La mente medica Che significa “umanizzazione” della medicina?
Antonio Imbasciati
La mente medica Che significa “umanizzazione” della medicina?
Con la collaborazione di Francesca Dabrassi
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Antonio Imbasciati Ordinario di Psicologia Clinica Facoltà di Medicina Università di Brescia www.imbasciati.it
ISBN 978-88-470-0791-8 e-ISBN 978-88-470-0792-5
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Presentazione
Molto si è scritto sulla relazione medico–paziente, sulla figura carismatica del medico e sul potenziale curativo di un rapporto umano e accogliente verso i pazienti. Ma la medicina si è evoluta: tecnicizzata e parcellizzata, nelle ognora moltiplicantesi specializzazioni. Il paziente viene così anch’egli parcellizzato: diventa “oggetto”, non più soggetto, un insieme di meccanismi sui quali intervenire con protocolli definiti. La persona facilmente diventa un numero. Per contro il medico, oberato dalla necessità di acquisire progressive conoscenze tecnologiche, non ha più spazio mentale per il rapporto col paziente. Forse per questo si è sentito il bisogno, proprio in seno alla medicina, di tornare a sottolineare il valore delle relazioni umane quale fattore di promozione della salute: e anche quale medium psicosomatico corroborante i processi di guarigione. Si è parlato della necessità di riumanizzare la medicina. Ha risuonato ex novo il vecchio detto medicus ipse farmacum. In questa enfasi sul valore della relazione, di un prendersi cura in contrapposizione a un transitivo curare (caring not curing), la cultura medica ha guardato e guarda i contributi della psicologia: ci si attende il contributo della Psicologia Clinica, nel frattempo sviluppatasi altrove. La cultura medica infatti, nella sua progressiva tecnicizzazione, è cresciuta isolata, per molti decenni, rispetto al contemporaneo sviluppo delle varie scienze psicologiche: queste si sono sviluppate altrove e la stessa Psicologia Clinica non è nata nelle facoltà di Medicina. Così, oggi, l’ambiente sanitario invoca una psicologia clinica, ma è permeato da una mentalità aliena dal comprenderla: una mentalità la cui struttura profonda, affettivo-emotiva e collettiva, è del tutto all’opposto di quella recettività indispensabile per elaborare una cultura psicologica applicabile con successo alle strutture sanitarie attuali. Si sono così messe in atto false aspettative, e molti equivoci, con ripercussioni sull’organizzazione dei servizi. Persino il concetto di cosa si intenda con l’aggettivo “clinico” ha assunto significati diversi in medicina rispetto all’originario suo senso, che è rimasto invece in psicologia. D’altra parte riumanizzare la medicina tornando al passato è impresa ingenua e assurda. In passato infatti bastava una generica sensibilità psicologica unita all’impegno, allo spazio e al tempo per applicarla, ma oggi tutta una serie di discipline – non solo psicologiche, ma anche sociologiche, antropologiche e pedagogiche – hanno studiato,
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sviluppato e articolato quello che cent’anni fa poteva semplicemente essere denominato “rapporto umano”. Tutta una nuova cultura è oggi pronta per affrontare in modo scientifico la questione detta “umanizzazione della medicina”. Questa nuova cultura è però cresciuta al di fuori della facoltà medica: non le è mai appartenuta e tuttora non le appartiene. Occorre allora che vi sia immessa con un massiccio apporto di studiosi e docenti presi da altre facoltà. Altrimenti il termine “umanizzazione” rimarrà ridotto a un vago senso comune. Il legislatore ha contemplato ciò riformulando nel 1986 il curriculum medico, e in seguito istituendo quei diplomi universitari che poi si sono trasformati in lauree sanitarie. Ma le disposizioni decise sulla carta non hanno ancor oggi trovato effettiva ed efficace applicazione: la resistenza al cambiamento è enorme ovunque, tanto più in Medicina, ove l’immissione di saperi estranei, perché nati e cresciuti fuori, è suonata del tutto secondaria, o forse al profondo perturbante e invasiva rispetto alle consuetudini degli ultimi cent’anni. L’ingravescente penuria di risorse che da un decennio affligge l’università, e con questa la ricerca, da molti vista come l’origine di tanti degli escamotage politici che hanno causato quanto oggi si viene chiamando la “liceizzazione dell’università”, ha impedito l’istituzione di nuovi ruoli, colludendo pertanto con un potente alibi alla resistenza degli ambienti medici ad assorbire e applicare la nuova cultura. La resistenza si è trasformata in un’inevitabile riduzionistica mistificazione nell’applicazione di questa nuova cultura e delle norme che avrebbero dovuto imporla. Nella generale crisi universitaria (dequalificazione di tutto il sistema dell’istruzione?), se in Medicina è stato erogato l’apporto delle tradizionali scienze, oggi enormemente sviluppate, sia pur con inevitabili limiti, quello delle scienze psicologiche, o comunque di docenti di altre culture è stato quanto mai deficitario, per l’impossibilità economica di istituire nuove cattedre e nuovi istituti. Confusioni ed equivoci si sono succeduti e tuttora accadono per coprire alla meno peggio i “buchi”. A fronte della progressiva tecnicizzazione della medicina, il legislatore, e le menti illuminate della stessa medicina che ne furono alle spalle, ben aveva pensato ad altre professioni collaterali. L’ambiente sanitario ha visto così svilupparsi una numerosa schiera di altri operatori, che dovrebbero avere ruoli, mansioni, formazioni molto diverse da quelle dei medici, e per i quali, sulla carta, si è prescritta una corposa formazione psicologica. Si hanno oggi (a parte la tradizionale laurea in medicina e poi quella in odontoiatria) altre ventidue lauree, originariamente triennali ma ora quasi tutte in via di diventare quinquennali, tra di loro diverse e tutte nell’area sanitaria: professioni diverse da quella medica, dunque, studiate non solo per una migliore “sanità”, ma anche per promuovere la “salute”; laddove salute e sanità sottendono concezioni diverse. Ma è accaduto che la costruzione della formazione che doveva essere specifica di altri operatori, diversi da quelli più propriamente medici, e differenziata, anche, a seconda di quanto progettato per ogni singolo professionista, sia avvenuta totalmente all’interno delle facoltà di Medicina, tuttora permeate da una cultura tecnicistica aliena da una recettività a differenti approcci di altre scienze. È accaduto che le scienze psicologiche, e in misura minore quelle sociologi-
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che e pedagogiche, prescritte sulla carta, siano state istituite, oltre che con estrema parsimonia e con docenti non di ruolo per le suddette difficoltà finanziarie, con modalità formative che comunque e inevitabilmente sono ricadute sotto il mantello della cultura medica: e di quella tecnicizzata e parcellizzata, non quella dell’antico medico a contatto con la persona malata. Così anche tutti questi altri professionisti stanno crescendo “medicalizzati”. Si parla di demedicalizzare i servizi assistenziali, ma l’impresa è di fatto difficile. Gli psicologi, in quanto professionisti ormai collaudati da trent’anni di una specifica laurea al di fuori delle facoltà mediche, sono al centro di tali difficoltà culturali, formative, organizzative; ma soprattutto dello scontro tra due opposte “mentalità”. Con questo intendiamo alcune modalità di funzionamento mentale di base, acquisite da una abitudine ormai transgenerazionale negli ambienti medici, che inducono (corroborate dalla misconoscenza delle scienze “altre”) a porre in atto azioni affatto diverse da tutte le pur sincere intenzioni. Per contro gli psicologi hanno acquisito, nelle loro facoltà, formae mentis idonee alla loro professione ma diverse, se non opposte a quelle “mediche”. Tra i vari equivoci, fraintendimenti e riduzionismi, già il fatto di parlare di umanizzazione, anziché di psicologia, è espressione di una riduzione al senso comune di saperi specificamente scientifici; forse perché questi sono di una scientificità diversa dall’ideale positivistico di scienza che impera tuttora nella cultura medica. Una certa attuale enfasi sulla “relazione” sembra basarsi sulle buone intenzioni e sul senso comune, e lascia in ombra il fatto che dovrebbe investire le strutture profonde, affettive (inconsce), della comunicazione interumana; quelle strutture che sono mediate da ben altri media rispetto alla comunicazione verbale, su cui invece ci si polarizza, e soggette a una elaborazione del collettivo, cioè a dinamismi collettivi, anch’essi inconsapevoli e travalicanti le individualità. Così il grande “mantello” della medicina, di una certa medicina, copre, anche se si desidera un cambiamento, gli scopi che sono stati intuiti come necessari, e istituiti per le altre professionalità della salute. Si mette in ombra inoltre che la “buona relazione”, o meglio il buon clima relazionale nei servizi per la salute, non è un semplice surplus perché gli utenti siano soddisfatti, ma ha alla base mediazioni dallo psichico al somatico, cioè investe le strutture psicosomatiche dell’individuo, che effettivamente hanno potere sugli automatismi biologici. La psicosomatica, se attinge ampiamente alla medicina, è però sostanzialmente disciplina psicologica, e come tale è elencata dal legislatore nel settore disciplinare della Psicologia Clinica. Umanizzazione della medicina è pertanto parola riduttiva, se non si specifica che essa deve essere una psicosomatica della salute e come tale essere condotta secondo i parametri scientifici delle scienze psicologiche. Pertanto le dovute attenzioni ai processi psicologici costituiscono “cure” altrettanto degne di tal nome di quanto possano essere tutte le altre tecniche biologiche e fisiche che giustamente si usano per guarire e soprattutto per prevenire mali e complicanze. D’altra parte gli effetti psicosomatici della relazione, mediati dalla qualità della comunicazione circolante (non verbale, soprattutto), se non sono terapeutici, possono essere, come lo sono tuttora, iatrogeni.
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L’avvenire disegnato sulla carta per tutti i nuovi operatori, allineandosi a ciò che già trova applicazione in altri paesi, prospetta un futuro dell’assistenza per uno sviluppo psicofisico completo della persona, e propone il concetto di Salute, quale definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, come meta diversa da quella finora definita dal concetto di sanità. Ma nella ingravescente crisi universitaria generale e nella penuria di risorse, e nelle analoghe ragioni che hanno provocato la crisi delle attuali istituzioni sanitarie, le prospettive delineate dal legislatore sembrano inapplicabili. Si sta così inevitabilmente perpetuando una cultura medica snaturata dalla tecnicizzazione, che impedisce di fatto la formazione dei nuovi operatori così come era stata concepita. Il presente testo intende chiarire misconoscimenti e riduzionismi, che paralizzano il pur aspirato mutamento della medicina e la sua differenziazione in professioni diverse, mediante un’analisi della cultura medicalizzante attuale e del suo scontro con altre emergenti culture: queste, su basi parimenti scientifiche, potrebbero collaborare con tutte le tecniche che il progresso biologico oggi offre; per guarire e anche – non lo si lasci alla fitness di discutibili palestre – per stare meglio. Gli antichi dissero mens sana in corpore sano: la psicosomatica ci dice corpus sanum ex mente sana. Il presente testo è pertanto rivolto ai futuri medici perché possano comprendere le professioni “altre”, a tutti gli altri operatori della salute perché possano vegliare sulla propria specifica e adeguata diversità e ai dirigenti dei Servizi perché si possano render conto che una effettiva psicosomatica della Salute deve incentrarsi sulla Psicologia Clinica.
Brescia-Milano, Ottobre 2007 ***** Originariamente questo libro avrebbe dovuto intitolarsi “La mente medica e le altre (sue?) professioni”, per significare, con le parentesi e il punto interrogativo, che la mentalità tradizionale del collettivo medico, forte della sua immagine idealizzata, si sta di fatto “impadronendo” di professioni “altre”, snaturandole. Queste nuove professioni, concepite dal legislatore come “altre”, seppur parallele a quella medica, si trovano a essere considerate come una variante minore della professione medica e conseguentemente incluse nella sua cultura, spesso subordinatamente, con una conseguente collocazione subalterna nei Servizi. Il titolo originario, enigmatico e intrigante, avrebbe potuto incuriosire il lettore, ma anche distoglierne l’attenzione per una non subitanea comprensione, dovuta alla inusitata sua formulazione. Per tale ragione si è ritenuto opportuno semplificarlo in copertina. Parallelamente il libro avrebbe dovuto avere come sottotitolo “Umanizzazione della medicina o Psicosomatica della Salute?”. Anche questo sottotitolo è stato tolto dalla copertina in quanto avrebbe potuto ingenerare equivoci. La contrapposizione interrogativa è basata sul fatto che la psicosoma-
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tica è disciplina ufficialmente rubricata nelle scienze psicologiche, mentre l’umanizzazione della medicina è un modo generico e popolare, tuttavia riduttivo quanto a scientificità, per indicare che occorre attutire le aridità tecnologiche della medicina odierna. Questa distinzione è però di fatto tutt’altro che acquisita nella cultura comune, cosicché la sua contrapposizione, messa in copertina, avrebbe generato, nel lettore medio, un equivoco rinforzando l’errata idea popolare che la Psicosomatica appartenga alla medicina, quasi fosse materia biologica, cui occorre contrapporre una umanizzazione. Sullo sfondo si può intravedere lo stereotipo che definisce scientifica la medicina, ma non la psicologia. In realtà, il termine umanizzazione contiene e nasconde genericità, stereotipi, e una malintesa concezione che per aiutare il malato siano sufficienti sensibilità e buona volontà. Ben vengano queste, ma non bastano: soltanto una effettiva Psicosomatica, disciplina scientifica come tale sviluppata nell’ambito della psicologia, deve essere affiancata alle scienze medicobiologiche perché il malato sia curato con efficacia. Questo è il senso per cui il sottotitolo originario avrebbe dovuto significare che alla vaga “umanizzazione della medicina” deve essere contrapposta una scientifica Psicosomatica della Salute: è questo il senso che percorre il libro, ma che avrebbe potuto esser equivocato fino al capovolgimento. Per tali ragioni il sottotitolo originario è stato riformulato nella più immediata comprensibilità di “che significa ‘umanizzazione’ della medicina?” D’altra parte il lettore, concentrandosi sul testo, capirà quello che tradizione e idealizzazione nascondono sotto il termine “umanizzazione della medicina”. In tal modo si potrà meglio assimilare una nuova concezione che il progresso della medicina oggi impone: alta tecnologia, da un lato, e impatto psichico a effetto psicosomatico dall’altro; applicati però entrambi da professionisti con differente formazione, pena confusioni e pretese di onnipotenza.
Brescia-Milano, Maggio 2008
Antonio Imbasciati
Ringraziamento
La dottoressa Francesca Dabrassi ha raccolto e intelligentemente ordinato ogni successiva stesura delle varie parti di questo libro, trascrivendone via via le modifiche e collaborando attivamente in ogni revisione. Ha inoltre compilato l’indice analitico ragionato, cioè non esclusivamente basato sulla ricerca elettronica di parole, ma anche sull’enucleazione di concetti da frasi differenti.
Indice
Capitolo 1 – Osservazione e interazione col malato 1.1 Osservazione, comunicazione, relazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.2 Medicus ipse farmacum . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.3 Oggettività? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Capitolo 2 – Modelli sottesi all’attuale prassi medica italiana 2.1 Oggettivismo, concretismo, transitivismo, coscienzialismo . . . . . . . . 2.2 Intervenire . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Capitolo 3 – Come si forma e funziona una mente 3.1 Mente e cervello . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.2 Lo “psicologico” e “il cervello” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3 I processi mentali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.4 Il cervello impara a imparare: a cominciare dal feto . . . . . . . . . . . . . 3.5 L’irrepetibilità della mente del singolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.6 Significati e significanti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.7 Memoria e ricordo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Capitolo 4 – Il problema inconscio-coscienza 4.1 Dall’impostazione freudiana ai più recenti sviluppi psicoanalitici . . . 4.2 Cognitivismo e psicoanalisi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.3 Il problema della coscienza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Capitolo 5 – La comunicazione al di là della parola: transfert e controtransfert nella pratica medica 5.1 Trasmissione e comunicazione di affetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5.2 Affetti inconsci in ambito sanitario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5.3 Al di là della parola: la comunicazione non verbale . . . . . . . . . . . . . .
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Capitolo 6 – Origini e costruzione della mente 6.1 Dal feto all’infante: il caregiver e la capacità di rêvérie . . . . . . . . . . . 6.2 Una nuova Metapsicologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Capitolo 7 – Cultura medica, tradizione e sviluppo della psicologia 7.1 Il dottore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.2 Cultura medica e scienze psicologiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.3 Salute o Sanità? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Capitolo 8 – La struttura psicosomatica 8.1 Psiche e soma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8.2 La psicosomatica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8.3 Alessitimia e psicosomatica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8.4 Madre-infante e psiche-soma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8.5 Per una effettiva Clinica Psicosomatica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Capitolo 9 – Normalità e patologia: gli equivoci di una psicologia medicalizzata 9.1 La concezione del “guasto” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9.2 L’anomalia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9.3 Quale normalità? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9.4 Chi turba il disturbo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Capitolo 10 – Psicologia Clinica e cultura medica 10.1 La Psicologia Clinica negli ordinamenti universitari . . . . . . . . . . . . . 10.2 “Clinico” e Psicologia Clinica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10.3 Psicologia clinica in ambito medico: equivoci e fraintendimenti . . . . 10.4 Quale formazione psicologica in area sanitaria? . . . . . . . . . . . . . . . . . 10.5 Categorie mediche in psicologia? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10.6 Futuri psicologi medicalizzati? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Capitolo 11 – Le capacità relazionali 11.1 La buona relazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 153 11.2 Formazione delle capacità relazionali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 155 11.3 Formazione permanente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 160 Capitolo 12 – Organizzazione e Istituzione 12.1 I processi mentali nel collettivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12.2 Le angosce di morte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12.3 Stress e burn-out . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12.4 Il burn-out nelle professioni di aiuto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12.5 Burn-out e psicologia della salute . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Capitolo 13 – La questione delle psicoterapie 13.1 Psicoterapia, senso comune e cultura sanitaria . . . . . . . . . . . . . . . . . . 191 13.2 Correggere un deficit o sviluppare la persona? . . . . . . . . . . . . . . . . . . 196 13.3 Il caos delle psicoterapie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 198
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Capitolo 14 – Il medico e le altre (sue?) professioni 14.1 I professionisti dell’aiuto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 205 14.2 Gli psicologi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 208 14.3 Operatori della salute . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 211 Appendice 1 – “Collegio dei Professori Universitari e dei Ricercatori di Psicologia Clinica delle Università Italiane” . . . . . . . 219 Appendice 2 – Medici e psicologi (e perché non altri?): intervista al prof. Imbasciati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 223 Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 233 Indice analitico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 241
Capitolo 1 Osservazione e interazione con il malato 1.1 Osservazione, comunicazione, relazione: diritto alla salute; assistenza “umana”; inadeguatezza dell’osservazione medica tradizionale; differenza tra sindrome e malattia; pregiudizi sull’osservazione; osservazione come processo interpersonale; processi emotivi nell’osservatore e nell’osservato. 1.2 Medicus ipse farmacum: la relazione come farmaco terapeutico o iatrogeno. 1.3 Oggettività?: l’osservatore come strumento; il mito dell’obbiettività assoluta; chi sono gli “scienziati”; oggettivazione della soggettività.
1.1 Osservazione, comunicazione, relazione Quella del medico è una delle più antiche professioni, permeata di carisma, correlata a competenze relazionali e a capacità d’intuizione, progressivamente scientificizzata nei secoli, in quest’ultimo tecnicizzata. Che ne è oggi di questa professione? Che ne è delle capacità interumane che dovrebbero caratterizzarla? Che ne è della struttura mentale di chi oggi fa il medico? Nei primi due capitoli esamineremo come si svolge e come dovrebbe svolgersi la professione medica. Il medico, e oggi con lui molte altre figure professionali, ha il compito di “curare”: curare le malattie, i traumi, le menomazioni; e anche di prevenirle. A contatto dunque con la sofferenza, e le ansie relative, questi professionisti sono invocati a “guarirle”: spesso oggetto di proteste se non vi riescono. Si vocifera del diritto alla salute e questo diventa presunzione di efficacia: un’illusione onnipotente che la Scienza abbia la possibilità di sanare tutto si trasforma talora in accuse e risentimenti. La maggior parte di questi, rivolta a una presunta incompetenza o trascuranza e del singolo operatore e dell’organizzazione in cui opera, viene declinata in termini tecnici, scientificamente plausibili. Molte volte però, sotto tale asettica esplicitazione, è facilmente rinvenibile una sorta di rimprovero, talora lamentela dichiarata, per una mancanza di “umanità”, di contatto interpersonale, di comprensione di esigenze che vanno oltre il tecnicismo delle scienze mediche attuali: e questo sia nei confronti dei singoli operatori, sia verso l’atmosfera collettiva (=organizzazione) dei Servizi. Di fatto, se sul mero versante delle tecniche scientifiche il progresso continua, si ha spesso l’impressione che sul versante psicologico si sia fermi; o forse che lo stesso progresso tecnico ne impedisca un adeguato sviluppo. Lamentele e rimproveri allora, al di là della maschera pseudoscientifica, hanno una loro giustificazione. A. Imbasciati, La mente medica Che significa “umanizzazione” della medicina? © Springer 2008
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Cos’è allora che sotteraneamente alimenta questa mancanza di una complementare ma indispensabile assistenza “umana”? Molto si parla a favore di un’umanizzazione della medicina, ma alla prova dei fatti, nella maggior parte dei servizi, essa sembra mancare. Cercheremo allora in questo testo di indagare sui dinamismi psichici, individuali ma soprattutto collettivi, che sottendono queste difficoltà: nella misura in cui essi potranno essere chiariti agli stessi operatori, e ancor più ai responsabili delle Organizzazioni, è probabile che si possa migliorare la nostra assistenza; e forse chiarire anche all’utente come sotto le sue disillusioni verso la tecnica vi siano delusioni per la mancanza di una “comprensione” umana. Parleremo di “medico”, in questo testo, sottintendendo spesso con tale termine, per comodità, anche gli altri operatori sanitari. Del resto il loro stile interumano e il loro ruolo, al di là delle dichiarate competenze differenziate, si rifà proprio agli assunti impliciti di cui la tradizione ha impregnato il ruolo del medico: anzi, a ciò che in questo testo cercheremo di descrivere come “mente medica”. Il contatto col malato inizia con un processo osservativo: questo è pregno di interazioni dove possono intervenire difetti ed equivoci. Tradizionalmente l’osservazione del medico nei confronti del paziente ha tre fasi caratteristiche: l’anamnesi, l’esame ispettivo del malato, l’osservazione lungo il decorso della malattia. Tra la prima e la seconda fase, e durante quest’ultima si inserisce la prescrizione di esami di laboratorio e di farmaci: l’osservazione ha particolare attenzione agli effetti dei farmaci prescritti; il tutto in relazione alla diagnosi che viene formulata. L’osservazione secondo i tre punti, per quanto attenta, in realtà non garantisce che sia stato colto tutto quello che era necessario per capire davvero quello che affligge il malato e, soprattutto, per poter di conseguenza prescrivere i farmaci idonei, nella dose appropriata a quella persona, oltre che in funzione della diagnosi che si è cercato di formulare. Talora la diagnosi è incerta, o provvisoria: spesso si prescrive una terapia per vederne l’effetto e spesso purtroppo se ne può riscontrare scarsa efficacia. Questo ci indica che, o siamo di fronte a qualcosa di ancor ignoto alla medicina, o forse che qualcosa non è caduto sotto l’osservazione. Competenza a parte, si possono fare errori anche gravi: questo vuol dire che si è osservato qualcosa che, in realtà, non aveva significato, mentre invece gliene è stato dato uno errato. Esistono però malattie, o meglio sindromi, per le quali la diagnosi è di per sé incerta e la terapia assai poco efficace. Ci sono infine malattie che non guariscono ma che si continuano a curare. Ricordo qui la differenza tra malattia e sindrome: la malattia è un’entità a eziologia e patogenesi conosciute, di cui quindi si conoscono le cause – eziologia – e i processi – patogenesi – e quindi di solito le idonee terapie. La sindrome invece è un insieme di sintomi che ricorrono insieme (=sin-dromos) cioè che sono spesso tra di loro associati, senza che se ne conosca il perché e soprattutto senza che se ne conosca un agente specifico, cioè l’eziologia; spesso neppure la patogenesi. Ricordo inoltre qui la differenza tra malattia inguaribile e malattia incurabile: spesso infatti si usa il secondo termine al posto del primo;
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tutte le malattie sono curabili, anche se alcune non sono guaribili. Lo scambio dei due termini denuncia la difficoltà interiore a curare un male che si sa che non potrà guarire. Molto spesso, sia per le malattie sia ancor più per le sindromi, si riscontra una grossa variabilità interindividuale nell’efficacia delle cure. Questo è più evidente nelle sindromi rispetto alle malattie: in ogni caso la risposta alla terapia varia a seconda del paziente; vediamo infatti spesso come la malattia in certi pazienti talora venga contenuta o guarisca, mentre in altri soggetti porti rapidamente all’exitus. Basti pensare alla terapia chirurgica delle neoplasie: a parità di tumore e a parità di intervento (anche chemioterapico) alcuni pazienti guariscono e altri no. Spesso l’oncologo si chiede “vorrei proprio sapere come mai in alcuni pazienti il tumore non si riforma e in altri sì! Perché, a parità di condizioni, di gravità del male, di qualità di intervento chirurgico e di eventuali chemioterapie, alcuni pazienti ce la fanno e altri no!”. In molte altre malattie ci si può porre la stessa domanda: perché l’efficacia della cura è variabile da individuo a individuo? Si invocano fattori costituzionali, le “difese” dell’organismo e altre spiegazioni: tuttavia molto spesso c’è qualcosa che ci sfugge, di “quel” malato: qualcosa che non cade sotto l’osservazione. Allora cos’è mai questa osservazione? E come possiamo renderla più efficace? C’è un pregiudizio diffuso nella nostra cultura popolare: che l’osservazione sia un processo automatico e che pertanto basti prestare attenzione e osservare tutto ciò che può essere osservato. Al contrario l’osservazione non è un processo automatico, né è eguale per qualunque osservatore, anche a parità di impegno e di preparazione. Ci sono osservatori che colgono cose che altri osservatori non colgono. Dunque una prima indicazione emerge: l’osservazione dipende dalla mente di chi osserva. Col termine “mente” s’intende non solo la preparazione tecnica, di tipo medico-biologico, ma qualcos’altro. Ci possono essere mille esempi di colleghi, bravissimi in tutto, che però in certi casi o con certi pazienti, non colgono alcuni segni. Non basta aver immagazzinato in memoria tante informazioni biologiche: c’è qualcos’altro che funziona nella mente di chi va a osservare. Qualcosa che può dipendere dalla situazione o dal contesto, ma anche qualcosa che dipende dalla struttura mentale dell’osservatore. Altro pregiudizio è che, quando si va a osservare qualcosa, ciò che è osservabile debba essere di per sé evidente. Ciò potrebbe essere vero per oggetti inanimati e semplici, ma già per quelli un po’ più complicati non tutto quello che è osservabile è esposto all’osservazione. Quando poi si tratta di persone, come per l’osservazione degli ammalati, non solo ciò che è osservabile non è evidente, ma anche ciò che l’ammalato evidenzia non è del tutto obiettivo, ma è filtrato dalla persona del malato stesso, oltre che dal tipo di rapporto che quel tipo di malato ha con quell’osservatore. Quando si raccoglie l’anamnesi, si fanno delle domande standard: questo è già limitativo; molto spesso è necessaria una certa elasticità per modulare caso per caso le domande anamnestiche al paziente. Un paziente può dire di più o di meno di un altro, ricordare di più o di meno. La memoria non è un fatto stabile, obiettivo, ma è variabile, in tutti gli indivi-
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dui, a seconda dei contesti. Un paziente può persino ricordare qualcosa che crede realmente accaduto mentre invece non lo è stato. Inoltre la mente del paziente filtra ciò che sottopone all’osservatore e questo filtro è non soltanto in funzione di quel tipo di mente di quel singolo paziente, ma è anche in funzione del rapporto che si instaura, comunque, in negativo o in positivo, tra quell’ammalato e quell’operatore. Questo rapporto è sfuggente, talora impercettibile, scarsamente obiettivabile, anche se è nostra cura obiettivarlo il più possibile. Un malato, a seconda di come si sente con un certo medico, può dire e ricordare di più o di meno e, quindi, mostrare all’osservazione qualcosa in più o meno; e il medico, a sua volta, a seconda di come si è posto nei confronti di questo malato e a seconda di come vive il relativo rapporto, può cogliere o non cogliere ciò che potrebbe essere osservato. La complessità delle variabili in gioco è pertanto enorme. L’osservazione non è affatto un processo che, data attenzione, tempo e disponibilità, si svolge in modo automatico. Esso dipende: a) dalla mente dell’osservatore, e qui non ci sono soltanto le informazioni scientifiche e tecniche ricevute, ma c’è qualcosa di più, che dipende dalla sua intera personalità, e che fa sì che si possa osservare selettivamente; b) dalla mente dell’osservato/paziente, che varia da paziente a paziente; c) dal tipo di relazione che si stabilisce tra osservato e osservatore (Imbasciati, Margiotta, 2005, 2008). L’osservazione è quindi un processo intersoggettivo, interpersonale e dipende da tutte le interazioni che intercorrono. L’interazione, cioè il modo di agire di due persone tra di loro, comporta un condizionamento dall’uno all’altro e viceversa, sia per le cose semplici che per quelle complesse. Per “cose semplici” s’intende per esempio la faccia del medico (o dell’infermiere), la sua espressione: le espressioni veicolano informazioni e queste sollecitano complementari informazioni da parte del paziente. Oltre che la faccia, cioè l’espressione del volto, contano le posture, il modo di vestire, di guardare, il tono della voce, il fatto che ci sia il camice o meno, il fatto che si sia in una corsia sporca piuttosto che in un ospedale ben curato. Tutto questo condiziona un tipo di interazione e ogni interazione veicola significati: è comunicazione. Dunque, questa non è riducibile alle parole: esse sono solo una piccola parte della comunicazione che intercorre fra gli esseri umani. Anzi, spesso le parole servono a nascondere la comunicazione vera e propria: con le parole si può anche mentire, consapevolmente o inconsapevolmente, e automaticamente; con le interazioni, invece, è difficile mentire. Si stabilisce un rapporto che comunica direttamente al di là delle intenzioni e dei controlli tra una persona e un’altra. L’osservazione è dunque un processo interpersonale, filtrato da due menti, osservato e osservatore, e dal rapporto in cui queste si mettono. Per “mente” si intende quanto oggi scientificamente sappiamo sulla globalità della struttura funzionale che è stata appresa dal sistema nervoso e che regola ogni comportamento, dal più semplice (per esempio motorio) al più complesso. Nel nostro caso sottolineiamo in particolare le condotte che procedono dalle relazioni interpersonali: qui la struttura mentale che entra soprattutto in gioco riguarda quanto un tempo veniva denominato affettività, o sfera emotiva, e che oggi sap-
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piamo essere regolata dalla memoria implicita (Imbasciati, 2007a, b) ed essere in continua attività al di sotto di ogni consapevolezza. Ricordiamo pertanto quanto sia riduttivo e fuorviante associare il termine “mente” a una certa accezione del linguaggio popolare, che intende gli aspetti coscienti razionali e intenzionali del pensiero. L’osservazione, dunque, è un processo basato su interazioni e comunicazioni non verbali, che si svolge soprattutto a livello inconsapevole per i due “soggetti” (osservatore e osservato), in funzione della relazione che si stabilisce tra le due menti così come sopra definite, dal quale emergono alcuni dati nella coscienza dell’osservatore. Non bisogna pertanto confondere l’osservazione come processo con i dati che emergono da una certa osservazione, condotta in un certo contesto, in un dato momento. Come tutti i dati di coscienza, i dati dell’osservazione possono essere ingannevoli. Non vale dunque l’ingenuo pregiudizio per cui si crede che un’osservazione esatta e completa dipenda dalla volontà e dall’attenzione dell’osservatore: questi in buona fede può credere di avere osservato tutto e bene, mentre invece i dati che gli sembra aver ricavato possono essere parziali e ingannevoli. Ciò che si osserva dipende solitamente dagli strumenti di osservazione: per l’osservazione interumana, sulla quale si deve orientare il medico, vale la stessa legge. In questo caso gli strumenti sono le due menti e il lavoro che insieme esse svolgono nel tipo di comunicazione che viene a stabilirsi. Ciò che si osserva dipende dunque da questi strumenti: a seconda di come essi funzionano risulteranno certi dati, piuttosto che altri. E occorre ricordare che lo strumento “mente” non coincide con la coscienza, né con la buona fede e la buona volontà del soggetto. La mente funziona essenzialmente a livello inconsapevole.
1.2 Medicus ipse farmacum Nella cultura medica ci sono molti equivoci. Risulta ovvio che, se guardo le stelle con un telescopio di un certo tipo piuttosto che di un altro, vedo e osservo cose diverse. Se analizzo una molecola con un certo ciclotrone o con un’altra apparecchiatura, ottengo anche qui risultati diversi. È ovvio cioè che tutto ciò che viene a essere osservato (il “dato”) dipende dagli strumenti, in questo caso tecnici, che fanno vedere quello che essi possono far vedere. Ma ciò che si nota dipende anche dalla competenza dell’operatore: esempio semplice è quello del radiologo. Il fattore “competenza”, intesa in senso tecnico, è scontato per l’uso degli strumenti della fisica, dell’astronomia, dell’istologia e di altre scienze dell’inanimato, ma per le scienze dell’animato, quelle che implicano l’osservazione delle persone e delle loro interazioni, il fattore “competenza” viene spesso trascurato, credendo che tale competenza, dipenda da doti possedute da tutti. Abbiamo l’illusione, o meglio la presunzione, che se uno osserva e sta attento, il dato dell’osservazione è lì e tutti possono coglierlo. Al contrario proprio qui occorre considerare lo strumento e la competenza di chi lo usa,
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ed estendere il concetto di competenza, oltre il senso tecnico, a tutto il funzionamento della struttura mentale posseduta da un dato operatore. La medicina dispone oggi di una miriade di strumenti tecnologici, ma non bisogna dimenticare quelli umani, le menti, e del medico e del malato e degli altri operatori. Saranno proprio queste che, rilevando certi dati, orienteranno la scelta degli strumenti tecnologici e successivamente ne interpreteranno i risultati: e in base a questi sarà formulata una diagnosi; e ancora in base a questa sarà impostata la terapia e si seguirà il decorso sintomatologico. Nel seguire l’ammalato lungo la degenza, si possono rilevare elementi che prima (anamnesi iniziale) non erano emersi: e non solo elementi salienti (es.: “si è alzato o è diminuita la febbre”, oppure “ha vomitato” o “non evacua da tre giorni”) ma anche altri elementi più sfuggenti, spesso evidenziati da piccoli mutamenti corporei, o denunciati se ci si riesce a sintonizzare con l’umore del paziente; ciò che en passant egli ci può buttar là con l’aprirsi di un suo stato affettivo, o al contrario con una chiusura rispetto a qualsiasi espressione che travalichi la denotatività di una comunicazione verbale. Lungo la cura, nel seguire il malato, possono venir fuori, a seconda della formazione dell’operatore e ancor più del tipo di rapporto, elementi imprescindibili per modulare la cura stessa. A parte il fatto che è proprio la relazione interattiva, comunicativa non verbale, che si stabilisce col paziente, un fattore importante della terapia: medicus ipse farmacum. Il medico è esso stesso un farmaco. Talora è un farmaco che fa male: si parla di iatrogenia. Il tipo di relazione che si stabilisce tra il medico e il paziente ha effetto non solo per l’osservazione, e di qui sulla diagnosi e sulla terapia, ma anche direttamente sui processi biologici che regolano la salute o la malattia del paziente: l’antica affermazione che il medico è un farmaco (benefico o tossico) contiene l’intuizione di quanto oggi sappiamo dalla psicosomatica. Tra le persone, in modo particolare se queste sono tra di loro legate da un qualche rapporto importante come per esempio quello che interessa la propria salute, intercorrono processi psichici che modulano le funzioni biologiche somatiche: dunque anche quelle che fronteggiano la malattia o vi sono comunque coinvolte. Il rapporto psiche/soma non ha nulla di misterioso: ogni processo psichico ha sempre il suo correlato neuronale e il cervello, tramite certe sue parti specializzate (corteccia limbica, ippocampo, ipotalamo, sistema nervoso vegetativo, adenoipofisi, neuroipofisi, tutto il sistema endocrino e il sistema immunitario), agisce su tutti i processi biologici. Ritorneremo sull’argomento parlando delle nozioni elementari di psicosomatica. I processi che avvengono nella mente (così come sopra definita) e che sono alimentati dalla comunicazione (non verbale), che sempre e comunque avviene in ogni relazione e quindi anche in quella medico/paziente, hanno dunque un effetto di modulazione su tutti i processi biologici dell’organismo; in particolare sulle difese immunitarie. Lo “psichico” dunque è un agente sul biologico, nella salute e nella malattia. Per questo è tutt’oggi perfettamente giustificato il detto medicus ipse farmacum. I pregiudizi correnti sull’osservazione sono quanto mai ingenui: il processo
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di osservazione è estremamente complesso, soprattutto trattandosi di due (o più) persone, cioè di entità esse stesse estremamente complesse, il cui funzionamento oltretutto ci è noto solo in parte. Le nostre capacità di coscienza colgono infatti solo una minima parte di ciò che viene elaborato dalla nostra mente, e comunque le scienze psicologiche ci permettono di conoscere solo fino a un certo punto i processi che vi avvengono: l’osservazione diventa inoltre ancora più complessa per il fatto che si tratta sempre del lavoro automatico delle interazioni di due menti, quella dell’osservatore e quella dell’osservato. Altrettanto conosciamo solo in parte i correlati neuronali di questi processi: per esempio che cosa succede nella corteccia frontale di un certo ammalato a seguito di quell’elaborazione delle informazioni che costituisce il suo rapporto con il medico? Che cosa passa dalla corteccia frontale a quella limbica e viceversa e da qui alle varie vie che agiscono sui processi biologici? Quale la partecipazione del cervello destro? Sappiamo ben poco. Dobbiamo tenere conto di tutti questi limiti, altrimenti scadiamo nella presunzione che l’osservazione sia semplice, automatica, e che esistano regole facilmente enucleabili ai fini dell’intervento. Se vogliamo essere buoni medici, e che la medicina possa progredire non solo nell’escogitare nuovi metodi tecnologici, ma anche nel considerare efficace il particolarissimo tipo di azione farmacologica, benevola o malefica, che si esplica mediato dalla relazione interpersonale, dobbiamo conoscere qualcosa su come questa relazione possa agire.
1.3 Oggettività? A questo punto qualcuno potrebbe chiedersi: “con queste implicazioni, con tutti questi limiti, filtri, interazioni, processi inconsapevoli e via dicendo, dov’è l’oggettività? Dove va a finire quello che si considera il fondamento della scienza?” Posso qui rispondere che conoscere i propri limiti è la premessa per allargarli: tuttavia il tenerne conto comporta una rinuncia non facile. Il progresso tecnologico della medicina ha alimentato molte illusioni e la presunzione che tutto sia facile e semplice, facendoci dimenticare i limiti intrinseci alla conoscenza e al controllo della mente. Questo non vuol dire che non esista un’obiettività anche per ciò che concerne lo psichico e il relazionale. Il problema è che siamo abituati a considerare obiettivo quello che proviene da strumenti tecnologici e non obiettivo quello che proviene dallo strumento umano. In realtà l’obiettività “pura”, assoluta, è un mito che abbiamo ereditato dal positivismo. Qualunque strumento ha un margine di variabilità, che chiamiamo errore, qualunque “misura” dipende dal contesto della misurazione. I cosiddetti artefatti strumentali sono all’ordine del giorno in medicina. Qualunque “dato” non è “dato”, ma “mediato” dal tipo di strumento. E comunque ogni indice fornito da strumenti tecnologici deve essere “letto”, cioè interpretato, dalla mente umana. L’osservazione direttamente mediata dalla capacità umana inerente alla competenza del singolo operatore è soggetta allo stesso margine d’errore cui va
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soggetto qualunque altra osservazione mediata da tecnologie. Il problema sta nel “manovrare bene” lo strumento, conoscendone i limiti: per la mente di un operatore che consideri lo psichico che intercorre in una relazione, occorre che egli conosca i limiti delle proprie capacità, soprattutto l’eventuale fallacia delle sue interpretazioni, e che parallelamente abbia ben addestrato la sua mente a conoscere se stesso, per quanto ciò gli sia stato possibile. Questo vale sia nei confronti di ciò che egli crede di osservare (e del come lo interpreta), sia ancor più nei riguardi di ciò che egli crede di “emettere”: cioè messaggi (non verbali, come abbiamo sottolineato) che da lui passano al paziente, e significati che egli crede siano veicolati dalle sue azioni. Che qui si entri in quel campo che è stato denominato “affettività” può dare l’impressione che si entri nell’indefinitezza: in realtà, come già detto, quanto è stato chiamato affettività appartiene all’ordine del mentale non meno del calcolo algebrico (Bion, 1962, 1967). Nel linguaggio popolare si usa ancora il termine “mentale” come nei secoli scorsi, quando si credeva che “la mente” coincidesse con ciò che il soggetto si accorgeva e credeva di pensare (mente=coscienza razionale) e si pensava che affetti, carattere, azioni si riferissero a qualcosa di diverso. Il significato di “mente” e di “mentale” è oggi diverso: sono stati evidenziati processi mentali di cui non si supponeva l’esistenza; processi che si svolgono al di là di qualunque consapevolezza del soggetto e che pure lo regolano. Considerare scientificamente tali processi, con quanto oggi ne sappiamo, ci permette di meglio leggerli e di servirsene con un adeguato margine di “obiettività”. Si tratta però di essere adeguatamente addestrati a conoscerne l’esistenza e poter in tal modo ampliare la nostra conoscenza: l’obiettività assoluta non esiste, ma proprio per questo occorre perseguire scientificamente lo scopo di ottenere dati il più possibilmente obiettivi. L’obiettività è dunque una gradualità, un livello, non una qualità assoluta: concepire l’obiettività assoluta è un “mito”. Nella nostra cultura abbiamo fatto un mito dell’oggettività perché ci siamo indotti a pensare che essa sia facilmente raggiungibile: ma questo credere è a prezzo di ridurre la nostra attenzione a quanto invece di fatto ci sfugge. Paradossalmente, quanto più crediamo che l’obiettività sia facilmente raggiungibile, tanto più diminuiamo la nostra capacità di essere obiettivi. Di contro al tema dell’obiettività, e del suo mito, sta l’equivoco, della cultura comune, di ciò che si intende con i termini opposti: “soggettivo” e “soggettività”. Spesso il termine “soggettivo” è sinonimo di arbitrario. Nella lingua italiana “soggettivo” presenta un’oscillazione semantica tra due poli. Uno è quello più attinente all’etimo della parola: soggetto, soggettivo; la soggettività intesa come la mente di un individuo, ciò che un individuo come soggetto in se stesso avverte, di cui bene o male diventa consapevole, che conosce o non conosce, o misconosce. L’altro polo, che sarebbe meglio evitare ma che è presente nel lessico comune, è che “soggettivo” vuol dire talora arbitrario, o anche casuale. Se usiamo la parola “soggettività” in quest’ultima accezione, è ovvio che siamo completamente fuori campo.
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La “soggettività”, intesa nel senso più proprio, nell’osservazione è sempre una inter-soggettività, un processo continuo di interazione, di comunicazione: le due soggettività, dell’osservatore e dell’osservato, entrano in mutua, continua, mutevole, automatica e inconsapevole interazione. In questo insieme di limiti, incertezze, non consapevolezze, è possibile che un dato sia “dato per accertato” e, dunque, scientifico? Questo ci introduce alla considerazione della collettività degli scienziati come parametri del livello di oggettività: si tratta del rilievo da dare a un processo di oggettivazione della soggettività. In tutte le scienze è necessario che i diversi scienziati che si occupano di una specifica scienza vengano il più possibile a un’opinione comune. Quanto più l’oggetto che una scienza esplora si presenta complesso e ignoto, e gli strumenti di indagine soggetti a limiti, tanto più ci saranno divergenze tra i vari scienziati che si occupano di quell’area. Potranno essere avanzate opinioni, e anche teorie, tra di loro diverse. Ricordiamo qui che una teoria non è mai né vera né falsa, ma soltanto più o meno utile al progresso di una scienza in una data epoca del suo sviluppo. Una teoria è un modo di connettere i dati osservati per capire meglio il come, ed eventualmente il perché, dei dati osservati e della loro successione; per affinare i metodi di indagine, per giungere ad altre scoperte. Né bisogna confondere le teorie con le effettive scoperte (Imbasciati, 1994, 1998a, 2005b). In qualunque scienza ci si aspetta un certo grado di convergenza tra le varie teorie e pertanto anche un certo grado di convergenza di opinioni se non proprio di identità, tra tutti gli operatori (scienziati) di quel settore. Questo presuppone che la comunità degli scienziati di una certa scienza sia in continuo contatto interno, tra i vari ricercatori e i loro contributi. Ogni scienza ha la sua comunità di operatori e scienziati, che si comunicano i dati via via trovati. Man mano che vi sono dei dati condivisi, in un’adeguata convergenza di convinzioni, o talora anche di opinioni se le cose sono più incerte, i dati vengono considerati obiettivi. Il che vuol dire accertati: ma questo in via provvisoria, finché una qualche scoperta rivoluzionaria cambierà la visione scientifica relativa. Lo scienziato, se vuol davvero far progredire la sua scienza, deve conservare sempre un margine di dubbio su ciò che considera “obiettivo”. Spesso si tratta della possibilità di pensare che le cose stiano diversamente da come, in una certa epoca, si pensa che debbano essere. La comunità degli scienziati è consensuale di fronte alle scoperte: più difficile è interpretarle, cioè avere una consensualità sulle teorie. Questo significa che in quel momento una certa assunzione è considerata vera, con la riserva che in un domani possa essere dimostrata falsa, o meglio superata da altre assunzioni che meglio servono al progresso di quella scienza. La scientificità di tutte le scienze poggia su un sufficiente grado di consensualità degli scienziati nel dare per accertati, cioè per validamente operativi, certi dati, e certe teorie che servono a connettere tra di loro i dati. In questo modo si possono stabilire dei nessi di causa-effetto e quindi avere una comprensione globale del dinamismo dei fattori individuati, al fine di potervi intervenire. Tuttavia, anche quando la consensualità degli scienziati è incerta, si può
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parlare di scientificità: anzi siamo proprio sul fronte della ricerca scientifica. L’importante è che questa prosegua nel continuo confronto tra le diverse ipotesi e le diverse teorie. È ovvio che la consensualità di cui si parla riguarda gli scienziati di quella particolare scienza di cui si tratta e non la comunità di tutti gli scienziati di tutte le scienze. Ricordo qui come nel senso comune si considerino scienziati solo quelli delle scienze tecnologiche, che implicano strumenti tecnologici, e non invece quelli che usano come strumento principe la mente umana e la propria in primo luogo. Così può accadere che gli psicologi siano considerati meno scienziati di quelli che lavorano in altre scienze: o addirittura che non vengano ritenuti “scienziati” e per contro si pensi che chiunque possa essere “un po’” psicologo. Ma le scienze psicologiche, in quest’ultimo secolo, si sono sviluppate come tali: il fatto che lavorino con alto margine di incertezza strumentale non sminuisce il loro carattere di scienza, ma lo accresce, stimolando a perfezionare gli strumenti di indagine e la loro attendibilità in funzione delle difficoltà intrinseche all’esplorazione del campo. Il pregiudizio popolare, diffuso talora anche in sede parascientifica, è dovuto a ignoranza e misconoscenza. Quanto più un determinato campo di una data scienza è ancora da esplorare, tanto più è necessaria la comunicazione tra gli scienziati che si occupano di quel settore e tanto più la loro consensualità serve da parametro per stabilire che cosa deve considerarsi “obiettivo”, in quel momento di quella scienza. Si tratta di un processo di validazione statistica. Nelle scienze che indagano campi ancora in gran parte da conoscere e che hanno al loro centro lo strumento della soggettività, si parla pertanto di oggettivizzazione, operata dalla consensualità di quella comunità scientifica. Nelle scienze che si occupano dell’uomo, in primis quelle psicologiche, è importante la comunicazione e il grado di consensualità degli scienziati di quel settore per obiettivizzare i dati che via via vengono offerti. Tale processo di oggettivizzazione acquista importanza quanto più i dati sono offerti dalla soggettività di scienziati che indagano la soggettività di esseri umani: in tal caso è necessario conoscere “come funziona la mente di chi indaga la mente” (Imbasciati, Margiotta, 2005); e, conoscendola, sapere come poterla “attrezzare” all’uopo. Di qui la particolare formazione (training) che devono ricevere i ricercatori di alcune branche della psicologia. All’interno di una simile “attrezzatura” diventa rilevante la consensualità degli scienziati per dare come accertato, cioè scientifico, e pertanto “obiettivo”, ciò che è stato osservato. Una suddetta formazione essenziale per gli psicologi è pur sempre, in minor misura, necessaria anche per i medici, così come per tutti gli altri operatori che hanno a che fare con gli esseri umani. Quanto più un operatore si addestrerà a conoscersi, a conoscere cioè come funziona la propria mente, tanto più sarà in grado di afferrare ciò che intercorre nelle sue relazioni col paziente. Tornando al medicus ipse farmacum, e all’effetto che il rapporto medico-paziente ha sul decorso della malattia, l’operatore con il suo tipo di relazione modula psichicamente il funzionamento psichico e quindi neurale dell’utente: questo a sua
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volta modula il funzionamento dei suoi processi biologici, malattia compresa. Di qui la necessità che anche il medico abbia nella sua formazione acquisito una qualche competenza a conoscersi. Premessa la panoramica esposta in questo capitolo, occorre confrontarla col tradizionale modo di operare medico. Esamineremo quindi i difetti dei nostri attuali modelli nella prassi medica, in modo da poter capire che cosa, in un futuro, la comunità medica italiana, europea o internazionale, potrà fare, e a che cosa possiamo tendere.
Capitolo 2 Modelli sottesi all’attuale prassi medica italiana 2.1 Oggettivismo, concretismo, transitivismo, coscienzialismo: oggettivismo e oggettività; transitivismo opposto a intersoggettivismo; cosa fa fare il paziente al medico?; riduzionismo di ogni comunicazione a ciò che appare alla coscienza; comunicazione inconsapevole. 2.2 Intervenire: interventismo come ansia di dover fare comunque qualcosa; intolleranza dell’incertezza; concretismo e mito dell’oggettività.
2.1 Oggettivismo, concretismo, transitivismo, coscienzialismo Come da chiusura del precedente capitolo, saranno ora individuati alcuni difetti sottesi alla prassi medica attuale. Inconvenienti di questo tipo sono spesso scotomizzati: rimangono sottesi, appunto, a una prassi collettiva, diventata abitudine e data quindi per scontata, cosicché il metterli in evidenza desta spesso meraviglia e negazione, e può anche suscitare risentimenti come se si stesse accusando qualcuno di qualche colpa. È questa del resto una reazione normale nell’economia mentale sia del singolo che della collettività: un difetto a lungo ignorato e dipoi mostrato, se non viene negato, viene vissuto come colpa per non essersene accorti prima. Per un’economia mentale, è più tollerabile sentirsi in colpa, cosicché c’è la fantasia che si sarebbe stati capaci, piuttosto che riconoscersi incapaci. Negazione e colpa spesso si mescolano, in un risentimento verso la fonte di evidenziazione del difetto. Un difetto è in realtà molto diverso da una colpa, è qualcosa che manca, che difetta (deficit=mancare); che non è mai colpa di nessuno: in realtà però accade che il rilievo di simili difetti sia da taluni vissuto come accusa, personale, o meglio, in una identificazione idealizzata alla classe medica, come un rimprovero ingiustificato. D’altra parte le prassi operative che analizzeremo appartengono proprio al collettivo e non ai singoli: nel collettivo si sono strutturate e cristallizzate, senza colpa di nessuno, anzi spesso malgrado gli sforzi di cambiarle da parte di valorosi singoli. Il fatto è che mettere in evidenza difetti passati inosservati, può turbare la tranquillità di alcuni operatori, e suscitare resistenze. Passeremo dunque in rassegna alcune di queste prassi, così consuete e insite nel sistema da sfuggire all’attenzione critica. Riscontriamo innanzitutto un principio sottinteso (alcuni psicologi della comunicazione lo chiamano “assunto implicito”) già denominato oggettivismo (Imbasciati, 1993). “Oggettivismo” A. Imbasciati, La mente medica Che significa “umanizzazione” della medicina? © Springer 2008
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non è sinonimo di “oggettività”: come tutti gli -ismi della lingua italiana, esso indica un eccesso di qualche cosa, che essendo appunto eccessivo, diventa controproducente. Si crede che l’oggettività sia sempre facilmente raggiungibile e facilmente osservabile, e che se non è immediatamente riscontrabile, essa non possa sussistere. Un tale assunto, se da un lato è prodotto da una certa ingenuità di presupposti – supposti, appunto – riguardanti l’osservazione, dall’altro si coniuga con un secondo assunto, già da me illustrato come concretismo (Imbasciati, 1993, 1996a, b). Erede dello spirito positivista, questo assunto sottintende che l’obiettività sia possibile solo a riguardo degli oggetti materiali, corposi, concreti. La ricorrenza di tali “oggetti” nella prassi medica, ancor più chirurgica, congiunta con la visibilità di gran parte dei dati tecnologici (microscopio, istologia, ma anche elettrocardiografia, radiologia e via dicendo, fino a molti altri dati di laboratorio), ha fatto sì che in medicina rimanesse in ombra tutta la serie di dati mediati dalla persona del medico osservatore. Come conseguenza si è avuta una polarizzazione sul concreto al punto che si è assunto come oggettivabile soltanto il concreto. Ecco allora che l’oggettività viene limitata al concreto e la riduzionistica concezione del processo di osservazione produce l’oggettivismo. Eppure tutti i nostri dati sono sempre me-diati, dagli strumenti che usiamo per rilevarli. Se qualcosa non è evidente, è probabile che non siano stati usati strumenti sufficientemente idonei e perfezionati per conseguire gli intenti che ci si proponeva. Fra gli strumenti, c’è in primo luogo quello delle menti umane, che sono tutt’altro che facili da “tarare” e tuttavia sono indispensabili. Oggettivismo è allora lo spirito riduttivo per cui, pensando che l’osservazione sia semplice e il dato “oggettivo” evidente, anzi concreto, si tende a escludere l’indagine ottenibile perfezionando la soggettività con cui opera lo strumento della mente umana. Questo assunto, proprio perché è implicito, può essere “comodo”: in questa maniera tutti, più o meno bravi, più o meno coscienziosi, sentono di poter fare equamente lo stesso mestiere. Così si fa l’anamnesi: cinque, dieci, quindici domande; basta che il paziente risponda; si fa la palpazione e quello che c’era da sentire è dato per “sentibile” e sentito. Eppure l’esame ispettivo è filtrato dalla nostra soggettività: quello che oggi si può sentire o auscultare due ore dopo può risultarci diverso; se si visita più volte lo stesso malato, facilmente si possono cogliere segni nuovi. Allora, possiamo veramente affermare che si tratti dell’“esame obiettivo” del malato? Un addome che pare un po’ teso, a un altro operatore può apparire in modo diverso. Per esempio, dopo una palpazione in cui si è sentito il bordo epatico un po’ indurito, avevamo sufficiente coscienza di come fossero le nostre dita in quel momento? Per essere un po’ più sicuri di tale coscienza dovremmo poter sapere come le nostre afferenze venivano elaborate nella nostra mente (cfr. il problema della percezione e della coscienza: Capp. 3.3, 4.2, 4.3). Dovremmo allora anche chiederci a che cosa si stava pensando in quel momento, tenendo però presente che il nostro cervello lavora anche a dispetto della nostra coscienza: come sono stati decifrati gli input provenienti dalle dita mentre palpavano il bordo epatico?
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Meno semplicemente potremmo chiederci se durante quest’esame “obiettivo” eravamo sufficientemente accorti da recepire cosa e come il malato concomitantemente (e anche involontariamente) ci trasmetteva. Accade talora infatti che sopravvenga un certo fastidio se il malato emette qualche messaggio che sembra non rientrare nel quadro oggetto d’indagine: sembra che l’evento ci distragga dalla nostra presunta “obiettività”; e questa si crede passibile di essere scissa dalla sempre concomitante e in fondo non meno obiettiva comunicazione che il malato costantemente emette. Siamo sufficientemente attenti alle comunicazioni “collaterali”? Sono esse divagazioni di un paziente inevitabilmente in ansia, oppure “associazioni” che comunicano un qualche significato? Si tratta spesso di comunicazioni non verbali. Entriamo qui in pieno nelle interazioni che costituiscono la relazione medico-paziente (cfr. Cap. 5), con tutti i loro effetti, sia sull’osservazione, che sulla “obiettività”. Altro presupposto, assunto implicito, è stato da me denominato transitivismo (Imbasciati, 1993). Con questo termine si intende un’azione eseguita da un soggetto attivo su un oggetto passivo. Le azioni sono espresse da verbi, attivi e transitivi oppure intransitivi: per esempio “io guido la macchina”, “io mangio una mela” sono azioni di un soggetto che compie un’azione su un oggetto (la macchina, la mela). Ogni verbo attivo e transitivo può essere rivolto in passivo (“la macchina è guidata da me”, “la mela viene mangiata”). In queste azioni c’è un soggetto attivo e un oggetto passivo. Diversamente accade se l’azione è descritta mediante un verbo intransitivo o riflessivo: per esempio “Carlo parla”, “pensa”, “corre”, “è stanco”; o “Giuseppe si veste”, “si alza”; e via dicendo. Ciò che il medico fa col paziente è quasi sempre un’azione transitiva: il medico fa qualcosa al paziente; interroga, palpa, prescrive; e il paziente è tenuto a eseguire, compiacentemente (compliance). La prassi transitiva è indispensabile, in medicina e ancor più in chirurgia, ma non può essere esclusiva: ci sono interazioni, cioè azioni tra (inter) i due protagonisti, che implicano non solo il passaggio di qualcosa dal medico al paziente, ma anche viceversa, dal paziente al medico. Transitivismo vuol dire che si fa troppo affidamento sul fatto che la prassi consista sempre in qualche cosa che il medico fa al paziente: qualcosa che “passa” (transita) dall’operatore all’utente. L’abitudine a una prassi transitiva può dar luogo a un uso improprio: per esempio nella prevenzione, si crede che basti dare nozioni, prescrizioni e buoni consigli perché il paziente si astenga da certe abitudini nocive. Come ben sanno gli igienisti, e gli altri operatori che si occupano di prevenire, per esempio, l’alcolismo, le malattie a trasmissione sessuale, le tossicodipendenze, gli effetti nocivi del fumo o altro, le nozioni e prescrizioni sono necessarie ma non sufficienti. Se l’operatore non adotta un modello più complesso, che implica la compartecipazione dell’utente, e un atteggiamento identificatorio da parte dell’operatore contrapposto all’atteggiamento manipolativo insito inevitabilmente nel modello prescrittivo (Imbasciati, Ghilardi, 1993), o comunque “persuasivo”, non si ottiene l’effetto desiderato. Così il transitivismo spesso inficia le campagne preventive.
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Ma c’è un altro effetto, più nascosto, del transitivismo: si trascura, o addirittura non si considera, il fatto che il paziente induce l’operatore a certe azioni, o comunque ne modula l’operato. Cosa fa il paziente al medico? Superficialmente si potrebbe pensare che il paziente al medico non faccia niente, ma non è così. Per le interazioni, spesso non consapevoli ma che avvengono comunque (cfr. Cap. 5), il paziente influenza il medico. Ci sono per esempio soggetti che accusano disturbi per i quali potrebbe essere indicato un certo intervento chirurgico, ma gli stessi chirurghi avvertono che non è strettamente necessario. Alcuni pazienti, in questi casi, passano da un chirurgo all’altro fino a quando non trovano un chirurgo che decisamente dice loro “sì, è necessario, domani operiamo”. Questi pazienti in effetti “fanno fare” qualcosa al medico. Ciò può avvenire più facilmente in alcune malattie (es.: diverticolosi, ipertrofia prostatica, discopatie, o algie diverse in apparati osteomuscolari); o ancora per altri disturbi. In campo medico ci possono essere sintomatologie relativamente sopportabili, per le quali si sa che non esiste una cura effettiva e radicale, ma solo alcuni farmaci che possono di poco alleviare la sindrome: avviene che alcuni pazienti sopportino la sintomatologia, mentre altri inducono il medico a una qualche prescrizione farmacologica che spesso ha poca o nulla efficacia, se non talora con effetti collaterali. Fanno fare qualcosa al medico: il quale non se ne accorge, perché il messaggio induttore è sotterraneo. Ciò accade sia nella pratica ambulatoriale, sia in quella ospedaliera. In quest’ultima può accadere che il paziente si serva dell’infermiere, per “far fare” qualcosa al medico. Ci sono pazienti che accentuano o diminuiscono le loro lamentele, giuste o non giuste, che accrescono i sintomi, o li diminuiscono, oppure inconsapevolmente li celano. Questo diverso modo di interagire del paziente fa fare qualcosa all’operatore. C’è tutto un sottile e occulto feedback fra ciò che fa l’operatore e ciò che il paziente fa fare all’operatore. La transitività è reciproca: il transitivismo presuppone invece che sia a senso unico. Ci sono poi induzioni ancor più sottili, che prendono il colore della tonalità affettiva che si stabilisce tra quel paziente e quel medico: il paziente che prende in simpatia, o in antipatia, un determinato medico; o quel medico che ha un po’ di simpatia per un paziente, ma che trova molto “rognoso” un altro. Queste correnti affettive, che di solito vengono trascurate, hanno un loro significato, o meglio, veicolano significati di comunicazione che mediano, modulano, l’interazione e, dunque, sia ciò che l’operatore fa all’utente, sia ciò che questi fa fare all’operatore. La corrente affettiva che un paziente stabilisce verso un certo medico induce qualche cosa: può indurlo a una certa prescrizione piuttosto che a un’altra; può indurne non soltanto l’attenzione immediata o la disattenzione, l’approvazione e l’ascolto piuttosto che il disinteresse e la sommarietà, ma anche qualcosa nel suo operato professionale. Così pure, inversamente, il tipo di corrente affettiva che si stabilisce dal medico verso l’utente condiziona anch’essa il proprio e il di lui operato. C’è sempre una comunicazione di vai e vieni, che in minima parte è consapevole, o che comunque resta occulta. Il medico non dirà mai (neppure a se stesso di solito) “quel paziente lì mi è antipatico”, ma esprimerà soltanto qualche più neutra critica: per esempio, troverà
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delle ragioni per poter affermare che quel certo paziente fa delle inutili lamentele, o che non ha osservato bene la compliance; insomma, che è un “paziente difficile”. Anche il paziente tende a negare eventuali antipatie per qualche medico: più frequentemente dirà “quel medico è frettoloso, non ti ascolta”. Attenzione dunque merita in medicina lo spirito del transitivismo: come per tutti gli “ismi” si accentua l’azione transitiva che il medico compie sul paziente trascurando l’azione inversa. Questo spirito transitivista impedisce di cogliere quanto invece il paziente induce (fa passare, fa transitare) negli operatori. In questa maniera si scotomizza1 l’intersoggettività: come vedremo in prosieguo, questa è rilevante nell’intervento psicologico, ma non meno importante è considerarla nel dialogo inconsapevole delle interazioni medico/paziente. Altro assunto implicito in medicina è stato indicato col termine coscienzialismo (Imbasciati, 1993). Coscienzialismo è pensare che tutto ciò che si rileva sia cosciente e ciò che può essere cosciente venga sempre rilevato. Si tratta del non tenere conto che ci sono molti dati che registriamo inconsapevolmente, e li immagazziniamo, ma di cui non ci accorgiamo. Forse ce ne accorgiamo, nella ipotesi più fortunata, giorni dopo o, forse, non ce ne accorgeremo mai. I nostri processi consapevoli sono una minima parte di tutti i processi mentali che avvengono: ancor più i processi mentali che riguardano le relazioni, le interazioni, l’intersoggettività continua che si stabilisce con il paziente, così come del resto si stabilisce con qualsiasi altra persona. Oggi, teoricamente tutti sanno che ciò di cui un soggetto è consapevole non copre tutta la sua mente. È penetrata ormai da qualche lustro, anche nella cultura popolare, l’idea che ci sono processi mentali automatici e non consapevoli: tuttavia sembra che questo non possa tradursi nella prassi, che pertanto rimane improntata all’idea che comunque tutto ciò che accade, nelle menti e nelle relazioni tra individui, sia sempre registrato nella coscienza. Quando Freud cent’anni fa disse per la prima volta che esisteva un inconscio, i contemporanei stralunarono gli occhi: tuttavia si è sempre più constatato, non solo da parte degli psicoanalisti ma anche negli studi sperimentali a cominciare dagli anni ’50 in avanti, che le funzioni mentali sono in gran parte inconsapevoli. Si è visto inoltre che quanto un soggetto sa di se stesso è solo una minima parte del proprio Sé, e spesso non è neanche la parte più vera; questa conoscenza di sé può esser del tutto fallace. Del resto il vecchio detto socratico “conosci te stesso” dice quanto non sia assolutamente facile conoscersi; e che una persona, a proposito di se stesso, prende spesso più svarioni di quelli che può prendere su di lui il suo prossimo. Eppure, nonostante si fosse intuito da duemila anni il fatto che è difficile conoscere se stessi; nonostante siano trascorsi ormai cent’anni da quando Freud, con il suo metodo, ha iniziato a studiare l’inconscio; nonostante che da cinquant’anni a questa parte fior di studi sperimentali, behavioristi e cognitivisti, abbiano mostrato chiaramente quante
1 Il termine, preso dall’oculistica, è in uso metaforico nel linguaggio psicologico per indicare come qualcosa di riscontrabile non venga “visto”.
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operazioni la nostra mente compie senza che noi ce ne accorgiamo; nonostante ci venga confermato tutto questo oggi anche dalle neuroscienze, continuiamo in fondo a pensare che le cose che succedono nella mente sono e devono essere consapevoli, sia nella nostra che in quella degli altri. Ci fa comodo. Questo è il coscienzialismo. È uno spirito che informa la prassi medica, così come l’oggettivismo, il concretismo, il transitivismo: questi quattro “spiriti”, invero non proprio benigni, variamente si coniugano, potenziandosi a vicenda a scapito del paziente; ma anche a scapito del medico che per l’implicità di tali assunti non è certo favorito ad accorgersene. Connesso al coscienzialismo sta l’assunto che la comunicazione che intercorre tra medico e paziente sia essenzialmente cosciente e che sia quella verbale; o comunque verbalizzabile. Molte ricerche, di più studiosi, si spendono nell’illustrare le giuste parole per comunicare col paziente. Al contrario sappiamo oggi quanto l’essenza della comunicazione sia un fatto automatico, non consapevole, che travalica il linguaggio verbale (cfr. Capp. 5.3, 11.1). La coscienza è un enorme filtro, continuamente variabile, che lascia passare ben poco, e stravolge spesso ciò che lascia passare (cfr. Cap. 5): questo vale, non semplicemente per ciò che un soggetto può avvertire o stravolgere di se stesso, ma anche soprattutto in ciò che implicitamente governa le sue azioni e le sue interazioni.
2.2 Intervenire Altro spirito latente è l’interventismo. È logico che sul paziente si deve intervenire: il paziente ricorre al medico proprio perché il medico intervenga e, in tutti i casi di emergenza, intervenga subito. Quanto mai opportuno è pertanto che il medico “abbia l’occhio”, accorto e responsabile, a intervenire, e al più presto: il paziente può anche morire. Ma non è facile che tale habitus sia alternabile con l’accortezza nel percepire quando esso non sia necessario o quando anche possa essere nocivo. Vi sono casi in cui è necessaria una pausa di riflessione, un’attesa che gli eventi si chiariscano (“dia-gnósis”: cfr. Cap. 10), una volta valutato che non v’è pericolo: tale ultima valutazione può non essere facile, ma necessaria, perché anche l’inverso, cioè il subitaneo intervento, può comportare inconvenienti. Vi sono per esempio i casi in cui l’intervento, soprattutto farmacologico, non è urgente né indispensabile: si può aspettare. Parlo soprattutto di medicina ambulatoriale: qui molte volte il medico si sente tenuto a una qualche prescrizione, anche se non indispensabile, né urgente, solo perché il paziente si è recato in ambulatorio; spesso si fanno prescrizioni anche quando la diagnosi non è chiarita; a volte, sembra quasi che il medico prescriva per togliersi di torno il paziente. D’altra parte è facile che il paziente colluda a questo gioco: si aspetta che il medico comunque e sempre dia una prescrizione. L’interventismo è una mentalità che appartiene sia al medico che ai pazienti, una sorta di costume collettivo insito nella cultura medica.
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L’interventismo può avere diverse ragioni. Una è economica-organizzativa: gli ospedali sono attualmente remunerati a prestazione, cioè a seguito dell’intervento e a seconda del tipo di intervento. Questo favorisce il fatto che si tenda a tenere il malato il minor tempo possibile, spesso però a scapito di una diagnosi più approfondita e di una terapia più monitorata: parallelamente si favorisce l’esecuzione di un qualche intervento appena questo si presenta ragionevole. Dal punto di vista economico, se si interviene più presto, la degenza costa di meno. La struttura sanitaria viene allora a organizzarsi per intervenire il più presto possibile e dimettere il malato. Questo spesso comporta uno scadimento della qualità della cura erogata. La Sanità è un’azienda che eroga un prodotto che si chiama salute: per erogare questo prodotto ci sono dei costi. In ogni azienda si valuta bene quanto spendere per ottenere un prodotto di sufficiente qualità. Se un’azienda investisse poco contentandosi di avere un cattivo prodotto, prima o poi fallirebbe. Per questo ogni azienda istituisce il “controllo qualità”. Nella Sanità invece non c’è un controllo qualità da commisurare adeguatamente ai costi: gli ospedali vengono comunque remunerati in base alle prestazioni eseguite e dichiarate e queste di conseguenza possono non venire adeguatamente valutate e soppesate. Una sorta di controllo qualità si limita ai casi di malpractice, quando l’esito della prestazione erogata è chiaramente fallimentare, e di solito imputabile a colpe o incidenti, ma non si valuta certo l’ottimalità della prestazione, la “bontà del prodotto”, per vedere quanto economicamente e a più lungo termine sia conveniente incrementarla. In ogni impresa commerciale si fa questa valutazione “in positivo”: più il prodotto è buono, più può essere conveniente spendere. Nella Sanità invece non viene di solito calcolato questo beneficio a lungo termine, di un’assistenza migliore: si fa una valutazione in negativo, tenendo conto solo di quando il prodotto è fallimentare. In tal modo le organizzazioni sanitarie si preoccupano soltanto che non “succedano guai”: ma in tal modo, visto che la remunerazione resta costante per intervento indipendentemente dalle sue qualità, si tende a produrre il maggior numero di interventi nel più breve tempo possibile senza adeguata valutazione in positivo della loro “qualità”. Si favorisce così l’interventismo. Non effettuando rilevazioni e sufficienti segnali circa la buona qualità di un prodotto scadente, ci si accontenta di un prodotto appena sufficiente. L’organizzazione tende ad abbreviare l’indagine, l’osservazione, l’ascolto stesso del malato, il contatto con gli operatori. È ovvio che se un medico impiega dieci minuti a fare l’anamnesi piuttosto che mezz’ora e, quando fa il giro, sta con il paziente tre minuti piuttosto che dieci, una tale prestazione costa meno al sistema. Un’azienda metalmeccanica, se accelera troppo i tempi di produzione e trascura la precisione dei suoi impianti, si accorge subito che il risparmio non vale la pena: se i suoi bulloni sono scadenti, il suo utente non glieli compererà più. In Sanità invece non c’è riscontro sufficiente, e una parallela valutazione di quanto può essere utile spendere. D’altra parte il controllo qualità sul “prodotto salute” è più complesso rispetto a un omologo controllo su un prodotto industriale concreto. Gli studi di socioeconomia sanitaria non sono semplici.
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Ma un’altra ragione che favorisce l’interventismo, più sottile, squisitamente emotiva, appartiene all’animo degli operatori. Per qualunque persona, tollerare situazioni di incertezza è spiacevole. A maggior ragione è spiacevole per l’operatore tollerare l’incertezza di un certo malato, tollerare che non si è capito ancora abbastanza, che non si sa bene quale farmaco scegliere, quale altro intervento fare, che decorso avrà la malattia, che forse non si potrà guarire. L’animo dell’operatore, di fronte a situazioni incerte, può spesso essere indotto a intervenire “in qualche modo”, talora precocemente, talora “tentando” un qualche rimedio. Spesso è il paziente che induce (come abbiamo descritto) un intervento comunque esso sia. Noi tutti vorremmo poter dire “abbiamo visto, abbiamo capito, facciamo quello che è indicato fare”. Purtroppo questo, spesso, non è possibile. D’altra parte la situazione di incertezza ci pesa e spesso pesa perché la si sente come fosse una colpa. Ecco allora che si sviluppa, il più delle volte inconsapevolmente, un’ansia nell’operatore: “bisogna fare qualche cosa il più presto possibile”. Ecco allora che la valutazione di quanto aspettare viene a essere compromessa. Questa disposizione d’animo è un meccanismo naturale dell’essere umano: in ogni situazione di incertezza, e non solo nella pratica medica, si può essere tentati di dire “proviamo, buttiamoci”. È ovvio che in situazioni di emergenza bisogna anche “buttarsi”: la valutazione esatta del livello d’urgenza non è facile. Ma molte volte si possono così intraprendere azioni avventate. È connaturato nell’essere umano avere questa disposizione emotiva, non tollerare le incertezze e sentirsi in colpa se non si è capaci di far subito qualche cosa di buono. Questa disposizione dell’animo umano è particolarmente sviluppata nei medici che si sentono investiti di responsabilità: devono fare qualche cosa, devono sentirsi capaci. Questa disposizione di animo collude con le ragioni organizzative-economiche dette prima nel determinare l’interventismo. E collude con le aspettative del paziente: questi si è abituato, nella cultura attuale, a nutrire aspettative pressoché onnipotenti nei confronti delle scienze, e in particolare nella medicina, verso la quale queste aspettative crescono per naturali emozioni in proporzione al grado di bisogno del momento. Il paziente dunque chiede, esplicitamente o implicitamente, che il medico sappia subito cosa si deve fare esattamente per guarire e che lo faccia altrettanto subito. Tale “domanda” si fa sentire nell’animo dell’operatore; il quale, oltretutto, è egli stesso contagiato dallo spirito di onnipotenza che regna nella cultura scientifica, e pertanto può facilmente sentirsi in colpa (inconsapevolmente), se non è in grado di fare subito quel che gli viene da credere che vada comunque fatto. Dai pazienti dunque derivano ulteriori motivazioni allo spirito interventista. L’interventismo che aleggia nella pratica medica viene rinforzato dal concretismo: il mito dell’oggettività, corroborato dal transitivismo, configura l’intervento come concreto e in tal modo, con una sorta di cortocircuito coscienzialista, alla mente dell’operatore si presenta pregnante la concretezza di “ciò che fa”, scotomizzando il fatto che in ciò che si deve fare rientra anche quello che concerne il bisogno del paziente di un’assistenza fatta di ascolto, partecipazione, comprensione; pazienza, dunque, per il paziente, appunto. L’operatore
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(questo vale per l’infermiere ancor più che per il medico) si trova così nella situazione che al di là delle operazioni tecniche prescritte dal suo ruolo – operazioni concrete al cui intervento si sente “spinto” – non riesce a pensare che il malato abbia bisogno di altro. Il medicus ipse farmacum, che vale qui più per l’infermiere che per il medico, viene neutralizzato con tutte le sue conseguenze psicosomatiche (cfr. Capp. 7 e 8). E infine è da tenere in conto che spesso chi sceglie una professione sanitaria è mosso a tale scelta da una motivazione a “salvare” la gente. Spirito salvifico: giusto, ma di fronte alle inevitabili delusioni che questa motivazione incontra nella pratica medica, dove si scontra con l’ineluttabilità di molte malattie, si può generare una frustrazione interiore che può corroborare l’interventismo. In conclusione, questo nostro discorso mira a ricordare a tutti gli operatori della Sanità che occorre tenere presenti i suddescritti difetti se vogliamo migliorare la nostra prassi. Un ultimo accento utile riguarda il clima collettivo in cui si svolge l’azione sanitaria. I sopradescritti difetti, o meglio “spiriti” (cfr. Cap. 12), non si esplicano quasi mai nella condotta del singolo, anche se appartengono all’animo di ognuno, ma trovano la loro forza, la loro applicazione, e purtroppo i loro effetti, nella collettività degli operatori sanitari, nello spirito dell’istituzione e da qui nella prassi corrente. Si tratta di strutture psichiche del collettivo: difficili dunque da cambiare. Analizzando l’istituzione (cfr. Cap. 12), avremo occasione di commentare l’affermazione di Elliott Jaques, rimasta celebre: “l’istituzione non serve ai suoi utenti, serve agli operatori”.
Capitolo 3 Come si forma e funziona una mente 3.1 Mente e cervello: concetto di mente come insieme funzionale del SNC; pregiudizi nella cultura popolare e in quella medica; affettività come insieme di funzioni mentali-neurali; affettività come cognizione; maturazione neurale come strutturazione di apprendimenti: nessuno ha un cervello-mente uguale a un altro; errato concetto di “causa” nelle anomalie mentali; apprendimento come funzione di un dialogo. 3.2 “Lo psicologico” e il “cervello”: “tutti siamo un po’ psicologi”?; pregiudizi dei mass media; ipervalutazione dei fattori genetici nello sviluppo; misconoscenza del mentale come evento neurale. 3.3 I processi mentali: non si apprende l’esperienza, ma dall’esperienza; strutturazione in memoria e memoria plastica; elaborazione mentale=neurale; analisi della percezione. 3.4 Il cervello impara a imparare: a cominciare dal feto: concezione estesa dell’apprendimento: apprendimenti e memorie impliciti; personalità, carattere e temperamento come apprendimenti; apprendimento fetale e prime strutture mentali. 3.5 L’irrepetibilità della mente del singolo: assemblaggio selettivo delle afferenze; anche i gemelli monozigoti hanno un cervello diverso. 3.6 Significati e significanti: significante come assemblaggio di tracce mnestiche in connessioni neurali; protosignificati per imparare meglio; apprendimento dell’affettività. 3.7 Memoria e ricordo: ciò che si ricorda non coincide con la memoria effettiva, ma solo con ciò che dalla memoria viene filtrato nella coscienza; memoria implicita; classificazioni della memoria.
3.1 Mente e cervello Nei precedenti capitoli è stato sottolineato come l’osservazione (del paziente) e tutti gli atti della prassi medica dipendano dalla mente dell’operatore, intesa nel suo senso più ampio (funzionamento inconsapevole, relazionale, situazionale), come strumento centrale, che legge, o meglio interpreta, i dati mediati dalle proprie sensorialità e da tutti gli altri strumenti tecnologici. Strumento centrale è dunque la mente, in quanto filtro selettivo di ogni informazione ed elaboratore di ogni input, in una loro decodifica che ne travalica la fisicità obiettiva. Si ricordi inoltre che tale codifica, filtrata nell’input ed elaborata correttamente, viene a essere nota all’operatore attraverso l’ulteriore filtro della sua coscienza (cfr. Cap. 5); mente non vuol dire consapevolezza. Nei precedenti capitoli è stata altresì sottolineata la complessità del funzionamento di questo strumento-mente e la possibilità che i suoi risultati nella prassi medica possano essere quanto mai variabili e spesso inappropriati a quanto sarebbe ottimale e desiderabile. Ed è stato sottolineato (cfr. Cap. 1) come pertanto sia opportuno che l’operatore sanitario conosca alcuni rudimenti di come funziona questo suo strumento, onde possa migliorare la valutazione dei dati che la sua mente elabora e le indicazioni che detto strumento gli fornisce per la quaA. Imbasciati, La mente medica Che significa “umanizzazione” della medicina? © Springer 2008
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lità della sua prassi medica. Ancora una volta è necessario spogliarsi dell’abitudine a considerare ipso facto obiettivo, e pertanto appropriato, ciò che invece è mediato da una soggettività che va ben oltre la consapevolezza del soggetto stesso. E spogliarsi dell’inveterata abitudine a considerare obiettivo ciò che appare lucidamente cognitivo, e a considerarlo separato dalla sfera del funzionamento affettivo-emotivo dell’operatore. L’attuale conoscenza scientifica del funzionamento mentale considera inscindibili e tra di loro comunque intrecciate le funzionalità che sottendono quanto appare affettivo, piuttosto che cognitivo, alla coscienza del soggetto. L’“obiettività” pertanto non è semplicemente ciò che appare chiaro all’osservazione dell’operatore. Vediamo dunque alcune peculiarità del funzionamento dei processi mentali. Cominciamo con un pregiudizio della cultura popolare, che spesso permea anche la cultura scientifica: si crede che il patrimonio genetico faccia sì che noi abbiamo un certo cervello (un certo apparato neurale), che si sviluppa in modo più o meno uguale per tutti gli individui; tale sviluppo determinerebbe un funzionamento mentale altrettanto uguale per tutti, che viene denominato normale. Il pregiudizio consiste nel pensare che un apparato neurale così concepito sia automaticamente la mente: siccome abbiamo il cervello che si sviluppa così, avremo una mente che anch’essa si sviluppa allo stesso modo, come diretta conseguenza del programma genetico. Ne consegue che se si riscontra qualcosa che non quadra con quanto è stato definito “normale”, si pensa che una qualche causa abbia agito sul cervello per guastare lo sviluppo della mente. In questo ragionamento abbiamo una visione della mente molto riduttiva: con “mente” si intende per esempio che una persona ragioni e che non sragioni, che capisca le cose che sono evidenti, che un ragazzo a otto anni faccia certi ragionamenti, a quindici altri, a venti altri ancora. Quando diciamo mente, abbiamo dell’attività mentale una visione per grosse categorie, ognuna peraltro discutibile e poco definibile, e pertanto una visione molto grossolana. In funzione di questa, cogliamo le anomalie in modo altrettanto grossolano. Se una persona afferma che le mucche possono volare, l’osservazione è chiaramente anomala: pensiamo subito “questa mente non funziona”. Ma si pensa anche che qualcosa abbia guastato il funzionamento del cervello di quella persona; funzionamento che avrebbe dovuto essere normale, dato che assumiamo che tutti gli uomini abbiano lo stesso cervello, col medesimo sviluppo, determinati dal corredo genetico dell’Homo sapiens. In altri termini si cerca una causa della grossa anomalia mentale riscontrata, e la si cerca di solito nell’ambito del biologico: un guasto nel cervello. O comunque si pensa a un evento psichico che abbia provocato una qualche alterazione in quello che dovrebbe essere il regolare sviluppo del cervello e quindi della mente. Per le anomalie meno grossolane, si pensa diversamente: se un soggetto, per esempio, accusa d’essere preso da una grande paura alla vista di un topo, o se constatiamo, in un’altra persona, una veramente eccessiva meticolosità e pignoleria, restiamo dubbiosi sul fatto di catalogare l’evento come patologico: e non si pensa, di solito, a cause che abbiano “guastato” quel cervello; si cer-
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cano altre ragioni, invocando concetti scientificamente poco definiti (per esempio “carattere”) e siamo indecisi se considerare il caso normale o anormale. Parimenti non pensiamo a una “causa” che abbia guastato qualcosa, ma al contempo collochiamo questi fenomeni fuori dal concetto di mentale, che riserviamo invece a tutto quanto si attribuisce al cervello. La concezione meccanicistica del “guasto nel cervello” si è dimostrata sbagliata da più di trenta-quarant’anni, ma permane. Sotteso al suddetto modo di pensare, stereotipico e pregiudiziale, stanno: a) un’osservazione con catalogazioni peraltro grossolane e riduttive del fenomeno mentale; b) l’attribuzione delle piccole devianze, casomai osservate, non alla mente ma ad altre entità non meglio definite da denominazioni precise e univoche: alla “mente” si attribuiscono solo i rilievi più salienti; c) l’espunzione dal concetto di mentale di sentimenti, affetti, emozioni, motivazioni; d) l’assunto che il mentale sia la conseguenza automatica e diretta del neurologico; e) che questo sia predeterminato dalla genetica anche nel suo sviluppo, uguale quindi per tutti; f) che il tutto sia regolato da una causalità lineare. Questa concezione meccanicistica si è dimostrata errata e il riconoscimento è legato a un ridimensionamento, avvenuto in queste ultime decadi, del concetto di maturazione neurologica, riguardante il sistema nervoso centrale (SNC) e l’encefalo in particolare. Sappiamo che il tessuto nervoso “matura” durante lo sviluppo embrionale e poi fetale, e oltre la nascita, nelle prime settimane di vita, soprattutto a riguardo della mielinizzazione delle fibre. Questa maturazione, quale fino ad alcune decadi or sono poteva essere osservata con gli strumenti di cui si disponeva, appariva dovuta, per la massima parte, al programma genetico. Questo ha indotto a pensare che la maturazione, in toto, fosse essenzialmente e totalmente dovuta alla genetica. Progredendo invece la disponibilità di strumenti tecnologici più fini, si è visto che una parte, man mano scopertasi più importante, di questa maturazione, era dovuta all’esperienza: del neonato (e del bimbo) e anche del feto (Manfredi, Imbasciati, 2004; Imbasciati, Dabrassi, Cena, 2007). È in relazione a questa, oltre che alla dotazione genetica, che procede la maturazione: l’esperienza condiziona le proliferazioni dendritiche e neuronali e le connessioni sinaptiche. Sono queste che determinano la selezione di popolazioni neuronali e la funzionalità di aree, o reti, neuronali. Ben presto si è visto che l’architettura corticale dei ratti è differente a seconda dell’esperienza del campione: a seconda cioè che i ratti siano stati sottoposti a un determinato apprendimento, piuttosto che a un altro. Si è così evidenziato, anche per l’uomo, che la funzionalità di un cervello è diversa da individuo a individuo, a seconda dell’esperienza che questi ha attraversato ed elaborato: il “mentale”, dunque, ha come condizione necessaria che ci sia un certo cervello determinato dal corredo genetico, ma questa non è una condizione sufficiente a determinarne il funzionamento; il “mentale” si rivela squisitamente individuale in quanto le connessioni neurali che lo generano sono in relazione all’esperienza di quel soggetto. Nessuno ha un cervello esattamente identico a quello di un altro.
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Parallelamente al ridimensionamento del concetto di maturazione, lo sviluppo delle scienze psicologiche ha permesso di individuare le funzioni mentali in modo estremamente più fine e dettagliato rispetto alle precedenti grossolane catalogazioni, e di evidenziare come ognuna di queste funzioni sia acquisita, cioè dipenda da un qualche apprendimento. Ogni soggetto “impara” dalla sua esperienza: il suo cervello deve imparare; sono gli apprendimenti che determinano la struttura funzionale, ovvero la struttura mentale. La macromorfologia del cervello è data dalla genetica, ma la micromorfologia, cioè la funzionalità, è data dagli apprendimenti. La genetica ci fornisce di un hardware, ma questo deve imparare e ognuno impara diversamente anche dalla stessa esperienza perché ogni singolo ha il suo modo di imparare. L’apprendimento non consiste semplicemente nell’imprimersi “dentro” dell’esperienza recepita dall’esterno, ma nel modo in cui una certa capacità di apprendere elabora, e struttura in memoria, ciò che gli viene offerto dalla ricezione delle vicende esterne. Inoltre ben presto il sistema “produce” qualcosa per sua attività, per esempio, immagini, sentimenti e pensieri, e questo prodotto interno entra nell’elaborazione dell’esperienza esterna, determinando complessivamente ciò che viene appreso da l’esperienza. Con quel “da” (che si rifà al titolo di un famoso libro di Bion, 1962: “Learning from experience”) si intende che non si apprende l’esperienza in sé, quella per così dire “reale”, obiettiva, ma quel che l’apparato mentale ne ricava in relazione al proprio tipo di funzionamento e alle relative produzioni interne. Si apprende dall’esperienza secondo la propria struttura soggettiva: la struttura mentale del singolo. Per queste ragioni ogni singolo soggetto ha la sua peculiare e irrepetibile struttura mentale. In questo quadro la patologia mentale non può essere individuata ricercando una causa che abbia turbato lo sviluppo biologico primario del cervello, o comunque compromessa una funzionalità che si pensava essere predeterminata (un simile ragionamento va limitato a quei casi in cui un’ingiuria macroscopica – traumi cranici, emorragie, trombosi, ecc. – abbia leso il cervello), bensì dovremmo cercarla primariamente nella serie progressiva (e pressoché infinita) di tutti gli apprendimenti (da ogni esperienza) che hanno strutturato quel tipo di funzionalità di quel soggetto. Il concetto di patologia mentale deve essere ridimensionato rispetto a quello di patologia neurologica: è ovvio che lesioni al sistema nervoso, traumatiche, virali, o difetti genici, alterano anche il funzionamento mentale, ma questo concerne le alterazioni più macroscopiche. Il concetto di mente, o di funzionamento mentale, è ben più fine, considerato dal punto di vista psicologico, o anche da quello della neurobiologia attuale. Pertanto, considerando una patologia squisitamente mentale, è fuorviante parlare di “causa”: si tratta semmai di una causalità a rete, infinita, costituita dall’infinita varietà degli apprendimenti di quel soggetto. Il concetto di trauma applicato allo psichico è impreciso ed equivoco (Imbasciati, 2006d, e): fa pensare alla concezione errata, oggi contestata, ma pur tenace nella cultura popolare, e anche talora in quella scientifica malgrado il progresso di alcuni decenni di ricerche, che la mente (e il cervello) possa essere considerato alla stregua
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del fegato, con una funzionalità uguale per tutti. Per lo psichico il concetto di normalità e quello di patologia non possono essere ancorati al biologico, come invece in medicina. Per quanto concerne l’apprendimento è opportuno qui ricordare quanto il concetto, a livello scientifico, sia differente dallo stereotipo di apprendimento che ricorre a livello popolare. Non c’è soltanto l’apprendimento adulto, non c’è soltanto l’apprendimento verbale. Pensiamo ai bambini: quante cose impara un bimbo prima che impari a parlare! Un bimbo di tre mesi è molto diverso da uno di quattro e da uno di cinque: ha imparato molte cose (capacità) di più. L’apprendimento va quindi inteso in senso lato. La maturazione dell’apparato neurale è funzione di ciò che un individuo ha elaborato in tutti i suoi apprendimenti, a cominciare da quelli più precoci, in epoca neonatale. E non si tratta di una ritenzione passiva: è una elaborazione e una continua rielaborazione; ogni apprendimento serve per i successivi apprendimenti; uno impara a imparare delle “cose” (non soltanto “contenuti”, ma soprattutto abilità) a seconda di come ha imparato a imparare. È l’elaborazione dell’esperienza fatta dal singolo individuo che condiziona il suo cervello. Se assimiliamo questa nozione, viene a cadere la concezione semplicistica per cui, quando qualche cosa della mente non funziona, ci chiediamo che cosa ha guastato il meccanismo. Se per esempio riscontriamo un ritardo mentale in un bimbo alle scuole elementari, è fuorviante pensare a qualcosa che abbia guastato un meccanismo maturativo che si pensava predeterminato. La maturazione stessa è concetto legato all’esperienza. Un neonato, lasciato nella culla, anche se sta quieto e non piange, impara molto di meno di un altro che viene preso e tenuto in braccio, dove interagisce con l’adulto, dialoga preverbalmente, e apprende. Altra nozione, che svilupperemo, riguarda il fatto che l’apprendimento è funzione di un qualche dialogo. L’apprendere da l’esperienza si riferisce quasi sempre a un’esperienza relazionale. L’adulto che si prende cura di un bimbo modula i di lui apprendimenti: gli “insegna”, e questo ancor prima che il bimbo parli (cfr. Cap. 6). Ma anche dopo gli “insegnerà”, e soprattutto nella progressione dei dialoghi non verbali che continuamente intercorrono e sottendono ogni azione e interazione. Bisogna spogliarsi del pregiudizio popolare per cui quando riscontriamo qualcosa deviante dalla media nelle prestazioni mentali, d’acchito pensiamo a una causa che ha guastato un meccanismo naturale. Con un’aggiornata concezione dell’apprendimento e dell’organizzarsi, anzi “costruirsi” (Imbasciati, 1998a) della struttura mentale, facilmente saremo portati a osservare il mentale meno grossolanamente. Quanto, per esempio, chiamiamo “carattere”, indica una gran quantità di funzioni mentali diverse e complesse; così pure quello che chiamiamo “affetto”, “abitudini di condotta”, “stili di vita”. È sempre il nostro cervello che sta lavorando, e ogni cervello lavora a seconda dei vari collegamenti neurali che nella sua storia ha stabilito, a seconda delle varie popolazioni di neuroni che ha mobilitato, in certe reti sinaptiche, in funzione dell’esperienza che quel singolo ha potuto elaborare.
