HARRY TURTLEDOVE LA LEGIONE DI VIDESSOS (The Legion Of Videssos, 1987) CARTINA DELL'IMPERO DI VIDESSOS
ANTEFATTO Tre c...
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HARRY TURTLEDOVE LA LEGIONE DI VIDESSOS (The Legion Of Videssos, 1987) CARTINA DELL'IMPERO DI VIDESSOS
ANTEFATTO Tre coorti di una legione romana, guidate dal tribuno militare Marcus Aemilius Scaurus e dal centurione anziano Gaius Philippus, stavano cercando di ricongiungersi al grosso delle truppe di Cesare quando caddero in un'imboscata tesa loro dai Galli, il cui capo, Viridovix, sfidò Marcus a duello. Entrambi erano armati con spade druidiche, conquistate come prede di guerra, e quando le lame si incrociarono una cupola di luce circondò Viridovix e i Romani, che di colpo furono trasportati nel mondo dell'Impero di Videssos, una terra dove i preti del dio Phos potevano operare vere magie. Là i Romani furono assoldati come mercenari e, una volta giunto nella città di Videssos, la capitale, Marcus incontrò l'imperatore-soldato Mavrikios Gavras e il suo primo ministro, Vardanes Sphrantzes, un burocrate di cui Marcus si procurò subito l'ostilità. Nel corso di un banchetto indetto in onore dei Romani, Marcus ebbe poi modo di conoscere Alypia, la figlia di Mavrikios, e il mago Avshar, che lo provocò fino a costringerlo ad impegnare un duello, che fu però vinto da Marcus, la cui spada druidica neutralizzò gli incantesimi di Avshar. Questi cercò di vendicarsi ricorrendo alla magia e, fallito l'intento, fuggì in Yezd, il nemico occidentale di Videssos, che poco dopo gli dichiarò formalmente guerra. A mano a mano che truppe native e mercenarie affluivano nella capitale, a causa di piccole divergenze religiose si venne a creare una crescente tensione fra i Videssiani e le truppe provenienti dal regno insulare di Namdalen. Il patriarca videssiano Balsamon tenne una predica per invitare alla tolleranza, ma i monaci fanatici continuarono a provocare attriti, che presto sfociarono in veri e propri tumulti e Marcus, con i suoi Romani, venne incaricato di contribuire a sedarli. Quando i disordini si stavano ormai avviando alla conclusione, Marcus ebbe poi modo di salvare da un'aggressione una donna namdalena, Helvis. Fra i due sorse così un'intesa ed Helvis si venne a stabilire con il figlio negli alloggiamenti dei Romani. Finalmente, il mastodontico esercito si avviò ad ovest per attaccare Yezd, con un lungo seguito di donne e di civili, e poco tempo dopo Marcus ebbe due notizie, quella piacevole che Helvis attendeva un figlio da lui, e quella sconvolgente che l'ala occidentale delle truppe sarebbe stata comandata dal nipote di Sphrantzes, il giovane e inetto Ortaias. Due Vaspurakani, Senpat Sviodo e sua moglie Nevrat, si unirono quindi
ai Romani come guide e un altro Vaspurakano, un nobile di nome Gagik Bagratouni, venne ad accrescere le file dell'esercito con i suoi uomini. Quando un prete fanatico, Zemarkhos, inveì contro di lui, Bagratouni lo fece rinchiudere in un sacco insieme al suo cane e percuotere dai suoi uomini; Marcus, però, temendo rappresaglie, intercedette per salvare la vita al prete. Finalmente, i due eserciti... quello degli Yezda comandato da Avshar... si scontrarono e l'andamento della battaglia parve ben equilibrato finché un incantesimo da parte di Avshar non spinse Ortaias a fuggire, in preda al panico. Mavrikios Gavras perse la vita quando l'ala sinistra del suo schieramento cedette, e per le truppe di Videssos fu la rotta. I Romani si ritirarono in buon ordine, prelevando le loro donne, e salvarono anche Nepos, prete e insegnante di magia, unendo alle loro forze un contingente di cavalleria khatrish comandato da Laon Pakhymer. Il gruppo marciò poi verso occidente, tormentato di continuo dagli Yezda. Romani e Khatrish svernarono quindi nella città di Aptos, e Marcus venne a sapere che Ortaias si era intanto autonominato imperatore ed aveva sposato Alypia. Il fratello di Mavrikios Gavras, Thorisin, si era però ritirato in una città poco distante insieme a venticinquemila uomini, e a primavera Marcus si unì alle sue truppe per marciare sulla città di Videssos. Protetti da una coltre d'invisibilità creata dalla magia di Nepos, i soldati attraversarono lo stretto braccio di mare che portava alla città, ma soltanto per trovare le porte sprangate. Nessun esercito era mai riuscito ad espugnare le mura di Videssos. I giorni si trascinarono nell'inerzia, finché un'azione disperata condotta dall'interno della città provocò l'apertura delle porte. Una volta entrate, le forze imperiali respinsero fino al palazzo le truppe di Ortaias, al comando di un certo Rhavas. Là Rhavas... che in effetti era Avshar, sotto mentite spoglie... ricorse a un'immonda magia, che fu però sopraffatta dalle lame magiche di Marcus e di Viridovix. Avshar si ritirò nella camera dove Vardanes e Ortaias Sphrantzes tenevano in ostaggio Alypia, ma Vardanes, messo alle strette, tentò di uccidere Avshar, che gli tolse la vita e fuggì in una piccola camera interna... da cui svanì senza lasciare traccia. Incoronato imperatore, Thorisin annullò il matrimonio di Alypia e bandì Ortaias, condannandolo a servire in un monastero nei panni di un umile monaco. I problemi non erano però finiti. Le entrate procurate dalle tasse erano decisamente troppo scarse, e le navi di stanza nell'isola detta la Chiave im-
pedivano alle provviste di arrivare fino in città. Thorisin incaricò Marcus di supervisionare gli esattori fiscali, e ben presto il tribuno scoprì che i ricchi proprietari terrieri non pagavano mai ciò che era loro richiesto; uno dei maggiori evasori era il generale Baanes Onomagoulos, un vecchio amico di Mavrikios Gavras; informato di questo, Thorisin mandò un contingente di Namdaleni, agli ordini del Conte Drax, a ridurre Onomagoulos a più miti consigli. Nello stesso tempo, Marcus persuase l'imperatore a liberare un prigioniero, Taron Leimmokheir, e ad affidargli il comando delle poche navi di cui la città di Videssos disponeva. Con un inganno, Leimmokheir riuscì a sconfiggere le navi provenienti dalla Chiave. Nel frattempo, Thorisin decise di inviare un'ambasciata nel lontano, settentrionale Arshaum per chiedere aiuti. Gorgidas, il medico greco della legione che era anche un ottimo amico di Scaurus, decise di unirsi alla spedizione. All'ultimo minuto anche Viridovix, in fuga di fronte alle ire dell'amante di Thorisin, si aggregò agli altri. In una cerimonia tenuta nel tempio, Thorisin annunciò poi che il Conte Drax aveva sconfitto e ucciso Onomagoulos. Ora era tempo di marciare contro... Yezd! CAPITOLO PRIMO «Troppo caldo e troppa afa» si lamentò Marcus Aemilius Scaurus, asciugandosi la fronte sudata con il dorso della mano. Nel tardo pomeriggio, le alte mura di Videssos proiettavano la loro ombra sul terreno di addestramento, che si trovava subito all'esterno della città, ma adesso era mattina, e la grigia pietra aveva soltanto l'effetto di riflettere il calore diurno. «Ne ho avuto abbastanza» concluse il tribuno, riponendo la spada nel fodero. «Voi nordici non sapete apprezzare un buon clima» ribatté Gaius Philippus. Il centurione anziano stava sudando quanto il tribuno, ma questo non gli dava fastidio perché, come la maggior parte dei Romani, apprezzava il clima dell'impero. Marcus, però, era originario di Mediolanum, una città dell'Italia settentrionale fondata dai Celti, il cui sangue in certa misura gli scorreva nelle vene, come dimostrava il suo aspetto. «Sì, lo so, sono biondo, ma non ci posso fare niente» commentò con stanchezza. Gaius Philippus lo prendeva infatti in giro per il suo fisico tutt'altro che romano fin da quando si erano conosciuti.
Il centurione, invece, avrebbe potuto fungere da modello per l'effigie da comare su una moneta romana, con la sua faccia ampia e squadrata, il naso forte e diritto, il mento pronunciato e la corta calotta di capelli brizzolati. E come tutti i suoi connazionali, Scaurus incluso, continuava a radersi anche dopo aver vissuto per due anni e mezzo in Videssos, una terra dove gli uomini portavano la barba. I Romani, del resto, erano un popolo cocciuto. «Guarda il sole» suggerì Marcus. Gaius Philippus lanciò all'astro una rapida, esperta occhiata, e subito emise un fischio di sorpresa. «È già passato tanto tempo? Mi stavo divertendo» osservò, poi si girò verso i legionari ancora impegnati ad esercitarsi ed aggiunse, gridando: «D'accordo, ora basta! In formazione per rientrare agli alloggiamenti!» I soldati, in parte Romani e in parte Videssiani, Vaspurakani ed altri che si erano uniti alle file dei legionari dopo l'arrivo di questi ultimi nell'impero, posarono le pesanti spade e i massicci scudi da allenamento con gemiti di sollievo. Gaius Philippus, pur avendo ormai oltrepassato la cinquantina, aveva maggiore resistenza di tanti uomini più giovani di lui di venti o anche trent'anni, e questa era una qualità che Scaurus gli aveva spesso invidiato. «Pare che se la cavino bene» osservò il tribuno. «Potrebbero fare di peggio» concesse Gaius Philippus e questa, venendo dal veterano, era una lode notevole in quanto, essendo un soldato di carriera, Gaius Philippus non era mai soddisfatto di nulla che non fosse la perfezione... o per lo meno non era disposto ad ammettere di esserlo. Il centurione ripose con violenza la spada nel fodero di bronzo, borbottando con irritazione. «Non mi piace questa dannata lama. Non è un vero gladius, è troppo lunga, e poi il ferro videssiano ha un'elasticità eccessiva e l'impugnatura non mi calza bene alla mano. Avrei dovuto darla a Gorgidas e tenermi il mio gladius... quello stupido Greco non avrebbe neppure notato la differenza.» «Molti legionari sarebbero felici di scambiare la loro spada con la tua» gli fece notare Scaurus e, com'era certo che sarebbe accaduto, le sue parole indussero il veterano a posare una mano sull'elsa dell'arma con aria protettiva, perché in effetti si trattava di una lama di ottima fattura. «Quanto a Gorgidas, senti la sua mancanza quanto la sento io... ed anche quella di Viridovix.» «Assurdo per quanto riguarda il primo e doppiamente assurdo in merito al secondo. Un astuto Greco e un pazzo Gallo? Il sole deve averti danneg-
giato il cervello.» «Tu non sei contento se non hai qualcosa di cui lamentarti» insistette il tribuno, che sapeva riconoscere un'affermazione fasulla, quando la sentiva. «Come non lo sei neppure tu, se non puoi tormentare me.» In quell'accusa c'era una dose di verità sufficiente a strappare a Marcus un asciutto sorriso. Gaius Philippus era un tipico Romano più di quanto lo fosse lui, non soltanto per l'aspetto, ma anche per il carattere pratico, il modo di fare diretto e la tendenza a diffidare di qualsiasi cosa che sapesse di teoria. Insieme, costituivano una coppia notevole, perché Gaius Philippus era un astuto esperto di tattica e Scaurus aveva acquisito tramite gli studi stoici e l'esperienza politica un'ampiezza di visuale che l'altro non avrebbe mai raggiunto, il che lo rendeva un ottimo stratega quando si trattava di decidere quale fosse la strada migliore da imboccare per il futuro dei legionari. Prima che la sua spada druidica s'incrociasse con quella altrettanto magica di Viridovix e trasportasse i Romani a Videssos, Scaurus non aveva avuto l'intenzione di seguire una carriera militare, anche se ogni giovane animato da ambizioni politiche doveva avere alle spalle qualche esperienza di quel genere. Adesso, come capitano mercenario in quell'impero pieno di fazioni contrapposte, il tribuno aveva bisogno di tutte le sue capacità politiche soltanto per riuscire a sopravvivere fra soldati e cortigiani che, come qualche volta era indotto a pensare, dovevano aver cominciato ad usare il doppio gioco prima ancora di uscire dallo svezzamento. «Tu, laggiù, Flaccus! Allineati!» gridò Gaius Philippus, e il Romano in questione spostò i piedi di qualche centimetro, rispondendo poi all'ordine con un'occhiata interrogativa che Gaius Philippus ricambiò con uno sguardo rovente, più per abitudine che per ira. I suoi occhi scrutarono quindi il resto della legione. «D'accordo, muoviamoci!» decise, quasi con riluttanza, e le buccine dei trombettieri ripeterono il suo comando con uno squillo metallico. Le guardie videssiane di stanza alla Porta d'Argento salutarono Marcus come avrebbero fatto con uno dei loro ufficiali, piegando il capo e portando sul cuore il pugno destro serrato. Il tribuno rispose con un cenno del capo, mentre i suoi occhi osservavano le grandi porte rivestite in ferro e la saracinesca senza troppa simpatia: un numero eccessivo di insostituibili Romani era caduto nel tentativo di forzare quelle difese, l'estate precedente, e soltanto una ribellione scoppiata all'interno della città aveva permesso a Thorisin di far valere i propri diritti contro le pretese di Ortaias Sphran-
tzes, anche se quel giovane non era certo un valido condottiero. Del resto, al riparo di mura come quelle della capitale, non era necessario essere abili capitani per imbastire una difesa. I legionari percorsero il cupo passaggio fra il muro esterno e quello interno, poi la vita frenetica di Videssos scoppiò tutt'intorno a loro. Entrare in città faceva sempre l'effetto di un sorso di vino forte: il nuovo venuto traeva un profondo respiro, sgranava gli occhi e si preparava al sorso successivo. La Strada di Mezzo, la via principale di Videssos, era piena di gente, tanto che il tribuno desiderò di poter disporre di un araldo, come gli era capitato la prima volta che era entrato in città, perché sgombrasse il percorso davanti ai legionari; quello, però, era un lusso che non gli era più concesso. La legione dovette rassegnarsi a seguire un paio di enormi carri scricchiolanti, entrambi pieni di arenaria gialla destinata a qualche costruzione: una dozzina di cavalli era aggiogata a ciascun veicolo, ma nonostante il numero le bestie mantenevano un passo da lumache. I venditori ambulanti sciamarono come mosche intorno ai soldati, gridando i pregi delle loro merci: salsicce e pesce fritto, coperti di mosche vere; vini, ghiaccio insaporito con essenze... una merce comune d'inverno ma procurata mediante corriere durante i mesi caldi, e quindi troppo costosa per la borsa della maggior parte dei soldati... oggetti in cuoio, in vimini o in bronzo; afrodisiaci. «Garantisce una resistenza di sette volte per notte» dichiarò, in tono drammatico, il venditore di quel particolare prodotto. «Ecco, signore, lo vuoi provare?» L'uomo protese l'ampolla verso Sextus Minucius, un legionario da poco promosso sottufficiale. Minucius era alto, avvenente e giovane, con le guance e il mento perennemente scuriti dalla barba che si ostinava a ricrescere in fretta. Con l'elmo crestato e la cotta di maglia lucidissima, formava una figura maschile davvero notevole. Minucius tolse l'ampolla dalla mano ossuta del Videssiano, la soppesò come per riflettere, poi la restituì. «No, tientela» disse. «Perché dovrei comprare una pozione che servirebbe soltanto a rallentare i miei ritmi?» I legionari scoppiarono a ridere, soprattutto nel vedere che uno di quei persuasivi e loquaci ambulanti videssiani era stato per una volta lasciato senza parole. Ogni isolato o due i Romani passavano davanti ad un tempio di Phos.
Nella città ce n'erano a centinaia, e i preti e i monaci avvolti nelle tuniche azzurre, con la testa rasata che brillava quasi quanto le cupole che sovrastavano i campanili dei templi, formavano una buona parte della ressa che affollava le strade. Nel passare accanto alle truppe di Marcus, i religiosi si tracciavano sul petto il segno circolare che simboleggiava la loro fede, e la quantità di uomini, Videssiani e Romani che si erano convertiti alla fede di Phos, che ricambiava il gesto era per fortuna sufficiente a tenere a bada il sempre presente sospetto di eresia. I legionari oltrepassarono la piazza di Stavrakios, dove spiccava la statua dorata del grande conquistatore che aveva espanso l'impero, superarono il fragore del distretto dei calderai, dove la Strada di Mezzo piegava per puntare ad ovest verso il Palazzo Imperiale, attraversarono la piazza che, per un motivo che Marcus non era ancora riuscito a scoprire, era chiamata il Foro del Bue, passando accanto al grande edificio in granito rosso che ospitava gli archivi di Videssos... ed anche le prigioni... e raggiunsero la piazza di Palamas, la più grande fra tutte quelle della capitale. Se la città di Videssos era un microcosmo che rappresentava l'impero, la piazza di Palamas era una versione in piccolo della città stessa. I nobili avvolti nelle tradizionali vesti di broccato vi sostavano spalla a spalla con i bravacci da strada nelle tuniche dalle maniche rigonfie e nei calzoni a colori sgargianti; qui una prostituta ubriaca barcollava appoggiata ad un muro, là un mercenario namdaleno, con la testa rasata perché l'elmo gli calzasse meglio, contrattava con un gioielliere videssiano per fissare il prezzo di un anello da regalare alla sua dama; più in là un monaco e un panettiere dall'aria prosperosa discutevano su qualche cavillo teologico, entrambi sorridenti e divertiti da quel passatempo. La vista del mercenario namdaleno indusse Scaurus a lanciare un'occhiata alla Pietra Miliare, un obelisco dello stesso granito rossiccio che era stato usato per edificare gli archivi e che era il punto di partenza da cui veniva calcolata la posizione di ogni altro punto dell'impero. Alla sua base, un enorme cartello lodava il grande Conte Drax, il cui reggimento di Namdaleni aveva schiacciato la rivolta sollevata nell'occidente da Baanes Onomagoulos. La testa dello stesso Onomagoulos, da poco portata in città, era esposta sopra il cartello. Dal momento che il ribelle era stato quasi calvo, la testa era stata appesa non per i capelli ma per gli orecchi, mediante una corda, e pochi fra i Videssiani di passaggio la degnavano di un'occhiata, in quanto nel corso dell'ultimo paio di generazioni le ribellioni prive di successo erano diventate una cosa troppo comune perché destassero ancora in-
teresse. «Quel figlio di buona donna se l'è andata a cercare» commentò Gaius Philippus, notando la direzione dello sguardo di Marcus. «Dopo che Mavrikios Gavras è stato ucciso» annuì Marcus, «si è autoconvinto che l'impero dovesse essere suo di diritto, perché non è mai riuscito a vedere Thorisin in altra veste che in quella dell'inutile fratello minore di Mavrikios, e sul momento non mi viene in mente un errore peggiore che avrebbe potuto commettere.» «Neppure a me» convenne Gaius Philippus, che nutriva un profondo rispetto per l'Avtokrator dei Videssiani, da soldato a soldato, un rispetto che Thorisin Gavras ricambiava. La calma, poco affollata bellezza del quartiere del palazzo costituiva sempre un impatto dopo l'affollamento costante della piazza di Palamas, e Marcus non poteva mai sapere con certezza come avrebbe reagito a quel passaggio. A volte, infatti, esso lo rilassava, ma quasi altrettanto spesso gli dava invece l'impressione di ritirarsi dalla vita stessa. Oggi decise che la piazza era stata un po' troppo rumorosa per i suoi gusti e che un tranquillo pomeriggio passato negli alloggiamenti, senza fare nulla, sarebbe stato il benvenuto. «Signore?» chiamò, con esitazione, la sentinella. «Eh? Cosa c'è, Fostulus?» Marcus sollevò lo sguardo dal foglio delle paghe dei soldati, tornò ad abbassarlo in modo da memorizzare dov'era rimasto e infine fissò la sentinella. «Là fuori c'è un calvo che afferma di dover parlare con te.» «Un calvo?» Il tribuno sbatté le palpebre. «Vuoi dire un prete?» «Che altro?» replicò Fostulus, sogghignando, perché non era uno di quei Romani che si erano convertiti a Phos. «Un tizio grosso e grasso, che deve essere vicino alla cinquantina, a giudicare dalla barba grigia. Ed ha i denti marci» aggiunse. Marcus si grattò la testa. Conosceva parecchi preti, ma nessuno che si adattasse a quella descrizione; in ogni caso, non era comunque conveniente offendere un membro della gerarchia religiosa videssiana che, sotto alcuni aspetti, era ancora più potente dell'imperatore stesso, quindi arrotolò con un sospiro il foglio delle paghe e lo legò con un nastro. «Sarà meglio che tu lo accompagni dentro, suppongo.» «Sì, signore.» Fostulus salutò nello stile romano, con il braccio proteso, poi girò di scatto su se stesso e si affrettò verso la porta, con le caligae
chiodate che ticchettavano sul pavimento di ardesia. «Ci hai messo un bel po'» Scaurus sentì borbottare al prete, mentre Fostulus lo accompagnava al piccolo tavolo sul retro della sala degli alloggiamenti che il tribuno usava come ufficio provvisorio. Marcus si alzò in piedi per accogliere il visitatore. Fostulus aveva avuto ragione: il prete era alto quasi quanto Scaurus che, grazie alle sue origini nordiche, aveva una statura superiore a quella della maggior parte dei Romani e dei Videssiani; e quando si diedero la mano, la stretta salda e asciutta del religioso rivelò una forza considerevole. «Adesso puoi andare, Fostulus» disse il tribuno, e la sentinella tornò al suo posto dopo aver eseguito un altro saluto. Il prete si lasciò cadere su una sedia, che scricchiolò sotto il suo peso; il sudore gli macchiava la tunica azzurra sotto le ascelle e gli colava dalla testa calva, tanto che Marcus fu lieto di aver chiuso la lista delle paghe. «Luce di Phos, fa caldo a stare fermi là fuori sotto il sole» dichiarò il Videssiano, con una nota di accusa nella tonante voce da basso. «Hai un po' di vino da offrire ad un assetato?» «Ecco, sì» rispose il tribuno, sconcertato da quei modi tanto bruschi, in quanto la maggior parte dei Videssiani era assai pacata nel parlare. Trovate una brocca e un paio di tazze di terracotta, versò il vino e porse una delle tazze al prete, sollevando l'altra in un accenno di brindisi. «Alla tua salute, ah...» Lasciò a mezzo la frase, non conoscendo il nome del Videssiano. «Styppes» completò brevemente il prete che, come tutti i religiosi, aveva abbandonato il proprio cognome come segno di dedizione a Phos. Prima di assaggiare il vino, levò entrambe le mani al cielo, recitando quello che era il credo basilare della sua fede. «Noi ti benediciamo, Phos, Signore dalla mente grande e buona, per tua grazia nostro protettore, che vegli affinché la grande prova della vita possa risolversi a nostro favore.» E sputò quindi al suolo, per indicare il proprio rifiuto di Skotos, il malvagio avversario di Phos nella dualistica religione di Videssos. Quando ebbe finito, Styppes attese per un momento che Scaurus eseguisse lo stesso rituale, ma il tribuno, pur rispettando le usanze videssiane, rifiutò di scimmiottare una fede che non condivideva, e Styppes gli elargì un'occhiata sprezzante. «Pagano» borbottò, ed allora Marcus notò ciò che aveva indotto Fostulus ad avanzare quel commento relativo ai denti de! prete, gialli e grossi e a stento coperti dalle labbra sottili. Poi Styppes bevve, e fu la volta di Marcus di soffocare il disprezzo che
minacciava di trapelargli dal volto, perché il Videssiano vuotò la tazza in un sorso, tornò a riempirla senza chiedergli il permesso, la vuotò ancora e ripeté l'intera trafila per una terza volta, mentre Marcus non si era ancora quasi bagnato le labbra. Styppes accennò quindi a versarsi una quarta dose, ma il vino rimasto fu sufficiente a colmare la sua tazza soltanto per metà e lui ne trangugiò il contenuto con uno sbuffo d'irritazione. «Avevi bisogno soltanto del vino, oppure c'era qualche altra cosa che volevi?» chiese allora Scaurus, in tono brusco, e subito si vergognò di se stesso: lo stoicismo non gli aveva forse insegnato che ogni uomo andava accettato per ciò che era, con i suoi aspetti buoni e con quelli cattivi? Se questo Styppes amava troppo il vino, disprezzarlo per questa sua debolezza non sarebbe certo servito a cambiarlo, quindi Marcus si sforzò di riformulare la domanda con minore sarcasmo. «Cosa posso fare io... o magari i miei uomini... per aiutarti?» «Dubito che voi possiate darmi aiuto» rispose Styppes, destando nuova irritazione nel tribuno, «ma a me è stato ordinato di darne a voi.» La sua espressione acida non deponeva a favore del piacere che quell'incarico poteva aver destato in lui. Il prete era certo un bevitore esperto, perché il vino non gli aveva impastato la lingua e i suoi gesti continuavano ad essere perfettamente controllati; soltanto un lieve rossore sui suoi lineamenti precedentemente pallidi tradiva la quantità di vino che aveva ingurgitato. Sorseggiando dalla propria tazza, Scaurus lottò per controllare al massimo la rabbia crescente. «Ah, sì? E chi te lo ha ordinato?» domandò, cercando come meglio poteva di mostrarsi interessato. Quanto prima quella spugna vestita d'azzurro se ne fosse andata, e tanto meglio sarebbe stato, rifletté, chiedendosi se a mandargli Styppes fosse stato il suo amico Nepos, o magari Balsamon e, in quel caso, cosa avessero avuto contro i Romani per compiere un gesto del genere. «Mertikes Zigabenos» rispose però Styppes, cogliendolo di sorpresa, «mi ha informato che voi avete perso il vostro guaritore.» «Infatti è così» ammise Scaurus, domandandosi come Gorgidas se la stesse cavando, nelle steppe. Zigabenos era il comandante della guardia imperiale, ed era anche un giovane molto competente: se questo prete godeva del suo favore, allora in fin dei conti in lui ci doveva essere qualcosa di buono. «Ma cosa c'entra?» «Zigabenos mi ha suggerito di offrirvi i miei servigi. Sono stato istruito
nelle arti guaritrici di Phos, e non è giusto che una qualsiasi unità dell'esercito di Sua Maestà sia priva di tale ausilio... anche un'unità piena di pagani, quale è la tua» concluse Styppes, in tono sprezzante. «Sei un prete-guaritore? Assegnato a noi?» chiese Scaurus, ignorando il tono dell'altro, e riuscì a stento a trattenersi dal lanciare un urlo di gioia. Usando il loro corpo come canale lungo cui far fluire le energie di Phos, alcuni preti erano capaci di curare uomini che Gorgidas avrebbe dovuto dare per morti, ed in buona misura era stato proprio il suo fallimento nell'imparare quei metodi che aveva indotto il medico a partire per le pianure. Lo stesso Nepos aveva guarito alcuni legionari, e poter disporre di un uomo dotato di tali poteri sarebbe stato un dono più prezioso di una manciata di rubini. «Assegnato a noi?» ripeté, desideroso di ricevere un altro assenso da Styppes. «Sì.» Il prete continuava a mostrarsi tutt'altro che lieto della cosa perché, avendo familiarità con il proprio dono, lo trovava assai meno meraviglioso di quanto esso apparisse al Romano. Il suo sguardo indugiò sui rotoli di coperte disposti ordinatamente sul pavimento della camerata. «Allora, hai un alloggio per me?» «Ma certo. Tutto quello che vuoi.» «Quello che vorrei è dell'altro vino.» Non desiderando inimicarsi il prete o apparire taccagno, Marcus ruppe il sigillo di una seconda brocca e gliela porse. «Ne vuoi?» domandò Styppes, e siccome il tribuno gli rispose con un cenno negativo, ignorò la tazza e si portò la caraffa alle labbra, vuotandola. Questo ridestò le preoccupazioni di Scaurus. Quando ebbe finito, Styppes esalò un lungo sospiro soddisfatto, poi si alzò... e barcollò leggermente, ma del resto una simile quantità di vino liscio bevuta così in fretta avrebbe ubriacato anche un semidio. «Tornerò presto» disse, mostrando ora anche dalla voce di cominciare a risentire del vino trangugiato. «Devo andare a prendere la mia roba al monastero e portarla qui.» Muovendosi con i gesti attenti e calibrati di chi è abituato a camminare sotto l'effetto del vino, il prete si avviò verso la porta. Dopo aver mosso un paio di passi, però, tornò a girarsi verso Marcus e lo fissò intensamente per quasi un minuto, andandosene poi proprio quando il tribuno era ormai sul punto di chiedergli cosa gli stesse passando per la mente. Sentendosi frustrato, il Romano tornò a concentrarsi sul foglio delle paghe.
«Allora, ti piace questo Styppes?» gli chiese Helvis, quella sera. «Piacermi? I miei gusti personali non c'entrano nulla... che alternativa ho? Un guaritore qualsiasi è sempre meglio che non averne nessuno.» Chiedendosi fino a che punto potesse essere franco con lei, Marcus si appoggiò contro il sottile divisorio in legno; due dei quattro edifici che i Romani usavano come alloggiamenti erano stati divisi in ambienti più piccoli per garantire un po' di intimità ai soldati accasati, alle loro donne e ai loro bambini. Avvertendo la sua esitazione, Helvis si accigliò, ma prima che potesse formulare una domanda suo figlio Malric, di cinque anni, gettò di lato il carretto di legno con cui stava giocando e iniziò a cantare una volgare canzone videssiana, di quelle intonate dai soldati durante la marcia, con quanto fiato aveva in gola. «Uccellino con il becco giallo...» La donna levò al cielo gli occhi, azzurri come quelli di molti Namdaleni. «Basta così, giovanotto. È ora di andare a letto» ordinò, ma il bambino la ignorò e continuò a cantare finché lei lo afferrò per le caviglie e lo sollevò. Trovandosi sospeso a testa in giù, Malric scoppiò a ridere e a contorcersi, sfilandosi la tunica che gli era ricaduta sulla testa. «E così» commentò Helvis, incontrando lo sguardo di Marcus, «la battaglia è vinta per metà.» Il tribuno sorrise e rimase ad osservarla mentre toglieva al bambino anche i calzoni, perché era un piacere guardarla, perfino quando era impegnata in un'attività poco elegante come quella. Helvis aveva la pelle più chiara e i lineamenti meno aquilini delle donne Videssiane, ma gli zigomi pronunciati e la bocca generosa le conferivano un suo genere di bellezza, e la sua figura aveva curve provocanti che colmavano la gonna lunga e la casacca di lino marrone orlata di pizzo in modo tale da attirare qualsiasi occhio maschile. E la gravidanza appena agli inizi non aveva ancora cominciato ad alterare le sue forme. Helvis assestò una pacca sul piccolo posteriore nudo del figlio. «Avanti, da' a Marcus il bacio della buona notte, usa il pitale e fila a letto» ingiunse, con una ricca voce di contralto. Malric protestò e recalcitrò, per verificare fino a che punto la madre fosse decisa, ma il secondo sculaccione fu improntato ad una maggiore autorità. «D'accordo, mamma, vado» si arrese infine Malric,. e trotterellò fino a
Scaurus. «Buona notte, papà» aggiunse. Con Helvis, si era espresso in lingua namdalena, ma con il tribuno usò il latino, in quanto lo aveva appreso con la tipica facilità dei bambini, durante i due anni che Marcus ed Helvis avevano già trascorso insieme. «Buona notte, figliolo, dormi bene» rispose Scaurus, arruffando i capelli biondi di Malric, così simili a quelli di suo padre Hemond, ora morto. Malric espletò i suoi bisogni, poi scivolò sotto le coperte e chiuse gli occhi; il figlio che Marcus aveva avuto da Helvis, Dosti, che non aveva ancora un anno e stava già dormendo nella sua culla, vicino al giaciglio dei genitori, emise qualche lamento, ma si quietò subito quando Helvis gli aggiustò le coltri. Adesso, pensò speranzoso il tribuno, cominciavano ad esserci alcune notti in cui il piccolo evitava di svegliarsi. Quando fu certa che anche Malric si fosse addormentato, Helvis tornò a rivolgersi a Scaurus. «Cosa c'è che non va nel prete-guaritore?» chiese. «Non molto» rispose Marcus, la cui esitazione era svanita di fronte al tono diretto della domanda, ma prima che Helvis potesse fare altro se non inarcare le sopracciglia, aggiunse: «A parte il fatto che è un arrogante, avido, irascibile ubriacone... in questo momento è steso sul pavimento, in una delle camerate riservate agli scapoli, e sta russando come una segheria. Ha bevuto tanto che dubito che potrebbe guarire un morso d'insetto, e tanto meno una ferita.» Helvis scoppiò in una risata nervosa, in parte divertita dai difetti di Styppes e in parte scandalizzata dall'evidente disprezzo che Scaurus dimostrava nei suoi confronti, perché era una zelante seguace di Phos e continuava a provare un certo disagio nel sentir parlare male di un suo sacerdote, quale che fosse la setta a cui apparteneva. Comunque, essendo Namdalena, ai suoi occhi i Videssiani erano eretici e quindi, in certa misura, caccia libera... un'ambiguità che la confondeva. Una scheggia si conficcò nella spalla di Marcus, sotto la camicia, e lui la estrasse con l'unghia di un pollice, pensando al tempo stesso che l'ambiguità era una cosa che lui aveva imparato a conoscere nei suoi rapporti con Helvis; fra loro c'erano troppe differenze perché potessero sentirsi realmente a proprio agio uno con l'altra, ed entrambi erano dotati di una forte volontà che impediva loro di cedere con facilità. Religione, politica, amore... a volte sembrava che ci fossero poche cose su cui non litigavano. Ma quando tutto andava bene, aggiunse, rivolto a se stesso, con un sorriso interiore, allora il loro rapporto funzionava davvero alla perfezione.
Continuando a massaggiarsi la spalla, si alzò e la baciò, ricevendo in cambio uno sguardo interrogativo. «Per quale motivo?» domandò lei. «Non c'è una vera ragione.» «Questo è il motivo migliore di tutti» replicò Helvis, rasserenandosi in viso e stringendosi a lui. Il suo mento s'insinuava bene contro la spalla di Marcus, perché Helvis era alta per una donna, più alta, in effetti, di parecchi uomini videssiani. Marcus la baciò ancora, questa volta con maggior ardore, e in seguito non seppe mai stabilire con certezza chi di loro due avesse spento la lampada. Scaurus era intento a fare colazione a base di pasticcio di orzo insaporito con carne e cipolla quando Junius Blaesus si presentò davanti a lui con aria infelice. «Mmmm?» fece il tribuno, a bocca piena; poi, dopo aver inghiottito, aggiunse: «Qual è il problema?» Dall'aria da cane bastonato di Blaesus, tuttavia, aveva già intuito di cosa si trattava. L'espressione tetra del Romano si accentuò. Blaesus, un optio, o sottufficiale, veterano, era stato da poco promosso al grado di centurione, e non gli faceva piacere ammettere che nel suo manipolo ci fossero problemi che lui non era in grado di risolvere da solo. Marcus lo fissò inarcando un sopracciglio ed attese, perché una sua insistenza sarebbe servita soltanto ad accentuare il disagio del giovane. «Si tratta di Pullo e di Vorenus, signore» sbottò infine Blaesus. «Di nuovo?» chiese il tribuno, annuendo senza troppa sorpresa, poi bevve con calma un sorso di vino che, come tutto il vino videssiano, era un po' troppo dolce per i suoi gusti, ed aggiunse: «A Glabrio non hanno mai procurato altro che guai. Per che cosa stanno litigando, adesso?» «A proposito di chi dei due abbia tirato meglio il pilum durante le esercitazioni di ieri. La scorsa notte Pullo ha dato un pugno a Vorenus, ma sono stati separati prima che la situazione potesse precipitare.» Il sollievo era percepibile nel tono del giovane centurione: Quintus Glabrio, che aveva avuto il comando del manipolo ora affidato a Blaesus, era stato un ufficiale di notevole valore, e se neppure lui, prima della sua morte, era riuscito a tenere sotto controllo quei due litigiosi legionari, allora lo stesso Blaesus non poteva certo essere biasimato per aver fallito a sua volta. «Gli ha dato un pugno, dici? Non possiamo permettere cose del genere.»
Scaurus finì la colazione, pulì il cucchiaio d'osso, riponendolo nella sacca che portava alla cintura, poi si alzò. «Scambierò qualche parola con loro. Mettiti l'animo in pace, Junius, questa non è la prima volta.» «Sì, signore.» Blaesus salutò, affrettandosi ad uscire per andare ad espletare altre mansioni, lieto di essere sopravvissuto al colloquio, e Marcus lo seguì con lo sguardo, non del tutto soddisfatto, pensando che Quintus Glabrio lo avrebbe accompagnato, invece di accontentarsi di rifilare ad altri il problema. Questa sembrava da parte di Blaesus un'evasione dalle proprie responsabilità, il che costituiva una grave pecca secondo gli standard stoici di Scaurus, il quale pensò che doveva essere per questo che il neocenturione era rimasto tanto a lungo un optio. Quando vide il tribuno che si dirigeva verso di lui, Titus Pullo scattò sull'attenti, un segno evidente di coscienza sporca, e Lucius Vorenus si affrettò ad imitarlo. A parte il continuo contrasto esistente fra loro, i due erano soldati eccellenti, probabilmente i migliori del manipolo, entrambi sulla soglia della trentina, Pullo un po' più robusto, Vorenus forse un po' più scattante. Scaurus indirizzò loro un'occhiata rovente, facendo del suo meglio per assumere un aspetto di severo rimprovero. «Non mi pare che siamo nuovi a situazioni del genere» esordì. «Decurtarvi la paga non è servito a molto, vero?» «Signore...» cominciarono tanto Pullo quanto Vorenus. «Signore, lui...» «Silenzio» ingiunse il tribuno. «Siete entrambi confinati negli alloggiamenti per le prossime due settimane... il che significa che rimarrete qui anche quando i vostri compagni usciranno per le esercitazioni. Dal momento che vi piace tanto discutere per i risultati che ottenete in quel campo, forse imparerete a controllarvi se non avrete nulla di cui discutere.» «Ma signore» protestò Vorenus, «se non ci eserciteremo finiremo per arrugginirci.» Pullo annuì vigorosamente. Quella era almeno una cosa su cui i due erano d'accordo, in quanto entrambi erano orgogliosi di essere indicati come i migliori combattenti del gruppo. «Avreste dovuto pensarci prima di litigare» sottolineò Marcus. «Non vi rammollirete, non in due settimane... vi terrete in forma occupandovi delle pulizie. Potete andare» aggiunse, brusco, ma mentre i due si voltavano per obbedire, con espressione contrita, il tribuno ebbe un ripensamento. «Ancora una cosa. Non commettete l'errore di portare avanti questa stupida lite. Se ci sarà una prossima volta, farò di quello di voi due che sarà colpe-
vole il servitore dell'altro. Pensateci, prima di azzuffarvi.» A giudicare dalla loro espressione, nessuno dei due trovò la prospettiva di suo gradimento e il tribuno, compiaciuto della propria ingegnosità, si avviò per andare a prepararsi per le esercitazioni mattutine, desiderando di poter ordinare a se stesso di concedersi un paio di settimane di riposo, dal momento che anche quella giornata prometteva di essere di un caldo torrido. «Come hai punito i tuoi soldati rissosi?» chiese Senpat Sviodo, la cui risonante voce da tenore conteneva, come sempre, una sfumatura di divertimento. «Devi avermi sentito» rispose Marcus, ma subito si rese conto che, anche se lo aveva sentito, Senpat non poteva averlo compreso, perché nel parlare fra loro i Romani si attenevano ancora al latino, uno dei pochi ricordi che conservavano della patria perduta, mentre le reclute locali lo capivano poco e male, non possedendo la duttilità infantile di Malric nell'apprendimento di nuove lingue. Il tribuno spiegò quindi quale fosse stata la sua decisione. Il sorriso che non svaniva mai per molto dai lineamenti avvenenti del giovane nobile vaspurakano affiorò immediatamente; Senpat aveva un bel sorriso, che esponeva i denti candidi e brillanti sullo sfondo della pelle olivastra del volto incorniciato dalla corta barba tagliata nello stile videssiano. «Voi Romani siete gente strana» commentò Senpat, in un videssiano colorito dal gutturale accento della sua terra natale. «Chi altri punirebbe qualcuno privandolo del suo lavoro?» Marcus sbuffò. Senpat si divertiva a stuzzicare i legionari fin da quando li aveva conosciuti, quasi due anni prima, ma se esisteva un esploratore a cavallo migliore di lui, quello poteva essere soltanto sua moglie, Nevrat. «La tua donna, Nevrat, capirebbe» ribatté il tribuno. «Infatti» ammise il giovane Vaspurakano, ridacchiando. «Ma del resto a lei queste cose piacciono, mentre io mi limito a sopportarle.» Ed esibì una smorfia teatrale per indicare il proprio disgusto nei confronti di qualsiasi tipo di lavoro. «Adesso suppongo che tu ti aspetti che io venga a cuocermi sotto il sole per il gusto di colpire il bersaglio a un capello di distanza dal suo centro.» «Quale modo migliore per punirti per le tue costanti provocazioni?» «Oh, quante cose noi Primi Nati dobbiamo subire per amore della verità» gemette Senpat, alludendo al fatto che i Vaspurakani si ritenevano di-
scendenti di Vaspur, un eroe che, secondo la loro teologia, sarebbe stato il primo uomo creato da Phos. Non c'era nulla di sorprendente nel fatto che i Videssiani non condividessero quella loro convinzione. Il giovane si abbassò su un occhio il cappello vaspurakano con aria disinvolta; indosso alla maggior parte dei suoi connazionali, quel copricapo a tre punte aveva un aspetto strano e goffo, ma lui lo portava con tanta naturalezza da far sì che gli donasse. Senpat gettò indietro il capo, e i nastri a colori vivaci che pendevano dalla parte posteriore della tesa floscia del cappello gli svolazzarono intorno alla testa. «Dal momento che non posso evitarlo» sospirò poi, accennando ad andarsene, «suppongo che farò meglio ad andare a prendere il mio arco.» «Se continuerai a versare lacrime di coccodrillo, ti spunteranno le scaglie» commentò Marcus. Per un momento, Senpat lo fissò con occhio vacuo, perché il gioco di parole non funzionava bene in vaspurakano, poi sussultò e lanciò un'occhiata sospettosa a Scaurus, nel timore che questi avesse in serbo altre battute. Marcus non ne aveva, ma era assai compiaciuto di essere riuscito a metterne insieme una in una lingua che non era la sua... ed una pungente, per di più. «Tienila un po' più in alto, Gongyles, ti dispiace?» avvertì Thorisin Gavras. Gongyles, un tenente molto giovane e dalla barba appena accennata, arrossì visibilmente sotto la scarsa peluria che gli copriva le guance. «Mi dispiace, Vostra Maestà Imperiale» balbettò, pieno di reverenziale meraviglia per il fatto che l'Avtokrator dei Videssiani gli avesse rivolto la parola per un qualsiasi motivo, e sollevò la mappa delle terre occidentali dell'impero in modo che tutti gli ufficiali raccolti nel Palazzo dei Diciannove Divani potessero vederla. L'edificio non conteneva più divani da secoli, ma le tradizioni erano dure a morire, a Videssos. Scaurus, che sedeva su una semplice sedia di legno, davanti ad un tavolo che zoppicava perché aveva una gamba troppo corta, sorrise nel notare il rispetto timoroso dipinto sul volto dell'inesperto ufficiale. «Ricordi come Mavrikios ha obbligato Ortaias a stare là in piedi per ore, reggendo quella dannata mappa?» sussurrò, rivolto a Gaius Philippus. «Alla fine deve aver avuto le braccia a pezzi.» «Gli sarebbe stato bene, se fosse stato davvero così» rise sommessamente il centurione anziano, che nutriva per Ortaias un disprezzo senza limiti, poi il suo volto s'indurì. «In quel caso non sarebbe venuto con noi a Mara-
gha e Mavrikios forse sarebbe ancora vivo. Dannato vigliacco cuor di coniglio. Eravamo in situazione di parità, finché lui non è fuggito.» Pervaso dal disprezzo, Gaius Philippus non si era preoccupato di abbassare troppo la voce, e Thorisin, che era in piedi accanto alla mappa, gli lanciò un'occhiata interrogativa, non comprendendo il latino in cui il veterano si era espresso. Fu quindi la volta di Gaius Philippus di arrossire sotto la forte abbronzatura. «Nulla, signore» borbottò. «D'accordo, allora» replicò l'imperatore, scrollando le spalle. Mavrikios Gavras si era servito di un'asta di legno per guidare lo sguardo dei suoi ufficiali lungo la mappa delle terre occidentali, durante il consiglio tenuto un paio di anni prima. Thorisin era meno paziente del fratello, ed ora estrasse la sciabola dal consunto fodero di cuoio, usandola per indicare i punti che gli interessavano. Nonostante quell'impazienza, però, la carica di imperatore stava cominciando a lasciare il proprio segno su di lui. Le linee ai lati della bocca e del naso orgoglioso erano ora più profonde, anche se Thorisin aveva appena qualche anno più di Scaurus, ed anche intorno agli occhi c'erano dei segni, che non erano stati presenti prima che lui salisse al trono, mentre i capelli cominciavano a diradarsi e quello che era stato un folto ciuffo, sulla fronte, era adesso ridotto ad una ciocca ribelle. Thorisin conservava però il passo energico di un uomo giovane, e bastava una sola occhiata alla bocca forte e agli occhi decisi per vedere che dietro i segni pesanti lasciati su di lui dal dovere e dal tempo c'era sempre un uomo di grande vigore e portamento. «Questo è quanto dovremo fare» aggiunse poi Thorisin, e gli ufficiali si protesero in avanti per ascoltare. Prima di riprendere a parlare, l'imperatore batté con la spada contro la pergamena, chiamando a raccolta i propri pensieri. Come sempre, l'ampia penisola che conteneva le province occidentali dell'impero ricordava a Marcus un pollice nodoso e, avendola percorsa in lungo e in largo, il tribuno sapeva per esperienza che la carta era più precisa di qualsiasi mappa che Roma avrebbe potuto produrre. Purtroppo, essa mostrava con la stessa accuratezza anche le terre che gli Yezda avevano occupato dopo la disfatta di Maragha: gran parte del pianoro centrale era perduto, e i nomadi stavano cominciando ad insediarvisi, premendo ad est verso le fertili pianure che scendevano fino al Mare dei Naviganti. L'imperatore fece quindi scorrere la lama ad ovest lungo il fiume Aran-
dos, che scendeva dalle alture e attraversava l'ampia pianura costiera. «Quei figli di buona donna si stanno servendo della vallata dell'Arandos per arrivarci addosso, ma è una tattica a doppio taglio. I Namdaleni di Drax tapperanno la falla a Garsavra finché potremo mandare loro rinforzi, poi toccherà a noi avanzare verso ovest e reclamare ciò che è nostro... Sì, questa volta hai qualcosa da dirmi, Romano?» «Già, o piuttosto da chiederti» replicò Gaius Philippus, indicando il cerchio rosso che contrassegnava la posizione di Garsavra. «Il tuo grande Conte Drax può anche essere un soldato in gamba, ma come si propone di tenere una città che non ha neppure un dannato accenno di mura?» Nelle terre occidentali, non c'erano quasi città che fossero dotate di fortificazioni perché prima dell'arrivo degli Yezda gli abitanti di quelle aree avevano vissuto per centinaia di anni senza nutrire il minimo timore di invasioni e tutte le strutture difensive esistite in passato erano state abbattute per riutilizzare i materiali di cui erano fatte. Secondo il modo di pensare di Marcus, una terra priva di mura era il miglior risultato che Videssos avesse conseguito, perché indicava una sicurezza molto maggiore di quella che la stessa Roma aveva potuto garantire ai suoi sudditi, in quanto perfino in Italia una città priva di mura sarebbe stata innaturale quanto un corvo bianco. Erano infatti passati appena cinquant'anni da quando Cimbri e Teutoni avevano valicato le Alpi ed avevano chiesto ai legionari di Mario, venuti a sbarrare loro il passo, se ci fosse qualche messaggio che volevano affidare ai barbari, perché fosse riferito alle spose che li attendevano a casa. «Non temere, straniero, terranno la città» intervenne Uptrand figlio di Dagober, con pesante accento namdaleno. «Drax non è certo un granché come Namdaleno, ma i suoi uomini terranno duro.» Il grande conte aveva adottato troppe usanze videssiane per i gusti del suo connazionale, e fra i due ci doveva essere anche qualche antica inimicizia, per quanto Scaurus non fosse al corrente dei dettagli. «Voi Romani siete bravi ad innalzare difese nel giro di una notte, ma anche noi conosciamo qualche trucchetto» aggiunse Soteric figlio di Dosti, dando sostegno al suo capitano. Il fratello di Helvis aveva prestato servizio presso l'impero più a lungo di Uptrand ed aveva quindi perso in buona misura il proprio accento isolano. «Concedi ad uno dei nostri reggimenti dieci giorni in un posto, e gli vedrai innalzare un muro e una rocca capace di proteggerlo. Garsavra può anche essere senza mura, ma non le mancherà una roccaforte.» Non per la prima volta, Marcus pensò che suo cognato parlava troppo.
Mertikes Zigabenos, infatti, lo fissò con aria accigliata, e così anche parecchi altri ufficiali videssiani, mentre lo stesso Thorisin non parve eccessivamente felice, alla prospettiva di veder sorgere sulle sue terre un castello difeso da Namdaleni, per quanto attualmente potesse averne bisogno. Pur assoldando mercenari namdaleni, infatti, i Videssiani non si fidavano di loro, perché Namdalen era stata una provincia dell'impero prima di essere conquistata dai corsari halogai, un paio di secoli prima; il popolo misto che era derivato dalla conquista aveva combinato le tradizioni imperiali videssiane con l'ambizione e il barbaro amore per la battaglia tipici dei nordici, ed ora i Duchi di Namdalen sognavano di governare un giorno insediati nella capitale imperiale, un sogno che per i Videssiani costituiva invece un incubo. «Con la cavalleria pesante di cui disponete» osservò Zigabenos, rivolto ad Uptrand, «voi isolani non dovreste essere ridotti a svolgere un semplice servizio di guarnigione. Quando il grosso delle nostre forze raggiungerà Garsavra, di certo potremo insediare truppe meno preziose nella fortezza edificata da Drax.» «Non è stato astuto?» sussurrò Gaius Philippus, in tono ammirato, e Marcus annuì. Quale modo migliore per allontanare gli isolani da una posizione che poteva rivelarsi pericolosa per l'impero che far apparire quell'allontanamento come un complimento rivolto alla loro abilità di combattenti? Zigabenos possedeva in misura notevole la capacità videssiana di mescolare politica e guerra, come dimostrava il fatto che era stato lui a scatenare in città i disordini che avevano portato alla detronizzazione di Ortaias e che avevano restituito l'impero a Thorisin Gavras. Uptrand, però, non era giunto al rango di comandante del suo reggimento soltanto per la forza del suo braccio, ed anche se non apprezzava la sottigliezza, tuttavia celava una notevole arguzia dietro i freddi occhi azzurri. «Sarà il tempo a parlare» replicò, scrollando le spalle, con un fatalismo degno dei suoi pagani antenati halogai. La conversazione si spostò quindi sulla questione dello schieramento di marcia, sul problema dei centri di rifornimento dei viveri e su tutte le altre minuzie che accompagnavano sempre una campagna di quelle dimensioni; per quanto avesse già attraversato in precedenza le terre occidentali, Marcus ascoltò con attenzione, perché i dettagli erano sempre importanti. Un paio di capitani khamorth, invece, apparivano decisamente annoiati; quei nomadi costituivano ottimi esploratori e razziatori, essendo altrettanto mobili quanto gli Yezda, loro distanti cugini, ma non erano interessati ad
altro che allo scontro vero e proprio, ed ai loro occhi tutti questi preparativi apparivano come uno spreco di tempo. Uno dei due uomini delle pianure prese a russare, e smise soltanto quando il Videssiano che gli sedeva accanto gli assestò un calcio alla caviglia, sotto il tavolo. Il Khamorth si svegliò di soprassalto, farfugliando improperi. Sebbene i loro modi fossero rozzi, comunque, i nomadi avevano le idee ben chiare per quanto concerneva gli aspetti realistici del loro mestiere di mercenari, ed uno di essi fece in modo di attirare lo sguardo di Thorisin, durante una pausa della discussione. «Cosa c'è, Sarbaraz?» chiese l'imperatore, intuendo che il Khamorth aveva qualche osservazione da fare. «Tu non finisci soldi metà della lotta?» chiese Sarbaraz, in tono ansioso. «Noi combattiamo per tuo Ort'iash, lui dà più promesse che oro, e suo oro neppure molto buono.» Era vero, perché Ortaias Sphrantzes aveva svilito la moneta videssiana al punto che quella che era definita una moneta d'oro era giunta ad essere costituita di quel metallo per meno di un terzo del suo peso. «Sarete pagati, non temete» replicò Gavras, socchiudendo gli occhi in un gesto di irritazione. «E sapete che io non conio monete scadenti.» «Vero, vero... in città. Andiamo lontano da città, da... come dici?... tesoreria, allora cosa? Allora forse tu finisci denaro, come io dico. Miei ragazzi non contenti se questo succede... forse compensano paga mancante prendendo nelle campagne.» Sarbaraz sorrise con insolenza, esponendo i denti storti; i Khamorth non avevano nessuna considerazione dei contadini, se non come prede. «Per Phos, ti ho garantito che sarete pagati!» gridò Thorisin, che ora era davvero furente. «E se i tuoi banditi cominceranno a saccheggiare, scatenerò contro di voi il resto dell'esercito, e poi vedremo quanto questo vi piacerà!» Thorisin trasse un profondo respiro, poi un altro ancora, cercando di calmarsi. Prima di diventare imperatore, pensò Marcus, con approvazione, si sarebbe lasciato prendere la mano dall'ira, mentre adesso quando riprese a parlare lo fece con studiata ragionevolezza. «Porteremo con noi monete in quantità sufficiente per le necessità dell'esercito, e anche se la campagna dovesse protrarsi più del previsto, non dovremo mandare corrieri in città a prelevare altri pezzi d'oro, perché basterà rivolgerci alla zecca locale, a... a...» Thorisin fece schioccare le dita con irritazione, incapace di ricordare il nome della città, perché era un soldato
per natura, e trovava tanto seccante tenere a mente i particolari relativi alle tasse e agli introiti quanto i Khamorth si seccavano a discutere dei problemi concernenti gli accampamenti e le scorte di viveri. «Kyzikos» gli venne in aiuto Alypia Gavra. Com'era solita fare, la nipote dell'imperatore era rimasta seduta in silenzio, prendendo di tanto in tanto qualche appunto per la storia che stava scrivendo, e la maggior parte degli ufficiali, abituata alla sua silenziosa presenza, non aveva fatto caso a lei. Dal canto suo, Marcus avvertì il consueto miscuglio di desiderio, di colpa e di paura che Alypia destava sempre in lui; il fatto che provasse per la principessa qualcosa di più di una semplice simpatia non serviva certo a rasserenare la sua tempestosa vita con Helvis, anche perché sapeva che quei sentimenti erano almeno in parte ricambiati. Era a questo punto che interveniva la paura, perché se qui a Videssos un mercenario non poteva neppure sperare di possedere un castello, cosa sarebbe accaduto ad uno di essi che avesse posseduto una principessa? «La zecca di Kyzikos è a sudest di Garsavra, non molto lontano» stava spiegando Alypia, rivolta a Sarbaraz. «In effetti, è stata fondata inizialmente come centro per pagare le nostre truppe durante la guerra contro Makuran... vediamo...» I suoi occhi verdi assunsero un'espressione pensosa. «Meno di seicento anni fa.» Il nomade non aveva gradito di essere costretto a stare ad ascoltare una donna, anche se appartenente alla famiglia imperiale, e nel sentire quelle ultime parole fissò la principessa con espressione apertamente incredula. «D'accordo, voi avete zecca, noi riceviamo denaro. Niente bisogno prendermi in giro... chi può ricordare sei volte cinque ventine di anni?» Sarbaraz tradusse in videssiano il sistema numerico del suo popolo, e Scaurus si chiese cosa ne avrebbe pensato Gorgidas. Probabilmente, il Greco avrebbe affermato che il metodo risaliva al tempo in cui i Khamorth non sapevano contare al di là del numero complessivo delle loro dita, delle mani e dei piedi, e del resto in quel momento Gorgidas stava certo vedendo Khamorth in abbondanza lui stesso. «Skotos si porti quel rude barbaro» sussurrò un ufficiale videssiano ad un altro, a portata di udito di Scaurus. «Dubita forse delle parole della principessa?» «Non intendevo deriderti» replicò però Alypia, rivolta a Sarbaraz, usando la stessa cortesia che avrebbe mostrato nel porgere le sue scuse a un grande nobile. La principessa non possedeva lo stesso temperamento focoso che caratterizzava suo zio e che era talvolta affiorato anche in suo pa-
dre, Mavrikios, così come i suoi lineamenti non erano taglienti come quelli dei maschi della sua famiglia, anche se Alypia aveva come loro un viso stretto e ovale. Marcus si chiese che aspetto avesse avuto la madre della ragazza, perché la moglie di Mavrikios era morta alcuni anni prima che lui diventasse Avtokrator. Comunque, dal momento che pochissimi Videssiani avevano gli occhi verdi, quella caratteristica doveva provenire dal ramo materno della sua famiglia. «Quando hai intenzione di dare inizio alla campagna militare di questa stagione?» stava intanto chiedendo a Thorisin uno degli altri ufficiali. «Avrei voluto iniziarla già da alcune settimane» scattò l'imperatore. «Possa Onomagoulos marcire nell'inferno di Skotos per avermi rubato questo tempo... sì, insieme a tutti gli uomini di cui la sua ribellione ha causato la morte. Le guerre civili costano il doppio ad una nazione, perché tanto vincitori che vinti appartengono ad essa.» «Fin troppo vero» borbottò Gaius Philippus, rammentando la propria gioventù e le lotte fra gli uomini di Siila e i sostenitori di Mario... per non parlare della Guerra Sociale che aveva visto Roma contrapposta ai suoi alleati italici. Il centurione alzò quindi il tono di voce per rivolgersi a Gavras. «Non possiamo prepararci per una data scaduta già da settimane, lo sai.» «Neppure voi Romani?» ribatté l'imperatore, con un sorriso e con un tono di sincero rispetto nella voce. I legionari avevano insegnato a Videssos più di quanto l'impero avesse mai saputo, in merito alla prontezza nel prepararsi a partire. Thorisin si massaggiò il mento, riflettendo. «Fra otto giorni» decretò infine. Un coro di gemiti si levò da parecchi ufficiali. «Chiedi la luna, già che ci sei!» borbottò uno dei Namdaleni, Clozart Braghe di Cuoio, ma Uptrand lo zittì con un'occhiata rovente; quando rivolse uno sguardo interrogativo al cupo mercenario, l'imperatore ottenne un cenno di assenso che ricambiò, soddisfatto, perché la parola di Uptrand, in questo genere di cose, era affidabile. Gavras, d'altronde, non si preoccupò neppure di chiedere una conferma ai Romani, e Scaurus e Gaius Philippus si scambiarono un sogghigno compiaciuto: avrebbero potuto essere pronti nella metà degli otto giorni concessi da Thorisin, e lo sapevano. Era gratificante constatare che lo sapeva anche l'imperatore. Quando la riunione si sciolse, Marcus sperò di riuscire a scambiare qual-
che parola con Alypia Gavra, perché in un mondo pieno di cerimoniali, come quello di Videssos, simili occasioni si presentavano di rado, ma Mertikes Zigabenos attaccò discorso con lui mentre si avviavano oltre le lucide porte di bronzo del Palazzo dei Diciannove Divani. «Spero che tu sia soddisfatto del prete-guaritore che ti ho procurato» osservò Zigabenos. Nella maggior parte delle situazioni, Scaurus avrebbe risposto con una cortese frase di circostanza perché in fin dei conti Zigabenos aveva cercato di fare un favore a lui e ai suoi uomini, ma la vista di Alypia che si allontanava con suo zio verso le camere private della famiglia imperiale ebbe l'effetto di irritarlo abbastanza da spingerlo ad essere franco. «Non avresti potuto trovarne uno che non bevesse così tanto?» chiese a sua volta, e il viso avvenente di Zigabenos divenne gelido. «Sono certo che mi perdonerai per questo» ribatté. «Ora, se mi vuoi scusare...» E con un inchino calcolato apposta perché fosse infinitesimale, si allontanò a grandi passi. «Come sei riuscito a pestargli i piedi?» volle sapere Gaius Philippus, accostandosi a Marcus e osservando il Videssiano che se ne andava con eretta indignazione. «Non dirmi che gli hai risposto con schiettezza.» «Temo proprio di sì» ammise il tribuno, e rifletté che c'erano occasioni in cui non si poteva commettere un errore peggiore, con un Videssiano. Il trambusto dei preparativi non impedì ai Romani di continuare le loro esercitazioni mattutine. Un giorno, al rientro dal terreno di addestramento, Marcus trovò gli alloggiamenti in uno stato di sporcizia e di disordine tale che neppure la confusione prodotta dalla partenza imminente poté indurlo a chiudere un occhio. Irritato, andò in cerca di Pullo e di Vorenus, perché non era da loro lasciare a mezzo qualsiasi lavoro, anche uno umile come le pulizie degli alloggiamenti. Trovò i due legionari in piedi sotto il sole, uno accanto all'altro, dietro uno degli edifici riservati agli scapoli. I due abbandonarono il loro atteggiamento piuttosto rigido non appena lo videro svoltare l'angolo, e subito Scaurus si riempì d'aria i polmoni, preparandosi ad una sfuriata. Styppes però, che se ne stava comodamente seduto all'ombra di una delle piante di limoni che circondavano gli alloggiamenti dei Romani, lo prevenne. «Perché avete abbandonato la posa, miserabili barbari? Riassumetela
all'istante... ho appena cominciato i miei abbozzi!» Scaurus, che in precedenza non aveva notato il prete seduto all'ombra, puntò verso di lui, ignorando i due legionari. «Signore, chi ti ha dato l'autorità di distogliere i miei uomini dai doveri che avevo loro assegnato?» Socchiudendo gli occhi, il prete emerse alla luce del sole, con parecchi fogli di pergamena e un carboncino stretti in una mano. «Cosa ha maggiore importanza» domandò, «le insignificanti preoccupazioni di questa esistenza oppure l'immortale gloria di Phos, che dura in eterno?» «Questa esistenza è la sola che io conosca» ribatté il tribuno; Styppes indietreggiò di un passo con orrore, come se si fosse trovato di fronte ad una bestia selvatica, e si tracciò sul petto il segno del sole che rappresentava il suo dio, borbottando al tempo stesso una rapida preghiera contro la blasfema affermazione di Marcus. Dal canto suo, Scaurus si rese conto di essersi spinto troppo oltre, perché in un luogo intriso di teologia quale era Videssos, una risposta come la sua avrebbe potuto addirittura scatenare dei disordini, e si affrettò a fare marcia indietro. «Che io sappia, nessuno di questi due soldati segue la religione di Phos» aggiunse, e lanciò un'occhiata a Pullo e a Vorenus che, presi fra il prete e il loro comandante, annuirono nervosamente. Infine, Marcus tornò a rivolgersi a Styppes. «Che cosa vuoi quindi da loro?» «È una domanda giusta» convenne Styppes, sia pure con riluttanza, ma continuò a fissare il tribuno con poca simpatia. «Anche se Skotos trascinerà indubbiamente le loro anime pagane nell'eterno ghiaccio degli inferi, tuttavia l'aspetto dei loro corpi è degno di essere commemorato. Mi servivano i loro ritratti per le icone dei santi seguaci di Phos Akakios e Gourias, che sono entrambi raffigurati come uomini giovani e privi di barba.» «Tu dipingi icone?» chiese Marcus, sperando che il proprio scetticismo non trapelasse dalla voce e pensando che tra poco quel grasso ubriacone avrebbe sostenuto anche di saper deporre le uova. Styppes, però, parve prenderlo sul serio. «Sì» rispose, porgendo al Romano i suoi fogli di pergamena. «Devi capire che questi sono soltanto abbozzi, e per di più di qualità scadente. Il carboncino, inoltre, non è adatto, perché quegli stupidi del monastero usano il legno di noce, mentre quello di mirto permette di tracciare linee più sottili e chiazza di meno.» Il tribuno non sentì quasi le lamentele del prete, perché era intento a sfo-
gliare rapidamente i disegni, con gli occhi che gli si dilatavano sempre di più a mano a mano che li osservava. Qualsiasi altra cosa fosse, Styppes era di certo un artista, dal momento che con pochi abili tratti aveva raffigurato le caratteristiche salienti di ciascun Romano: il naso forte e gli zigomi angolosi di Pullo, le folte sopracciglia e la bocca pensosa di Vorenus, insieme alla cicatrice che gli segnava il mento. Anche Pullo era sfregiato, ma il ritratto di Styppes non riportava i segni da lui accumulati nelle battaglie. «Perché hai rappresentato le ferite di uno soltanto dei due?» chiese Marcus, abituato ai ritratti romani, che potevano essere di un realismo addirittura brutale. «Il santo Gourias era un soldato che ha subito il martirio difendendo un altare di Phos contro i pagani Khamorth, e deve quindi essere rappresentato con le stigmate di un guerriero. Akakios Klimakos, invece, era famoso per la sua carità e non aveva esperienza di guerra.» «Ma Pullo è sfregiato» protestò il tribuno. «E allora? A me non importano i tuoi barbari per come sono... perché dovrebbero interessarmi? Come rappresentanti di coloro che sono stati ritenuti degni da Phos, tuttavia, essi acquistano una minima importanza, quindi perché dovrei tradire l'ideale a vantaggio dei loro effettivi lineamenti, là dove essi non corrispondono a quell'ideale? A me interessano i santi Klimakos e Gourias, non i tuoi Pullus e Voreno, o come si chiamano.» Styppes scoppiò a ridere a quell'idea. La sua teoria dell'arte era l'esatto opposto di tutto ciò che Scaurus dava per scontato, ma il disprezzo che l'accompagnava irritò troppo il tribuno perché questi vi badasse. «In questo caso, mi farai il favore di non distrarre i miei uomini dagli incarichi loro assegnati, perché ciò che interessa a me è di vedere adempiuti quei doveri.» «Impudente pagano!» inveì Styppes. «Per nulla» replicò il tribuno, volendo evitare di crearsi un aperto nemico. «Come tu hai le tue preoccupazioni, però, io ho le mie. Il tuo Gourias comprenderebbe il dovere che un soldato ha verso il suo comandante... e il danno che può derivare dall'indebolire tale rapporto.» «Questa è un'argomentazione che non mi sarei aspettato da un miscredente» osservò il prete, stupito, e nei suoi occhi arrossati apparve un'espressione astuta. Marcus allargò le mani, pronto ad accettare qualsiasi compromesso che
potesse funzionare, anche se lo ammise soltanto fra sé. «D'accordo, allora» concesse il prete. «Forse sono stato affrettato nel giudicarti.» «Quello che gli uomini fanno nel loro tempo libero non mi riguarda, e se hanno piacere di posare per te, io non ho nulla in contrario» affermò il tribuno, sollevato di essere riuscito a spianare la situazione. «E cosa mi dici di te?» domandò Styppes, con aria sempre più astuta. «Di me?» «Proprio. Fin dalla prima volta che ti ho visto, ho saputo che saresti stato un ottimo modello per il ritratto del santo Kveldulf l'Haloga.» «Il santo chi?» esclamò Marcus, sorpreso. Gli Halogai vivevano nelle terre fredde a nord di Videssos e anche se alcuni di essi servivano l'impero, più spesso erano pirati e razziatori. E per quel che ne sapeva Scaurus adoravano i loro cupi dèi e non Phos. «Come ha fatto un Haloga a diventare un santo videssiano?» «Kveldulf ha esaltato la vera fede durante il regno di Stavrakios, di riverita memoria.» Styppes si tracciò sul petto il segno del sole. «L'ha anche predicata ai suoi connazionali, fra i loro fiordi coperti dai ghiacci, ma essi non lo hanno voluto ascoltare. Volevano legarlo ad un albero, per ucciderlo a colpi di lancia, ma Kveldulf è rimasto fermo davanti alle loro armi, scegliendo di morire in un modo che servisse alla gloria di Phos.» Il tribuno pensò che non c'era da meravigliarsi che gli Halogai non avessero accolto le prediche di Kveldulf: Stavrakios aveva sottratto loro con la conquista la provincia di Agder, e gli Halogai dovevano aver visto Kveldulf come un'avanguardia che doveva precedere un'invasione ancora maggiore, dal momento che Videssos si serviva spesso della religione per portare avanti i suoi fini politici. «Perché proprio io?» si limitò però a chiedere il tribuno, evitando di esporre a Styppes il proprio ragionamento. «Non ho l'aspetto di un Haloga.» «È vero. Tratto per tratto, il tuo viso potrebbe quasi essere quello di un Videssiano, ma tanto meglio così. Tu sei biondo come un nordico, e per tuo tramite posso rappresentare il santo Kveldulf in modo da rendere le sue origini evidenti anche per gli adoratori illetterati, rappresentando però al tempo stesso simbolicamente la sua accettazione della vera fede dell'impero.» «Oh.» Marcus accennò a grattarsi la testa ma poi si frenò, per evitare di rivelare la propria confusione al prete-guaritore, desiderando al tempo stesso che Gorgidas fosse al suo. fianco per dare un senso al discorso di
prototipi e di simboli portato avanti da Styppes. Se c'era qualcuno che poteva capirci qualcosa, quello era il Greco, perché per i cocciuti Romani un ritratto era soltanto un ritratto, da giudicare in base alla misura in cui riusciva ad essere aderente all'originale. Ancora sconcertato, annuì vagamente quando Styppes tornò ad insistere perché posasse per lui, e inflisse a Pullo e a Vorenus una reprimenda che era abbondantemente al di sotto di ciò che meritavano. Stentando a credere alla loro buona sorte, i due legionari salutarono e sparirono prima che lui avesse il tempo di raccogliere le idee. Se Kveldulf predicava come Styppes, pensò il tribuno, allora i suoi barbari connazionali avevano avuto valide ragioni per martirizzarlo. Nonostante l'interferenza di Styppes, i preparativi dei legionari procedettero senza eccessivi intralci. I Romani superstiti erano abituati da sempre a smontare i quartieri d'inverno, e le reclute che si erano unite a loro con il passare del tempo, tenute assiduamente d'occhio dai veterani, si comportarono bene. Lo spirito che pervadeva gli uomini di Scaurus infatti era notevole, e i nuovi venuti videssiani si sentivano stimolati ad essere all'altezza degli standard stabiliti dai Romani. Le reclute svolsero il loro lavoro con tanta efficienza da soddisfare perfino Gaius Philippus, che non inflisse loro sfuriate peggiori di quelle che riservò ad uomini provenienti dal Latium o dall'Apulia, anche perché il centurione anziano era distratto da un problema che non era facile da risolvere quanto il comportamento di un soldato riottoso. Tre giorni prima del momento fissato per la partenza dell'esercito videssiano dalla capitale, il veterano si recò da Marcus e si mise rigidamente sull'attenti, il che costituiva già di per sé un segnale di pericolo, perché di solito Gaius Philippus non si preoccupava di badare a formalità del genere, a meno che avesse intenzione di dire qualcosa che Scaurus non avrebbe ascoltato con piacere. Quando notò il livido che spiccava sotto un occhio del centurione, il tribuno sentì la propria preoccupazione raddoppiare di colpo... possibile che qualche legionario fosse stato tanto stupido da colpire Gaius Philippus? In questo caso, il centurione doveva essere in procinto di riferire il decesso di uno dei suoi uomini. «Allora?» chiese infine, notando che Gaius Philippus continuava a rimanere in silenzio. «Signore» rispose il veterano, poi indugiò tanto a lungo da indurre Marcus a temere che la sua prima, affrettata supposizione fosse stata esatta. In-
fine, come se una diga si fosse infranta dentro di lui, il centurione anziano sbottò: «Signore, non c'è un modo per poter lasciare qui quelle dannate gonnelle? Gli uomini renderanno meglio senza di loro, davvero, non dovendo preoccuparsi delle liti che li aspettano la sera o dei marmocchi che magari hanno vomitato la cena.» «Mi dispiace, ma la risposta è no» rispose subito Scaurus. Sapeva che Gaius Philippus non aveva mai veramente accettato l'idea che i Romani si prendessero delle compagne, perché questo andava contro ogni tradizione delle legioni ed anche contro la natura stessa del veterano, per il quale le donne erano soltanto una fonte di rapido piacere. Al di là di questo, qualsiasi rapporto con esse esulava dalla sua comprensione. Le usanze di Videssos erano però diverse da quelle di Roma. Le compagnie di mercenari che servivano agli ordini dell'Avokrator si portavano abitualmente dietro nelle campagne le spose e le amanti, per cui Marcus non se l'era sentita di negare ai suoi uomini un privilegio goduto da tutto il resto dell'esercito. «Cosa è andato storto?» insistette il tribuno. «Storto?» esclamò Gaius Philippus, ululando quasi la parola, per la frustrazione. «Non c'è una sola dannata cosa che vada diritta con quelle maledette donne idiote! E quando qualcosa va per il verso giusto, loro guastano tutto per il puro gusto di farlo. Scaurus, avresti dovuto vedere cosa stava combinando la sciattona che mi ha rifilato questo...» Il centurione si tastò la guancia con cautela. «Raccontami tutto.» Marcus sapeva che il centurione anziano aveva bisogno di sfogare la rabbia che aveva dentro, ed era più che disposto ad ascoltarlo. «Per uno di quegli speciali miracoli concessi da Giove, quella cagna chiamata Myrrha... è la donna di Publius Flaccus, se non lo sai... era riuscita... in cinque giorni, bada bene... a raccogliere tutta la sua roba in tre sacchi, ciascuno abbastanza grande da spezzare le reni a qualsiasi asino mai esistito. Comunque, sia come sia: almeno aveva raccolto tutto. «E poi il suo piccolo tesoruccio ha cominciato a piangere perché voleva un dolce, e possano gli dèi castrarmi se quella donna non ha svuotato per terra tutte le sue cianfrusaglie finché non ha trovato un dolcetto al miele. Io ero presente, sai, e la scena deve essere durata un buon quarto d'ora... dopo di che sono esploso. Ed è stato a quel punto che mi sono procurato questo livido.» Il tonante grido da terreno da parata di Gaius Philippus era tale da stac-
care l'intonaco dai muri, e Scaurus decise che questa Myrrha doveva essere una ragazza dallo spirito notevole, per resistere ad esso. Abituato all'aspra disciplina delle legioni, il centurione anziano si era da tempo dimenticato che esistevano modi più gentili, e soprattutto era furibondo per essere stato offeso senza avere la possibilità di vendicarsi. «Suvvia, ora basta» decise infine Marcus, passando un braccio intorno alle spalle dell'uomo più anziano. «Stavi facendo il tuo dovere, il che era giusto. Ma ti pare che valga la pena lasciare che qualcuno che è fuorviato e che ignora ciò che è giusto ti faccia infuriare tanto?» «Ci puoi scommettere» ringhiò Gaius Philippus, e Scaurus sussultò di fronte al misero fallimento del potere rilassante dello stoicismo. Nonostante la crisi di rabbia del veterano... e grazie soprattutto al suo duro lavoro... i legionari ultimarono i preparativi parecchio tempo prima del termine fissato da Thorisin, che però giunse e passò senza che l'esercito partisse, non soltanto perché alcuni distaccamenti... si trattava soprattutto di mercenari khamorth, e di alcune unità videssiane... non erano ancora pronti, ma anche perché il numero delle navi era sempre troppo scarso per garantire il trasporto delle truppe, nonostante tutti gli sforzi del drungarios della flotta, Taron Leimmokheir. La rivolta di Onomagoulos, infatti, aveva provocato una spaccatura all'interno della flotta, e quello era un altro campo in cui le conseguenze della breve guerra civile continuavano a farsi sentire. «Leimmokheir sta cercando di finire di nuovo in galera» rise Senpat Sviodo, ma dietro la sua battuta c'era una certa dose di verità, in quanto il drungarios aveva trascorso alcuni mesi in prigione quando Thorisin Gavras lo aveva erroneamente ritenuto complice di un complotto per assassinarlo, ed avrebbe potuto benissimo finirci di nuovo se fosse davvero venuto meno alle aspettative dell'irascibile imperatore. Navi di tutte le forme e dimensioni, dai grandi mercantili che di solito trasportavano grano ai piccoli pescherecci dalle vele latine si radunarono nei porti di Videssos, e presto parve che nella capitale ci fosse un numero di marinai pari a quello dei soldati, perché gli uomini di mare, tutti Videssiani, sciamarono nelle taverne e nelle osterie cittadine, dove si azzuffarono spesso con i mercenari, a volte per divertimento, a volte provocando spargimenti di sangue. Marcus pensò molto a Viridovix, in quel periodo, chiedendosi come se la fosse cavata durante la navigazione fino a Prista. Se avesse saputo quello che si stava perdendo, il rissoso Celta sarebbe probabilmente tornato in-
dietro, anche a costo di nuotare, perché nessuno lo aveva mai visto tirarsi indietro di fronte ad una rissa da taverna. Ora che i moli di Videssos erano affollati di navi, pigiate murata contro murata, l'arrivo di un ennesimo mercantile da Kypas non avrebbe dovuto fare nessuna differenza, ma quella nave portava a bordo molto più del carico di vino che aveva nella stiva, e le notizie che giunsero con essa si diffusero per la capitale con la rapidità di un incendio, perché, a Videssos, ciò che era noto a due persone diventava presto di dominio comune. Fu Phostis Apokavkos a recare la notizia agli alloggiamenti dei Romani, in quanto il Videssiano aveva molti contatti in città, avendo cercato di sbarcare il lunario alla meno peggio nei bassifondi di Videssos, prima che Scaurus lo accogliesse nella legione come Romano onorario. Apokavkos entrò a precipizio, con il lungo volto arrossato dall'ira. «Dannati quegli sporchi stranieri!» gridò. Parecchie teste si sollevarono di scatto e molte mani si allungarono verso la spada: Videssos era una città cosmopolita e al tempo stesso xenofoba, dove un grido del genere costituiva anche troppo spesso un richiamo per folle infuriate. Quando si accorsero che si trattava soltanto di Apokavkos, i legionari si rilassarono e imprecarono contro di lui per averli spaventati. «Stai includendo anche noi, Phostis?» chiese Scaurus, in tono pacato. «Cosa? Oh, no, signore!» esclamò Apokavkos, sconcertato, e sollevò di scatto la mano in un perfetto saluto romano. C'erano delle occasioni, pensò il tribuno, in cui quel Videssiano era più romano dei Romani stessi; la legione gli aveva offerto una possibilità che non aveva mai avuto nella sua fattoria del lontano ovest e neppure nella capitale, ed in cambio aveva ottenuto la sua assoluta fedeltà, come dimostrava il fatto che Apokavkos si radeva, imprecava in latino e, unico fra le reclute che si erano unite agli uomini di Marcus qui a Videssos, portava sulla mano il marchio dei legionari. «Sono quei dannati eretici namdaleni detestati da Phos, signore» cominciò a spiegare Apokavkos che, sotto alcuni aspetti, continuava peraltro ad essere un Videssiano. «Gli uomini di Uptrand?» Scaurus tornò a farsi attento, e così anche i suoi uomini. I Romani avevano già prestato servizio una volta durante una serie di disordini, con l'incarico di tenere separati la marmaglia cittadina e i mercenari del Ducato, ed era un tipo di lavoro tale da rivoltare lo stomaco a chiunque. «No, non quei dannati...» replicò però Apokavkos, scuotendo il capo,
«...qui ci sono uomini onesti a sufficienza per tenerli al loro posto.» Il Videssiano sputò per terra con disgusto. «Sto parlando di quelli di Drax.» «Cosa intendi dire? Parla, uomo!» gridarono i legionari, ma Marcus sentì il cuore mancargli un battito, perché aveva l'orribile sensazione di sapere cosa l'altro avrebbe detto. «Quel pirata figlio di buona donna» affermò infatti Apokavkos. «Lo hanno mandato dall'altra parte del Guado del Bestiame per abbattere un ribelle e ora crede di essere un re. Quel figlio di Skotos ci ha rubato le terre occidentali!» CAPITOLO SECONDO «Terra!» gridò la vedetta, dall'alto dell'albero di maestra del Conquistatore. «Och, gli dèi siano lodati!» gracchiò Viridovix. «Credevo che si fossero dimenticati quella parola.» Il colorito del Gallo, normalmente roseo, era adesso giallastro, i lineamenti erano tesi, e un sudore freddo gli impastava i capelli rossi e i lunghi baffi spioventi mentre lui si teneva aggrappato alla murata del Conquistatore, in attesa del prossimo attacco di mal di mare. Non dovette aspettare molto, perché una folata di brezza gli portò alle narici il puzzo dell'olio bollente e del pesce che friggeva nella cambusa, a poppa, e quell'odore scatenò in lui una nuova crisi di vomito che gli rigò le guance di lacrime. «Sono tre giorni, ormai!» gemette. «Una settimana così e sarò un cadavere.» Nella sua angoscia, si espresse in celtico, una lingua che nessuno a bordo... nessuno in tutto quel mondo... era in grado di capire, ma non fu per questo che l'equipaggio e i diplomatici a cui si era aggregato lo guardarono con curiosità e con pietà. Le acque del Mare Videssiano erano calme fino ad essere quasi piatte, e c'era da meravigliarsi che qualcuno potesse sentirsi male con un tempo così favorevole. Viridovix imprecò contro il suo stomaco debole, poi si dovette interrompere quando l'organo in questione si vendicò delle sue invettive. Gorgidas emerse in quel momento dalla cambusa con una ciotola di fumante brodo di carne; il Greco poteva anche sostenere di aver rinunciato alla medicina a favore della storia, ma in cuor suo continuava ad essere un medico e le condizioni di Viridovix lo preoccupavano, soprattutto perché
non condivideva e non riusciva a capire quella debolezza del peraltro robusto Gallo. «Prendi, bevi questo» disse. «Portalo via!» esclamò Viridovix. «Non lo voglio.» Gorgidas lo trapassò con un'occhiata rovente: se c'era una cosa che non mancava mai di destare la sua ira, quella era un paziente deliberatamente stupido. «Preferiresti avere conati a vuoto, magari? Continuerai a vomitare finché arriveremo in porto... quindi da' almeno al tuo stomaco qualcosa da vomitare.» «Certo che il mare è un posto orribile» commentò il Gallo, ma finì per trangugiare il brodo sotto lo sguardo implacabile di Gorgidas. Pochi minuti più tardi, lo vomitò quasi tutto. «Dannazione! La peste si prenda quel maledetto furfante che ha inventato le barche. È una vergogna, che io mi trovi su una di esse per colpa di una donna.» «E cosa ti aspettavi, dopo essere incorso nelle ire dell'amante dell'imperatore?» Quella di Gorgidas era una domanda retorica... la stupidità di Viridovix lo irritava. Komitta Rhangavve aveva un carattere tanto rovente da poter arrostire la carne, e quando Viridovix aveva rifiutato di abbandonare per lei le altre donne che aveva, aveva minacciato di andare da Thorisin Gavras accusando il Gallo di averle usato violenza, il che aveva determinato l'improvvisa partenza di quest'ultimo da Videssos. «Sì, probabilmente hai ragione, maestro, ma è inutile che tu mi faccia la predica» ribatté Viridovix, squadrando Gorgidas. «Per lo meno, io non sto fuggendo da me stesso.» Il dottore rispose con un grugnito, perché il commento di Viridovix conteneva una dose di verità sufficiente a causargli disagio... quel Celta era un barbaro, ma era tutt'altro che stupido. Dopo che Quintus Glabrio era morto fra le sue mani, Gorgidas aveva cominciato a vedere come futile e vuota l'arte che aveva praticato per tutta la vita: a cosa serviva, infatti, se non aveva potuto salvare chi gli era caro? La storia, almeno, offriva qualche speranza di utilità senza un coinvolgimento a livello personale. Il Greco dubitava di poter spiegare tutto questo al Gallo, e non desiderava neppure farlo, ma in ogni caso quell'unica frase di Viridovix riassumeva fin troppo bene tutti i suoi ragionamenti. Arigh figlio di Arghun si diresse verso di loro lungo il ponte, salvando il dottore dal dover decidere cosa rispondere; perfino quel nomade proveniente dalle steppe oltre il fiume Shaum non aveva problemi a viaggiare
per mare. «Come sta?» chiese a Gorgidas, in un videssiano reso secco e scandito dall'accento del suo popolo. «Non molto bene» spiegò candidamente il Greco, «ma se hanno avvistato la terraferma, dovremmo arrivare a Prista oggi pomeriggio, e questo gli permetterà di rimettersi.» La piatta faccia bruna di Arigh era impassibile come al solito, ma un'espressione maliziosa gli brillava negli occhi obliqui. «Anche un cavallo va su e giù, sai, Viridovix» commentò. «Soffri il mal di cavallo? Te lo chiedo perché dovremo cavalcare a lungo.» «No, non soffrirò il mal di cavallo, serpente di un Arshaum» ribatté il Celta, imprecando contro l'amico con tutta l'energia concessagli dal proprio corpo indebolito. «E adesso vattene, prima che vomiti sui tuoi eleganti stivali di pelle di pecora.» Ridacchiando, Arigh si allontanò, mentre Viridovix borbottava: «Mal di cavallo. Questa è un'idea tale da mettere i brividi. Epona e la sua giumenta non lo permetteranno.» «Ti riferisci alla tua dea celtica dei cavalli?» chiese Gorgidas, sempre interessato a simili frammenti di tradizione. «Proprio lei. Le ho offerto spesso sacrifici, anche se non l'ho più fatto da quando sono arrivato nell'impero.» Il Gallo assunse un'espressione colpevole. «Certo sarà saggio che io provveda a rimediare non appena arriveremo a Prista, ammesso che viva tanto da giungerci.» Prista era una città piena di contrasti, un avamposto dell'impero, sorto al limitare di un interminabile mare d'erba, che contava meno di diecimila anime ma vantava fortificazioni più robuste di quelle di qualsiasi altro centro abitato, con l'eccezione della capitale. Per l'impero, Prista costituiva un punto per sorvegliare le steppe, da cui le tribù nomadi di Khamorth potevano essere manovrate le une contro le altre o indotte ad entrare al servizio imperiale. Gli uomini delle pianure ne avevano bisogno per smerciare sego, miele, pellicce e schiavi in cambio di farina, sale, vino, seta e incenso provenienti da Videssos, ma più di un khagan nomade desiderava la città... e le sue fortificazioni... per sé, e non sempre le mura erano sufficienti a tenerlo a bada, come dimostrava il tempestoso passato di Prista. All'interno delle mura era possibile trovare ogni genere di edificio. Ce n'erano alcuni costruiti con la tipica pietra scistosa grigia locale, nel classico stile videssiano con cortile interno, che sorgevano accanto a rozze baracche di tronchi e ad abitazioni fatte con zolle provenienti dalla pianura;
sui tratti di terreno non utilizzati, poi, le tende dei nomadi, di pelli o di feltro tinto a vivaci colori spuntavano come funghi. Anche se Prista aveva un governatore e una guarnigione videssiani, buona parte della popolazione aveva sangue delle pianure, e i fannulloni raccolti lungo i moli erano individui bassi e tozzi, con la barba incolta; per lo più, indossavano tunica e calzoni di lino, anziché gli indumenti di cuoio e di pelli tipici delle steppe, ma tutti sfoggiavano il basso cappello di pelo che i Khamorth portavano sempre e comunque, con il caldo e con il freddo. E quando Pikridios Goudeles chiese ad uno di essi di aiutarlo a trasportare il proprio bagaglio alla locanda, l'uomo rimase seduto dove si trovava, immobile. «Con la mia fortuna, ho trovato un sordomuto» commentò Goudeles, inarcando un sopracciglio, poi si rivolse ad un altro perdigiorno, questo intento a scaldarsi al sole il petto nudo e peloso, ma anche quell'individuo lo ignorò. «Povero me, ma questo è un paese di sordi?» chiese il burocrate, cominciando a mostrarsi irritato, perché a Videssos era abituato a vedersi obbedire. «Li costringerò ad ascoltarci, che gli spiriti mi friggano se non ci riesco» dichiarò Arigh, muovendo verso il capannello di uomini. I fannulloni gli indirizzarono occhiate roventi, perché fra Arshaum e Khamorth non scorreva certo buon sangue, ma in quel momento Lankinos Skylitzes posò una mano sul braccio di Arigh. L'ufficiale era un uomo di poche parole e provava ben poca simpatia per Goudeles, per cui sarebbe stato dispostissimo a rimanere a guardare mentre quello scribacchino si copriva di ridicolo. Un intervento dell'Arshaum avrebbe però potuto causare una zuffa e non un semplice imbarazzo, e questa era una cosa che Skylitzes non intendeva permettere. «Lascia fare a me» disse, e venne avanti al posto di Arigh. I perdigiorno lo osservarono, senza mostrarsi particolarmente impressionati. Skylitzes era un uomo robusto, con la struttura solida tipica di un soldato, ma i locali erano in numero sufficiente per liberarsi di lui, ed anche dei suoi compagni... e poi quell'individuo non girava forse in compagnia di un Arshaum? Le loro espressioni aggrondate cedettero però il posto a sogghigni stupiti quando l'ufficiale li interpellò esprimendosi nella loro stessa lingua e, dopo qualche discussione, quattro di essi vennero avanti per caricarsi in spalla i bagagli degli inviati. Soltanto Arigh si portò il suo... e parve contento di farlo. «Deve essere una cosa rara e utile poter parlare con la gente dovunque
vai» commentò con ammirazione Viridovix, rivolto a Skylitzes. Il Gallo stava già cominciando a ritrovare la consueta, esuberante personalità, e Gorgidas pensò che, proprio come il gigante del mito, Antaios, Viridovix sembrava trarre forza dal proprio contatto con la terra. Parco anche nei gesti, l'ufficiale rispose con un semplice cenno, e questo parve frustrare Viridovix, che si rivolse al Greco. «Con la tua storia e tutto il resto, mio caro Gorgidas, non ti piacerebbe che questa gente parlasse la tua lingua, in modo da poterle porre tutte le domande che ti frullano per la testa?» Gorgidas ignorò il sarcasmo di Viridovix, perché quella domanda aveva risvegliato un suo profondo dolore. «Per gli dèi, Gallo, mi piacerebbe se qualcuno, fossi anche tu, su questo mondo abbandonato parlasse la mia lingua. Questo è ciò in cui noi due siamo più simili, ma io non posso usare l'ellenico con te più di quanto tu ti possa esprimere in celtico con me. Non ti infastidisce, doverti sempre esprimere in latino o in videssiano?» «Certo che mi irrita» rispose subito Viridovix. «Perfino i Romani stanno meglio di noi, perché possono parlare gli uni con gli altri e tenere viva la loro lingua. Ho cercato di insegnare il celtico alle mie ragazze, ma non erano portate per questo genere di cose. Temo di averle scelte soltanto per la loro vitalità sotto le coperte.» E così ti sei trovato appagato ma solo, pensò Gorgidas. Quasi a confermare la sua supposizione, il Gallo si lanciò improvvisamente nella declamazione di un torrente di versi nella propria lingua nativa; Arigh e i Videssiani lo fissarono a bocca aperta mentre i portatori, che fin dall'inizio avevano continuato a lanciargli occhiate incuriosite, a causa della sua pelle chiara e lentigginosa e dei capelli color fuoco, si ritrassero di colpo, forse temendo che stesse recitando qualche incantesimo. Viridovix andò avanti per cinque o forse sei strofe, poi si arrestò incespicando e imprecò in un misto di celtico, di latino e di videssiano. «Dannazione a me, ho dimenticato il resto» gemette, chinando la testa con aria vergognosa. Dopo le strade della capitale imperiale, ampie, pavimentate con ciottoli o con ampie lastre di ardesia, e dotate di un efficiente sistema fognario sotterraneo, le vie di Prista costituirono una specie di shock. Quella principale, di terra battuta, era tortuosa e larga quanto un vicolo e i rifiuti fognari scorrevano in un canale scavato nel centro. Nel vedere un nomade slacciarsi i pantaloni e urinare direttamente nel canale, senza che nessuno gli
prestasse attenzione, Gorgidas scosse il capo. In Elis, dove lui era cresciuto, cose del genere erano abituali, e il grido "Exito! Attenti che arriva!" serviva ad avvertire i passanti che un nuovo carico di rifiuti stava per essere buttato fuori. I Romani, però, avevano idee più chiare in campo sanitario, il che valeva anche per le grandi città videssiane. Qui sulla frontiera non ci si prendeva disturbi del genere... e di certo se ne pagava il prezzo sotto forma di malattie. Bene, e allora? pensò Gorgidas. Dopo tutto, avevano i loro pretiguaritori per rimettere a posto ogni cosa. Subito, tuttavia, si chiese se fosse davvero così. A giudicare da quanto si vedeva intorno, molti abitanti di Prista conservavano le loro usanze delle pianure e probabilmente non adoravano Phos. Il dottore lanciò un'occhiata in direzione del tempio del dio videssiano: le sue pietre scolorite e le linee corrose dal tempo proclamavano che si trattava di uno degli edifici più antichi della città, ma la cupola dorata che lo sormontava era striata di macchie. Anche Skylitzes se ne accorse, e si accigliò. Se pure provò il minimo sgomento di fronte alle condizioni di trascuratezza del tempio, Pikridios Goudeles non lo diede a vedere, ma si animò invece quando si venne a trovare all'interno della locanda che, come i nativi avevano garantito parlando con Skylitzes, era quanto di meglio Prista potesse offrire. «Che razza di maledetto buco! Ho visto mercati di bestiame con recinti più curati di questo posto!» Due Pristani si accigliarono: come Gorgidas aveva supposto, capivano il videssiano. In ogni caso, il Greco era d'accordo con Goudeles, perché la sala comune era piccola, miseramente arredata, e aspettava da decenni di essere pulita. Strati induriti di fuliggine chiazzavano le pareti sopra ogni anello per le torce e l'ambiente puzzava di fumo, di liquore stantio e di sudore ancora più stantio. La clientela, poi, non era certo migliore del locale in se stesso. Due o tre tavoli erano occupati da perdigiorno che avrebbero potuto essere fratelli di quelli raccolti sui moli; una mezza dozzina di Videssiani era seduta ad un altro, intenta a bere, e anche se per lo più si trattava di individui vicini alla mezz'età, tutti indossavano vistose tuniche dalle maniche rigonfie, come altrettanti giovani ruffiani da strada e davano l'impressione di portare una piccola fortuna in oro alle dita e al collo. Le loro voci erano forti e brusche, e il loro linguaggio era infarcito di espressioni gergali tipiche della capitale.
«Non giocherei con quella gente se non usando i miei dadi» commentò sottovoce Viridovix, in latino. «So riconoscere dei ladri, quando li vedo» rispose Gorgidas, nella stessa lingua, «anche se si tratta di ladri ricchi.» Se era un ladro anche lui, il taverniere spendeva però altrove il suo denaro. Si trattava di un ometto basso e corpulento, con una bocca cupa e occhi sospettosi che smentivano tutti i vecchi detti relativi alla cordialità della gente grassa. La stanza al piano di sopra che cedette con riluttanza ai membri dell'ambasciata risultò grande appena abbastanza per contenere i cinque materassi imbottiti di paglia che vennero consegnati da un servitore. Goudeles diede una mancia agli uomini che avevano trasportato i bagagli del gruppo e, quando se ne furono andati, si lasciò cadere su uno dei materassi... Gorgidas notò che si trattava del più spesso... scoppiando in una risata che gli attirò gli sguardi incuriositi dei compagni. «Stavo soltanto pensando che se questo è ciò che Prista ha di meglio da offrire, spero proprio che Phos mi salvi dal peggio» spiegò l'inviato. «Godilo finché puoi» consigliò Skylitzes. «No, l'uomo grasso ha ragione» osservò Arigh, ma Goudeles, che era intento a tirare fuori dal bagaglio una tunica pulita, non parve troppo felice del suo sostegno, se poi di questo si trattava. «Anche la città più bella è una prigione: soltanto sulle pianure un uomo può respirare liberamente.» Qualcuno bussò educatamente alla porta. Si trattava di un soldato dall'aspetto parzialmente khamorth che caratterizzava tutta la gente del posto... un uomo con le spalle larghe, bruno e con la barba cespugliosa, che però indossava una cotta di maglia al posto della corazza di cuoio bollito usata sulle pianure, e che parlava un buon videssiano. «Siete voi i signori scesi dal Conquistatore, gli inviati diretti all'Arshaum?» Avuta risposta affermativa, il soldato s'inchinò. «Sua eccellenza l'hypepoptes Methodios Sivas vi saluta, allora, e vi invita a raggiungerlo stasera al tramonto. Io tornerò per guidarvi fino alla sua residenza.» L'uomo chinò ancora il capo, abbozzò un saluto e se ne andò bruscamente come era venuto, con gli stivali che picchiavano sulla stretta scala di pietra. «Questo hyp... o come si chiama... è un mago, per aver saputo del nostro arrivo quasi prima di noi?» esclamò Viridovix, che nell'impero aveva visto stregonerie a sufficienza per porre quella domanda senza intenti scherzosi. «Neppure per idea» replicò Goudeles, ridacchiando per l'ingenuità del
Gallo. «È certo come che il sole di Phos sorge da est che uno di quei fannulloni al porto era sul suo libro paga.» Più smaliziato del Celta per quanto concerneva le astuzie dei governatori, Gorgidas era già giunto da solo a quella conclusione, ma non gli dispiacque vederla confermata. La funzione principale che questo Sivas doveva assolvere era quella di tenere d'occhio le pianure per conto dell'impero, e se lo faceva con la stessa attenzione con cui sorvegliava la sua città, allora Videssos era servito davvero bene. Methodios Sivas era un uomo sorprendentemente giovane, che non aveva superato di molto la trentina, con un naso spropositato che gli conferiva un aspetto brutto ma accattivante e dotato di una chiassosità che si adattava bene al suo ambiente di frontiera. «Figlio di Arghun, vero?» esclamò il governatore, battendo una pacca sulla schiena di Arigh. «Mi costringerai di nuovo a stanziare delle sentinelle ai pozzi?» «Non ce n'è bisogno» ridacchiò Arigh, un suono stupefacente, provenendo da lui. «Sarò buono.» «Te lo consiglio.» Accertatosi che ognuno dei suoi ospiti avesse una coppa piena di vino, Sivas spiegò: «Quando è passato di qui, diretto alla capitale, questo figlio del demonio ha gettato una manciata di rospi in ogni pozzo di Prista.» Lankinos Skylitzes assunse un'aria sconvolta, poi scoppiò a ridere, mentre Goudeles, Viridovix e Gorgidas rimasero sconcertati. «Non capite?» chiese Sivas, ma si rispose subito da solo. «No, è naturale che non capiate. Perché dovreste? Voi non avete a che fare ogni giorno con i barbari... a volte dimentico che sono io a trovarmi al confine del nulla, e non il resto dell'impero. Per farla breve, quindi, tutti i Khamorth hanno una paura spaventosa dei rospi, e si sono rifiutati di bere per tre giorni!» «Questo non è tutto, e tu lo sai» intervenne Arigh, ridendo al ricordo della propria burla. «Hanno dovuto pagare un Videssiano perché desse la caccia a tutte quelle bestiole, e poi sacrificare un agnello nero accanto ad ogni pozzo per allontanarne la contaminazione. E i tuoi preti di Phos hanno cercato di impedirlo, strillando che si trattava di riti pagani. È stato glorioso.» «È stato spaventoso» ribatté Sivas. «Un clan ha fatto ritorno nelle steppe portandosi dietro un carico di pelli del valore di almeno cinquemila pezzi d'oro, e i commercianti hanno ululato per mesi.»
«Rospi, vero?» chiese Gorgidas, buttando giù qualche annotazione su un pezzo di pergamena. Quando l'hypepoptes se ne accorse e gli chiese cosa stesse facendo, il Greco gli parlò con una certa esitazione dei propri interessi storici, ma Sivas lo sorprese accogliendo le sue spiegazioni con un pensoso cenno di assenso e con parecchie domande intelligenti, dimostrando che dietro il suo rozzo aspetto esteriore si celava una mente acuta. Il governatore aveva anche altri interessi che non ci si sarebbe aspettati di trovare in un uomo di frontiera. Sebbene la sua dimora, con le spesse mura, le finestre a feritoia e la porta di quercia rinforzata in ferro si potesse all'occorrenza trasformare in una fortezza, il giardino che occupava il cortile era una tavolozza di colori dove malva e rose sbocciavano in file ordinate, accanto a primule viola e gialle, la cui presenza rivelò a Gorgidas l'abilità di Sivas, in quanto si trattava di piante basse dalle foglie verdi chiazzate di marrone che crescevano su un umido terreno boschivo o lungo i fianchi delle montagne, e non qui al limitare delle steppe. Com'era naturale, essendo isolato dal mondo, Sivas era impaziente di sentire le notizie giunte dalla capitale insieme ai membri dell'ambasciata, ed emise un'esclamazione soddisfatta quando sentì che Thorisin Gavras aveva strappato di nuovo il controllo del mare alle forze ribelli guidate da Baanes Onomagoulos e da Elissaios Bouraphos. «Siano comunque dannati quei traditori» dichiarò. «Durante gli ultimi due mesi ho continuato a mandare messaggi alla capitale con ogni nave in partenza a quella volta, ma devono averli distrutti tutti. Ed è passato troppo tempo, con Avshar che scorazza impunemente.» «Sei certo che si tratti di lui?» chiese Viridovix. Il nome del principe-mago era stato sufficiente a distrarlo dalla tresca che stava imbastendo con una delle serve dell'hypepoptes. Essendo scapolo, Sivas aveva infatti alle proprie dipendenze parecchie donne attraenti, anche se il loro sangue misto le rendeva un po' troppo tozze perché si conformassero agli ideali videssiani in fatto di bellezza. L'hypepoptes non sembrava irritato dai modi del Gallo, anche perché era evidente che Viridovix lo aveva incuriosito fin dal primo momento che lo aveva visto, in quanto gli individui della sua statura e con i suoi colori erano rari fra i popoli noti ai Videssiani, e il suo accento musicale era completamente sconosciuto. «Chi si avviluppa nei veli tanto da evitare che gli si vedano perfino gli occhi?» rispose Sivas. «Chi solleva discordia sulla sua scia come il vento solleva le onde del mare? E chi se non lui cavalca un destriero nero in una
terra di pony? Sulle pianure, questa caratteristica sarebbe già sufficiente ad identificarlo, anche senza le altre due.» «Certo, è proprio quel furfante» convenne Viridovix. «In ogni caso, la mia buona lama celtica dovrebbe essere sufficiente a stroncare la sua malvagità.» Anche se Methodios Sivas aveva inarcato un sopracciglio con cortese scetticismo, Gorgidas sapeva peraltro benissimo che quella del Gallo non era una vana vanteria, perché la sua spada era la gemella di quella che portava Scaurus, e come quella era stata forgiata e permeata di incantesimi dai druidi gallici, ed era incredibilmente potente in questa terra dove la magia fioriva. «Un'altra questione è inoltre giunta al mio orecchio dall'ultima volta che ho mandato un dispaccio a Videssos» aggiunse Sivas e, a giudicare dal suo tono, doveva trattarsi di una notizia che avrebbe preferito non apprendere. L'hypepoptes fece una pausa, prima di proseguire. «Dovete capire che si tratta soltanto di una diceria, priva di conferma, ma pare che Varatesh si sia schierato dalla parte di quel dannato mago.» Di nuovo, Gorgidas ebbe la consapevolezza che un particolare importante gli stava sfuggendo, e di nuovo Viridovix e Goudeles assunsero un'espressione sconcertata. Perfino Arigh parve non essere certo di sapere di chi si trattasse, ma Lankinos Skylitzes mostrò di conoscere bene quel nome. «Il fuorilegge» disse, e non era una domanda. «Devi capire che si tratta soltanto di una voce nel vento» ripeté Sivas. «Phos voglia che rimanga tale» replicò l'ufficiale, tracciandosi il segno divino sul petto. Poi notando che i suoi compagni non capivano, aggiunse: «Quell'uomo è pericoloso e astuto, e i suoi cavalieri sono gente da evitare. Avere contro di noi un grande clan sarebbe peggio, ma non di molto.» La sua evidente preoccupazione colpì Gorgidas, che riteneva Skylitzes un uomo che non si allarmava per delle inezie. Arigh, però, parve meno impressionato. «È un Khamorth» dichiarò, con disprezzo. «Fra poco mi consiglierai di nascondermi dai piccoli di fagiano annidati nell'erba.» «È un individuo temibile, che sta diventando sempre più forte» sottolineò Sivas. «Forse non lo sai, ma quest'inverno, quando il fiume era ghiacciato, ha effettuato razzie ad ovest dello Shaum.» Arigh rimase a bocca aperta, poi sibilò un'imprecazione nella sua lingua. Gli Arshaum erano convinti, e a ragione, di essere superiori ai Khamorth.
Non avevano forse respinto quelle barbe cespugliose ad est del fiume? Erano trascorsi decenni da quando un Khamorth, sia pure rinnegato, aveva osato contrattaccare. «È pronto a tutto, capisci» aggiunse Sivas, scrollando le spalle. Arigh, però, era ancora furente, quindi l'hypepoptes si rivolse alla serva. «Filennar, perché non ti stacchi da quel tuo amico dai baffi color mattone e ci porti un otre pieno?» La ragazza si allontanò ancheggiando, seguita dallo sguardo avido di Viridovix. «Un otre?» chiese Arigh, con impazienza. «Si tratta di kavass? Per le tre code di cavallo del mio clan, sono passati cinque anni dall'ultima volta che l'ho assaggiato. I vostri dannati contadini si accontentano del vino e della birra.» «Una nuova bevanda?» intervenne Pikridios Goudeles, in tono interessato, e Gorgidas ricordò che il nomade aveva già vantato in passato le qualità di quel liquore delle steppe, anche se non gli riuscì di rammentare come venisse distillato. Viridovix, un bevitore nato, parve di colpo meno avvilito per la scomparsa di Filennar. La ragazza fu presto di ritorno, portando con sé un grosso otre di pelle di cavallo, con il pelo ancora all'esterno, e ad un cenno di Sivas lo offrì ad Arigh, che lo prese con la stessa tenerezza che avrebbe potuto usare con un neonato. Sciolto il laccio che chiudeva la bocca dell'otre, se lo accostò alle labbra e bevve rumorosamente, perché nelle steppe era educazione dimostrare che si gradiva ciò che veniva offerto. Alla fine, dopo un sorso tanto lungo che la faccia aveva cominciato a scurirglisi, Arigh richiuse l'otre con un sospiro. «Sei arrivato al cianotico!» esclamò Viridovix... usando l'espressione gergale della capitale con cui si indicava qualcuno che beveva in abbondanza. Sollevò quindi l'otre per assaggiarne a sua volta il contenuto, ma dopo il primo sorso la sua anticipazione fu soppiantata da una smorfia di sorpresa e lui sputò sul pavimento. «Aagh! Che bevanda indegna! Ma com'è che la fanno?» «Con latte di giumenta fermentato» spiegò Arigh. «Di certo, il sapore è quello delle interiora di una lumaca morta» dichiarò Viridovix, con una smorfia, e l'Arshaum gli scoccò un'occhiata rovente, irritato nel sentir denigrare la sua amata bevanda. Lankinos Skylitzes e Methodios Sivas, che possedevano entrambi una familiarità di vecchia data con quel liquore delle steppe, non mostrarono
esitazioni a bere e schioccarono le labbra secondo lo stile dei nomadi; quanto a Goudeles, quando venne il suo turno effettuò un assaggio sufficiente a dimostrare un minimo di cortesia, ma non parve dispiaciuto di passare l'otre a Gorgidas. «Ti ci devi abituare, Pikridios» commentò Skylitzes, con una nota divertita nella voce. «Questa è una frase che potrebbe facilmente venirmi a noia» ribatté il burocrate, piccato, ma Skylitzes si limitò a ridacchiare, risentendo un po' degli effetti di tutto quello che aveva bevuto. Gorgidas soppesò l'otre ormai vuoto per metà, annusandone con sospetto il contenuto. Si era aspettato un odore aspro, come di formaggio, ma il kavass aveva piuttosto il profumo limpido e pulito della birra. Quando poi lo assaggiò, pensò che il liquore mancava sorprendentemente di sapore, ma riscaldava in fretta lo stomaco, rivelando una potenza pari a quella di qualsiasi vino a lui noto. «Non è male, Viridovix. Prova di nuovo» incitò, rivolto al Gallo. «Se ti aspettavi qualcosa di dolce quanto il vino, non c'è da meravigliarsi che tu sia rimasto sorpreso, ma di certo hai bevuto di peggio.» «Sì, ed anche di meglio» replicò il Gallo, allungando la mano verso la caraffa del vino. «Nelle steppe, non avrò scelta, ma per ora, con il tuo permesso, Arigh, preferisco il vino. Passa a lui quel succo di lumaca, Greco, visto che gli piace tanto» concluse, trangugiando il vino. Sivas fornì agli ambasciatori una scorta simbolica di dieci uomini. «Sono sufficienti per mostrare che siete sotto la protezione dell'impero» affermò. «Del resto, se ci fossero problemi effettivi l'intera guarnigione di Prista non basterebbe a salvarvi, e se io la mandassi con voi ogni clan delle pianure si unirebbe per bruciare la città e me sotto di essa. Ci trovano utili, ma soltanto a patto che non appariamo pericolosi per loro.» L'hypepoptes permise inoltre a ciascuno degli inviati di scegliersi alcuni cavalli nelle stalle della guarnigione, una generosità che li salvò dal mettersi alla mercé degli altri clienti della locanda, che erano risultati essere mercanti di cavalli sebbene, a comprovare la predizione di Viridovix, fossero anche giocatori; Gorgidas fu abbastanza sensato da rifiutare di giocare con loro, mentre Arigh e Goudeles si mostrarono meno cauti. L'Arshaum perse parecchio, ma il burocrate rimase in una situazione di parità. «Gli scribacchini» commentò Skylitzes, con uno dei suoi rari sorrisi, quando lo venne a sapere, «sono ladri più esperti di quanto semplici mer-
canti di cavalli possano mai sperare di diventare.» «Il ghiaccio ti porti, amico mio» rispose Goudeles, con l'oro che gli tintinnava nella sacca. In un altro campo, però, il burocrate fu abbastanza saggio da accettare i consigli di chi ne sapeva di più e, come Gorgidas e Viridovix, chiese ad Arigh di selezionare per lui un gruppo di cavalli. Soltanto Skylitzes si fidò delle proprie capacità di giudizio nell'effettuare la scelta, e si dimostrò così abile che il nomade lo guardò con rinnovato rispetto. «Ce ne sono un paio che non mi dispiacerebbe avere io stesso» commentò. «Och, ma come può stabilire quali sono i migliori?» si lamentò Viridovix. «Io mi intendo un poco di cavalli, almeno nella misura in cui li valutiamo noi Celti e i Videssiani, e non ho mai visto tanti brocchi tutti insieme, come tanti fagioli in un baccello.» Con il suo sapore gallico, quel termine era adatto a descrivere i pony a pelo ruvido tipici delle steppe. Erano bestie piccole e robuste, poco aggraziate e poco addomesticate... del tutto diverse dagli stalloni di razza che i Videssiani tanto apprezzavano. «Chi ha bisogno di un cavallo grosso?» ribatté però Arigh. «Le bestie delle steppe corrono due volte più a lungo e trovano foraggio dove uno di quei divoratori di avena morirebbe di fame. Non è così, tesoro mio?» Accarezzò il muso di uno dei cavalli, ma ritrasse la mano di scatto quando esso tentò di morderlo. Gorgidas scoppiò a ridere insieme agli altri, ma con una sfumatura di nervosismo, perché valeva poco come cavaliere, avendo praticato l'arte dell'equitazione soltanto di rado e, per quanto insistesse nel dire a se stesso che avrebbe potuto soltanto migliorare, l'idea dei mesi che, secondo la promessa di Arigh, avrebbe dovuto trascorrere in sella gli fece contrarre le gambe per l'anticipato timore. Una settimana dopo l'arrivo del Conquistatore a Prista, il gruppo di inviati e la sua scorta lasciarono la città attraverso la porta settentrionale. Anche se era composto soltanto da quindici uomini, visto da lontano il drappello sembrava più numeroso perché, secondo l'uso delle steppe, ogni cavaliere procedeva alla testa di una fila di cavalli, da cinque a sette, alcuni carichi di bagagli e provviste, altri senza nessun peso. I nomadi avevano infatti l'abitudine di montare un cavallo diverso ogni giorno, allo scopo di non logorarne troppo nessuno.
Il sole del mattino brillava argenteo sulla Baia Maiotica; quel braccio separato del Mare Videssiano si trovava parecchi chilometri ad est, ma in quella zona non c'erano colline che lo nascondessero alla vista, ed oltre la baia una chiazza scura indicava un altro promontorio di terra che sporgeva a sud nell'oceano. Anche in quel punto la linea dell'orizzonte era bassa, piatta e liscia, ed un'altra porzione di steppe si stendeva ad ovest... fin dove? Nessuno lo sapeva. Gorgidas rifletté saltuariamente su queste cose, perché la maggior parte della sua attenzione era concentrata sul compito di rimanere in groppa al proprio cavallo che, com'è tipico delle bestie, aveva percepito l'inesperienza del proprio cavaliere e sembrava provare un perverso piacere nell'inciampare in modo tale da sbalzarlo quasi di sella. La sella in questione, per fortuna, era di quello stile preferito tanto dai Videssiani quanto dalla gente delle pianure, con l'arcione posteriore alto, il pomo sia davanti che di dietro e l'aggiunta di quella meravigliosa invenzione, le staffe. Senza simili aiuti, il Greco sarebbe infatti stato gettato a terra più di una volta. Tutti quei vantaggi, peraltro, non servirono comunque ad attenuare il sordo indolenzimento che ben presto gli aggredì le gambe. Gorgidas era in forma, abbastanza da reggere il passo di marcia dei legionari romani, ma cavalcare sulle pianure richiedeva sforzi fisici di natura diversa e il suo disagio era soltanto peggiorato dalle corte staffe di cuoio che i nomadi utilizzavano e che lo costringevano a tenere piegate i ginocchi in maniera tale da accentuargli i crampi alle estremità. «Perché le tenete così corte?» chiese al tozzo individuo che capitanava la scorta concessa agli inviati. «A Prista» rispose il sottufficiale, scrollando le spalle, «facciamo quasi tutto nello stile dei Khamorth, ed a loro piace potersi sollevare bene sulla sella per tirare con l'arco.» L'uomo era un Videssiano, snello e bruno, con le braccia muscolose, che rispondeva al nome di Agathias Psoes. Anche tre o quattro dei suoi soldati sembravano provenire da oltremare, ma gli altri, come quello che era venuto ad invitare gli ambasciatori alla residenza del governatore, erano ovviamente gente del luogo. Fra loro, tutti i soldati parlavano uno strano dialetto, così denso di espressioni khamorth e con una sintassi talmente intricata da rendere difficile a Gorgidas seguire la conversazione. «Ho un paio di staffe più lunghe» intervenne Arigh. «Noi Arshaum non abbiamo bisogno di sollevarci per vedere a cosa stiamo tirando.» Quel commento gli attirò alcuni sguardi accigliati da parte dei membri
della scorta, ma lui li ignorò, come fece anche Gorgidas, che accettò con gratitudine le staffe nuove. Esse gli furono di aiuto... in qualche misura. Il disagio del Greco era però minimo se paragonato a quello di Pikridios Goudeles. Lo scribacchino era un uomo influente, ma le cariche che rivestiva di solito non gli avevano mai richiesto di esercitare attività fisiche; quindi, quando la giornata di viaggio ebbe termine e lui poté finalmente scendere goffamente di sella, Goudeles si mosse con l'andatura incerta e barcollante di un novantenne, massaggiandosi le mani morbide che erano state irritate dallo sfregamento prodotto dalle redini di cuoio. «Ora capisco quale fosse l'intento di Gavras, quando mi ha nominato legato» gemette, accasciandosi al suolo. «Lui si aspetta che il mio cadavere esausto venga sepolto su queste pianure, ed è possibile che il suo desiderio finisca per essere esaudito.» «Può anche darsi che abbia voluto farti vedere il prezzo che l'impero paga per le comodità di cui tu godi in città» replicò Lankinos Skylitzes. «Hmm. Senza comodità, a che serve la civiltà? Quando sei a Videssos, mio sobrio amico, anche tu dormi in un letto, e non in strada, arrotolato in una coperta.» Poteva anche darsi che le ossa di Goudeles fossero doloranti, ma la sua lingua era tagliente come sempre. Con un grugnito, Skylitzes si allontanò per andare ad aiutare la scorta a raccogliere sterpi per il fuoco serale. Ben presto la fiamma brillò calda e luminosa, l'unica luce che si scorgesse a perdita d'occhio, e Gorgidas si sentì nudo e solo sul vuoto desolato della pianura; avvertiva la mancanza delle confortanti difese che i Romani erigevano dovunque andassero, anche perché era consapevole che un intero esercito si sarebbe potuto aggirare nel buio appena fuori del campo visivo delle sentinelle. Il dottore sussultò quando un nottolone scese rapido in volo radente, attirato dagli insetti che ronzavano intorno al fuoco. Il mattino successivo, la colazione fu a base di montone affumicato, di formaggio duro e di sottili e piatte sfoglie di frumento che uno dei soldati cucinò su una griglia portatile in sostituzione del pane, che i nomadi mangiavano di rado perché i forni erano utensili troppo massicci e ingombranti per un popolo in costante spostamento. Le sfoglie erano dure e quasi insapori, e Gorgidas ebbe la certezza che si sarebbe stufato di mangiarle entro breve tempo, ma al tempo stesso pensò che con un'alimentazione di quel genere non ci sarebbe stato da temere nessun attacco di dissenteria... anzi, era più probabile che si verificasse l'opposto. Anche il clima deponeva in quel senso... gli abitanti di terre caratterizzate da inverni aspri e da un pre-
valente vento da nord avevano la tendenza alla costipazione, o almeno così aveva insegnato Ippocrate. Le riflessioni di natura medica lo irritarono... quella era una cosa che per lui avrebbe dovuto essere finita e dimenticata. Per placare la propria coscienza, prese qualche annotazione sui metodi usati dai soldati per cucinare. Viridovix era rimasto insolitamente silenzioso durante il primo giorno di viaggio, e continuò ad esserlo anche quando si lasciarono alle spalle il luogo dove si erano accampati. Il Gallo procedette in coda alla colonna e non cessò di guardarsi intorno in tutte le direzioni, ora a sinistra, ora a destra, ora indietro, oltre la spalla. «Là non c'è nulla» osservò Gorgidas, pensando che Viridovix avesse il timore che qualcuno potesse seguirli. «Hai ragione, ed è proprio un grande mucchio di nulla, per di più!» esclamò il Celta. «Mi sento come un piccolo insetto su un piatto, e non mi piace per niente. Nelle foreste della Gallia era facile vedere dove il mondo finiva, se capisci cosa intendo, mentre qui non c'è fine... tutto va avanti senza limiti.» Il Greco chinò il capo, avvertendo in sé una parte di quello stesso disagio, perché anche lui era cresciuto in una terra dagli orizzonti ristretti e quella pianura mostrava invece quanto l'uomo fosse insignificante nel mondo. «Io mi sento vivo soltanto nelle steppe» intervenne Arigh, ripetendo le parole che aveva già detto a Prista e dando l'impressione di ritenerli stupidi entrambi. «Quando sono giunto a Videssos per la prima volta, non osavo quasi camminare nelle strade per timore che gli edifici mi cadessero addosso. Non riesco proprio a capire come la gente possa rimanere accalcata in una città per tutta la vita.» «Come dice Pindaro, sono le convenzioni a regolare tutto» replicò Gorgidas. «Concedici un po' di tempo, Arigh, e ci abitueremo ai tuoi spazi sterminati.» «Sì, suppongo che ci abitueremo» convenne Viridovix, «ma che io sia impiccato se mi piacciono.» L'Arshaum scrollò le spalle per indicare la propria indifferenza a quel parere. C'era un aspetto sotto il quale quell'ampio orizzonte tornava a vantaggio del viaggiatore: la selvaggina era visibile ad una notevole distanza. Spaventato dai cavalli, uno stormo di pernici grigie spiccò il volo. Gli uccelli
volarono rapidi e bassi, cabrando più e più volte, e parecchi soldati incoccarono le frecce e spronarono i cavalli, lanciandosi all'inseguimento della preda. I loro archi a doppia curvatura, rinforzati con strati di corno, scoccarono frecce che saettavano più rapide di qualsiasi falco. «Ci servirebbero delle reti» commentò Skylitzes, osservando tre dardi che, in rapida successione, mancavano un uccello che zigzagava nel cielo, ma quei cavalieri erano arcieri addestrati fin dall'infanzia, e non tutti i tiri andarono a vuoto. Alla fine, il bottino fu di otto pernici, e Gorgidas si sentì venire l'acquolina in bocca al pensiero della loro carne scura e nera. «Una buona mira» commentò Viridovix, rivolto ad uno degli uomini di Agathias Psoes, un Khamorth, a giudicare dal suo aspetto, che aveva ai propri piedi due uccelli abbattuti. L'uomo sogghignò, e il Celta aggiunse: «E le tue frecce hanno anche un bel volo diritto. Qual è la portata del tuo arco?» Il soldato gli passò l'arma: in confronto agli archi usati dai Celti, quello era piccolo e leggero, ma quando tentò di tendere la corda di tendine, Viridovix si lasciò sfuggire un grugnito di sorpresa, e i suoi muscoli si contrassero prima che l'arco cominciasse a piegarsi. «Non è un giocattolo, vero?» fece, restituendolo. Compiaciuto dalla reazione del Gallo, il soldato esibì un astuto sorriso. «Il tuo scudo, da' a me» disse, in un videssiano accentato quanto quello del Celta. Viridovix, che quando non era imminente un combattimento portava lo scudo appeso alla schiena, allentò la cinghia e lo porse al cavaliere. Si trattava del tipico scudo di un nobile celta: oblungo, coperto di bronzo e completo di spirali di metallo, in rilievo ed enfatizzate da una patina di smalto in vive tonalità rosse e verdi. Viridovix lo teneva in perfette condizioni, perché era estremamente pignolo per quanto concerneva le armi. «Bello» commentò il soldato, appoggiando lo scudo, in posizione diritta, contro un cespuglio. Fece quindi indietreggiare il proprio cavallo di circa un centinaio di metri, lo spronò con un urlo selvaggio e scagliò una freccia quasi a bruciapelo. Lo scudo ruotò su se stesso, ma quando Viridovix lo recuperò, non c'era nulla conficcato in esso. «Certamente deve essere stato il cavallo ad urtar...» cominciò, ma subito si fermò, stupito, perché nell'angolo in alto a destra spiccava un buco netto che trapassava il bronzo e il legno. «Per le teste dei miei nemici» mormorò sommessamente, scuotendo il capo. Il soldato recuperò la freccia, che aveva proseguito per altri tre o quattro
metri dopo aver trapassato lo scudo, e la ripose nella faretra. «Hai scudo buono» osservò. «Attraverso il mio, più lontano sarebbe andata.» Il suo scudo era infatti piccolo e rotondo, in legno e cuoio, sufficiente appena per deviare un colpo di spada. «Ed io che pensavo che gli uomini delle pianure usassero un'armatura leggera a causa di quelle piccole bestie ossute che cavalcano, che non potrebbero reggere il peso di un'armatura in metallo» dichiarò Viridovix. «E quale altro motivo ci potrebbe essere?» domandò Gorgidas. «Usa gli occhi, testa di legno di un Greco» replicò il Celta, agitando il proprio scudo davanti alla faccia di Gorgidas. «Sotto il tiro di un arco del genere, si diventa un puntaspilli con o senza armatura in ferro, quindi a che servirebbe appesantirsi inutilmente?» Con irritata sorpresa del Gallo, Gorgidas scoppiò a ridere. «Qual è lo scherzo?» borbottò Viridovix. «Chiedo scusa» rispose il Greco, prendendo un'annotazione. «Non mi era mai venuta in mente l'idea che ci potesse essere un'arma tanto potente da rendere inutile ogni difesa. Comunque, questo arco delle steppe non è poi così potente, sai: con le loro armature e le cotte di maglia, i Namdaleni non ne hanno risentito molto. In ogni caso, il concetto astratto è affascinante.» «La peste si porti i tuoi concetti astratti» ritorse Viridovix, cercando di infilare il mignolo nel buco praticato dalla freccia. La chiazza marrone che si muoveva in lontananza si rivelò infine per una mandria di bestiame, le cui corna spuntavano come i rami nudi di una foresta invernale. Con le bestie c'erano anche i mandriani, circa una ventina di Khamorth, la maggior parte dei quali abbandonò le bestie e venne avanti non appena avvistò il gruppo in avvicinamento. Il capo dei Khamorth gridò parecchie frasi nella propria lingua e poi, notando che fra i nuovi venuti c'erano alcuni imperiali, passò ad uno zoppicante videssiano. «Chi voi! Cosa voi qui?» Non attese però la risposta, perché il suo volto bruno si scurì ulteriormente per l'ira quando l'uomo notò Arigh. «Arshaum!» esclamò, e i suoi uomini ringhiarono e mossero la mano verso spade e archi. «Cosa fate voi con Arshaum?» chiese il capo dei mandriani a Goudeles, scegliendo il burocrate come interlocutore forse perché era quello abbigliato in maniera più sfarzosa. «Arshaum fanno tutti clan Khamorth... come voi dite?... soffrire. Se vostro imperatore tratta con loro,
mangia interiora di maiale. Io, Olbiop figlio di Vorishan dico questo e parlo sincero.» «Uccidiamo!» gridarono gli uomini di Olbiop. Ora anche le guardie della scorta stavano allungando le mani verso le armi, Arigh aveva già incoccato una freccia e Viridovix e Lankinos Skylitzes sedevano entrambi in sella con aria guardinga, pronti ad agire. Il gladius romano di Gorgidas era sepolto in fondo alla sua sacca, quindi lui si limitò a rimanere in attesa degli eventi. E fu a questo punto che Pikridios Goudeles diede una dimostrazione della propria abilità. «Fermati, o nobile Olbiop figlio di Vorishan, se non vuoi commettere un involontario errore!» esclamò con fare drammatico, e la sua voce risuonò con le intonazioni di un oratore esperto. Gorgidas dubitò che il nomade avesse capito qualcosa di più del proprio nome, ma questo fu sufficiente ad indurlo a girarsi verso Goudeles. «Traduci quello che dico, vecchio mio, sii gentile» sussurrò il burocrate a Skylitzes, che gli era accanto. Poi, avuto un cenno di assenso dal soldato, assunse una posa adeguata e si lanciò in un fiume di ricca oratoria videssiana. «O capo dei Khamorth, se ora noi venissimo uccisi da te, questo sarebbe un atto più negativo, doloroso e letale della morte stessa. Questa...» «Non potrei neppure ripeterlo, tanto meno tradurlo» osservò Skylitzes, con gli occhi che gli si dilatavano. «Zitto» sibilò Goudeles, e riprese il proprio discorso, dimostrando in sella all'ispido cavallo delle steppe la stessa grazia che avrebbe potuto sfoggiare in una camera del palazzo imperiale. Skylitzes fece del suo meglio per tenersi al passo con il flusso di oratoria del burocrate. «Questa infamia continuerebbe a vivere e sarebbe risaputa fra tutti gli uomini; è un atto che non è mai stato compiuto, ma tu sarai colpevole di averlo inventato, e ci saranno testimoni della tua azione, del modo in cui hai massacrato un gruppo di ambasciatori. E l'orrore della storia verrà reso ancora più orribile dalla sua veridicità.» La traduzione era nettamente inferiore all'originale, mancava delle inversioni improvvise nella struttura della frase, delle allitterazioni e dei tempi contorti dei verbi, ma non aveva importanza. Che capissero o meno ciò che Goudeles diceva, i nomadi erano comunque caduti sotto il suo incantesimo: come la maggior parte della gente ignorante, infatti, erano molto sensibili all'oratoria, e l'appositore di sigilli era un maestro in una scuola più antica della loro.
«Prego» proseguì il burocrate, «di poter incontrare oggi la mia fine sulla punta delle vostre spade, ora che ho sentito accogliere il mio Avtokrator con false parole. Permettetemi però prima di persistere nel supplicarvi di guardare a noi con occhi più benevoli, di placare la vostra ira e di attenuare la vostra rapida collera con la carità; e, in secondo luogo, di lasciarvi persuadere da quello che è lo scopo tradizionale degli ambasciatori, perché noi siamo modellatori di pace e siamo stati eletti come dispensatori della sua santa calma. «Di conseguenza, rammentate che finora i nostri attuali rapporti sono rimasti inalterabilmente tranquilli... di certo noi tutti continueremo a godere di tale cortesia, in quanto so bene che in caso contrario i vostri affari non si svolgerebbero in sicurezza. Perché la comprensione offerta in modo appropriato a coloro che sono vicini... comprensione, naturalmente, che non si allontani da ciò che è adeguato... non sarà influenzata negativamente dagli ancora ignoti cambiamenti della sorte.» Goudeles s'inchinò al Khamorth, che gli rispose con un cenno del capo, intontito dalla sua eloquenza. «Cosa significava tutto quello che ha detto?» chiese Viridovix, rivolto a Gorgidas. «Non ci ammazzate.» «Ah» commentò il Celta, soddisfatto. «Pensavo che il furfante avesse detto proprio questo, ma non ne ero sicuro.» «Non ti preoccupare, perché non lo sono neppure i nomadi.» La gonfia oratoria videssiana, colma di trucchi retorici, non mancava mai di opprimere Gorgidas, che era abituato ad uno stile più pulito e semplice. Il massimo dell'eloquenza videssiana consisteva nel non dire nulla impiegando parecchie ore per farlo. Tuttavia, l'arringa di Goudeles era servita al suo scopo, perché il Khamorth aveva bevuto ogni frase altisonante che l'aveva composta. «Ah, Lingua d'Argento!» esclamò Olbiop, rivolto a Goudeles. «Voi venite a villaggio con noi, mangiate, passate notte, siete allegri.» Il nomade si protese quindi in avanti e piantò un bacio sulla guancia di Goudeles; questi accettò la cosa senza cambiare espressione, ma non appena Olbiop si girò per impartire risonanti ordini ai suoi uomini, il burocrate lanciò un'occhiata sconvolta ai compagni. «Nell'arte della diplomazia ci sono situazioni che non avrei mai previsto d'incontrare» mormorò, in tono lamentoso. «Su queste pianure, la gente non si lava mai?» aggiunse, sfregandosi di nascosto la guancia e pulendosi
quindi ripetutamente la mano sul bordo della tunica. La maggior parte dei Khamorth tornò alla mandria, ma un pugno di nomadi rimase con Olbiop, per scortare gli inviati. «Venite con me voi» disse il capo dei Khamorth. Agathias Psoes guardò con espressione interrogativa Skylitzes, che annuì. «Come mai questi barbari hanno un villaggio?» domandò Gorgidas, quando Olbiop fu abbastanza lontano da non poter sentire. «Pensavo che fossero tutti nomadi, in costante movimento dietro i loro armenti.» «Una volta» replicò Skylitzes, scrollando le spalle, «Videssos occupava una porzione di steppe molto più ampia della sola Prista, e vi aveva stabilito colonie di agricoltori. Alcuni vivono ancora qui, come servi dei nomadi, anche se suppongo che con il passare del tempo moriranno tutti o diventeranno nomadi a loro volta. Già la maggior parte di loro ha dimenticato Phos.» Arrivarono al villaggio di agricoltori quando ormai non mancava molto al tramonto. Olbiop li guidò attraverso i campi trascurati, calpestando i giovani steli di grano con suprema indifferenza e Gorgidas, notando altri solchi simili a quello che loro stavano aprendo, si chiese come facesse la gente del villaggio a coltivare raccolti sufficienti a garantirle la sopravvivenza. Al limitare del villaggio, dopo che ebbero oltrepassato le rovine di parecchi edifici che indicavano le dimensioni che l'abitato aveva avuto un tempo, alcuni cani vennero loro incontro abbaiando. Uno dei Khamorth scagliò una freccia contro una bestia particolarmente rumorosa, sfiorandole una zampa; il cane guaì e fuggì, mentre i compagni dell'uomo che aveva tirato gridarono alcune frasi contro l'amico. «Si fanno beffe di lui per aver quasi mancato il bersaglio» spiegò Skylitzes, prevedendo la domanda di Gorgidas. «Capo-villaggio!» tuonò Olbiop, in videssiano, nell'imboccare la strada principale, piena di erbacce, poi fece seguire al richiamo una sfilza di improperi nella propria lingua. Un uomo anziano che indossava un rozzo e incolore abito fatto in casa emerse da uno degli edifici mal tenuti, mentre il resto degli abitanti rimase nascosto, avendo una lunga esperienza in merito al comportamento dei suoi padroni. Il capo del villaggio si prostrò a terra davanti ad Olbiop come un cittadino dell'impero avrebbe potuto fare al cospetto di Thorisin Gavras, e Skylitzes serrò le labbra nel veder rendere un simile omaggio ad un barbaro privo di rango, ma non disse nulla.
«Ci servono cibo, posto per dormire, come dici... riparo dal freddo» ordinò Olbiop, segnando i vari punti con le dita. Seguì poi un colloquio nella lingua dei nomadi, e alla fine il Khamorth pose una domanda a Psoes, che annuì con prontezza, mentre Gorgidas decideva fra sé di imparare la lingua delle pianure, perché dover ricorrere ai compagni come interpreti gli faceva perdere troppe cose importanti. «Come se i ragazzi potessero arrugginirsi, a trascorrere una notte all'aperto» stava ridacchiando Psoes. «Adesso, voialtri damerini potete andare a divertirvi.» Il sottufficiale conferì brevemente con i suoi uomini, che cominciarono a preparare il campo nella piazza del villaggio; ad un ordine di Olbiop, i Khamorth si unirono ai soldati, mentre il loro capo rimase con i legati. «Da questa parte, se non vi dispiace» disse il capo del villaggio agli inviati, a testa china; il suo accento videssiano era imbarbarito, il modo di esprimersi arcaico, in quanto il villaggio era da lungo tempo isolato dalle correnti di lingua viva dell'impero. L'edificio a cui l'uomo li condusse era stato un tempio, una volta, e un campanile di legno sormontava ancora il suo tetto, anche se la sfera d'oro di Phos era crollata dalla sua sommità, il tetto stesso era rattoppato con la paglia e zolle di terra chiudevano le fessure nelle pareti di pietra locale tagliata rozzamente. Non c'era porta... una tenda di cuoio pendeva davanti all'entrata. «Bene, questa è la dimora per gli ospiti. Smontate ed entrate» invitò il capo-villaggio, incapace di comprendere l'esitazione di alcuni fra i visitatori. «Le vostre bestie saranno accudite. Non abbiate problemi ad accendere il fuoco, perché c'è combustibile in abbondanza. Vado a provvedere alla vostra cena e alle altre... ah, comodità. Quanti siete?» Li contò due volte. «In sei, vero? Sì, bene» concluse, con un sospiro. «Hai la nostra sentita gratitudine per la tua ospitalità» rispose cortesemente Goudeles, scendendo di sella con evidente sollievo. «Se avessimo bisogno di qualche piccolo servigio, come possiamo chiedere di te?» Il capo-villaggio lo fissò con aria guardinga: era abituato infatti a improperi e minacce, e si stava chiedendo quale pericolo potesse annidarsi dietro quelle parole mielate. Non trovandone, alla fine rispose con riluttanza. «Io mi chiamo Plinthas.» «Splendido, buon Plinthas. Di nuovo, ti ringraziamo.» Più sospettoso che mai, l'uomo si allontanò con i cavalli. «Phos, che brutto nome!» esclamò Goudeles, non appena se ne fu andato, e subito aggiunse: «Vedia-
mo cosa abbiamo qui.» Dal tono della sua voce, sembrava proprio che si aspettasse il peggio. Il tempio abbandonato aveva un odore di muffa: a quanto pareva, gli ospiti erano rari, da quelle parti. Le panche che un tempo avevano circondato l'area centrale di adorazione erano scomparse da lunga data... sulle pianure, il legno era troppo prezioso per essere abbandonato in un edificio in disuso. Anche l'altare non c'era più da molti anni, e al suo posto c'era una fossa per il fuoco. Gorgidas pensò che Skylitzes aveva ragione, che in quel posto non rimaneva più neppure il ricordo di Phos. L'ufficiale videssiano prelevò pietra e acciarino dalla propria sacca ed accese abilmente il fuoco centrale mentre gli inviati si stendevano con sollievo sul duro pavimento di terra battuta. Goudeles sospirò con aria beata: essendo il peggior cavaliere del gruppo, era anche il più indolenzito, e adesso le sue mani morbide non erano più soltanto irritate, ma anche coperte di vesciche. «Hai un balsamo per queste?» chiese a Gorgidas, mostrandogliele. «Temo di aver portato con me ben pochi medicinali» replicò il Greco, senza soffermarsi però a spiegare al burocrate i motivi che lo avevano indotto ad abbandonare l'arte della medicina. Vedendo che il Videssiano stava soffrendo, però, aggiunse: «Credo che un unguento a base di grasso e di miele ti darebbe sollievo... potresti chiederlo a Plinthas.» «Grazie, lo farò quando torna.» Dal fuoco si levò una fiammata improvvisa quando una nuova fascina di paglia s'incendiò; Gorgidas intravide una chiazza azzurra grande quanto una mano dipinta su un muro e si accostò per guardare meglio. Si trattava di tutto ciò che rimaneva di un affresco religioso che probabilmente una volta aveva coperto tutte le pareti del tempio. L'incuria, la muffa, la fuliggine e il tempo si erano alleati per cancellare tutto il resto... come lo squallido villaggio in se stesso, anche il tempio era un rudere di un sogno luminoso. La tenda di cuoio si spostò di lato e Goudeles si preparò a rivolgere la sua richiesta a Plinthas. Ad entrare nel tempio trasformato in alloggio non fu però il capo del villaggio; al suo posto giunse una mezza dozzina di giovani donne, alcune delle quali portavano cibi, altre utensili per cucinare e morbide stuoie per dormire. L'ultima avanzava quasi barcollando sotto il peso di parecchi otri pieni, Gorgidas ne era certo, di kavass o di birra. Olbiop emise un ruggito di approvazione e balzò in piedi, afferrando una delle donne e baciandola rumorosamente prima di stringerla in un abbrac-
cio da orso, tanto che la ragazza ebbe appena il tempo di passare ad una compagna la casseruola con treppiede e la padella che stava reggendo, prima che le mani del nomade cominciassero ad insinuarsi avidamente sotto la sua tunica. «Quel Khamorth è un porco, d'accordo, ma non è necessario che tu assuma un'espressione così inorridita» mormorò Skylitzes, rivolto a Gorgidas. «Fornire delle donne agli ospiti è un semplice atto di cortesia, e rifiutarlo sarebbe una mancanza imperdonabile.» Lo sgomento del Greco non diminuì, ma per una ragione diversa da quella che Skylitzes poteva supporre. Gorgidas non riusciva a ricordare con esattezza quanti anni fossero trascorsi dall'ultima volta che era stato con una donna... almeno quindici, e quell'ultima occasione era stata tutt'altro che un successo. Adesso, però, sembrava che non gli rimanessero alternative... il Videssiano aveva sottolineato con chiarezza che un rifiuto era impossibile... e il Greco cercò di non pensare alla misura in cui il suo imminente fallimento gli avrebbe fatto perdere la stima dei compagni. Sentendo di sfuggita le parole di Skylitzes, Viridovix lanciò invece un grido di soddisfazione e si appropriò immediatamente di una delle ragazze, mostrandosi però più difficile di Olbiop ed optando per la più graziosa delle sei. Si trattava di una giovane minuta con grandi occhi e ondulati capelli castani che, al contrario delle altre, portava una spilla di giaietto nero vicino al collo della tunica. «E quale sarebbe il tuo nome, mia bella pollastrella?» chiese il Celta, sorridendo alla ragazza, che era più bassa di lui di almeno trenta centimetri. «Evanthia, figlia di Plinthas» rispose lei. «Vuoi dire quello là fuori? Il capo-villaggio?» insistette Viridovix e, ad un cenno di assenso di Evanthia, scoppiò in una risatina. «Allora tu devi somigliare a tua madre, perché lui non è certo una bellezza.» La ragazza accennò un inchino e ricambiò il sorriso del Gallo. Gorgidas aveva già visto altre volte Viridovix intessere il suo incanto, e sapeva che ben poche donne ne erano immuni. «Non sapevo che ci fossero uomini con i capelli del colore della ruggine» osservò Evanthia. «Anche il tuo parlare suona strano. Da quale terra lontana provieni?» Quella domanda fu sufficiente a lanciare Viridovix in una lunga chiacchierata, come un uomo che si tuffasse nel mare. Il Celta s'interruppe qualche secondo più tardi per togliere una stuoia di mano ad Evanthia e sten-
derla a terra. «Vieni, siedi accanto a me, mia cara, così potrai ascoltare più comodamente» la invitò, ed ammiccò a Gorgidas da sopra la spalla della ragazza. Anche le altre coppie si formarono abbastanza in fretta, e le ragazze del villaggio non parvero risentire della cosa... tranne forse quella scelta da Olbiop, a causa delle incessanti carezze del nomade. Dopo aver riflettuto, Gorgidas dovette ammettere che non c'era motivo per cui dovessero risentirsene, dal momento che stavano soltanto seguendo le radicate usanze del loro popolo, una pratica che il Greco stesso aveva ampiamente lodato non molto tempo prima. La sua compagna, di nome Spasia, non era avvenente quanto la ragazza scelta da Viridovix; era robusta ed aveva una lieve peluria sul labbro superiore, ma la sua voce aveva un timbro piacevole e Gorgidas si accorse presto che era tutt'altro che stupida, anche se non aveva idea di come fosse il mondo che la circondava, un fattore peraltro comune a tutti gli abitanti del villaggio. E i suoi occhi continuavano a scrutare il volto del Greco. «C'è qualcosa che non va?» le chiese il dottore, domandandosi se Spasia potesse aver percepito che non destava in lui il minimo desiderio. La risposta della ragazza, tuttavia, fu assolutamente ingenua. «Sei uno di quelli che vengono chiamati eunuchi? Le tue guance sono così lisce.» «No» replicò Gorgidas, sforzandosi di non ridere. «Il mio popolo usa radersi la faccia, ed io mi attengo a tale consuetudine anche qui.» Infilò la mano nella sua sacca e mostrò a Spasia il rasoio a forma di foglia. «Perché seguire un'usanza così dolorosa?» insistette la ragazza, tastando la lama con il pollice, e a quel punto Gorgidas rise davvero, perché non avrebbe saputo cosa rispondere. Le donne procedettero quindi a cucinare il cibo che avevano portato: polli, anatre, conigli, pagnotte appena sfornate... pane vero, perché quella gente, abitando in un posto fisso, poteva avere un vero forno... parecchi tipi di dolci di bacche e un assortimento di erbe e di vegetali mescolati insieme a formare un'insalata. Il gradito profumo della carne che arrostiva si diffuse ben presto fra le pareti del tempio dissacrato. Sentendosi piacevolmente sazio per la buona cena, con la testa che gli girava leggermente per i numerosi sorsi di kavass, Gorgidas si appoggiò all'indietro sulla stuoia, grattandosi lo stomaco. Insieme ai Videssiani e a Viridovix, si era fatto beffe di Olbiop e di Arigh, perché avevano rifiutato l'insalata, in quanto i nomadi consideravano le verdure cibo per il bestiame
e indegno degli uomini. «Ora smettete di deriderli» aveva detto infine Viridovix. «Ce ne sarà di più per il resto di noi.» Il Greco si era servito a sua volta dell'insalata; alcune verdure, compresa una radice bianca dal sapore abbastanza forte da fargli salire le lacrime gli occhi, gli erano nuove, e un saporito condimento a base di aceto speziato e di olio aggiungeva sapore al piatto. Se gli uomini delle pianure non amavano lattughe e cetrioli, però, compensavano abbondantemente con il bere, trangugiando in grandi sorsi il latte di giumenta fermentato per poi schioccare le labbra e ruttare sonoramente nell'espressione di apprezzamento tradizionale delle steppe. La compagna di Olbiop teneva le mani del nomade occupate con un otre quanto più spesso poteva, e Gorgidas si chiese se stesse sperando di farlo bere fino all'intontimento. Se così era, la ragazza andò incontro ad una delusione, perché il Khamorth non era un ragazzino inesperto, per cedere all'ubriachezza proprio quando il divertimento stava per cominciare. Infatti, tirò a sé la ragazza, infilò ancora una volta le mani sotto la sua tunica e gliela sfilò da sopra la testa. La sua compagna cedette senza eccessivo entusiasmo, con l'aria di chi abbia effettuato un tentativo e, avendolo visto fallire, sia ora rassegnato a subirne le conseguenze. Gorgidas credeva che il Khamorth si sarebbe allontanato fuori, nel buio, con la donna, ma l'altro si limitò a privarla anche della gonna e a spogliarsi a sua volta di giacca di pelo, calzoni e stivali, procedendo poi come se i due fossero stati completamente soli. Il Greco distolse lo sguardo, Pikridios Goudeles finse di non vedere, senza saltare neppure una sillaba della storia che stava raccontando alla sua compagna; quanto ad Arigh e a Skylitzes, essendo abituati agli usi delle steppe, i due non avevano tardato molto rispetto al Khamorth nell'avviare le loro attività notturne. Viridovix, dal canto suo, rimase a guardare a bocca aperta per un paio di istanti, con la sorpresa e il desiderio dipinti sulla faccia, poi sogghignò e strinse a sé Evanthia, le cui braccia gli scivolarono intorno al collo. Goudeles incontrò lo sguardo di Gorgidas, al di sopra delle coppie in fervente attività. «Quando ci si reca a Videssos, si mangia pesce» dichiarò il burocrate, prima di lasciarsi cadere sulla stuoia con la compagna. «Qui devi intingere qualcosa di più della tua penna!» gli gridò Skylitzes,
e il burocrate gli rispose con un gesto osceno. Gorgidas, nel frattempo, non aveva ancora neppure toccato Spasia; l'orgia in corso tutt'intorno non destava in lui né desiderio né divertimento, e il Greco stava osservando la scena e ascoltando i sussurri e i frammenti di risata con quel distacco tipico del medico, di cui non sembrava capace di liberarsi. Avvertì su di sé lo sguardo di Spasia. «Io non ti piaccio» dichiarò la ragazza, e le sue parole non suonarono come una domanda. «È soltanto che io...» cominciò, ma fu interrotto da una rauca esclamazione di Olbiop. Il Khamorth era appoggiato sul gomito, in attesa di essere abbastanza riposato da lanciarsi di nuovo all'attacco. «Niente pietre, faccia di donna?» beffeggiò il nomade. «Perché procuro te donna? Niente serve a te.» Gorgidas sentì le guance arroventarglisi per qualcosa che non aveva nulla a che vedere con il calore del fuoco, e si rese conto che ormai era necessario fare almeno un tentativo. Nel circondare le spalle di Spasia con un braccio per accostare il viso di lei al proprio, lesse negli occhi della ragazza una silenziosa compassione. Era d'indole gentile, e questo forse lo avrebbe aiutato. Il contatto stesso delle sue labbra, piccole e morbide, gli riuscì strano, e la salda pressione del seno di lei, fra loro, parve distrarlo: era abituato ad un genere diverso di abbraccio, ad una forza comune. Goffamente, consapevole di essere osservato, aiutò la ragazza a liberarsi degli indumenti; quanto ai suoi, scivolarono via senza difficoltà dal corpo snello e resistente, più forte di quanto potesse sembrare. Gorgidas aveva quarantun'anni, aveva avuto quello stesso aspetto a ventuno e lo avrebbe conservato anche se fosse arrivato a sessantuno. Baciando ancora Spasia, la spinse con gentilezza sulla morbida stuoia di feltro; le labbra della ragazza erano gradevoli, il calore della sua vicinanza gli dava conforto, ma null'altro. Con uno strillo di ammirazione, Viridovix puntò un dito e gridò ad Olbiop: «Guarda un po' là, Khamorth caro! Lingua d'Argento lo hai chiamato, questo pomeriggio, ed ora si sta di certo guadagnando quel nome!» Insieme, il Gallo e il nomade applaudirono e incitarono Goudeles. Quanto a Gorgidas, per un momento sperò che a bloccarlo fosse stata la consapevolezza di essere osservato, ma la situazione non migliorò neppure quando l'attenzione degli altri si allontanò da lui.
