delle sue dita, quasi fossero coperte di sangue. "Sono morto" pensò di nuovo. Ma costrinse i suoi piedi ad avanzare strisciando. Oltrepassò la soglia quando mancavano due minuti a mezzanotte. Il primo sguardo che incontrò fu quello di Brace Wilcox. Il battagliero investigatore era seduto in prima fila; indossava una giacca sportiva a quadri dai colori brillanti, che pareva in crudele, ilare contraddizione con la sporca faccenda che stava per essere conclusa. Gli rivolse un riluttante sorriso, e con il capo accennò a un posto libero di fianco. Cowart si guardò rapidamente in giro, rivolgendo un'occhiata alle due dozzine di altri testimoni seduti sulle sedie pieghevoli sistemate su due file, tutti intenti a fissare davanti a loro, come se volessero imprimersi nella memoria ogni singolo elemento di quanto stava per accadere. Parevano fatti di cera, come altrettante statuette. Nessuno si muoveva. Un divisorio di vetro li separava dalla camera di esecuzione, cosicché si aveva l'impressione di assistere all'azione come se questa si svolgesse su un palcoscenico o su qualche strano schermo televisivo tridimensionale. Quattro uomini erano già nella camera: due ufficiali del penitenziario in uniforme; il terzo uomo, un dottore, reggeva una piccola borsa medica nera; e un altro personaggio in giacca e cravatta, che qualcuno bisbigliò appartenere "all'ufficio del procuratore generale", era in attesa sotto un grande orologio elettrico. Cowart osservò la lancetta dei minuti: pareva procedere nel tempo a colpi di falce. «Si sieda, Cowart» sibilò l'investigatore. «Lo spettacolo sta per iniziare.» Cowart scorse due altri giornalisti, uno del Tampa Tribune, l'altro del St. Petersburg Times. Avevano un'espressione cupa in volto, ma imitarono l'investigatore facendo cenno a Cowart di sedersi, prima di proseguire a scribacchiare i loro appunti sui piccoli taccuini. Alle loro spalle vi era una donna di una stazione televisiva di Miami. I suoi occhi erano fissi sulla sedia ancora vuota, nella camera di esecuzione. La vide avvolgere intorno al pugno un semplice fazzolettino bianco. Arrancò verso la sedia che lo aspettava, vuota. Il rigido metallo dello schienale parve bruciargli la schiena. «Brutta serata, eh, Cowart?» sussurrò l'investigatore. Lui non rispose. L'investigatore grugnì. «Non così dura come per altri, d'altra parte.» «Non ne sia così sicuro» replicò Cowart con un filo di voce. «Come mai
è qui?» «Tanny ha qualche amicizia. Voleva vedere se il vecchio Sully sarebbe andato veramente fino in fondo. Non crediamo ancora a tutte quelle balle che lei ha scritto sul fatto che sarebbe lui il vero assassino della piccola Joanie. Tanny ha detto di non avere idea di cosa possa significare il fatto che Sullivan non faccia marcia indietro. Ma pensava che se non l'avesse fatto, e se io fossi stato qui ad assistere alla faccenda, be', forse mi avrebbe insegnato un nuovo rispetto per il sistema della giustizia. Tanny mi insegna sempre delle cose. Dice che il fatto di sapere cosa succede alla fine ti rende un poliziotto migliore.» Lo sguardo dell'investigatore brillò di diabolica ironia. «Ed è successo?» domandò Cowart. Wilcox scosse il capo. «Non è ancora finita. La classe non ha ancora finito i lavori.» Rivolse a Cowart un gran sorriso. «Mi sembra un po' pallido. Qualcosa la preoccupa?» Prima che Cowart potesse replicare, Wilcox proseguì: «Una dichiarazione finale? È mezzanotte.» Attesero un attimo o due. Si aprì una porta laterale e ne entrò il direttore del carcere. Lo seguiva Blair Sullivan, fiancheggiato da due guardie e seguito da una terza. Il suo volto era rigido e pallido, e aveva un aspetto cadaverico. L'intero suo corpo, già sottile, pareva ancora più minuto e malaticcio. Indossava una semplice camicia bianca abbottonata sul collo e un paio di pantaloni blu scuro. Un prete, con la sua Bibbia, il suo collare bianco e un'espressione di deluso scoramento, seguiva il gruppo. Una volta dentro, si spostò su un lato della camera, fermandosi soltanto per alzare le spalle in direzione del direttore e apri il Libro Sacro. Iniziò a leggere a voce bassa, fra sé. Cowart vide gli occhi di Sullivan spalancarsi nel momento in cui si fissarono sulla sedia. Scattarono all'improvviso su un telefono appeso alla parete, e per il più sfuggente degli istanti le sue ginocchia parvero cedere, facendolo vacillare. Ma quasi subito riprese il controllo e la momentanea esitazione andò perduta. Era la prima volta che aveva visto Sullivan comportarsi in modo vagamente umano, si disse Cowart. Poi le cose presero a succedersi l'una all'altra con rapidità, con la spasmodicità di un vecchio film muto. Sullivan venne fatto sedere e due guardie si inginocchiarono e presero ad assicurare i fermi per le gambe e per le braccia. Alcune cinghie di cuoio vennero passate e allacciate intorno al petto di Sullivan, facendo raggrinzi-
re la sua camicia bianca. Una guardia attaccò un elettrodo alla gamba del prigioniero. Un'altra passò veloce dietro alla sedia e afferrò una calotta, pronta ad abbassarla sul capo di Sullivan. Il direttore fece un passo avanti e prese a leggere l'ordine di esecuzione bordato di nero e firmato dal governatore della Florida. Ogni sillaba sibilava nelle orecchie di Cowart, quasi fosse dedicata a lui. Il direttore accelerò nella sua lettura, quindi fece un profondo respiro e cercò di rallentare il ritmo. La sua voce pareva stranamente metallica e distante. Vi erano altoparlanti alle pareti e microfoni nascosti nella camera di esecuzione. Il direttore terminò di leggere. Per qualche istante fissò il foglio di carta, come in cerca di qualcos'altro da aggiungere. Infine sollevò lo sguardo e fissò Sullivan. «Ha qualche dichiarazione da fare?» domandò in tono sommesso. «Fanculo. Muoviamoci» rispose Sullivan. La sua voce tremava in modo insolito. Il direttore fece un cenno con la mano destra, quella che reggeva l'ordine arrotolato, rivolto alla guardia alle spalle della sedia, che immediatamente sistemò la calotta di pelle nera schermata e la maschera facciale sul capo del prigioniero. Quindi collegò un grosso conduttore elettrico alla calotta. In quel preciso istante Sullivan si contorse, uno scatto improvviso contro le catene che lo trattenevano. Cowart vide i draghi tatuati sulle braccia dell'uomo agitarsi come vivi, mossi dai muscoli in contrazione. I tendini del collo si tesero come cime in balìa di un gran vento improvviso. Sullivan stava gridando qualcosa, ma le sue parole erano impedite da una museruola di pelle che gli era stata fissata alla bocca. Le parole divennero gemiti e grugniti inarticolati, il cui tono di voce saliva e scendeva, mosso dal panico. Nella stanza dei testimoni non vi era alcun rumore, eccettuato il lento alternarsi dei tormentati respiri. Cowart vide il direttore rivolgere un cenno quasi impercettibile verso una parete divisoria sul retro della camera di esecuzione. Vide una sottile fessura, e, per un istante, un paio di occhi. Gli occhi del boia. Fissarono l'uomo sulla sedia e subito scomparvero. Vi fu un rumore sordo. Qualcuno sussultò. Qualcun altro tossì con forza. Vi fu qualche bestemmia sussurrata. Le luci si abbassarono per qualche istante. E infine il silenzio riconquistò il locale. Cowart pensò di non essere più in grado di respirare. Era come se una
mano gli avesse circondato il petto e ne avesse spremuto fuori tutta l'aria. Immobile, osservò i polsi di Sullivan farsi da rosa a bianchi, e infine grigi. Il direttore rivolse un altro cenno alla parete divisoria sul retro. Un generatore ronzò con il suo distante lamento, scuotendo il piccolo locale. Un leggero odore di carne bruciata gli penetrò nelle narici e travolse il suo stomaco con un rinnovato attacco di nausea.' Vi fu un'altra frattura nel tempo, mentre il dottore attendeva che i 2500 volts abbandonassero il cadavere. Infine fece un passo avanti, estraendo uno stetoscopio dalla sua borsa. E fu tutto finito. Cowart guardò i presenti nella camera di esecuzione circondare il corpo di Sullivan, accasciato sulla sedia di lucida quercia. Parevano attori teatrali mentre si approntavano a smontare una scena dopo la replica finale di uno spettacolo disertato dal pubblico. Lui e gli altri testimoni ufficiali continuarono a fissare la scena, cercando di cogliere un dettaglio del volto del morto mentre questi veniva mosso dalla sedia letale in un sacco di tela nera. Ma Sullivan fu portato via troppo velocemente perché qualcuno potesse vedere se i suoi bulbi oculari fossero esplosi, o se la sua pelle si fosse riempita di bruciature rosse e nere. Il corpo, caricato su una barella, venne spinto fuori da una porta laterale. Dovrebbe essere una cosa terribile, pensò Cowart, ma in realtà è soltanto ordinaria amministrazione. Era quello, forse, l'aspetto più terribile di tutta la faccenda. Aveva assistito all'eliminazione del male, realizzata come in catena di montaggio. La morte inscatolata, imbottigliata e consegnata a domicilio con tutta la drammaticità del latte del mattino. «Cancellato un cattivo» disse Wilcox. L'ironia era completamente scomparsa dal suo tono di voce, rimpiazzata da un arido appagamento. «È finita...» L'investigatore rivolse una rapida occhiata a Cowart. «...Eccetto per le urla.» Percorse i corridoi del penitenziario con gli altri testimoni ufficiali, diretto al punto in cui si erano raggruppati gli esponenti della stampa e i dimostranti. Poté scorgere le luci artificiali dei riflettori televisivi invadere l'ingresso, illuminandolo a forza di una luce irreale. Il lucido pavimento brillava, le pareti imbiancate parevano vibrare di luce. Dietro un improvvisato palchetto era stata predisposta una schiera di microfoni. Cercò di raggiungere furtivamente un lato del locale, camminando rasente il muro fino alla porta, mentre il direttore si avvicinava alla piccola folla, una mano sollevata a bloccare le domande; ma non vi erano ombre dietro cui nascondersi.
«Darò lettura di un breve comunicato» annunciò il direttore. La sua voce strideva sotto la tensione esercitata dagli eventi. «Poi risponderò alle vostre domande. E infine i giornalisti ammessi all'esecuzione potranno darvi tutti gli elementi.» Dichiarò che il condannato era ufficialmente deceduto alle 0.08. Quindi in tono monotono aggiunse che un rappresentante dell'ufficio del procuratore era stato presente alle fasi preparatorie e all'esecuzione di Sullivan, per sincerarsi che non vi fosse alcuna controversia legata al compimento della sentenza, che qualcuno non fosse più tardi venuto a dire che a Sullivan erano stati negati i suoi diritti, o che era stato insultato o malmenato, come era successo più di una dozzina di anni prima, quando lo Stato aveva ripristinato la pena di morte giustiziando un alquanto patetico vagabondo chiamato John Spenkelink. Dichiarò che Sullivan si era rifiutato di portare avanti una finale richiesta di appello, appena prima di entrare nella camera di esecuzione. Riportò le parole finali dell'uomo: «Oscenità. Muoviamoci.» Le macchine dei fotografi ronzarono e scattarono, come uno stormo di uccelli meccanici che avesse preso il volo all'unisono. Il direttore cedette il posto ai tre giornalisti ammessi all'esecuzione. A turno, ognuno di loro prese a leggere dai propri appunti, riportando con freddezza i minuti dettagli dell'operazione. Erano pallidi, ma le loro voci erano ferme. La donna di Miami disse alla folla che, sotto la prima scarica, le dite di Sullivan si erano dapprima irrigidite e quindi si erano chiuse a pugno, e che la sua schiena era sembrata arcuarsi, staccandosi dalla sedia. Il giornalista di St. Petersburg aveva notato la momentanea esitazione che aveva bloccato Sullivan nell'istante in cui aveva visto la sedia. L'inviato di Tampa raccontò che Sullivan aveva fulminato i testimoni con uno sguardo privo di compassione, e che era parso più che altro rabbioso mentre veniva legato alla sedia. Aveva anche notato che una delle guardie aveva fatto confusione con uno dei lacci attorno alla gamba destra del condannato e che era stata costretta a rifare rapidamente tutto daccapo. La pelle dei legacci si era sfilacciata sotto la scarica elettrica, proseguì il giornalista e più tardi era stata quasi strappata dalla forza della lotta di Sullivan contro la corrente. Duemilacinquecento volts, ricordò alla folla. Cowart sentì un'altra voce alle sue spalle. Girò su se stesso e vide i due investigatori della contea di Monroe. «Cosa le ha detto, signor Cowart?» domandò Andrea Shaeffer sussurrando con voce suadente. «Chi ha ucciso quei due poveretti?»
I suoi occhi grigi erano fissi su quelli di Cowart. Un tipo di calore diverso dal solito. «È stato lui» rispose Cowart. Lei allungò la mano e lo afferrò per un braccio. Ma prima che l'investigatrice potesse proseguire, giunsero altre grida dalla folla. «Dov'è Cowart?» «Cowart, tocca a te! Che è successo?» Cowart si liberò dalla stretta dell'investigatrice e si avvicinò barcollando al palchetto, cercando disperatamente di passare in rassegna tutto quello che aveva udito. Sentiva che la mano gli tremava, sapeva di essere paonazzo, era conscio del sudore che gli cerchiava la fronte. Dalla tasca estrasse un fazzoletto bianco e lentamente se lo passò sulla fronte, quasi potesse in quel modo cancellare il panico che l'aveva invaso. "Non ho fatto niente di male" si disse. "Non sono io il colpevole, qui dentro." Ma non riuscì a credersi. Avrebbe voluto un momento per pensare, per decidere cosa dire, ma non c'era tempo. Si aggrappò invece alla prima domanda che riuscì a sentire. «Perché non è ricorso in appello?» gridò qualcuno. Cowart fece un respiro profondo e rispose. «Non voleva starsene seduto in galera ad aspettare che lo Stato lo venisse a prendere. È andato avanti lui, e in qualche modo ha preso lo Stato in contropiede. Non è così raro. Ci sono altri che hanno fatto lo stesso, in Texas, in North Carolina, e Gilmore nello Utah. È un po' come un suicidio, solo che viene decretato ufficialmente.» Scorse penne scorrere sulla carta. Le sue parole piovevano sulle pagine bianche. «Cosa ti ha detto quando sei andato laggiù a parlargli?» Cowart si sentì immobilizzato dalla disperazione. E proprio allora si ricordò di qualcosa che Sullivan gli aveva detto: se vuoi che qualcuno creda a una menzogna, mescolala con un po' di verità. E così fece. La formula dell'assassino, mischiare menzogne e verità. «Voleva confessare» rispose. «È stato molto simile a quello che aveva fatto Ted Bundy qualche anno fa, quando prima di andare sulla sedia ha raccontato agli investigatori di tutti gli assassinii che aveva commesso. Anche Sullivan l'ha voluto fare.» «Perché?» «Quanti?» «Chi?»
Alzò le mani. «Ragazzi, un po' di calma. Non c'è alcuna conferma ufficiale. Non so con sicurezza se stesse dicendo la verità o meno. Magari mentiva...» «Appena prima di andare sulla sedia? Andiamo!» gridò qualcuno dal fondo. «Ehi!» rispose Cowart, incollerito. «Io non ne ho idea. E vi racconterò qualcos'altro che mi ha detto: mi ha detto che, visto che per lui era così facile uccidere, sarebbe stato ancora più facile mentire.» Vi fu un attimo di silenzio mentre le sue parole venivano riportate sui taccuini. «Ascoltatemi» continuò Cowart «se adesso vi dicessi che Sullivan ha confessato di avere ucciso il signor Smith, e scoprissimo che un tale omicidio non esiste, o che qualcun altro è stato accusato al posto suo, o che il corpo non è mai stato ritrovato, diavolo, allora sì che avremmo un pasticcio. Mettiamola così. Sullivan ha confessato una serie di omicidi...» «Quanti?» «Non meno di quaranta.» La cifra elettrizzò la platea. Vennero gridate altre domande, mentre le luci parvero raddoppiare d'intensità. «Dove?» «In Florida, in Louisiana, in Alabama. Ha commesso anche altri crimini, violenze sessuali, rapine.» «Per quanto tempo?» «Per mesi. Forse anni.» «E i due morti della contea di Monroe? Sua madre e il suo patrigno? Che ti ha detto di quelli?» Cowart respirò con calma. «Ha assoldato qualcuno per farlo. O almeno così ha detto.» Lo sguardo di Cowart raggiunse la Shaeffer. La vide irrigidirsi e piegare il capo verso il suo collega. Weiss era paonazzo. Cowart si voltò di scatto. «Assoldato chi?» «Non so» rispose Cowart. «Non me l'ha voluto dire.» La prima menzogna. «Andiamo! Ti avrà detto qualcosa, avrà fatto qualche nome.» «Non è entrato così nei dettagli.» La prima menzogna ne aveva originata un'altra. «Vuoi dire che ti ha confessato di avere organizzato un duplice omicidio e tu non gli hai chiesto come ha fatto?»
«Gliel'ho chiesto. Ma non mi ha risposto.» «Insomma, come ha fatto a mettersi in contatto con l'assassino? Le sue telefonate erano controllate. La sua posta veniva passata in rassegna. Era rinchiuso in isolamento nel braccio della morte. Come potrebbe esserci riuscito?» La domanda venne sottolineata da alcune grida di appoggio. Era stata fatta, scuotendo il capo, da uno dei giornalisti testimoni dell'esecuzione. «Mi ha fatto capire di avere organizzato tutto attraverso una sorta di rete di comunicazioni clandestina che esisterebbe in carcere.» "Non esattamente una menzogna" pensò Cowart. "Un'ambigua verità." «Stai nascondendo qualcosa!» gridò qualcuno. Lui scosse il capo. «Dettagli!» esclamò qualcun altro. Lui alzò le mani. «Scriverai tutto sul Journal di domani, vero?» Risentimento e gelosia gli si riversarono addosso, unendosi alle luci abbaglianti. Si rese conto che chiunque, fra coloro che gli si paravano davanti, avrebbe venduto l'anima al diavolo pur di essere nella sua posizione. Tutti sapevano che era successo qualcosa e detestavano l'idea di non sapere esattamente cosa. L'informazione è la moneta corrente del giornalismo e lui stava precludendo loro l'accesso. Sapeva che nessuno, a partire da quella sera, l'avrebbe mai perdonato, se la verità fosse mai venuta a galla. «Non so cosa farò» si difese. «Non ho avuto ancora la possibilità di passare in rassegna gli elementi. Ho ore e ore di nastri da riascoltare. Lasciatemi in pace.» «Era pazzo?» «Era uno psicopatico. Seguiva un suo percorso.» Questa era la verità. Infine, la domanda che tanto temeva. «Cosa ti ha detto di Joanie Shriver? Ha confessato di averla uccisa, alla fine?» Cowart si rese conto che avrebbe potuto semplicemente rispondere di sì e farla finita. Distruggere i nastri. Convivere con il suo ricordo. Invece si tradì, finendo per trovarsi da qualche parte a metà strada tra verità e finzione. «Era parte della confessione» disse. «L'ha uccisa lui?» «Mi ha descritto esattamente come è successo. Conosceva tutti i dettagli che soltanto il vero assassino avrebbe potuto conoscere.»
«Perché non ti limiti a dire sì o no?» Cowart cercò di non mostrarsi sulle spine. «Ragazzi, Sullivan era un tipo speciale. Non metteva le cose nei termini regolari, sì o no. Non tirava in mezzo gli assoluti, nemmeno durante la sua confessione.» «Cosa ha detto su Ferguson?» Cowart inspirò profondamente. «Per Ferguson non provava altro che odio.» «Lui è collegato a questa storia?» «Ho avuto l'impressione che Sullivan avrebbe ucciso anche Ferguson, se solo ne avesse avuto la possibilità. Se avesse potuto organizzare la cosa, penso che avrebbe segnato anche Ferguson sulla sua lista.» Espirò lentamente. Si rese conto che l'interesse della platea stava ritornando su Sullivan. Inserendo Ferguson nella lista delle vittime potenziali, era riuscito a conferirgli una posizione diversa da quella che avrebbe meritato. «Ci fornirai una trascrizione di quanto ha detto?» Scosse il capo. «Non sono un giornalista accreditato.» Le domande si fecero sempre più rabbiose. «Cosa farai adesso? Scriverai un libro?» «Perché non condividi le tue informazioni?» «Cosa vuoi fare, vincere un altro Pulitzer?» Lui scosse il capo. "Non quello" pensò. Dubitava anche che sarebbe riuscito a conservare a lungo quello che aveva già vinto. Un premio? Sarò fortunato se il mio premio consisterà nel sopravvivere a tutto questo. Alzò una mano. «Vorrei poter dire che l'esecuzione di stanotte abbia messo la parola fine alla storia di Blair Sullivan, ragazzi. Ma non è così. Ci sono un sacco di domande ancora in sospeso, che devono essere risolte. Ci sono investigatori che stanno aspettando di parlare con me. E anch'io devo rispettare le mie scadenze. Mi spiace, ma questo è tutto. Non ho niente da aggiungere.» Si allontanò dal palchetto, seguito dalle telecamere, dalle domande gridate, dalla rabbia crescente. Sentì mani che lo afferravano, ma si fece largo tra la folla, raggiunse la porta del penitenziario e la varcò, penetrando nella coltre nera della notte. Un gruppo di dimostranti contro la pena di morte si era riunito sulla strada e cantava inni di pace reggendo candele e cartelli di protesta. L'acutezza delle voci lo circondò, strattonandolo come un soffio di vento aggressivo, allontanandolo dal carcere. "Che amico che abbiamo
in Gesù..." Un'esponente del gruppo, un'universitaria a cui la maglia da ginnastica con il cappuccio conferiva l'aspetto di una sorta di prete dell'Inquisizione, gli si rivolse gridando, e le sue parole parvero tagliare come lame il ritmo gentile dell'inno: «Mostro! Assassino!» Cowart scansò le sue parole, diretto verso la sua auto. Stava armeggiando alla ricerca delle chiavi quando venne raggiunto da Andrea Shaeffer. «Le devo parlare» disse lei. «Non posso. Non ora.» Lei lo afferrò per un lembo della camicia, strattonandolo con forza. «E perché diavolo non ora? Che sta succedendo, Cowart? Ieri non andava bene. Oggi non andava bene. Stanotte non va bene. Quando ha intenzione di pareggiare il conto con noi?» «Insomma» gridò lui. «Sono morti, dannazione! Erano vecchi e lui li odiava e loro sono stati uccisi e non c'è niente che nessuno possa fare, a questo punto! Non è costretta ad avere una risposta subito. Può aspettare fino a domattina. Per stanotte non morirà nessun altro!» L'investigatrice fu sul punto di dire qualcosa, ma si fermò. Lo fissò con una lunga occhiata severa, serrò le labbra e contrasse la mascella. Quindi, con il dito indice, lo pungolò per tre volte sul petto, con forza, prima di farsi da parte per consentirgli di salire in macchina. «Domattina» disse. «Sì.» «Dove?» «A Miami. Nel mio ufficio.» «Ci sarò. Faccia in modo di esserci anche lei.» Fece un passo indietro dall'auto, sottolineando le sue parole con un tono di minaccia. «Sì, dannazione, sì. Miami.» Con la mano la Shaeffer fece un gesto appena accennato, come se di malavoglia gli stesse concedendo il permesso di andarsene. Ma i suoi occhi, ridotti a due capocchie di spillo, erano pieni di sospetto. Cowart saltò al volante e inserì di forza le chiavi nel cruscotto, sbattendo la portiera. Il motore ruggì; lui afferrò la leva del cambio, inserì la marcia e partì. Ma mentre batteva in ritirata, i fari illuminarono i chiassosi quadretti rossi della giacca sportiva dell'investigatore Wilcox. Era in mezzo alla strada, a braccia conserte, e osservava attentamente Cowart, bloccandogli la via d'uscita. Scosse il capo con una lentezza esasperata, sollevò la mano,
chiuse le dita a forma di pistola e fece finta di sparare. Infine si fece da parte, lasciandolo passare. Il giornalista distolse lo sguardo. Non gli importava più dove fosse diretto, bastava che fosse un luogo diverso da quello. Pigiò sull'acceleratore, sterzando in direzione del cancello di uscita, e si lanciò deciso nell'oscurità. La notte gli si mise alle calcagna. Parte seconda L'uomo di chiesa Potrebbe venire il giorno in cui danzerò sulla tua tomba E se non sarò capace di danzare l'attraverserò strisciando Incapace di danzare striscerò. THE GRATEFUL DEAD "Hell in a Bucket" 12 L'insonnia del tenente di polizia A mezzanotte meno dieci della notte in cui Blair Sullivan venne giustiziato, il tenente Tanny Brown lanciò un'occhiata veloce al suo orologio da polso, sentendo il battito cardiaco accelerare al pensiero del prigioniero nel braccio della morte. Di fronte a lui, seduta su un consunto divano, una donna piangeva in modo incontrollabile. «Oh Gesù, dolce Gesù, perché, signore, perché?» gridava. La sua voce si spandeva e faceva vibrare le pareti della piccola roulotte, scuotendo i gingilli e le cianfrusaglie che decoravano il finto legno dell'ambiente, penetrando nella spessa calura che aleggiava nell'oscurità circostante, incurante dell'ora tarda. A intervalli regolari le luci stroboscopiche rosse e blu delle auto di pattuglia della polizia parcheggiate a semicerchio intorno alla roulotte illuminavano una parete dell'angusto locale, sulla quale, a fianco del ritaglio incorniciato di una benedizione, era appeso un crocifisso di legno. La luce intermittente pareva sottolineare la regolare progressione dei secondi. «Perché, Signore?» la donna singhiozzò di nuovo. "Ecco una domanda alla quale Lui non sembra troppo ansioso di rispondere" pensò cinicamente Tanny Brown. Specialmente nei campeggi di roulotte.
Si portò la mano alla fronte, nel tentativo di portare un poco di quiete nel mondo che lo circondava. Con suo stupore, dopo aver liberato un ultimo ululato, la donna si azzittì. Si volse verso di lei. Si era raggomitolata in un angolo, e aveva sollevato i piedi da terra, come una bambina, sedendovisi sopra. Come assassina aveva un'aria ridicola, alla quale contribuivano i capelli bruni filosi e scarmigliati e la figura magra, scheletrica. Aveva un occhio nero e un polso stretto da una fascia elastica. Indossava una cenciosa vestaglia rosa, le cui maniche arrotolate rivelavano altri lividi purpurei sulle braccia. Lui annotò mentalmente le sue osservazioni. Vide le macchie prodotte dalla nicotina sulle dita della donna, mentre lei portava le mani al volto e con delicatezza si asciugava le lacrime che le scorrevano in continuazione. Quando si controllò le dita bagnate, l'espressione del suo volto era quella di chi si sarebbe aspettato di vedere del sangue. Tanny Brown fissò la donna, lasciando che il silenzio improvviso riportasse la calma. "È vecchia" pensò, e quasi immediatamente si corresse: "È più giovane di me". Gli anni erano penetrati in lei a forza di percosse, facendola invecchiare più rapidamente del normale. Rivolse un cenno a uno degli agenti in uniforme in attesa sul retro della roulotte, dietro al divisorio della cucina. «Fred» disse in tono dimesso «hai una sigaretta per la signora Collins?» L'agente fece un passo avanti, offrendo il suo pacchetto alla donna. Lei allungò la mano, mormorando: «Sto cercando di smettere.» Brown le si avvicinò e le accese la sigaretta. «Dunque, signora Collins, ora con calma mi dica cos'è successo quando Buck è tornato a casa dopo l'ultimo turno.» Dall'esterno provenne il suono secco e la luce improvvisa di un flash. "Dannazione" pensò lui vedendo il panico negli occhi della donna. «È solo un fotografo della polizia, signora. Dunque, che ne dice di un bicchier d'acqua?» «Preferirei qualcosa di più forte» rispose lei, mentre con mano tremante portava la sigaretta alle labbra e ne tirava una boccata, che terminò in un breve attacco di tosse. «Fred, un bicchiere d'acqua.» Mentre l'agente svolgeva il suo compito, Brown udì le voci all'esterno. Si alzò all'improvviso. «Signora, non si preoccupi. Torno subito.» «Non mi lascerà, vero?» domandò lei, con improvviso terrore. «No, devo soltanto controllare come vanno le cose là fuori. Fred, tu stai
lì.» Guardando gli occhi della donna, che sbattendo le palpebre vagavano per il piccolo ambiente, pronti a crollare e a riempirsi nuovamente di lacrime, Brown rimpianse la presenza di Wilcox. Il suo collega avrebbe saputo come darle forza. Brace aveva un suo modo speciale di cavarsela con i poveri emarginati con i quali erano sempre costretti ad avere a che fare, in special modo con i bianchi. Era la sua gente. Lui stesso era cresciuto in un mondo non troppo distante da quello. Sapeva cosa fossero le percosse, la crudeltà, e il sapore acido delle speranze rinchiuse in un campeggio di roulotte. Poteva sedersi di fronte a una donna come quella e tenerle la mano e farle sputare il rospo in una manciata di secondi. Tanny Brown sospirò, sentendosi goffo e fuori posto. Non voleva essere in quel posto, intrappolato in mezzo alle roulotte, simili a tanti proiettili argentati. Scese dalla roulotte e osservò il fotografo della polizia mettersi in posizione per scattare un'altra immagine di una forma scura stesa sull'erba sottile e sulla terra battuta. Diversi altri agenti misuravano la scena. Altri ancora tenevano lontani gli altri abitanti del campeggio, che allungavano il collo curiosi, nel tentativo di dare un'occhiata al corpo del defunto ex marito della donna. Brown si avvicinò e abbassò lo sguardo sul volto dell'uomo disteso a terra. I suoi occhi erano aperti, fissi in una maschera grottesca che univa la sorpresa alla morte, e parevano scrutare il cielo notturno. In luogo del petto gli era rimasta soltanto una grossa chiazza di sangue, che, colando, era andato a comporre una sorta di aureola dietro la testa e le spalle. A terra, gettate a distanza dall'impatto del proiettile, vi erano una bottiglia di whisky mezza vuota e una rivoltella da quattro soldi. Due tecnici si misero a ridere e Brown si voltò verso di loro. «Una barzelletta?» «Una pratica di divorzio veloce» disse uno dei due mentre si piegava sulle ginocchia e inseriva la bottiglia di whisky in un sacchetto di plastica. «Meglio che a Tijuana o a Vegas.» «Immagino che il vecchio Buck pensasse di poterle dare un colpetto, sposati o meno. E un bel giorno ha scoperto che si sbagliava» sussurrò un altro tecnico. Vi fu una rinnovata, breve esplosione di risate. «Ehi» disse bruscamente Brown. «Tenetevi le vostre opinioni per voi. Almeno finché non avremo ripulito la scena.» «Certo» rispose il fotografo facendo un altro scatto. «Non vorrei urtare la sensibilità del poveruomo.» Brown represse a sua volta un sorriso, cosa di cui gli altri poliziotti si re-
sero conto. Rivolse un cenno di ironico disgusto agli uomini intenti a lavorare attorno al corpo, facendoli sorridere mentre proseguivano nelle loro operazioni. Aveva visto un gran numero di morti: incidenti stradali, vittime di omicidi, caduti di guerra, attacchi di cuore, incidenti di caccia. Tanny Brown rammentò la sua anziana nonna distesa in una bara aperta, la sua pelle scura fragile e tirata, come la pelle di un uccello troppo cotto, le sue mani ordinatamente ripiegate sul petto come se stesse pregando. La chiesa gli era parsa un enorme luogo deserto, riempito soltanto dal pianto. Si ricordò della sensazione di fastidio provocata dal colletto bianco inamidato della sua nuova e unica camicia elegante. Non aveva più di sei anni, e ciò che rammentava con più chiarezza era la sensazione di sicurezza provocata dalla mano del padre sulla sua spalla: in parte guida, in parte rassicurazione, l'aveva condotto oltre il capezzale della nonna. Parole sussurrate: «Di' addio alla nonna, presto, bambino mio, lei è in cammino verso un posto migliore e sta andando veloce, dillo subito finché ti può sentire.» Sorrise. Per anni aveva creduto che i morti potessero sentirci, come se stessero soltanto facendo un pisolino. Pensò a quanta forza potevano avere le parole di un padre. Si ricordò di quando era oltremare, di quando chiudeva le sacche nere con i corpi degli uomini che aveva conosciuto brevemente ma molto intimamente. I primi tempi cercava sempre di dire qualcosa, qualche parola di conforto, quasi potesse rendere il loro viaggio verso la morte più tranquillo. Ma con l'aumento esponenziale del numero di morti e la crescita a spirale di frustrazione e stanchezza, aveva preso a limitarsi a pensare a qualche frase, e alla fine, quando il suo periodo di leva si era ormai ridotto a poche settimane, a pochi giorni, aveva smesso definitivamente, svolgendo il suo compito in un amaro silenzio. Diede un'occhiata all'orologio. Mezzanotte. Stanno entrando nella camera. Si figurò la traccia di sudore nervoso sul labbro superiore del direttore, i volti cinerei dei testimoni ufficiali, una breve esitazione, e infine i gesti affrettati degli uomini di scorta intenti ad allacciare i fermi ai polsi e alle caviglie di Sullivan. Attese un minuto. "Prima scarica" pensò. Ancora un minuto. "Seconda scarica." Si immaginò il dottore che si avvicinava al corpo. Si sarebbe piegato in avanti con il suo stetoscopio, auscultando il battito cardiaco. Quindi avreb-
be sollevato il capo e avrebbe dichiarato: «È deceduto» controllando il suo orologio. Il direttore avrebbe fatto un passo avanti, avrebbe fronteggiato gli osservatori ufficiali, e anche lui avrebbe pronunciato le frasi di rito. «Il verdetto e la condanna della Corte dell'Undicesima Circoscrizione dello Stato della Florida è stato eseguito a termini di legge. Che Dio conceda pace alla sua anima.» Scosse il capo. "Nessuna pace per quell'anima" pensò. "E nessun riposo neppure per me." Rientrò nella roulotte. La donna era assolutamente tranquilla. «Ora, signora Collins, mi vuole dire cos'è successo? Vuole aspettare il suo avvocato? O preferisce parlare adesso, e farla finita una volta per tutte?» La voce della donna era ridotta a poco più di un mugolio. «Mi ha chiamato, capisce, da quel maledetto Sportsman's Club, dove va quando finisce il turno alla fabbrica. Ha detto che non avrebbe permesso che gli facessi questo. Ha detto che si sarebbe occupato di me senza nessun giudice o avvocato, sissignore.» «Le ha detto di essere armato?» «Sissignore, signor Brown, proprio così. Ha detto che aveva la pistola di suo fratello, e che potevo star certa che stavolta l'avrebbe usata contro di me.» «Stavolta?» «Era già venuto domenica, non così ubriaco da cadere per terra, ma abbastanza pieno, e aveva sparato alle luci qua fuori. E rideva e mi insultava. Poi ha iniziato a darmi addosso, sissignore. Il mio maggiore, ha soltanto undici anni, si è spezzato un braccio solo tentando di allontanarlo da me. Pensavo che ci avrebbe ammazzati tutti. Ero così spaventata; per questo ho mandato i ragazzi dai loro cugini. Li ho messi tutti e tre sul pullman stamattina.» La donna prese da un tavolino un piccolo album di fotografie ricoperto di finta pelle. Lo aprì e lo allungò verso Tanny Brown. Lui vide tre volti ben ripuliti, le classiche fotografie scolastiche. «Sono dei bravi bambini» disse lei. «Sono felice che non siano qui stasera.» Lui annuì. «Perché non ha avvisato la polizia, domenica?» «Non sarebbe servito. Avevo perfino ottenuto un'ordinanza del giudice che gli impediva di avvicinarsi, ma nemmeno quella era servita. Niente serviva quando lui aveva bevuto. Tranne forse la pistola.»
Il labbro superiore prese a tremarle e le lacrime iniziarono a raccogliersi di nuovo agli angoli degli occhi. «Oh Gesù, dolce Gesù» piagnucolò. «La pistola? Dove ha preso la pistola?» «Sono andata a Pensacola, da Sears, dopo che mi hanno messa a posto all'ospedale. Ho ancora la carta di credito di Sears intestata a Buck, e l'ho usata. Ero così spaventata, signor Brown. E quando ho sentito arrivare il suo vecchio camioncino, ho capito che voleva farmi fuori, l'ho capito subito.» La donna riattaccò a piangere. «Gli ha visto la pistola in mano prima di sparare?» «Non so. Era buio, ero così spaventata...» Tanny Brown parlò in tono calmo ma fermo. In mano aveva ancora l'album delle fotografie dei bambini. «Ci pensi attentamente, signora Collins. Cos'ha visto...?» Il tenente rivolse lo sguardo all'agente in uniforme, il quale rispose con un cenno di comprensione. «Insomma, non avrebbe mai sparato se non lo avesse visto puntarle contro la pistola, giusto?» La donna lo guardò con aria interrogativa. «Non avrebbe sparato se non avesse temuto per la sua vita, vero?» «Vero» rispose lei lentamente. «Se non avesse saputo che l'uso della forza sarebbe stato l'unico modo per salvarsi, giusto?» Una vaga, rallentata comprensione sembrò calare sul volto della donna, sebbene Brown sapesse che non aveva capito nemmeno la metà delle parole che aveva usato nel formulare la sua domanda. «Be'» disse lei in tono sommesso «ho visto che mi puntava contro qualcosa...» «...e sapeva che aveva la pistola, e che con quella l'aveva in precedenza minacciata e le aveva sparato contro...» «Esatto, signor Brown. Avevo paura.» «E non c'era alcun posto in cui si sarebbe potuta nascondere?» La donna fece un ampio gesto. «Dove ci si può nascondere qui dentro? Non avevo altri posti, proprio nessuno.» Brown annuì e guardò nuovamente le fotografie dei bambini. «Tre figli? Tutti suoi?» «Nossignore. Buck non era il loro vero padre e loro non gli erano mai piaciuti. Credo che gli ricordassero il mio altro marito. Ma sono bravi ragazzi, signor Brown. Bravi ragazzi.»
«E dov'è il loro vero padre?» La donna si strinse nelle spalle, un gesto che parlava di campeggi, di roulotte, di lividi. «Aveva detto che sarebbe andato in Louisiana, a cercare lavoro nei pozzi petroliferi. Ma questo era quasi sette anni fa. A questo punto, chissà. Non eravamo più sposati ufficialmente, in nessun modo.» Tanny Brown era sul punto di fare un'altra domanda, quando udì un ruggito di rabbia provenire dall'esterno. Le voci si alzarono all'improvviso, i poliziotti presero a gridare fra di loro. La donna sul divano sussultò, raggomitolandosi sul pavimento. «È suo fratello. Lo so. Mi ucciderà, ossignore, lo so.» «No, non lo farà» rispose tranquillo Brown. Restituì alla donna i ritratti dei suoi figli. Lei afferrò l'album e lo strinse con forza. Tornando fuori, Brown fece cenno all'agente in uniforme di mettersi a guardia della porta. Giunto sulla soglia, vide due altri agenti in uniforme che cercavano di immobilizzare un uomo corpulento e inferocito, che lottava con energia contro la loro stretta. L'uomo ruggiva, strattonando e agitandosi, trascinando con sé gli agenti verso il corpo. «Buck, Buck! Gesù, Buck, non ci posso credere! Gesù, lasciatemi andare! Lasciatemi andare! L'ammazzo, quella troia, l'ammazzo!» Si lanciò in avanti, trascinandosi dietro i due agenti. Due altri poliziotti gli sbarrarono la strada, cercando di rallentare il suo cammino. Uno di loro cadde a terra, imprecando. La folla iniziò a fischiare e a gridare, e nuove voci si aggiunsero alla furia dell'uomo. «L'ammazzo quella troia, dannazione!» Urlava, paonazzo dalla rabbia. I lineamenti contorti del suo volto vennero illuminati dai lampi delle luci stroboscopiche. Sferrò un calcio a uno dei poliziotti che cercavano di trattenerlo, colpendolo allo stinco. La vittima cacciò un grido e cadde a terra stringendosi la gamba. Tanny Brown scese i gradini della roulotte e si avvicinò al fratello del morto. Gli si piantò proprio di fronte. «Silenzio!» gridò. L'uomo lo guardò, esitando per un istante nella sua marcia in avanti. Quindi riprese ad agitarsi. «L'ammazzo quella troia!» sbraitò. «È suo fratello, quello?» gridò Brown. L'uomo cercò di divincolarsi dalla stretta dei poliziotti. «Ha ucciso Buck, e adesso io la faccio fuori. Puttana! Sei morta!» ululò rivolto alla roulotte alle spalle di Brown.
«È suo fratello?» domandò ancora Brown, abbassando leggermente la voce. «Sei morta, puttana! Morta!» ringhiò l'altro in tutta risposta. «Chi vuole saperlo? Chi sei tu, sporco negro?» L'epiteto razziale lo ferì, ma Brown non si mosse. Pensò di farsi sotto a fare assaggiare all'uomo il suo pugno, ma cambiò subito idea. Quel tizio era stato stupido a offenderlo, ma probabilmente non sarebbe stato così stupido da non inoltrare un reclamo. La subitanea visione di una pila di documenti s'impadronì di lui come un miraggio. Uno degli agenti che cercavano di trattenere l'uomo riuscì a impugnare lo sfollagente. Brown scosse il capo e fece un altro passo avanti, giungendo faccia a faccia con il fratello del morto. «Sono il tenente di polizia Theodore Brown, stronzo, e fra un secondo m'incazzo, e a te non conviene affatto, stronzo.» L'uomo esitò. «L'ha ucciso, quella troia.» «L'hai già detto.» «Cos'ha intenzione di fare?» Tanny Brown ignorò la domanda. «È la tua pistola, quella?» domandò. «Sì, è la mia. Gliel'avevo data prima.» «La tua pistola? Tuo fratello?» «Sì. L'arresta, quella troia, o devo ucciderla io?» L'uomo non lottava quasi più, ma la sua voce aveva acquisito un rabbioso tono di sfida. «Lo sapevi che sarebbe venuto quaggiù?» «L'aveva detto a tutti, al bar.» «E la pistola a cosa gli serviva?» «La voleva solo spaventare un po', come aveva fatto l'altra notte.» Brown si voltò e vide la sagoma dell'agente in uniforme evidenziata dalla luce della roulotte; la donna cercava di nascondersi alle sue spalle. Si rivolse di nuovo all'uomo, che ora era fermo, m attesa, ancora trattenuto per le braccia da due agenti. Il tenente si avvicinò al corpo e l'osservò. «Mi senti?» chiese sottovoce. «Non vali la pena.» Quindi spostò nuovamente lo sguardo sul fratello. «Ha intenzione di fare qualcosa, o che?» domandò l'uomo. Tanny Brown sorrise. «Sicuro» rispose. Si rivolse a uno dei tecnici. «Tom, vai a prendere la pistola della signora Collins.» L'uomo entrò in una delle auto di pattuglia e ne uscì con la rivoltella. Brown la prese e la caricò.
Guardò il fratello del morto e sorrise di nuovo. «Ridate la pistola alla signora Collins» ordinò a voce alta, continuando a fissare l'uomo. «Fred?» chiamò. «Agente Davis, fai una multa alla signora Collins per avere scaricato dei rifiuti senza un permesso. Cinquanta dollari. E chiama l'ufficio d'igiene, falli venire a recuperare questa spazzatura.» Indicò il cadavere ai suoi piedi. «Ehi» esclamò l'uomo. «Giusto. Fatele una multa per aver sparato a questo ammasso di rifiuti e per averlo gettato qua fuori.» «Ehi» ripeté l'uomo. «E dite alla signora Collins che se scaricherà ancora sacchi di merda davanti a casa, le costerà cinquanta dollari ogni volta.» Puntò il dito indice sul fratello del morto. «Come questo, per esempio. Ditele che ha il mio permesso di far saltare il cervello a questo stupido stronzo. Ma le costerà un altro cinquantone.» «Non può farlo» protestò l'uomo. Le braccia gli erano ricadute lungo i fianchi. «Tu pensi?» replicò Brown. Tornò sui suoi passi e gli si piantò di fronte. «Tu pensi?» gli gridò in faccia. «Ehi, Tanny!» intervenne uno degli agenti in uniforme. «Io ho un cinquantone da prestarle.» Vi fu un'esplosione di risate da parte di alcuni degli altri poliziotti. «Sicuro» si unì un'altra voce. «Diavolo, potremmo anche fare una colletta. Rifornirla finché non avrà fatto fuori tutti gli stronzi.» «Ci metto dieci dollari» disse l'agente colpito dal calcio, strofinandosi lo stinco. «Ehi» esclamò l'uomo. «Ehi cosa?» domandò Tanny Brown. «Non può.» «Guarda cosa posso fare» rispose tranquillamente il tenente. «Arrestate quest'uomo.» «Ehi!» ripeté l'uomo mentre uno degli agenti gli metteva le manette. «Invasione di proprietà privata. Resistenza. Violenze a un pubblico ufficiale. Disturbo della quiete pubblica. E vediamo, che ne pensa di concorso in omicidio? Per aver dato la pistola a quel dannato, stupido ubriacone di suo fratello.» «Non può» disse ancora l'uomo. Dalla sua voce era scomparsa la rabbia. «Sono tutti reati gravi, stronzo. E scommetto che non hai nemmeno un
maledetto permesso per la pistola. E mettiamoci anche guida in stato d'ubriachezza.» «Ehi, non sono mica sbronzo.» Tanny Brown lo fissò in volto. «Guardami bene» disse con calma. «Se ti capiterà di nuovo di vedere questa faccia, per te saranno problemi. Capito?» «Non può farlo.» «Portatelo dentro» ordinò Brown agli agenti in uniforme. «Mostrategli un po' dell'ospitalità della contea.» «Con piacere» mormorò l'uomo colpito dal calcio. Condusse via l'arrestato, strattonandolo con violenza. «Con calma» disse Brown. L'agente gli rivolse un'occhiata. «D'accordo» acconsentì sorridendo il tenente. «Non con troppa calma.» Sibilò un altro ordine: «E fa' in modo che il bastardo venga messo in cella con i più grossi, cattivi, ringhiosi neri che ci siano in galera. Così magari impara a non insultare la gente.» Due degli agenti scoppiarono a ridere. Tanny Brown diede le spalle all'uomo che, protestando, veniva trascinato verso un'auto di pattuglia; fece ritorno alla roulotte, e con calma si rivolse alla spaventatissima donna. «Signora Collins, ora dobbiamo andare alla stazione di polizia. Laggiù le leggeremo i suoi diritti. Poi voglio che chiami il suo avvocato, e che gli dica di venire ad aiutarla. Capito?» Lei annuì. «Devo chiamare i miei bambini.» «Avrà tempo di farlo.» Si voltò verso l'agente in uniforme. «Fai venire una delle agenti, veloce, per scortarla. E vedi che mangi qualcosa lungo la strada.» «Il capo d'accusa?» domandò il poliziotto. Tanny Brown si voltò, scrutando il corpo riverso a terra. «Che ne dici di uso di arma da fuoco entro i confini urbani? Dovrebbe bastare a mantenere la cosa sotto controllo finché non avrò parlato con il procuratore.» Uscì di nuovo e si portò a fianco del corpo. "Stupido" pensò. "Così stupido." Diede un'occhiata al suo orologio. "Quanta morte stanotte" pensò. Guardò il morto negli occhi. Il suo volto scomparve, sospinto via dal ricordo della prima volta che aveva visto il corpo di Joanie Shriver disteso in mezzo a un gruppo di imbarazzati, infuriati perlustratori. Erano in piedi sul limitare di una palude, e gocce di acqua sporca e fili di fanghiglia verde
erano ancora attaccati ai loro stivali. Rammentò che avrebbe desiderato toccarla, coprirla, e che si era sforzato di non farlo, armandosi di coraggio per affrontare la dura, ufficiale analisi della violenza. Ricacciò indietro la visione. "È stata solo colpa mia" pensò. "Ma riparerò. Stavolta non perderò." Combattendo contro visioni di morte, Tanny Brown si avvicinò a passi lenti alla sua auto di pattuglia, convinto che quella notte non fosse finito nulla. Nemmeno la vita che lo Stato aveva preteso gli fosse consegnata. La notte si affrettava verso l'alba quando Bruce Wilcox chiamò. L'oscurità veniva attirata con l'inganno fuori dagli alberi e dal cielo dai primi lembi insinuanti di luce, che donavano al mondo margini e forme. Brown aveva passato il resto della notte trascrivendo la confessione della signora Collins; due ore di dimessi, amari racconti di abusi sessuali e di violenze, che erano, più o meno, quello che lui si era aspettato. "Le storie sono sempre le stesse" pensò. "Sono soltanto le vittime a cambiare." Quindi aveva discusso con un arcigno assistente del procuratore distrettuale, irritato per essere stato svegliato, e aveva trattato con un legale specializzato in divorzi. Autodifesa, aveva insistito con l'accusa, che l'avrebbe voluta accusare di omicidio di secondo grado. Alla fine avevano raggiunto un compromesso optando per l'omicidio colposo, d'accordo sul fatto che, se quella notte era stato commesso un crimine, lo stesso crimine impallidiva a confronto con quelli perpetrati ai danni della donna. La stanchezza gli si stava stringendo attorno, simile alle sue stesse dita sulla penna con la quale aveva firmato l'ultimo dei rapporti, quando il telefono aveva preso a squillare. «Sì?» «Tanny? Sono Bruce. Cancella un assassino seriale dalla lista. È andato.» «Che io sia dannato. Cos'è successo?» «Fondamentalmente ha detto a tutti di andare affanculo e si è seduto sulla sedia.» «Gesù.» Brown si rese conto che la stanchezza era scomparsa. «L'hai detto. Il vecchio Sully ha fatto il cattivo fino alla fine, figlio di puttana. Ma non è la cosa più interessante che è successa.» Tanny Brown poté sentire l'eccitazione nel tono di voce del suo collega, un infantile entusiasmo che sfidava l'ora e l'orrore di tutto quanto era accaduto. «D'accordo, cosa c'è di così interessante?» domandò.
«Il nostro amico Cowart. Ragazzi, ha passato tutto il giorno nascosto con quel pazzo, solo soletto, ad ascoltare il bastardo confessare all'incirca quaranta omicidi. Su e giù per la Florida, la Louisiana, l'Alabama. La classica ondata criminale, ma composta da un solo uomo. Comunque, il nostro Cowart se ne esce da questa piccola seduta di tè e simpatia tutto pallido e tremante. E quasi quasi perde la testa quando i suoi colleghi avvoltoi gli si fanno sotto. Lo hanno massacrato di brutto con le loro domande. Mi ha ricordato gli incontri di lotta, hai presente, quando sai benissimo di essere inferiore, ma continui a provare una mossa dopo l'altra, e il tuo avversano ha tutte le risposte, le mosse contrarie, finché non ti rendi conto di non avere alcuna possibilità, ma ci sei dentro fino al fischio finale. Sempre più dolorante.» «Interessante.» «L'hai detto. E quando si è stancato di farsi sbranare e sputacchiare via dai suoi amichetti della stampa, è partito come se il diavolo in persona gli stesse alle calcagna.» «Dov'è andato?» «È tornato a Miami. O almeno è quello che ha detto. Diavolo, con certezza non lo so. Dovrebbe incontrare quei due investigatori della contea di Monroe, oggi stesso. Nemmeno loro erano troppo contenti del nostro amico Cowart. Sa qualcosa su quei due morti di laggiù, qualcosa che non vuole dire.» «Come fai a saperlo?» «Be', Tanny, che diavolo! Sto solo cercando di indovinare. Ma l'amico aveva l'aria di avere il mal di mare a causa di quello che aveva dovuto sentire. E non penso che ne abbia raccontato nemmeno la metà.» Brown si rilassò, ascoltando gli accenti eccitati della voce del suo collega. Gli fu facile immaginarsi il giornalista ritrarsi a disagio sotto il peso delle nuove scoperte. "A volte" pensò "vi sono cose che non vorremmo sapere." La sua mente fece un rapido calcolo, quasi stesse sommando delle cifre. «Bruce, sai cosa penso?» «Scommetto che è la stessa cosa che penso io.» «Scommetto che a Cowart sia stato detto qualcosa che lui non avrebbe mai voluto sentire. Qualcosa che ha combinato un grosso casino nel quadro che si era dipinto.» «La vita a volte non è così pulita e ordinata, giusto, capo?» «Assolutamente.»
«Be', non credo che quel glaciale figlio di puttana si sarebbe impressionato davanti alla confessione di una catena di omicidi, non importa quanti. Voglio dire, tutti si erano immaginati che il vecchio Sully fosse colpevole di molto di più di quanto gli era stato imputato, e dunque non poteva essere una gran sorpresa...» Wilcox venne interrotto da Brown, che terminò il suo pensiero. «C'è un solo omicidio che significhi qualcosa per lui.» «Poco ma sicuro, dannazione.» "E c'è un solo omicidio che significhi qualcosa per me" pensò Tanny Brown. Guidò lentamente attraverso la debole luce dell'alba, mentre la testa gli ribolliva di domande. Scorse il ragazzo dei giornali attraversare la strada in bicicletta, e gli si mise dietro. Il ragazzo si voltò al suono del motore, riconobbe l'investigatore e agitò la mano in segno di saluto, prima di salire in piedi sui pedali e di scattare verso la successiva consegna. Brown l'osservò muoversi nelle esangui ombre del mattino, che confondevano i profili di tutto, facendo apparire il quartiere come una fotografia leggermente fuori fuoco. Svoltò nel vialetto d'accesso di casa e per qualche istante si guardò in giro. Vide le tracce della moderna tranquillità economica: file regolari di ordinate case di stucco e di mattoni di cemento, dipinte di bianco brillante o di tenui colori pastello, contrassegnate dalla presenza di siepi e cespugli ben curati, di prati verdi, di auto nuove parcheggiate sui vialetti d'accesso. Una vita semplice, una vita da classe media. Tutte le case, nel giro di un quartiere di dieci isolati, erano state costruite da una singola impresa, incaricata di dare forma a una comunità allo stesso tempo distinta e uniforme. Niente Vecchio Sud, in quel posto. Qualche dottore, qualche avvocato, e coloro che una volta facevano parte della classe dei lavoratori, i poliziotti, come lui. Neri e bianchi. L'America moderna che andava avanti. Si guardò le mani. "Delicate" pensò. "Mani da impiegato. Non come quelle di mio padre." Si diede un'occhiata allo stomaco, sempre più consistente. "Cristo" pensò "appartengo a questo posto." Giunto in casa, appese la sua fondina da spalla a un gancio a fianco di due buste da parete piene di taccuini e di fogli sparsi. Estrasse la pistola e, come d'abitudine, per prima cosa controllò il caricatore. Era una .357 Magnum a canna corta. Soppesando la pistola nella mano, si disse che avrebbe dovuto prenotare una sessione al poligono di tiro del dipartimento. Si rese conto che erano passati mesi dall'ultima volta che aveva fatto un po' di
pratica. Apri un cassetto e trovò una sicura, che incastrò al meccanismo di tiro. Quindi ripose la pistola nel cassetto e si piegò per togliersi la rivoltella di riserva dalla fondina assicurata alla caviglia. Poteva sentire la pancetta che friggeva in cucina e vi andò incontro, superando i mobili danesi e le stampe incorniciate. Per un attimo rimase in piedi sulla soglia della cucina a osservare suo padre, chino sui fornelli, intento a rompere delle uova sul bordo di una padella. «Ciao, vecchio» disse in tono sommesso. Suo padre non si mosse, ma si lasciò sfuggire una singola imprecazione quando del grasso bollente gli schizzò sulla mano. «Ho detto buongiorno, vecchio.» Suo padre si volse lentamente. «Non ti avevo sentito» disse sorridendo. Tanny Brown gli rivolse un gran sorriso di saluto. Suo padre non ci sentiva più molto. Gli si avvicinò e gli mise un braccio attorno alle ampie spalle. Poteva sentirne le ossa appena sotto il leggero cotone della sua scolorita camicia da lavoro. Gli diede una lieve stretta, pensando a quanto magro si era fatto, a quanto fragile pareva, come se fosse sul punto di spezzarsi nell'abbraccio di suo figlio. Sentì un'ombra di tristezza farsi strada in profondità, mentre si ricordava di un tempo in cui aveva pensato non vi fosse niente al mondo che quelle braccia non potessero sollevare e reggere, mentre si rendeva conto di quanto poco ora potessero fare. Tutta la forza sottratta dalla malattia. "Cresci pieno di rabbia" pensò "ti sforzi per giungere al giorno in cui sarai più forte e più duro di tuo padre, ma quando quel giorno arriva ti scopri imbarazzato e a disagio." «Sei mattiniero» disse il figlio abbassando le braccia. Il padre si strinse nelle spalle. Ormai dormiva ben poco, Brown lo sapeva. Una combinazione di dolore e testardaggine. «E perché mai mi chiami "vecchio"? Non sono poi così dannatamente vecchio. Ti menerei ancora, se solo mi ci costringessi.» «Probabile che lo faresti» rispose Brown con un sorriso. Era una menzogna che piaceva a entrambi. «Stanne certo» insistette il padre. «Le ragazze sono sveglie?» «No. Ho sentito dei piccoli movimenti. Magari l'odore della pancetta le sveglierà. Ma sono ancora tenere e giovani, e non gli piace mica alzarsi. Se la loro madre fosse ancora con noi, le farebbe scattare al primo canto del gallo, sissignore. Ci sarebbero loro qui a friggere la pancetta. E magari a fare i biscotti.»
Brown scosse il capo. «Se la loro madre fosse ancora qui, le farebbe dormire per preservare la loro bellezza. Farebbe sì che perdessero l'autobus della scuola e le accompagnerebbe di persona.» Scoppiarono a ridere all'unisono, annuendo. Brown si rendeva conto che le lamentele del padre erano fondamentalmente una finzione; il vecchio adorava le nipoti in modo sfacciato. Suo padre si voltò nuovamente verso i fornelli. «Ti faccio delle uova. Sarà stata una notte dura.» «Una donna ha sparato al suo ex-marito; lui era andato a cercarla con una pistola in mano, papà. Niente di unico o di speciale. Solo tremendamente triste e sanguinoso.» «Siediti. Sarai distrutto. Perché non riesci a fare delle ore di lavoro regolari?» «La morte non fa orari regolari, e dunque neanch'io.» «Suppongo che sia questa la scusa che accampi per non essere venuto a messa domenica scorsa. E nemmeno la domenica prima.» «Be'...» iniziò. «Tua madre ti darebbe una bella sculacciata se fosse ancora viva. Diavolo, figlio mio, subito dopo sculaccerebbe me per averti fatto saltare la messa. Non va bene, lo sai.» «Lo so. Domenica ci sarò. Cercherò di esserci.» Suo padre strapazzò le uova in una ciotola. «Odio tutte le modernità che abbiamo qui dentro. Come questa maledetta specie di forno elettrico. Cucina nucleare, o come diavolo si chiama.» «Microonde.» «Be', mica funziona.» «No, è che non sai come farlo funzionare. C'è una bella differenza.» Suo padre stava sorridendo. Brown sapeva che il vecchio si sentiva contraddittoriamente superiore, cresciuto com'era in un mondo di fabbriche del ghiaccio e di gabinetti esterni, di acqua di pozzo e di stufe a legna, in un mondo vecchio e familiare, e, alla fine, condotto nella vecchiaia in una casa che gli pareva più simile a una nave spaziale che a un'abitazione. Gli aggeggi della classe media lo divertivano, poiché per la maggior parte li vedeva come inutili. «Be', non vedo a cosa potrebbe servire, comunque, eccetto forse che a scongelare.» "Su questo" pensò lui "suo padre aveva ragione." Guardò le mani nodose del vecchio versare abilmente le uova sulla pa-
della e rivoltarle con gesti esperti. Era sorprendente. L'artrite gli aveva sottratto quasi tutta la sua mobilità articolare; la vecchiaia aveva compromesso la vista e l'udito; un attacco di cuore aveva minato la sua forza, lasciandolo scarno e sparuto; e la pelle, che un tempo pareva esplodere sotto l'azione dei muscoli, ora pendeva molle dalle braccia. Ma l'antica destrezza del conciatore di pelli non l'aveva mai abbandonato. Poteva ancora brandire un coltello e tagliare una mela in quattro parti uguali, o prendere una matita e tirare una riga perfettamente dritta. Solo che ora, nel farlo, provava dolore. «Eccoci. Dovrebbero essere buone.» «Non mangi con me?» «No. Ne preparo un po' per le ragazze. A me basta un sorso di caffè e una fetta di pane.» Il vecchio si guardò il petto. «Non ci vuole molto per mettermi in funzione. Un paio di ramoscelli sul fuoco, ed è fatta.» Si lasciò scivolare, con un'espressione di evidente fastidio, su una sedia. Il figlio fece finta di non aver notato nulla. «Dannate vecchie ossa.» «Cosa?» «Niente.» Per qualche istante rimasero seduti in silenzio. «Theodore» riprese quindi il padre con dolcezza «come mai non hai più pensato a trovarti una nuova moglie?» Il figlio scosse il capo. «Non ne ho più trovata un'altra come Lizzie» rispose. «Come fai a saperlo se neanche cerchi?» «Quando la mamma è morta, tu non ti sei messo alla caccia di una nuova moglie.» «Io ero già vecchio. Tu sei ancora giovane.» Brown scosse il capo. «Ho tutto quello di cui ho bisogno. Ho ancora te e le ragazze e il mio lavoro e questa casa. Sono a posto.» Il vecchio sbuffò ma non replicò. Quando il figlio ebbe finito, gli prese il piatto e muovendosi rigidamente lo portò al lavello. «Vado a svegliare le ragazze» annunciò Brown. Il padre si limitò a grugnire. Il figlio esitò, guardandolo. "Siamo una bella coppia" pensò. "Vedovo giovane e vedovo anziano, e facciamo da genitori a due ragazze come meglio possiamo." Il padre prese a canticchiare a labbra serrate lavando i piatti. Brown represse un'improvvisa, affettuosa risata. Il vecchio si rifiutava tuttora di usare la lavastoviglie, e lo impediva anche agli altri. Insiste-
va nel dire che esisteva un solo modo per dire se un piatto era veramente pulito, e consisteva nel lavarlo con le proprie mani. Quando le ragazze si erano lamentate, poco dopo che suo padre si era trasferito da loro, lui aveva detto soltanto che suo padre era fatto a modo suo. Per qualche giorno la spiegazione aveva aleggiato nervosa per casa, finché Tanny Brown aveva caricato entrambe le figlie sulla sua auto di pattuglia senza contrassegni e aveva guidato diretto a nord per ottanta chilometri, superando di poco il confine con l'Alabama e giungendo a Bay Minette. Avevano attraversato la polverosa cittadina, con i suoi grossolani edifici di mattoni rossi che parevano brillare sotto la calura del mezzogiorno, e avevano proseguito, superando un lungo, fresco filare di salici piangenti, verso i campi coltivati, fino a una vecchia fattoria. Aveva condotto le ragazze attraverso un ampio campo, fino a un piccolo avvallamento in cui il calore pareva sospeso a mezz'aria, mozzando loro il respiro. Aveva indicato un gruppo di piccole catapecchie vuote, rese vacillanti dal passare del tempo, i rossi e i marroni sbiaditi, scheggiate dall'età, e aveva detto loro che lì suo padre era nato ed era cresciuto. Quindi le aveva riportate a Pachoula, indicando la scuola per neri dove suo padre aveva imparato a leggere e a scrivere, mostrando loro il luogo dove un tempo sorgeva la fattoria in cui lui aveva lavorato duramente per giungere un giorno a esserne il guardiano, e dove aveva imparato il mestiere di conciatore. Aveva fatto loro vedere la casa che il loro nonno aveva acquistato in quella che un tempo era nota come Blacktown, la città nera, e dove la nonna aveva intrapreso la sua attività di cucitrice, raggiungendo una tale fama che il suo talento era riuscito a superare le barriere razziali, per la prima volta in quella comunità. Aveva mostrato loro la piccola chiesetta bianca della quale suo padre era stato diacono, e dove sua madre aveva cantato nel coro. Infine le aveva riportate a casa. E da quel giorno non era stata più detta una parola sulla lavapiatti. "Anch'io dimentico" pensò. "Tutti dimenticano." Il corridoio di fronte alle camere delle ragazze era cosparso di dozzine di fotografie di famiglia. Ne individuò una di se stesso, mentre, nella sua divisa da rugby, cullava una palla ovale. Poteva vedere il punto in cui il lucido, scintillante materiale della blusa era logorato, vicino ai rinforzi per le spalle. Le divise grigio-nere della sua scuola erano semplicemente gli scarti di una vicina scuola bianca. "Le ragazze non possono capire" pensò. "Non sanno cosa significasse sapere che ogni divisa, ogni libro in biblioteca, ogni banco in classe era stato già usato nel liceo dei bianchi, e infine
scartato." Si ricordò di quando aveva preso per la prima volta in mano il suo casco di seconda mano: all'interno aveva visto una scura striscia di sudore. Aveva tastato l'imbottitura, cercando di capire se gli sembrasse diversa. Quindi aveva portato le dita al naso per controllarne l'odore. Scosse il capo a quel particolare ricordo. "La guerra ha cambiato tutto per me" pensò. Sorrise. Millenovecentosessantanove. Erano passati sei anni dalla marcia su Washington. La legge per i diritti civili sarebbe stata approvata l'anno successivo. E la legge per il diritto di voto nel 1965. L'intero Sud era sconvolto dai mutamenti. Era tornato dal servizio militare, era andato all'università grazie alla GI Bill, e infine, giunto a Pachoula, aveva scoperto che la scuola per neri per la quale aveva giocato tanti palloni non esisteva più. Stavano costruendo una grossa, orrenda, massiccia scuola superiore regionale di mattoni grigi. I campi da gioco che aveva conosciuto erano invasi dalla sterpaglia. La terra rossa e marrone che aveva un tempo sporcato la sua divisa era ora ricoperta da un'aggrovigliata crescita di sanguinella e di maleodoranti erbacce. Si rammentò dell'esultanza del pubblico, e pensò che nella sua vita vi erano state ben poche vittorie. Di nuovo scosse il capo. "Non bisogna dimenticare" si disse. Si ricordò dell'epiteto che era esploso dalle labbra del fratello del morto, solo poche ore prima. Nulla era cambiato. Bussò alla porta della figlia maggiore. «Su, Lisa! Spunta e splendi per noi. Andiamo!» Si voltò veloce e picchiò alla porta della sorellina. «Samantha! Vai e uccidi! Di corsa! A scuola!» I lamenti lo fecero sorridere, facendogli dimenticare per qualche istante Pachoula, la ragazzina assassinata, e i due uomini che erano passati dal braccio della morte. Tanny Brown passò la mezz'ora successiva seguendo il tipico copione del padre di famiglia medioborghese in un giorno di scuola, pungolando, blandendo, avanzando richieste e finalmente ottenendo il risultato prefisso: le figlie erano fuori di casa, i compiti erano fatti, gli spuntini per il pranzo preparati, e tutto in tempo per l'autobus della scuola. Quando le ragazzine se n'erano andate, il padre si era ritirato in camera sua per un pisolino, e lui era rimasto solo nel mattino avanzante. La luce del sole invadeva la stanza, dandogli l'impressione che ogni cosa ne venisse distorta. Si sentiva come uno strano animale notturno imprigionato dal giorno, che scartava da ombra a ombra, alla ricerca della familiarità e della sicurezza della notte. Gettò lo sguardo sul lato opposto della stanza e mise a fuoco un vaso da
fiori vuoto, appoggiato su uno scaffale. Era alto, con una piacevole forma a clessidra e un solitario fiore dipinto ad arrampicarsi sulla ceramica. Lo fece sorridere. Si ricordò che sua moglie aveva acquistato il vaso nel corso di una vacanza in Messico, e l'aveva tenuto in mano per tutto il viaggio di ritorno a Pachoula, timorosa di affidarlo ai portieri, ai custodi, ai portabagagli. Quando erano tornati a casa, lei l'aveva messo al centro del tavolo da pranzo, e lì l'aveva tenuto, sempre pieno di fiori. Era fatta così. Se c'era qualcosa che voleva, non c'era fine a quello che avrebbe fatto per ottenerla. Perfino se ciò significava tenere sempre in mano uno stupido vaso. Si rammentò di quanti sforzi avessero fatto per salvarle la vita al pronto soccorso, di come, quando lui era arrivato, fossero tutti ancora indaffarati, riuniti attorno al corpo, facendo correre l'adrenalina e il plasma, praticandole massaggi cardiaci, cercando di persuadere il suo corpo ad accettare un soffio di vita. Gli era bastata un'occhiata per capire che era tutto inutile. Era qualcosa che gli era rimasto dalla guerra, un modo speciale di comprendere quando la linea invisibile era stata oltrepassata, e quando, perfino con tutta la scienza riunita, collegata, utilizzata, la morte aveva chiamato qualcuno, inesorabile. Si erano impegnati fino in fondo, con passione. Lei era stata lì fino a venti minuti prima, a fianco di tutti loro. Venti minuti per prendere l'impermeabile, magari lanciare qualche piccola battuta da fine giornata, augurare la buonanotte al resto del personale del pronto soccorso, fare quattro passi fino alla sua auto, guidare per cinque isolati e venire travolta in pieno da un camioncino con rimorchio guidato da un ubriaco. Perfino quando era ormai già morta, quando sapevano che non c'era più alcuna speranza, perfino allora avevano continuato. Sapevano che lei avrebbe fatto lo stesso per loro. Brown fissò il soffitto senza riuscire a prendere sonno, senza badare a quanto fosse stanco. Si rese conto che non si era più chiesto quando avrebbe smesso di sentire la sua mancanza, essendo giunto a comprendere che non avrebbe mai superato la sua scomparsa. Aveva stipulato una sorta di tacito accordo con se stesso, quanto bastava a farlo vivere giorno per giorno. Si alzò ed entrò nella camera della figlia più piccola, si portò accanto alla cassettiera e prese a spostare alcuni dei tipici oggetti da ragazzina che vi erano posati, un cestino straripante di collanine e anelli e nastrini, un orsetto di pelouche senza un orecchio, un vecchio raccoglitore pieno dei compiti scolastici di un altro anno, un intreccio di spazzole e pettini. Non gli ci volle molto per trovare ciò che stava cercando: una fotografia montata in
una piccola cornice di argento. La sollevò, reggendola davanti a sé. Un raggio di sole colpì la cornice, creando un riflesso abbagliante. Era un ritratto di due ragazzine, una bianca e l'altra nera, una bionda e l'altra corvina; si tenevano sottobraccio, e ridevano, apparecchi sui denti e trucco eccessivo e pasticciato, boa di piume e abitini da sera. Guardò i due volti del ritratto. "Amiche" pensò. Chiunque avesse visto quella fotografia avrebbe capito che niente altro importava, che le due ragazzine si piacevano e basta, che avrebbero diviso segreti e passioni, lacrime e scherzi. Avevano nove anni e facevano le smorfiose davanti alla sua macchina fotografica. Era Halloween e loro si erano travestite con abiti coloratissimi, sfidandosi a chi avrebbe avuto l'aspetto più pazzo, tutte risate e gioia infantile senza freni. Si sentì quasi sopraffatto dalla rabbia. Riusciva soltanto a vedere Blair Sullivan che lo prendeva in giro. "Spero che sia stato doloroso" pensò. "Spero che ti abbia strappato l'anima dal corpo provocandoti tutto il dolore del mondo." Il volto di Sullivan scomparve e lui prese a pensare a Ferguson. "Credi di essere libero. Credi di cavartela. Nemmeno per sogno." Guardò la fotografia che aveva ancora in mano. Gli piaceva specialmente il modo in cui le bambine si tenevano abbracciate. Il braccio nero di sua figlia, appoggiato sulle spalle di Joanie Shriver, ciondolava sul davanti del piccolo corpo della bambina bianca, e altrettanto faceva il braccio di Joanie; le due si stringevano l'una all'altra, incorniciandosi a vicenda. "La sua prima, la sua migliore amica" pensò. Fissò gli occhi di Joanie. Erano di un azzurro pieno di vita. Lo stesso colore che aveva il cielo della Florida il giorno del funerale di sua moglie. Lui si era tenuto in disparte dal resto del corteo funebre, stringendo a sé le due figlie, ascoltando il tono monotono della voce del predicatore, parole sulla fede, sulla devozione, sull'amore e sulla chiamata nella valle del Signore, ma cogliendone ben poche. Si era sentito menomato, insicuro di essere in grado di raccogliere le forze per fare un altro passo. Aveva trattenuto le due figlie al suo fianco, consapevole solo del loro pianto irrefrenabile. Avrebbe voluto provare rabbia, ma sapeva che sarebbe stato troppo semplice, che sarebbe invece stato perseguitato da una sorda, costante agonia, unita al terrore che, senza la loro madre, le figlie si sarebbero allontanate da lui. Che avrebbero perso il controllo, improvvisamente private di un centro. Aveva perso la facoltà di parlare; non sapeva cosa dire, non sapeva cosa fare per loro, e specialmente per Samantha, la più piccola, che dal
momento dell'incidente non aveva mai smesso di singhiozzare in modo incontrollabile. Gli altri partecipanti al funerale si erano tenuti a distanza, ma Joanie Shriver si era staccata dalla stretta confortante di suo padre, molto più seria dei suoi anni nel suo abito migliore; aveva superato file di persone e, gli occhi colmi di lacrime, gli si era presentata davanti, dicendo: «Non si preoccupi per Samantha. È mia amica, mi prenderò cura di lei.» E in quel preciso istante aveva allungato il braccio e aveva preso la mano di sua figlia, ed era rimasta lì, stringendola fra le sue. E aveva mantenuto la parola. Era sempre stata presente, ogniqualvolta Samantha mostrasse di aver bisogno di qualcuno. Week-end. Vacanze solitarie. Doposcuola. Lo aveva aiutato a ricostruire un'abitudinarietà e una solidità nelle loro vite. Nove anni, e molto più saggia di qualsiasi adulto. "Dunque" pensò "era molto più che una semplice amica di mia figlia. Era anche mia amica. Ci ha salvato la vita." Il disprezzo per se stesso s'impadronì di lui. Tutta l'autorità e il potere del mondo e non sono riuscito a proteggerla. Si rammentò la guerra. Ne ho salvato qualcuno? Si ricordò di un ragazzo bianco, da una settimana nel plotone, un cowboy del Wyoming che aveva preso una scarica di mitra sul petto, una brutta ferita. Sibilava, e pareva schernirlo mentre lui lottava per salvare la vita al soldato. Il ragazzo teneva gli occhi fissi su di lui, cercando di afferrare, tra la nebbia del dolore e dello shock, un qualche segno che gli facesse capire se sarebbe sopravvissuto o se sarebbe morto. E stava ancora guardandolo quando aveva esalato l'ultimo, ansimante respiro. Aveva negli occhi la stessa espressione di George e Betty Shriver, la sera in cui era giunto alla porta di casa loro, messaggero delle peggiori notizie. Brown scosse il capo. Da quanto conosco George Shriver? Dal giorno in cui sono andato a lavorare nel negozio di suo padre, dal giorno in cui lui ha afferrato una scopa e si è messo a lavorare al mio fianco. La mano gli tremò. Ne ho seppelliti troppi. Diede un'ultima occhiata alla fotografia prima di rimetterla al suo posto sulla cassettiera. "Non è finita" si ripeté. "Ti devo troppo." Fece ritorno in camera sua. Non pensava più alla stanchezza, né al riposo. Spinto dallo sdegno e dalla coscienza di avere un debito da pagare, raccolse un cambio d'abiti e lo cacciò in una borsa da week-end, chiedendosi quando sarebbe partito il primo volo per Miami.
13 Un buco nella storia Non aveva alcun piano. Matthew Cowart affrontò il giorno successivo all'esecuzione di Blair Sullivan con tutto l'entusiasmo di chi avesse appena saputo che subito dopo sarebbe toccato a lui. Guidò la sua auto a noleggio a gran velocità nella notte, a sud per più della metà dello Stato, proiettandosi sulla Interstate 95 poco più in basso di Saint Augustine. Percorse i cinquecento e più chilometri a una velocità irregolare, spesso accelerando fino a centocinquanta chilometri orari, stranamente sorpreso di non venire fermato nemmeno una volta da un agente della stradale, sebbene ne avesse incrociati diversi diretti nell'opposta direzione. Navigò nell'oscurità, spinto dalle furiose contraddizioni che rimbalzavano avanti e indietro nella sua testa. Il primo sole del mattino sorse mentre lui superava le Palm Beaches, ma non proiettò alcuna luce sui suoi pensieri. Era già mattino inoltrato quando riconsegnò l'auto a uno sgarbato impiegato della Hertz al Miami International Airport, il quale ebbe qualche difficoltà a comprendere la ragione per cui Cowart non l'avesse riportata agli uffici da cui l'aveva prelevata, nella Florida del nord. Un tassista cubano si fece strada con forza nel traffico cittadino dell'ora di punta mattutina, cianciando in continuazione di baseball e di politica senza fare alcuna distinzione fra i due soggetti e con l'ausilio di un'energica mistura di linguaggi; giunto di fronte all'abitazione di Cowart, scaricò il giornalista, lasciandolo solo sul marciapiede, intento a scrutare l'ondoso, pallido azzurro del cielo. Nell'appartamento non riuscì a stare fermo un attimo, aggirandovisi a disagio, pensando a cosa fare. Si disse che sarebbe dovuto andare immediatamente al giornale, ma non riuscì a raccogliere le energie necessarie. All'improvviso il giornale non sembrava più tanto un luogo di culto, quanto piuttosto una palude, un campo minato. Si guardò le mani, voltandole e rivoltandole, contandosi le vene e le rughe, pensando a quanto fosse ironico il fatto che soltanto poche ore prima aveva disperatamente desiderato di essere solo, e che ora che lo era, si sentiva incapace di decidere cosa fare. Scandagliò la propria memoria in cerca di altri esempi di gente intrappolata nelle stesse circostanze, come se gli errori degli altri potessero aiutarlo a conferire meno importanza al suo. Rammentò gli sforzi di William F. Buckley per liberare, nei primi anni sessanta, Edgar Smith dal braccio della morte in New Jersey, e l'assistenza fornita da Norman Mailer a Jack Ab-
bott. Si ricordò il famoso giornalista, in piedi di fronte a una schiera di microfoni, ammettere con rabbia che l'assassino l'aveva ingannato. S'immaginò il romanziere mentre lottava contro le luci abbaglianti delle televisioni, rifiutandosi di parlare del suo micidiale protetto. "Non sono il primo giornalista che ha commesso un errore" pensò. "È una professione ad alto tasso di rischio. La posta è sempre alta. Nessun giornalista può essere immune da un inganno attentamente perpetrato." Ma il pensiero riuscì soltanto a farlo star peggio. Si raddrizzò sulla sedia, e come se stesse rivolgendosi a qualcuno seduto sulla sedia di fronte domandò: «Che avrei potuto fare?» Si alzò in piedi e riprese a misurare la stanza a grandi passi. «Dannazione, non c'erano prove. Tutto quadrava. Tutto quadrava alla perfezione. Dannazione. Dannazione.» La rabbia lo sopraffece all'improvviso: allungò il braccio su un comodino e scaraventò a terra una pila di giornali e di riviste. Ancora prima che avessero finito di cadere, afferrò un tavolino e lo rovesciò, scagliandolo contro un divano. Il suono dei mobili che cozzavano l'uno contro l'altro era inebriante. Prese a mormorare oscenità, muovendosi sempre più freneticamente, sfogandosi contro l'ambiente che lo circondava. Afferrò dei piatti e li scagliò a terra. Spazzò via una mensola di libri. Prese a calci le sedie, prese a pugni i muri, e infine si gettò a terra accanto a un divano. «Come avrei potuto sapere?» gridò. Il silenzio della stanza fu l'unica risposta. Una stanchezza tutta nuova s'impadronì di lui, costringendolo ad appoggiare il capo sul divano e a fissare il soffitto. All'improvviso scoppiò a ridere. «Ragazzo mio» disse, affettando un lugubre accento sudista da attore hollywoodiano «hai proprio combinato una bella stronzata. Una beeeeella stronzata. Una stronzata unica e speciale.» Allungò le parole, lasciando che rotolassero nell'appartamento semidistrutto. Si mise a sedere all'improvviso. «D'accordo. Cosa facciamo adesso?» Silenzio. «Esatto» disse scoppiando nuovamente a ridere. «Proprio non ne abbiamo idea, vero?» Si alzò in piedi e attraversò la confusione diretto alla sua scrivania, dove aprì l'ultimo cassetto. Rovistò fra un mucchio di fogli di carta finché non ritrovò una copia del giornale della domenica con il primo dei suoi servizi. Aveva già iniziato a ingiallire. La carta gli parve fragile al tocco. Il titolo gli balzò agli occhi; iniziò a leggere l'articolo. «Questioni irrisolte in un caso di omicidio nel Panhandle» sintetizzò a voce alta le parole del primo paragrafo. «Altroché.»
Proseguì a leggere finché poté, l'articolo principale e tutta la pagina di apertura, la continuazione e la doppia pagina interna. Non riuscì a guardare il ritratto di Joanie Shriver, ma fissò con rabbia le fotografie di Sullivan e di Ferguson. Era sul punto di accartocciare il giornale e di gettarlo nel cestino della carta straccia quando si bloccò e lo controllò di nuovo. Con un evidenziatore giallo prese a segnare qualche parola e frase qua e là. Quando ebbe terminato di leggere l'articolo per la seconda volta, scoppiò a ridere. In tutte le parole che aveva scritto non vi era un'inesattezza. Non c'era niente che non fosse vero. Niente di sbagliato. Tranne tutto. Guardò di nuovo quello che aveva scritto: tutte le "perplessità" erano sacrosante. Robert Earl Ferguson era stato condannato sulla base delle prove più fragili, messe insieme in un'atmosfera di pregiudizi. La confessione era stata ottenuta con la violenza? I suoi articoli si erano limitati a riportare che il prigioniero sosteneva di sì e i poliziotti lo negavano. Era Tanny Brown che non era stato in grado di spiegare il lasso di tempo in cui Ferguson era stato tenuto in stato d'arresto prima della "confessione". Era giusto che venisse eliminata. La giuria che l'aveva condannato in prima istanza era stata sopraffatta dalle passioni. Una ragazzina bianca selvaggiamente assassinata, un rabbioso uomo di colore accusato del delitto e rappresentato da un vecchio avvocato incompetente. Una formula perfetta per i pregiudizi. Le sue stesse parole - illegalmente ottenute - lo avevano portato al braccio della morte. Non c'erano dubbi su tutto ciò, sulle ingiustizie che avevano assediato Ferguson nei giorni seguenti il ritrovamento del corpo di Joanie Shriver. Tranne che per un dettaglio isolato. Era stato lui a uccidere la ragazzina. Almeno, a voler credere alle parole di un assassino seriale. Gli girava la testa. Proseguì a scorrere l'articolo. Blair Sullivan era nella contea di Escambia al momento dell'omicidio. Ciò era stato confermato più volte. E non vi era alcun dubbio che Sullivan fosse nel bel mezzo di un attacco di follia omicida. Avrebbe potuto essere un sospettato, se solo la polizia si fosse sforzata di guardare al di là del proprio naso. L'unica spudorata menzogna - se era una menzogna - che poté rintracciare proveniva da Ferguson, che aveva accusato Sullivan di avere ammesso la sua colpevolezza. Ma erano parole di Ferguson, attentamente attribuite a lui e virgolettate; non appartenevano a chi le aveva riportate.
Ma nonostante tutto, ogni cosa era una menzogna, e l'esplosivo accoppiamento dei due uomini aveva oscurato qualsiasi verità vi si nascondesse dietro. "Sono all'inferno" pensò. La semplice verità era che, per le ragioni più giuste, erano accadute le cose più sbagliate. Quando il telefono prese a suonare, ne ignorò i primi due squilli. Al terzo si riscosse e, nonostante sapesse che non c'era nessuno con cui desiderasse parlare, afferrò la cornetta e l'accostò all'orecchio. «Sì?» «Cristo... Marc?» Era Will Martin dalla direzione editoriale. «Will?» «Gesù, ragazzo mio, dove diavolo ti eri cacciato? Stanno perdendo tutti la testa per trovarti.» «Sono tornato in macchina. Appena arrivato.» «Da Starke? Ma è un viaggio di otto ore.» «Meno di sei, a dire la verità. Sono andato un po' veloce.» «Be', ragazzo mio, spero tu sia in grado di scrivere veloce come guidi. La direzione della cronaca sta strillando per il tuo pezzo, e abbiamo solo un paio d'ore per raggiungere la prima edizione. Devi muovere il fondoschiena, e venire qui subitissimo.» La cadenza cantilenante del caporedattore era colma di eccitazione. «Sicuro. Sicuro...»Cowart ascoltò la propria stessa voce, come se qualcun altro stesse parlando al telefono. «Ehi, Will, cosa dicono le agenzie?» «Cose da matti. Stanno ancora aggiornando le notizie principali su quella tua piccola conferenza stampa. Cosa diavolo è successo lassù, me lo dici? Nessuno parla d'altro, e nessuno ne sa niente. Dovresti dare un'occhiata ai tuoi messaggi telefonici. I networks, il New York Times, il New York Post, i settimanali, tanto per iniziare. Le tre stazioni locali tengono d'occhio l'ingresso, dunque dobbiamo attuare un piano speciale per farti arrivare fin qui senza creare troppa confusione. C'è già una mezza dozzina di chiamate da investigatori delle squadre omicidi che stanno lavorando su casi ormai congelati, e che guarda caso si trovano tutti sulla strada percorsa da Sullivan. Tutti vogliono sapere cosa ti ha detto quell'assassino prima di andare alla seduta di mezzanotte, perdona il gioco di parole.» «Sullivan ha confessato un gran numero di delitti.» «Questo lo sapevo già. Le agenzie l'hanno già diramato. È quello che hai detto a tutti lassù. Ma dobbiamo subito scendere nei dettagli della faccen-
da, figliolo. Capitolo e verso. Nomi, date, dettagli. Subito. Ce l'hai su nastro? Dobbiamo consegnarlo a un dattilografo, diavolo, una mezza dozzina di dattilografi se necessario, e farci fare delle trascrizioni. Andiamo, Matty, so che sarai distrutto, amico, ma devi correre. Prenditi un whisky, bevi del caffè. Ma vieni subito. E spara fuori l'articolo. Devi muoverti, Matty, avanti, prima che qui impazziscano tutti. Diavolo, dormirai più tardi. E comunque, il sonno è sopravvalutato. Molto meglio scrivere un bell'articolo. Credimi.» «D'accordo» acconsentì Cowart, rassegnato. L'idea di cercare di spiegare l'accaduto si era dileguata, travolta dall'onda dell'entusiasmo che Will aveva riversato sulla linea telefonica. Cowart si rese conto che se Martin, un uomo solitamente dedito ai ritmi lenti e pensosi degli editoriali, era ridotto in quello stato, la direzione della cronaca doveva essere probabilmente in preda alla frenesia. I colpi giornalistici esercitano un impatto universale sullo staff di un quotidiano. Prendono il controllo di chiunque, attirano tutti sul loro terreno, li fanno sentire come se fossero parte integrante degli eventi. Fece un profondo respiro. «Sto arrivando» disse con calma. «Ma come faccio a superare le troupe televisive?» «Nessun problema. Hai presente il punto in cui l'Hotel Marriott viene quasi nascosto dalla Omni Mall, giù in centro? Su quella stradina laterale che dà sulla baia?» «Certo.» «Bene, un furgoncino delle consegne a domicilio ti passerà a prendere proprio all'angolo, fra venti minuti. Salta dentro; passerai dall'ingresso delle merci.» «Come un film di cappa e spada, eh?» Cowart fu costretto a sorridere. «Sono giorni pericolosi, figlio mio, e richiedono un impegno particolare. È l'idea migliore che ci è venuta in un così breve giro di tempo. Ora, suppongo che la CIA o il KGB avrebbero potuto inventare qualcosa di meglio, ma chi ne ha il tempo? E comunque, giocare un branco di giornalisti televisivi non dovrebbe essere la cosa più difficile del mondo, dannazione.» «Sto arrivando.» Fu a quel punto, all'improvviso, che si rammentò dei nastri chiusi nella sua valigetta, i nastri che contenevano la confessione e la verità sulla morte di Joanie Shriver. Non poteva permettere che nessuno sentisse quelle parole. Non prima che le cose si fossero calmate, non prima che lui avesse deciso che fare. Arrancò in cerca di qualcosa da dire. «Ascolta, devo prima farmi la doccia. Trattieni il furgoncino per, diciamo, una quarantina di minuti. Magari un'oretta.»