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3.2 “Lo psicologico” e “il cervello” Un altro pregiudizio popolare spesso prende la mano alla divulgazione scientifica. La scientificità delle scienze biologiche viene unanimemente riconosciuta: ciò che si “vede” con gli strumenti tecnologici, soprattutto della genetica e della biochimica, nella struttura e nel funzionamento delle varie parti corporee, può essere altrettanto indagato nel cervello: si pensa pertanto che con tale indagine biologica si possa spiegare il comportamento umano. Ma rimane in ombra il fatto che questo ordine di dati, mediati dai corrispettivi strumenti, ci dà una visione insufficiente e comunque incompleta per una spiegazione della complessità delle varie condotte che ogni singolo essere umano è in grado di dispiegare. Rimane in ombra, come sapere misconosciuto, il contributo scientifico delle scienze psicologiche. Della psicologia si ha una concezione a metà tra quella ereditata dalla tradizione filosofica (una psicologia speculativa anziché sperimentale) e una sopravvenuta ambiziosa e popolare faciloneria per cui si pensa che tutti siamo “un po’” psicologi e “gli psicologi” sono quelli che hanno coltivato la loro dote naturale. Quanto viene definito “psicologico” sarebbe l’intuizione di qualunque essere umano, nel migliore dei casi, se non frequentemente il savoir faire comune, la furbizia e la salottiera conversazione. Nella cultura comune i mass-media han fatto conoscere il mondo delle biotecnologie, ma molto meno i principi scientifici delle scienze psicologiche e il progresso raggiunto oggi da queste scienze: di esse si parla solo a livello del più grossolano riduzionismo, se non di mistificazione compiacente alle aspettative popolari. Ricorre così l’idea che ciò che accade nel cervello, nelle molecole del suo funzionamento, sia l’unica spiegazione scientifica dei comportamenti umani e che pertanto ciò che può dire una cosiddetta psicologia sia qualcosa di opinabile, a discrezione di tutti. Questa visione popolare ha talora una sua eco anche nella letteratura scientifica. Si ha una sorta di effetto alone, di disconoscenza scientifica circa l’area di indagine e i metodi delle scienze psicologiche e viene operata una completa scissione tra lo psicologico e il neurobiologico, come se fossero non semplicemente due modi diversi di osservare lo stesso oggetto, ma come se riguardassero due ambiti di conoscenza totalmente diversi e solo il secondo fosse scientifico. Resta in ombra il fatto che “psicologico” va riferito a una serie di metodi, scientifici, che indagano la stessa cosa, lo stesso oggetto che viene indagato anche dalle neuroscienze. Ciò che viene osservato con le biotecnologie rappresenta un “vertice” di osservazione dei medesimi eventi osservati da altri vertici, mediati dagli strumenti delle scienze psicologiche: l’uno e gli altri vertici, le une e le altre metodologie, forniscono dati che possono essere usati per spiegare le condotte umane; e gli uni e gli altri sono inscindibili. Non si dà nulla di psichico che non sia anche qualcosa di biologico che accade nel cervello: viceversa di qualunque processo che avviene nel cervello può essere rinvenuto il corrispettivo psichico. Sono le due facce della stessa medaglia: è intrinsecamente contraddittorio cercare un rapporto di causalità tra i due; come invece si crede pensando che il biologico primariamente causi lo psichico. Qualunque evento che la mente elabora a seguito delle informazioni che vengono recepite
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dagli organi di senso e poi elaborate, o prodotte internamente dalla memoria e dalla continua produzione del sistema (cfr. Cap. 1.2), ha il suo corrispettivo neurale, anzi produce il corrispettivo neurale. Per meglio capire la misconoscenza che regna nella divulgazione scientifica a questo proposito, e la scissione ivi operata tra lo psichico e il biologico, possono essere qui utili alcuni esempi, tratti proprio da tale divulgazione. Su due noti quotidiani italiani (Corriere della Sera e La Repubblica) escono nello stesso giorno (agosto 2005) due paginoni simili (“scientifico-culturali”), nei quali si annuncia solennemente che è stato scoperto il gene del linguaggio, presentato come la causa del fatto che l’uomo parla e i primati no. In realtà si parla dell’area temporo-occipitale del cervello, che negli umani è più sviluppata, macroscopicamente, quanto a circonvoluzioni e quindi a materia grigia, rispetto allo scimpanzé. Il fatto è risaputo da decenni: quest’area viene appunto detta del linguaggio (nel secolo scorso la si denominava area di Broca, dall’anatomico che per primo l’aveva individuata), perché permette agli umani di acquisire il linguaggio. Questa conformazione del cervello umano è dovuta al corredo genetico: ma un conto è che questo permetta all’uomo di acquisire il linguaggio, altro conto affermare, come fa l’articolo, che questo causi, automaticamente per sviluppo genetico, il fatto che l’uomo parli. In realtà una struttura macromorfologica, specifica degli umani, costituisce la condizione necessaria perché si apprenda il linguaggio, ma non sufficiente. Senza apprendimento la morfologia di partenza non è di per sé sufficiente perché l’uomo parli. Altrimenti si potrebbe pensare che tutti gli esseri umani debbano parlare la stessa lingua. Quella parte di cervello è l’hardware che permette di incorporare il linguaggio: è la parte, appunto, che deve imparare. Ma i due articoli in questione assolutamente scotomizzano l’apprendimento e presentano tutta la questione come se fossero la genetica e la biologia del cervello con una loro maturazione automatica, scissa dall’esperienza, a determinare il fatto che gli esseri umani parlano. Uno dei pezzi delle composizioni in questione porta la firma di un noto fisiologo: è augurabile che il pezzo sia stato manipolato dai giornalisti. Resta tuttavia il fatto che gli articoli in questione riscuotono l’interesse del pubblico in quanto ricalcano i pregiudizi e gli stereotipi a proposito del concetto di maturazione, e una completa scissione tra neurobiologia e psicologia (cioè studio delle modalità di apprendimento), a totale, esclusivo favore della prima. Un altro esempio ancor più saliente lo vediamo su La Repubblica del 24/08/05: “svelato il segreto dell’effetto placebo”. Il sottotitolo è eloquente: “niente suggestione: è un meccanismo chimico a far guarire i pazienti”. Dunque la “suggestione”, ovvero l’insieme dei processi psichici che si mettono in moto quando a un soggetto si prescrive un farmaco a effetto nullo facendogli credere (con tutta l’autorevolezza medica) che gioverà alla sua malattia, non esisterebbe! Non esisterebbero tali processi psichici: lo psichico viene negato, ma così si nega che i suddetti processi psichici, messi in moto da quanto il medico che conduce l’esperimento dice falsamente al paziente, hanno il loro corrispettivo neurale, con mediatori chimici; quali appunto quelli di cui si
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annuncia la scoperta. Qualunque evento psichico, dai più semplici come quelli inerenti alla percezione, ai più complessi (pensieri, sentimenti, credenze, azioni, anche semplicemente motorie) hanno un correlato neurobiologico. Una finestra in quell’articolo chiarisce ancor più lo stereotipo circa “lo psicologico”: si legge infatti “il condizionamento è psicologico ma le conseguenze nel cervello sono reali”. Dunque lo “psicologico” non sarebbe reale! Anche se si afferma che l’effetto placebo è dovuto a processi chimici. In realtà sotto l’affermazione contraddittoria stanno: a) l’applicazione impropria di un principio di causalità lineare; b) l’idea che lo psicologico apparterebbe comunque al regno non scientifico delle conversazioni salottiere; c) e che il neurobiologico, unico fattore reale e scientifico, niente abbia a che fare con lo psicologico. Si ignora che le scienze psicologiche da molti decenni stanno studiando sperimentalmente la mente, lo sviluppo e l’articolarsi dei processi psichici, la costruzione per apprendimenti di progressive capacità di operazioni mentali complesse, anche di quelle più sfuggenti, come gli affetti, i sentimenti, le motivazioni inconsapevoli, che pur operano nel regolare le condotte e che tali studi vengono correlati con i dati delle neuroscienze. Della “mente” si ha una visione riduttiva e mistificata, forse meglio espressa col più antico termine “psiche”, quasi fosse una sostanza metafisica; sulla quale chiunque può discutere senza la minima professionalità. Questa visione della psicologia, dello “psicologico” come esso fosse argomentato senza fondamento alcuno, non “reale”, appunto, non obbedisce soltanto a ignoranza. A mio avviso interviene anche una sorta di economia emotiva (in psicoanalisi si parlerebbe di difese): è più comodo pensare che le condotte umane, e il mondo interiore che le governa, obbediscano a meccanismi predeterminati della natura , estranei quindi alla soggettività, in quanto questa, entro gli sfuggenti limiti della coscienza, vorrebbe invece essere arbitra di se stessa, e si sente frustrata (o in colpa) a constatare di non esserlo. Un ultimo esempio della scissione tra il biologico e lo psicologico lo vediamo su di un altro articolo del supplemento Scienza de La Repubblica (27/08/05) a proposito dell’omeopatia. Riferendo, “giornalisticamente”, di una ricerca svizzera che avrebbe riscontrato un effetto biochimico nullo per certi farmaci omeopatici, l’articolo, con titoli a corpo pieno e finestre colorate, proclama “Finti rimedi”, “si tratta solo di effetto placebo, i medici dicono la verità”, “i dottori devono dire chiaro e tondo ai loro assistiti che quelle cure non danno alcun beneficio”. Nell’articolo dunque: a) si estende arbitrariamente l’esito di una singola ricerca a tutta l’omeopatia; b) l’effetto placebo, che pure è comunque curativo, viene considerato falso, anzi un imbroglio che una onesta medicina biologica dovrebbe combattere; c) dando esclusivo peso a quanto riscontrato in laboratorio, si omette di considerare che l’effetto placebo, psicologico, determina processi neurali e che questi possono essere la base biologica dell’effetto terapeutico. Come conseguenza si evita di considerare la complessità dei processi mentali (cognitivi e anche affettivo-emotivi coi rispettivi correlati neurali) che originano l’effetto placebo: la complessità, cioè, della mente umana.
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In conclusione possiamo affermare che nella cultura scientifico-divulgativa imperano misconoscenze e stereotipi che ricalcano il semplicismo economico di un pensiero popolare: questa collusione può essere realizzata in quanto tali concezioni dormono, per così dire, anche nell’animo di parecchi scienziati e nella cultura medica del nostro collettivo. Di qui l’opportunità che i futuri medici possano cambiare tale clima, a vantaggio di una più adeguata scientificità.
3.3 I processi mentali La predeterminazione genetica interessa la macromorfologia del cervello e il numero dei neuroni, ma tutte le loro connessioni sono in funzione dell’esperienza. Vediamo più in dettaglio come questa agisce. Sarebbe ingenuo pensare che ci sia un cervello uguale a un altro, visto che la maturazione neurologica è frutto di un’esperienza e visto che l’esperienza è peculiare di ogni singolo individuo. È impossibile che due individui abbiano la stessa esperienza: ci potranno essere individui che hanno esperienze simili, ma è praticamente impossibile che l’esperienza di A sia uguale all’esperienza di B, neppure se si tratta di gemelli monozigotici: infatti la loro esperienza fetale è diversa, per la loro diversa posizione in utero e la conseguente differente stimolazione recepita; così pure nel canale del parto la loro esperienza sarà profondamente diversa. Questa diversità iniziale condizionerà il tipo di elaborazione che sarà operata su tutte le successive esperienze. Quindi è impossibile che ci sia un cervello che funzioni esattamente come quello di un altro. C’è un certo raggio di esperienze simili per tutti gli esseri umani, dovuto al fatto che gli organi sensoriali sono uguali per tutti: per esempio tutti noi abbiamo gli occhi in posizione frontale, e non laterale come altri animali; e abbiamo una pelle glabra. Ciò condiziona esperienze molto diverse da quelle di altri animali e invece simili per l’essere umano. Ma non uguali: ogni singolo avrà non solo la sua peculiare esperienza, ma anche il suo peculiare modo di elaborarla. È ingenuo inoltre pensare che questa esperienza sia un trasferimento di ciò che succede fuori, intorno all’individuo, al suo dentro, che si imprima cioè come tale nella sua mente. Nella testa di questo individuo non ci sono delle cineprese che registrano. L’esperienza di cui si parla non è tanto l’insieme di avvenimenti attraversati, ma ciò che da questi elementi l’individuo recepisce, ciò che registra e soprattutto elabora e codifica, strutturandolo con le sue specifiche individuali capacità: è questa la memoria, che a sua volta sarà decisiva per ogni ulteriore strutturazione. L’esperienza è mediata dagli organi sensoriali: si tratta di vedere che cosa questi organi sensoriali trasmettono al cervello e poi che cosa il cervello ne fa. Ciò che viene trasmesso al cervello dipende dalla struttura dell’organo sensoriale, ma non è detto che la realtà esterna, per esempio tutto quanto può essere colto dalla retina, sia impressa nel cervello. La retina è simile a una cinepresa, ma fino a un certo punto: le “immagini” che su di essa la fisica del diottro ocu-
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lare ci descrive, non sono immagini che vengono percepite. Sono immagini virtuali. Per arrivare alla percezione bisogna considerare non solo come l’effetto fisico del diottro oculare stimoli i recettori retinici ma soprattutto come, successivamente, l’input di questi sia elaborato. Ciò che i nervi ottici trasmettono attraversa un’elaborazione in stazioni successive: prima nei corpi genicolati, poi in sede talamica, quindi in sede cortico-temporale, nella scissura calcarina. Solo dopo queste elaborazioni neuronali qualche cosa verrà percepito (e memorizzato). Il problema è che queste trasformazioni a varie stazioni neuronali cambiano i connotati dei dati grezzi trasmessi dalla cinepresa-retina, e li cambiano a seconda di come questi centri di elaborazione hanno imparato a funzionare e a seconda di come l’encefalo in toto modula volta per volta la loro funzionalità. Analoghe trasformazioni avvengono per i suoni nella coclea, e per tutte le altre sensorialità. I centri di elaborazione funzionano così come le reti neuronali che li compongono hanno imparato a funzionare. Il problema dell’esperienza rimanda dunque a un precedente apprendimento funzionale, un apprendimento ad apprendere, a funzionare secondo certe modalità di elaborazione. Ciò fa parte della maturazione quale sopradescritta. Continuando l’esempio della retina, a seconda di come l’insieme dei neuroni delle varie stazioni neurali, soprattutto corticali, abbia imparato a funzionare, l’esperienza data dall’input retinico sarà differentemente elaborata. Quindi, se la retina può essere paragonata a una cinepresa, non è affatto vero che il cervello lo sia altrettanto. Occorre aver ben presente che cos’è la percezione, al di là degli ingenui luoghi comuni. La percezione non è un processo passivo bensì eminentemente attivo, anche se nell’adulto è automatizzato. Noi percepiamo il frutto di un’elaborazione che varie parti del nostro cervello operano sui dati di un recettore, o meglio di più e differenti recettori, e ciò in funzione di una precedente memoria funzionale (memoria implicita: cfr. oltre): la percezione è pertanto un processo mentale a pieno titolo. Facciamo un esempio semplice riferendoci all’esperienza visiva. Se consideriamo un oggetto elementare come potrebbe apparire un disco bianco disegnato su sfondo nero (come si può fare su una lavagna in aula), e chiediamo a un soggetto sufficientemente maturo (con un’età superiore ai cinque anni) di riferirci cosa vede, questi risponderà “un disco bianco”. Sembra tutto naturale: ma a livello teorico il nostro soggetto avrebbe potuto anche risponderci di vedere uno “sfondo nero con un buco bianco”: difficilmente però questo avviene. Perché si costituisca l’oggetto percettivo “disco bianco” non basta l’input1 afferenziale, ma sono necessarie tutta una serie di “operazioni”, ognuna delle quali può dirsi mentale. Innanzitutto occorre una “lettura” delle afferenze da parte del sistema in relazione alla distribuzione dei gradienti di stimolazione sulle varie zone della retina. È stato dimostrato che queste prime
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è solo una variazione dei treni di impulsi neurali in partenza dalla retina distribuiti secondo una certa geometria data dall’ottica del diottro oculare che ha proiettato una certa immagine sulla retina.
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operazioni, che sono ancora oggetto di discussione per quanto riguarda il loro essere innate o acquisite, sono presenti nei cuccioli di molti animali e nell’uomo già alla nascita. Inoltre è necessario un riconoscimento della forma geometrica circolare e per questo è necessaria una memoria precedente che sia organizzata in modo tale da riconoscere quella forma particolare. In aggiunta, il sistema mente dovrà separare le afferenze (foveali) che riguardano il disco bianco dalle altre afferenze visive concomitanti, come quelle che riguardano lo sfondo (extrafoveali). Inoltre devono essere tenute separate, anche se correlate, le afferenze visive da quelle della motricità oculare (afferenze propriocettive e registrazione di efferenze motorie): infatti se giro gli occhi verso un’altra direzione, non percepisco un cambiamento nell’oggetto, ma che ho rivolto il mio sguardo altrove. Stessa cosa accade rispetto alla motricità della testa e del collo. Ancora, il sistema mente dovrà tenere separate le afferenze visive rispetto a quelle di altre sensorialità, come quelle uditive (altrimenti avremmo la percezione di un “disco bianco che parla”), o quelle tattili (“un disco bianco che preme sul braccio”), ecc. Tutti questi apparati sensoriali sono contemporaneamente in funzione e mandano tutti gli input al cervello. Ma il cervello ne fa un’elaborazione particolare, e cioè li distingue. Stessa operazione deve essere fatta per quanto riguarda le afferenze enterocettive e cinestesiche: infatti, se ciò non avvenisse, quando abbiamo mal di pancia avremmo la percezione di un “disco bianco che mi fa male dentro la pancia”. Ancora, il sistema mente dovrà collocare l’oggetto in uno spazio al di fuori di sé: occorre cioè l’integrazione con un dentro-fuori corporeo. Infine, il sistema mente deve tener conto anche di tutte quelle informazioni che provengono dal proprio interno e che costituiscono i sentimenti, i pensieri, le immagini: occorre cioè l’integrazione con un dentro-fuori psichico (altrimenti ci si confonderebbe tra percezione e immaginazione, allucinazione e realtà, quindi un “disco bianco arrabbiato”, o un “disco che è anche un cavallo”). In pratica, tutti questi altri input sono tenuti da parte; non vengono fusi, o meglio, confusi con quelli sui quali lavora l’attività intrinseca al percepire. Col termine percezione può essere riassunto tutto un lavoro neuronale, di elaborazione, che fa sì che gli input retinici che non appartengono a ciò che andrà a configurarsi come “disco bianco” vengano tenuti separati e non considerati come tali rispetto al risultato percettivo (per maggior dettaglio cfr. Imbasciati, 1998a, Cap. 3.2). Cosa succederebbe se tutte queste operazioni non avvenissero? Basterebbe sottoporre un soggetto a una qualche situazione di deprivazione sensoriale, oppure somministrare allucinogeni: entrambe le situazioni provocano uno scompaginamento di tutte queste operazioni mentali che presiedono e predispongono il risultato percettivo cosiddetto normale. Per capire la complessità della percezione si fa spesso l’esempio dell’effetto cocktail-party: in un party riusciamo a capire le parole di quello che ci sta di fronte e che ci parla, ma non di tutti gli altri. Se però si usa un registratore, quello che dice l’interlocutore non sarà distinguibile. Perché? Perché non ci sono soltanto gli input acustici decifrati sul codice verbale e attribuiti all’interlocutore, ma ci sono anche tutti gli altri input acustici, di provenienza verbale
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e non, che nel contatto diretto vengono attribuiti ad altri, e ad altro, e non registrati nello stesso modo di quelli delle parole dell’interlocutore, come invece accade nel registratore. Inoltre nel contatto visivo faccia a faccia accade che agli input acustici provenienti dall’interlocutore vengano aggiunti alcuni input visivi (il modo in cui muove la bocca, la mimica, il gesto di quella persona), che entrano nel lavoro che li fa attribuire a quella stessa fonte acustica i cui input si stanno decifrando come verbali, in una integrazione che costituisce appunto l’attribuire a quelle persone ciò che viene decifrato come linguaggio verbale. Tutti gli altri input visivi vengono invece tenuti separati, e non integrati, così come l’insieme di tutti gli altri input acustici presenti in un party. Il risultato percettivo del colloquio diretto è costituito da tutto questo lavoro di selezione e integrazione. Occorre distinguere recezione da percezione. La recezione si riferisce agli input grezzi che i nostri recettori, strutturati in un certo modo dal programma genetico, mandano al cervello. La percezione è quello che il cervello ha imparato a organizzare, a elaborare in un certo modo, dagli input che riceve dai recettori. Alle illustrazioni di cui sopra può essere mossa un’obiezione: “tutti percepiscono allo stesso modo: questo fa pensare a qualcosa di genetico”. In realtà gli effetti simili per tutti gli individui (simili ma mai perfettamente eguali) sono dovuti al fatto che tutti hanno avuto una parte di esperienza simile per tutti: gli apprendimenti primari sono stati comuni a tutti. Per esempio, il fatto che tutti gli umani abbiano occhi frontali, anziché laterali come altri animali, impone un tipo di apprendimento visivo comune a tutti, sul quale si innesterà a sua volta un apprendimento funzionale anch’esso visivo, diverso per ogni individuo. Se l’esempio percettivo diventa più complesso, si rilevano le differenze: per esempio la percezione del verde da parte degli indios brasiliani è diversa dalla nostra; così pure la percezione del bianco da parte degli eschimesi; e comunque le percezioni più complesse risentiranno con più evidenza delle differenze individuali nell’apprendimento infantile. La percezione acustica di un cacciatore di professione o di un beduino allevato nel deserto sarà diversa da quella di un cittadino. Gli input inviati dalla coclea subiscono una complessa elaborazione lungo le vie auditive e nella corteccia: ma non avviene semplicemente che quelle lunghezze d’onda si tramutino in corrispondenti input del nervo cocleare, né che questo imprima una specie di fotografia acustica nel cervello. Nell’esempio del parlato occorre che si sappiano decifrare le parole, cioè occorre che, oltre aver imparato come la stragrande maggioranza di tutti gli uomini a separare le afferenze acustiche da quelle contemporanee visive o da quelle corporee, ci sia un’elaborazione (neurale) che riguarda la comprensione linguistica. Se non si conosce la lingua italiana, le parole che vengono dette in questa lingua suonano come un rumore. Non solo, ma a seconda del grado di competenza nella lingua italiana (non si parla di stranieri ma degli italiani che possono avere una competenza linguistica a livelli differenti) si possono cogliere certi significati piuttosto che altri. Tutto questo implica un precedente apprendimento di quella lingua e delle sue varie sfumature: di sintassi, gram-
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matica, lessico, vocabolario; cioè un confronto con precedenti apprendimenti. Non solo: ma, dato e non concesso che si capiscano tutte le sfumature linguistiche italiane, da un discorso di una certa complessità occorre trarre le conclusioni concettuali. E questo è un altro lavoro del nostro cervello, riconducibile ad altri apprendimenti acquisiti. E infine, se la percezione riguarda situazioni polisensoriali e di forme incerte, le differenze interindividuali saranno ancor più indicative del diverso lavoro del cervello di ciascun individuo. La percezione è dunque un processo complesso, attivo, che implica la messa in funzione di diverse stazioni neurali, il cui risultato può essere diverso a seconda di come le varie stazioni neurali si sono strutturate. C’è una percentuale di questa strutturazione comune a tutti gli individui, e un quantum, tanto maggiore quanto l’oggetto percettivo è complesso, che dipende dalla comprensione individuale, cioè dal lavoro (neurale) che quel singolo è in grado di compiere in funzione di ciò che ha acquisito: cioè in funzione della sua memoria funzionale, e di quanto la sua memoria gli fa organizzare in ciò che recepisce. Ma anche il primo tipo di strutturazione, comune a tutti gli individui, non è necessariamente genetico: può essere esperienza comune, come negli esempi prima riportati. I processi percettivi, dunque, che sembrerebbero automatici, determinati dalla struttura biologica degli apparati neurosensoriali, implicano in realtà un’elaborazione neurale che dipende da come le stazioni neurali hanno imparato a funzionare. L’esempio che è stato riportato, riguardante la percezione, serve a immaginare quanto più complesse possono essere le elaborazioni che hanno come risultato processi mentali più complessi, per esempio un’emozione, un sentimento, un atteggiamento, la possibilità di parlare, un … “pensiero”: e come in tutti questi percorsi possono lavorare memoria e apprendimento; nonché le varie modalità che un soggetto può avere imparato per compiere, appunto, i diversi lavori di memoria e apprendimento.
3.4 Il cervello impara a imparare: a cominciare dal feto L’esame della percezione, che di primo acchito appariva un evento semplice dovuto ad automatismi biologici, rivelando invece processi di apprendimento sia pure elementare, ci presenta un problema. Abbiamo visto come funziona un individuo relativamente formato, ma questo, nel suo passato, come ha imparato a funzionare in un modo piuttosto che in un altro? Per la costruzione dei processi percettivi possiamo considerare esperienze simili in tutti gli individui soltanto per quanto può essere attinente alla conformazione e alla posizione degli organi sensoriali: nell’esempio già citato, il fatto che abbiamo occhi in posizione frontale fa sì che tutti attraversino una determinata esperienza nell’esplorare lo spazio intorno a sé. Se i nostri occhi fossero laterali, come negli uccelli, l’esperienza sarebbe diversa e così pure l’organizzazione spaziale (cfr. percezione stereoscopica, Imbasciati, 1986). Così pure per il fatto di avere certi pigmenti retinici piuttosto che altri. Man mano che consideriamo funzioni più complesse di quelle inerenti a una singola sensorialità, il problema di come si
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impara e di come si impari a imparare diventa cruciale. Si impone una considerazione, e una comprensione, di come ciò che percepiamo viene elaborato in memoria; nonché di quanto di questo elaborato in continua elaborazione regoli la nostra condotta. È pur vero, infatti, che ogni nostra azione dipende da “ciò che abbiamo in testa”: dunque da apprendimenti e memorie. Spesso, per spiegare certe caratteristiche del comportamento umano, ricorriamo a etichette semplicistiche: per esempio si sono coniato i termini (e i concetti) di “carattere”, di “personalità”, di “temperamento”, e altri, coi quali si cerca di catalogare e si crede di spiegare perché alcune persone agiscano e pensino in un certo modo e altre diversamente. Ma tutte le suddette parole indicano pur sempre qualcosa che dipende da quanto si è organizzato nel cervello, in primis la traccia delle sue varie capacità operative. “Carattere”, o “personalità” risultano pertanto termini alquanto vaghi rispetto ai processi che li possono comporre, cioè rispetto a modalità di funzionamento che, peculiarmente organizzate nel suo cervello, quella persona sta usando nelle varie situazioni di vita. Che uno sia un sentimentale piuttosto che un irascibile dipende da acquisizioni funzionali di alcune reti neurali, di alcune zone (non sappiamo ancora esattamente) prevalentemente limbiche e del cervello destro. Per tali acquisizioni non dobbiamo però pensare a una sorta di iscrizione di immagini o contenuti, bensì ad acquisizioni di determinate modalità di elaborazione degli input dell’esperienza. Si tratta in questo caso di modalità “relazionali”, cioè di gestione della relazione, acquisite coi caregiver, che vanno a far parte della memoria implicita. Visto dunque che si tratta di imparare modalità di imparare, com’è allora che un sistema mentale inizia? Si tratta di imparare soprattutto modalità di funzionamento, non tanto i contenuti. Saranno queste modalità di funzionamento che condizioneranno il tipo specifico di mente del singolo individuo. Tempo fa si pensava che si potesse imparare solo quando l’individuo aveva imparato a parlare: questo appartiene alle credenze popolari. Così pure si pensava che un individuo incominciasse a imparare dopo la nascita: in effetti, un’osservazione anche superficiale dei neonati rivela la grande quantità di funzioni che un neonato in poco tempo impara. All’inizio il neonato può apparire privo di comportamenti che depongano per un apprendimento, ma già dopo qualche settimana di vita notiamo che ha imparato a fissare gli occhi della persona che lo accudisce. Poco più tardi vedremo che ha imparato a sorridere. Vediamo anche che il bimbo sembra aver imparato a dirigere la bocca verso il capezzolo e poco più tardi ha imparato ad aiutarsi con le mani intorno alla tetta o al biberon. Più avanti ancora vedremo che questi movimenti delle mani sembrano avere un qualche scopo; cioè il bimbo ha imparato dei movimenti in funzione di una certa decifrazione di recezioni. Nell’esempio più semplice, del bimbo messo vicino alla madre che dirige le labbra verso il capezzolo, si è riscontrato che ciò è dovuto al riconoscimento dell’odore. Questo vuol dire che certe afferenze olfattive hanno stabilito nel suo cervello una qualche connessione con i movimenti della bocca e delle labbra con cui si attacca. La situazione viene riconosciuta e il programma attuato.
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La recezione olfattiva diventa percezione perché è stato compiuto un lavoro di apprendimento, di elaborazione e di memorizzazione. Questo tipo di apprendimento lo si riscontra appena poche ore dopo la nascita: si è infatti dimostrato che il processo di percezione-riconoscimento dell’odore è dovuto a precedenti apprendimenti avvenuti nella vita fetale, quando le papille gustativo-olfattive erano in contatto col liquido amniotico in cui erano presenti molecole uguali a quelle che sono emanate dal capezzolo. Così oggi sappiamo che non s’impara solo dopo la nascita, ma prima, in epoca fetale, anche se tali apprendimenti non sono di nostra più diretta osservazione. Così pure, guardando avanti sommariamente nello sviluppo del neonato di pochi mesi, vediamo che questi ha imparato a riconoscere i movimenti generati dal modo in cui chi si cura di lui lo prende, lo maneggia, lo tiene in braccio: il bambino mostra disagio se viene preso da un’altra persona, di cui non riconosce le modalità tattili-propriocettive-muscolari. Si è stabilita una corrente di apprendimenti tra il bimbo e l’adulto che si occupa di questo bimbo. Un’apprendere, un imparare: e un insegnare. La capacità di “insegnare”, da parte del caregiver, è posseduta in modo variabile da persona a persona, e non è suscettibile alle buone intenzioni dell’adulto: avviene in modo automatico e non può essere imparata dall’adulto. Ci sono mamme che questa capacità ce l’hanno di meno, e che pertanto non riescono a capire cosa il bimbo vuole. Accade così che bimbi di tre-quattro mesi piangano continuamente, e la mamma non riesca a decifrarne pianto; non sa cosa il bimbo ha, se ha fame, se ha sonno, se ha il culetto irritato, se ha il mal di pancia o altra cosa. Queste madri si affannano, non sanno come rispondere al bambino, e questo bambino non impara e insiste a piangere. Anzi, molto spesso queste mamme, affannandosi a provare vari espedienti per calmare il bimbo, vieppiù lo stimolano e lo confondono: il pianto e l’agitazione aumentano. Ciò avviene non soltanto a tre mesi, ma anche molto oltre. Non si è stabilita un’adeguata sintonia, cioè comunicazione, tra le modalità del caregiver che fungono da insegnamento e l’apprendimento del bimbo: non si è stabilita un adeguato dialogo che abbia fatto sì che questo bimbo impari a riconoscere certi stimoli recepiti e a rispondere con uno stimolo che la madre a sua volta è in grado di riconoscere. C’è nel neonato un grande lavoro di apprendimento di funzioni, mediato dalla sensorialità tattile, propriocettiva, vestibolare, muscolare. Ci sono mamme che non sanno tenere in mano i loro bambini, i quali reagiscono disperandosi sempre più. Altre che sembrano aver da sempre saputo come si fa e che dialogano agevolmente e con piacere con il proprio bimbo; con le mani, le braccia, la mimica, l’intonazione della voce. Tali modalità materne sono refrattarie a essere modificate intenzionalmente dall’adulto: questi cioè, se non le possiede, non le può intenzionalmente imparare. Si tratta di funzioni che egli aveva imparato a suo tempo, da piccolo, e che si erano iscritte in quella sua memoria, che è detta implicita, del tutto inconscia e pertanto non modificabile. Il bimbo impara dunque nei primi mesi di vita un’infinità di cose: impara a dirigere lo sguardo verso oggetti che vuole o che vuole avvicinare; più tardi,
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impara a dirigere la manina o il ditino verso gli oggetti e a indicare cosa vuole. Poi impara a regolare i suoi movimenti, di braccia, testa, bocca, e i movimenti del tronco e delle gambe per cercare di girarsi: non è più il bimbo che, messo supino, rimane supino: è diventato capace a girarsi. Ha imparato una coordinazione motoria: a stabilire, dunque, un circuito cerebrale, un programma, che gli permette il movimento coordinato. Più tardi ancora, il bimbo impara a gattonare, cioè coordinare ginocchia, mani e tronco per andare in giro. Alla fine impara la posizione eretta e la deambulazione. Una qualsiasi esperienza con bambini piccoli permette di osservare come da una settimana all’altra un bimbo impari un’enormità di funzioni. Impara i primi versettini: impara, prima delle parole, delle lallazioni che hanno significati, anche se polisemici. Fino a poco tempo fa si credeva che prima della nascita non ci fosse apprendimento: oggi si sa che c’è un apprendimento fetale e che alcune attività riscontrabili e facilmente osservabili nel neonato presuppongono un qualche cosa che si è imparato prima, in utero. Sono circa quindici-vent’anni che è cominciato lo studio della vita psichica fetale, da quando si è potuto disporre dell’ecografia per un’osservazione prolungata del neonato in utero. Occorre ovviamente che la madre sia collaborante, cosa che le gestanti fanno di solito molto volentieri, curiose di vedere se il bambino, non soltanto è conformato normalmente, ma che cosa fa se nella stanza c’è un rumore, se si appoggia una mano sulla pancia o la si espone a una forte luce; o se la mamma sta mangiando, se è seduta oppure sdraiata. Con questi sistemi si è potuta registrare una serie di apprendimenti fetali a cominciare più o meno dalla fine del quarto mese (Manfredi, Imbasciati, 2004; Imbasciati, Dabrassi, Cena, 2007). Ovviamente questi studi non sono così precisi come quelli postnatali, ma molto più interessanti. Per esempio la percezione acustica, intesa proprio come percezione, cioè riconoscimento e rielaborazione di certi input, con la loro configurazione, il loro riconoscimento come eventi di significato, avviene già a questa epoca. Il bimbo è in grado di riconoscere la voce della mamma perché l’ha imparato in utero; è in grado di riconoscere il battito cardiaco della mamma, anzi di differenziare il battito cardiaco della mamma dal battito cardiaco di altre puerpere. Gli studi sul neonato aprono un grande orizzonte ancora da esplorare e fanno intravedere una legge fondamentale: se il modo di funzionare di un cervello dipende da ciò che ha appreso, ciò che apprenderà dipenderà dal modo in cui funziona. Dunque ciò che si apprenderà dipenderà da ciò che si è appreso. Ogni apprendimento dipenderà dal tipo di funzione che prima il cervello ha appreso. Allora è rilevante risalire fino alle origini, perché le prime funzioni apprese saranno quelle che influenzeranno il modo in cui verranno apprese le successive funzioni. La maturazione neurologica è dunque da intendere, secondo le ricerche di questi ultimi vent’anni, come un processo dettato dall’esperienza del singolo soggetto. Occorre sfatare il pregiudizio che la maturazione neurologica sia governata soltanto da fattori inerenti la biologia o una non meglio identificata
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natura. La maturazione neurologica consiste nello stabilirsi di circuiti neuronali, di sinapsi, nella selezione di certe popolazioni di neuroni che vengono a specializzarsi per certe funzioni (Edelman, 1989, 1992). Tutto questo è frutto dell’esperienza così come viene elaborata da quel soggetto. Maturazione neurologica significa formazione di substrati biologici che a seguito dell’esperienza possono svolgere certe funzioni. E significa anche che questa maturazione neurale è individuale, non è uguale per tutti. Ogni individuo ha un’esperienza differente; è impossibile che due individui abbiano la stessa esperienza, neanche due gemelli monozigotici. Non solo, ma ognuno costruisce il suo modo di elaborare le medesime esperienze, sicché medesime esperienze danno luogo a risultati diversi nel cervello e nel funzionamento di quella mente. L’esperienza è una lettura di ciò che viene recepito: non c’è recezione passiva, ma lettura, codifica; e un relativo immagazzinamento non degli input in sé, ma di come sono stati elaborati, codificati. L’esperienza è un apprendimento e l’apprendimento non apprende tanto l’esperienza in sé, quanto apprende da questa esperienza. Ho fatto l’esempio di un atto mentale molto semplice, quale quello della percezione di una figura geometrica (cfr. Cap. 3.3). Ho analizzato l’esempio per sfatare un pregiudizio della cultura corrente, e cioè che la percezione sia un processo determinato automaticamente della biologia. La percezione può considerarsi automatizzata per apprendimenti, ma non automatica per la biologia. L’esempio più semplice è che se un neonato venisse a essere tenuto completamente al buio, non imparerebbe a “vedere”. Il nostro cervello non è una macchina fotografica, una telecamera, un registratore: è un apparato di lettura. A seconda di come è fatto, questo apparato può leggere medesimi input in modo diverso. La percezione consiste nel dare un ordine, una configurazione, alle varie afferenze, così come esemplificato. Percezione implica che si siano stabilizzate certe funzioni: vi sono funzioni costruitesi in modo pressappoco uguale per tutti. Quanto più l’atto percettivo è semplice, tanto più ritroviamo che tutti gli individui percepiscono allo stesso modo. Questo “tutti” va però inteso in modo relativo: se l’atto percettivo è più complesso le differenze individuali emergono. Al limite si può anche trovare una persona che percepirà quel disco bianco del nostro esempio come una ghigliottina: diremmo che è un po’ pazza, ma può comunque accadere, e la spiegazione non va cercata in una qualche causa che si pensa abbia leso il cervello, come sarà ripreso al Cap. 9, bensì in apprendimenti particolari, anche se eccezionali. Tutto questo significa che non è detto che tutte le menti funzionino allo stesso modo. Se nel nostro esempio qualcuno percepisse una locomotiva, diremmo che si tratta di un’allucinazione. Con questa parola non abbiamo però detto nient’altro che quella mente sta funzionando in un certo modo. L’abitudine biologistica ci porta a dire che funziona così perché qualcosa ne ha guastato il funzionamento. Questo potrebbe essere giustificato nel caso in cui quel modo così abnorme di percepire fosse contingente a un dato momento di quell’individuo, o a una causa biochimica (droga) intervenuta. Ma può darsi il caso di un individuo che
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percepisca più o meno sempre così; e senza una ragione individuabile, se non quella per cui constatiamo che la sua mente funziona in quel modo. Sto parlando per paradossi estremi. Dire che quel soggetto è pazzo (come per esempio nell’udire allucinazioni di origine endogena) non aggiunge nessuna spiegazione. Il fatto è che siamo abituati a pensare un funzionamento standard, che chiamiamo normalità, e a spiegarci la devianza applicando un principio di causalità lineare. Crediamo che la norma sia data per natura e che gli scostamenti da questa debbano esser dovuti a una qualche causa. In realtà la norma è semplicemente la maggior frequenza con cui le menti di tutti presentano certe somiglianze funzionali, ma sempre e comunque occorre considerare che questo non è dovuto alla natura, bensì alle ricorrenza di certi apprendimenti per tutti gli umani. Pertanto non ha senso presupporre una causa che abbia turbato un equilibrio naturale: il fatto è che una rete di miriadi di cause (o meglio di eventi) ha prodotto la costruzione di quella mente che funziona in quel modo. Norma e patologia, così come il principio di causalità, vanno ridimensionati, quando si passa dal biologico al mentale (Turchi, Perno, 2002). Per le funzioni corporee possiamo assumere che la norma sia fissata dal corredo genetico, che le condiziona obbligatoriamente: uno scostamento da tale norma depone per una o più cause intervenute a modificarne la linea di sviluppo: ecco la patologia, con il relativo concetto di eziologia e successiva patogenesi. Ma se consideriamo quel particolarissimo “organo” che è il cervello, dobbiamo considerare in primo luogo l’esperienza: la genetica determina soltanto la macromorfologia del cervello, però questo deve imparare a funzionare, e tale apprendimento è condizionato da miriadi di eventi. La norma dello psichico, allora, non è fissa, ma determinata dalla miriade di eventi che concorrono a produrre altrettanta miriade di differenti strutture funzionali: l’irrepetibilità della psiche del singolo individuo. Norma e per contro patologia devono allora trovare altri parametri concettuali per poter essere, eventualmente, definite (cfr. Cap. 9).
3.5 L’irrepetibilità della mente del singolo Tenendo presente quanto sopraesposto, torniamo agli esempi che dimostrano quanto sia evidente che la struttura funzionale del singolo sia irrepetibile. Se per certe percezioni elementarissime otteniamo un risultato pressoché simile per tutti gli individui (dico simile, perché analizzando più finemente la circostanza in cui avviene troveremmo comunque qualche differenza individuale), quanto più passiamo a una funzione maggiormente complessa, tanto più vediamo crescere la percentuale di popolazione che organizza le afferenze in modo diverso. Se al posto del disco bianco in campo nero disegno una figura complessa, molti la potranno percepire in maniera diversa dalla maggioranza. Tanto più complico la figura, se per esempio traccio un disegno artistico, ecco che allora ognuno lo percepirà a suo modo; e alla sensazione di star percependo si
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sovrapporranno, in un continuo, sensazioni più complesse, che definiremmo interpretazione, valutazione, in un’altra parola attività di pensiero. Molti autori hanno discusso fini distinzioni tra queste e l’atto più propriamente percettivo: comunque utili esse siano, sono irrilevanti agli effetti dell’evidenza che ogni mente lavora in modo irrepetibile. Facciamo ancora un esempio percettivo, con un’altra sensorialità, quella acustica. Se parlo in un’aula, tutti percepiranno una voce. Questa funzione è uguale per tutti. Ma se ci si chiede cosa abbia detto, ci sarà una frazione di uditorio che avrà percepito differentemente. Stesso esempio si può fare con uno scritto. Se poi, invece di esserci una sola voce che parla, ci fosse una situazione più complessa, come un insieme di persone che parlano tra di loro, il risultato percettivo avrà una ancor maggiore variabilità da individuo a individuo. Quindi, quanto più l’insieme delle afferenze che giungono al nostro cervello attraverso molteplici sensi sarà cospicuo, complesso, polisensoriale, tanto più si evidenzia quella variabilità interindividuale che, se la osserviamo con più fine strumentazione, esiste anche per le percezioni più semplici. Se poi, continuando con gli esempi, ci si riferisce non più alla percezione di parole, ma alla percezione interpersonale (chiedendosi per esempio “che impressione ho avuto di quella persona? Era benevola o malevola verso di me? Era indifferente, era sintonica, sentivo un feeling, ci siamo intesi, oppure era fredda, distante, ecc.?”), cioè se consideriamo molteplici aspetti, riconducibili a quanto percepito, ma implicanti un’enorme elaborazione (infatti non si fa più attenzione a che lingua si parla, a che parole si dicono, ma anche al tono di voce, alla gestualità, a come ci si muove, e via dicendo per tanti piccoli elementi che sfuggono alla consapevolezza, ma da cui si ricava un’“impressione”), ecco in piena evidenza la più disparata variabilità interindividuale. Questa variabilità dipende da come in ogni singola mente si è costruito il suo specifico modo di funzionare. Le differenze interindividuali esistono sempre, in misura minima quando la funzione implicata è semplice, in misura crescente quando la funzione è man mano più complessa. Passiamo dagli esempi percettivi ad altri esempi: l’evidenza è ancora più grande. Se io chiedo a qualcuno di esprimermi cosa intende per un buon governo, o per la bontà (in astratto), o per l’amore, cioè se chiedo di far funzionare la mente per una funzione così complessa come quella di esprimere un pensiero, non troveremo una soluzione che sia identica a un’altra. Osservando infine non tanto la percezione, né tanto il modo di pensare, quanto le espressioni artistiche (anche queste sono manifestazioni mentali), la variabilità sarà ancor più evidente. E se pensiamo a tutto quanto possiamo chiamare relazione affettiva, o sentimentale, o amorosa (anche queste sono operazioni della mente), ognuno avrà il suo modo di “sentire”, di esprimersi, di agire, di regolarsi, di “vivere”: cioè il suo specifico modo di lavorare con la testa. Pregiudizio diffuso è pensare che gli affetti, le emozioni, i sentimenti, l’amore, la sessualità, siano cose che non hanno a che fare con la mente: sono invece espressioni di un qualche lavoro della mente; e del cervello. Anche la sessualità stessa è una cosa essenzialmente mentale, per lo meno nel genere umano.
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Non siamo come certi animali che obbediscono ciecamente alle emissioni di odori e si accoppiano. Le nostre relazioni sessuali sono primariamente mentali, con conseguenze somatiche (Imbasciati, 1983a, 2005a; Imbasciati, Margiotta, 2005, Capp. 17 e 19). Quanto più dunque si considerano funzioni complesse, tanto più ogni individuo è diverso dall’altro. Questo cosa vuol dire? Che in ogni individuo si sono costruite strutture mentali diverse da quelle che si sono venute a costruirsi in un altro. Come si sono costruite? La nostra struttura mentale (il nostro cervello) non ingloba l’esperienza, ma la legge, cioè elabora, e ognuno a suo modo: ognuno da questa “lettura” memorizza qualcosa, soprattutto nuove modalità di elaborare. L’apprendimento non è, dunque, un passivo imprimersi di un’esperienza, ma è un’elaborazione a partire dall’esperienza: in questa maniera viene a costruirsi in modo irrepetibile la mente di un singolo. Tornando all’esempio dei gemelli monozigotici, troveremo in loro molte somiglianze, fisiche e mentali, ma i gemelli non saranno mai perfettamente uguali nel loro modo di sentire, pensare, agire: la loro mente è diversa. Qualcosa di comune si è venuto a costruire, ma qualche funzione ognuno l’ha costruita diversamente. Come e perché? Una certa meraviglia procede del considerare superficialmente l’esperienza che può attraversare un bambino piccolo, un neonato in particolare. Eppure, per esempio, se uno viene partorito prima e l’altro dopo, questa è già una differenza. Uno potrà pesare mezzo chilo di più e questa differenza darà origine a esperienze diverse. Già durante la gestazione in ecografia osserviamo comportamenti differenti. La motricità, al di là del puro riflesso, è anch’essa espressione mentale. Dunque già in utero si hanno input diversi e pertanto diversamente si vengono a costruire i primi modi di modulare tali input. Saranno queste diversità iniziali che poi faranno sì che, anche se postuliamo che la mamma abbia le identiche cure per uno come per l’altro (cosa peraltro dubbia), ognuno dei due gemelli avrà già una qualche diversità nell’elaborare l’esperienza e dunque un diverso risultato quanto a successiva costruzione di differenti modi di elaborare, cioè di imparare, in un circuito di progressive differenze. Si moltiplicano le differenze nelle due strutture, progressivamente, cosicché ognuno elaborerà a suo modo, e le diverse elaborazioni prodotte interverranno diversamente nel determinare le successive costruzioni di ulteriori strutture funzionali. Questo processo comincia già in epoca fetale e diventa sempre più accentuato man mano che il bambino cresce. Già vediamo che i neonati di sette-otto mesi hanno ognuno il proprio modo di interagire, di rispondere, cioè di “capire” le situazioni in cui si trovano. Teniamo inoltre presente che tutte queste differenti modalità di elaborazione (strutture funzionali che si vengono a costruire) vengono memorizzate. Quando si parla di immagazzinamento in memoria, siamo pronti a intendere immagazzinamento di contenuti, come se questi fossero immagini mentali: memoria invece vuol dire soprattutto lo stabilizzarsi di certi tipi di funzionalità, cioè immagazzinamento di funzioni; è questa la costruzione di specifiche funzionalità, diverse da individuo a individuo, che si stabilizzano come memoria nella struttura generale funzionale che chiamiamo mente.
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3.6 Significati e significanti Apprendimento è quindi in primo luogo apprendimento di funzioni. I contenuti saranno poi appresi secondo le modalità di quelle funzioni che sono state apprese. Se consideriamo il bimbo quando è più grande (quattro-cinque anni), vediamo che ognuno ha il suo modo di risolvere i problemi, di cercare quel che gli manca, di chiedere con certe maniere piuttosto che con certe bizze, di giocare. Il gioco è un’espressione centrale della funzionalità mentale di un bimbo. Man mano che cresce e va a scuola, ogni bimbo manifesta il suo modo di imparare, e di imparare a imparare. Questo processo fa sì che si formino progressivamente nella mente quelli che, con un termine lato, chiamiamo “significati”. Dentro di noi vengono costruite organizzazioni di lettura della realtà, che ci danno il significato di ciò che vediamo, sentiamo, valutiamo e anche di ciò che noi stessi pensiamo; cioè della nostra realtà interna. Dentro questi significati inquadriamo ogni nostra successiva esperienza. Per esempio un neonato, a un certo punto, costruirà un significato che gli permette di riconoscere quando la mamma sta per dargli da mangiare. È un significato molto diverso da quello che diamo noi adulti a tale evento. Un neonato non riconosce esattamente la mamma, o il cucchiaino (questo succede a dieci-dodici mesi), ma già intorno ai tre mesi è in grado di riconoscere “qualcosa”, che gli significa l’evento alimentare: sente rumori, odori, viene maneggiato in un certo modo e… “capisce”; è capace di dare un significato a quel qualcosa di polisensoriale che la sua mente ha “imparato” a leggere in qualche modo. Noi adulti diremmo “sto per mangiare”: questi sono però significati da adulti. Prima c’è un protosignificato, in relazione a un avvenimento che in qualche modo può così essere previsto. I significati hanno un valore predittivo degli eventi in quanto servono a riconoscerli. Tra i protosignificati c’è quello concernente l’aver fame. Il neonato non sa di avere fame, nel significato che diamo noi alle nostre sensazioni. Il neonato sente soltanto uno stato di disagio, quando si abbassa la glicemia, o avvengono contrazioni gastriche. Noi adulti abbiamo imparato a riconoscere queste afferenze enterocettive dando loro quel significato che riconosciamo come “fame”. Il bimbo deve ancora impararlo. Così pure il bimbo imparerà a dare significati al gioco, ma all’inizio si tratterà soltanto di dare un qualche significato a quegli insiemi di afferenze che provengono dal giocattolino preferito (un sonaglino, un orsacchiotto, la copertina e via dicendo): tutti significati che vengono a essere organizzati dalla sua mente. La mente costruisce così le sue strutture funzionali per significati sempre più complessi. Il bimbo a dieci-dodici mesi possiede il significato di chi è la mamma e non la tata, o cos’è il cucchiaino, o la mela grattugiata rispetto al biscotto. E poi via via acquisisce i vari significati, delle cose e dei rumori intorno a lui: si formano progressivi e sempre più complessi significati, che fanno sì che il sistema mentale possa diventare “intelligente”. Così pure il bimbo imparerà cosa significa avere bisogno di evacuare feci e urina: imparerà allora che gli scappa la cacca e la pipì. All’inizio il sistema mentale non è in grado di capire che cosa avviene nel proprio corpo, né di predire che cosa avverrà. Se non si sa che cosa vuol
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dire “fame”, si piange indiscriminatamente, se non si sa cosa vuol dire “far la pipì o la cacca”, ce la si fa addosso tranquillamente. I significati riguardano oggetti esterni, ma riguardano anche i propri eventi corporei: più tardi, riguardano gli stessi eventi mentali del soggetto. Il bimbo, per esempio, deve imparare quando “vuole” qualcosa, e poi che cosa; o quando non vuole, dicendo “No”: manifestazioni di tali apprendimenti precedono e sono indipendenti dal fatto che il bimbo ne abbia coscienza. Cioè, dopo aver imparato che vuole qualcosa e che cosa, il bimbo deve ancora imparare che sta volendo quel qualcosa; apprendere che la sua mente in un certo momento sta volendo quella cosa, e che eventualmente il suo corpo sta facendo qualcosa per averla. Dopo aver appreso determinate operazioni mentali, si deve ancora apprendere che la mente le sta operando. Questo vuol dire coscienza. Ciò è evidente negli apprendimenti dei propri stati emotivi. Quando un bimbo dirà “ho paura”, ha imparato un significato da dare a un insieme di costellazioni di proprie operazioni mentali interne, alle quali applica il nome di paura. Ma tali operazioni sono già molti anni che la mente di questo bimbo ha imparato a compierle: cioè sono anni che la sua mente ha acquisito la capacità di elaborare quello stato interno che noi adulti riconosciamo dall’esterno come stato di quell’emozione con le relative manifestazioni anche somatiche; e questo senza che il bimbo lo sappia; senza cioè che ne abbia acquisito il significato. Occorre molto tempo perché un bimbo abbia coscienza delle proprie emozioni: queste gli avvengono, ma il bimbo non lo sa, non le riconosce né tanto meno può dar loro un nome. Non è facile che un bimbo di tre-quattro anni riconosca un proprio stato di paura; o di altra emozione. Sarà la mamma a insegnarglielo, quando vedrà le sue reazioni e le riconoscerà come paura, dicendo al piccolo “poverino, hai avuto paura!” Così un caregiver insegna al bimbo a dare significato ai suoi stati mentali. Vedremo più oltre questo apprendimento, che porta a conseguire la cosiddetta capacità autoriflessiva, o metacognizione, precursore della coscienza. Tutti i significati sono una sorta di micro-apparati che servono per la lettura di eventi via via più complessi. A questi micro-apparati corrispondono popolazioni di neuroni in attività; secondo i significati acquisiti, ogni mente riconosce, e denomina, ciò che è stato elaborato a partire da quello che i suoi sensi esterocettivi ed enterocettivi gli trasmettono; più tardi a partire da ciò che il suo stesso sistema mentale sta producendo. Questi micro-apparati costituiscono modalità di lettura, della realtà esterna, della realtà corporea, e poi della realtà interiore, che permettono i processi conoscitivi, compresa la conoscenzacoscienza di sé. A seconda di quali tipi di micro-apparati si sono costruiti, l’individuo leggerà differentemente, a suo modo, le varie costellazioni di afferenze che gli arrivano, o le varie costellazioni di operazioni mentali che in quel momento si stanno succedendo. Questa prima possibilità di lettura non va confusa con la successiva: la coscienza di star capendo, di star riconoscendo o “leggendo”; una consapevolezza può costruirsi solo più tardi; si tratta invece di un lavoro mentale e neurologico la cui capacità si riconosce dagli effetti e non dalla coscienza del soggetto. Tutte queste acquisizioni comportano tracce mne-
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stiche: la memoria in tal modo si sviluppa e si trasforma e il patrimonio mnestico così acquisito accresce a sua volta la capacità di apprendimento. Questi significati li possiamo anche chiamare rappresentazioni, anche se si parla di significati molto elementari, o molto globali, per i quali non si può stabilire corrispondenza alcuna a oggetti reali. Se dico rappresentazione di una mela, sappiamo esattamente quale oggetto reale sia, ma se diciamo la rappresentazione di un affetto è assai difficile indicare cosa vuol dire: e comunque ognuno, a suo modo, avrà una sua rappresentazione di quell’affetto, variabile col tempo e con il proprio stato mentale. Occorre pertanto estendere il concetto di rappresentazione (Imbasciati, 2005b). Man mano che cresce la complessità dell’apprendere, cresce la rete di significati: ognuno permette di apprenderne degli altri, sempre più elaborati, sempre più sofisticati; si forma così una catena di significati. A ognuno di questi significati corrisponde nella nostra mente una qualche struttura funzionale in grado di leggerli, che possiamo chiamare significante. A sua volta questa corrisponderà a una qualche unità funzionale neurale. Uso parole consacrate dalla linguistica, per dire che il significante è quel qualcosa che si è formato nella mente, ovvero costruito nella rete neurale come possibilità di riconoscere qualcosa che sta accadendo, fuori o dentro il soggetto, come avente un qualche significato. Vediamo un esempio semplice, riferito a una parola. Se dico “gatto”, il suono “gatto è il significante di un significato che noi abbiamo acquisito e che ci permette di immaginare un gatto. È questo il significato veicolato dal suono verbale, che funge da significante. Il gatto reale, concreto, si chiama invece, dal punto di vista linguistico, referente. Questa distinzione ben si applica ai processi mentali. La mente progredisce costruendo progressivi significanti che le permettono di dare significato ai vari eventi che le succedono; e a eventi sempre più complessi. Questi significanti sono non soltanto riferibili a oggetti, ma anche a modi di concepire, di elaborare la nostra esperienza. Se io ho il significante di un’equazione, vuol dire che io ho imparato che cosa significa equazione: ho il significato di equazione. Con un esempio più semplice consideriamo un’operazione aritmetica, come 6 x 8=48. Abbiamo appreso che cosa vuol dire moltiplicazione, abbiamo appreso il significato e, dentro alla nostra mente, c’è un corrispondente significante: scrivendo, lo traduciamo con il segno “x”, ma tale traduzione non è il significato che abbiamo in testa, con cui sappiamo cosa vuol dire il concetto di moltiplicazione (o di addizione o di divisione): è solo il significante del significato che noi abbiamo acquisito circa quella operazione aritmetica. In altri termini il significante è il supporto psicofisiologico di significati acquisiti dalla struttura neurale che si è costruita, e che permette il funzionamento mentale. I significanti, pertanto, sono da individuare come tracce mnestiche. Le differenze individuali aumentano man mano che si avanza nella complessità. Ci possono essere persone che, per significati complessi, hanno manifestazioni che valutiamo come strane. Spesso cataloghiamo queste persone come anormali; o come “disturbati” o comunque con problemi psichici. Per esempio, se un bimbo ha imparato cosa significa l’avere fame e che cosa gli significa il
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biscotto, noi pensiamo che a due-tre anni egli possa far cenno di chiederlo. Se invece questo bimbo non chiede, ma si mette a fare qualche disastro, pensiamo che sia un po’ “disturbato”. Evidentemente la costruzione del significato di aver fame, del significato del biscotto e dei vari successivi significati che comportano l’azione del chiedere, sono stati costruiti in modo particolare. Ancora, ci può essere una persona che si sente molto triste, molto sola, che dice di aver bisogno di amici, di amiche, di un supporto, ecc., ma che quando qualcuno si fa appresso, fa capire di non aver bisogno di nulla, diventa scostante e finisce per respingere chiunque. Diciamo che ha un carattere difficile, un carattere che la rende infelice. Al di là di tale sommaria etichetta, questa persona ha costruito dentro di sé dei significanti, complessi, che riguardano la relazione interpersonale e gli affetti, che però non sono collegati adeguatamente con la realtà per un’interazione efficace, e che rendono quella persona incapace di leggere adeguatamente quella realtà che pur è in grado di immaginare, in qualche modo, e che desidera che si presenti. Le funzioni mentali di questa persona si discostano da quanto la maggior parte degli individui sembra aver costruito. Se poi questa persona, quando qualcuno le si avvicina per aiutarla, lo percepisce come un nemico venuto a perseguitarlo, diremo che è “paranoica”. In termini di funzioni mentali, questo vuol dire che quell’individuo ha costruito dei modi di elaborare certe esperienze che si discostano dai significati che possiede la media di una popolazione. Ulteriori esempi ci possono essere illustrati dalle fobie. Se una persona viene colta dal panico alla vista di un ragno, o anche di una farfalla entrata nella stanza, questo vuol dire che quella persona legge quella esperienza (e la elabora) non in funzione della realtà obiettiva, ma in relazione a qualche significato che la medesima non sa ma che le scatena paura. Infatti, in tutte le fobie il soggetto riconosce che non dovrebbe esistere la reazione emotiva che pur subisce: la realtà di un ragnetto, o di una farfalla, viene conosciuta e riconosciuta come inadeguata a dare ansia e paura. Ma il fatto che queste si manifestino indica che, al di là di ogni consapevolezza, i due insetti significano qualcosa di terribile. Dunque c’è un doppio significante: uno che dà il significato di innocuo insetto all’oggetto percepito, e un altro, che evoca un significato inconsapevole terrifico; a livello inconscio l’insetto è letto come qualcosa di ben altro, rispetto alla lettura consapevole. La psicopatologia, così come i fenomeni osservabili nei bimbi piccoli, ci danno esempi eloquenti di come la mente può leggere (elaborare) la realtà in modo diversissimo da persona a persona, e in taluni casi in un modo inadeguato a quanto definiremmo percezione adeguata di quella realtà. Qualunque patologia, lieve o grande che sia, è riconducibile a costruzione di significanti, di rappresentazioni che non sono tra loro ordinate e coordinate in modo da dare origine a una condotta adeguata o, come diremmo, intelligente. Qualunque psicopatologia è allora riconducibile a particolari serie di rappresentazioni. Queste rappresentazioni non sono, di solito, note al soggetto: entriamo qui nell’altro aspetto della lettura del reale, quello del saper leggere che si sta leggendo e che cosa. Tutto quanto detto finora, del costruire funzio-
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ni, significati e significanti che ci permettono di leggere la realtà, si svolge al di là del fatto che il soggetto se ne renda conto. La possibilità che un soggetto sappia leggere ciò che avviene nella sua mente è d’altra parte minima. Si può parlare di inconscio: con questo si intende che la realtà interiore può essere ben al di là della coscienza. Più dettagliatamente possiamo affermare che non siamo consapevoli dei processi che avvengono nella nostra mente, nemmeno di quelli che danno origine a una nostra eventuale consapevolezza. Tutti i processi mentali che la nostra mente compie, non sono elaborati affinché noi li conosciamo: li possiamo vedere soltanto dai risultati, nella condotta. Per questo è difficile in psicoterapia aumentare la capacità del soggetto a poterne in parte riconoscere (cfr. Cap. 13).
3.7 Memoria e ricordo Quanto detto sotto il punto di vista dell’apprendimento dall’esperienza, della costruzione di funzioni, significati, significanti, rappresentazioni, vediamolo ora dal punto di vista di ciò che viene “trattenuto” (memorizzato). Se pensiamo in che cosa può consistere la memoria, di solito portiamo la nostra riflessione a ciò che noi possiamo ricordare: aggiungo, ricordare coscientemente. Ma ci sono memorie che non sono affatto consapevoli: si possono però dedurre dal nostro comportamento o osservando il comportamento altrui. Tutte le memorie motorie – stare in piedi, camminare, andare in bicicletta, sciare, suonare un pianoforte – acquisite da piccoli o da grandi non possono essere ricordate: se ne vede solo l’effetto, non si ricordano le singole funzioni imparate. Se da adulti si monta in bicicletta pensando a come si fa a tenere il manubrio e a stare in piedi, è praticamente sicuro che si cada. Se si cerca di portare alla consapevolezza le varie e singole funzioni con le quali a suo tempo si è appreso e memorizzato, si scompiglia la prestazione: è una prova semplice ed evidente di quanto vi siano dei ricordi assolutamente non consapevoli, che è bene che rimangano tali. Gli esempi nell’area motoria e propriocettiva sono spesso quelli più evidenti per far capire che la memoria è, per la massima parte, non consapevole. Ma ce ne sono altri: quante cose, per esempio, non sono ricordate ma se sono sperimentate sono riconosciute? Se sono riconoscibili, vuol dire che le abbiamo in memoria: si tratterà di un volto, di un vestito, di un paesaggio, di un nome, di un suono, o di un rumore, di un’emozione. Quello che si può ricordare è il fatto di aver provato, in un certo momento e in una data situazione, un’emozione di un certo tipo, per esempio di essersi arrabbiati: ma questo ricordo non ricalca l’emozione che c’è stata; un vero ricordo può essere solo il riprovarla; il che non può avvenire a nostro comando e intenzione. Un’emozione la si può soltanto riconoscere, se accade; e non sempre la si riconosce. Anche le emozioni sono in memoria, ma non possono essere ricordate. E così pure è per tutti quegli oggetti, persone e anche situazioni, che possiamo riconoscere solo nel momento in cui sono presenti. Solitamente, quando parliamo di memoria, pen-
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siamo a una memoria verbale: “mi ricordo il nome del tizio che ho visto la settimana scorsa in biblioteca”, “mi ricordo quella frase del professore che a lezione ha detto così e così”. Ma noi siamo in grado di essere persone intelligenti, cioè di avere comportamenti adeguati alla realtà, per tutta un’altra serie di memorie che non sono quelle verbali. Cominciando da un esempio semplice: pensiamo alla memoria dello stare in piedi, a quanto un bimbo tra i dieci e i quindici mesi faceva fatica a impararlo, a memorizzare entro di sé tutte le sequenze motorie che sono necessarie e alle relative correlazioni con le sequenze di afferenze propriocettive e vestibolari. Ancora, un bimbo di pochi mesi sta volentieri in braccio alla sua mamma, ma se preso da un estraneo piange, anche se non lo vede: lo sente. Ha memorizzato le propriocezioni, e altre modalità sensoriali, che gli fanno riconoscere la mamma. Ha memorizzato uno stato di sicurezza, sperimentato in braccio alla mamma, che non può assolutamente ricordare, ma che riconosce se è presente: e se non lo è, prova disagio, e piange; ma non ricorda. Ha conferito un qualche significato a quelle situazioni, dunque ne ha in memoria il significante – quella configurazione polisensoriale – ma non ne è assolutamente consapevole. E non ne sarà consapevole neanche a cinque anni, quando cercherà ancora di andare in braccio alla sua mamma, e avrà acquisito tutta una serie di consapevolezze: ma non quella lì. Questo tipo di memoria verrà poi utilizzato anche nell’età più adulta a determinare il tono affettivo con cui l’individuo percepirà contatti intercorporei: “la mia compagna mi ha abbracciato e baciato”, “questo amico mi ha messo una mano sulla spalla”. C’è un significato, che viene riconosciuto perché in memoria c’è il corrispettivo significante. Talvolta questo non è chiaro, la lettura lascia dubbi, il soggetto non è affatto sicuro del significato: “faceva finta o era una dimostrazione di affetto?”, “mi vuol bene o soltanto mi fa la corte?”. Tuttavia un qualche significato, seppur incerto, per quella serie di toccamenti, c’è, in memoria, basato su altre precedenti memorie, propriocettive, motorie, vestibolari, anche olfattive, che però non possono essere “ricordate”. Pensiamo alle memorie olfattive e gustative. I neonati distinguono tutti gli odori di chi si occupa di loro. Ogni persona ha poi il suo modo di emanare gli odori (cfr. Imbasciati, Margiotta, 2005, Cap. 17.4). Non soltanto abbiamo un odore personale, ma anche una modulazione dei nostri odori in relazione al contesto del momento. I cani capiscono quando si ha paura, oppure quando gli si corre incontro amichevolmente: in quel momento noi odoriamo in maniera diversa. Così avviene anche nelle relazioni tra le persone: le simpatie, le antipatie, le amicizie, le inimicizie, e la relazione erotica, sono contrassegnate da un dialogo di modulazioni reciproche di odori; non c’è semplicemente una sintonia di odori, come potrebbe essere l’odore di lei che piace a lui, l’odore di lui che piace a lei. Anzi, di solito non c’è consapevolezza alcuna: eppure sperimentalmente si è constata una modulazione di odori responsabile, almeno in parte, della sensazione di attrazione, o comunque della connotazione di un incontro. Non c’è coscienza di questi eventi: riconosciamo soltanto se una persona puzza o meno.
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Sentiamo soltanto alcune puzze e alcuni profumi, ma soltanto pochi sono consapevoli, nell’infinita gamma di odori che inconsapevolmente siamo in grado di recepire, e dar loro un significato che regoli il nostro comportamento. Non è vero che un uomo abbia meno fiuto di un cane, è che nei cani l’apparato olfattivo è più direttamente collegato alle aree cerebrali che elaborano la condotta. Nella nostra evoluzione di Homini erecti, lo sviluppo delle connessioni del cervello mesolimbico con la corteccia orbito-frontale ha moltiplicato l’elaborazione mnestica delle afferenze olfattive con una molteplicità di altre memorie, ma questo ha implicato una perdita della possibilità di ricordare, direttamente e consapevolmente, gli odori. Tuttavia la memoria permane, anzi è maggiore. Pensiamo ora alla memoria gustativa. Quando si mangia un certo piatto si è in grado di riconoscere, a volte, gli ingredienti con cui è fatto, a volte la maniera con cui è stato cucinato “questa pastasciutta è come la faceva mia nonna, non come quella che faceva mia mamma”. Però, se in assenza di pastasciutta, o di quella pastasciutta, si cerca di ricordare il sapore di questa piuttosto che dell’altra, non è possibile rievocarlo. Si cercheranno alcune parole che nel linguaggio convenzionale indicano sapori, ma saranno solo etichette, non veri ricordi di sapori. In conclusione esiste una gran quantità di memorie non consapevoli e non consapevolizzabili e quindi impossibili da rievocare; esiste poi un’altrettanto grande frazione di memorie che sono consapevolizzabili – riconoscibili consapevolmente – soltanto se l’oggetto è presente; c’è la parte di memoria che pur sempre in qualche circostanza può essere rievocata; e infine c’è quella parte di memoria che può essere rievocata intenzionalmente. Dobbiamo pertanto dare un significato diverso al termine “ricordo”, rispetto al termine “memoria”. Un conto sono i ricordi, che, appunto, possiamo ricordare, altro conto la memoria, anzi le memorie. Ci sono memorie complesse, di origine primitiva, che riguardano gli stili relazionali del singolo individuo, i modi specifici di rapportarsi agli altri e alle varie situazioni. Gli studi sull’attaccamento (cfr. Imbasciati, Margiotta, 2005, Cap. 8.8) hanno evidenziato una complessa dimensione emotiva di ogni persona, che agisce nei contesti relazionali. Al centro di tale dimensione si sono individuati i cosiddetti modelli operativi interni (MOI), cioè modalità, differentemente possedute e differentemente applicate da ogni soggetto, con cui un individuo si rapporta agli altri, a secondo della situazione. Tali modalità sono al di fuori di qualunque coscienza. Ogni persona ha così il suo “stile di attaccamento” e i suoi MOI regolano le sue condotte relazionali. Questa dimensione personale si forma da piccoli, a cominciare dai primi mesi di vita, nella relazione con chi si cura di noi (caregivers): in altri termini ogni genitore, a seconda del suo stile di attaccamento nonché a seconda delle circostanze esterne che possono imporsi al suo curarsi del bimbo, fa sì che in questi si formi, a sua volta, un proprio stile di attaccamento coi relativi MOI. In realtà gli stili relazionali sono più ampi e complessi di quanto finora individuato nei costrutti della Teoria dell’Attaccamento: la ricerca è tuttora aperta.
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Comunque gli studi di questo tipo dicono di una disposizione assolutamente inconscia che determina corrispondenti, non identiche, dimensioni nei figli, e che governa il comportamento generale di ogni individuo; anzi, che determina il suo equilibrio psichico, la sua ottimalità piuttosto che la sua patologia (Amadei, 2005) – dunque una dimensione di tutta importanza – e che è al di fuori di qualunque possibilità non solo di essere ricordata, ma anche di essere riconosciuta. I soggetti possono persino rammaricarsi che le loro relazioni non riescano, senza peraltro poter minimamente riconoscere attraverso quali modalità esse si sono svolte. Queste dimensioni della personalità vengono apprese (senza assolutamente volerlo: attenzione a non dare al verbo “apprendere”, tanto meno “imparare” una connotazione volontaristica) da piccoli, coi genitori, e si iscrivono potenzialmente in memoria (si sono riscontrate particolarmente implicate le zone paleoncefaliche del cervello mesolimbico) è sono completamente inaccessibili a qualunque memoria. Questo tipo di memoria fa parte, insieme con le memorie motorie, di quanto viene denominato “memoria implicita”. A proposito di memoria e coscienza, ricordiamo che la coscienza non è una dote naturale uguale per tutti gli uomini. Ogni individuo la possiede in misura diversa e inoltre, nello stesso individuo essa varia nel tempo e soprattutto a seconda delle circostanze e del contesto relazionale. La coscienza è una dimensione variabilissima: per questo è meglio parlare di “capacità di coscienza” piuttosto che di coscienza tout court. Coscienza e memoria si intrecciano, andando a determinare la capacità o impossibilità di ricordare. Molti studiosi (Edelman, 1989) parlano di coscienza-memoria; o definiscono la coscienza come il “presente ricordato”. Non può esistere un presente consapevole che non implichi un qualche cosa che viene ricordato; non può esserci una coscienza se non c’è il confronto con precedenti memorie. La memoria è stata variamente catalogata nelle sue varie forme. Rimandando ad apposite fonti di Psicologia Generale, ricordiamo qui le principali distinzioni. La prima è tra memoria a breve termine (Short Term Memory – STM) e memoria a lungo termine (Long Term Memory – LTM): la prima si riferisce a quello che viene memorizzato temporaneamente, ma che viene dimenticato subito; al contrario, la seconda indica quello che viene fissato in memoria in modo stabile, anche se a volte non siamo in grado di rievocarlo in modo consapevole o, addirittura, di ricordare che dovremmo saperlo. Questa distinzione è omologabile a quella che può essere fatta dal punto di vista biologico: la STM corrisponde infatti di solito a circuiti bioelettrici che si stabiliscono momentaneamente tra certi neuroni, mentre la LTM ha più corrispondenza con una memoria biochimica delle molecole dell’RNA. Un’altra distinzione viene fatta tra memoria di rievocazione e memoria di riconoscimento: la prima riguarda tutti quei contenuti (parole, immagini, concetti, episodi, ecc.) che possono essere rievocati se il soggetto cerca di ricordarli; la seconda si riferisce a una memoria di cui non si è consapevoli fino a quando non viene riconosciuto il contenuto (una persona, una musica, un oggetto) come qualcosa di già noto. Inoltre, si distinguono una memoria esplicita, che
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è in qualche modo accessibile alla consapevolezza, e una memoria implicita, assolutamente inconscia e mai conscientizzabile. A sua volta nella memoria esplicita si individua la memoria cosiddetta dichiarativa, in quanto comprendente tutto ciò che può essere ricordato intenzionalmente e riferito verbalmente. Al suo interno si distinguono una memoria episodica e una memoria semantica: la prima riguarda un preciso episodio; la seconda eventi complessi di cui abbiamo un ricordo globale. Inoltre, viene descritta una memoria di lavoro che comprende tutte le serie di informazioni e nozioni che inconsapevolmente usiamo in modo automatico per poter realizzare di volta in volta un certo lavoro. Si parla inoltre di memoria spaziale per riferirsi a tutte quelle informazioni che sono state memorizzate implicitamente e che influenzano il nostro orientamento spaziale. In generale, tutte le memorie motorie sono implicite: ciò che viene memorizzato non sono tanto le afferenze propriocettive o le efferenze motorie che compiamo, ma uno schema rielaborato e globale che implica la lettura, selettiva e trasformativa, di tutte le afferenze giunte e delle efferenze emesse. Questi due ultimi tipi di memoria costituiscono la memoria procedurale: viene memorizzata la procedura necessaria per compiere un’azione (per esempio, andare in bicicletta, ma anche semplicemente gattonare, camminare o correre). Al di là di ogni catalogazione, peraltro individuata sperimentalmente, occorre tenere presente un aspetto centrale della memoria: non solo memoria non significa ricordo, ma ciò che ricordiamo può essere del tutto difforme e falso rispetto a quanto crediamo, sinceramente e lucidamente, che sia avvenuto. La “Psicologia della testimonianza” ha chiaramente dimostrato l’ingannevolezza della memoria. Il fatto è che ogni memoria non consiste in un’iscrizione, come in una pietra. La memoria è sempre “plastica”. A rigore non si può parlare di immagazzinamento o di magazzino di memorie. Le varie successive memorie non si ammucchiamo l’una accanto all’altra come in un magazzino. Ogni memoria modifica le precedenti e condiziona le successive. La memoria è squisitamente “dinamica”. Per tale ragione il ricordo può essere del tutto ingannevole rispetto a quanto in un primo tempo si era memorizzato. La coscienza, implicata nel ricordo, oltre che essere mutevole, può anch’essa facilmente essere ingannevole: e inoltre la memoria in sé cambia nel tempo, sicché, anche se possiamo ricordare quello che c’è in memoria, questo si riferisce a quanto c’è in memoria in quel determinato momento. Spesso il soggetto ha memoria di qualcosa che sente come sicuramente vera, particolarmente lucida e che tuttavia può essere per niente “vera”. Non si può mai essere sicuri di ricordare bene. Le molecole del nostro cervello cambiano continuamente.
Capitolo 4 Il problema inconscio-coscienza 4.1 Dall’impostazione freudiana ai più recenti sviluppi psicoanalitici: “perché l’inconscio?” o “perché la coscienza?”; la teoria freudiana e le scienze dell’epoca; evoluzione e rivoluzioni della psicoanalisi; teorie oggettuali e apprendere dall’esperienza; l’esperienza neonatale. 4.2 Cognitivismo e psicoanalisi: descrizione dell’inconscio e spiegazione psicofisiologica; ciò che appare dell’inconscio è sempre la traduzione operata da una coscienza; cosa sono in effetti i processi mentali-neurali inconsapevoli?; la soggettività attrezzata dell’analista. 4.3 Il problema della coscienza: consciousness e conscience; alessitimia; l’attaccamento.
4.1 Dall’impostazione freudiana ai più recenti sviluppi psicoanalitici Nel descrivere il funzionamento della mente (cfr. capitolo precedente) è stata notata più volte la grande differenza tra ciò che il soggetto sente, avverte, crede, pensa – o crede di pensare –, ovvero tutto ciò di cui è cosciente, e quanto invece accade nel funzionamento della sua mente e del suo cervello. La differenza, anzi la discrepanza e talora la contraddizione, tra il piano cosciente e quello che all’insaputa del soggetto la sua mente sta elaborando, è stata oggetto di vasti studi, e di notevoli dibattiti che han visto al loro centro la psicoanalisi, che per prima puntò l’attenzione degli studiosi sull’inconscio. Fu il particolare metodo di Freud, poi via via perfezionato, a portare alla scoperta di quanto preponderanti fossero i processi inconsapevoli rispetto a quelli coscienti. All’epoca di Freud si pensava che lo psichismo dovesse coincidere con la coscienza: imperava un coscienzialismo assoluto; lo psichico era per definizione il cosciente; la coscienza era considerata non tanto strumento che poteva indagare lo psichico, quanto lo specchio, anzi l’essenza stessa della psiche. La psicologia non poteva essere nient’altro che una logía della coscienza. E questa era d’altronde postulata a priori come capacità costante e naturale di ogni uomo. Oggi tutte le suddette proposizioni rimangono solo a livello popolare: tutte le scienze, psicologiche e neurologiche, hanno concezioni ben diverse circa i due suddetti presupposti. Ma al tempo di Freud, a cavallo tra i due secoli, non era affatto così. Cosicché grande fu la meraviglia quando le prove cliniche dei primi psicoanalisti mostrarono l’azione, cioè inferirono l’esistenza, di processi mentali inconsci. Si operò una vera rivoluzione del concetto stesso di psicologia. Ma gli psicoanalisti del tempo di Freud si occuparono degli “affetti”, o meglio subivano la tradizionale distinzione (tendenzialmente dicotomica) tra A. Imbasciati, La mente medica Che significa “umanizzazione” della medicina? © Springer 2008
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affetto e cognizione. L’indagine in termini di affetti (rilevati, inferiti, “sentiti”, e dai pazienti e dagli operatori stessi: cfr. controtransfert) alimentò le laboriose distinzioni tra psiche e mente, psichico e mentale, oggi obsolete e fuorvianti, e l’idea, erede della tradizione filosofica occidentale, che gli affetti avessero a che fare con “qualcosa” diverso dalla cognizione. In realtà la diversità sta soltanto nella differente tonalità di coscienza in cui gli affetti si presentano all’introspezione rispetto alle cognizioni coscienti; d’altra parte sia gli affetti che le cognizioni possono essere del tutto inconsapevoli. Tutto ciò non poteva però essere rilevabile al tempo di Freud. Il concetto di processo mentale inconscio restava confinato nell’alone semantico di quanto si pensava come affettività: questa al contempo veniva però rivalutata come il motore principe dello psichismo; anzi dell’intera condotta degli umani. E ciò all’epoca destò meraviglia e diffidenza. La psicoanalisi iniziò il suo sviluppo portando il suo specifico, fondamentale e rivoluzionario contributo alla psicologia: l’inconscio. Anzi l’Inconscio, con la maiuscola. Ciò non solo per la sua importanza, ma perché questo mondo interiore, prima di allora sconosciuto, che essa mostrava, appariva così misterioso da sembrare un’entità: l’Inconscio appunto, come sostantivo, anziché aggettivo, quasi a sottintendere un mondo un poco alieno dalla soggettività dell’Io cosciente degli individui, quasi un folletto dentro la mente; un’anima occulta. D’altra parte, proprio per combattere il coscienzialismo dell’epoca, Freud si diede un gran daffare per “spiegare” l’inconscio. In questo implicitamente aderiva all’idea imperante che la mente doveva essere cosciente (Imbasciati, 2005a, b): infatti, se ci si chiede “perché l’inconscio?”, appare ovvio che si presuppone che la coscienza sia il dato scontato, naturale, evidente, che non richiede spiegazioni; cioè sia prerogativa essenziale (l’essenza, appunto) della mente. Oggi, alla luce del progresso di molteplici scienze psicologiche e neurofisiologiche, l’interrogativo va capovolto: non più “perché l’inconscio?”, bensì “perché la coscienza?”. E questo dopo aver constatato: a) che i processi che avvengono nella mente (e nel cervello) sono in primo luogo e in gran parte non consapevoli; b) che la coscienza non è affatto attributo costante e naturale per tutti gli individui: meglio parlare di capacità di essere più o meno coscienti, capacità variabili a seconda della situazione, del contesto, del rapporto interpersonale e comunque differenti da individuo a individuo (Liotti, 1994, 2001). La spiegazione che Freud volle dare dell’inconscio fu l’elaborazione graduale della sua Teoria Energetico-pulsionale con cui egli pensò di spiegare l’intero funzionamento della mente. Essa è incentrata su quanto Freud denominò Metapsicologia (Imbasciati, 2005a) e che gli psicoanalisti a torto per troppo tempo considerarono l’unica possibile (Imbasciati, 2005b, 2007b). In questa teoria, il concetto di pulsione come energia endogena che tenderebbe a esplicarsi, e il concetto di rimozione come controforza che teneva inconscio ciò che altrimenti sarebbe diventato cosciente, identificano l’affettività con “forze”, definite di tipo “psicobiologico” (così affermava Freud): di qui il termine “psicodinamica” (dynamos=forza). Queste forze, secondo la spiegazione di Freud, avrebbero condizionato la percezione del mondo, la condotta, il contatto con la
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realtà, la rappresentazione di questa (vedi il concetto di investimento), e dunque i processi cognitivi. In tal modo si sottintendeva che questi ultimi fossero la scontata e naturale attività del cervello, quasi questo dovesse automaticamente rispecchiare la realtà, salvo appunto la loro modulazione (quasi alterazione) per l’investimento affettivo-pulsionale. In effetti così allora si pensava dei processi cognitivi: in ambito neurologico e percettologico; vedi principio della costanza (Katz, 1944). In altri termini si ritenne che i processi affettivi modulassero, se non condizionassero, i processi cognitivi “naturali”in funzione di una loro forza, o carica energetica, data da una sostanza che si supponeva emanasse da organi corporei, più che dal cervello, e che però in questo si riversava; e dunque che i processi affettivi appartenessero a un ordine psicobiologico diverso da quello che avrebbe dovuto presiedere ai processi cognitivi, operati da una supposta attività naturale del cervello. Evidente era d’altra parte la concezione del cervello come specchio della realtà mentre invece ne abbiamo visto la funzione, molto diversa, di elaboratore. E altresì era implicito che i processi mentali avrebbero dovuto essere tutti coscienti, se non vi fosse stata una forza che li manteneva inconsci: la forza della rimozione; la quale apparterrebbe all’ordine dell’affettività concepita in relazione a una energia psicobiologica di origine istintuale: la libido. La teoria esplicativa tentata da Freud ricalcava implicitamente ciò che spesso un individuo adulto avverte consapevolmente circa i suoi affetti (Imbasciati, 2005a) e pertanto, nonché per il fascino di tutta l’opera del Maestro, ebbe gran successo. Ma contemporaneamente connotò l’inconscio come mondo tenebroso, quasi alieno alla soggettività: quella soggettività concepita invece come cosciente, con la sottintesa pretesa che fosse arbitro e controllore della mente. L’inconscio in tal modo si connotò come entità quasi sostanziale (sostantivo, appunto e non aggettivo) dei processi mentali, come una sorta di folletto che agisce misteriosamente dentro l’io del soggetto: come in un mito. Il fascino di questo mito, invero un po’ misterioso, diffuse la psicoanalisi, ma al contempo ne segnò a mio avviso la divaricazione dalle altre scienze della mente. Non fu facile, pertanto, dopo Freud recuperare un riavvicinamento ed elaborare teorie diverse da quella originaria (Imbasciati, 2006a, b, 2007a, b). I prodromi di questo possono essere a mio avviso identificati nel sorgere delle teorie oggettuali e nelle difficoltà che queste incontrarono in seno alla psicoanalisi stessa. Si dicono in psicoanalisi “teorie oggettuali” tutte quelle teorizzazioni sullo sviluppo della mente e sul suo funzionamento che hanno posto al loro centro l’importanza della relazione: l’aggettivo oggettuale deriva dal fatto che esse si dipartono dal concetto psicoanalitico di “oggetto”. Questo però, introdotto da Freud, subì successivamente grandissime trasformazioni (Imbasciati, 1991a, 1993). Molti studiosi hanno contribuito a sviluppare teorie relazionali, o oggettuali: ricordiamo Fairbairn (1952), Melanie Klein, con la sua grande opera tra il 1920 e il 1960 (Klein, 1978), Donald Winnicott, con altrettante opere di poco posteriori, e infine Wilfred Bion, che ha rivoluzionato l’intera psicoanalisi dopo il 1960. Tutti questi autori, sottolineando la relazionalità come matrice
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dello sviluppo mentale, hanno impostato teorie basate sull’esperienza, anziché sull’istinto, come quello di Freud: pertanto sull’apprendimento, e relativa memoria, anche se mai nominano (a eccezione di Bion) questi due termini. D’altra parte in quell’epoca gli studi di altre scienze sull’apprendimento non avevano ancora messo in chiaro quanto ciò che è appreso sia diverso dalla realtà che si presenta per essere appresa; e così pure la relativa memoria di essa. Imperava l’idea che apprendimento e memoria fossero la semplice trasposizione di configurazioni reali entro la mente, cioè si sottintendeva un apprendimento e una memorizzazione sul prototipo dell’imparare a memoria qualcosa di verbale, o di stamparsi in mente una qualche configurazione sensoriale: la mente come apparato fotofonoriproduttore fedele, secondo il già menzionato principio della costanza. Una tale concezione adultistica, coscienzialista e superficiale, non poteva certo addirsi alla psicoanalisi. Per questo a mio avviso mai gli psicoanalisti di quell’epoca nominavano il termine apprendimento. La concezione che allora si aveva dell’affettività – e di questo doveva occuparsi la psicoanalisi – mal si addiceva a un processo cognitivo quale definito dal termine apprendimento, se inteso come all’epoca, cioè diverso dai processi affettivi. Sono stati gli studi sui neonati e i bimbi piccoli a evidenziare come e quanto quello che veniva inquadrato come affettività fosse dipendente dalla relazione, cioè da quanto il bimbo imparava dal dialogo col caregiver, ovvero da un apprendimento. E parimenti sono stati gli studi sugli infanti a cambiare il connotato del termine “apprendimento”, mostrando quanto ciò che si apprende sia difforme da una semplice trasposizione della realtà entro la mente. Sull’onda di questi, e degli studi clinici di tanti psicoanalisti infantili, potè maturare l’idea che “importanza della relazione” significasse “qualità di un apprendimento” e che questo riguardasse anche gli affetti, o meglio che la distinzione tra affetto e cognizione è del tutto fuorviante. Così in psicoanalisi ci furono alcuni decenni in cui, pur progredendo gli studi clinici nel dimostrare la basilare importanza dell’esperienza relazionale (primaria nel bimbo, e poi successiva nelle relazioni dell’adulto, nonché in quella particolare esperienza intima che è la relazione analitica), non si esplicitava che dovevasi trattare di apprendimenti. D’altra parte le teorie oggettuali trovarono una grossa difficoltà politica, interna alle società psicoanalitiche, a esprimere una teorizzazione che si discostasse da quella “dottrinale” di Freud (Greenberg, Mitchell, 1983; Blanck, Blanck, 1986; Mitchell, 1988). Questo impedì che dalla clinica si esplicitassero i concetti teorici. Bisognerà aspettare l’opera di Bion perché il termine apprendimento fosse ufficialmente rivalutato (famoso è il titolo del suo libro, Learning from experience, del 1962), e ancora più anni perché in psicoanalisi si potesse parlare di memoria, e connettere tali concetti con quelli derivati dal parallelo sviluppo delle neuroscienze, fino a poter arrivare a formulare teorie diverse da quella freudiana. Con Bion, e negli autori che successivamente svilupparono i concetti bioniani, si è sottolineato quel “from”: ovvero non si apprende l’esperienza, ma da l’esperienza. Con ciò si sottolinea l’elaborazione che i dati provenienti dall’esperienza subiscono strutturandosi in un apprendimento che viene a costituire
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memoria. Elaborazione dell’esperienza, dunque, anzi trasformazione, come un’altra celebre opera di Bion reca nel titolo stesso.