«Ti chiedo perdono» mormorò a Spasia, «ma non si tratta di te.» «Allora posso aiutarti? Sei stato gentile con una sconosciuta che non vedrai mai più, e questo merita una ricompensa.» Sorpreso, il Greco accennò a scuotere il capo nel gesto di diniego tipico della sua razza, ma poi si frenò. «È possibile» rispose, accarezzandole la nuca. Forse si trattò della familiarità del gesto, comunque, Gorgidas trattenne a stento un grido nel sentire il proprio corpo che reagiva ad esso. Allontanò da sé il volto di Spasia che, con un sorriso invitante, rotolò sulla schiena. «Vieni» mormorò, in un mezzo sospiro. Ben presto il suo respiro divenne affrettato, le sue labbra cercarono quelle di lui e le sue braccia gli cinsero la schiena, traendolo più vicino. Il Greco rise silenziosamente fra sé quando la sentì tremare, appagata, sotto di sé. Era venuto nelle steppe per rompere con il proprio passato, ma non in quel modo. Anche se aveva finalmente ottenuto un risultato, peraltro, la cosa gli sembrava ancora strana e non poco perversa, tanto che non gli interessava certo farla diventare un'abitudine. Ironicamente, proprio perché non era animato da una vera passione, finì per dimostrare una resistenza molto più prolungata dei suoi compagni, ed Olbiop, Viridovix e Arigh giunsero ad applaudirlo. Più tardi, il Khamorth si accostò a Gorgidas e gli batté una pacca sulla schiena sudata. «Io sbagliato» asserì, il che non era un'ammissione da poco, venendo dal nomade. L'orgia si protrasse fino a notte inoltrata, con un continuo scambio di coppie. Avendo stabilito ciò che valeva... sia pure con monete false, pensò... Gorgidas si sentì libero di astenersi da altri piaceri, e Spasia rifiutò qualsiasi altro compagno. Sdraiati uno accanto all'altra, i due chiacchierarono sommessamente dei passati vagabondaggi del Greco e della vita che la ragazza conduceva nel villaggio, finché il sonno li assalì. «Spero che tu mi abbia dato un figlio» fu l'ultima cosa che Spasia gli disse, e quelle parole risvegliarono completamente il Greco. La sua sommessa domanda ottenne però come unica risposta un altrettanto sommesso russare, e non gli rimase che accostarsi maggiormente alla ragazza e assopirsi a sua volta. Il mattino successivo Olbiop svegliò tutti gli altri con un rumoroso gemito. Tenendosi la testa con entrambe le mani, quasi temesse che potesse
staccarglisi, il Khamorth spinse di lato la tenda di cuoio e, ancora nudo, raggiunse barcollando il pozzo del villaggio. Gorgidas lo sentì imprecare contro la manovella scricchiolante mentre tirava su un secchio d'acqua che poi si rovesciò sulla testa, mentre gli altri Khamorth all'esterno ridevano delle sue misere condizioni. Il nomade rientrò con la testa unta che gocciolava. Quella secchiata d'acqua doveva essere stato il suo primo bagno da moltissimo tempo, e non era stato sufficiente ad estirpare il forte odore di cavallo e di sudore accumulato da anni. Olbiop rabbrividì all'idea della colazione, ma trangugiò dell'altro kavass. «Gioca con le scaglie del serpente che lo ha già morso la scorsa notte» commentò Spasia, riscaldando una zampa di coniglio per Gorgidas; ora che si era rivestita, sembrava di nuovo una sconosciuta. Il Greco frugò nel proprio bagaglio, desiderando di essere stato meno razionale e limitato nei propri preparativi. Alla fine, trovò una scatoletta d'argento con l'immagine di Phos sul coperchio, piena di polvere d'inchiostro, ma Spasia cercò di rifiutare il dono. «La scorsa notte hai donato te stesso. È sufficiente» affermò. «È stato uno scambio alla pari» ribatté Gorgidas. «Accettala, per aver ampliato i miei orizzonti, se non per altro.» La ragazza lo guardò senza capire, ma lui non aggiunse altre spiegazioni, e alla fine Spasia prese il regalo mormorando qualche parola di ringraziamento. Tutt'intorno, erano in corso altri saluti. «No, ragazza mia, non puoi venire con noi. È stato soltanto l'incontro di una notte» ripeté pazientemente più volte Viridovix, finché Evanthia comprese: il Gallo aveva avuto molte occasioni di dire addio a una donna, e non si affrettò perché, nonostante la sua ferocia in battaglia e la gioia che traeva dalla lotta, di qualsiasi genere, non era un uomo crudele. Insieme agli altri viaggiatori, Gorgidas sistemò il proprio bagaglio sulla groppa di un cavallo da soma, controllando che le cinghie di cuoio fossero fissate bene. Soddisfatto, salì quindi in sella al pony che avrebbe montato quel giorno. Ad un cenno di Skylitzes, affiancato dalla scorta proveniente da Prista e dagli uomini di Olbiop, il gruppo di inviati lasciò il villaggio; un ossuto cane giallo cercò di seguire i cavalieri finché uno dei Khamorth accennò ad andargli addosso con il cavallo, un gesto che indusse l'animale a fuggire, guardandosi indietro con aria spaventata. La distanza crescente inghiottì poi la gente, le case, gli edifici e il villaggio nel suo complesso, e
gli stessi nomadi non rimasero a lungo con la spedizione imperiale, perché la mandria aspettava il loro ritorno. Olbiop scambiò qualche battuta con Agathias Psoes e con i suoi uomini, vantandosi delle proprie imprese notturne. «E poi c'è questo» aggiunse, puntando un pollice in direzione di Gorgidas. «È bravo, per uomo senza pietre.» «I corvi ti portino» borbottò il Greco, ma nella sua lingua, e comunque Olbiop non gli badò. «Tu attento ora, Psoes. Vi prendiamo senza guardia... come tu dici?... senza inviati, vi uccidiamo.» «Scegli tu il posto» ribatté il sottufficiale, nello stesso tono scherzoso, ma tanto lui quanto il nomade sapevano che sarebbe potuto venire un giorno in cui avrebbero fatto sul serio. Con un ultimo cenno di saluto, Olbiop e i suoi uomini si allontanarono verso sud. «Andiamo» disse Skylitzes. «Un momento, per favore.» Gorgidas smontò di sella e staccò la propria sacca dal cavallo da soma, che aveva intanto cominciato a brucare, sfruttando la sosta. Sotto lo sguardo incuriosito degli altri, il Greco frugò nella sacca fino a trovare il rasoio, e lo scagliò lontano, fra l'erba della steppa. Infine risalì a cavallo e rivolse un cenno del capo a Skylitzes. «Molto bene. Ora possiamo andare.» CAPITOLO TERZO Una fragola matura saettò oltre la testa di Marcus ed andò a schiacciarsi contro il muro degli alloggiamenti, alle sue spalle. «In nome del cielo, Pakhymer» ingiunse, in tono stanco, il tribuno, «vuoi mettere via quella tua dannata catapulta giocattolo e prestare attenzione?» «La stavo soltanto controllando» replicò, con finta innocenza, Laon Pakhymer, esibendo un sorriso da monello sul volto barbuto segnato dal vaiolo. Pakhymer comandava un reggimento mercenario di cavalleria leggera proveniente da Khatrish, un piccolo khaganato lungo il confine orientale di Videssos, e come tutti i Khatrish che Scaurus conosceva, sembrava trovare difficoltà a prendere sul serio qualsiasi cosa. Mancava di gravitas, pensò il tribuno. Nonostante questo, era felice che Pakhymer avesse deciso di venire alla riunione degli ufficiali della legione perché, pur non facendo propriamente
parte delle truppe di Scaurus, i suoi cavalieri manovravano bene in congiunzione con la fanteria romana. Come se la fragola volante fosse stata un segnale di strano tipo, i luogotenenti del tribuno accantonarono le loro chiacchiere e guardarono verso Scaurus, in attesa di sentire ciò che questi aveva da dire. Marcus si alzò dal suo posto alla testa del tavolo e mosse qualche passo avanti e indietro, per riordinare le idee, distratto dalla chiazza rossa lasciata dalla fragola sull'intonaco alle sue spalle. «Il gioco è cambiato... di nuovo» esordì, infine. «A volte credo che non combatteremo mai contro gli Yezda. Prima c'è stata la guerra civile contro Ortaias Sphrantzes, poi Onomagoulos, ed ora il... grande Conte Drax» concluse, caricando d'ironia l'aggettivo. «Quali sono le ultime notizie?» chiese con esitazione Sextus Minucius, che stava partecipando alla sua prima riunione da sottufficiale e appariva convinto che tutti gli altri fossero meglio informati di lui. Scaurus desiderò che fosse davvero così. «Sai quello che sappiamo tutti. È come ci ha riferito Apokavkos, quando ci ha portato la notizia, ieri. Dopo aver sconfitto Onomagoulos, nelle terre occidentali, Drax si è trovato a possedere l'unico esercito effettivamente presente nella zona. E pare che abbia deciso di insediarsi là per conto suo.» «Ma le terre occidentali... Garsavra, Kypas, Kyzikos... sono nostre da sempre» protestò Zeprin il Rosso, con un'espressione rabbiosa sul volto florido. Nonostante il plurale che aveva usato, non era un Videssiano, ma un mercenario haloga che aveva servito nell'impero tanto a lungo da arrivare a considerarlo come la sua casa, così come Phostis Apokavkos aveva fatto con la legione. Prima di Maragha, l'Haloga aveva detenuto un alto rango nelle Guardie Imperiali, ma del resto molte cose erano state diverse, prima di Maragha. «Anche Namdalen apparteneva a Videssos» ribatté il tribuno, e Zeprin grugnì, annuendo con aria contrita. «A questo proposito» riprese Marcus, «Drax sta trasformando in realtà l'antico sogno di una nuova Namdalen sul suolo imperiale, e quando la notizia di quanto ha fatto arriverà nel Ducato, vedremo molti baroni avidi di terre salpare verso ovest per ricavare un loro piccolo dominio personale finché la festa è ancora in corso. E l'unico modo che riesco a vedere per evitare che questo avvenga, è abbattere Drax al più presto.» Gagik Bagratouni, il nakharar che comandava i Vaspurakani presenti nel contingente di Marcus, sollevò una mano.
«Ci sono... come si dice?... più Namdaleni vicino a Drax che nel Ducato» affermò, con un'espressione concentrata sull'ampia faccia dal naso aquilino: il videssiano era una lingua che gli riusciva ancora ostica. «Uptrand molti ne ha, e qui. Cosa fa... cosa intende fare Thorisin di essi?» «Rispondi nel modo giusto a questa domanda ed avrai un pezzo d'oro» borbottò Gaius Philippus, e Bagratouni inarcò le folte sopracciglia, non comprendendo del tutto il commento. «Io vedo tre alternative, tutte rischiose» replicò Marcus, e procedette ad elencarle contandole sulle dita. «Li può separare dal resto dell'esercito e mandarli, diciamo, verso il confine khatrish. Così saranno fuori dai piedi qui, ma chi li controllerà, se decideranno di imitare Drax? «Oppure, Thorisin li può lasciare qui nella capitale, correndo lo stesso rischio. E se dovessero impadronirsi della città di Videssos, questo significherebbe la morte dell'impero.» Il tribuno ricordò la passione con cui Soteric aveva parlato di quella prospettiva. Bagratouni fornì una succinta e sommessa traduzione di quanto Scaurus aveva affermato, a beneficio del suo luogotenente, Mesrop Anhoghin. Se il videssiano di Bagratuni era zoppicante, infatti, quello del suo aiutante, un uomo magro con una barba ancora più folta di quella del nakharar, era inesistente. «Oppure» concluse Marcus, «può tenere i Namdaleni uniti al resto di noi e sperare che non passino dalla parte di Drax alla prima occasione. Spero anch'io che non lo facciano» aggiunse, ed ottenne una risata di risposta. «Sarebbe proprio quello che ci serve!» osservò Gaius Philippus. «È già abbastanza brutto sostenere una carica frontale di quella dannata cavalleria pesante, e il sangue mi si gela all'idea di essere colti di fianco per un tradimento.» «Ho sentito dire che Drax ed Uptrand sono rivali» intervenne Minucius. «È davvero così?» «Ritengo che sia vero, anche se non ne conosco il motivo» rispose Marcus, lasciando scorrere lo sguardo lungo il tavolo. «Qualcuno sa di cosa si tratti?» «Io sì» intervenne prontamente Laon Pakhymer, il che non sorprese Scaurus, perché i Khatrish, curiosi come passeri, erano fatti apposta per i pettegolezzi. «Una volta» spiegò Pakhymer, «erano amici ed alleati, ed hanno unito le forze per assediare la fortezza di un nobile. Quel castello si trovava su un lago, e Uptrand si è incaricato di sorvegliare il lato sulla terraferma, mentre a Drax è toccata l'acqua. Sono rimasti là a lungo, pren-
dendo quel tizio per fame, ma l'altro ha continuato a resistere, pur sapendo che era inutile... immagino che non si volesse arrendere ad Uptrand.» Ricordando gli occhi gelidi del capitano namdaleno, Scaurus decise di non poter biasimare quel nobile intrappolato. «E non lo ha fatto» proseguì Pakhymer. «Ha aperto le porte che si affacciavano su lago ed ha messo se stesso e il suo castello nelle mani di Drax... di Drax soltanto. E quando Uptrand ha chiesto di ricevere la sua parte di bottino, il grande conte...» Pakhymer pronunciò l'aggettivo con lo stesso sarcasmo usato precedentemente da Marcus. «Il grande conte lo ha mandato all'inferno. Da allora, per chissà quale ragione, non sono più andati d'accordo.» Sulla faccia di Pakhymer spuntò un sogghigno contagioso. «Questa è una ragione valida» commentò la voce tonante di Zeprin il Rosso. «Gli dèi sputano su un uomo che infrange un patto.» Nonostante tutte le pene del santo Kveldulf, gli Halogai erano ancora pagani ed adoravano il loro olimpo di tetre divinità. La storia di Pakhymer servì a rassicurare in certa misura Marcus, in quanto sembrava che fra i due Namdaleni ci fosse una vera e perdurante inimicizia, un fattore che gli astuti politicanti di Videssos avrebbero certo saputo sfruttare a loro vantaggio. Di sfuggita, il tribuno si chiese anche in che misura si sarebbero dimostrati fedeli Bagratouni ed i suoi Vaspurakani. Era vero che gli Yezda li avevano scacciati dalla loro patria, costringendoli all'esilio in Videssos, ma i Vaspurakani avevano poi sofferto danni peggiori a causa di un'epurazione indetta da un fanatico prete videssiano. Non era quindi possibile che vedessero Drax e i suoi Namdaleni come eventuali alleati e non come nemici, e che giungessero addirittura ad unirsi a loro, considerandoli compagni nell'eresia? Scaurus decise che quella era un'altra cosa di cui preoccuparsi, e l'archiviò in un angolo della mente. La riunione si concluse in fretta, perché non c'erano a disposizione informazioni sufficienti per prolungare la pianificazione; mentre gli ufficiali si allontanavano alla spicciolata, Scaurus chiamò accanto a sé Gaius Philippus. «Cosa faresti tu, se fossi al posto di Thorisin?» gli chiese, ritenendo che l'accentuata praticità del veterano potesse aiutarlo ad intuire le intenzioni dell'imperatore. «Io?» Il centurione anziano si grattò la guancia sfregiata, riflettendo, e alla fine scoppiò in una risata poco sentita. «Credo che mi cercherei un altro lavoro.»
«Forza, salite» incitavano ripetutamente i marinai, a mano a mano che i legionari saltavano a bordo delle imbarcazioni che li avrebbero trasportati dall'altra parte dell'angusto stretto noto come il Guado del Bestiame, da cui avrebbero potuto accedere alle terre occidentali. Uno dei più gentili, aggiunse anche: «Attenti a dove mettete i piedi, marinai d'acqua dolce. Sotto questa pioggia, la passerella è scivolosa.» «Non me lo dire» ribatté Gaius Philippus, che si era avvolto strettamente nel mantello per riparare l'armatura dall'umidità. Dal canto suo, Marcus desiderò che avessero avuto ordine di imbarcarsi nel porto Neorhesiano, al limitare settentrionale della città, anziché in quello meridionale di Kontoskalion, dato che la burrasca soffiava da sud e che là erano senza protezione contro di essa. Di tanto in tanto, gli giungeva all'orecchio un tonfo seguito da un'imprecazione, quando qualche soldato sbagliava a camminare e rotolava nella stiva della nave. Più in giù, lungo i moli, parecchi cavalli stavano nitrendo nervosamente, incitati a salire a bordo dai loro padroni khatrish o namdaleni. Senpat Sviodo scese accanto a Scaurus con un goffo salto, e le corde della pandora che portava appesa alla schiena tintinnarono quando lui barcollò per mantenere l'equilibrio. «Aggraziato come un gatto» dichiarò, comunque. «Come un gatto ubriaco con tre zampe soltanto, può darsi» replicò Gaius Philippus, e Senpat rispose con una smorfia, per nulla abbattuto. La moglie del giovane nobile saltò a bordo un momento più tardi, senza aver bisogno del braccio che Senpat aveva proteso per sostenerla, e il suo atterraggio fu eseguito veramente con l'agilità di un gatto. Marcus pensò che Nevrat Sviodo era una donna fuori del comune sotto molteplici aspetti: tanto per cominciare, possedeva una notevole bellezza, sia pure del tipo bruno e forte di lineamenti tipico delle Vaspurakane. I suoi lunghi e ondulati capelli neri, che costituivano una delle maggiori attrattive della donna, pendevano però adesso flosci e bagnati sotto un fazzoletto di seta a colori vivaci. In Nevrat c'era peraltro molto più della sua bellezza. La donna indossava tunica e calzoni rigonfi come il marito, e alla cintura portava una sciabola sottile che mostrava di essere stata usata. Inoltre, Nevrat era un'ottima cavallerizza, dotata di un coraggio che qualsiasi uomo avrebbe potuto invidiarle, perché nessuna donna che non possedesse uno spirito davvero ecce-
zionale avrebbe mai lasciato la sicurezza della fortezza di Khliat, dopo Maragha, per andare alla ricerca del marito e dei legionari senza neppure sapere se fossero ancora vivi... e riuscendo a trovarli. Come se questo non fosse stato sufficiente, poi, lei e Senpat possedevano un amore nel quale non sembrava esserci spazio per gli attriti, e c'erano occasioni in cui Scaurus era costretto a lottare per soffocare l'invidia nei loro confronti. Adesso altre donne stavano giungendo a bordo, insieme ai loro bambini. La compagna di Minucius, Erene, atterrò quasi con la stessa grazia di Nevrat, poi si girò per prendere al volo due delle sue bambine, che le saltarono fra le braccia. Infine, Helvis porse ad Erene la sua terza nata, una bimba che aveva appena pochi mesi più di Dosti. Malric saltò a bordo per conto suo, ridendo quando scivolò e rotolò sulla rozza passerella. Helvis accennò ad imitarlo, ma Marcus e Nevrat scattarono in avanti insieme, per frenare la sua discesa. «Hai agito in modo stupido» affermò Nevrat, in tono brusco, con un lampo d'ira negli occhi. «Chi sei tu per rimproverarmi per simili sciocchezze?» ribatté Helvis, fissandola, seccata del rimprovero. «Tu hai fatto cose più pericolose che saltare giù da una passerella.» «Ah, ma non le avrei mai fatte, se Phos mi avesse concesso un figlio» replicò Nevrat, in tono molto sommesso, accigliandosi e ammantandosi di una sfumatura di tristezza. D'un tratto, Helvis comprese e l'abbracciò. «Quello è compito mio» intervenne Senpat, procedendo a prendere la moglie fra le braccia, con una luce allegra che gli danzava negli occhi. «Dobbiamo soltanto continuare ad esercitarci fino a trovare il modo giusto, ecco tutto» aggiunse. Nevrat gli assestò una gomitata nelle costole, che lui ricambiò con uno strillo di dolore. Thorisin Gavras, affiancato dalla sua dama, Komitta Rhangavve, percorse a passo lento i moli per assistere all'imbarco delle sue truppe. Anche dopo aver deciso di correre il rischio di servirsene, l'imperatore era ancora preoccupato a causa dei Namdaleni di Uptrand, e stava scrutando ogni mercenario che saliva sulle navi come se stesse cercando il tradimento annidato nella piega di ogni casacca o nelle toppe di ogni sopravveste. Thorisin mostrò di rilassarsi alquanto quando arrivò all'altezza dei legionari, e si rivolse a Marcus con un sorriso di autoderisione. «Avrei dovuto ascoltarti, quando mi hai messo in guardia contro Drax»
osservò, scuotendo il capo. «Qui va tutto bene?» «Sembra di sì» rispose il tribuno, compiaciuto che Gavras si fosse ricordato del suo avvertimento, e senza ira. «Ora come ora, le cose sono ancora un po' confuse.» «Lo sono sempre, quando si prepara una partenza.» L'imperatore batté il pugno contro il palmo dell'altra mano. «Per la luce di Phos, vorrei essere io, e non Zigabenos, a venire con voi! Quest'attesa mi logora i nervi, ma non oso lasciare la città finché non avrò la certezza che il Ducato non sbarcherà delle truppe alle mie spalle. Non sarebbe piacevole trovarmi bloccato nell'entroterra e poi dover arrancare verso est, magari per affrontare il Duca Tomond su un terreno di sua scelta.» Marcus pensò che un paio di anni prima Thorisin si sarebbe lanciato alla carica a testa bassa contro il primo nemico che si fosse presentato, mentre adesso era più cauto. Del resto, oltre che la più grande città di tutto Videssos, la capitale era anche il punto focale centrale dell'impero, in quanto dominava tutti i percorsi commerciali, di terra e di mare, e da essa era possibile raggiungere rapidamente tutte le parti dell'impero stesso. Komitta Rhangavve arricciò il naso con disprezzo di fronte a quelle quisquilie. «Se mi avessi ascoltata» dichiarò, rivolta a Thorisin, «avresti potuto fermare tutto questo prima ancora che cominciasse. Se tu avessi dato un adeguato esempio servendoti di Ortaias Sphrantzes, questo dannato Drax avrebbe avuto troppa paura anche soltanto per pensare di ribellarsi... ed anche Onomagoulos prima di lui, già che ci siamo.» «Taci, Komitta» ringhiò l'imperatore, non apprezzando che la sua focosa amante lo riprendesse in pubblico. Gli occhi della donna scintillarono pericolosamente nel volto pallido e sottile, che possedeva la fiera bellezza di un uccello rapace. «Non intendo tacere! Non puoi parlarmi così. Io sono un'aristocratica, anche se tu non vuoi concedermi la decenza di un matrimonio...» E così tu ti accontenti di passare la notte con un mercenario celta, pensò Marcus, sgomento per la piega che la donna stava dando al discorso. Anche Komitta parve accorgersi dei pericolo, perché tornò subito alle sue lamentele iniziali. «Avresti dovuto trascinare Sphrantzes al Foro del Bue e bruciarlo vivo, come meritano gli usurpatori. Questo...» Thorisin, però, aveva ormai sentito abbastanza, e se aveva imparato a tenere a freno la propria ira nell'ambito delle questioni di stato, questo non valeva tuttavia per quelle private.
«Avrei dovuto calare una pala su quel tuo aristocratico posteriore la prima volta che hai cominciato con i tuoi "te-l'avevo-detto"» ruggì. «Se lo avessi fatto, oggi vedresti qui un uomo più felice.» «Razza di stupido, grosso vaso da notte!» strillò Komitta, e un momento dopo i due avevano cominciato a litigare, in piedi sotto la pioggia, intenti ad insultarsi a vicenda come due pescivendoli. Marinai e soldati rimasero ad ascoltare, con crescente, reverenziale meraviglia, e Marcus scorse un brizzolato marinaio, che doveva certo avere alle proprie spalle una vita di argute profanità, accigliarsi e annuire ad intervalli di pochi secondi, come se stesse cercando di memorizzare alcune delle frasi più succulente. «Accidenti!» esclamò Senpat, quando infine Gavras ruotò sui tacchi e si allontanò a grandi passi con i pugni serrati. «Quella dama è fortunata a dividere il letto dell'imperatore, altrimenti avrebbe dovuto rispondere di lesa maestà.» «Dovrebbe risponderne comunque» commentò Helvis che, per quanto fosse namdalena, condivideva l'atteggiamento venerante tipico dei Videssiani nei confronti dell'imperatore. «Non riesco ad immaginare perché lui la sopporti.» Scaurus, però, aveva già visto Thorisin e Komitta litigare anche in altre occasioni, ed aveva finito per formulare una propria teoria. «Quella donna è per lui ciò che una chiusa è per una diga: gli permette di sfogare tutta la rabbia che accumula dentro.» «Sì, e gliene restituisce il doppio» intervenne Gaius Philippus. «Può darsi» ammise Marcus, «ma senza di lei Thorisin potrebbe cadere vittima di un attacco di apoplessia.» «Potrebbe capitargli anche così» insistette il centurione anziano, levando gli occhi al cielo. «E se succedesse» aggiunse Sviodo, «Komitta sosterrebbe che lui è morto soltanto per farle dispetto.» Il Vaspurakano sollevò lo sguardo con sorpresa nel sentire il rumore della passerella che veniva ritirata a bordo; alcuni marinai, seminudi sotto la pioggia, procedettero a sistemarla al riparo di un telo. «Ehi!» esclamò Sviodo. «Allora stiamo davvero per salpare nonostante questo tempo, vero?» «E perché non dovremmo?» ribatté Marcus. «Si tratta soltanto di attraversare il Guado del Bestiame, e il vento non sembra troppo forte.» Il tribuno non aveva più cognizioni nautiche della maggior parte dei Romani, ma si sentiva un pozzo di scienza marittima, in confronto al Vaspurakano.
«Dicono che l'umidità delle vele sia in effetti un aiuto, perché la quantità di aria che passa attraverso il tessuto è minore.» La sua apparente esperienza impressionò Sviodo, ma Helvis, che proveniva da una nazione di veri marinai, scoppiò a ridere sonoramente. «Se così fosse, mio caro, adesso questa sarebbe la nave più veloce che abbia mai galleggiato. Invece è come il sale nei cibi: un po' va bene, ma metterne troppo è peggio che dimenticarselo.» Le corde strisciarono sibilando sul ponte bagnato quando i marinai le raccolsero in volute serpentine; un asino ragliò a qualche nave di distanza, due nostromi e il capitano imprecarono... anche se in maniera molto meno espressiva di Thorisin e di Komitta... perché, come Helvis aveva previsto, la grande vela quadrata pendeva floscia dall'albero, come un panno appeso ad asciugare. Finalmente, una folata di vento fresco gonfiò la vela, che si staccò con un sospiro umido dall'albero; il capitano imprecò ancora, questa volta contro l'uomo al timone, perché era troppo lento... se con ragione o meno, Scaurus non avrebbe saputo dirlo. Infine la nave si staccò dal molo. Soteric figlio di Dosti si affiancò alla colonna di legionari in marcia; i soldati delle prime file brontolarono per la polvere sollevata dal cavallo del Namdaleno, mentre quelli che venivano più indietro non dissero nulla, perché stavano già mangiando la polvere dei compagni. Soteric tirò le redini quando giunse accanto a Marcus, e si sfilò l'elmo conico con un gemito di sollievo, mentre il sudore gli colava lungo il volto impolverato in piccoli rivoletti limpidi. «Accidenti!» esclamò. «Fa caldo per marciare.» «Qui non troverai chi ti contraddica» rispose il tribuno, dubitando che suo cognato fosse venuto fin là soltanto per lamentarsi del clima. Qualsiasi cosa intendesse dire, comunque, Soteric parve non avere fretta. «Quella che stiamo attraversando è una bella regione.» Di nuovo, Scaurus dovette assentire, perché le terre basse delle province occidentali dell'impero erano la zona più fertile che avesse mai visto. Il ricco terreno nero dava raccolti abbondanti e l'intera campagna sembrava ammantata di svariate tonalità di verde. Ogni mattina, i contadini lasciavano i loro villaggi per i campi e i frutteti circostanti, dove si occupavano dei raccolti di grano e di orzo, di fagioli e di piselli, delle vigne, degli olivi, delle more, delle pesche e dei fichi, dei noccioli e dei limoni profumati. Alcuni di quei contadini lanciavano grida amichevoli al passaggio delle
truppe dirette a combattere contro gli eretici namdaleni, ma i più facevano invece del loro meglio per tenersi alla larga dai soldati. La pianura occidentale era il paniere della città di Videssos, dove spediva i suoi prodotti a bordo delle chiatte che solcavano costantemente i fiumi, dirette al mare, e le campagne della zona fornivano anche i viveri per l'esercito mentre esso marciava verso sudovest, provenendo dai suburbi che si trovavano dall'altra parte dello stretto rispetto alla capitale. Così vicino al Guado del Bestiame, i governatori dell'impero avevano ancora il controllo del territorio e, con quella burocratica efficienza che Videssos era capace di dimostrare, tenevano pronti i loro mercati per rifornire di provviste le forze imperiali. Marcus si chiese entro quanto tempo avrebbero finito per avvistare la prima delle fortificazioni di mura e rocca... non era così che Soteric le aveva definite... che Drax aveva certo eretto lungo la strada per bloccare loro il passo, e pensò che non ci sarebbe voluto molto. «Una bella regione» ripeté Soteric. «Troppo fangosa d'estate per essere perfetta, ma tanto ricca che non ci sarebbe da stupirsi di veder spuntare le penne sulle uova. Posso capire cosa avesse in mente Drax, quando ha deciso di prenderla per sé.» Il Namdaleno fece una pausa, passandosi le dita fra i capelli castano chiaro, quasi dello stesso colore di quelli di Helvis; al contrario della maggior parte dei suoi connazionali, Soteric non si radeva la parte posteriore della testa. «Per la Scommessa, non mi dispiacerebbe sistemarmi qui io stesso, un giorno o l'altro.» E scrutò Scaurus dall'alto della sella, studiandone la reazione. Il tribuno, dal canto suo, pensò che anche se gli occhi di Soteric erano della stessa tonalità di azzurro di quelli della sorella, in essi però mancava il calore presente nello sguardo di Helvis, e il naso aquilino conferiva un che di imperioso ai lineamenti del giovane. «Davvero?» fece, ricambiando con altrettanta intensità l'esame a cui Soteric lo stava sottoponendo. Poi, scegliendo con cura le parole, aggiunse: «Non vorresti invece tornare nel Ducato? Preferiresti piuttosto avere una fattoria qui, quando avrai finito di prestare servizio per l'impero?» «Sì, quando avrò finito di prestare servizio» ripeté Soteric, ridacchiando in silenzio, senza distogliere lo sguardo dal volto del tribuno. «Ormai, potrebbe non volerci più molto.» Marcus si sforzò di mantenere il viso atteggiato ad un'espressione di blanda innocenza. «Sul serio? Credevo che saresti rimasto in servizio per molti anni... co-
me me.» E fissò il Namdaleno negli occhi. Soteric serrò le labbra in una smorfia di irritazione. «Bene, può darsi che mi sbagli» affermò, e piantò gli speroni nei fianchi del cavallo con tanta violenza che l'animale sussultò ed accennò a impennarsi. Soteric lo trattenne e lo obbligò a voltarsi bruscamente, allontanandosi poi al trotto mentre il tribuno lo seguiva con lo sguardo, pieno di sospetti, chiedendosi se Uptrand sarebbe riuscito a tenere a freno il suo giovane luogotenente... o se non intendesse neppure provarci. Il tramonto dipinse una coltre sanguigna sul cielo, ad occidente. Da qualche parte, in un vicino boschetto, un gufo che si era svegliato troppo presto si mise ad ululare malinconicamente, e l'esercito si arrestò per accamparsi. Resi tranquilli dal fatto di trovarsi ancora in territorio amico, Videssiani e Namdaleni eressero palizzate di poco conto e prepararono alla rinfusa le tende dietro di esse. Gli esploratori Khamorth si mostrarono ancora meno ordinati, e si fermarono dove si trovavano, con la prospettiva di ritrovare i compagni il mattino successivo. Per contro, l'accampamento dei Romani si presentò come la consueta fortificazione provvisoria, che veniva eretta automaticamente tanto in territorio sicuro quanto quando il nemico incalzava da vicino. Gaius Philippus aveva scelto un punto facile da difendere e provvisto di acqua, poi i soldati avevano portato avanti i necessari lavori da soli. Ciascun uomo aveva un compito fisso, che non variava mai. Alcuni dovevano scavare una trincea quadrata, altri ammucchiavano la terra così ottenuta fino a formare un terrapieno, ed altri ancora piantavano su quel terrapieno i pali aguzzi che i legionari si portavano dietro appunto a quello scopo. All'interno del campo, poi, vennero innalzate le tende capaci di ospitare otto uomini ciascuna, disposte in blocchi ordinati, manipolo per manipolo, fra i quali passavano ampie strade diritte. Nessuno borbottò per la fatica che costava preparare un campo che probabilmente sarebbe stato usato una volta soltanto e poi abbandonato per sempre, perché per i Romani approntare quelle difese era una seconda natura, e gli uomini che erano entrati nelle loro file con il passare del tempo avevano avuto modo di verificare troppe volte quanto fosse prezioso un accampamento di quel genere per rischiare di essere sorpresi con difese meno robuste. Lo stesso valeva per Laon Pakhymer e i suoi Khatrish, e Marcus fu lieto di invitarli a dividere il suo accampamento, come era già accaduto spesso,
dopo Maragha. I Khatrish diedero allegramente una mano a preparare il terrapieno e, anche se non possedevano la pratica dei legionari, dimostrarono di non essere dei fannulloni. «Sono un mucchio di pasticcioni» commentò Gaius Philippus, osservando due cavalieri khatrish impegnati in una rumorosa discussione con un ufficiale. Il litigio, comunque, non impedì ai tre di continuare a riempire uno scudo di terra e di trasportarlo fino al bastione, per poi tornare indietro e ripetere l'operazione. Il centurione anziano si grattò la testa. «Non riesco a capire come fanno a portare avanti il lavoro, ma ci riescono.» Le sentinelle khatrish servirono anche a tenere i bambini lontani dalle file di cavalli nervosi. Scaurus non era eccessivamente felice per la presenza di donne e bambini nel campo, e non lo era mai stato perché, pur essendo più adattabile di Gaius Philippus, trovava anche lui che quello stato di cose fosse quasi troppo contrario alla natura romana per essere tollerato. Due estati prima, quando i legionari erano in marcia verso ovest per combattere gli Yezda, Marcus aveva proibito alle famiglie di accamparsi con la legione, ma dopo il disastro di Maragha la sicurezza era diventata più importante delle usanze romane. E revocare un privilegio dopo che era stato concesso era difficile quanto trasformare di nuovo il formaggio in latte. La tenda del tribuno si trovava sulla strada principale del campo, la cosiddetta via principalis, a metà strada fra la porta occidentale e quella orientale. Quando vi giunse, il tribuno trovò davanti ad essa Malric, intento a giocare con una piccola lucertola a strisce che aveva catturato, una cosa che sembrava divertire molto più lui che non la lucertola. «Ciao, papà» salutò il bambino, sollevando lo sguardo, e la bestiola ne approfittò per fuggire prima che lui pensasse a riprenderla. Subito Malric cominciò a piangere, e continuò anche dopo che Marcus lo ebbe preso in braccio, facendolo ruotare in aria. «Rivoglio la mia lucertola!» Quasi per solidarietà, all'interno della tenda Dosti cominciò a piangere a sua volta, ed Helvis venne fuori con aria irritata. «Per cosa stai frignando...» cominciò, con rabbia, ma s'interruppe, sorpresa, quando scorse il tribuno. «Salve, caro, non ti avevo sentito arrivare. Qual è il motivo di tutto questo chiasso?» Marcus le spiegò la tragedia appena verificatasi. «Vieni, figliolo» disse Helvis, togliendo Malric dalle braccia di Scaurus. «Non posso ridarti la tua lucertola... Phos sia lodato» aggiunse, a proprio beneficio, ma Malric non la sentì perché stava piangendo più forte che mai. «Che ne diresti invece di una prugna candita, o magari anche due?»
concluse Helvis. Malric ci pensò su. Marcus sapeva che un paio di anni prima il bambino avrebbe urlato un rifiuto ed avrebbe continuato a piangere, ma adesso meditò per qualche secondo e infine assentì. «D'accordo» rispose, con un singhiozzo a sottolineare la resa. «Sei un bravo bambino» approvò Helvis, asciugandogli la faccia con la gonna. «Le prugne sono dentro: vieni con me, così» sospirò, «vedrò se mi riesce di calmare anche Dosti.» Di nuovo di buon umore, Malric saettò all'interno, seguito da Helvis e da Marcus. Pur essendo il comandante, Marcus non si concedeva comodità superflue durante le campagne. A parte le stuoie per dormire, gli unici arredi presenti nella tenda erano la culla di Dosti, un tavolo pieghevole e una sedia, anch'essa pieghevole, in tela e legno. Sull'erba c'era il piccolo altare portatile di Helvis, e accanto ad esso era posata la cassapanca di legno di pino in cui la donna conservava i suoi oggetti personali. Helvis l'aprì per prendere i dolci promessi a Malric, poi cullò Dosti fra le braccia e cantò fino a farlo addormentare, mentre la sua voce calda assumeva una tonalità delicata e gentile nell'intonare la ninna nanna. «Non era poi una cosa grave» sospirò, con sollievo, nel posare di nuovo con cautela il piccolo nella culla, mentre Marcus usava pietra e acciarino per accendere una lampada ad olio in argilla e segnava su una mappa che portava sempre con sé la distanza percorsa in quel giorno di marcia. «Mio fratello mi ha detto di averti parlato, oggi» commentò Helvis, dopo che anche Malric si fu addormentato. «Davvero?» replicò il tribuno, in tono neutro, e scrisse un'annotazione sulla mappa, prima in latino e poi, più lentamente, in videssiano. E così Soteric aveva fatto anche una visita alle donne, vero? «Sì.» Helvis lo fissò con una strana espressione, al tempo stesso di eccitazione, di speranza e di apprensione. «Ha affermato che avrei dovuto rammentarti la promessa che mi avevi fatto a Videssos, lo scorso anno.» «Davvero?» ripeté Scaurus, e non riuscì a trattenere un sussulto. Quando era parso che l'assedio posto da Gavras alla città fosse destinato a fallire, lui era stato infatti sul punto di unirsi ai Namdaleni e di abbandonare l'imperatore per recarsi con loro nel Ducato. Soltanto il colpo di mano sferrato da Zigabenos contro Ortaias aveva impedito che questo accadesse, e Marcus sapeva che Helvis aveva riportato una profonda delusione quando, dopo l'inattesa vittoria, Romani e Namdaleni erano rimasti al servizio del-
l'Impero. «Sì, davvero.» Un'espressione decisa irrigidì e compresse le labbra piene di Helvis, fino a renderle sottili e dure quanto quelle del fratello. «Anche prima che tu arrivassi, Marcus, ero la donna di un soldato, ed allora ho capito che non potevi più fare quello che avevi progettato...» Scaurus sussultò di nuovo, perché non si era trattato di un suo progetto, «... una volta che Thorisin era salito al trono. Troppo spesso agiamo come dobbiamo e non come vogliamo. Ma adesso l'occasione si ripresenta, migliore della precedente.» «Di quale occasione si tratta?» «Non sei uno stupido, caro» dichiarò Helvis, con un lampo d'ira negli occhi, «e te la cavi male a far finta di esserlo. Si tratta dell'occasione di essere di nuovo padroni di noi stessi e di non servire più agli ordini di un signore straniero ed eretico. Meglio ancora, si tratta dell'occasione di impadronirci di un nuovo regno, come gli eroi fondatori di cui si parla nei canti dei menestrelli.» Il tribuno pensò che anche Helvis covava in sé l'avidità di terra videssiana comune a tutti i Namdaleni. «Non so perché tu sia tanto impaziente di spolpare le ossa dell'impero» replicò. «Ha portato pace e sicurezza ad una vasta fetta del mondo per un tale numero di anni che mi vengono le vertigini soltanto a pensare a quanti sono, ed è una viltà saltargli addosso ora che è ferito, come un gatto selvatico che assalga un daino con una zampa rotta. Dimmi, ciò che volete fare voi isolani sarebbe forse migliore?» «Forse no» ammise Helvis, e Marcus fu costretto ad ammirarla per la sua onestà. «Ma, per la Scommessa, meritiamo un'occasione di provarci! Il sangue di Videssos è ormai annacquato e freddo, e soltanto la sua abilità in fatto di inganni ci ha tenuti lontano per tanto tempo da ciò che è nostro di diritto.» «Per quale diritto?» Helvis avanzò di un passo, muovendo il braccio destro; Marcus sollevò le mani per parare il colpo, ma lei afferrò invece l'elsa della sua spada. «In nome di questo diritto!» esclamò con fierezza. «È la stessa argomentazione che avanzano gli Yezda» osservò il tribuno. Helvis ritrasse le dita dall'arma come se l'elsa le avesse scottate, e Marcus assestò la spada in modo da allontanarla dalla sua presa, perché non voleva che venisse toccata da nessuno, a parte lui stesso. «E come ve la cavereste con loro, qui nella vostra nuova Namdalen?»
Con l'occhio della mente, Marcus vide un susseguirsi incessante di piccole guerre: isolani contro Yezda, Videssiani contro nomadi, due di quei contendenti contro il terzo, alleanze, tradimenti, imboscate, attacchi a sorpresa. E in mezzo a tutto questo gli innocenti, prosperi contadini e cittadini delle terre occidentali sarebbero stati ridotti in polvere sotto gli zoccoli ferrati dei cavalli degli eserciti eternamente in movimento. Era un quadro che lo disgustava, anche se sapeva che Avshar ne avrebbe riso con gioia infantile. Spiegò tutto questo ad Helvis, e la vide sussultare. «Il guaio con tuo fratello, e ciò che lo rende di una pericolosità estrema» proseguì, «è che ha una dose di immaginazione sufficiente per essere spietato, ma non tale da poter vedere le devastazioni che verranno provocate dalla sua mancanza di pietà.» Marcus notò l'indignazione di Helvis, e si affrettò ad aggiungere: «In ogni caso, stiamo litigando per nulla, perché non è Soteric a comandare i Namdaleni, ma Uptrand.» «Uptrand? Parli di quel blocco di gelo? Uptrand mangia ghiaccio e alita nebbia.» L'immagine risultò estremamente calzante, indebolita ma non distrutta dal disprezzo di Helvis, al punto che strappò a Scaurus una risata sorpresa. Helvis lo stava ancora osservando, come se stesse studiando un orologio ad acqua che un tempo aveva funzionato ma che ora rifiutava di avviarsi. «Dimmi una cosa» domandò, con il disprezzo che tornava ad affiorarle nella voce. «Come mai, se ami tanto l'impero, lo scorso anno saresti stato disposto ad andare a Namdalen?» Marcus ricordò il suo maestro stoico, un Greco malato di tisi che si chiamava Timanor, e gli parve di risentire la sua voce sibilante che diceva: «Se non è giusto, ragazzo, non lo fare. Se non è vero, non lo dire.» Indipendentemente dagli insegnamenti di Timanor, Scaurus desiderò ardentemente di avere una comoda bugia a portata di mano. Siccome non l'aveva, tuttavia, trasse un profondo respiro e seguì il consiglio del suo maestro. «Perché allora ho pensato che se fossi rimasto questo sarebbe servito soltanto a prolungare la guerra fra Thorisin ed Ortaias, ed avrebbe ridotto Videssos in pezzi.» Anche alla tenue luce della lampada, Marcus vide il colore svanire dalle guance di Helvis. «Perché avrebbe ridotto Videssos...?» sussurrò la donna, come se quelle parole fossero state pronunciate in una lingua che non conosceva bene.
«Videssos?» ripeté, e il suo tono di voce andò crescendo come la marea. «Videssos? Non hai pensato per nulla a me, per nulla ai bambini, ma soltanto a questo fatiscente, logoro impero?» Adesso Helvis stava quasi urlando; spaventati, Malric e Dosti si svegliarono entrambi e cominciarono a piangere. «Fuori, va' via!» inveì ancora Helvis. «Non ti voglio vedere, guastafeste intrigante dal cuore di pietra!» «Fuori? Ma questa è la mia tenda» obiettò il tribuno, in tono ragionevole, ma ormai Helvis era troppo furente per ragionare. «Fuori!» urlò ancora, e questa volta cercò di colpirlo. Marcus sollevò le braccia per proteggersi e le unghie di lei gli penetrarono nel polso. Imprecando, Marcus le afferrò le mani e cercò di tenerla ferma, ma era come tentare di trattenere una leonessa, quindi la spinse lontano ed uscì nel buio. Pochi legionari incontrarono il suo sguardo mentre lui oltrepassava le file di tende destinate agli ufficiali; la stessa cosa era accaduta anche ad alcuni di loro, ma nessuno doveva proteggere la propria dignità di comandante. Gaius Philippus stava parlando con un paio di sentinelle, vicino alla palizzata. «Credevo che ti fossi ritirato per la notte» osservò, quando vide il tribuno. «Abbiamo litigato.» «Lo vedo.» Il centurione emise un fischio sommesso nel notare i graffi profondi sul braccio di Marcus. «Se vuoi, puoi venire da me per questa notte.» «Grazie. Magari più tardi» rispose Scaurus, ancora troppo teso per il litigio per desiderare di dormire. «Posso sperare che tu l'abbia stesa?» Il tribuno comprese che il suo luogotenente stava cercando di mostrargli la propria comprensione, ma il rude consiglio non gli fu d'aiuto. «No» replicò. «La colpa è stata tanto mia quanto sua.» Gaius Philippus sbuffò, incredulo, ma Scaurus assaporò l'amara verità delle proprie parole mentre si allontanava passeggiando lungo il perimetro del campo. Sapeva che le sue azioni passate avevano indotto Helvis... e con lei anche Soteric... a credere che lui avrebbe preso le parti degli isolani contro l'impero, ma spiegare che così non era sarebbe allora servito soltanto a scatenare una lite, e lui aveva creduto che il problema non si sarebbe mai presentato.
Ed ora aveva invece tanto il problema quanto la lite, entrambi aggravati dalla sua tacita falsità. Scaurus rise senza allegria: a quanto pareva, il vecchio Timanor era stato tutt'altro che un somaro. «Russi» dichiarò il mattino dopo il tribuno, in tono accusatorio, rivolto a Gaius Philippus. «Davvero?» replicò il veterano, addentando una cipolla. «Bene, e a chi può importare?» Con gli occhi impastati e indolenziti, Scaurus osservò i legionari smontare il campo, mentre le loro donne si avviavano chiacchierando a prendere il posto ad esse riservato, al centro dello schieramento di marcia. Helvis se n'era già andata, e la tenda era parsa stranamente vuota quando Scaurus l'aveva smontata. Vagamente, il tribuno si chiese se la donna sarebbe tornata o se avrebbe preferito rimanere con Soteric e con la sua gente. Gli fece bene dimenticare quelle preoccupazioni quando i soldati si disposero di nuovo in ordine di marcia e una serie di domande esplicite richiese risposte altrettanto esplicite: il manipolo di Blaesus doveva marciare davanti ai Vaspurakani di Bagratouni e non dietro; questa strada aveva un aspetto migliore di quella; Quintus Eprius avrebbe dovuto essere multato di tre giorni di paga per aver giocato con dadi truccati. Un esploratore khamorth tornò indietro al trotto, oltrepassando i legionari e puntando verso Mertikes Zigabenos, i cui Videssiani formavano la retroguardia della colonna. Pochi minuti più tardi, un secondo esploratore seguì il primo e Marcus lo chiamò, chiedendosi se stesse bollendo qualcosa in pentola. Il nomade, però, ignorò il suo richiamo. «Bastardo» commentò Gaius Philippus. «In ogni caso, scopriremo anche troppo presto di cosa si tratta.» «Lo so» convenne, in tono cupo, il centurione anziano. Un'ora più tardi, Gaius Philippus si fermò a scrutare la strada davanti a sé. «Ehi! Non ricordo di essere passato davanti a quello, l'ultima volta che eravamo diretti a Garsavra.» Il cipiglio del legionario andò accentuandosi ad ogni passo. «È una dannata, maledetta fortezza, ecco che cosa è.» La fortezza sorgeva trasversalmente sulla strada principale che portava a sud, quindi l'esercito imperiale avrebbe dovuto espugnarla per poter procedere oltre. Quando i Romani si avvicinarono, Scaurus vide alcuni difensori namdaleni correre lungo la palizzata, ed altri piazzarsi sulla torre, all'interno. Flebili per la distanza, gli giunsero anche le voci degli isolani che si
chiamavano a vicenda. Ora che la vedevano a distanza ravvicinata, era facile capire come mai gli uomini di Drax avessero potuto erigere quella fortificazione tanto in fretta. La costruzione era circondata da una trincea, una grande ferita nel suolo ovunque coperto di vegetazione. I Namdaleni avevano poi usato parte della terra per formare un alto terrapieno sul quale sorgeva una torre di legno, innalzata tanto in fretta che la maggior parte dei tronchi che la formavano non era neppure stata liberata della corteccia. Alcuni arcieri appostati su quella torre avrebbero potuto dominare il campo di battaglia, e in effetti le frecce cominciavano già a piovere sull'avanguardia di Khamorth e di Khatrish. I nomadi tiravano a loro volta, ma neppure i loro archi tanto potenti avevano una gittata tale da permettere ai dardi di giungere così in alto. Zigabenos indisse un breve consiglio di guerra. «Dovremo fermarci per espugnare quella fortezza, proprio come vogliono loro» dichiarò. «Non possiamo lasciare sul nostro fianco un paio di centinaia di cavalieri armati, e non oso dividere le mie forze per tenere questo posto sotto controllo. Phos soltanto sa quanti altri ne incontreremo.» «Ma prenderli per fame richiederà un'eternità di tempo, e non mi va di ricorrere ad un attacco diretto, per la Scommessa!» intervenne Soteric. Il giovane sembrava tanto orgoglioso della fortificazione che i suoi compatrioti avevano eretto per ordine di Drax che perfino Uptrand gli scoccò un'occhiata seccata. «Ci sono altri modi» replicò Zigabenos, senza però scomporsi. «Infatti» rise Gaius Philippus, comprendendo alla perfezione cosa avesse inteso dire il Videssiano, poi si rivolse a Soteric. «Quel tuo giocattolo laggiù» spiegò, accennando con il mento in direzione della fortezza, «funziona a meraviglia contro i banditi da strada o contro i barbari, come gli Yezda. Ma quei ragazzi là dentro sono degli stupidi se pensano di poter resistere di fronte a soldati di professione.» «Anche loro sono professionisti» sottolineò Soteric, arrossendo. «Sì, è probabile» annuì Gaius Philippus, ancora di buon umore. «E fra non molto saranno professionisti accaldati.» Il treno d'assedio dell'esercito prese posizione quel pomeriggio, tenendosi fuori della portata di tiro degli uomini sulla torre. I soldati procedettero quindi a preparare il legname per formare l'intelaiatura delle macchine da assedio, le cui parti meccaniche erano state trasportate fin dalla capitale, insieme alle corde, e i genieri romani lavorarono fianco a fianco con le lo-
ro controparti videssiane, sudando e imprecando per tutta la notte, alla luce delle torce, mentre i soldati comuni tagliavano cespugli e li legavano in fascine da scagliare nella trincea, quando fosse giunto il momento di attaccare. Dovunque, gli uomini stavano controllando lame ed armature, scudi e calzature, sapendo che la loro vita poteva dipendere da particolari insignificanti. Anche Marcus partecipò ai preparativi dei legionari, e questo lo tenne troppo impegnato perché potesse preoccuparsi di Helvis; del resto, non avrebbe potuto fare nulla in ogni caso, dal momento che a causa del combattimento imminente il campo delle donne era a distanza di sicurezza, oltre lo schieramento dell'esercito. Ad un'ora imprecisata, dopo mezzanotte, un tamburellare di zoccoli giunse sonoro dal castello namdaleno: gli uomini asserragliati all'interno avevano coperto la trincea con un ponte di assi e mandato alcuni cavalieri ad avvertire i loro compagni dell'arrivo degli imperiali. Con urla selvagge, Khamorth e Khatrish si lanciarono in caccia e ben presto abbatterono due messaggeri. Il terzo, tuttavia, sfuggì loro a causa dell'oscurità. «Sterco!» fu il commento di Gaius Philippus, quando i nomadi tornarono con la notizia. «Del resto» replicò Marcus, cercando di vedere la cosa nella luce migliore, «non è che Drax non sapesse che stavamo muovendo contro di lui.» Il centurione anziano rispose soltanto con un grugnito. L'alba giunse troppo presto per il tribuno, e il sole tinse le nubi prima di carminio e poi d'oro, a mano a mano che le stelle sbiadivano. Un araldo videssiano, che portava un elmo dipinto di bianco su un'asta di lancia in segno di tregua, avanzò fino al limitare della trincea e invitò i Namdaleni ad arrendersi. Gli isolani risposero urlando insulti nel loro dialetto e una freccia andò a piantarsi nell'erba ai piedi dell'araldo. Il tiro era stato volutamente corto, ma ebbe l'effetto di accelerare la ritirata dell'uomo, anche se non ne aumentò certo la dignità. Zigabenos impartì allora un secco ordine, e le macchine per lanciare dardi scattarono rumorosamente. I giavellotti sibilarono oltre la palizzata, costringendo gli uomini di Drax a tenere la testa bassa: i Namdaleni si sollevavano, tiravano a qualsiasi cosa pensavano di poter colpire, poi tornavano a nascondersi dietro il terrapieno. Le catapulte cariche di pietre entrarono in azione qualche momento più tardi, scagliando contro la torre rocce pesanti quanto un uomo. I massi sfregiarono la costruzione e ne incrinarono ogni tanto qualche tronco, ma
la struttura non mostrò di voler crollare: gli isolani l'avevano costruita bene. I genieri arrotolarono di nuovo le loro corde, più e più volte, mentre sonore imprecazioni riempivano l'aria ogni volta che una fune si spezzava. Le macchine che lanciavano dardi e pietre erano però soltanto un diversivo, come lo erano anche le frecce che Videssiani e Khamorth continuavano a tirare contro la fortezza. I genieri videssiani cominciarono infatti a caricare alcune delle loro catapulte con secchi di legno pieni di una miscela incendiaria, puntandole contro la torre. Quando effettuavano un assedio, i Romani ricorrevano spesso alla pece o al sego incendiati per abbattere difese in legno, ma la miscela in uso nell'impero era ancora più letale, perché era composta di zolfo, di calce viva e di un olio nero dall'odore sgradevole che affiorava dal terreno qua e là nel territorio imperiale. Non appena i secchi s'infransero contro la torre, cortine di fuoco liquido colarono da tutte le parti. Gli arcieri appostati all'interno urlarono di terrore quando le fiamme attecchirono, mentre gli altri Namdaleni balzavano giù dalla palizzata e si precipitavano a cercare di estinguere l'incendio; Marcus sentì le loro grida di sgomento allorché le prime secchiate d'acqua caddero sulle fiamme che, grazie alla calce viva, continuarono ad ardere altrettanto energicamente sotto quella pioggia come quando erano state asciutte. Le catapulte continuarono a tirare e, a mano a mano che le loro corde si allungavano per la ripetuta tensione, i secchi incendiari da esse scagliati cominciarono a cadere meno lontano. Parecchi s'infransero in cima al terrapieno, spruzzando fiamme sugli isolani intenti a lottare per estinguere l'incendio della torre, e alcuni uomini presero a correre follemente, bruciando come altrettante torce, perché il fuoco liquido si insinuava sotto la cotta di maglia e si attaccava alla carne, ai capelli, agli occhi, continuando a bruciare, tanto che un Namdaleno giunse a trapassare con la spada un compagno avvolto dalle fiamme dalla testa i ginocchi. Presto un denso fumo nero e oleoso si levò nel cielo, costituendo per Drax un messaggio esplicito quanto quello che la staffetta aveva potuto portargli. Le trombe squillarono all'esterno della fortezza condannata. Sotto la protezione degli arcieri e gettando le loro fascine di arbusti nella trincea, i legionari scattarono in avanti; che si fidasse o meno di loro, Zigabenos tenne infatti i Namdaleni fuori da questo scontro con i loro connazionali. Pur non essendo un amante della lotta, Marcus fu lieto di correre all'attacco alla testa dei suoi uomini, perché rimanere inattivo mentre gli uomini di Drax bruciavano vivi era peggio che combattere.
Sul terrapieno non era rimasto quasi nessuno a tenere a bada i Romani: una lancia volò oltre il tribuno, ma un momento più tardi le sue caligae affondarono nella terra morbida del pendio esterno del terrapieno. Il resto del gruppo, che gridava con quanto fiato aveva, era subito dietro di lui. Il Namdaleno che aveva scagliato la lancia, un uomo grosso e robusto con la faccia coperta da un accenno di barba grigia, aspettò in cima ai bastioni per affrontare Scaurus. L'isolano menò un fendente impugnando la spada a due mani, e Marcus parò con lo scudo; la violenza dell'impatto gli strappò un grugnito e per poco non lo fece scivolare all'indietro lungo il pendio. Questo rese goffo il suo contrattacco e l'isolano lo parò con facilità, sollevando la spada per colpire ancora. Un pilum affondò nel collo del mercenario, che si lasciò sfuggire la spada dalle mani e serrò per un lungo momento l'asta di ferro della lancia romana prima di accasciarsi al suolo quando i ginocchi gli cedettero. Scaurus scattò alla carica scavalcando il corpo, mentre i suoi legionari si lasciavano già cadere oltre la palizzata. Gli isolani che persero la vita sui bastioni furono soltanto una manciata: visto che la partita era persa, infatti, essi si affrettarono a deporre spade ed elmi come gesto di resa in quanto, essendo mercenari di vecchia data, non vedevano nulla di utile nel combattere fino alla morte per una causa persa. «Credi che l'imperatore ci riassolderà, magari per mandarci sull'Astris a tenere d'occhio i nomadi?» chiese a Marcus, in tono serio, uno degli ufficiali, per nulla vergognoso di essersi ribellato. Il tribuno non poté che allargare le mani in un gesto incerto. Trovandosi a corto di uomini, era possibile che Thorisin facesse proprio così. «Attenzione! Guardate in alto!» gridarono all'unisono Romani e Namdaleni, mentre la torre si abbatteva al suolo con fragore, sparpagliando legno bruciato e carboni ardenti in tutte le direzioni. Un legionario sussultò e imprecò quando un pezzo di legno in fiamme gli ustionò una gamba, e un isolano rimase schiacciato sotto un tronco caduto. Dal momento che quell'uomo aveva già subito orribili bruciature, Scaurus pensò che forse per lui era meglio così. Un prete-guaritore namdaleno fece tutto il possibile per le vittime della pioggia di fuoco, ma il suo aiuto si ridusse a ben poco, dato che nessun prete-guaritore poteva richiamare in vita i morti. Il clero isolano spiccava meno della sua controparte videssiana, perché i preti portavano l'armatura e combattevano accanto ai soldati... il che costituiva una grossolana forma di barbarie, agli occhi degli imperiali.
Quando Marcus tornò ad arrampicarsi in cima al terrapieno, un dardo gli saettò accanto alla testa, e lui si guardò intorno con occhi roventi, cercando di individuare l'arciere troppo zelante. «Basta con le frecce! La fortezza è nostra!» gridò poi, sollevando i pollici nel segno di vittoria tipico dei giochi gladiatorii. Era un gesto che i Videssiani non usavano, ma che compresero, perché i soldati lanciarono grida di entusiasmo e Zigabenos agitò una mano in direzione del tribuno, che rispose al saluto. All'interno della fortezza, intanto, gli isolani stavano recuperando le spade dei compagni caduti per trasmetterle ai parenti, una malinconica cerimonia che Scaurus conosceva anche troppo bene, essendo stato lui a riportare ad Helvis la spada di Hemond, dopo che la magia di Avshar aveva tolto la vita all'isolano. Quattordici Namdaleni erano morti nella fortezza, soprattutto per ustioni; con sollievo del tribuno, nessun legionario era caduto, e c'erano soltanto un paio di feriti. Mentre i Romani conducevano i prigionieri fuori della fortezza, i soldati di entrambe le parti si scambiarono i nomi e piccoli particolari inerenti alle rispettive tradizioni militari, perché i legionari stavano diventando mercenari nella stessa misura in cui lo erano gli uomini del Ducato, facendo il proprio lavoro con efficienza e abilità ma senza animosità, ed anche perché fin da quando erano giunti a Videssos erano sempre andati d'accordo con i Namdaleni, a volte tanto da allarmare i Videssiani stessi. Quando scorsero gli isolani che facevano parte delle truppe imperiali, però, gli uomini di Drax presero a gridare insulti contro di loro. «Voltagabbana! Codardi! Voi furfanti siete dalla parte sbagliata!» L'ufficiale che aveva parlato prima con Scaurus, e che il tribuno aveva scoperto chiamarsi Stillion figlio di Sotecag, individuò un capitano che conosceva. «Turgot!» esclamò. «Dovresti vergognarti!» Turgot assunse un'aria contrita e non rispose. A quel punto, però, Uptrand venne avanti, e il suo sguardo gelido ebbe l'effetto di ridurre i vituperanti al silenzio. «Ci definite voltagabbana?» chiese, con voce non troppo alta ma estremamente nitida. «Quanti seguono Drax conoscono quella parola. Sì, la conoscono molto bene.» Quindi girò le spalle ai prigionieri in un gesto calmo e pieno di disprezzo. Mertikes Zigabenos mandò subito i ribelli catturati alla capitale, sotto la
scorta di un contingente di cavalleria videssiana. «Un ottimo lavoro» si complimentò con Scaurus. «Ecco quanto valeva la tanto lodata fortezza namdalena: l'abbiamo presa senza perdere un solo uomo. Sì, un ottimo lavoro.» «Già, come no» commentò Gaius Philippus, quando Zigabenos si fu allontanato per ordinare all'esercito di riprendere la marcia. «Questi isolani ci hanno trattenuti per un giorno e ci hanno fatto perdere quel minimo vantaggio derivante dalla sorpresa che potevamo avere. Direi che Drax ha fatto un buon affare.» Styppes si occupò con abilità di uno dei due feriti romani, un soldato con una brutta lacerazione al polpaccio. Come sempre, l'atto della guarigione destò una reverenziale meraviglia in Scaurus. Il prete tenne il taglio chiuso con le mani e, mormorando preghiere per accentuare la propria concentrazione, focalizzò tutta la propria volontà su di esso. Il tribuno, intento ad osservare sentì l'aria che... s'inspessiva? Si congelava? In latino quel concetto non esisteva, e tanto meno il termine corrispondente... intorno alla ferita a mano a mano che la corrente risanatrice fluiva attraverso il prete. E quando questi ritrasse le mani, della lacerazione non rimaneva altro che una sottile cicatrice bianca che solcava la gamba del soldato. «Molto obbligato, vostro onore» ringraziò il legionario, alzandosi in piedi e allontanandosi senza neppure zoppicare. Quanto al secondo ferito grave, un Vaspurakano che era stato colpito alla testa da una trave quando la torre era crollata, Styppes non ebbe molto aiuto da offrirgli. «Vivrà o morirà secondo quella che è la volontà di Phos» disse soltanto, dopo aver esaminato il ferito. «È troppo grave perché io abbia il potere di curarlo.» Per quanto deluso, Marcus non pensò che il prete fosse negligente, perché neppure Gorgidas avrebbe potuto fare qualcosa per quell'uomo. Il tribuno si accostò a Styppes, che si stava rinfrescando con un sorso di vino... inevitabilmente, pensò Scaurus. In effetti, l'attività esercitata dal prete prosciugava le energie, e Scaurus aveva visto altri preti-guaritori crollare addormentati dopo averla praticata. Styppes si asciugò prima la bocca e poi la fronte sudata con la manica della tunica. «Anche tu hai ricevuto una ferita nello scontro?» chiese al tribuno. «Non vedo sangue.»
«Ecco, no» rispose Scaurus, con esitazione, poi protese verso il prete il polso su cui le unghie di Helvis erano penetrate in profondità, lasciandosi dietro dei solchi arrossati. «Il nostro medico precedente mi avrebbe dato un balsamo per questi, e speravo che tu...» «Cosa?» ruggì Styppes, furibondo. «Vuoi che io sprechi la sostanza del mio corpo per curare i segni degli artigli della tua donna? Vattene... il servizio di Phos non deve essere svilito da queste piccolezze, né i guaritori devono perdere il loro tempo con esse.» «Quel povero Vaspurakano era troppo grave per te, ed io lo sono troppo poco, vero?» scattò il tribuno, di rimando, altrettanto rabbioso. Invariabilmente, Styppes trovava un modo per irritarlo. «A che servi, allora?» «Chiedilo a quel tuo Romano» ribatté il prete. «Se quei maledetti graffi dovessero andare in cancrena, allora provvederò a curarli. Altrimenti lasciami in pace, perché guarire piccole ferite mi sfinisce quanto risanarne di gravi.» «Oh» fece Scaurus, con voce flebile, perché questa era una cosa che ignorava. Si rese allora conto che c'era ancora molto che non sapeva in merito all'arte dei preti-guaritori. Styppes e gli altri come lui potevano curare la gente in un modo così miracoloso da destare in Gorgidas un'invidiosa disperazione, ma pareva che il Greco possedesse però abilità che ad essi mancavano. Ripensando al commento avanzato poco prima da Gaius Philippus, Scaurus si chiese che sorta di affare Styppes costituisse per loro. Helvis non apparve neppure quella sera. Marcus aspettò dentro la sua tenda finché il campo si fu addormentato tutt'intorno a lui, nella speranza di vederla arrivare; alla fine, sapendo che la sua attesa era vana, spense la lampada e cercò di dormire, ma non gli fu facile. All'inizio, quando Helvis era venuta a vivere con lui, il fatto di dover dividere la stuoia con lei gli aveva reso difficile addormentarsi, mentre ora che era solo sentiva la mancanza della calda presenza della donna al suo fianco. Pensò che si trattava soltanto di una questione di abitudine, e si rigirò con irritazione. Ciò a cui si stava abituando era non dormire. La pianura costiera di Videssos era una terra decisamente piatta, ma per Scaurus fu come se il cammino dell'indomani fosse tutto in salita. Nel tardo pomeriggio ci fu un breve momento di agitazione quando un paio di esploratori namdaleni emersero da un boschetto per dare una lunga occhiata all'esercito imperiale, ma né le urla dei Khatrish lanciati al loro inseguimento né le imprecazioni di Gaius Philippus quando gli uomini di Drax
riuscirono a fuggire indenni ebbero il potere di riscuotere Scaurus dal suo torpore. Al tramonto, si avviò lungo la via principalis, masticando distrattamente un pezzo di pan di via. Come sempre, la sua tenda era a metà strada fra i due accessi alla strada centrale del campo, con la bandiera bianca delle sentinelle piantata dinanzi ad essa. Il tribuno stava per sollevare il telo d'ingresso quando il suono di una voce familiare lo fece girare di scatto. «Papà! Papà!» strillò Malric, percorrendo a precipizio la via principalis, diretto verso di lui. Dal momento che il campo romano era costruito sempre secondo la stessa formula, anche un bambino di cinque anni poteva orientarsi in esso senza problemi. «Ho sentito la tua mancanza, papà» dichiarò Malric, quando Marcus si chinò per abbracciarlo. «Dov'eri? La mamma ha detto che hai partecipato al combattimento, ieri. Sei stato molto coraggioso?» «Anch'io ho sentito la tua mancanza» replicò Marcus poi, quando Helvis si avvicinò portando in braccio Dosti e reggendo la propria borsa da viaggio, aggiunse: «E quella di tua madre.» Alla vista del tribuno, il piccolo prese a contorcersi finché lei fu costretta a metterlo a terra, e raggiunse Scaurus barcollando sulle gambe che diventavano sempre più robuste ad ogni giorno che passava. Il tribuno strinse a sé il figlio. «Papà» annunciò Dosti, con aria piena d'importanza. «Sono io.» Marcus si alzò in piedi, e Dosti cominciò a slacciargli i lacci di una caliga preferendo poi allungarsi per battere un colpo sul fodero della spada. «Potresti dire ciao anche a me» osservò Helvis. «Ciao» rispose Marcus, cauto, ma lei sollevò il viso per farsi baciare come se non fosse successo nulla, e un nodo si allentò nel petto del tribuno, che si rese conto di quanto esso fosse serrato soltanto quando la sensazione scomparve. Azzardando un sorriso, sollevò il telo della tenda e Malric saettò dentro. «Spicciati, posapiano!» gridò a Dosti, che lo seguì come meglio poteva. Helvis si chinò a sua volta per entrare, e Marcus le andò dietro. Entrambi mantennero a lungo la conversazione su un terreno volutamente neutro: frammenti di pettegolezzi che Helvis aveva raccolto fra le donne e il resoconto da parte del tribuno dell'assalto alla fortezza avvenuto il giorno precedente. «Perché sei tornata?» chiese Marcus ad un tratto, di punto in bianco.
«Non ti basta che lo abbia fatto?» domandò Helvis, lanciandogli un'occhiata in tralice. «Devi sempre scavare fuori il perché di ogni cosa?» «Abitudine» replicò lui, abbracciando con un cenno quanto avevano intorno. «Devo farlo.» «La peste si prenda le tue abitudini» infuriò Helvis. «Sì, ed anche il tuo insensato amore per questo scricchiolante Videssos.» Marcus attese che il fuoco si facesse più violento, ma la donna scoppiò invece a ridere, più di se stessa che di lui. «Perché sono tornata? Malric mi avrà chiesto almeno cinquecento volte: "Dov'è papà? Quando viene? Perché non lo sai?" E Dosti non ha fatto che agitarsi e piangere, e non voleva smetterla.» Nonostante la luce incerta della lampada, Helvis aveva un aspetto stanco. «Questo è tutto?» «Cosa vuoi che ti dica? Che mi sei mancato? Che sono voluta tornare perché mi importava di te?» «Se è così, mi piacerebbe moltissimo che tu lo dicessi» replicò Marcus, in tono quieto. «E a te che interessa, visto che hai il tuo prezioso impero di cui curarti?» ritorse Helvis, ma il suo volto si addolcì. «È così. Oh, è stata una cosa difficile. Tu eri là che combattevi contro il mio popolo... contro i miei stessi consanguinei, per quanto potevo saperne... ed io cosa facevo? Pregavo Phos perché tu tornassi indietro sano e salvo. Pensavo che non mi importasse... finché non sei stato in pericolo. È facile indurire il cuore quando non c'è in gioco nulla, ma... dannazione!» concluse, intrappolata fra sentimenti conflittuali. «Ti ringrazio» rispose Marcus, e aggiunse: «Quando avevo sedici anni, ero certo che tutto fosse molto semplice. Adesso ho vent'anni di più e, per gli dèi, sono venti volte più confuso.» Helvis sorrise e si accigliò al tempo stesso, non troppo soddisfatta del modo automatico in cui Marcus aveva tradotto l'imprecazione latina. Anche in questo, pensò lui, doveva essere cauto. E tuttavia... «In qualche modo, anche incespicando, andiamo avanti, vero?» «Finora» specificò Helvis. «Finora.» Il giorno successivo avvistarono altri uomini di Drax, non esploratori, ma una cinquantina di cavalieri dall'aria agguerrita che si spinsero con le lance in resta fino a giungere quasi a portata d'arco, sul fianco dell'esercito avversario. Gli isolani gridarono qualcosa ai Namdaleni di Uptrand, ma la distanza rese poco distinte le loro parole.
«Sono furfanti pieni di sfrontatezza, non trovi?» commentò Gaius Philippus. Zigabenos dovette pensarla come lui, perché mandò i Khatrish ad allontanare i mercenari ribelli, che si ritirarono in buon ordine al riparo della foresta. Laon Pakhymer non ordinò ai suoi arcieri di addentrarsi fra gli alberi per inseguirli, perché non era disposto a sacrificare quella mobilità che costituiva il vantaggio principale dei suoi uomini. Dopo qualche tempo, i nomadi tornarono a ricongiungersi al resto degli imperiali, ma di lì a poco i Namdaleni di Drax sbucarono di nuovo e ricominciarono la loro azione di disturbo. Al cadere della sera, i ribelli non si accamparono nelle vicinanze dell'esercito di Zigabenos, dirigendosi invece ad un trotto deciso verso sudovest. Gaius Philippus li osservò allontanarsi grattandosi la cicatrice sulla guancia. «Penso che sia per domani. Quello non è un contingente isolato: è un distaccamento di una forza più massiccia, e si comporta come tale.» Il centurione estrasse la spada e ne provò il filo con il dito. «Immagino di dovermi accontentare. Non mi piace combattere contro questi dannati isolani. Sono grossi quanto i Galli e due volte più furbi.» Dopo che il buio fu calato completamente, Marcus scorse un tenue bagliore arancione lontano verso sudovest: dal momento che non ricordava che proprio davanti a loro ci fosse qualche città di grosse dimensioni, quel chiarore poteva indicare soltanto la posizione degli uomini di Drax. A quel pensiero, le labbra gli si serrarono, perché se il nemico era tanto vicino, allora la battaglia sarebbe stata di certo per l'indomani. Un messaggero si presentò poi al campo romano per riferire gli ordini di Mertikes Zigabenos. «Domani marceremo in linea estesa, non in colonna» riferì. Quindi anche il generale videssiano si aspettava uno scontro. «I tuoi fanti saranno sulla sinistra» proseguì l'aiutante di Zigabenos, «con i Khatrish a coprirvi. Il mio signore prenderà il centro e ai Namdaleni di Uptrand toccherà l'ala destra.» «Grazie, spatharios» rispose il tribuno. «Ti va un boccale di vino?» «Gentile da parte tua, signore» rispose il Videssiano, con un sorriso, e parve ringiovanire di dieci anni ora che aveva assolto al suo dovere ufficiale. Bevve un lungo sorso, poi aggrottò la faccia in un'espressione sorpresa. «È piuttosto secco, non trovi?» commentò, e fu più cauto con il secondo sorso.
«Il più secco che ho potuto trovare» rispose Marcus, che riteneva quasi tutti i vini videssiani troppo dolci per i suoi gusti. Poi chiese, tanto per conversare: «Come mai gli isolani sono sulla destra? Se dubita di loro, Zigabenos non avrebbe fatto meglio a schierarli al centro, dove era possibile tenerli d'occhio... e frenarli... da ciascuna delle due ali?» La risposta dello spatharios dimostrò però che anche il suo comandante aveva riflettuto sulla cosa, sia pure con criteri diversi da quelli di Marcus. «L'ala destra è il loro posto d'onore, signore» spiegò, e il tribuno annuì pensosamente: con l'orgoglioso Uptrand, un appello all'onore non andava mai sprecato. Il Videssiano, intanto, aveva finito il suo vino e si allontanò in fretta per andare a informare Laon Pakhymer. Marcus, dal canto suo, desiderò che la battaglia fosse maturata prima, perché adesso Helvis e le altre donne si trovavano là con loro, anziché in un campo separato, oltre lo schieramento. «È probabile che qui siano più al sicuro, signore» obiettò però Gaius Philippus, quando gli parlò della cosa. «Gli imperiali non si sprecano troppo in fatto di fortificazioni da campo.» «Hai ragione» convenne il tribuno, un po' rasserenato. «Comunque domani, quando ci muoveremo, lasceremo qui un manipolo... agli ordini di Minucius, credo.» «Minucius? Si vergognerà di essere lasciato fuori dello scontro, signore. È giovane» aggiunse il centurione, come se quel solo vocabolo comprendesse una schiera di pecche. «Si tratta comunque di un incarico importante, e lui è un ragazzo di buon senso.» Nello sguardo di Marcus affiorò un'espressione astuta. «Quando gli darai l'ordine, bada bene a sottolineare la protezione che così potrà garantire ad Erene.» «Proprio quello che ci vuole» approvò Gaius Philippus, con un fischio di ammirazione. «È cotto di quella ragazza.» Scaurus non seppe stabilire se quello che filtrava dalla voce del centurione anziano era derisione o invidia. Il mattino sorse limpido e sorprendentemente fresco, grazie ad un'energica brezza marina che portò via l'umidità. «Una bella giornata» Marcus sentì dire ad uno dei legionari, mentre smontavano il campo. «Una bella giornata per finire stecchito, testa di manzo, se non stringi la cinghia del tuo schiniero» ringhiò Gaius Philippus. Il soldato controllò ma scoprì che la cinghia era stretta a dovere. Il centurione anziano, intanto,
stava già inveendo contro qualcun altro. In quel momento, gli irregolari Khamorth giunsero al galoppo, agitando il cappello di pelliccia sulla testa e gridando: «Grossi cavalli! Tanti grossi cavalli!» Un'ondata di eccitazione serpeggiò fra le file dell'esercito imperiale: ormai mancava poco. Poi le truppe sormontarono un'altura e si riversarono nella vallata quasi piatta del Sangarios, uno degli affluenti minori dell'Arandos. Un ponte di legno attraversava il fiumiciattolo e il campo dei ribelli era visibile sulla sponda opposta, ma il loro comandante aveva scelto di schierare i suoi uomini davanti al ponte. «Drax! Drax! Il grande Conte Drax!» urlarono i Namdaleni, quando il nemico apparve, un grido che fu ripetuto con ritmo profondo e costante, come il battito di un tamburo. «Uptrand! Videssos! Gavras!» Le grida di battaglia che risposero furono diverse ma altrettanto stentoree. «Credevo che questo prezioso Drax avesse maggiore buon senso» osservò Gaius Philippus. «Sì, il terreno non ha una pendenza sufficiente perché la cosa abbia importanza, ma se riusciamo a respingerli una volta soltanto, finiranno nel fiume, e quella sarà la loro fine.» A Marcus tornò in mente una frase che Nephon Khoumnos era solito ripetere... "Se i se e i ma fossero nocciole candite, tutti sarebbero grassi"... e pensò che se si trattava di un presagio, non era certo favorevole, perché l'aspro generale videssiano era morto da tempo, ucciso dalla magia di Avshar. Zigabenos, che un tempo era stato l'aiutante di campo di Khoumnos, era abbastanza esperto da evitare di sfinire le sue truppe caricando troppo presto, quindi proseguì l'avanzata tenendole sotto controllo, mentre i Namdaleni venivano loro incontro lentamente. Gli uomini di Drax indossavano sopravvesti color verde mare ed avevano stendardi dello stesso colore appesi alle lance. Dov'era la bandiera di Drax? Se la destra era davvero il posto d'onore, per gli isolani, Scaurus si era aspettato di vedere quello stendardo puntare contro di lui, mentre non lo scorgeva da nessuna parte. Alla fine, il tribuno lo individuò all'estremità opposta dello schieramento namdaleno, e questo destò subito i suoi sospetti. Cosa stava progettando Drax? Come un fulmine in armatura, Uptrand si scagliò contro l'odiata bandiera, infrangendo lo schieramento uniforme che le truppe imperiali avevano
mantenuto. A squadre, poi a plotoni, i suoi uomini lo seguirono, finché circa cinquecento cavalieri puntarono contro il conte ribelle. «Traditore! Ladro!» Quelle grida di accusa echeggiarono sopra il battito degli zoccoli dei cavalli. «Drax! Drax! Il grande Conte Drax!» Urlando a loro volta, gli uomini di Drax abbassarono le lance e diedero di sprone per andare incontro agli avversari. Fra le loro fila echeggiava però anche un altro grido, che destò un brivido premonitore lungo la schiena di Scaurus. «Namdalen! Namdalen! Namdalen!» «Avanti! Avanti! Dategli appoggio, pezzi di sterco con la faccia di formaggio e il fegato di latte!» esclamò Gaius Philippus, pregando profanamente che per qualche miracolo la sua voce potesse arrivare dall'altra parte del campo e indurre gli uomini di Soteric, di Clozart e di Turgot ad unirsi ad Uptrand e ai suoi seguaci in quella carica. Alcuni lo fecero, ma alla spicciolata... due qui, tre là, cinque più oltre, mentre i più rimasero seduti in sella ad aspettare. Se Uptrand fosse riuscito ad abbattere Drax, allora forse sarebbero avanzati... ma Uptrand e i suoi erano soli sul campo, mentre Drax aveva ben più di cinquecento cavalieri da scagliare contro di loro. Le lance s'infransero, alcuni cavalli caddero, con nitriti di dolore più penetranti delle urla degli uomini. Parecchi cavalieri furono sbalzati di sella e calpestati sotto gli zoccoli, mentre il sole si rifletteva sugli elmi e sulle spade snudate. Il cuneo formato dagli uomini di Uptrand, che stavano combattendo con maggior fervore proprio perché sapevano ormai di essere stati traditi, continuò ad avanzare verso lo stendardo nemico. Scaurus gridò per incitare Uptrand, ma non a lungo, perché presto la destra di Drax piombò su di lui, e gli parve che ogni lancia mirasse dritta al suo petto. I Khatrish erano ancora impegnati in azioni di schermaglia contro i Namdaleni lanciati alla carica, e li tempestavano di frecce: qualche cavaliere, qua e là, si accasciò sulla sella, colpito, ma la cavalleria leggera non aveva in effetti nessuna speranza di poter fermare quella carica. Un Khatrish, più ardito dei suoi amici, si spinse avanti per attaccare con la sciabola un isolano. Il Namdaleno fece deviare il cavallo in modo che urtasse con la spalla quella del pony dell'avversario e la bestia più piccola incespicò e cadde. Un isolano trafisse poi il Khatrish con la lancia come se fosse stato un pezzo di carne impalato con un coltello, e l'onda verde mare si riversò sul cadavere. «State saldi, ora, hastati! I cavalli non amano ferirsi sulle lance!» stava
gridando Gaius Philippus. «Pronti i pila...» ordinò al tempo stesso Marcus, ed attese, con la bocca arida, mentre gli uomini di Drax si avvicinavano ad una velocità spaventosa. «Al via... tirate!» Abbassò il braccio e le buccine dei trombettieri ripeterono il suo comando. Centinaia di giavellotti saettarono in avanti all'unisono, seguiti da una seconda raffica e poi da un'altra ancora. Cavalli e cavalieri caddero a terra, uccisi o feriti; alcuni cavalieri persero l'equilibrio a loro volta, ed altri reagirono abbastanza in fretta da intercettare i pila con gli scudi che avevano, come Scaurus notò in uno di quegli strani momenti di estrema lucidità che in seguito avrebbe ricordato per sempre, una forma simile a quella degli aquiloni usati dai bambini videssiani. Quell'atto tornò però loro meno utile di quanto sperassero, perché la lunga punta morbida dei pila si piegò per l'impatto e questo da un lato rese lo scudo inutilizzabile e dall'altro impedì ai Namdaleni di scagliare a loro volta il giavellotto. Gli uomini di Drax erano però già spaventosamente vicini quando la pioggia di pila ebbe inizio e la loro carica, per quanto smorzata e rallentata, non poté essere fermata. Alcuni cavalli si arrestarono per non andare a piantarsi contro le hastae, ma molti di più, spronati dai loro cavalieri, si abbatterono contro la linea di lance pesanti. «Drax! Drax! Il grande Conte Drax!» Quel grido pareva non cessare mai. Se non fosse stato per la flessibilità dei manipoli romani, per quel sistema che permetteva loro di combattere suddivisi in piccoli gruppi e di spostare unità di otto uomini per bloccare qualsiasi minaccia potesse insorgere, la carica dei Namdaleni avrebbe infranto il loro schieramento in pochi minuti. Scaurus, Gaius Philippus, Bagratouni, Junius Blaesus... tutti i comandanti urlarono una serie di ordini, indirizzando i legionari là dove c'era maggiore bisogno di loro. Una punta di lancia, scolorita dalla ruggine ma pur sempre letale, sgusciò oltre la spalla del tribuno; dietro di lui, un Romano emise un grugnito che era più di sorpresa che di dolore, poi la lancia si liberò, ora tinta di rosso, e l'urlo del legionario soffocò in un gorgoglio di sangue. Una pietra scagliata da qualcuno colpì la visiera dell'elmo conico del lanciere, che imprecò nel linguaggio isolano e scosse il capo, intontito. Marcus scattò in avanti e un'improvvisa paura si dipinse sul volto del Namdaleno mentre questi cercava di respingere il suo affondo con l'asta della lancia. L'arma era però troppo ingombrante e l'uomo fu troppo lento:
la punta della spada di Scaurus gli trapassò la cotta di maglia della gorgiera e gli affondò nella gola, anche se la calca impedì per qualche minuto al corpo di accasciarsi. Un altro Namdaleno, anche questo a cavallo, calò la spada sul tribuno, che l'intercettò con lo scudo. Con un grugnito, il cavaliere sferrò colpi a più riprese, con la spada che strappava scintille al rivestimento di bronzo dello scudo di Marcus. Quell'avversario era un guerriero astuto, ed ogni attacco veniva da un'angolazione nuova e pericolosa, tanto che il braccio con cui il Romano reggeva lo scudo cominciò a dolere. Scaurus ruotò infine sul piede sinistro, eseguendo un affondo diretto alla gamba del cavaliere. Con l'istinto del veterano, il Namdaleno si spostò dalla traiettoria, ma per un uomo a cavallo questo non era abbastanza: il fendente raggiunse infatti la sua cavalcatura che, con gli occhi sgranati per un dolore di cui non comprendeva la causa, s'impennò e si accasciò, bloccando l'isolano sotto il proprio peso prima che potesse liberarsi delle staffe. Il grido angosciato dell'uomo s'interruppe quando un altro cavallo lo calpestò. Qualcuno batté una pacca sulla spalla del tribuno, che girò la testa di scatto: era Senpat Sviodo, che gli stava ora agitando un dito sotto il naso con aria di rimprovero. «Non è stato sportivo» dichiarò il Vaspurakano. «Un dannato peccato» ringhiò Marcus, somigliando più che mai a Gaius Philippus. «Voi Romani siete un popolo molto serio» dichiarò Sviodo aggrottando i lineamenti avvenenti, poi ammiccò a Marcus. «I corvi ti portino» ribatté Scaurus, ridendo. Se non altro, una delle sue preoccupazioni si era rivelata infondata, perché la banda di profughi vaspurakani di Bagratouni stava combattendo con lo stesso impegno dimostrato dagli uomini di Scaurus. Il nakharar trascinò personalmente giù di sella un Namdaleno, perché i suoi uomini lo finissero, e Mesrop Anhoghin ne abbatté un altro in duello: il metodo romano dei colpi di punta da lui appreso gli permetteva di sfruttare al massimo il vantaggio derivante dalle sue lunghe braccia. «Questo Drax non è granché, come generale!» gridò Senpat, nell'orecchio di Marcus. «Avrebbe dovuto imparare dalla battaglia dello scorso anno che i suoi cavalieri non possono infrangere il nostro schieramento, e che pagano anche un alto prezzo quando ci provano.» Ed era proprio così. Ora che la loro carica era stata arrestata, i Namdale-
ni erano diventati vulnerabili non soltanto ai Romani, ma anche ai Khatrish, che li tempestavano di frecce e si stavano allargando per mettere in rotta il loro fianco. Se però lasciava a desiderare in fatto di tattica, Drax era d'altro canto un astuto e perspicace stratega. Una confusione improvvisa si diffuse nell'ala destra imperiale ma Scaurus, pur guardando da quella parte, non vide nulla... c'erano in mezzo troppi cavalli e cavalieri. Il tribuno si concesse una smorfia irritata, perché nella maggior parte degli scontri la sua alta statura gli conferiva una buona visuale del campo... ma non oggi. Fin troppo presto, però, scoprì che non aveva bisogno di vedere, perché la marea crescente delle grida di battaglia che si levavano dall'ala destra gli disse tutto quello che aveva bisogno di sapere. «Namdalen! Namdalen! Namdalen!» Il grido andò intensificandosi e ingrossandosi, al di sopra del volume di suono che i soli uomini di Drax potevano produrre, e urla di rabbia e di furore si levarono dal centro dello schieramento videssiano: i mercenari isolani erano passati dall'altra parte. L'assalto scagliato contro i legionari subì una pausa, e il comandante dell'ala destra di Drax, un Namdaleno dal naso camuso che doveva essere più vecchio di quanto apparisse sollevò lo scudo sulla lancia. Lo scudo non era dipinto di bianco, ma Marcus intuì che l'uomo voleva chiedere una tregua. «Cosa vuoi?» chiese all'ufficiale. «Unitevi a noi!» gridò di rimando l'isolano, con una voce dall'accento quasi altrettanto marcato quanto quello di Uptrand, che ormai, con ogni probabilità, doveva essere morto. «Perché gettare via la vostra vita per nulla? Viva Namdalen ed abbasso il vecchio Videssos. Il futuro appartiene a noi.» I legionari risposero direttamente con un generale ruggito di rifiuto. «Namdalen può andare al diavolo! Scommetto che i prossimi che tradireste saremmo noi!» Quell'ultima accusa colpì nel segno: se a volte i Romani andavano maggiormente d'accordo con gli uomini del Ducato che con gli imperiali era proprio per il modo di parlare semplice e diretto degli isolani. Per quanto spietato quanto un lupo, Uptrand era stato un uomo assolutamente onesto, mentre Drax era peggio dei Videssiani quanto a doppiogiochismo. «Perché vi dovremmo dare quello che non siete abbastanza uomini da prendere?» rincarò Gaius Philippus, esprimendo il parere di molti.
L'ira diffuse un lento rossore sul volto del Namdaleno, che abbassò lo scudo e si assestò sul naso la barra protettiva dell'elmo. «Le conseguenze ricadano pure sulle vostre teste, allora» ribatté, e gli isolani tornarono a riversarsi in avanti. Quella seconda carica, tuttavia, fu molto meno violenta della prima, e la cosa lasciò Scaurus perplesso... ma soltanto per un momento, perché subito comprese che tutto quello che i cavalieri di Drax dovevano fare in quell'area del campo era di tenere i legionari impegnati. Ai Namdaleni, infatti, bastava impedire che i Romani potessero accorrere in aiuto dei Videssiani di Zigabenos. Laon Pakhymer se ne accorse a sua volta e diede prova di un notevole coraggio, scagliando i suoi Khatrish contro le solide file dei Namdaleni. Come spirito, la cavalleria leggera khatrish non era inferiore a nessuno, ma non poteva certo misurarsi con gli isolani quanto ad armamento. «Sono dei piccoli bastardi coraggiosi, non trovi?» commentò Gaius Philippus, con voce improntata ad un enorme rispetto, osservando senza poter fare nulla l'attacco condannato a fallire in partenza. Alla fine, non potendo umanamente reggere oltre, i Khatrish cedettero, allontanandosi al galoppo in tutte le direzioni, per il momento annientati come unità combattente; Pakhymer andò dietro ai suoi uomini, continuando a gridare e cercando di radunarli per un'altra carica, ma essi non gli diedero ascolto. Ora che la sua copertura sul fianco era rovinata, Marcus fu costretto a far ritirare il proprio schieramento sulla sinistra, in modo da agganciare l'estremità della linea alla protezione offerta da una piccola macchia di piante di fico. I Namdaleni, dal canto loro, non ostacolarono quella manovra, perché serviva soltanto ad allontanare ulteriormente i Romani dal centro della mischia; Marcus ne era consapevole ma, per quanto la cosa lo turbasse, non poté fare altrimenti, perché certo non sarebbe stato d'aiuto a Zigabenos lasciando che i Namdaleni circondassero ed annientassero i suoi uomini. In ogni caso, il generale videssiano stava venendo sospinto verso sinistra a sua volta, sotto la pressione esercitata frontalmente dal gruppo di Drax e sulla sinistra dai Namdaleni che avevano tradito l'impero. Scaurus sapeva però che Zigabenos era un uomo pieno di risorse e che, per quanto si trovasse in una posizione che difficilmente avrebbe potuto essere peggiore, doveva di certo avere qualche stratagemma di riserva. Il fragore del campo di battaglia strideva negli orecchi di Scaurus, e quando un possente ruggito si levò a soffocarlo come una balena avrebbe
potuto fagocitare una piccola sardina, il tribuno pensò per un terribile istante di aver ricevuto un colpo mortale e che quello che stava sentendo fosse l'urlo della morte. Il rumore, però, era reale, come dimostrò il fatto che i soldati di entrambe le fazioni si premettero le mani contro la testa e si guardarono intorno, alla ricerca della sua fonte. Poi i contorni di un'ombra sfiorarono Marcus, e con essi anche il terrore. Il drago, lungo quanto l'Anfiteatro e grosso quanto la Strada di Mezzo era ampia, si librò sul campo di battaglia con ali da pipistrello tanto grandi da poter ombreggiare un intero villaggio e ruggì ancora, un suono che sembrava annunciare la fine del mondo. Una fiamma fra il giallo e il rosso, simile ad oro fuso, scaturì allora dalla caverna irta di zanne delle sue fauci, mentre gli occhi della fiera, grandi come scudi, saggi come l'eternità e neri come l'inferno, scrutavano con disprezzo i vermi impegnati a combattere sotto di essa. Ma i draghi non esistono, balbettò la mente di Marcus. L'incredulità dovette indurlo a pronunciare quelle parole ad alta voce, perché Gaius Philippus accennò con la testa verso l'alto. «E quello come lo chiami?» ribatté. Gli uomini urlarono, si abbassarono e cercarono di nascondersi; i cavalli presero a sgroppare e a impennarsi, facendo del loro meglio per fuggire, mentre i cavalieri sobbalzavano sulla groppa delle cavalcature improvvisamente riottose e venivano scaraventati a terra a decine. Anche se i Videssiani non erano in condizioni di difendersi più di quanto i Namdaleni lo fossero di attaccare, la stretta della morsa che li attanagliava si allentò. Il drago scivolò nell'aria, con il sole che si rifletteva sulle sue scaglie argentee, e le grandi ali sbatterono una volta, due, con un rumore simile al sonoro respiro di un dio, poi la bestia scese in picchiata sui Namdaleni e il fuoco scaturì dalle sue fauci, una fiamma tale che al suo confronto la miscela incendiaria usata dagli imperiali sembrava composta da semplici carboni ardenti. Gli isolani si sparpagliarono di fronte a quell'attacco, spintonandosi a vicenda nella frenesia di fuggire, e di colpo, assurdamente, un sogghigno apparve sul volto rigato di sudore di Gaius Philippus. «Sei impazzito?» gridò Scaurus, aspettandosi che la fiera si girasse e bruciasse anche lui. «Per nulla» ribatté il centurione anziano. «Dov'è il vento che quelle ali dovrebbero sollevare?» Il tribuno si rese conto che il veterano aveva ragione: nel muoversi, ali così grandi avrebbero dovuto scatenare una bufera di vento, mentre l'aria
era perfettamente calma, senza più neppure traccia della brezza del mattino. «È un'illusione!» esclamò. «È una magia!» L'esecuzione di una magia nel corso di una battaglia era una cosa rischiosa, perché molti maghi spesso cedevano sotto l'impeto della lotta, il che spiegava come mai i generali spesso ignorassero la magia nell'organizzare le loro mosse. Zigabenos, aspettando a ricorrervi fino all'ultimo momento, l'aveva invece sfruttata al massimo giocando sulla sorpresa. Ma ciò che era realizzato da un mago poteva sempre essere annullato da un altro, e il drago cominciò a svanire mentre ancora stava calando sugli isolani. Il suo ruggito divenne remoto, la sua ombra si attenuò e le sue fiamme si fecero trasparenti. Non scomparve del tutto, ma ciò che rimase non fu sufficiente a destare terrore né negli uomini né nei cavalli. Di tanto in tanto, l'immagine tornava a consolidarsi parzialmente a mano a mano che i maghi videssiani ricorrevano a incantesimi sempre più disperati per mantenerne la concretezza, ma le loro controparti namdalene riuscirono a neutralizzare ogni nuovo tentativo. Gli uomini del Ducato riformarono lo schieramento con la rapidità che veniva dalla lunga pratica e con una disciplina che Marcus non poté che ammirare, anche se essa significava la rovina della sua fazione. «Namdalen! Namdalen!» Il grido di battaglia tornò ancora una volta a dominare il terreno dello scontro e gli isolani rinnovarono l'attacco con ferocia ancora maggiore, quasi per fare ammenda al loro panico momentaneo. Il comandante d'ala dal naso camuso urlò un ordine e i suoi cavalieri scattarono in avanti... non contro i legionari, questa volta, ma contro il punto in cui i loro manipoli erano a contatto con i reggimenti videssiani, sulla destra. Quella fu una mossa improntata ad un'astuzia letale, perché il coordinamento delle manovre fra i vari nuclei del poliglotta esercito imperiale non era mai perfetto. Romani e Videssiani esitarono ciascuno qualche secondo di troppo e non ebbero l'opportunità di rimediare a quell'errore. Con rauche grida di trionfo, i Namdaleni sciamarono nell'apertura che avevano praticato con la forza. «Formare il quadrato!» ordinò Marcus, e lo squillo delle trombe sottolineò le sue parole mentre lui si mordeva un labbro in un gesto di sgomento. Troppo tardi, troppo tardi, gli isolani lo avevano già aggirato sul fianco. L'ufficiale namdaleno, però, era un uomo che puntava all'essenziale, quindi indirizzò i suoi cavalieri contro il centro videssiano, già pressato
davanti e sulla sinistra. Circondati su tre lati, gli imperiali cedettero: Zigabenos e un isolato gruppo di retroguardia continuarono a lottare, ma la maggior parte dei Videssiani non pensò più ad altro che a salvarsi, e gli uomini del Ducato si gettarono all'inseguimento, abbattendoli alle spalle. In confronto alla fuga disordinata dei Videssiani, i legionari costituirono quindi un obiettivo secondario, e questo permise loro di formare il quadrato vuoto al centro senza eccessive interferenze da parte degli isolani. «Suonate la ritirata» ordinò Scaurus ai trombettieri, e subito le note amare della sconfitta echeggiarono nell'aria. «Torniamo al campo?» chiese Gaius Philippus. «Credi che qui possiamo servire ancora a qualcosa?» «No» ammise il centurione anziano, scrutando il campo di battaglia con lo sguardo. «Siamo fregati, senza alternative.» Come a sottolineare la sua affermazione, un nuovo coro di grida in cui si sentiva chiaramente pronunciare il nome di Zigabenos si levò dalla destra, e Marcus pensò, cupo, che il comandante videssiano doveva essere stato ucciso o catturato. Il suo stendardo era già caduto da qualche tempo, ed ora il cielo azzurro con al centro il sole dorato dell'impero giaceva calpestato nella polvere... ed era probabile che anche l'impero fosse caduto con esso. CAPITOLO QUARTO Varatesh e i suoi cinque compagni stavano cavalcando verso sud come foglie sospinte dal vento. Le chiacchiere degli altri, un ininterrotto resoconto di furti, violenze, uccisioni e torture, ogni episodio raccontato con orgoglio e abbellito di falsi particolari, erano per Varatesh una costante fonte di irritazione. Lui aveva compiuto azioni peggiori di chiunque fra loro, ma non se ne vantava, perché ne provava vergogna. Sei stato escluso dalla compagnia degli uomini per bene, pensò per la millesima volta, e tutto quello che ti rimane sono questi scarti umani... sforzati di sopportare. Ma non ci riuscì. Varatesh aveva ucciso il proprio gemello all'età di diciassette anni, durante una lite a causa di una serva, e nessuno aveva mai voluto credere che Kodoman lo avesse aggredito per primo, anche se era stato proprio così. Il suo clan lo aveva giudicato colpevole di aver ucciso un parente prossimo e lo aveva punito di conseguenza: non lo avevano messo a morte, perché era il figlio del khagan, ma lo avevano scacciato dal campo, lasciandolo nudo sulla steppa.
In un certo senso, anche quella era stata una condanna a morte, perché di solito gli uomini così espulsi perdevano la voglia di vivere e perivano quindi per la solitudine, oltre che a causa della fame, del freddo o delle bestie selvatiche. L'ingiustizia della condanna ricevuta era però stata una fiamma che aveva divorato il petto del giovane Varatesh, inducendolo a resistere là dove un uomo da meno si sarebbe arreso alla malvagità del fato e sarebbe morto. Era tornato indietro per rubare un cavallo: aveva dovuto farlo, se voleva sopravvivere. La guardia era stata un individuo più o meno della sua taglia, e lui l'aveva colpita alle spalle, privandola degli abiti. Naturalmente, aveva soltanto stordito quell'uomo, ne era certo, anche se lui non si era ancora mosso quando finalmente Varatesh se ne era andato. La cattiva sorte aveva in qualche modo continuato a perseguitarlo anche in seguito. Più di una volta, era stato sul punto di essere adottato in un clan diverso quando si era venuto a sapere del suo passato e lui era stato nuovamente scacciato. Quello era un insulto che ancora gli bruciava: chi erano quei capi arroganti per presumere di giudicarlo sulla base di semplici dicerie? In un modo o nell'altro, quelle offese erano state vendicate, e nel giro di poco tempo non era più rimasto nessun khagan sano di mente che fosse disposto ad invitare Varatesh ad unirsi alla sua gente. A mano a mano che il suo passato era diventato sempre più nero, lo stesso era successo al suo futuro, perché Varatesh non aveva potuto arrivare a farsi accettare lasciandosi alle spalle un fiume di sangue. Bandito dai clan senza sua colpa... perché così lui aveva sempre visto l'accaduto... Varatesh non si era perso d'animo e ne aveva formato uno per conto suo. Nelle pianure c'erano sempre stati fuorilegge... individui furtivi che vivevano sparpagliati, spesso soffrendo la fame, diffidenti gli uni verso gli altri e timorosi di chi era migliore di loro... e Varatesh aveva dato a quella gente una bandiera sotto cui raccogliersi, una bandiera nera che li proclamava apertamente per quello che erano. Finalmente, era diventato un capo, come avrebbe dovuto essere fin dall'inizio, con un esercito sempre più grande alle sue spalle... un esercito che lui odiava quasi fino all'ultimo uomo, tanto da pensare a volte che sarebbe stato meglio se il coltello di Kodoman gli fosse affondato nel cuore. Quei pensieri, però, non servivano a nulla. Varatesh fermò il cavallo per consultare il talismano che portava con sé: come sempre, la sfera di cristallo parve trasparente quando lui la prese in mano, ma al contatto delle dita una nebbia arancione cominciò a vorticare al suo interno... tranne in un punto, che rimase cocciutamente limpido. Varatesh fece ruotare la sfera
ma, comunque la girasse, l'area limpida rimase orientata verso sud-est, come se fosse stata attirata da qualche pietra magica. E apparve più grande di quanto lo fosse stata il giorno precedente. «Ci stiamo avvicinando» disse ai suoi compagni, che annuirono, sorridendo come altrettanti lupi. In effetti, Avshar gli aveva spiegato che non era una magia a impedire che il cristallo si colorasse completamente, bensì l'assenza di magia. «Sulla pianura c'è un viandante che porta con sé una lama capace di resistere ai miei incantesimi» aveva detto il principe-mago. «Quell'uomo ed io ci siamo già incontrati in passato e adesso, se sei disposto, vorrei che tu lo catturassi per mio conto e lo portassi qui nella tua tenda, in modo che io possa strappargli i suoi segreti a mio piacimento.» La voce del gigante vestito di bianco era pervasa da una fame avida e gelida, ma Varatesh non se ne era accorto, perché nutriva per Avshar un'ammirazione e un rispetto che sconfinavano nell'affetto. Anche quel mago era un fuoricasta scacciato da Videssos, come lui stesso aveva raccontato, a causa di uno sconvolgimento politico, e già questo sarebbe stato sufficiente a creare un legame fra loro. Avshar, però, aveva anche mostrato nei confronti di Varatesh proprio quel genere di rispettosa deferenza che questi riteneva spettargli di diritto ma che riscontrava di rado nei suoi seguaci, che erano tutti furfanti e fuorilegge. E il fatto che il mago... che aveva dimostrato di essere molto potente in numerosi modi, oltre che con quel cristallo magico... gli concedesse spontaneamente quel rispetto, era servito a placare la diffidenza di Varatesh come null'altro avrebbe potuto fare, perché il nomade aveva visto finalmente riconoscere il proprio rango, e per di più da qualcuno che era a sua volta di nobile lignaggio, anche se si trattava di uno straniero. Il fatto, appunto, che Avshar fosse uno straniero aveva indotto Varatesh a mantenersi cauto durante i primi giorni, dopo che il mago era apparso davanti alla sua tenda. Avshar parlava la lingua delle steppe come un vero Khamorth, senza accento imperiale, e nessuno aveva mai visto la sua faccia, che lui celava sempre dietro un elmo con visiera oppure dietro un velo tanto spesso che era appena possibile intravedere vagamente i suoi occhi, anche se non era cieco, anzi, tutt'altro. Quei dubbi erano però svaniti molto presto, e tanto il modo strano in cui Avshar era arrivato... perché le sentinelle non avevano riferito l'avvicinarsi di un viandante?... quanto le sue abitudini personali erano diventati soltanto argomenti di inutile speculazione.
Forse, aveva pensato con compassione Varatesh, il mago era orribilmente sfregiato. Un giorno, tuttavia, ne era certo, avrebbe capito che lui lo stimava per quello che era e non per il suo aspetto. Con la tipica pazienza di un nomade, Varatesh era disposto ad aspettare; per ora avrebbe aiutato il suo amico assolvendo l'incarico che gli era stato affidato. Mentre spronava il cavallo, non gli venne neppure in mente di chiedersi come Avshar fosse giunto alla posizione di potergli affidare degli incarichi come ad un subalterno. «No, dannazione, non voglio avere nulla a che fare con quel dannato pezzo di ferro appuntito che c'è nella mia sacca» ringhiò Gorgidas, quando si accamparono, una frase che aveva ripetuto ogni giorno da quando avevano lasciato il villaggio. E ogni giorno il suo umore era peggiorato sempre di più, soprattutto perché la faccia gli prudeva e sembrava diventata ruvida come una lima, ora che la barba stava cominciando a crescere. Con sua mortificazione, inoltre, ciò che cresceva sembrava essere quasi del tutto bianco, anche se i capelli erano ancora prevalentemente neri, a parte una leggera spruzzata di argento alle tempie. Ancora una volta, Gorgidas desiderò di poter riavere il suo rasoio. «Ma senti che razza di stupido!» esclamò Viridovix, rivolto a chiunque fosse disposto ad ascoltarlo... il costante, amichevole litigare del Celta e del Greco divertiva sempre tutto il gruppo. «Quando eri con la legione, con le sue migliaia di uomini e tutto il resto, gli altri potevano tenerti d'occhio. Adesso, però, noi siamo in pochi, dobbiamo badare alla nostra pelle e potremmo non avere tempo per difendere anche un povero stupido che è troppo orgoglioso per imparare ad usare una spada.» «Oh, impiccati! Sono riuscito ad arrivare fino a questo punto della mia vita senza imparare ad uccidere la gente e non mi va di cominciare adesso. In ogni caso, sono troppo vecchio per apprendere cose del genere» ribatté Gorgidas, fissando con risentimento il Gallo, che aveva quasi la sua stessa età ma i cui baffi spioventi erano ancora di un rosso acceso. «Troppo vecchio, dici? Quel che è certo è che sei più giovane di un giorno rispetto a domani.» Viridovix scrutò il suo interlocutore, per vedere se la frecciata aveva colto nel segno, ma il dottore si limitò a sollevare il mento con aria cocciuta. A quel punto, il Celta passò ad esprimersi in latino, in modo che Gorgidas fosse l'unico a capirlo. «Inoltre, se non sei troppo vecchio per cominciare a farti scaldare il letto da una donna, di certo usare una spada non dovrebbe riuscirti troppo difficile.» Anche se era una giornata calda, un senso di gelo pervase la schiena del
Greco. «Cosa significa?» chiese, in tono brusco. «Calma, calma» replicò Viridovix, notando il suo allarme. «Nulla che posa recarti del male. Comunque, visto che hai già provato una cosa nuova, perché non tentarne anche un'altra?» Gorgidas rimase seduto, immobile, con lo sguardo perso oltre le spalle del Gallo, che lo lasciò riflettere per quasi un minuto, prima di chiedere, con un sogghigno impudente: «A proposito, com'era il nuovo, rispetto al vecchio?» «Scoprilo da te, scimmia barbara» sbuffò il Greco, che aveva vissuto troppo a lungo sotto l'ombra della legge dell'esercito romano per sentirsi a proprio agio con la consapevolezza che qualcun altro sapeva che lui preferiva gli uomini alle donne. Nelle legioni, infatti, chi mostrava quel genere di preferenze, se scoperto, veniva percosso a morte dai suoi compagni, come punizione. Anche soltanto il pensiero del fustuarium fu sufficiente a raggelargli il sorriso sulle labbra, mentre rimaneva per qualche tempo immerso nelle sue riflessioni, contrariato dall'idea di poter costituire un fardello per i suoi compagni. Poi Pikridios Goudeles, mostrando più tatto di quanto Gorgidas gliene avrebbe mai attribuito, intervenne per aiutare a risolvere il problema. «Forse il coraggioso Viridovix» disse, pronunciando con precisione il nome del Celta, anche se la maggior parte dei Videssiani aveva la tendenza a storpiarlo, «potrebbe impartire lezioni ad entrambi, perché anch'io sono privo di abilità nell'uso della spada.» Skylitzes, che era intento a gettare sul fuoco manciate di sterco secco di capra, sollevò lo sguardo nel sentire le parole di Goudeles, e i suoi lineamenti di solito aspri espressero un sorpreso divertimento, perché lo spettacolo di quel grasso burocrate con una spada in mano prometteva di essere più comico di quanto lui potesse immaginare. Il soldato rimase però in silenzio, per timore che Goudeles potesse cambiare opinione. Gorgidas, dal canto suo, estrasse dal fodero il gladius che Gaius Philippus gli aveva regalato e lo impugnò a titolo di esperimento: l'arma appariva corta e tozza rispetto alla lunga spada di Viridovix, ma del resto i Romani preferivano lame che non superassero i sessanta centimetri di lunghezza, perché la loro tattica di combattimento faceva affidamento sull'affondo piuttosto che sui fendenti. In ogni caso, l'elsa in cuoio aderiva meravigliosamente al palmo della mano, e Gorgidas si accorse di impugnare
uno strumento forgiato alla perfezione per l'uso a cui era destinato. «È più pesante della tua penna, vero?» commentò Arigh, accostandosi al fuoco con i frutti della breve caccia in cui si era impegnato: un coniglio, uno scoiattolo di terra dal pelo a strisce ed una tartaruga di buone dimensioni. Il Greco annuì, grattandosi la faccia per l'ennesima volta in quella giornata. La sua barba era già più folta di quella di Arigh, perché gli Arshaum, al contrario dei Khamorth, tendevano ad essere quasi glabri. Per compensare, tagliavano di rado i pochi peli che riuscivano a spuntare e li lasciavano crescere in un ciuffo sottile, sul mento. Goudeles, naturalmente, non aveva portato con sé una spada, quindi prese in prestito una sciabola da uno dei soldati di Agathias Psoes, una scimitarra ricurva affilata da un lato solo del genere che i Khamorth chiamavano shamshir e che Arigh definiva una yataghan. Il Videssiano impugnò l'arma con una goffaggine ancora maggiore di quella di Gorgidas che, se non altro, aveva assistito a parecchi combattimenti. «Insegnaci le tue arti marziali» disse infine Goudeles, rivolto a Viridovix, dopo aver agitato la lama in aria con un gesto che per poco non gli costò un orecchio. «È quello che farò» rispose il Celta e, mentre i soldati si accostavano per guardare, procedette a far assumere ai suoi allievi la posizione di guardia, accertandosi che tenessero bene indietro il braccio sinistro. «Vedete, in questo modo, lo proteggete e al tempo stesso vi bilanciate. Se si ha uno scudo si sta più diritti in modo da sfruttarlo nel modo più vantaggioso, ma per ora è inutile complicare le cose.» Il Gallo controllò ancora una volta la posizione assunta dai due, poi si ritrasse per osservare il proprio operato e, senza preavviso, snudò la spada e balzò verso gli allievi, lanciando al tempo stesso un urlo tale da gelare il sangue. Goudeles e Gorgidas indietreggiarono, inorriditi, e gli spettatori scoppiarono a ridere. «In una volta sola, avete appreso due lezioni» sentenziò Viridovix, non senza gentilezza. «La prima è che non bisogna mai rilassarsi quando c'è vicino un uomo armato di spada, e la seconda è che un buon urlo stentoreo non farà mai male a voi né bene ai vostri nemici.» Anche nei panni di insegnante, il Gallo costituiva un avversario implacabile, e ben presto Gorgidas ebbe il braccio e la spalla che dolevano per lo sforzo di parare i suoi colpi; le costole, poi, non erano nelle condizioni migliori, perché Viridovix le aveva colpite più di una volta, usando la spada di piatto. La sprezzante facilità con cui il Celta era riuscito a superare la
sua guardia aveva avuto l'effetto di far infuriare il Greco, come Viridovix era stato sicuro che sarebbe successo, e per quanto fosse stato praticamente costretto a impugnare la spada, Gorgidas aveva finito per impegnarsi a fondo, con il respiro ansante che usciva sibilando dai denti serrati. Una volta, Viridovix aveva dovuto addirittura eseguire una rapida piroetta per evitare di essere infilzato dalla punta del gladius, perché il Greco non possedeva l'esperienza necessaria per sapere quanto un colpo del genere potesse essere pericoloso. «Quella dannata lama romana» si lamentò il Gallo, che stava sudando con la stessa profusione del suo allievo. «Sai, devi aver osservato i legionari senza farti notare... un momento fa ci è mancato poco che mi infilzassi come un pollo.» Gorgidas accennò a scusarsi, ma Viridovix gli assestò una pacca sulla spalla e lo interruppe. «No, era un bel colpo» si complimentò, girandosi poi verso Goudeles. «Ed ora, signore, è il tuo turno. A te!» L'appositore di sigilli si lasciò sfuggire un lamento quando la lama del Gallo gli calò di piatto sul fianco. Mancando di qualsiasi istinto aggressivo, il burocrate si limitò esclusivamente a difendersi ma, entro quei limiti, si rivelò un allievo abbastanza promettente. I suoi movimenti erano calibrati e possedeva il dono di intuire da quale direzione sarebbe giunto il colpo successivo, il che fece affiorare un'espressione delusa sul volto di Lankinos Skylitzes. «È un bene che tu non cerchi di andare al di là delle tue capacità» approvò Viridovix. «Se acquisterai abbastanza esperienza da riuscire a rimanere vivo per un po', presto o tardi qualche compagno verrà in tuo soccorso, mentre soccorrere un cadavere sarebbe impossibile.» Dopo un po', però, il Gallo si annoiò di avere di fronte un avversario che non contrattaccava. I suoi colpi divennero più rapidi e più forti, e quando Goudeles, che ora stava indietreggiando disperatamente, sollevò la sciabola per parare un fendente, la spada di Viridovix la centrò in pieno. La lama del burocrate si spezzò di netto e la parte troncata volò nel fuoco. Colto di sorpresa, Viridovix riuscì a stento a ruotare la mano che impugnava la spada in modo da evitare di tagliare in due Goudeles. Nonostante questo, il Videssiano cadde a terra con un gemito, stringendosi il fianco, e il Celta gli si inginocchiò accanto, preoccupato. «Ti chiedo scusa, davvero. Quel colpo non era voluto.» Con un gemito, Goudeles si sollevò cautamente a sedere, tossendo e
sputando. Gorgidas notò che lo sputo era bianco, senza sfumature rosate, e dedusse che il burocrate non era quindi ferito in modo grave. «Non mi ero reso conto che ti stavo affrontando con una lama imperfetta quanto la mia abilità» affermò Goudeles, osservando il moncone della propria spada. «Non era imperfetta!» protestò Prevalis figlio di Haravash, il soldato che gli aveva prestato l'arma, un uomo ancora abbastanza giovane perché la sua barba fosse morbida e rada. «Ho pagato due pezzi d'oro per quella spada, che è fatta con il miglior acciaio della capitale.» Goudeles scrollò le spalle, sussultò e gettò l'arma spezzata al soldato, che l'afferrò abilmente per l'elsa. «Guardate!» insistette Prevalis, mostrando a tutti che quanto rimaneva della lama aveva la flessibilità che era riscontrabile soltanto in una spada di qualità. Una volta chiarito quel punto con i suoi compagni, il soldato spostò lentamente lo sguardo su Viridovix. «Per Phos, ma quanto sei forte?» sussurrò, con voce improntata a reverenziale meraviglia. «Abbastanza da mangiare le prugne con tutto il nocciolo... oppure te senza neppure salarti» ribatté Viridovix, ma il sogghigno che accompagnò lo scherzo risultò tirato sul volto robusto del Gallo, e Gorgidas intuì senza fatica cosa l'altro stava pensando. C'erano occasioni in cui la spada del Celta e quella di Scaurus, avvolte negli incantesimi dei druidi gallici, cessavano di essere lame ordinarie in quel mondo dove la magia era una cosa concreta quanto un calcio nello stomaco. Di solito, ci voleva la presenza di un incantesimo per far affiorare il potere delle spade, ma questo non era sempre necessario. Il Celta sedette a gambe incrociate accanto al fuoco e snudò la propria potente arma, studiando i simboli druidici che erano stati impressi sul metallo quando era ancora rovente e di cui ignorava il significato, perché i druidi custodivano bene i loro segreti e non li rivelavano neppure ai nobili galli. Per un momento, i simboli parvero brillare di una loro luce dorata, ma prima che Gorgidas potesse essere certo di ciò che aveva visto, Viridovix ripose l'arma nel fodero. Con uno sbadiglio che era al tempo stesso un sospiro il Greco, troppo stanco per preoccuparsi oltre del fenomeno, pensò che doveva essersi trattato di un casuale riflesso del fuoco. Era tutto un dolore, perché l'uso della spada, come il cavalcare, chiamava in gioco muscoli che lui usava di rado, e sapeva che l'indomani, al risveglio, si sarebbe sentito completamente irrigidito. Seccato, disse a se
stesso che dieci anni prima questo non gli sarebbe successo, ma la risposta interna gli giunse fin troppo presto: dieci anni prima, non aveva avuto quarantuno anni. Rosicchiò una zampa di coniglio, accompagnò qualcuna delle insapori focacce cotte nello stile dei nomadi con alcuni sorsi di kavass e si addormentò nel momento stesso in cui si distese fra le coperte. Varatesh controllò la brezza notturna con un dito inumidito di saliva: soffiava da sud, come si era aspettato. In primavera e in estate, il vento veniva dal mare e portava con sé il sereno, mentre in autunno era mutevole, e l'inverno sulle steppe era una stagione che non piaceva neppure a chi era nato su quelle pianure. Ogni anno gli sciamani imploravano gli spiriti dei venti di non cambiare direzione, ed ogni anno le loro preghiere venivano ignorate. Il rinnegato pensò che era stupido sprecare in quel modo delle buone preghiere. Varatesh aveva fatto affidamento sul vento da sud fin da quando lui e il suo gruppetto avevano incontrato le tracce dell'uomo che cercavano e dei suoi compagni. I nomadi avevano continuato a cavalcare anche dopo il tramonto, per riuscire a raggiungere il gruppo più numeroso, orientandosi con l'aiuto delle stelle e del talismano di Avshar, il cui fumo arancione brillava nel buio con una luce fredda e pallida quanto quella di una lucciola. Adesso il campo della loro preda si trovava dritto a nord, e i carboni ardenti del fuoco erano una chiazza rossa sullo sfondo dell'orizzonte. Per fortuna, non c'era luna, altrimenti le sentinelle avrebbero potuto scorgere in lontananza gli uomini di Varatesh; sotto il tenue bagliore delle stelle, essi furono però simili ad ombre e si mossero con altrettanta silenziosità. Varatesh sentì i piedi che cominciavano a dolergli, perché non era abituato a camminare, neppure per brevi tratti; aveva però deciso di lasciare i cavalli ad una certa distanza, con uno degli uomini, perché anche con il muso legato potevano lo stesso tradirli con facilità. «E adesso?» sussurrò uno dei nomadi. «A giudicare dalla pista che si sono lasciati dietro, quegli sporchi figli di cani devono essere più del doppio, rispetto a noi.» «Per quello che potrà loro servire» replicò Varatesh, controllando ancora il vento, perché sarebbe stato un disastro se avesse cambiato direzione proprio allora. Verificato che tutto era come prima, il nomade emise un grugnito di soddisfazione e infilò una mano dentro la tunica per prelevare il secondo dono di Avshar, un'ampolla di alabastro variegato, sottile quan-
to un guscio d'uovo, con un tappo d'argento sigillato con la cera. Anche ora che era chiusa, dall'ampolla trapelava un senso di magia... una magia simile a quella contenuta nel cristallo del principe-mago, più sottile e in qualche modo più pericolosa dei familiari incantesimi usati dagli sciamani. Gli uomini di Varatesh si ritrassero dal loro capo, come se non volessero avere a che vedere con ciò che lui stava per fare. Varatesh infranse la cera con l'unghia robusta del pollice, la tolse e la gettò lontano. Anche se l'ampolla era ancora chiusa, da essa iniziò a trapelare un tenue e pericoloso odore di narciso. Il nomade trattenne il respiro quando si sentì assalire da un'ondata di vertigine, e sperò che la sensazione si dissolvesse, come infatti accadde. Agendo con molta rapidità, strappò via il tappo d'argento e scagliò l'ampolla in direzione del campo, distante appena un centinaio di metri. Anche se aveva effettuato il tiro con la massima delicatezza possibile, sentì il rumore dell'alabastro che si rompeva: era improbabile che quel suono venisse avvertito, ma se anche fosse accaduto, chiunque fosse andato a indagare avrebbe soltanto ottenuto di imbattersi prima degli altri nella magia di Avshar. Varatesh si affrettò a tornare là dove i compagni lo stavano aspettando, sopravvento; insieme, i nomadi indietreggiarono ulteriormente, non volendo correre rischi, perché erano stati avvertiti che quella era una magia che non faceva distinzione fra amici e nemici. «Quanto dobbiamo aspettare?» chiese qualcuno. «La ventesima parte di una notte, ha detto il mago. Per allora, l'essenza si sarà dispersa.» Varatesh guardò verso ovest, studiando il cielo. «Ci muoveremo quando tramonterà la stella che segna il garretto sinistro della Pecora. Fino ad allora, però, state attenti... se hanno appostato qualche sentinella abbastanza lontano, l'incantesimo potrebbe non avere effetto su di lei.» Attesero, osservando la stella che scendeva lenta lungo la volta azzurro cupo del cielo, avviandosi incontro al bordo della terra, ma dal campo non si levò nessun grido di allarme e questo sollevò ulteriormente il morale di Varatesh: era proprio come aveva predetto Avshar. Quando la scintilla bianca che indicava la stella prescelta scomparve dal cielo, i nomadi si alzarono in piedi e si avviarono verso l'accampamento con la spada snudata. «Mi fanno male le gambe» si lamentò uno di essi, che non amava camminare più di quanto lo apprezzasse il suo capo. «Taci» ingiunse, secco, Varatesh, ancora cauto, e il fuorilegge gli scoccò
un'occhiata rovente. Varatesh provò rincrescimento per le proprie aspre parole non appena le ebbe pronunciate, perché gli dispiaceva dover ricorrere a quei modi. Pensò che nel suo clan gli sarebbe bastato scrollare il capo per farsi capire, ma adesso lui non cavalcava più con il suo clan, né l'avrebbe mai fatto di nuovo, a meno di tornare ad esso da conquistatore. Quegli idioti con cui era costretto a vivere erano sordi ai modi miti, spesso neppure le imprecazioni erano sufficienti ad indurli ad ascoltare e l'obbedienza doveva essere imposta loro con i pugni o con l'acciaio. «Guardate là!» Uno dei nomadi indicò la sagoma accasciata di una sentinella, ora raggomitolata su un fianco in preda ad un sonno innaturale, e Varatesh sorrise, perché era sempre piacevole vedere la magia dare i risultati promessi. Non che lui dubitasse di Avshar, ma nessun uomo razionale correva rischi inutili, e la vita di un fuorilegge, perfino di un capo di fuorilegge, era già abbastanza rischiosa di per sé. I cinque nomadi entrarono poi nel cerchio di luce proiettato dal fuoco, e quasi all'unisono si lasciarono sfuggire un'esclamazione di fronte allo spettacolo innaturale di file di cavalli stesi a terra, con i fianchi che si sollevavano e si abbassavano lentamente nel sonno indotto dall'incantesimo di Avshar. Varatesh scoppiò in una risata nervosa, perché non aveva pensato che la magia potesse avere effetto sugli animali come sugli uomini. Una dozzina di individui giacevano privi di sensi vicino al fuoco. Con la cautela di un animale da preda, Varatesh esaminò innanzitutto i finimenti dei cavalli, e si accigliò, perché da essi sembrava evidente che i cavalieri dovevano essere quindici. Contando la sentinella che aveva già visto, questo significava che c'erano ancora due uomini di cui si ignorava la posizione, quindi il nomade tornò ad allontanarsi nel buio: se le sentinelle erano state disposte a triangolo, come sarebbe stato logico fare, non avrebbe dovuto faticare a trovare quelle mancanti... a meno che fossero in qualche modo sfuggite alla magia di Avshar, nel qual caso dal buio circostante sarebbero presto piovute delle frecce. Le due guardie erano vicino a dove Varatesh si era aspettato di trovarle, ma una goccia di sudore salì comunque a imperlare la sua fronte, perché c'era mancato poco che la magia fallisse. A giudicare dal modo innaturale in cui uno degli uomini era caduto, infatti, era evidente che stava tornando verso il campo quando il sonno lo aveva sopraffatto. Forse aveva creduto di sentirsi male e, da soldato coscienzioso, aveva deciso di chiamare qualcuno che lo sostituisse... ma la fatalità aveva voluto che quella fosse la cosa più sbagliata da farsi: l'uomo aveva puntato dritto verso la fonte dell'in-
cantesimo, invece di allontanarsi da essa. Al suo ritorno, Varatesh trovò uno dei suoi uomini chino su un dormiente, un tizio magro il cui volto cominciava appena a coprirsi di una barba brizzolata, e fece saltare con un calcio la sciabola dalla mano del nomade prima che questi potesse tagliare la gola indifesa dell'uomo. Il fuorilegge lanciò uno strillo e si strinse la mano offesa con l'altra. «Sei forse impazzito?» ringhiò, risentito per essere stato privato della sua vittima. «Perché mi hai rovinato il divertimento?» I suoi tre compagni, che stavano aspettando con impazienza di dedicarsi allo stesso tipo di svago, si raggrupparono dietro di lui. «Sei un cane, Denizli, e lo stesso vale anche per voi!» Varatesh non si prese la briga di nascondere il proprio disgusto. «Uccidere chi è impotente a difendersi è lavoro da donne... adatto a voi. E se questo vi diverte tanto, avanti, provateci!» Tenendo le mani ben lontane dalla spada e dal coltello, il rinnegato volse le spalle ai suoi seguaci. Forse gli altri si sarebbero decisi ad assalirlo, ma in quel momento uno degli uomini che si supponeva fossero vittima dell'incantesimo si sollevò a sedere a meno di due metri da Varatesh. «Voialtri fracassoni volete smetterla di strillare e lasciar dormire un poveraccio che è stanco?» chiese, in un videssiano fortemente accentato; la sua mano poggiava sull'elsa della spada, proprio come quando si era addormentato, e dal momento che dava le spalle ai fuorilegge, doveva essere stato indotto a supporre a causa del loro linguaggio khamorth che si trattasse dei membri della scorta, intenti a litigare fra loro. L'uomo non sembrava allarmato, soltanto un po' seccato. Gli aspiranti ribelli si immobilizzarono per la sorpresa, perché avevano creduto che i membri del gruppo fossero tutti privi di sensi. Varatesh, però, più intelligente dei suoi seguaci, ed anche meglio informato, ragionò che se la preda di Avshar possedeva una spada capace di deflettere le altre magie del mago, c'era da supporre che essa lo proteggesse anche da questa. Spinto da quelle riflessioni, estrasse il randello di cui si era munito fin dall'inizio ed avanzò di un paio di passi, assestando all'uomo che si era lamentato, e che era soltanto parzialmente sveglio, un colpo dietro l'orecchio destro. L'individuo si accasciò senza neppure un gemito, privo di sensi ora quanto lo erano i suoi compagni. Subito il capitano khamorth si girò di scatto, pronto ad affrontare i suoi seguaci, ma il loro atteggiamento incerto e la confusione che lesse sui loro volti gli dissero che li aveva di nuovo in pugno.
«Venite a girare questo tizio sulla schiena» ordinò, come se non fosse successo nulla, «e vediamo chi abbiamo preso.» Gli uomini obbedirono senza esitazione. Fino a quel momento, tutto era andato come Avshar aveva predetto, ma quando osservò con attenzione l'individuo che aveva stordito, Varatesh si sentì di colpo altrettanto sconcertato quanto i suoi compagni lo erano stati allorché questi si era sollevato a sedere ed aveva parlato. Avshar aveva descritto il proprio nemico con la chiarezza che gli veniva dall'odio: si trattava di un uomo alto, biondo, rasato ma per il resto simile ad un Videssiano, mentre colui che giaceva ai piedi di Varatesh coincideva con la descrizione fornita dal mago soltanto per la sua alta statura. Aveva infatti lineamenti duri, zigomi alti e ossuti, e se era vero che si radeva le guance e il mento, era anche vero che aveva un paio di baffi che gli arrivavano quasi alla base del collo. E i suoi capelli, per quanto chiari, avevano il colore del fuoco più che quello dell'oro. Il fuorilegge si grattò la barba, riflettendo. C'era ancora una prova da fare. Tirò fuori il cristallo datogli da Avshar e lo accostò al prigioniero: aspettò a lungo, ma nelle profondità della sfera non apparve la minima traccia di colore, quasi si fosse trattato di un pezzo di vetro senza valore. L'assenza di magia era assoluta. «Questo è l'uomo che cerchiamo» disse, rassicurato. «Denizli, va' a chiamare Kubad con i cavalli.» «Perché? E perché proprio io?» chiese il nomade, che non aveva voglia di camminare più dello stretto necessario. Varatesh soffocò un sospiro, nauseato di essere costretto a servirsi di uomini incapaci di vedere oltre la punta del loro naso. «Se portiamo qui i cavalli» spiegò, facendo appello a tutta la pazienza che ancora gli rimaneva, «non dovremo trascinare questo bestione fin dove li abbiamo lasciati. E tocca a te» aggiunse, lasciando trapelare una nota più dura nella propria voce, «perché lo dico io.» Denizli si rese conto che non avrebbe ricevuto sostegno dai compagni, tutti più che sollevati di non essere stati scelti a loro volta, quindi si allontanò correndo goffamente e soffermandosi di tanto in tanto per massaggiarsi i talloni indolenziti. Varatesh pensò che Denizli era un somaro, ma poi rifletté che anche la saggezza di Avshar sembrava avere dei limiti e risolse di riflettere sulla cosa, quando avesse avuto tempo. L'uomo che aveva stordito emise un gemito e cercò di girarsi. Varatesh
lo colpì di nuovo... un gesto freddo e calcolato, privo di passione. Non doveva usare troppa forza, doveva ricordarsi di quella sentinella del clan di suo padre. No, no, ripeté a se stesso per la millesima volta, l'aveva soltanto stordita. Comunque, adesso usò maggiore cautela. Un battito di zoccoli nel buio annunciò l'approssimarsi di Kubad, accompagnato da Denizli, che appariva più sereno ora che era di nuovo in sella... almeno, si disse Varatesh, l'idiota aveva avuto il buon senso di montare a cavallo. Kubad lasciò scorrere lo sguardo sul campo con aria interessata. «Ha funzionato, vero?» commentò, laconico. «Possiamo derubarli?» «No.» «Peccato.» Fra i cinque che Varatesh aveva preso con sé, Kubad era decisamente il migliore. Scivolato di sella, il nomade si accostò al suo capo, che era ancora fermo accanto all'uomo dai capelli rossi. «È quello che il mago sta cercando?» «Sì. Portami uno di quei cavalli di scorta. Lo legheremo alla sella.» I due uomini issarono il prigioniero svenuto sulla groppa della bestia come se si fosse trattato di una preda di caccia, e gli legarono mani e piedi sotto il ventre dell'animale. Infine, Varatesh s'impadronì della spada dell'uomo. «Per quanto tempo durerà il tuo incantesimo?» chiese Kubad. «Tu non vuoi macellare queste pecore...» Denizli aveva parlato, a quanto pareva, «...quindi è probabile che al risveglio ci vengano dietro. E sono più numerosi di noi.» «In base a quanto mi è stato detto, avremo un giorno di vantaggio, il che dovrebbe essere sufficiente. Annusa l'aria... la notte è serena, sì, ma presto pioverà. Quale pista rimarrà loro da seguire, allora?» Il bagliore carminio del fuoco diede l'impressione che il sorriso di Kubad fosse intriso di sangue. Viridovix si svegliò in preda ad un incubo. Il dolore lancinante alla testa gli dava la nausea e lo indeboliva, e quando infine sollevò le palpebre, si affrettò subito a riabbassarle con un gemito, perché aveva il viso girato verso il sole sorgente, i cui raggi parvero conficcargli aghi roventi nel cervello. La cosa peggiore, però, era che qualche malvagio mago doveva aver rovesciato il cielo e l'orizzonte, facendoli poi ondeggiare come una tazza di gelatina. Il pensiero gli contrasse lo stomaco sensibile, e fu soltanto quando cercò di sollevare una mano per proteggersi la faccia dal sole che scoprì
di essere legato. Il suo gemito aveva intanto avvertito chi lo aveva catturato che lui aveva ripreso i sensi, e qualcuno parlò nel linguaggio delle pianure. I sussulti cessarono, e Viridovix aprì un occhio con estrema cautela: ora il mondo non sobbalzava più, ma era sempre rovesciato. Rilassò i muscoli del collo e la testa gli si abbassò, mentre la polvere grigiastra del terreno gli veniva incontro; un appuntito stelo d'erba salì fino a pochi centimetri dalla sua fronte e da entrambi i lati intravide una zampa marrone e pelosa. Sono su un cavallo, disse a se stesso, contento di riuscire ancora a pensare. Dopo un'altra breve conversazione nella lingua dei Khamorth, uno dei nomadi si diresse verso di lui. Nella sua posizione poco dignitosa, Viridovix poteva scorgere l'uomo soltanto dalle cosce in giù, ma quel che vide fu sufficiente a trasmettergli una sensazione di allarme, perché il nomade portava alla cintura la sua spada gallica, accanto alla propria sciabola. Viridovix conosceva soltanto poche parole nel linguaggio delle pianure, tutti termini tutt'altro che cortesi, e adesso ne usò uno, sentendo la propria voce risuonare flebile e rauca. Immediatamente, si pentì della propria impulsività, perché il suo catturatore avrebbe potuto divertirsi a vendicarsi come più gli piaceva, e cercò di ritrovare il controllo almeno quanto bastava per poter incassare virilmente un eventuale colpo. Il nomade, però, si limitò a ridere, senza evidenti sfumature di minaccia nel tono. «Vuoi che ti liberi, sì?» chiese, in buon videssiano, appena venato dall'accento gutturale del suo popolo, con una voce sorprendentemente giovane, da tenore leggero. «Per favore, non tentare follie» aggiunse. «Ci sono due arcieri che ti tengono sotto tiro. Allora, te lo chiedo di nuovo: devo liberarti?» «Certo che devi.» Il Celta non vide motivo di rifiutare. Legato com'era non avrebbe potuto fare nulla, anche senza il doloroso martellare che gli imperversava nella testa. Il Khamorth si chinò sotto il ventre del cavallo e passò il coltello attraverso le funi che legavano i polsi di Viridovix alle caviglie. Il Gallo rotolò a terra come un sacco floscio, e fu improvvisamente sopraffatto dalla nausea. Mentre vomitava, il Khamorth gli sorresse la testa per evitare che si sporcasse, dandogli poi un po' d'acqua per pulirsi la bocca, e quella gentilezza risultò più spaventosa di quanto lo sarebbe stata qualsiasi brutalità, perché almeno alla brutalità Viridovix avrebbe saputo come reagire.
Dopo due o tre tentativi, il Gallo riuscì a mettersi a sedere e studiò il suo catturatore come meglio poteva, anche se aveva ancora la vista annebbiata e ogni tanto ci vedeva doppio. Il Khamorth era giovane, probabilmente aveva meno di trent'anni, anche se la folta barba che lui sfoggiava secondo l'usanza del suo popolo ne mascherava l'età; era un po' più alto della media degli uomini delle pianure ed aveva il portamento di chi è abituato a comandare, ma i suoi occhi erano strani: anche quando lo fissavano, Viridovix aveva l'impressione che fossero persi in lontananza, intenti a scrutare qualcosa che nessun altro poteva vedere. Lottando contro la nausea, il Gallo girò la testa per vedere di quali alleati disponesse il nomade; come gli era stato detto, due Khamorth avevano una freccia incoccata nell'arco, ed uno di essi tese la corda di qualche centimetro quando lo sguardo di Viridovix incrociò il suo, esibendo al tempo stesso un sorriso tutt'altro che piacevole. «Fermo, Denizli!» ingiunse il capo del gruppo, in videssiano, a beneficio del Gallo, e ripeté subito il comando nella propria lingua. Denizli si accigliò, ma obbedì. Il gruppo contava altri tre Khamorth, che sedevano rilassati sulla sella e osservavano Viridovix come se fosse stato un gatto selvaggio che avevano catturato, una bestia pericolosa a cui non doveva essere data l'opportunità di usare le zanne. Nel complesso, quelli erano tutti tipici uomini delle pianure, anche se avevano un aspetto un po' incallito, e l'unico che destava una certa trepidazione nel cuore del Gallo era il loro capo, soprattutto perché non sembrava appartenere alle steppe. Quell'uomo era molto più intelligente dei suoi seguaci e, se si fosse spuntato la barba, non sarebbe stato fuori posto neppure alla corte imperiale. Viridovix pensò che il termine adeguato per descriverlo era che possedeva una notevole finezza. Il dolore e la confusione che lo ottenebravano fecero sì che impiegasse qualche tempo ad accorgersi che nessuno dei suoi compagni era stato catturato insieme a lui. «Cosa ne hai fatto dei miei amici, furfante dal cuore nero?» esplose, quando infine se ne rese conto. Per un momento, il comandante nomade si accigliò perché l'accento di Viridovix s'inspessiva allorché lui era sotto tensione; quando finalmente comprese, scoppiò a ridere e allargò le mani. «Proprio nulla» rispose. Stranamente, Viridovix gli credette. Era certo che uno qualsiasi degli altri cinque si sarebbe divertito ad uccidere gratuitamente, ma non quell'uo-
mo. «E cosa vuoi da me, allora?» insistette, per nulla rassicurato. La risposta, però, fu decisamente pacata. «Per ora, lascia che ti disinfetti la testa, per evitare che quei tagli s'infettino» replicò Varatesh, versando un po' di kavass su una pezza di lana e inginocchiandosi accanto a Viridovix. Il Celta sussultò quando il liquore venne a contatto con la pelle lacerata e gonfia, ma il tocco del nomade risultò gentile quanto avrebbe potuto esserlo quello di Gorgidas. «A proposito, io mi chiamo Varatesh» aggiunse. «Mentirei se dicessi che sono contento di fare la tua conoscenza» dichiarò il Gallo. Varatesh annuì e sorrise con gentilezza... o almeno così sarebbe sembrato se Viridovix non fosse stato suo prigioniero. Il corpo del nomade si trovava ora fra Viridovix e gli arcieri, facendogli da scudo; come se non fosse riuscito a reggere il proprio peso, Viridovix si accasciò contro la spalla di Varatesh... e cercò di afferrare la spada che questi aveva infilato nella propria cintura. Soltanto allora il Celta si rese conto di quanto fosse stordito e ferito, perché Varatesh si spostò e balzò in piedi prima ancora che lui avesse completato la mossa. Il nomade gridò subito ai suoi seguaci di non tirare, poi riabbassò lo sguardo su Viridovix, e ogni traccia di gentilezza svanì dal suo volto mentre, con agghiacciante premeditazione, gli sferrava un calcio al gomito. «Non tentare trucchi con me» ammonì, sempre con voce quieta. Viridovix lo sentì a stento, perché aveva lo sguardo annebbiato da rosse cortine di dolore tanto intenso da trasformare in una sofferenza vaga e quasi amica le fitte che gli trapassavano il cranio. Varatesh non uccideva per divertimento, ma proprio per questo la sua violenza era molto peggiore, quando si scatenava. «Dubito che ad Avshar importino le condizioni in cui sarai quando lo incontrerai» aggiunse il Khamorth, poi fece una pausa, per vedere come Viridovix avrebbe reagito nel sentire quel nome. «Och, dannazione a te e anche a lui» ribatté il Gallo, cercando di non lasciar trapelare il senso di gelo che lo aveva pervaso. «I miei compagni vi raggiungeranno molto prima che riusciate a portarmi da lui» ammonì poi. Non aveva idea di quanto potesse essere vera la sua affermazione, ma dato che Varatesh li aveva lasciati in vita, tanto valeva che si preoccupasse di loro. Uno degli altri nomadi scoppiò a ridere. «Zitto, Kubad» ordinò Varatesh, tornando poi a rivolgersi a Viridovix.