«Nemmeno per sogno. Non hai bisogno di essere pulito per scrivere.» «Devo riordinare i miei pensieri.» «Vuoi che vada a dire al caporedattore della cronaca che stai riflettendo?» «No, no, di' soltanto che sto arrivando, che sto mettendo ordine ai miei appunti. Trenta minuti, Will. Mezz'ora. Promesso.» «Non uno di più. Devi muoverti, figliolo. Devi muoverti.» Will Martin batté le mani a sottolineare l'urgenza del momento. «Mezz'ora. Non di più.» «D'accordo. Lo dirò a quello della cronaca. Il poveretto avrà un attacco di cuore e sono soltanto le dieci del mattino. Il furgoncino ti aspetterà. Sbrigati. Mantienilo in vita per un altro giorno il poveraccio, va bene?» Martin rise alla sua battuta e riappese. A Cowart continuava a girare la testa. Sapeva che aveva sempre meno scelte, che da un momento all'altro gli investigatori sarebbero giunti in ufficio. Le cose stavano procedendo in modo troppo rapido perché lui potesse controllarle. Doveva andare e scrivere qualcosa. Era questo che ci si aspettava da lui. Ma invece di afferrare la giacca, prese la valigetta e ne estrasse i nastri. Gli ci volle soltanto un secondo per individuare l'ultima cassetta; aveva fatto attenzione a numerarle mano a mano che le usava. Strinse per qualche istante in mano il nastro, pensando addirittura di distruggerlo, ma poi lo inserì nell'impianto stereo. Andò velocemente alla fine della registrazione, quindi lo riavvolse un poco e premette il tasto della riproduzione. La rauca voce di Blair Sullivan sgorgò dagli altoparlanti, invadendo il piccolo appartamento con il suo aspro messaggio. Cowart attese finché non udì le parole: "...E ora le dirò la verità sulla piccola Joanie Shriver." Fermò il nastro e lo riavvolse di un poco, fino al punto in cui Blair Sullivan diceva: "E sono tutti e trentanove. Che storia, eh?". Lui aveva risposto: "Signor Sullivan, non rimane molto tempo". E l'assassino aveva gridato: "Non sei stato attento, ragazzo?" prima di proseguire con: "Ora è giunto il momento di un'altra storia...". Riavvolse di nuovo il nastro, fermandolo subito dopo la frase: "Che storia, eh?". Si avvicinò alla sua collezione di dischi e di cassette, e trovò un nastro che aveva registrato qualche anno prima, Sketches of Spain di Miles Davis. Era una cassetta più vecchia delle altre, ascoltata più volte, con un'etichetta consunta dall'uso. Sapeva che, alla fine del nastro, era rimasto uno spazio
non registrato. Inserì la cassetta nello stereo e trovò le ultime note della musica. Quindi riprese il nastro e lo inserì nel suo registratore portatile, sistemò l'apparecchio di fronte agli altoparlanti dello stereo, e rimise la cassetta con la confessione di Blair Sullivan sullo stereo. Premette il tasto di riproduzione sullo stereo, e contemporaneamente il tasto di registrazione sul registratore portatile. Ascoltò le parole ribollirgli attorno, cercando di cancellarle dalla propria immaginazione. Quando il nastro terminò, spense entrambi gli apparecchi. Riascoltò la fine della confessione di Sullivan sul nastro di Miles Davis. La chiarezza della voce era diminuita, ma era ancora brutalmente percepibile. Prese il nastro e lo rimise sullo scaffale in mezzo agli altri. Per qualche istante fissò l'originale della confessione di Sullivan. Quindi la riavvolse fino al punto da cui aveva iniziato la duplicazione, premette il pulsante della registrazione e cancellò le parole di Sullivan, sostituendole con il silenzio più assoluto. "Sembrerà una fine improvvisa, ma basterà" si disse. Non sapeva se il nastro avrebbe retto un esame professionale da parte di un laboratorio di polizia, ma di certo gli avrebbe consentito di guadagnare un po' di tempo. Cowart sollevò lo sguardo dallo schermo del computer e vide i due investigatori giungere attraverso la redazione. Si destreggiavano tra le scrivanie, avvicinandosi a zigzag, ignorando le dozzine di altri giornalisti presenti, le cui teste si sollevavano e i cui sguardi seguivano il loro cammino. Quando i due poliziotti giunsero alla scrivania di Cowart, tutti li stavano guardando. «D'accordo, signor Cowart» disse decisa Andrea Shaeffer. «Tocca a noi.» Le parole sullo schermo di fronte a lui parvero fremere. «Fra un attimo ho finito» rispose lui, tenendo gli occhi fissi sul computer. «Lei finisce proprio ora» s'intromise Michael Weiss. Cowart ignorò gli investigatori. Nel giro di un secondo il caporedattore della cronaca si era precipitato tra i due poliziotti e il giornalista. «Vogliamo una deposizione completa, e subito. Sono giorni che stiamo cercando di ottenerla, e a questo punto ci stiamo stancando delle sue risposte evasive» spiegò la Shaeffer. Il caporedattore annuì. «Appena ha finito.» «È quello che ci ha detto l'altro giorno, dopo aver trovato i corpi. Poi
doveva parlare con Sullivan. E poi, visto quello che gli ha detto Sullivan, deve restare da solo. Adesso deve scrivere. Diavolo, non abbiamo bisogno di una deposizione, ci basterà abbonarci al vostro giornale.» La sua voce aveva assunto un tono esasperato. «Sarà da voi in un attimo» rispose il caporedattore, facendo scudo a Cowart, cercando di allontanarli dalla sua scrivania. «Adesso» ripeté lei, ostinata. «Quando avrà finito» ripeté il caporedattore. «Vuole che la arrestiamo per resistenza a pubblico ufficiale?» domandò Weiss. «Mi sto veramente stufando di aspettare che voi stronzi finiate il vostro lavoro per potere iniziare il nostro.» «Lei sta bluffando» rispose il caporedattore della cronaca. «Domattina pubblicheremo una bella fotografia di voi due mentre mi ammanettate. Sono sicuro che lo sceriffo della contea di Monroe l'adorerà.» Allungò le braccia irosamente. «Ascolti» intervenne la Shaeffer. «Lui è in possesso di alcune informazioni pertinenti a un'indagine su un duplice omicidio. È così maledettamente irragionevole chiedergli un minimo di collaborazione?» «Non è irragionevole» rispose il caporedattore, fulminandola con un'occhiata. «Ma Cowart ha anche una prima edizione davanti al muso. Rispettiamo le precedenze.» «Giusto» replicò irritato Weiss. «Rispettiamo le precedenze. C'è solo un piccolo problema per quello che voi gente pensate venga prima. Tipo vendere i giornali invece che risolvere gli omicidi.» «Matt, quanto ti manca?» domandò il caporedattore. Nessuno aveva mutato di molto la propria posizione. «Qualche minuto» rispose Cowart. «Dove sono i nastri?» chiese la Shaeffer. «Stanno trascrivendoli. Hanno quasi finito.» Il caporedattore rifletté per un istante. «Sentite, perché non date un'occhiata a quello che Sullivan ha detto al nostro uomo, mentre lo aspettate?» Gli investigatori annuirono. Lanciando al giornalista una rapida occhiata di "via libera", il caporedattore li condusse via dalla scrivania di Cowart, facendo loro strada verso una saletta per le riunioni, nella quale tre dattilografe munite di cuffia stavano lavorando sui nastri. Cowart inspirò a fondo. Si era destreggiato attraverso la descrizione dell'esecuzione e il grosso della confessione di Sullivan. Aveva stilato un elenco di tutti i delitti che Sullivan aveva confessato.
L'unico elemento mancante era l'omicidio che coinvolgeva i due investigatori delle Keys. Cowart si sentiva imprigionato. Era una parte cruciale della storia, erano temi che avrebbero occupato una posizione prominente nei primi paragrafi. Ma era la parte che lo minacciava più da vicino. Non poteva dire alla polizia, o scrivere sul giornale, che Ferguson era stato coinvolto nel duplice omicidio senza che nessuno si chiedesse il perché. E l'unica risposta sul perché i due delitti erano stati perpetrati conduceva direttamente all'assassinio di Joanie Shriver e all'accordo che Sullivan aveva sostenuto esserci stato tra lui e l'altro prigioniero del braccio della morte. Matthew Cowart sedette immobile davanti allo schermo del computer. L'unico modo in cui poteva proteggere se stesso, la sua reputazione, la sua carriera, era nascondere il ruolo giocato da Ferguson. "Nascondere un assassino?" pensò. Nella sua immaginazione riecheggiarono le parole di Sullivan: "L'ho uccisa, Cowart?". Per un breve istante pensò di dire la pura e semplice verità su tutto quanto; ma subito si chiese, qual è la verità? Tutto ruotava attorno alle parole del giustiziato: un amante della menzogna, fino all'istante della sua stessa morte. Sollevò lo sguardo e vide che il caporedattore della cronaca lo stava osservando. L'uomo allargò le braccia e ruotò veloce le mani. Datti una mossa, significava il gesto. Cowart diede un'altra occhiata all'articolo che stava scrivendo, sapendo che sarebbe giunto intatto, in una marcia senza ostacoli, fino alla pagina del giornale. Mentre esitava, udì una voce alle sue spalle. «Non la bevo.» Era Edna McGee. I capelli biondi le ricaddero sul volto mentre scuoteva il capo con decisione. Stava osservando alcune pagine dattiloscritte. La confessione di Sullivan. «Cosa?» Cowart si girò sulla sedia, fronteggiando l'amica. Lei si accigliò e fece una smorfia, mentre con gli occhi divorava le parole. «Ehi, Matt, penso che qui ci sia un problemino.» «Cosa?» chiese lui di nuovo. «Be', mi sto limitando a dargli un'occhiata veloce, capisci, e certo, insomma, lo so che ti sta dicendo la verità su qualcuno di questi delitti. Però, dico, per esempio qui, vedi, ti ha detto di avere ammazzato questo ragazzo che lavorava in un magazzino-negozio di souvenir indiani sul Tamiami Trail, un paio d'anni fa. Dice che si è fermato per una Coca o qualcosa del
genere e che ha sparato alla schiena al ragazzo e ha rubato la cassa prima di ripartire per Miami. Be', merda, mi ricordo bene di quel delitto. Me ne sono occupata io. Ricordi, avevo iniziato scrivendo un pezzo su tutti i piccoli esercizi che sono sorti attorno alla riserva indiana di Miccosukkee, e poi ho fatto un pezzo di appoggio sull'ondata criminale che ha colpito quella zona delle Everglades. Ti ricordi?» Cowart si aggrappò alla scrivania. «Matt, stai bene?» «Mi ricordo di quegli articoli» replicò lentamente. Edna lo fissò. «Be', trattavano principalmente della gente che veniva rapinata mentre era diretta alle estrazioni dei numeri del Bingo, e delle squadre speciali di sicurezza organizzate dagli indiani per sorvegliare i loro negozietti.» «Mi ricordo.» «Avevo fatto un po' di ricerca su quell'omicidio. Voglio dire, è successo più o meno nel modo in cui Sullivan te l'ha raccontato. E da quanto dice sembra proprio che prima o poi sia stato dentro quel negozio. E sicuro, il ragazzo è stato ucciso con un colpo alla schiena. Era tutto sul giornale...» Agitò nell'aria i fogli della confessione. «Voglio dire, l'ha riportata esattamente, in superficie. Ma non è stato lui. Neanche per sogno. Hanno già beccato tre ragazzi di South Dade per quell'omicidio. Gli esami balistici hanno stabilito che la loro pistola era la stessa che aveva sparato il proiettile ritrovato nella schiena del ragazzo, e tutto il resto. Uno di loro ha confessato, e quello che era alla guida ha testimoniato contro quello che aveva sparato. Caso aperto e chiuso, come si dice. Due dei ragazzi stanno scontando venticinque anni senza condizionale per omicidio di primo grado. L'altro ha avuto uno sconto. Ma non ci sono dubbi su chi abbia commesso quel delitto.» «Sullivan...» «Insomma, diavolo, non so. In quel momento si trovava nella Florida del sud. Senza alcun dubbio. Voglio dire, dovrei controllare le date e tutto, ma ne sono sicura. E probabilmente è passato anche di là, proprio nel giorno in cui il delitto era in prima pagina. Il ragazzo assassinato era il nipote di uno degli anziani della riserva, dunque aveva fatto gran scalpore su tutti i giornali locali. La televisione si era scatenata, ricordi?» Si ricordava, vagamente, e si chiese perché non gli fosse venuto in mente mentre Sullivan gli stava parlando. Annuì. Edna agitò il blocco di fogli che teneva in mano. «Diavolo, Matt, sono
certa che stesse probabilmente dicendo la verità su molti di questi delitti. Ma tutti? Chi lo sa? Eccone uno che non quadra. E quanti altri?» Cowart si sentì stringere lo stomaco. Le parole "probabilmente dicendo la verità" lo punivano. Cosa può voler dire il fatto che abbia mentito una volta? O due volte? O una dozzina? Chi ha veramente ucciso? Chi non ha ucciso? Quando stava dicendo la verità, quando stava mentendo? Forse era tutta una menzogna, e Ferguson aveva detto la verità. In un attimo la sua immagine mentale di Ferguson si ribaltò di nuovo, da quella di un mostro perverso e omicida a quella del collerico uomo intrappolato dalle ingiustizie. Le menzogne di Sullivan, le sue mezze verità, le sue informazioni sbagliate presero a roteare insieme in un impossibile miscuglio. "Innocente"? pensò Cowart. Fissò lo schermo del computer, rammentando le parole di Sullivan. Colpevole? È stato lui. Non è stato lui. Edna sbatté i fogli di carta sul palmo della mano. «Ce ne sono un paio d'altri che potrebbero non quadrare. Sto solo tirando a indovinare, però. Voglio dire, perché? Eh? Perché avrebbe dovuto rivendicare dei delitti che non aveva commesso?» Fece una pausa e quindi si rispose da sola. «...Perché era un tipo strano, fino alla fine. E tutti quegli assassini seriali sembra che si eccitino pensando di essere il più grande o il più cattivo o il peggiore. Ti ricordi di quel tizio, Henley, quello del Texas? Ne aveva commessi ventotto, in collaborazione con quell'altro. È lì seduto in galera, tranquillo, quando un bel giorno si sparge la voce che John Gacy a Chicago ne ha commessi trentatré. E allora che fa Henley? Chiama un investigatore di Houston e gli dice: "Posso rifare l'elenco..." Voglio dire, definirli strani non basta, non è vero?» «No» rispose Cowart, mentre nel profondo precipitava in una voragine di dubbi. Edna lanciò un'occhiata all'attacco del suo articolo. «Almeno trentanove delitti. Be', a sentire lui. Ma sarebbe meglio se lo specificassi.» «Lo farò.» «Bene. Ti ha dato qualche vero e proprio dettaglio sugli omicidi delle Keys?» «No» rispose lesto Cowart. «Mi ha soltanto detto che aveva organizzato tutto perché venissero portati a termine.» «Be', qualcosa te l'avrà pur detto...»
Cowart arrancò alla ricerca di una risposta. «Ha parlato di una sorta di canale informale interno alla prigione, che arriva persino fino al braccio della morte. Ha detto che qualsiasi cosa può essere organizzata, basta pagare. Ma non ha detto quanto avesse pagato lui.» «Be', mi chiedevo una cosa. Voglio dire, tu devi riportare quello che ti ha detto. Ma vagliarlo tutto... Che diavolo!» Sollevò lo sguardo e diede un'occhiata alla saletta nella quale i due investigatori stavano leggendo le trascrizioni. «Credi che abbiano qualche prova? Io penso che sperino che tu gli risolva la faccenda nel modo più tranquillo. Bella e impacchettata.» La sua voce aveva assunto un tono di evidente cinismo. Lui sollevò lo sguardo su di lei. «Edna» iniziò. «Vuoi che ti dia una mano a controllare 'sta robaccia, giusto?» La voce le si riempì immediatamente di entusiasmo. Diede una manata al blocco di fogli. «Bisogna scoprire cosa c'è di sicuro, di probabile e di assurdo, giusto?» «Sì. Ti prego. Lo puoi fare?» «Con gioia. Ci vorranno un paio di giorni, ma mi ci metto subito. Lo dirò ai capi. Sicuro che non ti importi della doppia firma?» «Assolutamente. Nessun problema.» Edna indicò con un gesto lo schermo del computer. «Ti conviene fare attenzione a non andare troppo nel dettaglio della confessione del vecchio Sully. Potrebbe avere degli altri problemi. Non scavare nessuna buca da cui poi non possa saltare fuori.» Cowart non sapeva se volesse ridere o vomitare. «Sai, bisogna apprezzarlo, il vecchio Sully. Non ha mai voluto rendere la vita facile a nessuno» commentò lei dandogli le spalle. Cowart osservò Edna McGee attraversare a passo leggero la redazione e avvicinarsi al caporedattore della cronaca, con il quale iniziò a discutere animatamente. Li guardò rivolgere un'occhiata pensosa al documento dattiloscritto. Vide l'uomo scuotere il capo e poi dirigersi verso di lui. «È vero?» domandò il caporedattore. «Così dice lei. Non lo so.» «Dovremo controllarne ogni riga.» «Giusto.» «Cristo! Cosa stai scrivendo sul tuo pezzo?» «Le sto riportando come le ultime parole del condannato. Affermazioni non comprovate. Nessuna idea di dove stia la verità. Domande dappertutto.
Cose del genere.» «Vai pesante sulle descrizioni e stai attento ai dettagli. Abbiamo bisogno di tempo.» «Edna ha detto che mi avrebbe aiutato.» «Bene. Bene. Inizierà subito a chiamare in giro. Quando pensi di riuscire a rimettertici sopra?» «Ho bisogno di un po' di riposo.» «D'accordo, E gli investigatori...» «Arrivo subito.» Cowart diede un'altra occhiata alla pagina scritta. Riprese le parole dello stesso Sullivan riportate sul suo taccuino, e chiuse il pezzo con la domanda: "Che storia, eh?". Premette un paio di tasti del computer, spegnendo lo schermo di fronte a lui e trasmettendo elettronicamente le sue parole alla direzione della cronaca, dove sarebbero state misurate, stimate, sistemate e impaginate sul menabò della prima pagina. Non riusciva più a capire se quello che aveva scritto era composto di menzogne o di verità. Si rese conto che, per la prima volta in tanti anni di giornalismo, non le sapeva riconoscere, da tanto si erano ingarbugliate nella sua mente. Alla deriva in un mare di ambiguità, si recò a incontrare i due investigatori. La Shaeffer e Weiss erano lividi dalla rabbia. «Dov'è?» domandò la donna non appena Cowart varcò la soglia della sala riunioni. Le tre dattilografe, chine sul grande tavolo attorno al quale si tenevano le riunioni di redazione del pomeriggio, stavano graffettando le pagine battute a macchina. Non appena udirono la furia nel tono di voce degli investigatori, si affrettarono a uscire, lasciandosi dietro una pila di fogli. Cowart non rispose. Il suo sguardo si spostò sull'ampia finestra. I raggi del sole, riflessi dall'acqua della baia, fluttuavano nel locale. Vide un traghetto allontanarsi lasciandosi a poppa Governor's Cut e facendo rotta verso il mare aperto. «Dov'è!» domandò di nuovo la Shaeffer. «Dov'è la spiegazione delle morti della madre e del patrigno?» Gli agitò in faccia la trascrizione dattiloscritta. «Non c'è una parola, qui» si trattenne a stento dal gridare. Weiss si alzò in piedi e puntò il dito su Cowart. «Inizi subito a spiegare. Sono stanco di correre di qua e di là, Cowart. Potremmo fermarla come te-
stimone chiave e sbatterla in galera.» «Benissimo» rispose lui, cercando di recuperare un tono d'indignazione che potesse reggere il confronto con quello dei due investigatori. «Ho giusto bisogno di un po' di sonno.» «Sapete, ne ho veramente abbastanza delle vostre minacce al mio uomo» disse una voce alle spalle di Cowart. Era il caporedattore della cronaca. «Perché non lavorate per conto vostro' Sembra che vogliate tutti che sia lui a darvi ogni risposta.» «Perché credo che lui le abbia, le maledette risposte» rispose la Shaeffer scandendo le parole con un tono di voce carico di minaccia. Per un istante tutto nella stanza parve immobilizzato dalle sue parole. Infine il caporedattore, nel tentativo di alleviare un minimo la tensione che aleggiava intorno a loro, fece un gesto in direzione delle sedie. «Sedetevi» disse in tono grave. «E cerchiamo di risolvere la faccenda.» Cowart vide la Shaeffer inspirare profondamente, lottando per mantenere il controllo. «D'accordo» disse con calma. «Solo una deposizione completa, subito. E ci toglieremo dai piedi. Va bene?» Cowart annuì. Il caporedattore s'intromise. «Se per lui va bene, siamo d'accordo. Ma un'altra minaccia e il colloquio finisce lì.» Weiss si lasciò cadere sulla sedia ed estrasse di tasca un piccolo taccuino. Fu la Shaeffer a fare la prima domanda. «Per favore, mi spieghi quello che mi ha detto a Starke.» Lo guardava fissa, seguendo con lo sguardo ogni suo piccolo movimento. Cowart allacciò il suo sguardo a quello della donna. "È così che guarda i sospetti", pensò. «Sullivan sosteneva di avere organizzato gli omicidi.» «Questo l'ha già detto. Come? Chi? Quali furono le sue esatte parole? E perché diavolo non sono sui nastri?» «Mi ha fatto spegnere il registratore. Non ho idea del perché.» «D'accordo» disse lei lentamente. «Continui.» «È stato un breve momento della conversazione...» «Certo. Vada avanti.» «D'accordo. Voi già sapete che mi aveva mandato giù a Islamorada. Mi aveva dato l'indirizzo e tutto il resto. Mi aveva detto di intervistare coloro che avrei trovato laggiù. Non aveva detto che sarebbero stati due morti. Non mi aveva dato alcun'altra indicazione, aveva soltanto insistito sul fatto che io ci andassi...»
«E lei non gli ha chiesto spiegazioni prima di andare?» «E perché? Non me le avrebbe date. Era deciso. Sapeva di dover morire nel giro di pochi giorni. E così sono andato. Senza fare domande. Non è così maledettamente irragionevole.» «Certo. Prosegua.» «Quando ho fatto ritorno alla sua cella, per prima cosa ha preteso che gli descrivessi i morti. Voleva che gli raccontassi tutti i dettagli, tipo come erano seduti, come erano stati uccisi e tutti gli altri particolari della scena che avevo notato. Era particolarmente interessato a sapere se avevano sofferto. Quando ho terminato di raccontargli tutto quello che mi ricordavo sui due cadaveri, era soddisfatto. Decisamente contento.» «Continui.» «Gli ho chiesto perché e lui ha risposto: "Perché li ho uccisi io". Gli ho domandato come avesse fatto e lui ha risposto: "Si può ottenere quello che si vuole, perfino nel braccio della morte, se si è disposti a pagarne il prezzo". Gli ho chiesto cosa avesse pagato, ma si è rifiutato di rispondere. Ha detto che avrei dovuto scoprirlo da solo, che sarebbe andato nella tomba senza cantare. Ho tentato di chiedergli come avesse fatto a organizzare il tutto, ma si è rifiutato di rispondere. Quindi mi ha chiesto: "Non le interessa la mia eredità?". È stato allora che mi ha detto di accendere il registratore. Ed è iniziata la confessione di tutti gli altri delitti.» Le menzogne sgorgavano con facilità dalle sue labbra. Fu sorpreso da quanto fosse facile mentire. «Pensa che vi sia un collegamento tra la successiva confessione e i due omicidi della contea di Monroe?» "Questo è il dilemma" pensò Cowart. Si strinse nelle spalle. «Difficile da dire.» «Ma crede che le stesse dicendo la verità?» «Sì, a volte. Voglio dire, ovviamente mi ha mandato a quell'indirizzo sapendo che qualcosa sarebbe successo. Dunque doveva sapere quando sarebbero stati assassinati. Penso che abbia ottenuto quello che voleva. Ma come abbia pagato..'.» Cowart lasciò che la frase si spegnesse nel nulla. La Shaeffer si alzò in piedi all'improvviso, continuando a fissare Cowart. «D'accordo» disse. «Grazie. Riesce a ricordare qualcos'altro?» «Nel caso, le faccio sapere.» «Gradiremmo avere i nastri originali.» «Vedremo» s'intromise il caporedattore. «Forse.» «Potrebbero essere delle prove» ribatté lei in tono acido.
«Be', dobbiamo ancora fare delle copie. Magari questo pomeriggio, sul tardi. Nel frattempo, se volete, potete prendere una trascrizione.» «Va bene» rispose lei. Cowart lanciò un'occhiata al caporedattore. L'investigatrice sembrava improvvisamente fin troppo accomodante. «Se avessi bisogno di mettermi in contatto con lei?» gli domandò. «Sarò nei paraggi.» «Non ha in programma di andarsene da qualche parte?» «Soltanto a casa. A letto.» «Hmm. D'accordo. Ci faremo vivi per i nastri.» «Con me» disse il caporedattore. Lei annuì. Weiss richiuse di scatto il suo taccuino. Per un attimo la Shaeffer concentrò il suo penetrante sguardo su Cowart. «Sa, signor Cowart, c'è una cosa che mi fa pensare. Nella sua conferenza stampa dopo l'esecuzione, lei ha dichiarato che Blair Sullivan le aveva parlato dell'omicidio della ragazzina a Pachoula.» Cowart si sentì rivoltare lo stomaco. «Sì...» mormorò. «Ma non c'è niente qui, nemmeno nella trascrizione.» «Mi ha fatto spegnere il registratore. Gliel'ho detto.» Lei sorrise, soddisfatta. «Giusto. È proprio come pensavo...» Fece una pausa, lasciando che un breve silenzio invadesse il locale. «...tranne che se fosse così, sentiremmo la voce di Sullivan che dice qualcosa tipo "Spenga il registratore", giusto?» Cowart, lottando contro il panico, scrollò le spalle con aria noncurante. «No» rispose lentamente. «Ha parlato di quel delitto insieme ai due omicidi della contea di Monroe.» La Shaeffer annuì. I suoi occhi si strinsero severi sul volto di Cowart. «Ah, chiaro. Ma prima non l'aveva detto, vero? Strano, però. Ogni altro delitto finisce sul nastro, eccetto quei due, giusto? Quello che in principio l'aveva portata da lui e quello finale. Un po' strano, non trova?» «Non so, investigatrice. Era un uomo strano.» «Credo lo sia anche lei, signor Cowart» rispose lei. Quindi si voltò e anticipò il suo collega fuori dalla sala riunioni. Cowart la seguì mentre percorreva a grandi passi la redazione e usciva dalla porta. Poté scorgere i nodosi muscoli delle sue caviglie. "Dev'essere una che corre" pensò. "Ne ha il tipico aspetto asciutto, infelice, l'espressione concentrata e sofferente." Avrebbe voluto convincersi che lei gli avesse creduto, ma sapeva che era un'idiozia. Anche il caporedattore della cronaca seguì con lo sguardo il percorso dei
due investigatori attraverso la redazione. Infine esalò un profondo sospiro e ribadì ciò che era già risultato ovvio a tutti. «Matty» disse in tono sommesso «quella non crede a una parola di quello che hai detto. È andata veramente così con Sullivan?» «Sì, più o meno.» «È tutto molto traballante, vero?» «Sì.» «Matty, c'è sotto qualcosa?» «È Blair Sullivan, tutto qui» rispose lesto Cowart. «Giochetti psicologici. Li ha fatti con me. Li ha fatti con tutti. Era ciò che faceva quando non era occupato ad ammazzare la gente.» «Ma cosa pensi di quello che l'investigatrice ha voluto dire fra le righe?» Cowart cercò una risposta che avesse una qualche logica. «Era come se Sullivan facesse una distinzione fra alcuni delitti. Quelli importanti, i due che non erano sui nastri, erano, non so, diversi per lui. Tutti gli altri erano ordinaria amministrazione. Materiale per la sua leggenda. Non sono uno strizzacervelli. Non posso spiegare come funzionasse il suo cervello.» Il caporedattore annuì. «È questo che sta per essere pubblicato sul giornale?» «Sì, più o meno.» «Dobbiamo essere sicuri che tutto quello che finisce stampato sia superprudente, va bene? Se hai dei dubbi su qualcosa, tralasciala. O assicurati che sia coperta. Siamo sempre in tempo a tornarci sopra.» Cowart cercò di sorridere. «Sto tentando.» «Metticela tutta» rispose il caporedattore. «Sai, la faccenda provoca più domande che risposte. Voglio dire, chi stava cercando di proteggere Sullivan? Lo scoprirai, vero? Mentre Edna controlla il resto della confessione, lavorerai su questo aspetto?» «Sì.» «Gran storia. Un detenuto che organizza un omicidio appena prima di essere giustiziato. Di che stiamo parlando, di una guardia corrotta? Magari un avvocato? Un altro detenuto? Riposati un po' e rimettiti subito al lavoro, d'accordo? Hai qualche idea di dove iniziare?» «Certo» rispose. "Non solo di dove iniziare" pensò "ma anche di dove finire: Robert Earl Ferguson". Nonostante fosse esausto, Cowart rimase in redazione per tutto il resto della giornata, fino alle prime ore della sera. Cercò di ignorare il più a lun-
go possibile le troupe appostate in attesa di fronte all'edificio. Ma quando i direttori di ogni stazione televisiva presero a telefonare direttamente al caporedattore, fu costretto a uscire e a rilasciare una breve, insoddisfacente dichiarazione. Ciò, naturalmente, invece che calmarli li rese ancora più rabbiosi. Terminata l'intervista, non accennarono ad andarsene. All'interno della redazione, Cowart ricevette telefonate da parte di altri giornalisti che cercavano di intervistarlo. Si limitò ad attendere il riparo dell'oscurità. Quando giunsero le copie della prima edizione, lentamente lesse le sue stesse parole, quasi temesse che potessero provocargli dolore fisico. Apportò un paio di correzioni all'edizione della sera, aumentando il potenziale di dubbio insito nella confessione di Sullivan, sottolineando l'essenziale enigmaticità di tutte le azioni del giustiziato. Parlò brevemente con Edna McGee e con il caporedattore della cronaca per un'ultima volta, una falsa coordinazione dei compiti. Scese con il montacarichi nel ventre del giornale, superò la sezione impaginazione, il reparto degli annunci economici, il bar, i banchi di imballaggio. L'intero edificio ronzava e tremava sotto l'azione delle rotative, che davano luce a decine di migliaia di copie del giornale. Poteva sentire le vibrazioni dei macchinari penetrare in lui attraverso le piante dei piedi. Un furgoncino delle consegne gli diede un passaggio, scaricandolo a pochi passi dal suo condominio. Si cacciò una copia del giornale sotto il braccio e s'incamminò nell'oscurità crescente della notte cittadina, improvvisamente sollevato dall'anonimo suono delle sue stesse scarpe sull'asfalto. Giunto vicino a casa controllò la facciata del condominio, perlustrandone i dintorni alla ricerca di altri giornalisti in attesa. Non ne vide, e controllò che non vi fossero tracce nemmeno dei due investigatori di Monroe. Non era assurdo pensare che l'avessero seguito. Ma la strada sembrava vuota e rapidamente Cowart tagliò attraverso le zone di buio al di là dei lampioni, raggiungendo l'atrio del condominio. Per la prima volta da quando vi si era trasferito, si rese conto della scarsa sicurezza del modesto edificio. Di fronte all'ascensore esitò per qualche istante, quindi si lanciò attraverso un'uscita di emergenza e prese a salire le scale di servizio, il fiato corto, i passi martellanti sulle rampe ricoperte di linoleum. Apri la porta del suo appartamento ed entrò nel disordine. Per un attimo rimase fermo nel mezzo del locale, in attesa che il cuore gli si calmasse; quindi si avvicinò alla finestra e guardò fuori, verso le acque scure della baia. Qualche luce riflessa della città tagliava l'ondosa distesa di nero inchiostro, per venire presto divorata dall'immensità dell'oceano.
Si sentiva completamente solo, ma si sbagliava. Non si rendeva conto che un gran numero di persone, pur tra loro a chilometri di distanza, erano in quel momento con lui nella stanza, come fantasmi in attesa della sua prossima mossa. Alcuni, naturalmente, erano meno lontani. Come Andrea Shaeffer, che aveva parcheggiato la sua auto a un isolato di distanza, ma che aveva seguito attentamente il suo irregolare cammino lungo la strada con un binocolo speciale, seguendo le furtive mosse del giornalista attraverso le ombre della strada. Era talmente concentrata su di lui che non si era accorta della contemporanea presenza di Tanny Brown. L'investigatore si era appostato all'ombra di un edificio vicino, lasciando che la notte lo circondasse, nascondendolo. Sollevò lo sguardo verso le luci dell'appartamento di Cowart e lì lo tenne fisso finché non si spensero. Quindi attese finché l'investigatrice non si fu allontanata nella notte con la sua auto civetta, e infine, muovendosi come un gatto randagio, si diresse verso l'appartamento del giornalista. 14 Confessione Tanny Brown si mise in ascolto alla porta dell'appartamento di Cowart. Poteva udire i suoni distanti del traffico notturno penetrare l'immobile oscurità, unendosi all'irritato ronzio di un moscone verde apparentemente concentrato sul progetto suicida di lanciarsi contro il lampadario del corridoio. Sobbalzò quando sentì un'improvvisa risata provenire dall'appartamento di fianco. Per un istante si chiese quale battuta avesse provocato lo scoppio d'ilarità. Di nuovo si mise in ascolto alla porta, ma dall'appartamento di Cowart non proveniva alcun rumore. Posò delicatamente la mano sulla maniglia, ruotandola leggermente finché non fece resistenza. Chiusa. Scrutò attraverso la serratura di sicurezza e vide che anche quella era stata assicurata. In preda a un rabbioso disappunto, strinse il pugno. Detestava l'idea di dover chiedere a Cowart il permesso per entrare. Avrebbe voluto scivolare nell'appartamento con la furtività di uno scassinatore, far schizzare Cowart dal letto, appollaiato come uno spettro ai margini dei sogni del giornalista, alla ricerca della verità. Alle sue spalle vi fu un leggero ronzio metallico; Brown si girò di scatto cercando di raggiungere una zona d'ombra del corridoio. La mano corse
automaticamente alla fondina della pistola. Era l'ascensore, chiamato a un altro piano. Guardò la porta chiusa mentre un piccolo raggio di luce scivolava dal basso verso l'alto. Abbassò la mano, chiedendosi la ragione di tanto nervosismo. Stanchezza e dubbi. Guardò di nuovo la porta di fronte, rendendosi conto che se per caso qualcuno l'avesse visto lì in piedi, avrebbe molto probabilmente chiamato la polizia, scambiandolo per qualche malintenzionato. "Il che" pensò in un soprassalto di buonumore "è esattamente quello che sono." Brown inspirò profondamente, sgomberando la mente dalla stanchezza, concentrandosi su ciò che l'aveva condotto alla porta dell'appartamento di Cowart. Sentì il soffio caldo della rabbia lambirgli la fronte e bussò energicamente alla robusta porta di legno. Cowart era seduto per terra a gambe incrociate fra i resti del suo appartamento e stava valutando quale sarebbe stato il suo prossimo passo. Quando i quattro colpi, simili a quelli di un'arma da fuoco, risuonarono alla porta, il suo primo pensiero fu di rimanere fermo, immobile come un cervo sorpreso dai fari di un'auto nella notte; il secondo fu di rifugiarsi, di nascondersi. Invece si alzò in piedi e si diresse a passi incerti verso la fonte del suono. Fece un respiro profondo. «Chi è?» domandò. "Guai" pensò Brown. «Tenente Tanny Brown» disse invece ad alta voce. «Voglio parlarle.» Vi fu un istante di silenzio. «Apra!» Cowart avrebbe voluto ridere. Aprì uno spiraglio e fece capolino da dietro la porta. «Oggi vogliono tutti parlare con me. Pensavo che fosse un altro di quei dannati televisivi.» «No, sono solo io» replicò Brown. «Ma con le stesse domande, scommetto» disse Cowart. «Allora, come ha fatto a trovarmi? Non sono sull'elenco e la direzione della cronaca non fornisce a nessuno il mio indirizzo.» «Non è stato difficile» rispose l'investigatore, ancora in piedi davanti alla porta. «Mi aveva dato il suo numero di telefono, ai tempi in cui stava tirando fuori di galera Bobby Earl. Ho dovuto soltanto chiamare la compagnia telefonica e dire che era un'operazione di polizia.» Gli sguardi dei due uomini s'incontrarono; il giornalista scosse il capo. «Avrei dovuto saperlo che si sarebbe fatto vivo. Oggi sembra che vada tutto storto.»
Brown fece un gesto con la mano. «Devo star qui fuori tutta la notte o mi fa entrare?» Il giornalista, apparentemente divertito, sorrise e scosse nuovamente il capo. «D'accordo. E perché no? Stavo per venire a trovarla, in ogni caso.» Tenne aperta la porta. La stanza alle sue spalle era buia. «Che ne dice di accendere la luce?» Cowart si accostò alla parete e premette un interruttore. L'investigatore, sorpreso, guardò il disastro che li circondava, illuminato dal lampadario centrale. «Cristo, Cowart. Cosa è successo? Qualcuno le è entrato in casa?» Il giornalista sorrise di nuovo. «No, solo uno scatto di nervi. E non avevo voglia di pulire, non ancora. S'intona alla perfezione al mio stato d'animo.» Fece qualche passo fino al centro della stanza, verso una poltrona rovesciata. L'afferrò e la rimise a posto, quindi fece un passo indietro, invitando con un gesto l'investigatore ad accomodarsi. Spazzò via dal divano alcuni giornali gettandoli a terra e si lasciò cadere sullo spazio appena creato. «Stanco» disse. «Dormito poco.» Si passò le mani sul volto. «Nemmeno io ho dormito troppo, ultimamente» replicò Brown. «Tante domande. Poche risposte.» «È roba che tiene svegli.» I due uomini, esausti, si fissarono. Cowart sorrise e scosse il capo a commento del silenzio che si era intromesso tra loro. «Allora, mi faccia una domanda» disse all'investigatore. «Che sta succedendo?» Cowart si strinse nelle spalle. «Troppo generica. Non posso rispondere.» «Wilcox mi ha riferito che qualsiasi cosa le abbia detto Blair Sullivan prima di sedersi sulla sedia, l'ha sconvolta. Perché non me ne parla?» Cowart si aprì in un gran sorriso. «Ha detto così? Tipico suo. È un tipo decisamente glaciale. Non ha fatto una piega quando hanno tirato la leva della sedia.» «E perché avrebbe dovuto? Non mi venga a dire che lei ha versato una lacrima sull'addio di Sullivan.» «No, non posso dire di averlo fatto. Ma in ogni caso...» Brown lo interruppe. «Bruce Wilcox vede le cose in modo diverso da lei, è tutto.» «Ah, be', probabilmente è così» ribatté il giornalista, annuendo. «Che ne
so io? Dunque, lei vorrebbe sapere cosa mi ha sconvolto, giusto? E ascoltare la confessione di un assassino seriale non basterebbe a dare una bella scossa alle sue sicurezze?» «Certo che lo farebbe. Lo ha fatto.» «Esatto. La morte è il suo mestiere. Proprio come quello di Sully.» «Suppongo che possa dire così, anche se a me non piace pensarla in questi termini.» Brown cercò di superare la sensazione che il giornalista lo avesse messo sotto con la sua prima mossa. Rimase seduto a fissare quell'uomo scarmigliato nella rovina del suo appartamento. Si chiese quanto a lungo avrebbe resistito prima di afferrare il giornalista e di scuoterlo fino a tirargli fuori le risposte che cercava. Cowart si rilassò sul divano, come se stesse riprendendo un racconto precedentemente interrotto. «...Be', il vecchio Sully mi ha quasi consumato le orecchie a furia di parlare. Vecchi, vecchie, giovani, gente di mezz'età, ragazze, ragazzi. Benzinai e turisti. Commessi di supermercato e passanti occasionali. Masticati e gettati da parte da un singolo uomo sbagliato. Coltelli, pistole, strangolamenti, mazzate, gente tagliuzzata e impallinata e annegata. Una gran varietà di brutte morti. Roba di fantasia, no? Poco carino, davvero poco carino. Ti fa pensare a cosa stia diventando il mondo, a quanto valga andare avanti di fronte a tanta malvagità. E non le sembra abbastanza ascoltare quel genere di cose per ore e ore? Non potrebbe bastare a giustificare la mia... cosa? Indecisione? È una buona descrizione?» «Potrebbe.» «Ma lei non ne è convinto.» «No.» «Lei pensa che ci sia qualcos'altro che mi sta rodendo il fegato ed è venuto fin qui per chiedermi di che si tratti. Sono commosso dalla sua sensibilità.» «Non ero preoccupato per lei.» «No, suppongo di no.» Cowart rise mestamente. «Mi piace» disse. «Vuole qualcosa da bere, tenente? Mentre si duella?» Brown valutò l'offerta. Quindi si strinse nelle spalle in segno di indifferente accettazione, rilassandosi sulla poltrona. Con lo sguardo seguì Cowart mentre si alzava, si allontanava in cucina e faceva ritorno dopo qualche istante con in mano una bottiglia e due bicchieri e sottobraccio una confezione di sei birre. «Whisky da quattro soldi. E birra, se ne vuole. È quello che un tempo
bevevano gli stampatori al giornale di mio padre. Si versavano una birra, ne bevevano un sorso, e poi ci versavano una dose di whisky. Una bomba. È molto efficace nell'eliminare in quattro e quattr'otto la tensione di una giornata. Ti fa dimenticare che stai facendo un lavoraccio per un sacco di ore e pochi soldi e ancora meno futuro.» Cowart preparò i bicchieri per entrambi. «La bevanda perfetta per due come noi. Salute.» Vuotò metà del bicchiere con una rapida serie di sorsate. Il liquore bruciò la gola di Tanny Brown e gli riscaldò lo stomaco. Fece una smorfia. «Ha un sapore orribile. Rovina sia lo scotch che la birra» commentò. «Sì» Cowart sorrise di nuovo. «È questo il bello. Si prendono due sostanze perfettamente normali che da sole vanno benissimo, le si mischia e si ottiene qualcosa di terribile. Che si beve. Come stiamo facendo io e lei.» L'investigatore ne prese un altro sorso. «Ma più si va avanti, più migliora.» «Ah. È questo che è diverso dalla vita.» Cowart riempì di nuovo i bicchieri, quindi si risedette al suo posto, facendo scivolare un dito sull'orlo del bicchiere e ascoltandone il suono lamentoso. «Perché mai dovrei dirle qualcosa?» disse lentamente. «Quando sono venuto da lei con le mie domande su Ferguson, mi ha scatenato contro il suo cane da guardia. Wilcox. Non mi ha reso la vita troppo facile, vero? Quando abbiamo trovato il coltello, era interessato a scoprire la verità? O soltanto a tenere insieme il suo caso? Me lo dica. Perché dovrei aiutarla?» «Per una sola ragione. Perché io posso aiutare lei.» Cowart scosse il capo. «Non penso proprio. E non penso sia una buona ragione.» Brown si agitò sulla poltrona, fissando il giornalista. «Che ne pensa di questo, allora» disse dopo una momentanea esitazione. «Siamo coinvolti in qualcosa, insieme. Lo siamo stati fin dall'inizio. E non è finita, vero?» «No» ammise Cowart. «Il problema, dal mio punto di vista, è che io sono coinvolto in qualcosa, ma non so esattamente cosa sia. Perché non mi illumina?» Cowart si appoggiò allo schienale del divano e prese a fissare il soffitto, cercando di capire cosa avrebbe potuto dire all'investigatore e cosa avrebbe dovuto evitare. «È sempre più o meno la stessa storia, non è vero?» «Cosa?»
«Sbirri e giornalisti.» Brown annuì. «Complici scomodi. Nella migliore delle ipotesi.» «Un tempo avevo un amico» disse Cowart. «Un investigatore della omicidi, proprio come lei. Mi diceva sempre che eravamo interessati alla stessa cosa, ma con scopi diversi. E per molto tempo nessuno di noi due era stato in grado di comprendere i motivi dell'altro. Lui pensava che io volessi semplicemente scrivere, e io ero convinto che lui volesse solo risolvere casi e dare la scalata alla burocrazia. Quello che mi diceva mi aiutava a scrivere i miei articoli. E la pubblicità che i suoi casi ottenevano lo aiutava a fare carriera all'interno del dipartimento. In un certo senso ci sfamavamo a vicenda. Ed eravamo lì, alla ricerca delle stesse risposte, con il bisogno delle stesse informazioni, usando alcune tecniche molto simili tra loro, molto più uguali di quanto non avremmo mai potuto sospettare, e diffidenti come l'inferno l'uno nei confronti dell'altro. Al lavoro sullo stesso terreno ma sui lati opposti della strada, e senza mai osare attraversarla. Ci è voluto molto tempo prima che fossimo in grado di vedere le nostre similitudini invece delle nostre differenze.» Brown riempì nuovamente il suo bicchiere; poteva sentire l'effetto del liquore sulle sue stanche sensazioni. Inghiottì un lungo sorso e riprese a fissare Cowart. «È nella natura degli investigatori non fidarsi di nulla che non siano in grado di controllare. Specialmente quando si tratta dell'informazione.» Cowart si aprì nuovamente in un gran sorriso. «È proprio questo fatto che rende la cosa così interessante, tenente. Io so qualcosa che lei non sa. Per me è una posizione unica. Di solito sono io che cerco di convincere gente come lei a parlare.» Anche Brown sorrise, ma non certo perché fosse divertito. Fu un sorriso che mosse Cowart a stringere il suo bicchiere in mano e a cambiare posizione sul divano, improvvisamente a disagio. «Abbiamo sempre avuto soltanto una cosa di cui parlare, fin dal primo momento. Non ho bevuto abbastanza per potermene dimenticare, di quella cosa, vero signor Cowart? Non credo ci sia abbastanza liquore in tutto il suo appartamento per far sì che me ne dimentichi. E forse neppure in tutto il resto del mondo.» Il giornalista ammutolì. Infine si sporse in avanti. «Sa cosa le dico, tenente? Lei vuole sapere. Io voglio sapere. Facciamo uno scambio.» L'investigatore ripose lentamente il suo bicchiere. «Scambio di cosa?» «La confessione. Parte tutto da lì, vero?»
«Esatto.» «Allora, lei mi dice la verità su quella confessione e io le dirò la verità su Ferguson.» Brown raddrizzò la schiena, quasi il ricordo lo avesse irrigidito all'improvviso, tanto nel portamento quanto nelle sue parole. «Signor Cowart» replicò lentamente. «Sa cosa succede quando si cresce e si vive tutta la propria vita in una piccola città? Succede che si è in grado di capire cosa vada e cosa non vada sentendolo nell'aria, magari nell'odore particolare di una giornata, nel modo in cui il caldo cresce attorno a mezzogiorno e inizia a dileguarsi al tramonto. È come conoscere le note di un brano musicale: quando la banda le suona, nella tua testa tu le hai già sentite. Non sto dicendo che tutto nella piccola città sia sempre perfetto e che non succedano cose terribili. Pachoula non è grande come Miami, ma ciò non significa che non abbiamo mariti che picchiano le mogli, ragazzi che si drogano, puttane, strozzini, estorsioni, omicidi. È tutto uguale. Solo che non è così evidente.» «E Bobby Earl?» «C'è sempre stato qualcosa di sbagliato in lui, fin dall'inizio. Sapevo che si stava preparando a uccidere qualcuno. Forse l'avevo capito dal modo in cui camminava, o parlava, o dalla risatina che faceva ogni volta che lo fermavo in auto. È venuto su male, signor Cowart, niente di diverso da uno di quei cani che vengono allevati per combattere. E la cosa si è fatta ancora più profonda e radicata negli anni passati in città. Era pieno d'odio. Odiava me. Odiava lei. Odiava tutto. E se ne andava in giro, aspettando che quell'odio prendesse completamente il sopravvento. E per tutto quel tempo, lui sapeva che lo stavo osservando. Sapeva che ero in attesa. Sapeva che sapevo che anche lui era in attesa.» Cowart vide gli occhi socchiusi dell'investigatore. "Ferguson non è il solo a essere pieno d'odio" pensò. «Mi dia qualche particolare.» «Non ne ho. Una ragazza aveva detto che lui l'aveva seguita fino a casa. Un'altra ci ha raccontato che lui aveva cercato di convincerla a salire in auto. Le aveva offerto un passaggio, così dice lui. Cercava solo di essere gentile. Ma poi una sera una squadra di sorveglianti lo sorprende in giro per le strade a fari spenti. Qualcuno sta andando in giro per le contee vicine violentando e aggredendo giovani donne, ma le analisi non riescono a stabilire che sia lui. Un'auto di pattuglia lo becca davanti alla scuola media una settimana prima dell'omicidio, appena prima della fine delle lezioni, e lui non ha nessuna spiegazione che giustifichi la sua presenza. Diavolo, sono arri-
vato fino al punto di immettere il suo nominativo nel computer nazionale, ho chiamato la polizia nel New Jersey, per vedere se avevano qualcosa su di lui a Newark. Niente di immediato, purtroppo.» «Tranne che Joanie Shriver un bel giorno viene uccisa.» Brown sospirò. Il liquore era riuscito a spegnere una piccola parte della sua rabbia. «Esatto. Un bel giorno Joanie Shriver viene uccisa.» Cowart fissò il tenente di polizia. «Non mi sta dicendo tutto.» Brown annuì. «Era la migliore amica di mia figlia. Era anche mia amica.» Il giornalista annuì. «E...?» Brown proseguì in tono sommesso. «Suo padre. Era proprietario di quei negozi di utensilerie. Li aveva ereditati dal suo vecchio. Il quale mi aveva dato un lavoro dopo le ore di scuola. Era una di quelle persone che mettevano il colore della pelle per ultimo nella loro lista e questo in un momento in cui per altri era in cima. Si ricorda com'era la situazione in Florida nei primi anni sessanta? Marce e sit-in e croci in fiamme. E nel mezzo di tutta quella confusione, lui mi ha dato un lavoro. Mi ha aiutato quando sono andato all'università. E quando sono tornato dal Vietnam, mi ha indirizzato alla polizia. Ha fatto un paio di telefonate. Ha manovrato qualche filo. Ha chiesto un favore o due. Pensa che piccole cose come queste non ammontino a nulla? E suo figlio era mio amico. Lavorava nel negozio, al mio fianco. Dividevamo scherzi, problemi, prospettive future. Quel genere di cosa non succedeva troppo di frequente a quei tempi, sebbene probabilmente lei non possa saperlo. E anche questo significa qualcosa, signor Cowart, nell'equazione finale. E le nostre bambine giocavano insieme. E se ha una vaga idea di cosa questo significhi, bene, allora può capire perché ora dormo poco la notte. Dunque avevo un paio di debiti. E li ho ancora.» «Prosegua.» «Ha qualche idea di quanto si possa giungere a odiare se stessi per aver lasciato succedere qualcosa che non si poteva evitare più di quanto non si possa evitare il sorgere del sole o il montare delle maree?» Cowart guardò fisso davanti a sé. «Forse.» «Lo sa cosa vuol dire sapere, sapere perfettamente, con assoluta certezza, che sta per succedere qualcosa e non avere il potere di fermarlo? E poi, quando questo qualcosa succede, scoprire che ti ha strappato dalle braccia qualcuno che ami? Che ha spezzato il cuore di un vero amico? E non poter far nulla. Niente, dannazione!» Brown si alzò in piedi. Strinse un pugno nell'aria tra loro, come a strin-
gere tutta la furia che riecheggiava in lui. «Allora, ha capito, signor Cowart? Inizia a inquadrare?» «Penso di sì.» «Dunque, ecco il bastardo. Seduto sulla sedia con quel suo sorrisino dipinto sul volto. Mi deride. Lui sapeva, capisce. Pensava di non poter essere toccato. Bruce mi lancia un'occhiata, e io annuisco. Abbandono la stanza, e lascio che il bastardo le prenda. Pensa che abbiamo picchiato Robert Earl Ferguson per ottenere quella confessione? Be', ha perfettamente ragione. L'abbiamo fatto.» Brown batté le mani una volta, violentemente, e il suono parve a Cowart uno sparo. «Abbiamo usato la guida telefonica, proprio come ha detto il bastardo.» Lo sguardo dell'investigatore trafisse il giornalista. «Lo abbiamo pestato a più non posso. Ma il bastardo resisteva. Ci sputava e continuava a ridere. È un duro, se ne è reso conto? E molto più forte di quanto non sembri.» Brown inspirò profondamente. «Vorrei solo che l'avessimo fatto fuori, proprio allora.» L'investigatore strinse il pugno e fece finta di scaricarlo contro Cowart. «Dunque, se la violenza fisica non funziona, cosa rimane? Un pochino di pressione psicologica potrebbe farcela. Vede, a quel punto mi ero reso conto che lui non aveva paura di noi. Non importava quanto forte lo colpissimo. Ma di cosa aveva paura?» Brown si alzò di nuovo in piedi. Sollevò un pantalone. «Eccola, la maledetta pistola. Proprio come ha detto lui. Fondina da caviglia.» «È stata quella a farlo confessare?» «No» rispose Brown con fredda ferocia. «È stata la paura.» L'investigatore si abbassò all'improvviso, e con un solo, rapidissimo movimento liberò l'arma. La pistola parve saltargli in mano e lui la puntò direttamente alla fronte di Cowart. Con il pollice tirò indietro il cane, che produsse un piccolo, crudele scatto. «Così» mormorò. Cowart sentì un calore improvviso esplodergli in volto. «Paura, signor Cowart. Paura e insicurezza su fino a che punto un uomo possa impazzire dalla rabbia.» La piccola rivoltella scompariva nella stretta dell'investigatore, la cui figura era rigida dall'emozione. Si fece avanti, premendo la canna dell'arma sulla fronte di Cowart e mantenendovela per qualche secondo, fredda come il ghiaccio. «Voglio sapere» mormorò. «Non voglio aspettare.» Ritirò l'arma di
qualche centimetro, tenendola a breve distanza dal volto di Cowart. Il giornalista rimase immobile al suo posto. Dovette sforzarsi di distogliere lo sguardo dal buco nero della canna e di puntarlo sul poliziotto. «Sta per spararmi?» «Dovrei, signor Cowart? Non crede che la odi abbastanza per essere venuto a Pachoula con tutte le sue maledette domande?» «Se non lo facevo io, prima o poi l'avrebbe fatto qualcun altro.» La voce di Cowart era spezzata dalla tensione. «Avrei odiato anche quel qualcun altro. L'avrei odiato abbastanza per ucciderlo.» Il giornalista sentì una folle ondata di panico impadronirsi di lui. I suoi occhi si fissarono sul dito dell'investigatore, che si serrava sul grilletto. Credette di vederlo muoversi. "Oddio" pensò Cowart. "Lo farà." Per un attimo pensò che sarebbe svenuto. «Mi dica» ordinò Brown in tono glaciale. «Mi dica quello che voglio sapere.» Cowart poteva sentire il sangue defluirgli dal volto. Le mani, appoggiate in grembo, gli tremavano. L'autocontrollo scomparve in un istante. «Glielo dirò. Metta via la pistola.» L'investigatore lo fissò. «Lei aveva ragione, ha sempre avuto ragione! È questo che voleva sentire?» Brown annuì. «Ha visto» disse in tono tranquillo «non è così difficile far parlare la gente.» Cowart guardò il poliziotto. «Non sono io quello che lei vorrebbe uccidere» disse. Tanny Brown mantenne la posizione per qualche istante. Infine abbassò l'arma. «Giusto. Non è lei. O magari sì, ma non ancora.» Si sedette di nuovo e appoggiò la pistola sul bracciolo della poltrona, afferrando il bicchiere. Lasciò che il liquore prendesse il sopravvento sulla rabbia, espirando lentamente. «Ci è arrivato vicino, Cowart. Molto vicino.» Il giornalista si lasciò andare sul divano. «A quanto pare sta succedendo un po' con tutto.» Rimasero entrambi in silenzio per qualche istante, prima che l'investigatore riprendesse a parlare. «Non è questo di cui vi lamentate di continuo? Del fatto che la gente odia la stampa perché dà le brutte notizie, no? Ucci-
dere il messaggero, giusto?» «Sì. Tranne che di solito non lo si intende così maledettamente alla lettera.» Cowart liberò un rapido sospiro ed esplose in un'acuta risata di sollievo. Rimase pensieroso per qualche secondo. «Allora è così che succede, vero? Si punta quell'affare in faccia a qualcuno e le inibizioni contro l'autoincriminazione spariscono in un attimo.» «Non è nei testi ufficiali» replicò Brown. «Ma lei ha ragione. E ha sempre avuto ragione. Ferguson le aveva detto la verità. È così che abbiamo ottenuto la confessione. Solo, c'è un piccolo problema.» «Lo conosco, il problema.» I due uomini incrociarono gli sguardi. Cowart terminò la frase rimasta in sospeso tra loro. «Anche la confessione diceva la verità.» Il giornalista fece una pausa. «Lei lo diceva» aggiunse. «Lei ne era convinto.» Brown si lasciò andare pesantemente sulla poltrona. «Esatto» disse. Fece un gran respiro, annuendo con enfasi. «Non avrei mai dovuto permetterlo. Avevo troppa esperienza. Ne sapevo troppo. Sapevo cosa sarebbe successo quando la faccenda sarebbe arrivata negli ingranaggi del sistema. Ma ho lasciato via libera a un sacco di cose sbagliate. È come quando in auto arrivi su del fango scivoloso. Un minuto stai andando sicuro e veloce, il minuto dopo hai perso il controllo, sei in testa-coda e sbandi dappertutto.» Brown afferrò il suo bicchiere. «Ma vede, pensavo che potessimo cavarcela. Bobby Earl ha finito per essere il suo peggior testimone. Il suo vecchio avvocato non aveva idea di quello che stava facendo. Ha condotto il bastardo come in un valzer fino al braccio della morte, che era il suo posto, e con una dose minima di menzogne e di dichiarazioni inesatte. Allora ho pensato che sarebbe andata bene, capisce. Forse non avrei avuto altri incubi su Joanie Shriver...» «Ne so qualcosa anch'io, degli incubi.» «Poi è arrivato lei, con tutte le domande giuste, dannazione. E si è messo a rovistare tra tutti i piccoli errori, tra le più piccole menzogne. E ha visto cosa c'era dietro quella condanna, come se nemmeno ci fosse stata. Dannazione. E più lei aveva ragione, più io la odiavo. Doveva essere così, non capisce?» Prese una lunga sorsata di liquore e subito se ne riempì un altro bicchiere. «Ma perché ha ammesso che Ferguson era stato schiaffeggiato, la prima volta che l'ho intervistata? Voglio dire, così facendo mi ha aperto uno spiraglio...»
L'investigatore scrollò le spalle. «No, quella che ha aperto il vero spiraglio è stata l'esplosione di Bruce. Quando lei ha visto tanta frustrazione e tanta rabbia, mi sono reso conto che si era convinto che Brace avesse picchiato Ferguson, proprio come aveva detto il bastardo. E così, raccontandole una piccola verità, che cioè lo aveva schiaffeggiato, ho pensato di poter nascondere la verità più grossa. Una scommessa. Non ha funzionato. Ma ci è andata vicina.» Cowart annuì. «Come un iceberg» commentò. «Proprio» confermò Brown. «Tutto ciò che si vede è il bel ghiaccio bianco della cima. Non si vede il pericolo che sta sotto.» Cowart scoppiò a ridere; fu una risata sonora, assolutamente vuota di divertimento, una pura ondata liberatoria e di forza. «Solo un altro piccolo dettaglio.» L'investigatore sorrise di rimando e replicò veloce, sovrapponendosi alle parole del giornalista. «Vede, io so esattamente cosa le ha detto Blair Sullivan. Voglio dire, non lo so con sicurezza. Ma è sicuro come l'inferno che posso indovinare. E proprio quello è il piccolo dettaglio mancante, non è vero?» Il giornalista annuì. «Come aveva definito Bobby Earl?» «Un assassino.» «Be', penso che potrebbe aver ragione. Naturalmente potrebbe anche sbagliarsi. Non lo so. Le piace la musica, investigatore?» «Sicuro.» «Che genere?» «Soprattutto pop. Un po' di soul degli anni sessanta e di rock per rammentarmi di quando ero giovane. Le mie ragazze ridono di me. Mi definiscono antico.» «Mai sentito Miles Davis?» «Certo.» «Questo è uno dei miei preferiti.» Cowart si alzò in piedi e si avvicinò all'impianto stereo. Inserì il nastro nella piastra e si voltò verso l'investigatore. «Non le dispiace se ci limitiamo ad ascoltare la fine, vero?» Premette un bottone e un jazz struggente invase la stanza. Brown fissò il giornalista. «Cowart, che sta facendo? Non sono venuto qui per ascoltare della musica.» Cowart si lasciò cadere sul divano. «Sketches of Spain. Famosissimo. Chieda a qualsiasi esperto e tutti le risponderanno che si tratta di un pezzo
seminale di musica americana. Ti fa scivolare dentro i suoi ritmi e ti attraversa, dolce e rigoroso allo stesso tempo. Forse penserà che questo brano finisca delicatamente. Si sbaglia.» I fraseggi intrecciati dei fiati si affievolirono sempre più; poi, all'improvviso, al loro posto comparve l'aspra voce di Blair Sullivan. Alle prime parole dell'assassino, Brown scattò ritto sulla poltrona. Allungò il collo verso gli altoparlanti dello stereo, la schiena rigida, totalmente concentrato su quanto stava sentendo. «"E ora le dirò la verità sulla piccola Joauie Shriver... La perfetta piccola Joanie..." La voce dell'assassino era sarcastica, chiara, riecheggiante.» "...la numero quaranta" stava dicendo Cowart sul nastro. E la risata del condannato lacerò l'aria della stanza. Il giornalista e l'investigatore rimasero immobili seduti ai loro posti, lasciando che la voce di Sullivan li circondasse. Quando il nastro, giunto alla fine, sibilò e si fermò, i due non si mossero, fissandosi a vicenda. «Dannazione» mormorò Brown. «Lo sapevo. Figlio di puttana.» «Esatto» replicò Cowart. Brown scattò in piedi e scaricò un pugno sul palmo della mano. Dentro di sé sentiva la scintilla dell'energia, quasi le parole dell'assassino avessero reso elettrica l'atmosfera. Digrignò i denti e disse: «Ti ho beccato, bastardo. Ti ho beccato.» Cowart rimase seduto scompostamente sul divano e continuò a guardare il poliziotto. «Nessuno ha beccato nessuno» disse in tono sommesso, triste. «Cosa significa?» L'investigatore lanciò un'occhiata al registratore. «Chi altro lo sa?» «Soltanto lei e io.» «Non l'ha detto agli investigatori della contea di Monroe?» «Non ancora.» «Si rende conto che sta nascondendo delle prove decisive per un'indagine su un duplice omicidio? Si rende conto che è reato?» «Quale prova? Un assassino bugiardo e pervertito mi racconta una storia. Incolpa un altro uomo di un sacco di cose. A cosa si riduce? I giornalisti sentono questo genere di cose di continuo. Ascoltiamo, passiamo in rassegna, scartiamo. Mi dica: quale prova?» «La sua maledetta confessione. La descrizione delle morti della madre e del padre. Il modo in cui ha organizzato tutto. Una dichiarazione in punto di morte, proprio come ha detto lui, è ammissibile come prova.» «Ha mentito. Ha mentito a destra, a sinistra, sopra e sotto. Non penso
nemmeno che, alla fine, distinguesse più fra verità e finzione.» «Balle. Quella storia mi sembra maledettamente vera.» «Perché vuole che sia vera. Ma la consideri da un altro punto di vista. Supponga che le dica che per il resto dell'intervista ha inventato tutto. Ha rivendicato delitti che non potrebbe mai avere commesso. Ha dichiarato il falso in un sacco di occasioni. Era pomposo, egotista, voleva essere ricordato per le sue imprese. Diavolo, quasi quasi arrivava a dichiarare di aver preso parte all'assassinio di Kennedy e di sapere dov'è il corpo di Hoffa. Ora, sentendo tutte quelle storie mischiate una all'altra, non dubiterebbe anche lei che gli abbia detto la verità su uno o due piccoli omicidi?» Brown esitò. «No.» Cowart fissò l'investigatore. «D'accordo. Forse.» «E che mi dice di lui e di Bobby Earl? Dove veramente inizia il tradimento? Magari in questo modo ha voluto vendicarsi ai danni di Bobby Earl. Voglio dire, qual è il significato di tutto? E a questo punto è morto. Non glielo si può più chiedere, a meno di non voler fare un viaggetto all'inferno.» «Più che disposto.» «Anch'io.» L'investigatore fulminò Cowart con lo sguardo, ma subito l'espressione corrucciata scomparve dal suo volto. Annuì. «Credo di aver capito.» «Capito cosa.» «Perché per lei è così dannatamente importante credere che Bobby Earl sia ancora innocente. Capisco perché ha messo sottosopra casa sua. La sua stessa vita è andata un po' sottosopra quando ha sentito le parole di Sullivan, eh?» Cowart rispose con un gesto, come per dire che l'investigatore aveva rilevato una cosa più che ovvia. «Il premio. La reputazione. Il futuro. È una posta piuttosto alta. Magari preferirebbe che tutto finisse nel nulla, eh, signor Cowart?» «Non succederà» rispose lui in tono sommesso. «No che non succederà, vero? Potrà anche chiudere gli occhi di fronte a tutto, ma continuerà a vedere quel povero corpicino grondante di morte nella palude, non è così? Non importa quanto stretti terrà chiusi gli occhi.» «Esattamente.» «Dunque adesso anche lei ha un debito, Cowart.» «Sembra proprio di sì.»
«Ha bisogno di raddrizzare le cose? Di rimettere in ordine il mondo?» Cowart non aveva bisogno di rispondere. Si aprì in un sorriso triste e prese un'altra lunga sorsata di liquore. Fece cenno a Brown di sedersi di nuovo. L'investigatore si lasciò cadere sulla poltrona, ma rimase sul bordo, teso, quasi si tenesse pronto a balzare in piedi. «D'accordo» disse il giornalista. «È lei lo specialista. Cosa farebbe per prima cosa? Andrebbe a trovare Bobby Earl?» Brown rifletté attentamente. «Forse. O forse no. La volpe sfuggirà alla trappola, a patto che non sia predisposta alla perfezione.» «Se c'è una trappola da predisporre. Se lui è veramente la volpe.» «Be'» replicò Brown con calma «Sullivan ha detto un paio di cose che possiamo controllare, su a Pachoula. Magari altre quattro chiacchiere con la nonnetta, un'occhiata intorno a casa sua. Sullivan ha detto che ci è sfuggito qualcosa. Andiamo a vedere se stava dicendo la verità. Forse potremmo iniziare da lì, dallo stabilire qual è la verità.» Cowart scosse lentamente il capo. «Certo. Tranne che anche se arriviamo li e davanti al caminetto troviamo una bella serie di foto che mostrano Ferguson mentre ammazza la ragazzina, non ci potremo far niente...» Puntò il dito verso Tanny Brown. «Non può essere più toccato, non a termini di legge. Lo sa che non riuscirà più a incriminarlo. Mai più. Non con la confessione, né con tutto il resto. Le acque non sono più limpide. Non succederà più niente, in nessuna aula di tribunale. Cowart fece un gran respiro.» E un'altra cosa. Quando ci faremo vedere lassù, la vecchia nonna si renderà conto che c'è qualcosa che non va. E non appena lo saprà lei, lo saprà anche lui. Brown annuì ma rispose secco. «Voglio comunque una risposta.» «Anch'io» dichiarò Cowart e quindi proseguì. «Ma il caso della contea di Monroe. Be', se è stato lui... e sto solo dicendo se... se è stato lui, lo potrebbe incastrare su quello.» Fece una pausa, quindi si corresse. «Lo potremmo incastrare su quello. Lei e io.» «E questo rimetterebbe le cose a posto? Ricacciarlo nel braccio della morte e ricominciare una nuova vita? Lo crede veramente?» «Forse. Lo spero.» «Speranza» commentò l'investigatore. «Non ci ho mai creduto troppo. Come fortuna e preghiera. E comunque» proseguì scuotendo il capo «stesso problema. Un bugiardo sostiene che è stato fatto un accordo. Ma l'unico elemento corroborante di una tale affermazione è un duplice omicidio nella contea di Monroe. Dunque, pensa forse che potremmo trovare l'arma del
delitto addosso a Bobby Earl? O che magari ha usato una carta di credito per pagare il biglietto aereo e l'auto a noleggio, così da darci la possibilità di stabilire dov'era il giorno dell'omicidio? Crede che si sia fatto vedere da qualcuno? O che abbia chiacchierato con qualcun altro? Pensa che sia così stupido da aver lasciato impronte o capelli o qualche altra maledetta prova che i suoi cari amici del dipartimento di polizia della contea di Monroe siano disposti ad allungarle senza fare domande? Non crede che abbia imparato abbastanza, la prima volta e che stavolta abbia fatto tutto per bene?» «Non so. Non so nemmeno se sia stato lui.» «Se non è stato lui, allora chi diavolo è stato? Pensa che Blair Sullivan abbia raggiunto qualche altro accordo in galera?» «So soltanto una cosa. Fare accordi, imporre giochetti psicologici, manipolare, è tutto quello per cui Sullivan viveva.» «E quello per cui è morto.» «Esatto. Forse il suo ultimo accordo consisteva proprio in questo.» Brown si rilassò sulla poltrona. Prese la rivoltella e se la rigirò tra le mani, passando un dito sul metallo dai riflessi azzurrini. «Si fermi pure, Cowart. Continui a bloccarsi alla sua maledetta oggettività. Non importa quanto stupido la faccia sembrare.» Cowart avvertì un subitaneo insorgere di rabbia. «Non così dannatamente stupido da picchiare un sospetto di modo che un bel giorno possa andarsene come se niente fosse.» Fra i due uomini calò un breve istante di silenzio. Quindi l'investigatore riprese. «E poi c'è quell'altra cosetta sul nastro, giusto? Quando Sullivan dice: "Qualcuno esattamente come me..."» Rivolse al giornalista un'occhiata severa. «Non le ha fatto venire un po' di pelle d'oca, Cowart? Cosa crede che significhi?» L'investigatore parlava a denti stretti. «Non crede sia una domanda cui dovremmo rispondere?» «Sì» rispose Cowart, lasciando che l'amarezza venasse il suo tono di voce. Di nuovo il silenzio imprigionò i due uomini. «D'accordo» disse infine Cowart. «Ha ragione. Muoviamoci.» Rivolse un'occhiata al poliziotto. «Abbiamo un accordo?» «Che tipo di accordo?» «Non so.» Brown annuì. «In tal caso, sospetto di sì» rispose. I due uomini si guardarono. Nessuno dei due credeva a una parola dell'altro. Entrambi sapevano di aver bisogno di scoprire la verità su quanto era successo. Il problema, si resero conto, era che ognuno dì loro aveva bi-
sogno di una verità diversa. «Che facciamo con gli investigatori di Monroe?» domandò Cowart. «Lasciamo che facciano il loro lavoro. Almeno per ora. Ho bisogno di vedere cos'è successo laggiù per conto mio.» «Torneranno. Penso di essere l'unico elemento in loro possesso.» «Allora vedremo. Ma penso che prima torneranno a Starke. È quello che farei io se fossi al loro posto.» Indicò il nastro. «E se non sapessi dell'esistenza di quello.» Il giornalista annuì. «Qualche minuto fa mi stava accusando di non rispettare la legge.» Brown si alzò in piedi e fissò il giornalista con una lunga, intensa occhiata. Cowart ricambiò il suo sguardo. «Credo proprio che verranno infrante altre leggi prima che questa storia sarà finita» disse il poliziotto in un filo di voce. 15 Contrattacco Un'esplosione di calore sembrava collegare i pallidi azzurri dell'oceano e del cielo. Li avvolgeva in un abbraccio viscoso, risucchiando il respiro dai loro polmoni. I due inquieti uomini camminavano insieme a lenti passi, ognuno con i suoi pensieri, mentre i loro piedi sollevavano piccole nuvole di polvere grigio-bianca, scricchiolando sulla distesa di frammenti di conchiglie e di coralli che formava Tarpon Drive. Nessuno dei due considerava l'altro un alleato; entrambi si sapevano coinvolti in un processo che richiedeva l'apporto di tutti e due, e che era più sicuro se affrontato insieme. Cowart aveva parcheggiato l'auto accanto alla casa nella quale aveva trovato i corpi. Quindi avevano preso a percorrere la strada di porta in porta, armati di una fotografia di Ferguson sottratta alla biblioteca del Journal. Alla terza casa avevano ormai stabilito un copione: Tanny Brown mostrava il suo distintivo, Matthew Cowart si presentava. Quindi allungavano la fotografia verso gli interpellati, con la semplice domanda: «Ha mai visto quest'uomo prima d'ora?» Una giovane madre ancora nella sua leggera camicia da notte giallina, i capelli che le ricadevano in riccioli biondi sulla fronte bagnata di sudore, aveva zittito il figlio in lacrime, l'aveva preso in braccio e aveva scosso il capo. Due ragazzini, al lavoro su un motore da fuoribordo smontato in mille pezzi nel cortile di un'altra casa, avevano studiato l'immagine con un'at-
tenzione mai vista in alcuna classe scolastica, ma avevano raggiunto la stessa negativa conclusione. Un enorme uomo dal classico stomaco del bevitore di birra, vestito con un paio di jeans striati di olio e un gilet di denim con un distintivo della Harley Davidson, si era rifiutato di parlare con loro. «Non parlo con gli sbirri» aveva detto. «Non parlo con i giornalisti. E non ho visto niente di cui valga la pena di parlare.» Quindi aveva sbattuto loro la porta in faccia, facendo vibrare nel caldo il sottile alluminio dell'intelaiatura. Avevano proseguito, passando metodicamente in rassegna la strada. «Chi è 'sto tizio?» aveva chiesto qualcuno. «Perché volete saperlo?» Cowart si rese presto conto che Brown era esperto nel rigirare tali domande a suo favore. «Ha qualcosa a che fare con gli omicidi della casa in fondo alla strada?» gli chiedeva qualcuno. E lui subito ribatteva con un'altra domanda: «Sa dirci qualcosa su quello che è successo?» Ma la domanda veniva accolta da sguardi vacui e decisi scuotimenti di teste. Brown badava anche a chiedere a tutti se gli uomini dello sceriffo li avessero già interrogati. Tutti risposero di sì. Tutti si ricordavano di una giovane donna dai modi controllati e sicuri che li aveva interpellati lo stesso giorno in cui i corpi erano stati ritrovati. Ma nessuno aveva visto o sentito nulla di strano. «Hanno tutto sotto controllo» brontolò Tanny Brown. «Chi?» «I suoi amici di Monroe. Hanno fatto quello che avrei fatto anch'io.» Cowart annuì. Abbassò lo sguardo sulla fotografia nelle sue mani, ma si rifiutò di dare forma ai pensieri che parevano annidarsi appena dietro al lucore del giorno. Il sudore scuriva il colletto della camicia dell'investigatore. «Romantico, eh?» grugnì. Erano in piedi di fronte a un cancelletto basso e chiuso da una catena, che proteggeva una roulotte di uno sbiadito color acquamarina, alla porta della quale campeggiava un incongruo fenicottero rosa, attaccato con del nastro adesivo grigio. Il sole creava riflessi penetranti sui lati di acciaio della roulotte, facendo brillare l'intera struttura. Un impianto per l'aria condizionata, appeso a una delle finestre, lottava contro la temperatura, vibrando e sibilando ma non dandosi per vinto. A circa dieci metri di distanza, legato a un palo piantato di sbieco sul terreno di pietre, un pit-bull marrone chiazzato puntò i due uomini, circospetto. Matthew Cowart notò che
il cane teneva le fauci serrate, a dispetto del gran caldo che avrebbe dovuto fargli pendere la lingua. Il cane pareva all'erta, ma non terribilmente preoccupato; come se fosse per lui inconcepibile che qualcuno osasse mettere in questione la sua autorità sul terreno, o che tentasse di passargli accanto. «In che senso?» rispose Cowart all'osservazione dell'investigatore. «Il lavoro del poliziotto.» Brown lanciò un'occhiata al cane e quindi alla porta. «Dovrei far fuori quella bestiaccia. Mai visto cosa può fare uno di quelli? Cosa può combinare a un bambino?» Cowart annuì. I pit-bull erano un punto di forza della Rorida. Nella parte meridionale, i trafficanti di droga li usavano come cani da guardia. I "bravi ragazzi del Sud" che vivevano attorno al lago Okeechobee li allevavano in luride fattorie illegali, addestrandoli ai combattimenti. I padroni di casa di dozzine di zone residenziali, terrorizzati dai ladri, li acquistavano e poi fingevano sorpresa quando i cani sbranavano il figlio dei vicini. Una volta lui aveva scritto un articolo, dopo essere rimasto a lungo seduto nell'oscurità di una stanza di ospedale ad ascoltare le parole di un dodicenne pietosamente bendato, parole che erano uscite smorzate dal dolore e dagli approssimativi risultati della plastica facciale. Il suo amico Hawkins aveva tentato di incriminare il padrone del cane per aggressione a mano annata, ma non se ne era fatto niente. Prima che potessero allontanarsi dal cancello, la porta della roulotte si aprì e ne uscì un uomo di mezz'età, una mano a riparare dal sole gli occhi puntati su di loro. Indossava una maglietta bianca e un paio di pantaloni color cachi che non vedevano una lavatrice da mesi. Era stempiato, e i fili spettinati dei capelli sembravano incollati al capo; il viso era sciupato, paonazzo, la barba non rasata. Si avvicinò a loro ignorando il cane, che si girò attorno, agitò un paio di volte la coda colpendo il terreno e si rimise a osservare la scena. «Desiderate?» Tanny Brown mostrò il suo distintivo. «Solo una domanda o due.» «Su quei vecchi che hanno trovato con la gola tagliata?» «Esatto.» «Degli altri poliziotti hanno già fatto domande. Non so un cazzo.» «Vorremmo mostrarle una fotografia e chiederle se per caso ha visto questa persona nei paraggi. Nelle ultime tre settimane, o anche prima.» L'uomo annuì, rimanendo a qualche metro di distanza dal cancelletto. Cowart gli allungò la fotografia di Ferguson. L'uomo la fissò e infine scosse il capo.
«Lo guardi bene. È sicuro?» L'uomo rivolse a Cowart un'occhiata d'irritazione. «Sicuro che sono sicuro. È una specie di sospetto?» «Soltanto qualcuno che stiamo controllando» rispose Brown. Recuperò la fotografia. «Non si è fatto vedere nei paraggi o magari a bordo di un'auto a noleggio?» «No» rispose l'uomo. Sorrise, evidenziando una batteria di denti anneriti e di buchi. «Visto nessuno. Nessuno che sorvegliava il posto. Nessuno in nessuna auto a noleggio. E di sicuro, tu sei l'unico negro che ho mai visto nei paraggi.» L'uomo sputò, scoppiò in una risata sarcastica e aggiunse: «Ti assomiglia. Negro.» Pronunciò l'ultima parola in un modo particolare, allungando le due sillabe in una sorta di aspra cantilena, imbevendo la parola di scherno, trasformandola in un insulto. Quindi si voltò, sempre sorridendo e chiamò il cane con un fischio leggero. La bestia scattò immediatamente sulle quattro zampe, il pelo ritto sulla schiena, le zanne scoperte. Involontariamente Cowart fece un passo indietro, rendendosi conto che probabilmente l'uomo passava più tempo e dedicava più attenzione alla cura della bocca del cane che non alla propria. Il giornalista arretrò di un altro passo prima di notare che l'investigatore non si era mosso di un centimetro. Dopo qualche istante riempito soltanto del ringhio continuo e profondo del cane, il poliziotto si allontanò e in silenzio fece ritorno sulla strada. Cowart dovette accelerare il passo per stargli a fianco. Brown puntò verso l'auto del giornalista. «Andiamocene» disse. «C'è ancora qualche casa.» «Andiamocene» ripeté Brown. Si fermò e indicò con un largo gesto le catapecchie e le roulotte. «Il bastardo aveva ragione.» «In che senso?» «Un uomo di colore alla guida di un'auto su questa strada nel bel mezzo della giornata sarebbe risultato evidente come un maledetto fuoco d'artificio del Quattro di Luglio. E specialmente un giovane uomo di colore. Se Ferguson è stato qui, ci è venuto di notte, strisciando nel buio. Potrebbe anche averlo fatto, forse. Ma sarebbe stato un rischio troppo grosso.» «Che rischio avrebbe corso di notte? Nessuno l'avrebbe visto.» Il poliziotto si appoggiò di schiena alla fiancata dell'auto. «Andiamo, Cowart, ci pensi un attimo. Ha un indirizzo e un lavoretto da fare. Un lavo-
retto violento. Deve andare in un posto dove non è mai stato prima. Trovare una casa che non ha mai visto. Entrare in casa e ammazzare due persone che non conosce, e quindi uscire, senza lasciare una traccia e senza attirare l'attenzione. Grosso rischio. Ci vuole un sacco di fortuna. No, prima gli conviene fare qualche compitino. Deve rendersi conto di dove dovrà andare, dei pericoli che potrebbero presentarsi. E come può farlo senza essere visto? Nessuno di quelli che vivono quaggiù si sposta mai. Diavolo, metà di loro sono pensionati che starebbero seduti davanti a casa con qualsiasi temperatura, e l'altra metà non ha mai mantenuto lo stesso lavoro per più di cinque, dieci minuti. Non hanno molto altro da fare che guardare.» Cowart scosse il capo. «Però succede» obiettò. «Succede cosa?» «Voglio dire, può succedere. Supponga che Sullivan abbia tracciato una piantina. Tutte le informazioni di cui aveva bisogno.» Brown fece una pausa. «Forse» convenne. «Ma sarei portato a pensare che, dopo tre anni nel braccio della morte, Ferguson non fosse entusiasta di fare qualcosa che avrebbe potuto ricacciarlo dritto in galera.» Il giornalista trovò il ragionamento logico. Era tuttavia riluttante a scartare la sua idea. «E perché dev'essere per forza venuto nell'ultima settimana? Magari è venuto un anno prima. Come prima cosa, appena uscito di prigione. Appena il baccano si placa e la sua faccia rimane lontana dai giornali e dalla televisione per un paio di settimane. Viene giù, assolutamente innocente, si fa un giretto attorno al posto. Sa che sono due anziani. Sa che non cambierà niente. Si fa un'impressione del luogo, di quello che dovrà fare. Magari bussa anche alla porta, cerca di vendergli qualche enciclopedia o un abbonamento a qualche periodico. Riesce a entrare il tempo sufficiente a darsi una bella occhiata in giro prima che lo caccino fuori. E se ne va. Non importa chi lo vede, perché sa che, quando ritornerà, il suo volto sarà già stato dimenticato.» Brown fece un cenno di assenso con il capo, fissandolo. «Non male, per un giornalista» commentò. «Forse. È un'ipotesi da considerare.» Lasciò che un accennato sorriso gli si dipingesse agli angoli della bocca, quindi proseguì: «Ma naturalmente non è questo che vorrebbe sentire, vero? Lei vorrebbe scoprire che lui non poteva farlo. E non come potrebbe averlo fatto, giusto?» Cowart accennò a una risposta, ma si fermò. «Ed eccole un'altra ideuzza, Cowart» continuò Brown. «Questa le piacerà, perché fa sembrare innocente il suo uomo. Supponga, solo per un atti-
mo, che Blair Sullivan abbia veramente organizzato i due omicidi, come ha detto. Ma non con Bobby Earl. Con qualcuno di totalmente diverso. E quello di cui ha voluto sincerarsi è che nessuno andasse a guardare sotto il sasso giusto per trovare il rifiuto umano con il quale aveva raggiunto l'accordo. Perché non raccontarle che Mister Innocenza era l'assassino? Sullivan sapeva che prima o poi qualcuno sarebbe andato su e giù per questa stradina con in mano una fotografia di Bobby Earl. E se il nome di Bobby Earl fosse finito ancora sul giornale, sarebbe servito da segnale per chi ha veramente commesso i delitti, che così avrebbe avuto tutto il tempo di nascondersi. Un altro po' di confusione supplementare.» L'investigatore fece una pausa. «Ha presente quant'è importante risolvere velocemente un caso di omicidio, Cowart? Prima che il tempo inizi a erodere i fatti e le prove, finché non avanza niente di niente?» «So che è importante muoversi rapidamente. Ma è quello che avete fatto a Pachoula e guardi cos'è successo.» Brown si accigliò. Cowart sentiva il sudore colargli dalle ascelle, solleticandogli il costato. «Tutto è possibile» concluse. «Esatto.» Brown si raddrizzò e si passò una mano sulla fronte, quasi cercasse di cacciare via i pensieri che vi si annidavano sotto. Fece un profondo sospiro. «Voglio dare un'occhiata al luogo del delitto» disse. S'incamminò lungo la stradina, a passo svelto, come se la velocità gli consentisse di sfuggire al caldo che si era raccolto attorno a loro. Raggiunto il numero tredici, il poliziotto esitò, volgendosi di nuovo verso Cowart. «Be', almeno aveva un vantaggio.» «Quale?» «Guardi la casa, Cowart. È un ottimo posto per ammazzare qualcuno.» Con un gesto circolare del braccio indicò l'area di fronte a loro. «Distante dalla strada. Nessun vicino vero e proprio. Vede il modo in cui la casa è disposta? Di notte non c'è alcuna possibilità che qualcuno possa vedere cosa sta succedendo all'interno, a meno che non vi si trovi proprio di fronte. E vicino, anche. Pensa che Mister Denti Marci laggiù porti a spasso il cane, di notte? Neanche per idea. Ci scommetterei lo stipendio settimanale che non appena cala il sole, e tutti hanno avuto modo di farsi un bicchierino o due, le televisioni si accendono e gli unici per strada rimangono quei ragazzini. Tutti gli altri sono o ubriachi davanti alla tivù a guardare le repliche di Dallas, oppure stanno pregando per il giorno del giudizio. Sup-
pongo non sapessero che fosse così vicino.» Cowart lasciò che lo sguardo scorresse sulla facciata della casa. Si figurò quel luogo nell'oscurità e concluse che Brown aveva ragione. Vi sarà stata una subitanea esplosione di voci, si disse, come se una coppia si fosse messa a litigare. Forse si sarà persa nel fracasso dei televisori tenuti troppo alti di volume. Bottiglie rotte, litigi alcolici, un cane che abbaia. E, anche se qualcuno ha effettivamente udito un'auto ripartire veloce, ha probabilmente concluso che si trattava di qualche giovane che tentava di combattere l'eterna noia con qualche gesto sconsiderato. «Un ottimo posto per uccidere» ripeté Brown. La casa era circondata dal nastro giallo della polizia. L'investigatore vi passò sotto. Cowart lo seguì verso il retro. «Di là» disse Brown, indicando la porta di servizio scassinata. «Ma è sigillata.» «Fanculo al sigillo.» Spalancò la porta di scatto, spezzando il nastro giallo. Cowart esitò, quindi entrò in casa alle sue spalle. In cucina aleggiava un odore di morte, che si mischiava con il caldo conferendo al locale un'atmosfera sepolcrale. Tutto intorno al piccolo spazio vi erano i segni delle indagini di polizia; la polvere per il rilevamento delle impronte digitali striava il tavolo e le sedie. Segni e frecce tracciate con il gesso mostravano le posizioni. Ognuna delle chiazze di sangue era rimasta sul pavimento, sebbene dei campioni ne fossero evidentemente stati asportati. Cowart rimase a guardare mentre Brown raccoglieva e valutava ogni piccolo segno. Tanny Brown procedette secondo una sorta di inventario interiore. Dapprima, nella sua mente, rivide le squadre per la raccolta e l'analisi delle prove concentrate sulla scena del delitto, i compitini sulla morte. S'inginocchiò accanto a una delle macchie di sangue, ormai quasi nere a contrasto del chiaro linoleum del pavimento. Allungò il braccio e vi passò sopra un dito, sentendo la scivolosa e friabile consistenza del sangue rappreso. Rimettendosi in piedi si figurò i due vecchi, legati e imbavagliati, in attesa del loro momento. Per un istante si chiese quante volte si fossero seduti agli stessi posti, a colazione o a cena, o per parlare della Bibbia, o per qualsiasi altra cosa che per loro rappresentasse la quotidianità. Era una delle cose orribili del lavoro nella squadra omicidi; il fatto che il mondo banale, prosaico in cui viveva la maggior parte della gente venisse improvvisamente trasformato in qualcosa di malvagio. Che i luoghi che la gente
credeva sicuri divenissero di colpo letali. In guerra, di tutte le ferite che aveva curato, quelle causate dalle mine erano state quelle che aveva detestato di più. Non era tanto la ferocia della loro azione, quanto il modo stesso in cui colpivano. Metti giù il piede, fai un passo, e vieni tradito. Se sei fortunato, ti limiti a perdere un piede. Sapeva, questa gente, che stava vivendo su un campo minato? Si volse verso Cowart. "Lui almeno questo lo capisce" si disse. "Perfino la terra è poco sicura." Brown uscì dalla cucina, lasciando Cowart in piedi accanto al luogo del delitto. Attraversò a passi veloci la piccola abitazione, facendo un rapido inventario delle vite che, lì dentro, erano andate in decomposizione. Una vita povera condotta aggrappandosi a Gesù e aspettando la chiamata della signora Morte. Probabilmente pensavano di essere pedinati dalla vecchiaia, ma in realtà si trattava di qualcosa di ben diverso. In camera da letto si fermò di fronte a un piccolo armadio, osservando sorpreso le file di scarpe e di pantofole allineate sul pavimento, come un reggimento in parata. Suo padre avrebbe fatto lo stesso; agli anziani piace che le cose stiano al loro posto. In un cestino sistemato in un angolo vi erano del lavoro a maglia, alcuni gomitoli di lana e qualche lungo ferro. Ne fu sorpreso: su cosa si potrebbe lavorare quaggiù? Un maglione? Ridicolo. Sulla cassettiera scorse un paio di oggettini di gesso, due uccellini azzurri, le bocche spalancate in un canto silenzioso. "Voi avete visto" si rivolse mentalmente agli uccellini. "Chi è entrato?" Quindi scosse il capo all'ironia di quella situazione. I suoi occhi proseguirono a percorrere la stanza. "Una cameretta con poche comodità", pensò. "Chi vi ha uccisi?" Quindi fece ritorno in cucina, dove trovò Cowart ancora in piedi, immobile, lo sguardo fisso sul pavimento macchiato di sangue. Il giornalista si voltò. «Scoperto qualcosa?» domandò. «Sì.» «Di che si tratta?» chiese Cowart, sorpreso ma ansioso di sapere. «Ho scoperto che mi piacerebbe morire in un luogo solitario e riservato, così da evitare che la gente venga a ispezionare le mie cose» replicò Tanny Brown. Cowart adocchiò una scritta tracciata in gesso sul pavimento. Diceva "Camicia da notte". «Cos'è?» domandò Brown. «La vecchia era nuda. La sua camicia da notte era tutta ripiegata e ordinata, come se stesse per andarsene a letto invece che essere uccisa.»