4.2 Cognitivismo e psicoanalisi Successivamente agli sviluppi psicoanalitici si è andata sviluppando nel panorama psicologico una corrente di studi centrati sulla cognizione, detta appunto cognitivismo. Pioniere di un tale studio è considerato Piaget, con la sua meticolosa opera di osservazione e di inferenza teorica sullo sviluppo dell’intelligenza nei bambini. Parallelamente gli studi sperimentali di origine behaviorista evidenziavano molte modalità dei processi di apprendimento. Concorrevano gli studi psicometrici e di analisi di quanto, con termine onnicomprensivo, era chiamato intelligenza. Vi è una continuità tra gli sviluppi del behaviorismo e quanto più propriamente verrà chiamato cognitivismo. Questo intende indagare come i vari processi che conducono informazioni all’individuo portano all’elaborazione delle sue conoscenze e delle condotte che le esprimono. “Tutto ciò che noi conosciamo della realtà è mediato non solo dagli organi sensoriali, ma anche da quel complesso sistema che interpreta e reinterpreta l’informazione sensoriale” (Neisser, 1967, trad. it. 1976). “Compito dell’approccio cognitivista è quello di scoprire i processi che portano alla conoscenza, di determinare le condizioni del loro formarsi e la loro funzione nel corso del comportamento” (Sheerer, 1954, p. 91). Ci troviamo in presenza di una teoria unificata dei processi cognitivi dal punto di vista dell’elaborazione delle informazioni. Emerge il concetto di una mente concepita come un calcolatore, che utilizza ogni informazione per elaborarla, che mette in memoria tale elaborazione, e che in questo modo è capace di leggere le ulteriori informazioni e di elaborarle. La condotta, ogni condotta, è regolata da tale elaborazione. Nella visione cognitivista il problema se il processo mentale sia conscio o inconscio non si pone: in tal senso v’è a mio avviso un apporto fecondo derivato dal behaviorismo; ciò che conta non è quello che un soggetto sente ed eventualmente verbalizza, quanto ciò che si inferisce dalla condotta. Questo non significa che non vi siano processi inconsci, anzi lo dà per implicito, ancorché lo dichiari inesplorabile. Tale inesplorabilità dipende a mio avviso da un equivoco riguardante il fatto che la psicoanalisi, per esplorarlo, usa la soggettività – dell’analista e dell’analizzando – ed eventuali inferenze da queste, mentre il cognitivismo procede per inferenze dall’osservazione diretta, o dalla sperimentazione. In altri termini l’inconscio esplorato dagli psicoanalisti viene da questi esperito nella loro “soggettività attrezzata” dallo specifico training, ma viene comunicato agli altri studiosi nella traduzione in termini di coscienza e di verbalizzazioni. Al paziente giunge una comunicazione diversa, diretta e non verbale, ma per la descrizione scientifica di ciò che l’analista inferisce accadere, egli deve necessariamente passare attraverso il filtro della sua coscienza e usare la verbalizzazione. Questa peculiarità e questa necessità “strumentale” non sono state ben comprese da cognitivisti e beha-
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vioristi. Quando i behavioristi (talora cognitivisti) dicono che l’inconscio è inesplorabile, è perché si riferiscono a quell’esplorazione, mediata dalla soggettività, tipica degli analisti, di cui i behavioristi diffidano. Ne diffidano ripudiando come arbitraria la “traduzione” degli psicoanalisti, perché non è penetrata l’idea della necessità e utilità di usare anche lo strumento costituito dalla soggettività, per l’esplorazione dello psichico. Ovviamente bisogna tener conto del filtro costituito da uno strumento che può essere di volta in volta molto diverso (Imbasciati, 2007c): qualunque strumentario tecnologico, dichiarato un po’ presuntuosamente obbiettivo, non implica meno filtro di quanto analogo filtro non sia coinvolto nell’uso della soggettività nel setting psicoanalitico. Naturalmente occorre che lo strumento della soggettività sia stato tarato e validato: qui gioca la misconoscenza di chi non conosce gli ultimi sviluppi della metodologia psicoanalitica. Questa misconoscenza è stata favorita, e non poco, dai difetti epistemologici che a lungo hanno inquinato la psicoanalisi, a cominciare da quelli di Freud nella costruzione della sua Teoria Energetico-pulsionale (Imbasciati, 2005b, 2006a, b, 2007a, b, c). Un equivoco generale, non ancora del tutto dissipato, che ha generato la presunta incomunicabilità tra approccio psicoanalitico e approccio cognitivista, è dovuto al fatto che gli psicoanalisti non sempre hanno distinto ciò che si mostra nella soggettività dall’esistenza effettiva, anche se per inferenza, di un processo psicofisiologico entro la mente. Si tende all’ipostatizzazione del soggettivo (Imbasciati, 1991a, 1994, 1998a, 2007c). Inoltre non si tiene presente in misura adeguata che un conto è una descrizione dell’inconscio tradotto come se i relativi processi potessero diventar coscienti, e altro conto è la spiegazione fornita dai processi psicofisiologici che si possono inferire da vari tipi di indagine. Per esempio in psicoanalisi a lungo si è confuso la resistenza con la rimozione (Imbasciati, 2008b): “resistenza” è il termine coniato da Freud (widerstand) nel descrivere come i pazienti facciano fatica a prendere coscienza di certi loro eventi psichici, mentre “rimozione” (verdrangung) è il termine, sempre di Freud, dato a un concetto psicofisiologico che egli suppose, nel quadro della sua teoria, che potesse spiegare la resistenza. L’inconscio, o meglio i processi inconsapevoli, sono dunque esplorabili, e non solo con le inferenze dall’obbiettività dell’approccio sperimentale, ma anche mediante la soggettività: con le dovute cautele però, e non solo nella metodologia clinica (addestramento della mente dell’operatore e secondariamente dell’analizzando), ma anche nella metodologia che è necessaria (e che spesso difetta) per passare scientificamente dal dato clinico descrittivo, mediato dalle soggettività, all’inferenza circa l’esistenza di effettivi processi mentali. Accorgimenti di questo tipo stanno a mio avviso maturando in ambito psicoanalitico e credo che questo sia dovuto a una certa osmosi portata dal behaviorismo, e dal cognitivismo poi, circa il fatto che i processi inconsapevoli possono essere inferiti dall’osservazione diretta di obbiettive condotte. E poiché tali inferenze riguardano eventi non percepiti dal soggetto, dalla sua coscienza, eppur documentabili, ne consegue che l’inconsapevole non solo viene ammesso, dalle scuole cognitiviste, ma anzi dato per scontato come essenza sostanzia-
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le di tutti i processi mentali. L’affermazione di Bion che non esiste processo conscio senza che vi siano sottesi processi inconsci (persino nel calcolo algebrico: Bion, 1963, 1967, 1970) potrebbe essere sottoscritta, a mio avviso, dai cognivisti. Occorre però che non si confonda il processo inconsapevole che avviene nella mente con ciò che “sente” la soggettività addestrata della coppia analitica. Nella concezione cognitivista si studiano le funzioni mentali e il loro costituirsi in relazione ai vari livelli di processazione delle informazioni e di codificazione mnestica che avvengono lungo lo sviluppo dell’individuo: questo significa che ci si occupa di elaborazione dell’esperienza e di organizzazione di tali elaborazioni in progressive strutture mentali (memoria di funzioni). Ma anche l’accento posto dalla psicoanalisi, ormai da molti lustri, sulla relazione, e in particolare sulle relazioni precoci, per la costituzione delle strutture mentali di base (gli affetti), chiama in causa – anch’esso e in primo luogo – l’elaborazione dell’esperienza. Si tratta di vedere se le due concettualizzazioni di “elaborazione” sono davvero diverse o se inquadrano in termini diversi lo stesso processo mentale. Nelle concezioni di tipo cognitivista, la mente, come un grande calcolatore, funziona in base a sistemi e sottosistemi di processazione parallela delle informazioni. Sul funzionamento di questi sistemi, molteplici e in parallelo, si innesta un unico processo, o meglio sovrasistema di processazione, questa volta sequenziale, che è origine di ciò che chiamiamo coscienza. Esso implica una “scelta” tra le varie “versioni” dell’evento in corso. Le modalità con cui esso avviene sono oggetto di teorie diverse (Edelman, 1989, 1992; Dennett, 1991), che spiegano l’emergere delle modalità di coscienza e il loro variare tra gli individui e nel medesimo individuo. Una proposizione basilare per gli attuali sviluppi della teoria psicoanalitica, già da me sottolineata (Imbasciati, 2005b, 2007a, b), è costituita dal fatto che è l’inconscio, o meglio l’insieme dei processi non consapevoli, che di volta in volta determina il tipo di coscienza di cui un individuo può usufruire: e ciò avviene in funzione del contesto relazionale, soprattutto interpersonale. In termini cognitivi l’inconscio in sé è l’insieme dei sistemi che danno risultati tra di loro diversi e spesso in contraddizione: questa viene sorpassata (ma non eliminata) dal determinarsi di quella “scelta” dalla quale sorge la coscienza. Le suddette formulazioni si accordano con quanto ci dice la psicoanalisi a livello clinico, ma al contempo ne rivoluzionano le spiegazioni teoriche. L’inconscio è pieno di contraddizioni, anzi non conosce la contraddizione. Ciò che il soggetto in buona fede crede di sé è un risultato quasi sempre ingannevole. L’introspezione cosciente non può essere esercitata a piacere per scoprire forzosamente il proprio inconscio, perché essa stessa è dall’inconscio condizionata. Questo, e altre cose, gli psicoanalisti le sanno da tempo. E sanno anche che in funzione del contesto interpersonale – la relazione analitica – varia la capacità di prendere coscienza. Ma fino a che punto gli psicoanalisti applicano il principio che la coscienza è il risultato, sempre, dell’inconscio? Un tale principio rende superflua la teoria della rimozione; nonché tutto l’impian-
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to teorico dinamico. Non è necessario teorizzare un’entità (chiamata Io) fornita di coscienza, che con sue forze reprime e modula (inconsciamente) le forze dell’inconscio. La coscienza è semplicemente e sempre il risultato di processi inconsci. In altri termini i concetti clinici della psicoanalisi possono essere conservati e valorizzati con una teorizzazione diversa e a mio avviso più semplice.
4.3 Il problema della coscienza Un preliminare problema che sorge quando si parla di coscienza a un auditore italiano è costituito dal fatto che tale termine italiano ha due accezioni, molto diverse tra di loro: la coscienza intesa come essere coscienti o consapevoli di qualcosa, e la coscienza intesa in senso morale. In inglese si distingue la consciousness dalla conscience e la distinzione terminologica impone quella semantica. In italiano invece, la coincidenza suggerisce e alimenta pregiudizi e stereotipi. La cultura comune italiana è infatti abituata a considerare la coscienza in senso morale, come buona fede, onestà, sincerità con se stessi e con gli altri, ma sotto tale accento giace e si nasconde l’idea che ogni individuo abbia la possibilità, con l’introspezione, di capire se si è in buona fede o no, e quindi di essere “coscienzioso”. Ma questa idea si basa a sua volta sull’a-priori che ogni individuo possa essere consapevole di sé, dei proprio pensieri, sentimenti, intenzioni: questa, però, è la concezione, qui ampiamente criticata, di una coscienza uguale per tutti e posseduta da tutti per natura. Dunque l’abitudine all’uso morale del termine coscienza è retaggio del coscienzialismo della psicologia di oltre un secolo fa e continua ad alimentarlo. Le due accezioni della stessa parola la dicono lunga sulla cultura comune italiana. Occorre pertanto che l’operatore che voglia lavorare da professionista, si spogli di questa abitudine che si è radicata nella lingua italiana (e in altre) e si abitui a pensare che un conto è la consciousness e altro conto e la conscience. Forse anche per questa nostra ambiguità linguistica, la nozione che non è ancora penetrata nella cultura scientifica generale, e in quella medica, è che la coscienza non è una qualità dicotomica (cosciente/non cosciente), né una dote di natura posseduta in maniera uguale da tutte le persone, ma è una capacità acquisita, come tante altre che la mente acquisisce apprendendo dalle relazioni interpersonali; e pertanto varia da individuo a individuo: alcune persone hanno molte più capacità di coscienza di altre. Le persone con scarse capacità di coscienza furono denominate alessitimiche: studiando i pazienti psicosomatici, diversi gruppi di ricercatori (Marty, de M’Uzan, David, 1963; Sifneos, 1973) constatarono che molti di questi pazienti erano incapaci di avvertire le proprie emozioni, che pure si manifestavano (per esempio capitava loro di piangere e negavano di avere qualunque affanno, oppure si alteravano tutti i parametri fisiologici degli stati di ira e aggressività, mentre i soggetti non si sentivano arrabbiati), ed erano anche assai poco capaci di percepire quando gli altri intorno a loro stavano avendo una qualche emozione. Si chiamarono ales-
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sitimici perché, appunto, erano incapaci di “leggere” le emozioni (a-lexistymos). In un primo tempo si considerò questa sindrome come patologica e correlata alla predisposizione psicosomatica. Successivamente si constatò che vi erano persone alessitimiche anche senza nessuna correlazione con sindromi psicosomatiche, e inoltre che l’alessitimia non era affatto una qualità, come tale dicotomica, cui dare significato patologico, come sindrome, e di cui ricercare eventuali cause, bensì che era un tratto quantitativo variabile: non vi erano soltanto soggetti del tutto alessitimici, come quelli riscontrati alle prime indagini, ma ogni persona poteva essere “un po’” alessitimica, così come accade per tanti altri tratti di personalità. Pertanto oggi si preferisce parlare non di “alessitimia”, ma di dimensione alessitimica (Imbasciati, 2006a, b), considerando la maggiore o minore capacità di coscienza di quel soggetto; a seconda di quanto, di più o di meno, quel soggetto aveva appreso e strutturato nella mente le funzioni che producono la coscienza. Si è inoltre constatato che la capacità di coscienza non solo varia da individuo a individuo, ma che nel medesimo soggetto varia da momento a momento a seconda del contesto interpersonale. Questo rilievo, sperimentalmente comprovato, era già stato constatato implicitamente dagli psicoanalisti. Questi infatti da molto tempo avevano visto non solo come le capacità introspettive fossero variabilmente possedute a seconda del soggetto, ma anche come a seconda del soggetto potessero essere più o meno ingannevoli, e soprattutto come la capacità di assimilare le interpretazioni offerte dall’analista, che dovrebbero aiutare a “prendere coscienza” e dunque produrre un effetto mutativo (terapeutico), non dipendesse dall’appropriatezza dell’interpretazione, ma da una capacità variabilissima di quel soggetto in quel momento della relazione psicoanalitica con quell’analista. Dunque il “prender coscienza”, che di primo acchito sembrerebbe così semplice e trasmesso dalle verbalizzazioni dell’analista (interpretazione), in realtà è un processo complesso, che interessa vari livelli di funzionamento mentale, inconsci essi stessi, e che interessa una comunicazione da parte dell’analista che va ben al di là di ogni verbalizzazione. La coscienza allora è prodotta, nelle sue variabili qualità, dalla qualità dei processi inconsci che la fanno eventualmente emergere. Questo conferma il fatto che la coscienza non è una funzione indipendente, appartenente a tutti gli esseri umani, che funziona secondo una “normalità” biologica, salvo essere “alterata” da qualche supposta causa (vedi la criticabile dizione psichiatrica di alterazioni dello stato di coscienza), bensì un insieme di processi attivati dalle relazioni interpersonali passate e riattivati in modo variabile dalle relazioni interpersonali presenti. Infatti, non solo le capacità di coscienza furono apprese, nella loro veridicità piuttosto che ingannevolezza, dall’individuo nel suo primo sviluppo, ma sono costantemente modulate dalle relazioni interpersonali del presente. Si parla oggi in psicoanalisi della “funzione riflessiva” (Fonagy, 1999; Fonagy, Target, 2001). La capacità di essere più o meno coscienti, e che tale presa di coscienza sia effettiva piuttosto che falsata rispetto a quanto inconsciamente sta elaborando la mente, è dunque costantemente monitorata dalle relazioni. La relazione psi-
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coanalitica funge come una sorta di lente d’ingrandimento (strumento) per evidenziarla più agevolmente, ovvero monitorarla, ma tale capacità si dispiega peraltro in ogni relazione. Possiamo del resto pensare a un evento banale: quante volte può accadere che si abbiano insight importanti per la propria vita a seguito di circostanze particolari con persone cui si è particolarmente legati? Il monitoraggio della relazione psicoanalitica permette di veder come opera la coscienza, in quanto produce via via una particolare coscienza. Ciò che viene denominato qualità della relazione analitica produce di volta in volta una coscienza, più o meno utilizzata dall’analizzando, nonché dall’analista stesso. Anche nell’analista la qualità della relazione produce di volta in volta una variabile capacità di coscienza, che serve all’analista nel suo compito di capire cosa accade nelle due menti in seduta. È la qualità di una relazione, di qualunque relazione, che produce la coscienza o meglio il tipo di coscienza: questa non è dunque dote naturale e costante di ogni essere umano. L’acquisizione che la capacità di coscienza dipende dalla relazione, porta l’attenzione sui fattori che possono di volta in volta favorire la presa di coscienza in un dato contesto relazionale. Al tempo di Freud si pensava che l’interpretazione dell’analista, cioè una comunicazione verbale, fosse il fattore essenziale che offriva al paziente la possibilità di prendere coscienza dei propri contenuti e processi inconsci. La teoria freudiana della rimozione rincalzava il suddetto principio: se l’interpretazione può togliere la rimozione, quello che era inconscio sarebbe diventato conscio. Ma si constatava la “resistenza”: per molti decenni tale fenomeno fu semplicisticamente descritto come dovuto al fatto che moventi inconsci, anch’essi rimossi, impedivano al soggetto di “accettare” l’interpretazione diventando cosciente di quanto essa descriveva. Gradatamente, lungo lo sviluppo della psicoanalisi e studiando, appunto, la relazione, si indagarono i fattori relazionali che in seduta, o dopo, generavano resistenza; o comunque facevano scomparire un primo effetto di presa di coscienza, da parte del paziente, di una certa interpretazione. L’attenzione alla verbalizzazione dell’interpretazione gradatamente si spostò su altri fattori che accompagnavano la verbalità dell’analista: questo fu studiato in termini di affetti circolanti (transfert, controtransfert) nella coppia analitica. Recentemente la circolazione di tali affetti viene indagata in termini di comunicazione. Ci si pone cioè il problema: dati gli affetti, come essi passano, verbalità a parte, tra analista e analizzando? Si è cioè cominciata a studiare la comunicazione non verbale, molto meno controllabile di quella che passa per le parole, quale veicolo della circolazione di affetti responsabili della maggiore o minore capacità di coscienza, nonché della stabilità di questa, da parte del paziente. Al tempo di Freud, d’altra parte, la concezione di coscienza ricalcava un’idea prevalentemente dicotomica (conscio/inconscio; preconscio a parte) e comunque la “presa di coscienza” era creduta essa stessa un evento “sì/no”. Lo sviluppo psicoanalitico dello studio della relazione, quello più recente della comunicazione non verbale quale veicolo di affetti e quindi di mutamenti della capacità di prender coscienza da parte dei pazienti, nonché gli studi sperimen-
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tali sulla capacità di coscienza quale evento relazionale variabile, ci dicono che questa è in funzione, sì, di processi di tipo affettivo, ma che essi dipendono dalla comunicazione primariamente non verbale che avviene nel contesto relazionale considerato. Di conseguenza, in psicoanalisi si considera sempre meno il contenuto verbale di un’eventuale interpretazione, ma si valuta una sua eventuale opportunità e soprattutto i veicoli comunicazionali (dall’analista al paziente e viceversa) che possono favorire o render vana qualunque interpretazione, cioè che possono incrementare o diminuire la capacità effettiva del paziente di prendere coscienza. Il problema della coscienza, che oggi interessa i neuroscienziati, si declina sul piano della Psicologia Clinica nei fattori che modulano la relazione e in modo particolare sui media che la costituiscono e governano. Le scuole cognitiviste convergono d’altra parte con quelle psicoanalitiche nel prendere in considerazione lo studio della capacità di coscienza. Edelmann afferma che è il dialogo, il rapporto interpersonale, che fonda la coscienza: il sociale determina quindi la responsabilità e le libertà individuali. La teoria di Edelman (1989, 1992) poggia sui suoi studi neurofisiologici circa i “circuiti rientranti”. La percezione implica una precedente memoria, una memoria che confronta Sé e Non Sé, ricordi di propriocezioni (schema corporeo) e di esterocezioni passate confrontate con quelle attuali. I circuiti rientranti permettono alla memoria di organizzarsi in “mappe globali” o “scene” in cui il presente percettivo (anche quello autoriflessivo) viene a essere colorato – permeato, direi – dalle precedenti memorie di precedenti incontri con categorie percettive similari (o assimilate, dirà poi Liotti), che costituiscono gli affetti/emozioni e che condizionano il “presente ricordato”1 che caratterizza la coscienza, e con esso la condotta assunta in quel momento dall’individuo. I circuiti rientranti, semplificando, sarebbero la base del continuo confronto del presente col passato, e costituiscono la cosiddetta coscienza primaria, responsabile di quelle condotte che erroneamente denominiamo istintive. Dunque molte caratteristiche psichiche (e comportamentali) che gli psicoanalisti hanno ascritto agli istinti, modulati secondo la teorizzazione freudiana, sono invece ascrivibili, e in modo radicale, alla relazionalità. Il che del resto è un concetto che in psicoanalisi si è andato via via sempre più affermando, soprattutto considerando le relazioni neonatali infantili, e traducendo in termini psicoanalitici gli sviluppi delle teorie di Bowlby (Bowlby, 1969, 1973, 1980; Main, 1991, 1995; Ammaniti, Stern, 1992). In questa riformulazione balza in evidenza l’utilità per gli psicoanalisti di rivedere il concetto di pulsione e tutta la teoria freudiana a tal proposito connessa (Imbasciati, 2001b, c, d). Del resto Lichtenberg (1989) ha chiaramente sostituito il concetto di pulsione con quello di motivazione, abbandonando la teorizzazione dinamico-energetica degli istinti.
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È questo il titolo di una delle più note opere di Edelman (1989).
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Di particolare interesse per la ricerca in psicoanalisi sono gli sviluppi della Teoria dell’Attaccamento per ciò che concerne i MOI. Nelle relazioni precoci si producono i differenti stili di attaccamento (Ainsworth e coll., 1978; Main, 1991, 1995; Main, Goldwin, 1994): a seconda della qualità delle suddette relazioni e degli stili di attaccamento dei vari caregivers ivi implicati, il bimbo struttura il proprio stile di attaccamento: questo non riguarda solo le relazioni del bimbo, ma forgerà il tipo di relazioni che il bimbo divenuto adulto intesserà coi diversi suoi consimili. Una tale articolata relazionalità ha a che fare con modalità funzionali, acquisite ed esplicate dalla mente durante tutte le relazioni della vita, non solo e non tanto concernenti quelle condotte che con vecchia terminologia potremmo chiamare affettive, ma più in generale con modalità che riguardano tutti i modi di operare della mente di quel singolo individuo, sia per quanto possa essere denominato affettività sia per quanto con termine omnicomprensivo possiamo chiamare processi di cognizione (Fonagy, 2001; Solano, 2001; Tomassoni, Solano, 2003). Tutto questo dice di una concezione dello sviluppo e del funzionamento mentale ben diversa dalla metapsicologia freudiana. I concetti sopraelencati si prestano a mio avviso a molte riflessioni per gli psicoanalisti: si può pensare alle libere associazioni, che irrompono nella coscienza con la possibilità di agire sulla “presa di coscienza”; si può pensare a certe prese di coscienza che, avvenute in analisi, dopo scompaiono; o ancora alle molteplici deformazioni che i pazienti conferiscono alle nostre interpretazioni dopo alcuni giorni, talora mesi, anche se al momento le avevano afferrate significativamente. Si tratta di trasformazioni di memorie, che implicano volta per volta differenti qualità di coscienza. In ogni caso i contributi dei cognitivisti al problema della coscienza andrebbero ripensati dagli psicoanalisti, per riformularli in una forma più consona al metodo psicoanalitico. In particolare in psicoanalisi si potrebbe considerare come la continua attività della mente, e del cervello, produca un incessante apporto di informazioni prodotte internamente, che si intrecciano con quelle processate sulla base degli input esterni, sensoriali; ivi inclusi quelli derivati dai vari significanti che passano nel contatto tra analista e paziente (comunicazione non verbale). In tal modo gli psicoanalisti potrebbero riconsiderare l’elaborazione interiore di tipo affettivo in termini di processamento di informazioni, e in tal modo apportare un fecondo contributo a un’area piuttosto trascurata, finora, dai cognitivisti. Lo studio della capacità di coscienza, come sopra descritto, porta oggi a dover abbandonare il presupposto di una coscienza “normale”, con tutte le relative conseguenze che tale concetto comporta, e cioè: a) che vi sia una coscienza normale e alterati stati di coscienza: una tal dizione, pur oggi ancor usata, può essere riferita soltanto a una grossolana definizione di coscienza e a una altrettanto grossolana rilevazione di cospicue devianze dalle prove con cui la prima viene definita; in realtà tra questa e quella v’è tutto un continuum; b) che si possa parlare di “presa di coscienza”: tale dizione è fuorviante, in quanto richiama nel senso corrente quanto in sub a), anche se potrebbe essere usata in senso parziale e graduale. È bene pertanto che ogni operatore avente a che fare
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con lo psichico, e quindi con la propria soggettività trasformata dalla propria capacità di coscienza e con quanto le capacità di coscienza altrui gli possono offrire, disponga di un adeguato quadro degli eventi che riguardano la sua professione. Quanto sopra esposto circa le capacità di coscienza, nonché nel precedente capitolo sulle generalità del funzionamento mentale, potrebbe sembrare troppo specialistico e pertanto pleonastico per quanto concerne medici e altri operatori della salute. In realtà questi intessono coi loro utenti relazioni di estrema importanza, nelle quali passano effetti psicosomatici, terapeutici o per contro iatrogeni. Una certa conoscenza circa gli sfuggenti modi con cui funziona la mente non è quindi argomento da studiosi, ma avvertenza indispensabile per tutti gli operatori. Del resto la nostra trattazione è stata il più possibile sintetica, rimandando alle fonti per chi avesse difficoltà di comprensione. Quanto sopra descritto è pertanto a mio avviso indispensabile per rendersi conto di cosa accade nelle relazioni professionali in ambito sanitario: cosa accade nell’osservazione, nella diagnosi, nella presa in carico, nella cura, nella relazione che ogni operatore, in maniera differenziatamente specifica, intesse col suo assistito; che intesse comunque, lo voglia o no, negativa o positiva, terapeutica o iatrogena, consapevole o meno.
Capitolo 5 La comunicazione al di là della parola: transfert e controtransfert nella pratica medica 5.1 Trasmissione e comunicazione di affetti: evoluzione del concetto di transfert e controtransfert; oggettivazione di ciò che appare come transfert e controtransfert; transfert e controtrotransfert come comunicazione non verbale che avviene in qualunque relazione. 5.2 Affetti inconsci in ambito sanitario: comunicazione affettiva inconsapevole e operato medico-sanitario, effetto placebo/nocebo. 5.3 Al di là della parola: la comunicazione non verbale: il veicolo psicosomatico della trasmissione di affetti; il dialogo erotico; comunicazione non verbale e menzogne della verbalità.
5.1 Trasmissione e comunicazione di affetti In psicoanalisi fu denominato transfert l’insieme degli affetti non consapevoli che l’analizzando dispiega verso il suo analista. L’analizzando non se ne accorge: l’analista ha il compito non facile di accorgersene e quello poi più difficile di far sì che anche l’analizzando ne prenda coscienza. Ma i processi mentali sottesi al nostro semplicistico dire “prender coscienza” sono tutt’altro che semplici, come abbiamo visto nel capitolo precedente, e non passano per le parole. Il quadro allora è complesso. L’evento relazionale che fu detto transfert fu così denominato perché in un primo tempo si constatò come l’analizzando “trasferisse” sul proprio analista affetti ed emozioni originariamente in lui strutturatesi verso i suoi genitori o parenti o comunque verso persone significative della sua vita infantile. Successivamente si riconobbe che questo trasferimento, seppur effettivo, non era onnicomprensivo di tutto quanto si sviluppava nel paziente verso l’analista: il termine transfert fu però mantenuto, e oggi indica l’insieme degli affetti non consapevoli che nel paziente si attivano, coinvolgendolo e impregnando la sua relazione con l’analista. Si vide anche che tale fenomeno non era unidirezionale, dal paziente verso l’analista, ma bidirezionale, ovvero pienamente relazionale: anche nell’analista si dispiegano eventi affettivi non consapevoli verso il paziente, modulati da quelli del paziente verso l’analista, in un continuo dialogo inconscio. Questa animazione di affetti inconsci nell’analista in risposta al paziente fu denominata controtransfert. Agli inizi della psicoanalisi questo evento, cioè l’aver intravisto che l’analista non era uno strumento asettico capace di analizzare il paziente, ma una persona, col proprio inconscio, sembrò strano e fu considerato ostacolo all’analisi. Si pensava che un analista, con la sua analisi personale e successiva formulazione, avesse conseguito la capacità di essere cosciente dei propri moti A. Imbasciati, La mente medica Che significa “umanizzazione” della medicina? © Springer 2008
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interiori e quindi potesse essere indenne dal subirli inconsapevolmente. L’imbattersi invece, attraverso inferenze o per confronti coi colleghi o comunque in maniera indiretta, nella presenza di eventi inconsci nell’analista, stimolò la comunità psicoanalitica a perfezionare il training e l’analisi personale dei futuri analisti (Imbasciati, 2007c; Imbasciati, Margiotta, 2008). E ciò fu positivo: infatti una maggior formazione degli analisti permise di constatare che l’inconscio non può mai essere eliminato, con nessuna analisi, lunga o intensiva che sia, ma che si può aumentare (col training) la propria capacità di coscienza; e di conseguenza essere più capaci, magari a posteriori, di capire che cosa inconsapevolmente accade nell’animo: dei pazienti e del proprio. Che l’inconscio non possa essere eliminato, anche per gli analisti, malgrado qualunque analisi, fu una sorpresa negli anni ’40, perché ancora si pensava o si sperava che potesse esistere una mente tutta cosciente: forse si aveva ancora l’idea coscienzialista dei secoli passati, quando si faceva coincidere mente e coscienza; forse tale idea tutt’oggi permea il senso comune; e anche gli ambiti sanitari, malgrado oggi sappiamo, e dalla psicologia sperimentale e dalle neuroscienze, che il nostro cervello lavora primariamente al di là di qualunque coscienza. Ma all’epoca in cui fu scoperto il controtransfert tutto ciò non si sapeva e vi era inoltre l’idealizzazione di un analista-mago che con un colpo d’occhio coglie l’inconscio degli altri e che pertanto non deve fare i conti col proprio. A livello popolare c’è ancora tale immagine. Comunque all’epoca la scoperta del controtransfert si trasformò in uno stimolo a perfezionare lo strumento proprio dello psicoanalista: la capacità di coscienza nella relazione. E si vide anche che tale controtransfert non è la semplice risposta al transfert del paziente, ma un più complesso dialogo di eventi inconsci relazionali tra i due componenti la coppia analitica. Nello sviluppo della psicoanalisi – siamo negli anni ’50, ’70 – parallelamente e conseguentemente al cimento di tanti analisti nel cercare di analizzare il proprio controtransfert, si vide che l’emergere di tali eventi nell’animo dell’analista non era affatto un caso sporadico, o una eventualità, ma la regola; né tanto meno questi eventi potevano essere considerati un ostacolo all’analisi. Transfert e controtransfert esistono sempre: basta scoprirli e saperli analizzare. Se questo è relativamente facile per alcuni aspetti del transfert, più difficile lo è per il controtransfert, ma è proprio il riuscire ad analizzare quest’ultimo che serve a capire meglio il primo; e a capire tutta la relazione, il che equivale a capire cosa succede tra i due e nei due e cosa di quello che succede fa cambiare il paziente. Così la clinica psicoanalitica studia il funzionamento della mente. L’analista non è uno specchio che serve a vedere come funziona la mente degli altri: il suo compito è più complesso perché anch’egli è una mente, che come tale lavora inconsciamente. Il contatto coi pazienti, che verso di lui dispiegano imponenti comunicazioni inconsce (correnti “affettive”), attiva in modo altrettanto imponente il suo inconscio. I due inconsci “si parlano”: inconsciamente. Come allora è possibile avere dati “obiettivi”? Lo strumento-analista interviene massivamente nel processo di osservazione, e di elaborazione dei dati ottenuti, e al contempo costituisce un intervento che ha modificato e modifica il campo osservato.
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Il problema fu oggetto di un’enorme letteratura: possiamo qui sommariamente dire che fu risolto attraverso un ulteriore affinamento del training personale dell’analista, specialmente attraverso l’istituto della supervisione, ma soprattutto attraverso l’ampliarsi dei confronti clinici e degli scambi scientifici entro la comunità degli psicoanalisti in un processo di formazione permanente. Sostanzialmente si tratta di mettere in atto procedimenti di oggettivazione del soggettivo (Imbasciati, Margiotta, 2005, 2008). Tra questi, il mutamento del funzionamento mentale del paziente, in senso positivo rispetto agli intenti, cioè utile al paziente e a chi gli sta vicino, è stato considerato un parametro di oggettività. I suddescritti aspetti del processo di osservazione-analisi-intervento constatati in psicoanalisi si ripetono, in maniera meno monitorabile e quindi più occulta, nell’osservazione-diagnosi-intervento-relazione di qualunque operatorio sanitario. Il medicus ipse farmacum, che vale per tutti gli operatori, dispiega la sua azione attraverso processi di questo tipo. Il processo psicoanalitico rivela in modo più evidente quello che intercorre meno patentemente in qualunque relazione umana, ancor più se questa, come accade quando c’è di mezzo salute/malattia, coinvolge l’individuo e mobilita in lui elaborazioni inconsapevoli verso gli operatori. Lo psicoanalista pare che operi con le parole: un malinteso senso comune fa pensare (anche ai sanitari) che la scelta delle parole appropriate possa essere la chiave per un’azione positiva del medico sui suoi pazienti, così come si crede la chiave dell’analisi. Non è così. Perché un’analisi sia “mutativa” (=terapeutica), occorre “toccare” l’inconscio: ciò non è possibile se non attraverso un altro inconscio. Le parole possono e dovrebbero veicolare significanti inconsapevoli, con i relativi significati, che altrimenti non possono essere assimilati dalla mera denotatività dei significanti verbali: l’analisi diventerebbe sterile esercitazione di parole, più o meno manipolative nei confronti del paziente. Altrettanto succede in ogni altra relazione. Occorre allora andare al di là di ciò che più patentemente ci si presenta come comunicazione: al di là della parola. Tra due o più persone che si mettono in rapporto si animano affetti inconsapevoli: quanto più sono intensi, tanto più sono incisivi nelle condotte e sull’andamento della relazione stessa. E viceversa, quanto più una relazione per altre ragioni diventa ravvicinata e continuativa, tanto più anima affetti, negativi e positivi. Tali affetti, al di là di qualcosa che i soggetti possono anche avvertire, sono essenzialmente inconsci: i termini transfert e controtransfert continuano pertanto a essere usati anche al di fuori dell’ambito psicoanalitico, per esempio in psicologia sociale, per indicare come gli effetti di qualunque interazione umana, duale, gruppale, collettiva, si originino attraverso comunicazioni inconsapevoli, non verbali, di tipo affettivo. Le interazioni, soprattutto, sono i significanti che veicolano i significati della reciproca comunicazione non verbale. Il fatto che si parli di “affetti” può indurre il lettore sprovveduto a pensare che la suddetta comunicazione possa essere meno importante di quella che intercorre verbalmente e intenzionalmente. Tale idea non tiene conto che quando si parla di “affetti”, a livello scientifico si vuole indicare processi mentali di
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primaria essenziale inevitabile comunicazione tra gli esseri umani; come del resto le neuroscienze oggi ci hanno dimostrato. Tra due persone qualunque che si trovino l’una a constatare la presenza dell’altra, si attivano processi neurali (dunque mentali, inconsapevoli) in relazione proprio al mero incontro. Eppure, a livello popolare, parlare di transfert e controtransfert, tanto più nel riferimento alla pratica medica, desta meraviglia; e così pure desta perplessità parlare di comunicazione affettiva. Opportuno è allora considerare alcuni esempi banali. Un’amicizia intensa e continuata mette in atto movimenti di affetti assai più di un’amicizia saltuaria o di una semplice conoscenza, ma anche questa li comporta: li avvertiamo sotto forma di impressioni di simpatia/antipatia. Un rapporto di convivenza come vi può essere in una famiglia tra padre e figlio, tra fratelli e sorelle, mette in moto enormi movimenti di affetti. Ancor più affetti si mobilitano in una coppia, tanto più se convivente, comunque nella misura in cui si frequenta: masse di affetti passano dall’uno all’altro nei due sensi e, vicendevolmente gli affetti dell’uno suscitano in continui feedback affetti dell’altro, e la risposta di certi affetti dell’altro modula gli affetti del primo e via dicendo. Ognuna di queste due modulazioni circolari riflette il patrimonio affettivo di ciascuno dei due, cioè il passato affettivo remoto infantile dei due. Ogni coppia si ama, si avversa e qualche volta si odia, e in queste modalità che circolano nella coppia c’è sempre un’impronta del passato di ognuno dei due. La memoria è la matrice della codifica e decodifica delle comunicazioni reciproche ed è la memoria, remota, implicita, inconsapevole che elabora ciò che passa tra due o più esseri umani. Tutto questo passaggio è in massima parte non consapevole e avviene attraverso interazioni e comunicazioni non verbali. Quello che “sente” il soggetto – nelle amicizie, nella familiarità, nella coppia, fra fratelli, sorelle, genitori, ecc. – è soltanto qualcosa di vago e generico: benessere o malessere, antipatia o simpatia, accordo o disaccordo: a questo si limita la sua consapevolezza. Oppure non si “sente” nulla, così come spesso accade nei rapporti professionali dove pur tuttavia affetti inconsci informano tutto il comportamento. Il problema è che ognuno di questi movimenti affettivi può avere effetto psicosomatico (cfr. Cap. 8). La relazione analitica è servita come strumento di analisi, quasi un microscopio, per capire la parte inconsapevole in una relazione particolare e da qui inferire, e poi indagare, su quanto avviene in altre relazioni: in tutte le relazioni, anche nei gruppi e tra gruppi. L’occasione psicoanalitica ha funzionato come se fosse uno strumento particolare, che ha rivelato come al di sotto di generici sentimenti consapevoli – simpatico, antipatico, disagio o benessere –, ci fosse tutta una serie di dinamiche di affetti e di riflessi del proprio passato, cioè memoria. La comunicazione di affetti profondi e complessi avviene dunque in qualunque relazione, anche se non se ne può fare un’analisi: avviene anche in relazioni dovute a motivi professionali, o comunque contingenti: per esempio quelle tra un insegnante e lo scolaro, o l’allievo. Anche dentro una relazione professionale c’è un movimento di affetti a cui possiamo continuare a dare il nome di transfert e di controtransfert. È bene tenere conto che comunque esiste, anche se, come avviene nella maggioranza dei casi, non possiamo
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analizzarlo. Qualunque relazione professionale, quando comporta relazioni interumane, è sede di tali eventi: un medico, un infermiere, un insegnante, un assistente sociale, tutti gli operatori dell’umano hanno relazioni in cui si animano movimenti e passaggi di affetti tra l’operatore stesso e il suo utente; tanto più intensi, tanto più incisivi sul comportamento, quanto la relazione interpersonale tra l’operatore e il cliente è per le più svariate ragioni importante e continuata. Per esempio, un insegnante elementare, o anche di scuola media, ha una relazione molto continuata con i suoi ragazzi, più intensa di quella che può avere un medico o un infermiere. Tuttavia, anche un medico, e ancor di più un infermiere, può avere, in moltissimi casi della sua professione, una relazione intensa e continuata con il suo paziente. Pensiamo non al paziente occasionale, ma al paziente ospedalizzato che tutti i giorni per un certo periodo di giorni ha relazione con l’operatore. A maggior ragione se il paziente ha un’ospedalizzazione lunga, se è un lungodegente, se ha una malattia recidiva o una malattia cronica (curabile ma non guaribile) o necessita comunque di cure continuative.
5.2 Affetti inconsci in ambito sanitario Nelle relazioni che si svolgono in ambito sanitario, sia l’approccio osservativo o diagnostico sia l’intervento tecnico assistenziale, veicolano sempre messaggi inconsci, tanto più quanto la relazione è duratura nel tempo e incisiva per il paziente. Ogni interazione emana comunicazioni non verbali non consapevoli, che vengono recepite, per lo più inconsciamente, dal paziente ed elaborate, nella struttura personale affettiva, ovvero in quelle parti del SNC che per vie psicosomatiche (si pensi ai processi immunitari) modulano salute e malattie. Transfert e controtransfert hanno luogo nella pratica medica e agiscono pertanto come coadiuvanti, o antagonisti (iatrogeni) dell’intervento tecnico dell’operatore. Essi modulano inoltre la condotta del paziente verso l’operatore e viceversa. Se la situazione psicoanalitica può essere monitorata e quindi fungere, col suo setting e la competenza dell’analista, da adeguato strumento di indagine e di rilievo dei movimenti inconsci, più difficile è un monitoraggio analogo per vedere come questi agiscono nelle relazioni sanitarie. Tuttavia questo è possibile: non ovviamente come routine, ma in via sperimentale, su campioni di situazioni all’uopo selezionate (sia di rapporto duale, sia per lo più di rapporti gruppali, o nel collettivo dell’istituzione), per le quali un’equipe di psicologi clinici (e spesso di psicologi sociali) approntano strumenti e set idonei. In questa sede può essere utile, oltre il consiglio al singolo operatore di una personale riflessione in base alle nozioni esposte su quanto gli accade con certi suoi utenti, una sommaria descrizione di come gli affetti suddetti possano agire preferenzialmente in alcune situazioni. Innanzitutto il primo approccio all’utente può sviluppare un’“atmosfera” di rapporto che può facilitare la collaborazione piuttosto che ostacolarla. Al Capitolo 1 si è parlato dell’osservazione e della raccolta dell’anamnesi e di come, al di sotto della loro apparente semplicità, possano intervenire non indif-
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ferenti variabili a carattere personale, cioè riguardanti la mente dell’operatore, e a carattere interpersonale, relazionale. Alla luce di quanto esposto sul funzionamento mentale (cfr. Capp. 3 e 4) potremmo fare molte considerazioni sulla complessità dei processi mentali sotterranei che sono sottesi a ciò che appare alla coscienza dell’operatore, cioè al risultato coscienziale che egli usa per l’assistenza all’utente. Quali e quante trasformazioni hanno avuto tutti i possibili input emanati dal paziente prima di concretarsi su ciò che la coscienza dell’operatore ha deciso essere l’obiettività? Come funzionava il suo sistema mentale quando osservava? Come lavorava il suo cervello emotivo nel regolare l’osservazione? Come si elaboravano i suoi processi percettivi? Come era il suo stato d’animo nella raccolta dell’anamnesi? Di quali processi era composto? Quali erano noti (coscienti) all’operatore? Ed erano questi veritieri, o “fabbricati”, cosicché erano ingannevoli? Quanto era egli alessitimico nell’osservare l’aspetto del paziente? E successivamente, come ha funzionato la sua memoria rispetto al ricordo? E più in generale, come il suo cervello aveva imparato a imparare? Quanto egli si conosceva, per poter tarare la conoscenza che egli credeva di acquisire circa l’utente? E veniamo alla diagnosi. Quante volte essa è posta per tranquillizzare l’operatore? Dare un nome alla malattia, o un nome di malattia alla sindrome, rassicura l’operatore di essere sufficientemente bravo; e risparmia l’incertezza, l’attesa di capire di più, il pensiero di dover osservare meglio, di dover provvedere ulteriori strumenti diagnostici. Quante volte l’ansia di una situazione che impone limiti al vederci chiaro, induce l’operatore a oberare il paziente di procedure diagnostiche invasive? Tutto questo può avvenire a un operatore senza che se ne possa accorgere. Le prescrizioni farmacologiche vengono erogate davvero per contrastare la malattia, oppure perché il paziente non si lagni più di tanto con gli operatori? O, ancora, per soddisfare le aspettative del paziente che comunque ci sia “il rimedio”, cosicché non intrattenga medico e altri operatori in prolungate spiegazioni? Oppure ancora per soddisfare il dubbio del medico sulle proprie capacità? Tutti questi eventi posso avvenire al di fuori della coscienza dell’operatore. E ancora, vediamo le decisioni di intervento chirurgico: si dice che qualunque intervento ha un margine di incertezza, ma quanto intervengono in questo margine i processi mentali occulti che modulano ciò che alla coscienza fa ritenere utile quell’intervento? Ogni valutazione, per quanto la si voglia obiettiva, ha sempre il suo margine di soggettività: qui operano processi mentali non consapevoli e in questi possono entrare in pieno le correnti affettive inconsce tra l’operatore e il paziente, con tutti gli echi dei loro passati. Così può accadere che il chirurgo sia indotto a non intervenire, oppure al contrario che qualcosa “dentro” il paziente lavori per ottenere a tutti i costi un intervento traumatico, pertanto chirurgico: si può verificare una collusione inconscia tra le tendenze autopunitive del paziente (o qualche volta megalomaniche) e complementari bisogni (sadici?) o angosce di impotenza dell’operatore. Ci possono essere pazienti che girano da un chirurgo all’altro finché trovano quello che gli pratica l’intervento, spesso pertanto di dubbia utilità. Analoghe collusioni
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si possono verificare per quanto riguarda procedure diagnostiche, più spesso invasive, o le stesse prescrizioni farmacologiche. Tutte le suddette dinamiche avvengono al di là della consapevolezza dei protagonisti: si tratta di transfert e controtransfert. Ricordiamo che questi sono fenomeni relazionali inconsci: come tali possono soltanto, e solo qualche volta, essere inferiti dal comportamento. Transfert e controtransfert vengono agiti, così come si dice in linguaggio tecnico. Abbiamo poi le risposte inaspettate (talora paradosse) dei pazienti alle terapie, sia mediche che chirurgiche. Anche in queste agiscono, psicosomaticamente (cfr. Cap. 8), processi inconsci del paziente, che a loro volta, trasmessi e recepiti inconsciamente dagli operatori, mettono in moto in loro dinamiche controtransferali, di vario genere a seconda della loro struttura mentale profonda, che li fanno “agire” a loro volta. Per quanto riguarda l’azione dei farmaci, noto è l’effetto placebo, spiegabilissimo in base a un lavoro complesso di processi corticali (limbici, della base e di tutto l’asse ipotalamo-ipofisiario-immunitario). Ricordiamo che un effetto placebo può agire anche nella direzione negativa (effetto nocebo); e ciò vale anche per gli interventi chirurgici. Un effetto tipo placebo si intreccia in tutte le dinamiche transferali e controtransferali descritte: gli effetti psicosomatici sono effetto (e veicolo) di messaggi inconsci. Osservazione, diagnosi, terapie, risposte, condotte professionali (significate o agite, azzeccate o iatrogene) si intrecciano tra di loro, così come i processi psichici inconsapevoli e la loro traduzione somatica. Tutte le relazioni in ambito sanitario, con tutti gli operatori in primis infermieri e medici, ne sono impregnate, e tutta la qualità dell’assistenza ne viene modulata nei suoi effetti. In tale intreccio possono verificarsi nell’animo degli operatori atteggiamenti1 di trascuranza per l’assistito, così come di intolleranza, o di negazione della gravità del male, o prendere corpo il cosiddetto accanimento terapeutico, come più in dettaglio descritto parlando delle angosce di morte (cfr. Cap. 11).
1Il
termine atteggiamento ha un preciso significato, codificato dagli studi della psicologia sociale: esso “si riferisce a certe regolarità nei sentimenti, nei pensieri e nelle predisposizioni a agire dell’individuo, nei confronti di alcuni aspetti del suo ambiente” (Secord, Backmann, 1964, trad. it. 1970, p. 165); “per atteggiamento si intende il complesso di sentimenti a favore o a sfavore di un determinato problema, di una persona, di un evento” (Arcuri, Flores D’Arcais, 1974, p. 3); “un atteggiamento è l’organizzazione individuale di problemi psicologici desunti dal comportamento dell’individuo, riguardo a qualche aspetto del mondo che egli distingue da altri aspetti. Esso rappresenta il residuo delle sue esperienze precedenti, con cui egli si accosta a ogni situazione successiva, ivi compresa quel dato aspetto che si sta studiando, e che determina, insieme alle influenze attuali, il comportamento dell’individuo in una data situazione. Gli atteggiamenti sono permanenti nel senso che tali residui vengono trasferiti a situazioni nuove, ma si modificano quando nuovi residui vengono acquisiti attraverso l’esperienza di nuove situazioni” (Newcomb, 1976, trad. it. 1978, pp. 29-30). Gli atteggiamenti sono in gran parte preconsci o inconsci.
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Tutto il discorso fin qui condotto, partendo dalle scoperte della psicoanalisi sui fenomeni di transfert e di controtransfert e dai successivi rilievi sperimentali, operati soprattutto in psicologia sociale, di analoghi fenomeni in tutte le relazioni, duali, gruppali, o collettive, e dunque anche negli ambiti professionali (soprattutto nelle “professioni d’aiuto”), potrebbe apparire alquanto misterioso alla comune sensibilità della cultura sanitaria. Come è possibile che eventi mentali inconsci si trasmettano e l’un con l’altro producano dinamiche, anch’esse inconsce, che a loro volta danno forma alle condotte assistenziali, inficiandone la loro supposta obiettività?
5.3 Al di là della parola: la comunicazione non verbale In realtà tutti gli eventi descritti sono perfettamente comprensibili e spiegabili in base alle molteplicità delle comunicazioni non verbali che intercorrono tra gli individui. Quando si dice comunicazione, comunemente, in ambito sanitario, si pensa alla comunicazione verbale: questa però non è che una piccola parte dei segnali comunicativi che passano tra gli esseri umani e che vengono recepiti e decodificati. Gli studi sperimentali sulla comunicazione non verbale (CNV) nell’uomo e negli animali sono quanto mai numerosi e dettagliati (Imbasciati, 1986, vol. II, Cap. 2) e mostrano che, se fra gli animali la CNV è l’unica forma di comunicazione, non è affatto vero che tra gli umani essa sia diventata trascurabile: gli uomini hanno in più la parola, ma non per questo hanno ridotto le capacità di CNV; queste sono soltanto diventate inconsapevoli: automatiche, assai poco coscienti e in grossa parte inconsce, cioè totalmente non avvertite. Eppure esse regolano la condotta degli umani non meno di quella degli animali: la verbalizzazione vi è semplicemente sovrapposta, qualche volta come controllo dell’altra più efficace CNV, più spesso come illusione di controllo, molto spesso come negazione di quella. Accanto alla comunicazione più strettamente non verbale, l’uomo ha inoltre quella che viene definita paraverbale: le interiezioni del parlato, l’inflessione della voce, le pause, la prosodia, la stessa sintassi e la struttura del discorso, hanno una loro metasignificazione: al di là dei significati denotativi del linguaggio verbale, sempre alle parole si accompagnano significati connotativi che travalicano, correggono, talora contraddicono la denotatività del verbale. E insieme a questo, e al paraverbale, sempre si accompagna un’emissione automatica di CNV. Il tutto, intrecciato, produce messaggi che vanno bene al di là, quanto a condizionare il comportamento, della mera comunicazione verbale. I messaggi comunque sono veicolati da qualche sensorialità: l’extrasensoriale (ESP) è oggetto di studi per ora non significativi. La modulazione della sensorialità viene organizzata in codice per costituire i significanti che veicolano i significati della comunicazione. Nella comunicazione si distingue un emittente, la sua codifica in messaggio nella modulazione sensoriale emessa (configurazioni visive, sonore, tattili, propriocettive, olfattive, con le loro
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sequenze), un ricevente, coi suoi apparati sensoriali (visivi, auditivi, tattili, motorio-propriocettivi, e per il ricevente anche vestibolari-olfattivi) con il suo codice di decodifica. Sia il codice di codifica che quello di decodifica hanno una base comune per tutti gli esseri umani, ereditata forse filogeneticamente, e una parte, più ampia, frutto di apprendimenti, per la massima parte precoci. Si giocano qui le differenze interculturali che sono state riscontrate. È difficile che il codice di emissione sia identico alla decodifica in recezione, cioè che il messaggio emesso abbia l’identico significato di quello ricevuto, ma comunque il ricevente decodifica sempre qualcosa, che mette in corrispondenza con quanto emesso, e pertanto risponde, sempre, a ragione o torto per così dire. Si stabilisce così un continuo colloquio non verbale tra gli esseri umani. Questo colloquio non lo si può impedire, perché è automatico, oltre che inconsapevole: ovvero non è possibile comunicare soltanto con le parole; non è possibile isolare una comunicazione verbale asetticamente denotativa, neppure nel linguaggio scritto, poiché anche qui regna il metasignificato dei periodi, della sintassi della struttura del discorso. La CNV è meno univoca di quella verbale, cioè possono intervenire discrepanze tra il singolo messaggio emesso e la corrispondente decodifica, tuttavia la continuatività di CNV polisensoriali riduce alla fine una tale possibile discrepanza, cosicché l’insieme dei linguaggi non verbali risulta alla fine più veridico e sincero di quanto non possa accadere per la comunicazione verbale. Anzi, viene unanimemente affermato che con le parole si può mentire, con la CNV no; o per lo meno in misura assai minore. Si consideri inoltre come l’apparente univocità della verbalizzazione sia continuamente accompagnata dal paraverbale e dal non verbale che modulano, correggono e anche contraddicono il verbale, cosicché alla fine l’univocità è del tutto apparente. Si può anche “fingere”: un attore è allenato a controllare il paraverbale e con certi accorgimenti scenici anche il non verbale, ma quasi sempre la finzione è percepita: si coglie la recita, la non realtà. Dunque un non verbale ci dice la verità a dispetto dell’intenzione menzognera di una recita che finge il reale. Le bugie, pertanto, si dicono con le parole: ma il non verbale le fa scoprire. Per rendersi conto dell’importanza, anzi della pregnanza, della CNV, basti pensare a due situazioni della vita comune: l’età neonatale, con la prima infanzia, e la vita amorosa-sessuale. Nei primi due anni di vita, ma già anche in epoca fetale, il bimbo impara un’enormità di funzioni e le impara in misura delle cure che riceve: queste non consistono semplicisticamente nel provvedere alle di lui pulizie e alimentazione, come talora si intende, ma alla qualità di ciò che i caregiver porgono al bimbo perché cresca, cioè alle comunicazioni che con lui stabiliscono affinché egli impari. Tutti gli studi osservazionali e sperimentali sugli infanti (infans=che non parla) dimostrano la continua comunicazione che si stabilisce tra il bimbo e chi si occupa di lui e come l’intensità e l’univocità di questa, la sintonia, cioè l’intesa di linguaggi, sia la responsabile di ciò che il bimbo impara (cfr. anche Cap. 6); anche e soprattutto di quanto impara a comunicare, il che gli servirà poi per imparare di più, compresa la verbalità; nonché responsabile di una buona strut-
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turazione psicosomatica (cfr. Cap. 8). Ricordiamo come tutti questi apprendimenti avvengano al di là di ogni coscienza: il bimbo piccolo non ha ancora capacità di coscienza, ma anche chi si occupa di lui comunica in modo automatico, ai margini della propria coscienza; ha cioè una certa consapevolezza di star comunicando e di voler comunicare, ma la qualità del linguaggio che usa, se sintonico con la recezione e i codici di decodifica del bimbo (piuttosto che a lui incomprensibile e quindi forzosamente in lui immesso con danni per la costruzione della di lui mente), dipende da processi inconsci propri del caregiver. Quando un caregiver si sforza intenzionalmente, e coscientemente, di voler comunicare con un bimbo piccolo, di solito usa linguaggi troppo “adulti”; e quindi assai poco comprensibili in senso effettivo, cioè assimilabili dalla mente del bimbo. Lo sviluppo psichico del bambino ne viene compromesso, il suo apprendimento distorto. Un’enorme letteratura ha studiato gli inconvenienti, o meglio i danni, di questo tipo di comunicazione tra madre e bambino (Imbasciati, Dabrassi, Cena, 2007). La possibile intesa dei linguaggi non verbali di madre e bimbo e quindi la possibilità che il bimbo davvero impari, sfugge alle capacità di coscienza dell’adulto e alla di lui buona intenzione, cosciente, di comunicare e di curarsi del bimbo. Il bimbo così non impara; o impara molto meno, e soprattutto impara funzioni mentali anomale. Esiste un apprendimento detto incidentale, comunque inconsapevole anch’esso, che non dipende dalla relazione, ma la stragrande maggioranza degli apprendimenti e soprattutto la loro qualità quanto ad apprendimento di capacità di apprendere (apprendimento non di contenuti, ma di modalità funzionali), dipende dalla relazione. Se il caregiver ha una struttura (inconscia) che gli permette di comunicare con linguaggi sintonici e comprensibili dal bimbo in quel momento, questi impara “bene” e si sviluppa in modo ottimale. Di qui la grande importanza di adeguati servizi assistenziali, di psicologia infantile, per l’aiuto a tutti coloro che la loro pregressa “storia interiore” ha reso inabili o poco abili a occuparsi dei bimbi, figli in primo luogo. Quanto sopra proviene dalla convergenza di una gran messe di studi degli ultimi decenni e ci rende preciso conto di quanto un’osservazione superficiale comunque riscontra: la pregnanza della CNV per la regolazione del comportamento nella relazionalità; il bimbo infatti ha manifestazioni, positive o negative, momentanee o durature nello sviluppo a seconda di “con chi sta”. Non c’è nulla di misterioso in questa comunicazione, né quasi nulla di automaticamente “naturale”: le ricerche lo spiegano nei termini della complessa CNV. L’altra situazione paradigmatica della comunicazione non verbale è l’intesa amorosa e sessuale: qui non valgono le parole, ma altri messaggi, a determinare l’intesa, l’accordo, l’attrazione, il piacere sessuale stesso (Imbasciati, Margiotta, 2005, Capp. 17 e 19). Non c’è nulla di misterioso nell’innamoramento, anche se è stato fatto oggetto di mistero e poesia: la scienza ci dice di messaggi non verbali, recepiti piuttosto che non compresi, ovviamente sempre mediati da medium sensoriali, che vengono elaborati e codificati in emissione, e decodificati, bene o male dal ricevente, e che sono responsabili sia dell’attrazione che dell’eccitazione, nonché dell’andamento ottimale e soddisfacente
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piuttosto che difettoso, delle funzioni degli organi genitali nella situazione di accoppiamento (Imbasciati e coll., 2008; Imbasciati, Buizza, 2008; Buizza, Imbasciati, 2008). L’elaborazione, la codifica e la decodifica dei messaggi che compongono il dialogo erotico sono in funzione del passato inconscio di chi si innamora, di chi si attrae e si sente attratto, di chi si accoppia: sono dunque transfert, inteso in senso lato, e controtransfert, comunque CNV. La comunicazione erotica è la dimostrazione più saliente e comune di come la comunicazione inconsapevole regoli, quasi determini, la condotta degli individui, la loro vita stessa. La processualità inconscia di questi eventi mentali ce li fa apparire misteriosi: eppure essi sono eventi spiegabili, in base ai vari linguaggi non verbali mediati dalle più disparate e combinate sensorialità in emissione e in ricezione. Possiamo dunque concludere che tutte le relazioni umane, quanto più sono continuative, familiari, intime, tanto più sono basate su intese per linguaggi non verbali. Il gesto, la mimica, le sonorità della voce, il toccare e l’esser toccati, e infine, non trascurabile, la modulazione degli odori corporei, sono alla base di percezioni interpersonali, di intese, simpatie, attrazioni, piuttosto che circospezione, antipatia, repulsione, ostilità. A loro volta tali percezioni, elaborate a livello centrale, possono indurre modificazioni nella mente delle persone che si relazionano: e anche nel loro corpo, con effetto psicosomatico (cfr. Cap. 8). Una carrellata su eventi della vita comune alla luce degli studi sulla CNV ci può spiegare come in qualunque relazione, dunque anche in ambito sanitario, specialmente quando il rapporto va a toccare risonanze profonde del paziente, avvengono fenomeni che si intrecciano, talora in modo decisivo, con gli operati tecnici assistenziali: le parole “transfert” e “controtransfert” possono evocare mistero e sospettosità in chi non conosce come alcune scoperte della psicoanalisi siano state assimilate e sviluppate da molte altre scienze: qui le abbiamo usate, spiegandole nei termini scientifici degli studi sulle CNV, per sottolinearne l’inconsapevolezza e dunque come l’operatore sanitario le possa subire, e agire nel suo operato senza accorgersene. L’inconscio non è misterioso, come la prima psicoanalisi ce lo fece apparire (cfr. Cap. 4): il nostro cervello lavora sempre, che lo sappiamo o no, i nostri sensi funzionano sempre, anche nel sonno, che lo vogliamo o no, e il nostro corpo emette, sempre, con tutti i suoi canali, di comportamento, condotta, o di modulazione somatica, messaggi inconsapevoli, in relazione a ciò che il cervello sta elaborando. E ciò che il cervello elabora può avere – questo è quanto avviene in ambito sanitario – effetti psicosomatici. Se tali eventi sfuggono al nostro controllo e alle nostre buone intenzioni, non è detto che non si possa far nulla, per l’operatore che svolge la sua opera nelle professioni sanitarie: una buona formazione permanente, nonché ricerche ripetute in campioni sul campo, possono a nostro avviso migliorare la nostra assistenza; affinché possa essere il più possibile terapeutica e il meno possibile iatrogena.
Capitolo 6 Origini e costruzione della mente 6.1 Dal feto all’infante: il caregiver e la capacità di rêvérie: il concetto di lettura delle afferenze; percezione, ricordo, immaginazione, allucinazione; significato e significante; Infant Observation; apprendimento e relazione. 6.2 Una nuova Metapsicologia: costruzione progressiva dei significanti; correlati neuronali; la Teoria del Protomentale; psicofisiologia e metapsicologia; futuro dell’umanità.
6.1 Dal feto all’infante: il caregiver e la capacità di rêvérie Nei precedenti capitoli abbiamo alternato aspetti descrittivi, con più diretto riferimento alla prassi sanitaria, con trattazioni esplicative sul funzionamento della mente, in modo che l’operatore potesse avere le necessarie seppure sommarie conoscenze scientifiche sul funzionamento dello strumento basilare per la sua professionalità: la propria mente. Riprendiamo quest’ultimo aspetto nel presente capitolo. Abbiamo in particolare visto come eventi che appaiono semplici e dal senso comune vengono attribuiti ad attività biologiche intrinseche, sono in realtà ultimo risultato di complessi processi psichici (e ovviamente di corrispondente lavoro mentale) che originano dall’esperienza, soprattutto pregressa: esempio tipico la percezione (cfr. Cap. 3.3); analogamente abbiamo parlato dell’apprendimento nei suoi vari aspetti e livelli e del suo intrinseco rapporto con le relazioni; sul tutto abbiamo sottolineato la processualità primariamente inconscia di tutti i processi mentali e il problema tuttora aperto di come si formino le capacità di coscienza. Di ogni aspetto dei processi psichici abbiamo sottolineato la centralità della memoria. Essa è sottesa a ogni apprendimento: qualunque modalità di apprendere necessita che in memoria vi siano quelle funzioni che permettono quel tipo di apprendimento; la mente non è una lastra fotografica in cui si imprime l’esperienza. La percezione permette l’apprendimento (o meglio le percezioni permettono un determinato tipo di apprendimento), ma ogni percezione è essa stessa a sua volta frutto di un lavoro di “lettura” degli input sensoriali (nonché dei prodotti interni della processualità mentale) che necessita che in memoria vi siano quelle unità di lettura che conferiscono quelle capacità di leggere ciò che i recettori inviano. Inoltre la lettura entra in una continua metabolizzazione mnestica, relativa a ogni pregressa e successiva perA. Imbasciati, La mente medica Che significa “umanizzazione” della medicina? © Springer 2008
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cezione. Apprendimento e percezione sono perciò inscindibili, e insieme comportano memoria. Non si possono separare fra di loro gruppi di funzionalità mentale, come si credeva una volta parlando di “facoltà” psichiche. L’apprendimento, inoltre, non riguarda i semplici fatti esterni, cioè “contenuti” offerti dall’elaborazione della realtà esterna, ma apprendimento di progressive funzioni e fra queste la possibilità di imparare cosa succede dei e nei processi mentali stessi. Un neonato non ha ancora imparato a distinguere qualcosa che percepisce accadere fuori da qualcosa che possa percepire come accadente dentro il suo corpo: legge le relative afferenze mescolate tra di loro. Non sa se c’è troppa luce oppure se c’è troppo rumore, ma non sa neanche se invece ha un mal di pancia. Non ha ancora imparato a percepire la fame: sente solo uno stato di disagio. Non ha ancora imparato a sentire freddo o caldo, oppure un’irritazione alla pelle o se si trova in posizione scomoda. Non ha percezione di oggetti reali: gli “oggetti” che può percepire sono stranissime composizioni di afferenze sensoriali disparate, mescolate con afferenze interocettive e propriocettive. E inoltre, più tardi, un bimbo di uno o due anni non sa se è spaventato oppure arrabbiato, o affamato, o se invece aveva freddo, o ancora se stava immaginando qualche cosa. In particolare un bimbo piccolo non ha ancora imparato a percepire i propri eventi interiori, prodotti dalla sua mente nella sua mente (sentimenti, “pensieri”, immagini, ricordi, fantasie, desideri), distinguendoli da quanto sta accadendo nella realtà intorno e fuori di lui e pertanto mescola confusamente quello che la sua mente recepisce dall’esterno con quello che questa sta elaborando, cioè producendo, col risultato di avere in mente “oggetti” quanto mai bizzarri e assurdi (Imbasciati, 2006a, b). La mente di un bimbo di un anno è infatti già in grado, non solo di recepire qualcosa, sia pur percependo in modo difforme da qualunque realtà, ma anche di produrre essa stessa qualcosa: per esempio ricordare qualcosa che ha in qualche modo recepito o immaginare un analogo “qualcosa”. Tale ricordo è una produzione di un qualche lavoro fatto dal suo sistema mnestico (e neurale); una fantasia, sia pur rudimentale è un “prodotto” della mente. Gradatamente il neonato sviluppa dopo i primi mesi, e anche manifesta, una serie di affetti, o di capacità affettive, evidenti con le persone che si occupano di lui: anche questi sono prodotti di un’attività mentale, che all’inizio il bimbo non poteva produrre, perché non ne aveva acquisito traccia delle corrispondenti funzioni, e dei quali per molto tempo ancora il bimbo, pur producendoli, non ne è consapevole. Più tardi la mente è in grado di significare a se stessa di desiderare qualcosa: anche questo è un prodotto mentale, diverso dal crudo bisogno. Desiderio e bisogno sono eventi tra di loro molto diversi. Dal desiderio si può produrre una qualche intenzionalità, dal bisogno no. E, infine, si possono produrre “pensieri”. Tutti questi “prodotti interni” (Imbasciati, 1998a, 2006a, b) sono significanti (che verosimilmente corrispondono al verificarsi, forse stabilizzarsi, di determinate connessioni neurali) che significano, al nascente sistema mentale, significati, che servono a sviluppare il sistema stesso: la memoria lavora e si trasforma. Ma tutti questi significanti non corrispondono,
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all’inizio, a nessuna realtà esterna, né a quanto un adulto può immaginare interiormente, e i relativi significati risultano assai “strambi”, confusi e confusivi rispetto a quanto accade in una mente adulta. Un adulto è in grado di distinguere la percezione (percezione adeguata di oggetti reali), dal ricordo, e l’una e l’altro distinguerli dall’immaginazione, o da un proprio pensiero. Un neonato non ha ancora imparato queste differenziazioni, tra reale e immaginario, tra il ricordato e il percepito: ciò che accade nella sua mente è una serie di eventi in cui le varie suddette categorie si mescolano tra di loro; in particolare si mescola ciò che potrebbe essere letto come localizzato nella realtà esterna, con un qualcos’altro che potrebbe essere letto come accadente nel nascente teatro della realtà interna. Pertanto un neonato “allucina”; e questo è fisiologico. Gradatamente imparerà le dovute distinzioni. Se non le imparerà a sufficienza, avremo una struttura mentale con tendenza a percepire e valutare la realtà esclusivamente secondo i propri affetti, a scambiare questi con una realtà condivisa, a scambiare la realtà con le proprie opinioni o pensieri; fino all’estremo del delirio paranoico o alle allucinazioni. Per gradi si passa da un’ottimalità, il cui standard con termine improprio è chiamato “normalità” (cfr. Cap. 9), alla cosiddetta patologia: gradi intermedi, in cui il difetto è appena accennato, danno persone che di solito passano per “persone normali, ma con un brutto carattere”. Quanto sopra descritto per il neonato accade realmente nella sua mente, come dimostrano gli studi sperimentali, e non dipende quindi dal fatto che un neonato non sappia dirci cosa percepisce e cosa confonde. Inoltre ciò che accade è per lui del tutto inconsapevole: una qualche capacità di coscienza non può costruirsi se non dopo i tre anni. Alcuni degli iniziali sviluppi suddescritti iniziano già in epoca fetale (Imbasciati, Dabrassi, Cena, 2007) e si intrecciano prima e dopo la nascita con le modulazioni dei sistemi biologici dell’organismo nella nascente struttura psicosomatica (cfr. Cap. 8). Gli strumenti coi quali sono e possono essere accertate le suddette modalità di sviluppo sono quanto mai vari e molteplici e i risultati procedono spesso dal loro uso incrociato. Abbiamo tutta la serie delle tecniche biologiche (neuroimaging, neurobiochimiche, farmacologiche, immunologiche, genetiche) e le correlazioni cliniche neuropsicoendocrinoimmunologiche, e abbiamo la vasta serie delle tecniche psicologiche di osservazione e sperimentazione, sui feti e le gestanti, sui neonati e gli infanti, sui bambini. Accanto a queste e a quelle c’è la clinica psicoanalitica, con particolare riferimento alla psicoanalisi dei bambini, e dei neonati con le loro madri, e delle tecniche osservazionali che combinano l’equipaggiamento psicoanalitico con setting sperimentali; come per esempio l’Infant Observation sviluppata da Bick e Harris (Bick, 1964; Harris, 1976); o molti degli studi sull’attaccamento (Imbasciati, Margiotta, 2005). Nel tracciare a grandi linee lo sviluppo della struttura mentale, è stato fatto ripetuto riferimento ai processi di apprendimento e a come questo non avvenga a caso, né per automatico trasferimento della realtà esterna a quella interna (è questa l’ingenua credenza popolare che ciò che è fuori si imprima dentro),
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ma, soprattutto per ciò che concerne un apprendimento di funzioni: apprendimento e apprendere con modalità sempre più articolate. Si è fatto riferimento anche a come esso avvenga per la continua modulazione fornita, bene o male, dalle persone che si occupano del bimbo; e poi in genere da tutte le persone che entrano in relazione col soggetto, anche in età adulta. In questa modulazione è stata particolarmente studiata la capacità degli adulti (alcuni capaci, altri molto meno) di comprendere ciò che accade nella mente dell’infante, di sintonizzarsi e pertanto di offrire un consistente aiuto, presentando quanto il bimbo può apprendere in un modo a lui in quel momento più adeguato perché egli possa davvero apprendere. Questa capacità è stata denominata capacità di rêvérie: si usa questa parola francese (persino nell’inglese!) per indicare che, per capire ciò che succede nell’infante, occorre che l’adulto abbia la possibilità di ritrovarsi in uno stato simile a quello del sogno (=rêve); stato che si verifica automaticamente e quasi inconsapevolmente, quando quegli adulti che hanno una struttura mentale ottimale si relazionano con gli infanti. Altre persone, adulte, non hanno, o hanno in misura minore, questa capacità. Lo stato di funzionamento di rêvérie implica l’abbandono, momentaneo, della cosiddetta razionalità e per molti aspetti anche dell’intenzionalità. Una tale capacità è spesso necessaria agli operatori sanitari, in neonatologia senz’altro, ma soprattutto coi malati gravi, ed è indispensabile per i pazienti in rianimazione: non tanto perché essi imparino qualcosa, se non a sviluppare qualche movimento affettivo che lavori nel senso della salute e psicosomaticamente contro la malattia, quanto perché l’operatore possa avere una comprensione globale del loro stato psicofisico, che lo può aiutare nell’orientarsi sui presidi terapeutici. Nello sviluppo infantile il grado di capacità di rêvérie degli adulti che si occupano di un bimbo si traduce nel grado di ottimalità, di precocità, e di armonia integrata delle costruende strutture mentali del bimbo, sia cognitive (rilevabili in quello che denominiamo sviluppo intellettivo), sia affettive. Su quest’ultimo versante, spesso trascurato, le cure dei caregiver con buone capacità di rêvérie si traducono nella formazione di una personalità equilibrata, di un “buon carattere”, come si suol dire in linguaggio popolare. Ma si traducono soprattutto nell’acquisizione da parte del bimbo della capacità di riconoscere i propri stati mentali: essere capace cioè di avere cognizione dei propri stati cognitivi (cognizione della cognizione, o metacognizione) e ancor più autocognizione dei propri stati affettivi. È l’adulto che riconosce se il bimbo è spaventato, arrabbiato, o annoiato, e che quindi gli può “insegnare”, con la rêvérie, a capire se è spaventato, o in altri stati emotivi, o se invece ha il mal di pancia. Su questa base si innesta e si sviluppa la capacità di coscienza, o al contrario l’alessitimia (cfr. Cap. 4). Tutto lo sviluppo fin qui tratteggiato quando inizia? E soprattutto come avviene con riferimento a quanto accade nel SNC?
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6.2 Una nuova Metapsicologia Gli studi neurofisiologici ci dicono che a seguito dell’esperienza si organizzano circuiti e reti neuronali, connessioni sinaptiche, proliferazioni, selezione di popolazioni neurali, forse anche generazione di nuovi neuroni. Gli studi psicologici ci parlano di organizzazione progressiva di significati, da quelli più semplici a quelli più complessi, frutto di apprendimenti. Questi a loro volta servono per apprendere, in nuovi e più articolati modi nello stabilirsi di relazioni comunicative, ulteriori capacità di apprendere, ulteriori e più complesse funzioni, che servono a leggere, con modalità dapprima del tutto difformi dalla realtà adulta e poi via via più adeguate, sia la realtà esterna (percezione, di oggetti, poi di persone), sia quella corporea, sia quella che si sta formando internamente (realtà psichica): affetti, immagini, ricordi, desideri, intenzioni, “pensieri”. Sia la prima che la seconda lettura avvengono in primo luogo del tutto inconsapevolmente e solo successivamente, dopo il terzo anno di vita, progressivamente possono diventare consapevoli, di più o di meno a seconda delle capacità di coscienza che si vanno formando. La formazione progressiva dei suddetti significati e funzioni corrisponde a quanto ci dicono gli studi neurobiologici (per ora in termini ancora grossolani rispetto al dettaglio in cui si possono individuare singole funzioni dal punto di vista di un’analisi del mentale) circa la formazione di circuiti e reti neuronali: sono queste le basi biologiche che corrispondono alla formazione dei significati, che si individuano progressivamente nello sviluppo psichico con gli strumenti psicologici, e alla progressiva acquisizione di relative funzioni. Ogni significato viene appunto “significato” da dei significanti (cfr. Cap. 3): questi possono essere inferiti in termini psicologici come memorie (soprattutto implicite) e possono essere correlati a quanto sappiamo avvenire nel SNC in corrispondenza dell’elaborazione di ogni singola esperienza, cioè di ogni apprendimento; si tratta di costruzione di memorie di quanto a livello psichico il soggetto è in quel momento in grado di operare. Poiché ogni acquisizione condiziona la successiva, possiamo parlare di progressiva costruzione di significanti, coi loro rispettivi correlati neuronali, ognuno dei quali serve a nuove modalità di apprendimento e all’acquisizione di ulteriori funzioni (significati) con la costruzione di nuovi significanti; il che può corrispondere a nuove costruzioni di reti neuronali. Gli studi neurobiologici non ci dicono, per ora, le precise corrispondenze, punto a punto, tra ciò che si riscontra coi mezzi odierni nel SNC e ciò che gli studi psicologici hanno osservato nella progressione dello sviluppo, infantile soprattutto. Questi ultimi hanno individuato acquisizioni che appaiono più dettagliate e finemente differenziate di quanto i primi non ci possano descrivere. Tale dettaglio descrittivo, operato con vertice e strumenti psicologici (soprattutto quelli di derivazione psicoanalitica), non può per ora essere omologato a corrispondenze precise che gli strumenti biologici con altro vertice evidenziano. Pertanto la modalità con cui si può descrivere come l’esperienza, cioè le
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varie afferenze organizzate in insiemi leggibili (nella modulazione della relazione), si costituisca in primi significanti e poi questi servano a costruirne ulteriori più articolati (cosicché nella mente si costruiscano i progressivi significati e funzioni), non può, allo stato attuale del progresso scientifico, che essere oggetto di una Teoria. Teoria psicologica, o meglio psicofisiologica, che attende più fini concordanze coi rilievi neurobiologici. Ricordiamo qui il concetto di teoria, distinto da quello di modello teorico e soprattutto da distinguere dal concetto di scoperta (Imbasciati, 1994, 1998a, 2006a, 2007c; Imbasciati, Margiotta, 2005). Una teoria è un insieme di ipotesi che servono a connettere tra di loro in modo logico e consequenziale le varie “scoperte”, cioè i dati che le osservazioni condotte con gli strumenti di varie scienze hanno rilevato, in modo che la teoria possa essere utile ai ricercatori per una comprensione globale degli eventi e soprattutto per far progredire la Scienza, in particolare le varie scienze, i loro rispettivi strumenti, in modo da addivenire a nuove osservazioni, a nuove scoperte, le quali, eventualmente, possano far cambiare la teoria. Una teoria pertanto non è mai né vera né falsa, ma soltanto utile in un dato momento dello sviluppo di una scienza. Le teorie possono cambiare man mano che una scienza progredisce. Una teoria è sempre un’ipotesi di lavoro. Per ciò che concerne la costruzione delle strutture mentali nella progressione dei significanti, è stata da me elaborata la Teoria del Protomentale (Imbasciati, Calorio, 1981; Imbasciati, 1983b, 1994, 1998a, 2006a, b). Rimandando alle citate fonti per una conoscenza più dettagliata, possiamo qui sottolineare come tale teoria permetta di capire come, nello sviluppo di un individuo, dal feto al neonato, al bimbo, all’adulto, l’esperienza nella relazione organizzi, a partire da quanto gli apparati recettori inviano al SNC, una costruzione progressiva di funzioni, cioè di significanti. Una tale teoria psicologica potrebbe permettere un’omologazione con quanto si va scoprendo dagli studi neurobiologici e ha pertanto valore di una teoria esplicativa (non solo descrittiva: Imbasciati, 1994, 2005b, 2006a, b, d, e, 2007a, b) di tipo psicofisiologico. “Psicofisiologico” significa la possibilità di connettere i rilievi mediati da strumenti psicologici con quelli mediati da strumenti neurobiologici. Nella suddetta teoria si individuano i primi significanti e il loro progressivo ramificarsi in catene di sempre più articolate significazioni: per tali significanti, nell’intento di evidenziarne la loro possibile omologazione con correlati neurali, si è adottato il termine di engramma, di origine neurologica, usato però qui in accezione differente, conforme al valore primariamente psicologico, mnestico, di quanto individuato. Lo sviluppo della mente è una costruzione di funzioni sorrette ognuna da engrammi che restano acquisiti in memoria per apprendimento, ognuno dei quali permette ulteriori e più articolate costruzioni di nuovi più perfezionati engrammi: la memoria (implicita, in questo caso) si arricchisce e progressivamente si trasforma. La teoria da me delineata si configura come una nuova Metapsicologia (Imbasciati, 2007a, b). Quest’ultimo termine fu coniato da Freud, un secolo fa, per indicare una teoria che spiegasse in termini psicofisiologici ciò che si era
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in grado, grazie al metodo da lui inventato, di inferire clinicamente e di descrivere, circa gli eventi psichici non consapevoli che si andavano indagando. In altri termini la teoria freudiana voleva essere la spiegazione di ciò che la clinica psicoanalitica poteva descrivere. La teoria freudiana fu detta Teoria Energetico-Pulsionale (dal suo concetto cardine di energia pulsionale) e fu formulata nel preciso intento di offrire una spiegazione dei processi organici che si supponeva dessero origine agli eventi psichici, e che potesse essere giustificata da quanto si sapeva dalle altre scienze dell’epoca, cioè omologabile alla neurofisiologia di allora. La teoria freudiana era una teoria psicofisiologica ante litteram, consona alla neurofisiologia di quel tempo: Freud la chiamò Metapsicologia, visto che allora non era in uso il termine “psicofisiologia”, perché voleva andare “al di là” (=meta) della psicologia, cioè nel neurobiologico. L’intento poté dirsi riuscito, all’epoca: oggi non più, in quanto quella teoria non è più compatibile con le attuali neuroscienze. La teoria freudiana fu gradualmente criticata, anche all’interno degli psicoanalisti, mentre il metodo rimase e si affinò, e le scoperte psicoanalitiche progredirono. La metapsicologia freudiana, oggi in contrasto con lo sviluppo delle neuroscienze, non solo non è più sottoscritta nel suo aspetto biologico, ma tende a essere abbandonata anche come metafora per descrivere la soggettività quale si può osservare a livello clinico. In seno stesso alla psicoanalisi si sono progressivamente delineate nuove teorie, giungendo oggi alla conclusione della necessità di precisare una nuova e più adeguata teoria, che possa dirsi psicofisiologica, cioè esplicativa oltre che clinica, e che possa essere corroborata dalle neuroscienze. Adottando il termine freudiano, possiamo affermare che si delinea oggi una nuova metapsicologia. Il dibattito scientifico in proposito è tuttora aperto (Imbasciati, 2005a, b, 2006a, b, 2007a, b). Nella teoria da me delineata, la costruzione delle catene e delle reti di significanti, che si constata iniziare in epoca fetale, pone il problema del “punto zero” di tale costruzione. Se per apprendere una qualsiasi semplicissima acquisizione occorre che il sistema abbia la capacità di apprenderla, ovvero abbia in memoria acquisita quella elementarissima funzione che permette il primo apprendimento, interessante e problematico appare l’interrogativo di come si cominci. Il fatto che avvenga in epoca fetale ci dà un riscontro generico sull’epoca: si parla del quinto mese di gravidanza. Ma l’interrogativo rimane aperto, al progresso delle varie scienze. Forse il concetto di apprendimento va esteso, dall’ambito neurale a quello umorale e molecolare. L’esposizione di tutto il presente capitolo può apparire un apporto teorico di scarsa utilità per la prassi sanitaria: credo che tale possa essere se lo si legge nello spirito che nei primi capitoli di questo testo abbiamo tanto criticato. In realtà esso, oltre a servire da documentazione scientifica di quanto affermato, serve in particolare a tutti quegli operatori che si occupano di infanti: pediatri, neonatologi, ostetrici (ostetriche), puericultrici, educatori; e altri di varie lauree e specializzazioni. Esso sottolinea l’importanza delle prime e primissime epoche della vita umana e della qualità delle relazioni che vi hanno luogo. La qualità di queste si riflette sulla qualità dei primi engrammi e sull’ottimalità
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delle prime progressioni e ramificazioni delle catene di significanti: sono queste che determineranno la qualità di ogni successiva progressione della costruzione delle strutture mentali. L’attenzione pertanto si sposta sulle persone che si occupano dei bimbi, a cominciare dalle gestanti e via via alle famiglie, e agli operatori che di queste si occupano: si apre a un orizzonte di prevenzione e di promozione della salute, mentale e fisica (psicosomatica, Cap. 8). L’orizzonte di una “salute psichica migliore” pone a sua volta una prospettiva sociale e antropologica non indifferente per le generazioni future, in quanto persone con una salute psichica ottimale potranno a loro volta produrre nei figli strutture psichiche migliori.
Capitolo 7 Cultura medica, tradizione e sviluppo della psicologia 7.1 Il dottore: storico carisma del medico e suo tramonto nel tecnicismo; le altre professioni sanitarie e la loro medicalizzazione. 7.2 Cultura medica e scienze psicologiche: trascuranza delle scienze psicologiche nelle facoltà mediche e loro sviluppo in altre facoltà; le conseguenze per la formazione psicologica dei medici; inapplicabilità dei modelli medici allo psichico; la differenziazione delle lauree sanitarie; i Corsi “malintegrati”. 7.3 Salute o Sanità?: medici, psicologi e psicoterapeuti; psicologi o psichiatri?; insufficienti delimitazioni culturali e giuridiche; conseguenti equivoci presenti e futuri.
7.1 Il dottore Fin dalle epoche più antiche il medico è stata figura di tutto rispetto e autorità, in qualunque civiltà, assommando in sé competenze sapienziali e spesso religiose. Al di là e talora al di sopra di ogni potere civile, ha esercitato il suo potere, a volte esoterico, spesso misterioso, pur sempre carismatico, sui singoli, sui gruppi, spesso anche nei collettivi. Il suo potere è stato venerato, nella speranza o nell’illusione di una liberazione dal male: del corpo, spesso dell’anima. Nello scorrere dei secoli il medico ha assunto in sé le più svariate competenze filosofiche e scientifiche. Per molto tempo e in molti luoghi è stato “l’uomo di scienza”. In occidente col Rinascimento la scienza si è diversificata dalla filosofia e le varie scienze poi tra di loro: gradatamente le competenze del medico, ristrette nella loro amplitudine, si sono approfondite, dismettendo un certo carattere occulto, per diventare sempre più precise, chiare, efficaci. E infine la Medicina ha beneficamente colonizzato la Chirurgia. Il carisma del medico, spoglio degli antichi attributi, non è però diminuito: egli è restato “il dottore”, cioè per eccellenza colui che docet, o anche il doctior, ovvero il più dotto. A cavallo tra il XIX e il XX secolo, sull’onda degli ideali romantici, il dottore è diventato latore di una “vocazione” quasi sacrificale: la liberazione dell’umanità dalle malattie più terribili, la salvezza dei corpi, anzi la salvezza degli “uomini”, corpi e anime. Quest’ultimo aspetto, messo in ombra dopo la divisione sei-settecentesca della sfera metafisico-religiosa da quella scientifica, è però rimasto, velato, nelle imago inconsce che configurano il latore di vita e pertanto il suo opposto, il latore di morte. L’autorità del medico, l’auctor, è progressivamente cresciuta col XX secolo, sia per l’enorme progresso delle scienze biologiche, sia per la regolamentazione della professione, sia infine per la diffusione dell’operato medico: il dottore non è più alla portata dei benestanti o il pietoso curatore di pii ospedali, ma professionista disponibile per chiunA. Imbasciati, La mente medica Che significa “umanizzazione” della medicina? © Springer 2008
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que, con le dovute garanzie in virtù dell’acquisizione sociale di una coscienza di diritti. Quest’ultimo aspetto, di accresciuta popolarità, ha aumentato il potere autorevole del medico, sia per le maggiori garanzie scientifiche sancite dagli ordinamenti formativi della professione, sia soprattutto perché ha prodotto un rapporto medico-paziente continuativo, in una relazione duale o al massimo familiare, che ha investito la figura del dottore di idealizzazione anche morale, oltre che scientifica, conferendogli maggior carisma. Tradizione ed evoluzione sociale e scientifica della figura del “dottore” hanno prodotto un progressivo aumento di potere, del singolo ma soprattutto della classe sociale così costituita, che è stato benefico fino alle ultime decadi del secolo XX. Già in queste, però, lo stesso progresso scientifico che in modo globalmente benefico aveva fino allora corroborato l’autorevolezza del medico, ha prodotto progressivamente alcuni inconvenienti: la parcellizzazione del sapere in tante progressive ramificate specializzazioni, la conseguente parcellizzazione della persona del paziente in tanti “pezzi”, apparati, organi, funzioni, la tecnicizzazione di ogni strumento di rapporto col paziente e pertanto la frantumazione della relazione medico-paziente, così tanto celebrata fino alla fine di quel secolo. A questi cambiamenti si è aggiunta in un’evoluzione dell’organizzazione sociale dei Servizi, che ha virato verso una progressiva spersonalizzazione del paziente, ridotto a un “caso”: un “letto”, un numero, un tagliando. E infine, mentre si imponeva la necessità di altre figure sanitarie accanto a quella del medico, l’autorevolezza del medesimo si è enfatizzata impropriamente, a scapito di quella di altre emergenti e indispensabili figure professionali: queste sono state subordinate, quasi messe in soggezione rispetto al medico, e lasciate in un’inadeguata formazione artigianale; ciò fino a poche decadi fa, quando si è sentita invece la necessità di riabilitarle con percorsi formativi scientificamente adeguati. Abbiamo così le odierne lauree sanitarie, triennali e quinquennali (Imbasciati, Margiotta, 2005, 2008). Il discorso fin qui condotto sulla tradizione e l’autorevolezza dei medici, e il potere conseguentemente esercitato, ha prodotto una cultura medica alquanto chiusa in se stessa, conclusa si potrebbe dire, che ha progredito per sviluppi enormi anche differenziati, ma limitati alla propria interna specificità, senza osmosi con altre scienze e professioni. Questo sviluppo è inoltre avvenuto sul modello esclusivo della figura del “dottore”, piuttosto che su quella di altre professionalità collaterali ma differenti da quella medica, che oggi si cerca di rivalutare e demedicalizzare, chiamandole sanitarie, o differenziando il concetto di Salute da quello di Sanità, nonché provvedendo a una corrispondente adeguata differenziazione dei percorsi formativi. Questo adeguamento di differenti percorsi è però di fatto lento, in quanto la cultura medica, forte della sua supremazia, è rimasta assai poco integrata con l’apporto di altre scienze di origine non medica che invece sono indispensabili per le altre professioni. Questo non toglie che moltissimi medici proprio queste abbiano coltivate: sociologia, pedagogia, economia, diritto, l’insieme delle cosiddette scienze umane, per non dire le arti e la letteratura. In questa “coltivazione” personale, l’insieme
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delle scienze psicologiche si è però trovato a essere considerato in modo alquanto riduttivo: un’unica psicologia “in generale” piuttosto che “generale”. Gli interessi per le scienze non strettamente mediche sono avvenuti nella cultura di singoli, non istituzionalizzati in ciò che può definirsi, collettivamente, cultura medica. Si può così rilevare un fatto apparentemente paradossale: gran parte dei medici che hanno coltivato e coltivano simili interessi, e anche competenze, le hanno usate, e le usano, ma non integrate, quasi scisse dalla professionalità propriamente medica. Questa, sì, “scientifica”: il resto può anche esserlo, ma non coinvolge la tecnica della professione del curare i malati; è semmai un contorno della figura personale, più che professionale, del singolo medico. Si potrebbe pertanto affermare che la cultura medica è cresciuta entro un modello di autosufficienza: il rischio, inconsapevole, è che questa diventi, nell’inconscio collettivo, ideale di onnipotenza. Il fenomeno culturale sopradescritto ha interessato soprattutto un isolamento, se non un’esclusione, del gruppo cosiddetto delle scienze umane dal corpus medico: già il fatto di denominarle “umane” comporta nell’atteggiamento corrente una svalutazione della loro scientificità, malgrado oggi si cerchi di rivalutarle integrandole nell’area sanitaria. In questo gruppo di discipline vengono soprattutto sottovalutati gli sviluppi delle diverse scienze psicologiche.