«Se vorranno tentare, saranno i benvenuti» proseguì, in tono placido. «In effetti, auguro loro di avere fortuna.» Quando il Celta riuscì ad alzarsi in piedi, i suoi catturatori lo issarono in sella ad uno dei cavalli di scorta; per non correre il minimo rischio che potesse fuggire, gli legarono i piedi sotto il ventre dell'animale e le mani dietro la schiena, e le redini furono affidate al nomade chiamato Kubad. «Almeno permettetemi di tenere le redini» protestò il Gallo, cercando di ottenere una maggiore libertà di movimento. «Che succederà, se dovessi scivolare di sella?» Non stava esagerando, perché si sentiva tutt'altro che bene. «Il cavallo ti trascinerà» rispose Kubad, che conosceva un minimo di videssiano, e Viridovix si arrese. Quando i nomadi si avviarono verso nord, sulla pianura, il Celta cominciò ad accorgersi che, in confronto, il suo gruppo aveva tenuto un'andatura pigra: i pony delle steppe continuarono a trottare, instancabili, come se fossero stati animati da un meccanismo, e nonostante gli ampi giri che descrissero per evitare le mandrie di un clan, i nomadi percorsero in un giorno la distanza che Viridovix era abituato a percorrere in due. Le uniche fermate furono quelle richieste da esigenze fisiologiche, anche se Viridovix trovò difficile espletare i suoi bisogni con una freccia puntata allo stomaco. I Khamorth mangiarono in sella, rosicchiando strisce di carne seccate al sole, e non si arrestarono per nutrire il prigioniero, anche se verso metà della giornata Varatesh, con una cortesia più adatta ad un gentiluomo che ad un assassino, accostò alle labbra di Viridovix una fiasca di kavass. Il Gallo accettò la bevanda, sia perché aveva sete sia nella speranza di attenuare il lancinante dolore al capo, ma il liquore di latte fermentato non gli fu di molto aiuto. Mentre il pomeriggio si avviava ormai al termine, nubi di un grigio sporco quanto il ventre di una pecora cominciarono a sopraggiungere da sud, e Kubad disse qualcosa nella sua lingua, rivolto a Varatesh che annuì, come se stesse rispondendo ad un complimento. Ben presto il vento si fece più forte e portò con sé un'intensa umidità. Il capo dei Khamorth scelse come luogo per accamparsi un ruscelletto con la riva protetta da un'ampia sporgenza di roccia. «Stanotte pioverà» spiegò a Viridovix, «ma qui dormiremo all'asciutto... a meno che il ruscello si gonfi. Ma non credo che lo farà.» «E in caso contrario?» chiese il Gallo. In effetti non gli importava, perché era dolorante e sfinito per aver dovuto reggersi in sella senza usare le
mani, ma era deciso a importunare Varatesh in ogni modo possibile. Comunque, non ci riuscì. «Allora ci sposteremo» replicò il nomade, intento a preparare il fuoco, piccolo e senza fumo, in modo che nessuno notasse la loro presenza. Questa volta, i Khamorth divisero il pasto con Viridovix, slegandogli le mani perché potesse mangiare, ma sorvegliandolo tanto attentamente da impedirgli di tentare qualsiasi cosa. Quando ebbe finito, Varatesh lo legò di nuovo, controllando ogni nodo con tanta cura che il Gallo giunse ad odiarlo per la sua precisione. Gli uomini delle pianure stabilirono quindi i turni di guardia tirando a sorte, e Viridovix si preparò a fare qualcosa... anche se non sapeva cosa... alla prima occasione favorevole. Il suo corpo, però, lo tradì e, nonostante il dolore alla testa e il disagio derivante dalle mani legate dietro la schiena, il Gallo si addormentò quasi all'istante. Il delicato rumore della pioggia che cadeva nel piccolo corso d'acqua a pochi metri di distanza lo destò alcune ore più tardi, quando era di sentinella Denizli, a cui era toccato in sorte il terzo turno. Varatesh aveva scelto alla perfezione il punto in cui accamparsi, perché la sporgenza sovrastante la riva aveva lasciato quell'angolo asciutto e confortevole, proprio come il nomade aveva garantito. Del resto, il Celta non aveva nutrito dubbi in proposito: nonostante la sua crudeltà, il capo dei banditi era un uomo molto competente. Viridovix rotolò verso la pioggia, e Denizli borbottò qualcosa di minaccioso nella propria lingua, sollevando l'arco. «Volevo soltanto bagnare la mia povera testa malconcia» spiegò il Celta, ma l'altro si limitò a grugnire e ad alzare l'arma di un altro paio di centimetri. Imprecando contro la propria sorte, Viridovix fu costretto a ritrarsi. «Eunuco leccapiedi» borbottò. Sapeva che stava rischiando, ma Denizli gli rispose soltanto con un altro grugnito: almeno, quello era un nomade che non conosceva il videssiano. Il Gallo imprecò quindi contro di lui per parecchi minuti, mescolando un assortimento di profanità videssiane, latine e celtiche; poi, sentendo di essersi sfogato un poco, cercò di trovare una posizione accettabile per rimettersi a dormire, pensando al tempo stesso che quella pioggia aveva l'aria di voler continuare ancora per parecchio. Gorgidas si riscosse e borbottò quando una goccia di pioggia lo colpì alla guancia, seguita da una seconda sull'orecchio e da una terza che gli cen-
trò in pieno una palpebra. Il dottore armeggiò con le coperte, cercando di tirarsele sulla testa senza svegliarsi del tutto, ma prima che potesse riuscirci una mezza dozzina di altre gocce lo raggiunsero in pieno sulla faccia, svegliandolo definitivamente e strappandogli un'imprecazione seccata nella sua lingua, perché il tempo era parso sereno quando si era addormentato. Nel mettersi a sedere, sussultò per una violenta fitta alla testa, e desiderò di avere a portata di mano un po' di cavolo crudo per curare i postumi di sbornia che avvertiva, ma subito dopo si chiese cosa avesse fatto per procurarseli. Il kavass era un liquore potente, d'accordo, ma quel poco che ne aveva bevuto durante la cena non avrebbe dovuto lasciarlo in quelle condizioni. Intanto anche gli altri si stavano svegliando, e dai loro gemiti misti a imprecazioni il Greco dedusse che non dovevano sentirsi meglio di lui; fu soltanto quando cominciò a guardarsi intorno che si accorse che il fuoco da campo si era spento... e si accigliò. Il terreno era appena umido, per ora, quindi perché rimanevano soltanto ceneri della legna che non molto tempo prima ardeva allegramente? Anche Agathias Psoes formulò lo stesso pensiero. «Cosa vi è preso, teste di pecora?» gridò ai suoi soldati. «Non siete neppure capaci di tenere acceso un dannato fuoco?» Per risposta ottenne soltanto qualche borbottio indistinto, perché la prova della manchevolezza da lui rilevata era evidente per tutti. «Quanti Khamorth ci vogliono per accendere un fuoco?» chiese Arigh, in tono retorico, e subito si rispose da solo: «Dieci. Uno raccoglie la legna, e gli altri nove riflettono su che cosa bisogna fare dopo.» Psoes replicò con una breve risata di pura cortesia: anche se non era un Khamorth per nascita, la maggior parte dei suoi uomini lo era, e lui tendeva a prendere le loro parti quando un estraneo interveniva a deriderli. Pikirdios Goudeles, dal canto suo, parve trovare divertente la battuta dell'Arshaum e ridacchiò sommessamente per quasi un minuto, mentre Gorgidas si concedeva un asciutto sorriso, notando come Arigh non si lasciasse sfuggire la minima opportunità di farsi beffe dei vicini orientali del suo popolo. E fu soltanto allora che il Greco si rese conto che la tonante risata di Viridovix non aveva prontamente seguito lo scherzo di Arigh. Quel dannato Gallo stava forse ancora dormendo? Gorgidas sbirciò nel buio velato dalle gocce di pioggia, che ora cadevano sempre più fitte, ma non riuscì a scorgere il Celta.
«Viridovix?» chiamò. Non ottenendo risposta, chiamò ancora, ma senza maggior successo. «È probabile che si sia allontanato per alleggerire la vescica» suggerì allora Lankinos Skylitzes. Sentendo un rumore di passi che si dirigeva verso il campo, il Greco pensò per un momento che l'ufficiale avesse avuto ragione, ma vide poi che si trattava di una delle sentinelle. «Ehi, del campo!» esclamò l'uomo. «Che vi ha preso, a lasciar spegnere il fuoco? Continuate a parlare, in modo che vi possa trovare.» Poco dopo, la sentinella si riunì agli altri. «È tutto a posto?» chiese subito. «Mi è successa una cosa strana» aggiunse, parlando con voluta noncuranza, per mascherare la propria preoccupazione. «Ero là fuori, di guardia, quando ho cominciato a sentirmi svenire. Mi sono subito diretto verso il campo per farmi sostituire, ma non ci sono arrivato... e quando sono tornato in me è stato a causa della pioggia. È molto strano... mi sembra che nella mia testa ci sia un fabbro che stia martellando su un'incudine, eppure ieri sera ho bevuto soltanto acqua, perché dovevo essere sobrio per montare di guardia. A proposito, che ore sono?» Risultò ben presto che nessuno lo sapeva. Non ci fu però il tempo di discutere della cosa, perché proprio allora uno dei cavalli sbuffò in maniera strana e si sollevò sulle zampe, seguito poco dopo anche dagli altri. Ignorando le fitte alla testa, gli uomini di Psoes e Skylitzes si precipitarono verso gli animali, gridando in un misto di videssiano e di khamorth. Allora, per la prima volta, Gorgidas intuì che c'era qualcosa che non andava, perché i cavalli non si sdraiavano mai di loro iniziativa. I cavalieri accarezzarono le bestie e le esaminarono, cercando di capire che cosa fosse loro successo, infine Lankinos Skylitzes tornò verso le ceneri del fuoco da campo. «Gorgidas?» «Sono qui.» «Dove? Oh» esclamò il soldato, inciampando quasi nel medico. «Mi dispiace... c'è un buio pesto. Vorresti dare un'occhiata ai cavalli? Sembra che stiano bene, ma...» L'uomo allargò le mani, un gesto che il Greco riuscì a scorgere soltanto in modo vago. Comprese comunque il motivo della richiesta, ma la cosa non gli piacque. «Io non sono più un dottore» replicò, asciutto, poi decise che era stato troppo brusco, ed aggiunse: «Anche se così non fosse, non so nulla di ani-
mali, perché curare i cavalli è diverso dal curare gli uomini.» Ed è un'arte assai inferiore, concluse fra sé. «Non volevo offenderti» replicò Skylitzes, cogliendo comunque la sua irritazione, e Gorgidas annuì con impazienza, rimpiangendo subito il gesto a causa di una violenta fitta al capo. «Viridovix è tornato?» chiese poi l'ufficiale. «No, e comunque dove potrebbe essere andato? Dove aveva steso le sue coperte? Se è là a russare, gli torcerò il collo.» «Dovrai aspettare il tuo turno, per farlo» puntualizzò Skylitzes, socchiudendo gli occhi per sbirciare fra i veli di pioggia, poi indicò. «Era laggiù, vero?» «Era là?» Gorgidas si rimproverò per non aver prestato maggiore attenzione a come si erano disposti, prima di addormentarsi; a che valeva uno storico... o anche un dottore... se mancava di notare simili dettagli? Il Greco era orgoglioso della sua capacità di osservazione, ed essa gli era venuta meno proprio quando più ne aveva bisogno. Aggirate le ceneri del fuoco... chiedendosi ancora una volta perché fossero così fredde... si avviò nella direzione indicata da Skylitzes, e in effetti trovò le coperte e una sottile stuoia da viaggio, che ormai cominciavano ad essere intrise di pioggia; accanto al giaciglio c'erano una sacca che Gorgidas riconobbe come quella di Viridovix, e l'elmo con la cresta formata da una ruota con sette punte di bronzo. Di Viridovix, però, non c'era traccia. L'agitazione che ora regnava nel campo indusse le altre due sentinelle a venire a vedere cosa stava succedendo, ed entrambe confessarono con riluttanza di essersi addormentate al loro posto. «Non vi angustiate» le rassicurò, in tono pomposo, Pikridios Goudeles, «perché non ne è derivato nessun male.» Agathias Psoes emise un sommesso brontolio, perché come a qualsiasi buon sottufficiale non gli piaceva l'idea che i suoi uomini dormissero quando erano di servizio, e Gorgidas esclamò: «Nessun male? Dov'è Viridovix?» «Quanto a questo, devo ammettere la mia ignoranza. Quell'uomo è un tuo compagno, appartiene alla tua gente. Perché dovrebbe aver deciso di andarsene per conto suo?» Gorgidas aprì la bocca per ribattere ma subito la richiuse, perché non ne aveva idea, e sapeva che sarebbe stato inutile tentare di spiegare che lui e il Celta non appartenevano allo stesso popolo, non più di quanto vi appartenessero Goudeles e un Khamorth.
Il resto della notte fu umido e disagiato, e nessuno si rimise a dormire, non soltanto a causa della pioggia incessante, ma anche perché tutto il gruppo era molto più sveglio di quanto fosse normale per chi si era destato nel cuore della notte, pur sentendosi tutt'altro che in forma. Buona parte della saltuaria conversazione che seguì fu dedicata alle condizioni delle loro teste dolenti. «In passato mi è capitato di ubriacarmi senza poi risentirne» commentò Arigh, «ma non mi era mai successo di avvertire postumi di sbornia senza aver bevuto.» Come per rimediare a quel controsenso, bevve un lungo sorso dall'otre di kavass che aveva sempre a portata di mano. Verso l'alba, le nubi si diradarono momentaneamente e rivelarono una sottile fetta di luna in basso nel cielo, ad est. Quella luna era troppo sottile, troppo bassa. «Abbiamo perso un giorno!» esclamò Gorgidas. «Per Phos, hai ragione» convenne Skylitzes, tracciandosi sul petto il simbolo circolare del suo dio e levando le mani al cielo nuvoloso per mormorare una preghiera. Subito Psoes e gli altri Videssiani presenti nella sua squadra lo imitarono, mentre i soldati che ancora seguivano le usanze khamorth si affrettarono a versare un'abbondante dose di kavass sul terreno al fine di propiziare i poteri meno astratti da essi adorati. Perfino Goudeles, pur essendo un uomo di mondo fino al midollo, pregò con i soldati. «Uno spirito ci ha toccati, e dovremmo sacrificare un cavallo» dichiarò poi Arigh, e i Khamorth lanciarono grida di assenso. Quanto a Gorgidas, rimase ad ascoltare con crescente esasperazione i compagni che farfugliavano a proposito di divinità e di spiriti, perché la sua mente logica vedeva la risposta con chiarezza anche eccessiva. «Siamo stati addormentati con la magia perché qualcuno potesse rapire Viridovix» dichiarò il dottore e, un momento più tardi, portando il ragionamento alla sua logica conclusione, aggiunse: «Avshar!» «No» replicò Skylitzes. «Se si fosse trattato di Avshar, ci saremmo risvegliati nell'aldilà, perché in lui la pietà non esiste.» «I suoi sgherri, allora» insistette il Greco, consapevole della potenza della spada del Gallo. Evitò però di accennarvi, perché quanto minore era il numero di persone che erano al corrente della cosa, tanto più improbabile era che il mago ne venisse informato, se per qualche motivo la supposizione da lui avanzata fosse stata errata. Gorgidas non riteneva però che lo fosse. Approfittando della luce diurna sempre più intensa, si accostò di nuovo al rotolo delle coperte del Gallo, e
un respiro sibilante gli sfuggì dalle labbra quando scorse le macchie di sangue sulla coperta. Sollevandola, mostrò le chiazze agli altri membri del gruppo. «Lo hanno rapito dopo averci addormentati con la magia» ripeté. «Anche se così è, che ci possiamo fare?» ribatté Goudeles, in tono petulante, perché era abituato alle comodità di Videssos e non gli piaceva starsene seduto in mezzo alla pioggia e al fango, su quella steppa priva di piste. «Se valutato in contrapposizione alla missione di cui siamo stati incaricati, che importanza può avere il destino di un mercenario barbaro? Una volta che la nostra ambasciata sarà stata portata a termine con successo... a Phos piacendo... allora con l'ulteriore appoggio delle truppe che gli Arshaum ci concederanno, potremo cercarlo. Fino a quando non avremo con noi quelle truppe, tuttavia, la sua sorte rimane una considerazione di carattere secondario.» «Ma lui potrebbe essere ferito, morente... ferito lo è di certo...» annaspò Gorgidas, incapace di credere ai propri orecchi, toccando le chiazze marroni che segnavano la coperta. «Non vorrai lasciarlo nelle mani del nemico, vero?» Se anche era imbarazzato, Goudeles non lo diede a vedere. «Non sono neppure disposto a gettare anche me stesso fra quelle mani, rendendo impossibile la realizzazione del compito per cui sono stato mandato qui» ribatté. «L'appositore di sigilli ha ragione» intervenne Skylitzes, pur dando la netta impressione che quell'ammissione gli lasciasse l'amaro in bocca. «La sicurezza dell'impero ha la precedenza su quella di qualsiasi uomo. Il tuo connazionale è un guerriero valoroso, ma è un uomo solo, mentre a noi ne servono centinaia.» Consapevole che nessuno dei due Videssiani aveva mai avuto modo di conoscere Viridovix, prima di quel viaggio, Gorgidas si appellò ad Arigh, che per due anni era stato compagno di baldorie del Celta. «È tuo amico!» esclamò. Arigh prese a tirarsi la barba, a disagio di fronte all'evidente supplica del Greco: per lui i legami personali avevano maggiore importanza di quanta ne avessero agli occhi degli imperiali, ma era il figlio di un khagan, e capiva le necessità della politica. «Per quanto mi addolori, la mia risposta è no. I contadini hanno detto la verità, temo. Qualsiasi cosa io faccia, adèsso, verrò meno alla fiducia di qualcuno, ma devo agire a beneficio del mio clan prima di pensare a me
stesso. V'rid'rish non è una facile preda, e potrebbe riuscire a liberarsi da solo.» «Maledizione a tutti voi!» esplose Gorgidas. «Se non vi importa nulla di quello che può succedere al mio compagno, allora tiratevi da parte e lasciate che vada a cercarlo io stesso.» «Ben detto» commentò Arigh, in tono quieto, e parecchi soldati gli fecero eco. Furibondo, Gorgidas li ignorò tutti, e prese a infilare le proprie cose nella sacca. Skylitzes, però, si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla. Con un'imprecazione, Gorgidas cercò di liberarsi, ma il robusto Videssiano era più forte di lui. «Lasciami andare, idiota detestato dagli dèi! Perché ti dovrebbe importare se vado a cercare il mio amico? Certo io non ti sto più a cuore di lui!» «Pensa come un uomo, e non come un bambino infuriato» ammonì Skylitzes, in tono sommesso, con parole studiate apposta per pungere sul vivo il Greco, che andava orgoglioso della propria razionalità. Poi agitò una mano in modo da abbracciare l'orizzonte. «Va' a cercare Viridovix, se vuoi» aggiunse, ed anche lui, come Goudeles, non sbagliò nel pronunciare il nome del Gallo, «ma dove lo cercherai?» «Dove...» iniziò il Greco, ma subito s'interruppe, confuso, e si massaggiò il mento irsuto, scoprendo così che la barba poteva essere un utile strumento aggiuntivo di meditazione. «Secondo i tuoi rapporti, dov'è Avshar?» chiese infine. «A nord e ad ovest rispetto a dove ci troviamo ora, ma sono notizie vecchie di una settimana, e ormai non valgono più nulla. Hai visto come questa gente delle pianure si sposti in fretta, e non c'è nessuna legge che obblighi quel dannato mago a fermarsi sempre presso lo stesso clan.» «Nordovest è un'indicazione sufficiente.» «Lo è? Ti ho osservato, straniero: non possiedi l'abilità di seguire una pista... e comunque la pioggia non te ne lascerà nessuna» proseguì Skylitzes, spietato. «E anche ammesso che ti riuscisse di raggiungere i tuoi nemici, allora che farai? Sei un guerriero così abile da poterli uccidere tutti da solo? Sai combattere anche soltanto abbastanza bene da difendere te stesso, se i nomadi vorranno divertirsi a tue spese? Quella tua spada potrà esserti d'aiuto, se deciderai di portarla al fianco, invece di lasciarla nella sacca?» Gorgidas sussultò, perché in effetti non aveva neppure pensato al gladius regalatogli da Gaius Philippus, che era ancora nella sacca insieme a pergamene e inchiostro. Per la prima volta da molti anni a quella parte de-
siderò di essere più abile con le armi: era umiliante sapere che non sarebbe stato in grado di fermare uno sporco e ignorante barbaro incontrato per caso, se questi avesse deciso di ucciderlo per il semplice gusto di vederlo morire. Frugò nella sacca fino a trovare la spada, ma poi la gettò di nuovo fra le altre cose, con rabbia, perché neppure quella lama poteva tagliare la logica di Lankinos Skylitzes. «Ad ovest, allora» disse infine, odiando la necessità che lo costringeva a pronunciare quelle parole. Necessità... ananke, pensò: la più dura maestra di vita. Quando Skylitzes gli porse la mano in un gesto di comprensione, rifiutò di stringerla. «Vuoi continuare tu ad addestrarmi nell'uso della spada?» chiese invece, e l'ufficiale annuì. Mentre montava in sella, i pensieri di Gorgidas erano pervasi di ironia. Aveva lasciato Videssos a favore delle pianure per cessare di essere un dottore e diventare uno storico, e adesso stava subendo una quantità di cambiamenti, nessuno dei quali era però quello desiderato. Cose che lui aveva da tempo escluso dalla propria vita vi stavano rientrando di prepotenza: le donne, le armi... ma per ora alla storia si era dedicato ben poco. La situazione avrebbe potuto essere divertente, se lui non fosse stato tormentato da maggiori preoccupazioni. La pioggia, intanto, continuava a riversarsi dal cielo indifferente. CAPITOLO QUINTO La ritirata si svolse meglio di come Marcus avesse osato sperare: ora che avevano la vittoria in pugno, i Namdaleni si mostrarono più desiderosi di inseguire piccole bande di fuggiaschi che di impegnare un distaccamento numeroso e ancora pronto a offrire resistenza. Un paio di compagnie di cavalieri effettuarono qualche esitante attacco ma andarono poi in cerca di prede più facili quando i legionari non cedettero al panico. «I codardi hanno quello che si meritano» dichiarò Nevrat Sviodo, con voce colma di disprezzo, quando passarono accanto al corpo di un Videssiano trafitto alla schiena da una lancia; la donna aveva combattuto fianco a fianco con il marito, la sua faretra era quasi vuota, la sciabola era sporca di sangue e la sua fronte era tagliata e ammaccata a causa di una pietra, che per fortuna l'aveva colpita soltanto di striscio.
«Sì, questa è la ricompensa per i vigliacchi che tagliano la corda» convenne Gaius Philippus, per nulla avvilito dalla sconfitta, perché non era la prima che gli capitava di subire. «Ci sono vari modi di perdere, come di vincere. Vicino al Sucro, i miei compagni si sono portati bene, anche se abbiamo perso, e così pure a Turia. Se non fosse arrivata la vecchia, avremmo impartito a quel ragazzo una battuta con i fiocchi e lo avremmo rispedito di corsa a Roma.» Il veterano sorrise al ricordo. «La vecchia? Il ragazzo?» Nevrat lo fissò con espressione sconcertata. «Lascia perdere, ragazza mia. È successo molto tempo fa, là da dove veniamo tutti noi. Questi Videssiani non sono i soli a conoscere le guerre civili, e in una di esse io ho scelto la parte sbagliata.» «Allora eri con Sertorius?» intervenne Marcus, che già sapeva che il centurione anziano aveva fatto parte della fazione di Mario. Dopo che Siila aveva sconfitto gli ultimi seguaci di Mario rimasti in Italia, Quintus Sertorius si era rifiutato di cedere la Spagna ai vincitori, aveva attirato dalla sua parte i nativi del luogo ed aveva portato avanti una sorta di guerriglia per otto anni, finché uno dei suoi subordinati lo aveva assassinato. «Infatti, e allora?» ribatté Gaius Philippus, in tono di sfida: una volta concessa la sua fedeltà, infatti, il veterano non la rinnegava più. «Niente di niente» rispose il tribuno. «Deve essere stato un eccellente soldato, per far fronte a Pompeo il Grande.» «Il Grande?» Gaius Philippus sputò sulla strada polverosa. «In confronto a chi? Come ti ho detto, se Metello non gli avesse salvato la pelle a Turia, Pompeo starebbe ancora scappando... ammesso che gli fosse possibile. Lo avevamo ferito, sai.» «Non lo sapevo. Allora non avevo neppure vent'anni.» «Già, lo immagino. Io ero un po' più giovane di come tu sei adesso, credo.» Il veterano si asciugò la faccia con il dorso della mano; la maggior parte dei peli del suo avambraccio segnato da cicatrici erano ormai argentei. «È il tempo a vincere le guerre, indipendentemente dall'esito delle battaglie.» Il sole era ancora alto, ad occidente, quando i legionari avvistarono il loro accampamento. All'esterno c'erano i cadaveri di alcuni cavalli e dei loro cavalieri, e uno squadrone di Namdaleni stava studiando la palizzata, tenendosi però ad una rispettosa distanza. Gli isolani si allontanarono al trotto non appena identificarono il contingente in arrivo. Minucius venne incontro a Scaurus ad uno degli accessi alla via princi-
palis, rivolgendogli un saluto che esprimeva al tempo stesso rispetto e sollievo. «Mi fa piacere rivederti, signore» disse, con timidezza. «Ed a me rivedere te» rispose Marcus, alzando poi il tono di voce, in modo che tutti potessero sentire. «Avete mezz'ora di tempo per smontare le tende e trovare le vostre donne e i vostri bambini, poi ci metteremo in marcia. Chiunque sarà troppo lento potrà presentare le proprie scuse agli isolani... noi non saremo qui per ascoltarle.» «Ho capito che era andata male» stava continuando intanto Minucius, «quando i nomadi sono passati di qui a precipizio, seguiti dai Videssiani che avevano gli uomini di Drax alle calcagna. Uptrand ha tradito, vero?» «No, ma lo hanno fatto i suoi uomini. Lui è morto.» «Allora le cose stanno così» ringhiò Minucius, serrando i grossi pugni. «Mi era parso di conoscere qualcuno di quei buoni a nulla che hanno cercato di oltrepassare la palizzata. Hai visto il benvenuto che abbiamo dato loro... sono andati a cercare una preda meno difficile, come per esempio il campo degli imperiali, appena oltre gli alberi.» Il sottufficiale esitò, e quell'incertezza parve fuor di luogo sui suoi lineamenti scabri. «Spero che abbiamo fatto la cosa giusta, signore. C'era... ecco, qualcuno, fra noi, voleva che aprissimo le porte per unirci a loro.» «Qualcuno, eh?» ripeté il tribuno, intuendo cosa si celasse dietro le goffe perifrasi di Minucius. «Ci penserò io, non ti preoccupare» dichiarò, assestando una pacca sulla schiena del sottufficiale. «Tu hai agito bene, Sextus. Ora va' a prendere Erene e le tue bambine. Voglio mettere una certa distanza fra noi e Drax prima che lui decida di richiamare i suoi ragazzi dal saccheggio per darci il colpo di grazia.» Mentre Minucius si allontanava, Marcus pensò che Drax avrebbe potuto prendere quella decisione da un momento all'altro... forse subito, forse il mattino successivo. Se fosse stato lui a comandare i Namdaleni, avrebbe attaccato immediatamente, ma Drax esercitava il mestiere del mercenario da più tempo, ed ora che i suoi uomini avevano il bottino davanti agli occhi forse non avrebbe osato allontanarli. Forse, forse, forse... Marcus desiderò che il conte namdaleno avesse una natura meno difficile da decifrare. Il campo ribolliva ora di attività, come una pietra calcarea spruzzata d'aceto. I soldati e i loro familiari si chiamavano ripetutamente per nome a vicenda, e vagavano di qua e di là, alla ricerca gli uni degli altri. «Idioti» commentò Gaius Philippus. «Se quelle stupide chiocce fossero rimaste accanto alla tenda dei loro uomini, non sarebbe stato difficile tro-
varle.» «Questo vale per quelle che hanno ancora un uomo che le cerchi» osservò Marcus, e il centurione anziano dovette annuire. Quella battaglia non aveva inflitto troppe perdite ai Romani, perché il centro dell'esercito imperiale aveva dovuto sopportare la massima violenza dell'attacco, ma nonostante questo c'erano uomini che erano caduti per non rialzarsi più, ed erano troppi, troppi. Quanto tempo sarebbe passato, prima che non rimanesse più neppure un Romano? Nella piazza centrale del campo, Styppes stava facendo del suo meglio per limitare le perdite di quella giornata, e Scaurus dovette rendergli atto dei suoi sforzi: la faccia del grasso prete era pallida per lo sforzo e per la fatica mentre lui si spostava di continuo da un ferito all'altro, senza mai indugiare tanto a lungo da risanare completamente uno di essi ma soltanto il tempo necessario per dargli la possibilità di sopravvivere, prima di passare ad un altro. Nelle pause fra un paziente e l'altro, Styppes trangugiava lunghi sorsi di vino, ma Marcus non vi diede importanza, notando i risultati del suo lavoro. Helvis era ferma vicino alla tenda del tribuno, ed i due si concessero un rapido abbraccio prima che Marcus cominciasse a sradicare i pioli che sostenevano i teli. Malric gli fornì quello che riteneva essere un aiuto finché Marcus non gli ringhiò di togliersi di mezzo, mentre le sue mani continuavano automaticamente a compiere i gesti necessari per piegare la tenda in previsione del viaggio. «Noi abbiamo vinto, e tuttavia continui a respingere la nostra alleanza?» chiese Helvis. «Guardati intorno» suggerì Scaurus. «Questo è il solo "noi" che io conosca, e sarebbe davvero ora che tu lo capissi.» All'esterno del campo, un Namdaleno gridò qualcosa. Marcus non riuscì a distinguere le parole a causa del frastuono circostante, ma la parlata isolana era inconfondibile. «Il solo "noi"?» ripeté Helvis, in tono minaccioso. «Che cosa faresti, se là fuori ci fosse Soteric?» Marcus premette gli strati della tenda piegata per farne uscire l'aria e li legò, pensando al tempo stesso a ciò che suo cognato aveva fatto quel giorno. «Ora come ora, credo che lo ucciderei.» Qualsiasi cosa Helvis stesse per dire, le morì sulle labbra. «Non ci sono catene che ti trattengano, cara» aggiunse il tribuno, in tono
stanco, «ma se vuoi venire con me, sarà meglio che tu impari a vedere la gente che c'è qui dentro come il solo "noi". Vieni o resta, come preferisci: non ho tempo per discutere.» Per un lungo momento, Marcus temette che la brutalità delle sue parole avesse valicato la capacità di sopportazione di Helvis, ma in quel momento Dosti si contorse fra le braccia della madre che lo confortò, dapprima con fare assente, poi con effettiva attenzione. Lo sguardo di Helvis vagò dal bambino a Scaurus, mentre lei spostava la mano sinistra fino a posarla sul ventre. «Verrò con te» disse infine. Marcus rispose soltanto con un grugnito, perché stava lottando per infilare la tenda piegata nello zaino. Come nel caso di un serpente che cerchi di inghiottire un coniglio, l'operazione pareva impossibile ma andò comunque in porto e, in qualche modo, anche la cassetta di legno di Scaurus andò dietro alla tenda. Quanto al tavolo e alla sedia, avrebbero dovuto essere abbandonati... non c'era tempo per caricarli su un mulo. Infine, il tribuno si sistemò lo zaino sulla schiena: come sempre, i Romani erano autosufficienti quanto al trasporto dei loro bagagli. Sul volto di Helvis era dipinta una strana espressione malinconica; il tribuno accennò a voltarle le spalle con impazienza, ma le parole della donna lo indussero a girarsi di scatto. «Ci sono delle occasioni, caro, in cui mi ricordi terribilmente Hemond.» «Cosa? Perché?» chiese Marcus, stupito. Helvis parlava di rado del padre di Malric, perché sapeva che lui si irritava nel sentirlo menzionare o quando lei per distrazione gli si rivolgeva chiamandolo con il nome del marito morto. «Per la Scommessa, non è certo per come agisci!» Il ricordo le portò un sorriso sulle labbra e le addolcì lo sguardo. «Quando voleva qualcosa da me, Hemond rideva, scherzava, mi convinceva con la gentilezza.» La donna inarcò verso di lui un sopracciglio con aria triste. «Tu invece esponi le cose come un macellaio che butti un pezzo di carne sul tavolo... e se a me non piacciono, posso anche andare nell'inferno di Skotos.» «Allora dov'è la somiglianza?» insistette Marcus, sentendo gli orecchi che gli bruciavano. «Conoscevi Hemond: doveva ottenere quello che voleva, a qualsiasi costo... e tu sei uguale. Ed hai ottenuto di nuovo quello che volevi.» Helvis sospirò. «Sono pronta.» I legionari si misero in marcia schierati in quadrato, con le famiglie e i
feriti al centro, ed i Namdaleni continuarono a seguirli, come Marcus sapeva che avrebbero fatto. Non disponendo di forze di cavalleria, non poté però attaccarli e si considerò fortunato che gli isolani si limitassero ad una sorveglianza a distanza. A giudicare dal chiasso che giungeva ancora dal campo videssiano da loro catturato, Drax stava concedendo alla maggior parte dei suoi uomini di abbandonarsi ai saccheggi. Gruppetti di Videssiani sbandati, certi a piedi, altri a cavallo, si unirono a poco a poco alla banda di Scaurus, e lui permise loro di aggregarsi, perché alcuni avevano ancora spirito combattivo e comunque qualche uomo a cavallo gli sarebbe potuto tornare utile, se non altro come esploratore. Uno di quegli uomini portò loro notizie della sorte toccata a Zigabenos: era stato catturato dai Namdaleni, e quella era un'altra cattiva notizia in mezzo a molte, che lasciò Marcus sgomento ma non sorpreso. Era anche una cosa che si era aspettato di sentir dire, vera o falsa che fosse. «Come sai che lo hanno preso?» domandò all'imperiale. «Ecco, lo so perché l'ho visto» rispose il soldato, il cui accento da campagnolo indusse Marcus a pensare a Phostis Apokavkos. L'uomo stava fissando il tribuno con ostilità, indignato come qualsiasi Videssiano per aver visto mettere in dubbio la propria parola. «Lo hanno trascinato giù dal cavallo. Per l'inferno di Skotos, se non fosse stato ferito non ci sarebbero mai riusciti. Ha offerto loro tutta la resistenza che volevano ed anche di più. In ogni caso, che la peste si porti i Namdaleni.» «Hai visto mentre lo catturavano e non hai fatto nulla per impedirlo?» tuonò, minaccioso, Zeprin il Rosso. Il massiccio Haloga, che era stato a lungo una guardia imperiale, portava ancora celata in fondo al cuore la vergogna di non essere morto con il reggimento dei suoi connazionali che aveva invano difeso Mavrikios a Maragha, anche se non era successo certo per colpa sua, ma perché l'Imperatore lo aveva incaricato di trasmettere un ordine all'ala orientale dell'esercito. L'Haloga continuava comunque a biasimare se stesso per l'accaduto, ed ora, con l'ascia in pugno, stava fissando il malconcio Videssiano con occhi che parevano volerlo bruciare vivo. «Che razza di soldato ritieni di essere?» «Un soldato vivo» ribatté il Videssiano, con una smorfia, e sputò per terra, «il che costituisce il genere migliore di tutti.» E incontrò lo sguardo dell'Haloga con deliberata insolenza. Il colorito di Zeprin, solitamente roseo, si scurì fino a raggiungere una tonalità rosso sangue, poi l'Haloga ruggì nella sua lingua qualcosa che suonò come lo stridio di un ferro rovente immerso nell'acqua e, prima che
Marcus o il Videssiano avessero il tempo di muoversi, sollevò di scatto l'ascia e la calò sull'elmo dell'uomo, spaccando il cranio in due fin quasi all'altezza dei denti. Il Videssiano si accasciò, sussultando, e morì prima ancora di aver incassato completamente il colpo. «Sporco vigliacco» ringhiò l'Haloga, liberando l'ascia e pulendone la lama su un cespuglio. «Un soldato che non è pronto a restare a combattere accanto ai suoi signori non merita di meglio.» «Avremmo potuto apprendere qualcosa di più da lui» obiettò Marcus, ma non aggiunse altro. La legge delle legioni asseriva che se i legionari rompevano le file e fuggivano davanti al nemico, era possibile ordinare la decimazione, cioè selezionare a caso uno su dieci di loro perché fosse giustiziato come punizione per quell'atto di codardia; prima di arruolarsi il tribuno aveva ritenuto quella pena orribile nella sua barbarie, mentre adesso si sorprese a pensare ad essa senza più traccia di disgusto, e quel cambiamento lo riempì di vergogna. La guerra guastava e sporcava tutto ciò che toccava. L'Arandos era un grosso fiume fangoso, largo parecchie centinaia di metri. Il suo corso era attraversato da parecchi ponti, ma le torri di guardia erano tutte sotto il controllo degli uomini di Drax, ed anche se forse sarebbe stato possibile forzarle, questo avrebbe richiesto tempo... e i legionari non ne avevano. Se non avesse avuto tante bande di fuggitivi a cui dare la caccia, infatti, Drax li avrebbe già raggiunti, invece di concedere loro quei tre giorni di grazia. Il Namdaleno era attualmente come un cane circondato da tanti ossi da non sapere quale rosicchiare per primo, mentre Scaurus, dal canto suo, si sentiva come una lepre su cui stessero per chiudersi le reti dei cacciatori. Sperando contro ogni speranza, mandò i Videssiani a interrogare i contadini per sapere se conoscessero un guado, pensando che quegli uomini si sarebbero sentiti più propensi a parlare con i loro connazionali che con stranieri quali erano i Romani, e scoppiò quasi in un grido di gioia quando Apokavkos tornò portando con sé un vecchio dagli orecchi di proporzioni notevoli, che venne dritto al punto. «Quanto vale per te l'informazione?» chiese. «Dieci pezzi d'oro» rispose il tribuno, pensando che quello era un altro profittatore. «Da pagarsi sull'altra sponda del fiume.» «E una croce su cui piantarti se stai mentendo» aggiunse Gaius Philippus. Il contadino si grattò la testa con perplessità alle sue parole, perché i
Videssiani non praticavano la crocefissione, ma non mancò di notare la sfumatura di minaccia nella voce del centurione anziano. Nonostante questo, annuì e condusse i legionari ad est lungo l'Arandos, finché non furono ben lontani da qualsiasi ponte; a quel punto il Videssiano rallentò il passo e cominciò a scrutare la riva opposta del fiume, alla ricerca di un punto di riferimento che evitò però di specificare. «Siamo arrivati» grugnì infine, indicando. «Inchiodiamo questo bastardo mentitore» propose Gaius Philippus, ma in latino. Non avendo capito le sue parole, il contadino procedette in tutta tranquillità a sfilarsi la tunica che gli arrivava al ginocchio e che costituiva il suo unico indumento. Nudo, entrò quindi nel fiume. Quasi subito, si trovò immerso fino agli orecchi spropositati, e Marcus cominciò seriamente a pensare al tipo di punizione da infliggergli. Apparentemente imperturbato, però, il contadino si girò e gli rivolse un sogghigno. «La piena primaverile non si è ancora abbassata quanto avrei preferito, ma potete venire. Il letto non diventa più profondo di così.» Tenendo la spada in alto sulla testa, il tribuno lo seguì, e presto la sua maggiore altezza gli tornò vantaggiosa, perché l'acqua gli arrivò fino al mento, ma non oltre. Alla spicciolata, i legionari gli andarono dietro. «Venite avanti pochi per volta» ammonì la loro guida, «perché il sentiero non è certo largo.» E riprese ad avanzare, spostandosi di qualche passo ora a sinistra, ora a destra, ora soffermandosi a tastare il terreno con i piedi. «Gli dèi ci aiutino se quei dannati isolani dovessero piombarci addosso in questo momento» commentò Gaius Philippus, guardandosi nervosamente alle spalle, poi passò su un punto più profondo e svanì sott'acqua per riemergere un momento più tardi sbuffando e sputando. «Sterco» ringhiò. Marcus fu lieto che l'addestramento dei Romani includesse il nuoto come parte essenziale, perché anche quando capitò loro di incespicare, allontanandosi dallo stretto guado, questo li mise in condizione di salvarsi, grazie anche al fatto che, per fortuna, l'Arandos non aveva una forte corrente. L'attraversamento costò la vita ad un solo uomo, un Vaspurakano che affondò e affogò prima di poter essere soccorso, perché purtroppo quei montanari non sapevano nuotare, in quanto i loro ruscelli erano quasi secchi d'estate, torrenziali in primavera e in autunno e ghiacciati durante l'inverno. Quando il tribuno arrivò sulla riva opposta del fiume, il contadino lo accolse con una mano protesa, a palmo in su, e Scaurus si frugò nella borsa,
osservando l'uomo con aria riflessiva. «Come faccio a sapere che non venderai il segreto di questo guado anche al primo drappello di Namdaleni che si troverà a passare di qui?» chiese. Se si era aspettato di veder sussultare l'altro con aria colpevole, tuttavia, Scaurus rimase deluso. «Lo farei» rispose l'uomo, con venale candore, «se non fosse per il fatto che non mi pagherebbero. E perché dovrebbero, dal momento che occupano tutti i ponti?» Il suo rincrescimento era assolutamente autentico. «Ma sentitelo!» esclamò Senpat Sviodo, intento a controllare che la sua pandora non avesse riportato danni durante il guado. «C'è forse da meravigliarsi che questi Videssiani siano sempre in lotta fra loro?» «Probabilmente no» rispose Marcus, pagando la guida, che esaminò con cura ogni moneta, mordendola un paio di volte per controllare che fosse di autentico, morbido oro. «Non c'è male» sentenziò infine il contadino. «Mi sarei potuto rompere un dente su quella moneta di Ortaias che mi hai dato, ma è soltanto una.» In mancanza di un altro modo per trasportarle, si infilò quindi le monete in bocca, e la guancia sinistra gli si afflosciò sotto il peso. «Ti sono molto obbligato» aggiunse, biascicando. «Anch'io» replicò Scaurus. Nel frattempo, i bambini stavano ridendo, spruzzandosi a vicenda, mentre le madri e i legionari li trasportavano dall'altra parte del fiume. Anche alcune donne dovettero essere portate a braccia... quelle di statura troppo bassa ed alcune che avevano difficoltà a muoversi a causa della gravidanza avanzata. Helvis, alta e forte, effettuò il guado con i suoi mezzi, portando personalmente Dosti, mentre un soldato si occupò di Malric. La blusa di lino e la lunga gonna di lana pesante aderivano al suo corpo in maniera splendida, quando lei uscì dall'acqua, e fu con rincrescimento che il tribuno distolse lo sguardo dalla sua figura per osservare un punto più a valle lungo la riva del fiume, dove Gagik Bagratouni e i suoi uomini sedevano con aria cupa, piangendo il compagno affogato. Quella vista lo indusse a rivolgere un'altra domanda al contadino. «Perché non conficchi alcuni pali nel fondale, in modo da rendere più sicuro il guado?» «Per far sapere a tutti dove si trova?» Il contadino scosse il capo con stupore. «No, grazie.» «Ma per che cosa lo usi, visto come mantieni il segreto?» insistette Mar-
cus, ma quando si accorse che il Videssiano stava sollevando la mano, si affrettò ad aggiungere: «Lascia perdere, non mi interessa al punto di essere disposto a pagare per saperlo.» «Lo supponevo.» Il contadino attese che anche gli ultimi legionari avessero oltrepassato il guado, poi rientrò nell'Arandos; quando arrivò sulla riva opposta, scoprì che qualcuno si era impadronito della sua tunica. Marcus, che stava scrutando la riva opposta, si aspettò uno scoppio di rabbia, ma non ci furono reazioni di sorta: nudo com'era, il Videssiano scomparve fra i cespugli che crescevano folti vicino al fiume. «Perché dovrebbe prendersela?» osservò Senpat Sviodo, gonfiando le guance in modo comico. «Anche senza quello straccio, dopo che si sarà comprato da vestirsi sarà sempre più ricco di prima di nove monete d'oro e qualche spicciolo.» Sull'altro lato dell'Arandos c'erano alcuni Namdaleni. I legionari si trovavano a due giorni di marcia dal fiume, verso sud, quando s'imbatterono in un paio di isolani, che sedevano in sella alle loro cavalcature con l'arroganza di chi si senta padrone di tutto fin dove arriva il suo sguardo. L'arroganza svanì però come fumo al vento quando i due emersero da una macchia di querce e avvistarono la colonna di Scaurus. Il tribuno li vide scambiarsi un'occhiata piena di orrore, poi i due partirono a un galoppo sfrenato attraverso un campo di grano, spronando i massicci cavalli da guerra per raggiungere il fiume. Per un momento, Marcus rimase immobile, dondolandosi sui talloni, stupito quanto gli uomini del Ducato per quell'incontro. Poi ricordò che anche lui aveva qualche cavaliere fra i suoi legionari, una ventina degli uomini di Zigabenos. «Inseguiteli!» gridò. In un primo tempo, i Videssiani si mossero con esitazione, come se non avessero neppure pensato di poter combattere, ma i fanti li incoraggiarono con grida entusiaste, e questo li rincuorò, come anche la vista dei due Namdaleni che fuggivano a rotta di collo. Il vantaggio degli isolani si era ormai ridotto a poche centinaia di metri quando tanto essi quanto gli inseguitori scomparvero oltre una bassa altura. Gli imperiali furono presto di ritorno, ora con aria orgogliosa, portandosi dietro un cavallo, un paio di cotte di maglia e due elmi conici con barra per proteggere il naso.
«Dov'è l'altro animale?» chiese qualcuno. «Abbiamo dovuto abbatterlo» rispose uno dei cavalieri. «Idioti! Pasticcioni! Siete un branco di dannati incompetenti!» I Videssiani accettarono quei rimbrotti di buona grazia, interpretandoli come le lodi che in effetti erano. «Tanto meglio così» commentò Gaius Philippus. «Ora si sentono di nuovo uomini, e almeno ci serviranno a qualcosa.» «Hai ragione» convenne Marcus. «Ma quanti soldati ha Drax? Speravo che si accontentasse soltanto di tenere la linea dell'Arandos contro le eventuali forze che i proprietari terrieri videssiani che si trovano a sud del fiume avessero mandato loro contro, ma sembra che abbia invece intenzione di attaccarli. Qualsiasi altra cosa si possa dire di lui, certo non pensa in piccolo, vero?» «Hmmm» borbottò il centurione anziano, riflettendo su quel commento. «Se sparpaglierà troppo le sue forze, ci penseranno gli Yezda ad occuparsi di lui, indipendentemente da quello che faremo o non faremo noi.» «Proprio così» assentì ancora Marcus, inquieto. Da oltre un anno e mezzo non aveva più visto neppure uno dei nomadi invasori, e nel groviglio delle guerre civili che dilaniavano l'impero era stato facile dimenticarsi di loro. Tuttavia, senza gli Yezda, quelle guerre non si sarebbero scatenate, e adesso i nomadi stavano vagando nelle terre alte come un lontano ma minaccioso temporale. «Non sono abbastanza lontani» sentenziò Gaius Philippus, quando Scaurus gli espose quel concetto. La macchia di querce, più ampia di quanto il tribuno avesse supposto, si estendeva per chilometri, e Scaurus si chiese se facesse parte della tenuta di qualche nobile, mentre osservava le ghiande mature per metà, di un verde sporco e sormontate dal cappuccio marrone, che si annidavano fra le foglie appuntite; da qualche parte, fra gli alberi, sentì il grugnito di un cinghiale, ma del resto tutti i maiali adoravano le ghiande. I legionari avanzarono sul tappeto fra il grigio e il marrone formato dai resti delle foglie cadute l'autunno precedente, e il battito attutito dei loro piedi assunse una tonalità rilassante, come quella della risacca su una spiaggia. Un rumore di passi che era in disaccordo con quell'armonia mise nuovamente Scaurus sul chi vive, poi un uomo aggirò un angolo del sentiero che attraversava la foresta: il petto gli ansava per lo sforzo della corsa e la sua tunica era chiazzata di polvere impastata con il sangue scaturito da un
grande taglio che aveva alla fronte. Il terrore che improntava il volto dello sconosciuto si trasformò in gioia incredula quando questi riconobbe i cavalieri videssiani che accompagnavano i legionari. «Phos sia lodato!» annaspò, arrotolando le parole le une sulle altre per la premura. «Al salvataggio! Presto, mio signore, i demoni stranieri... assassinio!» «Namdaleni?» chiese Marcus... ma non finivano mai? «Quanti sono?» domandò poi, non appena l'uomo ebbe annuito. «Almeno cento» rispose il fuggiasco, allargando le mani, e prese a saltare su e giù, ignorando la propria ferita. «Phos abbia pietà, fate presto!» «Due manipoli» decise il tribuno, e Gaius Philippus annuì, cupo: gli uomini del Ducato non erano avversari facili. «Blaesus» proseguì il tribuno, senza neppure riprendere fiato, «i tuoi uomini, ed anche i tuoi, Gagik!» Sebbene l'ordine fosse stato impartito in latino, Bagratouni ne comprese il senso, e gridò qualcosa nella propria lingua gutturale. I Vaspurakani lanciarono un urlo di risposta, battendo le lance sugli scudi. Il contingente del nakharar contava più uomini di un manipolo normale, e questo avrebbe fatto sì che i Namdaleni si trovassero ad essere inferiori di numero nella misura di tre contro uno. Gaius Philippus scrollò intanto il Videssiano ferito, che cominciava a barcollare ora che aveva smesso di fuggire per salvarsi la vita. «Da quale parte, uomo?» chiese. «A sinistra al primo bivio, poi a destra a quello successivo» rispose il Videssiano. Si asciugò la fronte con la manica, fissò incredulo la chiazza di sangue rosso vivo e subito dopo si piegò in due, sentendosi male nel bel mezzo della strada. Gaius Philippus emise un grugnito di disgusto che però non gli impedì di ripetere le istruzioni con voce stentorea, perché tutti i soldati le sentissero. «Di corsa!» ordinò Marcus, snudando la spada, ed aggiunse: «Il grido di guerra è "Gavras"!» I legionari spiccarono la corsa dietro di lui. Il primo bivio era ad appena un paio di centinaia di metri, ma il secondo si rivelò molto più distante. Sentendo il sudore che gli colava sotto la cotta, Scaurus si chiese se per caso la deviazione gli fosse sfuggita, ma la pista di sangue lasciata dai Videssiano indicava che non era così. Il sangue che sporcava la strada era ancora fresco, il che mostrava che l'uomo doveva aver corso come se avesse avuto le Furie alle calcagna. I Romani non tennero un passo altrettanto sfrenato, ma anche così la lo-
ro andatura fu abbastanza rapida da indurre i Vaspurakani, per lo più uomini massicci con le gambe piuttosto corte, a lottare per mantenerla. «Poco più avanti, oltre quel tronco marcio» avverti Gaius Philippus, indicando, e in effetti quello era il punto in cui il sentiero si divideva. La voce del centurione anziano era priva di affanno, perché il veterano avrebbe potuto correre molto più a lungo senza che il fiato gli venisse meno. Quando si avvicinarono al bivio, Marcus sentì più avanti delle grida ed un cozzare di acciaio. «Gavras!» urlò, e i legionari raccolsero il suo grido. Nel punto in cui si combatteva ci fu uno stupito momento di tregua, poi il grido dei Romani fu ripetuto con accento videssiano e giunse accompagnato dalle esclamazioni di rabbia e di sgomento dei Namdaleni. I legionari si scagliarono alla carica lungo il ramo di destra del sentiero, che sbucava in una radura fra le querce. Là una decina di Videssiani, quattro a cavallo, gli altri a piedi, erano stati sospinti in un compatto, disperato cerchio dall'incessante incalzare dei cavalieri namdaleni. Alcuni uomini erano già caduti da entrambe le parti, e gli isolani davano l'impressione di essere sul punto di raccogliersi per un'ultima carica destinata a spazzare via i nemici. Mentre il suo manipolo assumeva lo schieramento da battaglia, con i pila pronti ad essere scagliati, Junius Blaesus, solitamente impassibile, non riuscì a frenare una risata. «Un centinaio?» fece, rivolto a Scaurus. «Mi sembra, signore, che abbiamo portato qui una montagna per abbattere una mosca.» In effetti, il tribuno sarebbe rimasto sorpreso se i soldati presenti nella radura fossero risultati essere più di una trentina. I Namdaleni sgranarono gli occhi nel vedere un numero sempre maggiore di legionari riversarsi fuori della foresta, e alla fine un uomo che Marcus suppose essere il loro comandante, a causa della sella e del cavallo di ottima qualità e delle decorazioni in oro sull'elmo, gettò indietro il capo e scoppiò in una risata ancora più sonora di quella di Blaesus. «Giù le lance, ragazzi» ordinò ai suoi cavalieri. «Ci hanno presi, non ci sono dubbi.» I Namdaleni obbedirono all'ordine... anche se quelli più vicini alle vittime designate mostrarono una certa cautela. I Videssiani, però, sorpresi quanto i loro aggressori per il sopraggiungere di quei soccorsi inattesi, si accontentarono di appoggiarsi alle armi e di esalare profondi respiri, mostrando di non essere in condizione di attaccare.
Il capitano degli isolani diresse lentamente il cavallo verso Scaurus, senza badare al gesto minaccioso con cui i Romani che circondavano il tribuno avevano sollevato i loro giavellotti, e protese lo scudo verso di lui. «Concedimi un colpo per salvare il mio onore» disse, e Marcus toccò la superficie di metallo con la propria spada. «Ben fatto! Mi arrendo!» dichiarò allora il Namdaleno, e si tolse l'elmo per confermare le proprie parole, imitato dai suoi uomini. Il comandante degli isolani aveva un volto sorridente e lentigginoso, circondato da una folta capigliatura castano chiaro che, secondo l'usanza del suo popolo, era stata rasata sulla nuca; come anche i Namdaleni catturati nella fortezza a nord del Sangarios l'uomo non parve turbato di doversi arrendere, perché queste cose facevano parte della vita di un soldato di professione, e i suoi cavalieri sembrarono condividere quell'atteggiamento. «Vi avremmo presi» disse uno di loro, senza rancore, ai Videssiani contro cui aveva appena combattuto, «se non fossero spuntati questi figli di buona donna dei Romani.» Avendo servito fianco a fianco con i legionari, alla capitale, i Namdaleni erano più informati sul loro conto di quanto lo fossero i Videssiani da essi salvati. Scaurus incaricò i suoi uomini di disarmare i prigionieri, poi andò a salutare il capo dei Videssiani, facile a identificarsi a causa del cavallo di razza che montava e dell'aria di autorità che lo avvolgeva come un mantello di buona fattura. L'uomo doveva essere vicino alla sessantina, ma era ancora vigoroso; i suoi capelli e la barba curata erano di un colore grigio ferro, il corpo era robusto, le spalle diritte sotto il peso dell'armatura. Un bagliore ironico gli brillò nello sguardo mentre ricambiava il saluto di Scaurus. «Mi rendi troppo onore» dichiarò. «Il debole si dovrebbe inchinare al forte, e non viceversa. Sittas Zonaras, al tuo servizio.» Il Videssiano si inchinò sulla sella. «Il mio rango è quello di spatharios, per quello che questo ti può dire.» Mentre gli forniva il proprio nome, il tribuno decise di apprezzare questo Zonaras: nel campo nebuloso dei titoli onorifici imperiali, quello di spatharios era il più vago di tutti, ma i Videssiani capaci di farsi beffe delle proprie pretese erano assai pochi. «Ho sentito parlare di te, giovanotto» commentò Zonaras, apostrofando Marcus in quel modo con l'apparente intenzione di vedere se l'altro avrebbe mostrato di risentirsi. Non avendo ottenuto reazione, provò con un at-
tacco un po' più energico. «Baanes Onomagoulos aveva parecchie cose da dire sul tuo conto, nessuna che mi andrebbe di ripeterti faccia a faccia.» Uno dei suoi accompagnatori scoccò al nobile un'occhiata allarmata. «Davvero?» domandò Marcus, guardingo dietro la propria maschera di noncuranza. Non era sorprendente che Zonaras avesse conosciuto il defunto ribelle, dal momento che quella era proprio la regione di cui Onomagoulos era stato originario, mentre lo era il fatto che il nobile fosse disposto ad ammettere di averlo conosciuto... un gesto di straordinaria fiducia, se compiuto parlando con un uomo che aveva servito il nemico di Onomagoulos. «Capitava di rado che Onomagoulos parlasse bene di qualcuno» commentò infine, e Zonaras annuì, ora altrettanto impassibile quanto il tribuno, quasi si stesse chiedendo se aveva appena commesso un errore. Il suo sguardo si rasserenò quando Marcus aggiunse: «Credo che essere rimasto zoppo lo amareggiasse parecchio, perché il suo carattere non era tanto aspro, prima di Maragha.» «Infatti» convenne il Videssiano poi, quasi sollevato di abbandonare un terreno pericoloso, lanciò un'occhiata in direzione degli uomini del Ducato. «Che ne farai di loro? Pensano di possedere questa regione per il semplice fatto che lo afferma quel bandito del loro capo.» Dopo la battaglia del Sangarios, pensò cupo Marcus, i Namdaleni avevano ben più validi motivi per pensarla così. «Forse Drax sarà disposto a scambiarli con Mertikes Zigabenos» dichiarò, dopo qualche istante di riflessione. La marcia dei legionari doveva essere stata più rapida del propagarsi della notizia, perché Zonaras sbatté le palpebre per lo stupore e i suoi uomini lanciarono esclamazioni allarmate. «Drax ha catturato il comandante delle guardia?» chiese poi il nobile. «Questa è una notizia grave. Dimmi come è successo.» Scaurus gli spiegò ogni cosa e Zonaras ascoltò impassibile finché il tribuno giunse ad accennare alla diserzione dei Namdaleni che avevano fatto parte delle truppe imperiali. A quel punto, il nobile imprecò con rabbia. «Possa Skotos congelare tutti quei traditori» ringhiò, e da quel momento Marcus ebbe la certezza che Zonaras non aveva preso parte alla rivolta ordita da Onomagoulos. Quando il tribuno ebbe finito il suo racconto, Zonaras rimase a lungo in silenzio, prima di chiedere:__Adesso cosa farai? «Quello che potrò» rispose il tribuno. «Non so quanto questo possa essere.» Pensava che Zonaras accogliesse con disprezzo quelle parole, ma il no-
bile videssiano si limitò ad annuire sobriamente. «Tu porti sulle spalle la testa di un vecchio, se non te la senti di promettere il sole di Phos quando ancora non lo hai nella tua cintura» commentò, grattandosi un ginocchio senza distogliere lo sguardo da Scaurus. «Sai, straniero, mi fai vergognare di me stesso» proseguì poi, lentamente, «perché non è giusto che truppe a pagamento siano disposte a salvare Videssos più di quanto lo sia la sua stessa gente.» Marcus pensava la stessa cosa fin dalle prime settimane che aveva trascorso nell'impero, ma pochi Videssiani erano d'accordo con lui. Da tempo abituati al loro potere, essi lo davano per scontato... o almeno lo avevano fatto, fino a Maragha, mentre il Romano, la cui patria era diventata potente soltanto nel corso dell'ultimo secolo e mezzo precedente alla sua nascita, non si sentiva così propenso alla compiacenza. Zonaras interruppe i suoi pensieri protendendosi sulla sella per stringergli la mano. «Io e i miei uomini ti aiuteremo come potremo» promise, accompagnando alle parole una stretta che smentiva i suoi anni. Scaurus la ricambiò, pur chiedendosi quale aiuto avrebbe potuto mai ricevere da un nobilotto di provincia. Il successivo giorno di marcia fu una rivelazione per il tribuno, soprattutto perché si snodò tutto attraverso le terre di Sittas Zonaras. Verso sera, i legionari si accamparono accanto ad un'ampia villa annidata in una stretta vallata, mentre il sole al tramonto brillava purpureo sulle lontane alture, a sud e ad est. «Siamo riusciti a prosperare» affermò Zonaras con una buona dose di orgoglio. «È sicuro come il fatto che un elefante è grasso» convenne Gaius Philippus. A livello intellettuale, Marcus aveva sempre saputo dell'esistenza delle ampie tenute e dei villaggi di contadini controllati dai nobili di Videssos, ma soltanto adesso cominciava ad acquisire un'esperienza diretta di cosa significasse in effetti quel controllo. Tutt'intorno alla capitale, la movimentata vita cittadina aveva sostituito le tenute nobiliari, e nel pianoro centrale delle terre occidentali il terreno era troppo povero per permettere una concentrazione di ricchezza come quella posseduta da Zonaras. I suoi terreni includevano ottimi vigneti e giardini, un filare di salici lungo il ruscello che scorreva accanto alla sua casa, prati su cui pascolava-
no cavalli e asini, bestiame, pecore e capre, foreste che fornivano legname e foraggio per gli animali, vigneti di uva fragola che si inerpicavano lungo i tronchi degli alberi, sulle colline, e i boschi di querce in cui il nobile aveva incontrato prima i Namdaleni e poi lo stesso Scaurus, che producevano ghiande con cui nutrire non soltanto i cinghiali selvatici di cui Zonaras andava a caccia, ma anche il suo branco di maiali. Durante la marcia, il tribuno aveva visto almeno cinque presse per l'olio d'oliva, e nei campi c'erano mandriani che custodivano le greggi. Il capo di quei mandriani, un solido individuo di mezz'età che non aveva nulla di servile nei modi, si era avvicinato con fare guardingo per salutare Zonaras, dopo che il nobile gli aveva garantito da lontano che la lunga colonna di legionari che si snodava alle sue spalle non costituiva un pericolo. «Ne sono lieto, signore» aveva risposto l'uomo, «altrimenti avrei sollevato la zona contro di loro.» Ed aveva strappato un pezzo di pergamena su cui c'era scritto qualcosa, probabilmente il numero degli intrusi e la direzione in cui procedevano, aveva pensato Marcus, per nulla sorpreso che il capo mandriano sapesse leggere e scrivere, perché anche a Roma un uomo incaricato di un lavoro che comportava una così grande responsabilità avrebbe dovuto possedere un minimo di istruzione. I legionari che avevano avuto modo di sentire quello che il pastore aveva detto al suo signore ridacchiarono, ma Scaurus sospettò che la cosa non dovesse essere presa troppo alla leggera. Neppure Gaius Philippus stava ridendo perché, contrariamente alla maggior parte dei Romani, aveva esperienza in fatto di guerriglia. «La gente di tutti quei villaggi che abbiamo oltrepassato sembrava molto attaccata a Zonaras» commentò il veterano, rivolto al tribuno, esprimendosi in latino in modo che il Videssiano non capisse che il proprio nome, «e non sarebbe divertente se ci tendesse delle imboscate per poi scomparire fra i boschi o sulle colline prima che potessimo inseguirla.» Marcus comprese la logica del centurione, e comprese anche come mai i burocrati della città di Videssos temessero e odiassero tanto i nobili delle province, dal momento che sarebbe stato letteralmente necessario un esercito per indurre Zonaras a fare qualsiasi cosa che non gli fosse andata a genio... e c'erano decine di nobili come lui. In effetti, forse neppure un esercito sarebbe stato sufficiente per ridurre il nobile all'obbedienza, dal momento che poteva contare anche su un'altra difesa, oltre ai contadini armati, come i legionari scoprirono quando rag-
giunsero la sua casa, dove il nobile teneva una banda di una cinquantina di servitori armati. Non si trattava di veri e propri professionisti, dal momento che erano uomini che si guadagnavano di che vivere principalmente con l'agricoltura, ma ciò che mancava loro dal punto di vista della disciplina era compensato dall'assoluta familiarità con la zona e dalla stessa totale devozione nei confronti del loro signore già dimostrata dal capo dei mandriani. Scaurus sapeva che un tempo la lealtà dei contadini-soldati era stata diretta innanzitutto all'impero, ma anni di aspre tasse li avevano indotti a cercare la protezione dei nobili contro il governo centrale e la sua avidità, ed i signori locali, ambiziosi e potenti, erano stati lieti di servirsi di loro per scrollarsi di dosso una volta per tutte il giogo dei burocrati. Per sopravvivere, gli appositori di sigilli della capitale avevano assoldato mercenari che controllassero i nobili... e così, pensò Marcus, mentre i legionari piantavano i pali sul terrapieno del loro campo, avevano avuto inizio le incessanti guerre civili, con la ribellione di Onomagoulos prima e di Drax poi. Il tribuno sbuffò al pensiero che senza le lotte civili di Videssos adesso gli Yezda sarebbero stati oltre i confini del Vaspurakan, invece di affacciarsi come avvoltoi su Garsavra. «E allora?» rispose Helvis, quando le parlò della cosa. «Se i Videssiani non usassero mercenari, noi due non ci saremmo mai incontrati. O forse, di questi tempi, preferiresti che fosse così?» Nella sua voce si avvertivano al tempo stesso sfida e tristezza, e la domanda non era retorica. «No, tesoro» rispose Marcus, sfiorandole la mano. «Gli dèi sanno che noi non siamo perfetti, perché lo sono soltanto loro. O Phos, se preferisci» si affrettò a correggersi, vedendo che le labbra di lei si serravano, e imprecò contro la goffaggine della propria lingua, perché in effetti non credeva negli dèi romani, e si era espresso in quel modo soltanto per abitudine. Anche Gaius Philippus aveva sentito il commento del tribuno. «Hmp» fece il veterano. «Se non assoldassero mercenari, probabilmente i Videssiani ci avrebbero uccisi tutti non appena siamo arrivati in questo pazzo mondo.» «È vero» ammise Scaurus, mentre Gaius Philippus annuiva e si allontanava in fretta per andare a imprecare contro un Vaspurakano che era stato tanto stupido da pensare di urinare a monte del campo. L'infelice soldato si trovò ben presto con la punizione di una settimana di servizio alle latrine. Marcus, intanto, era rimasto pensoso. Capitava di rado che Gaius Philippus intervenisse quando lui ed Helvis stavano parlando. Il centurione an-
ziano stava forse cercando, nel suo modo un po' rude, di mantenere la calma fra loro? Considerata la sua misoginia, questa era un'idea assurda, ma il tribuno non riuscì a trovare un'altra spiegazione, e finì per mormorare una frase in greco arcaico, scandendone la metrica. Helvis lo guardò in modo strano. «Qualsiasi cosa tu dica, amico mio, è sempre in argomento» tradusse, a beneficio della donna. E in qualche modo, tutto in Omero lo era. La moglie di Zonaras era una donna competente, con i capelli grigi, di nome Thekla. La sorella del nobile, una vedova chiamata Erythro, viveva con i due; di parecchi anni più giovane del fratello, Erythro era volubile e ciarliera, ed era abilissima nell'infrangere la calma esteriore che Zonaras amava presentare al mondo. Erythro non aveva figli, mentre suo fratello e Thekla ne avevano avuti quattro, una femmina e tre maschi. La ragazza, Ypatia, che a Marcus ricordava un poco Alypia, a causa del suo carattere quieto e intelligente, era fidanzata con uno dei nobili che vivevano fra le colline, a sud. Quell'uomo avrebbe un giorno ereditato le terre di Zonaras, perché l'unico figlio ancora vivo del nobile, Tarasios, era malato di tisi. Il giovane sopportava con coraggio la malattia, ridendo delle crisi di tosse che devastavano il suo corpo magro, ma l'ombra della morte era già su di lui. I suoi fratelli erano caduti a Maragha, insieme a molti altri uomini della tenuta, combattendo agli ordini di Baanes Onomagoulos. Nonostante questo, però, Zonaras si era rifiutato di sostenere Onomagoulos contro Thorisin Gavras. «Come afferma Kalokyres» dichiarò, «quando è in corso una guerra civile l'uomo prudente si tiene fuori della mischia.» Nel sentire quelle parole, Scaurus soffocò a stento un sorriso, perché l'ultima persona a cui aveva sentito citare lo scrittore di tattica militare era stato Ortaias Sphrantzes, che certo era il peggior soldato che fosse mai esistito. I ritratti dei figli morti del nobile videssiano, incorniciati in nero, erano appesi nella sala da pranzo. «Quei ritratti sono mal riusciti» disse Erythro a Marcus, nel tono confidenziale che le piaceva affettare. «Voglio che tu sappia che i miei nipoti erano due bei ragazzi.» «Non hai gusto che per i cibi, cara sorella» ribatté Sittas Zonaras. Lui ed Erythro litigavano di continuo, con estremo divertimento di entrambi. Se la
donna lodava le qualità del vino, Zonaras beveva soltanto birra per un paio di settimane, all'unico scopo di irritarla, ed Erythro continuava ad incitarlo ad affogare tutti i gatti che circolavano per la tenuta... ma si divertiva ad accarezzarli quando il fratello non la vedeva. In questo caso, comunque, Scaurus trovò che Erythro aveva ragione. Secondo gli standard della capitale, infatti, quei ritratti erano il prodotto di un pittore da poco, certamente qualcuno del luogo. In ogni caso, vederli gli diede un'idea che, un paio di giorni dopo che i legionari si erano accampati vicino alla villa di Zonaras, lo spinse ad andare in cerca di Styppes. «Devo chiederti un favore» esordì. «Chiedilo» grugnì il prete, scortese come al solito. Se non altro, pensò Marcus, almeno era sobrio. «Vorrei che tu dipingessi un'icona per me.» «Per te?» Gli occhi di Styppes si socchiusero in mezzo alle pieghe di grasso della faccia. «E perché un infedele dovrebbe volere un'immagine sacra?» aggiunse, in tono sospettoso. «Come regalo per la mia donna, Helvis.» «Che è un'eretica» sottolineò il prete-guaritore, in tono acido. Scaurus, però, aveva già preparato le argomentazioni da usare per convincerlo, ed anche se gli ci volle un po' di tempo, alla fine Styppes ammise che un giusto esercizio di devozione avrebbe potuto condurre perfino un'eretica verso la vera fede... la sua. «Quale santo vuoi che dipinga?» «Non conosco il suo nome» rispose il tribuno, ricordando il tempio di Videssos in cui Helvis si era recata quando erano scoppiati in città i disordini contro i Namdaleni, e Styppes arricciò le labbra. «Però viveva a Namdalen prima che essa cessasse di fare parte dell'impero... si chiamava Kalavria allora, vero? Nella capitale c'è un tempio dedicato a lui, non lontano dal porto di Kontoskalion.» «Ah!» esclamò il prete-guaritore, sorpreso che Scaurus avesse già in mente un soggetto. «So a chi ti riferisci: il santo Nestorios. È raffigurato come un uomo anziano e calvo, con la barba divisa in due punte. E così gli eretici del Ducato lo adorano ancora, eh? Molto bene, avrai la tua icona.» «Ti ringrazio.» Marcus fece una pausa, poi si sentì obbligato ad aggiungere. «Favore per favore, quando ne avrò il tempo poserò per quel tuo ritratto del santo... come hai detto che si chiamava... Kveldulf.» «Sì, sì, gentile da parte tua, davvero» rispose Styppes, in tono distratto. Il tribuno suppose che stesse già pensando a come realizzare l'icona, ma mentre si girava per andarsene, sentì il prete borbottare: «Per Phos, se ho
sete!» Non per la prima volta, Marcus si trovò a desiderare che l'allegro e capace Nepos preferisse la vita militare alla sua cattedra di taumaturgia teorica presso l'Accademia Videssiana. Nel corso dei giorni che seguirono, Scaurus fu troppo occupato per pensare all'icona o a Styppes. La villa di Zonaras e il suo piccolo esercito privato, infatti, erano sufficienti a tenere testa ad un nobile rivale, ma il tribuno non si illudeva che potessero resistere ai veterani di Drax. I legionari si misero a scavare come talpe, rinforzando la loro posizione come meglio potevano, ma con il procedere dei lavori le preoccupazioni di Marcus andarono soltanto accentuandosi, perché sapeva che anche il meglio non era sufficiente: il vero problema era che non aveva abbastanza uomini. Si servì quindi dei dipendenti di Zonaras e dei cavalieri videssiani che si erano aggregati alla legione per spiare le mosse dei Namdaleni. Ogni giorno, i rapporti parlavano di un numero sempre maggiore di isolani sulla sponda meridionale dell'Arandos, ma non si trattava delle colonne massicce di cui il tribuno aveva temuto l'arrivo: gli uomini del Ducato cominciarono infatti a costruire una delle loro solite fortezze formate da palizzata e torre, ad un paio di ore di cavallo a nord del bosco di querce di Zonaras. «Drax è occupato altrove e non vuole interferenze da parte nostra» dichiarò Gaius Philippus, e Marcus allargò le mani in un gesto sconcertato, sottolineando che non tutte le mosse del Namdaleno avevano senso ai suoi occhi. «No, è vero, ma tutto quello che fa funziona» ribatté il centurione anziano che, da buon Romano, valutava più i risultati dei metodi utilizzati per conseguirli. Il tribuno liberò allora al limitare dei boschi uno dei Namdaleni che aveva catturato, mandandolo da Drax in veste di messaggero per offrire uno scambio fra il gruppo a cui l'uomo apparteneva e Mertikes Zigabenos. «Non ci saranno problemi» dichiarò con sicurezza il lentigginoso capitano del drappello namdaleno, che si faceva chiamare Persic Amo da Pesca a causa di una cicatrice ricurva che aveva sul braccio. «Ritengo che saremo liberi nel giro di una settimana, perché trenta di noi valgono molto più di un generale videssiano.» E mentre attendevano che lo scambio venisse concluso, gli isolani si adattarono allegramente ad aiutare i legionari nel loro lavoro, continuando ad andare d'accordo con essi anche in veste di prigionieri. Mentre rientrava nella dimora di Zonaras, poi, Marcus s'incuriosì nel trovare Styppes nell'orto della villa, carponi e intento a frugare sotto le fo-
glie di lattuga. «Cosa stai cercando?» gli chiese, domandandosi quale genere di erba medicinale potesse crescere accanto alle verdure. La risposta di Styppes lo lasciò sconcertato. «Mi servono un paio di grosse lumache. Ah, ecco qui!» Il prete infilò la preda in una sacca di tela. «Adesso ho capito!» rise il tribuno. «Lumache e lattuga costituiscono una buona cena. Ci aggiungerai anche qualche uovo sodo?» Styppes si alzò in piedi con un grugnito di esasperazione ed accennò a pulirsi la tunica azzurra dal fango, arrendendosi però quasi subito. «No, testa di legno. Mi servono per terminare l'immagine del santo Nestorios» spiegò, e si tracciò il segno di Phos sul petto. «Le lumache?» Marcus avvertì il tono incredulo della propria voce. «Allora vieni a vedere, schernitore» lo invitò Styppes, e il Romano lo seguì nella sua tenda, chiedendosi se il prete gli stesse giocando una burla. Insieme, si accoccolarono sul terreno, e Styppes accese una candela di sego che riempì subito l'ambiente di un puzzo di grasso bruciato; dopo aver frugato nel proprio bagaglio, il prete ne estrasse infine un grosso guscio d'ostrica. «Bene, bene» disse a se stesso, poi prelevò una delle lumache dalla sacca e la tenne sulla fiamma della candela finché lo sfortunato mollusco gorgogliò ed emise una densa e trasparente sostanza viscida, che Scaurus raccolse nel guscio d'ostrica. L'altra lumaca subì la medesima sorte. «Ora capisci?» commentò infine il prete-guaritore, tenendo il guscio sotto il naso di Scaurus. «No» ammise il tribuno, sentendosi più turbato dal tormento inflitto alle lumache di quanto gli fosse capitato di esserlo nel corso di una battaglia. «Bah. Ora capirai.» Styppes versò la bava di lumaca su un pezzo di marmo grande quanto una mano e vi aggiunse un po' di oro in polvere. «Dovrai ripagarmelo, e non in monete nuove» ammonì, rivolto a Scaurus, mentre procedeva a versare sul resto una fine polvere bianca. «Allume» spiegò, unendo al tutto una sostanza gommosa e appiccicosa e mescolando l'impasto così ottenuto con un pestello d'ottone. «Ora siamo pronti... ammirerai il risultato.» Tirò quindi fuori un paio di pennelli di pelo di tasso, uno tanto sottile che i peli erano inseriti in una penna d'oca, l'altro leggermente più spesso e con il manico in legno. Nel vedere l'icona per la prima volta, Marcus trattenne il fiato per la me-
raviglia. Gli abbozzi di Styppes gli avevano rivelato che il prete aveva una mano abile, ma si era trattato soltanto di schizzi, mentre adesso i colori delicati, il tratto fine, il volto ascetico e tuttavia gentile del santo Nestorios, le tonalità di azzurro della sua tunica, le lunghe mani sottili levate al cielo in un gesto benedicente ricordarono al tribuno l'impressionante mosaico di Phos che aveva visto nel Sommo Tempio della capitale... «Ora riesco quasi a credere nel tuo dio» dichiarò, e non avrebbe saputo immaginare una lode maggiore. «È questo lo scopo dell'immagine... istruire gli ignoranti e guidarli verso la virtù che raffigura» ribatté il prete. Intinse quindi il pennello più sottile nell'impasto dorato, con mano abile quanto quella di un gioielliere, e si accostò l'icona alla faccia, prendendo a scrivere con calligrafia elegante mentre la doratura, per quanto umida, scintillava alla tenue luce della candela. «Nestorios il santo» lesse Marcus, mentre Styppes passava al pennello più spesso e tracciava intorno alla testa del santo un lucente cerchio dorato. «In questo modo, raffiguriamo il disco del sole di Phos, per indicare quanto il santo fosse vicino al nostro dio» spiegò il prete, ma il tribuno aveva già afferrato il significato dell'alone. «Posso?» chiese, e quando Styppes annuì prese in mano il pannello di legno. «Fra quanto sarà pronta per essere consegnata?» domandò ancora in tono impaziente. Per una volta, il sorriso di Styppes non fu acido. «Ci vorrà un giorno perché la doratura asciughi, poi bisognerà passare due strati di vernice per proteggere i colori sottostanti.» Si grattò la testa rasata. «Diciamo quattro giorni in tutto.» «Vorrei che ci volesse di meno» commentò Marcus. Ancora non era convinto del tutto del valore di questa forma di arte videssiana fatta di simboli e di allegorie, ma era innegabile che il suo risultato, quando proveniva dalle abili mani di Styppes, fosse tale da commuovere. Il prete recuperò l'icona e la posò in un angolo perché asciugasse. «Adesso» disse, con un brusco cambiamento di modi, «dove ho buttato quelle lumache? La tua idea di mangiarle per cena non era malvagia, straniero. Per caso hai un po' di aglio per cucinarle?» Laon Pakhymer fece la sua comparsa nel campo dei legionari come il tradizionale deus ex machina di una commedia romana: nessuno lo vide finché non si presentò, rivolgendo a Scaurus quel cenno disinvolto che passava per un saluto fra il suo popolo noncurante delle formalità. Il tribu-
no volle sapere come fosse riuscito ad oltrepassare non soltanto le sentinelle poste da Zonaras ma anche quelle dei Namdaleni, e il Khatrish si accostò un dito al naso, con aria sorniona. «Ci sono modi per fare tutto» replicò, vago. «Scommetto che ti sei servito del guado di quel vecchio matto» esclamò Sextus Minucius. «Ma che ragazzo sveglio» ribatté Pakhymer, con vaga ironia. «E se anche lo avessi fatto?» «Quanto ti ha scucito?» chiese Gaius Philippus «Una dozzina di pezzi d'oro» rispose il Khatrish, scrollando le spalle con rassegnazione. «Per la barba di Giove!» esclamò il centurione anziano, mentre il vino gli andava di traverso. «Dovresti tornare indietro e ammazzare quell'imbroglione... a noi ne ha presi soltanto dieci.» «Può darsi, ma del resto voi non eravate appena arrivati da Kyzikos» replicò Pakhymer, con aria stranamente compiaciuta, come un gatto che avesse appena trovato un vaso di panna. «E che differenza può fare da dove...» cominciò Marcus, ma poi s'interruppe, con un'espressione di meraviglia dipinta sulla faccia. Kyzikos era la sede di una zecca imperiale. In quel mondo, nessuno aveva mai sentito parlare di Mida, a Kyzikos i Khatrish dovevano aver quasi reso reale il sogno di quel mitico re. Il tribuno non pensò neppure di obiettare che i Khatrish avevano così rubato l'oro dell'impero, perché aveva ormai imparato che i mercenari pensavano sempre prima a se stessi. «Drax non apprezzerà certo che tu gli abbia svuotato la cassa» commentò, invece. «Un vero peccato per lui. Comunque hai ragione. Ci ha dato parecchio filo da torcere, cercando di buttarci fuori di là, e alla fine ci è riuscito, ma ormai avevamo le tasche piene. Non ho mai visto un giorno di paga come quello.» Pakhymer aveva la faccia butterata sporca di polvere, la barba arruffata dal vento e i vestiti laceri, ma la sua espressione era di pura beatitudine. Gaius Philippus lo fissò con sincera invidia. «Non mi stupisce che i Namdaleni non ci abbiano dato fastidi, considerato che erano impegnati a Kyzikos» osservò Minucius. «È proprio come avevo supposto, signore» aggiunse Gaius Philippus, rivolto a Scaurus. «Drax sta però commettendo un errore nel dare la precedenza all'oro. Quando i suoi nemici non ci saranno più, quell'oro gli cadrà comunque in grembo, mentre se pensa soltanto ad arricchirsi e non toglie
noi di mezzo, prima o poi potremmo trovare un modo di sottrargli quello che ha preso.» «Lui non ha l'oro» sottolineò Pakhymer. «Comunque, capisco cosa intendi, ma ho progettato qualcosa che procurerà a Drax un vero crepacuore.» «Che cosa farai?» domandò Marcus, con interesse, perché nonostante i suoi modi trasandati il Khatrish era un soldato intelligente e pieno di immaginazione. «Oh, ho già provveduto a tutto.» Pakhymer sembrava compiaciuto della propria astuzia. «Ho sparso un po' dell'oro di Kyzikos là dove poteva tornare più utile... adesso è in viaggio verso il pianoro centrale. Se saranno impegnati a combattere gli Yezda, quei dannati isolani non potranno certo prendersela con noi.» «Hai pagato i nomadi perché attacchino Drax?» domandò il tribuno, sconcertato. «D'accordo, un paio di anni fa abbiamo combattuto contro di loro, e allora?» Pakhymer si mostrò aggressivo ma si tenne al tempo stesso sulla difensiva. «Lo scorso anno abbiamo combattuto anche contro gli isolani, quando erano con Ortaias, ed ora li stiamo combattendo di nuovo. Una guerra alla volta, dico io.» «C'è una differenza» insistette Marcus. «Drax è un nemico, d'accordo, ma non è malvagio, ha soltanto sete di potere. I nomadi, invece, uccidono per il gusto di farlo. Pensa a quello che abbiamo visto lungo la strada per Maragha... e dopo.» Il tribuno ricordava ancora il dono che Avshar aveva scagliato nel campo del legionari, dopo la battaglia... la testa di Mavrikios Gavras. Pakhymer arrossì, rammentando forse a sua volta quel particolare, ma fu pronto a ribattere. «Per me, qualsiasi uomo cerchi di uccidermi è malvagio, e il nemico del mio nemico è mio amico. E bada al modo in cui usi il termine "nomade", Scaurus. Il mio popolo è originario delle steppe quanto lo sono gli Yezda.» «Chiedo scusa» si affrettò a replicare il tribuno, cedendo su quel punto secondario per poter contrattaccare su quello principale. «Tieni però in mente questo... una volta che avrai invitato i... ah, gli Yezda a scendere in pianura, anche ammesso che riescano a danneggiare Drax saranno comunque poi necessarie lotte interminabili per spingerli indietro di nuovo.» «E questo è un male? Perché i Videssiani dovrebbero assoldare mercenari, se non avessero nessuno contro cui combattere?» Pakhymer lo stava
fissando in modo strano. Rendendosi conto che quella era la stessa espressione che aveva visto spesso sul volto di Helvis, Marcus sospirò: senza volerlo, il Khatrish aveva sottolineato la differenza fondamentale che intercorreva fra loro due. Per Laon Pakhymer, l'impero non era che un padrone che lo pagava, niente di più, e il suo destino gli importava soltanto nella misura in cui venivano coinvolti i suoi interessi; Marcus, invece, riteneva che Videssos dovesse essere salvato per se stesso, indipendentemente dai suoi difetti, perché stava facendo da secoli ciò a cui Roma aspirava: permettere alla gente che si trovava entro i suoi confini di vivere libera dalla paura. L'idea del caos e della distruzione che sarebbero seguiti alla caduta dell'impero lo riempiva di sgomento. Ma come spiegare tutto questo a Pakhymer che, per ottenere un temporaneo trionfo, era disposto a lasciare che due branchi di lupi si azzuffassero per contendersi il corpo dello stato che lui riteneva di servire? Marcus sospirò ancora, perché non sapeva quali parole usare: quello era lo spaventoso concretizzarsi dei motivi astratti di attrito fra lui ed Helvis: il Khatrish era pronto a creare un deserto e ad asserire poi che quella era pace. I suoi pensieri si fecero un po' meno cupi quando l'argomento della riunione cambiò. Pakhymer aveva intenzione di portare i suoi uomini a sud dell'Arandos, il che avrebbe fornito ai Romani la cavalleria leggera e gli esploratori di cui avevano tanto bisogno. Se Thorisin fosse riuscito a mettere insieme delle truppe per tenere Drax impegnato al nord, allora i legionari non sarebbero più stati numericamente inferiori al punto da risultare inutili. E se Gaius Philippus fosse riuscito a fare con quegli inesperti Videssiani ciò che Sertorius aveva fatto con gli Spagnoli, forse anche loro avrebbero potuto causare qualche problema al Namdaleno. Se, se, se... Scaurus era talmente immerso nelle proprie preoccupazioni che quando la riunione si sciolse passò accanto a Styppes come se non fosse neppure stato presente. «Questo mi piace proprio» commentò il grasso prete. «Ti faccio un favore ed ecco i ringraziamenti che ottengo.» «Cosa?» Scaurus si rasserenò. «Allora l'icona è finita?» aggiunse, lieto di avere qualcosa d'altro a cui pensare, oltre ai Namdaleni in marcia. «Certo che lo è. Adesso mi vedi, eh?» Marcus mantenne la calma di fronte al rimprovero, consapevole che quello che diceva al prete di solito era quasi sempre male accolto. Styppes borbottò qualcosa fra sé, poi ag-
giunse: «Avanti, vieni.» Quando ebbe l'icona fra le mani, il tribuno si prodigò in lodi interminabili quanto sincere. Styppes aveva un brutto carattere ed amava troppo il vino, ma le sue mani possedevano altri doni, oltre a quello di saper guarire. «Perché spreco il mio talento per l'amante di un pagano eretico...» cominciò Styppes, per nulla addolcito dai complimenti di Scaurus, ma il tribuno si allontanò prima che la filippica raggiungesse il suo culmine. Trovò Helvis seduta sotto un pesco, fuori del campo, intenta a rammendare una tunica. La donna sollevò lo sguardo quando lui si avvicinò e, accorgendosi che Marcus intendeva sedersi accanto a lei, infilò l'ago nell'indumento, che apparteneva a Malric... e mise da parte il tutto. «Salve» lo salutò, fredda, senza cercare di nascondere la propria rabbia per il rifiuto da parte del tribuno di schierarsi con i suoi connazionali e contro Videssos. Marcus cominciava ad essere stanco del modo in cui la politica continuava ad intromettersi fra loro. «Salve. Ho qualcosa per te.» Quelle parole gli parvero piatte e goffe non appena gli uscirono di bocca e, con un improvviso senso di vergogna, Marcus si rese conto che aveva troppo poca esperienza in quel genere di discorsi, che dava troppo per scontata la presenza di Helvis, tranne quando litigavano. «Che cos'è?» chiese lei, sempre in tono neutro, e Marcus suppose con tristezza che Helvis pensasse che le avesse portato qualche altra cosa da rammendare. «Ecco, guarda tu stessa» replicò, con la voce resa brusca dall'imbarazzo, e le porse l'icona. Dal modo in cui Helvis sgranò gli occhi, Scaurus ebbe la certezza che la sua supposizione di poco prima avesse colpito fin troppo vicino al bersaglio. «È per me? Davvero? Dove l'hai presa?» In effetti, Helvis non voleva una risposta, e stava parlando soltanto per sfogare la propria sorpresa. «Grazie, grazie davvero!» Lo strinse a sé con un braccio solo, non volendo posare l'immagine, poi si tracciò sul petto il segno di Phos. La sua gioia rese Scaurus felice e gli diede al tempo stesso un senso di contrizione perché, pur essendo lieto di aver reso contenta Helvis, sapeva in cuor suo che avrebbe dovuto pensare ad una cosa del genere già da molto tempo. L'aveva mal ripagata per l'amore e la fedeltà che lei gli aveva dimostrato... perché quale altro motivo poteva aver avuto la donna per rimanere con lui nonostante le loro molte divergenze d'idee? Scoprì anche
che non pensava più ad Helvis soltanto come ad una piacevole compagna notturna e, con assoluta mancanza di originalità, si disse che l'amore era una cosa molto strana. «Chi è?» domandò ancora lei, interrompendo le sue riflessioni, poi aggiunse, senza neppure riprendere fiato: «No, non me lo dire, lascia che ci arrivi da sola.» Le sue labbra si mossero lentamente, scandendo le lettere d'oro tracciate da Styppes ad una ad una. In meno di tre anni Marcus, che già conosceva altre due lingue, aveva imparato a leggere il videssiano molto meglio di lei. «Ne-sto-rios» sillabò Helvis e, mettendo insieme i pezzi ripeté: «Nestorios! Il santo isolano! Come hai fatto a ricordarti di lui?» Il tribuno scrollò le spalle, non volendo ammettere che era stato Styppes a dirgli il nome del santo, una piccola bugia che non gli causò nessun senso di colpa: considerato che quella era una fede che lui non condivideva, gli sembrava già sufficiente aver ricordato la semplice esistenza del santo in questione. «Perché sapevo che ti importava di lui» replicò, e dal tocco della mano di lei capì di aver risposto nel modo più giusto. Le sentinelle scortarono un paio di Namdaleni alla presenza di Scaurus. «Sono venuti sotto il segno di tregua, signore» spiegò un Romano. «Si sono consegnati ai nostri picchetti vicino al querceto.» Gli uomini del Ducato rivolsero al tribuno uno scattante saluto, anche se uno dei due aveva un'aria nettamente infelice. Marcus pensò che non c'era da meravigliarsene, considerato che si trattava del messaggero che aveva mandato a Drax per proporgli lo scambio. «Salve, Dardel» gli disse. «Non mi aspettavo di rivederti.» «Né io di rivedere te» rispose l'interpellato, in tono dolente. L'altro Namdaleno salutò di nuovo. Anche lui non era una faccia nuova per Scaurus, trattandosi dell'isolano con il naso camuso che aveva comandato l'ala destra delle truppe di Drax, al Sangarios. Ora l'ufficiale aveva un aspetto elegante, con l'elmo dorato e la sopravveste di seta. «Bailli di Ecrisi al tuo servizio» si presentò, con disinvoltura, esprimendosi in un videssiano del tutto privo di accento. «Permettimi di spiegarti la presenza di quest'uomo. Dal momento che è costretto a declinare la tua graziosa proposta, il mio signore, il grande conte e protettore Drax ha ritenuto che fosse giusto restituirti il prigioniero.» Così adesso Drax aveva un nuovo titolo? pensò Marcus. Non aveva importanza: che si facesse pure chiamare come preferiva.
«È molto onorevole da parte sua» replicò, inchinandosi a Bailli. Poi, per non essere da meno della generosità dimostrata da Drax, aggiunse: «Naturalmente, quando te ne andrai, Dardel sarà libero di venire via con te.» Bailli e Dardel s'inchinarono a loro volta, il secondo con estrema gioia. «Perché il grande conte rifiuta la mia offerta?» domandò poi Scaurus. «Noi non abbiamo ricchezze, qui, ma se Drax vuole anche un riscatto per Zigabenos, oltre alla liberazione dei suoi uomini, faremo quello che potremo per accontentarlo.» «Tu hai frainteso le motivazioni del grande conte e protettore, signore» affermò Bailli, e Marcus improvvisamente cominciò a diffidare del suo sorriso, perché esso diceva con chiarezza che il Namdaleno sapeva qualcosa che lui ignorava. «Il motivo principale del suo rifiuto» proseguì l'isolano, sempre sorridendo, «è che essendo un leale luogotenente del mio signore Zigabenos, il grande conte non lo può obbligare ad accettare uno scambio che lui non desidera.» «Cosa?» esplose Marcus, stupefatto. «Che farsa è mai questa?» Bailli infilò una mano sotto la sopravveste. Il suo gesto indusse le guardie a ringhiare un ammonimento, ma l'isolano si limitò a tirare fuori un rotolo sigillato di pergamena. «Questo ti spiegherà ogni cosa meglio di come potrei fare io» dichiarò, porgendo la pergamena a Scaurus. Il tribuno ne esaminò i sigilli... uno gli era noto, il sole su cera dorata, lo stemma imperiale di Videssos. L'altro sigillo era in cera verde mare e rappresentava un paio di dadi in una coppa da vino: doveva essere lo stemma di Drax. Infine, Scaurus ruppe i sigilli e srotolò la pergamena. «Non so, signore, se tu leggi il videssiano» osservò in quel momento Bailli, che aveva notato l'aspetto esotico dell'armatura di Scaurus. «In caso contrario sarò lieto di...» «Lo leggo» interruppe, secco, Marcus, e cominciò a scorrere il documento. Riconobbe subito lo stile di Drax, perché il grande conte scriveva in modo altrettanto elaborato quanto quello di qualsiasi ufficiale videssiano. A renderlo un nemico molto pericoloso, era proprio questa sua abilità nell'imitare gli imperiali fin troppo bene, il che includeva anche il doppiogiochismo politico, come Scaurus rilevò nel proseguire la lettura. Il documento non era lungo, e del resto non erano necessarie molte parole: nell'arco di quattro frasi intricate, esso proclamava Mertikes Zigabenos Avtokrator dei Videssiani, e indicava il grande Conte Drax come il suo "rispettato comandante in capo e Protettore del Regno", incitando tutti i citta-
dini e "i soldati, Videssiani o stranieri" a sostenere il nuovo regime, minacciando al tempo stesso la proscrizione e la distruzione per chiunque avesse opposto resistenza. La firma di Drax, in calligrafia sottile e completata da un grande svolazzo, concludeva il proclama, mentre la firma di Zigabenos spiccava per la sua assenza. Marcus rilesse il foglio una seconda volta, maledicendo il grande conte ad ogni parola. Quell'uomo doveva essere un genio dell'intrigo, per aver condensato tanti danni in uno spazio così ridotto. Operando mediante un uomo di paglia videssiano, Drax si liberava dall'accusa di essere un invasore e al tempo stesso comprometteva definitivamente Zigabenos agli occhi di Thorisin Gavras, perché il legittimo imperatore non avrebbe potuto sapere con certezza se Zigabenos stava collaborando spontaneamente o meno con Drax. Zigabenos, che non era certo da meno del Namdaleno nella sua abilità per gli intrighi, se ne sarebbe reso conto da solo... ed avrebbe potuto decidere di aiutare davvero il grande conte, per timore di ciò che gli sarebbe successo se la rivolta di Drax fosse fallita. Il tribuno si accorse che la testa cominciava a dolergli sempre più a mano a mano che le cose peggioravano. Infine arrotolò la pergamena e la restituì a Bauli. I due pezzi del sigillo di Drax tornarono a combaciare perfettamente, e Scaurus pensò che il conte aveva mostrato una natura namdalena almeno nella scelta del suo emblema, considerato che gli uomini del Ducato erano accaniti giocatori. «Guarda meglio» ridacchiò però Bailli, quando il tribuno avanzò quel commento. Scaurus seguì il suo consiglio e imprecò, gettando a terra la pergamena, perché che genere di dadi poteva trovarsi in una tazza da vino, se non un paio di dadi truccati? CAPITOLO SESTO «Dimmi» chiese Varatesh a Viridovix, aiutandolo a smontare dopo un'altra lunga giornata di viaggio, «perché ti sei tinto i capelli e i baffi di questo colore orribile? E perché ti sei fatto crescere i baffi ma non la barba? Per gli dèi, in questo modo dai nell'occhio fra gli uomini delle pianure più di quanto facessi prima.» «Vuoi piantarla di criticare il mio aspetto? Neppure tu sei una bellezza» ribatté Viridovix, cercando di lisciarsi i lunghi baffi tristemente afflosciati dalle giornate di pioggia incessante. A causa dei lacci che gli legavano i
polsi, tuttavia, non riuscì a fare un buon lavoro. «Non scherzare con me» avvertì Varatesh, nel consueto tono pacato. «Io pongo le mie domande una volta soltanto.» Il capo dei fuorilegge non proferì minacce esplicite, come avrebbero potuto fare i suoi uomini, e la sua fu una crudeltà più sottile, perché lasciò il Gallo libero di immaginare ciò che più lo terrorizzava. «Che la peste ti prenda, uomo. Quella che c'è sul davanti della mia testa è ed è sempre stata la mia faccia.» Viridovix fissò il Khamorth con occhi roventi, spaventato ed esasperato al tempo stesso. «Che aspetto dovrei avere, già che ci siamo?» chiese poi. «Quello con cui Avshar ti ha dipinto» rispose Varatesh, e Viridovix rabbrividì nel sentire il nome del principe-mago: ogni giorno, il pony delle steppe che era obbligato a montare lo portava più vicino ad un incontro che lui non desiderava. «E quale sarebbe, che tu sappia? È improbabile che io riesca a leggere nella mente di quel furfante, e l'idea comunque non mi attira.» Nel sentire l'insulto, Kubad ringhiò e portò la mano al coltello che aveva nel fodero. La sua conoscenza del videssiano si limitava quasi soltanto agli insulti, così come Viridovix sapeva imprecare nel linguaggio delle pianure. Varatesh, però, segnalò al suo seguace di tacere, perché quando era sulla pista di qualche pensiero, quelle minuzie erano per lui ciò che una falsa traccia era per un cane da caccia, una distrazione da allontanare. «Come vuoi» disse al Celta. «La tua statura corrisponde al quadro che Avshar ha fatto di te, ma lui afferma che i tuoi capelli sono di un giallo scuro, e non rossi, e che sei sbarbato, anche se so che questo è un particolare secondario. Inoltre, tu non somigli a nessun imperiale che io abbia mai visto, mentre per Avshar ti si dovrebbe poter scambiare per un Videssiano, a parte i capelli biondi e gli occhi chiari.» «Quel che è certo è che io non avrò mai quell'aspetto, mio caro Varatesh» esclamò Viridovix, scoppiando a ridere in faccia al Khamorth. «Cosa ci trovi di tanto buffo?» Il tono del capo dei banditi assunse una nota pericolosa: come la maggior parte degli uomini insicuri di sé, infatti, Varatesh non sopportava di essere preso in giro. «Oh, soltanto che quel povero idiota del tuo mago ti ha mandato a caccia di fumo. Conosco l'uomo che hai descritto, e Scaurus non è certo un amico di Avshar: è un tipo in gamba, per essere un Romano.» Quei nomi sconosciuti non avevano importanza per Varatesh, che attese con rabbiosa impazienza. Cominciando a divertirsi per la prima volta da quando era stato cat-
turato, il Gallo aggiunse: «Se è di Scaurus che sei a caccia, ragazzo, ti aspetta una cavalcata più lunga di quella che hai fatto per beccare me, perché lui è ancora nell'impero, questo è certo.» «Cosa?» esplose Varatesh, senza dubitare delle parole del suo prigioniero, perché la soddisfazione che Viridovix provava nel vedere che lui aveva fatto la figura dello stupido era fin troppo evidente. I suoi uomini, intanto, gli stavano gridando delle domande, e Varatesh tradusse loro ciò che il Celta aveva detto, con mala grazia, perché perdere il rispetto dei suoi seguaci era per lui ancora peggio che dover sopportare il compiacimento di Viridovix. Che gli importava, infatti, di ciò che pensava un nemico? «Avshar non ne sarà soddisfatto» affermò Kubad, e il suo commento rimase sospeso nell'aria. Denizli estrasse a mezzo il coltello con un sorriso crudele. «Se questo figlio di una giumenta pezzata non è l'uomo che Avshar vuole, allora possiamo divertirci subito con lui» affermò, sguainando del tutto l'arma e sollevandola davanti agli occhi di Viridovix. «Scioglimi le mani prima di provarci, eroe» ringhiò il Celta. «Che cosa dice?» chiese Denizli, e quando Varatesh glielo ebbe tradotto, il suo sorriso si accentuò. «Rispondigli che gli scioglierò le mani... un dito per volta» dichiarò, e avanzò di nuovo verso Viridovix. «No! Fermo!» ingiunse Varatesh, indotto da un pensiero improvviso a bloccare il nomade, nonostante per un momento fosse stato sul punto di lasciarlo fare, e spinse di lato il coltello. Nell'arco di pochi giorni, questa era la seconda volta che Denizli veniva privato del piacere di uccidere; con un'imprecazione, scattò in avanti vibrando il coltello, ma la lama incontrò soltanto il vuoto, perché Varatesh, che sembrava non lasciarsi mai cogliere di sorpresa, si era spostato di lato con una mossa fluida, impugnando al tempo stesso il proprio coltello. Gli altri Khamorth... Kubad e i suoi compagni, Khuraz, Akes e Bikni... non accennarono ad interferire, perché nel mondo brutale in cui vivevano la forza era l'unica cosa che desse il diritto di comandare. Varatesh riportò una ferita al braccio, ma un momento più tardi Denizli cadde nel fango, contorcendosi e urlando, con le mani strette intorno al ventre squarciato. Varatesh si chinò su di lui e gli tagliò la gola, come avrebbe fatto qualsiasi uomo di animo pietoso. «Hai combattuto bene» approvò Viridovix, incontrando il suo sguardo. «Mi piacerebbe essere stato io a dimostrare tanta abilità.» Il Gallo era sincero nel suo complimento, perché prendeva la lotta trop-
po sul serio per indugiare in adulazioni inutili, e Varatesh era in effetti rapido e agile come un serpente. Il Khamorth si limitò a scrollare le spalle. «Seppellite questa spazzatura» ordinò agli uomini che gli rimanevano. Essi obbedirono senza rispondere, spogliando il corpo e cominciando a scavare nel terreno molle di pioggia. Varatesh, intanto, tornò a rivolgersi al Gallo. «Spiegami questo: se tu non sei l'uomo che il mio compagno Avshar cerca, come mai la sua magia mi ha condotto fino a te? E com'è che tu hai una spada uguale a quella che possiede questo... com'è che si chiama?... Scaurus?» L'accento khamorth contrasse il nome del Romano in un suono simile a "Skrush". «Chiedo scusa, ma siccome non sono l'uomo che lui sta cercando, come faccio a conoscere la risposta alle tue stupide domande?» «Io penso che questo è proprio ciò che Avshar ti chiederà» ribatté Varatesh, con un sottile sorriso. «Quindi lascerò a lui questo compito.» Per la prima volta, Viridovix fu lieto che piovesse, perché le gocce nascosero il sudore che salì a imperlargli la fronte. Quella spada... desiderò di sapere qualcosa di più sulle magie che i druidi vi avevano infuso, ma i sacerdoti celtici non rivelavano i loro segreti a chi non apparteneva alla loro casta, e gli iniziati passavano almeno una ventina d'anni a imparare a memoria il loro sapere, perché i druidi non mettevano nulla per iscritto... e del resto adesso si trovavano in un mondo del tutto diverso, e per di più perduto per sempre. «Vostro onore!» chiamò il Gallo, quando Varatesh accennò ad andarsene, e non appena il Khamorth tornò a girarsi, aggiunse: «Ora che quella vescica di porco di Denizli non avrà più bisogno del suo mantello, potrei usarlo io stanotte per ripararmi mentre dormo? Una dormita all'asciutto sarebbe un vero piacere, con questa dannata pioggia.» I mantelli dei nomadi, di lana coperta di grasso, erano impermeabili all'acqua quanto le piume di un'anatra, mentre il Celta, con i suoi abiti di stoffa, era costantemente inzuppato, tanto che era una fortuna che facesse caldo, perché in un clima più freddo questo gli avrebbe certo procurato una polmonite. «E perché no? In effetti, hai l'aspetto di un cucciolo affogato» ammise Varatesh, ed impartì l'ordine ai suoi uomini. Esso provocò un paio di occhiate sorprese, poi Kubad parlò affrettatamente, in tono di protesta. La risposta di Varatesh, però, parve soddisfare il nomade. Infine il capo dei banditi tornò a rivolgersi a Viridovix. «Prenderai invece quello di Kubad,
che ha un buco, e lui si terrà il mantello di Denizli.» «Mi basta. Ti ringrazio.» I Khamorth gli sciolsero le mani perché potesse mangiare, ma come sempre lo tennero sotto tiro per tutto il tempo e tornarono a legarlo con una nuova striscia di cuoio non appena ebbe finito. Quando poi il Gallo chiese di potersi allontanare dal campo per soddisfare un bisogno fisiologico, i nomadi gli legarono anche le caviglie, in modo da costringerlo a procedere a piccoli passi zoppicanti. E di nuovo un arciere gli andò dietro. Viridovix non aveva percorso molta strada quando scivolò e cadde con un tonfo in una grossa pozzanghera; la sua guardia scoppiò a ridere ma non cercò di aiutarlo e, sospettando una trappola, rimase a guardare a distanza di sicurezza, con l'arco teso, mentre il Celta annaspava per rialzarsi. Infine Viridovix si rimise in piedi: se prima era bagnato, adesso era addirittura zuppo. «Och, per una moneta di rame, mi piacerebbe usare te come latrina» disse al nomade, ma in lingua celtica. Comprendendo il tono, se non le parole, il Khamorth rise di nuovo, e Viridovix gli lanciò un'occhiata rovente. «Non sei furbo neppure la metà di quello che credi, furfante» dichiarò, e la sua guardia rise ancora di più. Bagnato com'era, il mantello di pelo di pecora non poteva certo far molto per tenerlo asciutto, ma Viridovix si raggomitolò comunque sotto di esso. Quattro dei cinque nomadi si prepararono a loro volta a dormire, mentre Varatesh si accingeva a fare il primo turno di guardia. Quando esso terminò, il nomade svegliò Akes, che rimase seduto sotto la pioggia, di pessimo umore, in attesa che arrivasse il turno di Kubad. Di tanto in tanto, come aveva fatto anche Varatesh, Akes lanciò un'occhiata a Viridovix, che però non era altro che una massa scura e immobile nel buio. Per quanto fingesse di dormire, però, Viridovix stava invece lavorando freneticamente, se pure in silenzio, al riparo del mantello. Non era stato per caso che si era contorto tanto per rialzarsi dalla pozzanghera: in quel modo, aveva intriso d'acqua i lacci che gli legavano i polsi perché il cuoio, quando era umido, era più elastico. Adesso, con lentezza e con cautela, per non rischiare di essere scoperto, il Gallo continuò a muovere i polsi, su e giù, avanti e indietro, finché finalmente... il turno di guardia di Kubad era già trascorso per metà... riuscì ad agganciare un pollice sotto il bordo della striscia di cuoio e a sfilarsela dalle mani. Per qualche tempo, dopo, si limitò ad aprire e serrare ripetutamente i pugni, per ravvivare la circolazione del sangue.
Kubad aveva con sé un otre di kavass con cui si stava aiutando a passare il tempo, e Viridovix pensò che questo avrebbe giocato a suo favore. La sommità del mantello nascose il suo sorriso mentre lui sbadigliava sonoramente e si sollevava parzialmente a sedere, badando a tenere sempre le braccia dietro di sé. Si guardò poi intorno, come se stesse cercando di individuare la sentinella che in effetti aveva osservato ansiosamente per tutto il tempo. Il movimento che aveva fatto attirò su di lui l'attenzione di Kubad, che però non vi badò più di tanto, sapendo che il Gallo era legato, e si accostò invece l'otre alla bocca. «Che ne diresti di concedere un sorso anche a me, mio caro Khamorth?» chiese Viridovix, mantenendo la voce molto bassa, perché non voleva svegliare i compagni di Kubad... e tanto meno Varatesh, che sembrava capace di fiutare i guai come un orso fiutava il miele. Kubad, invece, si accostò e si accoccolò accanto al Gallo. «Tu svegliato assetato, eh?» domandò, accostandogli l'otre alle labbra. Mentre beveva, Viridovix avvertì un insorgente senso di colpa al pensiero di tradire l'atto amichevole del nomade, ma si affrettò a soffocare la sensazione... quanto erano stati amichevoli i banditi di Varatesh, quando lo avevano rapito? «Ancora?» chiese Kubad, e il Gallo annuì. Il nomade si chinò maggiormente in avanti per accostargli di nuovo l'otre e Viridovix scattò in avanti, per afferrarlo alla gola. L'otre di Kavass volò via, ma fortuna volle che andasse ad atterrare sul mantello di lana, il che gli impedì di produrre un rumore che avrebbe tradito il Celta. Kubad era un combattente esperto, ma era stato colto di sorpresa e commise un errore che si rivelò fatale: invece di allungare la mano verso il coltello, la sua prima, istintiva reazione fu quella di cercare di allentare la morsa con cui Viridovix gli serrava il collo. Il Gallo era però spinto dalla forza della disperazione, e le sue dita premettero sempre più sotto la curva della mascella di Kubad, che si ricordò troppo tardi del coltello. Esso costituì il suo ultimo pensiero, e quando cercò di prenderlo le mani rifiutarono di obbedirgli, ricadendo inerti lungo i fianchi. Viridovix adagiò il cadavere nel fango e s'impadronì del coltello... un'arma dalla lama ricurva con una pesante impugnatura a forma di losanga... usandolo per tagliare le strisce di cuoio che gli legavano le caviglie. Quando ebbe finito, si costrinse ad aspettare che la circolazione del sangue riprendesse, prima di muoversi.
«Adesso hai soltanto un'opportunità, quindi non sprecarla mostrandoti troppo impaziente» borbottò a se stesso. Il tamburellare della pioggia servì a coprire il rumore che lui produsse strisciando verso i nomadi: adesso poteva vendicarsi a proprio piacimento. Quando si chinò sul primo dei dormienti, però, Viridovix esitò: aveva ucciso Kubad in un combattimento leale, ma non poteva indursi ad assassinare quattro uomini addormentati. Consapevole che Gaius Philippus gli avrebbe dato dell'idiota, se fosse stato presente, il Gallo ripose l'arma nel fodero e la girò, usandola come un randello. Colpì tre volte... senza eccessiva delicatezza, perché non voleva che qualcuno dei Khamorth si destasse all'improvviso urlando. Ora rimaneva soltanto Varatesh. Il capo dei fuorilegge si svegliò con una lama che gli solleticava il collo. Mantenendo come sempre il controllo, iniziò a far scivolare la destra verso la cintura, nella speranza che il gesto passasse inosservato, sotto lo spesso mantello. «Non ci provare» ammonì Viridovix, che aveva in pugno un secondo coltello, nel fodero e con l'elsa in avanti. «Puoi essere certo che se ti azzardi a tirarlo fuori, ti taglio la gola.» Varatesh rifletté su quelle parole, decise che il Gallo aveva ragione e parve rilassarsi, anche se questo non ingannò Viridovix, che aggiunse: «Non sapendo quanto sia dura la zucca dei tuoi ragazzi, sarò breve nel congedarmi da te.» Quelle parole sorpresero Varatesh come il rovesciarsi della situazione non aveva avuto il potere di fare. «Ti sei liberato e non li hai uccisi?» chiese. «Kubad è morto» rispose, asciutto, Viridovix, «ma gli altri si sveglieranno con lo stesso tipo di mal di testa che tu hai rifilato a me. E lo stesso vale per te» aggiunse, stordendo anche Varatesh, che si accasciò. Pensando che il Khamorth potesse fingere soltanto, Viridovix si trasse indietro con cautela, ma il colpo che aveva inflitto con la sinistra era stato abbastanza forte. In fretta, legò tutti e quattro i nomadi, assestando una seconda botta ad uno di essi, che cominciava a riprendersi. Raccolse quindi tutte le armi che riuscì a trovare, le caricò su un cavallo da soma e si affibbiò alla vita la propria spada, avvertendone con piacere il peso sul fianco. Varatesh riaprì gli occhi quanto il Celta era ancora impegnato a legare i cavalli gli uni agli altri, e subito cominciò a lottare per allentare i legami, senza sforzarsi di nascondere la cosa... ragionando che se Viridovix avesse avuto intenzione di ucciderlo, a quell'ora lo avrebbe già fatto.
«Ci incontreremo ancora, straniero» promise. «Sì, è probabile, ma non troppo presto, credo, anche dopo che ti sarai liberato» replicò Viridovix, finendo di sistemare gli animali. «Farete proprio una figura da imbecilli, adesso, se cercherete di inseguirmi a piedi, considerato che ho io tutti i vostri cavalli.» Varatesh smise di contorcersi per lanciare al Gallo un'occhiata piena di riluttante rispetto. «Speravo che non ci avresti pensato. Poca gente del sud ci sarebbe arrivata» affermò, ed accennò a scuotere il capo, sussultando quando quel movimento gli procurò una violenta fitta di dolore. «Inoltre» proseguì Viridovix, sogghignando, «dovreste essere dei demoni per trovare la mia pista in mezzo a tutto questo fango.» Il Khamorth si accigliò, ricordando di aver detto quelle stesse parole a Kubad, riferendosi ai compagni di Viridovix. Adesso era lui a trovarsi in quella situazione, e stava scoprendo che non era piacevole, come non lo sarebbe stata la camminata che lo aspettava, pensò, cupo. «La peste si porti queste vostre staffe corte» borbottò il Gallo, montando in sella, perché a causa delle sue gambe lunghe i ginocchi gli arrivavano quasi al mento. Piantò i talloni nei fianchi del pony e gli assestò un colpo quando la bestia cercò di sgroppare, ingiungendo: «Non ci provare!» Ad uno ad uno, a mano a mano che le briglie si tendevano, i cavalli dei nomadi, una quarantina, seguirono quello su cui era montato il Gallo, che prese a fischiettare un'aria vivace originaria delle foreste della Gallia. E perché no? pensò Viridovix. Ora sono solo, quindi posso essere me stesso... sì, e godermi la canzone, senza nessuno che salti su a dire che non capisce. E si mise a fischiare ancora più forte. Gorgidas borbottò un'oscenità quando una goccia di pioggia lo colpì in un occhio, offuscandogli la vista per qualche secondo. «Pensavo che l'avessimo fatta finita con questo dannato maltempo» protestò. «Perché hai aspettato finora a lamentarti» chiese Lankinos Skylitzes, «dal momento che il peggio è ormai passato da stamattina? Se avessimo puntato a nord, invece che ad ovest, adesso saresti ancora inzuppato come una spugna.» «E il clima diventerà sempre più secco a mano a mano che procederemo verso occidente» aggiunse Arigh, annuendo. «Nello Shaumkhiil, la terra
del mio popolo, queste tempeste estive lunghe anche una settimana non sono frequenti. D'inverno, però, è tutt'altra faccenda.» Il nomade rabbrividì al pensiero. «A Videssos mi sono abituato a troppe comodità.» «Mi chiedo il perché di questo clima» osservò Gorgidas, curioso nonostante tutto. «Forse dipende dal fatto che siete più lontani dal mare. Ma, no... come potreste avere inverni umidi e nevosi, se la causa fosse questa?» Rifletté per un momento, poi chiese: «Oppure esiste un altro mare più lontano, a nord, da cui le vostre tempeste invernali possano raccogliere l'umidità?» «Non ho mai sentito che ce ne fosse uno» replicò Arigh, senza molto interesse. «C'è il Mare Mylasa, fra le pianure e Yezd, ma si trova a sud rispetto al territorio della mia gente, non a nord, e comunque è poco più di un grosso lago.» «Ben ragionato, straniero» interloquì Goudeles, sorprendendo gli altri. «Il Mare Settentrionale si spinge per un certo tratto ad ovest delle terre degli Halogai, nessuno sa per quanti chilometri, freddo e cupo per tutta la sua estensione.» Il diplomatico esibì un'elegante smorfia di disgusto. «Questa deve essere la causa del maltempo a cui ha accennato il buon Arigh.» «Come fai a saperlo, Pikridios?» domandò Skylitzes, in tono di sfida. «A quanto mi risulta, tu non hai mai messo piede fuori di Videssos.» «L'ho appreso da un frammento di poesia che ho trovato negli archivi» spiegò il burocrate, in tono blando. «Era stato scritto da un ufficiale della marina... un Mourtzouphlos, credo, e quindi un appartenente ad una famiglia di vecchia data... non molto dopo l'epoca di Stavrakios, quando gli Halogai stavano ancora attenti a come si comportavano. In verità si trattava di versi davvero incantevoli, che affascinavano per la stranezza di ciò che raffiguravano, quasi l'autore stesse descrivendo un altro mondo. Rocce, ghiaccio, vento e strani uccelli dal becco chiaro che vivevano lungo le coste e che avevano un nome sciocco che il poeta deve aver appreso dai barbari locali. Credo che si chiamassero "auks".» «Bene, che ti prenda un auk, allora» si arrese Skylitzes, sconfitto dalla quantità di dettagli che il burocrate gli aveva rovesciato addosso, e Goudeles chinò appena il capo, accennando un compiaciuto inchino. Gorgidas ebbe l'impressione di sentire Skylitzes serrare i denti fino a farli stridere. «Chiedo scusa, gente» interruppe Agathias Psoes, pratico quanto avrebbe potuto esserlo un Romano, «ma quello laggiù, vicino al ruscello, sembra un buon posto per accamparci.» Il sottufficiale indicò il punto a cui si riferiva e, quasi in risposta al suo
gesto, un piccolo stormo di anatre scese stridendo dal cielo grigio. Psoes sorrise, come un mago a cui fosse riuscito un incantesimo, e i suoi uomini afferrarono gli archi, mentre Gorgidas sentiva lo stomaco borbottargli all'idea di un arrosto di anatra. Il primo uccello che venne colpito emise però un verso stridulo che indusse i suoi compagni a prendere quota, sfuggendo così alla raffica di frecce scagliata loro contro dai soldati. «Ma state zitte, lassù» disse il Greco alle anatre, mentre il suo stomaco brontolava ancora. «A quanto pare, mangeremo di nuovo formaggio e focacce.» Prima di cena, ci fu la consueta esercitazione con la spada e Gorgidas scoprì con un senso di sgomento che cominciava ad attenderla con impazienza, perché avvertiva una sorta di piacere quasi animalesco nel sentire il proprio corpo che imparava gradualmente la giusta risposta ad un fendente alto, ad un affondo al ventre, a un colpo alla gamba. L'esercitazione era simile a quel gioco videssiano su scacchiera che imitava la guerra, però era un gioco in cui si utilizzavano gli occhi, la mano e i piedi oltre che la mente. I piedi... finalmente il terreno era abbastanza compatto da permettergli un vero gioco di piedi che non fosse soltanto un tentativo di non scivolare. «Diventerai presto uno sterminatore» decretò Skylitzes, indietreggiando di fronte ad un affondo. «Non voglio diventare uno sterminatore» insistette il Greco, ma Skylitzes ignorò la sua risposta e tornò ad accostarsi per mostrargli in che modo avesse tradito l'imminente affondo. Il taciturno ufficiale videssiano era un buon maestro... migliore, secondo Gorgidas, di quanto lo sarebbe stato Viridovix. Era infatti più paziente e sistematico del Celta e non dimenticava mai che i suoi allievi erano del tutto privi di esperienza. Nelle occasioni in cui Viridovix si sarebbe limitato a levare le braccia al cielo in un gesto di disgusto, Skylitzes era invece disposto a ripetere una parata, un affondo o un passo di lato anche trenta volte, se necessario, finché l'allievo capiva come eseguirlo. Quando ebbe finito, Gorgidas andò a lavarsi nel ruscello e lasciò Pikridios Goudeles alle tenere cure di Skylitzes. Il soldato si mostrava più spietato con il burocrate di quanto lo fosse con il Greco, e Gorgidas non avrebbe saputo dire fino a che punto questo dipendesse dal fatto che lui era un allievo migliore, o piuttosto dall'antipatia che esisteva fra il militare e l'appositore di sigilli. Sentì Goudeles strillare per una botta infertagli da
Skylitzes sulle nocche... il soldato si stava vendicando per la faccenda della poesia sull'artico. Un ranocchio verde e marrone, non più grande dell'ultima falange di un dito di Gorgidas, era seduto in un cespuglio vicino all'acqua. La bestia era tanto piccola che il Greco non l'avrebbe neppure notata, se non si fosse messa improvvisamente a gracidare. «Zitto» intimò, severo, agitando un dito in direzione del ranocchio, «altrimenti farai fuggire a rotta di collo tutti i Khamorth che sono con noi. E questo vale anche per te» aggiunse, rivolto al proprio stomaco che aveva ripreso a borbottare. Il giorno successivo arrivarono ad un fiume di dimensioni rispettabili, che Psoes identificò come il Kouphis. «Questo è il punto più occidentale delle steppe di Pardraya che io abbia mai raggiunto» affermò. «Direi che siamo a metà strada dallo Shaum» aggiunse Arigh, e Skylitzes annuì. Il soldato parlava poco dei propri viaggi, ma se conosceva anche la lingua degli Arshaum, oltre a quella dei Khamorth, era probabile che si fosse spinto molto più ad ovest del Kouphis. Il fiume tagliava la pianura da nord a sud, e il gruppo ne seguì la riva verso monte, alla ricerca di un guado, fino ad arrivare all'altezza di quello che sembrava un cumulo di pietre da costruzione, eretto sulla sponda opposta. Quella vista indusse Gorgidas a grattarsi la testa con perplessità... cosa ci facevano quei ruderi nel mezzo di una pianura deserta e desolata? Due soldati del gruppo di Psoes avevano sentito parlare del mucchio di pietre, ma tutto quello che sapevano era che veniva definito il "mucchio di letame degli dèi". «O dei Khamorth» aggiunse Skylitzes, in tono tanto quieto da non farsi sentire dagli uomini di Psoes, scoppiando in una delle sue rare risate. «Questo è quanto rimane di un forte videssiano, dopo duecento anni di saccheggi e di incuria.» «Cosa?» esclamò Gorgidas. «Un tempo l'impero dominava anche queste terre?» «No, no» spiegò Skylitzes. «Si è trattato di un dono dell'Avtokrator ad un potente khagan. Dopo la morte del khagan, però, i suoi figli litigarono ed i nomadi ripresero a vivere in clan separati.» Pikridios Goudeles fissò le rovine dall'altra parte del Kouphis e scoppiò a ridere a sua volta. «Cosa? Quel cumulo di macerie laggiù sarebbe la Follia di Khoirospha-
ktes?» esclamò. «Ne hai sentito parlare anche tu?» domandò Gorgidas, prevenendo Skylitzes, che sembrava riluttante a credere che Goudeles potesse sapere qualcosa, di qualunque genere. Il burocrate levò gli occhi al cielo in un gesto che esprimeva in certa misura il disprezzo tipico della gente della capitale, nonostante gli abiti ordinari con cui il burocrate aveva provveduto assai presto a sostituire le sue eleganti tuniche. «Se ne ho sentito parlare? Mio curioso amico, nelle scuole di contabilità di Videssos questo costituisce il proverbiale esempio di un fallimento nel valutare il rapporto fra costi e risultati. Hai idea dei pezzi d'oro sperperati per trasportare fin qui artigiani e materiale dall'impero? E per che cosa? Lo vedi tu stesso.» Il burocrate scosse il capo. «Per non parlare poi dell'elefante.» «L'elefante?» ripeterono all'unisono il Greco e Skylitzes. Anche a Videssos, come a Roma, quelle bestie erano rare, e provenivano dalle terre poco note a sud del Mare dei Naviganti. «Sì, proprio così. Uno degli inviati del khagan vide una di quelle bestie... in uno zoo, suppongo... e ne parlò al suo padrone, e così quel barbaro non trovò di meglio da fare che decidere di dover vedere assolutamente anche lui come fosse fatto un elefante. E l'Avtokrator Khoirosphaktes che, temo, beveva troppo per capire quando fosse il caso di lasciar perdere qualcosa, provvide a spedirgliene uno. Oh, quanto oro andò sperperato!» Goudeles sembrava soffrire fin nelle profondità della sua anima parsimoniosa. «Avanti, concludi, uomo!» lo incitò Gorgidas. «Cosa ne fece il khagan dell'elefante?» «Gli diede un'occhiata e lo rispedì indietro, naturalmente. Tu cosa avresti fatto?» «Och, che io sia dannato se non ho combinato un bel pasticcio» dichiarò Viridovix, piantandosi le mani sui fianchi in un gesto irritato: adesso che il nero assoluto della notte cominciava finalmente a cedere il posto al grigiore di un'altra mattina nuvolosa, si stava infatti rendendo conto, con suo enorme disgusto, di aver cavalcato ad est fin da quando era sfuggito a Varatesh. Poi un sorriso gli increspò gli angoli degli occhi. «Non tutto il male viene per nuocere» aggiunse, fra sé. «Quel furfante non penserà mai a cercarmi in questa direzione... di certo non mi riterrà tanto stupido.»
Viridovix si rosicchiò un baffo, riflettendo, poi deviò verso sud con l'intenzione di descrivere un ampio giro intorno al campo di Varatesh, perché nutriva un salutare rispetto nei confronti del fuorilegge. «Avrei dovuto fare la festa a quel figlio di un furetto rognoso, anche se aveva risparmiato i miei compagni» osservò, parlando ad alta voce per il gusto di sentire le musicali parole celtiche fluire dalle sue labbra. «Sono certissimo che presto o tardi mi causerà altre rogne.» Un cavallo che aveva cominciato a brucare durante la sosta sollevò di scatto la testa con un sonoro nitrito di protesta quando la corda a cui era legato si tese di nuovo. «Non dirmi di no» lo rimproverò il Gallo, ancora irritato con se stesso. «Per te, come per me, è troppo tardi per avere rimpianti.» Con il passare delle ore, il sole si aprì finalmente un varco fra le nubi e la pioggia divenne intermittente, per poi cessare del tutto. «Bene, gli dèi siano lodati» esclamò Viridovix, guardandosi intorno alla ricerca di un arcobaleno, ma non lo trovò. «È probabile che quel furfante di Varatesh lo abbia rubato» borbottò, e il suo fu uno scherzo soltanto in parte. In un certo senso, la pioggia, le nuvole e la foschia avevano costituito un piccolo conforto per il Gallo, perché avevano ristretto il suo campo visivo, risparmiandogli di dover far fronte anche alla vastità della pianura, oltre che a tutti gli altri problemi che lo affliggevano. Adesso che il tempo andava schiarendosi, però, l'orizzonte parve ritrarsi sempre di più finché, come gli era accaduto durante i primi giorni trascorsi nelle steppe, Viridovix ebbe l'impressione di non essere che un puntino insignificante che si muoveva nell'infinito. «Se nel cielo ci fosse soltanto una piccola stella, sono certo che non si sentirebbe più sola di me» dichiarò, a se stesso, e attaccò a cantare senza posa, per tenere a distanza la solitudine. Il demoniaco urlo di gioia che lanciò quando avvistò una mandria che si muoveva, lontano verso sud, fu tale da indurre i suoi cavalli a sollevare gli orecchi in un gesto di allarme. Dopo aver riflettuto per un momento, però, Viridovix sentì svanire il proprio entusiasmo e si chiese cosa fosse peggio... essere solo o avere cattivi vicini. «Perché se io posso vedere loro, è certo che loro possono vedere me. Och, quel piccolo Greco non sarebbe orgoglioso, ora, se mi sentisse ragionare con tanta logica?» Il suo ragionamento trovò conferma entro pochi minuti, quando un pu-
gno di Khamorth si staccò dalla mandria e si diresse al trotto verso di lui. «Cosa faranno, quando troveranno uno straniero con tutti questi cavalli e il resto?» si chiese il Gallo, e la risposta che gli venne spontanea non gli piacque affatto. Ricordando i pesanti archi di cui i nomadi erano dotati, poi, divenne di umore ancora più cupo. Gli sarebbe piaciuto avere con sé l'elmo e il mantello di pelli scarlatte, per poter impressionare i nomadi con il suo aspetto, mentre i suoi abiti da viaggio erano sporchi, umidi e logori. «Certo che sembro proprio uno spaventapasseri» si lamentò, osservando il proprio aspetto, e imprecò ancora contro Varatesh, perché il fuorilegge, da ladro scrupoloso, aveva rubato soltanto la sua persona e la sua spada, ma non il resto. Quel pensiero lo fece scoppiare a ridere, anche perché il suo spirito allegro non era capace di rimanere cupo troppo a lungo. Balzato di sella, si sfilò la tunica lacera e i calzoni gonfi, poi gettò gli indumenti sulla groppa del pony e, nudo, con la spada in pugno, attese gli uomini delle pianure. «Adesso avranno qualcosa a cui pensare» commentò fra sé, continuando a sogghignare. La brezza gli accarezzò la pelle con dita leggere, ma lui non trovò nulla di strano a combattere nudo, perché fin dai tempi più remoti a cui risalivano i canti dei bardi, c'erano sempre stati alcuni Celti che andavano nudi in battaglia, non desiderando altra armatura che la loro furia. Con un ruggito di sfida, Viridovix avanzò verso i nomadi. Il suo sogghigno assunse una sfumatura acida quando vide le frecce incoccate negli archi ricurvi, ma per lo meno i Khamorth non lo abbatterono a prima vista, forse perché lo stavano fissando a bocca aperta, chiedendosi certo che sorta di uomo fosse quel gigante pallido dai peli rossicci. I nomadi parlarono fra loro, ed uno di essi accennò a Viridovix, dicendo qualcosa che doveva essere sconcio, perché tutti gli altri scoppiarono a ridere. La curiosità, però, non li avrebbe tenuti a bada a lungo, come dimostrava il fatto che già le frecce cominciavano a puntarsi di nuovo contro di lui. Viridovix mosse un ulteriore passo in avanti, e gli uomini delle pianure sollevarono l'arco in un gesto minaccioso. «Non c'è nessuno fra voialtri straccioni che parli un po' il videssiano?» gridò il Celta, esprimendo la propria sfida con il tono e con l'atteggiamento. Il caso volle che nessuno dei nomadi parlasse la lingua dell'impero, ma la discussione che intavolarono dopo la sua domanda permise a Viridovix
di individuare il loro capo, un barbaro snello dal volto duro coperto da una barba ricciuta che gli scendeva fino a metà del torace. «Tu!» esclamò il Celta, indicando il Khamorth con la spada. Il nomade lo fissò, impassibile. «Sì, tu, tu furfante che va a letto con le pecore!» ribadì Viridovix, ripetendo l'insulto nello scadente khamorth che era capace di mettere insieme. Quando il nomade cominciò ad arrossire lentamente, il Gallo gli rivolse un gesto che era una sfida ad affrontarlo in duello. Viridovix era consapevole del rischio che stava correndo. Se era sicuro del predominio che esercitava sui compagni, il Khamorth si sarebbe limitato ad ordinare loro di ucciderlo, senza scomporsi. Ma in caso contrario... gli uomini delle pianure stavano osservando il loro capo con estrema attenzione, nel silenzio che andava prolungandosi. Il nomade ringhiò qualcosa, dimostrando di essere furente, non spaventato, e balzò di sella con mosse da furetto... fluide, rapide, calibrate... che avvertirono il Celta di avere di fronte un avversario tutt'altro che facile. Lo shamshir del Khamorth sgusciò fuori dal fodero di cuoio su cui si contorcevano policrome bestie feroci, rappresentate nel contorto stile khamorth, poi il nomade avanzò, misurando al tempo stesso il Gallo con lo sguardo. La spada ricurva incontrò quella diritta, ed al primo attacco Viridovix indietreggiò di un passo, pensando che il nomade era davvero rapido come un furetto. Parò un fendente diretto alla coscia e ritrasse il braccio per evitarne un altro mentre l'uomo delle pianure, che ora sorrideva, divertito, si lanciava in avanti per finirlo, soltanto per essere arrestato di colpo dall'affondo diritto del Celta... gli anni che Viridovix aveva trascorso con i Romani non erano stati spesi invano. La sua spada però, al contrario di quella di Scaurus, non aveva una punta affilata, e la casacca di spesso cuoio del nomade le impedì di penetrare. Con un grugnito, il Khamorth si ritrasse a sua volta. Essendosi colti di sorpresa a vicenda, i due uomini duellarono con cautela per qualche tempo, ciascuno cercando nell'altro una debolezza da sfruttare a proprio vantaggio. Viridovix si lasciò sfuggire un sibilo irritato quando la punta della lama del nemico gli tracciò sul petto una linea sottile, poi emise un brontolio, disgustato della propria goffaggine, quando incassò una seconda ferita leggera, questa volta al braccio sinistro. A quel punto, decise che i suoi antenati erano stati degli idioti a combattere nudi... c'erano troppe parti esposte da proteggere. Il nomade era ancora illeso, e anche se Viridovix era più forte e aveva un allungo maggiore, era evidente
che alle lunghe la rapidità sarebbe stata il fattore decisivo. «Bene, allora dovremo abbreviare le cose» disse a se stesso il Gallo, e balzò contro l'uomo delle pianure, tempestandolo di colpi da tutte le direzioni, nel tentativo di sopraffarlo con la maggiore potenza dei propri muscoli. Il suo opponente si ritrasse con qualche passo scattante, ma uno stivale gli scivolò sul fango, obbligandolo a parare disperatamente quando la lama di Viridovix scese con violenza su di lui. Il nomade riuscì a deviare il colpo, ma la spada gli sfuggì di mano e volò lontano, andando a conficcarsi con la punta nel fango. Un mormorio corale salì dai Khamorth ancora in sella. Ora che pensava di avere il loro capo alla sua mercé, Viridovix non aveva però nessuna intenzione di ucciderlo... era impossibile prevedere come gli uomini delle pianure avrebbero reagito ad un atto di quel genere. Quando però avanzò con sicurezza per sfilare il coltello dalla cintura del nomade, in segno di vittoria, il Khamorth gli calò la mano sul polso, di taglio, e la spada gli sfuggì dalle dita improvvisamente paralizzate. «No, furfante dal cuore nero, non ci riuscirai!» esclamò il Gallo, quando il suo nemico impugnò il coltello. E afferrò il nomade in una morsa da orso, trascinandolo a terra in un corpo a corpo. Il Khamorth sferrò una testata contro il mento di Viridovix, che vide le stelle e sputò una boccata di sangue, essendosi morsicato la lingua, ma non staccò la sinistra dal polso destro dell'avversario. Con la mano libera, colpì più volte il nomade sul dietro del collo... forse non era una mossa sportiva, ma di certo era efficace, perché finalmente il Khamorth si accasciò nel fango con un gemito soffocato. Con il corpo madido di sudore, Viridovix recuperò la spada e fronteggiò i nomadi ancora a cavallo, che lo fissarono a loro volta, incerti quanto lo era lui. «Non l'ho ucciso, sapete» disse, accennando in direzione del loro capo, «anche se per i prossimi giorni lui desidererà il contrario» aggiunse, pensando ai violenti dolori alla testa di cui ancora soffriva a causa dei colpi inflittigli da Varatesh. Si accoccolò accanto all'avversario sconfitto, che accennava a riprendere i sensi, e gli altri Khamorth sollevarono l'arco in un gesto di avvertimento. «Non intendo fargli del male» affermò Viridovix. Gli uomini non capirono neppure questa volta le sue parole, ma si rilassarono quando lo videro aiutare il loro compagno a sedersi; il barbaro gemette e si strinse la testa fra le mani, ancora stordito.
Uno degli altri Khamorth gettò allora l'arco all'uomo che aveva accanto, smontò e si accostò a Viridovix, tenendo aperte le mani davanti a sé. «Tu» disse, indicando il Celta, che annuì, perché quella era una parola che conosceva. Il nomade indicò poi la fila di cavalli che Viridovix aveva con sé. «Dove?» chiese, e ripeté parecchie volte la parola, accompagnandola con i gesti, finché l'altro comprese. «Oh, vuoi sapere dove ho trovato queste bellezze, vero? Le ho rubate a Varatesh, e se te lo dico ci puoi credere» dichiarò il Celta, orgoglioso del proprio operato di per se stesso, e non soltanto perché gli aveva permesso di fuggire: in Gallia, come fra i nomadi, il furto del bestiame era un divertimento, anzi quasi un'arte vera e propria. «Varatesh?» Tre dei Khamorth pronunciarono quel nome contemporaneamente, perché era l'unica cosa che avevano capito di tutto il discorso di Viridovix, e perfino il loro capo, per quanto intontito, sollevò di scatto la testa, lasciandola però poi ricadere con un gemito. I nomadi riversarono una pioggia di eccitate domande sul Gallo, che agitò le mani per indicare che non capiva. L'uomo che era smontato ridusse i compagni al silenzio. «Tu e Varatesh?» domandò poi, con un ampio, artificiale sorriso, e ripeté la domanda aggrottando la faccia in uno spaventoso cipiglio. «Sei un tipo intelligente, vero?» esclamò il Celta. «Io e Varatesh...» disse e contorse la faccia nella smorfia più orribile che riuscì ad immaginare, sferzando l'aria con la spada per buona misura. Soltanto dopo averlo fatto si rese conto che quei Khamorth potevano benissimo essere amici del fuorilegge. Ormai, comunque, non poteva tornare indietro, e una menzogna avrebbe avuto le stesse probabilità di metterlo nei guai di quante ne aveva la verità. Invece, aveva risposto nel modo giusto, perché gli uomini delle pianure gli sorrisero per la prima volta, e quello che era smontato di sella gli porse la mano. Viridovix la strinse con cautela, spostando la spada nella sinistra, ma la cordialità del Khamorth era sincera. «Yaramna» disse l'uomo, battendosi un colpetto sul petto, poi indicò i compagni ancora a cavallo. «Nerseh, Zamasp, Valash. Rambehisht» aggiunse, accennando al suo capo. «Altri nomi da scioglilingua» sospirò Viridovix, fornendo poi il proprio. A quel punto, ebbe due ispirazioni, una dietro l'altra. Innanzitutto, recuperò la sciabola di Rambehisht e la restituì al proprietario; questi non era ancora in condizione di alzarsi in piedi, e tanto meno di mostrare gratitudine, ma i
suoi compagni emisero mormorii di apprezzamento. Il Gallo tornò poi verso i suoi cavalli, recuperando al tempo stesso gli indumenti dalla groppa di quello che aveva montato, e si servì della spada per staccare alcuni animali dalla fila e regalarne cinque o sei a testa a ciascun nomade, tenendo per sé quelli che erano appartenuti a Varatesh, perché in questioni del genere si fidava del giudizio del capo dei fuorilegge. Non avrebbe potuto scegliere un miglior dono d'amicizia per tutto l'oro del mondo: i Khamorth, con l'eccezione di Rambehisht, si raccolsero intorno a lui, stringendogli la mano, battendogli pacche sulla schiena e gridando nella loro lingua, e perfino il loro capo riuscì ad abbozzare un tenue sorriso, pur dando l'impressione di soffrire al minimo movimento facciale. Viridovix aveva cercato di dargli alcuni fra gli animali migliori che aveva con sé, perché non voleva procurarsi un nemico permanente, se poteva evitarlo. Con altri gesti e qualche parola che il Celta conosceva, Yaramna spiegò che sarebbero presto tornati alle tende del clan. «Proprio quello che speravo di sentirti dire» replicò Viridovix, ma Yaramna comprese meglio il cenno di assenso e il sorriso che accompagnarono le parole. Il Khamorth si accigliò, irritato per la difficoltà a comunicare, ma alla fine riuscì a far capire a Viridovix che nel clan c'erano alcuni uomini che parlavano il videssiano. «Noi tutti facciamo del nostro meglio, e basta» dichiarò Viridovix, scrollando le spalle, perché aveva già preso la decisione di imparare la lingua delle steppe. D'un tratto, scoppiò a ridere, e Yaramna e gli altri Khamorth lo guardarono con aria perplessa. «No, non ha niente a che vedere con voi» spiegò Viridovix, pensando che non avrebbe mai creduto che sarebbe giunto un giorno in cui avrebbe cominciato ad esprimersi come Scaurus. Varatesh aveva le mani ancora gonfie, e i segni lasciati dai lacci che Viridovix aveva usato per legarlo spiccavano rossi e profondi sui suoi polsi. Se il piccolo coltello che lui portava sempre nella tasca ricavata nel fianco di uno stivale non fosse sfuggito all'attenzione del Gallo, il fuorilegge sarebbe stato ancora legato; così, invece, Khuraz aveva tirato fuori la lama strisciando nel fango fino a dove si trovava Varatesh, e lavorando schiena contro schiena con il suo capo era riuscito a tagliare i lacci che gli blocca-
vano le mani... ed anche la carne, più di una volta. Il fuorilegge serrò i pugni doloranti e cercò con scarso successo di ignorare il dolore lancinante alla testa. Non gli piaceva perdere, tanto meno di fronte ad un uomo che avrebbe dovuto essere impotente e suo prigioniero, e neppure gli piaceva la prospettiva della settimana abbondante di cammino che aspettava lui e i suoi compagni, se non fossero riusciti a rubare dei cavalli. Ciò che meno gli piaceva, però, era la prospettiva di spiegare ad Avshar come la preda fosse sfuggita alle loro reti: l'ira del principe-mago sarebbe stata violenta, ma la cosa peggiore sarebbe stata che Avshar avrebbe pensato che Varatesh in fin dei conti non era altro che uno stupido barbaro... pervaso da una furiosa umiliazione, il fuorilegge si morse un labbro. Quando la nera ondata d'ira si fu dissolta, Varatesh scoprì di essere di nuovo in grado di pensare, nonostante il dolore alla testa, e infilò una mano nella tunica per recuperare il cristallo incantato che Avshar gli aveva dato: tenendolo con delicatezza fra le dita, rimase a guardare mentre le nebbia arancione pervadeva le sue profondità. «Est» grugnì poi, sorpreso, sbirciando l'area limpida in cui la nebbia si rifiutava di penetrare. «Perché quel miserabile cane sta andando ad est?» Si chiese se il cristallo si fosse guastato, ma decise che non era possibile. Quando lo avevano catturato, però, lo straniero dai capelli rossi era diretto ad ovest, ed era insieme ad un Arshaum. Confuso, Varatesh si tormentò la barba, perché diffidava di ciò che non capiva. «A chi importa un accidente di dove stia andando?» domandò Bikni, ancora steso a terra. «Io dico che è un bene esserci liberati di lui.» Akes, che sedeva anche lui sul terreno bagnato, si mostrò d'accordo con il compagno. I tre seguaci superstiti di Varatesh erano tutti ancora scossi e doloranti per la botta in testa inflitta loro da Viridovix; anche il loro capo era nelle stesse condizioni, ma traeva energia dalla sua notevole forza di volontà, mentre gli altri tre si accontentavano di rimanersene per terra come cani battuti dal padrone. «Ad Avshar importerà» ribatté Varatesh e gli altri sussultarono, nonostante l'intontimento. «Ed importa anche a me» aggiunse il bandito, esibendo il coltello che aveva tolto a Khuraz non appena questi lo aveva liberato. «Dovremo camminare a lungo per raggiungere i nostri compagni» gemette Bikni. «Non abbiamo cavalli, né armi né cibo... e sai anche tu quanto valga quel tuo dannato coltello giocattolo, Varatesh. Non molto.»
«Cammineremo.» dichiarò Varatesh. «Arriverò a casa, anche a costo di mangiare voi tre lungo la strada. E» concluse, in tono più sommesso, «allora pareggerò i conti.» Quando si avviò verso nord, gli altri tre Khamorth lo seguirono, sia pure gemendo, borbottando e barcollando, così come un pezzo di ferro avrebbe seguito una calamita. Prevalis figlio di Haravash tornò al galoppo verso il gruppo degli inviati, abbandonando la sua posizione in testa alla colonna. «Più avanti c'è qualcosa» avvertì il giovane soldato. «Qualcosa» borbottò Agathias Psoes, levando gli occhi al cielo, poi aggiunse, in tono seccato: «Allora, di che si tratta?» A quel punto, entrambi i militari presero ad esprimersi in quel misto di videssiano e di khamorth che formava la lingua franca usata a Prista, e Gorgidas perse il filo della conversazione. Dopo tanti giorni in cui la monotonia non era stata infranta da altro che dal saltuario apparire di qualche mandria all'orizzonte, qualunque cosa sarebbe stata un sollievo, pur di infrangere la noia del viaggio. Arigh affermava che lo Shaum, il grande fiume che segnava il confine fra le terre dei Khamorth e quelle degli Arshaum, era vicino, anche se il Greco non aveva idea di come facesse a saperlo, dal momento che per lui un pezzo di quella steppa interminabile era esattamente identico al precedente. «Cosa stanno farfugliando?» chiese Goudeles, in tono impaziente, perché essendo originario della capitale non capiva il dialetto della frontiera più di quanto ci riuscisse Gorgidas. «Chiedo scusa, signore» rispose Psoes, tornando ad esprimersi nella lingua imperiale. «Abbiamo avvistato un accampamento di nomadi, ma sembra che ci sia qualcosa che non va.» «Dove sono i loro armenti?» intervenne Skylitzes, poi si girò verso Prevalis. «Questo posto di molte tende, dov'è?» L'ufficiale non aveva problemi ad utilizzare il gergo che Videssiani e nomadi impiegavano per comunicare. «Lo vedrai appena avrai superato la prossima altura» rispose il soldato, con un sorriso, passando alla lingua ufficiale in modo che anche Goudeles, Arigh e Gorgidas potessero capire le sue parole. Il consueto cipiglio di Skylitzes si accentuò. «Così vicino? Allora dove sono i loro dannati armenti?» Il militare si guardò intorno, quasi aspettandosi di vedere gli animali sbucare dal nulla.