Brown s'irrigidì. «Ripiegata?» Cowart annuì. Il poliziotto fissò il giornalista. «Ricorda il luogo dove abbiamo trovato Joanie Shriver?» «Sì.» Cowart rivide la radura sul limitare della palude. Si rese conto che gli era stata fatta una domanda, ma non era sicuro di cosa si trattasse. Nella sua mente percorse la radura; si rammentò della chiazza di sangue nel punto in cui la ragazzina era stata uccisa, del modo in cui i raggi di sole penetravano attraverso l'intreccio degli alberi e dei viticci. Camminò mentalmente fino alla riva della nera, immobile palude e scrutò sotto le radici intrecciate che avevano nascosto il corpo di Joanie Shriver; ripercorse il tratto che i soccorritori avevano compiuto con lei in braccio, fino al punto in cui l'avevano posata a terra; e finalmente rammentò cosa avessero trovato al margine del luogo del delitto. I suoi vestiti. Ripiegati con cura. Era stato quel tipo di dettaglio che aveva occupato uno spazio prominente nel suo primo servizio, una piccola, sottile ironia che aveva reso il momento più vero nella prosa giornalistica, implicando l'idea che l'assassino avesse in sé una strana ossessione per l'ordine e rendendolo così in qualche modo più terrificante e al tempo stesso più concreto. Si volse verso l'investigatore. «Questo dimostra qualcosa.» Brown, in preda a una furia improvvisa, lasciò che la rabbia riecheggiasse in lui per un istante, prima di reprimerla e di allontanarla. «Potrebbe» disse con uno sforzo. «Vorrei che dimostrasse qualcosa.» Cowart indicò la casa con un gesto. «C'è qualcos'altro che potrebbe suggerire che...» «No. Nulla. Forse qualcosa che ci parla di chi è stato ucciso, ma niente che ci racconta di chi ha ucciso. Eccetto quel particolare.» Prima di proseguire rivolse un'occhiata a Cowart. «Sebbene immagino che lei la voglia ancora considerare una coincidenza.» Detto questo, passò sopra alle chiazze di sangue e uscì, senza guardarsi alle spalle, consapevole che la luce del sole non illuminava nulla di importante. I due uomini si allontanarono in silenzio dalla scena del delitto e tornarono verso l'auto. «Si è fatta un'opinione professionale?» domandò Cowart. «Sì.» «Ha voglia di mettermene al corrente?»
Il poliziotto esitò prima di rispondere. «Sa, Cowart, ogni tanto si arriva su certe scene del delitto e ancora si possono sentire le emozioni, aleggianti nella stanza. Rabbia, odio, panico, paura, qualsiasi cosa, sono ancora nell'aria, come fossero odori. Ma là dentro, cosa c'era là dentro? Soltanto qualcuno che ha fatto un lavoretto, come me o come lei o come il postino che si trovava qui quando lei ha trovato quei due maledetti cadaveri. Chiunque sia entrato in quella casa e abbia ucciso quei due vecchi di sicuro sapeva una cosa. Sapeva uccidere. Non era spaventato. E non era avido. Pensava soltanto a una cosa. E proprio quella cosa è poi successa, non trova?» Cowart annuì. Brown si accostò al lato sinistro dell'auto e aprì la portiera. Ma prima di mettersi al volante, lanciò un'occhiata a Cowart da sopra il tettuccio. «Ma ho forse visto qualcosa, là dentro, che mi ha detto con sicurezza che è stato Ferguson a uccidere quei due?» Scosse il capo. «Tranne che chiunque abbia commesso quest'omicidio ha perso tempo a ripiegare dei vestiti e certo ha dimostrato di essere un esperto dell'uso del coltello. E io conosco un uomo cui piacciono i coltelli, vero?» Si allontanarono dalle Upper Keys, lasciarono la contea di Monroe e rientrarono in quella di Dade, cosa che diede a Cowart la sensazione di ritrovarsi a casa. Superarono un enorme cartello che dirigeva i turisti verso la Shark Valley e l'Everglades National Park, proseguirono verso Miami, finché Brown non suggerì di fermarsi a mangiare un boccone. Il tenente investigatore diede il veto a numerosi fast-food, finché non raggiunsero l'area di Perrine-Homestead. A quel punto uscì dall'autostrada e si diresse lungo una serie di squallide stradine, tutte buche e cunette. Cowart osservò le case che sfuggivano loro di fianco: piccole, squadrate costruzioni di mattoni di cemento a un piano, sulle quali le finestre di fronte si aprivano come tagli affilati di rasoio, e dai cui tetti rossi spuntavano grosse antenne televisive. I cortili di fronte erano tutti di terra battuta, qua e là striata del verde della sanguinella. Una buona media di abitazioni aveva davanti la classica automobile sui ceppi, circondata dai pezzi di ricambio. I pochi bambini che giocavano per strada erano di colore. «Mai stato in questa parte del paese, Cowart?» «Sicuro» rispose il giornalista. «Qualche delitto su cui scrivere?» «Esatto.»
«Non verrebbe fino a qui per scrivere di ragazzi che ottengono borse di studio o di genitori che fanno due lavori e che tirano su bene i propri figli.» «Scriviamo anche articoli del genere.» «Ma non spesso, scommetto.» «No, è vero.» Lo sguardo del poliziotto percorse rapidamente la comunità che gli si stendeva davanti. «Sa, ci saranno un centinaio di posti così, in Florida. Forse un migliaio.» «Così come?» «Posti che sfiorano sia la povertà sia la stabilità economica. Nemmeno così fortunato da essere classificato come proletariato. Comunità nere cui non è stato consentito di svilupparsi né di crollare, cui è stato soltanto consentito di esistere. In tutte le famiglie lavorano entrambi i genitori, lo sa, solo che entrambi i salari sono piuttosto bassi. Il tizio che lavora nella nettezza urbana e la moglie che fa l'infermiera a domicilio. È qui che vengono per iniziare a rincorrere il sogno americano. Case di proprietà. Scuole locali. Qui si sentono al sicuro. Non hanno affatto intenzione di bruciare le tappe. Vogliono solo sopravvivere, magari migliorando le cose di un poco. Sindaco di colore. Consiglio comunale di colore. Il capo della polizia è probabilmente di colore e così la dozzina di ragazzi che lavorano per lui.» «Come lo sa?» «Mi fanno offerte. Poliziotto in carriera. Capo della squadra omicidi di una contea. Nelle forze dell'ordine dello Stato posso anche non essere famoso, ma almeno sono conosciuto, non so se mi spiego. Dunque vado un po' in giro per lo Stato. Specialmente in piccoli posti come Perline.» Proseguirono nel distretto residenziale per alcuni isolati. Cowart vedeva una terra secca e poco fertile. "Nella Rorida del sud cresce quasi tutto" pensò. Lascia un pezzo di terra al suo destino e in men che non si dica lo ritrovi ricoperto di viticci e di selci e di piante selvatiche. Ma non qui. Vi era, nell'aria, una polverosità che sembrava appartenere a qualche posto lontano, come l'Arizona, o il New Mexico, o qualche zona del sud-ovest. Un posto più vicino al deserto che alla palude. Brown fece svoltare l'auto in un largo viale e quindi si fermò. Si trovavano di fronte a un piccolo centro commerciale che si affacciava sulla strada. Su un lato vi era un enorme grande magazzino di prodotti alimentari all'ingrosso, sull'altro un cavernoso negozio di giocattoli a buon mercato. In mezzo vi erano due dozzine di negozi più piccoli, fra i quali un solo ristorante. «Eccoci» disse il poliziotto. «Almeno il cibo sarà fresco e non cotto se-
guendo una formula scoperta negli uffici di qualche grande azienda.» «Allora è già stato qui?» «No, ma sono stato in decine di posti come questo. Dopo un po', si è in grado di riconoscere il genere.» Sorrise. «È tutto lì il segreto dell'essere un poliziotto, ricorda?» Cowart guardò il negozio di giocattoli sul lato più distante del centro commerciale. «Io ci sono già stato. Un uomo ha rapito una donna e una bambina mentre uscivano da quel negozio. Le ha prese su a caso, appena fuori della porta. Se le è portate in giro in macchina per tutta la giornata, fermandosi di tanto in tanto per molestare la donna. Un agente di pattuglia, di ritorno a casa dopo il turno di giorno, ha fermato l'auto, pensando che ci fosse qualcosa di sospetto. E ha salvato la vita, a lei e alla bambina. Gli ha sparato quando quello ha fatto per estrarre un coltello. Un colpo. Al cuore. Un colpo fortunato.» Brown si fermò e seguì lo sguardo di Cowart, concentrato sul negozio di giocattoli. «Stavano comprando dei regalini per la festa del secondo compleanno della piccola» disse il giornalista. «Palloncini rossi e blu e piccoli cappelli bianchi a cono decorati con tanti piccoli clown. Avevano ancora la borsa quando sono state salvate.» Rammentò di aver visto la borsa stretta nella mano libera della donna. L'altra stringeva la sua bambina, mentre entrambe venivano condotte su un'ambulanza. Le avevano buttato una coperta sulle spalle, sebbene fosse maggio e facesse un caldo opprimente. Un crimine come quello portava un gelo tutto suo. «Come mai l'agente lo ha fermato?» domandò Brown. «Perché il conducente si comportava in modo sospetto. Sgusciava. Cercava di evitare di dare nell'occhio.» «Su che pagina è stato pubblicato l'articolo?» Cowart esitò. «Prima pagina» rispose poi. «Sotto la piega.» L'investigatore annuì. «Lo so io perché l'agente ha fermato quell'auto.» Parlava con molta calma. «Donna bianca. Uomo nero. Giusto?» Cowart conosceva la risposta, ma esitò a confermarla. «Perché vuole saperlo?» «Andiamo. Cowart. Un tempo era lei a essere veloce con le statistiche, ricorda? Voleva sapere se conoscevo i dati raccolti dall'FBI sui delitti dei neri contro le bianche. Be', li conosco. E so quanto raro sia quel tipo di
crimine. E so anche cosa fa sì che un suo maledetto articolo finisca in prima pagina invece di essere ridotto a sei paragrafi nel bel mezzo della miscellanea della cronaca locale. Perché se si fosse trattato di un crimine di un nero ai danni di una nera, è proprio lì che sarebbe finito, vero?» Cowart avrebbe voluto controbattere, ma non poté. «Probabilmente.» Il poliziotto sbuffò. «"Probabilmente" è una risposta diplomatica, Cowart.» Fece un ampio gesto con il braccio. «Pensa che il caporedattore della cronaca avrebbe mandato una delle stelle di città fin quassù, se non avesse saputo con certezza che si trattava di una storia da prima pagina? No, avrebbe mandato un collaboratore occasionale, o un inviato di periferia, se avesse voluto soltanto riempire quei sei paragrafi.» Brown si voltò verso l'ingresso del ristorante, continuando a parlare mentre attraversava il parcheggio. «Vuole sapere una cosa, Cowart? Vuole sapere perché questo è un posto duro per viverci? Perché tutti sanno quanto siano vicini al ghetto. E non sto parlando di chilometri. Quanto dista Liberty City, forse cinquanta, sessanta chilometri da qui, vero? No, è la vicinanza della paura. Sanno che non guadagnano gli stessi soldi, che non hanno gli stessi programmi, le stesse scuole, le stesse dannate cose. E allora devono aggrapparsi al sogno della condizione operaia, quasi fosse un giubbotto salvagente che perde aria. Sanno tutti com'è la vita nel ghetto, sanno tutti che è come se li prosciugasse delle loro energie, tentando di trattenerli. Tutti quei lavori da alzati-prestissimo-ogni-mattina-e-arriva-inorario, tutti quegli stipendi che vengono incassati appena emessi, e quelle piccole case bollenti, è questo quello che li tiene a distanza di sicurezza.» «E nel nord della Florida? A Pachoula?» «Più o meno lo stesso. Solo che lassù la paura è che il Vecchio sud, ha presente, quello fatto di sterpaglia, di mancanza di sanitari, di capanne di carta catramata, torni e ti tiri dentro di nuovo.» «Non è proprio così che è cresciuto Ferguson?» L'investigatore annuì. «Ma alla fine ce l'ha fatta.» «Come lei.» Brown si fermò e si volse verso Cowart. «Come me» ripeté con una profonda nota di rabbia nel tono di voce. «Ma non gradisco il paragone, signor Cowart.» Entrarono nel ristorante. L'ora di pranzo era già passata e il turno serale non era ancora iniziato, dunque il locale era a loro completa disposizione. Presero posto in un separé accanto a una finestra che dava sul parcheggio. Una cameriera, sfog-
giando un'aderente divisa bianca che le aumentava le dimensioni del seno e un broncio da divoratrice di gomma americana che suggeriva con quanto poco entusiasmo sarebbe stato accolto qualsiasi colorito commento, prese la loro ordinazione e la passò, attraverso una piccola finestrella, a un solitario cuoco sul retro del locale. Nel giro di pochi secondi poterono udire lo sfrigolio degli hamburger, e poco dopo furono raggiunti dal profumo. Mangiarono in silenzio. Quando ebbero finito, Brown ordinò una fetta di torta meringata al limone con il caffè. Ne prese un boccone, quindi ne mise un altro sulla forchetta, facendo cenno a Cowart di assaggiarla. «Ehi, Cowart, è fatta in casa. Deve assaggiarla. Questa a Pachoula non la si trova. O quanto meno, non così buona.» Il giornalista scosse il capo. «Diavolo, Cowart, scommetto che lei è il tipo da insalatina a pranzo. Si conserva quell'aspetto magro e ascetico ruminando erbetta.» Cowart si strinse nelle spalle in segno di ammissione. «E probabilmente beve anche quella merdosissima acqua francese.» Mentre l'investigatore parlava, Cowart seguì con lo sguardo la cameriera mentre raggiungeva un altro separé, alle spalle di Brown. Impugnando una spatola, si piegò verso la finestra per togliere qualcosa che vi era appesa. Pulendo il vetro dal nastro adesivo produsse un breve suono gracchiante. Quindi si rimise dritta, mettendosi un piccolo manifesto sotto il braccio. Cowart intravide un giovane volto. La cameriera era sul punto di andarsene quando, senza alcuna apparente ragione, la chiamò con un cenno. Si avvicinò al loro tavolo. «Anche per lei una fetta di torta?» domandò. «No» rispose lui. «Ero solo curioso di vedere quel manifestino.» Indicò il pezzo di carta che lei teneva ripiegato sotto il braccio. «Questo?» disse lei. Glielo allungò e lui lo distese sul tavolo. Al centro del manifestino vi era la fotografia di una ragazzina di colore, sorridente, i capelli raccolti in due code di cavallo. Sotto la fotografia, a grandi lettere, vi era la scritta SCOMPARSA. Era seguita da un testo a caratteri più piccoli: DAWN PERRY, 12 ANNI, ALTEZZA 1,58, 47 KG, SCOMPARSA NEL POMERIGGIO DEL 12-8-90, VISTA PER L'ULTIMA VOLTA CON PANTALONCINI BLU, MAGLIETTA BIANCA E SCARPE DA GINNASTICA, BORSA DA SCUOLA A TRACOLLA. CHIUNQUE SIA A CONOSCENZA DI DOVE SI TROVI TELEFONI AL 555.1212 E CHIEDA DELL'INVE-
STIGATORE HOWARD. Il comunicato era concluso da una parola stampata in evidenza: RICOMPENSA. Cowart sollevò lo sguardo verso la cameriera. «Cosa è successo?» La cameriera scrollò le spalle, come a dire che fornire quel genere di informazioni non era parte del suo lavoro. «Non ho idea. Una ragazzina. Un giorno è qui. Il giorno dopo è sparita.» «Perché sta tirando giù il manifestino?» «È passato molto tempo, signore. Mesi e mesi. E visto che nessuno l'ha ritrovata, dubito che quel cartello possa servire a qualcosa. E comunque, il mio capo me l'aveva chiesto ieri, e me ne ero dimenticata fino a poco fa.» Cowart vide che Brown aveva iniziato a esaminare il manifesto. Sollevò lo sguardo. «La polizia ha mai scoperto niente?» «Non che io sappia. Desidera altro?» «Il conto» rispose Brown. Sorrise, ripiegò il manifestino e lo fece scivolare sul tavolo. «A questo ci penserò io» disse. La cameriera andò a preparare il conto. «La fa pensare, vero?» proseguì Brown rivolto a Cowart. «Una volta acquisita la giusta disposizione d'animo, ci sono un sacco di cose terribili che sembrano spuntare fuori dal nulla, no?» Cowart non rispose, e l'investigatore proseguì. «Voglio dire, se si frequenta abbastanza la morte le cose strane iniziano a saltar su dappertutto, come se fossero così normali e quotidiane da poterle ignorare quando non si pensa così tanto a come la gente si ammazza.» Cowart annuì. Dopo aver ripulito il suo piatto dalle ultime briciole di torta, Brown si appoggiò allo schienale del suo divanetto. «Glielo avevo detto che il cibo sarebbe stato fresco» disse. Quindi, all'improvviso, scattò in avanti, annullando la distanza fra loro. «Le fa passare l'appetito, vero Cowart? Una piccola coincidenza per dolce, eh?» Picchiettò sul manifestino ripiegato. «Voglio dire, probabile che si risolva in niente, giusto? Soltanto un'altra ragazzina che un bel giorno scompare. E forse non combacia nemmeno, dal punto di vista temporale, e delle possibilità, e tutto il resto. Ma è interessante, no? Il fatto che una ragazzina scompaia in un luogo non troppo distante dall'autostrada diretta verso le Keys. Mi chiedo se sia successo davanti a una scuola.»
Cowart lo interruppe. «A ottanta chilometri da Tarpon Drive.» L'investigatore annuì. «E assolutamente nulla che ci dica qualcosa sui casi che ci interessano.» «Allora» disse lentamente Brown. «Perché ha voluto vederlo, quando si è accorto che la cameriera lo stava tirando giù?» Alzandosi per lasciare il ristorante, il poliziotto accartocciò il volantino e se lo cacciò in tasca. I due si fermarono sul marciapiede di fronte. Cowart lanciò un'occhiata al negozio di giocattoli in fondo alla piazza e vide un uomo in camicia azzurra seduto accanto alla porta, un manganello al fianco. "Sicurezza" si disse. Si chiese come aveva fatto a non notarlo prima. Si immaginò che fosse stato messo lì dopo il rapimento, come se la semplice presenza della guardia avesse potuto impedire che un fulmine a ciel sereno colpisse di nuovo lo stesso punto. Rammentò che perfino con la polizia tutta intorno, la gente quel giorno aveva continuato a entrare nel negozio, e che quel fiume regolare di adulti e bambini carichi di borse di plastica piene di giocattoli non aveva smesso di emergere dalle porte, indifferente alla ferocia di quanto era iniziato proprio su quel marciapiede. Si volse verso Brown. «Dunque, cosa succede a questo punto? Siamo stati sulle Keys e tutto quello che abbiamo raccolto sono altre domande. E adesso dove? Perché non andiamo da Ferguson?» L'investigatore scosse il capo. «No, prima si torna a Pachoula.» «Perché?» «Be', sarebbe carino scoprire che Sullivan le stava dicendo la verità almeno su una cosa, giusto?» Ancora diffidenti, i due si separarono non appena giunti a Miami, dopo che una notte nera e spessa era calata su di loro. La calura del giorno pareva rimanere sospesa nell'aria, conferendo all'oscurità un suo peso e una sua corposità. Cowart accompagnò Brown davanti all'Holiday Inn del centro, dove il poliziotto prese una stanza. L'albergo era situato di fronte al tribunale della contea, a circa metà strada tra lo stadio Orange Bowl e l'inizio di Liberty City, in una sorta di terra di nessuno urbana delimitata da ospedali, uffici, penitenziari, e nel mezzo l'inesorabile avanzata del ghetto. Una volta entrato in stanza, Brown si levò la giacca e si liberò con un calcio delle scarpe. Seduto sul bordo del letto, compose un numero di telefono. «Ufficio dello sceriffo della contea di Dade. Stazione sud.»
«Vorrei parlare con l'investigatore Howard.» La sua chiamata fu smistata a un altro interno; qualche secondo più tardi giunse in linea una voce maschile controllata e dal tono ufficiale. «Investigatore Howard. Posso esserle utile?» «Forse. Sono il tenente investigatore Brown, della contea di Escambia...» «Come va, tenente? Che posso fare per lei?» La voce aveva istantaneamente perso il tuo tono militaresco, sostituito da una semplice allegria. «Aahh» rispose Brown, assumendo lo stesso tono «probabile che non sia niente di più di una impresa vana. E so che suona folle, ma gradirei una piccola informazione su questa ragazzina, una certa Dawn Perry, scomparsa qualche mese fa...» «Sì, stava tornando a casa dal comune. Cristo, davvero un brutto pasticcio...» «Che è successo esattamente?» «Ha qualche indizio su di lei?» chiese all'improvviso l'investigatore. «No» rispose Brown. «Per essere onesti, ho appena visto il manifestino, e qualcosa mi ha ricordato un caso a cui ho lavorato una volta. Ho solo pensato, capisce, di dare una controllatina.» «Diavolo» replicò l'investigatore. «Peccato. Per un attimo avevo sperato. Sa com'è.» «Allora, mi può raccontare?» «Sicuro. Non c'è poi molto da dire. La ragazzina, nemmeno un nemico in tutto il mondo, un pomeriggio va a lezione di nuoto nella piscina comunale. La scuola è finita, capisce, e ci sono un sacco di cose organizzate per i più giovani. È stata vista per l'ultima volta da un paio di amichette, mentre camminava verso casa.» «Qualcuno ha notato qualcosa?» «No. Un'anziana signora, che vive più o meno a metà strada... ha presente, è tutta una fila di vecchie case con gli impianti dell'aria condizionata sempre in funzione, fanno un baccano del diavolo. Comunque, 'sta vecchietta non può permettersi l'energia elettrica, capisce, non sempre almeno, e quindi è seduta in cucina davanti a un ventilatore, e all'improvviso sente un grido e subito dopo un'auto che riparte veloce, ma quando arriva fuori, l'auto è già a due isolati di distanza. Bianca. Di marca americana. È tutto. Niente targa, niente descrizione. La borsa con il costume da bagno abbandonata sulla strada. La vecchia è sveglia, bisogna concederglielo. Chiama e denuncia ciò che ha visto. Ma quando un'auto di pattuglia la va a trovare,
l'ascolta, ed emana un comunicato ufficiale, be', la faccenda è già storia antica. Sa quante auto bianche ci sono nella contea di Dade?» «Un sacco.» «Esatto. Comunque, con quello che abbiamo facciamo il possibile per risolvere il caso. Diavolo, quella sera siamo riusciti a convincere soltanto una delle televisioni locali a trasmettere la sua fotografia. Magari non era abbastanza carina, non so...» «...Oppure del colore sbagliato.» «Be', l'ha detto lei. In ogni caso non ho idea di come quei bastardi decidano che una cosa fa notizia e l'altra no. Dopo aver stampato i manifestini, abbiamo ricevuto una ventina circa di telefonate che ci dicevano di averla vista qui, lì, dappertutto. Ma nessuna era buona. Abbiamo controllato per bene la sua famiglia, pensando che magari fosse stata pizzicata da qualcuno che conosceva, ma che diavolo, i Perry sono brava gente. Lui è impiegato all'ufficio motorizzazione, lei lavora nel bar della scuola elementare. A casa nessun problema. Tre altri figli. Cosa diavolo potevamo fare? Ho un centinaio di altre pratiche sulla mia scrivania. Aggressioni. Furti con scasso. Rapine a mano annata. Ho perfino un paio di casi che posso risolvere. Devo investire al meglio il mio tempo, capisce. Probabile che sia così anche per lei. Dunque, alla fine si è trasformato in uno di quei casi in cui l'unica cosa da fare è aspettare che qualcuno ritrovi il suo corpo, e che passi alla squadra omicidi. Ma una cosa del genere potrebbe anche non succedere mai. Quaggiù siamo così maledettamente vicini ai margini delle Everglades. Ci si può sbarazzare di qualcuno in quattro e quattr'otto. Di solito sono gli spacciatori di droga. Gli piace fare un giretto su una di quelle stradine deserte, e mollare qualche cadavere nella palude. E lasciare che la cara vecchia melma si prenda cura di nascondere il loro lavoretto. Facile come contare fino a tre. Ma la stessa tecnica funziona per chiunque, se capisce quello che intendo.» «Chiunque.» «Chiunque a cui piacciano le ragazzine. E che non voglia che loro raccontino a nessuno quello che ha fatto.» L'investigatore fece una pausa. «A dire il vero, sono anche piuttosto sorpreso del fatto che non ci siano centinaia di casi come questo. Se uno riesce a tirare su una ragazzina così, senza essere visto, diavolo, potrebbe essere in grado di fare qualsiasi cosa.» «Ma voi non avete...» «No, non ne abbiamo avuti altri, di casi del genere. Ho controllato con le contee di Monroe e di Broward, ma nemmeno loro avevano nulla. Ho ri-
chiesto un profilo del maniaco sessuale al computer e ho ottenuto un paio di nomi. Siamo perfino usciti e abbiamo beccato un paio di vecchie conoscenze, ma entrambi erano al lavoro o fuori città quando Dawn è sparita. A quel punto la cosa era già vecchia di un paio di giorni, sa...» «E...?» «E niente. Nada de nada. Nessuna prova, tranne che una ragazzina è scomparsa. Ma mi dica del suo caso. Le fa suonare qualche allarme?» Brown meditò a fondo, valutando cosa rispondere. «Non proprio. La nostra era una ragazzina bianca all'uscita di scuola. Vecchio caso. Avevamo un sospetto, ma non siamo riusciti a incastrarlo. Per poco.» «Che peccato. Pensavo che magari avesse qualcosa che ci potesse venire in aiuto.» Brown ringraziò l'investigatore e riagganciò. I suoi pensieri lo costrinsero ad alzarsi in piedi. Si portò alla finestra e guardò fuori nell'oscurità. Dalla stanza poteva arrivare con lo sguardo fin sull'autostrada principale che tagliava Miami da est a ovest passando per il centro della città, e che poi puntava in lontananza, verso il folto entroterra dello Stato, oltre le aree abitate della periferia, l'aeroporto, le fabbriche e i centri commerciali, oltre i piccoli centri ai margini posteriori della città, verso il cuore paludoso dello Stato. Le Everglades cedono il passo a Big Cypress. C'è Loxahatchee e la palude di Corkscrew e il fiume Withlacoochee e le foreste nazionali di Ocala, di Osceola e di Apalachicola. In Florida, nessuno è mai distante da qualche luogo sperduto, buio, nascosto. Per qualche istante osservò il traffico fluire lungo la dirittura del suo sguardo, le luci dei fari come proiettili traccianti nella notte. Si mise una mano sulla fronte, abbassandola come a volersi impedire di guardare, quindi si fermò. "È solo un'altra ragazzina scomparsa" si disse. "Questa volta è successo in città e la cosa è stata risucchiata in mezzo agli altri orrori quotidiani. Un attimo è lì, l'attimo dopo non c'è più, proprio come se non fosse mai esistita, tranne che nel ricordo di qualche addolorato individuo abbandonato per sempre ai suoi incubi." Scosse il capo, ripetendosi che stava diventando paranoico. "Un'altra ragazzina. Joanie Shriver. Ce ne sono state delle altre, da allora. Dawn Perry. Forse anche ieri ce n'è stata un'altra. Forse ce ne sarà una domani. Andata, così. Una scuola elementare. Una piscina comunale." Le luci oltre la sua finestra continuarono ad attraversare la notte. Quando Cowart vi giunse, nella biblioteca del Miami Journal vi era soltanto un'altra persona. Era una giovane donna, un'assistente la cui diffiden-
te timidezza rese difficile un dialogo diretto; lei teneva il capo chino, quasi le parole che pronunciava rispondendo a Cowart fossero in qualche modo imbarazzanti. In silenzio lo aiutò a caricare uno dei computer, e lo lasciò da solo non appena lui iniziò a digitare DAWN PERRY. La parola RICERCA comparve su un angolo dello schermo, immediatamente seguita dalle parole DUE SOGGETTI. Li richiamò. Il primo consisteva in soli quattro paragrafi, ed era stato pubblicato in un riassunto di notizie locali sulle operazioni di polizia, parte di un inserto per l'edizione della Florida meridionale. Nell'edizione principale non era stato pubblicato nulla. Il titolo diceva: LA POLIZIA COMUNICA LA SCOMPARSA DI UNA BAMBINA DI 12 ANNI. L'articolo diceva solfando che Dawn Perry non era tornata a casa dopo una lezione di nuoto alla piscina comunale. Il secondo soggetto in archivio diceva: LA POLIZIA NON HA INDIZI SUL CASO DELLA RAGAZZINA SCOMPARSA. Era leggermente più lungo del primo, e ripeteva tutti i particolari già pubblicati in precedenza. Il titolo sintetizzava alla perfezione i progressi della vicenda. Cowart ordinò al computer di stampare entrambe le notizie, il che portò via soltanto qualche attimo. Non sapeva che pensare. Sapeva poco più di quanto gli avesse detto la cameriera. Si alzò. "Tanny Brown ha ragione" si disse. "Stai impazzendo." Si guardò attorno nel locale. Un certo numero di giornalisti era al lavoro sui computer, tutti molto concentrati sugli schermi verdi brillanti. Era riuscito a penetrare nella biblioteca senza farsi vedere da nessuno del turno di notte della cronaca, cosa per cui si sentì grato a se stesso. Non voleva essere costretto a spiegare cosa stesse facendo. Per qualche istante osservò i giornalisti al lavoro. Era il momento della notte in cui ognuno vorrebbe essere a casa; le parole che l'indomani avrebbero riempito le pagine del giornale si facevano sempre più sintetiche, sempre più incisive, mosse almeno in parte dalla stanchezza. Poteva sentire la stessa spossatezza calare su di lui. Abbassò lo sguardo sui due fogli di carta che teneva in mano, le stampe dei due dati del computer che documentavano la scomparsa di una certa Dawn Perry. Dodici anni. Esce di casa un caldo pomeriggio d'agosto per andare in piscina. E non torna mai più. "Probabile che sia morta da mesi" si disse. "Vecchia storia." Fece per allontanarsi dal computer, quando gli venne in mente qualcosa, un tentativo al buio. Fece ritorno sulla tastiera e digitò il nome ROBERT EARL FERGUSON.
Il computer diede un breve suono di risposta e subito evidenziò le parole VENTIQUATTRO SOGGETTI. Cowart si risedette e digitò DIRECTORY. Di nuovo il computer della biblioteca rispose con una lista. Ogni soggetto era datato, e di ognuno era data la sua lunghezza approssimativa. Cowart passò in rassegna l'elenco di dati, riconoscendoli tutti. C'era il suo servizio di partenza e i seguiti, i pezzi di appoggio, gli articoli che erano stati pubblicati nei giorni seguenti il rilascio, e infine il più recente, quello scritto dopo l'esecuzione di Blair Sullivan. Scorse la lista una seconda volta, e si accorse di una notizia dell'agosto precedente. Controllò la data e si rese conto che si trattava dello stesso periodo in cui lui aveva portato sua figlia a Disney World. Era passato un mese dal giorno in cui Ferguson era stato rilasciato, e non si era ancora giunti all'annullamento definitivo delle accuse ai suoi danni. Ed erano anche quattro giorni prima della scomparsa di Dawn Perry. Era misurato nell'elenco: 6 CENTIMETRI, NOTIZIA BREVE. La richiamò sullo schermo. Il soggetto proveniva da una pagina di notizie religiose. Si trattava della lista settimanale di sermoni e di discorsi che si sarebbero tenuti l'indomani presso le chiese della contea di Dade. Il titolo spiccava nel mezzo del gruppo: TESTIMONIANZA DI UN EX DETENUTO DEL BRACCIO DELLA MORTE. Cowart lesse: ... Robert Earl Ferguson, recentemente rilasciato dal braccio della morte dopo essere stato ingiustamente accusato di omicidio nella contea di Escambia, parlerà delle sue esperienze e di come la sua devozione religiosa lo abbia aiutato durante la prigionia. New Hope Baptist Church, domenica alle ore 11. La chiesa si trovava a Penine. 16 La giovane investigatrice L'investigatrice Andrea Shaeffer accolse l'alba seduta alla sua scrivania. Aveva cercato di prendere sonno, con il solo risultato di trovarlo dapprima inafferrabile e infine agitato. Risvegliandosi nell'oppressiva oscurità del primo mattino, aveva scacciato un orrendo incubo di sangue e di gole tagliate, si era vestita, e si era messa alla guida dell'auto, diretta alla sotto-
stazione della squadra omicidi del Dipartimento della contea di Monroe, a Key Largo. Dal punto dove era seduta, nell'ufficio al secondo piano, poteva guardare fuori dalla finestra e scorgere una linea rosea dipinta ai margini della notte. Si immaginò la lenta disgregazione dell'oscurità al largo, in mezzo al Golfo, laddove l'affilata lama del mattino pareva intagliare nuove forme nelle onde agitate e finalmente, con un secco fendente, separare l'orizzonte dall'oceano. Per un istante rimpianse di non essere al largo sulla barca da pesca del suo patrigno, intenta a preparare gli ami nel nero fondo della notte, le gambe aperte a bilanciarsi contro il movimento e i colpi delle onde, le mani, rese scivolose dal continuo maneggiamento delle esche, rapide a intrecciare lenze di filo metallico e ad annodare il monofilamento. In un giorno come quello la pesca sarebbe stata buona. Al largo, in agguato, ci sarebbero state grosse nuvole cariche di pioggia, e il caldo avrebbe provocato sottili trombe marine, che sarebbero parse ancora più nere e spaventose sullo sfondo del cielo. Ma il pesce sarebbe salito in superficie, affamato, presago della tempesta, impaziente di nutrirsi. "Danza ai margini dei venti nascenti e fa muovere le esche" pensò. Esche veloci, per i kings, i wahoos e specialmente per gli spada. Qualcosa che strisci e schiaffeggi le onde, qualcosa che solchi le acque del Golfo, rendendosi irresistibile ai grossi pesci in cerca di cibo. "È questo che mi è sempre piaciuto della pesca" pensò. "Non la lotta con gli ami e le lenze, per spettacolare che sia; e nemmeno l'ultimo, impetuoso attacco di terrore del pesce giunto alla fiancata della barca; e men che meno le pacche sulle spalle e le congratulazioni bagnate da fiumi di birra. Quello che mi piaceva era la caccia." I suoi occhi scrutarono oltre la finestra dell'ufficio, mentre la sua mente ribolliva ripensando a quanto sapeva e a quanto non era in grado di sapere. Quando, finalmente, la luce parve aver vinto la sua quotidiana battaglia, si volse di nuovo verso la distesa di fogli sparpagliati sulla scrivania. Diede un'occhiata al rapporto sommario che aveva steso dopo avere interrogato gli abitanti di Tarpon Drive. Nessuno aveva visto né udito alcunché che paresse degno di nota. Passò quindi a sfogliare i risultati dell'autopsia dell'ufficio di medicina legale. La causa immediata della morte era stata, in entrambi i casi, la stessa: taglio netto della carotide destra con conseguente perdita di un gran quantitativo di sangue. "Era mancino" pensò. "In piedi alle loro spalle, gli ha tagliato la gola con un colpo netto di coltello." La pelle intorno alle ferite aveva subito pochi danni. "Un rasoio
da barbiere, o magari un coltello da caccia di carbonio. Qualcosa di molto affilato." Nessuna delle due vittime mostrava alcun segno di ferite inferte post-mortem. "Li ha uccisi e se n'è andato." Fra le altre ferite vi erano i lividi sulle braccia, il che era prevedibile. L'assassino li aveva legati con forza crudele e la corda era penetrata nella carne. Erano stati imbavagliati con del nastro adesivo da pacchi. L'uomo aveva una contusione sulla fronte, un labbro lacerato, un paio di costole fratturate. Le nocche della mano destra erano scorticate, e presentavano tracce residue di vernice, e le gambe della sedia avevano scalfito il pavimento della cucina. "Almeno ha lottato, seppure solo per un attimo. Sarà stato lasciato per un secondo; avrà serrato le mani contro lo schienale della sedia nel tentativo di liberarsi e poi sarà stato colpito al petto e alla fronte." Non vi erano segni di violenze sessuali sulla donna, sebbene fosse stata trovata completamente nuda. "Umiliazione." La Shaeffer rammentò di aver notato la camicia da notte della donna ordinatamente ripiegata in un angolo della cucina. Piegata con cura. Da chi? Dalla vittima o dall'assassino? Le tracce di unghiate avevano dato risultati negativi. Entrambe le vittime erano state esaminate all'obitorio, alla ricerca di eventuali impronte, ma senza successo. La Shaeffer lasciò cadere i documenti sulla scrivania. "Nessun aiuto" pensò. "O almeno, nessun aiuto evidente." Prese in mano le prime osservazioni della scena del delitto e sfogliandole rimase colpita dal linguaggio dei documenti che stata leggendo. La morte ridotta ai termini più freddi e ufficiali. Cose misurate, pesate, fotografate e stabilite. La corda che era stata usata per legare la coppia di anziani era di nylon, spessa mezzo centimetro, e si poteva trovare in qualsiasi negozio di casalinghi e in tutti i supermercati. Due pezzi, uno dei quali lungo centoquattro centimetri, l'altro un metro, erano stati tagliati da un rotolo di tre metri e mezzo trovato accanto all'ingresso di servizio. L'assassino aveva fatto un nodo scorsoio, aveva passato la corda attorno ai polsi delle vittime, aveva ripetuto l'operazione per due, tre volte e aveva terminato con un nodo semplice a stringere il tutto. Un nodo ordinario, non particolare, provvisorio, improvvisato sul momento. Sufficientemente forte al momento del delitto, ma non impossibile da sciogliere, ad averne il tempo. Questo le suggerì qualcosa: l'assassino non era uno del posto, ma qualcuno che arrivava da lontano. La gente delle Keys di solito sapeva come stringere un nodo; avrebbe scelto qualcosa di più forte, qualcosa di marinaro. Annuì. Nel mezzo della notte. È entrato in casa. Li ha sottomessi, li ha
legati, li ha imbavagliati. Loro credevano che sarebbero stati rapinati e che l'arrendevolezza avrebbe salvato loro la vita. Ma non avevano alcuna possibilità. Lui li ha uccisi, tranquillamente. Terrore massimo. Veloce. Efficiente. Senza perdere un secondo. Un coltello silenzioso. Nessuno sparo a destare l'attenzione dei vicini. Nessun furto. Nessuna violenza sessuale. Niente sbattere di porte, niente panico da fuga. Un assassino che entra, uccide ed esce, fermandosi soltanto per appoggiare una Bibbia aperta sul tavolo tra le sue vittime, non udito da alcuno, se non proprio dalle vittime stesse. "Tutti gli omicidi lanciano un messaggio" pensò. Il cadavere dello spacciatore di droga trovato in decomposizione tra le mangrovie con una singola ferita di arma da fuoco alla nuca, l'orologio d'oro e i gioielli di diamanti ancora ai polsi, manda un certo tipo di messaggio. La giovane donna convinta che non ci sia problema a fare l'autostop fino a casa dal ristorante dove lavora come cameriera, e che viene trovata a tre contee di distanza, nuda, morta e violata, ne invia un altro. Il vecchio nella roulotte che non ne può più di assistere la moglie malata di cancro, che le spara e poi rivolge l'arma verso se stesso, mentre con l'altra mano stringe a sé un album delle fotografie del matrimonio di cinquantacinque anni prima, racconta una storia del tutto diversa. Abbassò lo sguardo sulle istantanee del luogo del delitto. Le immagini, stampate su carta lucida 20x25, le riportarono alla mente il caldo oppressivo della cucina della morte e l'odore nauseante dei cadaveri. Era sempre peggio quando la natura aveva avuto il tempo di intervenire su una scena del delitto; ogni residua dignità, eredità delle vite scomparse, si dissipava in fretta nel caldo incipiente. E spesso mandava a monte il processo delle indagini. Le era stato insegnato che ogni minuto che passava dopo un omicidio rendeva la sua soluzione più difficile. I vecchi casi ormai "freddi", quando vengono risolti, guadagnano le prime pagine dei giornali. Ma per ognuno di essi che porta a una condanna, cento rimangono irrisolti, ognuno un intricato groviglio di supposizioni. Due persone che hanno messo al mondo e plasmato un assassino seriale vengono a loro volta uccise. Di che diavolo di crimine si tratta? Vendetta. Forse giustizia. Probabilmente una loro perversa combinazione. Continuò a scorrere i rapporti. Erano state rintracciate due impronte parziali di piedi tracciate dal sangue sul pavimento di linoleum. Il disegno della suola era stato identificato come appartenente a un paio di Reebok da basket alte, di taglia tra il quarantadue e il quarantaquattro. Lo stile indica-
va che erano state prodotte negli ultimi sei mesi. Alcune fibre di tessuto erano state identificate nella chiazza di sangue sul petto dell'uomo. Appartenevano a un tessuto misto di cotone e poliestere comune alle tute sportive. L'assassino era entrato in casa dalla porta di servizio. Il vecchio legno marcio aveva ceduto al primo contatto con un cacciavite di acciaio o con uno scalpello. L'investigatrice scosse il capo. Era un fattore comune a tutte le Keys. Il sole, il vento e il sale rodevano gli stipiti delle porte, un fatto ben noto a ogni scassinatore da strapazzo che battesse i duecento chilometri tra Miami e Key West. Ma quell'omicidio non era stato commesso da uno scassinatore da strapazzo. Afferrò una penna e prese nota: passare in rassegna tutti i negozi di articoli domestici, controllare l'acquisto di coltelli, corda, cacciaviti o piccoli piedi di porco. Parlare ancora con i vicini, vedere se nessuno ha avvistato un'auto sconosciuta. Controllare gli alberghi del luogo. Si è portato la Bibbia? Dare un'occhiata alle librerie. Non nutriva eccessive speranze per alcuna di quelle mosse. Proseguì: sentire il laboratorio della scientifica per i campioni di pelle attorno alle ferite. Forse un esame spettrografico avrebbe potuto mostrare qualche frammento metallico in grado di dirle qualcosa dell'arma del delitto. Questo era importante. Diede ordine ai suoi pensieri con una precisione militaresca: se un assassino non lascia alcunché di valore probatorio, niente di personale come liquido seminale o impronte digitali o capelli, allora per posizionarlo in quella stanza bisogna rintracciare qualcosa di quello che ha portato con sé: l'arma del delitto, residui di sangue sulle scarpe o sugli abiti, qualche oggetto che apparteneva alla casa. Qualcosa. La Shaeffer si fregò gli occhi per un istante, lasciando che i suoi pensieri tornassero a Cowart. "Cosa sta nascondendo"? si chiese. "Qualche dettaglio dell'omicidio che per lui significa qualcosa. Ma cosa?" Tracciò un ritratto mentale del giornalista, concentrandosi sull'espressione dei suoi occhi, sul tono della sua voce. Non conosceva bene la razza dei giornalisti, ma sapeva che generalmente volevano dare l'idea di sapere molto di più di quanto in realtà non sapessero, dando l'impressione che stessero condividendo le informazioni, e non strappandole con la forza della seduzione. Cowart non rientrava in quella descrizione. Dopo il loro incontro iniziale sul luogo del delitto, non le aveva fatto nemmeno una domanda sugli omicidi di Tarpon Drive. Al contrario, aveva fatto tutto il possibile al mondo per evitare che le domande venissero rivolte a lui.
"Cosa ti dice tutto questo? Che lui ha già le risposte. Ma perché dovrebbe volerle nascondere? Per proteggere qualcuno. Blair Sullivan? Impossibile. Deve proteggere se stesso." Ma questo non la portava ancora a nulla. Scarabocchiò qualcosa sul blocchetto per appunti aperto davanti a lei, tracciando una serie di cerchi concentrici, sempre più scuri mano a mano che lo spazio tra loro veniva riempito dall'inchiostro. Si rammentò di una lezione dei tempi dell'accademia di polizia: quattro assassini su cinque conoscevano le proprie vittime. "D'accordo" si disse. "Blair Sullivan dice a Matthew Cowart che è stato lui a organizzare il delitto. Come lo può fare dal braccio della morte?" Si sentì mancare. Le prigioni sono mondi a parte. Tutto può essere ottenuto, se qualcuno è pronto a pagarne il prezzo. Perfino la morte. E ognuno, all'interno di una prigione, conosce i meccanismi dello scambio e del baratto. Ma per un estraneo penetrare le macchinazioni di quei mondi era difficile, a volte impossibile. I normali rapporti fra le cose, dai quali l'azione di un poliziotto dipendeva così strettamente, come la paura di una punizione legale o sociale, non esistevano entro i confini di un penitenziario. Fu con un certo disgusto che si figurò il suo prossimo passo: interrogare tutti coloro che, in prigione, erano entrati in contatto con Sullivan. Uno di loro dovrebbe rivelarsi il canale giusto. Ma con che moneta ha pagato? Non possedeva denaro. O forse sì? Non aveva alcun potere. Era un tipo solitario destinato alla sedia elettrica. O forse no? Come può pagare un debito del genere? E perché lo racconta a Matthew Cowart? All'improvviso un pensiero le balzò in mente: forse ha già pagato. Fece un respiro profondo. Blair Sullivan raggiunge un accordo per un omicidio, e si presume che il pagamento venga effettuato dietro compimento del crimine. Naturale. Ma guardiamo la cosa da un altro punto di vista. La Shaeffer si scaldò all'improvviso, sentendo la propria immaginazione liberarsi come in una serie di secchi colpi di frusta. Si rammentò dell'esplosiva eccitazione che s'impadroniva di lei quando il suo sguardo individuava la grossa, scura sagoma del pesce spada mentre saliva in superficie delle acque nero-verdi per mordere l'esca. Un singolo istante, elettrico, euforico, prima che la battaglia iniziasse. "Il momento migliore" pensò. Afferrò la cornetta del telefono e compose un numero. La linea diede tre segnali prima che un grugnito giungesse dall'altro capo del filo.
«Sì?» «Mike? Sono Andy.» «Cristo. Ma non dormi mai, tu?» «Mi spiace. No.» «Dammi un secondo.» Lei attese, sentendo nella cornetta qualche confusa frase di spiegazione alla moglie del collega. Riuscì a distinguere le parole "È il suo primo grosso caso..." prima che la conversazione venisse coperta dal rumore dell'acqua corrente. Quindi silenzio, e infine la voce del suo collega, in preda a una risata. «Capisci, dannazione, io sono l'anziano e tu la novellina. Quando dico dormi, tu dovresti dormire.» «Mi spiace» si scusò lei di nuovo. «Ah» esclamò lui. «Non sei sincera. D'accordo, che cosa ti frulla per il capo?» «Matthew Cowart.» Pronunciando il suo nome, prese una decisione: non giocare ancora le tue carte. «Il signor-giornalista-non-ve-la-racconto-tutta?» «Proprio lui.» La Shaeffer sorrise. «Ragazzi, quel figlio di puttana mi ha proprio lasciato di stucco.» Le fu facile, in quel momento, figurarsi il suo collega seduto sul bordo del letto. Sua moglie aveva con tutta probabilità afferrato il cuscino e se l'era pigiato sul capo, per allontanare il suono della loro conversazione. Al contrario di molte relazioni tra investigatori, il suo rapporto con Michael Weiss era una faccenda strettamente professionale, impersonale. Non era da molto che erano insieme: abbastanza a lungo da condividere qualche infrequente risata, ma non abbastanza perché a uno dei due importasse il significato della battuta. Lui era un uomo rigido, dotato di poca immaginazione, una testa calda. Molto più bravo a mostrare fotografie ai testimoni e a passare in rassegna i rapporti delle compagnie di assicurazioni. Il fatto che avesse accumulato dieci anni di esperienza contro i pochi mesi di lei era una considerazione che la Shaeffer aveva dimenticato in fretta. Lasciare Weiss alle spalle era una cosa che non le riusciva difficile. «Anche a me.» «Dunque, cos'hai in mente?» «Penso che dovrei lavorarlo un animino. Farmi vedere all'improvviso. Nel suo ufficio. Nel suo appartamento. Quando va a correre. Quando fa il bagno, o cose del genere.»
Weiss scoppiò a ridere. «E...?» «Fargli sapere che gli staremo alle costole finché non avremo saputo cosa abbia veramente da dirci. Tipo chi ha commesso quell'omicidio.» «Un ragionamento che fila.» «Ma bisogna che uno di noi inizi a lavorare sulla prigione. Per vedere se qualcuno là dentro sa qualcosa, come per esempio quel sergente di guardia. E credo che sia meglio dare un'occhiata alle cose di Sullivan. Magari ha lasciato qualcosa che ci può dare una spiegazione.» «Andy, non potrebbe, una conversazione come questa, avere aspettato fino alle, diciamo, alle otto del mattino?» La stanchezza si mischiava a una secca ironia nel tono di voce di Weiss. «Voglio dire, diavolo, non hai voglia di chiudere un po' gli occhi?» «Mi spiace, Mike. Suppongo di no.» «Ti detesto quando mi ricordi di me stesso. Mi ricordo il mio primo grosso caso. Anch'io cacciavo fuoco dalle fauci. Non riuscivo ad aspettare di mettermici sopra. Fidati. Prendila con calma.» «Mike...» «D'accordo. Va bene. Dunque preferiresti affrontare il giornalista che interrogare prigionieri e guardie, giusto?» «Sì.» «Ecco, vedi» rispose Weiss ridendo «è questo tipo di capacità intuitiva che ti farà fare passi avanti nel dipartimento. D'accordo. Vai a pungolare Cowart, io tornerò a Starke. Ma voglio che ci parliamo. Ogni giorno. Magari due volte al giorno, va bene?» «Assolutamente.» Lei non sapeva se avesse veramente intenzione di soddisfare quella richiesta. Riappese la cornetta e si mise a sistemare la scrivania, rimettendo i documenti negli schedari, sistemando i rapporti in pile ordinate, graffettando le proprie stesse note e osservazioni alle cartelle, inserendo le penne e le matite nell'apposita tazza. Quando fu soddisfatta dell'ordine imposto alle apparenze del suo lavoro, lasciò che una lieve ondata di anticipazione s'impadronisse di lei. "È tutto mio" pensò. Ripartì per Miami sotto un sole di mezzogiorno che pareva cuocere il cofano dell'auto, canticchiando fra sé brani isolati di canzoni di Jimmy Buffett sulla vita nelle Keys, sognando a occhi aperti, procedendo veloce sulla strada.
Era nuova al lavoro della squadra omicidi, da soli nove mesi fuori da un'auto di pattuglia, e dopo solo tre mesi in cui si era occupata di furti con scasso, promossa a causa delle sue abilità e di una causa egualitaria portata avanti a nome di tutte le donne e le minoranze presenti nel dipartimento. Era consumata dall'ambizione, piena di energia e della convinzione che il duro lavoro potesse ovviare alla sua mancanza di esperienza. Era stata quella la sua personale soluzione a quasi tutti i problemi, fin da quando era una bambina solitaria impegnata a crescere nelle Upper Keys. Suo padre era stato un investigatore della omicidi di Chicago, ucciso in missione. Lei si era spesso trovata a riflettere sull'espressione "in missione", pensando a quanto povero fosse come concetto. Fingeva di conferire una sorta di importanza militaresca a qualcosa che lei era giunta a capire trattarsi soltanto di un momento caratterizzato dall'errore e dalla sfortuna. Pareva quasi che qualcosa di straordinario fosse stato acquisito grazie alla sua morte, laddove lei sapeva che si trattava di una menzogna. Suo padre lavorava nel mondo delle truffe organizzate, spesso a contatto con esosi imbroglioni e impostori, cercando di arginare l'eterna marea di pensionati e di emigranti convinti di poter diventare ricchi investendo i propri risparmi in un'idea balzana dietro l'altra. Una mattina, lui e i suoi colleghi avevano portato a termine una retata in un rifugio segreto. Venti fra uomini e donne, tutti sorpresi al telefono dietro le loro scrivanie mentre chiamavano la gente cercando di coinvolgerla in un finto programma di investimento nell'oro. Né la truffa né la retata erano qualcosa di strano, essendo parte di una pratica quotidiana sia da parte della polizia che dei criminali. Ciò che non era stato previsto era che uno dei truffatori al telefono fosse una testa calda di un ragazzino con una pistola nascosta, che prima d'allora non era mai stato preso, e che quindi non sapeva che il sistema giudiziario lo avrebbe presto lasciato andare senza nemmeno un sospiro. Era stato sparato un solo colpo. Aveva penetrato un separé di materiale da quattro soldi e aveva colpito suo padre al petto, mentre era seduto dall'altra parte, intento a fare un elenco dei nomi falsi degli arrestati. "Inutile" pensò lei. "Proprio inutile." Era morto con la matita in mano. Allora lei aveva dieci anni e sì ricordava di lui come di un uomo corpulento in continua discussione con lei; quando era piccola la trattava come un ragazzino, e appena cresciuta aveva preso a portarla con sé a Comiskey Park, a vedere le partite dei White Sox. Le aveva insegnato a giocare a baseball e ad apprezzare la forza fisica. La vita, allora, pareva eccezional-
mente ordinaria. Vivevano in una modesta casa di mattoni rossi. Lei frequentava le scuole parrocchiali del quartiere, come i suoi fratelli maggiori. La rivoltella a canna corta che suo padre portava per andare al lavoro le pareva in qualche modo meno importante delle giacche e delle chiassose cravatte che lui ostentava. Lei aveva conservato una sola fotografia che li ritraeva insieme, scattata in esterni dopo una tempesta invernale, a fianco di un pupazzo di neve che avevano costruito insieme. Avevano circondato il pupazzo con le braccia, come fosse un amico comune. Era l'iniziò di aprile, il periodo in cui il Mid-West cercava di scrollarsi di dosso il lungo inverno, solo per venire premiato con una finale ondata di freddo. Il pupazzo di neve aveva un cappello da baseball, sassi per occhi e rami spezzati per braccia. Gli avevano allacciato una sciarpa attorno al collo, gli avevano tracciato un sorriso un po' da idiota sul volto. Era uno splendido pupazzo di neve, pareva quasi vivo. Si era sciolto, naturalmente. Il tempo era rapidamente cambiato, e nel giro di una settimana il pupazzo era sparito. Erano scesi nelle Keys un anno dopo la morte del padre. In realtà l'obiettivo era Miami: laggiù li aspettavano dei parenti. Ma erano scivolati più a sud quando sua madre aveva trovato lavoro come direttrice di un ristorante nei pressi di un porticciolo per la pesca sportiva. Era da lì che era venuto il suo patrigno. Lui non le dispiaceva. Si manteneva a distanza, ma si era dimostrato disposto a insegnarle quanto sapeva sulla pesca. Quando pensava a lui, vedeva il colore scuro, profondo e rossastro conferito dal sole alle sue braccia, e le macchie chiare precancerose che gli cospargevano la pelle. Avrebbe sempre voluto toccarle, ma non lo aveva mai fatto. Lui continuava a noleggiare la sua barca da pesca da Whale Harbor; al suo Bertram tredici metri aveva dato il nome The Last Chance, l'ultima possibilità, cosa che tutti i suoi clienti erano convinti si riferisse alla pesca, piuttosto che alla vita in bilico del capitano della barca. Sua madre non gliel'aveva mai detto, ma lei aveva sempre creduto di essere stata una figlia non voluta, nata proprio nel momento in cui i suoi genitori facevano il loro ingresso nella mezz'età, più di un decennio più giovane dei suoi fratelli. Loro se n'erano andati dalle Keys non appena l'età e la scuola l'avevano permesso, uno ad Atlanta a fare l'avvocato di grosse aziende, l'altro a Miami a gestire un'attività di import-export con la quale non aveva avuto un gran successo. La battuta che circolava in famiglia era che il suo fosse l'unico traffico legale della città, e di conseguenza il più povero. Per qualche tempo lei aveva creduto di poter seguire prima le orme
di un fratello, quindi quelle dell'altro; nel frattempo galleggiava alla University of Florida, mantenendo la media dei suoi voti abbastanza alta per poter in seguito accedere alla specializzazione. Aveva deciso di arruolarsi nella polizia dopo essere stata stuprata. Il ricordo pareva mandare in suppurazione i suoi pensieri. Era la fine del semestre a Gaineville, l'estate stava per iniziare, il tempo era caldo e umido. Non aveva voglia di andare alla festa del dormitorio, ma un tremendo esame finale di psicologia l'aveva lasciata senza forze, apatica, e quando le sue compagne di stanza avevano insistito perché andasse con loro, lei aveva aderito senza troppi problemi. Si rammentò del frastuono generale. Voci, musica, troppa gente pigiata in un ambiente troppo piccolo. Il vecchio edificio dalle strutture di legno tremava sotto i colpi della massa di gente. Lei aveva tracannato della birra ghiacciata per combattere il caldo, perdendo presto il controllo, barcollando verso un'indifferente accettazione della serata. Ben dopo la mezzanotte, vista l'impossibilità di rintracciare le sue compagne di stanza, si era incamminata da sola verso casa, non prima di essersi difesa contro un migliaio di tentativi di imposizione di compagnia da parte di altrettanti gentiluomini. Era abbastanza brilla da sentire una sorta di liquida connessione con la notte, mentre procedeva a passi indecisi sotto il manto di stelle. Non era così stravolta da non riuscire a trovare la strada di casa solo abbastanza da prenderla con calma. "Un obiettivo facile" pensò con amarezza. Non si era accorta dei due uomini sbucati dall'oscurità dietro di lei finché non erano giunti alle sue spalle, e l'avevano afferrata, le avevano cacciato una giacca sul capo e l'avevano riempita di pugni. Non aveva avuto tempo di gridare, non aveva avuto tempo di lottare per liberarsi e per seminarli. Era questa la parte del ricordo che odiava più di ogni altra. "Avrei potuto farcela." Sentì i muscoli dei polpacci irrigidirsi. Campionessa scolastica sul miglio. Membro della squadra femminile di corsa. "Se soltanto avessi potuto liberarmi per un secondo, non mi avrebbero mai più presa. Li avrei portati lontano." Ricordava la pressione esercitata dai due uomini su di lei, mentre la schiacciavano sotto il loro peso. Il dolore le era parso intenso, ma poi stranamente distante. Aveva temuto di venire soffocata o strangolata. Aveva lottato finché uno dei due non l'aveva colpita in volto, e l'esplosione del pugno sul mento l'aveva stordita ben più a fondo di tutto l'alcool che aveva in corpo. Era svenuta, accogliendo quasi con piacere l'oscurità dell'inco-
scienza, preferendola all'orrore e al dolore di quanto stava accadendo. Procedette veloce verso Miami, accelerando mentre s'immergeva nei ricordi. "Non era successo nulla" pensò. "Ti svegli in ospedale, e sai di essere stata violentata. Vieni medicata e stimolata a ricordare, vieni invasa di nuovo. Rilasci una dichiarazione al poliziotto dell'università. Quindi a un investigatore. Potrebbe descrivere i suoi assalitori, signorina? Era buio. Mi trattenevano a terra. Ma che aspetto avevano? Erano forti. Uno mi teneva una giacca premuta sul volto. Erano bianchi? Neri? Latino-americani? Bassi? Alti? Robusti? Magri? Mi erano sopra. Hanno detto qualcosa? No. L'hanno solo fatto." Aveva telefonato a casa, per sentire sua madre scoppiare in inutili lacrime e il suo patrigno farfugliare dalla rabbia, quasi fosse stato furioso con lei per quanto era accaduto. Alla fine era andata a parlare con un'assistente sociale per le vittime di stupro, la quale l'aveva ascoltata, assentendo. La Shaeffer aveva guardato la donna e si era resa conto che la compassione era parte del suo lavoro, come coloro che, a Disney World, vengono assunti per salutare i turisti con falsa amichevolezza e spontaneità. Era uscita e aveva fatto ritorno a casa, e lì aveva atteso che succedesse qualcosa. Non era successo niente. Nessun sospetto. Nessun arresto. Solo una notte nera, in cui qualcosa era andato storto in un campus universitario. Eccessi da festa studentesca. Digerisci il ricordo e va' avanti per la tua strada. Le sue ferite, con il tempo, erano guarite e scomparse. Si passò il dito su una piccola cicatrice bianca che si arricciava all'angolo dell'occhio. Quella era rimasta. In famiglia non si era mai parlato di quanto era successo. Era tornata nelle Keys, per scoprire che tutto era rimasto uguale a se stesso. Vivevano ancora in una casa di mattoni di cemento, dal cui primo piano si poteva vedere il mare, e dai cui soffitti in ogni stanza pendeva un ventilatore a pale che muoveva l'aria umida. Sua madre andava ancora al ristorante per controllare che la meringata al limone fosse fresca e che le polpette di strombo fossero fritte a puntino e che tutto fosse in ordine per l'arrivo quotidiano dei turisti e dei pescatori, che si scambiavano confidenze al bancone del bar. Una routine gradualmente ritagliata alla vita dal passare degli anni, che si ripeteva sempre uguale. Lei era tornata a lavorare sulla barca del patrigno, proprio come se nulla fosse cambiato nel suo profondo. Si ricordò di quando lo osservava, in piedi sul ponte superiore della barca, all'ostinata ricerca, da dietro gli occhiali scuri, di un qualche segno di vita nelle acque verdi, mentre lei, nel pozzetto, serviva la birra ai clienti, rideva
alle loro battute stonate, preparava le esche sugli ami e attendeva che succedesse qualcosa. Si sistemò gli occhiali scuri per ripararsi dal riflesso del sole sulla strada. "Ma ero cambiata" pensò. Aveva preso a scrivere delle lettere a sua madre, riversando tutto il dolore e le emozioni per quanto le era successo su pagine e pagine di carta lilla leggermente profumata, acquistata nel vicino drugstore, parole e lacrime che si univano a macchiare i fogli fragili e sottili. Dopo un po' non aveva più scritto della violazione provata, del buco che era convinta quei due uomini senza volto avessero scavato nel centro della sua anima, ma del mondo, del tempo, del suo futuro, del suo passato. Il giorno che si presentò al suo esame preliminare per l'ammissione all'accademia di polizia, aveva scritto: "Non posso far tornare papà..." Ma il conferire questa voce silenziosa ai sentimenti che covavano dentro di lei la faceva sentir meglio, e non le importava rendersi conto di quanto tutto ciò fosse banale. Naturalmente non aveva mai spedito nessuna di quelle lettere, né le aveva fatte vedere a nessuno. Le teneva raccolte in una cartella di finta pelle che aveva acquistato a una fiera dell'artigianato alla periferia di Miami. Negli ultimi tempi aveva preso l'abitudine di raccontare, nelle lettere, gli elementi salienti dei casi su cui stava lavorando, dando voce a tutte le sue supposizioni e ai suoi tentativi di indovinare le soluzioni, tenendo così a distanza quelle idee pericolose dai rapporti e dalle annotazioni ufficiali. A volte si chiedeva se sua madre, nel caso avesse letto una di quelle lettere a lei indirizzate, sarebbe stata più sconvolta da quanto era successo a sua figlia o dalle cose che sua figlia aveva visto accadere agli altri. Si figurò la coppia di anziani di Tarpon Drive. "Non avevano scampo" pensò. "Sapevano cosa avevano generato. Credevano forse di non essere costretti a pagare un prezzo per aver messo al mondo Blair Sullivan? Tutti pagano." La Shaeffer pensò alla prima volta che aveva sollevato la pesante Colt .357 Magnum in dotazione della polizia della contea di Monroe. La sua stessa pesantezza le aveva dato sicurezza: una solidità, nella sua stretta, che le aveva sussurrato all'orecchio che non sarebbe mai più stata una vittima. Premette sull'acceleratore e sentì l'auto civetta scattare in avanti, superando i centoventi, i centotrenta, penetrando sempre più a fondo nel caldo di mezzogiorno. Il primo giorno aveva centrato un bersaglio su sei. Il giorno dopo due.
Al termine delle sei settimane di addestramento, sei su sei, raccolti stretti al centro del bersaglio. Aveva proseguito a esercitarsi almeno una volta alla settimana, ogni settimana, anche dopo l'ammissione. Aveva anche aumentato le proprie conoscenze, raggiungendo una certa perizia nell'uso della più piccola automatica e imparando a maneggiare il fucile a pompa anti-sommossa che si trovava in ogni auto di pattuglia. Di recente aveva iniziato a passare il suo tempo al poligono di tiro esercitandosi con un M16 militare, adottando per sé la nove millimetri in dotazione alla NATO. Sollevò il piede dall'acceleratore e lasciò che l'auto tornasse entro il limite di velocità. Lanciò un'occhiata nello specchietto retrovisore e vide un'altra auto mettersi in coda alla sua, decisa, e infine allargarsi sull'altra corsia. Era un agente della polizia di Stato a bordo di un un'auto civetta Ford, alla caccia di pirati della strada. Era ovviamente finita sul suo radar, costringendolo a uscire dal suo nascondiglio, solo per poi accorgersi che anche la sua era un'auto della polizia. Lui la scrutò da dietro il classico paio di occhiali scuri. Lei sorrise e gli rivolse un'esagerata scrollata di spalle, notando che già il volto dell'uomo si distendeva in un gran sorriso. Lui sollevò una mano, come a dire: "Nessun problema" quindi accelerò, superandola. Lei accese la radio e la sintonizzò sulla frequenza della polizia di Stato. «Squadra omicidi della contea di Monroe, uno-quattro. Risponda.» «Omicidi, qui agente Willis. L'ho cronometrata, andava a centocinquanta. Siamo di fretta?» «Mi spiace, agente. È una bella giornata, sono su un buon caso, avevo deciso di prendere un po' d'aria. Starò più attenta.» «Nessun problema, uno-quattro. Ehm... ha tempo di fermarsi a mangiare un boccone?» Lei scoppiò a ridere. Un rimorchio ad alta velocità. «Hmm, negativo, per ora. Ma riprovi fra un paio di giorni, alla sottostazione di Key Largo.» «Lo farò.» Lo vide sollevare la mano in segno di saluto e accostare l'auto alla corsia di emergenza. "Nutrirà qualche speranza per un paio di giorni" pensò lei, e quasi desiderò di chiedere scusa in anticipo. Rimarrà deluso. Aveva una regola: non andare mai a letto con un poliziotto. Non andare mai a letto con nessuno che sapeva avrebbe dovuto rivedere. Per la seconda volta si toccò la cicatrice di fianco all'occhio. "Due cicatrici" pensò. "Una fuori, l'altra dentro".
Proseguì diretta a nord verso Miami. La centralinista della redazione del Miami Journal le disse che Matthew Cowart non era in ufficio. La sorpresa s'impadronì di lei, subito seguita da un rapido accesso di eccitazione. "È in cerca di qualcosa", pensò. "Sta inseguendo qualcuno." Chiese di vedere il caporedattore della cronaca, allo stesso tempo ripensando ai suoi sospetti. La centralinista scambiò qualche parola al telefono interno, indicandole quindi un divano, seduta sul quale lei attese, agitata. Passarono venti minuti prima che il caporedattore emergesse da dietro la doppia porta e le andasse incontro. «Mi spiace di averla fatta aspettare» disse subito. «Eravamo in riunione di redazione e non potevo andarmene.» «Vorrei parlare ancora con Cowart» annunciò lei, cercando di allontanare l'eccitazione e la fretta dal tono della sua voce. «Credevo avesse raccolto la sua deposizione, l'altro giorno.» «Non del tutto.» «No?» Lui si strinse nelle spalle, come a dire che non nutriva alcuna comprensione per le opportunità mancate. «Ci sono un paio di cose che forse potrebbe chiarire.» «Spiacente, ma non è qui» rispose il caporedattore. Corrugò la fronte. «Forse potrei aiutarla io?» Lei si accorse di quanto insincera fosse la sua offerta. «Be'» disse in un tono di entusiasmo decisamente falso «proprio non riesco a figurarmi come Sullivan sia riuscito a prendere accordi per portare a termine le sue faccende...» Agitò una mano per bloccare la risposta del caporedattore. «...Lo so, voglio dire, non sono certa di quanto possa dirmi di più Cowart, ma continuo a non sentirmela, questa faccenda, e speravo che lui potesse aiutarmi.» Pensò che tutto suonasse abbastanza innocuo. Previde un raddolcimento nel tono di voce del caporedattore. «Be', diavolo» rispose lui «credo proprio che tutti stiano cercando di rispondere alle sue stesse dannate domande.» Lei rise. «È proprio una bella situazione, vero?» Lui annuì, sorridendo, pur se ancora circospetto. «Penso che le abbia detto tutto quello che poteva. Ma...» «Però» replicò lei lentamente «forse ora che ha avuto modo di riflettere su quanto ha sentito potrebbe ricordarsi di qualcos'altro. Si sorprenderebbe nel sapere ciò che la gente riesce a ricordare dopo che ha avuto il tempo di
pensarci.» Il caporedattore della cronaca sorrise. «Non me ne sorprenderei affatto. Quello di cui si ricorda la gente è anche il nostro campo.» Cambiò posizione e si passò una mano fra i capelli. «È fuori per un servizio.» «Dove?» Il caporedattore esitò prima di rispondere. «Rorida del nord.» Per un istante lui assunse l'aspetto di qualcuno che, nel dare quell'informazione, fosse stato improvvisamente colto da un malore. La Shaeffer sorrise. «È grande, la Florida del nord.» Il caporedattore scrollò le spalle. «Questa faccenda ha avuto due sole ambientazioni. Lo sa. Il carcere di Starke e quella piccola città, Pachoula. Non credo ci sia bisogno che glielo sillabi. Ora mi deve scusare, investigatrice Shaeffer, ma devo tornare a lavorare.» «Potrebbe dire a Cowart che gli devo parlare?» «Glielo dirò. Ma non posso prometterle nulla. Dove sarà?» «Sulle sue tracce» rispose lei. Si alzò in piedi per andarsene, quando le venne in mente qualcosa. «Potrei dare un'occhiata ai primi articoli di Cowart?» Il caporedattore della cronaca fece una pausa, pensieroso, quindi con un cenno indicò la biblioteca del quotidiano. «Laggiù le daranno una mano» disse. «Se c'è qualche problema, dica di mettersi in contatto con me.» Si sistemò a una scrivania, sfogliando un'enorme raccolta rilegata di arretrati del giornale. Per un istante fu colpita dalla gran messe di catastrofi che il quotidiano documentava, ma presto giunse all'edizione della domenica con il primo servizio di Matthew Cowart sull'omicidio di Joanie Shriver. Lo lesse attentamente, prendendo appunti, segnandosi nomi e date. Scendendo in ascensore verso l'ingresso principale, cercò di dare ordine ai pensieri che le scorrazzavano in testa. Giunto al piano terra, l'ascensore rallentò fino a fermarsi; lei prese a camminare verso l'uscita, ma si bloccò nel mezzo dell'atrio. "La faccenda ha avuto due sole ambientazioni" aveva detto il caporedattore. Ripensò al piccolo ufficio di Cowart. "Cosa lo porta fino a Blair Sullivan?" pensò. "L'assassinio di una ragazzina a Pachoula. Chi c'è al centro di quell'omicidio? Robert Earl Ferguson. Chi collega Sullivan a Cowart? Robert Earl Ferguson. Chi gli procura il premio? Robert Earl Ferguson." Girò sui tacchi e fece ritorno verso un angolo dell'atrio, dove si trovava una serie di telefoni pubblici. Controllò i suoi appunti e compose il numero
dell'ufficio informazioni abbonati di Pachoula. Infine chiamò il numero che il messaggio elettronico le aveva fornito. Dopo aver parlato con una segretaria, finalmente udì la voce dell'avvocato all'altro capo del filo. «Parla Roy Black. In che posso aiutarla, signorina?» «Signor Black» rispose lei «parla Andrea Shaeffer. Sono del Miami Journal...» Sorrise, godendo del suo piccolo inganno. «Dovremmo metterci in contatto con il signor Cowart, e sappiamo che è andato a Pachoula, a trovare il suo cliente. È importante che lo rintracciamo, e nessuno qui in ufficio sembra avere il numero. Mi chiedevo se lei poteva aiutarmi. Mi spiace davvero di averla disturbata...» «Nessun problema, assolutamente, signorina. Ma Bobby Earl se n'è andato da Pachoula. È su a Newark, nel New Jersey. Non so perché il signor Cowart sia tornato a Pachoula.» «Oh» esclamò lei, conferendo alla sua voce un tono di insincera sorpresa e di finta impotenza. «Sta lavorando su un seguito dopo l'esecuzione di Blair Sullivan. Pensa che sia andato su nel New Jersey? È stato molto vago circa il suo itinerario, ma ora è molto importante che noi lo rintracciamo. Non avrebbe un indirizzo? Detesto disturbarla, ma a quanto pare nessuno, qui, riesce a trovare l'indirizzario di Cowart.» «Non mi piace dare indirizzi a destra e a manca» rispose riluttante l'avvocato. «Oh» riprese lei in tono allegro «ha ragione. Suppongo di no. Dio, ragazzi, e adesso come farò a trovarlo? Il mio capo chiederà di sicuro la mia testa. Non sa come possa rintracciarlo su a nord?» L'avvocato esitò. «Ah, che diavolo» disse infine. «Glielo darò. Deve solo promettermi che non lo comunicherà ad altri mezzi di informazione, né a nessun altro. Il signor Ferguson sta cercando di lasciarsi alle spalle tutta questa storia, lei mi capisce. Una nuova vita.» «Dio, lo farebbe davvero? Glielo prometto. Capisco benissimo» rispose con fasullo entusiasmo. «Stia in linea» disse l'avvocato. «Sto cercando.» Attese paziente, nascondendo la sua ansia. Quelle banali falsità, quella messa in scena non avevano rappresentato un problema. Si chiese se sarebbe riuscita a prendere il primo volo diretto a nord. Non sapeva con esattezza cosa avrebbe fatto con Ferguson una volta che l'avesse trovato, ma di una cosa era certa: le risposte a tutte le sue domande ronzavano attorno a quell'uomo. Rivide i suoi occhi che la guardavano dalle pagine del giorna-
le. L'uomo innocente. 17 Newark L'aereo si tuffò sotto un sottile strato di nuvole nel suo avvicinamento finale all'aeroporto, e lei poté vedere la città sorgere a distanza, come una serie di cubi giocattolo gettati uno sopra l'altro. Un debole sole d'inizio primavera illuminava la giungla di alti edifici rettangolari. Guardando dal finestrino, lei ebbe la sensazione dell'aprile bagnato del nord, e per un istante rimpianse il caldo schietto delle Keys. Quindi scacciò ogni pensiero dalla mente, eccetto quelli relativi a Ferguson. Valutando ogni elemento, prese una decisione. Giocalo come un pesce forte con una lenza leggera; un movimento improvviso o una pressione esagerata potrebbe rompere la lenza e liberarlo. Si trattava del più sottile dei fili. Non vi era nulla che collegasse Ferguson agli omicidi di Tarpon Drive, tranne le affermazioni di un giornalista. Nessun testimone, niente impronte digitali, niente gruppo sanguigno. Nemmeno un modus operandi, visto che lo stupro e l'assassinio di una ragazzina avevano ben poco in comune con l'orrendo massacro di una coppia di anziani. E se si dava retta a Cowart e al suo giornale, lui non era colpevole nemmeno del primo elemento dell'equazione. Mentre l'aereo volteggiava nell'aria, poté scorgere l'ampio nastro della New Jersey Turnpike serpeggiare sotto di lei e puntare sia a nord sia a sud. Fu colpita da un improvviso, deprimente ripensamento: si era lasciata trascinare in un'assurda deviazione, avrebbe fatto meglio a prendere il primo volo per la Florida e tornare al fianco di Weiss. Tutto le era sembrato così chiaro nell'atrio del Miami Journal. Ora il cupo, grigio cielo del New Jersey pareva fare il verso alle insicurezze che in lei avevano preso il sopravvento. Si chiese se Ferguson avesse imparato qualcosa dalla sua prima volta. Era probabile. L'impressione che si era fatta di lui, raccolta dalle parole di Cowart, era quella di un uomo intelligente, istruito, e tutt'altro che simile alla maggior parte dei detenuti. Peccato. Uno dei contraddittori assiomi del lavoro di polizia era che il sospetto fosse facile da far inciampare. In realtà era vero il contrario. Ma con Ferguson, sospettava lei, era tutta un'altra faccenda. Però... si rammentò di un episodio successo sulla barca da pesca del suo
patrigno, una mezza dozzina di anni prima. Stavano pescando, una sera, approfittando della marea in movimento tra i piloni di uno degli innumerevoli ponti che univano fra loro le Keys. Il cliente aveva preso un grosso tarpone, ben oltre i cinquanta chili. Era saltato due volte fuori dall'acqua, le branchie tremanti, agitando la testa avanti e indietro, e poi si era immerso, tagliando le acque scure con la sua argentea forma slanciata. Aveva preso la direzione della corrente, usando la forza dell'acqua come aiuto nella sua battaglia contro la pressione della lenza. Il cliente aveva resistito, tenace, grugnendo a gambe aperte, la schiena ricurva, lottando con il pesce per quasi un'ora. Il grosso tarpone aveva tirato e tirato, guadagnando lenza, diretto verso il pilone del ponte. Era furbo. E forte. Si era reso conto che se fosse riuscito ad arrivare laggiù, avrebbe potuto tagliare la lenza. Tutto quello che avrebbe dovuto fare era far passare quel pezzo teso e sottile di monofilamento contro il pilone. Quel pesce aveva già abboccato in precedenza. Conosceva il dolore dell'amo nelle fauci, e la forza della lenza che lo tirava in superficie. Ed era questa familiarità a conferirgli la sua forza. Non vi era panico nel modo in cui lottava. Soltanto una rabbia sicura e intelligente, che lo spingeva verso il ponte e verso la salvezza. Quello che lei aveva fatto allora era sembrato una follia. Era balzata a fianco dell'uomo, e con un singolo, impulsivo movimento aveva bloccato il mulinello. Quindi aveva urlato: "Getti via tutto! Getti via tutto!" L'uomo le aveva rivolto un'occhiata feroce, e lei in tutta risposta gli aveva strappato di mano la canna, e l'aveva lanciata dalla fiancata. La canna aveva creato una piccola scia mentre veniva trascinata nell'acqua. "Cosa diavolo..." aveva iniziato a dire l'uomo, adirato, ma era stato interrotto dalla manovra del suo patrigno, che aveva fatto virare la barca nel canale e l'aveva lanciata sotto il ponte, rallentando quando era giunto all'estremità. Lei poteva vedere il patrigno in piedi sul ponte superiore, intento a scrutare l'oscurità; e finalmente lui aveva indicato qualcosa. Si erano voltati e avevano visto la canna, il suo manico di sughero che galleggiava nell'acqua, a meno di venti metri di distanza. Si erano avvicinati, lei si era allungata dalla fiancata della barca e l'aveva afferrata, nello stesso tempo liberando la lenza dal mulinello. "Ora" aveva quindi ordinato al pescatore, "lo recuperi". L'uomo aveva dato uno strattone alla canna, aprendosi in un gran sorriso nel sentire la resistenza all'altro capo della lenza. Il tarpone, ancora agganciato, èra a quel punto schizzato in superficie, sorpreso e sconvolto nel sentire l'amo tirare di nuovo. Aveva fatto un gran salto nel-
l'aria, l'acqua scura che gli colava dal corpo. E lei si era resa conto che quello sarebbe stato l'ultimo tentativo del grosso pesce; si era accorta del senso di sconfitta in ogni scossone del suo capo, in ogni movimento del suo corpo. Nel giro di altri dieci minuti avevano recuperato il tarpone fino alla fiancata della barca. Lei l'aveva agganciato e l'aveva tirato a bordo. Vi era stato un profluvio di fotografie, e infine avevano rimesso in acqua il loro trofeo. Sporgendosi dalla fiancata, lei aveva aiutato la preda a riprendere conoscenza, reggendola nell'acqua. Ma prima di liberarla, aveva afferrato una delle sue grosse scaglie, della grandezza di un mezzo dollaro, e l'aveva strappata. Si era messa la scaglia nella tasca della camicia, osservando il pesce allontanarsi lento, la sua coda a falce che tagliava la nera superficie dell'acqua. Un pesce furbo. Un pesce forte. "Ma io sono stata più furba, e ciò mi ha reso più forte." Di nuovo sì figurò Ferguson. "Già all'amo una volta" pensò. L'aereo ronzò e si fermò bruscamente. La Shaeffer raccolse le sue cose e si diresse all'uscita. Il capitano di collegamento del dipartimento di polizia di Newark ordinò a una coppia di agenti in uniforme di accompagnarla all'appartamento di Ferguson. Dopo le presentazioni e le solite chiacchiere di circostanza, i due la condussero attraverso la città, verso l'indirizzo che lei aveva loro fornito. Seguendo il percorso, la Shaeffer si disse che quelle strade parevano appartenere a un quartiere dell'inferno. Gli edifici di luridi mattoni e di cemento annerito erano venati di sudiciume e di disperazione. Perfino la luce solare che si rifletteva sulle strade sembrava grigia. Era tutta un'interminabile processione di piccoli uffici, negozi di abbigliamento a buon mercato, bettole, agenzie di prestiti, rivendite di elettrodomestici, e saloni di mobili in affitto; ogni vetrina pareva aggrapparsi ai marciapiedi ricoperti di spazzatura con una sorta di decrepita energia. Ovunque vi erano nere sbarre di acciaio, necessarie alla sopravvivenza nel ghetto della città. Ogni angolo sembrava occupato da un diverso grappolo di uomini oziosi, di bande giovanili, di appariscenti prostitute. Perfino i fast-food, con i loro uniformi codici di ordine e pulizia, davano l'impressione di essere logori e cenciosi, ben distanti dalle loro controparti in altre aree. L'intera città era come un pugile al tramonto, aggrappato alle ultime riprese di un combattimento di troppo, barcollante ma ancora inspiegabilmente in grado di reggersi in piedi, soltanto perché troppo vecchio o troppo stupido o troppo testardo per
cadere. «Ha detto che il tipo va a scuola, investigatrice? Nemmeno per sogno. Non qui» disse uno degli agenti, un nero taciturno dai capelli grigi, accarezzandosi le tempie. «È quello che mi ha detto il suo avvocato» rispose lei. «C'è soltanto una scuola, quaggiù. È quella dove impari a fare la puttana, o il magnaccia, o lo spaccia, o lo scassinatore. E non so come si potrebbe chiamare, una scuola del genere.» «Be', forse» intervenne il collega alla guida dell'auto, un uomo più giovane, dai capelli biondi color sabbia e dai baffi spioventi «non è del tutto vero. Ci sono un sacco di persone decenti da queste parti...» «Sicuro» lo interruppe l'altro. «Ben nascoste dietro le grate e le 'sbarre di acciaio.» «Non gli badi» disse il biondo. «È il classico caso di quello che si è bruciato. E non le ha detto che è stato proprio qui che ha iniziato, e che è venuto fuori dalle scuole serali. Dunque non è affatto impossibile. Magari il suo uomo prende il treno dei pendolari fino a New Brunswick, e frequenta i corsi alla Rutgers. Oppure segue le classi serali a St. Pete.» «Non quadra. Perché vivere in questa tana per topi, a patto di non esserci costretto?» replicò l'altro agente. «Se ha qualche soldo, potrebbe anche vivere laggiù. L'unica ragione per vivere qui è non avere alcuna possibilità di stare altrove.» «Posso dirtene un'altra, di ragione» rispose il giovane. «E sarebbe?» domandò la Shaeffer. Il poliziotto fece un gesto con il braccio. «Se ti vuoi nascondere. Se vuoi essere inghiottito dall'ambiente. Non c'è miglior posto al mondo.» Indicò un edificio abbandonato, quindi ruotò sul sedile e si volse verso di lei. «Intere parti di questa città sono come la giungla, la palude. Passiamo di fianco a un edificio come quello, e che sia stato bruciato dal fuoco, o abbandonato, qualsiasi cosa gli sia successo, non abbiamo alcuna possibilità di sapere chi vi si nasconda. La gente là dentro vive senza elettricità, senza riscaldamento, senz'acqua. Le bande vi si ritrovano e ci nascondono le armi. Diavolo, in uno di questi edifici potrebbero anche esserci cento cadaveri e noi non li troveremmo mai. Non sapremmo mai nemmeno della loro esistenza.» Fece una pausa per un istante. «Il luogo perfetto per far perdere le proprie tracce. Chi mai potrebbe venire fin quaggiù a cercare qualcuno, a meno che non ne abbia veramente bisogno?» domandò.