7.2 Cultura medica e scienze psicologiche Nella cultura a cavallo tra il XIX e il XX secolo si è stabilizzata e codificata una “immagine” molto pregnante della relazione medico/paziente, con un enorme rilievo, facilmente idealizzabile, della figura del “dottore”. Queste immagini, assorbite ed esaltate nella cultura medica, sono tuttora presenti nella cultura generale, anche se non più attuali: il progresso della medicina, infatti, ha comportato una tecnologizzazione con un gran numero di specializzazioni, che nell’organizzazione dei Servizi hanno eliminato la personalizzazione del rapporto medico/paziente (cfr. Cap. 10), cosicché le immagini suddette sono rimaste soltanto come idealizzazioni. Nella cultura medica questo ideale ha favorito l’interesse di non pochi medici per le tematiche inerenti al rapporto col paziente, ma sull’onda di quanto prima detto a proposito di isolamento autosufficiente idealizzato, ha generato la convinzione che una formazione in questo senso possa procedere dalla pratica medica e non da uno specifico apporto delle Scienze Psicologiche. Una tale convinzione fu valida, semmai, nel passato, quando una scarna se non rudimentale tecnologia biologica imponeva al clinico medico un contatto continuativo, quasi intimo, col paziente (cfr. Cap. 10), ma oggi è del tutto illusoria. Il medico “fu” anche psicologo, ma nel passato, e quando la psicologia stessa era molto rudimentale. Paradigmatico a tal proposito è lo sviluppo dei percorsi professionali dei medici a riguardo delle scienze psicologiche e, separatamente, quello che ha portato alla formazione degli psicologi.
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Gli sviluppi della psicologia e il suo differenziarsi in gruppi di scienze diverse sono avvenuti in Italia (prime decadi dello scorso secolo) all’interno della Facoltà di Lettere e Filosofia: gli istituti di Psicologia che hanno sviluppato la ricerca sono stati quelli inerenti ai corsi di laurea in filosofia, e questo non per continuare una psicologia “filosofica”, come talora in ambito medico si è superficialmente pensato – una psicologia filosofica era già morta nel secolo precedente –, ma proprio per la ricerca sperimentale; e poi applicata. Ricordiamo Kiesow, a Torino, Agostino Gemelli e la sua Scuola nell’Università Cattolica di Milano (opera proseguita poi da Leonardo Ancona) e Musatti, con la sua Scuola, anch’essa a Milano, nonché Metelli, a Padova, seguito da Kanizsa a Trieste, nonché la Massucco Costa, ancora a Torino, e Gastone Canziani a Palermo. Tutti in Facoltà di Filosofia. In quella di medicina gli Istituti di Psicologia erano pressoché inesistenti e quelli che operavano, come per esempio quello di Dalla Volta a Genova, sviluppavano una psicologia di appoggio alla psichiatria, occupandosi di psicopatologia, operando cioè a livello clinico descrittivo, ma non sviluppando la ricerca di base, sperimentale, che è quella che altrove ha dato origine ai molteplici e differenziati sviluppi e applicatività scientificamente fondate. A Milano, dobbiamo alla Scuola di Gemelli la fondazione della Psicologia del Lavoro già negli anni ‘40, e di una Psicologia Sociale negli anni ‘60; nell’ambito di alcune Facoltà di Pedagogia è stata fondata la Psicologia Scolastica (divenuta poi Psicologia dell’Età Evolutiva, ora Psicologia dello Sviluppo); e ancora a Milano, con Ancona, abbiamo (1965) la prima Scuola di Specializzazione di Psicologia Clinica, seguita qualche anno dopo da quella di Bologna, questa volta finalmente all’interno della Facoltà di Medicina, però, pur essendo in Medicina, fondata da uno studioso (Canestrari) nato nell’ambito della Pedagogia. Tutto questo sviluppo ha portato nel 1969 al Corso di Laurea in Psicologia, istituito per la prima volta nelle due sedi di Padova e di Roma, ancora in Facoltà di Pedagogia. In tempi successivi i due corsi di laurea sono diventati Facoltà autonome e altre sedi si sono aperte. In Medicina bisogna aspettare il 2005, e peraltro con una attualizzazione del tutto criticabile (AAVV, 2005). A Medicina, nel percorso formativo del medico, la psicologia è stata un esame facoltativo (“complementare”) fino al 1988 (e oltre in alcune Facoltà): un unico onnicomprensivo esame di “Psicologia” (tout court) quando ormai il campo si era differenziato in tante e costituite diverse scienze psicologiche; e facoltativo, cioè non giudicato necessario per un buon medico. Tale evento è esemplificativo di quanto in ambito medico il sapere psicologico sia stato dato per scontato, in una sorta di sonno in cui si è continuato a sognare che la formazione psicologica procedesse dalla pratica medica; e che in questa potessero evidenziarsi tutti i problemi psicologici di cui può soffrire l’umanità (Imbasciati, 2008a; Imbasciati, Margiotta, 2008); e che in tale riduzionistica psicologia detta “clinica” (vedi oltre Cap. 10) si esaurisse l’applicatività delle Scienze Psicologiche. Il fatto inoltre che a tale ultima dizione si preferisca tuttora il termine di Scienze Umane la dice lunga sulla considerazione che aleggia nella cultura sanitaria circa la scientificità delle scienze psicologiche.
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Scienze Umane sono anche la filologia, la critica letteraria, la storia, le varie branche della filosofia. L’inclusione delle scienze psicologiche nel più vasto campo delle scienze umane, rifiutata dalla maggior parte degli psicologi, sembra in sintonia col fatto che molti medici le hanno coltivate a titolo personale e in modo totalmente autodidattico, così come hanno coltivato arte e letteratura. Nel curriculum formativo del medico, solo con gli anni ‘90 sono state di fatto attivate tre scienze psicologiche: originariamente Psicologia Generale, Psicologia Medica, Psicologia Clinica, poi intitolate a discrezione delle singole Facoltà. Tale attivazione è però tutt’oggi quanto mai difettosa, per la mancanza di ruoli dovuta alle difficoltà economiche generali di tutta l’Università assommate alla non grande considerazione cui vengono tenute le scienze psicologiche: lo si constata quando, in una Facoltà di Medicina, si decide di istituire un qualche ruolo in più. Di fatto gran parte dei docenti di scienze psicologiche sono precari, dalle più svariate e incontrollate competenze: precariamente arruolati di anno in anno per coprire i ruoli obbligatoriamente attivati, non solo nel corso di laurea di Medicina e Chirurgia ma in tutti gli altri numerosi corsi di laurea nel frattempo istituiti in area sanitaria. Questi, oltretutto, nell’intento del legislatore avrebbero dovuto produrre professionisti della Salute, più che della Sanità, e comunque demedicalizzati, mentre i docenti reclutati sono estratti per lo più dall’ambito medico. Proprio nei settori nei quali il legislatore aveva previsto un apporto nuovo rispetto alla tradizionale cultura medica, i docenti di fatto reclutati non sono in grado di garantire la competenza, la continuità e l’adeguatezza che sarebbero necessarie a “formare” effettivamente quel che il legislatore aveva ritenuto necessario per assolvere a quei compiti che il moderno medico, tecnicizzato, non è più in grado di svolgere. Così in tutte le facoltà mancano i ruoli relativi a scienze diverse da quelle mediche: i docenti di ruolo di discipline psicologiche sono quanto mai carenti, talora inesistenti, vicariati o da psichiatri o da precari “psicologi”. Succede in molte facoltà che uno stesso docente di settori psicologici, se esiste, venga oberato di un cumulo di insegnamenti che dovrebbero essere differenziati: con quale risultato? (cfr. Cap. 10). Per le varie e diverse lauree dell’ambito sanitario, le rispettive scienze psicologiche specificamente idonee a ogni singolo e differente percorso formativo professionale sono differenti e tali dovrebbero essere. Accade invece che sotto un’unica denominazione vengano impartiti insegnamenti che dovrebbero essere differenziati: per esempio, la Psicologia Clinica necessaria al medico non è e non dovrebbe essere la stessa necessaria all’educatore, né entrambe sono idonee al percorso dell’ostetrica; e così pure una Psicologia Sociale per gli Igienisti Dentali non può essere uguale a quella adatta a Scienze Motorie; lo stesso dicasi per la Psicologia del Lavoro, contemplata in lauree diverse. Occorrerebbe una ricerca sulla didattica (Imbasciati, Margiotta, 2005, 2008), che comunque i docenti reclutati nel modo suddetto non sono in grado di svolgere, né di padroneggiare insegnamenti adeguatamente differenziati. D’altra parte i docenti di ruolo, che, unici, potrebbero semmai essere in grado di differenziare didattiche diverse, a causa del carico di lavoro con più incarichi di insegnamento, di fatto non possono mettere in
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pratica percorsi differenziati, anzi spesso accade che discipline attivate in corsi di laurea differenti, se hanno la medesima denominazione ufficiale, vengono “accorpati”, ossia si pratica la stessa didattica in corsi di laurea che la esigerebbero differenziata. In conclusione siamo a mio avviso ancora molto lontani dall’aver realizzato l’integrazione delle Scienze Psicologiche con le discipline medico-biologiche: il legislatore ha inventato i “Corsi Integrati”, ma come si svolgono di fatto? Quale integrazione può esserci se i docenti sono insufficienti e oberati di più insegnamenti? (Imbasciati, 1993). Qual è il risultato finale di questi corsi così “male integrati”? Accade in pratica che si faciliti la promozione degli studenti, a loro svantaggio futuro, per il vantaggio di docenti che altrimenti sarebbero gravati dell’impossibile.
7.3 Salute o Sanità? Siamo in pratica molto lontani dall’aver realizzato un reale e idoneo insegnamento di quelle scienze psicologiche, differenziate per i vari operatori sanitari, quali avrebbero dovuto essere secondo le intenzioni del legislatore ormai quattro lustri or sono. A comune denominatore dei vari inconvenienti suddescritti sta infatti il terreno culturale (brodo di cultura?) che dalla tradizione medica impropriamente si è trasferito a tutte le professioni sanitarie, senza che abbia potuto essere modificato neanche dalle modifiche concettuali avvenute entro la medicina stessa (vedi per esempio il concetto della pluricausalità delle malattie). Inoltre i nuovi professionisti avrebbero dovuto essere operatori della Salute: vedi per esempio la restrizione della “classe delle lauree sanitarie” a due sole lauree, distinte dalle altre tre classi di lauree triennali e specialistiche. La maggior parte dei nuovi professionisti avrebbe dovuto essere formata non tanto per curare e guarire le malattie, in relazione cioè al concetto di Sanità, bensì per promuovere la Salute, ovvero il benessere fisico e psichico delle persone, quale definito dall’OMS. Di qui la forte differenziazione, intuita dal legislatore, di nuovi modelli professionali operativi rispetto al modello medico e a quelli più propriamente deputati a curare le malattie. I problemi inerenti la prevenzione, la riabilitazione e soprattutto la salute sociale, implicano differenti modelli concettuali e operativi, e di conseguenza una formazione profondamente diversa da quella inerente la cura delle malattie. Il permanere del modello medico – il mantello che ha ricoperto e nascosto le nuove professioni – nella formazione degli altri operatori, imposto di fatto dalle ristrettezze economiche progressivamente ingravescenti allo sviluppo dell’Università e in particolare all’istituzione dei nuovi corsi di laurea, hanno imposto, attraverso mille escamotage, dei percorsi formativi che hanno impedito innovazioni e cambiamenti: hanno inoltre protratto idee implicite della tradizione medica, con conseguenze certamente non salutari. Per esempio si sono protratte le idee implicite che la formazione psicologica consista in una affinata psicologia del senso comune acquisita attraverso l’esperienza professionale
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e si è scotomizzata l’esigenza di training più propriamente e scientificamente psicologici. La cultura sanitaria continua a essere medicalizzata, e medicalizzata secondo le illusioni, gli ideali e i limiti della medicina di ormai più di mezzo secolo fa. V’è una sorta di sonno, o di sogno. Un sussulto si è avuto quando alcune decadi or sono sono comparsi gli psicoterapeuti non medici: polemiche a non finire, e vertenze giudiziarie, placate solo con la legislazione del 1989, che ha enunciato una qualche regolamentazione, a proposito dei laureati in psicologia e in medicina, per l’esercizio della psicoterapia. Questa regolamentazione, peraltro grossolana circa i percorsi professionalizzanti la psicoterapia, ha fatto cessare le vertenze legali, ma non ha sanato una diatriba che sordamente tuttora continua tra medici e psicologi (cfr. Appendice 2 e Cap. 13): non si tratta più di chi può o non può esercitare certe competenze professionali, bensì di una diffidenza dei medici, condivisa dall’opinione popolare, verso l’operato degli psicologi e dell’identificazione riduzionistica di ogni intervento dello psicologo con un intervento di tipo psicoterapeutico e con problemi che, in quanto riguardanti la sanità mentale e non la salute, vanno a finire inquadrati nel campo della medicina. Ma tanti altri sono i “problemi” psicologici che affliggono le persone “normali”. Giocano qui altri equivoci della cultura medica tradizionale, radicati nella cultura popolare, cosicché questa li rafforza nello spirito medicale e ne perpetua l’esistenza: c’è il concetto di normalità/patologia, che come vedremo oltre (cfr. Cap. 9) è impropriamente trasferito dal campo biologico a quello psichico; c’è il concetto di “clinico”, che oggi non significa più la stessa cosa in medicina e in psicologia; c’è il concetto di diagnosi, anch’esso improprio se trasferito allo psichico (cfr. Cap. 10), c’è l’ideale (onnipotente) del dottore, che corrobora lo spirito transitivista (cfr. Cap. 2) e propina un concetto di psicoterapia ricalcato su quello di una terapia medica, inapplicabile all’intersoggettività che caratterizza invece l’essenza di una terapia dello psichico; c’è il semplicismo che ne consegue, ben accetto alla naturale insofferenza umana per il male psichico e alla sua illusione di potersene liberare facilmente ricorrendo al “dottore”; questi, nella sua immagine ma non nella sua realtà, è più accetto alla gente dello psicologo; e c’è infine l’implicita idea che le competenze psicologiche siano dote naturale degli esseri umani, passibile di essere affinata e acquisibile con l’esperienza una psicologia del senso comune, senza dover ricorrere a una precisa specifica scientifica formazione. Quanto alla scientificità di tale formazione, serpeggia il dubbio: la professione dello psicologo viene vista come un’arte, più che procedente da specifiche scienze. La contrapposizione medico/psicologo, radicata come detto a favore del primo nelle immagini popolari, trova oggi meno sorda attuazione in quella, pur essa attiva, tra psicologo clinico e psichiatra. Nello sviluppo storico, e pertanto nella tradizione, lo psichiatra è stato il depositario del sapere psicologico prima che esistessero gli psicologi, per tutto il secolo XVIII, XIX e inizio del XX: questo però quando il sapere psicologico era rudimentale e basato soltanto sull’osservazione clinica praticata secondo i tradizionali criteri medici. Oggi, che la psicologia ha sviluppato la sua ricerca e si è differenziata in varie
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scienze, un tale sapere basato su quelle esperienze risulta pressoché irrisorio rispetto al progresso delle scienze psicologiche: ma la tradizione perdura, talora anche a livello dei medici di Specializzazioni che dovrebbero essere limitrofe alle Scienze Psicologiche. Per esempio la maggior parte degli psichiatri è in cuor suo convinta di possedere, se non la completezza, la competenza per orientare e anche dirigere le mansioni psicologiche: lo psicologo pertanto è per costoro figura d’appoggio e di sussidio diagnostico, ma in subordine; subordine al “dottore”. Tale idea, se negata a parole, la si riscontra nei fatti, in quello che avviene nei ruoli dei servizi assistenziali. E la si riscontra persino in un ricorrente atteggiamento degli psicologi stessi. La maggior parte degli psichiatri è intimamente convinta che la Psicologia Clinica, a dispetto degli ordinamenti ministeriali1, faccia parte della Psichiatria. Ciò ha ingenerato e ingenera enormi equivoci (Imbasciati, 2007c). Accade infatti che molti psicologi si adattino alla subordinazione agli psichiatri: apparentemente per “campare”, nelle gerarchie dei servizi, ma in realtà perché l’adottarne idee, principi e criteri professionali è più comodo. Operando sullo psichico con metodi e strumenti – e soprattutto con modelli operativi – di tipo medico, risultano graditi non solo agli psichiatri, ma anche ai dirigenti dei servizi, i quali, a loro volta permeati di spirito medico, vengono così esentati dall’operare mutamenti organizzativi e un cambiamento del loro stesso modo di pensare e gestire. Inoltre le modalità “mediche” (cfr. Cap. 2) sono quelle che purtroppo si attende l’utenza, anch’essa attestata sui pregiudizi relativi al “dottore” (vedi soprattutto il transitivismo). A nulla vale che così facendo l’opera dello psicologo clinico compiacente risulti del tutto inefficace al cambiamento psichico. La mente di chi “dava fastidio” al buon ordine e alle buone forme dell’assistenza sarà tamponata, attutita, contenuta; e lo psicologo vi collaborerà. Si avvera la proposizione di Jaques (1951, 1955) che un’istituzione non serve ai suoi utenti, ma ai suoi operatori. Il tutto a dispetto del fatto che il vero scopo di una psicologia clinica è il cambiamento: un effettivo cambiamento rispetto al disagio psichico; non solo individuale; e non solo rispetto al disturbo che turba solo l’ordine prestabilito. Entriamo qui nell’altra parte della diatriba e vediamo l’altra faccia della medaglia: le insufficienze degli psicologi, soprattutto degli psicologi clinici, e della loro formazione. Nati in un corso di laurea istituito all’inizio da altre Facoltà, con soltanto quattro anni di formazione, subito calati nel caos post-sessantottino delle università, regolamentati, e male, solo dopo dieci anni dalla loro laurea, con norme transitorie che hanno immesso nella professione oves et boves di ogni provenienza, oggetto di promesse di Scuole di Specializzazione che si sono caoticamente e deficitariamente costituite, sia a livello pubblico che privato, in un labirinto di escamotages, confusi e illusi dalla cosiddetta laurea breve triennale, e infine soggetti alla gravissima penuria di risorse sopravvenuta in 1 Lo si vede in certe spropositate incongruenze che avvengono nei concorsi per i ruoli del settore scientifico disciplinare della Psicologia Clinica.
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tutta l’università (mancanza di ruoli e quindi di docenti preparati e tirocini adeguati), gli psicologi – questi psicologi! – non possono certo essere perfetti. E ogni loro imperfezione dà ragione a chi sostiene i medici; e gli psichiatri. Dovremmo dunque a questi ultimi rivolgere l’appello del disagio psichico? Di fatto ciò avviene. E avrebbe anche potuto avere un senso se le riforme introdotte dal legislatore nei percorsi formativi dell’area medica sanitaria e della Salute avessero trovato piena ed effettiva (efficace, non semplicemente formale) attuazione. Ma forse anche in questo caso sarebbe mancata una figura specifica: lo psicologo clinico. Anche se “le cose fossero andate bene”, come potrebbe un medico, o uno psichiatra, con tutta l’enorme quantità di nozioni che lo sviluppo scientifico odierno richiede, assommare anche quelle necessarie allo psicologo clinico? E inoltre chi si occuperebbe di tutta quell’area del disagio psichico che non può passare attraverso i canali dell’assistenza sanitaria? Intendo per esempio i problemi delle coppie, quelli genitori/figli (spesso con gravi conseguenze), le separazioni, i divorzi, gli abbandoni (anch’essi hanno conseguenze gravissime sia pure a lungo termine), gli affidi, le adozioni, la consulenza giuridica e carceraria; e infine chi si potrebbe occupare dei problemi del lavoro (incidenti, burn-out) o delle “istituzioni malate”? (cfr. Cap. 11). E ancora, chi si occuperà dell’efficacia della formazione progettata per qualche altra professione? Insomma, la professione dello psicologo e quella dello psicologo clinico in particolare non possono essere assorbite, né tanto meno inglobate, e neppure inquadrate, in quella medica; né in quella di altri operatori sanitari. E anzi occorre che si formi una nuova specializzazione dello psicologo: quella di un operatore capace di formare psicologicamente tutti quegli altri operatori che psicologi non sono e non possono essere, ma che pur tuttavia hanno bisogno di una formazione psicologica per la loro specifica professione (Imbasciati, Margiotta, 2005, 2008). La loro preparazione scientifica deve essere giustamente calibrata tra l’indispensabile formazione di tipo psicologico e il senso dei propri limiti affinché non siano tentati di far gli psicologi, con un bell’aggettivo di “clinico” sul loro operato; o di fare l’uno il mestiere che richiede le competenze dell’altro: competenze psicologiche ma di altro tipo, idonee ad altri operatori. Le lauree contemplate sono ventidue e quasi tutte implicano, quale più quale meno, competenze psicologiche. Occorrerebbe però, e pertanto, che al di sotto di identiche dizioni disciplinari si differenziassero contenuti didattici e formativi diversi a seconda del differente operatore: ma è ancora da venire una ricerca sulla didattica differenziata su queste nuove diverse scienze psicologiche; e forse la costituzione e denominazione di nuove discipline di questo tipo. La preparazione scientifica, i percorsi formativi, le specializzazioni delle varie branche della psicologia vanno in sostanza migliorate; e non di poco. E a monte di tutto questo sta la ricerca: sperimentale, di base, teorica, applicativa, e sulla stessa didattica formativa. E per la ricerca occorrono strutture e risorse appropriate.
Capitolo 8 La struttura psicosomatica 8.1 Psiche e soma: dicotomia storica; genetica ed esperienza; misconoscenza circa lo psichico. 8.2 La psicosomatica: psiche=cervello; regolazione di tutte le funzioni somatiche; schemi delle connessioni psiche-soma; nostro modello generale. 8.3 Alessitimia e psicosomatica: la dimensione alessitimica. 8.4 Madre infante e psiche-soma: la madre induce il tipo di struttura psicosomatica del bimbo; le “cure materne”; regolazione degli affetti; sintonizzazione della comunicazione non verbale e regolazione psicosomatica; metacognizione. 8.5. Per una effettiva Clinica Psicosomatica: le difficoltà.
8.1 Psiche e soma Può facilmente accadere che, lamentandosi di qualche disturbo, l’interessato si senta dire “è psicosomatico, non ci pensare”. Cosa significa questo? Con che competenza vengono pronunciate queste parole? Si crede forse che le “cose” psicosomatiche siano ubbíe? O che comunque non pensandoci si risolvano? O ancora: come si fa a “non pensarci”, visto che il nostro cervello-pensiero lavora sempre senza che ne siamo consapevoli? Parlare di psicosomatica significa parlare della relazione che intercorre tra la mente e il corpo. La psicosomatica è lo studio di come la mente condizioni lo sviluppo e il funzionamento biologico; e ciò sia nello stato che noi chiamiamo “salute” che in quello che noi chiamiamo “malattia”. Il concetto di corpo è chiaro: “mente” invece è un concetto che può essere differentemente definito a seconda della disciplina che intende descrivere tale oggetto: la descrizione della mente da parte dello psicologo non è la stessa che ne fa il filosofo, o il neuroscienziato. La separazione degli aspetti biologici da quelli psicologici dell’uomo è tipica della nostra cultura occidentale. Se ne ritrovano le radici storiche nell’opera di Descartes (1641), che distinse la materia (res extensa) dal pensiero (res cogitans). Questa “divisione” storica ha portato a innumerevoli discussioni sul rapporto tra corpo e mente, generate a volte dall’errore che avere una mente significasse possedere una qualche “cosa”. Come se si trattasse della “sostanza” animica, di vecchia tradizione, la psiche-anima. Oggi appare più chiaro che il termine mente serve a designare un insieme di funzioni che possono essere rilevate nell’osservazione delle condotte di un individuo, attraverso i vari strumenti psicologici, compreso quello dell’equipaggiamento mentale di un operatore particolarmente specializzato (vedi psicoanalista); e che possono essere corroborate da indagini psicologiche sul campo, o da procedure sperimentali di A. Imbasciati, La mente medica Che significa “umanizzazione” della medicina? © Springer 2008
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laboratorio psicologico, o infine da collaterali ricerche delle neuroscienze. In quest’ultimo quadro sorge però un problema: in quale rapporto le funzioni stanno col supporto biologico in cui si deve necessariamente supporre che avvengano? Ovvero il rapporto mente/cervello. Al proposito esiste spesso una dicotomia tra due modi di pensare sia nella cultura generale, sia anche, in termini più sfumati, negli orientamenti scientifici. Secondo la prima modalità si pensa che le proprietà mentali dipendano dal cervello e che quindi per studiare la mente basti studiare il cervello, secondo le regole delle neuroscienze. Secondo l’altro orientamento si pensa che la mente possa essere studiata indipendentemente dal suo substrato fisico, con metodi, pertanto, esclusivamente psicologici. Oggi sappiamo che i due orientamenti provengono dalla metodologia con cui si osserva (cfr. Cap. 1), ma riguardano la medesima cosa, e cioè l’uomo, con i suoi comportamenti, le sue condotte, il suo corpo, il suo cervello, la sua soggettività; e con tutte le funzioni che si inferiscono dai molteplici “vertici” (approcci, metodologie, strumenti) con cui lo si osserva. Il fatto che spesso ci si trovi di fronte a una contrapposizione dei due orientamenti, e cioè a chi sostiene che va studiato il cervello (e che la mente viene di conseguenza), o a chi pensa che vada studiata la mente indipendentemente dal cervello, dipende da due sottintesi che oggi si sono rilevati pregiudizi. Chi sostiene la prima tesi pensa che il cervello si sviluppi essenzialmente secondo leggi biologiche e genetiche (cfr. Cap. 3, concetto di maturazione), e che siano queste – e solo queste – che danno come risultato il suo funzionamento, e quindi le manifestazioni psicologiche. Di conseguenza si pensa che le variazioni evidenti di queste siano da attribuire a cause che hanno alterato lo sviluppo del cervello e si parla, in tal senso, di patologia. Invece oggi è dimostrato che lo sviluppo cerebrale è senz’altro determinato da leggi genetiche e biologiche, ma anche e soprattutto dall’esperienza (cfr. Cap. 3). L’esperienza, cioè i vari apprendimenti a cominciare da quelli fetali, e poi neonatali e infantili, e la sua elaborazione determinano la microstruttura morfologica del cervello – cioè le connessioni neurali – e quindi il funzionamento del cervello stesso, cosicché lo psichico si manifesta come un insieme funzionale squisitamente individuale che dipende, sì, dal cervello, ma dal fatto che quel cervello, avendo avuto quella singola elaborazione di esperienza, funziona in quel modo; o meglio, lungo tutta la vita (a cominciare da quella fetale) e particolarmente nei primi anni, questo “cervello individuale” ha elaborato le esperienze che ha attraversato in modo tale da costruire gradatamente quelle funzioni che contraddistinguono la sua struttura funzionale, cioè la sua mente. A tal proposito si sottolinea che le “funzioni” come sopra intese, non sono quelle grossolane categorie che appaiono al senso comune e che talora vengono ancor oggi individuate dagli psichiatri, bensì si tratta di miriadi di funzioni che, individuo per individuo, possono essere dettagliatamente descritte (Imbasciati, 2006e) coi vari mezzi (come sopra) delle scienze psicologiche. La variabilità interindividuale è infinita: ogni individuo ha la sua specifica costruzione funzionale (Imbasciati, Margiotta, 2005, 2008; Imbasciati, 2005b).
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Il contrapposto orientamento, per cui si concepisce la mente come oggetto di uno studio soltanto psicologico, viene anch’esso a essere sostenuto paradossalmente dalla concezione oggi obsoleta che l’approccio neurofisiologico sia proprio come sopra descritto, basato cioè soltanto sulla genetica e sulla biologia: poiché psicologicamente si constata una enorme variabilità interindividuale degli umani, se lo sviluppo del cervello lo si ritiene dettato dalla genetica e quindi uguale per tutti, non resta che concepire il mentale come scisso e indipendente dal neurologico. In altri termini entrambi i due preconcetti non considerano quanto i recenti progressi delle neuroscienze hanno dimostrato: il cervello si sviluppa per esperienza e per l’elaborazione di questa da parte di ogni singolo. È questo l’anello di congiunzione, o meglio il punto di integrazione, tra studi psicologici e studi neurobiologici, due diversi modi di osservare lo stesso oggetto. Spesso inoltre vi è un altro sottinteso, nelle posizioni esclusivamente psicologiche: che la mente coincida con la soggettività. Per alcuni, addirittura, la soggettività coincide con la coscienza. Oggi sappiamo che l’introspezione è solo un aspetto secondario e ingannevole della coscienza, e che questa è solo una parte del più vasto mondo inconsapevole (inconscio) della soggettività e che comunque l’insieme delle funzioni mentali travalica anche quest’ultima. A ciò corrisponde il lavoro continuo del cervello indipendentemente da qualunque possibilità di accorgersene. La mente dunque comprende tutte quelle funzioni che possono essere inferite dai molteplici mezzi dell’osservazione dello psichico nonché dell’osservazione psicobiologica delle neuroscienze. Gli uni e gli altri studi devono integrarsi: le teorie psicologiche devono essere sintoniche a quelle neurofisiologiche; per esempio oggi si formulano nuove metapsicologie, differenti da quella freudiana (Imbasciati, 2007a, b). Le funzioni psichiche sono l’espressione di funzioni neurali che si sono costruite per una certa esperienza nel cervello del singolo individuo. Ancora una volta si ricordi che per funzioni non si intendono quei grossi raggruppamenti della nosografia psichiatrica o medico-legale (tipo: capacità logiche, di ragionamento, orientamento spazio-temporale, affettività, umore, ecc.), bensì tutte le dettagliatissime capacità operative che sia la psicoanalisi che le scienze cognitive hanno dimostrato (Imbasciati, 2005b; 2006a, b). In questa prospettiva, mente e cervello non sono contrapponibili. Anche la genetica offre oggi prospettive di integrazione con la neurofisiologia e la psicologia: si tratta della cosiddetta “espressività genica”, cioè del fatto che a parità di corredo genico (genico, non semplicemente cromosomico) un gene può condizionare il cervello diversamente a seconda dell’individuo (Spagnoli, 2005). Non si può dunque contrapporre mente e cervello. La mente-cervello comanda il corpo e ne modula continuamente gli automatismi biologici e questo a sua volta condiziona la mente e il suo costruirsi. Per questo, dire che una certa disfunzione è psicosomatica non significa affatto che si sia formata per una qualche responsabilità del soggetto come purtroppo ancora si crede, e che quindi questi possa ovviarvici. Né significa che sia trascurabile. Tutte le funzioni – ottimali o disfunzionali, catalogabili come normali piuttosto che pato-
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logiche – sono modulate psicosomaticamente. Di psicosomatica si può anche morire; o essere in perfetta salute (fitness). Tutto ciò indipendentemente da qualunque intenzionalità del soggetto. Quanto sopra non esclude, ma contempla, l’intervento di molteplici fattori esogeni – batteri, virus, traumi, difetti genetici – che sopravvengono negli automatismi biologici provocando o favorendo le malattie. Oggi però non si parla più di malattie psicosomatiche: tutte le malattie possono avere una modulazione psicosomatica, verso la salute piuttosto che verso l’aggravamento.
8.2 La psicosomatica Col termine psicosomatica si intende generalmente lo studio di come la psiche regoli il soma. Concetto più noto, anche se oggi superato, è quello per cui lo psichico può provocare nel corpo le cosiddette malattie psicosomatiche: alcune malattie possono esser dovute a cause psichiche. Intorno a tale concetto, pur acquisito nella cultura popolare e anche scientifica, si sono sviluppati molti pregiudizi. Quello più comune è nel credere che tale influenza, pur ammessa, sia trascurabile e che le malattie “vere” vengano per precise cause organiche e non per “la psiche”. Altro pregiudizio è pensare che se una qualche disfunzione è causata psichicamente, il soggetto “se la possa far passare”, con un po’ di attenzione e buona volontà. Non si ammette inoltre la gravità delle malattie psicosomatiche: che di psicosomatica si possa anche morire. Infine c’è un generale scetticismo sul come gli eventi psichici, considerati erroneamente riducibili all’immateriale, possano agire sulla materialità del corpo. Alla base di tali pregiudizi e scetticismi sta l’a-priori di una causalità lineare: al contrario, sappiamo oggi che qualunque funzione, disfunzione o malattia è sempre pluricausata. L’azione della psiche sul corpo fa sempre parte, come “concausa”, di una pluralità di fattori coagenti. Alla base dei pregiudizi sta anche la considerazione dello psichico come disgiunto dal neurologico: al contrario, sappiamo oggi che qualunque evento psichico, cognitivo o affettivo, consapevole o inconscio, ha una corrispondenza in processi neurali; è dunque il cervello che agisce sul corpo. Questa azione non è però a sua volta automatica e disgiunta dallo psichico: il cervello è un grande elaboratore (Imbasciati, Margiotta, 2005, 2008; Imbasciati, 2005b, 2006a, b) di tutti gli input che riceve, integrati con quelli ricevuti (tutta la memoria, anche quella implicita, che non potrà mai essere ricordata), e integrati con quanto il sistema stesso ognora produce. Pertanto, a seconda di cosa lo psichico recepisce e sulla base della sua struttura (memoria) elabora, nel cervello si producono regolazioni del soma. Lo psichico è dunque ciò che si osserva, con mezzi psicologici, di ciò che avviene in quel grande elaboratore che è il cervello umano. Il cervello comanda tutto il corpo non solo secondo modalità geneticamente predeterminate – quelle che generano le funzioni che chiamiamo normali –, ma modula tutte queste funzioni, continuativamente e variabilmente a seconda di quanto volta a volta sta elaborando, cioè a seconda di ciò che vi accade come “mente”. Tale modulazione
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copre un continuum che va dall’ottimalità di tutte le funzioni corporee (per esempio negli atleti), alle disfunzioni, a ciò che chiamiamo patologia. In casi eccezionali tale modulazione può condurre anche alla morte, di solito in concomitanza con altri agenti: si pensi alle malattie cosiddette degenerative, alle stesse neoplasie, a certe malattie dermatologiche letali. Un tempo ci si interrogò sul “misterioso salto dalla mente al corpo” (Deutsch, 1959). Non c’è nulla di misterioso. Il mistero appariva a coloro che concepivano la mente come scissa dal SNC. Oggi sappiamo che questo, e cioè la mente, regola tutto il corpo. Quello che invece è ancora oggetto di indagine è il come dall’esperienza del corpo si costituiscano le funzioni mentali: il misterioso salto dal corpo alla mente, potremmo dire. Il fatto è che psiche e cervello sono la stessa cosa: la regolazione del corpo. Altra ragione dei pregiudizi sta nel non considerare i cosiddetti eventi affettivi come eventi mentali e neurali a pieno titolo; e ancora nel mettere in ombra che la stragrande maggioranza degli eventi psichici è del tutto inconsapevole al soggetto; e passa inosservata all’osservatore generico, talora anche allo psicologo. Infine c’è il pregiudizio che la psiche “interferisca” sulla “normale” funzionalità del corpo, causando disfunzioni e malattie. In realtà non c’è nessuna interferenza, perché psiche e corpo non sono due entità separabili, ma due facce dello stesso funzionamento, l’una vista con metodi psicologici, l’altra con quelli biologici. Per questa ragione oggi non si parla più di malattie psicosomatiche, ma di “equilibrio psicosomatico”, perché sappiamo: a) che la psiche (=SNC) regola sempre tutte le funzioni, normali o patologiche che le si voglia etichettare; b) che non si tratta di “interferenze”, bensì della psicofisiologia dell’unità chiamata oggi psiche-soma. Questa costituisce una struttura peculiare e specifica di ogni singolo individuo, originatasi nelle vicende della prima infanzia. Ogni persona pertanto ha il suo individuale “equilibrio (più o meno equilibrato) psicosomatico”. Il SNC, e quindi gli eventi psichici, regolano le funzioni corporee secondo vie neurali e umorali oggi in gran parte note. Nella Fig. 8.1 sono illustrate le connessioni del Sistema Nervoso Vegetativo; nella Fig. 8.2 come la neuroipofisi, in diretta connessione con l’adenoipofisi, regoli tutta l’orchestra ormonale, e quindi i vari organi. Ricordiamo come la neuroipofisi sia in diretta connessione con l’ipotalamo e altre strutture della base (diencefalo, corpo striato) e queste con la corteccia limbica (emozioni, affettività) e tutta la corteccia. Attualmente si sta sempre più mettendo in rilievo il ruolo di tutto il cervello destro nella regolazione degli affetti (Schore, 2003a, b) e pertanto anche delle funzioni somatiche. Infine nella Fig. 8.3 è raffigurato lo schema generale dello psiche-soma da noi ideato. Le conoscenze finora acquisite sulla regolazione psicosomatica di qualunque processo organico hanno posto molti interrogativi, sia sul versante della malattia che su quello della salute. Uno di questi riguarda la capacità di recupero, differente in ogni singolo, di fronte agli eventi patologici, curati ovviamente con i mezzi farmacologici e chirurgici, e anche di fronte al recupero dopo interventi post-traumatici, per esempio in rianimazione, o dopo gravi
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Fig. 8.1 Vie fisiologiche della modulazione psicosomatica (modificato da Carlson, 1977)
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Ipofisi posteriore
Ipofisi anteriore
LH PRL ICSH (ormone (prolatina) (ormone luteinizzante) stimolante le cellule interstiziali) FSH GH (ormone TS (ormone della follicolo(ormone crescita) stimolante) tireostimolante)
ACTH (ormone adenocorticotropo)
Corteccia surrenale
Produzione del latte
Crescita delle ossa
Testicoli
Ovaie
Tiroide
Corticosteroidi
Tiroxina
Testosterone
Estrogeni Progesterone
Controllo delle ghiandole endocrine da parte degli ormoni dell’ipofisi anteriore
Organi bersaglio non endocrini influenzati dagli ormoni dell’ipofisi anteriore
Fig. 8.2 Dall’ipofisi a vari organi (modificato da Rosenzweig, Leiman, 1982)
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Fig. 8.3 La figura vuole schematizzare l’unità funzionale psicosomatica della mente e del corpo. Nella parte superiore sono indicati con I tutti gli insiemi di input che vengono recepiti dai vari apparati sensoriali dell’organismo. Le varie configurazioni di stimoli, o input, innescano meccanismi di recezione neurosensoriali, indicati con R, alla periferia del corpo per gli esterocettori o all’interno (enterorecettori, chemiorecettori, ecc.). I vari sistemi di recezione (R) forniscono una serie di complesse informazioni al sistemamente, che vengono elaborate in molteplici stazioni di codifica: un primo livello di tale codifica è indicato come sistema di Codifica Recettivo Mnestica (CRM). I risultati di questi primi livelli di elaborazione, in larga parte, individuabili a livello subcorticale, subiscono una più complessa integrazione che abbiamo schematizzato come sistema mnestico (M, memoria), in larga parte omologabile al lavoro corticale. Il sistema M è in continuo feedback con il sistema CRM: questo trasforma gli input facendone una certa lettura in integrazione con M. Gli stimoli così trasformati vengono percepiti, in una elaborazione, selezione e lettura, che di volta in volta può anche essere diversa, e così codificati vengono immessi in memoria, dove sono continuamente confrontati con le precedenti memorie; in questo modo abbiamo un sistema che “legge” gli insiemi di stimoli, di volta in volta anche in modo diverso. La memoria esercita quindi la sua continua
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influenza sul sistema codificante, che codifica a sua volta ciò che c’è in memoria e così via in circuito continuo. Questo varrebbe per tutti i sistemi sensoriali. Nella nostra figura è schematizzato EC (Elaboratore Continuo), per indicare l’attività globale di elaborazione del cervello, in particolare della corteccia, che ha anch’essa una notevole retroazione con la memoria stessa (nella nostra figura lo spessore delle frecce è più o meno proporzionale alla loro importanza), così come anche sulla codifica recettivo mestica. M e EC possono considerarsi un unico sistema per cui gli stessi input possono essere letti volta per volta in modo diverso a seconda della attività di tale elaborazione. Per queste ragioni la memoria non è mai un magazzino in cui vengono depositate “tracce”, ma un sistema di continua rielaborazione e trasformazione di tutte le tracce. L’insieme Memoria + Elaboratore Centrale dà luogo a una serie di processi indicati con PO (Prodotto Output), destinati a diventare degli Output, in figura denominati con O. PO indica qualunque evento che, prodotto dal sistema, può essere considerato una risposta, tendente come tale a manifestarsi all’esterno: può trattarsi di una risposta motoria semplice, o comportamentale, anche complessa, che si manifesta all’esterno (O), nel corpo, o come un prodotto elaborato interno (che rimane dentro il sistema a condizionare ulteriori elaborazioni e quindi a modulare ulteriori risposte) che può essere etichettato come pensiero, in senso lato: per esempio una fantasia, qualunque creazione di immagini, un intento, un interesse, ma anche un affetto, un sentimento, o qualunque evento mentale che preceda (cfr. Imbasciati, Margiotta, 2005, Cap. 9: Processazioni in parallelo, oggetti interni, preconcezioni) la costruzione di un pensiero in senso più stretto. In altri termini, ciò che viene “pensato” modifica continuamente in retroazione la memoria, l’elaborazione stessa (pensare modifica il nostro pensiero), e la percezione, ed infine la risposta verso l’esterno. Ricordiamo infine che O può modificare I: una condotta può allontanare l’individuo dalle fonti di input. Ricordiamo anche che un O può agire anche sulle stesse funzioni mentali, per esempio trasformandole o distruggendole (psicosi) e dunque nella stessa mente, talora distruggendo (psicosomatica) gli stessi tessuti neurali e pertanto agendo su mente e corpo. Per questa ragione O è disegnato in parte su “corpo” e in parte su “mente”. Tutto questo “sistema-mente”, con le sue retroazioni e interazioni continue, si riversa sul corpo: PO ha così influenza nei sistemi biologici. Questi sono modulati dall’attività mentale, o cerebrale in toto, e tale modulazione si esplica soprattutto attraverso le strutture neurali interessate a quanto è denominato affettività (sistema mesolimbico, amigdala, nuclei della base, ecc.) e quelle strutture nervose ben conosciute che costituiscono il Sistema Nervoso Vegetativo (SNV), nonché sul sistema neuroendocrino, e per vie più complesse sul sistema immunitario. Le funzioni denominate affettive sono elaborate in modo prevalente da alcune strutture neurali, ma in realtà interessano l’encefalo in toto: le funzioni denominate affettive non sono separabili da quelle denominate cognitive. Per questa ragione nel disegno la zona indicata con Affettività comprende anche M e EC. Ricordiamo tuttavia che il nostro schema non vuole essere anatomofisiologico, ma soltanto uno schema logico che visualizzi l’unitarietà della mente e del corpo. Si può così avere un quadro di come la mente condizioni tutte le funzioni biologiche e come, per esempio, ogni singolo individuo possa elaborare diversamente le stesse situazioni esterne (input), sviluppando una certa sindrome da stress, piuttosto che mutando la sua struttura di personalità, o sviluppando eventi patologici specificatamente psicosomatici, cioè malattie; e come a seconda dell’individuo si possa sviluppare una certa malattia piuttosto che un’altra.
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menomazioni, con complessi problemi per la riabilitazione. Altro interrogativo, promanante dall’aver accertato la componente psicosomatica nella riproduzione cellulare, interessa le gravi malattie dermatologiche (psoriasi, pemfigo, ecc.), nonché tutte le malattie autoimmuni e infine anche le neoplasie. Si parla oggi di psiconeuroendocrinoimmunologia. La modulazione psicosomatica del sistema immunitario apre la prospettiva a tutte quelle funzioni organiche che da questo sono influenzate, e innanzitutto a tutte le sindromi allergiche: il fatto che sia identificato un allergene depone per la patogenesi, non per l’eziologia: quest’ultima riguarda il perché un certo individuo reagisca immunitariamente a quell’allergene e perché si reagisca solo in certe situazioni, o in certe epoche della vita. Anche per le cosiddette malattie degenerative si aprono oggi interrogativi sul versante psicosomatico. In genere possiamo affermare che di qualunque malattia a eziologia ignota è ragionevole ipotizzare un non indifferente meccanismo psicosomatico non ancora conosciuto. Ciò ovviamente non significa che tale orizzonte di ricerca debba far trascurare i mezzi terapeutici finora a disposizione: farmacologici, fisici, chirurgici. Ricordiamo qui ancora l’equivoco, diffuso nel senso comune, per cui, alla supposizione di cause psichiche, segue la trascuranza di tutti quei meccanismi organici che sono finora conosciuti per la terapia; nonché, e soprattutto, il pregiudizio che i fattori psicosomatici possano facilmente essere ovviati dalla coscienza o dalla buona volontà del paziente. Non solo coscienza e buona volontà sono parole vuote, ma anche le stesse psicoterapie del profondo sono di non facile effetto. I fattori psichici che agiscono sul soma sono i più inaccessibili alla consapevolezza, e le tecniche psicoterapeutiche con difficoltà vi si cimentano. La terapia in campo psicosomatico deve essere pertanto un concorrere di terapie biologiche, chirurgiche, psicologiche e sociali. In conclusione, allo scopo di dare una visione globale delle complesse interazioni che intercorrono tra i processi somatici e i processi psichici, offriamo al lettore lo schema che segue, da noi ideato (Fig. 8.4).
8.3 Alessitimia e psicosomatica “Give sorrow words: the grief that doesn’t speak whispers the o’er-fraught heart and bids it break” (“Da’ parole al dolore: la pena che non parla sussurra al cuore affranto e gli ordina di spezzarsi”: W. Shakespeare, Macbeth, IV, 3). In queste parole sono contenute le intuizioni di un drammaturgo che, come spesso accade ai conoscitori d’anime, precede le scoperte delle scienze. I primi esponenti della psicosomatica ritennero, in riferimento alla teorizzazione di Freud, che i conflitti inconsci svolgessero un ruolo importante e specifico nelle malattie psicosomatiche (Imbasciati, Margiotta, 2005). Più tardi e più semplicemente si ipotizzò che alla base di tali malattie vi fosse un’incapacità dell’espressione delle emozioni. MacLean (1949, 1954, 1977) notò che molti pazienti psicosomatici mostravano incapacità nel verbalizzare le proprie emozioni, ipotizzando così che le emozioni fossero elaborate nelle vie autono-
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Fig. 8.4 Nell’interazione tra i processi psichici e quelli somatici si deve tenere conto di molti fattori. Ogni individuo è unico e irripetibile; ognuno si distingue dagli altri per la propria storia e il proprio modo di interpretare, di elaborare, al di là delle singole esperienze oggettive, i propri vissuti. Ognuno ha un proprio bagaglio genetico e biologico; ciò che importa però sottolineare è che ognuno “costruisce” la propria storia ed il proprio modo di interagire con il mondo esterno già a partire dalle prime esperienze di vita (ma anche dalla vita fetale). Ogni vissuto ha quindi una diversa elaborazione da persona a persona o nella stessa persona in momenti diversi della vita; ognuno ha quindi una propria “elaborazione mentale”. Sulla base anche dell’interazione fra i vari sistemi (ad esempio i sistemi percettivi, la memoria, l’affettività, l’attività mentale in toto), si hanno una serie di risposte che, attraverso le vie fisiologiche sinora conosciute e considerate (l’asse ipotalamo-ipofisi, il sistema neurovegetativo e il sistema immunitario) vanno a influire sulla modulazione di tutti i sistemi organici. Questi, a loro volta, influirebbero di nuovo sulla storia personale dell’individuo, e così via, in un processo di tipo circolare e multifattoriale, piuttosto che di tipo lineare. Ognuno ha quindi un diverso modo di ammalarsi rispetto ad altri, in diversi momenti della propria vita, e con diverse malattie
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me e neuroendocrine verso un linguaggio “organico” piuttosto che essere elaborate verso un linguaggio verbale. Secondo Jurgen Ruesch (1948), i pazienti psicosomatici, nei quali egli osservò disturbi dell’espressione simbolica e verbale, avevano personalità infantili. Marty, de M’Uzan (1963) descrissero pazienti che erano incapaci di produrre fantasie, che erano senza immaginazione, e con un pensiero molto legato alla realtà, ipotizzando che questo tipo di pensiero, denominato “pensiero operatorio”, fosse tipico di una specifica personalità psicosomatica. Il termine alessitimia è stato coniato dallo psicoanalista Peter Sifneos (1973); deriva dal greco a-lexis-thymos e significa letteralmente “incapacità di leggere l’emozione” (“emozione senza parola”), o “mancanza di parole per le emozioni”: è cioè l’incapacità di esprimere verbalmente le proprie emozioni. Da studi successivi (Taylor, Bagby, Parker, 1991, 1997), le caratteristiche dei soggetti alessitimici sarebbero risultate le seguenti: a) difficoltà nel riconoscere e descrivere i propri sentimenti anche quando questi sono evidenti come emozioni in senso stretto (a esempio, un soggetto potrebbe scoppiare a piangere per poi essere incapace di dire che cosa prova); b) difficoltà nella distinzione tra sentimenti ed emozioni più direttamente connesse a un’attivazione emotiva corporea; scarsità di fantasie, cioè di processi immaginativi, e attività onirica limitata; d) un iperadattamento alla realtà; la loro attenzione sarebbe maggiormente centrata sugli oggetti concreti e sulla realtà esterna piuttosto che verso il proprio mondo interno. Tali soggetti mostrerebbero anche un difetto nella capacità di riconoscere sentimenti ed emozioni altrui, oltre che i propri (contrariamente a quanto avviene per l’empatia); anche se apparentemente sono ben adattate socialmente, queste persone non instaurano relazioni interpersonali che comportano legami profondi e dipendenza, ma si ritrovano in genere piuttosto soli; anche se non avvertono la solitudine, così come in genere tutti i sentimenti. L’alessitimia non è una patologia, tantomeno una diagnosi, ma un aspetto della funzionalità mentale, altrimenti definibile come tratto di personalità: spesso correlato alla somatizzazione e allo sviluppo di certe sindromi, lo si può ritrovare anche in persone non soggette a tali particolari tendenze. Questo tratto inoltre è variabile da persona a persona, distribuendosi lungo un continuum (da zero a infinito), per cui ho altrove affermato che tutti sono – almeno un poco – alessitimici, nella misura in cui nessuno può mai conoscere appieno le proprie emozioni: esse sono sempre, in parte maggiore o minore, inconsapevoli. Alessitimia è l’inverso della capacità di coscienza: così come questa varia da individuo a individuo e nello stesso individuo a seconda delle circostanze e dei contesti relazionali, altrettanto varia il grado di alessitimia. Per questa ragione è consigliabile parlare di “dimensione alessitimica” piuttosto che di alessitimia. Alla luce della convergenza di ricerche provenienti da diversi vertici (psicologia sperimentale, neurofisiologia e psicologia clinica) la spiegazione della alessitimia va ricercata nella strutturazione degli affetti. L’interazione emozionale fra la figura primaria e il bambino (cfr. Cap. 6.1) condiziona lo sviluppo
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delle capacità cognitive e in particolare lo sviluppo delle capacità metacognitive (cfr. Cap. 3), cioè delle capacità di riconoscere le proprie attività mentali, i propri affetti soprattutto, e di conseguenza quelli altrui. La qualità delle interazioni comporta una maturazione del tutto particolare di quelle parti del cervello che presiedono alla regolazione delle emozioni (sistema limbico e in genere cervello destro). In queste appunto sono rilevanti i sistemi neurali che più regolano le funzioni corporee. Una regolazione emotiva “inappropriata” può condizionare una struttura permanente nello sviluppo di alcune zone neurali che regolano l’equilibrio psicosomatico specifico di una determinata persona.
8.4 Madre-infante e psiche-soma Fino a qualche tempo fa poco si sapeva sulle relazioni corpo-mente nei primi periodi di vita, né si credeva nell’esistenza di una vita mentale del feto e del neonato. Questo periodo è oggi nettamente rivalutato. La ricerca ha dimostrato come già in questo periodo avvengano comunicazioni tra madre e bimbo che strutturano la sua mente e il suo cervello, determinando le strutture affettive di base, che a loro volta condizioneranno tutti i successivi apprendimenti. Il neonato attivamente si impegna nell’interazione con la madre già fino dalla seconda settimana di vita (Stern, 1977; Emde e Robinson, 1979). Più precisamente i ricercatori concepiscono la relazione madre-bambino come un sistema interattivo che regola non solo il comportamento, ma la fisiologia stessa del bambino a partire dalla nascita. Inizialmente le risposte del bambino sono di carattere riflesso innato: accade poi che, man mano che la mente del bambino forma simboli, pensa, e poi sviluppa il linguaggio, la regolazione si sposta sempre più da un livello biologicamente predeterminato a un livello psicologicamente costruito (Sander, 1975; Lichtenberg, 1983). Si stabilisce tra la madre e il bambino una sincronia di fasi, una interazione comportamentale, un dialogo di parametri, che si sviluppa poi in una sincronia di affetti. Hofer (1978) ha identificato alcuni meccanismi “nascosti”, di carattere relazionale, mediate dalla sensorialità termica, tattile e vestibolare, attraverso cui la madre regola le funzioni biologiche dell’infante: la madre svolge la funzione di “regolatore biologico e comportamentale” per il bimbo. Una serie di studi condotti sugli animali (in particolare modo piccoli di ratti e scimmie) hanno mostrato come la relazione con la madre, soprattutto nelle interazioni di contatto corporeo e nell’allattamento, influisca sulla regolazione di molte funzioni biologiche: cardiovascolari (Hofer, 1981), ritmi sonno-veglia (Hofer, 1983a), temperatura corporea del piccolo (Hofer, 1981); l’interazione comportamentale (probabilmente la stimolazione tattile) regola inoltre il livello di ormone della crescita nel sangue (Hofer, 1981, 1983b). Quanto sopra dimostra come i piccoli abbiano bisogno della madre per mantenere un adeguato livello della loro fisiologia e financo del loro accrescimento. Tutti questi riscontri sono estensibili anche alle interazioni che avvengono nella specie umana. La madre, per esempio, dondolando o cullando il proprio bambino, fornisce a esso la
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necessaria stimolazione vestibolare, che regola poi lo sviluppo di un normale e adeguato comportamento motorio e una regolazione emotiva adattati (Hofer, 1981, 1983b). In un altro esperimento, Meaney e coll. (1988) trovarono che alcuni ratti molto “coccolati” durante le prime settimane di vita mostravano con la crescita una risposta di stress molto meno distruttiva rispetto a un altro gruppo di ratti non coccolati (era stata misurata la densità di alcuni recettori ippocampali per il cortisolo). Si sarebbe così trovato un potenziale “ponte” tra la neurochimica e la psicologia, dimostrando così che la risposta di stress può essere condizionata dalle fasi precoci della vita. Abbiamo quindi un modello psicobiologico in cui la perdita della madre, a causa appunto della mancanza della regolazione biologica fornita dalla madre stessa, suscita non solo risposte di ordine psicologico, ma ha anche un effetto più direttamente somatico: un malfunzionamento della relazione madre-bambino influenzerà una successiva suscettibilità alle malattie attraverso un’alterazione precoce dei sistemi organici e sarà responsabile di successive malattie (Hofer, 1983b). Bisogna altresì notare che già alla nascita i bambini possiedono differenze individuali, le quali possono influenzare proprio la relazione con la madre: in tal modo le caratteristiche di personalità di questa, unite agli atteggiamenti (consci e inconsci) che ella ha verso il proprio ruolo materno, possono cambiare a seconda del bimbo, e a loro volta influenzare tale relazione. Ci possono essere malattie la cui genesi non sta tanto in fattori psicologici, appartenenti alla madre e/o al figlio, quanto all’interrelazione tra fattori primari (forse biologici o forse in qualche modo appresi in epoca fetale) del bambino e le caratteristiche di personalità della madre. Il problema delle cosiddette cure materne si rivela qui in tutta la sua complessità psicofisiologica. Non si tratta del semplice fatto che una madre si prenda cura del suo bimbo, o abbia abbastanza tempo per stargli appresso, come erroneamente si crede. Si tratta del fatto che il carattere delle interazioni tra quella madre e quel bambino, conseguente alla combinazione delle strutture psichiche di entrambi, sia di tipo comunicazionale e non frutto del caso, o della semplice vicinanza, e soprattutto sia di tipo dialogico. Dialogo significa che la comunicazione psicobiologica, automatica e inconsapevole, che scorre tra i due, nella comunicazione non verbale che la madre costantemente emette e alla quale il bimbo prova a rispondere, possa essere sintonizzata tra le due parti. Occorre cioè che i messaggi emessi dalla madre possano essere adeguatamente decodificati dalle capacità del bimbo e i messaggi emessi dal bimbo abbiano una correlata adeguata decodifica da parte della madre, cosicché questa a sua volta dia all’infante una risposta adeguata e cioè passibile di essere a sua volta adeguatamente “compresa” dalle capacità del bimbo. Altrimenti la madre emette messaggi, ma non dialoga, perché il bimbo non capisce, e può rispondere secondo reazioni sue, non adeguate a quanto ricevuto e non compreso. Queste risposte a loro volta non saranno comprese dalla madre, in un progressivo e patogeno fraintendimento. Occorre sintonia, perché ci sia dialogo: solo così una regolazione biopsicocomportamentale, esercitata dalla madre, ha l’ef-
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fetto di costruire nel bimbo adeguati significanti e significati (cfr. Cap. 6) e adeguati sistemi di autoregolazione affettivo-somatica, fondamento di una mente “sufficientemente sana” e di conseguenza di una regolazione psicosomatica buona. In questi ultimi anni si sta sviluppando un’enorme letteratura sulla sintonizzazione e regolazione degli affetti tra bimbo e caregiver e sulle relative conseguenze sulla strutturazione globale della mente, e ovviamente delle strutture neurali (Schore, 2003ab). Individui con deficit di autoregolazione resterebbero dipendenti dai processi regolatori attuati nelle relazioni e sarebbero predisposi vita natural durante ai disturbi della regolazione psicofisiologica. A causa della “mancanza degli specifici regolatori sensomotori nascosti nelle molteplici complesse interazioni della relazione” (Hofer, 1984, p. 188), queste persone hanno un rischio maggiore di sviluppare malattie fisiche dopo una separazione o una perdita oggettuale. Può accadere quindi che l’insorgere di una malattia possa rappresentare una sorta di tentativo per recuperare una relazione interpersonale importante (perduta) per le funzioni psicobiologiche di regolazione. Per compensare queste carenze infatti, molte di queste persone sembrano essere alla ricerca di una figura chiave sostitutiva della madre. L’essere umano si trova inoltre immerso in relazioni sociali che possono anch’esse regolare i processi biologici: alcune di tali funzioni possono infatti essere sottilmente influenzate da processi regolatori interattivi. Così come alcune relazioni primarie possono predisporre alle malattie, alcune ricerche suggeriscono anche che relazioni oggettuali di sostegno possano invece conferire una maggiore resistenza. Sembrerebbe esistere un effetto diretto sul funzionamento psicobiologico dell’organismo attraverso le interazioni regolatrici all’interno delle relazioni sociali. Uno studio prospettico su quasi 10.000 uomini israeliani che avevano sofferto di angina pectoris, per esempio, mostrò che negli uomini che avevano l’amore e il sostegno della moglie e dei familiari, la gravità della sindrome cardiaca era significativamente ridotta (Medalie, Goldbourt, 1976). Ciò che è importante non è la quantità di sostegno sociale, ma la qualità: si parla dei bisogni dell’individuo di sentirsi amato, stimato, e del sentimento di appartenenza (per esempio a una famiglia, a una comunità) e di identità. Tali fattori saranno molto importanti anche nell’età avanzata dell’individuo. L’equilibrio psicosomatico si struttura man mano che il bimbo sviluppa una sua mente e man mano che questa mente non soltanto recepisce gli input materni e li elabora nel proprio corpo, ma anche nella misura in cui questa mente impara, in modo buono o in modo cattivo, a regolare le proprie funzioni corporee. È osservazione clinica comune, rilevata da tutti i pediatri, che ci sono dei bambini che sembrano facilmente mutare in disfunzioni corporee i loro disagi, che dovrebbero invece essere psichici. Sono gelosi del fratellino: gli viene qualche piccolo accidente; litigano spesso con la mamma o la mamma li sgrida spesso, comunque la mamma non ci sa fare: non soltanto questi bambini si rinchiudono, ma sviluppano sindromi corporee; vengono portati all’asilo nido: hanno diarrea, o vomito o altri guai. C’è una variabilità da individuo a indivi-
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duo, nei bambini, nel fatto che un certo evento venga manifestato psichicamente piuttosto che si traduca in una disfunzione corporea. Questo non solo per affezioni di poco conto, come quelle citate, ma anche quelle per malattie più gravi. Molti autori sostengono per esempio che le leucemie infantili siano un modo con cui il bimbo reagisce somaticamente a un disagio, che altri bambini avrebbero potuto esprimere con situazioni psichiche, quali pianto, crisi di agitazione, irrequietezza. Anche negli adulti c’è una differenza individuale di reattività alle situazioni psichicamente disagiate. Ci sono persone che le soffrono di più nella mente e si deprimono, si disperano e si agitano e sentono sofferenza; altre persone che soffrono questi disagi somaticamente: o acchiappando infezioni virali varie, oppure con algie, reumatalgie, mal di schiena, mialgie; o con l’apparato gastroenterico – nausea, vomito, stipsi, diarrea – o in altri apparati corporei. Nell’età critica della “prima vecchiaia” (50-60 anni) sono frequenti i disturbi cardiaci: certe persone somatizzano con tali disturbi i disagi che altri avrebbero elaborato psichicamente. È nozione clinica rilevata sia nei bambini, sia negli adulti che negli anziani, che c’è una sorta di proporzione inversa tra come un disagio viene sofferto psichicamente e come viene, invece, sofferto somaticamente. Quanto più, a parità di condizioni, il disagio viene sofferto psichicamente, tanto meno vi sono manifestazioni somatiche e viceversa. Dobbiamo però considerare entrambe le sofferenze, non sottovalutare la sofferenza psichica, non ridurla alla possibilità che uno se la faccia passare con un atto di volontà facendosi forza, e non sottovalutare la sofferenza somatica solo perché generata anch’essa da fattori psichici. Non sottovalutando, quindi, la sofferenza somatica, occorre ricorrere ai rimedi fisico-biologici, ma soprattutto, quando la cosa è grave e i rimedi non sono risolutivi, occorre prendere in considerazione la componente psichica e i relativi interventi a questi livelli. A proposito del formarsi di una certa struttura psicosomatica, cioè di un certo equilibrio psicosomatico individuale, ci sono persone che somatizzano di più in certe parti del corpo. Gli antichi usavano la dizione locus minoris resistentiae: lo applicavano anche agli agenti esterni; è applicabile anche agli agenti interni di tipo psichico. Certe persone somatizzano di più con l’intestino o con lo stomaco, altre con la cefalea, altre con l’apparato genitale – donne più che uomini; vi sono infezioni vaginali farmaco-resistenti che hanno una forte componente psicosomatica, nonché altre situazioni che riguardano utero, tube, ovaie, per non dire tutto il problema della sterilità totale o parziale, che sono anch’esse a vasta componente psicosomatica. Ciò vale anche per la sterilità maschile, nella produzione degli spermatozoi: oligospermie o azospermie. Ognuno di noi ha una sorta di equilibrio nel soffrire psichicamente o nel soffrire somaticamente, e nel soffrire somaticamente ha una certa predilezione per certe parti del suo corpo. Tutta questa peculiarità individuale si costruisce in età infantile, neonatale soprattutto, nel rapporto con le figure significative. In questo rapporto non sempre è chiaro perché un certo tipo di relazioni possa produrre una predilezione per l’organo bersaglio intestino piuttosto che per l’organo bersaglio apparato genitale. Però si sa che la quantità di sofferenza
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psichicamente sentita è inversamente proporzionale alla quantità di sofferenza somatica. Questo tipo di equilibrio è in relazione con lo sviluppo delle capacità metacognitive1. Un tipo di relazione parentale che favorisce alte capacità metacognitive, cioè capacità di rappresentarsi cosa “ci succede dentro”, di capire cosa succede dentro di noi e dentro anche agli altri, favorisce una struttura propensa a elaborare psichicamente il disagio. Le basse capacità metacognitive, invece, predispongono alla somatizzazione. Già è stato detto dell’alessitimia.
8.5 Per una effettiva Clinica Psicosomatica Lo psiche-soma si rivela dunque come una struttura regolatrice che si è costruita e stabilizzata in ogni singolo individuo in maniera diversa: essa corrisponde a una determinata organizzazione neurale e pertanto mentale che è venuta a strutturarsi in quel determinato individuo. Ogni soggetto ha la sua struttura psicosomatica, il cui equilibrio funzionale di volta in volta potrà essere modulato dai vari eventi biopsicosociali in cui egli vive. Anche questa possibilità è soggetta a grandi variazioni interindividuali, per cui, a parte la stabilità della struttura che si è costruita in quel soggetto, difficile è prevedere quali eventi esterni in che modo la possano modulare: di conseguenza difficile è individuare una precisa terapia biopsicosociale che possa essere di aiuto per tutti. Ciononostante è possibile curare il paziente psicosomatico: innanzitutto coi mezzi farmacologici, che agiscono sui sintomi, o sui meccanismi patogenetici qualora individuati. La maggior parte dei disturbi, tuttavia, a prevalente eziologia psichica, si mostrano assai poco rispondenti alle cure farmacologiche: talora ciò avviene per affezioni anche gravi. Occorre pertanto intervenire con una psicoterapia: l’intervento non è facile, soprattutto se il paziente è anche alessitimico. In genere è opportuna una psicoterapia psicoanalitica, con un terapeuta che sappia raggiungere i funzionamenti più arcaici della mente, quelli attraverso i quali a suo tempo si strutturò la primitiva matrice psicosomatica. Il trattamento è di solito lungo e laborioso: in ogni caso, attraverso la psicoterapia è possibile individuare anche le situazioni interpersonali, sociali e ambientali che nell’attualità del paziente provocano o corroborano il disturbo, e pertanto intervenire più direttamente in esse. La psicoterapia di un paziente psicosomatico è comunque tra le più difficili. In conseguenza di tali difficoltà, e dei relativi costi, frequentemente si ricorre ad altre terapie, a effetto meno radicale, ma comunque rivelatesi utili nel
1 Metacognizione significa cognizione della cognizione, cioè capacità di rendersi conto di quanto si sta pensando, al di là del comportamento. La dizione, usata dai cognitivisti, corrisponde grosso modo al concetto di capacità autoriflessiva di Fonagy (Fonagy, Target, 2001) ed è l’inverso dell’alessitimia. Comunque la si denomini, la capacità in questione dipende dalla sintonizzazione della CNV madre/bimbo.
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ridurre la sindrome psicosomatica. Frequente è il ricorso, con discreti effetti, alle varie tecniche a mediazione corporea (es. training autogeno; Schultz, 1966), variamente combinate con altre tecniche di rilassamento, o con elementi di psicoterapia cognitiva – o anche psicoanalitica –, o con esercizi di tipo ginnico, o ancora con tecniche gruppali derivate dallo psicodramma, o infine con le tecniche orientali (quali meditazione e yoga). Con un certo successo è stata sperimentata anche l’agopuntura. Come conseguenza, sia delle difficoltà che della poliedricità dei possibili trattamenti, deriva il problema della scelta del terapeuta, o dei terapeuti: trattandosi di tecniche non sempre collaudate e standardizzate, la competenza del terapeuta può enormemente variare, e non essere facilmente controllabile dall’utente. Spesso inoltre tali tecniche non sono giuridicamente regolamentate, né ancorate a specifiche e riconosciute professionalità. Forse per mutamenti sociali dello stile di vita (stress?), sembra che le sindromi psicosomatiche siano in aumento: dati le difficoltà e i costi delle terapie (a parte la terapia farmacologica sintomatica), si prospettano grossi problemi assistenziali, purtroppo cogenti se si considerano le radici psicosomatiche di alcune malattie gravi, dette degenerative in quanto non se ne conosce l’eziologia. Proprio per tali difficoltà occorrerebbe impostare la prevenzione, prima di dover ricorrere alla cura: Questa però deve essere intesa come una effettiva promozione di una Psicosomatica della Salute impostata ai criteri e alle scoperte della Psicologia Clinica, fin dalle primissime epoche della vita degli individui.
Capitolo 9 Normalità e patologia: gli equivoci di una psicologia medicalizzata 9.1 La concezione del “guasto”: la norma biologica è dettata dalla genetica, la norma psichica dalla singola struttura che si è strutturata nel singolo cervello a seguito dell’esperienza; apprendimento, memoria, costruzione della mente; inapplicabilità del concetto di causa nelle anomalie psichiche. 9.2 L’anomalia: norma, normalità, patologia; inapplicabilità dei modelli e concetti medici allo psichico. 9.3 Quale normalità?: come definire una qualche normalità per la mente; norma statistica; normatività sociale. 9.4 Chi turba il disturbo: la disfunzione psichica può non turbare il soggetto, ma gli altri, o talora nessuno; disturbo/difetto; screening e igiene mentale; la sofferenza mentale; patologie: logía del patire; dia-gnósis; pro-gnósis.
9.1 La concezione del “guasto” La concezione di normalità e di patologia che viene usata e sottintesa nelle discipline medico-biologiche è fondamentalmente diversa da quella riferibile alle discipline psicologiche. Questa diversità ha importanza cruciale perché è fonte di equivoci: i medici infatti pensano a una normalità psicologica negli stessi termini e con gli stessi criteri e parametri di riferimento con i quali pensano a una normalità in campo medico-biologico; invece, come abbiamo visto ai Capp. 3 e 6, e come vedremo in prosieguo (cfr. Cap. 10), la struttura e il funzionamento della mente, in quanto costruzioni individuali, rendono senza senso una catalogazione nosografica corrispondente al giudizio di “patologia” e alla conseguente diagnosi intesa in senso medico. I criteri delle scienze mediche non sono applicabili a quelle psicologiche (Turchi, Perno, 2002): qui di conseguenza debbono essere adottati criteri diversi con un conseguente diverso modo di inquadrare i fenomeni. Quando una stessa parola sottintende un concetto volta volta diverso, si creano confusioni. Il non avere presente questa diversità genera molte incomprensioni dei medici nei confronti della “patologia” psichica, soprattutto quando ne sentono parlare dagli psicologi. Spesso il medico chiede allo psicologo “Dimmi che tipo di patologia è!” e sente risposte che non lo soddisfano, perché non vengono usate categorizzazioni con altrettante omologhe denominazioni, che a lui sarebbero comprensibili in quanto abituato a quelle mediche; non gli dicono nomi tecnici, che indichino univocamente un quadro determinato, così come i nomi delle malattie servono da etichetta per riconoscere subito una certa patologia del corpo. Il fatto è che per lo psichico non si può parlare di malattie e a rigore neppure di sindromi (cfr. Capp. 2 e 3) data l’irrepetibilità di ogni struttura psichica individuale, disfunzionale o ottimale che sia. Il concetto base di normalità/patologia va A. Imbasciati, La mente medica Che significa “umanizzazione” della medicina? © Springer 2008
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pertanto inteso in senso diverso: di conseguenza quello di diagnosi. Talora il dialogo e il comportamento di un medico di fronte a uno psicologo che gli parla di patologia psichica è paragonabile a quello di uno che, di fronte a un calcolatore che rivela un funzionamento anomalo (una “patologia”), perché è stato introdotto un programma sbagliato o perché vi è entrato un virus, chiedesse con insistenza “ma qual è la valvolina che non funziona di questo calcolatore? Smontiamolo per vedere qual è il circuito che si è guastato!”. Questo esempio caricaturale può risultare utile alla comprensione: se un calcolatore non corrisponde alle nostre attese o ci dà un risultato palesemente incongruo, o peggio ancora quando ci si accorge della distruzione di dati o di altre grosse anomalie, non corriamo a smontare la centralina, né pensiamo che ci sia un circuito guasto che bisogna riparare, ma piuttosto un programma inadeguato, insufficiente, che bisogna sostituire con uno più sofisticato, oppure pensiamo che non siano state date le istruzioni giuste, o ancora, a qualche cancellazione (virus). Con un calcolatore noi ragioniamo tenendo conto di funzioni mal impostate o di software inadeguati, e non di presunti guasti del sistema hardware. La medicina e la biologia rimandano a meccanismi biologici, che funzionano automaticamente in un certo modo per tutti gli individui poiché la loro costruzione, costituzione e funzionalità sono determinate geneticamente. Per tale ragione, ogni organismo è uguale a tutti gli altri all’interno della medesima specie. Dato un certo corredo cromosomico specie-specifico, tutti gli individui sono considerabili uguali, prodotti in serie dalla catena di montaggio data dal loro corredo cromosomico. Se qualche individuo presenta qualcosa di diverso, ciò significa che nel meccanismo che avrebbe dovuto funzionare nel modo preordinato da quel corredo è entrata una qualche variabile estranea: nella “norma”, regolata dalla genetica, è intervenuto un probabile guasto. Nel concetto di patologia comunemente corrente in medicina v’è dunque il concetto di una causa, che ha guastato la norma naturale. Invece, per quanto riguarda la mente, le cose stanno diversamente e le relative ragioni non saranno mai ripetute abbastanza di fronte alle radicate e implicite idee della cultura medica, cresciuta nella misconoscenza dello psichico. Quando parliamo di costruzione di un organismo biologico, pensiamo all’embriologia: il programma genetico determina la formazione dell’embrione, del feto e, via via, di tutti i suoi vari tessuti, organi, apparati, che quel corredo cromosomico prescrive. Il medesimo programma genetico prescrive poi che quel certo organismo, così formatosi embriologicamente, abbia dopo la nascita una certa crescita, di un certo tipo, in un certo tempo. La costituzione di un organismo biologico è pertanto una costituzione anatomica, macroscopica e microscopica, e biochimica, che si è costruita per programma di costruzione predeterminato e sempre uguale a sé stesso. Se non è uguale, ci deve essere una causa. Per quanto riguarda invece la mente (l’organizzazione funzionale del cervello), la costituzione e la costruzione non sono date dalla genetica: questa ha determinato la macroanatomia dell’organo cerebrale, ma non il suo funzionamento. L’anatomia e la biochimica del sistema neurale sono condizioni necessarie, ma non sufficienti, come l’hardware di un calcolatore. La mente
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come tale è l’insieme delle funzioni che possono essere esplicate non perché c’è un certo apparato biologico, ma perché quell’apparato biologico, entrato in interazione con certe sequenze di stimoli, li ha organizzati ed elaborati in un certo modo, costituendo determinati programmi funzionali, a loro volta determinanti le modalità dalle quali tutti i successivi stimoli saranno progressivamente elaborati (cfr. Cap. 3). L’apparato biologico è necessario e responsabile, ma non sufficiente, per tutte quelle funzioni che chiamiamo “mente”, o struttura mentale, e cioè del SNC, ma l’elaborazione e la costruzione dei “programmi” funzionali dipende dall’esperienza, ovvero da apprendimenti, e corrisponde alla costruzione di reti neurali. Il cervello ha un certo numero di neuroni, dato dalla genetica, ma le loro connessioni, neuritiche e dendritiche, proliferazioni, sinapsi e via dicendo, si costituiscono per esperienza e costituiscono la struttura che esplica quelle funzioni mentali che appunto in tal modo sono state apprese: la struttura mentale ha la sua corrispettiva struttura neurale e l’una insieme all’altra sono frutto di apprendimenti. La macrostruttura neurale è determinata dalla genetica, ma la microstruttura, e quindi la funzionalità dipendono dall’esperienza. Va di nuovo ricordato che “esperienza” o “apprendimento” non significano affatto che i fatti esterni sono “portati dentro”, che cioè si imprima nella mente, o che la struttura neurale rispecchi la realtà offerta dai sensi. La nozione scientifica di apprendimento è ben lontana dal senso comune popolare. Apprendere vuol dire elaborare l’input della codifica sensoriale in elementi che hanno significato (Imbasciati, 2006a, b; cfr. anche Cap. 3): questo non semplicemente come significato percettivo (riconoscere oggetti della realtà), ma soprattutto come significato funzionale. La mente e il cervello imparano a funzionare, e ogni minima e progressiva funzione viene appresa: è questo l’apprendimento più importante, in quanto ogni funzione appresa serve a sua volta a imparare ulteriormente, cioè a costruire nuove funzioni, che permetteranno ulteriori, nuovi e sempre più complessi apprendimenti. Per avere un’idea di tutto ciò si pensi a quanto e come impara un neonato nel suo primo anno di vita: non soltanto a riconoscere oggetti e persone, ma, a muoversi, sempre più articolatamente, ad afferrare, e poi a gattonare, e via dicendo. A ogni apprendimento corrisponde memoria: anche qui non si pensi a memoria di oggetti, bensì a memoria di progressive capacità operative. Inoltre, così come nell’apprendere si elabora, cioè si trasformano gli insiemi di input, altrettanto accade per le relative memorie. Ancora, questo lavoro trasformativo non accade solo nel momento dell’apprendere, ma continua senza sosta. Ogni apprendimento trasforma i precedenti apprendimenti, e così ogni memoria trasforma le precedenti, nonché condiziona ogni memoria successiva. La memoria cambia in continuazione: è “plastica”. E infine si consideri che tutta questa continua elaborazione non si compie soltanto “lavorando” l’esperienza offerta dall’esterno, ma anche quella prodotta dall’interno: interno del corpo e poi interno dell’incipiente mente. Ogni prodotto mentale, ogni “pensiero”, inteso in senso lato, viene elaborato a modificare le funzioni preesistenti: ogni pensiero modifica i modi e le capacità di pensare (cfr. Cap. 6). Non si apprende
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dunque l’esperienza ma dall’esperienza: è questo il titolo (Learning from experience) di un famoso libro dell’altrettanto famoso psicoanalista Wilfred Rupert Bion (1962), che rivoluzionò tutto il panorama psicoanalitico (Imbasciati, 2007a, b). L’esperienza si intende esterna e interiore. Si ricordi infine che tutto ciò avviene al di fuori di qualunque coscienza (cfr. Cap. 4): i principali apprendimenti sono inconsapevoli; le memorie non sono affatto “ricordi”. Lo strutturarsi del “sistema mente” non procede per uno stratificarsi di stimoli e di situazioni esperienziali, ma dalla elaborazione di quanto viene “letto” dal sistema stesso nelle esperienze, in funzione della peculiarità di funzionamento in precedenza acquisite dal sistema e in funzione del contesto di significazione in cui l’esperienza viene fruita. Quest’ultimo è modulato dalla relazione, originariamente del bambino con l’adulto (o gli adulti) che si occupa(no) di lui, ed è organizzato su di un reciproco linguaggio, non verbale, che dà il significato alla comunicazione. In base a quanto sopra detto, in caso di evidente anomalia non ha senso ricercare il guasto che ha guastato il sistema, né quale sia stata l’esperienza “traumatica”, che ha causato una data struttura. Occorre invece indagare, semmai, sulle miriadi di circostanze, non solo esterne, ma soprattutto interiori attraverso le quali si è costituito quel “sistema mente”. Ogni mente è irrepetibile: non c’è un cervello uguale a un altro, nella sua funzionalità e nella sua microstruttura. Siamo dunque di fronte a un campo di indagine quanto mai complesso, nel quale i consueti parametri medici debbono essere modificati. Lo stesso concetto di base relativo al termine “patologia” deve essere modificato: in medicina esso significa che qualcosa ha guastato la norma naturale; il pathos, il male, sta nel guasto, non nel patire di un soggetto, e la “logía” deve interessare il guasto, non la soggettività. Così non è per il patire psichico.
9.2 L’anomalia II “sistema mente” non consiste dunque in una “costituzione” anatomica né in una costruzione predeterminata dalla genetica e riferita all’embriologia: è invece un insieme di funzioni che costruiscono sé stesse. Negli organismi biologici, le variazioni all’interno di un determinato programma genetico sono estremamente contenute (espressività dei geni), per cui in caso di grosse devianze è logico ricercare qualcosa che abbia interferito sulla regola (anomalia=anomos=fuori regola), un qualche agente che ha alterato il meccanismo di costituzione della “norma” naturale, qualcosa che lo ha guastato. Di qui il concetto, tipicamente medico-biologico, di una noxa, tossica, batterica, biochimica, o anche genetica, che è entrata a turbare quel programma di sviluppo tipico di tutti gli individui di quella data specie. Una variazione in campo biologico può essere facilmente definita fuori dalle regole naturali: “anomalia”, che subito richiama una “patologia”; un qualche male (pathos) è intervenuto come causa che ha turbato la regola, ovvero ciò che altrimenti sarebbe stato un organismo individuale sempre identico al
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modello tipico di quella stessa specie. In psicologia abbiamo variazioni delle funzioni mentali enormemente più poliedriche e più complesse, e ogni variazione costituisce la peculiarità di ogni singolo individuo; e ogni variazione, pur diversissima, può essere funzionale, per vie diverse, ai bisogni di un certo sistema mente. In medicina e in biologia, una volta individuata una funzione, c’è semplicemente da stabilire se è adeguata alla norma o se non lo è, giacché quella funzione funziona (appunto) sempre in quella maniera in tutti gli individui della medesima specie. In psicologia, invece, ogni individuo, all’interno della stessa specie, e anche dello stesso gruppo, può avere una funzione diversa e questa diversità non è semplicemente un minus o un plus, ma una vera diversità. Ognuna di queste diversità, anche se di grossi scostamenti dagli standard più comuni, può assolvere, diversamente ed egregiamente, la funzione d’integrazione dell’individuo con la realtà e anche con i suoi simili. Ognuna di queste variazioni funzionali può essere “funzionale” ai bisogni dell’individuo, senza che, per questa variazione, l’individuo sia chiamato “anormale”. Al di là di variazioni estremamente e socialmente salienti (per esempio un oligofrenico grave, o un individuo che si metta a mangiare i propri escrementi, come possono fare certi schizofrenici), è possibile a definire una “anormalità”? Uno studioso abituato ai parametri medico-biologici può sentirsi frastornato quando entra a ragionare di variazioni psicologiche. L’habitus medico ha infatti impresso nella mente di chi deve curare l’automaticità di un criterio primario di discernimento: “normale o patologico?”. E successivamente “se patologico, in che quadro lo inquadro?”. Le funzioni mentali sono numerose, poliedriche e complesse, e ognuna di esse, per una sua strada, può raggiungere un adempimento funzionale; sono, inoltre, distribuite in una curva statistica molto più allargata di quanto non possa essere la curva statistica dei caratteri biologici. Né possiamo individuare l’anomalia in base a un criterio etiopatogenetico: non si tratta di cause (eziologia) che abbiano procurato un “male” (pathos, patogenesi), ma di una “costruzione”, sui generis per ogni singolo individuo. Di qui le difficoltà, per chi ha l’habitus mentale biologico, a capire il differente concetto di norma che deve essere applicato in psicologia. L’adozione di termini identici in psicologia come in medicina corrobora la difficoltà e favorisce confusioni. Per lo psichico si sarebbero dovute adottare terminologie diverse da quelle di “patologia”, “normalità”, “diagnosi”, “malattia” e via dicendo. Ma il destino della parola è andato così, e sembra sintonizzarsi con l’idea medicalista che la psicologia sia parte naturale della medicina: la tradizione dell’antico medico ha giocato in questo senso, cosicché oggi le stesse parole sottendono concetti che sono diversi in psicologia rispetto alla medicina. Le differenze potrebbero essere così riassunte: a) in medicina si fa di solito riferimento a meccanismi predeterminati, in psicologia a costruzioni funzionali individuali; b) in medicina la variabilità statistica individuale è contenuta, in psicologia è molto più ampia; c) in psicologia c’è maggiore difficoltà a individuare e/o definire le singole funzioni, a rilevarle, a misurarle; c’è il problema
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del canale di osservazione, dello strumento (spesso lo stesso strumento umano), quello della teoria, e infine in pieno interviene il problema della relazione osservatore-oggetto osservato (Imbasciati, 1986, vol. 1 Cap. 1.2). La diversità dell’oggetto psicologico determina una profonda diversità di metodi, di criteri e di “modi mentali” con cui un operatore è abituato a ragionare. Di qui una diversità, che può creare incomprensioni. In medicina ci si basa su segni detti “obiettivi”: in psicologia l’obiettività deve essere spesso tarata in funzione dell’osservatore: si può parlare, più che di obiettività, di criteri di obiettivazione o di oggettivazione delle soggettività (Imbasciati, Margiotta, 2005, Cap. 2). Per queste differenze accade che il medico, sull’onda di termini impropri, chieda cos’è che non funziona in un individuo dal punto di vista mentale, avendo in mente, secondo lo spirito congeniale al tipo di scienza sulla quale egli si è formato, la ricerca di un guasto. Ma così non è. Dal panorama delineato, consegue che la norma in psicologia non è uguale per tutti: osserviamo qui allora un’altra diversità, tra l’habitus medico dei medici e quello psicologico. Considerando una norma uguale per tutti, si è portati in primo luogo a considerare “perché l’anomalia? Perché la patologia?” L’habitus dello psicologo deve essere invece così focalizzato: “perché così questo individuo? Perché questa norma?”. La comprensione di una struttura mentale, e della sua possibile eventuale catalogazione come norma, procede allora da una comprensione intrinseca della processualità interiore con cui una struttura si è andata costruendo.
9.3 Quale normalità? Come è possibile allora definire una norma, e per contro qualcosa che possiamo chiamare funzionamento anomalo? Possiamo questo definirlo “cattivo funzionamento”? In altri termini, come può essere definito il disturbo mentale? Cominciando da quest’ultima domanda, possiamo innanzitutto chiederci “disturbo per chi?”. Verrebbe da dire che il disturbo è per il soggetto stesso: ma subito possiamo correre col pensiero a individui che appaiono a tutti disturbati, ma che si sentono del tutto tranquilli nell’essere così; ovvero non vengono affatto disturbati dal loro “disturbo”. Ci sono persone un po’ idiote, che sembrano essere beate nella loro “idiozia”, persone che hanno un perenne tono maniacale ma sembrano, proprio per questo, più contenti di qualsiasi altra persona al mondo, persone che hanno un “carattere impossibile”, ma che si sentono del tutto a posto, criminali o perversi che si credono dalla parte della ragione; e così via. Perché allora parlare di disturbo? Sembra invece che il disturbo sia per gli altri: l’individuo in questione disturba gli altri con il suo funzionamento mentale e quindi con il suo comportamento. Si può allora pensare che gli altri dovrebbero adattarsi, e che ci potrebbe essere una struttura sociale fatta in maniera che l’individuo non rechi disturbo. Di qui tutta una serie di teorie centrate sul sociale. Ci sono alcune culture primitive in cui è stato osservato che gli schizofrenici diventano stregoni e sciamani: dentro quella cultura que-
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sti individui si trovano adattati in un loro ruolo specifico e “non fanno” gli schizofrenici. Sulla base di tale esempio, perché mai si dovrebbe pensare che un tossico sia disturbato: solo perché agli altri dà fastidio che si droghi? Perché invece non organizziamo il sociale in modo da aiutarlo a drogarsi? Si impone qui allora il discorso sulla giustificazione delle regole sociali. Una società che aiuti a drogarsi è giusta o non lo è? Chi fissa i criteri per cui una determinata funzione mentale può acquistare un senso in una determinata società, piuttosto che essere qualificata come anomala? Soltanto se una persona va in giro a uccidere tutti, si potrebbe essere concordi nel dire che qualunque società dovrebbe impedirglielo. Ma per qualsiasi altra anomalia, potremmo pensare a una società che lo permetta. La società azteca contemplava che si facessero sacrifici umani in cui all’individuo vivo veniva aperto il torace ed estratto il cuore, sull’altare di Quetzalcoatl. Culture di questo tipo sembrano integrare persone con tendenze omicide. Ma sono “giuste”? Chi fissa le regole di un entourage sociale per cui una certa funzione psichica può essere accettata e integrata, piuttosto che essere respinta e definita anomalia? Si tratta di definire lo scopo e il valore da attribuire ai singoli funzionamenti psichici nel quadro di una determinata società. Certe funzioni sembrerebbero incontestabili, nel loro valore, eppure... Chi dice per esempio che la funzione mentale che chiamiamo intelligenza debba essere approvata piuttosto che riprovata? Perché non costruiamo una società che assicuri a tutti la sussistenza e una beata vita di idioti? Il criterio che l’intelligenza serva all’uomo, e che sia un valore, è anch’esso un criterio che qualcuno potrebbe contestare. Il disturbo mentale non può dunque essere univocamente riferito alla sofferenza del soggetto, perché c’è chi è contento; e non può essere univocamente riferito al disturbo degli altri perché si può ipotizzare una società che accolga tutto; non può infine essere riferito allo scopo assegnato a una determinata struttura psichica, perché anche scopi e valori si possono contestare. Cos’è allora la normalità psichica? Ci resterebbe soltanto il rilevare statisticamente le varie funzioni mentali e definire soltanto una norma statistica: ma a quale punto stabiliamo la significatività della devianza, per indicare un qualcosa di anomalo rispetto a un qualcosa che chiamiamo normale? Inoltre il normale, che in questo modo verrebbe a essere individuato dal valore medio, viene a essere riferibile a una certa cultura e a un certo momento storico: questo criterio non ci soddisfa. Sono noti gli esempi di persone del tutto al di fuori della norma statistica che, proprio per questo, sono state di grande utilità per la nostra civiltà. Se dovessimo chiamarli casi patologici, ne deriverebbe un implicito incoraggiamento dei valori medi, ovvero un implicito appiattimento di ogni sviluppo. Pensiamo a quante persone di genio sono state, nel corso della storia, condannate e giustiziate come aberranti. Il criterio statistico non è certo soddisfacente. Come definire allora la norma? Dobbiamo rinunciarci? Qualcuno ha pensato di risolvere il problema individuando un numero fisso e limitato di prototipi di personalità, nei quali poter incasellare tutti gli individui ed eventualmente attribuire in modo consensuale un valore di “anormalità”, o di disturbo, ad alcuni di tali prototipi. Sono state così formulate le teorie tipo-
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logiche (Imbasciati, 1986, vol. 1 Cap. 6). Tutte le tipologie rappresentano tentativi di individuare la norma, o le norme, attraverso categorie ritenute fondamentali, nonché di catalogare tutti gli esseri umani in categorie alle quali si possa attribuire un qualche valore diagnostico. Le tipologie, tuttavia, non risolvono il problema della definizione della norma: le varie categorie contemplate possono assumere un valore di riferimento, per raggruppare in qualche modo tutti gli individui in determinati quadri, ovvero possono avere un valore epidemiologico, ancorché di dubbia utilità diagnostica, ma non riescono a individuare una norma che possa essere consensualmente definita tale, né dicono, quando un individuo si discosta da qualunque raggruppamento, se tale devianza debba rivestire un qualche significato rispetto al problema della norma. Si è pensato allora che si potesse definire la norma in base a un criterio totalmente diverso, sia da quello del guasto, sia da quello statistico, che da quello del disturbo per il soggetto, che ancora da quello del disturbo per la società. La norma è stata allora concepita come una processualità di sviluppo interiore ottimale. Per capire il concetto bisogna calarsi in un principio noto agli educatori e ai filosofi. L’individuo umano può sempre migliorarsi, sia che il livello di partenza sia disastroso, sia che sia nella media, sia che vi sia già una grossa dotazione. Questo concetto di miglioramento continuo, come possibilità intrinseca della persona, ha orientato molti studiosi a concepire una normalità del tutto all’opposto di quanto espresso dalla statistica: la normalità sarebbe allora una sorta di armonia generale di tutte le funzioni mentali per cui l’individuo ha la possibilità di crescere e di autosvilupparsi. La norma allora sarebbe il valore ideale a cui un determinato individuo può tendere: un optimum, anziché un valore medio. Questo valore ottimale non sarebbe tanto nei risultati a cui si può giungere, quanto invece, nella qualità del processo interiore. Alcuni psicologi (Lazarus, 1961) hanno collegato tale ottimalità al problema dell’adattamento,1 distinguendo l’adattamento come success rispetto a un adattamento come process. In quest’ultimo caso si vuole indicare l’ottimalità dei processi interiori (cfr. anche Hartmann, 1939). Dobbiamo pertanto accettare il fatto che la norma, in psicologia, non può avere quella definizione semplice che vorremmo darle. La norma è qualcosa che si scontra e che contemporaneamente attinge all’irrepetibilità della singola persona umana. Certamente vi sono casi in cui è proprio tale irrepetibilità che ci pone di fronte a personalità che ci rivelano contemporaneamente sia qualità di sviluppo eccelse, sia aspetti disadattativi, se non addirittura folli: è il caso della contiguità tra genio e follia; è il caso di personalità insigni e creative, soprattutto nel campo della creatività artistica, che pur tuttavia avevano aspetti di palese “anormalità”. Per tali ragioni alcuni autori preferiscono non usare il concetto, e neppure il termine, di normalità, ma valutare, caso per caso la maggiore o minore funzionalità, o disfunzionalità, di una data caratteristica
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Si ricordi che il termine “adattamento”, in senso scientifico, è ben lontano dal significato attribuitogli dal senso comune.