Come aveva affermato il figlio di Haravash, il gruppo avvistò l'accampamento non appena raggiunse la sommità di una gobba del terreno. Ricordando le tende a vivaci colori degli Yezda, che aveva visto anche troppo spesso nel Vaspurakan e nelle terre occidentali di Videssos, Gorgidas si era aspettato di trovarsi di fronte qualcosa di simile, ma non fu così: il campo appariva triste e quieto... troppo quieto, pensò il Greco, dato che anche da quella distanza lui avrebbe dovuto poter scorgere il fumo dei fuochi da campo stagliarsi contro il cielo e vedere gruppi di cavalieri spostarsi da una tenda all'altra, anche se piccoli come mosche per la lontananza. «Una pestilenza?» si domandò, ad alta voce, ricordando gli scritti di Tucidide e come Atene fosse stata appunto devastata da una pestilenza all'inizio della Guerra del Peloponneso, e sentì i capelli rizzarglisi in testa. La peste era un male che nessun dottore poteva curare... anche se era impossibile immaginare quali meraviglie potessero compiere i preti-guaritori videssiani. «Secondo me» osservò Goudeles, che certo doveva essere meglio informato del Greco in merito ai poteri curativi dei preti di Phos, «la cosa migliore sarebbe quella di effettuare un ampio giro ed evitare ogni rischio.» Per qualche oscuro motivo, Gorgidas si sentì confortato dall'idea che il diplomatico videssiano temesse la malattia tanto quanto lui. «No» ribatté Lankinos Skylitzes. Goudeles accennò a protestare, ma il militare lo interruppe, aggiungendo: «La peste avrebbe sterminato le mandrie dei nomadi o le avrebbe risparmiate, ma non le avrebbe spinte alla fuga.» «Hai ragione, imperiale» convenne Arigh. «La peste fa fuggire soltanto le persone, non gli animali.» I suoi occhi obliqui fissarono Goudeles con espressione beffarda. «Come volete, allora» cedette il burocrate, facendo del proprio meglio per non mostrarsi preoccupato. «Se la febbre dovesse sciogliere il midollo nelle mie ossa, almeno saprò di morire in compagnia di gente coraggiosa.» E spinse il cavallo al trotto, oltrepassando Arigh e puntando verso l'accampamento. L'Arshaum lo seguì, con un'espressione molto meno astuta e compiaciuta di quella che aveva esibito poco prima, e il resto del gruppo si accodò ai due. Il ragionamento di Skylitzes rassicurò soltanto in parte Gorgidas, perché era possibile che la pestilenza avesse colpito il campo parecchio tempo prima e che gli animali si fossero allontanati per mancanza di sorveglianza. Quando però i suoi compagni lanciarono esclamazioni allarmate alla vista
di tre o quattro corvi e di un avvoltoio che avevano spiccato il volo all'avvicinarsi dei cavalieri, il Greco si appoggiò all'alto arcione posteriore della sella con un sospiro di sollievo. «Da quando gli uccelli di morte sono diventati un buon segno?» gli chiese Psoes. «Da adesso» rispose Gorgidas, «perché la loro presenza significa che non c'è nessuna pestilenza. Gli uccelli evitano i cadaveri di chi muore di peste, oppure li mangiano e muoiono della stessa malattia.» A meno che, sussurrò una parte ancora timorosa della sua mente, le informazioni date da Tucidide fossero errate. Quando il gruppo giunse più vicino, però, divenne chiaro che non era stata una pestilenza a devastare il campo, bensì la furia della guerra. I carri erano gusci sventrati, alcuni appoggiati su un lato, come ubriachi, perché una ruota era bruciata; delle tende rimanevano soltanto i resti carbonizzati del feltro e del cuoio che le aveva ricoperte e i pochi brandelli intatti si agitavano al vento come dita scheletriche: quello era un luogo in cui la morte dominava da tempo. Qualche altro uccello si levò in volo al sopraggiungere dei cavalieri nel campo distrutto... ma non molti, perché non rimaneva quasi più nulla da mangiare e il fetore della morte cominciava già a svanire. Quelli che fissarono i nuovi venuti con occhi vacui, quasi risentiti dell'intrusione di qualcosa di vivo nel loro mondo statico, furono soltanto scheletri. I cadaveri di uomini, donne, bambini e animali erano sparsi tutt'intorno alle tende. Un nomade stringeva ancora in mano l'elsa della spada, la cui lama infranta giaceva a qualche metro di distanza: spezzata, l'arma era stata abbandonata dai saccheggiatori perché inutile. L'uomo aveva il cranio sfondato da un colpo d'ascia, e poco lontano da lui c'erano i resti di quella che era stata una donna. Il cadavere era nudo, e le ossa erano ancora rivestite da una sufficiente quantità di carne perché Gorgidas potesse notare che la gola della donna era stata tagliata. Vivendo con le legioni, e poi qui a Videssos, il Greco aveva assistito a più morti violente di quante gli andasse di ricordare, ma la devastazione di quel campo costituiva un atto di distruzione totale e inutile, compiuta per puro piacere, che gli fece accapponare la pelle. Il suo sguardo vagò da uno all'altro dei suoi compagni: Goudeles, che aveva ben poche esperienze in fatto di guerra, era impallidito, ma non era il solo. I soldati di Psoes, Skylitzes e perfino Arigh, che si mostrava sempre orgoglioso della propria durezza... tutti erano sconvolti da ciò che stavano vedendo.
Sembrava che nessuno fosse capace di parlare per primo, di infrangere quel silenzioso e orribile incantesimo. «Dunque» disse infine Gorgidas, più a se stesso che a chiunque altro, «è così che si fa la guerra, qui sulle pianure.» «No!» esclamarono all'unisono Skylitzes, Psoes e tre soldati. Un corvo gracchiò con indignazione per quel grido e si allontanò saltellando, troppo satollo per spiccare il volo. «Questa non è guerra, straniero» aggiunse Psoes, più rapido di lingua di Skylitzes. «Questa è follia.» Il Greco non poté che chinare il capo in un gesto di assenso. «Tuttavia gli Yezda arriverebbero a tanto» affermò, e subito la sua agile mente giunse alla conclusione successiva, inducendolo a concludere: «E anche loro sono originari delle steppe...» «Ma è stato nel Makuran... la terra che ora si chiama Yezd... che hanno imparato a venerare Skotos» ribatté Psoes, e tutti i Videssiani sputarono in segno di rifiuto di quel nero dio. «Gli uomini delle pianure sono pagani, d'accordo, ma sono gente per bene, nella misura in cui possono esserlo dei pagani.» In Videssos, Gorgidas aveva sentito versioni diverse da quella, ma Psoes conosceva i Khamorth meglio della gente che viveva nell'impero vero e proprio; il Greco si chiese fino a che punto il sottufficiale fosse affidabile, considerata la sua amicizia con i nomadi, poi scosse il capo, pensando che la storia si stava rivelando un campo altrettanto indefinito quanto la medicina. Quel breve momento di riflessione si concluse violentemente quando i suoi occhi acuti scorsero il simbolo intagliato rozzamente nel lato di una cassetta di legno di cedro: Gorgidas aveva visto troppo spesso quelle tre linee affiancate e simili a lampi fra le rovine delle città e dei monasteri videssiani per non riconoscere subito il simbolo di Skotos. Puntò il dito in quella direzione e Psoes, nel seguire la sua indicazione, sussultò come se fosse stato punto: anche lui sapeva cosa significasse quel simbolo. Il Videssiano sputò ancora e si tracciò sul petto il segno circolare di Phos, imitato da Skylitzes, da Goudeles e dai soldati videssiani. Arigh e i Khamorth, invece, assunsero un'espressione perplessa, chiedendosi come mai i loro compagni fossero tanto turbati da una rozza incisione che era per loro insignificante, di fronte alla devastazione circostante. «Non lo avrei mai pensato» dichiararono, quasi nello stesso momento,
Skylitzes e Psoes, poi Skylitzes scese di sella e si accoccolò accanto alla cassetta con il simbolo profano. Il devoto ufficiale sputò una terza volta, direttamente sul segno di Skotos, quindi estrasse pietra e acciarino dalla cintura e fece piovere alcune scintille su un mucchietto d'erba. Il fuoco, però, stentò ad attecchire, perché l'erba era ancora umida per le recenti piogge. «I rinnegati di Varatesh. Devono essere stati loro» ripeté più volte Psoes, mentre Skylitzes persisteva con rabbia nei suoi tentativi di accendere il fuoco. La voce del sottufficiale suonò profondamente sconvolta, come se lui stesse cercando una spiegazione, una qualsiasi, per giustificare il massacro avvenuto in quel luogo. «I rinnegati di Varatesh.» «Ah!» esclamò Skylitzes, che era finalmente riuscito ad ottenere una lingua di fiamma. Il militare accostò la cassa di cedro ad un angolo del piccolo fuoco che, alimentato dall'esca, prese a lambire anche il legno: il simbolo di Skotos svanì, carbonizzato. «Così alla fine la luce espellerà per sempre l'oscurità» recitò Skylitzes, e insieme agli altri Videssiani si tracciò ancora il simbolo del sole sul petto. «Ma com'è che i nomadi stanno imparando a venerare Skotos?» si chiese ad alta voce Gorgidas, mentre il gruppo si lasciava alle spalle il campo devastato. «Un dio malvagio per uomini malvagi» sentenziò Goudeles, una risposta che per il Greco fu peggio che inutile. Prima di trovarsi di fronte a quell'orrore, aveva sempre avuto l'impressione che gli uomini delle pianure fossero come tutti gli altri... barbari, sì, ma con una natura che era un misto di bene e di male, come quella di chiunque. Inoltre, il culto di Skotos non era certo originario delle steppe, visto che né i soldati khamorth né Arigh ne avevano riconosciuto il simbolo. In Yezd, tuttavia, i nomadi invasori avevano abbracciato la fede di quel dio malvagio con selvaggio entusiasmo... e, a rifletterci bene, neppure questo era normale, considerato che, prima della conquista da parte dei nomadi, Yezd era stato Makuran, un impero rivale di Videssos ma civilizzato e con una sua religione, che si basava sul culto dei venerati Quattro Profeti dei Makurani. Da dove era nato quindi il culto di Skotos, cosa collegava i lontani Yezda con quell'accampamento fin troppo vicino? Lankinos Skylitzes non ebbe difficoltà a stabilire un legame fra le due cose. «Avshar si trova con Varatesh» spiegò, come se stesse parlando ad un bambino stupido, e Gorgidas dovette ammettere che il ragionamento era
perfetto, arrossendo di rabbia per non averci pensato da solo. Gli Yezda, però, ricordò il Greco, avevano iniziato ad invadere il Makuran mezzo secolo prima... Un brivido gli corse lungo la schiena. Chi, o cosa era dunque Avshar? Valash, che era in testa alla mandria, tornò indietro al galoppo verso i compagni e gridò nella sua lingua qualcosa a cui il resto dei Khamorth rispose con entusiasmo, la soddisfazione dipinta sui volti barbuti. Perfino Rambehisht, ancora inacidito dalla sconfitta, abbozzò un sorriso, pur gratificando Viridovix di un'occhiata indecifrabile. «Siamo finalmente al campo, ci scommetto, ed era ora. Adesso verremo al dunque» commentò Viridovix, che aveva trascorso gli ultimi quattro giorni aiutando i nomadi a occuparsi della mandria, in attesa che Zamasp tornasse con i sostituti che era andato a chiamare. Si era trattato di un lavoro assolutamente monotono e noioso, perché il bestiame era stupido, una stupidità che sembrava aumentare in proporzione al numero di bestie raccolte tutte insieme. Inoltre, Viridovix non aveva potuto abbandonarsi al rilassamento che di solito si può trarre da un lavoro poco impegnativo, perché la sua vita era ancora nelle mani di un gruppo di nomadi che non poteva definire amici. In sella ad uno degli animali che il Celta gli aveva regalato, Yaramna si avvicinò a Viridovix. «Buon cavallo» disse, battendo una pacca affettuosa sul collo della bestia. Viridovix conosceva la seconda parola grazie ad un'imprecazione khamorth, e dedusse la prima dal gesto del nomade. «Lieto che ti piaccia, davvero» rispose, e Yaramna fu rapido quanto lui a comprendere il senso della frase, se non i singoli termini. Il campo dei Khamorth si allargava sulla pianura, con tende e carri sparpagliati alla rinfusa, dove i loro proprietari avevano deciso di sistemarli. «Certo che Gaius Philippus avrebbe una crisi isterica, se potesse vedere questa confusione» rise Viridovix. «L'ordine di un campo romano manca completamente. Bene, ho sempre preferito la libertà e la comodità all'ordine.» Tuttavia, gli anni trascorsi con i legionari lo indussero ad accigliarsi quando vide... e annusò... mucchi di rifiuti vicino ad ogni tenda, quando si accorse che la gente espletava i suoi bisogni dovunque si trovasse, con la stessa noncuranza dei cavalli che vagavano liberamente per il campo. Quello non era il modo giusto di organizzare un accampamento: i Celti, pur non essendo portati all'ordine quanto i Romani, erano comunque un
popolo amante della pulizia. La vista di uno straniero, soprattutto di uno dall'aspetto strano come il Gallo, indusse i nomadi a gridare e a indicare il nuovo venuto; alcuni si ritrassero, altri si accalcarono per osservarlo più da vicino. Un bambinetto, più coraggioso di alcuni guerrieri, si allontanò di corsa da un fuoco da campo per toccare la punta dello stivale dello straniero e Viridovix, che amava i bambini, fermò il cavallo. «Boo!» esclamò e, quando il piccolo sgranò gli occhi e si girò, fuggendo, scoppiò in un'altra risata nel notare che i suoi calzoni, diversamente da quelli degli adulti, erano privi della parte posteriore. «Accidenti!» esclamò. «È un sistema davvero intelligente.» La madre del bambino afferrò il figlio e gli assestò uno sculaccione sul sedere nudo, un vantaggio offerto da quel genere di pantaloni a cui il Celta non aveva pensato. «Povero piccolo» commentò il Gallo, sentendo gli strilli indignati del bambino. Valash condusse i compagni e Viridovix fino ad una tenda rotonda a forma di cupola, molto più bella di tutte le altre. Una pelle di lupo appesa ad un palo, davanti ad essa, e le due sentinelle ferme accanto alla soglia, intente a mangiare un po' di formaggio, indicavano che si trattava della tenda del capo del clan. Ricami di bestie e demoni, raffigurati nel contorto stile dei nomadi, decoravano il feltro verde della tenda, e scene simili erano dipinte sul legno del carro su cui la capanna smontata veniva caricata durante gli spostamenti. Accanto a quello, c'erano file di altri veicoli, su cui erano ammucchiate casse di legno coperte da un lucido strato di sego che serviva a renderle impermeabili. Il Gallo vide che le ricchezze erano una cosa riservata soltanto al capo, in quanto quasi tutte le altre tende erano più piccole e formate da teli più sottili, abbastanza leggeri perché un uomo solo potesse piegarli e un cavallo trasportare tanto i teli e i bastoni che costituivano l'intelaiatura, quanto una buona parte dei beni della famiglia. Mentre il capo del clan aveva decine di carri allineati accanto alla sua tenda, la maggior parte degli uomini della tribù ne possedeva al massimo tre o quattro... a volte addirittura nessuno... e questo indusse Viridovix a revisionare la propria valutazione: sulle pianure, la vita poteva anche essere libera, ma era tutt'altro che facile. Una delle sentinelle leccò il cucchiaio d'osso per pulirlo e sollevò lo sguardo sul gruppo di Valash, indicando Viridovix e chiedendo qualcosa in khamorth. I due uomini conversarono per qualche secondo, e il Celta
sentì ripetere più volte il nome "Targitaus", che dedusse essere quello del capo. Alla fine, la sentinella lo sorprese rivolgendogli la parola in un videssiano fortemente accentato. «Tu aspetta. Targitaus, io dico lui tu qui.» L'uomo accennò ad entrare nella tenda, ma Viridovix lo richiamò. «Vostro onore sa se Targitaus conosce la lingua dell'impero?» «Oh, sì. Lui va Prista molte volte... commercia. Saccheggia, una volta, ma molto tempo fa.» La sentinella scomparve all'interno e Viridovix esalò un sospiro di sollievo al pensiero che almeno non avrebbe dovuto ricorrere ad un interprete per spiegarsi: cercare di parlare in modo tale da fare effetto passando attraverso un interprete era come gridare sott'acqua... i suoni arrivavano all'orecchio dell'altro, ma non avevano molto significato. La sentinella tornò quasi subito e si rivolse prima al Khamorth e poi a Viridovix. «Tu ora entri. Tu vedi Targitaus, tu inchino, sì?» «Lo farò» promise il Celta, e smontò, imitato dai nomadi. La seconda sentinella prese in consegna i cavalli, mentre la prima tenne sollevato il telo d'ingresso della tenda, che era rivolto ad ovest, lontano dal vento. Viridovix pensò che era una cosa logica, ma l'idea di trascorrere un inverno nelle steppe, in una tenda, gli fece rizzare i peli rossi sulle braccia, come se fosse stato uno scoiattolo che gonfiava la pelliccia per difendersi dal freddo. Il Gallo dovette chinare la testa per varcare la soglia, che era bassa anche per un Khamorth, e quando risollevò lo sguardo un fischio di ammirazione gli sfuggì dalle labbra. I Romani, scoprì infatti, erano dei principianti, in fatto di tende, perché quella era grande quanto quattro di quelle usate dai legionari messe insieme e misurava una buona dozzina di passi di diametro. L'interno era rivestito di un tessuto bianco, e dava così l'impressione che l'ambiente fosse più ampio perché rifletteva la luce del fuoco che ardeva al centro del padiglione e quella delle lampade distribuite lungo il perimetro. Parecchie sacche di cuoio accatastate sul lato a nord contenevano altri beni di Targitaus, e gli uomini della famiglia avevano appeso sopra di esse archi e spade, mentre utensili da cucina, arcolai e altri attrezzi femminili erano distribuiti lungo la parete a sud. Fra i due lati, di fronte all'ingresso, c'era un grosso letto coperto di cuscini di lana rivestiti di feltro e, sebbene non ci fosse neppure un centimetro di spazio sprecato, l'interno della tenda non appariva ingombro.
Questo era di per sé un piccolo miracolo, perché il padiglione era pieno di gente, gli uomini sul lato a nord e le donne su quello a sud; un basso divano... l'unico vero pezzo di mobilio... si trovava fra il fuoco e il letto e Viridovix, ricordando l'ammonimento della sentinella, s'inchinò all'uomo adagiato su di esso, che di certo doveva essere Targitaus in persona. «Finalmente. Ci hai messo un bel po' a notarmi» commentò il capo dei nomadi, rivolto al Gallo, perché Valash e gli altri Khamorth si erano già inchinati. Il videssiano di Targitaus era molto più fluente di quello della sentinella, ma non era all'altezza di quello di Varatesh, e il khagan non sembrava eccessivamente irritato per l'esitazione del Gallo. Viridovix studiò per un momento l'uomo che avrebbe deciso della sua sorte: Targitaus era un individuo di mezz'età e tutt'altro che attraente... grasso, sfregiato, con un grosso naso ricurvo che doveva aver riportato una frattura molto tempo prima e che adesso puntava verso l'angolo destro della bocca. La lunga barba grigia e i capelli incolti che spuntavano sotto il cappello di pelo gli davano l'aspetto di un dente di leone pronto a scoppiare per spargere i suoi semi, ma nella rete di rughe che li circondava, gli occhi castani erano acuti in modo sconcertante. Essendo lui stesso un nobile e un capo, Viridovix riconobbe quelle qualità nel suo interlocutore. «Hai l'aspetto di un'Alugh» osservò Targitaus e a causa del suo accento gutturale Viridovix impiegò un momento a riconoscere il termine "Haloga". «Aggira il fuoco e avvicinati, in modo che possa vederti meglio» aggiunse il Khamorth, e Viridovix attraversò la parte della tenda riservata agli uomini, insieme a Rambehisht, a Yaramna e agli altri della sua scorta, mentre i nomadi seduti su cuscini o su pezze rotonde di stoffa si spostavano per lasciarli passare. «Sei grosso» commentò Targitaus, quando il Celta gli fu di fronte. «Perché sei così grosso? Sfianchi qualsiasi cavallo.» «Già, ecco... finché le ragazze non trovano da lamentarsi...» mormorò Viridovix, e il Khamorth rimase interdetto per un momento, prima di cominciare a ridacchiare. Il Gallo sorrise fra sé, pensando che non aveva sbagliato nel valutare quell'uomo. L'individuo che sedeva per terra, a destra del divano di Targitaus tradusse le parole di Viridovix a beneficio dei nomadi che non avevano capito. Quello era il primo Khamorth senza barba che il Gallo avesse mai visto; le guance rosee gli brillavano alla luce del fuoco, la sua voce aveva una tonalità fra il tenore e il contralto e il corpo grasso tendeva al massimo il tessuto della tunica che lo ricopriva.
«Questo è Lipoxais, l'enaree del clan» spiegò Targitaus, notando lo sguardo del Celta. «Il termine videssiano è "sciamano"» corresse Lipoxais, dimostrando un dominio quasi perfetto della lingua imperiale, e indirizzò a Viridovix un'occhiata tale da indurlo a chiedersi se l'enaree fosse un eunuco, come aveva inizialmente supposto, o avesse semplicemente tendenze verso l'altro sesso. «Sciamano, sì» annuì Targitaus, con impazienza. «Non discutiamo sulle parole, adesso.» I suoi occhi scrutarono Viridovix da testa a piedi, indugiando sulla lunga spada che gli pendeva dal fianco. «Raccontami la tua storia, prima, poi vedremo cosa ci sarà da dire.» «D'accordo» rispose il Celta, e cominciò dal momento in cui era stato rapito. «No, aspetta» lo interruppe subito il capo. «Cosa fai in Pardraya, innanzitutto? Tu non uomo dell'impero, non Khamorth, non Arshaum neppure... questo abbastanza evidente, per gli spiriti del vento!» E scoppiò in una risata un po' sibilante. Sia pure con un senso di panico, Viridovix disse la verità e quando Lipoxais la tradusse un coro di borbottii rabbiosi si levò dai nomadi raccolti intorno al fuoco. «Tu vai a guidare Arshaum attraverso Pardraya e vuoi mia gratitudine e mio aiuto?» ringhiò Targitaus, e posò la mano sulla sciabola, come per ricordare a se stesso dove l'aveva messa. «E perché no? Merito entrambe le cose» ribatté Viridovix, dicendo a se stesso che doveva dimostrare di avere più faccia tosta di tutti gli altri, perché se avesse ceduto di un solo palmo sarebbe stata la sua fine. Targitaus lo fissò e Lipoxais inarcò un sopracciglio ben curato, ma il Gallo si eresse sulla persona e squadrò dall'alto in basso il capo dei Khamorth, aggiungendo: «Quanti più Arshaum andranno a combattere in Videssos, e tanto meno numerosi saranno quelli che resteranno qui ad azzuffarsi con voi. Non è così, forse?» Targitaus si grattò il mento, mentre la voce acuta da contralto di Lipoxais traduceva le parole del Gallo; questi non osò guardarsi intorno per vedere come i nomadi stavano prendendo la cosa, ma il borbottio ostile cessò. «D'accordo» decise Targitaus. «Va' avanti.» Superato lo scoglio, Viridovix prese a narrare la propria storia con enfasi, e si conquistò la simpatia degli ascoltatori quando essi compresero che
lui e Varatesh erano nemici. «L'assassino di suo fratello, eh?» commentò Targitaus, e sputò nella polvere, davanti al divano. «Alcuni anni fa, lui tenta di entrare nel clan. Sua storia ancora peggiore della tua... lui non tralascia soltanto cose, lui dice anche menzogne.» Il Khamorth fissò Viridovix negli occhi, e il Celta non riuscì a evitare di arrossire. «Continua» lo incitò poi Targitaus. «Che altro dopo?» Viridovix cercò allora di mettere in guardia i nomadi contro Avshar, ma essi non conoscevano il nome del principe-mago e quindi non lo temevano. Augurando loro che gli dèi li preservassero dall'incontrare mai Avshar, il Gallo proseguì quindi descrivendo la sua fuga dal campo di Varatesh. Questa parte della storia provocò grida di apprezzamento da parte dei nomadi, quando Lipoxais la tradusse, e un "non male" da parte di Targitaus. Viridovix sogghignò, e si disse che il Khamorth doveva essere un tipo parco di lodi. «Con il buio e la pioggia, sono andato verso est anziché verso ovest, ed ho incontrato i tuoi ragazzi, qui» concluse. «Penso che preferirai sentire il resto da loro.» Interrompendosi di tanto in tanto l'uno con l'altro, i nomadi fornirono la loro versione dell'incontro con Viridovix, e ben presto lasciarono Targitaus a bocca aperta. «Nudo?» ripeté, fissando il Gallo. «È un'usanza a volte osservata dal mio popolo.» «Potrebbe essere dolorosa» fu l'unico commento del capo, poi i suoi uomini procedettero a descrivere il duello fra il Celta e Rambehisht, e a quel punto Targitaus rivolse una secca domanda al nomade in questione. «Cos'hai da dire per giustificarti, dopo essere stato sconfitto da un uomo nudo?» Lipoxais tradusse la domanda, e Viridovix s'irrigidì. Rambehisht doveva avere una posizione piuttosto importante nel clan, e se adesso avesse avanzato delle accuse, la situazione sarebbe potuta diventare spiacevole. L'uomo rispose però con una scrollata e una breve frase. «Mi ha battuto» tradusse letteralmente Lipoxais, e subito dopo Rambehisht aggiunse qualche altra parola. «La testa mi duole ancora... che altro posso dire?» «Già» convenne Targitaus, e dopo aver pronunciato quell'unica sillaba rimase a lungo in silenzio, rivolgendosi infine a Viridovix. «Allora, straniero, sei un guerriero, se non altro. Hai coraggio, ad affrontare un uomo
in quel modo.» «Coraggio? Ci puoi giurare che ne ho.» «Già» ripeté il Khamorth, grattandosi la testa. «E adesso?» «Se ti chiedessi una scorta fino alle terre degli Arshaum, scommetto che ci rimetterei la testa» rispose Viridovix, e non ebbe bisogno dei ringhi con cui i nomadi accolsero la traduzione di Lipoxais per capire che la cosa non era ben accetta, perché aveva cominciato con l'esporre quell'alternativa proprio per accantonarla subito e rendere più attraente ciò che voleva in effetti proporre. «Quindi, vostro onore, che te ne pare invece di questo? Varatesh è per te un cattivo vicino, non lo puoi negare. Ora, tu hai motivo di rancore verso di lui, e gli dèi sanno se ne ho anch'io...» nessun Videssiano era presente per gridare all'eresia, «...ed è probabile che questo valga anche per qualche altro clan dei dintorni. Non sarebbe una bella cosa stenderlo una volta per tutte... sì, e con lui anche i suoi cani rabbiosi?» Ed anche Avshar, aggiunse, ma soltanto nella sua mente. Mormorii gutturali si levarono tutt'intorno al fuoco, mentre i nomadi riflettevano sulla proposta. «Rancore?» ripeté Targitaus, in tono sommesso. «Oh, sì, rancore.» Poi balzò in piedi e gridò qualcosa nel linguaggio delle pianure. «La cosa vi piace, fratelli?» tradusse Lipoxais per Viridovix, e il ruggito di risposta poté soltanto essere un assenso. Con un sorriso da predatore sul volto, Valash assestò una pacca sulla schiena del Gallo. Come capo, però, Targitaus aveva imparato ad essere cauto. «Enaree!» chiamò, e Lipoxais si alzò in piedi accanto a lui. «Trai i presagi per vedere se questa impresa sarà buona o cattiva per il clan.» Lipoxais chinò il capo e si coprì la faccia con entrambe le mani in un gesto di obbedienza, poi si rivolse a Viridovix. «Vieni qui dietro di me e mettimi le mani sulle spalle» gli ordinò, in tono quieto. Viridovix obbedì, e scoprì che la carne dell'enaree era calda e morbida quanto un cuscino. Lipoxais estrasse dall'interno della sua tunica una striscia di corteccia bianca larga due dita e lunga quasi quanto il suo braccio, la tagliò in tre pezzi uguali e se li avvolse intorno alle mani. Viridovix lo sentì irrigidirsi all'improvviso, e sollevare di scatto la testa all'indietro come se avesse avuto le convulsioni. Abbassando lo sguardo sul suo volto, il Celta vide che l'enaree aveva la bocca serrata e gli occhi fissi e sgranati, ma vitrei. Le mani di Lipoxais, intanto, si stavano muovendo come animate di vita propria, piegando e stendendo la corteccia che gli avvolgeva le dita.
La trance profetica si protrasse sempre più a lungo. Viridovix non aveva idea di quanto dovesse durare, ma dedusse dalla crescente preoccupazione che trapelava dallo sguardo di Targitaus che quanto stava accadendo non era normale e si chiese se fosse il caso di scuotere l'enaree dalla sua trance. Nonostante tutto, però, esitò a farlo, perché temeva di interferire con una magia che non poteva capire. L'enaree tornò infine in sé quando ormai Viridovix stava per decidersi a scrollarlo, senza più preoccuparsi se questo avrebbe o meno rovinato la riuscita dell'incantesimo. Con la faccia madida di sudore, e la tunica ora umida sotto le mani del Gallo, Lipoxais barcollò e si raddrizzò con l'aria di chi cerchi di riabituarsi alla terraferma dopo aver trascorso molto tempo sul mare. Questa volta, quando fissò Viridovix, il suo volto non espresse altro che meraviglia e un po' di timore. «Intorno a te c'è una forte magia» disse, «tua e di altri.» E scosse la testa, come per schiarirsi le idee. Targitaus gli chiese qualcosa, in tono brusco, ma Lipoxais rispose soltanto dopo qualche tempo, rivolgendosi poi ancora al Celta. «Attraverso tanta magia, ho potuto vedere ben poco» spiegò, «e quel poco era offuscato: cinquanta occhi, una porta nelle montagne e due spade. Non so però se questi siano segni buoni o cattivi.» Evidentemente contrariato di non poter apprendere altro, Targitaus rifletté, massaggiandosi il mento. Alla fine si raddrizzò e venne avanti, stringendo la mano a Viridovix. «Ci sono pari possibilità che il presagio sia buono o cattivo» disse, «e Varatesh ha bisogno che qualcuno gli tagli gli orecchi... fino al collo, direi.» Il suo tono era gioviale, ma il Gallo pensò che non sarebbe stato piacevole avere quell'uomo come nemico. «Ora» proseguì il Khamorth, dando l'impressione di usare quella parola per indugiare e raccogliere le idee. «Tu presti giuramento con noi, sì?» «Qualsiasi cosa piaccia a vostro onore» rispose all'istante Viridovix. «Bene» approvò Targitaus, e passò ad esprimersi nella sua lingua. Un giovane che aveva gli occhi e il naso come i suoi... il naso però non era storto... portò una grossa ciotola di terracotta e un otre pieno di kavass, che non era tuttavia del genere solitamente bevuto dai nomadi ma molto più scuro e forte, con un aroma simile a quello della birra. «Karakavass... kavass nero» spiegò Targitaus, versando il liquore nella ciotola. «La bevanda dei signori.» Però ancora non bevve. Estrasse invece un paio di frecce da una faretra e
le infilò nella ciotola con la punta all'ingiù, facendole seguire dal suo shamshir. «La tua spada, anche» disse a Viridovix. Il Celta la estrasse e la infilò fin dove poteva nel recipiente... un po' più che per metà. Targitaus annuì, poi estrasse il coltello e prese la mano del Gallo. «Non sussultare» ammonì, praticando un piccolo taglio sull'indice, in modo che il sangue di Viridovix gocciolasse nella ciotola. «Ora tu me» aggiunse, porgendo il coltello, e mentre il Gallo gli incideva l'indice rimase immobile come se fosse stato intagliato nella pietra. Adesso il sangue di entrambi era mescolato, e Viridovix pensò con approvazione che quella era una potente magia. Lipoxais iniziò a cantilenare una preghiera, e il gutturale linguaggio khamorth suonò strano, pronunciato nella sua voce acuta; Targitaus rispose di tanto in tanto alla preghiera, poi lasciò che l'enaree la portasse avanti da solo e si rivolse a Viridovix. «Giura in nome dei tuoi poteri di agire sempre come un fratello per questo clan e di non tradire mai né esso né nessuno dei suoi uomini.» Il Gallo indugiò appena un istante, per stabilire quali fra le divinità che riveriva fossero le più adatte per quel giuramento. «Lo giuro, in nome di Epona e di Teutates» dichiarò infine. La dea dei cavalli e il dio della guerra... quali poteri migliori avrebbe potuto invocare, in un giuramento con i nomadi? Mentre pronunciava quei nomi, i simboli druidici incisi sulla sua spada incantata emisero un bagliore dorato. Lipoxais aveva gli occhi chiusi, ma Targitaus notò la cosa. «La tua magia, sì» mormorò il Khamorth, fissando il suo nuovo alleato. Quando Lipoxais ebbe concluso le sue preghiere, il capo Khamorth estrasse le proprie armi dalla ciotola e Viridovix fece altrettanto, asciugando con cura la spada sulla camicia prima di riporla nel fodero. Infine Targitaus si chinò e si portò la ciotola alle labbra, bevendo un sorso e porgendola al Celta. «Unito il sangue, unita la sorte» disse, con l'aria di tradurre un proverbio. Viridovix bevve a sua volta, e scoprì che il karakavass era forte e saporito come il vino e destava nel corpo un piacevole senso di calore. Quando il Gallo ebbe sigillato il patto, i luogotenenti di Targitaus lasciarono il loro posto e vennero a condividere il contenuto della ciotola, mentre alcuni servi arrotolavano i panni su cui gli uomini si erano seduti, in modo da non disperdere neppure una preziosa briciola di cibo.
«Ora sei uno di noi» affermò infine Targitaus, sottolineando le parole con un rutto. «Altro kavass!» ordinò, e furono aperti nuovi otri, il cui contenuto non era la scura, forte bevanda usata per il cerimoniale ma era comunque di buona qualità. Viridovix trangugiò un lungo sorso e passò l'otre a Valash, che gli era accanto; a quell'otre ne seguì un secondo e poi un terzo, tanto che il Celta sentì la testa che cominciava a ronzargli. Targitaus spinse indietro il cappello di pelo di lupo che continuava a scivolargli da un lato e fissò Viridovix con occhi appannati dal liquore. «Tu uno di noi» ripeté, con accento più marcato di prima. «Tu dovresti essere felice, è il diritto di un uomo. Vedi una ragazza che ti piace?» «Bene, che io possa essere fritto come una salsiccia» esclamò il Gallo. «Non ho neppure guardato.» E il fatto che non avesse prestato attenzione alle donne presenti era un indice dell'ansia che lo aveva attanagliato. Adesso si affrettò a fare ammenda a quella mancanza. A volte, in questi casi, la solitudine lo trapassava come un coltello, quando rammentava le donne celtiche dalla carnagione chiara e dai capelli color del sole o rossi come i suoi, ma Viridovix non era uomo da vivere troppo a lungo nel passato, ed era solito cogliere le occasioni quando gli capitavano. Il ricordo di Komitta Rhangavve gli affiorò nella mente, strappandogli un sogghigno. Certo non si era aspettato di trovare simili bellezze nella tenda di Targitaus: come i Vaspurakani, anche i Khamorth avevano lineamenti più massicci dei Videssiani, e se i volti degli uomini spesso esprimevano una notevole personalità, quelli delle donne tendevano ad essere severi e arcigni. Gli abiti che indossavano, poi, non contribuivano certo a migliorare il loro aspetto, perché anche le donne portavano calzoni, tunica e mantelli di taglio identico a quello maschile e fatti anch'essi di pelli e di cuoio. Al posto dell'inevitabile cappello di pelo, però, sfoggiavano un copricapo di seta, conico e ornato di pietre a vivaci colori, il tutto sormontato da una cresta di penne d'anatra e di fagiano. Quel particolare migliorava un po' il quadro generale, ma non di molto. La cosa peggiore, pensò Viridovix, nel lasciar vagare lo sguardo lungo il lato meridionale della tenda, era che buona parte delle donne che vi si trovavano dovevano essere le mogli degli ufficiali di Targitaus, ed alcune di esse sembravano abituate a comandare quanto lo era il capo stesso dei nomadi, un aspetto che il Gallo non trovava più piacevole, dopo l'esperienza con Komitta. Le donne, intanto, lo stavano fissando a loro volta, con sconcertante franchezza, e Viridovix fu lieto di non poter capire i loro commenti.
Poi il suo sguardo si arrestò su una ragazza che sedeva non lontano dal divano di Targitaus. I suoi lineamenti, come quelli di Nevrat Sviodo, erano forti ma possedevano una loro bellezza, e alla fine il Celta decise che tutto dipendeva dai suoi occhi, che sembravano sorridere anche quando il resto del viso rimaneva immobile. La ragazza incontrò il suo sguardo con la stessa franca prontezza delle donne più mature, ma senza la loro rude derisione. «Quella è una bella ragazza» osservò infine Viridovix, rivolto a Targitaus. Le spesse sopracciglia del Khamorth scattarono verso l'alto come un segnale di pericolo. «Lieto che tu lo pensi» rispose, asciutto, Targitaus, «ma scegli un'altra, una serva, se non ti dispiace. Quella è Seirem, mia figlia.» «Och, chiedo scusa, davvero» si affrettò a dire Viridovix, arrossendo, consapevole di quanto fosse ancora fragile la sua posizione. «Come posso distinguere una serva dalla dama di qualche signore?» «Dal bughtaq, naturalmente» spiegò Targitaus, e quando si accorse che il Gallo non conosceva la parola, indicò con un cenno il copricapo delle donne. Viridovix annuì, rimproverandosi interiormente per non aver notato quel dettaglio. Il copricapo di Seirem era ornato anche da monete d'oro videssiane, oltre che da pezzi di giada e da opali, ed era chiaro che la ragazza non era una schiava. Alla fine, lo sguardo del Celta si arrestò su una donna di forse venticinque anni, che pur non avendo un volto espressivo quanto quello di Seirem era abbastanza attraente ed aveva un bel corpo; a parte qualche piccola pietra rosa e un pezzo di giada, il suo bughtaq era privo di ornamenti. «Se per te va bene, sceglierei quella» disse. «Chi?» Targitaus abbassò l'otre di kavass da cui stava bevendo. «Oh, Azarmi. Perché no? Serve mia moglie Borane.» Viridovix accennò allora alla ragazza di raggiungerlo, ed una delle altre donne, dal bughtaq colmo di gemme e dal fisico massiccio, disse alla serva qualcosa che fece scoppiare a ridere tutte le sue compagne. Azarmi scosse il capo, ma questo servì soltanto a scatenare maggiormente le risa delle altre donne. Il Gallo offrì ad Azarmi il kavass contenuto nell'otre che Targitaus aveva accantonato, perché la diversità di lingua rendeva loro difficile comunicare; quando la toccò, la ragazza non si ritrasse, ma non mostrò neppure un particolare entusiasmo.
Il suo atteggiamento che non mutò neppure più tardi, quando le stuoie vennero distese intorno al fuoco semispento: Azarmi era compiacente e non sembrava risentita, ma Viridovix non riuscì a destare passione in lei. Seccato, si concesse di pensare con desiderio a Seirem, che dormiva a poca distanza da lui, prima di scivolare a sua volta nel sonno. «Secondo mio padre, che lo aveva appreso da suo padre, quando gli Arshaum videro lo Shaum per la prima volta credettero che fosse un braccio di mare» disse Arigh. «Ci credo» commentò Gorgidas, che stava fissando la distesa azzurro cupo del fiume che scorreva maestoso verso il distante Mare Mylasa. Il Greco si riparò gli occhi, abbagliati dal vivido riflesso del sole pomeridiano sull'acqua, e cercò di stabilire quanto il fiume fosse largo, ma senza successo. Due chilometri? Tre? Quale che fosse la risposta giusta, a paragone dello Shaum il Kouphis, l'Arandos, qualsiasi corso d'acqua che Gorgidas avesse visto in Gallia, in Italia o in Grecia apparivano semplici rigagnoli. Si asciugò la fronte con il dorso della mano, e sentì la polvere sfregargli contro la pelle; Goudeles, ancora affettato pur avendo optato per un vestiario più pratico, si tolse un filo d'erba dalla manica. «Come faremo ad attraversarlo?» chiese, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Come se arrivarci non fosse stato già abbastanza arduo...» Il Greco pensò che era una domanda interessante, considerato che il guado più vicino doveva essere un centinaio di chilometri più a nord. Soltanto un semidio avrebbe potuto costruire un ponte sullo Shaum, e chi in quelle steppe scarse di legname poteva mai sapere come fabbricare una barca? «Come te la cavi a nuotare, Pikridios?» domandò Skylitzes, snudando i denti in un sogghigno. «Su una distanza del genere? Almeno bene quanto te, per Phos.» «I cavalli sono più bravi dell'uno o dell'altro di voi» intervenne Arigh. «Venite.» Li condusse quindi sulla riva dello Shaum, scese di sella, si spogliò e rimontò in groppa al suo cavallo, mentre il resto del gruppo lo imitava. «Spingete avanti la bestia che montate fino a quando è costretta a nuotare» spiegò, «poi scivolate di sella e tenetevi aggrappati al collo del cavallo. Io verrò per ultimo e tu, Psoes, farai attraversare i miei cavalli di scorta insieme ai tuoi. Io ne terrò soltanto uno e aspetterò per accertarmi che nessun animale decida di rimanere sulla terraferma.» L'Arshaum e-
strasse la sciabola e ne provò la punta con il pollice. Gorgidas staccò dalla sella la sacca di cuoio impermeabilizzato che conteneva il suo prezioso manoscritto. «La terrò con una mano» spiegò, notando che Arigh lo stava osservando, «perché il contenuto non si deve bagnare.» Il nomade scrollò le spalle: se il Greco intendeva rischiare la vita per amore di qualche pagina di appunti, quello era affar suo. «In ogni caso, scribacchino, tu galleggerai meglio di me» commentò Lankinos Skylitzes, osservando il corpo grassoccio di Goudeles, che si limitò a sbuffare. Con un colpetto di redini, Gorgidas incitò il cavallo ad avanzare. La bestia cercò di deviare quando si accorse che il cavaliere voleva spingerla nel fiume, ma lui diede di tallone e la costrinse a procedere in linea retta, colpendo ancora quando il cavallo agitò la testa all'indietro con aria risentita. Simile a un bagnante che controlli la temperatura dell'acqua con un piede, il cavallo avanzò con cautela, poi si arrestò ancora. «Ithi!» gridò il Greco, esasperato, nella propria lingua. «Avanti!» E sfilò un piede dalla staffa per assestare un altro calcio alla bestia, che però in quel momento si decise ad obbedire. Il cavallo sbuffò di paura nel momento in cui i suoi zoccoli non toccarono più il terreno, ma subito prese a nuotare vigorosamente verso la riva opposta che, vista da sopra il pelo dell'acqua, sembrava ora irraggiungibile, tanto era lontana. Sulla sponda orientale, uno dei cavalli di scorta di un soldato s'impennò, rifiutandosi di entrare nello Shaum, ma quando Arigh lo pungolò con la spada emise un sonoro nitrito e scattò in avanti, trascinando con sé altre due bestie riluttanti. La corrente del fiume non era forte quanto Gorgidas si era aspettato e, anche se sospinse verso sud i cavalli e i cavalieri, rendendo un po' più lungo il tragitto, non ostacolò però l'attraversata. L'acqua era molto fresca ed estremamente limpida, tanto che il Greco poteva scorgere i sassi e le alghe del fondale; quando era però circa a metà dell'attraversamento, sussultò, allarmato, alla vista di un pesce di colore scuro, più lungo dal muso alla pinna della coda di quanto lo fosse il suo cavallo. «Uno squalo!» gridò. «No, non ci sono squali nello Shaum» garantì Skylitzes. «Quel pesce è chiamato mourzoulin, da queste parti, mentre il nome videssiano è storione.» «Non mi interessa come lo chiamano» replicò il Greco, troppo spaventa-
to per essere curioso. «Morde?» «No, ha soltanto una piccola bocca priva di denti che gli serve per aspirare vermi e cose del genere.» «Salate, le sue uova sono ottime» aggiunse Goudeles, con soddisfazione. «Una prelibatezza.» «La carne è buona affumicata» rincarò Prevalis figlio di Haravash. «E dalla sua vescica natatoria noi ricaviamo... come si chiama un materiale che lascia passare la luce?» «Trasparente» lo aiutò Goudeles. «Grazie, signore. Sì, ricaviamo finestre trasparenti da inserire nelle tende.» «E se quel pesce sapesse cantare, suppongo che utilizzereste anche le sue canzoni» commentò, cupo, Gorgidas. Il brutto, grosso pesce appariva ancora pericoloso ai suoi occhi. Prevalis, però, prese sul serio le sue parole. «Sulle pianure, utilizziamo tutto, perché abbiamo troppo poco per commettere sprechi» dichiarò. Gorgidas gli rispose soltanto con un grugnito, e continuò a tenere d'occhio lo storione, o mourzoulin o come si chiamava. Il pesce, d'altro canto, non gli prestò la minima attenzione, e dopo un po' scomparve dal suo campo visivo. Quando finalmente la riva occidentale cominciò ad avvicinarsi, il Greco aveva ormai le braccia spezzate per la fatica di tenere l'apertura della sacca fuori dell'acqua, per quanto l'avesse passata di frequente da una mano all'altra. Questo fece sì che la sua presa intorno al collo del cavallo divenisse meno salda, e la riva distava ormai trenta metri quando la sua stretta cedette. Gorgidas si agitò freneticamente.... poi urtò il fondale con i piedi, anche se il pony delle steppe aveva le zampe troppo corte per poterlo ancora toccare. Adesso spettava quindi a lui aiutare l'animale, cosa che fece con un sospiro di sollievo, conducendolo insieme alle bestie di scorta sulla riva, nello Shaumkhiil. A parte il fatto che ora aveva il fiume alle spalle, quel territorio non sembrava diverso da Pardraya, ad est. Skylitzes arrivò a terra a pochi metri da lui. «Come si scrive "mourzoulin"?» gli chiese Gorgidas, estraendo uno stilo dalla sacca. Con espressione rassegnata, Skylitzes glielo spiegò. Avshar camminava avanti e indietro per la tenda come una pantera in
gabbia, con l'ampia tunica che gli volteggiava intorno, e la sua notevole altezza, l'ampiezza dei suoi passi, facevano apparire l'ambiente ristretto e angusto, costruito per una razza di nani. Un cuscino volò dall'altra parte della tenda e rimbalzò contro la parete di feltro teso, facendo cadere rumorosamente al suolo un'icona raffigurante un guerriero in armatura nera che scagliava lampi a tre punte, poi il principe-mago si girò di scatto verso Varatesh. «Incompetente!» lo aggredì, ringhiando. «Stupida larva inetta! Piagnucolante mucchio di letame marcio dal fegato di pecora, strapparti il tuo immondo cuore non sarebbe sufficiente a punirti per come hai rovinato tutto!» I due uomini erano soli perché, pur essendo furibondo, Avshar era comunque troppo furbo per insultare il capo dei fuorilegge alla presenza dei suoi uomini. Il disprezzo del mago, le sue parole sferzanti bruciavano come il fuoco sull'animo di Varatesh, che subì a capo chino. Desiderava il rispetto di quell'uomo più di ogni altra cosa, e questo lo induceva a sopportare da lui insulti per i quali avrebbe ucciso chiunque altro. «Non sono stato il solo a commettere errori in quest'impresa» ribatté, però, perché comunque non si considerava lo schiavo di nessuno. «L'uomo che ho trovato non era quello che mi hai mandato a cercare. Lui...» Avshar gli sferrò un tremendo manrovescio che lo mandò a cadere lungo disteso nella polvere. Nel rialzarsi, con la testa che vibrava, Varatesh avvertì in bocca il sapore del sangue e si accoccolò leggermente, come per combattere. Aveva voluto bene anche a Kodoman, e Kodoman lo aveva aggredito per primo. «Chi sei tu, per trattarmi così?» chiese, con le lacrime che gli bruciavano gli occhi. Avshar scoppiò in una risata cupa quanto il colore della cotta di maglia raffigurata nella sua icona, poi trasse di lato i veli che gli nascondevano il volto. «Allora, verme» disse, «chi sono io?» Varatesh si gettò in ginocchio, gemendo di terrore. CAPITOLO SETTIMO «Prendi» disse Thekla Zonara, porgendo ad un servo un candeliere d'argento. «Questo può entrare nel pacco che stai preparando.» Poi, vedendo che l'uomo teneva in mano l'oggetto con aria confusa, glielo prese e lo si-
stemò di persona. «Ed anche questo» aggiunse, infilando accanto al candeliere un piatto di argento dorato su cui era rappresentata, in bassorilievo, una scena di caccia. «Dobbiamo salvare anche queste» esclamò sua cognata Erythro, arrivando di corsa con le braccia cariche di tazze di terracotta smaltate a colori vivaci. «Sono troppo belle per lasciarle ai Namdaleni.» «Pietoso Phos!» gemette Sittas Zonaras. «Perché non imballate anche i truogoli dei maiali, già che ci siete? Abbiamo ben poco tempo per andarcene, e non dobbiamo sprecarlo preoccupandoci di bagagli in eccesso.» Il nobile scosse il capo con evidente irritazione. «E tu non lo sprecare litigando con Erythro» intervenne sua figlia Ypatia. «Alle donne non si dovrebbe mai permettere di essere ragionevoli, non credi, straniero?» commentò Zonaras, con un sospiro, rivolto a Scaurus. Stringendo ancora in mano le tazze, Erythro affrontò il Romano con l'aria di un piccolo passero combattivo. «Perché lo chiedi a lui? Che ne sa lui di quello che è ragionevole? Innanzitutto, è per causa sua che i Namdaleni stanno per piombarci addosso: se non fosse stato per lui, ce ne saremmo potuti rimanere qui tranquilli e comodi, invece di addentrarci nelle colline come tanti Khamorth che seguano le loro mandrie.» «Basta!» esclamò Sittas, la cui irritazione adesso era reale. «Se non fosse stato per lui, adesso sarei morto nella foresta oppure prigioniero, e tutta la tenuta verrebbe richiesta come riscatto. Lo hai dimenticato?» «Sì, in effetti lo avevo dimenticato» ammise Erythro, per nulla mortificata. «Questa partenza mi ha sconvolta, e non c'è da meravigliarsene!» La donna si chinò ed ammucchiò il vasellame sul candelabro e sul piatto, mentre suo fratello levava gli occhi al cielo per poi lanciare un'occhiata significativa ad Ypatia, che finse di non notarla. Anche se in un primo tempo gli era parso che il commento di Erythro fosse terribilmente ingiusto nei suoi confronti, quando ci ebbe riflettuto Marcus non ne fu più tanto convinto, considerato che una quantità di nobili delle terre occidentali stavano in effetti venendo a patti con i Namdaleni e con "l'Imperatore" Mertikes. Il tribuno lo fece notare a Zonaras, e concluse: «Avresti potuto fare lo stesso anche tu, Sittas, se i miei uomini non fossero stati qui.» Erythro esibì un sorriso compiaciuto.
«Non la incoraggiare» avvertì Zonaras, ed aggiunse: «Io fare causa comune con banditi ed eretici? Preferirei vedere questa villa bruciare intorno a me piuttosto che piegare il ginocchio davanti a Drax e al suo uomo di paglia. No, sono contento di essere con te.» Il tribuno pensò con aria infelice che forse la villa sarebbe bruciata lo stesso perché nonostante le trincee, nonostante i rinforzi costituiti da Pakhymer e dai suoi Khatrish, i legionari sarebbero stati schiacciati se Drax avesse scagliato contro di loro l'intera massa del suo esercito. E quella massa stava arrivando, dato che gli esploratori di Pakhymer avevano riferito che i Namdaleni avrebbero attraversato l'Arandos l'indomani. Era quindi necessario ritirarsi ancora, questa volta sulle colline. Lasciati gli Zonaras a litigare su cosa andava salvato e cosa abbandonato, Scaurus uscì all'aperto. Bestiame muggente e branchi di pecore sciamarono davanti a lui, perché i mandriani non avevano bisogno di incitamenti per tenere le loro bestie lontane dall'esercito in arrivo. «Avanti, fatele muovere!» stava gridando il capo dei mandriani. «No, Stotzas, non lasciarle bere adesso. Ci sarà tempo dopo, quando saranno passate tutte.» Gaius Philippus, che aveva già fatto preparare i Romani alla marcia, osservò il mandriano con rispetto. «Sarebbe un buon ufficiale» commentò, rivolto al tribuno. «Allora perché non lo usiamo come tale?» chiese Marcus, sulla scia di un'ispirazione improvvisa. «Chi meglio di lui potrebbe guidare i tuoi contingenti di irregolari?» «Per gli dèi, signore» esclamò il centurione, fissandolo, «questo è un triplo sei!» A quelle parole, i due Romani si scambiarono un fugace sorriso, perché nella versione videssiana del gioco dei dadi i sei erano il tiro peggiore, non il migliore... una di quelle piccole cose che davano ai legionari la costante sensazione di essere alieni a quel mondo. «Tu, laggiù» chiamò poi Gaius Philippus. «Dici a me?» domandò il capo mandriano, senza girarsi. «Aspetta un momento.» Procedette quindi a scindere abilmente due greggi, indirizzandole verso passi separati, in modo che non avessero problemi di foraggio. Quando ebbe finito, si accostò ai Romani e rivolse loro lo stesso cenno di saluto, rispettoso ma non servile, che usava con Zonaras. «Posso fare qualcosa per voi?» s'informò. «Sì, ah...» Marcus s'interruppe, non conoscendo il nome dell'uomo. «Sono Tarasikodissa Simokattes» si presentò il mandriano e, accortosi
dello sgomento dei Romani, aggiunse: «Di solito mi chiamano Ras.» «Ed è un bene» borbottò, in latino, Gaius Philippus, esprimendo un sentimento condiviso in pieno da Scaurus. «La prima volta che ci hai visti, hai parlato di sollevare in armi i contadini» osservò il tribuno, e Ras annuì ancora. «Ti intendi di armi, allora?» «Un poco, sì. Arco, lancia, ascia. Con la spada non valgo granché, non ho abbastanza pratica.» «Ti piace combattere?» intervenne Gaius Philippus. «No» fu la risposta, rapida e secca. «Avevi ragione, Scaurus» dichiarò allora il centurione anziano, con un sorriso raggiante che appariva strano sul suo volto solitamente aspro. «Quest'uomo può essermi utile. Che ne diresti» chiese poi, tornando a rivolgersi a Simokattes, «di far desiderare ad un mucchio di Namdaleni di non essere mai nati?» Ras scrutò il veterano, mantenendo il volto atteggiato ad un'espressione altrettanto innocente, e Marcus pensò che quei due uomini, il barbuto mandriano videssiano e il veterano romano, avevano molto in comune. L'esca offerta dal centurione anziano era però troppo golosa perché Simokattes non vi abboccasse. «Spiegati meglio» disse infatti. Gaius Philippus sorrise. Il centurione anziano aveva un'espressione molto meno felice due mattine più tardi, nell'osservare dall'alto la villa di Zonaras mentre i Romani si addentravano fra le colline. «Avremmo dovuto incendiare quella casa» disse a Marcus. «Per Drax costituirà una splendida fortezza.» «Lo so» ammise il tribuno, «ma se l'avessimo bruciata, i nobili delle terre alte avrebbero cominciato a chiedersi che cosa possono avere da guadagnare a schierarsi dalla nostra parte. Se non lasciamo intatti i loro possedimenti, finiranno per vederci soltanto come un altro gruppo di barbari, non migliori dei Namdaleni.» «Può darsi» ammise Gaius Philippus, «ma non si schiereranno con noi neppure se ci vedranno deboli.» Scaurus emise un grugnito di scontento, perché quell'affermazione era troppo vera per i suoi gusti, e si chiese se sarebbe stato peggio attirarsi l'ostilità di Zonaras, bruciandogli la villa, o lasciare l'edificio a Drax perché lo usasse come base, desiderando di poter vedere con maggiore chiarezza in quali casi la tattica dovesse avere la precedenza sulla strategia.
«È una cosa che si impara commettendo all'inizio qualche errore, di tanto in tanto» affermò Gaius Philippus, quando il tribuno si lamentò con lui della propria indecisione, poi aggiunse: «Naturalmente, se l'errore che commetti è troppo grosso, ti costa la vita, e dopo non hai più occasione di imparare molto.» «Trovi sempre modo di rasserenare la mia mente» commentò Marcus, asciutto, poi notò un accenno di movimento a nord, all'imboccatura della vallata in cui sorgeva la villa di Zonaras. «Certo non ce ne siamo andati neppure un momento troppo presto... ecco che arrivano gli isolani. Pensi che la retroguardia servirà a qualcosa?» «Agli ordini del giovane Tarasios? Neppure per idea.» Il tono di voce del centurione anziano era dispiaciuto ma deciso. «Tu, laggiù, Florus» gridò poi, rivolto ad un legionario. «Corri a chiamare quel mandriano, Ras, e portalo qui. Voglio che veda.» Il Romano salutò e si allontanò di corsa. Febbricitante per la tisi, il giovane Tarasios Zonaras aveva rifiutato di unirsi agli altri nella ritirata sulle colline. «No» aveva detto, nel sussurro gorgogliante che era tutto ciò che rimaneva della sua voce, «rimarrò qui, e comunque mi resta ben poco tempo, e combattere per la mia terra mi darà una fine più rapida e migliore di quanto sperassi.» I suoi genitori non erano riusciti a dissuaderlo, e Scaurus non ci aveva neppure provato, perché il pensiero stoico insegnava che un uomo era libero di decidere quando rinunciare alla vita. Una ventina degli armigeri di Zonaras avevano scelto di rimanere con il giovane. «Cosa c'è, straniero?» chiese Ras Simokattes, sopraggiungendo con il legionario. «Mi basta che tu guardi» rispose Gaius Philippus. Gli uomini del Ducato, tutti veterani esperti, si allargarono fino a disporsi in una linea da battaglia non appena entrarono nella valle, non volendo correre il rischio di un'imboscata, poi accelerarono il passo allorché scorsero il campo abbandonato dai legionari e, scrutando le colline, avvistarono la colonna che si stava ritirando. I Namdaleni erano ormai vicini alla villa quando Tarasios e i suoi uomini scattarono fuori dal riparo offerto da una macchia di meli e caricarono con le sciabole in pugno. Vista da lontano, ogni cosa era minuscola, silenziosa e perfetta, la scena era realistica quanto un dipinto che avesse in qualche modo preso vita. Un isolano crollò di sella, seguito da un secondo
ma, dopo il primo momento di panico, i Namdaleni contrattaccarono e un numero sempre maggiore di cavalieri avanzò per accerchiare il gruppetto guidato da Tarasios. Lo sguardo di Simokattes si spostò sui parenti del giovane. Con il volto segnato profondamente dal dolore, Sittas stava osservando lo scontro impari, e di tanto in tanto le sue mani sussultavano nello stringere le redini, perché lui mimava un colpo che avrebbe dovuto essere sferrato. Sua moglie e sua figlia si tenevano abbracciate, in silenzio, ed Erythro stava piangendo. Il capo dei mandriani serrò le mani rozze e forti e riportò la propria attenzione sullo scontro in corso nella valle, ormai prossimo alla conclusione. «Che cosa vedi?» gli chiese allora Gaius Philippus. «Un coraggioso» rispose Simokattes, in tono quieto. «Sì, può darsi, ma comunque uno stupido.» Simokattes si voltò di scatto, con ira, ma il centurione anziano continuò a parlare nel tono più serio che Marcus gli avesse mai sentito usare. «Pensaci, Ras, e pensaci bene, perché presto sarai tu a guidare degli uomini contro gli isolani, e non si tratterò di uomini dotati dell'abilità e delle armi di cui disponevano quelli che hanno seguito Tarasios. Che cosa ha fatto il ragazzo? È uscito allo scoperto invece di combattere rimanendo nascosto, ed ha attaccato un contingente numericamente superiore al suo, invece di ottenere il contrario. Coraggioso? A cosa è servito quel coraggio a lui... o a quanti lo hanno seguito?» Nella valle, non c'era più nessun Videssiano ancora in sella. «Il nostro scopo è quello di danneggiare il nemico, non noi stessi.» «Sei un uomo duro, Romano» dichiarò il capo mandriano, dopo essere rimasto in silenzio per qualche tempo. «Può anche darsi, ma sono in questo sporco mestiere da una trentina di anni e so come funziona. Questo è ciò che ti sei impegnato a fare, con i tuoi discorsi di levare in armi i contadini, quindi se non hai lo stomaco abbastanza forte per continuare, torna alle tue vacche.» Simokattes gli sferrò un pugno, spinto soprattutto dalla frustrazione, ma Gaius Philippus lo schivò con rapidità, senza scomporsi, e nello stesso tempo afferrò il braccio proteso del mandriano e glielo piegò dietro la schiena. Simokattes sussultò e subito il veterano lo lasciò andare, assestandogli una pacca sulla schiena. «Quello che pensi di me è affar tuo, ma dammi ascolto, perché questo un giorno ti salverà il collo» disse. Simokattes annuì, brusco, e si allontanò. «Si farà» commentò Gaius Philippus, osservandolo mentre se ne andava.
«Dovevi proprio essere tanto duro con lui?» chiese il tribuno. «Penso di sì. I dilettanti intraprendono questo mestiere con la testa piena di idee stupide di ogni genere.» «E c'è anche ben poco spazio per lo spirito cavalleresco, vero?» aggiunse Marcus, sulla spinta delle amare esperienze acquisite nell'arco di quegli ultimi tre anni. «Ecco cosa ne penso dello spirito cavalleresco.» Il veterano sputò nella polvere. «Non è certo stato Achille ad espugnare Troia» concluse. Scaurus lo fissò, interdetto. Se poteva impartire insegnamenti a Gaius Philippus, che sapeva a stento scrivere, Omero era certo il principe dei poeti. Sulla base del modo in cui Drax si era comportato in precedenza, il tribuno riteneva che il Namdaleno si sarebbe limitato a bloccare i passi che portavano a sud e non avrebbe intrapreso nessuna seria campagna militare nelle colline al di là dell'Arandos, ma il grande conte, forse vedendo la vittoria finale ormai a portata di mano, si dimostrò più aggressivo di quanto Scaurus pensasse. Non soltanto una serie di postazioni fortificate spuntarono in fretta in punti scelti con cura, agli sbocchi della valle e sulle pendici delle colline, ma in aggiunta a questo parecchie pattuglie namdalene penetrarono fra le alture, bruciando e saccheggiando senza cessare di incalzare da presso i Romani. Scaurus non aveva certo bisogno dello sguardo colmo di rimprovero di Sittas Zonaras per sapere che doveva spicciarsi a porre fine a quella situazione, se poteva: infatti, se gli isolani erano padroni di compiere tutte le razzie che volevano, che tornaconto avevano i Videssiani a schierarsi con i legionari e contro di loro? Il tribuno rifletté per qualche tempo, poi andò in cerca di Laon Pakhymer. Il Khatrish stava scagliando chicchi d'uva contro una fortificazione namdalena in miniatura, fatta di terra e di bastoncini. «Vorrei che fosse così facile» commentò Scaurus, perché la catapulta giocattolo di Pakhymer stava operando una notevole distruzione. «È più facile, quando il nemico non reagisce» convenne Pakhymer, prendendo la mira con cura. Poi toccò il grilletto e la piccola catapulta scattò: un pezzo di legno volò via dalla torre in cima al terrapieno, e Marcus attese con crescente impazienza, mentre il Khatrish ricaricava. Alla fine, Pakhymer sollevò lo sguardo su di lui, e un sorriso astuto gli affiorò sul volto butterato. «Sei pronto per esplodere?» chiese.
«Non ancora.» Il tribuno non poté fare a meno di ridere di quell'impudenza. «Temevo che lo avresti detto. Ti aspetti che i miei ragazzi si guadagnino quello che hanno preso a Kyzikos, vero? Sì, è così, te lo leggo negli occhi. Di cosa si tratta, questa volta?» Quando Marcus glielo ebbe spiegato, il Khatrish giocherellò per un po' con la barba, riflettendo. «Sì, potremmo farlo, se una guida esperta ci accompagnasse.» «Provvederò perché Simokattes te ne procuri una.» «D'accordo, affare fatto. Fra tre giorni, hai detto?» Quando Scaurus annuì, il Khatrish aggiunse: «Il problema, per come la vedo io, consiste nel non addentare un boccone troppo grosso.» «Proprio così.» Come al solito, pensò il tribuno, Pakhymer era pronto a percepire cosa fosse necessario fare... e mostrava poca propensione ad utilizzare quella sua capacità. Il Khatrish esaminò un altro chicco d'uva, poi scosse tristemente il capo. «Non è abbastanza rotondo» dichiarò, mangiandolo. «Ne vuoi uno?» offrì poi, e scoppiò a ridere quando Marcus finse di non aver sentito. Scaurus pensò che il grosso cespuglio dietro cui si era accoccolato doveva essere di prezzemolo; qualsiasi cosa fosse, comunque, i suoi piccoli fiori gialli avevano un odore abbastanza piccante da fargli salire le lacrime agli occhi, e dovette mordersi con forza il labbro inferiore per trattenere uno sternuto. Per ora tutto era tranquillo, ma sapeva che se avesse cominciato a starnutire non sarebbe più riuscito a fermarsi, e ormai la trappola stava per scattare. Una mezza dozzina di Khatrish entrarono nella vallata, spronando i loro piccoli pony per mantenerli ad un galoppo serrato. Di tanto in tanto, uno dei nomadi si girava sulla sella per rispondere al tiro dei Namdaleni che inseguivano da vicino il gruppetto. Il capo degli isolani era un giovane robusto di nome Grus. Per quanto giovane, tuttavia, aveva imparato il valore della cautela, e ordinò al suo doppio squadrone di fermarsi, allungando poi il collo per osservare le pareti della gola. Ras Simokattes e Gaius Philippus avevano però preparato la trappola con la massima cura e sebbene il manipolo di Junius Blaesus stesse aspettando che il nemico avanzasse, la presenza dei legionari non venne tradita né dal bagliore rivelatore del sole sull'acciaio né da qualche movimento improvviso, e alla fine Grus segnalò ai suoi uomini di avanzare con
un grido e un cenno della mano. Serrando la spada, Marcus attese che tutti i Namdaleni, compresa la retroguardia, fossero entrati nella valle, poi annuì in direzione del trombettiere che aveva accanto, e la buccina levò una sola, lunga nota. Al grido di "Gavras", i legionari balzarono allo scoperto da dietro gli alberi e i cespugli e si precipitarono giù per le ripide pareti della gola, piombando addosso agli isolani. I due cavalieri in coda alla colonna girarono i cavalli con uno strattone brutale e si precipitarono verso l'uscita della valle... non per codardia ma per buon senso, con l'intenzione di andare a chiedere aiuto. Un pilum si piantò con un tonfo nel ventre di uno dei due cavalli, che crollò a terra nitrendo e rotolò sul suo cavaliere; il secondo Namdaleno era quasi arrivato allo sbocco della gola quando tre legionari lo tirarono giù di sella. Imprecando, Grus cercò di disporre i propri uomini in cerchio, ma un Romano si precipitò contro di loro, precedendo di parecchio i suoi compagni. «Avanti, Vorenus!» esclamò Titus Pullo. «Ora vedremo chi di noi due è il migliore!» A quel grido, un altro legionario, Lucius Vorenus, si staccò dal gruppo principale per seguire le orme del compagno, imprecando con quanto fiato aveva in gola. Pullo scagliò il pilum da una notevole distanza, ma la sua mira si rivelò perfetta e un Namdaleno lungo il bordo del confuso cerchio ottenuto da Grus fu colpito ad una coscia. Urlando, l'uomo cadde di sella, e Pullo scattò in avanti per finirlo e spogliare il cadavere, ma un paio di isolani intervennero per difendere il compagno ferito. Uno di essi trapassò con la pesante lancia il legno e il cuoio dello scutum del Romano, e la punta di ferro andò a impigliarsi nella fibbia della cintura, spostandola di lato; così, quando cercò di afferrare il gladius, Pullo si ritrovò a mani vuote. I Namdaleni iniziarono a tempestarlo con la spada e lui si lasciò cadere a terra sul dorso, per sfruttare al massimo la protezione dello scudo rovinato. In quel momento Lucius Vorenus, in preda ad una furia combattiva che avrebbe potuto destare l'invidia di Viridovix, piombò sugli isolani. «Lontano da lui, cani ruffiani, dannati avvoltoi!» urlò il legionario. «È un buono a nulla, ma perfino un buono a nulla romano vale tutti voi messi insieme!» Vorenus uccise il Namdaleno che aveva scagliato la lancia contro Pullo, spingendo di lato il leggero scudo a forma di aquilone con il proprio, più
pesante, e trapassando il fianco dell'isolano attraverso una giuntura della cotta di maglia. Il secondo Namdaleno ed un altro suo connazionale, forse pensando che Pullo fosse morto e quindi escluso dalla partita, concentrarono tutta la loro attenzione su Vorenus, che trovò difficoltà a difendersi dal loro assalto. Pullo, però, era tutt'altro che morto: essendo finalmente riuscito a liberare la spada, gettò di lato lo scutum inutilizzabile e si alzò in piedi, calando il gladius sul posteriore di un cavallo. Sanguinante, la bestia si allontanò con uno scarto e il cavaliere fu costretto ad aggrapparsi al suo collo, lottando invano per recuperarne il controllo. «Bastardo!» ansò Vorenus. «Il figlio di buona donna sei tu, non io!» ritorse Pullo, mentre i due legionari combattevano schiena contro schiena, senza cessare di insultarsi a vicenda. Nel frattempo, anche il resto dei Romani cominciava ormai a sopraggiungere, e la pressione a cui i due erano sottoposti si attenuò. Intrappolati, inferiori di numero, tempestati di giavellotti, gli isolani cominciarono ad arrendersi uno dopo l'altro ma Grus, mortificato per essere caduto nell'imboscata e appiedato perché il suo cavallo era stato abbattuto, si scagliò contro Marcus. «Arrenditi!» ingiunse il Romano. «Il ghiaccio ti porti!» gridò di rimando Grus, quasi in lacrime per la rabbia e la giovane età. Il tribuno sollevò lo scudo per difendersi da un attacco vorticante. Grus doveva essere ora animato dalla stessa energia furiosa che aveva pervaso poco prima Pullo e Vorenus, perché continuò a colpire, colpire e colpire, come se fosse stato mosso da un meccanismo, senza badare a difendersi, tanto che più di una volta Marcus avrebbe potuto abbatterlo con un colpo mortale. Il tribuno però si trattenne, perché la piccola battaglia era ormai vinta e l'ufficiale namdaleno poteva tornare più utile come prigioniero che come cadavere. Poco lontano, Gaius Philippus si chinò e raccolse una pietra di buone dimensioni, tirandola. Il sasso rimbalzò contro il lato dell'elmo conico di Grus, che barcollò ed abbassò la guardia quanto bastava per permettere a Marcus e al centurione anziano di gettarlo a terra e di disarmarlo. «Un bel tiro» si complimentò il tribuno. «Ho visto che non volevi ucciderlo.» Confuso, Ras Simokattes lasciò vagare lo sguardo dai due ufficiali a Pullo e Vorenus, che stavano ora ricevendo gli elogi dei loro compagni.
«Ma cosa siete voi stranieri?» chiese infine il mandriano a Scaurus. «Qui voi due fate di tutto per evitare di sventrare questo ragazzo» proseguì, urtando Grus con un piede, «mentre quelli laggiù sono un paio di pazzi assetati di sangue.» Lanciando un'occhiata in direzione dei due legionari rivali, Marcus notò che Junius Blaesus si stava congratulando a sua volta con loro, e si accigliò: il giovane centurione sembrava incapace di vedere al di là di ciò che era evidente, una caratteristica che Marcus aveva già notato in lui. «Aspetta un momento, Ras» disse, tornando a voltarsi verso Simokattes. «Ora vedrai che cosa siamo. Pullo, Vorenus» chiamò poi, rivolto al legionari. «Venite qui, per favore.» Scambiandosi uno sguardo apprensivo, i due rivali si staccarono dai compagni e si fermarono sull'attenti davanti al tribuno. «Spero che la vostra rivalità sia ormai superata» commentò questi, in tono mite, parlando in videssiano a beneficio del mandriano. «Ora ciascuno di voi ha salvato la vita all'altro, quindi questo dovrebbe essere sufficiente perché vi riteniate pari.» «Sì, signore» risposero all'unisono i due, in un tono che dava l'impressione che fossero sinceri. «Dire che siete stati coraggiosi sarebbe uno spreco di parole. Sono lieto che ne siate usciti vivi entrambi.» «Grazie, signore» sorrise Pullo, e Vorenus si rilassò a sua volta. «Voi due, nessuno vi ha detto "riposo"!» scattò, brusco, Gaius Philippus, e i legionari si irrigidirono, tornando ad assumere un'espressione ansiosa. «Siete multati entrambi di una settimana di paga per aver infranto i ranghi durante la carica» proseguì Scaurus, in un tono che non aveva più nulla di mite. «Non avete messo in pericolo soltanto voi stessi, portando avanti la vostra lite durante il combattimento, ma anche la sicurezza dei vostri compagni. Che non si ripeta... sono stato chiaro?» «Sì, signore» replicarono i due, in tono molto sommesso. «A cosa stavate giocando?» rincarò Gaius Philippus. «Sembravate quasi un paio di Galli, laggiù.» Quello era l'insulto peggiore che il veterano poteva elargire a due soldati indisciplinati, e Vorenus arrossì, mentre Pullo si mosse a disagio, come un bambino che si fosse comportato male. Entrambi apparivano molti diversi dai due feroci guerrieri che avevano impersonato poco prima, e quando Scaurus li congedò tornarono in silenzio verso i compagni. «Allora, Ras, che cosa siamo?» chiese infine il tribuno a Simokattes.
«Un branco di bastardi, se proprio volete saperlo» ringhiò Grus, ancora steso a terra. «Zitto, tu» intimò Gaius Philippus. Simokattes aveva assistito con incredulità mentre i due legionari incassavano la strigliata di Scaurus, perché non aveva mai visto soldati addestrati all'obbedienza fino a quel punto. Il mandriano si grattò la testa e si massaggiò una guancia dura come il cuoio. «Che io sia dannato se lo so» rispose infine, «ma sono felice che non siate miei nemici.» «Bah!» borbottò Grus. Isolato com'era sulle colline sudoccidentali, Marcus desiderava avere notizie dall'esterno, ma aveva ormai praticamente rinunciato alla speranza di riceverne quando un messaggero imperiale, un ometto dall'aspetto curato e dalla faccia di volpe, riuscì ad oltrepassare lo sbarramento namdaleno e fu intercettato da una pattuglia di Khatrish. «Mi chiamo Karbeas Antakinos» si presentò il messaggero, quando venne condotto alla presenza del tribuno, mentre il suo sguardo acuto vagava per il campo, notando ogni particolare. «Piacere di vederti, piacere di vederti» rispose Marcus, stringendogli la mano. «E a me fa molto piacere essere qui, lascia che te lo dica» replicò l'uomo, esprimendosi con la cadenza rapida e scandita della capitale. «È stato un viaggio infernale... quei dannati Scommettitori sono dappertutto» spiegò, servendosi del soprannome dispregiativo con cui i Videssiani indicavano gli uomini del Ducato, che a loro volta ricambiavano la cortesia soprannominando Sicuri gli imperiali. Il Romano soffocò un sospiro, perché poco sopportava i litigi fra le varie sette in cui era diviso il culto di Phos. «Dammi una prova che le tue credenziali sono autentiche» chiese poi ad Antakinos, ricordando come Drax fosse portato per gli inganni. «Ma certo.» Il Videssiano si sfregò energicamente le mani. «Mi è stato detto di domandarti quale sia l'opinione che Sua Maestà Imperiale ha delle donne dal temperamento troppo focoso.» «Che sono molto divertenti ma stancanti» rispose Scaurus, rilassandosi, perché Thorisin aveva già usato quel segno di riconoscimento in una precedente occasione. «Ed ha ragione, non credi?» ridacchiò Antakinos, che aveva una risata disinvolta che ben si accordava con la sua voce da tenore. «Ricordo una
ragazza di nome Panthia... ma questa è un'altra storia. Veniamo al dunque: come ve la cavate qui?» «Per ora siamo in situazione di stallo. Gli isolani non vengono più a ficcare il naso fra le colline, dopo un paio di lezioni che abbiamo impartito loro, ma io non riesco neppure a disimpegnarmi come vorrei, perché sono in troppi, laggiù a valle. Gavras può intervenire per respingerli?» «Non c'è da sperarlo» replicò il messaggero, con una smorfia. «Ha appena condotto di persona due reggimenti ad Opsikion, di fronte al Ducato, per respingere uno sbarco namdaleno nella zona.» «Dannatamente splendido» commentò Gaius Philippus. «Suppongo che avremmo dovuto immaginare che sarebbe successo.» «Già» convenne Antakinos. «Per fortuna, Phos sia lodato, erano soltanto razziatori, e non le truppe del Duca. E pirati provenienti dal Ducato si sono fatti vedere a loro volta al largo delle coste occidentali. Leimmokheir è rientrato in porto tre giorni prima della mia partenza dopo aver allontanato quattro delle loro navi e averne affondata una quinta. E puoi essere certo che ce ne sono altre che si aggirano nei dintorni.» «Per gli dèi» mormorò Scaurus, sgomento, in latino, poi tornò ad esprimersi nella lingua imperiale. «Mi stai dicendo, quindi, che noi costituiamo il contingente più grande che rimanga all'Avtokrator.» «In pratica, sì» ammise il corriere, con aria infelice, «e devo ammettere che sarò lieto di riferirgli quanto siano ancora consistenti le vostre forze. Dopo la... ah, lo sfortunato evento del Sangarios, sua maestà temeva che tutto l'esercito di Zigabenos fosse stato distrutto o avesse tradito insieme al suo generale.» Marcus maledisse mentalmente il grande Conte Drax, mentre Antakinos concludeva: «Ma voi non avete l'aria di uomini sconfitti.» «Spero proprio di no» sbuffò Gaius Philippus. «No davvero» intervenne, con un bagliore malizioso negli occhi, Laon Pakhymer, che si era avvicinato in tempo per sentire quell'ultimo commento, «perché i tuoi uomini hanno più paura di te che di Drax. In fin dei conti, tutto quello che lui può fare è ucciderli.» Il centurione anziano sbuffò di nuovo, ma parve compiaciuto. «Tu hai attraversato le terre che sono sotto il controllo degli isolani» osservò Marcus, rivolto ad Antakinos. «Sai come la gente stia prendendo la loro dominazione?» «Una domanda interessante» dichiarò Antakinos, osservando il tribuno con rispetto. «Stai forse pensando di farla insorgere? Sua Maestà ha detto che sei un uomo astuto. Ecco, la situazione è questa: nelle campagne, i
contadini sarebbero felici di arrostire a fuoco lento gli Scommettitori perché vengono derubati da loro, e i nobili farebbero volentieri altrettanto perché alcuni sono stati privati delle proprie tenute, che sono state regalate ad uomini del Ducato.» Il messaggero fece una smorfia. «Nelle città, però, temo che sia esattamente il contrario. Drax tassa i cittadini, sì, ma pretende meno di quanto pagavano a Videssos... e loro fanno affidamento sui Namdaleni per essere protetti dagli Yezda.» Laon Pakhymer scosse il capo, in maniera impercettibile ma sufficiente perché Antakinos se ne accorgesse e inarcasse un sopracciglio con espressione curiosa. Con sollievo di Scaurus, che si sentiva ancora rizzare i capelli al pensiero dell'idea da lui avuta, il Khatrish non fornì spiegazioni per il suo gesto. «Ma cosa facciamo se quei furfanti arrivano più numerosi di quanto ci aspettassimo quando abbiamo preparato l'imboscata?» chiese un contadino alto e dinoccolato che indossava rozzi abiti fatti in casa e uno spesso giustacuore di cuoio, serrando con incertezza l'asta della sua lancia per cinghiali. Gaius Philippus si sforzò di non perdere la pazienza. Quelle inesperte reclute videssiane non possedevano né la disciplina dei Romani né l'impetuosità degli Spagnoli che Sertorius aveva modellato in un pericoloso esercito di guerriglieri, ma tutti i duecento uomini accoccolati intorno a lui erano volontari... profughi provenienti dalle terre basse oppure gente delle colline... che volevano sperimentare una forma di combattimento più eccitante di una controversia con un nobile che viveva un paio di vallate più in là. «Non avete bisogno che risponda io ad una domanda del genere» dichiarò, rivolto ai suo ascoltatori. «Chi vuole dirglielo?» Si alzarono una ventina di mani, per prima quella di Ras Simokattes, ma Gaius Philippus finse di non notare il capo mandriano di Zonaras. «Tu, laggiù... sì, tu con la barba striata di grigio.» L'uomo si alzò in piedi, stringendo le mani dietro la schiena e chinando la testa, come se si fosse trovato davanti a un insegnante della sua quasi dimenticata infanzia. «Se ce ne sono troppi, rimaniamo nascosti» disse, in tono diffidente. Ai suoi piedi c'era un arco da caccia. «Proprio così!» approvò Gaius Philippus. «E non vergognatevi di farlo. A meno che le probabilità siano tutte a vostro favore, non attaccate briga
con gli isolani, perché loro hanno armi migliori delle vostre e sanno anche come usarle. Proprio come me» concluse, con un pigro sogghigno. Marcus, che stava assistendo alla lezione, vide gli aspiranti razziatori di Gaius Philippus assumere un'espressione più sobria nel ricordare la dimostrazione che il centurione aveva fornito loro un paio di giorni prima. Gaius Philippus si era presentato in armamento completo, ed aveva invitato quattro dei suoi allievi, a caso, ad aggredirlo con le armi di cui disponevano. Lo scontro non era durato a lungo. Il veterano aveva usato l'asta del pilum per infliggere ad uno dei quattro un colpo che lo aveva lasciato senza fiato, aveva schivato la falce brandita da un altro, rompendogli sulla testa l'asta di legno del pilum, poi aveva ruotato su se stesso per bloccare con lo scudo una randellata del terzo Videssiano, sbattendogli al tempo stesso il bordo dello scutum, rivestito in metallo, contro il mento. Nel momento stesso in cui l'uomo si era accasciato, Gaius Philippus aveva estratto il gladius ed aveva mosso contro il quarto nemico, che brandiva una corta picca. Il Videssiano aveva dimostrato un certo coraggio, scagliandosi contro il Romano, ma Gaius Philippus si era spostato di lato con la grazia di un danzatore e lo aveva toccato al petto con la spada. Due uomini svenuti, uno a terra impotente e il quarto tremante e pallido per la paura... non era stato un brutto risultato, per un minuto di lavoro. Quella notte, almeno una dozzina di aspiranti guerriglieri aveva abbandonato il campo. Per quelli che erano rimasti, però, il centurione anziano si stava rivelando un insegnante migliore di quanto Scaurus si sarebbe aspettato, e mostrava anzi in quel compito uno zelo che di solito non affiorava negli incarichi consueti che, come sempre accade per qualsiasi lavoro, con il passare degli anni erano diventati una cosa ripetitiva. Il nuovo ruolo sembrava riportare il centurione alla sua giovinezza, e lui vi si era buttato con più entusiasmo di quanto il tribuno gliene avesse mai visto dimostrare da quando lo conosceva. «Colpite, recando più danni che potete, e allontanatevi in fretta» stava dicendo il veterano. «E potrebbe anche tornarvi utile buttare via le armi, in qualche circostanza.» Quello sarebbe stato un consiglio addirittura blasfemo, se rivolto ad un manipolo di soldati, ma parlando con un gruppo di guerriglieri aveva una sua logica. «Senza le armi, infatti, chi può sapere chi siete?» «E quando ci inseguono?» chiese qualcuno. «Vi sparpagliate, naturalmente. Se uno di voi riesce a farsi perdere di vi-
sta per un minuto o due, può smettere di correre: basterà che si faccia trovare chino in un campo, come se quello fosse il suo posto, e i Namdaleni passeranno oltre senza badargli.» Il sorriso di Gaius Philippus era privo del consueto cinismo. «Con questa faccenda, vi potrete divertire parecchio.» Marcus si infilò un dito in un orecchio, come per stapparlo: un indurito soldato di professione come il centurione anziano, che definiva divertente il suo mestiere? Non c'era nulla di male a rivivere la propria gioventù, ma quel comportamento, venendo da Gaius Philippus, sembrava piuttosto una seconda infanzia. Ruelm figlio di Ranulf era soddisfatto di se stesso mentre lui e la sua squadra di Namdaleni procedevano a sud verso le colline dove ribolliva ancora la ribellione contro il suo signore, Drax. Neppure per un momento, l'isolano aveva mai pensato di essere suddito di un qualsiasi Imperatore Zigabenos, perché quella era una commedia a puro ed esclusivo beneficio dei Videssiani. Ruelm si arrestò per accendere una torcia, perché il crepuscolo era quasi finito e lui voleva continuare la marcia. Con un po' di fortuna, avrebbe potuto raggiungere Bailli entro mezzanotte, ed era proprio questo a soddisfarlo: quando era partito da Kyzikos, aveva preventivato almeno un altro giorno di viaggio, ma il guado dell'Arandos che quel vecchio matto gli aveva indicato gli aveva evitato di costeggiare la riva per ore alla ricerca di un ponte, salvo poi tornare sui suoi passi. Il Namdaleno portò una mano al portafoglio: l'informazione era valsa davvero un pezzo d'oro, e quel vecchio gli aveva dato l'impressione di non averne visti molti, di recente. Una farfalla notturna venne a volare in cerchi stretti intorno alla sua torcia. La notte era calda e molto quieta, tanto che Ruelm poteva sentire il lieve ronzare delle ali della farfalla. Poi un pipistrello emerse dal buio, afferrò l'insetto e svanì quasi prima che il Namdaleno fosse certo di averlo visto. «Dannato topo volante» borbottò, tracciandosi il segno del sole sul petto per tenere lontano i cattivi presagi. I suoi uomini lo imitarono, perché i Namdaleni davano ai pipistrelli il nome di polli di Skotos: infatti, senza l'aiuto del dio oscuro, come avrebbero fatto a volare di notte in maniera così precisa? A mano a mano che le colline si facevano più vicine, cespugli e ombrose macchie di alberi divennero più frequenti di quanto lo fossero stati a nord dell'Arandos. Quella ricca pianura era la terra più intensamente coltivata e
produttiva che Ruelm avesse mai visto, e secondo gli standard austeri del Ducato, questo costituiva già un'abbondanza più che sufficiente. Una pavoncella trillò nel sottobosco, accanto alla strada, un richiamo breve seguito da un lungo fischio, e Ruelm rimase un po' sorpreso nel sentir cantare un uccello diurno tanto tempo dopo il tramonto. Poi la prima freccia solcò sussurrando la notte e il cavaliere alle spalle del Namdaleno lanciò un'imprecazione di doloroso stupore quando il dardo gli si conficcò nel polpaccio. Per un secondo Ruelm rimase immobile in sella, come paralizzato... qui non ci sarebbero dovuti essere nemici, perché i Romani e quella lacera marmaglia di Videssiani e di Khatrish che si teneva aggrappata alle loro gonnelle erano stati respinti in profondità fra le colline. Un'altra freccia gli sibilò davanti alla faccia, tanto vicina che una delle sue rozze piume gli solleticò una guancia, e all'improvviso Ruelm tornò ad essere un soldato. Innanzitutto gettò la torcia più lontano che poteva... chiunque fossero quegli assalitori notturni, non era il caso di rischiarare loro il bersaglio... poi estrasse la spada, proprio nel momento in cui gli avversari lasciavano i loro ripari e attaccavano. Ruelm colpì alla cieca, ancora abbagliato dalla luce della torcia, e sentì la lama incontrare qualcosa; alle sue spalle, il cavaliere che era stato ferito per primo lanciò un urlo quando venne trascinato giù di sella, un urlo che s'interruppe bruscamente per essere sostituito da altre grida... rozze voci di contadini videssiani che esprimevano, Ruelm lo avrebbe giurato, un trionfo misto a paura. L'oscurità diede al piccolo, violento scontro un aspetto da incubo: nel voltare il cavallo per accorrere in aiuto dei suoi uomini, infatti, Ruelm vide i nemici soltanto come ombre in movimento che era impossibile contare e quasi impossibile colpire. «Drax!» gridò, e sentì in bocca l'amaro sapore della paura quando soltanto due dei suoi uomini risposero. Una mano cercò di tirarlo per una coscia e lui sferrò un calcio, incontrando però soltanto l'aria, perché l'uomo si trasse indietro. Ruelm piantò allora gli speroni nei fianchi del cavallo, che indietreggiò con un nitrito e, ben addestrato come animale da guerra, scalciò con gli zoccoli posteriori. Il cranio di un uomo s'infranse come un melone schiacciato, e un brandello di sostanza cerebrale, caldo, umido e appiccicoso, cadde sulla fronte dell'isolano, appena sotto l'elmo. Poi, con un nitrito di dolore, il cavallo sì accasciò.
«Gli ho tagliato i garretti, per Phos!» gridò un Videssiano, mentre Ruelm liberava con un calcio i piedi dalle staffe; poi piedi nudi ed altri calzati di stivali smossero la polvere della strada quando altri assalitori accorsero sul posto, come sciacalli. L'isolano cadde rotolando, e cercò di alzarsi in piedi, ma un randello si abbatté sulla protezione di cotta di maglia che gli copriva il collo e lui, stordito, crollò prima in ginocchio e poi sul ventre. La spada gli fu strappata di mano, dita avide si protesero verso le chiusure del suo usbergo, e Ruelm gemette, cercando di prendere il coltello. «Attenti!» gridò qualcuno. «Non è ancora morto!» «Adesso rimedieremo» rispose qualcun altro, con un'aspra risata. Ancora intontito, Ruelm sentì una mano rude tastare sotto il suo mento e tirargli indietro la testa. «Proprio come una pecora» commentò il Videssiano. Il coltello fece male, ma non per molto. Accompagnato da Sittas Zonaras e da Gaius Philippus, Scaurus si diresse verso il luogo che Bailli di Ecrisi aveva suggerito per l'incontro. «Fermati, Minucius» avvertì il tribuno, arrestandosi. «Qui tu e la tua squadra sarete sufficientemente vicini.» Il giovane sottufficiale rispose con un saluto. I Romani erano ad un lungo tiro di freccia dal punto in cui Bailli e un paio dei suoi luogotenenti stavano aspettando; una decina di Namdaleni erano in attesa, seduti per terra, ad una distanza dai loro capi pari a quella a cui si sarebbe tenuto Minucius. «Salve, isolano» salutò Scaurus, avvicinandosi. «Di cosa dobbiamo parlare?» Bailli, però, non era più il pacato ufficiale sicuro di sé che poche settimane prima aveva consegnato al tribuno il proclama di Drax. «Furfante» ringhiò, con i tendini del collo tesi per l'ira. «Per due monete di rame sarei pronto a lasciarti in pasto ai corvi. Ti credevo un uomo d'onore.» E sputò ai piedi del Romano. «Se non lo sono, allora perché corri il rischio di parlamentare con me? Siamo nemici, è vero, ma non c'è bisogno che ci odiamo a vicenda.» «Va' all'inferno, tu e le tue belle parole» ribatté Bailli. «Vi avevamo presi per onesti mercenari, tu e i tuoi uomini, per gente decisa a fare del suo meglio per chi la paga, certo, ma non a piegarsi al genere di atti immondi in cui voi state sguazzando. Assassinii nel cuore della notte, accoltellamenti nelle taverne, cavalli azzoppati, furti calcolati per far impazzire la gente...»
«Perché incolpi noi?» chiese Marcus. «In primo luogo, sai che noi Romani non combattiamo in quel modo... come ho già detto, devi saperlo, altrimenti non saresti qui a parlare con me. In secondo luogo, anche se fossimo disposti ad adottare tali metodi, non potremmo farlo, perché siete proprio voi a tenerci bloccati fra queste colline.» «A quanto pare, in pianura c'è qualcuno che non vi ha in simpatia» aggiunse Gaius Philippus, con la stessa noncuranza che avrebbe dimostrato nel commentare le condizioni del tempo, e Bailli parve prossimo a scoppiare. «D'accordo, d'accordo! Scatenate i vostri stupidi contadini, se così vi aggrada di giocare questa partita. Li scoveremo, anche a costo di abbattere ogni albero e di bruciare ogni capanna da qui alla città. E poi torneremo a vedercela con voi, e vi faremo desiderare di poter condividere la stessa sorte che avremo riservato ai vostri vili tagliagole.» Gaius Philippus non disse nulla, ma un sopracciglio gli si contrasse leggermente, un segnale che per Bailli non poteva avere significato, ma che indicava a Marcus che il centurione anziano non era minimamente preoccupato da quella minaccia. «C'è altro, Bailli?» chiese il tribuno. «Soltanto questo» rispose l'ufficiale Namdaleno, in tono pesante. «Al Sangarios, tu e i tuoi uomini avete combattuto come meglio potevate, e in maniera onesta. In seguito, nel corso del colloquio relativo allo scambio da te proposto, ti sei dimostrato generoso, anche se le cose non erano andate come volevi. Allora, perché tutto questo?» L'onesta perplessità che trapelava dalla voce dell'altro meritava una risposta sincera. «"Fare del mio meglio", per usare le tue parole, mi va bene, ma non è il mio lavoro» replicò Marcus, dopo un momento di riflessione. «Il mio lavoro è quello di tenere in piedi la situazione, ed è quello che intendo ottenere, in un modo o nell'altro.» Il tribuno gradì l'occhiata di assoluta approvazione lanciatagli da Gaius Philippus, ma capì che le sue parole non avevano senso per Bailli, perché la cocciutaggine romana era una caratteristica che non aveva controparte in questo mondo: né gli astuti Videssiani, né gli spensierati Khatrish, e neppure gli orgogliosi Namdaleni potevano apprezzarla fino in fondo. Bailli, però, non era uno stupido e, proprio come Scaurus si era servito dei termini da lui usati, ora rigettò in faccia al tribuno le sue parole. «"In un modo o nell'altro", vero? E quanti ringraziamenti pensi che ot-
terrai dai nobili dell'Impero, straniero, se insegnerai l'arte dell'assassinio a questi contadini sporchi di letame?» Il Namdaleno fissò Zonaras negli occhi. «E tu, signore, quando andrai a raccogliere i tributi che ti sono dovuti, ti sentirai mai al sicuro nel passare accanto ad un qualsiasi cespuglio abbastanza grande da permettere ad un uomo di nascondervisi dietro?» «Più al sicuro di quando i vostri bravacci mi hanno assalito» ribatté il Videssiano, ma al tempo stesso si tormentò pensosamente la barba. «Mi ricordi l'uomo di quell'aneddoto... che si è gettato nel fuoco perché aveva freddo. Bene, che ricada dunque sulla tua testa... come probabilmente succederà» commentò Bailli, tornando poi a rivolgersi a Scaurus. «Abbiamo seppellito quel vostro cavaliere diretto a nord... si chiamava Antakinos, vero?» Se conosceva il nome del messaggero, questo significava che non stava barando e Marcus si chiese quanti altri corrieri fossero stati intercettati prima che riuscissero a raggiungerlo. «Davvero?» si limitò però a dire. «Vale... ti saluto.» Bailli, che si era evidentemente aspettato una reazione maggiore, rispose con un grugnito, poi annuì in direzione dei suoi due luogotenenti, che per tutto il tempo avevano fissato il tribuno e i suoi compagni con aria ancor meno benevola di quella esibita dal loro capo. «Venite. Lo abbiamo avvertito, ed è più di quanto meriti.» Con precisione quasi pari a quella dei legionari, i tre Namdaleni girarono sui tacchi e tornarono verso i loro cavalieri in attesa. Mentre Scaurus, Zonaras e Gaius Philippus si avviavano a loro volta in direzione della scorta comandata da Minucius, il centurione anziano riuscì a stento a trattenere un sorrisetto compiaciuto. «Quell'uomo diventerà uno dei migliori reclutatori che abbiamo mai avuto. Non c'è niente come vedere la propria fattoria in fiamme e i propri vicini uccisi che dia ad un uomo un'idea precisa della parte da cui si deve schierare.» «Sì, è probabile» rispose Marcus, ma in tono distratto, perché la frecciata di Bailli in merito alle conseguenze a cui sarebbe andato incontro spingendo i contadini videssiani alla guerriglia lo aveva turbato più di quanto avesse voluto ammettere con il Namdaleno. Quando aveva concesso carta bianca a Gaius Philippus, la sua unica intenzione immediata era stata quella di infelicitare la vita a Drax, e indubbiamente ci stava riuscendo, come dimostrava la bile manifestata da Bailli. L'isolano però, maledizione a lui, aveva ragione... i razziatori che ora stavano prendendo le armi contro gli
uomini del Ducato non avrebbero certo disimparato magicamente ad usarle una volta che la guerra si fosse conclusa. Quanto tempo sarebbe trascorso prima che si rendessero conto che un proprietario terriero detestato o un esattore delle tasse sanguinavano nello stesso modo di un Namdaleno? Zonaras, che sembrava aver letto nei suoi pensieri, assestò una pacca sulla schiena del tribuno. «Non mi aspetto di cadere in un'imboscata domani, Scaurus, e neppure fra un anno» disse. «Ne sono lieto» rispose Marcus, e si consolò pensando che in Videssos, come a Roma, i grandi proprietari terrieri erano troppo potenti e che la loro morsa aveva bisogno di essere allentata, perché l'impero era stato più forte all'epoca in cui poteva fare affidamento su contadini padroni dei loro appezzamenti di quanto non lo fosse adesso, con i nobili delle Provincie in contrasto con gli scribacchini della capitale e con la difesa dello stato affidata alle mani di mercenari poco affidabili come i Namdaleni... o come gli stessi Romani. Quando gli riferì le parole di Bailli, quella sera, Pakhymer rise però di lui. «E sei stato proprio tu a prendertela con me per aver fatto quello che andava fatto con gli Yezda!» esclamò. «C'è una differenza» insistette Marcus. «Un accidente se c'è» ribatté allegramente il Khatrish che, come il tribuno aveva previsto, era incapace di scorgere la differenza in questione. «Bisogna appesantire il proprio lato della Bilancia quanto più è possibile, e sperare per il meglio.» La fede ortodossa videssiana predicava che un giorno Phos avrebbe sconfitto il suo malvagio rivale, Skotos. Il popolo di Pakhymer, la cui stessa nazione era nata dal caos provocato da un'invasione barbarica, non era tanto ottimista e riteneva invece che le forze divine fossero alla pari nella lotta fra il bene e il male, teoria da cui derivava la metafora della bilancia. Per i Videssiani, come per i Namdaleni, questa era un'immonda eresia, ma i Khatrish, indipendenti come sempre nello spirito, si aggrappavano lo stesso ad essa. Marcus fu lieto di essere indifferente alla teologia. Gaius Philippus, però, aveva imparato a rispettare le opinioni di Pakhymer, perché il butterato comandante della cavalleria leggera aveva l'abitudine di essere sempre nel giusto; adesso, rimuovendo un pezzo di uva passa che gli si era infilato fra i denti, il veterano si rivolse a Scaurus.
«Tu sei quello che segue il filo di questa dannata politica imperiale, signore» disse. «Pensi che nella capitale ci vedranno come orchi per il fatto che usiamo i loro contadini per combattere gli isolani?» «Secondo me lo faranno soltanto coloro che sono essi stessi degli orchi, perché sono quelli che hanno qualcosa da temere» rispose Marcus, osservando il veterano con curiosità, in quanto non era da lui preoccuparsi per quel genere di cose. «Perché questo dovrebbe disturbarti?» «In realtà non c'è un motivo» affermò il centurione anziano, ma nel suo sorriso c'era qualcosa di falso. Marcus attese, e Gaius Philippus continuò, con incertezza: «Dopotutto, con gli Yezda e i fanatici di Zemarkhos fra noi e Aptos, è improbabile che la notizia di quanto accade qui giunga fin là.» «Aptos?» fece Marcus. Dopo Maragha, i Romani avevano svernato in quella cittadina, ma era passato più di un anno da quando l'avevano lasciata, e da allora Scaurus non vi aveva pensato quasi più. Gaius Philippus parve pentito di aver aperto bocca, e il tribuno pensò che non avrebbe aggiunto altro, ma il veterano invece non si arrestò. «La vedova del nobile locale... come si chiamava? Ah, sì, Nerse Phorkaina... è una dama coraggiosa. Ha già da allevare il figlio, da tenere a bada gli Yezda e da preoccuparsi della guerra santa che Zemarkhos ha scatenato contro tutti, e non vorrei che pensasse che noi le abbiamo procurato un altro problema: sarebbe un brutto modo per ricambiare la sua buona ospitalità.» «Infatti» convenne Marcus, in tono solenne, chiedendosi effettivamente quale fosse stato il nome della donna. Non dubitava comunque che Gaius Philippus ricordasse tutto quello che c'era da ricordare in merito alla vedova di Phorkos, perfino il tipo di pietra che preferiva per i suoi anelli; il centurione anziano era però così abituato a disprezzare le donne che Scaurus dubitò che avrebbe mai ammesso anche solo con se stesso di provare in questo caso qualcosa di diverso. L'ascia dal manico corto affondò nel tronco del gelso, più e più volte, sollevando una pioggia di schegge. Bryennios il taglialegna emise un grugnito di soddisfazione quando l'albero cominciò a ondeggiare. I lunghi anni di uso avevano reso il manico dell'ascia liscio quanto la pelle di una fanciulla, sotto le sue mani callose; l'uomo passò dall'altro lato del gelso, accentuando il taglio inferiore con qualche altro colpo, prima di tornare a quello principale, e grugnì ancora, pensando che sarebbe riuscito a far cadere la pianta nello spazio che era stato occupato dal vecchio ontano, fin-
ché una tempesta non lo aveva abbattuto, tre anni prima, e che questo gli avrebbe reso molto più facile procedere poi a farlo a pezzi. La brezza cambiò direzione, e portò alle narici di Bryennios un pungente odore di fumo. Il taglialegna emise un altro suono inarticolato, questa volta tutt'altro che soddisfatto, perché quell'odore di fumo non era certo frutto del lavoro di Tralles, il carbonaio: le case del suo villaggio erano in fiamme, ed anche da lontano lui poteva sentire le donne che piangevano e i Namdaleni che si chiamavano a vicenda. Come se pensare agli uomini del Ducato fosse stato sufficiente a provocarne l'apparizione, tre di essi avanzarono a cavallo lungo il sentiero boschivo. «Tu, laggiù!» chiamò uno dei tre, contraendo l'ultima lettera nel suo strascicato accento isolano. Bryennios sogghignò, ma soltanto fra sé, perché i Namdaleni erano in armatura ed avevano le lunghe lance spianate. Il taglialegna vibrò un altro colpo d'ascia e il gelso gemette: ancora qualche sforzo e sarebbe caduto. «Ammaina le vele, amico!» gridò ancora l'isolano. Il termine marinaresco non aveva significato per Bryennios, che non aveva mai visto uno specchio d'acqua più grande di una polla, ma il suo senso era evidente, quindi lui abbassò l'ascia e, senza darne l'impressione, studiò i Namdaleni mentre gli si avvicinavano. Due di essi avrebbero potuto sembrare Videssiani per il loro aspetto, se non avessero avuto il volto sbarbato, mentre il terzo aveva i capelli chiari e gli occhi di un verde incredibile. Tutti e tre, poi, erano uomini alti e robusti, più alti di lui di mezza testa o anche più, ma le spalle di Bryennios erano più larghe delle loro, le sue braccia spesse e muscolose per gli anni di lavoro con l'ascia. «Cosa volete da me?» chiese. «Ho del lavoro da fare... più di quanto ne avessi prima, grazie a voi.» Non cercò di nascondere la propria amarezza. Il più anziano dei due Namdaleni bruni, che sembrava essere il portavoce del gruppo, si asciugò la fronte con la manica della sopravveste verde, rimuovendone sudore e fuliggine. Il resto della sua faccia rimase sporco. «Vuoi che vi siano risparmiate visite del genere, vero?» chiese. «E chi non lo vorrebbe?» ribatté Bryennios, guardandolo come se fosse stato un idiota. «Un punto a tuo favore» ammise l'isolano, con un accenno di sorriso. «Ebbene, a noi non ha fatto piacere che un nostro carro di provviste sia stato bruciato e due guardie stordite. Hai idea di chi possa aver organizzato
questo piccolo piano così intelligente? Pagheremmo bene per sapere il suo nome.» Il taglialegna allargò le mani con una scrollata di spalle e il Namdaleno emise un ringhio disgustato, imitando il suo gesto con fare beffardo. «Allora vedi come stanno le cose. Se non possiamo scoprire chi sono i ribelli, dobbiamo insegnare a tutti quale sia il prezzo che si paga dando loro rifugio.» Bryennios scrollò ancora le spalle. «Tanto varrebbe che interpellassi l'ascia di quell'idiota» intervenne l'isolano biondo. «Certo ti direbbe di più.» La barra nasale dell'elmo dava all'uomo l'aspetto incombente di un falcone, e lo sguardo dei suoi occhi color smeraldo trapassò Bryennios, prima che il Namdaleno assestasse uno strattone alle redini, girando il cavallo. I suoi compagni lo imitarono. Bryennios tornò ad attaccare il tronco del gelso che dopo qualche altro violento colpo cadde proprio dove lui voleva. Il taglialegna avanzò per staccare i rami più grossi e borbottò una breve preghiera di ringraziamento per il fatto che gli uomini del Ducato non avevano seguito il suggerimento del cavaliere biondo e non avevano esaminato la sua ascia, perché la macchia rossa che spiccava in cima all'impugnatura non era stata certo prodotta dalla resina. «Perché si stanno ritirando? Non ne ho la minima idea» disse a Scaurus l'esploratore khatrish, impudente come tutti i membri del suo popolo. «Se vuoi i perché, rivolgiti ad un mago. Io conosco soltanto i che cosa, e ti dico che i Namdaleni stanno smontando il campo.» Il tribuno si frugò nella sacca e tirò fuori una moneta d'oro, gettandola al nomade. «Quale che sia il motivo, una buona notizia va ricompensata» dichiarò, poi si batté una manata sulla fronte al pensiero della stupidaggine commessa, quando però l'esploratore aveva ormai fatto sparire la moneta, ed aggiunse: «Dopo Kyzikos, dovresti essere tu a pagare me.» «Anche così, questa non andrà sprecata» replicò il Khatrish, con un sorriso compiaciuto. Il tribuno lo riaccompagnò fino al suo punto di osservazione e, non essendo un abile cavaliere, per tutto il tragitto benedisse le staffe che gli davano almeno una possibilità di rimanere in groppa alla grossa bestia inaffidabile che aveva sotto di sé.
Una sola occhiata dall'alto della collina bastò a dirgli che l'esploratore aveva ragione. I Namdaleni di Bailli avevano utilizzato il campo approntato dai legionari accanto alla villa di Zonaras come loro base principale, ed ora esso si stendeva deserto. Marcus arrivò al punto di osservazione in tempo per vedere gli ultimi componenti della colonna namdalena lasciare la valle verso nord; anche da quella distanza, il loro schieramento serrato era evidente... un territorio ostile tutt'intorno era il miglior deterrente dall'adottare un ordine sparso. Intento com'era a seguire l'andamento della ritirata, il tribuno impiegò qualche tempo ad accorgersi che c'era ancora una guarnigione che occupava la robusta dimora di Zonaras; nei giorni successivi, altre guarnigioni come quella furono individuate in tutti i punti di forza che gli isolani avevano stabilito per tenere sotto controllo legionari: il grosso delle forze namdalene se ne era andato, ma loro erano ancora troppo bloccati sulla difensiva. Quando poi gli esploratori che erano riusciti ad oltrepassare la linea dei fortini namdaleni riferirono che il grosso degli isolani stava puntando in tutta fretta verso Garsavra, Laon Pakhymer si mostrò tanto compiaciuto di se stesso da generare in Marcus la voglia di strozzarlo. «Vedi, perfino gli Yezda possono essere utili» dichiarò il generale khatrish. «I guai di un uomo costituiscono l'opportunità di un altro.» Scaurus rispose soltanto con un grugnito e continuò a sperare che gli uomini del Ducato schiacciassero gli Yezda, pur ammettendo che non avrebbe certo pianto se nel farlo le loro forze si fossero indebolite. Dal canto suo, non aveva comunque intenzione di restarsene in ozio mentre i Namdaleni combattevano gli Yezda: se un paio di quelle fortificazioni formate da palizzata e torre centrale fossero cadute, la via verso la pianura costiera sarebbe stata di nuovo aperta per i legionari. Le colline costituivano un buon rifugio, ma qui non si sarebbe mai arrivati ad una svolta decisiva... e le fertili terre basse erano molto più adatte a nutrire un esercito. Marcus era stufo di orzo e lenticchie, ed anche quei viveri cominciavano ormai ad esaurirsi. Naturalmente, Zonaras chiese che la sua villa costituisse la prima fortezza ad essere liberata, ma il tribuno dovette opporre un rifiuto... i punti di approccio erano troppo allo scoperto e l'edificio in se stesso troppo solido. «Questa è una lode di cui potrei far a meno» commentò l'anziano nobile, scuotendo il capo. Marcus scelse quindi parecchi altri bersagli più adatti da attaccare, e
tenne per sé un forte che era stato da poco costruito dai Namdaleni, qualche chilometro ad ovest della tenuta di Zonaras. La valle in cui sorgeva era un centro della guerriglia, e le lotte fra i suoi membri e gli isolani avevano spinto alla fuga i contadini locali, per cui gli uomini del Ducato erano adesso costretti a lavorare i campi per sostentarsi. Osservando i raccolti al riparo dei rami di una macchia di mandorli, il tribuno dovette ammettere che i Namdaleni stavano ottenendo buoni risultati. Non diede segnali. Quando ritenne che fosse giunto il momento opportuno, Pakhymer lanciò qualche decina dei suoi cavalieri al galoppo nella valle, dove calpestarono i ricchi campi verdi, troncando il grano non ancora maturo con le sciabole e lasciandosi dietro la massima scia di devastazione possibile. Alcuni erano muniti di torce fumanti, che scagliarono di qua e di là, altri puntarono verso il piccolo gregge di pecore che pascolava appena all'esterno del fossato e accennarono a sospingerlo verso le colline. Le grida indignate che si levarono dal forte furono tali che Marcus le sentì a quattrocento metri di distanza. Vide anche alcuni uomini correre lungo il muro della fortezza e scagliare qualche inutile freccia contro i razziatori all'esterno, poi una passerella di legno fu calata con un tonfo sul profondo fossato e i cavalieri namdaleni la percorsero al galoppo, accompagnati dal rombo minaccioso degli zoccoli dei loro cavalli. Sbirciando fra il fogliame, il tribuno li contò: trentotto... trentanove... le sue spie avevano riferito che dietro le fortificazioni ci doveva essere una cinquantina di uomini. Mentre le pecore, in preda al panico, correvano di qua e di là, i Khatrish tornarono a raggrupparsi per fare fronte alla minaccia, sfruttando al massimo la rapidità e l'agilità dei loro pony e tempestando di frecce i loro avversari in armatura pesante. Marcus vide un isolano portarsi le mani alla faccia e scivolare lentamente all'indietro, oltre la coda del cavallo, poi due uomini di Pakhymer scattarono verso un Namdaleno che si era separato dai suoi compagni, prendendolo uno da ciascun lato, e il tribuno si morse un labbro nell'osservare la scena dal suo nascondiglio. Cosa ci sarebbe mai voluto per convincere i Khatrish che non potevano opporsi agli isolani in uno scontro diretto, corpo a corpo? Proteggendosi il fianco sinistro con lo scudo, il Namdaleno abbatté l'uomo che lo attaccava sulla destra, poi usò un colpo di rovescio per liberarsi dell'altro, che si allontanò barcollando sulla sella, con un avambraccio lacerato. Gli altri isolani levarono grida di approvazione per l'abilità del compagno. Come se il loro morale avesse ceduto, i Khatrish fuggirono verso le col-
line, inseguiti dagli uomini del Ducato. Adesso i piccoli pony dei nomadi non stavano sfruttando al massimo la loro velocità, e sembravano incapaci di distaccare gli isolani scagliati alla carica; urlando e brandendo le lance, i Namdaleni continuarono l'inseguimento. Scaurus osservò l'ampliarsi dello spazio vuoto fra i cavalieri e la fortezza, poi si girò verso il manipolo che aveva trascorso con lui una scomoda nottata sotto il boschetto di mandorli. «D'accordo, ragazzi, di corsa!» gridò. I Romani lasciarono il nascondiglio e si precipitarono verso la fortezza, portando fagotti di sterpi con cui riempire il fossato. Arrivarono quasi a metà strada prima che i Namdaleni li vedessero avvicinarsi dal fianco, perché i cavalieri erano concentrati sull'inseguimento, e il pugno di difensori rimasti sulle mura non aveva occhi che per i compagni. Poi uno degli uomini sul terrapieno emise un grido inorridito, quando ormai il tribuno era abbastanza vicino da poter distinguere nettamente le facce sgomente dei Namdaleni, che si precipitarono verso la passerella per rimuoverla prima che i legionari vi arrivassero. Scaurus snudò i denti in un sogghigno, perché non aveva sperato di avere tanta fortuna. Le spesse travi di quercia erano massicce, e il passaggio dei cavalli e dei cavalieri in armatura le aveva fatte penetrare profondamente nella terra morbida del terrapieno. Marcus sentì gli isolani grugnire e imprecare per lo sforzo, ma il bordo esterno della passerella non si era ancora smosso quando le sue caligae rimbombarono sul legno. Il tribuno scattò in avanti, facendo del suo meglio per non pensare al fossato che si apriva sotto di lui, poi un isolano che aveva le unghie spezzate e le mani sporche di terra rinunciò all'inutile sforzo di rimuovere le travi e salì invece su di esse, estraendo la spada e andando incontro a Marcus, che aveva già in pugno la lunga lama gallica. «Proprio come Orazio, vero?» ansò il tribuno. Al contrario di quello che il leggendario eroe aveva difeso contro gli Etruschi, però, questo ponte era abbastanza largo da permettere a tre o quattro uomini di combattere fianco a fianco. Prima che altri Namdaleni potessero raggiungere il loro compagno più pronto di riflessi, Scaurus lo assalì di fronte, Minucius sulla destra e un altro Romano sulla sinistra. L'isolano si difese coraggiosamente ma i legionari, essendo tre contro uno, ebbero ragione di lui in pochi secondi e il soldato si accasciò, perdendo sangue dalla gola, dall'inguine e da una coscia. Con un grido di trionfo, i Romani scavalcarono il suo corpo e sciamarono all'interno della fortificazione: un paio di Namdaleni cercarono di re-
sistere, ma gli altri gettarono le armi in preda alla disperazione. Nel frattempo, i cavalieri lanciati all'inseguimento dei Khatrish si erano ormai resi conto dell'inganno in cui erano caduti ed avevano girato i cavalli, spronandoli disperatamente per tornare al galoppo verso il forte. I nomadi avevano però curvato a loro volta, trasformandosi da inseguiti in inseguitori, tempestando di frecce il nemico e svuotando una sella dopo l'altra, mentre gli isolani cercavano di ignorarli come meglio potevano, ora che la posta in gioco si era fatta molto più elevata. «Avanti, dateci dentro!» gridò Scaurus. Disponendo di molte più mani di quante ne avessero avute i Namdaleni, i legionari procedettero a sollevare la passerella, e lanciarono un grido esultante quando essa si staccò dal terreno e precipitò nel fossato sottostante. Era fatta di travi ben solide, perché il tribuno non le sentì rompersi sotto l'impatto. Fuori del castello, gli isolani cominciarono ad agitarsi in preda alla confusione, non sapendo cosa fare ora che erano chiusi fuori della loro stessa fortezza. La pioggia di frecce khatrish suggerì però loro che restare non era la politica più salutare, quindi si guardarono alle spalle con aria cupa e si avviarono al trotto verso nord, presumibilmente per ricongiungersi al grosso delle loro forze. Pakhymer agitò la mano in direzione di Scaurus, che ricambiò il gesto: l'assalto era andato meglio di quanto avessero osato sperare. Il tribuno trascorse la notte nel fortino catturato, aspettando i rapporti dei suoi ufficiali. Un cavaliere del distaccamento di Gagik Bagratouni arrivò appena dopo il tramonto per annunciare un successo facile e assoluto quanto quello del tribuno. Anche Junius Blaesus aveva conquistato il suo obiettivo, ma nel suo caso la lotta era stata più dura. «Cosa è andato storto?» chiese Marcus. «Ha cominciato la sua carica dannatamente troppo presto» rispose l'esploratore Khatrish, criticando senza remore un ufficiale agli ordini di qualcun altro. «I Namdaleni sono riusciti a girare e a colpirlo prima che arrivasse al castello. Però è piuttosto coraggioso... ha schivato una lancia e ha trafitto un cavaliere buttandolo giù di sella.» Il Khatrish si tormentò un orecchio, come se stesse cercando di ricordare qualcos'altro. «Ah, ecco cos'è... il tuo amico Apokavkos ha perso il mignolo della destra.» «Un peccato» commentò Scaurus. «Come l'ha presa?» «Lui? È arrabbiato con se stesso... mi ha detto di riferirti che ha usato un fendente invece di un affondo, e che questa è l'ultima volta che commette un simile errore, grazie tante.»
Soltanto Gaius Philippus non aveva ancora mandato notizie, ma Marcus non era preoccupato, perché il bersaglio del centurione anziano era il più lontano dal suo. Nelle prime ore del mattino, tuttavia, un cavaliere giunse a riferire un totale fallimento. L'uomo si mostrò vago in merito all'accaduto, e Scaurus apprese tutta la storia soltanto quando lui e Gaius Philippus si ritrovarono all'accampamento romano, qualche giorno più tardi. Marcus aveva infatti ritirato i legionari dai fortini espugnati, lasciando al loro posto alcuni Videssiani, un misto di armigeri e di irregolari... in quantità sufficiente per svolgere a dovere il servizio di guarnigione. «È stato uno di quegli aggeggi» spiegò il centurione anziano, scrollando le spalle. «I Khatrish sono piombati nei campi urlando nel modo più spettacolare, ma quei figli di buona donna avevano un paio di catapulte dentro la loro fortificazione, cosa di cui non ci siamo accorti finché non hanno cominciato a tirare. Avevano una buona mira: hanno schiacciato due cavalli e staccato di netto la testa ad un uomo, il che ha scoraggiato considerevolmente gli altri ed ha trasformato in una vera fuga quella che doveva essere soltanto una finta.» Il veterano s'interruppe per mangiare una cucchiaiata di stufato di montone. «Non posso dire di biasimarli troppo. Siamo rimasti seduti sotto una macchia di peschi finché ha fatto buio, poi ce ne siamo andati. Alcuni dei miei uomini hanno preso la dissenteria per aver mangiato dei frutti acerbi, quegli idioti.» Nonostante la disavventura del centurione anziano, Scaurus comprese di aver conseguito un solido successo, e sentì salire in sé l'entusiasmo al pensiero di tornare presto in pianura, perché trascorrere tutta l'estate su quelle colline avrebbe ridotto le sue truppe alla fame. Era vero che le forze di Drax, nel loro complesso, avrebbero potuto schiacciare i legionari, ma Drax aveva altri problemi, in quel momento. Senpat Sviodo accennò a gettare via la sua pandora per il disgusto dopo aver prodotto una nota che era suonata terribilmente stonata perfino all'orecchio di Scaurus, negato per la musica. «Vorrei essere di nuovo nelle terre alte» dichiarò il Vaspurakano. «Qui è troppo umido, ed è impossibile mantenere accordate le corde di budello, con questa umidità. Ah, dolcezza mia» aggiunse, stringendo la pandora come avrebbe potuto fare con Nevrat, «ti meriti corde del miglior argento e» aggiunse ridendo, «se sperperassi così i miei soldi a tuo beneficio, forse non mi tradiresti, piccola volubile.» Con lo zelo di un appassionato, procedette quindi a spiegare i vantaggi e
gli svantaggi dei diversi tipi di corde, e Marcus lottò per nascondere la propria noia, perché neppure il fascino disinvolto di Senpat poteva indurlo ad interessarsi di musica, e la giornata di marcia lo aveva sfinito. Fu quindi lieto di avere una scusa per concludere il discorso quando Lucius Vorenus gli si avvicinò. «Che c'è adesso?» chiese il tribuno. «Cos'ha fatto Pullo che a te non va a genio?» «Eh?» Vorenus parve sconcertato. «Oh, nulla, signore. Dopo quello scontro nella valle siamo diventati ottimi amici, e adesso siamo di sentinella insieme, alla porta orientale. Ed è appena arrivato uno Yezda, signore, che chiede di parlare con te.» «Un cosa?» Questa volta fu Scaurus a rimanere sconcertato e Senpat, che conosceva il latino abbastanza da cogliere il nome dei nemici del suo popolo, trasse dalla pandora una nota stonata che non aveva nulla a che vedere con le condizioni delle corde. Il tribuno sentì le labbra che gli si serravano. «E che può avere da dirmi uno Yezda?» «Non lo so, signore. È là fuori, con uno straccio bianco legato all'arco, perché non ha neppure una lancia o un elmo da issarci sopra. Ha l'aspetto di uno sporco mendicante» concluse Vorenus, con disapprovazione. Marcus scambiò un'occhiata con Senpat, il cui viso esprimeva uno strano miscuglio di perplessità e di ostilità, sentimenti condivisi in pieno da Scaurus. «Portalo qui» ordinò infine, e Vorenus si allontanò di corsa dopo aver salutato. Nonostante la descrizione spietata del legionario, Marcus si era aspettato un emissario dall'aspetto meno misero di quello dello Yezda... magari qualche alto ufficiale che avesse nelle vene anche sangue Makurano, oltre che quello dei nomadi delle steppe, un individuo alto, sottile, avvenente, con le mani snelle e gli occhi tristi ed espressivi, come il capitano che aveva difeso Khliat contro Mavrikios Gavras. Al seguito di Vorenus giunse però soltanto un nomade sciatto in sella ad un pony irsuto, che ricordava in tutto e per tutto un qualsiasi Khamorth al servizio dell'impero, tanto che neppure un soldato lo degnò di una seconda occhiata. La sua stessa presenza là, non lontano da Kyzikos, era però un coltello puntato alla gola di Videssos. Lo Yezda, dal canto suo, non pareva più felice di trovarsi nel campo nemico di quanto lo fosse Marcus di averlo lì, e continuò a girare nervosamente la testa a destra e a sinistra, come per cercare una via di fuga.
«Tu Scaurus, capo di queste persone?» chiese, in un videssiano stentato ma comprensibile. «Sì» rispose il tribuno, impassibile. «Cosa vuoi?» «Io Sevabarak, cugino di Yavlak, che è capo dei clan di Menteshe. Lui manda me a te per chiedere quanto denaro tu hai. Ne hai bisogno molto, io credo.» «E questo cosa vorrebbe dire?» chiese Marcus, a cui ancora non andava di avere qualcosa a che fare con lo Yezda. Sevarabak apparve più divertito che offeso. «Perché noi... come si dice?... sgonfiamo ragazzi cavalieri che si credono tanto duri, settimana scorsa. Dannatamente più di quanto sporco impero può fare» dichiarò lo Yezda. Poi, contando i nomi sulle dita, proseguì: «Noi prendiamo Drax, prendiamo Bailli, prendiamo come-si-chiama Videssiano che si crede Impero...» «Imperatore» lo corresse automaticamente Scaurus. Accanto a lui, Senpat Sviodo stava fissando il nomade con occhi sgranati come, per la verità, stava facendo anche il tribuno stesso. Sevabarak accantonò l'interruzione con un cenno. «Come che sia. Noi lo prendiamo. Prendiamo Turgot, prendiamo Soteric, prendiamo Clozart... no, io ritiro, lui morto due giorni andati. Comunque, abbiamo pitali pieni di Namdaleni. Tu vuoi, tu compri, molti soldi. Altrimenti» concluse il nomade, mentre un'espressione avida e crudele gli affiorava nello sguardo, «noi vediamo quanto loro vivono a lungo. Alcuni durano settimane, scommetto.» Marcus però non prestò alcuna attenzione alla minaccia: gli si stava offrendo su un piatto d'argento una ribellione stroncata, e se si fossero mossi in fretta, forse i legionari avrebbero ancora potuto tenere gli Yezda alla larga dalla pianura costiera. E a proposito di oro... «Pakhymer!» gridò. Quell'accordo sarebbe potuto costare più di quanto i legionari avessero a disposizione, e lui era pronto a ingoiare tutti i te-loavevo-detto del Khatrish pur di concluderlo. CAPITOLO OTTAVO Il grande carro procedeva attraverso la distesa ondulata della steppa scricchiolando e ondeggiando su ruote alte quanto un uomo. Al suo interno, Gorgidas sedeva a gambe incrociate su un policromo tappeto di pelo di capra, intento ad aguzzare il proprio stilo con la lama della spada; nel con-
trollare la punta, premendola sul polpastrello del pollice, il Greco scoppiò in una risatina, al pensiero che non era certo stato così che Gaius Philippus aveva sperato che lui avrebbe usato l'arma, quando gliel'aveva data. Verificato che lo stilo andava bene, aprì una tavoletta incerata a tre pagine e si accigliò nel notare con quanta incuria aveva pareggiato la cera dopo aver trascritto l'ultima serie di annotazioni su un pezzo di pergamena. Per un po', si tormentò l'orecchio sinistro, riflettendo, poi lo stilo cominciò a scorrere veloce sulla tavoletta, lasciando sulla propria scia piccoli riccioli di cera. "Quanto ad espansione territoriale, né Videssos né Yezd possono reggere favorevolmente il confronto con i nomadi del nord, e in effetti se essi decidessero di unirsi sotto un solo capo, nessuna nazione potrebbe tenere loro testa. Tuttavia, essi non si governano con eccessiva saggezza, né sfruttano al meglio le risorse che hanno a disposizione". Il Greco osservò ciò che aveva scritto... non c'era male, il brano aveva un che di Tucidide nello stile e la calligrafia era piccola e precisa. Con uno sbuffo, ricordò a se stesso che questo aveva ben poca importanza, perché in quel mondo lui era l'unico a leggere il greco... no, non l'unico, perché Scaurus riusciva in qualche modo a decifrarlo. Adesso, però, il tribuno era a Videssos, che sembrava incredibilmente lontana da quel convoglio di carri arshaum. Accanto a lui, Goudeles era a sua volta impegnato a buttare giù qualche annotazione per il discorso che intendeva tenere al padre di Arigh, Arghun, il khagan del clan del Cavallo Grigio, quando finalmente fossero giunti alla sua presenza, evento a cui ormai non mancava più molto, al massimo un paio di giorni. Lankinos Skylitzes, comodamente sdraiato su un mucchio di spessi cuscini, stava dormendo profondamente, per nulla disturbato dall'occasionale scossone provocato da una ruota che passava su un sasso, e russava. Lo stilo di Gorgidas riprese a scorrere sulla cera. "Non è quindi sorprendente che gli Arshaum siano riusciti a respingere i Khamorth nella parte orientale delle steppe, che si estendono ad ovest al di là di ogni cognizione umana, in quanto gli Arshaum si sono adattati alla vita nomade molto meglio dei Khamorth. Ciò è dimostrato dal fatto che le loro stesse tende, gli yurt, come essi le chiamano, sono montate su grossi carri, il che evita di perdere tempo al momento di togliere il campo. Gli Arshaum seguono i loro armenti dovunque, come delfini sulla scia di un branco di tonni". Il paragone gli piacque e lo tradusse in videssiano a beneficio di Goudeles, che però levò gli occhi al cielo.
«Paragonarli ad altrettanti squali sarebbe più appropriato» dichiarò, ed aggiunse, sottovoce: «Barbari!» Gorgidas preferì pensare che quell'ultimo commento fosse rivolto soltanto agli Arshaum e che non includesse anche lui, e riprese a scrivere. "Siccome i popoli delle pianure non agiscono congiuntamente, come una sola nazione, tanto Videssos quanto Yezd cercano di conquistarsi la loro alleanza trattando con i singoli clan e, attirando dalla loro parte capi importanti come Arghum, sperano di influenzare i khagan di minor rilievo e di indurli ad aggregarsi alla fazione che sembrerà più forte". «Cosa supponi che abbia in mente di fare questo Bogoraz?» chiese poi a Goudeles, abbassando lo stilo. «Nulla di buono per noi, ne sono certo» interloquì Skylitzes, aprendo un occhio, e subito riprese a dormire. «Temo che abbia ragione» commentò Goudeles, con un sospiro. Anche l'ambasciatore degli Yezda era venuto per conquistarsi il favore di Arghun e, in attesa che il loro khagan decidesse a favore di una fazione o dell'altra, gli Arshaum stavano badando a tenere Bogoraz e il suo gruppo ben lontani dalla delegazione videssiana. Avendo perso l'ispirazione, Gorgidas ripose tavoletta e stilo e fece capolino fuori del telo d'ingresso dello yurt. Agathias Psoes, che cavalcava dietro la tenda su ruote, gli rivolse un cenno di saluto; il sottufficiale stava tenendo la sua squadra sul chi vive, perché non era del tutto sicuro che i nomadi riuscissero a impedire a Bogoraz e al suo seguito di tramare qualcosa di pericoloso. Il Greco si rivolse al giovane nomade che guidava la pariglia di cavalli aggiogata allo yurt. «Possa la tua mandria moltiplicarsi» salutò cortesemente, usando buona parte dei pochi vocaboli che aveva imparato nella sibilante lingua degli Arshaum. «Possano le tue bestie essere grasse» rispose il nomade che, come la maggior parte dei suoi connazionali, era basso e magro, ma dotato di una muscolatura sottile e robusta; il suo volto era piatto, bruno e quasi glabro, ed una piega della pelle agli angoli delle orbite dava agli occhi una forma obliqua. Quando sorrideva, mostrava denti estremamente bianchi. Frange di pelle scamosciata e tasselli di lana tinti a vivaci colori gli ornavano i calzoni di pelle di pecora e la casacca di cuoio, alla cintura portava una spada ricurva e un coltello ed aveva una faretra di frecce appesa alla schiena, mentre l'arco era appoggiato sul sedile di legno, accanto a lui;
dalla sua persona esalava l'intenso odore del burro rancido che il nomade usava per ungere i dritti capelli neri. Era più tardi di quanto Gorgidas avesse creduto; il sole, infatti, stava già scivolando nel cielo verso una bassa catena di colline che segnavano appena l'orizzonte, ad ovest. Quello era il primo accenno di rilievo del terreno che il Greco avesse visto da settimane, e al di là di esso c'era soltanto altra steppa. Da occidente sopraggiunsero proprio allora due cavalieri: uno di essi puntò alla volta della delegazione videssiana, mentre l'altro si diresse verso quella guidata da Bogoraz, sul cui yurt sventolava la bandiera di Yezd, una pantera che spiccava il balzo raffigurata su uno sfondo rosso cupo. Quella bandiera costituiva un tocco in più, e Gorgidas desiderò che l'impero fosse stato altrettanto previdente. Il messaggero si accostò e disse qualcosa nella propria lingua al Greco, che scosse il capo per indicare che non capiva. Con una scrollata di spalle, il nomade tentò di nuovo, questa volta in un khamorth zoppicante, perché fra gli Arshaum erano pochi quelli che conoscevano il Videssiano. A quel punto Gorgidas rientrò nella tenda e svegliò Skylitzes, perché questi aveva una perfetta dimestichezza con la lingua locale. L'ufficiale uscì borbottando e parlò con l'emissario per qualche minuto. «Stanotte incontreremo gli sciamani del clan» riferì poi ai compagni, «che ci purificheranno da eventuali spiriti malvagi prima che veniamo condotti alla presenza del khagan.» Per quanto conoscesse bene le usanze del popolo delle steppe, i suoi lineamenti severi erano più aspri del consueto. «Pagani» borbottò sottovoce, e si tracciò il segno di Phos sul petto. Per contro, Goudeles non parve particolarmente turbato dalla prospettiva di sottoporsi ad un rito straniero. All'esterno, il messaggero stava ancora impartendo istruzioni al conducente dello yurt, che incitò i cavalli: gli assi delle ruote stridettero quando il carro piegò verso sud, e Gorgidas lanciò a Skylitzes uno sguardo interrogativo. «Ci stanno portando dove si trovano gli sciamani» spiegò questi. Circa un'ora più tardi, lo yurt scese rumorosamente in un'ampia vallata. Guardando all'esterno, il Greco vide che lo yurt di Bogoraz era a poche centinaia di metri dal loro e che fra i due veicoli procedevano una quarantina di cavalieri arshaum, con l'evidente intento di evitare che scoppiassero attriti fra i soldati di Psoes e gli Yezda che scortavano Bogoraz. Il resto dei carri che avevano accompagnato quelli delle due ambasciate aveva prose-
guito invece alla volta del campo di Arghun. Nella valle c'era una sola tenda su ruote, i cui cavalli erano staccati e intenti a pascolare nelle vicinanze. Dal riparo uscì un uomo che teneva in mano una torcia, ma Gorgidas era ancora troppo lontano per distinguere qualcosa, a parte la stranezza del suo costume. In quel momento il conducente dello yurt disse qualcosa al Greco. «Torna dentro» avvertì Skylitzes. «Ci sta avvertendo che la magia sarà guastata, se noi vedremo accendere i fuochi sacri.» Gorgidas obbedì di malagrazia: come poteva imparare le usanze locali, se non gli era permesso di guardare? Lo yurt si arrestò abbastanza vicino perché il crepitio delle fiamme giungesse fino a lui, poi sentì il carro di Bogoraz che si fermava accanto al loro e il conducente che lanciava un richiamo a qualcuno. La risposta giunse in una tremolante voce tenorile... la voce di un vecchio. «Adesso possiamo scendere» spiegò Skylitzes, e si girò a fissare Goudeles. «Nel nome di Phos, stai ancora lavorando a quelle porcherie che poi declami?» «Stavo soltanto cercando un'adeguata antitesi per quest'affermazione» ribatté il burocrate, pacato, e procedette ostentatamente a stilare un'ultima annotazione, guardando Skylitzes ribollire di rabbia. «Così dovrà bastare» dichiarò infine. «Del resto, molto va perduto con la traduzione, in ogni caso. Avanti, vieni, Lankinos... non sono io quello che li sta facendo aspettare, adesso.» E in effetti il grasso scribacchino fu il primo ad uscire dalla tenda. Anche Bogoraz stava scendendo dal suo yurt, ma Gorgidas quasi non lo notò, perché la sua attenzione era concentrata sugli sciamani degli Arshaum, che erano tre: due vigorosi ed eretti, il terzo chino sotto il peso degli anni... evidentemente colui che aveva risposto al conducente dello yurt videssiano. I tre uomini indossavano tuniche di pelle scamosciata lunghe fino alla caviglia e coperte da una tale quantità di frange irsute da farli somigliare a bestie più che a uomini, e tutti e tre portavano ringhianti maschere demoniache realizzate in legno e cuoio e dipinte in verde, porpora e giallo, il che contribuiva a dare loro un aspetto inumano. Stagliati sullo sfondo del fuoco che avevano acceso, gli sciamani presero a saltare di qua e di là, chiamandosi di tanto in tanto a vicenda con voci che suonavano echeggianti e irreali all'interno delle maschere. Gorgidas osservò la scena con interesse e Skylitzes con aperto sospetto, ma Pikridios Goudeles si inchinò invece allo sciamano più anziano con lo
stesso profondo rispetto che avrebbe dimostrato davanti a Balsamon, il patriarca di Videssos. Il vecchio Arshaum ricambiò faticosamente l'inchino e lo accompagnò con qualche parola. «Ben fatto, Pikridios» si complimentò, con riluttanza, Skylitzes. «Il vecchio ha detto che non sapeva se purificare prima noi o gli Yezda, ma che le tue buone maniere lo hanno indotto a fare la sua scelta a nostro favore.» Goudeles s'inchinò ancora, quanto più glielo permetteva la sua corporatura rotonda, e Gorgidas pensò che quello scribacchino, per quanto ampolloso e molle, era comunque un diplomatico nato. A modo suo, anche Bogoraz lo era. Accortosi subito che non sarebbe riuscito a modificare la decisione del vecchio, lo Yezda non ci provò neppure e incrociò invece le braccia sul petto come se l'intera faccenda non fosse stata degna della sua attenzione. Di nuovo, però, Gorgidas si interessò soltanto marginalmente a lui, concentrandosi sugli sciamani che erano intenti a cantilenare incantesimi e a gettare incenso fragrante nelle fiamme del falò. Infine quello più anziano suonò una campanella di bronzo, mentre i suoi assistenti portavano avanti il canto. «Sta scacciando i demoni» spiegò Skylitzes. A quel punto, il vecchio tirò fuori un piccolo involto da sotto la lunga tunica e ne gettò il contenuto nel fuoco: le fiamme balzarono verso l'alto, incandescenti, emettendo un calore puro e intenso, tanto che Gorgidas rimase abbagliato e la fronte gli si imperlò di sudore. Simile a una chiazza di oscurità sullo sfondo del falò, il vecchio sciamano si avvicinò al gruppo videssiano e disse qualcosa. «Cosa?» esplose Skylitzes, in videssiano, poi ritrovò il controllo e aggiunse qualche altra parola, in arshaum. Lo sciamano ripeté la frase di prima e l'accompagnò con un gesto che sembrava voler sottolineare quanto la cosa fosse semplice. «Allora?» chiese Goudeles. «Se ho capito bene, e temo che sia così» rispose Skylitzes, «vuole che dimostriamo di non avere intenzione di fare del male ad Arghun attraversando quel falò laggiù. Sostiene che se le nostre intenzioni sono buone non succederà nulla, altrimenti...» L'ufficiale esitò, poi concluse: «Altrimenti il fuoco farà ciò che deve.» «All'improvviso, quello di andare per primo mi appare un onore a cui rinuncerei volentieri» commentò Goudeles. Skylitzes, di solito imperturbabile di fronte a qualsiasi pericolo fisico,
appariva prossimo al panico all'idea di affidare la propria vita all'incantesimo di un mago pagano, e Gorgidas, che faceva del suo meglio per non credere a nulla che non potesse vedere o sentire, si chiese perché non stesse provando anche lui una paura simile; si rese allora conto che stava osservando il vecchio sciamano con la stessa attenzione che avrebbe riservato ad un paziente, e che percepiva in lui una sicurezza luminosa e intensa quanto la fiamma che aveva acceso. «Credo che andrà tutto bene» disse, e questo gli attirò un paio di occhiate ugualmente infelici da parte di Goudeles e di Skylitzes... il che costituì la prima volta in cui i due si fossero trovati d'accordo su qualcosa da parecchi giorni a quella parte. A quel punto, infine, l'anziano Arshaum comprese finalmente che i membri del gruppo videssiano nutrivano dei timori: agitando una mano in un gesto rassicurante, indietreggiò di una decina di passi... e fu avviluppato dalle fiamme, che non lo consumarono. Il vecchio danzò in mezzo al fuoco, sotto lo sguardo incredulo degli uomini del gruppo di Goudeles... ed anche della scorta di Bogoraz, ferma in disparte... e quando riemerse neppure una frangia del suo strano costume presentava la minima bruciatura. Lo sciamano agitò ancora la mano, questa volta in un cenno d'invito. Goudeles, che possedeva una sua personale forma di coraggio, si eresse sulla persona con uno sforzo evidente. «Non sono certo venuto fino ai confini della mappa del mondo per recare offesa a un nomade» disse, senza rivolgersi a nessuno in particolare, e si accostò con passo deciso al limitare delle fiamme. Il vecchio gli batté una pacca sulla schiena, poi lo prese per mano e lo scortò nel fuoco, le cui fiamme si levarono alte tutt'intorno a loro. Lankinos Skylitzes si stava mordendo un labbro quando la voce di Goudeles, piena di gioia e di sollievo, si levò al di sopra del crepitio del falò. «Sono tutto intero, grazie... se fossi una bistecca sarei ancora al sangue» esclamò il diplomatico. Serrando la mascella, Skylitzes venne avanti e lo sciamano riapparve dalle fiamme. L'ufficiale si tracciò ancora una volta sul petto il segno di Phos, poi strinse la mano protesa del vecchio. «Sono qui» dichiarò, qualche minuto più tardi, laconico come sempre. Infine, lo sciamano rivolse il suo cenno d'invito a Gorgidas che, nonostante tutta la sicurezza di poco prima, avvertì l'insorgere del dubbio nell'accostarsi al fuoco e socchiuse gli occhi per proteggerli dalla luminosità, chiedendosi quanto tempo sarebbe passato prima che la battuta di Gou-
deles si concretizzasse. La mano dell'Arshaum era però fredda nella sua, e lo stava tirando gentilmente verso le fiamme. Non appena si addentrò in esse, il Greco sentì svanire la sensazione di calore: l'aria era tiepida come sarebbe potuta esserlo in una qualsiasi sera d'estate, tanto che non stava neppure sudando. Aprì gli occhi, e scoprì che non era più abbagliato dalla luce bianca che lo circondava; abbassando lo sguardo sui carboni ardenti che stava calpestando notò che essi non erano smossi dal suo passaggio, e sentì accanto a sé lo sciamano che mormorava una cantilena priva di una melodia precisa. Poi davanti a lui ci fu il buio, totale per contrasto con la luminosità che lo aveva avviluppato, e un improvvisa ventata di calore alle spalle gli disse che aveva oltrepassato l'incantesimo. Si allontanò dal fuoco incespicando, e Goudeles si protese per sostenerlo; quando la vista tornò ad abituarglisi al buio, il Greco vide che Skylitzes stava fissando il falò come se fosse stato in trance. «La luce totale» mormorò, con reverenziale meraviglia, l'ufficiale. «Il paradiso di Phos deve essere così.» «Se quel fuoco ha qualcosa a che vedere con Phos» commentò Goudeles, più pratico, «friggerà quel furfante di Bogoraz e renderà un grande servigio all'impero.» Quella speranza, nutrita anche da Gorgidas, si infranse però qualche minuto più tardi, quando lo sciamano attraverso il fuoco tenendo per mano l'inviato di Yezd. Era evidente che Bogoraz apparteneva all'antica razza del Makuran, lo stato che aveva trattato per secoli con Videssos da pari a pari finché gli Yezda non erano calati dalle steppe e lo avevano conquistato. L'ambasciatore, che si avviava al finire della mezza età, era alto e magro, e allorché si girò per un momento a guardare verso il vecchio sciamano, il suo profilo delineato contro lo sfondo del fuoco rivelò un naso forte e aquilino che gli dava l'aspetto di un falco. Quando la vista gli si schiarì, Bogoraz notò il gruppo videssiano e si avvicinò ai suoi membri con un inchino beffardo. «Un'esperienza interessante» commentò, esprimendosi in un videssiano dalla struttura un po' arcaica ma appesantito soltanto da una sfumatura di accento. «Chi avrebbe mai pensato che questi barbari avessero simili maghi in mezzo a loro?» I suoi occhi erano imperscrutabili, come quelli di un falco, tanto che Gorgidas non riuscì a leggere nulla nelle loro cupe profondità, e i linea-
menti erano magri e incisivi, in armonia con la struttura del suo fisico: il mento era forte e sporgente, gli zigomi spiccavano come intagliati, una spessa barba, brizzolata e riccia come i capelli, copriva la mascella e le guance. Lo Yezda si era fatto crescere i baffi abbastanza da coprire la maggior parte del labbro superiore, e la sua era in effetti una bocca da tenere nascosta, perché le labbra pronunciate e piene potevano tradire tanto asprezza quanto sensualità. La presenza dello Yezda riscosse Skylitzes dal suo sogno dorato. «Dovrei rimediare all'errore commesso dal fuoco» ringhiò l'ufficiale, sfiorando l'elsa della spada. Bogoraz, che era disarmato, incontrò il suo sguardo rovente senza traccia di timore, e prese a giocherellare con i bottoni di lucido ottone... oppure era oro... della casacca di lana marrone, tagliata in modo che dietro fosse più lunga che davanti. Sotto la casacca, indossava un caffetano di un tessuto leggero a strisce verticali, dalle tonalità spente. «Perché pensi che il mio cuore sia meno puro del tuo?» chiese, con un gesto carico di sardonico divertimento che attirò l'attenzione di Gorgidas sulle sue mani, snelle ed eleganti, con lunghe dita affusolate... le mani di un chirurgo, pensò il Greco. «Perché sono dannatamente certo che lo è» ribatté l'ufficiale, ignorando ogni sottigliezza. «Calma, amico mio» ammonì Goudeles, posando una mano sul braccio di Skylitzes. «La verità deve essere che, anche se non gli va di ammetterlo, quest'uomo è a sua volta un mago dotato di incantesimi tali da sconfiggere il fuoco.» Pur essendosi rivolto a Skylitzes, il diplomatico tenne però lo sguardo su Bogoraz, per rilevare eventuali reazioni alla sua affermazione. Bogoraz rifiutò però di abboccare all'esca. «Che bisogno ho di ricorrere alla magia?» domandò, con un sorriso che celava i suoi pensieri con la stessa efficacia di una maschera da sciamano. «Io non desidero davvero far del male ad Arghun... finché si comporta come deve.» La maschera cadde in minima parte, rivelando il predatore nascosto dietro di essa. Viridovix si portò alle labbra l'otre di kavass; accanto a lui Targitaus, che glielo aveva appena passato, emise un sonoro rutto e si batté un colpo sul ventre. «Quella è una bevanda ben fatta» commentò, «liscia e forte allo stesso
tempo, come il posteriore di un mulo.» «Di un mulo, dici?» chiese Viridovix, che ogni giorno aveva sempre meno bisogno delle traduzioni di Lipoxais, perché cominciava ormai a capire abbastanza bene la lingua dei Khamorth, anche se quando poteva preferiva ancora rispondere in videssiano. «Quel che è certo è che ha lo stesso sapore. Sento la mancanza del vino.» Alcuni nomadi ridacchiarono, altri si accigliarono nel sentir denigrare la loro bevanda tradizionale. «Che cosa dice?» s'informò Borane, la moglie di Targitaus, che come la maggior parte delle donne non capiva il videssiano; quando il marito glielo ebbe spiegato, levò gli occhi al cielo e poi ammiccò in direzione del Celta. Borane era una donna massiccia, che stava perdendo la sua bellezza sotto l'incalzare della mezza età, e quasi a smentire gli anni che si accumulavano, affettava un comportamento da ragazzina che male si adeguava alla sua mole. Quella che doveva essere stata la sua bellezza di un tempo traspariva in sua figlia Seirem, come in uno specchio che riflettesse un'immagine di venti anni prima. «Se il nostro cugino di sangue non apprezza il kavass» osservò la ragazza, rivolta a Targitaus, «forse gradirà maggiormente la tenda di feltro.» «Cosa significa?» chiese Viridovix a Lipoxais, avendo capito le singole parole senza però afferrarne il senso. «La tenda di feltro» tradusse, pronto, l'enaree, dando l'espressione per scontata al punto di non ritenere necessarie spiegazioni. «Per le corna del mio toro migliore» esclamò Targitaus, «non conosce la tenda di feltro! Kelermish! Tarim!» chiamò quindi, rivolto ai suoi servi. «Prendete i teli, il calderone e i semi.» I servitori frugarono alacremente nelle sacche di cuoio disposte lungo il lato settentrionale della tenda, poi Tarim, il più giovane dei due, portò a Targitaus un calderone in bronzo, a manico doppio e pieno quasi fino all'orlo di grosse pietre piatte. Targitaus lo depose sul fuoco a scaldare, e un momento più tardi Kelermish gli porse anche una piccola sacca chiusa da un laccio. Il khagan l'aprì e si versò sul palmo un insieme di steli fra il verde e il marrone, di semi e di foglie sbriciolate. «È canapa, naturalmente» spiegò, notando lo stupore di Viridovix. «Allora vostro onore vuole fare una corda?» chiese il Gallo, desiderando che Gorgidas fosse là per aiutarlo a dare un senso a quella faccenda. Targitaus si limitò a sbuffare per tutta risposta, mentre Tarim e Keler-
mish provvedevano ad appendere alcune coperte di feltro al soffitto, in modo da creare uno spazio chiuso rotondo intorno al fuoco, come una tenda nella tenda. Infine il capo dei Khamorth guardò nel calderone: notando che le pietre cominciavano ad arroventarsi, emise un grugnito di soddisfazione e tirò lontano dal fuoco il recipiente agganciando ad un manico un lungo forcone. «Stanotte avrai il posto migliore» decretò, sistemando con cura il calderone davanti al Gallo, mentre il resto della famiglia si raccoglieva intorno a lui. «Davvero? E cosa farò con tutti questi sassi? Una pietra arroventata va benissimo per avvolgerla nella flanella e usarla per scaldare il letto in un inverno freddo, ma non vedo a cos'altro possa servire. Certo non posso mangiare tutta la pentola per farti piacere.» Se fosse stato un Videssiano, Targitaus avrebbe ribattuto alla beffa con qualche frase pungente, ma era un Khamorth, quindi si limitò a gettare sulle pietre roventi una manciata delle foglie che teneva in mano, facendo sprigionare un fumo denso che non aveva però l'odore di erba bruciata che Viridovix si era aspettato di avvertire: l'aroma del fumo era più denso e più dolce, quasi speziato, tanto che le narici del Gallo si dilatarono istintivamente. «Cosa stai aspettando?» chiese Targitaus. «Non sprecare il posto migliore: chinati in avanti ed aspira profondamente.» Attirato dallo strano profumo, Viridovix si protese sul calderone fino ad avere la faccia abbastanza vicina da avvertire il calore che ne irradiava, poi aspirò una profonda boccata di fumo... e subito dopo cominciò a tossire disperatamente nel tentativo di ributtarlo fuori, con il petto e la gola in fiamme e le lacrime che gli solcavano le guance. «Och, la mia povera gola scorticata» sibilò, con una voce che era soltanto un lacero fantasma della consueta tonalità baritonale. Il fatto che i nomadi sembrassero trovare la sua situazione divertente servì soltanto a peggiorare le cose. «C'è un modo giusto per soffiare fuori il fumo» ridacchiò Targitaus, inalando una boccata meno concentrata e trattenendola nei polmoni tanto a lungo da indurre il Gallo a chiedersi se non sarebbe scoppiato. Gli altri nomadi stavano facendo lo stesso, con un sorriso beato dipinto sulle labbra. «Per lui è una cosa nuova, padre, e credo che tu abbia agito di proposi-
to» accusò Seirem. «Concedigli un'altra possibilità.» Il naso curvo e le sopracciglia cespugliose rendevano impossibile per il khagan apparire innocente, che lo fosse o meno; comunque, Targitaus gettò una seconda manciata di foglie sulle pietre, e da esse si levò un'altra nube di fumo. Il Khamorth rivolse un cenno di invito a Viridovix, che questa volta procedette con maggiore cautela e non riuscì a frenare una smorfia: indipendentemente dal suo profumo invitante, quella sostanza aveva un sapore di erbacce bruciate. Tossì di nuovo, ma serrò i denti e trattenne nei polmoni la maggior parte del fumo. Quando finalmente esalò, vide il proprio respiro uscire bianco, come se fosse stato all'esterno in una fredda mattina d'inverno. Era una cosa interessante, e Viridovix vi rifletté sopra per pochi secondi, che però parvero protrarsi all'infinito, il che era un'altra cosa interessante. Guardò verso Targitaus attraverso l'aria fumosa, che diventava sempre più densa a mano a mano che il Khamorth aggiungeva altre manciate di canapa secca nel calderone. «Per gli dèi, quello che avete qui è davvero un fumo raro e potente» osservò. Targitaus, che stava trattenendo di nuovo il fiato, non gli rispose, ma Viridovix non si lasciò sgomentare ed inalò profondamente a sua volta, avvertendo dietro le palpebre la morbida pesantezza indotta dal fumo. Si trattava di una sensazione molto diversa da quella prodotta dall'eccesso di vino: quando beveva, il Gallo diventava rumoroso, sempre pronto a cantare o a scatenare una rissa, mentre adesso si sentiva soltanto piacevolmente isolato dal mondo. Sapeva che se ne avesse avuto bisogno avrebbe potuto alzarsi e fare qualsiasi cosa, ma gli sembrava di non aver bisogno di nulla, e perfino pensare stava diventando troppo faticoso perché valesse la pena di sforzarsi. Alla fine vi rinunciò e si appoggiò all'indietro sui gomiti, osservando i nomadi che lo circondavano. Alcuni erano distesi a terra, rilassati quanto lui, mentre altri conversavano a bassa voce, e Lipoxais stava suonando su un flauto d'osso una canzone vivace le cui note sembravano brillare nell'aria e trascinare Viridovix sulla loro scia. Il suo sguardo incontrò quello di Seirem ed un lento sorriso gli si dipinse sul volto: ecco un genere di esercizio per cui non si sarebbe sentito troppo pigro, ma per sua sfortuna quello non era un villaggio di servi e Seirem non era una contadina con cui potersi concedere qualunque capriccio.