«Io, suppongo» rispose lei. «Cosa vuole da quell'uomo?» chiese il giovane alla guida dell'auto. «Potrebbe avere qualche informazione relativa a un doppio omicidio sul quale sto lavorando.» «Pensa che ci causerà qualche problema? Magari dovremmo chiedere un rinforzo. È una faccenda di droga?» «No. Assomiglia più a un omicidio su commissione.» «Ce lo garantisce? Voglio dire, non vorrei inciampare in un cristone dagli occhi lucidi con in mano un Uzi e mezzo chilo di crack.» «No. Niente del genere.» «È un sospetto?» Lei esitò. "Lo era?" «Non esattamente. Solo qualcuno con cui ho bisogno di fare quattro chiacchiere. Potrebbe portarmi in tutte le direzioni.» «D'accordo. La prenderemo in parola» disse il giovane. «Ma non vado pazzo per questa storia. Che ne sa del tizio, alla fine della fiera?» «Non molto.» «Dunque sta solo sperando che le dica qualcosa di utile, giusto?» «L'idea è quella.» «Partita di pesca, eh?» Lei sorrise all'accenno ironico. «Esatto.» Lo vide rivolgere una rapida occhiata al suo collega. Quindi, sbuffando, i due agenti tornarono a concentrarsi sul percorso. Superarono un gruppetto di uomini di fronte a un piccolo supermercato. Lei poté scorgere gli sguardi degli abitanti del ghetto mentre seguivano l'auto di passaggio. "Non hanno alcun dubbio su chi siamo" pensò. Ci hanno inquadrati in un microsecondo. Cercò dì mettere a fuoco i volti in strada, ma si rese conto che si confondevano tra loro. «Eccoci» disse l'agente alla guida. «A metà isolato.» Accostò in uno spazio vuoto. Da una parte era parcheggiato un modello di Cadillac di quattro anni prima, rosso brillante con i fianchi delle gomme bianchi e gli interni in velluto; dall'altra vi era la carcassa di quella che una volta era stata un'automobile. Un ragazzino era seduto sul marciapiede, accanto alla Caddy. «Casa dolce casa» mormorò il giovane agente. «Come se la giocherà, investigatrice?» «Ci andrò leggera» rispose lei. «Prima farò due chiacchiere con il custode, se ce n'è uno. O magari un vicino. Quindi busserò alla sua porta.» L'agente più anziano si strinse nelle spalle. «D'accordo. Noi ce ne stare-
mo a qualche metro alle sue spalle. Ma quando sarà dentro, sarà più o meno da sola.» L'edificio in cui abitava Ferguson era di vecchi mattoni rossi, alto una mezza dozzina di piani. La Shaeffer fece un passo verso l'ingresso, quindi si volse verso il ragazzino seduto sul marciapiede. Indossava una cenciosa tuta da ginnastica e un paio di lucenti scarpe da basket bianche, alte alla caviglia. «Come va?» gli chiese. Il ragazzo scrollò le spalle. «Così.» «Che combini?» Il ragazzo fece un gesto. «Controllo la macchina. Sei della pula?» «Hai indovinato.» «Ma non di qui.» «No. Conosci un tipo che si chiama Robert Earl Ferguson?» «Il tizio della Florida. È lui che cerchi?» «Sì. È in casa?» «Non so. Nessuno lo vede molto in giro.» «E come mai?» Il ragazzo le diede le spalle. «Avrà qualcosa da fare.» La Shaeffer annuì e salì gli scalini dell'ingresso, seguita dai due agenti. Controllò un gruppo di cassette delle lettere, e su una trovò inciso il nome di Ferguson. Prese nota dei nomi di alcuni dei vicini e ne trovò uno seguito dall'abbreviazione "Cust.". Premette il tasto e si avvicinò al citofono. Non vi fu risposta. «Non funziona» disse l'agente più anziano. «Niente del genere funziona, da queste parti» precisò il giovane. La Shaeffer allungò il braccio e provò a spingere la porta d'ingresso. Si aprì senza difficoltà. L'investigatrice provò un momentaneo imbarazzo. «Suppongo che cose come serrature e citofoni funzionino ancora, giù in Florida» commentò il poliziotto anziano. L'interno del condominio era scuro e cavernoso. I corridoi erano stretti, pieni di graffiti ai muri e puzzavano di spazzatura mista a orina. L'agente più giovane la vide evidentemente storcere il naso disgustata, poiché si sbilanciò in un commento: «Ehi, è molto meglio di certe altre.» Indicò il corridoio con un gesto. «Non si vedono ubriaconi nei corridoi, giusto? È già una gran cosa.» Trovò l'appartamento del custode dietro alla tromba delle scale, bussò energicamente per tre volte e dopo qualche istante udì dei rumori provenire
dall'interno. Quindi una voce. «Che vuole?» Sollevò il suo distintivo davanti allo spioncino. «Polizia, signore» annunciò. Vi fu un rumore di serrature che scattavano: tre, forse quattro. Finalmente la porta si spalancò, rivelando un sottile uomo di colore di mezz'età, scalzo e in tuta da lavoro. «È lei il signor Washington? Il custode?» Lui annuì. «Che vuole?» ripeté. «Voglio entrare» rispose lei in modo spiccio. Il custode aprì la porta e li lasciò passare. «Mica ho fatto niente.» La Shaeffer lanciò un'occhiata alla frusta mobilia e ai tappeti consunti, quindi si volse nuovamente verso il custode. «Robert Earl Ferguson» disse. «È di sopra?» L'uomo si strinse nelle spalle. «Forse. Credo. Non sto molto a guardare chi viene e chi va, lei mi capisce.» «E chi lo fa, allora?» «Mia moglie» rispose lui, indicando un punto alle spalle di lei. La Shaeffer si volse e vide una donnetta di colore, grassa tanto quanto suo marito era magro, in piedi in silenzio sotto un passaggio ad arco, una stampella di alluminio a mantenerla in equilibrio. «La signora Washington?» «Presente.» «Robert Earl Ferguson è di sopra?» «Dovrebbe. Oggi non è uscito.» «E come fa a saperlo?» La donna fece un faticoso passo avanti, posizionando con attenzione la stampella davanti a sé. Respirava a rantoli secchi, rapidi, sibilanti. «Non mi muovo più tanto bene. Così passo le mie giornate laggiù...» Indicò una finestra che dava sulla strada principale. «Guardo quello che succede al mondo prima che me ne vada, lavoro a maglia, cose del genere. E alla fine so abbastanza bene quando la gente va e viene.» «E Ferguson, lo fa regolarmente?» La vecchia annuì. La Shaeffer aprì il suo taccuino e prese nota. «E dove va?» «Be', di sicuro non lo so, ma di solito si porta dietro quei suoi libri in una borsa. Tipo uno zaino. Uno di quelli che ti metti sulle spalle quando sei militare, o quando vai a fare una passeggiata, o cose del genere. Esce di pomeriggio. E non lo vedo tornare fino a tardi la sera. Ci sono volte che va
fuori con una piccola valigia. E non torna per un paio di giorni. Credo che viaggi molto.» «È lei è ancora lì, così tardi? A guardare?» «Non dormo troppo bene, se è per quello. Non cammino troppo bene. Non respiro troppo bene. Non faccio niente troppo bene, ormai.» Andrea Shaeffer sentì l'eccitazione impadronirsi di lei. «E com'è la sua memoria?» domandò. «La mia memoria non zoppica, se è questo che intende. La memoria va bene. Cosa vuole sapere?» «Una settimana fa, o forse dieci giorni. Ferguson se ne è andato via di qui? Lo ha visto uscire con la valigia? È rimasto via per un giorno o due? Qualcosa di strano, qualcosa di fuori dell'ordinario?» La donna pensò attentamente. La Shaeffer la vide passare mentalmente in rassegna tutte le entrate e le uscite alle quali aveva assistito. Gli occhi della vecchia si strinsero, quindi si dilatarono leggermente, come se fosse stata raggiunta da un particolare ricordo. Aprì la bocca per dire qualcosa, mentre la mano si agitava nell'aria, abbandonando per un istante la stretta sulla stampella di alluminio. Ma prima che le parole le uscissero dalle labbra, la Shaeffer la vide ripensarci, quasi un secondo ricordo avesse bloccato il primo. I suoi occhi si strinsero di nuovo, fermandosi per un istante sul taccuino che campeggiava nelle mani dell'investigatrice. E finalmente scosse il capo. «Non credo. Ma ci penserò meglio. Non posso esserne sicura senza che ci penso sopra. Sa com'è.» L'investigatrice notò che la donna sembrava agitata. "Ricorda qualcosa" pensò. "Ma non lo vuole dire." «È sicura?» «No» rispose circospetta la donna. «Forse posso ricordare qualcosa, se mi ci concentro. Una settimana, dieci giorni fa, è così che ha detto?» «Esatto.» «Ci penserò.» «D'accordo. Lo faccia. C'è qualcun altro che potrebbe saperlo?» «Nossignora. Lui sta per conto suo. Esce solo nel pomeriggio. Torna alla sera. A volte presto. A volte un po' più tardi. Quel ragazzo non fa mai rumore, non causa mai un disordine, sta lì tranquillo. Non ha nemmeno una ragazza. Ma perché vuole sapere tutto questo? Si è cacciato in qualche pasticcio con la polizia?» «Sa qualcosa di quello che ha fatto negli ultimi anni? Giù in Florida?» Il signor Washington intervenne nella conversazione. «Abbiamo sentito
che è stato dentro per un po'. Ma mente di più.» «Andare in galera non è troppo grave, quaggiù, signora. Più o meno tutti ci sono passati» riprese la moglie. Rivolse un'occhiata al marito. «E lo sa il Signore, chi non è stato dentro ci potrebbe finire in quattro e quattr'otto. È così che le cose vanno quaggiù. Sissignore.» «Come paga il suo affitto?» domandò la Shaeffer. «In contanti. Ogni primo del mese. Senza problemi.» Lei ne prese nota. «Ma non è molto, sa. 'Sto posto non ha niente di particolare, nel caso non l'abbia notato.» «L'avete mai visto in possesso di un coltello? Un coltello da caccia? Mai visto qualcosa del genere nel suo appartamento?» «Nossignora.» «Una pistola?» «No, non penso. Ma credo che molta gente quaggiù ne ha una, nascosta da qualche parte.» «Qualcosa che ricordate di lui. Qualcosa di fuori dall'ordinario...?» «Be', non è molto normale che uno, quaggiù, passa tutto il suo tempo su quei libri.» La Shaeffer annuì. Allungò sia alla moglie sia al marito il suo biglietto da visita, sul quale, in rilievo, era riportato lo stemma del dipartimento di polizia della Contea di Monroe. «Se vi viene in mente qualcosa, chiamatemi. A mie spese. Mi troverete a questo numero per un paio di giorni.» Scrisse il numero del motel vicino all'aeroporto nel quale aveva lasciato il suo bagaglio. Entrambi fissarono con deferenza i biglietti, mentre la Shaeffer usciva dall'appartamento. Nell'atrio, il poliziotto più anziano la guardò. «Ha scoperto qualcosa? Non mi sembrava niente di particolarmente eccitante. Tranne che la vecchia le ha mentito dicendole che non si ricordava di quello che è successo una settimana fa.» «Sicuro come l'inferno che qualcosa se lo ricordava» intervenne l'agente più giovane. «L'avete notato anche voi?» «Non si poteva non notare. Ma che diavolo, non ho idea di cosa significhi. Più che probabile che non voglia dire nulla. Che ne pensa, investigatrice?» «Ci stiamo arrivando» rispose lei. «È ora di vedere se il nostro amico è in casa.»
18 Un uomo conveniente Fece un lento, profondo respiro nel tentativo di tenere a bada il cuore che pareva balzarle fuori dal petto. Il corridoio del condominio era buio, se si eccettuava una finestra che, in fondo, consentiva a un debole fascio di luce di penetrare attraverso uno strato di grigio smog. Non aveva idea di cosa aspettarsi. "Un assassino non ancora smascherato" pensò. Chi è Ferguson? Un lato del triangolo. Un uomo che studia, ma che a volte fa la valigia e se ne va da qualche parte per diversi giorni. Bussò di nuovo, e dopo un attimo udì la risposta prevista. «Chi è?» «Polizia.» La parola aleggiò nell'aria davanti a lei, riecheggiando nel poco spazio a disposizione. Passò qualche secondo. «Che volete?» «Devo farle qualche domanda. Apra la porta.» «Che tipo di domande?» Poteva captare la presenza dell'uomo a pochi centimetri di distanza, nascosto dietro la barriera di legno scuro della porta. «Apra.» I due agenti alle sue spalle si irrigidirono, ognuno accennando ad arretrare di un passo, portandosi fuori dalla linea diretta di fuoco. Lei riprese a bussare. «Polizia» ripeté. Non sapeva cos'avrebbe fatto, nel caso si fosse rifiutato di aprire. «D'accordo.» Lei non ebbe il tempo di sentirsi sollevata. Credette di avere udito un'esitazione nella voce di Ferguson, qualcosa di simile alla riluttanza propria del bambino sorpreso a fare qualcosa di proibito. "Forse" pensò lei "si è voltato appena prima di rispondere, dando una veloce occhiata all'appartamento, cercando di indovinare cosa avrebbe potuto rivelare. Una prova? Una prova di cosa?" Vi fu il rumore di una serratura di sicurezza che veniva aperta e di una catenella che veniva sganciata, e la porta si aprì di uno spiraglio. Andrea Shaeffer fissò Robert Earl Ferguson. Indossava un paio di jeans e scarpe da ginnastica e un maglione marrone stinto e deformato che gli ciondolava dalle spalle, troppo largo, e che nascondeva la sua reale corporatura. I capelli erano cortissimi, il viso era rasato. La sorpresa le fece quasi fare un
balzo indietro; la forza della rabbia di quell'uomo la colpì come un pugno. I suoi occhi erano fieri, penetranti. Parevano lacerare lo spazio tra di loro. «Cosa vuole?» chiese lui. «Non ho fatto niente.» «Vorrei parlare con lei.» «Ha un distintivo?» richiese. Lei sollevò il suo segno di riconoscimento in modo da consentirgli di esaminarlo. «Contea di Monroe? Florida?» «Esatto. Mi chiamo Shaeffer. Omicidi.» Per un attimo credette di scorgere l'incertezza dipingersi sul volto di Ferguson, come se stesse cercando di ricordarsi qualcosa che gli sfuggiva. «È appena sotto la contea di Dade, giusto? Sotto le Everglades?» «Esatto.» «Cosa vuole da me?» «Posso entrare?» «Non finché non mi avrà detto la ragione per cui è qui.» Nel silenzio che calò su di loro, Ferguson parve esaminarla con lo sguardo. Lei si rese conto di essere alta quasi come lui, e che la costituzione fisica dell'uomo non pareva certo più solida della sua. Ma quello era anche il tipo d'uomo per il quale stazza e forza erano elementi irrilevanti. «È molto lontana da casa» commentò lui. Quindi lanciò un'occhiata fulminante agli agenti alle spalle di lei. «E loro?» «Sono di qui.» «Aveva paura a venire da sola?» I suoi occhi si assottigliarono in un'espressione sgradevole. I due agenti di scorta fecero un passo avanti, coprendo la distanza che li separava dalla porta. Ferguson rimase fermo sulla soglia di casa, incrociando le braccia sul petto. «No» rispose lei immediatamente, provocando nell'altro un solo, rapido sorriso, che subito si dileguò. «Non ho fatto niente» ripeté lui, ma in un tono più piatto, come quello di un avvocato che ripeta un concetto per una trascrizione in aula. «E io non l'ho accusata di niente.» Ferguson sorrise. «Ma non sarebbe venuta dalla contea di Monroe fin quassù in questo luogo di delizie, se non avesse avuto una ragione più che buona, giusto?» Fece un passo indietro. «D'accordo. Può entrare. E farmi le sue domande. Non ho niente da nascondere.» Pronunciò l'ultima frase ad alta voce, rivolgendosi direttamente ai due
poliziotti del New Jersey. Lei fece il suo ingresso nell'appartamento. Non appena lo ebbe superato, Ferguson si portò fra lei e i due agenti di scorta, sbarrando loro la strada. «Non ho invitato i due gorilla» disse bruscamente. «Solo lei. A meno che non abbiano un mandato.» La Shaeffer si volse, sorpresa. Vide i due poliziotti di Newark montare visibilmente in collera. Come tutti gli sbirri, non erano abituati a prendere ordini dai civili. «Spostati» ordinò il poliziotto più anziano. «Neanche per sogno. È lei che deve farmi una domanda. È lei che entra e me la fa.» L'agente più giovane fece per portare la mano sul petto di Ferguson, come per spostarlo, ma parve ripensarci. «Va tutto bene» sbottò la Shaeffer. «Ce la faccio da sola.» I due poliziotti esitarono. «Non è la procedura regolare» le disse l'anziano. Poi si volse verso Ferguson. «Vuoi farmi perdere la pazienza, stronzetto?» Ferguson non mosse un muscolo. La Shaeffer fece un rapido cenno di diniego con la mano. Per qualche istante tutti rimasero immobili, in attesa; infine i due agenti di scorta arretrarono nel corridoio. «D'accordo» disse l'anziano. «Aspetteremo qui.» Si rivolse a Ferguson. «Ho una buona memoria per le facce, stronzo» sibilò. «E la tua è appena entrata nell'elenco.» Ferguson gli rivolse un sogghigno. «E tu sei entrato nel mio.» Fece per richiudere la porta, ma l'agente più giovane allungò il braccio, a mo' di giocatore di football, bloccandola. «Questa rimane aperta, d'accordo?» disse. «Così evitiamo i problemi.» La mano di Ferguson ricadde dalla porta. «Se è così che preferite.» Si voltò e guidò la Shaeffer nell'appartamento. Camminando, le si rivolse: «Li ho già visti, e molte volte. Come una buona metà dei secondini nel braccio della morte. Credono di dover fare i duri. Non sanno cosa significa veramente essere un duro.» «Che cos'è un duro, signor Ferguson?» «Un duro è chi sa il giorno e l'ora della propria morte. È quando si è perfettamente sani, ma la società ti ha appiccicato addosso una malattia terminale. Un duro è chi sa che ogni respiro lo sta facendo avvicinare all'ultimo.»
Si fermò al centro di un salottino. «Ma che mi dice di lei, investigatrice? Anche lei pensa di essere una dura?» «Quando è necessario» rispose lei. Lui non rise, limitandosi a scrutarla con un misto di sfiducia e scherno. «Si accomodi» disse, scivolando a sua volta nell'angolo di un divano dalle fodere consunte. «Grazie» rispose lei. Ma non si sedette. Prese invece a percorrere la stanza a lenti passi, ispezionandola, allo stesso tempo tenendo un occhio fisso su di lui. Era una cosa che le avevano insegnato. Stare in piedi mentre il soggetto è seduto. È qualcosa che innervosisce chiunque, e dà potere a chi rivolge le domande. Lo sguardo di lui la seguiva attentamente. «Cerca qualcosa?» «No.» «Allora mi dica cosa vuole.» Lei si avvicinò alla finestra e gettò un'occhiata di fuori. Poteva scorgere l'auto rossa del magnaccia e giungere con lo sguardo alle opposte estremità dell'isolato, che non dava segno di vita. «Non c'è molto da guardare» commentò. «Come si fa a vivere qui? Specialmente se non vi si è costretti.» Lui non rispose alla domanda. «Puttane a ogni angolo. Uno spaccio di crack a mezzo isolato di distanza. Che altro? Ladri. Bande giovanili. Tossici...» Gli rivolse una dura occhiata. «Assassini. E lei.» «Esatto.» «Chi è lei, signor Ferguson?» «Uno studente.» «Ce ne sono altri, quaggiù?» «Nessuno che conosca.» «E allora perché vive qui?» «Mi sta a pennello.» «Si sente nel suo ambiente?» «Non ho detto questo.» «E allora perché?» «È sicuro.» Accennò a una risata. «Il posto più sicuro al mondo.» «Non mi ha risposto.» Si strinse nelle spalle. «Si vive dentro se stessi. Non nel mondo esterno. Dentro. È la prima lezione che si impara nel braccio della morte. La prima di molte. Pensa che uno si possa dimenticare delle cose che ha imparato
soltanto perché ne è fuori? Ora, mi dica quello che mi deve dire.» Invece di rispondere, lei continuò a spostarsi nel piccolo appartamento. Gettò uno sguardo dentro a una camera da letto. Vi era un letto singolo piuttosto stretto, e una solitaria cassettiera ricoperta di graffi e segni. Poté scorgere qualche vestito appeso in un misero armadio ricavato da una parete nera. La cucina aveva un piccolo frigorifero, un forno e un lavello. Una pila di piatti e di tazze anonime e sbeccate asciugava sul bancone. Di nuovo in salotto, notò un piccolo tavolo in un angolo, e sopra di esso una macchina per scrivere circondata da fogli di carta. Accanto al tavolo vi era una libreria fatta da mattoni di cemento e assi di pino non dipinte. Si avvicinò al tavolo e diede un'occhiata ai libri sugli scaffali, riconoscendo all'istante diversi titoli: un volume di medicina legale di un ex coroner di New York, uno sulle tecniche di identificazione dell'IBI pubblicato a cura del governo, un terzo sui rapporti tra i mezzi di comunicazione e il crimine, scritto da un professore della Columbia University. Li aveva letti anche lei, al corso dell'accademia di polizia. Ve n'erano molti altri, tutti relativi ai crimini e alle investigazioni, tutti consumati dall'uso, evidentemente di seconda mano. Ne prese uno dallo scaffale e lo sfogliò. Alcuni passi erano stati evidenziati in giallo. «Sono segni suoi?» «No. Mi dica cosa vuole.» Lei ripose il libro e lasciò che lo sguardo corresse sui fogli sparsi sul tavolo. Su uno notò una serie di indirizzi, compreso quello di Matthew Cowart. Ve ne erano diversi di Pachoula, e uno di un avvocato di Tampa che lei non riconobbe. Prese in mano il foglio e rivolse un cenno a Ferguson. «Chi è questa gente?» domandò. Lui parve esitare. «Gente cui devo dei ringraziamenti» rispose quindi. «Gente che mi ha aiutato nella mia lotta per uscire di prigione.» Lei ripose il foglio di carta. Accanto al tavolino vi era una pila di giornali. Si accosciò e li passò in rassegna. Vi erano le pagine locali e le prime pagine. Alcuni dei quotidiani erano del New Jersey, altri della Florida. Vide alcuni numeri del Miami Journal, del Tampa Tribune, del Si. Petersburg Times, e di altri. Prese un numero del Newark Star-Ledger e lesse un titolo: FAMIGLIA OFFRE RICOMPENSA A CHI SEGNALERÀ FIGLIA SCOMPARSA. «È questo genere di cose che la interessa?» domandò. «Tanto quanto a lei» rispose Ferguson. «Non è vero, investigatrice? Quando prende in mano un giornale, qual è la prima notizia che legge?»
Lei non rispose, limitandosi a riportare lo sguardo sul giornale. Notò che vi era un articolo di cronaca nera a ogni pagina. Altri titoli le balzarono agli occhi: LA POLIZIA INDAGA SULLE PROVE DELLO STUPRO e NESSUN INDIZIO SUL RAPIMENTO, AMMETTE LA POLIZIA. «Dove acquista questi giornali?» Lui la fulminò con lo sguardo. «Passo dalla Florida con una certa frequenza. Faccio discorsi nelle chiese, o a gruppi civici.» I suoi occhi si allacciarono a quelli dell'investigatrice. «Chiese di gente nera, gruppi civici di gente nera. Il tipo di gente che capisce come un uomo innocente possa essere spedito nel braccio della morte. Il tipo di gente che pensa non sia troppo strano che un nero sia molestato dagli sbirri. Che non trova così maledettamente strano che ogni investigatore da strapazzo dello Stato che non riesca a fare un passo avanti sul suo dannato caso decida di pizzicare un uomo di colore innocente.» Continuò a fissarla, e lei fece ricadere il giornale sulla pila degli altri. «Studio criminologia. I mezzi di informazione e il crimine. Ogni mercoledì, dalle cinque e mezza alle sette e mezza del pomeriggio. È una facoltativa. Criminologia 307. Con il professor Morin. Per questo raccolgo quotidiani.» Lei lasciò che il suo sguardo scorresse di nuovo sul tavolo. «Ho il massimo dei voti» aggiunse lui. La sua voce riprese il tono di scherno che aveva abbandonato. «Ora mi dica cosa vuole» ripeté. «D'accordo» rispose lei. La forza del suo sguardo iniziava a metterla a disagio. Si allontanò dal tavolo e gli si parò di fronte. «Quando si è recato per l'ultima volta nelle Keys? Nelle Upper Keys. Islamorada. Marathon. Key Largo. Quando è andato laggiù per parlare con qualche gruppo civico?» Non fece alcun tentativo di nascondere il suo sarcasmo. «Mai stato nelle Keys» rispose lui. «No?» «Mai.» «Naturalmente, se avessi qualcuno che sostiene il contrario, questo dimostrerebbe qualcosa, no?» Le fu facile mentire, ma la sua implicita minaccia parve fargli l'effetto dell'acqua fresca. «Dimostrerebbe che qualcuno le ha fornito un'informazione falsa.» «Conosce una strada chiamata Tarpon Drive?» «No.» «Una casa. Al numero tredici. Ci è mai stato?»
«No.» «Il suo amico Cowart ci è stato.» Lui non diede alcuna risposta. «Sa cosa ci ha trovato?» «No.» «Due" cadaveri.» «È per quello che è qui?» «No» mentì lei. «Sono qui perché non riesco a capire una cosa.» Una gelida rigidità s'impadronì della voce di lui. «Cos'è che non capisce, investigatrice?» «Lei, Blair Sullivan e Matthew Cowart.» Il locale fu invaso da un momentaneo silenzio. «Non la posso aiutare» disse infine Ferguson. «No?» "Ha l'abilità di mettere a disagio qualcuno semplicemente rimanendo fermo", pensò lei. «D'accordo. Mi dica cosa stava facendo nei giorni appena precedenti all'esecuzione del suo caro amico Blair Sullivan.» Per un istante, un'espressione di sorpresa si fece strada sul volto di Ferguson. «Ero qui» rispose quindi. «Stavo studiando. Andavo a lezione. La tabella del mio corso è appesa alla parete, laggiù.» «Appena prima che Sullivan sedesse sulla sedia. Non ha fatto uno dei suoi viaggetti?» «No.» Lui indicò la parete. Lei si volse e vide una tabella attaccata con il nastro adesivo alla tappezzeria stinta. Vi si avvicinò e prese nota degli orari e dei luoghi e dei nomi dei docenti. Il professor Morin e il corso Mezzi di comunicazione e crimine facevano parte della lista. «Lo può provare?» «Lo devo fare?» «Forse.» «Allora forse posso.» La Shaeffer udì una sirena sfrecciare a distanza; il suono penetrò nella piccola stanza. «... E lui non è mai stato mio amico» disse Ferguson. «Per essere precisi, mi odiava. E io odiavo lui.» «Davvero?» «Sì.» «Che ne sa degli omicidi di sua madre e del suo patrigno?» «Si tratta del suo caso?»
«Risponda alla domanda.» «Non ne so nulla.» Le sorrise, quindi proseguì. «No. So quello che ho letto e ho visto in televisione. So che sono stati uccisi pochi giorni prima della sua esecuzione e che lui ha detto a Cowart di avere organizzato la cosa. Era sui giornali. Perfino sul New York Times, investigatrice. Ma è tutto.» Ferguson parve rilassarsi. La sua voce assunse all'improvviso il tono di chi prova piacere a duellare con le parole. «Mi dica come avrebbe potuto organizzare gli omicidi» domandò lei. «Lei che è così esperto del braccio della morte.» «Ha ragione, lo sono proprio.» Ferguson fece una pausa, pensieroso. «Ci possono essere un paio di modi...» Le rivolse un aperto, sgradevole sorriso. «La prima cosa che farei è controllare la lista dei visitatori. Mettono a registro ogni visita, nel braccio. Ogni avvocato, ogni giornalista, ogni amico, ogni membro di famiglia. Tornerei indietro al giorno in cui Sullivan è arrivato al braccio, e da quel giorno controllerei ogni singola persona che sia mai andata a fargli visita. Ce ne sono stati un sacco, sa. Strizzacervelli e produttori e tecnici dell'FBI. E naturalmente, alla fine, Cowart...» La voce di Ferguson aveva assunto una leggera sfumatura di eccitazione. «...E poi parlerei con le guardie. Sa che ci vuole per diventare una guardia del braccio della morte? Deve avere in sé qualcosa dell'assassino, poiché c'è sempre la consapevolezza che un giorno o l'altro dovrà legare un poveraccio sulla sedia. Deve proprio volerlo, per poterlo essere.» Sollevò la mano. «Già, che diavolo, chiaro che le diranno che si tratta di un lavoro come un altro, che non c'è nulla di personale, e niente di diverso dalle altre sezioni della prigione, ma non è vero. Per andare nelle ah Q, R ed S devi offrirti volontario. E ti deve piacere ciò che stai facendo. E quello che potresti dover fare.» Sollevò lo sguardo su di lei, e parve improvvisamente più attento, circospetto. «...E suppongo che, se pensi che legare qualcuno a una sedia e friggergli il culo sia una faccenda da niente, allora diventa maledettamente facile anche legare qualcuno a una sedia e tagliargli la gola.» «Non ho detto che gli hanno tagliato la gola.» «Era su tutti i giornali.» «Chi?» domandò lei. «Mi dia un nome o due.» «Mi sta chiedendo di aiutarla?» «Nomi. Con chi parlerebbe, nel braccio?» Ferguson scosse il capo. «Non so. Ma ce n'era, di gente del genere. Lo potevi capire. Il braccio è una società di assassini. Non ci voleva molto a
capire che alcuni dei carcerieri appartenevano all'altra parte.» Continuava a sorriderle. «Vada, e controlli di persona» disse. «Una brava investigatrice come lei non dovrebbe metterci troppo a capire chi è corrotto e chi no.» «Una società di assassini» ripeté lei. «E lei come c'entrava, signor Ferguson?» «Io non c'entravo. Ero ai margini.» «E quanto avrebbe dovuto pagare?» Lui scrollò le spalle. «Non ne ho idea. Tanto? Poco? La moneta di scambio è un elemento difficile da valutare, investigatrice, poiché la persona giusta potrebbe fare la cosa sbagliata per un sacco di ragioni diverse.» «Cosa significa?» «Be', prenda a esempio Blair Sullivan. La potrebbe anche uccidere per nessuna ragione al mondo. Per nessuna altra ricompensa se non il puro piacere di farlo, no, investigatrice? Ha mai conosciuto una persona del genere? Scommetto di no. Ha l'aria un po' troppo giovane e inesperta.» Quegli occhi non l'abbandonarono un istante, mentre lei cambiava nervosamente posizione. «E sa, investigatrice, ci sono alcuni, nel braccio, che odiano la polizia talmente a fondo che ammazzerebbero uno sbirro gratis. E godrebbero ogni istante, facendolo. Specialmente se fossero in grado, ha presente, di tirarla per le lunghe. Di farla durare.» All'improvviso, in segno di scherno, adottò un tono cantilenante. «E godrebbero in modo speciale uccidendo una donna poliziotto, non crede, investigatrice? Un piacere speciale, unico, decisamente terribile.» Lei non rispose, lasciando semplicemente che le dure parole dell'uomo le scorressero addosso come acqua fredda. «... O il signor Cowart. Mi è parso che potrebbe fare qualsiasi cosa per una storia degna di nota. Che ne pensa, investigatrice?» Lei provò un impulso irrefrenabile. «E che ne dice di lei, signor Ferguson? Che prezzo chiederebbe per uccidere qualcuno?» Il sorriso gli scivolò via dal volto. «Mai ucciso nessuno. E mai lo farò.» «Non era questa la mia domanda, signor Ferguson. Cosa vorrebbe in cambio?» «Dipende» rispose lui, una gelida calma nel suo tono di voce. «Dipende da cosa?» chiese lei. «Dipende da chi dovrei uccidere.» Le lanciò un'occhiata dall'altro lato del locale. «Non è così per tutti, investigatrice? Per qualche omicidio si chiederebbe un sacco di soldi, non è vero? Mentre altri li si farebbe gratis.»
«Che farebbe lei gratis, signor Ferguson?» Lui sorrise di nuovo. «Non potrei dirlo. Non ci ho mai pensato.» «Davvero? Non è quello che ha detto a quei due investigatori della contea di Escambia. E nemmeno quello che ha concluso la giuria.» Una furia a stento trattenuta squarciò la compiaciuta superficie del volto di Ferguson. «Mi è stata strappata con la violenza» rispose in tono amaro, cupo. «Lo sa perfettamente. Il giudice l'ha annullata. Non ho fatto niente a quella ragazzina. È stato Sullivan, è stato lui a ucciderla.» «E il prezzo?» «In quel caso» rispose freddamente Ferguson «il prezzo è stato pagato in puro piacere.» «E che mi dice di Sullivan e della sua famiglia? Quanto pensa abbia pagato per quei due omicidi?» «Blair Sullivan? Sospetto che abbia offerto la sua anima, pur di portarli con sé.» Si sporse in avanti, abbassando la voce. «Sa cosa mi ha detto, prima che mi rendessi conto che era stato lui a uccidere la ragazzina che mi aveva fatto finire nel braccio? Continuava a parlare di cancro, ha presente. Manco fosse un maledetto dottore, sapeva tutto del male. Iniziava a parlare di cellule deformate e strutture molecolari e crolli del DNA, e di come questo piccolo, minuscolo, microscopico male lavora al tuo interno, seminando il male nel tuo organismo e dandosi da fare in modo da raggiungere i tuoi polmoni e il colon e il pancreas e il cervello e chissà cos'altro, e farti marcire dal di dentro. E quando finiva il suo discorso, si appoggiava sulla schiena e diceva che lui era la stessa cosa, nessuna differenza. Che ne pensa di questo, investigatrice?» Ferguson si appoggiò a sua volta, come a rilassarsi, ma la Shaeffer poté scorgere i muscoli sotto la sua maglia contrarsi. Non rispose, ricominciando a muoversi nell'appartamento. Ebbe la sottile impressione che il pavimento le mancasse da sotto i piedi. «Le ha parlato della morte?» Ferguson si sporse nuovamente in avanti. «È un soggetto frequente, nel braccio della morte.» «E cos'ha imparato?» «Ho imparato che è la cosa più comune del mondo, vero investigatrice? È dappertutto, dovunque si guardi. La gente crede che morire sia qualcosa di speciale, ma non lo è, non è vero?» «Alcune morti sono speciali.»
«Di sicuro saranno quelle che le interessano.» «Esatto.» Lo vide sporgersi leggermente, come ad anticipare la sua prossima domanda. «Le piacciono le scarpe da ginnastica?» chiese all'improvviso. Per un attimo, credette che fosse stato qualcun altro a parlare nella piccola stanza. Lui parve lievemente sorpreso. «Certo. Le porto sempre. Tutti le portano, qui.» «Che mi dice di quel paio. Di che marca sono?» «Sono Nike.» «Sembrano nuove.» «Comprate la settimana scorsa.» «Ne ha un altro paio nell'armadio?» «Sicuro.» Gli passò davanti, diretta alla camera da letto sul retro. «Stia seduto» disse. Poteva sentire il suo sguardo seguirla, penetrante. Nell'armadio vi era un paio di scarpe da basket alte alla caviglia. Le sollevò. "Dannazione!" pensò all'improvviso. Erano Converse, e abbastanza vecchie e usate da essersi consumate sulle punte. Ciononostante le rovesciò e ne ispezionò le suole. In corrispondenza dell'avampiede la gomma era tutta consumata. Scosse il capo. Sarebbe venuto fuori dalle analisi. E il disegno della suola era diverso da quello delle Reebok che l'assassino indossava quando aveva visitato il numero tredici di Tarpon Drive. Rimise a posto le scarpe e tornò a fronteggiare Ferguson. Lui la guardò. «Dunque, avete un'impronta?» Lei restò in silenzio. «...E all'improvviso ha pensato che era meglio controllare il mio armadio.» La fissò. «E cos'altro avete?» Dopo un attimo si rispose da solo. «Non molto, vero? Ma cosa la porta qui?» «Gliel'ho detto. Matthew Cowart. Blair Sullivan. E lei.» In un primo tempo lui non rispose. La Shaeffer poteva vedere la sua mente al lavoro, rapida. Infine parlò, in un tono di voce piatto, rabbioso. «È così, allora, che andrà? D'ora in poi? Un culone imbranato di un poliziotto della Florida ha bisogno di incastrare qualcuno per un omicidio, e io sarò l'uomo più conveniente, giusto? Già condannato una volta, e dunque un candidato perfetto per qualsiasi caso non riusciate a risolvere subito.» «Non ho mai detto che lei era un sospetto.» «Ma ha voluto vedere la mie scarpe da ginnastica.»
«Routine, signor Ferguson. Sto controllando le scarpe di chiunque. Perfino quelle di Cowart.» Ferguson sbuffò una mezza risata. «Sicuro. Che marca porta il signor Cowart?» Lei proseguì rapida nella menzogna. «Reebok.» «Certo. Devono essere nuove anche le sue, perché l'ultima volta che l'ho visto portava un paio di Converse, proprio come le mie.» Lei non rispose. «Dunque sta controllando le scarpe da ginnastica di tutti. Ma io sono quello facile, vero? Non sarebbe un bel risultato collegarmi a quell'omicidio, investigatrice? Le procurerebbe dei bei titoloni. E magari anche una promozione. E nessuno si informerebbe sulle sue motivazioni.» La Shaeffer decise di sfruttare le parole di Ferguson a suo favore. «E perché mai lei sarebbe così facile?» «Lo sono sempre stato, lo sarò sempre. E se non sarò io, sarà qualcuno come me: giovane e nero. Mi rende automaticamente un sospetto.» Lei scosse il capo. Ferguson fu sul punto di scattare in piedi dalla rabbia. «Dice di no? E quando avevano bisogno di qualcuno a Pachoula, chi è che sono venuti a cercare? E lei? Si convince che siccome conoscevo Blair Sullivan, è meglio che mi si parli in fretta. Ma non l'ho fatto, maledetta lei! Quell'uomo mi è quasi costato la vita. Ho passato tre anni nel braccio della morte per qualcosa che non avevo fatto, a causa di sbirri come lei. Ho pensato di essere ormai morto soltanto perché ero conveniente per il sistema. E allora si fotta, investigatrice. Non sarò più conveniente per nessuno. Sarò anche nero, ma non sono un assassino. E il solo fatto di essere nero non mi rende automaticamente colpevole.» Scivolò di nuovo a sedere sul divano. «Voleva sapere come mai abbia scelto di vivere quaggiù? Perché qui la gente sa che significa essere neri, ed essere sempre un sospetto o una vittima. Qui sono tutti così. Uno o l'altro. E io sono stato entrambi, ed è per questo che ci sto bene. È per questo che mi piace, sebbene non sia costretto a vivere in un posto come questo. Ha capito, investigatrice? Ne dubito. Perché lei è bianca e non saprà mai.» Di nuovo si alzò, guardando fuori dalla finestra. «Non capirà mai come si faccia a pensare a un posto come questo come a casa propria.» Si volse verso di lei. «Ha altre domande, investigatrice?» L'energia della sua furia aveva avuto il sopravvento su di lei. Scosse il capo.
«Bene» disse lui in tono tranquillo. «E allora, che diavolo, se ne vada.» Indicò la porta. Lei fece un passo, si fermò. «Potrei avere altre domande da farle» disse. Lui scosse il capo. «No, non credo proprio, investigatrice. Mai più. L'ultima volta che sono stato gentile con degli investigatori mi è costato tre anni della mia vita e quasi quasi mi ha ucciso. Dunque, ha avuto la sua possibilità. E ora è finita.» La Shaeffer era giunta sulla soglia dell'appartamento. Esitò, riluttante all'idea di andarsene ma allo stesso tempo invasa da un immenso sollievo alla sola idea di allontanarsi dal piccolo appartamento. Si volse verso Ferguson, ma lui stava già richiudendo la porta. Prima che sbattesse, lei fu in grado di intravedere il suo sguardo, i suoi occhi assottigliati dalla rabbia. Il suono metallico delle serrature che scattavano riecheggiò nel corridoio. 19 Lavori idraulici Rimasero in silenzio per la maggior parte del percorso. Finalmente, all'uscita dell'autostrada, mentre l'auto della polizia percorreva sobbalzando la strada secondaria di terra battuta, Brace Wilcox si decise a parlare. «Non ci dirà niente» dichiarò. «Imbraccerà quel suo vecchio fucile e ci caccerà da casa sua, veloce come una zanzara che abbia adocchiato un paio di chiappe al vento. Tempo sprecato.» Era alla guida dell'auto. Al suo fianco, Tanny Brown scrutava fuori dal parabrezza, senza rispondere. Un raggio di luce, penetrando attraverso la volta dei rami intrecciati, produsse un luccichio sulla sua pelle scura, quasi fosse bagnata. Alle parole di Wilcox, sollevò una mano in un accennato gesto di rifiuto, e subito ripiombò nei suoi pensieri. Wilcox sbuffò e si concentrò sulla strada per qualche istante. «Sono ancora convinto che stiamo perdendo il nostro tempo.» «Non è vero» ringhiò Brown, mentre l'auto sbandava e slittava sulla strada sterrata. «E perché no?» domandò l'investigatore. «Vorrei che voi due mi metteste al corrente di questa faccenda.» Si voltò di scatto verso Cowart, il quale, seduto al centro del sedile posteriore, si sentiva più o meno come uno dei prigionieri che solitamente erano seduti al posto suo. Brown parlò lentamente. «Prima di andare sulla sedia, Sullivan ha fatto
capire a Cowart che a casa Ferguson vi fossero delle prove che ci erano sfuggite. E che siano ancora lì. Ecco perché ora ci stiamo andando.» Wilcox scosse il capo. «Tanny, non hai nemmeno iniziato a raccontarmela giusta. Lo sai benissimo, Sullivan voleva solo tirare la catena del signor Furbetti, qui.» Parlava come se Cowart non fosse nell'auto. «Ho supervisionato la perquisizione di persona, in quel posto. Lo abbiamo messo sottosopra. Abbiamo picchiettato ogni muro alla ricerca di un nascondiglio segreto. Abbiamo tirato su il pavimento. Abbiamo rovistato fra il carbone nel vecchio forno per vedere se aveva bruciato qualcosa. Siamo strisciati sotto la maledetta casa con il metal detector. Diavolo, ho perfino portato il cane, personalmente. Se il verme avesse nascosto qualcosa, l'avrei trovato.» «Sullivan ha detto che vi è sfuggito qualcosa» insistette Cowart. «Sullivan ha detto un sacco di cose allo scribacchino là dietro» disse Wilcox rivolto al suo collega. «Perché gli stiamo prestando attenzione?» «Ehi» protestò Cowart «si dia una calmata, d'accordo?» «Dove le ha detto di guardare?» «Non me l'ha detto. Si è limitato ad affermare che vi è sfuggito qualcosa. E ha fatto una battuta oscena sul fatto di avere gli occhi sul di dietro.» Wilcox scosse il capo. «E comunque, non servirebbe a niente, anche se trovassimo qualcosa.» Lanciò un'occhiata a Brown. «Lo sai, capo, come lo so io. Ferguson è acqua passata. Dobbiamo andare avanti.» «No» rispose lentamente Tanny Brown. «Non lo è.» «E allora, anche se trovassimo qualcosa? Che senso avrebbe? Un frutto da un albero avvelenato. Non possiamo usare nulla contro Ferguson, nulla che provenga da un atto illegale. Prova a ripensare alla confessione. Se anche ci avesse detto tutto, se anche ci avesse detto come aveva ucciso la piccola Joanie, tutta la faccenda per filo e per segno, e poi il giudice avesse annullato la confessione... be', anche il resto sarebbe stato eliminato.» «Ma non è così che è andata» intervenne Cowart. Brown lo interruppe. «Giusto. Non esattamente. Potrebbe essere materia di discussione per qualche avvocato.» Esitò prima di proseguire. «...Ma non mi aspetto di vincere questo caso in un'aula di tribunale.» Cercò di non dare troppa importanza a quanto aveva appena detto. Dopo un istante di silenzio, Wilcox riattaccò. «Non credo nemmeno che la nonna di Ferguson ci lascerà dare un'occhiata in giro, a patto che non abbiamo un mandato. Diavolo, non credo ci dirà nemmeno se c'è il sole, senza un ordine del giudice. Spreco di tempo.»
«Cowart lo lascerà guardare.» «Con noi che lo accompagniamo? Nemmeno per sogno.» «Lo farà.» «Probabile che odi la stampa più di me. Dopotutto, in un primo tempo aveva dato una mano a sbattere il suo tesoruccio nel braccio della morte.» «E poi l'ha tirato fuori.» «Non credo la pensi in questo modo. È una vecchia bigotta battista. Probabile che creda che Gesù in persona sia sceso e abbia aperto la porta al suo caro ragazzo, poiché lei l'aveva bombardato di preghiere ogni domenica in chiesa. E comunque, anche se lei lo lasciasse entrare e dare un'occhiata in giro, cosa che non farà, lui non ha neanche l'idea di dove cercare. O di come farlo.» «Sì, ce l'ha.» «D'accordo, allora supponiamo, supponiamo che per un cazzo di caso lui trovi qualcosa. Cosa ci cambia?» «Una cosa» rispose Brown. Abbassò il suo finestrino, lasciando che un'ondata di caldo penetrasse all'interno dell'auto, dove rapidamente sopraffece il freddo viziato dell'aria condizionata. Parlò in tono sommesso; la sua voce superava a malapena il rumore dell'aria proveniente dal finestrino. «Allora sapremo che, almeno su questo, Sullivan stava dicendo la verità.» «E allora?» scattò Wilcox. «Cosa diavolo ci cambia?» La domanda provocò il silenzio del tenente. «Allora sapremo con chi abbiamo a che fare» intervenne Cowart. «Ah!» sbuffò Wilcox. Si concentrò nuovamente sulla guida, stringendo con forza il volante, frustrato dalla sensazione che il suo amico e collega e il suo avversario condividessero qualche informazione di cui lui non era al corrente. Ciò gli dava una rabbiosa sensazione di odio. Accelerò, lasciandosi alle spalle una nuvola di polvere scura, quasi sperando che un vecchio cane rognoso o uno scoiattolo gli attraversasse la strada. Premette sul pedale del gas, sentendo la coda dell'auto che sbandava leggermente sulla sabbia, le ruote alla convulsa ricerca d'attrito. Cowart vide, alla distanza, un filare di alberi sul limitare di un bosco. «Dove conduce?» domandò indicandolo. «Fino a dove abbiamo trovato Joanie. Al limitare della stessa palude. Penetra in profondità per circa otto chilometri, prima di aprirsi e incurvarsi verso la città. Sabbie mobili pronte a ucciderla, fango così spesso che
quando posa il piede, è come averlo messo sulla colla. Chilometri e chilometri di alberi morti, di sterpaglia, di acqua. Tutto scuro, tutto dello stesso aspetto. Si perda là dentro, e le ci vorrà un mesetto almeno per trovare una via d'uscita. Se la trova. Insetti, serpenti, alligatori e ogni sorta di cose viscide e striscianti. Ma è un'ottima zona di pesca al persico, ci sono delle vere sberle di pesce laggiù, nascoste sotto i tronchi. Deve soltanto fare attenzione» rispose Wilcox. «Niente che le possa interessare.» Mentre l'auto della polizia procedeva sbandando lungo la stradina secondaria, sobbalzando fra solchi e cunette, Cowart ripensò ai fogli ripiegati di carta che riportavano le notizie raccolte alla biblioteca del Journal. Erano nella tasca interna della giacca, e sfregavano fastidiosamente contro la sua camicia, quasi fossero dotate di una strana qualità radioattiva che le facesse avvampare di calore. Di quelle notizie non aveva informato Tanny Brown. "Poteva anche essere una coincidenza" si ripeté. Ferguson aveva fatto un discorso in una chiesa. Quattro giorni dopo una ragazzina era scomparsa. Non significa nulla. Non si sa se lui fosse ancora nella zona, non si sa cosa abbia fatto dopo la chiesa, dove sia stato in quei giorni, cosa abbia combinato. Quattro giorni. Avrebbe potuto essere tornato fino a Pachoula. O a Newark. O su Marte, per quanto ne sapeva. I suoi ricordi furono invasi all'improvviso dalla fotografia di Joanie Shriver appesa al corridoio della scuola elementare. Vide gli occhi di Dawn Perry guardare, pieni della sicurezza e dell'entusiasmo della sua età, dal volantino emesso dalla polizia. Bianca e nera. La sua gola si strinse all'improvviso. «Ci stiamo avvicinando» annunciò Wilcox. Le parole del collega crepitavano nei pensieri di Tanny Brown. Da quando aveva fatto ritorno a Pachoula, era stato rapidamente preso nella routine della sua vita. Una delle figlie non era riuscita ad assicurarsi la parte principale nella recita annuale; l'altra aveva scoperto che il suo orario di ritorno a casa, la sera, era di un'ora più severo di quello delle sue amiche. Erano problemi di considerevoli dimensioni, temi che necessitavano della sua immediata attenzione. Vi erano alcuni doveri che suo padre si rifiutava semplicemente di ottemperare; e stabilire le regole era uno di questi. «È casa tua, questa, io sono soltanto un visitatore» diceva il vecchio. Ma era sembrato piuttosto divertito, tuttavia, nell'ascoltare le lamentele della più giovane per il mancato successo teatrale. Tanny Brown si era chiesto se
per caso l'occasionale sordità del vecchio non rappresentasse un vantaggio in quel tipo di situazioni. Aveva loro mentito circa la sua assenza, mentendo anche rispetto a quanto stava facendo. E, si era reso conto, avrebbe mentito anche nel caso qualcuno gli avesse chiesto di cosa avesse paura. Si era sentito sollevato dal fatto che ognuna delle figlie fosse coinvolta nei fatti propri, con quella speciale ossessività che solo i giovani possiedono. Le aveva guardate, ascoltando solo a metà le loro lamentele, e aveva rivisto l'immagine di Dawn Perry, che ancora teneva nella tasca della giacca. "Perché dovrebbero essere diverse da lei?" si chiese. Si era rimproverato: non puoi fare il poliziotto e pensare di sopravvivere, se ti concedi di guardare ai fatti come a qualcosa di diverso da casi con specifici numeri di riferimento. Si era costretto ad attenersi a quanto sapeva, a quanto poteva giurare. Continuava a negare i propri istinti, poiché i suoi istinti gli dicevano che vi era qualcosa, là fuori nel mondo, di ben più terribile di quanto avesse mai sospettato. «Eccoci» annunciò Wilcox. Si avvicinarono di gran carriera alla catapecchia, facendo schizzare i sassi della strada contro il telaio dell'auto. Wilcox inchiodò l'auto e fissò lo sguardo sulla vecchia baracca di legno. «D'accordo, Cowart» disse infine. «Vediamo come riesce a entrare là dentro.» Si volse e lo fulminò con lo sguardo. «Datti una calmata, Brace» grugnì Brown. Cowart non rispose, scendendo dall'auto e avvicinandosi a grandi passi al cortiletto della casa. Si guardò indietro una sola volta, e vide i due investigatori appoggiati di schiena all'auto di pattuglia, intenti a seguire il suo percorso. Rivolse nuovamente loro la schiena e salì i gradini della veranda. «Signora Ferguson?» chiamò. «È a casa?» Si fece schermo sugli occhi, per un istante accecato mentre passava dalla luce brillante del sole all'ombra scura della veranda. Cercò di individuare qualche movimento all'interno della casa, ma in un primo tempo non vi riuscì. «Signora Ferguson? Sono Matthew Cowart. Del Journal.» Ancora nessuna risposta. Bussò energicamente alla porta, e la sentì sbatacchiare sotto i colpi delle sue nocche. Le assi dipinte di bianco si stavano scrostando. «Signora Ferguson? La prego, signora.»
Finalmente un rumore strisciante provenne dall'oscurità dell'interno. Passò qualche istante prima che una voce incorporea lo raggiungesse ondeggiando tra le ombre della baracca. La voce non aveva perso nulla della sua crepitante durezza e del suo tono rabbioso. «So benissimo chi è. Cosa vuole adesso?» «Ho bisogno di parlarle ancora di Bobby Earl.» «Abbiamo già parlato e parlato, signor giornalista. Quasi quasi non mi sono rimaste più parole. Non ha già sentito abbastanza?» «No. Nemmeno per sogno. Posso entrare?» «Cosa? Ha solo domande che può fare dentro?» «Signora Ferguson, la prego. È importante.» «Importante per chi, signor giornalista?» «Importante per me. E per suo nipote.» «Non ci credo» rispose lei. Vi fu un altro silenzio. Gli occhi di Cowart si abituarono lentamente all'oscurità, e attraverso la zanzariera iniziò a intravedere delle forme. Scorse un vecchio tavolo, e sopra di esso una brocca d'acqua dai disegni a fiori, e in un angolo un bastone e un fucile. Dopo qualche istante udì dei passi avvicinarsi alla porta, e finalmente la scarmigliata vecchia di colore apparve, la sua pelle nera ombra fra le ombre, i suoi capelli argentati a riflettere la luce, abbagliandolo. Si muoveva con lentezza e aggrottava le ciglia, come se l'artrite che l'aveva presa ai fianchi e alla schiena fosse riuscita a penetrarle fin nel cuore. «Ho già parlato abbastanza, con lei. Cos'altro vuole sapere?» «La verità» rispose lui all'improvviso. Il broncio della vecchia si deformò in una risata. «Pensa che troverà una verità quaggiù, ragazzo bianco? Cosa, pensa che io tengo la verità in un barattolo dietro la porta, o qualcosa del genere? E che la tiro fuori quando ne ho bisogno?» «Più o meno» rispose lui. Lei replicò con una sgradevole, stridula risata. Cowart seguì il suo sguardo mentre lo superava e attraversava il cortile, diretto ai due investigatori in attesa. Li fissò, severa, e dopo una lunga pausa si rivolse nuovamente a Cowart. «Non è solo, stavolta.» Lui scosse il capo. «È dalla loro parte adesso, signor giornalista bianco?» «No» rispose lui immediatamente, costringendosi a mentire. «E da che parte sta, allora?»
«Da nessuna parte.» «L'ultima volta che è stato qui era dalla parte di mio nipote. C'è qualcosa di diverso, ora?» Lui si sforzò di trovare le parole giuste. «Signora Ferguson, in prigione ho parlato con l'uomo che tutti credono abbia ucciso quella ragazzina. Mi ha raccontato una storia. Una storia piena di omicidi, di menzogne, di mezze verità, di mezze menzogne. Ma una cosa ha detto, mi ha detto che se fossi venuto qui e mi fossi dato un'occhiata in giro, avrei trovato delle prove.» «Che tipo di prove?» «Prove del fatto che Bobby Earl abbia commesso un delitto.» «E come fa quest'uomo a saperlo?» «Dice che gliel'ha confidato Bobby Earl.» La vecchia scosse il capo e rise, una risata secca, nervosa che esplose nell'aria bollente tra di loro. «E perché dovrei lasciarla curiosare in giro alla ricerca di qualcosa che può fare del male al mio ragazzo? Perché non lo lasciate stare? Perché non lasciate che diventi qualcuno? La faccenda è finita, dimenticata. Lasciate che i morti riposino in pace e che i vivi vadano avanti.» «Non è così che funziona» disse lui. «E lo sa.» «Tutto quello che so è che siete venuti fin qui per creare un altro problema al mio ragazzo. E lui non ne ha proprio bisogno.» Cowart inspirò profondamente. «Ecco la vera ragione. Signora Ferguson, lei mi faccia entrare, mi faccia dare un'occhiata in giro, io non troverò niente e tutto finirà lì. La storia diventa un'altra menzogna di quell'uomo e tutto si risolve nel migliore dei modi. La vita continua. E Bobby Earl non dovrà più guardarsi indietro. Quei due investigatori se ne andranno dalla sua vita, e da quella di Bobby Earl. Ma se non guardo, allora non saranno mai soddisfatti. E neppure io. E non finirà mai. Ci sarà sempre qualche domanda. Non scompariranno mai. Lo seguirò per il resto dei suoi giorni. Capisce cosa le sto dicendo?» La vecchia appoggiò una mano alla maniglia della porta, pensierosa. «Ho capito» rispose alla fine, scegliendo le sue parole con estrema attenzione. «Ma supponiamo che io la lascio entrare, e che lei trova questo terribile qualcosa di cui le ha parlato quell'uomo. Allora che succede?» «Allora Bobby Earl sarà di nuovo nei pasticci.» Lei fece un'altra pausa prima di rispondere. «Non riesco proprio a vedere come il mio ragazzo ci può guadagnare, se la lascio entrare.»
Cowart fissò intensamente la vecchia e decise di usare la sua arma finale. «Se non mi lascerà entrare, signora Ferguson, allora sarò costretto a concludere che lei mi sta nascondendo la verità. E che ci sono delle prove, nascoste lì dentro. È quello che dirò ai due investigatori che mi aspettano laggiù, e a quel punto succederanno un paio di cose. Perché torneranno con un mandato e comunque perquisiranno casa sua. E nessuno chiuderà più occhio finché non sarà riuscito a trovare qualcosa contro suo nipote, signora Ferguson. Glielo posso assicurare. E quando l'avranno trovata, io sarò qui, con il mio giornale, e tutti gli altri giornali e le stazioni televisive, e lo sa cosa succederà, vero? Dunque, mi pare che lei abbia soltanto una scelta. Mi ha capito?» Gli occhi della vecchia ribollirono d'odio. «Ho capito perfettamente» ringhiò. «Ho capito che gli uomini bianchi in giacca e cravatta ottengono sempre quello che vogliono. Lei vuole entrare, che entri. Tanto lo farà comunque, non importa come la penso io.» «Allora siamo d'accordo.» «Torneranno con un ordine di qualche giudice, eh? Sono già passati con uno di quelli, e non gli è servito a niente. Pensa che le cose siano diverse, ora?» Grugnì disgustata. E finalmente aprì la zanzariera, uno spiraglio di poco più di dieci centimetri. «L'uomo in galera, le ha detto dove cercare?» «No. Non di preciso.» La vecchia si aprì in un ampio, sgradevole sorriso. «Buona fortuna, allora.» Cowart entrò in casa e fu come uscire da un mondo e penetrare in un altro. Era abituato, per quanto uno potesse mai abituarvisi, allo squallore della vita nei ghetti urbani. Aveva seguito il suo amico Vernon Hawkins abbastanza da evitare di essere sconvolto o sorpreso dalla povertà metropolitana, dai ratti, dalle pareti scrostate. Ma quella casa era diversa, e lo turbava. Vide una rigida, spoglia miseria, un luogo che non concedeva nulla alla comodità o alla speranza, soltanto vite difficili, vissute a fatica, regolate da una rabbia disperata. Un crocifisso era affisso alla parete, sopra a un divano sgualcito. Nell'angolo, una vecchia sedia a dondolo di legno, con un singolo centrino di pizzo ingiallito. Qualche altra sedia, sparsa qua e là, principalmente di legno rifilato a mano. Appoggiato su una mensola sopra al caminetto vi era un ritratto di Martin Luther King e una vecchia fotogra-
fia di uno snello uomo di colore vestito con un austero abito nero. Doveva essere il marito scomparso. Vi erano alcune altre fotografie di famigliari, compresa una di Robert Earl. Le pareti erano di legno scuro, e conferivano alla casa le sembianze di una caverna. Alcuni raggi isolati di luce penetravano dalle finestre, perdendo la loro battaglia con le ombre dell'interno. Spostò lo sguardo lungo un corto corridoio, a una cucina dove un'antica stufa a legna dominava il centro del locale. Ogni cosa era immacolata. Ovunque vi erano i segni del logorio del tempo, ma neppure una particella di polvere. "Di certo" pensò Cowart "la signora Ferguson trattava la polvere allo stesso modo con cui trattava i visitatori." «Non è molto, ma è mia» disse lei cupamente. «Non viene nessuno, qui, da nessuna banca, a dire che il posto gli appartiene. È tutto mio. Mio marito è morto per pagare, e quasi quasi ci morivo anch'io, ma qui sono stata felice, anche se non è un posto così splendente.» Zoppicò fino alla finestra e diede un'occhiata fuori. «Lo conosco, quel Tanny Brown» disse amaramente. «Conoscevo la sua mamma, adesso è morta, e suo padre. Lavoravano duro per il signor Uomo Bianco, e sono cresciuti pensando di essere meglio di noi. Non è vero. Mi ricordo di quando era piccolo, e rubava le arance dagli alberi dei giardini dei bianchi. Adesso è grande e grosso, è diventato il grande poliziotto e pensa di essere a posto. Ma non è meglio di mio nipote, mi ha sentito?» Si allontanò dalla finestra. «Allora si muova, signor giornalista bianco. Che cosa cercherà? Non c'è niente qui per lei, ragazzo. Non lo vede?» Fece un gesto circolare con le braccia. «Qui non c'è niente per nessuno.» Di questo Cowart si era reso conto. Si diede un'occhiata in giro e seppe che Wilcox aveva avuto ragione. Non aveva idea di cosa stesse cercando, né di dove cercarlo. Ebbe la subitanea immagine di Blair Sullivan che rideva di lui. «No» disse. «Dov'è la camera di Bobby Earl?» La vecchia indicò un punto. «Sulla destra. Avanti.» Cowart percorse a lenti passi il corridoio al centro della baracca. Gettò un'occhiata alla camera della vecchia. Vide una Bibbia aperta al centro di un letto matrimoniale, ricoperto di un copriletto bianco lavorato a maglia. Austera e glaciale. Speranza solo nelle parole del libro, e poca, oltretutto. Superò una piccola stanza da bagno, non più ampia di uno sgabuzzino, con un solo lavandino e un water. I sanitari risplendevano, pulitissimi. Entrò nella camera di Ferguson. Era anch'essa spoglia, una cella monacale. Una sola finestra, alta sulla
parete, lasciava penetrare un raggio di luce. Vi era un letto di acciaio, un tavolo rifinito a mano, una piccola cassettiera, una sedia. Una vecchia mensola era stata affissa a una parete, e su di essa campeggiava una modesta collezione di libri in edizione economica. L'uomo-bambino nella Terra Promessa e L'uomo invisibile poggiavano contro qualche romanzo di fantascienza. Un paio di canne erano appoggiate in un angolo, a fianco di una scatola di plastica tutta graffiata per l'attrezzatura da pesca. Cowart sedette sull'orlo del letto, sentendo subito la debolezza delle molle. Lasciò che lo sguardo si aggirasse sui miseri oggetti della stanza, alla ricerca di qualche segno. Che aspetto dovrebbe avere la stanza di un assassino? Non lo sapeva. Si guardò in giro, rammentandosi di quanto Ferguson avesse insistito sul fatto che venire a Pachoula dopo Newark fosse per lui quasi come andare al campeggio estivo, sul fatto che fosse eccitante e speciale, una sorta di terra di avventure alla Huckleberry Finn. "Ma dove diavolo è tutto questo?" si chiese Cowart, scrutando le vuote pareti e i freddi mobili racchiusi nella stanza. Dove iniziare? Non poteva immaginare che qualcosa di così importante come la prova di un delitto fosse lasciata in evidenza, e così iniziò con i cassetti del mobile, sentendosi stupido, sicuro di ripassare su un territorio già ampiamente esplorato da altri. Frugò in mezzo alla biancheria di ricambio senza trovare nulla che potesse aiutarlo. Allungò la mano dietro ai cassetti, per controllare che non vi fosse nascosto qualcosa. Si abbassò sulle ginocchia e fece lo stesso con il letto. Tastò il materasso. Picchiettò sulle pareti, alla ricerca di un nascondiglio. Per nascondere cosa? Era carponi, e picchiettava sul pavimento, quando la nonna di Ferguson comparve sulla soglia. «L'hanno già fatto» dichiarò. «Tanto tempo fa. Dunque, ancora non è soddisfatto?» Lui si rialzò lentamente, a disagio. «Non so.» Lei gli rise in faccia. «Ha finito.» Lui si diede una sistemata all'abito. «Mi lasci parlare con gli investigatori.» Lei ridacchiò di nuovo e lo seguì attraverso la casa e sulla veranda, mentre Cowart si dirigeva verso i due poliziotti. Tanny Brown parlò per primo; il suo sguardo superò Cowart, si fissò sulla vecchia, e infine ritornò sul giornalista. «Allora?»
«Niente che assomigli a una prova, se non quelle della loro povertà.» «Ve l'avevo detto» commentò Wilcox. Si rivolse a Cowart, in un tono di voce leggermente più moderato del solito. «Ha dato un'occhiata alla camera di Ferguson?» «Sì.» «Non c'è molto, vero?» «Un paio di libri. Una canna da pesca. Una scatola di attrezzatura. Qualche vestito nei cassetti. Ed è tutto.» Wilcox annuì. «È così che me la ricordo anch'io. Ed è proprio questo che mi aveva dato più fastidio. Ha presente, entri nella stanza di chiunque, e non importa quanto ricco o quanto povero sia, c'è sempre qualcosa, là dentro, che ti dà un'idea di chi ci abita. Ma non lì. Non in quella casa.» Brown si passò una mano sulla fronte. «Dannazione» disse. «Mi sento stupido, e lo sono.» Cowart interruppe il corso dei suoi pensieri. «Il problema è che io non ho idea di cosa abbiate fatto la prima volta, e cosa ci potrebbe essere ora di diverso. Potrei trovare qualcosa di importante per voi, senza nemmeno accorgermene.» Wilcox sembrava aver lasciato scivolare via parte della sua aggressività nel caldo incipiente del giorno. «È quello che temevo sarebbe successo. Venga, forse c'è qualcosa che potrebbe aiutarla.» Si diresse verso il bagagliaio dell'auto e lo aprì. Vi erano diversi contenitori di documenti a fisarmonica, cacciati dentro a fianco di un fucile antisommossa, a due giubbotti antiproiettili, a un grosso piede di porco. Passò velocemente in rassegna i documenti, e finalmente afferrò un gruppo di fogli raccolti da una graffetta. L'allungò a Cowart. «È l'inventario della perquisizione. Veda un po' se la può aiutare.» I documenti iniziavano con una lista di oggetti sequestrati, nella loro precisa disposizione. Vi erano diversi capi di vestiario. Tutti riportavano la specificazione: "Restituiti dopo l'analisi. Risultato negativo." Alcuni coltelli erano stati requisiti dalla cucina. Anche questi erano accompagnati dalla stessa scritta: "Restituiti." L'inventario riportava anche la specificazione delle diverse zone della casa dalle quali erano stati presi gli oggetti. Vi erano brevi descrizioni dei metodi usati per perquisire i locali, e l'elenco completo degli stessi. Cowart notò che la stanza di Ferguson era stata passata al setaccio, con risultati negativi. «C'è qualcosa che potremmo aver tralasciato?» chiese Wilcox.
Cowart scosse il capo. «Tanny, stiamo sprecando il nostro tempo.» Cowart sollevò lo sguardo dai documenti, e vide che, mentre lui stava leggendo, il tenente si era allontanato di un poco, e ora stava fissando la vecchia. Lei era in piedi al limitare della veranda, e ricambiava il poliziotto con uno sguardo truce. I loro occhi non si abbandonavano un istante. «Tanny?» riprese Wilcox. Il poliziotto non rispose. Cowart vide che l'investigatore e la vecchia cercavano di costringersi l'un l'altra ad abbassare lo sguardo. Il sudore gli colava sotto la camicia, una viscosa umidità gli incollava i capelli sulla fronte. Brown parlò subito dopo, senza spostare il suo sguardo dalla vecchia. «Guardi di nuovo» disse. «Penso che stiamo tralasciando qualcosa di ovvio.» «Cristo, Tanny...» Wilcox attaccò di nuovo, riuscendo soltanto a essere bruscamente interrotto dal tenente. «La vedete? Sa qualcosa, e sa che noi non abbiamo idea di cosa sia. Dannazione. Guardi ancora, Cowart.» Wilcox scrollò le spalle, mormorando sottovoce qualcosa che si dileguò nel caldo di mezzogiorno. Cowart abbassò lo sguardo sui fogli di carta, cercando di passarli in rassegna con la stessa attenzione con la quale, tempo prima, il poliziotto aveva passato in rassegna la casa. Li scorse foglio per foglio, stanza per stanza, leggendo a voce alta, rivolto a Wilcox. «Stanza sul davanti: impronte digitali, tutti gli oggetti ispezionati, nessuno requisito, pavimenti sollevati, pareti picchiettate, metal detector usato. Camera della nonna: perquisita ed esaminata alla ricerca di oggetti nascosti, trovato nessuno. Dispensa: sequestrato un paio di cesoie, sequestrati stracci per pulizia, sequestrato asciugamani, pavimento sollevato. Stanza di Ferguson: sequestrati capi di vestiario, esaminati pareti e pavimento, ricerca di campioni piliferi effettuata. Cucina: coltelleria esaminata e sequestrata, ceneri della stufa esaminate, inviate in laboratorio, ispezionata possibile via d'uscita segreta...» Sollevò lo sguardo. «Sembra abbastanza completo...» «Diavolo, abbiamo passato ore e ore in quel posto, controllando ogni dannata vite che non fosse al suo posto» rispose Wilcox. Brown continuava a fissare la vecchia. «Sembra tutto uguale» disse Cowart «tranne che, a quanto pare, ha trasformato la dispensa in un bagno. Il piccolo locale tra la camera di Fergu-
son e la sua?» domandò. «Sì. Più uno sgabuzzino che una dispensa, in realtà» confermò Wilcox. Cowart annuì. «Ora c'è un water e un lavandino.» «Avevo sentito che Ferguson li aveva fatti mettere» disse Wilcox. «Ha usato parte dei soldi che ha beccato da qualche produttore di Hollywood che voleva aggiudicarsi la sua stona. Il progresso ha raggiunto anche la foresta.» In quel momento sembrò che la luce del sole che si riversava su di loro raddoppiasse, un'improvvisa esplosione di calore che parve risucchiare l'aria dalla terra. «Dunque, prima, dove...» «In un vecchio gabinetto esterno, sul retro.» «E?» «E cosa?» «Non è su questa lista» disse lentamente Cowart. All'improvviso le tempie avevano preso a martellargli. Brown diede le spalle alla signora Ferguson, e con gli occhi fulminò il suo collega. «Lo avete perquisito, vero?» Wilcox, esitante, annuì. «Ehm... ssì. Più o meno. Il mandato riguardava la casa, e dunque non ero sicuro che fosse coperto, per essere precisi. Ma uno dei tecnici ci è andato dentro, sicuro. Niente.» Brown non distolse lo sguardo dal collega. «Andiamo, Tanny. C'era solo puzza e merda, là dentro. Il tecnico ci è entrato, ha dato un'occhiata in giro e ha levato subito le tende. È nel rapporto.» Indicò una frase riportata fra i documenti. «Ecco» aggiunse titubante. Cowart si allontanò barcollando dall'auto. Si rammentò delle parole di Blair Sullivan: "Se ha gli occhi sul culo". «Dannazione» mormorò. «Dannazione.» Si voltò verso Brown. «Sullivan ha detto...» Il poliziotto si rabbuiò in volto. «Mi ricordo di quello che ha detto.» Cowart si volse di scatto e prese a dirigersi a grandi passi lungo il lato della catapecchia, verso il retro. Udì la voce della nonna di Ferguson penetrare la calura come una freccia e raggiungerlo: «Dove sta andando, ragazzo?» «Sul retro» rispose bruscamente Cowart. «Non c'è niente per lei, laggiù» gridò lei con voce stridula. «Non può andare là dietro.»
«Voglio vedere. Dannazione, voglio vedere.» Brown lo raggiunse rapido, il piede di porco preso dal baule dell'auto stretto in mano. I due avanzarono a grandi passi, superando l'angolo della casa, mentre le grida di protesta della vecchia si perdevano nell'accecante luce del sole. Scorsero il gabinetto, in un angolo, accanto a un gruppo d'alberi, distante da tutto. Le pareti di legno erano scolorite in un grigio opaco. Cowart vi si portò accanto. La porta era coperta di ragnatele. Afferrò la maniglia e diede un forte strattone, continuando a tirare con forza; la porta fece resistenza, liberando uno stridente suono di protesta, vecchio legno contro vecchio legno. Infine si bloccò, parzialmente aperta. «Attento ai serpenti» disse Brown, afferrandola e dando un energico strattone. Con un colpo finale che fece tremare l'intera costruzione, la porta si aprì completamente. «Bruce! Portami una maledetta torcia!» gridò Brown. Agitò il piede di porco davanti a sé, spazzando via le ragnatele. Un rumore sfuggente, strisciante fece sobbalzare Cowart: un piccolo animale selvatico si diede alla fuga, spaventato dalla luce improvvisa penetrata attraverso la porta. I due uomini, in piedi spalla a spalla, fissarono il sanitario di legno, ricavato da un'asse, consunto dall'uso. L'odore nel piccolo locale era spesso, stagnante. Era un odore antico, e impediva loro il respiro, un odore più vicino alla morte e alla decrepitezza che alle feci. «Là sotto» disse Cowart. Brown annuì. «Molto sotto.» Wilcox, il respiro spezzato dalla corsa, li raggiunse, allungando la torcia nera al collega. «Brace» domandò con calma Brown «il tizio della perquisizione. Ha tolto l'asse? Ha controllato nonostante la puzza?» Wilcox scosse il capo. «Era inchiodata con forza. I chiodi erano vecchi, me ne ricordo, poiché mi ha fatto venire a controllare. Non vi era alcun segno che qualcosa fosse stato tolto e poi rimesso al suo posto. Hai presente, tipo segni di martellate o incisioni o cose del genere...» «Nessun segno evidente» disse Brown. «Esatto. Niente che ci saltasse all'occhio.» I suoi occhi fiammeggiarono di rabbia. «Ma...» proseguì Brown. «Esatto. Ma» rispose Wilcox. «Non posso garantire che Ferguson non avesse avuto modo di scendere nella fossa, un modo di cui non eravamo a
conoscenza. Il tecnico è entrato, ha controllato con la torcia, e se ne è usato, come ti ho detto. Io ho cacciato dentro la testa, mi sono guardato in giro. Tutto qui. Voglio dire, uno di noi se ne sarebbe accorto, se in quel buco ci fosse stato qualcosa...» «Ma se tu volessi nascondere qualcosa, e pensassi di non avere molto tempo, e volessi essere certo di scegliere il posto che di sicuro verrebbe perquisito per ultimo, e oltretutto in modo superficiale...» La voce di Brown oscillava tra il rimprovero e la rabbia. «E perché non portare tutto nella giungla e seppellirlo lì?» «Non puoi avere la sicurezza che non sarà trovato, specialmente se si portano i dannati cani. Non puoi essere sicuro che non sarai visto. Ma una cosa è certa. Nessuno si cala in un buco di merda, se non ci è proprio costretto.» Wilcox annuì. La sua voce si increspò in tono di disperazione. «Hai ragione. Dannazione. Pensi che...» Fu interrotto da un improvviso, stridulo grido alle loro spalle. «Via di lì!» Voltandosi, i tre uomini videro la vecchia, in piedi su una piattaforma annerita. Imbracciava un fucile a doppia canna, appoggiato su un fianco e lo puntava su di loro. «Vi spedirò dritti all'inferno se non ve ne andrete da lì! Subito!» Cowart s'irrigidì, ma i due investigatori presero subito ad allargarsi lentamente, uno a destra, l'altro a sinistra, aumentando la distanza fra loro. «Signora Ferguson» iniziò Brown. «Silenzio!» rispose lei, puntandogli addosso il fucile. «Andiamo, signora Ferguson...»Wilcox la pregò con calma, sollevando le mani più in segno di supplica che a significare una resa. «Anche lei!» gridò la vecchia, spostando il tiro sul poliziotto. «E state fermi, tutt'e due.» Cowart scorse i due colleghi scambiarsi una rapida occhiata. Non aveva idea di cosa significasse. La vecchia si volse di nuovo verso di lui. «Le ho detto di andarsene di lì.» Lui sollevò le braccia ma scosse il capo. «No.» «Cosa significa no? Ragazzo, non vede 'sto fucile? Sono pronta a usarlo.» Cowart sentì il sangue salirgli alla testa. Vide la rabbia nascondere la paura negli occhi della vecchia, e in quel preciso momento si rese conto
che lei sapeva cosa stava nascondendo. "È qui" pensò. "Qualsiasi cosa sia, è qui." Fu come se tutta la frustrazione, tutta la stanchezza che aveva provato nei giorni passati si concentrassero in quell'istante, un'indignazione che ebbe la meglio su quel poco di ragionevolezza che gli era rimasta. Scosse il capo. «No» ripeté, ancora più deciso. «Nossignore. Darò un'occhiata qui dentro, anche se lei mi sparerà. Sono stufo che la gente mi racconti delle storie. Sono maledettamente stanco di essere usato. Maledettamente stanco di sentirmi sempre come un povero idiota. Ha capito, vecchia? Sono stufo, dannazione!» A ogni ripetizione aveva compiuto un passo verso di lei, coprendo metà della distanza che li separava. «Stia lontano!» urlò la vecchia. «Mi ucciderà?» gridò lui di rimando. «Quello sì che servirà. Avanti, mi spari di fronte ai due investigatori. Avanti, dannazione!» Le si avvicinò a grandi passi. Vide il fucile vacillare nella sua stretta. «Lo farò!» sbraitò lei. «Allora lo faccia!» gridò lui di rimando. La rabbia si era completamente impadronita di lui. Aveva sopraffatto l'illusione dell'innocenza di Ferguson a cui per tanto tempo si era aggrappato, e tutto ora sgorgava dal suo profondo. «Avanti! Avanti! Proprio come suo nipote che ha ucciso quella ragazzina a sangue freddo! Avanti! Mi darà la stessa possibilità che le ha dato lui? Anche lei è un'assassina, vecchia? È qui che lui ha imparato a farlo? Le ha insegnato lei come tagliare a fettine una ragazzina indifesa?» «Non ha fatto niente!» «All'inferno se non l'ha fatto!» «Indietro!» «Oppure gli ha forse soltanto insegnato come mentire? È così?» «Stia lontano da me!» «È così, maledetta? È così?» «Non ha mai fatto una cosa del genere. Adesso vada indietro o le faccio saltare le cervella!» «È stato lui. Lo sa, dannazione, è stato lui, è stato lui, è stato lui!» E il fucile sparò. L'esplosione lacerò l'aria appena sopra a Cowart, bruciacchiandolo e facendolo cadere a terra, stordito. Un rumore provenne da dietro di lui: un uccello, colpito dalla pallottola, era stato proiettato contro la parete del ga-
binetto; e le grida dei due investigatori, che all'unisono avevano impugnato le loro rivoltelle: «Ferma! Metta giù il fucile!» Il cielo ruotò sopra di lui e le sue narici si riempirono dell'odore della cordite. Udì un suono rimbombante oltre all'eco dello sparo, e ne fu confuso, finché non si rese conto che si trattava del battito stesso del suo cuore. Si mise a sedere e si toccò la testa, guardandosi poi la mano. Era bagnata di sudore, non di sangue. Sollevò lo sguardo sulla vecchia. Entrambi gli investigatori continuavano a gridare ordini, che parevano perdersi nel caldo e nel sole. La vecchia ricambiò il suo sguardo. La sua voce era stridula. «Gliel'avevo detto, signor giornalista, gliel'avevo detto una volta, sputerei nell'occhio del diavolo per aiutare mio nipote.» Cowart continuò a fissarla. «È morto?» chiese lei. «No» rispose lui in tono sommesso. «Non ho potuto farlo» disse lei con amarezza. «Volevo farle saltare la testa. Dannazione.» La sua carnagione si era fatta grigia, cinerea. Abbassò il fucile, il braccio abbandonato sul fianco. «Avevo un solo proiettile» disse. Spostò lo sguardo sui due investigatori, i quali le si stavano avvicinando, ad armi spianate, accucciati e pronti a sparare. Fissò i suoi occhi su Brown. «Avrei dovuto tenerlo per te» disse. «Metta giù il fucile.» «Mi ucciderai adesso, Tanny Brown?» «Lo metta giù!» La vecchia, lentamente, con molta cura appoggiò il fucile alla porta alle sue spalle. Infine si voltò e lo fronteggiò, le braccia incrociate sul petto. «Mi ucciderai, adesso?» chiese di nuovo. Wilcox si avvicinò a Cowart. «Tutto bene, Cowart?» «Sto bene» rispose il giornalista. Wilcox lo aiutò a rimettersi in piedi. «Cristo, Cowart, che scena. Aveva davvero perso la trebisonda.» Cowart si sentiva improvvisamente euforico. «Altroché» rispose con una risata. Wilcox si volse verso Brown. «Vuoi che l'ammanetti e le legga i suoi diritti?» L'investigatore scosse il capo, allungò il braccio e afferrò il fucile, a-
prendolo per controllare il caricatore. Ne estrasse la cartuccia usata e la lanciò a Cowart. «Tenga. Un ricordino.» Quindi si rivolse di nuovo alla nonna di Ferguson. «Ha altre armi in giro per la casa?» Lei scosse il capo. «Parlerà adesso, vecchia?» Di nuovo lei scosse il capo; quindi sputò per terra, in segno di provocazione. «Bene, allora vorrà dire che assisterà. Brace?» «Capo?» «Trova una pala nella dispensa.» Il tenente rimise la rivoltella nella fondina e restituì il fucile alla vecchia, la quale gli rivolse un'espressione rabbiosa. Brown fece ritorno al gabinetto e si rivolse con un cenno a Cowart. «Ecco» disse, allungandogli il piede di porco. «A quanto pare si è guadagnato il diritto di dare il primo colpo.» Il legno decrepito protestò con lenti gemiti all'assalto del piede di porco e, poco dopo, della pala che Wilcox aveva trovato su un lato della casa. Ma quando, finalmente, cedette e si spezzò, lo fece rapidamente, svelando un fetido buco nel terreno. Come misura igienica era stata usata la calce viva. La massa grigia e marrone degli escrementi era striata di bianco. «È lì, da qualche parte» disse Cowart. «Spero che abbia indovinato» mormorò Wilcox. «Qualcuno ha qualche taglio o ferita aperta? Fate attenzione.» Strappò la pala dalle mani di Brown. «Sono stato io a mandare a puttane tutto tre anni fa. Tocca a me, ora» sibilò cupamente. Si tolse la giacca e ne estrasse un fazzoletto da una tasca. Se lo allacciò alla nuca, coprendosi naso e bocca. «Dannazione» esclamò, la voce smorzata dal bavaglio. «Lo sai che non è una perquisizione legale» disse a Brown, il quale annuì. «Dannazione» ripeté Wilcox. E si calò nella melma puzzolente. Liberò un grugnito, mormorò a mezza voce una serie di imprecazioni, quindi si mise a scavare, strato dopo strato, penetrando sempre più in profondità con la pala. «Tenete d'occhio la pala» disse, respirando con la bocca, a fatica. «Non lasciate che mi sfugga qualcosa.» Brown e Cowart non risposero. Si limitarono a osservarlo. Wilcox proseguiva senza perdere il ritmo, attento, procedendo con lentezza nel mucchio. A un certo punto scivolò; riuscì a rimettersi in equilibrio prima di ca-
dere nella fossa, ma si rialzò con le mani e le braccia sporche. Si limitò a bestemmiare, e proseguì a lavorare con la pala. Passarono cinque minuti, poi dieci. L'investigatore continuò a scavare, fermandosi di tanto in tanto solo per tossire, liberandosi per un istante del terribile odore. Un'altra mezza dozzina di colpi di pala: «Dovremmo essere arrivati a due anni fa» mormorò. «Dico, quanta merda riuscirà mai a fare quella vecchia in un anno?» Rise senza allegria. «Ci siamo!» esclamò Cowart. «Dove?» domandò Wilcox. «Lì» disse Tanny Brown, indicando. «Che cos'è? L'angolo di qualcosa di solido era stato portato allo scoperto da un colpo di pala.» Wilcox si aprì in un gran sorriso e si piegò di scatto, afferrando l'oggetto. Si staccò dalla melma con un sinistro risucchio. Era un pezzo rettangolare di spesso materiale sintetico. Brown si accosciò, fissando intento l'oggetto, afferrandolo e sollevandolo in aria. «Lo sai cos'è, vero Bruce?» L'investigatore annuì. «Ci puoi scommettere.» «Cos'è?» domandò Cowart. «Un pezzo di tappetino d'auto. Si ricorda, nell'auto di Ferguson era stato tagliato via un pezzo del tappetino, davanti al sedile del passeggero. Eccolo.» «Vedi altro?» chiese Brown. Wilcox si voltò e, con la pala, prese a rovistare nello stesso punto. «No» disse in un primo tempo. «Aspetta aspetta... guarda un po' cos'abbiamo qui?» Estrasse quella che sembrava essere una solida massa di escrementi dalla melma, e l'allungò a Brown. «Eccoli.» Il tenente si volse verso Cowart. «Vede?» Cowart guardò attentamente e alla fine vide. Erano un paio di jeans, una camicia, un paio di scarpe da ginnastica e un paio di calze, legati tutti insieme da un laccio da scarpa. Gli anni passati là sotto, ricoperti di escrementi, li avevano ridotti a un mucchio di stracci, ma non ci si poteva sbagliare nel riconoscerli. «Ci scommetto l'intera fattoria» disse Wilcox «che da qualche parte, su quei vestiti, ci sono dei resti di sangue.» «C'è altro laggiù?»
L'investigatore agitò per qualche altro istante la pala nella melma. «Non credo.» «Vieni fuori, allora.» «Con piacere.» Si arrampicò a fatica fuori dalla fossa. In silenzio, i tre uomini si allontanarono dal gabinetto. Quindi stesero accuratamente al sole gli oggetti ritrovati. «Potranno venire analizzati?» domandò Cowart dopo qualche istante di silenzio. Brown scrollò le spalle. «Suppongo di sì.» Guardò in silenzio le prove recuperate. «Ma non ce n'è veramente bisogno.» «Ha ragione» disse Cowart. Wilcox stava cercando di ripulirsi meglio che poteva. Sollevò lo sguardo dai suoi abiti sporchi, puntandolo sul suo collega. «Tanny» disse in tono sommesso. «Mi dispiace, amico. Avrei dovuto fare più attenzione. Avrei dovuto pensarci.» Brown scosse il capo. «Adesso hai più esperienza di allora. Non importa. Avrei dovuto ricontrollare il rapporto.» Continuò a guardare le prove. «Dannazione» disse infine. «All'inferno.» Sollevò lo sguardo su Cowart. «Ma adesso sappiamo, vero?» Cowart annuì. I tre uomini presero i vecchi vestiti e il pezzo di tappetino e si volsero verso la casa. Scorsero la vecchia, da sola, osservarli dalla piattaforma sul retro. Li fissava, impotente. Cowart vide che le sue mani tremavano, abbandonate lungo i fianchi. «Non significa niente!» gridò, nel disperato sforzo di recuperare un tono di sfida. Sollevò un braccio in aria. Agitò il pugno. «Ne gettiamo via tanta, di roba! Non significa assolutamente niente!» I due investigatori e il giornalista la superarono. Lei continuò a gridare alle loro spalle; le sue parole si librarono nell'aria, attraverso il cortile della casa, salendo nel cielo azzurro pallido. «Non significa niente! Mi sentite? Che il diavolo ti porti, Tanny Brown! Non significa assolutamente niente!» 20 Trappole Alla guida dell'auto di pattuglia, Tanny Brown percorse le strade della cittadina dov'era cresciuto senza una meta precisa; Cowart era seduto accanto a lui, e aspettava che l'investigatore dicesse qualcosa. Avevano lasciato Wilcox al laboratorio della scientifica, insieme con le prove requisi-
te a casa di Ferguson. Il giornalista pensava che avrebbero subito fatto ritorno alla stazione di polizia per studiare la loro prossima mossa e fu sorpreso nel trovarsi a gironzolare lentamente lungo le vie della cittadina. «E allora?» finalmente domandò. «Che facciamo a questo punto?» «Lo sa» rispose lentamente Brown «non è poi un gran che di città. È sempre passata in secondo piano rispetto a Pensacola e a Mobile. Ciononostante, era tutto ciò che conoscevo. E tutto ciò che realmente desiderassi. Perfino quando me ne sono andato militare, e poi all'università, a Tallahassee, sapevo sempre che sarei tornato. E lei, Cowart? Dov'è casa, per lei?» Cowart rivide la piccola casa di mattoni rossi nella quale era cresciuto. Era a una certa distanza dalla strada, riparata sul davanti da una grossa quercia. Aveva una veranda, e sulla veranda vi era, laggiù nell'angolo, un piccolo dondolo cigolante che nessuno più usava e che si arrugginiva sempre più col trascorrere di ogni inverno. Ma quasi immediatamente l'immagine della casa scomparve, e tutto ciò che vide fu il giornale di suo padre, vent'anni prima, visto con gli occhi di un fanciullo, molto prima dell'avvento dei computer e delle impaginatrici elettroniche. Era come se la sua visione del mondo fosse stata incanalata fra le vecchie scrivanie grigie e le pallide luci al neon, fra la cacofonia dei telefoni che squillavano in continuazione e le voci alterate dei continui compromessi di redazione, fra il suono sibilante dei tubi a vuoto che collegavano la redazione alla composizione e il battito a mitraglia delle dita sulle vecchie macchine per scrivere, che picchiavano sui tasti la storia degli eventi quotidiani. Era cresciuto non desiderando altro che andarsene via, ma quel "via" aveva sempre significato la stessa cosa, solo più grande, più moderna. Alla fine, Miami. Uno dei più importanti quotidiani di tutta la nazione. Una vita circoscritta dalle parole. "E forse" pensò "anche una morte." «Niente casa» rispose. «Solo la carriera.» «E non sono la stessa cosa?» «Suppongo di sì. È difficile fare distinzioni.» L'investigatore annuì. «Allora, che faremo?» insistette Cowart. L'investigatore non aveva risposte facili. «Bene» disse lentamente «ora sappiamo chi ha veramente ucciso Joanie Shriver.» A quelle parole, entrambi provarono uno scoramento palpabile, quasi fisico. "Lo sapevo. L'ho sempre saputo", si disse Brown. Ma non riuscì a scrollarsi di dosso la sensazione che qualcosa fosse cambiato.