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psichica rispetto all’economia globale di quella persona. Pertanto non normale/anormale, bensì funzionale/disfunzionale. La considerazione biologica dell’uomo, come organismo costituito in un certo modo, è secondaria rispetto alla considerazione dell’essere umano la cui essenza è data dalla sua costituzione psicologica; questa non è condizionata dalla biologia, bensì dalla costruzione di una struttura per progressive acquisizioni esperienziali. La mente, struttura autocostruita progressivamente sull’esperienza, non è omologabile, nei suoi parametri di sviluppo, all’organismo biologico. È struttura complessa, non facile da conoscere, per la quale sono facili le tentazioni di semplicismo da parte delle persone che non hanno sufficiente cultura psicologica. Ultima conclusione, a questo discorso sulla normalità non uguale per tutti, è che l’indagine sul singolo individuo, normale o anormale che si presuma, non è diretta in psicologia, come invece in campo medico, a un intervento specifico sul patologico per poterlo guarire. Normale o anormale che si voglia dire, funzionale o disfunzionale che si riesca a definire, l’intervento non può essere specificatamente diretto alla “patologia”, né tantomeno specifico di una certa categoria “patologica”: cade allora il concetto medico di diagnosi; si deve valutare caso per caso se un qualche intervento possa essere utile e opportuno, e comunque l’intervento non può essere relativo a una diagnosi, ma sempre calibrato sul singolo individuo. Cade anche il concetto di guarigione. D’altra parte un uso del contesto statistico per definire la normalità, e ancor più per decidere un intervento, va considerato con estrema cautela, sia perché snatura l’attribuzione specificamente psicologica di ciò che può essere definito normale, sia perché induce a considerare normale la persona che si adegua a quello che fanno tutti. La riduzione della norma psichica alla norma sociale, o a una norma etica è parimenti discutibile: una tal “norma” infatti viene di solito propugnata e conservata dall’establishment di una certa cultura circoscritta nel tempo e nella geografia. Se riferiamo la normalità a una normatività socio-culturale, normale è colui che si adegua: ma a che cosa si adegua? Si adegua a quella che è la norma imperante, ovvero la norma comandata da chi dirige formalmente o informalmente un certo gruppo, una certa comunità, un certo paese. Dagli studi sociali sappiamo che l’establishment ha una sua grossa inerzia, e oppone una notevole resistenza al cambiamento; l’establishment mira innanzitutto a conservare sé stesso. Di conseguenza, l’establishment di una certa società prescrive sempre la medesima norma e induce la gente ad adeguarvisi. La tradizione culturale stessa funge da establishment. L’innovazione, allora, è “anormale”. Visti tutti i problemi di definizione della norma, difficile si presenta il compito di definire l’anormalità come patologia intesa nella corrente accezione medica. In biologia e in medicina, l’applicabilità del concetto di “guasto”, di “noxa”, che intervengono ad alterare la norma altrimenti voluta dalle leggi genetiche, fa sì che l’anormalità, così definita, possa considerarsi un “male”: chi ne è affetto può dunque chiamarsi “malato” e l’affezione malattia. E poiché tale male provoca sofferenza, un “pathos”, questo lo si ritiene causato dalla
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malattia: dunque la patologia coincide con la considerazione delle malattie, e queste costituiscono l’anormalità. In psicologia questa serie d’identificazioni (anormalità=guasto=male=malattia=patire=patologia) non è possibile, se non in qualche caso e con molti “distinguo”. Per tal ragione si parla, più che di malattia e di patologia intese in senso medico, di sofferenza psichica, di dolore mentale, di turbe e di disturbi psichici. In medicina, un insieme di sintomi costituisce un quadro che di solito è stato sufficientemente studiato e del quale si è conosciuta l’eziologia e la patogenesi e pertanto si hanno indicazioni su specifici rimedi: è questa la “malattia”; altrimenti si parla di sindromi, cioè di sintomi di solito ricorrenti “insieme” (=syn-dromos). Pertanto un quadro nosografìco serve a riconoscere una malattia nota, per la quale, di solito, esiste una terapia specifica. Ecco il senso della diagnosi medica. La nosografia ha senso solo se è in corrispondenza biunivoca con una eziopatogenesi precisa, e/o con una terapia specifica. In psicologia clinica questo non accade: non ha pertanto senso la nosografia. I quadri nosografici della psichiatria sono stati delineati col modello medico, nel presupposto che questo funzionasse: la psicologia clinica li ha messi in crisi. È dunque necessario un altro approccio, diverso da quello medico classico. Di qui una domanda: “il disturbo chi turba?”. Il soggetto? Altri?
9.4 Chi turba il disturbo Ci sono disturbi psicologici di cui una persona si lamenta, dai quali si sente disturbata: fobie, per esempio, ansia continuata, depressione. Ma ci possono essere disturbi, altrettanto e anche più visibili, detti tali da tutti, dei quali tuttavia l’interessato non si lamenta affatto: irascibilità eccessiva, sospettosità invasiva, scontrosità esagerata o altre manifestazioni di carattere; o perversioni, sessuali e non. Ci possono essere persone perverse e crudeli, di una crudeltà o d’una disumanità veramente notevoli, che però possono essere convinte di stare bene (oltre che di essere nel giusto), soprattutto se si sono costruite un entourage di vita che serve a giustificare o ad agire impunemente la loro crudeltà e disumanità. Pensiamo ad alcuni tiranni della storia, per esempio Hitler, o Stalin, o Torquemada, o Ivan il Terribile. Anche la nostra storia quotidiana ci può mostrare casi del genere. Ci può essere una persona che ha raggiunto una posizione di potere, in un’organizzazione di lavoro, o politica, e che esercita questo potere in maniera sadica, contro gli altri, soprattutto con i suoi sottoposti; senza che una tal persona si senta disturbata. Si dice in questo caso che il disturbo è “ego-sintonico”, o sintonico al soggetto. Si dice invece “distonico” un qualcosa di cui la persona si lamenta. Sintonico è dunque un qualcosa che viene integrato nella consapevolezza del soggetto, come appartenente precipuamente al proprio sé e pertanto non viene dal soggetto giudicato anomalo. Distonico è invece qualcosa sentito come alieno, a cui il soggetto sente di soggiacere. Le fobie, di solito, sono distoniche: “non posso andare in ascensore, mi spiace. Non mi spiego il perché, ci soffro, ma non ci posso andare”. Questo
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è un disturbo distonico. Un disturbo sintonico è invece quello, per esempio, di una persona che ha trovato la maniera di esercitare il suo sadismo in una qualche forma istituzionalizzata e pertanto socialmente protetta: in una qualche organizzazione, azienda, ente pubblico, in un sistema politico, e via dicendo; e che però sente il proprio comportamento come perfettamente normale e facente parte della propria identità. L’omosessualità è di solito sintonica: solo pochi omosessuali si sentono disturbati dalla loro omosessualità; la maggior parte si sente sintonica con questo proprio essere: caso mai si sentono disturbati se il contesto sociale li riprova: l’omosessualità può dunque disturbare gli altri. I “disturbi” presi qui a esempio hanno una loro obiettività esterna: sono disturbi obiettivi, ovvero riconosciuti come tali: li possiamo definire “noti”. Ma esiste tutta un’altra specie di disturbi, di cui la gente non si accorge, mentre il soggetto invece li sente, e ci soffre. Ci sono persone che si dicono tribolate, preoccupate, ansiose, insoddisfatte, depresse, agitate, che dicono di sentirsi qualcosa dentro che non va: eppure, di fronte agli altri, sembrano non avere nulla di obiettivo. Cosicché gli altri dicono loro: “Non hai niente! Di che cosa ti lamenti! Cerca di distrarti, non ti far venire ubbìe, fai dello sport. Se non dormi la notte, piglia una pastiglia. Se ti senti infelice, cerca di essere contento”, e via dicendo. All’inverso ci possono essere persone che appaiono agli altri palesemente agitate, ansiose, oppure depresse, mentre negano di esserlo, affermando di star bene e di essere perfettamente a posto. Oppure ancora vi sono persone che lamentano mali fisici, dolori, di fronte ai quali i medici non trovano nessun riscontro obiettivo, che ripetutamente consultano svariati medici, spesso sotto la sensazione di dolori diversi, che sembrano quasi andar in cerca di quel medico che finalmente loro dica che hanno qualcosa. Si chiamano, questi, pazienti ipocondriaci. In realtà costoro soffrono davvero: i dolori che sentono, li sentono davvero, anche se non hanno nessuna malattia che li provochi. Tra queste situazioni e i disturbi funzionali somatici, fino alle vere e proprie situazioni psicosomatiche, c’è tutto un continuum. Dunque disturbi “obiettivi” possono essere noti agli altri e al soggetto, oppure possono essere noti solo agli altri e negati dal soggetto. Parimenti ci sono disturbi soggettivi, lamentati dagli interessati che ne vengono disturbati, eppure non evidenti, non manifesti, non obiettivabili, ovvero non “noti” agli altri. In questi casi si tratta di persone che soffrono; e che non si inventano la sofferenza: soffrono davvero, anche se nulla traspare, tranne la loro comunicazione di questo loro patire, che, di conseguenza, incontra spesso incomprensione. Sotto questo discorso, sui disturbi che disturbano il soggetto, o disturbano gli altri, o che possono disturbare sia il soggetto, sia gli altri, c’è il discusso problema della sofferenza psichica. Per i disturbi obiettivi il problema può essere risolto abbastanza univocamente: se vi sono segni obiettivi, ovvero evidenti, su cui tutti concordano che ci sia un qualcosa di disturbante, vuoi perché dà fastidio a chi assiste, vuoi perché dà fastidio anche al soggetto stesso, si è concordi nel dire che c’è un disturbo mentale. Spesso questo disturbo è riconoscibile come una vera e propria disfunzione rispetto a funzioni normalmente
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Noto o non noto agli altri
espletate dalla maggior parte delle persone. Uno schizofrenico, per esempio, non è capace di fare tutto quello di cui gli altri sono capaci. In questi casi si riconosce una sofferenza psichica: se il soggetto la sente, si parla di sofferenza soggettiva, se il disturbo è sentito solo dagli altri, si riconosce che esiste una sofferenza psichica oggettiva. Se poi il soggetto lamenta qualcosa che agli altri non è evidente, accade che tale soffrire venga spesso negato dagli altri: si ritiene che il soggetto “se lo inventi”, e interviene una posizione volontaristica e coscienzialista che fa trascurare l’importanza, l’entità e la vera natura di una sofferenza soggettiva, realmente esistente, pretendendo che essa possa essere eliminata dal soggetto stesso, purché lo voglia. Possiamo ricapitolare le tre categorie elencate di “disturbi”, disponendoli lungo i due assi dell’esser essi avvertiti, ovvero “noti”, al soggetto piuttosto che agli altri. Otteniamo la seguente tabella a doppia entrata:
Noto o non noto al soggetto SI
NO
SI
Disturbo obiettivo distonico
Disturbo obiettivo sintonico
NO
Disturbo soggettivo distonico
Disturbo inconscio
Nella prima casella, in alto a sinistra) abbiamo il disturbo obiettivo distonico: obiettivo perché giudicato anomalo da tutti, soggetto compreso, il quale lo sente inoltre come condizione di sofferenza a cui soggiace malgrado i propri sforzi e pertanto come qualcosa di estraneo al proprio sé, un “che cosa mi succede!” su cui incombe un giudizio di malattia. Nella seconda casella il disturbo obiettivo sintonico è quello di cui abbiamo fatto l’esempio dello schizofrenico, dell’idiota, del caratteriale, del perverso, del tiranno, per cui il soggetto non si accorge di alcunché di strano, mentre tutti notano un’anomalia. Nella terza casella, in basso a sinstra, abbiamo il disturbo soggettivo distonico, che abbiamo ultimamente descritto: il soggetto soffre, anche intensamente, però nessuno rileva qualcosa che non va, se non per il fatto che il soggetto va a chiedere aiuto. Rimane una quarta casella (in basso a destra), corrispondente a un disturbo non avvertito dal soggetto e non avvertito dagli altri: possiamo affermare che non “esiste” nessun disturbo? Sarebbe semplicistico. Così come in medicina esistono malattie latenti, non ancora manifestatesi né al soggetto, né ad altri, ma attive nell’organismo, altrettanto esistono analoghi disturbi psichici. Le varie tecniche di screening della medicina servono a scoprire malattie latenti: altrettanto è possibile con adeguati strumenti psicologici scoprire disturbi psichici latenti: una sofferenza psichica non avvertita, fino a quel momento, da nessuno. È un disturbo che per il momento “non disturba”, ma è un difetto della struttura costruitasi (cfr. cap. 3) in quel singolo individuo, che per il momento
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non si traduce in nessun evento manifesto, ma che può essere rilevato, indagando nella struttura, appunto, della mente di quel singolo. La Psicologia Clinica ha appunto tra i suoi obiettivi quello di rilevare la “consistenza”, per così dire, la “tenuta”, di certe strutture mentali, ai fini di un’eventuale prevenzione. Ricordiamo che in Psicologia Clinica ci sono strumenti per così dire strumentali cioè costruiti tecnicamente, come per esempio i reattivi (test) mentali, ma il principale strumento è lo stesso psicologo clinico, con le sue competenze e la sua formazione; così come un tempo avveniva per la clinica medica, prima che la tecnologia laboratoristica mettesse in ombra il clinico come persona. Tra gli psicologi clinici, gli psicoanalisti sono quelli che più si sono formati per funzionare essi stessi come strumenti atti a rilevare i disturbi psichici latenti, ovvero il “disturbo inconscio”. Lo psicoanalista, ha modo di osservare se nella funzionalità psichica ci siano anche disturbi che il soggetto non avverte o non avverte ancora; disturbi che impediscono il buon funzionamento della mente del soggetto, che disturbano un miglior sviluppo: disturbi psichici non consapevoli. Su questo si è particolarmente appuntata la psicoanalisi e particolarmente quella degli ultimi decenni, affrontando il problema della cosiddetta sofferenza mentale inconscia. Ma anche tutta la Psicologia Clinica è focalizzata sulla possibilità di individuare strutture psichiche, che non danno sintomi (né al soggetto, né agli altri), ma che indicano un difetto, una disfunzionalità della mente. Lo psicologo clinico, sia usando se stesso come strumento (più o meno sensibile a seconda della formazione ricevuta: vedi a esempio lo psicoanalista come psicologo clinico superspecialistico), sia usando altri strumenti – test mentali, soprattutto quelli “proiettivi” – è in grado di rilevare una patologia silente. Patologia, non nel senso medico – individuare la causa del “guasto” – ma nel quadro che abbiamo tratteggiato della costruzione e del funzionamento della struttura mentale. Non poche persone hanno una struttura, costruitasi per le vicende interiori dell’età perinatale e infantile, che può essere funzionale fino a un certo punto: per esempio fino a che l’età adulta non pone la persona in situazioni stressanti o comunque difficili; o fino a che le vicende di vita – amori, relazioni, convivenze, figli, lavoro – non impongono una maturazione che comporta la messa in gioco di funzioni psichiche fino ad allora non necessarie; o fino a che l’età non impone grossi cambiamenti di vita. Tutte queste persone possono far fronte alle vicende della vita fino a un certo punto: oltre si rivela la disfunzionalità, dovuta a strutture psichiche fino ad allora non impegnate; tale disfunzionalità può essere anche grave: ecco il disturbo non “noto” né al soggetto né agli altri. Ovvia dunque è l’importanza del poter individuare il “disturbo latente” (o inconscio): ai fini della prevenzione; ovvia la necessità di servizi psicologici di screening precoce. C’è dunque un soffrire che non reca sintomi comportamentali, che non porta evidenti anomalie della condotta, che non porta a relazioni interpersonali che disturbino gli altri, ma che pure è indicativo di una sofferenza interna della persona: e però questa persona può non avvertirla. Nella storia dello sviluppo della psicologia clinica, si osservarono dapprima soggetti con disturbi
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distonici, obiettivi e soggettivi: sono questi i pazienti che più facilmente vengono a cercare aiuto. Ma ben presto poterono essere osservati anche casi che venivano a cercare supporto per disturbi obiettivi sintonici: caratteriali per esempio, che ricorrevano all’analista (soprattutto) in quanto la loro condotta, pur essendo sentita “normale” da loro stessi, era dagli altri giudicata anomala e non permetteva pertanto loro un’esistenza (relazioni sociali, lavoro, successo) soddisfacente. In questi casi si osservò come al di sotto del disturbo obiettivo vi fossero disturbi del funzionamento interiore, che comportavano una sofferenza, non avvertita dalla consapevolezza del soggetto: disturbi inconsci, che oltretutto, man mano che l’analisi procedeva, diventavano consapevoli al soggetto, che quindi incominciava a poterne soffrire anche consapevolmente. Ciò avviene anche nella maggior parte delle psicoterapie: la sofferenza, man mano che procede una qualche comprensione di sé, diventa sentita. È questo un presupposto ineliminabile per un cambiamento, per un cimento del paziente, aiutato dal terapeuta nel ristrutturare qualche sua struttura. Si ricordi qui che le psicoterapie, quando hanno effetto, producono un cambiamento del cervello: la costruzione originaria delle reti neurali che sostenevano funzioni rivelatesi disfunzionali, viene modificata. Le tecniche di neuroimaging la possono evidenziare. Ancora si poterono osservare i casi in cui il disturbo mentale era espresso solo somaticamente: i pazienti psicosomatici, e poi anche quelli ipocondriaci, rivelarono la vastità e l’importanza del disturbo mentale inconsapevole. Ancor più il disturbo mentale, inteso come sofferenza inconscia, poté essere studiato quando la psicoanalisi, negli ultimi trent’anni, affrontò il trattamento degli psicotici, soprattutto dei pre-psicotici o comunque di pazienti “gravi”. E infine l’analisi delle persone del tutto normali – quelle che ricorsero all’analisi per intenti solo autoconoscitivi – dimostrò, insieme alla complessità di tutti i processi inconsci nell’elaborazione degli eventi consapevoli e della condotta dell’individuo, l’esistenza di possibili, e anche non indifferenti, disturbi psichici inconsci, che rimanevano senza segnale esterno alcuno, né all’osservazione altrui, né al sentimento cosciente del soggetto. Questo genere di disturbo potrebbe forse essere meglio denominato “difetto”: un difetto della struttura mentale che si rivela solo in certe condizioni di vita, o solo con gli adeguati strumenti psicologici. Denominarlo difetto, anziché disturbo, fa però perdere di vista il fatto che le strutture psichiche che regolano la condotta e la coscienza, cioè le strutture responsabili del manifestarsi di qualche disfunzione, poggiano su altre strutture funzionali che, ben esaminate, più che insufficienti si rivelano irregolari, cioè in qualche modo disturbate rispetto a una loro ottimale funzionalità. Per tale ragione è preferibile conservare la denominazione di disturbo, piuttosto che quella di difetto, anche se di difetto in effetti si tratta. È dunque ingenuo pensare che l’esistenza di un disturbo psichico coincida col suo essere avvertito o notato, dal soggetto e/o dagli altri. Se nessuno avverte nulla, ci può tuttavia essere un “disturbo”, o meglio qualcosa di disfunzionale, ma silente, per il quale vale la pena di intervenire. E comunque si ricordi che un intervento psicoterapeutico, se ben condotto, può essere migliorativo
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anche per quelle persone la cui struttura avrebbe comunque permesso una vita “normale”. La costruzione della mente può essere sempre migliorata: il problema è di una valutazione di opportunità, ma soprattutto di una scelta di una psicoterapia adeguata al caso e, fondamentalmente, ben condotta; il che in Italia non è facile da reperire (cfr. Cap. 13). Spesso i medici restano increduli quando la scienza psicologica li mette di fronte all’esistenza di un disturbo psichico che non è rilevato né dal soggetto, né dagli altri: e talora accusano gli psicologi di voler trovare a tutti i costi la malattia mentale anche nel sano. Tale superficiale opinione deriva dal fatto che l’habitus medico ricorrente non comprende il senso che in psicologia assume quello che essi chiamano “patologia”, e inoltre, seguendo un tradizionale pregiudizio coscienzialista, identifica la sofferenza psichica con i sintomi, cioè con quello di cui l’individuo si accorge. Si crede oltretutto che il soggetto abbia la possibilità di modificarsi volontaristicamente senza necessitare di un aiuto specifico. Di conseguenza molti, in ambito medico, credono che non valga la pena di intervenire se il soggetto “sta bene”, e giudicano strano che con una psicoterapia il paziente possa “sentirsi male”; anzi imputano questo a un effetto iatrogeno della psicoterapia. Eppure anche in medicina ci sono malattie che non vengono rilevate dal paziente, né dai suoi familiari, né talora neppure dal medico, che si rivelano solo se il paziente è sottoposto a un adeguato screening: si pensi ai tumori. Così pure anche in medicina l’intervento può comportare una momentanea maggior pena per il paziente: si pensi alla chirurgia, e in particolare all’intervento chirurgico, per esempio nelle neoplasie, che reca e recherà sofferenza e disagi al soggetto, ma che si rende necessario per evitare un male peggiore. Il problema sta nel comprendere cosa voglia dire “sofferenza mentale” rispetto alla sofferenza fisica, nonché nell’avere un quadro di come funziona la mente e del perché del funzionamento della mente di ogni singolo: il problema cioè della costruzione della mente (Imbasciati, 2006a, b). Anche in medicina ci sono disturbi che rimangono ignoti, se non interviene una specifica tecnica diagnostica a rivelarli: così come psichicamente ci sono disfunzioni che passano inosservate a meno che il soggetto non si sottoponga a un esame psicologico approfondito, cosa che di solito non avviene, se nessuno avverte o lamenta alcunché e se non esistono servizi organizzati di screening. Eppure questi, agli effetti di una prevenzione di maggiori mali mentali conclamati, sarebbero necessari: soprattutto in età evolutiva, provvedendo le famiglie dell’adeguato supporto psicoterapeutico che possa ridurre l’eventuale aggravarsi di una situazione psichica a rischio per i figli. Prevenire, di solito, ha costi minori del curare. Il sanitario, se pur sa bene che in medicina esistono malattie silenti e che la medicina pertanto deve comprendere anche l’igiene e la prevenzione, stenta però spesso ad ammettere l’equivalente per la psiche, e rimane tenacemente attaccato a una concezione esclusivamente sintomatologica del disturbo mentale. L’incredulità, se non l’ironia, con cui talora i medici reagiscono alla rivelazione di disturbi psichici che non hanno alcun sintomo, deve imputarsi a difese, emotive e inconsce, che il medico, così come del resto ogni persona, dispie-
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ga a fronte dell’angoscia che comporta il pensare che il proprio Io è oscuro, e che in esso possono esservi sofferenze e disturbi inconsci, che possono avere un loro nefasto quanto sotterraneo sviluppo senza che il soggetto, da solo, abbia la possibilità di opporvisi. V’è dunque una sofferenza interiore, inconscia, intrinseca almeno in parte di ogni mente: la psicoanalisi degli ultimi anni, sulla scorta dell’opera di Bion sulla genesi del pensiero, parla di “dolore mentale”. La genesi interiore del lavoro elaborativo che comporta il comporre la sensorialità, fisica e intrapsichica, in un’organizzazione, espressiva, relazionale e comportamentale, che consegua un’efficacia operativa sulla realtà, ovvero la genesi del “pensiero” efficace, passa sempre comunque attraverso una situazione interiore per così dire difficile, che Bion ha paragonato al dolore, e pertanto denominato dolore mentale. D’altra parte, in ambito filosofico, si è sempre intuito che il pensare costa sofferenza, maggiore o minore a seconda dei casi. Se tale sofferenza non giunge a una soluzione efficace, per il soggetto, per la sua condotta, o anche soltanto per la possibilità che si costruiscano strutture mentali il meno possibile disfunzionali, si può parlare di patologia. Ma sarebbe meglio parlare di una logía del patire: una comprensione del pathos insito nell’homo in quanto sapiens. La gravità di una sofferenza, ovvero la possibilità che essa sia deleteria, dipende dal destino di tale sofferenza, verso un “anabolismo mentale” piuttosto che verso un “catabolismo psicotico” (Imbasciati, 2006a, b). La sofferenza mentale può evolvere verso un dolore sentito e questo può in alcuni casi essere elaborato come un arricchimento della persona: ma il dolore può anche stroncare, distruggere la persona; soprattutto se più che dolore sentito si tratta di sofferenza latente. L’opportunità di un intervento psicoterapeutico dipende dal giudizio sull’entità e sull’evoluzione di tale catabolismo interno. In tal senso si prospetta una prognosi, rispetto a una diagnosi, la qual diagnosi è tutt’altro che individuazione di un quadro nosografico da riconoscere corrispondente a malattia già studiata; né tanto meno è etichettabile con un nome univoco, come si fa in medicina; il modello medico, che va bene in medicina, non è applicabile in psicologia. Qui invece la diagnosi è una dia-gnósis (cfr. Cap. 10), conoscenza “attraverso” (dia), conoscenza profonda, della qualità e dell’evoluzione dei processi che costituiscono il soffrire inconscio. La patologia psichica diventa allora una “logía” del patire: ovvero un discorso e una valutazione di quanto avviene della sofferenza del sistema-mente; nonché su quanto si può prevedere che avverrà: è questa la pro-gnósis.
Capitolo 10 Psicologia Clinica e cultura medica 10.1 La Psicologia Clinica negli ordinamenti universitari: i settori scientifico-disciplinari: SSD; affinità ed equivoci di denominazione. 10.2 “Clinico” e Psicologia Clinica: origine del termine “clinico” e cambiamento del concetto avvenuto nello sviluppo della medicina; divergenza col concetto rimasto in psicologia; origini della psicologia clinica in Italia; malattia/sindrome; curing/caring; la centratura sul patologico; diagnosi e nosografia. 10.3 Psicologia Clinica in ambito medico: equivoci e fraintendimenti: il ritardo storico nell’introduzione delle Scienze Psicologiche in Medicina e conseguenti misconoscenze nella cultura medica; transitivismo; DSM. 10.4 Quale formazione psicologica in area sanitaria?: inadeguatezza di formazione nei medici e conseguenze nella formazione degli altri operatori; stato di fatto degli insegnamenti psicologici nei corsi di laurea entro le facoltà mediche; Psicologia Medica?; Psicologia Clinica e Psichiatria. 10.5 Categorie mediche in psicologia?: normalità, patologia, diagnosi e terapia nelle equivoche divergenze di concetti e termini. 10.6 Futuri psicologi medicalizzati?: acquiescenza degli psicologi alla cultura biologizzante; “tutto, subito, presto”.
10.1 La Psicologia Clinica negli ordinamenti universitari Nei precedenti capitoli (7 e 9) più volte è stato accennato alla difficoltà che la tradizionale cultura medica ha portato per la comprensione dei concetti riguardanti lo psichico, nonché ai fraintendimenti che derivano dall’uso implicito e creduto scontato dei modelli medici applicati invece alla psiche, e agli equivoci per l’uso di termini creduti univoci in medicina come in psicologia. Su quest’ultimo aspetto qui ci soffermeremo, inquadrandolo negli ordinamenti universitari che delineano il percorso formativo dei medici e, differenziatamente, degli altri operatori, della Sanità e della Salute: le differenziazioni, pur volute e prescritte dal legislatore, trovano appunto negli equivoci terminologici un potente alibi, per cui la carenza di risorse si traduce nella mancata applicazione, di fatto, di percorsi formativi adeguatamente differenziati. La conseguenza è che non solo i modelli medici vengono indebitamente applicati allo psichico da parte dei medici stessi, ma anche da altri operatori, quelli della Salute in particolare, che dovrebbero differenziarsi dallo spirito medicalista, e che invece cadono sotto il grande e autorevole mantello del dottore, vanificando quanto configurato sulla carta dal legislatore. Al centro, o meglio al fuoco (caldo!) di equivoci e difficoltà, si trova proprio la Psicologia Clinica, la cui aggettivazione la apparenta alla medicina e dai medici viene fraintesa come identica a quanto di clinico qui viene a significare. Il clima medicalista, che purtroppo sta permeando anche la mentalità di quegli operatori che dai medici dovrebbero differenziarsi, impedisce l’adeguaA. Imbasciati, La mente medica Che significa “umanizzazione” della medicina? © Springer 2008
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to chiarimento ed estende e potenzia le difficoltà nel realizzare servizi assistenziali idonei e differenziati. Psicologia Clinica è la denominazione ufficiale di un settore scientificodisciplinare (SSD), siglato M PSI 08 negli ordinamenti ministeriali italiani per la classificazione degli insegnamenti universitari. Tale ordinamento, che risale al 2002, ha sistematizzato le migliaia di denominazioni che le varie università avevano usato e tuttora usano per differenziare insegnamenti diversi, istituendo “settori” dei quali una declaratoria descrittiva indica l’area di indagine, l’oggetto, le metodologie di ricerca, i campi di applicazione, la “natura” insomma, in cui denominazioni disciplinari diverse possono essere raggruppate. Il comune denominatore descritto dalla declaratoria stessa serve a evitare (o dovrebbe servire) le confusioni e gli equivoci che possono derivare da un eccessivo numero di non sempre chiare denominazioni. In tal modo il percorso formativo di ogni laurea viene a essere definito in base ai vari settori che vengono stabiliti come essenziali per quella formazione, nonché in base ad altri settori che vengono dichiarati complementarmente utili. Per esempio il corpus della laurea in Medicina e Chirurgia viene a essere determinato da una cinquantina di settori “medici”, da una dozzina di settori “biologici” e da qualche altro settore, tra cui due psicologici considerati essenziali. Nella laurea in Psicologia sono essenziali tutti gli otto settori psicologici (spesso reiterati in modo da distribuirne i contenuti), nonché altri settori ritenuti necessari alla formazione degli psicologi. Per ogni altra laurea se ne definisce il percorso formativo in base a determinati settori: non vi sono però indicazioni nazionali che all’interno del medesimo settore indichino un percorso, di contenuti e metodi, differenziato a seconda della laurea; e le lauree sono ormai numerosissime (cfr. Cap. 7.2). Il problema dovrebbe essere risolto localmente, ma sia i pregiudizi e gli equivoci che stiamo descrivendo, sia ancor più la mancanza di risorse per istituire ruoli, con la conseguente copertura precaria e formale delle discipline attivate (nelle modalità qui descritte), fanno sì che non si differenzino insegnamenti che sono coperti dal titolo di un medesimo settore. Ma anche tra settori si possono generare compromessi in molte università, come vedremo più oltre, sempre a causa della estrema penuria di risorse che funge da potente alibi per perpetuare gli equivoci. Sulla base di questi si offre infatti la possibilità di “tappare i buchi”. Le declaratorie di ogni settore specificano l’oggetto, l’area di indagine, di applicazione, i metodi, gli intenti e gli obiettivi: ciò malgrado si possono presentare contiguità tra settori diversi, ovvero possono essere descritti campi, metodi, oggetti che in parte possono essere ritenuti sovrapponibili. Per questo la siglatura ministeriale ha disposto un ordine sequenziale delle varie sigle: più queste sono elencate vicine, più sono “affini”; così gli otto settori contrassegnati con “M PSI” sono elencati di seguito l’uno all’altro e con una sequenza indicativa delle possibili affinità, tra di loro, nonché con settori circonvicini “non PSI”. Non sempre però le distanze tabellari vengono rispettate: denominazioni disciplinari più o meno tradizionali danno origine ad ambiguità e al non rispetto delle distanze tabellari (per esempio tra Psicologia Clinica e
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Psichiatria). Per ovviare a questo inconveniente gli ordinamenti ministeriali avrebbero prescritto, nei percorsi delle singole lauree, l’indicazione di settori anziché di titoli di singole discipline e la relativa declaratoria avrebbe dovuto servire a indicare il tipo di formazione prescritta e/o prescrivibile per ogni singola laurea. Ma la denominazione del settore si offre agli equivoci: infatti ogni settore accanto alla sigla porta la denominazione di quella disciplina che più correntemente è ritenuta conosciuta per esprimere quell’area. Ma se tale non è ritenuta e riconosciuta, sulla base di equivoci terminologici si possono attuare escamotage. Così il settore M PSI 08 è intitolato “Psicologia Clinica”, ma proprio tale denominazione, sulla base di tradizionali e improprie accezioni del termine “clinico”, viene spesso considerata affine alla Psichiatria, malgrado la grande distanza tabellare: MED 25 e M PSI 08. Così accade per altri settori e discipline. Sempre per ovviare a equivoci e a eccessive variabilità negli ordinamenti delle singole università, per ogni corso di laurea v’è un piano nazionale, cui ogni facoltà deve attenersi, che indica i settori che devono essere attivati, o altri che lo possono, in quella laurea, a discrezione delle singole facoltà. Ciononostante le singole facoltà, pur rispettando il settore, possono al suo interno titolare una disciplina specifica: anche tali titoli, coi loro nomi e l’alone semantico che essi hanno nella cultura generale e anche in quella sanitaria, possono indurre equivoci sui contenuti da impartire. Per esempio una “Psicologia della riabilitazione”, che per declaratoria può essere istituita come SSD M PSI 08, può essere intesa sia come dinamica interiore delle persone che devono adattarsi mentalmente in uno stile di vita che riduca le loro menomazioni, sia come impiego di abilità psicologiche di un qualche riabilitatore per aumentare (talora forzare) la compliance dei pazienti agli esercizi riabilitatori di un certo handicap; e spesso non di altri, a seconda del riabilitatore; il quale può così essere anche un medico (es. fisiatra, ortopedico) e non uno psicologo. C’è infine da notare che il sistema dei “crediti”, coniugato con le cosiddette attività elettive e/o corsi opzionali, lasciati a discrezione delle singole facoltà, può di fatto in talune sedi svuotare i contenuti formativi bene o male descritti nelle declaratorie dei settori prescritti. Ciò può allargare la strada agli equivoci delle denominazioni. Riportiamo qui di seguito la declaratoria del settore M PSI 08: “Settore M PSI 08 Psicologia Clinica. Il settore comprende le competenze relative ai metodi di studio e alle tecniche di intervento che, nei diversi modelli operativi (individuale, relazionale, familiare e di gruppo), caratterizzano le applicazioni cliniche della psicologia a differenti ambiti (persone, gruppi, sistemi) per la soluzione dei loro problemi. Nei campi della salute e della Sanità, del disagio psicologico, degli aspetti psicologici delle psicopatologie (psicosomatiche, sessuologiche, tossicomaniche incluse), dette competenze, estese alla psicofisiologia e alla neuropsicologia clinica, sono volte all’analisi e alla soluzione dei problemi tramite interventi di valutazione, prevenzione, riabilitazione psicologica e psicoterapia”. Come si può dedurre, la declaratoria, e così anche molte altre di altri setto-
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ri, chiarisce fino a un certo punto: i termini, aggettivi e sostantivi, che si usano possono infatti non essere univoci a seconda della cultura in cui si collocano. Le declaratorie di settore, nonché tutto l’ordinamento suddescritto, sono state studiate per ridurre le possibilità di equivoci, tuttavia la cultura scientifica generale e soprattutto la tradizione storica di alcune aree scientifiche, o ancora gli atteggiamenti popolari, possono indurre fraintendimenti, sul piano dell’immagine che si può avere di alcune discipline e anche di alcuni settori. Questo accade più spesso per scienze di più recente costituzione, come per esempio quelle sociologiche, antropologiche o psicologiche. È appunto in questo ultimo campo, nello specifico riferimento alla psicologia clinica, che si verificano, nella prassi, se non nell’applicazione formale della legge, inconvenienti basati su tali “immagini”, che talora in maniera forte ancorché poco esplicitata dominano nella cultura generale, anche a livelli che dovrebbero essere “scientifici”, come quelli dell’ambito medico. Tali immagini concorrono con la penuria di risorse a non istituire i ruoli dovuti.
10.2 “Clinico” e Psicologia Clinica Le radici culturali e metodologiche che hanno costituito la psicologia clinica sono molteplici e possono essere rinvenute a partire dal secolo XVIII e per tutti i secoli XIX e XX (Imbasciati, Margiotta, 2005, 2008), tuttavia la denominazione attuale è più tardiva e risale alla prima metà del secolo XX. In pratica la psicologia clinica è nata prima di esser così battezzata, e anche questo ha contribuito, in questo ultimo mezzo secolo, alla mancanza di chiarezza circa quale sostanza, di modelli, teorie e metodi, dovesse corrispondere alla denominazione, e pertanto identificare la disciplina in modo univoco. In Italia, malgrado la psicologia clinica si sia da decenni configurata come corpo disciplinare specifico (i primi diplomi della prima “Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica” furono erogati nel Luglio 1966 dall’Università Cattolica di Milano), essa è tuttora oggetto di immagine, atteggiamenti, intendimenti diversi, con conseguenti fraintendimenti e controversie, sia sul piano universitario che su quello dei ruoli assistenziali nei Servizi. Di questi inconvenienti ne analizzeremo qui alcuni. In particolare ci soffermeremo su quelli che ricorrono per una diversa immagine che la psicologia clinica assume nella tradizione clinica medica rispetto a quella che si è formata per gli sviluppi scientifici che negli ultimi cento anni hanno sviluppato in altre facoltà questa specifica disciplina (Imbasciati, Margiotta, 2005, Capp. 4 e 5). La divergenza proviene dal fatto che nel progresso medico l’antico concetto di clinico è mutato e dal fatto che la più recente tradizione medica ha ignorato i progressi della psicologia. L’aggettivo “clinico” riferito a “psicologia” ha un significato molto diverso da quanto è oggi riferibile alla medicina. Il termine “clinico” nasce in epoca antica: deriva dal greco kline–, con cui si indicava la posizione sdraiata del malato e il medico chino al suo capezzale. Una tale raffigurazione contiene
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l’essenza del “metodo clinico” e cioè la relazione del medico col paziente: una relazione che, visti gli strumenti e le conoscenze della medicina antica, doveva necessariamente essere personalizzata, prolungata nel tempo, attenta e intima, in una parola “umana”. Tutta la storia di vita di una persona, e l’ambiente in cui si era svolta, lo stesso stile di vita e il contesto familiare dovevano essere conosciuti perché il medico di allora potesse avere qualche indizio per poter in qualche modo curare il paziente. In altri termini, il medico di allora stabiliva col paziente quella che oggi nei servizi psicosociali chiamiamo “presa in carico”: un caring anziché un curing, cioè una relazione individualizzata e uno studio squisitamente longitudinale. Tale caring è oggi praticato (almeno di nome) per le cure che implicano la psiche, mentre la medicina attuale sembra non necessitare più di simile rapporto. Oggi infatti il progresso della biologia, della chimica, delle tecnologie medico-biologiche e della farmacologia hanno reso superflua la relazione interpersonale individualizzata: innumerevoli esami di laboratorio o comunque effettuati attraverso progredite tecnologie biofisiche, permettono di effettuare un’indagine trasversale, non più longitudinale, del paziente, rapida e precisa così da conseguire una chiara diagnosi, alla quale di solito corrisponde una precisa conoscenza dell’eziopatogenesi, e per la quale di conseguenza si ha a disposizione l’idonea terapia, farmacologia, chirurgica, fisica. Per tali ragioni la relazione interpersonale individualizzata si è trovata messa in ombra, in medicina, e di conseguenza è diventato secondario lo studio longitudinale, malgrado oggi da parte di alcuni si cerchi di rivalutarli entrambi. Di fatto però il paziente viene oggi “esaminato” trasversalmente, dai vari specialisti delle varie parti e apparati del corpo. In tal quadro, “clinico” ha perso in medicina l’originario senso dell’antica kline–: il suo significato è mutato, in quanto si riferisce alle cure che la medicina attuale è in grado di erogare e che non necessitano di quel contesto interpersonale lungo e laborioso, intrinseco all’antica kline– affinché questa potesse in qualche modo curare. “Clinico” è diventato così sinonimo di terapeutico nel senso di un curing, transitivo (cfr. Cap. 2) e non più di un caring. Il progresso della medicina giustifica il cambiamento del significato originario di “clinico”: tale significato non può invece che rimanere in psicologia. Qui infatti l’oggetto clinico specifico è il disagio, interiore e comportamentale, di una persona, talora non avvertito né lamentato (cfr. Cap. 9.4), e questo non può che implicare uno studio longitudinale, mediato da una relazione individualizzata prolungata nel tempo. Il significato di “clinico” pertanto si mantiene in psicologia aderente al senso dell’antica kline–, mentre diverge oggi tra questa e la medicina (Imbasciati, Margiotta, 2005, Cap. 2). La diversità delle due accezioni correnti nelle due aree crea così equivoci. Le ragioni della divaricazione hanno un’intrinseca logica. In conseguenza dei progressi medici, con la relativa possibilità di individuare con precisione la malattia (antecedentemente si poteva parlare solo di sindromi) e quindi di avere a disposizione il rimedio specifico, la concezione della clinicità e la stessa accezione di “clinico” sono necessariamente mutate: “clinico” è diventato
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sinonimo di curativo perché la sinonimia trova fondamento nel fatto che a una precisa diagnosi corrisponde una precisa terapia. Il concetto di diagnosi si basa d’altronde sull’individuazione di una “malattia”, in senso proprio, cioè come quadro di deviazioni di parametri corporei dalla norma naturale (cfr. Cap. 9.1), che è stata sufficientemente studiata sì da essere riconoscibile in una sua precisa eziologia e patogenesi: di qui il valore della nosografia diagnostica. A quadri diagnostici di malattie come sopra individuate e conosciute corrispondono quasi sempre precise indicazioni terapeutiche. È questa la “clinica”: in medicina. A incertezze di terapia corrispondono di solito incertezze nell’individuazione della sindrome come precisa malattia, a genesi riconosciuta. Di conseguenza “clinico” in medicina è indissolubilmente e necessariamente legato al concetto di patologia. Ma abbiamo visto (cfr. Cap. 9) come quest’ultimo concetto non possa essere trasposto in psicologia, neanche cambiandone i connotati e il nome. Ne consegue che, quando parliamo di “disturbo” o di “disagio” (cfr. Cap. 9.4), i termini vengono automaticamente fraintesi riferendoli al concetto medico di patologia intesa come alterazione (“guasto”) di una norma e questa, a sua volta, intesa in senso genetico-biologico. Di qui l’equivoco che la psicologia clinica significhi applicazione di qualunque metodo, strumento o comunque nozione alla cura del patologico, inteso questo in senso medico. La centratura sul patologico, intrinseca alla medicina, mette in ombra tutte le applicazioni della psicologia clinica al di fuori dell’ambito medicosanitario. L’equivoco sul termine “patologia” produce inoltre un ulteriore fraintendimento: che patologia implichi diagnosi, anch’essa intesa in senso medico, e che tali parametri siano applicabili anche allo psichico; e ancora che a diagnosi possa conseguire corrispondente specifica terapia. Dunque si suppone che per lo psichico debba esservi una nosografia. Così del resto fanno gli psichiatri: perché mai quello che fanno gli psichiatri non può avere significato psicologico? Gioca qui l’altro equivoco, circa l’intero campo dello psichico frainteso come determinato dal biologico (cfr. concetto di “maturazione”: Cap. 3.1) e non come costruzione individuale di un sistema neurale-mentale irrepetibile. D’altra parte gli stessi psichiatri sembrano dimenticare che la loro nosografia (vedi DSM Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) ha valore epidemiologico, mentre il suo senso diagnostico può essere inteso solo per larghi spettri di terapie farmacologiche, e comunque rispecchia un’aspettativa del futuro, per ora ingenua, che le neuroscienze possano indicare caso per caso, individuo per individuo, su quali zone o molecole del cervello intervenire e con quali specificissimi farmaci. Le attuali etichette diagnostiche della Psichiatria vengono fraintese come fossero “malattie”, mentre esse indicano soltanto gruppi di sindromi. Il fraintendimento è consono ai criteri cui è abituata la mente medica. Da tutti questi slittamenti, coi conseguenti equivoci concettuali, deriva che una qualche “psicologia clinica” che non abbia di mira la patologia, la diagnosi, la terapia specifica è cosa del tutto trascurabile: essa tratterà, casomai, dei “problemi” dell’esistenza umana, ma questi si pensa che possano essere affrontati con la cosiddetta psicologia del senso comune.
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In psicologia non siamo mai di fronte a “malattie”, ma solo ed eventualmente a sindromi (cfr. Cap. 2) e una sindrome può avere infinite variazioni. Ma soprattutto, la psicologia clinica considera una ancor più estesa gamma di situazioni psichiche, o meglio strutture psicologiche, o comunque variazioni comportamentali, che all’occhio profano sembrano da includere nella cosiddetta normalità. In realtà la psicologia clinica si occupa della variegata gamma che va dalla “migliore” normalità fino alle anomalie che vengono considerate patologiche. In questo continuum, l’oggetto specifico della psicologia clinica viene a essere costituito dall’irrepetibilità della struttura psichica del singolo individuo: il concetto di sindrome, già di per sé mutevole, viene ulteriormente inficiato, e il concetto di patologia preso a prestito dalla medicina non può essere trasferito allo psichico. In medicina il concetto è determinato dalla biologia e dalla conoscenza acquisita sulle “malattie”: in psicologia, poiché ogni struttura psichica è irrepetibile (Imbasciati, 2006a, b, 2007a, b, c), la polarità normalità/patologia può, eventualmente, essere ancorata soltanto ai criteri di convivenza sociale e di cultura. L’argomento è stato oggetto di un’ampia letteratura (Imbasciati, 1993; Grasso e coll., 2003; Rossi, 2005). In questa sede torniamo a sottolineare come il trasferimento dei modelli medici dalla Medicina alla psicologia clinica risulti del tutto improprio e pertanto fuorviante (Turchi, Perno 2002). In psicologia clinica va cambiato anche il concetto di diagnosi (cfr. Cap. 9.4), che rimanda a quello di malattia, e quindi alla conoscenza biologica della specifica eziologia e patogenesi, dalla quale trae valore la nosografia. Una tale classificazione non può però esser applicata in campo psicologico, dove non si può parlare né di malattia, né di specifiche eziologie e neppure di normalità: una eventuale anomalia non è dovuta a una causa bensì deriva dalla miriade di circostanze esperienziali che si sono strutturate in quegli apprendimenti che hanno costruito quella singola struttura mentale (cfr. Cap. 6). Per il suo specifico metodo, idoneo allo studio del suo intrinseco oggetto di studio – la soggettività del paziente – la psicologia clinica si costituisce a partire da molteplici e diverse radici scientifico-culturali (Imbasciati, Margiotta, 2005, 2008), che la configurano diversa dalle scienze medico-biologiche. Se non si tengono presenti queste differenze, si ingenerano rischi di molte confusioni: così per esempio il concetto e il termine di psicopatologia sono molto diversi se visti nell’ottica medica (psichiatrica) piuttosto che in quella psicologica (Imbasciati, Margiotta, 2005, Cap. 6). V’è infine un’altra ragione, che contribuisce alla progressiva divaricazione del significato di clinico tra medicina e psicologia. La psicologia che oggi si aggettiva come clinica, occupandosi in prima istanza della gamma intermedia tra la cosiddetta normalità e quanto appare salientemente anomalo, si è trovata a focalizzarsi sulla possibilità che una presa in carico possa sia prevenire il costituirsi di situazioni, relazionali e interiori, anomale (cfr. concetto di disturbo latente: Cap. 9.4), sia migliorare ogni individuo che peraltro appaia “normalmente” adattato. In un settore specifico della medicina, quello della prevenzione, si opera spesso con una presa in carico che adotta modelli simili a quel-
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li della psicologia (Imbasciati, Ghilardi, 1993), come per esempio occupandosi di alcolisti o di tossici, ma di fatto, segnatamente in Italia, si tratta più di una prevenzione delle ricadute, piuttosto che di una rete di servizi che svolgano davvero un supporto psicosociale che migliori gli individui, in vista di una prevenzione intesa alle origini. Di conseguenza anche in questo settore i modelli medici “curativi” prevalgono su quelli di una presa in carico che abbia lo scopo di migliorare le condizioni generali in cui si trovano a svilupparsi le persone. Le carenze di risorse, d’altra parte, costringono l’attenzione degli operatori all’intervento più urgente, quando una qualche anomalia o malattia si sono già manifestate. Si accentua dunque il connotato medico di un curing, che diventa “eccellente” in medicina. Per quanto riguarda invece il miglioramento di persone peraltro etichettabili come “normali”, siamo ancora ben lontani dall’idea che una simile applicazione della psicologia clinica possa essere assimilata dalla cultura sanitaria, integrandola nell’ottica di una prevenzione intesa in senso più proprio e più esteso, nonché nell’ottica della Salute. Anche qui si ha una concezione riduttiva della psicologia clinica, come “correzione di un deficit” e non come “promozione delle persone” (Carli, 2005).
10.3 Psicologia Clinica in ambito medico: equivoci e fraintendimenti Veniamo qui ora all’altra radice storica della progressiva divergenza di significato nell’aggettivo “clinico”, che ha dato origine a molti equivoci, tuttora vivi, tra medici e psicologi. In ambito medico le discipline psicologiche sono state introdotte soltanto da una dozzina d’anni. In antecedenza il piano di studi della laurea in medicina contemplava un unico esame “complementare”, cioè non obbligatorio, di un’unica generica “psicologia”, per il quale, come per tutti i complementari, lo studente prendeva trenta leggendo una cinquantina di pagine: i professori di materie complementari, nella situazione dell’università di allora, dovevano attirare gli studenti per mantenere la loro cattedra, dato che la materia non era obbligatoria. Il risultato era che un laureato in medicina non aveva mai sentito parlare di psicologia, o molto peggio, visto il tipo di esame eventualmente fatto, aveva un’idea quanto mai riduttiva e in fondo mistificatoria di questa area del sapere. Così, generazioni di medici sono cresciute con una grossa misconcezione della psicologia: a queste generazioni appartengono i docenti universitari che modulano attualmente l’orientamento delle facoltà mediche. Di conseguenza ancor oggi una frequente e talora cospicua misconoscenza della psicologia informa lo spirito medico e impera nelle facoltà di medicina. Qui, tutt’oggi, si pensa spesso che la psicologia sia poco più che il buon senso affinato dall’esperienza umana, il savoir faire, o la capacità di persuasione, e che la psicologia clinica sia essenzialmente la suddetta “psicologia” applicata ai pazienti curati per ragioni medico-chirurgiche per i quali i medici
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ravvisino un qualche “problema psicologico”. Ne derivano due conseguenze. La prima è l’idea che la psicologia clinica si esaurisca nell’applicazione di una “qualche” psicologia ai “problemi” che si riscontrano in area medica. Si scotomizzano per esempio tutti i problemi che lo psicologo clinico si trova a trattare fuori dall’area sanitaria, come i problemi di coppia, genitori/figli, separazioni, affidi, adozioni, suicidi, crisi esistenziali e via dicendo. Nonché si ignora che lo psicologo clinico opera sulle istituzioni, i gruppi, la formazione, e che, soprattutto, può occuparsi della prevenzione, anzi della promozione della salute (benessere fisico e psichico: O.M.S.), non semplicemente intervenendo quando emerge “il problema”. C’è cioè a monte l’idea che la psicologia clinica debba trattare essenzialmente “il problema” alla stessa stregua in cui la medicina tratta la malattia. La seconda conseguenza è la considerazione dello psicologo clinico come “un ausiliare” della professione medica: un ausiliare cui delegare le difficoltà che il medico incontra con certi pazienti (forse i più intelligenti? O giustamente esigenti?) e dal quale si aspettano che possa “risolvere il problema” con i tempi che caratterizzano la medicina d’oggi. Tempi, ovviamente, assurdi per una reale psicologia clinica, che i medici, constatandoli, definiscono, un po’ ironicamente, “biblici”. La psicologia clinica è così sentita come facente parte naturale della medicina e dallo psicologo clinico si attendono interventi condotti coi parametri medici e corrispondenti risultati. In conseguenza del ritardo dell’ingresso delle scienze psicologiche nelle facoltà mediche e della tuttora perdurante insufficienza di una loro adeguata realizzazione, sono rimasti in medicina gli stereotipi che si addicevano all’antico medico e all’epoca in cui le scienze psicologiche ancora non esistevano. Si pensa così che la competenza psicologica possa essere acquisita dall’esperienza prolungata di un medico attento e coscienzioso, e in tal modo questi possa diventare “naturalmente” uno psicologo. Non si vuol rinunciare al fatto che questo oggi è soltanto un pio ideale. Ma soprattutto non è considerato a sufficienza il fatto che le scienze psicologiche hanno una loro ben precisa fondazione scientifica, diversa da quella medica, e oggi in continuo sviluppo, cui il medico dovrebbe attingere specificatamente. È proprio un tale “naturale” quanto errato a-priori, che, restando sottinteso, si colloca al di fuori di eventuali confronti e discussioni, e rende le facoltà mediche poco permeabili a un cambiamento positivo. Si affianca così un altro sottinteso: che la psicologia sia un “arte ausiliare” della medicina e lo psicologo un ausiliare (artigianale) del “dottore”. Arte, più che scienza, dunque affidata alla sensibilità del singolo, e ausiliare, dunque subordinata: agli intenti, alle forme, alle tecniche proprie della scienza medica; e agli stessi suoi parametri concettuali. Mentre la declaratoria del settore M PSI 08 recita “applicazioni cliniche della psicologia”, cioè specifiche della psicologia, lo stereotipo che stiamo descrivendo intende l’applicazione della psicologia alla clinica medica: il che è molto diverso. In altri termini il concetto di clinico è rivendicato come esclusivo ambito medico, ignorando quanto esso oggi sia diverso rispetto al passato. Quanto sopra porta a una contraddizione: se l’opera dello psicologo, pur
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richiesta, viene offerta in senso scientifico, confacente ai metodi propri della psicologia, viene spesso criticata, come insoddisfacente in quanto non risponde ai criteri medici attuali: rapidità, efficacia ed evidenza. Né d’altronde essa può essere comunicata secondo i parametri medici: i medici si aspettano una precisa diagnosi cui segua una precisa terapia; né d’altra parte la preconcetta ausiliarità consente allo psicologo di discutere col medico sul piano di una effettiva parità di professioni diverse. Si richiede allo psicologo la diagnosi, intesa in senso medico, pensando che, come accade in medicina, anche in psicologia esistano diagnosi ben definite (eziopatogenesi specifica), con una rispettiva specifica terapia efficace. Se la psicologia è una scienza, dovrà avere – si pensa secondo il modello medico – diagnosi esatta e terapia appropriata. Se non le ha, non è una scienza. Così, ambivalentemente, le scienze psicologiche, ridotte a un’unica psicologia generale (o meglio “in generale”), indistinta da una psicologia clinica, incontra contemporaneamente l’aspettativa di dover essere come le scienze mediche e la squalifica di esser tacciata di ciarlataneria quando ciò non risulti evidente. Non poco gli psichiatri corroborano le suddette mistificazioni: la maggior parte di essi sono i più autorevoli sostenitori (di fatto, anche se a parole sostengono il contrario) dell’inclusione della Psicologia Clinica (spesso sotto altri pseudonimi) come parte della Psichiatria e sovente della sudditanza della prima alla seconda. In tal modo corroborano presso tutti i colleghi medici l’idea che la psicologia clinica faccia parte delle Scienze mediche, e che pertanto debba essere inquadrata nei medesimi parametri. Qualora ciò non risulti, chi paga è lo psicologo, che viene visto come fosse incompetente. Così a lui si richiede la diagnosi, coi vari DSM, intendendo però che tale diagnosi, contro le delucidazioni degli autori dello stesso DSM, abbia il medesimo valore di una diagnosi medica (Spagnoli, 2005), e come tale preveda esattamente il da farsi. L’aggettivo “clinico” viene così dai medici applicato alla psicologia col medesimo significato che ha in medicina: con non pochi inconvenienti, data le divaricazioni descritte. Psicologia Clinica sarebbe allora un’applicazione della psicologia a carattere terapeutico per la cura, anche psicologica, della patologia. Laddove la patologia è intesa in senso medico, con tutti i correlati. Una tale psicologia dovrebbe però essere denominata Clinica Psicologica, e non psicologia clinica, laddove il sostantivo, e la sostanza, cambiano rispetto all’aggettivo. Ma i radicati pregiudizi con le relative misconoscenze continuano a perpetuare l’equivoco, non distinguendo la prima (già abbiamo sottolineato “applicazioni della psicologia alla clinica medica” rispetto a “applicazioni cliniche della psicologia”) dalla seconda: anzi, si gioca proprio su questo, da parte della cultura medica, nell’appropriazione totalizzante di un sapere diverso da quello medico.1
1 Se poi il medico viene posto di fronte a specifici trattamenti psicoterapeutici (cfr. Cap. 13), crede che il tipo di psicoterapia sia specifico di una precisa diagnosi: psicologica!
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Ulteriore equivoco procede dal fatto che la terapia in medicina è essenzialmente transitiva (cfr. Cap. 2): il medico, attivo, “fa” qualcosa (o fa fare) sul paziente, il quale è soggetto passivo dell’azione medica (compliance). L’intervento dello psicologo clinico è invece intersoggettivo (Grasso e coll., 2003). Nasce allora l’equivoco per cui molti medici si aspettano che lo psicologo “faccia qualcosa sul” paziente, prescriva, come il medico, agisca transitivamente (Imbasciati, 1993; Imbasciati, Ghilardi, 1993); il che vuol dire, in fondo, manipolazione psichica. Questa si riduce talora all’idea che lo psicologo agisca “dando buoni consigli”: e che abbia la capacità di indurre il paziente a seguirli. Questo stato di cose, originariamente imputabile alla presenza puramente nominale e alla conseguente mistificazione della psicologia, perdura tuttora nella formazione medica, anche se le scienze psicologiche vi sono state formalmente introdotte. A partire dal 1989 sono stati infatti indicati come essenziali i settori PSI 01 e PSI 08 nel curriculum medico; negli anni successivi sono stati introdotti altri settori nelle varie altre lauree sanitarie. Tale introduzione formale ha però prodotto pochissimi effetti, perché a quanto stabilito dal legislatore sulla carta non è seguita una adeguata applicazione. Con l’anno accademico 1989 fu riformata la Tabella XVIII, cioè l’ordinamento delle materie di studio del Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia: fu introdotta una Psicologia Generale al I Anno, una Psicologia Medica al IV e una psicologia clinica al VI. La riforma, poi ulteriormente aggiustata, non ha a tutt’oggi portato i suoi effetti perché, sia per lo spirito medico, sia per la penuria di risorse, progressivamente sopravvenuta e ingravescente, gli insegnamenti sono stati ricoperti con ruoli specifici del tutto insufficienti e sempre più spesso per vicariazioni di docenti di materie mediche che per le suddette tradizioni vengono considerate affini (esempio ricorrente la Psichiatria, anche se la nomenclatura dei settori la situa a distanza) o comunque “dichiarate” affini. Per quanto poi concerne gli altri settori “PSI”, nelle altre lauree sanitarie, i ruoli sono totalmente ancora da venire. Le discipline attivate vengono affidate precariamente di anno in anno, con modalità e conseguenti effetti del tutto discutibili. Nella generale resistenza al cambiamento tipica delle istituzioni, quelle italiane in particolare, le miscredenze circa la psicologia come sopra descritte si sono coniugate con uno sviluppo, tipico della Facoltà di Medicina, per cui si moltiplicano le cattedre che già sono “forti”: le sopravvenute progressive carenze finanziarie per la copertura dei ruoli hanno fornito perfetta giustificazione e così non sono state istituite le cattedre delle discipline psicologiche che il legislatore pur aveva inserito nei percorsi delle varie lauree. Le riforme sono rimaste in gran parte sulla carta. I ruoli psicologici nelle facoltà mediche sono esilissimi, limitati alla psicologia generale e, non sempre, alla psicologia clinica, mentre gli altri settori scientifico disciplinari che compongono lo spettro delle scienze psicologiche sono completamente assenti. Fisioterapisti, infermieri, educatori, ostetriche, assistenti sanitari, logopedisti, riabilitatori psichiatrici, e tanti altri, nonché i laureati in scienze motorie, sono completamente privi dei ruoli dei vari settori (SSD) psicologici che il legislatore ha previsto
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nei rispettivi curricula. I relativi insegnamenti, prescritti per legge, sono ricoperti per incarico annuale con personale improprio e provvisorio; o “addossati” a docenti che svolgono già il loro specifico ruolo. La situazione formativa è pertanto disastrosa. Quando in una facoltà medica si decide di assegnare una qualche risorsa all’istituzione di una nuova cattedra, la scelta cade su una disciplina medica o biologica, non su una psicologica, anche se quest’area è la più carente. Non esiste in nessuna facoltà medica italiana alcun ruolo di Psicologia dello Sviluppo, o di Psicologia Sociale, o di Psicologia Dinamica, tanto per fare esempi dei SSD che più il legislatore ha voluto introdurre nelle nuove lauree sanitarie. Molte delle quali sono diventate quinquennali, “specialistiche”, come per gli infermieri, per le ostetriche e per altre, e laureeranno pertanto dottori “magistrali”. La percentuale di ruoli psicologici rispetto al numero di discipline psicologiche che figurano attivate sulla carta si aggira in tutta Italia tra 12%. E del resto, purtroppo, la percentuale dei ruoli totali delle facoltà mediche rispetto agli insegnamenti attivati non supera il 5%. Ciò suona a discolpa dei medici, nei confronti degli psicologi: le risorse sono poche ed è giusto che vadano alle fondamentali materie mediche e chirurgiche. Tuttavia tutto questo fa perdurare le misconcezioni descritte e comunque la formazione psicologica, effettiva, che sarebbe necessaria per il medico, e che, pur tanto a parole proclamata, viene in tal modo rimandata.
10.4 Quale formazione psicologica in area sanitaria? Nella situazione che si è creata, logico appare chiedersi chi siano i docenti di discipline psicologiche che vengono in questi modi a trovarsi reclutati, che competenze abbiano, e come possano fungere da formatori per i futuri medici e soprattutto per gli altri operatori sanitari: molti dei quali – non si dimentichi – a loro volta potrebbero diventare i dirigenti che orienteranno la futura organizzazione universitaria, nonché quella dei Servizi. Il problema allora non riguarda solo l’Università ma investe tutte le professionalità alle quali si richiede un operato con competenze psicologiche: se si spera che gli psicologi attingano a una migliore formazione nelle loro facoltà, che succederà invece per tutti quegli operatori sanitari formatisi nelle facoltà mediche con formatori ai quali sono attribuite acquisizioni di competenze psicologiche? C’è da chiedersi quali semi gettino docenti come suddescritti: lo spirito universitario attuale si districherà mai dalle misconcezioni verso il sapere psicologico? Conoscerà mai adeguatamente cosa sono le diverse discipline psicologiche? Potrà apprezzarne il peso per la formazione dei futuri operatori? E questi, se si sono formalmente sentiti investiti di competenze psicologiche, ma le hanno acquisite (si fa per dire) da formatori inidonei (o super occupati), che razza di operato professionale potranno svolgere? (AAVV, 2007). Nella formazione di tutti questi operatori succede, nella migliore delle ipotesi, che un docente di un ruolo psicologico si accolli tre, quattro, cinque e oltre insegnamenti; e li “accorpi”. Ciò vuol dire che fa la stessa lezione a medici così
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come a educatori, o a studenti di scienze motorie. Ci si appella in questo alla declaratoria di settore, ma è un puro alibi, per gli equivoci e per la mancanza di risorse. Se un accorpamento può essere tollerabile per qualche disciplina biologica, per quelle psicologiche dà origine a molti inconvenienti: se si pensa alle diverse esigenze e competenze richieste a figure professionali appositamente differenziate, l’escamotage è del tutto aberrante. Altrove ho discusso sulla necessità di costituire diversificate discipline psicologiche sanitarie (Imbasciati, Margiotta, 2005, cfr. Presentazione e Capp. 5, 6, 14). Oppure si procede a supplenze per materie affini: un docente di Psicologia Generale farà, per esempio, anche la Psicologia Clinica; spesso “accorpando”. Frequentemente uno psichiatra farà Psicologia Clinica: la distanza tabellare dei due Settori non conta, e può anche succedere che un’internista si veda assegnare un insegnamento psicologico, con la “dichiarazione di affinità” deliberata (dura necessità!!) dal Consiglio di Facoltà. E ancora, e più ancora, si ricorre ai “contratti”: professionisti esterni, per esempio un qualunque psicologo può diventare “professore” a contratto annuale. Ovviamente molti di questi psicologi sono felici di diventare di colpo “professore universitario”, anche se sono pagati solo simbolicamente (pressappoco 1.000 euro all’anno!). Quali motivazioni, oltre che competenze, potranno avere questi formatori? Le facoltà garantiscono nei verbali che la competenza c’è. Accertata da chi? Da un medico o da un biologo che valutano uno psicologo? E dove trovano costoro, oberati come sopra,2 il tempo per “valutare”? Ma non è ancora finita: con convenzioni regionali, le facoltà mediche danno contratti non retribuiti ai dipendenti ospedalieri o delle ASL. Quale psicologo, di quale sperduta ASL di campagna, non sarà felice di poter abbandonare un giorno alla settimana il suo posto di lavoro per fare il “professore universitario”? Naturalmente può essere chiamato a insegnare Psicologia Generale, così come indifferentemente Dinamica, Sociale, o Sviluppo, o Lavoro! Le facoltà, messe di fronte alla suddescritta situazione, sono di fatto costrette a negare ogni gravità: i verbali attestano che le competenze per le suddette docenze sono state adeguatamente valutate. La Legge “permette”. Quindici anni fa, quando una qualche valutazione e soprattutto una certa selezione ancora si potevano fare, poiché la sproporzione tra ruoli e precari era agli inizi, con
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Occorre qui ricordare, per chi non è addentro nell’università italiana, che, a parte le situazioni qui descritte per le lauree sanitarie, un docente di ruolo è oberato non semplicemente dagli insegnamenti (ed esami) agli studenti, bensì e molto di più dalla ricerca, sua e dei propri allievi (allievi, non studenti) e dalla gestione amministrativa e politica dei plurimi organismi e delle decine di commissioni istituite nelle facoltà, nonché dalla laboriosa e intrigata”caccia” a qualche finanziamento che, viste le dotazioni ufficiali insufficienti, permetta di completare le ricerche in atto. Tutto ciò comporta che il tempo lavorativo di un docente possa essere a tali attività impiegato fino al 90%; a scapito del tempo dedicabile agli studenti.
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un mio testo (Imbasciati, 1993) avevo denunciato la situazione che si stava aggravando: mi attirai le ire dell’allora preside. Le facoltà mediche hanno un loro specifico orgoglio, con cui devono difendere la loro dignità di “dottori”.3 Ma d’altra parte le Facoltà, una volta che sono attivate le diverse lauree sono obbligate a coprirne tutti gli insegnamenti anche se non hanno le indispensabili risorse finanziarie: non si possono istituire ruoli, coi rispettivi concorsi, perché un professore di ruolo costa duecento volte di più di quanto si dà a un precario come sopra descritto. Ho dovuto accennare alla disastrosa situazione universitaria, peraltro non specifica per gli psicologi, per sottolineare nella fattispecie come le suddescritte aberranti idee sulla psicologia, che nei medici anziani che ora governano le università si sono cristallizzate in decenni di assenza di qualunque informazione al proposito, possono tuttora perdurare, e trasmettersi, sommate agli escamotage che la penuria di risorse oggi costringe ad aggiungere alle precedenti miscredenze. Nessuna meraviglia, allora, per il fatto che le riforme (ben fatte!), che hanno introdotto le scienze psicologiche nei percorsi formativi dei medici e di tutti gli altri dottori che si cominciano a sfornare, siano rimaste sulla carta. E che lo spirito delle facoltà mediche sia tuttora impregnato dei vecchi pregiudizi e dei vecchi stereotipi. Così “clinico” suona ancor oggi all’orecchio dello spirito medico come univoco, ma nel senso attuale che esso ha oggi in medicina, e in quanto univoco si pretende di attribuirlo anche alla psicologia clinica. Perdura poi un’altra serie di equivoci. C’è una malintesa “Psicologia Medica”, identificata con la psicologia clinica e, in virtù dell’aggettivazione medica, creduta attribuibile legittimamente ai medici: si tratta di una psicologia che sarebbe “naturalmente” posseduta dai medici: se praticata da uno psicologo, si pretende da costui che si adegui alla concezione che di questa disciplina hanno i medici, ovvero che debba risolvere i “problemi psicologici” di qualche loro paziente: questi “problemi” sono poi problemi dei medici, di fronte a pazienti che da loro esigerebbero maggior spazio e attenzione di quanto la prassi attuale dei servizi assistenziali comporti e l’organizzazione di essi permetta. A parlare di una Psicologia Medica centrata sull’operatore anziché sul paziente, cioè destinata a formare il medico a competenze che non ha, invece di presupporre che le abbia e le possa esercitare, si sollevano enormi resistenze (Imbasciati, 1993, 2006c), emotive e anche razionali; l’organizzazione, inoltre, di fatto non lo permette. Dal precedente groviglio di malintesi scaturiscono poi conseguenze istitu-
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C’è un meccanismo inconscio, che qui vediamo nel collettivo: l’impotenza (qui la mancanza di risorse) è più intollerabile della colpa, che qui vediamo rivoltata nel sentirsi accusati, così da dover presentare tutte le giustificazioni. Già tale meccanismo lo abbiamo visto a livello individuale parlando del controtransfert dell’operatore di fronte a situazioni di impotenza (Cap. 5).
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zionali, anche legislative, a livello nazionale: si veda la recente istituzione di una Specializzazione in Psicologia Clinica incardinata in Medicina e accomunata in un tronco comune a Neurologia, Neurofisiopatologia, Neuropsichiatria Infantile, Psichiatria. Il “tronco comune” limita inevitabilmente la formazione scientifica che deve essere specifica degli specialisti di Psicologia Clinica, a vantaggio di competenze che sono proprie, invece, delle altre quattro specializzazioni – più propriamente mediche – in cui sfocia il tronco comune. Per tali ragioni gli Ordini degli Psicologi hanno inoltrato alcuni ricorsi, che si stanno alternando con sentenze ora favorevoli ora contraddittorie, alimentando una battaglia giuridica che accende gli animi, da un lato dei fautori delle concezioni medicaliste, dall’altro degli psicologi; ma soprattutto che innesca escamotage, dall’una e dall’altra parte, per eludere le sentenze stesse. Ciò non contribuisce, non solo a una intesa, ma soprattutto a una integrazione che chiarisca le origini della divaricazione e soprattutto i malintesi di differenti tradizioni scientifiche e gli stessi equivoci terminologici. I suddescritti malintesi trovano pertanto molte difficoltà a essere dissipati. Né si prospetta miglior futuro, se la generale situazione universitaria non potrà cambiare.
10.5 Categorie mediche in psicologia? Collegabili all’equivoco di “clinico” permangono dunque molti malintesi: il significato di concetti come normalità/patologia, malattia, diagnosi, terapia, ma anche di psicoterapia, del permanere di un concetto di causalità lineare sotteso a quello di eziologia e patogenesi; e a proposito del termine stesso di paziente: l’ammalato è davvero, come nell’etimo, “colui che patisce”? Oppure è un semplice utente alla cui aspettativa bisogna in qualche modo corrispondere? O, forse, è soltanto un numero di “un letto”? L’argomento è vasto e complesso, e ha dato origine a numerose diatribe (Imbasciati, 1993, 1994; Turchi, Perno, 2002), sull’essenza della psicologia clinica (Imbasciati, 2004, 2005c) e i suoi rapporti con la medicina (Imbasciati, Margiotta, 2005). In psicologia, “clinico” indica essenzialmente un processo di presa in carico che comporta una conoscenza del singolo individuo, nella sua storia e nella sua struttura, che non si può giovare di tipologie (invano tentate nel passato) e che si applica sia al “normale” che al cosiddetto patologico. In questo processo, la relazione che si struttura tra chi conosce e chi è conosciuto assume sempre e comunque un valore di intervento, ma non specifico per una specifica sindrome (supposta “patologia”), bensì rispetto a una ristrutturazione della personalità (Grasso e coll., 2003). Data l’irrepetibilità del singolo, normale o patologico che venga giudicato, il processo di conoscenza, strettamente idiografico, ha tempi ben più lunghi che in medicina e non può prescindere da un personale rapporto intersoggettivo, che si stabilisce tra quel soggetto conosciuto e quell’operatore; ed è il tipo di rapporto intersoggettivo che contemporaneamente funge da conoscenza e da terapia. Ovviamente occorre che l’operatore sia uno psicologo clinico scientificamente formato in modo adeguato.
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L’irrepetibilità della mente del singolo è oggi consolidata dall’irrepetibilità delle funzionalità del singolo cervello, come riconosciuto dalle neuroscienze: solo la macromorfologia del SNC è uguale per tutti, mentre la micromorfologia e la fisiologia vengono a costruirsi in base alla peculiare esperienza differentemente elaborata da ogni singolo. Nessuno ha un cervello uguale a un altro. Voler ridurre l’irrepetibilità a gruppi diagnostici, come nel DSM, può avere valore esclusivamente per un’epidemiologia, ma non per una vera diagnosi; tanto meno per una terapia. Per le suddette ragioni, in psicologia anziché parlare di diagnosi, richiamandosi al senso medico, ho proposto di riferirsi a una dia-gnósis, nel senso etimologico del termine, cioè “conoscenza attraverso” (Imbasciati, Margiotta, 2005, Cap. 5; Imbasciati, Dabrassi, Cena, 2007). Un tal processo potrebbe essere chiamato, se non si vuol ricorrere all’esoterico assessment, “valutazione”, ma il termine potrebbe essere frainteso, in senso pedagogico, o etico-morale, e metterne in ombra l’essenza specifica di una conoscenza individualizzata ed espansa nel tempo, che comporta una relazione e che intrinsecamente contiene una presa in carico; e dunque sempre un’interazione terapeutica: una dia-gnósi che è sempre comunque anche intervento. A rigore, meglio che di intervento, è opportuno parlare di interazione. Una diagnosi in senso medico, trasposta in psicologia, potrebbe essere, al contrario, iatrogena: un’etichetta data all’utente lo illude sulla possibilità di una facile cura, che invece, per essere davvero terapeutica, deve implicare una laboriosa partecipazione attiva dell’utente stesso. L’intervento psicologico non rimanda a tecniche specifiche che agiscano così come agiscono i farmaci, bensì è intrinseco alla relazione, nel bene o nel male. In psicologia si può parlare di terapia, di “cura”, ma in un senso molto diverso che in medicina, e cioè come di una diretta conseguenza a un precedente ma anche concomitante processo di conoscenza: conoscenza “emotiva”, la cui complessità è stata oggetto di vaste ricerche (Imbasciati, 2005c, d, 2006a). Il tipo di tale conoscenza determina la qualità della “cura”, cioè il tipo di effetto che la presa in carico produce nel contesto dell’operatore e dell’utente. In medicina la conoscenza delle malattie è precostituita, nel senso che una precedente gran messe di studi ha individuato le diverse malattie, con relativa eziologia e patogenesi: si può pertanto procedere alla terapia in relazione alla malattia individuata; di qui il valore della diagnosi e della nosografia medicochirurgica. Di conseguenza l’intervento può essere praticato in modo relativamente staccato dal processo diagnostico, una volta che la diagnosi sia stata individuata. In psicologia non hanno valore eventuali tipologie di riferimento che, una volta individuate, indichino il tipo di terapia da seguire: conoscenza e terapia si sovrappongono, in un’infinità di situazioni interpersonali, così come irrepetibile è ogni singolo individuo. In psicologia dia-gnósis, qualità della relazione e possibilità di modulare la situazione o di modificarne la struttura del soggetto sono inscindibili: in medicina la conoscenza di una precisa terapia è correlata a una corrispondente precisa diagnosi, e questo permette di scindere i due processi; e anche l’operato di due operatori diversi. Inoltre nonché il fatto che la terapia sia farmacologia o comunque strumentale determinano la
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transitività (Imbasciati, 1993) dell’operato medico; il medico è il soggetto attivo che agisce, transitivamente, sul suo oggetto, il paziente, che deve rimanere sostanzialmente passivo. Il paziente deve cioè aderire alla prescrizione (compliance) medica. È questa la “cura”. In psicologia occorre tutt’altro tipo di relazione operatore/utente: l’operatore deve “prendersi cura” (l’inglese differenzia to cure da to care) dell’utente e questi è coattore (attivo quindi) del processo terapeutico. Se per il disturbo psichico si attua un rapporto transitivo, questo può essere dannoso per il paziente. Fare “diagnosi” in senso medico, con un nome-etichetta, illude il paziente che ci sarà una cura precisa, per la cui riuscita basterà la sua compiacenza, passiva. Quando in psicologia si verifica questo, come purtroppo avviene, si alimentano stereotipi e false aspettative, e si perpetuano i pregiudizi sopra descritti. L’abitudine a dar valore alla transitività, che è efficace in area medica, non facilita all’utente una prospettiva diversa, e gli ostacola la già difficile accettazione della sua partecipazione attiva – effettivo lavoro – che è intrinseca invece a una cura psicologica. Pertanto si può affermare che un tale approccio al disagio psichico è, se non iatrogeno, per lo meno non terapeutico. A rigore in psicologia non si potrebbe parlare di cura, sensu strictiori, soprattutto operando su soggetti che più o meno rientrano nel range della cosiddetta normalità: ecco qui un altro versante che differenzia la medicina dalla psicologia: la prima opera sulle anomalie riconosciute come “alterazioni” da una norma ben definita, la seconda su “disagi” spesso latenti (cfr. Cap. 9.4) e comunque nell’irrepetibilità di un singolo. Se poi l’obiettivo della psicologia clinica è quello di promuovere la Salute (come indica la definizione di salute dell’OMS), e non semplicemente di ottenere la Sanità, a maggior ragione diagnosi e cura in senso medico sono controproducenti. Fuorviante può essere anche parlare di intervento, giacché tale termine contiene un’azione programmata e preordinata dell’operatore sul paziente, in un’interazione transitiva (Imbasciati, Margiotta, 2005), che vede l’operatore attivo e il soggetto passivo nella compliance: una terapia psichica non può concepirsi come transitiva, tanto meno prescrittiva; essa è sempre un’interazione intersoggettiva. Psicologia clinica significa allora conoscenza della psiche del singolo soggetto attraverso una relazione intersoggettiva, che impegna una “soggettività attrezzata” di un operatore per sviluppare una migliore soggettività dell’utente. Il concetto di “soggettività attrezzata” sottende la specificità della formazione scientifica che si richiede a uno psicologo clinico, con specifici percorsi formativi personalizzati. V’è qui un altro equivoco nella cultura popolare: equiparare psicologo, cioè laureato in psicologia, e psicologo clinico. Uno psicologo clinico non si costruisce con la semplice esperienza professionale di un laureato in psicologia che operi nei servizi. A maggior ragione se la sua operatività terapeutica è intesa a essere in una qualche precisa psicoterapia. Una tale operatività riscontra oggi in Italia un misto di abusi, più o meno legalizzati, e di enorme confusione, sia quando viene praticata da psicologi, sia ancor più quando pretende di essere praticata da altri professionisti, medici inclusi (cfr. Cap. 14).
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Nella situazione attuale italiana, dal punto di vista culturale, scientifico (o pseudo), organizzativo, assistenziale, la Psicologia Clinica è pertanto terra di equivoci e di “invasioni”: altri professionisti, se non forse tutti coloro che si dedicano all’assistenza, pensano di poter fare lo psicologo, e con tal termine intendono lo psicologo clinico. Tutti siamo un po’ psicologi! Evviva! Basta metterci buona volontà, e “sensibilità”! Tal ultima parola comprende e nasconde tutto. E anche in seno ai laureati in psicologia regnano confusioni. Sembra che le contaminazioni che regnano tra i medici si siano propagate anche nelle facoltà di psicologia e nei nuovi psicologi. Molti intendono che una psicologia clinica, per essere scientifica, debba essere essenzialmente (forse soltanto) basata su prove sperimentali: non la sperimentazione sul campo, ma quella in laboratorio. Una malintesa oggettività si tramuta in oggettivismo ed espunge il processo di validazione della soggettività dell’operatore (Imbasciati, Margiotta, 2005, Capp. 1, 6, 22). C’è un dibattito interno attuale, tra psicologi a orientamento biologistico e psicologi che invece valorizzano la soggettività, del paziente e dell’operatore nella reciproca intersoggettività, come strumento principe della psicologia clinica; strumento, ovviamente, che deve essere costruito e tarato in ogni operatore attraverso la sua formazione. Ma una tale formazione viene incrementata? O piuttosto progressivamente mortificata? Si ha spesso l’impressione che l’orientamento biologistico che si sta diffondendo sia una scorciatoia di comodo per evitare una più laboriosa formazione e per accodarsi opportunisticamente all’impero medico e organizzativo-sanitario, evitando confronti, controversie, cambiamenti (Imbasciati, 2008a). Tra un Impact Factor 4 e una deviazione standard, stiamo avviandoci a una psicologia senz’anima? (Figà-Talamanca, 2004; Colucci, 2004; Imbasciati, 2006c).
10.6 Futuri psicologi medicalizzati? Tra gli psicologi, e nelle facoltà di psicologia, si sta verificando a mio avviso un processo di disumanizzazione che colpisce quelle discipline che più dovrebbero entrare in contatto con la soggettività umana; e cioè quelle solitamente comprese nei settori M PSI 04, 05, 07 e soprattutto M PSI 08, ossia la Psicologia Clinica. Il processo sembra sintonico e omologabile con quanto permea le facoltà mediche e forse collegabile con un certo spirito medicalistico straripante dal suo alveo nelle zone altrui, tuttavia vi si possono scorgere ulteriori radici, forse preoccupanti. Si assiste, nelle facoltà di psicologia in questi ultimi anni, a una progressiva, emergente e sommergente attribuzione di valo-
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Il cosiddetto Impact Factor è un coefficiente di valutazione della qualità di una pubblicazione scientifica, che in Italia è stata adottata acriticamente dalle facoltà mediche e poi anche da alcune facoltà di psicologia, agendo come fattore mortificante per molte discipline, tra cui quelle psicologiche, e mistificando come scientifici i criteri commerciali delle biblioteche americane (Molinari, Labella, 2007).
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re alla sperimentazione, o meglio, a quegli studi psicologici che operano in laboratorio, in collegamento con la biologia, la neurologia, la fisiologia, in genere le neuroscienze: si tratta delle discipline definite psicobiologiche e psicofisiologiche; discipline pregevolissime, indispensabili al progresso globale di tutte le scienze psicologiche. Tuttavia questa “emergenza”, al riparo di un’egida di scientificità “pura”, sta mettendo in ombra l’importanza di quelle altre discipline che operano non tanto in laboratorio, ma “sul campo”, e sul vivo delle persone, dei gruppi, delle collettività; la cui ricerca sperimenta, sì, ma nelle condizioni naturali in cui si possono “osservare” gli umani e le loro condotte. Soprattutto tale emergenza svalorizza le discipline che comportano la presa in carico, effettiva e continuata, di persone. Tale “messa in ombra” si traduce in una mortificazione dello sviluppo della psicologia clinica (nonché della psicologia dello sviluppo, della dinamica e della sociale), in quanto le risorse, già magrissime nella situazione universitaria italiana, in conseguenza di una sperequazione di valore vengono convogliate altrove. Questo succede anche tra gli psicologi universitari dei vari settori. Quando le risorse sono poche, è ovvio che vari gruppi se le contendano: in carestia ci si azzuffa. Ovvio anche che ogni settore tiri l’acqua al suo mulino. Quello che sta succedendo è che i docenti di psicologia, che non hanno l’incombenza di una presa in carico di pazienti, di gruppi, di istituzioni, con tutti gli impedimenti (per esempio la scansione dei tempi delle psicoterapie) che l’assistenza comporta, hanno più tempo (e più possono approfittare del tempo giusto) per gettarsi nella zuffa amministrativa a fare valere il loro peso; e ad aggiudicarsi qualche risorsa. Sono questi i responsabili delle discipline psicologiche che più possono essere “laboratoristiche”, e cioè quelle dei settori M PSI 01 (Psicologia Generale), M PSI 02 (Psicometria) e M PSI 03 (Psicobiologia), che fanno la parte del leone rispetto agli altri cinque settori psicologici. Tale prevaricazione, peraltro inevitabile nella estrema penuria delle risorse, contribuisce non solo al mancato sviluppo dei settori prevaricati, ma anche a gettare un’ombra squalificante la scientificità di quest’ultimi: si produce così anche all’interno di questi stessi settori il formarsi di un orientamento che sfavorisce le ricerche centrate sul “vivo” delle persone umane, a svantaggio di ricerche più “asettiche”: e in tal modo opera sotterraneamente uno “snaturamento” della specificità di certe discipline. Proprio questo sta accadendo alla Psicologia Clinica, in collusione con la mentalità medicalista. Le psicologie “laboratoristiche” si appoggiano d’altra parte a una tendenza che sta permeando tutto il mondo scientifico e operativo che si occupa della salute: intervenire con mezzi evidenti, concreti, apprezzati soprattutto dalla maggior parte della gente, e quindi rapidi. Ma sono essi efficaci? L’efficacia degli interventi psicologici dovrebbe essere “dimostrata”, in omaggio al paradigma della evidence based medicine, ma per un improprio trasferimento di modelli dalla medicina alla psicologia, si esige che anche l’intervento psicologico sia a breve termine e traducibile in termini numerici. La medicina basata sull’evidenza mostra spesso dati circoscritti e a breve termine: questo può anche avere valore, ed essere utile, in medicina. Ma in psicologia? Come valu-
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tare in termini numerici? Ma soprattutto, gli esiti di un caring psicologico devono essere visti a lungo termine, e non a breve, come si fa in medicina. In psicologia non esiste “guarigione”, perché non si tratta di eliminare una noxa bensì di ricostruire una struttura psichica: si può parlare, invece, di miglioramento e, eventualmente, di ottimalità. Ma succede che molti psicologi seguano la tendenza medicalistica perché va incontro alle aspettative della maggioranza degli utenti, e rende più facile l’opera, senz’altro più “comoda”. Però alimenta le false aspettative dell’utenza. Le aspettative della gente, d’altra parte, sono create dalla cultura attuale, che coi suoi ritmi competitivi e frenetici e lo sbandieramento dei mass media ha inculcato nella gente l’idea che “la Scienza” oggi possa produrre tecniche adeguate, facili da seguire, senza coinvolgimenti emotivi, per conseguire la fitness: del corpo e così pure, si crede, della mente. C’è l’idea che la scienza oggi può fare tutto, subito, presto. E senza pensare. C’è un circuito vizioso allora, tra cultura attuale, coi suoi stereotipi, media, ritmi di vita, e ricerca scientifica, soprattutto nelle sue applicazioni, con una conseguente idealizzazione selettiva di aspetti parziali, consoni alla cultura stessa. In altri termini c’è una sorta di imperativo collettivo strisciante: “bando alle chiacchiere sugli affetti, l’interiorità umana, il valore della relazione interpersonale! Oggi la Scienza può fornire interventi concreti, evidenti, oggettivi, rapidi, per la salute”. La qual salute, poi, è tutta da intendersi: se sia davvero “salute mentale”, o un assetto mentale consono alla cultura della maggioranza; se la salute sia davvero promossa, o se ci si limiti a intervenire a correggere qualche “stortura”, o qualche deficit più evidente (Carli, 2005). Tutti i suddetti fattori concorrono a far sì che nelle facoltà di Psicologia si stia creando un clima per cui quella psicologia clinica che “vale”, quella davvero “scientifica”, è quella che si avvale del laboratorio, delle neuroscienze, della biologia. Il tutto a scapito di una più globale formazione dei futuri psicologi. Questi infatti escono dalle facoltà con una certa conseguente idea della psicologia clinica: che questa sia, per loro e per altri, quella che più specificamente è denominata psicofisiologia clinica, o più in generale, psicobiologia e neuropsicologia. Qui concorre un ulteriore mistificazione: nelle declaratorie della classificazione ministeriale italiana dei settori scientifico-disciplinari è stata contemplata la denominazione di “Psicofisiologia Clinica” entro il settore M PSI 08, mentre una “Psicofisiologia” tout court è contemplata nel settore M PSI 02. Qui una psicofisiologia ha il suo senso; ma una sua aggettivazione di “clinica”, inserita nello PSI 08, si presta a colludere con quel concetto medicalistico di “clinico” che qui abbiamo criticato, e che riteniamo nuocere a uno sviluppo autonomo della psicologia clinica; non solo rispetto alle scienze mediche ma anche alle altre scienze psicologiche. L’inclusione della suddetta denominazione (forse voluta?) all’interno della declaratoria di quanto burocraticamente è definito psicologia clinica, ha prodotto sia un travaso di docenti dai settori M PSI 01 e M PSI 02 nel settore M PSI 08, sia in conseguenza un grosso irrobustimento di quell’atteggiamento, qui esaminato, per cui si proclama che solo una psicologia clinica dipendente dalle neuroscienze sia quella davvero scientifica: gli altri approcci sono disprezzati e le loro metodologie negate.