«Och, che peccato» mormorò il Gallo, nella propria lingua. Borane, a cui non era sfuggita l'occhiata avida che lui aveva rivolto a sua figlia, mormorò qualcosa a Seirem, troppo in fretta perché Viridovix potesse afferrarne il senso. Le due donne scoppiarono in una fragorosa risata, consona all'indole grossolana di quei nomadi, poi Seirem si nascose il volto dietro le mani e sbirciò fra le dita in direzione di Viridovix, con una timidezza che era puramente affettata, come dimostrava il suo sogghigno sempre più accentuato. «Cosa ti stava dicendo?» chiese il Celta. Le due donne scoppiarono nuovamente a ridere, poi Borane agitò la mano per indicare che non le importava che le sue parole fossero ripetute e Seirem, continuando a ridacchiare, rispose: «Un commento di Azarmi sul tuo conto... che sei lungo quanto sei alto.» Il gioco di parole era in una lingua per lui nuova, e la sua mente era offuscata dal fumo, quindi Viridovix impiegò qualche tempo ad afferrarne il senso; quando lo ebbe capito, comunque, ridacchiò a sua volta. «Davvero ha detto così?» domandò, e si sollevò a sedere un po' più eretto, per esibire meglio la propria altezza almeno in un senso. Un battito di zoccoli echeggiò nella notte, fuori della tenda, poi le sentinelle di Targitaus scambiarono qualche frase agitata con i cavalieri appena giunti ed una di esse fece capolino dalla soglia per chiamare il suo padrone. Per Viridovix era già stata un'impresa riuscire a sedersi, ma Targitaus si alzò in piedi all'istante, soffocando un'imprecazione, e si aprì un varco fra la ressa di nomadi, lasciando la tenda di feltro che circondava il fuoco e uscendo all'esterno; questo permise l'afflusso di un po' di aria fresca, che il Celta aspirò con gratitudine. Sentì poi un uomo riferire qualcosa al khagan, in tono agitato, quindi ci fu un momento di silenzio infranto infine da un ruggito d'ira di Targitaus, che subito rientrò tempestosamente nella tenda. «In piedi, pigri figli di lucertola! Hanno attaccato la mandria!» Gli uomini delle pianure si alzarono immediatamente, gridando domande e imprecazioni, le coperte vennero rimosse con una rapidità quasi magica e tutti i Khamorth misero mano a spade ed archi, infilandosi le corazze di cuoio bollito. Qualcuno si munì anche di un elmo di ferro, ma i più conservarono il consueto copricapo di pelo. Con il volto rabbuiato per l'ira, Targitaus indirizzò a Viridovix un'occhiata rovente, a causa della sua lentezza. «Vieni, straniero... voglio che tu ci accompagni, perché sotto questa sto-
ria c'è lo zampino di Varatesh.» «Bene bene» commentò Goudeles, con sorpresa ammirazione. «Chi avrebbe mai pensato che questi barbari avessero tanto stile?» Il suo commento fu pronunciato sottovoce, mentre la delegazione videssiana si avvicinava allo yurt cerimoniale del clan del Cavallo Grigio, in cui Arghun l'attendeva, e Gorgidas dovette ammettere che lo scribacchino aveva ragione, perché il cerimoniale arshaum non era inferiore di molto a quello con cui l'hypasteos Rhadenos Vourtzes aveva cercato di impressionare i Romani ad Imbros, subito dopo che la legione era stata trascinata nell'impero dalla magia. Qui il rango non era indicato dai portatori di parasole ma da un guerriero nomade fermo davanti allo yurt del khagan con una lancia in pugno; appena sotto la punta scintillante della lancia erano appese tre code di cavallo, simboli del clan, e il Khamorth stava talmente immobile da sembrare una statua di bronzo. Altri guerrieri, che non facevano parte del rituale ed erano invece guardie effettive, erano disposti ai due lati del carro con gli archi tesi. Altrettanto statuario e immobile era il singolo cavallo attaccato allo yurt cerimoniale. Anche se era soltanto un pony delle steppe, il suo pelo grigio era stato strigliato fino a renderlo brillante, la criniera e la coda erano state pettinate e legate con nastri arancio e oro e l'animale portava finimenti splendidi, con un morso di legno intagliato e fiancheggiato da borchie d'oro modellate come teste di grifoni. Al fine di colpire maggiormente lo sguardo, sulla groppa del pony era stata distesa una splendida coperta da sella di feltro arancione, fermata sul petto, sotto la pancia e alla coda da cinghie di cuoio dorato. Lungo i bordi della gualdrappa erano ricamati altri grifoni che attaccavano alcune capre, raffigurate mentre fuggivano di fronte alle fiere bestie mitologiche. Lo yurt in se stesso era una capanna silenziosa e chiusa, montata sul consueto carro a due ruote: la sola differenza consisteva nel fatto che, contrariamente agli altri yurt che Gorgidas aveva visto fino a quel momento, questo era semicircolare, con la parte anteriore appiattita e coperta da una tenda di lana nera. Altre tre sottili code di cavallo sventolavano sopra di essa come uno stendardo. A quel punto il portatore di lancia dimostrò che in fin dei conti era capace di muoversi, perché girò sui tacchi e gridò qualcosa in direzione della tenda nera e minacciosa. Gorgidas colse le parole "ambasciata da Vides-
sos", perché le aveva sentite fino alla nausea da quando aveva attraversato lo shaum. Seguì un breve momento durante il quale il Greco si chiese se ci fosse davvero qualcuno oltre la tenda, ma dopo una pausa calcolata per ottenere un maggiore effetto drammatico, essa venne tratta di lato rivelando l'interno dello yurt, completamente rivestito di feltro nero al fine di far risaltare maggiormente la figura dello stesso Arghun, seduto su una sedia ad alto schienale coperta da una laminatura dorata. Arghun era una versione più segnata dagli anni di suo figlio Arigh, che ora era in piedi alla destra del trono e sorrideva in segno di saluto ai Videssiani che si stavano avvicinando. I capelli del khagan e la barba rada erano grigio ferro piuttosto che neri e il suo volto era solcato da rughe più profonde di quello del figlio, ma era facile vedere che quello era l'aspetto che Arigh avrebbe assunto invecchiando. Arghun indossava lo stesso genere di abiti di pelli e di cuoio frangiato che era comune a tutto il suo popolo... di buon taglio, ma nulla di speciale... e l'unico segno di rango che Gorgidas riuscì a scorgere sulla sua persona fu la grigia coda di cavallo del clan che il vecchio khagan portava alla cintura. Alla sinistra del capo del clan c'era un giovane di circa diciotto anni, alto e snello, che somigliava tanto ad Arghun quanto ad Arigh ma era molto più avvenente di entrambi. Il ragazzo era consapevole delle proprie doti, come dimostrava l'espressione sprezzante con cui scrutò i diplomatici che si stavano avvicinando, e l'insieme dei suoi zigomi alti, della pelle dorata e delle narici che s'inarcavano come ali di gabbiano nel naso sottile colpì Gorgidas con violenza quasi fisica. Gli indumenti del giovane, poi, erano tali da accentuare piuttosto che ridurre l'effetto della sua presenza fisica: tunica e calzoni coperti di frange elaborate quasi quanto quelli di uno sciamano, cintura dorata e fini scarpe di cuoio ricamate con filo d'argento. In qualità di capo della missione, Goudeles venne avanti e piegò a terra un ginocchio davanti al khagan: un atto di ossequio che non era la prostrazione completa che il Videssiano avrebbe tributato al suo Avtokrator, ma che non si allontanava di molto da essa. Il burocrate indirizzò quindi un profondo inchino ad Arigh e allo sconosciuto principe alla sinistra di Arghun, imitato da Skylitzes, che gli avrebbe fatto da interprete. «Vostra Maestà Arghun, possente khagan, Vostra Altezza Principe Arigh...» I titoli si snodarono con facilità sulla lingua di Goudeles, poi il burocrate esitò con cortese imbarazzo. «Vostra Altezza Principe...» Arigh disse qualcosa, e il giovane indirizzò a Goudeles un sorriso in par-
te affascinante e in parte sprezzante, accompagnandolo con una sola frase concisa, pronunciata in una voce tenorile dolce e decisa. «Si chiama Dizabul ed è figlio di Arghun» tradusse Skylitzes. «Figlio minore» corresse con precisione Arigh, adocchiando Dizabul con scarsa simpatia mentre il fratello fingeva di ignorare la sua esistenza con quella sublime arroganza che viene dalla bellezza perfetta. Senza notare la cosa... o almeno dando l'impressione di non notarla, visto che gli sfuggiva ben poco... Goudeles procedette a presentare i membri della sua ambasciata ad Arghun e ai suoi figli, e Gorgidas rivolse a Dizabul un inchino talmente profondo da rimanerne lui stesso sorpreso per primo. D'altro canto, quello era il giovane più avvenente che avesse visto da anni, anche se aveva un'aria petulante. Mentre il khagan salutava gli ambasciatori, il resto dei membri del Cavallo Grigio rimasero ad osservare la scena dai loro yurt, che per discrezione erano stati leggermente allontanati da quello del capo; il numero degli spettatori affacciati alle soglie e alle finestre dalle sbarre di vimini aumentò poi quando Skylitzes tradusse in arshaum le successive parole di Goudeles: «La Sua Maestà Imperiale Thorisin Gavras ha mandato al khagan alcuni doni.» Cinque soldati di Agathias Psoes vennero avanti per presentare i doni in questione. In precedenza, Psoes aveva fatto loro capire la solennità dell'occasione con parole tanto aspre e profane da ricordare a Gorgidas Gaius Philippus, ed ora i soldati svolsero il loro ruolo alla perfezione, avanzando ad uno ad uno per deporre i doni davanti allo yurt di Arghun e indietreggiando subito dopo. «Sua Maestà Imperiale offre oro come pegno di futura amicizia.» Un sacchetto di cuoio, piccolo ma pesante, tintinnò musicalmente quando un soldato lo depose sull'erba. Arigh disse qualcosa a suo padre, e Skylitzes contorse la bocca in un mezzo sorriso nel tradurre le sue parole. «Tutte monete vecchie: ho controllato di persona.» Arigh era stato abbastanza astuto da insistere perché si scegliessero soltanto le monete migliori, consapevole che i tumulti che avevano sconvolto gli ultimi decenni della storia di Videssos avevano forzato l'impero a ridurre il valore delle monete d'oro con l'aggiunta di metalli meno pregiati. Il sorriso di Arghun dimostrò che anche lui era al corrente della cosa, mentre Dizabul si dimostrò elaboratamente annoiato.
L'interruzione disorientò per un momento Goudeles, che però si riprese con disinvoltura. «Argento per il khagan!» esclamò, e Prevalis figlio di Haravash depose accanto al primo un sacco più grande, il cui tintinnio risultò più acuto ma non meno gradevole di quello dell'oro. «Gioielli per il tesoro del khagan, o per le sue dame: rubini, topazi, opali rossi come il fuoco e perle simili alla luce della luna!» Quando il terzo soldato ebbe deposto il dono successivo, Goudeles aprì il sacco e mise in mostra una perla, tenendola sul palmo della mano. Gorgidas dovette dare atto al burocrate per la sua furbizia: vivendo così lontano dal mare, era improbabile che Arghun avesse mai visto una perla. Il khagan si protese infatti in avanti per esaminarla, annuì e tornò ad appoggiarsi allo schienale. «Vesti di fine fattura per Vostra Maestà» proseguì Goudeles. Alcune tuniche erano in tessuto dorato, altre in sciamito o in lino candido, lavorato come broccato, coperto di gemme e solcato da fili d'oro e d'argento. Quel dono, finalmente, sembrò destare l'interesse di Dizabul, ma parve lasciare indifferente suo padre. «Infine, come segno di onore, l'Avtokrator ti offre un paio di stivali ornati da strisce di imperiale colore scarlatto.» Soltanto l'imperatore videssiano portava stivali completamente scarlatti, e per lui dividere in tal modo quel colore con un altro era un atto di deferenza. Il Duca Tomond di Namdalen non aveva certo la presunzione di portare stivali rossi. «Questi doni sono belli» disse Arghun, servendosi della traduzione di Arigh. «Quali parole li accompagnano?» «Canterà il gallo o gracchierà la cornacchia?» mormorò Skylitzes, in videssiano, mentre Goudeles si preparava visibilmente a un volo pindarico di retorica; Arigh ridacchiò ma, essendo favorevole ai Videssiani, non spiegò la battuta al padre. Goudeles, dal canto suo, dovette limitarsi a scoccare un'occhiata rovente al compagno, con la coda dell'occhio, mentre dava inizio al discorso di apertura delle trattative con cui era alle prese da giorni. «O valoroso Arghun, il nostro grande Imperatore...» cominciò, accentuando il termine "grande" fino a renderlo ironico e traendo così la propria burocratica vendetta a spese di Skylitzes, «parlando per mio tramite, si augura che la sorte possa sempre esserti favorevole, considerato il piacere che dimostri nel trattare con l'impero di Videssos e la cortesia che usi ver-
so di noi, suoi emissari. Possa non esserci mai malizia fra noi, nei limiti del possibile, perché la malizia esiste soltanto per deteriorare le basi su cui poggia l'amicizia.» «Rallenta, dannazione a te» sussurrò Skylitzes in tono frenetico. «Se io per primo non so di cosa stai parlando, come puoi aspettarti che lo capiscano loro?» «In realtà non c'è bisogno che capiscano» ribatté Goudeles, al riparo di un gesto degno di un attore drammatico. «Sto dicendo quello che deve essere detto in una circostanza come questa, niente di più.» Il legato s'inchinò un'altra volta ad Arghun e aggiunse: «Il popolo del clan del Cavallo Grigio e tutti i sudditi che esso può avere ci stanno a cuore, e ci auguriamo che tu veda la nostra situazione nella stessa luce.» Concluso il discorso, il burocrate indietreggiò di un passo. «Davvero grazioso» commentò Arigh che, grazie agli anni trascorsi a Videssos, aveva potuto apprezzare l'esibizione di Goudeles meglio di quanto avessero fatto suo padre e suo fratello. «Io...» Il khagan lo interruppe e Arigh annuì, mortificato, perché alla presenza del padre non era più la consueta testa calda ma soltanto un figlio obbediente. «Mio padre» spiegò poi, «vorrebbe rispondere per mio tramite. Senza offesa, Lankinos, tu parli monto bene l'arshaum, ma...» «Ma certo» fu pronto ad assentire Skylitzes. «Saremo onorati di sentire la risposta del khagan» aggiunse Goudeles. Gorgidas si preparò a subire un altro discorso altisonante, ma Arghun tacque dopo appena due frasi. «Vi ringrazio per i doni» tradusse suo figlio. «Quanto alla vostra ambasciata, deciderò sul da farsi dopo aver ascoltato anche l'inviato di Yezd.» «Tutto qui?» stridette Goudeles, a bocca aperta, tanto sorpreso da dimenticare la consueta elaborata sintassi. Dalla sua espressione, sembrava che fosse stato pugnalato alla schiena, ma dopo un momento si riprese e guidò lentamente in disparte la delegazione videssiana. «"Vi ringrazio per i doni"» borbottò. «Bah!» E imprecò con un'inventiva che non aveva nulla di burocratico. «Tu hai parlato bene» osservò Gorgidas, «ma lo stile dei nomadi è diverso dal tuo. Comunque, ammirano la retorica videssiana... ti ricordi di Olbiop? E Arghun mi sembra un capo prudente: ti aspettavi forse che dicesse sì o no senza aver prima ascoltato entrambe le parti?» Leggermente consolato, Goudeles scosse il capo. «Vorrei che lo avesse fatto» commentò invece Skylitzes. Bogoraz di
Yezd si stava intanto avvicinando allo yurt di Arghun, e lo sguardo che Skylitzes gli rivolse fu tanto intenso da dare l'impressione che si stessero incontrando su un campo di battaglia. Come Goudeles, l'inviato di Yezd si lasciò cadere su un ginocchio davanti al khagan, ma la dignità di quel saluto fu imperfetta perché il cappello di feltro nero che portava in testa cadde al suolo quando lui piegò il capo. Bogoraz rimediò però molto in fretta a quello svantaggio iniziale, rivolgendosi ad Arghun nella sua lingua. «La peste lo colga!» esclamarono all'unisono Gorgidas e Goudeles, poi il Greco aggiunse: «Questo non potrà evitare di influenzare Arghun, che lui se ne renda conto o meno.» «Zitti!» ingiunse Skylitzes e, dopo aver ascoltato per un momento, commentò: «Meno di quanto tu creda, perché quel furfante ha uno spiccato accento khamorth che indurrà certo Arghun a guardarlo dall'alto in basso.» «Cosa sta dicendo?» domandò Goudeles, che come Gorgidas non conosceva affatto la lingua arshaum. «Le stesse stupidaggini che hai tirato fuori tu, Pikridios. No, aspetta, ecco qualcosa di nuovo. Sostiene che Wulghash... che Skotos lo congeli!... sa quale grande guerriero sia Arghun, e gli ha quindi mandato doni adatti ad un guerriero.» Ad un cenno imperioso di Bogoraz, uno dei suoi uomini depose davanti al khagan un fodero di lucido bronzo smaltato, poi l'ambasciatore guardò verso gli arcieri arshaum, per indicare che le sue intenzioni erano pacifiche, e snudò la lama ricurva affinché Arghun potesse vederla. Si trattava di un'arma perfetta, dall'elsa rivestita in oro alla lama lucente: con un elaborato svolazzo, Bogoraz la ripose nel fodero e l'offrì al khagan. Arghun la estrasse a sua volta, per controllare se fosse bilanciata, poi se l'affibbiò alla cintura con un sorriso di genuino piacere. Sorridendo a sua volta, Bogoraz porse armi di uguale fattura, diverse soltanto perché l'elsa era in argento anziché in oro, ai suoi figli. Dizabul prese quella a lui destinata con espressione apertamente avida, e perfino Arigh non esitò ad accettare la sua. Il gruppo videssiano, per ora completamente dimenticato dagli altri, osservò la reazione dei tre Arshaum con sgomento. «Avremmo dovuto pensarci» dichiarò Skylitzes, serrando i denti con violenza. «Già» convenne Goudeles, in tono dolente. «Questi barbari delle pianure sono un popolo fiero, che gradisce più le armi che le vesti elaborate, men-
tre credo che il nostro popolo terrebbe le due cose nella stessa considerazione.» «È sbagliato giudicare gli altri secondo i propri criteri» intervenne Gorgidas, cercando come sempre di ricavare una regola universale dagli esempi che la vita gli offriva. «Noi Greci bruciamo i nostri morti, mentre gli Indiani...» S'interruppe, arrossendo, quando si accorse che gli altri lo stavano fissando sconcertati: l'India... ed anche la Grecia... erano luoghi sconosciuti, qui. Bogoraz stava intanto continuando a elargire armi costose: daghe con la lama decorata da scene di caccia rappresentate in lamina dorata, archi a doppia curva rinforzati con il corno, bruniti e lucidati con la cera fino a farli brillare, frecce di fragrante legno di cedro, decorate con iridescenti piume di gallo e riposte in faretre di pelle di serpente, elmi crestati e incrostati di pietre preziose. Dizabul si mise addosso ogni oggetto regalatogli dallo Yezda, tanto che quando Bogoraz ebbe finito di distribuire i suoi doni, il principe aveva ormai l'aspetto di un'armeria ambulante. Accarezzando l'elsa della nuova spada, il giovane si girò per parlare a suo padre con un tono di voce volutamente abbastanza alto perché giungesse all'orecchio di tutti, e Bogoraz indirizzò alla delegazione videssiana un sogghigno soddisfatto. «Il cucciolo» tradusse Skylitzes, serrando più che mai la mascella, «propone di buttarci fuori subito, oppure di usarci come bersagli per provare i suoi nuovi giocattoli. Ci ha definiti "quei venditori ambulanti buoni a nulla che Arigh ha portato qui".» Le parole di Dizabul produssero una violenta reazione nel fratello, che iniziò a rispondere in tono acceso, ma un ringhio del khagan interruppe la discussione sul nascere. Dizabul tentò di aggiungere qualcosa, ma tacque quando Arghun accennò ad alzarsi dal trono. Ritrovata la calma, Arghun si rivolse quindi a Bogoraz, che aveva finto di non notare la scena; parte dell'altezzosità dello Yezda però si dissolse quando Arghun lo congedò negli stessi termini bruschi usati con Goudeles. «Dice che i doni sono splendidi» riferì Skylitzes ai compagni, in tono quasi incredulo, «ma che per un'alleanza è necessario riflettere più a lungo.» «È un capo intelligente» dichiarò Gorgidas. «Lo è davvero, visto che tratta imparzialmente entrambe le parti» convenne Goudeles, il cui tono era sollevato quanto quello di Skylitzes. «Bene, buon per lui. La partita è ancora alla pari.»
Viridovix smontò di sella senza grazia e con un profondo gemito di sollievo, indolenzito e rigido al limite della tolleranza per le tre dure giornate trascorse a cavallo. Ancora una volta, si meravigliò per la resistenza degli uomini delle pianure che, non appena in sella, sembravano trasformarsi in... qual era quel termine greco per indicare una creatura che era per metà uomo e per metà cavallo? Incapace di ricordarlo, Viridovix borbottò un'imprecazione. L'aria circostante non si prestava certo a riflessioni di quel genere, pervasa com'era dall'odore dolciastro della morte, e Targitaus lo stava osservando con aria cupa mentre lui camminava avanti e indietro, pestando i piedi per ravvivare la circolazione nelle estremità. «Un'altra cavalcata come questa» dichiarò il Gallo, «e mi verranno le gambe storte quanto quelle di voi Khamorth.» Non conoscendo il vocabolo corrispondente a "gambe storte", lo illustrò a gesti, ma la battuta non parve divertire il capo nomade. «Risparmia i tuoi scherzi per le donne» ribatté, infatti. «Qui non c'è nulla di cui ridere.» Viridovix arrossì, ma Targitaus non se ne accorse, perché si era già girato per contemplare la carneficina che aveva davanti. La scena doveva essere stata peggiore una settimana prima, quando i mandriani avevano scoperto le carcasse, ancora fresche, ma anche dopo che gli animali delle steppe avevano banchettato a sazietà, ciò che rimaneva era tutt'altro che piacevole a vedersi: una cinquantina di capi di bestiame erano stati trascinati lontano dalla mandria e poi... dire che erano stati macellati era usare un termine troppo gentile per descrivere lo scempio circostante. Il terreno era ancora scuro per il sangue che lo aveva intriso quando alle mucche era stata tagliata la gola, e già il fatto che gli animali fossero stati uccisi era sufficiente ad indicare che quella non era una normale scorreria: presso i nomadi, il bestiame veniva allevato o rubato, mai eliminato, perché la vita delle steppe era troppo aspra per permettere il nascere di una tradizione di sterminio inutile. Anche in guerra, i vincitori si limitavano a togliere mandrie e greggi ai nemici sconfitti... le bestie erano lo scopo della guerra e non un suo bersaglio. Questo però non valeva più lì, in quel momento. Quelle mucche accasciate a terra nella morte offrivano uno spettacolo più penoso di quanto potessero esserlo altrettanti guerrieri caduti su un campo di battaglia, perché
non avevano avuto modo di scegliere la loro sorte né di evitarla. E si era trattato di una sorte crudele, malvagia, come testimoniavano i grandi tagli praticati nelle carcasse e la sporcizia di cui erano state cosparse per impedire l'utilizzo della loro carne. Le pelli non erano state soltanto lacerate, ma anche spalmate con una sostanza caustica che le aveva rovinate, per cui il clan di Targitaus non avrebbe potuto salvare nulla di quegli animali, neppure se avesse scoperto la strage un'ora dopo che si era verificata. Il figlio del capo, Batbaian, andò dal cadavere mutilato di una mucca al successivo, scuotendo il capo e tirandosi la barba nel vano tentativo di capire quello che vedeva, e alla fine si rivolse al padre, con aria impotente. «Devono essere pazzi furiosi, come cani, per aver agito così!» esplose. «Vorrei che tu avessi ragione, ragazzo» rispose in tono triste il capo del clan. «Questo è il modo con cui Varatesh sta cercando di spaventarmi e di punirmi per aver dato riparo allo straniero.» Targitaus accennò con il capo in direzione di Viridovix. Per il Gallo, però, la selvaggia assurdità di quel massacro stava evocando un altro ricordo, quello di un corpo steso fuori della città di Videssos, all'epoca in cui i legionari stavano aiutando Thorisin Gavras ad assediare gli Sphrantzes asserragliati all'interno. Insieme ad altre mutilazioni, il cadavere del povero Doukitzes aveva portato anche un nome intagliato nella fronte: Rhavas. Ed era presto stato chiaro che bastava anagrammare quel nome per scoprire l'effettiva identità del colpevole. «Secondo me è Avshar che si è divertito a fare questo» dichiarò Viridovix. «Fin dall'inizio ho cercato di mettervi in guardia contro di lui, ma non mi avete dato retta... cosa di cui non posso biasimarvi, considerato che non lo conoscete. Batate, però, lo conoscerete.» In lingua khamorth, passando al videssiano quando non trovava i necessari vocaboli, il Gallo procedette quindi a parlare di Doukitzes e di molte altre cose: del duello fra il principe-mago e Scaurus, subito dopo l'arrivo dei Romani alla città di Videssos; della battaglia di Maragha e di quanto l'aveva seguita, e della testa di Mavrikios Gavras scagliata nel campo dei legionari come regalo; degli eventi verificatisi nel Tribunale Principale, nella capitale, e della magia con cui Avshar aveva reso i furfanti ai suoi ordini invulnerabili all'acciaio. L'oscenità e la crudeltà di quell'ultimo racconto scossero gli uomini delle pianure. «Ha fatto la sua magia servendosi di una donna, dici?» chiese Targitaus, come se non credesse ai propri orecchi.
«Sì, e del suo bambino non ancora nato, strappandoglielo dal ventre» rispose il Celta. Il nomade rabbrividì: se il massacro del suo bestiame aveva destato in lui una fredda furia, questa era una perversità che non avrebbe mai creduto potesse esistere. «Liberiamoci di lui, allora!» esclamò Batbaian, con la temerarietà tipica dei giovani. «Bruciamolo con la sua tenda e con quanti lo seguono!» «Sì!» gridarono gli altri Khamorth, fissando il loro bestiame e sentendo rimbombare ancora negli orecchi le parole di Viridovix. «Sì» ripeté anche Targitaus, ma in tono più sommesso, perché mentre i suoi uomini avevano colto soltanto l'orrore presente nel racconto del Gallo, lui aveva visto in esso anche la portata del potere di Avshar. «Sì» ripeté, ed aggiunse: «Se possiamo.» Il suo sguardo si spostò poi su Viridovix, senza troppo entusiasmo. «Vedo che è tempo di radunare i clan contro Varatesh e contro questo tuo Avshar» concluse. «Più che tempo» convenne subito Viridovix, e Batbaian annuì vigorosamente. Nonostante le altisonanti promesse da parte di Targitaus di muovere guerra contro il fuorilegge, però, le settimane successive si trascinarono senza che accadesse nulla. «Tu vieni da Videssos, straniero» dichiarò Targitaus, con evidente disagio, «dove il khag... l'imperatore ordina ai suoi uomini di fare una cosa e loro devono obbedire o perdere la testa. Sulle pianure non è così. Se io vado da Ariapith, del clan del Fiume Oglos, o da Anakhar dei Gatti Macchiati, o da Krobyz delle Capre Saltanti, e dico loro che dovremmo unirci per spazzare via Varatesh, per prima cosa mi chiederanno chi avrà il comando. Cosa devo rispondere? Io? Affermeranno che sto cercando di imporre le Pelli di Lupo come Clan Reale e non vorranno saperne.» «Clan Reale?» ripeté Viridovix. «A volte, un clan riesce ad avere la meglio su tutti gli altri e domina le steppe per qualche tempo, magari anche per una generazione, finché gli altri si liberano e ne abbattono il potere.» L'ambizione brillava negli occhi di Targitaus. «Ogni khagan sogna di fondare un Clan Reale, e il suo incubo costante è che un vicino ci riesca al suo posto. E così ognuno tiene d'occhio gli altri, e nessuno diventa troppo forte.» «Così stanno le cose, vero?» D'un tratto, Viridovix si trovò su un terreno a lui familiare, perché anche in Gallia, prima dell'arrivo dei Romani, le tribù erano in costante lotta per il predominio e ordivano inganni e tranelli per imporsi le une alle altre. Gli
Aedui avevano conservato il predominio finché i Sequani si erano alleati con gli Ubii, provenienti da oltre il Reno, ed avevano usurpato il loro posto. Così facendo, tuttavia, avevano reso Ariovistus il Germanico l'uomo più potente di tutta la Gallia... Gli occhi verdi del Celta brillarono e lui lanciò un urlo esultante, battendo le mani con forza. «Ascolta un po'» suggerì quindi a Targitaus, che si era voltato di scatto, sorpreso, estraendo quasi la spada. «Supponi di dire al vecchio Esca per Corvi dei Criceti Macchiati... o quale che è il suo stupido nome... che Varatesh ha intenzione di fare di quei furfanti dei suoi predoni un Clan Reale, il che non è altro che la verità. Di certo ci rimetterebbe la testa prima di permettere che questo accada... o mi sbaglio?» Gli parve quasi di sentire le rotelle che giravano nella testa del capo nomade. Targitaus guardò verso Batbaian, che stava fissando Viridovix con un'espressione di reverenziale meraviglia sul volto, perché come tutti i giovani si lasciava facilmente impressionare nel sentire altri esporre cose a cui lui non aveva pensato. «Hmm» fece poi il khagan, e il Gallo comprese che aveva vinto. «Spingi le tue mandrie su questa strada, padre» esclamò Batbaian, «e sarai tu a diventare il khagan del Clan Reale!» «Io? Sciocchezze, ragazzo» replicò Targitaus, brusco, ma Viridovix si accorse che quel pensiero gli era venuto in mente prima ancora che suo figlio lo esprimesse a parole, e ridacchiò fra sé. Dizabul infilzò l'ultima striscia di carne di coniglio arrosto contenuta nella ciotola di cuoio bollito che teneva in grembo e masticò rumorosamente, secondo l'etichetta delle steppe, prima di protendersi in avanti. In risposta al suo gesto, il cuoco prelevò altra carne sfrigolante dalla griglia con un paio di pinze di legno, riempiendogli ancora la ciotola, e il giovane tornò ad adagiarsi con un sorriso di ringraziamento. Girandosi verso sinistra, mormorò qualcosa a Bogoraz e agitò l'elegante coltello che l'inviato di Yezd gli aveva dato, accompagnando il gesto con un altro abbagliante sorriso. Bevendo un sorso di kavass da un boccale d'oro, Gorgidas ammirò nascostamente il ragazzo, la cui bellezza destava in lui un senso di piacevole sofferenza. Secondo le usanze dei nomadi Arghun aveva fornito delle donne a tutti i membri dell'ambasciata videssiana, ma pur scoprendo di poter essere all'altezza della situazione, in caso di necessità, il Greco non era rimasto soddisfatto e ogni volta, a cose fatte, si era sentito come un marinaio
che durante una lunga navigazione fosse spinto a sfogare i propri desideri con un compagno, pur disprezzando quel genere di compagnia una volta a riva. Con una fitta di dolore e un senso di perdita, ricordò il volto magro, quieto, intento di Quintus Glabrio, e il miscuglio di divertimento e di disgusto con cui il giovane centurione aveva parlato del periodo in cui aveva convissuto con una ragazza videssiana. «Suppongo che Damaris meritasse qualcosa di diverso da me» aveva detto una volta Glabrio, aggiungendo poi, con un'asciutta risata: «Di certo questo è ciò che lei ha pensato, dopo un po'.» Il loro rapporto si era infatti infranto in maniera spettacolare, insieme ad una buona quantità di vasellame. Pensare a Glabrio lo aiutò a vedere Dizabul in maniera più distaccata. Il Romano era stato un uomo, un compagno, mentre il principotto arshaum mostrava in tutti i modi di non essere altro che un figlio minore molto coccolato e quindi dal temperamento capriccioso; inoltre, Gorgidas aveva scoperto che il ragazzo aveva già avuto un figlio e due figlie da alcune schiave e serve. Il Greco bevve ancora, pensando che peraltro l'avvenenza del giovane era innegabile. Intento com'era a riflettere su Dizabul, Gorgidas aveva prestato poca attenzione alla grande tenda del banchetto, il che non era giusto perché quell'ambiente era importante per gli Arshaum quanto il Palazzo Imperiale lo era per Videssos, ed era a modo suo altrettanto splendido. Lo yurt in questione era il più grande che il Greco avesse mai visto sulle pianure, con un diametro di almeno dodici metri, ed era trainato da una pariglia di ventidue cavalli. All'esterno, gli spessi pannelli di feltro erano stato dipinti di bianco perché lo yurt spiccasse sul fondo neutro delle steppe, ed ora il Greco notò i tendaggi di seta che pendevano dalla struttura interna in legno, splendidi quanto quelli che potevano essere sfoggiati nell'impero. Il tessuto lucente era tinto di giallo e di verde, decorato con ricami di cavalli al galoppo eseguiti con il barbarico vigore che caratterizzava l'arte dei nomadi. Arghun, i suoi figli e le due delegazioni rivali sedevano intorno ad un fuoco, su spessi tappeti di soffice lana, e gli anziani del clan erano disposti intorno a loro in un cerchio più ampio. Gli Arshaum sedevano a gambe incrociate, con ciascun stivale agganciato sulla coscia della gamba opposta, mentre i loro ospiti tenevano le più svariate posizioni, tranne quella... a
meno che non lo si praticasse dalla nascita, infatti, il modo di sedere dei nomadi era spaventosamente scomodo. Arigh, che era alla destra del padre, rimase a gambe incrociate per qualche tempo ma alla fine si arrese con un contrito gesto del capo e con un sonoro scricchiolio proveniente dai ginocchi. «Sei stato a Videssos troppo a lungo» commentò Skylitzes. L'occhiata che Dizabul indirizzò al fratello disse chiaramente che lui avrebbe preferito che Arigh fosse rimasto lontano ancora per molto. «Finché non siamo arrivati qui, ignoravo che tu avessi un fratello» aggiunse Goudeles, sempre rivolto ad Arigh; Gorgidas non era stato l'unico a notare l'occhiata piena di veleno di Dizabul. «Io stesso mi ero quasi dimenticato di lui» replicò Arigh, con un gesto della mano che sembrava accantonare il ragazzo. «Quando sono partito per l'impero, sette o otto anni fa, era soltanto un moccioso sempre tra i piedi... e sembra che non sia cambiato molto.» Arigh si era espresso in videssiano, per evitare che suo fratello capisse, e Gorgidas si accigliò quando vide Bogoraz sussurrare qualcosa a Dizabul, al riparo della mano: subito le guance del ragazzo si coprirono di rossore, e l'espressione con cui fissò Arigh fu tale da far apparire mite l'occhiata rivoltagli in precedenza. Intanto i servitori continuavano ad andare e venire, versando nei boccali il kavass contenuto in brocche d'argento e portando il cibo agli Arshaum che non erano abbastanza vicini al fuoco. Oltre al coniglio che Dizabul stava gustando, il pasto comprendeva anche un enorme uccello arrostito. «Cosa? È una gru» rispose Arigh, quando Gorgidas gli chiese che bestia fosse. «È buona... non ne mangiavo da anni.» E strappò la carne da una lunga coscia, addentandola senza problemi con i suoi robusti denti bianchi, abituato com'era alle usanze dei nomadi. Il Greco, però, controllò il proprio entusiasmo, perché l'uccello era saporito, ma duro come il cuoio. Il montone e la trippa si rivelarono piatti migliori, come pure i formaggi, freschi e stagionati. Oltre al kavass, le bevande includevano anche ogni sorta di latte, da quello di mucca e di capra a quello di cavallo, ma nessuna di esse tentò Gorgidas, che avrebbe pagato parecchio per un sorso di vino o una manciata di olive salate. Quando avanzò quel commento, però, Arigh scosse il capo con una smorfia di disgusto. «Il vino è buono, ma nonostante tutto il tempo che ho trascorso a Vides-
sos, non mi sono mai abituato alle olive. Hanno uno strano sapore, e gli imperiali le ficcano dappertutto. E poi l'olio puzza.» Le lampade degli Arshaum bruciavano burro, anziché olio, e quel combustibile aveva per il Greco un odore untuoso e penetrante, del tutto sgradevole. La conversazione nella tenda del banchetto era saltuaria, non soltanto a causa dell'ostacolo costituito dalla lingua. Arigh aveva infatti avvertito gli ambasciatori videssiani che le usanze degli Arshaum non permettevano che si trattassero questioni serie durante i banchetti, e se questo da un lato permetteva a Gorgidas di godere maggiormente il cibo, dall'altro faceva sì che i frammenti di conversazione che riusciva a capire lo annoiassero. Bogoraz, dal canto suo, che aveva il dono di sollevare guai senza darne l'impressione, continuava a rasentare il limite estremo di ciò che era permesso dalle usanze e, senza mai accennare al motivo per cui era venuto nelle steppe, insisteva nel vantare il potere di Yezd e la gloria del suo signore, il khagan Wulghash. Skylitzes, che per necessità era obbligato a tradurre agli altri quelle vanterie, si stava infuriando sempre di più, mentre Bogoraz portava avanti la sua tattica con occhi colmi di sardonico divertimento, senza mai attaccare verbalmente Videssos ma danneggiando la sua causa ad ogni frase pacata e cortese che proferiva. Dopo un po', la rabbia di Skylitzes divenne tale da indurlo a serrare le dita intorno al boccale fino a far sbiancare le nocche e i consiglieri del clan cominciarono a ridacchiare fra loro nel notare la furia che lui era costretto a contenere. «Ora dirò io qualcosa a quello sporco bugiardo» ringhiò l'ufficiale. «No!» esclamarono all'unisono Arigh e Goudeles, poi il burocrate aggiunse: «Non capisci che se rispondi ti metterai dalla parte del torto, come vuole lui?» «Meglio che essere divorato a piccoli bocconi dalle sue parole!» «Conosco una storia che potrebbe metterlo a posto» intervenne Gorgidas, stupito dalla propria audacia. Skylitzes, Arigh e Goudeles lo fissarono, interdetti: agli occhi dei Videssiani, infatti, il Greco era un barbaro quanto lo erano gli Arshaum, e quindi una persona da non prendere sul serio; Arigh, poi, lo tollerava soprattutto perché era amico di Viridovix. «Non infrangerai le usanze?» chiese l'Arshaum. «No, è soltanto una storia» garantì Gorgidas, scuotendo il capo. Goudeles e Skylitzes si fissarono a vicenda e infine annuirono, scrollan-
do le spalle, incapaci di trovare una soluzione migliore. Bogoraz, il cui videssiano era certo migliore di quello del Greco, aveva seguito quel dialogo con tranquillo disprezzo, vedendo che i compagni stessi di Gorgidas non avevano molta fiducia in lui, ed ora abbassò le pesanti palpebre per velare uno sguardo sprezzante quando Gorgidas chinò il capo in direzione di Arghun e, con la traduzione di Arigh, prese la parola. «Khagan» esordì, «questo inviato di Yezd è indubbiamente un ottimo oratore, e le sue parole mi ricordano una storia del mio popolo.» A parte le formalità richieste dalla cortesia, fino a quel momento il capo degli Arshaum non aveva neppure lui prestato molta attenzione al Greco, ma ora lo fissò con rinnovato interesse, perché nell'ambito di un popolo che non conosceva lettura e scrittura, un buon narratore era una persona da rispettare. «Sentiamo» disse, e gli anziani tacquero per ascoltare a loro volta. Soddisfatto che Arghun avesse abboccato all'amo, Gorgidas si lanciò con entusiasmo nella narrazione. «Molto tempo fa, in un paese chiamato Egitto, c'era un grande re di nome Sesostris» cominciò, e vide i presenti muovere silenziosamente le labbra per fissare quegli strani nomi nella memoria. «Ora, questo Sesostris era un possente guerriero e un conquistatore, proprio come il nostro amico Bogoraz, qui, dice che lo sia il suo padrone Wulghash.» Il sorriso svanì dal volto dello Yezda, che apprezzava il sarcasmo soltanto quando non si ritorceva contro di lui. «Sesostris conquistò molti paesi, e per dimostrare quanto era potente ridusse in schiavitù i loro re e i loro principi, giungendo perfino a mettere loro i finimenti perché trainassero il suo... er... yurt.» Nella storia, così come il Greco l'aveva sentita, si era trattato di un cocchio, ma lui effettuò quella rapida modifica per adattare la vicenda al suo pubblico attuale. «Un giorno, il re si accorse che uno dei principi continuava a guardarsi indietro, fissando le ruote dello yurt, e gli chiese che cosa stesse facendo. Il principe rispose: "Sto soltanto osservando come le ruote girino sempre, e ciò che prima era in basso salga in cima, e ciò che era in alto venga trascinato in basso". Poi si voltò e riprese il proprio lavoro. Sesostris però comprese il senso delle sue parole, e si dice che, nonostante il suo orgoglio, da allora smise di usare i principi per trainare lo yurt.» Lo strano suono dato da un mormorio di conversazione in una lingua straniera riprese quando gli Arshaum, riflettendo sulla storia, la commentarono fra loro. Uno o due fra i presenti, ricordando le vanterie di Bogoraz,
gli indirizzarono occhiate divertite mentre Arghun, come si conveniva al suo rango, rimaneva impassibile, limitandosi a mormorare qualche parola al figlio maggiore. «Ti ringrazia per la... gradevole storia» tradusse questi, rivolto a Gorgidas. «Avevo capito.» Rivolgendo un altro inchino al khagan, il Greco cercò di ripetere quelle parole nella sua lingua, ed allora Arghun sorrise, correggendo gli errori di grammatica da lui commessi. Bogoraz, intanto, aveva calato sul volto una maschera diplomatica tanto tesa da sembrare intagliata nel granito. I suoi occhi velati si posarono su Gorgidas come quelli di un serpente che cercasse di incantare un uccello e il Greco, pur non essendo tipo da intimidirsi per così poco, comprese di essersi fatto un nemico. CAPITOLO NONO Ciò che Marcus trovò a Garsavra, quando vi giunse, fece apparire tutte le lotte di fazione a cui aveva assistito a Videssos insignificanti. Lungo la marcia verso ovest, i legionari avevano catturato e mandato alla capitale un numero di Namdaleni che si aggirava forse intorno al migliaio; gli isolani erano caduti nelle loro mani fuggendo davanti alla sconfitta inflitta loro dagli Yezda, divisi nei piccoli gruppi avviliti in cui ogni esercito si frammenta dopo una disfatta. Un centinaio di essi occupava però ancora una fortificazione eretta all'esterno di Garsavra, pronto a sfidare tanto i Romani quanto gli Yezda, e il tribuno non aveva cercato di sloggiarli, pensando che fossero più utili a tenere a bada i nomadi che ogni tanto scendevano dal pianoro che pericolosi per i suoi uomini. Quando i legionari vi arrivarono, gli Yezda erano effettivamente già in Garsavra, anche se la città non era sotto il loro controllo... in pratica, prima dell'ingresso delle truppe di Scaurus, non era sotto il controllo di nessuno, il che significava che nessuno teneva a bada i nomadi. Dal momento che attaccarli non sarebbe stata una mossa politica accettabile, proprio ora che stava contrattando con il loro capo il prezzo del prigionieri, Marcus finse di non vederli. Del resto, gli Yezda causavano ben pochi problemi, in quanto per lo più si aggiravano per la città come turisti, ammirandone i grandi edifici: sebbene Garsavra fosse soltanto un sonnolento capoluogo di provincia se pa-
ragonata alla città di Videssos o a Roma, infatti, il suo aspetto era peraltro esotico e strano per uomini che vivevano tutta la loro esistenza in una tenda. I nomadi frequentavano anche la piazza del mercato, dove barattavano per ottenere ninnoli e oggetti di lusso tipici di una società civile; Marcus vide uno di essi portare orgogliosamente sulla testa un vaso da notte di vetro bianco al posto dell'onnipresente cappello di pelo, ma non ebbe il cuore di spiegargli di cosa si trattasse perché i suoi compagni stavano dimostrando un'enorme ammirazione per quel nuovo copricapo. La cosa fu però notata anche da alcuni Garsavrani, che diedero allo Yezda un soprannome che in seguito avrebbe potuto provocare guai. Quello costituì comunque il minore dei problemi che il tribuno si trovò presto a dover affrontare con i locali. Considerato che la gente di Garsavra era sotto la minaccia di un attacco proveniente dalle alte terre centrali, Scaurus si era aspettato di trovarla unita nel tributare ai legionari un'accoglienza favorevole, di cui aveva peraltro un effettivo bisogno perché, nonostante il contributo di Pakhymer, gli mancavano ancora ottomila pezzi d'oro per arrivare ai ventimila che Yavlak aveva richiesto come riscatto per i suoi importanti prigionieri. Pur avendo inviato un messaggio in tal senso alla capitale, infatti, dubitava che questo avrebbe portato i rapidi risultati di cui aveva bisogno: ora che Thorisin Gavras era impegnato a combattere nell'est, di certo a Videssos non c'era nessuno che avesse la forza di volontà necessaria per indurre la burocrazia imperiale ad agire con la fretta necessaria. Conoscendo fin troppo bene quella burocrazia, quindi, Scaurus aveva progettato di raccogliere i fondi necessari fra la gente di Garsavra, per poi ripagarla quando gli scribacchini si fossero decisi a spedirgli la cifra richiesta. Avrebbe però dovuto ricordare che aspettarsi di vedere un folto numero di Videssiani convenire su qualcosa era una pia speranza. Era vero che molti a Garsavra erano a favore di Thorisin... o almeno così proclamavano, ora che la città era in mano alle truppe imperiali... ma molti altri avevano ancora a cuore la causa persa di Baanes Onomagoulos, il nobile ribelle che Drax aveva schiacciato prima di rivoltarsi a sua volta e che aveva posseduto ampie tenute a sud di Garsavra. Ora che era morto, e per di più morto per mano straniera, nessuno sembrava ricordare le sue colpe, e quell'ometto arrogante, iroso e traditore era stato magicamente trasformato in un martire. Alle prime due si aggiungeva poi una terza fazione, a cui dispiaceva che i Namdaleni fossero stati sconfitti e il dominio dell'impero restaurato. An-
takinos aveva avvertito Marcus che gli isolani erano popolari nelle città che avevano occupato, ed ora il suo avvertimento stava risultando esatto: avendo avuto uno stato più piccolo dell'impero da mandare avanti, infatti, Drax aveva preteso tasse più esigue dalle città sotto il suo dominio e questo era stato sufficiente a garantirgli un buon numero di seguaci. Come capita in tutti i popoli sottomessi, alcuni abitanti di Garsavra erano passati dalla parte dei conquistatori, giungendo al punto di frequentare il tempio che Drax aveva adattato alla fede namdalena a beneficio dei suoi uomini... un'idea che infuriò Styppes al punto da coinvolgerlo in una furibonda lite con un prete namdaleno da lui incontrato per caso nel mercato cittadino. Scaurus, che in quel momento era impegnato a contrattare con un ambulante l'acquisto di una cintura nuova, sollevò allarmato lo sguardo nel sentire la voce tonante del prete. «Seduttore! Tu ungi i pattini della slitta che porta al ghiaccio di Skotos!» Con il volto paonazzo e i pugni serrati per l'ira, il prete-guaritore si stava aprendo la strada a spallate verso l'uomo del ducato, che aveva una grossa anitra sotto ciascun braccio. «Per la Scommessa, presuntuoso di un Sicuro, il sentiero che porta all'inferno è il tuo, non il mio!» gridò di rimando l'isolano, fronteggiando l'avversario. La sua tunica sacerdotale era di una tonalità d'azzurro tendente al grigio e lui non si radeva la testa come facevano i preti videssiani, ma la sua fede e la convinzione di essere nel giusto erano profonde quanto quelle di qualsiasi imperiale. «Scusami» disse Marcus al mercante di cuoio, e di corsa, come se stesse andando in battaglia, si avviò in fretta verso i due preti, che si stavano intanto insultando a vicenda come un paio di carrettieri, pensando che se fosse riuscito a trascinare via Styppes prima che la discussione si trasformasse in un tumulto... ma era troppo tardi. Una folla aveva già cominciato a raccogliersi intorno ai due. «Dibattito! Dibattito! Venite a sentire il dibattito!» fu però il grido che si levò dai presenti, perché quello era un divertimento che i locali avevano già goduto in precedenza, quando i religiosi namdaleni si erano scontrati con il clero locale, e la gente affluì in fretta per sentire quali frecce quel nuovo prete avesse nel suo arco. Styppes si guardò intorno con occhi roventi, come se non credesse ai propri orecchi ma Scaurus, pur essendo altrettanto sorpreso, gradì molto di più la reazione popolare, pensando che forse la cosa si sarebbe risolta sen-
za spargimenti di sangue. Il tribuno però sussultò allorché Styppes si batté una mano sulla fronte, dichiarando: «L'eresia deve essere sradicata, non discussa.» «Heh! Io invece parlerò con te» replicò con un ironico inchino il Namdaleno, un individuo sulla quarantina, dai lineamenti duri, squadrati e cocciuti che parevano più adatti ad un sottufficiale di fanteria che a un prete. Pur essendo massiccio quasi quanto Styppes, l'isolano portava meglio la sua mole, sembrando più un atleta a riposo che un semplice ghiottone. «Gerungus di Tupper al tuo servizio.» Styppes tossì, ribollente d'ira, ma con sollievo di Marcus la folla continuò a gridare per ottenere un dibattito, e alla fine il prete-guaritore dovette presentarsi a sua volta, sia pure con malagrazia. «Dal momento che sei un eretico, comincerò io» dichiarò poi, «e lascerò a te il compito di difendere le tue false dottrine come meglio potrai.» «Uno di noi due deve farlo» convenne Gerungus in un videssiano quasi privo di accento, borbottando qualcosa di spiacevole fra sé ma scrollando al tempo stesso le spalle massicce. «Allora esordirò chiedendoti come mai voi isolani siete giunti a pervertire il culto di Phos aggiungendovi la clausola: "su questo ci giochiamo la nostra stessa anima". Quale autorità avete per apporre quest'aggiunta? Quale sinodo l'ha avallata, e quando? Così come ve lo avevano trasmesso i nostri eruditi e santi antenati, quel credo era perfetto, e non avrebbe dovuto essere appesantito da codicilli inutili.» Marcus inarcò le sopracciglia: nell'ambito dell'area in cui era specializzato, Styppes stava dimostrando un'eloquenza assai superiore a quella di cui lui lo avrebbe ritenuto capace. Dalla folla si levarono grida di approvazione. Ogni prete videssiano che discuteva con Gerungus cominciava però sempre così, quindi il Namdaleno aveva la risposta pronta. «I vostri antichi studiosi vivevano nel paradiso degli stolti, quando l'impero dominava ancora fino al paese degli Halogai e la malvagità di Skotos sembrava assai remota. Voi Videssiani eravate però peccatori, e Skotos ha avuto l'opportunità di dimostrare il suo potere: è stato così che i barbari sono riusciti a strapparvi il Khatrish e il Thatagush, sì, ed anche quello che era il Kubrat. Perché Skotos ha ispirato i selvaggi Khamorth a lasciare le steppe ed ha corrotto voi in modo da impedirvi di resistere. È divenuto così evidente che il potere di Skotos è troppo reale e troppo forte. Chi può sapere se Phos alla fine prevarrà davvero? La conclusione potrebbe essere assai
diversa.» «Un Equilibratore!» esclamò Styppes, passando dal precedente rossore a un pallore cadaverico, e dalla folla si levarono ringhi minacciosi, perché per gli imperiali la convinzione khatrish secondo cui la lotta fra il bene e il male era alla pari costituiva un'eresia ancora peggiore di quella professata dai Namdaleni. «Per nulla, se mi dai il tempo di concludere» replicò, calmo, Gerungus. «Né tu né io saremo qui per assistere a quella battaglia finale fra Phos e Skotos, quindi come possiamo conoscerne l'esito? Dobbiamo però agire come se fossimo certi che il bene trionferà, oppure affrontare il ghiaccio eterno. Io sono orgoglioso di scommettere in questo senso... "su questo gioco la mia stessa anima".» Il Namdaleno si guardò intorno, sfidando la folla con lo sguardo; Marcus gettò a sua volta un'occhiata in giro e notò che i Videssiani erano stranamente calmi, il che dimostrava come l'oratoria di Gerungus, per quanto meno forbita di quella di Styppes, possedeva una non minore efficacia. Il tribuno scorse poi Nevrat Sviodo, in piedi dietro Gerungus, con i folti capelli neri che le scendevano ricciuti sulle spalle. Quando i loro sguardi si incontrarono, la donna gli sorrise ed abbozzò un gesto con la mano, come per indicare la folla intenta, accennando poi a Scaurus e annuendo, come per includere soltanto loro due e nessun altro. Il Romano ricambiò il cenno, comprendendone alla perfezione il significato: come Vaspurakana, Nevrat seguiva una diversa versione della fede di Phos e lui, come Romano, ne era addirittura al di fuori. Nessuno dei due, quindi, poteva essere infiammato da quel dibattito. Styppes intanto stava ansando e soffiando come una balena arenata, mentre raccoglieva le idee per il nuovo attacco. «Molto carino» grugnì, «ma Phos non tira i dadi per decidere con Skotos il destino dell'universo... il doppio uno, i "soli" a indicare pace e ordine contro i doppi sei, i "demoni", che indicano lotte e carestie. Questo vorrebbe dire porre il caos nel cuore di Phos, il che è inammissibile.» «No, amico mio, non è possibile» proseguì. «Il sapere su cui si fonda il piano di Phos non è così limitato, né Skotos ha bisogno di dadi per ottenere i suoi fini, avendo a disposizione gente come te che guida gli uomini lontano dalla verità e verso il falso. I demoni del dio oscuro annotano ogni vostro peccato nei loro registri, sì, segnando il giorno e l'ora in cui è stato commesso, e perfino chi è stato testimone ad esso. Soltanto il vero pentimento e la genuina adesione alla vera fede di Phos possono cancellare
un'annotazione del genere, ed ogni parola blasfema da te pronunciata ti avvicina di un passo al ghiaccio.» La passione di Styppes era evidente, anche se il tribuno pensò che il suo ragionamento mancava di logica; mentre la discussione fra il preteguaritore e la sua controparte namdalena si protraeva, l'attenzione di Scaurus vagò altrove, e gli venne in mente che, cambiando appena poche parole, la descrizione che Styppes aveva dato dei demoni con i loro registri dei peccati avrebbe potuto adattarsi benissimo agli agenti imperiali delle tasse e ai loro libri contabili. Non ritenne che la somiglianza fosse una coincidenza, e si chiese se i Videssiani se ne fossero accorti a loro volta. Una voluta di fumo puzzolente fece tossire il tribuno mentre saliva i gradini del palazzo del governatore provinciale di Garsavra, un edificio in mattoni rossi con l'ingresso fiancheggiato da colonne di marmo bianco. Squadre armate di legionari spiccavano nella piazza del mercato e si aggiravano per le strade principali, badando che non si scatenassero altri tumulti. Se quello appena sedato fosse scoppiato alcuni giorni prima, Marcus ne avrebbe attribuito la colpa al dibattito teleologico a cui aveva assistito, mentre così come stavano le cose i suoi sospetti erano appuntati invece sui ricchi mercanti e sui nobili locali che ora lo stavano aspettando in quel palazzo... gli stessi uomini che avrebbero dovuto pagare per contribuire a riscattare Drax e i suoi compagni dagli Yezda. Se fossero riusciti a scacciare i Romani da Garsavra, infatti, avrebbero salvato il contenuto della loro borse... e a parte questo troppi di loro erano favorevoli ai Namdaleni. Il tribuno era lieto di avere al seguito i propri ufficiali, che indossavano tutti la loro tenuta di maggiore effetto, con l'elmo crestato, il corto mantello che simboleggiava il rango e la cotta di maglia lucidata fino a risplendere, al fine di impressionare maggiormente i notabili di Garsavra. Un trombettiere seguiva il gruppo, impugnando la sua buccina come fosse stata una spada. Mentre camminava, Scaurus continuò a ripassare le frasi del discorso che aveva imparato a memoria con l'aiuto di Styppes che, pur brontolando come di consueto, aveva finito per dargli una mano. Il videssiano del tribuno, infatti, andava bene per una conversazione casuale, mentre nelle situazioni formali gli imperiali si aspettavano un'oratoria altrettanto formale, che costituiva quasi un linguaggio a se stante rispetto a quello corrente. I Gavras, di tanto in tanto, riuscivano a essere bruschi senza scandalizzare, ma questo era in parte dovuto al fatto che tutti supponevano che essi potes-
sero ricorrere quando volevano allo stile altisonante, mentre le parole semplici e spoglie del tribuno sarebbero servite soltanto a farlo qualificare come un barbaro, e lui quel giorno aveva invece bisogno di apparire come un rappresentante del governo imperiale e non come un brigante in vena di estorsioni. Styppes pensava ancora che il discorso fosse un po' troppo semplice, ma Marcus sapeva che non avrebbe potuto sopportare un'oratoria molto più complessa. «Che ne penserebbe Cicerone?» chiese a Gaius Philippus, che aveva ascoltato il suo ripasso a mezza voce. «Quel grasso sacco di vento? A chi importa cosa penserebbe? Cesare vale cinque volte più di lui sul rostro, perché dice quello che pensa... e con tutto il rispetto credo che Cesare si sentirebbe male, a sentire queste stupidaggini.» «Di certo non lo biasimerei. Mi sembra di essere Ortaias Sphrantzes.» «Oh, non è brutto fino a quel punto, signore!» si affrettò a dichiarare Gaius Philippus, ed entrambi scoppiarono a ridere. Ortaias non usava mai una parola sola, se se ne potevano impiegare dieci... soprattutto se otto di quelle erano di significato oscuro. Marcus rivolse un cenno al trombettiere, che precedette il gruppo nella sala delle udienze del governatore, dove il tribuno intravide per la prima volta i notabili in attesa, una ventina circa, che* sedevano intenti a conversare amabilmente fra loro e a farsi aria a causa della calura umida di fine estate. La nota acuta della tromba troncò la conversazione. Alcuni Videssiani sussultarono, altri protesero il collo verso la porta da cui stava entrando Scaurus, ma il tribuno non degnò di un'occhiata nessuno di loro mentre andava a prendere posto sulla sedia del governatore, posando le braccia sul tavolo di legno di rosa di squisita fattura che aveva davanti. Mentre sedeva, pensò che quel seggio era stato di recente occupato da una quantità di persone: un paio di governatori legittimi, Onomagoulos, Drax, forse Zigabenos, ed ora lui stesso... ma sempre meglio lui che Yavlak. Gli ufficiali che lo accompagnavano si schierarono alle sue spalle: Gaius Philippus, Junius Blaesus e Sextus Minucius, immobili sull'attenti; Sittas Zonaras, presente per dare un tocco videssiano al gruppo; Gagik Bagratouni, una potente presenza fisica nella sua armatura vaspurakana; e Laon Pakhymer, rilassato e con l'aria divertita, come se stesse partecipando ad una recita. Marcus si alzò infine in piedi, fissando i presenti, che lo guardarono a
sua volta, alcuni impressionati come aveva sperato, altri annoiati... per lo più soggetti che avevano l'aspetto astuto di mercanti... due o tre con espressione apertamente ostile. Nel complesso, non era un brutto uditorio, non peggiore di' quello che aveva affrontato nel senato di Mediolanum... quanto tempo sembrava essere passato da allora! Trasse un profondo respiro e, per uno spaventoso istante, gli parve di aver dimenticato il discorso preparato con tanta cura che però gli tornò subito in mente non appena cominciò a parlare. «Signori, siete stati scelti da me oggi per questo consiglio: prestate attenzione alle mie parole. Sapete come il Namdaleno abbia malvagiamente soggiogato le città dell'ovest: ha preteso tributi da voi, devastato i vostri villaggi e le vostre cittadine nell'ambito di una ribellione illegale, ed ha trattato gli abitanti in modo perverso, estorcendo loro le poche risorse di cui disponevano. Di conseguenza, signori di Garsavra, è per me fonte di stupore vedere come vi siate lasciati facilmente raggirare da coloro che vi hanno ingannati e che ora cercano di farsi aiutare da voi a prezzo del vostro sangue. Tali uomini sono coloro che vi hanno arrecato il male maggiore, perché quale sorta di beneficio avete ricavato da questa ribellione, se non assassinii, mutilazioni e amputazioni di arti?» Marcus per poco non scoppiò a ridere di fronte all'espressione sorpresa dell'uomo grasso che sedeva in seconda fila, che era un mercante di vino: era probabile che quel Videssiano non avesse mai sentito uno straniero mettere insieme una frase più complessa della richiesta di un altro boccale di vino. «Ora» proseguì il tribuno, assaporando il proprio discorso per la prima volta, «quanti vorrebbero aiutare il Namdaleno hanno attizzato in voi l'ira e le liti, e tuttavia sono riusciti a mantenere intatte le loro proprietà.» Che sospettino pure uno dell'altro, pensò fra sé. «Nello stesso tempo, però, essi continuano a richiedere la protezione dell'impero e cercano di riversare sugli innocenti la colpa delle loro azioni: vi è conveniente, signori, permettere che coloro che adulano e servono il ribelle traggano così vantaggio da voi? Per volere di Phos, infatti» continuò Marcus, usando una frase suggerita da Styppes e a cui lui altrimenti non avrebbe mai pensato, «ora vedete che il Namdaleno è prigioniero. Essendoci liberati della sua malvagità, tuttavia, dobbiamo ottenere la certezza che lui non fugga, come fumo da un forno. E chi lo ha catturato ora chiede un prezzo per consegnarcelo.» Vedendo che Scaurus stava venendo al dunque, gli ascoltatori si protesero in avanti con aspettativa.
«Se l'Imperatore non fosse impegnato in una campagna lontano da qui, o se il barbaro che tiene in suo pugno il Namdaleno consentisse una dilazione, mi recherei in tutta fretta a Videssos per prelevare la somma necessaria. Come vedete, tuttavia, questo è impossibile, ed io non dispongo di tutto il denaro necessario. Di conseguenza, bisognerà che ciascuno di voi contribuisca secondo i suoi mezzi, onde evitare che lo Yezda decida di devastare le vostre terre mentre attende il pagamento dovutogli. Io dichiaro che questa è la situazione effettiva, e garantisco che ciò che pagherete vi sarà restituito dall'imperatore.» Con quella conclusione, Marcus si sedette, in attesa della risposta dei notabili, la cui soddisfazione alla prospettiva di separarsi dal proprio oro era né più né meno quella che lui si era aspettato di riscontrare. «Ci sarà restituito?» replicò il grasso mercante di vino, a nome di tutti. «Sì, non ne dubito, proprio come un tosatore restituisce la lana alle pecore.» Fra sé e sé, Marcus dovette ammettere che l'uomo non aveva tutti i torti: come ogni stato, Videssos era più felice di raccogliere denaro piuttosto che di spenderlo. «Ho una certa influenza alla capitale» disse però, ad alta voce, «e non permetto che chi mi aiuta venga dimenticato.» Era una cosa che quella gente poteva capire, perché il rapporto clientelare era presente in Videssos quanto a Roma, sia pure meno formalizzato. Quelli con cui aveva a che fare, però, erano gli uomini più potenti della zona, che non avevano l'abitudine di dipendere da nessuno, e tanto meno da un capitano mercenario. «Quest'uomo ha una strana abitudine: quando dice che farà qualcosa, lo fa sul serio» interloquì Zonaras, spiegando poi come i legionari avessero tenuto a bada i Namdaleni sulle colline e organizzato truppe irregolari che estendessero la guerra contro di loto anche in pianura. «E riuscire in tutto questo» concluse, «sembrava molto meno probabile che ottenere un pagamento dalla tesoreria.» «Nulla è meno probabile che ottenere soldi dalla tesoreria» insistette il mercante grasso, strappando agli altri una breve risata. Lui e i suoi compagni avevano però ascoltato attentamente, perché Zonaras era un Videssiano e quindi erano più inclini a credere a lui che al tribuno. Uno dei nobili locali, un uomo magro e quasi calvo con la schiena piegata dagli anni, si alzò faticosamente in piedi appoggiandosi ad un bastone, e puntò un dito nodoso verso Scaurus.
«Sei stato tu, allora, ad insegnare ai nostri contadini ad agire da briganti?» chiese, con voce stridula. Il naso prominente e il rado ciuffo di capelli bianchi gli conferivano l'aspetto di un vecchio, iroso avvoltoio. «Due dei miei pozzi sono stati contaminati, il bestiame messo in fuga o ucciso, il mio cameriere rapito e marchiato. Sei stato tu a procurarmi tutto questo?» Nella sua indignazione, il nobile si eresse maggiormente sulla persona e brandì il bastone come una spada. «Oh, piantala, Skepides» gridò però qualcuno, dal fondo della sala. «Se avessi usato un minimo di onestà con i tuoi contadini, negli ultimi cinquant'anni, adesso non avresti nulla di cui lamentarti.» «Eh? Chi ha parlato?» Non riuscendo a trovare il colpevole, Skepides tornò a rivolgersi a Scaurus. «Io ti dico questo, signore: preferirei trattare con i Namdaleni che con un sedizioso come te, che Skotos mi prenda se non lo preferirei. E non voglio avere altro a che fare con questo tuo progetto.» Con passi lenti e affaticati, il Videssiano si avviò fra le file di seggi, lasciando la sala, ed altri due o tre lo seguirono. «Cercate di convincerli a cambiare idea» disse Marcus, a quanti erano rimasti. «Quanti più sarete a dividere, tanto minore sarà la cifra che ciascuno di voi dovrà pagare.» «E cosa farai se nessuno di noi accetterà la tua richiesta?» chiese un altro mercante. «Prenderai il nostro oro con la forza?» «Assolutamente no» fu pronto a rispondere il tribuno, che si era aspettato quella domanda. «In effetti, se nella vostra saggezza deciderete di non aiutarmi, io non intendo fare assolutamente nulla.» L'uditorio esplose in un chiacchierio confuso, giungendo quasi ad ignorare Scaurus. «Non ci obbligherà? Ah! Che trucco è questo? Che il ghiaccio se lo porti! Che compri quei barbari con i suoi soldi!» Quell'ultimo commento, o qualche sua variante, fu quello che ottenne il maggiore supporto. Alla fine, fu il grasso mercante di vino che ebbe il buon senso di chiedere a Marcus un chiarimento fondamentale. «Cosa intendi, quando dici che non farai niente?» «Proprio questo.» Marcus pareva la personificazione stessa dell'innocenza. «Mi limiterò a riportare le mie truppe alla capitale, in quanto qui il mio lavoro sarà finito... almeno secondo il mio parere.» Quelle parole produssero fra i Videssiani un'agitazione ancora maggiore di quella suscitata dall'annuncio precedente. «Ma allora chi ci salverà dagli Yezda?» gridò qualcuno.
«Perché questo mi dovrebbe importare?» «Per Phos» esplose l'uomo, «hai usato una buona quantità di fiato per dimostrare che sorta di perfetto imperiale tu sia.» Alle spalle di Scaurus, Gaius Philippus ridacchiò sommessamente. «E adesso che si tratta di proteggere i cittadini dell'impero, tu preferisci scappare.» Mercanti e nobili levarono grida di assenso... tutti tranne il grasso mercante di vino, che stava fissando il tribuno con il riluttante rispetto che un uomo astuto può a volte tributare ad un suo pari. «Se siete cittadini dell'impero, agite come tali» ringhiò Marcus, sbattendo il pugno sul tavolo. «Il vostro prezioso impero vi ha mantenuti nell'abbondanza e nella prosperità per più anni di quanti chiunque di voi possa ricordarne, e dubito che abbiate mai avuto a lamentarvi di questo. Quando però insorgono i guai e l'impero ha bisogno del vostro aiuto, voi che cosa fate? Muggite come altrettanti vitelli che cerchino la madre. Per il vostro Phos, signori, se non siete disposti a dare aiuto, perché dovreste riceverne? Questo è quanto ho da dirvi... se fra dieci giorni da ora mi mancherà ancora una sola moneta d'oro per raggiungere la somma necessaria, io mi ritirerò, e voi potrete trattare direttamente con Yavlak. Buona giornata a tutti.» Seguito dai suoi ufficiali, Marcus abbandonò a grandi passi la sala, lasciandosi alle spalle un silenzio mortale. «Io, una battuta ti darei per parole così» commentò Gagik Bagratouni, mentre uscivano sotto il sole del tardo pomeriggio. «Ma come tu dici, costoro grassi molto a lungo. Loro pagano, io credo.» «Non avrei dovuto usare le maniere forti con te» replicò Marcus. «Il Vaspurakan è un paese di frontiera, e la sua gente sa come bisogna agire. Se ammiro l'impero per la sicurezza che dà al suo popolo» aggiunse, con un sospiro, «suppongo che non dovrei poi biasimare questa gente se è anche egoista. Non ha mai dovuto non esserlo.» Cogliendo un movimento con la coda dell'occhio, si girò di scatto verso Gaius Philippus. «E adesso cosa stai combinando, nel nome degli dèi?» Il centurione anziano sussultò con aria colpevole e ritrasse la mano dalla daga: la lama sottile e affilata rimase dove lui l'aveva conficcata... fra i fusti di due colonne adiacenti alla soglia del palazzo del governatore. «Era una cosa che volevo fare da anni» dichiarò, sulla difensiva. «Quante volte hai sentito qualche damerino blaterare che le colonne sono fatte con tanta perfezione che non si potrebbe infilare una lama di coltello fra
due di esse? Ho sempre pensato che fosse un'idiozia, e adesso l'ho dimostrato» concluse, recuperando il coltello. «È un bene che Viridovix non sia qui a vederti» replicò il tribuno, levando gli occhi al cielo, «altrimenti ti prenderebbe in giro all'infinito. Le colonne... come no!» E continuò a sorridere fra sé per tutta la strada fino al campo dei legionari. Il mattino successivo una delegazione di cittadini di Garsavra, tutti molto rispettabili, venne ad annunciare di avere difficoltà ad assegnare quote proporzionali ai beni individuali. La scusa era così debole che Marcus per poco non scoppiò a ridere apertamente. «Venite con me, amici miei» rispose, e tornò alla residenza del governatore. Dopo aver lottato per un intero inverno alle prese con le complessità della struttura fiscale dell'intero impero, analizzare le ricevute locali fu per lui un gioco da bambini; un'ora e mezza più tardi emerse dall'ufficio degli archivi e porse ai notabili in nervosa attesa una lista delle cifre dovute da ciascuno, calcolate fino all'ultima frazione di moneta d'oro. Con la sconfitta dipinta nello sguardo, i cittadini accettarono la lista e sgusciarono via. Marcus ricevette tutta la somma entro due giorni. A causa della continua tensione e degli spostamenti richiesti dalla campagna contro i Namdaleni, Scaurus non aveva dedicato molto tempo o molte attenzioni ad Helvis nel corso dell'ultimo paio di mesi, e lo sapeva. A volte, pensava che questo soddisfacesse anche lei, perché se non stavano molto insieme non potevano litigare, ed Helvis era ancora profondamente risentita per l'incrollabile lealtà di Marcus nei confronti dell'Impero. Inoltre, il progredire della gravidanza aveva fatto svanire in lei ogni desiderio, come già era accaduto quando doveva nascere Dosti... una situazione che Marcus sopportava come meglio poteva. Una volta che la legione ebbe insediato il proprio accampamento stabile all'esterno di Garsavra, tuttavia, i due non poterono più continuare ad ignorarsi a vicenda... e la prigionia di Soteric intervenne a fornire ad Helvis un nuovo e più pressante motivo di preoccupazione. «Cosa intendi fare di loro, una volta che li avrai in pugno?» chiese a Marcus, la sera successiva alla partenza della nutrita scorta armata che il tribuno aveva inviato a riscattare i prigionieri namdaleni. Per quanto lei avesse cercato di controllare la voce, il timore che la permeava era evidente, e tuttavia Helvis non cercò di esercitare pressioni di sorta, avendo ormai imparato che il modo più facile per indurre Scaurus a
respingere un'idea era quella di sostenerla con eccessivo calore. I suoi occhi azzurri apparivano enormi, al chiarore della lampada, mentre lei aspettava la risposta. «Per il momento non farò nulla, a parte metterli sotto custodia e mandare subito un messaggio a Thorisin. La decisione sulla loro sorte spetta a lui, non a me.» Marcus si era preparato ad un'esplosione, e rimase stupefatto quando gli occhi di lei si colmarono di lacrime ed Helvis si alzò goffamente in piedi per abbracciarlo, mormorando con voce rotta parole di ringraziamento. «Ehi, cosa significa?» chiese, prendendola per le spalle e allontanandola leggermente da sé per poterla vedere in viso. «Credevi che li avrei uccisi all'istante?» «Come potevo sapere cosa avresti fatto? Considerato quello che hai detto al campo, dopo la battaglia in cui...» Accorgendosi di essere scesa su un terreno imbarazzante, Helvis si affrettò a fare marcia indietro. «Dopo la battaglia, ho temuto che tu potessi decidere in tal senso.» Il suo sguardo si spostò sull'immagine del santo Nestorios, sistemata in cima al suo piccolo altare da viaggio. «Grazie per aver salvato Soteric» sussurrò al santo. «Allora» replicò Marcus, accarezzandole i capelli, «ero in preda all'ira. Questa non è una giustificazione, e non vado orgoglioso delle mie parole, ma non sono tipo da agire come un macellaio. Credevo che mi conoscessi meglio.» «Lo credevo anch'io.» Helvis gli si avvicinò maggiormente, e sorrise quando il suo ventre urtò contro di lui contemporaneamente al seno. Il suo viso tornò però farsi serio quando lei sollevò lo sguardo e cercò di decifrare quello di Marcus. «Tuttavia, anche dopo tanto tempo, a volte penso di non conoscerti affatto.» Scaurus la strinse fra le braccia. Spesso, anche lui provava quella stessa sensazione, ed era consapevole che il recente isolamento reciproco non era certo servito a migliorare le cose. Evitò comunque di dirle quello che pensava, e cioè che era improbabile che Thorisin Gavras, Avtokrator dei Videssiani, considerasse con clemenza i capi ribelli catturati. Malgrado l'intercessione del santo Nestorios, Soteric era ancora tutt'altro che salvo. Il biglietto era in latino, e il suo contenuto era estremamente ambiguo. "Abbiamo la tua merce. Arriviamo fra tre giorni". Marcus rilesse il messaggio tre volte prima di accorgersi che la "g" latina era stata sostituita dal suo equivalente videssiano: a poco a poco, l'impero stava sgretolando la
romanità di tutti loro. Il mattino del terzo giorno, un messaggero khatrish avvertì il tribuno che la compagnia da lui inviata a prelevare i prigionieri era ad un paio di ore di marcia da Garsavra. «Benissimo» sospirò il tribuno, con profondo sollievo. E così Yavlak era stato ai patti, dopo tutto... un ostacolo sormontato. Per intimidire gli isolani ancora rintanati nella fortezza all'esterno della città, Marcus fece sfilare quasi tutte le truppe di cui disponeva davanti ad essa, lasciandosi alle spalle soltanto il numero di legionari strettamente necessario per proteggere il campo contro un'eventuale sortita. Gli uomini del Ducato assistettero alla parata dall'alto delle loro mura di terra ammucchiata, e Marcus pensò che presto avrebbero cominciato a soffrire la fame... e che ci sarebbe stato tempo in seguito per occuparsi di loro. Anche a così poca distanza da Garsavra, il terreno cominciava già a inerpicarsi verso il pianoro centrale e l'Arandos, calmo e placido in pianura, là si precipitava a valle con una serie di cataratte cosparse di grossi massi quasi nascosti dai veli di ribollente schiuma bianca. Il più grande tributario dell'Arandos, l'Eriza, confluiva da nord nel fiume principale, e Garsavra sorgeva alla congiunzione dei due corsi d'acqua. La guida di Scaurus si tenne sulla sponda meridionale dell'Arandos, cosa che non sorprese affatto il tribuno, considerato che sul pianoro i fiumi erano d'estate l'unica fonte d'acqua. Più avanti, scorse un velo di polvere bassa e sparsa, che poteva indicare soltanto un gruppo di uomini a piedi... la cavalleria yezda avrebbe invece sollevato colonne di polvere alte e diritte... e scambiò un sorriso soddisfatto con gli esploratori khatrish, che gli risposero alzando i pollici in quel gesto che Pakhymer e i suoi nomadi avevano imparato dai Romani. Un momento più tardi, Marcus intravide i legionari che marciavano in quadrato, fiancheggiati da un sottile cordone di arcieri khatrish incaricati di tenere a bada eventuali razziatori che fossero sopraggiunti... e di recuperare qualsiasi Namdaleno che fosse riuscito a fuggire dal quadrato vuoto al centro. Junius Blaesus salutò il tribuno con l'aria di una persona felice di liberarsi di un gravoso fardello. «Eccoli qui, signore, tutti quelli che Yavlak aveva preso vivi: trecento e... vediamo... diciassette. Alla partenza ne avevo altri ventuno che sono morti durante la marcia... erano feriti troppo gravemente fin dall'inizio, e non mi è parso che gli Yezda avessero fatto molto per loro. Non volevo
però abbandonarli lungo la strada» concluse, in tono ansioso. «Hai agito bene» lo rassicurò Marcus, e osservò l'ampia faccia da contadino del centurione illuminarsi di soddisfazione. Per quanto fosse un giovane serio, Blaesus si faceva spaventare dalle responsabilità. Il tribuno spostò la propria attenzione dal centurione ai Namdaleni che erano stati affidati alla sua custodia. Gli isolani erano adesso molto diversi dai soldati orgogliosi e sicuri di sé che avevano cercato di strappare all'impero le sue terre occidentali. I volti scarni erano coperti da barbe irsute, i più camminavano inclinati in avanti, come se erigersi sulla persona richiedesse energie maggiori di quelle a loro disposizione, e quasi tutti zoppicavano, alcuni per le ferite e gli altri perché gli Yezda li avevano privati degli stivali ed avevano lasciato loro soltanto stracci con cui fasciarsi i piedi. Gli abiti dei prigionieri, poi, erano formati dai laceri resti di sopravvesti e calzoni, perché i nomadi si erano appropriati anche delle cotte di maglia, e gli isolani avevano lo sguardo spento e indifferente, mentre continuavano con fatica la marcia. Dunque questa era la vittoria, pensò Scaurus, sentendosi quasi come un capitano di una delle squadre di pompieri di Crasso, che traevano profitto dalle sfortune altrui comprando a poco prezzo le proprietà bruciate. Qua e là qualcuno spiccava nella massa, per il suo volto o per il suo atteggiamento. I folti baffi neri di Mertikes Zigabenos erano facili da individuare in mezzo a quella massa di barbe irsute, e altrettanto spiccava la sua espressione di assoluta disperazione, dolorosa a vedersi anche in mezzo a tanta miseria; Zigabenos rifiutò di alzare il capo anche quando Marcus lo chiamò per nome. Accanto a lui camminava Drax, la cui corta barba era di una sorprendente tonalità rossiccia: il grande conte, che aveva il braccio sinistro appeso al collo mediante una fascia sporca, non mostrò vergogna a incontrare lo sguardo di Scaurus, anche se i suoi occhi decisi apparvero indecifrabili come sempre. Non tutti i Namdaleni avevano dimenticato di essere uomini. Il veterano Fayard, che era stato un membro della squadra di Hemond all'epoca in cui Marcus era giunto alla città di Videssos, procedeva a passo di marcia e non strascicando i piedi come coloro che lo circondavano; il veterano rivolse al tribuno un secco saluto accompagnato da una scrollata di spalle, come per dire che aveva supposto che si sarebbero incontrati ancora, ma non in questo modo. In qualche modo, Fayard era riuscito a conservare un aspetto decente, sfruttando al massimo quello che era riuscito a trovare. Anche Soteric era diritto come un giovane pino, e quella posa cocciuta-
mente eretta era stata ciò che innanzitutto aveva permesso a Marcus di individuarlo. La barba lunga e il volto scavato lo facevano apparire più anziano del tribuno stesso, anche se non aveva ancora trent'anni, e una cicatrice gonfia e in via di guarigione gli solcava la fronte. Soteric lanciò al cognato uno sguardo selvaggio e rovente quanto quello di un lupo in trappola, ma del resto Marcus, provando poca simpatia nei suoi confronti, non si aspettava certo di riceverne. «Traditore!» gridò Soteric, e il tribuno non dubitò che stesse parlando sul serio, pur pensando che quello era uno strano termine da usare, dopo lo scontro sul Sangarios. Il fratello di Helvis, però, era talmente convinto della giustezza della sua causa da essere cieco a qualsiasi altra cosa, una caratteristica condivisa anche da Helvis... per fortuna in scarsa misura, si disse il tribuno, girandosi verso Styppes. «Fa' quello che puoi per le loro ferite» ordinò, notando che non tutte erano state inferte in battaglia: alcuni isolani portavano segni di frusta, o anche peggio. Il prete-guaritore non mostrò di gradire eccessivamente quell'incarico. «Tu mi chiedi troppo» dichiarò, ricordando terribilmente Gorgidas. «Molti non li potrò curare, perché le ferite hanno avuto un tempo eccessivo per suppurare. E quegli uomini sono eretici e nemici.» «Una volta combattevano per l'impero» rilevò Marcus, «e parecchi lo faranno ancora, con il tuo aiuto.» Styppes lo fissò con aria accigliata, e Marcus accennò a insistere, scoprendo però che il prete gli aveva già voltato le spalle e si stava aprendo un varco fra gli uomini di Blaesus, per raggiungere i Namdaleni. «Cos'ha quello?» domandò Gaius Philippus, cercando di trattenere un sorriso. «Deve sempre ringhiare per un po', prima di mettersi al lavoro?» «Senti chi parla. Gli dèi aiutino lo sfortunato legionario che dovesse capitarti fra i piedi dopo che qualcosa è andato storto» ribatté Scaurus, e a questo punto il veterano sogghignò, ammettendo di essere stato toccato nel vivo. La sera era ormai prossima quando i legionari e i loro prigionieri raggiunsero Garsavra, e di nuovo Scaurus passò sotto le mura della fortezza namdalena, una mossa in cui era implicita la minaccia che gli uomini del Ducato ora nelle sue mani potessero diventare un ostaggio da impiegare per ottenere la resa del castello. Lo stratagemma funzionò però meno bene di quanto lui aveva sperato, perché i prigionieri ancora abbastanza in forze levarono grida di soddisfazione nel vedere che la loro fortificazione resi-
steva ancora... un grido a cui fecero eco i cavalieri asserragliati dietro i suoi bastioni. E Soteric indirizzò a Marcus un'occhiata colma di ironico trionfo. Seccato, il tribuno condusse in parata le proprie truppe e i Namdaleni lungo la strada principale di Garsavra, fino alla piazza del mercato, come spettacolo per il popolo, ma neppure quello si rivelò un successo, perché gli abitanti di Garsavra amavano tali spettacoli meno dei loro viziati cugini della capitale: i bordi delle strade risultarono vuoti in maniera imbarazzante quando i legionari sfilarono fra i bagni pubblici e la residenza del prelato locale, un edificio a cupola in stucco giallo grande e importante quanto il palazzo del governatore, e il rumore delle caligae chiodate sul selciato praticamente soffocò i radi applausi dei pochi spettatori. La maggior parte della popolazione ignorò la parata, preferendo continuare ad occuparsi dei propri affari. Questo però non significava che i Garsavrani non avessero prestato attenzione all'arrivo dei prigionieri namdaleni. Ben presto, infatti, la città cominciò a ribollire con la violenza con cui un uomo vomita dopo che gli è stata somministrata una forte dose di elleboro, e nelle strade scoppiarono nuovi disordini. Una fazione voleva linciare immediatamente gli isolani, e Scaurus scoprì con suo sgomento che di essa facevano parte non soltanto quanti odiavano i Namdaleni ma anche alcuni fra coloro che avevano collaborato con loro durante il periodo in cui essi avevano occupato Garsavra e che ora volevano essere certi che i dettagli della loro collaborazione non venissero mai risaputi. «Sarebbero altrettanto pronti a lavorare per Yavlak» commentò il tribuno, disgustato. «Già, e spetta a noi fare in modo che non ne abbiano mai l'opportunità» rispose con calma Gaius Philippus, troppo cinico per rimanere eccessivamente sconvolto da quella ulteriore prova della malvagità a cui poteva arrivare un uomo. Per ogni cittadino pronto ad arrostire i Namdaleni a fuoco lento, però, ce n'era un altro che voleva liberarli e dare nuovo avvio alla ribellione, tanto che Marcus giunse a desiderare di aver proceduto ad assediare i cavalieri rinchiusi nella fortezza vicina alla città, indipendentemente dallo spreco di uomini e di truppe che questo avrebbe comportato, perché ormai era certo che essi sgusciassero in città di tanto in tanto. Essendo Garsavra priva di mura, tenerli fuori era impossibile, e la loro presenza serviva a ricordare continuamente agli abitanti il breve periodo di governo degli isolani: a
quanto pareva, sul muro di una casa su tre spiccava ormai la scritta "Drax il Protettore", tracciata in carbone o in bianco di calce. Il tribuno fece del suo meglio per mettere i prigionieri in condizione di intraprendere il viaggio verso est, pensando che quando essi avessero lasciato Garsavra, i tumulti sarebbero cessati, ma decise al tempo stesso di dimostrare alla popolazione che gli isolani erano stati costretti a riconoscere la superiorità dell'impero, e a questo scopo elaborò una cerimonia che prendeva a prestito elementi tanto romani quanto videssiani. Nel centro della piazza del mercato, conficcò due pila nel terreno dalla parte dell'asta, poi ne legò un terzo di traverso su di essi, un po' al di sotto dell'altezza della testa, e sistemò un ritratto di Thorisin Gavras in cima all'asta orizzontale. Radunò quindi i prigionieri namdaleni... tutti tranne Drax, gli ufficiali di rango più elevato e lo sfortunato Mertikes Zigabenos... e li dispose in gruppi di dieci davanti alla sua creazione, mentre alcuni legionari con la spada in pugno e un gruppo di arcieri khatrish si schieravano fra i prigionieri e la folla di spettatori garsavrani. «Come chinate il collo nel passare sotto questo giogo» disse Scaurus agli isolani... e alla folla, «così vi arrendete al legittimo Avtokrator dei Videssiani, Thorisin Gavras.» Un gruppo dopo l'altro, i Namdaleni si sottomisero, passando sotto la lancia romana e l'immagine dell'imperatore videssiano. A mano a mano che sbucavano dalla parte opposta, Styppes fece pronunciare a ciascun gruppo uno spaventoso giuramento con cui gli isolani invocavano maledizioni su se stessi, le loro famiglie e i loro clan nel caso avessero mai combattuto di nuovo contro l'impero, o fossero anche soltanto rimasti in silenzio mentre altri proponevano tale guerra. Un gruppo dopo l'altro, i Namdaleni giurarono. «Su questo ci giochiamo la nostra stessa anima.» Il prete-guaritore si mostrò indignato per la forma assunta dal giuramento, ma Marcus ne fu soddisfatto, perché era più probabile che gli uomini del Ducato si attenessero a un giuramento formulato secondo le loro usanze che non ad uno imposto dagli imperiali. Il rito della resa procedette alla perfezione finché, quando circa due terzi dei Namdaleni aveva giurato, Styppes barcollò e crollò proprio mentre era impegnato a ricevere il giuramento di un altro gruppo. Dal momento che il prete aveva continuato a trangugiare il contenuto di un grosso otre di vino per tutta la durata della cerimonia, Marcus fu più annoiato che preoccupato per l'incidente che causò soltanto un leggero ritardo, mentre un paio di
Romani trascinavano in disparte il prete svenuto ed altri due si affrettavano ad andare a chiamare il prelato di Garsavra, un uomo anziano e affabile di nome Lavros. Marcus recuperò la formula scritta del giuramento dove Styppes l'aveva lasciata cadere, e Lavros la lesse in fretta, poi annuì e cominciò a impartirla dall'inizio ai Namdaleni in attesa, che avevano impiegato la pausa ridendo e scherzando fra loro. «Un momento, vostro onore» esclamò Fayard, che faceva parte di quel gruppo, «questo pezzo lo abbiamo già sentito.» «Dubito che sentirlo di nuovo vi possa procurare qualche danno duraturo» replicò Lavros, pacato, e continuò con la lettura della formula completa. Gli uomini del Ducato effettuarono il giuramento e la cerimonia proseguì. Trenta Khatrish accompagnarono i prigionieri namdaleni che Scaurus mandò alla città di Videssos, una scorta destinata al tempo stesso a proteggere gli isolani dai guerriglieri di Ras Simokattes e a impedire loro di fuggire: i Namdaleni che viaggiavano attraverso la campagna disarmati o in piccoli gruppi, infatti, mettevano a repentaglio la vita. Di tanto in tanto, il ricordo della rabbiosa sfuriata di Bailli, sulle pendici delle colline sudorientali, tornava a preoccupare il tribuno perché, sebbene i Namdaleni fossero stati sconfitti, i guerriglieri non mostravano minimamente di voler chiudere bottega. Un problema alla volta, disse Scaurus a se stesso, ripetendo le parole di Laon Pakhymer. E Bailli e gli altri ufficiali costituivano a loro volta un problema. Scaurus non li aveva mandati all'est con i soldati semplici perché non voleva correre il rischio che fuggissero durante il viaggio... erano troppo pericolosi per essere lasciati a piede libero... e li aveva invece rinchiusi nella residenza del governatore, aspettando da Thorisin un ordine che decretasse il loro fato. Neanche quella, però, si rivelò una soluzione ideale, perché non appena i Garsavrani si resero conto che essi erano ancora lì, la città esplose in un nuovo tumulto... o piuttosto in una ripetizione di quello vecchio. A questo si aggiunse anche il fatto che i prigionieri litigavano fra loro. Mertikes Zigabenos mandò a Scaurus una richiesta di essere alloggiato separatamente dai Namdaleni che lo avevano costretto contro la sua volontà ad assumere il ruolo di imperatore, e il tribuno lo accontentò, perché si sentiva molto più comprensivo per la situazione di Zigabenos che non, per esempio, per quella di Drax o di Soteric: l'unico comandante namdaleno
che destava la sua compassione era Turgot di Sotevag, che era quasi fuori di sé per la preoccupazione per la sua donna, Mavia. Scaurus si ricordava di lei per averla vista nella capitale... un'affascinante ragazza bionda che aveva meno della metà degli anni di Turgot. Con le altre donne namdalene, Mavia era rimasta a Garsavra quando gli isolani erano andati ad ovest a combattere contro gli Yezda, e Marcus riteneva probabile che fosse fuggita quando era giunta la notizia della sconfitta, perché dopo Maragha aveva visto che anche questo era un aspetto della vita del mercenario. Turgot, però, si rifiutava di crederlo, e giurava che lei aveva promesso di aspettarlo. Dopo una settimana, le sue lamentele ebbero l'effetto di logorare la pazienza di Drax. «E cosa vale una promessa?» scattò questi. Quando lo venne a sapere, Marcus pensò che quel commento casuale rivelava la natura del grande conte più di quanto lui desse abitualmente a vedere attraverso la sua facciata di autocontrollo. La prigionia non costituiva un tipo di pena applicato di solito dai Romani, perché a Roma il suo posto era preso dalle punizioni corporali, dalle multe o da una condanna all'esilio; di conseguenza, essendo inesperti come carcerieri, i legionari impararono quel nuovo mestiere nel modo più duro: una mattina, una guardia tremante svegliò Scaurus per riferire che la cella di Mertikes Zigabenos era vuota. «La peste lo colga!» esclamò il tribuno, alzandosi di scatto dalla stuoia. Helvis mormorò qualcosa in tono assonnato mentre lui si gettava il mantello sulle spalle, poi si sedette di colpo, allarmata, nel sentire Marcus che gridava ai trombettieri di suonare l'allarme. Quando il primo lamento spaventato di Dosti echeggiò nell'alloggio, il tribuno era già fuori sulla via principalis, impegnato a formare delle squadre di ricerca, pur essendo cupamente consapevole che setacciare Garsavra casa per casa era un'impresa persa in partenza. Allorché tuttavia i legionari trovarono il fuggitivo, il che accadde piuttosto presto, la notizia non gli diede soddisfazione, perché Zigabenos era in ginocchio davanti all'altare del principale tempio di Phos a Garsavra, che si trovava dietro la dimora del prelato cittadino. Tenendosi aggrappato all'altare con tanta forza da far sbiancare le nocche delle mani, l'Avtokrator suo malgrado continuava a invocare asilo, con quanta voce aveva. Al suo arrivo, il tribuno trovò una squadra romana ferma davanti alla soglia del tempio, incerta. Intorno, si stava raccogliendo anche una folla di cittadini, che mostravano chiaramente di non gradire di vedere Zigabenos
trascinato con la forza fuori del tempio, così come i legionari stessi non parevano troppo ansiosi di andare a prenderlo, sia perché alcuni di essi avevano abbracciato la fede di Phos, sia perché i templi erano luoghi di rifugio anche nel mondo da cui provenivano. Sfregandosi gli occhi assonnati, il prelato Lavros arrivò sul posto contemporaneamente a Marcus e si pose davanti alla soglia per bloccare il passo al tribuno. «Non porterai via quest'uomo contro la sua volontà» dichiarò il prelato, con voce stentorea, tracciandosi sul petto il segno di Phos. «Ha chiesto asilo presso il nostro buon dio.» La folla sempre più numerosa levò grida di sostegno e premette per avanzare, nonostante le armature, le lance e le spade dei Romani. «Posso almeno entrare da solo e parlargli?» chiese Scaurus. Colto di sorpresa dal tono mite della sua risposta, Lavros rifletté, passandosi la mano sul cranio rasato. «Sei disposto a deporre le tue armi?» domandò poi. Marcus esitò, perché non gli piaceva l'idea di separarsi dalla sua potente lama gallica. «Lo farò» decise infine, togliendosi spada e coltello e porgendoli al capo della squadra, un legionario affidabile di nome Aulus Florus. «Abbine cura» raccomandò, e Florus annuì. «E questo a che cosa dovrebbe servire?» sussurrò Lavros, spostandosi di lato per lasciar passare il tribuno. Marcus scrollò le spalle, e mentre entrava nel tempio sentì dietro di sé l'eco di una risata. L'interno dell'edificio era disposto come quello di tutti i santuari di Phos, con l'altare al centro sotto la cupola e i posti a sedere che si allargavano a raggiera verso i quattro punti cardinali. Il mosaico che decorava la cupola era una brutta copia di quello del Sommo Tempio della capitale, e questo Phos appariva come un severo giudice, senza essere però quell'imponente figura spirituale che induceva qualsiasi uomo a dubitare di essere degno di apparire al suo cospetto. Un vago senso di disagio pervase il Romano mentre percorreva la navata: se Zigabenos era armato in qualche modo... ma l'ufficiale delle guardie videssiane si limitò ad aggrapparsi con maggior forza all'altare e a rinnovare il proprio grido angosciato: «Asilo! Nel nome di Phos, chiedo asilo!» «Ci sono soltanto io, Mertikes» avvertì Marcus, allargando poi le mani per indicare che erano vuote. «Possiamo parlare?»
Alla luce tremolante della lampada, gli occhi di Zigabenos apparvero pervasi di terrore. «Devo dunque dire di sì, in modo che tu possa trascinarmi davanti al boia? Perché dovrei facilitarti le cose placandoti la coscienza?» chiese. Essendo un veterano della politica imperiale, sapeva quale fosse di solito la sorte dei ribelli. Marcus si limitò ad attendere, senza dire nulla, ed infine un doloroso sospiro sfuggì dal petto di Zigabenos, le cui spalle si accasciarono quando il silenzio protratto del tribuno gli fece infine comprendere quanto fosse disperata la sua posizione. «Dannazione a te, straniero» mormorò infine, con voce vecchia e stanca. «A che serve questa farsa, dopo tutto? La sete o la fame mi spingeranno fin troppo presto ad uscire. Ecco, sono a tua disposizione, per quanta gioia questo possa darti.» Il Videssiano lasciò andare l'altare, e Scaurus notò che il legno era lucido di sudore nel punto in cui prima si trovavano le sue mani. «Ma dovevi avere un piano, quando ti sei rifugiato qui!» esplose il tribuno, per il quale era insopportabile vedere un uomo intelligente e astuto come Zigabenos arrendersi in quel modo alla sorte. «Lo avevo, infatti» rispose il Videssiano, con un amaro sorriso. «Intendevo rinunciare ai miei capelli e diventare un monaco: anche un imperatore ci pensa tre volte prima di giustiziare un uomo votato a Phos. Ma ho agito troppo presto... quando sono arrivato il tempio era buio e vuoto, e non c'era nessun prete davanti a cui proferire i miei voti. Maledetti poltroni! E adesso invece qui ci sei tu. Ho sempre pensato che fossi un buon soldato, Scaurus, e vorrei essermi sbagliato.» Marcus non sentì quasi il complimento, perché stava gridando per convocare Lavros; il prelato arrivò di corsa, il suo consueto umore bonario alterato dalla preoccupazione. «Spero che tu non voglia cercare di convincermi a credere che questo supplice abbia cambiato idea...» «Ma è così, reverendo padre» cominciò Zigabenos. «Assolutamente no» dichiarò Scaurus. «Che sia come lui desidera. Lascia entrare tutta quella gente, perché veda come l'uomo che era stato costretto a svolgere il ruolo di Avtokrator intende ora fare ammenda per ciò a cui si è dovuto prestare, vestendo l'abito dei tuoi monaci.» Lavros e Mertikes Zigabenos lo fissarono entrambi, il primo con gioia, il secondo con vacuo stupore, poi il prete rivolse un profondo inchino al tri-
buno e si avviò in fretta lungo la navata, invitando i fedeli ad entrare. «Intendi permettermelo?» sussurrò Zigabenos, ancora incredulo. «Perché no? Quale modo migliore per eliminarti definitivamente dalla vita politica?» «Thorisin non ti ringrazierà per questo.» «Che guardi a se stesso, allora. Se ha potuto avvolgere Ortaias Sphrantzes in una tunica sacerdotale dopo aver ricevuto da lui soltanto male, adesso non può negare a te di avere salva la vita, perché tu lo hai servito bene, finché la sorte non ti ha rifilato un doppio sei.» Marcus provò un assurdo piacere nell'essere capace di ricordare il tiro perdente videssiano e di inserirlo con naturalezza nel discorso. «Ho gettato io stesso sul tappeto i "demoni", fidandomi troppo dei Namdaleni.» «Come si è fidato anche Thorisin» sottolineò il tribuno, e Zigabenos sorrise con effettivo umorismo per la prima volta da quando Scaurus lo aveva riscattato dagli Yezda. Poi non ebbero più modo di parlare, perché il tempio si stava ormai riempiendo di Garsavrani intenti a commentare fra loro gli eventi, e Scaurus andò ad occupare un posto nella prima fila di panche, lasciando Zigabenos solo vicino all'altare, che con la sua argentea magnificenza contrastava con il malandato mantello in cui era avvolto il Videssiano. Lavros, che era scomparso per qualche minuto, riapparve proprio allora munito di un grosso paio di forbici e di un rasoio luccicante; un secondo prete, un uomo bruno e robusto, lo seguiva reggendo fra le mani una semplice e disadorna tunica azzurra e una copia delle sacre scritture di Phos, rilegata in ricco cuoio rosso. I presenti tacquero quando i due sacerdoti si accostarono all'altare al centro del santuario. Zigabenos chinò il capo verso Lavros, e le forbici entrarono in azione, recidendo i suoi folti capelli neri; quando essi furono ridotti ad un'ispida peluria, Lavros passò al rasoio, e ben presto la testa di Zigabenos brillò nuda, apparendo ancora più bianca in confronto al volto scurito dal sole. A quel punto, il prete tozzo e bruno protese verso l'ufficiale il volume rilegato in cuoio. «Contempla la legge sotto cui vivrai, se completerai la tua scelta» recitò, in tono formale. «Se nel tuo cuore senti di poterla osservare, entra nella vita monastica; in caso contrario, parla adesso.» «La osserverò» mormorò Zigabenos, a testa china. Il prete gli ripeté la domanda altre due volte, e la voce dell'ufficiale ac-
quistò maggior forza ad ogni risposta; alla fine, il prete si inchinò a sua volta a Zigabenos, porse il libro a Lavros e procedette a vestire il nuovo monaco della sua tunica. «Come questo abito dell'azzurro colore di Phos copre il tuo corpo nudo» recitò, secondo il rituale, «così possa la sua virtù avvolgere il tuo cuore e preservarlo dal male.» «Così possa essere» sussurrò Zigabenos, e i Garsavrani fecero eco alle sue parole. «Fratello Mertikes» disse quindi Lavros, dopo aver pregato in silenzio per qualche istante, «vorresti guidare quest'assemblea nell'enunciazione del credo di Phos?» «Posso?» chiese Zigabenos... no, Mertikes si corresse fra sé Scaurus, perché i monaci videssiani rinunciavano al cognome. Nella voce dell'exufficiale si avvertiva una sincera gratitudine, e del resto Marcus non aveva ancora incontrato un Videssiano che prendesse alla leggera la propria fede. Mertikes costituiva uno strano spettacolo, in piedi vicino all'altare nella severa tunica azzurra, con un rivoletto di sangue che gli colava lungo un lato della testa appena rasata, là dove la lama del rasoio aveva tagliato troppo in profondità, ma perfino Scaurus, che pure non era credente, si sentì commosso quando il nuovo monaco guidò i fedeli nella recitazione dello splendido linguaggio arcaico del loro credo. «Noi ti benediciamo, Phos, Signore dalla mente grande e buona, per tua grazia nostro protettore, attento fin dall'inizio che la più grande prova della vita possa essere decisa in nostro favore.» «Amen» conclusero i Garsavrani, e Marcus si trovò a ripetere quella parola insieme a loro. «Il servizio è ultimato» annunciò poi Lavros, e la folla cominciò a disperdersi, mentre Mertikes si accostava per stringere con forza la mano a Scaurus, prima che Lavros aggiungesse, in tono gentile: «Vieni con me, fratello: ti accompagnerò al monastero e ti presenterò ai tuoi compagni servitori di Phos.» A testa alta, senza guardarsi indietro, il nuovo monaco lo seguì. Quella crisi, risoltasi per il meglio, era tuttavia periferica rispetto al problema principale costituito dai capi namdaleni prigionieri. Una settimana dopo che Zigabenos era diventato Fratello Mertikes, una folla cercò di prendere d'assalto il palazzo del governatore provinciale e di liberare Drax e i suoi compagni. I legionari dovettero ricorrere alle armi per respingere i facinorosi, che lasciarono sul terreno una ventina di morti e un numero
molto maggiore di feriti. I legionari persero a loro volta due uomini, e dopo quell'incidente poterono circolare per le strade di Garsavra soltanto in gruppi. Tre notti più tardi, i cittadini tentarono ancora, ma questa volta Marcus era pronto ad accoglierli: alcuni arcieri khatrish appostati sul tetto del palazzo stroncarono la carica della folla prima che avesse davvero inizio, e nessun uomo del tribuno rimase ferito. Scaurus comprese però che le sue truppe non avrebbero potuto far fronte per sempre a quegli atti di sedizione e al tempo stesso sorvegliare le mosse di Yavlak, quindi s'incontrò con i Namdaleni nella loro cella, dove Soteric lo accolse con un sardonico inchino. «Tu ci onori, cognato. Ho visto mia sorella alcune volte, ma finora tu non ti eri mai degnato di farci visita.» «Stai ancora sudando, vero?» ringhiò Bailli. «Spero che ti facciano sudare tanto da prosciugarti.» Il luogotenente di Drax era ancora lungi dal dimenticare gli attacchi dei contadini trasformati in guerriglieri. Il grande conte rimase invece seduto in silenzio, e così anche Turgot, e Marcus intuì che mentre a Turgot non interessava quello che lui poteva essere venuto a dire, il silenzio di Drax era più probabilmente un espediente. «Sì, sto ancora sudando» rispose, annuendo a Bailli. «Non mi va l'idea di passare un altro paio di notti come quella appena trascorsa, e non ho neppure intenzione di farlo. Quindi, signori» proseguì, lasciando scorrere lo sguardo da un isolano all'altro, «bisognerà prendere provvedimenti al vostro riguardo. La cosa più semplice sarebbe quella di tagliarvi la testa e di esporla sulla piazza del mercato.» «Figlio di buona donna» commentò Soteric. «Se questo fosse il tuo piano, non saresti venuto a dircelo» obiettò però Drax, ora attento, protendendosi in avanti. «Lo farò, se ci sarò costretto» ribatté Marcus, ammirando comunque il grande conte per la sua prontezza mentale. «Anche se a dire il vero preferirei evitarlo... spetta a Thorisin decidere quale sorte meritiate. Non intendo però correre il rischio che la gente della città vi liberi... siete troppo pericolosi per l'impero perché possa permetterlo.» Drax s'inchinò leggermente, come in risposta ad un complimento. «Dato che escludi la libertà, cosa intendi lasciarci, allora?» domandò Soteric, sprezzante. «Soltanto la vita, se la volete. La volete?» Il tribuno attese e i Namdaleni, quando si accorsero che faceva sul serio, annuirono lentamente, Turgot per ultimo. «Molto bene, allora...»
«Stai diventando bravo a organizzare questi spettacoli» commentò Gaius Philippus, parlando con un angolo della bocca. «I locali ci penseranno due volte, prima di ringalluzzirsi.» Un quadrato di legionari in armamento completo da battaglia era fermo sull'attenti al centro della piazza del mercato di Garsavra, con i pila poggiati sul terreno e lo sguardo impassibile fisso sugli ostili Videssiani raccolti tutt'intorno, mentre una fredda brezza che soffiava da nord spingeva loro indietro il mantello dalle spalle. «Sono lieto che il tempo continui a reggere» osservò Marcus, consapevole che quando soffiava da nord, il vento portava sempre con sé pioggia e poi neve. Il tribuno era contento di essere vicino al piccolo fuoco acceso al centro del quadrato cavo formato dai Romani... o almeno lo fu finché una scintilla non lo colpì al polpaccio, dietro lo schiniero, strappandogli un'imprecazione. Le trombe squillarono e tutte le teste si girarono in direzione del manipolo che si stava avvicinando alla piazza, con le spade sguainate e l'aspetto minaccioso. Più alti dei Romani che li circondavano, Drax, Bailli, Soteric e Turgot erano facilmente individuabili al centro della colonna. Marcus lanciò un'occhiata in direzione di Ansfrit, il capitano dei Namdaleni asserragliati nella fortezza adiacente a Garsavra, a cui aveva concesso un salvacondotto perché potesse assistere al dramma imminente. Ansfrit dava l'impressione di voler tentare un salvataggio improvvisato, ma l'aspetto minaccioso dei soldati di Scaurus era sufficiente a intimidire i Garsavrani e a privarlo di supporto. Il manipolo si fuse con il quadrato cavo, e i legionari, due per ciascun Namdaleno, trascinarono i prigionieri al cospetto del tribuno. Davanti a loro veniva Zeprin il Rosso, che costituiva una splendida figura nella corazza delle Guardie Imperiali... la cui doratura era stata rinnovata apposta per l'occasione. L'Haloga salutò Scaurus secondo lo stile romano, protendendo il pugno destro in alto e in fuori. «Mirate i traditori!» gridò, e la sua tonante voce da basso si diffuse per tutto il mercato. A piedi nudi, tremanti sotto la sferza del vento nelle sottili tuniche di lino grigio, con i pugni serrati per la tensione, gli uomini del Ducato attesero la sentenza, mentre il silenzio si protraeva. Poi la folla dei Garsavrani si aprì come per timore di una malattia, lasciando passare una singola figura: come gli opliti spartani del mondo che Scaurus aveva conosciuto, i boia
videssiani vestivano di rosso per rendere meno evidenti le macchie che accompagnavano il loro mestiere. Soltanto gli stivali dell'uomo, neri, non avevano il colore del sangue. Fra gli spettatori c'erano anche alcuni Yezda, e il tribuno li vide fissare con ammirazione la sagoma alta, angolosa e mascherata del boia, il che lo indusse a pensare con disgusto che quello era il genere di pompa e di cerimonia che si adattava ai loro gusti. Non poteva farci nulla... doveva andare avanti con il piano che aveva escogitato. «Ascoltatemi, gente di Garsavra» esordì. Styppes era stato lieto di aiutarlo con questo discorso. «In qualità di traditori e ribelli nei confronti di Sua Maestà Imperiale Thorisin Gavras, Avtokrator dei Videssiani, questi sciagurati non meritano altro che la morte, e soltanto la mia misericordia risparmia loro la vita.» I suoi ascoltatori accennarono a rischiararsi in viso, ma lui proseguì, inesorabile: «Tuttavia, come segno dell'offesa che hanno recato all'impero e come adeguato ammonimento per chiunque altro possa essere abbastanza folle da pensare ad una rivolta, che la vista sia estinta dai loro occhi, e che essi conoscano l'oscurità di Skotos per sempre!» Secondo la concezione videssiana, quella punizione costituiva un atto di misericordia, perché evitava la pena capitale. Un gemito si levò però dalla folla, sovrastato dal grido di angoscia di Ansfrit. I Garsavrani accennarono a muovere in avanti, ma i pila romani scattarono in fuori come altrettanti aculei di porcospino, tenendoli a bada. All'interno del quadrato, i quattro Namdaleni sussultarono come se fossero stati sferzati. «Accecato?» ruggì Drax. «Preferisco morire!» Gli isolani lottarono contro la presa dei legionari che li trattenevano e, con la forza che deriva dal panico, riuscirono a liberarsi per un istante. Per quanto si dibattessero, però, alla fine i legionari riuscirono a bloccarli a terra, allontanando le mani con cui i quattro cercavano invano di ripararsi gli occhi. Mormorando un inno a Phos, il carnefice appoggiò sul fuoco un sottile ferro appuntito, sollevandolo di tanto in tanto con le mani protette da spessi guanti carmini, per valutarne il colore. Alla fine l'uomo emise un grugnito soddisfatto e si girò verso Scaurus. «Quale per primo?» «Quello che preferisci.» «Tu, allora.» Per puro caso, Bailli era il più vicino al carnefice, che ag-
giunse, non senza gentilezza: «Cerca di stare più fermo che puoi, perché questo ti renderà la cosa più facile.» «Più facile» ribatté Bailli, sardonico, a denti stretti e con il volto madido di sudore. Poi il ferro rovente scese una, due volte, e il Namdaleno dal naso camuso urlò, mentre l'odore di carne bruciata pervadeva l'aria. Soffermandosi fra una vittima e l'altra per riscaldare ancora il ferro, il carnefice passò quindi a Turgot, a Drax e infine a Soteric, le cui grida furono tutte maledizioni dirette contro Marcus, che però rimase impassibile. «Avete attirato da soli questa sorte su voi stessi» rispose soltanto. Adesso l'odore di carne bruciata era molto intenso, come se qualcuno avesse dimenticato un cosciotto di maiale ad arrostire sul fuoco. Infine i legionari aiutarono i prigionieri gementi a mettersi a sedere e coprirono loro il volto con uno spesso velo nero per nascondere i segni lasciati dal ferro rovente. «Mostrateli al popolo» ordinò Scaurus, «perché veda cosa si ottiene a sfidare il legittimo sovrano.» I soldati che avevano formato il quadrato intorno ai Namdaleni aprirono dei varchi perché la folla li potesse vedere. «Adesso portateli via» aggiunse Marcus, e nessuno sollevò un dito per impedire che gli isolani venissero guidati di nuovo, incespicando gli uni contro gli altri nel seguire i Romani, alla loro cella nel palazzo del governatore. «Ansfrit» chiamò quindi Marcus, e il capitano namdaleno gli si avvicinò, con il volto pallido pervaso dall'ira e dal timore. Scaurus però non gli diede il tempo di ricomporsi. «Apri la tua fortezza entro oggi, altrimenti quando la prenderemo... e tu sai che possiamo... tutti i tuoi uomini subiranno lo stesso fato di questi voltagabbana. Arrenditi adesso, ed io ti garantisco la loro salvezza.» «Ti credevo al di sopra di questi lavori da macellaio videssiano, ma a quanto pare il cane imita il suo padrone.» «Sia come sia» ribatté il tribuno, implacabile, scrollando le spalle. «Ti arrendi, oppure devo avvertire quest'uomo di tenere in caldo il suo ferro?» E accennò con un pollice al carnefice vestito di rosso. Sotto la lucida maschera di cuoio, la bocca del boia si atteggiò ad un sorriso rivolto ad Ansfrit. Il Namdaleno sussultò, si controllò e rivolse a Scaurus uno sguardo colmo di rabbia impotente. «Sì, dannazione a te, sì» rispose con voce soffocata, e girò sui tacchi,
tornando quasi di corsa verso la fortificazione. Ora che il Namdaleno aveva le spalle voltate, Gaius Philippus si concesse di annuire con l'aria di chi la sa lunga, e Marcus stesso sorrise, pensando che un altro paio di problemi erano risolti. Sulla lama della sua spada, i simboli druidici emisero uno scintillio dorato, avvertendo una magia, ma siccome l'arma era nel fodero, lui non se ne accorse. Nel lontano nord, Avshar depose da un lato l'immagine di Skotos in armatura nera di cui si serviva per concentrare i suoi poteri. Essendo un veggente più grande di qualsiasi enaree, proiettò la propria vista in modo da superare le steppe e il mare, come un uomo potrebbe scagliare un amo da pesca in un ruscello. Il potere della spada di Scaurus era la sua guida, perché se proteggeva l'odiato Romano dai suoi incantesimi, al tempo stesso indicava dove questi si trovasse e permetteva ad Avshar di spiarlo: anche se non poteva vedere il tribuno, tutto ciò che lo circondava era abbastanza nitido. Il principe-mago si appoggiò all'indietro sul cuscino di feltro imbottito di crine di cavallo, perché anche per lui spingere la vista ad una tale distanza non era impresa da poco. «Uno scherzo delizioso, nemico mio» sussurrò, anche se non c'era là nessuno che lo potesse sentire. «Oh, sì, uno scherzo delizioso. Tuttavia forse io ne troverò uno migliore.» A volte, le notizie viaggiano più in fretta degli uomini. Quando Scaurus arrivò al campo dei legionari, Helvis gli venne incontro urlando. «Animale! Sei peggio di un animale... immondo, sciagurato, atroce bruto!» Il suo volto era di un pallore mortale, tranne che per una chiazza di colore in alto su ciascuna guancia. I legionari e le loro donne finsero di non sentire... un privilegio del grado, pensò Marcus, consapevole che se si fosse trattato di un soldato semplice che litigava con la sua amante, tutti si sarebbero raccolti intorno per ascoltare. Afferrata Helvis per un braccio, cercò di guidarla di nuovo verso la loro tenda. «Non prendertela con me» avvertì. «Li ho lasciati in vita, ed è più di quanto meritassero.»
«In vita?» esclamò lei, ritraendosi di scatto. «E che razza di vita è sedere in un angolo del mercato con una tazza scheggiata in grembo, mendicando qualche moneta di rame? Mio fratello...» A quel punto scoppiò in lacrime, e il tribuno riuscì finalmente a pilotarla dentro la tenda e lontano dagli occhi indiscreti del campo. Malric, a quanto pareva, era fuori a giocare, ma Dosti stava sonnecchiando nella sua culla e quando la madre entrò singhiozzando si svegliò di soprassalto e si mise a piangere a sua volta. «Non c'è bisogno che tu faccia così, cara» disse Marcus, cercando di offrire conforto. «Ecco, ti ho portato un regalo.» Helvis lo fissò, con un'espressione selvaggia negli occhi. «E così adesso sono una prostituta, che debba essere comprata con qualche monile?» Marcus si sentì arrossire e imprecò contro se stesso per la goffaggine delle proprie parole. L'oratoria videssiana era ampollosa, ma almeno poteva essere imparata a memoria, mentre questo... «Guarda tu stessa» ribatté in tono brusco, gettandole una piccola sacca di cuoio. Helvis la prese con un gesto automatico, aprendone i lacci. «E questo sarebbe un regalo?» balbettò, tanto confusa da dimenticare per un momento la propria furia. «Pezzi di grasso bruciacchiato?» «Speravo che lo considerassi tale» spiegò Scaurus, «dal momento che i tuoi preziosi isolani... sì, anche quel tuo fratello dalle parole mielate... se li sono messi sugli occhi mentre i miei legionari lottavano per terra con loro.» Le labbra di Helvis si mossero senza emettere suono, un fenomeno di cui il tribuno aveva sentito parlare ma che non aveva mai visto di persona. «Non sono ciechi?» sussurrò infine la donna. «Neppure un poco» rispose Marcus, con aria compiaciuta, «anche se Turgot ha sussultato, quel povero idiota innamorato, e ci ha rimesso un sopracciglio. Uno scherzo delizioso, non credi?» proseguì, ignaro di ripetere le stesse parole del suo più mortale nemico. «Tutti i tumulti e i complotti che fervevano in città si sono sgonfiati come una vescica scoppiata, ed Ansfrit si è talmente spaventato che si è arreso pur di non fare la fine di Drax.» Helvis, però, non lo stava più ascoltando. «Non sono ci...» cominciò ad urlare, e gli morse il palmo della mano quando lui glielo premette sulla bocca.
«Tu non lo sai» ingiunse il tribuno, tornando ad essere serio, «non me lo hai mai sentito dire. A parte i legionari che li hanno tenuti fermi e i pochi abbastanza vicini da vedere quello che è successo, l'unico a conoscere la verità è quel macellaio vestito di rosso, e lui è stato ben pagato perché tenga la bocca chiusa. Mi hai capito?» chiese, ritraendo la mano con cautela. «Sì» rispose Helvis, con voce tanto sommessa che entrambi scoppiarono a ridere. «Fingerei qualsiasi cosa, qualsiasi cosa, per garantire la salvezza di Soteric. Oh, zitto, tu» aggiunse, rivolta a Dosti, tirandolo fuori dalla culla. «È tutto a posto.» «A posto?» chiese Dosti, in tono dubbioso, facendo seguire un singhiozzo alle parole, e Marcus si grattò la testa: ogni volta che lo guardava, Dosti sembrava avere da mostrargli qualche cosa nuova appena imparata. «A posto» ripeté Helvis. CAPITOLO DECIMO La torre da assedio si spostò rumorosamente sulla scacchiera. «Attenta al tuo imperatore, adesso!» esclamò Viridovix, prelevando un fante catturato... che sarebbe potuto tornare ancora utile rientrando nel gioco dalla sua parte. Seirem contorse la bocca in una smorfia seccata, e bloccò la minaccia ricorrendo ad un pezzo in argento. Subito Viridovix trasse indietro la torre, per allontanarla dal pericolo, e la ragazza fece avanzare il suo secondo pezzo in argento fino alla settima fila della scacchiera da nove per nove, girandolo poi con un sorriso per rivelare l'altra figura ingioiellata presente sulla faccia sottostante. «Promossa all'oro» dichiarò. «Non me lo ricordare» replicò in tono dolente il Gallo. Trasformato ora in un più possente pezzo in oro, il gettone attaccò il suo prelato e un cavaliere nello stesso tempo, e Viridovix salvò il prelato, che aveva per lui maggior valore, lasciando a Seirem il cavaliere. Mentre lei lo prendeva, Viridovix pensò che era tipico dei Videssiani far combattere per loro il denaro in quel gioco... e stabilire che diventasse sempre più prezioso a mano a mano che si addentrava nel territorio nemico. Si chiese poi da quanto tempo la scacchiera e le pedine stessero girovagando con i nomadi, ma quella era destinata a rimanere una curiosità insoddisfatta. Indubbiamente, qualche uomo delle pianure aveva portato con sé il tutto da Prista, incantato dalla ricca grana della scacchiera di legno di
quercia, dagli inserti di madreperla che separavano un quadrato dall'altro, dai pezzi in avorio con i tratti che li distinguevano realizzati con smeraldi, turchesi e granati. Il Gallo aveva imparato quel gioco a Videssos, su una scacchiera di cuoio rigido e con pezzi di legno di pino rozzamente intagliato, e lo ammirava terribilmente, soprattutto perché era un gioco in cui la fortuna non rientrava per nulla. Nell'impero, era stato soltanto un giocatore di livello medio, mentre qui era lui ad insegnare il gioco, ed era ancora in posizione di superiorità rispetto ai suoi allievi. Seirem, però, stava facendo rapidi progressi. «Decisamente troppo rapidi» borbottò in celtico, perché la ragazza aveva utilizzato contro di lui il cavaliere catturato, con effetti disastrosi. Fu infatti necessaria una lotta intensa prima che Viridovix riuscisse a intrappolare l'imperatore di Seirem con la sua torre da assedio, il prelato e un pezzo in oro. «Sì, capisco» commentò la ragazza, accigliandosi in un'espressione che era più pensosa che irritata. «Ho commesso un errore nell'indebolire la protezione intorno a lui per attaccarti. Mi hai tenuta a bada e mi sono ritrovata allo scoperto senza aiuti che mi salvassero.» La ragazza ridispose i pezzi sulla scacchiera. «Vogliamo riprovare? Muovi tu per primo, la mia difesa ha bisogno di essere rinforzata.» «Och, ragazza mia, considerato che hai imparato a giocare da poco, ti sei difesa valorosamente.» Viridovix fece avanzare un fante per coprire la fila di un pezzo in argento, in modo da aprire la diagonale per il suo prelato. Accigliandosi nuovamente, Seirem rifletté sulla contromossa a cui ricorrere. Osservandola mentre si concentrava, il Gallo pensò a quanto fosse diversa da Komitta Rhangavve: un giorno in cui era riuscito a trascorrere un'intera giornata con lei, la scacchiera aveva costituito un piacevole diversivo nei momenti di pausa... o almeno avrebbe dovuto esserlo, soltanto che il Celta non aveva mai imparato l'arte di perdere volutamente con grazia. In una partita, Komitta gli aveva inflitto una netta sconfitta, ma nella successiva Viridovix era riuscito a batterla, ed allora lei lo aveva subissato di imprecazioni, urlando, ed aveva scagliato scacchiera, pezzi e tutto il resto contro un muro. Viridovix non era più riuscito a trovare uno dei lancieri. Per contro, Seirem era invece pronta a pagare il prezzo dei principianti pur di apprendere il gioco, ed i suoi occhi scuri erano pensosi mentre lei osservava la sua mossa successiva; la ragazza aveva inoltre una voce bassa e dolce, ed era ugualmente abile nel suonare il flauto e nell'usare l'arco
leggero di cui si servivano le donne. Komitta, tuttavia, con l'importanza che dava al rango sociale, l'avrebbe definita una barbara. «Honh» sbuffò il Celta, tornando ad esprimersi nella sua lingua. «La più stupida è lei, quella violenta sgualdrina.» «Vuoi metterci tutta la notte?» domandò, in tono pungente, Seirem. «Chiedo scusa, ragazza, ma la mia mente era altrove.» Viridovix spostò un fante e subito se ne pentì. «Questa è certo stata una mossa idiota» commentò, tormentandosi i baffi. Borane, che si trovava accanto al fuoco, intenta a scambiare pettegolezzi con un paio di altre donne, lanciò un'occhiata ai due giocatori, riconoscendo il tono che Viridovix usava con sua figlia forse meglio di lui, perché dopo tante passioni superficiali, il Gallo non era ancora pronto ad ammettere con se stesso di poter provare qualcosa di più per Seirem. La sua voce però lo tradiva, almeno con chi aveva orecchi per sentire. Targitaus entrò con violenza nella tenda, scuro in volto. Anche lui era abbastanza intelligente da essersi accorto che Seirem era diventata la compagna di gioco preferita dello straniero. Quando però il khagan ringhiò ai due di mettere via tutto e fece seguire quelle parole con un'imprecazione tale da strappare una risatina alle amiche di Borane, Viridovix non si lasciò impressionare, perché aveva già visto quel genere di furia in altre occasioni. «Chi ti ha detto di no, questa volta?» chiese. «Krobyz, che gli spiriti del vento lo ricoprano di nevischio! Possano le sue pecore essere sterili e le mammelle delle sue vacche prosciugarsi. Com'è che avevi chiamato il suo clan, V'rid'rish? I Criceti? Avevi ragione, perché lui ha l'anima di un escremento di criceto.» Il khagan sputò nel fuoco con un gesto di assoluto disgusto. «Quale scusa ha usato?» domandò Seirem, cercando di dissipare l'ira paterna. «Eh? Neppure una minuscola, quello svergognato figlio di un serpente e di una capra.» Targitaus era ancora lontano dal calmarsi. «Ha risposto soltanto di no, e stando a quanto ha riferito, Rambehisht si considera fortunato di non essere tornato indietro con un buco in corpo come ricompensa per le sue fatiche.» Viridovix fece una smorfia mentre aiutava Seirem a mettere via i pezzi, senza quasi accorgersi che le loro mani si sfioravano spesso. «Questo non va bene, per niente. Ognuno di quei furfanti dovrebbe vedere la necessità di abbattere quei maledetti banditi, e quanti non la vedono
sono troppi perché io possa considerarli degli stolti. La peste si prenda Varatesh, comunque, perché quel furfante è decisamente troppo furbo: è probabile che abbia già preso all'amo alcuni di quelli che hanno risposto di no.» «Hai ragione, credo» convenne Targitaus, in tono pesante. «Il messaggero che ho mandato da Anakhar ha riferito che l'intero clan si è messo a tremare negli stivali al pensiero di muovere contro i fuorilegge, e dubito che da lui riceveremo maggiore aiuto di quanto ce ne darà Krobyz. Abbiamo avuto più fortuna con i clan ad est dell'Oglos, dove la paura suscitata da quel figlio di buona donna non arriva. Oitoshyr, delle Volpi Bianche, si è subito affrettato a promettere il suo aiuto.» «Promettere è facile» osservò il Gallo. «Per me conta di più quello che farà. È abbastanza lontano per potersi scusare e dire che è un vero peccato, ma che la sua gente non ha saputo dello scontro se non quando ormai era troppo tardi, senza che nessuno possa dargli del bugiardo.» Targitaus scagliò il proprio cappello di pelo dalla parte opposta della tenda e grugnì con cupa soddisfazione quando esso atterrò sul sacco di cuoio più vicino al letto. «Ho afferrato il punto. Devo ringraziarti per avermelo chiarito?» Lipoxais l'enaree, che era intento a triturare silenziosamente alcune erbe in un mortaio, scelse quel momento per intervenire. «Pensa alla coda dell'animale, oltre che alla sua testa» avvertì, là dove, rifletté Viridovix, un Videssiano avrebbe suggerito di guardare anche l'altra faccia della moneta. Poi aggiunse: «Proprio perché è molto lontano, Oitoshyr corre meno rischi dei tuoi vicini di essere dominato da te, se dovessi vincere. Questo dovrebbe rendete più probabile una sua alleanza con noi.» «Lo dici in qualità di veggente?» chiese con ansia Targitaus. «No, soltanto come qualcuno che ha visto molte cose» rispose Lipoxais, sorridendo della sottile distinzione con lo stesso piacere che un imperiale avrebbe potuto dimostrare per un simile gioco di parole. «Non c'è male, comunque» commentò Viridovix, che nell'arco delle settimane trascorse da quando era entrato nel clan di Targitaus aveva imparato a nutrire un notevole rispetto per l'enaree. Ancora non era certo che Lipoxais fosse un uomo completo... al contrario della maggior parte dei Khamorth, esibiva pudore e riservatezza notevoli, anche nelle condizioni di sovraffollamento imposte dalla vita nomade del suo popolo. Completo o meno, comunque non era certo l'ingegno ciò che gli mancava. Pessimista per natura, Targitaus non ebbe difficoltà a trovare nuove fonti
di preoccupazione. «Quanti che possano essere gli alleati che troveremo, V'rid'rish, a che ci serviranno se il tuo Avshar è forte come dici? Lui non aiuterà forse i rinnegati di Varatesh a travolgerci, qualsiasi cosa noi facciamo?» Il Celta, che nutriva a sua volta quel timore costante, si morse il labbro inferiore. «La magia in battaglia è una cosa insidiosa, davvero» rispose tuttavia. «Perfino con lui, potrebbe rivoltarglisi contro e morderlo.» Lipoxais annuì vigorosamente, facendo sussultare il mento, consapevole che nella tensione del combattimento la magia si logorava fin troppo spesso. «Certo che era un piano audace, sebbene siano stati i Romani a idearlo!» esclamò poi Viridovix, assalito da una nuova idea, ma subito dopo aggiunse: «No, hanno detto che la prima volta era stato usato contro di loro.» E a quel punto arrossì, rendendosi conto che naturalmente i suoi ascoltatori non potevano immaginare di cosa lui stesse parlando, come dimostrava la posa di Targitaus, in piedi a braccia incrociate, con le dita che tamburellavano con impazienza su un gomito. Il Gallo procedette quindi a spiegare come i legionari avessero spaventato una banda di Yezda fino a farli fuggire da una valle, di notte, legando piccole fascine alle corna di una mandria di bestiame e accendendole, per poi spingere le bestie impazzite contro i nomadi. Nel racconto, badò anche ad accentuare il proprio ruolo, perché lui aveva cavalcato alla testa della mandria ed abbattuto uno Yezda che non aveva ceduto al panico. «Devono aver pensato che a inseguirli fosse un branco di demoni... e probabilmente anche i bravacci di Varatesh penseranno la stessa cosa.» Tutti i Khamorth, tuttavia, perfino Seirem e le due compagne di pettegolezzi di Borane, lo stavano fissando con aria inorridita; quando poi Targitaus accennò ad estrarre la spada, Viridovix comprese infine di aver commesso un madornale errore, ma non ne capì ancora la natura. «Non è del nostro sangue, e non conosce le nostre usanze» Lipoxais ricordò però al khagan. Un muscolo dopo l'altro, Targitaus si rilassò. «È così» disse infine, rivolgendosi quindi a Viridovix. «Tu ti sei inserito bene fra noi, a volte dimentico cosa sei veramente.» Viridovix si inchinò in risposta all'implicito complimento, ma Targitaus aggiunse, parlandogli come se fosse stato un bambino: «Sulle pianure, noi non osiamo lasciare che il fuoco si espanda liberamente.» Con un cenno, il nomade abbracciò il
vasto e uniforme mare d'erba intorno a loro. «Una volta avviato, come lo si fermerebbe?» Originario com'era dell'umida e boscosa Gallia, Viridovix non aveva pensato a quel particolare. «Chiedo perdono, mi dispiace» mormorò, abbassando il capo, ma subito la sua mente agile scorse un modo in cui quel trucco poteva comunque essere usato, sia pure con delle variazioni. «Dimmi allora che te ne pare di questo» propose, e procedette ad esporre la sua nuova idea. Quando ebbe finito, Targitaus si passò una mano nella barba, riflettendo. «Ho sentito di peggio» commentò infine... la massima lode di cui era capace. Seirem annuì decisa, con soddisfazione, come se non si fosse aspettata di meno. Arghun, che sedeva con i figli al fianco e con i consiglieri raggruppati tutt'intorno, venne subito alla domanda di base, che rivolse ad entrambe le ambasciate. «Perché il mio popolo dovrebbe allearsi con uno di voi, anziché con l'altro?» Forse Goudeles si era aspettato che la conversazione si protraesse su un terreno neutro ancora per qualche tempo, prima che si passasse agli affari, comunque non trovò subito una risposta, e quando lui esitò Bogoraz di Yezd ne approfittò per parlare per primo. Con la fronte aggrottata in un'espressione seccata, Goudeles... e con lui anche Gorgidas... ascoltò la traduzione sussurrata da Skylitzes. «Perché Videssos è una mucca troppo vecchia e stanca per reggersi ancora sulle gambe. Quando una bestia delle vostre mandrie... possano esse aumentare... non riesce più a mantenere il passo con le altre, voi la legate forse ad una compagna per aiutarla a tirare avanti fino alla fine dei pochi giorni che le restano? No, l'uccidete immediatamente, finché ha ancora carne sulle ossa. Noi vi invitiamo ad aiutarci in questo compito e a dividere con noi la carne.» Sia pure contro la propria volontà, Gorgidas si trovò a rispettare il talento di Bogoraz, che stava esponendo la propria argomentazione servendosi di termini familiari agli Arshaum, che la rendevano così doppiamente persuasiva. Goudeles, tuttavia, per quanto privato dell'iniziativa, fu pronto a controbattere.
«Avendo visto il suo impero di Makuran crollare al primo attacco, Bogoraz può forse essere perdonato se ora si illude che un pari decadimento incomba su di noi, dal momento che serve bene i suoi nuovi padroni.» Arigh tradusse le sue parole a beneficio degli anziani. «La tua battuta ha perso efficacia nella traduzione» avvertì sottovoce Skylitzes, quando il nomade ebbe finito. «Non importa, era diretta a Bogoraz» rispose il burocrate. Ed era evidente che la freccia aveva colpito nel segno, a giudicare dall'espressione furente dell'inviato di Yezd. Gorgidas pensò che Goudeles era abile anche lui, quando si trattava di trovare debolezze negli altri: servire padroni che erano emersi dalle steppe soltanto una generazione prima doveva essere umiliante per Bogoraz, che era un uomo di cultura pari al Videssiano. «Wulghash ha tutta la mia fedeltà» replicò l'ambasciatore, in tono piuttosto elevato, come per convincere se stesso. E dovette riuscirvi, perché subito tornò all'attacco. «Adesso Yezd è una terra giovane e forte, piena del vigore portato dal sangue nuovo, ed è giunto il suo momento, mentre Videssos comincia ormai a sprofondare nell'ombra.» Orgoglioso della forza della prima giovinezza, Dizabul gettò indietro il capo con fierezza: come indubbiamente era stata intenzione di Bogoraz, il giovane principe stava identificando la propria situazione con quella di Yezd. Gorgidas si chiese però se l'inviato yezda non avesse peccato di eccessiva furbizia, considerato che fra i consiglieri di Arghun i giovani erano ben pochi. Un uomo che sembrava essere fra i più anziani, con il cranio coperto da poche lanuginose ciocche di capelli bianchi, si alzò lentamente e avanzò a passi barcollanti verso Bogoraz. Il diplomatico si accigliò, poi emise uno strillo indignato quando l'Arshaum gli strappò un pelo dalla barba e, tenendolo a distanza con il braccio teso, lo scrutò con occhi cisposi. «Sangue nuovo?» chiese, con voce tanto lenta e chiara che perfino Gorgidas e Goudeles capirono le sue parole. «Questo pelo è bianco quanto la mia barba.» E lo gettò sul tappeto. «Siediti, Onogon» ammonì Arghun, ma il suo tono esprimeva in pari misura divertimento e rimprovero. Onogon obbedì, con gli stessi gesti decisi e pacati con cui si era alzato, mentre parecchi anziani ridacchiavano fra loro e Bogoraz riusciva a stento a contenere la propria ira: per lui, gli insulti sarebbero stati più facili da tollerare del ridicolo. Gorgidas, dal canto suo, aveva sussultato nel sentir parlare il vecchio,
perché anche se la maschera demoniaca aveva distorto la voce del capo sciamano, nell'udirla di nuovo lui non aveva avuto difficoltà a riconoscerla... quello era un potente alleato, se davvero di un alleato si trattava. Il Greco si protese in avanti per battere un colpetto sulla spalla di Goudeles, ma in quel momento lo scribacchino riprese a parlare. «La nostra presenza qui smentisce la stupida sfrontatezza dello Yezda» dichiarò. «Videssos resiste, come ha sempre fatto.» «Khagan» replicò Bogoraz snudando i denti in un sorriso degno di uno squalo, «nel senile impero non c'è mentitore peggiore di quest'uomo, come lui stesso sta confermando. Vi dimostrerò in che condizione si trova Videssos. Questo Goudeles, quando ti ha offerto il suo tributo, ti ha pagato in monete vecchie, vero?» «Oh, oh» gemette Skylitzes, sottovoce, quando Arghun annuì. «Guarda, allora, le monete che l'impero conia adesso, e dimmi se resiste come ha sempre fatto.» Bogoraz infilò una mano nella propria sacca, ne estrasse una moneta e la gettò ai piedi del khagan. Anche a parecchi passi di distanza, Gorgidas non ebbe difficoltà a vedere di cosa si trattava... era una delle "monete d'oro" coniate da Ortaias Sphrantzes, piccola, sottile, di forma irregolare, e adulterata con il rame al punto di essere quasi più rossa che gialla. «Non mi abbasserei mai fino ad offrirti un dono di così scarso valore» aggiunse Bogoraz, recuperando la moneta. E quel gesto drammatico recò un danno quasi pari a quello provocato dalla moneta stessa. Sulla tenda del banchetto, che ora serviva da luogo del consiglio, scese un profondo silenzio, e tutti gli Arshaum fissarono Goudeles per vedere come avrebbe risposto. Il diplomatico indugiò a lungo, riflettendo. «Quella moneta è stata coniata da un usurpatore, un ribelle che è già stato abbattuto, e non costituisce un giusto criterio di giudizio.» Era tutto vero, anche se il burocrate tralasciò di dire agli Arshaum di aver servito Ortaias finché Thorisin Gavras aveva occupato Videssos. Proprio come se fosse stato fedele a Gavras per tutta la vita, Goudeles proseguì il discorso, accalorandosi a mano a mano che lo sviluppava. «Adesso abbiamo un imperatore che ha una forte volontà e che deve essere temuto, perché è perfettamente capace di fare tutto ciò che è necessario nell'amministrazione dello stato, tanto in guerra che nella raccolta dei tributi.» «Sofismi» ribatté Bogoraz, in videssiano, Poi, siccome la lingua degli Arshaum mancava di quel concetto, ricorse a termini più espliciti. «Men-
zogne! Ed è meglio che il vostro prezioso imperatore sia abile nell'arte della guerra, perché non è soltanto contro Yezd che sta combattendo: i soldati di Namdalen che erano al suo soldo gli si sono rivoltati contro ed ora lui è all'est, impegnato a combattere contro il Ducato stesso. Le sue forze sono divise, sparse su molti fronti, e dal momento che noi invece non stiamo lottando che contro Videssos, è evidente che presto la vittoria sarà nostra.» Gorgidas, Skylitzes e Goudeles si scambiarono occhiate costernate perché, essendo isolati da mesi su quelle pianure, ignoravano quanto era intanto accaduto nell'impero, mentre era fin troppo evidente che Bogoraz possedeva notizie più fresche delle loro, in quanto il suo stesso atteggiamento, il piacere che stava traendo dalla rivelazione appena fatta, deponevano a favore della sua sincerità. A quel punto, il Greco non poté fare a meno di ammirare Goudeles. Per quanto sconvolto dall'annuncio di Bogoraz, infatti, il burocrate scoppiò a ridere e s'inchinò in direzione dell'inviato di Yezd, come se questi gli avesse appena portato buone nuove. «Che assurdità è questa?» chiese Bogoraz, in tono sospettoso. «Non si tratta di assurdità, signore» corresse Goudeles, con un altro inchino. «In effetti, ti auguro ogni bene, perché pur essendo un uomo di Yezd, hai appena reso testimonianza al coraggio di Videssos, senza nascondere la verità per paura.» «Sei impazzito.» «No, davvero. Infatti, se il potere di Videssos non fosse distratto, come tu affermi, e se l'impero non stesse suddividendo il proprio esercito contro diversi nemici, credi forse che gli Yezda potrebbero tenergli testa in battaglia? Se stessimo affrontando soltanto Yezd, perfino il nome di quella nazione sarebbe ormai stato distrutto insieme al suo esercito.» Fu un tentativo coraggioso, ma Bogoraz smantellò l'argomentazione di Goudeles appellandosi agli eventi reali. «A Maragha ce la siamo cavata molto meglio di come tu vorresti sostenere. Ed ora noi e i Namdaleni stiamo stritolando il potere di Videssos in una morsa.» Lo Yezda fece un gesto con le mani, come se stesse torcendo il collo ad un volatile. Dagli Arshaum si levarono parecchi mormorii, e Goudeles assunse infine l'espressione di un animale in trappola, non avendo una risposta pronta. Accanto a lui, Skylitzes era tetro in volto. In preda alla disperazione, Gorgidas si rivolse direttamente ad Arghun. «Di certo, Yezd costituisce per voi un amico più pericoloso di Videssos.