«Non lo possiamo più toccare, vero?» «Non in un'aula di tribunale. Confessione annullata. Perquisizione illegale. Ci siamo già passati.» «E nemmeno io lo posso toccare» mormorò Cowart, la voce increspata dall'amarezza. «Perché? Che succede se scrive un altro articolo?» «È meglio che non lo sappia.» All'improvviso Brown accostò l'auto al marciapiede, inchiodando sui freni. Con un gesto rabbioso mise l'auto in folle, e di scatto fronteggiò il giornalista. «Cosa succederebbe?» chiese furioso. «Me lo dica, dannazione! Cosa succederebbe?» Il volto di Cowart si fece paonazzo dalla rabbia. «Glielo dico io cosa succede: io scrivo l'articolo e l'intero mondo ci salta al collo. Pensa che la stampa sia stata dura con voi? Non ha idea di cosa diventi quando annusa sangue nell'acqua. Tutti vorranno un pezzettino di questo macello. Più microfoni e taccuini e riflettori di quanti lei ne abbia mai visti in tutta la sua vita. Poliziotto stupido e giornalista idiota fanno casino e liberano un assassino. Non ci sarà prima pagina, non ci sarà telegiornale di prima serata in tutto il paese che non si lancerà urlando su una storia del genere.» «E a Ferguson cosa succederebbe?» Cowart si rabbuiò. «Per lui sarà più facile. Si limiterà a negare. Sorriderà rivolto alle telecamere e dirà: "Nossignori. Non ho fatto niente. Avranno messo loro quelle prove a casa mia". Un complotto, dirà, il trucco di bassa lega di uno sbirro frustrato. Sosterrà che lei ha messo le prove a casa sua dopo averle trovate da qualche altra parte, in qualche posto che Blair Sullivan mi ha detto di controllare, esattamente come per il coltello. Che mi abbiano convinto a crederci o che mi abbiano teso una trappola, importa poco, ormai. Sono soltanto il condotto per mascherare i suoi errori. E sa cosa? Ci sarà un sacco di gente che gli crederà. Già una volta lo avete picchiato per ottenere la confessione. Perché non provare qualche altro trucchetto?» Brown aprì la bocca, ma Cowart non aveva ancora finito. «Supponiamo, per esempio, che intenti una causa per diffamazione. Si ricorda di quel libro, Visione fatale"? Il colpevole aveva intentato una folle causa, e subito tutti si erano dimenticati del fatto che avesse massacrato la moglie e i figli, e si sono messi a preoccuparsi di quello che lo scrittore aveva o non aveva fatto. Chi pensa risulterà più furbo in trasmissione? Più persuasivo? Cosa
dirà quando un qualsiasi del cazzo si sporgerà dalla scrivania, e sotto l'occhio delle telecamere, sotto le luci bollenti le chiederà "Insomma, è stato lei a ordinare al suo uomo di malmenare Ferguson, giusto? Sebbene sapesse che è vietato dalla legge? Sebbene sapesse che se qualcuno per caso l'avesse scoperto, lui sarebbe uscito di prigione?". Come risponderà a quel genere di domande, investigatore? Come riuscirà a dimostrare di non essere andato a mettere le prove a casa di Ferguson? Me lo dica, investigatore, perché avrei davvero voglia di saperlo.» Brown gli rivolse un'occhiata fulminante. «E che mi dice di lei?» «Oh, con me saranno altrettanto inflessibili, investigatore. L'America è abituata agli assassini, ha familiarità con la specie. Ma i falliti? Ah, ai falliti si presta un'attenzione tutta speciale, unica. Casini ed errori non appartengono al Sogno Americano. Tolleriamo l'omicidio, ma non la sconfitta. Me la vedo già, la situazione: "Dunque, signor Cowart, lei ha vinto un premio Pulitzer sostenendo che quest'uomo era innocente. Cosa si aspetta di vincere dicendoci che non lo è?" E poi diverranno ancora più duri. "Colpevole? Innocente? Cosa vuole, signor Cowart? O l'uno o l'altro. Perché non ce l'ha detto prima? Perché ha aspettato? Cosa stava cercando di coprire? Quanti altri errori ha commesso? Non conosce la differenza tra verità e menzogna, signor Cowart?"» Fece un profondo respiro. «Deve capire una cosa, investigatore.» «E sarebbe?» «Ci saranno soltanto due colpevoli, in questa storia. Lei e io.» «E Ferguson?» «Se ne andrà bello tranquillo. Gli potremmo causare dei problemi, ma alla fine sarà libero. E magari anche un eroe, nei posti giusti, fra la gente giusta. Ancora più eroe di quanto già non sia.» «E potrà fare...» «Potrà fare quello che più gli piace.» Cowart aprì la portiera dell'auto e uscì dal veicolo. Si fermò sul marciapiede, lasciando che la brezza prosciugasse le sue emozioni. Con lo sguardo percorse la strada davanti a sé, fermandosi sulla vetrina di un barbiere vecchio stile ancora segnalata dal classico palo rotante; osservò la spirale a tre colori ruotare ininterrotta, sempre in movimento verso una destinazione inesistente. Fu solo vagamente conscio del fatto che l'investigatore era sceso dall'auto e si era fermato alle sue spalle. «Supponiamo» disse l'investigatore in tono glaciale «supponiamo che già stia facendo quello che più gli piace.»
Un'altra ragazzina. Come Dawn Perry. Scomparsa all'improvviso. "Posso andare in piscina? Torno per cena..." «Perché adesso sappiamo cosa gli piace, vero Cowart?» «Sì.» «E non c'è nulla che possa fermarlo, se volesse riprendere da dove è stato interrotto, prima della sua piccola vacanza nel braccio della morte, giusto?» «No. Nulla. Dunque cosa suggerisce, investigatore?» «Una trappola» disse Brown in tono piatto. «Prepariamo una trappola. Lo freghiamo. Visto che non possiamo incastrarlo su qualcosa di vecchio, useremo qualcosa di nuovo.» Cowart sapeva, perfino senza bisogno di voltarsi, che il volto dell'uomo alle sue spalle era scolpito in una granitica rabbia. «Sì» disse. «Vada avanti.» «Qualcosa di inequivocabile, che renda chiara l'idea di chi è Ferguson. Chiara di modo che, quando lo arresterò e lei scriverà l'articolo, nessuno potrà dire di nutrire qualche dubbio. Nessuno, capito? Niente dubbi. Lo può scrivere un servizio del genere, Cowart? Scriverlo in modo che non abbia alcuna via di scampo?» Matthew Cowart rievocò all'improvviso l'immagine di un pescatore del Maine intento a preparare le nasse per le aragoste con dei pezzi di pesce morto, prima di calarle dalla fiancata della barca nelle nere acque costiere. Era in vacanza estiva e lui era ancora un ragazzo. Si rammentò di quanto fascino avesse esercitato su di lui la semplice, letale struttura delle nasse. Una serie di semplici scatole fatte di legno e di fil di ferro. Le aragoste sarebbero entrate da una parte, incapaci di resistere al richiamo dell'esca in decomposizione, e quindi, dopo essersi sfamate, non sarebbero state più capaci di voltarsi e uscire dallo stretto passaggio. Catturate da una combinazione di avidità, di bisogno, di limitazioni fisiche. «Lo posso scrivere, sì» rispose. Lanciò un'occhiata all'investigatore. «Ma le trappole hanno bisogno di tempo» aggiunse. «Abbiamo tempo, investigatore? E quanto?» Brown scosse il capo. «Possiamo solo tentare.» Brown lasciò Cowart da solo nel suo ufficio, allontanandosi per controllare se Wilcox avesse fatto ritorno con le analisi preliminari sugli abiti e sul pezzo di tappetino. Il giornalista guardò per qualche istante le targhe e le fotografie che già una volta aveva ispezionato, quindi prese il telefono e
chiamò il Miami Journal. La centralinista lo mise in comunicazione con Edna McGee. Cowart si chiese quanti fossero stati tratti in inganno dall'apparente cordialità della sua voce, ignari che sotto vi si celasse una mente inflessibile, attenta ai più piccoli dettagli. «Edna?» «Matty, Matty, ma dove sei sparito? Ho lasciato messaggi dappertutto.» «Sono di nuovo a Pachoula. Con gli sbirri.» «Perché con loro? Pensavo fossi su a Starke a indagare nell'ambiente della prigione.» «Ah, è il prossimo passo.» «Be', io ci andrei subito. Il St. Petersburg Times ha scritto proprio oggi che Blair Sullivan ha lasciato diverse casse di materiale, documenti, diari, descrizioni, e non so cos'altro. Magari c'è qualcosa che spiega come ha organizzato quel doppio assassinio. Il giornale dice che gli investigatori della contea di Monroe stanno scorrendo tutto il materiale, alla ricerca di indizi. Hanno anche interrogato tutti quelli che hanno lavorato nel braccio della morte durante la permanenza di Sullivan. E si sono procurati gli elenchi dei visitatori. Ho fatto un paio di telefonate e ho messo nel computer un pezzetto del seguito. Ma la direzione della cronaca si sta chiedendo dove tu sia sparito. E soprattutto perché non abbia scritto il tuo articolo prima di quel figlio di buona donna di St. Pete. Non sono contenti, Matty, non sono contenti. Dove sei stato?» «Di nuovo nelle Keys. E qui.» «Hai qualcosa per le mani?» «Niente per il giornale, non ancora. Ho un paio di piste...» «Di che genere?» «Edna, dacci un taglio.» «Be', Matty, fossi in te mi darei una mossa e comincerei a pensare di mandare qualcosa di straordinario il più in fretta possibile. Il che significa subito. Altrimenti i lupi arriveranno alla porta di casa, ululando per il loro pasto. Non so se mi spiego.» «Hai reso la situazione bella chiara. E appetitosa.» Edna scoppiò a ridere. «A nessuno piace trasformarsi da caviale in cibo per cani.» «Grazie, Edna. Sei veramente rassicurante.» «Solo un avvertimento.» «Ricevuto. Allora, cosa sei riuscita a scoprire?» «Seguire le tracce del tuo caro signor Sullivan è stato molto istruttivo,
per quanto riguarda l'uso creativo della menzogna.» «Cosa vuoi dire?» «Voglio dire che, dei circa quaranta omicidi che ha rivendicato, a questo punto ti posso dire che ne ha commessi più o meno la metà. Forse ancora meno.» «Soltanto venti...» Si sentì pronunciare quelle parole, e si rese conto di quanto folli suonassero. "Soltanto venti". Soltanto? Come se lo rendesse automaticamente meno malvagio. «Esatto. Di sicuro. Voglio dire, almeno venti che suonino convincenti.» «E gli altri?» «Be', qualcuno non l'ha chiaramente commesso perché c'è già altra gente in galera, e perfino nel braccio della morte, condannata per quegli stessi delitti. Si è come limitato a cucire quegli episodi nel disegno generale della sua storia, capisci? Come, per esempio, quell'omicidio nella riserva di Miccosukkee. E a un certo punto ti ha anche detto di avere ucciso una donna su a Tampa. Una donna che aveva incontrato in un bar, a cui aveva promesso una serata di bagordi e che aveva finito per ammazzare, ti ricordi?» «Hmm, sicuro, ricordo che non si è dilungato in particolari, deliziandosi solo del fatto di averla uccisa.» «Esatto. Proprio quella. Be', ha riportato tutti i dettagli giusti, tranne che per una cosetta. Il tizio che ha fatto fuori quella donna ne ha fatte fuori altre due, e ora occupa una cella a meno di dieci metri dalla vecchia casetta di Blair Sullivan nel braccio della morte. Ha fatto scivolare quella faccenda in mezzo ad altre due che corrispondono. E soltanto dopo che mi sono messa di buona lena a controllare mi sono resa conto che qualcosa non quadrava. Capisci cos'ha fatto? Ha preso l'omicidio dell'altro, perché non c'era alcun dubbio che l'altro fosse colpevole, e l'ha aggiunto al suo totale. L'ha fatto un paio di altre volte, con altri crimini a causa dei quali i colpevoli sono nel braccio. Come un mediano di football che faccia un sacco di lanci corti nell'ultimo quarto di una partita già vinta. Stava, diciamo così, stava gonfiando le sue statistiche.» Edna rise alla sua stessa battuta. «Ma perché?» Cowart poté quasi sentire la scrollata di spalle di Edna dall'altro capo del filo. «Chi lo sa? Probabilmente è per questo che tutti quei tizi dell'FBI erano così interessati a parlare con Sully prima che se ne andasse.» «Ma...»
«Be', lascia che ti spieghi la mia teoria. Chiamalo il Postulato di McGee, o qualcosa di altrettanto importante e scientifico. Hanno sempre parlato, per Ted Bundy, di trentotto omicidi. Potrebbero essere stati di più, ma quella era la cifra ricavata in base alle indagini, e a quella cifra lui si è ritento appena prima di incamminarsi verso l'inferno. Io credo che il vecchio Sully volesse batterlo di un paio di lunghezze. Tra gli effetti personali di Sully hanno trovato almeno tre diversi libri su Bundy, capisci? Un bel dettaglio, eh? Il secondo miglior assassino, se così si può dire, in attesa nel braccio della morte è quell'Okrent, quel polacco di Lauderdale, te lo ricordi? Quello che aveva un problemino con le prostitute. Del genere che le ammazzava. Ufficialmente è soltanto a quota undici, ma ufficiosamente pare ne abbia fatte fuori diciassette o diciotto. Ed era anche nella stessa ala di Sully. Inizi a intravedere quello che intendo, Matty? Il vecchio Sully voleva diventare famoso. Non solo per quello che stava per fare, ma per quello che aveva già fatto. E dunque si è preso un paio di libertà.» «Vedo dove vuoi arrivare. Potresti procurarti qualcuno che lo dichiari e pubblicarlo sul giornale?» «Nessun problema. Quelli dell'FBI diranno qualsiasi cosa io voglia fargli dire. E ci sono quei due sociologi su a Boston, quelli che studiano gli assassini seriali. Ho già parlato con loro. Adorano il Postulato di McGee. Considerato tutto, potrebbe uscire domani, se stanotte lavorassi fino a tardi. O dopodomani, il che è molto più probabile.» «Stupendo» disse Cowart. «Ma Matty, sarebbe molto meglio se tu scrivessi qualcosa da pubblicare di fianco. Tipo un articolo che spieghi chi abbia ucciso i due vecchi delle Keys.» «Ci sto lavorando.» «Metticela tutta. È l'unica domanda che rimane, Matty. È quello che tutti vogliono sapere.» «Ricevuto.» «Alla direzione della cronaca si stanno agitando un pochino. Vorrebbero metterci sopra la nostra famosissima, velocissima, infallibile e solo occasionalmente incompetente squadra investigativa. Stanno facendo un sacco di pressioni, a quanto sento.» «Ma se quegli imbranati non sono riusciti a scoprire...» «Lo so, Matty, ma c'è gente che dice che sei esaurito.» «Non è vero.» «Ti sto soltanto avvisando. Pensavo volessi essere informato delle mosse
politiche che si stanno studiando alle tue spalle. E quel servizio del Si. Petersburg Times non ti ha certo aiutato. E nemmeno aiuta il fatto che nessuno sappia dove diavolo sei per il novantanove per cento del tempo. Diavolo, il redattore capo ha dovuto raccontare una balla a quell'investigatrice della contea di Monroe, l'altra mattina, quando se l'è vista davanti che chiedeva di te.» «La Shaeffer?» «Quella carina, con due occhi che sembrano vogliano farti allo spiedo più che guardarti.» «È lei.» «Be', è stata qui, e le hanno raccontato qualcosa, e questo qualcosa te lo rinfacceranno, a questo punto.» «D'accordo. Ho capito.» «Ehi, risolvi il caso. Scopri chi ha fulminato i due vecchietti. E magari vinci un altro premione.» «No, non penso proprio.» «Ma non c'è niente di male nel fantasticare un po', giusto?» «Suppongo di no.» Riappese la cornetta, mormorando oscenità, dirette a chi o a che cosa esattamente non sapeva. Iniziò a comporre il numero del caporedattore della cronaca, ma si bloccò a metà. Cosa poteva dirgli? Fu allora che udì un rumore alla porta, e sollevando lo sguardo vide Brace Wilcox. Sembrava impallidito. «Dov'è Tanny?» domandò. «In giro. Mi ha lasciato qui ad aspettare. Credevo stesse cercando lei. Cos'ha scoperto?» Wilcox scosse il capo. «Non ci posso credere di avere mandato tutto a puttane.» «Il laboratorio ha trovato qualcosa?» «Non posso proprio crederci di non aver controllato il merdaio» rispose Wilcox gettando due fogli di carta sulla scrivania. «Non c'è nemmeno bisogno di leggerli» proseguì. «Hanno trovato qualcosa che potrebbe essere una traccia di sangue sulla camicia, sui jeans e sul tappetino. Potrebbe essere, Cristo. E parliamo di un'analisi al microscopio. È tutto deteriorato ai limiti dell'invisibilità. Tre anni di merda, melma, sporcizia e tempo. Non era avanzato molto, diavolo. Ho visto il tecnico stendere la camicia; ha praticamente iniziato a disintegrarsi non appena quello ha iniziato a toccarla con le pinzette. In ogni caso, niente di conclusivo. Lo manderanno su a
un laboratorio più moderno, a Tallahassee, ma chissà cosa scopriranno. Il tecnico non era molto ottimista.» Wilcox fece una pausa, facendo un lento, profondo respiro. «Chiaro, lei e io sappiamo come facevano a trovarsi laggiù, quelle cose. Ma saltar su e dire che sono prove, be', siamo lontani dal poterlo fare. Dannazione! Se li avessi trovati tre anni fa, quando era tutto fresco, ha presente, avrebbero fatto dissolvere tutta la merda, al laboratorio, e sotto ci avrebbero trovato il sangue.» Sollevò lo sguardo su Cowart. «Il sangue di Joanie Shriver. Ma ormai sono soltanto un paio di stracci consunti. Dannazione.» L'investigatore percorse a grandi passi l'ufficio. «Non ci posso credere di aver mandato tutto a puttane» ripeté. «A puttane. A puttane. A puttane. Il mio primo maledetto caso importante.» Stringeva i pugni, e li riapriva, e li stringeva di nuovo, sempre più serrati. Chiusi, aperti. Chiusi, aperti. Cowart poteva vedere i muscoli dell'investigatore guizzare sotto la camicia. Il lottatore liceale prima di un incontro. Tanny Brown sedeva a una scrivania vuota in un ufficio sgomberato di recente. Stava facendo qualche telefonata. La porta era chiusa alle sue spalle, e sulla scrivania di fronte a lui era appoggiato un blocco di carta gialla per gli appunti e la sua agendina personale. Ai primi tre numeri era stato costretto a lasciare dei messaggi. Compose il quarto numero e attese che qualcuno rispondesse. «Polizia di Eatonville.» «Il capitano Lucious Harris, per cortesia. Parla il tenente investigatore Theodore Brown.» Attese pazientemente qualche istante prima che una voce possente rimbombasse nella cornetta. «Tanny? Sei tu?» «Ciao, Luke.» «Bene, bene, bene. È tanto che non ti si sente. Come ti va?» «A periodi. A te?» «Be', che diavolo. La vita non è mai perfetta. Ma non è neanche terribile, quindi penso di non dovermi lamentare.» Brown si figurò l'immenso uomo all'altro capo del filo. Di sicuro indossava un'uniforme troppo stretta nei punti in cui i suoi centoquaranta chili non si sforzavano di passare per muscoli, e attorno al collo, di modo che la sua testa sembrava appoggiarsi direttamente sul bianco collare inamidato e decorato con lo stemma dorato. Lucious Harris possedeva la titubanza dei corpulenti nei confronti degli attacchi di rabbia e un'inflessibile visione del
mondo che faceva sembrare l'intera sua vita come un banchetto al quale lui non aveva mai smesso di sfamarsi. Un tempo Brown amava chiamare l'omone, poiché per quanto il mondo sembrasse malvagio, le sue risposte erano sempre piene di energia, irriducibili. Tanny Brown si rese conto che era da tempo che non gli telefonava più. «Come vanno le cose a Eatonville?» domandò. «Mah! Lo sai, Tanny, a dire il vero stiamo proprio diventando una specie di trappola per turisti. La gente corre da noi a causa di tutta l'attenzione che ha suscitato la povera signora Hurston. Non c'è confronto con Disney World o con Key West, suppongo, ma non è male vedere qualche faccia nuova in città.» Brown cercò di figurarsi Eatonville. L'amico era cresciuto laggiù e i ritmi del luogo erano tutti nel suo modo di parlare. Era una piccola città, dotata di un singolare senso dell'ordine. Quasi tutti i suoi abitanti erano di colore. Aveva guadagnato una certa notorietà grazie ai libri di Zora Neale Hurston, la sua abitante più importante. Non appena era stata scoperta, dapprima dagli accademici, quindi dalla gente del cinema, anche Eatonville era stata portata alla luce della ribalta. Ma più che altro, nel profondo, era una cittadina di gente di colore, governata da gente di colore. Vi fu una breve pausa prima che Lucious Harris riprendesse: «Dunque. Non mi telefoni più. Difficile dire se siamo ancora amici. D'altra parte ho visto che ti sei fatto un sacco di pubblicità, ma non del genere che una persona normale andrebbe in giro a cercare, giusto?» «Hai detto bene.» «Poi passa del tempo, ed eccoti ancora al telefono, ma non certo per parlare del perché non ti sei fatto più sentire. E nemmeno per parlare del più e del meno, ma di una cosa molto particolare, è vero?» «Sto solo facendo dei tentativi in giro, Luke. Pensavo che tu potessi aiutarmi.» «Be', raccontami.» Tanny Brown inspirò profondamente e rispose. «Sparizioni di cui non siete venuti a capo. Omicidi. Nell'ultimo anno. Bambine, ragazzine, adolescenti. Nere. Qualcosa del genere laggiù da voi?» Il poliziotto rimase in silenzio. Brown poté sentire una sorta di leggera contrazione attraversare la linea telefonica. «Tanny, perché mi stai facendo questa domanda?» «Sto soltanto...» «Tanny, dimmi la verità. Perché mi hai chiamato con questa domanda?»
«Luke, sto soltanto procedendo a tentoni. Avevo un brutto presentimento su qualcosa e sto soltanto tastando il terreno in giro.» «Be', hai inciampato in qualcosa di grosso, quaggiù, amico mio.» Brown si sentì gelare all'improvviso. «Dimmi tutto» disse con un filo di voce. Si accorse che la voce profonda all'altro capo del filo si era fatta più sottile, più tesa, come se, all'improvviso, le parole si fossero fatte più pesanti. «Ragazza scatenata» iniziò Harris lentamente. «Si chiamava Alexandra Jones. Una parte di lei aveva ancora otto anni, un'altra diciotto. Hai presente il tipo. La vedevi tutta dolce ed educata, come quando veniva a fare la baby-sitter per me e per la mia signora, e un minuto dopo la trovavi davanti al supermercato, sigaretta in bocca, l'aria da dura e da adulta.» «Suona un po' come le mie figlie» disse Brown senza nemmeno pensarci. «No, le tue hanno trovato qualche appiglio, al contrario di lei. Era confusa e questo la rendeva scatenata. Inizia a pensare che la cittadina sia troppo piccola per lei. Scappa una volta e suo padre la raggiunge a tre o quattro chilometri di distanza, sulla strada, valigia in mano. Il padre è uno dei miei agenti di pattuglia, per questo sappiamo tutto della faccenda. Dunque, lei scappa una seconda volta e stavolta la troviamo noi, a Lauderdale, mentre fa l'autostop a tutti i camion di passaggio. La scova un agente e la riporta a casa. La terza volta risale a tre mesi fa. La madre e il padre si mettono a girare per tutte le strade della zona per cercarla e pensano che stavolta si sia diretta a nord, verso la Georgia, dove ci sono dei parenti e la ragazza ha un cugino per il quale ha un debole. Emettiamo un bollettino ufficiale. Mi metto in contatto con tutti i dipartimenti dello Stato. Volantini appesi in giro, sai benissimo la trafila. Solo che la ragazza non arriva mai in Georgia. E nemmeno a Lauderdale, né a Miami, né a Orlando, né in nessun altro posto. Arriva invece alla palude di Big Cypress, dove la trovano dei cacciatori, tre settimane fa. O meglio, trovano quello che rimane di lei, soltanto qualche osso. Ripulito dal sole e dagli animali e dagli uccelli. Non una bella vista. Abbiamo dovuto identificarla dalla dentatura. Causa della morte? Ferite multiple di arma da taglio, pensa il coroner, ma soltanto perché su alcune delle ossa ci sono delle schegge e dei taglietti. E niente di sicuro. E nemmeno gli abiti nei paraggi. Chiunque l'abbia fatta fuori ha cacciato gli abiti da qualche altra parte. Voglio dire, non è poi un mistero quello che le è successo, giusto? Ma capire chi è stato è tutta un'altra faccenda.»
Brown non disse nulla. Udì Harris fare un profondo respiro. «...E non riusciremo mai a risolvere un caso come questo, nossignore. Sai quanta gente abbiamo interrogato, Tanny? Più di trecento persone. E parlo soltanto di me e del mio investigatore-capo, Harry Lincoln, lo conosci. Ci si sono messi anche due tizi della contea. Non significa un cazzo. Niente testimoni, perché nessuno l'ha vista mentre saliva in macchina. Niente prove, visto che c'era a malapena qualche resto di lei. Niente sospetti, anche se abbiamo esaminato e messo sotto i soliti. Niente di niente. Se ci pensi bene, tutto quello che possiamo fare è aiutare i suoi genitori a comprendere e magari andare giù in chiesa una volta di più, per vedere se una piccola preghiera può aiutare. Sai per cosa prego, Tanny?» «No» rispose rauco Brown. «Non prego per beccare il colpevole. No, perché penso che forse nemmeno il Signore Onnipotente sarebbe in grado di risolvere questo caso. Prego solo che chiunque sia stato ripassi da Eatonville, o che passi da qualche altro posto, e che ci sia qualcuno che lo veda, e che vengano coinvolti gli specialisti e tutte quelle nuove attrezzature turistiche e che lui magari faccia un errore e venga incastrato. Ecco per cosa prego.» Il capitano di polizia rimase in silenzio per qualche istante, come se stesse pensando a qualcosa. «Perché credo che quella ragazza se ne sia andata in un modo terribile, capisci. Dolore e paura, Tanny. Dolore, paura e un terrore speciale, un terrore di cui nessuno vuole sentir parlare.» Fece un'altra pausa. «E poi tu mi chiami, all'improvviso mi fai questa domanda e io qui a chiedermi cosa può averti spinto a farmela.» Il silenzio s'impossessò della linea telefonica. «Hai presente l'uomo che è venuto fuori dal braccio della morte?» «Sicuro. Robert Earl Ferguson.» «È mai stato a Eatonville?» Lucious Harris si bloccò. All'altro capo del filo, Brown udì il corpulento amico inspirare bruscamente prima di rispondere. «Pensavo fosse innocente. Almeno così dicono i giornali e la tivù.» «È mai stato a Eatonville? Più o meno nello stesso periodo in cui la ragazza è sparita?» «È passato di qui» rispose Harris lentamente. Brown sentì qualcosa a metà strada tra un grugnito e un gemito sfuggirgli dalle labbra. Si accorse di avere serrato i denti. «Quando?» «Non proprio ieri. Forse tre, quattro mesi prima che la piccola Alexandra sparisse. Ha fatto un discorso in chiesa. Diavolo, perfino io sono andata a
sentirlo. È stato proprio interessante. Ha parlato di Gesù che sta dalla tua parte e ti mostra la luce, non importa quanto il mondo ti sembri buio.» «E...» «È rimasto un paio di giorni. Forse un sabato e una domenica, e poi se ne è andato. Tornava a scuola, da quanto sono riuscito a capire. Non credo fosse qui quando Alexandra Jones è sparita. Darò una controllata agli alberghi e ai motel, ma non so. Certo, avrebbe potuto sempre tornare. Ma cosa ti fa pensare...» Brown si sporse sulla scrivania; le tempie parevano sul punto di esplodergli. «Controlla, Luke, ti prego. Vedi se riesci a localizzarlo in zona nei giorni in cui la ragazzina è scomparsa.» «Ci proverò. Ma non credo che porterà a niente. Stai dicendo che non è innocente?» «Non sto dicendo niente. Dammi solo una controllata, d'accordo?» «Nessun problema, Tanny. Controllerò. E poi magari faremo quattro chiacchiere, perché quello che sento nella tua voce non mi piace affatto, amico mio.» «Non piace neanche a me» rispose Brown. E riappese. Si rammentò di Pachoula negli istanti che avevano seguito la sparizione di Joanie Shriver. Sentiva ancora le sirene aumentare d'intensità, vedeva ancora i grappoli di gente formarsi a ogni angolo di strada, confabulare e quindi ripartire alla ricerca. Quella notte erano anche arrivate le prime troupe televisive, non molto dopo che le telefonate da parte dei giornali avevano iniziato a tenere occupate tutte le linee del centralino. Una ragazzina bianca scompare mentre torna a casa a piedi da scuola. È un incubo che colpisce una vulnerabilità comune a tutti. Capelli biondi. Sorriso. Non erano passate nemmeno quattro ore che il suo volto era già in televisione. E ogni minuto che era passato non aveva fatto altro che peggiorare le cose. "Cos'ha imparato?" si chiese Brown. Ha imparato che lo stesso fatto sarebbe stato ignorato, senza telecamere né microfoni, senza i Boy-Scouts né la Guardia Nazionale in giro per la palude, se solo avesse cambiato un singolo elemento dell'equazione. Se fosse passato dal bianco al nero. Lottando per mantenere il controllo, Brown si alzò e s'incamminò verso Cowart. Appesa in un ufficio vide una mappa della Florida e vi si fermò davanti. Dapprima il suo sguardo corse a Eatonville e subito dopo a Perrine. "Dozzine" pensò. "Ci sono dozzine di piccoli rifugi per neri, disseminati per tutto lo Stato. Gli avanzi del Sud. Spinti dalla storia e dall'economia in piccole tasche diverse tra loro per successi e povertà, ma con un
singolo elemento in comune: nessuna di loro rappresentava l'idea corrente di normalità. Tutte erano nelle mani di forze dell'ordine insufficienti e talvolta male addestrate, con la metà dei mezzi di una qualsiasi comunità bianca e il doppio dei problemi di droga e di alcool e di rapine, di rabbia e disperazione. Tenitori di caccia." 21 Congiunzione di forze Era tardi quando Andrea Shaeffer fece ritorno nella sua stanza del motel. Chiuse a doppia mandata la porta alle sue spalle, controllò il bagno, il piccolo armadio a muro, sotto il letto, dietro le tende, e infine la finestra, sincerandosi che fosse ancora chiusa. Combatté l'impulso di aprire il taccuino e afferrare la piccola nove millimetri che vi teneva nascosta. Una sensazione di insana paura l'aveva perseguitata fin da quando aveva abbandonato l'appartamento di Ferguson. Mentre la debole luce del giorno le si era dissolta attorno, si era sentita sempre più imprigionata, quasi stesse indossando degli abiti di diverse taglie troppo piccoli. "Chi è?" si domandò. Infilò le mani nella piccola valigia e rovistò finché non trovò alcuni dei fogli di carta profumati alla lavanda, di quelli che usava per scrivere lettere mai spedite alla madre. Accese la piccola lampada situata su una minuscola scrivania, in un angolo della stanza, accostò la sedia e prese a scrivere. "Cara mamma" scrisse. "È successo qualcosa." Fissò le parole in cima al foglio. "Che ha detto?" si chiese. "Ha detto di sentirsi al sicuro." Al sicuro da cosa? Appoggiò la schiena alla sedia, masticando l'estremità della penna come una studentessa alla ricerca di una risposta, nel mezzo di un esame. Si rammentò di quando era stata condotta nello stanzino per i riconoscimenti, nonostante avesse detto e ripetuto di non essere in grado di riconoscere i due uomini che l'avevano assalita. Le luci erano state abbassate, e lei era stata scortata da due investigatori, i nomi dei quali si era ormai dimenticata. Aveva osservato con attenzione mentre due gruppi di uomini erano stati fatti entrare e allineare alla parete. Rispondendo a una serie di ordini precisi, si erano voltati prima a destra, poi a sinistra, concedendole i loro profili. Ricordò gli avvertimenti sussurrati dai due investigatori: "Faccia con calma. C'è qualcuno che le sembra familiare?". Ma lei non era stata in grado di identificare nessuno. Aveva scosso il capo rivolta ai due investigatori, e
loro in tutta risposta avevano scrollato le spalle. Si rammentò dell'espressione che si era dipinta loro in faccia, e ricordò che proprio allora lei aveva deciso che non si sarebbe mai più sentita impotente. Che non avrebbe mai più permesso che qualcuno potesse cavarsela dopo aver causato così tanto dolore. Abbassò lo sguardo sulla lettera che non avrebbe mai spedito e scrisse: "Ho conosciuto un uomo dominato dalla morte". "È così" pensò. Riconsiderò tutto ciò che Ferguson le aveva fatto vedere: rabbia, sarcasmo, arroganza. Paura, ma soltanto in piccola parte: soltanto prima di aver capito il perché della mia visita. Ma da quel momento, la paura era sparita. Perché? Perché non aveva nulla da temere. E perché? Perché ero lì per la ragione sbagliata. Ripose la penna di fianco al foglio di carta e si alzò in piedi. "Ma qual è la ragione giusta?" si chiese. Si allontanò dalla sedia e si portò a fianco del letto matrimoniale. Si sedette rannicchiandosi, portando le ginocchia sotto il mento, allacciando le braccia attorno alle gambe, dondolando in precario equilibrio sull'orlo dei letto. Continuò per qualche breve istante, cercando di decidere quale avrebbe dovuto essere la sua linea d'azione. Quando ebbe finalmente imposto un ordine ai suoi pensieri, si rimise seduta e allungò la mano verso il telefono. Ci vollero diversi tentativi per rintracciare Michael Weiss; alla fine lo trovò, nell'ufficio del sovrintendente del carcere di Starke. «Andy? Sei tu? Ma dove sei stata?» «Mike. Sono nel New Jersey, a Newark.» «Nel New Jersey. Gesù Cristo. E che c'è nel New Jersey? Non dovevi essere a controllare Cowart a Miami? È anche lui nel New Jersey?» «No, ma...» «E allora dove diavolo è?» «Florida del nord. A Pachoula. Ma...» «E perché non sei laggiù?» «Mike, concedimi un momento e te lo spiegherò.» «Sarà meglio che sia valida, la spiegazione. E un'altra cosa. Avresti dovuto farmi sapere dove ti trovavi. Sono io il responsabile di questa indagine, te ne ricordi, vero?» «Mike, dammi un minuto, d'accordo? Sono venuta quassù per vedere Robert Earl Ferguson.» «Il tizio che Cowart ha fatto uscire dal braccio della morte?»
«Esatto. Quello che era nella cella di fianco a Sullivan.» «Fino a quando lui non ha tentato di passare tra le sbarre per strangolarlo?» «Sì.» «E allora?» «È stato...» La Shaeffer esitò. «Strano, diciamo.» Vi fu qualche istante di silenzio prima che l'investigatore anziano intervenisse di nuovo. «In che senso?» «Sto ancora cercando di capirlo bene» rispose lei. Sentì il suo collega sospirare. «E cosa potrebbe avere a che fare con il nostro caso?» «Be', mi sono messa a pensare, Mike. Sai, Sullivan e Cowart erano come due lati di un triangolo. Ferguson era l'altro lato, il collegamento. Senza Ferguson, Cowart non avrebbe mai incontrato Sullivan. Così ho pensato che mi convenisse venire a dargli una controllata. Per vedere se magari avesse un alibi per i giorni del duplice omicidio. Per vedere se sapesse qualcosa. Un'occhiata d'insieme.» Weiss esitò prima di replicare. «Be', insomma. Non è completamente assurdo. Non so a cosa possa portare, ma non è una stupidaggine. Pensi che ci sia qualche legame che li colleghi? Magari qualcosa che c'entri con gli omicidi?» «Più o meno.» «Ma se anche ci fosse stato, questo legame, perché mai quel bastardo di Cowart non avrebbe dovuto scriverlo nei suoi servizi?» «Non ne ho idea. Forse perché temeva lo avrebbe screditato?» «Screditato? Gesù Cristo, Andy, quello è una puttana. Tutti i giornalisti sono puttane. Non gliene frega niente del trucchetto di ieri, pensano solo a quello di oggi. Se avesse avuto qualcosa per le mani, l'avrebbe cacciato sul giornale con la velocità del fulmine. Posso perfino leggere i titoloni: SCOPERTO UN COLLEGAMENTO NEL BRACCIO DELLA MORTE. Non so neanche se abbiano un carattere abbastanza grande per stamparlo. Sarebbero impazziti, su una storia del genere. E magari lui avrebbe anche vinto un altro premio.» «Forse.» Weiss sbuffò. «Sì, forse. In ogni caso, hai qualcosa che possa collegare Ferguson a Tarpon Drive?» «No.» «Nessuno l'ha visto giù a Islamorada? Nessuno di quelli che interrogasti
a Tarpon Drive ha nominato mai un uomo di colore, vero?» «No.» «La ricevuta di un albergo, un biglietto aereo, qualcosa del genere? Sangue, impronte, l'arma del delitto?» «No.» «Dunque sei andata fin lassù solo perché in qualche modo lui era collegato agli altri due giocatori?» «Esatto» disse lei lentamente. «Chiamala un'intuizione.» «Andy, Cristo. Le intuizioni lasciale a Perry Mason del cazzo. Non venirmi a parlare di intuizioni. Invece dimmi che idea ti sei fatta parlando con lo stronzo.» «Ha negato di saperne qualcosa. Ma mi ha detto delle cose interessanti su come funziona il braccio della morte. Dice che le guardie sono per la maggior parte a un passo dall'essere degli assassini. Ha suggerito che ci concentrassimo su di loro.» «Ha una sua logica» rispose Weiss. «Ed è anche precisamente quello che sto facendo proprio ora, e sarebbe anche quello che dovresti fare tu. Il tizio ha un alibi, giusto?» «Dice che era a scuola. Sta studiando criminologia.» «Davvero? Ma pensa, questo sì che è interessante.» «L'hai detto. Ha una libreria piena di libri di legge e sui metodi d'indagine. Dice che li usa all'università.» «D'accordo. Che ne dici di controllare, e quando avrai scoperto che è vero, tornare qui di corsa?» «Hmm, sicuro. Certo.» Vi fu un istante di silenzio. «Andy» aggiunse infine Weiss «perché sento una nota di indecisione nella tua voce?» Lei esitò prima di rispondere. «Mike, hai mai avuto la sensazione di aver parlato con la persona giusta, ma per la ragione sbagliata? Voglio dire, quel tizio mi ha fatto venire i sudori freddi. Non so come spiegarla in altro modo. Aveva qualcosa di sbagliato. Ne sono sicura. Proprio sbagliato. Ma in che senso, non potrei dirlo. Mi ha soltanto impressionato, davvero.» «Un'altra intuizione?» «Una sensazione. Cristo santo, Mike, non sono pazza.» Weiss attese un istante. «Quanto impressionata?» domandò poi. «Al novantanove per cento.» La Shaeffer poteva sentire il collega sforzarsi di pensare. «Sai cosa dovrei dirti, vero?»
Lei annuì, rispondendogli. «Che dovrei farmi una doccia fredda, o una doccia calda, o qualsiasi cosa, e dimenticarmi dell'intera faccenda. Lasciare che lo stronzo faccia quello che vuole, lasciare che compia il suo errore, lasciare che siano gli altri sbirri a preoccuparsene e riportare il mio sederino nel nostro caro Sunshine State.» Lui scoppiò a ridere. «Gesù Cristo» disse. «Avevi persino la mia voce.» «Allora?» «Va bene» rispose lui lentamente. «Fatti una doccia. Poi continua a ficcare il naso lì in giro per un giorno o due. Quaggiù posso cavarmela da solo senza troppi problemi. Ma quando avrai finito tutto e non avrai ottenuto niente, voglio che tu stenda un rapporto con tutte le tue intuizioni e le tue sensazioni e con tutto quello che pensi sia appropriato; lo faremo avere a un tizio che conosco nella polizia del New Jersey. Ci farà sopra una risata, magari, ma almeno non penserai di essere impazzita. E il tuo sederino sarà bello coperto.» «Grazie, Mike» disse lei, stranamente sollevata e al contempo spaventata. «Ah» aggiunse lui «un altro paio di cosette. Non mi hai neanche chiesto cosa ho scoperto quaggiù.» «Cosa?» «Be', Sullivan ha lasciato almeno tre scatole di effetti personali. Per la maggior parte libri, una radio, un piccolo televisore, una Bibbia, quel genere di stronzate, ma in mezzo c'era un paio di documenti davvero interessanti. Uno era il suo appello, dalla prima all'ultima riga, tutto bello pronto, gli mancava soltanto di inoltrarlo alla corte. Tutto quello che doveva fare era di allungarlo a un ufficiale e tombola, rinvio automatico dell'esecuzione. E vuoi sapere una cosa? Il fetente era riuscito a buttare giù un'argomentazione piuttosto convincente sulle dichiarazioni pregiudiziali che l'accusa avrebbe fatto alla giuria nel corso del processo. Voglio dire, avrebbe potuto tirarlo in lungo per anni.» «Ma non l'ha mai inoltrato.» «Macché. E non è tutto. Che ne dici di una lettera di un certo produttore di nome Maynard, proveniente, ebbene sì, proprio da Hollywood? Lo stesso che aveva acquistato i diritti della biografia del tuo amichetto Ferguson dopo che Cowart l'aveva trasformato in una stella. La stessa offerta. Dieci testoni. A dire il vero, non proprio dieci. Nove virgola nove. Per i diritti esclusivi sulla sua storia.» «Ma la vita di Sullivan era di dominio pubblico, perché mai avrebbe do-
vuto pagare...» «Gli ho parlato proprio oggi, qualche ora fa. Il viscidone dice che è una pratica regolare prima di partire con la produzione di un film. Aggiudicarsi tutti i diritti possibili. E dice che Sullivan gli aveva garantito che avrebbe inoltrato l'appello. Dunque è stato costretto a muoversi per ottenere i diritti, altrimenti Sullivan l'avrebbe potuto tenere in ballo per tutta la durata del suo appello. È rimasto a bocca aperta quando Sullivan è salito sulla sedia.» «Vai avanti.» «Be', dunque ci sono 'sti novemilanovecento verdoni che galleggiano da qualche parte, e io comincio a pensare che se scopriamo cosa è successo a quei soldi, scopriamo anche come abbia fatto Sullivan a pagare quei due omicidi.» «Ma c'è la legge del "Figlio di Sam". I diritti delle vittime. Sullivan non avrebbe mai potuto prendere i soldi. Avrebbero dovuto finire ai parenti delle sue vittime.» «Esatto. In teoria. Il produttore deposita il malloppo in un conto di una banca di Miami, seguendo le istruzioni fornite da Sullivan. Quindi lo stesso produttore scrive una lettera alla Commissione per i Diritti delle Vittime, a Tallahassee, informando del pagamento, come richiesto dalla legge. Naturalmente la burocrazia ci mette mesi e mesi a capire qualcosa. Nel frattempo...» «Posso indovinare.» «Esatto. Il malloppo esce di scena, a sinistra del palcoscenico. Non è più in quel conto. Quelli della commissione non hanno visto un dollaro, e di certo a questo punto Sullivan non ne ha bisogno, ovunque sia.» «E dunque...» «E dunque, suppongo che se rintracciamo quel conto, magari troviamo anche il fetente che l'ha prosciugato. E a quel punto abbiamo un indiziato per un duplice omicidio.» «Diecimila dollari.» «Novemilanovecento. Una cifra davvero interessante, se ci pensi. Riesce a evitare la legge federale, che come sai richiede una documentazione per le transazioni che superino i dieci testoni...» «Ma novemilanovecento non è...» «Diavolo, quaggiù sarebbero disposti a uccidere per un pacchetto di sigarette. Cosa pensi che farebbero per quasi dieci testoni? E ricorda, la maggior parte di queste guardie non guadagna più di trecento, quattrocento dollari alla settimana. Probabile che dieci bigliettoni suonino come un sac-
co di soldi, a gente come loro.» «E come avrà fatto ad aprire il conto?» «A Miami? Con una patente e un codice fiscale falsi? Voglio dire, non è che a Miami passino troppo tempo a controllare quello che entra ed esce dalle banche. Sono tutti così occupati a fare da lavanderia ai soldi sporchi della droga, che è probabile non si siano nemmeno accorti della nostra piccola transazione. Cristo, Andy, probabile che tu possa anche chiudere il conto a uno sportello automatico, senza nemmeno guardare l'altra persona negli occhi.» «Il produttore è a conoscenza di chi l'ha aperto?» «Quell'idiota? Ma figurati. Sullivan si è limitato a fornirgli il numero e le istruzioni. Tutto quello di cui si rende conto è che Sullivan gliel'ha messo nel sederino raccontando la sua storia a Cowart, di modo che è andata bella distesa sul giornale, mentre lui pensava di avere l'esclusiva. E poi si ritrova doppiamente fottuto quando il pazzo salta sulla sedia elettrica. Non è troppo contento di come sono andate le cose.» La Shaeffer rimase in silenzio. Si sentiva intrappolata tra due vortici. Weiss continuò in tono sommesso. «E c'è ancora un piccolo dettaglio. Davvero intrigante.» «E sarebbe?» «Sullivan ha lasciato un testamento scritto.» «Un testamento?» «Esattamente. Un pezzo di carta molto interessante. Scritto su un paio di pagine strappate della Bibbia. Il Salmo Ventitreesimo. Hai presente, la Valle della Morte e "non temerò alcun male." L'ha scritto a pennarello sopra al testo, quindi ha inserito un segnalibro. Ha scritto una nota, che ha messo sulla scatola: "Si prega leggere il brano segnato..."» «E cosa dice?» «Dice che lascia tutto a una guardia del penitenziario. Un certo sergente Rogers. Te lo ricordi? È quello che non ci ha lasciato vedere Sully prima dell'esecuzione. Quello che ha scortato Cowart nella prigione.» «Ed è...» «Ecco quello che ha scritto: "Lascio tutti i miei possedimenti terreni al sergente Rogers, che...", ascolta qui, "...che mi fu di aiuto e conforto in un momento così critico, e che non riuscirò mai a ripagare dei difficili servizi che mi ha reso. Sebbene abbia tentato..."» Weiss fece una pausa. «Che ne dici?» Shaeffer annuì, sebbene sapesse che il suo collega non poteva vederla.
«Un'interessante combinazione di eventi.» «E indovina cosa?» «Dimmi.» «Il buon sergente ha preso due giorni di vacanza tre giorni prima che Cowart scoprisse i due cadaveri. E sai cos'altro ha di interessante?» «Cosa.» «Un fratello che vive a Key Largo.» «Che io sia dannata.» «Ancora meglio, un fratello con dei precedenti. Due condanne per effrazione. Si è fatto undici mesi nella galera della contea per un'accusa di aggressione, una faccenda da bar, e un'altra volta è stato arrestato per uso illegale di arma da fuoco, per la precisione una bella Magnum 357. Accusa ritirata. E diventa ancora meglio. Ricordi la tua analisi della scena del delitto? Il fratello è mancino ed entrambe le gole delle vittime sono state tagliate da destra a sinistra. Interessante, eh?» «Ci hai parlato?» «Non ancora. Pensavo di aspettare che arrivassi anche tu.» «Grazie» disse lei. «Lo apprezzo molto. Ma ancora una cosa.» «Dimmi.» «Come spieghi il fatto che non abbia eliminato le cose di Sullivan dopo l'esecuzione? Voglio dire, avrebbe dovuto immaginarsi che se Sullivan lo avesse voluto tradire, quello sarebbe stato il posto ideale per lasciare un messaggio, non trovi?» «Ci ho pensato anch'io. Il fatto che abbia lasciato in giro quelle casse non quadra. Ma forse non è poi così furbo. O magari non aveva inquadrato bene Sully per il personaggio che invece era. O forse gli è soltanto passato di mente. Certo che è stata una bella dimenticanza.» «D'accordo» disse lei. «Arrivo.» «È proprio il sospetto ideale, Andy. Ottimo. Vorrei vedere se riusciamo a localizzarlo nelle Keys. O controllare le sue telefonate, vedere se ha passato troppo tempo a chiacchierare con il fratello. E a quel punto magari si può andare dal procuratore.» L'investigatore fece una pausa prima di riprendere. «C'è soltanto una cosa che mi dà un po' fastidio...» «E sarebbe?» «Be', Andy, che diavolo, è una gran bella freccia lampeggiante quella che Sully ha lasciato puntata su quel sergente. E detesto l'idea di contare su Sullivan, persino da morto. Sai benissimo che il modo migliore per mandare a puttane un'indagine per omicidio è sviarla su un colpevole apparente.
Anche nel caso che eliminassimo altri sospetti, qualsiasi avvocato difensore li tirerebbe fuori al processo, mandando in confusione la giuria. E penso che Sully lo sapesse.» La Shaeffer si ritrovò nuovamente ad annuire con forza. «Ma alla fine» proseguì Weiss «è solo la mia vecchia paranoia che sta parlando. Ascolta, Andy, se incastriamo questo tizio, per noi sarà una pioggia di elogi e promozioni. Per la tua carriera sarà come partire in impennata. Fidati di me. Torna quaggiù e dividilo con me. Continuerò a interrogare la gente finché non sarai arrivata, e a quel punto ce ne torneremo sulle Keys.» «D'accordo» rispose lei lentamente. «Sento ancora un "ma" nel tuo tono di voce.» La Shaeffer era combattuta. L'entusiasmo del suo collega, accompagnato dal suo evidente successo e dal pensiero improvviso che lei stava lasciandosi sfuggire il caso più importante nel quale fosse mai stata coinvolta, parvero avere la meglio sulle sue paure. Sollevò il capo e si guardò in giro nella stanza. Pareva che le ombre dentro di lei si fossero assottigliate. Esitò per qualche istante. «Forse dovrei chiudere tutto e tornare a casa.» «Insomma, fa' quello che ti sembra più giusto. A me va bene. Qui si sta meglio, in ogni caso. Non hai freddo, lassù?» «Fa freddo. E umido.» «Eccoti servita. E Ferguson?» «Un uomo malvagio, Mike» si ritrovò a ripetere. «Un uomo malvagio.» «Be', che diavolo. Vai pure a dare una controllata ai suoi orari, ficca il naso un po' dappertutto, assicurati che il suo alibi sia buono come sostiene lui, e poi fa come ti ho detto e dimenticati dell'intera faccenda. Non sarà tempo sprecato se poi gli mettiamo dietro la polizia locale. Magari anche lassù c'è qualcosa che non va, capisci. E comunque, tutto quello che ho per il prossimo giorno o due sono gli interrogatori di quelli che hanno lavorato nel braccio. Il nostro sergente è soltanto uno del mucchio. Hai presente, le solite domande di routine, niente che lo possa innervosire, in modo da dargli l'impressione di essere bene al riparo. E poi lo si becca. Ma ti aspetto. Mi piacerebbe vederti mentre te lo lavori. Nel frattempo, soddisfa la tua curiosità. Ma poi parti subito.» Fece una pausa. «Vedi che capo ragionevole sono?» riprese infine. «Niente urla. Niente parolacce. Chi avrebbe il coraggio di lamentarsi?» La Shaeffer riappese il telefono chiedendosi cosa avrebbe dovuto fare. Ciò la fece riandare con il pensiero al momento in cui sua madre aveva caricato lei e quante più cose poteva sulla vecchia auto famigliare e se n'era
andata da Chicago. Era il tardo pomeriggio di una giornata grigia e ventosa, e il lago Michigan era screziato di onde schiumose. L'avventura si era accoppiata al senso di perdita. Si rammentò di aver chiuso la portiera con violenza, lasciando fuori il gelo e di aver pensato che proprio quello fosse il momento in cui si era resa conto che suo padre era davvero morto e mai più sarebbe tornato al suo fianco. Non era successo prima, quando aveva sceso i gradini delle scale di casa per trovare un prete e due capitani in uniforme in piedi nell'ingresso, le mani intrecciate davanti, gli occhi incapaci di incontrare i suoi. E nemmeno al funerale, nel momento in cui l'organista aveva attaccato il suo commovente lamento. E nemmeno quando le sue compagne di classe l'avevano fissata con la tipica, crudele curiosità infantile nei confronti del dolore. Era successo quel pomeriggio. L'infanzia è disseminata di momenti critici, si era resa conto, e anche il resto della vita, quando tutto è compresso sotto una corazza dura e trasparente. Decisioni da prendere. Passi da compiere. L'irrevocabilità della vita. Ora era il momento di prendere una decisione del genere. Richiamò alla mente l'immagine di Ferguson. Lo vide rivolgerle quel suo sogghigno, seduto sul divano consunto; lo vide prendersi gioco di un'investigatrice della squadra omicidi. "Perché?" si chiese di nuovo. La risposta le balzò in mente all'improvviso. Perché stava indagando sull'omicidio sbagliato. Si distese sul letto. Decise che ancora non era giunto il momento di lasciare in pace Robert Earl Ferguson. L'indomani mattina, la pioggia leggera e le nuvole coprivano ancora il cielo, accompagnate da un freddo umido e penetrante. La cappa grigia pareva riversarsi nel marrone tenebroso del fiume Raritan, che lambiva i margini dell'edificio di mattoni ricoperti di edera. La Shaeffer attraversò il parcheggio, stringendosi al corpo l'inadeguato conforto offerto dall'impermeabile, sentendosi come una strana sorta di profuga. Non le ci volle molto a essere irretita dall'imperturbabile ritmo della burocrazia universitaria. Dopo essere giunta fino al Dipartimento di Criminologia e avere spiegato a una segretaria i motivi della sua presenza, venne indirizzata agli uffici amministrativi. Lì dovette assistere a un discorso sulla riservatezza garantita agli studenti da parte di un assistente rettore che, nonostante una certa tendenza alla cantilena ufficiale, le concesse alla fine la possibilità di parlare con i tre professori che stava cercando. Ma trovare
i tre si rivelò altrettanto difficoltoso. Gli orari di ufficio erano elastici. I numeri telefonici di casa non erano reperibili. Cercò di mostrare in giro il suo distintivo, soltanto per rendersi conto del poco impatto che aveva sui suoi spettatori. Era ormai giunta l'ora di pranzo quando riuscì a trovare il primo dei professori, alla mensa della facoltà. Teneva un corso sulle procedure forensi. Aveva capelli ispidi, era di corporatura esile, indossava una giacca sportiva e un paio di pantaloni cachi. Aveva l'irritante abitudine di distogliere lo sguardo da lei mentre le parlava, fissandolo nel vuoto accanto al suo volto. La Shaeffer sapeva di avere una sola area concreta sulla quale concentrare le sue indagini, i giorni corrispondenti agli omicidi delle Keys, e si sentiva leggermente stupida a rincorrerla, specialmente sapendo quel che sapeva sulla guardia del penitenziario. Ma era pur sempre un punto d'inizio. «Non so come potrei esserle d'aiuto» rispose il professore tra un morso e l'altro di una stantia insalata verde. «Il signor Ferguson è uno studente di grado superiore. Non il migliore, ma piuttosto buono. Intorno al ventisette, direi. Non da trenta, ne dubito proprio, ma costante. Decisamente costante. Ma insomma, anche questa è una cosa che uno si potrebbe aspettare. Ha un'esperienza pratica un po' più approfondita di quella della maggior parte degli studenti. Scherzavo, sa. No, ha una decisa inclinazione per le procedure legali. È molto interessato alle scienze forensi. Regolare. Nessuna lamentela da fare.» «E le frequenze?» «C'è sempre.» «E nei giorni in questione?» «Il corso si è tenuto due volte, quella settimana. Solo ventisette studenti. Non ci si può nascondere, capisce. Non si può mandare il compagno di stanza a firmare per la presenza. Martedì e giovedì.» «E...?» «Presente. Sul mio taccuino.» Il professore fece scorrere il dito lungo una colonna di nomi. «Ah. Perfetto.» «C'era?» «Mai persa una lezione. Non questo mese. Qualche altra assenza, ma prima nel corso dell'anno. Ma sono registrate come assenze giustificate.» «Giustificate?» «Significa che aveva una buona ragione. Ma si è sempre dato i compiti da solo. Ha fatto il lavoro di recupero. Significa un grande impegno, spe-
cialmente in tempi come questi.» Il professore richiuse di scatto il taccuino e tornò a concentrarsi sul piatto di verdura e frutta secca. La Shaeffer trovò il secondo docente al di fuori di un'aula, nel mezzo di un corridoio pieno di studenti diretti alle rispettive classi. Insegnava storia del crimine in America, un corso generale frequentato da un centinaio di studenti. Portava una cartella e una pila di libri e disse di non essere in grado di ricordarsi se Ferguson fosse presente nelle date che lei chiedeva; le mostrò però un foglio che riportava le firme per le presenze e su quel foglio il nome di Ferguson spiccava evidente. La giornata stava arrancando cupa verso il pomeriggio, una luce grigia e rancida penetrava nei corridoi dell'università e la Shaeffer iniziava a sentirsi infuriata e delusa. Non aveva mai veramente sperato di poter scoprire la sua assenza dall'università in corrispondenza dei due omicidi; ciononostante, era innervosita dalla sensazione di perdere soltanto del gran tempo. Si rese conto di avere scoperto, di Ferguson, ben poco più di quanto già non sapesse prima di quella mattina. Circondata dalla pressione costante degli studenti, perfino Ferguson aveva iniziato a dileguarsi dalla sua mente. "Cosa sto facendo qui?" si ritrovò a chiedersi. Decise di fare ritorno in albergo, ma poi, all'ultimo momento, cambiò di nuovo idea, forzandosi a bussare alla porta dello studio del terzo professore. Se non avesse avuto alcuna risposta sarebbe subito ripartita per la Florida. Riuscì a trovare lo studio dopo innumerevoli svolte sbagliate e bussò con decisione alla porta; quindi fece un passo indietro mentre questa si apriva, rivelando un tozzo ometto, il volto incorniciato da una montatura da nonnina anni sessanta e da una zazzera di sparsi capelli color sabbia. Indossava una giacca sportiva di tweed troppo larga per la sua taglia, dal cui taschino spuntavano una dozzina di penne, una delle quali, a quanto pareva, aveva perso inchiostro. Il nodo della cravatta era allentato sul collo, e una discreta pancetta premeva alla cintura dei suoi pantaloni di velluto. I suoi abiti davano l'impressione che fosse stato appena svegliato da un riposino, ma gli occhi si muovevano rapidi, esaminando l'investigatrice in piedi di fronte a lui. «Il professor Morin?» «È una studentessa?» La Shaeffer estrasse il distintivo, lasciando che lui lo esaminasse. «Florida, eh?»
«Potrei farle qualche domanda?» «Sicuro.» Le fece cenno di entrare. «La stavo aspettando.» «Aspettando?» «Vuole sapere qualcosa del signor Ferguson, giusto?» «Esatto» rispose lei entrando nello studio. Era un locale molto piccolo, con una sola, sporca finestra che dava su una corte interna. Una parete era completamente dedicata ai libri. Una piccola scrivania e un computer erano accostati all'altra parete. I pochi punti rimasti disponibili erano pieni di pagine di giornali appese. Alle pareti erano anche appesi tre acquarelli floreali dai colori brillanti, che contraddicevano la sudicia apparenza del resto dello studiolo. «Ma come faceva a saperlo?» «Mi ha chiamato lui. Ha detto che sarebbe venuta a fare qualche domanda.» «E...?» «Be'» rispose il professore, con lo spumeggiante entusiasmo di chi è stato troppo a lungo in silenzio «il signor Ferguson ha un'ottima media di frequenze. Perfetta. Specialmente nel periodo che le interessa.» Si sedette sulla sedia dietro alla scrivania, facendola sobbalzare sotto il suo peso. «Spero che ciò possa chiarirle ogni dubbio.» Il professore sorrise, ostentando una fila di denti perfettamente bianchi e regolari, che sembravano contraddire il suo aspetto arruffato. «Sa, è un gran bravo studente. Molto appassionato, capisce, il che a quanto pare rende diffidente la gente. Molto solitario, ma suppongo che il braccio della morte abbia molto a che fare con ciò. Sì, appassionato, concentrato, intenso. Non lo si riscontra in molti studenti. Fa un po' paura, ma alla resa dei conti è una ventata ristoratrice. Come il pericolo, suppongo.» Il professor Morin proseguì nel suo tono gorgogliante. «Perfino i poliziotti e le poliziotte che frequentano i nostri corsi, lo fanno per andare avanti nelle loro carriere, lo vedono come un processo grazie al quale possano acquisire riconoscimenti e raggiungere dei risultati. Il signor Ferguson, invece, è più il tipo dello studioso.» Vi era una sola sedia in un angolo, segnata e consunta dall'uso e lei vi si accomodò. Era chiaramente pensata per mantenere gli studenti e le loro preoccupazioni in uno stato di costante agitazione, spingendoli quindi a lasciare l'ufficio nel minor tempo possibile. «Lo conosce bene, il signor Ferguson?» domandò lei. Il professore si strinse nelle spalle. «Bene come chiunque altro. È un uomo interessante.»
«In che senso?» «Be', io insegno "Mezzi di comunicazione e criminalità", e lui possiede un bel po' di esperienza in quel campo specifico.» «E allora?» «È stato convocato più volte per dare la sua opinione sugli oggetti delle lezioni. E sono sempre state, come dire, opinioni intriganti. Voglio dire, non è cosa di tutti i giorni insegnare a qualcuno che ha diretta esperienza della materia. E che potrebbe essere finito sulla sedia elettrica, non fosse stato per i mezzi di comunicazione.» «Cowart.» «Esatto. Matthew Cowart del Miami Journal. Un premio Pulitzer e decisamente meritato, aggiungerei. Un bel lavoro giornalistico.» «E quali sono le opinioni di Ferguson, professore?» «Be', direi che è estremamente sensibile ai temi che coinvolgono i rapporti razziali e il giornalismo. Ha fatto un lavoro sul caso di Wayne Williams, quello di Atlanta. Ha sollevato un'obiezione rispetto al doppio criterio di valutazione, ha presente, un sistema di regole per le notizie riguardanti la comunità bianca, e un altro sistema, completamente diverso, per quanto concerne le comunità nere. È una distinzione che, guarda caso, anch'io riconosco che esiste, investigatrice.» Lei annuì. Il professor Morin fece ruotare la sedia, dondolandosi avanti e indietro mentre parlava, chiaramente innamorato del suono della propria stessa voce. «...Ebbene sì, Ferguson ha messo in evidenza il fatto che la mancanza di attenzione da parte dei mezzi di informazione rispetto alla criminalità nelle comunità nere porta invariabilmente a una diminuzione delle risorse delle forze dell'ordine, a una rilassatezza nell'attività degli organi legali competenti, e fa sì che la criminalità assuma il ruolo di un elemento quotidiano del tessuto sociale. Una visione decisamente sofisticata. La normalizzazione della criminalità, suppongo. Aiuta a capire come mai quasi un quarto della popolazione di colore del nostro paese sia o sia stata dietro le sbarre.» «Ed era sempre in classe?» «Tranne nei casi di assenze giustificate.» «Che tipo di giustificazioni?» «Occasionalmente fa delle letture e dei discorsi, per la maggior parte in chiese giù in Florida. Quassù, è naturale, nessuno ha la vaga idea del suo passato. Una buona metà degli studenti del corso non avevano mai sentito
nominare il suo caso, all'inizio del semestre. Ci crede, investigatrice? La dice lunga sulle qualità degli studenti di oggi.» «Torna in Florida?» «Occasionalmente.» «Ha per caso quelle date?» «Sì. Ma pensavo mi avesse detto che lei era interessata soltanto alla settimana relativa a...» «No, sono interessata anche al resto.» Il professor Morin esitò, quindi scrollò le spalle. «Suppongo che non ci sia nulla di male.» Si concentrò su un taccuino e lo sfogliò rapidamente, giungendo infine al foglio delle presenze. Lo allungò alla Shaeffer, che rapidamente prese nota delle date in cui Ferguson era stato assente dal corso. «È tutto, investigatrice?» «Penso di sì.» «Vede? È tutto normale, ordinario. Voglio dire, lui qui si mimetizza alla perfezione. E avrà anche un futuro, immagino. Di certo ha la possibilità di ottenere la sua laurea.» «Si mimetizza?» «Naturalmente. Siamo un'università urbana, e grande, investigatrice. Uno come lui ci sta bene.» «Anonimo.» «Come qualsiasi altro studente.» «Sa dove vive, professore?» «No.» «Sa qualcos'altro di lui?» «No.» «E non la fa rabbrividire un pochino, quando ci parla insieme?» «È molto... intenso, come le dicevo... ma non vedo come questo potrebbe trasformarlo in un sospetto di omicidio. Suppongo si chieda se riuscirà mai a essere lasciato in pace dalla polizia della Florida. E penso si tratti di una domanda legittima, non trova anche lei, investigatrice?» «Un uomo innocente non ha nulla da temere» rispose lei. «No» commentò il professore scuotendo il capo. «Credo proprio che nella nostra società siano spesso i colpevoli a cavarsela.» La Shaeffer lanciò un'occhiata al professore, il quale stava raccogliendo le proprie forze, quasi fosse sul punto di lanciarsi in una tirata semiradicale, da tipico reduce degli anni sessanta. Decise di declinare l'invito a questa specifica lezione.
Si alzò in piedi e lasciò lo studio. Non era sicura di quello che aveva sentito, ma sapeva che c'era qualcosa. "Anonimo". Aveva percorso ormai la metà del corridoio quando fu colpita dalla precisa sensazione di essere osservata. Si volse di scatto e vide il professore richiudere la porta del suo studio. Il rumore riecheggiò nel corridoio. Il suo sguardo percorse l'ambiente che la circondava, alla ricerca degli studenti che, fino a poco prima, l'avevano riempito, e che ora parevano essere stati assorbiti dagli uffici, dalle aule, dalle sale conferenza. Sola. Si costrinse a scrollare le spalle. "È pieno giorno" si disse. "E questo è un luogo pubblico, affollato." Accelerò il passo. Il suono delle sue scarpe sul linoleum tirato a lucido del pavimento le riecheggiava leggermente nelle orecchie. Si affrettò, e i suoi passi si fecero più rapidi, e il suono solitario intorno a lei si fece più incalzante. Raggiunse una rampa di scale e scese, sempre più veloce. Anche le scale erano deserte. Le percorse affannata, quasi balzando giù dalle rampe. Dietro di lei una porta si aprì e si richiuse e lei si bloccò di scatto, improvvisamente conscia del fatto che, alle sue spalle, i passi di qualcun altro riecheggiavano sulle scale. Si appiattì contro il muro, infilò la mano nella borsetta, afferrò la rivoltella. Il suono dei passi si stava avvicinando. Si rifugiò in un angolo, sentendo la stretta rassicurante delle dita sul calcio della pistola. Sollevò lo sguardo e scorse un giovane studente carico di libri e di appunti affrettarsi strascicando un paio di scarpe da ginnastica non allacciate. Superandola, lo studente le rivolse a malapena un'occhiata, evidentemente concentrato sul suo preoccupante ritardo. La Shaeffer chiuse gli occhi. "Cosa mi sta succedendo?" si chiese. Lasciò la presa sulla rivoltella. "Cos'avevo sentito?" Si diresse verso l'uscita delle scale, controllando le porte dell'edificio che le si paravano di fronte. Il cielo del tardo pomeriggio, al di là dei vetri dell'ingresso, le parve grigio e funereo, ma in fondo benvenuto. Gli andò incontro con decisione. Non vide Ferguson; lo udì soltanto. «Ha saputo quello che voleva, investigatrice?» Il sibilo con il quale le aveva rivolto la domanda la fece trasalire. Si volse verso quel suono portando di scatto la mano alla borsetta e facendo un passo indietro, quasi fosse stata colpita da un pugno. I suoi occhi incontrarono quelli di Ferguson, e scorsero il solito, sconvolgente sogghigno attraversargli il volto. «Soddisfatta?» domandò lui.
Lei raddrizzò le spalle, fronteggiandolo. «L'ho spaventata, investigatrice?» Lei scosse il capo, ancora incapace di rispondergli. Sentì la mano stringersi attorno al calcio della pistola, ma non la mosse. «Mi sta per sparare, investigatrice?» domandò lui aspramente. «È quello che vuole fare?» Ferguson fece un passo avanti, allontanandosi dalla zona d'ombra rasente il muro nella quale si era nascosto. Indossava un giaccone militare verde oliva e sul capo portava un berretto da baseball dei New York Giants. Portava a tracolla una cartella, che lei immaginava piena di libri. Aveva l'aspetto di quasi tutti gli altri studenti che aveva visto nei corridoi. La Shaeffer cercò di frenare il battito impazzito del suo cuore e lentamente allontanò la mano dalla borsetta. «Cosa porta lì dentro, investigatrice? Una trentotto in dotazione della polizia? O magari un'automatica calibro venticinque? Qualcosa di piccolo ma efficace?» La fissava. «No, scommetto che si tratta di qualcosa di più grosso. Il bisogno di provare qualcosa. Una 357 Magnum. O una nove millimetri. Qualcosa che l'aiuti a convincersi di essere una dura, vero investigatrice? Forte e dominatrice.» Lei non rispose. Lui scoppiò a ridere. «Non dividerà il suo segreto con me, vero?» Ferguson si tolse dalla spalla la cartella, appoggiandola a terra. Quindi allargò le braccia, in un ironico gesto di resa, quasi supplichevole, a palmi in fuori. «Ma vede, io sono disarmato. E allora cos'ha da temere?» La Shaeffer respirò profondamente, cercando di fugare la nebbia confusa provocata in lei dall'improvvisa comparsa di Ferguson, così da potergli rispondere nel modo più adeguato. «Allora, ha saputo quello che voleva, investigatrice?» Lei espirò lentamente. «Ho scoperto qualcosa, sì.» «Che ero in classe?» «Esatto.» «E dunque non c'era modo che potessi essere in Florida a far fuori quella coppia di vecchi, giusto? L'ha capita, finalmente?» «Non sembra. Ma sto ancora controllando.» «Si è concentrata sull'uomo sbagliato, investigatrice.» Ferguson sogghignò. «A quanto pare è un vizio, per voi sbirri della Florida.» Lei gli rivolse un'occhiata glaciale. «No. Non so, signor Ferguson. Io penso che lei sia l'uomo giusto, invece. Ma ancora non ho scoperto per co-
sa.» Gli occhi di Ferguson fiammeggiarono. «È sola, vero investigatrice?» «No» mentì lei. «Sono con un collega.» «E dov'è?» «Sta lavorando.» Ferguson la superò, rivolgendo un'occhiata alla doppia porta a vetri che dava sui vialetti pedonali e sul parcheggio. La pioggia striava il grigio del cielo, cadendo con deprimente ferocia. «Una ragazza è stata picchiata e stuprata proprio là fuori, l'altra sera. Aveva fatto un po' tardi in classe. Era appena sceso il buio. Uno sconosciuto l'ha afferrata, l'ha trascinata dietro quella collinetta, laggiù alla fine del parcheggio. E se l'è fatta proprio lì. L'ha stesa e se l'è fatta. Ma non l'ha uccisa. Le ha rotto la mandibola. Le ha rotto un braccio. Se l'è goduta.» Ferguson continuò a fissare oltre le porte. Sollevò un braccio e indicò un punto: «Proprio là fuori. È lì che ha parcheggiato, investigatrice?» Lei serrò le mascelle. Lui le si rivolse di nuovo. «Non hanno ancora individuato un sospetto. La ragazza è tuttora all'ospedale. Pensi, investigatrice. Non si può essere sicuri nemmeno camminando in un'università. Andando verso la propria macchina. E nemmeno in una stanza di motel, se per quello, immagino. Non la rende un po' nervosa? Anche con quella cara vecchia pistola in borsetta, messa in modo da non poterla raggiungere in tempo?» Ferguson si allontanò dalle porte a vetri. Si voltò e fissò lo sguardo alle spalle della Shaeffer e fu a quel punto che anche lei si accorse delle voci che si stavano avvicinando. Non distolse tuttavia lo sguardo da Ferguson, seguendolo mentre assisteva al passaggio di un gruppo di studenti. Le loro voci la circondarono all'improvviso. Vide Ferguson rivolgere un cenno di saluto a uno del gruppo, udì una ragazza esclamare: «Dio! Guardate come viene giù!» Il gruppo approntò impermeabili e ombrelli e superò l'investigatrice, uscendo nell'aria fradicia. Un refolo freddo la raggiunse quando la doppia porta si aprì. «Dunque, investigatrice. Ha finito? Ha saputo?» «So abbastanza» rispose lei. Lui sorrise. «Non le piace dare risposte dirette, eh?» disse. «Sa, è una tecnica talmente antica. Ne ho probabilmente una descrizione, in qualcuno dei libri di testo che oggi ho portato con me.» «Lei è un bravo studente, signor Ferguson.» «Sissignora» rispose lui. «Conoscere è importante. Rende liberi.»
«Dove l'ha imparato?» domandò lei. «Nel braccio, investigatrice. Ho imparato tanto, laggiù. Ma soprattutto ho imparato che devo istruirmi. Non avrei futuro se non lo facessi. E finirei come tutti quegli altri poveracci, in attesa che la squadra della morte li rada a zero e li faccia sedere sulla sedia.» «E dunque è venuto a scuola.» «La vita è la scuola migliore, non è vero, investigatrice?» Lei annuì. «Allora, adesso mi lascerà in pace?» domandò lui. «E perché dovrei?» «Perché non ho fatto niente.» «Le dirò, non sono sicura di esserne convinta, signor Ferguson. Non ne sono affatto sicura.» I suoi occhi si assottigliarono. Parlò in tono lento e regolare. «Il suo è un atteggiamento pericoloso, investigatrice.» Non sentendo risposta, proseguì. «Specialmente visto che è sola.» La guardò, e quindi sorrise, indicando la porta. «Immagino che vorrà andarsene ora, giusto? Prima che si faccia buio davvero. Non rimane molta luce là fuori. Quindici, magari venti minuti, non di più. Non le piacerebbe perdersi mentre cerca la sua auto a noleggio, vero? Di che colore è, investigatrice? Grigia metallizzata? Difficile da trovare in una notte come questa. Non si perda, investigatrice. C'è della brutta gente là fuori. Perfino in un'università.» La Shaeffer s'irrigidì. Conosceva il colore della sua auto. "Ha tirato a indovinare" si disse. "Gli è andata bene." Ferguson arretrò, allontanandosi ulteriormente dalla porta, lasciandole libero il passaggio verso la pioggia e l'oscurità. «Stia attenta, investigatrice» disse lui in tono di scherno. Quindi girò sui tacchi e si allontanò nell'atrio, sparendo dietro l'angolo di un corridoio laterale. Lei rimase in ascolto per qualche istante, cercando di individuare il suono dei suoi passi, ma non vi riuscì. Si volse e di nuovo scrutò la pioggia tempestare gli alberi e i marciapiedi. Si allacciò l'impermeabile e ne sollevò il colletto. Ebbe bisogno di un sovrappiù di volontà per costringere i suoi piedi a muoversi. Il freddo penetrò subito in lei. La pioggia prese a colarle lungo il collo. Accelerò il passo, maledicendo le goffe scarpette che non smettevano di scivolare sul sentiero. Voltava il capo in continuazione, guardandosi alle spalle, scrutando di fronte, sincerandosi di non scorgere Ferguson intento a
seguirla. Quando ebbe raggiunta l'auto, ne controllò il sedile posteriore prima di gettare nell'abitacolo le sue poche cose e di mettersi al volante. Appena entrata chiuse le sicure. La sua mano tremava leggermente mentre inseriva la chiave nel cruscotto e mentre metteva l'auto in marcia. Non appena l'auto iniziò a muoversi, si sentì meglio. Svoltando per uscire dal parcheggio, finalmente provò un certo sollievo. Prese velocità, immettendosi in una strada a doppia carreggiata. Per un istante pensò di aver scorto, con la coda dell'occhio, una figura ingobbita con un giaccone color oliva, ma quando si voltò per vedere meglio la figura era scomparsa, forse inghiottita da un gruppo di studenti in attesa a una fermata d'autobus. La Shaeffer lottò contro un soprassalto di terrore, concentrandosi sulla guida. Il riscaldamento della piccola automobile prese a ronzare a fatica, e uno sbuffo di aria calda, viziata come se fosse uscita da una lattina appena aperta, le riscaldò il volto, non riuscendo neppure a sfiorare i suoi pensieri. "Cos'ha imparato nel braccio della morte?" si chiese. Ha imparato a studiare. "A studiare cosa?" Il crimine. "Perché?" Perché chiunque altro, nel braccio della morte, non aveva superato un esame. Erano tutti uomini che avevano commesso crimini su crimini, a volte omicidi su omicidi, e che erano finiti in trappola, in attesa della sedia, perché avevano sbagliato. Perfino Sullivan aveva sbagliato. Ricordava una sua frase, riportata in uno dei servizi di Matthew Cowart: "Avrei ucciso ancora, se non mi avessero beccato." "Ma Ferguson" si disse "ha avuto una seconda possibilità. E stavolta non la vuole sprecare. Perché? Perché vuole continuare a fare quello che sta facendo." La sua mente lottò contro le vertigini. Parlò con se stessa usando la terza persona, nel tentativo di calmarsi con un tono di familiarità. «Omiodio, Andy ragazza mia, su cosa mai sei inciampata?» Cercò di liberare la mente da ogni pensiero e proseguì a guidare nella notte, alla ricerca del suo motel. Lasciò che la strada scorresse ai lati dell'auto, non concentrandosi su nulla se non sull'idea di un rifugio sicuro nel quale riordinare i suoi pensieri. Solo una volta lanciò un'occhiata allo specchietto retrovisore, colpita dal terrore improvviso che un'auto la stesse seguendo, ma vide che i fari si allontanavano, svoltando. Strinse i denti e continuò a guidare sotto la pioggia. Quando scorse le luci del motel, provò una momentanea sensazione di sollievo; ma non riuscì a trovare un par-
cheggio sul davanti e fu costretta ad accostare l'auto a quasi cinquanta metri e a innumerevoli ombre di distanza dall'ingresso illuminato. Spense il motore e fece un profondo respiro, lanciando un'occhiata verso il percorso che avrebbe dovuto compiere da sola. Ebbe un pensiero improvviso: era più facile in uniforme, alla guida di un'auto di pattuglia. Sempre in contatto con il centralino. Mai veramente sola. Sempre parte di una squadra di agenti in perlustrazione delle strade, sempre allo stesso, modo. Allungò la mano ed estrasse la nove millimetri dalla borsetta. Quindi scese dall'auto e s'incamminò decisa verso l'ingresso del motel, perlustrando con lo sguardo l'area che la divideva dal traguardo, cercando di captare ogni minimo rumore alle sue spalle. Soltanto quando fu a circa tre metri dall'ingresso rimise la rivoltella nella borsetta. Una coppia di anziani infagottati nei loro cappotti, in uscita dal motel, notarono di certo l'inconfondibile sagoma lucente dell'arma. Incrociandoli, la Shaeffer colse un frammento della loro spaventata conversazione: «Hai visto? Aveva una pistola...» «Ma no cara, sarà stato qualcos'altro.» E fu tutto. Un giovane in giacca blu era dietro al banco. Lei chiese la sua chiave e lui gliela consegnò, e nel mezzo dell'operazione disse pigramente: «Ah, un uomo l'ha cercata, investigatrice.» «Un uomo?» «Sì. Non ha lasciato messaggi. Ha chiesto di lei e basta.» «L'ha visto di persona?» «No. C'era un altro di turno al banco.» Lei si rese conto che qualcosa, dentro di lei, era sul punto di spezzarsi. «Ha detto nient'altro? Non le ha dato una descrizione?» «Ah, sì. Ha detto che era di colore. Ecco cos'ha detto. Un uomo di colore ha chiesto di lei, ma non ha voluto lasciare un messaggio. Ha detto che si sarebbe messo in contatto lui. È tutto. Mi spiace, è tutto quello che ricordo.» «Grazie» disse lei. Si costrinse a raggiungere lentamente l'ascensore. "Come ha fatto a trovarmi?" si chiese. L'ascensore la condusse al piano e lei attraversò in silenzio il corridoio. Come aveva fatto in precedenza, controllò tutti i possibili nascondigli della stanza dopo aver chiuso la porta a doppia mandata. Quindi si lasciò cadere sul letto, e cercò di occuparsi delle banalità quotidiane, come ordinare la cena nonostante non avesse una gran fame, e delle cose più complesse,
come pensare a cosa avrebbe fatto con Robert Earl Ferguson. Cercò di figurarselo senza la smorfia di scherno con la quale le si era rivolto, ma non ci riuscì. Il colpo alla porta si schiantò nel groviglio delle sue paure. Trattenne il respiro e allo stesso tempo si alzò in piedi. Si ritrovò, immobile, a fissare la porta. Bussavano. Un altro colpo deciso, poi un terzo. Abbassò di nuovo la mano, estraendo la pistola dalla borsetta, la sollevò e si avvicinò alla porta, tenendo il dito indice sulla sicura, come le avevano insegnato a fare nelle situazioni di incertezza. Alla porta vi era uno spioncino. Vi si accostò per controllare cose stesse succedendo in corridoio, ma nello stesso istante in cui vi accostò l'occhio, dalla porta provenne un altro colpo, facendole fare un balzo indietro. Cercò di costringere il coraggio a prevalere sulle sue paure, allungò la mano sulla maniglia, e con una sola, rapida mossa sganciò la serratura di sicurezza e tirò la porta verso di sé. Allo stesso tempo portò la pistola ad altezza d'occhio e prese la mira. La porta si aprì, rivelandole Matthew Cowart. Era in piedi in corridoio, la mano a mezz'aria, pronta a bussare di nuovo. Lo vide irrigidirsi quando si accorse dell'arma che lei stava impugnando. Cadde un silenzio tagliente come un coltello. La Shaeffer sollevò lentamente le mani e fu allora che vide che il giornalista era accompagnato da due altri uomini. Abbassò l'arma. «Cowart» mormorò. Lui annuì. «Un bel benvenuto» riuscì a gracchiare. «A quanto pare ci provate gusto a puntarmi addosso le pistole.» Lo sguardo della Shaeffer scivolò sugli altri due. «Io vi conosco» disse. «Eravate nel penitenziario.» «Wilcox» rispose l'investigatore. «Contea di Escambia. E questo è il mio capo, il tenente Brown.» La Shaeffer si volse e fissò la massiccia sagoma di Tanny Brown. Pareva ribollire dall'intensità; lei vide che i suoi occhi la stavano esaminando, fermandosi per un istante sulla rivoltella che ancora stringeva in mano. «A quanto pare» disse Brown lentamente «ha fatto visita a Bobby Earl.» 22 Appunti
Chiusi nella camera d'albergo, i tre investigatori e il solitario giornalista assunsero le posizioni più scomode. Wilcox rimase in piedi, la schiena appoggiata alla parete, vicino alle finestre; di tanto in tanto rivolgeva il suo sguardo alla strada e ai fari che vi passavano, tenendo per sé i suoi pensieri. La Shaeffer e Brown occupavano le uniche due sedie della stanza, sui due lati di un piccolo tavolo, come giocatori di poker in attesa dell'ultima carta da giocare. Cowart stava scomodamente appollaiato sull'orlo del letto, leggermente in disparte. Qualcuno, in una stanza adiacente, aveva aumentato il volume del televisore; le voci di un telegiornale penetrarono attraverso le sottili pareti del motel. Qualche tragedia, pensò, ridotta a quindici secondi, trenta se proprio drammatica, una notizia letta con la più professionale delle espressioni preoccupate. Lanciò un'occhiata ad Andrea Shaeffer. Sebbene chiaramente sorpresa dall'averli visti sulla porta della propria stanza, li aveva fatti entrare senza nemmeno un commento. Le presentazioni erano state rapide, le chiacchiere del tutto assenti. Sapevano tutti cosa fosse ad averli riuniti in una piccola stanza di una città lontana. La Shaeffer sfogliò qualche foglio di appunti e si rivolse ai tre uomini. «Come avete fatto a trovarmi?» domandò. «Ce l'ha detto l'ufficio di collegamento di Newark» rispose Brown. «Ci siamo andati appena arrivati. Ci hanno raccontato di averla accompagnata a trovare Ferguson.» La Shaeffer annuì. «Perché l'ha fatto?» chiese Brown. Lei fu sul punto di rispondere, ma all'improvviso si fermò, fissando Cowart e scuotendo il capo. «Cosa ci fa lei qui?» volle sapere. Il giornalista non avrebbe voluto rispondere a quella domanda, ma Tanny Brown, nel tono più misurato e ufficiale, replicò: «Anche noi siamo qui per vedere Ferguson.» La Shaeffer spostò lo sguardo sul tenente di polizia. «E perché? Pensavo che aveste finito con lui. E anche lei» aggiunse rivolta a Cowart. «No. Non ancora.» «Perché?» Fu nuovamente Brown a rispondere. «Siamo qui perché abbiamo ragione di credere siano stati compiuti degli errori nel primo processo a Ferguson. E altri errori negli articoli del signor Cowart. Siamo qui per indagare su entrambi gli aspetti della faccenda.» La Shaeffer pareva furiosa e al contempo sorpresa. «Errori?» Si rivolse
al giornalista. «Che tipo di errori?» Cowart si rese conto che stavolta avrebbe dovuto rispondere. «Mi ha mentito.» «Riguardo a che cosa?» «Riguardo all'omicidio di quella ragazzina.» La Shaeffer si agitò sulla sedia. «E la ragione per cui siete qui?» «Per rettificare.» Il cliché giornalistico provocò in lei un sorriso cinico. «Ah, certo, è fondamentale» commentò. Lanciò un'occhiata a Brown e a Wilcox. «Ma non spiega il perché della sua compagnia.» «Anche noi vogliamo rettificare» intervenne Brown. Ma non appena ebbe pronunciato quelle parole, si rese conto di avere commesso un errore. Si rese conto che la giovane donna seduta sull'altro lato del tavolo lo stava valutando, e che, fino a quel momento, lui non aveva passato l'esame. La Shaeffer rifletté qualche istante. «Non siete qui per arrestare Ferguson?» «No. Non possiamo farlo.» «Siete qui per parlargli?» «Sì.» Lei scosse il capo. «State mentendo» disse. Si appoggiò decisa allo schienale della sedia, incrociando le braccia sul petto. «Noi...» iniziò Brown. «Menzogne» lo interruppe lei. «Perché...» tentò di intervenire Cowart. «Menzogne» ripeté la Shaeffer. Il giornalista e il tenente di polizia la fissarono, e dopo qualche secondo di silenzio, il tempo necessario perché la parola ribollisse nelle loro coscienze, lei proseguì. «Quali rettifiche?» disse. «Non ci sono rettifiche da fare. C'è soltanto un uomo molto malvagio. Errori. E allora? Se Cowart avesse fatto qualche errore, sarebbe venuto da solo. E se lei, tenente Brown, avesse sbagliato qualcosa, anche lei sarebbe qui da solo. Ma il fatto che siate insieme significa qualcos'altro, non è vero?» Tanny Brown annuì. «È per caso un indovinello?» «No. Mi dica cosa l'ha portata fino a qui, e io le racconterò tutto.» La Shaeffer acconsentì, ma non prima di avere attentamente valutato la proposta. «Sono venuta per vedere Ferguson perché era il punto di collegamento tra Sullivan e Cowart, e pensavo potesse avere informazioni spe-
cifiche sugli omicidi delle Keys.» Brown la scrutò attentamente. «E ne aveva?» Lei scosse il capo. «No. Ha negato ogni coinvolgimento.» «E cosa si aspettava?» disse sottovoce Cowart. «Be', è stato un bel po' più disponibile di lei.» Non era vero, naturalmente, ma lei pensò che potesse bastare a fare star zitto il giornalista, cosa che puntualmente successe. «Ma allora, visto che lui non aveva alcuna informazione, e visto che ha negato ogni collegamento» intervenne Brown «cosa ci fa ancora qui, investigatrice?» «Volevo controllare il suo alibi per il periodo relativo al duplice omicidio.» «E...?» «Corrisponde.» «Corrisponde?» sbottò Cowart. La Shaeffer lo fulminò con lo sguardo. «Ferguson è rimasto sempre in classe, nel corso di quella settimana Non ha perso una lezione. Sarebbe stato dannatamente difficile andare giù fino alle Keys, uccidere i due vecchi e tornare, senza nemmeno un minuto di ritardo. Probabilmente impossibile.» «Ma dannazione, non è quello che Sullivan mi ha...» Cowart si fermò a metà frase, e subito la Shaeffer si voltò verso di lui. «Sullivan le ha cosa?» «Niente.» «Sullivan le ha cosa, dannazione!» Cowart si sentì all'improvviso in preda alla nausea. «Non è quello che Sullivan mi ha detto.» Tanny Brown cercò di intervenire, ma una singola occhiata della Shaeffer lo bloccò prima ancora che potesse pronunciare una parola. Una rabbia violenta la invase; per qualche istante il mondo si colorò di rosso. Poté sentire qualcosa esploderle dentro, e le mani le tremarono nello sforzo di trattenersi. "Menzogne", pensò, fissando il giornalista. "Menzogne e omissioni". Fece un profondo respiro. "Lo sapevo." «E quando glielo avrebbe detto?» domandò lentamente. «Prima di andare sulla sedia.» «Cosa le ha detto?» «Che era stato Ferguson a uccidere i due vecchi. Ma non è quello...» «Figlio di puttana» mormorò lei. «No, ascolti, deve capire...»