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Questi e quelle, in realtà, sono soltanto più difficili da conseguire. E sono pochi quelli che davvero li conseguono; mentre chi afferma un po’ presuntuosamente di averli conseguiti (e non sono pochi!) si presta poi ad essere criticato e quindi diventa carta vincente nelle mani degli “psicobiologi”. Tutte queste dinamiche collettive avvengono – qui è il tragico – in perfetta buona fede di chi le propugna. Questa buona fede può spesso produrre un’intolleranza verso orientamenti e metodi diversi. Così anche all’interno del settore M PSI 08 stanno avvenendo prevaricazioni. In alcune facoltà sta accadendo che per spartire le magre risorse si assegnino punteggi alle produzioni scientifiche secondo criteri stabiliti da apposite commissioni: questi punteggi determinano se una certa cattedra ha un minimo di fondi per proseguire alla meno peggio la ricerca, oppure se si deve rinunciare. Ma queste commissioni sono formate da docenti che, per le ragioni sovraesposte, più propugnano un orientamento biologistico della psicologia clinica. Il risultato è che le cattedre di altro orientamento vengono a languire, che la loro produttività viene mortificata; se non condannata a morire. Può così per esempio accadere che un breve articolo di impronta psicobiologica pubblicato su rivista ad alto impact factor valga dieci volte un buon volume di un’“altra” psicologia clinica. Il discorso, allora, che nei precedenti paragrafi è stato svolto nell’intento di svincolare la psicologia clinica dall’asservimento ai parametri delle scienze mediche, sta trovando molte difficoltà. Se tra gli psicologi, e nelle facoltà di psicologia, la scientificità è intesa in un certo modo qual descritto, consequenziale è che il concetto di clinico, in psicologia, sia omologato a quello che si ha nelle scienze mediche. Di conserva vanno altre omologazioni di altri concetti: normalità/patologia; malattia; diagnosi; terapia e via dicendo. Come potremmo allora “demedicalizzare” i relativi servizi? E quale “umanizzazione della medicina” si potrà ottenere? Sulla carta? Con le belle parole? Sarà semplificato, superficializzato fino a snaturarlo, anche il concetto di relazione interpersonale nel rapporto terapeutico: medico/paziente? Infermiere/paziente? Psicoterapeuta/paziente? Quale “contatto”? Si dirà che basta parlare, dire le cose giuste al paziente perché questi si chiarisca le idee, che basta istruirlo, pedagogizzarlo, prescrivergli il rimedio giusto (cfr. CNV: Capp. 5.3; 11.1). E se poi il paziente non farà quel che al terapeuta è apparso chiaro ed è stato esplicitato? E che il paziente stesso ha dichiarato appropriato? Se questo paziente si troverà a dire “non faccio quel che voglio, ma mi ritrovo a fare quel che non volevo”?5 Si interverrà allora, forse, farmacologicamente nei casi in cui la forza degli affetti e delle emozioni non è stata debellata dai chiarimenti sulle strategie cognitive interne. Mi auguro che un siffatto eventuale successo sia a lungo termine. Ma non è facile crederlo. Il cortocircuito rischia allora di chiudersi. Quali psicologi avremo in futuro?
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Potremmo citare S. Paolo, e S. Agostino.
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Avremo psicologi con la mentalità che riceveranno dal tipo di formazione ricevuta. Questa dipenderà dal tipo di docenti che gli psicologi avranno avuto, da cosa tali docenti avranno spiegato come “importante”, e da cosa essi avranno omesso di far conoscere ai loro allievi. Quali psicologi clinici, in particolare, si prospettano? Il discorso universitario si ripercuote, con effetti a lungo termine, nella formazione degli psicologi professionisti (Imbasciati, 2005d). E questi “faranno opinione” nell’utenza. Il rischio di perpetuare le vecchie e più comode credenze non è esiguo. Per ovviare a questi rischi è stato istituito e opera un “Collegio dei Professori Universitari e dei Ricercatori di Psicologia Clinica delle Università Italiane”, organismo giuridicamente riconosciuto, il cui intento, come dettagliato nello stralcio dello Statuto riportato in Appendice 1, vuol preservare la specificità di quanto, in questo testo e in molta altra letteratura, è stato descritto precipuo di una psicologia clinica correttamente intesa. Ma altri e forse più inquietanti interrogativi si pongono per la professione di tutti quegli altri operatori laureati dalle ventidue lauree (alcune specialistiche) che sono state attivate nell’alveo delle facoltà mediche: qui a tutti i suesposti fattori, sta aggiungendosi quello inerente alla precarietà, alla dubbia competenza e alla falsa motivazione dei docenti reclutati. C’è qui il rischio di una formazione psicologica inadeguata che favorisca l’illusione di molti di questi operatori di poter fare, non un lavoro che richiede certe competenze psicologiche, ma il lavoro stesso dello psicologo: dello psicologo clinico in particolare (clinico come sopra?) o peggio quello dello psicoterapeuta (cfr. Cap. 14). Già è stato detto quanto potentemente nell’animo umano agisca l’illusione di “saper fare lo psicologo”: psicologo degli altri per dimenticare che non siamo per nulla psicologi di noi stessi. Fornari (1978) parlava dell’inconscia tendenza a “l’esportazione del male”. Una formazione distorta impedirà a tutti questi operatori di avere coscienza dei propri limiti, e ancor più di prendere coscienza delle proprie più o meno nevrotiche velleità.
Capitolo 11 Le capacità relazionali 11.1 La buona relazione: relazione, comunicazione non verbale, psicosomatica; la relazione come terapia somatica. 11.2 Formazione delle capacità relazionali: acquisibile? Quali percorsi? Controindicazioni per le persone alessitimiche; percorsi formativi gruppali; controllo qualità del “prodotto salute”. 11.3 Formazione permanente: organizzazione del lavoro e Istituzione come disincentivi all’applicabilità delle capacità relazionali.
11.1 La buona relazione È nozione risaputa e da alcuni lustri proclamata che il medico, e con lui tutti gli altri operatori della sanità, devono avere e applicare buone capacità relazionali. È la disponibilità, il contatto, l’empatia che fa il buon medico e che è alla base del medicus ipse farmacum già citato, con la sua azione terapeutica piuttosto che iatrogena. È questa la dote che si sviluppava nella pratica professionale dei medici fino a cinquanta-ottanta anni fa e che decretava il loro successo: non semplicemente perché così si conquistavano i clienti, ma anche perché in tal modo le cure erano davvero più efficaci. Oggi sappiamo quanto tale efficacia poggi sulla regolazione psicosomatica. Quanto vale, o valeva, per il medico, oggi ancor più vale per gli altri operatori sanitari: l’infermiere in particolare, che sta a contatto col malato molto più del medico; ma anche gli altri operatori, per i quali oggi sempre più si delinea uno sviluppo di competenze relazionali (sono tutti laureati), per l’assistenza (si pensi al fisioterapista, all’ostetrica, ai vari tipi di riabilitatori), per la prevenzione (si pensi all’educatore professionale o al laureato in Scienze Motorie). Tali competenze implicano un intenso e continuato rapporto con l’utente, molto più operativo di quanto oggi sia necessario per il medico: se si vuole che tale operato sia efficace, deve esserci la “buona relazione”. Ma in che cosa consiste? È possibile definirla scientificamente, al di là dei luoghi comuni? Quale è la sua efficacia e per quali vie essa è davvero efficace? Come si consegue la capacità di stabilirla, cioè come si consegue la “competenza interpersonale” di cui tanto spesso si parla? E, se acquisita, in che condizioni può o non può essere esplicata? Cercheremo di rispondere a questi interrogativi. Si dice comunemente che una relazione poggia su fattori affettivo-emotivi di due o più persone che “si mettono in relazione”. Questo modo di dire è onniA. Imbasciati, La mente medica Che significa “umanizzazione” della medicina? © Springer 2008
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comprensivo, se non del tutto generico. Mettersi in relazione implica sempre qualcosa di comunicativo, ma cosa? E come? Gli affetti non sono una sostanza che si espande per natura, né le emozioni altrettanto lo sono. Ciò che noi chiamiamo affetti è un’etichetta piuttosto generica che mettiamo su certi processi mentali, che avvengono in tutte le persone in maniera quasi totalmente automatica e inconsapevole, e che si animano soprattutto quando le persone si mettono in relazione, cioè quando hanno contatti, rapporti, interazioni per qualsiasi ragione e in qualsiasi modo. Ciò che costruisce la relazione è una reciproca comunicazione, che si può configurare come dialogo, ma non di parole. Occorre pertanto enucleare con maggior precisione in che cosa esso consista. I messaggi che compongono ciò che con etichetta di comodo chiamiamo dialogo affettivo, possono essere scientificamente e sperimentalmente analizzati come insiemi di unità comunicazionali, mediate sensorialmente nella comunicazione non verbale. Del resto la struttura affettivo-emotiva è una struttura funzionale della mente costruitasi nella prima infanzia sulla base a sua volta di comunicazioni non verbali, automatiche e non consapevoli, tra il bimbo e chi si è occupato di lui1. Sono proprio le comunicazioni non verbali che riflettono la struttura profonda, non consapevole delle persone, ed è questa alla base di sintonie, simpatie, antipatie, intese o distanziazioni. Nella comunicazione non verbale, a livello sperimentale, possiamo isolare le unità comunicative, che viaggiano sui canali visivi, sui canali sonori, sui canali olfattivi, sui canali tattili-propriocettivi, vestibolari, motori e via dicendo (cfr. Cap. 5.3). A livello dell’esperienza soggettiva, tali unità comunicative non sono individuabili: il soggetto non è consapevole di quali messaggi stia emettendo o stia decodificando: li emette in funzione della sua struttura affettiva profonda. D’altra parte, come ricevente, legge messaggi, non verbali anch’essi, in modo assai poco consapevole e senz’altro in maniera automatica, in funzione di una sua struttura, profonda e inconsapevole, di lettura di questo tipo di comunicazione (cfr. Cap. 6). Quanto sopra interessa qualsiasi relazione. Nelle relazioni più strette (sposi, fidanzati, genitori, figli, fratelli, sorelle, amici intimi) questi aspetti di comunicazione saltano più all’occhio: sembrerebbe invece che nelle relazioni meno intime, quale può essere una relazione professionale, questo tipo di messaggi e questo modo di costruire una relazione possa essere irrilevante. In realtà è proprio questo tipo di comunicazione che può avere incidenza psicosomatica. Così come la struttura psicosomatica di un individuo si costruì nella prima infanzia sulla base della comunicazione non verbale col caregiver (cfr. Cap. 8), in altrettanto modo essa risponde, nell’adulto, ai messaggi non verbali che costituiscono la comunicazione che scorre in una relazione, e che ne può qualificare la
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In questo contesto rammentiamo l’importanza dell’acquisizione delle capacità autoriflessive (metacognizione), apprese dal caregiver; e come una loro deficienza provochi quella dimensione che è stata chiamata alessitimia (cfr. Cap. 8.3), grande handicap per la possibilità di una persona di entrare veramente in relazione con gli altri.
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“bontà”; e con questa il suo effetto terapeutico piuttosto che iatrogeno. La buona relazione in ambito sanitario non costituisce pertanto un semplice surplus per i pazienti, come a volte a torto nel senso comune si crede: si pensa che basti che il paziente sia curato tecnicamente in modo adeguato, mentre la buona relazione è considerata qualcosa di accessorio, per la soddisfazione dell’utenza. Spesso di fronte alle mille carenze della sanità si sente dire, anche da vertici dirigenziali, che, prima di pensare alla buona relazione c’è da risolvere i problemi “pratici”: dei letti, delle apparecchiature e via dicendo. Questo ragionamento, pur valido, misconosce quanto la relazione incida psicosomaticamente. Tutti i processi organici, da quelli più facilmente comprensibili come le secrezioni e la motilità viscerale, a quelli più complessi come la riproduzione cellulare e il suo turnover o i processi immunitari, tutti dipendono da comandi che ricevono dal cervello. Questi comandi non sono prefissati per il fatto che il cervello dell’Homo sapiens ha certe caratteristiche genetiche, ma sono in funzione di ciò che il cervello ha acquisito nella sua strutturazione lungo l’esperienza, soprattutto infantile, di quel soggetto e come questa struttura interagisce nella comunicazione (non verbale) che costituisce la relazione con gli operatori sanitari. Pertanto i comandi che il cervello manda al soma sono in funzione di ciò che il cervello di quel soggetto ha imparato a fare quando si trova nel contesto comunicazionale di una specifica relazione. La mente è l’insieme delle funzioni che si svolgono nella rete neuronale e che si traducono in output (cfr. Fig. 8.4), in questo caso verso il soma, oltre che in output verso la condotta del soggetto, il suo comportamento e talora la sua consapevolezza. La regolazione del soma a opera della struttura psicosomatica neurale può dunque essere favorevole o sfavorevole al paziente, a seconda di come questi dialoga nella relazione (CNV) con gli operatori. La relazione è dunque costruita dall’insieme delle comunicazioni (affettive) che viaggiano per vie non verbali e che hanno la possibilità di incidere sull’equilibrio psicosomatico dell’individuo. Ben si comprende allora come la “qualità” della relazione abbia importanza per gli operatori della sanità: ancor più per gli operatori della salute (ricordiamo la differenza sanità/salute), che operano, per esempio, nel campo della prevenzione. Occorre allora che in ambito sanitario venga curata la possibilità che le relazioni con l’utente siano “buone”: una tal “cura” non è meno necessaria di tante norme igieniche e apparecchiature che giustamente vengono provvedute nei servizi. La “buona relazione” non è semplicemente lusso per dare soddisfazione ai pazienti, ma una profilassi terapeutica e una terapia essa stessa.
11.2 Formazione delle capacità relazionali Veniamo ora a un altro interrogativo sopra enunciati. Visto che la buona relazione è costituita da processi mentali e comunicazionali automatizzati e nella maggior parte inconsapevoli, e che tutto ciò dipende dalla struttura affettiva profonda dell’operatore, nonché dal fatto che certi deficit di questa (alessiti-
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mia) rendono assai difficile, se non impossibile, la buona comunicazione, come è possibile che un operatore possa sviluppare al meglio le sue capacità comunicazionali-relazionali? E come potrà egli fare, se la sua struttura è tendenzialmente alessitimica? Ovvero, come si possono acquisire le “buone” competenze relazionali, visto che coscienza e buona volontà ben poco vi incidono? Una competenza interpersonale tecnicamente acquisibile con addestramento ed esperienza basta a conferire la capacità di quella relazione che può avere effetti psicosomatici? Abbiamo premesso in questo testo elementari nozioni su come si originano e si sviluppano le strutture funzionali che costituiscono la mente (cfr. Cap. 3), in particolare in quei funzionamenti che costituiscono l’affettività profonda e inconsapevole (cfr. Cap. 6), nonché i limiti, le illusioni e gli inganni che caratterizzano la nostra capacità di coscienza (cfr. Cap. 4) e infine la complessità della comunicazione interpersonale (cfr. Cap. 5): abbiamo appositamente adottato questa sequenza di premesse per sfatare le superficiali e semplicistiche idee che circolano nella cultura sanitaria a proposito di relazione, competenza relazionale, competenza interpersonale (Imbasciati, Margiotta, 2005, Cap. 7.7; Imbasciati, Margiotta, 2008). Si pensa infatti (nella cultura comune ma anche in quella sanitaria) che tali qualità, in realtà intessute nell’irrepetibilità del singolo, possano essere acquisite da tutti, con l’impegno, la buona volontà, l’esperienza. E si pensa all’esperienza come qualcosa che si immette dentro la mente come insieme di nozioni, acquisibili alla stregua in cui si apprende a far funzionare una macchina. Parallelamente si pensa che la comunicazione possa ridursi a quanto veicolato dalla verbalità: come tale imparabile come si imparano altre “nozioni”. Questa versione estremamente riduttivistica della relazione e della capacità di esercitarla nell’intento di una professione di aiuto, come quelle di cui qui si descrive, fa sì che di relazione si parli a sproposito e di fronte a evidenti deficit di essa se ne addossi la colpa alla responsabilità professionale del singolo, che avrebbe dovuto prevenirne gli inconvenienti rilevati. Avrebbe “dovuto”: si riduce la questione dell’etica, alla volontà e alla coscienza; con il sottinteso che “avrebbe potuto”, cioè con l’illusione che, reputando la capacità relazionale cosa semplice, cosciente e volontaria, essa avrebbe dovuto dirsi acquisita e avrebbe potuto essere esercitata. Non ci si pone il problema di come avrebbe potuto essere conseguita. Di fronte a tali semplicismi, parlare di relazione diventa mera chiacchiera. Se non si vuole che questa impregni la pseudopsicologia che fa comodo mantenere nei servizi, occorrerà porre la questione scientificamente. Le scienze psicologiche hanno studiato la complessità delle relazioni, e ancor più quella che caratterizza la qualità che fa diventare la relazione psicosomaticamente terapeutica: esse dunque possono offrirci anche gli strumenti per conseguirla. Se essa è richiesta per le professioni d’aiuto, occorre individuare i percorsi formativi che possono essere praticati con possibilità di effettivo successo per tale acquisizione. Non si può ridurre la buona relazione alla semplice quanto doverosa attenzione al paziente, né alla altrettanto doverosa sua informazione, come purtroppo si vede spesso nella pratica.
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Regna a tal proposito negli ambienti sanitari una scarsa conoscenza e una scarsa considerazione, se non talora diffidenza. A nostro avviso essa è dovuta alla mentalità medicalistica che si è venuta a creare in quest’ultimo mezzo secolo, a seguito del progresso della medicina, che però ha snaturato il rapporto medico-paziente e inficiato la formazione relazionale degli altri operatori; così come abbiamo ampiamente e ripetutamente descritto (cfr. Capp. 2, 7, 9, 10). Se tale “spirito neomedico” può in fondo risultare meno importante per il medico di oggi e per quello che sarà, non lo è affatto per le altre professioni sanitarie, che col loro sviluppo dovrebbero, a differente titolo a seconda delle varie lauree, dispiegare in pieno la capacità relazionale come strumento essenziale, se non forse principe, della loro professione. Qui infatti attualmente si rivela un’influenza nefasta del modello medico sulle altre professioni, che a esso soggiacciono senza che per ora se ne possano emancipare. In questo quadro si parla di demedicalizzare le professioni che, pur nate dalla matrice medica, se ne devono differenziare ed emancipare: una tale prospettiva non si presenta per ora facile, in Italia, viste le enormi carenze di risorse in cui versa l’università e la conseguente impossibilità di provvedere a percorsi differenziati e idonei, con docenti e formatori specifici, non presi a precario prestito dai ruoli del corso di laurea in medicina, o peggio in altro modo (Imbasciati, 2005c; Imbasciati, Margiotta, 2008). Stante che le capacità relazionali, vista la loro origine nella mente individuale, costituiscono un bagaglio posseduto in misura variabile da ogni singola persona, in funzione della struttura profonda di base che venne a costruirsi nella propria infanzia, vi sono strumenti per poterla migliorare anche in età adulta? Gli strumenti esistono, ma occorre una preliminare, forse dolorosa constatazione circa le condizioni in cui ciò può essere praticato. È infatti necessario che il bagaglio iniziale di questa capacità, quello cioè inerente alla struttura mentale del singolo, sia al di sopra di una certa soglia: soggetti alessitimici non possono dedicarsi alle professioni d’aiuto. Occorrerà allora una selezione in partenza dei futuri professionisti: tale selezione presenterà enormi difficoltà a essere accettata sia dal punto di vista burocratico-amministrativo, sia dagli interessati stessi. Si tratta infatti di misurare una dimensione emotiva e non le consuete dimensioni cognitivo-nozionistiche. Gli strumenti scientificamente validi per tale misura esistono, ma per tutta la tradizionale mentalità più volte descritta, sia il criterio, sia gli strumenti non saranno facilmente accettati. Inoltre coloro che potrebbero accettare i suddetti criteri e a livello organizzativo applicare una conseguente selezione, potrebbero diffidare, forse, a ragione, di quegli psicologi che di solito a prezzo bassissimo per ragioni economiche vengono reclutati per queste selezioni; del cui setting operativo c’è da dubitare. Ulteriore, non semplice condizione è costituita dal fatto che l’investimento necessario affinché i soggetti idonei possano conseguire, con gli appositi strumenti, un incremento delle loro capacità relazionali, non sarà facilmente capito, in termini di vantaggi a lungo termine, dai responsabili delle organizzazioni formative. V’è infine un’altra dolorosa realtà: anche quando per soggetti idonei potesse essere conseguita una formazione tale da veder incrementata la loro
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capacità relazionale, tale competenza potrebbe essere vanificata lungo l’esercizio professionale in quanto l’organizzazione del lavoro la mortifica o addirittura la impedisce. Entriamo qui negli altri interrogativi enunciati agli inizi, che meglio vedremo più oltre, nonché nel prossimo capitolo. Per acquisire ed esercitare una sufficientemente buona capacità relazionale, non c’è da contare soltanto sulla dotazione di base, di personalità, di ogni singolo operatore: vi sono metodi di formazione che possono coltivare la capacità relazionale di base, aumentando la consapevolezza della comunicazione non verbale e, dunque, la consapevolezza del significato delle relazioni. Questi percorsi formativi vanno a cogliere le strutture affettivo-emotive degli operatori, per aumentare la conoscenza di se stessi e le proprie capacità di coscienza. I più applicati sono costituiti da training personali, praticati di solito in gruppo. Le prime formazioni di questo tipo furono sperimentate dai coniugi Balint, ormai cinquant’anni fa: tutti hanno sentito parlare di “gruppi balint”. Sono strumenti formativi in cui un gruppo di operatori, ben motivati, si riunisce regolarmente, con un esperto conduttore, a cadenza fissa, regolare, settimanale, qualche volta bisettimanale, andando avanti per un anno, due, tre, sempre con gli stessi partecipanti; per cui è importante il problema di selezionare chi davvero ci vuole andare, per non avere un drop-out che inficia completamente l’efficacia del gruppo. Originariamente questi gruppi erano composti da medici, pediatri, assistenti sociali, che portavano in gruppo i casi che li avevano messi in difficoltà dal punto di vista relazionale o che comunque avevano sollevato una qualche risonanza emotiva nell’operatore. Il gruppo discute i problemi e gli stimoli via via offerti dai partecipanti: un esperto orienta la discussione, intervenendo il meno possibile in maniera diretta. Il gruppo, così, “lavora”, e quanto vi avviene coinvolge ogni partecipante in discussioni e soprattutto in riflessioni, su se stesso oltre che sull’altro, ad alto rilievo emotivo. Avviene un lavoro di “apprendimento emotivo”, che aumenta la capacità di ognuno di capire il significato delle relazioni e delle interazioni e comunicazioni che le compongono, e pertanto di capire cosa può succedere al di là della coscienza (affettività profonda) nella mente dei protagonisti di una relazione. Di conseguenza viene a essere incrementata la capacità di vedere entro se stessi, di capire ciò che ci sta succedendo, di aumentare la propria capacità di coscienza e diminuire la propria dimensione alessitimica; purché questa non sia stata inizialmente troppo elevata. Il grado di cecità di noi verso noi stessi è maggiore della capacità degli altri di vedere cosa c’è davvero entro di noi: ecco perché il gruppo funziona; perché ogni partecipante fa notare all’altro quello che l’altro non è riuscito da solo a vedere. L’abilità del conduttore (psicologo clinico specializzato in gruppi) si esplica facendo funzionare la circolarità del gruppo. Questi gruppi, oggi più evoluti e differenziati, si chiamano spesso “gruppi di formazione”, o talora “T. Group”: la matrice teorico-clinica e le conseguenti tecniche dei conduttori sono cambiate, si sono arricchite e sviluppate, usufruendo non soltanto dei principi psicoanalitici su cui si basavano i Balint, ma anche dei contributi di altre Scuole, sistemiche soprattutto (cfr. Cap. 14) (Bateson, 1972; Minuchin, 1974) e della Gestalt (Perls e coll., 1951), ma anche
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cognitiviste ed espressivo-costruzioniste. Si sono perfezionate e diffuse le tecniche di role-playing, più o meno accompagnate dall’interpretazione. La Psicologia Sociale e la Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni hanno prodotto ricerche: anch’esse hanno fornito tecniche che hanno trovato il loro impiego clinico in gruppi di formazione. La psicoanalisi stessa si è differenziata in una psicoanalisi in gruppo (Burrow, 1949; Slavson, 1964; Wolf, Schwartz, 1962), in una psicoanalisi di gruppo (Walton, 1971; Anzieu, 1976; Kaës, 1976), in una gruppo-analisi (Foulkes, 1964; Abercrombie, 1989) e in altre differenziazioni di Scuole e relative tecniche gruppali (Yalom, 1970), ibridandosi con le psicoterapie della Gestalt, con l’analisi transazionale (Berne, 1961), con lo psicodramma di Moreno (2006), per costituire tecniche di formazione gruppale per operatori. Le tecniche gruppali di formazione sono state applicate, e pertanto sviluppate e studiate, in ambito soprattutto aziendale (Psicologia delle Organizzazioni), per la gestione delle risorse umane, rivelandosi produttive. Per gli operatori dei servizi assistenziali si sono avuti sviluppi all’estero, molto meno in Italia, per carenza di risorse e soprattutto per la diffidenza e resistenza dei nostri vertici organizzativi. Pur nella varietà delle tecniche, un comune denominatore dei gruppi di formazione può essere così riassunto: 1) numero fisso di partecipanti, da 6 a 15 a seconda delle Scuole; 2) motivazione dei partecipanti; 3) misure varie per evitare un drop-out (per es. incentivi, orari di lavoro); 4) cadenza regolare delle sedute, 1-2 volte a settimana a orario fisso, in genere di un’ora e mezzo ciascuna; 5) cernita dei componenti da parte del conduttore; 6) durata variabile, di solito da uno a più anni. Resta inteso che qualunque altra esperienza personale, anche non istituzionalizzata, che concerna un approfondimento autoriflessivo guidato, può accrescere le capacità relazionali. Problema centrale è che venga diminuita la dimensione alessitimica. Sia i percorsi personali, che quelli gruppali istituzionalizzati, sono strumenti: naturalmente, come strumenti devono essere “manovrati”, applicati esattamente, cioè gestiti in modo adeguato da un conduttore esperto. “Esperto” vuol dire che non basta uno psicologo; occorre uno psicologo che sia particolarmente addestrato e specializzato, con una sua specifica formazione di formatore; né tanto meno si può pensare che servano dei gruppi improvvisati o dei gruppi autogestiti. Esistono anche gruppi autogestiti: male forse non fanno, ma bisogna vedere costi e benefici. L’applicazione di percorsi formativi come descritti può trovare applicazione sia per la formazione iniziale degli operatori (percorsi universitari), sia per la formazione permanente sui servizi. Ovviamente vi sono dei costi, non indifferenti, e questo rende esitanti le Amministrazioni Universitarie e Ospedaliere, che spesso non vedono l’utilità a lungo termine. In clima di carenza di risorse, come in Italia, è molto difficile che tali iniziative vengano deliberate. Eppure i benefici ci sono: la ricaduta è a lungo termine e, nei paesi dove tale tipo di formazione viene praticata, si sono riscontrati notevoli miglioramenti nell’area della prevenzione, della promozione della salute e anche nell’area più strettamente clinica. Laddove si pratica questo tipo di formazione, e quindi si miglio-
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rano le capacità relazionali degli operatori, diminuisce la durata delle degenze, l’insorgere delle complicanze, il consumo di farmaci. V’è dunque una ricaduta economica, oltre che sociale, di vasta portata. Ovviamente si tratta di valutare sempre costi e benefici. Il problema in Italia, nella generale sottovalutazione dell’incidenza dello psichico sul somatico, della psiche sui processi organici di malattia e di salute, si trascura anche il fatto che un certo tipo di formazione produca, sia pure a lungo termine, ricadute favorevoli. Gli investimenti da parte dell’amministrazione che deve stanziare e organizzare questo tipo di formazione non si potranno riscontrare prima dei tre-quattro anni. Questo disincentiva le decisioni politiche di investimento. A parte il fatto che, in tutte le nostre Aziende Sanitarie, il controllo di qualità è veramente deficitario. Occorre a tal proposito rilevare come il controllo qualità, così importante e regolarmente praticato su qualsiasi prodotto industriale, venga trascurato per ciò che concerne le Organizzazioni sanitarie: eppure anche qui c’è il “prodotto”, la salute. Anche qui ci si può chiedere quale sia la qualità di ciò che produce l’investimento nelle organizzazioni assistenziali. Si parla di aziende ospedaliere, e giustamente se ne impone un calcolo di costi, ma i benefici restano affidati a una valutazione molto vaga, di tipo politico: non c’è un controllo qualità che sia affidabile in quanto praticato scientificamente con criteri obiettivi. Eppure il “prodotto” di un investimento economico in una organizzazione sanitaria, o comunque assistenziale, può anch’esso essere misurato: ovviamente tale controllo è più complesso rispetto a quello di un prodotto concreto, di tipo industriale, ma può ugualmente, con strumenti diversi, essere misurato. La misura di un prodotto-Salute di buona (o sufficiente) qualità lo si può misurare, naturalmente a lungo termine, controllando le ricadute sociali; e queste possono essere quantificate anche in termini economici. Tutto questo però in Italia è lungi dall’essere attuato.
11.3 Formazione permanente Le capacità relazionali, sia quelle radicate nella struttura personale originaria di un operatore, sia quelle acquisite con una iniziale e adeguata formazione, con gli strumenti sopra descritti, possono, anzi devono, essere incrementate lungo l’iter professionale, affinché l’esperienza dell’operatore non sia semplice lavoro burocratizzato, ma elaborazione interna che accresce le capacità dell’operatore stesso. Gli strumenti descritti nel precedente paragrafo dovrebbero essere dunque usati periodicamente ma continuativamente lungo il periodo di esercizio professionale di un operatore dell’aiuto. Altrimenti le capacità relazionali, soprattutto quelle acquisite nel periodo di tirocinio iniziale, si affievoliscono e svaniscono. Una capacità relazionale acquisita in età adulta (percorsi universitari) è sempre più labile di quella insita nella struttura di base di una persona. Ma interviene qui un fattore di rilevante importanza, la cui pregnanza risponde al terzo interrogativo posto al paragrafo 11.1: in che condizioni la capacità relazionale di un operatore può o non può essere esplicata?
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Un operatore, per quanto aiuto si proponga di dare aiuto al prossimo, in buona ed entusiastica fede, non è un missionario nel deserto. Non è un missionario perché “fa un lavoro”, che deve essere remunerato, per lui e per la sua famiglia, ma soprattutto non opera solitariamente, come nel deserto, bensì il suo lavoro è intrinsecamente legato al tessuto sociale e organizzativo in cui si trova a operare. Le organizzazioni assistenziali preposte “all’aiuto”, private o pubbliche che siano, comportano una strutturazione di ruoli, mansioni, ritmi, e definiscono i confini dell’oggetto stesso che impongono all’opera del singolo professionista, con modalità che possono favorire l’esplicazione delle capacità relazionali eventualmente possedute e/o acquisite, oppure deprimerle, se non addirittura impedirne l’applicazione. Si crea in ogni servizio un “clima” (cfr. Cap. 12) che condiziona anche pesantemente la possibilità che un operatore metta in pratica le sue capacità relazionali. Molto spesso può capitare di sentire un qualche operatore che dichiara come “l’ambiente” in cui lavora gli faccia passare ogni voglia di “lavorare bene”. A parte questo clima generale, accade poi molto spesso che gli stessi regolamenti di un servizio, espliciti, o impliciti nelle condizioni in cui il servizio si trova a operare, impediscano davvero l’esplicazione di eventuali capacità relazionali, per esempio imponendo ritmi, carichi, oggetti e modalità di lavoro, che non lasciano alcun spazio al rapporto interumano in cui potrebbe esplicarsi la capacità relazionale di un operatore. In queste condizioni versano purtroppo molte delle nostre organizzazioni assistenziali. Una formazione alla relazione, dunque, non può essere disgiunta da una formazione permanente e questa non può essere attuata se non contemporaneamente a un progetto dell’Organizzazione, o meglio di riorganizzazione della struttura in cui l’operatore si trova a esplicare la sua opera. Altrimenti gli investimenti rimarranno improduttivi. Il controllo qualità del prodotto “aiuto” non può essere effettuato sul singolo, ma solo nell’insieme organizzativo del servizio. La Psicologia del Lavoro, che oggi trova applicazione in gran parte delle aziende industriali e commerciali, ha ancora molto da insegnare alle Organizzazioni assistenziali. Non può esservi Psicologia della Salute senza attingere alla Psicologia del Lavoro e alla Psicologia Sociale. V’è una deriva implicita, nelle nostre istituzioni, quando “vanno male”, quando una pessima qualità del prodotto salute non può più essere camuffata. In questi casi si fa appello alla buona volontà, alla generosità e all’impegno degli operatori e spesso degli utenti (si veda il volontariato), dando implicitamente la colpa a un mediocre operato dei singoli. Questa deriva etico-morale evita di affrontare non tanto le effettive colpe, né le responsabilità, bensì le radici del malessere nella struttura organizzativa. Così accade che si parli di stress e di burn-out come eventi visti in riferimento al singolo operatore – scaricati sulle sue spalle, si potrebbe dire – e non nel collettivo dell’Organizzazione stessa (cfr. Cap. 12).
Capitolo 12 Organizzazione e Istituzione 12.1 I processi mentali nel collettivo: mente gruppale; psicoanalisi e Istituzioni malate; Organizzazione/Istituzione; analisi e intervento nelle istituzioni. 12.2 Le angosce di morte: origine delle angosce nella prima infanzia, riattivazione nell’età adulta; il protomentale e il contatto con la morte reale nella pratica medica; contagio psichico; difese contro le angosce; accanimento terapeutico; angosce in reparti psichiatrici; istituzionalizzazione delle difese nell’organizzazione. 12.3 Stress e burn-out: malintesi sui concetti; individuazione del burn-out come fenomeno del collettivo; ruolo dell’Organizzazione nel burnout. 12.4 Il burn-out nelle professioni di aiuto: il burn-out come fenomeno individuale nella concezione della Maslach; patologizzazione del concetto. 12.5 Burn-out e psicologia della salute: burn-out come fenomeno del collettivo in relazione all’Organizzazione; prevenzione e Istituzioni; formazione permanente; necessità di una didattica non tradizionale per la formazione differenziata delle differenti professioni; promozione della salute e operatori demedicalizzati.
12.1 I processi mentali nel collettivo È nozione comune come il comportamento dell’uomo sia condizionato da quello dei suoi simili che gli stanno attorno, in misura tanto maggiore quanto più questi gli sono vicini, per prossimità fisica e per comunanza di mansioni e di vita. Il “sociale” consiste appunto in una rete di reciproci influenzamenti, che riguardano l’aspetto esteriore e manifesto degli individui e cioè il loro comportamento, non meno dell’aspetto interiore e meno evidente, e cioè il modo di pensare, di sentire, di vivere. La mente di ognuno continuamente si trasforma e si ristruttura nell’ininterrotto flusso di comunicazioni, non verbali soprattutto, che circola nella rete interumana. Tali trasformazioni riguardano soprattutto gli aspetti impliciti e non coscienti del funzionamento mentale: questi si integrano in un insieme collettivo, che alcuni autori hanno individuato come “mente gruppale” (Kaës, 1976), o “spirito” dell’istituzione (Imbasciati, 1993). Ogni progresso tecnologico è stato parallelo e collegato a una progressiva complessità di organizzazione sociale di mansioni e compiti, e pertanto di reciproci condizionamenti, in una sempre più complessa rete relazionale interumana. L’era industriale, in particolare, ha comportato una corrispondente organizzazione di individui, con compiti, mansioni e gerarchie, organizzati appunto per meglio “produrre”. L’organizzazione che richiede un’industria è l’esempio più evidente di una necessità produttiva, proporzionale alla complessità, alla quantità e all’economia del prodotto. Una tale organizzazione fu ritenuta attinente ad aspetti razionali e a questioni tecnologiche fino ai primi anni del secolo scorso, quando invece si vide come vi intervenissero, oltre ai suddetti fattoA. Imbasciati, La mente medica Che significa “umanizzazione” della medicina? © Springer 2008
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ri, anche altri, denominati fattori umani, o psicologici: questi sono relativi non solo ad aspetti cognitivi consapevoli ed evidenti, ma anche al mondo emotivo degli individui e del loro insieme collettivo socializzato. Nacque così la Psicologia del Lavoro, all’inizio del ‘900, e insieme a essa la Psicologia Sociale. Oggi si parla di una disciplina ancor più specifica e differenziata, la Psicologia delle Organizzazioni. Lo sviluppo delle scienze psicologiche ha posto l’accento e l’attenzione degli studiosi su una serie di fattori che travalicano quelli razionali e intenzionali e agiscono negli individui e tra gli individui, in modo automatico, spesso sotterraneo, talora irrazionale: sentimenti ed emozioni, implicite, sfuggenti, spesso occulte, condizionano il comportamento degli individui, ancor più se questi agiscono in un insieme organizzato. La qualità dei pensieri, sentimenti, atteggiamenti dei singoli individui travalicano di conseguenza l’entità del singolo. I fattori emotivi profondi sono strutturati dal collettivo e modulati dalla comunicazione interpersonale. Essi costituiscono sia la struttura del singolo che quella del collettivo stesso, l’una strettamente collegata all’altra. Ne discende l’importanza degli studi sulla comunicazione: questa non viaggia semplicemente attraverso il linguaggio verbale, ma, in misura più incisiva, attraverso gli altri e più numerosi canali della CNV (Imbasciati, 1986, vol. II, Cap. 6). La CNV è per lo più occulta, sicché necessita dell’intervento preciso della psicologia per poter essere evidenziata, in modo da poter capire come essa medi il condizionamento reciproco degli individui e di conseguenza la loro condotta, sia come singoli, sia ancor più nel collettivo organizzato in cui i singoli operano. Questi reciproci e non palesi condizionamenti possono agire deprimendo la qualità delle performance umane e persino ostacolando pensiero e creatività, oppure possono, al contrario, stimolare le capacità dei singoli, l’inventività, la cooperazione e pertanto favorire la qualità di ciò che gli insiemi umani producono. La Psicologia delle Organizzazioni si occupa appunto di studiare tutti questi fattori in modo che un insieme organizzato degli umani funzioni al meglio, sia per il benessere dei singoli che per quello della comunità. Le organizzazioni sanitarie sono da considerarsi né più né meno, sotto il suddetto punto di vista, delle altre organizzazioni, come per esempio un’industria. Il “prodotto” delle organizzazioni sanitarie è la salute degli individui. Occorre pertanto che le organizzazioni sanitarie siano organizzate al meglio, allo scopo di produrre la miglior salute possibile, per il maggior numero degli individui, al minor costo possibile. Per produrre un “buon prodotto” occorre includere nel costo anche quello inerente al grado di soddisfazione degli operatori, che è alla base della loro motivazione a lavorare bene. Come si vide nel secolo scorso, nel costituirsi della Psicologia del Lavoro, il buon prodotto necessita che una “buona” organizzazione contempli anche una sufficiente soddisfazione/motivazione del lavoratore: operatori insoddisfatti, per quanto ben organizzati, non potranno mai produrre un buon prodotto; e così è per un “prodotto salute” di buona qualità. La salute è modulata psicosomaticamente dalle relazioni (cfr. Cap. 8): affinché la qualità della relazione tra operatori e utenti possa essere terapeutica, è indispensabile che l’operatore si trovi in stato di suf-
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ficiente benessere; in questo, a sua volta, incide il grado di soddisfazione/motivazione dell’operatore stesso. Le interazioni operatore-utente modulano psicosomaticamente la salute, veicolando comunicazioni (emotive inconsce) a incidenza psicosomatica. Dunque i fattori psicologici degli operatori, integrati con quelli dei pazienti, modulano per via psicosomatica la salute, e condizionano quindi la qualità del “prodotto salute” erogato. La modulazione psicosomatica della salute non è, come talvolta la si intende, una questione individuale: appartiene alla rete sociale in cui il singolo vive. La modulazione psicosomatica va pertanto considerata inerente ai collettivi delle organizzazioni sanitarie. Le scoperte psicoanalitiche non sono servite solamente per approntare una tecnica in grado di modificare psicoterapeuticamente gli individui, ma anche per una psicologia generale del comportamento: in particolare esse sono state utilizzate dalla Psicologia Sociale, dalla Psicologia del Lavoro, dalla Psicologia delle Organizzazioni. In tal senso l’inconscio – ma preferiamo dire “i processi psicologici non consapevoli” – regola la condotta delle persone e dall’una all’altra si trasmette veicolato da tutti i vari canali della CNV. In questa rete inoltre esso si trasforma, sicché i processi inconsapevoli del collettivo sono qualcosa di diverso dalla somma di quelli dei singoli. La psicoanalisi pertanto, nello studiarli, si è trasformata, rispetto al suo originario metodo individuale. In questa evoluzione della psicoanalisi furono fondamentali le esperienze di intervento terapeutico sui gruppi. Questa prospettiva portò alla ribalta negli anni ‘60 e ‘70 la possibilità di praticare la psicoanalisi nelle istituzioni: si vide però che non si può fare psicoanalisi (né psicoterapia) nelle istituzioni, se non si è prima fatta una psicoanalisi delle istituzioni: l’oggetto su cui operare non è più soltanto il gruppo, ma l’istituzione stessa. La psicoanalisi si è pertanto trasformata, per diventare psicoanalisi del sociale; il metodo psicoanalitico è applicato al collettivo: si può usare la psicoanalisi per curare non gli individui, ma l’istituzione stessa. Si è così parlato di istituzioni malate e di terapia per le istituzioni (Fornari, 1976, 1977, 1978). D’altra parte la psicoanalisi aveva da tempo rivelato la sua utilità per i soggetti normali: essa non serve soltanto come cura per il disagio psichico, ma può essere utilizzata per migliorare qualsiasi individuo, anche normale. Parallelamente si vide come l’intervento sui gruppi non serve solo come cura per gruppi di soggetti “malati”, ma può essere usato per migliorare gruppi di individui, nonché gruppi di individui che sono insieme per compiti e mansioni di lavoro, al fine di migliorare quello per cui tali gruppi si ritrovano riuniti insieme. La psicoanalisi può allora servire per curare dei collettivi, o per migliorare qualunque collettivo; e di conseguenza il relativo “prodotto”. In ogni Organizzazione si controlla la qualità del prodotto: il “controllo qualità” è essenziale in ogni industria ed è un indicatore indispensabile per modificare al meglio l’organizzazione che lo produce. In ambito sanitario si tende invece a sottovalutarlo: non si controlla se il “prodotto salute” è più o meno “di qualità”. Eppure tale controllo è tecnicamente possibile, con gli idonei strumenti di rilevazione (psicologici, sociali, economici). La rilevazione è ovviamente a lungo termine.
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L’apporto psicoanalitico alla Psicologia delle Organizzazioni ha portato a una distinzione terminologico-concettuale tra “istituzione” e “organizzazione”, che risulta chiarificatrice e alla quale ci riferiamo. La distinzione è basata sull’opera di Elliott Jaques (1951, 1955, 1961, 1970) ed è stata sviluppata dall’indirizzo psicosociologico della scuola italiana (Stella, Quaglino, 1976; Carli, Paniccia, 1981; Kaneklin, Olivetti Manoukian, 1990; Kaneklin, Orsenigo, 1992; Imbasciati, Ghilardi, 1993). Per “Organizzazione” si intende un insieme di individui che è stato formalmente strutturato, giuridicamente, gerarchicamente ed economicamente, secondo articolazioni di competenze e mansioni, in vista di un determinato scopo produttivo o di servizio: per esempio sono organizzazioni un’industria, o un esercito, o un corpo di esso, un ospedale o altro insieme organizzativo per perseguire la sanità, o la scuola, nei vari suoi ordini e gradi, e via dicendo. Organizzazione è l’aspetto formale, così come risulta organizzato per conseguire lo scopo dichiarato. “Istituzione” invece si riferisce all’aspetto latente, non formalizzato, inconsapevole, costituito dalle regole implicite, dai ruoli sottintesi, dagli stili di comportamento, da attribuzioni e percezioni interpersonali, dalle aspettative implicite dei vari componenti l’Organizzazione stessa e dalle aspettative che vengono supposte nell’utenza, nonché da “figure” e personaggi non formalizzati: elementi tutti dai quali si inferiscono fantasmi collettivi, ansie e difese che costituiscono, in una parola, “lo spirito”, latente, che anima e regola, di fatto e al di là degli scopi dichiarati, l’insieme degli individui che sono stati “organizzati”. Istituzione sarebbe allora l’inconscio dell’Organizzazione. La psicoanalisi trova così il ruolo specifico per analizzare, nell’Organizzazione, l’Istituzione. Di fatto tutti i vari indirizzi di studio, anche non psicoanalitici, convergono nel rilevare che l’Organizzazione non è il risultato meramente razionale degli scopi dichiarati nell’organizzare un insieme di individui in vista di un compito; o non lo è se non in minima parte. Per questo le “Organizzazioni” sono sempre in perenne riesame della loro “razionalità” o dell’aderenza dell’Organizzazione stessa ai suoi scopi; riesame che però sembra non riuscire mai nel suo intento: le “riforme” sono sempre di attualità, salvo poi constatare dopo qualche anno che non hanno riformato in meglio. Ragione di ciò sta nel fatto che l’Organizzazione subisce l’Istituzione, così come in un individuo la coscienza subisce l’inconscio, senza saperlo. L’Istituzione è latente, e si sottrae a un’analisi, se questa è condotta solo coi presupposti razionali degli scopi organizzativi. È come se un individuo pretendesse di autoanalizzarsi con la propria coscienza. In altri termini, tra Organizzazione e Istituzione intercorre la stessa dinamica che nell’individuo avviene tra la consapevolezza che egli ha di sé, con la razionalità con cui egli pretende di esaminarsi, e le sue dinamiche inconsce. L’Istituzione è allora la dinamica degli affetti che muove le azioni dell’Organizzazione: tra questi e quelle esiste uno iato nella misura in cui i primi non sono riconosciuti. Per queste ragioni si è enunciato il paradosso che un’Organizzazione non serve ai suoi utenti, ma ai propri operatori. Così si è detto che la scuola non serve agli alunni, ma agli insegnanti, e gli ospedali non
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sono fatti per gli ammalati, ma per i medici. In altri termini potremmo dire che l’Organizzazione è il risultato delle difese di chi si è “organizzato”; o, meglio, che ha creduto di poterlo fare in base soltanto a ciò che risulta alla coscienza. Da questa differenza tra latente e manifesto derivano i conflitti, che più o meno sempre affiorano nelle Organizzazioni, le contraddizioni interne, rilevate quanto irrisolvibili, e la “resistenza al cambiamento”, che ogni insieme collettivo dimostra. Per un effettivo rimedio a simili problemi occorre un’analisi dell’Istituzione prima di poter fare una riorganizzazione dell’Organizzazione. L’analisi istituzionale però, in quanto analisi del non manifesto, necessita di analisti preparati appunto a cogliere i moventi e i movimenti affettivi che costituiscono il latente proprio dell’Istituzione. Tali specialisti non sono facili da reperire e, soprattutto, i vertici delle organizzazioni sono resistenti a usarli. L’Istituzione si struttura per contenere, come difesa, ansie e bisogni degli operatori: dunque l’Istituzione serve agli operatori. In questo quadro l’Istituzione si può costituire con funzione antagonista a quella dell’Organizzazione, che invece deve, o dovrebbe, servire agli utenti. Le Organizzazioni sanitarie dovrebbero essere organizzate per produrre un “prodotto”, la salute, per i pazienti. Il benessere degli operatori dovrebbe esser tenuto in conto nella misura in cui è indispensabile perché questi possano essere i modulatori di un clima psicologico benefico che giovi alla salute dei pazienti. Tuttavia accade molto spesso che l’Organizzazione sanitaria risulti di fatto in primo luogo, se non talora in esclusivo, funzionale ai bisogni e alle difese degli operatori: e ciò in antagonismo al benessere dei pazienti, e cioè producendo un clima iatrogeno, anziché salutifero. Accade in altri termini che l’Istituzione, soggiacente all’Organizzazione, prevalga sull’Organizzazione stessa. Elliott Jaques (1955, 1961, 1970) ha considerato l’Istituzione come sistema difensivo per le angosce di base, proprie di ogni essere umano, che hanno a che fare, in ultima analisi, con la paura di morire (angosce di morte, cfr. par. 12.2). La possibilità individuale di contenere ed elaborare queste angosce è limitata: l’Istituzione ha la funzione di vicariare questo limite individuale. Gli individui riuniti in collettivi per scopi di lavoro si strutturano, inconsapevolmente, come Istituzione, in modo che essa si sostituisca alla struttura individuale e dentro il clima di tali collettivi, anziché nel singolo, possano essere elaborate le angosce di morte. Queste vengono elaborate proprio in quei dinamismi istituzionali che sottendono l’Organizzazione. Questa, allora, finisce per funzionare, non tanto nei modi per cui essa è stata organizzata e per gli scopi per cui essa dovrebbe funzionare (produrre un certo “prodotto”), quanto per scaricare gli operatori di un compito emotivo troppo faticoso per il singolo. Talora l’Organizzazione risulta una maschera, per mascherare l’Istituzione, che, per assolvere la sua funzione, deve restare inconscia. Così gli operatori trovano, nel lavoro svolto in un’Organizzazione, una “Istituzione” che li “contiene”, e li aiuta. In tal modo l’Istituzione supplisce alle difese del singolo con difese istituzionali, a scapito però dagli scopi reali dell’Organizzazione. Ovviamente le difese istituzionali sono tanto più forti quanto più sollecitate da altrettanto intense angosce di morte: è questo quanto accade laddove l’Organizzazione ha
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a che fare con i fantasmi della morte, e cioè in ambito sanitario. Qui le difese più che altrove possono inficiare l’Organizzazione, cosicché alla fine essa viene a organizzarsi più per gli operatori che per gli utenti. Nelle organizzazioni sanitarie le angosce insite nella struttura di ogni singolo essere umano vengono enormemente potenziate rispetto ad altre organizzazioni, per il fatto che in campo sanitario si ha davvero a che fare con la morte. Nelle organizzazioni sanitarie che più hanno a che fare con l’intensità, la presenza effettiva, la pregnanza della morte – per esempio quelle che trattano malati terminali, inguaribili, gravi traumatizzati ecc. – la situazione è ancora più pesante. Note sono le frequenti situazioni di burn-out in cui possono versare simili reparti (Imbasciati, Ghilardi, 1993).
12.2 Le angosce di morte Che una malattia o qualunque lesione d’altra natura sia fonte di apprensione per chi ne è affetto e per i suoi congiunti, soprattutto se si prospetta una possibile morte, è evento universalmente riconosciuto: si tratta dei sentimenti che da tutti vengono avvertiti in queste situazioni. Ma la parola “angoscia” la si è cominciata a usare solo dopo che la psicoanalisi ci ha insegnato quanti e quanto potenti affetti inconsci stiano sotto i sentimenti coscienti. Tuttavia questo essenziale significato della parola “angoscia” sembra perso nell’accezione corrente in ambito sanitario, cosicché, anche se gli operatori usano questo termine, ben pochi di loro si dichiarerebbero “angosciati”. Tra gli studiosi che più hanno indagato ed esplicitato sull’angoscia di morte, anzi sulle angosce, sono da ricordare Melanie Klein (1978), Roger Money Kyrle (1955, 1968) e Paula Heinemann (Klein, Heinemann, Money Kyrle, 1955). L’impatto della psicoanalisi nella cultura sanitaria è stato lento e comunque tuttora non facile, se non altro per la complessità di questo particolare sapere rispetto alla vastità delle competenze necessarie agli operatori della salute. Così succede che spesso l’osmosi scientifica interdisciplinare sia soggetta a semplificazioni, se non a distorsioni. Succede allora che in ambito sanitario si faccia oggi un gran parlare di angosce di morte, perché se ne è intuita l’incidenza, ma con una tendenza riduttiva ai sentimenti consapevoli, di fronte all’evento morte, rispetto alla complessità degli affetti sottostanti, che sono i veri “motori” psicosomatici. Che una malattia sia fonte di preoccupazione è evento semplice: come tale conosciuto. Meno conosciuto è il fatto che al di sotto di una preoccupazione cosciente, che peraltro non sempre si riscontra, c’è sempre invece una più profonda angoscia interiore non consapevole. Sappiamo che nel primo sviluppo delle strutture funzionali della mente (primi mesi di vita) la distinzione tra un primo vissuto di un Sé (vissuto in termini corporei, derivato da prime rappresentazioni) e quello relativo a un qualcosa che esiste ed è diverso (più tardi separato) dal Sé, e cioè un “oggetto”, non è affatto scontata, ma viene a costituirsi attraverso una situazione di estrema labilità delle costruende strutture, che fu descritta per la prima volta (in termi-
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ni diversi da come concepita oggi) da Melanie Klein come “angoscia”, con relative difese. E precisamente come angoscia di un qualcosa di cattivo che perseguita e, successivamente, angoscia di distruggere qualcosa che pur è avvertito come “buono” (oggi diciamo come indispensabile allo sviluppo mentale). La Klein, con il riduzionismo impostole dalle conoscenze di allora, parlò di angoscia di distruggere l’oggetto “buono”, cioè amato, e chiamò questa angoscia “di morte” (Klein, 1978; Imbasciati, Calorio, 1981). L’angoscia di morte che primariamente va considerata è dunque una profonda angoscia inconscia di distruggere, cioè far morire, qualcosa dentro di noi che ci è invece indispensabile. L’elaborazione di tali protoaffetti viene a situarsi in quella oscillazione interna del metabolismo mentale, che è stato descritta come intermedia e alternante tra le due modalità fondamentali del funzionamento protomentale (Imbasciati, 2006a, b) originariamente individuate dalla Klein e denominate funzionamento schizoparanoide e funzionamento depressivo.1 Tale situazione, descritta da Bion in varie sue opere (cfr. Bion, 1967), è considerata all’origine della capacità di pensare. In una dinamica schizoparanoide l’evento mentale denominato angoscia non viene vissuto come proprio, ma fuori dal Sé, concretizzato come un nemico esterno: si forma l’angoscia persecutoria. Nella dinamica depressiva invece, tale evento mentale diventa vissuto appartenente al Sé: è questo il primo embrione di un contenuto mentale, cioè di un pensiero. Tale “primo pensiero” è spiacevole, è “angoscioso”, è quanto denominato da Bion “dolore mentale”, considerato matrice di “pensiero”. La teorizzazione kleiniana circa la formazione di oggetti interni buoni e oggetti interni cattivi configura la posizione depressiva come vissuto che quanto era creduto oggetto cattivo persecutore è in realtà il proprio impulso distruttivo verso gli “oggetti buoni” amati: dunque l’angoscia di farli morire, l’angoscia che essi possano morire, per propria colpa. Questo modello teorico viene a spiegare l’angoscia dei bambini piccoli quando un oggetto desiderato non è più presente: esempio saliente si ha nella costernazione del bimbo quando un qualche suo giocattolo sparisce, o si rompe, e soprattutto quando la mamma va via. La madre che se ne va, è come se morisse. Per questo il bimbo piange, e non sa aspettarla: la madre assente è una madre morta, per colpa del bimbo. Oppure è una mamma cattiva (persecutoria), che il bimbo si permette, allora, di odiare; e alla quale, in qualche modo, medita di opporsi. La clinica infantile mostra comunque come per i bimbi piccoli vi siano grandi angosce di fronte alla sparizione di oggetti o esseri cui egli è affezionato, e non è difficile scorgervi una vera paura che tali oggetti, o persone, amati, possano essere morti; o possano morire. Nella posizione depressiva il bimbo ha paura di poter far morire (sparire) gli oggetti o le persone amate, a causa della
1 I termini furono coniati e i relativi processi descritti primariamente dalla Klein, e successivamente modulati da altri studiosi: cfr. Imbasciati (1994); Imbasciati, Margiotta (2005, 2008).
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propria cattiveria. Quando è un po’ più cresciuto, a tre-quattro anni, grande è la sua costernazione quando qualcuno che gli è caro si ammala, anche se gli adulti non vogliono vedere l’espressione di questi vissuti del bimbo: la negano; proprio perché, in identificazione col piccolo, dentro loro stessi potentemente e inconsciamente si riattivano le più tremende angosce. La teorizzazione kleiniana è stata sviluppata da Bion, descrivendo gli oggetti interni come “possibili” pensieri e l’angoscia di morte pertanto come possibilità di un “pensiero negativo”, cioè di un’autodistruzione del proprio nascente pensiero. Tale descrizione è stata da me sviluppata, nella Teoria del Protomentale, concettualizzando l’oggetto interno in termini rappresentazionali e l’angoscia come possibilità di cancellare sul nascere gli engrammi di una possibile capacità di pensare (Imbasciati, 1998a, 2006a, b). La capacità di pensare è vissuta dall’essere umano come strumento principe di sopravvivenza, e pertanto qualunque attentato a essa è il maggior pericolo – dunque angoscia, sofferenza – che un soggetto possa attraversare nei suoi vissuti inconsci. Le suddette teorizzazioni – kleiniana, bioniana e propria – sono qui necessariamente enunciate in termini molto sintetici: non sono di facile comprensione; un rimando alle opere citate può servire a una maggior delucidazione. La complessità di tali processi psichici spiega la difficoltà dell’operatore a entrare in una effettiva comprensione dell’essenza inconscia dell’angoscia di morte, e pertanto la tentazione di ridurla a una apprensione cosciente di fronte alle persone che muoiono. In questa sede, i pochissimi accenni a come e a quanto questo evento mentale sia stato esplorato dagli studi psicoanalitici ed esposto nelle gran messe della relativa letteratura lungo ormai tutto un secolo, si sono resi necessari per sottolineare all’operatore sanitario quanto tale evento sia sommovente l’animo umano, e pertanto quanto sia negato in coscienza, riducendolo ai termini semplicistici descritti qui all’inizio. Gli studi sulle origini e lo sviluppo della mente evidenziano come l’angoscia di morte sia connaturata allo sviluppo della mente, e dunque rimanga come funzione essenziale, potenzialmente attiva, nella mente. Per questa ragione ogni evento reale, percepito coscientemente o inconsciamente recepito, può riattualizzarla. Le vicende infantili, protomentali, colle relative funzionalità, sono tutt’altro che eliminate dal funzionamento mentale adulto: sono solo sopite e possono riattivarsi se una qualche vicenda ne ricalca e rievoca la dinamica. La perdita di qualcosa, di qualcuno, o anche la possibilità di perdita, sono circostanze che riattivano le funzioni protomentali, informi e ineffabili, di possibile autodistruzione. Quanto più ciò che nella realtà si perde, o è possibile perdere, è in relazione, ovvero affettivamente legato, col soggetto, tanto più in questi si attivano le antiche angosce di perdere qualcosa di sé. Qualcosa di se stessi che la Klein concettualizzò in termini di oggetto d’amore, che nella teoria bioniana si individua come nascente pensiero, che nella teoria psicoanalitico-cognitiva del Protomentale è descritto come perdita di qualche possibilità funzionale della propria mente. Dunque, per capire appieno le angosce di morte e il loro potere sotterraneo,
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dobbiamo rifarci a ciò che accade nella mente del soggetto, non nella sua percezione cosciente, tanto meno nella sua apprensione di tipo etico-morale. Per capire le angosce di morte cui sono soggetti gli operatori sanitari a contatto con la malattia, la sofferenza, la possibilità di morire, o la morte stessa, dobbiamo considerare non semplicemente una loro partecipazione alle vicende degli assistiti, quanto il fatto che il contatto col malato comunque evoca nell’inconscio dell’operatore la perdita di qualcosa di proprio. Questo “qualcosa” è stato configurato come perdita di autostima nei confronti della propria competenza professionale, del proprio impegno e della propria “missione”, che sono invece centrate sull’adoperarsi per la vita contrastando la morte. Una tale configurazione, pur valida, non esaurisce però affatto la potenza delle angosce di morte: queste nella loro intima forza, anche psicosomatica, riguardano la perdita di un “pezzo”, primitivo e fondamentale, del proprio Sé.2 Le angosce di morte dunque non si mobilitano semplicemente in chi sta male, in chi pertanto può temere di morire, ma in chiunque a un malato sia più o meno vicino: questo non per una semplice apprensione cosciente bensì per riattivazioni di propri remoti processi psichici. Veniamo qui al fulcro di questo tema: l’angoscia di morte degli operatori sanitari e le relative conseguenze. Comunemente si pensa che coloro che assistono malati per professione e per i quali comunque non si può chiamare in causa l’affetto per la persona cara, dovrebbero per così dire aver fatto il callo a certe risonanze affettive. In realtà così non avviene: si tratta di eventi psichici inconsci, automatici, inevitabili in chiunque; l’angoscia di morte è qualcosa di ben più inconscio e complesso della preoccupazione che qualcuno possa morire; o anche soltanto della partecipazione e della solidarietà con chi soffre. Il contatto col malato dà luogo a identificazioni proiettive3 e queste vengono facilmente recepite dall’operatore in quanto trovano sintonia con le sue angosce di morte. Una loro esplicitazione avverrà esclusivamente nella condotta dell’operatore e sfuggirà a ogni sua introspezione. Tutti gli operatori sanitari sono esposti quotidianamente a una situazione professionale che comporta l’attivazione delle angosce di morte, che comunque sono insite nella struttura mentale di ogni persona, radicate nello sviluppo infantile della mente stessa. Quanto più l’esposizione professionale comporta rappresentazioni di effettiva probabile morte, e quanto più le rafforza nell’assistere al lungo progredire della sofferenza (malati cronici, gravi, inguaribili, politraumatizzati, ecc.), tanto più nell’operatore l’attivazione delle angosce diventa potente, per quanto possa rimanerne del tutto inconsapevole.
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Il termine è nell’accezione specifica della letteratura psicoanalitica. Il termine identificazione proiettiva, qui usato nella sua stretta accezione psicoanalitica (Hinshelwood, 1989), è un processo psichico primitivo, pertanto inaccessibile alla coscienza, che si attualizza (anche nell’adulto) quando il sistema mente recepisce (recepire non vuol dire percepire), ovvero “legge” ed elabora, particolari situazioni interpersonali. 3
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Nella misura in cui il singolo operatore avrà strutturato, nella sua infanzia, capacità di metabolizzare riparatoriamente4 le angosce profonde, egli svilupperà ottime qualità assistenziali, di partecipazione empatica e al contempo di fermezza, di saggezza nel risparmiare cure che accrescono la sofferenza, e di coraggio nell’affrontare quelle che, dolorose, sono tuttavia effettivamente efficaci. Nella misura invece in cui le capacità riparatorie sono parziali (e questa è la condizione della maggior parte delle persone) l’operatore svilupperà “difese” contro l’angoscia. Tutto ciò in maniera del tutto indipendente da ogni eventuale consapevolezza. Gran parte delle difese sono “agite”. L’operatore è soggetto a un contagio psichico, spesso sotterraneo e negato, da cui si difende. Difese contro le angosce di morte sono: a) il distacco emotivo razionalizzato; b) la negazione maniacale; c) l’accanimento terapeutico; d) antipatie per qualche assistito; e) l’avversione per l’organizzazione del servizio. La prima difesa, la più comune, consiste nel rifugiarsi nel tecnicismo dei protocolli di cura, o negli standard dell’assistenza, tenendosi pertanto a distanza dall’assistito e sentendosi nel giusto di un’assistenza “perfetta” (razionalizzazione). La seconda difesa consiste nel negare la gravità del male, a se stessi, ma soprattutto al malato: “Non è niente”, “Vedrà che guarirà”, “Su, coraggio!”, “Bisogna sopportare”, e via dicendo. Anche questa è una difesa molto ricorrente, che può sfociare in una strisciante omissione del dovere del consenso informato. Vi sono poi le difese che obbediscono a una dinamica schizoparanoidea e che si concretano con modalità persecutorie: ciò che è penoso, doloroso, spiacevole, angoscioso, viene alienato dal Sé, vissuto come nemico esterno. Questa metabolizzazione può esitare in tre diversi percorsi interiori. Il primo conduce all’accanimento terapeutico. Il male interno dell’operatore diventa un nemico esterno da combattere e questo viene identificato nella malattia. Deriva da qui tutta una concezione aggressiva della medicina: combattere le malattie. Ciò spesso si verifica a scapito del malato, del prendersi cura di lui, di un effettivo “caring”, soppiantato da un asettico “curing”. L’estremo di questa dinamica inconscia, corroborata nel collettivo culturale attuale degli ambienti medici, sfocia nel voler combattere la malattia a ogni costo, anche quando ciò aumenta la sofferenza del paziente e ne prolunga di ben poco la vita. È questo l’accanimento terapeutico. Altro destino del metabolismo persecutorio, questo totalmente sotterraneo, riversa il nemico nel malato stesso. L’operatore ha inconsci moti di odio verso il paziente, che spesso trovano razionalizzazione in antipatie più o meno giustificate: il paziente viene percepito come insistente, noioso, rompiscatole, lamentoso: un “paziente rognoso”. Ovviamente l’operatore si sforza di prodi-
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Nella letteratura psicoanalitica sono ampiamente trattati i processi psichici denominati di “riparazione”: per il suo riferimento, anche in relazione ai processi di metabolizzazione/ catabolismo inerenti alla costruzione della mente: cfr. Imbasciati (1994, 2006a, b, 2007c).
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garsi ugualmente, verso questo tipo di paziente, ma la sua opera non può essere percepita come aiuto, né avrà un effetto psicosomatico positivo. L’operato verso il malato e la partecipazione solo volontaristica dell’operatore, diventano iatrogene, anziché salutifere. Il terzo destino, infine, delle angosce persecutorie si rivolge ad alimentare nell’operatore un sentimento avverso all’organizzazione sanitaria: l’operatore la vive persecutoriamente. “È il sistema che non funziona”, “È l’ospedale”, “È il caposervizio”, “Sono quegli stronzi di dirigenti che non capiscono niente”, “Sono i politici, che se ne fregano”, e via dicendo. Ovviamente in questo caso l’attribuzione della colpa all’esterno solleva l’operatore dalle sue responsabilità verso il paziente. Nella misura in cui le angosce di morte superano le difese individuali (a livello di atteggiamenti professionali o di agiti istituzionalizzati), l’operatore può trovarsi in condizioni di disagio tali da sviluppare una sindrome da stress. Nella misura in cui tali situazioni psicosomatiche degli operatori si moltiplicano, il collettivo, di solito gruppale, produce il cosiddetto burn-out. In ambito sanitario questo è tutt’altro che infrequente e può estendersi da un particolare reparto o servizio, a un’intera azienda sanitaria, o a tutta una rete di servizi. Il burn-out può produrre notevoli danni nelle organizzazioni sanitarie, che a lungo termine si traducono anche in perdite economiche per la globalità del rendimento effettivo di un servizio assistenziale a livello nazionale. Questo dovrebbe far riflettere, da un lato, sulla specifica posizione di rischio di chi è più esposto alle angosce di morte, e dall’altro sui limiti che ogni struttura individuale pone al soggetto circa una loro possibile metabolizzazione positiva rispetto a difese che inevitabilmente agiranno negativamente. Nelle organizzazioni sanitarie che hanno a che fare con la salute mentale – servizi psichiatrici – sembrerebbe di primo acchito di non aver a che fare con la morte. In realtà la morte psichica è per l’essere umano molto più angosciosa, e la sua paura più occultata, rispetto a quella della morte corporale. Per queste ragioni gli operatori che lavorano con la patologia psichica sono più esposti alle angosce di quelli che operano con la patologia fisica. Il danno corporeo altrui è sempre più alieno dal proprio io di quanto invece è vicino il danno psichico dei pazienti. La patologia dello psichico altrui è sentita, a livello profondo inconsapevole, come fosse la propria: in altri termini la malattia mentale contagia, angoscia. Della morte fisica si può sempre pensare “non sono io, anche se potrei esserlo”. Della morte psichica, presentificata dalla malattia mentale altrui, è impossibile, o molto difficile, a livello profondo, un’analoga scissione. La sofferenza psichica altrui è vissuta come fosse la propria, a livello inconscio, anche se a livello consapevole l’operatore può sforzarsi di pensare che il matto è l’altro e non un potenziale se stesso. Insomma la professione “psi” è sempre più stressante e a rischio di quella di altri operatori sanitari. Le organizzazioni psichiatriche, per essere funzionali al loro prodotto, che dovrebbe essere la salute mentale, necessitano un coinvolgimento degli operatori nella rete delle relazioni interpersonali coi pazienti. Questo non può avve-
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nire senza essere immersi e coinvolti anche nella rete interpersonale tra gli operatori, che permea tutta l’organizzazione nel flusso della CNV che circola e ne modula la struttura. L’Istituzione, dunque, interviene a strutturare l’Organizzazione: e ciò avviene inconsapevolmente, cioè senza che gli operatori se ne accorgano. L’“operatore psi” è molto esposto alle angosce che abbiamo descritto: la difesa è allora la istituzionalizzazione di un’organizzazione funzionale agli operatori, che pertanto è molto meno funzionale all’utenza: si costituisce così, al di sotto dell’organizzazione e della sua maschera di cura degli utenti, uno spirito istituzionale che serve essenzialmente per la difesa degli operatori. La difesa ricorrente più comune è costituita dall’uso esclusivo dei farmaci per l’assistenza ai malati psichiatrici. Peratnto possiamo affermare che in questo e in altri modi l’Organizzazione serve agli operatori: per i pazienti è tutto da vedere. Per tali ragioni, se difficile è organizzare le istituzioni sanitarie, poiché ognora l’istituzione mistifica l’organizzazione e la rende disfunzionale al prodotto, ancor più difficile è organizzare i servizi di salute mentale. Poiché dunque, in una certa misura, le difese sono sempre presenti nell’operato dell’operatore sanitario, sarebbe auspicabile che esse potessero essere contenute e agite il meno possibile sul malato. Da qui discende la necessità di una formazione psicologica di tutti gli operatori sanitari, ma soprattutto, poiché la struttura mentale di fondo di ognuno di essi è già strutturata, di un supporto psicologico continuato; a maggior ragione per quegli operatori che, per la natura del reparto e delle affezioni con cui operano, sono più direttamente a contatto col dolore e la morte e quindi più esposti all’attivazione delle proprie angosce di morte e delle relative difese. Un tale supporto non è facile da realizzare per due ragioni. La prima sta nel fatto che gli operatori (soprattutto i medici) facilmente sentono come vergogna o colpa l’aver questo bisogno, e pertanto tendono a negarlo, o a evaderlo. La seconda dipende dall’enorme difficoltà delle organizzazioni sanitarie, soprattutto italiane, ad allestire spazi, tempi e costi idonei a poter offrire tale supporto ai propri operatori. Tali difficoltà non sono tuttavia insuperabili: occorre però un lento lavoro di diffusione del sapere delle scienze psicologiche, psicosomatica in particolare, nell’ambito sanitario; nonché occorre una lungimiranza di investimenti economici a lungo termine.
12.3 Stress e burn-out Da alcuni anni si discute sul burn-out riferendosi alle professioni sanitarie e riferendo il concetto a quello di stress. il burn-out sarebbe l’effetto dello stress e ciò sarebbe pregnante nelle professioni sanitarie. Le suddette nozioni, in realtà sommarie e generiche, se non ambigue e riduzioniste, sono entrate nella cultura sanitaria a seguito del successo riscosso da quanto pubblicato da Christine Maslach (Maslach, 1982; Maslach, Leiter, 1997). In realtà gli scritti di queste autrici hanno ingenerato alcune confusioni: a) una indebita equivalenza tra stress e burn-out; b) l’identificazione del burn-out come sindrome riferita al
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singolo anziché al collettivo; c) il sottinteso che il burn-out si attui soltanto nelle organizzazioni sanitarie; d) una strisciante cognizione etico-volontaristica. Alcuni recenti autori (Giordano, 2006) hanno giustamente notato nel modello della Maslach una contaminazione epistemologica tra punti di vista di scienze diverse, senza che questo si sia tradotto in una integrazione: ciò potrebbe a nostro avviso aver dato origine nella cultura sanitaria ad alcune distorsioni e semplificazioni, sulle quali è opportuno portare chiarimenti. Il termine stress, che in inglese significa “sforzo”, è entrato nel linguaggio scientifico internazionale per indicare situazioni che provocano disagi psichici e fisici. Il termine è stato usato in modi diversi, spesso in contrasto e in conflitto. Assai frequentemente è stato usato come sinonimo di stimolo nocivo: in questo caso, si dovrebbe invece parlare di stressor o agente stressante, altrimenti non si tiene conto della reazione del singolo organismo allo stimolo. Spesso capita, in ambito sanitario, che a pazienti con una sintomatologia poco chiara venga detto che “si tratta di stress” in modo generico, in una concezione ingenua del termine. Una comunicazione di questo genere ai pazienti è chiaramente errata: in primo luogo perché il concetto di stress è stato definito e ampiamente studiato, in secondo luogo perché così facendo si etichetta genericamente qualsiasi disturbo di difficile diagnosi senza però fornire una chiave di lettura che consenta una soluzione del problema, in terzo luogo perché in tal modo si sottovaluta il male, o si presume che il soggetto abbia la capacità di farselo passare. Lo stress inoltre non è attivato automaticamente da determinati stimoli, ma è una sindrome che alcuni individui, non tutti, possono sviluppare di fronte a certi insiemi, peraltro variabili, di stimoli. È pertanto più corretto usare la denominazione “sindrome da stress”, per indicare una risposta psicofisiologica, complessa, ad alta variabilità individuale, a una serie eterogenea di stimoli fisici, biologici o psicosociali, interni o esterni all’organismo. Dopo i primi studi di Cannon (1929), che introdusse il concetto di reazione d’allarme in biologia analizzando per primo alcuni aspetti psiconeuroendocrinologici, importante contributo fu quello portato da Selye (1978a), che definì lo stress come “una reazione adattativa fisiologica, aspecifica, a qualunque richiesta di modificazione esercitata sull’organismo da una gamma assai ampia di stimoli eterogenei, ed espressa essenzialmente da variazioni di tipo endocrino”. Come tale, esso può essere prodotto da una gamma estremamente ampia di stimoli (“stressors”), che inducono essenzialmente la medesima reazione di difesa finalizzata all’adattamento dell’individuo, cioè al ripristino di un nuovo equilibrio dell’organismo. Selye (1978b) definì come stressanti quegli stimoli capaci di aumentare la secrezione dell’ormone adrenocorticotropo (ACTH), e interpretò tale reazione come una risposta sistemica dell’organismo definita sindrome generale di adattamento. Questa non deve essere considerata in termini negativi, in quanto molte modificazioni biologiche così determinate consentono all’organismo un migliore adattamento alle richieste dell’ambiente. Lo stress è dunque da intendersi come una risposta biologico-comportamentale caratterizzata dall’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurre-
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ne secondo il seguente percorso: a) le informazioni riguardanti lo stressor (che possono provenire dall’esterno, attraverso il sistema sensoriale, e dall’interno stesso nel caso di elaborazioni di emozioni), vengono elaborate in un certo modo entro il SNC e trasmesse all’ipotalamo; b) qui abbiamo l’increzione del corticotropin releasing factor (CRF, fattore rilasciante la corticotropina) che stimola l’ipofisi anteriore a produrre ACTH; c) questa a sua volta stimola la corteccia surrenale a produrre e rilasciare cortisolo. L’organismo si attiva in tal modo per riparare un eventuale danno. Gli studi di Selye dimostrarono come le reazioni difensive possano essere messe in relazione agli stimoli più diversi, siano essi fisici, intrapsichici o psicosociali: si può trattare quindi di una ferita accidentale, di una frattura, di un intervento chirurgico, così come di emozioni (rabbia, paura, ansia, come anche affollamento o cambiamenti delle condizioni sociali). Lo stress non è quindi una condizione patologica dell’organismo, anche se può produrre patologia in determinate circostanze: condizioni di stimolo assolutamente normali e fisiologiche (come un’attività sportiva) possono diventare stressor a seguito di particolari elaborazioni psichiche degli stessi. La reazione di stress è una reazione fisiologicamente utile in quanto adattativa; che può divenire una condizione patogena per certi individui o se lo stressor agisce con particolare intensità e per periodi di tempo lunghi. In conclusione è opportuno riservare il termine stress alla sindrome sviluppata dall’individuo e non all’insieme di stimoli che possono eventualmente provocarlo. Lo sviluppo della sindrome dipende da fattori individuali. A parità di stimoli certi individui possono sviluppare la sindrome e altri no; così pure per alcuni individui la sindrome può assumere caratteri patologici: originariamente adattativa, la sindrome non ha trovato la situazione e la modalità idonea, nel rapporto tra quell’individuo e quell’evento stressante, per raggiungere l’adattamento, cosicché l’individuo si è scompensato. È questo lo stress in cui l’individuo, per così dire, soccombe: il suo stress è allora una condizione di tipo patologico. Lo stress comporta la messa in moto dei meccanismi neurofisiologici che caratterizzano le emozioni: per questa ragione alcuni autori hanno proposto il concetto di stress psicologico. In realtà lo stress in sé, in quanto coinvolgente la neurofisiologia delle emozioni e in quanto dipendente dalla risposta del singolo individuo, dipende sempre dalla regolazione delle emozioni di quell’individuo. In questo senso lo stress è sempre psicologico o, meglio, psicosomatico. Lazarus (1966) sottolineò come nel cosiddetto stress psicologico la reazione dipenda dalla valutazione del significato dello stimolo: gli stimoli che raggiungono l’organismo vengono valutati dal sistema mentale dal punto di vista del loro significato, prima di produrre una reazione emozionale; o meglio, una situazione definibile come emozionale è sempre intrinsecamente connessa al significato che il sistema dà alle informazioni che riceve. La reazione di stress, sia nei suoi aspetti fisiologici che psicologici, è dunque parzialmente specifica di ogni individuo. Lazarus portò l’attenzione sulla valutazione che il soggetto fa dello stimolo percepito; appare quindi chiaro che le caratteristiche persono-
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logiche dell’individuo divengono l’elemento centrale per giudicare se uno stimolo costituisce o meno una minaccia e conseguentemente se la reazione psicofisiologica venga o no avviata, e in che grado e con quali conseguenze. La sindrome da stress può dunque essere così descritta: comparsa dello stimolo, valutazione cognitiva, attivazione emozionale e risposta sindromica. Il contributo degli autori a maggiore impostazione psicologica al problema dello stress è stato fondamentalmente quello di avere rovesciato la precedente prospettiva di analisi al fenomeno: prima si accentrava l’attenzione sullo stimolo e sulle sue caratteristiche, ora si sottolinea l’importanza della soggettività, implicata nella valutazione del significato dello stimolo come capace di produrre una sindrome da stress, mediata dall’attivazione emozionale. Tale definizione enfatizza l’importanza delle differenze interindividuali e allo stesso tempo fornisce una chiave di lettura per quelle situazioni (per esempio lavorative) in cui persone poste nelle stesse condizioni reagiscono all’ambiente e agli stimoli in maniera differente e talvolta opposta. Lo stress può dunque essere considerato un’organizzazione psicosomatica, dell’organismo e della mente, in risposta a una richiesta che esige un elevato livello di prestazioni, per raggiungere certi scopi. Ciò implica spesso un vissuto di tensione e di allarme. Ognuno di noi ha sicuramente sperimentato questa situazione di tensione, in prossimità di un compito impegnativo, o di un avvenimento importante o dopo avvenimenti negativi e dolorosi, come la malattia o la perdita di persone care. Questa tensione è indice di un lavoro mentale teso a superare le difficoltà della prestazione che ci si presenta: in molti casi questo aiuta a far fronte (coping) alla situazione. In altri casi il lavoro mentale non riesce a produrre la reazione comportamentale adeguata a superare la difficoltà, vuoi perché questa è effettivamente cospicua, vuoi perché comunque sproporzionata rispetto alle possibilità elaborative di quella struttura mentale (e fisica) in quel momento di quell’individuo. Accade allora che la tensione diventi malessere, disagio avvertito, e possa sfociare in disturbi, fisici e psichici: la sindrome da stress diventa evento patologico. Lo stress, e quindi lo stato di salute, sono peraltro legati all’ambiente in cui le persone vivono e da cui sono circondate. Nel mondo occidentale lo sviluppo delle cosiddette “malattie della civiltà”, tra le quali principalmente le malattie cardiache, il cancro e il diabete, è favorito da situazioni stressanti, interrelate a scorrette abitudini alimentari, abusi di farmaci, vita sedentaria e inquinamento ambientale. Pur nella loro genericità diagnostica, l’aumento dei “disturbi da stress” è segnalatore di stili di vita e di fattori ambientali. L’attenzione a questi fenomeni si rivela dunque un indicatore fondamentale di tutti quei fattori che sono stati descritti come determinanti lo stato di salute. Uno dei filoni di ricerca che tradizionalmente si è sviluppato all’interno degli studi sullo stress è quello dello stress lavorativo. Se si considera che il lavoro impegna gran parte del tempo della vita di una persona e che anche tramite il suo tornaconto economico si determinano gli standard individuali di vita e lo status sociale connesso, il lavoro contribuisce in modo fondamentale alla stima di sé, innanzi tutto garantendo all’individuo il sentimento di padro-
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nanza del proprio ambiente e poi fornendogli la possibilità di “controllare la propria valutazione di sé nei confronti della valutazione fornita dagli altri e in tal modo acquistare un senso di valore personale” (Marocci, 1983). Pertanto il lavoro costituisce un grosso fattore emotivo, che può diventare potente stressor. Numerosi studi dimostrano la relazione tra variabili lavorative e livello di disagio individualmente percepito. Alcuni autori (Cherniss, 1980; Favretto, 1994) fanno riferimento al modello interazionale proposto da McGranth (1976) che sembra essere quello che meglio spiega le dinamiche lavorative nello stress. Tale modello si basa sul principio che l’esperienza stressante è il risultato di uno squilibrio fra la domanda all’individuo e la sua capacità di rispondere a questa, nella circostanza in cui rispondere con successo diventa un fatto importante. È chiaro dunque che il livello di stress provato dalla persona dipende soprattutto dalla sua percezione delle conseguenze di fallimento nel soddisfacimento della richiesta. Le richieste possono essere interne ed esterne: le prime comprendono le mete desiderate, i bisogni, i valori, gli impegni o i doveri appartenenti alla persona e provenienti dalla società. In tema di stress lavorativo è intuitivo pensare che il lavoro sia una delle possibili fonti di gratificazione o frustrazione di molti di questi aspetti interni all’individuo. Le seconde sono costituite dagli aspetti diversi del lavoro, quali per esempio i compiti inerenti le mansioni e il modo in cui sono organizzati, l’ambiente fisico e i ritmi di lavoro, il clima psicologico dell’ambiente. Le domande interne e quelle esterne interagiscono e producono una più generale “domanda”, percepita da una persona all’interno della sua situazione lavorativa. L’efficienza di un’organizzazione è strettamente correlata con la soddisfazione e la qualità di vita e di lavoro degli operatori: per quest’ultima ragione il concetto di stress fu applicato in Psicologia del Lavoro (più tardi nella più specifica branca della Psicologia delle Organizzazioni), nel cui ambito già si stavano osservando e studiando le cause di scarsa efficienza di industrie, di organizzazione di servizi o di parti di esse. Soprattutto a livello di dirigenza e di quadri intermedi, si osservò come la qualità del prodotto di un gruppo, di uno staff, o anche di un singolo individuo, fosse correlata a situazioni psicologiche, individuali e di gruppo. Alcune persone, soprattutto a livello di media dirigenza, a un certo punto della loro carriera, o immessi in un certo settore, potevano presentare un calo delle loro capacità e prestazioni, sì da poter essere considerati bruciati agli effetti dell’efficienza nel progresso in azienda. Ecco il termine burned-out (=bruciato), usato negli anni ‘30 nel campo dell’atletica professionistica (Santinello, 1990) per definire un calo della forma fisica dell’atleta. Trasportato in campo industriale, il termine ebbe enorme successo e si cominciò a parlare di sindrome del burnout o più semplicemente di burnout. Si evidenziò inoltre come la sindrome fosse correlabile più spesso a un gruppo, piuttosto che a un singolo: questo determinò un accento dell’osservazione sulla rete relazionale che poteva condizionare il calo delle prestazioni di un gruppo, o anche di una singola persona, però per modalità riferibili a quel gruppo. Si posero così in evidenza il fattore umano relazionale, espresso soprattutto attra-
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verso gli indici collettivi (o gruppali) inerenti alla situazione ambientale e organizzativa del lavoro. Il burn-out fu poi studiato in ambito sanitario e qui ebbero molto successo le pubblicazioni della Maslach, riferite soprattutto agli infermieri, al punto che nella cultura sanitaria si dimenticarono i precedenti studi in altre aree e si considerò l’evento come fosse esclusivo degli operatori sanitari o, più in generale, degli operatori interumani: operatori “dell’aiuto”. Ciò portò a dare rilievo al burn-out come sindrome individuale, mettendone invece in ombra gli aspetti collettivi. Di qui derivò, sull’onda della mentalità medicalistica, un connotato di patologia a tale termine, e un riferimento al singolo individuo: la sindrome del burnout come una sorta di malattia professionale, ovviamente, secondo il modello medico, individuale. Il fatto poi che tale “malattia” fosse psichica portò un’ulteriore connotato al termine: nella concezione coscienzialista e pertanto volontaristica del senso comune, si alimentò la tendenza a valutare la sindrome in riferimento a una qualche responsabilità del soggetto. Il che è funzionale alla deresponsabilizzazione dell’Organizzazione e pertanto funge da difesa dell’Istituzione. Il burn-out è evento in primo luogo collettivo: il termine va pertanto applicato a una determinata organizzazione (aziendale, o reparto di questa, gruppo, staff, settore, ecc.), più che al singolo. Al singolo meglio si addice il termine di “sindrome da stress”, anche se questo inevitabilmente, sul lavoro, deve far riferimento a un collettivo. Inoltre il burn-out non è specifico delle professioni sanitarie, come gli scritti della Maslach fecero pensare: si tratta di un fenomeno generale, che interessa qualunque collettivo organizzato: per le professioni d’aiuto, tra cui quelle sanitarie, può assumere aspetti particolari, o meglio può produrre eventi da tenere in conto per la qualità del “prodotto-salute”. In qualunque organizzazione si può facilmente rilevare la presenza o la minaccia di un burn-out, tenendo conto di quanto possiamo denominare indici obiettivi: assenteismo, turn over, qualità del prodotto, infortuni. In ogni organizzazione o settore di essa, è normale che i lavoratori usufruiscano di assenze giustificate (ferie, malattia, permessi vari): la quantità e le modalità di distribuzione di tali giorni di assenza può indicare burn-out. Tale indice è quello di più facile rilevazione, per il quale non occorre neanche entrare nel reparto: basta l’ufficio personale. Il secondo indice è dato dalla quantità di richieste di cambiare reparto, nonché di abbandono di quel lavoro. Anche questo indice è di semplice rilevazione. La qualità del prodotto è facilmente e automaticamente verificabile e verificata in tutte le aziende che producono manufatti. È il controllo qualità, la quantità di pezzi scartati. Nelle organizzazioni, il cui prodotto non è fisicamente visibile, come per esempio la scuola o la sanità, il controllo qualità è molto complesso e spesso non viene praticato. Eppure può esserlo, e le procedure idonee a rilevarlo valgono i costi sociali di un cattivo prodotto. Nella sanità il prodotto (guarigione da malattie, buona salute) può essere per esempio rilevato dalla quantità e durata dei ricoveri, dalle visite ripetute, dalle recidive, dalla diffusione di malattie o di sindromi per mancata prevenzione, e via dicendo.
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Il quarto indice sopraelencato è dato dalla quantità di infortuni sul lavoro: nella sanità, oltre agli infortuni al personale, si devono considerare altri indici di “infortunio”: per esempio sbaglio o scambio di cartelle cliniche, o di farmaci, o altri incidenti, spesso piccoli ma nell’insieme rilevanti. Quanto sopra per meglio qualificare il burn-out come sindrome collettiva: tale sottolineatura è a nostro avviso opportuna in quanto il riferimento al singolo spesso serve come alibi per mettere in ombra i fattori organizzativi, sottolineando invece gli indici soggettivi, ma non per porre rimedio a questi, bensì per deviare sul singolo le responsabilità, nel sottinteso assunto, volontaristico e idealistico, in fondo colpevolizzante, che caratterizza spesso il clima sanitario italiano. Qui infatti, di fronte agli inconvenienti che imporrebbero un intervento organizzativo, pertanto con costi facilmente prevedibili, alle dirigenze si offre l’alibi di scaricare la responsabilità sui singoli, facendo appelli etici, alla buona volontà, allo sforzo, alla sensibilità, all’impegno morale di fronte alla malattia, agli ideali professionali; sotterraneamente incolpando gli operatori che non riescono a far fronte “al loro dovere”. È ovvio che tale politica, a lungo e lunghissimo termine, ha costi economici maggiori di quelli che necessiterebbe un intervento sull’organizzazione, ma tali costi si prestano a essere diluiti in mille rivoli, riversabili al di fuori dell’azienda, rilevabili solo socialmente. Tale ritorno negativo può pertanto essere facilmente camuffato e può così prestarsi a essere alibi per evitare decisioni politiche che altrimenti si imporrebbero.