L'impero è lontano, mentre Yezd ha una frontiera in comune con il tuo popolo.» Se si era aspettato di ottenere lo stesso successo già avuto con il suo racconto su Sesostris, però, il Greco non lo ottenne: quando le sue parole gli furono tradotte, infatti, il khagan rise di lui. «Noi Arshaum non temiamo gli Yezda. Perché dovremmo? Li abbiamo scacciati dalle steppe, verso Yezd, e non oserebbero tornare.» Quella risposta contrariò in pari misura il Greco e Bogoraz, il quale poteva anche nutrire sentimenti contrastanti nei confronti dei suoi signori, ma certo non gradiva vederli disprezzati. «Traduci tu per me, Arigh» intervenne allora Skylitzes, in tono teso, aggrappandosi alle parole di Arghun come un uomo in procinto di affogare si aggrapperebbe ad una fune. «Non devo essere frainteso.» Arigh annuì, perché aveva osservato Bogoraz assumere il controllo del dibattito con ansietà non inferiore a quella dei Videssiani: se la loro causa ne fosse uscita sconfitta, infatti, anche lui ne avrebbe sofferto per averla sostenuta... mentre Dizabul avrebbe tratto vantaggio dall'aver parteggiato per la fazione vincente. «Allora riferisci a tuo padre e agli anziani del clan che Gorgidas ha ragione, e che Yezd sta minacciando già adesso il tuo popolo.» Comprendendo il videssiano in cui si era espresso l'ufficiale, Bogoraz esplose in una rabbiosa protesta. «Altre chiacchiere di questi fabbricanti di parole! Se le parole fossero soldati, certo loro governerebbero il mondo.» «Non sono soltanto parole, Yezda! Spiega al khagan, spiega ai suoi anziani perché Yezd sta trasformando in proprie pedine i fuorilegge khamorth che vivono lungo lo Shaum... se non per usarli contro gli Arshaum! Allora chi si verrebbe a trovare in una morsa?» Con perversa precisione, Skylitzes imitò il gesto compiuto poco prima da Bogoraz. L'ufficiale videssiano poteva anche essere privo dell'altisonante oratoria di Goudeles, ma con l'istinto tipico di un soldato sapeva colpire dove più faceva male. Gli anziani del clan fissarono tutti la loro attenzione su Bogoraz, con occhi improvvisamente colmi di sospetto. «È assolutamente assurdo, Vostra Maestà» dichiarò lo Yezda, rivolto ad Arghun. «Un altro cumulo di fantastiche invenzioni, non migliori di quelle elaborate da quella sacca di cuoio laggiù.» L'ampia manica dell'inviato svolazzò mentre lui puntava il dito verso Gorgidas, parlando con lo stesso tono sicuro che aveva usato nel riferire ai
Videssiani la notizia della rivolta di Drax. Skylitzes, però, aveva ottenuto l'apertura che cercava, e tentò di allargare il varco già ottenuto. «Allora come mai questo Varatesh e i suoi banditi hanno colpito ad occidente dello Shaum, lo scorso inverno, quando da anni ormai i fuorilegge non osavano più tentare mosse del genere?» Il clan del Cavallo Grigio era abbastanza lontano dalle aree orientali dello Shaumkhiil perché Arghun non fosse venuto a sapere della scorreria. Il khagan rivolse una secca domanda ai suoi consiglieri, e fu Onogon a rispondergli. «Ne ha sentito parlare!» esclamò Skylitzes, con un'espressione di trionfo sul volto severo. «Dice di averlo saputo da un altro sciamano.» «Ebbene» controbatté Bogoraz, per nulla scosso, «che importanza può avere se questi rinnegati, o quello che sono, hanno rubato qualche capo di bestiame dove non dovevano? Essi non hanno nulla a che vedere con Yezd.» «No?» domandò Skylitzes, e Gorgidas pensò di non aver mai sentito tanto sarcasmo concentrato in una sola sillaba. «Allora com'è che Avshar cavalca con quei rinnegati? Se Avshar non è il secondo uomo di Yezd per importanza, dopo Wulghash, è soltanto perché forse è il primo.» Fu il turno dell'inviato di Yezd di fissare la delegazione rivale con incredulità e con sgomento. «Io non so nulla di tutto questo» protestò debolmente. «Ma è vero» intervenne Arigh, al posto di Skylitzes. «Questo è ciò di cui ti ho parlato, padre, quando sono venuto da te precedendo gli inviati.» Arigh procedette quindi a raccontare agli anziani del rapimento di Viridovix, avvenuto sulle steppe di Pardraya, e della parte che la magia di Avshar aveva avuto nella cosa, mentre Skylitzes traduceva le sue parole a beneficio di Goudeles e di Gorgidas. «Come vedi, Avshar non si è fatto scrupoli ad attaccare una delegazione diplomatica» aggiunse allora Goudeles, «violando le leggi di tutte le nazioni, che riconoscono in tali emissari persone intoccabili.» «Cos'hai da dire?» domandò Arghun a Bogoraz. Come al solito, il volto del khagan era impassibile, ma il suo tono era severo. «Che io non ne so nulla» ripeté l'ambasciatore di Yezd, questa volta con maggiore convinzione. «Questo Avshar non è più stato visto alla corte di Mashiz da oltre due anni, da quando ha assunto il comando dell'esercito ed ha accresciuto la gloria di Wulghash, vincendo a Maragha.» Un sopracci-
glio si contrasse sul volto dell'inviato... una smorfia da uomo di corte. «C'è chi sostiene che Wulghash non ha certo sentito la sua mancanza, e comunque qualsiasi cosa lui possa o non possa aver fatto dopo Maragha non deve essere attribuito a Yezd ma soltanto a lui stesso.» «Khagan!» ribatté allora Skylitzes, in tono di protesta, mentre Goudeles si batteva una mano sulla fronte in un gesto drammatico. «Se i tuoi uomini vanno a sorvegliare una mandria a cinque giorni di cammino dal tuo yurt, essi cavalcano comunque sempre ai tuoi ordini.» Parecchi consiglieri alle spalle di Arghun annuirono in cenno di assenso. «Ben detto!» esclamò la voce sottile di Onogon. Altri consiglieri, però, incapaci di prendere sul serio una minaccia proveniente dai disprezzati Khamorth, parvero continuare a pensare che le argomentazioni addotte da Bogoraz avessero maggior peso, e Dizabul persistette nel sostenere l'uomo di cui aveva abbracciato la causa. La situazione, quindi, rimase di stallo. «È tempo che noi si discuta in privato su quanto abbiamo udito» concluse il khagan, congedando con un gesto entrambe le delegazioni. Poi, inarcando un sopracciglio in un pacato gesto ironico, aggiunse: «E c'è qualcosa su cui riflettere.» Bogoraz e i Videssiani si ignorarono a vicenda nel lasciare la tenda del banchetto, mentre il conducente arrestava per un momento i cavalli per permettere loro di scendere dal carro. Una volta rientrato nello yurt loro assegnato, Goudeles si gettò su una stuoia con un grande sospiro di sollievo. «Devo cambiarmi la tunica» dichiarò. «Questa è intrisa di sudore.» Una serva, comprendendo il suo tono, se non le parole, gli offrì un otre di kavass. «Phos ti benedica, dolcezza» esclamò il diplomatico, svuotando a metà il contenitore con un lungo sorso. «Lasciane un poco» avvertì Skylitzes. Dopo aver bevuto a sua volta, assestò una pacca sulla schiena di Goudeles e, ignorando lo strillo dell'altro, dichiarò: «Pikridios, non avrei mai creduto di sentirti un giorno rinnegare gli Sphrantzes e parlare a favore di Thorisin... sì, e davi l'impressione di essere sincero, per di più.» «Ne andava del mio orgoglio professionale» ribatté il burocrate. «Se avessi permesso ad un semplice Makurano di avere la meglio su di me, come avrei potuto mostrare di nuova la mia faccia alla cancelleria? Quanto al tuo prezioso Gavras, mio cocciuto amico, se lui mi avesse dato ciò che mi spettava di diritto, ora sarei ancora comodamente annidato nella suddetta
cancelleria.» «Se ti avesse dato quello che meritavi» ritorse Skylitzes, «ora saresti più basso di tutta la testa, dopo l'ambasciata che gli hai portato nel corso della guerra civile.» «Quelli sono dettagli che è meglio dimenticare» affermò Goudeles, con un gesto negligente. «Lo shock che la mia sensibilità sta subendo qui su questa nuda steppa è già una punizione sufficiente, te lo garantisco. Lungi dall'essere il sicuro centro del mondo, Videssos mi sembra sempre più una piccola isola nel centro di un mare barbaro, isolata e circondata da letali nemici.» «Bene, che Phos sia lodato!» esclamò Skylitzes, fissandolo. «Stai finalmente imparando qualcosa.» «Se voi due potete smetterla per un momento di cantare le vostre reciproche lodi» intervenne Gorgidas, piccato, «potreste anche passare quell'otre da questa parte.» «Scusami» rispose Skylitzes, porgendoglielo. Poi, mentre il Greco lo svuotava, aggiunse: «Già che stiamo cantando lodi, forse potremmo trovare un paio di versi anche per te. Sei stato tu a darmi l'idea di mettere in guardia gli Arshaum contro i giochetti di Avshar.» «Già, già, già.» Dopo la tensione a cui era stato sottoposto nella tenda del banchetto, ora Goudeles stava risentendo in. notevole misura del kavass che aveva bevuto le sue guance rotonde erano arrossate, gli occhi un po' vitrei, e lui continuò ad annuire come se la sua testa fosse stata montata su molle. «E quella parabola su come-si-chiama, quel tuo re con il nome buffo. Quella storia ha abbassato di una tacca l'alterigia di Bogoraz, davvero lo ha fatto.» Il burocrate ridacchiò. «Lieto di essere stato d'aiuto» rispose Gorgidas, riscaldato da quelle lodi, poi gli venne in mente qualcosa che lo aveva colpito nel corso della discussione al cospetto del khagan, e si affrettò a parlarne prima che l'idea tornasse a sfuggirgli. «Avete notato il disprezzo con cui Bogoraz ha parlato di Avshar? Possibile che ci siano divisioni interne fra gli Yezda?» «Non c'è corte che ne sia priva» dichiarò Goudeles, a voce alta. «Anche ammesso che ci siano, a cosa ci possono servire?» chiese Skylitzes, e il Greco dovette ammettere di non saperlo. «Niente preoccupazione per questo, miei cari» commentò Goudeles, la cui grammatica di solito forbita si stava deteriorando in fretta. Il suo cervello, però, funzionava ancora alla perfezione. «Ora teniamo... abbiamo...
un'idea della posizione dei vari anziani del clan, e possiamo spargere in giro un po' di oro. Funziona molto bene, il più delle volte.» Ridacchiò ancora. «Una cosa meravigliosa, l'oro.» «Lo sarebbe ancora di più se non lo avesse anche Bogoraz» obiettò Gorgidas, e Goudeles fece schioccare le dita per indicare quale fosse la sua opinione in proposito. I muscoli del pony si flettevano fra le cosce di Viridovix mentre la bestia trottava sulla pianura. Il Celta teneva le redini soltanto con la sinistra, perché la destra era posata sull'elsa della spada, e cercava di guardare contemporaneamente in tutte le direzioni. Andare in guerra a cavallo, anche facendo parte di una piccola pattuglia esplorativa come quella, era una cosa nuova per lui, che era abituato a combattere a piedi, e inoltre l'ampia e piatta distesa della steppa l'opprimeva. «A che serve essere un generale, se tutta la zona ha lo stesso aspetto e non c'è un posto in essa dove preparare un'imboscata?» chiese infine, rivolto a Batbaian, che gli cavalcava accanto. «Una piccola gola, un'altura dietro cui nascondersi... si usa quello che si ha, e ci sono molte cose, quando si sa dove guardare.» Il figlio del khagan l'osservò con aria divertita. «È un bene che non sia tu a comandarci. Ti faresti uccidere e infrangeresti così il cuore di mia sorella.» «Certo che sarebbe una vergogna, non credi?» Viridovix fischiettò qualche nota di una canzone d'amore videssiana, e la sua attenzione di soldato si attenuò mentre lui pensava a Seirem: dopo tante donne, aver trovato l'amore al posto del semplice desiderio era una gioia inattesa, e come spesso capita a coloro per i quali tale fortuna giunge tardi, il Gallo provava un sentimento doppiamente intenso, quasi a voler recuperare gli anni sprecati. «Och, è una perla, un fiore, un anatroccolo...» Batbaian, che ricordava la sorella quando era ancora una neonata che strillava, emise un verso rude, che Viridovix ignorò volutamente. «Almeno, tu non hai da temere per la sua sicurezza» aggiunse poi il giovane Khamorth. «Con tanti clan che stanno mandando i loro uomini a combattere contro Varatesh, il campo non è mai stato così grande.» «Sono molti, sì, ma non abbastanza» intervenne Rambehisht, che aveva il comando della pattuglia. Parco di parole, come al solito, il nomade dal volto aspro venne subito al nocciolo del problema. L'esercito di Targitaus cresceva un giorno dopo l'altro, ma molti clan avevano preferito rimanere neutrali, ed alcuni si erano perfino schierati con Varatesh, per paura di
Targitaus o per una sorta di diversa paura nei confronti del capo fuorilegge e di Avshar. L'esploratore di punta della pattuglia tornò al galoppo verso i compagni, agitando in aria il cappello. «Cavalieri!» gridò. Subito Viridovix snudò la spada dal fodero e i suoi compagni staccarono l'arco dalla sella e incoccarono una freccia nella corda di tendine: su quella distesa di steppa, altri cavalieri potevano appartenere soltanto a Varatesh. Pochi minuti dopo la comparsa dell'esploratore di punta, la pattuglia avvistò una macchia di polvere sull'orizzonte, a nordovest, e Rambehisht socchiuse gli occhi, valutandone le dimensioni. «Quindici» decretò infine. «Al massimo venti, dipende da quanti cavalli di scorta hanno con loro.» Numericamente, quindi, erano quasi alla pari. Il comandante del gruppo opposto dovette effettuare un calcolo simile nell'osservare il contingente che gli veniva incontro, perché di colpo, prima che i suoi uomini giungessero in vista, fece descrivere loro una brusca svolta e si ritirò più in fretta che poteva. «Funziona!» esclamò Batbaian, con un urlo di gioia, e batté una pacca sulla spalla di Viridovix. «E perché no, ragazzo?» replicò il Celta, in tono grandioso, gonfiandosi di orgoglio nell'accettare le congratulazioni degli uomini delle pianure. Perfino Rambehisht giunse a tributargli l'omaggio di un gelido sorriso, e Viridovix fu genuinamente compiaciuto nel notare che l'uomo che lui aveva sconfitto aveva imparato a rispettarlo. Alle loro spalle, i sei o sette capi di bestiame che accompagnavano la pattuglia approfittarono della sosta per brucare qualche boccata di erba. Ciascuna bestia aveva una grossa fascina di erbacce legata dietro di sé, e sollevava così una nuvola di polvere pari a quella che avrebbero provocato una dozzina di uomini. «Quei dannati zoticoni penseranno che un intero esercito stia dando loro la caccia» ridacchiò Viridovix. «Sì, e lo riferiranno ai loro capitani» aggiunse Rambehisht, che era un guerriero abbastanza riflessivo da vedere quanto la confusione del nemico potesse tornare utile. «E le nostre pattuglie devono essere una decina» aggiunse Batbaian. «Quei fuorilegge saranno tanto impegnati a fuggire davanti alle ombre da non accorgersi di quando effettivamente muoveremo contro di loro.» Lo
sguardo che indirizzò a Viridovix aveva un'espressione che rasentava l'adorazione nei confronti di un eroe. Sentendosi compiaciuti di loro stessi, gli esploratori si accamparono vicino ad un piccolo ruscello e, per celebrare il modo in cui avevano ingannato il nemico, Rambehisht tagliò la gola ad uno dei capi di bestiame. «Stanotte avremo carne in abbondanza» dichiarò. «A me la carne piace quanto a chiunque altro» commentò Viridovix, grattandosi la testa con perplessità, «ma come la cucinerai? Non abbiamo legna per il fuoco, e neppure una pentola in cui far bollire la carne.» «La mucca si cucinerà da sé» ribatté l'uomo delle pianure. «Och, certo, ma come no» borbottò Viridovix, sicuro di essere vittima di uno scherzo. «Ed entro domattina il resto della carcassa metterà ali e penne e volerà via cinguettando come un uccello.» Senza rispondere, Rambehisht sventrò la bestia, ed un paio di nomadi ne estrassero le interiora, gettandole nel ruscello, che si trasformò subito in un argenteo ribollire di pesci di tutte le dimensioni, che vennero a contendersi quell'inatteso banchetto. Un paio di grosse tartarughe dal guscio marrone si lasciarono cadere in acqua da una roccia per andare a reclamare la loro parte, mentre una terza indugiò a fissare Viridovix, sbattendo deliberatamente gli occhi un paio di volte. Rambehisht procedette poi a dimostrare di aver detto la verità. Con le braccia insanguinate fino al gomito, staccò la carne dalle ossa dell'animale, che ammucchiò ordinatamente, appiccando quindi loro fuoco con estrema sorpresa del Celta: il midollo all'interno delle ossa e il grasso che ancora le ricopriva produssero una fiamma vivace, e a quel punto il Khamorth, davvero pieno di risorse, gettò una quantità di carne sufficiente a saziare l'intera pattuglia all'interno di una sacca ricavata dalla pelle grezza della vacca, vi aggiunse un po' d'acqua prelevata dal ruscello ed appese la pentola improvvisata sul fuoco con una lancia. Entro breve tempo, l'aroma della carne bollita si diffuse nell'aria, mescolandosi all'odore più aspro delle ossa che bruciavano. Di solito, la maggior parte dei nomadi infilava strisce di carne cruda sotto la sella, perché stagionasse mentre cavalcava, ma quella era stata una pratica in cui Viridovix si era rifiutato di seguirli. «Sulla mia preferisco il sale, o la senape, grazie tante. Il sudore di cavallo non ha lo stesso sapore» aveva dichiarato. Adesso, però, così come l'aveva cucinata Rambehisht, la carne era deliziosa.
«Davvero ho dovuto togliermi il cappello davanti a te» dichiarò Viridovix... in effetti, con il sopraggiungere della notte aveva deposto sull'erba il cappello di cuoio rinforzato in bronzo che indossava... ed emise un sonoro rutto; come qualsiasi nomade avrebbe fatto al suo posto, Rambehisht rispose con un cenno del capo, interpretandolo come un complimento. Battendosi qualche colpetto sulla pancia, il Gallo si alzò e si avviò con calma verso il ruscello, badando di tenersi a monte del punto in cui erano state gettate le interiora della mucca... una precauzione che aveva appreso dai Romani. L'acqua era fresca e dolce; nell'asciugarsi i baffi con una manica, Viridovix scorse la stessa grassa tartaruga di prima ancora appollaiata sul suo sasso e agitò le braccia, lanciando un urlo. Terrorizzato, l'animale prese a sbattere follemente le zampe, cercando di nuotare prima ancora di aver raggiunto l'acqua; dopo qualche istante ritrovò il poco cervello di cui disponeva e si tuffò nel ruscello. «Och, che terrore che sono» rise il Celta. Poi, ricordando lo scherzo giocato da Arigh a Prista con l'ausilio dei rospi, si guardò intorno invano alla ricerca della tartaruga. «Povera bestia! Se tu fossi un ranocchio, potresti vendicarti di noi tutti con un solo gracidio.» Varatesh ascoltò con costernazione il farfugliare dell'esploratore. «È un'orda, te lo dico io. Dalla polvere che sollevavano, dovevano essere centinaia, diretti da questa parte. Puoi crederci quando ti dico che non siamo rimasti a dare un'occhiata più da vicino, perché altrimenti adesso non sarei qui ad avvertirti.» Il capo dei fuorilegge si morse un labbro, chiedendosi come Targitaus fosse riuscito a raccogliere un simile esercito. Già sette pattuglie avevano avvistato forze ingenti che muovevano verso il suo campo, ed anche dimezzando la portata di quei rapporti, come era ovvio che facesse qualsiasi capo dotato di logica, i suoi nemici stavano dimostrando di essere più potenti di quanto lo fossero stati in precedenza. Se avessero continuato ad avanzare, lo avrebbero sospinto verso lo Shaum... o sopra di esso. Soppesò il rischio, chiedendosi se Targitaus poteva essere pericoloso quanto gli Arshaum: una scorreria era un conto, un esempio di coraggio, ma tentare di stabilirsi nello Shaumkhiil... Con la tunica bianca che gli volteggiava intorno, Avshar emerse dalla sua tenda e si diresse verso Varatesh, che non poté trattenere un sussulto; l'esploratore, che pure era molto meno informato sul conto del principemago, si ritrasse con timore dinanzi a lui.
«Quali menzogne sta sfornando questo codardo?» domandò Avshar, con crudele disprezzo. Varatesh lanciò un'occhiata al volto velato, per nulla contrariato di non poter vedere gli occhi nascosti di Avshar, poi ripeté le notizie portate dall'esploratore, aggiungendovi le proprie preoccupazioni. «Dove hanno trovato tanti uomini?» Avshar si sfregò le mani coperte da guanti di maglia metallica, in un ferino gesto di riflessione, poi si girò di scatto verso l'esploratore. «A quale pattuglia appartieni?» «A quella di Savak.» Il Khamorth cercò di rispondere nel modo più conciso possibile. «Di Savak, eh? Allora sei un codardo. L'esploratore accennò a protestare, ma lo stivale di Avshar scattò in avanti e lo raggiunse al ventre: l'uomo ruotò su se stesso e cadde a terra, vomitando, mentre il principe-mago gli girava le spalle con aperto disprezzo. Se qualsiasi fuorilegge, perfino lo stesso Varatesh, lo avesse trattato in quel modo, il nomade avrebbe cercato di ucciderlo, ma trattandosi di Avshar si allontanò strisciando.» Infine, il principe-mago tornò a girarsi verso Varatesh, e si degnò di dargli una spiegazione. «Il guerriero che ti è sgusciato di mano cavalca con l'"esercito" davanti al quale è fuggito quello sporco vigliacco di Savak, il che mi ha reso più facile seguire quel gruppo con la mia vista a distanza. Devo dirti in che modo hanno aumentato il numero dei loro soldati?» «Sì!» Varatesh aveva già serrato i pugni di fronte alla cattiveria e al disprezzo dimostrati da Avshar, ed ora li strinse con maggior violenza nel sentir menzionare Viridovix, perché non gli faceva piacere essere indotto a ricordare come il Celta aveva avuto la meglio su di lui: nulla era più andato per il verso giusto, da quando quel furfante con i baffi rossi era apparso sulla pianura. Una volta che il principe-mago ebbe concluso la sua spiegazione, Varatesh s'irrigidì per l'ira destata in lui da quel trucco, la cui sfrontatezza giungeva quasi a soffocarlo. «Bestiame?» sussurrò. «Cespugli?» Di colpo, comprese. «Tutte le loro bande devono aver fatto lo stesso!» esclamò, alzando poi la voce per chiamare a raccolta i suoi uomini. «Ecco il ragazzo che torna» avvertì Viridovix, rivolto ai compagni che sedevano tranquilli in sella ai loro pony, mentre l'esploratore di punta veniva verso di loro. Dopo aver trascorso intere giornate a spaventare le pat-
tuglie di Varatesh senza dover combattere, i membri della gruppo non vedevano l'ora di portare a compimento il loro scherzo ancora una volta. Quando però Rambehisht scorse la nube di polvere che si levava all'orizzonte alle spalle del loro cavaliere, il suo sogghigno si trasformò in un cipiglio preoccupato. «Sono in molti, questa volta» avvertì, impugnando l'arco. Gli altri Khamorth lo imitarono. «Si viene alle mani, allora?» chiese il Gallo, fremente. «Non sono qui per barattare tuniche con noi» ribatté, laconico, Rambehisht, poi prese a urlare ordini: «Allargatevi, laggiù! Presto, finché siamo in tempo! Oktamas, tu resta indietro con i cavalli di scorta. E qualcuno dia un calcio nel sedere a quelle vacche. Adesso non ci servono più a niente.» A poco a poco i cavalieri, che avanzavano ad un trotto spedito, divennero visibili fra le cortine di polvere. L'ordine di "allargarsi" impartito da Rambehisht ebbe per un momento l'effetto di confondere Viridovix che, essendo abituato a scontri di fanteria, aveva la naturale inclinazione a raccogliere le forze per una carica, invece di sparpagliarle. Un momento più tardi la prima freccia gli passò sibilando accanto alla testa, e lui comprese: se avessero tentato una carica a capofitto, sarebbero stati ridotti ad altrettanti puntaspilli nell'arco di pochi secondi. I nomadi stavano saettando da tutte le parti, o almeno così sembrava, scagliando frecce contro bersagli in apparenza irraggiungibili; tuttavia, alcuni uomini urlarono nel venire colpiti e parecchi cavalli crollarono inerti sulla steppa. Nella fase iniziale della battaglia, letale e confusa, il Gallo, poco esperto come cavaliere e dotato di un'arma di scarsa portata rispetto agli archi, poté essere di scarsa utilità per se stesso e per i suoi compagni. In effetti, la sua ignoranza del fluido modo di combattere in uso sulle pianure, per poco non gli fruttò la morte o la cattura nei primi momenti dello scontro, perché gli uomini di Varatesh erano numericamente superiori alla pattuglia di Rambehisht, i cui componenti furono pronti a cedere terreno di fronte ad essi. Per Viridovix, però, ritirata e sconfitta erano la stessa cosa, e questo lo indusse a rimanere al suo posto, lanciando urla di sfida in direzione dei fuorilegge, finché Batbaian non gli gridò: «Indietreggia, idiota! Vuoi rivedere Seirem oppure no?» Là dove ogni altra argomentazione avrebbe fallito, quelle parole riportarono alla realtà il Celta: quando era ormai quasi troppo tardi, perché già uno dei fuorilegge lo aveva oltrepassato e si stava girando sulla sella per tirare, Viridovix piantò i talloni nei fianchi del cavallo, che scattò in avanti,
mandando la freccia a perdersi alle sue spalle. «Riprovaci, furfante dal cuore nero!» urlò allora Viridovix, spronando l'animale dritto verso il nomade che, non avendo il tempo di incoccare un'altra freccia, fece spostare di lato la propria cavalcatura. Il Gallo gli passò accanto, a spron battuto, chino sulla criniera del suo cavallo; una punta di freccia strisciò contro la protezione di bronzo posta sulla sommità del suo copricapo, e questo generò in lui un brivido che gli corse per tutto il corpo, tanto che gli parve quasi di avvertire i muscoli della schiena che si irrigidivano in attesa di essere trafitti. Ma ormai le faretre erano vuote e gli shamshir stavano lasciando i foderi, mentre la lotta si trasformava in un corpo a corpo. Anche adesso, però, si trattò pur sempre di duelli in continuo movimento, in cui i cavalli s'incrociavano per il tempo necessario ai loro cavalieri per sferrare un colpo o un fendente e poi tornavano a girare su se stessi per effettuare un nuovo passaggio. Di colpo Viridovix si trovò in vantaggio, grazie alla propria spada lunga e diritta. Sentendo un cavaliere nemico gridare il suo nome, il Gallo girò la testa di scatto... perché conosceva quella voce: un momento più tardi Varatesh spinse il cavallo verso di lui. «Niente trucchi fra di noi, ora» gridò, «e niente tregua.» «Ma guarda, il cucciolo di Avshar è sfuggito al guinzaglio» ribatté Viridovix, e i bruni lineamenti avvenenti di Varatesh si contrassero per l'ira, mentre lui colpiva con la furia di un falco in caccia. Viridovix deviò il colpo, ma l'impatto gli procurò una violenta scossa al braccio e alla spalla, il che fece sì che la sua risposta fosse lenta e larga. Varatesh fu più rapido di lui nel girare il cavallo, e il Gallo scoprì ben presto di non essere tagliato per i duelli in sella: a piedi, infatti, non dubitava che sarebbe riuscito a ridurre in pezzi il fuorilegge, nonostante la sua rapidità e la sua ferocia, ma un cavallo era un'arma quanto poteva esserlo una spada, e un'arma nel cui uso l'uomo delle pianure era un maestro. Con un abile colpetto di redini, Varatesh spinse la propria cavalcatura verso il fianco di Viridovix protetto dallo scudo, calando un colpo in tralice, tanto inatteso che sarebbe potuto costare la vita ad un Khamorth. Il Gallo, però, era abituato a maneggiare uno scudo molto più pesante di quello piccolo e rotondo, in cuoio bollito, di cui era munito in quel momento, e fece in tempo a spostarlo per parare il fendente, anche se la sua risposta fu forzatamente goffa, tanto che per poco non asportò un orecchio al suo stesso cavallo.
Sebbene il nuovo attacco di Varatesh fosse fallito, Viridovix comprese però che il fuorilegge era troppo pericoloso per permettergli di conservare l'iniziativa. «Gira da quella parte, esca per mosche!» ruggì, imprimendo alla testa del proprio cavallo un brutale strattone verso sinistra. La bestia lanciò un nitrito di protesta, ma effettuò la curva richiesta. Questa volta, Viridovix fu rapido quanto il suo avversario; Varatesh sgranò gli occhi per la sorpresa quando il Celta gli piombò addosso, e pur sollevando lo shamshir in tempo per salvarsi la testa, la violenza del fendente del Gallo fu tale da strappargli l'arma dalle dita. Il rinnegato mormorò un'imprecazione, domandandosi se aveva qualche osso rotto, poi estrasse il coltello e lo scagliò contro l'avversario... ma il tiro non andò a segno perché la mano era ancora intorpidita al di sopra del polso. Secondo lo stile degli uomini delle pianure, a quel punto Varatesh non trovò nulla di vergognoso nel fuggire. «Torna indietro, vigliacco senza spina dorsale!» gridò Viridovix, e accennò ad andargli dietro al galoppo, soffermandosi però poi a guardarsi intorno, in cerca di altri compagni che si unissero a lui nella caccia. «Ma dove sono finiti tutti?» si chiese, perplesso. La maggior parte degli uomini di Rambehisht era a circa quattrocento metri di distanza, verso sud, e stava continuando a ritirarsi di fronte alla superiorità numerica dei fuorilegge. Il Gallo tergiversò, indeciso. Davanti a lui c'era Varatesh, disarmato e tanto vicino da costituire una tentazione: se il suo cavallo si fosse rivelato più veloce di quello del fuorilegge, avrebbe potuto raggiungerlo ed abbatterlo, ma in questo modo sarebbe sicuramente rimasto isolato dai suoi compagni. Un momento più tardi, la scelta venne operata al suo posto da un fattore esterno, quando due uomini di Varatesh, uno dei due munito d'arco, vennero in soccorso del loro capo. La piccola battaglia aveva avuto l'effetto di aumentare il rispetto che Viridovix già nutriva nei confronti della potente arma dei nomadi, e questo lo indusse a spingere il cavallo lontano da quella potenziale minaccia. Il Khamorth effettuò due tiri in rapida successione, usando le ultime frecce di cui disponeva: uno dei due dardi passò sibilando sopra la spalla del Celta, mentre dell'altro parve non esserci traccia, il che indusse Viridovix a pensare che si fosse trattato di un tiro corto, mentre si girava per agitare il pugno in direzione dell'arciere. Una freccia era conficcata nell'alto arcione posteriore della sella. Alla
sua vista, il Gallo sbatté le palpebre, notando che il nomade era assai lontano. «Chiamate il boia!» esclamò, poi estrasse la freccia, domandandosi da quanto tempo si trovasse là. «Hai fatto tutta la strada volando, oppure ti stavi godendo una cavalcata?» chiese, ma la freccia non rispose e lui la gettò al suolo. La pattuglia impiegò un'altra ora di schermaglie per liberarsi del tutto degli uomini di Varatesh. Alla fine, però, i fuorilegge rinunciarono, perché i loro cavalli non erano freschi quanto quelli del gruppo di Rambehisht e Varatesh era troppo astuto per permettere che i suoi uomini venissero colti alla sprovvista su animali sfiancati. Avendo ottenuto il suo scopo principale... quello di bloccare l'avanzata dei nemici... il rinnegato decise di ritirarsi. «Un divertimento senza paragoni!» gridò Viridovix ai suoi compagni, quando si riunirono. Il Gallo era ancora eccitato per il combattimento che, pur non essendo stato il consueto corpo a corpo a cui era abituato, era risultato ancora più eccitante proprio per la sua stranezza. Fu soltanto quando si passò il braccio sudato sulla guancia che scoprì di aver riportato una ferita superficiale, anche se non sapeva se inferta da una spada o da una freccia che lo aveva sfiorato. Parecchi Khamorth erano feriti, ma perfino uno di essi che aveva una freccia conficcata attraverso una coscia sorrise, sia pure a denti stretti, nel sentire le parole del Gallo. Come lui, i nomadi erano uomini che apprezzavano la guerra per se stessa, e Viridovix pensò che avevano ogni ragione di essere orgogliosi: nonostante la netta inferiorità numerica, avevano perso soltanto un uomo... il cui corpo era legato sulla groppa di uno degli animali di scorta... ed avevano tenuto valorosamente testa ai duri banditi di Varatesh. Perfino il cupo Rambehisht parve soddisfatto, mentre la pattuglia si accampava sotto il cielo che andava rannuvolandosi. «Oggi hanno pagato per tutto quello che hanno fatto» commentò, addentando il pezzo di carne appiattita che aveva tirato fuori da sotto la sella. «Sì, e l'hanno pagata cara anche!» convenne Batbaian, intento a curare una ferita da freccia che il suo cavallo aveva riportato al garretto; la voce del giovane crepitava per l'eccitazione, perché combattere era una cosa ancora nuova per lui, e si sentiva pieno di orgoglio per averlo affrontato con successo. «È un peccato che quei furfanti abbiano mangiato la foglia» aggiunse
Viridovix, sorridendo dell'entusiasmo del ragazzo. «Un trucco è buono soltanto finché gli altri non lo capiscono» replicò Rambehisht, scrollando le spalle. «Siamo arrivati più lontano di quanto avremmo potuto fare senza questo espediente, spingendo indietro i fuorilegge e avanti il nostro campo.» Sollevò lo sguardo per scrutare le nubi che andavano addensandosi. «Comunque presto pioverà, e sarà impossibile sollevare polvere.» La morte dello sciamano Onogon causò un ritardo nella scelta degli alleati da parte degli Arshaum. Le donne del clan piansero il suo trapasso, mentre gli uomini sopportarono il loro dolore in silenzio, e lo esternarono soltanto sfregiandosi le guance con il coltello. «Quanto a me, tanto vale che mi tagli la gola» commento Pikridios Goudeles, sapendo che la morte di Onogon si sarebbe trasformata in un danno per la causa di Videssos. Il giorno successivo Arigh, le cui ferite autoinflitte cominciavano appena a rimarginarsi, si recò in visita nello yurt della delegazione videssiana. «Se n'è andato davvero» mormorò l'Arshaum, quasi fra sé, sorseggiando un po' di kavass con aria cupa e scuotendo il capo in un gesto d'incredulità. «Dentro di me, ero convinto che non sarebbe mai morto: per tutta la mia vita, lo avevo visto sempre uguale... doveva essere nato già vecchio. Dava l'impressione che un semplice soffio di brezza fosse sufficiente a travolgerlo, ma era l'uomo più saggio e gentile che abbia mai conosciuto.» Nonostante le usanze degli Arshaum, Arigh era prossimo alle lacrime... forse a causa degli anni trascorsi a Videssos, o forse per l'intensità del suo dolore. «Nessuno piangerà nella tenda di Bogoraz» osservò Goudeles, che stava ancora pensando agli interessi dell'impero. «Proprio così» convenne Arigh, in tono indifferente, perché il suo dolore personale lo spingeva ora a dare scarsa importanza a simili preoccupazioni. «Spero che il suo trapasso sia stato facile» aggiunse Skylitzes, più sensibile di Goudeles all'umore del nomade. «Oh, sì. Io ero là... in effetti, stavamo parlando di voialtri.» Arigh rivolse a Goudeles un sorriso stanco e beffardo. «Onogon ha finito di bere un otre di kavass, poi è uscito per urinare. Quando è tornato, ha detto di sentirsi le gambe pesanti e Dizabul, dannazione a lui, ha riso... ha detto che non c'era da meravigliarsene, considerato quanto aveva bevuto. Per essere onesti, anche Onogon ha riso delle sue parole. «Ma le sue condizioni hanno continuato a peggiorare. Il senso di pesan-
tezza gli è salito alle cosce, ed ha perso la sensibilità ai piedi... tanto da non avvertire neppure un forte pizzicotto. Si è sdraiato, e dopo un po' anche il ventre gli è diventato freddo e insensibile. A quel punto si è coperto la faccia, suppongo perché ha capito che era la fine. Pochi minuti più tardi ha avuto una specie di convulsione, e quando gli abbiamo scoperto il volto, i suoi occhi erano fissi. Non ha mostrato di soffrire... quel suo vecchio cuore alla fine si è fermato, ecco tutto.» «Un vero peccato» commentò Skylitzes, scuotendo il capo... il massimo tributo che quel devoto ufficiale poteva rendere ad uno sciamano pagano. Gorgidas, dal canto suo, riuscì a stento a trattenersi dal lanciare un grido, mentre il manto di storico in cui si era avvolto gli cadeva all'improvviso dalle spalle per rivelare il medico sempre presente sotto di esso: agli occhi di un dottore, la morte di Onogon puzzava di avvelenamento, tanto che Gorgidas avrebbe potuto addirittura citare il veleno che era stato usato... la cicuta. Il racconto di Arigh ne descriveva alla perfezione gli effetti, che specialmente in una persona anziana somigliavano molto a quelli di una morte naturale, per chi non li conosceva bene. Quando finalmente il nomade se ne andò, il Greco rivelò ai compagni ciò che aveva intuito. «Posso capirlo» grugnì Skylitzes, astenendosi prudentemente dall'aggiungere altro. «Oh, certamente Bogoraz è un uomo capace di uccidere» affermò Goudeles, «non ne ho il minimo dubbio. Ma a cosa ci serve saperlo? Se anche lo rivelassimo, chi ci crederebbe? Faremmo soltanto la figura dei diffamatori e non ne ricaveremmo nulla. A meno che, naturalmente» aggiunse, fissando Gorgidas con aria speranzosa, «tu non abbia una scorta di questo veleno con cui fornire una dimostrazione, magari su un animale.» «Ma che bella idea, Pikirdios» intervenne Skylitzes. «Facciamo vedere come funziona quella roba, e gli Arshaum penseranno che siamo stati noi a stendere il vecchio bastardo. Proprio quello che ci serve.» «In ogni caso, non ne ho» dichiarò Gorgidas. «Quando sono diventato medico, ho giurato di non usare droghe letali, e non ho mai sentito la tentazione di infrangere quel giuramento.» Il Greco si sedette con aria infelice, stringendosi la testa fra le mani, seccato che Goudeles avesse ragione: odiava i veleni, soprattutto perché i medici erano quasi impotenti dinanzi ad essi, perché i cosiddetti antidoti erano per lo più frutto di invenzioni di vecchie comari e non servivano a nulla, come lui ben sapeva.
Le donne che Arghun aveva messo a disposizione della delegazione non capivano il videssiano, ma quella di Gorgidas, una creatura minuta e squisita di nome Hoelun, non ebbe difficoltà a intuire il suo sgomento e gli posò con gentilezza le mani sulle spalle accasciate, pronta a dissipare le sue ansietà con un massaggio. Gorgidas si liberò con una scrollata, e quando lei si ritrasse, silenziosa e obbediente come sempre, provò una certa vergogna, che però durò soltanto un istante. La sua mente continuava a ribollire di piani per vendicarsi di Bogoraz, perché Onogon avrebbe meritato di meglio che morire a causa di una guerra che si combatteva a centinaia di chilometri di distanza. La prospettiva di una vendetta particolarmente sanguinaria lo fece scoppiare in una risata priva di umorismo. Viridovix, pensò, sarebbe stato orgoglioso di lui... e in questo c'era una sottile ironia. I funerali dello sciamano bloccarono ogni altra attività per parecchi giorni. Anziché essere bruciato, Onogon fu seppellito, un'usanza comune nelle steppe, dove regnava il terrore del fuoco. Al centro di una grande fossa quadrata venne distesa una stuoia, e il corpo del vecchio, vestito nel suo abito frangiato da sciamano, fu adagiato su di essa. Un tetto di cespugli intrecciati montato su pali servì quindi a formare una camera sopra il corpo, e gli Arshaum deposero accanto ad esso alcune coppe d'oro, mentre Tolui, lo sciamano che era succeduto ad Onogon come principale veggente del clan, sacrificava un cavallo sulla tomba. Il sangue della bestia spruzzò fino a metà della sottostante stuoia di cespugli. «Un buon presagio» dichiarò Arigh, mentre il cavallo veniva gettato nella fossa. «Onogon cavalcherà lontano nel mondo che verrà.» Quasi tutti gli anziani del clan erano raccolti intorno al sepolcro, intenti ad osservare i servi che lo riempivano di terra, mentre Gorgidas scrutava a sua volta gli anziani per cercare di capire cosa stessero pensando. Si trattava però di un'impresa quasi impossibile, perché il dolore per il morto velava i loro lineamenti, e comunque quello era il gruppo di uomini più imperscrutabile che lui avesse mai visto. Il Greco sentì poi montare la propria ira quando Bogoraz si fece largo fra gli anziani, trasudando un dolore in apparenza sincero... come una seppia che spruzzi il suo inchiostro, pensò Gorgidas. Dizabul era al fianco dello Yezda, e parecchie teste arshaum si girarono nel sentirlo ridere per un commento di Bogoraz. L'inviato di Wulghash e Goudeles si lanciarono poi nel loro gioco di corruzione e di controcorruzione, di promesse e di contropromesse.
«È insaziabile» gemette il Videssiano. «Credo di aver già pagato tre volte questo Guyuk perché decida per il sì, e se Bogoraz lo ha pagato quattro perché propenda per il no, allora si è trattato di oro sprecato.» «È terribile non poter avere la certezza che un uomo si lasci comprare in permanenza» mormorò Gorgidas, ottenendo un gesto rude da Goudeles e un raro sorriso da Skylitzes. Quando finalmente decisero che non c'era più oro da spremere, o giunsero a un'effettiva decisione, gli Arshaum del Cavallo Grigio mandarono messaggeri ai clan vicini, invitandoli a inviare i loro rappresentanti al banchetto durante il quale la scelta sarebbe stata annunciata. Quei rappresentanti giunsero più presto di quanto si sarebbe aspettato Gorgidas, che trovava ancora difficile valutare quanta strada i nomadi potessero percorrere senza soste, in caso di necessità. Due di quei visitatori portarono prontamente la mano alla spada non appena si videro a vicenda, e fu necessario separarli. Arghun ordinò che fossero tenuti sotto sorveglianza, proprio come aveva fatto per le delegazioni rivali delle due potenze del sud. Perfino lo yurt dei banchetti era troppo piccolo per poter ospitare tanta gente, quindi gli Arshaum ripulirono con cura un ampio tratto di terreno e vi scavarono tre fosse per il fuoco: una piccola, centrale, per Arghun, i suoi figli e gli ambasciatori, ed altre più grandi ai due lati per i consiglieri del khagan e i rappresentanti degli altri clan. I nomadi procedettero poi a stendere numerosi tappeti intorno a ciascun fuoco, imitando meglio che potevano la disposizione interna di una tenda. «In un modo o nell'altro, adesso sarà presto tutto finito, e questo è un sollievo» dichiarò Goudeles, tentando senza troppa fortuna di liberare dalle pieghe una tunica di broccato che era rimasta piegata per parecchie settimane in una sacca della sella. «A meno che decidano a nostro sfavore e ci offrano a Skotos per sigillare il loro immondo patto» obiettò Skylitzes, battendo un colpetto sulla spada. «Comunque, non me ne andrò da solo.» Mentre indossava i pochi abiti eleganti che aveva con sé, Gorgidas rifletté sulle contraddizioni che si potevano riscontrare in un uomo. Skylitzes andava d'accordo con gli Arshaum, sotto certi aspetti li apprezzava più di Goudeles, ma conservava nei confronti di qualsiasi cosa che toccasse la sua religione quell'intolleranza aggressiva che caratterizzava tutti i Videssiani. Lo scribacchino, invece, era di mentalità molto più ampia sotto quell'aspetto, anche se ai suoi occhi gli uomini delle pianure erano soltanto dei selvaggi.
«Bene, è ora di muoverci» dichiarò Goudeles, in tono forzatamente leggero. La calma untuosa che era solito affettare appariva piuttosto incrinata. Quando il gruppo videssiano si avviò verso il luogo del banchetto, Gorgidas ebbe l'impressione di essere al centro dell'attenzione generale: Agathias Psoes e i suoi uomini stavano osservando con ansia i delegati, e gli stessi Arshaum sembravano curiosi quanto loro di sapere se i Videssiani sarebbero stati amici o nemici. Era una serata fresca, con l'aria pervasa da un odore di pioggia, e il Greco pensò che era un bene che gli Arshaum si fossero finalmente decisi a scegliere, perché nel giro di una settimana le tempeste autunnali sarebbero cominciate sul serio... ed allora un banchetto all'aperto si sarebbe risolto in un disastro. Le fiamme che ardevano nelle fosse per il fuoco offrivano un'invitante promessa di calore. «Stanotte» commentò Goudeles, dando l'impressione di aver letto nella mente di Gorgidas, «non mi dispiacerebbe quasi camminare sui carboni ardenti.» E si strinse maggiormente intorno al corpo la tunica, che costituiva un indumento poco protettivo, dopo tante settimane vissute in tunica e calzoni. Il Greco si accigliò quando vide Bogoraz scendere dal suo yurt; urbano come sempre, l'emissario di Wulghash rivolse un saluto ai suoi rivali. «Aspettatemi, per favore, così apprenderemo insieme la nostra sorte.» Quando li raggiunse, le sue labbra erano incurvate in un sorriso che non si estendeva agli occhi... un particolare che non voleva dire nulla, però, perché i suoi occhi restavano sempre freddi. La conversazione spicciola del diplomatico yezda, comunque, fu impeccabile come sempre. «Guardate davanti a quale eminente uditorio ci esibiremo stanotte» commentò, e il sarcasmo nella sua voce fu abbastanza delicato da indurre Goudeles ad inarcare un sopracciglio in un moto di invidia. La maggior parte degli Arshaum erano già al loro posto, alcuni avevano cominciato a mangiare e gli otri di kavass stavano circolando un po' dovunque. I presenti però tacquero quando scorsero le due delegazioni che si avvicinavano nella luce del crepuscolo, ed Arghun si alzò per andare incontro agli ospiti, invitando con un cenno i figli a seguirlo. Gorgidas lasciò scorrere lo sguardo da un volto all'altro, cercando di scoprire la risposta prima ancora che il khagan la fornisse. Pur mantenendo un'espressione indecifrabile, Arghun sembrava leggermente divertito, co-
me se stesse assaporando la tensione da lui stesso creata; anche Arigh era del tutto impassibile e non lasciava trapelare nulla, deciso a lasciare completamente al padre la conduzione di quel momento. Quando scorse il malcelato disappunto di Dizabul, tuttavia, il Greco cominciò a sperare. Arghun venne avanti ed abbracciò Goudeles, Skylitzes e Gorgidas, uno dopo l'altro. «Miei buoni amici» disse, poi rivolse all'inviato di Yezd un cenno del capo, cortese ma minuto. «Bogoraz.» Il khagan attese un momento per essere certo di essere stato compreso, quindi aggiunse: «Venite, il cibo ci attende.» Alle spalle della delegazione videssiana, Psoes lanciò un grido di gioia. «Stanotte potete bere quanto vi pare, ragazzi!» esclamò, e fu allora la volta dei suoi uomini di applaudire. Le guardie di Bogoraz, dovunque fossero, rimasero in silenzio. Lo Yezda, dal canto suo, riuscì a indirizzare a Goudeles un breve e cortese inchino. «Avrei vinto, se non avessi avuto un avversario tanto astuto» dichiarò, e il Videssiano si inchinò a sua volta con un raggiante sorriso, consapevole quanto lo era Bogoraz che se le parti fossero state invertite anche lui avrebbe porto complimenti altrettanto insinceri al suo rivale. Dizabul accennò a dire qualcosa, ma Bogoraz lo prevenne. «So che hai fatto tutto il possibile per la nostra causa, grazioso principe. Ora godiamo il banchetto che tuo padre offre: ritengo che l'usanza del tuo popolo di non discutere di questioni importanti durante i pasti sia saggia.» Lo Yezda prese per un braccio il figlio minore di Arghun e sedette con lui accanto al fuoco, cominciando a mangiare di buon appetito. Sedendo a sua volta, Gorgidas indirizzò allo Yezda un'occhiata sospettosa: anche se riusciva a capire soltanto una parola su tre della lingua arshaum, non aveva però difficoltà a comprendere il tono di Bogoraz, che non sembrava per nulla quello di un uomo sconfitto. «Sì, non dubito che abbia una buona facciata» concesse Skylitzes, intingendo una striscia di montone arrosto in un vasetto di senape giallo scuro. Quando l'assaggiò, però, sgranò gli occhi con un'espressione che rasentava il panico. «Kavass» ansimò, e ne trangugiò un lungo sorso per spegnere il fuoco che aveva in gola. Avvertito appena in tempo, il Greco offrì il suo pezzo di carne, anch'esso intinto nella senape, ad Arigh. «Grazie» disse questi, divorandolo, poi aggiunse: «troppo piccante per
te, eh? Bene» ridacchiò, «io del resto non mi sono mai abituato a quella detestabile salsa di pesce videssiana.» Gorgidas, che invece l'apprezzava molto, annuì, comprendendo il punto di vista di Arigh. Il kavass prese a scorrere in abbondanza: adesso che erano giunti ad una decisione, gli Arshaum non vedevano infatti motivo di trattenersi dalle libagioni. Gorgidas, però, non aveva nessuna intenzione di svegliarsi il mattino successivo con la testa che gli scoppiava: secondo lo stile greco, aveva l'abitudine di annacquare il vino quando intendeva rimanere sobrio, e usò anche adesso la stessa tattica. La ragazza che lo serviva lo guardò come se fosse impazzito quando le chiese una brocca d'acqua e una tazza, ma glieli portò lo stesso. Il latte fermentato di giumenta, una volta diluito, non risultò peraltro migliore che liscio. «Un trucco utile» commentò Goudeles, a cui non sfuggiva quasi nulla. «Così dai l'impressione di bere il doppio di quanto bevi in effetti.» Nei suoi occhi si accese una scintilla di trionfo. «Stanotte, tuttavia, non mi importa di quanto liquore trangugerò.» Alla sinistra di Arghun, Bogoraz mangiava e beveva affettando una suprema indifferenza per la sconfitta subita; Dizabul, che cercava di reggere il suo ritmo sorso per sorso, e che era più giovane, ben presto iniziò a mostrare segni di ubriachezza. «Le cose sarebbero andate in maniera diversa, se io fossi stato il khagan» dichiarò, ad alta voce. «Ma non lo sei, né è probabile che lo diventi» ringhiò Arigh. «Zitti, tutti e due» intervenne Arghun, scandalizzato. «Non avete rispetto per le usanze?» I suoi figli obbedirono, squadrandosi a vicenda con occhiate roventi, Arigh sospettoso che Dizabul insidiasse la sua posizione, e Dizabul astioso contro Arigh... della cui esistenza si era quasi dimenticato... perché era tornato ed aveva distrutto la sua vita. Gorgidas pensò che quello era un attrito degno di essere descritto da un drammaturgo... da Euripide, magari, perché era una situazione in cui era difficile stabilire torti e ragioni. Nonostante l'avvertimento impartito da Arghun ai suoi figli, con il procedere del banchetto i costumi arshaum vennero piegati fin quasi al punto di rottura. In fin dei conti, quella era l'occasione per annunciare un'alleanza, ed uno dopo l'altro gli emissari dei clan vicini si accostarono al fuoco centrale per conoscere gli ambasciatori videssiani. Alcuni di essi rivolsero la parola anche a Bogoraz, ma i più parvero pronti a seguire l'esempio di
Arghun, perché il clan del Cavallo Grigio deteneva i pascoli più vasti ed era quindi il più influente sulle pianure dello Shaumkhiil. Quella processione di barbari alticci annoiò ben presto Gorgidas, che non invidiò i suoi compagni per essere costretti ad essere cordiali con ciascuno di quei visitatori: a volte, non essere importanti aveva i suoi vantaggi. Il solo nomade che riuscì a destare brevemente il suo interesse fu il rappresentante del clan della Pecora Nera, il più potente dopo quello di Arghun: Irnek, così si chiamava, era alto, sfoggiava una barba folta per un Arshaum, e il suo portamento lasciava intuire un'intelligenza sardonica. Per un momento, Gorgidas temette che Irnek potesse preferire Bogoraz soltanto per eventuali attriti esistenti fra il suo clan e quello del Cavallo Grigio, ma dopo avergli elargito una lunga, fredda occhiata il nomade lo ignorò. Quell'offesa, unita alle altre, parve finalmente avere effetto su Bogoraz: mentre in precedenza era sempre rimasto padrone di sé in ogni occasione, quella sera bevve fino a perdere il controllo dei movimenti. Dopo aver svuotato quasi completamente un otre di kavass con un lungo sorso, lo lasciò cadere e dovette annaspare in giro prima di riuscire a raccoglierlo e a passarlo ad Arghun. «Chiedo scusa» disse. «Non ce n'è bisogno.» Il khagan bevve tutto il liquore rimasto nella fiasca, poi schioccò le labbra con aria pensosa. «Aspro» commentò, e ordinò che gliene portassero dell'altro. Gorgidas stava rosicchiando un'ala di pernice quando poco dopo Arghun abbandonò la posizione a gambe incrociate e batté a terra i piedi con irritazione. «Questo dannato piede si è addormentato» brontolò. «Se lo avessi detto io, avresti ribattuto che sono ancora rammollito dalla vita a Videssos» rise Arigh. «Può darsi.» Il khagan batté ancora i piedi a terra. «Dannazione! Adesso sono tutti e due.» Cercò di alzarsi, ma si venne a trovare in difficoltà. «Cosa succede?» chiese Gorgidas, che non capiva il linguaggio arshaum. «Oh, nulla» rispose Arigh, che stava ancora ridacchiando. «Gli si sono addormentati i piedi.» Arghun, intanto, si stava massaggiando un polpaccio con aria perplessa. Lo sguardo di Gorgidas si posò subito su Bogoraz, che si era slacciato la
casacca e si stava asciugando la fronte nel parlare con Dizabul, e un sospetto improvviso divampò in lui: se si sbagliava, avrebbe avuto molto di cui rispondere, ma in caso contrario... afferrò il piatto di senape che era davanti ad Arigh, vi versò un po' d'acqua fino ad ottenere una densa crema e mise il tutto nelle mani del principe arshaum. «Presto!» gridò. «Fa' bere questo a suo padre, ne va della sua vita!» «Cosa?» chiese Arigh, fissandolo. «Veleno, stupido!» Nella sua angoscia, Gorgidas trovò impossibile rimanere nei limiti dell'educazione, e riuscì a stento a continuare ad esprimersi in videssiano anziché in greco. «Bogoraz lo ha avvelenato, proprio come ha fatto con Onogon!» L'ambasciatore yezda balzò in piedi, con i pugni serrati e il volto arrossato e madido di sudore. «Tu menti, vile, immondo...» cominciò a gridare, ma subito si interruppe, con un'espressione di assoluto orrore dipinta sul volto. Quell'espressione durò solo un istante, ma perseguitò Gorgidas per il resto della sua vita. Un momento più tardi, tutti lanciarono esclamazioni di orrore, perché Bogoraz esplose in un'accecante fiamma bianca, molto più intensa di quella del falò che aveva davanti: il suo urlo fu troncato quasi prima che avesse inizio, e lui parve bruciare dall'interno, consumato da un fuoco che diventava sempre più intenso ad ogni secondo che passava. Per quanto Bogoraz scalciasse, si contorcesse e cercasse di sottrarsi al fato che aveva attirato su di sé con le proprie mani, il suo corpo in fiamme non emanava però calore, e non si avvertiva la minima puzza di bruciato. La magia di Onogon e il giuramento protettivo da lui imposto a Bogoraz non erano stati sufficienti a salvare il vecchio sciamano, ma servivano comunque ora al suo khagan. «È venuto meno al giuramento!» esclamò Tolui, il nuovo sciamano, che sedeva fra gli anziani del clan. «Guardate il violatore del giuramento pagare il prezzo del suo spergiuro!» Con la bocca contratta per il terrore, Dizabul si trasse indietro dai resti carbonizzati di quello che era stato il suo amico. Stupefatto, Arghun fissò a bocca aperta lo sconvolgente spettacolo, cosa che Gorgidas non ebbe invece tempo di fare: tolta nuovamente la senape di mano ad Arigh, il medico la porse con decisione al khagan. «Bevi!» ingiunse, ricordando per chissà quale miracolo il termine arshaum. Arghun obbedì automaticamente, e subito si piegò in due per effetto dell'emetico, vomitando il kavass ed il cibo. Sotto l'odore pungente del vomito se ne avvertiva un altro, più acuto... il
tipico odore della cicuta, ma Gorgidas vi badò appena, perché l'orribile fine di Bogoraz aveva ormai bandito qualsiasi dubbio lui potesse aver nutrito. Dopo aver vomitato, Arghun si accasciò sulle ginocchia e rimase in quella posizione, toccandosi le cosce come se non avessero avuto sensibilità. Accorgendosene, Gorgidas serrò le labbra: se il veleno gli fosse arrivato al cuore, il khagan sarebbe morto, anche se ne aveva vomitato la maggior parte. «Tienilo seduto!» ingiunse ad Arigh, che era balzato in avanti per sostenere il padre con il braccio e la spalla, poi si mise a chiamare a gran voce Tolui, un uomo basso di mezz'età con una voce stranamente profonda, che arrivò di corsa. «Conosci qualche pozione che serva a rinforzare il cuore di un uomo?» gli chiese Gorgidas, usando Arigh come interprete. «Sì, un infuso di digitale» rispose lo sciamano, strappando quasi al Greco un grido di gioia. «Proprio quello che ci vuole! Preparalo e portalo qui, presto!» Tolui si allontanò a precipizio, e Gorgidas infilò una mano sotto la tunica del khagan, imprecando nel rilevare che la pelle del ventre cominciava già a raffreddarsi. Intanto Arghun, che fino a un momento prima era ancora sconcertato, stava ora cominciando ad infuriarsi, perché una delle proprietà della cicuta era quella di lasciare la mente limpida fino alla fine. Con esitazione, Dizabul si avvicinò al padre, inginocchiandosi e prendendogli una mano: contrariamente ad ogni usanza arshaum, gli occhi del ragazzo erano colmi di lacrime. «Ho sbagliato, padre. Perdonami, ti prego» disse. Arigh ringhiò al fratello una frase breve e rabbiosa, ma Gorgidas intuì quanto quell'ammissione dovesse essere costata all'orgoglioso giovane principe. Prima che Arghun potesse rispondere, un gruppetto di concubine lo attorniò strillando, ma lui le allontanò con un paio di parole decise che parvero esprimere il consueto vigore. «L'ultima cosa di cui ho bisogno» brontolò, rivolto ad Arigh, «è un branco di donne che mi stia intorno piangendo.» «Si salverà?» chiese Goudeles a Gorgidas, con tono improvvisamente pieno di rispetto, consapevole che quello era il campo del Greco e non il suo. Il medico, intento a controllare le pulsazioni di Arghun, non rispose, perché le sue dita stavano rilevando una storia inquietante: il battito del
cuore del khagan era forte ma lento, e stava rallentando sempre più. «Tolui! Spicciati, figlio di una capra rognosa!» urlò il Greco. Pur di accelerare i tempi, avrebbe usato con lo sciamano epiteti anche peggiori, se avesse saputo come proferirli. Tolui arrivò di corsa, tenendo con entrambe le mani una tazza a due manici, piena di un liquido fumante. «Dalla a me!» ingiunse Gorgidas, appropriandosene, e lo sciamano non protestò, perché essendo lui stesso un guaritore, sapeva riconoscere un altro medico quando lo vedeva. «È amaro» si lamentò Arghun, quando il Greco gli accostò il recipiente alle labbra, ma ne vuotò il contenuto, sospirando non appena il liquido caldo gli riempì lo stomaco. Gorgidas gli afferrò di nuovo il polso: l'infuso di digitale era potente in questo mondo quanto lo era stato nel suo, e il battito del khagan presto si stabilizzò tornando ad accelerare. «Controlla fin dove si è esteso il gelo» ordinò il Greco a Tolui. Lo sciamano obbedì immediatamente. «Arriva qui» avvertì poi, indicando: il livello era ancora al di sotto dell'ombelico di Arghun... un progresso, ma minuscolo. «Se dovesse morire, Dizabul» dichiarò Arigh, con voce piena di minaccia, «non sarà un cavallo ad essere sacrificato sulla sua tomba, ma tu. Se non fosse stato per te, quel maledetto Bogoraz sarebbe stato buttato fuori già da un pezzo.» Attanagliato dall'angoscia Dizabul si limitò a scuotere il capo, ma Arghun assestò uno schiaffo al figlio maggiore. «Non ho ancora intenzione di morire, ragazzo, almeno per qualche tempo» dichiarò, poi si rivolse a Gorgidas. «Come sto?» Il medico gli tastò il ventre, rilevando che la cicuta aveva cessato di espandersi, e riferì la cosa al khagan. «Questo lo sento da me» replicò Arghun. «Tu sembri conoscere questo dannato veleno... cosa significa? Riacquisterò l'uso delle gambe?» Le sopracciglia del khagan scattarono verso l'alto, mentre lui insisteva: «Per gli spiriti del vento! Riacquisterò la mia virilità? Non che mi serva quanto un tempo, ma ne sentirei la mancanza.» Il Greco poté soltanto scuotere il capo per indicare la propria ignoranza: i casi di uomini che avessero vomitato la cicuta non erano tanto numerosi da permettergli di azzardare delle previsioni. Ora come ora, non era neppure sicuro che Arghun sarebbe sopravvissuto, e non aveva spinto i suoi pensieri al di là di quell'obiettivo primario.
Lankinos Skylitzes sollevò davanti a lui una casacca di lana, una lunga tunica leggera e un cappello di feltro nero, perché li guardasse. «Cos'è, una vendita di abiti usati?» scattò Gorgidas. «Non infastidirmi con questo ciarpame.» «Mi dispiace» rispose, in tono sincero, l'ufficiale videssiano che, come Goudeles, cominciava a vedere il medico sotto una nuova luce. «Ho pensato che potesse interessarti: è tutto quello che resta di Bogoraz.» «Oh.» Gorgidas controllò ancora le pulsazioni di Arghun: il cuore del khagan continuava a battere in maniera costante. «Per favore, procurami altro infuso di digitale» chiese a Tolui, e nel tradurre le sue parole Arigh sorrise, perché conosceva Gorgidas abbastanza bene da rendersi conto che un ritorno alla cortesia da parte sua costituiva un buon segno. «E porta anche qualche coperta» aggiunse il medico. «Bisogna tenere il più possibile al caldo le parti avvelenate.» Gorgidas rimase accanto ad Arghun per tutta la notte, e soltanto dopo mezzanotte ebbe la certezza di avere vinto, perché fu allora che il gelo prodotto dalla cicuta iniziò, sia pure con estrema lentezza, a ritirarsi. Quando il cielo cominciò infine a rischiararsi ad est, il khagan aveva ormai recuperato la sensibilità fino alle cosce, anche se le gambe rifiutavano ancora di obbedirgli. «Dormi» suggerì allora Arghun al Greco. «Non credo che tu ora possa fare altro per me... e se mi tasti ancora una volta potrei finire per torcerti il collo.» Il bagliore ammiccante nel suo sguardo smentì però le parole minacciose. Il medico sbadigliò fino a far scricchiolare le mascelle, sentendosi gli occhi impastati per la stanchezza, poi accennò a protestare, ma si rese conto che Arghun aveva ragione: se avesse continuato a vegliare troppo a lungo, la sua capacità di giudizio avrebbe finito per risentirne. «Se qualcosa non va, chiamami subito» raccomandò a Tolui, che annuì solennemente. Svegliati Skylitzes e Goudeles, che si erano addormentati accanto al fuoco, Gorgidas si diresse con loro verso lo yurt della delegazione videssiana. «Sono davvero molto contento che il vecchio Arghun abbia scelto noi anziché gli Yezda» commentò lo scribacchino. «Lo spero proprio» ribatté Skylitzes. «E allora?» Goudeles si guardò attentamente intorno, per accertarsi che a portata di
udito non ci fosse nessuno che comprendeva il videssiano. «Stavo soltanto pensando che in caso contrario avrei potuto essere tanto stupido da tentare di ricorrere a qualche misura drastica per indurlo a cambiare idea.» Il grasso burocrate si batté un colpetto sulla pancia. «Non so perché, ma non credo che sarei bruciato in marnera pulita, come ha fatto Bogoraz. Si potrebbe dire che ci sarebbe stato troppo grasso da friggere. Brrr!» La sola idea lo fece rabbrividire. CAPITOLO UNDICESIMO «Un messaggero?» ripeté Scaurus, e Phostis Apokavkos annuì. Il tribuno borbottò qualcosa fra sé, con irritazione, poi esplose: «Non voglio vedere nessun dannato messaggero: portano soltanto cattive notizie. Se non è lo stesso Phos a mandarlo, te lo garantisco, lo mangerò senza neppure salarlo. Se qualche nobile da quattro soldi vuole lamentarsi perché i miei uomini gli hanno rubato un paio di pecore, che venga qui di persona.» Apokavkos sorrise con aria imbarazzata di fronte all'esclamazione quasi sacrilega del tribuno. «Lo manda la persona più importante dopo Phos, signore» rispose, in un latino un po' stentato. Pur continuando a seguire la religione dell'impero, infatti, il Videssiano si comportava quanto più gli era possibile come un Romano, in quanto i legionari gli avevano offerto un'opportunità migliore di qualsiasi altra avesse ricevuto dalla sua stessa gente. Apokavkos si massaggiò il lungo volto sbarbato ed aggiunse: «È un inviato dell'imperatore.» «Di Thorisin?» Marcus si rianimò immediatamente. «Avevo quasi rinunciato a sperare di avere sue notizie. Avanti, fallo entrare.» Apokavkos salutò e lasciò in tutta fretta quelli che erano stati gli uffici del governatore provinciale. Il messaggero entrò qualche minuto più tardi. All'esterno pioveva e, nonostante il cappello di cuoio a tesa ampia, l'uomo aveva i capelli e la barba grondanti, i suoi stivali alti fino al ginocchio erano abbondantemente infangati e lui esalava un odore di pelo di cavallo bagnato. «Questa è una brutta tempesta, considerato che la stagione non è ancora molto avanzata» commentò Scaurus, comprensivo. «Ti andrebbe un po' di vino caldo?» L'uomo annuì con gratitudine, e il tribuno usò una candela per accendere l'olio di oliva contenuto in un piccolo braciere sistemato su un angolo della sua scrivania, posando poi una brocca di rame sulla fiamma: quando il vi-
no in essa contenuto fu pronto per essere versato, tolse il recipiente dal braciere dopo essersi avvolto la mano in uno straccio, per proteggerla. Il messaggero imperiale si accostò la coppa alla faccia, assaporando il fragrante profumo del vapore, poi ne trangugiò il contenuto per scaldarsi lo stomaco. «Prendine un'altra» lo invitò Marcus, sorseggiando il proprio vino. «Adesso potrai gustarla davvero.» «Ti ringrazio. Potresti darmi quello straccio... ah, grazie ancora.» Il Videssiano riempì nuovamente la tazza, e questa volta la vuotò con maggiore lentezza. «Ah, sì, ora va molto meglio. Vorrei soltanto che il mio povero cavallo potesse ristorarsi nello stesso modo.» «Hai qualcosa per me?» chiese Marcus, dopo aver atteso che il messaggero avesse posato la tazza. «Infatti.» L'uomo gli porse un tubo di seta incerata, chiuso ad entrambi i lati da un tappo di legno e sigillato con lo stemma imperiale, il raggio di sole. «A prova d'acqua, vedi?» «Sì.» Scaurus ruppe il sigillo e srotolò la pergamena contenuta al suo interno, sistemandola sulla superficie di lucido marmo della scrivania e fermandola ad un'estremità con la propria tazza di vino ed all'altra con un angolo del suo abaco, per impedirle di avvolgersi di nuovo. Immediatamente, riconobbe la calligrafia semplice ed energica dell'imperatore, e notò come il messaggio fosse inoltre stilato nello stile immediato tipico di Gavras, senza nessuna di quelle aggiunte retoriche che piacevano invece a Drax. "Thosirin Gavras, Avtokrator, al suo capitano Marcus Aemilius Scaurus: saluti. Grazie all'idiozia di qualche scribacchino, la tua ultima lettera è rimasta qui in città fino al mio rientro, per cui l'ho ricevuta soltanto adesso. Hai agito bene e mi hai servito meglio di quanto avrei potuto sperare. Ho inviato parte degli isolani da te fatti prigionieri a godersi un periodo di servizio invernale di guarnigione sull'Astris, e utilizzerò gli altri per barattarli con alcuni dei miei uomini caduti nelle mani di quei briganti, una cosa che richiederà tempo, perché ad Opsikion li ho respinti dal continente, anche se temo che le scorrerie dei pirati continuino ancora lungo la costa. Non appena mi sarà possibile, manderò ai Garsavrani l'oro necessario per ripagarli della cifra che tu hai tolto loro... confido che tu abbia le necessarie ricevute". Il tribuno sorrise per quell'indiretto accenno alla sua breve carriera burocratica, e proseguì la lettura: "Conduci immediatamente qui Drax e i restanti capi ribelli, con la minima scorta necessaria per impedire loro la
fuga... non indebolire la guarnigione di Garsavra più del necessario. Assumi tu stesso il comando della scorta, affinché io possa ricompensarti come meriti; il tuo luogotenente ha la presenza di spirito necessaria per tenere la città in tua assenza. Redatto nella città di Videssos, diciannove giorni dopo l'equinozio di autunno". Dopo una rapida riflessione, Marcus sollevò lo sguardo sul messaggero. «Sei giorni fa, vero? Hai viaggiato in fretta, considerando il fango che c'è sulle strade.» «Grazie, signore. C'è una risposta?» «Inutile dartene una, dato che mi precederai alla capitale soltanto di pochi giorni. Riferisci a Sua Maestà che eseguirò i suoi ordini... questo dovrebbe bastare.» «Lo farò. Potrei avere qualche indumento asciutto, se non è troppo disturbo?» «Sì, non dovrebbe essere un incarico difficile» dichiarò Gaius Philippus. «Con questo tempo, gli Yezda non potranno fare granché, a meno che non insegnino ai loro pony a nuotare.» Un sorriso sardonico gli illuminò il volto. «Ora che ci penso, anche tu avrai di che divertirti a marciare nel fango, vero?» «Non me lo ricordare» replicò Marcus, desiderando più che mai una buona strada romana, ampia e rialzata su un terrapieno perché rimanesse libera dal fango e dalla neve, e coperta da una solida pavimentazione di piatte pietre squadrate cementate fra loro. Ogni primavera e ogni autunno, a causa della pioggia le strade non pavimentate di Videssos si trasformavano in paludi, e il fatto che il fondo sterrato fosse più agevole per i cavalli non era sufficiente, secondo il modo di vedere del tribuno, a compensare la loro impraticabilità per parecchi mesi dell'anno. «Due dozzine di uomini saranno sufficienti?» chiese poi il centurione anziano. «Per impedire la fuga di quattro prigionieri? Nel loro stesso interesse, è meglio che lo siano. E con il seguito di donne, bambini e chissà cos'altro, il gruppo sarà abbastanza numeroso da scoraggiare eventuali banditi... che peraltro saranno anche loro immersi nel fango fino al mento. In ogni caso, gli orclini sono espliciti, e non dubito che Thorisin abbia ragione... qui, tu avrai molto più bisogno di uomini di quanto ne avrò io. Mi rincresce soltanto di doverti portare via Blaesus.» «Non dispiacertene. La maggior parte degli uomini che prenderai con te
appartiene al suo manipolo, e lui li conosce. E durante la sua assenza» concluse, con la consueta praticità, Gaius Philippus, «avrò la possibilità di far salire Minucius di grado per qualche tempo. Se la caverà bene.» «Hai ragione. Quel ragazzo ha la stoffa del centurione» convenne Scaurus, indirizzando poi un sogghigno al veterano. «Anche tu salirai di grado, del resto.» «Già, è vero. Non ci avevo pensato, ma prometto che me lo ricorderò, quando verrà il momento di distribuire le paghe.» «Oh, va' all'inferno!» esclamò il tribuno, scoppiando in una risata. La pioggia scendeva scrosciante, spinta in raffiche quasi orizzontali dal violento vento da nord, e questo fece sì che ben pochi cittadini di Garsavra uscissero in strada per assistere alla piccola processione costituita dalla colonna che scortava i prigionieri namdaleni in partenza. Senpat e Nevrat Sviodo, in qualità di esploratori, precedevano a cavallo la colonna dei legionari, al centro della quale si trovavano i quattro isolani che, per ordine di Scaurus, avevano ancora il volto coperto da un velo. In coda c'erano alcuni muli carichi di bagagli e asini che trasportavano i familiari dei legionari. Per ultimo veniva Junius Blaesus, al comando di una retroguardia di cinque uomini. I Romani stavano oltrepassando il cimitero, appena oltre i confini di Garsavra, quando il tribuno, nel guardarsi indietro, scorse una figura solitaria che seguiva la colonna. «Chi è?» gridò a Blaesus, ma il vento portò via la risposta del giovane centurione. Scaurus si asciugò invano la faccia dalla pioggia e si preparò a gridare ancora, ma prima che potesse farlo Styppes lo raggiunse in sella ad un asino magro e dall'aria infelice che sopportava a stento la sua mole. Il prete, la cui tunica azzurra era intrisa di pioggia fino ad apparire quasi nera, contemplò il tribuno appiedato dall'alto della sella, e annunciò: «Ti accompagnerò alla capitale. Sono rimasto troppo a lungo lontano dal mio monastero, e a Garsavra ci sono guaritori di provata capacità che possono prendersi cura dei tuoi soldati rimasti là.» Come spesso accadeva, il tono perentorio del prete irritò Marcus. «Fa' come ti pare» rispose, secco, ma in effetti non gli dispiacque di avere con sé Styppes, almeno per questa volta... considerato che Helvis, pur essendo a meno di tre mesi dal parto, si trovava appena un centinaio di metri più indietro, in sella ad un asino su cui montava all'amazzone. Marcus
aveva cercato di persuaderla a rimanere a Garsavra, ma si era arreso di fronte al suo rifiuto, pensando che dopo tutto era improbabile che in futuro avesse ancora occasione di vedere il fratello. L'asino di Styppes passò su un tratto di fanghiglia particolarmente profondo... che in tempi più asciutti era stato un solco della strada... e quasi incespicò: il prete diede un brusco strattone alle redini e la bestia riprese l'equilibrio, pur lanciandogli un'occhiata colma di rimprovero. Quanto a Scaurus, si trovò a simpatizzare con il mulo: marciare durante la stagione delle piogge era una vera fatica di Sisifo, con la differenza che il fardello del tribuno, invece di rotolare di continuo ai piedi di una collina, nel mondo degli inferi, si limitava a diventare sempre più pesante. Ogni passo era una fatica, perché il fango si attaccava alle caligae ed emetteva sommessi risucchi di protesta ogni volta che lui si liberava dalla sua morsa sollevando la gamba. In alcuni tratti, quel movimento era addirittura impossibile, ed era necessario strisciare i piedi in avanti, spostando dinanzi a sé la fanghiglia. Ben presto Scaurus cominciò ad invidiare i prigionieri, che non erano appesantiti da armatura o zaino. Per quanto avesse atteso con impazienza il momento di accamparsi, alla fine della giornata, quando esso giunse, Marcus scoprì che la situazione non era molto migliore adesso rispetto a quando la colonna era in marcia. Il campo fu approntato in fretta e a casaccio, perché gli uomini non erano in numero sufficiente per eseguire la consueta procedura e comunque la pioggia condannava in partenza qualsiasi tentativo di cominciare a scavare una trincea. Si rivelò anche impossibile accendere un fuoco all'aperto, e i Romani e le loro famiglie dovettero accontentarsi di un misero pasto riscaldato alla meno peggio sui bracieri o sulle lampade, nelle loro tende. «Stai bene?» chiese ad Helvis il tribuno, impegnato a usare pietra e acciarino per far cadere qualche scintilla sul mucchietto d'esca che non era comunque asciutto come avrebbe dovuto. Il pezzo di metallo e la pietra di un grigio giallastro sembravano però farsi beffe di lui. «Sono irrigidita, stanca e affogata... ma a parte questo non sto male» rispose Helvis, asciugandosi i capelli con un asciugamano. Durante il cammino, si era avvolta intorno al corpo uno spesso mantello di lana, ora accantonato, ma nonostante questo la sottostante tunica di lino giallo si era inumidita abbastanza da aderirle ora al ventre e ai seni rigonfi. «Devo somigliare ad uno di quei mostri di cui parla il tuo popolo, quello con la testa coperta di serpenti» aggiunse, manovrando l'asciugamano con maggior foga.
«La Medusa?» specificò Marcus, ancora alle prese con pietra e acciarino. «No, in realtà no. Quando ti guardo, soltanto una parte di me si trasforma in pietra.» Helvis sbuffò, ma lui non le prestò attenzione, perché era chino sul mucchietto di esca, impegnato a soffiare delicatamente sulla scintilla arancione che finalmente vi aveva attecchito. Quando la scintilla si trasformò in una fiamma, Marcus emise un sospiro di sollievo. «Ecco fatto, finalmente. Adesso possiamo chiudere il telo della tenda» avvertì, ed accese la lampada mentre Helvis si affrettava ad obbedire. «Il piccolo sta...» cominciò poi a chiedere, ma lei lo interruppe con decisione. «Il piccolo» dichiarò, «sta meglio di me, ne sono certa. E perché non dovrebbe? Non deve sopportare il freddo e l'umidità, e quando sono scesa da quell'ossuta bestia rognosa mi ha assestato un tale calcio che ho creduto che a rifilarmelo fosse invece stato lui.» Helvis accennò con la testa in direzione di Malric, impegnato a far rotolare Dosti sulla stuoia, fra le risa del fratellino; annoiato per aver cavalcato tutto il giorno, infatti, il bambino aveva una quantità di energie da bruciare. «Non nel fango!» strillò poi Helvis, scattando in avanti, ma ormai era troppo tardi. Più tardi, quando i bambini si erano ormai addormentati, lei prese la mano di Marcus e se la posò sul ventre, la cui pelle era calda e morbida come il velluto, tesa per la gravidanza. Il tribuno sorrise nell'avvertire i movimenti irregolari del bambino che si agitava dentro di lei. «Hai ragione» ammise. «È davvero vivace.» Helvis rimase in silenzio tanto a lungo da indurre Marcus a chiedersi se lo avesse sentito, e quando alla fine parlò, lui si accorse che la sua voce era incrinata dallo sforzo di trattenere le lacrime. «Se è un maschio, possiamo chiamarlo Soteric?» chiese. Marcus indugiò a sua volta a rispondere. «Se vuoi» disse infine, con la massima gentilezza possibile, sfiorandole una guancia. «Ricordo di aver marciato da Videssos a Garsavra in una settimana» commentò Scaurus, rivolto a Senpat Sviodo. «Com'è che la strada da Garsavra a Videssos è molto più lunga?» «Ah, ma adesso la terra ti conosce e ti ama, amico mio» ribatté Senpat, allegro nonostante fosse inzuppato. I nastri a vivaci colori che pendevano dal suo cappello vaspurakano a tre punte erano diventati rivoletti di pioggia, che creavano chiazze di colore contrastante sulla schiena del suo man-
tello, mentre la preziosa pandora era al sicuro dietro di lui, in una custodia di cuoio. «Dopo tutto» aggiunse, con un sogghigno, «se non ti amasse, perché ti abbraccerebbe in questo modo? Ti sta davvero gridando di rimanere con lei per sempre.» «Tu non fai fatica a ridere, lassù in sella al tuo cavallo» brontolò Scaurus, ma la battuta di Senpat, per quanto sciocca, gli risollevò un po' il morale. Quanto al ricco terriccio nero della pianura costiera videssiana, il tribuno si sentiva pronto a consegnarlo ai Namdaleni, agli Yezda o addirittura ai demoni di Skotos, perché a mano a mano che il mare si avvicinava, la fangosità del suolo aumentava di pari passo con la sua fertilità, e viaggiare su di esso in quelle condizioni era come cercare di attraversare uno strato di farinata d'avena fredda e troppo cotta. La colonna di legionari era quasi sola sulla strada... una cosa che non sorprendeva Marcus, in quando soltanto un gruppo di pazzi o di disperati si sarebbe messo in viaggio durante le piogge autunnali. «E in quale di queste categorie ti collochi tu?» domandò Senpat quando il tribuno espresse ad alta voce i propri pensieri. «Sei qui con me... stabiliscilo da solo» ribatté Marcus, e in quel momento gli venne in mente un'altra cosa. «Comincio a capire come mai il simbolo di regalità videssiano sia un ombrello» aggiunse. Nelle prime ore del mattino successivo, l'asino di Styppes cadde ancora una volta, scagliando il prete in una pozzanghera fangosa da cui emerse sputacchiando e imprecando in maniera assai poco sacerdotale, con la faccia, la barba e la tunica coperte di fango. L'asino non si rialzò, perché si era rotto una delle zampe anteriori, come dimostrò il lamentoso raglio che emise quando Bailli, che s'intendeva di cavalli più di qualsiasi Romano, toccò l'osso danneggiato. «Dubito che vi fidiate a darmi un coltello» osservò il Namdaleno, rivolto a Marcus, poi si girò verso Styppes ed aggiunse: «Quanto a te, grassone, da qui in avanti dovrai usare i tuoi piedi.» «Il ghiaccio di Skotos ti sta aspettando, insolente eretico» ribatté Styppes, cercando di pulirsi la faccia dal fango con il solo risultato di spargerlo maggiormente, e dall'occhiata rovente che lanciò a Bailli fu chiaro che l'idea di marciare per parecchi giorni non gli andava a genio. L'asino ragliò ancora, un verso che irritò i nervi già tesi di Scaurus. «Perché non lo guarisci, Styppes?» chiese. Sotto lo strato di fango, la faccia del prete videssiano si tinse di carmi-
nio. «Il ghiaccio si prenda anche te, ignorante pagano!» urlò. «Il mio talento serve per curare gli uomini, non le bestie brute. Vuoi forse che mi prostituisca in questo modo? Non ho idea di come questa inutile creatura sia fatta internamente, e non m'interessa di apprenderlo.» «Volevo soltanto essere d'aiuto» cominciò il tribuno, ma Styppes, offeso e petulante, era ormai lanciato in una furiosa invettiva che calpestò l'interruzione, rinfacciando a Scaurus ogni torto che il prete riusciva a ricordare a partire dal giorno in cui si erano conosciuti e riportando a galla episodi che il Romano aveva da tempo dimenticato. L'intera colonna si era intanto arrestata, e i suoi componenti stavano ascoltando la filippica, oppure cercavano di dare l'impressione di non sentire. Un paio di legionari si inginocchiarono nel fango per stringere le cinghie delle loro caligae, ed Helvis, come spesso faceva, spinse avanti il suo mulo per poter scambiare qualche parola con il fratello e gli altri isolani, una cosa a cui i Romani non prestarono attenzione, comprendendo il motivo per cui la donna era venuta con loro. Turgot si protese ad accarezzare i capelli biondi di Dosti e scosse il capo con espressione addolorata, ricordando la sua perduta Mavia. Chinandosi, Scaurus liberò infine l'asino dalle sue sofferenze: l'animale scalciò un paio di volte e giacque immobile, mentre Styppes continuava ad urlare accuse. «Taci, grasso stolto e bilioso» ingiunse infine Drax. «Sei forse un bambino di quattro anni che piange su un giocattolo rotto?» Il conte non alzò la voce, ma il lampo di gelido disprezzo che gli attraversò lo sguardo fu sufficiente a indurre Styppes a interrompersi di colpo, con la bocca che gli si apriva e gli si chiudeva senza emettere nessun suono, come quella di un pesce appena pescato. «Vogliamo riprendere il cammino?» aggiunse Drax, rivolgendo a Marcus un leggero inchino, cortese come se la loro meta fosse stata un banchetto o una festa. Il tribuno annuì, ammirando lo stile del Namdaleno, e impartì un ordine. La colonna si rimise faticosamente in marcia. «Per gli dèi, signore, ci sono stati momenti in cui ho creduto che non ce l'avremmo mai fatta» commentò Junius Blaesus, rivolto a Scaurus, mentre la tonalità grigio sporco del piovoso cielo pomeridiano cominciava a scurirsi per il sopraggiungere della notte, «ma ormai siamo vicini, vero?» «Infatti» confermò il tribuno, spingendo indietro una ciocca di capelli
che gli stava strisciando su una guancia come un verme bagnato. «Manca forse un giorno e mezzo al Guado del Bestiame. Con un tempo accettabile, sarebbe mezza giornata di marcia.» Un gruppo di sei uomini a cavallo li oltrepassò diretto a ovest, sollevando spruzzi di fango e strappando parecchie imprecazioni ai legionari. Qui fra i suburbi della capitale, il traffico locale era piuttosto intenso, il che rendeva ancora peggiori le condizioni della strada... una cosa che Marcus non avrebbe creduto possibile... ed aveva indotto il tribuno ad ordinare ai Namdaleni di riprendere a portare il velo sulla faccia per tutto il tempo, mentre nelle zone meno popolate, ad ovest, i prigionieri erano stati obbligati a nascondere il volto soltanto un paio di volte al giorno, quando la colonna incrociava qualche viandante. Dal momento che quel territorio era saldamente nelle mani dell'impero, la commedia era forse inutile, ma quando c'era di mezzo Drax Marcus preferiva non correre rischi. Più avanti si levarono altri schizzi, e un nuovo cavaliere sbucò dalla pioggia... Nevrat. La donna si guardò in giro, alla ricerca di Scaurus, fino a individuarlo. «Ho trovato un posto per accamparci» annunciò, con un sorriso che fece brillare i denti candidi sullo sfondo della pelle bruna. «È una fattoria con una solida stalla in pietra che servirà a tenere i nostri ospiti... ah, caldi e sicuri. La costruzione ha piccole finestre a feritoia» spiegò, tenendo le mani ad un palmo di distanza una dall'altra per indicare le dimensioni delle aperture, «e una porta che si può sbarrare dall'esterno.» «Perfetto!» esclamò Marcus. «Il grande conte non potrà scappare di là.» Ogni notte, per ordine del tribuno, Junius Blaesus circondava la tenda dei prigionieri con un vero e proprio cordone di guardie, ma dietro una parete di pietra e una porta di legno, essi sarebbero stati al sicuro e sarebbe bastato disporre una sola sentinella per ciascun turno di guardia, il che avrebbe concesso agli uomini un meritato riposo. L'agricoltore sulla cui terra si trovava la costruzione in questione era un ometto altezzoso la cui prosperità era resa evidente dal fatto stesso che possedeva parecchi cavalli. Quando il tribuno gli chiese di poter usare la sua stalla, il Videssiano cercò di protestare, e citò i nomi di due o tre funzionari di corte, peraltro di poca importanza, che a parer suo non sarebbero stati contenti di apprendere che lui era stato maltrattato in quel modo. Irritato, Marcus tirò fuori la lettera di Thorisin Gavras e la porse in silenzio all'uomo, che nel vedere la firma imperiale arrossì e subito dopo sbiancò in volto.
«Qualsiasi cosa desideri, naturalmente» si affrettò a dire poi, e chiamò subito i suoi braccianti. «Vardas! Ioustos! Venite qui, presto, dannati sfaticati, e spingete i cavalli nel campo.» I due uomini, uno dei quali stava ancora masticando un boccone della sua cena, sbucarono da una capanna adiacente all'edificio principale della fattoria. Il tribuno però, avendola spuntata, si concesse di essere magnanimo, e segnalò loro di rientrare. «Lascia le bestie dove sono. Gli uomini che dormiranno nella stalla non avranno il fuoco acceso, e il calore degli animali servirà a riscaldarli.» Vardas e Ioustos guardarono verso il loro padrone, di cui Scaurus ignorava ancora il nome. «Fate come vuole lui» ordinò il fattore, e i due tornarono al loro pasto interrotto, mentre l'ometto si rivolgeva ancora al Romano, ora con aria propiziatoria. «Vostro onore vuole cenare con me?» «No, grazie.» Un'ora di chiacchiere nervose da parte di quel Videssiano di volta in volta arrogante e servile non andava a genio a Marcus, che però fornì una scusa, per permettere all'altro di salvare la faccia. «Devo sovrintendere ai preparativi per il campo.» «Ah.» L'agricoltore annuì con aria saputa, come se comprendesse che quella che aspettava il tribuno era una notevole fatica, poi eseguì un rigido inchino, si girò e corse a rifugiarsi in casa, mentre Scaurus rideva in silenzio della sua ritirata frettolosa. I legionari, le cui tende si stavano già alzando con ordine senza bisogno della minima supervisione, accolsero il suo ordine relativo al servizio di sorveglianza con un entusiasmo appena controllato che divenne esplicito quando Blaesus si offrì di effettuare personalmente uno dei turni di guardia alla porta della stalla. «E perché no?» commentò il giovane centurione, sorridendo di piacere per quella reazione. «È quasi più facile che dormire.» «Ma farai meglio a non addormentarti, Junius» commentò il tribuno, intento a piantare un paletto della sua tenda nel terreno fangoso... forse l'unico compito che la pioggia contribuiva a semplificare. Il suo tono era stato scherzoso, e Blaesus continuò a sorridere, ma meno di prima, perché il fustuarium era la pena prevista per le sentinelle che si addormentavano durante il loro turno di guardia. Una volta rizzata la tenda, Marcus si asciugò come meglio poteva, e notò che Malric e Dosti si erano addormentati profondamente non appena terminata la cena.
«Cos'hai fatto, hai chiesto una pozione a Styppes?» sussurrò ad Helvis, mentre lei copriva i bambini. «Quei due sono stati due veri diavoli da quando siamo partiti.» «Non ti sei sbagliato di molto» rispose lei, sollevandosi, e gli gettò un otre vuoto per metà. «Mentre tu eri occupato, ho dato ad entrambi un buon sorso di vino.» «Davvero? E perché?» «Per noi» spiegò Helvis, lanciandogli una lunga occhiata in tralice, con voce densa e dolce quanto il vino racchiuso nell'otre che lui aveva in mano. Marcus ebbe appena il tempo di posarlo che lei gli si insinuò sorridendo fra le braccia. Felice e sorpreso, perché ben sapeva come il suo desiderio si attenuasse quando aspettava un figlio, Marcus la baciò. Helvis gli slacciò la cintura con la spada, sospingendo verso il basso il gonnellino militare tempestato di borchie metalliche. «Quante complicazioni» mormorò, mentre Scaurus, che già le aveva sfilato la tunica, le baciava gli occhi e un orecchio. Il tribuno spense la lampada con un soffio, poi entrambi scivolarono sulla stuoia. Dopo un po', Helvis gli girò le spalle, invitandolo ad una posizione che si prestava ad un amore lento e pacato e che si confaceva ad entrambi, a lei per via della gravidanza, a Marcus perché era sfinito dopo giorni interi di marcia nel fango. Appagato, più tardi Scaurus rotolò pigramente sulla schiena, fischiettando nel buio; Malric si mosse e borbottò qualcosa. «Zitto, caro» mormorò Helvis, e Marcus non capì con certezza a chi dei due si stesse rivolgendo finché lei non trovò a tastoni l'otre del vino e fece bere al figlio un lungo sorso. Il bambino schioccò le labbra, si girò su un fianco e si rimise a dormire. «Ecco fatto» commentò Helvis, rivolta al tribuno. «Stanotte, niente interruzioni.» E si strinse contro di lui, accarezzandolo con sensualità per ridestare il suo desiderio. «Ora smettila» osservò Marcus. «Sto bene così.» «Non ne dubito» ribatté lei, con una nota maliziosa nella voce, e non smise di accarezzarlo. «Non sono certo di poter tornare ancora alla carica» protestò Scaurus, ma già mentre parlava sentì il proprio corpo reagire e smentire le sue affermazioni, mentre le sue braccia si serravano intorno ad Helvis.
«Sei l'uomo più rumoroso che abbia conosciuto» Helvis borbottò più tardi, con gentilezza, perché il tribuno aveva involontariamente svegliato Dosti. Pervaso da un assoluto benessere, Marcus non rispose mentre lei si allontanava per tranquillizzare il piccolo con lo stesso sistema usato con Malric, prima di tornargli accanto. Dopo qualche tempo, quando Helvis riprese a stuzzicarlo, Marcus la guardò con aria sconcertata, ma la luce era troppo scarsa per permettergli di decifrare la sua espressione. «Stai chiedendo troppo, sai» mormorò, in tono assonnato. «Tutte le volte che io ti ho detto una frase del genere» rise lei, «mi hai tenuto il broncio per giorni. Vedi ora cosa si prova a fare la parte del topo anziché del gatto, signore? Ma ti voglio, e ti avrò.» Marcus le accarezzò i capelli, ora umidi non soltanto di pioggia ma anche di sudore, come i suoi. «Però c'è una differenza, per quanto mi riguarda: se non posso, non posso.» «Ci sono molti sistemi» ribatté lei, procedendo ad applicarne uno. Ci volle qualche tempo, ma alla fine Marcus scoprì che era vero, e lo stupore cedette il posto ad un profondo piacere, prima che lui piombasse nel sonno più profondo che avesse mai conosciuto. Helvis attese per quello che le parve un tempo interminabile, ascoltando il respiro lento e regolare di Scaurus e il tamburellare della pioggia sul tetto. Il tribuno non si mosse neppure quando lei si allontanò dal suo fianco e si alzò in piedi con una smorfia irritata sul viso. Era lieta che la penombra avesse impedito a Marcus di vederla in faccia. Si vestì in fretta, chiudendosi il mantello sulla tunica, poi trovò a tentoni l'otre del vino e lo infilò in una tasca profonda, continuando a tastare il terreno fino ad incontrare con le dita anche la cintura con la spada di Scaurus. Il coltello a lama larga scivolò fuori del fodero con un sommesso stridio metallico, rivelandosi più pesante del previsto, una volta che lo ebbe in pugno. Helvis abbassò poi lo sguardo sul tribuno addormentato, la cui sagoma era poco più di un'ombra indistinta nell'oscurità, e le sue dita si serrarono intorno all'impugnatura del coltello... La donna si morse con violenza un labbro, fino a sentire in bocca il sapore del sangue, e scosse con violenza il capo: non poteva farlo. Il coltello finì nella tasca insieme all'otre di vino. Malric piagnucolò un poco quando lei lo sollevò, ma non si svegliò, e
Dosti non protestò affatto, continuando a dormire e ad alitarle sul volto un respiro denso di fumi di vino. Tenendo entrambi i bambini sotto il mantello, in modo che la pioggia non li destasse, Helvis si accinse a lasciare la tenda, ringraziando Phos per il fatto che Marcus l'avesse montata accanto ad un lato della stalla, perché sapeva che non avrebbe potuto reggere a lungo il peso di Malric. Per un momento, desiderò di non essere incinta, perché questo rendeva i suoi movimenti lenti e goffi, ed avrebbe aumentato i rischi inerenti a ciò che andava fatto. La pioggia gelida la sferzò in volto quando spinse con una spalla il telo d'ingresso e uscì nella notte, guardandosi intorno per orientarsi senza gettare neppure un'occhiata alle proprie spalle, in direzione di Marcus: la stalla era là, con la sentinella appostata davanti alla porta, ed Helvis si chiese chi fosse di turno in quel momento. La maggior parte delle tende dei legionari era alle sue spalle, e poteva scorgere il bagliore di una lampada trapelare da un paio di esse; le note intermittenti della pandora con cui Senpat Sviodo stava cercando di passare il tempo giunsero dolci fino a lei al di sopra dello scrosciare della pioggia, e più vicino la voce di Titus Pullo scoppiò in una risata per una battuta di Vorenus. Helvis si sentì pervadere dal sollievo, consapevole che ciò che intendeva fare sarebbe diventato di una difficoltà impossibile a sormontarsi se uno di quei due fosse stato di guardia, perché Pullo e Vorenus erano fin troppo vigili; sapeva bene che tutti quei Romani erano ottimi soldati, ma i due ex-rivali erano i migliori in assoluto. Si chiese poi da quanto tempo la sentinella fosse là: il suo turno era appena iniziato, oppure stava volgendo al termine? Le nubi che coprivano la luna e le stelle le impedivano di stabilire che ora fosse, quindi decise di giocare d'azzardo... le sue labbra si contrassero in un sorriso privo di umorismo quando si rese conto che il soprannome sprezzante che i Videssiani avevano affibbiato al suo popolo, gli Scommettitori, aveva in fondo una base di verità, come tutti i soprannomi. Con cautela, si avviò in mezzo al fango, come se avesse avuto intenzione di raggiungere le latrine scavate dietro la stalla. Se là ci fosse stato qualcuno, avrebbe sempre potuto tornare sui suoi passi senza correre rischi... abbandonando suo fratello e gli altri Namdaleni al giudizio dell'Avtokrator dei Videssiani, una cosa intollerabile anche solo a pensarsi. Vicino alle fetide fosse non c'era nessuno, ed Helvis sussurrò una preghiera a Phos, ringraziandolo per la protezione concessale, mentre la sua
confidenza nella riuscita del piano aumentava vertiginosamente; non appena la parete della stalla la nascose alla vista della sentinella romana, si portò al riparo delle ampie grondaie sporgenti dell'edificio, affondò il volto nel cavo della spalla per asciugarlo dalla pioggia che l'accecava e si chinò, deponendo i bambini addormentati nel piccolo spazio asciutto adiacente alla grigia parete di pietra. «Tornerò presto, tesori miei» sussurrò, pur sapendo che il vino che avevano bevuto impediva ai due di udire le sue parole. La vista di Dosti le lacerò il cuore, perché si sentiva al tempo stesso una prostituta e una traditrice per il modo in cui aveva ingannato suo padre, ma si disse che i vincoli di sangue, di fede e di razza erano più antichi e più forti di quei due anni e mezzo di ciò che a volte era stato amore, trascorsi con Scaurus. Raddrizzatasi, Helvis impugnò il coltello del tribuno e lo tenne nascosto sotto l'ampia manica del mantello; il cuore le batteva con violenza e il respiro era accelerato, non per la passione finta poco prima ma per la paura. Quando se ne rese conto, questo l'aiutò a ritrovare la calma, mentre svoltava l'angolo del granaio e si avvicinava alla sentinella. Era certa che non avrebbe potuto coglierla di sorpresa... non aveva mai visto un legionario distrarsi quando era di guardia... quindi si accostò senza sotterfugi, rumorosamente e lamentandosi ad alta voce per il tempo orribile. «Chi...?» cominciò a chiedere il Romano, irrigidendosi e sbirciando fra i veli di pioggia e di oscurità. «Oh, sei tu» aggiunse, rilassandosi con una risata contrita. «Sì, questa pioggia è detestabile, vero? E pensare che sono stato tanto idiota da offrirmi volontario per montare la guardia sotto di essa. Avanti, vieni al riparo della grondaia: qui almeno è un po' più asciutto, anche se non molto, a causa di questo dannato vento da nord.» «Grazie, Blaesus.» «Cosa posso fare per te, mia signora?» domandò il giovane centurione, che aveva un carattere schietto e amichevole, fiducioso per natura; sapeva che Helvis era una Namdalena, nello stesso modo in cui sapeva che Senpat Sviodo era un Vaspurakano o che Styppes era un Videssiano, ma questo significava assai poco per lui... non nutriva verso quella donna più sospetti di quanti ne avrebbe potuti nutrire sul conto dello stesso Scaurus. «Ho qui un po' di frutta candita che Marcus ha pensato avrebbe potuto farti piacere» rispose Helvis, avvicinandosi maggiormente. Blaesus notò che la donna era stata abbastanza sensata da tenere le mani nascoste nelle maniche, per proteggerle dal freddo e dalla pioggia, e sentì
al tempo stesso il volto che gli si arrossava per la contentezza: il tribuno era davvero un ufficiale come se ne poteva trovare uno su diecimila, se aveva pensato a dividere quei dolciumi con una sentinella. Il coltello gli si conficcò nel collo senza che lui avesse neppure il tempo di vederlo: cercò di urlare, ma il sangue gli invase la bocca, pervadendola di un sapore ferruginoso e salato. Blaesus avvertì un fugace senso di irritazione contro se stesso... avrebbe dovuto stare più attento, una cosa che Scaurus gli aveva già fatto notare in precedenza. Quel pensiero divenne sfuocato e remoto, mentre lui lottava invano per respirare attraverso il fuoco e il sangue che gli colmavano la gola, poi i ginocchi gli cedettero e cadde a faccia in avanti nel fango. «Signore!» gridò un legionario, infilando la testa nella tenda di Scaurus. «Eh? Cosa c'è?» Il tribuno rotolò su un fianco e si lasciò sfuggire un grugnito quando la sua schiena venne a contatto con la stuoia gelida. Le parole del legionario... Marcus si rese finalmente conto che si trattava di Lucius Vorenus... dispersero del tutto il sonno che lo annebbiava. «Blaesus è stato assassinato, signore, e gli isolani sono fuggiti!» «Cosa? Sterco!» Scaurus balzò in piedi, cercando a tentoni i vestiti. Essendo stato svegliato all'improvviso, e con notizie così sconvolgenti, impiegò qualche secondo per accorgersi che Dosti e Malric non avevano cominciato a strillare e che Helvis non era accanto a lui, e non diede comunque peso alla cosa. Quando afferrò la cintura della spada, però, si accorse che non era bilanciata come di consueto, e le sue dita trovarono il fodero vuoto. «Assassinato?» domandò a Vorenus, con voce tesa. «Come?» «Gli hanno trapassato la gola come se fosse stato un maiale, signore» rispose, cupo, il legionario. «No» sussurrò Scaurus, in un tono che era in parte una preghiera e in parte un gemito, mentre la sua mente cominciava ad afferrare l'orribile meccanica degli eventi di quella notte. Scalzo e nudo fino alla cintola, si precipitò oltre Vorenus e corse fino alla stalla, mentre il legionario si affrettava a seguirlo, procedendo con maggior fatica nel fango a causa delle caligae e della cotta di maglia. «Helvis e i bambini sono dietro la stalla?» chiese Marcus, da sopra la spalla. «Alle latrine? Non credo, signore. Perché?» Vorenus era ansante e perplesso.
«Perché non sono neppure nella mia tenda» ribatté il tribuno, con voce aspra, assaporando fino in fondo quella coppa di disperazione e di tradimento. «E il mio coltello è sparito.» La mascella di Vorenus si serrò di scatto. Il cadavere di Blaesus, che aveva ancora sul volto un'espressione sorpresa, era appoggiato alla parete della stalla, vicino alla porta aperta. «Quando sono venuto a dargli il cambio» spiegò Vorenus, «ho pensato che si fosse sentito male, finché non l'ho spostato ed ho visto... quello.» Uno squarcio simile a una seconda bocca spiccava nel collo del centurione. «Al mio arrivo, la porta era chiusa» proseguì il legionario, «suppongo perché nel campo nessuno si accorgesse che qualcosa non andava. Comunque là dentro non c'è più neppure un Namdaleno, e sono spariti anche i cavalli.» «È ovvio» convenne Scaurus. «Nevrat e Senpat hanno ancora le loro cavalcature?» «Non lo so, signore. Sono venuto subito da te, e la loro tenda è a una certa distanza dalla tua.» «Va' ad appurarlo. Se li hanno ancora, ne avremo bisogno. Da' la sveglia al campo, manda fuori delle squadre di ricerca...» Anche se non troveranno nulla, pensò con notevole sarcasmo nei propri confronti, perché sono appiedate mentre gli isolani hanno i cavalli e gli dèi soltanto sanno quanto vantaggio. Cercò anche di dirsi che forse, per chissà quale miracolo, Helvis era là intorno da qualche parte, e si stava chiedendo il motivo di tutta quella agitazione, e sussultò nel rendersi conto di quanto questo fosse improbabile. Vorenus accennò ad allontanarsi di corsa, ma lui lo trattenne, aggiungendo: «E manda qui Styppes.» Il legionario si affrettò ad obbedire dopo aver salutato, e Marcus abbassò lo sguardo sul corpo di Blaesus, notando che i foderi appesi alla sua cintura erano vuoti. Questo significava che i Namdaleni avevano ora un gladius e un paio di coltelli... non era granché. La sua mente, intontita dall'incredulità, si concentrò ostinatamente su quei particolari insignificanti per evitare di pensare alla tenda vuota che si trovava ad una trentina di metri di distanza, consapevole che la vera sofferenza sarebbe cominciata fin troppo presto. Un'ombra scura avanzò a fatica verso la stalla... doveva essere Styppes, a giudicare dalla mole e dalla posa rabbiosa; quando fu più vicino, Marcus lo sentì borbottare fra sé ed emettere poi un grugnito di sorpresa nel vederlo fermo davanti alla soglia, mezzo nudo.
«Se mi hai chiamato per curarti da una febbre ai polmoni» commentò il prete, con sarcasmo, «ti avverto che non posso farlo finché non l'hai contratta, cosa che peraltro ti succederà molto presto.» Quelle parole richiamarono l'attenzione di Marcus sulla pioggia e sul freddo, strappandogli un brivido, di cui però non si accorse neppure. Riducendo al minimo i particolari, spiegò l'accaduto a Styppes, senza tralasciare nulla tranne quanto era accaduto nella sua tenda, perché era consapevole che mentire sarebbe stato inutile. «Tu ti intendi un poco di magia» concluse. «Puoi scoprire dove sono fuggiti? Forse possiamo ancora riprenderli: non possono viaggiare in fretta, avendo con loro una donna incinta.» «Quella cagna eretica...» ringhiò Styppes, ma non poté aggiungere altro, perché un pugno di Scaurus lo gettò al suolo. Il prete si rialzò lentamente, gocciolante e infangato, e Marcus si aspettò che esplodesse in una rabbiosa invettiva. «Chiedo perdono, padrone» mormorò invece, in un tono tanto servile da lasciare il tribuno sconcertato, perché non era consapevole dell'espressione omicida che gli era apparsa nello sguardo. «Conosco un incantesimo di ricerca, ma non posso garantire che funzioni... quello non è il mio campo. Metteresti forse un gioielliere davanti ad un'incudine, chiedendogli di forgiare una spada?» «Provaci.» «Avrò bisogno di qualcosa che appartenga ad uno dei fuggitivi.» «Te lo porterò nella tua tenda. Aspettami là» rispose il tribuno, allontanandosi di corsa verso la propria, perché là sarebbe stato facile trovare un oggetto di proprietà di uno dei fuggiaschi. Senpat e Nevrat Sviodo, armati e in sella, apparvero davanti a lui. «Cosa vuoi che facciamo?» chiese Senpat, badando a mantenere neutro il tono della propria voce. Certo ormai tutto il campo doveva essere al corrente dell'accaduto, e in attesa di vedere cosa avrebbe fatto Marcus. «Prendi con te una dozzina di uomini, torna indietro fino all'ultima grossa fattoria che abbiamo oltrepassato e requisisci tutti i cavalli che hanno» ordinò il tribuno. «Dobbiamo riprenderli, e quando ho inseguito Ortaias Sphrantzes, dopo Maragha, ho scoperto che è inutile inseguire appiedati un gruppo di cavalieri.» Il giovane Vaspurakano annuì e accennò ad allontanarsi, chiamando alcuni Romani perché si unissero a lui; Nevrat però si protese sulla sella, accostandosi a Scaurus quanto bastava perché lui potesse scorgere la com-
passione dipinta sul suo viso. «Mi dispiace» disse, in tono quieto. «La colpa è in parte mia. Se non avessi trovato questo posto, tu avresti seguito il metodo di sempre e non sarebbe successo nulla.» «Tanto varrebbe incolpare l'ometto pomposo che ha costruito la stalla» obiettò il tribuno, scuotendo il capo. «Sono stato io a stabilire il sistema di sorveglianza, ed ancora io...» Non poté continuare. Come spesso sembrava capace di fare, Nevrat comprese i suoi sentimenti. «Non la biasimare troppo. Non ha agito per malvagità, credo, né per odio nei tuoi confronti.» «Lo so» ammise, cupo, il tribuno. «Ma questo non mi rende più facile sopportare l'accaduto... lo rende più penoso.» Con una scrollata, si liberò dalla mano che Nevrat aveva proteso in un gesto di conforto e, dopo averlo fissato per un lungo momento, la donna andò a raggiungere il marito. Rientrato nella tenda, Marcus si gettò sulle spalle umide il mantello da tribuno. La cassa da viaggio di Helvis era dove lei l'aveva lasciata, accanto alla stuoia, e lui l'aprì, frugando al suo interno. Quasi in cima, sotto una tunica ricamata, trovò un piccolo pezzo di legno piatto e quadrato... l'icona che le aveva regalato alcuni mesi prima. Assalito da un cocente dolore, Marcus serrò gli occhi e si batté un pugno su una coscia, con rabbia; poi, come per girare ulteriormente il coltello nella piaga, prese l'immagine sacra e la portò a Styppes. «Una buona scelta» commentò il prete, togliendogliela di mano. «La santità di Phos aiuta qualsiasi incantesimo effettuato per una buona causa, e come tu sai il santo Nestorios ha una particolare affinità con i Namdaleni.» «Limitati a procedere con l'incantesimo» ringhiò Scaurus, con voce aspra. «Ricorda che non tento più una cosa del genere da molti anni» avvertì Styppes, iniziando un rituale che non parve molto diverso da quello impiegato da Nepos quando il tribuno gli aveva chiesto di rintracciare un documento fiscale andato perduto, nella capitale. Dopo essersi prostrato davanti all'icona, Styppes la tenne sollevata sulla testa con la destra e cominciò a cantilenare nell'antico dialetto utilizzato per la liturgia videssiana del culto di Phos, muovendo al tempo stesso la sinistra su una tazza di vino in cui galleggiava una lunga scheggia di legno
pallido, un'estremità della quale era stata dipinta di una tonalità di azzurro uguale a quella della tunica del sacerdote. La cantilena non si concluse con un ordine deciso, come quella di Nepos, ma con un'implorazione. «Benedetto sia il Signore dalla mente grande e buona!» sussurrò Styppes, dopo aver aperto la mano sulla coppa con un gesto supplichevole, perché la scheggia di legno stava ruotando come un chiodo di ferro attratto da una calamita. «Sudest» aggiunse poi, studiando la direzione della punta dipinta di azzurro. «Verso la costa, allora» commentò Marcus, quasi fra sé, rivolgendosi poi nuovamente a Styppes. «Tu verrai con noi, prete, e ripeterai il tuo incantesimo ad intervalli di due ore, per garantire che non perdiamo la pista.» Styppes gli lanciò un'occhiata velenosa, ma non osò rifiutare. Il gruppo degli inseguitori lasciò il campo verso l'alba, in sella ad uno strano assortimento di animali: un paio di veri cavalli da sella, oltre a quelli di Senpat e di Nevrat, una mezza dozzina di animali da soma, un po' troppo vecchi per quel genere di lavoro, e tre grossi cavalli da tiro. «Sono bestie misere» ammise Senpat, rivolto a Marcus, «ma ho dovuto frugare quattro fattorie per metterle insieme, perché da queste parti usano soprattutto buoi e asini.» «Neppure gli isolani montano animali da corsa» ribatté il tribuno. Il tumulto nel campo romano aveva svegliato il fattore a cui i Namdaleni avevano rubato i cavalli, e Scaurus si sentiva ancora rintronare gli orecchi per le sue grida oltraggiate. Mista alle imprecazioni, comunque, l'uomo aveva fornito una dettagliata descrizione delle bestie in questione e, anche accettando per vere le inevitabili esagerazioni in merito alla loro qualità, Marcus dubitava comunque che si trattasse di animali che avrebbero potuto indurre in tentazione la cavalleria videssiana. La pioggia divenne intermittente ed infine cessò, ma il forte vento da nord continuò ad accumulare nel cielo banchi su banchi di nuvole grigie. Styppes, che si era portato dietro un'abbondante scorta di vino con cui operare la sua magia, ne trangugiò di frequente qualche sorso, il che non contribuì certo a migliorare la sua abilità di cavallerizzo: il prete ondeggiava infatti sulla sella del suo cavallo da aratro come una nave su un mare in burrasca. Marcus, più alto e pesante dei suoi uomini, era anche lui in sella ad uno
di quei massicci cavalli da tiro. Sentendo i muscoli possenti dell'animale che si contraevano sotto di lui, il tribuno rifletté che stava infine cominciando ad agire come un Videssiano: l'incantesimo di Styppes non era che uno strumento in più da utilizzare, come un cesello o una sega, e non qualcosa che potesse indurre a sussultare per uno stupido senso di paura. E per viaggiare in fretta, usare un cavallo era indubbiamente più pratico che andare a piedi. Altri pensieri ribollivano però sotto la superficie della sua mente, e lui lottò per combattere l'angoscia insorgente con l'ausilio della sua formazione stoica, ricordando ripetutamente a se stesso che ad un uomo non accadeva nulla che lui non fosse per natura in grado di sopportare, che era inutile abbandonarsi come una marionetta alle passioni e che nessuna anima avrebbe dovuto di sua iniziativa rinunciare al proprio autocontrollo. Il fatto che dovette ripetersi quelle massime parecchie volte dimostrò quanto poco esse gli fossero d'aiuto. Nel corso dell'inseguimento, Marcus interrogò tutti i pastori e i custodi di frutteti incontrati dai legionari, chiedendo loro se avessero visto i fuggitivi. «Sì, sono passati al galoppo, poco dopo l'alba» rispose un pastore, verso metà della mattinata. «Hanno fatto qualcosa?» Un'espressione interessata si accese nei suoi occhi rugosi, protetti dal cappello di lana tirato basso sulla fronte. «Non siamo certo in giro per un'esercitazione» ribatté il tribuno, spronando il cavallo prima ancora che la secca risatina del pastore avesse cessato di echeggiare. «Stiamo guadagnando terreno» commentò Senpat Sviodo, e Marcus annuì. «Cosa farai con Helvis, quando li prenderemo?» aggiunse Nevrat. Scaurus serrò la mascella fino a farsi dolere i denti, ma non rispose. Un po' più avanti, Styppes ripeté il suo incantesimo, e il pezzo di legno si mosse immediatamente, puntando ora più ad est che a sud. «Da quella parte» indicò il prete, che appariva compiaciuto di sé per essere riuscito ad operare l'incantesimo due volte di fila, poi bevve un lungo sorso di vino come ricompensa per quel successo. A mano a mano che la costa si faceva più vicina, il terreno acquistò maggiore consistenza sotto gli zoccoli dei cavalli, perché la sabbia stava ora rimpiazzando il denso terriccio nero della pianura. Alcune rondini marine solcarono il cielo, stridendo nel lasciarsi trasportare dalla brezza vio-
lenta, mentre i cavalli trottavano oltre una macchia di stentati pruni carichi di frutti rossicci e calpestavano la rada erba e i ciuffi di ispido salicornio che crescevano fra la sabbia. Poi più avanti apparve il mare, grigio e minaccioso quanto il cielo, che aggrediva la spiaggia con i marosi spumeggianti; Scaurus si umettò le labbra, avvertendo su di esse il sapore della salsedine, e scrutò la distesa di sabbia gialla su cui non spiccavano tracce. «Da che parte?» chiese a Styppes, alzando la voce per farsi sentire al di sopra del rombo della risacca. «Ora lo vedremo, d'accordo?» Il prete ammiccò con occhi un po' velati, e Marcus si sentì mancare il cuore nel vedere il modo in cui barcollava nello scendere di sella, con l'otre di vino che gli sbatteva contro il fianco, floscio quanto il seno di una vecchia zitella. Styppes riuscì a trovare ancora qualche goccia da versare nella coppa, ma quando cercò di ricordare l'incantesimo un sorriso confuso gli si dipinse sulla faccia; tenne comunque alta l'immagine del santo Nestorios e farfugliò qualche parola in videssiano arcaico, ma perfino il tribuno notò che procedeva con incertezza, inceppandosi almeno cinque o sei volte. Anche le mosse della mano erano troppo lente e incerte, e il pezzo di legno nella tazza rimase inerte. «Ubriacone buono a nulla» inveì Scaurus, troppo teso per controllarsi oltre. Borbottando qualcosa che poteva essere una frase di scusa, Styppes tentò ancora, ma riuscì soltanto a rovesciare la coppa, e la sabbia avida assorbì il vino. Il tribuno imprecò contro di lui con la stanca ira derivante dalla disperazione. «Da quella parte c'è del fumo, signore, o almeno credo» avvertì in quel momento Titus Pullo, indicando verso sud. Marcus guardò nella direzione in cui era puntato il dito del legionario, e scorse una colonna di fumo agitata dal vento. «Avremmo dovuto notarlo prima» aggiunse Senpat Sviodo, con rabbia. «La peste si porti queste nuvole, che sono dense quasi quanto il fumo.» «Andiamo» ordinò Marcus, rimontando in sella e battendo i talloni contro le costole dell'animale da tiro che partì al piccolo galoppo, sbuffando. Un grido alle sue spalle lo indusse a girare la testa, e vide che Styppes stava ancora lottando per issarsi in groppa alla sua cavalcatura. «Lasciatelo qui!» esclamò, secco. Sollevando nuvole di sabbia, gli inseguitori partirono verso sud. Non appena aggirato un promontorio, i legionari scorsero un grande falò
che ardeva sulla spiaggia a circa un chilometro di distanza, e Marcus sentì il cuore balzargli in gola, perché intorno al fuoco c'erano alcuni cavalli, ed altri si erano allontanati per brucare la poca vegetazione che cresceva stentata fra la sabbia. «Al galoppo!» urlò Senpat, con un'esclamazione di trionfo, e spronò la propria cavalcatura, seguito dagli altri. Sobbalzando su e giù sull'arcione, con gli occhi che lacrimavano per il vento della corsa, Scaurus riuscì a stento a rimanere in sella; il legionario Florius non fu altrettanto tenace e cadde rotolando sulla sabbia, mentre il suo cavallo si allontanava al galoppo. Vorenus lanciò un'esclamazione beffarda nell'oltrepassare il compagno appiedato, poi per poco non fece la stessa fine quando il suo cavallo da soma incespicò. Dal momento che i Romani erano costretti a concentrare tutta la loro attenzione sul controllo delle cavalcature, Nevrat Sviodo fu la prima a scorgere la nave da guerra che si trovava al largo della costa, con l'ampia vela quadrata strettamente raccolta per resistere al vento violento e quelle triangolari più piccole, di poppa e di prua, spiegate per mantenerla ferma nell'acqua. Le murate e il ponte erano dipinti di una tinta verde mare, al fine di renderla il più invisibile possibile. Quel colore ricordò a Marcus lo stemma di Drax, e gli fece capire con devastante certezza che quella non era una nave imperiale, ma un vascello pirata namdaleno in caccia lungo le coste videssiane. Un momento dopo il grido di avvertimento di Nevrat, il tribuno scorse una barca a remi che stava andando incontro alla nave, e vide il vento agitare i capelli di una donna e sospingerglieli contro il volto in onde nere. Una sagoma più piccola sedeva accanto alla donna, da ciascun lato, e lei stava guardando in direzione della spiaggia, con il braccio teso per indicare i legionari in arrivo. Nel compiere quel gesto, la donna gridò anche qualcosa, e pur non potendo distinguere le parole, Scaurus non ebbe difficoltà a riconoscerne la dolce voce da contralto. Messi in guardia, i rematori accelerarono il ritmo. La barca era ancora ad appena un paio di centinaia di metri dalla spiaggia, e Senpat incoccò una freccia, spingendo avanti il cavallo finché l'acqua gli arrivò all'altezza del ventre, poi tirò indietro la corda fin quasi all'orecchio e lasciò partire il dardo. Guardandolo, Marcus borbottò una preghiera, senza sapere neppure lui se aveva chiesto o meno che la mira di Senpat fosse precisa. Vide la freccia cadere in mare a qualche metro di distanza dal lato della
barca, i cui rematori si stavano piegando sugli scalmi come uomini posseduti dal demonio. Senpat incoccò una seconda freccia e imprecò sonoramente quando la corda dell'arco si ruppe non appena sottoposta a tensione; Nevrat si affrettò a porgergli il proprio, ma si trattava di un'arma più leggera e di portata minore: quando Senpat tirò, la freccia cadde a parecchia distanza dal bersaglio. Il Vaspurakano effettuò un secondo tentativo, per dimostrare a se stesso che non si era trattato di un suo errore, poi scosse il capo e restituì l'arco a Nevrat. Sapendo di essere ormai salvi, i rematori rallentarono il ritmo. Sentendo di avere le guance bagnate, Scaurus pensò che avesse ricominciato a piovere, e soltanto in un secondo momento si accorse che stava invece piangendo; mortificato, cercò di controllarsi, ma non vi riuscì, e abbassò lo sguardo sulla sabbia, con gli occhi brucianti di lacrime. Una volta recuperati la barca e i suoi occupanti, la nave namdalena sciolse le vele, che si gonfiarono sotto la brezza come una cosa viva. Quando il tribuno risollevò lo sguardo, sotto la prua della nave c'era una scia bianca, e i timonieri a poppa si stavano appoggiando con forza sui due timoni gemelli. Il vascello pirata si allontanò bruscamente dalla terraferma, puntando ad est con il vento di babordo, e nessuno sul ponte si guardò indietro. In seguito, Marcus ricordò ben poco dei due giorni che seguirono: pietosamente, forse, il dolore, il senso di perdita e il tradimento subito resero ogni cosa sfuocata. Di certo doveva aver restituito i cavalli, tanto quelli rubati quanto quelli requisiti, perché era a piedi quando entrò nel principale suburbio che sorgeva sulla riva occidentale del Guado del Bestiame, quella cittadina che i Videssiani chiamavano semplicemente l'"Altra Sponda". Ciò che gli rimase in mente, stranamente, fu una cosa che avrebbe dovuto essere per lui la meno probabile da ricordare. Cercando di liberarlo dalla sua cupa disperazione, Senpat e Nevrat comprarono una grossa anfora di vino e, reggendola di peso in mezzo a loro, la trascinarono su per le scale fino al piccolo alloggio che il tribuno aveva affittato sopra il negozio di un profumiere. «Prendi» ordinò Senpat, esibendo un boccale. «Bevi.» La sua decisa voce tenorile non ammetteva discussioni, e Scaurus bevve. Pur essendo di solito moderato nelle libagioni, quella sera andò volentieri in cerca dell'oblio, e trangugiò il vino con un ritmo che avrebbe lasciato sgomento perfino Styppes. Pur consumandone meno di lui, ben presto i suoi amici vaspurakani sedettero rilassati sul nudo pavimento della piccola
stanza, uno con il braccio intorno alla spalla dell'altra ed entrambi con il viso atteggiato ad uno stupido sorriso, mentre Scaurus non riuscì a raggiungere lo stato di intontimento a cui anelava: la sua mente continuò ad essere pervasa da una chiarezza spaventosa. Il vino, comunque, fece affiorare ricordi che aveva creduto sepolti per sempre, e mentre la pioggia riprendeva a cadere, tamburellando sulle tegole del tetto e infilandosi fra le fessure delle imposte fino a formare una pozzanghera vicino al suo letto, lui prese a passeggiare avanti e indietro, declamando lunghi brani della Medea di Euripide, una tragedia che aveva imparato quando stava studiando il greco e a cui non aveva più pensato da allora. Quando aveva letto Medea per la prima volta, le sue simpatie erano andate tutte all'eroina della vicenda, secondo quella che era stata l'intenzione dell'autore. Adesso, però, lui aveva commesso lo stesso peccato di hubris di Giasone... forse il peggiore che un uomo potesse commettere, cioè quello di sottovalutare una donna... e si era ritrovato a rivestirne il ruolo. Riflettendo, scoprì anche che, come spesso accadeva nelle opere di Euripide, l'infelicità era equamente suddivisa fra entrambe le parti. Senpat e Nevrat ascoltarono i versi greci da lui recitati con un misto di ammirazione e di meraviglia. «Questa è vera poesia» dichiarò Senpat, reagendo con il suo orecchio di musicista al suono e alla metrica delle parole, «ma in che lingua? Non quella che voi Romani usate gli uni con gli altri, ne sono certo.» Anche se conoscevano ben poche parole di latino, sia lui che sua moglie erano capaci di riconoscerlo come tale quando lo sentivano. Il tribuno non rispose, e bevve invece un altro lungo sorso di vino, cercando di porre fine a quelle riflessioni che continuavano ad accalcarsi nella sua mente. La tazza gli tremò nella mano, e il vino dolce e appiccicoso gli si rovesciò su una gamba, senza però che lui se ne accorgesse, perché stava pensando che neppure Medea aveva sedotto Giasone prima di commettere i suoi omicidi e di fuggire sul cocchio tirato da un drago. «C'è mai stato un uomo che sia stato trattato in maniera peggiore da una donna?» esclamò. Non si era aspettato di ricevere una risposta a quel suo grido di disperazione, ma Nevrat si mosse fra le braccia del marito. «Quanto ad un uomo da parte di una donna, non saprei» replicò, guardandolo, «ma se vuoi puoi girare il concetto e guardare ad Alypia Gavra.» Marcus si fermò di colpo, fissandola, poi scagliò la tazza di vino, semi-
vuota, contro una parete, in preda ad un'improvvisa vergogna per la propria autocompassione. La prova che la figlia di Mavrikios Gavras aveva dovuto sopportare eclissava ciò che era accaduto a lui nella stessa misura in cui la luce del sole eclissava quella della luna. Con il suo atto di codardia, che era costato la vita a Mavrikios, nella battaglia di Maragha, Ortaias Sphrantzes si era salvato dalla disfatta con la fuga e, non appena rientrato alla capitale, aveva usurpato il trono imperiale, forte del fatto che gli Sphrantzes, un'antica famiglia di burocrati, avevano già dato altri regnanti all'impero; per solidificare quelle pretese Alypia, la cui casata si opponeva a tutto ciò che Ortaias rappresentava, era stata poi costretta a sposare quell'inetto. Ortaias però, un giovane stupido e insignificante, dotato più di ampollosità che di buon senso, non era stato altro che una pedina nelle mani di suo zio Vardanes che, con una malvagità che non aveva nulla di mediocre o di insignificante, aveva desiderato Alypia per anni. Vardanes aveva quindi sottratto la ragazza al nipote e l'aveva tenuta come schiava della propria lussuria durante tutto il breve, infelice regno di Ortaias. Quando il potere degli Sphrantzes era crollato, Scaurus aveva avuto modo di vedere le condizioni in cui la principessa era stata forzata a vivere, ed aveva notato che il suo spirito era rimasto indomito nonostante la sottomissione imposta al suo corpo. Voltando le spalle al muro macchiato, il tribuno s'inginocchiò accanto a Nevrat Sviodo e le sfiorò una mano in un gesto di gratitudine; quando poi cercò di aggiungere qualche parola di ringraziamento, la gola gli si serrò e lui scoppiò invece in pianto... ma questa volta si trattò di un pianto pulito, che segnava l'inizio del processo di risanamento della ferita subita. A quel punto, finalmente, il vino cominciò a fare il suo effetto, tanto che quando Nevrat e suo marito si alzarono e uscirono in punta di piedi dalla stanza Marcus non se ne accorse neppure. Faceva freddo nel Palazzo dei Diciannove Divani, e il tribuno si sentì assai solo nel presentare il suo rapporto a Thorisin Gavras. Gli Sviodo, ed anche Styppes... per quanto poteva valere la sua compagnia... avevano attraversato con lui il Guado del Bestiame, fino alla capitale, ma per quanto riguardava i legionari, Marcus aveva preferito rimandarli a Garsavra, da Gaius Philippus: senza i Namdaleni da custodire, infatti, la loro presenza era inutile, mentre a Garsavra Gaius Philippus avrebbe potuto trovare un modo migliore per utilizzarli ed al tempo stesso essi non avrebbero rischia-
to di subire l'ira dell'Avtokrator. Scaurus raccontò la verità, o almeno tutta la parte di essa che si era svolta fuori della sua tenda, e quando ebbe finito l'imperatore rimase in silenzio, osservandolo con espressione indecifrabile al di sopra delle dita congiunte. Marcus pensò che mentre all'epoca in cui lo aveva conosciuto, Thorisin lasciava trapelare apertamente i propri sentimenti, adesso stava invece imparando l'arte di non rivelare mai troppo, e i suoi occhi erano imperscrutabili. Poi in quella facciata esteriore formale si aprì una crepa che permise di intravedere l'uomo celato dietro di essa. «Dannazione a te, Scaurus» dichiarò Thorisin, in tono pesante, come se le parole gli venissero strappate di bocca una per una, «perché devo sempre apprezzarti e detestarti nello stesso momento?» Fra gli ufficiali che sedevano insieme a lui al tavolo del consiglio ci fu allora una leggera agitazione. Per lo più, si trattava di gente giovane, che si era messa in risalto all'occhio dell'imperatore durante la recente campagna lungo la costa, avvenuta mentre il tribuno era lontano nell'ovest, anche perché gran parte degli ufficiali che avevano servito con Scaurus all'epoca di Mavrikios Gavras erano morti o erano caduti in disgrazia in quanto ribelli... oppure entrambe le cose. «Vostra Altezza non può certo prestare fede a questa storia!» protestò uno di quegli uomini nuovi, un ufficiale di cavalleria chiamato Provhos Mourtzouphlos. L'incredulità era evidente sul suo volto avvenente incorniciato da una barba arruffata... come parecchi altri fra i militari che sedevano al tavolo del consiglio, infatti, Mourtzouphlos affettava la stessa noncuranza tipica di Thorisin nella cura dei capelli e della barba. Parecchie teste annuirono in segno di assenso. «Posso» replicò l'imperatore, continuando a studiare Scaurus come se si stesse chiedendo se il tribuno aveva omesso qualcosa nel suo racconto. «Anche se ancora non ho detto di crederci.» «Invece dovresti» intervenne, brusco, Taron Leimmokheir. La sua voce e la sua faccia, almeno, erano familiari. Come sempre, la rauca voce da basso del drungarios della flotta, abituata ad urlare comandi sul mare, suonava troppo possente in qualsiasi spazio chiuso, anche in uno vasto come il Palazzo dei Diciannove Divani. Leimmokheir sorrise a Marcus ed aggiunse: «Chiunque abbia il coraggio di tornare da te dopo simili rovesci di fortuna merita di essere onorato. E poi che importa se alla fine quei maledetti Scommettitori sono fuggiti? Non esiste nessuna Nuova Namdalen dall'altra
parte del Guado del Bestiame, e per questo devi ringraziare soltanto lo straniero.» Mourtzouphlos indirizzò un aristocratico sogghigno all'ammiraglio brizzolato, che era salito di grado soltanto grazie al coraggio, alla forza e... dote rara fra i Videssiani... all'assoluta, franca onestà che lo caratterizzavano. «Non c'è da meravigliarsi che Leimmokheir parli a favore dello straniero» commentò, «considerato quanto è in debito con lui.» «Lo sono, infatti, e lo riconosco con orgoglio, per Phos» ribatté il drungarios. L'imperatore, però, si accigliò nel rammentare come Leimmokheir avesse giurato fedeltà ad Ortaias prima di venire a sapere che Thorisin era sopravvissuto alla battaglia di Maragha... ed anche la cocciuta lealtà con cui l'ammiraglio si era rifiutato di rinnegare quel giuramento. Ricordò anche il tentativo di assassinio di cui lui aveva incolpato l'ammiraglio, rinchiudendolo in prigione per mesi finché Scaurus non aveva dimostrato la sua innocenza... provocando al tempo stesso la rivolta di Baanes Onomagoulos quando questi si era visto scoperto come effettivo ideatore dell'attentato. Thorisin si passò una mano sugli occhi con un gesto stanco, poi si grattò la tempia sinistra, dove i capelli castano scuro erano adesso più radi e più striati di grigio di quanto lo fossero stati quando Marcus e i legionari erano arrivati a Videssos. «Sono propenso a crederti, Romano» dichiarò infine. «Non per ciò che ha detto Taron, anche se nelle sue parole c'è del vero, ma perché so che sei abbastanza astuto da saper escogitare una menzogna più credibile della storia che mi hai rifilato... il che significa che con ogni probabilità essa deve essere vera. Già, con ogni probabilità» ripeté quasi a se stesso, poi si raddrizzò sul seggio dorato che occupava e concluse: «Rimani in città per qualche tempo: non c'è bisogno che ti affretti a rientrare a Garsavra, dal momento che il tuo luogotenente può benissimo tenere la postazione ora che l'inverno blocca tanto le mosse degli Yezda quanto le nostre.» «Come vuoi, naturalmente, signore» rispose Marcus, salutando. L'imperatore aveva ragione, tutto sommato... Gaius Philippus era anche più abile di lui in fatto di tattica... ma l'ordine era comunque abbastanza strano da indurre il tribuno a chiedere: «Cosa desideri che faccia, qui?» La domanda parve cogliere di sorpresa Thorisin, che si grattò nuovamente la testa e rispose dopo una lieve esitazione. «Tanto per cominciare, voglio un rapporto scritto completo, che esponga con maggiori dettagli tutto quello che mi hai riferito oggi. I Namdaleni so-
no avversari terribili da affrontare, e tutto quello che potrò apprendere in merito alle tattiche che hai usato con loro mi tornerà utile. E... ah, sì» proseguì, come se fosse stato colpito da un felice ripensamento, «puoi riprendere a controllare gli scribacchini, come hai già fatto lo scorso inverno.» Marcus s'inchinò, ma quando si sedette il suo volto era atteggiato ad un'espressione cupa: anche se Thorisin aveva affermato di credergli, infatti, non si aspettava di vedersi affidare un altro comando per parecchio tempo a venire. L'imperatore, intanto, aveva già accantonato nella propria mente la questione che lo riguardava. «Veniamo alla prossima buona notizia» disse, guardandosi intorno nella sala, e srotolò un quadrato di pergamena, che portava un sigillo elaborato ed era scritto con calligrafia larga ed accurata, tenendolo lontano da sé come se esalasse un cattivo odore. «Questa piccola missiva viene dal nostro caro amico Zemarkhos» annunciò in tono sardonico, poi cominciò a leggere ad alta voce. Una volta denudato di tutte le contorte espressioni retoriche usate dal prete, il proclama dichiarava che Amorion e le terre occidentali che circondavano la città erano divenute il legittimo principato di Phos sulla terra, e scagliava violenti anatemi contro Thorisin e contro il patriarca di Videssos, Balsamon. «Con questo, quel folle vuole intendere che a noi non piace massacrare i Vaspurakani» ringhiò infine l'imperatore, strappando in due la pergamena e gettandola alle proprie spalle. «Cosa dobbiamo fare in merito a queste assurdità?» I membri del consiglio avanzarono alcuni suggerimenti, che erano però esitanti, suicidi o entrambe le cose contemporaneamente. La verità era che gli Yezda, che Zemarkhos odiava quasi quanto gli eretici all'interno della propria fede, occupavano una vasta fetta di territorio fra Amorion e le truppe imperiali, per cui Thorisin poteva fare ben poco a parte ribollire di rabbia. L'imperatore lanciò un'occhiata rovente ai suoi consiglieri, irritato perché nessuno di loro riusciva ad aggirare l'ostacolo che bloccava anche lui. «Qualcuno ha un piano brillante da proporre?» chiese infine. L'unica risposta che ottenne fu un silenzio che lo indusse a scuotere il capo con aria disgustata. «No? Andate, allora. Il consiglio è sciolto.» I servitori spalancarono le massicce porte di bronzo del Palazzo dei Diciannove Divani per lasciar uscire gli ufficiali. Marcus si avvolse nel man-
tello per difendersi dalla brezza gelida, e pensò che per lo meno i burocrati riscaldavano abbondantemente i loro uffici. Alcuni contingenti di truppe videssiane avevano occupato due dei quattro edifici che i Romani avevano usato come alloggiamenti all'interno del complesso del palazzo, e una compagnia di Halogai appena arrivati dalle loro fredde terre settentrionali si era insediata nel terzo. Il quarto era vuoto, ma Marcus non aveva nessun desiderio di aggirarsi in quella solitudine come un ciottolo che rimbalzasse dentro un grosso tamburo yezda, quindi si sistemò in una stanza vuota al secondo piano dell'ala dei burocrati, nel palazzo che conteneva il Tribunale Principale. Gli appositori di sigilli lo accolsero con cauta cortesia, ricordando come lui si fosse intromesso in affari che essi consideravano un retaggio personale. Marcus cominciò a lavorare senza troppo zelo al rapporto che Thorisin gli aveva richiesto, che però gli parve trito e piatto già mentre lo scriveva, perché non riusciva a dargli nessuna importanza. Il tentativo di difendersi dal trauma causatogli dal modo in cui Helvis lo aveva lasciato, lo aveva infatti spinto a isolarsi anche dal resto del mondo, ed ora si muoveva come avvolto in una nebbia grigia che non aveva nulla a che vedere con il clima invernale. Quando bussarono alla sua porta, che teneva generalmente chiusa a chiave, Marcus fece del suo meglio per ignorare la cosa, ma i colpi si ripeterono con insistenza, ed alla fine lui si alzò con un sospiro dalla sedia che occupava, accanto alla finestra, ed andò ad aprire. In attesa davanti alla soglia, con le mani piantate sui fianchi, c'era un individuo grasso e glabro di età indefinibile, avvolto in una tunica di seta color zafferano variegata da ricami verdi... uno degli eunuchi che servivano gli imperatori videssiani in veste di ciambellani. «Ci hai messo un bel po'» commentò l'uomo, seccato, rivolgendo a Marcus l'inchino più ridotto che il protocollo ammettesse in quella circostanza, poi aggiunse: «Sei pregato di presentarti al cospetto di Sua Maestà Imperiale questa sera, nelle sue camere private, all'inizio della seconda ora della notte.» I Videssiani, come i Romani, dividevano il giorno e la notte rispettivamente in dodici ore, a partire dall'alba e dal tramonto. Marcus sussultò, perché Thorisin lo aveva ignorato per tutto l'arco della settimana trascorsa dopo il consiglio degli ufficiali. «Si aspetta che gli consegni il mio rapporto sulla campagna nelle terre
occidentali?» chiese al ciambellano. «Temo che non sia ancora concluso» aggiunse, consapevole di quanto stesse minimizzando l'effettiva incompletezza del rapporto in questione. L'eunuco scrollò le spalle fino a far tremare le mascelle grassocce. «Non so nulla di queste cose, so soltanto che un servitore verrà a prenderti per accompagnarti là all'ora che ti ho detto. E spero» puntualizzò, «che sarai più solerte ad accoglierlo di quanto tu lo sia stato con me.» Poi girò le spalle al tribuno e si allontanò con passo pesante. Il servitore risultò essere un altro eunuco, anche se vestito in maniera meno sfarzosa del messaggero precedente. L'uomo cominciò a tremare non appena uscì dall'ala ben riscaldata del Tribunale Principale e si trovò esposto alla fredda brezza notturna, destando un fugace sentimento di compassione in Scaurus, che indossava invece i pantaloni... come faceva la maggior parte dei Videssiani quando non era impegnata ad assolvere funzioni cerimoniali... e che non sentiva certo la mancanza della toga romana: gli inverni videssiani esigevano indumenti più caldi. I ciliegi che circondavano la residenza imperiale levavano al cielo i rami nudi come dita scheletriche... in quella stagione non c'erano da aspettarsi boccioli fragranti... e una squadra di Halogai era di guardia davanti alla soglia, con l'ascia a due lame stretta in pugno. Quei grossi guerrieri biondi, avvolti in pelli di otaria, di orso bianco, di volpe e di leopardo delle nevi, apparivano perfettamente a loro agio nonostante il freddo, e il tribuno pensò che era soltanto naturale, considerato che erano abituati a inverni assai più gelidi di quello. Gli Halogai lo scrutarono con curiosità, perché Scaurus somigliava più a loro che agli imperiali, poi discussero nella lingua gutturale del loro popolo mentre il ciambellano accompagnava il tribuno oltre la soglia, e Marcus colse la parola "Namdaleno" pronunciata in tono interrogativo. La sala d'ingresso era ancora segnata dalle cicatrici lasciate dal combattimento avvenuto la primavera precedente, quando Baanes Onomagoulos aveva inviato in città una squadra di sicari incaricati di eliminare l'imperatore; i legionari, che stavano tornando proprio allora dal campo di esercitazione, avevano sventato l'attentato. Lo sguardo di Scaurus si posò sul ritratto dell'Imperatore Laskaris, un grande conquistatore morto ormai da sette secoli e mezzo, e come sempre il tribuno pensò che Laskaris aveva più l'aspetto di un sottufficiale veterano che di un Avtokrator dei Videssiani. Adesso, però, una chiazza di sangue copriva l'angolo inferiore sinistro del quadro, e le scene di caccia rappresentate sui mosaici del pavimento
erano sfregiate da colpi di spada. «Aspetta qui» ordinò il ciambellano, arrestandosi. «Vado ad annunciarti.» «D'accordo.» Mentre l'eunuco si avviava rapido lungo il passaggio, Marcus si appoggiò al muro, fissando i pannelli di alabastro del soffitto: adesso erano bui, com'era ovvio, ma le pietre trasparenti erano tagliate in modo tale che durante il giorno una pallida, mutevole luce perlata pervadeva il passaggio. Il servitore imperiale scomparve dietro un angolo, ma non andò molto lontano. Scaurus sentì pronunciare il proprio nome, poi udì l'impaziente risposta di Thorisin. «Allora vallo a prendere» ordinò l'imperatore. Un momento più tardi l'eunuco ricomparve e rivolse un cenno a Marcus, invitandolo a seguirlo. L'imperatore era proteso in avanti sulla sedia, come se stesse cercando di indurre Scaurus ad entrare con la semplice forza della propria volontà, e sua nipote gli sedeva accanto, su un divano. Quando la vide, Marcus sentì il cuore mancargli dolorosamente un battito: com'era sua abitudine, soprattutto dopo la tormentosa esperienza vissuta per colpa di Vardanes Sphrantzes, Alypia aveva il volto atteggiato ad un'espressione astratta, ma i suoi occhi verdi si erano illuminati all'ingresso del tribuno. Attento a rispettare l'etichetta, Scaurus s'inchinò prima all'imperatore e poi alla principessa. «Vostra Maestà, Vostra Altezza» salutò. L'eunuco si accigliò nel notare che il visitatore aveva omesso di prostrarsi al suolo, come richiedeva il protocollo, ma Thorisin, come Mavrikios, era abituato a tollerare quel pizzico di romana cocciutaggine da parte del tribuno. «Prendetelo!» intimò però adesso, protendendo di scatto un dito. Due massicci Halogai sbucarono da dietro i battenti della porta e bloccarono in una morsa ferrea le braccia di Scaurus, che comprese subito che lottare sarebbe stato inutile. Per quanto fosse alto, infatti, i due guerrieri lo sovrastavano di mezza testa; come le sentinelle all'esterno, portavano i capelli raccolti in grosse trecce che arrivavano fino in fondo alla schiena, ma nel loro fisico non c'era nulla di effeminato, e le loro mani erano grosse come pale e dure come se fossero state di corno. La sorpresa e un senso di allarme spinsero il tribuno a dimenticare ogni discrezione. «Questo non è il modo più adatto per ottenere che un ospite si prostri» sbottò.