«Figlio di puttana. Cosa le ha detto con esattezza?» «Che si era messo d'accordo con Ferguson per scambiarsi un favore. Lui si era incolpato dell'omicidio di Ferguson e l'altro l'aveva ripagato in questo modo.» La Shaeffer valutò la nuova informazione e allo stesso tempo si rese conto del crepaccio in cui il giornalista era scivolato. Non provò alcuna comprensione. «E lei non ha pensato che questo fosse rilevante per chi indagava sul duplice omicidio?» «Non è così semplice. Sullivan mi aveva raccontato un sacco di menzogne. Stavo solo cercando di...» «E così ha pensato bene che avrebbe potuto mentire anche lei?» «No, dannazione, deve capire...» Cowart si voltò verso Tanny Brown. «Dovrei arrestarla, e subito» rispose lei in tono aspro. «Sarà in grado di scrivere il pezzo dalla sua cella, signor Cowart? GIORNALISTA ACCUSATO DI OMISSIONE DI PROVE IN SENSAZIONALE CASO DI OMICIDIO? È così che direbbe il titolo, vero? Lo pubblicherebbero in prima pagina, con la sua dannata fotografia? Sarebbe la verità, per una volta?» Continuarono a fissarsi a vicenda, finché Cowart non si rese conto di un dettaglio. «Sicuro. La verità. Tranne che nemmeno stavolta era la verità, non è vero, investigatrice?» «Cosa?» «Sullivan mi aveva detto che era stato Ferguson a fare fuori i due vecchi, ma io non sapevo se credergli o meno. Mi aveva raccontato un sacco di cose e alcune erano pure menzogne. L'avessi riferito a lei, nello stesso tempo avrei dovuto pubblicarlo sul giornale. Lo avrei dovuto fare, investigatrice. Ma a questo punto, lei mi sta dicendo che Ferguson ha un alibi e dunque sarebbe stato tutto un grosso errore. Non è stato lui a far fuori i due vecchi, nonostante quello che mi ha detto Sullivan. Esatto?» La Shaeffer esitò. «Andiamo, investigatrice, dannazione! Esatto?» Lei non fu in grado di pensare a un'obiezione. Annuì. «Pare di sì. L'alibi corrisponde. Sono andata alla scuola, ho parlato con tre professori. Ogni giorno in classe, quella settimana. Frequenza perfetta. E in più il mio collega ha scoperto alcuni elementi nuovi.» «Che tipo di elementi?» «Lasciamo stare.» La stanza fu invasa da un altro silenzio, mentre ognuno dei suoi occu-
panti ripensava a quanto aveva appena udito. Fu Tanny Brown il primo a parlare, con la consueta calma. «Ma c'è dell'altro» disse cauto. «Vero? Se Ferguson non fosse più il suo sospetto e non avesse alcuna informazione che possa essere d'aiuto alle sue indagini, lei a questo punto dovrebbe essere su un aereo, diretta a sud. Non se ne starebbe qui, sarebbe già con il suo collega. Avrebbe potuto controllare le frequenze di Ferguson con un paio di telefonate, ma invece è andata a trovare quella gente di persona. Perché, investigatrice? E quando apre la porta ha una nove millimetri in mano e i suoi bagagli non sono preparati. Come mai?» Lei scosse il capo. «Le dico io il perché» proseguì Brown senza perdere la calma. «Perché si è resa conto che qualcosa non va, ma non sa ancora cosa.» La Shaeffer lo guardò, annuendo. «Be'» concluse Brown «anche noi siamo qui per questo.» La luce dell'alba striava la strada davanti all'appartamento di Ferguson, trapelando a stento attraverso la cappa di nuvole grigie che si stagliava appena sopra la città, pronta a riversarvi altra pioggia. La Shaeffer e Wilcox accostarono con l'auto al marciapiede sull'estremità settentrionale della via, mentre Brown si fermò a sud. Cowart diede un'ultima controllata al suo registratore e al suo taccuino, si tastò il taschino della giacca per sincerarsi che le penne fossero ancora al loro posto e si volse verso il poliziotto. Nella stanza del motel, la Shaeffer si era rivolta in tono brusco ai tre uomini. «Allora. Quale sarebbe il piano?» aveva chiesto. «Il piano» aveva risposto Cowart in tono soffuso «è dargli qualcosa di cui preoccuparsi, magari costringerlo a uscire dalla sua tana, portarlo a fare qualcosa su cui noi possiamo intervenire. Vogliamo che inizi a pensare di non essere così al sicuro come credeva. Dargli qualcosa di cui preoccuparsi» ripeté con un debole sorriso. «E cioè me.» Ora, nell'auto, cercò di fare una battuta. «Fossimo in un film, mi avrebbero messo una cravatta. E avremmo una parola in codice per segnalare una situazione di pericolo.» «La porterebbe, la cravatta?» «No.» «Proprio come pensavo. Dunque non abbiamo bisogno di una parola in codice.» Cowart sorrise, ma soltanto perché non riuscì a trovare nient'altro di me-
glio da fare. «Nervoso?» chiese Brown. «Sembro nervoso?» rispose Cowart. «La prego, non risponda.» «Non farà nulla.» «Lo so.» «Non può.» Cowart sorrise di nuovo. «Mi sento un po' come un vecchio domatore di leoni che stia per fare una passeggiata nella giungla, e che improvvisamente incontri una vecchia conoscenza sulla quale ha magari usato un po' troppo la frusta e la sedia. Guarda negli occhi il leone e si rende conto di non essere più nella gabbia del circo, ma nel territorio del leone. Ha presente?» Brown sorrise. «Si limiterà a ringhiare.» «Can che abbaia non morde, vero?» «Suppongo di sì, anche se il proverbio non parla di leoni.» Cowart aprì la portiera dell'auto. «Troppe metafore per i miei gusti» commentò. «Ci vediamo fra qualche minuto.» L'aria fredda e umida che spazzava i marciapiedi della città parve schiaffeggiarlo in pieno volto. Camminò a passi veloci lungo l'isolato, superando una coppia di vagabondi addormentati sotto un portone abbandonato, una massa informe di stracci consunti di colore grigio-bruno, stretti l'uno all'altro nel tentativo di allontanare il freddo della notte. I due uomini si agitarono al suo passaggio, per subito ripiombare nell'oblio del primo mattino. Provenienti da un paio di isolati di distanza, Cowart udì i tipici rumori della strada: il profondo, lamentoso brontolio di un motore diesel, i primi accenni del traffico mattutino. Si voltò e fronteggiò l'edificio. Per un attimo esitò sui gradini d'ingresso, ma poi entrò nell'atrio buio, e rapidamente salì le scale, giungendo infine di fronte all'appartamento di Ferguson. "Starà dormendo" si disse il giornalista "e quando si sveglierà dovrà affrontare la confusione e il dubbio." Era quello lo scopo della visita mattutina. Quelle ore, comprese tra la notte e il giorno, erano le più sottilmente pericolose: era il momento di transizione in cui gli uomini tradivano le loro maggiori debolezze. Cowart inspirò profondamente e bussò energicamente alla porta. Attese. Non udiva alcun suono provenire dall'interno. Bussò ancora. Passarono ancora diversi secondi, e infine udì dei passi avvicinarsi alla porta. La colpì con altri due pugni violenti. La serratura iniziò a scattare. La catenella venne sganciata. La porta si aprì.
Ferguson lo fissò sorpreso. «Signor Cowart.» "Assassino" pensò Cowart. «Salve, Bobby Earl» riuscì soltanto a dire. Ferguson si passò una mano sul volto, aprendosi quindi in un sorriso. «Avrei dovuto immaginarmelo che si sarebbe presentato.» «Sono qui.» «Cosa vuole?» «La stessa cosa di sempre. Ho delle domande, voglio delle risposte.» Ferguson gli tenne aperta la porta, arretrando di qualche passo. Raggiunsero il salottino e Cowart si guardò velocemente attorno, cercando di assimilare quello che vedeva. «Caffè, signor Cowart? Ne ho una tazza pronta» disse Ferguson. Indicò il divano. «Ho anche una fetta di torta. Ne vuole?» «No.» «Be', in tal caso non le dispiace se ne approfitto, vero?» «Faccia pure.» Ferguson scomparve nella piccola cucina, facendo quindi ritorno con una tazza di caffè bollente e un piattino sul quale campeggiava una fetta di torta. Cowart aveva già sistemato il suo registratore sul tavolino. Ferguson appoggiò il piatto a fianco del registratore, e subito tagliò un pezzo del dolce. Cowart non poté fare a meno di notare il coltello: era un modello da caccia, di acciaio scintillante, con una lama seghettata di quindici centimetri e un'impugnatura anatomica. Ferguson posò il coltello e si mise in bocca il pezzo di torta. «Non è quello che definirei un coltello da cucina» commentò Cowart. Ferguson si strinse nelle spalle. «È utile. Ho avuto qualche visitina non desiderata. Ha presente, tossici in cerca di un bersaglio facile. Non è che siamo nel migliore dei quartieri. Nel caso non l'avesse notato.» «L'avevo notato.» «C'è bisogno di un po' di protezione straordinaria.» «Mai usato quel coltello per qualcos'altro?» Ferguson sorrise. Cowart ebbe la netta sensazione di essere preso in giro, allo stesso modo in cui un ragazzino prenderebbe in giro il suo fratello maggiore, sapendo che i genitori si sarebbero schierati comunque in sua difesa. «E per cos'altro potrei usarlo, salvo che tagliare un pezzo di pane e convincere qualcuno di qualcosa?» replicò. Quindi sorseggiò il caffè. «Dunque. Visita di primo mattino. Domande da fare. È solo?» Si alzò in piedi, si accostò alla finestra, scrutò lungo tutta la lunghezza della strada. «Sono solo.»
Ferguson esitò, concentrandosi per un secondo o due nella direzione in cui Brown aveva parcheggiato la sua auto, e infine si volse verso il giornalista. «Certamente.» Si risedette. «D'accordo, signor Cowart. Cosa la porta fin quassù?» «Ha parlato con sua nonna?» «Sono mesi che non parlo con nessuno di Pachoula. Non ha un telefono. E nemmeno io.» Cowart lanciò una rapida occhiata all'intorno. Non vide alcun telefono. «Sono andato a trovarla.» «Bene, molto gentile da parte sua.» «Sono andato a trovarla perché Blair Sullivan mi aveva detto di controllare qualcosa.» «Quando glielo ha detto?» «Appena prima di morire.» «Signor Cowart, lei sta mirando a qualcosa e io non ho la benché minima idea di cosa sia.» «Nel gabinetto esterno.» «Non un è gran bel posto. Vecchio. Sarà un anno che non viene più usato.» «Esatto.» «Ho fatto fare dei lavori. Mille dollari, pagati in contanti.» «Perché l'ha fatto?» «Cosa? I lavori? Perché è troppo freddo, in inverno, andare fuori a fare i propri bisogni.» Cowart scosse il capo. «No. Non intendevo questo. Perché ha ucciso Joanie Shriver?» Ferguson lo fissò con intenzione e si appoggiò allo schienale della sedia. «Non ho ucciso nessuno. E men che meno quella ragazzina. Pensavo che a questo punto l'avesse capito.» «Sta mentendo.» Ferguson lo fulminò con lo sguardo. «No.» «L'ha stuprata, l'ha uccisa, ha nascosto il suo corpo nella palude, ha cacciato il coltello sotto lo scarico della fogna. Poi se ne è tornato a casa, e ha visto che c'era del sangue sui suoi vestiti e su un pezzo del tappetino dell'auto, lo ha tagliato, poi ha appallottolato i vestiti e ha seppellito tutto sotto la merda e la sporcizia nel gabinetto esterno, poiché sapeva che nessuno con un po' di sale nel cervello sarebbe mai andato a guardare là den-
tro.» Ferguson scosse il capo. «Sta negando?» domandò Cowart. «Naturalmente.» «Ho ritrovato i vestiti e il tappetino.» Ferguson parve sorpreso per un istante, ma subito recuperò con un'alzata di spalle. «Ed è venuto fin qui per dirmelo?» «Perché l'ha uccisa?» «Non l'ho fatto. Gliel'ho detto.» «Bugiardo. Mi ha mentito fin dal primo momento.» Cowart aveva immaginato che quella frase l'avrebbe fatto infuriare, ma non lo fece, quanto meno non in modo evidente. Ferguson si limitò invece a sorridere, chinandosi in avanti e tagliandosi con calma un altro pezzo di torta, e rimase in quella posizione, coltello in mano, per un attimo in più. Infine riprese a sorseggiare il caffè. «Sono menzogne di Sullivan. Che altro le ha raccontato?» «Che è stato lei a uccidere i suoi, giù nelle Keys.» Ferguson scosse il capo. «Nemmeno quello ho fatto. Ma questo spiega il comportamento dell'investigatrice, quella carina.» «Perché ha ucciso Joanie Shriver?» Cowart domandò di nuovo. Ferguson accennò ad alzarsi in piedi, la voce finalmente spezzata dalla rabbia insorgente. «Non sono stato io! Dannazione, quante volte glielo devo ripetere?» «E allora come ci è arrivata quella roba nel suo gabinetto?» «Buttavamo di tutto là dentro. Vestiti smessi, parti dell'auto che non funzionavano più, spazzatura. Qualsiasi cosa. Quei vestiti di cui parla lei, li ho gettati via perché si erano riempiti di sangue di maiale, avevo aiutato un vicino a macellare una vecchia scrofa. E camminando verso casa, avevo incontrato una puzzola, che mi aveva beccato in pieno con il suo maledetto odore. E che diavolo, avevo un po' di soldi extra, quindi ho fatto su quei vecchi vestiti e li ho gettati via, visto che comunque erano ormai consumati. Poi sono andato in centro e mi sono comprato un paio di jeans nuovi.» «E il tappetino?» «Il tappetino l'ho tagliato per sbaglio. Si era strappato quando ci avevo appoggiato sopra una sega a motore. Ho ritagliato quel quadratino, pensando che l'avrei rimpiazzato con un pezzo nuovo. Ma poi sono stato arrestato. E il pezzo di tappeto è finito nel mucchio, insieme a tutto il resto.» Ferguson rivolse a Cowart un'occhiata circospetta. «Avete delle analisi che
dimostrano il contrario?» Cowart fu sul punto di scuotere il capo, ma si fermò. Non riuscì a capire se Ferguson si fosse accorto della piccola indecisione. «Pensa che sia così maledettamente stupido da non essermi sbarazzato, appena uscito di prigione, di qualcosa che avrebbe potuto rappresentare una prova di un omicidio di primo grado? Cosa pensa, signor Cowart? Pensa che non abbia imparato niente nel braccio della morte? Pensa che non abbia imparato niente in tutti quei corsi di criminologia? Crede davvero che sia così stupido, signor Cowart?» «No» rispose Cowart. «Non penso che lei sia stupido.» I suoi occhi si fissarono su quelli di Ferguson. «E credo che abbia imparato un sacco di cose.» I due uomini rimasero in silenzio per qualche lungo istante. «Come faceva Sullivan a sapere di quel gabinetto?» Ferguson scrollò le spalle. «Mi aveva detto, prima che litigassimo, di avere strangolato una donna con i suoi collant, e di avere eliminato l'arma del delitto semplicemente tirando la catena. Aveva detto che una volta finite nel sistema settico, nessuno le avrebbe mai più ritrovate, quelle calze. Mi aveva chiesto cos'avessi a casa mia, e io gli avevo raccontato di quel vecchio gabinetto, e del fatto che fossimo abituati a gettarvi di tutto. Suppongo si sia limitato a fare due più due e che le abbia inventato una bella storiella, signor Cowart. Di modo che quando lei avesse guardato con attenzione e pensato con attenzione, proprio nel momento in cui si fosse aspettato di trovare qualcosa, l'avrebbe trovata, sicuro come l'inferno. E non è proprio così che vanno le cose? Quando si cerca qualcosa che si è sicuri di trovare, di solito la si trova. Anche se non è esattamente quello che si stava cercando.» «Una storiella molto comoda.» Di nuovo Ferguson parve sul punto di esplodere. Ma subito riacquistò la calma. «Non potrei renderla più carina. Ma se ascolta attentamente, mi pare che ci possa rintracciare un po' dello spirito di Blair Sullivan. Quell'uomo era in grado di rigirare qualsiasi cosa a suo vantaggio, non è vero, signor Cowart?» «È proprio vero» rispose il giornalista. Ferguson indicò il registratore e il taccuino che Cowart teneva ancora in mano. «Era alla ricerca di un'altra storia, signor Cowart?» «Esatto.»
«Be', qui ci sono soltanto notizie vecchie.» «Non ne sarei così sicuro.» «Vecchia storia. La solita vecchia storia. Ha parlato con Tanny Brown. Quell'uomo non rinuncerà mai, vero?» Cowart sorrise. «No» rispose. «Non rinuncerà mai.» «Che sia dannato» esclamò Ferguson con rabbia. Ma subito la sua voce perse l'accenno di furia che aveva accompagnato l'epiteto, e Ferguson proseguì soddisfatto: «Ma non può più toccarmi.» Cowart sentì una sensazione di impotenza impadronirsi di lui. Cercò di immaginarsi quali sarebbero state le domande di Tanny Brown, in che modo avrebbe potuto penetrare il resistente scudo d'innocenza dietro cui Ferguson sembrava ripararsi. Per la prima volta fu in grado di comprendere come mai Brown avesse dato via libera ai pugni del collega per ottenere la confessione di quell'uomo. «Quando va al sud a parlare nelle chiese, Bobby Earl, quando si reca in qualche municipio, fa sempre lo stesso discorso oppure lo cambia a seconda del pubblico?» «Lo cambio un pochino. Dipende da chi mi ascolta. Ma generalmente si tratta dello stesso messaggio.» «Ma il senso generale?» «Quello rimane lo stesso. Spiego alla gente come Gesù sia sceso e abbia portato luce nell'oscurità di quella cella del braccio della morte, signor Cowart. Dico loro che la fede ti sostiene anche nei momenti più difficili. Come anche il peggiore dei peccatori possa essere toccato da quella luce e trovare conforto nelle parole di Dio. Dico loro che la verità finisce sempre per venire fuori e farsi strada tra il male come una grande spada lucente, e in questo modo indica la strada per la libertà. E loro mi rispondono Amen, signor Cowart, perché il mio è un messaggio che fa bene al cuore e all'anima, non trova?» «Penso di sì. E va in chiesa regolarmente anche qui a Newark?» «No. Qui sono solo uno studente.» Cowart annuì. «Dunque, quante volte ha fatto quel discorso di prima?» «Otto o nove.» «Ha i nomi delle chiese, dei centri ricreativi, eccetera?» «È per un servizio?» «Mi dia quei nomi.» Ferguson fissò Cowart per qualche secondo. Infine si strinse nelle spalle, come se la cosa non gli importasse poi molto. Snocciolò rapidamente una
breve lista di chiese, battiste, pentecostali e unitariane, e vi aggiunse qualche centro ricreativo. Con altrettanta velocità proseguì con i nomi delle cittadine. Cowart fece uno sforzo per riportare tutte le informazioni sul suo taccuino. La penna produceva un suono graffiante sulla carta, e la sua mano pareva volare tra le righe blu del taccuino. Terminato l'elenco, Ferguson attese che Cowart dicesse qualcosa. Il giornalista controllò la lista. C'era anche Penine. «Sono solo sette.» «Me ne sarò dimenticate un paio.» Cowart si alzò in piedi, spinto dall'agitazione che ormai si era impadronita di lui. Si allontanò da Ferguson, verso la libreria. Passò in rassegna i titoli, proprio come la Shaeffer aveva fatto nel corso della sua visita. «Sarà un esperto, avendo letto tutti questi libri» commentò. Ferguson guardò attentamente il giornalista. «Letture obbligatorie.» Cowart si voltò. «Dawn Perry» disse a voce bassa. Si portò dietro alla scrivania, come se quella mossa gli potesse garantire un riparo nel caso di un'aggressione di Ferguson. «Non suona famigliare» rispose Ferguson. «Una ragazzina. Nera. Solo dodici anni. Stava tornando a casa dall'ora di nuoto, un pomeriggio di fine agosto, proprio un paio di giorni dopo la data del suo discorso nello stesso posto.» «No. Non posso dire di ricordarmene. Dovrei conoscerla?» «Penso di sì. Perrine, in Florida. La piscina è a tre, forse quattro isolati di distanza dalla First Baptist Church. Anche lì ha parlato della luce di Gesù che era scesa su di lei? Suppongo loro non sapessero cos'altro significasse quella luce.» «Sta facendomi una domanda, signor Cowart?» «Sì. Perché l'ha uccisa?» «La ragazzina è morta?» «Scomparsa.» «Non l'ho uccisa io.» «No? Ma era lì. E lei è scomparsa.» «È una domanda, signor Cowart?» «Mi dica cosa le ha fatto.» «Non le ho fatto niente.» Il tono di voce di Ferguson si mantenne freddo e regolare. «Non ho mai fatto niente a nessuna ragazzina.» «Non le credo.» «Di gente che crede, signor Cowart, ce n'è a bizzeffe. La gente crede a
tutto. Crede che gli UFO possano visitare una piccola città dell'Ohio, crede che Elvis sia stato visto in un supermercato mentre comprava un pacchetto di Twinkies. Crede che la CIA stia avvelenando l'acqua, e che sia un'organizzazione segreta a governare gli Stati Uniti. Ma provare qualcosa, caro signor Cowart, è molto più difficile.» Fissò il giornalista. «Qualcosa come un omicidio.» Cowart rimase perfettamente immobile; le parole di Ferguson parevano turbinargli attorno. «C'è bisogno di un movente, c'è bisogno di un'opportunità, c'è bisogno di prove concrete. Qualcosa di scientifico e sicuro, qualcosa che gli esperti possano presentare a una corte e sostenere senza tema di smentita che è veramente accaduto, come un'impronta digitale, come un residuo sanguigno. O magari questo nuovo esame del DNA, signor Cowart. Lo sapeva? Io sì. C'è bisogno di un testimone, e in mancanza di questo, almeno un complice che sia disposto a testimoniare. E se non c'è nessuna di queste cose, conviene procurarsi una confessione. Le parole stesse dell'assassino, belle e chiare e indiscutibili, ma questo lo sappiamo tutti, non è vero? E bisogna avere tutte queste belle cosette, e tutte intrecciate tra loro come in un tessuto, perché altrimenti non si ha nulla all'infuori di sensazioni e supposizioni. E il fatto che una ragazzina sia stata rapita, laggiù alla periferia di quella città brutta e cattiva, e che io fossi nello stesso posto un paio di giorni prima non prova proprio niente, non crede? Quanti assassini pensa girino per Miami, in ogni istante della giornata? Quanti uomini non ci penserebbero sopra due volte se avessero l'occasione di afferrare una ragazzina sulla strada di casa? Pensa che gli sbirri laggiù non abbiano diramato i loro bei profili dei sospetti, pensa che non abbiano interrogato tutti i maniaci? L'hanno fatto, caro signor Cowart. Ne sono sicuro. Ma sa una cosa? Io non sono nella lista di nessuno. Non più. Perché sono un uomo innocente, signor Cowart. Lei mi ha dato una mano a diventarlo. E intendo rimanere tale.» «Quante?» domandò Cowart, quasi in un sussurro. «Sei? Sette? Ogni volta che fa un discorso c'è qualcuno che muore?» Gli occhi di Ferguson diventarono due fessure, ma il tono di voce rimase sicuro. «È un crimine dell'uomo bianco, signor Cowart. Non lo sa?» «Cosa?» «Un crimine dell'uomo bianco. Avanti, pensi a tutti gli assassini di cui si legge sui giornali. Tutti gli Speck, i Bundy, i Corona, i Gacy, gli Henley, i Lucas, e il nostro vecchio amico Blair Sullivan. Tutti bianchi. Jack lo
Squartatore e Barbablù. Bianchi. Caligola e Vlad l'Impalatore. Bianchi, signor Cowart. Tutti bianchi. Si faccia una passeggiata in una prigione qualsiasi: le indicheranno Charlie Manson e David Berkovitz, e tutto quello che vedrà saranno uomini bianchi, perché sono loro quelli che cedono a queste strane voglie. Questo non vuol dire, naturalmente, che non ci possa essere la classica eccezione che magari conferma la regola. Come Wayne Williams, giù ad Atlanta; ma ci sono così tante domande su quel caso, non trova? Diavolo, perfino in tivù hanno trasmesso un telefilm che metteva in dubbio che fosse lui il colpevole delle morti di tutti quei ragazzi, laggiù in quell'amabile città. Se ne ricorda, signor Cowart? No, rapire ragazzine sulla strada di casa e lasciarle morte in qualche posto buio e segreto non è tipico dei neri. Quelli in cui siamo specializzati sono gli atti di violenza. Improvvise, incontrollabili esplosioni con coltelli o armi da fuoco e un sacco di rumore. Crimine urbano, signor Cowart, con testimoni e scene del delitto che sgocciolano di prove, di modo che quando gli sbirri devono metterci in galera non ci sono dubbi. Stuprare le donne che corrono nei parchi e sparare agli spacciatori di crack della banda rivale e rapinare i cassieri dei supermercati e saltarci addosso l'uno con l'altro, signor Cowart, non è vero? Le tipiche cose che convincono la gente bianca a comprare strani sistemi d'allarme per le loro villette dei quartieri residenziali, e che forniscono al sistema giudiziario la sua quota giornaliera di neri. Ma niente assassini seriali. E sa cos'altro, signor Cowart?» «Cosa?» «È proprio per questo che il sistema gradisce. Il sistema non si sente tranquillo quando si trova a fronteggiare cose che non corrispondono alle statistiche e alle categorizzazioni.» Ferguson lo fissò. «Come potrebbe scrivere quella storia, signor Cowart? La storia che non rientra nella sua tranquilla, discreta casellina? Mi dica, sono in grado i giornali di raccontare alla gente questo tipo di storia? Una variante così inaspettata? O si va avanti nel proprio lavoro giornalistico limitandosi a scrivere delle stesse cose, cambiando soltanto i volti e le parole?» Cowart non rispose. «E pensa di poter scrivere qualcosa del genere senza nemmeno una prova?» «Joanie Shriver» disse Cowart. «Addio alla piccola Joanie, signor Cowart. Se n'è andata da tempo. È meglio che lei lo capisca. E che lo faccia capire anche al suo amico Tanny Brown.»
Cowart rimase in piedi accanto alla scrivania. Vi si piegò sopra, afferrandone i lati per rimanere in equilibrio. «La scriverò questa storia, lei lo sa, vero?» Ferguson non rispose. «La metterò tutta nero su bianco. Tutte le falsità, tutte le menzogne, ogni piccola cosa. Potrà negare e negare, e lo sa cosa?» «Cosa?» «Funzionerà. Io cadrò dal piedistallo. E magari anche Tanny Brown. Ma lo sa cosa succederà a lei, invece, Bobby Earl?» «Me lo dica lei» disse lui freddamente. «Non andrà in galera. Nossignore. Su questo ha perfettamente ragione. Non ci sono abbastanza prove. E un sacco di gente le crederà, quando dirà che è tutta una montatura. E continuerà a credere nella sua innocenza. Molta gente vorrà dare la colpa a me, e ai poliziotti, e si metterà al suo fianco, Bobby Earl. Glielo garantisco.» Ferguson non smise di fissarlo. «Ma sa cosa avrà perso, a quel punto? L'anonimità.» Ferguson si strinse nelle spalle. Cowart proseguì. «Andiamo, Bobby Earl. Lo sa cosa si fa quando si ha a che fare con uno di quei vecchi gatti che amano andare a caccia di notte? Che adorano uccidere gli uccellini e i topi e poi trascinarli nella pulitissima casa di famiglia? Gli si lega al collo una piccola campanella, di modo che, per furbi e silenziosi e furtivi che siano, non riusciranno mai più ad avvicinarsi a un passerotto abbastanza da mettergli addosso le zampe.» Gli occhi di Ferguson si assottigliarono. «Pensa che quelle belle chiesette le chiederanno ancora di andare a fare le sue prediche, se soltanto ci sarà un minimo di dubbio? Pensa che potranno essere in grado di trovare qualche altro oratore per le loro domeniche? Uno che possano essere dannatamente sicuri non se ne stia nei paraggi o non torni a distanza di qualche giorno per artigliare qualche ragazzina dalla strada?» Cowart vide che Ferguson si stava irrigidendo dalla rabbia. «E la polizia, Bobby Earl. Pensi alla polizia. Non smetterà mai di farsi domande, non trova? E quando succederà qualcosa, e qualcosa succederà, vero Bobby Earl? Quando questo qualcosa succederà, lei sarà il primo a ricevere la visita dei poliziotti. Quante volte pensa di poterlo fare, Bobby Earl, prima di commettere un qualsiasi, piccolo errore? Come dimenticarsi di qualcosa. O magari venire visto da qualcuno. Basterebbe un dettaglio
del genere, vero? Basta che compia quel piccolissimo errore e il mondo intero le crollerà dritto in testa, e lei non sarà più in grado di rialzare il capo finché non si ritroverà nel posticino nel quale abbiamo avuto la nostra prima conversazione. E stavolta non ci sarà nessun giornalista del Miami Journal che la vorrà aiutare a uscirne, non trova?» Cowart osservò Ferguson attorcigliarsi come un serpente sulla sedia, il viso deturpato da una rabbia che si diffondeva rapida come un incendio in un distributore di benzina. Vide la mano del giovane avvicinarsi al coltello e si sentì ghiacciare da un subitaneo terrore. "Sono morto" pensò. Avrebbe voluto guardarsi in giro, nel tentativo di trovare qualcosa con cui proteggersi, ma non riuscì a distogliere gli occhi da Ferguson. Per un istante pensò: avevo bisogno dì un segnale. Una parola d'ordine per Tanny Brown. Ma non ne aveva nessuna. Ferguson fu sul punto di alzarsi dalla sua sedia, ma si bloccò. Cowart sentì la propria mano chiudersi sui fogli di carta. Infine Ferguson si risedette, con estrema lentezza. «No» disse. «Non credo proprio che scriverà quella storia.» «E perché no?» Ferguson abbassò lo sguardo sul tavolino di fronte a lui, dove Cowart aveva sistemato il registratore. Per qualche istante fissò il nastro assorbire il silenzio. «Perché non ci sarebbe una parola di verità» dichiarò poi, con un tono di voce chiaro e sicuro, sporgendosi verso l'apparecchio. Lasciò quindi passare un altro secondo o due, e infine allungò il braccio e fermò la registrazione. «Lo sa perché non la scriverà, quella storia? Le dico io il perché. Ci sono un sacco di buone ragioni, ma tanto per iniziare, lo sa cosa non ha? Non ha alcun fatto. Non ha alcuna prova. Tutto quello che ha è una folle combinazione di eventi e di menzogne, e so perfettamente che qualsiasi direttore darebbe un'occhiata al suo servizio e non lo considererebbe degno di essere pubblicato. E sa cos'altro non ha, signor Cowart? Tutti i servizi giornalistici sono pieni di "secondo questo o quest'altro", di "la polizia sostiene", e di "fonti confermano" e di tutta una serie di persone che forniscono documenti e racconti, ed è proprio così che si forma l'ossatura della storia. Il resto, la carne intorno, è composta dai dettagli che lei ha potuto vedere e da quelli che ha potuto sentire, e lei non ha visto né sentito nulla di abbastanza importante da poterci costruire sopra una storia. Ecco una delle ragioni per cui lei non mi fa paura, signor Cowart. Mi dica» proseguì Ferguson «le
faccio paura, io?» Cowart annuì. «Bene, bene. E crede che faccia paura anche al suo amico Tanny Brown?» «Sì e no.» «Questa sì che è una strana risposta, da parte di un uomo che aspira alla precisione. Cosa significa?» «Penso che abbia paura di quello che lei sta facendo. Ma non credo abbia paura di lei.» Ferguson scosse il capo. «Mi dica una cosa. Come mai la gente ha sempre paura di qualcosa che la può coinvolgere? Paure personali. Come lei, in questo momento. Paura che magari io possa afferrare questo coltellaccio e venire lì e strapparle il cuore dal petto. Non ho ragione? Mi faccio sotto e la sventro, dalle balle alla gola, e tiro fuori quello che voglio. Cosa crede? Pensa che sia un assassino abbastanza esperto da poterlo fare? E poi magari cacciare i suoi resti sanguinolenti da qualche parte, fare in modo che si pensi che lei sia incappato in qualcuno della zona, lei mi capisce. C'è gente quaggiù che non è del tutto favorevole al fatto che i bianchi se ne vadano in giro a passeggio. Pensa che potrei farla passare come l'operazione di una gang che si è divertita a tagliuzzare un giornalista bianco che si è perso per strada? Pensa che potrei cavarmela, signor Cowart?» «No.» «Dice di no? E perché no, visto che sono un tale esperto?» «Io non...» «Perché no?» chiese seccamente Ferguson. La sua mano si strinse sull'impugnatura del coltello. «Sangue» rispose rapidamente Cowart. «Macchie di sangue. Non sarebbe in grado di pulirle a sufficienza.» «Bravo. Vada avanti.» «Qualcuno che mi ha visto entrare. Testimoni.» «Bene, signor Cowart. Abbiamo una vecchia custode, quassù, che non perde d'occhio questo genere di cose. Potrebbe averla vista entrare. Oppure uno dei poveracci là fuori potrebbe ricordare di averla vista. È possibile, anche se sarebbe un testimone un po' debole. Ma prosegua.» «Potrei aver detto a qualcuno dove stavo andando.» «No.» Ferguson ridacchiò. «Non dimostrerebbe nulla. Non c'è prova che lei sia giunto fino a qui.» «Impronte. Ho lasciato delle impronte.»
«Non ha preso il caffè che le avevo offerto. Lì sì che avrebbe potuto lasciare impronte e saliva. Cos'altro ha toccato? La scrivania. I giornali laggiù. Potrei ripulirli.» «Non ne avrebbe la sicurezza.» Ferguson sorrise di nuovo. «Ha ragione.» «Altre cose. Capelli. Frammenti di pelle. Potrei lottare. Potrei tagliarla. Un po' del suo sangue potrebbe cadere su di me. Lo troverebbero.» «Forse. Vedo che ha iniziato a ragionare, signor Cowart.» Ferguson si distese sulla sedia. Indicò il coltello da caccia. «Troppe variabili. Su questo ha ragione. Troppi punti di vista di cui tenere conto. Qualsiasi studente di criminologia se ne renderebbe conto.» Ferguson continuò a fissarlo. «Ma sono ancora convinto che non scriverà quel servizio, signor Cowart.» «Lo scriverò» insistette Cowart in un filo di voce. «Vuole sapere una cosa? Ci sono altri modi, sa, altri modi di strappare il cuore a qualcuno. Non c'è sempre bisogno di usare un coltellaccio da caccia...» Ferguson allungò il braccio e afferrò il coltello per la lama. Lo sollevò, facendolo ruotare, e la lama catturò, riflettendolo, un debole raggio di luce grigia che era riuscito a penetrare attraverso la finestra. «...Nossignore. Nemmeno per sogno. Voglio dire, lei forse pensa che sia questo il modo più semplice di strapparle il cuore dal petto, signor Cowart, ma davvero non lo è.» Ferguson continuò a reggere il coltello davanti a sé. «Chi vive al 1215 di Wildflower Drive, signor Cowart?» Cowart fu sommerso da un'ondata di stordente calore. «In quel delizioso quartiere alle porte di Tampa. E ogni giorno prende il piccolo autobus giallo. E gioca nei giardini, a un paio di isolati di distanza. Le piace aiutare sua madre a riportare a casale borse della spesa, le piace stare a guardare il fratellino appena nato. Chiaro, del piccolo a lei importa poco, non è vero? E non sono sicuro di quanto le importi della madre. I divorzi a volte riempiono la gente di odio, non posso sapere cosa provi lei rispetto a quella donna. Ma la sua bambina? Quella sì che è una faccenda diversa.» «Come fa a sapere di...» «Erano sul giornale. Dopo che lei ha vinto il premio.» Ferguson gli rivolse un sorriso. «E di tanto in tanto mi piace fare un po' di ricerca. Non è stato difficile rintracciarle.»
Il terrore di Cowart aveva raggiunto il suo apice. Ferguson non distolse il suo sguardo da lui. «No, signor Cowart. Non penso proprio che scriverà quel servizio. Non credo che abbia i fatti. Non penso che abbia le prove. Giusto, signor Cowart?» «Io la ucciderò» gracchiò Cowart. «Mi ucciderà? E perché mai?» «Lei provi ad avvicinarsi...» «E...?» «Le sto dicendo che la ucciderò.» «Ah, questo sì che le sarebbe molto utile, signor Cowart. Alla fine di tutto? Ma non c'è nulla che importi molto dopo che è successa una cosa del genere, non è vero? Vivrebbe per sempre con il ricordo, no? Sarà lì, il primo pensiero del mattino, l'ultimo pensiero della notte. Sarà in tutti i suoi sogni quando dormirà. E in tutti i suoi pensieri quando sarà sveglio. Non l'abbandonerebbe mai, vero signor Cowart?» «Io la ucciderò» ripeté lui. Ferguson scosse il capo. «Non so. Non credo che sappia abbastanza della morte e del morire per fare una cosa del genere. Ma le dirò una cosa, signor Cowart.» «E sarebbe?» «Sta iniziando a comprendere cosa significhi vivere nel braccio della morte.» Ferguson si alzò in piedi, si chinò verso il tavolino e aprì il registratore. Ne estrasse il nastro e se lo mise in tasca. Quindi afferrò l'apparecchio; sollevandolo dal tavolo. E con un secco, rapido movimento lo lanciò al giornalista, il quale lo afferrò prima che s'infrangesse a terra. «Questa intervista» mormorò lentamente Ferguson «non è mai avvenuta.» Indicò la porta. «Quelle parole? Non sono mai state pronunciate.» Ferguson squadrò il giornalista. «Che storia scriverà, signor Cowart?» domandò in un sibilo. Cowart scosse il capo. «Che storia, signor Cowart?» «Nessuna storia» rispose lui con voce fragile, spezzata. «Proprio come pensavo» replicò Ferguson. Cowart raggiunse barcollando il corridoio. La testa gli girava. Fu soltanto vagamente conscio della porta che alle sue spalle si richiudeva, e degli scatti della serratura di sicurezza. Si sentì intrappolato dall'aria viziata e
umida del buio locale; afferrò il colletto della camicia, cercando di allargarlo per poter respirare. Lottò per scendere le scale, si lanciò in direzione della porta di ingresso, spalancandola con un gran colpo e combattendo per scendere in strada. Aveva ripreso a piovere; le piccole gocce gli scorrevano sulla giacca e sul volto. Non si voltò verso l'appartamento; si mise invece a correre, quasi il vento che gli soffiava in faccia fosse in grado di sradicare il terrore e la nausea che sentiva nel profondo. Vide Tanny Brown uscire dall'auto a noleggio, fissandolo in attesa che lui dicesse qualcosa. Respirando a fatica, Cowart gli fece cenno di rientrare nell'auto. Quindi afferrò la maniglia della portiera e la ruotò con violenza, lanciandosi all'interno, raccogliendosi nel caldo umido dell'abitacolo. «Mi porti via di qui» sussurrò. «Cos'è successo?» domandò Brown. «Mi porti via di qui, dannazione!» gridò Cowart. Allungò il braccio e strinse la chiave dell'accensione, ruotandola. Il motore partì. «Vada, dannazione! Vada!» Tanny Brown, la sorpresa dipinta negli occhi spalancati, la consapevolezza segnata sul volto, inserì la marcia. L'auto schizzò sulla strada, e si fermò soltanto all'estremità a nord, accostando sul lato di fronte a quello in cui Wilcox e la Shaeffer erano parcheggiati. Tanny Brown abbassò il finestrino. «Bruce, voi due restate qui. Tenete d'occhio il posto.» «Per quanto?» «Tenetelo d'occhio e basta.» «Ma dove state...» «Non perdete d'occhio Ferguson.» Wilcox annuì. Cowart scaricò un gran pugno sul cruscotto. «Vada! Dannazione! Mi porti via di qui!» Tanny Brown premette sull'acceleratore e l'auto ripartì, lasciandosi alle spalle, confusi, gli altri due investigatori. 23 La negligenza dell'investigatrice Shaeffer I due investigatori trascorsero gran parte della giornata parcheggiati a mezzo isolato dall'ingresso dello stabile in cui viveva Ferguson. La loro sorveglianza non pretendeva di essere discreta; dopo soltanto un'ora dal
momento in cui Brown e Cowart se n'erano andati, chiunque vivesse nel raggio di due isolati, e non soltanto coloro che propendevano verso un coinvolgimento più o meno spontaneo con l'attività criminale, era al corrente della loro presenza. Nella maggior parte dei casi, i due vennero ignorati. Un piccolo spacciatore di crack, abituato a usare una stradina secondaria proprio di fianco al punto in cui era parcheggiata la loro auto, li insultò sonoramente, allontanandosi a passo spedito alla ricerca di una posizione di riserva; due membri di una gang del quartiere, vestiti con giubbotti corredati di scritte in rilievo e bandane sulla fronte, ai piedi le scarpe da basket alte alla caviglia che erano ormai diventate un classico nel ghetto, si fermarono accanto alla loro auto a noleggio e li schernirono con gesti osceni. Quando Wilcox abbassò il finestrino e sbraitò loro di andarsene, si limitarono a ridergli in faccia, imitando il suo accento del Sud con un astioso piacere, e con un tono di minaccia soltanto superficialmente nascosto. Due prostitute in scarpe rosse dai tacchi a spillo e pantaloncini aderenti di lustrini nascosti da lucidi impermeabili neri ostentarono le loro tipiche mosse di fronte agli investigatori, quasi sapendo che non avrebbero mosso un dito contro di loro. Almeno una mezza dozzina di senzatetto, decrepiti poveracci preceduti dai tipici carrelli da supermercato pieni di cianfrusaglie, o soli nel loro barcollare attraverso il giorno piovoso, bussarono ai loro finestrini, mendicando qualche spicciolo. Un paio di loro si allontanò con tutto quello che i due investigatori erano riusciti a raccogliere in moneta. Altri si limitarono semplicemente a superarli a passo di marcia, ignari di tutto tranne che delle domande di chiunque, nella loro testa, in quel momento conversasse con loro, invisibile al resto del mondo. La costante pioggerella che manteneva la sfilata della gente di strada al suo minimo aveva convinto la maggior parte degli altri residenti del quartiere a restare chiusi in casa, dietro alle loro finestre sbarrate e alle loro porte con tripla serratura di sicurezza. La pioggia e il cielo grigio oscuravano il giorno, aumentandone la malinconia. Più di una volta ognuno dei due investigatori si era ritrovato a fare una domanda: «Cosa diavolo sarà successo a Cowart?» Ma nell'isolamento dell'auto, nessuno dei due poteva trovare una risposta. Wilcox aveva raggiunto una cabina telefonica all'angolo della strada e aveva cercato di mettersi in contatto con gli altri due al motel, ma non aveva avuto successo. Senza alcuna informazione, consapevoli soltanto di quanto aveva loro ordinato Brown allontanandosi di gran carriera dalla postazione, rimasero al loro
posto nella strada, lasciando che le ore trascorressero nel più inutile e frustrante dei modi. Mangiarono degli hamburger acquistati in un fast-food che consentì loro di non dover uscire dall'auto, sorseggiarono caffè tiepido nei soliti bicchieri di polistirene, e continuarono ininterrottamente ad asciugare il parabrezza dalla patina di umidità, per avere almeno la possibilità di vedere quanto stesse succedendo là fuori. Per due volte ciascuno di loro si recò a piedi a una lercia stazione di servizio a due isolati di distanza, dove poté usufruire di un bagno in cui il pungente odore del disinfettante cercava di combattere quello degli escrementi. La loro conversazione si limitò al minimo, a qualche poco sentito tentativo di trovare qualcosa in comune, ogni volta scivolando in lunghi silenzi. Parlarono un poco di tecnica, delle differenze dello scenario criminale nel Panhandle e nelle Keys, consci del fatto che tali differenze fossero del tutto superficiali. La Shaeffer fece qualche domanda su Brown e su Cowart, riuscendo soltanto a scoprire che Wilcox idolatrava senza mezze misure il primo e altrettanto decisamente disprezzava il secondo, sebbene, in entrambi i casi, non fosse in grado di spiegarne con precisione il perché. Fecero congetture su Ferguson, e Wilcox informò l'investigatrice delle sue esperienze con l'ex detenuto. Lei gli chiese della confessione, e lui le rispose che ogni volta che aveva colpito Ferguson, si era sentito come se avesse liberato una piccola parte di verità, allo stesso modo in cui si scuote un albero per farne cadere i frutti. Lo disse senza traccia di rimpianto o di senso di colpa, ma con una rabbia sotterranea da cui la Shaeffer fu sorpresa. "Wilcox era un uomo volubile" pensò "ben più esplosivo dell'immenso tenente con cui faceva squadra. La sua furia doveva essere improvvisa e drammatica. Quella di Tanny Brown era sicuramente fredda, più pensata. Ecco perché non riusciva a perdonarsi di aver lasciato che il suo collega malmenasse il sospetto. Doveva essere stata, per lui, un'aberrazione, come spalancare una finestra su una parte di se stesso che lui odiava con tutto il cuore". Non scorsero alcun segno di Ferguson, sebbene si aspettassero che lui si fosse accorto della loro presenza. «Per quanto rimarremo?» chiese la Shaeffer. I lampioni stradali potevano ben poco contro l'oscurità della sera. «Non si è fatto vedere per tutto il giorno, a meno che non ci sia un'uscita sul retro. Il che è molto probabile, nel qual caso Ferguson sarà da qualche parte, a questo punto, a farsi una bella risata alle nostre spalle.» «Ancora un po'» rispose Wilcox. «Quanto basta.»
«Ma cosa stiamo facendo?» insistette la Shaeffer. «Voglio dire, che senso ha?» «Il senso è fargli capire che qualcuno sta pensando a lui. Il senso è che Tanny ci ha detto di tenerlo d'occhio.» «Sicuro» replicò lei. "Ma non per sempre" avrebbe voluto aggiungere. Il tempo pareva scivolarle via. Sapeva che Michael Weiss, al penitenziario di Stato, si sarebbe chiesto dove si era cacciata. E altrettanto bene sapeva che avrebbe dovuto trovare una buona ragione per giustificare la sua permanenza in quel posto. Una buona, sicura ragione dall'aria molto ufficiale. Allargò le braccia e allungò le gambe, stirandosi e sentendo i muscoli protestare per la prolungata inattività. «È una cosa che detesto» mormorò. «Cosa? Fare la posta a qualcuno?» «Esatto. Limitarsi a osservare. Non è il mio stile.» «E qual è il suo stile?» Lei non rispose. «Farà buio nel giro di dieci minuti. Troppo buio.» «È già buio adesso, se è per quello.» Wilcox indicò l'ingresso dell'edificio, ma non fece seguire il gesto da alcun commento. La Shaeffer spostò lo sguardo oltre la fiancata dell'auto. La strada le dava la stessa impressione degli impermeabili delle due prostitute che li avevano avvicinati: una strana sensazione scivolosa, luccicante, artificiale. Era quasi come trovarsi nel bel mezzo di un set hollywoodiano, concreto e al contempo irreale. Sentì un brivido improvviso correrle lungo la spina dorsale. «Qualcosa non va?» chiese Wilcox. Con la coda dell'occhio l'aveva vista rabbrividire. «No» rispose lei prontamente. «Solo un brivido. Questo posto è già abbastanza brutto alla luce del giorno.» Wilcox lasciò che il suo sguardo percorresse la strada davanti a loro. «Certo che è ben diverso da casa» disse. «Ti dà l'impressione di vivere in una caverna.» «O in una cella» aggiunse lei. La sua borsa era sul pavimento dell'auto, tra i piedi. Era una capiente sacca di pelle, quasi uno zaino. La toccò con la punta della scarpa, aprendola di poco, abbastanza da rivelarne i contenuti, assicurandosi che ancora fossero al loro posto: taccuino, registratore, nastri di riserva, portafoglio, distintivo, un piccolo kit per il trucco, una nove millimetri semiautomatica
con due caricatori di riserva. Wilcox si accorse anche di quel movimento. «Se lo chiede a me» sorrise «io ancora preferisco una tre-cinque-sette a canna corta. Sta alla perfezione sotto la giacca. Se la carichi con le pallottole magnum, ti tira giù un orso.» Si guardò in giro, lo sguardo perso nell'oscurità che stava inghiottendo la loro auto. «E ce ne sono un sacco, di orsi, in questo posto» aggiunse. Si diede un colpetto alla giacca, sulla parte superiore del fianco destro. Una sirena prese a lamentarsi in lontananza, simile a una gatta in calore. Si fece progressivamente più vicina, più forte, per dileguarsi in fine con altrettanta rapidità. Non furono in grado di vederne le luci, di qualsiasi cosa si trattasse. Wilcox si portò le mani al volto e per qualche istante si strofinò gli occhi. «Cosa crede che staranno facendo?» domandò. «Non ne ho idea» rispose lei all'istante. «Perché non ce ne andiamo di qui e cerchiamo di scoprirlo? Questo posto sta iniziando a innervosirmi.» «Sta iniziando?» «Ha capito benissimo.» Una rabbia nervosa si era ormai fatta strada nel suo tono di voce. «Gesù, si dia un'occhiata in giro. Mi sento quasi come se stesse per mangiarci vivi. Un boccone e via, inghiottiti. Nemmeno quei due sbirri di città che mi hanno accompagnato l'altro giorno erano troppo contenti di essere quaggiù, mi creda, ed eravamo in pieno giorno. E uno dei due era anche di colore.» Wilcox grugnì in segno di assenso. Era perfettamente chiaro a entrambi, sebbene nessuno dei due l'avesse mai detto nel corso della giornata, che la loro posizione era precaria: un paio di sbirri del Sud, bianchi, lontani dalle loro giurisdizioni, fuori dal loro elemento, in un mondo poco familiare. «D'accordo» mormorò Wilcox con voce strascicata. Il suo sguardo percorse di nuovo la strada. «Lo sa cosa mi colpisce?» domandò. «No. Cosa?» «Tutto sembra così vecchio. Vecchio e consunto.» Indicò un punto a caso oltre al parabrezza, in fondo alla strada. «In punto di morte» proseguì. «È come se tutto stesse morendo.» Non diede particolare enfasi al concetto. Rimase rigido, seduto al posto di guida, lo sguardo fisso sul mondo che li circondava. «Non so come, ma credo che lui se lo fosse immaginato tutto, quello che sta succedendo. Penso che sia un passo o due davanti a noi. Che abbia capito le nostre mosse, fin dal primo istante.» La sua voce era ora ridotta a
un sibilo rabbioso. «Non so di cosa stia parlando» rispose la Shaeffer. «Capito cosa? Immaginato cosa?» «Vorrei soltanto averlo un'altra volta tra le mani» proseguì lui, ignorando le domande della Shaeffer. «Un altro morso alla mela. Stavolta non gli consentirei di fottermi.» «Continuo a non capire dove vuole arrivare» disse lei, preoccupata dall'improvvisa freddezza del suo tono di voce. «Vorrei solo avvicinare la mia faccia alla sua per un'ultima volta. Vorrei essere da solo con lui in una stanzetta e vedere se stavolta riesce ad andarsene.» «Lei è pazzo.» «Esatto. Pazzo. L'ha capito.» Lei si ritirò nel suo sedile. «Il tenente Brown ci ha dato degli ordini.» «Sicuro. E noi li abbiamo rispettati.» «E allora andiamocene di qui. Andiamo a vedere cosa vuole che facciamo.» Wilcox scosse il capo. «Non finché non avrò visto il bastardo. Non finché non si sarà reso conto che io sono qui ad aspettarlo.» La Shaeffer sollevò la mano e la agitò rapidamente fra loro. «Non è così che lo si deve lavorare» disse prontamente. «Non dobbiamo farlo scappare.» «Non ha ancora capito, vero?» rispose Wilcox a denti stretti. «Ha già perso un caso? Da quanto tempo lavora alla omicidi? Non abbastanza, dannazione. Non ha mai avuto qualcuno che le abbia fatto un lavoretto come quello che ci ha combinato Ferguson.» «No» disse lei. «E vorrei continuare così.» «Facile dirlo.» «Certo, ma almeno ne so abbastanza da non far seguire un errore da un altro.» Wilcox fu sul punto di esplodere, ma si trattenne, limitandosi ad annuire. «Ha ragione» disse. Fece un profondo respiro. «Ha ragione.» Si rilassò sul sedile, come se l'onda rabbiosa del ricordo che aveva raggiunto la spiaggia della sua mente avesse iniziato a ritirarsi. «Giusto, giusto, giusto» mormorò lentamente. «Meglio non giocare la mano prima di aver visto tutte le carte.» La Shaeffer si aspettava che lui allungasse il braccio e mettesse in moto. Ma proprio nello stesso istante in cui le sue dita si stavano stringendo sulla
chiavetta, Wilcox si bloccò, improvvisamente irrigidito, gli occhi come due tizzoni ardenti a penetrare la notte. «Figlio di puttana» disse in un filo di voce. Lei sollevò lo sguardo, sorpresa. «È lui» sibilò Wilcox. Per qualche istante la visione della Shaeffer fu impedita dall'umidità formatasi sul parabrezza, ma alla fine, come una macchina fotografica che regoli la messa a fuoco, anche lei fu in grado di scorgere Ferguson. Si era fermato per un istante in cima ai gradini dell'ingresso di casa, esitando come fanno quasi tutti prima di costringersi a fare il primo passo nell'aria umida, buia e fredda della notte. Vide che indossava un paio di jeans e un lungo cappotto blu, e che portava una borsa sulla spalla. Ingobbito a sfidare la pioggerella, scese rapidamente i gradini dell'ingresso e senza nemmeno lanciare un'occhiata nella loro direzione si allontanò rapidamente lungo il marciapiede. «Dannazione!» esclamò Wilcox. La sua mano aveva abbandonato la chiavetta dell'accensione. Afferrò la maniglia della portiera. «Lo seguo.» Prima che lei potesse obiettare qualcosa, un impulso selvaggio s'impadronì di lui. Si lanciò fuori dall'auto, e subito i suoi passi presero a risuonare come spari sull'asfalto. Sbattendosi la portiera alle spalle, si lanciò all'inseguimento. La Shaeffer aveva tentato di allungarsi attraverso i sedili, afferrando dapprima la giacca di Wilcox, quindi le chiavi dell'auto. L'aveva visto allontanarsi e aveva cercato di uscire a sua volta dall'auto. La sua portiera era chiusa con la sicura: il primo tentativo non aveva dato alcun risultato. La borsa le si era incastrata alla leva di regolazione del sedile, tra i suoi piedi. Quando aveva cercato si sollevarla, le era all'improvviso parsa molto più pesante del solito. La cintura di sicurezza non pareva volersi slacciare. Le scarpe scivolavano sul pavimento bagnato. Quando finalmente era riuscita a liberarsi, si era resa conto che avrebbe dovuto mettersi a correre per raggiungere Wilcox, il quale era già a una ventina di metri di distanza e si stava allontanando veloce. Corse e bestemmiò, con una mano reggendo la borsa, con l'altra le chiavi dell'auto. Le ci vollero altri dieci metri prima di raggiungerlo. «Cosa diavolo sta facendo?» domandò, afferrandolo per un braccio. Lui riuscì a liberarsi. «Seguirò il bastardo per un po'. Mi lasci!» Wilcox proseguì nella sua marcia veloce verso Ferguson.
La Shaeffer si fermò, prendendo fiato e lo vide allontanarsi. Di nuovo abbassò il capo e riprese a inseguirlo. Lo raggiunse, gli si mise di fianco, lottando per mantenerne il passo. Poteva vedere Ferguson a mezzo isolato di distanza: anche lui si muoveva rapido, non voltandosi mai, fendendo l'oscurità, apparentemente ignaro della loro presenza. La Shaeffer afferrò di nuovo Wilcox per il braccio. «Mi lasci, dannazione!» disse lui, liberandosi dalla sua stretta con uno scatto rabbioso. «Lo perderò.» «Non dovremmo...» Wilcox si voltò, rapido, furente. «Prenda la maledetta macchina! Mi segua! Venga con me! Ma non si metta in mezzo!» «Ma lui...» «Non mi importa se anche sa che sono qui! Ora se ne vada, dannazione!» «Ma cosa diavolo vuole fare?» domandò lei quasi gridando. Lui agitò furiosamente le braccia, quasi la sua domanda non valesse alcuna risposta. Quindi le diede le spalle e, in una corsa spezzata, cercò di recuperare terreno nei confronti di Ferguson. La Shaeffer esitò, indecisa sul da farsi. Vide la schiena di Wilcox addentrarsi nella notte, quindi guardò più avanti e scorse Ferguson scomparire dietro un angolo. Nello stesso istante Wilcox aumentò il passo. Mormorando insulti e imprecazioni fra sé, la Shaeffer si voltò e tornò di corsa all'auto. Due vecchissime senzatetto, entrambe infagottate in numerosi strati di cappotti smessi, due cappelli di lana fatti a mano cacciati in testa, si materializzarono dal nulla, bloccandole la strada. Una spingeva un carrello di supermercato e ridacchiava, mentre l'altra si limitava a gesticolare impazzita. Le gridarono qualcosa con quelle loro voci stridenti, e una delle due allungò le braccia nel tentativo di afferrare l'investigatrice mentre le passava di fianco, e per un breve istante le due si scontrarono. La vecchia girò su se stessa e cadde a terra, e subito liberò un rauco lamento di rabbia e sorpresa. La Shaeffer barcollò, si raddrizzò e, lanciando una veloce frase di scusa alla donna, riprese a correre verso l'auto. Gli strilli della vecchia la seguirono per tutto il resto del tragitto. Due uomini avevano fatto capolino sugli ingressi delle rispettive case nonostante la pioggia, e uno dei due le gridò dietro: «Ehi! Cosa vuol fare, bella signora? È di fretta, eh?» Lei li ignorò e si proiettò al posto di guida. Ruotò la chiavetta, ma l'auto non si accese. Continuando a imprecare in un torrente di parolacce, prigioniera di pani-
co e confusione, assolutamente ignara di cosa volesse fare Wilcox, ritentò, premendo con il piede sull'acceleratore e ripetendo l'operazione con la chiave. Il motore partì; la Shaeffer inserì la marcia e scattò, immettendosi in strada senza nemmeno guardarsi alle spalle. Le gomme slittarono sull'asfalto bagnato, e per qualche istante l'auto sbandò prima di partire decisa. Percorse veloce l'isolato, sterzò con violenza dietro l'angolo. Vide Wilcox a metà dell'isolato successivo, individuandolo per un breve momento mentre passava sotto l'alone di luce di un lampione. Pur sforzandosi, non riuscì a scorgere Ferguson. Di nuovo lanciò l'auto all'inseguimento e il motore rispose pigro, quasi lamentandosi. Maledisse il debole veicolo a noleggio e per un attimo sentì la mancanza della sua auto di pattuglia, giù nelle Keys. Raggiunse Wilcox appena prima della fine dell'isolato. Stava svoltando in una strada a senso unico, nella direzione opposta al traffico. La Shaeffer abbassò il finestrino più in fretta che poté, e subito sentì la pioggia sottile sulla fronte. «Prosegua!» Wilcox le fece un rapido cenno. «Gli sbarri la strada.» L'investigatore si addentrò nella via all'inseguimento della sua preda, affrettandosi, mettendosi a correre. La Shaeffer gridò una breve frase di assenso e riprese la marcia lungo la strada bagnata dalla pioggia. Fu costretta a percorrere un intero altro isolato prima di svoltare. Passò con il rosso, svoltando a un angolo, costringendo una coppia di ragazzi in attesa sul marciapiede a fare un balzo all'indietro, cosa che fecero non mancando di gridarle qualche colorita oscenità. La strada era stretta, percorsa da scuri, decrepiti edifici che le impedivano la vista. Vi erano un paio di auto ferme in doppia fila, all'incirca verso la metà dell'isolato. La Shaeffer pigiò sul clacson superandole, passando a pochi centimetri dalla fiancata di ciascuna delle due. All'angolo successivo svoltò nuovamente a destra, diretta al punto in cui immaginava avrebbe incrociato Ferguson e Wilcox. Le parole facevano a gara nella sua mente: cosa dire, come comportarsi. Si rese conto che stava succedendo qualcosa che andava al di là del controllo che lei un tempo poteva avere della situazione. Si concentrò sulla strada, lottando contro la notte, cercando di avvistare i due uomini che si aggiravano nelle strade della città. Ma non erano lì. Rallentò, scrutando davanti a sé, aguzzando lo sguardo lungo le stradine secondarie che, simili a tante vene, si diramavano sui lati, esaminando ogni terreno abbandonato disseminato di macerie che le si apriva di fianco. Le
ombre parvero progressivamente trasformarsi in un'oscurità quasi solida. La strada si fece all'improvviso deserta. Arrestò l'auto in mezzo alla strada e ne balzò fuori, fermandosi in piedi davanti alla portiera spalancata, guardandosi in giro alla ricerca di un segno qualsiasi dei due. Non scorgendone alcuno, gridò un'imprecazione e si rimise al volante. "Dannazione" si disse. Avranno preso un'altra svolta, oppure avranno tagliato in un appezzamento di terreno deserto. Ferguson si sarà tuffato in una stradina secondaria. Accelerò di scatto, cercando di valutare e capire, cercando di raggiungere i due. Svoltò rapida un ennesimo angolo, solo per scivolare ancora più a fondo in un'opprimente disperazione. Ancora nessun segno di loro. Inserì con violenza la retromarcia, arretrando nella strada dalla quale era appena giunta, e alla fine rimise l'auto in prima. Penetrò veloce nell'oscurità, aguzzando lo sguardo. Percorse rapida un altro isolato, quindi inchiodò sui freni. Nessuno. La tensione iniziava a serpeggiarle nel profondo. Non aveva idea di cosa fare. Cercando di combattere il panico, accostò rapidamente l'auto al marciapiede e ne saltò fuori. A passi veloci s'incamminò nella direzione che si figurava i due avessero preso, cercando di ragionare. "Rifai il loro percorso" si disse. "Cerca di precederli. Non possono essere lontani." Si sforzò di penetrare con lo sguardo le ombre dell'oscurità, si mise all'ascolto del suono di un'eventuale voce alterata. Quindi accelerò, mettendosi a correre. Sbattendo sull'asfalto, le sue scarpe producevano l'unico suono udibile nell'oscurità. Il suono aumentò d'intensità, come una rullata di tamburo sempre più veloce, finché finalmente, senza più alcun freno, la Shaeffer scattò decisa verso la barriera della notte. Brace Wilcox si era voltato solo una volta, abbastanza a lungo da scorgere le luci posteriori dell'auto scomparire alla fine della via, prima di concentrare tutta la sua attenzione sull'inseguimento di Ferguson. Aumentò il passo, sorpreso dal fatto di non essere ancora riuscito a ridurre le distanze dalla sua preda. Ferguson aveva una certa invisibile rapidità; senza doversi mettere a correre riusciva a muoversi con destrezza, aggirando i fasci di luce che punteggiavano la strada, mimetizzandosi con l'ambiente circostante.
Wilcox ebbe la sensazione che le gambe gli si fossero appesantite, che fossero diventate lente e con rabbia le costrinse a dare di più. Davanti a lui, Ferguson aveva svoltato dì nuovo a un altro angolo. Wilcox si lanciò all'inseguimento. Una coppia di scalcagnate prostitute occupava l'angolo, sfrattando il fascio di luce per mettere in evidenza la propria presenza. Alla comparsa dell'investigatore si fecero da parte, appiattendosi contro la vetrina di un negozio. «Dov'è andato?» domandò Wilcox. «Chi, amico?» «Io non ho visto nessuno.» Lui le mandò al diavolo e le due gli risero in faccia, prendendosi gioco di lui mentre si allontanava. La strada laterale che Ferguson aveva imboccato sembrava cavernosa, ed andava su e giù come una nave nell'occhio del ciclone. Scorse Ferguson a meno di quaranta metri di distanza, ormai ridotto a un'ombra soltanto lievemente più definita delle altre ombre della strada e scattò di corsa. La sua mente correva al suo fianco. Non aveva idea di cosa gli avrebbe detto, di cosa avrebbe fatto; era spinto dal mero bisogno di non lasciarsi sfuggire la preda. Una serie di immagini prese a balzargli velocemente davanti agli occhi: era come se il mondo in cui si stava addentrando si mescolasse in un folle montaggio con i suoi ricordi. Un derelitto, sdraiato in stato di semincoscienza davanti a un portone abbandonato, canticchiò qualcosa al suo passaggio e la sua voce gli ricordò quella di Tanny Brown. Un cane abbaiò con ferocia, dando uno strattone alla catena che lo teneva legato, e lui rammentò la ricerca del corpo di Joanie Shriver. I bidoni della spazzatura di alluminio ormai striato di sporcizia riflettevano la debole luce dei lampioni, e lui ripensò alla schifosa melma che si era ritrovato tra le mani quando aveva riportato alla luce le inutili prove dal gabinetto esterno. Fu quest'ultimo ricordo a farlo accelerare nel suo inseguimento. Guardò davanti a sé, in lontananza e vide che Ferguson aveva raggiunto la fine dell'isolato. Parve fermarsi per un istante e Wilcox lo vide voltarsi. Per un microsecondo, i loro sguardi s'incrociarono nella notte. Wilcox non riuscì a trattenersi. «Fermo! Polizia!» gridò. Ferguson non esitò un istante, ripartendo deciso, questa volta di corsa. «Ehi!» gridò Wilcox, e subito abbassò il mento sul collo e scattò all'inseguimento. Ogni pretesa di discrezione si era ora dileguata, trasformando-
si in un deciso, ostinato inseguimento. Wilcox prese a respirare a grandi boccate e ad agitare le braccia, e sentì i piedi finalmente leggeri sull'asfalto bagnato di pioggia. Non si trattava più di un faticoso e attento pedinamento. Era finalmente una corsa decisa. Riuscì ad avvicinarsi di un poco, ma anche Ferguson, ora, si era messo a correre veloce. Parevano procedere alla stessa velocità, e i loro passi riecheggiavano sull'asfalto all'unisono, mentre la distanza tra loro manteneva una sua irritante costanza. Il mondo attorno a lui si fece vaporoso, indistinto. Poteva sentire i primi effetti della corsa. Aveva il fiato corto, il cuore gli batteva rapido. Strappò aria alla notte, riempiendosene i polmoni urlanti. Superarono un altro isolato. Vide che Ferguson svoltava di nuovo, sempre allo stesso ritmo di corsa, apparentemente non ancora stanco. Wilcox si lanciò a testa bassa, ma scivolò nel tentativo di tagliare l'angolo, e i suoi piedi presero ad arrancare sull'asfalto. Per uno sgradevole istante sentì la testa girargli e le vertigini penetrarlo, e perse l'equilibrio. L'asfalto insorse all'improvviso, come un'onda sulla spiaggia e lo colpì con violenza. L'aria gli esplose dai polmoni con un sibilo. Un rosso lampo di dolore gli oscurò la vista. Sentì qualcosa del suo vestiario strapparsi, e un sapore terroso riempirgli la bocca. Arrancò, stordito, appoggiandosi a un lampione. L'istinto lottò contro la sorpresa e il dolore, e Wilcox si costrinse a rimettersi in piedi, a ripartire, a riprendere il ritmo dell'inseguimento. All'improvviso si rammentò del campionato di lotta del liceo: l'avversario gli aveva fatto fare uno spettacolare volo, ma lui già atterrando sul materassino aveva ben chiaro in testa quale muscolo muovere, cosicché, quando il suo avversario aveva cercato di stringerlo nella sua morsa, lui si era già liberato. Batté le palpebre cercando di schiarirsi la vista e si ritrovò a correre di nuovo; cercò di capire dove fosse e cosa stesse facendo, ma si rese conto che la caduta gli aveva annebbiato i sensi, si rese conto di essere ormai spinto esclusivamente da una rabbia selvaggia e da un insopprimibile desiderio. Correndo scorse Ferguson attraversare veloce la strada, diretto verso un appezzamento deserto immerso nell'oscurità. I fari di un'auto in avvicinamento lo intrappolarono per un istante in mezzo alla strada. Vi fu uno stridio di ruote sull'asfalto, subito seguito dal suono di un clacson. Per un istante Wilcox pensò si trattasse della Shaeffer. «Perfetto!» esultò. «Lo blocchi, il bastardo!» Ma subito si rese conto che non era lei. Un improvviso accesso di rabbia lo trafisse: dove diavolo si era cacciata? Scattò in avanti, schivando la me-
desima auto, lasciandosi dietro il conducente a imprecare alle due spettrali figure, scomparse con la stessa rapidità con la quale si erano materializzate dal nulla. Arrancò fra le macerie e i rifiuti, che parevano stringersi attorno alle sue caviglie come viticci in una palude. Scorse nuovamente Ferguson davanti a lui; procedeva con la stessa difficoltà tra i detriti del ghetto. Per un istante Ferguson si stagliò in cima a una pila formata da vecchie scatole e da un antico frigorifero, illuminato alle spalle dalla luce lontana di un lampione. I loro sguardi s'incrociarono di nuovo, e Wilcox, impulsivamente, si trovò di nuovo a gridare: «Fermo! Polizia!» Credette di riconoscere un lampo di riconoscimento e di incredulità negli occhi di Ferguson. Quindi la preda sparì, uscendo dal debole raggio di luce. Wilcox mormorò una raffica di oscenità e lottò per ripartire all'inseguimento. Cercò di superare con un balzo una pila di mattoni, ma il suo piede non riuscì a evitare l'ultimo, e lui sentì l'ostacolo sbriciolarsi sotto il suo peso improvviso. Si sentì cadere in avanti. Allungò le braccia davanti a sé nel tentativo di ammorbidire l'impatto con il terreno. Così facendo riuscì a evitare un ruzzolone che gli avrebbe di certo spezzato il collo, ma la sua mano destra urtò con violenza contro un pezzo tagliente di metallo arrugginito. Il palmo della mano fu squarciato da un taglio, tre dita si piegarono bruscamente all'indietro, e il polso si slogò a causa del colpo. Wilcox gridò dal dolore, contemporaneamente cercando di rimettersi in piedi, stringendosi la mano straziata con la sinistra. Poteva sentire la pelle squarciata e gonfia sotto la patina appiccicosa di sangue. Le dita e il polso sembravano in fiamme. "Rotti" pensò maledicendo se stesso, "dannazione, dannazione, dannazione." Strinse la mano a pugno, la portò al petto, e ripartì più battagliero che mai, individuando un altro mucchio di macerie da scalare per cercare di rintracciare il fuggitivo. Si piegò su se stesso per riprendere fiato, cercando di non pensare al dolore alla mano e al polso. In bilico sulla nuova pila di detriti, scorse Ferguson superare con un balzo un cancelletto sul retro del terreno abbandonato. Lo vide scattare attraverso una stradina secondaria, fermarsi per un istante e infine addentrarsi, salendo una rampa di scale, in un edificio abbandonato. "Ho capito" si disse Wilcox. "Anche tu sei stanco, bastardo. Vuoi prendere fiato. Ma non ce la farai." Non badando alla sua povera mano pulsante, si lanciò attraverso gli ultimi metri del terreno e superò il cancello. Attraversò la strada di corsa e si
portò sotto al portone dell'edificio abbandonato, fermandosi un istante a osservarlo, il respiro mozzato dallo sforzo. "Ci siamo" si disse. Cautamente si mise una mano in tasca e ne estrasse un fazzoletto, che usò come fasciatura di emergenza per la sua ferita. Era difficile vederci qualcosa con quel buio, ma immaginava di aver bisogno di qualche punto per chiudere la ferita. Scosse il capo. E probabilmente anche un'antitetanica. Mentre il fazzoletto si inzuppava rapidamente del sangue che continuava a uscire dalla ferita pulsante, cercò di piegare le dita e il polso, con l'unico risultato di sentire un lampo di dolore corrergli lungo tutto il braccio. Si tastò la mano con delicatezza, cercando di individuare le ossa rotte. Si stava rapidamente gonfiando, e per un istante si chiese se la polizza di impiegato della contea di Escambia avrebbe coperto le spese mediche. "Incidente in servizio" si disse. "Deve essere così." Strinse i denti per combattere il dolore lancinante che gli percorreva il braccio e sperò che qualche dottore si sarebbe limitato a ingessare il tutto, senza bisogno di operare. Si voltò avanti e indietro nella stradina. Già stretta, era piena di detriti fradici e resi scivolosi dalla pioggia. Scrutò alla distanza, cercando di capire se qualcuno abitasse gli altri edifici, ma non riuscì a scorgere nessuno. Sembrava una zona di case abbandonate, o forse di ex magazzini. Era difficile a dirsi: la luce era debolissima, diffusa, proveniente da lampioni ad almeno trenta metri di distanza. Esitò per un istante. Se avesse potuto rintracciare l'investigatrice Shaeffer, pensò, senza completare l'equazione. Ma sarebbe stato bello avere un appoggio. Allontanò i dubbi con una scrollata di spalle, rimpiazzandoli con l'ira ostinata alla quale era più abituato. "Non ho bisogno di aiuto per beccare quel viscido figlio di puttana" pensò. "Me la posso cavare, anche con una mano sola." Ne era assolutamente convinto. S'incamminò verso l'ingresso. Il precipitoso ingresso di Ferguson aveva fatto sì che il portone rimanesse aperto, falsamente invitante. L'ingresso dell'edificio si stagliava come una striscia di nero più profondo sul velluto della notte che lo circondava. Appoggiò la schiena alla porta e si mise in ascolto. Così facendo, ne approfittò per estrarre la pistola dalla fondina. Il peso dell'arma era impossibile da reggere con la mano ferita; era come stringere una brace ardente presa direttamente dal fuoco. Chiuse gli occhi per un istante, passandosi con delicatezza l'arma sulla mano sinistra. Li riaprì e fis-
sò la pistola. "Ce la fai a sparare con la sinistra?" si chiese. "Da vicino probabilmente sì. Se proprio è necessario." Si rivolse a se stesso in terza persona. "Sei sicuro? E se anche lui è armato? Andrà tutto bene. Tu pensa a prenderlo per il collo. Arrestalo e risolvi tutto dopo. Anche se sarai costretto a lasciarlo andare. Mettigli paura. Fagli capire di avere un grosso problema, e che quel problema sei tu." Passò in rassegna i rumori, definendoli, separandoli, analizzandoli. Diede un'etichetta a ogni piccolo suono, conferendogli forma e identità, così da convincersi che fosse qualcosa di poco temibile. Lo sgocciolio era la pioggia che cadeva dalla grondaia. Il fruscio era il traffico a qualche isolato di distanza. Il raschio era quello del suo stesso respiro. Infine, dall'interno dell'edificio, un lieve rumore di assi scricchiolanti. "Eccolo" si disse Wilcox. "È vicino. È qui dentro ed è vicino." Facendo un profondo respiro, si abbassò, addentrandosi nell'edificio abbandonato. In un primo tempo gli parve di essere avvolto in una nera coperta. La debole luce della strada era scomparsa. Si maledisse per non aver portato con sé una torcia, non rendendosi conto che la sua era rimasta in Florida. Se almeno fosse stato un fumatore: in quel caso avrebbe avuto con sé dei fiammiferi, o ancora meglio un accendino. Si sforzò di rammentarsi se Ferguson fumasse e gli parve di sì. Si accovacciò, allungando le orecchie nel tentativo di localizzare la sua preda, lasciando che i suoi occhi si abituassero all'oscurità. "Non si vede molto" pensò. "Quel poco che basta." Si mosse circospetto nell'edificio. Vi erano dei gradini che salivano alla sua sinistra e una scala che scendeva alla sua destra. "Un vecchio condominio" pensò. "Ma chi vorrebbe mai vivere in un posto come questo?" Fece un altro passo e udì il suo stesso peso produrre uno scricchiolio sul decrepito pavimento. Una nuova preoccupazione lo assalì. Cristo! Ci potrebbe essere un buco, da qualche parte. E metti che la scala crolla. Usava la stessa mano con cui stringeva la pistola per bilanciarsi alla meglio, tenendola perpendicolare al corpo, mantenendo sempre il contatto con la parete, continuando a tenersi al petto la mano ferita. Andò verso destra, prendendo le scale in discesa. Ebbe un pensiero improvviso. Ferguson è come un ratto. Un animale di terra. Cercherà di scendere, sempre più in basso. È lì che si sente più al sicuro. Si fermò e si mise di nuovo in ascolto. Nulla. "Non significa niente" si disse. "È qui."
Proseguì, lentamente, a tentoni. Maledisse il rumore che stava facendo. Il suo stesso respiro pareva graffiare l'oscurità come unghie su una lavagna. Ogni passo che faceva risuonava come un tuono. Il suo regolare avanzare nelle viscere dell'edificio pareva disseminato di colpi e vibrazioni. Combatté contro l'istinto di dire qualcosa: voleva aspettare di essere vicino prima di arrendersi alla rabbia. Gli scalini sembravano solidi sotto i suoi passi, ma lui non si fidava. Procedeva lentamente, allungando un piede dopo l'altro con circospezione, mettendo il gradino alla prova con solo una parte del suo peso, come un bagnante riluttante ad addentrarsi nell'acqua fredda. Contò i gradini: al numero ventidue mise il piede sul pavimento della cantina. Una sensazione di viscosa umidità, più fredda dell'aria già abbastanza gelida, lo accolse nel nuovo ambiente. Si allontanò dalla scala. Sentì il cemento sotto i piedi, e pensò: "Bene. Sarò più silenzioso". Fece un passo e mise un piede in una pozzanghera. L'acqua gli penetrò all'istante nella scarpa. "Dannazione!" Si accosciò, di nuovo in ascolto. Non era sicuro se il respiro che sentiva fosse il suo o quello di Ferguson. "È vicino" si ripeté l'investigatore. Trattenne il respiro, cercando di localizzare il rumore. Vicino. Molto vicino. Inspirò di nuovo e all'improvviso sentì un odore spesso e terribile, che calò su di lui una cappa di malvagità. Era un odore familiare, ma che in un primo tempo Wilcox non fu in grado di localizzare. I peli sul collo gli si rizzarono, le braccia presero a pizzicare, bollenti nonostante il gelo. "Qualcuno è morto quaggiù" gridò fra sé. "Qualcuno è morto qui vicino." Si voltò di scatto, cercando di scorgere qualcosa nello spazio nero intorno a lui, ma non vedeva nulla. Un terrore elettrico e un'improvvisa eccitazione presero a rincorrersi dentro di lui. Si rialzò e fece altri tre piccoli passi nella cantina, stando attento a non allontanarsi dalla parete con la mano annata. Era molle e bagnata al tatto. La sua mente andò ai ratti, ai ragni, all'uomo che stava rincorrendo. Non riuscì a resistere. «Ferguson, ragazzo mio, vieni fuori. Sei in arresto, cazzo. Sai benissimo chi sono. Alza le tue mani del cazzo e vieni fuori.» Le sue parole parvero riecheggiare brevemente nel piccolo locale, spegnendosi rapidamente, sopraffatte dal silenzio. Attese. Nessuna risposta. «Dannazione, avanti, Bobby Earl. Piantala con queste stronzate. Non ne
vale la pena.» Fece un altro passo avanti. «Lo so che sei qui, Bobby Earl. Dannazione, non rendere le cose così maledettamente difficili.» Un dubbio si fece all'improvviso strada in lui. "Dov'è il figlio di puttana?" si chiese. S'irrigidì, teso, terrorizzato, infuriato. «Bobby Earl, ti sparerò in mezzo a quegli occhi del cazzo se non verrai subito fuori!» Un rumore provenne dalla sua destra. Wilcox cercò di lanciarsi in quella direzione, puntando la pistola verso il punto da cui il suono era sembrato provenire. La sua mente non riusciva ad analizzare quello che stava succedendo, tranne che era buio pesto e che lui non era solo. Per un microsecondo si accorse della sagoma che scattava nel buio verso di lui, si rese conto che qualcuno, grugnendo dallo sforzo, si era alzato di scatto alle sue spalle. Cercò di ordinare al suo corpo di muoversi veloce, e sollevò la mano ferita nel tentativo di parare il colpo. Preso dal panico sparò un colpo a caso, mirando a nulla se non al suo stesso terrore; l'esplosione si perse nell'oscurità. Subito dopo un pezzo di tubatura di metallo lo colpì con violenza sulla spalla e sull'orecchio. Brace Wilcox fu accecato da un'improvvisa, immensa esplosione di bianco dolore e venne inghiottito da un gorgo nero e molto più profondo di quanto avesse mai potuto immaginare. Barcollò all'indietro, conscio di non potersi permettere di perdere i sensi. Sentì il cemento bagnato a contatto della sua guancia e fu così che si rese conto di essere crollato a terra. Sollevò la mano per deviare il secondo colpo, che giunse con il medesimo suono sibilante mentre il tubo penetrava l'aria gelida della cantina. Calò con un tonfo sul braccio già ferito, venando l'oscurità di rosse scie di dolore. Wilcox non sapeva come e dove avesse perso la sua pistola, ma la sua mano ora non stringeva più nulla. Allungò con rabbia il braccio sinistro nel buio e le sue dita strinsero qualcosa. Tirò con forza e udì uno strappo, seguito dalla massa di un corpo che gli crollava addosso. I due uomini divennero un intreccio di arti nell'oscurità, e lottarono mentre i loro respiri si mescolavano nel freddo. Wilcox cercò di combattere contro la forma indistinta dell'uomo che aveva afferrato, alla ricerca della sua gola, dei suoi genitali, dei suoi occhi, di qualche organo delicato che potesse attaccare. Si rotolarono insieme, sbattendo contro i muri, schiantandosi nelle pozzanghere disseminate sul pavimento. Nessuno dei due
parlò e dalle loro labbra uscirono soltanto i grugniti di dolore e di rabbia provocati dalla lotta. Lottarono nel buio più assoluto, entrambi imprigionati dal dolore. Bruce Wilcox sentì le sue dita stringersi attorno al collo dell'assalitore e strinse forte, cercando di strangolarlo. L'inutile mano destra si era sollevata e aveva raggiunto la sinistra, chiudendo il cerchio stretto attorno alla vita stessa del suo avversario. Wilcox grugnì dallo sforzo. "Ti ho beccato, bastardo" pensò. Il dolore gli lacerò il cuore. Non riuscì a capire cosa fosse ciò che lo stava uccidendo, non riuscì nemmeno a capire chi lo stesse uccidendo; capì soltanto che qualcosa gli era penetrato nello stomaco e stava squarciandolo in direzione del cuore. Un'ondata di terrore coprì l'improvviso dolore; le sue mani lasciarono il collo dell'assalitore, ricadendo sul suo stomaco, dove si strinsero sull'impugnatura del coltello che aveva reso vana la sua lotta. Sentì un singolo, insignificante gemito sfuggirgli dalle labbra e si accasciò sul pavimento bagnato. Non se ne rese conto, non si rese più conto di nulla, ma ci vollero quasi novanta secondi prima che liberasse l'ultimo sibilante respiro e morisse. 24 Il vaso di Pandora La sua solitudine era assoluta. Andrea Shaeffer scrutò in lontananza nella strada deserta, cercando con lo sguardo di penetrare il buio e la foschia, alla ricerca di un qualsiasi segno della presenza del suo collega. Rifece lo stesso percorso per quella che le parve la decima volta, cercando di darsi ragione della scomparsa dei due uomini, ma riuscendo soltanto a rendersi conto che ogni passo la faceva penetrare sempre più a fondo nella disperazione. Si rifiutò di ragionare, lasciandosi invece andare alla rabbia e alle inutili lamentele, quasi il fatto di non riuscire a trovare Wilcox fosse un mero inconveniente invece che una catastrofe. Si fermò sotto un lampione e riprese fiato, appoggiandovi la schiena. Avrebbe perfino accolto con sollievo la comparsa di un'auto di pattuglia della polizia di Newark, ma nessuna auto era in vista. Le strade rimasero vuote. "Questa è follia" pensò. "Non è tardi. È appena calata l'oscurità. Dove sono spariti tutti?" La pioggia si faceva sempre più spessa, battendo
con forza su di lei. Quando finalmente scorse una donna, intenta a presidiare il suo angolo in atteggiamento di sufficienza, ne fu quasi contenta, soltanto per il fatto di avere avvistato un altro essere umano. La donna era stravaccata contro il muro di un edificio, nel tentativo di ripararsi dagli elementi, e dimostrava un entusiasmo decisamente limitato per un'altra eventuale prestazione in una notte così fredda e bagnata. Andrea Shaeffer l'avvicinò circospetta, estraendo il distintivo già a circa tre metri di distanza. «Signorina. Polizia. Solo una parola.» La donna le rivolse una singola occhiata e le diede le spalle, allontanandosi. «Ehi, voglio soltanto farle una domanda.» La donna proseguì nel suo cammino, aumentando il passo. La Shaeffer la seguì. «Si fermi, dannazione! Polizia!» La donna rallentò e si fermò. Rivolse alla Shaeffer un'occhiata preoccupata. «Parla con me? Che vuole? Non ho fatto niente.» «Solo una domanda. Ha visto due uomini correre, quindici, venti minuti fa, magari anche mezz'ora? Un bianco, poliziotto. E un nero con un impermeabile scuro. Uno inseguiva l'altro. Li ha visti passare di qui?» «No. Non ho visto niente del genere. È tutto?» La donna fece un passo indietro, cercando di aumentare la distanza fra sé e l'investigatrice. «Non mi sta ascoltando» insistette la Shaeffer. «Due uomini. Un bianco, un nero. Correvano.» «No, non ho visto niente, gliel'ho detto.» Andrea sentì la rabbia montarle decisa nel profondo e premere per esplodere. «Non raccontarmi balle, amica. O ti procurerò dei grossi problemi. Dunque, li hai visti o no? Dimmi la dannata verità, oppure ti caccio dentro all'istante.» «Non ho visto due uomini che si rincorrevano. Non ho visto neanche un uomo, stasera.» «Devi averli visti» insistette Andrea. «Devono essere passati di qui.» «Nessuno è passato di qui. E adesso mi lasci in pace.» La donna arretrò, scuotendo il capo. La Shaeffer fece per seguirla, ma venne sorpresa da una voce alle sue spalle.