12.4 Il burn-out nelle professioni di aiuto Il fatto che in un collettivo il burn-out si rifletta nelle relazioni interpersonali tra gli operatori rende più a rischio quelle organizzazioni in cui la relazione interpersonale non avviene semplicemente tra gli operatori, mentre lavorano per altri fini produttivi, ma è essa stessa “oggetto di produzione”. Tutte le professioni di aiuto hanno al loro centro lo strumento della relazione tra l’operatore e l’utente. Questa relazione può essere di per se stessa stressante, e tale stressor può causare burn-out. Lo stressor è in questo caso, oltre che complesso, di potente quanto inconscio impatto per le angosce di morte che esso contiene. La specificità professionale esige che l’operatore possieda e possa usare quella adeguata competenza interpersonale che stabilisca con l’utente il sufficiente grado di buona relazione che permette all’operatore di porgere in modo efficace l’aiuto, e all’utente di assimilarlo; una relazione che abbia un’incidenza psicosomatica. Il lavoro interpersonale esige una fatica emotiva che mette a cimento anche chi ha conseguito percorsi formativi ottimali ed è difficile che un operatore ne possa mantenere un buon livello con continuità in ogni momento della sua vita professionale (tanto più se la sua formazione non è ottimale), se gli manca la formazione permanente. A maggior ragione se le condizioni lavorative, soprattutto organizzative, impongono richieste professionali eccessive: cosa che purtroppo avviene spesso nei nostri servizi. Inoltre l’operatore, che deve cimentarsi in un non indifferente lavoro emotivo col suo uten-
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te, abbisogna – meglio abbisognerebbe – del supporto di una rete interpersonale tra tutti i componenti del servizio, che sia sufficientemente buona da non comportargli ulteriore sforzo emotivo, oltre quello già cimentato con l’utente. Succede così che una sindrome di burn-out sia molto frequente in ambito sanitario per concorso di cinque ordini di fattori: a) lavoro specifico con l’utenza; b) dubbia formazione acquisita; c) mancanza di supporto permanente; d) rete relazionale tra operatori; e) difetti insiti nel tipo di organizzazione con cui si è progettato e attuato uno specifico servizio. Spesso si identifica burn-out in generale e burn-out nei servizi sanitari, o comunque nelle professioni di aiuto, dimenticando che il burn-out può aversi anche in un’acciaieria. Una certa chiusura in se stessa della letteratura sociosanitaria ha fatto sì che non si conosca la letteratura che invece riguarda tutto il mondo del lavoro, o anche quello delle specifiche professioni di aiuto costituite dalle istituzioni scolastiche: pertanto si rileva la tendenza a identificare il burn-out con quello più particolare che è stato descritto in ambito sanitario. Qui la letteratura ha sempre accentuato il rilievo di quanto si riscontra nel singolo, mettendo in ombra i fattori collettivi e quasi attribuendo al singolo le ragioni, e implicitamente le responsabilità, del suo essere in burn-out. Gran parte dei comportamenti individuali che in ambito sanitario vengono identificati con l’espressione “sindrome del burn-out” furono descritti in letteratura ancor prima che si giungesse a una loro definizione unitaria. Già Kraepelin all’inizio del secolo notava particolari comportamenti legati alla personalità degli psichiatri e al loro “esaurirsi”. È qui opportuno soffermarsi sul termine “esaurimento”, ricorrente anche in ambito scientifico, che per la sua imprecisione può dare origine a degli equivoci: non c’è nulla che “si esaurisca”; il termine è stato preso dal vissuto che spesso in simili situazioni l’individuo sente di non avere più forze per fare qualcosa; come se queste si fossero “esaurite”. Questa è però una situazione soggettiva, che non indica che una qualche sostanza, organica o psichica, si sia esaurita: è una metafora, presa forse in ossequio a uno stereotipo del cervello concepito come una batteria, o alla concezione energetica che ha dominato molte teorie neurofisiologiche (anche quella di Freud) di fine ‘800. Dire “esaurimento” è dunque usare una metafora concreta che si riferisce a uno stato soggettivo. Situazioni di stress, del resto, non sempre sono identificabili nella sensazione di essere esauriti. Parlando di “esaurimento”, si fa riferimento a un insieme articolato di emozioni, i cui risvolti consapevoli possono essere volta volta sensazione di sconfitta, impotenza, rinuncia, depressione, rabbia e altre; o astenia riferita al corpo. Il termine burn-out fu introdotto in ambito sanitario da Freudenberger nel 1974, per indicare una particolare forma di reazione allo stress lavorativo ritenuta tipica delle professioni di aiuto (medici, psicologi, infermieri, fisioterapisti, assistenti sociali), ossia delle professioni a contatto con utenti-clienti nelle quali la qualità della relazione è determinante per l’espletamento della professione. La Maslach (1982), le cui opere hanno avuto molto riscontro in ambito sanitario, formulò questa definizione: “il burn-out è una sindrome di esaurimento emozionale, di spersonalizzazione e di riduzione delle capacità persona-
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li che può presentarsi in soggetti che per professione si occupano della gente. Si tratta di una reazione alla tensione emozionale cronica creata dal contatto continuo con altri esseri umani, in particolare quando essi hanno problemi o motivi di sofferenza. Quindi si può considerare un tipo di stress occupazionale ma, benché abbia alcuni effetti deleteri in comune con altre reazioni allo stress, il fattore caratteristico del burn-out è che lo stress sorge dall’interazione sociale tra l’operatore e il destinatario dell’aiuto” (Maslach, 1982, p. 2). Secondo l’autrice il burn-out si manifesta classicamente con tre sintomi fondamentali: il senso di esaurimento emotivo, la spersonalizzazione e la riduzione delle capacità personali. Il fenomeno dell’esaurimento emotivo potrebbe diversamente essere definito come caduta della tensione emotiva o collasso emotivo. Il soggetto non prova più emozioni di fronte alla sofferenza umana, non ha più interessi per le sue mansioni. La cronicizzazione di tale aspetto conduce a un atteggiamento analogo anche con i familiari. Il soggetto è apatico, annoiato, indifferente e mostra segni evidenti di astenia. L’esaurimento emotivo sembra unanimemente riferibile a un precedente periodo di sovraccarico emozionale. La spersonalizzazione consiste nel cambiamento del comportamento verso gli utenti. L’operatore agisce nei loro riguardi in modo spersonalizzato: dalla perdita dei sentimenti positivi verso l’utente, si passa a un modello negativo in base al quale si verifica una burocratizzazione della relazione, con un atteggiamento indifferente, scostante, talvolta maleducato o aggressivo e cinico. Si produce quindi una disumanizzazione del servizio. Le definizioni della Maslach hanno avuto il merito di riconoscere e sistematizzare il burn-out come campo di indagine dell’ambito sanitario, ma paiono rappresentare una visione riduttiva dello stesso, sia perché fanno intendere che il burn-out sia un fenomeno relativo soltanto all’ambito sanitario, sia perché la trattazione della Maslach si ferma a una visione solo del singolo individuo, senza prendere adeguatamente in considerazione il burn-out come fenomeno collettivo e sociale; che va analizzato collettivamente a livello del funzionamento delle organizzazioni, distinguendolo così dalla sindrome da stress. Ciò che descrive la Maslach corrisponde più al concetto di sindrome da stress che a quello di burn-out. È opportuno pertanto tenere distinti i due concetti e usare differenziatamente i due termini: la sindrome da stress va riferita al singolo e può anche essere del tutto fisiologica; il burn-out va riferito a quando, a livello collettivo, un insieme di situazioni stressanti diventano patogene, generando sindromi nei singoli, ma soprattutto il crollo dell’efficienza del collettivo. Quest’ultimo effetto lo si rileva dal difetto, maggiore o minore, del prodotto di quel collettivo: nel nostro caso la qualità del “prodotto salute”. La sua rilevazione non è semplice, come quella che può essere misurata in un’industria: qui il controllo-qualità si effettua in cose concrete (per esempio il numero di pezzi che vanno scartati), mentre un controllo-qualità del prodotto di una professione di aiuto esige strumenti di misura essenzialmente psicologici, complessi e di non facile applicazione, data anche la resistenza delle organizzazioni ad accettare di applicarli. Eppure un controllo-qualità del “lavoro” dell’aiuto si impone. Avviare servizi di aiuto “eseguendo” un mandato che pro-
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viene da istanze di sola politica assistenziale, aiuta l’utenza solo per quella parte prevista dal “ritorno” meramente istituzionale, cioè formale: dimostrare che “si fa qualcosa” che ha l’intento di aiutare. Questo, da intento politico, si trasforma talora in azione demagogica: si è soddisfatti di aver dimostrato di aver fatto qualcosa con le migliori intenzioni, senza considerare che il vero vantaggio dell’investimento effettuato è l’efficacia dell’aiuto. Se si vuole che l’investimento economico nell’organizzare quel servizio sia veramente produttivo occorre che sia considerato il “prodotto”, la qualità del prodotto, anche per i servizi che erogano “aiuto”. Occorre in altri termini quello che in ambito industriale si chiama controllo di qualità. Altro autore noto nello studio del burn-out è Cary Cherniss (1980). Le sue descrizioni sono molto particolareggiate e colgono gli aspetti psicologici molto più di quanto non abbia fatto la Maslach (Imbasciati, Margiotta, 2005, 2008), tuttavia anch’egli, focalizzando il singolo, alimenta la tendenza a trascurare il collettivo, a dispetto delle affermazioni esplicitate in proposito. Ne deriva un difetto, comune alla visione della Maslach, e cioè una sorta di patologizzazione della sindrome. Ovvero si considera il burn-out nei suoi esiti evidenti, cioè quando si manifesta alla stregua di una malattia: non si penetra invece nel “processo”, direi nel burning e non nel burnt, negli eventi psichici profondi alle radici di quanto avviene nella mente dei professionisti dell’aiuto. In questo modo il “discorso” è sempre sul burn-out quando questo è avvenuto e riscontrato, senza esaminare preventivamente i processi mentali che hanno luogo negli operatori prima che “si brucino”. Non entra nel burn-out. Questo aspetto è invece a nostro avviso il più importante per le professioni d’aiuto. Qui infatti è il contatto interpersonale con l’utente, e non soltanto la rete interpersonale degli operatori “organizzati”: occorre pertanto entrare dentro i processi psichici che compongono tale contatto e che possono generare la “buona relazione” piuttosto che, rinforzati dai fattori organizzativi, dilagare nel burn-out del collettivo, che hanno il maggior potere di “bruciare”. Occorre pertanto entrare dentro questo processo, per evitare che il potere di un burning bruci l’operatore. Altrimenti il “discorso” sul burn-out resta un discorso su qualcosa di altro, che viene vissuto scisso dall’essenza umana degli operatori. Un orientamento recente e non molto ancora riconosciuto, che considera questo aspetto, è rappresentato dagli studi gruppoanalitici (Patella, 2005; Giordano, 2006): le ricerche di questo tipo prendono in esame ciò che avviene nell’animo dei professionisti dell’aiuto, a contatto con l’impatto emotivo degli utenti, prima che essi si trovino nella conclamata situazione descritta come burn-out. In altri termini questo orientamento configura una ricerca-intervento di prevenzione, del tipo di una formazione permanente, che eviti il disastro che è ormai compiuto quando il burn-out si è pienamente evidenziato. Sotto questo punto di vista il singolo è considerato nel contesto organizzativo del collettivo in cui sta operando, non per descrivere, quasi psichiatricamente, ciò che è accaduto a lui e come di conseguenza egli abbia preso a comportarsi, bensì cosa sta accadendo, o sta per accadere, dentro di lui, nell’impatto della sua professione d’aiuto nelle condizioni in cui questa si trova a esplicarsi.
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12.5 Burn-out e psicologia della salute In sostanza il burn-out nei servizi socio-sanitari è stato valutato sia dal punto di vista delle caratteristiche personologiche degli operatori, sia dal punto di vista organizzativo-professionale, sia soprattutto considerando ciò che tale ultimo aspetto anima negli operatori e si ripercuote su tutto il gruppo e l’organizzazione stessa. Un corretto approccio al problema deve riuscire a considerare i tre aspetti nei loro reciproci feedback: purtroppo questa non è una via che viene sempre percorsa, non perché impossibile dal punto di vista operativo, quanto piuttosto per la difficoltà di concepire e applicare modalità di intervento istituzionali integrate tra individuo, gruppo e organizzazione. Al contrario, spesso si preferisce restare a livello individuale, come se il burn-out fosse un problema dei singoli. Questo rischio si corre specialmente nelle organizzazioni sanitarie, dove il problema, per l’utilizzo del termine “sindrome”, viene subito concepito, e fatto rientrare, secondo la tradizione clinico-medica, come manifestazione del singolo e non di una intera struttura, e come una manifestazione patologica, che, essendo oltretutto psichica, facilmente rischia di essere inquadrata in una visione coscienzialista e volontaristica, imputata alla responsabilità del singolo. In tal senso in ambito medico e sanitario, parlando di burn-out, si privilegiano i primi studi della Maslach a scapito di altri, poiché, evidenziando l’autrice le caratteristiche individuali (sindrome da stress), il suo modello si confà di più a un paradigma di tipo medico, ed evita oltretutto di affrontare il funzionamento di tutta l’organizzazione. Si dimentica però che qualsiasi persona, al di là della sua struttura di personalità, immessa in un’organizzazione burning, rischia comunque di “bruciarsi”. Il burn-out, quindi, per essere affrontato compiutamente, richiede la conoscenza di un approccio centrato sull’organizzazione e non semplicemente sullo stress. Cherniss nel 1980 sosteneva che le differenze organizzative e di lavoro sono le cause più importanti del burn-out, ancora più di quanto lo siano le caratteristiche individuali, affermando indirettamente che un intervento a livello organizzativo potrebbe avere una risonanza maggiore. Cerchiamo di introdurre entrambe le visioni del problema. Tra i fattori individuali che potrebbero essere il terreno su cui più facilmente nasce il burn-out vi sono le strutture di personalità e gli atteggiamenti verso la professione. Esistono differenze individuali nella gestione dello stress, una sorta di vulnerabilità particolare che caratterizza un singolo, e che può essere ascrivibile a tratti della sua personalità. Una tendenza a utilizzare difese psichiche inadeguate, la scarsa autostima o un eccessivo interesse per l’approvazione altrui sono caratteristiche che predispongono l’individuo allo sviluppo di burn-out. Freudenberger (1974) sostiene che le persone con grandi ideali e con molti obiettivi da realizzare sono predisposte a sviluppare burn-out. La prevalenza di aspettative di lavoro irrealistiche o idealizzate fra gli operatori dei servizi sociali e sanitari sembra essere molto elevata e chiaramente la differenza tra aspettative e realtà è una grossa fonte di stress. Le aspettative possono essere legate sia a risultati professionali sentiti come inadeguati, sia rivolte
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all’Organizzazione presso la quale viene prestata l’attività. Alte aspettative, legate ai risultati, motivano l’operatore a un intenso lavoro emotivo. Una deludente realtà organizzativa può provocare negli operatori ripetute reazioni per cambiare il sistema, però con scarsi risultati, esitando alla fine in una situazione prima di rabbia e poi di stanchezza e rinuncia. Una cattiva organizzazione che si riveli disumanizzante può indurre gli operatori ad adattarsi diventando disumanizzati e spersonalizzati a loro volta. Una delle principali modalità attraverso le quali le condizioni di lavoro influenzano lo stress lavorativo è la struttura di ruolo, cioè la modalità attraverso cui i compiti e i doveri sono distribuiti tra i ruoli specifici in una determinata situazione. Alcune strutture di ruolo tenderanno a creare più stress e tensioni di altre che, per esempio, forniscano stimoli e coinvolgano il personale anche a livelli decisionali, aumentando il senso di appartenenza e il livello di soddisfazione. Un conflitto di ruolo può presentarsi di fronte a un sovraccarico di richieste rispetto al tempo disponibile o, alle abilità professionali dell’operatore che, pertanto, si troverà a lavorare con bassi livelli qualitativi e a non riuscire a esprimere la propria professionalità. Il conflitto di ruolo si può instaurare anche quando sono proposte, da fonti diverse, due richieste tra loro incompatibili, verificandosi così l’impossibilità di soddisfarne una senza disattendere l’altra. Anche l’incompatibilità tra il comportamento lavorativo richiesto e le personali motivazioni e valori possono essere importanti fonti di stress. Cherniss (1980) descrive anche il conflitto professionale-burocratico, che nasce dal tentativo di conciliare l’ideale professionale con l’interesse dell’organizzazione. Quindi l’incompatibilità tra le richieste di ruolo e le capacità, le mete, i valori e le convinzioni dell’operatore crea un conflitto interno, che si ripercuote sia sul benessere dell’operatore che sulla qualità del lavoro e dell’organizzazione. Anche ruoli altamente ambigui costituiscono stressors: situazioni in cui l’operatore non dispone delle informazioni necessarie per assolvere adeguatamente i compiti previsti, formalmente o informalmente, dal suo ruolo. Le cause dell’ambiguità di ruolo nei servizi socio-sanitari sono legate a numerose variabili che comprendono: la mancanza di un chiaro feedback concernente i risultati del proprio lavoro, obiettivi e criteri di esecuzione ambigui, la notevole quantità di tempo necessaria affinché i risultati siano visibili e l’incertezza riguardo a tali risultati. Un’influenza sulla struttura di ruolo è data anche dal rapporto con il “potere”. Si fa qui riferimento alla possibilità di partecipare a decisioni e di avere autonomia nel lavoro. Infatti l’incidenza del burn-out fra gli operatori è maggiore nelle organizzazioni molto burocratizzate, in cui esistono regole rigide che lasciano ridotta autonomia agli operatori. Diversamente, la sensazione di poter influenzare le decisioni riduce il conflitto di ruolo. Come si può constatare, questi aspetti si riferiscono a tutte le organizzazioni, comprese quelle – come le strutture scolastiche – che sono meno direttamente connesse coi problemi della salute ma che ugualmente hanno come strumento di lavoro la relazione interpersonale. E infine, fattore ricorrente nelle organizzazioni sanitarie italiane è la scarsezza di risorse: di strumenti, di locali, di personale
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soprattutto, nonché di livelli stipendiali, sentiti come troppo bassi rispetto alle mansioni, che, confrontate con le richieste che dall’alto vengono fatte agli operatori, provocano situazioni che sfociano in sindromi da stress e – amplificate nel gruppo – in burn-out. Se da un lato il contatto con il cliente può risultare stressante, l’ambiente di lavoro è costituito anche da altre relazioni che possono essere fonte di ulteriore stress: parenti degli utenti, superiori, colleghi, ecc. Preventivare allora, nell’organizzazione dei servizi, momenti strutturati di supervisione potrebbe esercitare un’influenza importante nel rapporto individuo/lavoro. Questo tipo di supporto, infatti, può alleviare la situazione stressante. Cherniss (1980) osserva che il supervisore dovrebbe fornire innanzi tutto, in un clima di comprensione, un feedback che rimandi all’operatore una valutazione precisa del proprio lavoro; in secondo luogo dovrebbe fornire un’assistenza tecnica e umana che favorisca la “crescita” professionale. In questo clima la supervisione risulterebbe un adeguato rimedio per il burn-out. Non solo il rapporto con i superiori, ma anche le interazioni con i colleghi possono contribuire a ridurre lo stress lavorativo. Per esempio, la programmazione di incontri periodici tra operatori potrebbe facilitare la distensione emotiva garantendo uno spazio di discussione dei problemi lavorativi; inoltre il confronto tra persone fornisce a ogni singolo un modo per valutare il proprio lavoro e garantisce lo scambio di informazioni tecniche e consigli pratici. In questo modo viene favorito il senso di appartenenza al gruppo. Entriamo qui cioè nell’area della formazione permanente intesa come supporto continuativo degli operatori: i professionisti dell’aiuto hanno necessità di essere continuamente aiutati. C’è però molta vergogna, al proposito, nei collettivi sanitari. Un intervento del tipo di quello della gruppoanalisi avrebbe però l’effetto di una prevenzione del burn-out. Occorre tener conto che qualunque prevenzione costa a lungo termine meno dell’intervento quando si sono manifestati i guai. Ma questo non è di facile applicazione. Per tutte queste operazioni, occorre che siano predisposti adeguati spazi di tempo nell’orario di lavoro; il che rimanda allo squilibrio tra richieste e risorse. Il fenomeno del burn-out nasce in realtà, e deve essere considerato, come un male dell’Organizzazione, che non tiene conto dei limiti di ogni individuo e soprattutto dell’esistenza di dinamiche collettive che travalicano non solo la responsabilità dei singoli, ma la loro stessa consapevolezza. Come pionieristicamente indicato dagli studi di Jaques (1951, 1970), in ogni collettivo si sviluppano tendenze che sono espressioni di angosce e difese che non appartengono al singolo, ma al collettivo, e di cui i singoli sono del tutto inconsapevoli. Ogni Organizzazione nella sua strutturazione contiene una “Istituzione” (cfr. par. 12.1). Nel tipo di struttura con cui un’Organizzazione si è strutturata, possono essere rinvenute (analizzate) le tendenze collettive che costituiscono quella “Istituzione”. L’esistenza di queste tendenze, o “forze”, pur dimostrata dalle ricerche sulle “Istituzioni”, è spesso trascurata, se non ignorata, nei nostri servizi, ove invece, con meccanismi difensivi di razionalizzazione, si pretende, sia di poter riorganizzare l’organizzazione senza analisi dell’Istituzione, sia di for-
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zare le condotte dei singoli con appelli coscienzialisti alla buona volontà in nome di ideali. Ma i singoli non possono: quanto emana dal loro “insieme” non dipende da loro, né ne sono consapevoli. E se, come talora accade in strutture all’avanguardia, si fornisce un supporto solo per gli operatori senza intervento nell’organizzazione (previa analisi dell’Istituzione), questo può paradossalmente aggravare la situazione: far prendere coscienza che un vero efficace intervento non può esservi se non intervenendo anche nell’organizzazione, ma quando questa non viene coinvolta, o peggio quando è restia a una consequenziale e idonea riorganizzazione, il rischio è di sommuovere tendenze per così dire rivoluzionarie; e paradossalmente ottenere risultati contrari. D’altra parte l’organizzazione è fatta anche dalle persone che vi lavorano ed è quindi importante analizzare, nella dinamica tra desiderio e resistenza al cambiamento, le collusioni reciproche che si generano tra operatori e istituzione. Occorre pertanto che maturi una cultura sanitaria che, assimilando i contributi scientifici della Psicologia Sociale nelle sue varie discipline (e soprattutto le ricerche prodotte al di fuori della cerchia sanitaria), possa applicare i principi per gli interventi nell’organizzazione. Questi d’altra parte potranno essere efficaci se programmati dopo un’adeguata analisi istituzionale. In tal caso paralleli interventi sul personale potranno trovare la loro massima efficacia. Altrimenti si avranno risultati scarsi o nulli. Quanto sopra ha (o avrebbe!) un immediato riscontro per una più efficace Psicologia della Salute. Qui, attualmente e soprattutto nel panorama italiano, si riscontrano moltissimi studi, la cui prevalenza è però parcellare, ovvero sono centrati sui “pazienti” (se non su gruppi particolari di essi: si veda la letteratura sulla qualità di vita), o su una mera descrizione di rilievi, mentre non sono frequenti gli studi sull’organizzazione e, per ciò che concerne una educazione alla salute, ci si imbatte nelle grosse difficoltà, individuali e istituzionali, che non possono essere risolte se, come accade, si parte da un punto di vista più pedagogico che psicologico. Complessivamente si ha l’impressione che la maggior parte della letteratura prodotta sia troppo sintonica con uno spirito medicalista (Turchi, Perno, 2002), mentre per studi di interventi efficaci, di livello più specificatamente psicologico, occorrerebbe attingere ad altri modelli e a letteratura più vasta. A nostro avviso si potrebbe impostare una più efficace educazione alla salute orientando una psicologia della salute verso modelli e approcci alquanto diversi da quelli attuali. In particolare modelli psicosociologici e psicosocioanalitici (Imbasciati, Ghilardi, 1993; Ronchi, Ghilardi, 2003) che tengano conto dei funzionamenti gruppali e delle dinamiche collettive. Gli orizzonti aperti da un’adeguata fondazione e da un congruo sviluppo di una psicologia della salute coinvolgono dunque un’interazione di molteplici discipline: innanzitutto Psicologia Clinica, Psicologia Sociale e Psicologia del Lavoro come discipline oggi già costituite, quindi una costituenda Psicologia Sanitaria, che contempli i diversi percorsi formativi psicologici che sono necessari per ogni diversa figura professionale degli operatori della sanità, nonché in una specificatamente differenziata formazione permanente; in secondo
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luogo l’interazione con le scienze medico-biologiche, in particolare quelle che confluiscono nella già affermata disciplina che si denomina globalmente Igiene; in terzo luogo con le scienze sociali. In questo quadro si impone la necessità di differenziare la professione medica dalle altre professioni sanitarie e tra ognuna di queste differenziare percorsi specifici diversi. In fondo al futuro della professione medica meglio si addice la cura del patologico, piuttosto che la promozione della salute: questa invece risulta centrale nelle altre figure professionali, apparentate inoltre alle professioni d’aiuto che non sono per ora ufficialmente comprese negli ordinamenti sanitari (assistenti sociali, educatori, operatori della prima infanzia e in genere tutte le figure che ruotano intorno alle istituzioni scolastiche). Tutti costoro sono operatori di quello che effettivamente dovrebbe essere “aiuto”, fondato però non su una genericità “umana”, bensì sui principi delle scienze psicologiche e sociali; a parte le indispensabili nozioni medico-biologiche, da dosare differentemente nelle diverse professioni sanitarie, anziché immetterle quasi uguali per tutte. Abbiamo visto invece come i modelli medici, e quelli più tradizionali in particolare (cfr. concetti di diagnosi, patologia, cura, ecc.), informino, negativamente, la formazione degli altri operatori, infiltrandosi nelle istituzioni e organizzando le Organizzazioni in modi spesso contrari all’esplicazione effettiva dell’aiuto. Il potere del collettivo condiziona pesantemente l’operato dei singoli e un collettivo operante di un certo tipo può inficiare qualunque intento del legislatore di differenziare le singole professioni dell’aiuto. Per questo stato di fatto a maggior ragione si impone una ricerca sulla didattica formativa, differenziatamente necessaria alle singole professioni d’aiuto. In particolare si impone la costituzione di specifiche discipline psicologiche, differenziate da quelle attualmente definite negli ordinamenti dei settori scientifico-disciplinari. In questa prospettiva avremo, sì, il medico e le altre professioni, ma non “sue”, come il titolo originario di questo testo (cfr. Presentazione) voleva alludere. Recentemente si è cominciato a parlare, e sempre più frequentemente, di educazione alla salute. È questo, a nostro avviso, un grave rischio, in quanto la visione pedagogica presa a prestito in modo sommario dagli operatori sanitari, collude sotterraneamente con la vecchia quanto radicata concezione prescrittiva e transitiva che ha sempre informato il modello medico, nonché con la più sottile deriva, generale in tutti gli operatori e anzi in tutti gli esseri umani, per cui di fronte alla complessità si tende al riduzionismo. In questo specifico caso ciò che spaventa non è soltanto la complessità interdisciplinare di una psicologia della salute, quanto il fatto che questa, se ben articolata, pone l’accento sui fenomeni non consapevoli, individuali e soprattutto collettivi, sulle relative difese inconsce, soprattutto quelle che si strutturano, per spirito di istituzione, nelle Organizzazioni. Parlare di educazione è facile: in un ambito, quello sanitario, dove le discipline pedagogiche sono del tutto ignorate, per lo meno nel loro sviluppo scientifico attuale, il discorso sull’educazione diventa semplicistico e ridotto al senso comune. Si riduce tutto a qualche buona regola, prescrittiva di buoni comportamenti. Un’etica grossolana prende il posto della com-
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plessità scientifica. La mancanza di una cultura di base, nei percorsi di molti operatori, fa il resto. Resterà allora come dominante di un’unica scienza lo spirito medicalista?
Capitolo 13 La questione delle psicoterapie 13.1 Psicoterapia, senso comune e cultura sanitaria: terapia/psicoterapia; psicoterapia/effetto psicoterapeutico; psicoterapia ai medici? Quale formazione?; difetti degli psicologi; diatribe e vertenze giudiziarie; la differente forma mentis del medico rispetto alle psicoterapie; transitivismo; insufficienza della legislazione; inadeguatezza delle Scuole di Specializzazione. 13.2 Correggere un deficit o sviluppare la persona?: psicoterapia per la patologia? Equivoci nel concetto di guarigione; psicoanalisi /conoscenza/terapia; psicoanalisi/psicoterapia psicoanalitica; terapia sintomatica o ristrutturazione delle persone? 13.3 Il caos delle psicoterapie: le enormi diversità tra le varie psicoterapie; insufficienza della legislazione; la Specializzazione in psicoterapia; scuole private riconosciute e scuole universitarie; le filiazioni delle “Scuole riconosciute”; continuum tra esperti e ciarlatani; difficoltà di orientarsi nel caos; psicoterapia e operatori sanitari; psicoterapia o accoglienza?; chi forma gli psicoterapeuti? chi i medici e chi i vari operatori dell’aiuto?
13.1 Psicoterapia, senso comune e cultura sanitaria Tra le questioni che sono al centro della indefinitezza e confusione di competenze e ruoli tra medici, psicologi e ora altri operatori della salute, c’è l’annoso problema di una definizione delle psicoterapie e delle relative competenze, nonché di una chiara attribuzione di responsabilità specifiche a ruoli definiti. Una psicologia del senso comune, favorita dagli stereotipi popolari e da storici equivoci della cultura medica, ha concorso a determinare l’attuale situazione, estremamente confusa per l’utenza. Psicoterapia, secondo l’etimo, significa sostegno dell’anima (Imbasciati, 1983b): ovviamente “anima” non va inteso in senso filosofico o religioso, ma nella corrispondenza, consensualmente acquisita, della parola greca psychè col nostro termine “psiche”, o mente. Dunque psicoterapia è qualunque intervento che sostenga la psiche: la mente nelle sue funzioni, perché esse siano esplicate al meglio; o alla meno peggio, se esse non garantiscono al soggetto una vita sufficientemente accettabile o recano sofferenza. In questa accezione lata, qualunque esperienza che abbia effetto salutare può essere considerata psicoterapeutica, e qualunque intervento che voglia, a torto o ragione, con successo o senza esito, o anche con danno, sostenere le funzioni della mente può essere considerato psicoterapia. Così la relazione con un buon amico può essere psicoterapeutica; così un’esperienza gruppale o sociale, politica, di lavoro, un qualunque impegno, morale e materiale, possono essere terapeutici; così pure un’appartenenza religiosa, con la relativa filosofia e la relativa prassi, soprattutto con la ritualità collettiva, possono avere effetto psicoterapeutico. E ancora arte e cultura possono essere psicoterapeutiche. A. Imbasciati, La mente medica Che significa “umanizzazione” della medicina? © Springer 2008
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È ovvio però che in tal senso non si può parlare di psicoterapia come tecnica scientifica e inquadrata in una scienza con il relativo metodo. Occorre allora una distinzione preliminare, tra effetto psicoterapeutico e psicoterapia in senso proprio. Psicoterapia, nell’ambito delle scienze psicologiche, può essere definita soltanto una tecnica sperimentata, che presume operatori specificamente formati, nell’ambito di un preciso metodo scientifico e nel quadro di definite teorizzazioni. Una tale definizione introduce due parametri: il primo è costituito dal fatto che le scienze psicologiche sono molteplici e i metodi, così come le teorie, numerosi e diversi, cosicché non si può parlare di psicoterapia tout court, al singolare, ma si deve parlare di psicoterapie; ognuna col suo metodo, le relative metodologie, il relativo quadro teorico. Il secondo parametro implica la considerazione che il riferimento scientifico, facile da enunciare, in pratica può essere più o meno stretto, o lasso, e ciò anche in considerazione delle peculiarità del metodo clinico (preponderante in questo campo rispetto alla sperimentalità in senso stretto) che sconfina, per la sua natura, nella maestria del singolo. Pertanto potremo avere un continuum nel panorama delle psicoterapie, da quelle saldamente ancorate a un quadro scientifico, a quelle affidate alla valentía dei maestri, fino a quelle improntate a effetti prevalentemente casuali, di semplici eventi esistenziali, o dall’intervento di qualche persona di buona volontà, che abbia un qualche effetto terapeutico; come sopra accennavamo. In questo continuum, inoltre, si possono inserire gli interventi velleitari e/o ciarlatani. Da quanto sopra, appare complessa e anche difficile una regolamentazione giuridica che garantisca la scientificità professionale nel campo delle psicoterapie. Storicamente un primo embrione di regole implicite si è avuto nel consolidato, anche se oggi superato, costume di attribuire il compito psicoterapeutico ai medici. Il fatto che la terapia, le terapie in generale, praticate coi mezzi fisico-chimici, ma anche col contatto clinico interpersonale, fossero prerogative mediche, ha fatto sì che si ritenesse ovvio riservare ai medici anche la psicoterapia. Tanto più che in ambito psichiatrico da sempre si è considerato un intervento sulla psiche, praticato pedagogicamente, socialmente, e dipoi con mezzi fisici e farmacologici. In senso lato gli psicofarmaci hanno un’azione terapeutica (o per lo meno un intento) sulla psiche. Quest’ultimo tipo di terapie non sono tuttavia considerate psicoterapia, nell’uso corrente degli ambiti medici, ma più propriamente farmaco-terapie, e i relativi farmaci sono denominati psicofarmaci. Psicoterapia è termine riservato agli interventi sulla psiche praticati con mezzi psichici: cioè attraverso tecniche psicologiche, spesso concernenti il rapporto interpersonale. Questo significa che il terapeuta ha particolarmente sviluppata la sua più generale capacità relazionale e, all’interno di questa, si è addestrato in training specialistici specifici, secondo un preciso quadro teorico, in una tecnica di indagine dei processi psichici che egli applica alla struttura psichica specifica dei pazienti che ha in carico. L’inclusione storica della psicoterapia nella professionalità medica ha svolto per molti anni la funzione di riservare questo intervento a persone già formate per la cura dei mali fisici e pertanto abituate a gestire la sofferenza: ma
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soprattutto a persone che nell’esperienza della professione medica quale si esercitava nei decenni passati, prima della tecnologizzazione della medicina, quando si imponeva il contatto prolungato col paziente (cfr. Capp. 7.1, 10.2, 10.3, 13.1), avevano acquisito notevoli capacità relazionali. L’affidare ai medici il compito più specialistico di una qualche psicoterapia aveva l’intento di evitare che questa potesse essere esercitata da persone con formazione indefinita e per questo a rischio di pratiche velleitarie. In effetti quando all’inizio del secolo scorso si cominciò a delineare, con la psicoanalisi, una pratica psicoterapeutica che, discostandosi da una generica azione psicoterapeutica, si configurava scientificamente come specifica, il suo esercizio venne riservato ai medici. Paradigmatica fu l’esemplare politica di Freud, che, pur dichiarando nei suoi scritti che la professione medica poco o nulla giovava (o forse nuoceva: Freud, 1926, 1927; Imbasciati, 1983b) alla professione psicoanalitica, privilegiò i suoi allievi medici, allineandosi a un costume (lo psicoanalista deve essere anche medico) che fu adottato in molti paesi e che trovò il suo culmine, e la sua sconfitta giudiziaria, negli USA negli anni ’70. In Italia la consuetudine che una psicoterapia fosse esercizio medico ebbe la sua ragione, senza bisogno di regolamentazione, finché le scienze psicologiche rimasero assai poco differenziate e gli psicologi competenti in proposito assai rari (eccezione non medica fu Cesare Musatti), ovvero fino a tutta la prima metà del secolo testé scorso. Successivamente, a partire dagli anni ’50, il panorama scientifico e professionale cambiò completamente: le scienze psicologiche, progredite, si differenziarono, la ricerca e l’applicatività ebbero un grande impulso, e nacquero le Scuole di Specializzazione in Psicologia. Si affermano psicologi non medici di indubbia competenza scientifica e professionale, e infine nel 1968 ebbe inizio lo specifico corso di Laurea in Psicologia. Dunque gli psicologi si presentano all’orizzonte delle competenze specificamente psicologiche, come i professionisti più adeguatamente formati per la psicoterapia. Iniziò allora un ventennio di diatribe, fra psicologi e medici, su chi avesse maggior diritto, cioè formazione più adeguata, a esercitare la psicoterapia. Nel contempo si era verificato un parallelo e cospicuo evento di trasformazione scientifico-culturale: la tecnologizzazione della medicina, che ha ridotto l’esperienza-relazione insita nella professione medica. A questa trasformazione della medicina si è aggiunto un ulteriore e più poderoso fattore: mentre la psicologia progrediva, e si formavano psicologi, l’insegnamento di questa entro le facoltà mediche rimaneva il medesimo: possiamo affermare che fino al 1986 (data della riforma degli studi medici), e oltre, per inerzia di alcuni altri anni, la psicologia che potevano imparare gli studenti di medicina era più o meno quella di cinquant’anni prima. Quello che più aggiornatamente si imparava era una psicopatologia intesa come la intendono gli psichiatri, ovvero una patologia dello psichico, anziché una psicologia del patologico; e comunque in un quadro quanto mai semplicistico e riduttivo, rispetto alla vastità delle ricerche che in varie direzioni e con diversi metodi le scienze psicologiche avevano sviluppate nella seconda metà del secolo scorso (cfr. Capp. 7 e 10).
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I due suddetti fattori (trasformazione della medicina e arretratezza dell’insegnamento psicologico nelle facoltà mediche) si sono potenziati a vicenda, con un grosso danno per la cultura scientifica sanitaria (Imbasciati, 1993). Si sono radicate generazioni di medici che delle scienze psicologiche avevano un’illusoria, riduttivista e mistificata concezione; e la presunzione di poterne avere competenze. Quando la classe medica si è trovata bruscamente di fronte al rapido crescere della domanda di psicoterapia e al rapidissimo aumento degli psicologi, quasi svegliandosi da un letargo, ha avuto una reazione aggressiva: avendo completamente scotomizzato il progresso che la psicologia e la psicoterapia avevano avuto nei cinquant’anni passati, di fronte a tutti gli psicologi che iniziavano, rapidamente e con successo, a fare psicoterapie, si sono sentiti usurpati; e la mancanza di conoscenze al proposito ha provocato indignazione. D’altra parte la terminologia (“terapia”, dunque medici=“psicoterapia”) colludeva al proposito, a dispetto del fatto che le due cose – terapia farmacologica o fisica prescritta dal medico, e accoglienza psicologica per un sostegno della mente – siano due eventi completamente diversi (cfr. Cap. 10), e diversificati dal progresso divergente della medicina, da un lato, e delle scienze psicologiche dall’altro. Si è così avuto quasi un ventennio di diatribe, spesso a colpi di denunce per abuso professionale, finché la legge del 1989 ha istituito l’“elenco speciale degli psicoterapeuti”, tenuto dagli Ordini professionali dei Medici (province) e degli Psicologi (regioni). Si è avuto così una prima regolamentazione per la professione psicologica e per l’esercizio della psicoterapia. Attualmente la polemica è passata, i giovani medici non hanno più scotomi a riguardo e, se intendono fare psicoterapia, cercano di formarvisi specificamente. Ma in ambito sanitario e nella mentalità collettiva perdurano i vecchi stereotipi e i relativi pregiudizi, e ci vorranno molti altri anni perché possano dileguarsi. I difetti nella formazione dei nuovi laureati dell’ambito sanitario potrebbero complicare ulteriormente il processo di chiarificazione (AAVV, 2007; Imbasciati, 2007d). Il curriculum medico quale è attualmente, anche se aggiornato rispetto al progresso delle scienze psicologiche, è però pur sempre parziale rispetto alla mole del sapere psicologico odierno, per il quale è stata creata un’altra apposita laurea: al medico viene offerto quel tanto di formazione psicologica che gli è necessaria per fare il medico, non per fare lo psicologo. Perché egli potesse avere una base sufficiente per affrontare le psicoterapie, occorrerebbe sommare le due lauree. Ma ciò ancora non basterebbe, perché le psicoterapie si sono rivelate mansioni ultraspecialistiche, per le quali la base fornita dalla laurea in psicologia, ancorché congrua, non è sufficiente. Quella in medicina, oltre a non essere per nulla sufficiente, rivela inoltre più handicap che vantaggi. L’evoluzione attuale delle scienze medico-biologiche è infatti così progredita in senso tecnologico da conferire al medico una mentalità tecnica, nozionistica e transitivista, che è l’antitesi della forma mentis che è necessaria per fare psicoterapia (Imbasciati, 1993, 1994). Pertanto il medico che intenda diventare psicoterapeuta deve cambiare una mentalità acquisita e cominciare da poco più
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di zero. Occorre una specializzazione: altrettanto deve fare anche lo psicologo, ma per il medico sarà più difficile il cimento. L’ordinamento giuridico attuale prevede che possano esercitare psicoterapia soltanto quegli psicologi, e quei medici, che, avendo espletato un regolare addestramento alla psicoterapia in Scuole di Specializzazione riconosciute, risultino idonei a essere iscritti al summenzionato Albo Speciale, tenuto dai rispettivi ordini. La legislazione attuale non è tuttavia ancora sufficientemente adeguata a tutelare lo sprovveduto utente che chiedesse supporto. Infatti, oltre al disastroso stato di dette Scuole di Specializzazione, come vedremo più oltre, non è stato chiarito in sede giuridica che non esiste la psicoterapia, ma tante e differenti psicoterapie, ognuna delle quali richiede una formazione differenziata. Si è così alimentato nel senso comune l’idea che una psicoterapia valga l’altra, senza discriminanti indicazioni sul tipo di trattamento, né sul tipo di disagio psichico, né sugli intenti che si vogliono perseguire. Questa idea va d’accordo con l’antico pregiudizio, ancora diffuso nella classe medica, per cui la psicoterapia è cosa unica non diversificata, mentre invece lo è, e non poco, nelle sue varie matrici scientifiche e conseguenti tecniche: questo ha corroborato la tendenza a mantenere l’idea che per questa professionalità l’operatore di elezione sia il “dottore”. Perdura così nel senso comune il pregiudizio per cui per la psicoterapia ci si debba rivolgere al medico, spesso in quanto tale e non perché si sia anche specificamente formato a una certa scuola di specializzazione specifica per la psicoterapia. E comincia anche a formarsi l’idea complementare, anch’essa falsamente riduttiva, che qualunque psicologo, in quanto tale, possa avere competenze adeguate per fare psicoterapia. Nella cultura popolare si sono così formati due stereotipi pericolosi: quello di un medico che sa curare tutto, e quello di uno psicologo altrettanto onnipotente. Il tutto crea una aspettativa magica nell’utente: così egli va cercando un professionista che lo sanerà, alla stregua del medico che dà la medicina, cioè senza che egli debba impegnarsi in un lavoro psicologico, personale e sofferto (transitivismo dell’operatore e passività dell’utente); e spesso cerca uno psicologo che con buoni (e non molti!) consigli risanerà la sua esistenza. Queste aspettative comportano passività dell’utente, e soprattutto gli impediscono di vedere e di capire che qualunque lavoro psicologico per risanare se stessi implica sofferenza e impegno personale del soggetto, oltre la guida dell’esperto; che non si può affrontare la psicoterapia con l’animo tranquillo di chi va a “farsi fare” qualcosa. Lo psicologo non dà consigli; né l’eventuale medico propina rimedi psichici che agiscano come i farmaci, senza cioè la partecipazione della soggettività dell’utente. Tutte queste concezioni popolari sono dure da sradicare. E d’altra parte pericolose, perché fanno sì che l’utente non si accorga di eventuali psicoterapeuti niente affatto adeguati alla bisogna; e che anzi talora scelga proprio quelli meno idonei. La divulgazione operata dai mass media completa lo scempio e la confusione: dello psicoterapeuta si offrono immagini quanto mai false, ma che vengono incontro alle illusorie aspettative dell’utente.
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13.2 Correggere un deficit o sviluppare la persona? Nella suddescritta incertezza e vaghezza della cultura sanitaria e del senso comune a proposito della psicoterapia, o meglio delle psicoterapie, non si è a tutt’oggi potuto a mio avviso chiarire un problema fondamentale. In medicina una terapia serve a ristabilire la normalità. Questo però sottintende che, per le funzioni del corpo, la norma può essere individuata (cfr. Cap. 9): terapia è tutto ciò che può correggere le deviazioni dalla norma, cioè quanto medicalmente si definisce patologia. Ma abbiamo visto come per lo psichico l’ancoraggio a concetti di base quali normalità e patologia sia fuorviante: “chi turba il disturbo?”. Patologia può in taluni casi essere un disagio che non coinvolge il soggetto. Normalità può essere un appiattimento agli standard sociali di una data epoca in una data società. Individui al di fuori di una norma psichica possono essere proprio quelle persone eccellenti che fanno progredire le scienze e la società stessa. Allora il “sostegno della psiche”, cioè la psicoterapia non si può definire in base al criterio di riportare il soggetto a una presunta norma, di correggere cioè un qualche “difetto” che si sarebbe venuto a creare. Psicoterapia sarà invece allora caratterizzata da tutte quelle procedure, scientificamente fondate sulla base della ricerca sulla struttura che regola il funzionamento mentale (irrepetibile per ogni singolo: cfr. Cap. 6), intese a potenziare e sviluppare le capacità degli individui: dunque sviluppare l’ottimalità della persona. Tale del resto dovrebbe essere l’obiettivo di tutta la psicologia clinica (Carli, 2005), in accordo al concetto di clinico quale delineato al Paragrafo 10.1. Ovvio allora che il concetto di psicoterapia diverga profondamente da quello di terapia applicata all’area medica. Non lo si può ancorare al concetto di patologia, né tantomeno a quello di diagnosi: la varietà di matrici teoriche e tecniche che caratterizza la molteplicità delle psicoterapie non può essere correlata a corrispondenti diagnosi, come invece spesso i medici domandano sulla base del parametro medico “giusta diagnosi per la terapia appropriata”. Non c’è diagnosi, né nosografia, ma solo l’irrepetibilità del singolo. Altro equivoco, anch’esso basato sull’ingenua trasposizione dei criteri medici allo psichico, riguarda il concetto di guarigione. Guarigione si riferisce al ristabilimento dello stato quo ante rispetto a una malattia: dunque patologia e norma. Ma dov’è la malattia dello psichico? (cfr. Cap. 9). Se dunque è improprio parlare di guarigione, logico è chiedersi altrettanto circa l’efficacia di una psicoterapia: efficacia per chi? Chi turbava quel disturbo? (cfr. 9.4). Ne discende il discusso problema della verifica della validità delle psicoterapie (Carli, 2005). Qual è l’esito favorevole di una psicoterapia? E qual è l’intento? Non può essere ovviamente la scomparsa dei cosiddetti sintomi, o segni considerati “anormali”, né può essere la scomparsa del disagio: neppure di quello dell’interessato. Abbiamo visto il “disturbo latente” (cfr. Cap. 9.4). Né ancora può essere scomparsa di qualunque soffrire: il pensiero, la creatività, lo sviluppo della mente comportano sempre un quantum di sofferenza. La beatitudine completa è, se non dell’idiota, quella del mediocre. Né si può imporre psicoterapia a tutti i “disturbi” egosintonici che “disturbano” l’altro (cfr. 9.4). Quando dunque una
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psicoterapia risulta “efficace”? Se, abbandonando il concetto di guarigione, riferiamo la psicoterapia allo sviluppo della persona, si impone il problema di valutarlo: sia prima, agli effetti prospettici di un miglioramento, sia dopo, agli effetti di una riuscita rispetto agli intenti e alle prospettive che si erano prospettate. Una tale valutazione si potrà fare soltanto in un contesto clinico (clinico, ripetiamo, non in senso medico: Cap. 10), particolarmente attrezzato per indagare le funzionalità che caratterizzano la struttura della mente di una singola persona. Il concetto di struttura psichica ovviamente non può essere ricondotto a qualche struttura standard del cervello. Ricordiamo che nessuno ha un cervello uguale a un altro (cfr. Cap. 3). Il problema è pertanto molto complesso. Negli anni ’60 e ’70, in seno alla psicoanalisi, che può essere considerata la prima matrice clinico-metodologica che ha generato applicazioni psicoterapeutiche, si svolse un ampio dibattito se l’analisi (il viaggio nella propria interiorità che un individuo attraversa e compie insieme a uno psicoanalista) fosse “terapia”, oppure “conoscenza” (Imbasciati, 1983b). Il fondatore della psicoanalisi, Freud, nel 1922 diede una definizione di questa scienza dichiarando che un risultato terapeutico era un effetto “accessorio”, non necessariamente sempre presente del procedimento psicoanalitico, mentre sottolineava invece la conoscenza di se stesso che l’analizzando consegue. Il dilemma conoscenza/ terapia è rimasto a lungo aperto, e ha fatto parte di tante diatribe svoltesi intorno alla psicoanalisi. A mio avviso è un falso dilemma in quanto pone il concetto di terapia in termini medici, cioè ancorato ai concetti di patologia, e di converso di norma, e di guarigione, nonché all’ipoteca di un sottinteso transitivismo. Il termine trattamento psicoterapeutico, e anche psicoanalitico, come purtroppo si sente dire, si riferisce a una prassi transitiva. Di qui l’idea concretistica di “a che serve una psicoterapia?” Questo interrogativo, semplice in medicina, per lo psichico resta semplice solo per i disturbi distonici, e soltanto se si ha di mira la mera scomparsa dei sintomi. Mentre per contro “conoscenza” rimanda allo specifico della psicoanalisi. Per questo non si può porre un dilemma tra due elementi concepiti l’uno – la terapia – su basi totalmente disomogenee rispetto all’altro – la conoscenza di se stessi. Alla base del falso problema “conoscenza e/o terapia” c’è un mancato chiarimento, sia da parte di Freud che da parte di chi dibatté l’argomento per decenni, sul fatto che il processo psicoterapeutico debba o no essere inteso alla stregua di una terapia in senso medico, di cui quindi si può e si deve evidenziare un esito favorevole (in senso medico di guarigione); o piuttosto sia da considerare in un senso proprio e specifico, diverso da quello medico, come sviluppo della personalità, della capacità e potenzialità del funzionamento mentale degli individui. Il discorso che si è dibattuto intorno alla psicoanalisi si fonda sul fatto che la sua essenza è la conoscenza di se stessi che il soggetto stesso opera purché si trovi in quella relazione, tutta particolare e intima, in cui la propria mente comunica con una mente particolarmente “attrezzata” e può pertanto acquisire capacità autoconoscitive che gli permettono di cambiare la propria struttura funzionale di base. Quanto vale per la psicoanalisi può applicarsi altrettanto
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alle numerose psicoterapie psicodinamiche che ne sono derivate (Imbasciati e coll., 2008), nonché alle molte altre matrici psicoterapeutiche che pongono al loro centro un’indagine entro la soggettività. È, a mio avviso, un non ancora avvenuto chiarimento circa il significato di base di psicoterapia, che ha alimentato e tuttora alimenta diatribe ed equivoci sulle psicoterapie, in cui i medici si trovano talora a contrastare con gli psicologi. D’altra parte sono sorte Scuole che hanno impostato “trattamenti” definiti psicoterapeutici vicini ai concetti medici in quanto presupposti universali per qualunque “terapia”: tipico fu il behaviorismo, teso essenzialmente all’eliminazione dei sintomi. Questo ha facilitato a mantenere una certa confusione sul senso della parola “psicoterapia”. D’altra parte, proprio il behaviorismo, nei suoi sviluppi successivi, si è modificato, soprattutto imparentandosi con le scienze cognitive, ponendosi il problema di cosa stia a monte dei sintomi, dentro l’individuo, nella sua mente, nonché anche nel tipo di relazione che questa intesse con la mente dello psicoterapeuta che lo guida. Tuttavia una tendenza al fraintendimento si è mantenuta, alimentata anche dal senso comune popolare, che la gente attribuisce al processo terapeutico, assimilandolo per comodità a quanto già conosce circa la terapia dei “dottori”. Il problema di partenza che non viene risolto sta, a mio avviso, ancora in una trasposizione aprioristica dei parametri riguardanti la norma biologica al funzionamento mentale e al relativo sviluppo neurale. Al Cap. 9 è stato sottolineato come una adeguata conoscenza di questi indichi che il “disturbo” psichico può essere del tutto latente, oltre che non noto e non lamentato dal soggetto: ne consegue che un qualunque intervento non può basarsi sull’eliminazione della sintomatologia; si può essere consapevoli che un certo tipo di “trattamento” si limita alla sintomatologia, ma non si può pensare che, scomparsi i sintomi, il soggetto sia “guarito”. Ovvero non si possono adottare i parametri biologici di norma/patologia/guarigione. È questo che fa fatica a essere assimilato dalla cultura scientifica generale, spesso anche nell’ambito sanitario, e che in questa genera equivoci.
13.3 Il caos delle psicoterapie Nelle confusioni concettuali e nei conseguenti equivoci che sono stati tratteggiati, non è stato facile per il legislatore italiano mettere un po’ d’ordine nelle diatribe che si succedevano e pertanto nella regolamentazione dell’esercizio della psicoterapia. Le psicoterapie sono tante e fra di loro molto diverse: originariamente ognuna ha alle spalle un proprio corpus di ricerche che fa capo a metodi che tra di loro possono essere molto differenti; e così il relativo quadro teorico. Pertanto ogni psicoterapeuta dovrebbe aver acquisito non semplicemente una tecnica, ma una precisa preparazione clinico-teorica: essendo le varie psicoterapie tra di loro diverse, è a mio avviso pressoché impossibile che uno psicoterapeuta abbia conseguito una formazione in tutte le psicoterapie; già è difficile che abbia una preparazione soltanto per due tipi di psicoterapia. Non può esi-
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stere pertanto uno psicoterapeuta tout court, a meno che non si facciano compromessi più o meno mascherati sotto l’egida della “tecnica”, ma solo psicoterapeuti di un ben preciso tipo di psicoterapia. Di conseguenza, giuridicamente, il diritto di esercitare la psicoterapia dovrebbe specificare di quale psicoterapia si tratti. Invece l’ordinamento italiano non fa distinzioni. Il diritto di esercitare una psicoterapia dovrebbe essere limitato a una ben precisa psicoterapia per quello specialista che abbia conseguito una formazione in quella e non in altre psicoterapie. La regolamentazione attuale invece lascia libero il professionista che abbia conseguito un titolo presso una qualsiasi Scuola riconosciuta di esercitare qualunque psicoterapia. Questo rende legali eventuali abusi, o per lo meno crea confusioni, e certo non facilita l’utente che cerca aiuto. In altri termini la regolamentazione italiana risente di tutti i malintesi e le ambiguità che abbiamo descritto. Una malintesa e sbandierata intenzione di integrare, al meglio, psicoterapie diverse, sta presentando opzioni che, valide in sede scientifica, in sede professionale si prestano come alibi a nascondere velleità e facilonerie. E infine c’è il guaio più grosso della attuale regolamentazione: la sua applicazione pratica. In sede legislativa (1989) il riconoscimento del titolo di psicoterapeuta venne concesso ad apposite “Scuole” da istituire negli ordinamenti universitari, o a Scuole “riconosciute”. Le prime non sono state di fatto istituite: si sono riformate alcune Scuole di Specializzazione universitaria già esistenti abilitandole a dare il titolo all’Elenco Speciale degli psicoterapeuti, ma il riordino è stato tutt’altro che tracciare un percorso formativo idoneo a una qualche psicoterapia. Per contro si sono sviluppate Scuole private di psicoterapia (talora di una psicoterapia specificata) che hanno ottenuto il riconoscimento dello Stato. Ma le modalità con cui questo viene ottenuto sono del tutto discutibili, sì da inficiare l’intento originario di scuole che a livello professionale garantiscano l’utenza circa la loro affidabilità. Di fatto oggi pochissime sono le scuole universitarie, ed è assai discutibile che possano davvero, soprattutto considerando la sopravvenuta e attuale situazione in cui versa la nostra Università, dare quell’effettiva adeguata formazione personale che è necessaria in tal campo. Controversie, anche legali, sono tuttora di attualità (cfr. Cap. 10.3). La maggior parte delle Scuole, oltre il 90%, sono scuole private “riconosciute”: il riconoscimento, attuato attraverso commissioni ministeriali, è quanto mai formale, né sufficientemente ripetuto con quella frequenza che impedisca ad alcune scuole, appena avuto il riconoscimento, di livellarsi verso il basso; o di fare quel che più è economico. All’allievo, d’altra parte, interessa spesso un diploma col minimo sforzo e il minimo costo. A questo caos si aggiunge un ulteriore fattore: le norme transitorie a seguito della legge del 1989, pur essendo transitorie, per quasi quindici anni hanno permesso l’iscrizione agli albi degli psicoterapeuti in base al giudizio del rispettivo Ordine (dei Medici o degli Psicologi) su titoli presentati dal candidato. Alcuni Ordini, soprattutto dei medici, si sono trovati del tutto sprovveduti a individuare nella propria provincia commissari, medici anch’essi, sufficientemente competenti a valutare le credenziali di chi si candidava. Si è di fatto veri-
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ficata in Italia una colossale disparità di criteri tra provincia e provincia, o tra regioni. In alcune zone si è stati severi, in altre sono passati oves et boves. In tal modo si è creata una massa di psicoterapeuti indifferenziati, di irregolare formazione, eppure abilitati. Tutto questo corrobora il permanere di pregiudizi, stereotipi, confusioni. Si sono così create per l’utente enormi difficoltà: dove e a chi rivolgersi? E ancora, come distinguere una vera psicoterapia da ripetuti “colloqui di chiarimento”, che sono legalmente contemplati sia nella prassi degli psicologi (non psicoterapeuti), sia nell’operato medico, psichiatrico in particolare? E come individuare se in ripetuti colloqui che un educatore, un fisioterapista, un infermiere, un’ostetrica, hanno ben diritto di fare, non possa invece ravvisarsi una psicoterapia, alla quale questi professionisti non sono abilitati? Si torna cioè a entrare nel continuum tra una psicoterapia scientificamente intesa e l’effetto psicoterapeutico del rapporto umano. Abbiamo dunque un vero “caos delle psicoterapie” (Imbasciati, 2001a). Le etichette che le varie scuole esibiscono non sempre sono chiare rispetto alle loro matrici metodologiche e teoriche. Talora hanno etichette estremamente variopinte la cui dizione, talora arzigogolata talaltra fantasiosa, disorienta l’utente, invece di aiutarlo a capire di che tipo di psicoterapia si tratti. Le norme ministeriali non impongono definizioni chiare e inoltre l’applicazione delle verifiche statali per il riconoscimento delle scuole è quanto mai “italiana”. Per contro da più parti si sta oggi proponendo l’integrazione delle varie matrici metodologiche di psicoterapie diverse: ottimo intento, a livello scientifico, che però fa da alibi a molti professionisti, che dichiarano di praticare una psicoterapia “integrata”, ma non hanno affatto compiuto un’integrazione a livello scientifico; si tratta solo di mescolamenti, se non di mistificazioni. C’è inoltre il problema che una psicoterapia, in quanto sostegno della mente scientificamente condotto, sistematico e collaudato, non implica di per sé che debba esistere la cosiddetta psicopatologia: anche una persona relativamente normale può cercare un aiuto, scientifico, per migliorare sé stessa. Non si tratta, come detto, di correggere “difetto”, ma di migliorare la persona. La concezione dell’intento “correttivo” è consona alla mentalità medica, centrata sul patologico. Di qui un certo numero di professionisti che si adeguano a questa concezione, spesso con un concetto di patologia trasposto dalla medicina, talora col relativo concetto di diagnosi: tali parametri possono servire da alibi per una terapia che si vuol definire integrata, ma che, praticata transitivamente, nell’intento precipuo di “eliminare” i sintomi, integrata in senso proprio non può pertanto dirsi. Ci sono dunque molte difficoltà per l’utente che cerchi l’aiuto psicoterapeutico. Alle difficoltà esterne si aggiungono poi quelle interiori: infatti la persona che ha bisogno di una psicoterapia quasi sempre ha difficoltà soggettive a decidersi di cercarla. C’è un malinteso pudore in tutta la nostra cultura, come se l’aver bisogno di psicoterapia fosse una vergogna. C’è la vergogna della “malattia mentale”, anche per disagi psicologici non gravi. E c’è inoltre una mentalità moralistica e una concezione volontaristica dell’essere umano che,
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messe insieme, fanno sì che una persona si senta tenuta, moralmente, a “farcela da solo”, e si illuda volontaristicamente di “potercela fare”. Questa mentalità è diffusa anche tra gli operatori sanitari, che pertanto non aiutano l’utente a decidersi a cercare uno psicoterapeuta, ma anzi, spesso, gli inviano il messaggio contrario. E ancora, è diffusa l’idea che le psicoterapie siano tutte chiacchiere, che servano a poco o nulla, e che gli psicoterapeuti siano, se non ciarlatani, degli “acchiappacitrulli”, o comunque “strizzacervelli”. Questo pregiudizio purtroppo è alimentato dal fatto che davvero, vista la caotica situazione suddescritta, molti psicoterapeuti, pur con tanto di abilitazione, non sono sufficientemente formati, e possono quindi operare a metà strada tra velleità, presunzione e imbroglio. Insomma le difficoltà esterne, quelle interiori e i pregiudizi popolari si potenziano a vicenda. Si sa inoltre che una psicoterapia è lunga, impegnativa e costosa. I servizi mutualistici non coprono la voce psicoterapia, se non in pochi casi, parzialmente, e spesso limitatamente a psicoterapeuti che non sono riusciti ad affermarsi nel privato; cioè non certo gli psicoterapeuti migliori. Anche questo contribuisce a mantenere l’idea che la psicoterapia serva poco o niente. C’è infine da chiarire un altro problema: una psicoterapia malfatta, da un terapeuta inadeguato, può nuocere? Se una psicoterapia potesse essere breve, di pochi mesi, il che è raro, si potrebbe affermare che gran nocumento non possa portare. Ma poiché le psicoterapie sono prolungate, esse possono davvero nuocere, e in due sensi: in primo luogo perché possono far perdere tempo prezioso al paziente; in secondo perché effettivamente possono produrre un irrigidimento delle funzioni mentali, proprio di quelle che sono alla base della disfunzionalità, rendendo molto più difficile un successivo anche se esperto intervento. Si crea, usando un paragone, come una cicatrice, una malformazione che è più difficile da rimediare rispetto a un intervento ortopedico fatto “a caldo”, sulla ferita, per così dire. Quanto descritto fa capire la gravità della situazione cui sono esposti gli utenti. Il disagio mentale, tanto più quanto più è grave, non passa da solo: anzi, col tempo tende ad aggravarsi. Di fronte alle difficoltà degli utenti stanno poi anche quelle degli operatori sanitari che volessero orientare i loro pazienti a uno specialista psicoterapeuta. Gli operatori hanno innanzitutto il non facile compito di discernere, nella confusa e spesso solo implicita domanda dell’utente, se vi sia necessità di psicoterapia. Come valutare questo bisogno a fronte dei pregiudizi che lo stesso operatore sanitario ha spesso al proposito? Di che tipo di psicoterapia si pensa che abbia bisogno un certo utente? Ma soprattutto: a chi inviarlo? O forse sarebbe meglio, piuttosto, accoglierlo e assisterlo nell’ambito di proprie competenze interpersonali, anche se non specificatamente psicoterapeutiche? E se lo si accoglie, come accorgersi se questa è una propria narcisistica illusione di far del bene piuttosto che costituirsi come psicoterapia? Che però, condotta da un operatore non specialisticamente formato, rischia di produrre danni. Le ambiguità che stiamo descrivendo non accennano purtroppo a diminuire. Infatti quasi tutte le Scuole che sono state abilitate sono soggette a filiazio-
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ni e fondazioni di nuove Scuole, che chiedono a loro volta il riconoscimento: e lo ottengono. Abbiamo attualmente oltre trecento eterogenee Scuole riconosciute (Imbasciati e coll., 2008). Accade, per esempio, che alcune persone che compiono un loro training in Scuole di un certo affidamento, ma che non lo completano, cioè non conseguono lo standard formativo della scuola di origine, e talora per loro irrisolti problemi interiori, si riuniscano a fondare a loro volta una nuova scuola, che chiede e ottiene il riconoscimento. Da psicoterapeuti incompleti o non riusciti si trasformano in formatori di altri psicoterapeuti. Sta di fatto che ciò avviene. Ovvio allora che il livello di affidabilità di una scuola così costituita risulta diminuito, e non di poco. Di conseguenza coloro che qui si formano risentiranno di tutti i difetti per i quali i fondatori delle scuole stesse non completarono, a loro tempo, la propria formazione. Poiché questa riguarda quasi sempre le strutture profonde di personalità, l’interessato non se ne accorge, anzi tende a negare ciò che in lui non funziona. Se non se ne poterono accorgere i fondatori di quella scuola, tanto meno se ne accorgeranno gli allievi. Alcuni di questi, a loro volta, possono ripetere l’espediente dei formatori. Si forma così una catena di progressivo degrado di scuole. Gioca qui a livello profondo un fattore personale insito nell’animo di molti: di fronte alla percezione di un proprio disagio interiore è facile illudersi che chi deve essere curato è un altro e non se stesso. Fornari (1978) chiamò questo evento “esportazione del male”: ovvero “il male” interiore viene proiettato, esportato, negli altri. Un operatore di tal genere non si sente paziente, cioè non avverte più di patire per propri disagi interiori: si sente terapeuta perché il paziente è l’altro; pazienti sono coloro che questo “terapeuta” curerà. Una patente di psicoterapeuta può così servire a coprire qualcosa che non si riesce ad affrontare dentro di sé: “non sono io che devo essere curato! Io sono colui che cura!” Un vero dilemma è allora per l’utente, una volta superati propri pudori e resistenze, sapere a chi rivolgersi per una psicoterapia; e per quale. Difficile è d’altra parte per gli operatori sanitari aiutare a orientare questi potenziali pazienti. Opportuno allora è che un qualunque operatore dell’aiuto si faccia una qualche idea su dove si possa trovare quell’aiuto superspecialistico che si chiama psicoterapia; cioè possa avere presente un panorama, anche sommario, di quello che fu definito l’arcipelago delle psicoterapie (Lo Verso e coll., 1987). Una descrizione o un tentativo di classificazione è stato già dato in altri miei testi: ripeterlo qui sarebbe discostarsi dal tema centrale di questo libro: la differenziazione delle varie professioni d’aiuto da quella medica. Rimandiamo pertanto a queste e ad altri fronti, e precisamente: Imbasciati (1993), Imbasciati, Margiotta (2005, 2008), Imbasciati e coll. (2008), Cionini (1998). Possiamo invece qui ripetere alcuni criteri generali per avere un’idea anche se sommaria, circa la scientificità e l’affidabilità dell’operato di uno psicoterapeuta. Questi criteri possono essere: 1) una chiara individuazione della Scuola, da cui lo psicoterapeuta dichiara di provenire, del quadro metodologico di tale Scuola, della sua evoluzione storica, del suo riconoscimento a livello internazionale, delle ricerche che ne stanno a monte, degli scopi che vengono proposti, delle eventuali indicazioni per alcuni tipi di disagio psichico; 2) l’esistenza
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entro tale Scuola di organizzazioni efficaci per la formazione di specialisti professionisti; 3) l’effettiva garanzia che danno queste organizzazioni formative per i professionisti che ne escono; 4) l’appartenenza effettiva, oltre che dichiarata, di un dato psicoterapeuta a queste scuole; 5) un certo standard nella formazione di tutti i diplomati e associati di quella scuola; 6) l’esistenza di un’Associazione scientifica specifica di quella Scuola che garantisca una formazione permanente ai propri diplomati e ne controlli nel tempo l’adeguatezza professionale. Poche di queste Scuole hanno simili associazioni. Comunque per l’utente o l’inviante sarà bene assicurarsi, se una tale Associazione esiste, che il terapeuta in questione vi appartenga: se l’Associazione esiste, e funziona, e invece il terapeuta non vi risulta iscritto, c’è da chiedersene il perché. Quanto sopra potrà essere di aiuto all’operatore che voglia effettuare un “invio” di un paziente a uno psicoterapeuta. Ma rimane il problema di tanti altri operatori, diplomati dalle nuove lauree, che psicoterapeuti non sono, né di tale titolo vengono richiesti, ma che tuttavia si vedono assegnati compiti assai vicini a quelli di uno psicoterapeuta (Imbasciati, 2007d). Qui un’insufficiente delimitazione di compiti e di limiti all’attività interpersonale di aiuto, che gran parte dei nuovi laureati di ambito sanitario dovrà svolgere, si somma con l’inadeguata formazione di questi (cfr. Cap. 10.3), cosicché non è difficile che si generi in questo operatore la presunzione, in buona fede, di essere capace egli stesso di aiutare psicoterapeuticamente il paziente. Ecco così che la confusione di competenze e attribuzioni, superata almeno in parte per ciò che concerne medici e psicologi, può ripetersi e complicarsi a riguardo di questi nuovi operatori. Sarà allora il loro un vero “aiuto”? Saranno davvero operatori della Salute? D’altra parte, se questi hanno assorbito una mentalità medicalistica, avranno anche sotteraneamente assimilato l’ideale onnipotente del “dottore”. Essi stessi hanno oggi il titolo di dottori: dunque? La “questione della psicoterapia” e ancor più la questione “delle psicoterapie” non potrà essere chiarita, forse neppure dal legislatore, se non ci si potrà liberare dall’equivoco che la professione medica sia ancora l’onnipotente e onnicomprensiva professione di un globale aiuto. La tradizione del “dottore”, cioè del doctior (=colui che è più dotto) o del doctor (=colui che docet), non è stata ancora dissolta dal progresso scientifico, che inevitabilmente ha differenziato, sviluppandole, le varie scienze, e di conseguenza ha distinto professioni diverse. Occorrerebbe che queste ultime lo fossero davvero, e soprattutto in modo adeguato. Per produrre davvero operatori della Salute, intesa questa come la definisce la stessa OMS, ovvero il conseguimento del benessere fisico e psichico, queste differenti professioni non possono essere succursali dell’operato medico. Purtroppo le carenze dei nostri sistemi formativi costringono ad appoggiarsi ai medici come formatori: si perpetuano così molte distorsioni. Gli operatori dell’aiuto tendono, involontariamente e inevitabilmente, a scimmiottare i medici. E per contro, forti delle competenze relazionali loro attribuite (conseguite non si sa) dai compiti interpersonali dell’“aiuto”, tenderanno a fare gli psicologi, forse gli psicoterapeuti (Imbasciati, 2007d).
Capitolo 14 Il medico e le altre (sue?) professioni 14.1 I professionisti dell’aiuto: quali? Quale formazione?; mancata differenziazione di formazione per i differenti professionisti; inadeguatezza della formazione psicologica e del reclutamento dei formatori; misconoscenza delle scienze psicologiche; impossibilità di istituire percorsi non tradizionali nelle attuali Organizzazioni; prevalenza dell’unico modello medico; medicalizzazione dei servizi. 14.2 Gli psicologi: modelli medici e spirito dell’Istituzione; origine e costituzione della Psicologia Clinica e delle Scuole di Specializzazione al di fuori delle facoltà mediche; la psicologia clinica è una Specializzazione dei soli psicologi; il futuro del medico. 14.3 Operatori della salute: promozione della salute e totale riorganizzazione dell’assistenza; il futuro del dottore in Scienze Infermieristiche; necessità di percorsi formativi non tradizionali; rassegne delle varie professioni d’aiuto; carenze e critiche; l’infermiere pediatrico; sessuologia per le ostetriche; competenze per i laureati in Scienze Motorie; la famiglia del paziente; corpo a corpo per i fisioterapisti: quale formazione?
14.1 I professionisti dell’aiuto Oggi molto si citano le “professioni di aiuto” e gli “operatori dell’aiuto”. Sotto questa dizione vi è un’ampia e variegata gamma di professionisti. Il medico viene di solito citato grazie all’immagine idealizzata che si è conservata, dall’epoca in cui il “dottore” era davvero colui che si prendeva cura (care, non cure) di chi soffriva (cfr. pativa, paziente: Capp. 7 e 10): l’immagine non è certo più attuale, ma lo stereotipo del medico conserva la connotazione del prototipo della professione d’aiuto. Ma accanto al medico e più del medico stesso oggi vanno considerati tutti i professionisti contemplati negli ordinamenti sanitari e in quelli comunque assistenziali: dunque infermieri, fisioterapisti, riabilitatori, ostetriche, assistenti sanitari, laureati in Scienze Motorie, e altri ancora attualmente inseriti nel sistema sanitario; nonché altri professionisti dell’assistenza, in primis gli assistenti sociali, collocati in aree differenti da quella coperta dal sistema sanitario. A tutte queste nuove professioni altre più tradizionali andrebbero prese in considerazione, quanto a formazione ottimale piuttosto che deficitaria e trascurata; per esempio, i farmacisti, così spesso “consiglieri” per guarire dai vari accidenti non ancora presentati al medico. A questi dovremo aggiungere gli operatori degli asili nido, e – perché no? – tutti i professionisti delle istituzioni scolastiche, gli “insegnanti” che oggi più che mai dovrebbero, oltre che “insegnare”, aiutare a crescere i ragazzi; e infine la schiera non ancora ben definita, ma importante per il futuro, costituita da tutti i consulenti che operano in campo giuridico per dirimere i pregnanti problemi umani inerenti ai divorzi, agli abbandoni, agli affidi e alle adozioni. A. Imbasciati, La mente medica Che significa “umanizzazione” della medicina? © Springer 2008
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La gamma è dunque ampia e molte volte, soprattutto per qualcuna di queste professioni (per esempio le ostetriche) se ne lamenta oggi l’eccessiva “medicalizzazione”. In realtà sotto tale termine c’è quanto già in più passi di questo testo abbiamo descritto, e cioè l’assorbimento dei modelli operativi che dovrebbero specificamente caratterizzare varie e differenti professioni sanitarie entro l’uniformità dei modelli della professione medica, o meglio entro quei modelli che sono appropriati e specifici della professione del medico, ma che devono essere differenti per le altre professioni. Tra questi modelli “da abbandonare”, è basilare la centratura sul patologico, o comunque sul chiaramente anomalo, necessaria per l’essenza della medicina, ma fuorviante per le altre professioni. Conseguenze di tale modello sono: a) una particolare concezione, con relativa accezione del termine, della patologia intesa come male alieno (anziché logía del patire di una persona), sopravvenuto a un individuo ignaro e passivo ad alterarne la norma naturale; b) una sottesa idea che si possa individuare l’agente del male alieno, la noxa, la “causa”, che la Scienza, se tale è, l’abbia individuata: che si possa quindi fare l’esatta diagnosi; c) la conseguente idea che la Scienza possiede la giusta terapia; d) un’altra sottesa idea dicotomica di quanto è invece il continuum normalità/patologia; e) una secondarietà, se non trascuranza, della possibile opera di miglioramento di ciò che è grosso modo normale (vedi promozione della salute), e soprattutto di ciò che appare normale ma che potrebbe in futuro essere anomalo (vedi prevenzione, ma vedi anche l’assistenza e lo screening psicologico che dovrebbe affiancare qualunque organizzazione che si occupi dell’arco evolutivo della vita); f) una centratura sulla malattia, più che sul malato; g) un’indebita estensione del concetto di diagnosi e del concetto stesso di malattia, come già è stato visto; h) la transività dell’operato curativo. Non sarà facile, nella nostra cultura, liberarsi di tutte le suelencate conseguenze dell’indebita estensione dei modelli medici ad altre professioni. Ragioni di storia remota e di storia più recente hanno fatto sì che la figura del medico con la sua specifica cultura si sovrapponesse a costituende differenti culture, che dovrebbero invece essere proprie e specifiche di altre professioni di aiuto. Queste ultime, ancorché dal legislatore oggi disegnate in modo abbastanza (ma non ancora a mio avviso sufficiente) differenziato, sono di fatto per ora rimaste sotto l’incombere formativo anzi uniformativo del modello medico. Gli ordinamenti attuali, oltre la laurea in Medicina e Chirurgia e quella in Odontoiatria, contemplano altre ventidue professioni sanitarie. Le elenchiamo secondo il DM 02/04/01: 1) Infermiere; 2) Ostetrica; 3) Infermiere pediatrico; 4) Podologo; 5) Fisioterapista; 6) Logopedista; 7) Ortottista; 8) Terapista della neuropsicomotricità nell’età evolutiva; 9) Tecnico della riabilitazione psichiatrica; 10) Terapista occupazionale; 11) Educatore professionale; 12) Tecnico audiometrista; 13) Tecnico di laboratorio; 14) Tecnico di radiologia; 15) Tecnico di neurofisiopatologia; 16) Tecnico ortopedico; 17) Tecnico audioprotesista; 18) Tecnico della fisiopatologia cardiocircolatoria; 19) Igienista dentale; 20) Dietista; 21) Tecnico della prevenzione dell’ambiente e nei luoghi di lavoro; 22) Assistente sanitario. Oltre alle suelencate lauree, triennali e quin-
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quennali (si profila la tendenza a quinquennalizzare), vi sono ovviamente perfezionamenti e specializzazioni post laurea. Quattordici delle suddette ventidue lauree, e precisamente quelle ai nn. 1, 2, 3, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 14, 19, 21, 22 implicano in misura caratterizzante lo strumento delle capacità relazionali, altre in misura minore. Ciò significa una formazione improntata alle scienze psicologiche. In effetti i settori scientificodisciplinari delle scienze psicologiche sono via via ufficialmente contemplati nel percorso formativo delineato dal legislatore. Ma come questi vengono attuati? Già abbiamo visto come il corpo docente sia vicariato da ruoli impropri, addossato a docenti che peraltro cumulano più insegnamenti, spesso accorpando corsi che dovrebbero essere differenziati ancorché siglati entro lo stesso settore (cfr. Capp. 7 e 10), o reclutando anno per anno docenti precari, con una dubbia selezione circa le loro competenze. In tal modo non si differenziano discipline psicologiche che dovrebbero costituirsi specifiche ognuna di un altrettanto specifico corso di laurea: i raggruppamenti di settore sono l’unico e insufficiente riferimento. A ciò si aggiunge un’ulteriore prassi, dettata dalla necessità: si dichiarano affinità in realtà inesistenti; già è stato detto che degli otto settori psicologici ben sei non hanno alcun ruolo in nessuna facoltà medica italiana. I percorsi formativi di loro competenza sono affidati ad “altri”, con accorpamenti, dichiarazioni di affinità, con i precari poco e male motivati e di dubbia competenza. Questo stato di cose fa sì che ciò che si trasmette sia soltanto il sapere che rimane “forte”: quello medico, sia tradizionale e idealizzato, sia quello attuale, tecnicizzato. Il collettivo, cioè l’Organizzazione e ancor più l’Istituzione (cfr. Cap. 12), corrobora questo tipo di trasmissione: ecco la “medicalizzazione dei servizi”; ecco la mancata costituzione, di fatto, di percorsi autonomi per la formazione psicologica che occorre in modo differenziato a ognuno degli operatori delle lauree sopraelencate; ed ecco soprattutto la mancata costituzione di un’organizzazione e del conseguente clima istituzionale che possano rendere effettivi i suddetti percorsi. A ciò si aggiunge il fatto che l’acquisizione delle capacità relazionali, che dovrebbe essere strumento principe dei suddetti operatori, anche qualora sia affidata a docenti appropriatamente competenti, non può essere efficacemente appresa se impartita solo attraverso “lezioni”: occorre che l’apprendimento, che come abbiamo visto è un apprendimento emotivamente strutturante (cfr. Capp. 5 e 11), sia inserito, e appropriatamente, nella pratica professionale, nei tirocini e nella formazione permanente: il che però significa organizzazione in piccoli gruppi e moltiplicazione di docenti, conduttori, formatori. Le carenze di risorse, così attuali e generali in Italia, rende tale prospettiva per ora impossibile. Vi sono inoltre incongruenze e lacune persino negli ordinamenti sulla carta. Non si capisce perché, per esempio, quella di Educatore professionale sia una laurea inserita nei servizi sanitari (salvo un equivoco e incerto doppione con minori sbocchi professionali in facoltà umanistiche); e per contro l’Assistente sociale contempli un percorso autonomo. Né è chiaro perché la laurea in Scienze Motorie, che prospetta molteplici sbocchi professionali, debba essere stata aggregata alla Facoltà di Medicina, ove futuri insegnanti di educazione
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fisica, futuri allenatori, sportivi, operatori del tempo libero oltre che della salute, finiscono per imparare bene solo l’Anatomia e la Fisiologia del corpo umano1; mentre le competenze che gli servirebbero per aiutare ragazzi, giovani e adulti a “crescere bene”, vengono offerte con percorsi discutibili. In sostanza il sapere psicologico che viene trasmesso è quello creduto dalle vecchie generazioni di medici a seguito delle loro vicende formative, come descritto ai Capp. 7, 9, 10: un sapere semplificato, riduttivo, non aggiornato allo sviluppo attuale delle scienze psicologiche e aderente invece al senso comune, e paradossalmente idealizzato. Sorte analoga accade ad altri saperi. Abbiamo nominato la laurea in Educatore Professionale e quella in Scienze Motorie; entro le facoltà mediche non esiste nessun ruolo2 dei settori pedagogici, che peraltro sono essenziali per queste lauree. Già abbiamo detto che sei degli otto settori psicologici non sono presenti come ruoli. Né esistono ruoli sociologici, o antropologici; e neppure giuridici, o economici, ancorché in alcune delle suddette lauree siano necessarie anche nozioni di giurisprudenza e di economia. I relativi insegnamenti risultano però “coperti”. Esulando dall’area sanitaria, ci si potrebbe poi porre molti altri interrogativi su tutta quella schiera di operatori che si occupa dell’accudimento, dell’educazione e dell’istruzione, nelle istituzioni scolastiche e prescolastiche di ogni ordine e grado: anche questi sono operatori dell’aiuto. E tutti dovrebbero aiutare, non solo chi ha palesato guai, fisici e psichici, ma tutti coloro (si pensi alle famiglie) che hanno difficoltà, talora pregiudizievoli per un adeguato sviluppo psichico e sociale. Psicologia della Salute, dunque, e in esteso, non semplice “sanità”.
14.2 Gli psicologi Nel suddescritto quadro degli operatori dell’aiuto, come si colloca oggi il medico? E per contro lo psicologo? Potremmo affermare che il medico, di cui in questo e in altri testi (Imbasciati 1993, Imbasciati, Margiotta, 2005, 2008) abbiamo a lungo parlato, in tutto quell’ambito che è stato giuridicamente definito come sanitario la fa da involontario e nolente padrone. Le capacità relazionali che l’antico medico acquisiva con l’esperienza (cfr. Capp. 1, 5, 7) si sono estinte sotto il progresso tecnologico della medicina e della biologia e sono state fittiziamente sostituite dalle illusioni conferite dal prolungato mistificato insegnamento di un’antica riduttiva psicologia, che per
1 Un presidente di Corso di Laurea in Scienze motorie, peraltro già da anni in tale incarico, mi chiese un giorno cosa diavolo fosse l’Antropologia Culturale. 2 Si ricorda che il termine “ruolo” è inteso nell’accezione relativa a “docente di ruolo”, garantito da un pubblico concorso, anziché precario provvisorio, scelto quasi sempre per necessità, senza regole formalizzate.
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forza di cose non ha potuto essere se non un’obsoleta pseudopsicologia. Oggi inoltre il medico, se ha ancora bisogno di adeguate conoscenze circa le attuali scienze psicologiche, di capacità relazionali ne ha meno bisogno di una volta, e certamente meno bisogno di quanto non ne abbiano altri operatori sanitari, infermieri in primis. È questo dovuto all’evoluzione della medicina da un lato, e all’emergere delle altre professionalità dall’altro. Il medico è destinato a essere sempre più il supertecnico, mentre la cura nel suo senso più pieno sarà sempre più affidata ad altri. Ma è di fatto ancora il medico, nei quadri dirigenziali, che modula l’organizzazione della formazione degli altri operatori, e lo stereotipo della sua più antica formazione costituisce lo spirito dell’Istituzione, che perpetua pertanto i modelli medici e ostacola l’elaborazione di altri e diversi modelli operativi, e quindi lo sviluppo autonomo di altre scienze sanitarie; anzi delle scienze della salute. Così lo spirito oggettivista e transitivista (cfr. Capp. 1 e 2), la centratura sul patologico, il concretismo interventista, e i concetti stessi di diagnosi, normalità, patologia informano l’Organizzazione dei percorsi universitari di tutte le lauree “sanitarie” e ancor più i servizi, ove tirocini ed esperienze professionali corroborano la forma mentis medica per tutti gli altri operatori. In tal senso si può affermare che lo stereotipo del medico è il padrone della formazione degli altri operatori. D’altra parte “questo medico” si è trovato padrone del tutto involontariamente, ed anzi di tutte le relative incombenze farebbe volentieri a meno: le competenze che dovrebbero essere specifiche dei nuovi operatori sono diventate estranee a quella che è oggi la centralità della professione medica: dunque un padrone involontario e anche padrone nolente. A mio avviso infatti la maggior parte dei medici non nutre sentimenti del tutto sintonici all’emergere di altre figure e farebbe volentieri a meno dell’onere della loro formazione, se potesse; se cioè le condizioni assistenziali potessero “tornare indietro”, quando il medico era il grande unico professionista della salute. Nei percorsi formativi contemplati per le professioni cosiddette sanitarie, figurano discipline estranee alla tradizione medica: scienze sociali, giuridiche, pedagogiche, economiche e, non ultime, psicologiche. Tutti questi ambiti disciplinari, di cui la tradizione medica è priva, formalmente vengono ricoperti, ma le carenze di risorse fanno sì che nell’Organizzazione esse vengano trascurate: ne risulta un’inadeguata formazione – forma mentis – per i futuri operatori. Per ciò che concerne le scienze psicologiche, nello spirito dell’Istituzione, quasi direi nel mondo emotivo della mente medica, c’è ancora quell’unica onnicomprensiva, riduttiva psicologia del senso comune, gemmata da decenni di formazione medica (cfr. Capp. 7 e 10) che ha ignorato lo sviluppo delle Scienze Psicologiche. Queste sono state coltivate e si sono sviluppate al di fuori della Medicina, nella facoltà di Filosofia, talora di Pedagogia, finché si sono autonomizzate, a partire dal 1968, prima in corsi di Laurea e poi in Facoltà autonome. I medici si sono accorti che esisteva tale sviluppo solo quando, dopo gli anni ‘70, hanno visto che molti psicologi si specializzavano in Psicologia Clinica (primi diplomi 1966: Università Cattolica di Milano, ancora in Facoltà di Filosofia) e si dedicavano alla psicoterapia. Ci furono polemiche e vertenze giudiziarie, dovu-
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te all’ingenua meraviglia di medici cresciuti con un’idea della psicologia e della psicoterapia del tutto sganciata dallo sviluppo scientifico specifico, e impropriamente ricalcata sulla pratica medica (cfr. Capp. 10 e 13). Oggi i giovani medici escono dal loro percorso sapendo che la psicologia è una vasta gamma di scienze, tra di loro diverse, col loro metodo, la loro ricerca, il loro sviluppo: essi hanno acquisito nozioni di Psicologia Generale e Psicologia Clinica. Tuttavia questa formazione non è ancora di fatto conferita adeguatamente in non poche università, per i meccanismi già illustrati (cfr. Capp. 7 e 10), e comunque l’Istituzione agisce ancora in pieno e in negativo sulla loro formazione. Le incomprensioni tra medici e psicologi non sono ancor oggi superate (cfr. Appendice n. 2). Le cose sarebbero andate diversamente se le scienze psicologiche fossero state fin dall’inizio coltivate entro le facoltà mediche: ma qui si coltivò soltanto una psicopatologia ancella della neuropsichiatria e improntata agli assunti generali della medicina. D’altra parte, come sarebbero andate le cose se la storia fosse stata diversa non lo sapremo mai. Forse dovremmo cercare altre evoluzioni all’estero. Attualmente comunque è in atto, almeno nelle intenzioni, un tentativo di reinserire le scienze psicologiche nelle facoltà di medicina: in un’università italiana lo si sta tentando, ma la realtà dell’estrema penuria di risorse di tutta la nostra Università ha fatto sì che di fatto si sia istituito un Corso di laurea in Psicologia entro una facoltà medica con un solo docente (di ruolo) di un solo settore scientifico-disciplinare delle scienze psicologiche, mentre tutti gli altri, invece, sono di scienze mediche e biologiche. Il che è peggio che non aver fatto niente: vuol dire perpetuare l’errore storico di una psicologia vista dai medici in una prospettiva estremamente riduttiva; psicologia del senso comune la cui sola applicazione è quella ai problemi medici. Esperimento di sapore analogo è una riforma della Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica, attuata nel 2006, e nel 2007 bocciata da una sentenza del Consiglio di Stato. Insomma, molto cammino dell’incontro tra due professioni d’aiuto, quella del medico e quella dello psicologo, è ancora da percorrere. In questo percorso, quasi tra due estremi, dovrebbero situarsi le altre professioni d’aiuto: quelle considerate sanitarie (dunque purtroppo medicalizzate) e altre, da collocare più chiaramente nei loro ordinamenti formativi e nelle loro mansioni professionali. Una tale chiarificazione si rende oltremodo necessaria, in quanto la formazione medica non è oggi la più idonea a giustificare una tipica professione d’aiuto, né tanto meno a modularla per imporla ad altri professionisti. Infatti il progresso tecnologico è ormai al centro della professione medica, e tale deve restare: l’aiuto al paziente, quello che fu detto umano, che in questa sede abbiamo definito psicosomatico, resta, e deve restare, ma altre professioni nel loro sviluppo di immediato futuro sono chiamate a svolgerlo, mentre l’enorme bagaglio di conoscenze biologiche e tecnologiche che sempre più viene richiesto al medico, inevitabilmente restringe gli spazi per una sua formazione psicologica. Il medico deve fare il medico: non può fare anche lo psicologo. E questi ha d’altra parte una così vasta gamma di applicazioni professionali che
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quella dedicata ai problemi della sanità del corpo non può che essere la minore: questo vuol dire che altre professionalità proprio di questa si dovranno occupare. Ciò dovrebbe avvenire senza che si scivoli da parte di questi nuovi professionisti nella velleità, né di fare il medico (ma questo credo non avverrà), né in quella di fare lo psicologo; quest’ultima è tentazione facile. Occorrerà sviluppare una specifica capacità relazionale che potrà rendere efficaci queste professioni e sul corpo e sulla psiche. Tra questi nuovi professionisti ci potrebbero essere i futuri “medici ipsi farmaca” e cioè gli infermieri; e forse altri. Quanto agli psicologi, essi potrebbero restare consulenti per così dire esterni all’ambito sanitario o, eventualmente, formatori, soprattutto per una formazione permanente e per quanto riguarda specifiche aree, senza essere “medicalizzati” essi stessi. Il che invece avviene attraverso il loro inquadramento nei servizi, questi stessi medicalizzati come descritto, sulla base di una malintesa psicologia clinica che si riduce a un’applicazione di altrettanto malintese competenze psicologiche alla clinica intesa in senso medico (cfr. Cap. 10). Non è tale applicazione l’essenza della Psicologia Clinica (Imbasciati, Margiotta, 2005, 2008; Imbasciati, Dabrassi, Cena, 2007). Si potrebbe forse parlare di Clinica Psicologica, ma non di Psicologia Clinica, salvo altri equivoci. Questo è infatti ciò che recentemente sta succedendo tra gli stessi Psicologi Clinici: un gruppo di essi, medicalizzati purtroppo irrimediabilmente, sta proponendo equivoche definizioni di una Clinica Psicologica che facilmente possa essere equiparata alla Psicologia Clinica e quindi possa assorbirla. Gli equivoci, per l’utenza soprattutto, potranno essere non indifferenti, e inoltre estendersi anche agli psicologi impiegati nei servizi. D’altra parte una consulenza esterna dell’operato dello psicologo rispetto ai servizi corre il rischio di diventare esclusione, con conseguente riduzione, se non eliminazione, dell’apporto che gli psicologi potrebbero portare a un mutamento dell’Istituzione Medica, perpetuando e anzi accentuando in tal modo la medicalizzazione degli operatori inseriti nella “sanità”. L’Istituzione è totalizzante di per se stessa, a maggior ragione se nel suo campo applicativo vi sono tutte le altre suddescritte difficoltà al cambiamento. D’altra parte, così come gli operatori dell’aiuto inseriti nei servizi sanitari sono sottoposti a una medicalizzazione, anche gli psicologi, se ivi inseriti, la subiscono. Di fatto accade spesso che tutte le figure professionali impiegate nel settore sanitario diventino “paramedici”: questo nome è stato soppresso, ma lo status informale rimane. Forse andrebbe ridisegnata tutta la fisionomia dell’Assistenza e, entro questa, definire i limiti di quella che potrebbe definirsi sanitaria.