Un sorriso attraversò rapido il volto di Alypia, ma l'espressione di Thorisin rimase dura. «Taci» ingiunse, e si rivolse ad un altro visitatore presente nella stanza. «Allora, Nepos, quella tua infernale pozione è pronta oppure no?» Vedere Alypia ed essere subito dopo afferrato dai due giganteschi Halogai aveva fatto sì che Marcus non si fosse neppure accorto della presenza del piccolo prete grassoccio, che era impegnato a triturare insieme tre polveri diverse, una gialla, una grigia e una verde. «Ci siamo quasi, Vostra Maestà» rispose Nepos, indirizzando poi a Scaurus un raggiante sorriso. «Salve, straniero, è un piacere rivederti.» «Lo è?» ribatté Scaurus, a cui non era piaciuto affatto il termine "infernale pozione". Nepos era un mago, oltre che un prete, ed era un maestro nella sua arte, al punto che insegnava taumaturgia teorica all'Accademia Videssiana. Il tribuno si chiese se l'imperatore lo considerasse ormai sacrificabile ed avesse deciso di usarlo come cavia per qualche esperimento: da quando Helvis lo aveva abbandonato, la vita non aveva più molte attrattive per lui, ma c'era modo e modo di porvi fine. Allegramente inconsapevole della tensione di Marcus, Nepos versò le sue polveri in un boccale dorato pieno di vino e mescolò il tutto con un bastoncino di vetro. «Non si possono usare il legno o l'ottone in questo caso, sai» commentò, rivolto forse a Thorisin, oppure a Marcus, o magari parlando soltanto perché era abituato a impartire lezioni. «Dopo sarebbero in condizioni pietose.» Nonostante tutto, il Romano si trovò a deglutire a fatica per la crescente apprensione, mentre l'imperatore lo scrutava con la stessa espressione indagatrice che Marcus gli aveva scorto sul volto nel Palazzo dei Diciannove Divani. «Dopo che hai lasciato scappare gli isolani, straniero, il mio primo pensiero è stato quello di sbatterti su uno scaffale e di lasciarti là a raccogliere polvere fino a rimanerne sepolto. Hai sempre avuto rapporti troppo stretti con i Namdaleni perché potessi davvero fidarmi di te.» L'implicita ironia di quelle parole era tale che Scaurus trattenne a stento una risata, ma Thorisin aveva da aggiungere qualcos'altro che non sembrava renderlo particolarmente felice. «Tuttavia, c'è chi ti ritiene fedele, quindi stanotte scopriremo come stanno in effetti le cose.» Alypia Gavra abbassò lo sguardo, rifiutando di incontrare quello di Scaurus, mentre Nepos sollevava per lo stelo l'elegante coppa. «Ti ricordi il sicario usato da Avshar?» chiese il prete a Marcus. «Quel
Khamorth che ti ha aggredito con un coltello incantato dopo che tu avevi vinto Avshar in duello?» Il tribuno annuì, e Nepos aggiunse: «Bene, questa è la stessa droga che ho somministrato a quel Khamorth per strappargli la verità.» «E se ben ricordo lui è morto durante l'interrogatorio!» replicò Scaurus, in tono aspro. «Quella è stata una magia di Avshar, non mia» protestò il prete, con un gesto di orrore. «Allora dammi quella roba» decise il tribuno, «e facciamola finita.» Ad un cenno di Thorisin, l'Haloga che gli bloccava il braccio destro allentò la presa. «Rovesciarlo non ti servirà a nulla» avvertì l'Avtokrator. «Ne prepareremo dell'altro e questa volta te lo ficcheremo in gola con un imbuto.» «È una dose esatta» chiese però Marcus a Nepos, quando ebbe la coppa in mano, «oppure ce n'è d'avanzo?» «Forse è un po' abbondante. Perché?» Scaurus lasciò cadere qualche goccia di vino sul pavimento. «Alla salute dell'ottimo Thorisin, allora» disse. I Videssiani si accigliarono, non comprendendo il gesto, e Marcus sentì uno degli Halogai alle proprie spalle emettere un grugnito di perplessità, perché la gente di quel mondo non poteva riconoscere il brindisi che Teramene l'Ateniese aveva rivolto a Krizia, quando era stato costretto a bere un veleno, all'epoca dei Trenta Tiranni, dopo la Guerra del Peloponneso. Il tribuno vuotò la coppa in un solo sorso, avvertendo sotto la dolcezza del vino il sapore aspro della droga di Nepos, poi attese, chiedendosi se avrebbe cominciato a parlare alla rinfusa o se si sarebbe contorto sul pavimento come un cane avvelenato. «Allora?» ringhiò Thorisin, rivolto a Nepos. «Gli effetti variano da caso a caso, da persona a persona» replicò il prete. «Alcuni soggetti impiegano più tempo di altri a reagire.» Scaurus sentì la sua voce come da molto lontano, perché tutta la sua mente era soffusa da una sorta di bagliore dorato, da una sensazione di benessere quasi divino che era di certo l'ultima cosa che si sarebbe aspettato. Era come una sorta di orgasmo interminabile, da cui era però scomparso tutto l'aspetto carnale e rimaneva soltanto il trascendente. Qualcuno... era l'imperatore, ma questo non aveva ora importanza per lui... gli chiese qualcosa, e Marcus udì la propria voce che rispondeva. E perché no? Quale che fosse stata la domanda, poteva trattarsi comunque
soltanto di una cosa della minima importanza, rispetto all'immanenza in cui stava fluttuando. Sentì Thorisin imprecare, ma neppure questo gli parve importante. «Che stupidaggini sta blaterando?» domandò l'Avtokrator. «Non ci capisco una sola parola.» «È la sua lingua natale» spiegò Alypia Gavra, in tono quieto. «Allora dovrebbe usare la nostra.» Marcus obbedì, senza difficoltà, perché una lingua valeva l'altra, in quel momento. Le domande si succedettero con ritmo sempre più veloce: perché aveva permesso a Mertikes Zigabenos di rifugiarsi in un monastero? «Ho pensato che se tu avevi concesso quella scappatoia ad Ortaias Sphrantzes, che meritava di peggio, allora io potevo fare altrettanto con Mertikes, che meritava di meglio.» «È davvero sotto l'effetto della droga, prete?» chiese Thorisin, con un grugnito. Nepos sollevò una palpebra di Marcus e gli agitò una mano davanti all'occhio, ad un centimetro di distanza. Il tribuno non sussultò né ammiccò. «Sì, Vostra Maestà.» «Bene, suppongo di essermelo meritato» dichiarò allora Gavras, con una risata quasi contrita. «Comunque, Zigabenos non aveva alle spalle neppure un decimo del potere politico detenuto dagli Sphrantzes, che è stato l'unica considerazione che mi ha indotto a salvare il collo ossuto di Ortaias.» Alypia diede un colpetto di tosse che avrebbe potuto significare tutto oppure nulla. L'interrogatorio riprese: perché il tribuno aveva soltanto finto di accecare gli isolani, a Garsavra? «Non volevo fare nulla che più tardi non potesse essere disfatto. Tu avresti potuto volerli impiegare in un modo che a me era sfuggito.» Thorisin grugnì ancora, questa volta con soddisfazione, ma Marcus aggiunse: «E poi Soteric era il fratello di Helvis, ed ero certo che lei mi avrebbe lasciato, se gli avessi fatto del male. Non volevo che lei se ne andasse.» Il Romano, che non si era preso la briga di riabbassare la palpebra che Nepos aveva sollevato, vide senza però notarla coscientemente l'occhiata di trionfante sospetto che Gavras scoccò alla nipote. «Ora veniamo al dunque» commentò poi l'imperatore. «Dunque, non volevi che la tua donna se ne andasse, vero?» «No.» «Allora dimmi, com'è stato che è scappata, portandosi dietro l'intero ni-
do di serpenti? Dimmi tutto al riguardo: cosa ha fatto lei, cosa pensi che abbia fatto, cosa hai fatto tu e cosa hai pensato mentre lo facevi. Dannazione, Scaurus, conoscerò finalmente la tua anima, una volta per tutte.» Pur essendo sotto l'effetto della droga, il tribuno rimase a lungo in silenzio, perché il profondo dolore che Thorisin voleva sondare avrebbe potuto incrinare perfino la tranquillità di un dio. «Rispondimi!» gridò l'imperatore; grazie alla droga, la sua volontà infine sottomise quella di Scaurus, che riprese a parlare. Mentre una parte del suo io ascoltava e sanguinava per la sofferenza, un'altra raccontò con precisione come Helvis lo avesse sfinito fino a farlo piombare in un sonno profondo, e la cosa peggiore fu la consapevolezza che quando la pozione di Nepos avesse finito di fare effetto, lui avrebbe ricordato ogni cosa. Mentre Marcus procedeva nel racconto, con voce monotona e incolore, Nepos arrossì per l'imbarazzo, e le guardie halogai presero a borbottare fra loro nella loro lingua. «Nel nome di Phos, basta!» esclamò Alypia Gavra, girandosi con rabbia verso lo zio. «Perché non gli strappi anche la pelle, già che ci sei?» Alla parola "basta", Marcus s'interruppe, obbediente. «Quella di sapere la verità da lui è stata una tua idea» ritorse però Thorisin, con voce fredda. «Ora abbi lo stomaco di stare qui a sentirla, oppure vattene.» «Non intendo rimanere a vedere qualcuno denudato contro la sua volontà» sussurrò la principessa, pallida in volto. «So fin troppo bene cosa si provi.» Poi oltrepassò Marcus e lasciò la stanza. «Bah!» esclamò Thorisin, e parve accorgersi soltanto allora che Marcus aveva smesso di parlare. «Va' avanti, tu!» ruggì. Il tribuno narrò allora come si era svolto l'inseguimento, parlò del fuoco acceso sulla spiaggia per attirare la nave pirata namdalena e di come Helvis, i suoi figli e gli altri isolani avessero lasciato la spiaggia su una barca. «Cos'hai fatto, allora?» domandò ancora l'imperatore, ma in tono quieto, perché il resoconto fornito da Marcus della sua disperata, inutile caccia aveva prosciugato la sua rabbia. «Ho pianto.» «Che il ghiaccio mi porti se ti posso biasimare» commentò Thorisin, quasi fra sé, con un sussulto. «Alypia aveva ragione, dopo tutto: ho violentato un uomo onesto.» Poi, con estrema gentilezza, chiese: «E cosa hai fatto dopo, e perché?»
Il tribuno scrollò le spalle, un gesto che gli fu possibile perché gli Haloga, pur essendo sempre dietro di lui, avevano smesso di trattenerlo. «Sono venuto qui in città, da te, perché non c'era altro che potessi fare. Come potevo rifugiarmi in un monastero, visto che non credo nel vostro dio? E se Drax aveva sbagliato nel ribellarsi, lo stesso sarebbe valso per me. E poi, avrei perso.» «Non lo so» mormorò Thorisin, lanciandogli un'occhiata molto strana. «Non lo so davvero.» CAPITOLO DODICESIMO Seirem premette le labbra contro quelle di Viridovix, che la strinse a sé. «Sei troppo alto» protestò la ragazza. «Quando ti bacio, mi si irrigidisce il collo.» «Farai meglio ad abituartici, ragazzina, perché dovrai stare parecchio in questa posizione, quanto torneremo dopo aver schiacciato quella mosca di Varatesh» rispose il Gallo. L'affetto che nutriva per Seirem risultò evidente dal fatto che tralasciò l'ovvia, piccante risposta alle sue parole: fra loro, non c'era bisogno di quelle artificiosità, perché uno era soddisfatto dell'altra così com'era. «Tornerai, caro?» domandò Seirem, abbracciandolo, e imitò l'accento di Viridovix in maniera così perfetta che entrambi scoppiarono a ridere. «Vuoi deciderti a montare, razza di pigro buono a nulla?» borbottò Targitaus. «Credi che abbiamo tempo da sprecare per i tuoi corteggiamenti?» Il khagan faticava però a soffocare un sorriso, e Batbaian, vicino a lui, stava sogghignando apertamente. «Och, i corvi ti portino» ribatté Viridovix, ma dopo aver stretto un'ultima volta a sé Seirem, montò in sella. Come accadeva di frequente, il suo pony emise uno sbuffo di protesta, perché il Celta era più pesante della maggior parte dei Khamorth. «Avevi promesso dieci giorni di tempo buono» osservò poi Targitaus, in tono quasi minaccioso, spostando lo sguardo su Lipoxais. Non era un problema da poco, perché erano già cadute le prime piogge autunnali, e fra i nomadi la guerra richiedeva un cielo sereno: bagnate, le corde degli archi si allentavano e questo rendeva inutilizzabile la loro arma principale. «Ho visto quello che ho visto» ribatté l'enaree, scrollando le spalle in un gesto che fece ondeggiare il suo adipe sotto la tunica di lana gialla. «Vorrei che tu avessi visto chi vincerà» borbottò Targitaus, la cui irrita-
zione non era però reale, in quanto lui sapeva che la passione che ammantava una battaglia impediva qualsiasi previsione. «Così dovremo invece scoprirlo da noi.» Il khagan alzò quindi il tono di voce, gridando: «Andiamo!» Batbaian sollevò lo stendardo del clan e i Khamorth incitarono i cavalli a muoversi, mentre gli esploratori si portavano in testa al grosso delle forze e altri cavalieri si allontanavano per proteggere i fianchi della colonna. «Muoviti anche tu, dannata bestia» ingiunse Viridovix, dando uno strattone alle redini e piantando gli stivali nei fianchi del pony. Si girò quindi per agitare la mano in un ultimo saluto a Seirem, e per poco non volò di sella quando il cavallo scartò di lato, spaventato da una pezza di stoffa agitata dal vento. Sentendosi un idiota, il Celta si aggrappò alla criniera dell'animale. Negli ultimi anni, rifletté, si era forse abituato alla disciplina romana più di quanto sospettasse, perché l'esercito comandato da Targitaus gli appariva ora dominato dal disordine, al punto che si poteva dire che i Khamorth cavalcavano agli ordini del khagan soltanto perché erano raccolti dietro il suo stendardo. Nessuno, però, avrebbe potuto indurre i capi degli altri clan a obbedire ai comandi di Targitaus, ed essi stavano marciando contro Varatesh spinti da motivazioni di natura del tutto personale, che non avevano nulla a che vedere con quelle del khagan delle Pelli di Lupo. Nel complesso, quindi, quelle che stavano marciando a nordovest per affrontare il fuorilegge erano una dozzina di bande separate di nomadi, i cui rispettivi effettivi variavano dalla ventina di guerrieri con il cappello di pelle di volpe bianca al seguito di Oitoshyr alle parecchie centinaia che seguivano invece Anakhar dei Gatti Macchiati, un contingente secondo per dimensioni soltanto a quello dello stesso Targitaus. Le esitazioni di Anakhar erano svanite quando questi aveva scoperto che Krobyz, il suo detestato vicino sulla steppa, si era schierato dalla parte di Varatesh. «Se quella capra mal cresciuta è con lui, questo è un motivo sufficiente per annientarlo» aveva dichiarato, e si era subito unito a Targitaus. Al di là dell'idea di base di trovare Varatesh e di affrontarlo in combattimento, però, i nomadi non avevano un piano d'azione, e quando Viridovix aveva suggerito di approntarne uno, Targitaus e gli altri capi di clan lo avevano fissato come se fosse appena caduto dalla luna, tanto che il Celta, ripensandoci, non poté trattenere una risata. «Hanno reagito come avrei fatto io se avessi sentito un Romano proporre una simile sciocchezza» disse a se stesso, ma la cosa non cessò di pre-
occuparlo. «Per lo meno» commentò Batbaian, «le piogge hanno fatto depositare la polvere.» «Infatti, e non me ne dispiace affatto» convenne Viridovix. Andare incontro ad un combattimento senza mangiare la polvere sollevata dai suoi compagni era un piacere che non aveva più provato da quando aveva lasciato la Gallia. Adesso il cielo era solcato da nubi che coprivano il sole a brevi intervalli e che facevano scorrere rapide ombre sulla pianura, la giornata era fresca, l'aria pungente e pulita, in netto contrasto con le precedenti esperienze del Celta che a volte, marciando sull'arido pianoro centrale di Videssos, era giunto a nutrire il sospetto che tutto il continente fosse fatto di polvere. «Senza la polvere, però» obiettò dopo un momento, «come faranno gli esploratori a individuare i furfanti a cui stiamo dando la caccia?» Batbaian sbatté le palpebre, sconcertato, perché era un particolare a cui non aveva pensato, e Viridovix sentì crescere dentro di sé una notevole irritazione... possibile che non ci fosse nulla che non avesse qualche svantaggio? La bocca di Targitaus si tese in un'espressione abbastanza simile ad un sorriso. «Tanto per cominciare, loro avranno lo stesso problema con noi, e poi gli esploratori che non stanno attenti a quello che hanno davanti finiscono morti, un deterrente che li induce a non abbassare la guardia per rimanere in vita» osservò. «Quanto a questo, hai ragione» ammise il Gallo. L'esercito dei nomadi sembrava più numeroso di quanto non fosse in realtà grazie alla fila di cavalli di scorta che ogni uomo aveva con sé, e il rombo degli zoccoli sul terreno umido ricordò a Viridovix il costante mormorio del mare. «Ma almeno non ha l'effetto di farmi vomitare la colazione» rifletté allegramente, ripensando alla battuta di Arigh in merito al mal di cavallo, ben felice che in essa non ci fosse stato nulla di vero. Non riuscendo ancora a tollerare il sapore della carne semicruda che i Khamorth mangiavano quando erano in sella, consumò qualche focaccia e un po' di formaggio, accompagnandoli con un sorso di kavass; quando poi Rambehisht gli passò un pezzo di favo, e il profumo di fiori selvatici gli pervase la bocca, si sentì perfettamente soddisfatto. «Una bella ragazza, una battaglia a cui andare incontro e un po' di miele
quando più ne hai bisogno» dichiarò, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Chi potrebbe volere di più?» Quella notte, dopo essersi accampati, i Khamorth gironzolarono da un fuoco all'altro, scambiandosi storie e notizie e giocando con un bizzarro assortimento di monete, alcune delle quali erano tanto consumate che Viridovix non riuscì a stabilire se fossero state coniate a Videssos o a Yezd. Fra le altre, c'erano anche alcune quadrate, d'argento, su cui erano impressi draghi o asce, che il Gallo non aveva mai visto. «Halugh» gli spiegò un nomade, quando si informò. Viridovix vinse parecchie monete d'oro e uno di quei pezzi d'argento haloga, che ripose in tasca come portafortuna. Il successivo giorno di viaggio fu molto simile al precedente, e i Khamorth non incontrarono anima viva. Quando però giunse il momento di accendere i fuochi serali, un lieve bagliore si profilò anche lungo l'orizzonte, a settentrione, e questo indusse gli uomini a controllare armi e finimenti. Qui un nomade stringeva la cinghia di una sella, là un altro affilava la punta delle sue frecce, più oltre altri due si esercitavano a cavallo nell'uso della spada, preparandosi a quello che li avrebbe attesi l'indomani. Viridovix si destò prima dell'alba, tremante per il freddo. In Gallia, gli alberi sarebbero stati ammantati negli splendidi colori dell'autunno, mentre l'unico cambiamento rilevabile nell'erba delle steppe era il passaggio dal verde ad un grigio giallastro. «Certo che è un posto cupo, per quanto vasto» borbottò, mangiando un pezzo di formaggio. Intanto, i Khamorth si stavano facendo beffe del pugno di uomini più anziani che sarebbe rimasto a guardia dei cavalli di scorta; le sentinelle, però, ribatterono in tono altrettanto pungente. «Quando avrete battuto quei bastardi, spingeteli da questa parte, e vi dimostreremo cosa sappiamo fare!» Un clan dopo l'altro, i nomadi montarono poi in sella, disponendosi in un approssimativo schieramento di battaglia mentre si avviavano verso nord. La banda di Targitaus era all'ala destra, e nel notare i vuoti fra i vari gruppi di nomadi e l'irregolarità del loro fronte, Viridovix cercò di consolarsi al pensiero che i banditi di Varatesh non avrebbero presentato uno schieramento migliore di quello. I fuorilegge cominciarono a profilarsi all'orizzonte, simili a punti in movimento sullo sfondo grigio del cielo, ed un mormorio corse lungo le file dei Khamorth mentre essi incoccavano le frecce ed allentavano la spada
nel fodero. Gli uomini di Varatesh si avvicinarono con una rapidità che Viridovix, ancora abituato ai combattimenti di fanteria, trovò spaventosa. Il Gallo agitò la spada e lanciò il suo selvaggio grido di guerra celtico che fece sussultare i suoi compagni; fu più difficile stabilire quale effetto potesse aver avuto sui nemici. Le avanguardie si tempestarono reciprocamente di frecce nella sempre più sottile terra di nessuno che separava i due eserciti, ed un paio di nomadi impegnarono un duello con le sciabole; quando il fuorilegge scivolò dalla sella, un grido di plauso si levò dalle file dei suoi nemici. Quel grido si strozzò però nella gola di Viridovix quando questi scorse una figura vestita di bianco, in sella ad un cavallo nero alto il doppio dei pony delle steppe, proprio al centro dello schieramento avversario. «Bene, del resto non pensavo che saresti rimasto alla larga dallo scontro» borbottò. «Och, però vorrei che lo avessi fatto.» Il Gallo sapeva che gli uomini della sua fazione erano numericamente superiori ai banditi, ma era anche consapevole che Avshar costituiva un'incognita pericolosa. Poi non ci fu più tempo per pensare a quel problema... adesso lo scambio di frecce si era esteso al grosso dei due contingenti, e i dardi solcavano il cielo numerosi come i fiocchi di neve che certo avrebbero cominciato a cadere entro pochi giorni. Impossibilitato ad essere di qualche utilità in quel combattimento a distanza, il Celta ne osservò gli sviluppi al riparo del suo piccolo scudo leggero, notando lo scandirsi di un ritmo letale e al tempo stesso affascinante: la mano destra si allungava oltre la spalla sinistra per estrarre una freccia dalla faretra, l'incoccava, tendeva la corda, la lasciava andare dopo che l'occhio aveva lanciato un rapido sguardo al bersaglio, quindi si allungava di nuovo oltre la spalla. Metodicamente, gli uomini delle pianure svuotarono le loro faretre. Di tanto in tanto, la cadenza misurata subiva un'interruzione: un'imprecazione, un grugnito o un urlo indicavano che un uomo era stato colpito o stava cercando disperatamente di balzare dalla sella del cavallo abbattuto, prima di essere schiacciato sotto il suo peso. Varatesh osservò con stupore Avshar maneggiare il suo grande arco nero, strutturato con la stessa doppia curva usata dai nomadi, ma talmente massiccio che neppure il Khamorth più robusto avrebbe potuto piegarlo. Il principe-mago, tuttavia, lo usava con la stessa scioltezza con cui Varatesh avrebbe potuto usare un'arma per bambini, seminando morte con le sue
frecce dalla punta crudelmente ricurva da una distanza che il capo dei fuorilegge avrebbe ritenuto impossibile. L'abilità di Avshar era raggelante per il modo in cui lui la considerava scontata: il mago non lanciava grida di trionfo quando i suoi colpi raggiungevano il bersaglio, non sottolineava il successo neppure con un soddisfatto cenno del capo, limitandosi a scegliere subito la vittima successiva. Un dardo sibilò accanto alla guancia di Varatesh, che si piegò d'istinto dietro il collo del cavallo, pur sapendo che se la freccia fosse stata effettivamente diretta contro di lui quella precauzione sarebbe stata inutile; raddrizzatosi, tirò a sua volta e, vedendo un uomo accasciarsi al suolo, si chiese se si trattava di quello che lo aveva preso di mira. «No» affermò Avshar, leggendo nel suo pensiero, con voce improntata a sprezzante divertimento. «E comunque, perché dovrebbe importarti? Anche lui sarebbe stato più che felice di poterti uccidere.» Era vero, ma perfino la verità, quando veniva da Avshar, lasciava in bocca un sapore amaro. Lo sguardo del mago indugiò sullo schieramento nemico, alla ricerca di un altro bersaglio, poi lui girò il cavallo verso sinistra, controllandolo con le ginocchia, e trasse indietro la corda del suo arco nero fino all'orecchio. Nel momento in cui la lasciava andare, però, Varatesh si protese di scatto e gli urtò il polso, facendo sì che la freccia si perdesse innocua nell'aria. Il principe-mago parve diventare più alto, e fissò il rinnegato con occhi roventi, simile ad un dio irato. «A che gioco stai giocando, idiota?» chiese con voce rauca, un sussurro più spaventoso di quanto lo sarebbe stato il ruggito di rabbia di qualsiasi altro uomo. Il capo dei fuorilegge tremò quando l'ira di Avshar cadde su di lui, ma la rabbia che lui stesso aveva nell'animo gli diede forza. «L'uomo con i capelli rossi è mio» disse. «Non puoi averlo.» «Tu parli a me di ciò che posso o non posso avere, larva? Ricorda chi sono.» Quello era un ricordo che Varatesh avrebbe conservato per sempre, ma il bandito raccolse i brandelli di orgoglio che ancora gli rimanevano e li scagliò contro Avshar. «E tu, mago, ricorda chi sono io» ribatté, e in seguito pensò che quella fosse stata la cosa più coraggiosa che avesse mai fatto. Il principe-mago lo soppesò con quel suo terribile sguardo nascosto. «E così» disse infine, «un altro strumento si rivolta e mi morde la mano,
vero? Bene, nonostante tua madre fosse una cagna, tu sei comunque uno strumento migliore di quel debole di Vardanes, che alla fine ha pensato soltanto ai suoi piaceri.» Avshar allargò le mani in un gesto ironico. «Prendi l'uomo con i capelli rossi, allora, se puoi. Te lo regalo.» «Non è tuo perché tu possa regalarlo» replicò Varatesh, ma soltanto nei suoi pensieri. A mano a mano che i combattenti da entrambe le parti cominciavano ad esaurire le frecce, le due linee si avvicinarono sempre di più e gli shamshir brillarono sotto il sole autunnale. Accanto a Viridovix, un nomade fissò con espressione sorpresa e sconvolta il sangue che gli fiottava dalla mano sinistra, nel punto in cui due dita erano state troncate di netto. «Lega la ferita, idiota!» ruggì Targitaus, e il cavaliere emerse dal proprio stupore; imprecando furiosamente, si avvolse una striscia di lana intorno alla ferita e la legò con un laccio di cuoio. Un fuorilegge puntò dritto verso il Gallo, che spronò il cavallo per andargli incontro. La sua spada diritta incontrò quella ricurva con un clangore metallico, poi il Khamorth, avvantaggiato dalla maggiore leggerezza della propria arma, colpì ancora, prima che Viridovix si fosse ripreso. Il Gallo si gettò all'indietro sulla sella per sfuggire all'attacco, e deviò il fendente successivo con lo scudo, rispondendo con un affondo che lacerò la gamba all'avversario. Con un'imprecazione, il cavaliere abbassò involontariamente la guardia, e Viridovix calò la propria spada in un rovescio che gli piombò sul collo. Il sangue spruzzò abbondante e il cappello di pelo volò dalla testa del Khamorth che, morto o svenuto, cadde di sella e fu calpestato dal suo stesso cavallo. Astutamente, Rambehisht aveva fatto economia di frecce finché lo scontro non si era articolato a distanza più ravvicinata: a bruciapelo, un dardo del suo arco rinforzato con il corno poteva passare un uomo da parte a parte o inchiodarlo al cavallo. Poco dopo l'inizio del corpo a corpo, però, il suo stesso pony si accasciò, colpito sotto l'occhio; agile come un gatto, il nomade liberò i piedi dalle staffe e affrontò il bandito che gli puntava contro, spada in pugno. Un duello fra un uomo appiedato e uno a cavallo non poteva finire che male; Viridovix, che non era molto lontano dalla scena, lanciò un selvaggio urlo di guerra celtico che raggelò il fuorilegge per un attimo, il tempo di cui lui aveva bisogno per raggiungerlo. Anche Rambehisht scattò in avanti, e il confronto divenne così di due contro uno. Il cavaliere cercò di
fuggire, ma la mischia glielo impedì: afferrandolo per il polpaccio sinistro, Rambehisht lo tirò giù di sella, e Viridovix si protese in avanti per finirlo, mentre il Khamorth si affrettava a balzare in sella al pony del nemico prima che esso potesse fuggire. Appena in sella, Rambehisht estrasse una freccia e tirò, atterrando un bandito che cercava di prendere il Gallo alle spalle. Viridovix girò la testa di scatto nel sentire il grido di dolore del fuorilegge. «Grazie, Khamorth caro» disse. «Quello non lo avevo visto.» «I debiti vanno pagati» ribatté il cupo uomo delle pianure, e Viridovix si accigliò, chiedendosi se Rambehisht avesse intenzione, prima o poi, di ripagarlo anche della battuta che gli aveva rifilato. Non ebbe però il tempo di inquietarsi per possibilità remote. Tre fuorilegge si concentrarono contemporaneamente su di lui. Per pura fortuna, un giavellotto scagliato con cura da uno degli uomini di Targitaus abbatté uno dei tre, ma gli altri due continuarono ad avanzare. Viridovix lanciò un altro urlo selvaggio, che parve però non avere effetto; pensando più in fretta che poteva, spronò allora verso uno dei due, togliendosi al tempo stesso il cappello di cuoio rinforzato in bronzo e scagliandolo in faccia all'altro. Girò quindi il cavallo con un'abilità che non sapeva neppure di possedere, e calò la spada sul collo della cavalcatura del rinnegato che aveva distratto. Lo sfortunato animale crollò a terra morto, e Viridovix non indugiò ad appurare che fine avesse fatto il suo cavaliere, voltandosi invece per affrontare il terzo avversario, che però si diede alla fuga. «Torna da tua madre, vigliacco furfante» scoppiò a ridere il Celta. «E pensaci due volte prima di giocare ancora ad un gioco da uomini!» Quando tornò a sollevarla, la sua spada spruzzò sangue da tutte le parti, e lui pensò che quello era lo scopo a cui serviva un campo di battaglia... a sottomettere il nemico al proprio dominio, con l'acciaio o con la forza della volontà. Intossicante quanto un sorso di forte kavass, quel potere gli pervase le vene. Allontanandosi dagli occhi una ciocca di capelli, il Gallo si guardò poi intorno per controllare l'andamento generale dello scontro, ma era una cosa difficile da determinare, perché quelle battaglie di cavalleria occupavano un tratto di terreno assurdamente vasto e le loro sorti variavano con una fluidità pari a quella del mercurio. La cosa peggiore, poi, era che lui era incapace di distinguere i propri alleati dai nemici, anche a distanza ravvicinata.
Si accorse che vicino al centro del campo era in corso una battaglia nella battaglia, perché là i Gatti Macchiati di Anakhar avevano impegnato una mischia selvaggia contro le Capre Saltanti di Krobyz. La maggior parte degli alleati non fuorilegge di Varatesh sembrava essere concentrata in quel punto, a giudicare dagli stendardi che ondeggiavano sui combattenti: quei Khamorth potevano anche essere disposti a seguire la bandiera nera del fuorilegge, ma non erano particolarmente ansiosi di mescolarsi eccessivamente ai rinnegati raccolti sotto di essa. Di conseguenza, gli uomini di Anakhar erano in difficoltà e inferiori di numero, il che indusse Targitaus a segnalare al figlio di accorrere in loro soccorso. Subito Batbaian guidò una compagnia verso sinistra. Al contrario di Viridovix, il giovane sapeva distinguere gli amici dai nemici con una sola occhiata, e i suoi uomini tapparono quella che stava diventando una falla crescente, costringendo il nemico a indietreggiare. Rincuorati, i Gatti Macchiati presero a combattere con rinnovato vigore. Targitaus, intanto, condusse il resto dei suoi guerrieri in una manovra destinata ad aggirare il fianco sinistro dei fuorilegge, ma Avshar gli andò incontro a testa bassa, al comando di una cinquantina dei più induriti furfanti della banda di Varatesh, rinnegati che conoscevano ogni trucco, leale e non, e che pur essendosi macchiati di ogni malvagità non erano vigliacchi e non davano né chiedevano tregua. In sella al suo grande stallone, Avshar spiccava fra i Khamorth che lo circondavano come una galea da guerra in mezzo ad un gruppo di barche a remi. Il mago aveva appeso alla spalla il letale arco nero, e impugnava ora una lunga spada diritta che usava con altrettanta mortale efficacia. «Un altro idiota!» esclamò il principe-mago, quando uno dei cavalieri di Targitaus si scagliò contro di lui. La sua lama fendette l'aria con un sibilo e affondò nel collo del nomade, mentre Avshar esclamava: «Prendi questo per la tua stupidità, allora, e possa Skotos divorare la tua anima in eterno!» Viridovix alzò il tono di voce abbastanza perché le sue parole potessero essere udite sopra il clamore della battaglia. «Avshar!» gridò, e la testa del principe-mago si sollevò di scatto, come quella di un mastino che abbia fiutato la preda. «Sono qui, zoticone! Volevi Scaurus, ma ora combatterò io al suo posto!» «E cadrai come farà lui!» Avshar spronò il cavallo, oltrepassando uno dei suoi stessi uomini. «Via dalla mia strada, carne per corvi!» ingiunse, sollevando la spada in un beffardo saluto nell'avvicinarsi al Gallo. «Susciterai l'ira di Varatesh, regalandomi la tua vita in questo modo» aggiunse.
Viridovix riuscì a stento a deviare con lo scudo il primo colpo del mago, intercettando la spada di piatto... il filo della lama avrebbe infatti tagliato di netto lo scudo. Montando un cavallo più alto e robusto, Avshar non aveva dovuto privarsi dell'armatura completa che indossava sempre sotto la tunica, e il suo scudo era a forma di aquilone, rivestito di metallo e simile per forma e fattura a quelli dei Namdaleni. Di fronte alla sua armatura, gli strati di cuoio bollito che proteggevano il Gallo sembravano inconsistenti quanto il lino. Mentre girava il cavallo per il passaggio successivo, Viridovix pensò che la semplice forza non sarebbe stata sufficiente per avere la meglio su quell'avversario, e neppure la paura. L'unica arma che gli rimaneva era quindi l'astuzia, e lui ricordava ancora la lezione imparata nel suo precedente scontro con Varatesh, e cioè che un cavallo poteva essere uno strumento letale quanto una spada. Questo assioma era doppiamente vero se applicato al grosso destriero di Avshar, che in quel momento si era impennato per fracassare con gli zoccoli ferrati la testa di un nomade appiedato. Il principe-mago costrinse la bestia a riabbassare le zampe anteriori e là scagliò contro Viridovix, che piantò a sua volta i talloni nei fianchi della sua cavalcatura. Quando si scontrò con Avshar, il Gallo non mirò all'avversario, protetto dalla cotta di maglia, ma al suo cavallo: era stata sua intenzione sferrare lo stesso devastante fendente che aveva usato con l'animale del nomade affrontato poco prima, però sbagliò a calcolare la velocità del destriero e la sua spada non scese fra gli occhi dell'animale, ma staccò soltanto una grossa striscia di pelle lungo il suo collo. L'effetto fu comunque quasi altrettanto positivo quanto lo sarebbe stato quello del colpo che lui avrebbe voluto infliggere, perché l'animale ferito nitrì di dolore e di terrore, e prese a sgroppare freneticamente, tanto che per poco non disarcionò Avshar. Urlando di rabbia, il principe-mago dovette aggrapparsi alla criniera per evitare di cadere all'indietro; anche se non riuscì a gettarlo a terra, il cavallo rifiutò tuttavia di rispondere alle redini e si allontanò al galoppo, trasportando il mago lontano dalla mischia. «Torna indietro, furfante!» gridò Viridovix, pieno di soddisfazione. «Avevo appena cominciato!» Avshar si girò sulla sella, urlando una maledizione, e per un momento il campo di battaglia ondeggiò e si oscurò davanti agli occhi del Gallo, prima che i segni druidici sulla spada prendessero a brillare e deflettessero l'incantesimo. Quando la vista gli si schiarì, Viridovix strinse con affetto l'elsa
dell'arma, quasi fosse stata la mano di un compagno. L'esito dello scontro rimase incerto per un tempo indefinito e interminabile, senza intervalli abbastanza lunghi da permettere ai combattenti di fare qualcosa di più che trarre un rapido respiro o bere un sorso di acqua o di kavass. Il sole si era ormai spostato a sudovest quando finalmente Viridovix cominciò ad accorgersi che le occasioni in cui avanzava a discapito del nemico erano adesso più frequenti di quelle in cui era respinto indietro. «Teneteli sotto pressione, teneteli sotto pressione!» gridò Targitaus. «Stanno per cedere.» Ma quando i suoi cavalieri si radunarono per la carica finale che avrebbe inferto il colpo di grazia ai fuorilegge, grida di allarme si levarono dal centro e dalla sinistra dello schieramento, diffondendo l'avvertimento più temuto sulla steppa. «Al fuoco!» Nubi di denso fumo nero si levarono nell'aria, oscurando i rinnegati, e la faccia di Targitaus divenne purpurea per l'ira. «Immondi codardi! Meglio morire da uomini che coprire la propria ritirata in quel modo!» Poi Viridovix udì la risata gongolante di Avshar, e comprese che quella era la fine di tutte le sue speranze, perché ora l'incendio stava dilagando con una rapidità molto maggiore di qualsiasi fuoco naturale, e sembrava diretto da una volontà malvagia. I cavalli nitrirono e gli uomini urlarono quando il muro di fuoco si abbatté su di loro, ma le vittime furono travolte per puro caso dall'incantesimo intessuto dal principe-mago, che si stava invece servendo delle fiamme come di una rete con cui intrappolare i nemici, proprio come un cacciatore avrebbe fatto con delle lepri, rinchiudendoli in piccole sacche circondate da veli di fiamma che si estendevano intorno alle prede con una rapidità che nessun cavallo avrebbe mai potuto eguagliare. Notando che il grosso delle forze nemiche era stato neutralizzato, i rinnegati di Varatesh si rincuorarono, mentre i guerrieri dei clan che si erano schierati con loro contemplarono la magia di Avshar con un misto di meraviglia e di terrore. Insieme, quei due nuclei delle truppe di Varatesh si scagliarono con rinnovata violenza contro i resti dell'esercito di Targitaus ancora liberi dalle fiamme. Adesso il vantaggio numerico era dalla parte del nemico, e divenne impossibile tenerlo a bada: la ritirata che seguì si trasformò quasi in una rotta. Viridovix cercò di arginarla da solo, aprendosi la strada a colpi di spada
fra le file nemiche, con l'intento di raggiungere Avshar. Il principe-mago era a piedi, essendo smontato dal suo destriero ferito per meglio controllare la propria magia, e il Gallo puntò verso di lui con una disperazione che bruciava con la stessa intensità delle fiamme evocate da Avshar, tanto che ben pochi fuorilegge osarono contrastargli il passo. Varatesh e un gruppo dei suoi uomini mossero per accorrere in aiuto di Avshar, ma questi dimostrò di non avere bisogno di loro. Il mago indirizzò a Viridovix un gesto e una rapida occhiata che diressero verso di lui una lingua di fiamma. Il Celta diede comunque di sprone, convinto che la sua spada gli avrebbe permesso di superare senza danno quell'ostacolo: i simboli druidici si animarono di una luce intensa mentre lui galoppava verso di esso. Il suo cavallo, però, non sapeva nulla di magia, e alla vista del fuoco scartò con violenza, roteando gli occhi per il panico, e per quanto lo spronasse, Viridovix non riuscì a farlo procedere oltre. Disperato, invocò Epona, ma la dea celtica dei cavalli non aveva potere in quel mondo, e l'immagine di Avshar continuò a tremolare al di là della cortina di fuoco, tormentosamente vicina ma irraggiungibile. «D'accordo, allora, andrò a piedi» ringhiò il Celta, lottando per tranquillizzare la bestia quanto bastava per permettergli di smontare. Varatesh, però, scelse quel momento per scagliargli contro una freccia gelosamente conservata per lui. Il dardo mancò il bersaglio, ma andò a conficcarsi in profondità nella groppa del pony, che nitrì e spiccò un balzo in aria che fece quasi volare a terra il Gallo. Un momento più tardi, il cavallo partì al galoppo, ormai incontrollabile, anche se questo fu forse un bene per Viridovix, perché lo sprone della sofferenza permise all'animale di distanziare i banditi che lo inseguivano. La vendicativa risata di Avshar gli echeggiò però bruciante negli orecchi. Quando finalmente riuscì a costringere il pony ad obbedirgli, a Viridovix non rimase altro a fare che ricongiungersi ai frammenti del disgregato esercito di Targitaus, e ritirarsi con essi. I rinnegati e i loro alleati lasciarono che si allontanassero indisturbati, perché stavano indugiando come uccelli da preda intorno alle mura di fuoco create da Avshar, che continuavano a bruciare intensamente anche dopo aver consumato l'erba che avrebbe dovuto costituire il loro unico combustibile. Nero come la disperazione, il loro fumo salì ad oscurare tutto il cielo autunnale.
Krobyz s'inchinò profondamente sulla sella quando Varatesh gli passò accanto. Sfinito com'era, il fuorilegge arrossì di piacere di fronte a quel riconoscimento del suo coraggio da parte di un legittimo khagan, e disse a se stesso che questo era ciò che aveva cercato di ottenere per anni. Ora, finalmente, occupava quel posto che gli spettava di diritto, nonostante l'intromissione di nemici che non meritava di avere. Le sue labbra si arricciarono in un sogghigno... quei nemici avevano assaporato la sua potenza, oggi. Le fiamme che crepitavano davanti a lui gli ricordarono che quel successo non era stato interamente suo e, come a rinforzare quella consapevolezza, Avshar gli si affiancò. Il principe-mago si limitò tuttavia ad accennare in direzione dei guerrieri intrappolati nella loro prigione di fuoco. «Cosa intendi fare di loro?» «Che si arrendano, se vogliono» rispose Varatesh, reso magnanimo dall'entusiasmo della vittoria. Con una scrollata di spalle, Avshar si rivolse ai nomadi intrappolati nella più vicina gabbia infuocata. «Arrendetevi a Varatesh, il grande khagan del Clan Reale di Pardraya!» esclamò; quel titolo inatteso lasciò per un attimo perplesso il fuorilegge, che però pensò subito che in effetti lui adesso era proprio questo. Quel recinto di fiamma conteneva Oitoshyr e tre o quattro superstiti del suo gruppo, con i cappelli di pelo bianco di volpe ora anneriti dalla polvere e dalla fuliggine. Oitoshyr era ferito, ma non era pronto ad arrendersi. «Varatesh, il più grande mezzano delle pianure, può andare all'inferno» gridò di rimando, «ed anche tu con lui, grosso mucchio di letame.» Il principe-mago rivolse un'occhiata interrogativa a Varatesh che, furioso per l'insulto, sputò nella polvere. Interpretando quel gesto come una risposta, Avshar agitò la mano sinistra, e una delle pareti di fiamme che circondavano le Volpi Bianche divenne trasparente e si dissolse. Varatesh segnalò allora ad un centinaio dei suoi banditi di farsi avanti, ed essi si dedicarono sogghignando a ciò che avevano aspettato fino a quel momento. Oitoshyr impiegò parecchio tempo a morire. Dopo quell'esempio, le rese si susseguirono una dopo l'altra, e Varatesh rimase ben presto interdetto di fronte all'entità della sua vittoria: nessun bardo aveva mai cantato né nessun enaree ricordato una battaglia in cui fossero stati presi tanti prigionieri. In tutto, dovevano essere circa un migliaio, ed a mano a mano che ogni sacca di fuoco diveniva accessibile, i fuorilegge piombarono su di loro come locuste, privandoli di armi, armatu-
re e cavalli, come prede di guerra, mentre Varatesh si chiedeva per quanto tempo avrebbe potuto trovare di che nutrire tutta quella gente. «E perché dovresti farlo?» osservò Avshar. «Rimandali ai loro inutili clan.» «In modo che domani possano riprendere le armi contro di me? Non ti credevo un'anima così fiduciosa.» Il mago scoppiò in una profonda risata. «Ben detto! Ma non ti piacerebbe liberartene e al tempo stesso dimostrare la tua supremazia su ogni insignificante piccolo capo delle steppe?» chiese, e indugiò, aspettando la reazione di Varatesh. «Continua» lo incitò questi, incuriosito. Avshar rise di nuovo, e fece come gli era stato chiesto. «Ti ringrazio, ma la risposta è no» disse Gorgidas ad Arghun, forse per la ventesima volta. «Quando l'ambasciata imperiale tornerà a Videssos, è mia intenzione andare con essa. Io sono un uomo fatto per le città, proprio come il tuo posto è invece qui sulla pianura. Vagando al seguito di un gregge sarei infelice quanto potresti esserlo tu vivendo nell'impero.» «Ne riparleremo» dichiarò il khagan, come faceva ogni volta che Gorgidas respingeva la sua offerta di rimanere con gli Arshaum, poi si appoggiò all'indietro contro un mucchio di cuscini, nello yurt messo a disposizione dei delegati videssiani, e si sistemò una coperta di pelo di coniglio sulle gambe, che avevano riacquistato la sensibilità ma non una funzionalità completa. Arghun aveva bisogno di due bastoni per camminare, e ancora non riusciva a reggersi in sella. La sua gratitudine per essere stato salvato, tuttavia, non aveva limiti, e lui aveva ricoperto il Greco di regali: una casacca di pelo di martora lunga fino al ginocchio, tanto morbida da essere quasi impalpabile, un gruppo di cavalli di primissima scelta, un falcone con occhi color sangue... non essendo un falconiere, Gorgidas non aveva avuto remore a rifiutare quel particolare dono, uno splendido arco corredato da venti frecce racchiuse in una faretra rivestita di lamine dorate, che il dottore aveva con discrezione passato a Skylitzes, che sapeva come usarli, e infine, forse dietro suggerimento di Tolui, una scorta di tutte le erbe che i nomadi consideravano medicinali, ciascuna racchiusa in una piccola ampolla di osso con un tappo di corno intagliato. «Cominci a parlare bene la nostra lingua» proseguì Arghun. «Ti ringrazio» replicò Gorgidas, con una certa dose di insincerità. Come
la maggior parte dei Greci, riteneva infatti che la propria lingua sottile e duttile fosse l'unica che si confacesse ad un uomo civile. Imparare il latino era stata una concessione fatta per poter servire nell'esercito romano, mentre apprendere il videssiano era stato necessario per poter vivere in quel nuovo mondo. In un momento di generosità, Gorgidas avrebbe anche potuto ammettere che ciascuna di quelle lingue possedeva qualche piccola virtù, ma l'arshaum era adatto soltanto ad un popolo di barbari. Al riguardo, lui stesso aveva scritto: "È una lingua dotata di più vocaboli per descrivere le condizioni dello zoccolo di una vacca che per determinare lo stato dell'anima di un uomo. Non occorre aggiungere altro". Un tuono echeggiò in lontananza, e Arghun incurvò le dita in un gesto protettivo, mentre la pioggia cadeva scrosciante sul feltro teso che rivestiva lo yurt. Normalmente, in quel periodo dell'anno i nomadi si sarebbero messi in cammino verso i pascoli invernali; quest'autunno, invece, soltanto gli armenti erano andati a sud, sotto la sorveglianza dei ragazzi e degli anziani, mentre i guerrieri si erano radunati per vendicare l'attentato contro il khagan del Cavallo Grigio. Un pony si accostò allo yurt, il cui conducente rallentò l'andatura per permettere al cavaliere di salire a bordo. Gocciolante, Arigh oltrepassò il telo di chiusura, abbozzando un saluto in direzione di suo padre. «Lo stendardo è pronto» riferì «Ecco qualcosa da annotare nella tua storia» commentò Goudeles, inarcando un malizioso sopracciglio in direzione di Gorgidas. «Potresti battezzare questa campagna la Guerra della Tunica di Bogoraz.» Il Greco, che ormai non si accorgeva quasi più della barba, si massaggiò il mento. «Mi piace, sai» commentò, e frugò nella propria sacca alla ricerca delle tavolette e dello stilo, scribacchiando poi un'annotazione sulla cera. Per poter unire tutti i clan arshaum, infatti, si era deciso di non combattere sotto una specifica bandiera tribale, ma di ricorrere ad un simbolo che indicasse il motivo di quella guerra. Il dialogo si era svolto in videssiano ma Arghun, avendo colto il nome di Bogoraz, chiese che gli venisse fornita una traduzione, e quando Arigh gli ebbe ripetuto il tutto nel linguaggio delle pianure, scoppiò in una cupa, corta risata. «Ah! Se di lui fosse rimasto qualcosa di più, lo avrei issato sulla lancia al posto della sua tunica.» «Ed avresti fatto bene» convenne Lankinos Skylitzes, aggiungendo poi,
con una lieve esitazione: «Quello che stai raccogliendo qui, khagan, è un potente esercito.» «Sì» confermò Arghun, con voce colma di orgoglio. «Non sei lieto di avere amici così forti?» L'ufficiale imperiale assunse un'espressione di disagio. «Sì, naturalmente. Tuttavia, viaggiare fino a Prista con simili truppe potrebbe allarmare i Khamorth di Pardraya...» «Come se la cosa avesse importanza» sbuffò Arigh, passandosi un dito sulla gola ed emettendo un orribile suono gorgogliante. «Questo è quello che li aspetta se oseranno attaccarci. Io spero che ci provino.» Skylitzes annuì ma, essendo un uomo cocciuto, portò avanti il proprio pensiero. «E se anche arrivasse a Prista, un esercito così numeroso incontrerebbe difficoltà a trovare una quantità sufficiente di navi per raggiungere facilmente a Videssos.» «Cosa ti rode, Lankinos?» esclamò allora Arigh, irritato e sconcertato. «Hai fatto tutta questa strada per ottenere degli uomini, ed ora che li hai non li vuoi più.» Arghun, però, stava scrutando Skylitzes con accresciuto rispetto. «Vacci piano con lui su questo argomento, figlio» avvertì. «Perché dovrei?» ribatté Arigh, fissando con risentimento il Videssiano. «Perché conosce il suo mestiere.» Vedendo che suo figlio non era persuaso, Arghun procedette a spiegargli il problema. «Lui è venuto qui per chiedere soldati per il suo khagan.» «Certo, è ovvio» lo interruppe Arigh. «E allora?» «Per come la vede lui, questo esercito è mio, quindi è nel suo diritto chiedersi come lo userò e se possa rivelarsi più pericoloso per il suo khagan di quanto lo siano i nemici che già ha.» «Ah!» esclamò Arigh, afferrando il punto, mentre Goudeles appariva irritato di non averlo capito da solo e Gorgidas chinava il capo in un gesto di apprezzamento per la sottigliezza di Skylitzes. L'ufficiale espresse la propria ammirazione per Arghun con un saluto militare, e mostrò un evidente sollievo per il fatto che il khagan non si fosse irritato. «Posso allora chiederti apertamente come intendi usare le tue truppe?» «Arrecando a Yezd tutto il male possibile» rispose, secco, Arghun. «Credo che Arigh abbia ragione: i Khamorth si tireranno da parte e ci lasceranno passare, quando vedranno che non abbiamo cattive intenzioni nei
loro confronti... e se non lo faranno, sarà peggio per loro. Il modo più facile per arrivare a Mashiz passa però per Pardraya, ed è quella la via che intendo seguire.» Il khagan si inchinò agli inviati e aggiunse: «Voi cavalcherete con noi, naturalmente.» «Sarà un onore» fu pronto ad accettare Skylitzes. Goudeles, d'altro canto, assunse l'espressione di un uomo che fosse stato appena pugnalato alla schiena, perché anelava ancor più di Gorgidas a tornare in città, e si era appena visto portare via da sotto il naso l'opportunità di farlo per il capriccio di un capo barbaro. «Sarà un onore» ripeté infine a sua volta, con voce strozzata. «Così potremo ricominciare le esercitazioni con la spada, Pikridios» ridacchiò Skylitzes, che aveva capito perfettamente lo stato d'animo dell'altro, e Goudeles non riuscì a soffocare un sospiro. «E dovrete rinunciare anche a questo yurt» rincarò Arigh con un sogghigno, godendo a spargere sale sulle ferite spirituali di Goudeles. «Terremo soltanto un ricambio di cavalli veloci, e magari una tenda leggera per ripararci di notte dalla neve.» «Dalla neve?» gemette, con voce flebile, il burocrate. «Per favore, parlate la mia lingua» brontolò Arghun, perché suo figlio era passato al videssiano per conversare con gli imperiali. Quando ebbe colto il senso della conversazione, il khagan annuì per indicare la propria comprensione nei confronti di Goudeles. «Sì, so che la neve sarà una seccatura e che ci costringerà a rallentare la marcia. Però se partiremo non appena i clan si saranno radunati, dovremmo arrivare in Yezd entro primavera.» «La causa della mia preoccupazione non era precisamente questa» mormorò il burocrate, nascondendo la faccia fra le mani. I nomadi cavalcavano ogni anno sotto i rigori dell'inverno delle steppe, al seguito delle loro mandrie, ma sapere che era una cosa fattibile non era sufficiente a rendere più gradevole la prospettiva di affrontarla. Gorgidas si trovò a dire la prima cosa che gli passò per la mente. «Arigh, avrò bisogno di un cappello di pelo come il tuo, con...» Il Greco si aiutò con i gesti, incerto sul vocabolo da usare. «Con i paraorecchi, se possibile.» «Lo avrai» promise il nomade, comprendendo la richiesta. «È un bene pensare in anticipo a questi particolari. Conoscevo un uomo a cui un inverno si erano congelati gli orecchi durante una tormenta: uno di essi si era staccato di netto, ma lui non se n'è accorto finché la parte non si è sgelata.»
«Delizioso» sussurrò Goudeles, con voce che non si udiva quasi. Gorgidas, però, ricordò un'altra cosa. «Avshar è ancora in circolazione in Pardraya» avvertì. Questo ebbe l'effetto di smorzare l'ilarità dei suoi colleghi videssiani e perfino di Arigh. «È soltanto un mago» rispose però Arghun, come altri avevano fatto prima di lui. «Anche noi abbiamo i nostri maghi.» «Continua a farle muovere, dannazione!» gridò Valash, e Viridovix annuì, sollevandosi sulla sella e agitando le braccia, con l'accompagnamento di qualche sonora imprecazione celtica. Il branco di pecore accelerò il passo in maniera appena percettibile: comodamente avvolte nel loro mantello di lana unta, quelle bestie risentivano delle fredde piogge autunnali assai meno dei loro pastori. Le tempeste erano riprese due giorni prima, proprio come Lipoxais aveva previsto, ed avevano contribuito a rendere molto peggiore la ritirata dei nomadi, anche perché non c'era un numero sufficiente di uomini per spingere le mandrie alla loro massima andatura: il fatto che Targitaus avesse messo al lavoro perfino un novellino come Viridovix era un evidente indice della sua disperazione. Del resto, anche parecchie donne stavano assolvendo a quello stesso compito, insieme a ragazzi alti appena abbastanza da arrivare con i piedi alle staffe. Il Celta costrinse un gruppetto di bestie a rientrare nel grosso del gregge, lieto che Targitaus avesse ritenuto di affidargli un qualsiasi incarico: dopo il disastro in cui si era trasformata la battaglia, infatti, sarebbe stato facile riversare tutta la colpa su di lui, come straniero... soprattutto se si considerava che Batbaian non era tornato al campo con suo padre e che nessuno sapeva se fosse morto o fosse stato catturato. «Non è colpa tua, hai combattuto bene» si era però limitato a dichiarare Targitaus, mostrando peraltro poco desiderio di vederlo, dopo lo scontro; Viridovix non aveva avuto difficoltà a comprendere i suoi sentimenti, ed aveva badato a tenersi alla larga come meglio poteva. Questo gli aveva anche impedito di trascorrere molto tempo con Seirem, ma stare insieme sarebbe stato comunque impossibile per loro, perché Targitaus stava utilizzando i membri della sua famiglia nello stesso modo in cui faceva con il resto del clan, e le mani di sua figlia erano irritate e coperte di vesciche per le lunghe cavalcate al seguito delle mandrie. «Va' con gli altri, tu laggiù, stupido mucchio di sterco di avvoltoio coperto di pelo!» ruggì Viridovix, quando una pecora persistette nel cercare
di andare per conto suo, e la bestia belò con aria indignata, come se avesse capito l'insulto indirizzatole. Valash si allontanò per andare a rimettere in fila altri animali; quando tornò indietro, il suo volto era teso per lo sfinimento. «È un lavoro troppo grande per due uomini» dichiarò, scuotendo il capo e facendo schizzare parecchie gocce di pioggia dalla barba. «Già, sì, ma penso che forse non andrà più avanti per molto» replicò Viridovix. «Certo adesso quel serpente di Varatesh non potrà più trovarci, con la pioggia che copre la nostra pista.» Dopo la battaglia non c'era stato un serio tentativo d'inseguimento né si erano verificate quelle incursioni di logoramento che il Celta aveva temuto. Per quel che poteva servire, Targitaus aveva concluso la sua ritirata con un'abilità da maestro. Valash assunse un'espressione speranzosa nel sentire quelle parole, ma nel momento stesso in cui le proferiva, Viridovix si diede dell'idiota, perché ricordò che Avshar avrebbe potuto comunque rintracciare lui a causa della sua spada, con la stessa facilità con cui un uomo avrebbe seguito di notte il bagliore di una torcia. Per un momento, pensò di gettare l'arma nel fango per confondere la propria pista, ma prima ancora che la sua mano avesse toccato l'elsa la ritrasse di scatto e sputò in atto di sfida. «Se quel figlio di buona donna la vuole, che se la guadagni» borbottò. Com'era tipico di quelle sere autunnali, l'oscurità scese in fretta, e dense nubi grigie assorbirono la luce quasi prima che il sole da esse nascosto fosse tramontato. I Khamorth continuarono a viaggiare finché riuscirono a scorgere il terreno, poi issarono le tende, servendosi prevalentemente del tatto, e formarono un campo che era però privo di allegria... troppi guerrieri erano dispersi o morti, altri erano feriti e tutti, uomini e donne, erano sfiniti. Avvolto in una spessa coperta di lana, Viridovix si raggomitolò vicino al fuoco, nella tenda di Targitaus. Il khagan, che lo aveva accolto con un grugnito, stava mangiando immerso in un cupo silenzio, con il volto segnato da nuove rughe intagliate dal dolore. Il Gallo consumò una cena fredda a base di formaggio e di salsicce di montone affumicato, poi rifiutò le more candite con il miele che Seirem gli offriva. «Un'altra volta, ragazza mia, quando sarò di umore più lieto. Penso che la loro dolcezza sarebbe sprecata, con me.» Lipoxais, l'enaree, stava invece mangiando avidamente, con il succo ap-
piccicoso che gli colava lungo le guance. «Come puoi ingozzarti a quel modo?» gli chiese Viridovix. «Il cibo non ti soffoca, nelle condizioni in cui versa la tua gente?» «Colgo i piaceri che posso» replicò, secco, Lipoxais, mentre la sua voce acuta diventava inespressiva e il suo volto glabro si trasformava in una maschera. Viridovix addentò un grosso pezzo di salsiccia e distolse lo sguardo, sentendo le guance che gli si arrossavano: aveva trovato la risposta in merito alla natura dell'enaree, ed aveva scoperto che in realtà non desiderava conoscerla. «Non volevo esporti a vergogna» borbottò. Con sua sorpresa, l'enaree gli posò una mano grassoccia sul braccio. «Ho l'impressione che mi dovrei sentire onorato» replicò, con un accenno di bagliore negli indecifrabili occhi scuri. «Quante volte ti sei scusato per aver parlato a sproposito?» «Non abbastanza spesso, probabilmente» replicò Viridovix, dopo aver riflettuto. «E mi chiedo perché non lo abbia fatto: a me non reca nessun danno e può fare del bene al poveraccio che ho insultato.» «Lo stai civilizzando» commentò allora Lipoxais, lanciando un'occhiata a Seirem. «Honh!» esclamò Viridovix, offeso. «Sono forse diventato un Romano, adesso? Chi vuole essere civilizzato?» Dopo un momento, si rese conto che l'enaree aveva usato il termine videssiano, perché esso non aveva equivalente nella lingua dei Khamorth. «Dimostra quanto la sa lunga» commentò fra sé, e si sentì meglio. «D'accordo, ho commesso un errore!» esclamò Dizabul, sbattendo il pugno contro il pavimento dello yurt. Si fece male, e fissò la propria mano come se anch'essa gli si fosse rivoltata contro, prima di aggiungere: «Ma questa è forse una ragione valida perché tutti mi debbano trattare come una pecora calva? Lo è?» Sì, pensò Gorgidas, ma non lo disse. Dizabul era in un'età in cui ieri svaniva subito nelle nebbie e domani appariva lontano in maniera impossibile, quindi gli sembrava mostruosamente ingiusto essere ancora ritenuto responsabile per le sue scelte anche dopo che i risultati erano divenuti evidenti. Gli anziani, però, ricordavano, e lo trattavano come avrebbero fatto con chiunque avesse sostenuto la parte sbagliata, una cosa che feriva il giovane, abituato ad essere acclamato e non snobbato. In effetti, Dizabul era abbastanza disperato da giungere a cercare la
compagnia del Greco, che in precedenza aveva sempre ignorato. Quanto a Gorgidas, non era tipo da sopportare facilmente gli stolti, ma a volte Dizabul smetteva di parlare dell'ingiusto trattamento che stava subendo e rispondeva a domande relative alla storia e alle usanze del clan, perché in effetti non era stupido, ma soltanto viziato, e conosceva una quantità sorprendente di particolari relativi alle tradizioni del suo popolo. E la sua bellezza aiutava il Greco a tollerare la sua arroganza. In effetti, quel ragazzo era una creatura così avvenente che Gorgidas si sentì ora tentato di reagire nei suoi confronti con eccessiva compassione; quel sentimento destò in lui un senso di irritazione contro se stesso che lo indusse per reazione ad essere secco con Dizabul, al punto che il ragazzo finì per lanciargli un'occhiata rovente. «Sei proprio come tutti gli altri!» gridò, ed uscì tempestosamente sotto la pioggia, lasciando Gorgidas a riflettere sulle virtù dell'autocontrollo. In quel periodo, intanto, il Greco e Goudeles avevano cominciato seriamente ad addestrarsi per la guerra; lo scribacchino non sarebbe mai diventato un combattente neppure di qualità mediocre, mentre Gorgidas sorprese gli Arshaum per la sua abilità con il gladius... per lo meno a piedi. "I nomadi, infatti" registrò sui suoi appunti, "abituati come sono ad aggredire i nemici stando a cavallo, adottano uno stile uguale anche quando sono appiedati, e di conseguenza si confondono se il loro avversario colpisce di punta anziché di taglio". Quanto ai propri tentativi di usare una sciabola e di imparare ad eseguire fendenti, il Greco preferì stendere sulla cosa un pietoso velo di silenzio. Nonostante questo, comunque, i suoi progressi soddisfecero Skylitzes. «Nessuno ti scambierebbe mai per un vero soldato, d'accordo, ma hai imparato quanto basta per non lasciarti macellare come una pecora...» L'ufficiale si girò verso Goudeles, che si stava massaggiando un ginocchio a cui aveva riportato una storta nel tentativo di ruotare su se stesso per allontanarsi dal nomade con cui si stava esercitando, e levò gli occhi al cielo. «Quello, al contrario, potrebbe benissimo tatuarsi sulla fronte "montone da macello" e farla finita.» «Oso dire» ribatté con un gemito il burocrate, ancora seduto nel fango, «che io me la cavo sul campo meglio di come uno qualsiasi di questi barbari se la caverebbe in cancelleria. E poi cosa vuoi da me? Non ho mai sostenuto di avere le capacità di un guerriero.» «Neppure l'Ellenico» ritorse Skylitzes, sorprendendo Gorgidas, che non si era reso conto che il Videssiano sapesse quale fosse il nome del suo po-
polo. La lode dell'ufficiale non lo soddisfece del tutto, perché detestava la guerra nel modo profondo e sincero con cui poteva detestarla chi l'aveva vista troppo spesso e troppo da vicino. Nello stesso tempo, si sentiva però spinto per natura a fare tutto ciò in cui si impegnava nel modo migliore possibile, ed avendo deciso di apprendere i rudimenti dell'arte della guerra, aveva proceduto ad acquisirli con la stessa coscienziosità con cui aveva studiato le nozioni mediche, se non con lo stesso ardente interesse. D'un tratto, comprese perché Gaius Philippus potesse ritenere il mestiere di soldato uguale a tanti altri, a quello di carpentiere, per esempio, o di calzolaio. Era una prospettiva che non gli sarebbe mai piaciuta, ma almeno adesso non gli era più del tutto aliena. Quei pensieri lo indussero a ridere di sé: chi avrebbe mai pensato che apprendere a macellare la gente potesse condurre all'introspezione? Ricordò poi ciò che Socrate aveva detto agli Ateniesi, e cioè che per un essere umano una vita non analizzata non valeva la pena di essere vissuta, e rammentò anche che il filosofo aveva combattuto nella falange, quando la sua polis aveva avuto bisogno di lui. Dovette mormorare quelle parole greche ad alta voce, perché Goudeles si girò a guardarlo. «Di cosa si tratta?» chiese. Quando Gorgidas gli ebbe tradotto la frase in questione, lo scribacchino aggiunse: «Niente male. Questo Socrate era un agente segreto?» Per tutta risposta Gorgidas sollevò le mani in un gesto esasperato. Quando tornarono al loro yurt, il Greco procedette a pulire accuratamente la suola dei suoi stivali di pelle di cavallo prima di entrare, e Goudeles e Skylitzes lo imitarono, avendo ormai imparato che la convivenza con il dottore era molto più facile se si adeguavano alle sue esigenze; come risultato, il loro yurt era indubbiamente più lindo adesso di quanto lo fosse stato allorché i suoi inquilini erano uomini delle pianure. «Come farai quando muoveremo ad est e dovremo vivere in una tenda piantata nel fango?» domandò Goudeles, inarcando un sopracciglio in direzione di Gorgidas. «Mi adeguerò come meglio potrò» ribatté, secco, il Greco, che non riteneva di doversi scusare per le proprie esigenze. Da tempo aveva notato che le ferite guarivano prima se tenute pulite e che i malati si riprendevano più in fretta in un ambiente lindo, quindi aveva trasformato quell'osservazione in una regola generale e l'aveva applicata ad ogni aspetto della sua vita, ra-
gionando che ciò che aiutava a ritrovare la salute poteva anche prevenire le malattie. «Non prenderlo in giro a questo proposito, Pikridios» intervenne Skylitzes, stendendosi su una stuoia con un grugnito di piacere. «Non c'è niente di male a rientrare in una dimora che è asciutta e che non è marrone.» «Oh, non ne dubito, non ne dubito» concesse Goudeles. «Però non dimenticherò mai la faccia di Tolui quando il nostro amico lo ha definito una sporca palla di sterco di cavallo perché aveva lasciato del fango sul tappeto.» Gorgidas ebbe la buona grazia di apparire contrito, soprattutto perché lo sciamano era venuto per parlare con lui delle proprietà delle piante medicinali donategli da Arghun. «Bene, tutto considerato, io ritengo che lo yurt sia un posto più confortevole adesso che se ne occupa lui di quanto lo fosse quando le nostre donne erano ancora qui» insistette Skylitzes. «Pensala come vuoi.» Il burocrate era ancora intento a massaggiarsi il ginocchio, e si era arrotolato i pantaloni di pelo di pecora per poterlo guardare. La giuntura stava già diventando purpurea, ma nonostante questo lui riuscì ad assumere un'espressione maligna. «Devi comunque ammettere che loro avevano un vantaggio che a lui manca.» «È la prima volta che l'ho sentito definire così» sbuffò Skylitzes. Anche Gorgidas rise, e senza eccessiva vergogna. Considerato che non c'erano alternative, infatti, aveva recentemente avuto più successo con le donne di quanto avrebbe immaginato di poterne avere, ed Hoelun gli era stata di enorme aiuto, perché il suo desiderio di soddisfarlo era stato tanto evidente che sarebbe stato difficile... per non dire scortese... non rispondere con uguale moneta. Adesso che se ne era andata, il Greco ne sentiva la mancanza, ma gli mancava di più la possibilità di poter agire secondo la sua natura. «Sei un pazzo, ad entrare in questo modo nel nostro campò?» chiese Targitaus, fissando con occhi roventi il fuorilegge. «Metti via quello stupido scudo bianco... perché dovrebbe importarmi del tuo segno di tregua?» La sua mano si mosse con impazienza verso la spada. L'emissario di Varatesh incontrò lo sguardo del khagan con occhi che esprimevano un pari disprezzo. Era un uomo sulla quarantina, con una faccia dura e orgogliosa che avrebbe potuto essere attraente se non fosse stato per gli occhi, che erano troppo ravvicinati ed esprimevano soltanto crudel-
tà da sotto le palpebre socchiuse; il cavallo e l'armatura erano di qualità eccellente, probabilmente parte del bottino della recente battaglia. Il fuorilegge non disse il suo nome, e rispose invece con un sogghigno maligno. «Avanti, uccidimi, e vedrai allora cosa succederà agli uomini del tuo clan e ai loro amici.» Targitaus parve perdere tutto il suo spirito combattivo, e le spalle gli si accasciarono; Viridovix, che lo stava osservando, si sentì pronto a giurare che gli si erano accasciate anche le guance. «Continua» sollecitò il khagan, con voce divenuta d'un tratto tremante quanto quella di un vecchio. «Immaginavo che saresti diventato ragionevole» ribatté l'emissario, che stava evidentemente godendo della sua missione, poi si sfregò le mani e venne al dunque. «Ora che abbiamo assistito alla nascita di un nuovo Clan Reale, è tempo che tutta la steppa lo riconosca per quello che è... a cominciare da te e dalla tua gente.» Là dove niente altro avrebbe potuto avere tale potere, quelle parole ebbero l'effetto di pungere Targitaus fino a ridargli forza e vitalità, e la sua faccia divenne purpurea per l'ira. «Bastardo» ruggì, «mucchio di sterco di capra dalla faccia di formaggio, rospo!» Per un Khamorth, quello era il peggiore degli insulti, e le labbra del fuorilegge si ritrassero sui denti in un'espressione rabbiosa. Targitaus però non vi prestò attenzione, e continuò con la sua invettiva. «Torna a riferire a Varatesh che può venire a leccarmi i piedi, perché io non leccherò mai i suoi!» Gli uomini del clan raccolti intorno a lui gridarono la loro approvazione. Quel tumulto diede all'uomo di Varatesh il tempo di cui aveva bisogno per ritrovare la calma: il capo rinnegato non era stato poco accorto nello scegliere il suo emissario. Quando le grida si trasformarono infine in borbottii, il bandito allargò le mani in un gesto conciliatorio e parlò nel tono più mite di cui era capace. «E chi ha parlato di leccare i piedi? Tu sai che Varatesh è più forte di te e che ti potrebbe schiacciare come un bambino schiaccerebbe una lucertola nel suo pugno.» Viridovix si accigliò nel sentire quello spietato paragone, che gli permise di vedere nell'anima del fuorilegge, al di là delle sue parole pacate. «Ma non lo fa. Perché dovrebbe? In un modo o nell'altro, voi diventerete suoi sudditi, quindi perché non diventarlo spontaneamente?» «E mettere il Lupo sotto la bandiera nera di voi banditi? Mai!» «D'accordo, allora» ribatté l'emissario, con l'aria di un uomo sconfitto da un contrattatore più duro di lui. «Varatesh è perfino disposto a farvi un re-
galo.» «E quale regalo potrei mai accettare da lui?» chiese Targitaus, sputando a terra con disprezzo. «Ti restituirà tutti i prigionieri che ha in sua mano senza chiedere un riscatto.» «Ti stai prendendo gioco di me» dichiarò Targitaus, ma al tempo stesso scorse la terribile, tormentosa speranza apparsa sul volto della sua gente. «Giochi» ripeté, e nella sua voce si avvertiva ora una sfumatura di dubbio. «Sulla mia spada, giuro che non è così» insistette l'emissario, e i nomadi tacquero, guardandosi a vicenda, perché presso il loro popolo guerriero anche il peggiore rinnegato ci avrebbe pensato tre volte prima di infrangere quel particolare giuramento. «Batbaian è fra loro?» esplose Targitaus, incapace di controllarsi oltre. «Sì, ed è più fortunato della maggior parte degli altri. Lo giuro sulla mia spada.» Quando si accorse che Targitaus cominciava a prestare fede al bandito, Viridovix si sentì invadere dallo sgomento. «Certo vostro onore non può accettare per vere le menzogne di questo furfante!» esclamò. «Qual è il valore della parola di Varatesh, o di quella di Avshar?» Qualche testa abbozzò un cenno di assenso, ma nel complesso non furono molte. «V'rid'rish» ribatté il capo del clan, spinto dalla consapevolezza che suo figlio era nelle mani di Varatesh ad aggrapparsi alla pagliuzza che gli veniva offerta, «ho già seguito una volta la strada da te proposta, e guarda cosa questo mi ha procurato.» Il Gallo assunse un'espressione sconcertata di fronte a quell'ingiusto rovesciarsi della situazione, ma Targitaus aggiunse anche di peggio, chiedendo: «Come trovi quindi ora il coraggio di suggerirmi cosa fare?» «Ma...» Targitaus gli troncò le parole in bocca interrompendolo con un gesto secco. «Sii grato che il prezzo richiesto non sia stato il tuo collo, perché ti avrei ceduto in cambio di Batbaian e dei miei uomini.» Il Celta chinò il capo, perché quella era un'argomentazione contro cui non poteva ribattere nulla. Avendo deciso di trattare con i nemici, Targitaus mercanteggiò con tutta la sua abilità, e cercò di ottenere il massimo che gli era possibile nell'infe-
lice posizione in cui si trovava, discutendo con l'uomo di Varatesh su una concessione dopo l'altra e costringendo il rinnegato ad accettare la condizione che se lui avesse corso il rischio di fermarsi, nessuno dei guerrieri di Varatesh si sarebbe però avvicinato al campo con la colonna dei prigionieri. «Naturalmente, devi capire che i prigionieri saranno appiedati e disarmati.» «Certo, certo» ribatté il khagan, con impazienza. «Se avessimo vinto noi, vi avremmo tolto ogni cosa come spoglia di guerra.» Adesso che aveva preso una decisione, Targitaus procedette ad attuarla con la massima velocità, scambiando un giuramento con il bandito e invocando gli spiriti perché vendicassero qualsiasi trasgressione ai termini convenuti. Incupito in volto, Viridovix seguì la scena dai margini della folla di Khamorth, pochi dei quali erano adesso disposti a rivolgergli la parola, tanto che per la prima volta da parecchie settimane lui si sentì di nuovo uno straniero in mezzo a loro. Il sorriso di Seirem gli disse che lei non lo aveva dimenticato, ma lo indusse anche a chiedersi per quanto tempo avrebbe potuto godere della sua compagnia, ora che suo padre gli si era rivoltato contro; in un certo senso, il paio di frasi che Rambehisht gli rivolse, badando a farsi notare da tutti, ebbero l'effetto di tirargli maggiormente su il morale. «Forse non sono io ad essere pazzo, dopo tutto» disse a se stesso, tirandosi i baffi. Nonostante tutto, le trattative procedettero fino alla conclusione. «Cavalca in fretta» raccomandò Targitaus all'uomo di Varatesh. «Tregua o non tregua, non rimarremo qui a lungo.» Il rinnegato annuì e spinse al trotto il suo pony bruno e irsuto, sollevando al tempo stesso lo scudo bianco sulla lancia, per evitare che qualche pattuglia di Targitaus lo attaccasse sulla via del ritorno. Un soffio di brezza fece arrivare fino al campo la sua risata, mentre lui infine ne usciva. «Ah, dopo tutto, possiamo lasciarli liberi» commentò Avshar. «Davvero nobile da parte nostra.» Il principe-mago stava sorseggiando kavass mediante una pagliuzza cava che passava attraverso una fessura del suo elmo dalla visiera abbassata e, nonostante quel metodo, riusciva a esibire la rumorosità tipica dei nomadi. Varatesh stava ormai bevendo da giorni, spinto dal desiderio di non aver
mai dato gli ordini inerenti alla liberazione dei prigionieri. Adesso era però troppo tardi per avere rimpianti o per tornare indietro, pensò. «Sì, lasciamoli andare» convenne. La cosa era ormai fatta, e doveva vivere con essa, ma nonostante questa consapevolezza la mano gli tremò quando si portò l'otre alle labbra, e lui trangugiò il liquore senza sentirne il sapore. «Stanno arrivando!» gridò il cavaliere, entrando a cavallo nel campo, e i Khamorth levarono un urlo di gioia. I nomadi si stavano agitando fra le tende, gli uomini armati di tutto punto, le donne con indosso i loro abiti migliori, con i bughtaq più decorati e le lunghe e ampie gonne di lana tinta a strisce orizzontali dai colori vivaci. Il clima sembrava collaborare per rendere perfetti i festeggiamenti, perché la giornata era fredda ma limpida, in quanto l'ultima tempesta si era esaurita durante la notte precedente. Tensione e paura si mescolavano alla gioia, perché le mogli, le figlie, i fratelli dei dispersi nutrivano tutti la speranza di ritrovare i loro cari fra i prigionieri, e sapevano che per alcuni quella speranza sarebbe andata delusa. «Sembra che quei bastardi li abbiano legati gli uni agli altri» riferì l'esploratore di Targitaus. «Sono in colonne di venti circa, un gruppo vicino all'altro.» Dai nomadi si levò un borbottio iroso, ma Targitaus intervenne a placarlo. «L'importante è che stiano arrivando» dichiarò. «Le corde si tagliano, e così anche altri vincoli.» A quelle parole, gli uomini del suo clan risposero con un ringhio sommesso, degno dei lupi che avevano come simbolo. «Che aspetto hanno?» domandò Seirem, che era ferma accanto a Viridovix e gli stava stringendo la mano nella propria con tanta forza da fargli male. Il Gallo sapeva con quanta intensità la ragazza desiderava chiedere di Batbaian, e l'ammirò per il modo in cui seppe trattenersi, per evitare che l'esploratore fosse subissato da simili domande. Per esprimere quel sentimento, ricambiò la stretta della mano di lei, e Seirem accolse il suo gesto con gratitudine. «Temo di non essermi avvicinato molto» replicò il cavaliere. «Non appena li ho avvistati, ho voltato il cavallo e sono venuto qui a portare la notizia.»
Seirem si morse un labbro ma annuì. «Andiamo loro incontro!» esclamò qualcuno, e i Khamorth accennarono a muoversi in massa, ma Targitaus li arrestò. «L'accordo era che li avremmo ricevuti qui, e così faremo» disse. «Per ora siamo deboli, non possiamo permetterci di infrangere nessuna parte del patto. Tuttavia...» Lasciò la frase in sospeso, ma i nomadi annuirono, attendendo già con impazienza quel giorno. L'attesa si prolungò, poi un grande grido si levò dalla folla quando le prime teste apparvero oltre una leggera ondulazione del terreno, a poche centinaia di metri dal campo. Incurante ora del khagan, il popolo del clan si precipitò verso i prigionieri, e Targitaus si mise a correre con esso, senza più cercare di trattenerlo. Viridovix e Seirem, che ancora si tenevano per mano, erano nel centro della ressa: il Gallo avrebbe potuto arrivare con facilità in prima fila, ma si trattenne per adeguarsi al passo più corto della ragazza. In numero sempre maggiore, i prigionieri giunsero incespicando in vista del campo, legati gli uni agli altri proprio come aveva riferito l'esploratore, e Viridovix emise un fischio di sorpresa quando si rese conto di quanti erano. «Non mi dire che quel furfante ha davvero intenzione di mantenere la sua promessa» borbottò, e fu soltanto quando Seirem lo guardò con espressione incuriosita che si rese conto di aver parlato in celtico. «Nulla di importante, amore» spiegò, nel linguaggio delle pianure. «Pare che tuo padre avesse ragione, e ne sono lieto.» «Anch'io» rispose lei, e subito aggiunse, con un leggero sussulto. «Guarda, ecco Batbaian, in testa ad una fila!» I prigionieri erano ancora troppo lontani perché Viridovix potesse riconoscere il giovane, ma Seirem non ebbe dubbi e chiamò il fratello per nome, agitando freneticamente una mano. Batbaian sollevò la testa di scatto, individuò il Gallo, se non la sorella, e agitò la testa per indicare che aveva sentito, perché aveva le mani legate dietro la schiena e non poteva rispondere al gesto di Seirem. Quando infine furono più vicini, Seirem sussultò improvvisamente, come se fosse stata colpita. «Il suo occhio...» cominciò, poi la voce le venne meno e il suo sguardo si colmò di dolore. Sotto il sopracciglio sinistro di Batbaian c'era soltanto un'orbita vuota e infiammata, su cui la palpebra sbatteva inutilmente. «Och, ragazza mia, sono cose che succedono, cose che succedono» la
consolò con gentilezza Viridovix. «Gli dèi siano lodati che gli è rimasto l'altro e che ora è a casa dove potrà guarire.» La mano di Seirem era fredda nella sua, ma lei riuscì ad annuire, perché conosceva le conseguenze della guerra abbastanza da sapere quanto potessero essere cupe. I prigionieri ora di ritorno costituivano un'ulteriore prova di quanto la guerra potesse essere crudele: molti infatti zoppicavano per ferite non ancora risanate, e più di uno aveva soltanto una mano che potesse essere legata dietro la schiena. Seirem cominciò ora a riconoscere anche altri nomadi. «Ecco Ellak, a capo di un'altra colonna. Gli spiriti gli siano clementi: anche lui ha perso un occhio. E Bumin, laggiù... lo si riconosce sempre perché ha le gambe così storte... oh, no, anche a lui manca un occhio. Ed anche a Zabergan, e a quell'uomo alto dei Gatti Macchiati, e a Nerseh, laggiù...» La ragazza sollevò lo sguardo su Viridovix, con il viso pervaso dalla paura. La vista di quelle mutilazioni aveva avuto l'effetto di raggelare anche Viridovix, come se un blocco di ghiaccio gli si fosse insinuato sotto il cuore, perché lui ricordava anche troppo bene il genere di doni che Avshar era solito elargire. La folla proveniente dal campo raggiunse poi i prigionieri, e le grida di benvenuto si mutarono in urla di orrore: le donne gemettero e svennero, e con esse anche alcuni uomini, mentre altri si allontanarono barcollando e crollarono nel fango in preda al vomito. Uno estrasse la spada, staccò suo fratello dalla fila dei prigionieri e lo uccise; poi, prima che qualcuno potesse fermarlo, si passò a sua volta la lama sulla gola e cadde in un lago di sangue. Infatti, ciò che Seirem aveva scorto in testa ad ogni colonna, era il massimo della misericordia dimostrata da Avshar e da Varatesh: al capo di ogni fila era stato lasciato un occhio intatto, in modo che potesse guidare i suoi compagni attraverso la steppa, mentre tutti gli altri erano stati completamente accecati, e dai loro occhi rovinati colavano ora pus o un denso siero giallo, al posto delle lacrime che non avrebbero mai più versato. Ci volle tempo perché l'atrocità di quell'atto venisse assimilata: mille uomini, fra cui si potevano contare in tutto cinquanta occhi. Lipoxais, il cui volto solitamente florido era adesso di un pallore mortale, passò da una colonna all'altra, premendo erbe emollienti sulle ferite dei nomadi mutilati più crudelmente e, cosa forse più importante, offrendo il conforto di una voce gentile nel buio che li circondava. La disperata enor-
mità di quel compito fu però tale da esaurire i medicinali di cui l'enaree disponeva e da sopraffare il suo spirito, e Lipoxais si accasciò nel fango, piangendo con i devastanti spasimi di chi non è abituato a versare lacrime. «Cinquanta occhi! Lo avevo predetto, senza capire cosa stavo vedendo!» gridò con amarezza. «Cinquanta occhi!» I capelli si rizzarono sulla nuca di Viridovix quando questi ricordò la trance in cui era caduto l'enaree. Cos'altro aveva visto Lipoxais? Una porta nella montagna, e un paio di spade. Il Gallo rabbrividì, e sputò per allontanare i presagi, perché non voleva avere parte nel resto delle profezie di Lipoxais. Targitaus si stava guardando intorno con l'aria di un uomo che fosse consapevole di essere sveglio ma si trovasse al tempo stesso intrappolato in un incubo. «Mio figlio!» gemette. «Il mio clan! Mio...» Gemette ancora, un verso che era al tempo stesso di sorpresa e di dolore, e si serrò la testa fra le mani... o almeno tentò di farlo, perché il braccio sinistro rifiutò di rispondere alla sua volontà. Il khagan ondeggiò come un vecchio albero sferzato dalla tempesta, poi crollò prono al suolo. Con un urlo disperato, Seirem si precipitò al suo fianco, seguita da vicino da Viridovix. Borane era già là, e stava ripulendo con delicatezza la faccia e la barba del marito con la manica del suo abito della festa; Lipoxais, riscosso dal suo dolore personale, sopraggiunse a sua volta di corsa. «Liberatemi! Liberatemi!» gridò Batbaian, e qualcuno tagliò la corda che lo teneva unito ai suoi compagni di prigionia che, privati dell'unico in grado di vedere, si immobilizzarono dove si trovavano, timorosi di muoversi. Con le mani ancora legate dietro la schiena, Batbaian si fece largo a spallate fra la ressa e si inginocchiò goffamente accanto al padre. Il lato destro del volto di Targitaus era ancora contratto in un'espressione di angosciosa sofferenza, il sinistro era rilassato e molle come un ammasso di cera parzialmente fusa; una pupilla era minuscola, mentre l'altra occupava tutta l'iride, e il respiro del khagan era rauco e faticoso. Mentre la sua famiglia, il resto dei Khamorth e Viridovix guardavano ed ascoltavano impotenti, il respiro di Targitaus divenne sempre più lento, fino ad arrestarsi. Lipoxais si protese per abbassare le palpebre sugli occhi fissi del morto, e Borane si aggrappò al marito con un gemito, cercando invano di richiamare la vita nel suo corpo.
CAPITOLO TREDICESIMO Anche se Marcus aveva superato la prova dell'interrogatorio sotto l'effetto della droga, Thorisin non lo convocò ancora, perché era diverso da Vardanes Sphrantzes e non provava piacere a trattare con un uomo che aveva coperto di vergogna. Il tribuno, dal canto suo, fu contento di essere lasciato in pace; con il tempo finì il suo rapporto e lo mandò all'Avtokrator mediante un messaggero, ricevendo con lo stesso sistema un biglietto che confermava che esso era stato consegnato. Gaius Philippus teneva intanto Garsavra sotto controllo: gli Yezda di Yavlak avevano tentato di razziare alcune fattorie vicino alla città non molto tempo dopo che Scaurus era arrivato nella capitale, e il rapporto che il centurione anziano gli mandò al riguardo fu un modello di chiarezza: "Sono venuti, li abbiamo annientati". Il tribuno fu lieto di apprendere della vittoria, ma meno di quanto avrebbe creduto possibile alcune settimane prima, perché il costante frusciare delle pergamene sembrava isolare l'ala del Tribunale Principale riservata ai burocrati dalle lotte esterne, e perché sapere che i Romani avevano combattuto bene anche senza di lui lo faceva sentire inutile. Cominciò a trascorrere la maggior parte del tempo alla propria scrivania o nella sua stanza, restringendo il suo mondo il più possibile, perché a Videssos c'erano ben poche persone che desiderava vedere. Una volta, svoltando un angolo, scopri uno dei servitori di Alypia che stava bussando alla sua porta, e si affrettò a ritrarsi per non essere visto, restando nascosto finché l'uomo se ne andò, borbottando. L'idea di rivedere la principessa dopo essersi rivelato a lei sotto l'effetto della pozione di Nepos, dopo che tutti i suoi dolori più intimi avevano cessato di essere tali, lo spaventava. Senza Senpat e Nevrat Sviodo, la sua vita sarebbe stata in tutto e per tutto quella di un recluso, e la prima volta che essi vennero a trovarlo, la sua reazione iniziale fu quella di non aprire. «So che sei lì dentro, Scaurus» gridò Senpat, attraverso il battente. «Vediamo se io riesco a picchiare più a lungo di quanto tu possa sopportare.» Aiutato dalla moglie, il giovane Vaspurakano iniziò a fare un tale fracasso che il tribuno dovette cedere, con gli orecchi che gli ronzavano. «Ci hai messo parecchio» commentò Nevrat. «Pensavo che saremmo stati costretti a restare qui fuori a gocciolare per tutta la notte.» I vestiti eleganti che i due Vaspurakani indossavano erano stati alquanto rovinati dalla pioggia.
«Mi dispiace» mormorò, senza troppa sincerità, Marcus. «Entrate e asciugatevi.» «No, esci tu con noi» replicò Senpat. «Credo di aver trovato una taverna dove vendono un vino abbastanza secco da adattarsi ai tuoi gusti. Se poi non ti piacerà, bevine parecchio, e vedrai che il sapore non importerà più.» «Bevo già fin troppo vino da solo, dolce o secco, grazie» protestò Marcus, cercando di rifiutare. Insieme al ticchettare della pioggia contro la finestra, il vino era la sola cosa che lo aiutasse a godere del poco riposo che riusciva concedersi. «Bere da solo non è la stessa cosa» dichiarò però Nevrat, prendendolo per un braccio. «Ora vieni con noi.» Lasciato con la sola alternativa di liberarsi con la forza, il tribuno acconsentì. La taverna non era lontana dal complesso del palazzo. Scaurus trangugiò una coppa di vino, fece una smorfia e indirizzò a Senpat un'occhiata rovente. «Soltanto un Vaspurakano potrebbe definire secco questo sciroppo» lo accusò. I "principi", infatti, preferivano vini ancora più dolci e densi di quelli in commercio a Videssos. «In che cosa dovrebbe differire da qualsiasi altro in vendita qui intorno?» «Per quel che ne capisco, in nulla» ammise Senpat, con disinvoltura, e notando lo sguardo sconcertato di Scaurus, aggiunse: «Ma la prospettiva di un vino secco ti ha sradicato dal tuo nido, giusto?» «Direi che è dipeso di più dal fatto che tua moglie mi ha afferrato con la forza.» «Oseresti sottintendere che lei possiede un fascino che a me manca?» Senpat finse di essere stato punto sul vivo. «Oh, piantala» intervenne Nevrat, rivolgendosi poi a Marcus. «A che serve avere degli amici, se non sono d'aiuto nel momento del bisogno?» «Ti ringrazio» rispose il tribuno, e si protese a stringerle la mano, lasciando poi andare la presa con riluttanza... in quel periodo, qualsiasi piccola gentilezza aveva il potere di commuoverlo. Nevrat gli rispose con un caldo sorriso. «Un'altra cosa a cui servono gli amici è notare quando il bicchiere degli amici è vuoto» aggiunse Senpat, indirizzando un cenno al servitore. Scaurus scoprì che Nevrat aveva ragione. Quando si chiudeva nella sua stanza con una bottiglia, tutto quello che otteneva era di ritrovarsi intontito e triste, mentre in compagnia di Senpat e di Nevrat il vino gli permetteva
di accettare quella compassione che da sobrio avrebbe rifiutato. Quella sera cercò perfino si unirsi agli altri quando uno degli uomini presenti nella taverna avviò una serie di canzoni sconce, e rise di fronte all'espressione assunta da Senpat per avvertirlo che il suo orecchio musicale e la sua voce non erano migliori del solito. «È una cosa che dobbiamo fare ancora» sentì dire a se stesso, quando si ritrovò, un po' barcollante, davanti alla propria soglia. «A patto che tu prometta di non cantare» ammonì Senpat. «Hmm.» Con l'espansività tipica degli ubriachi, Marcus abbracciò entrambi i Vaspurakani. «Siete davvero due buoni amici.» «E come dovrebbero fare i buoni amici, ora ti lasceremo perché tu possa riposare» replicò Nevrat. Con tristezza, il tribuno li osservò andare via: anche loro stavano barcollando, nel percorrere il corridoio in direzione delle scale. Poi notò che Senpat aveva fatto scivolare un braccio intorno alla vita della moglie, e si morse un labbro, affrettandosi ad entrare nella propria stanza. Quel piccolo particolare finale non guastò eccessivamente la serata, e il sonno di Scaurus fu profondo e ristoratore, non quell'oblio indotto dal vino che era il massimo che lui aveva osato sperare da quando Helvis lo aveva lasciato, tanto che il mal di testa con cui si destò gli parve un prezzo insignificante da pagare; quando raggiunse l'ufficio in cui lavorava, salutò con un cenno i burocrati posti sotto il suo controllo, il primo gesto amichevole che avesse mai rivolto loro. Scoprì ben presto che gli scribacchini erano più facili da sovrintendere di quanto lo fossero stati l'anno precedente, perché nessuno di loro aveva il talento di Pikridios Goudeles per contraffare i numeri, e tutti sapevano che Marcus era riuscito ad ottenere un pareggio nella gara di astuzia con il loro capo, il che li privava del coraggio di cercare di ingannarlo in maniera sfacciata. Sfogliare una pagina dopo l'altra, una pergamena di registrazioni delle tasse dopo l'altra senza trovare un disavanzo di neppure un pezzo d'argento era incoraggiante sotto un certo aspetto, ma era al tempo stesso monotono, un lavoro che il tribuno svolgeva con meccanica competenza, anche perché non era certo in vena di andare a caccia di emozioni. Vedendo che l'umore di Scaurus era un po' meno acido di quello da lui esibito in precedenza, uno dei burocrati si accostò alla sua scrivania. «Cosa c'è, Iatzoulinos?» chiese il tribuno, sollevando lo sguardo dal pro-
prio abaco. Anche senza la guida degli occhi, le sue dita completarono un'addizione con rapidità incredibile, perché la lunga pratica lo aveva ormai reso abile quanto qualsiasi contabile. «Questo documento presenta la possibilità di fornirti un certo divertimento, signore» rispose Iatzoulinos, porgendogli una pergamena. Lo scribacchino era un uomo magro e pallido di età indefinita, che usava il gergo della cancelleria anche per questioni che non avevano nulla a che vedere con la finanza, tanto che Marcus pensò con ironia che doveva probabilmente usarlo perfino in amore. «Fammi vedere» incitò, chiedendosi cosa potesse essere tanto divertente per un uomo così impassibile. «Con piacere, signore.» Iatzoulinos srotolò la pergamena. «Noterai innanzitutto che i necessari sigilli sono stati apposti tutti e che quindi, in apparenza, questo documento non presenta irregolarità. Tuttavia, osserva la mano inesperta con cui è stato scritto, e la sintassi di una semplicità infantile. Infine, si dovrebbe trattare di una richiesta di fondi inviata alla capitale da una città di provincia...» Iatzoulinos scoppiò effettivamente a ridere, perché per lui gli aspetti ridicoli di quel documento erano tanto evidenti da non dover essere specificati. Scaurus studiò il foglio e, all'improvviso, cominciò a ridere a sua volta. Iatzoulinos si mostrò gratificato, ma poi s'innervosì quando il tribuno non accennò a smettere. «Chiedo scusa, signore» azzardò infine, «ma tu sembri trovare maggiori cause di ilarità di quante ne prevedessi. Saresti tanto gentile da illustrarmi il motivo di tanto riso?» Non riuscendo ancora a parlare, Marcus si limitò a indicare la firma in fondo alla pagina. Iatzoulinos seguì con lo sguardo la direzione del suo dito e ogni traccia di colore gli svanì lentamente dalle guance magre. «Quello è il tuo nome» osservò, con voce flebile, e lanciò un'occhiata timorosa alla spada di Scaurus, perché non era abituato a veder circolare apertamente armi letali nella sua cancelleria, che si serviva di quelle più sottili costituite da penna e inchiostro. «Lo è, infatti» confermò il tribuno, che aveva finalmente ritrovato il controllo, ed aggiunse: «Se controlli l'archivio, troverai anche una stesura imperiale che conferma questa mia richiesta. I cittadini di Garsavra hanno reso all'impero un grande servigio, contribuendo con i loro fondi personali per ottenere il riscatto dei prigionieri namdaleni da Yavlak. E rimborsarli è un semplice atto di giustizia.»
«Naturalmente, naturalmente. Mi opererò con ogni sforzo per facilitare l'effettuazione del rimborso.» Nel suo sgomento, Iatzoulinos stava praticamente farfugliando. «Illustrissimo signore, spero che capirai che non intendevo recare offesa con eventuali commenti che in un primo momento possono essere parsi denigratori.» «Non ti preoccupare» lo rassicurò Scaurus, alzandosi e battendo una pacca sulla spalla dello sfortunato burocrate, non avendo peraltro modo di fargli capire quanto gli fosse grato: neppure con Senpat e Nevrat aveva riso tanto. «Stilerò un dispaccio che autorizzi l'invio dei fondi con la massima fretta» concluse Iatzoulinos, lieto di avere una scusa per allontanarsi dal Romano. «Sì, fallo» gli gridò dietro Marcus. «Gaius Philippus, che comanda attualmente la guarnigione di Garsavra, non ha la mia pazienza.» La ritirata di Iatzoulinos si trasformò in una fuga. Scuotendo il capo, il tribuno si rimise a sedere. Anche il sollievo portato dalla risata era misto a infelicità, perché avrebbe di gran lunga preferito trovarsi anche lui a Garsavra con i suoi connazionali piuttosto che essere là alla capitale, solo e in cattiva luce. E pensare a come aveva ottenuto gli uomini del Ducato serviva soltanto a ricordargli come poi li aveva perduti. Qualche giorno più tardi, quando giunse sulla soglia, trovò la cancelleria sconvolta dall'ilarità e colse frammenti delle battute pesanti che gli scribacchini si stavano scambiando. «... sa da quale parte è imburrato il suo pane, non c'è dubbio.» «Focaccia Imburrata, questo sarebbe stato il nome più adatto per lui.» «No, idiota, per lei...» Quando i burocrati lo videro, sulla stanza calò il silenzio, perché dopo il disastroso tentativo di Iatzoulinos, Marcus non veniva più incluso nei loro scherzi: il tribuno passò in mezzo a impiegati che evitavano il suo sguardo, sentì la conversazione vertere bruscamente sul lavoro. Ferito, sedette alla scrivania, aprì un registro e cominciò a sommare una lunga colonna di cifre, desiderando per una volta di aver bisogno di concentrarsi per lavorare con l'abaco, perché almeno questo avrebbe distolto la sua mente dall'amarezza che provava. «Suona un altro pezzo, Vaspurakano!» gridò qualcuno, in mezzo agli applausi, e una decina di avventori ripresero quel grido, fino a farne echeggiare l'intera taverna.
Senpat Sviodo lasciò che la pandora gli riposasse in grembo per qualche minuto e flesse le dita per scioglierne le giunture, indirizzando una comica occhiata di sgomento verso il tavolo a cui erano seduti Marcus e Nevrat. La donna gridò qualche parola in vaspurakano al marito, che annuì con aria contrita, levando gli occhi al cielo. «Scusami» aggiunse poi Nevrat in videssiano, rivolta a Scaurus. «Gli ho detto che avrebbe potuto starsene qui seduto a godersi il vino con noi, se avesse lasciato a casa il suo strumento.» «Gli piace suonare» osservò Marcus. «Oh, certo» convenne Nevrat, inarcando un sopracciglio, «come a me piacciono le prugne candite... ma scoppierei se cercassi di mangiarne un cesto intero.» «D'accordo» concesse Marcus. Senpat aveva avuto l'intenzione di suonare soltanto un paio di brani, più per il proprio divertimento che per gli altri, ma aveva trovato nel locale un pubblico sfrenato ed entusiasta, fra cui spiccava in prima fila il taverniere stesso; il giovane era stato praticamente trascinato là dove si trovava ora, seduto sul bancone di mescita con il cappello vaspurakano posato accanto, rovesciato, e stava cantando ormai da un paio d'ore, circondato da una folla troppo fitta ed interessata per lasciarlo andare. I presenti applaudirono ancora quando risuonarono le prime note di un pezzo familiare, e intonarono in coro: «Il vino si ubriaca, ma tu ti ubriachi ancora di più.» «Dovrebbe prolungare quel brano più a lungo che può» commentò Marcus. «Forse si sbronzeranno e gli daranno l'opportunità di filarsela.» Sembrava che il taverniere la stesse pensando esattamente come lui, dato che un paio di cameriere si stavano dando da fare per mantenere pieni i boccali degli avventori raccolti intorno a Senpat ed altre due andavano di tavolo in tavolo, portando sul fianco grosse anfore di vino. Nevrat protese la propria tazza per farsela riempire di nuovo, mentre Scaurus rifiutò, sentendosi già quasi pieno. «Questa sera ti stai trattenendo» rilevò la donna, accorgendosi della cosa. «Dovresti capirlo, considerata la faccenda delle prugne candite.» «Hai ragione» sorrise lei, poi tornò seria e lo scrutò con la concentrazione di un teologo che stesse meditando su un testo difficile. Infine, con voce neutra, aggiunse: «Di recente hai bevuto molto, vero?» «Troppo, forse.»
«Lo pensavo anch'io» dichiarò Nevrat, rasserenandosi, «ma dubitavo che spettasse a me dirlo. Per quanto» si affrettò ad aggiungere, nel timore che lui si offendesse, «nessuno ti potrebbe biasimare, considerato...» «Già, considerato» concluse Marcus al suo posto. «Comunque, si può contemplare il resto del mondo dall'interno della bottiglia soltanto per un certo tempo. Alla fine, quello che si vede è soltanto la bottiglia.» Il ricordo del motivo che lo spingeva a bere gli fece assumere un aspetto abbastanza abbattuto da indurre Nevrat ad aggrottare le sopracciglia scure in un gesto preoccupato e a protendersi a toccargli la mano. «Fa ancora tanto male?» «Mi dispiace.» Marcus dovette compiere uno sforzo deliberato per riscuotersi. «Non pensavo che fosse così evidente.» «Oh, un passante incrociato per caso in strada potrebbe non accorgersene» ribatté lei, «ma tu ed io ci conosciamo ormai da anni.» «Infatti.» Ripensandoci, Marcus si rese conto che conosceva Senpat e Nevrat meglio di qualsiasi altro non-Romano di quel mondo, e che in particolare conosceva Nevrat meglio di qualsiasi altra donna, tranne Helvis... pensare a lei lo indusse a contrarre ancora il volto in una smorfia sofferta, anche se non se ne accorse... ed Alypia Gavra. E Nevrat non era intrappolata da nessun genere di cerimoniale imperiale. Quasi prima che si accorgesse di quello che stava facendo, la sua mano si strinse intorno a quella di lei. Era strano sentire sul palmo e sulle dita di una mano femminile i calli provocati dall'impugnatura di una spada, dalle redini e dall'uso dell'arco. Nevrat lo guardò con aria sorpresa, ma non si ritrasse. In quel momento, Senpat concluse la sua canzone e saltò giù dal bancone in mezzo ad un rinnovato coro di richieste per un'altra esibizione. «No, no!» protestò. «Basta, amici miei, basta!» Il suono della sua voce, non più accompagnato dalla pandora, indusse Marcus a ritrarsi di scatto come se la mano di Nevrat avesse preso fuoco. «Bene, bene, e come ve la state cavando qui?» chiese Senpat, quando finalmente riuscì a farsi largo fra la ressa che circondava il banco. «Cosa avete complottato voi due, mentre io ero tenuto in ostaggio? Nulla di buono, non ne dubito.» Il tribuno fu lieto di avere ancora del vino nella tazza, perché trangugiarlo gli permise di evitare di rispondere. «Non hai motivo di dubitarne» ribatté Nevrat, dopo una lieve pausa, con lo stesso tono neutro che aveva usato con Scaurus.
Il tribuno sussultò, ma dovette essere un gesto provocato da un segreto rimorso di coscienza, perché Senpat non parve notare nulla di anormale, mentre soppesava il cappello che tintinnava per le monete di rame e d'argento che il pubblico vi aveva gettato dentro. «Vedete?» commentò. «In fin dei conti, avrei dovuto fare il menestrello.» Nevrat sbuffò, indicando chiaramente come la pensasse al riguardo. «Metti quel denaro nella tua sacca» consigliò. «Avrai bisogno del cappello... ha ricominciato a piovere.» «Ma non smette mai, in questo periodo?» Senpat rovesciò il copricapo, ed un paio di monete rotolarono sotto il tavolo, sul pavimento. Nevrat si chinò per raccoglierle, ma lui la fermò con un cenno. «Lascia perdere. Renderanno felici gli sguatteri che verranno a pulire» disse, riponendo la pandora nella sua morbida custodia di cuoio e lanciando un'occhiata a Marcus. «Qui starà più all'asciutto di te, considerato che non hai il cappello.» «Più all'asciutto di chiunque di noi.» La risposta suonò troppo concisa all'orecchio del tribuno, ma servì allo scopo: in certi casi, essere laconici risultava vantaggioso. «A volte, penso che ti importi del tuo giocattolo più di quanto ti importi di me» intervenne Nevrat, scherzando come di consueto. «E perché no?» ribatté Senpat. «Tu sai badare a te stessa.» «Lieta che tu lo pensi.» Le parole di Nevrat furono abbastanza taglienti da indurre Marcus a girarsi a guardarla, chiedendosi se esse fossero state dirette anche a lui, ma Senpat si limitò a ridacchiare. «Stanotte hai davvero una lingua da vipera» dichiarò, e prese a contorcersi come se fosse stato morso da un serpente. Nevrat accennò a volergli tirare un piatto in testa, ma ora anche lei stava ridendo, e perfino Marcus abbozzò un sorriso: Senpat era incorreggibile. Il giovane Vaspurakano si appese la pandora alla spalla, si piantò in testa il cappello calcandolo quanto più era possibile e si diresse verso la porta, seguito dappresso da Nevrat e, più lentamente, da Scaurus. Il tribuno pensò per un momento di fermarsi nella taverna finché la pioggia fosse cessata, ma per questo ci sarebbero potuti volere dei giorni e poi, come aveva detto a Nevrat, dopo un po' bere era una cosa che diventava fine a se stessa, e lui si conosceva troppo bene per poter fingere di non esserne consapevole. Un Videssiano cercò di tirare Nevrat fra le proprie braccia, ma lei si ri-
trasse, prese la tazza di vino che l'uomo aveva in mano e, con un sorriso colmo di dolcezza, gliela rovesciò in testa. «Lascia perdere» disse a Senpat, che si era girato di scatto, portando la mano al coltello. «So badare a me stessa.» «Lo vedo» convenne suo marito, ma conservò un atteggiamento guardingo, per timore che qualcuno volesse portare avanti l'incidente, e Marcus si fece largo a spallate fra gli avventori per poter dare eventualmente una mano. L'imperiale stava tossendo e imprecando, ma un compagno seduto vicino a lui lo zittì borbottando: «Piantala, idiota. Te lo sei meritato, mettendo le mani addosso alla donna di un altro.» L'uomo inzuppato di vino si guardo intorno in cerca di sostegno, ma non ne trovò: con la sua musica, Senpat era diventato per tutti l'eroe della serata, anche se lui e sua moglie erano stranieri. Sotto l'impatto della pioggia gelida, Marcus si lasciò sfuggire un sussulto e rimpianse per un momento di aver deciso di lasciare il locale, poi sollevò il colletto della giubba per proteggere come meglio poteva il collo e la nuca, e abbassò il capo, notando le pozzanghere sempre più larghe che si stavano formando nelle depressioni dell'acciottolato; stare a testa china non servì peraltro molto a proteggere la faccia dalle gocce. Senpat e Nevrat stavano guazzando nella pioggia accanto a lui, anch'essi a testa bassa. Notando che il proprio sguardo continuava a posarsi con insistenza su Nevrat, Scaurus imprecò sottovoce contro se stesso, e rifletté che le parole dell'uomo che aveva zittito l'altro Videssiano, nella taverna, avrebbero potuto adattarsi benissimo anche a lui. D'altro canto, Nevrat non gli aveva rovesciato una tazza di vino in testa... Marcus si rese conto che doveva essere in uno stato davvero disperato, se una cosa così insignificante poteva apparirgli come un motivo di ottimismo. La pioggia si trasformò in nevischio. Un corriere gocciolante venne a recapitare un messaggio al tribuno, nel suo ufficio nel Tribunale Principale. «Sei sistemato meglio di quanto lo fossi a Garsavra» commentò l'uomo, porgendo a Scaurus la pergamena. «Davvero? Oh, sì.» Marcus non si era accorto che quello era lo stesso uomo che gli aveva portato il dispaccio con cui Thorisin gli ordinava di recarsi alla capitale.
Ruppe il sigillo ed avvertì un misto di solitudine e di piacere nello scorgere angolosi caratteri latini al posto della sinuosa grafia videssiana. Come al solito, il messaggio di Gaius Philippus andava dritto al nocciolo della questione, perché il centurione trovava che scrivere fosse una cosa troppo difficile per sprecare le parole. Il biglietto scribacchiato diceva: "La gente del posto è stata pagata, quella che non è morta per lo shock. Ora, dove sono le nostre paghe arretrate?". Il tribuno scribacchiò un appunto, e quando risollevò lo sguardo si accorse che il corriere era ancora là. «Sì?» chiese. L'uomo si mosse, a disagio, con uno sguazzare d'acqua negli stivali. «L'ultima volta che ti ho visto, mi hai offerto del vino caldo» puntualizzò, seccato. «Mi dispiace» si scusò Marcus, arrossendo. Si prese quindi cura del corriere, scusandosi ancora per la propria scortesia, che non era nata da un risentimento nei confronti di quell'uomo per aver dato inizio al suo viaggio disastroso, ma soltanto da una semplice mancanza di riguardo, il che, in un certo senso, rendeva la cosa anche peggiore. Non più stizzito, il corriere lo salutò e andò a consegnare il resto dei suoi dispacci mentre Scaurus, sentendosi la coscienza alquanto placata, decise di non lasciarsi scappare un'altra occasione di essere cortese. «Ho appena saputo che hai mandato ai Garsavrani la cifra che il fisco doveva loro» disse a Iatzoulinos, «e volevo ringraziarti per aver provveduto subito alla cosa.» «Non appena ne hai sottolineato l'urgenza, mi sono adoperato come meglio potevo per adempiere alla tua richiesta» rispose il burocrate. E che altro dovevo fare, con te che guardavi da sopra la mia spalla? aggiunse silenziosamente il suo sguardo, velato da un lieve disprezzo. Marcus arricciò le labbra, irritato che un semplice gesto di cortesia potesse essere scambiato per debolezza. «Confido» aggiunse, in tono più duro, «che sarai altrettanto puntuale nel provvedere che non si accumulino arretrati nelle paghe per la guarnigione di Garsavra... che è composta da miei connazionali.» «I conti per le spese militari sono tenuti su un registro del tutto diverso» avvertì Iatzoulinos. «La politica dell'attuale governo ha provocato tanti trasferimenti di fondi che avrò difficoltà ad accertare se questa richiesta possa essere avvallata con la stessa rapidità della precedente.» Il tempo trascorso in cancelleria, soprattutto in quell'ultimo periodo, a-
veva permesso al tribuno di capire che per gli scribacchini che passavano tutto il loro tempo su di essi, i registri apparivano più reali degli uomini di cui registravano le azioni e le esigenze. Gaius Philippus, pensò Marcus, avrebbe certo avuto una sua personale opinione al riguardo. «Garsavra è importante per tenere a bada gli Yezda» sottolineò. «All'imperatore non farebbe piacere apprendere che fra le truppe di stanza laggiù vi è il malcontento. Come ti ho detto, quelli sono i miei uomini, li conosco, e so che il loro attuale comandante è una persona che è meglio non avere come nemico.» «Eserciterò ogni possibile sforzo» promise, cupo, Iatzoulinos. «Ottima idea. Se lavorerai sodo per pagare i Romani come hai fatto per la gente di Garsavra, sono certo che le paghe arriveranno loro molto presto.» Marcus rivolse al burocrate un cenno amichevole e tornò alla propria scrivania. Iatzoulinos permise ad un lieve sorriso di affiorargli per un momento sul volto sottile, il che indusse il tribuno a sperare che il suo avvertimento avesse ottenuto il suo scopo senza ferire troppo. Nonostante la sua depressione, Marcus sorrise improvvisamente fra sé, al pensiero che Iatzoulinos poteva anche trovare seccante la sua insistenza, ma che sarebbe certo fuggito urlando da un incontro con Gaius Philippus. «Tre pezzi d'argento?» L'espressione del venditore di oggetti in cuoio divenne sprezzante. «Questa è una bella cintura, straniero. Vedi la lavorazione? Vedi com'è stata conciata la pelle? Vedi quanto è forte?» E diede uno strattone al cuoio. «Non si spezza fra le mani» commentò Scaurus, asciutto. «In caso contrario, qualcuno ti avrebbe già linciato da un pezzo, ed ora non saresti qui a cercare di imbrogliarmi. Forse, però, se ti offrissi quattro monete, tu potresti sentirti abbastanza vergognoso per i tuoi illeciti guadagni da stare zitto e da evitare di far sapere a tutta la Piazza di Palamas che sorta di ladro sei.» «Io, un ladro? Mentre tu sei qui che cerchi di derubarmi senza neppure mettere mano alla spada? Come, dopo il prezzo che ho dovuto pagare per la pelle, dopo il duro lavoro che ho riversato sulla sua lavorazione, deruberei i miei stessi figli se la cedessi per meno di sette monete!» Alla fine, si accordarono per sei monete d'argento, un quarto di pezzo d'oro, ma Marcus provò una leggera irritazione, consapevole che se avesse contrattato con vero entusiasmo, avrebbe potuto ottenere la cintura per
cinque. Alla fine, scrollò le spalle, perché in effetti non gli importava davvero: in quei giorni, c'era ben poco di cui gli importasse. Perlomeno, aveva una cintura con cui sostituire quella, vecchia e logora, che portava; la slacciò, sfilò la spada e la daga, appoggiandosele alla gamba, poi procedette a infilare la cintura nuova nei passanti, sorreggendo i pantaloni con la mano libera. Stava annaspando per raggiungere il passante che aveva dietro la schiena, quando si sentì interpellare da una voce allegra. «Sì, quello è il più difficile. Lo ricordo dai tempi in cui portavo ancora i calzoni.» «Nepos!» Il tribuno fissò il prete, interdetto, poi si affrettò a rinnovare la presa per evitare di perdere i pantaloni... e la dignità, voltandosi al tempo stesso di scatto per affrontare Nepos. Quel gesto fece sì che la spada e la daga cadessero rumorosamente sul selciato, e quando Marcus, rosso in volto, si chinò per recuperarle, per poco i pantaloni non sfuggirono di nuovo alla sua stretta. «Qui, lascia che ti aiuti.» Nepos raccolse la spada e la daga dalla neve fangosa che copriva la pavimentazione ed attese che Marcus avesse finito di assestarsi la cintura, prima di restituirgli le armi. «Grazie» rispose Scaurus, rigido, perché non voleva avere più nulla a che fare con Nepos, dopo che questi lo aveva drogato ed aveva ascoltato insieme a Thorisin e ad Alypia mentre lui era forzato a mettere a nudo la sua anima. Se anche avvertì la sua freddezza, Nepos non lo dimostrò. «Mi fa piacere incontrarti» disse. «Ultimamente, sei diventato più difficile da trovare di uno scarafaggio. Ti limiti a sgusciare lungo i muri, oppure hai addirittura scoperto un modo per infilarti dentro di essi?» «Non avevo molta voglia di vedere gente» fu la sola debole scusa che Marcus riuscì a trovare. «Ecco, considerando quello che hai passato, nessuno ti potrebbe biasimare.» Quando vide che il volto del Romano era divenuto gelido, Nepos si accorse della portata dell'errore commesso. «Oh, mio caro amico, ti supplico di perdonarmi.» «Spero che tu voglia scusarmi» ribatté Scaurus, con un tono inespressivo quanto i suoi lineamenti, e si girò per andarsene. «Aspetta! Te ne prego, nel nome di Phos!» Con riluttanza, Marcus si fermò, perché sapeva che Nepos non era quel genere di prete che invoca di continuo il suo dio in ogni momento della
giornata: quando si appellava a Phos, era per un motivo importante, o che lui riteneva tale. «Che cosa vuoi da me?» chiese, senza riuscire a controllare la propria amarezza. «Non hai già visto abbastanza da saziarti per una vita?» «Amico mio... se ancora ti posso chiamare così...» Nepos esitò, attendendo qualche reazione da Scaurus, ma il tribuno pareva intagliato nella pietra. Con un sospiro, il prete aggiunse: «Lascia che ti dica che sono profondamente rammaricato per la piega presa dalla cosa... come lo è lo stesso imperatore, potrei aggiungere.» «Perché? Lui non ne ha sofferto.» «Invece sì, per l'umiliazione da te subita» replicò Nepos, serio, pur accigliandosi per il tono usato da Marcus nei confronti dell'imperatore. «Sua Maestà aveva il diritto di accertarsi che tu non fossi coinvolto in qualche atto sedizioso diretto contro di lui, ma quando l'interrogatorio ha finito per sondare... uh... dettagli così intimi delle tue questioni personali...» Nepos esitò ancora, alla disperata ricerca di un modo per proseguire che non aumentasse il danno già provocato. Non trovandolo, concluse: «L'imperatore avrebbe dovuto interrompere prima l'interrogatorio.» «Non lo ha fatto» ribatté Marcus, secco. «No, e come ti ho già detto, gliene dispiace. Ma è un uomo testardo... ripensa al caso di Taron Leimmokheir, se hai qualche dubbio ai riguardo... ed è anche lento ad ammettere, anche solo con se stesso, di aver commesso un errore. Comunque sia, ti prego di notare che occupi ancora l'importante posizione che già rivestivi lo scorso anno.» «Che non è però importante quanto il comando della guarnigione di Garsavra» sottolineò il tribuno, ancora riluttante a credere nelle parole di Nepos. «No, ma occupala con competenza, non sollevare ulteriori sospetti, ed oso dire che riavrai il tuo vecchio grado entro l'estate... quando sarà di nuovo stagione di campagne militari.» «È più facile per te dirlo che per Thorisin farlo.» «Sei cocciuto, Scaurus... nel vedere tutto nero come in altre cose» sospirò Nepos. «Ti lascerò quindi con un ultimo consiglio: giudica dopo i fatti, e non prima che essi siano accaduti.» Marcus sbatté le palpebre, sconcertato, perché l'ammonizione di Nepos sarebbe potuta benissimo scaturire dalle labbra di un filosofo stoico. Il prete piegò infine la figura grassoccia in un accenno d'inchino e si allontanò, con la testa rasata che brillava sotto il sole invernale.
Scaurus lo seguì con lo sguardo, accigliato. Nepos poteva anche pensare che lui fosse troppo tetro, ma il prete era un ottimista per natura, il che probabilmente lo induceva a raddoppiare il peso delle cose positive dette da Thorisin e a dimezzare quello di ogni commento negativo. Se davvero voleva che lui tornasse a prestare servizio attivo, ormai l'imperatore lo avrebbe certo già reintegrato nel suo grado. No, si disse, lui era ancora in disgrazia presso Thorisin... e questa, come consigliava Nepos, era una valutazione basata sui fatti. Scosse il capo, e quel gesto gli permise di scorgere un'altra faccia familiare: come lui, Provhos Mourtzouphlos era più alto della maggior parte degli imperiali, e questo lo faceva spiccare fra la folla che riempiva la Piazza di Palamas. Anche l'avvenente aristocratico era accigliato, e stava... Marcus s'irrigidì, mentre il suo guardingo istinto di soldato, da tempo sopito, si ridestava... stava osservando Nepos. La testa rasata e la tunica del prete erano facili a individuarsi, ora che lui stava attraversando la piazza. Lo sguardo di Mourtzouphlos si posò quindi sul tribuno che, intercettandolo, annuì deliberatamente in un cenno di saluto. Mourtzouphlos rispose con una smorfia e si girò, cominciando a contrattare con un uomo che era attrezzato con un braciere e un canestro pieno di gamberetti. Interessante, pensò Scaurus, molto interessante. Si avviò verso il complesso del palazzo, e dopo circa mezzo minuto tornò sui suoi passi, come se avesse scordato qualcosa: Mourtzouphlos aveva in mano un gamberetto arrostito, che stringeva per la coda, ma non c'era più dubbio che in effetti stesse tenendo d'occhio lui, come dimostrava il fatto che aveva già mosso qualche passo per seguirlo. Vedendo che Scaurus si era accorto delle sue manovre, il nobile si fermò con aria confusa e seccata. In un primo tempo, il tribuno s'infuriò, certo che Thorisin Gavras avesse incaricato Mourtzouphlos di sorvegliarlo, e pensò che questo dimostrava quanto fosse infondato l'ottimismo di Nepos. Poi, però, decise che l'imperatore non avrebbe certo messo sulla sua pista una spia tanto inetta: se avesse voluto controllarlo segretamente, di certo non se ne sarebbe mai accorto. Perché allora Mourtzouphlos lo stava pedinando? L'unica spiegazione che riuscì a trovare fu che il nobile era diffidente dell'influenza che lui poteva avere su Thorisin e che vederlo parlare con Nepos, che di certo godeva della confidenza dell'imperatore, doveva averlo allarmato. Mourtzou-
phlos era però lui stesso in favore presso Thorisin, quindi se considerava Scaurus un rivale, probabilmente lo faceva perché lui lo era davvero. I giardinieri impegnati a ripulire i prati che circondavano gli edifici del palazzo dalle ultime foglie secche autunnali rivolsero un rispettoso cenno di saluto al tribuno, quando questi li oltrepassò. Marcus rispose automaticamente, perché quei saluti non avevano nessuna importanza: i giardinieri occupavano un posto troppo basso nella gerarchia per poter rischiare di offendere anche qualcuno che era caduto in disgrazia. La gelosia di Mourtzouphlos, peraltro, costituiva la prima buona notizia che Marcus avesse avuto da settimane. Il tribuno girò di scatto sui tacchi: ad un tiro di freccia, dietro di lui, Provhos Mourtzouphlos scoprì all'improvviso che un ramo nudo di un albero era un affascinante oggetto di studio, e non mostrò di notare la mano che Scaurus agitò allegramente nella sua direzione, né rispose al gesto. Il tribuno si sorprese a sorridere... una sensazione strana ma al tempo stesso piacevole. Marcus rimase di buon umore per tutto il pomeriggio, tanto che riuscì a strappare un sorriso a Iatzouhnos... il che non era un'impresa da poco. Il burocrate arrivò addirittura a raccontargli una barzelletta, cosa che lasciò il tribuno stupefatto, perché non credeva che Iatzoulinos ne conoscesse. Lo scribacchino non la raccontò bene, ma il suo fu comunque uno sforzo degno di nota. Anche la cena si rivelò particolarmente piacevole. L'agnello arrosto era davvero agnello, e non stopposa carne di montone, i piselli e le cipolline erano cotti alla perfezione ed era caduta abbastanza neve perché il taverniere potesse offrire ghiaccio con sciroppo dolce per concludere il pasto. Così, quando rientrò nella sua camera, poco dopo il tramonto, Scaurus lo fece con la sensazione che quella fosse stata per lui la giornata migliore da quanto era tornato nella città di Videssos. Essendo autunno inoltrato, l'oscurità calò presto; non avendo ancora voglia di dormire, Marcus accese parecchie lampade, frugò fra la sua roba fino a trovare la storia scritta da Gorgidas e cominciò a leggere, chiedendosi come il Greco e Viridovix se la stessero cavando nelle steppe. Quel pensiero gli strappò un sussulto colpevole, perché si rese conto di non essersi quasi più ricordato di loro da quando... la sua mente cercò un modo indolore per formulare il concetto... da quando le cose erano andate storte. Si stava sforzando di districare un brano piuttosto complesso quando
qualcuno bussò alla porta. Per un momento, Marcus non se ne accorse, poi il rumore divenne una distrazione sgradita, e lui cercò di ignorarlo, perché il greco era già abbastanza difficile da leggere dedicando ad esso tutta la sua attenzione. «Devi proprio fare sempre finta di non esserci? Vedo la luce che filtra sotto la porta.» Marcus balzò in piedi e arrotolò la pergamena più in fretta che poteva. «Scusami, Nevrat. Non aspettavo te e Senpat, stasera» disse, affrettandosi a raggiungere la porta per aprirla. «Entrate.» «Ti ringrazio» rispose Nevrat, oltrepassandolo. «È sempre un piacere venirti a trovare: gli scribacchini si sono preparati un covo davvero confortevole.» La donna sciolse la pesante sciarpa di lana che portava al posto di quella abituale in seta variopinta e si aprì il giubbotto di pelo, ma Marcus non se ne accorse neppure perché stava ancora fissando il corridoio vuoto all'esterno della sua stanza. «Dov'è Senpat?» sbottò poi. «A cantare... e a bere, immagino... nella taverna dove siamo andati di recente. Ho preferito non accompagnarlo.» «Ah» commentò Scaurus, più per cortesia che per dire qualcosa. Dopo un momento di esitazione, aggiunse: «Lui sa che sei qui?» «No.» Quel monosillabo rimase sospeso nell'aria, fra loro. Marcus accennò a chiudere la porta, poi si arrestò di nuovo. «Preferisci che la lasci aperta?» «Non importa, chiudila pure.» Nella voce di Nevrat sembrava esserci una sfumatura di divertimento. La donna si guardò intorno nell'alloggio spoglio, e notò così il libro che Marcus aveva affrettatamente posato; lo aprì e scrutò con perplessità i caratteri sconosciuti in cui era scritto... l'alfabeto greco non presentava nessuna somiglianza con il videssiano o con il vaspurakano. Ricordando che anche Helvis aveva reagito nella stessa maniera, Marcus si morse un labbro per respingere l'immagine indesiderata. Per nascondere la fitta dolorosa provocata dal ricordo, indicò a Nevrat l'unica sedia presente nella stanza. «Vino?» le chiese, e quando lei ebbe annuito prelevò una brocca e una tazza dal cassetto superiore della cassa di pino adiacente al suo letto. Dopo aver riempito la coppa ed averla offerta alla donna, sedette sul letto e si
appoggiò all'indietro, contro il muro. «Tu non bevi?» domandò Nevrat, inarcando un sopracciglio. «Avevi detto di volerti moderare, non di avere intenzione di diventare astemio.» «Non sia mai!» esclamò il tribuno. «Il fatto è che ho soltanto una tazza.» La risata di lei pervase la stanza. Dopo aver bevuto, Nevrat si sporse in avanti per passargli il boccale. «Allora dobbiamo dividerlo» commentò. «Grazie.» Nel prelevare il recipiente, Marcus sfiorò con le dita quelle di lei. «Non avevo in programma di intrattenere qualcuno qui.» «Lo vedo. Non è certo il genere di covo che si preparerebbe un seduttore abituale.» «Il che è normale, visto che io non lo sono.» Marcus tornò a riempire la coppa e la porse alla donna. Nevrat l'accettò, ma non bevve subito, tenendola invece in mano e fissandone il contenuto con un'espressione così ironica che Scaurus si trovò ad arrossire. «Non era questo che intendevo dire» protestò. «Lo so.» Nevrat si portò la coppa alle labbra per dimostrarlo. Poi, restituendola al tribuno, aggiunse: «Marcus, tu mi sei caro da quando ci siamo conosciuti.» «E tu lo sei a me, molto» rispose Scaurus annuendo. «A parte ogni altra considerazione, senza di te queste ultime settimane sarebbero state... ecco, ancora peggiori di ciò che sono state. Ti devo molto per questo.» «Non dire sciocchezze» ribatté lei, accantonando la cosa con un gesto. «Senpat ed io siamo felici di fare tutto il possibile per te.» Marcus si accigliò, perché quella era la prima volta che Nevrat menzionava il marito, da quando era entrata. Con il proseguire della conversazione, comunque, il nome di Senpat non riemerse più, e il tribuno sentì aumentare le proprie speranze; ricordando la barzelletta di Iatzoulinos, la ripeté, e le risate di Nevrat lo indussero a supporre di averla raccontata meglio del burocrate. «Oh, una bella storiella» commentò la donna. «"Nel nome di Skotos, cos'era quello?"» Ripetere la battuta finale la fece esplodere in un altro accesso di riso. I suoi occhi neri scintillavano e il sorriso era ampio e felice; guardandola, Scaurus pensò che Nevrat era una di quelle rare donne i cui lineamenti divenivano ancora più belli quando erano animati. Una lampada si spense, e il tribuno si alzò, prelevando una bottiglietta di olio e riempiendola di nuovo, per poi riaccendere lo stoppino ad una delle
altre. Per tornare al suo posto sul letto, dovette passare accanto a Nevrat, e ne approfittò per protendere una mano e accarezzare i suoi ricci capelli neri, che al tocco risultarono più grezzi di quanto avesse immaginato. Anche Nevrat si alzò, allora, e si girò verso di lui, mentre Scaurus muoveva un passo in avanti, con l'intenzione di prenderla fra le braccia. «Marcus» disse soltanto. Se Nevrat avesse pronunciato il suo nome in un altro modo, Scaurus avrebbe completato il gesto e l'avrebbe stretta a sé, ma così fu come se lei avesse d'un tratto sollevato la testa della Medusa, trasformandolo in pietra là dove si trovava. Scrutando il suo volto, Marcus vi lesse rincrescimento e compassione, ma non trovò traccia del desiderio che si era acceso in lui. «Non funziona, vero?» chiese, in tono spento, conoscendo già la risposta. «No, mi dispiace.» Nevrat accennò a posargli una mano sulla spalla, ma si trattenne, perché quel gesto sarebbe stato più doloroso delle sue parole. «Avrei dovuto saperlo.» Per poter proseguire, Marcus dovette distogliere lo sguardo. «Ma tu eri sempre così interessata a me, così comprensiva che ho sperato... ho pensato... ho permesso a me stesso di pensare...» «Che ci potesse essere qualcosa di più» concluse lei al suo posto. Scaurus annuì, continuando ad evitare il suo sguardo. «Me ne sono accorta. Non sapevo che cosa fare, ma alla fine ho deciso che dovevamo parlarne, perché io non desidero davvero nessun uomo tranne Senpat.» «Voi due siete molto fortunati. L'ho pensato spesso.» Mantenere la voce salda riuscì difficile a Scaurus quanto continuare a combattere dopo aver ricevuto una ferita. «So che lo siamo» ammise Nevrat, in tono quieto. «E per questo stanotte sono venuta qui per dire ciò che andava detto... e invece abbiamo finito per chiacchierare da quei buoni amici che siamo sempre stati. Quella tua stupida storiella sull'uomo ricco che voleva fare l'attore...» Il ricordo le strappò un sorriso, che però durò soltanto un istante. «Suppongo di aver pensato che potevo permettere che le cose andassero avanti come sempre. Ma poi...» «Poi io ho dovuto rovinare tutto» dichiarò lui, con amarezza. «No!» Per la prima volta, Nevrat parve irritata. «Io non ti biasimo. Come potrei? Dopo quello che ti è successo, è naturale che tu abbia sperato di poter ritrovare la felicità che avevi conosciuto, ma... io sono quella che sono, e non posso essere la persona adatta per dartela. Mi dispiace, Marcus, e
mi dispiace ancora di più di averti fatto ora del male, quando questa era l'ultima cosa che volevo.» «Non ha importanza» assicurò Scaurus. «Sono stato io a procurarmelo.» «Importa moltissimo» insistette Nevrat. «Adesso possiamo continuare ad essere amici?» chiese, e dovette intuire i suoi pensieri, perché subito aggiunse: «Pensaci, prima di rispondere di no. Come potremmo... io oppure tu... spiegare a Senpat cosa si è guastato fra noi?» Il tribuno si trovò così a promettere di mantenere in piedi la loro amicizia e, con sua sorpresa, scoprì di essere sincero: non essendo un estroverso, aveva un numero troppo scarso di amici per gettarne via uno qualsiasi con noncuranza, e indipendentemente da quello che avrebbe voluto trovare in Nevrat, fra lui e la donna esistevano una simpatia e una comprensione reciproca genuine e sincere. «Bene» concluse Nevrat, in tono deciso. «Allora non c'è bisogno di annullare il nostro prossimo appuntamento... è fra tre giorni, vero?» «Sì.» «Allora ci vediamo fra tre giorni. Davvero, mi farà piacere, non ne dubitare mai.» Nevrat sorrise... con maggiore cautela di quanta ne avesse dimostrata in passato, ma non troppa... e uscì nel corridoio, chiudendosi la porta alle spalle. Il suono dei suoi passi svanì mentre Scaurus metteva via il vino, dicendo a se stesso che probabilmente era meglio così. Senpat era un brav'uomo, oltre che un buon amico, e non sarebbe stato giusto da parte sua cercare di portargli via la moglie. Nel profondo del suo intimo, Marcus lo sapeva bene. Con la massima violenza di cui era capace, sferrò un calcio all'ordinario cassone di pino: il legno s'incrinò e una fitta di dolore gli partì dall'alluce, mentre lui sentiva anche il rumore dell'anfora di vino che si rompeva. Imprecando contro la sorte, il suo piede dolorante e il vino, si servì di uno straccio per ripulire il pasticcio provocato; per fortuna, l'anfora era quasi vuota, per cui il liquido aveva rovinato soltanto una tunica. Mentre spegneva la lampada e s'infilava nel letto, scoppiò poi in un'amara risata, riflettendo che avrebbe dovuto pensarci due volte prima di dire che quella era stata una buona giornata. Da quando Helvis se n'era andata, non esistevano giornate buone per lui. Due giorni più tardi, nel salire le scale che portavano al suo ufficio,
Marcus stava ancora zoppicando, e il suo alluce era grande il doppio del normale ed era di una tinta fra il porpora e il giallo. Il giorno precedente, uno degli scribacchini gli aveva chiesto cosa gli fosse successo. «Ho dato un calcio al cassettone per gli abiti, nella mia stanza» aveva risposto, con una scrollata di spalle, lasciando che il burocrate supponesse che si era trattato di un incidente: a volte, dire la verità nel senso letterale era più efficace di qualsiasi menzogna. Vedendolo distratto, uno scrivano di media importanza cercò di fargli passare sotto il naso alcune alterazioni nella contabilità, ma Marcus si accorse della cosa e, raccolto il registro in questione, lo lasciò cadere rumorosamente sulla scrivania dello sfortunato burocrate. «Ladruncolo» disse con disprezzo allo sgomento scrivano. «Lo scorso inverno, Pikridios Goudeles ha usato questo trucco per comprarsi un anello con uno smeraldo abbastanza grande da strozzarsi a ingoiarlo, ed ora tu cerchi di rubare nello stesso modo la miserabile cifra di due monete d'oro e mezza. Dovresti vergognarti.» «Cosa... cosa mi farai, illustrissimo signore?» chiese lo scribacchino, con voce tremante. «Per due monete d'oro e mezza? Se ne hai tanto bisogno, tientele. Ma la prossima volta che troverò un ammanco di una sola moneta di rame sui tuoi libri contabili, ti farò sperimentare la prigione che si trova sotto gli uffici governativi della Strada di Mezzo. Questo vale anche per tutti voi» concluse Marcus, a beneficio del resto dei burocrati, che stavano seguendo attentamente la scena senza darlo a parere. «Grazie, oh, grazie, misericordioso e grazioso signore» ripeté a più riprese l'aspirante malversatore. Marcus rispose con un secco cenno del capo e accennò a tornare alla propria scrivania. Nel passare accanto a Iatzoulinos, però, si ricordò di una cosa. «Hai provveduto ad inviare ai Romani le loro paghe?» domandò. «Dovrei... ah, controllare i rapporti per esserne certo» replicò con cautela Iatzoulinos, e Scaurus interpretò senza difficoltà le sue parole come un diniego. «Sono stato paziente con te, Iatzoulinos» sospirò. «Non credo che Gaius Philippus lo sarà altrettanto, se lo farai arrabbiare. Io lo conosco, tu no, quindi accetta un avvertimento da chi ha a cuore soltanto il tuo bene.» «Naturalmente, provvederò subito» promise il burocrate. «Bada di farlo.» Il tribuno incrociò le braccia ed attese. Quando si rese conto che non se ne sarebbe andato, Iatzoulinos accanto-
nò il progetto a cui stava lavorando e prese il registro relativo alle spese militari nelle terre occidentali, poi intinse con mala grazia una penna nell'inchiostro e cominciò a stendere il documento per l'autorizzazione del pagamento. Momentaneamente soddisfatto, Marcus si allontanò. Il rumore di un chicco di grandine contro la finestra lo fece sussultare, e il dolore al piede lo indusse subito a rimpiangere il movimento. Presto l'inverno sarebbe giunto sul serio, pensò, considerato che la tempesta del giorno precedente aveva già coperto i prati del palazzo con una sottile coltre di neve. Sperò che il tempo rimanesse cattivo per qualche giorno, perché nonostante ciò che aveva promesso a Nevrat, non si sentiva pronto ad affrontare lei e Senpat insieme, l'indomani: forse, la neve li avrebbe costretti a rimandare l'uscita. Il suo ufficio e la sua stanza erano entrambi piacevolmente caldi, e lui era lieto che i burocrati riscaldassero con tanta abbondanza la loro ala del Tribunale Principale. Poi pensò ai suoi amici che si trovavano nelle steppe, e il calore circostante gli riuscì ancora più gradevole. CAPITOLO QUATTORDICESIMO Il vento ululava e gemeva come un mastino impazzito, spingendo la neve contro la faccia di Batbaian e ghiacciando i baffi rossicci di Viridovix, che aveva ora le guance e il mento coperti da una barba corta e spessa, in quanto non si radeva da settimane e non sapeva neppure quando avrebbe avuto di nuovo l'occasione di farlo. Il Celta imprecò, a causa di una folata di vento che gli ghiacciò la schiena, insinuandosi sotto il giaccone che non gli calzava molto bene, perché era stato fatto per uno degli uomini di Varatesh, a cui peraltro adesso non serviva più. Viridovix emise un pesante sospiro, e il respiro gli scaturì candido dalla bocca; quella vista lo indusse a sospirare di nuovo, perché gli ricordò la tenda di feltro e la perplessità provata nell'aspirare il fumo, ma subito il volto gli si indurì, perché adesso un po' di fumo era quanto restava della tenda di Targitaus e di quelle di tutta la gente del suo clan. Calcolando i tempi con spietata esattezza, Varatesh aveva dato ai Lupi tre giorni per agitarsi nel tentativo di curare quasi mille uomini ciechi che non potevano fare nulla da soli... e per soffrire per la pena causata dal loro ritorno in quelle condizioni. Poi aveva colpito, ed aveva annientato il clan. Nel momento in cui l'attacco era stato sferrato, Viridovix e Batbaian erano fuori a occuparsi di un gregge piuttosto lontano, e questo era il solo
motivo che li aveva salvati dal morire con gli altri. Così, invece, al ritorno al campo avevano trovato ad attenderli un massacro. A modo suo, Varatesh doveva essere un capo abile, perché era riuscito ad instillare una certa disciplina nei suoi tagliagole: i banditi erano piombati sul nemico, avevano ucciso, violentato e saccheggiato e se ne erano andati, il tutto probabilmente nell'arco di due ore. Il Gallo e il nomade avevano cavalcato insieme attraverso un silenzio così intenso da destare echi, perché perfino i cani che di solito correvano uggiolando da una tenda all'altra per mendicare cibo erano stati uccisi. In Viridovix, l'accumularsi di trauma su trauma, aveva creato una strana calma, mentre il volto di Batbaian si era contorto sempre più per una sofferenza troppo intensa per poter essere espressa a parole; di tanto in tanto, uno dei due aveva rivolto un cenno al compagno nello scorgere il corpo di qualcuno che gli era stato caro. Avevano trovato il severo Rambehisht, circondato dai cadaveri di tre fuorilegge e con una freccia conficcata nella schiena: se anche aveva avuto intenzione di vendicarsi di Viridovix, adesso il nomade non avrebbe più potuto farlo. Più in là, si erano imbattuti nel corpo di Lipoxais, la cui gialla tunica da enaree era intrisa di sangue; e Azarmi, la serva, con la gonna gettata di lato per terra accanto al suo corpo. La donna aveva ancora indosso la casacca, coperta di sangue, perché i fuorilegge non si erano neppure presi la briga di strappargliela, e si erano limitati a trafiggere Azarmi attraverso l'indumento dopo aver finito di divertirsi con lei. Assaliti dalla stessa spaventosa intuizione, Batbaian e Viridovix erano balzati di sella e si erano precipitati verso la tenda di Targitaus, che ora pendeva da un lato, come ubriaca, perché metà della sua intelaiatura di legno era distrutta. E all'interno avevano visto avverarsi i loro peggiori timori. Nella morte, Borane aveva stretto ancora in pugno un coltello dalla lama insanguinata... aveva lottato, prima di morire; la donna era però grassa e anziana, e gli uomini di Varatesh l'avevano uccisa senza toccarla. Tutto aveva lasciato supporre che Seirem non fosse stata altrettanto fortunata. Nel ricordare la scena, Viridovix imprecò contro se stesso, sentendosi pervadere da una sofferenza angosciosa e rovente, intensa quanto quella provata quando aveva visto il corpo di Seirem, e per la millesima volta desiderò di non aver mai conosciuto quelle brevi settimane di amore, o di essere morto con colei che gliele aveva donate. «A che serve un desiderio?» mormorò fra sé. «Dannazione a tutto quanto!» Una lacrima amara gli colò lungo la guancia.