«Perché dà fastidio alla gente, signora mia?» Andrea si voltò, tesa. La domanda le era stata rivolta da un uomo corpulento con un lungo cappotto di pelle nera e un berretto da baseball dei New York Yankees. La pioggia gli colava lentamente dalla visiera. Era a circa tre metri di distanza e avanzava verso di lei a passi veloci e tutto in lui, dalla voce al corpo, esprimeva minaccia. «Polizia» disse lei. «Fermo lì.» «Me ne frego di chi è lei. Viene quaggiù e dà fastidio alla mia signora. Perché?» Andrea Shaeffer afferrò la sua pistola e la estrasse, puntandola sull'uomo. «Ho detto fermo» disse freddamente. L'uomo si bloccò. «Che fa adesso, mi spara, signora mia? Non penso proprio.» L'uomo allargò leggermente le braccia e sul suo viso si dipinse un sogghigno. «Penso che lei non è dove dovrebbe essere, signora poliziotta. Penso che non ha nessun appoggio e che è tutta sola e penso che forse ha anche dei problemi.» Fece un passo in avanti. La Shaeffer fece scattare la sicura della pistola. «Sto cercando il mio collega» disse a denti stretti. «Stava rincorrendo un sospetto. Allora, ha per caso visto un poliziotto bianco rincorrere un uomo di colore, all'incirca mezz'ora fa? Mi risponda e io non le farò saltare le palle.» Abbassò l'angolo di mira dell'arma, puntandola all'inguine dell'uomo. Ciò parve farlo esitare. «No» disse dopo una pausa. «Di qui non è passato nessuno.» «Sicuro?» «Sicuro.» «D'accordo» rispose lei. Si mosse in direzione dell'uomo. «Allora me ne vado. D'accordo? Tranquilla come sono venuta.» Gli scivolò a fianco, arretrando sul marciapiede. Lui si voltò lentamente, seguendola con lo sguardo. «Deve andarsene di qui, signora poliziotta. Prima che le succede qualcosa di brutto.» Era una minaccia e contemporaneamente una promessa. Allontanandosi, la Shaeffer vide l'uomo abbassare le mani e mormorare un insulto, strascicando la pronuncia in modo che aleggiasse nell'aria alle sue spalle. Continuando a stringere l'arma, lei si volse e si allontanò, diretta al punto nel quale aveva abbandonato l'auto, ora definitivamente sconfitta e profonda-
mente spaventata. Mettendo in moto, si accorse che la mano le tremava. Con l'auto accesa e le portiere chiuse provò un momentaneo senso di sicurezza, che consentì alla sua rabbia di ricomparire decisa. «Dannato stupido figlio di puttana. Dove diavolo si è cacciato?» La sua voce le parve spezzata e lamentosa, e lei si pentì di averla usata. Scosse decisa il capo e scrutò fuori dal finestrino, concedendosi per un breve istante la rassicurante fantasticheria che Brace Wilcox sarebbe prima o poi ricomparso dalle ombre, con il fiato corto, tutto sudato, fradicio, imbarazzato. Lasciò che il suo sguardo vagasse per la strada, ma non riuscì a vedere nulla. «Dannazione» ripeté a voce alta. Era restia a mettere l'auto in marcia, a muoversi in qualsiasi direzione, sicura che, nell'istante in cui si fosse mossa, lui sarebbe ricomparso e che lei si sarebbe dovuta scusare per averlo abbandonato. "Ma non l'ho fatto, dannazione" si ribatté. "È stato lui ad andarsene." Non aveva la più vaga idea di cosa fare. La notte aveva stretto la sua morsa decisa sul ghetto, la pioggia era raddoppiata d'intensità, e grigie cortine d'acqua spazzavano la strada con regolarità. Il fatto di essere al caldo e al sicuro nel bozzolo dell'auto non faceva altro che aumentare il suo senso di isolamento. Portare la mano sulla leva del cambio e inserire la marcia le costò uno sforzo immenso, doloroso. Percorrere un solo isolato le parve faticosissimo. Guidò lentamente, perlustrando attentamente la zona, fino all'appartamento di Ferguson. Si fermò, scrutando l'edificio senza essere in grado di scorgervi alcuna luce. Accostò al marciapiede e attese per cinque minuti. Quindi per altri cinque. Non vedendo alcun segno di vita, fece ritorno al punto in cui aveva visto Wilcox per l'ultima volta. Quindi percorse avanti e indietro le strade vicine. "Ha preso un taxi" cercò di dirsi. "Ha fermato un'auto di pattuglia. Ora sta aspettando al motel, insieme a Cowart e a Tanny Brown. Oppure è al distretto, e sta interrogando Ferguson, e si sta chiedendo dove diavolo sia sparita. Ecco, probabile che sia andata così. Magari lo sta facendo parlare, chiuso in qualche stanzino da solo con Ferguson e uno stenografo, e sta raccogliendo la sua deposizione, e non vuole interrompere il ritmo chiedendo a qualcuno di venire a cercarmi. Si immagina che io sappia cosa diavolo fare, comunque." S'immise su un largo viale che si allontanava dal ghetto. Nel giro di
qualche secondo trovò l'entrata dell'autostrada, e si rimise in marcia per il motel. Si sentiva come una bambina, giovane e terribilmente inesperta. Non era riuscita a seguire la procedura, a seguire la routine: non era riuscita a comportarsi seguendo il filo di un ragionamento. Era riuscita a incasinare tutto. Si aspettava che Brace Wilcox l'avrebbe rimproverata per averlo perso di vista e per non essere riuscita a essergli d'appoggio. "Cristo!" imprecò. È la prima cosa che insegnano all'accademia. Mentre il suo senso d'indipendenza vacillava, parcheggiò l'auto davanti al motel e rapida raccolse le sue cose, penetrando la coltre di pioggia verso la stanza dove pensava che i tre uomini stessero aspettandola, impazienti. Cowart sentiva che la morte lo stava inseguendo furtiva. Era fuggito dall'appartamento di Ferguson in preda all'ansia e al terrore, cercando con poco successo di controllare le proprie emozioni. Tanny Brown aveva dapprima insistito per sapere i dettagli della conversazione, ma poi, visto che Cowart si rifiutava di rispondere, lo aveva lasciato scivolare nel silenzio. Il poliziotto non aveva alcun dubbio che fosse successo qualcosa, che Cowart fosse sinceramente spaventato, e credeva anche che avrebbe provato un certo cinico piacere nel vederlo in quello stato, se la fonte di quel terrore fosse stata diversa da quella che era. Avevano finito per andare fino a New Brunswick e alla scuola, senz'altra ragione se non vedere i luoghi in cui Ferguson stava studiando. Dopo aver camminato nella pioggia, rannicchiati per evitare il freddo e l'acqua scrosciante, schivando gli studenti, Cowart si era finalmente deciso a descrivere la conversazione. Aveva raccontato velocemente le negazioni e le teorie di Ferguson, usando brani di dialogo e dettagli, dando al poliziotto tutte le informazioni possibili, fino al punto in cui Ferguson aveva minacciato lui e sua figlia. Quello lo aveva tenuto per sé. Poteva sentire lo sguardo penetrante dell'investigatore scavarlo in volto, in attesa di qualcosa. Ma non l'avrebbe detto. «Che altro?» «Niente.» «Avanti, Cowart. Era sconvolto. Cosa le ha detto?» «Niente. È stata l'intera faccenda a sconvolgermi.» "Adesso sta iniziando a comprendere cosa significhi vivere nel braccio della morte..." Tanny Brown disse che voleva ascoltare il nastro.
«Non si può» rispose Cowart. «L'ha preso lui.» L'investigatore chiese di vedere gli appunti di Cowart, ma il giornalista si rese conto che, dopo la prima pagina o poco più, la sua scrittura si era trasformata in una serie di inutili scarabocchi. I due uomini si sentivano intrappolati. Ma non si confessarono nemmeno questa comune sensazione. Erano scese le prime ombre della sera quando fecero ritorno al motel, ostacolati dal traffico intenso e dalla loro stessa mancanza di collaborazione. Brown lasciò Cowart nella sua stanza e si ritirò a fare telefonate, dopo aver promesso che avrebbe fatto ritorno con qualcosa da mangiare. Il poliziotto sapeva che era successo qualcosa di cui non era stato messo a conoscenza, ma si rendeva conto che le informazioni gli sarebbero giunte a tiro, prima o poi. Non credeva che Cowart sarebbe stato in grado di rimanere troppo a lungo chiuso nel suo silenzio e nella sua paura. Pochi potevano. Dopo un terrore del genere, era soltanto questione di tempo perché chiunque desiderasse condividerlo. Non aveva idea di quale sarebbe stato il loro prossimo passo, ma sospettava che sarebbe stata una reazione a qualsiasi cosa avesse fatto Ferguson. Valutò di nuovo l'idea di limitarsi ad arrestare Ferguson per l'assassinio di Joanie Shriver. Sapeva che sarebbe stata un'impresa legalmente disperata, ma almeno avrebbe costretto Ferguson a fare ritorno in Florida. L'alternativa era continuare a fare quello che aveva fatto quando aveva parlato al telefono con il suo amico di Eatonville: rovistare in tutti i casi insoluti dello Stato, finché non fosse riuscito a riportarlo in tribunale. Sospirò. Ci sarebbero volute settimane, mesi, e forse ancora di più. "Ce l'hai la pazienza?" si chiese. Per qualche istante cercò di figurarsi la ragazzina che era scomparsa da Eatonville. "Come le mie figlie" pensò. "Quante altre ne moriranno, mentre tu arranchi a fatica nel tuo lavoro di poliziotto?" Ma non aveva scelta. Iniziò a fare telefonate, rifacendosi vivo con alcuni dipartimenti di polizia della Florida cui aveva lasciato dei messaggi nei giorni precedenti. "Lavora seguendo un percorso" si disse. "Controlla ogni piccola città, ogni paludoso villaggio che Ferguson abbia visitato nel corso dell'ultimo anno. Trova la ragazzina scomparsa in ognuno di questi, trova la prova che lo possa incastrare. Ci sarà pure qualche caso, da qualche parte, le cui prove non siano state rovinate o distrutte." Era un lavoro lento e accurato e Brown si rendeva conto che ogni ora che passava avvicinava, da qualche parte, qualche ragazzina alla morte. Odiava ogni secondo che pareva scivolargli via.
Cowart era seduto nella sua piccola stanza e cercava di prendere una decisione, una decisione qualsiasi. Abbassò lo sguardo ed esaminò gli appunti, e la sua stessa tremante calligrafia parve prendersi gioco di lui. Era a malapena in grado di decifrare l'elenco delle visite di Ferguson in Florida dal momento in cui era stato rilasciato dal braccio della morte e si era trasferito a Newark. Sette viaggi. "Sono veramente morte sette ragazzine?" si chiese. "È morto qualcuno a ogni viaggio? Oppure Ferguson ha aspettato, ritornando in un altro momento?" Joanie Shriver. Dawn Perry. E ce ne dovevano essere altre. La testa gli si riempì di una sfilata regolare di ragazzine in cammino per il mondo, ragazze in pantaloncini e magliette o vestite di jeans, ragazzine con i capelli a coda di cavallo, tutte sole e innocenti, tutte prede. E scavando ancora più a fondo in se stesso poté scorgere Ferguson strisciare verso di loro, a braccia aperte, un sorriso dipinto in volto, pieno di promesse e di finzioni e di morte calcolata. Scosse il capo per liberarsi dell'immagine, ma al suo posto gli tornarono alla mente le parole di Blair Sullivan. Si rammentò del condannato a morte mentre parlava della facilità con la quale uccideva. "Anche lei è un assassino, Cowart?" "Lo sono?" si chiese. Abbassò gli occhi sulla lista delle destinazioni di Ferguson e sentì un tremito scendergli lungo le braccia fino alla punta delle dita, dove rimase, ronzando sordo come una sorta di ostinata scarica elettrica. "Delle persone non sarebbero morte, se non fosse stato per te. Ragazzine." Sullivan aveva cercato la sicurezza nella casualità dei suoi delitti. Aveva ucciso gente che non conosceva, che per puro accidente aveva avuto la sfortuna di incrociare il suo cammino. Minimizzando il contesto di ogni singolo omicidio, aveva vanificato gli sforzi degli investigatori. Cowart sospettava che Ferguson stesse agendo nello stesso modo. Dopotutto, aveva imparato stando a fianco di un vero esperto. Sullivan aveva insegnato a Ferguson una cosa fondamentale: a divenire uno studente dei suoi stessi, terribili desideri. Cowart si rammentò della sua ultima comparsata alla biblioteca del Journal, e rievocò il titolo del breve articolo: LA POLIZIA DICHIARA CHE NON CI SONO INDIZI NEL CASO DELLA RAGAZZA SCOMPARSA. "Naturalmente non ce ne sono" pensò. "Non esistono indizi. Non ci sono prove. Almeno nessuna dì cui tu sia a conoscenza. Solo un uomo
innocente che passa il tempo a strappare bambine da questo mondo." Cowart inspirò profondamente e lasciò che tutti gli elementi relativi ai fatti, alle supposizioni, ai delitti che finora aveva soltanto immaginato scendessero a cascata nella sua mente, come torrenti di malvagità affluiti in un unico, turbolento motivo conduttore, e in rapida discesa verso l'immagine di sua figlia, in attesa alla fine. Ebbe la sensazione di essere vissuto, fino a quel fatidico momento, in una sorta di crepuscolo morale, e che tutte le morti che avevano circoscritto il suo rapporto con Blair Sullivan e Robert Earl Ferguson si fossero mantenute fuori dalla sua sfera di controllo. Ma ora era tutto diverso. Cowart si prese la testa fra le mani. "Sta uccidendo qualcuno in questo stesso momento?" pensò. "E oggi? Stanotte? Quando? La prossima settimana?" Sollevò di nuovo il capo e guardò la sua immagine riflessa nello specchio appeso alla parete sopra alla cassettiera. "E tu, maledetto pazzo, tu ti preoccupavi della tua carriera?" Scosse il capo, osservando l'altro se stesso che pareva ammonirlo. "Non avrai più una reputazione a questo punto, a patto che tu non faccia qualcosa e la faccia subito" si disse. Ma cosa posso fare? La domanda gli riportò alla mente un servizio che la sua amica Edna McGee aveva, tempo addietro, scritto per il Journal. Aveva scoperto che la polizia di un quartiere alla periferia di Miami stava indagando su una mezza dozzina di aggressioni e stupri che si erano verificati lungo il medesimo tratto di autostrada. Quando aveva incontrato gli investigatori che stavano lavorando al caso, loro avevano insistito che lei non scrivesse una parola. Sostenevano che lo stupratore seriale sarebbe stato messo in guardia dagli articoli, e che avrebbe potuto mutare il suo percorso, alterare il suo modus operandi, spostarsi in una diversa località, evitando tutte le trappole e gli appostamenti che loro avevano predisposto. Edna McGee aveva valutato la richiesta e l'aveva ignorata, credendo più saggio avvisare la gente, le donne ignare che ogni notte si trovavano a percorrere la strada dello stupratore. Il servizio era stato pubblicato sul numero della domenica, in prima pagina, e aveva riportato un identikit del sospettato, che scrutava in un malevolo bianco e nero dalle migliaia di copie del giornale distribuite nelle strade della città. Gli investigatori si erano naturalmente infuriati, prevedendo che la loro preda si sarebbe spaventata. Ma non era andata così. Lo stupratore non aveva commesso una mezza dozzina di aggressioni. Il conto ammontava in realtà a più di quaranta.
Quasi quattro dozzine di donne erano state aggredite, ma la maggior parte, per il dolore e l'umiliazione, avevano preferito non andare alla polizia. Erano invece tornate a casa dopo essere state vittimizzate, e avevano ringraziato il cielo di essere ancora vive, cercando di curare i loro corpi lacerati e il loro amor proprio spezzato. Una dopo l'altra avevano telefonato a Edna, rammentò Cowart. Lacrime ed esitazioni, voci singhiozzanti, a malapena in grado di strappare alle loro sofferenze il ricordo dell'orrore che le aveva colpite, ma ansiose di raccontare tutto alla giornalista, perché così, forse, lei avrebbe potuto evitare che un'altra donna come loro, da qualche altra parte, cadesse vittima di un uomo come quello. Entro qualche giorno dalla pubblicazione del primo articolo, avevano chiamato tutte. Non avevano detto il loro nome erano troppo spaventate, ma avevano chiamato. Entro la fine della stessa settimana, Edna aveva scoperto il numero di targa dell'auto dello stupratore, aveva raccolto una descrizione molto più dettagliata del veicolo e dell'assalitore, e dozzine di altri dettagli che una bella notte avevano condotto la polizia a bussare alla porta del colpevole. Era successo due settimane dopo la pubblicazione del primo articolo, proprio mentre l'uomo si stava preparando a uscire di nuovo. Cowart si distese, perso nel ricordo. Soppesò la minaccia di Ferguson, cercando di capire se avesse qualche sostanza. "Fallo" si disse. "Prendi tutto, tutte le menzogne, gli errori, le prove illegalmente ottenute, tutto, scrivi tutto e pubblica il servizio sul giornale. Fallo subito, prima che lui abbia una sola possibilità di muoversi. Distruggilo con la forza delle tue parole e poi corri e prendi tua figlia e portala in salvo. È l'unica arma che puoi usare." "Chiaro" si disse a voce alta "che i tuoi amichetti giornalisti ti sbraneranno pezzo per pezzo quando leggeranno quell'articolo. Sarai sventrato, imbragato e gettato ai pesci e la tua testa verrà conficcata su un palo. E sarà a quel punto che le cose si faranno davvero difficili, perché tua moglie inizierà a odiarti e suo marito inizierà a odiarti e tua figlia non capirà, ma forse, se sei fortunato, forse finirà per non odiarti." Ma era l'unico modo. Si rilassò sul letto e pensò: "Farai crollare il mondo sulla tua testa e sulla testa di Ferguson. A quel punto, forse ognuno avrà ciò che si merita. Magari anche lui". "Titoloni cubitali, fotografie a colori. Assicurati che i servizi via cavo ci si gettino sopra e così i settimanali. Partecipa a tutte le trasmissioni televisive. Continua a gridare la verità su Ferguson finché non ne sarà assordato,
e non riuscirà più a negare. A quel punto non ci sarà nessuno disposto a ignorare. Ovunque vada, circondalo di taccuini, di flash, di riflettori. Dipingilo con tratti evidenti, così da farlo risaltare dovunque cerchi di nascondersi. Non lasciarlo scivolare in seconda fila, dove potrebbe continuare a fare quello che già sta facendo. Rubagli l'invisibilità. Solo così lo ucciderai." "Anche lei è un assassino, Cowart?" "Posso esserlo sì." Allungò il braccio verso il telefono per chiamare Will Martin, ma fu fermato da un secco colpo alla porta. "Probabile sia Tanny Brown" si disse. Si alzò, la sua mente ormai invasa dalle parole della storia che si stava preparando a scrivere, aprì la porta e vide Andrea Shaeffer, in piedi nel corridoio. «È qui?» I suoi capelli erano bagnati e in disordine. La pioggia striava il suo impermeabile marrone-rossiccio, tracciandovi una serie di scuri tagli sottili. I suoi occhi superarono immediatamente Cowart, passando disperatamente in rassegna lo spazio alle sue spalle. Prima che lui potesse rispondere, domandò ancora: «È qui con voi Wilcox? Ci siamo persi di vista.» Cowart iniziò a scuotere il capo, ma lei lo scostò ed entrò nella stanza, guardandosi intorno e infine voltandosi di nuovo verso di lui. «Pensavo fosse qui» disse. «Dov'è il tenente Brown?» «Sarà di ritorno fra un attimo. È successo qualcosa?» «No!» scattò lei. «Ci siamo soltanto persi di vista» aggiunse poi, riacquistando il controllo della propria voce. «Stavamo cercando di pedinare Ferguson. Lui era a piedi e io in macchina. Credevo che a questo punto avesse chiamato.» «No. Nessuna telefonata. Lo ha lasciato lì?» «È stato lui a lasciare me! Quando arriva il tenente Brown?» «Da un momento all'altro.» La Shaeffer si addentrò decisa nella stanza, togliendosi l'impermeabile fradicio. Cowart la vide rabbrividire. «Sono congelata» disse lei. «Ho bisogno di una tazza di caffè. Mi devo cambiare.» Cowart raggiunse il piccolo bagno, ne prese un asciugamano bianco e glielo lanciò. «Ecco. Si asciughi.» Lei si strofinò i capelli e quindi passò agli occhi. Cowart la vide soffermarsi con l'asciugamano a coprire il viso, nascondendosi per un istante o
due dietro il soffice cotone bianco. Quando lo lasciò cadere, pareva respirare a fatica. Cowart stava per farle un'altra domanda quando qualcuno bussò alla porta. «Potrebbe essere Wilcox» disse lei. Era Tanny Brown. Reggeva in mano due sacchetti di carta marrone, che allungò a Cowart non appena fece il suo ingresso nella stanza. «Avevano soltanto maionese» dichiarò. Il suo sguardo si posò sulla Shaeffer, in piedi rigida nel mezzo del locale. «Dov'è Bruce?» domandò. «Ci siamo persi di vista» rispose lei. Le sopracciglia di Brown si incurvarono decise verso l'alto in segno di sorpresa. Allo stesso tempo l'investigatore sentì una frecciata di paura penetrargli lo stomaco. Cancellò dalla mente qualsiasi problema estraneo a quello che gli si era all'improvviso presentato, e prese a muoversi lentamente nella stanza, come se, esasperando la qualità del suo ritmo, potesse tenere a bada i pensieri che all'improvviso minacciavano di prendere il controllo della sua immaginazione. «Persi di vista? Dove? Come?» La Shaeffer sollevò lo sguardo, tesa. «Ha visto Ferguson uscire da casa e si è messo a pedinarlo, a piedi. Io ho cercato di superarli con l'auto. Si muovevano in fretta, e devo avere sbagliato strada. In ogni caso, ci siamo persi di vista. L'ho cercato in un'area di cinque, sei isolati. Sono tornata sui miei passi e l'ho cercato davanti all'appartamento di Ferguson. Non c'era. Pensavo che fosse tornato qui, oppure che fosse riuscito a fermare un'auto di pattuglia. O un taxi.» «Mi faccia capire bene. Si è messo dietro a Ferguson...» «Si muovevano veloci.» «Ferguson se n'era accorto?» «Non credo.» «Ma perché l'ha fatto?» «Non ne ho idea» rispose la Shaeffer, a metà strada tra rabbia e disperazione. «Ha visto Ferguson ed è schizzato fuori dall'auto. Era come se avesse bisogno di fronteggiarlo. Ma non so cosa avesse intenzione di fare dopo averlo raggiunto.» «Ha sentito o visto qualcosa?» «No. Un attimo c'erano, Wilcox a nemmeno cinquanta metri da Ferguson e l'attimo dopo erano spariti.» «Cos'ha fatto a quel punto?» «Sono scesa dall'auto, ho girato a piedi, ho interrogato della gente. Nien-
te.» «Insomma» chiese irritato Tanny Brown «cosa pensa possa essere successo?» La Shaeffer guardò il corpulento investigatore e si strinse nelle spalle. «Non lo so. Pensavo fosse qui. O che almeno avesse chiamato. Brown rivolse a Cowart una rapida occhiata.» Nessun messaggio? «No.» «Ha provato a chiamare le dannate stazioni di polizia del distretto?» «No» rispose la Shaeffer. «Sono appena arrivata, saranno un paio di minuti.» «D'accordo» disse Brown. «Lo faccia immediatamente. Usi il telefono in camera sua, così lasciamo libero questo, nel caso Brace provi a chiamare.» «Mi devo cambiare» disse la Shaeffer. «Mi lasci solo...» «Faccia quelle telefonate» ripeté freddamente Brown. Lei esitò e infine annuì. Liberò a fatica la chiave della sua camera dalla tasca, rivolse un cenno di assenso ai due uomini che le si paravano di fronte, fu sul punto di dire qualcosa a Tanny Brown, ma ci ripensò e lasciò la stanza in silenzio. I due uomini la guardarono uscire. «Che ne pensa?» domandò Cowart. «Non penso niente» abbaiò Brown voltandosi di scatto. «E lei faccia lo stesso.» Cowart aprì la bocca per rispondere, ma si fermò in tempo. Si limitò ad annuire, rendendosi però conto che la richiesta dell'investigatore era assurda. L'assenza di informazioni li metteva entrambi in agitazione. Rimasero seduti, masticando i panini freddi, in muta attesa di uno squillo del telefono. Ci volle quasi mezz'ora prima che la Shaeffer fosse di ritorno. «Mi sono messa in contatto con i sergenti di turno ai distretti dodici, diciassette e venti» disse. «Nessuna notizia. Di sicuro da loro non si è presentato. E nessuno ha ricevuto strane telefonate, a quanto dicono. Un distretto ha dovuto inviare una squadra sul luogo di una sparatoria, ma a quanto pare era uno scontro fra gang. Dicono tutti che il brutto tempo contribuisce a mantenere la calma. Ho anche chiamato un paio di stazioni di pronto soccorso, giusto per controllare, sapete. E il centralino per gli incendi e le operazioni di salvataggio. Niente.» Brown guardò l'investigatrice e il giornalista. «Stiamo solo buttando via del tempo» disse all'improvviso. «Andiamo. Lo troveremo. Adesso.»
Cowart abbassò lo sguardo sul suo taccuino. «Guardi qua, Ferguson ha una lezione serale, oggi. Procedure forensi. Dalle otto alle dieci e mezza. Magari l'ha pedinato fino a New Brunswick.» Brown fece per annuire, ma subito scosse il capo. «È possibile. Ma non possiamo aspettare.» «Ma a che cosa ci servirebbe correre laggiù? Supponiamo che sia sulla via del ritorno...» «Supponiamo che non lo sia.» «Insomma, è il suo collega. Cosa pensa stia facendo?» La Shaeffer liberò un lento sospiro. "È così" si disse. "Deve essere così. Probabilmente ha seguito il bastardo fino alla fermata di qualche autobus e poi fino alla stazione, e non ha ancora avuto l'opportunità di chiamare. E ora lo sta seguendo sulla via del ritorno e non sarà qui prima di mezzanotte." Una piccola ondata di sollievo la sommerse. Era calda, consolante. L'allontanava dall'implacabile sensazione d'impotenza che si era impadronita di lei quando aveva perso di vista Wilcox. All'improvviso si accorse delle luci nella stanza, della plastica, dell'uniforme banalità dell'arredamento e del mobilio, della soffusa familiarità dell'ambiente che la circondava. Fu come se in quel preciso istante fosse ricomparsa in superficie dopo essere stata a lungo in una buia miniera, a pochi passi dal centro della terra. Ma la sensazione di sicurezza regalatale dalla sua fantasticheria fu mandata in frantumi dal suono aspro della voce di Brown. «No. Si va adesso.» Puntò un dito sulla Shaeffer. «E voglio che lei mi faccia vedere com'è andata. Muoviamoci.» Cowart afferrò il suo impermeabile e insieme agli altri due uscì di nuovo nella notte. Mentre la Shaeffer guidava, Brown si raccolse sul sedile dell'auto, angosciato. Avrebbe chiamato. Lo sapeva. Non aveva alcun dubbio sul fatto che Wilcox avesse un carattere impetuoso, talvolta fino al punto di diventare pericoloso. Era fin troppo governato dagli impulsi e da un'arrogante fiducia nelle proprie abilità. Ma erano proprio queste le qualità che Tanny Brown in segreto apprezzava maggiormente nel suo collega; perché a volte sentiva che la propria vita era così rigida, così chiaramente tracciata. Ogni istante della sua intera esistenza era stato dedicato a una responsabilità accuratamente determinata: da bambino, quando, seduto a tavola per la cena della domenica dopo la messa,
sentiva suo padre dire "Alziamoci!" e prendeva le sue parole come un ordine; portando la palla nella squadra di rugby; aiutando i feriti in guerra; e infine divenendo il nero di più alto grado di tutta la forza di polizia della contea di Escambia. "Non c'è spontaneità nella mia vita" pensò. "Non ce n'è più da anni." Si rese conto che era stata proprio quella considerazione ad aver caratterizzato la scelta del suo collega Brace Wilcox, che vedeva il mondo nei semplici termini del giusto e dello sbagliato, del buono e del cattivo, e che non ripensava mai troppo a nessuna decisione: lo compensava alla perfezione. "Sono quasi geloso" si disse Brown. I ricordi lo facevano sentire ancora peggio. Sapeva, istintivamente, che era successo qualcosa; ciononostante, si sentiva incapace di reagire al fantasma di una tale tragedia. Rovistando nella memoria del loro rapporto, si rammentò di dozzine di episodi in cui Wilcox era partito come un proiettile, per poi tornare all'ovile pentito e abbattuto, paonazzo in volto e pronto ad ascoltare la ramanzina di Tanny Brown. Il problema era che tutti quegli episodi erano avvenuti entro i confini della loro contea, dove entrambi erano cresciuti e dove si sentivano al riparo e sicuri, per non dire potenti. Tanny Brown si ritrovò a fissare, fuori dal finestrino dell'auto, l'impietosa notte nera. "Non qui" pensò. "Non avremmo mai dovuto venire fin quassù." Si volse rabbioso verso Cowart. "Avrei dovuto lasciare che questo bastardo affondasse da solo" si disse. Anche Cowart stava fissando la notte. Le strade brillavano ancora della pioggia, che rifletteva le deboli luci dei lampioni e le insegne al neon delle vetrine dei bar. Una nebbiolina si alzava dall'asfalto, unendosi ai getti di vapore che qua e là provenivano dalle grate, dando l'impressione che qualche divinità sotterranea fosse scontenta di come stava procedendo la notte. Mentre la Shaeffer guidava, lo sguardo di Tanny Brown percorse la zona in lungo e in largo, esplorando, scandagliando. Cowart osservò i due poliziotti. Non sapeva con esattezza quando si fosse reso conto che quella ricerca fosse inutile. Forse era stato quando erano usciti dall'autostrada e avevano iniziato ad aggirarsi nei meandri della città; forse era stato a quel punto che l'assurdità di quella situazione l'aveva colpito in tutta la sua evidenza. Si era guardato bene dal dire a voce alta come la pensasse esattamente; pote-
va vedere che, al trascorrere di ogni secondo, Brown era sempre più vicino al punto in cui si sarebbe spezzato. E al tempo stesso si era accorto, dal modo nervoso con cui la Shaeffer stava conducendo l'auto nelle infinite svolte della città, che anche lei era stata colpita a fondo dalla sparizione di Wilcox. Fra tutti e tre lui era certamente il meno addolorato. Wilcox non gli era mai piaciuto, non si era mai fidato di lui; ma non poteva evitare di sentirsi rabbrividire al pensiero che fosse stato inghiottito dall'oscurità. La Shaeffer colse un movimento con la coda dell'occhio e accostò l'auto al marciapiede. «Cosa sta succedendo?» disse. I tre si voltarono all'unisono e videro due crostosi, derelitti vagabondi che litigavano per il possesso di una bottiglia. All'improvviso uno dei due colpì l'altro con un violentissimo calcio, facendolo crollare sul marciapiede. Quindi si mise a infierire su di lui, calando la gamba, rigida come un pendolo, sul costato e sul fianco della vittima. Infine strisciò via, muovendosi da ombra a ombra, fino a scomparire del tutto. "Ho visto la povertà" pensò Tanny Brown. "Ho visto il pregiudizio, l'odio, il male e la mancanza di ogni speranza." Il suo sguardo percorse la strada in tutta la sua lunghezza. "Ma mai così." Il ghetto aveva l'aspetto dei resti bombardati di una nazione straniera che avesse appena perso una guerra terribile. All'improvviso provò il disperato desiderio di essere di nuovo a casa, nella contea di Escambia. "Le cose laggiù potranno anche essere sbagliate, potrà anche esistere il male, ma almeno tutto è familiare." «Gesù» commentò Cowart, interrompendo i pensieri del poliziotto. «Lo stava ammazzando di botte.» Ma non appena le parole uscirono dalle sue labbra, l'uomo che era stato aggredito si mosse, si rialzò e prese a zoppicare verso un altro punto dell'oscurità. La Shaeffer, desiderando di essere ovunque tranne che nel luogo in cui si trovava, inserì la marcia e, per la terza volta quella sera, ripassò davanti al punto in cui aveva perso di vista Wilcox. «Niente» mormorò. «D'accordo» disse brusco Brown. «Stiamo perdendo il nostro tempo. Andiamo all'appartamento di Ferguson.» L'intero edificio era scuro quando vi accostarono e i marciapiedi erano privi di ogni segno di vita. L'auto si era a malapena fermata e Brown era già fuori, sui gradini dell'ingresso. Cowart si costrinse a tenere il passo. La Shaeffer rimase di copertura. «Secondo piano, prima porta» disse. «Cosa stiamo facendo?» domandò Cowart.
Non ebbe alcuna risposta. La scarpe del corpulento investigatore produssero sulle scale un suono rapido e insistente, simile a quello di una mitragliatrice. Di fronte all'appartamento di Ferguson, Brown si fermò per qualche istante, infilandosi la mano nella giacca ed estraendone una grossa rivoltella. Spostandosi lateralmente, strinse il pugno e lo abbatté con violenza per una mezza dozzina di volte sulla porta blindata dell'appartamento. «Polizia! Aprite!» Di nuovo bussò, facendo tremare l'intera parete. «Ferguson! Apra!» Il silenzio li colpì come un'ondata. Cowart si rese conto che la Shaeffer gli era accanto, la pistola spianata, il respiro rauco e spezzato. Si appiatti con la schiena al muro del corridoio, ma neppure la solidità di quell'appoggio gli offrì la protezione che lui avrebbe desiderato. Brown si lanciò di nuovo contro la porta. I colpi riecheggiarono lungo il corridoio. «Dannazione, polizia! Apra!» Nulla. Si voltò verso la Shaeffer. «Sicura...» «È il suo appartamento» rispose lei, a denti stretti. «E dove diavolo...» Tutti e tre udirono un rumore alle loro spalle. Cowart sentì le sue interiora contrarsi dal terrore. La Shaeffer si girò su se stessa, puntando la pistola verso la fonte del suono. «Fermo! Polizia!» gridò. Brown si lanciò in avanti. «Non ho fatto niente» disse una voce. Cowart vide una corpulenta donna di colore, vestita con una consunta vestaglia azzurrina e un paio di pantofole rosa, ferma alla base della rampa di scale. Si appoggiava a una stampella di alluminio, e ondeggiava il capo avanti e indietro. I capelli, arricciati in numerosi bigodini dai colon sgargianti, erano coperti da una cuffia di plastica opaca. L'assurdità di quell'apparizione sgonfiò la tensione che Cowart aveva sentito montare attorno a lui, facendo improvvisamente scomparire le sue paure. Subito ebbe la sensazione che fossero proprio loro tre, con le loro armi puntate e i loro volti gravi, a essere i più ridicoli. «Cos'è tutto 'sto rumore? Entrate come se voleste far risorgere i morti con tutto quel picchiare e quel gridare, cose da non credere. Questa casa non è un covo di spacciatori di crack, non siamo pieni di drogati, qui. La gente che vive qui è gente che lavora. Lavora e di notte deve dormire. Lei, signor poliziotto, cosa vuol fare con tutto quel baccano?»
Tanny Brown fissò la donna. Andrea Shaeffer gli passò davanti. «Signora Washington? Si ricorda di me, sono quella dell'altro giorno. Investigatrice Shaeffer. Della Florida. Stiamo ancora cercando Ferguson. Questi sono il tenente Brown e il signor Cowart. Lo ha visto?» «È uscito da un pezzo.» «Lo so, poco dopo le sei, l'ho visto allontanarsi.» «No. È tornato. E poi è uscito di nuovo, saranno state le dieci. L'ho visto dalla finestra.» «Dove stava andando?» domandò Tanny Brown. La donna aggrottò la fronte. «E come faccio a saperlo? Aveva un paio di borse. E se n'è andato. Ecco. Non si è certo fermato a dire ciao o arrivederci. Ha preso ed è andato. Tornerà, magari. Chissà. Non ho fatto domande. L'ho solo sentito affaccendarsi quassù. E poi è schizzato fuori dalla porta, senza tanto voltarsi indietro.» Fece un passo indietro. «Ora magari lascerete dormire la gente.» «No» Tanny Brown rispose immediatamente. «Voglio entrare.» Agitò la rivoltella in direzione dell'appartamento. «Non posso farlo» rispose la donna. «Voglio entrare» ripeté lui. «Avete un mandato?» chiese la donna in tono sospettoso. «Non ho bisogno di un maledetto mandato» rispose lui. Il suo sguardo si fissò bruciante sulla donna. Lei fece una pausa, pensierosa. «Non voglio avere dei problemi» disse quindi. «Se non prende la chiave e apre la porta di quell'appartamento, allora avrà più problemi di quanti non ne abbia mai avuti» minacciò Brown. La donna esitò di nuovo, quindi si voltò, annuendo. Il marito, che si era mantenuto fuori dal raggio visivo, comparve all'improvviso. Aveva in mano un anello pieno di chiavi tintinnanti. Indossava la vecchia casacca di un pigiama sopra a un paio di pantaloni cachi. Ai piedi portava un paio di stivaletti slacciati. Le sue magrissime gambe salirono le scale a rapidi passi. «Non dovrei farlo» disse, fulminando Brown con un'occhiata. Lo superò e si fermò di fronte alla porta dell'appartamento. «Non dovrei farlo» ripeté. Iniziò a inserire le chiavi nelle serrature. Ce ne vollero tre prima che la porta si aprisse. «Dovreste avere un mandato» disse l'uomo. Tanny Brown lo superò immediatamente, ignorando le sue parole. Trovò un interruttore sulla pare-
te e percorse a grandi passi l'appartamento, la pistola spianata, iniziando dalla stanza da bagno e dalla camera da letto, sincerandosi che fossero soli. «Vuoto» mormorò. Le parole riecheggiarono la sensazione che si agitava nel profondo della sua coscienza. Vuoto e freddo e simile a una tomba. Scrutò attorno, percorrendo con lo sguardo lo spazio vuoto che lo circondava, conscio di quanto era successo ma rifiutandosi di pensare a colui che in quel momento si aggirava libero per il mondo. Superò il centro del piccolo appartamento, raggiunse la scrivania dove Ferguson si era seduto fino a poche ore prima. "Lo studente" pensò. Un gran numero di fogli di carta erano caduti in disordine sul pavimento. Li scombinò ulteriormente con un calcio e sollevò lo sguardo; vide Matthew Cowart guardarsi in giro nella stanza. «Andato» mormorò Cowart. La sua voce era debole e tremante. Il giornalista fece un profondo respiro. Si era aspettato di trovare Ferguson, si era aspettato che fosse lì a prendersi gioco di loro, convinto di essere eternamente fuori dalla loro portata. "Non c'è più tempo ora" pensò. Poteva sentire l'articolo che aveva deciso di scrivere scivolargli via dalle dita. "Non c'è tempo. Lui è là fuori, e farà quello che vorrà." La mente del giornalista percorse veloce tutti gli scenari possibili. Non aveva idea di cosa Ferguson si proponesse, se la sua bambina fosse in pericolo o meno. O qualche altra bambina. Nulla era più sicuro. Guardò Tanny Brown e si rese conto che l'investigatore stava pensando la stessa identica cosa. La notte scivolò veloce verso l'alba, ma non riuscì a vincere l'oscurità che era discesa su ognuno di loro. 25 Tempo perduto La stanchezza e le pratiche burocratiche fecero loro perdere ore preziose. Tanny Brown si sentiva intrappolato tra le procedure ufficiali e le proprie paure. Dopo aver trovato vuoto l'appartamento di Ferguson, si era sentito in dovere di denunciare la scomparsa di Wilcox alla polizia locale, sempre più convinto, allo stesso tempo, che ogni secondo lo distanziasse dalla sua preda. Lui e la Shaeffer trascorsero il resto della notte con una coppia di agenti in divisa di Newark, nessuno dei quali riusciva a comprendere come mai fossero venuti da due parti diverse della Florida per interrogare un uomo non sospettato di alcun crimine. I due agenti rimasero impassibili mentre la Shaeffer raccontava le ore di sorveglianza di Ferguson, e si mo-
strarono sorpresi quando lei giunse al momento in cui Wilcox era scattato nel buio. Il loro atteggiamento parve esprimere una certa consapevolezza che, qualsiasi cosa fosse capitata a Wilcox, lui se la fosse cercata; per loro non aveva senso che un uomo, fuori dalla sua giurisdizione, lontano da casa, spinto dalla rabbia, si lanciasse all'inseguimento di qualcuno addentrandosi in una zona che per loro non faceva chiaramente parte degli Stati Uniti, ma era una sorta di nazione aliena, dotata delle proprie regole, delle proprie leggi, dei propri codici di comportamento. Tanny Brown ribolliva nel profondo di fronte al loro atteggiamento, considerandoli razzisti, sebbene logisticamente nel giusto. La Shaeffer fu colpita dalla loro insensibilità. Più di una volta si ripeté che, non importava quello che avrebbe dovuto sopportare m quanto poliziotta, non avrebbe mai ceduto a quanto aveva sentito nelle loro voci. Altro tempo fu sprecato nel condurre gli agenti sul punto in cui la Shaeffer aveva visto Wilcox per l'ultima volta, e nel mostrare loro il percorso che aveva compiuto nel corso della sua precedente ricerca. Ancora prima erano tornati all'appartamento di Ferguson, ma non vi avevano trovato alcun segno di Wilcox. I due agenti in divisa non credevano che avesse lasciato la città. Appena prima dell'alba, garantirono a Brown che avrebbero emesso un bollettino di ricerca per Wilcox, e che avrebbero incaricato una squadra di passare al setaccio le strade. Ma insistettero perché Brown si mettesse in contatto con il suo ufficio, come se credessero veramente che Wilcox si sarebbe presentato da un momento all'altro nella contea di Escambia. Cowart passò la notte in attesa nella stanza del motel. Non aveva idea di quanto seria potesse essere la minaccia nei suoi confronti e in quelli di sua figlia; sapeva soltanto che ogni minuto che passava la sua situazione peggiorava, e che l'unica arma a sua disposizione, l'articolo, si faceva sempre più inutile. Nessun articolo di giornale avrebbe avuto il minimo impatto, se lui prima non avesse scoperto dove si nascondeva Ferguson. Ferguson doveva venire intrappolato dalle sue parole, doveva venire immediatamente circondato dalle domande, sommerso dalle smentite. Era l'unico modo in cui Cowart poteva guadagnare tempo per proteggersi. Ferguson in giro per il mondo era un costante, invisibile pericolo. Cowart sapeva che, prima che una sola parola fosse pubblicata, avrebbe dovuto trovare Ferguson. Per l'ennesima volta. Guardò il suo orologio, e seguendo la lancetta dei secondi procedere implacabile, si rammentò dell'orologio a muro del braccio della morte.
"Adesso inizia a capire..." Si rese conto di non avere più tempo da perdere. Ignorando il sicuro spavento che la sua telefonata notturna avrebbe provocato, afferrò il telefono e compose il numero dell'ex moglie. Udì due squilli prima del grugnito del marito. «Tom? Sono Matt. Mi spiace disturbarvi, ma c'è un problema, e...» «Matt? Gesù. Ma lo sai che ore sono? Cristo, domattina devo presentarmi in Tribunale. Cosa diavolo sta succedendo?» Fu a quel punto che Cowart udì la voce dell'ex moglie sorgere confusa dall'oscurità. Non riuscì a comprendere le sue esatte parole, ma sentì la risposta del marito. «È il tuo ex. C'è una specie di emergenza, a quanto ho capito.» Vi fu una pausa, dopo la quale entrambe le voci giunsero in linea. «D'accordo, Matty. Cosa diavolo c'è?» La voce dell'avvocato copriva quella della moglie. Era irritata e imperiosa. Prima che Cowart potesse rispondere, l'uomo aggiunse: «Oh Cristo, adesso si è svegliato anche il piccolo. Merda.» Matthew Cowart rimpianse di non essersi preparato un discorso. «Credo che Becky sia in pericolo» disse. Il silenzio cadde sulla linea per qualche istante. «Pericolo di che? Matty, di cosa stai parlando?» Era la voce della sua ex moglie. «L'uomo su cui ho scritto quei servizi. Quello del braccio della morte. Ha minacciato di far del male a Becky. Sa dove vivete.» Un'altra pausa; quindi fu Tom a rispondere. «Ma perché? Avevi scritto che non aveva ucciso nessuno...» «Potrei essermi sbagliato.» «Ma perché Becky?» «Non vuole che scriva niente di diverso.» «Ascolta, Matt, cos'ha detto quell'uomo esattamente? Cerchiamo di capirci. Che tipo di minaccia?» «Non lo so. Senti, non è che, non so, è tutto così...» Si rese conto dell'impossibilità di quanto stava cercando di dire. «Matt, Cristo. Chiami nel mezzo della maledetta notte e...» L'avvocato venne interrotto dalla moglie. «Matty, stai dicendo sul serio? È tutto vero?» «Sandy, vorrei poterti dire cos'è vero e cosa non lo è. Tutto quello che so è che quell'uomo è pericoloso e io non so più dove si trovi. Dovevo fare qualcosa e così vi ho chiamato.»
«Ma Matt» intervenne l'avvocato. «Abbiamo bisogno di qualche dettaglio. Ho bisogno di capire cosa voglia dire tutto questo.» Matthew Cowart sentì la rabbia insorgere improvvisa dentro di sé. «No che non ne hai bisogno, dannazione. Non hai bisogno di sapere un bel niente, tranne che Becky potrebbe essere in pericolo. C'è un maledetto pericolo pubblico là fuori da qualche parte, e sa dove vivete, e sa di essere in grado di colpirmi attraverso Becky. Capito? Capito bene? È tutto quello che avete bisogno di sapere. Ora, Sandy, fai una maledetta valigia e porta Becky da qualche parte. In un posto qualsiasi. Va' su nel Michigan a trovare tua zia. Fallo subito. Prendi il primo volo del mattino. Va' e rimani lassù finché non avrò risolto questa faccenda. La risolverò, te lo prometto. Ma non posso farlo se non sono sicuro che Becky è in salvo e fuori pericolo, lontano da quell'uomo. Va', subito. Hai capito? È un rischio che non possiamo correre.» Vi fu un'ennesima pausa di qualche istante. «D'accordo» rispose infine la sua ex moglie. Il marito s'intromise immediatamente. «Sandy! Gesù, non sappiamo...» «Lo sapremo presto» disse lei. «Matty, mi chiamerai? Chiamerai Tom e gli darai una spiegazione? Lo farai? Il più presto possibile?» «Lo farò.» «Gesù» mormorò il marito. «Matty» aggiunse poi «spero solo che questa non sia una...» Si bloccò a metà frase, esitando. «Anzi» riprese infine «spero che lo sia. Spero che sia tutta una follia. E che quando mi chiamerai con la tua maledetta spiegazione, ne avrai una di quelle buone. Non capisco perché non possa chiamare la polizia, o magari anche un investigatore privato...» «Perché la polizia non può intervenire su una minaccia, dannazione! Non possono fare nulla finché qualcosa non è già successo. Non sarà mai al sicuro, anche se assumerai la maledetta Guardia Nazionale al completo per proteggerla. Dovete soltanto portarla in un posto in cui quell'uomo non la possa raggiungere.» «E Becky?» domandò la sua ex moglie. «Sarà spaventatissima.» «Lo so» rispose Cowart. Disperazione ed impotenza parevano circondarlo come una nuvola di fumo. «Ma le alternative sono molto peggiori.» «Quell'uomo...» iniziò a dire l'avvocato. «Quell'uomo è un assassino» disse Cowart a denti stretti. L'avvocato fece una pausa, quindi sospirò. «D'accordo. Prenderanno il primo volo del mattino. Va bene? Io rimarrò qui. Non ha minacciato me,
vero?» «No.» «Bene. D'accordo.» Un altro lungo silenzio s'impadronì della linea, prima che Cowart potesse riprendere. «Sandy?» «Sì, Matt?» «Promettimi che non riappenderai la cornetta e penserai che è tutta una stupidaggine e deciderai di non fare niente di quanto abbiamo detto» disse, la sua voce ora regolare, bassa, controllata. «Parti subito. Porta in salvo Becky. Non posso fare nulla finché non so che è al sicuro. Me lo prometti?» «Ho capito.» «Me lo prometti?» «Sì.» «Grazie» disse lui. Sentiva sollievo e tensione darsi battaglia nel profondo della sua coscienza. «Vi chiamerò con i dettagli non appena li avrò.» Il marito di Sandy grugnì in segno di assenso. Cowart riappese la cornetta con circospezione, quasi fosse fragile e si distese sul letto del motel. Si sentiva meglio e allo stesso tempo molto peggio. Quando Brown e la Shaeffer fecero ritorno nella stanza, lo sconforto pareva pesare loro sulle spalle, appollaiato sulla loro infinita stanchezza. «Avete scoperto qualcosa?» domandò Cowart. La Shaeffer rispose per entrambi. «A quanto pare gli sbirri locali ci considerano dei pazzi. E se non pazzi, di sicuro incompetenti. Ma soprattutto, credo, non vogliono complicazioni. Avrebbe potuto andare in modo diverso se solo ci avessero intravisto qualche vantaggio per loro. Ma non è così.» Cowart annuì. «Allora, a che punto siamo?» Brown rispose in tono sommesso. «Siamo al punto che stiamo rincorrendo un uomo colpevole di qualcosa, sospettato di tutto, ma con nessuna prova.» Accennò a una lieve risata. «Gesù, sentite come parlo. Avrei dovuto fare lo scrittore come lei, Cowart.» La Shaeffer si passò lentamente le mani sul volto, giungendo fino a tirarsi indietro i capelli, tendendo la pelle della fronte, quasi a voler aprire gli occhi, a voler vedere di più e meglio. «Quante?» domandò, voltandosi verso i due uomini. «C'è la prima, quella su cui lei ha scritto i suoi articoli...»
Entrambi gli uomini rimasero in silenzio, intenti a tenere a bada le rispettive paure. «Quante?» insistette lei. «Cosa c'è? Pensate che sia un tale disastro condividere le vostre informazioni? Cosa potrebbe succedere di peggio di quello che è già successo?» «Joanie Shriver» rispose Cowart. «È la prima. La prima di cui siamo a conoscenza. Poi c'è una dodicenne di Penine che è scomparsa...» «Perrine?» commentò la Shaeffer. «Ecco perché...» «Ecco perché cosa?» domandò Cowart. «È stata la sua prima domanda. Quando sono andata a casa sua. Ha voluto sincerarsi che il mio fosse un caso della contea di Monroe. Si è preoccupato di stabilire esattamente dove corresse il confine tra le contee di Monroe e di Dade. E una volta avuta quella certezza, si è rilassato.» «Dannazione» sibilò Cowart. «Non sappiamo nulla di certo su quella ragazzina» intervenne Brown. «È pura speculazione...» Cowart si alzò in piedi, scuotendo il capo. Raggiunse la sua giacca e ne estrasse i fogli stampati dal computer che si stava portando in, giro ormai da tempo. Li allungò a Brown, che li lesse rapido. «Cosa sono?» chiese la Shaeffer. «Niente» replicò Brown, la voce incrinata da una rabbia impotente. Accartocciò i fogli e li restituì. «Dunque è stato laggiù.» «È stato laggiù.» «Ma non abbiamo ancora alcuna prova contro di lui.» «Nessun corpo, intende dire. Sebbene, a giudicare da quanto ha detto l'investigatrice, il corpo della ragazzina dovrebbe essere da qualche parte nelle Everglades, vicino al confine fra le due contee.» «Esatto.» Cowart si volse verso la Shaeffer. «Vede, siamo a due. Per il momento...» «Tre» aggiunse Brown in un filo di voce. «Una ragazzina di Eatonville. Scomparsa qualche mese fa.» Cowart fulminò il poliziotto con lo sguardo. «Non mi aveva...» iniziò. Brown si strinse nelle spalle. Cowart, le mani tremanti dalla rabbia, afferrò il suo taccuino. «È stato a Eatonville all'incirca sei mesi fa. Alla Christ Our Savior Presbyterian Church. Ha fatto il suo discorsetto su Gesù. È stato allora che...» «No, un po' più tardi.» «Dannazione» ripeté Cowart.
«Ci è tornato. Ci sarà tornato non appena si sarà reso conto che nessuno gli prestava attenzione.» «Sicuro che è andata così. Ma come lo proviamo?» «Lo proverò io.» «Splendido. E perché non me l'ha detto?» La voce di Cowart era rotta dalla rabbia. Brown gli rispose con altrettanta furia. «Dirglielo? E cosa ne avrebbe fatto? Lo avrebbe sparato sul suo giornale prima che io avessi avuto la possibilità di fare un passo avanti sul caso? Prima che avessi avuto la possibilità di controllare ogni piccola città nera della Florida? Voleva che glielo dicessi di modo che lei ne avrebbe informato l'universo e salvato la sua reputazione?» «Un passo avanti! Quante vittime dovranno morire prima che lei riesca a risolvere il suo caso? Se mai riuscirà a risolverlo!» «E cosa diavolo otterremmo pubblicando tutto sul giornale?» «Funzionerebbe! Lo costringeremmo a uscire dalla tana!» «Diciamo piuttosto che lo metteremmo sull'avviso, facendolo diventare ancora più guardingo.» «No. Tutti saranno avvertiti...» «Sicuro, e lui a quel punto cambierebbe il suo percorso, e non ci sarebbe nessuna aula di tribunale in cui riuscirei più a farlo entrare.» Entrambi gli uomini si erano alzati in piedi, mettendosi in posizione come se stessero per venire alle mani. La Shaeffer sollevò un braccio, interrompendoli. «Ma siete impazziti?» domandò alzando la voce. «Siete fuori di testa? Non vi siete mai detti niente? Perché mantenere i segreti?» Cowart la guardò, scuotendo il capo. «Il punto è che nessuno dice mai niente. Specialmente la verità.» «Quante persone pensate siano morte a causa...» iniziò lei, ma subito si bloccò. Si era resa conto che anche lei era al corrente di alcune informazioni che non avrebbe voluto condividere con altri. Cowart se ne accorse. «Cosa sta nascondendo, investigatrice? Cosa sa e non vorrebbe mai ammettere di sapere?» La Shaeffer si rese conto di non avere scelta. «I genitori di Sullivan» disse. «Ferguson aveva ragione. Non è stato lui.» «Cosa?» Riportò tutte le informazioni ottenute da Michael Weiss: la Bibbia, la guardia, il fratello. Cowart parve sorpreso; scosse a lungo il capo. «Rogers» mormorò. «Chi
l'avrebbe mai detto?» Ma non aveva alcun senso. Rogers pareva sapere tutto di Starke. Niente avrebbe potuto essere più facile per uno come lui, ma... «C'è una cosa che non capisco» disse. «Se veramente è stato Rogers, allora perché Sullivan ha passato tutto quel tempo con me a spiegarmi il coinvolgimento di Ferguson, mentre allo stesso tempo scriveva il nome di Rogers sulla sua Bibbia?» Brown si strinse nelle spalle. «È il miglior modo per garantire che qualcuno se la cavi dopo aver commesso un omicidio. Sospetti multipli. Dici una cosa a qualcuno. Conduci qualcun altro verso una prova diversa. Nel frattempo aspetti che un avvocato della difesa ne venga a conoscenza. Ma più che altro penso che lo abbia fatto perché era un uomo malato, Cowart. Malato e pieno di malvagità. Era il suo modo di trascinare tutti giù nello stesso inferno che lo stava aspettando: lei, Ferguson, Rogers... e tre poliziotti che nemmeno conosceva.» Il silenzio penetrò per qualche istante nella stanza. «D'accordo, diciamo che forse è stato Rogers, e forse no» riprese Cowart. «A questo punto il vecchio Sully sarà laggiù a contorcersi dalle risate.» Di nuovo scosse il capo. «Cosa significa tutto questo?» «Significa» intervenne la Shaeffer «che dobbiamo dimenticarci di Sullivan, Dimenticarci dei suoi giochetti mentali. Preoccupiamoci di Ferguson e delle sue vittime. Tre, avete detto?» «Ha fatto sette viaggi nel sud della Florida. Sette di cui siamo a conoscenza.» «Sette?» Cowart alzò le braccia in segno di resa. «Non sappiamo quando ci è andato per fare ricerca e quando per entrare in azione. Quello che sappiamo è che... Cristo... quello che sospettiamo è che le ragazzine siano tre. Una bianca. Due nere. E Bruce Wilcox.» «Quattro» mormorò lei in un filo di voce. «Quattro» ripeté Brown gravemente. Si alzò in piedi, come a ribadire che la stanchezza fosse qualcosa di sbagliato, e prese a percorrere la stanzetta a grandi passi, come un prigioniero in una cella. «Non vi rendete conto di quello che sta facendo?» «E sarebbe?» La voce di Brown era carica di un'energia che sembrò vibrare nel piccolo ambiente. L'investigatore si rivolse alla giovane collega. «Cos'è che facciamo di solito? Un crimine viene perpetrato, e la nostra prima conclusione è che, pur se particolare, possa rientrare in una categoria riconoscibile e
definita. E alla fine, crediamo che questo sia vero per centinaia di altri delitti, proprio come per quello. È questo che ci hanno insegnato, e questo noi ci aspettiamo. E quindi andiamo fuori e ci mettiamo alla ricerca dei soliti sospetti. Gli stessi che nel novantanove per cento dei casi finiscono per rivelarsi quelli giusti. Esaminiamo tutti gli elementi della scena del delitto, nella speranza che una macchia di sangue o un ciuffo di capelli o un campione di fibre ci indichi direttamente uno di quelli della lista. Facciamo così perché l'alternativa è terrificante: che cioè qualcuno che non è collegato a nulla se non all'omicidio sia penetrato nel nostro scenario. Qualcuno che non conosciamo, che nessuno conosce, che ormai potrebbe essere a più di cento, di mille chilometri dalla scena del delitto. E che l'ha fatto per una ragione talmente terribile che non riusciamo nemmeno a contemplarla, e men che meno a comprenderla. Perché se il caso è quello, allora abbiamo una sola possibilità su un milione di risolverlo, e forse neppure quella. Ecco perché ci siamo concentrati su Ferguson la prima volta, quando è stata uccisa la piccola Joanie. Perché avevamo un delitto, e lui era nella lista dei sospetti...» Brown guardò la Shaeffer, quindi sì volse verso Cowart. «Ma adesso, capite, lui tutto questo lo sa.» L'investigatore s'ingobbì all'improvviso, scaricando un pugno sul palmo della mano sinistra per accentuare le sue parole. «Sa che la distanza lo mantiene al sicuro, che quando arriva in una cittadina per uccidere, nessuno lo riconosce. Nessuno gli presta alcuna attenzione. E nessuno lo vede agguantare la sua vittima. E quali sono le vittime che sceglie? Ha visto cos'è successo quando ha ucciso una ragazzina bianca. E allora va nei posti in cui la polizia non è così sofisticata, in cui la stampa non è così attenta, afferra una ragazzina di colore, perché così non susciterà l'attenzione di nessuno, di certo non come è successo con Joanie Shriver. Dunque va e fa quello che vuole, e poi se ne torna quassù e riprende la scuola, e nessuno mai gli punta gli occhi addosso. Nessuno.» Brown fece una pausa prima di proseguire. «Nessuno, tranne noi tre.» «E Wilcox?» domandò Cowart. Brown fece un profondo respiro. «È morto» rispose in tono piatto. «Non lo sappiamo ancora» intervenne la Shaeffer. L'idea le sembrava impossibile. Sapeva che era vero, ma non poteva sopportare di sentirselo dire. «Morto» proseguì Brown con un impeto diverso nella sua voce. «Da qualche parte non lontano da qui. E questa è la ragione per cui Ferguson è
in fuga. È la sua prima regola. Uccidere quando si è al sicuro. Uccidere in modo anonimo. Distanziarsi dal luogo del delitto. È una regola maledettamente semplice.» Fissò la giovane investigatrice. «Wilcox è morto dal momento in cui l'ha perso di vista.» «Non avrebbe dovuto abbandonarlo» intervenne Cowart. La Shaeffer gli si rivolse con uno scatto rabbioso. «Non sono stata io a lasciarlo! È stato lui. Ho cercato di fermarlo. Dannazione, non ho nessuna voglia di stare ad ascoltarvi! Non so cosa mi stia trattenendo qui con voi!» «Sì che lo sa» rispose Cowart. «Non l'ha capito, investigatrice? Là fuori c'è un uomo malvagio. È in libertà grazie a una serie di incidenti, di giudizi errati, di sbagli, di pura sfortuna, e chissà cos'altro. E alla fine di tutto, la realtà è che lui se l'è lasciato sfuggire...» indicò bruscamente Tanny Brown «... e io me lo sono lasciato sfuggire...» si picchiettò il petto con il dito indice, e infine lo puntò, a mo' di rivoltella, verso la Shaeffer. «E adesso se l'è lasciato sfuggire anche lei. Proprio così.» Fece un profondo respiro. «In effetti, soltanto uno fra noi era riuscito ad arrivarci vicino. Wilcox. E adesso...» «E adesso è morto» ripeté Brown. Fermo in piedi al centro della stanza, serrò le mani in due pugni rabbiosi; quindi le distese, lentamente. «E noi siamo gli unici rimasti a dargli la caccia.» Anche lui le puntò contro un dito implacabile. «Ora anche lei ha un debito.» La Shaeffer sentì un'improvvisa vertigine impadronirsi di lei, quasi il pavimento del motel stesse beccheggiando, sotto i suoi piedi, come la barca da pesca del suo patrigno. Ma sapeva che quello che avevano detto i due uomini era vero. Erano loro ad aver creato quel problema. Toccava a loro trovarvi la soluzione. "Wilcox e chissà quante ragazzine" si disse. "Loro non sanno. Non hanno idea di cosa si provi a essere gettate a terra e assalite, a sapere che potresti morire da un istante all'altro e non poterci fare niente." Si figurò quello che dovevano aver passato quelle ragazzine nei loro ultimi minuti di vita, e quell'ondata di orrore le tolse il fiato e contemporaneamente riaccese la sua determinazione. «Per prima cosa lo dobbiamo trovare» disse. «Qualcuno ha un suggerimento?» «Florida» replicò lentamente Cowart. «Penso sia tornato in Florida. È la zona che lui conosce meglio. È lì che si sente più al sicuro. Mi sembra che a questo punto abbia due preoccupazioni. Una sono io, e l'altra è l'investi-
gatore Brown. Non credo che abbia collegato anche lei a tutta questa faccenda. L'ha vista per caso con Wilcox?» «Non credo.» «Be', allora forse abbiamo un vantaggio.» Cowart si volse verso Brown. La sua mente registrò qualcosa che gli aveva detto Blair Sullivan: "Devi essere libero se vuoi essere un buon assassino, Cowart". "Ferguson lo sa" pensò il giornalista. «Ma lei e io, be', è tutta un'altra storia. Deve pensare di essersi liberato di noi. A quel punto può ricominciare a fare quello che sta facendo, senza preoccuparsi, senza continuamente guardarsi alle spalle.» «E come?» Il giornalista inspirò profondamente. «L'altro giorno. Quando sono andato da lui. Ha minacciato mia figlia. Sa dove vive con sua madre, a Tampa.» Tanny Brown fu sul punto di dire qualcosa, ma si bloccò. «È per questo...» «Mi dica tutto della minaccia» ordinò l'investigatore. «Ha detto soltanto di sapere dove vivevano. Non ha detto cosa avrebbe fatto. Solo che sapeva chi era e che ciò mi avrebbe convinto a non scrivere niente su di lui. Specialmente supposizioni non comprovate che l'avrebbero collegato ad altri delitti.» «E l'ha convinta?» «Insomma, lei al mio posto che farebbe?» replicò con rabbia il giornalista. «Pensa che sia diretto laggiù, a questo punto? A Tampa? Per...» «Per strapparmi il cuore dal petto. Sono le sue precise parole.» «E pensa che stia andando là?» Cowart scosse il capo. «No. Credo che sia convinto di avermi messo in trappola. Di non dover fare niente di più per costringermi al silenzio.» Tanny Brown lo guardò severo. «Ho due figlie anch'io» disse. «Le ha per caso minacciate?» Cowart si sentì all'improvviso in preda alla nausea. «No. Non le ha mai nominate.» «Ma sa dove vivono, Cowart. Tutti a Pachoula sanno dov'è casa mia.» «Non ha mai accennato a niente del genere.» «Sapeva che ero là fuori, quando la stava minacciando? Sapeva che ero lì vicino?» «Non lo so.» «Perché non le ha nemmeno nominate, Cowart? Non avrebbe funzionato
anche con me, lo stesso tipo di minaccia?» Cowart scosse il capo. «No. Sapeva che lei non si sarebbe arreso.» Brown annuì. «Almeno una cosa l'ha capita, signor giornalista. E allora come si comporta con me? Se io sono il solo problema che gli rimane, come si sbarazza di me?» Cowart rifletté a fondo. Gli venne in mente soltanto una risposta e non esitò a formularla. «Probabilmente vuole eliminarla allo stesso modo in cui ha eliminato Wilcox. Attirarla in una trappola, da qualche parte, e...» Esitò. «Ma forse mi sbaglio. Forse ha capito che dovrebbe correre e basta. Boston, Chicago, Los Angeles, qualsiasi città che abbia un ghetto interno. Potrebbe sparire di nuovo, e se ha la pazienza sufficiente di aspettare, ricominciare a fare quello che vuole, tutto daccapo.» «E pensa che ce l'abbia, quella pazienza?» domandò la Shaeffer. Cowart scosse il capo. «No. Non credo nemmeno che pensi di avere bisogno di essere paziente. Ha vinto a ogni mossa. È arrogante e lanciato ed è convinto che non riusciremo mai a prenderlo. E se anche lo prendessimo, che gli potremmo fare? Ci ha già battuti una volta. Probabilmente pensa di poterlo fare ancora.» «Il che significa che c'è soltanto un posto in cui potrebbe desiderare di andare» disse all'improvviso Tanny Brown. Spostò lo sguardo dall'investigatrice al giornalista. «Un posto soltanto. Dov'è iniziato tutto.» «Pachoula» mormorò Cowart. «Pachoula» ripeté annuendo l'investigatore. «Casa sua. Casa mia. Il luogo in cui pensa di essere al sicuro. Nonostante tutti lo odino, laggiù si sente tranquillo. È un buon posto per iniziare qualcosa, o anche per finirla. È lì che credo stia andando.» Cowart annuì e indicò il telefono. «E allora chiami. Faccia sorvegliare la casa della nonna. Lo faccia pizzicare.» Brown esitò per un istante, quindi si avvicinò al telefono. Compose rapidamente il numero sulla tastiera, si mise in attesa del collegamento. Dopo qualche istante fu in grado di parlare. «Centrale? Parla il tenente Brown. Mettetemi in comunicazione con l'ufficiale in comando.» Fece un'altra pausa prima di proseguire. «Randy? Sono Tanny Brown. Ascolta, è successo qualcosa. Qualcosa di importante. Non voglio scendere nei dettagli subito, ma vorrei che facessi qualcosa per me. Manda due auto di pattuglia davanti alla scuola, che stiano di sorveglianza tutto il giorno. E un'altra auto davanti a casa mia. E di' a chiunque manderai lì di avvisare mio padre che sarò a casa il più presto possibile e che gli spiegherò tutto,
d'accordo?» L'investigatore rimase in ascolto. «No. No. Fai quello che ti sto chiedendo, d'accordo? Lo apprezzo molto, ma no, non ti preoccupare del mio vecchio. Se la può cavare benissimo. Sono più preoccupato per le mie figlie...» S'interruppe, ascoltando la replica del collega, e quindi riprese. «No, niente di così specifico. Ci penserò io ai rapporti quando arriverò. Oggi stesso, se riesco. Domani di sicuro. A cosa devono stare attenti? A chiunque non rientri nella norma. Capito? Chiunque.» Riappese la cornetta. «Non gli ha detto niente di Ferguson» gli fece notare Cowart, sorpreso. «Non gli ha detto niente.» «Gli ho detto abbastanza. Non ci ha distanziato di molto. Se facciamo in fretta, potremmo raggiungerlo prima che sia pronto ad accoglierci.» «Ma se...?» «Nessun se, Cowart. Le auto di pattuglia lo terranno alla larga fino al nostro arrivo. E a quel punto è mio.» Rivolse loro un'occhiata fulminante. «E di nessun altro. Io metto la parola fine a tutto questo. Capito?» Per qualche lungo istante rimasero in silenzio; infine Cowart si avvicinò al suo armadio, e da un angolo della valigia estrasse un orario dei voli. «C'è un volo a mezzogiorno per Atlanta. Niente per Mobile fino al tardo pomeriggio. Ma potremmo volare fino a Birmingham e da lì proseguire in auto. Dovremmo essere a Pachoula entro stasera.» Tanny Brown annuì. Lanciò un'occhiata alla Shaeffer, che mormorò qualche confusa parola di approvazione. «Stasera» ripeté il poliziotto con un filo di voce. 26 Macchie di rovi Oltrepassarono il confine con l'Alabama penetrando nella contea di Escambia, procedendo veloci mentre la sera sul Golfo li sospingeva decisa verso la notte. Il cielo del Sud aveva perso i suoi vibranti riflessi azzurrini, sostituendoli con la minaccia grigio-marrone di una tempesta che striava l'orizzonte. Un irrequieto vento caldo li circondava soffiando, aspirando e scuotendo di tanto in tanto i finestrini dell'auto, spogliandoli dei residui del freddo umidore del nord-est. Superarono sfrecciando fattorie striate di polvere e boschi di alti pini, il cui portamento torreggiante ed eretto ricordava a Cowart quello degli spettatori di uno stadio nei momenti caldi di una par-
tita. La loro velocità sottolineava i dubbi che sapevano di condividere. Tutti e tre sentivano una spinta ad andare avanti, un bisogno di procedere, ma l'incertezza proiettava le sue lunghe ombre sul loro cammino. La campagna sfrecciava loro di fianco; sulla stretta strada non pareva esserci nemmeno lo spazio sufficiente a respirare. Cowart fu costretto a stringere il bracciolo del sedile quando si avvicinarono a velocità troppo sostenuta a un vecchissimo autobus scolastico, dipinto di un bianco luccicante, che traballava avanzando lento sulla strada a una corsia. Tanny Brown dovette frenare con decisione per evitare di schiantarsi contro il retro dell'autobus. Cowart sollevò lo sguardo e vide, scritte a mano sulla portiera di emergenza con un'entusiastica, fluida mano di vernice rossa, le parole SEI ANCORA IN TEMPO AD ACCOGLIERE IL TUO SALVATORE! E appena sotto, in una calligrafia più minuta ma ugualmente fiorita: NEW REDEMPTION BAPTIST CHURCH, PACHOULA, FLORIDA. E infine, sul paraurti, un'esortazione scritta a larghe lettere tondeggianti: SEGUITEMI FINO A GESÙ! Abbassando il finestrino, Cowart riuscì a malapena a distinguere le tonanti voci del coro penetrare nel caldo della sera, levandosi sopra al basso lamento del motore dell'autobus. Cercò di tendere l'orecchio, ma non riuscì a comprendere le parole dell'inno, mentre sentiva le sfuggenti note della musica muovere qualcosa dentro di lui. Tanny Brown diede una violenta sterzata e premette a fondo l'acceleratore. Con uno scatto improvviso l'auto superò l'autobus. Cowart guardò all'interno e vide decine di persone di colore che ondeggiavano e battevano le mani, al ritmo del sobbalzante percorso dell'autobus e del loro stesso energico canto. Le loro voci furono presto inghiottite dalla velocità e dalla distanza. Proseguirono attraverso l'oscurità piena di riflessi. La luce sempre più soffusa pareva confondere i profili delle case e dei fienili e rendeva la strada piena di curve che si stendeva loro davanti meno distinta, quasi instabile. «Gesù fa gli straordinari in questa contea» disse Brown. «Raccogliendo le anime.» Brown aveva guidato in silenzio, incapace di scrollarsi di dosso un ricordo che, non desiderato, aveva fatto irruzione nei suoi pensieri. Un ricordo di guerra, orribile sebbene ordinario. Era stato per ben sette mesi in territorio nemico, e il suo plotone stava attraversando una zona a cielo scoperto; era quasi scesa la sera e loro erano ormai vicini all'accampamen-
to. Erano accaldati, luridi, distrutti, e probabilmente pensavano a ciò che li stava attendendo, e cioè cibo, riposo e un'altra notte agitata e senza respiro, senza fare attenzione a ciò che li circondava, cosa che li rendeva estremamente vulnerabili. E dunque, ripensandoci, non avrebbero dovuto essere così sorpresi quando l'aria era stata lacerata dallo sparo isolato di un cecchino, e uno di loro, quello che apriva la marcia, era crollato a terra con una tale rapidità che a Brown aveva dato l'impressione di essere stato sgambettato a tradimento da una divinità irritata scesa a terra all'improvviso. L'uomo aveva gridato, la voce resa stridula dalla paura e dal dolore: "Aiutatemi, vi prego!". Tanny Brown non si era mosso. Sapeva che il cecchino stava aspettando, nascosto, che qualcuno raggiungesse il ferito. Sapeva cosa sarebbe successo se fosse andato. E dunque era rimasto immobile, stringendo la terra in un abbraccio disperato, pensando: "Anch'io voglio vivere". Era rimasto in quella posizione finché il comandante del plotone non aveva ordinato una raffica di artiglieria contro la barriera di alberi dietro la quale si annidava il cecchino. Solo allora, dopo che la foresta davanti a lui era stata sventrata con una dozzina di cariche esplosive, si era avvicinato al ferito. Era un ragazzo bianco della California, ed era con il plotone da una sola settimana. Brown non era riuscito a distogliere lo sguardo dal suo petto squarciato, non era riuscito a ricordarsi come si chiamasse. Era stato il suo ultimo ferito. Ed era morto. Una settimana più tardi, Brown era tornato a casa, il suo servizio di leva accorciato come nel caso di molti altri ufficiali sanitari. Era tornato alla Rorida State University, al programma di addestramento delle forze dell'ordine, e finalmente alla polizia. Non era stato il primo uomo di colore a entrare nella forza di polizia della contea di Escambia, ma era tacitamente ammesso da tutti che sarebbe stato il primo a raggiungere un certo risultato. Aveva molto dalla sua parte. Ragazzo locale. Stella del rugby. Eroe di guerra. Laurea universitaria. Antichi atteggiamenti erosi come rocce trasformate in sabbia dalla decisa azione delle maree. Provò una fitta di rimorso. Si rese conto di avere spesso udito, nella sua memoria, le grida dei feriti; ma si era sempre trattato di uomini a cui aveva salvato la vita. "Le loro erano voci facili da richiamare alla memoria" pensò. "Ti fanno pensare che stavi facendo qualcosa nel bel mezzo di quell'inferno." Ma quella sera, per la prima volta, aveva ripensato al grido del suo ultimo ferito.
"Anche Brace Wilcox ha chiamato aiuto?" si chiese. "Ho abbandonato anche lui". Si rese conto che avrebbe dovuto informare la famiglia di Wilcox. Per fortuna non aveva una moglie e nemmeno una compagna fissa. Si ricordava di una sorella, sposata a un ufficiale di carriera della marina di stanza a San Diego. La madre di Wilcox era morta, questo lo sapeva, e il padre viveva, da solo, in una casa di riposo. Vi erano decine di istituti per anziani nella contea di Escambia; era un'autentica industria in espansione. Si rammentò dei suoi pochi incontri con il padre di Wilcox: un vecchio severo, duro. Già odia il mondo intero. Questa notizia non farà altro che aumentare il suo odio. Una rabbia improvvisa s'impadronì del suoi pensieri: "Cosa gli dirò? Che l'ho perso di vista? Che l'ho messo di sorveglianza insieme a un'inesperta investigatrice della contea di Monroe, e che è sparito? Che si presume sia morto? Scomparso in azione? Non è certo stato inghiottito dalla giungla". Ma si rese conto che proprio quella era la verità. Accese i fari dell'auto. Immediatamente il fascio di luce catturò i piccoli occhi rossi di un opossum, appostato sul margine della strada, apparentemente intenzionato a sfidare le ruote dell'auto. Tenne il volante in posizione, tenendo d'occhio l'animale, il quale, all'ultimo momento, scattò e si lanciò in un fossato, al sicuro. In quello stesso istante anche lui desiderò di potersi mettere al sicuro. "Non ne ho alcuna possibilità" si rispose. Poco più tardi accostò l'auto nel parcheggio dell'Admiral Benbow Inn, alla periferia di Pachoula e vi fece scendere Cowart e la Shaeffer, i cui volti furono illuminati da un'insegna bianca abbastanza potente da attirare l'attenzione degli automobilisti in transito sulla statale. «Tornerò» disse enigmatico. «Cosa farà?» «Organizzo la copertura. Non pensa che dovremmo andarlo a prendere da soli, vero?» Cowart ripensò a quanto Brown aveva detto a Newark. Non si era immaginato che avrebbero chiesto aiuto. «Suppongo di no.» La Shaeffer li interruppe. «A che ora?» «Presto. Vi passo a prendere prima dell'alba. Diciamo alle cinque e un quarto.» «E poi?»
«Andremo a casa della nonna. Penso che lo troveremo lì. Magari riusciremo a sorprenderlo nel sonno. Magari avremo fortuna.» «E se no?» domandò lei. «Supponiamo non sia lì. A quel punto che facciamo?» «A quel punto iniziamo a cercare meglio. Ma penso che lo troveremo proprio lì.» Lei annuì. Sembrava semplice e al contempo impossibile. «Dove andrà adesso?» domandò di nuovo Cowart. «Gliel'ho detto. A organizzare la copertura. Magari a scrivere qualche rapporto. E di sicuro a controllare la mia famiglia. Ci rivediamo qui appena prima dell'alba.» Innestò la marcia e si allontanò veloce, lasciando il giornalista e la giovane investigatrice in piedi sul marciapiede come una coppia di turisti sperduti in un paese straniero. Per un attimo lanciò loro un'occhiata attraverso lo specchietto retrovisore, osservandoli prima che si muovessero per entrare nella hall dell'albergo. Gli parvero minuscoli, indecisi. Fece svoltare l'auto e i due scomparvero alla sua vista. Sentì qualcosa liberarsi dentro di sé, come se un nodo strettissimo avesse iniziato a sciogliersi. Si accorse anche dell'ondata di amarezza che lo stava invadendo: ne poteva addirittura sentire il fastidioso sapore sulla lingua. La notte scorreva tutt'intorno a lui, e per la prima volta da giorni si sentì tranquillo. Lasciò che l'investigatrice e il giornalista scivolassero via dai suoi pensieri, non completamente, solo abbastanza da lasciare via libera alla sua stessa rabbia. Guidò concentrato, veloce, pur senza una direzione specifica. Non aveva assolutamente alcuna intenzione di fare rapporto o di organizzare coperture di sorta. "La contabilità della morte può aspettare" si disse. Cowart e la Shaeffer si registrarono nel motel e si diressero subito verso il ristorante per mettere qualcosa nello stomaco. Nessuno dei due era particolarmente affamato, ma l'ora era giusta e a entrambi quella parve la cosa da fare. Ordinarono a una cameriera che pareva ben poco interessata al suo lavoro; dava l'impressione di essere a disagio in una divisa inamidata bianca e blu di almeno una taglia più piccola della sua misura, molto stretta sull'ampio petto. Mentre aspettavano la cena, Cowart guardò la Shaeffer, rendendosi per la prima volta conto che non sapeva quasi nulla di lei. Allo stesso tempo si disse che era passato tanto tempo da quando si era trovato seduto a un tavolo con una giovane donna. L'investigatrice era decisamente attraente, dietro alla tagliente immagine che di sé proiettava. "Se fossi-
mo a Hollywood" pensò "a questo punto avremmo trovato una qualche intensa emozione comune in quanto è successo e ci saremmo lanciati l'una fra le braccia dell'altro." Provò il desiderio di sorridere. "Vista la situazione" si disse "mi considererò soddisfatto se vorrà scambiare due parole con me." Non era neppure sicuro che lei l'avrebbe fatto. «Non esattamente come nelle Keys, vero?» disse. «No.» «È cresciuta laggiù?» «Sì. Più o meno. Sono nata a Chicago, ma sono nelle Keys da quando ero bambina.» «Cosa le ha fatto decidere di arruolarsi nella polizia?» «È un'intervista? La inserirà in uno dei suoi articoli?» Cowart sollevò la mano in un cenno di dissenso, ma allo stesso tempo si rese conto di quanto lei fosse nel giusto. Avrebbe probabilmente messo nell'articolo tutti i dettagli possibili, quando finalmente si sarebbe potuto concentrare sulla sua stesura. «No. Cercavo solo di essere cortese. Ma non è costretta a rispondere. Può anche starsene lì seduta in silenzio, mi va bene lo stesso.» «Mio padre era un poliziotto. Un investigatore di Chicago, fino al giorno in cui è stato ucciso. Dopo la sua morte ci siamo trasferiti nelle Keys. Come dei profughi, suppongo. Pensavo che il lavoro di polizia mi sarebbe piaciuto e mi sono iscritta dopo l'università. Ce l'avevo nel sangue, suppongo si potrebbe dire così. Ecco, tutto qui.» «E da quanto...» «Due anni nelle auto di pattuglia. Sei mesi nell'Antirapine. Tre mesi nell'Anticrimine. Ecco. La storia è questa.» «Gli omicidi di Tarpon Drive sono il suo primo caso importante?» Lei scosse il capo. «No. E poi, tutti gli omicidi sono importanti.» Lei non era sicura se Cowart avesse accettato la sua menzogna ufficiale o se l'avesse afferrata per quella che era, poiché lui aveva abbassato il capo sull'insalata, un grosso cespo di lattuga con un quarto di pomodoro. Cowart infilzò il pomodoro con la forchetta e lo sollevò. «New Jersey Numero Sei» disse. «Come?» «Pomidoro del New Jersey. A dire la verità, sarebbe ancora un po' troppo presto per mangiarli, ma questo in particolare potrebbe avere almeno un anno. Sa cosa fanno? Li raccolgono ancora verdi, molto prima che siano maturi. Così sono belli duri, duri come rocce. Quando li si taglia, manten-
gono la forma. Niente semi né succo che se ne va, il che piace da pazzi ai ristoranti. Ma siccome a nessuno va l'idea di mangiare un pomodoro verde, li siringano con dei coloranti rossi per farli sembrare maturi. E ne vendono a milioni alle catene di fast-food.» Lei lo fissò. "Sta blaterando" pensò. "Ma chi potrebbe biasimarlo? La sua vita è a brandelli." Abbassò lo sguardo sulla propria mano. "Ecco una cosa che forse abbiamo in comune." Rimasero entrambi in silenzio per alcuni istanti. La taciturna cameriera portò i loro ordini, depositando con svogliatezza i piatti. Giunta al limite della resistenza, finalmente Andrea Shaeffer domandò: «Mi dica solo cosa diavolo pensa che succederà.» Il suo tono di voce era basso, quasi da cospiratrice, ma colmo di una dura gravità. Cowart si scostò leggermente dal tavolo e per un istante la guardò. «Penso che troveremo Robert Earl Ferguson a casa di sua nonna» rispose infine. «E...?» «E penso che il tenente Brown lo arresterà per l'omicidio di Joanie Shriver, un'altra volta, anche se potrebbe non servire a nulla. O per ostruzione del corso della giustizia. O per falsa testimonianza. O forse in quanto testimone materiale nella scomparsa di Wilcox. Qualcosa. E a quel punto lei e il tenente raccoglierete tutto quello che sappiamo e tutto quello che non sappiamo e inizierete a interrogarlo. E io scriverò un articolo e poi aspetteremo che esploda.» Cowart fece una pausa, guardandola fisso negli occhi. «Almeno a quel punto lui sarà sotto controllo e non là fuori a fare quello che sta facendo. E così sarà fermato.» «E sarà tutto così facile, vero?» Cowart scosse il capo. «No» replicò. «Tutto è pericoloso. Tutto è rischioso.» «Lo so perfettamente» disse lei in tono calmo. «Volevo solo essere sicura che lo sapesse anche lei.» Il silenzio s'insinuò nuovamente tra loro, imponendosi sui loro pensieri per qualche imbarazzante secondo. «È successo tutto in fretta, non è vero?» domandò infine Cowart. «Che intende dire?» «Sembra sia trascorso così tanto tempo da quando Blair Sullivan si è seduto sulla sedia. Ma in realtà è passato soltanto qualche giorno.» «Preferirebbe che andasse per le lunghe?» chiese lei.