14.3 Operatori della salute Le ventidue professioni attualmente sancite dalle “classi” delle lauree sanitarie, pur nelle ristrettezze, nelle mistificazioni e negli escamotages che abbiamo descritto, sono destinate a uno sviluppo futuro, che potrebbe vedere i professionisti dell’aiuto sia inseriti senza essere sopraffatti, sia affiancati, ma in modo
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adeguato, ai professionisti che si dedicano a curare le malattie: il tutto in una prospettiva che contempli più radicalmente la prevenzione ma soprattutto la promozione della salute; e forse in un quadro di un’assistenza sociale ridefinita. In questa sede, stante l’attuale stato di fatto, vale la pena sottolineare la differenziazione di operato, e pertanto di formazione, che si prospetta per l’immediato futuro di alcuni di questi professionisti. Innanzitutto consideriamo l’infermiere, la cui laurea quinquennale lo renderà sempre più autonomo rispetto al medico e a diretto contatto con il paziente. Questo professionista dovrebbe avere il preciso ufficio (modello paradigmatico americano dell’Università di Yale) di aiutare l’individuo malato a utilizzare tutte le proprie risorse, nonché potenzialità, per autogestire nel modo più idoneo la propria salute, per aiutare l’individuo malato ma anche sano a seguire quelle attività che contribuiscono a mantenere la salute, a ottenere una guarigione o a convivere con malattie inguaribili preparandosi alla morte. Al di sotto di tali definizioni formali, centrale appare la capacità relazionale, come strumento principe per conseguire gli obiettivi: capacità di contatto intimo e profondo, a incidenza psicosomatica. L’infermiere è a diretto e continuato contatto col paziente, con una persona che soffre e che trasmette sofferenza (cfr. angosce di morte), a contatto con un corpo spesso martoriato, in disfacimento, a contatto col sangue, il pus, le piaghe e le croste, l’urina, le feci, il vomito. Tutto ciò non può non aver l’impatto di un’intensa sollecitazione emotiva che l’infermiere deve imparare a gestire. Un tale apprendimento necessita degli adeguati supporti, in un tirocinio e in una formazione permanenti, che insegnino a riconoscere gli impatti emotivi (cfr. dimensione alessitimica) per poterli usare nel contatto col paziente: un apprendimento pertanto conseguito attraverso una docenza del tutto diversa da quella tradizionale ed esercitata da formatori specifici. Siamo attualmente ancora lontani da un tale tipo di formazione che sia adeguata all’intento, ma il futuro dovrebbe imporcela, pena la cristallizzazione in burocratiche formalità e in altrettanto burocratici percorsi di cosiddetta formazione. Accanto, e distinto dall’infermiere, sta la figura dell’infermiere pediatrico: il legislatore ha tenuto evidentemente in conto le peculiarità inerenti alla cura del bambino malato, tuttavia, se si scorre il relativo percorso formativo di questa professionalità, si ha più l’impressione di quell’autocentratura onnicomprensiva di tutto ciò che riguarda il bambino anche al di fuori dell’ambito medico, che è caratteristica purtroppo ricorrente di molti ambienti pediatrici, piuttosto che di un’effettiva considerazione della rete relazionale che nel bimbo ha un’enorme incidenza psicosomatica (cfr. Cap. 8). Per “leggere” e interagire in questa rete relazionale occorrono cospicue competenze psichiche, centrate sulla capacità di rêvérie, e questa esercitata non solo nei confronti del bimbo, ma anche e soprattutto per capire le angosce profonde e le richieste inespresse dei genitori. Un infermiere di questo tipo non può essere alessitimico: non imparerà mai anche se sarà fornito di tutti i supporti di formazione permanente (peraltro pesantemente deficitaria) per quanto riguarda l’impiego, ineliminabile, di gruppi tipo Balint e di altri strumenti di apprendimento emotivo.
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Si giocano qui, nella capacità relazionale richiesta, tutte le attenzioni alla comunicazione non verbale. Non inopportuno è al proposito ricordare quanto attualmente ricorra in ambienti sanitari il discorso sulla comunicazione: ma quasi sempre ci si concentra sulla comunicazione verbale. Così avviene nella considerazione dei genitori che ricorre in Pediatria. Comunicazione della diagnosi, si insiste, con le dovute modalità, e comunicazione per ottenere la collaborazione indispensabile alla terapia; ma pur sempre comunicazione di parole. L’operatore alessitimico ma ossessivo, potrà così essere convinto di essere un ottimo comunicatore. Ci si concentra di fatto sulla malattia, anche se si considera l’individuo: si propone infatti una patient centered medicine, da contrapporre alla disease centered medicine, ma mai una doctor centered medicine, ovvero un’assistenza – e qui più che il medico consideriamo l’infermiere – in cui il centro è l’operatore stesso, la sua risonanza interiore, la sua capacità di “leggersi dentro”, nel contatto col paziente e ancor più col suo entourage affettivo. È indispensabile un’assistenza adeguata all’operatore perché questi possa assistere adeguatamente i suoi utenti. L’operatore dovrebbe essere in grado di poter “tarare” nella propria operatività quanto è controtransfert agito (cfr. Cap. 5) e quanto invece elaborazione riparativa, in una partecipazione alle angosce dell’insieme familiare che circonda un individuo sofferente, colui che è “designato”3, a ragione o talora a torto, come “paziente”. Occorre in altri termini una comprensione effettiva dei movimenti affettivi inconsapevoli che circolano, degli agiti che si possono produrre, dei loro effetti psicosomatici. Ciò è essenziale per l’operatore pediatrico, e sarebbe indispensabile, anche se gli ambienti pediatrici pretendono di poter fare tutto ciò senza ricorrere agli esperti di altre discipline. Analoghe considerazioni possono essere tenute in conto per ciò che concerne l’altra professione, quella del terapista della neuropsicomotricità nell’età evolutiva. Siamo qui di contatto più diretto col corpo, così come in pieno lo siamo per la professione del fisioterapista. Questi operatori dovrebbero essere in grado (secondo la declaratoria ministeriale) di svolgere, in via autonoma e in collaborazione con altre figure sanitarie, interventi di prevenzione e di promozione di corretta funzionalità nell’area della motricità, delle funzioni cerebrali superiori e viscerali conseguenti a eventi patologici di varia eziologia, congenita o acquisita, per esempio traumi fisici. Questo tipo di professione implica un complesso rapporto col corpo, più diretto e diverso da quello dell’infermiere: un corpo che può anche non destare repulsione, ma che proprio per questo può evocare sentimenti e fantasie che coinvolgono la persona dell’operatore; un corpo che il fisioterapista molto più dell’infermiere deve toccare, manipolare, palpare, talora con prolungato ed esteso contatto pelle a pelle col corpo nudo (si pensi per esempio a esercizi in piscina) e che quindi desta
3 “Paziente designato” è accezione che si riferisce a un preciso concetto clinico di psicologia gruppale, studiato e sviluppato dalla Scuola Sistemica (Imbasciati, Margiotta, 2005, 2008).
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evocazioni emotive molteplici. L’operatore deve imparare ad avvertirle, se si vuole modulare il messaggio che passa corpo a corpo, in modo che esso sia adeguato all’intento curativo, riabilitativo, e non sia reazione controtransferale. Il rapporto fisioterapista/paziente è spesso prolungato e diventa quindi intimo: occorre che tale intimità sia intrisa dell’intento riabilitatorio e non collusiva di compiacenze narcisistiche, infantili, erotiche, sia da parte dell’utente che dell’operatore. Questi pertanto necessiterebbe di adeguati tirocini specificatamente psicologici, e di relative supervisioni. Tali tirocini, nonché una formazione permanente, necessitano di forme didattiche del tutto inconsuete nel nostro sistema. A proposito di deficit o disfunzioni psicomotorie – ciò vale sia per il fisioterapista che per il terapista della neuropsicomotricità – può non infrequentemente accadere che psicosi infantili, o comunque disturbi psichici (talora incipienti sindromi autistiche o schizofreniche) non vengano riconosciuti come tali in quanto si manifestano esclusivamente con disturbi o ritardi di tipo motorio. Accade allora che, con una diagnosi di disturbo psicomotorio, questi casi siano convogliati al fisioterapista e/o al terapista neuropsicomotorio, senza che in tal modo si possa tempestivamente intervenire sul piano psichico. È pertanto doppiamente necessario che per i suddetti due tipi di operatori siano state acquisite competenze psicologiche sufficientemente adeguate, sia per le implicanze suddescritte inerenti al contatto corporeo e ai messaggi da veicolare, sia anche in ordine a un possibile riconoscimento delle suddette false diagnosi. Simili errori accadono per un’altra figura di operatore sanitario, il logopedista. Molto spesso si pensa di curare i disturbi del linguaggio agendo soltanto sul sintomo, cioè mediante un’educazione o rieducazione al linguaggio parlato, mentre invece occorrerebbe un intervento a monte, di tipo psicoterapeutico quasi sempre relazionale familiare: i disturbi del linguaggio, a meno che non abbiano una ben precisa causa in una lesione neurologica individuata, sono epifenomeni di disfunzioni psichiche complesse, spesso indice di grossi e latenti disturbi. Dunque anche il logopedista necessita di un tirocinio e di una formazione permanente improntati ad acquisire capacità psichiche usabili per la professione. Abbiamo poi la figura dell’ostetrica, ora con laurea quinquennale, destinata quindi a gestire competenze autonome rispetto ai medici ostetricoginecologi. V’è in tale area sanitaria tutta la problematica psicologica e psicosomatica della gestazione, del parto e del puerperio, campo in cui si sta costituendo una Psicologia Clinica Perinatale (Imbasciati, Dabrassi, Cena, 2007). Quest’area, al di là delle apparenze meramente tecniche, riveste un’importanza sociale di enorme rilievo, in quanto è ormai dimostrato come le condizioni psichiche della gestante nella sua relazione con il feto condizionino lo sviluppo della mente fetale, l’andamento fisico della gravidanza (assetto ormonale, gestosi), le modalità di espletamento del parto (naturale o assistito), l’allattamento (ipogalassie e agalassie), e soprattutto la relazione col neonato: tutte vicende che nelle loro ottimalità piuttosto che nelle loro complicazioni condizionano in bene o in male lo sviluppo del neonato e del bimbo, sia fisico che psichico.
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Nella relazione col neonato la madre esercita una funzione psicobiologica di grosso rilievo, che pone le basi della costruzione della struttura psichica del futuro individuo (cfr. Capp. 3.4, 6.1 e 8.4). V’è attualmente in campo ostetrico tutto un movimento scientifico-culturale teso a demedicalizzare il parto e a porgere alle donne i dovuti ausili psicologici per gestare al meglio, partorire in modo naturale e accudire al piccolo in modo ottimale. Talora questa tendenza, pur appoggiata dalle ricerche scientifiche, deve scontrarsi con direttive di vertice, che tendono invece a mantenere il parto entro la mentalità tecnicisticica medico-chirurgica: vedi per esempio l’ingiustificata frequenza in Italia dei parti cesarei o la recente campagna a favore dell’epidurale. Si profila inoltre per le ostetriche la necessità di una competenza sessuologica. L’ostetrica può infatti diventare la confidente consulente della donna, per questo aspetto importante della sua vita, con le relative connessioni coi problemi di coppia e pertanto con la qualità dell’accudimento e dell’educazione dei figli. Competenze sessuologiche significano competenze psicologiche. La sessualità è in primo luogo psichica: gli organi obbediscono a ciò che il cervello emotivo induce (Imbasciati, 2008b; Imbasciati, Buizza, 2008; Buizza, Imbasciati, 2008). Il legislatore che ha tracciato il percorso di questa laurea sembra avere ben compreso le necessità formative delle ostetriche, anche e forse soprattutto per ciò che concerne le scienze psicologiche: si tratta di applicarle bene, cosa non facile nella situazione universitaria italiana, di cui abbiamo descritto gli estremi. Ma si tratta ancor più di istituire al proposito una formazione permanente a queste scienze improntata: altrettanto non facile impresa nei nostri Servizi. Abbiamo poi la figura del tecnico della riabilitazione psichiatrica. Qui massimamente la formazione dell’operatore necessiterebbe di un training psicologico, e talora di percorsi formativi personali, per poter conseguire le competenze che la declaratoria ufficiale proclama. Nella realtà italiana siamo ben lontani da simili obiettivi e già il termine di “tecnico” attribuito a questo “riabilitatore”, nonché il concetto stesso di riabilitazione, anziché di cura-caring, mette seri dubbi, già nei programmi ufficiali, sulla possibilità che questi davvero sia un professionista dell’aiuto, in questo caso squisitamente psichico, anziché mero esecutore di forzate compliance farmacologiche. Così pure la figura dell’educatore professionale merita particolare attenzione nei confronti dell’ambito sanitario in cui è stata collocata: lo spirito medicalista incide notevolmente sul percorso formativo che il legislatore avrebbe predisposto, spesso snaturandolo. Basti pensare all’assenza nelle facoltà mediche italiane di qualsiasi ruolo dei settori pedagogici, sociologici, giuridici, nonché degli essenziali settori psicologici siglati come M PSI 03, PSI 04, PSI 05, PSI 06. Il che significa che i docenti di questi settori sono precari, raccolti di anno in anno con le inadeguate modalità descritte (cfr. Capp. 7 e 10). Di formazione permanente non se ne parla, per lo meno a livello istituzionale: gli educatori, il cui strumento di lavoro principe sarà la capacità relazionale, con tutto il relativo corredo intrapsichico (cfr. Cap. 11), andranno a nostro avviso
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allo sbaraglio nell’impresa di prendersi cura di disabili, infanti, psicotici, anziani e via dicendo. Accanto alle figure professionali su cui ci siamo soffermati, anche altre necessitano di competenze relazionali: per esempio l’assistente sanitario e il tecnico della prevenzione dell’ambiente e nei luoghi di lavoro: si tratta di operatori che dalla prevenzione dovrebbero passare alla promozione della salute, e che useranno lo strumento della capacità relazionale al più ampio livello della rete sociale ed economica. Discorso a parte merita la figura del professionista che si laurea in Scienze Motorie. Anche se di tale corso di laurea si progetta una facoltà autonoma, per ora i corsi sono stati attuati entro la Facoltà di Medicina: cosa discutibile, al pari di quello che riguarda l’educatore professionale, e forse altri professionisti dell’aiuto. Il professionista delle scienze motorie dovrebbe avere conoscenze biologiche e di anatomofisiopatologia umana non fini a se stesse, ma calibrate per poter esercitare la sua professione, che è specificatamente pedagogico-psicologico-sociale: infatti, oltre a ereditare la più datata professione dell’insegnante di educazione fisica in tutte le scuole di ogni ordine e grado, e pertanto un compito squisitamente educativo, e di promozione della salute, questo professionista dell’aiuto dovrà occuparsi di tutte attività sportive (allenatore, istruttore, ma anche manager) e della loro adeguata collocazione nel contesto sociale, nell’intento della promozione di una civiltà e di un costume che aiuti gli individui a vivere nel migliore dei modi possibili. Ovvia pertanto risulta una sua formazione psicologica, pedagogica, sociologica, antropologica: ovvia dovrebbe risultare, ma nell’ambito delle facoltà mediche ove tale laurea è stata collocata, questa formazione non può aver luogo, in quanto non vi sono docenti e tirocini adeguati, e questo proprio nelle specifiche discipline in cui si strutturerà la professione, anziché semplicemente nelle scienze medico-biologiche che per tale professione devono essere strumentali ma non strutturanti. Si pone ovviamente anche per questo professionista il problema di una formazione permanente. In conclusione, nella situazione attuale italiana il personale “sanitario” attende ancora una migliore differenziata definizione, con conseguente adeguata collocazione, ma soprattutto attende una radicale trasformazione qualitativa dei percorsi formativi, specialmente nei confronti della formazione psicologica. Laddove però questa non venga presa in considerazione, riformulando i percorsi formativi così come si richiede per una trasformazione della struttura affettiva degli operatori (indispensabile per un loro adeguato operare relazionale), concepita con i dovuti strumenti anziché con quelli tradizionali, si verificherà il burocratico rilascio di una “patente”, in una formazione del tutto formale e in sostanza distorta. Purtroppo l’ingravescente carenza di risorse in cui versano sia l’università italiana sia le organizzazioni assistenziali, costringe in pratica a utilizzare docenti e formatori di non adeguata competenza e comunque senza spazi per una formazione non tradizionale. Si formano così operatori che, illusi da un modesto bagaglio nozionistico, spesso disorganico, credono di poter avere sufficiente competenza per fare essi stessi indiscriminatamente,
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e il medico da un lato, e lo psicologo clinico o peggio lo psicoterapeuta dall’altro. Il rischio per l’utenza è enorme, soprattutto lo sarà a lungo termine: a nostro avviso esso è già nefastamente iniziato. Il burn-out degli operatori dell’aiuto (cfr. Cap. 12.5) sarà conseguenza ancora minore. Occorrerà gran tempo e volontà politica per trovare le risorse e intelligentemente impiegarle, per cambiare questo stato di cose, in modo che a ogni operatore “relazionale”, o professionista dell’aiuto, si possa offrire una formazione specifica e adeguata agli intenti del suo ruolo, non confusa nelle varie sue differenziazioni e non forzata entro i modelli della tradizione medica. Il medico ha la sua professione, oggi sempre più complessa: le altre professioni non possono essere “sue”, ma devono essere davvero costituite. Di qui, come spiegato nell’ultima parte della Presentazione, l’originario titolo: “La mente medica e le altre (sue?) professioni”. Che cosa si vuole per il futuro?
Appendice 1 Collegio dei Professori Universitari e dei Ricercatori di Psicologia Clinica delle Università italiane
Stralcio dallo Statuto Art. 1 – Costituzione. È costituita ai sensi degli articoli 36 e seguenti del Codice Civile l’Associazione denominata “Collegio dei Professori universitari e dei Ricercatori di Psicologia Clinica delle Università Italiane” (di seguito “l’Associazione”). L’Associazione è apartitica, aconfessionale e non ha scopo di lucro. La sede legale dell’Associazione è presso la sede Universitaria del Segretario. Art. 2 – Scopo. L’Associazione ha lo scopo di promuovere, nel pieno rispetto dell’autonomia degli Atenei e delle Facoltà, lo sviluppo scientifico, culturale, formativo e operativo della Psicologia Clinica e di tutelarne la specificità, in ambito universitario, nelle istituzioni pubbliche, assistenziali, sociali, sanitarie, nonché nelle strutture formative riconosciute. L’Associazione si propone di delineare, sostenere, garantire le prerogative culturali, scientifiche, deontologiche ed etiche attinenti al ruolo professionale dello psicologo clinico. L’Associazione può svolgere ogni attività strumentale al raggiungimento dello scopo. […] Art. 4 - Soci dell’Associazione e rapporto associativo. Possono divenire soci dell’Associazione i professori e i ricercatori inquadrati nel settore scientificodisciplinare di Psicologia Clinica (attualmente M PSI 08). Sono soci ordinari dell’associazione i professori e i ricercatori di ruolo inquadrati nel settore disciplinare Psicologia Clinica che ne facciano richiesta al consiglio direttivo. […]
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Stralcio dal Regolamento Art. 1. Nell’ambito dei suoi scopi statutari, il Collegio si propone di tutelare la specificità della Psicologia Clinica e le sue delimitazioni dai settori scientifico disciplinari contigui e/o affini. Art. 2. La Psicologia Clinica è caratterizzata da una pluralità di modelli, di metodi e di tecniche, ciascuno con una sua propria ragione storica, cui sottende come comune denominatore, indispensabile e centrale, un’attività clinica, sia essa rivolta al singolo, ai gruppi, ai collettivi. Art. 3. L’attività clinica è la matrice dell’indagine scientifica della Psicologia Clinica e della configurazione dei suoi oggetti di studio. La ricerca scientifica si qualifica in funzione della sua rilevanza applicativa. Definizione più articolata dell’ambito di pertinenza disciplinare denominato Psicologia Clinica è riportato nell’appendice n. 1 che è parte integrante del presente Regolamento. Art. 4. La Psicologia Clinica implica una clinica essenzialmente psicologica, che si differenzia dalla clinica di tipo medico. Gli interventi clinici si configurano come metodiche atte a modificare stati mentali, schemi di comportamento e sistemi di relazione. Variamente denominate, le metodiche della Psicologia Clinica, hanno il fine di realizzare migliori condizioni funzionali e adattative, lungo la processualità del “caso singolo”, sia esso costituito da uno o più individui, in situazioni di gruppo e/o istituzionali. Occupano posizione centrale in tale attività le psicoterapie propriamente dette. Art. 5. Gli ambiti di intervento della Psicologia Clinica riguardano una molteplicità di situazioni problematiche, rilevanti sul piano personale e/o sociale, in cui la psicopatologia si costituisce come una, ma non esclusiva, indicazione accanto alle situazioni di disagio, comunque evidenziate, e alle aspirazioni personali e sociali al cambiamento. […]
Pertinenze disciplinari Definizione. La psicologia clinica è un settore della psicologia i cui obiettivi sono la spiegazione, la comprensione, l’interpretazione e la riorganizzazione dei processi mentali disfunzionale o patologici, individuali e interpersonali, unitamente ai loro correlati comportamentali e psicobiologici. La psicologia clinica è identificabile con le metodiche psicologiche volte alla consulenza, diagnosi, terapia o comunque intervento sulla struttura e organizzazione psicologica individuale e di gruppo, nei suoi aspetti problematici, di sofferenza e di disadattamento e nei suoi riflessi interpersonali, sociale e psicosomatici. La psicologia clinica è altresì finalizzata agli interventi atti a promuovere le condizioni di benessere socio-psico-biologico e i relativi comportamenti, anche preventivi, nelle diverse situazioni cliniche e ambientali. La psicoterapia nelle sue differenti strategie e metodiche costituisce l’ambito applicativo che più caratterizza la psicologia clinica, come punto di massima convergenza tra domanda, conoscenze psicologiche disponibili, fenomeni indagati e metodi utilizzabili.
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Ambiti di pertinenza. Appartengono a questo settore gli ambiti di ricerca e d’insegnamento identificati a livello nazionale e internazionale e condivisi dal Collegio dei docenti di psicologia clinica delle Università italiane. Le aree di ricerca e di intervento clinico del settore sono altresì identificabili con le seguenti competenze, di seguito denominate come: 1. Psicologia Clinica; 2. Metodi e tecniche per la ricerca in psicologia clinica; 3. Psicopatologia; 4. Neuropsicologia clinica; 5. Psicofisiologia clinica; 6. Psicosomatica; 7. Psicologia delle dipendenze; 8. Psicologia clinica forense; 9. Psicosessuologia; 10. Psicologia della Salute; 11. Psicologia ospedaliera; 12. Psicologia della riabilitazione; 13. Psicoterapia. Obiettivi. La psicologia clinica è uno specifico ambito di competenze finalizzato alla ricerca e all’intervento per la valutazione e la prevenzione, il trattamento e la cura di stati mentali e di sistemi disfunzionale o patologici, nonché al miglioramento ottimale delle condizioni comportamentali e biologiche dipendenti da variabili psicologiche soggettive, situazionali e sistemiche. La psicologia clincia configura i suoi “oggetti” di studio e di intervento nei processi che possono limitare o disturbare anche gravemente le capacità di adattamento intrapsichico, interpersonale o di gruppo, generando situazioni di disagio, di sofferenza e di devianza. Lo studio e l’intervento sul “caso”, ovvero la persona e i suoi contesti interattivi, costituiscono l’ambito elettivo della psicologia clinica. Criteri scientifici. La psicologia clinica è una disciplina scientifica che mira al controllo e alla falsificazione dei propri asserti, mediante criteri propri sia delle scienze della natura che delle scienze della cultura, impiegando in modo pertinente sia metodi sperimentali ed empirici, sia semiologici e storico-ermeneutiic. La legittimità e pertinenza dei criteri usati e dei metodi è data dal tipo di configurazione dei processi studiati. Modelli. La tradizione di ricerca e intervento della psicologia clinica è proficuamente alimentata da una pluralità di modelli. Tali modelli sono guidati da differenti presupposti epistemologici e teorico-metodologici, e connotati da irrinunciabili differenze nelle strategie cliniche e di ricerca, peraltro in costante evoluzione scientifica e culturale. Metodi. Le metodiche della psicologia clinica sono codificate da protocolli operativi, riconosciuti e legittimati dalle diverse tradizioni di studio, di ricerca e di applicazione clinica. I differenti procedimenti diagnostici, valutativi, e di terapia, pur utilizzando anche metodiche psicobiologiche o socio-psicologiche, si qualificano come “psicologici” in virtù dei mezzi impiegati e degli effetti perseguiti. Tra le metodiche presenti nella Psicologia Clinica assume particolare rilevanza, come strumento d’intervento, il sistema soggettivo dello psicologo clinico. Sistema emotivo, cognitivo e relazionale costruito attraverso la formazione specifica e l’attività clinica.
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Autonomia e settori disciplinari limitrofi. La psicologia clinica è caratterizzata da contiguità e rapporti interdisciplinari con altri settori scientifici e professionali. Tali contiguità a vario titolo alcuni settori della medicina, tra cui la neurologia e la psichiatria, delle scienze sociali, tra cui la sociologia e l’antropologia culturale e altre discipline storiche, filosofiche e pedagogiche attinenti al comportamento umano. Nonostante queste contiguità, la psicologia clinica mantiene una sua autonoma caratterizzazione di ricerca, di metodo e di assunti metateorici, per cui le sue competenze e pratiche operative non sono di pertinenza dei settori limitrofi, né di altre discipline psicologiche non finalizzate alla pratica clinica diretta.
Appendice 2 Medici e Psicologi (e perché non altri?): intervista al Prof. Imbasciati A cura di Tania Fiorini, Psicologia Toscana, 2007, XIII, 1:7-13 (con autorizzazione)
Domanda: Da quando hanno cominciato a operare, gli psicologi si sono spesso trovati in contrasto coi medici, talora con vertenze giuridiche che hanno coinvolto i rispettivi organismi rappresentativi. Un contrasto storico è stato quello riguardante la psicoterapia, parzialmente risolto dalla legge del 1989. Ma le contestazioni circa le competenze e le prerogative professionali non sono cessate: così per i ruoli ospedalieri e negli altri Servizi, così, anche recentemente per la Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica, per la quale sono in atto vertenze legali. Spesso gli psicologi lamentano una subordinazione ai medici, agli psichiatri in particolare, nei servizi dove dovrebbero invece integrarsi. Da anni si può rilevare una sorta di rivalità, che spesso confonde l’utenza, che non sa a chi rivolgersi. Cosa ne pensa in proposito? Lei è un medico, originariamente, che si è sempre occupato di psicologia e che è ora Ordinario di Psicologia Clinica in una Facoltà medica; ha scritto molti libri. Perché c’è questa contesa, così ricorrente, tra medici e psicologi? È una questione di potere? Di gelosia? O di mercato? Risposta: Personalmente tenderei a escludere le ragioni economiche, o per lo meno a pensare che non c’entrino più di quanto non si verifichi per molte altre questioni. Potere e gelosia c’entrano sempre, d’altra parte, quando c’è una qualche contesa. Credo piuttosto che la ragione principale stia in un malinteso culturale su cosa si intenda per psicologia e soprattutto sulle sue applicazioni all’area di competenza medica. Nella cultura medica è radicato il pregiudizio che la psicologia sia l’affinamento dell’intuito, della sensibilità e della capacità di comprensione dei suoi simili che ogni uomo più o meno possiede: un affinamento di una “psicologia del senso comune”. Tutti siamo un po’ psicologi, si pensa: lo psicologo avrebbe fatto di questa capacità la sua professione o meglio la sua arte. Che si tratti di “scienza” viene ammesso a parole, ma in sostanza tra i medici è diffusa la concezione, che del resto permea il senso comune, che A. Imbasciati, La mente medica Che significa “umanizzazione” della medicina? © Springer 2008
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psicologia significhi capire la gente nel senso più semplice di tale “capire”, e che lo psicologo sia quella persona che si è addestrata a coltivare questa capacità per poi poterla esercitare in maniera più appropriata. D: Quindi lei sostiene che non si è assimilato il fatto che la psicologia è una scienza? R: La psicologia non è una scienza, ma un insieme di scienze: tra di loro diverse, ognuna col suo metodo, il suo campo di ricerca, il suo campo di applicazione. È questo che non si è assimilato. Dire “psicologia” è come dire “medicina”; quante discipline diverse ci sono oggi che fan parte della Medicina? Gli ordinamenti ministeriali contemplano una cinquantina di “settori scientifico-disciplinari” di tipo medico: all’interno di ognuno di questi ci sono poi, per ogni settore, diverse discipline mediche, chirurgiche, biologiche; e tutte, compongono il corpus scientifico che si chiama Medicina. Lo stesso discorso si potrebbe fare per la giurisprudenza, o per l’economia, o per l’ingegneria: quante sono le discipline che rientrano sotto ognuno di tali nomi? La mancata assimilazione, nella cultura generale così come in quella medica, che la psicologia sia una scienza dipende dal fatto che la si riduce a un unico semplice “sapere”, ignorandone invece la complessità e la poliedricità delle molteplici sue discipline. D: Quanto lei dice può valere per l’uomo della strada, ma non le sembra esagerato attribuirlo ai medici? R: No. Nella mia esperienza ventennale in Facoltà di Medicina, nonché per quella più remota quando diventai medico, ho riscontrato che il riconoscimento delle scienze psicologiche è solo formale: l’atteggiamento, inteso questo termine nella specifica accezione della Psicologia Sociale, è invece quello di considerarle riduttivamente, come un corpus unico, riconducibile alla psicologia del senso comune. Gli atteggiamenti, come è noto in Psicologia Sociale, sono radicati, poco consapevoli, e duraturi oltre le smentite della realtà. D’altra parte l’atteggiamento suddetto si fonda sul fatto che i medici nel loro curriculum non hanno avuto, e in gran parte non hanno tuttora, una formazione psicologica adeguata. Spesso è stata loro impartita una pseudopsicologia. Per maggior dettaglio su questa complessa vicenda, storica e ancora attuale, possono essere consultate diverse mie opere (Imbasciati, 1986, 1991b, c, 1993, 1995a, b, 1996b, 1997, 1998b, 1999a, b, 2000a, b, 2001b, Imbasciati, Margiotta, 2005). D: Ma la psicologia dovrebbe essere insita nella Medicina, per comprendere la sofferenza del paziente! R: Ecco, questo è un esempio di come il vasto panorama delle scienze (e dico scienze al plurale) venga ridotto all’aspetto che più appare al senso comune. Avere comprensione – un’effettiva partecipata comprensione – del paziente fa parte di una adeguata competenza medica: per corroborarla, oltre l’esperienza
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medica, è stata ritenuta necessaria anche una adeguata formazione psicologica. Non bisogna però confondere questo tipo di formazione, auspicabile ma non insita nella scienza medica, con la professione dello psicologo: questo è un professionista diverso dal medico, specificamente e scientificamente formato per fare un’altra professione. Anche un avvocato deve avere competenze di tipo psicologico, ma non per questo può fare lo psicologo. Auspicabile è una formazione psicologica per il medico, e che sia adeguata, così come deve essere, diversa, per un avvocato, o, ancora diversa, per un insegnante, ma non per questo tali formazioni conferiscono a questi professionisti la competenza di uno psicologo. Tanto meno si può sostenere che una tale competenza sia insita, in una di queste professioni, per esempio in quella medica: qui il professionista può semplicemente sperimentare di avere bisogno anche di una formazione psicologica relativa al proprio campo professionale. D: Esiste una disciplina chiamata “Psicologia medica”: non è questa la specifica competenza psicologica che ha il medico verso i suoi pazienti? R: La dizione “psicologia medica” è il fulcro di annosi equivoci e mistificazioni. Un intero mio volume è dedicato al tema (Imbasciati, 1993). Con Psicologia Medica si deve intendere quell’insieme di nozioni delle varie scienze psicologiche che dovrebbero far parte dell’equipaggiamento formativo del medico affinché egli possa fare al meglio il medico; ma non perché egli possa fare lo psicologo con i pazienti. La psicologia medica deve pertanto essere centrata sul medico e non sul paziente; è una parte della formazione dei medici perché essi possano fare meglio i medici. Purtroppo c’è il malinteso per cui la si intende come un intervento rivolto ai pazienti che presentino ai medici problemi particolari: è questa una concezione riduttiva di cosa può fare uno psicologo, anche perché talora si risolve in una delega allo psicologo per qualcosa che al medico gli è comodo non affrontare. Altro equivoco è credere che esistano pazienti che necessitano di intervento psicologico di natura medica. Se un paziente necessita di un intervento specifico di psicologia mentre è oggetto di cure mediche o chirurgiche, questo esige l’opera di uno psicologo, non del medico stesso, che deve invece rimanere nel ruolo di favorirla e corroborarla con una comprensione del disagio psichico concomitante alla patologia fisica. In questo senso l’intervento medico può essere auspicabilmente anche psicologico, ma un intervento psicologico di natura medica è un controsenso. L’opera dello psicologo, da affiancarsi al medico, è psicologia clinica, non psicologia medica. Se un paziente di tipo medico è anche affetto da disagi o malattie psichici, sarà oggetto di un intervento coordinato: e del medico, con i vari specialisti, e dello psicologo clinico; o dello psicoterapeuta; o eventualmente dello psichiatra. Non bisogna mescolare competenze che, allo stato attuale della scienza, non possono essere cumulate nella stessa persona. Sotto questo equivoco sta lo stereotipo del “dottore” che sa tutto e che cura comunque tutto; e l’atteggiamento per cui il disagio psichico viene frainteso come fosse una malattia, da curarsi pertanto da parte del medico.
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D: Lei parla di psicologia clinica: in che cosa differisce allora dalla psicologia medica? Sembra inoltre che lei faccia una distinzione tra malattia e disagio psichico: non esistono allora malattie psichiche? R: L’equivoco fondamentale per cui si crede che pazienti che soffrono di disturbi psichici abbiano bisogno del medico poggia sulla falsa concezione che la sofferenza psichica sia una malattia. Malattia si definisce un’alterazione delle funzioni biologiche dettate dagli automatismi genetici propri della specie, dovuta a un qualche agente esogeno (virus, batteri, traumi) di cui si riconosce la patogenesi. È questa la patologia, contrapposta a una norma biologica. Se non si conoscono eziologia e patogenesi, la comparsa di sintomi o segni anomali si definisce “sindrome”: alcuni sintomi si ritrovano spesso insieme (syndromos=correre insieme), senza che si riconoscano cause, cioè eziologia e patogenesi. Nella sfera dello psichico non esistono malattie (a parte le intossicazioni o i traumi del cervello), ma solo sindromi. Anche le cosiddette malattie mentali, di pertinenza psichiatrica, non sono malattie nel vero senso della parola, ma sindromi; la cura farmacologia è essenzialmente sintomatica, non colpisce, né tanto meno eradica le cause del disturbo. Né si può a rigore parlare di cause: la mente e una costruzione funzionale individualmente irrepetibile, che si è costruita in quel modo, ottimale o disfunzionale, patologica o normale che la si voglia etichettare, a seguito delle esperienze di quel singolo individuo. Il cervello non è uguale per tutti: la sua macroanatomia sì, ma la micromorfologia, e dunque il funzionamento, è squisitamente individuale. Per il cervello non si può parlare di normalità come per il fegato. Per questo qualsiasi devianza psichica dalla media delle prestazioni mentali, non può dirsi malattia. Occorre dunque tenere separato il concetto di sofferenza psichica, grave o lieve che sia, disturbante o no, dal concetto di malattia. Il disagio psichico non c’entra dunque col “dottore”. Se un tal disagio sopravviene in seguito o insieme a una malattia di competenza medica, occorrerà il concorso integrato e del medico e dello psicologo clinico. Qui veniamo alla differenza tra Psicologia Medica e Psicologia Clinica: la prima consiste nella formazione anche psicologica del medico; perché questi possa fare il medico con un certo grado di comprensione dello stato di sofferenza del paziente e perché possa capire quando questa necessita che col medico si integri l’operato dello psicologo clinico. La Psicologia Medica, quindi, è una disciplina psicologica che deve essere idonea alla formazione dei medici. Per i pazienti interviene invece la Psicologia Clinica. Questa non opera intervenendo a curare una malattia, o a eliminare supposte “cause” di un disturbo mentale, ma a far fare una esperienza al soggetto che possa almeno in parte modificare l’insieme di quelle esperienze che, a cominciare dall’età infantile hanno concorso a costruire “quella mente”, di “quell’individuo”. D: Ma se un paziente presenta un problema, soprattutto se è in Ospedale, è il medico o lo psicologo clinico che se ne deve occupare?
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R: Il termine “problema” si usa spesso nel linguaggio corrente: esso indica che il soggetto si lamenta di qualcosa, o più spesso che crea problemi agli altri. Occorre a questo proposito sottolineare che ci possono essere situazioni psichiche disturbate che non sono avvertite, né dal soggetto, né dagli altri. Poiché spesso proprio queste situazioni sono le più gravi, tra i compiti dello psicologo clinico c’è quello di individuarle precocemente, cioè prima che creino il problema, in appositi servizi di screening. Venendo al “problema”, quando si è manifestato, se questo si evidenzia quando un soggetto è in ospedale, questi necessita sia del medico, sia dello psicologo clinico. Ma quali sono i “problemi” dei pazienti in ospedale? Possono essere opposizione ai trattamenti, proteste, irrequietezza, lamentele continue, angosce, o, qualche volta risposte del tutto anomale ai farmaci. Tutti questi sono però spesso più problemi dei curanti, o dell’organizzazione ospedaliera, che del paziente. Occorre allora tener presente la relazionalità di questi problemi, attribuiti invece al paziente. È questo un altro non facile compito dello psicologo clinico. Ma ancor più, parlando di medici e psicologi, occorre tener presente che spesso, proprio nella cultura medica, si considerano i problemi che si rilevano nei pazienti affetti da malattie fisiche dimenticando che questi sono una minima parte dei “problemi” psichici che affliggono le persone. Ne deriva l’idea che il medico faccia esperienza, e dunque possa acquisire competenza, di tutta la Psicologia Clinica. In realtà, fuori dall’area medica ci sono i più grossi problemi psicologici: crisi di coppia, crisi genitori/figli, maltrattamenti, abusi, impotenza e frigidità, perversioni, droga, abbandoni, delinquenza. Si verifica nella cultura medica una visione ridotta di quanto con termine già di per se stesso vago si definisce problema: questo riduzionismo porta a pensare: a) che lo psicologo clinico non sia clinico se non ha fatto esperienza nei servizi sanitari; b) che l’esperienza in questi sia sufficiente a conferire competenze di psicologo clinico, che pertanto sarebbe posseduta anche dal medico. D: Quindi la Psicologia Clinica sarebbe curativa più fuori dai Servizi Sanitari che in ambito medico? R: Sì, è così; anche se spesso si vuol riservare il termine cura soltanto all’area medica. La Psicologia Clinica fa parte di uno degli otto settori scientifico-disciplinari che concorrono a formare il curriculum della laurea in psicologia. Questo settore non fa parte dei settori medici, anche se di Psicologia Clinica si dovrebbe dare una qualche nozione ai medici. La Psicologia Clinica informa inoltre una specifica Specializzazione degli psicologi. Ciò premesso la psicologia clinica è curativa, ma in un senso diverso da come si cura in medicina. Qui “cura” vuol dire intervenire sulle cause che hanno provocato la malattia. Per lo psichico, come detto, non esistono cause, che abbiano interferito su funzioni che altrimenti sarebbero state “normali” in base alla biologia; la biologia è condizione necessaria ma sufficiente a dettare una normalità; è invece l’ottimalità di uno sviluppo esperienziale che determina la normalità. Per curare la psiche occorre offrire al soggetto una esperienza che possa modificare il suo
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funzionamento. Poiché questo si è costruito per tutte le sue pregresse esperienze interpersonali (essenzialmente emotive), occorre offrire al soggetto una nuova esperienza, che possa modificare il suo funzionamento: occorre una nuova esperienza interpersonale a pregnanza emotiva. Cura, allora, ha il significato di “prendersi cura di” e non del verbo transitivo “io curo te!”. In inglese ci sono due verbi, e due sostantivi differenti; “cure” e “care”. L’aggettivo “clinico” in Psicologia Clinica assume allora un significato molto diverso da quello che ha in Medicina: questa diversità viene misconosciuta e tale misconoscimento è fonte di equivoci, tra medici e psicologi. Sul tema ho scritto in proposito (Imbasciati, 2006e, 2007a). D: Ma allora la Psicologia Clinica è la psicoterapia? R: Non esiste “la” psicoterapia, ma tante e diverse psicoterapie. Una psicoterapia è una tecnica specialistica, differente secondo varie Scuole, per prendere in carico continuativamente e intensivamente un paziente da parte di un certo psicoterapeuta, adeguatamente specializzato. Una psicoterapia è una superspecializzazione della specializzazione in Psicologia Clinica. Quest’ultima ha un campo molto più vasto. Infatti si occupa non soltanto di inquadrare e comprendere il funzionamento psichico nello sviluppo specifico che ha avuto per ogni individuo, ma anche inquadrarlo in un contesto interpersonale e sociale, per individuare se è o no il caso di intraprendere una specifica psicoterapia, quanto piuttosto di intervenire a modificare il contesto sociale e ambientale. Così la psicologia clinica opera sulle organizzazioni sanitarie, in quelle di lavoro, sui gruppi, sulle istituzioni, in compiti che riguardano spesso la prevenzione, intesa nel suo senso più ampio, oltre l’area sanitaria. D: Ma si riesce a fare tutto ciò? R: L’impresa si presenta difficile: non per questo è rinunciabile. L’intervento psicologico-clinico è sempre lungo e laborioso. Si tratta di creare le condizioni per cui le persone possano fare un’esperienza che modifichi nel loro cervello il funzionamento che si è venuto a costruire in base a tutte le esperienze della loro vita: a cominciare da quando si era neonati. Oggi sappiamo questo. L’intervento psicologico clinico, e quello psicoterapeutico in particolare, deve dunque modificare una grande massa di funzioni dovute a esperienze pregresse, che a suo tempo e lungo tutto il corso di una vita hanno condizionato certe strutture cerebrali. Questo condizionamento non riguarda solo i singoli, ma coinvolge le considerazioni di tutte le relazioni e interazioni che si creano tra gli individui, i gruppi, il sociale. Dunque l’intervento psicologico clinico è tutt’altro che facile. Tutt’altro che breve. Le psicoterapie durano anni. Gli interventi socioambientali incontrano mille resistenze. D: Si dice che le psicoterapie abbiano tempi biblici; è vero?
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R: Sì, si tratta di anni. D: Ma allora vale la pena? R: Quali altre strade? Riempire le persone di psicofarmaci cosicché, per attutire alcune funzionalità disturbanti si compromettano altre funzioni? D: Ma come è possibile, allo psicologo clinico, individuare le vie più adeguate per inquadrare, comprendere lei diceva, lo psichismo di un paziente? R: Qui sta appunto una preparazione specifica e adeguata dello psicologo clinico, diversa da quella del medico e diversa anche dalla formazione psicologica auspicabile nel medico. Poiché si tratta di comprendere come le vicende di una vita siano state elaborate a formare le funzionalità di una certa “mente”, occorre uno studio longitudinale e l’intervento non può che esserlo anch’esso, cioè lungo. Inoltre le strutture funzionali che si sono venute a costruire non corrispondono specularmente alle vicende di vita attraversate dalla persona, bensì a come questa le ha “elaborate”. L’anamnesi, in senso medico, ha poco valore: si tratta di individuare una storia di vicende interiori, così come “quella mente” le ha elaborate. Tale elaborazione è essenzialmente emotiva. È il cervello emotivo (emisfero destro, cervello limbico) che regola tutta la corteccia cerebrale e quindi tutta la condotta, e la “storia” di un individuo. Occorre allora che lo psicologo clinico abbia una formazione che gli consenta di capire le emozioni: queste sono nella maggior parte non coscienti e spesso sono ineffabili, cioè non esprimibili con le parole. Le emozioni sono inconsapevoli, per lo più, al soggetto che le attraversa, e d’altra parte comunicano emotività (anch’essa poco consapevole) a chi si occupa di lui. Come è dunque possibile comprenderle, per un operatore, senza esserne “emozionati”? Di qui l’addestramento emotivo di un training per diventare psicoterapeuta. Una tale capacità di comprensione lo psicologo clinico la può acquisire per un duplice percorso: da un lato un training personale che gli permette di sentire un po’ di più delle sue emozioni (ricordo che le emozioni sono per la massima parte inconsapevoli: noi non siamo coscienti del lavoro che sta facendo il nostro cervello limbico), dall’altro una adeguata conoscenza delle ricerche che sono state effettuate sull’origine e lo sviluppo delle funzioni mentali a partire dall’esperienza; anche da quella neonatale. Quest’area di ricerche è condotta con quanto viene denominato “metodo clinico”, specifico dell’essenza della Psicologia Clinica, e diverso da quanto si intende per “clinico” in area medico-biologica. Pertanto è assai discutibile che ricerche condotte con metodi sperimentali della biologia possa costituire effettiva psicologia clinica; anche se tali studi possono essere utili per inquadrare alcune funzioni, soprattutto in campo patologico. Ma un’effettiva psicopatologia la si può inquadrare soltanto con metodi psicologici, ovvero con le tecniche interpersonali che sono state approntate per comprendere la soggettività delle persone. Di qui si ritorna alla formazione “personale” dell’operatore.
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D: E quando, invece che su un paziente, si tratta di intervenire sull’ambiente, sulle istituzioni, sulle organizzazioni sanitarie? R: Anche qui scorrono le emozioni: collettive, diverse dalla somma di quelle individuali. Anche qui occorre uno specifico addestramento. Da tutto ciò deriva che “clinico”, per la psicologia clinica, non vuole o non può essere sinonimo di curativo così come lo si intende in medicina. Riguarda il metodo: metodo clinico, studio longitudinale con presa in carico, emotiva, e del paziente e delle istituzioni, e della propria emotività di operatore che opera in contatto con le emozioni. D: Ma allora la Psicologia Clinica è totalmente diversa, e lontana, dalla clinica medico-chirurgica? R: Sì, e questo è fonte di difficoltà con i medici. Per questo occorre che quest’ultimi abbiano una formazione psicologica: per poter lavorare accanto agli psicologi, senza equivoci e incomprensioni. Le annose contese tra medici e psicologi, anche se come tutte le contese investono gelosie di potere, sono basate, a mio avviso essenzialmente, su misconoscenze: i medici sono in buona fede, quando criticano gli psicologi. Li criticano perché non sanno cosa gli psicologi possono fare e cosa non possono; e, avendo i medici una concezione estremamente riduttiva e grossolana del campo di studi e di metodi dello psicologo, restano spesso delusi e pensano di far meglio di lui; salvo poi non aver spazio e tempo per constatare che in realtà non possono. D: Ma ci sono studi di tipo medico biologico che rientrano nella Psicologia? Per esempio che cos’è la psicofisiologia e la psicobiologia? R: Tra gli otto settori scientifico-disciplinari sopra menzionati ce n’è uno che riguarda appunto queste discipline: non si tratta però di discipline definibili come mediche, ma semplicemente biologiche. Le scienze biologiche servono sia alla medicina che alla psicologia; servono soprattutto alla ricerca di base. Così per le scienze psicologiche è necessario conoscere i processi biologici, oltre che psicologici, soprattutto cerebrali e umorali, che vanno in parallelo con i processi psichici, che li condizionano, così come a loro volta questi condizionano quelli. Entriamo qui nel campo della psicosomatica. Spesso però, occorre qui rilevare, che le ricerche psicofisiologiche diventano nella cultura comune e in quella medica le uniche ricerche “forti”: succede allora che si può dimenticare che tali ricerche, perché abbiano valore, devono essere convalidate dalla loro ricaduta nel campo più specificatamente interumano, interpersonale; nelle “persone”, e nelle loro relazioni. C’è attualmente una tendenza riduttiva, in seno agli stessi psicologi: si pensa che ricerche di questo tipo abbiano valore di per se stesse, perché sono simili a quelle dei medici: in realtà, al di sotto, c’è il pensiero che, appoggiandosi al potere, culturale e politico, dei medici, si possa essere maggiormente considerati; alcuni psicologi pensano
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che, mascherandosi da medici o da biologi, possano avere più credito. Questo serve loro a sorvolare su una loro più specifica e più difficile formazione psicologica. D: Lei però ha nominato la psicosomatica: qui dovrebbero entrare in pieno le scienze medico-biologiche. R: Certamente, in un’integrazione effettiva, non riduttiva o prevaricante, e quindi non facile: occorrono medici internisti, microbiologi, farmacologi e soprattutto immunologi, che lavorino in tandem con gli psicologi clinici, e con gli psicometristi e gli psicologi sociali. Il campo è qui quanto mai complesso. D: Ma in sostanza, pensa che tutte queste divergenze possano essere sanate? R: Certo, ma il lavoro è complesso. Occorrono tempi e risorse. Occorre che le nuove leve di medici e di tutti gli altri operatori sanitari siano davvero formati, e non solo informati, per quello che delle scienze psicologiche serve alla loro professione. Per questo occorrono risorse nel sistema formativo universitario. Occorre inoltre che in tutti i servizi assistenziali, l’organizzazione favorisca l’integrazione, in una formazione permanente, tra gli operatori e appositi psicologi: per questo però occorre che l’organizzazione preveda appositi spazi dell’orario lavorativo in cui possa avvenire tale integrazione. Anche per questo occorrono risorse per le organizzazioni sanitarie. D: Crede davvero che ciò avverrà? R: Capisco lo scetticismo, nel clima italiano attuale. Ma si vuol davvero curare la gente? O solo per finta? O arrabattarsi al meglio?
Bibliografia
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Indice analitico ragionato Francesca Dabrassi Questo indice è stato compilato per concetti e non per parole, ovvero non semplicemente ricercando al computer parole cui si voleva rimandare, bensì tenendo presente i concetti, anche e soprattutto quando sono esposti con parole diverse, o con circonlocuzioni: pertanto le pagine indicate possono non riportare la “voce” indicata, ma un discorso che con altre parole descrive il concetto. Complementarmente sono state omesse le parole laddove il loro ricorrere era pleonastico o non congruente. In tal modo si è voluto offrire al lettore uno strumento per una migliore comprensione dei collegamenti dei termini e quindi per un’adeguata assimilazione di concetti; nonché per una rapida rimemorizzazione di quanto già letto nel testo.
A Affetti/affettività (vedi anche Emozioni) 4, 5, 8, 16 e alessitimia 108, 109, 213 e angosce di morte 168, 169, 171 e apprendimento 56, 80, 81, 83, 109 e cognizione 53, 54, 64 e comunicazione 62, 68, 154 non verbale 63, 68, 69, 70, 154 e cura 6 e formazione 216 e inconscio 16, 54, 55, 62, 63, 67, 68, 69, 70, 71, 72, 154, 168 e Istituzione 166, 167 e medicus ipse farmacum 69 e memoria 48 e mente/cervello 8, 25, 59, 80, 100, 101, 105, 107 sviluppo della mente 82, 154, 156 e metacognizione 82 e obiettività 24, 41, 55 e psicosomatica 70, 82, 111, 168, 213 e relazione 4, 5, 16, 46, 64, 70, 71, 153, 154, 170 analitica 62 medico (operatore)/paziente 71, 72, 151, 155, 158, 213 e rêvérie 82 e transfert/controtransfert 62, 67, 68, 70 Aiuto come prodotto 161 e controllo-qualità 182, 183 le professioni di aiuto 205-217
e alessitimia 157 e burnout 179, 180-183, 217 e capacità relazionali 161, 180 e formazione 160, 186 e professione medica 188, 203, 206, 210 e psicoterapia 202, 203 e relazione 156, 180 e Salute 179, 182, 208 e transfert/controtransfert 74 psicoterapeutico 200, 203 Alessitimia 61, 108 come funzione mentale 108 e affetti 108, 109 e capacità relazionali 159, 212 e comunicazione non verbale 155, 213 e coscienza 60, 82, 108 e formazione 212 e metacognizione 82, 113 e professioni di aiuto 157 e psicosomatica 61, 106 e rêvérie 82 tratto della personalità 108 Analisi 197 della domanda 20, 120, 124, 196, 201 e inconscio 67, 68, 69, 128, 167 e Istituzione 166, 167, 186, 187 e Psicologia Clinica 133 e relazione analitica 69 e transfert/controtransfert 68 Angosce di morte 167-169 e accanimento terapeutico 172 e burnout 168 e capacità di pensare 170 241
242 e concetto di riparazione 172 e formazione 174, 213 e funzionamento protomentale 169 e inconscio 168, 169, 170, 171 e Istituzione 167 e malattia 171 e meccanismi di difesa 172 e oggetti interni 169, 170 e operatori sanitari 171 e organizzazione 168 e patologia psichica 173 e psicosomatica 168 e sviluppo della mente 170 e teoria del protomentale 170 persecutorie 172, 173 Apprendimento (vedi anche Esperienza) 31, 32, 36, 39 ad apprendere 26, 32, 76, 82 dall’esperienza 25, 26, 39, 42, 56 e affetti 56, 80 e capacità relazionali 207 e caregiver 37, 44, 56, 76 e comunicazione non verbale 27, 76 e coscienza 76, 118 e engramma 84 e esperienza 27, 31, 32, 36, 39 e funzioni mentali 25, 26, 34, 37, 38, 40, 43, 76, 80, 117 e maturazione neurale 27 e memoria 35, 44, 45, 47, 56, 79, 83, 117 e pensiero 117 e percezione 79, 80 e Protomentale 84, 170 e relazione 27, 56, 76, 79 e rêvérie 27, 37, 44 e significato/significanti 43, 44, 80, 83, 117 e sviluppo della mente 27, 29, 36, 37, 38, 40, 84 emotivo 158, 207, 212 fetale 38 incidentale 76, 85 Atteggiamento 73 identificatorio 15, 16 manipolativo 15, 16 verso la Psicologia Clinica 224
B Burnout 174, 175, 179, 181, 182, 186 e angosce di morte 168, 173 e capacità relazionali 161
Indice analitico e collettivo 178, 180, 182, 183, 184, 186 e formazione 183, 186 e Istituzione 186 e operatori dell’aiuto 179, 180-182, 183, 185 e organizzazione 168, 173, 174, 175, 178, 179, 184-186 e processi psichici 183 e professioni sanitarie 174, 179, 180, 181, 183 e relazioni interpersonali 180, 183, 217 e sindrome 180, 181, 184 e stress 174, 180, 181, 182, 184, 186 e studi gruppoanalitici 183 prevenzione del – 183
C Care/Cure IX, 147, 150, 228 e angosce di morte 172 e clinico 135, 228 e dottore 205 e guarigione 150 e intervento 138 e psiche 135 e relazione 135, 147 e transitivismo 135 Cervello (vedi anche Mente) e affetti 101, 109 e apprendimento 26, 27, 35, 36, 38, 109, 117, 155 e coscienza 14, 53, 68, 77 e emozioni 109, 215, 229 e esperienza 25, 26, 31, 32, 40, 42, 98, 99, 117, 155, 228 e inconscio 54, 64, 77 e “lo psicologico” 28, 30, 98 e maturazione 31, 39 e mente 24, 25, 99 e memoria 49, 51 e percezione 31-34, 41 e psicosomatica 6, 77, 100, 101 e psicoterapie 128 e relazione 36 e sessualità 41 emotivo 215, 229 guasto nel – 24-26 osservazione del – 7, 98 sviluppo del – 24-26, 98 variabilità interindividuale del – 41, 98, 99, 116, 118, 146, 197, 226
Indice analitico Clinico 134, 135, 228 e caring 135, 228 e curing 135, 228 e inconscio 59, 127 e patologia 127, 135, 136, 145 e Psicologia Clinica 127, 131, 133, 134, 135, 139, 150, 196, 228 e relazione 135, 141, 145, 147, 192 equivoci 93, 138-140, 144, 145, 147, 148 intervento 145, 151, 197, 221, 225, 228 medico – 95, 135, 138-140, 144 metodo – 58, 135, 192, 229, 230 psicologo – 93-95, 127, 211, 139, 145, 147, 152, 219, 226-229 Cognitivismo 57, 58 e psicoanalisi 57, 58 e soggettività 57 Collettività/collettivo 1, 13, 144 e affetti 71, 150, 230 e burnout 161, 173, 175, 179, 180, 182, 183, 186 e comunicazione 164 e inconscio 89, 144, 167, 172, 188 e interventismo 18 e psicoanalisi 165 e psicologia della Salute 187 e psicosomatica 165 e sindrome da stress 179 strutture psichiche del – 21, 74, 163-168 Comunicazione XI affettiva 68, 70 e apprendimento 75, 76, 158 e diagnosi 212, 213 e memoria implicita 70 e oggettività/soggettività 9, 10, 13, 15 e operatori sanitari 77 formazione degli – 77, 213 e percezione 77 e processi mentali 6 e relazione 4, 9, 76 medico-paziente 16, 18, 71, 154 e significati 4 e sofferenza 125 e transfert/controtransfert 70, 71 interpersonale e collettivo 164 madre-bambino 74-76, 109, 110 regolatore biologico e comportamentale 109, 110 non verbale 6, 15, 64, 68, 69, 71, 74-77,
243 154, 164 e affetti 62, 68-71, 155 e coscienza 18, 61-65 e formazione 77 e memoria 70 e operatori sanitari 71, 77, 154, 155, 156, 213 e osservazione 5, 9 e percezione 5, 77 e psicosomatica 154, 164, 165 e relazione 6, 37, 57, 154-156, 158, 213 e sensorialità 74, 154 e sessualità 76, 77 e sviluppo della mente 109, 110, 118, 163 paraverbale 74 verbale 6, 74, 75, 156, 164, 213 Concretismo 14, 18, 20, 209 Coscienza 53, 63, 64 capacità di – 7, 14, 50, 61, 83 e rêvérie 82, 83 e alessitimia 60 e ambiguità linguistica 60 e comunicazione 18 e funzione riflessiva 61 e inconscio 53, 54, 59, 68 e memoria 50 e mente 5, 8 e osservazione 5 e presente ricordato 50, 63 e relazione 62 Coscienzialismo 17, 18 e inconscio 17 e prassi medica 18 Cultura medica e Psicologia Clinica 131-152, 227 e psicoterapia 191 e scienze psicologiche 89, 91, 116, 131, 140, 223 equivoci della – 5, 31, 93, 116, 191, 223 e interventismo 18 e osservazione 5 isolamento della – 88, 89 riduzionismo della – 227
D Diagnosi 72, 124, 130, 146 comunicazione della – 175, 213 DSM 140, 146 e alessitimia 108
244 e atteggiamenti 73 e compliance 147 e formazione degli operatori 188, 213, 214 e inconscio 65 e interventismo 18, 19 e osservazione 2 e malattia 2, 115, 206 e oggettivismo 69 e normalità/patologia 123, 130, 136, 145, 151, 200, 206, 209 e psichico 93, 115, 116, 119, 123, 130 e Psicologia Clinica 136, 137, 140, 147, 220 e psicoterapia 196 e relazione medico-paziente 6, 135, 147 e strumenti 6 e terapia 136 false – 214 valore epidemiologico della – 146 Disturbo 124 chi turba il – 120, 121, 124-126, 196 distonico 124-126 egosintonico 124-126 e dolore mentale 124, 130, 169 e malattie psicosomatiche 97, 125 e mente 128, 226 e norma/guasto 122, 138 e psicologia clinica 94, 137 e psicosomatica 128 e psicoterapie 196 e rapporto medico-paziente 147 e stress 175 inconscio/latente 126, 127, 128, 129, 137, 196, 198 mentale 120, 128, 129, 226 obiettivo 126, 128 Dottore/Medico 87, 88 autorevolezza del – 87-89, 93, 131, 195, 209, 210, 225 cultura medica 89, 93, 94, 141, 151, 179, 184, 206, 207 curriculum del – 91, 141, 194 e caring/curing 1, 135, 138, 205 e capacità relazionali 153, 208, 209, 212, 213 e concetto di “clinico” 134, 135, 139, 144, 197 e concretismo 14 e coscienzialismo 17, 18
Indice analitico e diagnosi 72, 123, 146, 147 e disagio psichico 125, 127, 129, 136, 225, 226 e infermiere 16, 21, 212, 213 e inconscio 69, 129, 130 e interventismo 18-20, 209 e le altre professioni sanitarie 88, 157, 188, 203, 205, 206, 209, 216, 217 e le professioni non sue 94, 139, 140, 188, 203, 205, 209, 216, 217 e lo psichico 29, 116, 225 e normalità/patologia 115, 116, 118-120, 123, 124, 129, 136, 140 e organizzazione dei servizi sanitari 88, 209 e osservazione 2, 4, 5 e comunicazione 4 e psicologia 93, 94, 120, 138, 139, 143, 144, 146, 151, 211, 220, 224-227 e psicoanalista 193, 194 e psicoterapie 140, 193, 195, 197, 203 e rapporto medico-paziente 6, 15-17, 71, 88, 89, 153, 157 e affetti 16, 17 e inconscio 71 e Salute 147 e scienze umane 89, 209 e transitivismo 15-17, 93, 94, 141, 146, 147, 188, 194, 209 formazione del – 9, 10, 88, 95, 142, 144, 194, 195, 209, 224, 225, 229 pseudopsicologica 9, 10, 89, 91, 95, 194, 195, 209-211, 224 Medicus ipse farmacum IX, 6, 10, 21, 69, 153 e affetti 69 e comunicazione non verbale 6, 7, 10 e empatia 153 e inconscio 69 e psicosomatica 6, 21, 212 e relazione 153 mente del – 2, 3, 5, 6, 9 modello – 92, 124, 130, 140, 157, 179, 188, 206, 229 e burnout 179, 184 e cultura sanitaria 93 DSM e assessment 146 e diagnosi 140, 146 e intervento 146
Indice analitico
245
e terapia 146 valore epidemiologico del – 136
fetale 31, 98 relazionale 27, 36, 56, 79, 84, 228
E
F
Emozioni (vedi anche Affetti) e alessitimia 60, 61, 106-108 e apprendimento 44 e burnout 181, 182 e comunicazione 154, 164 e inconscio 164, 229 e memoria 47 e mente 25, 41, 42, 44 e sviluppo della mente 108, 109 e organizzazioni sanitarie 230 e percezione 35 e presente ricordato 63 e psicologo clinico 229 e psicoterapia 151 e relazione 154, 164 e stress 175-177 e transfert 67 regolazione delle – 101, 108, 109 Engramma 84 e capacità di pensare 170 e sviluppo della mente 84, 85 e relazioni 85 Epidemiologia e diagnosi 122, 146 e DSM 136, 146 Esperienza (vedi anche Apprendimento) 31, 32, 39 e apprendimento 25-27, 29, 31, 34, 38, 39, 42, 56, 57, 79, 98, 117, 226 funzionale 32, 46 e atteggiamento 73 e capacità relazionali 156, 159, 160, 208, 227 e cervello 26, 98, 99, 155, 228 e coscienza 118, 154 e Istituzione 165, 178 e maturazione neurologica 25, 27, 31, 3840, 42, 83, 98, 101, 226 e memoria 47, 59, 83, 117 implicita 36 e normalità/patologia 118, 137, 226, 227 e psicoterapia 191 e significati/significanti 43 e sviluppo della mente 39, 42, 46, 98, 99, 117, 118, 123, 146, 226-229 e organi sensoriali 31, 35
Formazione 10, 212 alla relazione 152, 158, 159, 161 e gruppi Balint 158, 159 e angosce di morte 174 e cultura medica 89, 90, 92, 93, 141, 188, 193, 209-211 e inconscio 68 e laurea 132, 133 e oggettivismo 10 delle figure sanitarie 88, 142, 145, 148, 160, 180-188, 194, 203, 205, 209, 210, 229 dell’educatore professionale 215 dell’infermiere 212 dell’infermiere pediatrico 212 dell’ostetrica 214 delle scienze motorie 216 dello psicologo 10, 89, 92, 94, 95, 127, 132, 142, 150-152, 221, 229 e soggettività attrezzata 147 del logopedista 214 del medico 11, 141, 225, 226, 229 del tecnico della riabilitazione psichiatrica 215 del terapista della neuropsicomotricità dell’età evolutiva 213 dello psicoterapeuta 193, 202, 203 permanente 69, 77, 160, 161, 180-183, 186, 187, 207, 212-215, 231 e burnout 180-186, 216, 217 psicologica 92, 95, 142, 152, 174, 207, 210, 211, 215, 216, 224-226, 230, 231
G Gruppi Balint 158, 212
I Impact Factor 148, 151 Identificazione proiettiva 171 Inconscio 17, 58, 68, 77, 99, 229 affetti 54, 67, 68 collettivo 89, 144 descrizione/spiegazione dell’– 47, 54, 55, 58, 77 disturbo – 126, 127, 130
246 e diagnosi 130 esplorazione dell’– 58, 59, 62 e angosce di morte 171, 180 e cognitivismo 57 e comunicazione non verbale 165 e coscienza 47, 53, 54, 59, 60, 62, 63, 68 e relazione 59 e coscienzialismo 17 e Istituzione 166 e medicus ipse farmacum 69 e mente 47 e psicosomatica 99, 100 e sessualità 77 e soggettività 55 attrezzata 57 e transfert/controtransfert 68, 73 esplorazione dell’ – 58 perché l’–? 54 e perché la coscienza? 54 Intelligenza e normalità psichica 121 sviluppo della – 57 Interventismo 18 e concretismo 20, 21 e incertezza 20, 72 e dottore/medico 18, 20, 209 e onnipotenza 72 e operatore 20 e organizzazione 19 e Sanità 19 e spirito salvifico 21 ragioni dell’– 19 Istituzione e affetti 71, 166 e angosce di morte 167, 173, 174 e burnout 181, 184, 186 e cultura medica 89, 92, 95, 141, 149, 188, 211 e formazione 210, 215 e inconscio 166, 167 e medicalizzazione 211 e metodo clinico 230 e operatori sanitari 21, 94, 167, 187, 205 e Organizzazione 163, 166, 167, 174, 179, 186-188, 207 Psicoanalisi dell’– 165, 167, 187 e Psicologia Clinica 139, 144, 145, 219, 220 e riforme 141 malate 95, 161, 165
Indice analitico spirito dell’– 21, 163, 174, 188, 209
L Laurea e capacità relazionali 157, 207 e competenze psicologiche 95, 142 e cultura medica 90 in Medicina e chirurgia 91, 132, 138, 141, 143, 144, 157 declaratorie 132-134 insegnamenti psicologici 138, 143 in Psicologia 90, 132, 147, 148, 193, 210, 227 e psicoterapie 202, 203 sanitarie X, 88, 91, 92, 95, 141, 143, 152, 206-209, 211, 212, 214-216 SSD (settore scientifico disciplinare) 132, 133, 141, 142
M Malattia 2, 226 della civiltà 177 e accanimento terapeutico 172 e affetti inconsci 71, 72, 106 e angosce di morte 168, 171, 173 e burnout 179, 180, 183 e concetto di “clinico” 135, 136 e diagnosi 72, 130, 136, 137, 146 e disagio psichico 226 e identificazione proiettiva 171 e dottore/medico 1, 6, 87, 211, 212, 225 alessitimico 213 e medicus ipse farmacum 6, 69 e modello medico 92, 206, 227 e normalità/patologia 123-125, 137, 138, 145, 196 e obiettività 125, 126 e osservazione 2 e psicologia 119, 129, 136, 139, 151 e relazione madre-bambino 110-112 medico-paziente 6 e rêvérie 82 e Salute 92, 101, 102 e sindrome 2, 3, 115, 116, 124, 136, 137, 226 dello stress 177 e spirito salvifico 21 e transfert/controtransfert 71
Indice analitico e transitivismo 15, 16 inguaribile 2, 3, 20, 71 incurabile 2, 3, 212 latente 126, 129 mentale 173, 196, 200, 201, 226 psicosomatica 97, 100, 101, 106 e conflitti inconsci 106 pluricausalità della – 92, 100 Maturazione 98, 127, 136 e apprendimento 27, 32 e emozioni 108, 109 e esperienza 25-27 e strutturazione di funzioni 26, 29 neurologica 25, 29, 31, 38, 39 Medico (vedi Dottore) Medicalismo 92, 140 e altre professioni sanitarie 157, 188, 206 e burnout 179 e diagnosi 130, 140 e nosografia 124 Medicalizzazione delle altre figure sanitarie 88, 91, 157, 206, 210, 211 degli psicologi 148-152, 211 dei Servizi 151, 207, 215 della cultura sanitaria 92, 93 della Psicologia 115-130, 211 Memoria a breve termine 50 a lungo termine 50 e affetti 48, 70 e apprendimento 26, 35, 36, 37, 44, 45, 47, 50, 56, 79, 80, 85, 117 e consapevolezza/inconsapevolezza 4750, 53 e coscienza 50, 64 e emozioni 47 e engramma 84 e esperienza 31, 42, 56, 57, 118 e inconscio 53-55 e mente 57, 84 e modelli operativi interni (MOI) 49 e osservazione 3, 4 e percezione 33, 35-37, 63, 79, 80, 104, 105 e relazioni 36, 48, 49, 70 e ricordo 47-49, 51, 72, 118 e significati/significanti 48, 80, 83 dichiarativa 51 di lavoro 51
247 di riconoscimento 50 di rievocazione 50 episodica 51 esplicita 50, 51 funzionale 32, 35, 42, 59, 79 gustative 48, 49 implicita 4, 5, 32, 36, 37, 50, 51, 70, 83, 84, 100 motoria 47, 48, 50, 51 olfattiva 48, 49 procedurale 51 semantica 51 spaziale 51 verbale 47, 48, 56 ingannevolezza della – 3, 4, 51 Mente 57, 101 catabolismo psicotico 130 come funziona la – 39-51, 53, 57, 117, 118, 155, 163 costruzione della – 84, 123, 129, 172 dell’operatore/osservatore 3, 4, 7, 8, 10, 11, 20, 23, 58, 183, 197 e concretismo 20 del paziente 4, 197 disturbo mentale 120, 128 dolore mentale 129 e affettività 4, 5, 41, 154 e anabolismo mentale 130 e alessitimia 61 e apparato neurale 24 e apprendimento 36, 56, 117 e burnout 183 e capacità relazionali 157, 158 e cervello 98, 99, 109, 117 e collettivo 163 e comunicazione 118 e condotta 57 e consapevolezza 5, 8, 17, 18, 23, 46, 47, 53, 54, 58, 59 e corpo 97, 99, 101, 104, 105, 109 e coscienza 5, 7, 14, 44, 61, 64, 65, 68 e emozioni 41 e esperienza 26, 31, 36, 39, 42, 56, 79, 117, 123, 156 e genetica 116, 117, 118 e inconscio 47, 68 e Istituzione 94 e memoria 29, 42, 79, 117 e normalità/patologia 40, 118, 119 e oggettività/soggettività 7, 8, 14, 99
248 e osservazione 3, 7, 8, 24 e percezione 14, 79 e psicoanalisi 68, 127 e psicologia 98, 226, 229 e psicosomatica 97-100, 111-113 e psicoterapia 191, 194, 196-198, 200 e relazione 56, 61, 62, 64, 118, 158 medico-paziente 6, 197, 198 e sessualità 41, 42 e significati/significanti 43-45, 80, 84 e SNC 25, 101, 117 e stress 177 e strumento di osservazione 10, 23 esperienza della – 42 “guasto della –“ 24-27, 115, 116, 127 irripetibilità della – 40-42, 46, 64, 98, 115, 118, 126, 127, 146, 226 gruppale 163 medica 2, 119, 156, 183, 229 implicita 50 osservazione della – 98, 99 pregiudizi sulla – 24, 25 sofferenza della – 129, 130, 196 sviluppo della – 24, 30-33, 36, 43-45, 54, 55, 59, 76, 80-84, 111, 117, 118, 168, 169, 214 e angosce di morte 170, 171 e engrammi 84 e equilibrio psicosomatico 111, 112 e relazione madre-bambino 55, 56, 59, 60, 61, 64, 76, 82, 109-111, 168, 169 e Teoria del Protomentale 170 fetale 214 Metacognizione 44 e alessitimia 154 e capacità autoriflessiva 44, 113, 154 e psicosomatica 108, 109, 112, 113 e rêvérie 82 Metapsicologia 84, 99 e Teoria dell’Attaccamento 64 e Teoria del Protomentale 83-85 e Teoria Energetico-pulsionale 54, 85 Metodo e lauree 132, 133 clinico 58, 134, 135, 137, 150, 192, 220222, 229, 230 e psicoterapie 192, 198, 200, 210 freudiano 17, 18, 53, 84, 85 medico 94, 101 psicoanalitico 58, 64, 165, 197
Indice analitico psicologico 68, 101, 120, 140, 193, 220222, 224, 229 scientifico 28, 229
N Normalità/patologia 40, 81, 115, 122, 123 e categorizzazioni 115 e concetto di “guasto” 115-119, 123, 124 e concetto statistico 122, 123 e coscienza 61 e diagnosi 115, 116 e disturbo mentale 121, 122 chi turba il disturbo? 196 e funzionalità/disfunzionalità 122, 123 e intelligenza 121 e intervento 123 e lo “psichico” 27, 93, 115, 119, 123, 124, 137, 145, 196, 197 e mente 81, 119, 147 e modello medico 206, 209 e norma 40, 122, 123, 147, 196 sociale 123, 196 e ottimalità 81, 227 e prevenzione 206 e Psicologia Clinica 137, 145 e psicologia medicalizzata 118, 119 e psicoterapia 196 e transitivismo 206 e umanizzazione della medicina 151
O Obiettività/Oggettività 7, 8, 15 e concretismo 14 e consapevolezza 8, 24 e coscienza 30, 64, 65, 72-74, 99 e disturbi 125, 127, 128 e inconscio 54, 55, 57, 58, 99 e interventi 72 e lo “psichico” 7, 8, 58, 93 e oggettivismo 13, 14, 18, 148, 209 e osservatore/operatore 9, 120, 148 e osservazione 9, 13, 14, 24, 98 e soggettività 8, 9, 58, 177, 180 inter-soggettività 13, 17, 93, 148 attrezzata 57, 58, 147 del paziente 137, 147, 148, 229 e strumento 7, 8, 14, 58, 85 della mente umana 14 mito dell’ – 7, 8, 14, 20, 150
Indice analitico obiettivizzazione/oggettivizzazione della soggettività 9, 10, 69, 120 Oggetto 55, 147, 168-170 di produzione 180 teorie oggettuali 55, 56 Operatori sanitari 210, 211 e alessitimia 157 e angosce di morte 171 e burnout 179 e capacità relazionali 153-155, 207, 209 e dottore/medico 2, 205 modello medico 188 e formazione 142, 157, 231 psicologica 174 e gruppi Balint 158 e medicus ipse farmacum 21, 153 e psicoterapia 200-202 e rêvérie 82 e scienze psicologiche 92, 95, 142, 174, 209 lauree – 206 Organizzazione 161, 163, 164, 166 e angosce di morte 172 e burnout 161, 179-181, 184-186 e capacità relazionali 157, 158, 207 e coscienza 167 e difese istituzionali 167, 168, 172-174 e disturbi 124, 125 e emozioni 230 e formazione degli operatori sanitari 161, 207-209, 231 e intervento 180, 186, 187 e Istituzione 163, 166, 167, 174, 186, 187, 207 e medicalizzazione 88, 89, 207 e mente 23 e metodo clinico 230 e psicoanalisi 166 e psicosomatica 164, 177 e resistenza al cambiamento 167 e Salute 161, 164, 167 e stress 177, 178 prodotto dell’– 19, 160, 164 e controllo qualità 160, 161, 165, 178 Osservazione 2, 98, 120 e affettività 4 e competenza 5 e comunicazione non verbale 5 e concetto di “guasto” 24, 25 e concretismo 14
249 e coscienza 5 e disturbo inconscio 128 e interazione 4, 5 e mente 4, 5, 7, 8, 23, 72, 97, 99 e organizzazione 19 e psicosomatica 73 e relazione medico-paziente 6, 65 inadeguatezza dell’ – 2 osservatore come strumento di – 3, 4, 23, 68, 69, 71, 72, 119, 120 pregiudizi sull’ – 3-5, 6, 7 processo dell’ – 3, 4 intersoggettivo 4, 9 strumenti di – 5, 8 obiettività/oggettività/oggettivismo 3, 14, 15, 24 oggettivizzazione della soggettività 9 soggettività 9, 58
P Patologia/Psicopatologia e alessitimia 108 e burnout 179 e “chi turba il disturbo?” 196 e concetto di “clinico” 136, 229 e concetto di “guasto” 116, 118, 119, 123, 124, 127, 136, 206 e diagnosi 115, 136 e funzioni mentali 46, 50, 98, 101 e intervento 123, 129, 145 e norma 120, 226 e normalità 40, 50, 81, 93, 115, 137, 145, 206 e Psicologia Clinica 136, 137, 140, 220, 221 e psicoterapia 196-198, 200 e significati/significanti 40, 41 e stress 176 mentale 26, 27, 40, 115, 116, 119, 124, 130, 136, 137 e operatori sanitari 173 e patologia neurologica 26, 27 silente 127 Psicologia del patologico 193, 225 e patologia dello psichico 193 Percezione 31-35, 39-41 acustica 38 e angosce di morte 171 e apprendimento 79, 80 e comunicazione non verbale 77
250 e correlato neurologico 30 e esperienza 34, 35, 39, 79 e effetto cocktail-party 33, 34 e memoria 63, 79 e mente 14 e recezione 34 olfattiva 37 e ricordo 81 dello stress 178 Prevenzione del burnout 183, 186 e competenze relazionali 153, 155 e cura 115, 129, 137, 138, 186 e disturbo latente 127, 129 e engrammi 87 e formazione permanente 183 e modello medico 92 e Psicologia Clinica 127, 133, 138, 221, 228 e transitivismo 15 e promozione della Salute 86, 92, 138, 139, 159, 206, 212, 213, 216 e Sanità 179 Professioni sanitarie 206 e burnout 174, 175, 179 e capacità relazionali 157 e cultura medica 92, 188, 206, 209 e formazione formatori 143, 144, 152, 157, 159 permanente 77, 159, 160 psicologica 142, 209-217 e istituzione universitaria 92, 131-134 e medico 188 e professionisti dell’aiuto 205-208 Proiezione e esportazione del male 202 identificazioni proiettive 171 Psiche 97, 191 disturbi psichici 129 e affetti 54 e biologia 29, 30, 100 e caring 135 e coscienza 53 e equilibrio psicosomatico 101 e modello medico 131 e Psicologia Clinica 147, 227, 228 e psicoterapia 191, 192, 196 e soma 6, 100, 101, 113, 160 irrepetibilità della – del singolo 40 vita psichica fetale 38
Indice analitico Psicoanalisi clinica psicoanalitica 81 di gruppo 159 e affettività 56 e angosce di morte 168 e coscienza 61-63, 68 e disturbi mentali 127, 128, 130, 165 e funzione riflessiva 61, 62 e inconscio 53, 54, 59, 168 e Istituzione 165, 166 e meccanismi di difesa 30 e memoria 56 e mente 99 e Metapsicologia 85 e psicoterapie 165, 193, 197 e relazionalità 56, 59, 61-64, 197 e resistenza vs. rimozione 58 e soggettività 57, 58 e Teoria dell’Attaccamento 64 e teorie oggettuali 55, 56 e transfert/controtransfert 67-69, 74, 77 in gruppo 127 metodo psicoanalitico 64, 165 psicoanalista come strumento 68, 97, 127 training personale dello psicoanalista 69 Psicologia categorie mediche in – 145-148 Clinica 90, 132, 134, 148, 151, 152, 211, 225, 226, 227 ambiti di intervento 220 ambiti di pertinenza 221 Collegio dei Professori Universitari e dei Ricercatori di Psicologia Clinica delle Università Italiane 152, 219-222 criteri scientifici della – 221 e Clinica Psicologica 140, 211 e concetto di “clinico” 134-138, 140, 145 e concetto di “guasto” 127 e coscienza 63 e diagnosi 130, 137, 146 e disagio psichico 94 e disturbo latente 127, 128, 137, 147 e formazione medica 141-145 e intersoggettività 141, 147, 227 e mentalità medica 119, 138-140, 149 e medicina 134, 135, 137, 138, 140, 145, 147, 231 e normalità/patologia 118, 119, 122, 123, 129, 136, 137
Indice analitico e prendersi cura 146, 147 e Psichiatria 94, 132, 133, 140 e promozione della Salute 147 e sindromi 124, 137 e soggettività attrezzata 147 del paziente 118, 137 e sviluppo in Facoltà non mediche 90, 91, 94, 131-134 in ambito medico 138-142 metodi della – 221 modelli della – 221 negli Ordinamenti universitari 131-134 obiettivi della – 127, 196, 221 specificità della – 137, 220, 229 strumenti della – 127 Perinatale 214, 215 competenza psicologica 139 e capacità relazionali 208, 209 e comunicazione non verbale 164 e concetto di “clinico” 93 e coscienza 53, 60 e cultura medica 89-92, 137, 140, 149, 210 e Evidence Based Medicine 149 e formazione medica 90-92 e Impact Factor 148, 151 e Medicina 90, 92, 119, 120, 137, 139, 140, 210, 223, 227 e Neurobiologia 29, 99, 110 e Psicoanalisi 54 e scientificità 91, 92, 148, 224 e psicoterapie 128, 228 formazione 10 formazione psicologica 92, 210, 229 Metapsicologia 54, 64, 83-86 pregiudizi sulla – 28, 139, 148 Pseudo- 156, 209 del senso comune 191, 209, 210, 223 della Riabilitazione 133 della Salute 187, 188, 208 della Testimonianza 51 delle Organizzazioni 159, 164-166 Generale 89, 140 Infantile 76 Medica 144, 225, 226 Sociale 69, 73, 74, 159, 187 Psicologi Medicalizzati 148-152, 211 Scuole di Specializzazione in – 193 speculativa vs. sperimentale 28, 30, 93,
251 108, 120, 140, 148 strumenti della – 127 Psicosomatica 6, 97, 100, 230, 231 Clinica – 113, 114 e alessitimia 61, 106-109, 154, 212 e affetti inconsci 70, 71, 213 e angosce di morte 168, 171-174 e comunicazione non verbale 75-77 e corpo-mente 97-100, 113 e medicus ipse farmacum 21 e metacognizione 154 e normalità/patologia 125 e psiconeuroendocrinoimmunologia 106 e Psicologia Clinica 221 e psicoterapia 106, 113 e regolazione degli affetti 101 e relazione 180 e buona – 153-155 e capacità relazionali 180, 212 medico-paziente 6, 65, 77 e rêvérie 82 e sistema immunitario 106 e stress 176, 177 e transfert/controtransfert 73 equilibrio psicosomatico 101, 109, 111, 112 e sviluppo della mente 111 della gestazione 214 pazienti psicosomatici 60, 61, 106-108, 113, 128 regolazione – 100, 101, 111 del sistema immunitario 106 della Salute 164, 165 e cure materne 109-113 struttura – XI, 75, 76, 81, 97-99, 104, 105 Psicoterapie 128, 191, 192, 220, 229 caos delle – 198-203 correggere un deficit o sviluppare una persona? 128, 129, 196-198 e capacità relazionali 192 e Clinica Psicosomatica 113 e concretismo 197 e cultura medica 93, 129, 140, 151, 191195 e diagnosi 196 e disturbi egosintonici 196 latenti 127 e effetto psicoterapeutico 192 e inconscio 46, 47, 106
252 e intervento 191 e invio 202, 203 e dottore/medico 193-195, 203 e Istituzione 165 e logopedista 214 e metodo clinico 192 e normalità/patologia 196, 200 e Psicoanalisi 165, 193 e Psicologia Clinica 133, 220, 221, 225, 228 e psicopatologia 193 e relazione 197 e scuole di specializzazione 193, 195, 199 e sofferenza psichica 130 e “soggettività attrezzata” 147 e terapie 192, 197, 198 e transitivismo 194 formazione 152, 202, 229 Ordine degli – 194, 199 psicodinamiche 54, 198 quadri teorici 198 scientificità delle – 192, 209, 210
R Relazione 56, 67 analitica 56, 59, 61, 67, 68, 70 buona – X, 153-155, 183 capacità relazionali 153, 157, 160 e alessitimia 157-159 e apprendimento 56, 207 e medico 1, 208, 209 e professioni sanitarie 203, 207, 208, 215-217 e psicologi 208 e psicoterapeuta 192, 193, 197 e psicoterapia 192, 197 formazione della – 155-161 e alessitimia 108 e apprendimento 76, 79, 155 emotivo 158 e burnout 178-181, 183, 216, 217 e comunicazione non verbale 71, 76, 154, 155, 213 e coscienza 17, 50, 59, 61-65, 68 e esperienza 27, 84 e formazione 157 e funzione riflessiva 61 e inconscio 69, 73 e memoria implicita 36, 49 e metacognizione 112, 113, 154
Indice analitico e modelli operativi interni 49 e obiettività 7, 8, 15 e osservazione 4 e percezione 41, 48 e processi mentali 17, 60 e significati/significanti 46 e sviluppo mentale 56, 118 e teorie oggettuali 55, 56 e transfert/controtransfert 67, 68, 70, 71 madre-bambino 63, 76, 110, 214, 215 come regolatore biologico e comportamentale 109-111 e alessitimia 109 e modelli operativi interni 49 e rêvérie 82, 212 e stili di attaccamento 64 medico/operatore-paziente IX, 6, 70-73, 88, 89, 119, 120, 173, 174 e caring/curing 135, 147 e concetto di “clinico” 145, 146 e osservazione 4, 5 e medicus ipse farmacum 6, 10, 69 153, 211 e metodo clinico 134, 135 e Psicologia Clinica 147, 220, 221, 228, 230 e psicosomatica 6, 7, 77, 155, 156, 164, 165, 180 e Salute 155, 165 e senso comune 150, 151, 155 e terapia 6 nei/tra i gruppi 70, 74, 163 precoce 59, 63, 64, 85, 86, 109, 214 sessuale/erotica 42, 48 Rêvérie 82 e alessitimia 82, 212 e capacità di coscienza 82 e metacognizione 82 e operatori sanitari 82 e sviluppo infantile 82 Rimozione 54, 55, 62 e resistenza 58, 62 teoria della – 59, 60
S Salute XI, XII, 131 controllo di qualità del prodotto – 19, 160, 161, 164, 165, 167, 179, 182 diritto di – 1 e affetti inconsci 71
Indice analitico e interventi psicologici 149 e lo “psichico” 6 e medicus ipse farmacum 69 e psicosomatica 71, 82, 86, 97, 100, 101, 114, 164, 165 e relazione medico-paziente 6 e Sanità 19, 88, 91, 93, 131, 147, 155 e Scienza 150 e stress 177 educazione alla – 187, 188, 209 operatori della – 65, 92, 155, 168, 191, 203, 212 promozione della – 92, 138, 139, 147, 150, 159, 188, 206, 216 Psicologia della – 161, 187, 208, 221 mentale 150, 173, 174 Sanità 19 e buona relazione 153-155 e burnout 180 e compliance 147 e controllo di qualità 19, 179 e cultura medicalizzata 93, 147 e interventismo 19 e Salute 88, 91, 92-95, 147, 155, 208 operatori della – 21, 131, 153, 186, 187, 211 Scientificità 9, 10 della professione di psicologo 93 e concetto di “clinico” 151 e scienze biologiche 28 e scienze psicologiche 10, 90, 91, 149 e scienze “umane” 89, 91 delle psicoterapie 192, 202 pregiudizio della – 28, 149 Sessualità come emozione 215 competenza sessuologia 215 e comunicazione non verbale 75-77 e disturbo 124, 125 e relazioni sessuali 42 e struttura mentale 41, 215 omosessualità 125 Psicosessuologia 221 Significato e significanti 43-48, 80, 83 costruzione di – 43-46, 83 e relazione 38, 44 e apprendimento 43, 80, 117 e comunicazione non verbale 15, 16, 75, 118 e engramma 84
253 e funzioni neurali 45, 46 e memoria 48 e percezione 49, 117, 176 protosignificato 43 Sindrome 2, 3, 124, 226 e alessitimia 61, 108 e burnout 174, 175, 178, 179, 181-184 e concetto di “clinico” 145 e diagnosi 2, 72, 124 e malattia 2, 3, 115, 124, 135-137 e nosografia 124 e psicosomatica 61, 113, 114, 177 e stress 176, 177, 179, 180, 182, 185, 186 da stress 105, 173, 175-177 Sofferenza e angosce di morte 171-173, 212 e burnout 182 e disturbo mentale 121 e disturbo obiettivo 125, 126 e disturbo latente 196 e dolore mentale 124, 130, 169 e patologia 123, 124, 129 e psicoterapia 192, 193 psichica 112, 124-126, 129, 226 e anabolismo mentale 130 e catabolismo psicotico 130 inconscia 127, 128, 130 somatica 112, 113, 129 e metacognizione 112 soggettiva 126 Soggettività 8 e coscienza 55, 64, 65, 99 e inconscio 58, 99 e mente 97-99 e Metapsicologia 85 e osservazione 9, 14, 177 e patologia 118 e Psicologia Clinica 137, 148, 149, 195 e psicoterapia 197, 198, 229 e transitivismo 17, 93 inter-soggettività 9, 17, 93, 148 oggettivazione della – 9, 10, 69, 120 attrezzata 57-59, 147, 148, 229 Specializzazione e parcellizzazione del sapere IX, 88 e scienze psicologiche 94, 95 scuole di – 94, 199 di psicoterapia 199, 228 riconosciute 195 in Psicologia 193-195,
254 Clinica 90, 134, 145, 210, 223, 227, 228 tecnologizzazione della – 89 Spirito salvifico 21 Stress 175, 176 disturbi da – 177 e burnout 161, 174-184 e emozioni 176 e organizzazione 178, 186 e professioni di aiuto 180-186 e psicosomatica 114, 177 e Salute 177 e stressor 175-178, 185 percezione dello – 178 lavorativo 177, 178, 180-182, 185, 186 psicologico 176 sindrome da – 105, 175-177, 179, 184-186 Sviluppo e norma 40 embrionale e fetale 25, 85, 214, 215 della mente 24-26, 30, 37, 49, 55, 56, 59, 64, 76, 84 e angosce di morte 170, 171 e apprendimento di funzioni 82, 98, 99, 229 e comunicazione non verbale 76 e funzione riflessiva 61 e normalità/patologia 98 e oggetto “buono” 168, 169 e significato/significanti 83 e rêvérie 82 delle capacità metacognitive 109, 112, 113 e alessitimia 112, 113 dell’intelligenza 57
T Teoria 9, 84 Cognitivismo 57 e funzionamento protomentale 169, 171 dell’Attaccamento 49, 50, 64 del Protomentale 84, 85, 170, 171
Indice analitico di Bion 170 di Edelman 63 e Metapsicologia 54, 55, 84, 85 e modello teorico 84 e psicoterapie 198 e scoperta 84 e significanti 84 Energetico Pulsionale 54, 58, 85 esplicativa 58, 84, 89 oggettuale 55, 56 psicoanalitica 59-63 psicologica 119, 120 Terapia e relazione medico-paziente 6 e transitivismo 140 psicoterapie 191-203 Transfert 67 e affetti inconsapevoli 53, 54, 67, 68 e controtransfert 62, 67, 68, 70, 73, 213, 214 e inconscio 73 e relazione 70, 71 effetto placebo/nocebo 73 Transitivismo 15, 16, 146 e dottore 93, 209 e intersoggettivismo 15 e normalità/patologia 206 e prevenzione 15 e rapporto medico-paziente 15, 16 e terapia 140 reciproco 16
U Umanizzazione della medicina XI, 2, 151 assistenza umana 1 disumanizzazione del servizio 182 e psicologi 148 e normalità/patologia 151 e senso comune 92, 93, 188, 189