«Piangere non ti giova a nulla» osservò, con voce priva di espressione, Batbaian, che si era girato al suono della voce del compagno. «Le lacrime si geleranno soltanto sulla tua pelle.» Il figlio del khagan non era più il ragazzo quasi adolescente che era stato fino al giungere dell'estate, e dava l'impressione di essere invecchiato di dieci anni in altrettante settimane. Adesso il suo volto era più sottile, e nuove linee incise dalla sofferenza gli solcavano la fronte e gli angoli della bocca. Era stato lui a suggerire di appiccare il fuoco al campo. «Servirà ad avvertire e ad allontanare altri mandriani che potrebbero essere ancora vivi» aveva detto. «E potrebbe indurre gli uomini di Varatesh a tornare.» Una fredda luce famelica gli si era accesa nell'unico occhio mentre pronunciava quelle parole, ed aveva battuto un colpetto affettuoso sulla custodia dell'arco. Batbaian e Viridovix avevano trovato un punto dove tendere un'imboscata, decisi a non perdere la vita senza aver prima mietuto la più abbondante vendetta possibile. I rinnegati, però, non erano tornati. Di certo, dovevano aver supposto che il fumo fosse stato causato da una lampada rovesciata o da una torcia ancora accesa che aveva appiccato il fuoco al campo. Quando era divenuto chiaro che l'attesa sarebbe stata vana, Batbaian si era tolto la benda che gli copriva l'occhio rovinato e l'aveva gettata al suolo. «Quando li ucciderò» aveva dichiarato, «voglio che sappiano chi sono.» Attualmente le sue vittime ammontavano a quattro, una in più rispetto al Gallo. I due stavano vivendo come fuorilegge, uno dei molti rovesciamenti della sorte che si erano verificati da quando la guerra contro Varatesh aveva preso la sua piega disastrosa. Adesso il capo fuorilegge e i suoi rinnegati comandavano sulle steppe e stavano dando la caccia ai dominatori di un tempo quasi fossero stati parassiti nocivi; come però lo stesso Varatesh aveva dimostrato in passato, catturare due uomini disperati e pronti a tutto non era facile: una capra sparita qui, una sentinella eliminata là, un paio di cavalli rubati altrove... la neve invernale aiutava i due fuggiaschi, coprendo le loro tracce e quella, pur essendo la vita più dura che Viridovix avesse mai sperimentato, era comunque una vita che poteva essere sopportata. Quando scese la sera, i due lottarono per montare la tenda, con mani rese goffe dagli spessi guanti; nonostante la barriera di neve che eressero dinanzi ad essa per ripararla, il gelido vento del nord riuscì comunque a tro-
vare il modo di penetrare attraverso il feltro, costringendoli ad avvolgersi nelle coperte e a raggomitolarsi davanti al fuoco da campo, mentre arrostivano su di esso qualche pezzo di montone. Viridovix pensò che d'inverno non era difficile impedire che la carne andasse a male... il problema era riuscire a scongelarla al momento di mangiarla. Quando ebbe finito, si pulì il mento dal grasso e si leccò le dita fino a ripulirle a loro volta, riflettendo che i Romani si sarebbero trovati a mal partito se avessero cercato di sopravvivere in un clima del genere nutrendosi di pan di via e di farinata d'avena: la carne rossa era l'unica cosa che poteva mantenere in forze un uomo in un clima del genere. Invece di pulirsi, Batbaian si spalmò con cura il grasso di montone sulle guance, sul naso e sulla fronte. «Aiuta a prevenire il congelamento» spiegò. In quel periodo il giovane parlava di rado, e sempre per un motivo preciso. «Un'altra volta, ragazzo» rispose Viridovix, annuendo, poi estrasse la spada e la esaminò per cercare eventuali tracce di ruggine, che a causa del freddo e dell'umidità costante si formava con facilità anche eccessiva, ed eliminò una piccola macchia rossa, che poteva essere ruggine oppure sangue secco. «Non sarebbe una cattiva idea spalmare anche la lama con il grasso» commentò. Un lupo ululò in lontananza, un suono che echeggiò gelido nella notte, ed uno dei cavalli sbuffò con nervosismo. «Domattina andremo ancora a nord?» chiese poi Viridovix. «Oh, sì.» Le labbra di Batbaian si piegarono in un sorriso privo di umorismo. «Cosa c'è di meglio che attaccarli alla gola? Le prede, poi, saranno più ricche... più armenti, più uomini.» Il suo unico occhio brillò alla luce del fuoco; l'altra orbita era una spettrale macchia di oscurità. Il Gallo annuì di nuovo, ma con un soffocante senso di futilità: neppure uccidere avrebbe potuto ridargli quello che aveva perduto. «Ma tutto questo ha qualche utilità?» esclamò. «Andiamo in giro di soppiatto fingendo che quello che facciamo sia utile, eliminando quei furfanti uno o due per volta, ma giuro sugli dèi che questo serve soltanto a placare il nostro orgoglio, e che non danneggia quei banditi più di quanto la perdita dei pochi chicchi di grano che un paio di topi possono rubare potrebbe ridurre alla fame una fattoria.» «Allora cosa vorresti fare? Arrenderti e morire?» La voce di Batbaian era pervasa dall'aspro disprezzo tipico dei nomadi per il genere di paragone fatto da Viridovix, ed anche da una profonda disperazione. «Noi non
siamo gli unici uomini di Pardraya che vorrebbero legare Varatesh con una corda fatta con i suoi stessi intestini.» «Non lo siamo? Io penso invece che siamo pericolosamente vicini ad esserlo. Ci abbiamo provato, e guarda cosa abbiamo ottenuto in cambio; quanto agli altri, non hanno maggior voglia di combattere di quanta ne abbiano le loro pecore, e sono pronti a seguire chiunque comandi. Sono pochi quelli che hanno il fegato di attaccare un vincitore.» «Allora vattene, se vuoi. Continuerò da solo» replicò Batbaian. «Per lo meno, morirò da uomo, facendo ciò che devo. E te lo ripeto, anche senza di te, non rimarrò solo per sempre: Pardraya è una terra molto grande.» «Non lo è abbastanza» insistette Viridovix, ferito per il modo in cui il nomade lo aveva liquidato e intenzionato a ferire a sua volta, ma poi esitò. «Non lo è abbastanza» ripeté, in tono sommesso, mentre i suoi occhi si sgranavano. «Dimmi subito, Khamorth caro, non preferiresti abbandonare adesso la pista di Varatesh... och, ed anche di Avshar... per ottenere più tardi una vendetta molto maggiore, e magari una alla cui realizzazione tu possa per di più sopravvivere?» L'unico occhio di Batbaian lo fissò, rovente, come se il nomade stesse cercando di strappargli una spiegazione più chiara con la sola forza della volontà. «Che significato può avere per me morire prima o dopo? Ma spingimi a credere in una vendetta più grande, ed io ti seguirò anche al di là dei confini di Pardraya.» «Bene, perché è proprio quello che dovrai fare» replicò il Celta. «La peste se lo porti!» esclamò Gorgidas, stringendosi troppo tardi la sommità della testa fra le mani. Il vento gelido gli strappò il cappello di pelo di otaria e lo fece rotolare sul terreno innevato, costringendolo a inseguirlo imprecando, con gli orecchi scoperti che pungevano per il freddo. Gli Arshaum abbastanza vicini per seguire la scena scoppiarono a ridere e gli gridarono ogni sorta di ribaldi consigli. «Uccidilo! Tiragli una freccia! Presto, se ne sta andando! Trapassalo con quella tua spada appuntita!» Recuperato il copricapo fuggiasco, il Greco lo sbatté contro i calzoni per liberarlo dalla neve... e poi, per sfogare la propria irritazione, se lo calcò in testa e imprecò ancora, quando un ultimo, gelido blocco di neve si sciolse e gli colò lungo il collo. La bocca di Skylitzes si stava contraendo in maniera sospetta, mentre
Goudeles non cercava neppure di celare il proprio sogghigno. «Adesso capirai perché tutti gli uomini delle pianure, a est e ad ovest dello Shaum, giurano in nome degli spiriti dei venti» commentò il burocrate. La sua frase era stata intesa come uno scherzo, ma Gorgidas s'immobilizzò di colpo. «Hai ragione» dichiarò. «Non ci avevo badato.» E allungò subito la mano verso la tavoletta che portava appesa alla cintura, sul fianco destro, dove la maggior parte degli uomini avrebbe tenuto un coltello, scribacchiando una nota affrettata ma accurata, perché la cera era talmente fredda che lo stilo rischiava di staccarne grossi pezzi dal legno. «Questo non è niente» osservò Arigh, quando il Greco si lamentò per il freddo. «Un inverno, molto tempo fa, un uomo è uscito a cavallo senza animali di scorta e la sua cavalcatura si è rotta una gamba. L'uomo ha tentato di gridare per chiedere aiuto, ma il gelo era tale che nessuno ha sentito il suo grido finché non si è scongelato, la primavera successiva. Temo però che questo sia successo con qualche mese di ritardo rispetto a quando sarebbe servito a lui.» Arigh raccontò quella storiella con una serietà così assoluta che Gorgidas la mise per iscritto, pur badando ad aggiungere "ho sentito tutto questo, ma non ci credo", pensando che quel genere di affermazione poteva andare bene anche per lui, se era sufficiente a permettere ad Erodoto di infilare qualche simpatico e impossibile aneddoto nelle sue storie. Arghun uscì proprio allora dalla sua tenda, zoppicando e appoggiandosi a Dizabul, ed Arigh indirizzò al fratello minore un'occhiata che era ancora colma di diffidenza, gridando poi per ottenere silenzio, un comando che fu ripetuto da tutti gli ufficiali del clan del Cavallo Grigio. I cavalieri più vicini si raccolsero intorno al loro capo, ed anche gli altri Arshaum, attirati dal movimento, si accostarono ai compagni, in modo che Arghun ebbe presto l'attenzione dell'intero esercito, mentre un attendente attraversava la ressa fino a lui, portandogli il cavallo. «Voi due cercate di lavorare di comune accordo, almeno per una volta» disse Arghun ai figli Dizabul si accigliò ed Arigh annuì, pur atteggiando le labbra ad una smorfia; insieme, i due aiutarono il padre a montare in sella. Le mani di Arghun si piegarono con amore intorno alle redini che non stringevano da tempo, ma le gambe risultarono ancora inerti, tanto che Arigh dovette sistemare i piedi nelle staffe e legarli ad esse, in modo che non ne scivolassero fuori. Anche così, il volto del khagan era comunque perva-
so di orgoglio, ed un grande applauso si levò dai nomadi, quando lo videro di nuovo in sella, perché per loro un uomo che non poteva cavalcare era vivo soltanto per metà. «Dammi lo stendardo» ordinò Arghun al suo attendente, che si affrettò a consegnargli la lancia su cui era issata la lunga tunica di Bogoraz, che il khagan sollevò in alto sul capo, in modo che tutti potessero vederla. «A Mashiz!» gridò. Gli Arshaum rimasero in silenzio per un momento, poi raccolsero quel grido, brandendo spade, archi e giavellotti. «Ma-shiz! Ma-shiz! Ma-shiz!» urlarono, con un fragore tale da assordare gli orecchi di Gorgidas. Continuando a ripetere quel grido di guerra, poi, i nomadi si precipitarono ai cavalli, lasciando un grande tratto di neve calpestata a indicare il punto in cui si erano raccolti. Skylitzes, che si sentiva a suo agio in sella quasi quanto gli stessi Arshaum, sogghignò nel montare a sua volta. «Non m'importa minimamente di sapere se avremo successo o meno» disse a Goudeles. «In un modo o nell'altro, Wulghash dovrà sudare per tenerci testa.» «Nessuno potrebbe sudare con un clima simile» ribatté il burocrate, con fermezza, inerpicandosi sulla propria cavalcatura. «Ed è meglio che la nostra avventura si concluda felicemente, altrimenti la mia amante rimarrà molto delusa.» «La tua amante? E tua moglie?» «Lei eredita.» «Ah.» Skylitzes accennò ad aggiungere qualcosa, ma un nuovo coro di applausi da parte dei nomadi soffocò la sua voce. Stringendo sempre in pugno lo stendardo, Arghun si avviò verso est, eretto sulla sella, tanto che soltanto la bocca serrata tradiva la fatica a cui si stava sottoponendo. Come al solito, i figli gli erano accanto, e Gorgidas pensò che forse ciascuno di essi temeva di lasciare troppo a lungo il padre sotto l'esclusiva influenza dell'altro. Da soli o in gruppi, gli Arshaum s'incamminarono dietro i loro capi. Goudeles avrebbe voluto simboleggiare la presenza videssiana in quell'impresa cavalcando in testa accanto al khagan, ma Skylitzes glielo proibì. «Perché logorare i nostri cavalli aprendo la pista agli altri?» chiese, con l'esperienza tipica di un veterano. «Aspetta un po', e vedrai che lui abban-
donerà la testa della colonna per tornare qui dove siamo noi.» La sua previsione si rivelò ben presto esatta, perché neppure la forza di volontà di cui era dotato fu sufficiente a permettere ad Arghun di reggere a lungo a quella fatica. Il khagan tempestò Skylitzes di domande in merito al territorio ad est dello Shaum, e soprattutto riguardo alle montagne di Ezerum, che si stendevano fra il Mare Mylasa e il Mare Videssiano, e separavano Yezd dalle steppe di Pardraya. Seguì una discussione sulle tattiche e gli stili di combattimento che ben presto annoiò Gorgidas; nonostante l'espressione delusa di Arghun, il medico andò allora a cercare Tolui per parlare con lui di piante medicinali, un argomento che gli stava molto più a cuore. «Una delle radici che mi hai dato esala un odore di...» Gorgidas s'interruppe, seccato, perché non conosceva il termine che gli serviva nel linguaggio degli Arshaum. «È arancione, lunga pressappoco così, più grossa del mio pollice.» «Una carota» lo aiutò lo sciamano. «Sì, grazie. La mia gente si limita a usarla come cibo. Tu come la impieghi?» «La mescolo con il solano, la ruta selvatica e il miele, ed ottengo una cura per...» Tolui usò un altro termine che Gorgidas non conosceva, poi sogghignò e lo accompagnò con un gesto inconfondibile. «Ho capito, per le emorroidi.» Considerato che quello era un popolo che viveva prevalentemente a cavallo, il Greco non ebbe difficoltà a comprendere che quella malattia doveva essere abbastanza diffusa. «Si somministra per bocca, oppure si applica direttamente là dove... ah, dove può recare il massimo beneficio?» «Per bocca. Per la parte interessata prepariamo un unguento di grasso di oca o di fagiano, bianco d'uovo, finocchio ed olio di rose selvatiche. Ha un buon effetto calmante.» «Infatti» convenne Gorgidas, piegando il capo in un cenno di assenso. «Dovresti provare ad aggiungere il miele a tutto il resto, perché è ottimo per ridurre ogni tipo di infiammazione.» Quel genere di conversazione soddisfaceva il Greco molto più di una discussione sul modo migliore per individuare un'imboscata tesa in un passo; dopo un po', però, ricordò con un senso di colpa di essere venuto sulle pianure in veste di storico e non di medico, e modificò il tenore delle proprie domande. «Perché voi e i Khamorth siete così diversi come aspetto e come struttu-
ra fisica?» chiese a Tolui. «Perché noi dovremmo essere uguali ai Pelosi?» ribatté lo sciamano, accigliandosi, e la sua voce espresse lo stesso disprezzo che il Greco avrebbe usato parlando di un popolo di barbari. «Sto cercando di imparare, non di offenderti» si affrettò a spiegare Gorgidas. «Per uno straniero come me, voi e loro apparite come popoli che vivono su una terra uguale e sotto un clima praticamente identico, quindi mi stavo chiedendo come mai la somiglianza non si estendesse anche ai vostri due popoli.» In effetti, se la dottrina esposta da Ippocrate in Arie, Acque, Luoghi era esatta, come lui aveva sempre ritenuto, Khamorth e Arshaum avrebbero dovuto avere caratteristiche somatiche simili. Tolui, però, ragionava sulla base di una serie di presupposti del tutto differenti. «Te lo spiegherò io» rispose, ammorbidito dalle giustificazioni addotte da Gorgidas. «Noi Arshaum siamo stati la prima razza ad essere creata, e l'unico motivo per cui esistono i Khamorth è che uno dei nostri uomini, molte vite fa, è rimasto troppo a lungo senza una donna e si è accoppiato con una capra. I Khamorth sono stati la progenie di quell'unione, ed è per questo che sono così disgustosamente pelosi.» «Capisco» commentò Gorgidas, rimpiangendo d'un tratto di essersi lasciato crescere la barba, poi trascrisse la favola di Tolui perché, se non altro, era un aneddoto interessante. Inoltre, le nozioni di Ippocrate non si applicavano bene a quel mondo, perché lui aveva scritto che i nomadi delle steppe erano robusti o grassocci, glabri e con una carnagione fresca e rosea. Il primo criterio si adattava soltanto ai Khamorth, il secondo agli Arshaum, e nessuno dei due popoli aveva caratteristiche corrispondenti al terzo. Il Greco si massaggiò un lobo fra pollice e indice, perplesso. «Parlami ancora di questa capra» chiese poi. Viridovix scrutò la vallata dello Shaum attraverso i veli di neve vorticante. «Allora, dov'è finita l'altra riva di quel dannato fiume, adesso?» chiese con indignazione, come se Batbaian l'avesse nascosta di proposito. «Oh, è là» replicò il Khamorth. «Tutto quello che dobbiamo fare è arrivarci... e poi persuadere quei demoni che vivono dall'altra parte a non ucciderci a prima vista.» Il nomade si espresse con un tono di morbosa anticipazione, perché l'i-
dea di Viridovix di andare a chiedere aiuto agli Arshaum lo riempiva di orrore, per quanto non avesse più un vero desiderio di vivere. In confronto a loro, infatti, Avshar era un terrore nuovo, mentre i racconti sugli Arshaum erano di uso comune fra la sua gente per terrorizzare i bambini cattivi e indurli all'obbedienza. «Una cosa per volta» dichiarò il Gallo, fingendo di non notare la tetraggine del compagno. «Dopo che avremo attraversato il fiume, cominceremo a pensare alla gente che vive da quella parte.» Poi, senza dare a Batbaian la possibilità di replicare, incitò il cavallo e si avviò al trotto verso lo Shaum; scuotendo il capo, il nomade lo seguì. Se fosse stato un cavaliere più esperto, Viridovix si sarebbe guardato bene dall'affrontare con un'andatura così rapida un pendio coperto da strati di neve che nascondevano il terreno sottostante. Il suo pony lanciò un nitrito di terrore quando sprofondò con una zampa in una buca nascosta, poi incespicò e cadde, scagliando di sella il Gallo, che fu però fortunato: l'impatto con il terreno gli tolse il fiato, ma la spessa coltre di neve gli impedì di riportare seri danni. Aveva però sentito lo schiocco dell'osso del cavallo che si rompeva. Mentre stava ancora lottando per rimettersi in piedi, Batbaian smontò di sella e pose fine alle sofferenze dell'animale azzoppato, il cui sangue si riversò sulla neve. «Aiutami» disse poi al Gallo. «Prendiamo tutta la carne che possiamo trasportare.» Viridovix estrasse il coltello: il sapore intenso e aspro della carne di cavallo non gli piaceva, ma era sempre meglio che rimanere a pancia vuota. «Monteremo a turno sulla sola bestia che ci rimane» decise Batbaian, quando ebbero finito, «che andrà avanti per aprire la strada a quello di noi che deve procedere a piedi.» Il nomade non perse tempo a inveire contro di lui, ma Viridovix fu perfettamente consapevole del prezzo che avrebbero pagato per la sua imprudenza: d'ora in poi avrebbero dovuto avanzare a passo d'uomo, e l'unico cavallo rimasto avrebbe dovuto trasportare tutte le loro cose. Quando ebbero raggiunto la riva del fiume, però, Viridovix si trovò a chiedersi se sarebbero potuti andare oltre: lo Shaum non aveva una corrente rapida, e d'inverno ghiacciava, ma era così ampio che al suo centro c'erano ancora un paio di centinaia di metri di acqua che scorreva libera, in cui blocchi di ghiaccio sbattevano gli uni contro gli altri nella corrente che li trascinava con lentezza verso sud.
Il Gallo rabbrividì, osservando la gelida distesa di acqua scura. «Non vorrei dover nuotare là dentro» commentò. «Tre bracciate e mi troverei trasformato in ghiacciolo.» «Guarda laggiù» consigliò Batbaian, indicando un punto più a valle, dove un ampio banco di ghiaccio mobile si era incastrato fra la riva e la parte di fiume ormai solida, ed altri più banchi piccoli erano andati ad accalcarsi contro di esso. L'acqua si riversava su quello strato instabile, che costituiva comunque una sorta di ponte. «Ma non potremo portare il pony dall'altra parte» protestò Viridovix. «No, ma non lo porteremmo comunque con noi, perché sprofonderebbe là dove un uomo può invece strisciare sul ventre e distribuire il proprio peso sul ghiaccio. Sei ancora deciso ad andare avanti con questo tuo folle piano?» «Lo sono.» «D'accordo, allora.» Batbaian scivolò di sella e protese una mano per toccare il muso del cavallo. Prima ancora che Viridovix avesse avuto il tempo di capire le sue intenzioni, il nomade aveva tagliato la gola all'animale, che emise un verso spaventosamente umano mentre le zampe gli si piegavano, facendolo crollare al suolo. «Sei impazzito?» esclamò il Gallo. «No. Pensaci bene» replicò Batbaian, ragionando con la stessa logica che un Romano avrebbe potuto esibire in simili circostanze. «Se non può venire con noi, ci è più utile da morto che da vivo. Non te ne restare lì a bocca aperta... dammi una mano a scuoiarlo.» Batbaian si stava già dando da fare con il coltello, e Viridovix lo aiutò con gesti meccanici, chiedendosi se il nomade fosse effettivamente impazzito. Ma Batbaian non aveva perso il senno. Dopo che ebbero staccato alla meno peggio qualche altro pezzo di carne dai quarti posteriori dell'animale, il nomade usò le pelli delle due bestie per improvvisare un sacco in cui riporre la carne, la tenda ripiegata e il suo zaino. «Dammi anche il tuo» disse al Celta, che si sfilò lo zaino dalla schiena e glielo porse. Batbaian legò la pelle per chiuderla e soppesò il tutto. «Pesa meno di un uomo» commentò, soddisfatto, aggiungendo un altro tratto di corda. «Capisci? Ce lo tireremo dietro, lasciando in mezzo una distanza sufficiente ad evitare di produrre una pressione eccessiva sul ghiaccio.» «La peste mi porti se non sei un tipo davvero pieno di risorse» commentò Viridovix, con ammirazione. Nelle foreste della sua nativa Gallia, lui stesso avrebbe potuto essere molto abile nell'improvvisare, ma qui sulle
pianure soltanto il Khamorth era in grado di vedere cosa si dovesse fare per sopravvivere. Batbaian accantonò la lode con una scrollata di spalle, perché per lui non significava nulla, poi trascinò il sacco di pelle a valle lungo il fiume fino ad arrivare all'altezza in cui il ghiaccio bloccava il corso dello Shaum. Viridovix gli andò dietro e, una volta giunto al limitare della sponda, Batbaian gli porse la corda. «Prendila tu. Io andrò per primo e rimuoverò la neve, in modo da poter determinare le condizioni del ghiaccio.» «E perché non posso andare io per primo?» chiese il Gallo, desiderando fare almeno qualcosa che avesse una certa importanza. «Perché io peso di meno» ribatté Batbaian, una spiegazione a cui non c'era nulla da replicare. Si addentrò sul ghiaccio e anche se esso sembrava reggere il suo peso procedette con passo cauto e lieve, piantando saldamente ciascun piede prima di sollevare l'altro. «Uno scivolone non sarebbe la cosa migliore» commentò, in tono forzatamente leggero. «Su questo hai proprio ragione» convenne Viridovix, che stava avanzando con altrettanta precauzione. Dietro di loro si levò poi un eccitato coro di latrati e di guaiti, seguiti da ringhi, quando un branco di lupi piombò sulla carcassa del cavallo del Gallo. Questi si guardò alle spalle, ma le cortine di neve gli impedirono di vedere gli animali, anche se gli giunse all'orecchio un rumore di ossa spezzate. «Non potresti accelerare un po' il passo, Batbaian caro?» suggerì. «No» rispose il nomade, senza girare il capo. «Attraversare il ghiaccio costituisce il rischio maggiore: i lupi non ci verranno dietro, avendo due cavalli con cui saziarsi.» «Spero proprio che tu abbia ragione. Se dovessero mangiarmi, non glielo perdonerei.» Il Celta si assicurò comunque che la spada fosse lenta nel fodero, perché l'idea di dover affrontare dei lupi su quell'infida superficie ghiacciata aveva il potere di raggelarlo più del pungente vento da nord, poi si accigliò quando una delle belve, allontanatasi dalla prima carcassa, trovò la seconda. Altri lupi accorsero per satollarsi, e il rumore del loro banchetto parve provenire da un punto posto subito alle spalle del Gallo. Adesso poteva anche vedere gli animali accalcati sulla riva, e imprecò, estraendo parzialmente la spada, quando uno di essi avanzò trottando sul fiume ghiacciato. Un momento più tardi, però, il lupo perse l'equilibrio e
cadde sul ventre: con un guaito di spavento, si affrettò allora a riguadagnare la sponda. «Ah! L'idea non ti piace più di quanto piaccia a me, vero?» esclamò Viridovix. «Taci!» ingiunse Batbaian. «La cosa comincia a diventare difficile.» Erano quasi a metà del fiume, e adesso il Khamorth stava scegliendo il percorso con cura ancora maggiore, perché c'erano punti in cui l'acqua dello Shaum trapelava nera sotto il ghiaccio, aree che lui evitava come meglio poteva, rimanendo su zone abbastanza spesse da non lasciar scorgere l'acqua sottostante. Alla fine, però, sospirò con aria sconfitta. «Ormai non è più possibile evitarlo» disse, e si gettò sul ventre, per proseguire strisciando. Lo spesso giaccone che Viridovix indossava lo protesse in buona misura da quel contatto gelido, che però gli bruciò i ginocchi e gli fece affiorare nella mente il ricordo di un inverno in cui, quando ancora era molto piccolo, era scivolato su una polla ghiacciata; rammentò le grida divertite degli altri bambini e la vista dei rami nudi degli alberi che si protendevano sopra di lui. Qui però non c'era un solo albero nel raggio di chilometri. Il Gallo prese a strisciare più in fretta per raggiungere Batbaian, che lo aveva distanziato. I due erano fianco a fianco quando arrivarono al limitare della banchina di ghiaccio: visti da vicino, i blocchi incastrati apparivano molto meno promettenti di quanto fossero sembrati dalla riva, e Batbaian segnalò al Celta di fermarsi, mentre rifletteva sulla situazione. «Dobbiamo passare più in fretta che possiamo» decise infine. «Non so per quanto tempo il primo banco potrà reggere il nostro peso.» «Ma che succederà se dovesse staccarsi con noi sopra?» «Avremo una zattera» replicò il Khamorth, scrollando le spalle. «E forse potremo spingerla fino alla riva opposta.» «Honh!» esclamò Viridovix, ma Batbaian si stava già raccogliendo su se stesso per quello scatto finale. Il nomade passò dal ghiaccio solido al banco isolato, che gemette sotto il suo peso, poi rotolò su quello successivo con un'ultima, frenetica scivolata. Non appena Batbaian ebbe lasciato il primo banco, Viridovix vi si addentrò a sua volta, con la sacca di pelle di cavallo che sobbalzava alle sue spalle. Il ghiaccio ondeggiò in maniera allarmante, e quell'improvviso movimento ricordò al Gallo quello di una barca beccheggiante. «Non ci provare neppure, adesso» ingiunse a se stesso, lottando per con-
trollare il suo stomaco ribelle. L'acqua gelida gli inzuppò i calzoni e lui strillò, cercando di accelerare il passo. Il ghiaccio sottile s'incrinò sotto di lui, generando una rete di crepe che si allargò in fretta. «Presto!» urlò Batbaian, e con un ultimo, disperato balzo, il Celta saltò sul blocco successivo, tirandosi dietro il sacco di pelle. Strisce sempre più ampie di acqua scura apparvero quando il precedente blocco di ghiaccio si spostò e cominciò ad andare in pezzi. «Spero che tu non abbia dimenticato nulla laggiù» commentò Batbaian, con un sarcastico cenno del capo. «Soltanto la mia incudine» ribatté Viridovix, riuscendo ad abbozzare un sogghigno a cui il Khamorth rispose mettendo a nudo i denti in un'espressione che sarebbe potuta essere un sorriso, riprendendo poi a strisciare in avanti. Quel pezzo di ghiaccio era più spesso del precedente, ma era anche incastrato in maniera più precaria, il che lo fece ondeggiare e sussultare mentre i due uomini lo attraversavano. Batbaian emise un grugnito di sollievo quando raggiunse l'ultimo pezzo della banchisa, e aiutò Viridovix a trascinarsi accanto a lui. «Grazie» disse il Gallo. «Ho una mano quasi congelata.» «Se l'esca non è bagnata, accenderemo un fuoco non appena saremo dall'altra parte» promise Batbaian, esprimendosi per la prima volta come se pensasse che ce l'avrebbero fatta. Seguì un momento di terrore, quando Viridovix infilò un braccio nel ghiaccio e si trovò immerso fino al gomito nelle gelide acque dello Shaum; per un interminabile momento, attese che la banchina cedesse e lo facesse cadere nel fiume, ma essa resistette e il punto debole risultò essere grande appena quanto la testa di un uomo. Sfilato il braccio dalla manica, il Gallo se lo premette contro il corpo nel tentativo di restituirgli almeno un po' di calore. Poi Batbaian, che era più avanti, gridò qualcosa... sotto la neve aveva trovato sabbia e terra, non più ghiaccio. Viridovix raggiunse il terreno solido barcollando, e si gettò al suolo annaspando come un pesce fuor d'acqua, mentre il Khamorth lottava per aprire la sacca improvvisata, che si era congelata fino a ghiacciare quasi completamente; Batbaian procedette poi a piantare i paletti della tenda nel terreno duro come il ferro, usando l'elsa del coltello come un martello, e Viridovix gli fornì tutto l'aiuto che gli era possibile con una mano sola. Una volta steso il feltro sull'intelaiatura, entrambi strisciarono sotto il riparo con un gemito di sollievo, grati di essere
finalmente protetti dall'incessante soffio gelido del vento. Goffamente, a causa degli spessi guanti, ma comunque con estrema cautela, Batbaian aprì la scatoletta d'osso in cui teneva corteccia e foglie secche, emettendo un verso soddisfatto dopo averne controllato il contenuto. Frugò quindi nella propria sacca alla ricerca di pietra e acciarino, e liberò un tratto di terreno dalla neve, cercando un paio di pietre piatte in modo da non dover posare l'esca sul suolo umido. Dopo parecchi tentativi, riuscì ad accendere una piccola fiamma, usando come combustibile il grasso grattato via dall'interno della pelle di cavallo, e staccato da alcuni blocchi di carne. Pur emanando un orribile fetore, il grasso bruciò bene. «Cosa non darei per una manciata di sterco secco di cavallo» commentò infine il nomade. Viridovix si raggomitolò accanto alla fiamma, protendendo il braccio sinistro su di essa e massaggiandolo fino a fargli riacquistare la sensibilità. «Stacca un paio di fette di carne, e mettiamole ad arrostire» suggerì, con i denti che battevano. «La mia pancia è pronta ad apprezzare perfino la carne di cavallo. E se ti va di sognare ad occhi aperti mucchi di sterco, accomodati pure e buon pro ti faccia. Quanto a me, preferisco pensare a un boccale di vino speziato, grazie tante lo stesso.» Sulla riva orientale dello Shaum, un lupo sollevò la testa, insospettito, e un ringhio sommesso gli vibrò in gola mentre il pelo gli si sollevava sulle spalle e sul dorso. Il cavaliere in arrivo non si mostrò intimidito, e presto il ringhio si trasformò in un guaito, mentre il lupo si allontanava dal sentiero del nuovo arrivato e il resto del branco si disperdeva davanti all'uomo, che si spinse trottando fino al limitare del fiume ghiacciato. Là il cavaliere smontò. Le sue vesti bianche agitate dal vento sarebbero potute essere esse stesse veli di neve mentre lui, con le mani sui fianchi, indugiava a contemplare il fiume. Anche se non poteva scorgere la tenda sulla riva opposta, sapeva che essa era là, ma in quest'occasione la sua statura e il peso della cotta di maglia che indossava giocavano a suo sfavore, perché nessuno che pesasse quanto lui avrebbe potuto attraversare lo Shaum. L'uomo sondò il ghiaccio con la mente, e comprese che non lo avrebbe sostenuto. Imprecò, prima nel gutturale linguaggio dei Khamorth, poi in videssiano arcaico, con tono lento e pieno di odio. «L'inverno, allora, penserà a completare la mia opera» dichiarò, nella stessa lingua. «Credo proprio che Skotos aiuterà così il suo servitore.» Rimontò quindi in sella, fece girare il cavallo e si diresse ad est.
Passò molto tempo prima che i lupi tornassero sul posto. Legati uno all'altro, in modo da non perdersi di vista a vicenda nella tempesta, Batbaian e Viridovix stavano arrancando a piedi verso ovest. Lo Shaumkhiil era uniforme quanto la pianura di Pardraya, ma i due non correvano il pericolo di camminare in cerchio, perché sapevano che finché il vento avesse continuato a soffiare contro il loro fianco destro la direzione che seguivano sarebbe stata approssimativamente quella giusta. Non avevano però ancora incontrato neppure un Arshaum, il che destava in Viridovix una rabbiosa frustrazione; Batbaian invece, per quanto poteva notare il Gallo, ne era segretamente sollevato, perché nel profondo del proprio essere sembrava credere ancora che gli Arshaum fossero alti tre metri e avessero lunghe zanne. Comunque, anche ammesso che si trattasse di giganti che le mangiavano in un boccone e ne sputavano le ossa, gli Arshaum si nutrivano comunque di pecore, dal momento che il Gallo e il Khamorth trovarono una decina di capi che si dovevano essere allontanati dal grosso del gregge; Viridovix mangiò montone fino a cominciare a sentire la nostalgia della carne di cavallo di cui in precedenza era stato costretto a ingozzarsi, e Batbaian si rivelò un abile sarto improvvisato, cucendo le pelli grezze fra loro fino ad ottenere mantelli che i due fuggiaschi gettarono sopra i loro giacconi. Quell'ulteriore strato di calore era infatti divenuto una necessità, perché il maltempo che continuava a imperversare era il peggiore che Batbaian avesse mai visto, mentre per Viridovix era addirittura sconvolgente: neve, ghiaccio, vento gelido, giorni interminabili durante i quali era impossibile intravedere il sole o le stelle per colpa della densa coltre di nubi nere. Le tempeste che si abbattevano sul pianoro videssiano erano state aspre da sopportare, ma per lo meno erano pur sempre state tempeste, con un principio e una fine, mentre questa bufera continuava a infuriare senza tregua, come se l'estate fosse definitivamente svanita dal mondo. «Ho l'impressione che ci stia alle calcagna!» gridò Viridovix, sovrastando l'ululato del vento. «Cos'hai detto?» urlò di rimando Batbaian. Il nomade era ad appena un metro di distanza dal Celta, ma il vento disperdeva le parole. «Ho detto che questa bufera ci sta alle calcagna, e sembra decisa ad insistere fino ad averci logorati.» In origine, Viridovix aveva parlato soltanto in senso figurato, ma di colpo si chiese se quella non fosse proprio la verità. Batbaian si girò verso di lui, sillabando un nome, e pur non essendo riu-
scito a sentirlo, il Gallo comprese benissimo di quale nome si fosse trattato: per una volta, rabbrividì per una causa che non aveva nulla a che vedere con il freddo, e pensò nuovamente se era il caso di buttare via la spada, considerando questa volta l'eventualità con maggiore serietà di quanto avesse fatto in precedenza. La violenza della bufera andò aumentando, quasi essa volesse in effetti riconoscere Avshar come colui che le aveva dato vita, e il vento scagliò frammenti di neve pungente negli occhi di Viridovix, che se li riparò con le mani come meglio poteva e continuò ad avanzare incespicando, quasi accecato. Il vento ghiacciato gli contestava il passo di continuo, e vincerlo era come combattere contro le onde dell'oceano. Una folata più violenta delle altre costrinse lui e Batbaian ad arrestarsi dove si trovavano. «La tenda!» gridò il nomade. «Questa bufera ci ucciderà, se non ci mettiamo al riparo!» Quando cercò di piantare i paletti, Viridovix imprecò, perché il terreno era congelato al punto di rendere la cosa impossibile; alla fine, lui e Batbaian riuscirono in qualche modo a tendere il feltro sull'intelaiatura e, come animali che si precipitassero nella tana, si rifugiarono all'interno. Il vento che infuriava all'esterno parve ululare con violenza ancora maggiore, una volta che furono al riparo da esso. Viridovix si massaggiò le gambe e pestò i piedi perché anche se i suoi stivali erano spessi e foderati con parecchi strati di feltro, le dita gli si ghiacciavano regolarmente ogni giorno. «Certo che adesso capisco perché laggiù tu sognassi sterco di cavallo ad occhi aperti» commentò. «Comunque, un fuoco di sterco di pecora è sempre meglio che niente.» «Questo è l'ultimo, purtroppo» replicò Batbaian. Il grasso prendeva fuoco con maggiore facilità, ma con sua sorpresa il Gallo aveva scoperto che, una volta acceso, lo sterco bruciava più a lungo e in marnera più inodore del grasso che il Khamorth raccoglieva sempre dalla sua carne. Viridovix aveva comunque esitato per quasi un giorno intero, prima di mangiare qualcosa cotto su un fuoco di sterco, ma alla fine la fame aveva avuto la meglio sulla sua indole schizzinosa. Adesso emise un sospiro di sollievo, quando la fiamma cominciò ad emanare un po' di calore e la neve e il ghiaccio che gli coprivano i baffi presero a squagliarsi, costringendolo ad asciugarsi la faccia sul giaccone; la lana era unta e puzzolente, ma non vi badò.
«Ancora montone» borbottò. «Ed è quasi finito» replicò Batbaian. «Scommetto che ti piacerà sempre più che restare a pancia vuota.» «Questo è vero.» Viridovix infilzò un pezzo di carne con il coltello e lo tenne sospeso sulla fiamma. «Per lo meno, il mio ventre è d'accordo con te.» In quel momento un paletto della tenda, piantato malamente, uscì dal suo buco, e il vento lo fece sbattere contro la parete di feltro con la violenza di una pietra. Il rumore indusse Batbaian a sollevare il capo con aria allarmata. «Dobbiamo rimetterlo a posto» esclamò, «prima...» Un secondo paletto si divelse mentre lui si stava ancora alzando in piedi, e il vento s'insinuò ruggendo sotto il fondo della tenda, sollevando il feltro dall'intelaiatura. Viridovix lo trattenne a forza per un momento, ma poi, con un suono che somigliava ad una risata beffarda, la tempesta glielo strappò dalle mani e mandò il telo a svolazzare sulla steppa. «Riprendiamolo!» urlò Batbaian. «Senza tenda, non sopravviveremo un solo giorno!» Il nomade pronunciò le ultime parole da sopra la spalla, mentre già stava scomparendo fra la neve. Viridovix lo seguì a precipizio, ma aveva percorso soltanto una ventina di passi quando comprese di essere nei guai: davanti a lui, sembrava che Batbaian fosse stato spazzato dalla faccia della terra, e alle sue spalle non si scorgeva più traccia del fuoco. Gridò a più riprese il nome del Khamorth, facendolo seguire dal suo violento urlo di guerra celtico, ma se anche ci fu una risposta, il vento la portò via con sé. Continuando ad urlare, il Gallo corse per un po' con il vento alle spalle, ma in una tempesta di quelle dimensioni, Batbaian avrebbe potuto essere a mezzo metro di distanza senza che lui se ne accorgesse. Alla fine si arrestò, indeciso. Anche ammesso che Batbaian fosse riuscito a recuperare il telo, cosa ne avrebbe fatto? Sarebbe rimasto dove si trovava, aspettando che lui lo raggiungesse, oppure avrebbe cercato di riportarlo dove c'erano i resti dell'intelaiatura? «Och, per tutti gli dèi» borbottò il Celta. «Qualsiasi cosa supponga, finirò per sbagliare.» Si frugò nella sacca e, trovata la quadrata moneta haloga che aveva vinto, la gettò in aria, riprendendola con entrambe le mani. Quando la guardò, un drago lo fissò con aria beffarda. «Cerchiamo la tenda, allora» si disse, girandosi con la faccia verso il
vento gelido, che gli punse la pelle come fuoco, tanto da indurlo a rallegrarsi di avere la barba e da spingerlo a desiderare che fosse ancora più fitta. Tentò di seguire le proprie impronte per tornare indietro, ma la tempesta le stava già colmando di neve, rendendole sempre più tenui; cominciava a pensare di essere ormai vicino alla meta, quando le orme scomparvero del tutto, e lui si trovò a dover lottare contro il panico. Ci doveva essere un modo... il vento! Se era rimasto sempre costante, avrebbe potuto utilizzarne la direzione per orientarsi. Il vento, però, doveva essere cambiato, perché dopo un po' capì di essersi spinto troppo lontano. A quel punto cominciò a procedere alla cieca, nella speranza che la fortuna gli venisse in aiuto là dove il ragionamento aveva fallito, ma non fu così, e si ritrovò fermo, tremante e costretto a battere le mani per scaldarle, chiedendosi cos'altro tentare. Non aveva cibo, non aveva fuoco, non aveva riparo... poteva già sentire il calore che sfuggiva dal suo corpo e comprese che Batbaian aveva avuto ragione: quella tempesta poteva uccidere in fretta. «Se soltanto questa maledetta neve smettesse di cadere, in modo da poter usare gli occhi» borbottò, scuotendo il capo come un orso sconcertato. Sembrava però che la nevicata intendesse durare in eterno, e le fitte cortine bianche scendevano quasi in orizzontale, sospinte dal vento. Rendendosi conto di dover trovare un riparo dalla bufera, Viridovix s'inginocchiò e cominciò ad ammucchiare la neve perché servisse da frangivento. La tempesta sembrava spazzarla via con la stessa rapidità con cui lui la accumulava, ma alla fine riuscì ad ottenere un muro alto fino alla vita che bloccava in buona parte la violenza del vento e si accoccolò dietro di esso, pur sapendo che quel riparo improvvisato non gli sarebbe servito a nulla, se la bufera non fosse cessata al più presto. Il torpore giunse in maniera insidiosa, tanto che lui quasi non si accorse di non avere più sensibilità al naso, ai piedi e alle braccia. In un certo senso, fu un sollievo, perché almeno questo aveva allontanato il dolore. Ben presto anche la sua mente s'intorpidì a sua volta e scivolò in una gelida rilassatezza, per cui il Gallo, pur essendo consapevole di essere prossimo a morire, non riuscì a trovare la forza di volontà per reagire. Aveva sempre pensato che sarebbe morto combattendo, prima o poi, ma quel freddo irresistibile gli stava togliendo ad una ad una tutte le sue difese, e non gli lasciava nulla con cui lottare contro di esso. Non si accorse neppure di aver chiuso gli occhi. Del resto, cosa c'era da vedere?
E si addormentò. «Dannatamente spaventoso!» gridò Goudeles, al di sopra dello stridore del vento. «Di cosa ti stai lamentando, Pikridios?» ribatté Skylitzes, accanto a lui. «Con tutto quel grasso, tu sei probabilmente più caldo di chiunque altro fra noi.» L'ufficiale cavalcava piegato in avanti sul lato destro del collo del pony, per trovare la massima protezione possibile dalla bufera. Il brutale potere dell'inverno delle steppe stava raggelando il cuore di Gorgidas nella stessa misura in cui raggelava il suo corpo: essendo un figlio del soleggiato Mediterraneo, lui era meno preparato degli altri ad affrontare chilometri di neve e di ghiaccio, che lo intimidivano più della morte improvvisa che si poteva incontrare sul campo di battaglia. Non c'era da meravigliarsi, pensò, che i Videssiani immaginassero l'inferno di Skotos come un luogo ghiacciato. «Il tempo è sempre così inclemente?» chiese, rivolto ad Arghun. La faccia del khagan, come quella del Greco, era coperta da uno strato di grasso tanto spesso che la pelle brillava anche nella tenue luce del crepuscolo. «Ho visto qualche tempesta brutta quanto questa» rispose, «ma nessuna che durasse tanto a lungo. Inoltre, il tempo peggiora a mano a mano che avanziamo verso est, il che è strano, perché di solito il clima peggiore è a ovest.» Una folata di vento gli spinse la neve contro la faccia, strappandogli un colpo di tosse e inducendolo ad avvolgersi meglio nella casacca di pelle di capra a pelo lungo. Da quando era stato avvelenato, il khagan soffriva il freddo più del resto dei suoi uomini, e il Greco poteva soltanto cercare di immaginare quali disagi stesse patendo, anche se dalle labbra non gli sfuggiva nessuna lamentela né il suggerimento che l'esercito arshaum rallentasse la marcia. Un paio di esploratori tornarono indietro, attraversando la colonna di nomadi fino al khagan, uno dei due precedendo l'altro di pochi metri. Il capo della pattuglia chinò il capo in un gesto di saluto e spiegò il motivo di quel rientro con tono leggermente disgustato. «Abbiamo trovato un Peloso che sta congelando nella neve, signore, e con lui c'è un altro straniero.» «Un Khamorth?» Le sopracciglia di Arghun scattarono verso l'alto. «Dalla nostra parte del fiume?» «Un fuorilegge?» aggiunse Skylitzes, in tono aspro.
«O quello oppure un pazzo, o magari tutte e due le cose. Non ha cavallo, ed ha perso un occhio da non molto tempo... non è bello a vedersi. È soltanto un idiota khamorth arrotolato in un pezzo di feltro.» «Oh, la peste se lo porti» esplose il secondo esploratore, più giovane dell'altro, e con occhi vivi e pieni di umorismo, affiancandosi al compagno. «Parlagli del demone di fuoco.» «Tu e i tuoi demoni di fuoco» ribatté il primo esploratore, con un verso volgare. «Se davvero è un demone, questa tempesta lo eliminerà definitivamente. Sono pronto a scommettere che ormai deve essere morto... aveva proprio l'aria di essere sul punto di tirare le cuoia, e non me ne meraviglio, considerato che è steso là nella neve con la sola protezione del suo giaccone.» «Io continuo a ritenere che quello non sia un essere che appartenga alla razza naturale degli uomini» insistette l'Arshaum più giovane. «Oppure vuoi sostenere di aver già visto prima qualcuno come lui, con i capelli, la barba e quei lunghi baffi, tutto del colore del bronzo lucido?» Gorgidas, Skylitzes e Goudeles lanciarono un grido nello stesso momento, e l'esploratore sussultò, mentre il cavallo di Arghun scartava per il rumore improvviso. «Questo nostro amico è» spiegò Gorgidas al khagan, scordandosi completamente della grammatica arshaum per colpa dell'eccitazione. «Si può trattare di un uomo soltanto» annuì Skylitzes. «E voi lo avete lasciato là a congelare, idioti?» rincarò Gorgidas, aggredendo verbalmente i due esploratori. «E un accidente a te, per di più» ribatté il capo della pattuglia. «Che ce ne facciamo di stranieri sulla terra degli Arshaum?» La sua occhiata rovente lasciò capire che quella dichiarazione intendeva includere anche il Greco. «Tieni a bada la lingua, tu!» ruggì però Arghun. «Questi stranieri sono nostri alleati, e l'uomo che hai offeso mi ha salvato la vita. Se il loro amico dovesse morire nella neve, desidererai di aver fatto anche tu la stessa fine.» Di solito, il khagan era di temperamento pacato, e quel suo scoppio d'ira fece tremare i nomadi. «Portatemi da lui» ordinò allora Gorgidas, e i due esploratori obbedirono senza dire una parola. «Al galoppo, dannazione a voi!» esclamò ancora il Greco, e i tre spronarono i cavalli, sollevando spruzzi di neve nell'attraversare le colonne dell'esercito Arshaum, lasciandosele alle spalle, seguiti dappresso da Goudeles e da Skylitzes.
Mentre galoppava, Gorgidas si chiese come facessero i nomadi ad orientarsi in quell'ululante landa bianca e selvaggia, e decise che probabilmente si regolavano in base alla direzione del vento e si servivano di qualche punto di riferimento che essi riconoscevano ma che non aveva nessun significato per occhi non addestrati, come i suoi. Le pupille presero a bruciargli e a lacrimargli per l'ulteriore vento provocato dalla corsa, e il naso divenne una sorta di ghiacciolo, nonostante il rivestimento di grasso che lo proteggeva; decisamente, quei nomadi dai lineamenti piatti erano più adatti di lui a vivere nelle aspre condizioni dell'inverno delle steppe. «Là» avvertì l'esploratore più giovane, indicando qualcosa fra le cortine di neve vorticante. Il Greco scorse dapprima i pony, poi gli Arshaum che erano smontati accanto ad essi... quando fu più vicino si accorse che una delle figure accoccolate doveva essere un Khamorth, a giudicare dalla folta barba. Il medico si disinteressò però subito dell'uomo di Pardraya, perché se stava abbastanza bene da potersi muovere in quel modo, di certo non sarebbe morto congelato nell'arco dei prossimi minuti. «Toglietevi di mezzo!» gridò, balzando di sella, e i tre Arshaum raccolti intorno alla sagoma stesa nella neve balzarono in piedi ed allungarono la mano verso la spada, mentre i due esploratori che avevano accompagnato il Greco si mettevano a gridare a loro volta, cercando di spiegare ai compagni chi fosse il nuovo venuto. Gorgidas non prestò però attenzione a tutto questo, perché si stava chinando sulla sagoma prona di Viridovix; nel girarlo sulla schiena, pensò che fosse morto, perché la sua pelle era pallida e fredda, la testa gli dondolava inerte sul collo e sembrava che il respiro si fosse arrestato. Gli prese poi la faccia fra le mani, proprio come aveva fatto con Quintus Glabrio, quando una freccia lo aveva ucciso e lui era stato impotente ad aiutarlo, indipendentemente dalle proprie capacità. E adesso c'era un'altra persona che gli era cara... sia pure in maniera meno intima e profonda... che lui non poteva salvare. Si sentì pervadere da un impeto di rabbia e di frustrazione: non sarebbe mai dunque servito a nulla? Poi sussultò... era il battito del cuore, quello che stava sentendo alla gola del Gallo? Il battito si ripeté, così tenue e debole che Gorgidas non osò quasi credere di averlo percepito. In seguito, non ricordò mai di aver pensato logicamente a cosa fare. Il suo cocciuto razionalismo era stato una fonte di disperazione per Nepos, quando questi aveva cercato di insegnargli l'arte curativa videssiana. «Non badare ai come o ai perché» aveva esclamato una volta Nepos.
«Sappi che devi... e lo farai.» Ma per il Greco quella era stata una spiegazione inaccettabile, ed aveva sempre fallito. La ferita del suo compagno avrebbe potuto essere la molla adatta per liberarlo dalla morsa della razionalità e per lasciar emergere in lui il dono di guarire, ma Glabrio era morto prima ancora di toccare il terreno, e neppure le capacità videssiane potevano richiamare in vita i morti. E così Gorgidas aveva voltato le spalle a quel dono... credeva per sempre... a causa dell'angoscia derivatagli dal fallimento. Ora però la disperazione provocò in lui una sorta di distacco, denudando la sua mente di tutto ciò che non fosse la necessità di salvare l'amico. Vedendo il Greco irrigidirsi all'improvviso, Goudeles allontanò con una spinta un Arshaum che stava per prendere il dottore per una spalla e scuoterlo. Il nomade si girò di scatto, con rabbia. «Sciamano» spiegò però il burocrate, indicando Gorgidas. «Lascialo stare.» L'Arshaum sgranò gli occhi obliqui e si ritrasse, annuendo. Gorgidas, che aveva lo sguardo fisso sul volto pallido del Celta, non si accorse neppure di quel breve dialogo, perché stava avvertendo la propria volontà che si concentrava in una sola punta intensa, come i raggi del sole che venissero messi a fuoco da una lente d'ingrandimento. Questa era la fase in cui aveva sempre fallito, e cioè il momento in cui si trattava di proiettare fuori da sé la volontà focalizzata, ma questa volta essa si riversò all'esterno prima ancora che lui potesse formulare un pensiero cosciente in tal senso. Un condotto, un canale... Gorgidas percepì il corpo morente di Viridovix come se fosse stato il suo, avvertì le devastazioni apportate dal freddo che aveva congelato le dita e le guance, ed era penetrato in profondità nei visceri, sentì il sangue ghiacciato scorrere lento e denso nelle vene del Gallo. In quel primo sconvolgente momento di percezione, il Greco giunse quasi ad essere spazzato via, a perdersi nell'angoscia del Celta, ma la sua cocciuta razionalità gli impedì di esserne sommerso: lui sapeva chi era davvero, indipendentemente dalle sensazioni che la sua mente poteva ricevere in quel momento. E il collegamento era bilaterale... nello stesso momento in cui sentì l'entità di Viridovix riversarsi su di lui, Gorgidas si protese a sua volta per invertire il processo di congelamento, per riparare le lesioni, per riportare la vita. Accelerare il battito del cuore, infondere calore nel ventre e diffonderlo
nelle braccia e nelle gambe; rinforzare i polmoni e accelerare anche il loro funzionamento... fino a quel momento avevano aspirato a stento l'aria gelida. Poi il lavoro più difficile: valutare il danno alle dita congelate delle mani e dei piedi, alle guance, agli orecchi, alle palpebre... eliminare il gelo in modo graduale, delicato, lasciando che il sangue che affluiva di nuovo intervenisse con il proprio potere... Quelle inadeguate, improvvisate parole per descrivere ciò che stava facendo gli vennero in mente in seguito: durante la crisi, esse non avrebbero significato nulla, perché il processo di guarigione si articolava ad un livello troppo profondo per poter essere descritto verbalmente. Il Celta si mosse sotto le sue mani come un dormiente inquieto, borbottò qualche assonnata protesta nel proprio linguaggio musicale, poi i suoi occhi, verdi come le foreste della Gallia, si aprirono, e il loro sguardo dimostrò che lui aveva ripreso conoscenza. Soltanto allora Gorgidas si rese conto di ciò che aveva compiuto, e provò una gioia intensa, accompagnata da una stanchezza schiacciante, quale non aveva mai sperimentato prima: il prezzo da pagare per l'esercizio dell'arte di guaritore. Viridovix non aveva creduto che si sarebbe risvegliato, tanto meno con quella nuova calda ondata di forza che fluiva in lui. Mentre si stiracchiava sentendo... oh, miracolo!... che tutti gli arti rispondevano ai suoi comandi, pensò per un momento di essere passato nell'aldilà, perché non poteva immaginare di essere ancora nel mondo dei vivi e di provare al tempo stesso una simile sensazione di benessere; di conseguenza, le mani che gli toccavano con delicatezza la faccia dovevano appartenere a qualche fanciulla immortale, venuta a rallegrarlo per l'eternità. Quando sollevò lo sguardo, però, la faccia che scorse fu quella di un uomo, sottile, tesa e segnata da linee di profonda stanchezza e di trionfo. «Per gli dèi» borbottò, «è un vero peccato: non sei una ragazza.» «Non c'è bisogno di chiedere se sei risanato» rise Gorgidas, levando gli occhi al cielo. «Ma non pensi mai a niente altro, razza di satiro?» L'improvviso, doloroso sussulto di Viridovix indusse il Greco a chiedersi se fosse davvero risanato. «Sì, a volte sì» fu però l'unica risposta che ottenne, pronunciata in tono molto quieto. Viridovix si sollevò poi a sedere con fatica, lottando contro le vertigini e con il sangue che gli ronzava negli orecchi. «Batbaian!» esclamò. «Lo hanno trovato?» Sentendo pronunciare il proprio nome Batbaian, ancora avvolto nello spesso telo di feltro della tenda, si affrettò ad accostarsi al Celta, apparen-
temente lieto di una qualsiasi scusa che gli permettesse di allontanarsi dagli Arshaum, che lo stavano fissando come un branco di lupi che valutasse le capacità di difesa di un cane smarrito. Anche Skylitzes e Goudeles si accoccolarono accanto a Viridovix, e l'ufficiale videssiano lo sostenne con il braccio, mentre il burocrate stringeva la mano di Gorgidas per congratularsi con lui. «Stai bene?» chiese il Gallo a Batbaian, nel linguaggio dei Khamorth, e Gorgidas ebbe difficoltà a comprenderlo, perché quella era una lingua che non sentiva da mesi. «Abbastanza, grazie a questo» rispose il nomade, scuotendo la neve dal telo di feltro, poi fissò Viridovix con meraviglia. «Ma com'è che tu sei qui per chiedermelo? Non dovresti essere ancora vivo, non dopo essere rimasto esposto alla bufera senza alcuna protezione.» «È vero.» La meraviglia si dipinse anche sul volto del Celta, ma indirizzata a Gorgidas. «Deve essere stato lui a guarirmi» ragionò e, in tono quasi di accusa aggiunse, rivolto al medico: «Non credevo che potessi farlo.» «Neppure io.» Ora che era tutto finito, il Greco desiderava soltanto di trovarsi al caldo all'interno di una tenda, di bere un abbondante sorso di kavass e di arrotolarsi nelle coperte per un'intera, lunga notte invernale... e per la maggior parte del giorno successivo, se fosse stato possibile. «Se adesso sei un druido della medicina, Gorgidas caro» stava però dicendo Viridovix, «da' un'occhiata all'occhio di Batbaian, e vedi se puoi aiutare anche questo povero ragazzo.» Il Greco emise un lungo sospiro, consapevole che Viridovix aveva ragione. «Farò il possibile» rispose, e si protese in avanti verso il giovane Khamorth, che però si ritrasse con aria guardinga, ancora pieno di sospetto nei confronti di chiunque avesse qualcosa a che vedere con gli Arshaum. «Sta' fermo» gli ordinò Gorgidas, in videssiano, e pur non parlando quasi per nulla il linguaggio imperiale, Batbaian comprese il senso delle parole abbastanza da obbedire. Quando ebbe osservato con attenzione l'orbita vuota del nomade, Gorgidas sussultò; in precedenza, non avendo prestato effettivamente attenzione a Batbaian, aveva supposto che lui avesse perso l'occhio a causa di un colpo di spada o di una ferita da freccia, nel corso di qualche guerra delle steppe, ma la cicatrice che stava vedendo non si adattava ad una lesione di quel genere: era troppo grande, troppo rotonda, troppo precisa, ed aveva l'aria di essere anche stata cauterizzata. Il cauto sondaggio delle dita servì
soltanto a confermare l'impressione iniziale. «Come ti sei procurato questa ferita?» chiese. Batbaian glielo spiegò, con voce gelida quanto il vento del nord. Il suo videssiano non era abbastanza scorrevole perché lui potesse servirsene, ma Viridovix e Skylitzes si prestarono a fare da interpreti, e il gesto finale con cui il giovane accompagnò la sua storia fu di per sé fin troppo descrittivo. Pur essendo un soldato incallito, Skylitzes dovette girare il capo dall'altra parte, in preda ad un attacco di vomito; quando ebbe finito, raccolse una manciata di neve per pulirsi la bocca. «Sì, è accaduto proprio così» confermò, cupo, Viridovix. «Avshar è davvero un tipo dolce e gentile.» Con un grugnito di fatica, il Celta lottò per alzarsi in piedi e alla fine ci riuscì, barcollante ma soddisfatto. «E ci sono parecchie altre cose da fargli pagare» aggiunse, mentre il suo volto tornava a incupirsi e il suo sguardo assumeva un'espressione distante. «Molte cose» ripeté, in tono sommesso, accarezzando la spada e traendo forza dal pensiero della vendetta. Dopo un po', parve tornare alla realtà, e si rivolse di nuovo a Gorgidas. «Allora, puoi fare qualcosa per quell'occhio?» Il Greco dovette scuotere il capo nel gesto di diniego tipico del suo popolo. Sapeva di poter guarire ancora, che quel primo successo ne prometteva molti altri in futuro, ma in questo caso quella consapevolezza era inutile. «Il tempo ha già portato la ferita al massimo livello di guarigione possibile. Se anche l'avessi vista quando era fresca, avrei potuto soltanto aiutarla ad arrivare alla condizione attuale, perché l'arte di guarire funziona servendosi di ciò che trova, e non può restituire ciò che è stato perso.» Viridovix annuì con aria infelice, Batbaian con impazienza... perché per lui la mutilazione non era che un ricordo costante del suo debito di sangue. Goudeles sternuti, e quel suono rammentò a Gorgidas che la tempesta non si era dissolta soltanto perché lui aveva trovato Viridovix: il Gallo avrebbe potuto congelare una seconda volta... e con lui anche tutti loro. Il medico tornò di corsa al proprio cavallo, prese una coperta dalla sacca della sella e l'avvolse intorno a Viridovix. Questi l'accettò distrattamente, perché per lui era già sufficiente assaporare la sensazione di essere vivo, di sentirsi abbastanza caldo da avvertire il contatto pungente della neve sulle guance, tanto che non udì neppure Gorgidas chiedergli se se la sentiva di cavalcare, finché il ringhio impaziente del Greco non lo riportò alla realtà.
«Posso farlo» rispose, riuscendo ad accompagnare le parole con una debole risatina. «Non ti agitare tanto.» Viridovix montò dietro Gorgidas, Batbaian dietro Skylitzes. Il pony del Greco sbuffò con aria risentita per essere costretto a portare un peso doppio, ma il medico lo costrinse lo stesso a muoversi. «Sei migliorato nel cavalcare» commentò Viridovix. «Sì, lo so. Di questi tempi, posseggo molte doti inutili» ribatté il Greco, battendo un colpetto sul gladius che portava al fianco sinistro, poi fece una pausa e aggiunse, in tono meravigliato: «Ed anche una utile, a quanto pare.» La cavalcata verso ovest, incontro all'esercito Arshaum, fu breve, perché i nomadi avevano continuato ad avanzare con il loro passo costante mentre Gorgidas faticava per richiamare in vita il Gallo. I cavalieri dell'avanguardia s'informarono sulla loro identità, e il capo degli esploratori si profuse in una serie di elogi per l'arte di guaritore posseduta da Gorgidas, che storse la bocca in una smorfia ironica: adesso che lui aveva fatto qualcosa di cui valeva la pena di parlare, l'esploratore appariva fin troppo lieto di reclamare per sé una parte del merito. Viridovix non conosceva la lingua arshaum, a parte qualche imprecazione insegnatagli da Arigh, ma sgranò gli occhi quando notò le dimensioni dell'esercito che si stava avvicinando. «Voialtri non avete certo sprecato il vostro tempo, vero?» chiese a Gorgidas, che si limitò a scuotere il capo. «V'rid'rish!» esclamò una voce, e Arigh sopraggiunse quasi al galoppo, facendo schizzare grossi pezzi di neve sotto gli zoccoli del cavallo. Il suo sorriso spiccò bianco quanto il circostante paesaggio innevato, mentre lui assestava una pacca sulla spalla del Gallo. «Volevo uccidere qualcuno, quando ho scoperto che gli esploratori che ti avevano trovato se ne erano andati di nuovo prima che io ne venissi informato.» «La colpa è mia» intervenne Gorgidas, esprimendosi anche lui in videssiano, come Arigh, perché Viridovix potesse capire. «Colpa, vero?» sbuffò il Celta. «Non gli dare retta, Arigh caro. Un po' più tardi e qui ci sarebbe stato soltanto il mio corpo congelato, che non sarebbe stato piacevole da salutare.» «Vedo che sei senza cavallo» osservò Arigh... badando a quella che per i nomadi era una priorità assoluta. «Prendine un paio dalla mia scorta.» «Obbligato. Potresti procurarne uno anche per il mio amico Batbaian?» Il sorriso di Arigh scomparve quando il suo sguardo si spostò sul Kha-
morth, e lui arricciò le labbra in un'espressione che per la prima volta agli occhi di Gorgidas lo fece somigliare al fratello. «Vedo che i tuoi gusti in fatto di amici sono peggiorati» commentò. «Davvero?» ribatté il Gallo. «Forse hai ragione, visto che continuo a scegliere figli di khagan.» E il suo sguardo incontrò con fermezza quello del principe arshaum. A causa della carnagione bruna e dello spesso strato di grasso che gli copriva la faccia, fu impossibile stabilire se Arigh fosse arrossito o meno, ma dopo un momento mosse il cavallo per accostarsi a Batbaian e ricorse a quel poco di khamorth che aveva appreso nell'attraversare Pardraya alla volta di Prista e dell'impero per chiedergli: «Un cavallo... tu hai bisogno?» Batbaian, che si era irrigidito all'avvicinarsi dell'Arshaum, ebbe un sussulto di sorpresa nell'udire la propria lingua, poi annuì con una dignità molto superiore alla sua giovane età. «Ti ringrazio» rispose, armeggiando con la cintura fino a staccare il coltello appeso ad essa... un'arma di fine fattura, con un cervo in corsa raffigurato in rilievo sul fodero di bronzo... che offrì ad Arigh. «Un dono per un dono.» Il sorriso tornò sul volto di Arigh, che accettò il coltello ed assestò una pacca sulla spalla a Batbaian, mentre dagli Arshaum presenti si levava un mormorio di approvazione. Probabilmente, pochi avevano capito quando il loro principe aveva offerto il suo dono a Batbaian, ma il gesto con cui il Khamorth lo aveva ricambiato non aveva bisogno di spiegazioni. «Il Peloso si comporta da vero uomo» Gorgidas sentì commentare ad uno dei nomadi. «E perché no?» ribatté un suo compagno. «Sembra che abbia visto da vicino qualche combattimento... quella cicatrice non è bella a guardarsi.» «Skylitzes, Gorgidas» ordinò quindi Arigh, «accompagnateli da mio padre, poi sentiremo tutti quello che hanno da dire.» E spronò il cavallo in direzione dello stendardo con la coda di cavallo grigio. Quando giunse al cospetto di Arghun, Viridovix s'inchinò come meglio poteva, essendo in sella dietro a Gorgidas. Il khagan aveva un aspetto più fragile di quanto si fosse aspettato, e montava a cavallo con difficoltà, tanto che il Gallo si chiese se fosse stato ammalato. Inoltre, era un uomo dalla voce pacata, privo degli scoppi di collera di cui Targitaus si era servito per tenere sotto controllo la gente del suo clan, ma gli Arshaum si affrettavano ad obbedire ogni volta che lui apriva bocca. Arghun studiò Batbaian con
cautela, Viridovix con aperta curiosità, poi disse qualcosa nella lingua sibilante del suo popolo. «Non aveva creduto ad Arigh, quando gli aveva descritto il tuo aspetto» tradusse Gorgidas, «ma ora vede che dopo tutto stava dicendo la verità.» «Honh!» esclamò Viridovix e, in latino, aggiunse: «Neppure io avevo mai visto tanta gente con il naso piatto e gli occhi obliqui, ma non credo che sia il caso di dirglielo. Subissalo invece di complimenti.» Gorgidas obbedì, ed Arghun s'inchinò in risposta a quella cortesia. «Sono curioso di sapere come voi due siete finiti qui» osservò poi. La domanda, anche se strutturata come una richiesta, era ovviamente un ordine. Gorgidas la tradusse in videssiano a beneficio di Viridovix, Skylitzes nella lingua dei Khamorth per Batbaian. «Tocca a me cominciare» decise poi il Gallo, e iniziò la narrazione da quello che gli era accaduto dopo che Varatesh lo aveva rapito dal campo. Il nome del fuorilegge provocò qualche ringhio fra alcuni Arshaum vicini ad Arghun, quelli i cui clan si erano spinti più vicini allo Shaum e che ricordavano la selvaggia razzia compiuta dal bandito oltre il fiume, l'inverno precedente. Viridovix prese ben presto a parlare tanto in fretta da rendere difficile a Gorgidas tradurre con lo stesso ritmo, e Arigh intervenne per aiutarlo. In quel momento un altro cavaliere si fece largo fra la folla che si era raccolta intorno ai nuovi venuti, e Viridovix lo giudicò immediatamente un damerino, perché indossava pelli e cuoio come se fossero stati seta e tessuti d'oro, e chissà come riusciva a tenere il suo pony perfettamente strigliato e con la criniera intrecciata con vivaci nastri rossi, nonostante il vento e la neve. «Padre, io...» cominciò Dizabul. «Qualsiasi cosa sia, ragazzo, dovrà aspettare» lo interruppe Arghun. «Questi stranieri portano notizie importanti.» Il giovane principe si rannuvolò in volto mentre il suo sguardo si spostava su Viridovix, soprattutto perché Arigh era accanto a lui; poi scorse anche Batbaian e un'espressione stupefatta gli si dipinse sul volto. «Adesso conto dunque meno anche di un Peloso?» esclamò, rabbioso. Arghun, però, lo zittì di nuovo, questa volta congedandolo con un gesto. «Continua, barba rossa» ordinò. «Niente male, niente male» rise Arghun, dopo che Viridovix gli ebbe raccontato del trucco con il bestiame da lui suggerito per spingere indietro
gli uomini di Varatesh. Ormai, il Gallo e Batbaian si stavano avvicendando nel descrivere gli eventi che avevano portato all'attacco contro i fuorilegge e i loro alleati. Il khagan pose quindi una serie di domande precise in merito allo svolgimento del combattimento in se stesso, i cui dettagli ricordarono fin troppo a Gorgidas la disfatta di Maragha. Contrariamente a quella di tutti gli altri maghi, la magia da battaglia di Avshar non falliva nel cuore della lotta, e se i soldati di cui lo Yezda si trovava alla testa stavano combattendo in condizioni che si avvicinassero alla parità, quella magia era sufficiente a far ottenere loro il trionfo. E ciò che era seguito alla vittoria... gli Arshaum si vantavano di essere un popolo duro, ma più di uno di essi si lasciò sfuggire grida di orrore e di disgusto mentre Batbaian, con voce impersonale, come se ogni cosa fosse accaduta ad uno sconosciuto, parlava dello spietato uso dei ferri roventi, e poi sussultarono ancora quando Viridovix narrò del modo crudele in cui i vincitori avevano giocato con le speranze dei vinti, e di come Targitaus fosse morto quando quell'orribile verità gli era divenuta chiara. Sgomento ma non sorpreso, Gorgidas diagnosticò che doveva essersi trattato di un attacco di apoplessia. Dopo quegli orrori, la storia del saccheggio del campo passò quasi in second'ordine, ma Viridovix sentì riaprirsi le proprie ferite interiori e il dolore scaturire da esse come sangue al ricordo di Seirem. «Quindi le cose stanno così» concluse Batbaian. «Varatesh, che gli spiriti urinino su di lui, è il padrone di Pardraya, e Avshar è il suo, o almeno così mi è parso quando ero nelle loro mani. In confronto a loro» proseguì, fissando in faccia Arghun, perché ormai le sue paure erano superate, «perfino voi Arshaum siete un'alternativa migliore, quindi siamo venuti a chiedere il vostro aiuto, se volete degnarvi di concedercelo. Anche se» aggiunse, in tono asciutto, lanciando un'occhiata ai guerrieri raccolti tutt'intorno, «può darsi che non abbiate bisogno che io vi persuada a muovere ad est.» «Questo Avshar» chiese Arghun, rivolto a Gorgidas, accarezzandosi la barba rada, «è quell'uomo di cui mi hai parlato, quello che viene da Yezd?» «Sì» rispose il Greco, e i suoi compagni gli fecero eco a parole e con cenni di assenso. «Non avevo comunque intenzione di lasciare in piedi qualche parte di Yezd» commentò il khagan, «e questo Avshar sarà soltanto uno yurt in più da abbattere.»
Nel dire questo, incrociò le braccia sul petto con la serena sicurezza di un uomo che non conosce la sconfitta, e gli Arshaum che sentirono le sue parole applaudirono, perché anche loro erano certi che la vittoria fosse l'unica alternativa possibile di fronte a Khamorth e ad altri esseri deboli del genere. I loro ospiti, che avevano avuto modo di vedere Avshar all'opera, si mostrarono meno entusiasti, ma compresero che sarebbe stato inutile cercare di spiegarne il motivo. «Tanto varrebbe spiegare la musica ad un sordo» borbottò Goudeles. «In un modo o nell'altro, lo scopriranno da soli.» «In un modo o nell'altro» convenne, cupo, Gorgidas che, avendo più volte messo invano in guardia Arghun contro il potere letale che avrebbe dovuto affrontare, cominciava a comprendere la natura della maledizione scagliata da Apollo su Cassandra. La breve durata delle giornate invernali e l'infuriare della tempesta collaborarono per costringere gli Arshaum ad arrestarsi prima del previsto. «Vuoi dividere la tenda con me?» chiese Gorgidas a Viridovix, mentre smontavano. «Ti voglio esaminare... non riesco quasi a credere che tu sia vivo.» Là dove null'altro avrebbe avuto questo potere, la curiosità riusciva ancora a tenere a bada la sua stanchezza. «Grazie, ci sto» rispose il Celta, poi assestò a Gorgidas una gomitata nelle costole, aggiungendo: «Verrò con te, anche se so che non t'interessa altro che la mia carcassa.» «Bah!» Da parte di chiunque, tranne che di Scaurus e di Viridovix, quella battuta avrebbe spaventato il Greco, e del resto il tribuno non l'avrebbe mai pronunciata... era troppo educato. In quel contesto, comunque, la frase destò in lui un'oscura soddisfazione, che lo indusse a squadrare Viridovix da capo a piedi. «Ti sopravvaluti» commentò. «Davvero?» Ridacchiando, il Gallo lo aiutò a montare la tenda. «Questa è migliore di quella che avevo io, ma bada a piantare saldamente i paletti.» Lavorando abilmente di pietra e acciarino, il medico accese ben presto un fuoco di sterco e, dopo che entrambi ebbero cenato, afferrò il polso di Viridovix: il battito era deciso e costante, quello di un uomo sano. Quando poi il fuoco ebbe riscaldato a sufficienza l'ambiente ridotto all'interno della tenda, Gorgidas costrinse l'amico a togliersi giubbotto e tunica e gli auscultò i polmoni: l'aria entrava ed usciva regolarmente, senza emettere il suono umido e pesante che avrebbe indicato l'insorgere di una febbre polmonare. Infine il Greco esaminò mani, piedi, guance, naso e orecchi alla ricerca di
tracce di congelamento, e scosse il capo. «Stai disgustosamente bene» dichiarò. Viridovix si rivestì con una certa fretta, perché il caldo non era poi così intenso, e trangugiò un sorso di kavass: dopo tanti mesi nelle steppe, non ne notava più il sapore vagamente aspro, e il liquore gli dava comunque una sensazione di calore. «Hai appena sentito quello che è successo a me» disse quindi al Greco. «Ora raccontami cosa avete fatto voi dopo che io sono stato rapito.» Il Greco obbedì, e parlò per buona parte della notte, mentre il vento ululava all'esterno; ascoltandolo, Viridovix pensò che i mesi appena trascorsi erano stati un buon periodo per Gorgidas perché, anche se il suo umorismo era ancora pungente, il Greco parlava ora con una sicurezza e con una consapevolezza del proprio valore che il Gallo non aveva più riscontrato in lui dalla morte di Glabrio... e forse neppure in precedenza. Quando ebbe finito la narrazione, il medico parve voler cambiare argomento. «Ti ricordi quella discussione che abbiamo avuto un paio di anni fa, non molto tempo dopo essere giunti a Videssos?» «Och, a quale ti riferisci?» replicò il Celta, fra un sogghigno e uno sbadiglio. «Ce ne sono state tante, e divertenti, per di più.» «Hmmm, forse è così. Quella a cui mi riferivo riguardava la guerra e la sua utilità.» Il sorriso provocato dalle reminiscenze scomparve dal volto di Viridovix. «Allora è a quella che alludi, vero?» replicò in tono pesante, sospirando attraverso gli spessi baffi. «Temo che tu avessi ragione, dopo tutto: combattere è una cosa fredda e crudele, e la gloria è soltanto una parola che un cadavere in putrefazione non sentirà mai più.» Gorgidas lo fissò con aria sconvolta, come se gli fosse spuntata sulle spalle una seconda testa, incapace di credere che una simile dichiarazione provenisse da un barbaro che aveva sempre esultato in combattimento per il puro piacere della lotta. «Strano che tu dica così proprio quando...» cominciò, poi s'interruppe ed osservò l'amico con maggiore attenzione. In precedenza, aveva esaminato soltanto il suo corpo, ma ora che stava scrutando l'uomo, scorse per la prima volta il dolore celato dietro il suo sguardo e tradito dalle linee profonde ai lati della bocca e sulla fronte. «Hai perso qualcosa di più di una battaglia, quando sei andato in guerra con i Khamorth» sbottò.
«Sei troppo perspicace» commentò Viridovix, sospirando ancora. «Sì, c'era una ragazza, la sorella di Batbaian. Adesso è morta, ma non abbastanza presto.» S'interruppe, e dopo un momento aggiunse, con voce molto bassa: «E una parte di me è morta con lei. E quale senso ha avuto la sua morte, quale utilità? Nessuna che io abbia potuto vedere quando ho trovato il suo corpo, e neppure in seguito. Sangue versato per il puro gusto di versarlo, il che spiega perché ammetto di aver avuto torto e riconosco che tu eri nel giusto.» Gorgidas ripensò al volto di Quintus Glabrio, inespressivo nella morte, un ricordo che ancora gli bruciava, e la sua pena gli permise di comprendere a fondo quella del Gallo. Entrambi sedettero in silenzio per qualche tempo, consapevoli dell'inutilità delle parole. «In tutto questo c'è parecchia ironia» commentò poi il Greco. «E quale sarebbe questa ironia?» «Consiste nel fatto che ho riaperto la discussione con l'intenzione di ammettere che il tuo punto di vista era quello giusto.» «La peste ti porti» esclamò Viridovix, stupito quanto il medico lo era stato poco prima. «Tu, l'uomo che non voleva impugnare una spada, sei giunto ad apprezzare il mestiere di soldato? Ancora un po' e ti metterai ad inchiodare teste alla tua porta, come un vero Celta.» «No, grazie, ma...» Gorgidas batté una pacca sul gladius che aveva al fianco, di cui Viridovix non si era ancora accorto, «...adesso porto la spada, e comincio a sapere come vada usata. Forse, comincio anche a capire la tua "gloria", perché non è vero forse che la prospettiva di essere acclamato dai compagni fa sì che un uomo possa meglio resistere all'attacco dei malvagi?» concluse, cadendo d'istinto nello stile retorico, anche se non stava parlando in greco. «Honh!» borbottò Viridovix, scuotendo il capo. Avendo cambiato opinione, era deciso ad attenersi alla sua nuova concezione con lo zelo di un neofita. «Un furfante va a caccia di gloria quanto un uomo onesto, quindi che senso ha il tuo ragionamento?» Gorgidas si protese in avanti con piacere, dimentico del sonno di fronte alla prospettiva di una discussione interessante. «Questo è vero, ma la fama di un uomo per bene vive in eterno, mentre quella di chi opera il male è sepolta nella vergogna. Quattrocento anni fa, Erodoto disse del sicofante di Delfi, che aveva inciso il nome degli Spartani su una coppa d'oro che essi non avevano offerto: "Conosco il suo nome, ma non lo scriverò". E adesso nessuno lo ricorda.»
«Ha fatto questo?» domandò il Gallo, con ammirazione. «Questa sì che è una bella vendetta. Ma ascolta...» Andarono avanti a discutere per tutta la notte, battendosi i pugni sui ginocchi e gridandosi insulti reciproci, senza però il minimo rancore. «Uomo dei boschi dalla zucca dura!» «Furfante spacca-capelli di un Greco!» Il fuoco e la puzzolente lampada di sego si consumarono, lasciandoli nell'oscurità quasi totale, e alla fine la nebbiosa luce dell'alba invernale cominciò a insinuarsi sotto il telo della tenda. Gorgidas si sfregò gli occhi, sentendosi di colpo assalire di nuovo dallo sfinimento, ma ora non poteva più farci nulla, non con un intero giorno in sella che lo attendeva. L'angolo sinistro della bocca gli si arricciò in un asciutto sogghigno. «Eccoci qui seduti che continuiamo comunque a discutere senza sapere chi di noi abbia ragione e chi torto» commentò. «Già, ma che altro possiamo fare?» Viridovix si alzò, si stiracchiò e si piantò in testa il cappello di pelo, ficcando la testa fuori della tenda. «Vieni, amico, gli altri si stanno già muovendo.» L'aria fredda aiutò Gorgidas a svegliarsi. Tremando, si chiuse il giaccone con la cintura e seguì Viridovix sotto la neve. CAPITOLO QUINDICESIMO Quel pomeriggio, Scaurus lavorò nel suo ufficio fino a tardi, interrompendosi soltanto quando scoprì di doversi recare nell'archivio per confrontare un'imposta andata in protesto con quella esatta l'anno precedente. L'edificio però era deserto, e il tribuno si fermò, grattandosi la testa con aria perplessa: dov'erano gli impiegati chini sui registri, intenti a spostare le palline dei loro abachi con le dita sporche di inchiostro? Nei corridoi c'era soltanto un vecchio custode, che stava cercando di concludere più presto che poteva il suo giro di sorveglianza; quando Scaurus gli chiese spiegazioni, il vecchio lo fissò come se fosse impazzito. «Ti va di scherzare, signore? Chi vuoi che lavori, il Giorno di Mezz'inverno? Se ne sono andati tutti parecchie ore fa.» «Il Giorno di Mezz'inverno?» ripeté Marcus, in tono distratto, ed effettuò un rapido conto sulle dita. «Già, è proprio oggi.» Adesso il custode lo stava guardando a bocca aperta, lasciando così intravedere pochi denti tronchi e anneriti: neppure gli stranieri, infatti, si di-
menticavano della festa più importante dell'anno videssiano, e cioè la celebrazione indetta per invocare il ritorno del sole dopo il solstizio d'inverno. L'aria gelida aggredì il naso di Scaurus quando lui lasciò il caldo covo degli scribacchini. Anche l'anno precedente se ne era scordato, ma Viridovix ed Helvis erano venuti a trascinarlo via dalla sua scrivania... il ricordo lo indusse a sferrare un calcio alla neve. Per gli ampi viali del complesso del palazzo non c'era in giro quasi nessuno: i servitori, i soldati e i burocrati che formavano il cuore dell'impero erano andati tutti a divertirsi insieme al resto della città, e adesso la Piazza di Palamas, subito ad est del palazzo, era un mare ribollente di umanità. I venditori ambulanti vantavano le proprie merci: birra, vino caldo speziato, capra arrosto in salsa di formaggio, molluschi, calamari fritti in olio d'oliva e spolverati di croste di pane, profumi, gioielli di ogni genere, dalle chincaglierie in ottone agli oggetti in oro e pietre preziose grosse quanto un occhio di un uomo, amuleti magici di potere peraltro limitato, immagini di Phos e dei suoi santi. Musicisti girovaghi si aggiravano fra la folla, cantando oppure suonando flauti, liuti, corni dritti o curvi, perfino una o due pandore vaspurakane, il tutto nella calda speranza di indurre gli spettatori a separarsi dalle loro monete. Marcus, che non aveva propensione né orecchio per la musica neppure quando era di ottimo umore, li evitò con cura, anche perché gli ricordavano Helvis, che invece amava la musica, e anche il suo recente fiasco con Nevrat Sviodo. Nevrat faceva di tutto per mostrarsi amichevole ogni volta che lei, Senpat e il tribuno uscivano insieme, ma nei suoi modi c'era una sfumatura di riservatezza che prima mancava, e Marcus sapeva che la colpa di questo era soltanto sua. Passeggiando, borbottò un'imprecazione, desiderando di potersi liberare dei ricordi. Le sobrie tonache azzurre dei monaci spiccavano fra gli abiti eleganti e sgargianti che la maggior parte dei Videssiani sfoggiava per l'occasione; alcuni di essi si univano ai festeggiamenti... Scaurus si sentì pronto a scommettere parecchi pezzi d'oro che a quell'ora Styppes doveva essere ormai sbronzo fradicio... mentre altri guidavano gruppetti di laici nell'esecuzione di preghiere o di inni di lode a Phos, formando piccole isole di dignità e di fede profonda in mezzo alla folla frivola e allegra. Alcuni di quei religiosi, però, detestavano i piaceri della carne e nel loro fanatismo dalle vedute ristrette si dedicavano alla distruzione di tutto ciò che disapprovavano: Zemarkhos aveva alcuni fratelli spirituali in città, ed
uno di essi, un uomo severo, con la tunica lacera che gli svolazzava intorno alle caviglie ossute, oltrepassò ansando il tribuno, lanciato all'inseguimento di alcuni giovani mascherati che stavano cantando. Accortosi che non li avrebbe raggiunti, il prete si fermò e agitò il pugno nella loro direzione. «I vostri scherzi profanano i giorni sacri a Phos! Dedicate la vostra anima alla contemplazione e non a questa sfrontata gaiezza! Così contaminate la sacralità della festa, stolti, e il ghiaccio eterno di Skotos già vi attende!» Quando ebbe finito la sua invettiva, i giovani erano già lontani. Con un borbottio sommesso, il monaco si guardò intorno alla ricerca di altro male da sradicare. Per un momento, Marcus temette che se la prendesse con lui, perché le guance rasate, gli occhi chiari e i capelli biondi indicavano che era un forestiero e quindi, probabilmente, un eretico o addirittura un infedele. Nelle vicinanze, però, c'era selvaggina migliore: un cerchio di persone si era raccolto intorno a un cagnetto con il pelo tinto di verde, che stava ballando avanti e indietro sulle zampe posteriori al suono del tamburo del suo padrone. L'uomo aveva anche addestrato la bestiola a sfilare le monete dalle dita degli spettatori e a portargliele. «Non è meraviglioso?» tuonò un alto mercenario haloga la cui gelida terra natale non offriva divertimenti del genere. La sua compagna, una prostituta bruna e molto bella, gli sorrise ed annuì. L'abito di velluto venato di broccato marrone le aderiva come una seconda pelle, e l'Haloga le stringeva la vita con un braccio, facendo scivolare di tanto in tanto la mano verso il seno. Il mercenario lasciò andare la donna per un momento e posò a terra un ginocchio, con la lunga treccia, legata con un nastro colore del sangue, che sfiorava quasi l'acciottolato. «Ehi, cucciolo!» chiamò. Il cane danzò in avanti per prendere la moneta, poi si lasciò cadere su tutte e quattro le zampe per riportarla in fretta al padrone. «Oro!» esclamò questi, indirizzando un profondo inchino all'Haloga. «Mille ringraziamenti a te, padron mio!» La folla applaudì. Quando si rialzò, però, il mercenario si trovò davanti il monaco videssiano che gli puntava contro la faccia un lungo indice ossuto. «Immondi, osceni bagordi!» esclamò il religioso. «Povero ottenebrato pagano, dovresti essere in preghiera per ringraziare Phos che riporterà la
luce per un altro anno, e non qui a svilire te stesso con questa lasciva creatura!» Il suo sguardo rovente si spostò sulla prostituta, che lo ricambiò con pari avversione, perché i suoi occhi avevano brillato poco prima di fronte alla generosità dell'Haloga. Il mercenario sbatté le palpebre con aria sorpresa di fronte a quell'aggressione verbale, ma rispose in tono piuttosto pacato, forse perché era stato avvertito del pericolo di provocare i preti videssiani. «Per favore, signore, tira indietro quella mano.» Il monaco dovette pensare di aver toccato la coscienza del mercenario, perché obbedì e moderò il proprio tono aspro e imperativo, cercando di esprimersi in maniera più dolce e suadente. «Nonostante tu sia uno straniero, signore, hai l'aspetto di un gentiluomo, quindi rifletti su ciò che ti dico. I piaceri carnali valgono il rischio di perdere l'anima?» «Va' a strozzarti altrove, ossuto avvoltoio!» stridette la prostituta. «Lascialo in pace!» E si aggrappò con aria possessiva al braccio del mercenario. «Taci, donnaccia» ribatté il monaco, continuando peraltro a squadrarla da capo a piedi quasi contro la propria volontà, apparentemente incapace di distogliere lo sguardo dalle sue forme esibite in maniera invitante, per quanto i preti videssiani fossero votati al celibato. Anche se le sue parole successive furono dirette all'Haloga, i suoi occhi continuarono a fissare la donna. «Posso concedere che costei è graziosa, e tuttavia il desiderio è soltanto la mielata trappola con cui Skotos cattura gli incauti.» Quell'affermazione, pur non essendo indirizzata a lui. strappò a Marcus una smorfia. Il monaco, a questo punto, stava quasi urlando, nel proseguire la sua invettiva. «Guarda le cosce ben arrotondate, e la vita sottile, e il seno, tale invero da rendere debole qualsiasi uomo...» Scaurus trovò che il religioso faceva quasi pietà perché, con la convinzione di condannare i piaceri sensuali a cui aveva rinunciato, stava invece indugiando a descrivere ciascuno di essi con passione. «Gli occhi scintillanti e le labbra piene e rosse... devono essere dolci come vino ben stagionato...» Il monaco giunse quasi a contorcersi per il desiderio. L'Haloga gettò indietro il capo e scoppiò in una tonante risata da basso, abbastanza stentorea da far girare la testa a metà degli occupanti della piazza.
«La peste mi colga, prete, se tu non hai bisogno di lei più di quanto ne abbia io. Prendi.» Il mercenario gettò una moneta d'oro ai piedi del monaco, che la fissò con gli occhi che gli sporgevano dalle orbite, mentre l'Haloga aggiungeva: «Avanti, passa una bella nottata con lei. Non temere, io mi troverò un'altra ragazza, questo posto pullula di prostitute.» Il prete e la donna inveirono contemporaneamente contro di lui, poi presero a litigare fra loro mentre l'Haloga girava ad entrambi l'ampia schiena e si allontanava, seguito dagli applausi della folla che in quel giorno dell'anno era abbastanza spensierata da apprezzare la sconfitta di un religioso, anche se per opera di un pagano. Perfino Scaurus non riuscì a trattenere un sorriso, perché nessun mare di dolore era tanto profondo che un uomo potesse veramente affogarvi. Come nel caso di Styppes e della sua passione per il vino, le tristi, lascive invettive del monaco ebbero l'effetto di ricordargli che sotto quelle tuniche azzurre erano celati esseri umani, forse non troppo diversi da lui, il che era una cosa che valeva la pena di tenere presente. Per lo più, infatti, i monaci di Videssos destavano in lui soltanto paura, perché il fanatismo religioso era qualcosa che un Romano non era preparato a capire. Il pensiero di Styppes e della sua costante arsura lo indusse a comprare una coppa di vino, che gli scaldò il ventre; poi, quando un uomo attraversò di corsa la piazza, lodando a gran voce l'abilità delle compagnie di mimi che si stavano esibendo all'Anfiteatro, il tribuno, insieme a parecchi altri, si diresse a sud, perché la grande arena ovale dell'Anfiteatro costituiva il confine meridionale della Piazza di Palamas. Pagata la tariffa di due monete di rame, oltrepassò uno dei passaggi coperti che davano accesso all'arena, e un accompagnatore lo condusse su per rampe e scale, fino alla sommità delle gradinate: la rappresentazione, infatti, era in corso dall'inizio della giornata, e l'Anfiteatro era stracolmo. Visti da lontano, l'obelisco, le statue e gli altri monumenti che commemoravano passati trionfi imperiali e che decoravano la costa centrale dell'Anfiteatro offrivano un quadro d'insieme ancora più impressionante di quello apparso a Scaurus quando si era trovato là, al centro di esso. La sommità dell'alta punta di granito era all'altezza dei suoi occhi, per quanto il posto assegnatogli fosse quasi in cima alla gradinata, e non lontano dalla sua base erano visibili i dodici parasole che costituivano la scorta di un Avtokrator di Videssos, nello stesso modo in cui un pari numero di littori con asta e ascia formava quella di un console romano. Il tribuno non riuscì a distinguere i lineamenti di Thorisin, e questo in un
certo senso lo rincuorò. Bevve altro vino, ma era di qualità scadente, aspro sul palato, e gli strappò un grugnito di disgusto che indusse l'uomo che gli sedeva accanto, sulla destra, a voltarsi verso di lui. «È un vino di rara annata... credo che sia dell'altroieri» commentò lo sconosciuto, un ometto ossuto dagli occhi brillanti, che aveva l'aspetto di un tagliaborse. «No, ti sbagli, sono certo che è della settimana scorsa» ribatté Marcus, schioccando le labbra. La battuta non era granché, ma di recente non era più abituato a farne. La risposta dell'altro andò perduta a causa della raffica di applausi con cui il pubblico accolse una nuova compagnia di attori apparsa sulla pista dove di solito si tenevano le gare dei cavalli. Uno dei mimi eseguì una breve scenetta, fingendo di aver calpestato qualcosa di disgustoso, e strappò una risata al pubblico. Nelle piccole città dell'Impero, gli abitanti organizzavano di persona le recite invece di avere dei professionisti che le inscenassero per loro, ma in tutto Videssos si seguiva comunque uno stesso criterio: le varie scene avevano un ritmo rapido, un argomento preciso ed erano irriverenti... nel Giorno di Mezz'inverno, chiunque poteva essere oggetto di scherno. La prima scenetta della compagnia, per esempio, si basò su tre personaggi principali uno dei quali, a giudicare dagli indumenti sfarzosi, doveva essere l'imperatore. Gli altri attori continuarono a tenere impegnato quello che rappresentava l'imperatore, ricorrendo ai pretesti più svariati, ma alla fine lui finì per trovare una donna dai capelli castani e un uomo di grossa statura, che portava una parrucca dorata e vestiva di pelli come un Haloga, che si agitavano insieme sotto una coperta. Quando si vide scoperta, la donna... che poi era un lui perché gli attori della compagnia erano tutti maschi... cominciò a tirare stoviglie, costringendo il finto imperatore a fuggire con le braccia incrociate davanti alla faccia per proteggersi da quella raffica di piatti e di scodelle che l'attore che rappresentava la sua amante continuava a estrarre da sotto le coltri. Alla fine, l'imperatore riuscì a soggiogare la donna soltanto con l'aiuto degli altri attori, che intanto si erano cambiati, indossando le corazze dorate della Guardia Imperiale. Lo pseudoHaloga cercò di nascondersi sotto la coperta, ma fu stanato con un ben assestato calcio nel posteriore sollevato. Marcus pensò che quella scenetta spiegava senza ombra di dubbio come mai Komitta Rhangavve non fosse seduta accanto a Thorisin... doveva aver finito per concedersi un amante di troppo, o essere diventata troppo
sfacciata nelle sue tresche. D'un tratto, comprese anche la natura dei commenti sarcastici dei burocrati, a cui lui, sprofondato nella propria tristezza, non aveva prestato attenzione. «Sono stato fuori città» disse, rivolto all'uomo che aveva accanto. «Quando è successo tutto questo?» «Un paio di mesi fa, credo, dopo che l'imperatore è tornato da quel posto, Opsikion. C'è anche una canzone, al riguardo, che fa così... oh, aspetta, stanno ricominciando.» Anche se indusse il Videssiano che gli sedeva accanto a ridere fino alle lacrime, la scenetta successiva annoiò il tribuno, perché si trattava della satira di un dibattito teologico che aveva divertito l'intera città l'estate precedente. Soltanto gradualmente, Scaurus si rese conto che il personaggio principale, un uomo che sfoggiava un'enorme barba grigia posticcia che gli arrivava fino al cuscino infilato sotto la logora tunica azzurra per farlo sembrare più grasso, avrebbe dovuto rappresentare Balsamon, il patriarca ecumenico dell'Impero di Videssos. Il vero Balsamon sedeva sulla costa dell'Anfiteatro, non lontano dall'imperatore, ed era adeguatamente abbigliato con le sfarzose vesti patriarcali di preziosa seta azzurra e di tessuto dorato incrostato di perle, abiti a loro modo magnifici quanto quelli di Thorisin Gavras. Marcus però... e a quanto pareva l'intera città con lui... sapeva che il prelato preferiva portare abiti trasandati e comodi ogni volta che ne aveva l'opportunità. Durante la scenetta di cui era stato la vittima, Thorisin era rimasto seduto immobile, tollerando evidentemente lo spirito del Giorno di Mezz'inverno senza però unirsi ad esso, mentre Balsamon, quando giunse il suo turno, si abbandonò all'ilarità insieme al resto dell'Anfiteatro, tenendosi il grosso ventre con le mani e tremando dalle risa quando l'attore che lo rappresentava colpì il suo avversario alla testa con una statuetta d'avorio e poi, ignorando la vittima che si contorceva, si premurò di accertarsi che la statuetta non avesse riportato danni. Balsamon gridò allora qualcosa al finto patriarca, che mise una mano a coppa intorno all'orecchio per sentire le sue parole al di sopra del vociare della folla. Quale che fosse il messaggio, Balsamon lo ripeté e l'attore annuì, gli indirizzò un profondo inchino... ed assestò una seconda botta in testa al suo finto avversario. «Quello sì che è un uomo in gamba» commentò con ammirazione il furfante seduto accanto a Scaurus, mentre l'intero Anfiteatro esplodeva dalle risa. Balsamon, come sempre, parve fiorire sotto gli applausi, consapevole
di essere molto amato in città, e non senza motivo. I mimi si precipitarono nei cunicoli sottostanti l'Anfiteatro per cambiare i costumi. Il primo di essi che si ripresentò giunse vestito con le pelli e il cuoio tipici dei nomadi, e con un cerchietto d'argento intorno alla testa per dimostrare di essere un personaggio di rango. L'attore prese a passeggiare con aria fiera, brandendo una sciabola e ignorando i fischi e gli insulti che piovevano su di lui dalle gradinate. Gli insulti si mutarono in applausi all'apparire di un secondo attore, che impersonava l'imperatore; questi però non parve accorgersi del nomade e gli girò le spalle, con lo sguardo fisso in lontananza. Nell'arena giunsero altri mimi vestiti di pelli, che spinsero un carretto coperto fin dove si trovava il loro capo, che si accigliò, digrignò i denti e colpì il carretto con la spada, di piatto. A quel punto ci fu uno squillare di trombe, che accompagnò la comparsa di un uomo alto, che indossava una tenuta militare di tipo straniero e che era seguito da altri quattro o cinque individui che portavano costumi uguali al suo ma meno sfarzosi. Marcus si accigliò, chiedendosi chi potessero essere quei nuovi personaggi, che brandivano scudi più alti di loro... poi si protese in avanti sul sedile, sentendo la faccia che gli diventava rovente. Gli pseudo-legionari vennero avanti a passo di marcia, in buon ordine, o almeno questo era ciò che avrebbero dovuto fare, se non avessero continuato a cambiare direzione ogni tre passi. Dopo un po', il capo dei legionari andò letteralmente a sbattere contro uno dei nomadi fasulli, il che produsse stupore e agitazione da entrambe le parti. Il capo degli Yezda indicò prima il carretto, poi la figura dell'imperatore, sempre disinteressata alla scena. Dopo qualche comica incomprensione, il condottiero romano pagò al nomade un enorme sacco di monete e prese possesso del carro. Mimando una continua serie di cadute nel fango, il Romano e i suoi uomini trascinarono poi a fatica il carretto fino ad un paio di metri di distanza dall'imperatore. Marcus provò di nuovo una fitta al cuore nel vedere i finti legionari raggomitolarsi per dormire intorno al carro. Non appena furono tutti immobili, i quattro uomini all'interno del veicolo, vestiti con casacca e calzoni di stile namdaleno, strapparono via il telo di copertura, scesero dal carro e danzarono con scherno una giga sulla schiena dei dormienti, prima di fuggire verso i cunicoli dell'arena per scomparire dentro di essi. L'attore raffigurante l'imperatore, che non si era mosso, scrollò energicamente le spalle, come per chiedersi cos'altro avrebbe potuto aspettarsi
dagli idioti di cui era costretto a servirsi. Scaurus guardò verso Thorisin, e notò che adesso stava ridendo, il che dimostrava quanto fosse stato fondato l'ottimismo di Nepos. «Lo spettacolo non è finito» lo avvertì l'ometto che gli sedeva accanto, quando lui si alzò dal suo posto. «Devo andare alla latrina» borbottò il tribuno, scivolando di lato, come un granchio, verso le scale da cui era separato da una fila di ginocchi piegati. Non si fermò però alle latrine; dopo aver indugiato il tempo appena sufficiente per trangugiare un'altra tazza di vino troppo poco invecchiato, lasciò in fretta l'Anfiteatro, con le risa della folla che ancora gli echeggiavano, brucianti, negli orecchi, pensando che gli spettatori avrebbero riso ancora di più se la compagnia di mimi avesse conosciuto tutti i dettagli della vicenda. Il crepuscolo era ormai prossimo, e gli addetti a quel compito stavano già accendendo le torce intorno all'Anfiteatro, mentre uno spicchio di luna tramontava dietro il complesso del palazzo. Marcus accennò a tornare nella propria stanza del Tribunale Centrale ma cambiò idea quando ancora si trovava nella Piazza di Palamas: quella notte aveva bisogno di molto vino, e ogni taverna della città sarebbe stata pronta a dargli ciò che desiderava. Voltate le spalle al palazzo, si avviò attraverso il foro e lungo la Strada di Mezzo, affollata quasi quanto lo era la piazza; questo lo indusse a tenere una mano sulla sacca del denaro, perché quello accanto a cui si era seduto nell'Anfiteatro non era il solo ladro di Videssos. La costruzione di granito che ospitava altri uffici governativi, gli archivi e una prigione, occupava la maggior parte di un lungo isolato; mentre passava accanto all'edificio, il tribuno si sentì chiamare per nome, poi Alypia Gavra agitò una mano nella sua direzione, scendendo l'ampia scalinata di marmo per andargli incontro. Sentendo la testa che gli girava, Marcus rimase per un momento immobile in mezzo alla strada, con i passanti che fluivano intorno a lui. «Vostra Altezza» riuscì infine a rispondere, con voce che perfino ai suoi stessi orecchi suonò rauca e sorpresa. La principessa si guardò intorno per verificare se qualcuno nelle vicinanze avesse sentito quelle parole, ma nessuno stava prestando loro attenzione. «Questa sera Alypia andrà benissimo, grazie» disse poi, in tono quieto. In effetti, non era vestita come una principessa e indossava invece un lungo abito a collo alto di lana verde scuro, decorato con pelo di coniglio ai
polsi e al collo, un abbigliamento che risultava ancora più semplice di quello di molte altre donne presenti in strada, perché lei non portava gioielli, mentre indosso alle passanti brillavano oro, argento e pietre preziose. «Come desideri, naturalmente» rispose Marcus, rigido. Alypia, la cui testa arrivava appena al mento del tribuno, sollevò il capo per fissarlo con aria accigliata. «Questa dovrebbe essere una notte di allegria» osservò, mentre una prolungata e tonante risata proveniva dall'Anfiteatro. «Magari potresti andare a vedere i mimi.» «La parte del loro spettacolo a cui ho già assistito mi basta, grazie» ribatté Scaurus, con un'amara risata. Non era stata sua intenzione aggiungere altro, ma di fronte all'occhiata interrogativa della principessa, si trovò d'un tratto a spiegare ogni cosa. «Possono essere crudeli» convenne Alypia, annuendo con un'espressione comprensiva nello sguardo, e il tribuno, che l'anno precedente non era entrato per nulla nell'Anfiteatro, si chiese d'un tratto quale fosse stata la tematica delle scenette di allora, mentre la principessa aggiungeva: «Ma non è stata colpa tua se gli isolani sono fuggiti.» «Non lo è stata?» ripeté Marcus, rivolto più a se stesso che alla ragazza. Poi, volendo allontanare quei ricordi, commentò: «A giudicare da come sei vestita, neppure tu sembri molto intenzionata a festeggiare.» «No, suppongo di no» ammise lei, con un fugace sorriso. «Non rientrava nel mio programma. Questo pomeriggio sul presto ho permesso ai miei servi di prendersi la giornata libera per godersi la festa e sono venuta qui a frugare negli archivi, perché pensavo che sarebbe stato un lavoro che avrebbe richiesto l'intera giornata.» Questa volta fu Scaurus ad annuire perché, in qualità di controllore dei conti, a volte capitava anche a lui di dover consultare vecchi registri. I Videssiani erano meravigliosi per l'abilità con cui tenevano i registri, ma quando si trattava di archiviare quelli che avevano cessato di essere di immediata utilità, quell'abilità sembrava scomparire, ed anche gli impiegati incaricati degli archivi a volte non sapevano dove fossero i documenti affidati loro in custodia. «Si trattava di una ricerca per il tuo lavoro di storia?» «Sì.» Alypia parve contenta che lui se ne fosse ricordato. «Stavo cercando il rapporto stilato dal Generale Onesimos Kourkouas in merito ad uno dei primi scontri con gli Yezda nel Vaspurakan, trentasei... no, trentasette
anni fa. Il caso ha voluto che si trovasse nella seconda stanza in cui ho cercato, e poi è risultato essere lungo appena la metà di quel che credevo. E così adesso è soltanto il crepuscolo ed io sono qui che non so come impiegare il mio tempo.» Fece una pausa, scrutando Marcus in volto. «Come hai intenzione di passare il resto della serata? Hai programmi che possano essere condivisi con qualcuno?» «Vostra Altezza... no, Alypia» si corresse Marcus, prima che potesse farlo lei, «la mia unica intenzione era quella di sbronzarmi completamente. Se la tua presenza non mi sarà di ostacolo in questo, sei la benvenuta, altrimenti ci vedremo un'altra volta.» Scaurus si era aspettato che il suo eccessivo candore inducesse la principessa ad andarsene, ma non fu così. «Un'idea splendida» commentò invece lei, in tono deciso. «Dove pensavi di andare?» «Il mio programma non si era ancora sviluppato fino a questo punto» replicò Marcus, inarcando un sopracciglio. «Vogliamo girare un poco prima di decidere?» «E perché no?» Si avviarono insieme lungo la Strada di Mezzo, allontanandosi dal complesso del palazzo. Intorno a loro, la città continuava con i suoi festeggiamenti, ad ogni angolo di strada c'erano fuochi accesi e uomini e donne li superavano con un salto come augurio di buona fortuna. Alcuni, ridendo, indossavano abiti non consoni al loro sesso, e Scaurus fu quasi gettato a terra da un tizio grassoccio e barbuto che andava in giro saltellando avvolto in indumenti femminili. «Sta' attento a dove cammini» ringhiò il tribuno, che non era dell'umore adatto per festeggiare. Alypia, che sulla base delle proprie dolorose esperienze riusciva a capire l'intensità della sua pena, badò a mantenere la conversazione su un tono generico, evitando che scivolasse su argomenti più personali, e Marcus fu lieto del tatto da lei dimostrato, pur senza rilevarlo coscientemente. «Che impressione ha avuto il tuo Kourkouas degli Yezda?» chiese. «Ne è rimasto inorridito, per la loro abilità con l'arco e per la loro violenza. All'inizio, i Vaspurakani li avevano creduti una razza di demoni, e fra noi c'è stato chi riteneva che fossero stati mandati dal cielo per punire i Vaspurakani della loro eresia... questo, naturalmente, finché non hanno invaso anche Videssos.» «Infatti la cosa non depone a favore di quell'interpretazione» convenne il
tribuno, esprimendosi con cautela, perché non sapeva quanto fosse profonda e fervida la fede di Alypia, anche se quanto aveva visto in passato lo induceva a ritenere che il suo spirito religioso si avvicinasse più a quello tollerante di Balsamon che al fanatismo di Styppes o di Zemarkhos. «Anch'io avrei potuto sentirmi indotto a definirli dei demoni» aggiunse, «sulla base di quello che hanno fatto durante la campagna di Maragha. Tuttavia, Yavlak e i suoi Yezda erano malvagi tagliagole che insidiavano le vicinanze di Garsavra, d'accordo, ma non avevano nulla di inumano, come dimostra il fatto che sono stati ben felici di vendere a me gli isolani, invece di torturarli a morte in nome di Skotos.» Quel pensiero gli ricordò però ciò che era successo dopo e lo indusse a cambiare in fretta argomento. «Sapresti dirmi perché questo posto è chiamato il Foro del Bue?» chiese, accennando alla piazza in cui stavano entrando. «Per quanto sia qui ormai da tempo, non sono mai riuscito a saperlo.» Quella piazza era grande forse un terzo di quella di Palamas, ed era priva delle costruzioni imponenti che caratterizzavano l'altro foro. «Temo che non ci sia un motivo particolare. Nei tempi antichi, quando Videssos era poco più che un villaggio, questo era il mercato cittadino del bestiame.» «Tutto qui?» sbottò Marcus. «Proprio tutto» confermò Alypia, osservandolo con aria divertita. «Sei molto deluso? Se vuoi, posso inventare una bella favola con complotti e maghi e tonnellate di oro sepolto, ma si tratterebbe soltanto di una favola. A volte, la realtà è molto semplice.» «Ho avuto quello che volevo, grazie» rispose Marcus poi, esitando, insistette: «Neppure un mago?» «Neppure uno» ribadì lei, con fermezza. Attraversarono la piazza, che era piena di gente quanto quella di Palamas, anche se qui la folla era più assortita rispetto ai ricchi cittadini che gremivano i quartieri occidentali. Le canzoni erano più sboccate, le risate più acute, ed abbondavano i duri locali, che andavano in giro pavoneggiandosi nei calzoni aderenti e nelle tuniche dalle maniche rigonfie; seguendo una nuova moda, alcuni avevano preso a radersi la nuca, secondo lo stile namdaleno. Oltre il Foro del Bue c'era il distretto dei calderai. Adesso però le botteghe della Strada di Mezzo erano chiuse: brocche, ciotole, piatti e campane erano nascosti dietro robuste imposte di legno e non si udivano il rintrona-
re dei martelli e il paziente strisciare del bulino sul metallo. «Hai uno strano modo di ubriacarti, Marcus» osservò Alypia. «Oppure hai intenzione di arrivare a piedi fino alle mura?» Il tribuno arrossì, in parte imbarazzato per il commento e in parte compiaciuto per il fatto che la principessa ricordava e usava ancora il suo prenome; Alypia aveva imparato quanto bastava delle usanze romane per sapere che il prenome si usava soltanto con gli amici più cari, e tuttavia non aveva cessato di servirsene dopo il disastro abbattutosi su di lui. Ricordò poi un vecchio proverbio: la prosperità crea gli amici, le avversità li mettono alla prova. «Come desideri» ripeté, ma questa volta in tono di assenso, e non di rassegnazione. A parte i negozi che si affacciavano sulla Strada di Mezzo, il tribuno non conosceva quasi per niente il quartiere dei calderai, e quando si avventurò lontano dalla via principale si venne così a trovare in un ambiente strano e per metà straniero. Il commercio dei lavoratori di metalli era esercitato per lo più da artigiani i cui antenati erano venuti dal Makuran e che ancora si attenevano ad alcune usanze occidentali. Qui ardevano meno fuochi della fortuna di quanti ce ne fossero nelle altre strade cittadine, e più di una volta Marcus scorse quattro linee verticali parallele tracciate con il carboncino su una parete imbiancata o con il gesso su una scura. «È il simbolo dei Quattro Profeti del Makuran» spiegò Alypia, notando la direzione del suo sguardo. «Alcuni Makurani seguono ancora adesso quella fede, anche se non osano professarla apertamente per timore dei monaci.» Scaurus pensò che era davvero ironico che i Makurani corressero il rischio di essere perseguitati a Videssos dagli adoratori di Phos e fossero oggetto di persecuzioni nello stesso Makuran... ora Yezd... per opera dei seguaci di Skotos. «Che ne pensi di loro?» chiese, in tono distratto. «La loro fede non è la mia» rispose, pronta, Alypia, «ma questo non significa che siano malvagi.» «Abbastanza equo» commentò Marcus, lieto di non aver sbagliato nel giudicarla. Balsamon gli aveva detto più o meno la stessa cosa, poco tempo dopo il suo arrivo a Videssos, mentre la maggior parte dei suoi connazionali, compiaciuti della loro virtù, avrebbero definito blasfemia quella dimostrazione di tolleranza. Tenendo sotto braccio Alypia, gironzolò per qualche tempo per il labi-
rinto di strade del quartiere, scartando un locale perché era pieno di furfanti che lanciarono una serie di battute pesanti all'indirizzo suo e della principessa, un secondo perché puzzava di olio rancido e un terzo a causa dell'insegna, su cui spiccavano le quattro linee verticali, in quanto non desiderava incontrare fanatici religiosi makurani più di quanto gli andasse di avere a che fare con le loro controparti videssiane. Infine scelse una locanda costituita da un pulito edificio a due piani la cui insegna non recava nessun simbolo dal nascosto significato religioso o politico ma soltanto un disegno a colori vivaci che mostrava un uomo allegro e grasso seduto davanti a una tavola imbandita. I profumi che uscivano dal locale erano sconosciuti ma appetitosi. La sala comune della locanda era piena di tavoli, quasi tutti occupati al massimo della capienza, e Scaurus si guardò intorno con delusione fino a individuare un piccolo tavolo vuoto addossato al muro adiacente alla porta aperta della cucina. «Perfetto!» esclamò, facendosi largo a spallate fra la ressa, con Alypia che lo seguiva dappresso; d'estate, l'ondata di calore che proveniva dai bracieri e dai fuochi della cucina sarebbe stata intollerabile, ma nel Giorno di Mezz'inverno era la benvenuta. Tre camerieri andavano e venivano di continuo dalla sala alla cucina e viceversa, ma l'affollamento festivo rendeva comunque lento il servizio, il che diede al tribuno l'occasione di osservare gli altri clienti: per lo più, si trattava di Videssiani di ceto medio, né ricchi né poveri. Alcuni affettavano uno stile makurano, gli uomini con capelli e barba lunghi e arricciati, abbigliati con casacche più lunghe di dietro che davanti; le donne con caffetani di lino a disegni geometrici, tinti a colori vivaci, e con i capelli raccolti sul capo dentro reticelle d'argento. Tutt'intorno, la conversazione era allegra e amichevole, come se l'immagine dipinta sull'insegna fosse stata il ritratto di uno dei clienti del locale. Finalmente, un cameriere si accostò al loro tavolo. «Salve, straniero. Mia signora» salutò, inchinandosi ad Alypia come se avesse riconosciuto in lei una principessa. «Phos vi benedica in questo giorno. Cosa prendete?» «Vino, per ora» rispose Marcus, e Alypia annuì. L'uomo si allontanò in fretta. Osservandolo, Marcus pensò che doveva avere un po' di sangue makurano nelle vene, perché la sua pelle era leggermente più bruna di quella dei Videssiani, i capelli erano nerissimi e gli occhi grandi e luminosi.
Il vino arrivò con una ragionevole rapidità, e il cameriere provvide a versarlo di persona. «Mi chiamo Safav» si presentò, confermando così la supposizione del tribuno. «Se volete qualcos'altro o decidete di mangiare, chiamatemi.» Proprio in quel momento qualcuno gridò il suo nome, e Safav si diresse verso il punto da cui era giunto il richiamo. Come tutti i Videssiani facevano di solito prima di consumare vino o carni, Alypia mormorò una breve preghiera a Phos e sputò sui giunchi che coprivano il pavimento, indicando così di rifiutare Skotos. Scaurus, invece, si limitò a bere e la principessa, pur non sembrando irritata dal suo comportamento, sorrise con una sfumatura di malinconia. «Sono così abituata a pensare a te come ad uno di noi che a volte resto scossa quando qualcosa mi fa ricordare che hai usanze diverse» osservò. «Ogni tanto capita anche a me» replicò Marcus, ma qualche residuo della sua pronuncia latina diede alle parole videssiane un sapore risonante di cui esse erano prive in bocca ad Alypia, e come sempre trovò che il vino era troppo dolce per i suoi gusti. «Ma non dura mai a lungo.» Il vino poteva anche essere dolciastro, ma era forte, e contribuì a scaldarlo quanto i fuochi che gli ardevano alle spalle. Il suo sguardo scivolò su Alypia, seduta di fronte a lui: la principessa mascherava bene i propri pensieri... non per esigenze politiche, come suo zio, ma per un'innata pensosità. Ricordando la quieta attrazione che si era sviluppata in passato fra di loro, Marcus si chiese se anche lei la rammentasse o se l'avesse dimenticata. La fredda facciata di distacco non gli permise però di stabilirlo. Si domandò poi se la ragazza poteva essere definita bella. Certo, il suo corpo mancava delle curve abbondanti che caratterizzavano quello di Helvis... accigliandosi, troncò sul nascere quella linea di pensiero. Il volto di Alypia non era lungo quanto quello di Thorisin o di suo padre, non aveva lineamenti altrettanto incisivi, e lei non faceva nulla per colorire le guance pallide o per sottolineare gli splendidi occhi verdi, ma era impossibile non notare lo spirito e la mente arguta che si celavano dietro di essi. Che fosse bella in modo convenzionale oppure no, Alypia era comunque se stessa, il che era una cosa molto più difficile da ottenere. Un cameriere... non il loro, ma un uomo più anziano... emerse dalla cucina, poco lontano da Marcus, strappandolo alle sue riflessioni. «Chiedo scusa, signore» disse l'uomo, e sollevò maggiormente un quadrato vassoio di bronzo per essere certo di non urtare il tribuno; agile come una lucertola, sgusciò poi fra i tavoli diretto verso tre coppie in costume
makurano, e depose davanti a loro il vassoio smaltato, servendo alcuni mestoli di zuppa da un recipiente coperto. Infine, con un gesto elaborato, tolse il coperchio a una padella, ne pescò il contenuto con un cucchiaio di legno e lasciò cadere nella zuppa degli strani chicchi fumanti, di un colore marrone chiaro. La zuppa emise un suono sibilante, come se in essa fosse stato immerso un metallo rovente, e Scaurus sussultò, accorgendosi che anche Alypia e parecchi altri clienti dall'aspetto videssiano avevano avuto la sua stessa reazione. Quelli a cui era stata servita la zuppa, però, stavano mangiando con gusto... un mistero su cui bisognava indagare. «Safav!» Il cameriere consegnò a un cliente un piatto di gamberetti arrosto e si affrettò ad accorrere al richiamo del tribuno. «Qual è il segreto di quella zuppa?» gli chiese Marcus. «Pece bollente, forse?» «Prego?» Safav parve confuso, ma poi la sua espressione si rasserenò. «Oh, la zuppa di riso sfrigolante? Vorresti assaggiarla?» Marcus esitò ma, vedendo che Alypia annuiva, si decise ad assentire. «Perché no?» rispose, mostrandosi meno sospettoso di quanto fosse in realtà. Il riso, praticamente ignoto ai Romani, non era un alimento comune neppure a Videssos. Nonostante lo sfrigolio, il tribuno si aspettava quindi qualcosa di simile alla farinata di orzo... il che non era il suo ideale di pranzo festivo. Quando riapparve, però, il cameriere depose davanti a lui e ad Alypia due ciotole colme di un delicato brodo scuro in cui abbondavano piselli, funghi e grossi pezzi di gambero e di aragosta. «Nel Makuran, avremmo usato carne di agnello o di capra, ma i crostacei funzionano lo stesso» spiegò. Scaurus, che attendeva lo sfrigolio, però non lo ascoltò quasi. Con lo stesso gesto elaborato usato dall'altro cameriere, Safav tolse il coperchio ad una grossa padella di ferro posata sul suo vassoio e versò in ciascuna ciotola una cucchiaiata di chicchi roventi che crepitarono sonoramente per alcuni secondi, prima di sprofondare. «Mi ricorda una flotta di navi bruciate che affondano» borbottò il tribuno, ancora dubbioso, urtando con il cucchiaio un chicco di riso. «Come si prepara?» volle sapere Alypia. «Si fa bollire il riso e dopo lo si frigge in olio molto caldo finché comincia a bruciare, il che spiega perché l'ho servito nella padella» rispose Sa-
fav, tornando ad abbassare il coperchio. Poi si accostò un dito al naso ed aggiunse: «Tu non lo hai mai appreso da me, mia signora, perché non voglio che mio cugino, il cuoco, mi insegua con un grosso coltello. Alla maggior parte della gente non lo avrei neppure detto, perché di solito parla tanto per parlare, ma ho visto che tu desideravi realmente saperlo.» Qualcuno strillò il nome del cameriere, che se ne andò dopo un timido cenno di saluto con la testa. Il tribuno provò ad assaggiare la zuppa, scoprendo che era eccellente e che il riso croccante era saporito al punto da ricordare le noci. «E chi lo immaginava?» commentò, vuotando la ciotola. Seguirono tonno con origano e basilico, altro vino, insalata con aglio e menta, calamari cotti a fuoco lento con lenticchie e uva sultanina, ancora vino, stufato d'agnello con sedano, porri e datteri... anche quello un piatto makurano... di nuovo vino, melopopone e fagioli fritti in olio d'oliva, altro vino, mele cotogne e cinnamomo, vino per finire. Durante tutto il pasto, Alypia pilotò la conversazione senza darlo a vedere, orientandola con abilità in modo da distrarre Marcus senza però pretendere nulla da lui. Nonostante tutto il suo tatto e la sua abilità, tuttavia, quello era un gioco che non poteva continuare all'infinito, e a mano a mano che il vino gli saliva alla testa, Marcus prese a rispondere in modo sempre più conciso. «Allora, sei riuscito a fare quello che ti proponevi?» chiese infine Alypia, in tono leggermente scherzoso. Il tribuno, però, non era ubriaco quanto lei credeva; piuttosto, il vino gli aveva schiarito la mente, privandola di ogni velo di finzione, permettendogli di ricordare fin troppo bene quella sera in cui, alla presenza della principessa, aveva parlato come un automa, mettendo a nudo sotto l'influenza della droga di Nepos la parte più intima e nascosta del proprio io. Il suo coltello trapassò un pezzo di carne d'agnello con inutile violenza. Percependo quel cambiamento d'umore Alypia, che aveva bevuto assai meno di lui, posò il bicchiere e cambiò tattica, passando dalla diplomazia alla schiettezza. «Cosa c'è che non va?» chiese, diretta. «Che ci fai tu qui con me?» esclamò Marcus, e subito s'interruppe, sgomento, rimanendo a bocca aperta come uno stupido. «Potrei chiederti la stessa cosa» ritorse Alypia, con un certo calore, anche se le sue parole successive dimostrarono che ad irritarla non era stato l'eccessivo candore del tribuno. «Quando hai evitato il mio servo... oh, sì,
lui ti ha visto... ho pensato che ce l'avessi con me, com'era tuo diritto, e invece ecco che te ne stai lì seduto in tutta tranquillità. Ti dispiacerebbe spiegarti?» «Avercela con te? No, mai. Ho nei tuoi confronti un debito che spero di poter un giorno ripagare, perché sei stata tu a trovare il modo per indurre tuo zio a persuadersi della mia fedeltà. Ma...» Il tribuno lasciò la frase in sospeso, ed Alypia si limitò ad attendere in silenzio, finché lui fu costretto ad aggiungere: «Come avrei potuto permettermi di avere a che fare con te, quando rovino tutto ciò di cui m'interesso?» L'occhiata rovente che la principessa gli indirizzò dimostrò che in fin dei conti il sangue caldo dei Gavras scorreva anche nelle sue vene. «Non pensavo che avresti sminuito te stesso. Chi ha salvato quel testardo di mio zio dai sicari di Onomagoulos? Chi lo ha messo in guardia contro Drax, anche se lui non ha voluto prestare orecchio agli avvertimenti? E, alla fine, chi ha sconfitto Drax? A meno che io mi sbagli di grosso, si è sempre trattato di te.» «E chi ha permesso che i prigionieri scappassero perché era, perché era...» Marcus dovette bere un lungo sorso di vino prima di riuscire a tirare fuori il resto della frase, «...perché era troppo cieco per vedere che la sua donna si stava servendo di lui come un carrettiere si serve di un mulo? Anche in questo caso si è trattato di me.» «È impossibile negare che la tua Helvis si sia trovata di fronte ad un'ardua decisione, ma avevo di lei una migliore opinione.» Alypia mantenne pacato il tono di voce, ma le narici le si dilatarono per l'indignazione mentre proferiva il nome di Helvis. «Fare ciò che ha fatto, servirsi del tuo amore come di un'arma contro di te...» La principessa ebbe un gesto di ripugnanza. «Vorrei non averlo mai saputo, e non mi meraviglio che tu mi biasimi per aver incitato Thorisin a ricorrere alla pozione di Nepos.» «Biasimare te?» Di nuovo, Scaurus si trovò a ripetere le parole di lei. «Ti ho appena detto che non ti biasimo per nulla: tu hai fatto quello che potevi per aiutarmi... e in effetti mi hai aiutato. Come si può trovare motivo di biasimo in questo? Tuttavia» aggiunse, esitando per raccogliere i propri pensieri, «dopo essermi messo a nudo di fronte a te, mi riesce difficile guardarti, sapere cosa dire e come comportarmi.» Le dita di lei sfiorarono con gentilezza le sue ed Alypia chinò lentamente il capo, abbassando lo sguardo sulla superficie del tavolo. «Marcus, anche tu mi hai vista nuda» gli ricordò, con voce che era poco più di un sussurro.
Al tribuno tornò in mente l'immagine di Alypia, calma nonostante la minaccia del coltello che Vardanes Sphrantzes le puntava alla gola, con il corpo snello quasi completamente rivelato dalle sete semitrasparenti che costituivano il solo indumento che Vardanes le avesse permesso di portare, dopo averla sottratta ad Ortaias per usarla come proprio personale oggetto di piacere, e la sua mano si serrò intorno a quella della principessa. «Non è stata colpa tua» disse. «È stato un crimine di Vardanes.» «Drax e i suoi compagni sono forse scappati perché tu lo volevi?» ribatté Alypia, tornando a fissarlo. «Conosciamo entrambi la risposta.» I suoi occhi assunsero un'espressione remota, perché anche in lei stavano affiorando i ricordi. «È strano» rifletté, «che debba essere grata ad Avshar per avermi liberata, nella sua malvagità, dal mio tormentatore.» «Come sempre, Avshar è stato troppo parco nelle sue elargizioni» replicò Marcus. «Vardanes meritava una fine molto peggiore della facile morte concessagli.» Ancora assalita dai ricordi, Alypia rabbrividì, ma tentò di sorridere. «Lasciamo perdere. Mi dispiace di aver sollevato l'argomento» suggerì. La sua mano, però, rimase in quella di Marcus, che avvertì il callo prodotto sul medio dalla penna. Timoroso di parlare, si chiese se, come con Nevrat, stava vedendo soltanto quello che desiderava di vedere. Quando si accostò al tavolo, Safav sorrise, ma Scaurus non si accorse neppure del cameriere, mentre questi posava le mele speziate e si allontanava senza disturbare. Nonostante la tensione che lo aveva assalito, Marcus fu assalito dal ricordo, quasi tangibile, di Alypia fra le sue braccia, delle labbra di lei calde sulle sue... soltanto per pochi secondi, prima che la principessa si spaventasse e si ritraesse. Era accaduto soltanto la primavera precedente? «Sono successe tante cose, nel frattempo» mormorò Alypia, dando ancora una volta l'impressione di leggergli nella mente. Dopo un lungo momento di silenzio, trasse un profondo sospiro, come se fosse giunta ad una decisione, e aggiunse: «Non credi anche tu che sia stato un bene allora che la cosa non abbia avuto seguito? Non mi sentivo pronta per... per...» Questa volta fu lei ad arrestarsi a metà della frase, con imbarazzo, e Marcus annuì per indicare che aveva capito, ottenendo in cambio uno sguardo colmo di gratitudine. Dopo un momento, Alypia concluse: «E comunque tu avevi degli impegni che non potevi... non dovevi... accantonare.» «Non dovevo?» ripeté lui, in tono amaro. Per fortuna, Alypia non gli badò, perché più che parlare con lui stava di-
scutendo con se stessa. Con il volto improntato ad un'espressione risoluta che avrebbe destato l'invidia di un guerriero, continuò a capofitto, una frase dopo l'altra. «Adesso però i motivi che ti inducevano ad esitare sono scomparsi, vero? E quanto a me...» La voce le si spense ancora una volta, e infine chiese, in tono molto sommesso: «Marcus, vorresti vedermi nuda di nuovo?» «Con tutto il mio cuore» rispose lui, d'impeto, ma un momento più tardi si sentì in dovere di aggiungere: «Se tu ritieni di sentirtela.» «Non lo so, davvero» ammise Alypia, respingendo a fatica le lacrime. «Se però tu non fossi un uomo capace di dire cose del genere, sono certa che non potrei neppure tentare.» Nonostante la sua determinazione, la mano di lei tremò in quella di Marcus, che le rivolse un'occhiata interrogativa, a cui Alypia rispose con un cenno breve e intenso. Quasi prima che il tribuno potesse chiamarlo, Safav gli comparve accanto, chinandosi per sussurrargli all'orecchio: «Se la vuoi, al piano di sopra c'è una stanza libera.» «Che io sia dannato» imprecò il Romano, frugando nella sacca che aveva alla cintura e mettendo alcune monete nella mano di Safav «Stanotte la mia testa deve essere trasparente come il vetro.» «Mio signore» balbettò il cameriere, sussultando, «mi hai dato davvero troppo...» «Tieni tutto» lo interruppe Marcus: in quel momento e in quel luogo, una moneta d'oro in più o in meno sembrava ben poca cosa. Safav s'inchinò fin quasi a toccare terra. «Secondo piano, a destra delle scale» spiegò. «Dentro c'è una lampada accesa, il braciere è pieno di carbone, nei materassi c'è paglia fresca e le lenzuola sono pulite... in previsione della giornata di oggi, avevamo già preparato tutto.» «Bene.» Marcus si alzò insieme ad Alypia, che aggirò il tavolo per accostarglisi; il fatto che il suo braccio calzasse alla perfezione intorno alle spalle di lei parve al tribuno la cosa più naturale del mondo. Safav s'inchinò ancora, soltanto per raddrizzarsi di scatto quando qualcuno gridò il suo nome, affrettandosi poi ad allontanarsi con una comica scrollata di spalle. Uno degli uomini in costume makurano indirizzò un commento da ubriaco a Scaurus ed Alypia, mentre salivano le scale; sentendo sussultare la ragazza, il tribuno trafisse l'ubriaco con un'occhiata rovente, di cui l'altro non si accorse neppure, ma Alypia sollevò il mento in un piccolo gesto di
sfida e riuscì ad esibire un lieve sorriso. Marcus alzò il pollice in un cenno di approvazione che la principessa, conoscendo le usanze romane, comprese con tanta prontezza da destare in lui il desiderio di abbracciarla dove si trovavano. Intuendo però che una cosa del genere sarebbe servita soltanto a turbare maggiormente Alypia, Marcus si trattenne. La camera era piccola, ma non troppo. Alla luce della lampada promessa, sistemata su uno sgabello accanto al letto, Marcus sprangò la porta, procedendo poi subito ad accendere il braciere, perché anche se la finestra aveva le imposte serrate come difesa contro il freddo esterno, gelide correnti d'aria riuscivano comunque ad insinuarsi fra le fessure. Mentre lui si dava da fare per rendere confortevole l'ambiente, Alypia rimase ferma, immobile, nel centro della stanza, e quando infine Marcus mosse un passo verso di lei sussultò con tale trepidazione da indurlo ad arrestarsi immediatamente. «A meno che sia tu a volerlo, non succederà nulla» promise e, con praticità tipicamente romana, suggerì: «Riscaldati le mani: qui dentro fa un freddo terribile.» Mentre parlava, si spostò di lato per farle posto davanti al braciere, e Alypia interpretò alla lettera il suo consiglio, chinandosi su di esso. «Spegni la lampada» disse dopo un po', senza girarsi, e Marcus obbedì. La fiamma s'intensificò per un istante, poi svanì, e il tenue chiarore dei carboni contenuti nel braciere tinse di una sfumatura rossastra le pareti imbiancate. Scaurus attese, e infine Alypia gli si accostò con lentezza, quasi con sfida, come se il suo corpo fosse stato un cavallo riottoso che stava controllando a forza; Marcus le posò le mani sulle spalle e lei non si ritrasse, sollevando invece il volto verso il suo. Fu uno strano bacio, perché anche se le labbra di Alypia risposero ad esso, il suo corpo rimase tanto rigido che Marcus non osò abbracciarla. Alypia si ritrasse, scrutandolo in volto nell'oscurità quasi totale. «Come può un soldato essere un uomo così gentile?» chiese. Scaurus non si riteneva tale, ma aveva imparato da tempo che Alypia considerava importante quel genere di domande. «Sai che quello del soldato non era il mestiere a cui aspiravo in origine» rispose quindi, scrollando le spalle. «E poi» aggiunse in tono sommesso, «non sono in guerra con te.» «No, mai» mormorò lei, scivolando con maggiore prontezza fra le sue braccia quando Marcus la trasse a sé, accarezzandole il collo e spingendole
indietro i capelli per baciarle un orecchio. Alypia rabbrividì, più per paura, pensò Marcus, che per passione, e indietreggiò di un paio di passi, lanciando un'occhiata al letto adiacente al muro. «Per favore, va' tu per primo» disse a Scaurus, voltandogli di nuovo le spalle. «Sarò da te fra un momento.» Come Safav aveva promesso, la paglia all'interno della fodera di mussola del materasso era fresca e profumata, le lenzuola di flanella erano spesse e calde. Marcus si sdraiò con la faccia rivolta verso il muro, su cui qualcuno aveva scribacchiato con il carbone un paio di parole che erano però troppo sbiadite per poter essere lette alla luce tenue del braciere. «E sei anche paziente» commentò Alypia, alle sue spalle, con un tono che ricordava la sua consueta, distaccata ironia. Seguì una pausa di silenzio, infranta da un piccolo sbuffo irritato quando uno dei bottoni d'osso dell'abito rifiutò di obbedire alle sue dita. Il tribuno sentì il soffice fruscio del tessuto che scivolava sulla pelle, poi il materasso subì una scossa, accanto a lui, quando Alypia vi si adagiò. «Spero che non resterai troppo deluso» sussurrò la principessa, mentre le loro labbra s'incontravano. Qualche tempo dopo, Marcus la fissò negli occhi che, a causa della penombra, erano indecifrabili quanto le parole scritte sul muro. «Deluso?» chiese, ancora stordito dal piacere. «Devi essere matta. Con sua sorpresa, Alypia si contorse con rabbia fra le sue braccia.» «So che sei gentile, caro Marcus, ma non c'è bisogno che tu finga con me. So fino a che punto sono goffa.» «Per gli dèi!» esclamò lui, esprimendosi in latino per la sorpresa. Tornando a parlare in videssiano, protestò poi: «Se quella era goffaggine, credo che non sopravviverei ad una dimostrazione di effettivo talento.» E prese la mano di Alypia, posandosela sul petto, dove il cuore batteva ancora a precipizio. Lo sguardo di lei si perse nel vuoto, oltre la sua spalla, e la sua voce suonò assolutamente incolore. «Lui sosteneva che per me non c'era speranza in questo genere di cose, ma che comunque avrebbe cercato di addestrarmi.» Non pronunciò il nome della persona a cui si riferiva, forse non riuscì a farlo, ma Scaurus comprese lo stesso, e i pugni gli si serrarono d'istinto. Alypia parve però non accorgersene, sembrò quasi che per lei Marcus avesse cessato di essere presente. «Ho lottato, oh, quanto ho lottato contro di lui, finché un giorno mi ha lasciato capire che questo lo divertiva. Dopo di allora» continuò, in tono
spento, «mi ha addestrata... sì, come se fossi stata un cane o un cavallo. Piccole concessioni quando imparavo qualcosa abbastanza bene da soddisfarlo. Quando fallivo...» Alypia rabbrividì e tacque. «È tutto passato» la confortò Scaurus, ma sentì quanto fossero vuote quelle parole e imprecò in ogni lingua che conosceva, senza però che neppure questo servisse a qualcosa. «Ogni volta che finiva con me» riprese Alypia, dopo un po', «arricciava le labbra come se qualcuno gli avesse offerto un piatto di pesce andato a male, e con il tempo è giunto a disprezzarmi come compagna di letto, tanto che una volta ho osato chiedergli perché continuasse a tornare, se non lo soddisfacevo.» Marcus attese, impotente, mentre lei indugiava, sopraffatta dal dolore del ricordo. «Quella è stata l'unica volta che l'ho visto sorridere, in tutti i mesi che mi ha tenuta in suo potere. Ha sorriso ed ha risposto: "Perché posso".» Desiderando di non aver consumato prima tutte le sue imprecazioni, il tribuno la prese fra le braccia e la strinse a sé. «Ascoltami» mormorò. «Vardanes, che Skotos lo prenda, godeva delle tue sofferenze.» «Proprio così» convenne Alypia, con la faccia nascosta nel collo di Marcus. «Era un conoscitore in tutti i campi, compreso quello dei tormenti.» «E allora perché hai creduto a quello che ha detto di te come donna? È stata soltanto un'altra menzogna, studiata per affliggerti ulteriormente.» Scaurus lasciò scorrere le dita lungo la schiena di lei in una lunga, lenta carezza e le sfiorò le labbra con un tenero bacio. «Perché era una menzogna, sai.» «Ti ho soddisfatto?» sussurrò Alypia, ancora dubbiosa. «Davvero?» «Se la neve è "fresca" e l'oceano è "umido", allora sì, mi hai soddisfatto.» Alypia emise una strana risata singhiozzante e scoppiò in lacrime, aggrappandosi a lui e piangendo a lungo contro la sua spalla, mentre Marcus si limitava a tenerla stretta e ad aspettare che si fosse sfogata, come lui si era sfogato con Senpat e Nevrat. Quando alla fine Alypia si quietò e giacque tranquilla fra le sue braccia, Marcus le sollevò il viso verso il proprio, con l'intenzione di baciarla con dolcezza, per esprimere comprensione e affetto più che passione, ma lei reagì con un'intensità che rasentava la disperazione. Un proverbio sentito da qualche parte, forse da un Namdaleno, affiorò fugacemente nella mente di Scaurus: "Gli occhi colmi di lacrime rendono dolci le labbra". Poi ogni
pensiero si dissolse perché Alypia si strinse nuovamente a lui, spinta da un impeto diverso dal pianto di poco prima. Entrambi sussultarono quando la passione si riaccese, e ogni delicatezza fu dimenticata. Le loro labbra s'incontrarono con violenza, mentre le unghie di lei affondavano nella schiena di Marcus, poi Alypia interruppe il bacio per un momento per sussurrargli all'orecchio, quasi in un singhiozzo: «Che meraviglia, desiderare davvero!» Il suo grido di deliziato stupore fu seguito un momento dopo da quello di Marcus. Passò qualche tempo prima che uno dei due tentasse di muoversi. «Temo che tu mi stia schiacciando» osservò infine Alypia. «Scusami.» Marcus spostò il proprio peso, e la sua pelle madida di sudore scivolò lungo quella di lei. Entrambi scoppiarono a ridere. «Chi avrebbe mai pensato che si potesse sudare in questa stanza gelida quanto un chicco di grandine?» «Chi avrebbe pensato...» Alypia lasciò a mezzo la frase, limitandosi a posare la mano sul fianco di Marcus. «Cosa, amore?» «Nulla» rispose lei, con un sorriso, ma l'affermazione era così evidentemente falsa che rimase sospesa nell'aria fra loro, e Alypia si affrettò a correggersi. «O piuttosto, nulla che io sappia come esprimere.» Scaurus accennò a grattarsi la testa con aria pensosa, e questo gli fruttò una smorfia e un rimprovero. «Stupido.» Ben presto, però, Marcus si accorse che per Alypia si trattava di una questione seria. «L'unico modo in cui conoscevo ciò che può esserci fra un uomo e una donna, era sotto forma di divertimento crudele, ma tu, Marcus, mi hai fatto conoscere molto di più. Quando tu e...» Alypia s'interruppe, con un gesto di autoderisione. «I romanzi sostengono che non si dovrebbero mai effettuare paragoni.» I romanzi, rifletté Marcus, sapevano quello che dicevano. Si rese conto di non aver quasi più pensato ad Helvis da quando aveva lasciato l'Anfiteatro, anche se adesso non poteva più evitare di farlo. Alypia si agitò, e lui comprese che il suo silenzio la stava spaventando. «L'unico paragone che conta» rispose, lentamente, «è che tu sei qui e ci vuoi restare, mentre lei... suppongo che ora sia a Namdalen.» «Grazie» sussurrò, in maniera quasi inintelligibile Alypia, stringendoglisi contro.
Una volta aperta la porta ai ricordi, però, Marcus si trovò a ripensare al figliastro a cui aveva finito per affezionarsi, a suo figlio, al bambino che Helvis stava aspettando... oppure ormai era già nato? Probabilmente sì... e al modo in cui tutto questo gli era stato tolto. «C'è ancora una cosa, dopo tutto» aggiunse, in tono aspro. «Tu non ti serviresti mai del tuo corpo come di un'arma contro di me.» La mano di Alypia gli serrò il braccio con forza sufficiente a fargli male, poi lei si costrinse a rilassare la stretta. «No» rispose. «Questo mai.» Si sollevò a sedere. Anche se la tenue luce rossastra del braciere addolciva i suoi lineamenti ed attenuava la somiglianza con suo padre, i suoi modi diretti erano gli stessi di Mavrikios Gavras. «Cosa faremo, in futuro?» chiese a Marcus. «Se preferisci che tutto questo rimanga la storia di una notte, da dimenticare alla luce del giorno, io lo capirò, perché di certo sarebbe la cosa meno pericolosa.» Il tribuno scosse il capo con violenza, spaventato quasi quanto Alypia lo era stata poco prima, perché aveva visto la propria vita sradicata, si era visto portare via tutto ciò su cui faceva affidamento, e la prospettiva di abbandonare questa ritrovata felicità lo riempiva di un terrore più profondo di quello ormai familiare del campo di battaglia. Lui e Alypia avevano cominciato a interessarsi uno dell'altra non molto tempo dopo che Marcus era giunto a Videssos, e questa non era stata la seduzione di una notte, da godere e da dimenticare. Non appena comprese dove intendesse andare a parare, Alypia interruppe con un cenno la sua confusa spiegazione e si chinò a baciarlo. «Neppure io mi vorrei imporre a te, ma mi avrebbe addolorata veder troncare ora ciò che avremmo potuto avere.» Di colpo, tornò ad essere pratica. «Non sarà una cosa facile, però. Sai che sono bloccata dalle esigenze del cerimoniale e circondata di servitori, quindi per me le occasioni di sgusciare via si presenteranno di rado, e tu non dovrai correre rischi. Se dovessero scoprirci, mio zio non ti verrebbe a cercare con una frusta, ma con un'ascia da carnefice.» «E non lo si potrebbe biasimare, dal suo punto di vista» ammise Scaurus, serio. Un capitano mercenario... soprattutto uno con un passato allarmante quanto il suo... diventare l'amante della nipote dell'imperatore? Thorisin non si sarebbe potuto permettere di ignorare una cosa del genere, non in uno stato come Videssos, dove l'intrigo era l'unico rivale della teologia come principale passione nazionale.
Il tribuno ripensò ai ferri roventi del boia di Garsavra, e rifletté che dopo un po' avrebbe potuto finire per implorare che si passasse all'ascia. Quel pensiero, però, durò soltanto un momento, poi lui scoppiò a ridere, accarezzando la spalla liscia di Alypia. «Cosa c'è, mio stupefacente, desiderabile amore?» chiese lei, un po' imbarazzata per quei termini affettuosi ma al tempo stesso orgogliosa di averli proferiti. «Stavo soltanto ricordando che un anno fa, più o meno proprio a quest'epoca, stavo strigliando Viridovix, rimproverandolo per aver instaurato una relazione con Komitta Rhangavve, mentre adesso sono qui a giocare al suo stesso gioco.» «Viridovix?» Alypia si accigliò, momentaneamente perplessa. «Oh, sì, quel grosso uomo selvaggio con i capelli color rame che hai ai tuoi ordini... si definisce un "Kelta", vero?» Ancora una volta, Marcus rimase impressionato per il modo in cui lei ricordava ogni dettaglio, una qualità indubbiamente sviluppata dalle sue ricerche storiche, e si chiese cosa avrebbe detto il Gallo se l'avesse sentita affermare che lui era agli ordini dei Romani. Ebbe la certezza che qualsiasi cosa Viridovix avesse detto, sarebbe stata memorabile. «Allora è per questo» ridacchiò Alypia, effettuando il collegamento fra le due cose, «che il tuo amico è partito per le pianure insieme a Goudeles e all'Arshaum... Arigh» concluse, trovando anche quel nome. «Sì. Lui e Komitta hanno litigato, e lei è andata da Thorisin, strillando di essere stata violentata. Viridovix ha preferito non restare per aspettare di verificare se l'imperatore le avrebbe creduto.» Le narici di Alypia si dilatarono in un inconfondibile sbuffo di disprezzo. «Komitta litigherà anche con Phos, quando verrà a prendere la sua anima per portarla in paradiso. E comunque, il tuo amico non è stato certo il primo... né l'ultimo... a godere dei suoi favori. Credo che alla fine mio zio sia stato felice che lei sia diventata così esplicita nelle sue tresche da dargli la scusa che gli serviva per mandarla via.» Alypia ridacchiò ancora. «Davvero, penso che in caso contrario non ne avrebbe mai avuto il coraggio.» Avendo in qualche occasione assistito alle sfuriate di Komitta, Marcus non ebbe difficoltà a crederle. «Cosa le è successo, dopo che è stata sorpresa con l'Haloga?» chiese, ricordando la prima scenetta a cui aveva assistito nell'Anfiteatro. «Thorisin l'ha spedita in un convento fuori città... ed ha anche dovuto
pagare una bella sommetta perché la reverenda madre accettasse di accoglierla, perché la sua reputazione l'aveva già preceduta. Quanto al nordico... si chiamava Valthjos, ma com'è usanza degli Halogai era soprannominato Pane Imburrato... è dovuto tornare in patria. Per salvare le apparenze, si è data l'impressione che fosse caduto in disgrazia, ma quando è partito si è portato via un'ascia rivestita in oro e un fodero tempestato di gemme che, lo so per certo, non erano in suo possesso quando è arrivato a Videssos.» Quel genere di giustizia si attagliava al carattere di Thorisin, e spiegava anche meglio le battute degli scribacchini, ma Marcus ebbe la cupa certezza che se fosse stato scoperto con Alypia, non se la sarebbe cavata altrettanto bene, perché lei non era un'amante di cui l'imperatore si fosse stancato: finché Thorisin non avesse avuto un erede, Alypia era l'unico mezzo tramite il quale la famiglia Gavras si sarebbe garantita una discendenza. «Dobbiamo badare che tu non venga scoperto» affermò Alypia, che aveva seguito una linea di pensiero uguale alla sua, poi si alzò dal letto e si accostò al suo vestito, che giaceva noncurantemente arruffato per terra, rabbrividendo perché le correnti gelide stavano avendo la meglio sul braciere; mentre si vestiva, Marcus ammirò i suoi movimenti misurati, poi allontanò le coltri ed accennò a recuperare i propri abiti. «Aspetta» lo fermò Alypia. «È meglio che torni indietro da sola. Pensaci» insistette, quando lui si accigliò. «Mi basterà affermare di essermi addormentata sulle pergamene che stavo consultando, e tutti mi crederanno ed avranno compassione di me. Se invece tornassi insieme a te, indipendentemente dall'ora e dal nostro atteggiamento innocente, questo desterebbe i sospetti di tutti.» «Hai ragione» ammise Marcus, sollevando le mani in un gesto di sconfitta. «Come sempre.» «Non sono certa che questo mi piaccia» ribatté Alypia, passandosi in fretta il pettine fra i capelli. «Comunque, rimanere qui non ti costerà troppo sacrificio. Il letto è comodo.» «Senza di te, non lo è neppure la metà di prima.» «Sei un cortigiano nato» lo rimproverò lei, ma nei suoi occhi c'era uno sguardo colmo di calore, poi le sue labbra s'incresparono in un sorriso. «Cosa direbbe il tuo amico Viridovix, se sapesse che hai una relazione con la figlia di un imperatore?» «Lui? Si congratulerebbe con me.» «Buon per lui, allora.» Alypia abbracciò il tribuno, dandogli un bacio
rapido e intenso. «Dormi bene e pensa a me.» Si avviarono insieme alla porta. Marcus tolse la sbarra ed Alypia indugiò ancora un momento, con la mano sulla maniglia. «Questo è soltanto un inizio, te lo prometto.» «Lo so.» Marcus aprì la bocca come per aggiungere qualcosa, poi la richiuse e scosse il capo. «Non mi sembra che ci sia altro da dire.» Alypia annuì e sgusciò fuori, mentre lui richiudeva il battente alle sue spalle. FINE