«No. Voglio solo che finisca.» Andrea Shaeffer fece per dire qualcosa, ma subito cambiò idea, e fece un'altra domanda. «E cosa succederà quando sarà finita?» Cowart non esitò a rispondere. «Avrò la possibilità di tornare a fare quello che stavo facendo prima che questa storia iniziasse. Solo una possibilità.» Non diede quella che pensava fosse la risposta più precisa: "La possibilità di essere in salvo". Scoppiò in una risata sarcastica. «Certo, è molto più probabile che rimanga spennato nel corso delle ultime operazioni. E lo stesso vale per Tanny Brown. E magari anche per lei. Ma...» Si strinse nelle spalle, come a dire che non importava più, il che, naturalmente, era una menzogna. La Shaeffer ripensò per un istante a quanto aveva appena sentito. "Quelli che desiderano che le cose tornino com'erano un tempo" pensò "sono quasi sempre terribilmente ingenui. E non sono mai felici dei risultati." «Si fida del tenente Brown?» domandò infine. Cowart esitò. «Penso sia un tipo pericoloso, se è questo che voleva sapere. Penso che sia vicino all'orlo del baratro. Ma penso anche che farà quello che dice di voler fare.» Cowart pensò di aggiungere qualcosa alla sua dichiarazione: penso che sia pieno di una rabbia irriducibile e di un odio tutto suo. «Ma non è certo giunto dov'è ora rompendo le regole. Ci è arrivato seguendo il gioco. Mantenendosi in riga. Comportandosi precisamente nel modo in cui la gente si aspettava che si comportasse. Per una sola volta ha violato quel codice di comportamento, quando ha lasciato che Wilcox picchiasse Ferguson per ottenere la confessione. Ma non ricadrà nella stessa trappola.» La Shaeffer annuì. «Penso anch'io che sia molto vicino al crollo. Ma sembra sicuro di sé. "Era lei" pensò "a non essere sicura di credere a quanto aveva appena detto." Sapeva che lo stesso poteva dirsi di Cowart e di lei stessa.» «Non fa alcuna differenza» disse Cowart all'improvviso. «Perché?» «Perché ci siamo tutti dentro, fino alla fine.» La cameriera tornò e liberò il tavolo dai loro piatti, chiedendo se per caso volessero un dolce. Risposero entrambi di no e lo stesso fecero per il caffè. La cameriera, imbronciata come sempre, pareva avere anticipato le loro risposte: aveva già calcolato il conto, e lo abbandonò senza tante cerimonie sul tavolo. La Shaeffer insistette per pagare la sua parte. Si dires-
sero verso le loro stanze senza dirsi una parola di più. Non si augurarono la buona notte. Andrea Shaeffer richiuse la porta alle sue spalle e si diresse senza esitazioni alla cassettiera della piccola stanza. Immagini dei giorni appena trascorsi e brevi frammenti di conversazione si rincorrevano nella sua mente, facendo scattare un confuso, fastidioso meccanismo. Cercò di farsi forza e prese a muoversi lentamente, con regolarità. Appoggiò con uno studiato movimento la borsetta sul mobile, e ne estrasse la nove millimetri semiautomatica. Sganciò il caricatore dal manico, controllando che fosse pieno.. Verificò anche il meccanismo di sparo, sincerandosi che tutte le componenti fossero pronte all'uso. Ricaricò l'arma e l'appoggiò sul mobile, esattamente di fronte a lei. Quindi passò a rovistare nella borsa, alla ricerca del caricatore di riserva. Lo trovò, lo controllò e infine lo appoggiò a fianco della pistola. Per qualche istante fissò l'arma. Ripensò alle ore passate a esercitarsi con la nove millimetri. Il dipartimento di polizia della contea di Monroe aveva predisposto un'area per le esercitazioni in una zona abbandonata proprio appena sotto a Marathon. Era semplice: mentre lei si muoveva tra gli edifici deserti, poco più dei gusci di mattoni di case sbiancate dalla costante azione del sole, un ufficiale di controllo dell'area operava elettronicamente una serie di obiettivi. La Shaeffer era risultata brillante, mantenendosi sempre intorno alla media dei novanta centri. Ma quella che amava di più era l'elettricità che scorreva nelle esercitazioni, l'esigenza di scorgere un obiettivo, di riconoscerlo come amico o nemico, di sparare o di trattenere il fuoco a seconda delle circostanze. Provava la sensazione di essere totalmente coinvolta nell'azione, con nulla in mente se non la luce del sole, il peso della rivoltella in mano e gli obiettivi. In una zona mortale. Sicura, sola con il semplice compito di procedere sul proprio cammino. Guardò di nuovo l'arma appoggiata sul mobile. "Non ho mai sparato a niente di diverso da un obiettivo inanimato" pensò. Si rammentò della nebbia e del freddo delle strade di Newark. Non era come se l'era aspettato. In quei momenti non si era nemmeno resa conto di essere in combattimento. La gente sui marciapiedi, le occhiate e le mosse minacciose, la ricerca senza speranza attraverso le strade deserte. Era la prima volta, per lei. Digrignò i denti. Si giurò che non avrebbe
mai più fallito una prova del genere. Posò la pistola sul letto e allungò la mano sul telefono. Rintracciò Michael Weiss al terzo tentativo. «Andy, ehi!» disse lui subito. «Gesù, come sono contento di sentirti. Cosa sta succedendo? Che mi dici del tuo cattivone?» La domanda la fece quasi ridere. «Avevo ragione» rispose. «Quell'uomo è davvero malvagio. Devo dare una mano a questo poliziotto della contea di Escambia per un arresto e subito dopo verrò giù.» Le sembrò di vedere Weiss mentre cercava di valutare la sua misteriosa dichiarazione. Prima che potesse dire qualcosa, proseguì: «Sono di nuovo in Florida. Posso essere a Starke domani, d'accordo? Ti racconterò tutto.» «Va bene» rispose lui lentamente. «Ma non sprecare più tempo. Indovina cos'ho scoperto?» «Hai trovato l'arma del delitto?» «Non così fortunato. Ma indovina chi ha fatto una dozzina di telefonate a suo fratello nelle Keys, il mese precedente il duplice omicidio? E indovina a chi appartiene il camioncino con rimorchio nuovo di zecca che ha preso una multa per eccesso di velocità sulla I-95 appena fuori Miami ventiquattro ore prima che il signor giornalista trovasse i due corpi?» «Al buon sergente?» «L'hai detto. Domani vado dal concessionario che gli ha venduto il camioncino. Scoprirò come ha fatto a pagarlo. Rosso. Gomme rinforzate e batteria di fari. La Ferrari dei contadini.» Weiss scoppiò a ridere. «Andiamo, Andy, ho fatto tutto il lavoro di muscolo. A questo punto ho bisogno della tua famosa e glaciale tecnica di interrogatorio per incastrare definitivamente il nostro amico. È stato lui. Me lo sento.» «Ci sarò» disse lei. «Domani.» Riappese la cornetta. Lo sguardo si abbassò sulla pistola, appoggiata sul letto al suo fianco. Liberò la sua mente da ogni pensiero, afferrò la rivoltella e, cullandosela fra le braccia, si sdraiò sul letto togliendosi soltanto le scarpe. S'impose di dormire un po' e chiuse gli occhi, stringendo la pistola, irritata con Matthew Cowart perché aveva detto la verità: anche lei era coinvolta in quella storia e lo sarebbe stata fino alla fine. Cowart chiuse a chiave la porta alle sue spalle e sedette sull'orlo del letto. Per qualche secondo fissò il telefono, quasi si aspettasse che iniziasse a squillare. Alla fine allungò la mano e afferrò la cornetta. Premette il pul-
sante numero otto per inserirsi sulla linea della teleselezione, quindi prese a comporre il numero della sua ex moglie e di sua figlia, a Tampa. Aveva premuto nove degli undici tasti necessari quando si fermò. Non avrebbe avuto niente da dire. Non avrebbe avuto nulla da aggiungere a quanto aveva già detto loro alle prime ore del mattino. Non voleva correre il rischio di scoprire che non avevano seguito il suo suggerimento, che erano ancora vulnerabili, allo scoperto, sedute nella loro bella casa di periferia. Si sentiva più tranquillo immaginando sua figlia in vacanza nel Michigan. Compose il numero del centralino del Miami Journal. Parla con Will o con Edna, pensò. Con il caporedattore della cronaca o con il direttore o con un dattilografo qualsiasi. Parla con qualcuno del giornale. «Miami Journal» disse una voce femminile. Cowart non rispose. «Miami Journal» disse di nuovo la voce in tono irritato. «Pronto?» La centralinista riappese, lasciando Cowart con la cornetta muta stretta in mano. Pensò a Vernon Hawkins e per un istante si chiese come avrebbe potuto telefonare in paradiso. "O magari all'inferno" pensò, cercando di rivolgersi una battuta. Cosa direbbe Hawkins? Mi direbbe di sistemare la faccenda e poi di proseguire a vivere. Il vecchio investigatore non poteva perdere tempo con gli stupidi. Cowart guardò di nuovo il telefono. Scuotendo il capo, come a rifiutare un qualche ordine che non gli era stato rivolto, lo riaccostò all'orecchio e compose il numero del centralino dell'albergo. «Parla Cowart, camera uno-zero-uno. Vorrei avere la sveglia alle cinque.» «D'accordo, signore. Mattiniero?» «L'ha detto.» «Stanza uno-zero-uno alle cinque. D'accordo, signore.» Riappese la cornetta e si risedette sul letto. Provò una nauseante sensazione di divertimento all'idea che, in tutto il mondo, l'unica persona con cui si era sentito in grado di parlare fosse il portiere di notte di uno sterile motel. Appoggiò la testa sul cuscino, in attesa che giungesse l'ora prefissa. La notte gli si avvolse attorno come un abito troppo stretto. Un caldo lanoso e umido si era impossessato dell'aria nera della notte. Di tanto in tanto i lampi striavano il cielo all'orizzonte, segno che una violenta tempesta
era scoppiata al largo delle acque del Golfo, a chilometri di distanza, oltre la costa di Pensacola. A Tanny Brown diede l'impressione che si stesse combattendo una lontana battaglia. A Pachoula, tuttavia, regnava il silenzio, quasi la cittadina fosse ignara delle immense forze che guerreggiavano tutt'intorno a essa. Brown tornò a concentrarsi sulla strada che stava percorrendo. Alla sua destra poteva vedere la scuola, bassa e poco attraente nell'oscurità, in attesa dell'arrivo dei bambini che l'avrebbero riportata in vita. Si mise all'ascolto del rumore crocchiante prodotto dalle gomme sulla strada mentre l'auto procedeva lentamente, e per qualche istante si fermò sotto il salice, guardandosi alle spalle in direzione della scuola. "È qui che è iniziato tutto. Proprio qui che lei è salita su quell'auto. Perché lo ha fatto? Perché non si è accorta del pericolo e non è scappata. Perché non si è messa a correre verso la salvezza? Perché non ha chiamato aiuto? "Era l'età" si rispose. E lo stesso sarebbe valso per sua figlia. Abbastanza matura per essere vulnerabile a tutti gli orrori del mondo, ma ancora troppo piccola per conoscerli. Ripensò a tutte le volte in cui si era ritrovato seduto di fronte a sua figlia e alla piccola Joanie, ed era stato sul punto di parlar loro di ciò che si nascondeva là fuori nel mondo e infine aveva ricacciato indietro gli orrori che gli riecheggiavano in testa, decidendo di concedere loro un altro giorno, un'altra ora, un altro minuto o due di innocenza e della libertà che essa portava con sé. "Perdi qualcosa quando inizi a sapere" pensò. Si rammentò della prima volta che qualcuno gli aveva sputato addosso la parola "negro", della lezione che aveva immediatamente imparato. Aveva cinque anni ed era fuggito a casa in lacrime. Era stato consolato da sua madre, che lo aveva fatto sentire meglio, ma che non era stata in grado di dirgli che non sarebbe più successo. Lui si era reso conto che a quel punto qualcosa era andato perso e lo sarebbe stato per sempre. "Il male impari a conoscerlo lentamente ma con regolarità" si disse. Pregiudizio. Odio. Ossessione. Assassinio. Ogni singola lezione strappa via un brandello dell'innocenza della gioventù. Rimise l'auto in marcia e percorse i pochi isolati che lo separavano dall'abitazione degli Shriver. Le luci erano accese in cucina e in salotto e per un attimo Brown pensò di bussare alla porta d'ingresso e di entrare. "Sarebbe stato il benvenuto" lo sapeva. Gli avrebbero offerto del caffè, forse anche qualcosa da mangiare. "Un tempo eravamo amici, ma ora non più. Ora non sono nulla per loro, se non il ricordo di qualcosa di orribile." Gli
avrebbero indicato una sedia del salotto e quindi si sarebbero educatamente messi in attesa che lui spiegasse loro il perché della visita e lui sarebbe stato costretto a uscirsene con qualcosa di vagamente ufficiale. Non sarebbe stato in grado di dir loro nulla di reale su quanto era successo, poiché nemmeno lui era più sicuro di cosa fosse la realtà. E alla fine, si rese conto, loro avrebbero iniziato a parlare della figlia perduta e gli avrebbero detto quanto mancassero loro le visite dell'amichetta, e questo sarebbe stato troppo duro da ascoltare. Tutto sarebbe stato troppo duro da ascoltare. Rimase in attesa all'esterno, limitandosi a osservare la casa finché le luci non furono spente all'interno, finché, a notte fonda, gli Shriver non ebbero trovato il loro brandello di sonno agitato. Provò una strana sensazione di invisibilità, gli parve di essere tutt'uno con la notte liquida e scura. Per un istante pensò con orrore che Robert Earl Ferguson potesse provare quella stessa emozione quando strisciava nel buio, lasciando che le ombre lo nascondessero al mondo. "È così che ci si sente?" si domandò. Non era in grado di rispondersi. In auto percorse strade che conosceva fin dall'infanzia, strade che in un sussurro parlavano di vecchiaia e di continuità, prima di ritrovarsi all'improvviso nei più moderni quartieri della periferia, che gridavano di cambiamenti e del futuro. Si rese conto della trama stessa della cittadina, come un contadino che strofinasse la terra fra le dita esperte. Si ritrovò davanti a casa; vide un'auto di pattuglia della polizia parcheggiata a mezzo isolato di distanza e frenò energicamente alle sue spalle. L'agente in uniforme balzò sorpreso dal sedile di guida, portando una mano alla rivoltella e con l'altra puntando la torcia elettrica in direzione di Tanny. Brown scese dall'auto. «Sono io, il tenente Brown» disse a voce bassa. Il giovane agente gli si avvicinò. «Gesù, tenente, mi ha fatto venire un colpo.» «Mi dispiace. Stavo solo dando una controllata.» «Torna a casa, signore? Vuole che me ne vada?» «No. Rimanga. Io devo occuparmi di un'altra faccenda.» «Nessun problema.» «Visto niente di strano?» «Nossignore. O meglio, sissignore, ma probabile che non sia niente. Una Ford ultimo modello, di colore scuro. Targa di un altro Stato. È passata davanti un paio di volte, all'incirca un'oretta fa. Lenta, come se mi stesse
controllando. Avrei dovuto prendere il numero di targa, ma non ce l'ho fatta. Ho pensato di seguirla, ma non si è più fatta vedere. È tutto. Nessun problema.» «Ha visto in faccia il guidatore?» «Nossignore. La prima volta nemmeno l'avevo notata. Me ne sono accorto la seconda volta che è passata. È proprio quello che ha suscitato la mia attenzione. Magari non significa nulla. Qualche parente in visita che si è perso, con tutta probabilità.» Tanny Brown guardò il giovane poliziotto e annuì. Non aveva paura: soltanto la gelida consapevolezza che la morte era lentamente passata di lì. «Sicuro. Con tutta probabilità. Ma lei stia allerta comunque, d'accordo?» «Sissignore. Sarò sostituito nel giro di mezz'ora. Mi sincererò che chiunque mi dia il cambio venga informato sulla Ford.» Tanny Brown portò la mano alla fronte in segno di saluto, e fece ritorno alla sua auto. Rivolse un'occhiata a casa sua. Le luci erano spente. "Una notte qualsiasi prima di un giorno di scuola" pensò. All'improvviso venne sommerso da un'ondata di responsabilità domestiche. Si rese conto che gran parte della sua vita era stata oscurata dall'inseguimento di Robert Earl Ferguson. Non se ne faceva una colpa; il lavoro di polizia consisteva anche nello scendere a patti con le ossessioni, escludendo la normalità della vita. Provò una sensazione di conforto. "Bravo, papà. Fa' sì che facciano i compiti presto, spegni quel dannato televisore prima che possano pensare di lamentarsi troppo, falle andare a letto." Per un attimo desiderò di entrare e di dare una silenziosa occhiata ai volti persi nei sogni delle figlie e magari anche al vecchio, il quale stava con ogni probabilità russando in poltrona, perso in un sogno alcolico. Il vecchio si concedeva spesso un bicchierino o due, dopo che le ragazze erano andate a letto; lo aiutava ad annebbiare il dolore provocato dall'artrite. Di tanto in tanto, Tanny Brown si univa a suo padre in una bevutina; anche i suoi dolori, a volte, avevano bisogno di simili tamponi. Sorprese un sorriso farglisi strada sul volto: la soddisfacente sensazione dell'essere in famiglia. Per un attimo s'immaginò di avere al suo fianco la moglie scomparsa e fu quasi sul punto di rivolgerle la parola. "Cosa potrei dirle?" si chiese. "Che non me la sono cavata poi così male" si rispose. "Ma che ora ho bisogno di sistemare le cose. Rimettere le cose a posto, riparare i danni meglio che posso. Restituirci la sicurezza perduta." Annuì e si allontanò con l'auto dal marciapiedi. Proseguì a guidare, percorrendo strade familiari, lasciandosi alle spalle luoghi conosciuti. Poteva
sentire la presenza di Ferguson, come un cattivo odore aleggiante sulla cittadina. Si sentiva meglio continuando a muoversi, come se soltanto stando allerta potesse fungere da scudo per la sua città. Non pensò nemmeno lontanamente a dormire; continuò invece a percorrere le strade della sua memoria in una direzione e nell'altra, in attesa che la notte sollevasse la sua cappa di quel tanto che gli bastava per vederci chiaramente, per fare quello che doveva fare. 27 Due cariche vuote Alle cinque la luce dell'alba pareva riluttante a farsi strada nell'oscurità. Conferiva incertezza alle forme, trasformando il mondo in un luogo silenzioso e sospetto. Era ancora buio quando Tanny Brown aveva prelevato Cowart e la Shaeffer dal motel. Avevano percorso strade deserte, punteggiate da lampioni e da insegne al neon, deboli fonti di luce che non facevano altro che aumentare l'inevitabile senso di solitudine che si accompagna alle prime ore del mattino. Avevano superato qualche altra automobile, e di tanto in tanto un camioncino con rimorchio. Cowart non aveva scorto nessuno lungo i marciapiedi. Aveva avvistato qualcuno seduto al bancone di un negozio di ciambelle; era stato l'unico segno che non erano soli. Brown guidava rapido, non fermandosi agli stop e ai semafori rossi, e in meno di due minuti avevano attraversato la città e erano giunti al limitare della campagna circostante. Pachoula parve barcollare e scomparire alle loro spalle; la terra diede loro l'impressione di sporgersi e di catturarli nella sua stretta, attirandoli dentro il variegato labirinto di salici piangenti, di enormi, intricati roveti, di improvvise barriere di pini. Luce e oscurità, verdi spenti, marroni e grigi: tutti i colori parevano mischiarsi in continuazione, immergendoli in un agitato mare di vegetazione. Il tenente di polizia uscì dalla strada principale e l'auto prese a vibrare e a saltare non appena imboccò la stradina di terra battuta che, attraverso la volta dei rami intrecciati, conduceva alla baracca della nonna di Ferguson. Cowart sentì una spaventosa sensazione di familiarità, quasi ci fosse qualcosa di orribile e al contempo di rassicurante nell'idea di aver già percorso quella strada. Cercò di figurarsi quello che sarebbe successo, ma trovò in sé soltanto un fastidioso nervosismo. Ebbe il subitaneo ricordo della lettera che aveva ricevuto molti mesi addietro: "...un crimine che NON HO COMMESSO."
Stringendo il bracciolo, fissò lo sguardo davanti a sé. Dal sedile posteriore, la voce di Andrea Shaeffer penetrò l'aria spessa del mattino. «Credevo che avesse organizzato una copertura. Non vedo nessuno. Che succede?» Brown rispose di scatto, con un tono secco e deciso teso a precludere ogni ulteriore domanda. «Avremo aiuto quando ce ne sarà bisogno.» «E gli agenti in divisa? Non avremmo bisogno di loro?» «Andrà tutto bene.» «Dove sono i rinforzi?» «In attesa» rispose Brown irritato, a denti stretti. «Dove?» «Qui vicino.» «Me li può mostrare?» «Sicuro» rispose lui con calma. Inserì la mano sotto al giubbotto ed estrasse la sua rivoltella di servizio dalla fondina ascellare. «Eccoli qui. Soddisfatta?» Le sue parole posero fine alla conversazione e riempirono la Shaeffer di una sorda rabbia. Non la sorprendeva il fatto che fossero da soli. In realtà, si rese conto, preferiva così. Si concesse il lusso di figurarsi l'espressione sul volto di Ferguson quando l'avrebbe vista di fronte alla casa della nonna. "Credeva di avermi spaventata. Pensava di avermi messa in fuga" si disse. "E invece eccomi qua. E non sono certo una piccola dodicenne indifesa." Allungò il braccio e strinse la mano sulla sua rivoltella. Si voltò verso Cowart, ma si rese conto che il giornalista aveva fissato lo sguardo su un punto lontano, ignaro di quanto era stato appena detto. Pensò che non sarebbe mai, mai più giunta così vicina al segreto stesso della sua condizione di poliziotta come in quel momento e in quelli che sarebbero seguiti. La limpidità della loro ricerca pareva essersi lasciata alle spalle considerazioni mondane quali i diritti e le prove, facendo ingresso in un reame assolutamente diverso. Si chiese se la vicinanza alla morte rendesse sempre folli, e si rispose subito: naturalmente sì. «D'accordo» disse dopo una breve pausa, sentendo l'adrenalina già in circolo e non completamente sicura del tono della sua voce. «Qual è il piano?» L'auto sbandò a contatto di una cunetta. «Gesù» mormorò lei afferrandosi al sedile. «Il nostro amico vive proprio in mezzo alla foresta.» «È tutta palude, laggiù» rispose Cowart. «E terreni agricoli poveri
nell'altra direzione.» Si ricordò che era stato Wilcox ad averglielo spiegato, tanto tempo prima. «Che piano abbiamo?» domandò a Tanny Brown. Il tenente di polizia accostò lentamente l'auto sul lato della stradina e la fermò. Abbassò il suo finestrino, e subito l'aria umida del mattino invase l'abitacolo. Indicò con un gesto un punto alla fine della strada, oltre all'intreccio grigio-nero di luci e ombre. «La baracca della nonna di Ferguson è a circa quattrocento metri in quella direzione» disse. «Cammineremo per il resto del percorso. Così non sveglieremo nessuno. Poi sarà semplice. Investigatrice Shaeffer, lei arriverà dal retro. Si tenga pronta con la pistola. Tenga d'occhio la porta di servizio. Controlli che lui non se la svigni da quella parte. Se lo fa, lo fermi. Capito? Lo fermi...» «Sta dicendomi...» «Sto dicendole di fermarlo. Sono dannatamente sicuro del fatto che le procedure siano le stesse, sia nella contea di Monroe sia in quella di Escambia. Il bastardo è sospettato di omicidio. Di diversi omicidi, compresa la scomparsa di un investigatore di polizia. È tutto quello di cui abbiamo bisogno. Ed è anche un detenuto. O almeno lo è stato...» Brown rivolse una rapida occhiata a Cowart, che non disse nulla. «Lei conosce le indicazioni sull'uso delle armi da fuoco. Deciderà cosa fare al momento.» La Shaeffer impallidì leggermente; la sua pelle si fece esangue come l'aria attorno a loro. Ma annuì. «Capito» rispose, imponendo alla sua voce una rigida fermezza. «Pensa sia armato? Che ci stia aspettando?» Brown si strinse nelle spalle. «È probabile che sia armato. Ma non credo che sia in allarme, non necessariamente. Siamo arrivati in fretta, probabile che siamo stati veloci come lui. Non credo sarà pronto a riceverci. Non ancora. Ma si ricordi di una cosa: questo è il suo terreno.» Lei grugnì in segno di assenso. Tanny Brown ispirò a fondo. All'inizio la sua voce si era mantenuta su un tono di fredda imparzialità. Ma con il passare dei minuti aveva abbandonato gli accenti minacciosi, sostituendovi una spossatezza che pareva adombrare la convinzione che le cose si stessero avvicinando a una conclusione. «Ha capito?» chiese di nuovo. «Non voglio che scappi dalla porta di servizio e che si cacci in quella maledetta palude. Se ci arriva, non so come potremmo riuscire a tirarlo fuori. Ci è cresciuto dentro, e...» «Lo fermerò» l'interruppe lei. «Non aggiunse la parola "stavolta", anche se sapeva quanto fosse evidente a tutti e tre.» «Bene» proseguì Brown. «Cowart e io arriveremo sul davanti. Non ho
un mandato, e quindi improvviserò qualcosa. Busserò, mi annuncerò, e poi entrerò. Non riesco a pensare a nessun altro modo di farlo. Al diavolo le procedure.» «E io?» domandò Cowart. «Lei non è un poliziotto. E dunque non potrò avere alcun controllo su quello che farà. Vuole seguirmi? Fare le sue domande? Faccia come crede, va tutto bene. Quello che non voglio è che qualche avvocato si faccia avanti dopo e dica che ho violato i diritti di Ferguson, un'altra volta, solo perché l'ho portata con me. Lei è indipendente. Se ne stia dietro. Venga con me. Faccia come vuole. Capito?» «Capito.» «Le va bene? Ha capito il perché?» «Mi va bene.» Cowart annuì. Separati ma identici. Un uomo bussa a una porta stringendo una pistola, l'altro pensando a una domanda. Entrambi sono alla ricerca delle medesime risposte. «Lo arresterà?» domandò la Shaeffer. «Con quale accusa?» «Be', prima di tutto gli suggerirò di seguirci per essere interrogato. Vedrò se vorrà venire volontariamente. Ma se vi sarò costretto, lo arresterò di nuovo per la morte di Joanie Shriver. Cosa le dicevo ieri? Intralcio al corso della giustizia e falsa testimonianza. Verrà via con noi, in un modo o nell'altro. E una volta che sarà in arresto, allora passeremo in rassegna tutto quello che è successo.» «Gli chiederà...?» «Sarò gentile» disse Brown. Un sottile, triste sorriso gli increspò gli angoli della bocca per qualche istante. «Con la mia pistola spianata, carica, il dito sul grilletto, la canna puntata alla testa del bastardo.» La Shaeffer annuì. «Non deve scapparci» ripeté Brown con calma. «Ha ucciso Brace. Ha ucciso Joanie. E chissà quante altre. Perché di sicuro ce ne sono state altre. La cosa finisce qui.» La sua frase colmò l'aria di silenzio. Cowart scostò lo sguardo dai due investigatori. "Arriva un momento" pensò "in cui le prove richieste in un'aula di tribunale non sembrano significare più molto. Alcuni fili di luce erano furtivamente penetrati attraverso i rami degli alberi, dando un minimo di forma alla strada che si stendeva davanti a loro." «E lei?» il tenente di polizia domandò all'improvviso a Cowart. La sua voce sembrò mandare a pezzi il silenzio. «Ha capito bene?»
«Ho capito abbastanza.» Brown posò la mano sulla maniglia, la ruotò con decisione, e spalancò con forza la portiera dell'auto. «Sicuro» commentò, incapace di trattenersi dal conferire un leggero accento ironico al suo tono di voce. «Andiamo, allora.» E fu fuori dall'auto, lanciato a passi veloci lungo la stretta strada di scura terra battuta, la schiena leggermente curva, come se stesse combattendo contro un forte vento di tempesta. Per qualche istante, osservando il potente incedere del poliziotto, Cowart si disse: "Come ho potuto pensare di aver capito cosa davvero si nascondesse dentro di lui? O nel profondo di Robert Earl Ferguson?". In quel momento, i due uomini gli parvero ugualmente misteriosi. Ma subito scacciò con forza il pensiero, guadagnando il fianco dell'investigatore. La Shaeffer si accostò sull'altro lato, e i tre presero a marciare insieme, i loro passi soffocati dalla nebbia mattutina che si attorcigliava come un lungo serpente di fumo alle loro caviglie. Cowart fu il primo ad avvistare la baracca, incuneata contro gli alberi in una piccola radura alla fine della stradina. Le umide nebbie della palude si erano raccolte di fronte alla facciata, conferendole un aspetto spettrale, misterioso. Non vi era alcuna luce all'interno; e la sua prima occhiata non rivelò alcun segno di vita, nonostante si aspettasse fossero giunti proprio al momento della sveglia. "Di sicuro la vecchia si alza prima del canto del gallo" pensò "per poi rinfacciare al povero pollo di non aver fatto il suo lavoro." Cowart rallentò il passo insieme ai suoi due compagni, muovendosi furtivamente attraverso le ombre, ispezionando la casa. «È qui» disse Brown in tono tranquillo. Cowart si voltò verso l'investigatore. «Come fa a dirlo?» Il tenente di polizia indicò il retro della baracca. Seguendo con gli occhi la direzione del suo dito, Cowart fu in grado di scorgere la coda di un'auto che sporgeva dal margine della veranda. Aguzzò la vista e riconobbe gli sbiaditi azzurri e gialli della targa: i colori del New Jersey. «È il suo genere di macchina, oltretutto» aggiunse Brown a voce bassa, sottolineando le sue parole con un gesto dimostrativo. «Un paio d'anni di vita. Marca americana. Scommetto che non ha niente di speciale. Un modello qualunque. Il tipo di macchina con la quale ti confondi. Proprio come quella che aveva una volta.» Si volse verso la Shaeffer. Le posò una mano sulla spalla, stringendola con decisione. Era il primo gesto in qualche modo amichevole che Cowart
gli avesse visto rivolgere alla giovane donna. «Ci sono soltanto due porte» disse l'investigatore. La sua voce era bassa, quasi impercettibile, ma in modo diverso dal sibilante dileguarsi di un sussurro. Aveva una fermezza ben definita. «Una davanti, ed è quella alla quale sarò io. E una sul retro, dove andrà lei. Ora, per quanto mi ricordi, ci sono finestre sulla fiancata sinistra, laggiù...» Indicò, muovendo veloce la mano in direzione del lato della baracca che si affacciava direttamente sul bosco. «È lì che sono le camere. Le finestre sulla destra le coprirò io, che sia dentro, nel salottino, o sulla veranda. Tenga d'occhio la porta, ma si ricordi che potrebbe anche uscire dalla finestra. Si tenga pronta. Stia allerta. Va bene?» «Va bene» rispose lei. Credette di sentire la sua voce tremare. «Voglio che stia in posizione finché non la chiamerò. D'accordo? La chiamerò per nome. Stia in silenzio. Stia tranquilla. Lei è la valvola di sicurezza.» «Va bene» ripeté lei. «Mai fatto niente del genere?» domandò all'improvviso Tanny Brown. Quindi sorrise. «Suppongo che avrei dovuto fargliela un po' prima, questa domanda...» Lei scosse il capo. «Molti arresti. Automobilisti ubriachi e scassinatori da strapazzo. Un paio di stupratori. Ma nessuno come Ferguson.» «Non ce ne sono molti come Ferguson per poterci fare la mano» disse Cowart sottovoce. «Non si preoccupi» disse Brown, continuando a sorridere. «È un codardo. Molto audace con le ragazzine spaventate, ma non ha la stoffa per fronteggiare gente come lei e me...» Brown parlava con voce tranquilla, rassicurante. Cowart fu sul punto di sbottare con il nome di Brace Wilcox, ma si fermò in tempo. «...Lo tenga in mente. Non succederà niente...» La sua voce aveva assunto una rotonda inflessione meridionale, conferendo alle sue parole una sorta di contraddittoria naturalezza. «...Adesso muoviamoci, prima che faccia più chiaro e la gente inizi a svegliarsi.» La Shaeffer annuì in silenzio, fece un passo avanti, si bloccò. «Cane?» sussurrò in fretta, agitata. «Niente cane.» Brown fece una pausa. «Appena arriva all'angolo, laggiù, io mi dirigo verso l'ingresso. Lei continui a procedere verso il retro. Quando sarò alla porta, se ne accorgerà, perché a quel punto non sarò più molto silenzioso.» La Shaeffer chiuse gli occhi per un istante, inspirò profondamente e si
fece coraggio. "Stavolta non puoi sbagliare" si disse. Sollevò lo sguardo sulla casetta e la vide come un luogo angusto, senza alcuno spazio per gli errori. «Andiamo» disse. S'incamminò veloce attraverso lo spiazzo aperto, leggermente accucciata, penetrando in una mezza corsetta la foschia e l'aria umida del primo mattino. Cowart vide che stringeva in mano la rivoltella, puntata verso terra ma pronta all'uso, mentre si avvicinava all'angolo della casa. «Sta facendo attenzione, Cowart?» domandò Brown. La sua voce parve riempire un vuoto nel profondo del giornalista. «Sta prendendo nota di tutto?» «Sto prendendo nota» rispose lui a denti stretti. «E dov'è il suo taccuino?» Cowart sollevò la mano. Strinse il piccolo taccuino e lo agitò nell'aria. Brown sogghignò. «Lieto di sapere che anche lei è armato e pericoloso» commentò. Cowart lo fissò imbronciato. «Era una battuta, Cowart. Si rilassi.» Cowart annuì. Osservò il poliziotto mentre i suoi occhi si fissavano sulla Shaeffer, che si era fermata all'angolo della baracca. Sulle labbra gli era rimasta soltanto l'ombra di un sorriso. Quindi si riscosse e scrollò le spalle, come un grosso animale che scacci il sonno dalle membra. Fu allora che Cowart vide Brown come una sorta di guerriero, le cui paure e preoccupazioni sull'imminente battaglia erano scomparse non appena aveva avvistato il nemico. Il poliziotto non era precisamente felice, ma era tranquillo circa il pericolo e le sorprese che lo attendevano all'interno della baracca, oltre alla fragile luce del mattino, oltre alla grigia e strisciante foschia. Il giornalista abbassò lo sguardo sulle proprie mani, quasi fossero una finestra aperta sulle sue sensazioni. Parevano pallide ma ferme. "Ce l'hai fatta fin qui" si disse. "Vai fino in fondo." «A dire il vero» rispose «non era neanche male come battuta, date le circostanze.» I due uomini sorrisero, ma non certo perché fossero davvero divertiti. «D'accordo» disse Tanny Brown. «Diamogli la sveglia.» Si volse verso la baracca e all'improvviso si rammentò della prima volta che era giunto davanti a quella casa in cerca di Ferguson. Non aveva pensato alla tempesta di pregiudizio e di odio che stava per scatenare. Tutto ciò che Pachoula avrebbe voluto lasciarsi alle spalle era ricomparso quando Robert Earl Ferguson era stato condotto in città per alcune domande sull'omicidio di Joanie Shriver. Brown era deciso a non rivivere quell'espe-
rienza. S'incamminò veloce, attraversando a grandi passi lo spiazzo di terra battuta davanti alla casa, non voltandosi nemmeno una volta a controllare se Cowart lo stesse seguendo. Il giornalista fece un profondo respiro, si chiese come mai all'improvviso l'aria gli sembrasse così secca in gola, si rese conto che non era affatto l'aria a essere secca, e si affrettò a raggiungere il tenente di polizia. Brown si fermò alla base dei gradini che conducevano alla porta d'ingresso. Si volse verso Cowart e sibilò: «Se le cose s'incasinano subito, pensi a tenersi fuori dalla mia linea di fuoco.» Cowart annuì con rapidi cenni del capo. Poteva sentire l'eccitazione impadronirsi di lui, mettendo in fuga le paure che gli riecheggiavano nel profondo. «Ci siamo» disse il poliziotto. Salì gli scalini un paio alla volta, in due soli grandi balzi. Cowart arrancò alle sue spalle. I loro piedi risuonarono sulle vecchie assi dipinte di bianco, aggiungendo scricchiolii e lamenti ai suoni improvvisi che perforavano il silenzio del mattino. Brown si portò su un lato della porta, lievemente discosto e indicò a Cowart di portarsi sull'altro lato. Spalancò la zanzariera e afferrò la maniglia della porta. La ruotò con circospezione, ma si rese conto che non si muoveva. «Chiusa a chiave?» domandò Cowart. «No. Solo incastrata, penso» rispose Brown. Cercò di ruotare di nuovo la maniglia. Quindi scosse il capo, rivolto a Cowart. Infine sollevò la mano libera, la strinse a pugno e la scaricò con forza per tre volte sul legno scheggiato della porta, facendo tremare l'intera baracca sotto la drammaticità dei suoi colpi. «Ferguson! Polizia! Apra!» Prima ancora che l'eco della sua voce rimbombante si dileguasse, Brown aveva afferrato la zanzariera e l'aveva strappata dai suoi cardini. Quindi fece un passo indietro e sollevò un piede, esplodendo un gran calcio contro la porta. Il legno si crepò con un suono secco come quello di uno sparo, che fece sobbalzare Cowart dallo spavento. Brown si raccolse una seconda volta, prendendo la mira e scaricò un altro calcio violento. La porta si aprì di uno spiraglio. «Polizia!» gridò di nuovo Brown. E si gettò con tutto il suo peso, di spalle, contro ciò che restava della
porta, come un terzino di rugby impazzito, diretto alla meta con tutti gli avversari in linea. La porta cedette con un gran baccano di legno spezzato. Tanny Brown la scostò con un gesto feroce e si lanciò nell'ingresso, mezzo accucciato, spianando la rivoltella e puntandola davanti a sé, cercando di coprire tutti i punti della casa. «Polizia!» gridò di nuovo. «Vieni fuori, Ferguson!» Cowart esitò per un istante; quindi, deglutendo a fatica, entrò in casa, confuso e ancora stordito dai rumori del precedente assalto alla porta. "È come saltare giù da un burrone" pensò. Gli parve che il vento gli stesse soffiando nelle orecchie, sibilando veloce. «Dannazione!» gridò Brown, come se fosse sul punto di dare un altro ordine; ma si bloccò, le sue parole tranciate a metà, come da un colpo di rasoio. Robert Earl Ferguson era comparso da una porta laterale. Per un attimo la sua pelle scura parve confondersi con le grigie ombre del mattino che erano penetrate con loro all'interno della baracca. Quindi si mosse con lentezza, avvicinandosi al tenente di polizia, il quale era rimasto in posizione di attacco. L'assassino portava una larga maglietta blu e un paio di jeans scoloriti che aveva indossato in tutta fretta. Era scalzo, e i suoi piedi sbattevano sul pavimento di legno lucidato. Teneva le braccia alzate in una posa languida, quasi noncurante, in un ironico gesto di resa. Fece il suo ingresso in salotto e fronteggiò Tanny Brown, che lentamente si raddrizzò, cauto, mantenendo una distanza costante fra sé e l'assassino. Un sorriso falso e artificiale mosse il volto di Ferguson, mentre i suoi occhi passavano velocissimi in rassegna l'ambiente. Per un istante si fissarono sulla porta sfondata, e quindi su Cowart. Infine si concentrarono direttamente su Brown. «Mi ripagherà per quella porta?» domandò. «Non era chiusa a chiave. Era solo un po' dura. Non c'era nessun bisogno di tirarla giù. La gente di campagna non chiude le porte di casa. Lo sa. Allora, che vuole da me, investigatore?» Nel tono di voce dell'assassino non vi era traccia di agitazione, né di panico. Vi era soltanto un'irritante tranquillità, come se Ferguson si fosse aspettato il loro arrivo. «Lo sai cosa voglio da te» disse Brown. I suoi denti rimasero serrati, la sua rivoltella si portò sul petto di Ferguson. Ma i due uomini rimasero a distanza, ognuno su un lato del piccolo loca-
le, e continuarono a tenersi d'occhio, circospetti. «Lo so cosa vuole» rispose Ferguson in tono gelido. «Vuole qualcuno da incolpare. È sempre la stessa storia.» Abbassò lo sguardo sulla pistola puntata su di lui. Quindi riprese a guardare il poliziotto, stringendo gli occhi fino a renderli duri e taglienti come la sua voce. «Non sono armato» disse. Alzò entrambe le mani, palmi in fuori. «Non ho fatto niente. Non c'è bisogno di quella pistola.» Quando Tanny Brown non fece mostra di abbassare l'arma, Cowart notò un'ombra di dubbio e di preoccupazione passare sullo sguardo di Ferguson. Ma scomparve con la stessa velocità con cui si era rivelata. Ferguson aveva la sicurezza di qualcuno che si trovi di poco fuori tiro. Cowart lanciò un'occhiata a Brown e si rese conto della verità: non lo può toccare. L'assassino si rivolse a Cowart, ignorando il poliziotto. Sollevò gli angoli della bocca in un sorriso che fece rabbrividire il giornalista. «È per questo che è qui anche lei, signor Cowart? Mi aspettavo che l'investigatore sarebbe comparso prima o poi, ma lei, pensavo che avesse messo la testa a posto. O ha qualche altra ragione?» «No. Sto ancora cercando le mie risposte» rispose rauco Cowart. «Pensavo che la nostra chiacchierata dell'altro giorno le avesse dato tutte le risposte che cercava. Non posso davvero immaginarmi quali altre domande le siano rimaste, signor Cowart. Credevo che le cose fossero chiare.» L'ultima frase fu pronunciata con un tono di voce tranquillo, lento. «Niente è mai chiaro del tutto» rispose Cowart. «Be'» disse circospetto Ferguson, indicando Brown «a questo punto ha già ottenuto una risposta. Ha visto cosa fa quest'uomo. Sfonda le porte. Minaccia la gente con la pistola. Probabile si stia preparando a farmi il culo di nuovo.» Ferguson si voltò di scatto verso Brown. «Cosa vuole tirarmi fuori, stavolta?» Tanny Brown non rispose. Cowart scosse il capo. «Non stavolta» disse. Ferguson si rabbuiò in volto, furioso. I muscoli delle braccia si contrassero in una serie di nodi, le vene del collo gli si gonfiarono. «Non posso dirle niente» rispose, la rabbia che ribolliva nella sua voce. Fece un passo verso il giornalista, ma subito si fermò. Cowart lo vide combattere per riacquistare il controllo, lo vide vincersi e rilassarsi. Si ap-
poggiò a una parete. «Non so niente. E dica, dov'è il suo collega, tenente? Mi picchierà di nuovo? Mi manca l'investigatore Wilcox. Avrà bisogno del suo aiuto, no?» «Me lo dici tu dov'è...» disse Tanny Brown. La sua voce era tagliente come l'acciaio, le sue parole penetravano lo spazio fra di loro come spade affilate. «Sei stato tu l'ultimo a vederlo.» «Ma veramente?» Ferguson dava l'impressione di qualcuno che era rimasto sveglio a prepararsi le risposte, come se avesse sempre saputo cosa sarebbe successo quel mattino. «Potrei abbassare le mani, mentre si parla?» aggiunse quindi in fretta. «No. Cos'è successo a Wilcox?» Ferguson sorrise di nuovo. Abbassò comunque le mani. «Non ne so un cazzo. È andato da qualche parte? Spero sia andato all'inferno.» Il sorriso si trasformò in un sogghigno beffardo. «Newark» disse Tanny Brown. «Proprio come l'inferno» rispose Ferguson. Gli occhi di Brown si strinsero leggermente. Dopo un istante di pausa, Ferguson riprese a parlare. «Non l'ho mai visto lassù. Dannazione, sono arrivato a Pachoula da una notte. È lunga in macchina, sa. Dice che Wilcox era a Newark?» «Ti ha visto. Ti ha inseguito.» «Be', non ne so proprio niente. Un pazzo di bianco si è messo a rincorrermi l'altra notte, ma certo non mi sono fermato a guardare chi fosse. Non si è mai avvicinato abbastanza. E comunque l'ho seminato in una strada laterale. Pioveva a dirotto. Non so cosa gli sia successo. Sa, nel quartiere in cui vivo c'è un sacco di gente che viene rincorsa ogni momento. Non è così strano essere costretti a mettersi le gambe in spalla. E di sicuro non vorrei essere nei panni di un bianco che si trovi a camminare laggiù da solo dopo che è scesa la notte, non so se mi spiego. Un posto poco salubre. La gente laggiù ti strapperebbe il cuore, se pensasse di poterlo rivendere per un'altra dose di crack.» Si voltò verso Cowart. «Non è vero, signor Cowart? Le strapperebbero il cuore dal petto.» Matthew Cowart si sentì invadere da una vertiginosa esplosione di rabbia. Fissò l'assassino, e dentro di sé ebbe la sensazione che qualcosa gli scivolasse via. Rabbia e frustrazione presero il sopravvento sulla ragionevolezza: d'un balzo superò Tanny Brown e si portò di fronte a Ferguson, puntandogli addosso la sua matita. «Lei mi ha mentito. Mi ha mentito allo-
ra e sta mentendo adesso. Lo ha ucciso lei, non è vero? E ha ucciso Joanie. Le ha uccise tutte. Quante? Quante ne ha ammazzate, dannazione?» Ferguson si raddrizzò. «Sta dando fuori di matto, signor Cowart» rispose, con una calma glaciale. «Quest'uomo...» indicò Tanny Brown«...l'ha riempita delle sue follie. Non ho ucciso nessuno. Gliel'ho già detto l'altro giorno. E glielo ripeto oggi.» Si volse verso il poliziotto. «Non ha niente con cui minacciarmi, Tanny Brown. Non ha niente che possa durare più di un minuto in tribunale, niente che un qualsiasi avvocato non possa fare a pezzi. Non ha niente.» «No» disse Cowart. «Ho tutto.» Gli occhi di Ferguson si spostarono su Cowart fiammeggiando dalla rabbia. Il giornalista ne sentì l'improvviso calore sul volto. «Pensa di avere una linea speciale con la verità, signor Cowart? Non è vero.» Le mani di Ferguson si serrarono in due pugni. Brown fece un passo avanti, spostando Cowart con una spallata. «Fanculo a tutto. Fanculo a te, Bobby Earl. Voglio che tu venga in città con me. Andiamo...» «Mi sta arrestando?» «Sì. Per l'omicidio di Joanie Shriver. Di nuovo. Per aver intralciato il corso della giustizia, per aver nascosto quegli abiti nel gabinetto esterno. Per falsa testimonianza nel corso del tuo processo. E come testimone materiale nella scomparsa di Brace Wilcox. Ce n'è più che a sufficienza.» Il volto di Tanny Brown pareva scolpito nell'acciaio. La mano libera scattò al taschino interno del giubbotto e ne riemerse con un paio di manette. L'altra mano puntava la pistola al volto di Ferguson. «Conosci la procedura. Faccia rivolta al muro, gambe aperte.» «Mi sta arrestando?» chiese di nuovo l'assassino, facendo un passo indietro, la sua voce leggermente più acuta, di nuovo sull'orlo della rabbia. «Sono già stato scagionato per quell'omicidio. Il resto sono stronzate. Non può farlo!» Tanny Brown sollevò la rivoltella di servizio. «Guardami» disse lentamente. I suoi occhi si fissarono brucianti su Ferguson. «Non avresti mai dovuto lasciare che ti trovassi, Bobby Earl, perché adesso per te è finita. Proprio adesso. Finita.» «Non ha niente contro di me, nessuna prova» rispose Ferguson con una risatina fredda. «Se avesse avuto qualcosa, sarebbe venuto qui con un esercito del cazzo. Non solo con un maledetto giornalista con un mucchio di
assurde domande che non significano nulla.» Sputava le parole come fossero oscenità. «Ne uscirò, Tanny Brown, e lei lo sa.» Scoppiò a ridere. «Ne uscirò.» Ma le parole di Ferguson nascondevano un cambiamento nel suo portamento. Le spalle erano raccolte in avanti, le gambe aperte, come quelle di un pugile in attesa di un colpo. Tanny Brown non si lasciò sfuggire il suggerimento. «Dammene solo la possibilità» disse. «Lo sai che impazzirei dalla gioia.» «Non verrò con lei» dichiarò Ferguson. «Ha un mandato?» «Tu verrai con me» insistette Brown. Il suo tono di voce era equilibrato ma furente. «E ti ricaccerò nel braccio della morte. Mi senti? Dove uno come te appartiene. È finita.» «Non è mai finita» disse l'assassino facendo un passo indietro. «Nessuno va da nessuna parte» gracchiò una secca voce. Tutti e tre si volsero verso il suono. Cowart vide la doppia canna del fucile ancora prima del piccolo, nodoso corpo della nonna di Ferguson. L'arma era puntata su Tanny Brown. «Nessuno va da nessuna parte» ripeté la vecchia. «E men che meno nel braccio della morte.» Di scatto Brown spostò la sua pistola, puntandola al petto della donna e accucciandosi. Lei indossava una spettrale camicia da notte bianca, che si agitava a ogni suo piccolo movimento. I capelli erano raccolti sul capo, ed era a piedi nudi. Era come se fosse passata dalla comodità del suo letto direttamente a un incubo. Teneva il fucile appoggiato di traverso su un braccio, quasi cullandolo, e lo puntava sul poliziotto, come tempo prima aveva fatto con Cowart. «Signora Ferguson» disse con calma Tanny Brown senza abbandonare la posizione di fuoco. «Metta giù quell'arma.» «Non prenderete il mio ragazzo» rispose lei rabbiosa. «Signora Ferguson, cerchi di ragionare...» «Non so cosa vuol dire ragionare. Ma so che non prenderete il mio ragazzo.» «Signora Ferguson, non renda le cose più difficili di quelle che sono.» «Non mi importa se le cose sono difficili. La vita è stata difficile. Forse morire sarà più facile.» «Signora Ferguson, non dica così. Mi lasci fare il mio lavoro. Andrà tutto per il verso giusto, vedrà.» «Non cercare di farmi su, Tanny Brown. Non hai portato che problemi
in questa casa.» «No» rispose Brown in tono tranquillo «non sono stato io a causare i problemi. È stato il suo ragazzo.» La sua voce aveva assunto il più ritmico degli accenti sudisti, come se stesse cercando di spiegarsi con uno straniero confuso. «Lei e quel dannato giornalista. Dovevo uccidervi prima.» Si volse verso Cowart e sputò le sue parole di disprezzo. «Lei non ha portato altro che odio e morte.» Cowart non rispose. Pensava ci fosse qualcosa di vero in quanto aveva detto la vecchia. «Nossignore» insistette Brown, cercando di addolcirla. «Non sono stato io. E non è stato lui. Lei lo sa chi è stato a causare tutti i problemi.» Ferguson si scostò di un passo, quasi stesse misurando la portata del fuoco del fucile. «Avanti, nonna» disse. «Ammazzalo. Ammazzali tutti e due.» La sua voce aveva assunto un'inflessione decisa, crudele. Il volto della vecchia fu attraversato da un'improvvisa espressione di sorpresa. «Ammazzali. Avanti. Fallo subito» insistette Ferguson, avvicinandosi alla vecchia. Tanny Brown fece un passo avanti, sempre pronto a sparare. «Signora Ferguson» disse «la conosco da così tanto tempo. Lei conosceva i miei genitori e i miei cugini, e un tempo andavamo in chiesa assieme. Non mi faccia...» Lei lo interruppe rabbiosa. «Mi avete lasciato indietro un bel po' di anni fa, Tanny Brown!» «Ammazzali» sibilò il nipote portandosi al suo fianco. Lo sguardo di Brown saettò su Ferguson. «Fermo! Figlio di puttana! E zitto!» «Ammazzali» ripeté Ferguson. «Non è carico!» gridò all'improvviso Cowart. Rimase immobile al suo posto, desiderando con tutte le forze di correre al riparo ma incapace di ordinare al suo corpo di rispondere al suo terrore. "Può essere" pensò. "Proviamo." «Ha usato l'ultimo colpo contro di me, l'altro giorno. Non è carico» ripeté. La vecchia si voltò verso di lui. «Lei è un pazzo.» Fissò freddamente il giornalista. «Ci scommetterebbe la vita che non avevo altri colpi?» Tanny Brown mantenne la mira sulla donna. «Non voglio sparare» di-
chiarò. «Magari io sì» rispose lei. «Ma una cosa è certa. Non prenderete mio nipote. Passerete prima sul mio corpo.» «Signora Ferguson, lei sa quello che ha fatto...» «Non m'importa cos'ha fatto. È tutto quello che mi rimane e non lascerò che voi me lo portiate via di nuovo.» «Ha mai visto cosa ha fatto a quella ragazzina?» domandò all'improvviso Cowart. «Non m'importa» rispose lei. «Non mi riguarda.» «E non è stata l'unica» insistette lentamente Cowart. «Ce ne sono state altre. A Penine, a Eatonville. Piccole ragazzine di colore, signora Ferguson. Ha ucciso anche loro.» «Non so niente di nessuna ragazzina» rispose lei, un leggero tremolio nella sua voce. «Ha ucciso anche il mio collega» aggiunse calmo Tanny Brown, come se, pronunciando a voce alta quelle parole, potesse spezzare ogni reticenza e finalmente rendersi conto della verità. «Non m'importa. Non m'importa niente.» Ferguson si portò alle spalle della nonna. «Tienili sotto tiro, nonna» disse. E scomparve nel corridoio centrale. «Non lascerò che ci sfugga» annunciò Brown. «E allora o io le sparerò, o lei sparerà a me» rispose la vecchia. Cowart scorse il dito di Brown irrigidirsi sul grilletto. Ma contemporaneamente la canna della pistola oscillò nell'aria. Il silenzio riempiva il locale come la sottile aria del mattino. Né l'anziana donna né Tanny Brown si mossero di un centimetro. "Non lo farà" si disse Cowart. "Se avesse voluto spararle, l'avrebbe già fatto. Al primo istante, al comparire del fucile spianato. Non lo farà adesso." Guardò il poliziotto e vide le sue emozioni sommerse da una serie di violente ondate di dubbio. Tanny Brown si sentiva le interiora contrarsi spasmodicamente. Un sapore acido gli era salito in bocca. Fissò la vecchia davanti a sé; vide la sua scarmigliata fragilità, e contemporaneamente la sua ferrea volontà. "Uccidila!" si disse. E subito dopo: "Ma come potresti?". I pensieri si bilanciavano nella sua testa, come pesi che rabbiosamente passassero da una parte all'altra, in continuazione.
Robert Earl Ferguson fece ritorno nella sala. Ora era vestito, una felpa grigia sopra alla maglietta, un paio di scarpe da basket alte ai piedi. In mano stringeva una piccola sacca da viaggio. «Ammazzali, nonna» provò per l'ultima volta. Ma la sua voce mancava della convinzione che lei avrebbe fatto ciò che le chiedeva. «Vattene» gli disse lei in tono glaciale. «Vattene e non tornare mai più.» «Nonna» disse lui. Pronunciò quella parola senza affetto o tristezza, soltanto con un irritato fastidio. «Non tornare mai più a Pachoula. Né qui a casa mia. Mai più. Sei pieno di un male che non riesco a capire. Va' a farlo da qualche altra parte. Ho cercato» proseguì con amarezza. «Posso anche non essere stata troppo brava, ma ce l'ho messa tutta. Era meglio se morivi da piccolo, così non portavi tanto male quaggiù. E allora prendilo e portatelo via, e non riportarlo mai più. È tutto quello che posso fare per te. Vattene. Qualunque cosa succeda d'ora in poi, dopo che sarai uscito da quella porta, saranno faccende tue, non più mie. Capito?» «Nonna...» «Niente più sangue, non più, dopo che te ne sarai andato» disse in tono definitivo. Ferguson scoppiò a ridere. Eliminò ogni inflessione dal suo tono di voce e rispose: «D'accordo. Se è così che vuoi, per me va bene.» L'assassino si volse verso Cowart e Brown. Sorrise. «Pensavo avremmo concluso tutto oggi» disse. «Mi sbagliavo. È tutto rimandato a qualche altra occasione, suppongo.» «Non se ne andrà» disse Brown. «Sì che se ne andrà» rispose la vecchia. «Se lo vuoi, vallo a cercare da qualche altra parte, ma non a casa mia. Casa mia, Tanny Brown. Non è molto, ma è mia. E tu dovrai portare tutta questa malvagità via di qui, da qualche altra parte, proprio come lui. Lo stesso vale per te. Non ne voglio più, qui dentro. Questa è una casa dove dimora Gesù, e voglio che rimanga così.» E Tanny Brown annuì. Si raddrizzò, un gesto che parlava di acquiescenza. Non abbassò la pistola, tenendola puntata sulla nonna mentre l'assassino scivolava alle sue spalle, a qualche decina di centimetri di distanza, avvicinandosi a passo deciso ma guardingo alla porta d'ingresso. Gli occhi di Brown lo seguirono, mentre la canna della rivoltella vibrava, quasi spingesse per seguire l'assassino. «Vattene» disse la donna. Una profonda tristezza increspava la sua voce,
e i suoi vecchi occhi erano orlati di rosse lacrime di dolore. "Ha ucciso anche lei" pensò Cowart all'improvviso. Ferguson uscì dalla soglia, scavalcando cauto la porta sfondata. Giunto sulla veranda, si voltò. «Non importa. Ti troverò di nuovo» disse Brown, la sua voce alterata da un furioso senso di sconfitta. «E se lo farà» rispose Ferguson «non significherà niente, perché di nuovo me ne andrò pulito. E lo farò sempre, Tanny Brown. Sempre.» Il fatto che questa fosse una semplice vanteria fu all'improvviso irrilevante. Le implicazioni di quell'ultima parola riecheggiarono nello spazio tra i due uomini. Cowart pensò che il mondo fosse finito sottosopra. L'assassino stava per andarsene libero, il poliziotto era costretto a rimanere al suo posto. "Fa' qualcosa!" si disse, ma si accorse di non essere in grado di muoversi. Tutto ciò che riuscì a vedere fu un fitto intreccio di terrore e minaccia, come una terribile visione da incubo che gli si parasse davanti. "Tocca a me" pensò. Fu sul punto di gridarlo, ma si fermò, e subito dopo vide l'assassino sgranare gli occhi dalla sorpresa. E infine udì il grido. «Fermi!» Acute e nervose, le parole mandarono in mille pezzi l'aria trasparente attorno a loro. Andrea Shaeffer, accucciata in posizione di tiro a braccia tese, la nove millimetri carica e spianata, era a tre metri dalla nonna di Ferguson, alle sue spalle, nel corridoio che conduceva alla porta che dalla cucina dava sul retro, da dove era entrata senza che nessuno la vedesse o la sentisse. «Lasci quel fucile!» gridò, cercando di nascondere l'agitazione con il volume della voce. Ma la vecchia non obbedì. Al contrario, muovendosi come in un vecchio, traballante film in bianco e nero, si voltò verso la voce dell'investigatrice, puntandole addosso la doppia canna del fucile, apparantemente pronta a sparare. «Ferma!» gridò la Shaeffer. Poté scorgere il doppio foro del fucile puntare al suo petto come gli occhi di un rapace. Sapeva solo che la morte cammina spesso insieme all'esitazione e che stavolta non l'avrebbe lasciata passare. Cowart aprì la bocca in un urlo inarticolato. «No!» gridò Brown, ma la parola venne sommersa dalla sorda esplosione proveniente dalla pistola dell'investigatrice.
La Shaeffer perse quasi il controllo della grossa arma, che le parve all'improvviso animata da una furia malvagia. Tre colpi lacerarono l'immobilità del mattino, esplodendo nella piccola casa buia, riecheggiando assordanti nelle stanze. Il primo colpo prese in pieno la vecchia, proiettandola indietro quasi non fosse più pesante di un alito di vento. Il secondo colpì una parete, facendo schizzare schegge di legno e frammenti di stucco in tutte le direzioni. Il terzo proiettile mandò in frantumi una finestra e scomparve nell'aria del mattino. Le braccia della nonna di Ferguson schizzarono all'infuori, e il fucile rimbalzò a terra con un gran clangore. Il corpo della vecchia ruzzolò all'indietro, andò a sbattere contro la parete e si ripiegò in avanti, le braccia spalancate come in un gesto di supplica. «Gesù, no!» gridò di nuovo Tanny Brown. Il poliziotto fece un passo verso la donna, quindi esitò. Distolse lo sguardo dalla chiazza di sangue cremisi che si allargava sempre più sulla camicia da notte della nonna di Ferguson. Fissò Cowart, che era rimasto in piedi, immobile, la bocca leggermente aperta. Il giornalista sbatté le palpebre, come se si fosse appena svegliato da un brutto sogno. «Gesù Cristo» ripeté a sua volta, e si volse verso la porta d'ingresso. Ferguson era scomparso. Cowart indicò e gridò, un inarticolato urlo di sorpresa e di rabbia. Tanny Brown balzò verso l'ingresso ormai deserto. Andrea Shaeffer entrò nella stanza; le mani le tremavano, lo sguardo era fisso sulla donna morente. Brown si lanciò sulla veranda. Il silenzio improvviso lo colpì: il mondo pareva un'ondosa, traballante visione di nebbie e raggi di luce soffusa. Non si sentiva alcun rumore. Nessun segno di vita. Il suo sguardo percorse rapido il cortile, quindi si spostò sulla fiancata della casa, e all'improvviso scorse Ferguson correre verso l'auto parcheggiata accanto alla baracca. «Fermo!» gridò. Ferguson si fermò, ma non certo per obbedire all'ordine. Invece fronteggiò il poliziotto e sollevò il braccio sinistro. In mano stringeva una rivoltella a canna corta. Esplose due colpi, rabbiosamente, e i proiettili perforarono l'aria attorno all'investigatore. Brown fu colpito da un'improvvisa impressione di familiarità: i colpi profondi, rimbombanti, erano quelli della rivoltella del suo collega. La furia esplose violenta dentro di lui, come una tempesta. «Fermo!» gridò di nuovo, e si mise a correre come un folle sulla veranda, rispondendo rapido al fuoco.
I colpi mancarono l'assassino ma colpirono l'auto. Un finestrino esplose in una miriade di frammenti. L'aria fu invasa dal suono infernale del metallo che colpiva il metallo e rimbalzava nel mattino. Ferguson sparò di nuovo, quindi diede le spalle all'auto e si allontanò di corsa verso gli alberi sul lato più distante della radura. Tanny Brown si ancorò all'orlo della veranda e nel profondo gridò a se stesso di prendere bene la mira. Fece un profondo respiro, mentre la vista gli si annebbiava, rossa di rabbia e di furia; vide la schiena dell'assassino danzare su e giù sul piccolo mirino della rivoltella. "Ora!" pensò. E premette il grilletto. La pistola gli sobbalzò in mano, e Brown vide il suo colpo mancare il bersaglio, scheggiando il tronco di un albero. Ferguson si voltò ancora una volta, fronteggiando Tanny Brown, esplose a caso un altro colpo di rivoltella e scomparve correndo nell'oscurità della foresta. Mentre Brown si lanciava oltre la soglia della baracca, la Shaeffer si avvicinò alla nonna di Ferguson. Si inginocchiò, la rivoltella ancora in mano, allungò la mano libera e con delicatezza tastò il petto della donna, come una bambina che tocchi qualcosa per controllare se sia vera. Quando ritrasse la mano, le punte delle dita erano bagnate di sangue. La vecchia cercò di tirare un ultimo, profondo respiro, che produsse un sibilo vibrante. Quindi, con un ansimo, morì. La Shaeffer fissò il povero corpo di fronte a sé; infine si voltò verso Cowart. «Non ho avuto scelta...» mormorò. Quelle parole parvero infondere le membra del giornalista di una rinnovata volontà. Attraversò la stanza e sollevò il fucile da terra. Rapidamente lo aprì, e si ritrovò a fissare due cariche vuote, senza proiettili. «Vuoto» disse. «No» rispose la Shaeffer. Cowart le mostrò l'arma. «No» ripeté lei, in un filo di voce. «Dannazione.» Si volse di nuovo verso il giornalista, quasi a cercare una qualche rassicurazione. All'improvviso sembrò terribilmente giovane. «Non ho avuto scelta» ripeté. Gli spari li fecero trasalire. Matthew Cowart si abbassò d'istinto. Gli parve che il silenzio tra ogni detonazione fosse in qualche modo più profondo, più spesso, e si sentì co-
me un nuotatore che si mantiene a galla in mezzo all'oceano. Trattenne il respiro e balzò verso la porta d'ingresso. Andrea Shaeffer gli si mise velocemente alle spalle. Cowart scorse la schiena di Tanny Brown spuntare dal limitare della veranda e si rese conto che il poliziotto stava febbrilmente svuotando il caricatore della sua pistola. I bossoli caddero rumorosamente sulle assi di legno ai suoi piedi, mentre lui caricava il tamburo con nuovi colpi. «Dov'è?» domandò Cowart. Brown si voltò di scatto. «La vecchia?» «Morta» replicò la Shaeffer. «Non sapevo...» «Non ha potuto farci niente» la interruppe Brown. «Il fucile era scarico» disse Cowart. Tanny Brown lo fissò senza alcuna risposta, tranne una singola, triste scrollata di spalle. Quindi, nell'istante appena successivo, si raddrizzò e indicò la foresta. «Gli vado dietro.» La Shaeffer annuì, sentendosi trascinata da una corrente invisibile ma potente. Anche Matthew Cowart accennò a un segno di assenso. Tanny Brown li superò, scavalcò la staccionata della veranda e attraversò a rapidi passi la distesa, diretto al limitare delle ombre a meno di trenta metri di distanza. A ogni passo aumentava la velocità e la decisione della sua marcia; quando ebbe raggiunto l'oscurità che poco prima aveva inghiottito Ferguson, era ormai lanciato in una corsa leggera che, senza costringerlo a forzare troppo l'andatura, poteva fargli recuperare il terreno guadagnato dall'assassino. Era conscio del respiro spezzato di Cowart e della Shaeffer alle sue spalle, ma non prestò loro alcuna attenzione. Si proiettò invece nelle ombre verdi e fresche della foresta, lo sguardo fisso a terra su un piccolo sentiero, alla ricerca delle tracce di Robert Earl Ferguson, sapendo che di lì a poco la preda si sarebbe fermata e avrebbe teso loro un'imboscata, pronta a combattere. "Questa è anche la mia terra" si disse. "Anch'io sono cresciuto qui. Mi è familiare tanto quanto è familiare a lui." Continuò a mentire a se stesso, avanzando nella foresta. Il caldo spezzò il mattino, alzandosi tutt'intorno a loro con una vischiosa insistenza, risucchiando fuori le loro forze residue mentre penetravano l'intrico di rami e di viticci. Si mantennero sul piccolo sentiero, la Shaeffer e Cowart a seguire il solco scavato da Tanny Brown nell'erba. Il poliziotto si costrinse a proseguire senza perdere il ritmo, cercando di anticipare le
mosse di Ferguson. Rintracciarono qua e là tracce del passaggio di Ferguson. Tanny Brown adocchiò un'impronta sul terreno bagnato. Cowart vide un brandello di stoffa grigia incastrato all'estremità di un rovo, strappato dalla maglia dell'assassino. Sudore e paura annebbiavano i loro sguardi. Ci sono già stato, pensò Brown rammentandosi della guerra; e proseguì nella sua marcia, in preda a un misto di eccitazione e di apprensione. La Shaeffer arrancava alle sue spalle, vedendo soltanto il corpo della vecchia, scagliato dalla morte in un angolo della baracca. La visione si dissolse nel ricordo ormai lontano dell'ultima volta che aveva visto Bruce Wilcox, appena prima che scomparisse nell'oscurità della notte del ghetto. Si disse che la morte pareva volersi prendere gioco di lei; ogniqualvolta cercasse di fare la cosa giusta la sgambettava, mandandola a gambe levate nel regno dell'errore. Aveva tante cose da regolare, e non aveva idea di come farlo. Cowart pensava che ogni passo lo stesse spingendo sempre più a fondo in un incubo. Aveva perso la penna e il taccuino. Un rovo sporgente glieli aveva strappati di mano, lasciandogli in cambio una striscia di sangue che pulsava e bruciava in modo ossessivo. Per un attimo si chiese cosa ci stesse facendo in quel posto. "Sto scrivendo l'ultimo paragrafo" si rispose. Si mise a correre per recuperare terreno. La terra sotto i loro piedi aveva preso a trasudare acqua, incollandosi alle scarpe. Un caldo solido, soffocante li aveva ormai circondati. La foresta pareva avvilupparsi e intrecciarsi sempre più fitta davanti ai loro occhi, mano a mano che cedeva il passo alla palude, quasi due diverse forze della natura stessero lottando per il possesso del mondo. Erano sporchi di fango e di terra e i loro abiti si erano lacerati nella corsa. Cowart si disse che da qualche parte doveva fare mattino, un mattino chiaro e caldo, ma non certo laggiù, sotto la stuoia di rami incombenti che facevano barriera contro il cielo. Non si rendeva più conto del tempo che avevano trascorso all'inseguimento di Ferguson. Cinque minuti. Un'ora. Una vita intera. Tanny Brown si bloccò all'improvviso, inginocchiandosi e facendo segno agli altri due di fare lo stesso. La Shaeffer e Cowart gli si avvicinarono e seguirono il suo sguardo. «Sa dove siamo?» sussurrò la Shaeffer. Il tenente di polizia annuì. «Lui lo sa» rispose a bassa voce, indicando Cowart. Il giornalista fece un profondo respiro. «Non siamo molto lontani dal
punto in cui è stato trovato il corpo della ragazzina» disse. Brown annuì. «Vede qualcosa?» domandò la Shaeffer. «Non ancora.» Rimasero immobili, in ascolto. Cowart udì un uccello spiccare il volo dai rami di un vicino cespuglio. Un lieve rumore provenne dal vicino sottobosco. "Un serpente" si disse "che si mette al riparo." Rabbrividì, nonostante il caldo fosse soffocante. Una brezza si mosse fra le cime degli alberi, più distante che mai. «È laggiù» disse Brown. Indicò un'area lasciata libera dall'intrico di palude e foresta. I raggi del sole illuminavano un piccolo spazio aperto lungo il sentiero a pochi passi da loro. La radura non misurava più di dieci metri di larghezza, ed era completamente circondata dal labirinto di vegetazione. Potevano scorgere il punto in cui il sentiero che stavano seguendo riprendeva tra due alberi, sul lato opposto della piccola radura, come una sciabolata di oscurità. «Dobbiamo attraversare quello spazio aperto» disse Brown. «Ormai non siamo troppo distanti dall'acqua. E la palude si estende per chilometri e chilometri. Va fino alla prossima contea. A questo punto ha due scelte: o continua, ma quella è una brutta zona da attraversare, e quando arriva dall'altra parte, supponendo che non si perda o non venga morsicato da un serpente o sbranato da un alligatore, sarà fradicio e avrà freddo e si figurerà magari che io sarò lì ad aspettarlo. Secondo me quello che vorrà fare a questo punto è tornare sui propri passi, superarci alle spalle e uscire dalla parte facile. Tornare alla macchina, superare il confine con l'Alabama e ricominciare da lì.» «E come può farcela?» domandò Cowart. «Portandoci in giro. Fino al punto desiderato. E poi facendo una mossa.» Brown fece una pausa prima di proseguire. «Precisamente quello che sta già facendo.» «E la radura?» domandò Cowart. La sua voce era rallentata dalla stanchezza. «Il posto ideale per farlo.» La Shaeffer fissò lo sguardo davanti a sé. Parlò con una cupa, terribile sicurezza. «Ci vuole uccidere. Nessuno di loro desiderava discutere quell'osservazione.» «Che facciamo?» Brown scrollò le spalle. «Non glielo lasciamo fare.»
Cowart scrutò lo spiazzo nella foresta. «È questo che succede sempre, non è vero?» disse in tono sommesso. «Prima o poi si deve sempre uscire allo scoperto.» Rialzandosi, Tanny Brown annuì in silenzio. Tornò a guardare il piccolo spazio aperto e lo vide come un luogo perfetto per fermarsi e combattere. Di sicuro lui lo aveva scelto per questo. Non c'è modo di aggirarlo. Non c'è modo di evitarlo. Siamo costretti ad attraversarlo. All'improvviso pensò con rabbia che la palude sembrava aiutare Ferguson nella sua fuga. Ogni ramo d'albero, ogni ostacolo impediva loro i movimenti e nascondeva l'assassino alla loro vista. Scrutò la barriera degli alberi sull'altro lato della radura, in cerca di un colore o di una forma estranea. "Muoviti" si disse. Solo un piccolo movimento che io possa vedere. Imprecò tra sé quando si rese conto di non riuscire a scorgerne nessuno. Non avevano scelta: dovevano proseguire. «Fate attenzione» sussurrò. Fece un passo avanti nella radura, pistola alla mano, ogni muscolo teso, in ascolto. La Shaeffer era a circa mezzo metro da lui. Stringeva entrambe le mani sulla rivoltella. "È qui che finirà" pensò. Si sentiva sopraffatta dal bisogno di fare qualcosa di giusto prima di morire. Cowart si costrinse ad alzarsi e si mise alle sue spalle, a sua volta a mezzo metro di distanza. Si chiese se anche gli altri fossero spaventati come lui e subito si domandò che differenza facesse. Il silenzio si avvolse attorno a loro come un sudario. Tanny Brown avrebbe voluto gridare. La sensazione di essere sotto tiro era come una costante pressione sul petto. Credeva di non riuscire più a respirare. Cowart era in grado di sentire solo il gran caldo e una terribile vulnerabilità. Gli parve di aver perso la vista. Ma fu lui il primo a scorgere l'impercettibile movimento. Un tremolio di foglie, una vibrazione in un cespuglio, la canna grigio-nera di una rivoltella puntata su di loro. «Attenti!» gridò gettandosi a terra, stranamente sorpreso, nell'ondata di terrore che si era impadronita di lui, di essere in grado di capire qualcosa. Anche Tanny Brown si tuffò in avanti alla prima sillaba di panico che uscì dalle labbra di Cowart. Rotolò nell'erba, cercando di portare la sua pistola in posizione di tiro, ma senza avere l'idea di dove avrebbe dovuto sparare. La Shaeffer, al contrario, non si mise al riparo. Con un grido roco si voltò verso il cespuglio e sparò un colpo senza prendere la mira. Il colpo si
perse nel cielo. Ma la sorda esplosione della nove millimetri fu immediatamente seguita da tre riecheggianti colpi della rivoltella di Ferguson. Brown restò senza fiato sentendo il proiettile che colpiva la terra a pochi centimetri dalla sua testa. Cowart cercò di penetrare nella terra umida. La Shaeffer gridò di nuovo: ma questa volta il suo fu un urlo di dolore. Crollò a terra come un uccello con un'ala spezzata, stringendosi la spalla dilaniata. Si contorse, la voce resa ancora più acuta dal dolore. Cowart allungò il braccio e la tirò a sé mentre Brown si alzò, prendendo la mira ma non riuscendo a vedere nulla. Il suo dito si strinse sul grilletto, ma non sparò. Proprio in quello stesso momento si udì un'esplosione di rami e di cespugli e Ferguson scattò fuori dal suo nascondiglio. Cowart vide la pistola dell'investigatrice appoggiata inutilmente sulla sua mano, mentre il sangue colava lungo il polso e macchiava il lucido acciaio dell'arma. L'afferrò e si alzò in piedi, cercando di rintracciare i suoni prodotti dall'uomo in fuga. Non si era reso conto di avere ormai superato una linea di confine. Sparò. Senza alcun controllo, lasciando che il frastuono della pistola cancellasse ogni considerazione di quello che stava facendo, Cowart premette il grilletto, spedendo i rimanenti otto proiettili del caricatore a sibilare tra gli alberi e il fitto sottobosco. E continuò a sparare, ignaro del fatto che il caricatore fosse vuoto, in piedi al centro della radura, circondato dall'eco dei colpi esplosi. Infine lasciò cadere la pistola, senza forze. Tutti e tre rimasero immobili per qualche istante; quindi la Shaeffer gemette di dolore ai piedi del giornalista, e lui si chinò a soccorrerla. Il suono riscosse Tanny Brown, che si rimise in azione. Scattò attraverso la terra bagnata e la raggiunse, e subito si mise a esaminare la ferita sul braccio dell'investigatrice. L'osso spezzato sporgeva dalla ferita. Il sangue arterioso pulsava dalla carne lacerata. Sollevò lo sguardo verso la foresta, come alla ricerca di un qualche segnale, e quindi lo riportò sulla ferita. Muovendosi più in fretta che poté, strappò un lembo del suo giubbotto, e lo avvolse su se stesso fino a ottenere un laccio emostatico di fortuna. Strappò un ramoscello ancora verde da un albero vicino e lo usò per stringere la benda. Le sue mani si muovevano esperte: antiche lezioni mai dimenticate. Mentre stringeva la fasciatura sulla spalla dell'investigatrice vide che la perdita di sangue stava diminuendo. Sollevò lo sguardo su Cowart, che si era alzato in piedi e si era avvicinato al margine della radura, gli occhi fissi nell'oscurità della foresta.
Il giornalista stringeva ancora in mano la rivoltella. Brown vide Cowart sporgersi verso il buco nero all'estremità della radura e poi ritrarsi, guardandosi la mano armata. «Penso dì averlo preso» disse il giornalista. Si volse verso Brown, mostrandogli il palmo della mano. Era sporco di sangue. Brown si alzò in piedi, annuendo. «Stia con lei» disse. Cowart scosse il capo. «No, io vengo con lei.» La Shaeffer gemette. «Stia con lei» ripeté Brown. Cowart fece per aprire la bocca, ma il poliziotto lo bloccò. «Adesso è tutto mio» disse. Il giornalista esalò un respiro rauco e affannato. Le emozioni si scontrarono nel profondo della sua coscienza. Pensò a tutto quello che aveva messo in moto e si disse: non posso fermarmi qui. La Shaeffer gemette di nuovo. E lui si rese conto di non avere alcuna scelta. Annuì. Matthew Cowart si mise in attesa accanto all'investigatrice ferita. Si sentiva più solo che mai. L'investigatore girò su se stesso e si tuffò all'inseguimento, lanciandosi attraverso la rete di rovi e di rami che parevano allungarsi per afferrargli i vestiti, e graffiare come gatti selvatici la pelle e gli occhi. Procedette deciso e veloce. "Se è ferito" pensò "andrà in linea retta. Sapeva di dover recuperare i secondi perduti a medicare il braccio dell'investigatrice." Lasciandosi alle spalle la piccola radura vide la chiazza di sangue trovata poco prima da Cowart, e un'altra a meno di quindici metri all'interno della palude. Una terza macchia gli indicò la strada a poco più di tre metri di distanza. Erano piccole, poche gocce di sangue cremisi che risaltavano fra le ombre verdi della macchia. Si lanciò in avanti, sentendo avvicinarsi la presenza delle acque nere della palude. La foresta pareva precipitare tutt'intorno a lui. Cercò di scostare tutti i viticci e le felci che gli bloccavano il passo. Il suo inseguimento era ora tutto velocità e potenza, un'onda sismica di rabbia pura. Gli ostacoli che gli impedivano la marcia crollavano sotto i suoi colpi decisi. Non vide Ferguson fino a quando non gli fu praticamente sopra.
L'assassino si era voltato, appoggiato di schiena al tronco contorto di una mangrovia, sul limitare della palude che dietro di lui muoveva lenta le sue acque color inchiostro. Una traccia di sangue scuro gli percorreva la coscia fino alla caviglia, e risaltava sul blu sbiadito dei jeans. Teneva sollevata la sua pistola e quando Tanny Brown gli giunse di fronte si rese conto che l'arma era direttamente puntata su di lui. Ebbe un solo pensiero: sono morto. Un glaciale terrore s'impadronì di lui, congelando in un attimo ricordi di famiglia e di amicizie in un cupo, invernale scenario di morte. Tanny Brown credette che il mondo si fosse fermato di colpo. Avrebbe voluto mettersi al riparo, gettarsi all'indietro, nascondersi in qualche modo, ma si rese conto che ogni suo movimento era rallentato, e tutto quello che fu in grado di fare fu portare una mano davanti al volto, quasi potesse deviare il proiettile che era sicuro l'avrebbe colpito di lì a poco. Fu come se il suo udito si fosse fatto all'improvviso più acuto, la vista più penetrante. Vide il cane della pistola sollevarsi, lo vide balzare in avanti. Aprì la bocca in un grido silenzioso. Ma tutto ciò che udì furono due secchi scatti, mentre il cane della rivoltella dell'assassino colpiva due cariche vuote. Il suono sembrò riecheggiare nel piccolo spiazzo. Un'improvvisa espressione di sorpresa attraversò il volto di Ferguson. Abbassò lo sguardo sulla pistola, quasi fosse un prete sorpreso a mentire. Tanny Brown si accorse di essere caduto a terra. Il fango sembrava aggrapparsi ai suoi vestiti. Si sollevò sulle ginocchia, puntando la rivoltella di fronte a sé. Ferguson fece una smorfia. Quindi parve scrollare le spalle. Sollevò le mani in segno di resa. Tanny Brown fece un profondo respiro, e nello stesso istante udì, dentro di sé, centinaia di voci gridare ordini diversi: le voci del dovere e della responsabilità contro le voci della vendetta. Sollevò lo sguardo sull'assassino e si ricordò di quello che Ferguson aveva detto poco prima: "Me ne andrò pulito". Quelle parole si unirono al tumulto nel suo profondo, riecheggiando come un tuono lontano. L'improvvisa cacofonia lo assordò, tanto che a malapena fu in grado di udire le esplosioni prodotte dalla sua stessa pistola e si rese conto che stava sparando soltanto grazie al pulsare dell'arma nella sua mano. I proiettili colpirono Robert Earl Ferguson, spingendolo ancora più a
fondo nell'abbraccio dei rami nodosi. Per un istante il suo corpo si contorse in preda alla confusione e al dolore. L'incredulità attraversò il suo sguardo. Sembrò scuotere il capo, ma il movimento si perse subito nel nulla, mentre sul suo volto la sorpresa cedeva il posto alla morte. I minuti sembravano allungarsi, circondandolo. Rimase inginocchiato di fronte al cadavere dell'assassino, cercando di riprendere il controllo di sé. Lottò contro un improvviso attacco di vertigini, subito seguito da un'ondata di nausea. Quando capì di averla superata, attese che il cuore rallentasse il suo folle battito. Dopo qualche istante, aspirando una gran boccata d'aria, gli parve di farlo per la prima volta da quando si era lanciato all'inseguimento di Ferguson. Fissò gli occhi vitrei dell'assassino. «Vedi» disse amaramente. «Avevi torto.» Mentre fissava il cadavere i pensieri si affollavano nella sua immaginazione. Vide la rivoltella a canna corta a terra, dove Ferguson l'aveva fatta volare quando era stato colpito. L'arma gli era altrettanto familiare della voce e della risata del suo collega. Sapeva che c'era un solo modo in cui Ferguson avrebbe potuto procurarsi quella pistola, e si sentì attraversare da una cortina di dolore e di tristezza. Si volse verso Ferguson e gli parlò a voce alta. «Volevi uccidermi con la pistola del mio collega, figlio di puttana, ma ti si è ribellata contro, hai visto?» Il suo sguardo seguì le tracce di sangue fino al punto in cui il colpo sparato a caso da Cowart aveva lacerato la carne della gamba di Ferguson. Non sarebbe potuto andare molto più lontano con una ferita del genere. Di certo non fino alla libertà. Era stato un singolo colpo fortunato a ucciderlo, come e più dei due sparati da lui. Brown si portò la mano armata sulla fronte, premendo il freddo metallo della pistola come un cubetto di ghiaccio su un forte mal di testa. Infiniti pensieri gli turbinavano nel profondo. Guardò di nuovo Ferguson. «Chi eri?» gli domandò, come se lui potesse rispondergli. Quindi si voltò e s'incamminò lungo il sentiero che l'avrebbe riportato al luogo in cui la Shaeffer e Cowart lo stavano aspettando. Si guardò alle spalle soltanto una volta, per accertarsi che Ferguson non si fosse mosso, che fosse rimasto immobile, morto tra i rovi. Era come se non riuscisse a considerare la morte come una risposta finale. Camminò lentamente, per la prima volta conscio del fatto che il giorno aveva raggiunto la foresta. Lame di luce penetravano attraverso il tetto di rami e di foglie, illuminando il sentiero davanti a lui. Brown si sentì leg-
germente a disagio. Sentiva un'improvvisa, strana predilezione per le ombre. Gli ci volle qualche minuto per raggiungere la piccola radura nella quale Cowart era rimasto con la Shaeffer. Il giornalista sollevò lo sguardo. Si era tolto la giacca e vi aveva coperto l'investigatrice, che era impallidita e tremava, nonostante il caldo sempre più opprimente. Il sangue della sua spalla lacerata era penetrato in superficie della fasciatura di fortuna. La Shaeffer era cosciente, ma ancora sotto shock. «Ho sentito degli spari» disse Cowart. «Cos'è successo?» Brown inspirò con forza. «È scappato» rispose. «È cosa?!?» sbottò Cowart. «Lo prenda» gemette la Shaeffer. Si contorse in preda al dolore e alla rabbia, sull'orlo dello svenimento. «Stava attraversando la palude» proseguì Brown. «Ho cercato di colpirlo dalla distanza, ma...» «È scappato?» domandò Cowart, incredulo. «Scomparso. Si è cacciato nella palude. Gliel'avevo detto che sarebbe successo se ci fosse arrivato. Non lo troveremo mai.» «Ma l'ho colpito» replicò Cowart in tono lamentoso. «Sono sicuro di averlo colpito.» Il poliziotto non rispose. «L'ho colpito» insistette il giornalista. «Sì. L'ha colpito» rispose sommessamente Brown. «E perché, cosa, cosa sta...» Cowart iniziò a blaterare. All'improvviso si bloccò, fissando l'investigatore. Tanny Brown si agitò a disagio sotto lo sguardo indagatore del giornalista, quasi fosse stato aggredito con una serie di domande impossibili. Ma subito riprese il controllo della situazione. «Deve riportarla indietro» ordinò. «Cerchi aiuto. Non è una brutta ferita, ma a questo punto ha bisogno di aiuto.» «E lei?» «Io tornerò laggiù. Darò un'altra occhiata. Poi vi raggiungerò.» «Ma...» «Quando saremo a Pachoula, emetteremo un mandato d'arresto. Con le accuse formali. Lo immetteremo nel sistema computerizzato nazionale. Coinvolgeremo l'FBI. E lei andrà a scrivere il suo servizio.» Cowart non smise di fissare Brown, cercando di penetrare il senso na-
scosto delle sue parole. «È scappato» ripeté gelido Brown. Fu a quel punto che Cowart capì. La sorpresa e la rabbia combatterono per il controllo delle sue emozioni. Fulminò il poliziotto con lo sguardo. «L'ha ucciso» disse. «Ho sentito gli spari.» Tanny Brown non rispose nulla. «L'ha ucciso» ripeté Cowart. Brown scosse il capo. «Cerchi di capire una cosa, Cowart» disse allo stesso tempo. «Se muore là fuori, allora nessuno saprà mai. Nessuno saprà niente di Bruce Wilcox. Né di nessun altro. La cosa finisce lì, proprio in quella palude. E a nessuno fregherà più niente di Ferguson. Gli fregherà soltanto di noi due, di me e di lei. Un poliziotto con una vendetta personale e un giornalista che cerca di salvare la sua carriera. Nessuno vorrà sentir parlare di sospetti, di teorie, di prove inquinate. Vorranno soltanto sapere perché siamo venuti fin quaggiù a uccidere un uomo. Un uomo innocente. Ricorda? Un uomo innocente. Ma se scappa...» Cowart guardò severo il poliziotto. "È finita" pensò. Ma non finisce mai. Fece un profondo respiro. «È l'uomo colpevole quello che cerca di fuggire» terminò la frase dell'investigatore. «Esatto.» «Ma a quel punto la cosa va avanti. La gente continuerà a cercare. E le risposte...» «La gente continuerà a cercare risposte. E lei gliele darà. Noi gliele daremo.» A Cowart parve che il proprio respiro fosse un getto di vapore bollente. «È morto. L'ha ucciso lei...» Brown fissò Cowart negli occhi. «...L'ho ucciso io» proseguì il giornalista. Esitò, e infine aggiunse qualcosa che era evidente a entrambi. «... L'abbiamo ucciso insieme.» Il giornalista fece un altro profondo respiro. Fu invaso da un turbine di pensieri diversi. Poteva sentire il caldo del mattino stringersi attorno a lui. Vide Ferguson, si rammentò della sogghignante domanda di Blair Sullivan: "Ha ucciso anche lei, Cowart?". "No", rispose a quell'ultima visione, sperando di essere nel giusto; e in un torrente di memorie si ricordò della sua famiglia, di sua figlia, della bambina assassinata, di quelle che erano scomparse, di tutto ciò che era successo. "È un incubo" pensò. "Racconti la verità e vieni punito. Menti e tutto andrà per il meglio."
Si sentiva scivolare, quasi avesse perso la presa sul ciglio di una ripida scogliera. Ma si trattava di una parete che proprio lui aveva scelto di scalare. Raccogliendo le ultime energie, si figurò di piantare un punteruolo nel granito, arrestando la caduta. "Potrai vivere con il ricordo, da solo" si disse. Si volse verso Tanny Brown, chino su Andrea Shaeffer a controllarle la bendatura intrisa di sangue e si rese conto che si sbagliava. L'incubo sarebbe stato condiviso. Lanciò un'occhiata alla Shaeffer. "Almeno" pensò "la sua ferita si sarebbe cicatrizzata e sarebbe infine guarita." «No» disse dopo un istante di pausa. «È scappato.» Tanny Brown non rispose nulla. «Esattamente come ha detto lei. Nella palude. Laggiù nessuno potrà trovarlo. Potrebbe andare dovunque. Atlanta. Chicago. Detroit. Dallas. Dovunque.» Si chinò e prese in braccio la poliziotta, abbassando la spalla a reggere il braccio ferito. «Scriva quel servizio» disse Tanny Brown. «Lo scriverò» rispose Cowart. «Faccia sì che ci credano» disse il poliziotto. «Ci crederanno» rispose Cowart. Lo disse senza rabbia. Brown annuì. Matthew Cowart s'incamminò, riportando Andrea Shaeffer verso la civiltà. Lei si appoggiò al suo soccorritore. Cowart poteva sentirla stringere i denti dal dolore, ma non la udì lamentarsi. La sua mente prese a ribollire sotto il peso dell'investigatrice ferita. "Scrivilo in modo che lei riceva un elogio ufficiale per il suo atto di eroismo. Di' a tutti come ha fronteggiato un sadico assassino, ricevendo una pallottola in corpo per il suo gesto. L'eroica poliziotta. I ragazzi della televisione ci si lanceranno sopra a peso morto. E così quelli dei tabloid. Le darà una possibilità" si disse. Le parole presero a scorrere decise dentro di lui, ridandogli forza. Poteva vedere colonne e colonne di piombo, titoli che uscivano dalle rotative ad alta velocità. Passò un braccio attorno alla vita della Shaeffer. Aveva compiuto circa tre metri quando si volse verso il tenente di polizia, ancora in piedi sul limitare della radura. «È giusto?» domandò. La domanda gli venne dal profondo, non voluta. Brown si strinse nelle spalle. «Non c'è mai stato niente di giusto in questa storia. Fin dall'inizio. E nessuno ha mai avuto scelta.» Cowart annuì. Era l'unica verità con la quale si sentisse a proprio agio.
Non sorrise, ma aggiunse: «È uno strano momento per iniziare a fidarsi l'uno dell'altro.» Quindi si voltò e si dedicò ad aiutare la giovane donna nella sua corsa verso la salvezza. Lei si lasciò sfuggire un gemito sottile, appoggiandosi al giornalista. "Era poca cosa quella che stava facendo" si disse Cowart. Ma almeno stava salvando la vita a qualcuno. Provò sollievo al pensiero che quel giorno, forse, ne aveva salvate altre. Tanny Brown osservò Cowart allontanarsi con la Shaeffer in braccio. Li vide scomparire nel fitto intreccio di luci e di ombre. Quindi fece ritorno, attraverso la macchia, al limitare della palude. Gli ci volle soltanto qualche minuto per rintracciare il corpo di Ferguson. Il peso morto parve opporgli resistenza mentre cercava di districarlo dall'abbraccio dei rovi. Penetrando nell'acqua della palude, la sentì fredda a contatto delle sue membra. Posò il piede sul fondo e se lo sentì risucchiare dalla melma. Quindi si diede una spinta, trainando con sé il corpo nell'acqua, lontano dalla terra e verso un dedalo di alberi che, preso d'assalto da una massa cadente di felci e viticci, si stagliava a circa cinquanta metri di distanza, nel profondo della palude. Trascinò e spinse il cadavere dell'assassino nell'acqua nera, sbuffando dalla fatica, lottando contro la pesantezza del corpo, finché non giunse al punto prestabilito. Qui raccolse le ultime forze e diede una decisa spinta al cadavere di Ferguson, immergendolo nell'acqua, costringendolo sotto le radici, finché non fu intrappolato sotto la scura superficie della palude. Non sapeva se sarebbe rimasto lì per sempre o se sarebbe ricomparso. "Ferguson" si disse "si è chiesto la stessa cosa, una volta." Si allontanò con una spinta; giunto a qualche metro di distanza, si voltò e vide che non vi era alcun segno del cadavere. Le radici lo trattenevano. La palude lo ricopriva. La luce penetrò attraverso gli alberi e colpì la nera superficie dell'acqua, facendola scintillare per un istante. Brown diede le spalle a quel luogo senza vita e nuotò agevolmente verso riva. FINE